Cabeo
(Ferrara). Filosofo. Grice: “You’ve got to love Cabeo;
unless, if you are sailor like me – he almost invented the North Pole – he
philosophised on magnetism – a phenomenon which the Graeco-Romans found ‘magic’
(vide Carini, “L’etimologia del megnete”) – Grice: “The homerotic associations
are soon discovered by the super-hero, “Magneto.”” -- Essential Italian
philosopher. Con il suo nome è stato chiamato il cratere lunare Cabeus. Novizio
della Compagnia di Gesù, ebbe Giuseppe Biancani come insegnante di matematica
nel collegio gesuitico di Parma dove compiuti i suoi studi fu docente di
filosofia per molti anni e ricevette gli ordini sacerdotali. Abbandonato
l'insegnamento fu predicatore in varie città italiane mantenendo sempre stretti
rapporti di familiarità con Ferdinando Gonzaga e Francesco d'Este. Cabeo
prese parte alla contesa tra Bologna e Ferrara sull'introduzione del Reno nel
Po Grande avvenuta negli anni 20 del seicento, prendendo le parti dei ferraresi
e opponendosi alle teorie di Benedetto Castelli Si stabilì a Genova dove
conobbe Giovanni Battista Baliani divenendone amico. Nel suo commento alle
Meteore di Aristotele Cabeo sostenne e testimoniò la priorità della scoperta
della legge di caduta dei gravi dello scienziato genovese rispetto a quella di
Galilei. Cabeo collaborò con vari fisici del suo tempo su argomenti che
mettevano in discussione le ricerche di Galilei: con lo stesso Baliani a
Genova, con il Renieri a Pisa, con il Riccioli, suo amico e allievo anche lui
del Biancani, con il quale conduce a Ferrara esperimenti sulla caduta dei
gravi. Soggiorna a Roma nello stesso periodo in cui era presente nMarin
Mersenne, il segretario dell' Europa dotta, che vi si trovava in occasione
dell'elezione di Carafa a generale dei gesuiti. Torna a Genova per
dedicarsi all'insegnamento nel collegio gesuitico. Cabeo compone “Philosophia
magnetica” (Ferrara) criticata gli studiosi galileiani. Sostene l'imprescindibile
necessità che ogni asserzione scientifica fosse sostenuta dall'esperienza e,
sulla base degli studi di Maricourt, Porta, Gilbert, e Garzoni, assere, dopo
aver condotto accurati esperimenti, che la terra possede una qualità magnetica
che assieme alla gravità faceva sì che la terra e stabile e immobile. Define il
fenomeno della repulsione elettrica. “In quatuor libros Meteorologicorum
Aristotelis commentaria,et quaestiones quatuor tomis compraehensa”, o
“Philosophia experimentalis” si schiera a difesa della priorità di Baliani e,
nel criticare in nome dell'osservazione e dell'esperimento la concezione metafisica
aristotelica, introduce la presentazione di questioni scientifiche attuali. Il
saggio e condotto in duri toni anti-galileiani con un'aspra contestazione del
fenomeno della marea così com'e descritto da Galilei. Sostene invece che la
marea e dovuta all'ebollizione operata dalla Luna di un spirito sulfureo e
salnitrosio presente sul fondo del mare. Sostenne la validità scientifica
dell'alchimia, una "philosophia chimica" degna di studio e
osservazione. Idraulici italiani , Fondazione, Dizionario Biografico
degli Italiani. A. Ingegno, Op. cit.
Claudii Berigardi Circulus Pisanus De veteri et peripatetica philosophia
in Aristotelis libros de Coelo, Utini. Galilei, Opere (ediz. naz.), Le opere
dei discepoli di Galileo Galilei, I, L'Accademia del Cimento, Firenze, Fulvio
Testi, Lettere, Maria Luisa Doglio, Bari, Evangelista Torricelli, Faenza, Lorenzo
Barotti, Memorie istoriche di letterati ferraresi, Ferrara, Girolamo
Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VFirenze, Timoteo Bertelli, Sopra
Pietro Peregrino di Maricourt e la sua epistola "De Magnete", in
Bull. di bibliogr. e di storia delle scienze mat. e fisiche pubbl. da B. Boncompagni,
Pietro Riccardi, Biblioteca matematica italiana, Modena; Raffaello Caverni,
Storia del metodo sperimentale in Italia, II, Firenze, Silvio Magrini, Il
"De Magnete" del Gilbert e i primordi della magnotologia in Italia in
rapporto alla lotta intorno ai massimi sistemi, in Archivio di storia della scienza,
Jean Daujat, Origines et formation de la théorie des phénomènes électriques et
magnétiques, Paris, Lynn Thorndike, A History of magic and experimental
Science, New York, Alexandre Koyré, Etudes d'histoire de la pensée scientifique,
Paris, Serge Moscovici, L'expérience du mouvement. Jean Baptiste Baliani disciple
et critique de Galilée, Paris, Claudio Costantini, Baliani e i gesuiti.
Annotazioni in margine alla corrispondenza del Baliani con Gio. Luigi
Confalonieri e Orazio Grassi, Firenze, Maria Bellucci, La filosofia naturale di
Claudio Berigardo, in Rivista Critica di Storia della Filosofia, Charles
Coulston Gillispie, Dictionary of Scientific Biography, New York, Scribners, John
Lewis Heilbron, Electricity in the 17th and 18th Centuries. Los Angeles: University
of California Press, Cesare Maffioli, Out of Galileo, The Science of Waters, Rotterdam:
Erasmus Publishing, Peter Dear, Discipline and Experience: The Mathematical Way
in the Scientific Revolution. Chicago: University of Chicago Press, 1995. Maria
Teresa Borgato, Niccolò Cabeo tra teoria ed esperimenti: le leggi del moto, in
G.P. Brizzi and R. Greci (ed), Gesuiti e Università in Europa, Bologna: Clueb, Craig
Martin, With Aristotelians Like These, Who Needs Anti-Aristotelians? Chymical
Corpuscular Matter Theory in Niccolò Cabeo's "Meteorology", in Early Science
and Medicine, Carlos Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus. Niccolò
Cabeo, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Niccolò Cabeo, su sapere, De
Agostini. Alfonso Ingegno, Niccolò
Cabeo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere di Niccolò Cabeo / Niccolò Cabeo (altra
versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Niccolò Cabeo, in Galileo Project,
Rice University. Ferrara Genova. Noto anche come Nicolaus Cabeo , italiano
gesuita filosofo , teologo , ingegnere e matematico. I struito nel collegio dei
Gesuiti a Parma. Passa i prossimi due anni a Padova e ha trascorso studia in
Piacenza prima di completare tre anni di studio in filosofia a Parma. Ha
trascorso altri quattro anni a studiare teologia a Parma e l'apprendistato di
un altro anno di a Mantova . Ha poi insegnato teologia e la matematica a Parma
, poi è diventato un predicatore. Per un
certo periodo ha ricevuto il patrocinio dei Duchi di Mantova e del Este a
Ferrara. Durante questo periodo è stato coinvolto in idraulica progetti. Egli
avrebbe poi tornare a insegnare la matematica ancora una volta in Genova , la
città dove sarebbe morto. Egli è noto per i suoi contributi alla fisica
esperimenti e osservazioni. Egli ha osservato gli esperimenti di Baliani per
quanto riguarda la caduta di oggetti, e ha scritto su questi esperimenti
osservando che due oggetti diversi cadono nello stesso lasso di tempo,
indipendentemente dal mezzo. Inoltre ha effettuato esperimenti con pendoli e
osservato che una carica elettricamente corpo può ottenere oggetti non
elettrificato. Egli ha anche notato che due oggetti carichi respinti a
vicenda. Le sue osservazioni sono state pubblicate nelle opere,
Philosophia Magnetica e in quatuor libros Aristotelis meteorologicorum
Commentaria. La prima di queste opere esaminato la causa della Terra magnetismo
ed è stata dedicata ad uno studio del lavoro di Gilbert . Pensato alla Terra
immobile, e quindi non ha accettato il suo movimento come la causa del campo
magnetico. Describe attrazione elettrica in termini di effluvi elettrici,
rilasciato sfregando alcuni materiali insieme. Questi effluvi spinto nell'aria
circostante spostarlo. Quando l'aria riportato nella sua posizione originale,
portava corpi leggeri con essa facendole muovere verso il materiale attraente.
Entrambi Accademia del Cimento e Boyle eseguiti esperimenti con vuoti a
tentativi di confermare o smentire le idee di Cabeo. La sua seconda
pubblicazione Cabeo era un commento di Aristotele Meteorologia. In questo
lavoro, ha esaminato attentamente una serie di idee proposte da Galilei , tra
cui il movimento della terra e la legge di caduta dei gravi. Si è opposto alle
teorie di Galileo. Anche discusso la teoria del flusso d'acqua proposta da
allievo di Galileo, Castelli . Lui e Castelli sono stati coinvolti per una
disputa nel nord Italia circa il reinstradamento del fiume Reno. La gente di
Ferrara erano su un lato della controversia e Cabeo era il loro avvocato.
Castelli e il favorite dell’altro lato della controversia e agiva come agente
di Urbano VIII. Anche discusso alcune idee su alchimia in questo saggio. Il
cratere Cabeus sulla Luna porta il suo nome. Il LCROSS progetto ha scoperto la
prova di acqua nel cratere Cabeus. Guarda anche Storia di Geo-magnetismo Elenco
dei cattolici-scienziati chierici Riferimenti Heilbron, JL, energia elettrica
nei secoli 17 e 18. Los Angeles: University of California Press, Maffioli,
Cesare, Out of Galileo, The Science of Waters. Rotterdam: Erasmus Publishing, Sommervogel
, Bibliothèque de la Compagnie de Jesus . Bruxelles: Gillispie, Charles
Coulston , Dizionario della biografia scientifica 3. New York: Scribners, Borgato, Maria
Teresa, Niccolò Cabeo Tra Teoria ed Esperimenti: le leggi del moto , in GP
Brizzi e R. Greci , Gesuiti e Università in Europa, Bologna: Clueb, Caro Peter.
Disciplina e Esperienza: Il modo matematico nella rivoluzione scientifica .
Chicago: University of Chicago Press. Nicolaus Cabeus. Niccolò Cabeo. Keywords:
la terra e immobile per la sua qualita magnetica, la marea e prodotto della
ebullizione di uno spirito sulfureo e salnitroso nel fondo del mare. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Cabeo," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Cacciari
(Venezia). Grice: “If I were today to chose a philosophical piece by Cacciari
that would be his ‘angelo’ – quite a concept! If Whitehead is right, as I claim
he is, when he says all philosophy is footnotes to Cratylo, Plato does deal
with ‘aggelos’ as ‘metaxu’ which he then develops in Symposium – Cacciari, like
Reale, are fascinated by this!” – Grice: “Solomon, who read it, illustrated
Alcebiades as Eros between Dionisos and Apollo!” -- ssential Italian
philosopher. Massimo Cacciari (n. Venezia) è un filosofo, politico, accademico
e opinionista italiano, ex sindaco di Venezia. Di ascendenze emiliane per
via paterna (il nonno Gino Cacciari, di Medicina, si era trasferito a Venezia
per dirigere i cantieri navali della città), è figlio di Pietro, pediatra, e di
una casalinga proveniente da una famiglia di artisti. Dopo aver
frequentato il Ginnasio Liceo Marco Polo di Venezia, si è laureato in Filosofia
nel 1967 all'Università degli Studi di Padova, con una tesi sulla Critica del
Giudizio di Immanuel Kant, con relatore Dino Formaggio. Ancora studente, fu
collaboratore dei professori Carlo Diano, Sergio Bettini e Giuseppe
Mazzariol. Carriera accademica Nel 1980 diviene professore associato di
Estetica presso l'Istituto di Architettura di Venezia, dove nel 1985 diventa Professore.
Nel 2002 fonda la Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele
a Cesano Maderno, di cui è preside fino al 2005. È tra i fondatori di alcune
riviste di filosofia politica, che hanno segnato il dibattito dagli anni
sessanta agli anni ottanta, tra cui Angelus Novus, Contropiano, il Centauro,
Laboratorio politico. Al centro della sua riflessione filosofica si
colloca la crisi della razionalità moderna, che si è rivelata incapace di
cogliere il senso ultimo del reale, abbandonando la ricerca dei fondamenti del
conoscere. La sua visione muove dal concetto di "pensiero negativo",
ravvisato nelle filosofie di Friedrich Nietzsche, di Martin Heidegger e di
Ludwig Wittgenstein, per risalire ai suoi presupposti in alcuni aspetti della
tradizione religiosa e del pensiero filosofico occidentali. Ha pubblicato
numerose opere e saggi, tra i quali meritano una particolare attenzione: Krisis
(del 1976); Pensiero negativo e razionalizzazione; (1977), Dallo Steinhof
(1980), Icone della legge (1985), L'angelo necessario (1986), Dell'inizio
(1990), Della cosa ultima (2004) vincitore del Premio Cimitile. Hamletica,
Adelphi, Milano, 2009 è il suo lavoro più recente. I volumi Icone della legge e
L'angelo necessario presentano, inoltre, alcune pagine dedicate alla filosofia
dell'icona e agli esiti del pensiero del mistico russo Pavel Aleksandrovič
Florenskij. Tra i numerosi riconoscimenti sono da ricordare la laurea
honoris causa in Architettura conferita dall'Università degli Studi di Genova
nel 2003, la laurea honoris causa in Scienze politiche conferita dall'Bucarest
nel 2007 e la laurea honoris causa in "filologia, letteratura e tradizione
classica" conferita dall'Bologna nel . Attualmente è Presidente
della fondazione Gianni Pellicani e
insegna Pensare filosofico e metafisica presso la Facoltà di Filosofia
dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, di cui è stato anche
prorettore vicario. Suo fratello Paolo è stato deputato di Rifondazione
Comunista tra il 2006 e il 2008. Carriera politica In Potere Operaio e
nel PCI Da giovane fu un politico militante e occupò con gli operai della
Montedison la stazione di Mestre. Collaborò negli anni sessanta alla rivista
mensile Classe operaia e, dopo contrasti interni tra Mario Tronti, Alberto Asor
Rosa e Toni Negri (il quale fu un incontro essenziale per la sua formazione),
diresse insieme ad Asor Rosa la rivista, definita di "materiali
marxisti", Contropiano con la quale si tentò la riunificazione del gruppo.
Ma il tentativo fallì e il gruppo veneto trasformò la rivista nel giornale
Potere Operaio "Giornale politico dagli operai di Porto Marghera" a
cui Cacciari, deluso, non aderì. In seguito entrò nel Partito Comunista
Italiano, ricoprendo cariche apparentemente lontane dai suoi interessi
filosofici: responsabile della Commissione Industria del PCI Veneto negli anni
settanta, fu poi eletto alla Camera dei deputati dal 1976 al 1983, e fu membro
della Commissione Industria della Camera. Sindaco di Venezia (1993-2000)
Fu sindaco di Venezia dal 1993 al 2000 schierato tra i principali sostenitori
de I Democratici di Romano Prodi tanto che si parlò di lui come un probabile
leader dell'Ulivo. Fin dall'inizio della sua attività politica vide nel
federalismo una tradizione da recuperare per i progressisti italiani laddove
buona parte dei dirigenti della sinistra vedevano in questa attenzione agli
ideali federalisti un freno al consenso elettorale del centro-sud. In
preparazione delle elezioni regionali del 2000, era convinto che per vincere in
una regione tradizionalmente moderata, la sinistra avrebbe dovuto agganciare
una parte dell'elettorato in fuga dalla ex DC e per questo scopo tentò di
"aprire" ad un'alleanza con la Lega Nord (poi disapprovata dal
centro-sinistra italiano), e mosse in questa direzione politica alcuni
significativi passi, ma non riuscì a convincere fino in fondo l'elettorato
autonomista. Nel 1997 fu sua la volontà di realizzare il progetto per
edificare il ponte di Calatrava, il quale ha portato continue polemiche con la
Corte dei conti nel corso degli anni. Europarlamentare e consigliere
regionale veneto Alle europee del 1999 si candida con la lista de I Democratici
risultando eletto in due circoscrizioni: lui ha optato per quella
nord-occidentale. La sua sconfitta alle Regionali del 2000, quando fu
candidato per la presidenza della regione Veneto, fece tramontare l'ipotesi che
potesse diventare il futuro leader dell'Ulivo. Cacciari ottenne in quella
tornata il 38,2% dei voti, uscendo sconfitto dal rappresentante della Casa delle
Libertà Giancarlo Galan, che ricevette il 54,9% dei consensi. In quella tornata
elettorale Cacciari ottenne un seggio da consigliere regionale: per questo si
dimise, per incompatibilità, da europarlamentare. Sindaco di Venezia
(2005-) Nel 2005 annunciò l'intenzione di ricandidarsi per la seconda volta a
sindaco di Venezia. I partiti di sinistra dell'Ulivo, avevano però, già
raggiunto l'accordo per la candidatura unitaria del magistrato Felice Casson,
ma Cacciari dichiarò di non voler rinunciare alla propria candidatura, anche a
costo di spaccare l'unità della coalizione, come effettivamente avvenne, con
Cacciari sostenuto da UDEUR Popolari e La Margherita e Casson appoggiato da
tutti gli altri partiti del centrosinistra. Al primo turno delle votazioni
Casson ebbe il 37,7% dei voti, mentre Cacciari si fermò al 23,2%; sfruttando le
divisioni presenti in maniera ancora più acuta nel centrodestra a Venezia,
furono proprio i due rappresentanti del centro-sinistra ad andare al
ballottaggio. A sorpresa Cacciari, seppur sostenuto da liste più deboli, riuscì
a far leva sull'elettorato moderato e vinse la sfida con 1 341 voti di
vantaggio sul suo competitore (50,5% contro 49,5%). L'inattesa vittoria
del politico-filosofo causò malumori all'interno della coalizione (Casson
commentò il risultato esclamando: "Ha vinto Cacciari? Allora ha vinto la
destra!") e una particolare situazione nel consiglio comunale veneziano:
la Margherita, con il 13,4% di voti, ebbe diritto a ben 26 seggi, (mentre i DS,
che ottennero il 21,2%, si dovettero accontentare di 6 seggi) e l'UDEUR,
nonostante un modesto 1,4%, si accaparrò 2 seggi (a differenza di Rifondazione
Comunista che con il 6,8% si aggiudicò un solo seggio). Nel complesso,
quindi, la coalizione Cacciari, con il 14,8% dei suffragi, ebbe diritto a 28
seggi, mentre il raggruppamento di Casson, con il 41%, risultò possessore di 9
seggi. Ciò consentì a Cacciari, iscritto alla Margherita, di cui era esponente
di punta in Veneto, di poter governare la città con una solida maggioranza
consiliare. In occasione delle successive elezioni regionali del 2005,
delle elezioni politiche del 2006 e delle amministrative del 2007 Cacciari mise
in evidenza quella che egli chiamava la questione settentrionale. Il 2
novembre 2009, anche deluso dall'evoluzione del Partito Democratico, annunciò
l'abbandono della politica attiva dopo la conclusione del mandato di sindaco,
avvenuta nell'aprile . Abbastanza accesa la politica condotta dalla sua
giunta contro gli ambulanti abusivi e molto contestate furono anche le
ordinanze che, ai fini del decoro urbano, imponevano il divieto di vendere dei
cibi da asporto presso la piazza San Marco, di girare a torso nudo, di
sdraiarsi in terra ecc. Nel 2007 inoltre, con la creazione del festival di Roma
da parte dell'allora sindaco Walter Veltroni, espresse disappunto nel caso in
cui quello di Venezia ne fosse stato oscurato. Non pochi gli attriti con la
Lega Nord in vista della sua intenzione di realizzare un campo Sinti, nella
zona di Mestre. Celebre poi la campagna che favoriva l'uso dell'acqua pubblica
in contrapposizione all'acquisto di quella in bottiglia. A lui si deve il
restauro di Palazzo Grassi e di Punta della Dogana. Il 23 luglio , a
Mogliano Veneto, presentò il manifesto politico Verso Nord, un'Italia più
vicina, diretto a chi non si riconosceva né nel PD, né nel PdL e voleva una
politica per il Nord diversa da quella attuata dalla Lega. Il manifesto si è
poi trasfuso in un partito politico chiamato appunto Verso Nord, nato
ufficialmente il 12 ottobre . Pensiero Massimo Cacciari nel 1976
Nelle sue prime opere (Krisis, 1976, Pensiero negativo e razionalizzazione,
1977) Massimo Cacciari sviluppa la sua riflessione che, prendendo spunto da
Friedrich Nietzsche, Ludwig Wittgenstein e Martin Heidegger, conferma «... la
fine della razionalità classica e dialettica e l'emergere pieno, costruttivo,
rifondativo e non distruttivo [...] del "pensiero negativo".»
Dall'analisi della cultura viennese e mitteleuropea, che si forma sullo sfondo
dei grandi mutamenti del sistema capitalistico tra l'800 e il '900, Cacciari
identifica una società reazionaria incapace di aprirsi alla modernità e
improntata al nihilismo, punto d'arrivo del fallimento del pensiero dialettico
della scuola hegeliano-marxista. In quest'ambito si origina il pensiero
negativo (Negatives Denken) che ad iniziare da Schopenhauer sembra collegarsi
all'irrazionalismo ma che in realtà è la conseguenza ultima della tradizione
metafisica occidentale che pretendeva di superare ogni contraddizione e la negatività
dell'esistenza stessa tramite quella libera volontà, coerentemente negata da
Nietzsche e ancora presente invece nell'ascesi schopenhaueriana, come strumento
per la liberazione dal dolore di vivere[25]. La crisi della metafisica
occidentale è anche dimostrata dalla fiducia nella tecnica, presuntuosa
esaltazione di quella ragione che invece rivela il sostanziale fallimento dei
valori ultimi che dovrebbero guidare il progresso umano: « ...la tecnica
realizza la direzione implicita della metafisica modernama nel realizzarla ne
critica e liquida anche l'idea centrale [il fondamento originario]» che era la
certezza dei valori. Da qui un'epoca caratterizzata dal nulla dei valori e
dalla fine della filosofia ormai rivolta «tutta al passato, a prima della ratio»[26]
Con l'avvento del pensiero negativo finalmente ci si libera «da un ideale
totalitario del sapere, per cui non si dipende più da un ordine naturale, fisso
ed immutabile, di cui la ragione scopre le leggi, ma si interviene
creativamente, dando ordine alle cose, in una molteplicità di
saperi».[27] Nelle sue ultime opere Cacciari intreccia la riflessione
filosofica con quella teologica quasi risalendo ad una tradizione
interpretativa platonica. Se ormai la filosofia si è specializzata e frantumata
in una serie di campi specifici che cosa vorrà dire "pensare" al suo
stesso inizio? Cacciari cerca la risposta in quella tradizione
filosofico-teologica che pone il principio, l'"inizio" nella nozione
di "Deus-Esse".[28] Fin dal libro primo della sua opera filosofica,
Dell’Inizio, Cacciari si colloca su un terreno complementare e diametralmente
opposto a quello di Emanuele Severino: se il primo evidenzia la contingenza
dell'originato, il secondo enfatizza l'unicità eterna dell'origine. Mentre per
Cacciari l’originario è inizio a-logico, che conserva sempre inalterata la
possibilità di non essere inizio di qualcosa che altro-da-sé, di negarsi come
inizio e che quindi non esista originato alcuno, secondo Severino, invece,
l’originario è la struttura logico-necessaria di significati il cui contenuto è
tutto ciò che è, tale per cui non è mai potuto esistere, non è mai esistito e
non potrà mai esistere alcun ente non originato da quell'unica totalità
iniziale. Secondo Severino, la veracità di Dio e del Destino prevale sulla Sua
onnipotenza, nel senso che è inevitabile e scontata in partenza la vittoria sul
nemico, mentre è impossibile che Egli fugga davanti ad esso, finendo con il
cadere nel nulla, il proprio contrario.[29] Citazioni «Caro C., non
possiamo proseguire la nostra via che attraverso lo straniero che ospitiamoe
che chiamiamo 'nostro' Io. Questo è il vero volto dell'altro, del prossimo
ineludibile, appiccicato a noi come un incubo! Hospes / hostis,
necessariamente. 'Assicurarcelo' è impossibile.» (Massimo Cacciari, Della
cosa ultima, Adelphi, Mi, 2004, pag. 135) «Pietà afferra il poeta —
pericolosissima pietà, sul limite estremo della misericordia inordinata.»
(Massimo Cacciari, "Della cosa ultima", Adelphi, Mi, 2004, pag.
251) Opere Introduzione di Massimo Cacciari a Georg Simmel, Saggi di
estetica, Padova, 1970 Qualificazione e composizione di classe, in Contropiano
n. 2, 1970 Ciclo chimico e lotte operaie, con S. Potenza, in Contropiano, n. 2,
1971 Dopo l'autunno caldo: ristrutturazione e analisi di classe, Marsilio,
Padova, 1973 Pensiero negativo e razionalizzazione. Problemi e funzione della
critica del sistema dialettico, 1973 Metropolis, Roma, Officina, 1973 Piano
economico e composizione di classe, Feltrinelli, 1975 Lavoro, valorizzazione,
cervello sociale, in Aut Aut, n. 145-146, Milano, 1975 Note intorno a «sull'uso
capitalistico delle macchine» di Raniero Panzieri, in Aut Aut, n. 149-150,
Milano, settembredicembre 1975 Oikos. Da Loos a Wittgenstein, con Francesco
Amendolagine, Roma, 1975 Krisis, Saggio sulla crisi del pensiero negativo da
Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, 1976 (ottava edizione nel 1983) Pensiero
negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia, 1977 Il dispositivo Foucault,
Venezia, Cluva, 1977 Dialettica e critica del politico. Saggio su Hegel,
Feltrinelli, 1978 Walter Rathenau e il suo a mbiente, De Donato, 1979
Crucialità del tempo: saggi sulla concezione nietzscheana del tempo, et al,
Liguori, 1980 Dallo Steinhof, Adelphi, 1980 (nuova edizione 2005) Adolf Loos e
il suo angelo, Electa, 1981 Feuerbach contro Agostino d'Ippona, Adelphi, 1982
Il potere: saggi di filosofia sociale e politica, con G. Penzo, Roma, Città
Nuova, 1985 Icone della legge, Adelphi, Milano, 1985 (nuova edizione 2002) Zeit
ohne Kronos, Ritter Verlag, Klagenfurt, 1986 L'Angelo necessario, Adelphi,
Milano, 1986 (nuova edizione 1992) Drama y duelo, Tecnos, Madrid, 1989 Le forme
del fare, con Massimo Donà e Romano Gasparotti, Liguori, 1989 Dell'Inizio,
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978-88-062-4085-1. Ha preparato anche i testi per l'opera Prometeo.
Tragedia dell'ascolto di Luigi Nono (1984-1985). Elogio del diritto
(insieme a Natalino Irti, con un saggio di Werner Wilhelm Jaeger, Milano )
Onorificenze Grand'Ufficiale dell'Ordine pro Merito Melitensi (SMOM)nastrino
per uniforme ordinariaGrand'Ufficiale dell'Ordine pro Merito Melitensi (SMOM) —
Venezia, 2 febbraio 2008[30] Laurea Honoris Causa in Architettura, conferita
dall'Università degli Studi di Genova nel 2003[31]nastrino per uniforme
ordinariaLaurea Honoris Causa in Architettura, conferita dall'Università degli
Studi di Genova nel 2003[31] Laurea Honoris Causa in Scienze politiche,
conferita dall'Università degli Studi di Bucarest nel 2007nastrino per uniforme
ordinariaLaurea Honoris Causa in Scienze politiche, conferita dall'Università
degli Studi di Bucarest nel 2007 Laurea Honoris Causa in Filologia, Letteratura
e Tradizione Classica, conferita dall'Alma Mater StudiorumBologna nel nastrino
per uniforme ordinariaLaurea Honoris Causa in Filologia, Letteratura e
Tradizione Classica, conferita dall'Alma Mater StudiorumBologna nel Premi e riconoscimenti 2005Medaglia d'oro del
Círculo de Bellas Artes di Madrid 2007Uomo per la pace International Chair
Jacques Derrida (Torino) Note
Enciclopedia Treccani alla voce coripsondente Barbara Romano,
i panni sporchi si lavano in casa MA IL CAV., sul piano del gusto, è UNA
catastrofeCONTRO VERONICA: "Se io ho qualcosa da dire a mio marito gli
scrivo privatamente""Evelina MANNA è un'amica""vengo SEMPRE
paparazzato dA qualche testa di cazzo", in Dagospia, Libero, 5 maggio
2009. 21 giugno . Camillo Langone, Cari
italiani vi invidio, Roma, Fazi, ,
978-88-7625-253-2. Giorgio Dell'Arti, Biografia di Massimo
Cacciari, cinquantamila. 6 giugno
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di VeneziaSindaco, su comune.venezia.
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del male" F. Dal Bo, L'utopia
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cura), Architetture utopiche, «arcipelago», n. 5, 2000, 114-121.
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Sconfitti i miei progetti", in Corriere della Sera, 2 novembre 2009. 21
gennaio . Copia archiviata, su codacons,
22 maggio 99. 16 aprile (archiviato il 16
aprile ). Copia archiviata, su
pressreader.com, 4 maggio 2007. 16 aprile
(archiviato il 17 aprile ). Copia
archiviata, su Repubblica, 29 agosto 2006. 16 aprile (archiviato il 17 aprile ). Copia archiviata, su lagazzettadelmezzogiorno,
27 dicembre 2009. 16 aprile (archiviato
il 17 aprile ). Copia archiviata, su
nuova Venezia.gelocal, 11 giugno 2008. 16 aprile (archiviato il 17 aprile ). Copia archiviata, su corriere, 14 maggio
2009. 16 aprile (archiviato l'8 luglio
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filosofico in Italia (1925-1990), in N. Abbagnano, Storia della filosofia, IV, t. II, Torino 1994 p.739 F. Restaino, Op.cit. ibidem In Maurizio
Pancaldi, Mario Trombino, Maurizio Villani, Atlante della filosofia, Hoepli
editore, 2006 p.153 Giovanni Catapano,
Coincidentia Oppositorum: Appunti sul pensiero di Massimo Cacciari a cura del
Dipartimento di Filosofia, Padova Cfr.
Massimo Cacciari in EMSF, su emsf.rai. 18 aprile 24 luglio ).
Davide Grossi, La differenza tra il discorso filosofico di Severino e
quello di Cacciari , in Lo SguardoRivista di Filosofia, II, n. 15, , 166, 177,
2036-6558 (WC ACNP), 7179281251
(archiviato il 25 aprile ). Ospitato su archive.is. Dal sito web del Sovrano Militare Ordine di
Malta. Archiviato l'8 dicembre in .
architettura.unige/inf/documenti03/cacciari/cacciari.htm "facoltà
di architettura di genovaLaurea Honoris Causa a Massimo Cacciariaggiornato il
17 ottobre 2003" "La Facoltà di Architettura di Genova, il 15 ottobre
u.s., ha conferito la laurea Honoris Causa a Massimo Cacciari. La motivazione
della Facoltà sottolinea il contributo dato da Cacciari alla cultura
architettonica internazionale nel corso di oltre un trentennio." F. Dal Bo, L'utopia dell'angelo. Note a
L'angelo necessario di M. Cacciari, in G. Bertagni (a cura), Architetture
utopiche, «arcipelago», n. 5, 2000,
114–121. L. Tussi, La confusione dialogica Intervista con Massimo Cacciari
Recensione di Geofilosofia dell'Europa, su ItaliaLibri Recensione di Hamletica,
Andrea Fiamma Recensione di Il potere che frena, Andrea Fiamma Traduzione
francese in versione integrale e gratuita di un libro inedito in italiano:
Drân. Méridiens de la décision dans la pensée contemporaine (Drân. Meridiani
della decisione nel pensiero contemporaneo) I. Bertoletti, Massimo Cacciari.
Filosofia come a-teismo, Edizioni ETS, Pisa, 2008. D. Borso, Il giovane
Cacciari, Mille lire stampa alternativa, Milano 1995. G. Cantarano, Immagini
del nulla. La filosofia italiana contemporanea, Edizioni Bruno Mondadori,
Milano, 1998. G. Catapano, Coincidentia oppositorum. Appunti sul pensiero di
Massimo Cacciari, «Etica & Politica», III/2 (2001) G. Catapano,
"Coincidentia oppositorum". Appunti sul pensiero di Massimo Cacciari,
in Libertà, giustizia e bene in una società plurale, C. Vigna, Vita e Pensiero,
Milano 2003, 475–495. J. León,
“Ontología de crisis: Aion y dialéctica negativa en la crítica marxista
italiana[collegamento interrotto]”, VI Congreso de la Sociedad Académica de
Filosofía: Experiencia de la crisis, crisis de la experiencia. Universidad
Carlos III de Madrid, 22-24 Mayo . N. Magliulo, Cacciari e Severino.
Quaestiones disputatae, Mimesis, Milano-Udine, . N. Magliulo, La luce oscura.
Invito al pensiero di Massimo Cacciari, Saletta Dell’Uva, Caserta, 2005. N.
Magliulo, Un pensiero tragico. L’itinerario filosofico di Massimo Cacciari,
Città Del Sole, Napoli, 2000. L. Mauceri, La hybris originaria. Massimo
Cacciari ed Emanuele Severino, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno, . Altri
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(altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Massimo
Cacciari, . Massimo Cacciari, su europarl.europa.eu,
Parlamento europeo. Massimo Cacciari, su
storia.camera, Camera dei deputati.
Massimo Cacciari, su Openpolis, Associazione Openpolis. Registrazioni di Massimo Cacciari, su
RadioRadicale, Radio Radicale. Cacciari:
la necessità della libertà, su RAI Filosofia, su filosofia.rai.
PredecessoreSindaco di VeneziaSuccessoreVenezia-Stemma.svg Ugo Bergamo5
dicembre 199328 febbraio 2000Paolo CostaI Paolo Costa17 aprile 20058 aprile
Giorgio OrsoniII V D M Vincitori del Premio Cesare Pavese Filosofia
Politica Politica Filosofo del XX
secoloFilosofi italiani del XXI secoloPolitici italiani del XX secoloPolitici
italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1944
5 giugno VeneziaSindaci di VeneziaConsiglieri regionali del VenetoDeputati
della VII legislatura della Repubblica ItalianaDeputati dell'VIII legislatura
della Repubblica ItalianaDirettori di periodici italianiEuroparlamentari
dell'Italia della V legislaturaFederalistiFondatori di riviste
italianeMilitanti di Potere OperaioOpinionisti italianiPolitici de I
DemocraticiPolitici della MargheritaPolitici del Partito Comunista
ItalianoPolitici del Partito Democratico (Italia)Professori dell'Università
IUAV di VeneziaStudenti dell'Università degli Studi di Padova. Mercurio
messegero di Giove e l’umo – angelus – mercurial – Giambologna – Villa Medici
-- Massimo Cacciari. Keywords: ‘l’angelo necessary’ – the angel and the paysan
– ‘Who art thou?’ ‘I am the necessary angel of the earth’, illuministi italiani
– implicatura laberintica, Alighieri, umanesimo, implicatura dell’angelo e il
contadino. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cacciari," per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Cacciatore: (Salerno).
Grice: “Cacciatore is a good one; my favourite are three: his ‘dallo storicismo
allo storicismo,’ and his ‘metafisica dell’espressione’ – I never knew it had
one! – and ‘la lancia di Odino,’ a Wagnerian study of Dilthey, his specialty!
Speranza, on the other hand, and naturally, prefers Cacciatore’s ‘dialogo con
Vico’.” Grice: “Cacciatore co-philosophised, like I with Strawson, and called
the thing, genially, ‘a four-hand piece’! Giuseppe Cacciatore (Salerno),
filosofo. Laureatosi in Filosofia presso l'Università degli studi di
Roma"La Sapienza" nel 1968, ha collaborato nei primi anni settanta in
qualità di assistente con Fulvio Tessitore nell'Salerno, dove ha anche avviato
la sua carriera accademica. Dal 1981 è Ordinario di Storia della Filosofia
presso la Facoltà di Filosofia dell'Università degli Studi di Napoli Federico
II, di cui tra il 1990 e il 1995 è stato anche Presidente del Corso di Laurea.
Nel 1995, inoltre, diventa direttore del Centro di Studi Vichiani del CNR di
Napoli. Dal 2001 al 2007 è stato direttore del dipartimento di
filosofia "Antonio Aliotta" dell'Università federiciana. Ha
tenuto numerose conferenze presso le Barcellona, Berlino, (Freie Universität
Berlin e Humboldt Universität), Bochum, Brema, Brno, Bruxelles, Düsseldorf,
Essen, Graz, Halle, Lipsia, Maracaibo, Monaco di iera, Parigi, Potsdam,
Valencia, Varsavia, Città del Messico (UNAM e UIC). È vicepresidente del CdA e
membro del comitato scientifico dell'Istituto di Studi Latinoamericani (ISLA) di
Pagani, del quale è diventato direttore a partire dal 2007. Nel 2007 è stato
nominato socio corrispondente dell'Accademia nazionale dei Lincei. Dal è presidente della Società Salernitana di
Storia Patria Nel è stato insignito del
premio nazionale “Frascati Filosofia”. È stato Presidente della Società
Italiana degli storici della filosofia dal
al . È dal coordinatore del
dottorato di ricerca in Scienze filosofiche dell'Napoli “Federico II”. A
partire dal è stato nominato
rappresentante dell'Napoli “Federico II” nel comitato tecnico-scientifico del
Consorzio universitario Civiltà del Mediterraneo. Altre opere: “Splicare, comprendere” (Istituto
di Filosofia, Salerno); “Splicare/comprendere” (Napoli, Guida); “Ragione e speranza” (Bari, Dedalo); “La sinistra
socialista nel dopoguerra, pref. di F. De Martino, Bari, Dedalo); “Vita e forme
della scienza storica. Saggi sulla storiografia – splicare, comprendere”
(Napoli, Morano); “Storicismo problematico e metodo critico, Napoli, Guida);
“La lancia di Odino: splicare/comprendere” (Milano, Guerini e associate); “La
Quercia di Goethe. Note di viaggio dalla Germania, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino);
“Goethe in Italia” –“La quercia di Goethe”, L'etica dello storicismo, Lecce,
Milella); “Vico: metafisica, poesia e storia -- Akademie Verlag, Berlino); “Bruno” (Edizioni Marte, Salerno); “Cassirer
interprete di Kant e altri saggi, Siciliano Editore, Messina); “Il pratico e il
civile civile in Croce” Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ); Labriola in un altro
secolo. Saggi, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ); “Saperi umani e consulenza
filosofica, Meltemi Editore, Roma); “Vico: L'infinito nella storia” (Edizioni
scientifiche italiane, Napoli); “Interculturalità, Tra etica e politica (in
coll. con G. D'ANNA), Carocci, Roma, . Interculturalità. Religione e teologia
politica (in coll. con R. DIANA), Guida, Napoli, A quattro mani. Saggi di filosofia e storia
della filosofia (in coll. con G. CANTILLO), M. Martirano Edizioni Marte,
Salerno); Problemi di filosofia della storia nell'età di Kant e di Hegel.
Filologia, critica, storia civile” (Aracne, Roma); “Mente, Corpo, Filosofia
pratica, Interculturalità, Mimesis, Milano-Udine); “Dimensioni filosofiche e
storiche dell'interculturalità, Mimesis, Milano); “Dallo storicismo allo storicismo,
Introduzione di F. Tessitore, G. Ciriello, G. D'Anna, A. Giugliano, ETS, Pisa);
In dialogo con Vico. Ricerche, note, discussioni, M. Sanna, R. Diana e A.
Mascolo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma. GIUSEPPE CACCIATORE
BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI (1969-2020) A CURA DI ARMANDO MASCOLO @2020
Francesco D’Amato editore è un marchio editoriale della società Infolio srls
con sede in Sant’Egidio del Monte Albino (Salerno) alla via Alfonso Albanese,
26 www.damatoeditore.it info@damatoeditore.it ISBN 978-88-5525-011-5 Prima
edizione: 2 dicembre 2020 Tutti i diritti sono riservati Immagine di copertina
Giuseppe Cuccurullo Progetto grafico e impaginazione Francesco D’Amato Stampa
Infolio srls | www.infolioprint.it A mio marito, per i suoi settantacinque anni
7 Scorrere i titoli di una bibliografia significa ripercorrere quella che
Umberto Eco ha efficacemente definito come la «memoria vegetale»1 , ovvero il
lento e graduale dispiegarsi delle idee e delle riflessioni consegnate per
sempre alla scrittura e che hanno scandito le diverse tappe del cammino
intellettuale del suo autore. Quando ci poniamo di fronte ad uno scritto, in
effetti, cerchiamo di scorgere la persona che si cela dietro di esso, il suo
modo individuale di vedere le cose. «Non cerchiamo solo di decifrare, ma
cerchiamo anche di interpretare un pensiero, un’intenzione»2 . La lettura
diviene in tal senso un dialogo silente con l’autore che ci consente di
riannodare i fili che intessono la trama della sua personale visione del mondo.
Accade così che nello sfogliare la corposa Bibliografia degli scritti di
Giuseppe Cacciatore emergano, pagina dopo pagina, i tratti salienti che ne
delineano il profilo di uomo e, soprattutto, di intellettuale, e che ci si
renda conto di come una bibliografia non sia altro che la narrazione fedele di
una biografia, ovvero di una vita consacrata alla scrittura. Prefazione Armando
Mascolo I libri si fanno solo per legarsi agli uomini al di là del nostro breve
respiro e difendersi così dall’inesorabile avversario di ogni vita: la caducità
e l’oblio. Stefan Zweig, Mendel dei libri 1 Cfr. U. Eco, La memoria vegetale e
altri scritti di bibliofilia, Milano, Bompiani, 2011, pp. 7-26. 2 Ivi, p. 13. 8
È un’impresa quanto mai ardua poter restituire la complessità e la ricchezza che
caratterizzano l’intero corpus dell’opera di Cacciatore, vale a dire di uno
studioso che nell’arco di più di cinquant’anni di attività (il suo primo
articolo risale infatti al 1969) ha saputo spaziare tra gli autori e le
correnti filosofiche più diverse, tenendo sempre fermo, quale asse teoretico
portante delle sue ricerche, lo studio storiografico e storico-filosofico dello
storicismo. Tale linea d’indagine si è andata via via articolando, nel corso
del tempo, attraverso differenti plessi tematici, autori e aree geografiche. In
ambito tedesco, ad esempio, Cacciatore ha saputo confrontarsi, tra gli altri,
con il pensiero di Kant, Marx, Dilthey, Bloch, Humboldt, Droysen, Troeltsch,
Rickert e Cassirer, mentre nel panorama della storia del pensiero filosofico italiano
ha offerto importanti studi su Vico, Labriola, Gramsci, Gentile, Croce,
Capograssi e Piovani, per citarne solo alcuni. I suoi principali interessi di
ricerca abbracciano una considerevole messe di questioni legate ai temi della
storia, dell’immaginazione, del rapporto tra poesia e filosofia, dell’azione
individuale e della sua dimensione etico-politica. In questa vasta ed
eterogenea costellazione di studi e di interessi, un posto di tutto rispetto
occupa ormai da tempo la filosofia di lingua spagnola quale ulteriore fonte che
ha alimentato il peculiare storicismo “critico-problematico” espresso da
Cacciatore3 . Questi ha il merito di aver dato, a partire dai primi anni ’80
del secolo scorso, un decisivo impulso allo studio, all’approfondimento e alla
diffusione della filosofia spagnola e ispanoamericana in Italia. Il suo primo
lavoro su una delle figure simbolo del pensiero ispanico, Ortega y Gasset,
risale infatti al 1983, anno in cui si celebrò il centenario della nascita del
filosofo madrileno. Da allora, Cacciatore ha fornito alla comunità scientifica
importanti contributi su alcune delle mas3 Per una puntuale ricognizione
dell’itinerario filosofico di Cacciatore, si veda il recente contributo di L.
Anzalone, Lo storicismo etico-politico e la comunità democratico-interculturale
di Giuseppe Cacciatore, in «Logos. Rivista di Filosofia», n.s., n. 14, 2019,
pp. 173-192. 9 sime espressioni del pensiero iberico e iberoamericano quali
Alonso Briceño, Andrés Bello, María Zambrano, José Gaos, Xavier Zubiri, Eduardo
Nicol, Leopoldo Zea, Octavio Paz. Da alcuni anni, infine, Cacciatore dedica
buona parte del suo impegno scientifico allo studio dei problemi filosofici
inerenti all’interculturalità e alle categorie filosofiche in essi implicati
come quelle di identità, riconoscimento, universalismo, cittadinanza, laicità,
democrazia, diritti umani, intersoggettività e senso comune. Dagli scritti di
Cacciatore emergono con forza alcune idee portanti che da sempre hanno sorretto
e indirizzato la sua attività di studioso. Voglio soffermarmi su due di esse in
particolare, in quanto espressione, a mio avviso, di un’opzione teorica e
metodologica ben precisa. La prima riguarda il modo di concepire la storia
della filosofia, intesa quale diramazione di una più vasta e articolata storia
della cultura, prospettiva che lascia trasparire una profonda sintonia di
Cacciatore con il pensiero orteghiano. Nel denso saggio introduttivo
all’edizione argentina della Storia della filosofia di Émile Bréhier4 , Ortega
y Gasset delinea i tratti più significativi di quella che definisce una «nuova
filologia», il cui principio fondamentale si radica su una concezione
“vitalista” e “funzionalista” dell’idea secondo la quale quest’ultima risulta
essere sempre una «reazione di un uomo ad una determinata situazione della sua
vita», vale a dire, «un’azione che l’uomo realizza in vista di una determinata
circostanza e con una precisa finalità»5 . Secondo il filosofo spagnolo, 4 Cfr.
É. Bréhier, Historia de la filosofía, 2 tt., ed. a cargo de D. Náñez, prólogo
de J. Ortega y Gasset, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1942. L’originaria
edizione francese della monumentale opera di Bréhier era stata pubblicata – in
due tomi divisi in sette volumi – tra il 1926 e il 1932 per conto dell’editore
Félix Alcan di Parigi. 5 J. Ortega y Gasset, Prólogo a “Historia de la
filosofía”, de Émile Bréhier (Ideas para una historia de la filosofía), in Id.,
Obras completas, 10 voll., Madrid, Taurus, 2004-2010, vol. VI, p. 147; trad.
it. La “Storia della filosofia” di Émile Bréhier (Idee per una storia della
filosofia), in J. Ortega y Gasset, Idee per una storia della filosofia, a cura
di A. Savignano, Firenze, Sansoni, 1983, p. 84. 10 dunque, non esistono “idee
eterne”, in quanto «ogni idea è ascritta irrimediabilmente alla situazione o
circostanza di fronte alla quale rappresenta un compito attivo ed esercita una
funzione»6 . In questa prospettiva, la filosofia è da intendersi, pertanto,
come «un sistema di azioni viventi»7 – un sistema di “idee” appunto – di cui non
è possibile fare storia prescindendo dal luogo e dal tempo particolari che lo
hanno generato. Un’effettiva storia della filosofia – conclude Ortega – non
può, di conseguenza, ridursi a mera e astratta esposizione cronologica delle
“dottrine filosofiche”, ma dovrebbe esser capace di «eliminare la presunta
esistenza disumanizzata attraverso cui ci presenta le dottrine e tornare ad
immergerle nel dinamismo della vita umana, mostrandocene in essa il
funzionamento teleologico»8 . Da questo punto di vista, il personale “saggismo
filosofico” di cui Cacciatore ha dato prova durante l’intero dispiegarsi della
sua parabola intellettuale sembra informarsi perfettamente al principio
ispiratore della «nuova filologia» enunciato da Ortega, principio che presiede
alla sua peculiare concezione della filosofia intesa come un’attività
assolutamente universale, ma al contempo segnata da forti particolarismi
nazionali e culturali, da quelli che Alain Badiou ha definito come «momenti
della filosofia»9 , nello spazio e nel tempo. La filosofia, insomma, non è
altro che «un’ambizione universale della ragione che si manifesta […] in
momenti del tutto singolari»10. Il secondo aspetto che emerge dalla maggioranza
degli scritti di Cacciatore consiste nella rilevanza che questi ha 6 Ivi, pp.
147-148; trad. it. cit., p. 84. 7 Ivi, p. 148; trad. it. cit., p. 85. 8 Ivi, p.
149; trad. it. cit., p. 86. 9 A. Badiou, Panorama de la filosofía francesa
contemporánea, in M. Abensour (a cura di), Voces de la filosofía francesa
contemporánea, Buenos Aires, Colihue, 2005, p. 73. Si veda ora la mia
traduzione italiana, preceduta da un’introduzione intitolata Alain Badiou e
l’avventura filosofica francese, apparsa in «Archivio di storia della cultura»,
XXI, 2008, pp. 421-442. 10 Ibidem. 11 da sempre assegnato alla dimensione
etico-pratica della filosofia, vale a dire alla sua intrinseca vocazione
civile. Come ha osservato Giuseppe Antonio Di Marco, «la ricerca complessiva di
Cacciatore […] presuppone una concezione e una pratica della filosofia a
partire da un suo orizzonte storico. Ciò implica mettere in rapporto reciproco
la filosofia e la vita concreta degli uomini, intesa come “vita civile”»11. In
una recente intervista rilasciata ad un noto quotidiano nazionale12, Cacciatore
chiarisce la sua peculiare visione della filosofia e del ruolo che ad essa
attribuisce nella società di oggi in questi termini: «La filosofia alla quale
da sempre mi sono ispirato – dichiara Cacciatore – ha un profilo
fondamentalmente storico (lo storicismo critico-problematico) ed etico-politico.
[…] Sono convinto che il destino stesso della filosofia, quella filosofia che
aiuta l’uomo da sempre a meravigliarsi e interrogarsi senza affidarsi a disegni
metafisici e a fondazionalismi ontologici, è nella sua declinazione etica». Una
filosofia, insomma, «che si presenta non come fede o dogma (razionalistico o
materialistico che sia, poco importa) ma come “credenza”, come complesso
articolato e plurale di forme di pensiero e di modi di vivere il mondo». E
conclude: «La scelta di vita che impone la filosofia è molto semplice e non
comporta sacrifici o difficoltà, ma solo l’educazione quotidiana alla critica,
al giudizio mai assoluto e sempre rivedibile sulle cose e sugli uomini, sulla
storia passata, presente e futura, sulla vita e sulle scelte della comunità e
della società». Sulla scorta di queste considerazioni, non sorpende constatare
come gli autori con i quali Cacciatore ha saputo misurarsi nel corso della sua
attività di studioso siano tutti indistintamente animati da una stessa passione
filosofica e civile, rivelando così la precisa «intenzionalità etica» che 11
Cfr. G.A. Di Marco, Introduzione, in G. Cacciatore, Sulla filosofia spagnola,
Bologna, Il Mulino, 2013, p. 11. 12 Cfr. Meraviglia, arma del pensiero,
intervista a cura di F. Palazzi, in «Il Roma», 2 agosto 2013, p. 11. 12
attraversa la sua intera produzione scritta. La bibliografia di Cacciatore, in
definitiva, è la chiara testimonianza, come ha ben messo in luce Fulvio
Tessitore, di una costante «operosità scientifica», nonché di un solido
«impegno civile» capace di coniugare fruttuosamente scienza e vita13, nel pieno
convincimento di voler consacrare la propria professione intellettuale
all’esercizio «etico» del pensiero, facendo dell’«educazione quotidiana alla
critica» il proprio inconfondibile stile di vita. * * * La presente
Bibliografia vuole essere un omaggio al Prof. Giuseppe Cacciatore e al suo
magistero in occasione del suo settantacinquesimo compleanno. Desidero
rivolgere un sentito ringraziamento al Prof. Fabrizio Lomonaco per i preziosi
consigli che mi ha fornito nella fase di allestimento del volume. Un
ringraziamento particolare, infine, va alla Dott.ssa Lorena Grigoletto per il
suo fondamentale aiuto nel lavoro di sistemazione e di uniformazione del
materiale bibliografico qui raccolto. Portici, 21 novembre 2020 13 Cfr. F.
Tessitore, Presentazione, in G. Cacciatore, Sulla filosofia spagnola, cit., p.
9. 13 Giuseppe Cacciatore si laurea nel 1968 presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma con una Tesi sul pensiero di
Dilthey sotto la direzione dei Proff. Gabriele Giannantoni e Gaetano Calabrò.
Viene nominato, nello stesso anno, addetto alle esercitazioni presso la
cattedra di Storia delle dottrine politiche della Facoltà di Magistero dell’Università
di Salerno, tenuta allora da Fulvio Tessitore. Nel 1969 ottiene una borsa di
studio presso l’Istituto italiano per gli studi storici “Benedetto Croce” di
Napoli. Segue, nel frattempo, il magistero di Pietro Piovani, frequentando e
collaborando ai seminari di Filosofia morale presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università di Napoli Federico II. Nel 1970 viene nominato, a
seguito di concorso, assistente ordinario di Storia della filosofia presso
l’Università di Salerno. Dal 1972 al 1976 è stato professore incaricato, prima
di Filosofia della politica e, poi, di Storia delle dottrine politiche presso
la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Salerno. Dal 1977 al 1980 ha
insegnato Storia della filosofia, in qualità di docente incaricato
stabilizzato, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della medesima
università. Nel 1979 vince il concorso a cattedra e a decorrere dal 1981 è
chiamato a ricoprire, come professore straordinario, l’insegnamento di Storia
della filosofia presso la Facoltà di Profilo Accademico 14 Lettere e Filosofia
dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, conseguendo successivamente,
nel 1984, la nomina a professore ordinario. Ha al suo attivo numerosi volumi e
pubblicazioni che si possono raggruppare intorno ad alcune specifiche aree
tematiche: a) ricerche sullo storicismo tedesco contemporaneo e sulla filosofia
tedesca otto-novecentesca, con libri e saggi su Dilthey, Humboldt, Droysen,
Troeltsch, Cassirer, Rickert, Groethuysen; b) ricerche sulla filosofia italiana
moderna e contemporanea, con libri e saggi su Vico, Cuoco, Ferrari, Colecchi,
De Meis, Imbriani, Croce, sul neoidealismo, sull’esistenzialismo italiano, su
Giuseppe Capograssi e Pietro Piovani; c) ricerche sul marxismo contemporaneo,
con volumi e saggi su Bloch, Lukacs, Labriola, Gramsci, sulla sinistra
socialista e meridionalista del secondo dopoguerra; d) ricerche di teoria e
storia della storiografia, con saggi sulla storiografia tedesca dell’Ottocento,
su Droysen, Lamprecht, sulla Neue Sozialgeschichte, su Villari e la
storiografia positivistica, sulla storiografia italiana del dopoguerra; e)
ricerche sui nessi, storici e sistematici, tra alcuni motivi dell’etica e della
filosofia pratica contemporanee e la tradizione dello storicismo, con saggi su
Vico, Croce, e sulla generale relazione tra Historismus e filosofa della
storia; f) ricerche e studi sulla filosofia e sulla cultura spagnola e
latinoamericana contemporanea con saggi su Ortega, Nicol, Gaos, Zambrano, Zea,
Zubiri, sulla filosofia dei diritti umani, sugli sviluppi della democrazia nel
continente latinoamericano; g) ricerche e studi sulla filosofia
dell’interculturalità nei suoi aspetti etici, ermeneutici, politico-filosofici
ed epistemologici. Ha edito e tradotto testi di Dilthey, di Riedel, di Otto e
si è distinto per aver organizzato diversi convegni internazionali su alcune
figure fondamentali della storia del pensiero filosofico quali Dilthey, Marx,
Vico, Abbagnano, Cassirer, Spengler, Ortega y Gasset, Labriola e Croce. 15 Ha
collaborato e collabora con numerose riviste scientifiche tra cui «Il Pensiero
politico», «Critica marxista», «Criterio», «Rinascita», «Giornale critico della
Filosofia italiana», «Studi storici», «Paradigmi», «Prospettive Settanta»,
«Iride», «L’Acropoli», «Rivista di Storia della filosofia», nonché, in qualità
di giornalista pubblicista, con diverse testate giornalistiche tra cui «Il
Mattino», «Il Giornale di Napoli», «La Città», «Corriere del Mezzogiorno»,
«Roma». È membro del Comitato direttivo del «Bollettino del Centro di studi
vichiani» e fa parte del comitato scientifico di svariate riviste specializzate
come «Discorsi», «Prospettive Settanta», «Studi critici», «Archivio di storia
della cultura», «Geschichte und Gegenwart», «Diritto e Cultura», «Revista de Hispanismo
filosófico». Ha diretto con Fulvio Tessitore la collana “Cultura e Storia”
dell’editore Morano di Napoli. Dirige, sempre con Tessitore, la nuova serie
della collana “Studi Vichiani” presso l’editore Guida di Napoli, la collana “La
cultura storica” dell’editore Liguori di Napoli e la collana “Istorica”
dell’editore Rubbettino di Soveria Mannelli. Presso il medesimo editore dirige,
in collaborazione con Edoardo Massimilla, la collana “Riscontri”. Con Giuseppe
Cantillo e con il compianto collega Antonello Giugliano ha diretto la collana
“Parole chiave della filosofia” dell’editore Guida di Napoli. Dirige, con
Armando Mascolo, la collana di testi della cultura spagnola e ispanoamericana
“Parva Hispanica” dell’editore Rubbettino. È condirettore, con Antonio
Scocozza, di «Cultura Latinoamericana», rivista della Maestría in Scienza
politica dell’Università Cattolica della Colombia e dell’Università di Salerno.
Ha fondato e dirige, con Armando Savignano, Luis de Llera e Antonio Scocozza,
la rivista di studi di filosofia iberica e iberoamericana «Rocinante». Ha
inoltre fondato, con Fabrizio Lomonaco e Antonello Giugliano, «Logos. Rivista
di Filosofia», di cui è attualmente codirettore. Dal 1986 è socio nazionale
dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società nazionale di Scienze
Let- 16 tere e Arti in Napoli. È altresì socio ordinario residente
dell’Accademia Pontaniana di Napoli. È stato membro del Consiglio di
amministrazione della “Fondazione Pietro Piovani per gli studi vichiani” e del
Consiglio di amministrazione della “Fondazione Filiberto e Bianca Menna”. Dal
1990 al 1995 è stato presidente del corso di Laurea in Filosofia della Facoltà
di Lettere e Filosofia dell’Università Federico II di Napoli. Nel 1994 ha
assunto la direzione del “Centro di studi vichiani” del CNR di Napoli, che ha
mantenuto sino al 2002. È stato Visiting Professor presso numerose Università
straniere tra cui l’Universidad Central de Venezuela (1982), l’Università di
Monaco di Baviera (1984) e l’Università di Halle-Wittenberg (1998). Oltre a
partecipare a numerosi convegni, ha tenuto corsi, conferenze e seminari presso
l’Università di Barcellona, Berlino (FU e “Humboldt”), Düsseldorf, Halle,
L’Avana, Maracaibo, UNERMB (Cabimas, Venezuela), Carabobo (Valencia,
Venezuela), München, Münster, Neuquén (Argentina), Potsdam, Valencia,
Universidad Nacional Autónoma de México, Universidad Católica de Bogotá. È
stato dal 1993 al 1997 delegato del Rettore dell’Università Federico II di
Napoli per i rapporti internazionali. Fa parte, dal novembre del 2001, della
Commissione scientifica del “Centro Interuniversitario di Ricerca bioetica”.
Dal 2001 al 2007 è stato Direttore del Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta”
dell’Università Federico II di Napoli. Dal 1993 al 2010 è stato Presidente
della giuria del Premio internazionale di saggistica “Salvatore Valitutti” e,
nel 1999, è stato insignito del Premio internazionale “Guido Dorso”. È stato
membro della Giunta esecutiva del Comitato nazionale per le celebrazioni di
Giordano Bruno nel IV centenario della morte. Dal maggio 2002 è ricercatore
associato presso l’Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico
(ISPF) del CNR di Napoli. È stato membro del collegio del Dottorato di ricerca
in “Culture dei paesi di lingue iberiche e iberoamericane” dell’Università
“L’Orienta- 17 le” di Napoli, nonché coordinatore del Dottorato di ricerca in
“Geopolitica e culture del Mediterraneo” presso l’Istituto italiano di Scienze
umane (SUM) e del Dottorato di ricerca in “Cultura, Storia e Architettura del
Mediterraneo” della Scuola di alta formazione dell’Università Federico II di
Napoli. Nel 2012 ha ricevuto la nomina a Profesor Titular presso la Universidad
Católica de Bogotá (Colombia). A partire dal 2007 è diventato socio
corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Nello stesso anno è
diventato Direttore dell’Istituto di Studi Latinoamericani, carica che ha
mantenuto sino al 2009. È stato coordinatore di due progetti di ricerca di
interesse nazionale (2007 e 2009). Nel corso del 2011 gli è stato assegnato il
Premio Perrotta per il Giornalismo a Salerno e il Premio Internazionale di
Filosofia Karl Otto Apel a Cosenza, e nel 2013 è stato insignito del Premio
nazionale “Frascati Filosofia”. Nello stesso anno è stato nominato Presidente
della “Società Salernitana di Storia Patria”, incarico che, dal 2010 al 2014,
ha ricoperto anche per la “Società Italiana degli Storici della Filosofia”. Dal
2014 al pensionamento ha coordinato il Dottorato di ricerca in “Scienze
filosofiche” dell’Università di Napoli Federico II e, nell’anno successivo, è
stato nominato rappresentante della medesima università nel Comitato
tecnico-scientifico del Consorzio universitario “Civiltà del Mediterraneo”. Nel
2015 gli è stata conferita la laurea magistrale honoris causa in Scienze
Pedagogiche presso l’Università di Salerno. È stato membro del Consiglio di
Indirizzo della “Fondazione Ravello” e altresì componente del Consiglio di
Indirizzo della “Fondazione Pietro Piovani per gli studi vichiani”. Nel 2017 è
stato nominato Professore Emerito di Storia della Filosofia presso l’Università
di Napoli Federico II e, per il biennio 2017-2019, Presidente della Classe di
Scienze Morali dell’Accademia Pontaniana di Napoli. Nel 2019, infine, è stato
eletto Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. 19 Legenda: A = Volumi,
Opuscoli, Curatele B = Saggi e articoli C = Recensioni D = Schede E = Edizioni
F = Introduzioni, Prefazioni, Premesse G = Articoli giornalistici 1969 B) 1 –
Il momento della “prassi” nello storicismo di Dilthey, in «Rivista di studi
salernitani», 1969, n. 4, pp. 423-461. * * * 1970 B) 2 – Il tricentenario
vichiano del 1968, in «Atti della Accademia Pontaniana» di Napoli, n.s., vol.
XIX, 1970 [pp. 20 dell’estratto]. 3 – Hegel in Italia e in italiano, in F.
Tessitore (a cura di), Incidenza di Hegel: studi raccolti in occasione del
secondo centenario della nascita del filosofo, Napoli, Morano, 1970, pp.
1057-1129. Bibliografia degli scritti (1969-2020) 20 C) 4 – Recensione di D.
Ulle, N. Motroshilova, È rivoluzionaria la dottrina di Marcuse?, in «Rivista di
studi salernitani», n.s, III, 1970, 5, pp. 471-481. 5 – Recensione di K.
Korsch, Karl Marx, in «Il Pensiero politico», III, 1970, n. l, pp. 146-148. 6 –
Recensione di L. Althusser, Lenin e la filosofia, in «Il Pensiero politico»,
III, 1970, n. l, pp. 156-157. * * * 1971 B) 7 – Scuola storica e diritto
naturale in Dilthey, in «Il Pensiero», XVI, 1971, nn. 2-3, pp. 220-239. 8 – Un
discorso raro di Angelo Camillo De Meis, in «Il Pensiero politico», IV, 1971,
n. 3, pp. 393-419. * * * 1972 A) 9 – Wilhelm Dilthey e il metodo delle scienze
storico-sociali, Salerno, Istituto di Filosofia e Storia della filosofia
dell’Università di Salerno, 1972. C) 10 – Recensione di H. Portelli, Gramsci et
le bloc historique, in «Paese Sera Libri», 28 settembre 1972. 21 * * * 1973 B)
11 – Ancora sul giovane De Meis, in «Il Pensiero politico», VI, 1973, n. 2, pp.
262-266. C) 12 – Recensione di M. Weber, Scritti Politici, in «Il Pensiero
politico», VI, 1973, n. 2, pp. 332-333. * * * 1974 A) 13 – Cultura filosofica e
pensiero Politico dal previchismo al 1860 (Lezione introduttiva al Seminario su
“Il Mezzogiorno dalle riforme all’Unità”), a.a. 1973-1974, Facoltà di
Giurisprudenza, Universita di Salerno, pp. 12. B) 14 – Storia, filosofia e
politica nell’attività Pubblicistica di Dilthey, in «Filosofia», 1974, n. l,
pp. 64-78. C) 15 – Recensione di H. Medick, Naturzustand und Naturgeschichte
der Bürgerlichen Gesellschaft, in «Il Pensiero politico», VII, 1974, n. 3, pp.
434-436. 22 G) 16 – Salerno: un confronto da continuare, in «La Voce della
Campania», 1974, n. 14. * * * 1975 B) 17 – Politicità dello storicismo, in «Il
Pensiero politico», VIII, 1975, n. 3, pp. 355-366. D) 18 – Scheda su I.
Cervelli, Droysen dopo il 1848 e il cesarismo, in «Il Pensiero politico», VIII,
1975, n. 3, pp. 430-431. E) 19 – W. Dilthey, Lo studio delle scienze umane
sociali e politiche, trad. it. e cura di G. Cacciatore, Napoli, Morano, 1975.
F) 20 – Introduzione a W. Dilthey, Lo studio delle scienze umane sociali e
politiche, Napoli, Morano, 1975, pp. 9-43. * * * 23 1976 A) 21 – Scienza e
filosofia in Dilthey, 2 voll., Napoli, Guida, 1976. D) 22 – Scheda su G.
Armani, Gli scritti su Carlo Cattaneo, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», VI, 1976, pp. 236-237. 23 – Scheda su G. Mastroianni, Studi
sovietici di filosofia italiana, in «Bollettino del Centro di studi vichiani»,
VI, 1976, pp. 248-249. 24 – Scheda su M. Prisco, Gli ermellini neri, in
«Bollettino del Centro di studi vichiani», VI, 1976, p. 253. 25 – Scheda su F. Tessitore,
Storicismo e Pensiero politico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani»,
VI, 1976, p. 254. * * * 1977 B) 26 – Scientificità del marxismo e pensiero
utopico, in «Atti della Accademia di Scienze morali e politiche» di Napoli,
vol. LXXVII, 1977, pp. 63-83. 27 – Discutendo di Croce e il partito politico,
in «Il Pensiero politico», X, 1977, pp. 127-135. 28 – Una lettera per
guadagnare il paradiso (a proposito della lettera di Berlinguer a Mons.
Bettazzi), in «Lineazeta», I, 1977, n. 6, p. 9. 24 D) 29 – Scheda su N.
Badaloni, Il marxismo di Gramsci, in «Bollettino del Centro di studi vichiani»,
VII, 1977, pp. 231-232. 30 – Scheda su J. Freund, Les théories des sciences
humaines, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», VII, 1977, p. 242. * *
* 1978 B) 31 – Etica, storia e futuro in Ernst Troeltsch, in «Storia e
politica», XVII, 1978, n. 3, pp. 497-532. 32 – Su una lettura storica della
questione sindacale, in «Il Pensiero politico», XI, 1978, n. 3, pp. 406-410. 33
– Luigi Cacciatore e la sinistra socialista. Politica unitaria e
meridionalismo, in Aa.Vv., Mezzogiorno e fascismo, Napoli, ESI, 1978, pp.
587-730. C) 34 – Recensione di G. Acocella, Questione meridionale e
sindacalismo cattolico, in «Il Tetto», XV, 1978, n. 85, pp. 125-128. * * * 25 1979
A) 35 – Ragione e speranza nel marxismo. L’eredità di Ernst Bloch, Bari,
Dedalo, 1979. 36 – La sinistra socialista nel dopoguerra. Meridionalismo e
politica unitaria in Luigi Cacciatore, prefazione di F. De Martino, Bari,
Dedalo, 1979. B) 37 – Economia e base materiale nell’utopia concreta di Ernst
Bloch, in R. Crippa (a cura di), La dimensione dell’economico, Padova, Liviana,
1979, pp. 439-466. 38 – Vico e Dilthey. La storia dell’esperienza umana come
relazione fondante di conoscere e fare, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», IX, 1979, pp. 35-68. C) 39 – Recensione di E. De Mas, D. Faucci, F.
Nicolini, A. Verri, Vico e l’instaurazione delle scienze, in «Bollettino del
Centro di studi vichiani», IX, 1979, pp. 159-162. D) 40 – Scheda su H. Albert,
Storia e legge: per la critica dello storicismo metodologico, in «Bollettino
del Centro di studi vichiani», IX, 1979, p. 189. 41 – Scheda su M. Alicata,
Lettere e Taccuini di Regina Coeli, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», IX, 1979, pp. 189-190. 42 – Scheda su N. Bobbio, Voce Democrazia /
Dittatura (Enciclopedia Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi vichiani»,
IX, 1979, pp. 193-194. 26 43 – Scheda su D. Bohler, Philosophische Hermeneutik
und hermeneutische Methode, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX,
1979, p. 194. 44 – Scheda su G. P. Caprettini, Voce Allegoria (Enciclopedia
Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, p. 195. 45 –
Scheda su E. Leach, Voce Anthropos (Enciclopedia Einaudi), in «Bollettino del
Centro di studi vichiani», IX, 1979, pp. 206-207. 46 – Scheda su S. Otto, Die
Geschichtsphilosophie Giambattista Vicos, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», IX, 1979, pp. 211-212. 47 – Scheda su K. Pomian, Voce Ciclo
(Enciclopedia Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979,
p. 213. 48 – Scheda su C. Prandi, Voce Credenze (Enciclopedia Einaudi), in
«Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, p. 214. 49 – Scheda su M.
Riedel, Verstehen oder Erklären? Zur Theorie und Geschichte der hermeneutischen
Wissenschaften, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, p. 216.
50 – Scheda su A. Salsano, Voce Enciclopedia (Enciclopedia Einaudi), in
«Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, pp. 216-217. F) 51 – Nota
del curatore, in Federazione salernitana del PCI (a cura di), Per i
Settantacinque anni di Francesco Cacciatore, prefazione di A. Alinovi, Salerno,
Boccia, s.d., 1979, p. 9. * * * 27 1980 B) 52 – Ernst Bloch: l’utopia della
realizzazione dell’“humanum”, in «Critica marxista», 1980, n. 5, pp. 109-128.
C) 53 – Recensione di G. Vico, Liber metaphysicus Risposte, ed. tedesca, S.
Otto, H. Viechtbauer (hrsg.), Transzendentale Einsicht und Theorie der
Geschichte. Überlegungen zu G. Vicos “Liber metaphysicus”, in «Bollettino del
Centro di studi vichiani», X, 1980, pp. 196-203. D) 54 – Scheda su M. Jay,
L’immaginazione dialettica. Storia della Scuola di Francoforte e dell’Istituto
per le ricerche sociali, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», X, 1980,
p. 247. 55 – Scheda su S. Otto, Die transzendentalphilosophische Relevanz des
Axioms “verum et factum convertuntur”. Überlegungen zu G. Vicos “Liber
metaphysicus”, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», X, 1980, pp.
250-251. 56 – Scheda su S. Otto, Faktizität und Transzendentalität der
Geschichte. Die Aktualität der Geschichtsphilosophie G. Vicos im Blick auf Kant
und Hegel, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», X, 1980, pp. 251-252.
57 – Scheda su S. Otto, Geistesgeschichte zwischen Philosophie und Feuilleton,
in «Bollettino del Centro di studi vichiani», X, 1980, pp. 252-253. * * * 28
1981 B) 58 – Sentimento metafisico e infelicità della ragione (a proposito di
Metafisica di A. Masullo), in «Critica marxista», 1981, n. 6, pp. 185-192. 59 –
Materiali su “Vico in Germania” (in collab. con G. Cantillo), in «Bollettino
del Centro di studi vichiani», XI, 1981, pp. 13-32. D) 60 – Scheda su G. Conte
(a cura di), Metafora, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XI, 1981,
pp. 279-280. 61 – Scheda su M. Ciliberto, Come lavorava Gramsci, in «Bollettino
del Centro di studi vichiani», XI, 1981, pp. 282-284. 62 – Scheda su A. Di
Nola, Voce Origini (Enciclopedia Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», XI, 1981, p. 287. 63 – Scheda su U. Eco, Voce Metafora (Enciclopedia
Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XI, 1981, pp. 287-288.
64 – Scheda su S. Natoli, Soggetto e Fondamento. Studi su Aristotele e
Cartesio, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XI, 1981, p. 295. 65 –
Scheda su S. Otto, Materialen zur Theorie der Geistesgeschichte, in «Bollettino
del Centro di studi vichiani», XI, 1981, pp. 296-297. * * * 29 1982 B) 66 –
Difettività e fondamento: un convegno in memoria di Pietro Piovani, in
«Discorsi», II, 1982, fasc. 2, pp. 373- 375. 67 – Los Orígenes del fascismo en
Italia. Revolución y reacción (1918-1922), Universidad Central de Venezuela,
Caracas, Publicaciones de la Escuela de Historia, 1982, pp. 17. C) 68 –
Recensione di S. Merli, Il “Partito nuovo” di Lelio Basso, in «Il Pensiero
politico», 1982, n. 3, pp. 615-617. E) 69 – M. Riedel, L’Universalità della
scienza europea e il primato della filosofia, trad. it. e cura di G.
Cacciatore, Napoli, ESI, 1982. F) 70 – Introduzione a M. Riedel, L’Universalità
della scienza europea e il primato della filosofia, Napoli, ESI, 1982, pp.
11-32. * * * 30 1983 B) 71 – Vico e Kant nella filosofia di Ottavio Colecchi,
in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XII-XIII, 1982- 1983, pp. 63-99.
72 – Dilthey e il Rinascimento, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Napoli», n.s., vol. XXV, XIII, 1982-1983, pp. 181-230. 73 –
L’“utopia liberale” di B. Croce, in A. Bruno (a cura di), Benedetto Croce.
Trent‘anni dopo, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 159-177. 74 – L’“utopia
liberale” di B. Croce: un contributo alla discussione su etica e politica nella
crisi del mondo contemporaneo [ed. ampliata del numero precedente], in
«Discorsi», III, 1983, fasc. I, pp. 68-93. 75 – Dilthey e la storiografia
tedesca dell’Ottocento, in «Studi Storici», 1983, n. 1-2, pp. 55-89. C) 76 – Le
Speranze tradite di Karola ed Ernst (a proposito di K. Bloch, Memorie dalla mia
vita), in «Rinascita», XL, 1983, n. 21, pp. 29-30. D) 77 – Scheda su B. De
Giovanni, La “Teologia civile” di Vico, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», XIIXIII, 1982-1983, pp. 417-419. * * * 31 1984 B) 78 – La norma come
“misura”: gnoseologia, etica e storia nella filosofia di Pietro Piovani, in A.
Masullo (a cura di), Difettività e fondamento, Napoli, Guida, 1984, pp. 87-99.
79 – Marxismo e utopia neqli anni venti: Bloch e Lukács, in Aa.Vv., L’Utopia,
Messina, ed. G.B.M., 1984, pp. 31-68. 80 – La “speranza” della storia. Note in
margine a un libro sullo storicismo Politico in “Paradigmi”, II, 1984, n. 5,
pp. 293-315. 81 – Ortega y Gasset e Dilthey, in L. Infantino, L. Pellicani (a
cura di), Attualità di Ortega y Gasset, Firenze, Le Monnier, 1984, pp. 89-113.
82 – Riflessioni “inattuali” su Francesco De Sanctis, in «Rassegna storica
salernitana», 1984, n. 1-2, pp. 109-115. 83 – Note sulla recezione di G. Bruno
nella filosofia italiana della seconda metà dell’Ottocento, in «Atti
dell’Accademia di Scienze morali e politiche» di Napoli, vol. XCV, 1984, pp.
295-313. 84 – Nichilismo attivo, storicità, futuro nella filosofia di Pietro
Piovani, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXIII (LXV), fasc. II,
1984, pp. 217-259. 85 – “Neue Sozialgeschichte” e teoria della storia, in
«Studi storici», n. 1, 1984, pp. 119-130. 86 – La recezione italiana della
Existenzphilosophie nel dopoquerra: problemi interpretativi e significati
etico-politici, in «Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche» di
Napoli, vol. XCV, 1984, pp. 45-67. C) 87 – Recensione di L. Rossi, Terra e
genti del Cilento borbonico, in «Rassegna storica salernitana», 1984, n. 1-2,
pp. 200-201. 32 88 – Recensione di G. Acocella, L. Mascilli Migliorini, C.
Franco, A. Aurigemma, De Sanctis e l’Irpinia, introduzione di F. Tessitore, Di
Mauro, 1983, in «Rassegna storica salernitana», 1984, n. 1-2, pp. 201-203. G)
89 – Un protagonista dell’opposizione socialista. Per l’unità delle forze
democratiche, in «Dossier Sud», 1984, n. 16, p. 9. * * * 1985 A) 90 – Vita e
forme della storia. Saggi sulla storiografia di Dilthey, Napoli, Morano, 1985.
91 – G. Cacciatore, G. Cantillo (a cura di), Wilhelm Dilthey. Critica della
metafisica e ragione storica, Bologna, Il Mulino, 1985. B) 92 – Per una storia
del pensiero democratico, in «Nuova Antologia», vol. 554, 1985, fasc. 2153, pp.
425-440. 93 – Politica, diritto e Stato in Dilthey, in F. Bianco (a cura di),
Dilthey e il pensiero del Novecento, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 136-154.
94 – Dilthey e la storiografia tedesca dell’Ottocento, in G. Cacciatore, G.
Cantillo (a cura di), Wilhelm Dilthey. Critica della metafisica e ragione
storica, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 207-244. 33 C) 95 – Recensione di G.
Vico, Neue Wissenschaft, hrsg. von F. Fellmann, Frankfurt am Main, Klostermann,
1981, in «Bollettino del Centro di Studi vichiani», XIV-XV, 1985, pp. 349-355.
96 – Recensione di R.W. Schmidt, Die Geschichtsphilosophie G.B. Vicos,
Würzburg, Königshausen und Neumann, 1982, in «Bollettino del Centro di Studi
vichiani», XIVXV, 1985, pp. 361-366. D) 97 – Scheda su F. Tessitore, La
storiografia come scienza, in «Bollettino del Centro di studi vichiani»,
XIV-XV, 1985, p. 413. F) 98 – Introduzione (in collab. con G. Cantillo) a
Wilhelm Dilthey. Critica della metafisica e ragione storica, Bologna, Il
Mulino, 1985, pp. 5-8. 99 – Introduzione (in collab. con G. Amarante) a F.
Cacciatore, Per l’unità dei lavoratori. Raccolta di scritti e discorsi,
Salerno, Boccia (ed. f.c.), 1985, pp. 13-45. * * * 1986 A) 100 – G. Cacciatore,
F. Lomonaco (a cura di), Karl Marx 1883-1983, Napoli, Guida, 1986. 34 B) 101 –
Il Marx di Gramsci. Per una rilettura del nesso etica-teoria-politica nel
marxismo, in G. Cacciatore, F. Lomonaco (a cura di), Karl Marx 1883-1983,
Napoli, Guida, 1986, pp. 259-301. 102 – Vichismo e illuminismo tra Cuoco e
Ferrari, in P. Di Giovanni (a cura di), La tradizione illuministica in Italia,
Palermo, Palumbo, 1986, pp. 43-91. 103 – Crisi e attualità del marxismo nel
pensiero di Labriola, in «Bollettino della Società filosofica italiana», n.s.,
1986, n. 129, pp. 13-36. D) 104 – Scheda su G. Cotroneo, Vico in Sicilia:
Benedetto Castiglia e le “Scienze dell’umanità”, in «Bollettino del Centro di
studi vichiani», XVI, 1986, pp. 451-452. 105 – Scheda su S. Otto,
Rekonstruktion der Geschichte. Zur Kritik der historischen Vernunft, Erster
Teil, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XVI, 1986, pp. 470-471. F)
106 – Presentazione (in collab. con G. Cantillo) di W. Dilthey, Storia della
giovinezza di Hegel e Frammenti Postumi, Napoli, Guida, 1986, pp. 7-10. 107 –
Nota introduttiva (in collab. con F. Lomonaco) a G. Cacciatore e F. Lomonaco (a
cura di), Karl Marx 1883- 1983, Napoli, Guida, 1986, pp. 4-6. G) 108 – Centro
storico: ritrovarsi per riparlarne, in «La Gazzetta di Salerno», 13 febbraio
1986. 35 * * * 1987 B) 109 – Lezioni e battaglie di Pasquale Villari, in Aa.Vv.,
Napoli tra idealismo e positivismo, suppl. a «Itinerario», 1987, n. 2, pp.
27-31. 110 – Un convegno su Labriola in Germania, in «Studi storici», 1987, n.
1, pp. 261-268. 111 – La recezione italiana della Existenzphilosophie, in K.-E.
Lösse (hrsg.), Wissenschaftstradition und Nachkriegsgeschichte in Italien und
Deutschland, Düsseldorf, Schwann, 1987, pp. 112-129. * * * 1988 B) 112 – Crisi
della storiografia storicistica e “bisogno” di Kulturgeschichte: il caso
Lamprecht, in Aa.Vv., Le storie e la storia della cultura, Napoli, Morano,
1988, pp. 223-237. 113 – Crisi dello storicismo e bisogno di Kulturgeschichte:
il caso Lamprecht, in «Archivio di storia della cultura», I, 1988, pp. 257-281.
114 – Vittorio Imbriani filosofo (in collab. con A. Giugliano), in «Atti
dell’Accademia di Scienze morali e politiche», vol. XCIX, 1988, pp. 55-68. 36
115 – Il problema della storia alle origini del neoidealismo italiano, in P. Di
Giovanni (a cura di), Il neoidealismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp.
111-138. 116 – Labriola et le débat sur la crise du marxisme, in G. Labica, J.
Texier (a cura di), Labriola d’un siècle à l’autre, Paris, Meridiens
Klincksieck, 1988, pp. 237-251. 117 – Un maestro e la sua città, in C. Coppola
(a cura di), Esegesi e grammatica. Raccolta di scritti e testimonianze,
Salerno, Laveglia, 1988, pp. 139-143. 118 – L’autocritica della storia, in
«Rinascita», 1988, n. 21, p. 19. C) 119 – Recensione a N. Badaloni,
Introduzione a Vico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XVII-XVIII,
1988, pp. 322-329. F) 120 – Presentazione di C. Manzi, Giacomo Leopardi e i
canti napoletani, Salerno (ed. f.c.), 1988, pp. 4-6. G) 121 – Con Vico, oltre
Vico, in «Il Mattino», 13 aprile 1988. 122 – Per l’impoliticità della cultura,
in «Il Domani», 11 ottobre 1988. 123 – La rivoluzione dell’individuo etico, in
«Il Mattino», 18 ottobre 1988. * * * 37 1989 A) 124 – G. Cacciatore (a cura
di), Figure dell’Utopia. Saggi su Ernst Bloch, Avellino, F. Redi, 1989. B) 125
– I modelli teorici della storiografia italiana dal 1945 al 1980, in «Archivio
di storia della cultura», II, 1989, pp. 113-181. 126 – Vico e il vichismo negli
“Scandagli critici” di Pietro Piovani, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», XIX, 1989, pp. 241-249. 127 – Scienze dello spirito e mondo storico
nel confronto Dilthey-Rickert, in M. Signore (a cura di), Rickert tra
storicismo e ontologia, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 223-249. 128 –
Marxismo etica utopia negli anni Venti: Bloch e Lukacs, in G. Cacciatore (a
cura di), Figure dell’Utopia. Saggi su Ernst Bloch, Avellino, F. Redi, 1989,
pp. 35-151. C) 129 – Recensione dell’“Annuario” 1988-1989 del Liceo “Tasso” di
Salerno, in «Rassegna storica salernitana», 1989, n. 12, pp. 401-404. F) 130 –
Presentazione di A. Matano, Il pensiero Politico di A. Labriola, Marsala, La
Medusa, 1989, pp. I-V. 131 – Premessa a G. Cacciatore (a cura di), Figure
dell’Utopia. Saggi su Ernst Bloch, Avellino, F. Redi, 1989, pp. 5-6. 38 G) 132
– Il futuro del Passato. In ricordo di A. Omodeo, in «Il Mattino», 19 settembre
1989. 133 – L’idealismo realistico di Lotze (a proposito di H. Lotze,
Microcosmo, Torino, UTET,1989), in «Il Mattino», 3 dicembre 1989. * * * 1990 B)
134 – Labriola, l’imperialismo e la storia italiana, in F. Lomonaco (a cura
di), Cultura, società, potere. Studi in onore di Giuseppe Giarrizzo, Napoli,
Morano, 1990, pp. 399-436. 135 – Labriola e l’imperialismo, in E. Serra, C.
SetonWatson (a cura di), Italia e Inghilterra nell’età dell’imperialismo,
Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 15-46. 136 – Imbriani filosofo, in R.
Franzese, E. Giammattei (a cura di), Studi su Vittorio Imbriani, Napoli, Guida,
1990, pp. 147-164. 137 – Nuove ricerche sul “Liber Metaphysicus” di
Giambattista Vico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XX, 1990, pp.
211-221. 138 – Dahrendorf, storia e lotta di classi, in «Rinascita», n.s., I,
1990, n. 23, pp. 54-61. 139 – Dahrendorf e la “rivoluzione incompiuta del mondo
moderno”, in «Prospettive Settanta», 1990, n. 1-2, pp. 176-190. 140 – Salerno:
la vita culturale di una città attraverso la storia del suo liceo, in P. Macry,
P. Villani (a cura di), La Campania (“Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a
oggi”), Torino, Einaudi, 1990, pp. 868-883. 39 141 – Il dibattito sul metodo
della ricerca storica, in G. Di Costanzo (a cura di), La cultura storica
italiana tra Otto e Novecento, Quaderni dell’«Archivio di storia della
cultura», vol. l, Napoli, Morano, 1990, pp. 161-244. 142 – Utopia della pace e
senso della storia, in «Enne», II, 1990, n. 10-17, p. 10. 143 – Nove tesi
provvisorie per la discussione sulla formapartito, in «Enne», II, 1990, n. 25,
p. 12. C) 144 – Recensione di Sachkommentar zu G. Vicos “liber metaphysicus”,
hrsg. von S. Otto, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», band 72, 1990,
heft 1, pp. 94-102. 145 – La storia del Pensiero: istruzioni per l’uso (a
proposito del vol. III, 1990, dell’«Archivio di storia della cultura»), in «Il
Mattino», 2 dicembre 1990. G) 146 – Filiberto Menna, in «Gazzetta di Salerno»,
n. 8-9, 15 marzo 1990. 147 – Oltre Hegel, in «Il Mattino», 27 febbraio 1990.
148 – Un progetto incompiuto, in «Il Giornale di Napoli», 27 giugno 1990. 149 –
La civiltà del potere, in «Il Mattino», 3 agosto 1990. * * * 1991 B) 150 –
Storicità e Historismus, in F. Tessitore (a cura di), L’opera di Pietro
Piovani, Napoli, Morano, 1991, pp. 345-398. 40 151 – Il concetto di “empiria”
nell’Historismus: Droysen e Dilthey, in V.E. Russo (a cura di), La questione
dell’esperienza, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991, pp. 85-102. 152 – Il
fondamento dell’intersoggettività tra Dilthey e Husserl, in A. Masullo, C.
Senofonte (a cura di), Razionalità fenomenologica e destino della filosofia,
Genova, Marietti, 1991, pp. 143-173. 153 – La sinistra socialista.
Meridionalismo e politica unitaria nel PSI attraverso l’opera e l’azione di Luigi
Cacciatore, in G. Muzzi (a cura di), La Sinistra meridionale nel secondo
dopoguerra (1943-1954). Giornate di studio in onore di Francesco De Martino,
Firenze, “Istituto Socialista di Studi Storici”, 1991, pp. 59-88. 154 –
Socialismo, meridionalismo e unità della sinistra nell’azione di Luigi
Cacciatore, in «Rassegna storica salernitana», n.s., VIII, 1991, n. 16, pp.
123-158. 155 – Il concetto di “Empiria” tra Droysen e Dilthey, in «Atti della
Accademia Pontaniana», n.s., vol. XL, 1991, pp. 55-73. 156 – Il concetto
politico-filosofico di interesse in Marx, in Aa.Vv., Ethos e Cultura, Studi in
onore di Ezio Riondato, Padova, Antenore, 1991, vol. I, pp. 393-422. 157 –
Crisi delle ideologie e nuove forme politiche nel mondo contemporaneo:
principio di democrazia e socialismo possibile, in «Prospettive Settanta»,
n.s., XIII, 1991, n. 4, pp. 616-633. 158 – Laicismo, modernità e “Centesimus
Annus”, in «Prospettive Settanta», n.s., XIII, 1991, n. 4, pp. 584-589. 159 –
Il concetto di vita in Croce, in «Criterio», n.s., IX, 1991, nn. 3-4, pp.
165-201. 160 – Per aprire il discorso. Note sulla recente traduzione tedesca
della “Scienza nuova”, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXI, 1991,
pp. 129-135. 161 – Il rifiuto “politico” di questa guerra, in «Enne», III,
1991, n. 49, p. 2. 162 – Le opzioni dell’area riformista salernitana, in «La
Piazza», V, 1991, n. 5, pp. 9-11. 41 C) 163 – Recensione di B. De Giovanni,
Dopo il Comunismo, Napoli, 1990, in «Enne», III, 1991, n. 57, p. 15. 164 –
Recensione di A. Musi (a cura di), Dimenticare Croce? Studi e orientamenti di
Storia del Mezzogiorno, Napoli, 1991, in «Rassegna storica salernitana”, n.s.,
VIII, 1991, n. 16, pp. 374-377. 165 – Recensione di A. Menna, Il banco e la
cattedra, Salerno, De Luca, 1991, in «Rassegna Storica salernitana», n.s.,
VIII, 1991, n. 16, pp. 377-379. 166 – Recensione di J.M. Sevilla Fernández, G.
Vico: metafísica de la mente y historicismo antropológico, Sevilla, Servicio de
Publicaciones de la Universidad, 1988, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», XXI, 1991, pp. 166-171. 167 – Lo Statuto del Comune di Salerno, in
«Zona Orientale», ottobre 1991, n. 5, p. 4. G) 168 – In conflitto con la storia
(a proposito dei Quaderni per una morale di Sartre), in «Il Giornale di
Napoli», 28 giugno 1991. 169 – Quale stile di vita?, in «Il Giornale di
Napoli», 12 luglio 1991. 170 – Oltre la fine del leninismo, in «Il Giornale di
Napoli», 1 settembre 1991. 171 – La filosofia dell’individualità (a proposito
di W.V. Humboldt), in «Il Giornale di Napoli», 12 settembre 1991. 172 – Alle
origini della vita, tra miti e simboli, in «Il Giornale di Napoli», 18 ottobre
1991. 173 – Il tempo della vitalità, in «Il Giornale di Napoli», 6 novembre
1991. 174 – Quei valori da non smarrire. A proposito del bene comune in ogni
momento della storia, in «Il Giornale di Napoli», 13 novembre 1991. 42 175 – La
legge del Principe (recensione di F. Lomonaco, Lex regia, Napoli, Guida, 1991),
in «Il Mattino», 18 giugno 1991. * * * 1992 B) 176 – I “principi” della
Kulturgeschichte, in «Archivio di storia della cultura», V, 1992, pp. 315-324.
177 – Tra Fenomenologia ed Esistenzialismo. Considerazioni su Banfi e Paci (in
collab. con G. Cantillo), in Aa.Vv., I progressi della filosofia nell’Italia
del Novecento, Napoli, Morano, 1992, pp. 315-345. 178 – Karl Lamprecht und die
“Kulturgeschichte”. Nachdenken über die überlieferten Paradigmen der Theorie
der Geschichte, in Aa.Vv., Universalgeschichte - gestern und heute,
“Comparativ” (Leipziger Beiträge zur Universalgeschichte und vergleichenden
Gesellschaftsforschung), Heft 1, 1992, pp. 79-91. 179 – Karl Lamprecht und die
“Kulturgeschichte”, in «Geschichte und Gegenwart», XI, giugno 1992, n. 2, pp.
120-133. 180 – “Historismus” e mondo moderno: Dilthey e Troeltsch, in «Giornale
critico della Filosofia italiana», VI serie, LXXI, 1992, fasc. I, pp. 14-48.
181 – Tocqueville nell’interpretazione dello storicismo tedesco, in V. Dini, D.
Taranto (a cura di), Individualismo, assolutismo, democrazia (atti del convegno
in memoria di Anna Maria Battista), Napoli, ESI, 1992, pp. 489-499. 182 – Croce
e il suo tempo nel carteggio con Prezzolini, in «Nord e Sud», n.s., XXXIX,
1992, n. 3, pp. 43-59. 183 – Alcuni spunti su Gramsci teorico della politica,
in «Studi Critici», II, 1992, nn. 1-2, pp. 25-32. [apparso, con 43 il titolo
Annotazioni su Gramsci teorico etico-politico, anche in «Archivio sardo del
movimento operaio contadino e autonomistico», Socialismo e democrazia, Atti del
convegno di studi nel centenario della nascita di Gramsci, 1992, n. 38-40, pp.
209-221]. 184 – Storia e teoria dello storicismo, in «Prospettive Settanta»,
1992, n. 2-3, pp. 305-321. F) 185 – Introduzione a E. Todaro, Sottovoce,
Salerno, Boccia, 1992, pp. 7-8. G) 186 – Una nuova razionalità, in «Il Giornale
di Napoli», 24 gennaio 1992. 187 – Carteggi d’autore, in «Il Giornale di
Napoli», 31 gennaio 1992. 188 – Un esempio di coraggio (a proposito di Nicola
Fiore), in «Il Giornale di Napoli», 25 febbraio 1992. 189 – A confronto con i
valori del passato, in «Il Giornale di Napoli», 1 marzo 1992. 190 – Quale
ideale di emancipazione, in «Il Giornale di Napoli», 10 marzo 1992. 191 – In
viaggio da settant’anni (Festa di compleanno per Mario Carotenuto), in «Il
Giornale di Napoli», 30 aprile 1992. 192 – Le strade per l’unità della sinistra,
in «Il Giornale di Napoli», 13 maggio 1992, p. 7. 193 – Il paesaggio come
risorsa, in «Il Giornale di Napoli», 3 giugno 1992. 194 – Il comportamento dei
singoli (lettera aperta a Norberto Bobbio), in «Il Giornale di Napoli», 17
giugno 1992. 195 – Quella parabola della neutralità (a proposito del libro di
G. Nuzzo, A Napoli nel tardo Settecento), in «Il Giornale di Napoli», 18 giugno
1992. 44 196 – Se si superano i separatismi, in «Il Giornale di Napoli», 24
giugno 1992. 197 – Sul mare del tempo, in «Il Giornale di Napoli», 2 luglio
1992. 198 – Questione morale, in «La Repubblica» (ed. di Napoli), 26 agosto
1992, pp. I e IV. 199 – La cultura e l’economia meridionale nella integrazione
europea, in «Nadir», II, agosto 1992, nn. 7-8, p. 6. 200 – La libera filosofia
di Abbagnano, in «La Repubblica» (ed. di Napoli), 13 novembre 1992, p. XVIII. *
* * 1993 A) 201 – Storicismo problematico e metodo critico, Napoli, Guida,
1993. B) 202 – La cultura e l’economia meridionale nell’integrazione europea,
in «Diritto allo studio», III, 1993, n. 4, pp. 20-21. 203 – Profilo di
Michelangelo Schipa, in Aa.Vv., Cultura e Università in Campania, Salerno,
«Quaderni» della Società Dante Alighieri di Salerno, 1993, pp. 19-52. 204 –
Studi vichiani in Germania 1980-1990 (in collab. con G. Cantillo), in
«Bollettino del Centro di studi vichiani», XXII-XXIII, 1992-1993, pp. 7-39. 205
– La cultura e l’economia meridionale nella integrazione europea, in «Nadir»,
II, agosto 1992, nn. 7-8, p. 6. 206 – Historismus e mondo moderno: Dilthey e Troeltsch,
in T. Albertini, Lang Verlag (hrsg.), Verum et Factum. Bei- 45 träge zur
Geistesgeschichte und Philosophie der Renaissance zum 60, München, Geburtstag
von Stephan Otto, 1993, pp. 247-272. 207 – Karl Lamprecht und die
“Kulturgeschichte” im Rahmen des Nachdenkens über die überlieferten Paradigmen
der Theorie der Geschichte, in Gerald Diesener (hrsg.), Karl Lamprecht
weiterdenken. Universal und Kulturgeschichte heute, Leipzig, Leipziger
Universitätsverlag 1993, pp. 335-351. 208 – Il concetto di vita in Croce, in M.
Ciliberto (a cura di), Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia
europea, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp. 145-180. 209 – Terra. Il Punto di
vista filosofico, in «Fridericiana», I, 1992-1993, n. 4, pp. 201-215. 210 –
Karl Lamprecht an den Ursprüngen der Sozialgeschichte, in «Geschichte und
Gegenwart», XII, 1993, n. 3, pp. 131-140. 211 – Pensare l’Europa nell’epoca
dell’universalismo dei diritti umani, in «Prospettive Settanta», n.s., XV, I,
1993, pp. 712-724. 212 – Der Begriff der “Empirie” von Droysen zu Dilthey, in
«Dilthey-Jahrbuch für Philosophie und Geschichte der Geisteswissenschaften»,
Band 8, 1992-1993, pp. 265-288. 213 – Wilhelm von Humboldt, Dilthey e la
tradizione del “Historismus”, in A. Carrano (a cura di), W. von Humboldt e il
dissolvimento della filosofia nei “saperi Positivi”, Napoli, Morano, 1993, pp.
337-387. 214 – Per una rivalutazione storica di Nicola Fiore, in G. Scarsi, M.
Autuori (a cura di), Nicola Fiore un sindacalista rivoluzionario?, Salerno,
Pietro Laveglia Editore, 1993, pp. 13-19. 215 – Su alcuni modelli teorici e
metodologici nella scienza storica del Novecento, in «Bollettino della Società
Filosofica Italiana», n.s., 1993, n. 150, pp. 19-30. 216 – Etica tempo
soggetto. Una ricerca in comune sull’etica contemporanea, in «Criterio», XI,
1993, n. 2-3, pp. 75-81. 46 217 – Storia etico-politica e storia della cultura
in Benedetto Croce, in Aa.Vv., Croce quarant’anni dopo, (Istituto Nazionale di
Studi Crociani - Pescara/Sulmona), Pescara, Ediars, 1993, pp. 221-238. 218 –
Conflitto prassi totalizzazione. Il tema della storia, in G. Invitto, A.
Montano (a cura di), Gli scritti postumi di Sartre, Genova, Marietti, 1993, pp.
209-226. F) 219 – Introduzione (in collab. con G. Cantillo) a Aa.Vv., Vico in
Italia e in Germania. Letture e prospettive (Atti del Convegno Internazionale.
Napoli, 1-3 marzo 1990), Napoli, Bibliopolis, 1993, pp. 5-6. G) 220 – Emozioni
e reazioni, in «Il Giornale di Napoli», 13 febbraio 1993. 221 – Libertà e
sapere, in «Il Giornale di Napoli», 2 marzo 1993. 222 – Una politica diversa
invecchiata presto, in «Roma», 2 aprile 1993. 223 – Ma dov’è la Patria?, in «Il
Giornale di Napoli», 8 aprile 1993. 224 – La libertà possibile, in «Il Giornale
di Napoli», 15 maggio 1993. 225 – Ma la teoria non è eterna, in «Il Giornale di
Napoli», 6 ottobre 1993. 226 – Emozioni della cultura, in «Il Giornale di
Napoli», 29 dicembre 1993. * * * 47 1994 A) 227 – La lancia di Odino. Teorie e
metodi della scienza storica tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini, 1994.
B) 228 – Storia etico-politica e storia della cultura in Benedetto Croce, in
«Rassegna di Studi Crociani», IV, 1993-1994, n. 6-7, pp. 23-30 [pubblicato
anche in «Oggi e Domani», XXI, 1994, n. 1, pp. 23-30]. 229 – Scienza dell’uomo
e condotta di vita. Alle origini dell’etica moderna: l’analisi di Dilthey, in
«Paradigmi», XII, n. 34, 1994, pp. 23-38. 230 – 1744-1994, in «Bollettino del
Centro di studi vichiani», XXIV-XXV, 1994-1995, pp. 7-9. 231 – Ortega e Vico,
in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXIV-XXV, 1994-1995, pp. 236-246.
232 – Observaciones al margen a la investigación viquiana en la España
contemporánea, in «Cuadernos sobre Vico», 1994, n. 4, pp. 75-81. 233 – L’etica
fra storicismo e fenomenologia, in G. Cantillo, R. Viti Cavaliere (a cura di),
La tradizione critica della filosofia. Studi in memoria di Raffaello Franchini,
Napoli, Loffredo, 1994, pp. 501-517. 234 – Il problema della religione in
Dilthey, in G. Gembillo (a cura di), Storicismo come tradizione. Studi in onore
di Girolamo Cotroneo, Messina, Perna, 1994, pp. 41-91. 235 – Profilo di
Michelangelo Schipa, in P. Macry, A. Massafra (a cura di), Fra storia e
storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Bologna, Il Mulino, 1994,
pp. 187-203. 48 C) 236 – Recensione di S. Otto, Giambattista Vico. Lineamenti
della sua filosofia, Napoli, Alfredo Guida Editori, 1992, in «Bolletino del
Centro di studi vichiani», XXIVXXV, 1994-1995, pp. 269-275. 237 – Recensione di
«Cuadernos sobre Vico» II (1992), in «Bollettino del Centro di studi vichiani»,
XXIV-XXV, 1994-1995, pp. 320-324. D) 238 – Scheda di U. Eco, La ricerca della
lingua perfetta nella cultura europea, Roma-Bari, Laterza, 1994, in «Bollettino
del Centro di studi vichiani», XXIV-XXV, 1994- 1995, pp. 376-377. G) 239 –
Motivo immortale (a proposito dello Spinoza di Rensi), in «Il Giornale di
Napoli», 13 marzo 1994. 240 – Incontri della mente, in «Il Giornale di Napoli»,
1 aprile 1994. 241 – La città capitale della Scienza nuova, in «Il Mattino», 9
ottobre 1994. 242 – Napoli e il “futuro” di Vico, in «l’Unità», 17 ottobre
1994. 243 – Spengler e Troeltsch, tramonto a due voci, in «Il Mattino», 5
dicembre 1994. 244 – I contrasti di una città che cresce, in «La Voce» (ed.
Campania), 31 dicembre 1994. * * * 49 1995 A) 245 – Democrazia e informazione,
Acerra, Metis, 1995, pp. 15. 246 – G. Cacciatore, G. Cantillo (a cura di), Una
filosofia dell’uomo, atti del convegno in memoria di N. Abbagnano, Salerno,
Edizioni Comune di Salerno, 1995. 247 – G. Cacciatore, C. Senofonte, A.
Costabile (a cura di), Francesco De Sarlo, Potenza, Edizioni Ermes, 1995. B)
248 – Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, in J. Trabant (hrsg.), Vico und die
Zeichen. Vico e i segni, Tübingen, Gunter Narr Verlag, 1995, pp. 257-269. 249 –
L’edizione critica delle opere di Giambattista Vico, in «Lettera dall’Italia»,
X, 1995, n. 37, pp. 48-49. 250 – Filosofia e Weltanschauung in Bernhard
Groethuysen, in «Archivio di storia della cultura», VIII, 1995, pp. 111-123.
251 – Vita e storia. Biografia e autobiografia in Wilhelm Dilthey e Georg
Misch, in I. Gallo, L. Nicastri (a cura di), Biografia e autobiografia degli
antichi e dei moderni, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, pp.
243-296. 252 – Die kritische ausgabe der Werke Giambattista Vicos und die
Aufgaben des Vico-Forschungszentrums in Neapel, in «Deutsche Zeitschrift für
Philosophie», 1995, n. 5, pp. 885-887. 253 – “Scienze dello spirito” e
conoscenza storica. Croce, Dilthey, Rickert, in M. Losito (a cura di), Croce e
la sociologia, Napoli, Morano, 1995, pp. 35-57. 254 – La qualità della vita: il
punto di vista filosofico, in Aa.Vv., Prospettive della “Total Quality”,
Napoli, Editoriale Scientifica, 1995, pp. 23-33. 50 255 – Dilthey: Die
Typologie der Weltanschauungen zwischen historischer Vernunftkritik und Wesen
der Philosophie, in K.-E. Lönne (hrsg.), Kulturwandel im Spiegel des
Sprachwandels, Tübingen und Basel, Francke Verlag, 1995, pp. 137-151. 256 –
“Politicka” dimenzija talijanskog kriticko-problematskog historicizma, in
«Filozofska Istrazivanja», 15, 1995, n. 4, pp. 875-885. 257 – Da Le sorgenti
irrazionali del pensiero all’esistenzialismo positivo (in collab. con G.
Cantillo), in G. Cacciatore, G. Cantillo (a cura di), Una filosofia dell’uomo,
atti del convegno in memoria di N. Abbagnano, Salerno, Edizioni Comune di
Salerno, 1995, pp. 23-37. 258 – Tra illuminismo e massoneria, in «Criterio»,
XIII, 1995, n. 1-2, pp. 107-112. 259 – Psicologia e filosofia in Francesco De
Sarlo, in G. Cacciatore, C. Senofonte, A. Costabile (a cura di), Francesco De
Sarlo, Potenza, Edizioni Ermes, 1995, pp. 13-30. 260 – Halle-Napoli: un
incontro tra grandi tradizioni storico-culturali, in «Notiziario», Università
degli studi di Napoli Federico II, I, 1995, n. 6, pp. 35-38. 261 – I rapporti
tra l’Università di Napoli Federico II e la Freie Universität di Berlino
(siglato G.C.), in «Notiziario», Università degli studi di Napoli Federico II,
I, 1995, n. 6, pp. 41-42. 262 – Per un nuovo meridionalismo, in «Mezzogiorno
Italia», III, 1995, n. 1, pp. 3-4. 263 – Arte, scienza, cultura, storia: risorse
per lo sviluppo e il lavoro, in «Mezzogiorno Italia», III, 1995, n. 3, pp. 4-5.
264 – L’Italia dimenticata, in «Mezzogiorno Italia», III, 1995, n. 4, pp. 6-8.
F) 265 – Prefazione a E. Iarrusso, Quale sindaco per la seconda repubblica,
Benevento, Kat edizioni, 1995, pp. 13-18. 51 266 – Avvertenza (in collab. con
G. Cantillo) a Una filosofia dell’uomo, atti del convegno in memoria di N.
Abbagnano, Salerno, Edizioni Comune di Salerno, 1995, pp. 11-13. G) 267 –
Islam. Schegge di storicismo nell’indagine di Tessitore, in “Il Mattino”, 21
marzo 1995. 268 – All’“Internazionale” il magico mondo dell’Islam, in «Il
Mezzogiorno», 26 maggio 1995. 269 – Povero Socialismo, in «Cronache del
Mezzogiorno», 8 agosto 1995. * * * 1996 B) 270 – Cassirer interprete di Kant, in
«Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche» di Napoli, vol. CVI, 1996,
pp. 5-40. 271 – Labriola: da un secolo all’altro, in L. Punzo (a cura di),
Antonio Labriola filosofo e politico, Milano, Guerini, 1996, pp. 209-228. 272 –
Meridione/Modernità/Tradizione, in A. Iovino (a cura di), Meridiani. Segmenti
eterogenei di arte nuova. Rassegna internazionale di arte contemporanea,
Salerno, Kreis, 1996, pp. 45-51. 273 – Die Tradition des
kritisch-problematischen Historismus im Rahmen der italienischen philosophischen
Kultur der zweiten Hälfte des 20. Jahrhunderts, in O.G. Oexle, J. Rüsen
(hrsg.), Historismus in den Kulturwissenschaften, Köln-Weimar-Wien, Böhlau,
1996, pp. 331-339. 52 274 – Labriola: da un secolo all’altro, in «Archivio di
storia della cultura», IX, 1996, pp. 217-231. 275 – Gildo Ciafone: dirigente e
militante della sinistra socialista, in Aa.Vv., Gildo Ciafone. Scritti e
testimonianze, Salerno, Arti Grafiche Boccia, 1996, pp. 175-181. 276 –
Temporalità e storicità nello Historismus di Wilhelm Dilthey, in P. Venditti (a
cura di) Filosofia e storia. Studi in onore di P. Salvucci, Urbino,
Quattroventi, 1996, pp. 429-441. 277 – Kant, Dilthey e il problema della
religione, in N. Pirillo (a cura di), Kant e la filosofia della religione, 2
voll., Brescia, Morcelliana, 1996, vol. II, pp. 563-571. F) 278 – Presentazione
di A. Montano, Storia e convenzione. Vico contra Hobbes, Napoli, La città del
sole, 1996, pp. 9-16. 279 – Introduzione [in collab. con G. Cantillo] a E.
Troeltsch, Spengler e la cultura di Weimar, numero monografico di «Diritto e
Cultura», VI, 1996, n. 1, pp. 5-13. G) 280 – Quando Croce incontrò Hegel. Alle
origini della dialettica, in «Il Giornale di Napoli», 30 gennaio 1996. 281 – Le
ceneri di Gramsci, in «Il Giornale di Napoli», 25 febbraio 1996. 282 – Solo
l’etica potrà salvarci, in «Il Mattino», 29 marzo 1996. 283 – Il Punto.
Speciale elezioni, in «La Città», Quotidiano di Napoli, 23 aprile 1996. 284 –
L’errore delle candidature, in «La Città», Quotidiano di Salerno, 23 aprile 1996.
285 – «Lo Sciacallo». Al telefono con uno sconosciuto, in «La Città», 24 maggio
1996. 286 – Renzo De Felice. La fatica dietro ogni pagina, in «La Città», 26
maggio 1996. 53 287 – Nicolini o della poliedricità, in «La Città», 10 ottobre
1996 288 – Amendola contro la babele dei liberalismi, in «La Città», 13 ottobre
1996. 289 – Vico e i codici della ragione, in «La Città», 30 ottobre 1996. 290
– A rischio l’equilibrio tra i poteri, in «La Città», 2 novembre 1996. 291 – La
sinistra illiberale vinta dalla Coca Cola, in «La Città», 3 novembre 1996. 292
– Il mercato e la “ragionevolezza” della fame, in «La Città», 10 novembre 1996.
293 – La democrazia dei decimali, in «La Città», 17 novembre 1996. 294 – La
solida incertezza della ragione contro le “prigioni” della memoria, in «La
Città», 21 novembre 1996. 295 – Le gabbie etiche dello sviluppo, in «La Città»,
24 novembre 1996. 296 – Smitizziamo la memoria storica, in «La Città», 1
dicembre 1996. 297 – Come è miope il tatticismo dell’Ulivo, in «La Città», 4
dicembre 1996. 298 – Un caso di colpa oggettiva, in «La Città», 8 dicembre
1996. 299 – Bassolino e un’esperienza da esportare, in «La Città», 8 dicembre
1996. 300 – La speranza “sopportabile”, in «La Città», 15 dicembre 1996. 301 –
Chi paga il conto dello sviluppo, in «La Città», 22 dicembre 1996. 302 – Enrico
e la buona ideologia, in «La Città», 29 dicembre 1996. 303 – Il pianto e le
scelte di sviluppo, in «La Città», 31 dicembre 1996. 54 * * * 1997 A) 304 – G.
Cacciatore, G. Cantillo, G. Lissa (a cura di), Lo storicismo e la sua storia.
Temi, problemi, prospettive, Milano, Guerini e Associati, 1997. 305 – G.
Cacciatore, A. Stile (a cura di), L’edizione critica di Vico: bilanci e
prospettive, Napoli, Guida, 1997. 306 – G. Cacciatore, M. Martirano, E.
Massimilla (a cura di), Filosofia e storia della cultura. Studi in onore di
Fulvio Tessitore, 3 voll., Napoli, Morano, 1997. B) 307 – Die “politische”
Dimension des problematischenkritischen Historismus in Italien, in G. Scholtz
(hrsg.), Historismus am Ende des 20. Jahrhunderts. Eine internationale
Diskussion, Berlin, Akademie Verlag, 1997, pp. 84-101. 308 – Storia e tempo
storico in Marx, in G. Cacciatore, G. Cantillo, G. Lissa (a cura di), Lo
storicismo e la sua storia. Temi, problemi, prospettive, Milano, Guerini e Associati,
1997, pp. 246-259. 309 – Lo storicismo critico-problematico e la tradizione
della “filosofia civile” italiana, in G. Cacciatore, G. Cantillo, G. Lissa, Lo
storicismo e la sua storia. Temi, problemi, prospettive, Milano, Guerini e
Associati, 1997, pp. 582-597. 310 – La concezione del tempo storico nello
Historismus (in collab. con G. Cantillo), in G. Casertano (a cura di), Il
concetto di tempo, Atti del XXXII congresso della SFI, Napoli, Loffredo, 1997,
pp. 91-104. 311 – Profilo di Michelangelo Schipa, in «Archivio Storico per le
Province Napoletane», CXIII, 1995, pp. 527-556 [edito nel 1997]. 55 312 – Il
marxismo come Weltanschauung: tra ideologia e storicità critica, in F. Tadeo (a
cura di), Ragione e storia. Studi in memoria di Giuseppe Semerari, Fasano,
Schena editore, 1997, pp. 43-65. 313 – Il positivismo e la storia, in L. Malusa
(a cura di), I filosofi e la genesi della coscienza culturale della “nuova
Italia” (1799-1900), Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici, 1997,
pp. 275-286. 314 – Ricordo di Giorgio Tagliacozzo, in «Bollettino del Centro di
studi vichiani», XXVI-XXVII, 1996-1997, pp. 9-10. 315 – Vico e la filosofia
pratica, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVI-XXVII, 1996-1997,
pp.77-84. 316 – Vico antimoderno? (in collab. con S. Caianiello), in
«Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVI-XXVII, 1996-1997, pp. 205-218.
317 – Alcuni “storicisti” tra “devoti” e “iconoclasti” vichiani (in collab. con
F. Tessitore), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVI-XXVII,
1996-1997, pp. 219-225. 318 – La storia della Chiesa tra persuasione e
coercizione, in «Nuova Antologia», luglio-settembre 1997, n. 2203, pp. 236-243.
319 – Europa Denken im Zeitalter des Universalismus der Menschenrechte, in U.
Baumann, R. Klesczewskj (hrsg.), Penser l’Europe/Europa denken, Tübingen und
Basel, Francke Verlag, 1997, pp. 91-97. 320 – Ethik und geschichtsphilosophie
im Kritischen Historismus, fascicolo di «Bremer Philosophica»,
Universität Bremen, 1997, pp. 21. C) 321 – Recensione di U. Galeazzi,
Ermeneutica e storia in Vico. Morale, diritto e società nella “Scienza Nuova”,
L’Aquila-Roma, Japadre, 1993, in «Bollettino del Centro di studi vichiani»,
XXVI-XXVII, 1996-1997, pp. 254-257. 56 322 – Recensione di P. Cristofolini,
Scienza Nuova. Introduzione alla lettura, Firenze, La Nuova Italia Scientifica,
1995; P. Cristofolini, Vico et l’histoire, Paris, P.U.F., 1995, in «Bollettino
del Centro di studi vichiani», XXVIXXVII, 1996-1997, pp. 269-273. 323 –
Recensione di C. Castellani, Dalla cronologia alla metafisica della mente.
Saggio su Vico, Bologna, Il Mulino, 1995, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», XXVIXXVII, 1996-1997, pp. 276-280. 324 – Recensione di «Cuadernos
sobre Vico», nn. III (1993) e IV (1994), in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», XXVI-XXVII, 1996-1997, pp. 304-310. F) 325 – Introduzione a G.
Cacciatore, A. Stile (a cura di), L’edizione critica di Vico: bilanci e
prospettive, Napoli, Guida, 1997, pp. 9-17. 326 – Introduzione (in collab. con
G. Cantillo e G. Lissa) a G. Cacciatore, G. Cantillo, G. Lissa (a cura di), Lo
storicismo e la sua storia. Temi, problemi, prospettive, Milano, Guerini e
Associati, 1997, pp. 11-14. 327 – Presentazione di F. Cacciatore, Floriano Del
Zio. Patriota, filosofo, deputato e senatore del Regno, Melfi, Mediacom, 1997,
pp. 3-6. 328 – Premessa (in collab. con M. Martirano ed E. Massimilla) a G.
Cacciatore, M. Martirano, E. Massimilla (a cura di), Filosofia e storia della
cultura. Studi in onore di Fulvio Tessitore, 3 voll., Napoli, Morano, 1997, pp.
11-13. G) 329 – Tanti auguri a Bossi da Jerome Cristian, in «La Città», 5
gennaio 1997. 330 – Luzi: poeta, storico e filosofo, in «La Città», 12 gennaio
1997. 57 331 – Scuola senza falsi egualitarismi, in «La Città», 19 gennaio
1997. 332 – Filosofi tra la vita e la morte, in «La Città», 26 gennaio 1997.
333 – Perdono, condanna e vacui moralisti, in «La Città», 2 febbraio 1997. 334
– La calma inquieta del sapere. La vita e la storia: Giuseppe Cantillo
interprete di Hegel, in «La Città», 4 febbraio 1997. 335 – Confronto tra pochi
intimi. Cultura assente, in «La Città», 9 febbraio 1997. 336 – Il doppiofondo
del secolo breve, in «La Città», 16 febbraio 1997. 337 – Politici smemorati dal
“core ‘ngrato”, in «La Città», 23 febbraio 1997. 338 – Dall’intellettuale
organico al “filosofo democratico”, in «La Città», 26 febbraio 1997. 339 –
Wojtyla imbavaglia la cultura, in «La Città», 1 marzo 1997. 340 – L’embrione e
l’etica condivisibile, in «La Città», 2 marzo 1997. 341 – Salerno e l’etica
contemporanea, in «Cronache del Mezzogiorno», 4 marzo 1997. 342 – La traccia
storica della città borghese, in «La Città», 6 marzo 1997. 343 – Chiedi al
“chierico” lealtà civile, in «La Città», 9 marzo 1997. 344 – Nel nome del
Papa-re, in «La Città», 12 marzo 1997. 345 – Va’ dove ti porta il senso comune,
in «La Città», 16 marzo 1997. 346 – Incenso di regime sul dialogo ecumenico, in
«La Città», 23 marzo 1997. 347 – De Luca liberale? Macché..., in «La Città», 28
marzo 1997. 348 – Quell’Europa senza volto che batte moneta, in «La Città», 30
marzo 1997. 58 349 – Quelle domande cruciali sui principi dell’agire, in «La
Città», 1 aprile 1997. 350 – La prospettiva dell’utopia. Gramsci tra etica e
politica, in «La Città», 15 aprile 1997. 351 – Il conte Yorck nella Salerno senza
memoria, in «La Città», 20 aprile 1997. 352 – Senza retorica né rimozioni. Una
mostra sull’antifascismo nel segno di Giovanni Amendola, in «La Città», 23
aprile 1997. 353 – Ma l’abito “dalemiano” non si addice a Gramsci, in «La
Città», 27 aprile 1997. 354 – Mediterraneo, rotta della tolleranza, in «La
Città», 1 maggio 1997. 355 – Un fiume carsico bagna la politica, in «La Città»,
7 giugno 1997. 356 – Liberalizzare contro il marcio (a proposito di aborti
clandestini), in «La Città», 22 giugno 1997. 357 – Se la ricchezza non fa la
felicità, in «La Città», 25 giugno 1997. 358 – Ricordando Giacumbi, in «La
Città», 2 luglio 1997. 359 – De Luca ha fatto bene ad aprire il palazzo, in «La
Città», 3 luglio 1997. 360 – L’eroe il prete e poi?, in «La Città», 9 luglio
1997. 361 – Vico? Meglio una suite di lusso, in «La Città», 13 luglio 1997. 362
– Le contraddizioni di un “liberatore”, in «La Città», 24 luglio 1997. 363 –
Non c’è più rispetto per il popolo tifoso, in «La Città», 12 agosto 1997. 364 –
Stupidità formato europeo, in «La Città», 14 agosto 1997. 365 – I camerati e il
boia Hess, in «La Città», 17 agosto 1997. 366 – Solo silenzi e improvvisazione,
in «La Città», 19 agosto 1997. 367 – Wojtyla un grande pontefice, in «La
Città», 22 agosto 1997. 59 368 – Napoli, l’hegelismo e la filosofia civile, in
«Corriere del Mezzogiorno», 26 agosto, 1997. 369 – Intellettuali, liberatevi
della società spettacolo, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 settembre 1997. 370
– Berlino la “rossa”, in «La Città», 27 settembre 1997. 371 – La Berlino delle
piazze, in «La Città», 28 settembre 1997. 372 – Filosofi a confronto nel nome
di Valitutti, in «La Città», 1 ottobre 1997. 373 – La “Cosa 2” non sia il
comitato di De Luca, in «La Città», 5 ottobre 1997. 374 – Berlino, oltre il
muro, in «La Città», 5 ottobre 1997. 375 – Berlino, storia senza “lezioni”, in
«La Città», 12 ottobre 1997. 376 – La civiltà delle “illusioni”, in «La Città»,
15 ottobre 1997 377 – Staatsbibliothek, miracolo tedesco, in «La Città», 18
ottobre 1997. 378 – Immagini della Germania. Arte da un paese diviso, in «La
Città», 26 ottobre 1997. 379 – Bohème e dittatura DDR. Ribelli nel segno
dell’arte, in «La Città», 2 novembre 1997. 380 – I politici? Ultimi in
classifica, in «La Città», 5 novembre 1997. 381 – La filosofia del lavoro e le
riflessioni di Vico, in «Corriere del Mezzogiorno», 7 novembre 1997. 382 –
Amarcord Brandeburgo. Pennellate sulla memoria, in «La Città», 9 novembre 1997.
383 – Fantasmi comunisti nella “metafisica” Halle, in «La Città», 16 novembre
1997. 384 – Con la collaborazione di tutti si può stroncare il fenomeno, in «La
Città», 16 novembre 1997. 385 – Bravo, ma dopo di lui?, in «Corriere del
Mezzogiorno», 19 novembre 1997. 386 – Che saggio quel clown! Fo, profeta fuori
patria, in «La Città», 23 novembre 1997. 60 387 – Mezzogiorno e politica. La
lezione di Machiavelli, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 novembre 1997. 388 –
Lipsia, gli ultimi venti e la rivoluzione, in «La Città», 29 novembre 1997. 389
– Salerno raccontata via etere, in «La Città», 7 dicembre 1997. 390 – Così
lontani così vicini. Miopi verso l’Europa, in «La Città», 14 dicembre 1997. 391
– Il nipote di Heidegger, in «La Città», 21 dicembre 1997. 392 – Le ragioni del
compromesso, in «La Città», 24 dicembre 1997. 393 – Dresda, l’arte è servita,
in «La Città», 28 dicembre 1997. 394 – Siamo più poveri. Gravi le colpe, in «La
Città», 30 dicembre 1997. 395 – Lettere di viaggiatori tedeschi da Salerno e
dintorni, in «La Provincia di Salerno», n. 2, dicembre 1997, pp. 15-18. * * *
1998 A) 396 – La quercia di Goethe. Note di viaggio dalla Germania,
introduzione di P. Chiarini, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998. B) 397 – Voce
Storicismo, in N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione, Torino,
Utet, 1998, pp. 1051-1053. 398 – Voce Storiografia, in N. Abbagnano, Dizionario
di Filosofia, terza edizione, Torino, Utet, 1998, pp. 1056-1057. 61 399 – Die
Tradition des problematisch-kritischen Historismus im Rahmen der italienischen
philosophischen Kultur der zweiten Hälfte des 20 Jahrhunderts, in «Geschichte
und Gegenwart», 17, 1998, n. 2, pp. 121-125. 400 – Bio-Bibliographie von Fulvio
Tessitore, in F. Tessitore, Wilhelm von Humboldt und der Historismus, Nürnberg,
Seubert Verlag, 1998, pp. 43-47. 401 – Dilthey e Cassirer interpreti del
Rinascimento, in «Rinascimento», vol. XXXVII, 1997 [edito nel 1998], pp. 45-63.
402 – Gli studi su Vico fuori d’Italia nelle ricerche del “Centro di Studi
vichiani”, in F. Fanizza, M. Signore (a cura di), Filosofia in dialogo. Scritti
in onore di Antimo Negri, Roma, Pellicani Editore, 1998, pp. 111-135. 403 –
Bloch su Feuerbach, in W. Jaeschke, F. Tomasoni (a cura di), Ludwig Feuerbach
und die Geschichte der Philosophie, Berlin, Akademie Verlag, 1998, pp. 363-385.
404 – Düsseldorf: la partecipazione dell’Ateneo fridericiano alle giornate di
cultura italiane, in «Notiziario», Università degli Studi di Napoli Federico
II, III, 1998, nn. 18-19, pp. 47-51. 405 – Filosofia e storia a Napoli nel
’900, in «Notiziario», Università degli Studi di Napoli Federico II, III, 1998,
nn. 18-19, pp. 51-68. 406 – Ethik und Geschichtsphilosophie im kritischen
Historismus, in D. Losurdo (hrsg.), Geschichtsphilosophie und Ethik, Frankfurt
a. M., Peter Lang Verlag, 1998, pp. 57-86. 407 – La hermenéutica de Vico entre
filosofía y filología, in «Intersticios. Filosofía, Arte, Religión»,
Universidad Intercontinental de México, 3, 1997-1998, n. 6, pp. 93-98. 408 –
Hegel e la religione nell’interpretazione di Dilthey, in R. Bonito Oliva, G.
Cantillo (a cura di), Fede e Sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel,
Milano, Guerini e Associati, 1998, pp. 402-417. 409 – Antonio Genovesi
economista e riformatore, in «Rassegna storica salernitana», XV, 1998, n. 30,
pp. 103-116. 62 410 – Le fait e la fiction. Storicità e vita nel pensiero di
Bernhard Groethuysen, in «Rivista di storia della filosofia», 1998, n. 2, pp.
267-287. 411 – Filosofia della pratica e filosofia pratica in Croce, in P.
Bonetti (a cura di), Per conoscere Croce, Napoli, ESI, 1998, pp. 213-230. F)
412 – Nuovi itinerari per la storia della cultura, presentazione di A.
Giugliano, La storia della cultura fra Gothein e Lamprecht, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 1998, pp. 5-11. 413 – Un “intermezzo” vichiano sul concetto di
cittadinanza, introduzione a G. Cordini, Studi giuridici in tema di cittadinanza,
Napoli, Metis, 1998, pp. 5-10. 414 – Vita, coscienza storica e visioni del
mondo, prefazione a W. Dilthey, La dottrina delle visioni del mondo, Napoli,
Guida, 1998, pp. I-IX. G) 415 – Senza tetto al di là del muro, in «La Città», 4
gennaio 1998. 416 – L’onda d’urto del revisionismo lato “inedito” della
Resistenza, in «La Città», 6 gennaio 1998. 417 – Gli occhi dei bambini e la
topografia del terrore, in «La Città», 11 gennaio 1998. 418 – Scongiuro granata
in salsa partenopea, in «La Città», 17 gennaio 1998. 419 – La scuola napoletana
rilegge Hegel, in «Corriere del Mezzogiorno», 18 gennaio 1998. 420 – Una birra
al tavolo della filosofia, in «La Città», 18 gennaio 1998. 421 – L’altra faccia
di Spencer Tracy, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 gennaio 1998. 63 422 – La
quercia di Goethe sulle ceneri di Buchenwald, in «La Città», 25 Gennaio 1998.
423 – Così il modello americano ha stregato Amburgo e Brema, in «La Città», 1
febbraio 1998. 424 – Noi cittadini in ospedale, in «Corriere del Mezzogiorno»,
3 febbraio 1998. 425 – Millennium. Chimere e paure, in «La Città», 8 febbraio
1998. 426 – Vico e la cultura francese. Modernità di un rapporto, in «Corriere
del Mezzogiorno», 13 febbraio 1998. 427 – Vico, la storia nel castello, in «La
Città», 15 febbraio 1998. 428 – Editoria, la fabbrica dei casi, in «La Città»,
22 febbraio 1998. 429 – La filosofia e i “nipotini” di Kant, in «La Città», 1
marzo 1998. 430 – La Berlino di Brecht e di Mann, in «La Città», 10 marzo 1998.
431 – I grovigli positivistici. Errico De Marinis tra politica e sociologia, in
«La Città», 15 marzo 1998. 432 – Bene il decisionismo. Ma la progettualità?, in
«La Città», 18 marzo 1998. 433 – Berlino espressionista, in «La Città», 24
marzo 1998. 434 – Le tentazioni del leaderismo, in «Corriere del Mezzogiorno»,
26 marzo 1998. 435 – Il decalogo neo-liberale di De Luca, in «Corriere del
Mezzogiorno», 28 marzo 1998. 436 – Intellettuali dove siete finiti?, in «La
Città», 1 aprile 1998. 437 – Gli artigli dell’editoria minore, in «La Città», 3
aprile 1998. 438 – È morto Menna, il patriarca della “grande Salerno”, in
«Corriere del Mezzogiorno”, 11 aprile 1998. 439 – Il sol levante riscoperto.
Altri studi di storia orientale, in «La Città», 12 aprile 1998. 440 – Razzismo
off limits, in «La Città», 21 aprile 1998. 64 441 – L’aberrazione della
sproporzione tra il reato e la condanna, in «La Città», 22 aprile 1998. 442 –
Tributo “di piazza” per Valitutti, in «La Città», 24 aprile 1998. 443 – L’urlo
impegnato della politica, in «La Città», 5 maggio 1998. 444 – Bruno dalle
censure al futuro, in «La Città», 8 maggio 1998. 445 – Giordano Bruno
sopravvalutato?, in «Corriere del Mezzogiorno», 10 maggio 1998. 446 – La
risorsa che ignoravamo, in «Corriere del Mezzogiorno», 12 maggio 1998. 447 – La
forza? A Partenope. La Napoli degli intellettuali liberi, in «La Città», 23
maggio 1998. 448 – Il Novecento a Napoli. Modernità e arcaismo, in «Il Corriere
del Mezzogiorno», 26 maggio 1998. 449 – Nella città senza memoria, in «La
Città», 10 giugno 1998. 450 – Cassandra abitava a Sarno, in «La Città», 13
giugno 1998. 451 – La linea di ‘frontiera’ della scienza politica, in «La
Città», 23 giugno 1998. 452 – Centocinquanta saggi per festeggiare Tessitore,
in «Corriere del Mezzogiorno», 30 giugno 1998. 453 – Le ali blu e gli squarci
rossi della storia, in «La Città», 30 luglio 1998. 454 – Sarno protesta. La
politica frana, in «Corriere del Mezzogiorno», 1 agosto 1998. 455 – Il
contenitore amorfo dell’estate, in «Corriere del Mezzogiorno», 8 agosto 1998.
456 – La politica dei re nudi, in «Corriere del Mezzogiorno», 22 agosto 1998.
457 – Ma il Novecento non è solo scontro tra totalitarismi, in «Il Mattino», 1
settembre 1998. 458 – Il viaggio di Bodei nell’identità nazionale, in «La
Città», 20 settembre 1998. 65 459 – Autodafé oltre il luogo comune, in «La
Città», 1 ottobre 1998. 460 – Il barone assediato. Meridione e latifondo
nell’era dei Borbone, in «La Città», 11 ottobre 1998. 461 – Un’etica per la
bioetica, in «Corriere del Mezzogiorno», 14 ottobre 1998. 462 – Il PCI secondo
Galasso. Viaggio fino alla Quercia, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 ottobre
1998. 463 – Quel “Manifesto” vecchio di 150 anni è ancora vivo nel dibattito
attuale, in «Corriere del Mezzogiorno», 9 dicembre 1998. 464 – 1799: ecco il
boom degli ideali, in «La Città», 18 dicembre 1998. 465 – L’Occidente che non
ama il dissenso, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 dicembre 1998. 466 –
Condannati dai numeri al ruolo di fanalino di coda, in «La Città», 29 dicembre
1998. * * * 1999 A) 467 – Metafisica. Appunti dalle lezioni a.a. 1998-1999,
Napoli, E.DI.SU., 1999. 468 – Giordano Bruno, Napoli, Metis, 1999. 469 – G.
Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, H. Poser, M. Sanna (a cura di), La filosofia
pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico, Napoli, Guida,
1999. B) 470 – Etica esistenziale e filosofia pratica in Nicola Abbagnano, in
M. Delpino, P. Riceputi (a cura di), Nicola Abba- 66 gnano. L’uomo e il
filosofo, S. Margherita Ligure, Edizioni Tigullio, 1999, pp. 18-48. 471 – La
dimensione civile, in M. Delpino, P. Riceputi (a cura di), Nicola Abbagnano.
L’uomo e il filosofo, S. Margherita Ligure, Edizioni Tigullio, 1999, pp. 15-17.
472 – Il Positivismo e la storia, in A. Coco (a cura di), Le passioni dello
storico. Studi in onore di Giuseppe Giarrizzo, Catania-Roma, Edizioni del
Prisma, 1999, pp. 115-130. 473 – Bloch, il male, l’utopia, in P. Amodio, R. De
Maio, G. Lissa (a cura di), La Sho’ah tra interpretazione e memoria, Napoli,
Vivarium, 1999, pp. 337-359. 474 – Bloch, das Böse und die Utopie, in «Dialektik»,
1999, n. 2, pp. 131-150. 475 – Giambattista Vico: l’ordine della “comunità” e
il senso comune della “differenza”, in F. Ratto (a cura di), All’ombra di Vico.
Testimonianze e saggi vichiani in ricordo di Giorgio Tagliacozzo, Ripatransone,
Edizioni Sestante, s.i.d., pp. 191-199. 476 – Etica filosofica ed etica
politica in Giovanni Amendola, in M.R. De Divitiis (a cura di), Giovanni
Amendola. Una vita per la democrazia, Napoli, Arte Tipografica, 1999, pp.
237-250. 477 – Osservazioni in margine alla ricerca vichiana nella Spagna
contemporanea, in A. Quarta, P. Pellegrino (a cura di), Humanitas. Studi in
memoria di Antonio Verri, 2 voll., Galatina, Congedo Editore, 1999, vol. I, pp.
63-70. 478 – Storia, memoria e vita nella Napoli di Fulvio Tessitore, in «Ora
Locale», III, n. 2, 1999, p. 3. 479 – Nuove soggettività per il Mezzogiorno
europeo, in «Ora Locale», III, 1999, n. 2, p. 13. 480 – Il Novecento non è solo
scontro tra totalitarismi, in E. Nolte, Le ragioni della storia, a cura di C.
Marco, Cosenza, Marco Editore, 1999, pp. 124-126. 481 – Intellettuale a tutto
campo, in E. Todaro (a cura di), Una vita per l’arte. Gli ottant’anni di
Carmine Manzi, Salerno, Boccia Edizioni, 1999, pp. 32-36. 482 – Note
sull’attualità del pensiero etico di Giuseppe 67 Capograssi, in «Bollettino
Filosofico», (Filosofia e storia delle idee. Studi in onore di Francesco
Crispini), 1999, n. 15, pp. 53-64. 483 – Hegel e la religione
nell’interpretazione di Wilhelm Dilthey, in G. Luongo (a cura di), Munera
Parva. Studi in onore di Boris Ulianich, 2 voll., Napoli, Fridericiana Editrice
Universitaria, 1999, vol. II, pp. 435-451. 484 – Gramsci: problemi di etica nei
Quaderni, in G. Vacca (a cura di), Gramsci e il Novecento, 2 voll., Roma,
Carocci Editore, 1999, vol. II, pp. 123-139. 485 – Voce Erlebnis, in H.G.
Sandkühler (a cura di), Enzyklopädie Philosophie, Hamburg, Meiner Verlag, vol.
I, pp. 356-358. 486 – Voce Historismus, in H.G. Sandkühler (hrsg.),
Enzyklopädie Philosophie, Hamburg, Meiner Verlag, vol. I, pp. 551-556. 487 –
Voce Geschichtsphilosophie, in H.G. Sandkühler (hrsg.), Enzyklopädie
Philosophie, Hamburg, Meiner Verlag, vol. II, pp. 1073-1081; 1087-1090. 488 –
Il Premio Salvatore Valitutti, in «L’Agenda», n.s., III, novembre 1999, n. 30,
pp. 10-11. 489 – Gli studi su Vico fuori d’Italia nelle ricerche del “Centro di
Studi Vichiani”, in M. Agrimi (a cura di), Giambattista Vico nel suo tempo e
nel nostro, Napoli, CUEN, 1999, pp. 549-577. 490 – Il pensiero e l’opera di
Salvatore Valitutti, in «Rassegna storica salernitana», XVI, 1999, n. 32, pp.
255-264. 491 – Dilthey und Cassirer über die Renaissance, in E. Rudolph
(hrsg.), Cassirers Weg zur Philosophie der Politik, Hamburg, Felix Meiner
Verlag, 1999, pp. 113-131. 492 – In ricordo di Fausto Nicolini, in «Bollettino
del Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, pp. 221-226. 493 –
Intervento al Seminario di presentazione dell’edizione critica di Vico, in
«Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, pp. 254-257.
494 – L’edizione degli scritti postumi di Cassirer, in «Archivio di storia
della cultura», XII, 1999, pp. 167-170. 68 495 – Omaggio a Giuseppe Giarrizzo,
in «Archivio di storia della cultura», XII, 1999, pp. 203-209. 496 – Filosofia
“civile” e filosofia “pratica” in Vico, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka,
H. Poser, M. Sanna (a cura di), La filosofia pratica tra metafisica e
antropologia nell’età di Wolff e Vico, Napoli, Guida, 1999, pp. 25-44. C) 497 –
Recensione di L. Amoroso, Nastri vichiani, Pisa, ETS, 1997, in «Bollettino del
Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, pp. 280-283. 498 – Recensione
di «Cuadernos sobre Vico», V-VI, 1995-1996; VII-VIII, 1997, in «Bollettino del
Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, pp. 343-353. D) 499 – Scheda
di S. Martelli, La floridezza di un reame. Circolazione e persistenza della
cultura illuministica meridionale, Salerno, Pietro La Veglia editore, 1996, in
«Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998- 1999, pp. 398-401.
500 – Scheda di G. Paganini, Vico et Gassendi: de la prudence à la politique,
«Nouvelles de la republique des lettres», 1995, II, in «Bollettino del Centro
di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, pp. 409-410. 501 – Scheda di J.M.
Sevilla Fernández, Ciencia Nueva, «Ajoblanco», LXXVII, 1995, in «Bollettino del
Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, p. 418. 502 – Scheda di J.M.
Sevilla Fernández, El enigma de un clásico, «Lateral. Revista del Cultura»,
1996, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, pp.
418-419. 69 F) 503 – Andrea Torre, filosofo ed educatore, introduzione a A.
Torre, Saggi filosofici e pedagogici, Casalvelino Scalo, Galzerano Editore,
1999, pp. 9-70. 504 – Introduzione a P. Villari, Teoria e filosofia della
storia, a cura di M. Martirano, Roma, Editori Riuniti, 1999, pp. 7-23. 505 –
Presentazione (in collab. con R. Cangiano) di La Provincia di Salerno per
Salvatore Valitutti, Salerno, Provincia di Salerno, 1999, pp. 4-6. 506 –
Introduzione (in collab. con V. Gessa Kurotschka) a G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka,
H. Poser, M. Sanna (a cura di), La filosofia pratica tra metafisica e
antropologia nell’età di Wolff e Vico, Napoli, Guida, 1999, pp. V-XVII. G) 507
– Episodio criminale, in «La Città», 14 gennaio 1999. 508 – Il “controcanto”
salernitano, in «Cronache del Mezzogiorno», 14 gennaio 1999. 509 – A lezione di
diritti umani, in «La Città», 23 gennaio 1999. 510 – Il Referendum non ci
salverà, in «Corriere del Mezzogiorno», 9 febbraio 1999. 511 – Camorrista. Un
insulto senza limiti, in «Corriere del Mezzogiorno», 16 febbraio 1999. 512 – Un
impegno collettivo, in «La Città», 28 febbraio 1999. 513 – “Napoli capitale”
secondo Galasso, una lezione sulla contemporaneità della storia, in «Corriere
del Mezzogiorno», 24 marzo 1999. 514 – La rivoluzione attiva del Sud, in «La
Città», 28 marzo 1999. 515 – Quegli oscuri conflitti della fede, in «La Città»,
10 aprile 1999. 70 516 – “La mia Napoli”, autobiografia intellettuale tra
ricordi e pensieri, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 aprile 1999. 517 –
Salernitani per la Liberazione, in «La Città», 23 aprile 1999. 518 – Troppe
analisi “nordiste”, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 aprile 1999. 519 –
Colpevole tolleranza, in «Corriere del Mezzogiorno», 25 maggio 1999. 520 –
L’impolitico della democrazia, in «La Città», 1 giugno 1999. 521 – La plebe
inesistente di Salerno, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 giugno 1999. 522 –
Salerno saluta Kristeller, in «La Città», 12 giugno 1999. 523 – Incontri
ravvicinati con cultura, letteratura e politica del Sud America, in «Corriere
del Mezzogiorno», 23 giugno 1999. 524 – Cari esangui cultori nichilisti, lo
storicismo napoletano è vivo e invidiato, in «Corriere del Mezzogiorno», 4
luglio 1999. 525 – Quel popolo in bilico tra ragione e sentimento, in «La
Città», 3 agosto 1999. 526 – Lo storicismo messo alla gogna, in «Corriere del
Mezzogiorno», 15 agosto 1999. 527 – Dopo l’urbanistica un sintomo di svolta, in
«La Città», 7 novembre 1999. 528 – Non siamo un’isola felice, in «La Città», 21
novembre 1999. 529 – Tattiche e passioni del burocrate illuminato, in «La
Città», 24 novembre 1999. 530 – Salerno e il destino dei numeri, in «Corriere
del Mezzogiorno», 22 dicembre 1999. 531 – Una terza via tra ottimismo e
pessimismo, in «La Città», 27 dicembre 1999. * * * 71 2000 A) 532 – L’etica
dello storicismo, Lecce, Milella edizione, 2000. 533 – G. Cacciatore, I. Gallo,
A. Placanica (a cura di), Opera (Storia di Salerno), Pratola Serra, Sellino
Editore, 2000. 534 – M. Beetz, G. Cacciatore (hrsg.), Hermeneutik im Zeitalter
der Aufklärung, Köln Weimar Wien, Böhlau Verlag, 2000. B) 535 – Le fait et la
fiction. Historicité et vie dans la pensée de Bernhard Groethuysen, in «L’art
du comprendre», janvier 2000, n. 9, pp. 14-32. 536 – Esiste una filosofia
italiana?, in «Palomar», marzoaprile 2000, n. 1, pp. 80-86. 537 – Die
Hermeneutik Vicos zwischen Philosophie und Philologie, in M. Beetz, G.
Cacciatore (hrsg.), Hermeneutik im Zeitalter der Aufklärung, Köln Weimar Wien,
Böhlau Verlag, 2000, pp. 311-330. 538 – America latina e pensiero europeo nella
“filosofia del viaggio” di Ernesto Grassi, in «Cultura latinoamericana», annali
1999-2000, nn. 1-2, pp. 367-381. 539 – Marxismo e storia nel carteggio
Labriola-Croce, in G. Giordano (a cura di), Gli epistolari dei filosofi
italiani (1850- 1950), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000, pp. 89-112. 540 –
Etica e filosofia della storia nello storicismo critico, in G. Cantillo, F.C.
Papparo (a cura di), Genealogia dell’umano. Saggi in onore di Aldo Masullo,
Napoli, Guida Editori, 2000, t. II, pp. 473-499. 541 – Individualità ed etica:
Vico e Dilthey, in A. Ferrara, V. Gessa Kurotschka, S. Maffettone (a cura di),
Etica individuale e giustizia, Napoli, Liguori, 2000, pp. 241-267. 542 – Di una
nuova traduzione e commento della Repub- 72 blica platonica, «Rivista di storia
della filosofia», 2000, n. 2, pp. 229-234. 543 – Mediterraneo tra geopolitica e
filosofia, in «L’Acropoli», I, 2000, n. 2, pp. 164-172. 544 – La sinistra tra
omologazione culturale e frammentazione partitica, in «Ora Locale», IV, 2000,
n. 1, pp. 3-4. 545 – Alfonso Menna. Un secolo di storia salernitana, in
«L’Agenda di Salerno e Provincia», gennaio 2000, n. 32, pp. 9-11. 546 – Salerno
fra anni Ottanta e Novanta. Ascesa e crollo di un sistema di potere, in
«L’Agenda di Salerno e Provincia», aprile 2000, n. 35, pp. 22-24. 547 –
Brigantaggio. Vecchi e nuovi itinerari interpretativi, in «Rassegna Storica
Irpina», 1998 [stampato nel settembre 2000], nn. 15-16, pp. 221-226. 548 –
Storie di vita e storie reali ne L’ombra della sera di Mario Postiglione, in
«Rassegna Storica Salernitana», n.s., XVII/2, 2000, n. 34, pp. 271-275. 549 –
Sull’opera di Ruggero Moscati, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s., XVII/2,
2000, n. 34, pp. 281-286. 550 – Poesia e storia in Vico, in F. Ratto (a cura
di), Il mondo di Vico / Vico nel mondo. In ricordo di Giorgio Tagliacozzo,
Perugia, Guerra, 2000, pp. 143-156. 551 – Politica, nazione e Stato in Karl
Lamprecht, in «Società e Storia», 2000, n. 88, pp. 309-322. 552 – Appunti per
un dibattito su Fides et Ratio, in «Archivio di storia della cultura», XIII,
2000, pp. 193-201. C) 553 – Recensione di V. Vitiello, Vico e la topologia,
Napoli, Cronopio, 2000, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXX,
2000, pp. 262-268. 554 – Recensione di «Cuadernos sobre Vico» IX-X, 1998, in
«Bollettino del Centro di studi vichiani», XXX, 2000, pp. 283-291. 73 F) 555 –
All’ombra di Vico. Testimonianze e studi vichiani in ricordo di G. Tagliacozzo,
presentazione di F. Ratto (a cura di), Il mondo di Vico / Vico nel mondo. In
ricordo di Giorgio Tagliacozzo, Perugia, Guerra, 2000, pp. 447-449. 556 –
Introduzione a G. Cacciatore, I. Gallo, A. Placanica (a cura di), Opera (Storia
di Salerno), Pratola Serra (AV), Sellino Editore, 2000, pp. 13-17. 557 –
Prefazione a G. Di Costanzo, Lo storicismo realistico di Otto Hintze, Bari,
Palomar, 2000, pp. 5-10. 558 – Introduzione a M. Sanna, A. Stile (a cura di),
Vico tra l’Italia e la Francia, Napoli, Guida, 2000, pp. 9-12. 559 – Prefazione
a G. Magnano San Lio, Filosofia e storiografia. Fondamenti teorici e
ricostruzione storica in Dilthey, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000, pp. 7-10.
G) 560 – De Luca, ammuffita è la politica, in «Corriere del Mezzogiorno», 5
gennaio 2000. 561 – Referendum sul lavoro. È vero, il Far West già c’è, ma non
si batte con un sì, in «Corriere del Mezzogiorno», 21 gennaio 2000. 562 –
Referendum e Mezzogiorno. Pagano i sindacati, in «Salerno 2000», I, 2 febbraio
2000, n. 3, p. 1. 563 – Una grande testa poggiata su un gracile corpo, in
«Salerno 2000», I, 9 febbraio 2000, n. 4, p. 1. 564 – Bassolino e De Luca senza
ricambio di classe dirigente, in «Salerno 2000», I, 1 marzo 2000, n. 7, p. 1.
565 – Maffettone, la filosofia del nuovo millennio punta sul “valore della
vita”, in «Corriere del Mezzogiorno», 9 marzo 2000. 566 – Ma Vyšinskij era un
inquisitore senza controlli, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 21 marzo 2000.
567 – La sinistra e l’unità smarrita, in «Corriere del Mezzogiorno», 22 aprile
2000. 74 568 – Le ragioni del cuore e quelle dei diessini (in collab. con A.
Piscopo), in «La Città», 29 aprile 2000. 569 – Il patrimonio del cinema muto,
in «La Città», 30 aprile 2000. 570 – Fatima, “bagliore” che brucia secoli di
laicismo, in «Corriere del Mezzogiorno», 16 maggio 2000. 571 – In ricordo di
Achille Mango, in «Cronache del Mezzogiorno», 23 maggio 2000. 572 – Sfida di un
giornale, in «La Città», 23 maggio 2000. 573 – Moscati intellettuale vero, in
«La Città», 23 maggio 2000. 574 – Gerratana, un rosso sotto il sole di Vietri,
in «La Città», 21 giugno 2000. 575 – Galasso. Storicismo e dintorni, in «Corriere
del Mezzogiorno», 25 giugno 2000. 576 – Insigne riformista al servizio del
paese, in «La Città», 4 luglio 2000. 577 – Cosa resta della festa, in «La
Città», 21 agosto 2000. 578 – I salernitani alla riscossa, in «Corriere del
Mezzogiorno», 10 settembre 2000. 579 – Gabelli e l’identità italiana: biografia
di un originale positivista, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 settembre 2000.
580 – Racinaro “rilegge” il diritto penale: una denuncia della crisi della
giustizia, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 ottobre 2000. 581 – Quando si spia
dalla serratura, in «La Città», 25 ottobre 2000. 582 – I ceti nobiliari
dell’antica Salerno in un volume, in «La Città», 25 novembre 2000. 583 –
Franchini, un crociano che trovò la sua autonomia, in «Corriere del Mezzogiorno»,
3 dicembre 2000. * * * 75 2001 A) 584 – G. Cacciatore, P. Colonnello, D.
Jervolino (a cura di), Ermeneutica, Fenomenologia, Storia, Napoli, Liguori,
2001. B) 585 – Costituzione europea e identità nazionali, in «Mezzogiorno
Europa», II, n. 1, pp. 1-4. 586 – Filosofia e storia a Napoli nel Novecento, in
«Horizonte. Italianistische Zeitschrift für Kulturwissenschaft und
Gegenwartsliteratur», V, 2000 [pubblicato nel 2001], pp. 169-184. 587 –
Tradizione meridionalistica e “nuovi pensieri” sul Sud, in «Ora locale», IV,
marzo-aprile 2001, n. 3, pp.1 e 13. 588 – Storia e natura nella tipologia
diltheyana delle Weltanschauungen, in D. Conte, E. Mazzarella (a cura di), Il
concetto di tipo tra Ottocento e Novecento, Napoli, Liguori, 2001, pp. 235-246.
589 – Individualidad y ética: Vico y Dilthey, in «Cuadernos sobre Vico»,
1999-2000 [pubblicato nel 2001], nn. 11- 12, pp. 81-96. 590 – La storiografia
filosofica italiana tra storia delle idee e storia della cultura, in «Rivista
di Storia della filosofia», n.s., LVI, 2001, n. 2, pp. 205-224. 591 – Libertà e
storia delle idee in Isaiah Berlin, in «L’Acropoli», II, 2001, n. 3, pp.
363-365. 592 – Sul voto meridionale guardarsi dalle semplificazioni, in
«Mezzogiorno Europa», II, 2001, n. 3, pp. 16-17. 593 – La tradizione storicistica
nell’Italia del Novecento, in «Palomar”, I, 2001, n. 6, pp. 15-27. 594 –
Storicismo ed ermeneutica, in G. Cacciatore, P. Colonnello, D. Jervolino (a
cura di), Ermeneutica, Fenomenologia, Storia, Napoli, Liguori, 2001, pp. 55-74.
76 595 – Il concetto di “cittadinanza” in Giambattista Vico, in E.
Hidalgo-Serna, M. Marassi, J.M. Sevilla Fernández, J. Villalobos (a cura di),
Pensar para el nuevo Siglo. Giambattista Vico y la cultura europea, 3 voll.,
Napoli, La Città del Sole, 2001, vol. II, Vico y la cultura europea, pp.
389-407. 596 – Machiavelli e l’Italia moderna nelle analisi di Francesco De
Sanctis e Pasquale Villari, in G. Borrelli (a cura di), Machiavelli e la
cultura politica del meridione d’Italia, Napoli, Archivio della Ragion di Stato
(Quaderno n. 2), 2001, pp. 206-225. 597 – Etica dello storicismo e filosofia
pratica nel pensiero di Piovani, in «Archivio di storia della cultura», XV,
2001, pp. 27-43. 598 – La democracia de los derechos: una visión comparada de
la Carta Europea de Niza y la Constitución Venezolana de 1999, in «Telos.
Revista de Estudios Interdisciplinarios», Maracaibo, Universidad URBE, III,
2001, n. 3, pp. 287-295. 599 – Amore, solitudine, metafisica del vissuto. Su
alcuni motivi poetici di Vicente Gerbasi, in V. Galeota, A. Scocozza (a cura
di), Orillas. Studi in onore di Giovanni Battista De Cesare. Il mondo
iberoamericano, 2 voll., Salerno, Edizioni del Paguro, 2001, vol. II, pp.
27-35. C) 600 – Recensione di G. Galasso, Nient’altro che storia. Saggi di
teoria e metodologia della storia, Bologna, Il Mulino, 2000, in «Intersezioni»,
XXI, 2001, n. 1, pp. 203-208. F) 601 – Introduzione a E. Todaro, Penalisti in
toga, Salerno, Boccia Edizioni, s.d., 2001, pp. 7-14. 602 – Presentazione di G.
Amarante, Memoria storica. Scritti vari 1997-2000, Salerno, Edizioni Marte,
2001, pp. 9-13. 603 – Presentazione (in collab. con P. Colonnello, D. 77
Jervolino) di G. Cacciatore, P. Colonnello, D. Jervolino (a cura di),
Ermeneutica, Fenomenologia, Storia, Napoli, Liguori, 2001, pp. 1-4. G) 604 –
Preferii Calogero a Carbonara, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 gennaio 2001.
605 – Tutto previsto, molti hanno taciuto, in «Corriere del Mezzogiorno», 9
gennaio 2001. 606 – Ruggero Moscati e la tradizione liberale italiana, in
«L’Agenda di Salerno e provincia», V, gennaio 2001, n. 43, pp. 15-16. 607 – La
fine del comunismo nella “filosofia” di Occhetto, in «Corriere del
Mezzogiorno», 26 gennaio 2001. 608 – E ora basta esagerazioni, in «La Città», 3
febbraio 2001. 609 – Vecchi principi del foro e nuovi rampolli a confronto, in
«La Città», 27 febbraio 2001. 610 – Tra Cassandre e novelli manager della
cultura, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 febbraio 2001. 611 – Sinergie
positive per sfruttare le risorse, in «La Città», 28 febbraio 2001. 612 – Caro
Masullo, torna in campo, in «Corriere del Mezzogiorno», 18 marzo 2001. 613 –
Gerratana, lo storico del marxismo che ancora adesso può far riflettere la
sinistra, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 aprile 2001. 614 – Salzano, non
citarmi. Esigo più rispetto per la mia coerenza, in «Corriere del Mezzogiorno»,
13 aprile 2001. 615 – Omaggio a Valentino Gerratana, in «L’agenda di Salerno e
provincia», maggio 2001, n. 47, p. 8. 616 – La sinistra e De Luca, in «La
Città», 16 maggio 2001. 617 – Uno storico con le stellette racconta il dramma
dell’emigrazione, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 giugno 2001. 78 618 – La
“Isla” felice della cultura ispanica, in «La Città», 23 giugno 2001. 619 – Quel
busto trafugato e l’indifferenza della città per la sua memoria, in «Corriere del
Mezzogiorno», 3 luglio 2001. 620 – DS oltre il risentimento, in «Corriere del
Mezzogiorno», 22 luglio 2001. 621 – Caro Musi…, in «Corriere del Mezzogiorno»,
2 agosto 2001. 622 – Ho aderito a quell’appello e non intendo pentirmi, in
«Corriere del Mezzogiorno», 10 agosto 2001. 623 – I granata e il grande sogno
del filosofo, in «Guida al campionato di calcio 2001-2002», supplemento a «La
Città», 26 agosto 2001, p. 26. 624 – L’Agenda festeggia 50 numeri, in «La
Città», 15 settembre 2001. 625 – Globalizzazione, un processo ambiguo da
“addomesticare”, in «Corriere del Mezzogiorno», 12 ottobre 2001. 626 – DS a
congresso, troppe pratiche da basso impero, in «Corriere del Mezzogiorno», 21
ottobre 2001. 627 – Si scrive divisione, si legge estinzione, in «Il Mattino»,
17 novembre 2001. 628 – Sylos Labini dà giudizi filosofici discutibili, in
«Corriere del Mezzogiorno», 7 dicembre 2001. * * * 2002 A) 629 – Metaphysik,
Poesie und Geschichte. Über die Philosophie von Giambattista Vico, Berlin,
Akademie Verlag, 2002, pp. 235. 630 – G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di),
Il Manifesto del partito comunista a 150 anni dalla sua pubblicazio- 79 ne,
numero monografico di «Diritto e Cultura», X, 2000 [stampato nel 2002], n. 1-2.
631 – G. Cacciatore, R. Cangiano (a cura di), Per Salvatore Valitutti, Salerno,
Provincia di Salerno, 2002. B) 632 – Il Manifesto tra “criticità” delle idee e
immagini “funerarie”, in G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Il Manifesto
del partito comunista a 150 anni dalla sua pubblicazione, numero monografico di
«Diritto e Cultura», X, 2000 [stampato nel 2002], n. 1-2, pp. 7-14. 633 – Le
filosofie dello storicismo italiano, in P. Di Giovanni (a cura di), Milano,
Franco Angeli, 2002, pp. 343-365. 634 – Etica, utopia, rivoluzione, in E.
Granito, M. Schiavino (a cura di), Utopia e rivoluzione, Napoli, La Città del
Sole, 2002, pp. 83-105. 635 – Etica e principio speranza, in G. Cantillo, G.
Mangrella (a cura di), Politica, arte, religione nel pensiero utopico di Ernst
Bloch, «Quaderni del Centro studi di filosofia e teoria delle scienze umane
Maurizio Mangrella», Salerno, Boccia, 2002, pp. 61-76. 636 – Storicismo e
Historismus a confronto nella seconda metà del Novecento, in M. Martirano, E.
Massimilla (a cura di), I percorsi dello storicismo italiano nel secondo
Novecento, Quaderni dell’«Archivio di storia della cultura», n.s., vol. 3,
Napoli, Liguori editore, 2002, pp. 157-181. 637 – Quale Europa vogliamo
costruire. Non bastano entusiasmo e fedeltà, in «Mezzogiorno Europa», III,
2002, n. 1, pp. 1 e 5-7. 638 – Un deficit di risposte alle insicurezze, in
«Mezzogiorno Europa», III, 2002, n. 4, pp. 1 e 8-10. 639 – Un pesante deficit
di ricerca storica e sociologica, in «Mezzogiorno Europa», III, 2002, n. 5, pp.
29-30. 640 – Relativo e sapere del relativo, in «L’Acropoli», III, 2002, n. 3,
pp. 322-328. 80 641 – Liberalismo filosofico e liberalismo politico in
Valitutti, in G. Cacciatore, R. Cangiano (a cura di), Per Salvatore Valitutti,
Salerno, Provincia di Salerno, 2002, pp. 19-29. 642 – Etica e diritti umani nella
democrazia. Una prospettiva comparata, in «Cultura latinoamericana», 2002, n.
4, pp. 217-241. 643 – La filosofia italiana tra storia europea e tradizione
nazionale, in N. Pirillo (a cura di), I filosofi e la città, Dipartimento di
Scienze filologiche e storiche, Trento, Editrice Università degli Studi di
Trento, 2002, pp. 293-310. 644 – Simbolo e segno in Vico. La storia tra
fantasia e razionalità, in «Il Pensiero», n.s., XLI, 2002, n. 1, pp. 77-89. 645
– Machiavelli e l’Italia moderna nelle analisi di Francesco De Sanctis e
Pasquale Villari, in G. Bentivegna, S. Burgio, G. Magnano San Lio (a cura di),
Filosofia Scienza Cultura. Studi in onore di Corrado Dollo, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2002, pp. 95-120. 646 – Il giorno della memoria. Monito per i giovani,
in «L’Agenda di Salerno e provincia», VI, 2002, n. 55, pp. 23-24. 647 – La
transumanza, in «L’Agenda di Salerno e provincia», VI, 2002, n. 61, pp. 23-24.
648 – Il Mediterraneo tra idea filosofico-culturale e progetto politico, in
«Critica Marxista», n. 5-6, 2002, pp. 56-64. 649 – Le “nonne coraggio”
argentine, in «Critica Marxista», n. 5-6, 2002, pp. 117-120. 650 – Lo
storicismo “prospettico” di Raffaello Franchini, in G. Cotroneo, R. Viti
Cavaliere (a cura di), Il diritto alla filosofia, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2002, pp. 41-48. 651 – Storicismo e antistoricismo tra Croce e Gentile, in P.
Colonnello, G. Spadafora (a cura di), Croce e Dewey cinquanta anni dopo,
Napoli, Bibliopolis, 2002, pp. 89-106. 652 – Congedo, in «Bollettino del Centro
di studi vichiani», XXXI-XXXII, 2001-2002, pp. 5-9. 653 – Passioni e ragione
nella filosofia civile di Vico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani»,
XXXI-XXXII, 2001-2002, pp. 97-114. 81 654 – Musica e Utopia, in «Rivista di
storia della filosofia», 2002, n. 4, pp. 627-630. F) 655 – Presentación de las
Actas de Sevilla (a proposito del volume Pensar para el nuevo siglo. Vico y la
cultura europea), in «Cuadernos sobre Vico», 2001-2002, nn. 13-14, pp. 283-286.
656 – Premessa (in collab. con M. Martirano) a G. Cacciatore, M. Martirano (a
cura di), Il Manifesto del partito comunista a 150 anni dalla sua
pubblicazione, numero monografico di «Diritto e Cultura», X, 2000 [stampato nel
2002], n. 1-2, pp. 5-6. 657 – Premessa a F. Tessitore, Bibliografia degli scritti
(1961-2001), Salerno-Milano, Oèdipus, 2002, pp. 7-10. 658 – Introduzione a J.M.
Sevilla Fernández, Ragione narrativa e ragione storica. Una prospettiva
vichiana su Ortega y Gasset, Perugia, Guerra, 2002, pp. 9-14. 659 – Prefazione
a W. Dilthey, Federico il Grande e l’illuminismo tedesco, a cura di G. Magnano
San Lio, Soneria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. I-VI. G) 660 – Io, filosofo,
tra giudici giacobini e teste tagliate per sbaglio, in «Corriere del
Mezzogiorno», 16 gennaio 2002. 661 – Vico, un punto di riferimento anche per la
cultura ispanica, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 gennaio 2002. 662 – Una
vigile e calma memoria, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 gennaio 2002. 663 –
Ma l’argentino doveva entrare in campo prima (sul derby Napoli-Salernitana), in
«La Città», 28 gennaio 2002. 664 – Con il patto scompare la sinistra, in
«Corriere del Mezzogiorno», 31 gennaio 2002. 82 665 – L’effetto Moretti e un
partito che continua a farsi del male, in «Corriere del Mezzogiorno», 14
febbraio 2002. 666 – Storia e politica nel volume di Amarante, in «La Città»,
19 febbraio 2002. 667 – L’etica secondo Croce: una riflessione ancora aperta
nel suo sistema filosofico, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 marzo 2002. 668 –
L’uscita dalla minorità, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 marzo 2002. 669 –
Quella storia della costiera raccontata attraverso i suoi limoni, in «Corriere
del Mezzogiorno», 13 aprile 2002. 670 – Le opere magiche di Giordano Bruno,
riscoperta di un “eroico furore”, in «Corriere del Mezzogiorno», 28 aprile
2002. 671 – La transumanza e le ritualità della pastorizia, in «La Città», 30
aprile 2002. 672 – Attualità di Vico, profeta del mito e della fantasia accanto
alla ragione, in «Il Mattino», 26 maggio 2002. 673 – Centrosinistra senza
progetto, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 maggio 2002. 674 – Fondazione
Menna, un “Quaderno” su Bloch e la musica, in «Corriere del Mezzogiorno», 5
giugno 2002. 675 – Il coraggio di ricostruire la Quercia, in «La Repubblica»,
ed. di Napoli, 3 luglio 2002. 676 – Ds e spoil system clientelare, in «Corriere
del Mezzogiorno», 10 settembre 2002. 677 – La protesta è generosa, ma non
basta, in «Corriere del Mezzogiorno», 26 settembre 2002. 678 – L’intellettuale
che sapeva indignarsi, in «Il Mattino», 4 novembre 2002. 679 – Addio a De
Martino, in «Il Salernitano», 19 novembre 2002. 680 – Croce, la libertà che si
rinnova, in «La Repubblica», ed. Napoli, 26 novembre 2002. 681 – È ora di
accorgersi che troppi giovani si stanno perdendo, in «Corriere del
Mezzogiorno», 26 novembre 2002. 83 682 – Salerno-Regione. La sinergia assente,
in «Corriere del Mezzgiorno», 13 dicembre 2002 * * * 2003 A) 683 – Giordano
Bruno e noi. Momenti della sua fortuna tra ’700 e ’900, Salerno, edizioni
Marte, 2003. B) 684 – Passioni e ragione nella filosofia civile di Vico, in P.
Venditti (a cura di), La filosofia e le emozioni, Atti del XXXIV Congresso
nazionale della Società Filosofia Italiana (Urbino, 26-29 aprile 2001),
Firenze, Le Monnier, 2003, pp. 213-230. 685 – Luigi Cacciatore: una vita per il
socialismo e l’unità della classe operaia, in L. Rossi (a cura di), Luigi
Cacciatore. La vita politica di un socialista a cento anni dalla nascita,
Salerno, Plectica, 2003, pp. 87-97. 686 – Il concetto di imputazione in alcuni
momenti della filosofia giuridica italiana: Vico, Filangieri, Pagano, in
«Diritto e Cultura», XI, 2001 [pubblicato nel 2003], n. 1, pp. 41-57. 687 – Die
Idee der Moderne bei Dilthey und Cassirer, in Th. Leinkauf (hrsg.), Dilthey und
Cassirer. Die Deutung der Neuzeit als Muster von Geistes – und Kulturgeschichte,
Hamburg, Meiner Verlag, 2003, pp. 69-82. 688 – Vico e Bruno, in N. Pirillo (a
cura di), Autobiografia e filosofia. L’esperienza di Giordano Bruno, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 147-161. 84 689 – Historicisme,
philologie, herméneutique chez August Boeckh, in «Le Cercle Herméneutique»,
2003, n. 1, pp. 94-107. 690 – Vico, héritier de Bruno?, in «L’art du
Comprendre», 2003, n. 11-12, pp. 212-225. 691 – Salvatore Valitutti a dieci
anni dalla morte, in «L’Agenda di Salerno e Provincia», n.s., VII, 2003, n. 68,
p. 19. 692 – Una prefazione mai pubblicata a un libro su Luigi Angrisani, in
«L’Agenda di Salerno e Provincia», n.s., VII, 2003, n. 68, pp. 22-23. 693 – La
storia della cultura salernitana nella ricerca di Italo Gallo, in «L’Agenda di
Salerno e Provincia», n.s., VII, 2003, n. 69, pp. 22-24. 694 – Arte e
letteratura in altri viaggi al Sud, in «L’Agenda di Salerno e Provincia», n.s.,
VII, 2003, n. 70, pp. 16-19. 695 – Intellettuali italiani del secondo
dopoguerra, in «L’Agenda di Salerno e Provincia», n.s., VII, 2003, n. 73, pp.
26-27. 696 – Il Mediterraneo tra idea filosofico-culturale e progetto politico,
in «Civiltà del Mediterraneo», 2003, n. 3, pp. 63-77. 697 – Destini personali
per l’individualità post-metafisica, in «Iride», XVI, 2003, n. 39, pp. 385-389.
698 – Lo storicismo come scienza etica e come ermeneutica dell’individualità,
in «Magazzino di filosofia», 2002 [stampato nel 2003], n. 8, pp. 120-133. 699 –
Dal “logo astratto” al “logo concreto”, dal tempo all’eternità. Gentile e la
storia, in P. Di Giovanni (a cura di), Giovanni Gentile. La filosofia italiana
tra idealismo e anti-idealismo, Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 97-122. 700 –
Le Opere magiche di Giordano Bruno, in «Archivio di storia della cultura», XVI,
2003, pp. 165-168. 701 – Il Mediterraneo tra idea filosofico-culturale e
progetto politico, in Aa.Vv., Mediterraneo e cultura europea, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2003, pp. 7-19. 702 – Vico: narrazione storica e narrazione
fantastica, in G. Marchetti, O. Rignani, V. Sorge (eds.), Ratio et Su- 85
perstitio. Essays in Honor of Graziella Federici Vescovili, Fédération
Internationale des Institus d’Études Médiévales, Louvain-La-Neuve, 2003, pp.
483-505. 703 – Croce e l’idea di Europa, in Seduta inaugurale dell’anno
accademico 2003, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli,
Napoli, Giannini, 2003, pp. 33-45. 704 – La filosofia dello storicismo di
Vincenzo Cuoco, in «Rassegna storica salernitana», n.s., XX, 2003, n. 40, pp.
107-120. 705 – Per la critica del riformismo “apatico”, in «Ora Locale», VI,
2003, n. 3, pp. 5-6. 706 – Una nuova morfologia del potere, in «Mezzogiorno
Europa», IV, 2003, n. 5, pp. 27-29. 707 – La “Quercia di Goethe”. Note di
viaggio dalla Germania (conversazione registrata non corretta) in «Rotary Club
Salerno. Il Bollettino», LIV, 2003, n. 3, pp. 4-5 e 8. 708 – Bellum justum,
bellum sanctum, in «Iride», XVI, 2003, n. 40, pp. 425-432. 709 – Die
“politische” Dimension des kritisch-problematische Historismus in Italien, in
K.E. Lönne (hrsg.), Historismus in den Kulturwissenschaften, Düsseldorf,
Francke Verlag, 2003, pp. 39-65. 710 – Dilthey: connessione psichica e
connessione storica, in M.G. Lombardo (a cura di), Una logica per la
psicologia: Dilthey e la sua scuola, Padova, Il Poligrafo, 2003, pp. 211-223.
711 – Sul concetto di progresso. L’interpretazione di Hegel in Croce e Bloch,
in P. Cipolletta (a cura di), Ereditare e sperare. Un confronto con il pensiero
di Ernst Bloch, Milano, Mimesis, 2003 [pubblicato nel 2004], pp. 113-130. 712 –
Storia, memoria, immagini tra Vico e Hegel, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», XXXIII, 2003 [pubblicato nel 2004], pp. 199-208. 713 – Intervento
nella Tavola rotonda, Salerno: città della rimozione?, in M. Schiavino (a cura
di), Un secolo di libri. La libreria Carrano a Salerno (1920-1986), Salerno,
Marte Editore, 2003, pp. 22-26. 86 714 – Note in margine al problema del
modello francese nella filosofia e nella politica della rivoluzione napoletana,
in E. Di Rienzo, A. Musi (a cura di), Storia e vita civile. Studi in memoria di
Giuseppe Nuzzo, Napoli, ESI, 2003, pp. 189-202. D) 715 – Scheda di M. Perniola,
Del Sentire, Torino, 2002, in «Bollettino del Centro di studi vichiani»,
XXXIII, 2003 [pubblicato nel 2004], pp. 396-397. F) 716 – Prólogo a H. Calello,
Gramsci del “americanismo” al talibán. Globalización, imperialismo y
reconstrucción en America Latina, Buenos Aires, ed. Altamira, 2003, pp. 5-11.
717 – Introduzione a A. Di Maio, M. Malatesta, La filosofia di Cleto Carbonara,
Napoli, Luciano Editore, 2003, pp. 5-8. G) 718 – Com’è politica la filosofia di
Nietzsche. Parola di Losurdo, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 gennaio 2003.
719 – “Colloqui” su Croce: cinque modi per rileggerne il pensiero, in «Corriere
del Mezzogiorno», 26 febbraio 2003. 720 – Non toccate Matteotti, in «Il
Mattino», ed. di Salerno, 26 febbraio 2003. 721 – Lanocita storico tra
contadini e latifondisti, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 7 marzo 2003. 722 –
L’esempio di Ninì Di Marino, in «Il Salernitano», 10 marzo 2003. 723 – Le
opinioni di Ietto e le intuizioni di Borges, in «Il Salernitano», 17 marzo
2003. 724 – Quel “sole nero” non scalda il Sud, in «Corriere del Mezzogiorno»,
21 marzo 2003. 87 725 – Oscurantismo culturale o miopia amministrativa?, in
«Corriere del Mezzogiorno», 1 aprile 2002. 726 – Altri viaggi nel Sud: quando
la storia si fa paesaggio e avventura mentale, in «Corriere del Mezzogiorno», 2
aprile 2003. 727 – Il vescovo s’invischia in politica, in «Corriere del
Mezzogiorno», 15 aprile 2003. 728 – Cuba, è svanito il sogno, in «Corriere del
Mezzogiorno», 3 maggio 2003. 729 – Comunisti e cultura, il caso italiano, in
«Il Mattino», 26 maggio 2003. 730 – La Spagna degli anni ’30 e la “guerra
civile europea”, in «Corriere del Mezzogiorno», 10 giugno 2003. 731 – Lo Stato
di Giffoni oltre le microstorie, in «Il Salernitano», 21 giugno 2003. 732 – La
fortuna non fa miracoli due volte, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 20 agosto
2003. 733 – Un forum per scegliere il candidato alla Provincia, in «Il
Mattino», ed. di Salerno, 5 settembre 2003. 734 – Diametro? Ecco perché non
potrò mai aderire, in «Corriere del Mezzogiorno», 18 ottobre 2003. 735 – Cuoco
e la filosofia politico-civile del nuovo secolo, in «Corriere del Mezzogiorno»,
9 novembre 2003. 736 – Se l’unica variante è la fedeltà al leader, in «Il
Mattino», ed. di Salerno, 20 novembre 2003. * * * 2004 A) 737 – G. Cacciatore,
M. Martirano (a cura di), Vico nelle culture iberiche e lusitane, Napoli,
Alfredo Guida Editore, 2004. 88 738 – G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E.
Nuzzo, M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici. La
presenza di Vico nella riflessione filosofica contemporanea, Napoli, Alfredo
Guida Editore, 2004. B) 739 – Su alcune interpretazioni tedesche del
Rinascimento nel Novecento, in F. Meroi, E. Scapparone (a cura di),
Humanistica. Per Cesare Vasoli, Firenze, Olschki, 2004, pp. 345- 368. 740 –
Commento a Rudolf Makkreel, in R. Bodei, G. Cantillo, A. Ferrara, V. Gessa
Kurotschka, S. Maffettone, (a cura di), Ricostruzione della soggettività,
Napoli, Liguori, 2004, pp. 55-61. 741 – Una filosofia per l’America Latina:
Leopoldo Zea, in «Cultura Latinoamericana», 2003 [edito nel 2004], n. 5, pp.
431-453. 742 – Bruno tra Spaventa e Labriola, in F. Meroi (a cura di), La mente
di Giordano Bruno, Firenze, Olschki, 2004, pp. 463-483. 743 – Qualche
riflessione filosofica sulla giustizia, in «La Giustizia», XXVI, 2004, n. 1-2,
pp. 8-11. 744 – Socialismo meridionale. Mancini e De Martino, in «Ora locale»,
VII, 2004, n. 1, pp. 5-6 e p. 20. 745 – Il meridionalismo socialista di
Francesco De Martino e Giacomo Mancini, in «Rassegna storica salernitana»,
2004, n. 41, pp. 283-298. 746 – Marxismo e storia tra Labriola e Croce, in M.
Griffo (a cura di), Croce e il marxismo un secolo dopo, Napoli, Editoriale
Scientifica, 2004, pp. 315-339. 747 – Vico: narrazione storica e narrazione
fantastica, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna (a cura
di), Il sapere poetico e gli universali fantastici. La presenza di Vico nella
riflessione filosofica contemporanea, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2004, pp.
117-139. 89 748 – Der Begriff der Zurechnung in einer Phase der italienischen
Rechtsphilosophie: Vico, Filangieri, Pagano, in M. Kaufmann, J. Renzikowski
(hrsg.), Zurechnung als Operationalisierung von Verantwortung, Frankfurt a. M.,
Peter Lang, 2004, pp. 29-45. 749 – Cassirer interprete di Kant, in A. Anselmo
(a cura di), La presenza di Kant nella filosofia del Novecento, Messina,
Siciliano Editore, 2004, pp. 13-67. 750 – Croce: il concetto di progresso e la
critica della filosofia della storia, in M. Meletti Bertolini (a cura di),
Etica e politica. Saggi in memoria di Ferruccio Focher, Milano, Franco Angeli,
2004, pp. 21-32. 751 – Manfred Riedel, der Freund und Lehrer, in H. Seubert
((hrsg.), Verstehen in Wort und Schrift. Europäische Denkgespräche. Für Manfred
Riedel, Köln Weimar Wien, Böhlau Verlag, 2004, pp. 66-77. 752 – Storicismo,
filologia, ermeneutica in August Boeckh, in G. Indelli, G. Leone, F. Longo
Auricchio (a cura di), Mathesis e Mneme. Studi in memoria di Marcello Gigante,
Napoli, Pubblicazioni Dipartimento di Filologia Classica “F. Arnaldi”, 2004,
vol. II, pp. 381-397. 753 – Leggere Vico, in M. Filoni (a cura di), Leggere e
rileggere i classici. Per Livio Sichirollo, Macerata, Quodlibet, 2004, pp.
39-63. 754 – Un’idea moderna di certezza: la filologia di Vico tra ermeneutica
e filosofia, in S. Caianiello, A. Viana (a cura di), Vico nella storia della
filologia, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2004, pp. 177-197. 755 – Croce und Bloch
über den Begriff des Fortschritts, in «Jahrbuch für Recht und Ethik», Band 12,
2004, pp. 383-399. 756 – “Eranos” nella storia della cultura europea del ’900,
in «Archivio di storia della cultura», XVII, 2004, pp. 241-248. 757 – Gramsci:
problemas de ética en Los Cuadernos, in «Telos. Revista de estudios
interdisciplinarios en ciencias sociales», Maracaibo, VI, 2004, n. 3, pp.
351-362. 90 F) 758 – Presentazione (in collab. con A. Scocozza) di G. Bellini,
Dal Mediterraneo al mare oceano. Saggi tra storia e letteratura,
Salerno-Milano, Oèdipus, 2004, pp. 7-23. 759 – Il contributo delle culture
ispaniche e lusitane alla conoscenza di Vico, introduzione a G. Cacciatore, M.
Martirano (a cura di), Vico nelle culture iberiche e lusitane, Napoli, Guida,
2004, pp. 5-18. G) 760 – Il futuro di Salerno, in «Il Quartiere», II, 2004, n.
6, p. 3. 761 – L’avvocato militante. Ricordo di mio padre, in «Cronache del
Mezzogiorno», 19 gennaio 2004. 762 – Dall’etologia all’etica. Il cammino di
Lorenz passa anche da Napoli, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 gennaio 2004.
763 – Il giorno della memoria senza riti, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 27
gennaio 2004. 764 – L’indipendenza e le mosche, in «Il Salernitano», 20
febbraio 2004. 765 – Martino e le varianti della smemoratezza, in «Il Mattino»,
ed. di Salerno, 18 marzo 2004. 766 – De Luca, l’autocritica di un Ulivo in
affanno, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 marzo 2004. 767 – Sinistra
riformista e socialista, è ora di ritrovare vera unità (in collab. con E.
Ajello e A. Trione), in «Corriere del Mezzogiorno», 4 aprile 2004. 768 –
Diritti umani, questione non solo filosofica ma politica, in «Corriere del
Mezzogiorno», 23 aprile 2004. 769 – Quelle lettere a Croce e a Engels (a
proposito del Carteggio Labriola), in «Corriere del Mezzogiorno», 12 maggio
2004. 770 – Amendola: in volume quattro anni di lettere, in «Corriere del
Mezzogiorno», 5 giugno 2004. 91 771 – Se l’Ulivo scopre le sue lobby di potere,
in «Il Mattino», ed. di Salerno, 24 giugno 2004. 772 – Rinascita a S. Lucia, in
«L’Articolo Domenica», 5 settembre 2004, n. 16. 773 – Io, contribuente
prigioniero di una voce, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 2 ottobre 2004. 774 –
Il programma della coalizione priorità assoluta, in «L’Articolo Domenica», 3
ottobre 2004, n. 20. 775 – Il buonsenso dei cittadini. Quando gli elettori sono
più convinti degli eletti, in «L’Articolo Domenica», 31 ottobre 2004, n. 24.
776 – Vico e il corpo: se la genetica attinge alla filosofia, in «Corriere del
Mezzogiorno», 4 novembre 2004. 777 – Programmi condivisi, «L’Articolo
Domenica», 5 dicembre 2004, n. 29. * * * 2005 A) 778 – Cassirer interprete di
Kant e altri saggi, Messina, Siciliano Editore, 2005. 779 – Filosofia pratica e
filosofia civile nel pensiero di Benedetto Croce, presentazione di F. Tessitore,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005. 780 – G. Cacciatore, G. Cotroneo, R. Viti
Cavaliere, Croce filosofo, 2 voll., Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003
[pubblicato nel 2005]. 781 – G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M.
Sanna, A. Scognamiglio (a cura di), Il corpo e le sue facoltà. Giambattista
Vico, «Laboratorio dell’ISPF», II, 2005, 1. 92 B) 782 – Leben und Struktur.
Dilthey und die Zweideutigkeit von Sprache der Geschichte, in J. Trabant
(hrsg.), Sprache der Geschichte, Schriften des Historischen Kollegs Kolloquien
62, München, Oldenbourg, 2005, pp. 55-64. 783 – Identità, pluralismo,
universalismo dei diritti, in A. De Simone (a cura di), Identità, spazio e vita
quotidiana, Urbino, Edizioni QuattroVenti, 2005, pp. 397-407. 784 – Capograssi
e l’idealismo, in P. Di Giovanni (a cura di), Idealismo e anti-idealismo nella
filosofia italiana del Novecento, Milano, Franco Angeli, 2005, pp. 73-91. 785 –
La cultura storica a Napoli nella seconda metà dell’Ottocento, in G. Vitolo (a
cura di), Storia, filologia, erudizione nella Napoli dell’Ottocento, Napoli,
Guida, 2005, pp. 133-146. 786 – Croce: l’idea di Europa tra crisi e
trasformazione, in G. Cacciatore, G. Cotroneo, R. Viti Cavaliere (a cura di),
Croce filosofo, 2 voll., Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003 [pubblicato nel
2005], vol. I, pp. 117-144. 787 – Il concetto di imputazione in alcuni momenti
della filosofia giuridica italiana, in C. Giarratana, I. Randazzo (a cura di),
Seminari di Filosofia Corrado Dollo, I, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004 [pubblicato
nel 2005], pp. 21-39. 788 – Il Marx “democratico”, in M. Musto (a cura di),
Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia,
Roma, Manifestolibri, 2005, pp. 145-160. 789 – Le facoltà della mente
“rintuzzata dentro il corpo”, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo,
M. Sanna, A. Scognamiglio (a cura di), Il corpo e le sue facoltà. Giambattista
Vico, «Laboratorio dell’ISPF», II, 2005, 1, pp. 91-105. 790 – Modernità e
filosofia. Per una discussione del rapporto fede ragione, in E. Granito (a cura
di), La fede nella ragione e le ragioni della fede, Napoli, La Città del Sole,
2005, pp. 93-106 [cfr. in questo stesso volume gli interventi nella tavola
rotonda, pp. 204-210 e 228-229]. 93 791 – Una filosofia per l’America latina:
Leopoldo Zea, in P. Colonnello (a cura di), Filosofia e politica in America
latina, Roma, Armando Editore, 2005, pp. 51-67. 792 – Vico e Kant sulla storia,
in «Studi Italo-Tedeschi / Deutsch-Italienische Studie», XXIV, 2004, Collana di
Monografie dell’Accademia di Studi italo-tedeschi, Merano, 2005, pp. 271- 293.
793 – María Zambrano: la storia come “delirio” e “destino”, in L. Silvestri (a
cura di), Il pensiero di María Zambrano, Udine, Forum, 2005, pp. 29-62. 794 –
Identità e filosofia dell’interculturalità, in «Iride», XVII, 2005, n. 45, pp.
235-244. 795 – Riflessioni sui diritti umani nel pensiero di Giuseppe
Capograssi, in «Civiltà del Mediterraneo», 2005, nn. 6-7, pp. 167-187. 796 –
Interprétations historicistes de la “Scienza Nuova”, in «Noesis», 2005, n. 8,
pp. 45-63. 797 – Significato e prospettive della “cittadinanza attiva”, in «Ora
Locale», VII, 2005, n. 4, pp. 5-6. 798 – Intervento del moderatore in L. Rossi
(a cura di), Elea. Il divenire di una cultura, l’essere di un pensiero, Atti del
Convegno, Ascea 23-28 maggio 2000, Agropoli, Tipografia Iannuzzi, 2005, pp.
77-80. 799 – Ricordo di Nicola Badaloni, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», XXXV, 2005, pp. 9-12. 800 – Sull’edizione critica della Scienza
Nuova 1730, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXV, 2005, pp.
160-165. 801 – Interpretazioni storicistiche della Scienza Nuova, in F. Rizzo
(a cura di), Filosofia e storiografia. Studi in onore di Girolamo Cotroneo,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, pp. 53-70. 802 – Leer a Vico hoy, in
«Cuadernos sobre Vico», 2004- 2005, nn. 17/18, pp. 21-36. 803 – La ingeniosa
ratio de Vico entre sabiduria y prudencia, in «Cuadernos sobre Vico»,
2004-2005, nn. 17/18, pp. 37-45. 94 804 – Croce: l’idea di Europa tra crisi e
trasformazione, in «Rassegna di Studi crociani», XV, 2005, n. 29-30, pp.
VII-XVIII. 805 – María Zambrano: ragione poetica e storia, in «Rocinante.
Rivista di filosofia iberica e iberoamericana», n. 1/2005, pp. 107-126. 806 –
Un libro sulle parole chiave di Gramsci, in «Archivio di storia della cultura»,
XVIII, 2005, pp. 299-306. C) 807 – Recensione di E. Nuzzo, Tra ordine della
storia e storicità. Saggi sui saperi della storia in Vico, in «Bollettino del
Centro di studi vichiani», XXXV, 2005, pp. 185-191. 808 – Recensione di F.
Crispini, Idee e forme di pensiero. Brevi saggi di storiografia filosofica, in
«Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXV, 2005, pp. 225-228. D) 809 –
Scheda di F. Marone, Narrare la differenza, Milano, Unicopli, 2003, in
«L’Articolo», 7 gennaio 2005. F) 810 – Introduzione e Presentazione (in collab.
con L. Rossi) di Ricordo di Francesco Cacciatore, Salerno, Plectica, 2005, pp.
7-17. 811 – Prefazione (in collab. con G. Cotroneo e R. Viti Cavaliere) a G.
Cacciatore, G. Cotroneo, R. Viti Cavaliere (a cura di), Croce filosofo, 2
voll., Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003 [pubblicato nel 2005], pp. VII-VIII.
812 – Prefazione a E. Todaro, Vorrei, Salerno, Arti Grafiche Boccia, 2005. 813
– Prefazione a G. Magnano San Lio, Forme del sapere e struttura della vita. Per
una storia del concetto di Wel- 95 tanschauung. Tra Kant e Dilthey, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2005, pp. III-VII. 814 – Presentazione di F. Lomonaco,
Tracce di Vico nella polemica sulle origini delle pandette e delle XII Tavole
nel Settecento italiano, Napoli, Liguori, 2005, pp. VII-IX. G) 815 – Quando un
filosofo-tifoso non la prende con filosofia, in «Corriere del Mezzogiorno», 7
gennaio 2005. 816 – Andiamo oltre i tatticismi e le convenienze di parte, in
«L’Articolo della Domenica», 16 gennaio 2005, n. 3. 817 – Brutta Salernitana.
Un grazie a Rubino, in «Corriere del Mezzogiorno», 18 gennaio 2005. 818 – Com’è
destabilizzante il mercato di gennaio, in «Corriere del Mezzogiorno», 25
gennaio 2005. 819 – Anche il computer contro la Salernitana, in «Corriere del
Mezzogiorno», 30 gennaio 2005. 820 – Alle regionali una lista unica delle
sinistre, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 1 febbraio 2005. 821 – Ma non è solo
sfortuna, sbaglia anche il tecnico, in «Corriere del Mezzogiorno», 5 febbraio 2005.
822 – Quelle quattro “polpette” da stropicciarsi gli occhi, in «Corriere del
Mezzogiorno», 8 febbraio 2005. 823 – Se manca del tutto il blocco sociale di
riferimento, in «L’Articolo della Domenica», 13 febbraio 2005, n. 7. 824 – Tra
dottor Jekill e Mister Hyde, in «Corriere del Mezzogiorno», 15 febbraio 2005.
825 – Difese le ragioni dei deboli, in «Agire», XXXIII, 20 febbraio 2005, n. 6.
826 – La forza dell’umiltà, ma secondi a nessuno, in «Corriere del
Mezzogiorno», 23 febbraio 2005. 827 – Gregucci fa le raccomandazioni agli altri
e dimentica se stesso, in «Corriere del Mezzogiorno», 1 marzo 2005. 828 –
Storia di umano dolore, in «Agire», XXXIII, 6 marzo 2005, n. 8. 96 829 – Si
conferma la storia di Davide. E Golia-Torino è stato fermato, in «Corriere del
Mezzogiorno», 8 marzo 2005. 830 – Confesso: al fischio finale sono saltato in
piedi come un ossesso, in «Corriere del Mezzogiorno», 15 marzo 2005. 831 – Più
cittadinanza attiva nella Regione del futuro, in «L’Articolo della Domenica»,
20 marzo 2005, n. 12. 832 – Attenzione, bisognerà lottare fino alla fine, in
«Corriere del Mezzogiorno», 29 marzo 2005. 833 – Dal Sud una leadership al
servizio del paese, in «L’Articolo», 5 aprile 2005. 834 – Attore del Novecento,
in «Agire», XXXIII, 10 aprile 2005, n. 13. 835 – La Salernitana in stato di
grazia. Ma ora non parliamo del futuro, in «Corriere del Mezzogiorno», 12
aprile 2005. 836 – Dopo il passo falso col Modena ora si spera nell’effetto
trasferta, in «Corriere del Mezzogiorno», 19 aprile 2005. 837 – Sale all’Arechi
contro il malocchio, in «Corriere del Mezzogiorno», 22 aprile 2005. 838 – Ora
sono seriamente preoccupato dall’involuzione della Salernitana, in «Corriere
del Mezzogiorno», 26 aprile 2005. 839 – Un grande impegno in difesa della
Costituzione, in «Il Quartiere», III, 11 aprile 2005. 840 – L’auriga Gregucci
tenga in equilibrio il “carro alato” della Salernitana, in «Corriere del
Mezzogiorno», 3 maggio 2005. 841 – Occorre un ultimo sforzo per uscire dal
labirinto, in «Corriere del Mezzogiorno», 11 maggio 2005. 842 – Che fatica
essere più di Trenta, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 13 maggio 2005. 843 –
Sono preoccupato, in panchina c’è troppa confusione mentale, in «Corriere del
Mezzogiorno», 17 maggio 2005. 844 – Adesso le armi migliori sono il cuore e il
carattere, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 maggio 2005. 845 – Democrazia
progressiva. La lezione di Amendola, in «L’Articolo della Domenica», 29 maggio
2005, n. 21. 97 846 – Non c’è tempo per diatribe e recriminazioni. Bisogna solo
vincere per rimanere in B, in «Corriere del Mezzogiorno», 31 maggio 2005. 847 –
È tempo di pensare al nuovo progetto, in «Corriere del Mezzogiorno», 7 giugno
2005. 848 – La solita telenovela, in «Corriere del Mezzogiorno», 14 giugno
2005. 849 – Isla: Italia e Venezuela incontro tra due culture, in «Corriere del
Mezzogiorno», 17 giugno 2005. 850 – Con i DS divisi l’unità è impossibile, in
«Corriere del Mezzogiorno», 3 luglio 2005. 851 – Levi della Vida, l’islamista
del ’900 che sfidò Gentile, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 luglio 2005. 852
– Non si può costruire fuori l’unità che manca nei DS, in «Corriere del
Mezzogiorno», 3 agosto 2005. 853 – Le colpe di Aliberti e del Napoli, in
«Corriere del Mezzogiorno», 11 agosto 2005. 854 – Pronti per il campionato,
evitiamo dannose illusioni, in «Corriere del Mezzogiorno», 6 settembre 2005.
855 – Ora dobbiamo limitare i danni, in «Corriere del Mezzogiorno», 13
settembre 2005. 856 – Depressione addio, finalmente l’orgoglio, in «Corriere
del Mezzogiorno», 27 settembre 2005. 857 – Carissima Salernitana, resto ancora
ottimista, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 ottobre 2005. 858 – Un master per
consulenti di filosofia, in «Il Mattino», ed. di Napoli, 5 ottobre 2005. 859 –
Salernitana grigia con sprazzi di colore, in «Corriere del Mezzogiorno», 11
ottobre 2005. 860 – Occorre una frustata psicologica, in «Corriere del
Mezzogiorno», 18 ottobre 2005. 861 – Vent’anni dopo, siamo tornati alle beghe
paesane, in «Corriere del Mezzogiorno», 25 ottobre 2005. 862 – Cinque squilli
di tromba: ora Salerno è più serena, in «Corriere del Mezzogiorno», 8 novembre
2005. 863 – Vico studiava l’Oriente. Oggi cinesi e giapponesi 98 rileggono il
filosofo, in «Corriere del Mezzogiorno», 11 novembre 2005. 864 – Salernitana mi
avevi illuso. Ora si giochi come si fa in serie C, in «Corriere del
Mezzogiorno», 15 novembre 2005. 865 – Squallore e desolazione: domenica da
dimenticare, in «Corriere del Mezzogiorno», 22 novembre 2005. 866 – Orgogliosi
del “nostro” Zoro e della Salernitana di Cuoghi, in «Corriere del Mezzogiorno»,
29 novembre 2005. 867 – Parola di filosofo. L’imponderabile fa bello il calcio,
in «Corriere del Mezzogiorno», 1 dicembre 2005. 868 – Per la Salernitana di
Cuoghi una vittoria utile per il rilancio, in «Corriere del Mezzogiorno», 6
dicembre 2005. 869 – Se la bravata di Ambrosio non sarà punita allo stadio non
andrò più, in «Corriere del Mezzogiorno», 13 dicembre 2005. 870 – Un’altra gara
grigia e mediocre in attesa di un regalo a gennaio, in «Corriere del
Mezzogiorno», 20 dicembre 2005. 871 – Una questione di sistema, in «Corriere
del Mezzogiorno», 21 dicembre 2005. 872 – Ha ragione Cuoghi: gioco brutto ma la
classifica adesso ci sorride, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 dicembre 2005.
873 – Il rischio è che la politica sia nuovamente sconfitta, in «Corriere del
Mezzogiorno», 28 dicembre 2005. * * * 2006 A) 874 – Antonio Labriola in un
altro secolo. Saggi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006. 99 B) 875 –
L’interculturalità e le nuove dimensioni del sapere filosofico e delle sue
pratiche, in V. Gessa Kurotschka (a cura di), I saperi dell’umano, il sapere
umano, la consulenza filosofica, in www.unica.it/rfiscuman/. 876 – L’etica e la
sacralità del corpo umano, in F. Salvatore (a cura di), Le cellule staminali
miniere di salute, «Come alla corte di Federico II», 2006, n. 7, pp. 21-22. 877
– Relazione tenuta al convegno su Le forme del dissenso tra riformismo e
globalizzazione (10-11 maggio 2002), in Aa.Vv., Le forme del dissenso tra
riformismo e globalizzazione, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici,
2006, pp. 133-150. 878 – Si sta imponendo un laboratorio politico al negativo,
in «Mezzogiorno Europa», VII, 2006, n. 2, pp. 24-25. 879 – Il concetto di
progresso e la critica della filosofia della storia in Benedetto Croce, in M.
Agrimi, R. Ciafardone, B. Razzotti (a cura di), Croce all’aprirsi del XXI
secolo, Lanciano, Rocco Barabba Editore, 2006, pp. 307-322. 880 – Per Leopoldo
Zea, in «Cultura Latinoamericana», 2004 [stampato 2006], n. 6, pp. 111-18. 881
– Capire il racconto degli altri, in «Reset», 2006, n. 97, pp. 16-19. 882 –
Vita e struttura: Dilthey e l’“ambiguità” della lingua della storia, in M.
Failla (a cura di), «Bene navigavi». Studi in onore di Franco Bianco, Macerata,
Quodlibet, 2006, pp. 5-14. 883 – Croce e l’autobiografia, in A. Marini (a cura
di), Temi crociani della “nuova Italia”, numero monografico di «Magazzino di
filosofia», 2004 [stampato nel 2006], pp. 49-61. 884 – Cerimonia di
conferimento della cittadinanza onoraria di Salerno a Fulvio Tessitore,
Laudatio, Comune di Salerno, 18 gennaio 2005, Napoli, Arte Tipografica, 2006,
pp. 13-26. 885 – Croce nell’interpretazione di Alberto Caracciolo, in «Archivio
di storia della cultura», XIX, 2006, pp. 375-384. 100 886 – L’unità di storia
filologica e logica speculativa. Gentile e la storia della filosofia, in G.
Gentile, Il concetto della storia della filosofia, a cura di P. Di Giovanni,
Firenze, Le Lettere, 2006, pp. 233-248. 887 – Riflessioni sui diritti umani nel
pensiero di Giuseppe Capograssi, in «Civiltà del Mediterraneo», n. 7-8,
2005/2006, pp. 245-265 [numero monografico a cura di S. Langella, che raccoglie
gli Atti del Convegno su “Genesi, sviluppi e prospettive dei diritti umani in
Europa e nel Mediterraneo”, Genova 26-28 ottobre 2004]. 888 – La sinistra tra
omologazione culturale e frammentazione partitica, in M. Cimino, M. Alcaro (a
cura di), Politica e cultura in Calabria. Ora Locale (1996-2005), Cosenza,
Klipper, 2006, vol. II, pp. 166-172. 889 – Ancora sulla storia in Sartre, in
«Bollettino Studi sartriani», II, 2006, 1, pp. 25-34. 890 – La Escolástica
española y la génesis de la filosofía latinoamericana. Alonso Briceño:
metafísica e individualidad, in «Límite. Revista de filosofía y Psicología»,
Universidad de Tarapacá, Arica (Chile), vol. I, 2006, n. 14, pp. 5-24. 891 – María
Zambrano. Ragione poetica e storia, in «Il Pensiero», XLV, 2006/2, pp. 93-107.
892 – Di alcuni pensieri filosofici sul Chisciotte, in «Rocinante. Rivista di
filosofia iberica e iberoamericana», n. 2/2006, pp. 19-27. 893 – Voce Sviluppo
(in collab. con G. D’Anna), in Enciclopedia filosofica Bompiani, vol. XI,
Milano, Bompiani, 2006, pp. 11247-11249. F) 894 – Editoriale in «Logos. Rivista
annuale del Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta”», n.s., 2006, n. 1, pp. 7-9.
895 – Nota introduttiva (in collab. con P. Di Giovanni) a P. Di Giovanni (a
cura di), La cultura filosofica italiana attraverso le riviste 1945-2000,
Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 9-10. 101 896 – Introduzione a Poesia e
filosofia, raccolta di testi del Seminario tenutosi a Cagliari, 20-22 maggio
2004, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXVI, 2006, pp. 49-53. G)
897 – Tifo venezuelano per la Salernitana, in «Corriere del Mezzogiorno», 10
gennaio 2006. 898 – I granata ancora a bagnomaria. Ma il gioco incoraggia a
sperare, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 gennaio 2006. 899 – Ma senza
vittorie non si cantano messe, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 gennaio 2006.
900 – Una vittoria macchiata, in «Corriere del Mezzogiorno», 31 gennaio 2006.
901 – Una giornata negativa proprio contro la migliore, in «Corriere del
Mezzogiorno», 7 febbraio 2006. 902 – Gli arbitri difendano il “povero” Di
Vicino. Ma prima che finisca in ospedale come Totti, in «Corriere del
Mezzogiorno», 22 febbraio 2006. 903 – Altro che Pinturicchio. L’artista ora è
Di Vicino, in «Corriere del Mezzogiorno», 28 febbraio 2006. 904 – Diversità è
ricchezza, in «Agire», XXXIV, 5 marzo 2006, n. 8. 905 – Playoff, io lascio
aperto uno spiraglio alla speranza, in «Corriere del Mezzogiorno», 8 marzo
2006. 906 – La sacralità del corpo umano e l’etica della ricerca, in «Corriere
del Mezzogiorno», 9 marzo 2006. 907 – Ora è inutile recriminare. Bisogna
stringere i denti, in «Corriere del Mezzogiorno», 14 marzo 2006. 908 – Cresce
il rammarico per i punti perduti, in «Corriere del Mezzogiorno», 21 marzo 2006.
909 – Quel nervosismo è di buon auspicio, in «Corriere del Mezzogiorno», 28
marzo 2006. 910 – “De Profundis” da veri caimani, in «Corriere del
Mezzogiorno», 31 marzo 2006. 102 911 – Finale emozionante. Tifosi in prima
linea, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 aprile 2006. 912 – Amendola, democrazia
come dono, in «Corriere del Mezzogiorno», 7 aprile 2006. 913 – Manteniamo i
nervi saldi e l’impresa si concretizzerà, in «Corriere del Mezzogiorno», 11
aprile 2006. 914 – Non cediamo all’isterismo. Bisogna lottare e sperare, in
«Corriere del Mezzogiorno», 15 aprile 2006. 915 – Il Teramo è l’unica squadra
che possiamo acciuffare, in «Corriere del Mezzogiorno», 25 aprile 2006. 916 –
Non è stata solo sfortuna, il tecnico ha qualche colpa, in «Corriere del
Mezzogiorno», 3 maggio 2006. 917 – In attesa della giustizia sportiva non posso
che promuovere tutti, in «Corriere del Mezzogiorno», 10 maggio 2006. 918 – Da
filosofo granata a Tifoso Accademico: Rettore non smettere, in «Corriere del
Mezzogiorno», 13 maggio 2006. 919 – Sono più che convinto, il Genoa sarà
eliminato, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 maggio 2006. 920 – Cari D’Alema e
Fassino, sul caso Salerno schieratevi, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 giugno
2006. 921 – Il sogno non è finito e la rinascita è sicura, in «Corriere del
Mezzogiorno», 6 giugno 2006. 922 – Un’altra politica: qualcuno ci aveva
creduto, in «Corriere del Mezzogiorno», 28 settembre 2006. 923 – Salernitana
d’alta quota, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 ottobre 2006. 924 – Rimettiamo i
piedi a terra. E regoliamo bene la difesa, in «Corriere del Mezzogiorno», 10
ottobre 2006. 925 – Giuseppe Cantillo: indagine sull’uomo tra storia e natura,
in «Corriere del Mezzogiorno», 17 ottobre 2006. 926 – Rispetto le scelte di
Novelli. Ma non rimproveri Mattioli, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 ottobre
2006. 927 – Né cappa né spada, solo politica, in «Il Mattino», ed. di Salerno,
30 ottobre 2006. 928 – Una vittoria ottenuta senza spettacolo, in «Corriere del
Mezzogiorno», 31 ottobre 2006. 103 929 – Quei minuti di pura follia con tanti,
troppi colpevoli, in «Corriere del Mezzogiorno», 14 novembre 2006. 930 – Così
non va: per aspirare ai playoff il club dovrà intervenire sul mercato, in
«Corriere del Mezzogiorno», 21 novembre 2006. 931 – Una squadra troppo mediocre
contro un combattivo Lanciano, in «Corriere del Mezzogiorno», 28 novembre 2006.
932 – Come nacque e come morì il gruppo dei Trenta, in «Il Mattino», ed. di
Salerno, 1 dicembre 2006. 933 – Olio nelle giunture e pedalare. E che non si
parli di sfortuna, in «Corriere del Mezzogiorno», 5 dicembre 2006. 934 – Ma
senza (il criticato) Mancini sarebbero tornati a mani vuote, in «Corriere del
Mezzogiorno», 19 dicembre 2006. 935 – La crisi non si cura con l’aspirina, in
«Corriere del Mezzogiorno», 19 dicembre 2006. * * * 2007 A) 936 – G.
Cacciatore, A. Giugliano (a cura di), Storicismo e storicismi, Milano, Paravia
Bruno Mondadori, 2007. 937 – G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka (a cura di),
Saperi umani e consulenza filosofica, Roma, Meltemi, 2007. 938 – G. Cacciatore,
D. Conte, F. Lomonaco, E. Massimilla (a cura di), Filosofia, storia,
letteratura. Scritti in onore di Fulvio Tessitore, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 2007. B) 939 – Finito e infinito nella filosofia vichiana della
storia, in D. Venturelli, R. Celada Ballanti, G. Cunico (a cura di), 104 Etica,
religione e storia. Studi in memoria di Giovanni Moretto, Genova, Il Melangolo,
2007, pp. 37-48. 940 – Immaginazione, identità e interculturalità, in
«Postfilosofie», II, 2006, n. 3 [stampato nel 2007], pp. 119-133. 941 – La
filosofia dello storicismo come narrazione della storia pensata e della storia
vissuta, in G. Cacciatore, A. Giugliano (a cura di), Storicismo e storicismi,
Milano, Paravia Bruno Mondadori, 2007, pp. 109-168. 942 – Dall’ermeneutica allo
storicismo, e ritorno, in F. Coniglione, R. Longo (a cura di), La filosofia
generosa. Studi in onore di Anna Escher Di Stefano, Catania, Bonanno Editore,
2007, pp. 11-18. 943 – Genesi crisi e trasformazioni della filosofia civile italiana,
in F. Coniglione, R. Longo (a cura di), La filosofia generosa. Studi in onore
di Anna Escher Di Stefano, Catania, Bonanno Editore, 2007, pp. 143-154. 944 –
La Escolástica española y la génesis de la filosofía latinoamericana. Alonso
Briceño: metafísica e individualidad, in M. Kaufmann, R. Schnepf (hrsg.),
Politische Metaphysik. Die Entstehung moderner Rechtskonzeptionen in der
Spanischen Scholastik, Bern, Peter Lang, 2007, pp. 107-121. 945 – Riflessioni
sui diritti umani nel pensiero di Giuseppe Capograssi, in A. De Simone (a cura
di), Diritto, giustizia e logiche del dominio, Perugia, Morlacchi, 2007, pp.
439-461. 946 – El historicismo como ciencia ética y como hermenéutica de la
individualidad, in M.E. Borsani, C.E. Gende, Filosofía-Crítica-Cultura,
Neuquén, EDUCO, 2006 [stampato nel 2007], pp. 81-93. 947 – Vico: i saperi
poetici, in A. Battistini, P. Guaragnella (a cura di), Giambattista Vico e
l’enciclopedia dei saperi, Lecce, Pensa, 2007, pp. 257-267. 948 – L’ingeniosa
ratio di Vico tra sapienza e prudenza, in C. Cantillo (a cura di), Forme e
figure del pensiero, Napoli, La Città del Sole, 2007, pp. 225-240. 949 –
Mediterraneo e filosofia dell’interculturalità, in F.M. Cacciatore, A. Niger (a
cura di), Il Mediterraneo. Incontro 105 di culture, Roma, Aracne, 2007, pp.
29-42. 950 – I saperi umani e la consulenza filosofica (in collab. con V. Gessa
Kurotschka), in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka (a cura di), Saperi umani e
consulenza filosofica, Roma, Meltemi, 2007, pp. 13-34. 951 – L’interculturalità
e le nuove dimensioni del sapere filosofico e delle sue pratiche, in G.
Cacciatore, V. Gessa Kurotschka (a cura di), Saper umani e consulenza
filosofica, Roma, Meltemi, 2007, pp. 319-327. 952 – Para Leopoldo Zea, in
«Cuadernos Americanos», vol. 4, 2007, n. 122, pp. 177-183. 953 – Formas y
figuras del ingenio en Cervantes y Vico, in «Quaderns de Filosofia i Ciència»,
n. 37, 2007, pp. 57-70. 954 – Praxis e storia in Sartre, in G. Stoica, R.V.
Pantelimon, E. Tusa (coord.), Gramsci si Sartre mari gânditori ai secolului XX,
Bucuresti, Editura ISPRI, 2007, pp. 114-123. 955 – Per una redifinizione del
concetto di identità, in M. Mafrici, M. R. Pellizzari (a cura di), Tra res e
imago. In memoria di Augusto Placanica, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino,
2007, t. II, pp. 717-728. C) 956 – Recensione di A. Tortora, Presenze valdesi
nel Mezzogiorno d’Italia (secoli XV-XVII), Salerno, Laveglia, 2004, in
«Bollettino della Società di Studi Valdesi», CXXIV, dicembre 2007, pp. 134-137.
F) 957 – Storicismo in nuove dimensioni (in collab. con A. Giugliano), in G.
Cacciatore, A. Giugliano (a cura di), Storicismo e storicismi, Milano, Paravia
Bruno Mondadori, 2007, pp. VII-XI. 958 – Presentazione (con D. Conte, F.
Lomonaco, E. Massimilla) di G. Cacciatore, D. Conte, F. Lomonaco, E. 106
Massimilla (a cura di), Filosofia, storia, letteratura. Scritti in onore di
Fulvio Tessitore, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007, pp. 5-7. 959 –
Anarchia illuminata. Una nuova sintesi tra universalismo e contestualismo
nell’età contemporanea, prefazione a M. Kaufmann, Anarchia illuminata. Una
introduzione alla filosofia politica, Napoli, Liguori, 2007, pp. XI-XXI. 960 –
Verità e storicità nella metafisica dell’espressione di Nicol, prefazione a E.
Nicol, Metafisica dell’espressione, traduzione, introduzione e cura di M.L.
Mollo, Napoli, La Città del Sole, 2007, pp. 9-26. 961 – La Pedagogia come etica
civile, premessa a S. Valitutti, La rivoluzione giovanile, Roma, Armando, 2007,
pp. V-X. 962 – Presentación di J.M. Sevilla, El Espejo de la época. Capítulos
sobre G. Vico en la cultura hispánica, Napoli, La città del Sole, 2007, pp.
13-16. 963 – Prefazione (in collab. con V. Gessa Kurotschka) a G. Cacciatore,
V. Gessa Kurotschka (a cura di), Saper umani e consulenza filosofica, Roma,
Meltemi, 2007, pp. 9-11. 964 – Presentazione di G. Magnano San Lio, Forme del
sapere e struttura della vita. Per una storia del concetto di Weltanschauung.
Dopo Dilthey, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2007, pp. 7-9. 965 – Fulvio
Tessitore. Lo storicismo come filosofia dell’evento. Dialogo filosofico a cura
di G. Cacciatore, in «Iride», XX, 2007, n. 52, pp. 483-529. G) 966 – Vacca, il
riformismo italiano in odore di controriformismo, in «Corriere del
Mezzogiorno», 14 gennaio 2007. 967 – Una svolta necessaria, in «Corriere del
Mezzogiorno», 16 gennaio 2007. 968 – Nuove professioni. Il filosofo diventa
consulente etico, in «Corriere del Mezzogiorno», 21 gennaio 2007. 969 – Zero
centrocampisti. È l’ultimo schema, in «Corrie- 107 re del Mezzogiorno», 30
gennaio 2007. 970 – Tutte soluzioni tampone, ma per tre anni nessuno ha pensato
ai lavori, in «Corriere del Mezzogiorno», 14 febbraio 2007. 971 – La
presunzione a volte gioca brutti scherzi, in «Corriere del Mezzogiorno», 20
marzo 2007. 972 – Dovremo sorbirci un altro anno di C, in «Corriere del
Mezzogiorno», 27 marzo 2007. 973 – Squadra senza muscoli e senza dignità, in
«Corriere del Mezzogiorno», 3 aprile 2007. 974 – È bene riflettere solo sul
futuro, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 aprile 2007. 975 – Relativismo e relatività
nel dibattito filosofico contemporaneo, in «Corriere del Mezzogiorno», 17
maggio 2007 [anche in Come alla corte di Federico II, 8, Università di Napoli
Federico II, 2007, pp. 17-18]. 976 – Diversità e tolleranza, una lunga storia
europea, in «Corriere del Mezzogiorno», 16 giugno 2007. 977 – Due volumi in
onore dei settant’anni di Fulvio Tessitore, in «Corriere del Mezzogiorno», 23
giugno 2007. 978 – Venezuela: a proposito di un articolo di Pierluigi Battista,
in «Liberazione», 19 agosto 2007. 979 – Carlo Pisacane, il volto democratico e
socialista del Risorgimento, in «Liberazione», 22 agosto, 2007. 980 – Vi spiego
perché di calcio non scrivo più, in «Corriere del Mezzogiorno», 26 agosto 2007.
981 – Chavez e la visione apocalittica della stampa italiana, in «Liberazione»,
26 agosto 2007. 982 – De Luca va oltre i poli, ma per rafforzare se stesso, in
«Corriere del Mezzogiorno», 28 settembre 2007. 983 – Valitutti, l’etica che
diventa azione politica, in «Il Mattino» (cronaca di Napoli), 30 settembre 2007
[anche su «Il Mattino», cronaca di Salerno, 1 ottobre 2007]. 984 – Apriamo un
dibattito serio ed informato sulla riforma della Costituzione di Chavez, in
«Liberazione», 21 novembre 2007. 108 985 – Valitutti e la scuola nel libro di
Ietto, in «Corriere del Mezzogiorno» (ed. di Salerno), 30 novembre 2007. 986 –
La lezione democratica e il caudillo inesistente, in «Liberazione», 4 dicembre
2007. * * * 2008 A) 987 – G. Cacciatore, P. Colonnello, S. Santasilia (a cura
di), Ermeneutica tra Europa e America Latina, Roma, Armando Editore, 2008. 988
– G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Momenti della filosofia civile
italiana, Napoli, La Città del Sole, 2008. 989 – G. Cacciatore, I. Gallo, A.
Placanica (a cura di), Storia di Salerno, 3 voll., Avellino, Sellino Editore,
2008. 990 – G. Cacciatore, L. Rossi (a cura di), Salerno in età contemporanea,
vol. III di Storia di Salerno, a cura di G. Cacciatore, I. Gallo, A. Placanica,
Avellino, Sellino Editore, 2008. B) 991 – Ermeneutica e interculturalità, in G.
Cacciatore, P. Colonnello, S. Santasilia (a cura di), Ermeneutica tra Europa e
America Latina, Roma, Armando Editore, 2008, pp. 49-60. 992 – Ermeneutica e
interculturalità, in G. Coccolini (a cura di), Interculturalità come sfida.
Filosofi e teologi a confronto, Bologna, Dehoniana Libri/Pardes Edizioni, 2008,
pp. 227-244. 993 – Geschichte zwischen Leben und Struktur. Die Zweideutigkeit
der Sprache der Geschichte bei Dilthey, in G. 109 Kühne-Bertram, F. Rodi
(hrsg.), Dilthey und die hermeneutische Wende in der Philosophie.
Wirkungsgeschichtliche Aspekte seines Werkes, Göttingen, Vandenhoeck und
Ruprecht, 2008, pp. 119-136. 994 – Una filosofía para América Latina, in S.
Sevilla (ed.), Visiones sobre un transterrado. Afán de saber acerca de José
Gaos, Madrid-Frankfurt a. M., IberoamericanaVervuert, 2008, pp. 181-201. 995 –
Età della storia ed età dell’uomo in Vico: fanciullezza, decadenza e rinascita
delle nazioni, in S. Ciurlia, E. De Bellis, G. Iaccarino, A. Novembre, A.
Paladini (a cura di), Filosofia e storiografia. Studi in onore di Giovanni
Papuli, vol. II, L’età moderna, Lecce, Congedo Editore, 2008, pp. 17-25. 996 –
Editoriale, in «Logos», n.s., n. 2-3, 2007-2008, pp. 7-8. 997 – Universalismo
senza arroganza, in «Reset», n. 108, 2008, pp. 54-58. 998 – Praxis si istorie
la Sartre, in A. Neacsu (coord.), Sartre în gândirea contemporanea, Craiova,
Editura Universitaria, 2008, pp. 32-44. 999 – Note su Cenni e voci. Saggi di
sematologia vichiana di J. Trabant, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», XXXVIII, 2008, n. 1, pp. 171-183. 1000 – L’immutato amore per gli
apostoli del socialismo, in C. Raia (a cura di), Per Gaetano Arfé.
Testimonianze, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2008, pp. 48-53. 1001 –
Cultura e strutture del sapere tra Ottocento e Novecento (in collab. con L.
Rossi) in G. Cacciatore, L. Rossi (a cura di), Storia di Salerno, vol. III,
Salerno in età contemporanea, Avellino, Sellino Editore, 2008, pp. 235-243.
1002 – Forme e figure dell’ingegno in Cervantes e Vico, in «Rocinante. Rivista
di filosofia iberica e iberoamericana», III, 2007-2008, n. 3, pp. 13-24. 1003 –
Percorsi della filosofia italiana nell’opera di Santucci, in W. Tega, L. Turco
(a cura di), Un illuminismo scettico. La ricerca filosofica di Antonio
Santucci, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 19-41. 110 1004 – Giambattista Vico e
Vincenzo Cuoco nella tradizione della filosofia civile italiana (in collab. con
M. Martirano), in G. Minichiello, C. Gily (a cura di), Il pensiero politico
meridionale, “Centro di Ricerca Guido Dorso”, Annali 2007, Avellino, Edizioni
del Centro Dorso, 2008, pp. 219-235, 1005 – Una nuova edizione di Teoria e
storia della storiografia di Benedetto Croce, in «Archivio di storia della
cultura», XXI, 2008, pp. 267-272. 1006 – Per il settantesimo compleanno di
Fulvio Tessitore, in «Archivio di storia della cultura», XXI, 2008, pp.
373-376. 1007 – Elias Canetti: la vita delle parole, in E. De Conciliis (a cura
di), La provincia filosofica. Saggi su Elias Canetti, Milano, Mimesis, 2008,
pp. 157-176. 1008 – Carlo Pisacane. Socialismo e Risorgimento, in «Rassegna
Storica Salernitana», n. 49, 2008, pp. 163-173. 1009 – Genesi, crisi e
trasformazione della filosofia civile italiana, in G. Cacciatore, M. Martirano
(a cura di), Momenti della filosofia civile italiana, Napoli, La Città del
Sole, 2008, pp. 9-18. 1010 – Filosofia “civile” e filosofia “pratica” in
Giambattista Vico, in G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Momenti della
filosofia civile italiana, Napoli, La Città del Sole, 2008, pp. 21-43. 1011 –
La filosofia civile nello storicismo di Antonio Labriola, in G. Cacciatore, M.
Martirano (a cura di), Momenti della filosofia civile italiana, Napoli, La
Città del Sole, 2008, pp. 233-252. 1012 – Carlo Pisacane: Socialismo e
Risorgimento, in R. Diana (a cura di), Il pensiero civile a Napoli fra
Ottocento e Novecento, Napoli, Il Denaro Libri, 2008, pp. 59-77. 1013 – Croce:
l’idea di Europa tra crisi e trasformazione, in R. Diana (a cura di), Il
pensiero civile a Napoli fra Ottocento e Novecento, Napoli, Il Denaro Libri,
2008, pp. 189-215. 1014 – Etica filosofica ed etica politica in Giovanni
Amendola, in R. Diana (a cura di), Il pensiero civile a Napoli fra 111
Ottocento e Novecento, Napoli, Il Denaro Libri, 2008, pp. 217-229. 1015 –
L’unità di storia filologica e logica speculativa. Gentile e la storia della
filosofia, in R. Lazzari, M. Mezzanzanica, S. Storace (a cura di) Vita,
concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo Marini, Mimesis,
Milano, 2008, pp. 51-60. 1016 – Ancora sul positivismo e la storia, in G. Bentivegna,
F. Coniglione, G. Magnano San Lio (a cura di), Il positivismo italiano: una
questione chiusa?, Acireale-Roma, Bonanno, 2008, pp. 14-26. 1017 – Giovanni
Cuomo. Le istituzioni culturali e la nascita del Magistero, in V. Bonani (a
cura di), Giovanni Cuomo. Una vita per Salerno e il Mezzogiorno, Salerno,
Editrice Gaia, 2008, pp. 101-108. 1018 – Il posto dell’Oriente nel pensiero di
Vico, in D. Armando, F. Masini, M. Sanna (a cura di), Vico e l’Oriente: Cina,
Giappone, Corea, Roma, Tiellemedia Editore, 2008, pp. 25-35. 1019 – Filosofia e
crisi in Ortega e Nicol, in G. M. Pizzuti (a cura di), Studi in onore di Ciro
Senofonte, Napoli, ESI, 2008, pp. 13-28. 1020 – Universalismo etico e
differenza: a partire da Vico, in «Bollettino del Centro di Studi vichiani»,
XXXVIII, 2/2008, pp. 7-26. 1021 – L’oggetto della scienza in Vico, in G.
Federici Vescovini, O. Rignani (a cura di), Oggetto e spazio: fenomenologia
dell’oggetto, forma e cosa dai secoli XIII-XIV ai postcartesiani, Firenze,
Sismel Edizioni, 2008, pp. 227-240. 1022 – La logica poetica e l’identità
meticcia. Note sul nesso tra immaginazione, identità e interculturalità, in V.
Gessa Kurotschka, C. De Luzenberger (a cura di), Immaginazione etica
interculturalità, Milano, Mimesis, 2008, pp. 213-229. 1023 – Storia e marxismo
in Sartre, in G. Farina (a cura di), Sartre après Sartre, Torino, Aragno, 2008,
pp. 215-226. 1024 – Universalismo etico y diferencia: a partir de Vico, in
«Cuadernos sobre Vico», nn. 21-22, 2008, pp. 57-72. 112 F) 1025 – Introduzione
(in collab. con L. Rossi) a Storia di Salerno, vol. III, Salerno in età
contemporanea, Avellino, Sellino Editore, 2008, pp. 15-19. 1026 – Introduzione
a G. Buono (a cura di), Contigo aprendí. Studi iberici e iberoamericani in
onore di Antonio Scocozza, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2008, pp. 9-13.
1027 – Fulvio Tessitore. Lo storicismo come filosofia dell’evento. Dialogo
filosofico a cura di G. Cacciatore, in F. Tessitore, Per una critica di me
stesso. I vent’anni dell’Archivio di storia della cultura, Acireale-Roma,
Bonanno Editore, 2008, pp. 9-66. 1028 – Prefazione a P. Di Vona, L’ontologia
dimenticata. Dall’ontologia spagnola alla Critica della ragion pura, Napoli, La
Città del Sole, 2008, pp. 7-11. 1029 – Premessa (in collab. con M. Martirano) a
G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Momenti della filosofia civile
italiana, Napoli, La Città del Sole, 2008, pp. 7-8. 1030 – Presentazione (in
collab. con P. Di Giovanni) a P. Di Giovanni (a cura di), La cultura filosofica
italiana attraverso le riviste (1945-2000), vol. II, Milano, Franco Angeli,
2008, pp. 7-8. G) 1031 – Giunte nuove, sono d’accordo, in «Corriere del
Mezzogiorno», 8 gennaio 2008. 1032 – “Guernica 1937”, un pezzo di storia che
spiega il Novecento, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 gennaio 2008. 1033 – Il
socialismo affronta la globalizzazione, in «Corriere del Mezzogiorno», 8
febbraio 2008. 1034 – D’Agostino e la Salerno yiddish, in «Corriere del
Mezzogiorno», 16 febbraio 2008. 1035 – Il mercato cancellò la politica, in
«Roma», 9 marzo 2008. 113 1036 – Promessa mantenuta. E adesso arrivederci in
serie A, in «Corriere del Mezzogiorno», 29 aprile 2008. 1037 – Teologia
politica. Il nuovo pericolo per l’Occidente, in «Il Mattino» (Cultura Napoli),
1 giugno 2008. 1038 – L’emergenza della fame, in «Roma», 8 giugno 2008. 1039 –
PD campano, afasia totale, in «Roma», 15 giugno 2008. 1040 – Le due virtù della
politica, in «Roma», 22 giugno 2008. 1041 – Sopportare, c’è un limite, in
«Roma», 29 giugno 2008. 1042 – Università nel mirino, in «Roma», 6 luglio 2008.
1043 – Eutanasia, ieri e oggi, in «Roma», 13 luglio 2008. 1044 – Una chance per
rinascere, in «Roma», 20 luglio 2008. 1045 – Mezzogiorno, ora si svolti, in
«Roma», 27 luglio 2008. 1046 – Dai militari alla fiducia, in «Roma», 3 agosto
2008. 1047 – Olimpiadi tra sport e politica, in «Roma», 10 agosto 2008. 1048 –
La brutta fine della sinistra senza più idee, in «Roma», 17 agosto 2008. 1049 –
Torniamo alla realtà, in «Roma», 24 agosto 2008. 1050 – Il meridione e la
scuola, in «Roma», 31 agosto 2008. 1051 – Caso Englaro, non cambia nulla, in
«Roma», 7 settembre 2008. 1052 – Ora si teme un effetto boomerang, in «Roma»,
10 settembre 2008. 1053 – Via gli slogan dalla scuola, in «Roma», 14 settembre
2008. 1054 – Kalashnikov e zone franche, in «Roma», 21 settembre 2008. 1055 –
Un’analisi spietata senza risentimento, in «Corriere del Mezzogiorno», 23
settembre 2008. 1056 – L’economia? La sinistra parli, in «Roma», 28 settembre,
2008. 1057 – Psicosi razzista: limiti culturali, più che politici, in «Roma»,
12 ottobre 2008. 1058 – Vitiello interpreta Vico tra storia sacra e profana, in
«Corriere del Mezzogiorno», 26 ottobre 2008. 114 1059 – Cara sinistra, non solo
cortei, in «Roma», 26 ottobre 2008. 1060 – Sì a Obama per l’economia, in
«Roma», 2 novembre 2008. 1061 – Atenei, mai più risse e steccati, in «Roma», 9
novembre 2008. 1062 – Eluana, norme e poco clamore, in «Roma», 16 novembre
2008. 1063 – Lévi-Strauss: cent’anni di vita, in «Roma», 23 novembre 2008. 1064
– Inquietudini dall’Oriente, in «Roma», 3 dicembre 2008. 1065 – Commissariare
il Comune e la Regione, in «Roma», 7 dicembre 2008. 1066 – Umanità, ferite e
diritti violati, in «Roma», 14 dicembre 2008. 1067 – PD, a chi serve tenerlo in
vita?, in «Roma», 21 dicembre 2008. 1068 – 2009: povertà in agenda, in «Roma»,
28 dicembre 2008. * * * 2009 A) 1069 – L’infinito nella storia. Saggi su Vico,
con una postfazione di V. Vitiello, Napoli, Edizioni scientifiche italiane,
2009. 1070 – G. Cacciatore, A. Di Miele (a cura di), In ricordo di un maestro.
Enzo Paci a trent’anni dalla morte, Napoli, Scripta Web, 2009. 115 B) 1071 –
Tango: tra filosofia di vita e intercultura, in «Cultura Latinoamericana», n.
8-9, 2006-2007 [editi nel 2009], pp. 493-502. 1072 – Universalismo e
particolarismo, oggi. Un punto di vista filosofico, in A. Pirni (a cura di),
Logiche dell’alterità, Pisa, ETS, 2009, pp. 157-169. 1073 – Intercultura e
diritti di cittadinanza, in «Pedagogia più Didattica», 2, aprile 2009, pp.
19-25. 1074 – Fenomenologia esistenzialismo storicismo (in collab. con G. Cantillo),
in G. Cacciatore, A. Di Miele (a cura di), In ricordo di un maestro. Enzo Paci
a trent’anni dalla morte, Napoli, Scripta Web, 2009, pp. 9-39. 1075 – Vico tra
Storicismo e Historismus, in «Philosophia. Bollettino della Società Italiana
degli storici della filosofia», I, 2009, 1, pp. 113-131. 1076 – Momenti della
filosofia napoletana attraverso le riviste, in A. Garzya (a cura di), Le
riviste a Napoli dal XVIII secolo al primo Novecento, “Quaderni dell’Accademia
Pontaniana”, 53, 2008 [uscito nel 2009], pp. 63-73. 1077 – “Rivoluzione
passiva” e critica del presente, in «Logos», n.s., n. 4-5, 2009-2010, pp.
351-356. 1078 – La “duplice fiamma della vita”. Divagazioni filosofiche su
amore e desiderio, in A. Amendola, E. D’Agostino, S. Santonicola (a cura di),
Il desiderio preso per la coda, Salerno, Plectica, 2009, pp. 11-33. 1079 – La
philosophie de l’historisme de Vincenzo Cuoco, in M. Boussy (éd.), Vincenzo
Cuoco. Des Origines politiaques du XIXe siècle, Paris, Publications de la
Sorbonne, 2009, pp. 183-194. 1080 – Universalismo e particolarismo, oggi. Un
punto di vista filosofico, in «Archivio di storia della cultura», XXII, 2009,
pp. 321-331. 1081 – Vico, in F. Coniglione, M. Lenoci, G. Mari, G. Polizzi (a
cura di), Manuale di base di storia della filosofia, Firenze, University Press,
2009, pp. 101-110. 116 1082 – Pratiche filosofiche (in collab. con V. Gessa
Kurotscka), in F. Coniglione, M. Lenoci, G. Mari, G. Polizzi (a cura di),
Manuale di base di storia della filosofia, Firenze, University Press, 2009, pp.
259-261. 1083 – Kant e la “comunità degli uomini”. Note in margine alle pagine
kantiane di Pasquale Salvucci, in N. De Sanctis, N. Panichi (a cura di),
Politicità della filosofia. Atti delle giornate di sudio in memoria di Pasquale
Salvucci, Urbino, Quattroventi, 2009, pp. 25-43. 1084 – “Storia falsa” e libera
critica storica, in «Historia Magistra», I, 2009, n. 2, pp. 173-178. 1085 –
Eduardo Nicol. Una filosofía del hombre entre metafísica de la expresión e
histoicidad crítica, in R. Horneffer (ed.), Eduardo Nicol (1907-2007).
Homenaje, México, UNAM, 2009, pp. 59-74. 1086 – Voce Benedetto Croce, in G.
Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, 2009, pp.
186-190. 1087 – Voce Soggettivo, soggettivismo, soggettività, in G. Liguori, P.
Voza (a cura di), Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, 2009, pp. 778-780. 1088
– Voce Storicismo, in G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario Gramsciano,
Roma, Carocci, 2009, pp. 814-818. 1089 – Voce Universale, in G. Liguori, P.
Voza (a cura di), Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, 2009, p. 874. 1090 –
Europa e Mediterrandeo tra identità e interculturalità, in «Civiltà del
Mediterraneo», n. 15, giugno 2009, pp. 117-132. 1091 – Contributo in Note su
Vico Storia natura linguaggio, di V. Vitiello, in «Bollettino del Centro di
studi vichiani», XXXIX, 2/2009, pp. 110-113. C) 1092 – Recensione di S.
Woidich, Vico und die Hermeneutik. Eine rezeptionsgeschichtliche Annäherung,
Würzburg, Koenigshausen und Neumann, 2007, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», XXXIX, 2/2009, pp. 173-178. 117 D) 1093 – Scheda di C. Pinto, Il
riformismo possibile. La grande stagione delle riforme: utopie, speranze realtà
(1945- 1964), Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2008, in «Historia Magistra»,
n. 1, 2009, p. 169. F) 1094 – Presentazione (in collab. con A. Di Miele) di G.
Cacciatore, A. Di Miele (a cura di), In ricordo di un maestro. Enzo Paci a
trent’anni dalla morte, Napoli, Scripta Web, 2009, pp. 7-8. 1095 – Prefazione a
A. Manzi, Un sacco brutto. Trentuno tesi sulla Napoli del degrado, Sarno (Sa),
Edizioni dell’Ippogrifo, 2009, pp. 7-12. 1096 – Premessa a F. Perricelli (a
cura di), Miti, antimiti e storie al femminile nelle letterature e nelle
culture ispaniche, Salerno, Edizioni Arcoiris, 2009, pp. 9-10. G) 1097 –
Napoli, la crisi e la via d’uscita di Napolitano, in «Roma», 4 gennaio 2009.
1098 – Solo lo tsunami li spazzerà via, in 1«Roma», 1 gennaio 2009. 1099 –
Guerre vere e baruffe TV, in «Roma», 18 gennaio 2009. 1100 – Lo storico umbro
Salvatorelli e la ricca eredità dell’antifascismo, in «Corriere del
Mezzogiorno», 23 gennaio 2009. 1101 – Con Obama, oltre il buio, in «Roma», 25
gennaio 2009. 1102 – I cattolici napoletani dal moderatismo al partito
popolare, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 gennaio 2009. 118 1103 – Lo
“sfasciume” del nostro Sud, in «Roma», 1 febbraio 2009. 1104 – È una sinistra
ormai immobile, in «Roma», 22 febbraio 2009. 1105 – I migliori anni del PCI nel
libro di Colasante, «Corriere del Mezzogiorno», 25 febbraio 2009. 1106 – Città
discariche e incubo ronde, in «Roma», 1 marzo 2009. 1107 – Contraddizioni
globali e soluzioni locali: l’integrazione possibile, in «Corriere del
Mezzogiorno», 4 marzo 2009. 1108 – Città in crisi, antiche colpe, in «Roma», 15
marzo 2009. 1109 – Piazza fatua e politica out, in «Roma», 22 marzo 2009. 1110
– Il PD sempre nel tunnel, in «Roma», 29 marzo 2009. 1111 – Nuove identità per
i moderati, in «Roma», 5 aprile 2009. 1112 – Non si ripetano vecchi scenari, in
«Roma», 19 aprile 2009. 1113 – Sinistra a picco perché rimuove i bisogni veri,
in «Roma», 10 maggio 2009. 1114 – Stato, partiti e tanti conflitti, in «Roma»,
17 maggio 2009. 1115 – Parlate un pò dell’Europa, in «Roma», 31 maggio 2009.
1116 – Obama: mai negare la storia, in «Roma», 7 giugno 2009. 1117 – Un’occasione
per riflettere, in «Roma», 9 giugno 2009. 1118 – Calcio-spettacolo e mezze
verità, in «Roma», 14 giugno 2009. 1119 – La questione cattolica e il caso
Napoli, in «Il Mattino» (cronaca di Napoli), 23 giugno 2009. 1120 – La Napoli
del degrado in 31 voci, in «Roma», 2 luglio 2009. 119 1121 – Sicurezza sì,
emotività no, in «Roma», 5 luglio 2009. 1122 – Il Papa, l’etica e il mercato,
in «Roma», 12 luglio 2009. 1123 – Se il Sud perde anche i cervelli, in «Roma»,
19 luglio 2009 1124 – Lo scandalo del “Crescent”, in «Roma», 26 luglio 2009.
1125 – Crescent: siamo alla bega strapaesana, in «Cronache del Mezzogiorno», 31
luglio 2009. 1126 – Il mare, un limite e un confine, «Roma», 5 settembre 2009.
1127 – Salerno, dal locale al globale (in collab. con L. Rossi), in «Roma», 26
settembre 2008. 1128 – Il nuovo tempo della politica, in «Roma», 27 settembre
2009. 1129 – Nuovi riflettori sul povero sud, in «Roma», 4 ottobre 2009. 1130 –
Democrazia senza eccessi, in «Roma», 11 ottobre 2009. 1131 – Nella riflessione
morale il riscatto del paese, in «Roma», 27 ottobre 2009. 1132 – L’ateneo non è
un’azienda, in «Roma», 1 novembre 2009. 1133 – Il muro cadde, ripartiamo da lì,
in «Roma», 8 novembre 2009. 1134 – Avanza la fame, non c’è giustizia, in
«Roma», 22 novembre 2009. 1135 – Disoccupazione oltre il dramma, in «Roma», 6
dicembre 2009. 1136 – L’individuo e la comunità: l’etica secondo Cantillo, in
«Roma», 20 dicembre 2009. 1137 – Il consulente filosofico? Ecco a che cosa
serve (in collab. con R. Viti Cavaliere), in «Corriere del Mezzogiorno», 20
dicembre 2009. 1138 – Niente sinistra senza cultura, in «Roma», 20 dicembre
2009. 120 1139 – Quando i partiti perdono grinta, in «Roma», 27 dicembre 2009.
* * * 2010 A) 1140 – G. Cacciatore, G. D’Anna (a cura di), Interculturalità. Tra
etica e politica, Roma, Carocci, 2010. 1141 – G. Cacciatore, G. Cantillo, A
quattro mani. Saggi di filosofia e storia della filosofia, a cura di M.
Martirano, Salerno, Edizioni Marte, 2010. 1142 – G. Cacciatore, R. Diana (a
cura di), Interculturalità. Religione e teologia politica, Napoli, Guida, 2010.
1143 – Fatti Analisi Opinioni. Scritti giornalistici (1989- 2009), a cura di M.
Martirano e R. Diana, introduzione di F. Tessitore, premessa di F. Lomonaco,
Salerno, Editrice Gaia, 2010. B) 1144 – Etica interculturale e universalismo
“critico”, in G. Cacciatore, G. D’Anna (a cura di), Interculturalità. Tra etica
e politica, Roma, Carocci, 2010, pp. 29-42. 1145 – Hegel e la metafora, in
«Rivista di storia della filosofia», LXV1, 2010, pp. 123-129. 1146 – Ricordo di
Umberto, in Aa.Vv., Ad Umberto, la sua CGIL, Salerno, Tipografia Fusco, 2010,
pp. 3-5. 1147 – Filosofia come istituzione?, in G. Macrì, A. Scocozza (a cura
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storicismo critico, in G. Po- 121 lizzi (a cura di), Tornare a Gramsci. Una
cultura per l’Italia, Grottaferrata (RM), Avverbi Edizioni, 2010, pp. 197-212.
1149 – Filosofia e crisi in Ortega e Nicol, in E. Schafroth, C. Schwarzer, D.
Conte (hrsg), Krise als Chance aus historischer und aktueller Perspektive,
Oberhausen, Athena, 2010, pp. 349-363. 1150 – L’immaginario viaggio di Platone
in Italia. Vincenzo Cuoco e il suo romanzo filosofico, in M. Bettetini, S.
Poggi (a cura di), I viaggi dei filosofi, Milano, Raffaello Cortina, 2010, pp.
177-193. 1151 – Lo storicismo nell’“Archivio”, in G. Bentivegna (a cura di),
«Archivio di storia della cultura». I primi vent’anni, Acireale-Roma, Bonanno
Editore, 2010, pp. 13-16. 1152 – Ricoeur: una filosofia critica della storia
per il mondo contemporaneo, in «Discipline filosofiche», XX, 2010, 1, pp.
69-91. 1153 – L’etica della libertà tra relativismo e pluralismo. Su Isaiah
Berlin, in D. Bosco, R. Garaventa, L. Gentile, C. Tuozzolo (a cura di), Logica,
ontologia ed etica. Studi in onore di Raffaele Ciafardone, Milano, Franco
Angeli, 2010, pp. 139-153. 1154 – Il mare metafora del limite e del confine, in
P. Volpe, S. Amendola (a cura di), Il Mare e il Mito, Napoli, D’Auria Editore,
2010, pp. 39-65 [anche in R. Bufalo, G. Cantarano, P. Colonnello (a cura di),
Natura Storia Società. Studi in onore di Mario Alcaro, Milano-Udine, Mimesis,
2010, pp. 49-66]. 1155 – Europa y el Mediterráneo entre identidad e
interculturalidad, in E. Nájera Pérez, F.M. Pérez Herranz (eds.), La filosofía
y la identidad europea, Valencia, Colleción Filosofías, 2010, pp. 23-36. 1156 –
Croce e Gentile: la funzione degli intellettuali e l’uso della storia italiana,
in A. D’Orsi, F. Chiarotto (a cura di), Intellettuali. Preistoria, storia e
destino di una categoria, Torino, Aragno, 2010, pp. 477-492. 1157 – Identità
ibride e memoria, in «Iride», XXIII, 2010, n. 60, pp. 365-376. 122 1158 – Verso
una nuova politica della memoria, in «Historia Magistra», n. 4, 2010, pp.
158-161. 1159 – Filosofia come istituzione?, in A. Borsari, M. Ciavolella (a
cura di), Navigatio vitae. Saggi per i settant’anni di Remo Bodei, New York,
Agincourt Press, 2010, pp. 257-267. 1160 – Eduardo Nicol. Una filosofia
dell’uomo tra metafisica dell’espressione e storicità critica, in G. Limone (a
cura di), Filosofia italiana e spagnola. Dialogo interculturale. Saggi in onore
di Armando Savignano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2010,
pp. 27-39. 1161 – Altri autori del Vico (in collab. con M. Sanna), in F.M.
Crasta (a cura di), Biblioteche filosofiche private in età moderna e
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Socialismo e Risorgimento, in C. Pinto, L. Rossi (a cura di), Tra pensiero e
azione: una biografia politica di Carlo Pisacane, Salerno, Plectica, 2010, pp.
441-463. 1163 – In ricordo di Stephan Otto, in «Bollettino del Centro di studi
vichiani», XL, 2010, 2, pp. 7-12. 1164 – Nota su E. Nuzzo, Tra religione e
prudenza. La filosofia pratica di Giambattista Vico, in «Bollettino del Centro
di studi vichiani», XL, 2010, 2, pp. 75-80. 1165 – L’etica filosofica di
Abbagnano: dalle sorgenti irrazionali del pensiero al neoilluminismo, in W.
Tega (a cura di), Impegno per la ragione. Il caso del neoilluminismo, Bologna,
Il Mulino, 2010, pp. 71-89. 1166 – Vico: narración histórica y narración
fantástica, in «Cuadernos sobre Vico», vol. 23/24, 2009-2010, pp. 15-31. 1167 –
Presentación de J.M. Sevilla, El Espejo de la época. Capitulos sobre Vico en la
cultura hispánica (1737-2005), in «Cuadernos sobre Vico», vol. 23/24,
2009-2010, pp. 189-192. 1168 – Einführung zu “Normativität und Gesellschaft”
von Pietro Piovani, in P. Piovani, Normativität und Gesellschaft –
Naturrechtslehre und moderne Ethik, aus dem Italienischen übersetzt und hrsg.
von M.W. Hebeisen, “Ausgewählte Werke von Pietro Piovani in deutscher 123
Übersetzung”, II Abteilung, Band 6, Schweizerischer Wissenschafts und
Universitätsverlag, Biel, 2010, pp. 13-50. 1169 – Formas y figuras del ingenio
en Cervantes y Vico, in M.M. Arce Sáinz, J. Velázquez Delgado, G. De La Fuente
Lora (eds.), Barroco y Cultura Novohispana, Universidad de Puebla, México,
Ediciones EON, 2010, pp. 21-46. 1170 – Vita e storia tra Zubiri e Dilthey, in
«Rocinante. Rivista di filosofia iberica e iberoamericana», n. 5/2010, pp.
101-108. 1171 – Democrazia, liberalismo, socialismo nel pensero di Giovanni
Amendola, in «Lyceum», n. 40, 2010, pp. 57-61. E) 1172 – El gran majadero de
América. Simón Bolívar: pensamiento político y constitucional, edición a cargo
de G. Cacciatore y A. Scocozza, Bogotá, Editorial Planeta, 2010. F) 1173 –
Dentro le differenze: riflessioni sull’etica interculturale (in collab. con G.
D’Anna), introduzione a G. Cacciatore, G. D’Anna (a cura di), Interculturalità,
Tra etica e politica, Roma, Carocci, 2010, pp. 9-26. 1174 – Presentazione (in
collab. con R. Diana) di G. Cacciatore, R. Diana (a cura di), Interculturalità.
Religione e teologia politica, Napoli, Guida, 2010, pp. 7-10. 1175 – Introduzione
a G. Cacciatore, R. Diana (a cura di), Interculturalità. Religione e teologia
politica, Napoli, Guida, 2010, pp. 11-40. 1176 – Prefazione di A. Mascolo, La
vertigine del nulla. Nichilismo e pensiero tragico in Ángel Ganivet,
AcirealeRoma, Bonanno Editore, 2010, pp. 9-11. 1177 – Prefazione a U. Baldi,
Prima che altro silenzio entri negli occhi. Storie di salernitani
dall’antifascismo alla Resistenza, Quaderni dell’Istituto Oliva, n. 1, 2010,
pp. 7-11. 124 1178 – Introduzione a P. Piovani, Normatività e società, in Id.,
Per una filosofia della morale, a cura di F. Tessitore, Milano, Bompiani, 2010,
pp. 49-82. 1179 – Premessa a E. Bloch, La filosofia di Kant. Dalle Leipziger
Vorlesungen, trad. it. di V. Scaloni, Milano-Udine, Mimesis, 2010, pp. 7-10. 1180
– Premessa a A. Pezzé, L.Tassi (a cura di), Cinema e letteratura in ambito
iberico e iberoamericano. Giornata di studi in omaggio al prof. Vito Galeota,
Salerno, Edizioni Arcoiris, 2010, pp. VII-IX. G) 1181 – Extracomunitari e
cittadinanza, in «Roma», 10 gennaio 2010. 1182 – Questa sinistra dei due
cowboy, in «Roma», 24 gennaio 2010. 1183 – Mai ideologia tra etica e diritti,
in «Roma», 7 febbraio 2010. 1184 – Se la cultura salverà l’Italia, in «Roma»,
14 febbraio 2010. 1185 – In primo luogo sia la cultura, in «Roma», 21 febbraio
2010. 1186 – Sulla pedofilia solo la verità, in «Roma», 21 marzo 2010. 1187 –
La sanità di Obama e i “primati” italiani, in «Roma», 8 aprile 2010 1188 –
Riforme, l’ora della svolta, in «Roma», 11 aprile 2010. 1189 – PDL, chiarezza.
Mai più “inciuci”. in «Roma», 18 aprile 2010. 1190 – Salerno 1925. Il primo
maggio che sfidò il fascismo, in «Il Mattino» (cronaca di Salerno), 27 aprile
2010. 1191 – Dramma lavoro, riaccendere subito i riflettori, in «Roma», 3
maggio 2010. 1192 – Vitiello, quando l’io riesce a incontare la seconda
persona, in «Corriere del Mezzogiorno», 8 maggio 2010. 125 1193 – Il Trombetti
assessore censurato da una sinistra sguaiata, in «Roma», 19 maggio 2010 1194 –
Troppi tagli alla cultura, in «Roma», 30 maggio 2010. 1195 – Culture, intrecci
nel pallone, in «Roma», 20 giugno 2010. 1196 – Modelli politici in grave crisi,
in «Roma», 4 luglio 2010 1197 – I guasti dei tagli all’Università, in «Roma»,
18 luglio 2010. 1198 – Una cara amicizia. Un rapporto al di là della fede e
della politica, in «Agire», XXXVIII, n. 31, 5 settembre 2010, pp. 1 e 9. 1199 –
Disoccupati, una tragedia, in «Roma», 26 settembre 2010. 1200 – L’Italia
diventi un paese normale, in «Roma», 3 ottobre 2010. 1201 – Le picconate contro
Edwards, in «Roma», 10 ottobre 2010. 1202 – Non c’è futuro senza ricerca, in
«Roma», 17 ottobre 2010. 1203 – Antonio Gramsci, il Risorgimento e la storia
d’Italia, in «Corriere» (quotidiano di Avellino), 17 ottobre 2010, pp. 14-15.
1204 – L’unità, valore che cementa, in «Roma», 24 ottobre 2010. 1205 – Triste
tramonto del Cavaliere, in «Roma», 31 ottobre 2010 1206 – Il mea culpa di
Obama, in «Roma», 7 novembre 2010. 1207 – Troppe tattiche e il paese teme, in
«Roma», 14 novembre 2010. 1208 – Nel cratere ancora sommersi dignità e bene
comune, in «Roma», 24 novembre 2010. 1209 – Benedetto XVI e la modernità, in
«Roma», 27 novembre 2010. 126 1210 – La volgarità di Verdini, in «Roma», 5
dicembre 2010. 1211 – Wikileaks, una sfida per la politica, in «Roma»,12
dicembre 2010. 1212 – Sepe, chance per la politica, in «Roma», 19 dicembre
2010. * * * 2011 A) 1213 – El búho y el cóndor. Ensayos en torno a la filosofía
hispanoamericana, prólogo de A. Scocozza, epílogo, edición y traducción de M.L.
Mollo, Bogotá, Editorial Planeta, 2011. B) 1214 – Neapel und Vico (in collab.
con M. Martirano e M. Sanna), in J. Rohbeck, W. Rother (hrsg.), Die Philosophie
de 18. Jahrhunderts, vol. 3, Italien, (Nuova edizione dello Ueberweg,
“Grundriss der Geschichte der Philosophie”), Schwabe, Basel, 2011, pp. 89-128.
1215 – Su alcuni aspetti della lettura gramsciana di Marx, in M. Cingoli, V.
Morfino (a cura di), Aspetti del pensiero di Marx e delle interpretazioni
successive, Milano, Edizioni Unicopli, 2011, pp. 353-366. 1216 – Per un profilo
di Andrea Sorrentino, in A. Sorrentino, La cultura mediterranea nei Principi di
Scienza Nuova, a cura di A. Scognamiglio, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 2011, pp. 7-13. 1217 – Die Krise des Historismus und die
Unvollständigkeit der Moderne, in S. Wilke (hrsg.), Moderne und Historizität,
Klassik Stiftung Weimar, Weimar, Verlag der Bauhaus-Universität, 2011, pp.
121-133. 127 1218 – La ética de la libertad entre relativismo y pluralismo, in
P. Badillo O’ Farrel (ed.), Filosofía de la razón plural, Madrid, Editorial Biblioteca
nueva, 2011, pp. 71-89. 1219 – Cittadinanza interculturale, in «Cirpit Review»,
n. 2, 2011, pp. 16-26. 1220 – Nuove “frontiere” e nuovi concetti per la storia
della filosofia, in «Philosophia», III, 2/2010 - 1/2011, pp. 13-22. 1221 –
Hybrid Identities and Memory, in «Iris. European Journal of Philosophy and
Public Debate», III, 5, 2011, pp. 113-124. 1222 – Il pensiero “insulare” di
María Zambrano: mito, metafora, immaginazione dell’umanità originaria, in P.
Volpe (a cura di), Sulla rotta di Odisseo… e oltre, Napoli, D’Auria Editore,
2011, pp. 37-52. 1223 – In ricordo di Vanna Gessa Kurotschka, in «Bollettino
del Centro di studi vichiani», XLI, 1/2011, pp. 7-14. 1224 – Gramsci, il
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lumi sparsi, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 283-294. 1225 – Religione, teologia
politica, democrazia, in G. Cunico, D. Venturelli (a cura di), Culture e
religioni: la pluralità e i suoi problemi, Genova, Il Melangolo, 2011, pp.
161-178. 1226 – Sull’immaginazione, in «Bollettino della società filosofica
italiana», n.s., maggio-agosto 2011, n. 203, pp. 3-14. 1227 – Vico, Croce und
der deutsche Historismus, in G. Furnari Luvarà, S. Di Bella (hrsg.), Benedetto
Croce und die Deutschen, Sankt Augustin, Academia Verlag, 2011, pp. 69-81. 1228
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Napoli, Editoriale Scientifica, 2011, pp. 299-330. 1229 – La formazione
politica e culturale di Giorgio Amendola, in G. Cerchia (a cura di), La famiglia
Amendola. Una scelta di vita per l’Italia, Torino, Cerabona Editore, 2011, pp.
251-259. 128 1230 - Gramsci, il Risorgimento e la storia d’Italia, in S.
Azzarà, P. Ercolani, E. Susca (a cura di), Dialettica, storia e conflitto. Il
proprio tempo appreso nel pensiero. Festschrift in onore di Domenico Losurdo,
Napoli, La scuola di Pitagora, 2011, pp. 225-234. 1231 – Verità e filologia.
Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in «Nóema», n.
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Filosofia», CII, 2011, n. 3, pp. 363-380. 1236 – Intercultural Ethics and
“Critical” Universalism, in «Cultura. International Journal of Culture and
Axiology», 8 (2), 2011, pp. 23-38. 1237 – Le filosofie del Risorgimento, in
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la ciencia en Vico, in J. Velázquez Delgado, S. Florencia De la Campa (eds.),
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Autónoma Metropolitana, Biblioteca de Signos, 2011, pp. 21-39. 1239 – Amarante
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romanzo. Dall’oralità alla lettura silenziosa, Roma-Bari, Laterza, 2010, in
«Philosophia», V, 2011, 2, pp. 138-142. 129 G) 1241 – Bene comune e diritti
sacri, in «Roma», 9 gennaio 2011. 1242 – Basta Gossip. Italia a pezzi, in
«Roma», 16 gennaio 2011 [con il titolo Italia a pezzi. Basta Gossip, anche in
«Roma», cronache di Salerno]. 1243 – PCI, una storia contraddittoria, in
«Roma», 25 gennaio 2011. 1244 – Se l’Italia non ha memoria, in «Roma», 30
gennaio 2011 [con il titolo Il giorno della memoria, anche in «Roma», cronache di
Salerno]. 1245 – Il mondo brucia e l’Italia tace, in «Roma», 20 febbraio 2011.
1246 – Unità d’Italia, in «Corriere del Mezzogiorno», 25 febbraio 2011. 1247 –
Atenei si spera in Trombetti, in «Roma», 27 febbraio 2011. 1248 – Toccato il
fondo vadano a casa, in «Roma», 6 marzo 2011. 1249 – Scuola pubblica perno
dell’Italia, in «Roma», 13 marzo 2011. 1250 – Basta pacchianate su Salerno
capitale, in «Corriere del Mezzogiorno», 18 marzo 2011. 1251 – Dopo le
catastrofi ripensare il mondo, in «Roma», 20 marzo 2011. 1252 – Non votiamo chi
imbratta Salerno, «Corriere del Mezzogiorno», 31 marzo 2011. 1253 – Lampedusa
come l’Aquila, in «Roma», 3 aprile 2011. 1254 – Abbagnano, figlio
esistenzialista di un’altra Salerno, in «Corriere del Mezzogiorno» [edizione di
Salerno], 16 aprile 2011. 1255 – Chi controlla i libri di scuola, in «Roma», 17
aprile 2011. 1256 – 25 aprile, Cirielli non perde il vizio, in «Corriere del
Mezzogiorno» [edizione di Salerno], 24 aprile 2011. 130 1257 – Il viaggio di
Tessitore nello storicismo “religiosamente laico”, in «Corriere del
Mezzogiorno», 4 maggio 2011. 1258 – Sud, l’opposizione faccia la sua parte, in
«Roma», 8 maggio 2011. 1259 – Correttezza esemplare [titolo redazionale
incongruo rispetto al contenuto], in «Roma» [edizione di Salerno], 15 maggio
2011. 1260 – Paese sfiduciato e politici distratti, in «Roma», 29 maggio 2011.
1261 – Battisti e l’Italia incompresa, in «Roma», 12 giugno 2011. 1262 – Il
caos è colpa anche della Lega, in «Roma», 26 giugno 2011. 1263 – Una manovra
scellerata, in «Roma», 3 luglio 2011 1264 – Senza lobby di umanisti ma comunque
uniti nella ricerca del futuro (in collab. con F. Lomonaco), in «Corriere del
Mezzogiorno», 6 luglio 2011. 1265 – Una carcassa che va a fondo, in «Roma», 10
luglio 2011. 1266 – Mostri in casa nell’Occidente, in «Roma», 31 luglio 2011.
1267 – Giorni infernali, la scure dei tagli, in «Roma», 7 agosto 2011. 1268 –
Rivolte giovanili, le cause del male, in «Roma», 14 agosto 2011. 1269 –
Giuseppe Amarante, il ricordo negli scritti del grande sindacalista, in
«Corriere del Mezzogiorno», 21 agosto 2011. 1270 – Una manovra spericolata, in
«Roma», 4 settembre 2011. 1271 – Restituiteci il vero Avanti, in «Roma», 18
settembre 2011. 1272 – “Forza gnocca” e le morti bianche, in «Roma», 9 ottobre
2011. 1273 – Indignados e buona politica, in «Roma», 16 ottobre 2011. 131 1274
– E ora la Libia va ricostruita, in «Roma», 23 ottobre 2011. 1275 – Masullo
indaga “la libertà e le occasioni”, in «Roma», 6 novembre 2011. 1276 – Ora il
tempo è scaduto, in «Roma», 13 novembre 2011. 1277 – Nessun “golpe”. Svolta
urgente, in «Roma», 20 novembre 2011. 1278 – Napolitano “risorgimentale”, in
«Roma», 27 novembre 2011. 1279 – Il logo è semplice, perciò a me piace, in
«Corriere del Mezzogiorno», 30 novembre 2011. 1280 – Ma Monti cosa chiede ai
ricchi?, in «Roma», 4 dicembre 2011. 1281 – Attacchi razzisti brutto segnale,
in «Roma», 18 dicembre 2011. * * * 2012 A) 1282 – G. Cacciatore, G. D’Anna, R.
Diana, F. Santoianni (a cura di), Per una relazionalità interculturale. Prospettive
interdisciplinari, Milano-Udine, Mimesis, 2012. 1283 – G. Cacciatore, A.
Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul
pensiero di José Ortega y Gasset, Bergamo, Moretti&Vitali, 2012. B) 1284 –
Alcune riflessioni su storia e bios, in «Logos», n.s., 7, 2012, pp. 193-198.
132 1285 – Universalismus und Partikularismus, heute. Ein philosophischer
Gesichtspunkt, in B. Henry, A. Pirni (hrsg.), Der Asymmetrische Westen. Zur
Pragmatik der Koesistenz pluralistischer Gesellschaften, Bielefeld, Transcript
Verlag, 2012, pp. 25-29. 1286 – Verità e filologia. Prolegomeni ad una teoria
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L’etica come fondamento. Studi in onore di Giuseppe Lissa, Napoli, Giannini Editore,
2012, pp. 71-86. 1287 – Problematizar la razón, a proposito di José M. Sevilla,
Prolegómenos para una crítica de la razón problemática. Motivos en Vico y en
Ortega, in «Revista de Estudios Orteguianos», 24, 2012, pp. 207-211. 1288 –
Socialismo e questione sociale in Carlo Pisacane, in E. Montali (a cura di),
Cattaneo e Pisacane. Gli eroi dimenticati, Roma, Ediesse Fondazione Giuseppe Di
Vittorio, 2012, pp. 29-36. 1289 – «Pensiero vivente» e pensiero storico. Un
paradigma possibile per ripensare la tradizione filosofica italiana, in
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em Cervantes e Vico, in H. Guido, J.M. Sevilla, S. de Amorim e Silva Neto
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Filosofiche, Pedagogiche e Sociali», n. 11, 2012, pp. 7-18. 1293 – Fonti
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del Entendimiento di Andrés Bello, in V. Giannattasio, R. Nocera (a cura di)
1810-1910-2010: l’America Latina tra indipendenza, eman- 133 cipazione e
rivoluzione, «Rivista Italiana di Studi Napoleonici», n.s., XLI, 1-2/2008,
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cittadinanza, in P. Colonnello, Stefano Santasilia (a cura di), Intercultura
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51-64. 1295 – Un profilo di Leopoldo Zea, in «Pagine inattuali. Rivista di
filosofia e letteratura», 1, 2012, pp. 39-49. 1296 – Le filosofie del
Risorgimento, in M. Martirano (a cura di), Le filosofie del Risorgimento,
Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 23-36. 1297 – Per una critica della ragione poetica:
l’“altra” razionalità di Vico, in M. Vanzulli (a cura di), Razionalità e
modernità in Vico, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 109-128. 1298 –
Giambattista Vico, in U. Eco (a cura di), L’età moderna e contemporanea, vol.
9, Il Settecento. L’età dell’Illuminismo. Filosofia, Musica, Roma, La
Biblioteca di Repubblica-L’Espresso, 2012, pp. 276-290. 1299 – Wilhelm Dilthey,
in U. Eco (a cura di), L’età moderna e contemporanea, vol. 11, L’Ottocento.
L’età del Romanticismo. Filosofia, scienze e tecniche, Roma, La Biblioteca di
Repubblica-L’Espresso, 2012, pp. 462-470. 1300 – Per un’idea interculturale di
cittadinanza, in G. Cacciatore, G. D’Anna, R. Diana, F. Santoianni (a cura di),
Per una relazionalità interculturale. Prospettive interdisciplinari, Milano-Udine,
Mimesis, 2012, pp. 11-23. 1301 – Dilthey tra universalismo e relativismo, in
«Giornale critico della Filosofia italiana», VII Serie, vol. VIII, Anno XCI
(XCIII), Fasc. II, 2012, pp. 427-444. 1302 – Il caleidoscopio della mente.
Attività simbolica e mondo storico in Vico e Cassirer, in F. Lomonaco (a cura
di), Simbolo e cultura. Ottant’anni dopo la Filosofia delle forme simboliche,
Milano, Franco Angeli, 2012, pp. 128-140. 1303 – La Religione dello storicismo.
Per avviare il dibattito, in «Archivio di storia della cultura», XXV, 2012, pp.
299-306. 134 1304 – La “zattera della cultura”. Filosofia e crisi in Ortega y
Gasset, in G. Cacciatore, A. Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere.
Prospettive critiche sul pensiero di José Ortega y Gasset, Bergamo,
Moretti&Vitali, 2012, pp. 37-67. 1305 – Das Wesen der Philosophie. La
determinazione del sapere filosofico tra strutture della storia e connessioni
vitali, in D. Bosco, F.P. Ciglia, L. Gentile, L. Risio (a cura di), Testis
fidelis. Studi di filosofia e scienze umane in onore di Umberto Galeazzi,
Napoli, Orthotes, 2012, pp. 85-103. 1306 – Presentazione dei volumi
Interculturalità. Tra etica e politica (a cura di G. Cacciatore e G. D’Anna) e
Interculturalità. Religione e teologia politica (a cura di G. Cacciatore e R.
Diana), in «Rendiconti Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e
Filologiche», anno CDVIII, serie IX, vol. XXII, 2011, fasc. 3-4, Roma, Scienze
e Lettere, 2012, pp. 549-551. 1307 – Alcuni momenti e figure delle accademie
napoletane nel processo di unificazione politica e culturale dell’Italia, in
Aa.Vv., Le accademie nazionali e la storia d’Italia, Atti dei Convegni Lincei
n. 268, Roma, Scienze e Lettere, 2012, pp. 121-132. F) 1308 – Presentazione di
M. Martirano, Filosofia Storia Rivoluzione. Saggio su Giuseppe Ferrari, Napoli,
Liguori Editore, 2012, pp. IX-XII. 1309 – Introduzione di P.G. Turco, Le strade
dell’amore nel mondo. Pensieri e ricordi d’Africa, Salerno, Edizioni Marte,
2012, pp. 9-14. 1310 – Prefazione a G. D’Angelo, La forma dell’acqua. I. La
lenta transizione dal fascismo a Salerno capitale, Salerno, Edizioni del
Paguro, 2012, pp. 9-12. 1311 – Presentazione di A. Di Miele, Antonio Banfi Enzo
Paci: Crisi, Eros, Prassi, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 9-11. 135 1312 –
Introduzione di C. Scudieri, Il balilla va alla guerra, i libri della leda,
s.l., 2012, pp. 3-5. 1313 – Ortega o la coscienza del naufragio, introduzione
(in collab. con A. Mascolo) a G. Cacciatore, A. Mascolo (a cura di), La
vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di José Ortega y
Gasset, Bergamo, Moretti&Vitali, 2012, pp. 11-14. 1314 – Lettera di saluto
del presidente eletto, in «Rassegna storica salernitana», n. 58, 2012, pp.
265-266. G) 1315 – Vincenzo Giordano, sindaco socialista della grande Salerno,
in «L’Agenda di Salerno e provincia», lugliodicembre 2012, pp. 24-26. 1316 – È
sul lavoro la vera sfida, in «Roma», 8 gennaio 2012. 1317 – Il “porcellum” e la
Consulta, in «Roma», 15 gennaio 2012. 1318 – Profitto ingordo e insaziabile, in
«Roma», 22 gennaio 2012. 1319 – Politica e cultura per salvare l’euro, in
«Roma», 29 gennaio 2012. 1320 – Stragi naziste, vittime beffate, in «Roma», 5
febbraio 2012. 1321 – Licenziamenti e giusti motivi, in «Roma», 12 febbraio
2012. 1322 – Il salvataggio della Grecia, in «Roma», 19 febbraio 2012. 1323 –
Ma in futuro torni la politica, in «Roma», 26 febbraio 2012. 1324 - La cultura
sola contro la crisi, in «Roma», 4 marzo 2012. 1325 – Questi partiti da
rinnovare, in «Roma», 11 marzo 2012. 1326 – L’art.18 e i rischi per la
democrazia, in «Roma», 25 marzo 2012. 136 1327 – Ecco i numeri che preoccupano,
in «Roma», 29 aprile 2012. 1328 – I pericoli dell’antipolitica, in «Roma», 6
maggio 2012. 1329 – Ora si pensi alla crescita, in «Roma», 13 maggio 2012. 1330
– Lo spettro del terrorismo, in «Roma», 20 maggio 2012. 1331 – Il Premio
Valitutti, in «La Città», 2 giugno 2012. 1332 – Calcio, vietiamo le scommesse,
in «Roma», 3 giugno 2012. 1333 – Rai, meritato schiaffo ai partiti, in «Roma»,
10 giugno 2012.4 1334 – La corruzione politica dilaga, democrazia verso il
naufragio, in «I Confronti», 17 giugno 2012 [http://www. iconfronti.it]. 1335 –
Medicina, patrimonio da tutelare, in «La Città», 20 giugno 2012. 1336 – Perché
il colle è sotto attacco, in «Il Roma», 24 giugno 2012. 1337 – A D’Agostino
dico: politica imprescindibile per regolare i conflitti, in «I Confronti», 24
giugno 2012 [http:// www.iconfronti.it]. 1338 – I due Mario e gli italiani, in
«Il Roma», 1 luglio 2012. 1339 – Basta Moody’s, facciamo da soli, in «Il Roma»,
15 luglio 2012. 1340 – Quella lotta agli sprechi di Berlinguer, in «La Città»,
20 luglio 2012. 1341 – La riconquista della politica, in «Il Roma», 29 luglio
2012. 1342 – I programmi e le primarie, in «Il Roma», 5 agosto 2012. 1343 –
Crisi, egemonia della “finanza ombra” e nuove sfide della politica, in «I
Confronti», 6 agosto 2012 [http:// www.iconfronti.it]. 137 1344 – Se prevalgono
le urla, in «l’Unità», 17 agosto 2012. 1345 – Germania e Europa si
intenderanno, in «Il Roma», 19 agosto 2012. 1346 – Tra Nord e Sud rapporto
virtuoso, in «Il Roma», 26 agosto 2012. 1347 – La deriva islamica, in «Il
Roma», 16 settembre 2012. 1348 – Sud, dati Svimez e ricette note, in «Il Roma»,
30 settembre 2012. 1349 – Montismo meglio del berlusconismo, in «Il Roma», 7
ottobre 2012. 1350 – Recuperare l’etica in politica, in «Il Roma», 14 ottobre
2012. 1351 – Le strade del mondo. L’Africa di Giorgio Turco luogo dell’anima,
in «La Città», 17 ottobre 2012. 1352 – Primarie PD tra programmi e
giacobinismi, in «La Città», 24 ottobre 2012. 1353 – Berlusconismo, quale
futuro, in «Il Roma», 28 ottobre 2012. 1354 – Il giusto peso della politica, in
«Il Roma», 4 novembre 2012. 1355 – L’idea di De Martino. Unificazione
socialista dell’intera sinistra, in «La Città», 18 novembre 2012. 1356 – Democrazia
da risanare, in «Il Roma», 18 novembre 2012. 1357 – I buoni motivi per votare
Bersani, in «La Città», 23 novembre 2012. 1358 – Limiti e ombre delle primarie,
in «Il Roma», 2 dicembre, 2012. 1359 – Dove ci porta Berlusconi, in «il Roma»,
9 dicembre 2012. 1360 – Centrodestra senza agenda, in «Il Roma», 30 dicembre
2012. * * * 138 2013 A) 1361 – Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche,
presentazione di F. Tessitore, introduzione di G.A. Di Marco, Bologna, Il
Mulino, 2013. 1362 – Problemi di filosofia della storia nell’età di Kant e di
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Aracne, 2013. 1363 – G. Cacciatore, G. D’Anna, R. Diana (a cura di), Mente,
corpo, filosofia pratica, interculturalità. Scritti in memoria di Vanna Gessa
Kurotschka, Milano-Udine, Mimesis, 2013. B) 1364 – Un’etica per la
contemporaneità. Sull’itinerario filosofico di Vanna Gessa Kurotschka, in G.
Cacciatore, G. D’Anna, R. Diana (a cura di), Mente, corpo, filosofia pratica,
interculturalità. Scritti in memoria di Vanna Gessa Kurotschka, Milano-Udine,
Mimesis, 2013, pp. 9-19. 1365 – Das Wesen der Philosophie. Die Bestimmung des
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in G. D’Anna, H. Johach, E.S. Nelson (hrsg.), Anthropologie und Geschichte.
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Königshausen & Neumann, 2013, pp. 53-71. 1366 – Mai più pigrizia da
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Nueva/Grupo Editorial siglo XXI, 2013, pp. 219-234. 1368 – Vico und der
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Heidelberg, Universitätsverlag Winter, 2013, pp. 139-153. 139 1369 – Il ruolo
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«Philosophia», VII, 2/2012 [stampato nel 2013], pp. 165-176. 1370 –
Interculturalità e riconfigurazione concettuale dell’ermeneutica, in
«Bollettino Filosofico», XXVII, 2011- 2012 [stampato nel 2013], pp. 33-41. 1371
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E. Schafroth, M. Nicklaus, C. Schwarzer, D. Conte (hrsg.), Italien,
Deutschland, Europa: kulturelle Identitäten und Interdipendenzen, Oberhausen,
Athena Verlag, 2013, pp. 19-34. 1372 – Oltre l’idealismo. Lo storicismo in
forma negativa, in «Giornale critico della filosofia italiana», XCII, 2013,
fasc. II, pp. 447-455 [anche in «Bollettino Filosofico», 28, 2013, pp. 48-58].
1373 – Die Rolle der Humanenities im Aufbau einer interkulturellen
Gesellschaft, in G. Morrone (hrsg.), Universalität versus Relativität in einer
interkulturellen Perspektive, Nordhausen, Traugott Bautz, 2013, pp. 59-72. 1374
– Transmediterraneo. Un approccio filosofico, in A. Scarabelli, R. Catania
Marrone, D. Balzano (a cura di), Sconfinamenti. Omaggio a Davide Bigalli,
Milano, Bietti, 2013, pp. 59-63. 1375 – La filosofia critica della storia di
Ricoeur: narrazioine, tempo, memoria, in «Atti dell’Accademia nazionale dei
Lincei», serie IX, vol. XXIII, Roma, Ed. Scienze e Lettere, 2013, pp. 51-81.
1376 – Vico, Croce e l’Historismus, in G. Furnari Luvarà, S. Di Bella (a cura
di), Benedetto Croce e la cultura tedesca, Firenze, Le Lettere, 2013, pp.
79-92. C) 1377 – Recensione di D. Losurdo, La Lotta di classe. Una storia
politica e filosofica, Roma-Bari, Editori Laterza, 2013, in «Historia
Magistra», n. 12, 2013, p. 156. 140 F) 1378 – Introduzione a P. Signorino, Per
Europa, Catalogo della mostra, Napoli, Arte’m, 2013, pp. 8-10. 1379 –
Prefazione di R. Diana, Configurazioni filosofiche di Sé. Studi
sull’autobiografia intellettuale di Vico e Croce, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 2013, pp. 5-9. 1380 – Prefazione di E. Todaro, Vorrei ancora,
Salerno, Arti Grafiche Boccia, 2013, pp. 5-7. G) 1381 – Se ritornano destra e
sinistra, in «Il Roma», 6 gennaio 2013. 1382 – Se si ripete ancora il copione
del 2006, in «Il Roma», 13 gennaio 2013. 1383 – Se la filosofia aiuta la
politica, in «Il Roma», 20 gennaio 2013. 1384 – L’idea della storia congeniale
al centrosinistra, in «l’Unità», 23 gennaio 2013. 1385 – La libertà e le
occasioni. Ecco il pensiero di Masullo, in «La Città», 24 gennaio, 2013. 1386 –
L’olocausto e l’indifferenza, in «Il Roma», 27 gennaio 2013. 1387 – Fuga dallo
studio, segno del declino, in «Il Roma», 11 febbraio 2013. 1388 – “La scienza
nuova”, un volume per capire. Vitiello e il pre-testo per dialogare con le
filosofie, in «Corriere del Mezzogiorno», 15 febbraio 2013. 1389 – La Chiesa a
un bivio, in «Il Roma», 17 febbraio 2013. 1390 – Attenti al rischio
ingovernabilità, in «Il Roma», 3 marzo 2013. 1391 – I rischi del dopo Chavez.
Venezuela al bivio, in «l’Unità», 10 marzo 2013. 1392 – I meriti di Chavez, in
«Il Roma», 10 marzo 2013. 141 1393 – Il Papa e la cura per il prossimo, in «Il
Roma», 24 marzo 2013. 1394 – Verso un governo del Presidente, in «Il Roma», 7
aprile 2013. 1395 – Quando la speranza si prosciuga, in «Il Roma», 13 aprile
2013. 1396 – Usciamo dall’impasse e diamo un governo all’Italia, in «l’Unità»,
24 aprile 2013. 1397 – Democrazia del web e i rischi di internet, in «Il Roma»,
5 maggio 2013. 1398 – La nuova dottrina di Papa Francesco, in «Il Roma», 19
maggio 2013. 1399 – Presidenzialismo scelta oligarchica, in «Il Roma», 9 giugno
2013. 1400 – Astensionismo e antipolitica, in «Il Roma», 16 giugno 2013. 1401 –
Fenomenologia del berlusconismo, in «Il Roma», 30 giugno 2013. 1402 – Enciclica,
più marcata la mano di Ratzinger, in «Il Roma», 7 luglio 2013. 1403 – Terra di
veleni, è un genocidio, in «Il Roma», 14 luglio 2013. 1404 – Ma il vero allarme
è per i nuovi poveri, in «Il Roma», 21 luglio 2013. 1405 – Il PD, il congresso
e i falsi rinnovatori, in «Il Roma», 28 luglio 2013 1406 – Basta cannoneggiare
il PD. È il sistema che è in crisi, in «La Città», 2 agosto 2013. 1407 – Ma il
berlusconismo non è mai tramontato, in «Il Roma», 4 agosto 2013. 1408 – I casi
di Silvio e il ruolo dei giudici, in «La Città», 5 agosto 2013. 1409 – Spunti
di riflessione dagli affreschi ritrovati, in «La Città», 12 agosto 2013. 1410 –
Berlusconi e le richieste impossibili, in «La Città», 17 agosto 2013. 142 1411
– La sorte di Berlusconi e la destra che verrà, in «Roma», 18 agosto 2013. 1412
– L’olocausto e il gesto della Merkel, in «La Città», 23 agosto 2013. 1413 – I
limiti dell’intervento militare in Siria, in «Roma», 25 agosto 2013. 1414 – Lo
spettro di una guerra totale, in «La Città», 28 agosto 2013. 1415 – Il paradosso
dell’America, in «Roma», 1 settembre 2013. 1416 – Il peso politico di Allende
40 anni dopo, in «La Città», 11 settembre 2013. 1417 – Il linguaggio nuovo del
Papa, in «Roma», 15 settembre 2013. 1418 – Memorie sulfuree di un testimone, in
«Roma», 27 settembre 2013. 1419 – Il PDL e il bluff delle dimissioni, in
«Roma», 29 settembre 2013. 1420 – Tessitore alla ricerca dello storicismo di
Croce, in «Corriere del Mezzogiorno», 9 ottobre 2013. 1421 – Grillo, populismo
e diritti umani, in «Roma», 13 ottobre 2013. 1422 – Quello che (mi) spaventa
dell’astro splendente Renzi, in «La Città», 15 ottobre 2013. 1423 – Il
negazionismo, idiozia o reato?, in «Roma», 20 ottobre 2013. 1424 – Se il PDL
piange, il PD non ride, in «Roma», 3 novembre 2013. 1425 – Il ruolo della
sinistra nel mondo che cambia, in «La Città», 12 novembre 2013. 1426 –
Congressi e tessere, l’anima perduta del partito democratico, in «Roma», 24
novembre 2013. 1427 – Revisionismo e l’egemonia culturale, in «La Città», 28
novembre 2013. 1428 – La lezione storica di Mannucci, in «La Città», 4 dicembre
2013. 143 1429 – Ma il “miracolo” di Nelson Mandela non è ancora stato
completato, in «Roma», 8 novembre 2013. 1430 – Rabbia e antipolitica, un mix
esplosivo, in «Roma», 15 dicembre 2013. 1431 – Passate le primarie, il PD
ritrovi i contenuti, in «Roma», 29 dicembre 2013. * * * 2014 A) 1432 – G.
Cacciatore, A. Giugliano (a cura di), Dimensioni filosofiche e storiche
dell’interculturalità, Milano-Udine, Mimesis, 2014. B) 1433 – Storicismo
critico-problematico e interculturalità, in «Research Trends in Humanities.
Education & Philosophy», I (2014), 1, pp. 11-12. 1434 – Antonio Banfi
dall’umanesimo critico all’umanesimo storicistico integrale, in «Critica
Marxista», n.s., n. 1, 2014, pp. 28-37. 1435 – Machiavelli e l’Italia moderna
nelle analisi di Francesco De Sanctis, in G. Lencan Stoica, S. Dragulin
(coord.), New Studies on Machiavelli and Machiavellism. Approaches and
Historiography, Universitatea Din Bucarest, Ars Docendi, 2014, pp. 299-312.
1436 – Contributo su la Scienza Nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744,
in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XLIV, 2014, pp. 65-73. 1437 –
Presentación del libro de J.M. Sevilla, Prolegómenos para una crítica de la
razón problemática. Motivos en 144 Vico y Ortega, in «Cuadernos sobre Vico»,
27, 2013, pp. 71-77 [edito nel 2014]. 1438 – Geschichte/Geschichtsphilosophie,
in H.D. Brandt (hrsg.), Disziplinen der Philosophie. Ein Kompendium, Hamburg,
Meiner Verlag, 2014, pp. 202-219, 233-239, 243-248. 1439 – Teorie e metodi
dell’interculturalità nella prospettiva di un nuovo umanesimo, in G.
Cacciatore, A. Giugliano (a cura di), Dimensioni filosofiche e storiche
dell’interculturalità, Milano-Udine, Mimesis, 2014, pp. 11-18. 1440 – Contro le
“Borie ritornanti”: per un sano uso della critica, in «Trans/Form/Ação. Revista
de Filosofia», Universidad Estadual Paulista, vol. 37, 2014, n. 3, pp. 45-56.
1441 – Paolo Rossi storico del presente, in D. Balzano, D. Bigalli (a cura di),
La ragione curiosa. Atti del convegno in memoria di Paolo Rossi, Roma, Aracne,
2014, pp. 239-262. 1442 – Nuovi percorsi dello storicismo critico: la filosofia
interculturale, in M. Castagna, R. Pititto, S. Venezia (a cura di), I dialoghi
dell’interpretazione. Studi in onore di Domenico Jervolino, Pomigliano D’Arco
(Na), Diogene Edizioni, 2014, pp. 161-165. 1443 – Nuovo umanesimo e filosofia
interculturale, in «Humanitas», n.s., LXIX, 2014, n. 4-5, pp. 584-595. 1444 –
Bloch e il futuro della dignità umana, in R. Viti Cavaliere, R. Peluso (a cura
di), La coscienza del futuro, Napoli, La Scuola di Pitagora Editrice, 2014, pp.
43-68. 1445 – Tra ragione storica e ragione narrativa. Sulla critica della
ragione problematica di José Manuel Sevilla, in «Rocinante. Rivista di
filosofia iberica e iberoamericana», n. 8/2014, pp. 11-19. 1446 – Storia e
rivoluzione. Per Giuseppe Prestipino, in T. Serra (a cura di), Giuseppe
Prestipino. Un Maestro, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2014, pp. 13-17. C) 1447
– Recensione di F. Gallo, Dalla patria allo Stato. 145 Bertrando Spaventa, una
biografia intellettuale, Roma-Bari, Laterza, 2013, in «Logos», n.s., n. 9,
2014, pp. 241-245. 1448 – Recensione di A. Agosti, Il partito provvisorio.
Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Roma-Bari, Laterza, 2013, in
«Historia Magistra», n. 14, 2014, p.147. 1449 – Passione politica e passioni
morali per salvare la dignità dell’intellettuale (a proposito del carteggio
Levi Della Vida-Salvatorelli), in «Historia Magistra», n. 16, 2014, pp.
145-149. F) 1450 – Introduzione a Evolving Philosophy, in «Research Trends in
Humanities. Education & Philosophy», I, 2014, 1, p. 10. 1451 – Introduzione
(in collab. con A. Giugliano) a G. Cacciatore, A. Giugliano (a cura di),
Dimensioni filosofiche e storiche dell’interculturalità, Milano-Udine, Mimesis,
2014, pp. 7-10. 1452 – Presentazione (in collab. con C. Cantillo) del fascicolo
di «Rocinante. Rivista di filosofia iberica e iberoamericana», n. 8/2014, pp.
8-9. G) 1453 – Il futuro di Renzi e la legge elettorale, in «Roma», 5 gennaio
2014. 1454 – Attenti al razzismo strisciante della Lega, in «Roma», 19 gennaio
2014. 1455 – Legge elettorale, quante perplessità, in «Roma», 27 gennaio 2014.
1456 – Lo sfascismo intollerabile del M5S, in «Roma», 2 febbraio 2014. 1457 –
L’Europa sappia ripartire dai suoi valori fondamentali, in «Roma», 9 febbraio
2014. 1458 – Renzi, la fretta e il filo del rasoio, in «Roma», 17 febbraio
2014. 146 1459 – Quell’indifferenza nei confronti del Sud, in «Roma», 24
febbraio 2014. 1460 – Psiup, il partito provvisorio, in «l’Unità», 3 marzo
2014. 1461 – Nazionalismi e populismi, in «Roma», 3 marzo 2014. 1462 – Aprile
’44: la svolta di Salerno. I partiti antifascisti al governo, in « La Città»,
11 marzo, 2014. 1463 – Europa delle élites o Europa dei cittadini?, in «Roma»,
23 marzo 2014. 1464 – Renzi, oppositori deboli e divisi, in «Roma», 31 marzo
2014. 1465 – Le ragioni del successo di Papa Francesco, in «Roma», 6 aprile
2014. 1466 – Embrioni scambiati e questioni morali, in “«Roma», 20 aprile 2014.
1467 – 25 Aprile: non stanca retorica ma omaggio ai combattenti, in «La Città»,
25 aprile 2014. 1468 – I quattro Papi e la forza della Chiesa, in «Roma», 5
maggio 2014. 1469 – Ma l’Europa non merita la morte, in «Roma», 19 maggio 2014.
1470 – Uno scatto d’orgoglio partendo dall’Unità d’Italia, in «l’Unità», 26
maggio 2014. 1471 – Occorre cambiare politica e uomini, in «Roma», 26 maggio
2014. 1472 – Disoccupazione giovanile, i dati sono catastrofici, in «Roma», 8
giugno 2014. 1473 – Un uomo diventato eroe negli anni bui della dittatura, in
«La Città», 11 giugno 2014. 1474 – Vero leader. Basta revival nostalgici (a
proposito di Berlinguer), in «La Città», 12 giugno 2014. 1475 – Corruzione
politica e sete di potere, in «Roma», 16 giugno 2014. 1476 – La doppia sfida di
Renzi a Bruxelles, in «Roma», 25 giugno 2014. 147 1477 – Immigrati, 4 capitoli
per un’agenda Ue, in «Roma», 7 luglio 2014. 1478 – Autodifesa e rappresaglia,
in «Roma», 13 luglio 2014. 1479 – Il patto del Nazareno? È solo fantapolitica,
in «Roma», 21 luglio 2014. 1480 – Gli opposti estremismi dell’ostruzionismo, in
«Roma», 28 luglio 2014. 1481 – Riforme istituzionali teatrino della politica,
in «Roma», 4 agosto 2014. 1482 – Gemelli “contesi”, dibattito aperto, in
«Roma», 11 agosto 2014. 1483 – Togliatti, il leader politico che realizzò un
capolavoro, in «La Città», 21 agosto 2014. 1484 – Contro i terroristi un corpo
dell’ONU, in «Roma», 25 agosto 2014. 1485 – Amarante negli scritti d’agosto, in
«Il Mattino», 29 agosto, 2014. 1486 – La violazione della dignità umana, in
«Roma», 15 settembre 2014. 1487 – La questione italiana nell’ottica del
Mezzogiorno. A proposito del libro di Barbagallo, in «La Città», 16 settembre
2014. 1488 – Sindacati e politica, basta con gli slogan, in «Roma», 22
settembre 2014. 1489 – Contro l’Isis scenda in campo l’ONU, in «Roma», 6
ottobre 2014. 1490 – Solo oggi il virus Ebola è un problema globale, in «Roma»,
13 ottobre 2014. 1491 – L’ergastolo cancellato da Papa Francesco, in «Roma», 27
ottobre 2014. 1492 – Non resta che dire: povera Italia!, in «Roma», 3 novembre
2014. 1493 – Enrico Berlinguer e la questione morale, in «La Città», 7 novembre
2014. 1494 – Venticinque anni dopo, la Germania e l’Europa, in «Roma», 10
novembre 2014. 148 1495 – L’intangibilità del diritto d’asilo, in «Roma», 17
novembre 2014. 1496 – Se l’Università fa più (e meglio) del Comune, in «Roma»,
1 dicembre 2014. 1497 – Berlinguer e Togliatti. Un errore storico cercare le
analogie, in «La Città», 2 dicembre 2014. 1498 – I partiti macchine di potere e
clientele, in «Roma», 8 dicembre 2014. 1499 – Napolitano e i rischi
dell’antipolitica, in «Roma», 15 dicembre 2014. 1500 – Quel duetto comico tra
anima e corpo, in «Roma», 22 dicembre 2014. 1501 – Il Papa e le quindici piaghe
della Chiesa, in «Roma», 29 dicembre 2014 * * * 2015 A) 1502 – Dallo storicismo
allo storicismo, introduzione di F. Tessitore, a cura di G. Ciriello, G.
D’Anna, A. Giugliano, Pisa, ETS, 2015. 1503 – In dialogo con Vico. Ricerche,
note, discussioni, introduzione di M. Sanna, a cura di M. Sanna, R. Diana, A.
Mascolo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015. 1504 – Vita, opuscolo
dal Lessico Crociano, a cura di R. Peluso, Napoli, La Scuola di Pitagora, 2015.
1505 – G. Cacciatore, S. Cicenia (a cura di), Antonio Genovesi a trecento anni
dalla nascita, Battipaglia (SA), Laveglia&Carlone, 2015. 149 B) 1506 – Del
“pensare in proprio” nell’epoca delle filosofie mediatiche, in «Research Trends
in Humanities. Education & Philosophy», vol. 2, 2015, n. 2, pp. 33-39. 1507
– Il potere che frena. Una riflessione sulla teologia politica di Massimo
Cacciari, in «Jura Gentium», vol. XII, 2015, pp. 76-95. 1508 – La critica in
soccorso dell’umano. Filologia e Umanesimo, in F. Mora (a cura di), Metamorfosi
dell’umano, Milano-Udine, Mimesis, 2015, pp. 17-32. 1509 – Intervento su Labirinto
filosofico di Massimo Cacciari, in «Logos», n.s., n. 10, 2015, pp. 193-199.
1510 – Religione e violenza. Qualche riflessione a partire da Charlie Hebdo, in
«Historia Magistra. Rivista di storia critica», VII, 2015, n. 17, pp. 7-10.
1511 – Contro le borie “ritornanti”. Per un sano uso della critica, in R. Diana
(a cura di) Le “borie” vichiane come paradigma euristico. Hybris dei popoli e
dei saperi tra moderno e contemporaneo, Napoli, ISPF Lab - Consiglio Nazionale
delle Ricerche, (I Quaderni del Lab, 3), 2015, pp. 31-42. 1512 – Ancora sul
Vico di Pietro Siciliani, in F. Luceri (a cura di), Pietro Siciliani e Cesira
Pozzolini, Filosofia e Letteratura, introduzione di F. Tessitore, Lecce,
Edizioni Grifo, 2015, pp. 35-44. 1513 – Filosofare dopo Ortega: su alcuni
modelli di storia della filosofia e storia delle idee nella Spagna della
seconda metà del Novecento, in «Philosophia», X-XI, 2014, 1-2 [stampato nel
2015], pp. 275-289. 1514 – Filosofi e intellettuali spagnoli nell’opera di
Sciascia, in «Todomodo. Rivista Internazionale di Studi Sciasciani», V, 2015,
pp. 71-79. 1515 – L’idea genovesiana di libertà, in G. Cacciatore, S. Cicenia
(a cura di), Antonio Genovesi a trecento anni dalla nascita, Battipaglia (SA),
Laveglia&Carlone, 2015, pp. 33-48. 1516 – Il Croce di Girolamo Cotroneo, in
G. Gembillo 150 (a cura di), Lo storicismo di Girolamo Cotroneo, Soveria
Mannelli (Cz), Rubbettino, 2015, pp. 9-26. 1517 – Il mio Gramsci, in
«Gramsciana», 1, 2015, pp. 13-15. F) 1518 – Presentazione di C. Scudieri,
Ascesa e fine della classe operaia angrese, Angri (SA), Centro Iniziative
Culturali, 2015, pp. 5-8. 1519 – Introduzione (in collab. con S. Cicenia) a G.
Cacciatore, S. Cicenia (a cura di), Antonio Genovesi a trecento anni dalla
nascita, Battipaglia (SA), Laveglia&Carlone, 2015, pp. 7-10. G) 1520 –
Biondi, esempio di storiografia etico-politica, in «Il Quotidiano del Sud»
(edizione irpina), 11 gennaio 2015. 1521 – Ma le colpe sono anche
dell’Occidente, in «Roma», 12 gennaio 2015. 1522 – Grazie Napolitano,
presidente dei cittadini, in «Roma», 19 gennaio 2015. 1523 – Il PD di Renzi non
è di sinistra, in «Roma», 26 gennaio 2015. 1524 – Il messaggio di Pierro nelle
poesie, in «Il Mattino», 28 gennaio 2015. 1525 – Dalla balena bianca al Partito
della Nazione, in «Roma», 9 febbraio 2015. 1526 – Il gravissimo errore delle
sedute notturne, in «Roma», 16 febbraio 2015. 1527 – Lo scontro armato tra
culture e religioni, in «Roma», 23 febbraio 2015. 1528 – L’idea pericolosa del
Partito della Nazione, in «Roma», 2 marzo 2015. 1529 – Quello spirito che serve
alla Campania e al Sud, in «Roma», 9 marzo 2015. 151 1530 – La misericordia e
il messaggio evangelico, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 16 marzo 2015 1531 –
Aiutare Tunisia e Libia contro la minaccia Isis, in «Roma», 23 marzo 2015. 1532
– La strage di immigrati e l’inerzia della politica, in «Roma», 20 aprile 2015.
1533 – Il 25 aprile e la resistenza dei profughi, in «Il Mattino» (ed. di
Salerno), 25 aprile 2015. 1534 – Italicum, un colpo letale per la nostra
democrazia, in «Roma», 27 aprile 2015. 1535 – Il protagonismo tedesco e la sua
colpa storica, in «Roma», 11 maggio 2015. 1536 – Amarante. Il dovere storico
della memoria e il futuro da salvare, in «La Città», 12 maggio 2015. 1537 – La
globalizzazione della cieca violenza, in «Roma», 18 maggio 2015. 1538 – La
Resistenza di Salerno e il dovere della memoria, in «Il Mattino» (ed. di
Salerno), 22 maggio 2015. 1539 – L’Occidente miope e l’avanzata dell’Is, in
«Roma», 25 maggio 2015. 1540 – Partito della Nazione: il progetto è fallito, in
«Roma», 8 giugno 2015. 1541 – Relazione virtuosa tra scienza e vangelo, in
«Roma», 22 giugno 2015. 1542 – La conversione ecologica di Papa Francesco, in
«Il Mattino» (ed. di Salerno), 2 luglio 2015. 1543 – Che fine ha fatto la
sinistra moderata?, in «Roma», 6 luglio 2015. 1544 – Reddito di cittadinanza
nelle riforme di Renzi, in «Roma», 20 luglio 2015. 1545 – Il pianeta “gemello”
e il futuro della terra, in «Roma», 27 luglio 2015. 1546 – Serve un piano
Marshall per il Mezzogiorno, in «Roma», 3 agosto 2015. 1547 – Barbarie
post-atomica e dominio della ragione, in «Roma», 10 agosto 2015. 152 1548 –
Isis, serve un’alleanza come contro il nazismo, in «Roma», 24 agosto 2015. 1549
– Come si uccidono le università del Sud, in «Roma», 31 agosto 2015. 1550 – La
“nuova” S. Teresa e la politica del territorio, in «La Città», 14 settembre
2015. 1551 – Germania più europea grazie ai profughi, in «Roma», 14 settembre
2015. 1552 – Tragedia immigrati e diritto d’asilo, in «Roma», 21 settembre
2015. 1553 – Quando il rapporto dolore-paziente diventa consapevole, in «La
Città», 22 settembre 2015. 1554 – L’apocalisse delle migrazioni, in «Roma», 28
settembre 2015. 1555 – La forza del papa che parla ai Sud del mondo, in «Il
Mattino», 29 settembre 2015. 1556 – La lobby delle armi e le stragi in Usa, in
«Roma», 5 ottobre 2015. 1557 – Il Sud dimenticato da questo governo, in «Roma»,
19 ottobre 2015. 1558 – Non illudiamoci sul Sud. Il governo lo ha abbandonato,
in «Roma», 2 novembre 2015. 1559 – La risposta forte del papa ai corvi e ai
faraoni, in «Roma», 9 novembre 2015. 1560 – Bisogna evitare reazioni emotive,
in «Roma», 16 novembre 2015. 1561 – Il reciproco rispetto di tutte le
religioni, in «Roma», 23 novenbre 2015. 1562 – La misericordia non è un atto
autoreferenziale, in «Roma», 7 dicembre 2015. 1563 – L’università verso
un’irreversibile agonia, in «Roma, 21 dicembre 2015. 1564 – Lo spettacolo
gender e il paradigma dell’identità sessuale, in «Il Mattino», 27 dicembre
2015. * * * 153 2016 A) 1565 – G. Cacciatore, C. Cantillo (a cura di), Omaggio
a Ortega. A cento anni dalle Meditazioni del Chisciotte (1914-2014), Napoli,
Guida Editori, 2016. B) 1566 – Time, Narration, Memory: Paul Ricoeur’s Theory
of History, in F. Santoianni (ed.), The Concept of Time in Early
Twentieth-Century Philosophy. A Philosophical Thematic Atlas, Switzerland,
Springer, 2016, pp. 167-173. 1567 – Le nuove edizioni delle Scienze Nuove nel
contesto del progetto per l’edizione critica dell’opera vichiana, in
«Rendiconti. Atti della Accademia Nazionale dei Lincei», serie IX, vol. XXVI,
Roma, Bardi Edizioni, 2016, pp. 265-271. 1568 – La polemica sulla «Voce» tra
filosofi ‘amici’, in Aa.Vv., Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa,
Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2016, pp. 281-287. 1569 – Da Gramsci
a Said. Filologia vivente e critica democratica, in Aa.Vv., Attualità del
pensiero di Antonio Gramsci, «Atti dei Convegni Lincei - 292. Accademia
Nazionale dei Lincei», Roma, Bardi Edizioni, 2016, pp. 41-57. 1570 – Bruno
Trentin: la critica del finalismo storicistico e del comunismo “schematico” e
“ossificato”, in A. Gramolato, G. Mari (a cura di), Il lavoro dopo il
Novecento: da produttori sociali ad attori sociali, Firenze, Firenze University
Press, 2016, pp. 221-232. 1571 – El pensamiento mediterráneo y la filosofía
intercultural, in P. Badillo O’Farrel, J.M. Sevilla Fernández (eds.), La
Brújula hacia el sur. Estudios sobre filosofía meridional, Madrid, Biblioteca
Nueva, 2016, pp. 73-85. 1572 – Il posto della parola: lo stile filosofico di
Ortega tra meditazione e saggio, in G. Cacciatore, C. Cantillo (a cura di), 154
Omaggio a Ortega. A cento anni dalle Meditazioni del Chisciotte (1914-2014),
Napoli, Guida Editori, 2016, pp. 31-47. 1573 – In ricordo di Franco Crispini,
in «Logos», n.s., n. 11, 2016, pp. 95-99. 1574 – Die Freiheitsidee bei
Genovesi, in M. Kaufmann, J. Renzikowski (hrsg.), Freiheit als Rechtsbegriff,
Berlin, Duncker und Humblot, 2016, pp. 201-211. 1575 – Per Roberto Volpe. A
quarant’anni dalla morte, in «Rassegna Storica Salernitana», n. 65, 2016, pp.
181-184. 1576 – Ordine e disciplina: usura di parole e di idee, in «Archivio di
storia della cultura», XXIX, 2016, pp. 31-33. 1577 – Ricostruzione,
interpretazione, storicità. Ancora sul rapporto tra psicoanalisi e storia, in
«Bollettino Filosofico», 31, 2016, pp. 17-28. 1578 – Filosofia pratica e
filosofia civile, in A. Musci, R. Russo (a cura di), Filosofia civile e crisi
della ragione. Croce filosofo europeo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,
2016, pp. 47-67. 1579 – Etica, progresso, marxismo, in «Materialismo storico»,
n. 1-2, 2016, pp. 12-17. 1580 – Il concetto di cittadinanza in Vico come
manifestazione del nesso tra universalità della legge e storicità empirica
della civitas, in «Laboratorio dell’ISPF», XIII, 2016, n.16, pp. 1-10. 1581 –
Diversioni e riflessioni in un recente libro sul Chisciotte, in «Rocinante.
Rivista di filosofia iberica, iberoamericana e interculturale», n. 9/2015-2016,
pp. 97-101. C) 1582 – Recensione di A. Labriola, Tra Hegel e Spinoza. Scritti
1863-1869, a cura di A. Savorelli e A. Zanardo, Napoli, Biblipolis, 2015, in
«Historia Magistra», n. 22, 2016, p. 146. 155 E) 1583 – J. Ortega y Gasset,
Meditazioni del Chisciotte e altri saggi, a cura di G. Cacciatore e M.L. Mollo,
Napoli, Guida Editori, 2016. F) 1584 – Introduzione (in collab. con C.
Cantillo) a G. Cacciatore, C. Cantillo (a cura di), Omaggio a Ortega. A cento
anni dalle Meditazioni del Chisciotte (1914-2014), Napoli, Guida Editori, 2016,
pp. 5-10. 1585 – Premessa a J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e
altri saggi, a cura di G. Cacciatore e M.L. Mollo, Napoli, Guida Editori, 2016,
pp. V-XIII. 1586 – Introduzione a D. Di Iasio, Dark Age. Per una rinascita
dell’umano, Manfredonia, Pacilli Editore, 2016, pp. 7-13. 1587 – Introduzione a
M Scalercio, Umanesimo e storia da Said a Vico. Una prospettiva vichiana sugli
studi postcolionali, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016, pp. VII-XII.
1588 – Introduzione a L. Anzalone, Eroi nel paese della mafia. Storie italiane:
Impastato, Ambrosoli, Falcone e Borsellino, Don Puglisi, S. Cesario di Lecce,
Pensa Editore, 2016, pp. 7-18. G) 1589 – Vecchi e nuovi conflitti: scenari
inquietanti, in «Roma», 4 gennaio 2016. 1590 – Zanone, studioso e politico
legatissimo a Salerno (in collab. con R. Cangiano), in «La Città», 9 gennaio
2016. 1591 – Immigrazione, politici sull’onda dell’emozione, in «Roma», 11
gennaio 2016. 1592 – Esprit de finesse et de géométrie. Il connubio felice di
Cicenia, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 16 gennaio 2016. 156 1593 – L’America
di Obama profondamente divisa, in «Roma», 18 gennaio 2016. 1594 – Le unioni
civili e i dubbi del Papa, in «Roma», 25 gennaio 2016. 1595 – La sconfitta del
socialismo democratico e riformista, in «Roma», 1 febbraio 20169 1596 –
L’adozione del figliastro, quanta confusione, in «Roma», 15 febbraio 2016. 1597
– Umberto Eco, l’Europa e l’uscita degli inglesi, in «Roma», 22 febbraio 2016.
1598 – Volpe e la città ricostruita dalle macerie, in «Il Mattino» (ed. di
Salerno), 7 marzo 2016. 1599 – Facciamo attenzione alla polveriera Libia, in
«Roma», 7 marzo 2016. 1600 – La crisi della sinistra con la nascita del PD, in
«Roma», 14 marzo 2016. 1601 – La nazione napoletana tra mito e realtà, in
«Corriere del Mezzogiorno», 3 aprile 2016. 1602 – Francesco De Martino, un uomo
che ci manca, in «Roma», 11 aprile 2016. 1603 – La misericordia del Papa e i
fallimenti dei politici, in «Roma», 18 aprile 2016. 1604 – Questa spaccatura
non serve a nessuno, in «Roma», 25 aprile 2016. 1605 – La realtà di una
metropoli tra immagini e parole, in «La Città», 3 maggio 2016. 1606 – Papa
Bergoglio e il sogno di un’Europa nuova, in «Roma», 9 maggio 2016. 1607 – Il
populismo dell’antipolitica, in «Roma», 16 maggio 2016. 1608 – I politici
studino il rapporto Istat per capire cosa fare, in «Roma», 23 maggio 2016. 1609
– Un appuntamento importante campo di prova per Renzi, in “Roma», 6 giugno
2016. 1610 – L’obiettivo deve essere la serie A, in «La Città», 8 giugno 2016.
157 1611 – Un libro che diffonde l’odio contro l’uomo, in «Roma», 13 giugno 2016.
1612 – Anche con la Brexit l’Europa non muore, in «Roma», 20 giugno 2016. 1613
– Si è concesso troppo ai conservatori inglesi, in «Roma», 27 giugno 2016. 1614
– Gli errori che uccidono le nostre democrazie, in «Roma», 11 luglio 2016. 1615
– È una g uerra figlia della globalizzazione, in «Roma», 18 luglio 2016. 1616 –
La religione strumento di pace per Francesco, in «Roma», 1 agosto 2016. 1617 –
Sicurezza e democrazia per battere la paura, in «Roma», 8 agosto 2016. 1618 –
Burkini vietati, non è vera laicità, in «Roma», 22 agosto 2016. 1619 – Subito
un piano nazionale di sicurezza degli edifici, in «Roma», 29 agosto 2016. 1620
– Lo storicismo secondo Tessitore, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 settembre
2016. 1621 – Il mondo di “Bella ciao”, la canzone della libertà, il «Il
Mattino» (ed. di Salerno), 16 settembre 2016. 1622 – Ma Ciampi non fu solo un
grande europeista, in «Roma», 19 settembre 2016. 1623 – Quell’inchino davanti
al PCI, in «La Città», 21 settembre 2016. 1624 – Obama e l’agenda delle sfide globali,
in «Roma», 26 settembre 2016. 1625 – Amendola contro i populismi, in «Il
Mattino» (ed. di Salerno), 3 Ottobre 2016. 1626 – Il pericolo del populsimo
demagogico-qualunquista. A proposito della crisi del socialismo europeo, in
«Roma», 3 ottobre 2016. 1627 – Dialoghi sull’anima. Insondabile mistero, il «Il
Mattino» (ed. di Salerno), 8 ottobre 2016. 1628 – Scuola dimenticata, tornano
le proteste, in «Roma», 158 10 ottobre 2016. 1629 – Penalizzati le donne e i
lavoratori meridionali, in «Roma», 17 ottobre 2016. 1630 – Crisi e mutamento
nel senso dell’umano, in «Roma», 31 ottobre 2016. 1631 – Quegli eroi di una
scelta contrastata, in «Il Quotidiano del Sud», 6 novembre 2016. 1632 –
Presidenziali in Usa, scontro tra due mondi, in «Roma», 7 novembre 2016. 1633 –
Apocalittici o rassegnati, ma c’è una terza via, in «Roma», 13 novembre 2016.
1634 – Fine del l’esperimento del socialismo cubano?, in «Roma», 28 novembre
2016. 1635 – Personalizzazione politica nelle logiche di partito, in «Roma», 12
dicembre 2016. 1636 – Le voci del secolo breve, in «Corriere del Mezzogiorno”,
13 dicembre 2016. 1637 – Responsabilità degli storici nella vita civile, in «La
Città», 15 dicembre 2016. 1638 – La politica torni giudice di se stessa, in
«Roma», 19 dicembre 2016. 1639 – Il corpo a corpo di Galasso con la storia, in
«Corriere del Mezzogiorno», 22 dicembre 2016. * * * 2017 A) 1640 – Laurea
Honoris Causa in Scienze Pedagogiche. Lectio Magistralis. Il futuro della
filosofia sta nel suo passato, presentazione di A.Tommasetti, Laudatio: Sullo
storicismo di G. Cacciatore di F. Tessitore, Salerno, Università degli Studi di
Salerno, 2017. 159 1641 – L’esperienza filosofica di Fulvio Tessitore in forma
di dialogo. Intervista di Giuseppe Cacciatore, a cura di S. Tarantino, in
appendice la bibliografia degli scritti a cura di F. Lomonaco, presentazione di
M. De Dominicis, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017. 1642 – Giuseppe
Giarrizzo, Napoli, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti, “Profili e
Ricordi” XLI, 2017. B) 1643 – Ricostruzione, interpretazione, storicità. Ancora
sul rapporto tra psicoanalisi e storia, in «Research Trend in Humanties», IV,
2017, pp. 66-73. 1644 – Croce e Dilthey. Le due vie dello storicismo europeo,
in C. Tuozzolo (a cura di), Benedetto Croce. Riflessioni a 150 anni dalla
nascita, Canterano (RM), Aracne Editrice, 2017, pp. 25-33 [anche in S. Di
Bella, F. Rizzo Celona (a cura di), Croce e la modernità tedesca, Roma, Aracne,
2017, pp. 99-108]. 1645 – In memoria di Italo Gallo, in «Rassegna Storica
Salernitana», n.s., XXXIII/2, dicembre 2016, n. 66, pp. 3-5. 1646 – Il sapere
filosofico e la sua storia tra universalismo e relativismo, in «Storiografia.
Rivista annuale di storia», n. 20, 2016, Roma, Fabrizio Serra Editore, 2017,
pp. 159-167. 1647 – Dilthey e Humboldt. La fondazione filosofica
dell’individualità e la nascita della coscienza storica, in A. Carrano, E.
Massimilla, F. Tessitore (a cura di), Wilhelm von Humboldt,
duecentocinquant’anni dopo. Incontri e confronti, Quaderni dell’«Archivio di
storia della cultura», n.s., vol. 7, Napoli, Liguori, 2017, pp. 395-422. 1648 –
Tra etica dei principi ed etica pratica. I Frammenti di etica di Benedetto
Croce, in «Il Pensiero italiano», I, 2017, n. 1, pp. 21-36. 1649 – Divagazioni
filosofiche (e non) sulla felicità, in V. Caputo (a cura di), L’Io felice tra
filosofia e letteratura, Milano, Franco Angeli, 2017, pp. 15-24. 1650 – Tacito
e il tacitismo in Spagna, in «Rocinante. Ri- 160 vista di filosofia iberica,
iberoamericana e interculturale», n. 10/2017, pp. 139-144. 1651 – Meticciato,
ibridazione, etica interculturale, in G. Magnano San Lio, L. Ingaliso (a cura
di), Alterità e cosmopolitismo nel pensiero moderno e contemporaneo, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2017, pp. 41-52 [anche in M. Longo, G. Miceli (a cura
di), La filosofia e la sua storia. Studi in onore di G. Piaia, Padova, Cleup,
2017, t. 2, pp. 405-417]. 1652 – Gramsci oggi. Tra marxismo critico ed etica
della realizzazione dell’umano, in «Infiniti Mondi», I, 2017, n. 1, pp. 99-106.
F) 1653 – Note introduttive, in «Rassegna storica salernitana», n. 67, giugno
2017, pp. 5-7. 1654 – Prefazione a G. Magnano San Lio, Per una filosofia dello
storicismo. Studi su Dilthey, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017, pp. 7-11. G)
1655 – Non basta l’accoglienza senza vera integrazione, in «Roma», 9 gennaio
2017. 1656 – Il futuro dell’America nell’addio di Obama, in «Roma», 16 gennaio
2017. 1657 – Come cambiano gli Usa nell’era del populismo, in «Roma», 23
gennaio 2017. 1658 – Olocausto, una eredità da trasmettere ai giovani, in «Roma»,
30 gennaio 2017. 1659 – Post, il prefisso che avvelena la democrazia, in «Il
Mattino» (ed. di Salerno), 2 febbraio 2017. 1660 – Le ambizioni di Renzi e il
bene del paese, in «Roma», 6 febbraio 2017. 1661 – Tradizione socialista: è in
crisi profonda, in «Roma», 13 febbraio 2017. 161 1662 – Diritto all’obiezione e
all’autodeterminazione, in «Roma», 27 febbraio 2017. 1663 – La sinistra ora
recuperi i valori espressi dal voto del 4 dicembre, in «La Città», 28 febbraio
2017. 1664 – Edizione nazionale di Labriola, spunta il testo su Spinoza, in
«Corriere del Mezzogiorno», 3 marzo 2017. 1665 – I nuovi schiavi del nostro
secolo, in «Roma», 6 marzo 2017. 1666 – Magistrati e politica, un rapporto
irrisolto, in «Roma», 20 marzo, 2017. 1667– Cambio d’epoca. 1917 l’anno della
rivoluzione, in «La Città», 25 marzo 2017. 1668 – Rappresentante e
rappresentato, in «Roma», 27 marzo, 2017. 1669 – Ecco la nuova casa a sinistra
del PD, in «Roma», 3 aprile 2017. 1670 – Si va verso la terza catastrofe
mondiale, «Roma», 10 aprile 2017. 1671 – Francia, una risposta per il futuro
europeo, in «Roma», 24 aprile 2017. 1672 – Legittima difesa, tante
incongruenze, in «Roma», 8 maggio 2017. 1673 – Di che cosa sarà fatto il
futuro? Emmanuel guardi alle ingiustizie, un «La Città», 8 maggio 2017. 1674 –
Tragedia e sofferenze di un popolo, in «La Città», 21 maggio 2017. 1675 – De
Sanctis, zoom su un maestro, in «Roma», 23 maggio 2017. 1676 – I sette “grandi”
e l’inutile incontro di Taormina, in «Roma», 29 maggio 2017. 1677 – Ma la vera
sinistra rischia di scomparire, in «Roma», 5 giugno 2017. 1678 – La
reintroduzione del sistema voucher, in «Roma», 12 giugno 2017. 1679 – PD, è un
dualismo di difficile soluzione, in «Roma», 3 luglio 2017 162 1680 – Le tante
responsabilità dell’emergenza incendi, in «Roma», 17 luglio 2017. 1681 –
Migranti, sta fallendo lo spirito comunitario, in «Roma», 24 luglio 2017. 1682
– Rapporto da chiarire tra obbligo e libertà, in «Roma», 31 luglio 2017. 1683 –
Migranti, l’Europa tradisce se stessa, in «Roma», 7 agosto 2017. 1684 –
Multinazionali estere libere di avvelenare, in «Roma», 14 agosto 2017. 1685 –
S. Matteo? Basta amenità, è culto storico, in «La Città», 18 agosto 2017. 1686
– Raggi come Pilato. Serve buon senso, in «Roma», 28 agosto, 2017. 1687 – Il
mondo dei robot, è l’era post-umana?, in «Roma», 4 settembre 2017. 1688 – Gli
abusi di potere di qualche magistrato, in «Roma», 18 settembre 2017. 1689 – I
mitici anni 60 dei primi “nettuniani”, in «La Città», 24 settembre 2017. 1690 –
Spagna e Catalogna sull’orlo del baratro, in «Roma», 25 settembre 2017. 1691 –
L’Università italiana non va criminalizzata, in «Roma», 2 ottobre 2017. 1692 –
Così il “giornalista” Gramsci rilegge gli eventi della rivoluzione d’ottobre,
in «La Città», 6 ottobre 2017. 1693 – Cosa si nasconde dietro la crisi
catalana, in «Roma», 9 ottobre 2017. 1694 – Democrazia italiana: è sempre più
stanca, in «Roma», 16 ottobre 2017. 1695 – I quattro populismi sula scena
politica, in «Roma», 23 ottobre 2017. 1696 – Spagna, è a rischio il futuro
democratico, in «Roma», 30 ottobre 2017. 1697 – Che fine ha fatto la sinistra
italiana?, in «Roma», 6 novembre 2017. 163 1698 – Ma dov’è finita la dignità
umana?, in «Roma», 13 novembre 2017. 1699 – Emergenza migranti, la sciagurata
decisione di affidarsi alla Libia, «La Città», 20 novembre 2017 [anche in
«Roma» col titolo Le ventisei migranti sepolte a Salerno]. 1700 – Quando ci
dimentichiamo delle nostre origini, in «Roma», 27 novembre 2017. 1701 –
Passioni e debolezze di Gramsci nell’originale biografia di D’Orsi, in «La
Città», 27 novembre 2017. 1702 – Se patria e matria diventano contaminazione
virtuosa, in «La Città», 4 dicembre 2017 [anche in «Roma» col titolo Il duro
confronto tra Patria e Matria]. 1703 – Rinnovare la cultura politica per
debellare i neo fascismi, in «La Città», 11 dicembre 2017. 1704 – La svolta
umanistica del biotestamento, in «La Città», 18 dicembre 2017 [anche in «Roma»
col titolo Biotestamento e dignità, una rivoluzione culturale]. 1705 – La
Catalogna vittoriosa non rilanci lo scontro, in «La Città», 27 dicembre 2017
[anche in «Roma», 28 dicembre 2017, col titolo La questione catalana e i rischi
per l’Europa]. 1706 – Umanesimo. La linea analitica di Cacciari. Interrogativi
sulla crisi tra filologia e filosofia, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 27
dicembre, 2017. * * * 2018 B) 1707 – Acerca de la génesis de los conceptos
viquianos de ingenio y fantasía, in «Cuadernos sobre Vico», 30/31, 2016-2017
[pubblicato nel 2018], pp. 87-94. 164 1708 – In difesa della Carta
Costituzionale, oggi come ieri, in «Infiniti Mondi», II, 2018, n. 4, pp. 35-45.
1709 – Divagazioni sulla felicità, in P. Rumore (a cura di), Momenti di
felicità. Per Massimo Mori, Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 115-126. 1710 –
Humboldt und Dilthey. Die philosophische Begründung der Individualität und das
Entstehen des geschichtlichen Bewusstseins, in J. Trabant (hrsg.), Wilhelm von
Humboldt: Sprache, Dichtung, Geschichte, Paderborn, Wilhelm Fink Verlag, 2018,
pp. 83-100. 1711 – Etica e storia in Ernst Troeltsch, in G. Cantillo, D. Conte,
A. Donise, E. Massimilla (a cura di), Ernst Troeltsch. Religione, etica,
filosofia della storia, Quaderni dell’«Archivio di storia della cultura», n.s.,
vol. 8, Napoli, Liguori, 2018, pp. 101-111. 1712 – Humanismus e Umanesimo, in
«Archivio di storia della cultura», XXXI, 2018, pp. 339-344. 1713 – Sulla
genesi dei concetti vichiani di ingegno e fantasia, in «Bollettino del Centro
di studi vichiani», XLVIII, 2018, pp. 21-28. 1714 – Pena di morte e
letteratura. Una prospettiva storico-filosofica, in «Logos», n.s., 13, 2018,
pp. 249-253. E) 1715 – A. Labriola, I problemi della filosofia della storia
(1887). Recensioni (1870-1896), a cura di G. Cacciatore e M. Martirano, Napoli,
Bibliopolis, 2018. F) 1716 – Premessa a G. Cirillo (a cura di) L’italia a cento
anni dalla grande guerra. Miti, interpretazioni, politiche industrali, Fisciano
(SA), Gutenberg Edizioni, 2017 [ma distribuito nel 2018], pp. 10-13. 1717 –
Prefazione a S. Tarantino, Chiaroscuri della ragio- 165 ne. Kant e le filosofe
del Novecento. Napoli, Guida Editori, 2018, pp. 7-11. 1718 – Introduzione a L.
Cicalese, A Nocera Superiore dal 1943 al 1946, Nocera Superiore, PrintArt
Editore, 2018, pp. 5-7. G) 1719 – La “vecchia” Costituzione che rianima la
democrazia stanca, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 5 gennaio 2018. 1720 – La
Costituzione merita una riflessione storica, in «Roma», 8 gennaio 2018. 1721 –
“Rubentus”, sperando nel gesto dell’ombrello, in «Roma», 15 gennaio 2018. 1722
– La Segre e gli orrori di ieri, oggi e domani, in «Roma», 22 gennaio 2018.
1723 – Si alla clonazione ma solo a fin di bene, in «Roma», 29 gennaio 2018
[anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo La clonazione tra
ragionevoli e catastrofisti, 1 febbraio 2018]. 1724 – Attenti al pericolo dei
nuovi nazifascisti, in «Roma», 5 febbraio 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di
Salerno, col titolo L’Olocausto e la legge polacca. L’aggettivo che nasconde i
carnefici della porta accanto, 6 febbraio 2018]. 1725 – La storia e le
rivoluzioni culturali e sociali, in «Roma», 12 febbraio 2018 [anche in «Il
Mattino», ed. di Salerno, col titolo Il Sessantotto delle libertà sospeso tra
il silenzio e l’idillio della retorica, 13 febbraio 2018]. 1726 – Sacralità
della vita e libertà di suicidio, in «Roma», 19 febbraio 2018 [anche in «Il Mattino»,
ed. di Salerno, col titolo La dignità della vita e i sentieri interrotti della
ragion politica, 20 febbraio 2018]. 1727 – Intanto cresce l’odio verso gli
immigrati, in «Roma», 26 febbraio 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di 166
Salerno, col titolo Fascismo e antifascismo: le parole “vecchie” che nominano
il nuovo, 27 febbraio 2018]. 1728 – Restare ottimisti nonostante tutto, in
«Roma», 5 marzo 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo Stare
al mondo con ottimismo nel grigio weekend, 6 marzo 2018]. 1729 – Quella
scintilla viva nell’idea di socialismo, in «Roma», 12 marzo 2018 [anche in «Il
Mattino», ed. di Salerno, La coperta del socialismo che contamina lo scandalo
della modernità, 13 marzo 2018]. 1730 – I populismi, malattia senile della
democrazia, in «Roma», 19 marzo 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno,
col titolo Il “possibile” dei partiti senza demonizzare i congiuntivi
sbagliati, 20 marzo 2018]. 1731 – La preoccupazione per i due populismi, in
«Roma», 26 marzo 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo
L’aventinismo nullista travolto dall’onda populista, 27 marzo 2018]. 1732 –
Giornalismo d’inchiesta tra politica e informazione, in «Il Mattino», ed. di
Salerno, 3 aprile 2018. 1733 – La razza non esiste, lo dice la scienza, in
«Roma», 9 aprile 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, 10 aprile 2018].
1734 – Informazione digitale: uso improprio e illegale, in «Roma», 16 aprile
2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, 17 aprile 2018]. 1735 – Perché i
diritti sono radice immutabile della sinistra, in «Il Mattino», ed. di Salerno,
24 aprile 2018 [anche in «Roma», 23 aprile 2018]. 1736 – Le istituzioni possono
fermare un altro declino. A proposito della chiusura della Libreria
Internazionale, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 1 maggio 2018. 1737 –
Internazionale, patrimonio culturale della città, in «YouCamp», 3 maggio 2018.
1738 – Recuperare Marx senza totalitarismi, in «Roma», 7 maggio 2018 [anche in
«Il Mattino», ed. di Salerno, col 167 titolo A che condizione non possiamo non
dirci marxisti, 8 maggio 2018]. 1739 – La strada stretta tra populisti e
sovranisti, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 15 maggio 2018 [anche in «Roma»
col titolo L’ultima spiaggia: potere a Mattarella, 14 maggio 2018]. 1740 –
Fionda e cecchini. Il nuovo apartheid dei palestinesi, in «Il Mattino», ed. di
Salerno, 22 maggio 2018 [anche in «Roma» col titolo Non resta che diventare
cittadini israeliani, 21 maggio 2018]. 1741 – Uno scontro istituzionale che non
ha precedenti, in «Roma», 28 maggio 2018. 1742 – Apprendisti stregoni contro la
costituzione, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 29 maggio 2018. 1743 – La
mutazione genetica del populismo tradizionale, in «Roma», 4 giugno 2018. 1744 –
La piazza multiclassista e la sinistra incerta, in «Il Mattino» (ed. di
Salerno), 5 giugno 2018. 1745 – Governo muto su diritti e lavoro, in «Roma», 11
giugno 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo La testa dura
dei fatti e le visioni innegabili, 12 giugno 2018]. 1746 – La sinistra
sconfitta ma non ancora sepolta, in «Roma», 18 giugno 2018 [anche in «Il
Mattino», ed. di Salerno, col titolo Un nuovo socialismo per la nuova sinistra,
19 giugno 2018]. 1747 – Ambiente e cervello: un dialogo continuo, in “«Roma»,
25 giugno 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo Tra anoressia
dei valori e bulimia dei consumi, 26 giugno 2018]. 1748 – Se la nostra Europa
rinnega la vocazione umanitaria, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 3 luglio
2018. 1749 – La perdita d’influenza della classe operaia, in «Roma», 9 luglio
2018. 1750 – Guardiamo la storia come “Magistra Vitae”, in «Roma», 16 luglio
2018. 1751 – Immigrati, il razzista della porta accanto, in «Roma», 23 luglio
2018. 168 1752 – L’indifferenza convive con l’odio, dal giudice xenofobo a
Federica, in «La Città», 24 luglio 2018. 1753 – Il mondo cattolico argine al
razzismo, in «Roma», 30 luglio 2018. 1754 – Sud nel baratro. Governo assente,
in «Roma», 6 agosto 2018. 1755 – Renato Cangiano, l’anima del premio Salvatore
Valitutti, in «La Città», 11 agosto 2018. 1756 – Basta proclami, ora servono i
fatti, in «Roma», 20 agosto 2018. 1757 – La democrazia “sostituita” dai social,
in «Roma», 27 agosto 2018. 1758 – Dalla Chiesa l’appello in difesa
dell’ambiente, in «Roma», 3 settembre 2018. 1759 – L’ignoranza “democratica”
che genera i populismi, in «Il Mattino», 11 settembre 2018 [anche in «Roma» col
titolo La storia è il sapere più vicino alla politica, 10 settembre 2018]. 1760
– Amendola, le lettere della libertà, in «La Città», 14 settembre 2018. 1761 –
Bergoglio e la dura critica al populismo dilagante, in «Roma», 24 settembre
2018. 1762 – Verso la “dittatura della maggioranza” [titolo originale del
giornale: Verso una dittatura delle fake-news], in «Roma», 1 ottobre 2018. 1763
– Perché i populisti odiano la storia, in «Roma», 15 ottobre 2018. 1764 –
Scivoliamo verso il baratro con gli apprendisti stregoni, in «Roma», 22 ottobre
2018. 1765 – Il nemico non è alle porte, ma il pre-fascismo sì, in «Roma», 5
novembre 2018. 1766 – Salerno e la sua storia, in «Cronache della sera», 9
novembre 2018. 1767 – Ecco come nascono i governi autoritari, in «Roma», 12
novembre 2018. 1768 – Dalle veline fasciste ai messaggi grillini, in «Roma», 19
novembre 2018. 169 1769 – Dalle donne parta una rivolta civile, in «Roma», 26
novembre 2018. 1770 – I preoccupanti dati del rapporto Censis, in «Roma», 10
dicembre 2018. 1771 – Diritti umani ancora calpestati nel mondo, in «Roma», 17
dicembre, 2018 * * * 2019 B) 1772 – Dilthey zwischen Universalismus und
Relativismus, in «Aoristo. Journal of Phenomenology, Hermeneutics and
Metaphysics», n. 3, 2019, pp. 84-102. 1773 – Etica e storia in Troeltsch, in
«Aoristo. Journal of Phenomenology, Hermeneutics and Metaphysics», n. 3, 2019,
pp. 227-237. 1774 – “Mis” Vico, in «Cuadernos sobre Vico», 32, 2018 [pubblicato
nel 2019], pp. 53-59. 1775 – La lingua della Scienza Nuova di Vico. In dialogo
con una inedita interpretazione della lingua vichiana, in F. Cacciapuoti (a
cura di), Il corpo dell’idea. Immaginazione e linguaggio in Vico e Leopardi, Roma,
Donzelli, 2019, pp. 103-106. 1776 – Un appuntamento mancato? Il carteggio
AndersLukács 1964-1971, in A. Meccariello, A. Infranca (a cura di), Vie
traverse. Lukács e Anders a confronto, Trieste, Asterios, 2019, pp. 19-30. 1777
– Bloch e l’alleanza tra diritto naturale e diritti umani, in «Infiniti Mondi»,
III, 2019, n. 11, pp. 25-39. 1778 – L’Europa nelle riflessioni di Benedetto
Croce e Thomas Mann, in Aa.Vv., Adotta un filosofo, pogetto di formazione
rivolto alle scuole superiori, Fondazione Campania dei Festival, pp. 29-31. 170
1779 – Il marxismo di Antonio Banfi, in «Critica Marxista», n. 4-5, 2019, pp.
71-80. 1780 – Bloch e l’utopia della Menschenwürde, in «B@belonline», n. 5,
2019, pp. 107-118. 1781 – Storia filosofica o storia storica della filosofia?,
in «Iride», n. 86, 2019, pp. 75-80. 1782 – Weimar 100 anni dopo. Lezioni da
meditare, in «Historia Magistra», XI, 2019, n. 30, pp. 5-8. C) 1783 –
Recensione di F. Esposito, R. Guerriero, Il capitano. La storia di Donato
Vestuti, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s., n. 72, dicembre 2019, pp.
190-193. G) 1784 – Rivolta anti-Salvini, disobbedire è giusto, in «Roma», 7
gennaio 2019. 1785 – Sconfessare le promesse dei nostri governanti, in «Roma»,
14 gennaio 2019. 1786 – Così vogliono demolire la democrazia parlamentare, in
«Roma», 21 gennaio 2019. 1787 – Lelio Basso e quell’incontro mancato tra Marx e
Kant, in «Salerno Sera», 26 gennaio 2019. 1788 – Il giorno della memoria e la
nuova barbarie, in «Roma», 28 gennaio 2019. 1789 – Italiani abbindolati grazie
alla paura, in «Roma», 4 febbraio 2019 [anche in «Salerno Sera», 4 febbraio
2019, col titolo Prigionieri dell’istrionismo salviniano]. 1790 – La pietà
verso i morti e i diritti dei migranti, in «Roma», 11 febbraio 2019 [anche in
«Salerno Sera», 11 febbraio 2019, col titolo Il volto salato dei naufraghi].
1791 – L’eutanasia del Sud, morte lenta indotta, in «Roma», 18 febbraio 2019
[anche in «Salerno Sera», 18 febbraio 2019, col titolo Giù le mani dalla
Costituzione]. 171 1792 – L’attacco alla storia: rischia di scomparire, in
«Roma», 25 febbraio 2019 [anche in «Salerno Sera», 25 febbraio 2019, col titolo
Giù le mani dalla storia]. 1793 – La “Città” e quei pirati sulla nave di Teseo,
in «Salerno Sera», 3 marzo 2019 [anche in «Roma» col titolo La truffa delle tre
tavolette de “La Città” di Salerno, 4 marzo 2019]. 1794 – Diseguaglianze e
violenze, una svolta per le donne, in «Roma», 11 marzo 2019 [anche in «Salerno
Sera» col titolo Non una di meno, 11 marzo 2019]. 1795 – Nuova Zelanda,
l’orrore si rinnova, in «Salerno Sera», 18 marzo 2019 [anche in «Roma», col
titolo Abbassiamo a 14 anni il diritto al voto, 18 marzo 2019]. 1796 – Ius
soli, è solo un dovere, in «Salerno Sera», 25 marzo 2019 [anche in «Roma», col
titolo Populismo e sovranismo, una miscela pericolosa, 25 marzo 2018]. 1797 –
No al suprematismo neofascista, in «Salerno Sera», 1 aprile 2019 [anche in
«Roma» col titolo Il populismo italiano e la tragedia umanitartia, 1 aprile
2019]. 1798 – La letteratura e il senso del viaggio, in «Salerno Sera», 8 aprile
2019 [anche in «Roma» col titolo “Giornalisti all’inferno”, romanzo
sorprendente, 8 aprile 2019]. 1799 – Difendiamo la storia o si vendicherà, in
“«Roma», 29 aprile 2019 [anche in «Salerno Sera», 1 maggio 2019, col titolo La
storia un bene comune, se ignorata si vendica]. 1800 – La necessità storica
dell’Europa, in «Salerno Sera», 6 maggio 2019 [anche in «Roma», 6 maggio 2019,
col titolo Un’Europa unita contro il nazionalismo]. 1801 – Per Roberto
Visconti, in «Le Cronache», 6 maggio 2019. 1802 – Decreto sicurezza? È
incostituzionale, in «Roma», 13 maggio 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo
La Costituzione non resti sulla carta, 14 maggio 2019]. 1803 – La dittatura
della Rete, in «Salerno Sera», 20 maggio 2019 [anche in «Roma» col titolo La
dittatura informatica dei social network, 20 maggio 2019]. 172 1804 – Il
Presidente Mattarella è l’ombrello protettivo, in «Roma», 3 giugno 2019 [anche
in «Salerno Sera» col titolo Meno male che Mattarella c’è, 2 giugno 2019]. 1805
– L’ambiente, occasione persa per la sinistra, in «Roma», 10 giugno 2019 [anche
in «Salerno Sera» col titolo La sinistra si allei con i movimenti ecologisti,
11 giugno 2019]. 1806 – L’eredità perduta della classe operaia, in «Roma», 17
giugno 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo La sinistra riscopra la “fatica
del lavoro”, 18 giugno 2019]. 1807 – La vergognosa politica antimeridionalista,
in «Roma», 24 giugno 2019. 1808 – Attenti al populismo penale, in «Salerno
Sera», 8 luglio 2019 [anche in «Roma» col titolo Populismo penale e sequestro
di persone, 8 luglio 2019]. 1809 – I testi Invalsi e la crisi del linguaggio
pubblico, in «Salerno Sera», 14 luglio 2019 [anche in «Roma» col titolo La
scuola scivola sui testi Invalsi, 15 luglio 2019]. 1810 – È un pianeta dominato
dall’egoismo del potere, in «Roma», 29 luglio 2019 [anche in «Salerno Sera» col
titolo Fermiamo la catastrofe ecologica, 29 luglio 2019]. 1811 – Il Sud è
all’ultima spiaggia, in «Salerno Sera», 5 agosto 2019 [anche in «Roma» col
titolo Sud, serve un piano di emergenza, 5 agosto 2019]. 1812 – Tutti uniti
contro il pericolo sovranista, in «Salerno Sera», 11 agosto 2019 [anche in
«Roma» col titolo Il sussulto di orgoglio del premier Conte, 12 agosto 2019].
1813 – Amazzonia-Italia, così va in fumo il futuro, in «Salerno Sera», 26
agosto 2019 [anche in «Roma» col titolo Il balletto PD-5Stelle mentre il mondo
brucia, 26 agosto 2019]. 1814 – Il “nuovo umanesimo” e l’insidia dei
fondamentalismi, in «Salerno Sera», 2 settembre 2019 [anche in «Roma» col
titolo L’umanesimo di Conte e i rifugiati in alto mare, 2 settembre 2019]. 1815
– Non basta aver messo Salvini fuori gioco, in «Roma», 9 settembre 2019 [anche
in «Salerno Sera» col 173 titolo Il governo giallorosso tiri fuori il coraggio,
9 settembre 2019]. 1816 – Diritti umani universali e libera circolazione, in
«Roma», 16 settembre 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo Ma i diritti
dell’uomo sono ancora universali?, 20 settembra 2019]. 1817 – L’urlo di Greta e
il silenzio assordante delle istituzioni, in «Salerno Sera», 29 settembre 2019
[anche in «Roma» col titolo E il decreto sull’ambiente ancora una volta
rinviato, 30 settembre 2019]. 1818 – Se l’essere umano batte l’algoritmo, in
«Roma», 14 ottobre 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo Se l’algoritmo
diventa rischio per la democrazia, 15 ottobre 2019]. 1819 – Il dramma dei
curdi, un popolo senza, in «Roma», 21 ottobre 2019 [anche in «Salerno Sera» col
titolo La tragedia dei curdi e l’ipocrisia dell’Europa, 22 ottobre 2019]. 1820
– Finalmente un disegno per la difesa della storia, in «Roma», 28 ottobre 2019
[anche in «Salerno Sera» col titolo Il ritorno della storia contro la civiltà
delle fake news, 29 ottobre 2019]. 1821 – Ricordando la caduta del muro di
Berlino, in «Roma», 4 novembre 2019 [anche in «Salerno Sera», col titolo 30
anni fa la caduta del muro, ma l’Europa dov’è?, 3 novembre 2019]. 1822 – Ora la
classe operaia si scuota dal letargo, in «Salerno Sera», 17 novembre 2019
[anche in «Roma» col titolo La lenta “dismissione” della lotta operaia, 18
novembre 2019]. 1823 – Quello delle sardine è un mare promettente, in «Salerno
Sera», 2 dicembre 2019 [anche in «Roma» col titolo Le sardine e la polemica
contro i populismi, 2 dicembre 2019]. 1824 – Dai movimenti di piazza
un’inversione di tendenza, in «Roma», 9 dicembre 2019 [anche in «Salerno Sera»
col titolo Se le classi più deboli invocano l’uomo forte, 9 dicembre 2019].
1825 – La brexit e i doveri della sinistra europea, in «Salerno Sera», 16
dicembre 2019 [anche in «Roma» col tito- 174 lo La classe operaia cambiata, lo
sfruttamento invece no, 16 dicembre 2019]. 1826 – Altri tagli alla ricerca, ci
vuole uno sciopero,in «Roma», 23 dicembre 2019 [anche in «Salerno Sera» col
titolo Tagli alla ricerca, l’Italia sempre più povera, 23 dicembre 2019]. * * *
2020 A) 1827 – Sulla Pandemia. Appunti di un filosofo in quarantena,
Sant’Egidio del Monte Albino, Francesco D’Amato Editore, 2020. 1828 – G.
Cacciatore, M. Kaufmann, F. Lomonaco (hrsg.), Zwischen Sprache und Geschichte.
Vicos Methode beim Umgang mit Recht und Naturrecht, Berlin, Peter Lang, 2020.
1829 – G. Cacciatore, M. Sanna, A. Mascolo (a cura di), Le trame dell’ingegno.
Vico nell’orizzonte della cultura iberica e iberoamericana, «Rocinante. Rivista
di filosofia iberica, iberoamericana e interculturale», ISPF-CNR, n. 11/2018-2019,
Napoli, Diogene Edizioni, 2020. 1830 – Giuseppe Capograssi e Pietro Piovani.
Riflessioni sull’opera di due maestri, Lettera ad un amico a guisa di
introduzione di F. Tessitore, Napoli, Liguori Editore, 2020. B) 1831 – Der
Zusammenhang zwischen der Universalität des Gesetzes und der empirischen
Geschichtlichkeit der Civitas in Vicos Begriff der Bürgerschaft, in G.
Cacciatore, M. Kaufmann, F. Lomonaco (hrsg.), Zwischen Sprache und Geschichte.
Vicos Methode beim Umgang mit Recht und Naturrecht, Berlin, Peter Lang, 2020,
pp. 61-69. 175 1832 – Una “svolta” negli studi su Vico in Spagna. Note in
margine all’opera di José M. Sevilla Fernández, in G. Cacciatore, M. Sanna, A.
Mascolo (a cura di), Le trame dell’ingegno. Vico nell’orizzonte della cultura
iberica e iberoamericana, «Rocinante. Rivista di filosofia iberica,
iberoamericana e interculturale», ISPF-CNR, n. 11/2018-2019, Napoli, Diogene
Edizioni, 2020, pp. 41-51. 1833 – Carlo Pisacane. Risorgimento e questione
sociale, in L. Melillo (a cura di), La lezione di Carlo Pisacane, «Il Pozzo»,
1, 2020, pp. 7-12. 1834 – Mito e storia in Vico, in P. De Lucia, S. Langella,
M. Longo, F.L. Marcolungo, L. Mauro, S. Zanardi (a cura di), Storiografia
filosofica e storiografia religiosa. Due punti di vista a confronto. Scritti in
onore di Luciano Malusa, Milano, Franco Angeli, 2020, pp. 176-181. 1835 – Una
nuova edizione de La Giovinezza di De Sanctis, in M. Trotta (a cura di),
Francesco De Sanctis tra storia e memoria. Sulla Giovinezza, edizione critica
di Giovanni Brancaccio, Milano, Biblion Edizioni, 2020, pp. 9-18. 1836 –
“Meine” Vico, in A. Krause, D. Simmermacher (hrsg.), Denken und Handeln.
Festschrift für Matthias Kaufmann zum 65. Geburtstag, Berlin, Duncker &
Humblot, 2020, pp. 217-222. 1837 – L’identità ritrovata, in L. Libero (a cura
di), Cosa ci resta? Ambiente, Risorse, Cultura, prefazione di T. Montanari,
Salerno, Oèdipus edizioni, 2020, pp. 22-24. 1838 – Banfi e il marxismo tra
razionalismo critico e materialismo storico, in C. Tuozzolo (a cura di), Marx
in Italia. Ricerche nel bicentenario della morte di Karl Marx, Roma, Aracne
Editrice, 2020, t. I, pp. 163-196. 1839 – Aldo Masullo. Tra fenomenologia della
soggettività e geneaologia dell’umano, in «Infiniti Mondi», n. 14, 2020, pp.
203-205. 1840 – Per la critica della “storia debole”, in G. Cirillo, M.A. Noto
(a cura di), Stagioni e ragioni della storia. Le 176 “vie” della ricerca di
Aurelio Musi, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2020, pp. 29-37. 1841 – Il
centenario della Società Salernitana di Storia Patria, in «Rassegna Storica
Salernitana», n.s., n. 73, giugno 2020, pp. 3-6. 1842 – Per Aldo Masullo,
maestro di vita e di pensiero, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s., n. 73,
giugno 2020, pp. 199-201. 1843 – Fausto Andria. Una vita esemplare, in «Rassegna
Storica Salernitana», n.s., n. 73, giugno 2020, pp. 203-207. 1844 – Croce und
Dilthey: die zwei Wege des europäischen Historismus, in R. Faraone, M. Kaufmann
(hrsg.), Benedetto Croce, Deutschland und die Moderne, Berlin, Peter Lang,
2020, pp. 93-102. 1845 – Per Antonello Giugliano, in «Archivio di Storia della
Cultura», XXXIII, 2020, pp. 1-4. 1846 – Per la critica della “storia debole”,
in G. Cirillo, M.A. Noto (a cura di), Ragioni e stagioni della storia. Le “vie”
della ricerca di Aurelio Musi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2020, pp. 29-37.
1847 – La ricerca della giustizia tra diritto religione e società, in C. De
Angelis, A. Scalone (a cura di), Πολιτεία. Liber amicorum Agostino Carrino,
Milano-Udine, Mimesis, 2020, pp. 95-106. 1848 – Dilthey. La ragione tra storia
e vita, in M. Cambi, R. Carbone, A. Carrano, E. Massimilla (a cura di),
Ragione, razionalità e razionalizzazione in età moderna e contemporanea,
Napoli, Federico II University Press, 2020, pp. 307-314. 1849 – Ricordo di
Antonello Giugliano (in collab. con F. Lomonaco), in «Logos», n. 15 (2020), pp.
5-6. C) 1850 – Recensione di U. Baldi, A un semplice cenno del capo. La lotta
alla Gambardella nel 1974, un episodio di “Resistenza Operaia”, Nocera
Superiore (SA), Polis SA 177 Edizioni, 2020, in «Rassegna Storica Salernitana»,
n.s., n. 3, giugno 2020, pp. 211-214. F) 1851 – Presentazione di A. Franco, F.
De Martino, A. Odierna (a cura di), “Studi storici sarnesi”. L’affermazione dei
“civili”: il caso degli Hodierna, Torre del Greco, ESA Edizioni scientifiche ed
artistiche, 2020, pp. V-IX. 1852 – Introduzione a La filosofia del Tressette,
Sant’Egidio del Monte Albino, Francesco D’Amato editore, 2020, pp. 7-12. 1853 –
Introduzione (in collab. con M. Martirano) a G. Cantillo, La filosofia del
soggetto. Saggi su etica, comunità e storicità, Sant’Egidio del Monte Albino,
Francesco D’Amato editore, 2020, pp. 5-7. 1854 – Prefazione a A. Mondillo, L.
Barricelli, G. Ianniello, M. Dalmotto (a cura di), Fratelli di libertà, fumetto
sulla rivolta cilentana del 1828, Castelnuovo Cilento, B.M.P. Group, 2020. G)
1855 – Il ruolo dell’Italia nella guerra Usa/Iran, in «Roma», 6 gennaio 2020
[anche in «Salerno Sera» col titolo Venti di guerra, Italia e Europa senza
voce, 6 gennaio 2020]. 1856 – Habermas, la forza del pensiero, in «Il
Quotidiano», ed. di Salerno, 20 gennaio 2020. 1857 – Il proporzionale è più
democratico, in «Roma», 20 gennaio 2020 [anche in «Quotidiano del Sud», ed. di
Salerno, col titolo Proporzionale prima di tutto, 22 gennaio 2020]. 1858 –
Nell’anno centenario una sinergia virtuosa tra stampa e Storia Patria, in
«Quotidiano del Sud», ed. di Salerno, 26 gennaio 2020. 1859 – Il 27 gennaio
resti per sempre nella coscienza collettiva, in «Salerno Sera», 27 gennaio 2020
[anche in 178 «Roma» col titolo Comprendere è impossibile, conoscere è
necessario, 27 gennaio 2020]. 1860 – Il diritto per la comprensione dei
processi storici e sociali, in «Salerno Sera», 4 febbraio 2020. 1861 –
L’olocausto dimenticato e l’alleanza in Turingia, in «Roma», 10 febbraio 2020 [anche
in «Il Quotidiano», ed. di Salerno, col titolo Le democrazie, il lavoro e i
rischi della libertà, 12 febbraio 2020]. 1862 – Ambiguità del masaniellismo, in
«Il Quotidiano», ed. di Salerno, 21 febbraio 2020 [anche in «Roma» col titolo
Il libro: Masaniello e il masaniellismo, 24 febbraio 2020]. 1863 – Serve un
vaccino contro la paura, in «Roma», 2 marzo 2020 [anche in «Il Quotidiano», ed.
di Salerno, col titolo Il morbo è la paura, 9 marzo 2020]. 1864 – Stare uniti
per superare singoli interessi e paure, in «Roma», 9 marzo 2020 [anche in «Il
Quotidiano», ed. di Salerno, col titolo Una task force europea per tutelare la
salute, 10 marzo 2020]. 1865 – Quando la fratellanza viene prima della libertà,
in «Roma», 16 marzo 2020 [anche in «Il Quotidiano», ed. di Salerno, col titolo
Sì a barriere protettive pur di bloccare il virus, 18 marzo 2020]. 1866 – Non
violiamo la dignità dell’essere umano, in «Roma», 23 marzo 2020. 1867 – Il
valore insostituibile delle persone anziane, in «Roma», 30 marzo 2020. 1868 –
Qualche filosofo parla di invenzione ma sbaglia, in «Roma», 20 aprile 2020.
1869 – Aldo Masullo, il filosofo che amava confrontarsi, in «Roma», 27 aprile
2020. 1870 – “Prudenza” e “buon senso” negli attacchi al governo, in «Roma», 4
maggio 2020. 1871 – La drammatica ricaduta sulla occupazione, in «Roma», 11
maggio 2020. 1872 – Liberi di circolare ma con prudenza, in «Roma», 18 maggio
2020. 179 1873 – Virus: ancora sui più indifesi: gli ultrasessantenni, in
«Roma», 25 maggio 2020. 1874 – La vita di ogni uomo ha la medesima dignità, in
«Roma», 1 giugno 2020. 1875 – Una miope politica per l’occupazione, in «Roma»,
8 giugno 2020 1876 – Dopo la fratellanza arrivano i nuovi caini, in «Roma», 22
giugno 2020. 1877 – Mondragone, si rischia uno scontro esplosivo, in «Roma», 29
giugno 2020. 1878 – La pandemia e il crollo del tasso di natalità, in «Roma», 6
luglio 2020. 1879 – Il “massacro sociale” è stato quasi compiuto, in «Roma», 13
luglio 2020. 1880 – Unione europea: rinvio? È un colpo mortale, in «Roma», 20
luglio 2020. 1881 – L’Europa sta a guardare la dittatura di Erdogan, in «Roma»,
27 luglio, 2020. 1882 – Libertà non significa fare ammalare gli altri, in
«Roma», 3 agosto 2020. 1883 – Abbiamo il diritto di difendere la vita, in
«Roma», 10 agosto 2020. 1884 – Amarante e la necessità della storia, in «La
Città», 21 agosto 2020. 1885 – I pericoli del Sì al Referendum, in «Roma», 24
agosto 2020. 1886 – Confindustria e Sindacati un conflitto che preoccupa, in
«Roma», 31 agosto 2020. 1887 – Il Sud, nuovo motore per la ripresa del Paese,
in «Roma», 7 settembre 2020. 1888 – L’indignazione di Saviano sull’attuale
politica del PD, in «Roma»,14 settembre 2020. 1889 – Costruire un’unione
europea della salute, in «Roma», 21 settembre 2020. 1890 – Migranti, è
inaccettabile la solidarietà solo per i rimpatri, in «Roma», 28 settembre 2020.
180 1891 – Misure immediate contro gli irresponsabili, in «Roma», 5 ottobre
2020. 1892 – Bergoglio alla fraternità aggiunge l’amicizia sociale, in «Roma»,
12 ottobre 2020. 1893 – I giovani e il concetto di responsabilità, in «Roma»,
19 ottobre 2020. 1894 – Salute ed economia in conflitto, in «Roma», 26 ottobre
2020. 1895 – Il concetto di libertà non significa arbitrio, in «Roma», 2
novembre 2020. 1896 – Joe Biden, uniti contro pandemia e razzismo, in «Roma», 9
novembre 2020. 1897 – La sconcertante discrasia tra potere centrale e locale,
in «Roma», 16 novembre 2020. 1898 – Il difficile compito del Presidente Biden,
in «Roma», 23 novembre 2020. Giuseppe Cacciatore. Keywords: Vico, Croce,
Labriola, Bruno, dallo storicismo allo storicismo, linceo, centro di studii
vichiani. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Cacciatore” – The Swimming-Pool Library.
Caffarelli (Faenza). Filosofo.
Grice: “You’ve gotta love Caffarelli; he philosophised on all that I’m
interested in, notably “il bello,” whih he relates to art, communication, love
– and the rest of it!” Figlio di Colombo ed Edvige Regoli, e una figura
singolare nel panorama culturale faentino della prima metà del Novecento. Frequenta
la Scuola di musica di Faenza ed il Liceo musicale di Bologna, dove consegue il
diploma di composizione. Direttore della Scuola di musica e autore dei poemi
scenici "Galeotus" e "Kisa Gotami". Gli anni tra la fine del secolo e lo scoppio
del primo conflitto mondiale sono un periodo di intensa e tormentata ricerca
interiore, caratterizzata dall'allontanamento dalle credenze religiose
tradizionali. Gli esiti mistico-esoterici della sua ricerca accentuarono
progressivamente il suo isolamento e la sua solitudine. In ambito locale ebbe
stretti rapporti con i cattolici "autonomisti" della Lega democratica
nazionale murriana e postmurriana, collaborando a diverse iniziative pubblicistiche
quali l'Azione di Donati e Cacciaguerra, la «Rivista bibliografica», «La
Rivolta ideale». Partecipa al concorso
della Casa Sonzogno di Milano per opere liriche da far rappresentare Teatro
alla Scala con un lavoro dal titolo Galeotus, " poema scenico in 4 azioni
per la musica", grazie al quale acquisì una discreta fama presso il
panorama musicale italiano Si avvicina
agli ideali antroposofici di Steiner, diventando uno dei primi e principali
esponenti di questa corrente in Italia. La sua piena adesione alla dottrina
steineriana trova espressione ne "L'arte nel mondo spirituale”, vero e
proprio manifesto di un'estetica antroposofica. Di analoga ispirazione furono
il poema musicale "Adonie" e
il dramma "Ikhunaton". Molto attento alle rinnovazioni culturali
della sua epoca, collabora con Pratella, e partecipa alle attività del Cenacolo
Baccarini dove conobbe Campana. Organista presso la cattedrale di Faenza. Oltre
alla sua attività musicale si segnalano anche traduzioni dal tedesco e saggi
filosofici. Volle donare il suo archivio e la sua biblioteca alla Biblioteca
Comunale Manfrediana di Faenza che li conserva tuttora. Il Comune di Faenza
acquisì il fondo. La loro acquisizione completa avvenne anche grazie alla
volontà di Silvestrini, dell'associazione faentina Amici dell'arte.
Testimonianze coeve parlano di "una decina fra bauli e casse pieni di
manoscritti che si trovano in un disordine impressionante". A tale
donazione si aggiunse anche il pianoforte utilizzato da Caffarelli, tuttora
conservato presso la biblioteca. Partendo
dalla antroposofia musicale sviluppa un sistema armonico comprendente la
tavolozza dei dodici suoni della scala cromatica e che egli chiama sistema
dodecamorfo, secondo il quale la musica deve divenire immagine e manifestazione
traendo le sue fonti in una sfera spirituale. Così egli afferma nel saggio L'arte
nel mondo spirituale. La musica non e una esteriore costruzione di un tema
piacevole ma intreccio di suoni-forze, rapporti di suoni-forme, ricami di suoni-movimenti-archetipi.
Tende a crear forme espansive, delle quali il nucleo germinale è suono archetipo.
Così prosegue nel suo Saggio sull'Armonia sintetica. In questo senso è
possibile considerare il ciclo epta-fonico accordale come il generatore del
susseguente ciclo ultra-epta-fonico, precisamente come la gamma epta-fonica
diatonica genera il ciclo cromatico, e perché l'analogia sia piena, come la
gamma dia-tonica di sette suoni ne genera altri cinque cromatici, così il ciclo
epta-fonico accordale genera altri cinque accordi ultra-eptafonici e cromatici,
che sono la sua completa espansione materiale. L'accostamento che noi facciamo
di queste profonde parole al mondo armonico non è arbitrario e fantastico, ma
implicito nella natura stessa delle cose. E di nuova purissima luce illumina il
mondo armonico, e svela così nuovi rapporti e nuove possibilità, che il mondo
dei suoni ci appare essere un sistema, come un universo di suoni, che nella
generazione e nella vita ri-specchia fedelmente le leggi cosmiche e le
manifesta come vita sonora. Musica Messa in Mib per cori virili a tre voci ed
organo, Galeotus. Silfo: commento musicale per orchestra al poemetto in prosa
di Arturo Onofri. Le anime orfane: canto per violoncello e pianoforte. Triodia
seconda. L' arte nel mondo spirituale: tre saggi come introduzione a una conoscenza
spirituale-cosmica dell'arte (Montanari, Faenza). Saggio sull'Armonia
Sintetica. Doppia generazione delle armonie. L'armonia come co-espressione Disegno storico sulla evoluzione della Sonata,
Il segreto di Boito. Gli orizzonti esoterici dell'arte. Beethoven e la Gioia
(in "I nostri quaderni. Esoterismo
e fascismo. Il movimento antroposofico italiano durante il regime fascista, in
Esoterismo e Fascismo. Un enigma esistenziale. Lamberto Pietro Gaetano
Caffarelli. Lamberto Caffarelli. Keywords: l’armonia come co-espressione,
armonia virile, coro virile. Boito, eptafornia, cromatismo, sistema
dodecamorfo, saggi filosofici, teoria dell’armonia, armonia ultra-eptafonica,
armonia cromatica, armonia dodecamorfica, coro virile, armonia virile, armonia
come co-espressione virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caffarelli” – The
Swimming-Pool Library.
Caffi: Grice: “I like
Caffi; like me, he is a pragmatist; therefore it’s all about ‘homo faber,’
never ‘sapiens,’ the cooperation makes the ego – l’altro makes the io –
‘individuo e societa’ – he has also explored myth, and was friend with the
Riviera author Albert Camus!” -- Andrea Caffi (San Pietroburgo) filosofo. Intellettuale poliedrico e ribelle, fu sodale
di figure di primo piano del panorama del Novecento europeo, quali Albert
Camus, Carlo Rosselli e Nicola Chiaromonte. Nacque a San Pietroburgo, in una
famiglia italiana: il padre, Giovanni Caffi, era emigrato da Belluno in Russia,
dove lavorava come costumista ai Teatri Imperiali; la madre, Emilia Carlini, è
una figura di cui i biografi non sono riusciti a ricostruire con precisione le
origini, ma si ipotizza che fosse nata in Francia da emigrati italiani. Già da adolescente, liceale alla scuola
Internazionale di San Pietroburgo, Andrea Caffi si avvicinò alle idee
socialiste e al movimento operaio. In questo periodo giovanile affiancò agli
studi e al confronto dialettico l'esperienza diretta che gli fece conoscere da
vicino le condizioni di sfruttamento dei lavoratori e dei contadini nella
Russia zarista. Partecipò alla Rivoluzione russa del 1905, che esplose proprio
nella sua città, fu arrestato e condannato a tre anni di reclusione. Uscirà di
galera con un anno di anticipo, grazie all'intercessione delle autorità
consolari italiane, e prenderà la via dell'esilio in Germania. Trascorsi alcuni
anni a Berlino, dove svolse anche studi universitari in filosofia, si trasferì
a Firenze e poi a Parigi, in un contesto internazionale che di lì a poco
sarebbe stato segnato dall'esplosione della Prima guerra mondiale, vista da
Caffi come uno scontro fra potenze portatrici di idee progressiste e il
conservatorismo dell'area germanica. Dapprima volontario nell'esercito francese
e poi arruolato in quello italiano, rimase ferito due volte, la seconda proprio
sul fronte dolomitico bellunese, nella zona da cui proveniva suo padre, e
infine fu assegnato al servizio di comunicazione e propaganda. Dopo la guerra, mentre allacciava relazioni
nel mondo culturale italiano, decise di tornare in Russia dove collaborò con i
suoi vecchi compagni socialisti libertari dei quali condivideva anche la condanna
indirizzata ai metodi bolscevichi, ritenuti autoritari e violenti. In seguito a
questa attività politica critica nei riguardi della Rivoluzione d'ottobre,
Caffi fu arrestato: dopo le carceri zariste conobbe dunque quelle leniniste.
Uscito di prigione, rimase un altro periodo a Mosca, prima di rientrare in
Italia, nel 1923, dove collaborò con alcune riviste dell'area socialista. Nel
1926 il degenerare della situazione politica, con l'imporsi della dittatura
fascista, costrinse Caffi a fuggire in Francia, a Versailles e poi a Parigi
dove si guadagnò umilmente da vivere prevalentemente lavorando come traduttore
e redattore per alcune case editrici. In questo periodo intensificò i rapporti
con l'antifascismo in esilio avvicinandosi in particolare al gruppo di
Giustizia e Libertà, con il quale peraltro entrò rapidamente in conflitto
contestandone la prassi politica. Caffi aveva via via consolidato una visione
marcatamente pacifista e nonviolenta, professando un'idea di democrazia
socialista e libertaria nella quale i mezzi non possono contrastare con i fini
(da qui la condanna dell'autoritarismo sovietico e del fallimento sostanziale
della democrazia occidentale). Nel 1940 si trasferì a Tolosa dove fu tra gli
animatori della resistenza antinazista, in stretto collegamento con le comunità
di emigrati e esiliati italiani. Nel
1948 tornò a Parigi, dove lavorò per le edizioni Gallimard e fu come sempre una
figura attiva nel dibattito politico e intellettuale dell'epoca. Fu sepolto presso il Cimitero del
Père-Lachaise a Parigi. Pensiero Il suo
attivismo ne segnò l'intera esistenza da cosmopolita, sotto forma di dialoghi
conviviali, di lettere e articoli sulla stampa, di rapporti epistolari. Si formò "non tanto sulla lettura dei
classici, quanto dal contatto diretto con i problemi delle classi subalterne e
dalla fascinazione giovanile esercitata dalle tendenze nichiliste di cui era
permeata una certa intelligencija russa. Risultò inoltre fondamentale per la
formazione del pensiero politico il sentimento di “filia” verso il genere
umano, e come su questo concetto di naturale empatia che lega le esistenze
umane Caffi puntasse per un definitivo superamento dello Stato e delle sue
logiche gerarchiche e di dominio".
Nel suo intenso girovagare per l'Europa, nella sua attenzione
all'attualità sociale e politica e nel tempo dedicato alle relazioni
interpersonali risiede probabilmente la spiegazione della scarsa produzione
letteraria lasciata da Caffi, il cui pensiero è più facilmente deducibile dalla
mole di articoli in riviste e di corrispondenza con altri intellettuali che non
da grandi opere scritte in modo strutturato.
Opere Critica della violenza, con prefazione di Nicola Chiaromonte,
Bompiani, Milano, 1966 (nuova edizione con prefazione di Nicola Chiaromonte e
postfazione di Alberto Castelli, Roma, Castelvecchi, ). Critica della violenza,
con prefazione di Nicola Chiaromonte, e/o, Roma, 1995 Appunti su Mazzini, in A.
Castelli , L'Unità d'Italia. Pro e contro il Risorgimento, edizioni e/o, Roma,
1997 (seconda edizione Roma, e/o, ) Note
Nicola Del Corno, Il socievole eremita, Mondoperaio, 10/: "aveva
iniziato a scrivere di politica su riviste antifasciste, e più precisamente sul
Quarto Stato di Carlo Rosselli e di Pietro Nenni, e su Volontà di Roberto
Marvasi e Vincenzo Torraca. Su questa rivista pubblicò le famose Cronache di
dieci giornate a proposito dell'assassinio di Matteotti". Nicola Del Corno, Il socievole eremita,
Mondoperaio, 10/47. Gino Bianco, Scritti
politici di Andrea Caffi, Firenze, La Nuova Italia, 1970 Gino Bianco, Un
socialista "irregolare": Andrea Caffi intellettuale e politico
d'avanguardia, Cosenza, Edistampa Lerici, 1977.
88-87280-18-5 Lamberto Borghi, Società e nonviolenza nel pensiero di
Andrea Caffi, in «Linea d'ombra», n. 93, 1994 Giampiero Landi , Andrea Caffi:
un socialista libertario : atti del convegno di Bologna, 7 novembre 1993 / G.
Armani ... [et al.] ; introduzione di Gino Bianco, Pisa, BFS, 1996. Alberto
Castelli, Andrea Caffi e la rivoluzione delle coscienze, in Eretici e
dissidenti. Nuovi protagonisti del XIX e XX secolo tra politica e cultura, G.
Angelini e A. Colombo, Milano, Franco Angeli, 2006. Alberto Castelli,
Socievolezza e amicizia nel pensiero di Andrea Caffi, in De amicitia. Scritti
dedicati a Arturo Colombo, G. Angelini e M. Tesoro, Milano, Franco Angeli, 2007, 172–181. Marco Bresciani, La rivoluzione
perduta : Andrea Caffi nell'Europa del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2009.
Alberto Castelli, Andrea Caffi. Socialismo e critica della violenza, in L'altro
Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, P.P. Poggio, Milano, Jaca
Book, , 393–408. Alberto Castelli , H.
Arendt, A. CaffiGoodman, D. Macdonald, "politics" e il nuovo
socialismo. Per una critica radicale del marxismo, Genova-Milano, Marietti
1820, . Marco Bresciani ,Cosa sperare? Il carteggio tra Andrea Caffi e Nicola
Chiaromonte: un dialogo sulla rivoluzione (1932-1955), Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane, . Andrea Caffi
sezione biografica nel sito della rivista Una città. Fondo Andrea Caffi,
Biblioteca Gino Bianco Andrea Caffi, Quaderni di appunti digitalizzati dalla
Biblioteca Gino Bianco. Filosofia Politica
Politica Filosofo del XX secoloPolitici italiani del XX
secoloGiornalisti italiani Professore1887 1955 1º maggio 22 luglio San
Pietroburgo ParigiAntifascisti italiani. Caffi. Keywords. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Caffi” – The Swimming-Pool Library.
Caffo (Catania).
Filosofo. Grice: “I love Caffo; he has philosophised on most things *I* did! My
favourite has to be his ‘bestiary’: “A is for ‘Animal’” – and that’s all the
bestiary we need! He has also explored ‘altruism,’ and is in general concerned
with a conceptual analysis of my basic key expressions: ‘communicazione’
(‘l’origine della communicazione umana’), ‘logica e linguaggio’ (one of the
five questions of philosophy, for him), etc. – He has dialogued with
syntacticians, as I did, when I met Chomsky!” -- Grice: “Caffo is a Griceian in the sense
that he considers, like I do, there is a continuum between non-human animal and
human animal – indeed, he is so into this, that he calls his ism ‘animalism,’
which I suppose is o-kay; perhaps we would differ on the implicatura of the
term: which seems to be that ‘umano’ is JUST ‘animale’ -- Urmson and Hare loved to play witht his:
“There is an animal in the backyard.” “I don’t see it.” “You won’t – it’s a
bacteria.” “There is an animal in the backyard.” “I don’t see it.” “It’s Aunt Lucy.””
Si è laureato in filosofia alla Università degli Studi di Milano e ha
conseguito il dottorato, sempre in Filosofia, presso l’Università degli Studi
di Torino dove, sotto la guida di Maurizio Ferraris, ha poi anche lavorato al
Laboratorio di Ontologia diretto da Tiziana Andina. È noto soprattutto per le
sue teoria sugli Animal Studies, il postumano contemporaneo, e l’antispecismo
(“debole” nella sua versione), per cui è stato anche criticato da alcuni media.
Ne La vita di ogni giorno (edito da Einaudi nel ) si è invece occupato di
filosofia in senso più ampio e divulgativo proponendo una "alternativa
filosofia". In Fragile umanità. Il postumano contemporaneo (Einaudi, ),
"si interroga su quale possa essere il nuovo paradigma di vita destinato a
sostituire l'Homo Sapiens". Dal
insegna Ontologia presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di
Torino; insegna anche alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, alla Scuola
Holden e al Made Program della Accademia di Belle Arti Rosario Gagliardi a Siracusa.
È collaboratore de La Lettura, scrive saltuariamente anche sulle pagine
culturali de La Sicilia, L'Espresso, il manifesto e il Corriere della Sera. Ha
un blog su The Huffington Post. Dirige la rivista Animot: l’altra filosofia ed
è opinionista di varie trasmissioni televisive, come Tagadà o Porta a
Porta. Per le sue posizioni
antispeciste, interviene spesso su reti televisive e radiofoniche italiane e
straniere, oltre che in festival culturali. La sua teoria dell'antispecismo
debole è dibattuta nella stampa specializzata. Ha pubblicato le sue ricerche su
riviste filosofiche quali The Monist, Journal of Animal Ethics, Domus, Rivista
di Estetica. È stato definito da Maurizio Ferraris «il più promettente,
versatile e originale tra i giovani filosofi italiani». A Milano ha co-fondato
il caffè letterario Walden. Nel è
entrato a far parte, appoggiandone il progetto, nell'Advisory Panel italiano di
Diem25. Nel febbraio , conduce assieme a Margherita D'Amico un programma
radiofonico su Rai Radio 3, intitolato "L'umanità e altri animali".
Ha partecipato come speaker alla edizione
del FestivalFilosofia di Modena con una lectio sull'antropocentrismo e
le "persone non umane". È co-curatore del Public Program della Triennale di Milano. Altre opere: “Soltanto per loro, Roma, Aracne);
“Azione e natura umana” Rimini, Fara); “La possibilità di cambiare,
Milano-Udine, Mimesis); “Flatus Vocis, Novalogos, Aprilia); “Adesso l'animalità,
Perugia, Graphe); “Il maiale non fa la rivoluzione, Casale Monferrato, Sonda);
“Margini dell’umanità, illustrazioni di Tiziana Pers, Milano-Udine, Mimesis); “Il
bosco interiore, Casale Monferrato, Sonda); “Del destino umano. Nietzsche e i
quattro errori dell'umanità” Prato, Piano B); “La vita di ogni giorno, Torino,
Einaudi); “Fragile Umanità. Il postumano contemporaneo, Torino, Einaudi); "28
anni. O della filosofia giovanile", in H. D. Thoreau, La Disobbedienza
Civile, Einaudi, Torino); Vegan. Un manifesto filosofico, Torino, Einaudi); “Il
cane e il filosofo. Lezioni di vita dal mondo animale, Milano, Mondadori); Dopo
il COVID 19. Punti per una discussione, Milano, Nottetempo); Quattro Capanne. O
della semplicità, Milano, Nottetempo); Un'arte per l'altro. L'animale nella
filosofia e nell'arte, Firenze, goWare, Edizione cartacea: Graphe, Perugia); “Radicalmente
liberi: A partire da Marco Pannella, Milano-Udine, Mimesis); “Così parlò il
postumano, a cura di. E. Adorni, Aprilia, Novalogos);“A come Animale, Milano,
Bompiani);“Manifesto per gli animali, Roma-Bari, Laterza);“Costruire Futuri.
Migrazioni, città, immaginazioni, Milano, Bompiani);“A partire da Tiziano
Terzani, con prefazione di Angela Terzani, Pordenone, Safarà);“Intromettersi,
Elèuthera, Milano.Antispecismo. Specismo.Leonardo Caffo. Keywords:
disobbedienza, “Homo sapiens sapiens”, homo, uomo, umano, humanus, Anthropos,
aner, maschio, vir, virilita. Specismo, anti-specismo, sub-specismo, homo
sapiens sapiens. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caffo” – The Swimming-Pool
Library.
Calboli Grice: “I like
Calboli – he philosophised on much the same subjects I did – colour words
(‘that tie seems/is light blue’) – the philosophy of perception, and parabola,
i.e. expression. If I use ‘utterance’ broadly so does Calboli with his
‘parabola.’ One big difference is that he is a nobleman, who owned a castle
that he ceded to Firenze – I did not!” Altre opere: “Exercitatio philosophica”
(Romae, Giovanni Zempel). Marchese. De Calboli. Paulucci. Paolucci. Francesco
Giuseppe Paulucci di Calboli. Francesco Paulucci di Calboli. Keywords: de
parabola, parabola, parola, parlare, hyperbola, cyclo, ellipsis. exercitatio
philosophica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Calboli” – The Swimming-Pool
Library.
Calderoni (Ferrara).
Filosofo. Grice:”Calderoni knew everything – he corresponded with Lady Viola,
as I didn’t – and he pleased the lady, because the lady knew that Calderoni was
using all the right words – none of the heathen ‘mean,’ but all about ‘segno’
and ‘segnare’ and ‘intenso,’ – It is drawing from the Calderoni tradition that
I arrive at the meaning-as-intention paradigm I’m identified with! And note
that sous-entendue is Millian for implicatura!” -- Grice: “Calderoni is a
genius; he is, like me, a verificationist – I mean, read my ‘Negation’: the two
examples I give relate to sense data: “I’m not hearing a noise,’ and ‘That is
not red.’ Calderoni tries the SAME! He founded a verificationist (or
‘pragmatist’ club at Firenze), and he corresponded with Peirce when I only
decades later, tutored my tutees on
him!” -- Grice: “Calderoni is serious
about truth-conditivions having to be understaood as ‘assertability’ conditions
– and these assertability conditions providing much of the ‘sense;’ admittedly,
he uses ‘sense’ more loosely than I do – but on the good side, he uses
‘nonsense’ in a tigher way than I do!” Teorico del diritto italiano
(pragmatismo analitico italiano). Studia a Firenze e si laurea a Pisa,
con “I postulati della scienza positiva ed il diritto penale”. Collabora alle
riviste Il Regno e Leonardo, su cui scrive una serie di saggi, in autonomia o
in collaborazione col maestro Vailati. Presenta comunicazioni in diversi
Congressi internazionali: Monaco, Parigi,
e Ginevra. Mantiene contatti e scambi con Halévy, Boutroux, Russell,
Couturat, Brentano, Ferrari, Pikler, Mosca, Pareto, Croce, Juvalta, Peirce e
molti altri. Il saggio “Disarmonie economiche e disarmonie morali”.
Successivamente ottiene una libera docenza a Bologna, dove tiene un corso sul pragmatismo dal titolo “L’assiologia,
ossia, la Teoria Generale dei valori”. Scrive in collaborazione con Vailati “Il
Pragmatismo” raccolta di tre articoli introdotti nella Rivista di Psicologia
applicata (“Le origini e l'idea fondamentale del Pragmatismo”; “Il Pragmatismo
ed i vari modi di non dir niente” – “L'arbitrario nel funzionamento della vita
psichica”. Trascorsa l'estate a Rimini a curare i sintomi d'una bruttissima
depressione, ritorna a Firenze, dove inizia nuovamente il corso universitario
su Teoria Generale dei valori all'Istituto di Studi Superiori, senza riuscire a
terminarlo, dal momento che, a causa di un aggravamento repentino
dell'esaurimento mentale, abbandona la docenza. Muore in una casa di salute ad
Imola. Mette sotto analisi e in correlazione senso comune e scienza attraverso
lo strumento meta-discorsivo della filosofia, intendendo costruire conoscenza e
scienza coi mattoni della teoria della mente, e usando come riferimenti
culturali analisi brentaniana di stati mentali e teoria dinamico-funzionale della
mente di James e di Pikler. Saggi di riferimento sono due: è con “La Previsione
nella teoria della conoscenza” che intende analizzare condizioni di verità e
condizioni di validità della conoscenza, sia discernendo enunciazioni sensate
da non-sensi sia indicando un metodo di verificazione, nell'istanza verificazionista
di illustrare a fondo i meccanismi della conoscenza (verificazione e verità),
oltre all'obiettivocome accade anche nel Peirce di avvicinare teoria della
conoscenza e semantica dei discorsi (verità e senso); ed è col successivo
saggio, “L'arbitrario nel funzionamento della vita psichica” che, accettata
l'eredità vailatiana, intende mostrare l'esistenza di una stretta connessione
tra attività conoscitive dell'uomo comune ed attività conoscitive dello scienziato,
accostando tale saggio teoria della mente e teoria della scienza. La lettura
sinottica dei due testi conduce a riconoscere la tendenza a costruire una
teoria dell’animo caratterizzata da riferimenti costanti alla teoria della
conoscenza e alla teoria della scienza. Precorrendo semiotica moderna e
verificazionismo schlickiano, costuisulla scia di una certa tradizione
continentale e americana indicata dal maestro Vailati- riconosce nei discorsi
umani un trait d'union irresistibile tra senso e verità, e ri-definisce la
norma di Peirce come norma di senso e norma di verificazione [articoli di
riferimento sono due: col breve Il senso dei non sensi, intende esaminare cosa sia senso di una
enunciazione e se esista un unico criterio idoneo a differenziare enunciazioni
sensate da non-sensi o a costruire un concreto metodo di verificazione, unendo
all'istanza semantica di attribuire un senso ai vari modelli di mezzo
comunicativo inter-individuale (intersoggetivo) il sincero desiderio analitico
di rinvenire rimedi sicuri contro l'indeterminatezza naturale di termini,
enunciazioni e discorsi e la conversazione umana, ed essendo cassa di risonanza
all'obiezione contestualistica vailatiana contro l'atomismo semiotico
dominante. Nel successivo saggio Il Pragmatismo e i vari modi di non dir niente
totalmente debitore alla prolusione vailatiana al corso di Storia della
meccanica “Alcune osservazioni sulle questioni di parole nella storia della
scienza e della cultura”, mostra di essere abile concretizzatore dell'eredità
vailatiana tentando di mettere in stretta combinazione intuizione dell'artificialità
della conversazione umana e nozione di analisi semantica come rimedio all'indeterminatezza
dei mezzi di comunicazione. La lettura sinottica dei due saggi conduce a
riconoscere in Calderoni tendenze a costruire una teoria della conversazione
umana caratterizzata da riferimenti a convenzionalismo e contestualismo, a
rifiutare derive essenzialistiche nell'uso di termini ed enunciazioni e a
sottolineare la valenza farmaceutica o terapeutica dell'analisi semantica.
Nella posizione giusfilosofica, l'etica, nella sua dimensione totale, è
tematica centrale nella sua filosofia, introducendo costui una modalità
rivoluzionaria di considerare tale materia; In lui e in altri autori d'ambiente
simile come Juvalta e Limentanila tradizionale distinzione tra etica normativa o
prescrittiva ed etica descrittiva o meta-etica è considerata insufficiente. Si
mostra sostenitore di un orientamento innovativo in merito al discorso sullo
statuto dell'etica. Se l'etica normativa o materiale domina l'intero corso
della storia dell'etica umana, il riconoscimento della valenza descrittiva o
metaetica o formale dell'etica è ricorrenza teoretica dell'intero ottocento,
avendo effetto sulla cultura ottocentesca la tendenza rinascimentale
a considerare l'etica come una scienza o un calcolo more geometrico.
L'Ottocento concretizza antecedenti tendenze ad estendere all'ambito dell'etica
i metodi delle scienze naturali e delle scienze sociali. Questa intuizione e il
riconoscimento della centralità dell'analisi lo conducono ad introdurre e
sostenere un nuovo modello di statuto dell'etica: etica è una scienza
costituita dai tre rami della meta-etica, dell'etica descrittiva e dell'etica
normativa. Più che al discorso meta-etico, si orienta verso l'etica descrittiva
e normative. In merito alla meta-etica non esiste un discorso diretto dei
nostri due autori, laddove invece etica descrittiva e etica normativa sono
esaminate coàn riferimenti diretti ed attraverso articoli mirati. Saggi a cui
si rinviasenza tener conto della tesi di laurea I Postulati della Scienza
Positiva ed il Diritto Penale dove è comunicata una visione immatura e non
ancora coerente dell'etica- sono: con Du role de l'évidence en morale, del Calderoni
introduce una coerente critica dell'etica normativa tradizionale mettendo sotto
esame utilitarismo e kantismo etici, e con il saggio successivo “De l'utilité
“marginale” dans les questions d'etìque, introduce un tentativo di indicare
un'etica descrittiva che si serva dello strumentario dell'economia; tali
tentativi si concretizzano nel saggio “Disarmonie economiche e disarmonie
morali” contenente estesi accenni a tutti i rami della nuova scienza e mirando
ad estendere in maniera definitiva all'etica lo strumentario della recente
scienza economica;. In “L'imperativo categorico” c'è la reazione al neokantismo
etico e ad un saggio di Croce in cui si recensiva, con molte riserve,
Disarmonie; con i brevi La filosofia dei valori ed Il filosofo di fronte alla
vita morale, ci si limita a riassumere tematiche e discussioni antecedenti,
introducendo chiarimenti ed attuando delucidazioni. La lettura sinottica dei
testi di Calderoni e Vailati conduce ad indicare l'esistenza di tre aree
tematiche essenziali: un discorso sulle funzioni e sullo statuto dell'etica
(meta-teoria etica); un dibattito sul
senso di termini, enunciazioni e discorsi morali e; una discussione su
funzionamento effettivo ed ideale di un sistema morale (etica descrittiva e
normativa). Ssi chiede cosa sia l'etica, che senso abbiano i suoi discorsi e
che modello di normatività essa abbia, e si domanda come descrivere in maniera
esauriente i cosiddetti mercati etici o come massimizzare l'incidenza dello
scienziato della morale nella modificazione delle scelte sociali. Più che
Vailati, è lui ad estrinsecare l'«atteggiamento» giuridico del Pragmatismo
italiano, nella sua riflessione ius-criminalistica sulle nozioni di volizione,
libertà e responsabilità. La discussione in merito alle relazioni tra volizione
e diritto è fervente all'interno della cultura italiana dell'Ottocento. Secondo
Scuola Classica del diritto criminale, volizione umana è base del momento
d'attribuzione della sanzione, in connessione al libero arbitrio. Secondo la Scuola
Positiva del diritto criminale è necessario sconnettere tale nozione dal
concetto di libero arbitrio, non esistendo azioni incausate (scevre da co-azione)
e cadendo volizione insieme a libero arbitrio. Affronta il dilemma della
volizione (distinzione tra atto volontario e involontario) all'interno del suo
cammino di chiarimento e ridiscussione dei termini di discorso ordinario e
discorsi tecnici, stimolato da alcune antecedenti intuizioni di Vailati; e
analizza tale dilemma in due diversi momenti della vita, in I Postulati della
Scienza Positiva ed il Diritto Penale, e sia nel saggio leonardiano Credenza e
volontà. Intorno alla distinzione fra atti volontari ed involontari, sia in un
successivo contributo su altra rivista La volontarietà degli atti e la sua
importanza sociale. Il saggio introduce un'analisi culturale ricchissima di
riferimenti al diritto e immersa nello scenario storico del conflitto
ottocentesco tra determinismi ed indeterminismi. Il dibattito tra scuola
classica italiana (classici) e Positivisti sulle condizioni teoretiche del
diritto criminale evidenzia il suo tentativo conciliazionista di mediare tra
due diversi modi di intendere libertà, sanzione e metodo scientifico,
ricorrendo ad un uso attento della ri-definizione tanto caro a Vailati e
all'intera analitica novecentesca. Pescando dalla metodica analitica lo
strumento della ri-definizionemutuato dal maestro Vailati e riassunto con
estrema abilità nella recensione al volume I presupposti filosofici della
nazione del diritto di Del Vecchio -, avvia un tentativo di «conciliazione» tra
scuola classica e positivisti, in cui, la riflessione sul libero arbitrio e il
diritto di punire costituisce la premessa per affrontare con un chiaro apparato
concettuale l'ulteriore questione dei metodi di studio del diritto penale, attraverso
un'esaustiva ridiscussione dei binomi libertà/ causazione (momento di
attribuzione del delitto), tutela/ difesa (momento di esecuzione della
sanzione) e metodo astratto/ concreto (momento di determinazione del delitto).
Rconosce due sono i punti teorici fondamentali nei quali la scuola positiva si
pone come avversaria alla classica. L'uno è rappresentato dalla questione del
libero arbitrio, l'esistenza del quale la scuola classica postula come
fondamento della imputabilità, mentre è dall'altra scuola negata. L'altro punto
è la gius-tificazione del diritto di punire, che l'una pone nella giustizia,
l'altra nell'utilità, nella necessità in cui si trova la società di difendersi
dai suoi nemici. Per misurare la nozione di responsabilità introdotta
nell'orizzonte culturale italiano d'inizio secolo scorso da lui è necessario
muoversi tra i sue due contribute scarsamente esaminati dalla dottrina moderna
(I Postulati della Scienza Positiva ed il Diritto Penale e Forme e criteri di
responsabilità, senza trascurare come tale concetto mai si distacchi dalla
distinzione vailatiana tra atto volontario e atto involontario o dal binomio
libertà/causazione, tanto cari al dibattito ottocentesco tra Positivisti e
scuola classica italiana del diritto criminale. Gli accenni vailatiani e calderoniani
ai temi della volizione, causazione, libertà confluiscono alla luce di suo attento
ed autonomo esame in un'assai moderna
definizione del concetto di responsabilità, in cui il negatore del libero
arbitrio che non sia vittima di equivoci sul valore di tal negazione, sarà
portato invece a vedere nella libertà e responsabilità, qualità esistenti
nell'uomo, ma analoghe alle altre, atte cioè ad essere studiate nella loro
genesi e nella loro evoluzione, suscettibili di gradazioni infinite, e
subordinate alla presenza di certe condizioni e concomitanti, a concepire in
altri termini la responsabilità piuttosto dinamicamente ed evoluzionisticamente,
che staticamente. Pur se tale concetto sottenda contaminazioni etiche
d'inaudita modernità e benché in Forme e criteri di responsabilità sia
delineata l'idea dell'esistenza di un confine sottile tra morale e diritto, nascendo
come teorico del diritto- si mantiene saldo nel declinare come il termine
“responsabilità” si usi all'interno dell'universo di diritto criminale e
diritto civile; nella trattazione calderoniana «responsabilità» si immettecome
in Hegel/Weber nel contesto della vita statale o sociale e si smarcacome nel
«marxismo occidentale» moderno e in Lévinasdai risvolti individualistici
dell'etica antica. Calderoninell'incipit di Forme e criteri di responsabilità-
scrive: Pochi termini trovano, in ogni campo della vita sociale, così
larga applicazione come il termine responsabilità. L'andar soggetto a
responsabilità è la sorte, spiacevole o piacevole, di chiunque vive nella
compagnia dei propri simili e si trovi in una data compagnia di dati suoi
simili. Nulla potrebbe meglio servire a distinguere l'uomo vivente in società
da un ipotetico uomo vivente in stato di natura” che l'essere il primo avvolto
in una fitta rete di responsabilità. Responsabilità se ne trovano dovunque gli
uomini vengano in urto o in conflitto fra di loro. La riflessione calderoniana
incentrata sulla strada della critica sia nei confronti del nazionalismo
corradiniano sia nei confronti del socialismo rivoluzionario si innesta su un
contesto storico e culturale come l'Italia di Giolitti d'inizio Novecento caratterizzato
dalla intensa dialettica civile tra nazionalismi e socialismi, e, all'interno
di essa, tra visioni moderate (nazionalismo liberale e socialismo riformista) e
concezioni estreme (nazionalismo estremo e socialismo rivoluzionario). Gli auoi
interventi di pubblicati sulla rivista di Corradini scrive M. Toraldo di
Francia- possono distinguersi dal punto di vista dei contenuti e cronologicamente
in due gruppi. Del primo fanno parte gli articoli polemici nei confronti del
nazionalismo propagandato dalla rivista, nel secondo invece si collocano gli
ultimi due scritti, di impronta nettamente “anti-socialista”. La via
dell'analisi sul nazionalismo moderato (liberale e liberista) sondata nelle
recensioni vailatiane a Pareto, Dumont, Trivero, Tombesi, Pierson, Einaudi, Rignano
e Landryè battuta da lui in maniera minuziosa alla luce dei due saggi “Nazionalismo
antiprotezionista? e Nazionalismo borghese e protezionista” nella direzione
d'una estesa accusa al nazionalismo di Corradinia. Moderati dall'interesse
vailatiano verso il socialismo riformista, internazionalista, e non
materialista di darwinismo sociale kiddiano e anti-materialismo effertziano, I
suoi moniti critici nei confronti del socialismo rivoluzionario si estrinsecano
invece con consueta chiarezza nei due contribute, “La questione degli scioperi
ferroviari” “e La necessità del capitale”. Dalle colonne della rivista
corradiniana Il Regno, isulla scia del moderatismo del maestro Vailatitenta di
maturare una concezione intermedia tra estremismi di destra e di sinistra,
idonea a sacrificare valori e ideali della borghesia italiana alla tutela del
bene comune dell'intera nazione e stato italiano, in nome della necessaria
vitalità di un'industria e di un'economia in inarrestabile ascesa internazionale;
a dettacontra Prezzolini- si deve sacrificare il “bene comune” dei ceti sociali
abbienti sull'altare del bene nazionale: Per me personalmente, che mi
sento anzitutto italiano e poi borghese, mi auguro che l'Italia sappia
sbarazzarsi di tutti gli elementi dannosi ed infecondi che la dissanguano e la
opprimono. Dovesse anche, in questo processo di eliminazione, andar sacrificata
buona parte della borghesia attuale, per essere sostituita (attraverso il
meccanismo democratico) da elementi più vitali e più utili che sono veramente
gli interessi della Patria. Scritti, Firenze, La Voce. voll. I e II M. Toraldo di Francia, Pragmatismo
e disarmonie sociali. Scritti sul Pragmatismo (Roma) Pragmatismo analitico. Dizionario
biografico degli italiani. Mario Calderoni. Keywords: fascismo, politica
italiana, stato italiano, comunita, bene comune. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Calderoni” – The Swimming-Pool Library.
Caloprese: (Scalea). Filosofo.
Grice: “Strictly, Caloprese taught Metastasio to be a Cartesian – I know
because I relied on him for my ‘Descartes on clear and distinct perception.’” “I
love Caloprese; he brings philosophy to Arcadee – The keyword is ARCADIA – or
GLI ARCADI, if you must – Caloprese tutored Metastasio – Arcadia is like Oxford
– et in Arcadia ego – or Cambridge – the other place – it’s a bit of a utopia –
of course, Arcadia as a REAL place is in the Pelopponesus, as any Lit. Hum.
Oxon. schoolboy knows! – But Caloprese brings it to civilisation, i.e. to the
Roman-Italian tradition! Figlio di Carlo e da Lucrezia Gravina, che si
sposarono a Roggiano, cade così la leggenda che fosse nato quando i suoi
genitori ancora non si conoscevano. Da onestissimi parenti, di condizione
cittadina, nella terra di Scalea, posta nel paese dei Bruzii, trasse i suoi
natali. Celebre pel suo ingegno, e per l'universale sua letteratura. Visse molto
tempo in Napoli, e in Roma; finalmente tornato alla patria vi morì. I suoi
genitori si resero presto conto dell'intelligenza del loro figliolo e lo
avviarono a studiare a Napoli sotto la guida di Porcella Si laurea successivamente nel campo a lui più
congeniale della medicina. Rimase sempre in rapporto da Scalea, dove si era
ritirato, con i centri intellettuali di Napoli e Roma dove risiedeva suo cugino
e dove lo stesso Caloprese soggiorna. A Scalea fondò una scuola che ebbe una certa rinomanza e partecipò
all'attività culturale dei Medinaceli traendone ispirazione per i suoi
interessi antiautoritari e antidogmatici scientifici e filosofici che lo fecero
schierare dalla parte di coloro che subordinavano l'indagine naturalistica al
metodo razionale di tipo cartesiano.
Vico, Metastasio , Giannone lo qualificano come gran renatista ma la sua reale posizione filosofica è
piuttosto da rintracciare in chi era a lui più vicino: il suo discepolo Spinelli
che racconta come Caloprese, tornato da Napoli a Scalea visse dei proventi di
alcune sue proprietà praticando la medicina solo per i suoi amici e i poveri e
che descrive la scuola di Caloprese come fondata sullo studio letterario e
scientifico e l'esercizio fisico nella convinzione del rapporto tra corpo ed
animo. Alla lettura dei testi di Cartesio si associava quella di Lucrezio e
Bacone secondo l'ideale teorico di una sintesi di sperimentalismo e atomismo,
razionalismo e mentalismo. Altre opere: “Dell'origine degli imperi. Un'etica
per la politica”. Uomini illustri delle Calabrie”. Meravigliosa vivezza
d'ingegno ed acume d'intendimento comparvero in lui sin dai più teneri anni, e
gran diletto di apprendere; per cui gli avveduti genitori, solleciti di
coltivare in lui si belle doti, apparati nella patria i primi rudimenti delle
lettere lo inviarono di buon'ora in Napoli per imprendervi l'usato corso degli
studii. Ebbe da prima a maestro delle lettere umane Porcella insigne filosofo a
quel tempo, e non ignobil poeta. Sotto la costui disciplina molto si
approfittò, congiungendo alla fertilità d'ingegno fervente non interrotta
applicazione; di modo che egli fece la soddisfazione del Maestro e dei suoi
genitori, e l'emulazione dei compagni. Nella sua patria intanto per qualche
tempo era egli stato, dove date avea le prime letterarie istituzioni al celebratissimo
suo cugino per madre, Gravina, .ed ebbe il vanto d'istruire nelle materie
filosofiche, in cui era versatissimo, il gran Metastasio, che seco avea per ciò
condotto alla sua patria, come attesta il Metastasio medesimo in una sua lettera
scritta da Vienna. Godeva gran fama come uno dei maggiori cartesiani italiani
('gran renatista' lo dissero, fra gli altri, il Vico e il Giannone). Teorico e
critico della letteratura. Calopresiane. La civil società e il viver civile:
una lettura sociologica delle Lezioni dell'Origine degli Imperij di in «Rivista
di Studi Politici», n. 4, Roma, Editrice Apes, .Dizionario biografico degli italiani.
Pn di Fabri^o Lomonaco 1 Introduzione Scalea il paese
del Caloprese 1; La vita del Caloprese 11; L'estetica e la poetica 15; II
pensiero filosofico, politico e "civile" 22; Caloprese educatore 33.
37 Bibliografia Edizioni delle opere di Gregorio Caloprese 37; Studi generali
sul periodo e sull'ambiente calopresiani 38; Studi sul Caloprese 45; Articoli
brevi sul Caloprese 47; Opere in cui viene trattato il Caloprese 47; Recensioni
sulle opere e sugli studi del Caloprese 52. “Questa è tutta l'idea colla quale
questi maestri della civil prudenza si sono ingegnati di far altrui concepire
la natura del uomo; dopo la quale, non accorgendosi di haver buttato a terra
tutti gli fondamenti della pace e della concordia, e che, se i loro
insegnamenti fossero veri, i pericoli sarebbon in[e]vitabili, tutto il loro
studio non si raggira in altro che in dare precetti di sicurtà, come se
gl'accidenti humani stessero tutti sottoposti a i loro consigli.” Chi è
Gregorio Caloprese? Un altro Carneade, meritevole di interesse speciale per
quegli studiosi, accreditati e no, in cerca del minore, soddisfati o illusi, a
seconda dei casi, del nuovo per il nuovo nel vasto campo della ricerca
storico-filosofica? Questo lavoro di Alfonso Mirto, vivace studioso della
cultura italiana tra Seicento e Settecento, esperto delle relazioni epistolari
tra librai-stampatori europei (dai Borde agli Arnaud, dai Blaeu agli Janson,
dagli Huguetan agli Anisson e agli Associati lionesi) ed eruditi italiani (da
Magliabechi a Cassiano Dal Pozzo, da Carlo Roberto Dati a Leopoldo e Cosimo III
de’ Medici) smentisce un fortunato stereotipo, offrendo agli studiosi questa
Bibliografia del filosofo calabrese, articolata in sei dense sezioni (scritti
di e su Caloprese, opere sul periodo e l’ambiente. Gregorio Calopreso.
Gregorio Caropreso. Gregorio Caroprese. Gregorio Caloprese. Keywords:
naturalism di Lucrezio, renatismo, cartesianismo, impero romano, vita civile,
Vico, Caloprese e Vico, Croce e Caloprese, animo, corpo ed animo, renatismo,
Ariosto, Orlando innamorato, Orlando furioso, passione, filosofia, Arisosto tra
i filosofi, il nuovo Carneade. Refs.: Speranza, “Grice e Caloprese” – The
Swimming-Pool Library.
Caluso (Torino). Filosofo. Valperga:
essential italain philosopher. Grice: “Noble Italians love a long surname, so
this is Valperge-Di-Caluso,” and so Ryle had in under the “C””. Tommaso Valperga di Caluso. Discendente dai
Valperga, nobile famiglia piemontese, nei primi anni della giovinezza si sentì
attratto dalla carriera delle armi. A Malta, ospite del governatore dell'isola,
si addestra alla vita marinara imparando le dottrine nautiche e fu capitano
sulle galee del re di Sardegna. Entrato poi a Napoli nella congregazione dei
padri filippini fu professore di teologia.
Tornato a Torino studia fisica e matematica sotto la guida del Beccaria,
con Lagrange, Saluzzo e Cigna. Frequentatore delle riunioni culturali
sampaoline nelle sale della casa di Gaetano Emanuele a di San Paolo ritrova
l'Alfieri, che aveva conosciuto a Lisbona. Scopre in lui il futuro poeta e tra
loro nacque una profonda amicizia.
Eccelse negli studi filosofici e apprese l'inglese, il francese, lo
spagnolo e l'arabo e conobbe con sicurezza il latino, il greco, il copto e
l'ebraico. Insegna a Torino. Fu direttore dell'osservatorio astronomico di
palazzo Madama, incarico che cede al Vassalli Eandi. Membro della Massoneria. "Le veglie di
Torino, Joseph de Maistre", in: Storia d'Italia, Annali 25, Esoterismo,
Gian Mario Cazzaniga, Einaudi, Torino. Fratello del viceré
di Sardegna. Altre opere: “Literaturae Copticae rudimentum” Parmae, Ex
regio typographaeo); “La Cantica ed il Salmo 18. secondo il testo ebreo
tradotti in versi” (Parma, tipi bodoniani); “Prime lezioni di gramatica
Ebraica” (Torino, Stamperia della corte d'Appello, 1805. 27 giugno . Tommaso Valperga di Caluso, Thomae Valpergae
inter Arcades Euphorbi Melesigenii latina carmina cum specimine graecorum,
Augustae Taurinorum, in typographaeo supremae curiae appellationis; Principes
de philosophie pour des initiés aux mathématiques, Turin, Bianco. Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Renzo Rossotti,
Le strade di Torino. L'‘Orlando Innamorato' in «Giornale storico della
letteratura italiana», Milena Contini, La felicità del savio. Ricerche su
Tommaso Valperga di Caluso, Alessandria, Edizioni dell'Orso. Traduttore in
piemontese dell'incipit dell'Iliade, in «Studi Piemontesi», Milena Contini, Le
riflessioni di Tommaso Valperga di Caluso sulla lingua italiana, in La
letteratura degli italiani. Centri e periferie, Atti del Congresso Adi,
Pugnochiuso D. Cofano e S. Valerio, Foggia, Edizione del Rosone. Ugolini mors.
Traduzioni latine di Inferno XXXIII, in «Dante. Rivista internazionale di studi
su Dante Alighieri», Poetica teatrale:
traduzioni ed esperimenti, in La letteratura degli italiani II. Rotte, confini,
passaggi, Atti del Congresso Adi, Genova A. Beniscelli, Q. Marini, L. Surdich,
DIRAS, Università degli Studi di Genova. Il corpo martoriato. L'interesse di
Caluso per quattro atroci fatti di sangue, in Metamorfosi dei lumi 7: il corpo,
l'ombra, l'eco, Clara Leri, Torino, aAccademia university press, Versione latina di Inferno XXXIII, in «Lo Stracciafoglio».
Plagio dal Villebrune apposto al Petrarca: un'appassionata confutazione di
“meschine, arroganti e scortesi” calunnie sull’Africa, in «Sinestesie», Un
maestro da ricordare, in «Rivista di Storia dell'Torino.” Principi
di Filosofia per gl' Iniziati nelle matematiche di Tommaso Valperga-Caluso
volgarizzati dal Professore Pietro Conte con Annotazioni dell 'Abate Antonio
Rosmini-Serbati (Turin, 1840). See also M. Cerruti's La Ragione Felice e altri
miti del Settecento (Florence, 1973).Caluso: motivi
prerosminiani del sentimento
fondamentale corporeo. demiurgo
piemontese. L’interesse del Caluso per l’omicidio e il “lato oscuro” non
è mai stato indagato, perché la critica, nella rappresentazione dell’abate, ha
sempre privilegiato l’immagine severa e inflessibile di maestro onnisciente e
di saggio imperturbabile, scolpita dai biografi ottocenteschi. Questo ritratto
idealizzato e deformato dell’abate ha generato non pochi equivoci
interpretativi: se si studia la sua vita attraverso i suoi diari e il suo ricco
epistolario e si analizzano con attenzione le sue opere tanto edite quanto
inedite, ci si accorge, infatti, che la sua personalità è tutt’altro che
granitica. Prima di accingersi a esaminare la sua figura è necessario quindi
liberarsi di questi stereotipi: il fatto che l’ottimista abate, come lo definì
il Foscolo, avesse dedicato molti scritti allo studio della ragione non esclude
affatto che egli fosse incuriosito anche dalla parte irrazionale dei uomini,
anzi le sue considerazioni sui “limiti della ragione” si collocano
perfettamente all’interno delle sue riflessioni sulle facoltà
intellettive. L’inedito Della felicità de’ governati, ritrovato presso
l’Archivio Peyron della Biblioteca Naziona. Gli studi calusiani sulla ragione,
e in particolar modo sul rapporto tra ragione e virtù, sono inseriti nelle
opere dedicate alla felicità, tema particolarmente caro a lui, che si impegnò
nell’indagine di questo complesso concetto dalla gioventù fino all’estrema
vecchiaia: è possibile, infatti, seguire l’evoluzione della riflessione del
Caluso sulla felicità dalle lettere al nipote degli anni Sessanta del
Settecento fino al Della felicità de’ governati. Il tema della felicità pervade
tutta la produzione dell’autore; esso non è affrontato solo nella saggistica
filosofica, nelle lettere intime ad amici e parenti e nelle poesie, ma si ritrova
anche nei trattati didattici e in alcune opere erudite, perché e convinto che
il fine di ogni studio fosse la felicità, la quale puo essere conquistata solo
attraverso una profonda passione per le lettere e per le scienze. A
proposito del concetto calusiano di “rassegnazione” si legga il seguente passo,
tratto della lette. Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit. Diderot constata
che nella pratica quotidiana si incontravano uomini felici, pur essendo tu… L’indagine
sulla felicità porta inevitabilmente il Caluso a scontrarsi con lo studio della
ragione. Secondo Caluso, la ragione ha un duplice ruolo: da un lato ci fornisce
gli strumenti adatti a conquistare la felicità, dall’altro ci fa acquisire la
coscienza di non avere sempre il dominio su ciò che accade. La consapevolezza
porta alla rassegnazione, questa rassegnazione però aiuta sì a sopportare i
casi della vita, ma non dona la felicità, come teorizzavano gli stoici. Caluso
pensa, quindi, che i poteri della ragione siano limitati. Questa presa di coscienza
però non lo porta a meditare sul fatto che la felicità possa essere disgiunta
dalla ragione. Infatti, se da un lato ammette che anche il più saggio tra gli
uomini è vittima della sofferenza («né sognai che ad uom concesso / Viver fosse
ognor lieto, o ne’ tormenti / Sdegnerò dir misero il Saggio stesso»), dall’altro
non arriva a constatare, come avevano fatto, per esempio, Diderot e Voltaire,
che spesso nella vita reale gli uomini privi di ragione e di virtù sono felici.
Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., p. 22. Il fatto che le passioni
fossero necessarie all’uo (...) 8 Id., Versi italiani cit., p. 33. Il
manoscritto è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino (ms Varia 176,
4). I manoscritti di L’Amour vaincu (ms Varia 176 1/2, s.1, b. 14) e di Les aventures
du Marquis de Bel (...). La ragione ha anche il fondamentale compito di dominare
le passioni. Ripropone la celebre esortazione platonica alla misura, ripresa da
molti autori, tra i quali Rousseau, che in più luoghi sottolineò come la
ragione avesse la funzione di equilibrare i moti violenti dell’animo. E convinto
che i sentimenti estremi causassero soltanto sofferenza. Non invita certo ad
anestetizzare gli affetti, anzi pensava che non vi fosse nulla di peggio che
una vita senza passioni ed emozioni («Che un dolce pianto è più felice molto /
Non delle noie sol, ma dell’inerte / Ghiaccio d’un cor, cui ogni affetto è
tolto»), ma crede che la morbosità fosse una pericolosa malattia. Nella Ragione
felice egli porta l’esempio della follia amorosa di Polifemo per Galatea. Il
poeta descrive la corruzione del corpo del ciclope, consumato dal desiderio ed
incapace di dominarsi («Odil che fischia, livido qual angue / Le spumeggianti
labbra, e l’occhio in foco / Vedil cerchiato di vermiglio sangue»). L’autore
crede che solo i casti amori, congiunti a «l’arti e gli studi, possano regalare
la felicità. Questo riferimento all’amore platonico è un omaggio alla
principessa di Carignano, dedicataria del poemetto, che teorizza come la
felicità si fonda sulla rinuncia alla passione sia nel saggio filosofico inedito
Sur l’amour platonique sia nei due romanzi, anch’essi inediti, L’Amour vaincu e
Les nouveaux malheurs de l’amour. Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., pp.
213-247. La follia amorosa non è l’unica passione condannata da Caluso. Infatti
deplora ogni sentimento capace di far perdere il controllo delle proprie
azioni. Nel poemetto La Tigrina o sia la Gatta di S. E. la madre donna Emilia,
composto a Napoli, descrive le funeste conseguenze della gelosia, mentre nei “Varia
Philosophica” presenta l’esempio della vendetta: 12 L’inedito Varia
Philosophica, ritrovato presso l’Archivio Peyron della Biblioteca Nazionale
Univers. Onde sono le passioni uno scaldamento di fantasia, una specie di
pazzia, che perverte il giudicio, e ne fa credere che in quella tal cosa
passionatamente voluta vi sia per noi un bene, un piacere, una soddisfazione
che veramente non vi è né la ragione per tanto ve la può trovare. Tale è per
esempio la vendetta. T. Valperga di Caluso, Di Livia Colonna del cittadino
Tommaso Valperga, in Mémoires de l’Académie d. La raccolta fu pubblicata a Roma da Antonio
Barre nel 1555. 15 Id, Di Livia Colonna cit., p. 251. Si dedicò allo studio dei
limiti della ragione in una serie di scritti e appunti su fatti di sangue; nell’articolo
Di Livia Colonna, per esempio, ricostruisce la tragica fine della nobildonna
romana basandosi sulla raccolta di poesie Rimedi diversi autori, in vita, e in
morte dell’ill. s. Livia Colonna14 («Da parecchi versi per la di lei morte si
ritrae che in aprile del 1554, al più tardi, e certamente non prima del 1550,
fu Livia trucidata barbaramente» Quest’opera comprende numerosi componimenti
dedicati a Livia Colonna, scritti da trentuno poeti, tra i quali anche il Caro e
il Della Casa. In un brano del Della certezza morale ed istorica
sottolinea come sia importante esaminar. Cita le seguenti fonti: G.B. Adriani,
Istoria de’ suoi tempi di Giouambatista Adriani genti. Ricorda che vari poeti
avevano scritto «molte dolenti rime» su questo tema e cita un pass. Sottolinea
che la raccolta, non essendo dotata né di prefazione né di note, non permette
di contestualizzare i fatti ai quali si allude nelle rime, ma aggiunge che,
vista la notorietà del casato di Livia, non gli è stato difficile identificare
la donna e reperire informazioni in merito alla sua vita17: Livia nacque prima
del 1522 da Marcantonio Colonna e Lucrezia della Rovere; nel 1539 fu rapita da
Marzio Colonna duca di Zagarolo, che in questo modo riuscì a sposare la bellissima
e ricchissima giovinetta; qualche anno dopo perse, e di lì a poco riacquistò,
la vista18, nel 1551 rimase vedova. Dopo aver elargito queste informazioni, il
Caluso passa a parlare del tema che lo ha maggiormente interessato: 19 T.
Valperga di Caluso, Di Livia Colonna cit., p. 251. Ma qui veniamo al punto, che
ha stimolata la mia curiosità, e richiede più diligenti ricerche. Da parecchj
versi per la di lei morte si ritrae che in aprile del 1554 al più tardi, e
certamente non prima del 1550, fu Livia trucidata barbaramente19. 20
L’abate fa una precisazione sul nome della figlia di Livia: “la figliuola della
nostra Livia da Dom (...) Egli deduce da alcune evidenti allusioni presenti
nelle rime della raccolta che Livia fu uccisa dal proprio genero Pompeo
Colonna, che aveva sposato la figlia Orinzia20 poco tempo prima: 21 Ivi,
p. 252. Rivolta la carta 87 delle mentovate rime si legge, che l’uccisore
l’empio ferro tinse nel proprio sangue, e alla carta 113 si fa dire a Livia già
ferita, che fai figliuol crudele? Pompeo suo genero aveva tratto il sangue
dallo stesso casato, non che da Camillo suo padre, da Vittoria sua madre,
anch’essa Colonna. E qual altro assassino, che un genero, poteva chiamarsi
figliuolo da una donna giovine, che non avea prole maschile?21 Identificato
l’assassino, passa a esaminare i possibili moventi dell’omicidio: Pompeo fu
spinto a uccidere la suocera dall’avidità, dall’ira o dal senso
dell’onore. 22 Ibid. 23 Ivi, p. 253. 7L’autore sembra propendere per il
primo movente: nelle rime, infatti, si legge che la nobildonna fu uccisa «sol
per far ricco un uomo»22; l’abate riflette inoltre sul fatto che, con la morte
di Livia, Orinzia avrebbe ereditato numerosi poderi, sui quali avrebbe poi
messo le mani Pompeo, dato che «ognun sa quanto facilmente dell’aver della
moglie sia più ch’essa padrone un marito fiero e imperioso»23. 24 Ivi, p.
252. 8Per quanto concerne invece il movente dell’ira, suggerito dal fatto che
«la mano del parricida vien detta forse di sangue ingorda più che di vero onor»24,
il Caluso non si profonde in ipotesi specifiche, ma si limita a osservare che i
motivi di astio tra persone «che hanno a fare insieme» sono innumerevoli.
Questo movente può essere collegato con quello dell’onore: la collera di
Pompeo, infatti, potrebbe essere stata causata dalla scoperta o dal sospetto
che la suocera si fosse sposata segretamente con un servo. L’autore trae questa
idea da un verso del Dardano, nel quale si fa riferimento alla mano mozzata di
Livia («E la recisa man, l’aperto lato»), l’abate immagina che Pompeo avesse
mutilato la suocera per punirla d’aver concesso la propria mano a un servitore.
Il Caluso riflette inoltre sul fatto che questo terzo movente può essere
collegato anche col primo, dato che il matrimonio di Livia avrebbe ridotto
l’eredità di Pompeo: 25 Ivi, p. 254. ogni matrimonio della suocera dovea
spiacergli per lo pensiero che in conseguenza n’andrebbe ad altri gran parte di
quello che aspettava dover dalla suocera, quando che fosse, venir a
lui25. 26 G. L. Masetti Zannini, Livia Colonna tra storia e lettere
(1522-1554), in Studi offerti a Giovanni (...) 27 Ivi, p. 293.
L’interpretazione calusiana del verso del Dardano è criticata da Gian Ludovico
Masetti Zannini nel saggio Livia Colonna tra storia e lettere26, nel quale egli
fa numerosi riferimenti al “cittadino” Tommaso Valperga di Caluso, che
centosettant’anni prima, «imbastì su fragilissime basi la trama di un
romanzetto che avrebbe potuto incontrare fortuna, come altri fatti di sangue
del secolo xvi, presso fantasiosi lettori»27. 28 Archivio di Stato di
Roma, Tribunale del Governatore, Processi, sec. xvi, 19 (1554, gennaio 25). 29
I responsabili furono condannati grazie alle deposizioni di testimoni oculari.
30 La testimone oculare Beatrice di Petrella, per esempio, dichiarò che Livia
fu ferita due volte alla (...) 31 Ivi, p. 309. 32 Ivi, p. 310. 33 D. Chiodo, Di
alcune curiose chiose a un esemplare delle “Rime” di Gandolfo Porrino custodito
nel F (...) 9Il Masetti Zannini ricava dai documenti processuali28, trascritti
in appendice al saggio, che Livia fu uccisa da due sicari assoldati da Pompeo,
che non partecipò attivamente all’omicidio della suocera, ma si limitò ad
assistere. I giudici stabilirono che il movente del crimine fu il denaro; nelle
carte del processo e nel documento di condanna contro il mandante Pompeo
Colonna e gli esecutori Paciacca di Terni e Filippo di Metelica, emesso il 16
marzo 155429, non vi è alcun accenno né alla mutilazione della mano30 né al
matrimonio di Livia con un domestico. Lo studioso riflette inoltre sul fatto
che nel xvi secolo difficilmente sarebbero stati scritti e pubblicati «tutti
quegli elogi» su Livia, se quest’ultima avesse «abbandonato la castità vedovile
per unirsi a un servitore»31. Egli quindi ritiene che il Caluso abbia mal
inteso il verso del Dardano, che doveva invece essere interpretato in un altro
modo: «dando a “mano” il senso di “fianco”, avremmo una plausibile spiegazione
del sogno. Infatti Livia scopertosi il “lacero petto” non poteva in tal guisa
mostrare una “mano”, ma un fianco con una profonda lacerazione»32. Contro
questa interpretazione polemizza, giustamente, Domenico Chiodo, che difende le
ragioni del Caluso: «le sue [dell’abate] capacità di lettura erano
infinitamente superiori alle ‘ragionevoli’ supposizioni del nostro
contemporaneo»33. 34 L’opera (mm 198x285) è scritta con inchiostro nero e
grafia minuta su 5 carte scritte sia sul recto(...) 35 È bene precisare che il
Verani si rivolge a un anonimo amico che gli aveva chiesto di commentare il
(...) 36 Di Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga-Caluso: Osservazioni
del Cit. Tommaso Verani Ex-ago (...) 10Anche ai tempi del Caluso era stata
sollevata una critica alla ricostruzione dell’abate; nel manoscritto inedito Di
Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga-Caluso: Osservazioni del Cit.
Tommaso Verani Ex-agostiniano34, conservato presso il Castello di Masino (ms
399), il Verani35 dichiarava di non fidarsi delle parole dei poeti della
raccolta, perché: «la maggior parte di essi soggiornavano lontano dalla
Capitale del Mondo Cattolico e perciò soggetti a ricevere da’ loro
corrispondenti varie o false o almen dubbiose relazioni»36. 37 Scrive il
Verani: «Quanto a Pompeo Colonna, che egli fosse il barbaro uccisore di Livia,
non vi è a (...) 11Egli spiegava diversamente il significato dei versi citati
dal Caluso e in questo modo metteva in discussione sia la colpevolezza di
Pompeo37 sia l’interpretazione del verso del Dardano: 38 Ibid.
Altrettanta fede merita il sogno del Dardano, a cui non comparve Livia con la
recisa man, l’aperto lato, sembrandomi assai più probabile che al primo colpo
ella cercasse di ripararsi colla mano, ed anche al secondo, onde la mano
venisse gravemente ferita, ma non recisa38. 39 L’articolo di lettera è
conservato presso gli Annali calusiani della Biblioteca Reale di Torino (ms
(...) La sua spiegazione ha invece persuaso il Vice Bibliotecario di Mantova
Ferdinando Negri, che in una lettera inedita dell’aprile del 1815 scrisse al
Napione di aver trovato un epigramma latino che confermava le ipotesi del
Caluso39; nel componimento però non vi è un riferimento esplicito alla
mutilazione della mano. 40 Il caso dell’assassinio della
Contessa Aureli aveva interessato anche A. Ferrero Ponziglione, che n (...) 41
Il manoscritto (ms 279, III, 3) è vergato su 6 carte (mm 211x305), compilate
sia sul recto sia sul (...) 12Il Caluso si occupò anche di un altro fatto di
cronaca nera dai risvolti torbidi e brutali: l’assassinio di una contessa da
parte di un ufficiale francese40. Presso il Fondo Peyron sono conservati due
documenti, scritti da mani diverse41, concernenti la vicenda del delitto della
Contessa Aureli della Torricella; le prime due carte contengono una raccolta di
cinque testimonianze intorno a Monsù, ovvero Monsieur, Bresse («Memorie intorno
Monsù Bresse che li 3 Maggio 1747 uccise la Contessa Aureli della Torricella,
nata Colli, famiglia patrizia della Presente Città di Cherasco»), mentre le
successive quattro carte contengono un racconto particolareggiato dei
fatti. 42 Il narratore formula varie ipotesi sulle origini del Bresse
che, a seconda dei diversi indizi, può (...) 43 Sotto il racconto si legge la
seguente nota: «La presente Relazione fu trovata trai Scritti dell’al (...)
13La vicenda esposta nel secondo documento è la seguente: l’ufficiale francese
Monsieur Bresse42 è follemente innamorato della Contessa Aureli della
Torricella che però, pur apprezzando la sua compagnia, non vuole concedersi
all’amico. Dopo un anno di incessanti nonché vani corteggiamenti, domenica 3 maggio
1747, Monsieur Bresse sale a casa della donna e, approfittando di un momento di
intimità, tenta per l’ennesima volta di sedurla; la Contessa Aureli però si
nega in modo risoluto e la fermezza del suo rifiuto umilia a tal punto il
Bresse da farlo cadere in preda a un raptus omicida: egli brandisce la spada e
sferra sei colpi nel petto della donna. La vittima, nel tentativo di
difendersi, si taglia di netto un dito della mano e il suo disperato schermirsi
eccita ancor più il furore sadico del Bresse, che la colpisce sul volto con
pugni e con l’elsa della spada. Finito il massacro, l’assassino chiude la porta
a chiave e torna a casa, dove, colto dal rimorso e dall’orrore delle proprie
azioni, si toglie la vita con un colpo di baionetta in mezzo agli occhi. La
Contessa intanto, non ancora sopraffatta dalla morte, striscia in un lago di
sangue e tenta di alzarsi aggrappandosi alla tappezzeria, che cede per il peso
del corpo e fa ricadere a terra la donna ormai agonizzante. L’Aureli viene
ritrovata qualche ora dopo col volto tumefatto, il petto squarciato dalle
ferite e un orecchio aperto in due. Più tardi viene rinvenuto anche il cadavere
del Bresse, che dopo essere stato conservato tre giorni nella sabbia, viene
seppellito, secondo un ordine giunto da Torino, come si farebbe con «dei cani o
degli asini morti». Il racconto si conclude con una tirata moraleggiante contro
la pratica del cicisbeismo, ormai diffusasi anche presso le «petecchie di
Cherasco» che fanno carte false per procurarsi un «damerino»43. 44 Il suo
comment si trova nella parte inferiore del recto dell’ultima carta. È da
segnalare i (...) 14Il Caluso scrisse alcune considerazioni in merito al
secondo documento del manoscritto44: 45 Ibid. Questa non è relazione, ma
novella, a imitazione di quelle del Boccaccio, benché non molto felicemente
lavorata. Le ultime parole sono d’un impostore, che le ha aggiunte a disegno di
far credere che fosse questo un ragguaglio fatto a un Cardinale. Ma oltre che
vi stanno appiccicate collo sputo, e non sono dello stile del rimanente, non si
confanno in modo alcuno col titolo e cominciamento. Senza dubbio l’autore finì
ove ha posta la stelletta. È qui del rimanente questa novella molto mal concia
del suo copista45. 46 Ibid. L’abate quindi commenta il manoscritto da due
diversi punti di vista: da un lato dimostra la falsità delle dichiarazioni che
chiudono il racconto e dall’altro critica i contenuti e lo stile della
narrazione. Per quanto concerne il primo aspetto, il Caluso fa riferimento
all’ultima frase del testo, scritta dopo un asterisco: «E con questa scrizione
sonomi ingegnato di contentare l’eminenza vostra, alla quale contarlo
profondissime riverenze divotamente mi raccomando»46. 47 Lo scritto
ricalca la struttura tipica della novella; il racconto infatti è preceduto da
un breve r (...) 15Le argomentazioni addotte dall’abate per smascherare la
contraffazione sono convincenti: lo stile dell’ultima frase non si sposa con
quello del racconto e anche il contenuto di questa presunta aggiunta è
svincolato dalle altre parti del testo. La nostra analisi grafologica ha
stabilito che l’ultima frase fu scritta dalla stessa mano del resto del testo;
questo dimostra che il documento posseduto dal Caluso non è l’originale, ma è
una trascrizione realizzata da un copista inesperto, che non si era accorto
della falsificazione. Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, l’abate
sottolinea che il testo del secondo documento non possiede né lo stile né la
struttura di un resoconto rigoroso e oggettivo, ma somiglia a una novella di
poco valore47. Questo giudizio è dovuto allo stile lambiccato e ridondante del
narratore, che in diversi punti cade nel comico involontario. 16Questo
caso di omicidio-suicidio avvenuto nella provincia cuneese del Settecento
stimolò la curiosità del Caluso, che, come abbiamo visto, si era già
interessato al delitto di Livia Colonna. Molti sono i punti di contatto tra i
due fatti di cronaca: in entrambi i casi si ha una bellissima nobildonna
massacrata e mutilata (a Livia, secondo la ricostruzione dell’abate, viene
tagliata la mano, mentre alla Contessa vengono recisi un dito e parte di un
orecchio) da una persona apparentemente fidata e intima (Livia è trucidata dal
genero, mentre la Contessa è uccisa dal proprio cavalier servente).
48 T. Valperga di Caluso, Versi italiani cit., p. 83. 49 Si veda a
questo proposito D. Goldin Folena, Inês de Castro e il melodramma ita-liano: un
incontro. Si ricordi, per esempio, l’Inês de Castro di Antoine Houdar de La
Motte (1723), che ebbe uno straor (...) 17Il Caluso si era interessato anche a
un terzo caso riguardante una bella e sfortunata vittima di un efferato
omicidio dalle conseguenze raccapriccianti: il sonetto Agnese io son, che in
freddo marmo, e spenta dei Versi italiani, infatti, è dedicato a Inês de Castro,
che, come ricorda l’abate nell’intestazione, fu «fatta uccidere nel 1355 da
Alfonso VI re di Portogallo, perché sposa di Pietro suo figlio, poi successore,
che nel 1361 la fece dissotterrare e coronare»48. Le notizie indicate
dall’autore sono corrette: Inês de Castro fu l’amante del principe Pietro di
Portogallo dal 1340 al 7 gennaio del 1355, giorno nel quale fu pugnalata
barbaramente di fronte ai propri figlioletti da due sicari mandati dal re
Alfonso VI, che era stato indotto ad autorizzare questo gesto sanguinoso da tre
consiglieri, preoccupati dalla crescente prepotenza dei fratelli della donna,
che si erano conquistati la fiducia e l’appoggio del principe. Pedro perdette
il senno per lo shock e, raggruppate alcune milizie, mosse guerra contro il proprio
padre, con il quale stipulò una tregua solo grazie all’intercessione della
madre. Una volta divenuto re, Pedro diede sfogo alle proprie vendette e ai
propri deliri: condannò a morte due dei consiglieri del padre, ai quali venne
strappato il cuore di fronte ai cortigiani e ai militari d’alto rango,
costretti ad assistere a questa atroce punizione, e fece disseppellire e
ricomporre il cadavere di Inês, affinché la salma della propria amata fosse
incoronata dal vescovo “regina di Portogallo”. Questo fatto sanguinoso ispirò
molti autori, primo tra tutti Camões, che cantò le lacrime di Inês nei Lusiadi;
nel Settecento e nell’Ottocento la dolorosa vicenda di Inês ebbe ampia fortuna
sia nel mondo del teatro musicale49 sia in ambito tragico50. 18Nel sonetto
calusiano, Inês ricorda la propria triste vicenda terrena e la propria
incoronazione post mortem e sottolinea la crudeltà del re e l’efferatezza
dell’omicidio: Agnese io son, che in freddo marmo, e spenta Ebbi scettro
e corona, in vita affanni; Benché pur di pensar foss’io contenta Fra gli
opposti furor di due tiranni. Amando me, cagion de’ nostri danni L’un, di
me privo Re crudel diventa; Sdegnando, credé l’altro i miei verd’anni Ragion di
Re troncar con man cruenta. Ahi suocero spietato! e in che t’offese Beltà
modesta, umil, se de’ suoi rai Perdutamente il tuo figliuol s’accese? 51
T. Valperga di Caluso, Versi italiani cit., p. 83. Io vinta, mal mio grado il
riamai. E se incolpi Imeneo, che a noi discese, Mio bel fallo sarà che non
peccai.51 Il Caluso si dilungò nella descrizione di un macabro fatto di
cronaca anche nella lettera al nipote Giovanni Alessandro Valperga marchese di
Albery del 24 maggio 1775, nella quale viene narrato l’agghiacciante suicidio
del giovane professore torinese Don Casasopra, che, caduto in un profondissima
depressione, si era tolto la vita nella notte tra il 20 e il 21 maggio del
1775: 52 M. Cipriani, Le lettere inedite dell’abate Tommaso Valperga di
Caluso al nipote Giovanni Alessandro (...) si trovò il letto imbrattato copiosamente
di sangue ed egli con un laccio al collo, soffocato presso a una scanzia, ed
era lacerato di colpi di temperino, che alcuni dicono giungere al numero di
vent’otto. Se ne poté conchiudere che egli cominciò per tentar d’uccidersi sul
letto con volersi tagliare i polsi alle mani e alle tempia e poi si dié tre
colpi di punta verso il cuore, e tardando forse la morte, o che immediatamente
egli siasi anche a ciò trasportato, egli passò a impicarsi. La cagione si può
credere una frenesia nata di malinconia e d’accension di sangue52. 19Se
indaghiamo in modo approfondito i quattro casi che attirarono la curiosità
dell’abate, ci accorgiamo subito che l’elemento che li accomuna è la
brutalizzazione del corpo. Livia e la Contessa Aureli non sono semplicemente
uccise con violenza; i loro corpi sono massacrati in modo gratuito, perché la
maggior parte delle ferite inferte non sono funzionali alla morte delle donne,
ma sono frutto della rabbia e del sadismo degli assassini (la criminologia
contemporanea cataloga questi atti come overkilling, considerandoli una
importante aggravante in sede processuale). In questo modo gli omicidi privano
le donne non solo della vita, ma anche della bellezza e, quel che è peggio,
della dignità: lo spettacolo che si apre a coloro che trovano i cadaveri
infatti è indecente. L’insistere sull’avvenenza delle due donne quindi è
funzionale per creare il contrasto tra ante e post flagitium; il potere
deturpante della follia colpisce la sensibilità del lettore, che
inevitabilmente resta più impressionato di fronte al corpo straziato di due
belle e giovani donne rispetto a quello, per esempio, di uomini adulti.
L’assassino di Livia – anzi, stando alle carte processuali, i due killer
assoldati da Pompeo – mutila la donna per lanciare un messaggio, mentre il
Bresse stacca un dito e parte di un orecchio alla Contessa perché non sa
dominare la propria furia. Tanto i primi quanto il secondo non portano con loro
le parti mozzate per farne un trofeo o una macabra reliquia, perché non sono
mitomani o psicopatici, i primi, infatti, lavorano “su commissione”, mentre il
secondo agisce in preda a un raptus. 53 A. Favole, Resti di umanità: vita
sociale del corpo dopo la morte, Bari, Laterza, 2008, p. 37. 20Nel terzo caso,
quello di Inês, si assiste a un ribaltamento di prospettiva: all’amputazione si
sostituisce la ricomposizione del cadavere; opposto è anche il tipo di follia
che provoca il “gesto”, si passa dal furore omicida al furore amoroso, che
sembra essere ancora più sconcertante. Anche in questo caso il contrasto tra la
«beltà onesta, umil» di Inês e la sua salma ricomposta – o meglio quello che
resta della sua salma dopo oltre due anni di decomposizione – è molto forte;
l’incapacità di dominare il desiderio di vedere riconosciuto il ruolo di regina
all’amatissima defunta porta Pedro a spalancarne la bara (la cui chiusura, ci
insegnano gli antropologi, segna «la fine di ogni possibilità di intervento
sociale, culturale e affettivo sul corpo»)53 e a plasmare una creatura
mostruosa. 21Nel quarto caso è l’accumulo verticale di violenze
autoinflitte a creare ribrezzo: la mente allo stesso tempo si serve del corpo e
lotta contro esso, che da un lato si fa strumento di tortura e dall’altro si
ribella, resistendo alla morte il più possibile. Ciò che sconvolge è la
frenetica impazienza del Casasopra, che desidera a tal punto annullare la
propria esistenza da suicidarsi, potremmo dire, tre volte contemporaneamente.
L’abate quindi osserva una terza tipologia di follia, quella suicida.
22Il Caluso si concentra tanto sul corpo mutilato delle vittime quanto sul
corpo mutilante dei carnefici, che possono trasformarsi a loro volta in vittime
di se stessi; in Don Casasopra carnefice e vittima coesistono, mentre il
Bresse, spinto dal rimorso, decide di togliersi la vita in modo razionale, per
quanto è possibile, contrariamente al professore torinese che cede invece alla
«frenesia». 23Negli occhi del Caluso è assente la pietà cristiana, non
perché egli fosse insensibile alle sciagure, ma perché l’interesse che lo spinge
a osservare questi fatti di sangue è di tipo scientifico; egli, in generale nei
suoi scritti filosofici, evita di introdurre considerazioni di carattere
teologico o semplicemente religioso, perché non sente l’esigenza, provata da
molti suoi contemporanei, di conciliare il cristianesimo con la filosofia dei
lumi o con le correnti filosofiche antiche, i concetti di virtù o di colpa
vanno intesi sempre in senso laico. Lo sguardo scientifico è evidente, per
esempio, nella descrizione del terrificante suicidio del professore torinese.
L’abate non spende parole di pietà per il Casasopra, ma presenta subito le
proprie ipotesi in merito alle cause di un gesto così estremo: egli suppone che
la follia suicida sia stata scatenata dalla combinazione di una causa psicologica
(«malinconia») e una organica («accension di sangue»). Senza la sentenza
scientifica finale, la descrizione del suicidio del Casasopra potrebbe avere
anche un che di farsesco (un farsesco funereo, ma pur sempre farsesco):
l’immagine di un uomo che con ventotto coltellate e i polsi tagliati tenta di
impiccarsi però non fa sorridere cinicamente, perché il Caluso descrive il
tutto come un caso clinico e non come una scena, mi si passi il termine,
splatter, anzi comic splatter. 54 Il Caluso visse a Lisbona dal febbraio
1770 al settembre 1773, ospite del fratello Carlo Francesco, (...) 24L’abate
non sovrappone la fiction agli oggetti della propria riflessione filosofica. La
componente orrorifica, per esempio, è molto presente nel Masino, poemetto
popolato da mostri, diavoli, folletti malvagi e morti resuscitati; questo
testimonia che egli non fu immune all’influenza dell’Arcadia lugubre, ma tutto
ciò non ha nulla a che vedere con i quattro casi dei quali ci stiamo occupando,
che non sono trattati come storie, come racconti, ma come fatti di cronaca,
recente o lontana, da esaminare. La terrificante incoronazione di Inês è
sviluppata sì in un sonetto, ma la prefazione in prosa che illustra la vicenda
storica testimonia che l’autore aveva compiuto studi approfonditi
sull’episodio, forse durante il suo soggiorno lusitano54. 25Il corpo
smembrato viene “osservato” non con compiacimento morboso, ma con l’occhio
attento del filosofo, che, studiando il potere della ragione, è costretto a
indagarne anche i limiti e le ombre. Il Caluso in verità non censura in alcun
modo i particolari più macabri delle vicende, come l’arto mozzato di Livia, la
pozza di sangue nella quale striscia la Contessa, il foro in mezzo alle ciglia
del Bresse (poi sotterrato come la carogna di un animale), lo scettro ricevuto
da Inês «in freddo marmo», le ventotto ferite del Casasopra; questo sguardo
fisso sui dettagli più agghiaccianti però non è fine a se stesso, ma serve a
“toccare con mano” quanto orrore generi la follia. Così nella vicenda di Inês,
ciò che disgusta maggiormente il lettore non è il ripugnante cadavere
ricomposto, ma la pazzia di Pedro: insomma il mostro non è lo scheletro di
Inês, ma Pedro stesso. 26L’interesse per i fatti di sangue dimostra come
sia fuorviante e falsa la rappresentazione del Caluso come saggio rintanato nel
proprio rassicurante romitorio, dal quale contempla con indifferenza il mondo e
le sue passioni; egli, al contrario, era attaccato alla “vita reale” (ne è una
riprova il fatto che nelle sue opere preferisce sempre offrire esempi
tangibili, senza abbandonarsi a teorie fumose o ad astratte elucubrazioni) ed
era desideroso di studiare l’uomo “vero” – quello che, a volte, cede alla
brutalità e alla follia più nera – e non l’uomo ideale. Il Caluso crede che ogni
progresso sia possibile solo partendo dall’analisi di «ciò che esiste», egli
non vuole proporre un modello utopistico di uomo perfetto, ma desidera
ragionare concretamente sulla natura umana, sulle sue luci e sui suoi
spettri. NOTES 1 Sulla figura dell’abate di Caluso (1737-1815) si vedano
gli studi del Calcaterra e, soprattutto, del Cerruti (M. Cerruti, La ragione
felice e altri miti del Settecento, Firenze, Olschki, 1973; Id., Le buie
tracce: intelligenza subalpina al tramonto dei lumi; con tre lettere inedite di
Tommaso Valperga di Caluso a Giambattista Bodoni, Torino, Centro studi
piemontesi, 1988; Id., Un inedito di Masino all’origine dell’opuscolo
dibremiano ‘Degli studi e delle virtù dell’Abate Valperga di Caluso’, «Studi
piemontesi», XXIX, 2000, pp. 7-21. Inoltre mi permetto di rinviare anche alla
mia monografia: M. Contini, La felicità del savio. Ricerche su Tommaso Valperga
di Caluso, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011. 2 Si legga il seguente
passo, tratto da una lettera del Foscolo alla Contessa d’Albany del 1813: «e io
lasciai l’ordine ch’ella, e il pittore egregio, e l’ottimista abate di Caluso
avessero l’edizione in carta velina» (U. Foscolo, Epistolario, a cura di P.
Carli, Firenze, Le Monnier, 1956, IV, p. 317). Questo appellativo si riferisce,
ovviamente, alla più famosa composizione dell’abate, il poemetto in terza rima
La Ragione felice, composto a Firenze nel 1779, come precisa l’abate stesso
nell’introduzione alla raccolta Versi italiani (Euforbo Melesigenio, Versi
italiani di Tommaso Valperga Caluso fra gli Arcadi Euforbo Melesigenio, Torino,
Barberis, 1807). 3 L’inedito Della felicità de’ governati, ritrovato
presso l’Archivio Peyron della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (ms
segnato 287, II), è ora pubblicato in M. Contini, La felicità cit., pp.
157-194. 4 A proposito del concetto calusiano di rassegnazione, si legga
il seguente passo, tratto della lettera alla Contessa d’Albany del 14 aprile
1808: «De’ cardinali Doria lodo la rassegnazione, virtù troppo necessaria alla felicità,
o per parlare più esattamente a scemare l’infelicità nostra, onde io ne fo uno
de’ punti precipui della mia filosofia, d’acquetarsi alla necessità» (L.G.
Pélissier, Le portefeuille de la comtesse d’Albany, Paris, Fontemoing, 1902,
pp. 14-15). 5 Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., p. 38. 6
Diderot aveva constatato che nella pratica quotidiana si incontravano uomini
felici, pur essendo tutt’altro che virtuosi, e lo stesso ragionamento era stato
presentato da Voltaire a proposito della razionalità. 7 Euforbo
Melesigenio, Versi italiani cit., p. 22. Il fatto che le passioni fossero
necessarie all’uomo per sfuggire la noia era stato sottolineato con forza
dall’abate Du Bos nel primo capitolo delle Réflexions critiques sur la poésie
et la peinture (1718), opera che eserciterà una grande influenza sull’estetica
settecentesca. In questi versi il Caluso non fa riferimento alla noia, ma
descrive uno stato d’animo ancora peggiore: l’apatia. 8 Id., Versi
italiani cit., p. 33. 9 Il manoscritto è conservato presso la Biblioteca
Reale di Torino (ms Varia 176, 4). 10 I manoscritti di L’Amour vaincu (ms
Varia 176 1/2, s.1, b. 14) e di Les aventures du Marquis de Belmont écrites par
lui même ou les nouveaux malheurs de l’amour (ms Varia 176 1/2, s.2, b. 16)
sono conservati presso la Biblioteca Reale di Torino. 11 Euforbo
Melesigenio, Versi italiani cit., pp. 213-247. 12 L’inedito Varia
Philosophica, ritrovato presso l’Archivio Peyron della Biblioteca Nazionale
Universitaria di Torino (ms segnato 286, 4), è riprodotto in M. Contini, Nuove
ricerche sull’attività letteraria di Tommaso Valperga di Caluso, tesi di
dottorato, tutor Enrico Mattioda, Torino, Università degli Studi, a. a.
2010-11, II, pp. 218-229. 13 T. Valperga di Caluso, Di Livia Colonna del
cittadino Tommaso Valperga, in Mémoires de l’Académie des sciences littérature
et beaux-arts de Turin, X-XI, Torino, Imprimerie des sciences et des arts,
1803-1804, pp. 247-257. 14 La raccolta fu pubblicata a Roma da Antonio
Barre nel 1555. 15 Id, Di Livia Colonna cit., p. 251. 16 Il Caluso
in un brano del Della certezza morale ed istorica sottolinea come sia
importante esaminare le notizie riferite dai poeti: «Diciamone adunque
partitamente, vediamo prima qual sia l’esame del fatto per trarne i precetti per
questa prima parte anche per la critica degli avvenimenti che ci siano
tramandati dagli scrittori di qualche genere, e partitamente da’ Poeti» (Della
certezza morale ed istorica; Fondo Peyron; ms 286, 2). L’abate cita le
seguenti fonti: G.B. Adriani, Istoria de’ suoi tempi di Giouambatista Adriani
gentilhuomo fiorentino. Diuisa in libri ventidue, Firenze, Giunti, 1583 e D. De
Santis, Columnensium procerum imagines, et memorias nonnullas hactenus in vnum
redactas, Roma, Bernabo. Il Caluso ricorda che vari poeti avevano scritto
«molte dolenti rime» su questo tema e cita un passo di un madrigale del Caro.
Presso la Biblioteca Apostolica Vaticana è conservato il manoscritto
Composizioni latine et volgari di diversi eccellenti authori sovra gli occhi
della Ill. Signora Livia Colonna (ms Capponi 152). 19 T. Valperga di
Caluso, Di Livia Colonna. L’abate fa una precisazione sul nome della figlia di
Livia: “la figliuola della nostra Livia da Domenico Santi chiamata Orintia,
Oritia, trovisi altrove chiamata Ortenzia” (ivi, p. 257). 21 Ivi, p.
252. 22 Ibid. 23 Ivi, p. 253. 24 Ivi, p. 252. 25 Ivi,
p. 254. 26 G. L. Masetti Zannini, Livia Colonna tra storia e lettere in
Studi offerti a Giovanni Incisa della Rocchetta, Roma, Società romana di storia
patria, Archivio di Stato di Roma, Tribunale del Governatore, Processi, sec.
xvi, 19 (1554, gennaio 25). 29 I responsabili furono condannati grazie
alle deposizioni di testimoni oculari. 30 La testimone oculare Beatrice
di Petrella, per esempio, dichiarò che Livia fu ferita due volte alla gola e
molteplici volte ai fianchi, ma non fece alcun riferimento alla mutilazione di
arti. 31 Ivi, p. 309. 32 Ivi, p. 310. 33 D. Chiodo, Di alcune
curiose chiose a un esemplare delle “Rime” di Gandolfo Porrino custodito nel
Fondo Cian, «Giornale storico della letteratura italiana», L’opera (mm 198x285)
è scritta con inchiostro nero e grafia minuta su 5 carte scritte sia sul recto
sia sul verso, a parte l’ultima, scritta solo sul recto. 35 È bene
precisare che il Verani si rivolge a un anonimo amico che gli aveva chiesto di
commentare il saggio del Caluso. Probabilmente questo anonimo amico aveva poi
consegnato all’abate lo scritto del Verani. 36 Di Livia Colonna del
cittadino Tommaso Valperga-Caluso: Osservazioni del Cit. Tommaso Verani
Ex-agostiniano (Fondo Masino; ms 399). 37 Scrive il Verani: «Quanto a
Pompeo Colonna, che egli fosse il barbaro uccisore di Livia, non vi è altro
documento, ch’io sappia, se non la semplice osservazione del Sansovino, di cui
non possiamo fidarci, poiché non Livia, ma Lucia donna di Marzio Colonna, la
quale fu morta da Pompeo suo genero. Quindi è che non so indurmi a credere
Pompeo capace di sì orrido fatto, e molto meno per un vile interesse o di
eredità o di dote o di qualunque altro motivo o di odio e vendetta a noi
ignoto». Egli in un passo successivo sottolinea anche che Livia chiamò
“figliuolo” il proprio uccisore non perché era suo genero, ma per intenerirlo e
indurlo a desistere dal gesto delittuoso (ibid.). 38 Ibid. 39
L’articolo di lettera è conservato presso gli Annali calusiani della Biblioteca
Reale di Torino (ms St. Patria 689). Non si tratta della lettera originale del
Negri al Napione, ma di una copia dello stesso Napione, che, su richiesta del
Balbo, trascrisse la parte della lettera che riguardava il Caluso. 40 Il
caso dell’assassinio della Contessa Aureli aveva interessato anche A. Ferrero
Ponziglione, che nell’adunanza della Patria Società letteraria del 20 maggio
1790 propose la composizione di una novella su questo argomento (C. Calcaterra,
Le adunanze della ‘Patria Società Letteraria’, Torino, SEI, 1943, p. 250). INon
era presente a questa adunanza, in quanto entrerà nella Filopatria solo il 20
dicembre 1792; sappiamo però che egli intervenne a qualche assemblea anche
prima di questa data e che intrattenne stretti rapporti coi Filopatridi.
Probabilmente quindi l’abate si interessò alla vicenda di Monsù Bresse grazie a
qualche conversazione con gli amici e colleghi torinesi. 41 Il
manoscritto (ms 279, III, 3) è vergato su 6 carte (mm 211x305), compilate sia
sul recto sia sul verso: le prime due sono scritte da una mano, mentre le altre
4 da un’altra. Entrambe le grafie non sono riconducibili a quella del
Caluso. Il narratore formula varie ipotesi sulle origini del Bresse che, a
seconda dei diversi indizi, può essere identificato con un ugonotto, un massone
o un ex chierico. 43 Sotto il racconto si legge la seguente nota: «La
presente Relazione fu trovata trai Scritti dell’allora profess. di Retorica D.
Castellani, ed è questa in data dei 12 Maggio 1747, 9 giorni dopo
l’avvenimento». Annotazione scritta dalla stessa mano che aveva compilato il
primo dei due documenti (Memoria intorno a Monsù Bresse; Fondo Peyron 279, III,
3). 44 Il commento del Caluso si trova nella parte inferiore del recto
dell’ultima carta. È da segnalare inoltre che nel verso dell’ultima carta si
leggono alcune prove di firma del Caluso. 45 Ibid. 46 Ibid.
47 Lo scritto ricalca la struttura tipica della novella; il racconto infatti è
preceduto da un breve riassunto: «Un’ufficiale di Francia ama una Donna
Piemontese per lo spazio di più di un anno, e perché da lei gli è vietato il
venir ad ottenere qualche suo fine poco onesto, la uccide, e ultimamente
pentito di tanta atrocità usata, da se medesimo si dà la morte» (ibid.).
48 T. Valperga di Caluso, Versi italiani cit., p. 83. 49 Si veda a questo
proposito D. Goldin Folena, Inês de Castro e il melodramma ita-liano: un
incontro obbligato, in Inês de Castro: studi, a cura di P. Botta, Ravenna,
Longo. Si ricordi, per esempio, l’Inês de Castro di Antoine Houdar de La Motte
(1723), che ebbe uno straordinario successo di pubblico e venne tradotta
dall’Albergati nel 1768 (F. Albergati Capacelli - A. Paradisi, Scelta di alcune
eccellenti tragedie francesi tradotte in verso sciolto italiano, vol. III,
Liegi ma Modena, 1768). 51 T. Valperga di Caluso, Versi italiani cit., p.
83. 52 M. Cipriani, Le lettere inedite dell’abate Tommaso Valperga di
Caluso al nipote Giovanni Alessandro Valperga marchese di Albery conservate nei
fondi del castello di Masino, tesi di laurea, relatore Marco Cerruti, Torino,
Università degli Studi, a.a. 2001-2002, pp. 101-102. 53 A. Favole, Resti
di umanità: vita sociale del corpo dopo la morte, Bari, Laterza, 2008, p.
37. 54 Il Caluso visse a Lisbona dal febbraio 1770 al settembre 1773,
ospite del fratello Carlo Francesco, ambasciatore in Portogallo e futuro viceré
di Sardegna. In questo periodo venne a contatto con la cultura portoghese,
spagnola e inglese e, come tutti sanno, conobbe e “iniziò alla poesia” l’amico
Alfieri. Euforbo Melesigenio. Dydimus Taurinensis. Tommaso Valperga
di Caluso. Caluso. Keywords: principi di filosofia per gli initiate nelle
matematiche, implicature corporali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caluso” –
The Swimming-Pool Library.
Camilla (Genova). Filosofo.
Grice: “You gotta love Camilla; I mean, if his name were not Camilla, I would
call him Grice: he philosophised on all that I’m into: mainly ‘uomo’ (since he
was an ancient Italian, he used the mute ‘h’ (dell’huomo’): his anima, the
concetti dell’animma that he ‘dichara’ in il suo palare – la bellezza is
without equal --.” De' misterii e maravigliose cause della compositione del
mondo, 1564 Giovanni Camilla (scritto anche Camilli o Camillo) (Genova), filosofo. Opere Giovanni Camilla, De' misterii e
maravigliose cause della compositione del mondo, In Vinegia, Gabriele Giolito
de Ferrari, 1564. Note Camilla, Giovanni
CERL cnp Filosofia Matematica Matematica
Categorie: Medici italianiFilosofi italiani ProfessoreXVI secolo XVI secolo
Genova. Ma che diraßi parlar del dela lingua e
diuerſo parlare coſi pronunciato diſtin- l'huc'mo tamente , beneficio de i
denti e delle labra, il quale coſi benedichiara iconcetti dell'anima ? CAM .
penſate , che ſe piu l'huomo andaſſe conſiderando le coſe marda uiglioſe di D10
, tanto piu ſe gli infiammerebbe l'ar nimo di riconoſcerne altre , e
contemplarne , e quanto piu stå inuolto e priuo delle ſcienze e cognitione di
tai cole , tanto manco ne prende marauiglia , e ſe ne in fiamma. .Liv . Auanza
, l'huomo tutti gli altri ania mali di ſottigliezza di ſangue, di memoria ,
bellezza di corpo , e larghezza di ſpalle . creſce ſino a uentidue anni , la
donna ſino a uenti . Hora che ueggiamo al triſino da piccioli atti e quaſi
inſtrutti beniſsiino in diuerſeſcienze oarti , è coſa manifeſta. Onde quel
Mercurio gran filoſofo Mercurio Trimegiſto chiamò l'huomo Tremigi - un grande
miracolo . Oltre poi , che con l'intelletto fto . intende,capiſce e diſcorre
fopra ogni coſa , e chiamato un picciol mondo ; e tantage, coſi bella dignità
di eſo ON Elle 80 E. = .. 0 . cica . laconoſceuano benißimo quegli ans 74
ENTHOSIA SMO DI huomo uiene tutta dall'anima . E queſto ui bafti qudra to alla
dichiaratione di quelle coſe , che ſono chiamate naturali , ueniamo hora alle
Mathematiche . CAM ; Se io debbia hauere queſto a caro , laſciolo confiderda re
a uoi : eſſendo , che tai ragionamenti ſopra tante ecoſi belle coſe , miſaranno
aſſai facile uia ad intendea re poi eſſe ſcienze . -- diverso parlare cosi
pronunciato distintamente beneficio de i denti e della labra, il quale cosi
benedichiara i concetti dell'anima? AVO PRIMO , OVERO Proemio . a carte .
I Cap.2. Dellauirtù . 3 Cap : 3 : Dell'anoicitia . Cap. 4 Dell'amore IO Cap. s
. Del Cielo e delle Stelle . 13 Cap. 6. De gli elementi . 18 Cap.7. Di quelle
cole, che fi generano nell'aere. 22 Cap. 8. Dell'anima.. 34 Cap . 9. Dell'anima
dell'huomo . 45 Cap.io. Delle Piante . 47 Cap. 11. De gli animaliſenſitiui, e
prima di quelli, che non hanno ſangue. 53 Cap. 12. Di quelli Animali, che hanno
ſapgue primie. ramente de peſci . 15. 59 Cap.13. De gli uccelli . 63 Cap 14. De
gliAnimali quadrupedi . 66 Cap.is. Delſhuomo. 71 Cap.16. Della Arithmetica , e
fue parti. 74 Cap.17. Della Muſica . 77 Cap.18. Della Geometria, e ſue parti.
Cap.19. Della Coſmografia . Gap.20. Dell'arte del nauigare, e de' precetti ,
chi fi debbono ofleruare a intender quella . 86 Cap.21. Della fPerſpectiua,
& inſiemedella Symetria dell'uomo , 91 Cap.22. Dell'Aſtronomia . 95 Cap.23.
Della Metafiſica . 107DELLA PERSPESTTIVA , ET IN = fiemedella Simetria
dell'huomo . Cap. XXI. Sole pche Holl Utre, Duit 3 bel A PERSPETTIVA dunque ,
Perſpetti - stando nel mezo della Geometria 4a, . Aſtronomia , proua
neceſſaridal incnte molte coſe , che in eſſe ſi ri = * trouano . Onde che'l
Sole illumini pru dela metà della terra , e che lucendo non ſi poſſa illumini
no ueder le stelle , lo proua il Perſpettivo : dicendo ,'piu della che ogni
corpo luminoſosferico illumina una piu pica metà della ciola sfera piu dela metà
. Nella Geometria etiandio queſto è manifefto , come nell'arte di rileuo ,
ſecondo* ; ſi vedono in Romaalcủne statue , con tanto artificio store fatte ,
che quantunque una ſia piu grande dell'altra , @unapoſta in alto , l'altra a
baſſo , paiono nondia 1 : meno tutte diunamedeſima groſſezza e grandezza .
Effetti del la perſpect e cio come ſi faccid', diſſe il Perſpettiuo', la
comprena tiua, en fione della quantità della coſa urſibile proceder dalla din
comprenſione della piramideralioſa , e dalla compaa ratione dellabafi alla
quantità dell'angulo ,o alla lun= ghezza della diſtanza. Perla medeſima hanno
detto gli Aſtrologile stelle effer corpi sferici'e tondi : pera cioche daejja
uien- lor"detto i corpi sferici da lunge ofind pri 14 . ܙܐ ܕ 2 WA
ENTHOSIASMO DI parere piani ; l'eſempio ſia di uno ouo : oltre di ciò Le ſtelle
le stelle nell'Orizonte apparere piu grandi, etiano, a ell'Ori dio l'iſteſſo
Orizonte alla terra contingente , e piu: zones apo lontano di qual ſi uoglia
altro punto aßegnato nel ciez iori, per lo . L'iſteſſo fàil naturale , il quale
afferma, che l'oca chio non baſterebbe a comprender la grandezza delle coſe
,s'eglinon fuſſe tondo . & etiandio ſenza luce 1. non uederſi niente. Per
queſta ſi ſono ritrouati gli fpecchi: imperoche il raggio dell'occhio cadente
pera pendicularmenteſopra delloſpecchio, ritorna adietro , e coſi fa , che
l'imagine èueduta . Si danno ancora le cagioni, perche nella piu parte de gli
ſpecchiſi ueda stig als t'imagine dalla banda dilà di ello ſpecchio, &in
alcue ni dinanzi: o oltre di ciò coſi diſcoſta e lontana dallo specchio ,
quanto é l'occhio lontano da eſo, e di molte altre. si sà ancora la diuerſa
compofitioneloro , coa me de' tondi , concaui , colonnari, piramidalize triana
Pianeri og ifcintilla . gulari. Laſcioper hora , chela reuerberatione de nocome
raggi faccia le stelle fille ſcintillare: imperoche i pia = le ftefle
fiłnetinon ſcintillano . Proua ultimamente , perche nela l'acqua le coſe paiano
piu grandi , e fuori dal ſuo luos Perche le coſepaia. 80 ;imperochenon ſipuò
diſcernere e giudicare la no mag. grandezza di una coſa per raggio rotto : e
per ciò le giori nel ſtelle nell'orizonte appaiono piu uicine a noi , che nel
l'acqua. Meridiano . Si danno inſieme congnitioni di Iride , e molte altre ; la
enumeratione delle quali troppo longa ſarebbe a dirle . CAM. Veramente tutte le
ſcienze ſono di talforte tra loro ordinate , che’n loro a punto ſi uede fe .
GIO. CAMILLA : 93 COM Iron chat lan ED fi uede una ciclopedia . Liv . Tal
dunque è la pera ſpettiua , la cui conſideratione e di raggio retto, rea feffo
, erotto. nella quale non ui marauigliate che ſi ueggiano coſi eccellenti e
buoni Scultori: eſſendo che scultura ciò ſiuedafacilmente nella Chimica
,Ectypoſi, Celaa parci d tura , Plaſtica , Proplaſtica , Paradigmatica , Tomia
fa . ca., Colaptica , le quali ſonotutte parti della Scultuz ra , o hanno della
ſua cognitione biſogno. Hora di queſte nonuoglio io parlare , eccetto ſe a voi
pareſſe della simetria dell'huomo ; dcció da eſſa comprendiate ogn’hora piu le
marauiglioſe opere di Dio . Cam . Queſto miſarebbe di grandißimo contento , è
maßime che per la intelligenza loro ſi potrebbono etiandio conſiderar le parti
de gli animali ſenza ragione.Liv. Queſta miſura dunque, la quale Simetria
chiamiamo, Simetria duenga che'n tutte le coſe create da Dio ſia maraui:
dell'huog glioſa , è però di marauiglia e stupore grandißimo mo. nell'huomo .
imperoche miſurate tutte le parti effatta = mente , dalle quali è compoſto ,
iui non ſi uede altro , che ogni coſa piena di harmonia e perfettißima in tuta
ti i numeri. E perciò hanno diuiſo il corpo dell'huomo in noue parti , le quali
tutte ſi prendonodalla faccid ;. hauendola coſi poſta diſopra Iddio
grandißimo,aca ciò tutte le altre pigliaſſero la miſura da eſſa , come
contenuta da tutto il corpo noue uolte : s'intende però queſto degli
huominifatti , e non de' fanciulli , i quaa li non ſono eccetto quattro . La
proportion poi de membri tra loroquanta fia , è coſa di grande contenta CA ľ 94
ENTHOSIASMODI tan è platione. Quanto é dalle ciglia ſino alla fine del nära ſo
, tanto dal mento fino alla gola quanto dal labro di fopra ſino alla punta del
naſo , tanto é la larghezza del naſo di ſotto , è la concauità de gl'occhi,
quanto dalla cima del fronte fino alle ciglia , tanto ſino alla punta del naſo
, o etiandio fino al mento . Hora che tanto ſia la faccia , quant'è la mano , e
dalle congiunz ture di eſa fi ueggiano le proportioninella faccia ,¿ coſa aſſai
ben chiara . Della larghezza, che ne dires di eſſo al naſo , tanto la larghezza
della bocca, quanto la longhezza del naſo , tanto é la larghezza delle an= che,
quanto ſono due faccie inſieme. L'altezza poi, cioè quello , che uolge e
circonda all'intorno , e mard uigliosa . uolge la teſta , e in quella parte del
fronte tre faccie , il petto cinque , il uentre , paſſato però l'ombilico ,
quattro . Laſcio ultimamente , che con tenga l'huomo la figura circolare , e
quadrata , e che da eſſo ſia cauata la proportione e miſura di far caſei,
Fabriche Rocche , Caſtelli , e Chieſe . Hauete hora viſto la dir moſtrate
uifione del corpo del'huomo , quanto ſia artificioſa , e dalla fime. tria del
di quanta armonia e contemplatione . E di qui conſie l'huomo. deriate qual
Geometria ,qual Muſico debbia eſſer l'aua tore e fattore di tutto queſto, CA M.
Veramente da tutte le coſe da D1o create ſiamobenißimoinſegnati uiuer bene :
imperoche hauendo ogni noſtra parte del corpo con tal proportione diſpoſta, e
fatta , ci mom che 3 stra , 1 GIO. CAMILLA. stra, che ordiniamo i coſtuminoſtri
; acciò in ſi bel corpo poſſa eſſere una bella anima . Liv. E queſto ulbaſti in
queſti ragionamenti, & andiamo alla Aſtro . nomia . Cam. Come a uoi pare. His “Enthusiasm”
has a brief section on ‘parlare humano’, parabolize – wondering how men can
‘express’ the ‘conceptions’ of their ‘souls’ – via this ‘parlare’ – also
philosophised on symmetry, which is like K. O. Apel’s reciprocity. Giovanni
Camillo. Giovanni Camilli. Giovanni Camilla. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Camilla” – The Swimming-Pool Library.
Cammarata (Catania).
Filosofo. Grice: “You gotta love Cammarata; for one, like Austin, he goes by
initials, and indeed like me, A. E. – he is the Italian Hart – he thinks
legality comes first, justice second – and he is possibly right – his example
is Oreste’s murder and the institution of justice in Athens – However, that’s
because of his Magna Grecia background – Speranza tells me that at Rome, things
are different, since it’s all Brutus and the beginning of the republic – ‘il
ratto di Lucrezia,’ as he puts it.” -- Fu uno dei più conosciuti rettori
dell'Trieste dal 1946 al 1952, per la difesa della quale ricevette la medaglia
d'oro della Cultura e dell'Arte, mentre all'Ateneo fu conferita nel 1962 la
medaglia d'oro al valor civile.
Biografia Nel corso della sua carriera insegnò filosofia del diritto e
altre materie giuridiche nelle Messina, Macerata, Trieste, Napoli e Roma.
Allievo di Giovanni Gentile, aderì all'idealismo immanentista. Gli scritti
principali di filosofia del diritto sono inseriti, in massima parte, in
Formalismo e sapere giuridico, Giuffrè 1963. Buona parte degli scritti
riguardanti invece la "questione di Trieste" sono pubblicati in Fra
la teoria del diritto e la questione di TriesteScritti inediti e rari, Eut,
Trieste 2007. Fu anche un notevole
fotografo, come documentano le due mostre (Trieste 2004 e Gorizia ) a lui
dedicate. Cammarata, Angelo Ermanno, in
Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. 9
luglio . Opere di Angelo Ermanno Cammarata, . Filosofia Università Università Filosofo del XX secoloAvvocati
italiani del XX secoloInsegnanti italiani Professore1899 1971 Catania
RomaFilosofi del diritto. Grice: “Excellent philosopher, comparable with Hart –
only not Jewish and thus friendly with the Fascists!” A student of Gentile,
more of an idealist than a positivist, but still. Angelo Ermanno Cammarata.
Keywords: H. L. A. Hart. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cammarata” – The
Swimming-Pool Library.
Campa (Presicce).
Filosofo. Grice: “You gotta love Campa; he has a gift for unusual metaphors: la
fantasmagoria della parola, -- my favourite has to be his conjunct, ‘stupidity
and unfaithfulness!’ -- Grice:
“Philosophy runs out of names: there are British philosophers G. R. Grice and H.
P. Grice, and Itallian philosophers R. Campa, and R. Campa.” Riccardo
Campa Nota disambigua.svg
DisambiguazioneSe stai cercando il sociologo, vedi Riccardo Campa
(sociologo). Riccardo Campa con il premio Nobel Eugenio Montale (1971)
Riccardo Campa (Presicce), filosofo. Storico della filosofia italiano, la cui
indagine teorica si è incentrata sulla relazione fra la cultura umanistica e la
cultura scientifica, delineando il percorso storico della cultura occidentale,
in particolare nell'ambito europeo-latinoamericano. Negli anni
sessanta e settanta ha diretto la Biblioteca delle idee, sotto la presidenza
scientifica del premio Nobel Eugenio Montale e contemporaneamente è stato
condirettore responsabile del periodico Nuova Antologia, nel quale ha
pubblicato saggi di letteratura e filosofia sul pensiero del Novecento; vi ha
inoltre tradotto e pubblicato testi di Jorge Luis Borges, George Uscătescu,
Vittorio Dan Segre, André Chastel, Walter Kaufmann, Ortega y Gasset.
Riccardo Campa con Jorge Luis Borges a Roma (1983)«Riccardo Campa fue
nombrado doctor honoris causa en las ciudades de Atenas y Nueva York, alfa y
omega del conocimiento de lo que constituye Occidente [...] Asombra en su obra
la recopilacion enciclopedica del pensamiento europeo, cimentada en la razon
que la describe.» «Riccardo Campa ha ricevuto dottorati honoris causa
nelle città di Atene e New York, l'alfa e l'omega della conoscenza di ciò che
costituisce l'Occidente [...] Sorprende nella sua opera la raccolta
enciclopedica del pensiero europeo, fondata sulla ragione che lo
descrive.» (Domingo Barbolla Camarero, Prologo, in Riccardo Campa La
razon instrumental. El mesianismo nostalgico de la contemporaneidad, Madrid,
Editorial Biblioteca Nueva, ) Ha partecipato, a seguito di regolare concorso a
livello internazionale, al Forum Europeo di Alpbach, al Collège de France, e
all'Universidad Internacional Menéndez Pelayo, e, a partire dal 1973, ha
insegnato presso diverse università italiane e straniere (Bologna, Università
degli Studi di Napoli Federico II, Università per stranieri di Siena,
Universidad de Morón), tenendo corsi di storia delle dottrine politiche, storia
della filosofia,,storia delle Americhe e diritto politico. Riccardo
Campa all'Università per Stranieri di Siena () Dal 1987 al 1991 ha diretto l'Istituto
Italiano di Cultura di Buenos Aires e successivamente, dal 1991 al 1992, ha
coordinato in Italia e nell'America Latina le attività celebrative del V
Centenario dell'America , per disposizione del Ministero degli Affari Esteri..
Dal 1993 al 1997 ha svolto le funzioni di Vicepresidente della Commissione
Nazionale per la promozione della cultura italiana all'estero (Legge
22.12.1990, n.401). Quale ormai consolidata personalità-ponte fra i due mondi,
geograficamente separati ma culturalmente legati dalle comuni radici, dal 1994
svolge le funzioni di Direttore del Centro Studi, Documentazione e Biblioteca
dell'Istituto Italo-Latino Americano di Roma. Contemporaneamente è stato
Vicedirettore della Società Dante Alighieri. Dal 2002 al 2005 ha presieduto il
Forum Internazionale sulla Società Contemporanea di Madeira e, alla scadenza di
questo mandato, è stato eletto a Roma presidente della Federazione
Internazionale di Studi sull'America Latina e i Caraibi per il biennio
2005-2007. In questo ambito, con il suo operato, ha garantito
l'interscambio delle figure intellettuali più significative fra la cultura
latinoamericana e quella europea, favorendone la reciproca conoscenza.
Riceve la nomina di Director Emeritus del Giambattista Vico Chair of Italian
Studies en Dowling College, Nueva York nel . Studioso di diverse
discipline: dalla linguistica teorica alla filosofia del linguaggio, dalla
filologia all'analisi letteraria alla storia della lingua; dalla filosofia
teoretica alla filosofia della scienza, nella gestione della complessa realtà
istituzionale, dal 2005 al , ha assunto l'incarico di Direttore del Centro di
Eccellenza della Ricerca dell'Siena. Già Ordinario del S.S.D SPS/2
(Storie delle dottrine politiche) presso la Facoltà di Lingua e Cultura Italiana
dell'Università per Stranieri di Siena, l'11 febbraio gli è stato conferito il titolo di
"Professore emerito". Opere: Appartengono, fra gli altri, alla
produzione classica: Il potere politico nell'America Latina, Edizioni di
Comunità, Milano, 1968; Il riformismo rivoluzionario cileno, Marsilio, Padova,
1970; Appunti per una storia del pensiero politico latino-americano, Lugano,
Pantarei, 1971; L'universo politico omogeneo, Istituto Editoriale
Internazionale, Milano, 1974 Las nuevas herejias, Biblioteca de Estudios
Criticos, Madrid, Ediciones Istmo, 1978; La visione e la prassi: profilo di
Bolìvar (pref. diPignatti, intr. di R. Medina Elorga, postfaz. di L. C. Camacho
Leyva), Istituto Italo Latino-Americano, Roma 1983; A reta e a curvaReflexōes
sobre nosso tempo (Riflessioni con Oscar Niemeyer), São Paulo, Max Limonad,
1986; El estupor de EpicuroEnsayo sobre Erwin Schrödinger, Buenos Aires-Madrid,
Alianza Editorial, 1988; La emocion: la filosofia de la infidelidad (prol. di
R. H. Castagnino), Editorial Sudamericana, Buenos Aires, 1988; La escritura y
la etimologia del mundo (con un saggio di Roland Barthes), Buenos Aires,
Editorial Sudamericana, 1989; La malinconia di EpicuroRiflessioni in penombra
con Jorge Luis Borges, Buenos Aires, Editorial SudamericanaFondazione
Internazionale Jorge Luis Borges, 1990; La primeva unità: saggio sulla storia,
Le Monnier, Firenze, 1990; La practica del dictamen: del ius a la humanitas,
Grupo Editor Latinoamericano, Buenos Aires, 1990; El sondeo de la apariencia:
el libro y la imagen, Gedisa, Buenos Aires, 1991; La trama del tiempo: ensayo
sobre Italo Calvino, Grupo Editor Latinoamericano, Buenos Aires, 1991;
L'avventura e la nostalgia: Omaggio al Portogallo, Presidenza dei Consiglio dei
Ministri, Roma 1994 La metarrealidad, Buenos Aires, Biblios, 1995; Le daimôn de
la persuasion, Toulouse Cedex, Éditions Universitaires du Sud, 1996; The
Renaissance and the invention of method, New York, Dowling College, 1998; La
metafora dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di Pinocchio", M.
Pacini Fazzi, Lucca, 1999, L'esilio saggi di letteratura Latinoamericana, Il
Mulino, Bologna, 2000; Il sortilegio e la vanità: saggio su Louis-Ferdinand
Céline, Welland Ontario, Soleil, 2000; Caratterizzano la produzione più
recente: L'immediatezza e l'estemporaneità, New York, Dowling College
PressBinghamton University, 2000; L'età delle ombre, New York, Binghamton
University, 2001; Dismisura, Bologna, il Mulino, 2003; Le vestigia di Orfeo.
Meditazioni in penombra con Jorge Luis Borges, Bologna, Il Mulino, 2003; A
modernidade, Lisboa, Fim de século, 2005; Della comprensioneCompendio di
mitografia contemporanea, Bologna, il Mulino, 2005; Ontem. L'elegia del
Brasile, Bologna, il Mulino, 2007; Vicinanze abissali. L'approssimazione
nell'epoca della scienza, Bologna, il Mulino, 2009; Langage et stratégie de
communication, Paris, L'Harmattan, 2009; El Inca Garcilaso de la Vega, Madrid,
Binghamton University, Ediciones ClasicasEdiciones del Orto, ; I Trattatisti
spagnoli del diritto delle genti, Bologna, Il Mulino, ; La place et la pratique
plébiscitaire, Paris, L'Harmattan, ; El sortilegio de la palabra, Madrid,
Biblioteca Nueva, ; Elegy. Essays on the Word and the Desert, University Press
Of The South, ; L'America Latina. Un profilo, Bologna, Il Mulino, ; La filosofia
de la crisis. Epicureismo y Estoicismo, Editorial Sindéresis, Madrid, ; El
tiempo de la inedia. El invierno de Gunter, AntropiQa 2.0, Badajoz, ; La
eventualidad y la inexorabilidad. El invierno de Gunter, Editorial Sindéresis,
Madrid, ; La Destreza y el engano. Ensayo sobre Don Quijote de Miguel de
Cervantes Saavedra, Ediciones Clasicas, Madrid, ; L'America Latina. Un
compendio, Bologna, Il Mulino, ; Octavio Paz. El desconcierto de la modernidad,
Ediciones Clasicas, Madrid, ; La parola, Bologna, Il Mulino, ; Cervantes. La
linea del horizonte, Valencia, Albatros, , L'elegia del Nuovo Mondo, Bologna,
Il Mulino, . La mundializacion, Valencia, Albatros, . Il convivio linguisttico.
Riflessioni sul ruolo dell'italiano nel mondo contemporaneo, Roma, Carocci, Note
Anno di conseguimento del titolo di Professore. Dal 1974 al 1987 ne ha diretto l'Istituto
Storico-politico della Facoltà di Scienze Politiche. Con decreto dell'11 febbraio del Ministro dell'Istruzione, dell'Università
e della Ricerca, vi è stato nominato Professore Emerito di Storia delle
dottrine politiche. Dopo averne curato,
dal 2003 al 2005, il XII Congresso Internazionale, designato dall'Accademia
delle Scienze di Russia ed eletto dall'Osaka.
Luigi Trenti , Il viaggio delle parole: scritti in onore di Riccardo
Campa, Perugia, Guerra Editore, 2008.
978-88-557-0155-6 Antonio Requeni, Nueva vision de la literatura
argentina, "Les Andes", 16 settembre 1984, 3° Seccion pag.1. Antonio
Requeni, Presencia cultural de Italia en la Argentina, "La Prensa",
18 ottobre 1987, pag.3. Antonio Requeni, Los intelectuales del mundo: hoy,
Riccardo Campa: la Argentina, en el laberinto de Borges, "La Nacion",
20 settembre 2006, 1-3. Jesus Francisco Sanchez, Crisis del neocapitalismo
podria hacer renacer ideas del socialismo y la izquierda: Ricardo Campa,
"El Sol de Durango", 22 ottobre 2008, 6/A Altri progetti Collabora a
Wikiquote Citazionio su Riccardo Campa Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
Commons contiene immagini o altri file su Riccardo Campa Filosofia
Letteratura Letteratura Filosofo del XX
secoloFilosofi italiani del XXI secoloStorici della filosofia italiani 1934 21
aprile PresicceProfessori dell'Università degli Studi di Napoli Federico II.
Campa. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Campa” – The Swimming-Pool
Library.
Campa (Mantova).
Filosofo. Grice: “You gotta love Campa – he is right that ‘artificial species’
is an oxymoron – as is ‘transhuman’ – but his philosophising about the heathens,
which is how Nero found the Christians, is very relevant!” Riccardo Campa (Mantova), filosofo. È
conosciuto soprattutto per i suoi studi nel campo dell'etica della scienza e
del transumanesimo e, precisamente, per la sua difesa dell'idea di evoluzione
autodiretta. Svolge ricerche sia nella veste di Professore associato di
Sociologia della scienza e della tecnica all'Università Jagellonica di
Cracovia, sia nella veste di Presidente dell'Associazione Italiana
Transumanisti, della quale è fondatore. Si
laurea a Bologna. Ha conseguito il titolo di Giornalista professionista presso
l'Ordine dei giornalisti di Roma nel 1995, il dottorato in Epistemologia
all'Università Nicolaus Copernicus di Torun nel 1999 e l'abilitazione in
Sociologia all'Università Jagellonica di Cracovia nel 2009. Nell'ambito della
sociologia della scienza, è annoverato tra gli allievi di Robert K. Merton,
fondatore di questa disciplina. A differenza di alcuni continuatori della
scuola costruttivista, Merton ha sempre mostrato un atteggiamento positivo nei
confronti delle scienze, e Campa è rimasto fedele a questa impostazione. A tal
proposito, il filosofo argentino-canadese Mario Bunge ha rimarcato il fatto che
«Campa è uno degli ultimi esemplari rimasti di una specie in estinzione: lo
studioso pro-scienza della comunità scientifica». I suoi studi hanno ricevuto una certa
attenzione da parte dei media dopo che Francis Fukuyama, all'epoca consigliere
per la bioetica del presidente statunitense George W. Bush, ha definito il transumanesimo
«l'idea più pericolosa del mondo». Secondo Fukuyama il transumanesimo è una
nuova forma di biopolitica che, pur essendo liberale e non coercitiva, rischia
di minare il concetto di uguaglianza tra gli uomini. Simili posizioni critiche
hanno assunto, in Italia, Marcello Veneziani, Giuliano Ferrara, Paolo Rossi, e
diversi opinionisti del quotidiano cattolico Avvenire, che hanno criticato le
idee di Campa e di altri filosofi e scienziati transumanisti (tra i quali, Nick
Bostrom, James Hughes, Gregory Stock, e Max More), stimolando un dibattito ad
ampio raggio sulle prospettive aperte dalle nuove tecnologie. Campa ha difeso
le idee transumaniste in numerose pubblicazioni, interviste e dibattiti
pubblici, apparendo talvolta anche in televisione, e sostenendo che le
tecnologie emergenti e convergenti GRIN (un acronimo per Genetica, Robotica,
Informatica e Nanotecnologia) non rappresentano un rischio inutile, come
lasciano intendere i critici, ma un'opportunità di sviluppo in linea con
l'atteggiamento prometeico che caratterizza la storia della civiltà
occidentale. Le sue valutazioni, sull'opportunità di allungare la vita media e
potenziare le facoltà mentali e fisiche dell'uomo, sono soprattutto di ordine
etico e sociale. È autore di numerosi articoli e saggi, tra i quali spiccano
sette libri monografici. Il filosofo è nudo (Marszalek) Etica della scienza
pura (Sestante Edizioni) Mutare o perire. La sfida del transumanesimo (Sestante
Edizioni, ) Le armi robotizzate del futuro. Il problema etico (CEMISS, )
Trattato di filosofia futurista (Avanguardia 21 Edizioni, ) La specie
artificiale. Saggio di bioetica evolutiva (D Editore, ) La rivincita del
paganesimo. Una teoria della modernità (D Editore, ) Creatori e Creature.
Anatomia dei movimenti pro e contro gli OGM (D Editore, ) La società degli
automi. Studi sulla disoccupazione tecnologica e sul reddito di cittadinanza (D
Editore, ) Credere nel futuro: Il lato mistico del transumanesimo (Orbis
Idearum Press, ) È inoltre curatore della serie "Divenire. Rassegna di
studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano". Note
Cerimonia di abilitazione all'Cracovia
C. Cipolla, Manuale di sociologia della salute, Franco Angeli, R. Campa, Epistemological Dimensions of
Robert K. Merton's Sociology, Copernicus University Press, quarta di
copertina. F. Fukuyama, “Transhumanism:
The World's Most Dangerous Idea”, Foreign Policy, La versione italiana è
apparsa sul Corriere della Sera con il titolo “Biotecnologie: la fine
dell'uomo”, . M. Veneziani, “Attenti
l'uomo è fuori moda. La scienza prepara “l'oltreuomo”, Libero, G. Ferrara, “Mettere in dubbio il dubbio”, Il
Foglio, Rossi, Speranze, Il Mulino,
Bologna A. Galli, “Nietzsche, profeta
dell'eugenetica”, Avvenire, Rassegna
stampa degli articoli pro e contro il transumanesimo. “Nascita del superuomo”, documentario di RAI
3, Archiviato l'11 aprile in .; “Futuro in pillole”, puntata de Le
Invasioni Barbariche condotta da Daria Bignardi, LA7, 21 gennaio .;“Musica
maestro”, servizio biografico di RAI 1, Sito della rivista Divenire Giorgia Mazzotti, Il Prof che suonava il
rock, Gazzetta di Mantova, 8 gennaio 2008. Roberto Guerra, Futurismo per la
nuova umanità, Armando Editore, Roma .
Il transumanismo. Cronaca di una rivoluzione annunciata, Lampi di
Stampa, Milano 2008. Riccardo Campa
biografia e nel sito "transumanisti".
Riccardo Campa. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Campa” – The
Swimming-Pool Library.
Campailla (Modica).
Filosofo. Grice: “You have to love Campailla; when I philosophised on ‘be
orderly,’ I was drawing from Campailla: “Order is the first – ‘ordinato
discorso dell’uomo;’ Campailla flouts the maxim: he allows that a man in
ecstasi, in mutual contemplation of beauty, say, may lose the order – Oddly,
Campailla dedicates more than a section to, then, ‘del disordinato discorso
dell’uomo,’ or men, as we’d prefer!”
Grice: “You’ve gotta love Campailla – I would have preferred he chose
the Graeco-Roman mythology, but he chose “Adamo,” and he provides, in verse,
all I ever philosophised on – human discourse – discorso umano – on top, he
considers ‘amore’ as a ‘passione dell’anima,’ and speaks of ‘self-love’ (amore
proprio) and even virility and testicles – a Renaissance man!” Nasce sotto la
rupe del Castello dei Conti. Tommaso Campailla, incisione dall'Adamo
(Roma-Palermo, 1737) Mostrò le sue migliori doti d'ingegno in età matura,
giacché, in gioventù, per la sua gracile costituzione, il padre preferì
educarlo in campagna affinché si irrobustisse all'aria aperta, piuttosto che
indirizzarlo agli studi. Nel 1684, si trasferì a Catania per studiarvi
giurisprudenza, ma l'improvvisa morte del padre, che lo lasciava erede di un
discreto patrimonio, lo costrinse a ritornare nella città natale, la sua cara
Modica, in cui rimase fino alla morte, senza mai muoversi da essa. Lì,
poté dedicarsi interamente agli amati studi, prevalentemente da autodidatta,
coltivando con passione ed abnegazione, fra le tante discipline, l'astronomia,
le lettere e la filosofia. Sempre da autodidatta, studiò Aristotele e i
classici, per poi dedicarsi alla fisica, forse spinto dall'onda emotiva
suscitata dal terribile sisma che, nel 1693, distrusse Modica e tutto il Val di
Noto. Morì per un colpo apoplettico, il 7 febbraio del 1740. Il suo corpo
fu sepolto sotto l'altare maggiore del duomo di San Giorgio in Modica, del
quale una lapide, deposta alla sinistra dell'ingresso principale, lo
ricorda. Campailla, filosofo e poeta Studioso di Cartesio, che vuole conciliare
con la filosofia scolastica, ne applicò i principi alle sue indagini
conoscitive, fatte di osservazione ed esperimenti, divenendo, insieme col
filosofo trapanese Michelangelo Fardella, uno dei principali divulgatori delle
teorie cartesiane in Sicilia. Poeta raffinato, fu accademico degli
Assorditi di Urbino, dei Geniali di Palermo, e della più celebre Accademia
degli Arcadi di Roma; restaurò quindi l'Accademia degli Infocati nella sua
città natale. Nel 1709 diede alle stampe i primi sei canti (ispirati ai moduli
letterari lucreziani) del poema filosofico, in due parti, L'Adamo, ovvero il
Mondo Creato, successivamente dedicato, nella sua stesura completa (in venti
canti) del 1723, a Carlo VI d'Austria, Imperatore e Re di Sicilia. Il poema,
che conobbe una discreta fortuna e che è stato recentemente ristampato,
rappresenta una summa delle idee teologiche, cosmologiche, fisiche e
filosofiche dell'autore, alla luce del cartesianesimo. All'inizio del
Settecento, la fama del Campailla, tra l'altro in corrispondenza epistolare con
importanti personalità fra i quali Ludovico Antonio Muratori (bibliotecario del
Duca di Modena), si diffuse anche all'estero, toccando Lipsia, Parigi, Londra,
tanto che il filosofo George Berkeley volle conoscerlo personalmente e, poiché
il Campailla non si muoveva mai dalla sua città natale (come Kant), nel 1718 fu
lo stesso Berkeley a recarsi in Sicilia a trovarlo, informandolo fra l'altro
delle nuove teorie newtoniane, le quali verranno poi usate dal Campailla nelle
sue successive opere. Il Muratori si fece intermediario persino per una
cattedra all'Padova da assegnargli, invito che venne pure da Londra, ma il suo
ostinato rifiuto a viaggiare e lasciare la sua Modica (in ciò, ancora simile a
Kant) lo portò a declinare tali prestigiose ed onorevoli proposte. Per lo
stesso motivo, invitato ad assistere, il 24 dicembre 1713, all'incoronazione a
Re di Sicilia, nella Cattedrale di Palermo, del Duca Vittorio Amedeo II di
Savoia, disdisse gentilmente la visita. Nel 1738, pubblicò, rimanendo però
incompiuto, il poema sacro L'Apocalisse di San Paolo, in cui, oltre ad
affrontare i temi della grazia e della virtù attiva, fornì pure una personale
confutazione delle teorie di Miguel Molinos, fondatore del
"Quietismo", un'eresia che aspirava all'unificazione con Dio. Infine,
nello stesso periodo, iniziò a scrivere il primo volume di un'opera sistematica
intitolata Opuscoli filosofici, di cui uscì solo il primo volume (in dialoghi)
intitolato Considerazioni sopra la fisica del signor Isacco Newton (1738),
contemporaneamente alla stesura di un trattato, in due volumi, di fisica
cartesiana, pubblicato postumo, nel 1841, sotto il titolo Filosofia per
principi e cavalieri. La cura della sifilide con le botti del Campailla
Pur non essendo medico di professione, Campailla riuscì tuttavia a promuovere,
nella Contea di Modica, gli studi di medicina. Infatti, il suo impegno, quasi
umanitario, lo portò a sperimentare, dal 1698 in poi, le sue famose
"botti" (dette poi botti del Campailla) per la cura non solo della
sifilide (considerata, allora, il male del secolo, e ritenuta dalla Chiesa come
un castigo di Dio per i peccati degli uomini), ma anche dei reumatismi e, in
genere, di qualunque forma di artrosi. La "botte", in realtà, è
una stufa mercuriale con all'interno uno sgabello, sul quale il paziente veniva
fatto sedere, in attesa della cura. Questa consisteva nel versare, in un
braciere che si trovava pure all'interno della stufa, la relativa dose di
cinabro, da cui, per sublimazione, esalavano dei vapori di mercurio, che erano
poi assorbiti dal corpo del paziente in piena sudorazione. La novità introdotta
dal Campailla consistette nell'aggiunta di incenso all'interno della botte, in
una dose che consentiva, ai vapori sprigionati, di essere più "respirabili"
per un certo lasso di tempo, variabile dai 10 ai 20 minuti circa, a seconda
dalle condizioni soggettive del paziente. Il contributo del Campailla
consentì pure di modificare la forma della botte, rispetto alle altre già
esistenti in Italia ed in Europa, le quali avevano un foro in alto da cui
fuoriusciva la testa del paziente che, in tal modo, non poteva respirare i
vapori di mercurio medicamentosi. Tuttavia, questi vapori, così esalati, erano
curativi solamente per i sifilomi che infestavano la cute, i quali regredivano
sì ma senza remissione del morbo (che solo con l'avvento della penicillina, nel
'900, si debellerà), con i germi patogeni che continuavano ad agire e
moltiplicarsi nel sangue dei soggetti infetti. Invece, grazie
all'innovazione del Campailla, i pazienti, completamente all'interno della
botte, potevano ora respirare la miscela di mercurio e incenso, la quale,
agendo così in modo sottocutaneo, uccideva i germi diminuendone la carica
patogena; spesso, si ottenevano delle guarigioni, a volte anche definitive,
che, all'epoca, venivano considerate quasi miracolose. Infatti, un rapporto
medico dell'epoca riferisce che " [...] Dopo la cura mercuriale col
metodo Campailla, si può assistere a delle rinascite complete di individui
ridotti in condizioni impressionanti di cachessia o con lesioni tali da
rendersi impossibile qualsiasi intervento curativo per via percutanea o
ipodermica". I risultati furono talmente soddisfacenti che
Modica acquisì notorietà in tutta Europa proprio per le botti del Campailla,
ancor oggi esistenti all'interno dell'antico Ospedale di S. Maria della Pietà e
visitabili all'interno di un percorso museale appositamente dedicato.
Negli anni a venire, le botti del Campailla furono, ma con scarsi risultati,
imitate altrove, sia in Italia che all'estero: ad esempio, nel 1891, sorse a
Palermo, per volere del prof. Mannino della locale facoltà di Medicina, un
Sanatorio Campailla; agli inizi del '900, fu poi costruita, a Roma, una
cosiddetta Botte di Modica; a Milano, ancora negli anni '50, furono costruite
botti di vetro sul modello di quelle del Campailla; mentre, a Parigi, furono
fondati istituti a imitazione del Sifilocomio Campailla palermitano, per la
cura delle malattie reumatiche e nevralgiche. Teatro La rappresentazione
Cygnus, atto unico scritto da Nausica Zocco, prende spunto dalla vita e dalle
opere di Tommaso Campailla, ed è stato portato in scena l'8 maggio a Modica, per la regia di Tiziana
Spadaro. Note L'esatta data di
nascita è riscontrabile, come quella di morte, negli appositi registri
dell'Archivio Parrocchiale della Chiesa Madre di San Giorgio in Modica. Taluni, sulla base di nessuna fonte storica
attendibile, hanno diffuso l'infondata notizia secondo cui il Campailla stesso
sia stato vittima della sifilide, contrariamente al fatto che lo studioso
modicano costruì comunque le sue botti, per il trattamento di questa infezione,
nel 1698, quando aveva solo 30 anni, ma morì a 72 anni, età veneranda e
considerevole, per quei tempi, in cui la vita media di un individuo di sesso
maschile era di 55-58 anni, per non tener conto poi del fatto che, nel
Settecento (e così, fino all'avvento degli antibiotici nel Novecento), un
sifilitico aveva comunque delle bassissime aspettative di vita dopo il
manifestarsi della malattia, dell'ordine di pochissimi anni. Ad ogni modo, le
botti del Campailla raccolsero, per molti decenni, un gran numero di pareri
positivi a favore di un loro benefico influsso contro il morbo. Tommaso Campailla, "L'Adamo" ovvero
"Il mondo creato" poema filosofico , Volume unico, Messina, Michele
Chiaramonte e Antonino Provenzano, 1728.
//treccani/enciclopedia/tommaso-campailla/
Cfr. D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo
decimottavo, Tipografia Lorenzo Dato, Palermo, 1824, I, Capo III. Tratto dalla Rassegna di Clinica, Terapia e
Scienze Affini, Anno XXVIII, Fascicolo IV.
Secondio Sinesio, Vita del celebre filosofo, e poeta Signor D. Tommaso
Campailla, Patrizio modicano, Siracusa, 1783; ristampa Modica, 2005. Valentino
Guccione , Tommaso Campailla ed il suo museo in Modica, Leggio & Diquattro,
Ragusa, 1992. Carmelo Ottaviano, Tommaso Campailla. Contributo
all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e
note Domenico D'Orsi, CEDAM, Padova, 1999. Giovanni Criscione, Tommaso
Campailla. Un poeta e filosofo modicano, Idealprint, Modica, 2000. Valentino
Guccione, Tommaso Campailla, il suo museo, la scuola medica modicana, Comune di
Modica, Modica, 2001. Tommaso Campailla
e la Scuola Medica Modicana, Ed. IngegniCulturaModica, Modica, . Altri progetti
Collabora a Wikiquote Citazionio su Tommaso Campailla Collabora a Wikimedia
Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Tommaso
Campailla Tommaso Campailla, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tommaso Campailla, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Tommaso Campailla, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Sotto il titolo “Disordinato discorso dell’uomo” sono raccolti
due saggi pioneristici del filosofo modicano sul ruolo della mente nei sogni,
nel delirio, nell’estasi e nella follia. L'estasi (dal greco ἔκστασις, composto
di ἐκ o ἐξ + στάσις, ex-stasis,[1] «essere fuori») è uno stato psichico di
sospensione ed elevazione mistica della mente, che viene percepita a volte come
estraniata dal corpo: da qui la sua etimologia, a indicare un «uscire fuori di
sé». Nonostante la diversità delle religioni, culture e popoli in cui
l'estasi è stata sperimentata, le descrizioni circa il modo in cui essa viene
raggiunta risultano straordinariamente simili. Si afferma di provare in questi
momenti una sorta di annullamento di sé, e di identificazione con Dio o con
l'"Anima del mondo".[2] Indice 1Descrizione ed effetti
2Manifestazioni dell'estasi nell'antichità 2.1Il corteo dionisiaco 2.2L'estasi
oracolare 2.2.1Figure oracolari 3L'estasi nelle filosofie orientali 4L'estasi
in Plotino 5L'estasi cristiana 6L'estasi paradisiaca in Dante 7Il Rinascimento
8L'Ottocento e il Romanticismo 9Note 10Bibliografia 11Voci correlate 12Altri
progetti 13Collegamenti esterni Descrizione ed effetti Psichicamente è caratterizzata
dalla cessazione di ogni attività da parte dell'emisfero cerebrale sinistro
(noto anche come emisfero dominante o della "razionalità
discorsiva"), consentendo così all'emisfero destro (quello recessivo o
passivo, detto anche "emotivo") di attivarsi. È uno stato di estrema
concentrazione simile per certi versi all'ipnosi, quando ad esempio la mente
rimane attonita nel fissare un punto o un oggetto, dimentica di ogni altro
pensiero. Generalmente produce uno stato di notevole beatitudine e benessere interiore.[3]
Manifestazioni dell'estasi nell'antichità Una simile condizione mentale era
nota sin dall'antichità ed era considerata manifestazione diretta della
divinità.[4] Il corteo dionisiaco Nell'antica Grecia erano famose le
menadi (o Baccanti), donne greche che partecipavano a riti non ufficiali. Si
trattava di culti misterici e iniziatici che si svolgevano al di fuori delle
mura della città ed erano aperti agli emarginati della società, quali appunto
le donne, gli schiavi e i meteci. I protagonisti di questi culti (detti anche
Misteri, connessi sia ai riti dionisiaci che a quelli orfici sorti intorno al
VII secolo a.C.), presi in uno stato di trance o estasi ballavano sfrenatamente
e uccidevano a mani nude degli animali.[5] Si trattava di elementi legati
all'aspetto esoterico della religione greca, che convivevano sotterraneamente
con l'exoterismo della religiosità tradizionale.[6] L'estasi oracolare
L'estasi era ciò che rendeva possibili gli Oracoli, essendo vissuta come
momento di tramite fra la dimensione terrena e quella ultramondana. A volte lo
stato di estasi veniva raggiunto artificialmente mediante l'uso di sostanze
psicotrope; la persona coinvolta era portata così a compiere gesti o azioni
insoliti.[7] Figure oracolari Figure emblematiche e famose per le loro
estasi collegate al dono della profezia erano le Sibille, donne laiche che
gravitavano presso un tempio di Apollo proprio per la loro capacità di
connettersi col divino, che proferivano i loro responsi restando nell'ombra,
non mostrandosi facilmente agli umani che le avessero consultate ed
interrogate; oppure poi la Pizia vera e propria sacerdotessa di Apollo che
dimorava nel famoso santuario apollineo di Delfi, la quale si mostrava ai
fedeli e proferiva gli oracoli dopo appositi riti e sacrifici. La Pizia
raggiungeva uno stato di estasi indotto dai vapori inebrianti che uscivano da
una spaccatura del suolo, durante il quale proferiva gli oracoli.[8] In Magna
Grecia era invece famosa la Sibilla di Cuma, antica città greca situata nei Campi
Flegrei. I responsi delle Sibille tuttavia erano spesso oscuri e non facilmente
interpretabili, venendo compresi ora in un senso, ora in un altro.[9]
L'estasi nelle filosofie orientali Nelle religioni asiatiche, come l'induismo,
il taoismo, e soprattutto il buddismo, l'estasi è il momento sacro in cui
avviene l'illuminazione, ed è il pieno sviluppo delle potenzialità e delle
qualità naturali presenti nell'individuo.[10] Questo stato è anche chiamato
onniscienza oppure saggezza suprema e perfetta, dal sanscrito
anuttarā-samyak-saṃbodhi, comunemente detta semplicemente Bodhi, e corrisponde
all'illuminazione del Buddha; è lo stato in cui la mente diventa illimitata e
non più separata dal resto del mondo, il punto in cui il microcosmo della
persona si fonde con il macrocosmo dell'universo.[11] Diventa così
possibile una condizione di nirvana, alla quale ci si allena sotto la guida di
un maestro tramite la meditazione, cioè la concentrazione su di sé e la
consapevolezza della propria energia.[12] L'estasi in Plotino Secondo
Plotino (filosofo ellenistico neoplatonico del III secolo d.C.), l'estasi è il
culmine delle possibilità umane, che avviene dopo aver compiuto a ritroso il
processo di emanazione da Dio: essa è un'autocoscienza, ed è la meta naturale
della ragione umana, la quale, desiderando ricongiungersi col Principio da cui
emana, riesce a coglierlo non possedendolo, ma lasciandosene possedere. Il
pensiero cioè deve rinunciare ad ogni pretesa di oggettività abbandonando il
dinamismo discorsivo della razionalità, ovvero negando se stesso.[13] Tramite
un severo percorso di ascesi, che si serve del metodo della teologia negativa e
della catarsi dalle passioni, la ragione riesce così a uscire dai propri
limiti, superando il dualismo soggetto/oggetto e compenetrandosi con l'Uno.
Quello di Plotino non è tuttavia un semplice panteismo naturalistico, poiché
per lui l'estasi è essenzialmente un percorso in salita verso la
trascendenza.[14] Il circolo nella filosofia di Plotino: dalla
processione all'anima umana, e dalla contemplazione all'estasi.[15] Essendo
l'Uno non descrivibile, perché descriverlo significherebbe sdoppiarlo in un
soggetto descrivente e un oggetto descritto (e quindi non sarebbe più Uno, ma
due), anche l'estasi è di conseguenza uno stato psichico non descrivibile a
parole, dato che l'estasi è la condizione stessa dell'Uno che si
auto-contempla. Intuirla è possibile solo per via di negazione: tramite il suo
contrario, prendendo coscienza di ciò che l'Uno non è, cioè del molteplice.
L'Uno stesso, in quanto autocoscienza del pensiero, per intuirsi deve pertanto
uscire fuori di sé, diventando molteplice. L'estasi è appunto l'atto con cui
l'Uno genera il molteplice: essa è un cogliere tutt'insieme l'uno e i molti, in
un circolo che dalla processione ritorna alla contemplazione.[15] Cusano,
teologo cristiano del Quattrocento, dirà in maniera simile che l'universo è
l'esplicatio dell'Essere, ovvero il fuoriuscire di sé da parte di Dio. A
differenza del Cristianesimo però, secondo Plotino l'estasi non è un dono della
divinità, ma una possibilità naturale dell'anima. Essa tuttavia si manifesta
non per una propria volontà deliberata, ma da sé, in un momento fuori della
portata del tempo. Plotino stesso raggiunse l'estasi solo tre o quattro volte
nella sua esistenza. Viverla è infatti dato a pochissimi, in rari momenti della
loro vita. L'estasi inoltre non serve ad uno scopo pratico; essendo
contemplazione fine a se stessa, in questo mondo non c'è nulla di più
inutile.[16] È solo nell'estasi però che l'essere umano ha la rivelazione della
sua condizione più vera e autentica. Per il resto la via indicata da Plotino
verso la saggezza consisteva in una vita retta, oppure nella ricerca di
espressioni artistiche come la musica. L'estasi cristiana Santa
Teresa d'Avila La filosofia plotiniana diede quindi avvio a una lunga
tradizione neoplatonica, che concepiva l'universo animato da un eros o tensione
amorosa mirante a ricongiungersi a Dio tramite l'estasi. La teologia di Plotino
fu ripresa in particolare da quella cristiana, e rivisitata però alla luce
dell'aspetto personale della Trinità. L'estasi venne intesa in un senso più
ampio: per il cristianesimo essa non è più soltanto una contemplazione fine a
se stessa, ma è funzionale all'azione; deve tendere cioè non solo verso Dio, ma
anche verso il mondo.[17] Tale mutamento di prospettiva venne introdotto
affiancando all'amore greco di tipo ascensivo, corrispondente al concetto di
eros, un amore discensivo corrispondente al concetto evangelico di àgape.[18]
L'esperienza estatica cristiana consiste così in una comunione, una sorta di
abbraccio col mondo e l'umanità in esso dispersa con lo scopo di alleviarne le
sofferenze e ricongiungerla al Padre. Essa avviene tramite
un'illuminazione operata direttamente da Dio. Questi fuoriesce nel mondo non
per un atto involontario (com'era nel plotinismo), ma perché ama le sue
creature. Identificarsi con la sua estasi divina è, secondo Agostino, la meta
naturale della ragione umana, la quale può riuscirci non per una deliberata volontà
individuale, ma per una rivelazione da parte di Dio stesso che si rende
presente alla nostra mente; l'estasi è dunque essenzialmente un dono, reso
possibile per intercessione dello Spirito Santo, grazie a cui l'essere umano
trascende i propri limiti e si rende strumento di Dio nel mondo.[19] A
differenza di altre religioni la persona coinvolta non perde comunque la
propria individualità, pur compenetrandosi in Lui.[20] Per i mistici
medioevali, come San Bernardo,[21] o i neoplatonici tedeschi come Meister
Eckhart, l'estasi è una visione beatifica che avviene quando l'anima è rapita
in Dio, e l'essere si annulla in un Pensiero senza più limiti né contenuto: Dio
infatti non può essere oggettivato, perché non è oggetto, ma Soggetto. Si
tratta di una comunione mistica accesa da un fuoco d'amore, un'esperienza di
beatitudine suprema simile a quelle che saranno riferite in seguito anche da
Santa Teresa d'Avila,[22] figura di riferimento della Controriforma. Un'altra
testimonianza sull'estasi in tal senso è quella medioevale del beato Jacopone
da Todi nella lauda O iubelo de core. L'estasi paradisiaca in Dante Nel
Trecento Dante Alighieri, nel Paradiso della Divina Commedia, di fronte alla
visione beatifica di Dio, negli ultimi versi della cantica prova così a descrivere
l'estasi, conscio della sua ineffabilità, dell'impossibilità di riferirla a
parole in maniera oggettiva: Dante contempla l'Empireo, incisione
colorata dell'originale di Gustave Doré «Qual è 'l geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond' elli
indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l'imago
al cerchio e come vi s'indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se
non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A
l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì
come rota ch'igualmente è mossa, l'amor che move il sole e l'altre
stelle.[23]» (Paradiso, canto XXXIII, vv. 133-145) Il Rinascimento Il desiderio
di estasiarsi godette quindi di una notevole fortuna durante il
Rinascimento.[24] Al di là del significato religioso l'estasi assunse allora
principalmente una valenza artistica o estetica. Il bello era visto sia dai
filosofi rinascimentali che dagli idealisti romantici come la via privilegiata
per ricongiungersi a Dio.[25] Nel Cinquecento Giordano Bruno paragonò l'estasi
a un eroico furore: non un'attività pacifica che spegnesse i sensi e la
memoria, ma al contrario li acuisse, simile a un impeto razionale.[26]
L'Ottocento e il Romanticismo A una rivalutazione dell'estasi nell'Ottocento
contribuirono sia la Critica del giudizio di Kant, sia l'idealismo di Fichte e
Schelling.[27] Kant vedeva nel giudizio estetico un sentimento universale di
partecipazione con l'Assoluto, nel quale la ragione non è più vincolata da
un'attività conoscitiva soggetta alla necessità delle relazioni causa-effetto,
ma è libera nel formulare i propri legami associativi. Per Fichte l'estasi è
intuizione intellettuale, l'atto immediato con cui l'Io, nel diventare
autocosciente, può intuire se stesso solo in rapporto a un non-io; così nel
porre se stesso l'Io pone al contempo anche il molteplice al di fuori di
sé.[28] Parimenti Schelling vedeva nell'estasi un'attività infinita con cui Dio
crea il mondo. L'uomo può riviverla nell'estasi artistica, che è la
manifestazione più tangibile dell'Assoluto, nel quale l'aspetto attivo e
passivo, il lato conscio e quello inconscio della mente, non sono più in
conflitto tra loro, ma si fondono in una sintesi armonica di comunione cosmica
con la Natura.[29] Note ^ Paolo Mantegazza, Le estasi umane (1887),
Marzocco, Firenze 1939, pag. 5. ^ La Civiltà Cattolica, p. 321, Legislative
Reference Bureau, anno 80°, vol. II, Roma 1929. ^ Enciclopedia Treccani alla
voce «estasi», di Marco Margnelli e Enrico Comba, 1999. ^ Paola Giovetti,
Dizionario del mistero, p. 161, Mediterranee, 1995. ^ Atlante illustrato della
mitologia del mondo, p. 304, Giunti Editore, 2002. ^ U. Bianchi, A. Motte e
AA.VV., Trattato di antropologia del sacro, Jaca Book, Milano 1992. ^ Diana
Tedoldi, L'Albero della musica: tamburo, stati altri di coscienza, p. 66, Anima
Srl, 2014. ^ Walter Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica, p.
245, Jaca Book, 2003. ^ Rocco Messina, Riflessioni e verità, vol. II, p. 2,
Edizioni del Faro, 2015. ^ Aa.vv., Dizionario della Sapienza Orientale:
Buddhismo, Induismo, Taoismo, Zen, p. 433, Mediterranee, 1991. ^ Jack Kerouac,
Il libro del risveglio, p. 33, a cura di T. Pincio, Mondadori, 2010. ^ Julius Evola,
Oriente e Occidente, p. 100, Mediterranee, 2001. ^ «La scienza è ragione
discorsiva e questa è molteplicità: perciò, una volta caduta nel numero e nella
molteplicità, essa perde l'Uno. È necessario dunque trascendere la scienza e
non allontanarsi mai dal nostro essere unitario, ma abbandonare la scienza.
[...] Perciò si dice che Egli è ineffabile e indescivibile» (Plotino, Enneadi,
VI, 9, 4, traduzione di G. Faggin). ^ Giuseppe Faggin, in La presenza divina,
pag. 23, D'Anna editrice, Messina-Firenze 1971. Emanuele Severino, La
filosofia dai Greci al nostro tempo, pp. 253-271, Il circolo nella filosofia di
Plotino, Milano, Rizzoli, 1996. ^ G. Faggin, op. cit., pag. 25. ^ Giuseppe
Mazza, La liminalità come dinamica di passaggio: la rivelazione come struttura
osmotico-performativa dell'"inter-esse" trinitario, p. 556, Gregorian
Biblical BookShop, 2005. ^ Sulla differenza terminologica tra agape ed eros,
cfr. E. Stauffer, Agapao, in G. Kittel-G. Fridrich, Grande lessico del Nuovo
Testamento, vol. I, Paideia, Brescia 1965, coll. 57-146. ^ R. Bonetti,
Matrimonio in Cristo è matrimonio nello Spirito, p. 63, Città Nuova, 1998. ^
Julien Ries, Communio, p. 88, Jaca Book, 2008. ^ «Come una piccola goccia
d'acqua che cada in una grande quantità di vino sembra diluirsi e sparire per
assumere il sapore e il colore del vino; [...] così ogni affetto umano, nei
santi, deve fondersi e liquefarsi per identificarsi alla volontà divina. Come
infatti Dio potrebbe essere tutto in tutto, se nell'uomo restasse qualcosa di
umano? Senza dubbio, la sostanza rimane, ma sotto un'altra forma, un'altra
potenza, un'altra gloria» (Bernardo di Chiaravalle, De diligendo Deo, 10, trad.
di G. Faggin). ^ Santa Teresa d'Avila descrive l'estasi come un momento di
"assenza" nel quale afferma di aver percepito tutto il dolore provato
da Cristo durante la Passione, ma anche una così grande gioia interiore da
coprire il dolore (cfr. Autobiografia, XXIX, 13). ^ Nella descrizione di Dante
si tratta di quella condizione paradossale di «estasi per cui la mente esce di
sé e perviene a un potenziamento di sé» (T. Di Salvo, Paradiso, Zanichelli,
1988, p. 622). ^ Reinhard Brandt, Filosofia nella pittura: da Giorgione a
Magritte, p. 432, Pearson Italia S.p.a., 2003. ^ «Una delle qualità necessarie
al sapiente, cioè a colui che intende spingere l'ascesi conoscitiva fino
all'estasi e all'indiamento (farsi Dio), è un livello erocio di amore per la
bellezza, un furore divino nella terminologia di Ficino» (Ubaldo Nicola,
Atlante illustrato di filosofia, p. 238, Giunti Editore, 1999). ^ Ubaldo
Nicola, Atlante illustrato, ivi. ^ Alessio Dal Pozzolo, La fede tra estetica,
etica ed estatica, p. 64, Gregorian Biblical BookShop, 2011. ^ S. Mati Novalis,
Del poeta regno sia il mondo. Attraversamenti negli appunti filosofici, p. 81,
Pendragon, 2005. ^ Antonello Franco, Essere e senso: filosofia, religione,
ermeneutica, p. 170, Guida Editori, 2005. Cfr. anche Luigi Pareyson, Lo stupore
della ragione in Schelling, in AA.VV., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia
della libertà, Mursia, Milano 1979. Bibliografia Carlo Landini, Psicologia
dell'estasi, Franco Angeli, Milano 1983 Ioan Petru Culianu, Esperienze
dell'estasi dall'ellenismo al Medioevo, Laterza, Bari 1986 Mircea Eliade, Lo
sciamanismo e le tecniche dell'estasi, ed. Mediterranee, 1995 Luigi Razzano,
L'estasi del bello nella sofiologia di S. N. Bulgakov, Città Nuova, 2006 ISBN
8831133594 G. Merlin, F. Vettori, Un'estetica estatica, edizioni Cleup, Padova
2007 ISBN 978-88-6129-079-2 Voci correlate Beatitudine Esperienza extracorporea
Illuminazione (Buddhismo) Illuminazione (cristianesimo) Indiamento Misticismo
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della menteMisticaTeologia SOMMARIO 226 . DEL CANTO DECIMOTTAVO. IL
DISCORSO UMANO. A 28. 37. Comie ſi genera. 38. Nima Ragionevole , come di Anima
, come sà, che, fuor del ſuo ſcorre nel Corpo Organico. St.1. Corpofieno ,
altre Coſe Corporee.27. Obbietti Senſibili terminan le Idee Per le Idee degli
Obbietti,nel Senſo nel Senſo Comune. St. 2 . Comune rappreſentatele. Corpi
Striati , e loro ſtruttura, 3. Cometalora s'inganna. 29. Fornice, e ſua teſtura
. 4. Delirio nell'Ubriachezza. 31 . Setto Lucido, e ſua fabrica . 5. Vino or fà
dormire ,or vegliare. 32. Corpo Calloſo, e ſua anatomia . 6. Come alle volte
porta il ſonno. 33 Senſo Comune ne 'Corpi Striati. 7. Come talora induce
vigilia. 34. Da quali paſſano tutti gli Spiriti Ubriaco, perche Delira. 35.
Motivi , e i Senſitivi. 8. Mania , eſuo Delirio. Anima,in quanto ſente,riſiede
ne’ Corpi Striati. 9. Siſpiega in particolare. 40. Fantaſia ſi eſercita nel
Fornice. Io. Morficati dal Can rabbioſo , e lor Memoria riſiede nel
CorpoCallofo.1.1 . Delirio. 43 . Imaginativa, come ſérve al Di Come prendon
proprietà Canine. 44. ſcorrere. 12. E credono , eller Cani. 45. Facoltà Motiva
,coni'è eccitata. 13. Core procede tal Trasformazione.46. lilee Senſibili,coine
ſi formano,e 's' Delirio Febrile , ò Frene fiu . 48. imprimono nel Cerebro. 14.
Come faffi. 49. Spiriti Animali, fimilialla Luce.15. Come ſi dà Febre ſenza
Delirio , e Paragone fra queſta, e quelli. 16 . Delirio ſenza Febre. Spiriti
Animali , comeformano le Cerebro deſtinato agli uficj Anima Idee. 17 . li , e
il Cerebello à i Vitali. FI. Idee non ſono, che una pittura, in Anatomia del
Cerebello. protata nelle pieghe del Cerebro.19. Nervi, che naſcono
dalCerebello. 53 . Sterienza. · 20. La Mente non bà dominio ſul Cea Idee, come
laſciano la loro inpronta rebello . 54. nuel Corpo Calloſo. 22. Comunicazioni
fra il Cerebro , e il inima, come ſi rigorda. 24. Cerebello ſcambievoli. 55.
Guajti gli organi del Diſcorrere , Impreſſioni del Cerebro,come ſi par iguafla
il Diſcorſo Umano. 26. tecipano al Cerebello , e quelle 50. 52. del 227 84. del
Cerebello al Cerebro. 58. Come ſi genera . 79. Agitazione Febrile, cagionata al
Delirio dellº Incubo, come ſi forma.81 . Cerebello, partecipanıloj al Ce
Maliæconia Ipocondriaca. rebro, induce il Delirio. 59. SueCagioniantecedenti.
85. Non comunicandoſi , no’l produce.62. Suoi triſti effetti. 86. Delirio de '
Sognanti. 63. Come induce ilDelirj. 89. Sonno, come ſi fa . 64. Per gli efluvj
degli Umori, corrotti Cbefia 68. nelle Viſcere, 90 . Sogni, come ſi formano.
69. | Rimedj, che riducono allo ſtato di Sogni, perchè ſi formano,à miſura
Sanità gli Organi , guariſcono, degli Appetiti , e delle Paffioni dal Delirio.
91 . attuali , 74. Diſcorſo depravato per erroriLoa Incubo . 77. gici, e ſuoi
rimedja IXIETAS2140S147 Μ Α Ν Ω. ARGOMENTO. 27482 A82FATIRAF ETAFARAYAX 2X1%
XKAYARANJE D E l'ordinato pria Diſcorſo Umano Dichiara la Meccanica ragione il
dotto Serafin , poi de l’ Inſano Le falſe Idee , l Opere prave eſpone : Qual ne
i Senni , anche Savj , il ſogno vana Le incongrue fantaſie finge , e compone ;
Qual la Ragion prevarica , e travia L ' Ipocondriaca , à l' Uom , Malinconia .
STATE 24789273173727WTAYARAN485 27382838485 484 1 sãto, 2 . CANTO DECIMOTTAVO .
4. Su queſte Midollar due fondamenta Del Corpo inilerabile , c mortale La
propria mole anteriore appoggia Compreſo lò dal tuo dir, cô doglia,e pianto ,
Il Fornice , che il Cerebro ſoftenta , Lo ſtato lagrimevole , e fatale , Ed in
Corpo Calloſo ad alto poggia. Seguì à parlar , per conſolarmialquanto, Sul
Midollo allungato ei , dietro, afſenta De l'Anima si nobile , c Immortale ; Due
pic poſterior , di Volta in foggia : Coin'ella , in queſta fua Corporca mole,
Del Palagio cosi de l'Alma intero Intende , idea , membra , diſcorre , e vuole.
L'uno , e l'altro loftien doppio Emisfero . 5 E il Serafin : Dopo che invia
l'Obbietto Mà del Fornice al tetto interiore, Il Carattere fuo nel Sento
eſterno , Qual Zona , un Setto lucido li appende ; Per il canal de Nervi , ei
và diretto Che , in mezo , da la parte anteriore, Sè ad improntar nel comun
Senfo interno . A la poſterior , curvo , diſcende . Queſto è il luogo del
Cerebro , ch'eletto A i lati fuoi , con ſempre ugual tcnore E de moti ſenſibili
al governo. Di quà , di là ſerie di ſtrie , ſi ſtende , Qual van le linee al
centro , in lui convienli, Che tutte in lui riguardano egualmente , Ch’entrin
tutte le Idee de gli altri Senſi . Il qual, di Vetro in guiſa , è traſparente .
3 . 6. Pria,che il Cervello i ſuoi due faſci accoppi L'ampio Corpo Calloſo è
ſovrapoſto In Midollo allungato , e poi Spinale, Al Fornice, e sù quel li
ammaſſa , e annette , Da quai ſpuntano pofcia , ad ordin doppi E con ordin
mirabile è compoſto Tutti i Nervi del Senſo univerſale , D'inteſti filamenti à
retinette, Di Cannei Midollar compon due groppi , Di cui l'immenſo numero
diſpoſto Conici , e curvi , in forma lunga ovale In fuperficie vien piane
perfette, Che , perchè ſono à lunghe ſtrie ſolcati , Molli così , che ammettono
, à l'azzione ' i detti laran Corpi ftriati. De gli Spirti , ogni minima
impreffione. Entso CANTO DECIMOTTAVO , 229 8. 7 . 13 . Entro de i Midollar
Corpi Striati , E de gli eſterni Obbietti lor là dove La reſidenza il Comun
Senſo ottiene , Hà la Malizia , d la Bontà compreſa , C'hà de le proprie
Glandole irrigati I principj de i Nervi apre, e vi piove Le cavità , di Spiriti
ripiene, Copia di Spirti, ove ella vuole, inteſa : Atti ad eſſere impreſli , e
conformati I Muſcoli ritira, e i membri move In ogni Idea ,che a lor da i Senſi
viene, Al'ampleſſo, à la fuga, à la difeſa; Azili , e fnelli , à figlirarſi
eſpoſti E quando poi di quei reſta ſicura D'infiniti , in cui fian , modi ,
diſpoſti. Più Spiriti non manda , e i Nervi ottura 14. I Nervi in lor degli
Organi Senſori Spiegami meglio (aggiūge Adam )traslata, Tutti invian de gli
Spiriti i refulli : Come i'ldea nel Comun Senſo ha forma: E quei , da lor , de
gli Orgeni Motori Come dal Settolucido paſſata , Spontanei tutti han degli
Spirti i fluſſi : Entro il Corpo Calloſo imprime l'orma : Cid, che vien dentro
ammeſio , ch'eſce fuori E come poi , che in quel reſta improntata, Di Senſitivi
, o di Motivi in Auſli , Entro la Fantafia la Copia forma, Del Cerebro , ove
l'Alma à regnar ſtarfi, Simile a quella Idea , che pria l'affiſſe: Per queſta
regia Via, convien, che palli Cosi ei richiede : E così Quei gli diffe 9. 15.
In queſti l'Alma Umana, in quanto ſente , Benchè vario fra loro il naſcimento
Corpi Striati aſſiſte , e ognor riſiede : Han la Luce , e gli Spiriti Aninali :
Quilegata, à gli Spirti intimamente , Che quella dal ſottil Primo Elemento, La
sè, incorporea , à i Corpi aggir concede : Queſti portan dal Terzo i lor
natali, Qui l'occhio Spirital ſempr’hàprefente : Ne la velocità , nel movimento
, Qui tocca , guſta, odora, afcolta, e vede : Nel Terbar riflettendo angoli
eguali Qul le potenze Senſitive hà immote, De l'incidenza à l'angolo, ſembianti
Qui non ſentir ciò, che s'idea,non puote . Fra lor ſon inolto , c in eſſere
rifranti. 16 . La Fantaſia, del Fornice nel Setto Tra gli ſpazi de
GloboliCeleſti Lucido, fuole eſercitarli , cui Ruota in centro la Luce, à
vorticetti : Come pervio , e diafano perfetto Girano in centro ancor mobili
queſti Per ogni parte han via gli Spirti ſui , Sottilmente formatl in
Globoletti : Qui le Idee rappreſentano l'aſpetto , Son de la Luce i Corpi
agili, e preſti, Che dal Senſo Comun paſſano in lui : Atti à modificarli in
vari aſpetti ; Le mira in queſto Specchio, e le contempla Queſti da Corpi,onde
ſon mai rifelli , L'Alma, e in sè Spirital l'Idee n'eſempla . Tornano poi
modificati anch'eſſi. 17 . La Idea, dal Setto lucido, leggiera Quale il Lume de
i Corpi, onde riflette Entro il Corpo Calloſo alfin trapaſſa , Ovunque
dirizzarſi abbia permeſſo, E ne le tele ſue l'Iminago intera, Di quei le
colorate Immagginette Imprime , e il ſuo Carattere vi laffa . Modificate al par
porta in sè ſteſſo : S'impronta in lor , come Sugello in cera , Ne gli ſpirti
de l'Ottiche fibrette Nè per tempo sì facile fi caffa . Quelle dipinge , entro
de l'Occhio ammeſlo: Altre Idee in altre fibre impreffe poi Laſciando in quegli
Spiriti i modelli Serbano à la Memoria i teſor fuoi. Che ne la fuperficie
ebb’ei di quelli . 12 . 18 . Se diſcorrer talor la Mente hà brame Tal gli
Spirti Senſor modificati Sù quelle Idee , che il Comun Senſo invia Da gli
obbietti, onde füro indietro ſpinti ; Uop'è , che le trafcorſe Idee richiame
Nel Comun Senſo portano traslati , Dala Mémoria à la fua Fantaſia .
Quegl'Idoletti Mobili diſtinti, Ponle nel Setto lucido ad elame, Che nela
Fantafia rapprefentati, Le rigette, o le approva , odia, ò defia , Ne la
Memoria alfin reftan dipinti, A miſura, che trae da loro effenze Con quello
ſteſſo colorato aſpetto , Utili , a infaufte à sè le conſeguenze . Che in
ſuperficie å vea l'efferno Obbietto . L'Adamo del CampaiHas Mmm L'ldos ro . II
. 230 IL DISCORSO UMANO : 20. 19 . L'idea, che ne le fibre interiori In queſta
forma, Adam , l'Umana Mente ; Del Caitofo Midol poi fi figura , Mêtre informa
il ſuo Corpo,e leſuc Membra) Per mezo de'caratteri impreſſori Da i fantaſmi di
quello è dipendente: Non è, ch'una verilima pittura , Con queſti ſente , immagina
, e rimembra : Per via dipinca in lor , non di colori, Mà in sè diſcorre , e
vuol liberardente, Mà per mutazion de la teſtura, E ciò clegge , che buon , che
bel le ſembra : Chenegli Spiīti !!! tal rifleſſo induce, Pur , de gli Enti
Corporei , uop'e , che penſi, Quale iColor riñettono la Luce. Per via d'Idee
material di Senſi. 26 . Non ſono i Color tutti altro in sè ſterfi, Mà perd ,
che del Corpo i Morbi fono Che ſuperficie , tal.configurata , Per l'intima
union, Morbi de l'Alma , Sù cui rifranti i raggi , e infiem rifleſſi, Perdendo
il Corpo il natural ſuo tuono , Han si la rifleſſion modificata , Se inferma è
mai la fua Corporea Calma , Che imprimono ne l'Occhio i color Ateli . La Mente
, che nel Cerebro ha il ſuo trono Con cui la ſuperficie è colorata : Tra gli
Spirti animai non reſta in calma ; Cosi Criſtal diafano hà coſtume Perchè di
lor difregolato il corſo , Sol culorir per Refrazzione , il Lume. La perturbata
Idea turba il Diſcorſo. 21 . 27., Si diffé il Serafino , e tenue Stile Che ſien
fuori de l'Anima in Natura Che di piun colore affatto intinſe , Corpi reali , e
fisici , eſiſtenti, Sù quella , che il veſtia , tela ſottile La Mente entro il
ſuo carcere procura Scolpi la fuperficie , e la dipinfe , Da i canvelli ſcoprir
de'Sentimenti, E à colorata Immagine fimile , Sol per mezo de'Senſi ella è
ſicura , Immago in lei, fenza color, diſinfc, Che fieno quelli al Corpo ſuo
preſenti. Che in quel fcolpito Lin con par tenora Nel Comun Senfo , à
l'obbiettiva effenza, Il Lume riticttea , qual fa il Colore. De le coſe attual
så l'Efiſtenza . 28. Cosi ( poi fegue à dir ) la ſola azzione. Sc al Comun
Senſo fuo fi rappreſenta De lo Spirto animal rr odifica to, Idea , che altronde
ella avvenir ti avvcda, Få nel Corpo calloſo impreſione, L'Obbietto, far non può,
che allor non ſenta , Con renderlo, in riflettervi', improntato. E ſentirlo non
può , che non lo creda. Tanto , ver'fua natia coſtituzione , Così à l'Occhio ſe
alcun ti ſi preſenta , E' quel Midollo tenero formato Tu già mai far potrai ,
che non lo veda : A''Idea Spiritofa in lei rifleffa Così se ne lo Specchio
Immigo eſpreſſa , Ccde la superficie , e reſta impreſa. Noncrederla non puoi da
Obbietto impreſa. ?? 29. De l'Occhio in modo tal sù la Retina, Or qualvolta à
la Mente Idea ſi porta Che ancor 'efla Soſtanza è Midollare , Entro il Senſo
Comun per altra via , Se talun filo 1 riguardar ſi oſtina Che per la regia , ed
ordinata porta , Illuminofo in Ciel Corpo Solarc, Onde al Senſo Comun l'Idea
s'invia , Per molto tempo,ancor, che il guardo inchina, Mà lo Spirto retrograda
la porta Del Sol P'linmago lucida gli appare; Da la Memoria , • da la Fantasia,
Elabbagliato acume ovunque gira , Per la ſtrada de'Senfi allor la crede
Quell'infocato lampo ognor rimira . Da Obbietto eſterno impreſa, e le dà fede.
24. 30. Mà fe di ricordarti unqua defia E Fede tal , che giudica , e diſcorre ,
La Mente poi di un traſandato Obbietto , Qual ſe agiffe , nel senſo eſterno
Obbietto ; Al Calloſo Midot , placido , invia E a miſura ingannata amalo,
dabborre , Di Spiriti animali un rivoletto, Cheprova in sè ſvegliar gioja , è
diſpetto ; Che in quell'Idea incontrandoſi per via, Agita i membri , e à un
operar traſcorre Torna modificato in Idoletto : Corriſpondente à l'eccitato
affetto : Dal Tipo Midollar la forina prende , Depravato cosi delira infano E
de l'antica Idea ( imil ſi rende. Per morboſa cagion Diſcorſo Umano . A tur
CANTO CECIMOTTAVO 238 37 . 32. 312 A turbar giunge un Senno , anche prudente,
Per fimile cagion , ſe non la ſteſſa , De l'afforbito Vin le copia enorme : Mania
provien , d'onde Ebrietà provenne Che l'eſaltato Spirito la Mente , Perchè la
delirante Ebrezza eſpreſſa Or forza à delirar con vane forme, Di breve tempo è
una Mania ſolenne, Or gli Spirti gli ottenebra talmente , E la Mania , nel
Senno Umano impreffa , Che n'è ſopito ogni fuo Senſo , e dorme . Di lungo tempo
è un'Ebrietà perenne, In diverſi Soggetti hà varj eventi , Furiola Mania , cui
fon ſoggetti Ch'or furiofi rende , or fonnolenti. Gli acuti più talor favj
Intelletti. 38. Il come ad indagar , contrari , vate, Il Sangue de Maniàci è
con ecceffo Effetti à partorir ne gli Ebri il Vino , Tal di Sulfurei ſpiriti
impregnato Rifletci , che nel latice vitale Che col reſpir per i Polmoni in
eſſo Del Sangue è un doppio fpirito falino : Il Nitro aereo ſpirto infinuato,
L'un ,che diſciolto entro il fuo Siero è un Sale Spira nel vicendevole
congreſſo Urinoſo volatile Alcalino : Indomitaura , ed alito sfrenato , L'altro
dentro del Sangue infinuato , Ch'eſalta in movimenti univerfali Con l'Aria , e
i Cibi, è un fpirito Nitrato , Pria gli Spirti vitai , poi gli animali, 334 39
. In quei,che la purpurea,in copie,han piena, Che concorrendo ai Cerebro ,
accreſciuta Mafia Sanguigna , di Alcali urinofo , Di moto, e quantità, rapiſcon
tutti Lo ſpirito delVin ſi meſce appena , Gl’Idoletti Ideal, che contenuti Che
genera un coagolo vifcolo . Trovan nel Setto lucido, e ridutti, La Linfa
ingroffa , e i vitai Spirti affrena, O fien da la Memoria, ivi venuti, E
concilia un ſonnifero ripoſo. O ne la ſteſſa Fantaſia coftrutti , Tal Miſto ,
fi condenfa in gelatina , E invianli al Comun Senſo, e de la Mente Lo ſpirito
di Vino à quel di Urina , Ingannano colà l'occhio preſente. 34. 40. Mà in
quell'Uomo,in cui trovafi eccedente Qui dice Adam : D'un operar al ſcempio Il
Sal Nitroſo entro il Sanguigno Umore , De PUman miſerabile Intelletto Mifta
appena del Vino è l'Acquardente, Tal che può farlo e furiofo , ed empio, Che à
gli Spirti vitai creſce il fervore , Di prudente, che ſia , ſano Soggetto,
Spirando un'aura Elaſtica potente , Deh dona à me , mio Precettor, l'eſempio
Che gli Spirti animai move à furore. Per farne più diſtinto alcun concetto ,
Tai lpiran , mitti , un'alito focolo Cosi lo prega , e il Serafin verace Del
Viu la Ipirto. , e l'Acido Nitroſo , Il di lui bel deſio cosi compiace. 35. 414
Quindi de gii Ebri à i Midollar cannelli Il Sangue del Maniaco un tal fervore
Lo Spirito con impeto s'invia : Nel ſuo Corpo talor riſveglia , e crea , Seco
il caratter trae , che ne ſuggelli, Che il capo punge , o il petto , e di un
dolore Trova de la Memoria , e il porta via , Intenſo à lui fà lovvenir l'Idea
, L'aſporta feco al Comun Senſo , e quelli , Quando di un ſuo Nemico oftil
furore Che trova, anco tener la Fantafia , Ferillo , e tutto il fatto allor
s'idea : Ne i Corpi introducendoli Striati , Poi da la Fantaſia per falla porta
Per retrograda frada ivi traşlati . Al fuo Senſo Comun l'Idea fi afporta. 42.
Quella Idea crede allor l'Umana Mente E da la vaua Idea l’Alma ingannata,
Introdotta per via di eſterni Senfi Che rappreſenta il ſuo fucceſſo antico , Da
Obbietto , che fia à l'Organo preſente , Stima ver ciò, che vede, e che
aſsaltata Che quei moti Sengbili difpenfi . Sia, già preſente à lui . , dal ſuo
Nemico . Onde ingannata , avvien , che follemente Si accinge a la difeſa , ed
opra irata De la ſtesſa maniera operi , e penſi , Cotr'Uoin , che gli ſi
incotra ,ancor che amico , Comc fe quell'Obbietto aveffe avante , Che,
preoccupata da l'Idea mentita, Di qui la vana Idea forta il ſembiante, Nemico
il crede, e contro lyi s'irrita. Mà 36. 233 IL. DISCORSO LIMANO. 43 51 . 49. Mà
mirabil vieppiù , più portentoſo Che da quei Solfi indomiti inveſtiti
Loſtravoito penſiero è del Diſcorſo Di periferia al centro in mille forme, Di
chi dal dente mai del Can rabbioſo Syolgon de Simulacri, ivi ſcolpiti, Prova in
un di fue meinbra il fero morſo , L'Idee de la Memoria , à varie torme; Che
infetto già dal ſuo velen bavoſo, E ne la Fantaſia poi male uniti E dopo ancor
, che lungo tempo è ſcorſo , Soa gi'iacaagruiFantaſmi in ſtuol deforme : Fra
mille altri ſintomi alfin riinane , Alfio nel Comua Senſo entran ſovente , Col
creder sè già trasformato in Cane. Adingannare , à ſpaventar la Mente. 44. 50 .
Nè ſolo al par del Canc addenta, e morde, Febricitando il Sangue, uopè, che
fpici E ſimile anche al Cane ei latrar s'ode Del Cerebro più Spirti à le
latebre : Ma con fame Canina , e voglie ingorde Delicando gli Spirti , uop'è,
che giri Prono diyora į cibi, e l'olla rode; Il Sangue in pollazion celeri, e
crebre : E con oprar col ſuo penſier concorde Or come Febre è mai lenza Deliri
? Le qualità Caninç affettar gode ; Come delirj fon mai fenza Febre ? Lungi chi
vien sà preſentir , dotato Adamo al Serafin cosi propoſe : Di acuto, e
ſottiliffimo Odorato . E si ad Adamo il Serafin riſpoſę. 45. Premetto , per
ſpiegar, d'onde contratto Per dichiarar Fenoineno si bello , Concetto Uom poſſa
aver cotanto ſtrano , Che interamente jo ſviluprar prometto , Che allor, che
vien de l'unione à l'atto Dopo gli uſi , che detti hò del Cervello , Il corpo
fral con l'Animo ſovrano , Deggio gli uſi anche dir del Cervelletto :
Gl'imprime de'luoi Spiriti il contatto Cheagli uficj Animali eletto è quello ,
L'ldea di eſſer congiunto à Corpo Umano, A gli uli Naturali è queſto eletto :
La qual conſiſte in ’ n Caratter tale , Må pria di eſaminar la ſua Natura.
Ch'ngli Spirit, Umani è fpeciale, Sentine l'anatomica Struttura . 46 . 52, Del
rabbioſo Velen taptu inaligna Nel Cranio è, dietro il Cerebro, ripoſto Hà
corrottiya attività la Forma , Il picciolo Cervello, e ſegregato, Che gli Spiro
animali, ov'egli alligna, In forina quaſi sferica diſpoſto, Ajo: o à poco in sè
inuta , e trusforına , E da le due Meningi andò ammantato : In rio Venen l'Aura
animal traligna, Di Cannellini hà il ſuo Midol compoko i E di Canin Carattere
s'inforina : E il cortice di Glandole am maffato , Cool ne le Materie , oy'i
gli ha loco , In cui con Meccaniſmi , al grande eguali , Muta , e trasforma il
tutto in foco il Foco . Si prepurun gliSpiriti aniinali . 47. S3 Sentendo aggir
quell'Anima infelice Dal Cervelletto fol naſcon produtti Impreſſion di Spiriti
Cunini, Quei Nervei tronchi, e quei lor rami varj; La di cui f.colta
immaginatrice Che daii gli Spirti à i Muſcoli, coſtrutti Hà depravuti affatto i
retti fini , Al miniſter de’moti involontarj. Tradita ancor da quei Fantalmi,
elice Da lui movong i Vaſi, e gli Umor tutti , Da ſe Brutali affetti, atti
Ferini , Ch'a l'uficio vital ſon neceffari, Adam , nel tuo fullir quanto hai
perduto ! Cor, Vene, Arterie, Glandole, Fermenti , Sei ſoggetto ad un Mal,che
di Vom fà Bruto. Polmon, Linfa; Inteſtin, Chilo, Alimenti. 48. 54. Dal già
detto finor molto evidente Giuridizion ſul Cerebel la Mente Argomentar fi può,
come fi dia Punto non tien , nè i ſuoi eſercizi hà noti, Il Diſcorſo de l'Uomo
incoerente Non sà , chiuſa entro il Cerebro, nè fente , Nel Delirio Febril ,
ch'è Freneſia : Come il Chil ſi amminiſtri , e il Sangue ruoti. Che allor, che
bolle il Sangue in Febre ardête, Di quel, che dal Cervello è indipendente , S
fulfurea falina hà diſcraſia , Fermar non puote, è regolarne i moti . Gi
Spiriti nel Cerebro avanzati, Aſſoluti, e diftinti i lor Governi In copia, c
mobiltà fon gencrati . Commercio hap fol per ſei Proceſſi alternt. Manda CANTO
DECIMOTTAVO . 233 55 . 61.. Manda al Cervello il Cervelletto pria E per la via
retrograda, ch'è dietro , Doppia Protuberanza orbicolare , Paffa nel Setto
lucido il torrente : Più baſſo due proceſſi indi gl'invia Quelle Idee , che vi
trova ei ſpinge addietro Per la Protuberanza altra anulare, Verſo i Corpi
Striati obliquamente ; Due altri alfine imprendono la via E al corſo natural
turbando il metro, Da ſuoi due Gambi al Calcc midollare L'offre per falfa porta
ivi à Ja Mente E di Spiriti alterni han participi. Che venute credendole da i
Senli , De’Nervi il pajo ottavov'hà principja. Vopè , che follemente operi, e
penſi. 56. 62 . Per l'uno , e l'altro orbicolar Ricetto Se però nel ſol Cerebro
è riſtretto Son gli Spirci animai partecipati De'Spirti il moto , e de'fantafmi
erranti , Da gli Striati Corpi al Cervelletto , E à trapaſſar non và nel
Cervelletto, E daqueſto anco à i Corpi fuoi Striatia Senza febricitar fà
deliranti : Per le altre quattro vie con corſo retto Perchè fol ne ſuoi Spiriti
è il ſoggetto , Vengono , e ven gli Spiriti mandati, Che fà le Arterie , e il
Cor febricitanti ; Pe'l calce midollare , ove inſeriſce E quello Spirto , onde
il ſuo moto prende Le ſue due braccia il Fornice , e li uniſcea L'Arteria , e
il Cor , dal Cerebel diſcende a 57. 63 . Sol queſte ſon le occulte vie , per
cui Maggior ſoggiunſe Adam ) inêtre a dormea Ciò , che ſuccede in lor di ben ,
di male, Stupore, è il Delirar di fan penſiero , Mandanſi internamente infra
lor dui Che di vani fantaſmi, e incongrue forme Il vital Miniſtero , e
l'animale , Ad un ſtuol dona fe si menzogniero , La Potenza animal gli affetti
ſui I qual , non ſolo al Ver non è conforme I moti fuoi la Facoltà vitale , Mà
par , ch'è falſo , e credefi per vero : Secondo , in Pro comune, à lor
conviene, In modo tal , che un Senno , anche prudente , Opporſi al Mele , o
farfi incontro al Bene. Di creder gl'impoſſibili conſente . 58. 64; E quinci
avvien , che al ſol penſier ſovente Come inganni la Mente à dichiararti Nel
Cerebro , o di Gioja , d di Timore, De i Sogni l'incredibile Bugia , Moffo è il
Polmone , e il Cor placidamente ( Replica Raffael) d'uopo è ſpiegarti, Soſpira
il Petto , e batte fpeſſo il Core. Come il Sonno produceſi , e che ſia : Quete
, è ſvolte le Viſcere , hà la Mente Mà pienamente , Adam , rammemorarti L'idea
de la Salute , ò del Malore : La teſtura del Cerebro dei pria : Intelligenza , e
auſiliario impegno Che la foſtanza ſua , teſfuta á velli Paſſa così tra le
Provincie , e'l Regno . Di cavi coſta , e sferici Cannelli . 59. 65. Or mentre
la febrilc agitazione Che à i lati de'ſuoi concavi Canali Nel Sangue , e ne
le.Viſcere ſi avanza , Triangolar fon gl'interſtizj inteſti : Gli efAlvj.al
Cervelletto , e la mozione Che in quei ſcorron gli Spiriti animali, Mandar per
via de Nervi hà ben poſſariza : E che diſcorre ilSugo nerveo in queſti , Quefto
annuncia al Cervel la impreſſione Fatti gli uni di Spiriti vitali, Per doppia
orbicolar Protuberanza, L'altro di Umor linfatici digefti : Entro i Corpi
Striati , onde la Mente Che ſtan fra lor , quei di elater dotati , Di quel
calor febril l'affanno ſente . Queſto di fode fibre , equilibrati. 60. 66. Mà
ſe gli effuvi, ei moti ſuoi ſon tali , Mentre gli Spirti à tal ſon rarefatti
Che al Cerebel traſceudono le ſponde, Che tengan quei cannelli intumiditi , Nel
Cerebro i ſuoi Spiriti animali O'quefti cosi reſtino diſtratti Per l'anular
Protuberanza infonde : Da ariditi , ò durezza irrigiditi, Poi da i poſterior
recti canali O'il nervco Umor pien di fali acri , ed atti Del calce Midollare
alfin trasfonde , Le fibre à ſtimolar , gli Spirti irriti , Del Fornice gli
Spirti à le due braccia Sta tempre aperto il Cerebro , e produce E in quel gli
eſtranj effuvj infinua, e caccia. Spirti continui , e la Vigilia induce.
L'Adamo del Campailla. Nina Por 237 IL DISCORSO UMANO . 1 ( I 1 ( c & } ( (
1 ( 67. 73 . Per poco influſſo, ò per diſpendj immenfi, Nel tempo del Dormire
al Cervelletto Se al minorar fi vien lo Spirto in effi, Copia inaggior di
Spirti il Sangue infonde O’i ſuoi interſtiz; il nervco Umor più eféli Che
oſtrutto allora il Cerebro , e riſtretco, i ; Tien, con più copia , e i
cannellin compreffi, Quei,che nõ manda à queſto, à quel trasfondo Queſti già
reli vuoti , e non più tenſi Maggior moto pertanto , e più perfetto Chiudonfi,
molli, e calcano in sè ſteſſi. Del Torace han le viſcere profonde , Continuar
nel Cerebro non porno E quelle de l'Addome, allor, che appieno Gli ſpiriti
l'influſſo : e faffi il Sonno . Immerfo è il Corpo Uman del Sonno in feno. 68 .
74. Il Sonno è un feriar di Senſi , e Moti, Mà perchè (dice Adam ) ſpelo, à
miſura Mà Senli eſterni , e Moti volontarj. Di noſtra Paſſion ſi formi il Sogno
? Gli Spirti del Cervel ſtan quafi immoti, Perchè m'idea , dormendo , e mi
figura Chiuſe le vie de Senſitivi Affari : Quell'Obbietto ,che temo,ò quel,che
agogno ? Solo i ſuoi membri proſſimi, e i remoti Qualor per breve , in queſta
notte oſcura Tutti mantiene in eſercizi varj , Michiuſe al Sonno i rai natio
biſogno , ( Perchè infuſſo di Spiriti interdetto Vidi nel Sonno il Cherubino
armato, Non hà ) la Region del Cervelletto . Che mi avventava in fen brando
infocato , 69 . 75. Or così ſtando il Cerebro.in quiete, L'Angiol riſpoſe : Il
già commeſſo errore In una , in tutto oſcurità diffuſa, Nel ſonno anche ti
affigge , e ti tormentas Si occultan le fue Immagini inquiete , Ti ſtringe il
Cor , l'anguſtiato Core Ogni altra Idea de i Senti eſterni eſcluſa , L'imprellione
al Cercbel preſenta, In folche folitudini fecrete Che pe'i Procelli orbicolar
và fuore , La Mente è tutta in sè raccolta, e chiuſa ; E al tuo Senſo comun i
rappreſenta : E del Cervello il diſcoriivo Mondo Poi ne la Fantaſia forma
i'alpetto Dorme in ſilenzio altitlimo, e profondo. Del Cherubin , qual ſe ti
apriſſe il petto , 76. Ed ecco , che per cieca obliqua via , Altro ruſcel di
Spirti al modo fteffo Di Larvette ideali erranti ſquadre Dal Cervelletto al
Cerebro diſcorre ; Nel Coinun Senio , o ne la Fantaila E per la via de l'anular
Proceſſo Vagan leggicie or fpaventole , ed'adre , Lc radici del Fornice
traſcorre . Or veſtite di ainabije bugia , De Cherubin l'idea , che trova in
eſſo , Pingon bei Spettri, e Fantafie leggiadre ; Seco rapiíce , e ullin valia
: deporre E van col Fallo, in naſchera di Vero, Nel Senſorio Comuo : l’Alma,
che'l vede De l'Anima à ingannar l'occhio, e’i penſiero. E lente il duolo al
Cor, ferito il crede. Tal ſe in Teatro cinbroſo il Popol liede, Anch'io
diſs’Eva) in quel notturo orrore , Niirando chiare aprir comiche Scene, Mentre
più gli occhi mici pianger nő ponno , E da Mimi larvati aſculta , e vede Viep;
iù per lo ſpavento, e pul timore , Tragiche finzion , menzogne amene : Che per
quieto oblio , mentre che a !Tonno , Quali del Ver fcordato , ii Falſo crede
Strangolate le fauci , oppreſſo il Core E da’luoi Seun italicdotto viene ,
Sento da un Moftro , infra vigilia, e ſonno : Chefveglia ii Finto in lui ,
verace intanto Volea gridar , volea fuggir , volea Odio, ) Amer,Picea, d
Sdegno,c Rilo,o Piáto. Scuoţer dal ſen la Belva, e non potea . 28. Chile fopite
Immagini alCervello Queſto č l'Incubo, Adamo ( à dir riprende Svegli , i luoi
Spisti in renderne eccitati , A lui rivolto , ii Filico Divino ) Facile è di
aſſignar, dal Cerebello, Paroliſino terribile, che apprende Che fieno effiuvi,
• Spiriti ſcappati, L'Uoin, mentre che talor dorineſupino. Per quei fentier,
che ſon , tra queſto,e quello, Il Petto, e il Core ilmoto ſuo ſoſpende, Ne i
Proceſi ſcambievoii, incavati E fofpende ancu i Sangue il ſuo camino ; De le
Protuberüize orbicolari, Che riſtagnando entro i polmoni in petto E de i terzi
Proceſli , ed anulari , Fà un breve si, mà aſſai moleſto effetto . Cò, che 1 (
I ( 1 C 70. 71 . 79 72 . CANTO DECIMOTTAVO . 79. 85. Cio , che il Sonno al
Cervel coſtituiſce , Del Morbo Malinconico cagioni Vien l’Incubo à produr nel
Cerebello Son , ipaventoſi , e ſubiti tercori Qual, groſſo il nerveoLiquido,
impediſce Affetti violenti, e pailioni, Degli Spirti animali il corſo in quello
, Ipocondriaci, e Iſterici Malori : Tal di queſto il medemo anche oltruiſce In
queſte inordinate ripreſſioni Ogni talor ſuo midollar Canuello , Si guaſtano le
Viſcere, e gli Umori : Qualvolta amplia foverchio, in modi vari , Onde mandati
al Cerebro, ed eſtratti Di queſto pur le Strie triangolari . Spirti ne fono, à
gli uſi lor malatti. 80 . 86 . Come, al Cervel gli Spiriti impediti , Mal fan
l’uſo adempir più principale , Fermanſi gli uſi à gli Organi animali, Ch'è :
coʻlor moti armonici, adequata Così , gli Spirti al Cercbel fopiti, Tener de
l'Uomo à l'Anima immortale Ceffan quei de le Viſcere vitali , Quella , che al
ſommo Ben tendēza hà innata, Il Sengue, e gli altri Liquidi irretiti Mentre in
queſto ſuo carcere mortale Ne i polmoni , e lor vafi arteriali. Vive ad un
Corpo organico ligata : Ciò nel dornir ſupin ſuccede ſpeſſo: Che priva di lor
Tolita Armonia, Che il Cercbel dal Cerebro è compreffo, Sente una interior
Malinconia , 81 . 87 . Prefa daʼNervi impreffion si rea Scemi di loro elaftica
potenza, Al Cerebro s'invia dal Cervelletto Debil tai Spirti à ſpanderſi han
vigore, La Mente un Moſtro in fantaſia s'idea , E di contrari Agenti à la
prelenza Qual ſe l'affoghi, e le comprima il petto : Producon , contraendoſi,
il Tiinore. Poi tratta al Comun Senſo è quell’ldea, Grolli , oltre del dover,
ne l'aderenza Con un corſo retrogrado indiretto Portan le loro Idee forina
maggiore : La Idea ne vede, e la impreſſion ne ſente ; Onde di quel,ch'è in sè
, ſempre più immenfo Or che ſtupor, fe'l crede ver la Mente ? Rapprefentan
l'Obbietto al Comun Senfo . 82. 88 . Miquel dal Setto lucido repiſce Anzi, però
clie indebite miſture Spirto le klee ne'Corpi ſuoi Striati ? Di eſtrani effluvj
in lor glaſtan le forme Del Cerebel non già , che non fluiſce Appajono
d'infolite figure Spirito in lui, chii Cannellin turati. I lor Fantaſmi, e di
feinbianza informe : Si parla Adaino : E Raffacl fupplilce Tenebroſe le
lınmagini, ed oſcure Del Cerebel gli Spiriti privati, Non terbano à gli
Obbietti Idea conforme: Per doppia orbicolar Protuberaliza , Quindi de i
Malinconici eſſer dee u Cerebro, che n’hà minor inancanza . Piena la Fantalia
d'incongrue Idee. 83 . 89 . De le vitali ſu Vilcere à l'uſo Inino il
M.lincolico à tal ſegno, Tutti gli Spirti il Cercbel riparte ; Solo in penſier
fantaſtici ſi aggira : Il Cercbro non già , che benchè chiuſo, Pregna hila
Fantatia , colmo l'ingegno , Ne reſts pieno, e altrui non ne fi partc.
D'incoerenti Idee ; ma non deli. a : Reſtande elauſto quel, da queſto infuſo
Chc, benchè erranti, in sè ſenza ritegno , Hà lo Spirto animal per quella
parte, Le involontarie Immagini riinira, Che dal Corpo Callofo , ove diſcende,
Pur ben fi avvede, e noto há ben , che ſia A gli Striati , ivi le Idee
diſtende. Sol tutto l'Effer loro in Fantaſia. 84. 90. 11 Sogno paſſaggiera è
una Pazizia, Mà ſe da le ſuc viſcere eſalato , Ma la Pazzia poi Sogro è
permanente , Per i Nervi , Par vago, e intercoſtale, La Ipocur driaca in cui
Malinconia Morbofo effuvio , al Cervelletto alzato , Riduce PUomo à delirar
fovente . Per il di dietro al Fornice poi fale, Contraria de Maniaci à la
Follia , Ogni incongruo Fantafina, ivi formato, Ch'è cir :Je !, furioia,
audace, ardente , Che ne la Fantuſia difpiega l'ale, Quefiriè timida, e
imbelle, e'l penſier volto Nel Senforio Comun con feco tira : Hà follecito al
Plen, itupido al Molto . L'Alma allor Ver lo giudica, e delira. Del IL DISCORSO
UMANO , Del nobile cosi Diſcorſo Umano, De'tanti ancor traccò Logici errori E
de'ſuoi varj organici difetti Che al diſcorſo depravauo i Giudici, Filoſofo
l'Arcangelo ſovrano, E qual di Verità gli alti ſplendori Con ſottili penfieri,
e chiari detti . Oſcurano à la Mente i Pregiudicj: Indi ſpiego i Rimedj,
ond'egl’inſano Come la Dialettica riſtori , Reſo , à cagion de gli Organi
imperfetti, Con norme, i falli in lei , regolatrici; Poffi à i retti tornar
ſuoi Sentimenti, E al fine il giuſto Metodo glieſpone , Con medicarne i gu'aſti
ſuoi Stromenti. L'ulo à bene adoptas di fua Ragionc. Tommaso Campailla.
Keywords: oposcolo, ecstasi, discorso disordinato, discorso ordinato, discorso
umano, uomo, vita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Campailla” – The
Swimming-Pool Library.
Campanella
(Stilo).
Filosofo. Grice: “One has to take Campanella seriously; admittedly, an Oxonian
will focus on More, but Campanella is closer to Plato! I especially like that
the walls of the city of “Sol” – it’s a proper name for the prince, not the
sun! – have all the semiotic elements of the semiotic systems by which the
‘solari’ communicate – Campanella designs a very Griceian model based on
‘efficiency’ and LOVE! There’s ibenevolence everywhere – indeed, it is
Campanella’s Sol’s City that I was thinking when inventing the principle of
conversational benevolence to be spoken in the City of Eternal Truth!” -- one
of the most important of the Italian philosophers. H. P. Grice enjoyed his philosophical poems. Tommaso Campanella, al secolo chiamato Giovan Domenico
Campanella, noto anche con lo pseudonimo di Settimontano Squilla (Stilo, 5
settembre 1568Parigi, 21 maggio 1639), filosofo, teologo, poeta e frate
domenicano italiano. Giovan Domenico Campanella nacque a Stilo, un piccolo
borgo della Calabria Ulteriore, al tempo parte del Regno di Napoli (attualmente
in provincia di Reggio Calabria), il 5 settembre del 1568, come egli stesso più
volte afferma nei suoi scritti e come dichiarò il 23 novembre del 1599 nel
carcere di Castel Nuovo a Napoli, al giudice Antonio Peri: «son di una terra
chiamata Stilo in Calabria Ultra, mio padre si domanda Geronimo Campanella e
mia madre Caterina Basile». Fino al 1806 si conservava anche l'atto di
battesimo nella parrocchia di San Biagio, borgo di Stilo, così redatto: «A dì
12 settembre 1568, battezzato Giovan Domenico Campanella figlio di Geronimo e
Catarinella Martello, nato il giorno 5, da me D. Terentio Romano, parroco di S.
Biaggio [sic] nel Borgo». Il padre era un ciabattino povero e analfabeta che
non poteva permettersi di mandare i figli a scuola e Giovan Domenico ascoltava
dalla finestra le lezioni del maestro del paese, segno precoce di quella voglia
di conoscenza che non l'abbandonò per tutta la vita. Nel 1581 la famiglia
si trasferì nella vicina Stignano e nella primavera del 1582 il padre pensò di
mandare il figlio presso un fratello, a Napoli, perché vi studiasse diritto, ma
il giovane Campanella, per il desiderio di seguire corsi regolari di studi e
abbandonare un destino di miseria, più che per una reale vocazione religiosa,
decise di entrare nell'Ordine domenicano. Novizio nel convento della vicina
Placanica, vi fece i primi studi e pronunciò i voti a quindici anni nel
convento di San Giorgio Morgeto, assumendo il nome di Tommaso (in onore di san
Tommaso d'Aquino), continuando gli studi superiori a Nicastro dal 1585 al 1587
e poi, a vent'anni, a Cosenza, dove affrontò lo studio della teologia.
L'istruzione ricevuta dai domenicani non lo soddisfaceva e non gli era
sufficiente: «essendo inquieto, perché mi sembrava una verità non sincera, o piuttosto
falsità in luogo della verità rimanere nel Peripato, esaminai tutti i
commentatori d'Aristotele, i greci, i latini e gli arabi; e cominciai a
dubitare ancor più dei loro dogmi, e perciò volli indagare se le cose ch'essi
dicevano fossero nella natura, che io avevo imparato dalle dottrine dei
sapienti essere il vero codice di Dio. E poiché i miei maestri non potevano
rispondere alle miei obiezioni contro i loro insegnamenti, decisi di leggere da
me tutti i libri di Platone, di Plinio, di Galeno, degli stoici, dei seguaci di
Democrito e principalmente i Telesiani, e metterli a confronto con il primo
codice del mondo per sapere, attraverso l'originale e autografo, quanto le
copie contenessero di vero o di falso». Fu in particolare il De rerum natura
iuxta propria principia di Bernardino Telesio una rivelazione e una liberazione
insieme: scoprì che non esisteva soltanto la filosofia scolastica e che la
natura poteva essere osservata per quello che è, e poteva e doveva essere
indagata con i mezzi concreti posseduti dall'uomo, con i sensi e con la
ragione, prima osservando e poi ragionando, senza schemi precostituiti e senza
mandare a memoria quanto altri credevano di aver già scoperto e di conoscere su
di essa. Era il 1588 e Telesio, che da anni era tornato a vivere nella nativa
Cosenza, vi moriva ottantenne proprio in quei giorni. Il neofita frate
entusiasta non poté sottrarsi a deporre sulla bara, nel duomo, versi latini di
ringraziamento devoto. Quelle che dai suoi superiori furono considerate intemperanze
gli costarono il trasferimento nel piccolo convento di Altomonte, dove tuttavia
il Campanella non rimase inattivo: la segnalazione di alcuni amici, che gli
mostrarono il libro di un certo Jacopo Antonio Marta, napoletano, scritto
contro l'amato Telesio, lo spinse a replicare e nell'agosto del 1589 concluse
quella che è la sua prima opera, la Philosophia sensibus demonstrata,
pubblicata a Napoli due anni dopo. In essa Campanella ribadì la sua
adesione al naturalismo di Telesio, inquadrato però in una cornice
neoplatonica, di derivazione ficiniana, per la quale le leggi della natura non
mantengono più la loro autonomia, come in Telesio, ma sono spiegate dall'azione
creatrice di Dio, dal quale deriva anche l'ordine provvidenziale che governa
l'universo: «chi regola la natura è quel glorioso Iddio, sapientissimo
artefice, che ha provveduto in modo da non reprimere le forze della natura,
nella quale tuttavia agisce con misura». Campanella non poteva rimanere a
lungo ad Altomonte: alla fine del 1589 abbandonò il convento calabrese e se ne
andò a Napoli, ospite dei marchesi del Tufo. Nella capitale del viceregno, pur
non abbandonando l'abito di frate, fu tutto inteso ad approfondire i suoi
interessi neoplatonici e scientifici, che allora erano connessi strettamente
con gli studi alchemici e magici: «scrissi due opere, l'una del senso, l'altra
della investigazione delle cose. A scrivere il libro De sensu rerum mi spinse
una disputa avuta prima in pubblico, poi in privato con Giovanni Battista Della
Porta, lo stesso che scrisse la Fisiognomica, il quale sosteneva che della
simpatia e dell'antipatia non si può rendere ragione; disputa con lui avuta
appunto quando esaminavamo insieme il suo libro già stampato. Scrissi poi il De
investigatione rerum, perché mi pareva che i peripatetici ed i platonici
portassero i giovani per una via larga ma non diritta alla ricerca della
verità». Il De sensu rerum et magia, iniziato a scrivere in latino nel
1590, fu completato e dedicato al granduca di Toscana Ferdinando I de' Medici nel
1592; sequestratogli il manoscritto a Bologna dal Sant'Uffizio, fu riscritto in
italiano nel 1604, tradotto in latino nel 1609 e pubblicato finalmente nel 1620
a Francoforte. Campanella vi persegue una sintesi di naturalismo telesiano e di
platonismo: a Democrito e ai materialisti rimprovera di voler far derivare
l'ordine del mondo all'azione degli atomi, che non hanno sensibilità, e agli
aristotelici la mancata iniziativa di Dio nella costituzione della natura.
D'altra parte egli non intende nemmeno sacrificare l'autonomia delle forze che
agiscono nella natura, pur se la spiegazione ultima delle cose va ricercata
nella primitiva azione divina. Secondo Campanella, i tre principi,
materia, caldo e freddo, di cui è composta la natura, sono frutto della creazione
divina: «Dio prima fece lo spazio, composto pure di Potenza, Sapienza e Amore
[...] e dentro a quello pose la materia, che è la mole corporea [...] Nella
materia poi Dio seminò due principi maschi, cioè attivi, il caldo e il freddo,
perché la materia e lo spazio sono femmine, principi passivi. E questi maschi,
da codesta materia divisa, combattendo, formano due elementi, cielo e terra,
che combattendo tra loro, dalla loro virtù fatta languida nascono i secondi
enti, avendo per guida della generazione le tre influenze, la Necessità, il
Fato e l'Armonia, che portano l'Idea». Le tre primalità (primalitates)che
corrispondono alle tre nature divinecostituiscono il triplice carattere di ogni
essere: Dio «ha dato a tutte le cose potenza di vivere, sapienza e amore quanto
basti alla loro conservazione [...] Dunque il calore può, sente e ama essere, e
così ogni cosa, e desidera eternarsi come Dio e attraverso Dio nessuna cosa
muore ma si muta soltanto, anche se ogni cosa pare morta all'altra e in verità
è morta, così come il fuoco pare cattivo al freddo ed è veramente cattivo per
lui, ma per Dio ogni cosa è viva e buona». Se si considera ogni cosa nel tutto
ci si rende conto che nulla muore veramente: «muore il pane e si fa chilo,
questo muore e si fa sangue, poi il sangue muore e si fa carne, nervi, ossa,
spirito, seme e patisce varie morti e vite, dolori e piaceri». Dalla
Potenza le cose sono solo perché possono essere e hanno una determinata natura;
Dio attraverso questa potenza dona la Necessità alle cose, la Sapienza permette
alle cose di conoscere il Fato, ossia il saper vedere la successione di
causa-effetto nei processi naturali e infine l'Amore permette l'Armonia fra gli
esseri, perché questi amano essere così e non diversamente: «tutti gli enti si
compongono di Potenza, Sapienza e Amore e ognuno è perché può essere, sa essere
e ama essere, combatte contro il non essere e, quando gli manca il potere o il
sapere o l'amore dell'essere, muore e si trasmuta in chi ne ha di più».
Tutte le cose hanno sensibilità: «Tanta sciocchezza è negare il senso alle cose
perché non hanno occhi, né bocca, né orecchie, quanto è negare il moto al vento
perché non ha gambe, e il mangiare al fuoco perché non ha denti, e il vedere a
chi sta in campagna perché non ha finestre da cui affacciarsi e all'aquila
perché non ha occhiali. La medesima sciocchezza indusse altri a credere che Dio
abbia certo corpo e occhi e mani». Inoltre Campanella ci parla anche
delle primalità del non-essere, presenti inevitabilmente nel mondo finito, che
sono l’Impotenza, l’Insipienza e l’Odio: solo in Dio, che è infinito, le
primalità dell'essere non sono contrastate dalle primalità del non-essere. A
queste tre primalità si contrappongono le potenze negative, che possono
variamente combinarsi alle primalità nell'ambito delle varie forme della magia,
che è l'insieme delle regole che vanno osservate per intervenire nella natura.
Il mago è il sapiente che scopre le relazioni esistenti tra le cose: «beato chi
legge nel libro della natura, e impara quello che le cose sono, da esso e non
dal proprio capriccio, e impara così l'arte e il governo divino, facendosi di
conseguenza, con la magia naturale, simile e unanime a Dio». La magia si
manifesta attraverso le sensazioni, che possono essere negative o positive:
sensazioni che l'uomo coglie, e che gli fanno capire di essere parte integrante
di un ordine universale; tuttavia, nonostante sia parte di questo ordine, può
opporsi a tale ordine, e se si oppone all'ordine universale la magia è
negativa, se invece si armonizza, ovvero cerca di seguire l'ordine universale,
allora la magia è positiva. La pubblicazione della Philosophia
sensibus demonstrata provocò scandalo nel convento di San Domenico: un
domenicano che non frequenta il convento e che rifiuta Aristotele e San Tommaso
per Telesio non può essere un buon cattolico. Anche se nessuna affermazione
eretica è contenuta nel libro, in un giorno imprecisato del 1591 Campanella fu
arrestato dalle guardie del nunzio apostolico con l'accusa di pratiche
demoniache. Non si conoscono gli atti del processo ma è conservato il testo
della sentenza, emessa in San Domenico il 28 agosto 1592, contro «frater Thomas
Campanella de Stilo provinciae Calabriae» dal padre provinciale di Napoli, fra
Erasmo Tizzano e da altri giudici domenicani. L'accusa di praticare con il
demonio e di aver pronunciato una frase irriverente contro l'uso delle
scomuniche vengono a cadere, ma resta quella di essere un telesiano, di non
tener conto dell'ortodossia filosofica di Tommaso d'Aquino e di essere stato
per mesi «in domibus saecolarium extra religionem»: dopo quasi un anno di
carcere già scontato, è allora sufficiente che reciti dei salmi e torni, entro
otto giorni, nel suo convento di Altomonte. Campanella si guardò bene
dall'ubbidire all'ordine del tribunale, che lo avrebbe costretto a rinunciare,
a soli 24 anni, a un mondo di cultura nel quale egli era convinto di poter
offrire un contributo fondamentale. Così, munito di una lusinghiera lettera di
presentazione al granduca di Toscana, rilasciatagli dall'amico ed estimatore,
il padre provinciale di Calabria fra Giovanni Battista da Polistena, il 5
settembre 1592 fra Tommaso partì da Napoli alla volta di Firenze, con il suo
carico di libri e manoscritti, contando su di un posto di insegnante a Pisa o a
Siena. La prudente diffidenza di Ferdinando I, che non mancò di chiedere
informazioni sul suo conto al cardinale Del Monte, ottenendo una risposta
negativa, spinse il 16 ottobre Campanella a lasciare Firenze per Bologna, dove
l'Inquisizione, che lo sorvegliava, per mezzo di due falsi frati gli rubò gli
scritti che si portava appresso, per poterli esaminare in cerca di prove a suo
danno. Ai primi del 1593 Campanella fu a Padova, ospite del convento di
Sant'Agostino. Qui, tre giorni dopo il suo arrivo, il Padre generale del
convento venne nottetempo sodomizzato da alcuni frati, senza che egli potesse
identificarli, e perciò, fra i tanti sospettati del grave abuso, anche il
Campanella fu messo sotto inchiesta. Non si sa se dall'inchiesta si passò a un
processo che abbia visto imputato, tra gli altri frati, anche Campanella: in
ogni caso egli ne uscì innocente. Rimase a Padova, probabilmente con la
speranza di trovarvi lavoro; vi incontrò Galileo e conobbe il medico e filosofo
veneziano Andrea Chiocco. Ma il Sant'Uffizio lo teneva ormai sotto
osservazione: alla fine del 1593 o all'inizio del 1594 fu nuovamente arrestato.
Fu accusato di: aver scritto l'opuscolo De tribus impostoribusMosè, Gesù
e Maomettodiretto contro le tre religioni monoteiste, un libro della cui
esistenza allora si favoleggiava, ma che nessuno aveva mai letto; sostenere le
opinioni atee di Democrito, evidentemente un'accusa tratta dall'esame del suo
scritto De sensu rerum et magia, rubatogli a Bologna; essere oppositore della
dottrina e dell'istituzione della Chiesa; essere eretico; aver disputato su
questioni di fede con un giudaizzante, forse condividendone le tesi, e di non
averlo comunque denunciato; aver scritto un sonetto contro Cristo, il cui
autore sarebbe stato però, secondo Campanella, Pietro Aretino; possedere un
libro di geomanzia, che in effetti gli fu sequestrato al momento dell'arresto.
A Padova, in un primo tempo gli furono contestate solo le ultime tre accuse:
per estorcere le confessioni, Campanella e due imputati presunti «giudaizzanti»,
Ottavio Longo, originario di Barletta, e Giovanni Battista Clario, di Udine,
medico dell'arciduca Carlo d'Asburgo, furono sottoposti a tortura. Nel
frattempo, dall'esame del suo De sensu rerum, fatto a Roma, dovettero trarsi
nuove imputazioni, che richiesero lo spostamento del processo da Padova a Roma,
dove infatti Campanella fu condotto e rinchiuso nel carcere dell'Inquisizione
l'11 ottobre 1594. Per difendersi dalle nuove accuse di essere oppositore
della Chiesa, Campanella scrisse già nel carcere padovano un De monarchia
Christianorum, perduto, e il De regimine ecclesiae, ai quali fece seguito, nel
1595, per contestare l'accusa di intelligenza con i protestanti, il Dialogum
contra haereticos nostri temporis et cuisque saeculi e, a difesa
dell'ortodossia di Telesio e dei suoi seguaci, la Defensio Telesianorum ad
Sanctum Officium. La tortura cui fu sottoposto nell'aprile del 1595 segnò la
pratica conclusione del processo: il 16 maggio Campanella abiurava nella chiesa
di Santa Maria sopra Minerva e veniva confinato nel convento domenicano di
Santa Sabina, sul colle Aventino. Le disavventure giudiziarie di
Campanella non finirono però qui. Il 31 dicembre 1596 era stato liberato dal
confino di Santa Sabina e assegnato al convento di Santa Maria sopra Minerva;
intanto, a Napoli, un concittadino di Campanella, condannato a morte per reati
comuni, Scipione Prestinace, prima di essere giustiziato il 17 febbraio 1597,
forse per ritardare l'esecuzione, denunciava diversi suoi conterranei e il
Campanella in particolare, accusandolo di essere eretico: così, il 5 marzo,
Campanella fu nuovamente arrestato.[25] Non si conoscono i precisi
contenuti della deposizione del Prestinace né i dettagli del nuovo processo,
che si concluse il 17 dicembre 1597: nella sentenza, Campanella fu assolto
dalle imputazioni e, diffidato dallo scrivere, liberato «sub cautione iuratoria
de se representando toties quoties», finché, consegnato ai suoi superiori,
questi lo confinino in qualche convento «senza pericolo e scandalo». In
tutto questo periodo di tempo, il Campanella non era certamente rimasto
inoperoso nemmeno sotto l'aspetto della produzione speculativa e letteraria:
oltre agli scritti difensivi del De monarchia, del Dialogo contro i Luterani e
del De regimine, e ai Discorsi ai prìncipi d'Italia, che è un tentativo di
captatio benevolentiae all'indirizzo della Spagna, giustificato dalla difficile
situazione giudiziaria, scrisse l'Epilogo magno, destinato a essere integrato
nella successiva Philosophia realis, con il Prodromus philosophiae
instaurandae, pubblicato nel 1617, l'Arte metrica, dedicata al compagno di
sventura Giovan Battista Clario, la Poetica, dedicata al cardinale Cinzio
Aldobrandini, e i perduti Consultazione della repubblica Veneta, Syntagma de
rei equestris praestantia, De modo sciendi e Physiologia. Ai primi
del 1598 Campanella prese la via di Napoli, dove si fermò diversi mesi, dando
lezioni di geografia, scrivendo le perdute Cosmographia e Encyclopaedia facilis
e terminando l'Epilogo Magno. In luglio s'imbarcò per la Calabria: sbarcato a
Piana di Sant'Eufemia, raggiunse Nicastro e di qui, il 15 agosto, Stilo, ospite
del convento domenicano di Santa Maria di Gesù. Per poco tempo il
Campanella rimase tranquillo in convento, dove scrisse il piccolo trattato De
predestinatione et reprobatione et auxiliis divinae gratiae, nel quale affermò
la dottrina cattolica del libero arbitrio. In un abbozzo dei suoi Articuli
prophetales, appare già l'attesa del nuovo secolo che gli sembra annunciato da
fenomeni straordinari: inondazioni del Po e del Tevere, allagamenti e terremoti
in Calabria, il passaggio di una cometa, profezie e coincidenze astrologiche.
Un nuovo mondo sembra alle porte, a sostituire il vecchio che in Calabria, ma
non solo, vedeva «i soprusi dei nobili, la depravazione del clero, le violenze
d'ogni specie [...] la Santa Sede [...] sanciva i soprusi e proteggeva i
prepotenti. Il clero minore, corrottissimo nei costumi, abusava ogni giorno più
delle immunità ecclesiastiche, e profanava in ogni modo il suo ufficio. Fazioni
avverse contendevano talvolta aspramente tra loro, e non poche lotte erano
coronate da omicidi e delitti d'ogni specie. Gruppi di frati si davano alla
campagna, e, forniti di comitive armate, agivano come banditi, senza che il
governo riuscisse a colpirli [...] I nobili e le famiglie private, dilaniate da
inimicizie ereditarie, tenevano agitato il paese con combattimenti incessanti
tra fazioni [...] l'estrema severità delle leggi, che comminavano la pena di
morte per moltissimi delitti anche minimi [...] la frequenza delle liti e delle
contese, aumentavano in maniera preoccupante il numero dei banditi».[26]
In tale situazione di degrado e nell'illusione di un rivolgimento già scritto
nelle stelle, Campanella progettò, senza preoccuparsi di valutare
realisticamente le possibilità di realizzazione, la costituzione in Calabria di
una repubblica ideale, comunistica e insieme teocratica. Era necessario per
questo cacciare gli Spagnoli, ricorrendo anche all'aiuto dei Turchi: cominciò a
predicare dai primi mesi del 1599 l'imminente ed epocale rivolgimento,
intessendo nell'estate una fitta trama di contatti con le poche decine di
congiurati che aderirono a quella fantastica impresa. Le autorità ebbero ben
presto sentore del tentativo di insurrezione e in agosto truppe spagnole
intervennero a rafforzare i presidi. Il 17 agosto Campanella fuggì dal convento
di Stilo, nascondendosi prima a Stignano, poi nel convento di Santa Maria di
Titi; infine, nascosto in casa di un amico, progettò di imbarcarsi da Roccella,
ma venne tradito e consegnato il 6 settembre agli spagnoli. Incarcerato a
Castelvetere, il 10 settembre firmò una confessione nella quale faceva i nomi
dei principali congiurati, negando ogni sua partecipazione all'impresa. Ma le
testimonianze dei suoi complici erano concordi nell'indicarlo come capo della
cospirazione. Trasferito a Napoli insieme ai suoi compagni di avventura,
Campanella fu rinchiuso in Castel Nuovo. Il 23 novembre 1599 avvenne il
riconoscimento formale dell'accusato, descritto come «giovane con barba nera,
vestito di abiti civili, con cappello nero, casacca nera, calzoni di cuoio e
mantello di lana». Il Santo Uffizio non ottenne dall'autorità spagnola che i
religiosi imputatiCampanella e altri sette frati domenicanifossero trasferiti a
Roma e papa Clemente VIII, l'11 gennaio 1600, nominò il nunzio a Napoli, Jacopo
Aldobrandini e don Pedro de Vera, che fu fatto ecclesiastico per l'occasione,
giudici nel processo che si sarebbe tenuto a Napoli. Ad essi venne aggiunto il
19 aprile il domenicano Alberto Tragagliolo, vescovo di Termoli, già consultore
nel primo processo, scelto dal papa per trattare in modo favorevole Campanella,
poiché Clemente VIII era, anche se prudentemente, antispagnolo.
Campanella era passato sotto la giurisdizione del Sant'Uffizio, che nessun
tribunale statale poteva violare, nemmeno nei casi di lesa maestà. Ciò permise
di ritardare la prevedibile condanna a morte del frate. Durante il processo
presieduto dal vescovo Benedetto Mandina, Campanella, sotto tortura, riconobbe
le proprie eresie e, in quanto relapso, diventò passibile della pena capitale.
La sua strategia di difesa, disperata e rischiosissima, fu quella di fingersi
pazzo, poiché un eretico insano di mente non poteva essere messo a morte dal
Sant'Uffizio. I giudici, dubbiosi, lo sottoposero il 18 luglio, per
un'ora, al supplizio della corda per fargli confessare la simulazione, ma egli
resistette, rispondendo alle domande cantando o dicendo cose senza senso.
L'accettazione da parte dei giudici della pazzia avvenne il 4 e 5 giugno 1601,
durante una terribile seduta di tortura denominata "la veglia", che
consistette in 40 ore di corda alternata al cavalletto, con tre brevi
interruzioni. La resistenza morale e fisica di Campanella gli permise di
superare la prova, anche se rimase poi tra la vita e la morte per sei
mesi. Frontespizio della Metaphysica Trascorse 27 anni in prigione
a Napoli. Durante la prigionia scrisse le sue opere più importanti: La
Monarchia di Spagna (1600), Aforismi Politici (1601), Atheismus triumphatus
(1605-1607), Quod reminiscetur (1606?), Metaphysica (1609-1623), Theologia
(1613-1624), e la sua opera più famosa, La città del Sole (1602), in cui
vagheggiava l'instaurazione di una felice e pacifica repubblica universale
retta su principi di giustizia naturale. Egli addirittura intervenne sul
cosiddetto “primo processo a Galileo Galilei” con la sua coraggiosa Apologia di
Galileo (scritta nele pubblicata nel 1622). Fu infine scarcerato nel
1626, grazie a Maffeo Barberini, arcivescovo di Nazareth a Barletta, poi papa
col nome di Urbano VIII, che personalmente intercedette presso Filippo IV di
Spagna. Campanella fu portato a Roma e tenuto per qualche tempo presso il
Sant'Uffizio; fu liberato definitivamente nel 1629. Visse per cinque anni a
Roma, dove fu il consigliere di Urbano VIII per le questioni astrologiche,
avendo con successo, secondo il Papa, impedito il verificarsi di profezie che
preannunciavano la sua morte imminente in occasione di due eclissi del 1628 e
1630. Nel 1634, però, una nuova cospirazione in Calabria, portata avanti
da uno dei suoi seguaci, gli procurò nuovi problemi. Con l'aiuto del cardinale
Barberini e dell'ambasciatore francese de Noailles, fuggì in Francia, dove fu
benevolmente ricevuto alla corte di Luigi XIII. Protetto dal cardinale
Richelieu e finanziato dal re, passò il resto dei suoi giorni al convento
parigino di Saint-Honoré. Il suo ultimo lavoro fu un poema che celebrava la
nascita del futuro Luigi XIV (Ecloga in portentosam Delphini nativitatem).
Gli è stato dedicato un asteroide, 4653 Tommaso. Il pensiero di
Campanella prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto
Bernardino Telesio; egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano,
sostenendo che la natura vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono
tre: caldo, freddo e materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre
elementi, allora gli esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in
quanto la struttura della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre
Telesio aveva affermato che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta
all'esasperazione questo naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono,
perché nei sassi noi ritroviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e
massa corporea (materia). Il problema della conoscenza (e la
rivalutazione dell'uomo) Il naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò,
comporta una teoria della conoscenza essenzialmente sensistica: egli sosteneva
infatti che tutta la conoscenza è possibile solo grazie all'azione diretta o
indiretta dei sensi, e che Cristoforo Colombo aveva potuto scoprire l'America
perché si era rifatto alla sensazione, non di certo alla razionalità. La
razionalità deriva dalla sensazione: non esiste una conoscenza razionale
intellettiva che non derivi da quella sensitiva. Tuttavia Campanella, a
differenza di Telesio, cerca di rivalutare l'uomo e pertanto afferma
l'esistenza di due tipi di conoscenze: una innata, una sorta di coscienza
interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei sensi. La prima è
definita ‘sensus inditus', che è la conoscenza di sé, la seconda ‘sensus
additus' che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno
appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene
solo all'uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante. Campanella si
rifà ad Agostino d'Ippona, poiché afferma che noi possiamo dubitare della
conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della conoscenza di
sé. Questo ‘sensus inditus' sarà poi il punto essenziale della filosofia
cartesiana, che si basa sul ‘cogito': io penso quindi esisto (cogito ergo
sum). La religione e la politica In base a queste premesse, Campanella si
sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una religione
naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione che
rispetta l'ordine universale dell'universo stesso; le religioni positive sono
invece religioni che vengono imposte dallo stato. Campanella afferma però che
il cristianesimo è l'unica religione positiva, poiché è imposto dallo stato, ma
al contempo coincide con l'ordine naturale (cui però aggiunge il valore della
rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione razionale
contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli sostenne, del
resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale, individuando
poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella Francia, a
seconda di convenienze politiche e personali. La città del Sole
Magnifying glass icon mgx2.svg La città del Sole. Civitas Solis
Campanella fu autore anche di un'importante opera di carattere utopico, ovvero
La città del Sole. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale,
utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole,
un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è
sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione
cristiana. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le
tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza
e Amore. In questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne.
Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà
a Platone (V secolo a.C.) e all'Utopia di Tommaso Moro (1517); fra gli
antecedenti dell'utopismo campanelliano è da annoverare anche La nuova
Atlantide di Francesco Bacone. L'utopismo partiva dal presupposto che, poiché
non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e
l'uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo
Platone. È però importante sottolineare che, mentre Campanella tratta una
realtà utopistica, Niccolò Machiavelli rappresenta la realtà concretamente, e
la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza
di metodo di governo, finalizzato ad ottenere e mantenere stabilmente il
potere. Interpretazioni storiografiche del pensiero politico L'incertezza
è già evidente nell'interpretazione della critica idealistica, che, nei limiti
di una conoscenza ancora incompleta dell'opera, coglie nel pensiero
campanelliano un deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo,
contaminato tuttavia da residui del passato e della tradizione cristiana e
medioevale. Per Silvio Spaventa, Campanella è il "filosofo della
restaurazione cattolica", in quanto la stessa proposizione che la ragione
domina il mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel
papato. Non molto dissimile la lettura di Francesco de Sanctis: "Il quadro
è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il
papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto,
perché la ragione governa il mondo". È la ragione che determina e
giustifica i mutamenti politici, e questi ultimi "sono vani se non hanno
per base l'istruzione e la felicità delle classi più numerose". Tutto ciò
conduce Campanella, secondo il pensiero idealista, alla concezione di un moderno
immanentismo. Opere Aforismi politici, A. Cesaro, Guida, Napoli 1997 An
monarchia Hispanorum sit in augmento, vel in statu, vel in decremento, L.
Amabile, Morano, Napoli 1887 Antiveneti, L. Firpo, Olschki, Firenze 1944
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(comprende Logicorum libri tres) Philosophia realis, ex typographia D.
Houssaye, Parisiis 1637 Philosophia sensibus demonstrata, L. De Franco,
Vivarium, Napoli 1992 Le poesie, F. Giancotti, Einaudi, Torino 1998 Poetica, L.
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Parisiis 1636 Quod reminiscentur et convertentur ad Dominum universi fines
terrae, R. Amerio, CEDAM, Padova 1939 (L. I-II), Olschki, Firenze 1955-1960 (L.
III-IV) Del senso delle cose e della magia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003
De libris propriis et recta ratione. Studendi syntagma, A. Brissoni,
Rubbettino, Soveria Mannelli 1996 Theologia, L. I-XXX, Libro Primo, Edizione
Romano Amerio, Vita e Pensiero, Milano, 1936. Scelta di alcune poesie
filosoficheChoix de quelques poésies philosophiques, Edizione Marco Albertazzi,
Traduzione francese di Franc Ducros, La Finestra editrice, Lavis 978-88-95925-70-7. Campanella nel
cinema La città del sole, regia di Gianni Amelio (1973) Note A. Casadei, M. Santagati, Manuale di
letteratura italiana medievale e moderna, Laterza, Roma-Bari 249. Luigi Firpo, Campanella Tommaso, «Dizionario
biografico degli Italiani», Roma 1974: «Non hanno fondamento le asserzioni
ricorrenti, attizzate da un patetico campanilismo, che lo vorrebbero nato nel vicino
comune di Stignano». Nel Novecento nacque una disputa campanilistica tra il
comune di Stilo e quello di Stignano, che rivendica di aver dato i natali al
filosofo calabrese e indica nel proprio territorio la presunta casa natale di
Campanella In Luigi Firpo, I processi di
Tommaso Campanella, Roma 1998117 In
Opere di Tommaso Campanella, Alessandro d'Ancona, Torino 185412. Un decreto del
16 maggio 1968 ad opera del Ministero della Pubblica Istruzione Caleffi fissa
la casa natale di Tommaso Campanella nell'attuale Comune di Stignano, al tempo
casale del vastissimo territorio di Stilo, adducendo a prova del fatto
l'archivio provinciale di Napoli. La differente indicazione del cognome della
madre, Basile e Martello, fa ritenere che quest'ultimo sia un soprannome Massimo Baldini,Nota biobibliografica, in T.
Campanella, La Città del Sole, Newton Compton, Roma 1995, p.16 T. Campanella, Syntagma de libris propriis et
recta ratione studendi, I Germana Ernst,
Tommaso Campanella: The Book and the Body of Nature [1 ed.], 9048131251,
9789048131259, Springer Netherlands, .
Gli amici Giovanni Francesco Branca, medico di Castrovillari, e Rogliano
da Rogiano, entrambi telesiani, gli segnalarono il libro dell'aristotelico
Marta, il Propugnaculum Arìstotelis adversus principia B. Telesii, Roma
1587 Philosophia sensibus demonstrata,
impressum Neapoli per Horativm Salvianum 1591
Il libro è andato perduto T.
Campanella, Syntagma de libris propris14
John M. Headley, Tommaso Campanella and the Transformation of the World,
0691026793, 9780691026794, Princeton University Press, 1997. T. Campanella, De sensu rerum et magia, II,
26 Pubblicata da Vincenzo Spampanato in
Vita di Giordano Bruno, Messina 1921572
Il cardinale rispose che l'inquisitore fra Vincenzo da Montesanto gli
aveva riferito che del Campanella «si rivedono molti libri pieni [...] di
leggerezza e vanitade, e [...] ancora non sono chiari se vi sia cosa che
appartenghi alla religione»; cfr: lettera del Del Monte a Ferdinando I del 25
settembre 1592 in Archivio di Stato di Firenze, Mediceo, f. 3759 La vicenda di questo sequestro, simulato con
il furto, è esaminata da Luigi Firpo, Appunti campanelliani, in «Giornale
critico della filosofia italiana», XXI, 1940
Non vi sono documenti relativi a quell'episodio, essendone unica fonte
lo stesso Campanella in due sue tarde lettere, a papa Paolo V il 12 aprile 1607
e a Kaspar Schoppe il 1º giugno dello stesso anno, nelle quali Campanella
sottolinea la sua innocenza senza entrare in dettagli. Campanella, lettera a Kaspar Schoppe del 1º
giugno 1607: «accusarunt me quod composuerim librum de tribus impostoribus, qui
tamen invenitur typis excusis annos triginta ante ortum meum ex utero
matri». Due libri di simile contenuto
furono scritti soltanto alla fine del Seicento e ai primi del Settecento. Campanella, ivi: «quod sentirem cum
Democrito, quando ego iam contra Democritum libros edideram». Ibidem: «quod de ecclesiae republica et
doctrina male sentirem». Ibidem: «quod
sim haereticus». Campanella, lettera al
papa del 12 aprile 1607: «Primo ex dicto unius judaizantis molestatus». Il
giudaizzante dovrebbe essere un certo Ottavio Longo da Barletta, anch'egli
arrestato a Padova e processato a Roma.
Ibidem: «secundo ob rythmum impium Aretini non meum». «Lecta depositione Scipionis Prestinacis de
Stylo, Squillacensis Diocesis, facta in Curia archiepiscopali Neapolitana,
Illustrissimi et Reverendissimi Domini Cardinales generales Inquisitionis
praefatae mandaverunt dictum fratrem Thomam reduci ad carceres dictae Sanctae
Inquisitionis», in L. Firpo, I processi di Tommaso Campanella88 C. Dentice di Accadia, Tommaso Campanella,
1921, 43-44 Opere Tommaso Campanella, Apologia pro
Galileo, Frankfurt am Main, Gottfried Tampach, 1622. Tommaso Campanella,
Metaphysica, 1, Paris, 1638. Tommaso
Campanella, Metaphysica, 2, Paris, 1638.
Tommaso Campanella, Metaphysica, 3,
Paris, 1638. Tommaso Campanella, Poesie, Bari, Laterza, 1915. Tommaso Campanella, Medicinalium libri,
Lugduni, ex officina Ioannis Pillehotte : sumptibus Ioannis Caffin, &
Francisci Plaignard, 1635. Delle virtù e dei vizi in particolare, testo critico
e traduzione Romano Amerio, Ed. Centro internazionale di studi umanistici,
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processi e la sua pazzia, 3 voll., Morano, Napoli 1882 (ristampa anastatica,
Franco Pancallo Editore, Locri 2009). ID., L'andata di Fra Tommaso Campanella a
Roma dopo la lunga prigionia di Napoli, Memoria letta all'Accademia Reale di
Scienze Morali e Politiche, Tipografia della Regia Università, Napoli 1886 (ristampa
anastatica, Franco Pancallo Editore, Locri 2009). ID., Fra Tommaso Campanella
ne' castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, 2 voll., Morano, Napoli 1887.
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nell'assolutismo moderno. Tra realismo e utopia, Aracne, Roma, 2009, 978-88-548-2831-5. Luigi Cunsolo, Tommaso
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di stampa della «Scelta d'alcune Poesie filosofiche», in Poesia e
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Città del Sole, 2009. Paola Gatti, Il gran libro del mondo nella filosofia di
Tommaso Campanella, Roma, Gregoriana & Biblical Press, . Sharo Gambino,
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Campanella) Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una
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bivio.filosofia.sns. Historiographiae liber unus iuxta propria principia, su
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, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and
Information (CSLI), Stanford. Filosofia Letteratura Letteratura Filosofo del XVII secoloTeologi
italianiPoeti italiani Professore1568 1639 5 settembre 21 maggio Stilo
ParigiDomenicani italianiLetteratura utopicaAccademia cosentinaVallata dello
StilaroErmetisti italianiAforisti italianiItaliani emigrati in Francia. Tommaso Campanella, al secolo chiamato Giovan Domenico
Campanella, noto anche con lo pseudonimo di Settimontano Squilla. Tommaso
Campanella. Settimoontano Squilla. Giovan Domenico Campanella. Campanella.
Keywords: lingua artificiale, lingua perfetta, la lingua d’utopia, lingua
utopica, l’utopia di Campanella, il problema del linguaggio nella utopia di
Campanella. Italia. Campanelliana. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Campanella," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Cantoni (Gropello Cairoli).
Filosofo. “Kant”.
Cantoni (Milano).
Filosofo. Grice: “You gotta love Cantoni; I call him the Italian Hampshire! Cantoni
philosophises on ‘anthropology’ and he has not the least interest in past
philosophies, -- only contemporary! – Oddly, he reclaimed the good use of
‘primitive,’ meaning ‘originary,’ and he has philosophised on pleasure and
com-placent – also on ‘seduction,’ and eros. It is most interesting that he
reclaimed the concept of ‘umano,’ when dealing with anthropology, as he
considers the ‘disumano’, and the ‘crisi dell’uomo,’ and also the ‘desagio
dell’uomo’ – He has philosophised on the complex concept of the ‘tragic’ alla
Nietzsche – and he dared translate my métier and Fichte’s bestimmung as ‘la
missione dell’uomo’! – Like other Italian philosophers they joke at trouser
words and he has philosophised on ‘what Socrates actually said’! My favourite
is his treatise on Remo and Romolo in ‘mito e storia’. In opposizione alla
tradizione storicista, idealistica crociana si occupa di cultura e storia
usando contaminazioni sociologiche e antropologiche. Per queste aperture venne
considerato uno dei maggiori promotori dell'antropologia culturale in Italia.
Nel solco del maestro Banfi e uno dei maggiori esponenti della "Scuola di
Milano". Oltre ai numerosi volumi pubblicati fonda le riviste Studi
filosofici e Il pensiero critico. Fu allievo di Banfi, amico di Sereni e Formaggio.
Nella cerchia di amicizie di Banfi conobbe Antonia Pozzi che di lui si innamorò
di amore non corrisposto. In una lettera a Sereni ella scrisse: «[…] Non
riesco nemmeno a trarre un senso da tutti questi giorni che abbiamo vissuto
insieme: sono qui, in questa pausa di solitudine, come un po' d'acqua ferma per
un attimo sopra un masso sporgente in mezzo alla cascata, che aspetta di
precipitare ancora. Vivo come se un torrente mi attraversasse; tutto ha un senso
di così immediata fine, e è sogno che sa d'esser sogno, eppure mi strappa con
così violente braccia via dalla realtà. […] Sempre così
smisuratamente perduta ai margini della vita reale: difficilmente la vita
reale mi avrà e se mi avrà sarà la fine di tutto quello che c'è di meno banale
in me. Forse davvero il mio destino sarà di scrivere dei bei libri per i
bambini che non avrò avuti. Povero Manzi: senza saper niente, mi chiamava Tonia
Kröger. E questi tuoi occhi che sono tutto un mondo, con già scritta la tua
data di morte […] Un'ora sola in cui si guardi in silenzio è tanto più vasta di
tutte le possibili vite […]» Cantoni define come "primitivo"
quel pensiero sincretico che non distingueva nettamente tra mito e realtà tra
affezione e razionalità. In questo senso "primitivo" assume una
valenza psicologica più che antropologica. Il pensiero mitico, scrive in
"Pensiero dei primitivi, preludio ad un'antropologia", non è
"arbitrario e caotico", ma pervaso di una razionalità, una razionalità
fusa in un crogiuolo affettivo. Yna delle differenze fondamentali tra il
pensiero moderno e quello primitivo consiste nel fatto che il pensiero moderno
ha una chiara coscienza della relazione e dell'intreccio delle varie forme
culturali tra loro e può sempre transitare da una all'altra quando lo voglia;
mentre noi sappiamo, ad esempio, che v'è un conflitto tra la scienza e la
religione, l'arte e la morale, il sogno e la realtà, il pensiero logico e la
creazione mitica, i primitivi mantengono tutte queste forme su di un piano
indistinto per cui fondono e confondono ciò che noi non sempre distinguiamo, ma
possiamo pur sempre distinguere. Questa mancanza di distinzioni nette è uno dei
caratteri più salienti della mentalità primitive. Quindi sogno e realtà
trapassano uno nell'altro e costituiscono nella loro saldatura un continuum
omogeneo. Si ocupa occupò con
prefazioni, traduzioni, curatele e altro di Kierkegaard, Dostoevskij,
Nietzsche, Kafka, Spinoza, Fichte, Renan, Hartmann, Huxley, Balzac, Jaspers,
Banfi, Durkheim, Sofocle e Musil. Altre opere: “Il pensiero dei
primitivi, Milano: Garzanti); Estetica ed etica nel pensiero di Kierkegaard,
Milano: Denti); Crisi dell'uomo: il pensiero di Dostoevskij, Milano: Mondadori,
1948, n. ed. Milano: Il Saggiatore); La coscienza inquieta: Soren Kierkegaard,
Milano: Mondadori, 1949; n. ed. Milano: Il Saggiatore, 1976 Mito e storia,
Milano: Mondadori); La vita quotidiana: ragguagli dell'epoca, Milano:
Mondadori, 1955 (articoli apparsi su "Epoca" 1950-54); n. ed. Milano:
Il Saggiatore); La coscienza mitica, Milano: Universitarie, 1957 (lezioni
dell'anno accademico 1956-57) Umano e disumano, Milano: IEI); Il pensiero dei
primitivi, Milano: La goliardica, 1959 Il tragico come problema filosofico,
Milano: La goliardica); La crisi dei valori e la filosofia contemporanea: con
appendice sullo storicismo, Milano: La goliardica); Filosofia del mito, Milano:
La goliardica); Il problema antropologico nella filosofia contemporanea,
Milano: La goliardica, 1963 Tragico e senso comune, Cremona: Mangiarotti, 1963
Società e cultura, Milano: La goliardica, 1964 Filosofie della storia e senso
della vita, Milano: La goliardica, 1965 Scienze umane e antropologia
filosofica, Milano: La goliardica, 1966 Illusione e pregiudizio: l'uomo
etnocentrico, Milano: Il Saggiatore, 1967, 1970 Storicismo e scienze dell'uomo,
Milano: La goliardica, 1967 Personalità, anomia e sistema sociale, Milano: La
goliardica); Che cosa ha veramente detto Kafka, Roma: Ubaldini); Il significato
del tragico, Milano: La goliardica, 1970 Introduzione alle scienze umane,
Milano: La goliardica); Che cosa ha detto veramente Hartmann, Roma: Ubaldini,
1972 Robert Musil e la crisi dell'uomo europeo, Milano: La goliardica, 1972; n.
ed. Milano: Cuem); Persona, cultura e società nelle scienze umane, Milano:
Cisalpino-Goliardica); Antropologia quotidiana, Milano: Rizzoli); Il senso del
tragico e il piacere, prefazione di Nicola Abbagnano, Milano: Editoriale nuova,
1978 Franz Kafka e il disagio dell'uomo contemporaneo, con una nota di Carlo
Montaleone , Milano: Unicopli). Attiva
tra 1950 ed il 1962 e edita dall'Istituto Editoriale Italiano Lettere d'amore di Antonia Pozzi Archiviato
il 12 dicembre 2008 in . il 17 dicembre 2008
Carlo Montaleone, Cultura a Milano nel dopoguerra. Filosofia e
engagement in Remo Cantoni, Torino: Bollati Boringhieri, 1996 8833909689 Caterina Genna, «Il pensiero
critico» di Remo Cantoni, Firenze: Le Lettere, 2008 8860871603 Massimiliano Cappuccio e Alessandro
Sardi , Remo Cantoni, Milano: Cuem, 2007
9788860011381 Clementina Gily Reda, L'antropologia filosofica di Remo
Cantoni. Miti come arabeschi, Fondazione Ugo Spirito, 2008 8886225091
Antonia Pozzi Antonio Banfi Scuola di Milano Altri progetti Collabora a
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Commons contiene immagini o altri file su Remo Cantoni sito di Antonia Pozzi, su antoniapozzi. Filosofia
Letteratura Letteratura Università Università Filosofo del XX secoloAccademici
italiani Professore1914 1978 14 ottobre 3 febbraio Milano MilanoStudenti
dell'Università degli Studi di MilanoProfessori dell'Università degli Studi di
CagliariProfessori della SapienzaRomaProfessori dell'Università degli Studi di
PaviaProfessori dell'Università degli Studi di MilanoFondatori di riviste
italianeDirettori di periodici italiani. Remo Cantoni. Keywords: Carlo Cantoni,
filosofo, Remo Cantoni filosofo, mito e storia, implicatura mitica, la morte di
Remo, prejudices and predilections, umano, preludio a un’antropologia, il
primitivo. Il mito di Remo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cantoni” – The
Swimming-Pool Library.
Capitini (Perugia).
Filosofo. Grice: “I love Capitini: his idea (or ‘paradigma,’ as he prefers,
echoing Plato and Kuhn) of ‘compresenza conversazionale’ is genial and
Griceian! Capitini abbreviates all my pragmatics in the ‘tu’ – or ‘noi,’ – “I
am born when I say ‘thou’’ – translated alla Buber – what more conversationally
implicaturish can THEE be? (I’m using West-Country puritan patois!”). Fu uno
tra i primi in Italia a cogliere e a teorizzare il pensiero nonviolento
gandhiano, al punto da essere chiamato il Gandhi italiano. Nato in
una famiglia modesta, Capitini si dedica dapprima agli studi tecnici, per
necessità economiche e, in seguito, a quelli letterari, come autodidatta. La
madre lavora come sarta e il padre era impiegato comunale, custode del
campanile municipale di Perugia. Ritenuto inabile al servizio militare per
ragioni di salute, non partecipa alla Prima guerra mondiale. Dopo gli studi
della scuola tecnica e dell'istituto per ragionieri, dai diciannove ai ventuno
anni si dedica alla lettura dei classici latini e greci, studiando da
autodidatta anche dodici ore al giorno, dando così inizio al suo ininterrotto
lavoro di approfondimento interiore e filosofico. In questi anni legge
autori e libri molto diversi tra loro, su cui forma la propria cultura
letteraria e filosofica: D'Annunzio, Marinetti, Boine, Slataper, Jahier,
Ibsen, Leopardi, Manzoni, la Bibbia, Gobetti, Michelstaedter, Kant, Kierkegaard
(profondamente influenzato dal Vangelo), Francesco d'Assisi, Mazzini, Tolstoj e
Gandhi. In questo periodo aderisce quindi al pensiero nonviolento del politico
indiano. Nel 1924 vince una borsa di studio presso la Scuola Normale
Superiore di Pisa, nel curriculum universitario di Lettere e Filosofia. Capitini
critica aspramente il Concordato con la Chiesa cattolica, da lui giudicato una
"merce di scambio" per ottenere da Pio XI e dalle gerarchie
ecclesiali un atteggiamento "morbido" nei confronti del fascismo. In
uno dei suoi libri arriva ad affermare che «...se c'è una cosa che noi dobbiamo
al periodo fascista è di aver chiarito per sempre che la religione è una cosa
diversa dall'istituzione». Nel 1930 viene nominato segretario della
Normale di Pisa. Durante il periodo trascorso a Pisa, Capitini matura la scelta
del vegetarianismo come conseguenza della scelta di non uccidere, e ogni suo
pasto alla mensa della Normale diventa un comizio efficace e silenzioso,
un'affermazione della nonviolenza in opposizione alla violenza del regime fascista.
Insieme a Claudio Baglietto, suo compagno di studi, promuove tra gli studenti
della Scuola Normale riunioni serali dove diffonde e discute scritti sulla
nonviolenza e la nonmenzogna. Allorché Baglietto, recatosi all'estero con una
borsa di studio, rifiuta di tornare in Italia in quanto obiettore di coscienza
al servizio militare, scoppia lo scandalo e il direttore della Scuola Normale
Giovanni Gentile, per reazione, chiede a Capitini l'iscrizione al partito
fascista. Capitini rifiuta e Gentile ne decide il licenziamento. Sergio Romano
scriverà: «Gentile e Capitini si separarono poco tempo dopo nella sala
delle adunanze del palazzo dei Cavalieri. Il filosofo disse di sperare che
"le future esperienze gli facessero vedere la vita e la realtà delle cose
sotto un aspetto diverso"; e Capitini rispose che non poteva fare
altro che "contraccambiare l'augurio". Fu certamente una rottura. Ma
non appena il giovane pacifista uscì dalla sala, il filosofo si voltò verso
Francesco Arnaldi, che aveva assistito a questo scambio di battute, e disse
"Abbiamo fatto bene a mandarlo via perché, oltre tutto, è un
galantuomo".» Benedetto Croce; in riferimento a lui Capitini
scriverà: «dal Croce può venire il servizio ai valori. Il Croce è greco-europeo,
perché la civiltà europea porta al suo sommo l'affermazione dei valori». A
questo punto Capitini torna a Perugia nella casa paterna, vivendo di lezioni
private. Nel periodo di tempo tra il 1933 e il 1934 compie frequenti viaggi a
Roma, Firenze, Bologna, Torino e Milano per incontrare numerosi amici
antifascisti e intessere in questo modo una fitta rete di contatti.
Nell'autunno del 1936 a Firenze, a casa di Luigi Russo, ha modo di conoscere
Benedetto Croce, a cui consegna un pacco di dattiloscritti che Croce apprezza e
fa pubblicare nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari
con il titolo Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi
diventano uno tra i principali riferimenti letterari della gioventù
antifascista. Giovanni Gentile negli anni trenta, ai tempi del
direttorato alla Normale In seguito alla larga diffusione del suo libro,
Capitini promuove assieme a Guido Calogero un movimento culturale che negli
anni successivi cercherà di trasformare in un progetto politico atto a realizzare
le idee di libertà individuale e di uguaglianza sociale contenute negli "Elementi".
Nasce così il Movimento Liberalsocialista, in un anno segnato dall'assassinio
dei Fratelli Rosselli, dalla morte di Antonio Gramsci e da una forte ondata di
violenza repressiva contro l'opposizione antifascista. Alle attività del
movimento collaborano, tra gli altri, Ugo La Malfa, Giorgio Amendola, Norberto
Bobbio e Pietro Ingrao. Nel febbraio 1942 la polizia fascista effettua
una retata nel corso di una riunione del gruppo dirigente liberalsocialista, in
seguito alla quale Capitini e gli altri partecipanti alla riunione vengono
rinchiusi nel carcere fiorentino delle Murate. Dopo quattro mesi Capitini viene
rilasciato, grazie alla sua fama di "religioso". «Quale tremenda
accusa contro la religione, se il potere ha più paura dei rivoluzionari che dei
religiosi», commenterà più tardi. Nel giugno 1942 nasce il Partito
d'Azione, la cui dirigenza proviene direttamente dalle file del
liberalsocialismo. Capitini rifiuta di aderire a qualsiasi partito, poiché a
suo giudizio «... il rinnovamento è più che politico, e la crisi odierna è
anche crisi dell'assolutizzazione della politica e dell'economia». Per il suo
rifiuto di collocarsi all'interno delle logiche dei partiti, Capitini rimane
escluso sia dal Comitato di Liberazione Nazionale, sia dalla Costituente, pur
avendo lui dato un'impronta indelebile alla nascita della Repubblica con il suo
lavoro culturale, politico, filosofico e religioso di opposizione morale al
fascismo. Nel maggio 1943 Capitini viene nuovamente arrestato e
rinchiuso, questa volta, nel carcere di Perugia; viene definitivamente liberato
col 25 luglio. Capitini tra gli anni '30 e '40 Il Centro di
Orientamento Sociale (COS) Nel 1944 Capitini cerca di realizzare un primo
esperimento di democrazia diretta e di decentralizzazione del potere, fondando
a Perugia il primo Centro di Orientamento Sociale, un ambiente progettuale e
uno spazio politico aperto alla libera partecipazione dei cittadini, uno
«...spazio nonviolento, ragionante, non menzognero», secondo la definizione
data dallo stesso Capitini. Durante le riunioni del COS i problemi di gestione
delle risorse pubbliche vengono discussi liberamente assieme agli
amministratori locali, invitati a partecipare al dibattito per rendere
conto del loro operato e per recepire le proposte dell'assemblea, con
l'obiettivo di far diventare "tutti amministratori e tutti
controllati". A Partire da Perugia, i COS si moltiplicano in diverse città
d'Italia: Ferrara, Firenze, Bologna, Lucca, Arezzo, Ancona, Assisi, Gubbio,
Foligno, Teramo, Napoli e in moltissimi altri luoghi. Aldo Capitini
nel 1929 I Centri di Orientamento Sociale si sono diffusi sul territorio
nazionale, scontrandosi tuttavia con l'indifferenza della Sinistra e con
l'aperta ostilità della Democrazia Cristiana, che impediscono l'affermazione su
scala nazionale dell'autogoverno e della decentralizzazione del potere
sperimentati con successo nelle riunioni dei COS. Nel secondo dopoguerra
Capitini diventa rettore dell'Università per stranieri di Perugia (come
Commissario, dal 1944 al 1946), un incarico che sarà costretto ad abbandonare a
causa delle fortissime pressioni della locale Chiesa cattolica. Si trasferisce
a Pisa, dove ricopre il ruolo di docente incaricato di Filosofia morale presso
l'università degli Studi. Parallelamente all'attività didattica, politica
e pedagogica, Capitini prosegue la sua attività di ricerca spirituale e
religiosa, promuovendo nel 1947 il Movimento di religione insieme a Ferdinando
Tartaglia, singolare figura di sacerdote scomunicato ed audace teologo, che
però se ne allontanerà nel 1949. Negli anni che vanno dal 1946 al 1948 il
Movimento di religione organizza una serie di convegni con cadenza trimestrale,
che culminano con il "Primo congresso per la riforma religiosa" (Roma
13/15 ottobre 1948). Nel 1948 il giovane Pietro Pinna, dopo aver
ascoltato Capitini in un convegno promosso a Ferrara dal Movimento di
religione, matura la sua scelta di obiezione di coscienza: è il primo obiettore
del dopoguerra. Pinna è processato dal tribunale militare di Torino il 30
agosto 1949 e a nulla serve la testimonianza a suo favore di Aldo Capitini.
Pinna subisce una serie di processi, condanne e carcerazioni, fino al
definitivo congedo per una presunta "nevrosi cardiaca". Agli inizi
degli anni 60 si dimetterà dal suo impiego in banca per raggiungere Danilo
Dolci in Sicilia e dopo un anno si trasferirà a Perugia per diventare il più
stretto collaboratore di Capitini. Dopo l'arresto di Pinna, Capitini promuove
una serie di attività per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza,
convocando a Roma nel 1950 il primo convegno italiano sul tema. Il Centro
di Orientamento Religioso (COR) Un primo piano di Aldo Capitini (ca.
1960) Nel 1952, in occasione del quarto anniversario dell'uccisione di Gandhi,
Capitini promuove un convegno internazionale e fonda il primo Centro per la
nonviolenza. Sempre nel 1952 Capitini affianca ai Centri di Orientamento
Sociale il Centro di Orientamento Religioso (COR), fondato a Perugia con Emma
Thomas (una quacchera inglese di ottant'anni). Il COR è uno spazio aperto, in
cui trova espressione la religiosità e la fede di tutte le persone, i movimenti
e i gruppi che non trovavano posto nel Cattolicesimo preconciliare. Lo scopo dei
COR era quello di favorire la conoscenza delle religioni diverse dalla
cattolica, e di stimolare i cattolici stessi ad un approccio più critico e
impegnato alle questioni religiose. La Chiesa locale vieta la
frequentazione del Centro di Orientamento Religioso, e quando nel 1955 Capitini
pubblica Religione Aperta il libro viene immediatamente inserito nell'Indice
dei libri proibiti. Nonostante l'ostracismo delle alte gerarchie ecclesiali,
Capitini stabilisce ugualmente degli efficaci rapporti di collaborazione con
alcuni cattolici come Don Lorenzo Milani e Don Primo Mazzolari. Capitini
organizza a Perugia un convegno su La nonviolenza riguardo al mondo animale e
vegetale e, insieme a Edmondo Marcucciautore di Che cos'è il vegetarismo e, al
pari di Capitini, mai iscritto al partito fascistafonda la prima organizzazione
nazionale di coordinamento delle tematiche del vegetarianismo, la "Società
vegetariana italiana". La polemica tra Capitini e la Chiesa
Cattolica continua anche dopo il Concilio Vaticano II, con la pubblicazione del
libro Severità religiosa per il Concilio. A partire dal 1956 Capitini insegna
all'Cagliari come docente ordinario di Pedagogia e nel 1965 ottiene un
definitivo trasferimento a Perugia. Nel marzo 1959 è tra i fondatori dell'ADESSPI,
l'Associazione di Difesa e Sviluppo della Scuola Pubblica in Italia. Capitini
arriva a chiedere al proprio vescovo di non essere più annoverato nella Chiesa,
lui profondamente religioso, della quale non condivideva più i metodi e le
idee. La prima Bandiera della pace Bandiera della pace
portata da Capitini nella prima marcia Perugia-Assisi, attualmente custodita
presso la Biblioteca San Matteo degli Armeni del comune di Perugia. Domenica 24
settembre 1961 Capitini organizza la Marcia per la Pace e la fratellanza dei
popoli, un corteo nonviolento che si snoda per le strade che da Perugia portano
verso Assisi, una marcia tuttora proposta in media ogni due/tre anni dalle
associazioni e dai movimenti per la pace. In questa occasione viene per la
prima volta utilizzata la Bandiera della pace, simbolo dell'opposizione
nonviolenta a tutte le guerre. Capitini descrive l'esperienza della marcia nel
libro Opposizione e liberazione: «Aver mostrato che il pacifismo, che la
nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono
attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta
nelle solidarietà che suscita e nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle
denunce aperte, è un grande risultato della Marcia». Aderiscono molte
personalità, tra cui lo scrittore Italo Calvino. L'impegno di Capitini per la
pace infranazionale e internazionale (con particolare attenzione al pericolo
atomico) lo coinvolse sempre più in una collaborazione con Norberto Bobbio, il
quale raccoglierà tali riflessioni nell'opera Il problema della guerra e le vie
della pace. Negli ultimi anni della sua vita Capitini fonda e dirige un
periodico intitolato Il potere di tutti, sviluppando i principi di quella che
lui definì "omnicrazia", la gestione diffusa e delocalizzata del
potere da lui contrapposta al centralismo dei partiti. In questi anni Capitini
promuove anche il Movimento nonviolento per la Pace e il mensile "Azione
nonviolenta", l'organo di stampa del movimento, che attualmente viene
pubblicato a Verona. Dedito completamente al suo lavoro di divulgatore
della nonviolenza, Capitini non si sposò mai, per scelta, in modo da poter
dedicare tutte le proprie energie alla sua attività. Il 19 ottobre 1968
Aldo Capitini muore circondato da amici e allievi, dopo aver subìto un
intervento chirurgico che consuma le sue ultime energie. Il 21 ottobre il
leader socialista Pietro Nenni scrive una nota sul suo diario: «È morto il
prof. Aldo Capitini. Era una eccezionale figura di studioso. Fautore della
nonviolenza, era disponibile per ogni causa di libertà e di giustizia. (...) Mi
dice Pietro Longo che a Perugia era isolato e considerato stravagante. C'è
sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e Aldo Capitini era
andato contro corrente all'epoca del fascismo e nuovamente nell'epoca
post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello». È sepolto a
Perugia nella tomba di amici del C.O.R., insieme a Emma Thomas. Il
pensiero Religione e laicità Il Mahatma Gandhi Aldo Capitini aveva l'abitudine
di definirsi un "religioso laico". Egli accomunava la religione alla
morale in quanto essa critica la realtà e la spinge al cambiamentoin positivo.
Quella di Capitini era un'opposizione religiosa al fascismo. Il sentimento
religioso, inoltre, nasce nei momenti di difficoltà e sofferenza, in
particolare nel rapporto individuale con la morte. L'idea di laicità nasceva
dal distacco di Capitini dalla Chiesa cattolica, complice del regime: egli
sosteneva che col Concordato del 1929 la Chiesa avesse legittimato il potere di
Mussolini, dimenticando le violenze squadriste e, in tal modo, lo sostenesse
garantendo la sua moralità di fronte alla maggior parte della popolazione che
riponeva fiducia nell'istituzione religiosa. Capitini è molto distante dalla religione
istituzionalizzata. Dio, come Ente, non esiste per Capitini: per evitare ogni
equivoco e marcare la distanza della sua concezione religiosa da quella
corrente, Capitini preferirà parlare di compresenza piuttosto che di Dio; per
la stessa ragione, per indicare la vita religiosa così intesa non parla di
fede, ma riprende da Michelstaedter il termine persuasione. Capitini si
dichiara post-cristianoevidente anche dal suo "sbattezzo"e non
cattolico, ma ama e si ispira alle figure religiose. Ogni figura con una
profonda credenza, anche laica, è per lui un "religioso". Egli nega
con decisione la divinità di Gesù Cristo: convinzione senza la quale non si può
essere cristiani. Contesta, come Tolstoj, tutti gli aspetti leggendari e non
dimostrabili dei Vangeli, compresa la Risurrezione. Ciò che apprezza sono le
Beatitudini, il modello spirituale di un agire verso gli ultimi. Gesù ha
insegnato dove può giungere una coscienza religiosa, è stato più di un uomo:
"fu anche lui, come tutti, un essere con certi limiti; ma d'altra parte fu
in lui, come in ogni altro essere, la qualità della coscienza che va oltre i
limiti, che è in lui come in un mendicante" scrive negli Elementi.
L'imitazione di Cristo secondo Capitini non è altro che realizzazione della
propria realtà umana. Si potrebbe ugualmente parlare di una imitazione del
Buddha, di Francesco d'Assisi, di Gandhi, di Tolstoj e molti altri.
Persuasione, apertura, compresenza, omnicrazia Col termine
"persuasione", ripreso da Carlo Michelstaedter e da Gandhi, Capitini
indicava la fede, sia in senso laico sia religioso, la profonda credenza in
determinati valori ed assunti, e tramite essa, la capacità di persuadere gli
altri della bontà del proprio ideale. Il professor Aldo Capitini
negli anni '60 L'apertura è l'opposto della chiusura conservatrice ed
autoritaria del fascismo, e l'elevazione dell'anima verso l'alto e verso
Dio. Un concetto chiave nella filosofia capitiniana era la compresenza di
tutti gli esseri, dei morti e dei viventi, legati tra loro ad un livello trascendente,
uniti e compartecipi nella creazione di valori. Nella vita sociale e
politica la compresenza si traduce in omnicrazia, o governo di tutti, un
processo in cui la popolazione tutta prende parte attiva alle decisioni e alla
gestione della cosa pubblica. La nonviolenza e il liberalsocialismo Non
può mancare il concetto di nonviolenza, un ideale nobile, sinonimo di amore,
coerenza di mezzi e fini, la forza in grado di sconfiggere il fascismo, che non
è solo un regime, ma anche un modo di essere violento e autoritario. Il
liberalsocialismo di Capitini e di Guido Calogero si sviluppa in modo autonomo
dal socialismo liberale di Carlo Rosselli. Si forma infatti in un periodo
posteriore, quando il regime fascista è vicino al collasso, nell'ambiente dei
giovani crociani che hanno studiato ed insegnato alla Normale di Pisa, mentre
il pensiero di Rosselli, che lo precede temporalmente, essendosi forgiato nel
fuoco della lotta antifascista, in Italia e in Europa, già a partire dagli anni
Venti, si iscrive in modo diretto nella tradizione socialista. Capitini per
liberalismo intende il libero sviluppo personale, la libera ricerca spirituale
e la produzione di valori. Il socialismo è invece nei suoi intendimenti la
realizzazione nel lavoro, l'assistenza fraterna dell'umanità lavoratrice
soggetto corale della storia. Anche se «...il socialismo liberale di Rosselli
[…] è una delle eresie del socialismo, mentre il liberalsocialismo è un'eresia
del liberalismo» (M. Delle Piane), si può affermare tuttavia che entrambi
condividessero la critica ai totalitarismi,sia di destra che di sinistra, una
visione laica della politica e l'obiettivo di una profonda riforma morale e
sociale dell'Italia distrutta dalla guerra. L'educazione e la civiltà
L'educazione "profetica" è quella di colui che, con uno sguardo al
futuro, è capace di criticare la realtà sulla base di valori morali, anche a
costo di sembrare fuori dal suo tempo. Con l'espressione "civiltà
pompeiana-americana" intende biasimare la mentalità materialista che vede
nel lusso e nel possesso la realizzazione delle persone. Il "tempo
aperto" è il tempo libero che ognuno potrebbe destinare alla discussione,
alla socializzazione, al raccoglimento, all'elevazione spirituale. Ad Aldo
Capitini sono intitolate strade in molte città di Italia: Perugia, Firenze,
Roma, Pisa, Milano, ecc Riconoscimenti Ad Aldo Capitini sono oggi
intitolati un Istituto di istruzione tecnica economica e tecnologica, un centro
congressi a Perugia, un'Aula magna all'interno dell'Cagliari, presso la Facoltà
di Studi umanistici. Altre opere: “Esperienza religiosa” Laterza, Bari); “Vita
religiosa, Cappelli, Bologna); “Atti della presenza aperta, Sansoni, Firenze);
“Saggio sul soggetto della storia, La Nuova Italia, Firenze); “Esistenza e
presenza del soggetto in Atti del Congresso internazionale di Filosofia (II ),
Castellani, Milano); “La realtà di tutti, Arti Grafiche Tornar, Pisa); “Italia
nonviolenta, Libreria Internazionale di Avanguardia, Bologna); “Nuova socialità
e riforma religiosa, Einaudi, Torino); “L'atto di educare, La Nuova Italia,
Firenze); “Religione aperta, Guanda, Modena); “Colloquio corale, Pacini
Mariotti, Pisa); “Discuto la religione di Pio XII, Parenti, Firenze); “Aggiunta
religiosa all'opposizione, Parenti, Firenze); "Danilo Dolci", Piero Lacaita
Editore, Manduria); “Battezzati non credenti, Parenti, Firenze); “Antifascismo
tra i giovani, Celebes editore, Trapani); “La compresenza dei morti e dei
viventi, Saggiatore, Premio Viareggio Speciale); “Le tecniche della nonviolenza,
Feltrinelli, Milano (rist. Linea D'Ombra, Milano 1989; rist. Edizioni dell'asino,
Roma); “Educazione aperta” La Nuova Italia, Firenze); “Il potere di tutti,
introduzione di N. Bobbio, prefazione diPinna, La Nuova Italia, Firenze); “Scritti
sulla nonviolenza, L. Schippa, Protagon, Perugia); “Scritti filosofici e
religiosi, M. Martini, Protagon, Perugia); “Il potere di tutti, 2 ed. riveduta
e corretta, Guerra Edizioni, Perugia); “Opposizione e liberazione: una vita
nella nonviolenza, Piergiorgio Giacché, Napoli, L'ancora del Mediterraneo. Le
ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, Mario Martini, ETS, Pisa
scheda; Lettere; "Epistolario di
Aldo Capitini, 1"con Walter Binni, L. Binni e L. Giuliani, Carocci, Roma
(intr.di M. Martini). Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 2"con
Danilo Dolci, G. Barone e S. Mazzi, Carocci, Roma); La religione
dell'educazione: scritti pedagogici, Piergiorgio Giacché, La meridiana,
Molfetta); Lettere 1936-1968, "Epistolario di Aldo Capitini, 3"con
Guido Calogero, Th. Casadei e G. Moscati, Carocci, Roma. L'atto di educare, M. Pomi, Armando editore,
Roma. Lettere, "Epistolario di Aldo
Capitini, 4"con Edmondo Marcucci, A. Martellini, Carocci, Roma. Religione Aperta, M.Martini, Laterza,
Roma-Bari. Lettere 1937-1968,
"Epistolario di Aldo Capitini, 5"con Norberto BobbioPolito, Carocci,
Roma. Lettere familiari,
"Epistolario di Aldo Capitini, 6"M. Soccio, Carocci, Roma. Un'alta passione, un'alta visione. Scritti
politici 1935-1968L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia:
il potere di tuttiL. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. La mia nascita è quando dico un tu, quaderno
per la ricercaLanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. Antifascismo tra i giovani, collana «Opere di
Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e
Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze.
Nuova socialità e riforma religiosa, collana «Opere di Aldo Capitini»,
Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi
Aldo Capitini, Firenze. La compresenza
dei morti e dei viventi, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore,
coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini,
Firenze. Educazione aperta collana
«Opere di Aldo Capitini», Il Ponte ditore, Voll. 1-2, coedizione con Fondo
Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze. Note Incontro con il "Gandhi" italiano,
La Stampa, 22 giugno 1968; Il Gandhi Italiano, Panorama, Tale soprannome è
condiviso con altri, come Danilo Dolci e Franco Corbelli Capitini ricorderà: «Gentile era impaziente
che io sistemassi le cose e me ne andassi, perché ero divenuto di colpo
vegetariano (per la convinzione che esitando davanti all'uccisione degli
animali, gli italianiche Mussolini stava portando alla guerraesitassero ancor
di più davanti all'uccisione di esseri umani): e a Gentile infastidiva che io,
mangiando a tavola con gli studenti, come continuavo a fare, fossi di scandalo
con la mia novità». (citato in Lorenzo Guadagnucci, Restiamo animali, Milano,
Terre di mezzo) Sergio Romano, Aldo
Capitini e il pacifismo alla Scuola Normale, Corriere della Sera, 4 luglio
2006. l'8 febbraio 18 giugno ).
Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore,
Milano, 1966131. Da Le lettere di
religione Archiviato il 26 novembre in .
su aldocapitini Edmondo Marcucci, Che
cos'è il vegetarismo?, Società vegetariana italiana, 1953. Giulio Angioni, Tutti dicono Sardegna,
Cagliari, Edes, 1990, 3049 Dal sito del
COS fondato da Capitini[collegamento interrotto] Testimonianza di Luciano Capitini, figlio del
cugino di primo grado Piero, il parente più stretto di Capitini Antonio
Vigilante, Religione e nonviolenza in Aldo Capitini. Martini Mario, Aldo Capitini e le possibilità
religiose della laicità, Nuova antologia : 608, 2262, 2, , Firenze (FI): Le
Monnier, . Nel 1938 aveva reso visita a Piero Martinetti, ritiratosi
nella sua villa di Spineto a Castellamonte, con le cui concezioni religiose
aveva una grande sintonia. Per un
approfondimento, vedi i seguenti testi: G. Calogero, Difesa del
liberalsocialismo, Marzorati, Milano, 1972; M. Bovero, V. Mura, F. Sbarberi , I
dilemmi del liberalsocialismo, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994; A.
Capitini, Liberalsocialismo, e/o, Roma, 1996 (che raccoglie una serie di
scritti apparsi fra il '37 e il '49).
Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premioletterarioviareggiorepaci.
9 agosto . Piero Craveri, CAPITINI,
Aldo, in Dizionario biografico degli italiani,
18, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1975. 26 maggio . Norberto Bobbio, La filosofia di Aldo
Capitini, Religione e politica in Aldo Capitini, in Id., Maestri e compagni, Firenze,
Passigli Editori, Antonio Areddu, La via italiana al gandhismo in “Il
Manifesto”, Antonio Areddu, Non violenza e utopia. Aldo Capitini ed Ernst
Bloch, in “Behemoth”, trimestrale di cultura politica, a. 1988, 4, fasc.1-2. Giacomo Zanga, Aldo Capitini. La
sua vita, il suo pensiero, Torino, Bresci Editore, 1988. Marco Capanna,
Speranze, Rizzoli, Mario Martini,
L'etica della nonviolenza e l'aggiunta religiosa, in "Il Ponte",
Mario Martini, Capitini ispiratore di Bucchi. La sintesi di pensiero del
Colloquio corale, in "Esercizi Musica e spettacolo", nn. 16-17,
1997-98. Antonio Vigilante, La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in
Capitini, Foggia, Edizioni del Rosone, 1999. Mario Martini, I limiti della
democrazia e l'aggiunta religiosa all'opposizione, in G. B. Furiozzi , Aldo
Capitini tra socialismo e liberalismo, Milano, Franco Angeli, 2001. Pietro
Polito, L'eresia di Aldo Capitini, prefazione di N. Bobbio, Aosta, Stylos,
2001. Giuseppe Moscati, La presenza alla persona nell'etica di Aldo Capitini:
considerazioni in alcuni scritti minori, in "Kykeion", n. 7, Firenze,
University Press, 2002. Tuscano, Pasquale, Poetica e poesia di Aldo Capitini,
Critica letteraria. N. 4, 2008, Napoli: Loffredo Editore, 2008. Mario Martini,
Mazzini, Capitini, Gandhi: una religione umanitaria per la democrazia, in
"Il Pensiero Mazziniano", Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta.
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edizioni, 2003. Mario Martini, Laicità religione nonviolenza, in M. Soccio ,
Convertirsi alla nonviolenza?, Verona, Il Segno dei Gabrielli, 2003. Mario
Martini, Religiosità, ateismo e laicità: la religione aperta, in D. Tessore ,
L'evoluzione della religiosità nell'Italia multiculturale, Roma, Settimo
Sigillo, 2003. Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo
Capitini, Assisi, Cittadella, 2004. Alberto de Sanctis, Il socialismo morale di
Aldo Capitini (1918-1948), Firenze, CET, 2005. Caterina Foppa Pedretti, Spirito
profetico ed educazione in Aldo Capitini. Prospettive filosofiche, religiose e
pedagogiche del post-umanesimo e della compresenza, Milano, Vita e Pensiero,
2005. Massimo Pomi, Al servizio dell'impossibile. Un profilo pedagogico di Aldo
Capitini, Firenze, La Nuova Italia, 2005. Andrea Tortoreto, La filosofia di
Aldo Capitini. Dalla compresenza alla società aperta, Firenze, Clinamen, 2005.
Maurizio Cavicchi, Aldo Capitini. Un itinerario di vita e di pensiero, Bari,
Piero Lacaita, 2005. Mario Martini, La nonviolenza e il pensiero di Aldo
Capitini, in , La filosofia della nonviolenza, Assisi, Cittadella editrice,
2006. Laura Zazzerini , di Scritti su
Aldo Capitini, Perugia, Volumnia, 2007. Caterina Foppa Pedretti, primaria e secondaria di Aldo Capitini
(1926-2007), Milano, Vita e Pensiero, 2007. Marco Catarci, Il pensiero
disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Torino, EGA, 2007.
Amedeo Vigorelli, La nostra inquietudine. Martinetti, Banfi, Rebora, Cantoni,
Paci, De Martino, Rensi, Untersteiner, Dal Pra, Segre, Capitini, Milano, Bruno
Mondadori, 2007. Mario Martini, Lo stato attuale degli studi capitiniani, in
"Rivista di storia della filosofia", n. 4, 2008. Silvio Paolini
Merlo, La teoria della compresenza di Aldo Capitini. Fisionomia logica di una
categoria religiosa, in "Itinerari" (seconda serie), XLVIII, 3, 2009.
Nunzio Dell'Erba, Aldo Capitini, in Id., in "Intellettuali laici nel 900
italiano", Padova , 169–188 Mario
Martini, Capitini oltre il quarantennio della sua scomparsa. Una rassegna, in
"Quaderni dell'Associazione Diomede", n. 2, . Mario Martini,
Capitini, maestro di rigore intellettuale e politico, in "Il Ponte",
nn. 7-8, . Mario Martini, Aldo Capitini e le possibilità religiose della
laicità, in "Nuova Antologia", aprile-giugno . Gian Biagio Furiozzi,
Aldo Capitini e Giacomo Matteotti, Nuova antologia. APR. GIU., 2009. Gabriele
Rigano, Religione aperta e pensiero nonviolento: Aldo Capitini tra Francesco
d'Assisi e Gandhi, Mondo contemporaneo: rivista di storia: 2, (Milano: Franco Angeli). Polito, Pietro,
editor; Impagliazzo, Pina, editor, Norberto Bobbio: testimonianze e ricordi su
Aldo Capitini, Nuova antologia: 607, 2260,
(Firenze (FI): Le Monnier). Mario Martini, Aldo Capitini e le
possibilità religiose della laicità, Nuova antologia: 608, 2262, 2, (Firenze (FI): Le Monnier). Aldo Capitini
(Lanfranco Binni e Marcelo Rossi), Numero speciale di “Il Ponte” n.4,
luglio-agosto . Danilo Dolci Pietro
Pinna Guido Calogero Mahatma Gandhi Nonviolenza Alberto L'Abate Altri progetti
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Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Aldo Capitini Aldo Capitini, su TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Aldo Capitini, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Aldo Capitini, su sapere, De
Agostini. Opere di Aldo Capitini, .
Associazione "Amici di Aldo Capitini", su citinv. Puntata de
"La grande storia", su rai. 3 ottobre
7 marzo ). Tesi di laurea: Guido Calogero, Aldo Capitini, Norberto
BobbioTre idee di democrazia per tre proposte di pace, su peacelink.
PredecessoreRettore dell'Università per Stranieri di PerugiaSuccessore Astorre
Lupattelli19441946 commissarioCarlo Sforza Filosofia Politica Politica Filosofo del XX secoloPolitici
italiani del XX secoloAntifascisti italiani 1899 1968 23 dicembre 19 ottobre
Perugia PerugiaAccademici italiani del XX secoloAttivisti italianiEducatori
italianiNonviolenzaPacifistiPersone legate alla Resistenza italianaPoeti italiani
del XX secoloPolitici del Partito d'AzioneSostenitori del vegetarianismoTeorici
dei diritti animali. Aldo Capitini. Keywords: il noi, l’io, il tu, un tu, la
compresenza conversazionale – il noi conversazionale – il noi duale – la diada
conversazionale – diada e compresenza – “io” e “non-io” – io e tu – Hegel. Du,
Thou, I and Thou, Buber, The ‘we’, -- the dual ‘us’ – both, entrambi noi. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Capitini” – The Swimming-Pool Library.
Capizzi (Genova).
Filosofo. Grice: “You gotta love Capizzi; he is the type of philosophical
intellectual we do not have at Oxford, where it is clever to be dumb! Capizzi
knows almost everything! His ‘Parmenids’s door’ is genial – and so is his
philosophy on Roman philosophy (‘il colosso romano,’ ‘Catone,’ ‘Roma madre,’
‘Roma e Sparta,’) – but my favourite is his tract on conversational implicature
which he entitles, in a most Italianate manner, ‘Per l’attualismo del dialogo’.”
Insegna a Villa Mirafiore, Roma. Si contraddistinse per l'accurato studio
storico e filologico dei filosofi italici (Velia, Crotone, Girgentu, Roma).
Contesta radicalmente le ricostruzioni ottocentesche del pensiero occidentale
del VI e V secolo a.C., che attribuiscono validità storica alle interpretazioni
di Aristotele e alla dossografia dipendente da Teofrasto. A questo scopo
collabora con il circolo urbinate di Gentili nello sforzo di inserire i
sapienti italici nelle tematiche concernenti le città, il pubblico, il
committente, l'evoluzione delle strutture sociali, il trapasso dalla tradizione
orale alla società della scrittura. Si forma alla scuola di Carabellese.
Ben presto entra nei circoli degli studiosi che gravitavano intorno ai filosofi
Spirito e Calogero. Insegna a Frosinone e Roma. Si evidenziandosi per
l'originalità delle vedute e la radicalità del temperamento. Coltiva due
interessi paralleli. Uno, da storico, per la sapienza italica arcaica,
che lo portò a contestare la narrazione dei italici fatta da Aristotele.
Questi, secondo lui, scrisse per esigenze di insegnamento del proprio pensiero
nell'ambito del Liceo, e non con lo scopo di ricostruire quanto realmente
accaduto. Dopo di lui, per un colossale equivoco, Teofrasto, i grammatici
alessandrini, Hegel, Eduard Zeller, Gomperz e Burnet protrassero una
sistematica falsificazione. Riprese, per contro, la lezione di Diels,
Reinhardt, Cherniss, McDiarmid e Kirk, i quali dimostrarono che Aristotele ha
avuto solo interessi speculativi. Aristotele, come tutti i filosofi, parla
sempre e soltanto del suo tempo, della cultura del suo tempo, dei problemi del
suo tempo. Approfondendo gli studi di Calogero sul “pre-logismo” italico, di Detienne
sul mito antropomorfico, di Havelock sulla diffusione della filosofia e di Colli
sulla sapienza pre-filosofica, fu il primo storico di formazione filosofica a
scoprire l'importanza della dimensione politica negli enigmatici frammenti dei
sapienti italici. Ritenne che, ogni volta che si studiano filosofi italici,
occorra privilegiare il rapporto tra ogni singolo autore e la sua singola
città: Velia, Crotone, Roma, Girgentu. L'altro interesse, preminentemente
teoretico, si svolse sui temi dell'attualismo, che tenta di superare
liberandolo dal presupposto interioristico e cogitativistico e proponendo di
passare alla interosggetivita della comunicazione, in particolare a quella
comunicazione protesa verso una risposta futura che è il dialogo o la
conversazione. Intransigente oppositore dell’assoluto hegeliano, nei sui saggi
di maggior rilievo filosofico, distinse la filosofia in "comica" e
"tragica". Per filosofia comica intende quella che presuppone una
struttura unitaria a priori della realtà, che pertanto analizza cose come
l'essere, l'uomo, la conoscenza, la ragione, che ignora i modi di essere delle
singole diada conversazionale, i tipi di uomo, i modi di conoscere legati ai
modi di vivere, le ragioni dei singoli gruppi esistenti in vari luoghi e in
vari momenti. L'altra filosofia, ampiamente minoritaria e controcorrente, è
quella che presuppone la pluralità delle culture, dei costumi, dei pensieri, e
che, avendo a che fare, nei vari momenti storici, con incontri e scontri di
alcune culture, alcuni costumi e alcuni pensieri, entra nell'età adulta del
dilemma tragico, della scelta tra due opzioni contrarie le quali, in assoluto,
non rappresentano il bene o il male, ma ciascuna il bene in un determinato
sentire che spesso coincide con il male di un sentire opposto. Altre
opere: “Protagora. Le testimonianze e i frammenti); “Il libero arbitrio”; “Per un
attualismo del dialogo”; “Dall'ateismo all'umanismo: correnti incredule del
dopoguerra e loro prospettive dialogiche”); “Socrate e i personaggi filosofi di
Platone: uno studio sulle strutture della testimonianza platonica e un'edizione
delle testimonianze contenute nei dialoghi, Roma); “Impegno e disponibilità: la
doppia morale degli intellettuali di oggi); “I Presocratici. Antologia di testi,
Firenze, La Nuova Italia); “Introduzione a Velia”, Roma-Bari, Laterza); “La
porta a Velia: per una lettura del poema”; “I Sofisti. Antologia di testi,
Firenze, La Nuova Italia); “Sinfonia patriarcale. Storia antologica dela
filosofia maschile” Roma, Savelli editore); “La radice ideologica del fascismo:
il mito della libertà” (Roma, Savelli); “Socrate. Antologia di testi, Firenze,
La Nuova Italia); “Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura
dei frammenti); “La repubblica cosmica. Appunti per una storia non-peripatetica
della nascita della filosofia” (Roma, Edizioni dell'Ateneo); Platone e il suo
tempo, Roma, Edizioni dell'Ateneo); Forme del sapere nei presocratici, Roma,
Edizioni dell'Ateneo); L'uomo a due anime. Il comico-tragico adolescenziale”
)Firenze, La Nuova Italia); Il tragico in filosofia, Roma, Edizioni
dell'Ateneo); I sofisti ad Atene. L'uscita retorica dal dilemma tragico” (Bari,
Levante Editori); “Paradigma, mito, scienza” (Gruppo editoriale
internazionale); “Platone nel suo tempo. L'infanzia della filosofia e i suoi
pedagoghi”; “Corpo ed anima”, “Veleatismo”; Il 'mito di Protagora' e la polemica
sulla democrazia”; "A proposito di Parmenide e di Socrate demistificati",
in Il demistificatore"; "I italici furono ‘filosofi’? L’origine dello
specifico filosofico"; "Tracce di una polemica sulla scrittura in
Eraclito e Parmenide", "Cerchie e polemiche filosofiche del V
secolo", in Storia e civiltà dei Greci,
III, Milano) "Veliadi Eliadi Meleagridi Pandionidi: la metafora
mitica in Parmenide" "Eraclito e Parmenide, un tipico luogo
comune"; "Parmenide", "Eschilo e Parmenide", "Sono/fui; sum-fui: oysia/physis;
eimi/phyo: due concetti”; "Mente elevata e mente profonda" in Il Sublime: contributi per la storia di
un'idea (Napoli); "Trasposizione
del lessico omerico in Parmenide ed Empedocle", in "Quattro ipotesi veleatiche/eleatiche",
"Di Pitodoro, di Omar, di Don Ferrante e anche degli aristotelici
attuali", Platone, Protagora, Firenze, La Nuova Italia.Partecipa con una
delegazione di professori ad un'assemblea a Roma. La discussione si fa animata
soprattutto con Rosario Romeo, professore di Storia Moderna, che prima lo
accusa di fiancheggiare gli "squadristi rossi" e poi lo schiaffeggia.
Gli Indiani metropolitani rincorrono Romeo al grido di "Compagno Capizzi,
te lo giuriamo, ogni Romeo preso te lo schiaffeggiamo" In actual fact,
Odysseus and the charioteer are complete opposites.4 Antonio Capizzi thinks
that the journey is through the streets of Velia, out of the northern gates of
the city and down to the inlet where the Velians moored their ships.5 This ...
I Romani , nel cui alfabeto figurava la V , non ebbero problemi di
trascrizione : influenzati probabilmente dalla Velia o Veliae del Palatino24 ,
modificarono in tal senso il Vele ... Dichtersprache und geistige Tradition des
44 ANTONIO CAPIZZI. studi sul pensiero greco Antonio Capizzi. QUATTRO IPOTESI
ELEATICHE 1 . Elea : nascita di un nome In epoca romana la città di Parmenide e
di Zenone era detta Velia o Veliae dagli scrittori latini ( a partire da
Cicerone ) , Eléa da quelli..
Antonio Capizzi , La porta di Parmenide . Due saggi per una nuova lettura
del poema ( = Filologia e Critica 14 ) . Edizioni dell ' Ateneo , Rom 1975 .
125 S . Diese Arbeit hat zwei Kapitel , die mit „ Il proemio di P . e gli scavi
di Velia “ bzw Giovanni Casertano Antonio Capizzi. Tuttavia , Alcmeone fu ...
132 ; V. Catalano , ' L'Asklepeion di Velia ' , estratto dagli Annali del
Pontificio Istituto Superiore di Scienze e Lettere « Santa Chiara » , Napoli
1965-66 , pagg . 289-301 , a pag la homoiòtes e l'atrékeia , proponendosi di
trasformare Velia ( prima aggregato di corn , di villaggi autonomi ) in una
polis compatta e stabile . L'uomo ... IL CARTESIO DI GIANNONE *Un grande
storico della filosofia 130 ANTONIO CAPIZZI Antonio Capizzi , La porta di
Parmenide . ... une interprétation nouvelle de certains passages du poème de Parménide
, en particulier des fragments 1 et 6 , à la lumière des fouilles de Velia - '
Eléa commencées en 1962 par Mario Napolil'uscita retorica dal dilemma tragico
Antonio Capizzi. feste quinquennali Zenone ricomparve in città , e il ... 183 E
- 184 A. 5 E. Pozzi PAOLINI , Problemi della monetazione di Velia nel V secolo
a . C. , « La parola del passato » 25,1970 , pp .... e ritiene l'argomento c
irrilevante in quanto Parmenide poteva essersi ispirato alla Velia reale anche
in una metafora ( p . ... che si preoccupa di riu- -- nire una città sotto una
costituzione aristocratica , omogenea e 402 ANTONIO CAPIZZI. proposta di una
diversa lettura dei frammenti Antonio Capizzi ... del corpo sociale , doveva
conoscere bene anche quei gruppi di cittadini che usavano la scrittura nelle
loro ricerche scientifiche , come la scuola medico - astronomica di Velia . 1
tra le vie e le porte di Velia , recentemente dissepolte ; e i " mortali
ignoranti ” del fr . 6 tra i nemici non metafisici , ma politici , che
insidiavano la libertà della polis velina . Antonio Capizzi , incaricato di
filosofia teoretica presso l'Università di ... un superdio – chi siede di
fronte a te e ogni moeclittico è già il proemio : di recente Antonio Capizzi (
La porta di ... ( RODOLFO MACCHIONI Velia , e Renzo Vitali ( Una ricostruzione
del Jodi ) . poema , Faenza 1978 ) una allegorica e ... da dove nasce
l’idea di un ciclo di convegni sulla figura di Parmenide proprio qui dove
Parmenide è vissuto? Mi pare di non potermela cavare con due parole appena.
Consideri solo questo, che i riflettori su Elea/Velia si accesero nel 1964,
quando Mario Napoli pervenne a identificare la strada e la porta dette “di
Parmenide” e, contemporaneamente, Marcello Gigante pubblicò sulla rivista La
Parola de Passato una breve nota, «Parmenide Uliade», che attirava l’attenzione
su due iscrizioni anch’esse emerse grazie agli scavi condotti dal Prof. Napoli.
Si gettarono allora le premesse per una progressiva riscoperta della patria di
Parmenide e Zenone, e l’emozione dei primi visitatori colti venne alimentata
dalla memorabile foga con cui, intorno al 1970, Antonio Capizzi si dedicò a
proclamare che non può capire Parmenide chi non ha visto gli scavi. La scoperta
del sistema viario che collegava il quartiere meridionale con quello
settentrionale, di cui fanno parte la Porta Rosa e la cosiddetta Porta arcaica,
con il conseguente disvelamento della topografia del sito, hanno stimolato lo
studioso di filosofia antica Antonio Capizzi, a una rilettura affascinante,[6]
ma non universalmente accettata,[7] del proemio Parmenideo al poema in versi
Peri Physeos (Sulla Natura). Antonio Capizzi, La porta di Parmenide,
Roma, 1975 e, dello stesso autore, Introduzione a Parmenide, Bari, 1975. PARMENIDE SULLA
NATURA Introduzione, traduzione, note e commento a cura di Dario Zucchello
PREMESSA Il lavoro qui proposto è il risultato di anni di confronto con il
testo e la letteratura parmenidei, sollecitato dalla discussione con l’amico
Livio Rossetti, cui sono riconoscente per stimoli, idee ed esempio, e alla cui
vivacità e intelligenza d’approccio alla cultura preplatonica sono debitore di non
pochi elementi di riflessione. Per rintracciare nel tempo le origini di questo
specifico interesse eleatico, devo invece risalire agli anni universitari
pisani, alle lezioni di Giorgio Colli, nel periodo in cui i volumi della
Sapienza greca stavano vedendo la luce presso l’editore Adelphi: il primo
impatto con il pensatore di Elea avvenne infatti nei riferimenti alla
discussione intorno alla natura della dialettica arcaica e all’origine della
filosofia, nonché attraverso la lettura del Parmenide platonico, proprio in
occasione di un corso seguito, tra gli altri, anche da due affermati studiosi e
recenti editori dell’opera del sapiente di Elea: Angelo Tonelli e Riccardo Di
Giuseppe. Prima dell’impegnativo lavoro di esegesi che ha richiesto una
paziente frequentazione delle interpretazioni classiche e contemporanee, la mia
fatica (la fatica di chi non ha ricevuto un’educazione filologica) si è
concentrata sulla restituzione di un testo greco che tenesse conto dei
contributi originali degli editori più recenti, conservando tuttavia, a
dispetto delle molte suggestioni, una coerenza complessiva. La traduzione non
ha alcuna pretesa di conservare le qualità letterarie del verso epico, puntando
piuttosto alla massima prossimità possibile ai termini e alla costruzione dei
versi stessi. Il mio sforzo non attende quindi riconoscimenti per originalità
ed efficacia nella resa del testo parmenideo: esso ha puntato piuttosto, sin
dall’inizio, a ricostruire la fi- sionomia di un’opera complessa, cercando di
strapparla alle ipoteche metafisiche da cui è stata spesso condizionata la
lettura. Ho già avuto modo di proporre le mie idee sulla posizione del poema
nel quadro della storia della sapienza arcaica in due saggi stesi in parallelo
alla composizione della presente edizione: Parmenide e la tradizione del
pensiero greco arcaico (ovvero, della sua eccentricità), in Il quinto secolo.
Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e
F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011; Parmenide e la περὶ φύσεως ἱστορία, in
Elementi eleatici, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2012.
Il lettore troverà nel commento ai frammenti e nella introduzione generale
un’ampia difesa della lettura “cosmologica“ del poema, ma, allo stesso tempo,
attenzione per le tracce delle interazioni di Parmenide con la cultura del suo
tempo: un campo d’indagine che ritengo ancora del tutto aperto a nuove
suggestioni. Nel presentare il risultato del mio lavoro mi sia concesso
ringraziare i miei anziani genitori per il sostegno che non mi hanno fatto mai
mancare e che ha reso possibile le mie ricerche e i mei studi, e Umbi e Gigì
per la loro pazienza. Nonostante tutto. A loro questa fatica è dedicata. Dario
Zucchello Como, febbraio 2014 4 INTRODUZIONE IL POEMA E IL SUO TEMA Secondo
quanto ci attesta Diogene Laerzio (II-III secolo), Parmenide sarebbe autore di
un'unica opera: οἱ δὲ [sc. κατέλιπον] ἀνὰ ἓν σύγγραμμα· Μέλισσος, Π., Ἀναξαγόρας
altri – Melisso, Parmenide e Anassagora – [lasciarono] un unico scritto (DK 28
A13), un poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la
titolazione di Περὶ φύσεως: ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ
Μέλισσος καὶ Π. ... καὶ μέντοι οὐ περὶ τῶν ὑπὲρ φύσιν μόνον, ἀλλὰ καὶ περὶ τῶν
φυσικῶν ἐν αὐτοῖς τοῖς συγγράμμασι διελέγοντο καὶ διὰ τοῦτο ἴσως οὐ παρηιτοῦντο
Περὶ φύσεως ἐπιγράφειν Sia Melisso sia Parmenide intitolarono i loro scritti
Sulla natura .... E certo in questi scritti trattano non solo di ciò che è
oltre la natura, ma anche delle cose naturali e per questo probabilmente non
disdegnarono di intitolarli Sulla natura (Simplicio; DK 28 A14). 5 L'indagine
περὶ φύσεως Che in effetti tale intestazione potesse risalire a Parmenide è
stato sostenuto da Guthrie1 , sulla scorta della parodia che ne avrebbe fatto
Gorgia con il suo Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως, anche se è comune la
convinzione che, prima dei sofisti, la designazione di un testo avvenisse
attraverso la citazione dell’incipit (che doveva risultare particolarmente
incisivo), con l'indicazione del contenuto, preceduta dal nome dell'autore
(sulla prima riga del testo, analogamente a quanto registriamo nel caso di
Erodoto)2 . Il trattato ippocratico Sull'antica medicina riferisce la formula
indentificativa περὶ φύσεως almeno ai testi della metà del V secolo a.C.: Ἐμπεδοκλῆς
ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν Empedocle e gli altri che scrissero sulla
natura (De prisca medicina cap. 20). È opinione ampiamente condivisa che essa
abbia funzionato, a posteriori, da etichetta per classificare una certa
tipologia di scritti, manifestandone il tema: in questa direzione è possibile
che, in particolare, la Συναγωγή di Ippia abbia contribuito a fissare un certo
numero di categorie storiografiche tradizionali, tra cui appunto la nozione
unificante di φύσις, la denominazione Περὶ φύσεως, il termine generico
φυσιόλογος3 . Si tratta, infatti, di uno dei primi4 sforzi
"dossografici", un'opera (molto utilizzata da Platone e Aristotele)
intesa a selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gli
enunciati trovati in ogni genere testuale (poetico e 1 W.K.C. Guthrie, The
Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, p. 194. 2 G. Naddaf, The Greek Concept of
Nature, SUNY Press, New York 2005, p. 16; W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo,
Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi
di Pisa, Pisa 1994, p. 12. 3 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La
costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M.
Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, p. 296. 4 Gorgia ne avrebbe portato
avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli
insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia avrebbe influenzato direttamente
Isocrate, Platone e lo stesso Aristotele. 6 in prosa), di ogni epoca, per
coglierne convergenze e stabilire linee di continuità 5 . In ogni caso, al di
là della discussione sull'attendibilità storica di quel titolo per le opere del
V secolo a.C., non è contestato il fatto che tra V e IV secolo a.C. fosse
individuabile un gruppo di autori περὶ φύσεως, impegnato, in altre parole, in
ricerche sulla natura delle cose: sebbene risulti problematico accertare se
coloro che chiamiamo «filosofi presocratici» fossero consapevoli di contribuire
a una specifica impresa culturale (sottolineandola nell'intestazione o incipit
dei propri contributi), è tuttavia difficile negare che, almeno tra i
contemporanei di Platone, si fosse diffusa la convinzione dell'esistenza di una
tradizione di ricerca sulla natura (φυσιολογία), iniziata con Talete e
conclusasi con Socrate6 . L'espressione περὶ φύσεως A quali contenuti ci si
intendeva riferire con l'etichetta περὶ φύσεως? Quale significato è da
attribuire a tale espressione? Secondo Naddaf7 , che al problema ha dedicato
un'ampia indagine, con ἱστορία περὶ φύσεως si doveva intendere una storia
dell'universo, dalle origini alla presente condizione: una storia che
abbracciava nel suo insieme lo sviluppo del mondo (naturale e umano),
dall'inizio alla fine. In effetti, origini e sviluppo sono etimologicamente
implicati in φύσις: nella forma attiva-transitiva φύω, il radicale del
sostantivo significa «crescere, produrre, generare»; in quella
mediopassiva-intransitiva φύομαι, invece, «crescere, originare, nascere». La
prima occorrenza del termine φύσις, nel libro X dell'Odissea (303), si registra
nell'ambito delle istruzioni (da parte di Hermes all'eroe) per la preparazione
di una «pozione efficace» (φάρμακον 5 Balaudé, op. cit., p. 291. 6 W. Leszl,
Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the
Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy, in La
costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 357. 7
Op. cit., pp. 28-29. 7 ἐσθλόν) contro gli effetti delle «pozioni velenose»
(φάρμακα λύγρα) di Circe: Odisseo racconta come Hermes, estratta dalla terra (ἐκ
γαίης ἐρύσας) una pianta medicamentosa (μῶλυ), ne illustrasse la «natura» (καί
μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε). Per un verso, in quel contesto, φύσις può apparire
immediatamente sinonimo di εἶδος, μορφή, φύη, termini (ricorrenti in Omero)
indicanti la «forma»: è per altro evidente, tuttavia, che quanto Hermes rivela
non riguarda semplicemente l'aspetto esteriore, identificativo della pianta,
piuttosto le sue effettive qualità e la costituzione interna da cui esse
discendono. In particolare Hermes si riferisce alla radice, nera, da cui cresce
il fiore dal colore opposto, bianco: utilizza il termine, quindi, per denotare
non tanto la forma fenomenica, né propriamente quella che potremmo
anacronisticamente definire l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la
radice), differente da quel che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo).
In questo senso il termine φύσις occorre nelle più antiche citazioni della
sapienza greca: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν
ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν
ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ
φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα
ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che
è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia
subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si
mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali
quelle che io presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come
è. Ma agli altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo
essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto
Empirico; DK 22 B1) φύσις δὲ καθ’ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι φιλεῖ 8 la natura,
secondo Eraclito, ama [è solita] nascondersi (Temistio; DK 22 B123). Sebbene
nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione κατὰ φύσιν sia per lo più
resa dagli interpreti moderni intendendo φύσις come «natura, essenza»,
incrociando i due frammenti eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico
sull'erba moly: l'«origine» che si cela dietro il fenomeno8 . In questa
accezione la φύσις – secondo l'Efesio – «ama nascondersi». Kahn9 ha marcato,
invece, come la formula del frammento B1 di Eraclito attesti già un uso
"tecnico" del termine nel linguaggio contemporaneo, per designare il
«carattere essenziale» di una cosa, unitamente al processo da cui scaturirebbe:
la comprensione della «natura» di una cosa passerebbe attraverso la
ricostruzione del suo processo di sviluppo. Analogamente Naddaf valorizza la
dimensione dinamica implicita in φύσις: «la costituzione reale di una cosa così
come si realizza – dall'inizio alla fine – con tutte le sue proprietà»10 . Il
modello nella tradizione medica Se ora torniamo al trattato ippocratico
sull'Antica medicina, da cui abbiamo tratto conferma dell'esistenza (almeno
alla metà di V secolo a.C.) di una produzione a posteriori classificata come
περὶ φύσιος, possiamo evincere dal contesto alcuni elementi del modello:
Λέγουσι δέ τινες καὶ ἰητροὶ καὶ σοφισταὶ ὡς οὐκ ἔνι δυνατὸν ἰητρικὴν εἰδέναι ὅστις
μὴ οἶδεν ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος·ἀλλὰ τοῦτο δεῖ καταμαθεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς
θεραπεύσειν τοὺς ἀνθρώπους. Τείνει δὲ αὐτέοισιν ὁ λόγος ἐς φιλοσοφίην, καθάπερ Ἐμπεδοκλῆς
ἢ ἄλλοι οἳ 8 M.L. Gemelli Marciano, Lire du début. Quelques observations sur
les incipit des présocratiques, «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques),
pp. 16-17. 9 Ch.H. Kahn, Anaximander and The Origins of Greek Cosmology,
Hackett Publishing Company, Indianapolis 1994 (edizione originale 1960), pp.
201-202. 10 Naddaf, op. cit., p. 15. 9 περὶ φύσιος γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς ὅ τί ἐστιν
ἄνθρωπος, καὶ ὅπως ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ τουτέων μὲν ὅσα τινὶ
εἴρηται σοφιστῇ ἢ ἰητρῷ, ἢ γέγραπται περὶ φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ τέχνῃ
προσήκειν ἢ τῇ γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ φύσιος γνῶναί τι σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν
εἶναι ἢ ἐξ ἰητρικῆς. Alcuni medici e sapienti [sofisti] sostengono che nessuno
possa conoscere la medica a meno di non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò
debba conoscere colui che intenda curare correttamente gli uomini. Il loro
discorso verte dunque sulla filosofia, proprio come nel caso di Empedocle o
degli altri che scrissero sulla natura: che cosa sia dal principio l'uomo, come
sia stato dapprima generato e come costituito. Io ritengo che quanto è stato
scritto da medici e filosofi sulla natura abbia più a che fare con il disegno
che con la medicina. Ritengo che in nessun altro modo si possa conoscere
qualcosa di chiaro sulla natura se non attraverso la medicina (De prisca
medicina cap. 20). L'autore, evidentemente polemico, marca in effetti lo scarto
tra indagine medica e indagine περὶ φύσιος: nell'apertura dell'opera aveva
contrapposto all'approccio di coloro che ricorrevano a postulazioni e ipotesi (ὑποθέμενοι)
– cioè speculazioni - per l'indagine dei fenomeni celesti e terrestri (περὶ τῶν
μετεώρων ἢ τῶν ὑπὸ γῆν), il principio e il metodo (ἀρχὴ καὶ ὁδὸς) della
medicina, in altre parole le «scoperte» (τὰ εὑρημένα) avvenute nel corso del
tempo e l'osservazione11. Per avere un'idea più precisa dell'impostazione
alternativa che egli andava criticando, possiamo leggere un altro trattato ippocratico
– il De carnibus – il cui estensore sottolinea di prendere le mosse da
convinzioni condivise (κοινῇσι γνώμῃσι): Περὶ δὲ τῶν μετεώρων οὐδὲ δέομαι
λέγειν, ἢν μὴ τοσοῦτον ἐς ἄνθρωπον ἀποδείξω καὶ τὰ ἄλλα ζῶα, ὁκόσα ἔφυ καὶ ἐγένετο,
καὶ ὅ τι ψυχή ἐστιν, καὶ ὅ τι τὸ ὑγιαίνειν, 11 Naddaf, op. cit., pp. 24-25. 10
καὶ ὅ τι τὸ κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ ἀγαθὸν, καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει.
Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto necessario a mostrare,
rispetto all'uomo e a tutti gli altri viventi, come si sono generati e
sviluppati, che cosa sia l'anima, che cosa la salute e la malattia, che cosa
sia cattivo e buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus 1). Il passo rivela
quelle che dovevano essere le comuni assunzioni (le ὑποθέσεις contro cui
polemizza l'Antica medicina) nella tradizione della ἱστορία περὶ φύσεως: lo
schema adottato è infatti il seguente: (i) originaria caoticità e indistinzione
di tutte le cose; (ii) processo di discriminazione degli elementi (etere, aria,
terra); (iii) formazione dei corpi. Centrale risulta il parallelo tra
formazione dei viventi e formazione del cosmo che deve aver effettivamente
costituito un asse portante nella cultura arcaica, sin dalla produzione
teogonica. Ciò risulta confermato dall'autore anonimo del De diaeta: Φημὶ δὲ δεῖν
τὸν μέλλοντα ὀρθῶς ξυγγράφειν περὶ διαίτης ἀνθρωπίνης πρῶτον μὲν γνῶναι καὶ
διαγνῶναι· γνῶναι μὲν ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς, διαγνῶναι δὲ ὑπὸ τίνων μερῶν
κεκράτηται· εἴ τε γὰρ τὴν ἐξ ἀρχῆς σύστασιν μὴ γνώσεται, ἀδύνατος ἔσται τὰ ὑπ’ ἐκείνων
γιγνόμενα γνῶναι· εἴ τε μὴ γνώσεται τὸ ἐπικρατέον ἐν τῷ σώματι, οὐχ ἱκανὸς ἔσται
τὰ ξυμφέροντα τῷ ἀνθρώπῳ προσενεγκεῖν Affermo che colui che intenda scrivere
correttamente sul regime di vita dell'uomo deve prima conoscere e riconoscere
la natura di tutto l'uomo: conoscere allora da quali cose è composto dal
principio, riconoscere da quali parti è governato. Se non conosce infatti
quella composizione originaria, sarà incapace di conoscere quanto da essa
generato; se poi non conosce quel che prevale nel corpo, non sarà in grado di
prescrivere all'uomo il trattamento adeguato (De diaeta I, 2) Conoscere «la
natura di tutto l'uomo» (παντὸς φύσιν ἀνθρώπου) è condizione del corretto
intervento medico: ciò implica eviden- 11 temente conoscere (i) quanto
costituisce originariamente l'uomo (ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς), per
rintracciarne e riconoscerne gli effetti (τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα), e (ii) le
componenti che lo governano (ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται). Conoscere la natura
comporta, insomma, risalire alla composizione originaria e al successivo
processo. Significativamente questa riduzione al principio riconduce «tutte le
cose» a due elementi originari, fuoco e acqua: Ξυνίσταται μὲν οὖν τὰ ζῶα τά τε ἄλλα
πάντα καὶ ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ δυοῖν, διαφόροιν μὲν τὴν δύναμιν, συμφόροιν δὲ τὴν χρῆσιν,
πυρὸς λέγω καὶ ὕδατος I viventi e tutte le altre cose e anche l'uomo sono
composti da due elementi, l'uno ha il potere di differenziare, l'altro il
temperamento che combina: intendo il fuoco e l'acqua (De diaeta I, 3)
L'analogia tra formazione biologica dell'individuo umano (nel senso
dell'odierna embriologia) e processi di strutturazione dell'universo
(cosmogonia), è un dato riscontrato anche nelle testimonianze relative ad
Anassimandro e autori pitagorici, oltre che nei precedenti mitici 12 :
l'antropologia non poteva prescindere dalla antropogonia, come la cosmologia
dalla cosmogonia. Altre tracce antiche del modello Se queste indicazioni -
ricavate dalla letteratura scientifica risalente plausibilmente al V-IV secolo
a.C. – consentono di farsi un'idea circa la ricezione antica della περὶ φύσεως ἱστορία
e dunque dell'argomento cui i pensatori arcaici avevano dedicato le loro opere,
alle origini della letteratura filosofica, prima che il modello si affermasse e
consolidasse definitivamente nella narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne
era stato tracciato in un celebre passo del Fedone platonico: 12 Naddaf, op.
cit., pp. 22-23. 12 ἐγὼ γάρ, ἔφη, ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς ἐπεθύμησα
ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ καλοῦσι περὶ φύσεως ἱστορίαν· ὑπερήφανος γάρ μοι ἐδόκει
εἶναι, εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου, διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ τί ἀπόλλυται
καὶ διὰ τί ἔστι Io, Cebete, da giovane ero straordinariamente affascinato da
quella sapienza che chiamano indagine sulla natura. Mi sembrava fosse magnifico
conoscere le cause di ogni cosa, perché ogni cosa si generi, perché si corrompa
e perché esista (96a). Il filosofo racconta la storia della fascinazione
esercitata (non è chiaro se effettivamente sul protagonista Socrate o sullo
stesso autore) da una forma di sapere – evidentemente già riconoscibile e
dunque assestato, come rivela la formula impiegata («che chiamano», ἣν δὴ καλοῦσι)
- in grado di rispondere agli interrogativi sulla generazione e corruzione, e
così di dar ragione dell'esistenza di ciascuna cosa. Anticipando lo schema del
primo libro della Metafisica aristotelica, Platone disegna una storia della
sapienza incentrata sull'efficacia della esplicazione causale, nella quale
intende marcare la svolta radicale rappresentata dalla propria «seconda
navigazione» (δεύτερος πλοῦς): il filosofo non discute la necessità di
ricondurre le cose alla loro ragion d’essere; contesta invece la riduzione
limitata all’orizzonte delle cause fisiche, per Platone insufficienti a dar
adeguatamente conto del perché della disposizione del tutto. È probabile che,
pur attingendo a raccolte dossografiche organizzate in ambito sofistico, egli
ne adottasse il materiale in modo creativo, allo scopo di giustificare e
valorizzare una prospettiva filosofica peculiare13 . Un'ulteriore attestazione
dell'originaria accezione dell'espressione περὶ φύσεως ἱστορία ritroviamo, tra
i contemporanei di Platone, nel riscontro accidentale di un non-specialista
come Senofonte: 13 M. Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of
Intellectual Genre, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei
Presocratici, cit., p. 344. 13 οὐδεὶς δὲ πώποτε Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ ἀνόσιον
οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε λέγοντος ἤκουσεν. οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν πάντων
φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων οἱ πλεῖστοι, διελέγετο σκοπῶν ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ τῶν
σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων Ma nessuno
mai vide o sentì Socrate fare o dire alcunché di irreligioso o empio. Egli
infatti non si interessava della natura di tutte le cose, alla maniera della
maggior parte degli altri, indagando come è fatto ciò che i sapienti chiamano
"cosmo" e per quali necessità si produca ciascuno dei fenomeni
celesti (Senofonte, Memorabili I, 1, 11). Non solo appare assodata - a livello
di opinione diffusa - (i) la sostanziale equivalenza tra sapienza e ricerca
«sulla natura di tutte le cose» (περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως), ma anche (ii) la
funzionalità di cosmogonia e cosmologia (ὅπως [...] κόσμος ἔχει), e
ulteriormente (iii) l'attenzione per la spiegazione di fenomeni specifici (ὅπως
[...] τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων). Una "istantanea"
che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del naturalismo presocratico è
infine costituita dal frammento dell’Antiope di Euripide (fr. 910 Nauck)14: ὄλβιος
ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν, μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνην μήτ’ εἰς ἀδίκους
πράξεις ὁρμῶν, ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ
καὶ ὅπως. τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’ αἰσχρῶν ἔργων μελέδημα προσίζει 14 A.
Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur la construction d’une
catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks et C. Louguet (éds),
Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?,
Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, p. 20. 14
Beato è colui che alla ricerca ha dedicato la sua vita; egli né i suoi
concittadini danneggerà né contro di loro compirà atti malvagi, ma, osservando
della immortale natura l'ordine che non invecchia, ricercherà da quale origine
fu composto e in che modo. Tali individui non saranno mai coinvolti in atti
turpi. In questo caso, addirittura, abbiamo il privilegio di veder sottolineato
dal poeta il nesso tra contemplazione (καθορᾶν) dell'«ordine che non invecchia»
(κόσμον ἀγήρων) della «natura immortale» (ἀθανάτου φύσεως) e ricostruzione
delle sue modalità di formazione. A dispetto degli aggettivi coinvolti - ἀθάνατος
e ἀγήρως (di uso omerico ed esiodeo) – evidentemente il κόσμος oggetto d'attenzione
– l'ordinamento attuale dei fenomeni – è percepito come il risultato di un
processo di composizione (πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως), e il suo studio non
può prescindere dall'indagine (speculativa) sulle sue tappe. Il modello
peripatetico Della περὶ φύσεως ἱστορία la storiografia peripatetica ha
certamente fissato il canone interpretativo che ha pesato su tutta la
tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia,
infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro che per primi filosofarono»
(τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la convinzione che «principi di
tutte le cose» (ἀρχὰς πάντων) fossero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς
ἐν ὕλης εἴδει μόνας), così argomentando: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ
οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης
τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων,
καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης
φύσεως ἀεὶ σωζομένης 15 ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro
essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono,
permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni,
questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo
credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale
natura si conserva sempre. (Metafisica I, 3 983 b8-13) Nella lettura di
Aristotele, la specificità del contributo dei «primi filosofi» risiederebbe
nella riduzione degli enti (ἅπαντα τὰ ὄντα) soggetti a divenire alla stabilità
della φύσις soggiacente, ovvero, come lo stesso Aristotele precisa: ὥσπερ φασὶν
οἱ μίαν τινὰ φύσιν εἶναι λέγοντες τὸ πᾶν, οἷον ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ μεταξὺ τούτων
come affermano coloro che sostengono che il tutto [l'universo] è una certa,
unica natura, quale l'acqua o il fuoco o qualcosa di intermedio (Fisica I, 6
189 b2), all'unità di una sostanza materiale originaria, «elemento» (στοιχεῖον)
e «principio» (ἀρχή) delle cose (τῶν ὄντων). Il quadro si definisce
ulteriormente nella ricostruzione che Teofrasto propone delle origini in
Anassimandro: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος
τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν
καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας
γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς
οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην
καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις
οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων
στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά
τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’
16 ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...] Anassimandro [...]
affermò l’infinito principio e elemento delle cose che sono, adottando per
primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né
acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa
altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: «è
secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno
origine, avvenga anche la loro distruzione; esse, infatti, pagano la pena e
reciprocamente il riscatto della colpa, secondo l’ordine del tempo» [B1]. Così
si esprime in termini molto poetici. È evidente allora che, avendo considerato
la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre
alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto qualcos’altro al di là di
essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno
[...] (Simplicio; DK 12 A9). Senza scendere nel dettaglio dell'analisi, la
testimonianza e la citazione lasciano intravedere chiaramente alcuni punti su
cui si sarebbe concentrata l'indagine del Milesio: (i) l'individuazione di un
principio-origine delle cose (ἀρχή τῶν ὄντων) sottoposte a generazione
(γένεσις) e corruzione (φθορά); (ii) la formazione – nel linguaggio
peripatetico della testimonianza - degli «elementi» (στοιχεία), costitutivi
materiali da cui (ἐξ ὧν, «dalle quali cose») le cose hanno la loro generazione,
e verso cui (εἰς ταῦτα, «verso quelle stesse cose») si produce (γίνεσθαι) la
loro corruzione; (iii) le modalità del processo dalla natura originaria,
attraverso gli elementi, agli enti: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών),
secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν); (iv) il perché, la
causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i
contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Le
osservazioni di Teofrasto documentano quindi, agli albori dell'indagine περὶ
φύσεως, un'attenzione che non si esaurisce nella determinazione della materia
originaria (secondo l'interpretazione 17 di Burnet15), ma si rivolge almeno
anche ai processi di formazione delle «cose che sono» (come pensava Jaeger,
accostando φύσις e γένεσις 16 ). Complessivamente ciò doveva conferire alla
ricerca quella caratteristica impronta speculativa da cui l'autore dell'Antica
medicina prendeva le distanze. Che l'interesse non dovesse comunque risolversi
in una mera dimensione archeologica e abbracciare invece anche i risultati dei
processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è suggerito da varie fonti.
Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente netto il focus
cosmologico: οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες περὶ φύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς
ἀρχῆς καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν, τίς καὶ ποία τις, καὶ πῶς ἐκ ταύτης
γίνεται τὸ ὅλον, καὶ τίνος κινοῦντος, οἷον νείκους ἢ φιλίας ἢ νοῦ ἢ τοῦ αὐτομάτου,
τῆς δ’ ὑποκειμένης ὕλης τοιάνδε τινὰ φύσιν ἐχούσης ἐξ ἀνάγκης, οἷον τοῦ μὲν πυρὸς
θερμήν, τῆς δὲ γῆς ψυχράν, καὶ τοῦ μὲν κούφην, τῆς δὲ βαρεῖαν. Οὕτως γὰρ καὶ τὸν
κόσμον γεννῶσιν. Gli antichi, che per primi filosofarono intorno alla natura,
indagarono, circa il principio materiale e la causa siffatta, che cosa e quale
fosse, e in che modo da questa si generasse l'intero, e da che cosa il
movimento, ad esempio dall'odio o dall'amore, o dall'intelletto, o dal caso,
poiché la materia sostrato ha una certa siffatta natura per necessità, ad
esempio calda quella del fuoco, fredda quella della terra, una leggera, l'altra
pesante; in questo modo, infatti generano anche il cosmo. (Aristotele, Le parti
degli animali, 640 b4-12. Traduzione di A. Carbone, BUR Rizzoli, Milano 2002).
La ricerca περὶ φύσεως degli «antichi primi filosofi» (ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι
φιλοσοφήσαντες) sarebbe stata variamente modulata intorno a: 15 J. Burnet,
Early Greek Philosophy, Black, London 19203 , pp. 11-12. 16 W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 32. 18 (i)
natura e proprietà del «principio materiale» (περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς); (ii)
individuazione della causa del movimento (καὶ τίνος κινοῦντος); (iii) modalità
di generazione dell'«intero» (πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον) ovvero del «cosmo»
(τὸν κόσμον γεννῶσιν). Parmenide e la φύσις Tornando ora alla titolazione del
Poema parmenideo, le testimonianze di coloro che hanno contribuito a
trasmetterne citazioni – sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo
molto probabilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) –
sono univoche nell'attribuirgli l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbiamo già letto
le affermazioni di Simplicio (ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ
Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle di Sesto: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης
[...] ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον «Il discepolo
di lui (= Senofane), Parmenide [...] iniziando appunto il Peri physeōs scrive
in questo modo […]» (Adv. Math. VII, 111). Si tratta ora di capire entro quali
schemi avvenisse la ricezione dell'opera e del pensiero di Parmenide nella
tradizione περὶ φύσεως. Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Prescindendo dagli
inquadramenti della produzione per noi frammentaria di Gorgia e Ippia, alla
collocazione e al ruolo di Parmenide nel quadro della sapienza antica pensò per
primo Platone. Delineando in un lungo passo del Sofista (242 b6-251 a4), che
costituisce indubbiamente l'antecedente diretto della disamina 19 dossografica
aristotelica, il panorama delle teorie dell’essere, egli introduce di fatto
alcune categorie destinate a grande fortuna storiografica: l'occasione è
fornita proprio da un rilievo su Parmenide: Εὐκόλως μοι δοκεῖ Παρμενίδης ἡμῖν
διειλέχθαι καὶ πᾶς ὅστις πώποτε ἐπὶ κρίσιν ὥρμησε τοῦ τὰ ὄντα διορίσασθαι πόσα
τε καὶ ποῖά ἐστιν Mi sembra che con leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide
e tutti coloro che a un certo punto si sono impegnati a determinare gli enti:
quanti e quali enti esistano (242 c4-6). L’opposizione tra pensatori pluralisti
e unitari, e la «battaglia di giganti» (γιγαντομαχία) tra coloro che riducono
«tutto a corpo» (εἰς σῶμα πάντα) e coloro che, al contrario, pongono l'essere
(οὐσία) «nelle idee» (ἐν εἴδεσιν), sono fatte scaturire proprio dai problemi
(πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν, «quanti e quali enti esistano») sollevati (anche) dal
Poema. L'ottica "ontologica" adottata non può nascondere, nel
contesto, il riferimento all'indagine περὶ φύσεως, e, in particolare,
l'equivalenza tra ὄντα e ἄρχαί17: Μῦθόν τινα ἕκαστος φαίνεταί μοι διηγεῖσθαι
παισὶν ὡς οὖσιν ἡμῖν, ὁ μὲν ὡς τρία τὰ ὄντα, πολεμεῖ δὲ ἀλλήλοις ἐνίοτε αὐτῶν ἄττα
πῃ, τοτὲ δὲ καὶ φίλα γιγνόμενα γάμους τε καὶ τόκους καὶ τροφὰς τῶν ἐκγόνων
παρέχεται· δύο δὲ ἕτερος εἰπών, ὑγρὸν καὶ ξηρὸν ἢ θερμὸν καὶ ψυχρόν, συνοικίζει
τε αὐτὰ καὶ ἐκδίδωσι Mi sembra che ognuno racconti una storia, come fossimo
bambini: l'uno [racconta] che gli esseri sono tre, alcuni di essi talvolta sono
in qualche modo in lotta reciproca, talvolta al contrario, diventano amici, si
sposano, fanno figli e procurano nutrimento alla progenie; un altro, invece,
sostiene che [gli esseri] sono due - umido 17 Su questo punto N.L. Cordero nel
suo commento a Platon, Le Sophiste, traduction et presentation par N.L.
Cordero, Flammarion, Paris 1993, p. 240; J. Palmer, Plato's Reception of
Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, p. 190. 20 e secco ovvero caldo e
freddo -, li fa convivere e li unisce in matrimonio (242 c8-d4). È appunto
all'interno di questo ampio disegno di ricostruzione della tradizione di
pensiero precedente che Platone fa della «stirpe eleatica» (Ἐλεατικὸν ἔθνος) 18
il prototipo del “monismo”. È chiaro nel contesto come esso sia, tuttavia, da
intendere non ingenuamente - non come se esistesse una sola cosa -, ma in
riferimento alla discussione sulla realtà fondamentale: alcuni pongono tre
principi, altri due, gli Eleati uno solo: τὸ δὲ παρ’ ἡμῖν Ἐλεατικὸν ἔθνος, ἀπὸ
Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον, ὡς ἑνὸς ὄντος τῶν πάντων καλουμένων οὕτω
διεξέρχεται τοῖς μύθοις da noi la stirpe eleatica - che ha avuto inizio da
Senofane e anche prima – riferisce le proprie storie secondo cui ciò che è
chiamato "tutto" [tutte le cose] non è che un solo essere (Sofista
242 d5-6). Nell'intenzione di Platone, ricondurre l'eleatismo a Senofane era
probabilmente funzionale alla sua collocazione entro un dibattito culturalmente
definito19: nella prospettiva di questa ricerca, in particolare, risulta
significativa la scelta di non isolare il contributo di Parmenide dallo sfondo
d'indagine sui principi (τὰ ὄντα διορίσασθαι). In termini analoghi il Parmenide
(180a) delinea le posizioni di Parmenide e Zenone: σὺ μὲν γὰρ ἐν τοῖς ποιήμασιν
ἓν φῂς εἶναι τὸ πᾶν, καὶ τούτων τεκμήρια παρέχῃ καλῶς τε καὶ εὖ· ὅδε δὲ αὖ οὐ
πολλά φησιν εἶναι, τεκμήρια δὲ καὶ αὐτὸς πάμπολλα καὶ παμμεγέθη παρέχεται. τὸ οὖν
τὸν μὲν ἓν φάναι, τὸν δὲ μὴ 18 È probabile che la genealogia sfumata del gruppo
eleatico (ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον) fosse motivata
dall'intenzione di accentuare la "profondità" (l'antichità) della
dottrina di Parmenide in direzione delle origini. Su questo il commento di F.
Fronterotta in Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano
2007, p. 341-342. 19 Palmer, op. cit., pp. 191-192. 21 πολλά, καὶ οὕτως ἑκάτερον
λέγειν ὥστε μηδὲν τῶν αὐτῶν εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν τι λέγοντας ταὐτά Tu
[Parmenide], infatti, nel tuo poema affermi che il tutto [l'universo] è uno, e
porti prove di ciò in modo brillante ed efficace; questi [Zenone], invece,
sostiene che i molti non esistono, e anche lui porta prove molto numerose e
consistenti. Il primo dice quindi che esiste l'uno, l'altro che i molti non
esistono: così ciascuno parla in modo che sembri che non sosteniate alcunché di
simile, mentre in realtà affermate le stesse cose, mentre il Teeteto (180e)
sottolinea la continuità tra Parmenide e Melisso: καὶ ἄλλα ὅσα Μέλισσοί τε καὶ
Παρμενίδαι ἐναντιούμενοι πᾶσι τούτοις διισχυρίζονται, ὡς ἕν τε πάντα ἐστὶ καὶ ἕστηκεν
αὐτὸ ἐν αὑτῷ οὐκ ἔχον χώραν ἐν ᾗ κινεῖται e le altre [dottrine] che i vari
Melissi e Parmenidi propongono con convinzione, opponendosi a tutti costoro [i
sostenitori della dottrina del flusso universale], secondo cui tutte le cose
sono uno e questo rimane stabile in se stesso, non avendo luogo in cui
muoversi. Ciò che questi passi confermano è – almeno nell’elaborazione della
maturità di Platone20 - la riduzione della dottrina eleatica alla formula ἓν τὸ
πᾶν (ovvero ἕν πάντα), con un’implicita valenza cosmologica che si affaccia,
oltre che in Parmenide (180a), nel Sofista (244e): Εἰ τοίνυν ὅλον ἐστίν, ὥσπερ
καὶ Παρμενίδης λέγει, πάντοθεν εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς
πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ, 20
Sulle fasi della ricezione platonica di Parmenide è oggi fondamentale J.
Palmer, Plato's Reception of Parmenides, cit.. 22 τοιοῦτόν γε ὂν τὸ ὂν μέσον τε
καὶ ἔσχατα ἔχει, ταῦτα δὲ ἔχον πᾶσα ἀνάγκη μέρη ἔχειν Se allora è un intero,
come sostiene anche Parmenide: «da tutte le parti simile a massa di ben rotonda
palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: è necessario infatti
che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una
parte o dall’altra», essendo tale ciò che è avrà un centro e dei limiti
estremi, e, avendoli, necessariamente avrà parti, e che il Timeo sembra
esplicitare21, riferendo l'opera di produzione del cosmo da parte del demiurgo:
σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα
περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα
σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον,
κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ
σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ
ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο
ἔξωθεν, οὐδ’ ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς,
οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν
δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ
ποθεν - οὐδὲ γὰρ ἦν - αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ φθίσιν παρέχον καὶ πάντα
ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ’ ἑαυτοῦ πάσχον καὶ δρῶν ἐκ τέχνης γέγονεν E gli diede una
figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che
doveva contenere in sé 21 Secondo le indicazioni di Palmer (op. cit., pp. 193
ss.) sulla concentrazione di termini parmenidei nel dialogo. 23 tutti i viventi
non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili;
per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte
ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte
le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del
dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni.
Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere
all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era
intorno aria, che dovesse essere respirata, né aveva bisogno di un organo per
ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo
assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato
prodotto in modo da offrire a se stesso, come nutrimento, la propria corruzione
e da avere in sé e da sé ogni azione e ogni passione (33 b-c)22 . Indizi
lessicali che invitano a supporre che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide
una sorta di entità cosmica23, nell'interpretazione platonica modellata secondo
il precedente della divinità cosmica di Senofane24. Come ha prospettato
Brisson25, la stessa discussione del Parmenide potrebbe essere imperniata
sull'alternativa: (a) tutte le cose (l'universo) costituiscono una realtà unica
(ἓν εἶναι τὸ πᾶν) – come sarebbe stato affermato da Parmenide; la molteplicità
degli enti è solo apparente, dal momento che la loro pluralità reale
condurrebbe a paradossi: in questo senso «i molti non esistono» (οὐ πολλά εἶναι)
- secondo quanto argomentato da Zenone; 22 Platone, Timeo, introduzione,
traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2003. 23 E. Passa,
Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma
2009, p. 24. 24 Su questo punto Palmer, op. cit., pp. 193 ss.. 25 L. Brisson,
Introduction a Platon, Parménide, présentation et traduction par L. Brisson,
Flammarion, Paris 1994, pp. 20-21. 24 (b) esistono realmente molteplici realtà
sensibili, esse sono componenti dell'universo a loro volta costituite da
componenti elementari26 . Eccentricità di Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία
Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica, Aristotele, riprende uno
schema platonico, contrapponendo «coloro [...] che sostennero che uno solo è il
sostrato» (οἱ [...] ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον) a «coloro che ammettono
più principi» (τοῖς δὲ δὴ πλείω ποιοῦσι), ribadendone poi (nel quinto capitolo)
le implicazioni cosmologiche, in conclusione della discussione sui Pitagorici:
τῶν μὲν οὖν παλαιῶν καὶ πλείω λεγόντων τὰ στοιχεῖα τῆς φύσεως ἐκ τούτων ἱκανόν ἐστι
θεωρῆσαι τὴν διάνοιαν· εἰσὶ δέ τινες οἳ περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως ἀπεφήναντο,
τρόπον δὲ οὐ τὸν αὐτὸν πάντες οὔτε τοῦ καλῶς οὔτε τοῦ κατὰ τὴν φύσιν. Da queste
cose è possibile intendere a sufficienza il pensiero degli antichi che sostenevano
la pluralità di elementi della natura. Ci sono poi coloro che parlarono del
tutto [dell'universo] come di un'unica natura, ma non tutti allo stesso modo,
né per convenienza né per conformità alla natura (986 b8-12). Evidentemente in
relazione a Parmenide e ai suoi seguaci, Aristotele osserva: εἰς μὲν οὖν τὴν νῦν
σκέψιν τῶν αἰτίων οὐδαμῶς συναρμόττει περὶ αὐτῶν ὁ λόγος (οὐ γὰρ ὥσπερ ἔνιοι τῶν
φυσιολόγων ἓν ὑποθέμενοι τὸ ὂν ὅμως γεννῶσιν ὡς ἐξ ὕλης τοῦ ἑνός, ἀλλ’ ἕτερον
τρόπον οὗτοι λέγουσιν· ἐκεῖνοι μὲν γὰρ προστιθέασι κίνησιν, γεννῶντές γε τὸ 26
Ivi, p. 21. 25 πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον εἶναί φασιν)· οὐ μὴν ἀλλὰ τοσοῦτόν γε οἰκεῖόν
ἐστι τῇ νῦν σκέψει. Una discussione intorno a costoro esula dall’esame attuale
delle cause: essi, infatti, non parlano come alcuni dei naturalisti, i quali,
posto l’essere come uno, fanno comunque nascere [le cose] dall’uno come da
materia; essi parlano, invece, in altro modo. Mentre quelli, in effetti,
aggiungono il movimento, facendo nascere il tutto [l’universo], questi, al contrario,
sostengono che [il tutto] sia immobile. Almeno quanto [segue], tuttavia, è
appropriato alla presente ricerca (986 b12-18). Nell'ambito di una indagine
sulle cause e sui principi primi, il confronto con le dottrine eleatiche non
avrebbe dovuto trovare spazio: in questo senso è marcata una radicale
differenza rispetto alla ricerca dei «naturalisti» (ἔνιοι τῶν φυσιολόγων).
Essendosi espressi «sull'universo [sul tutto] come fosse un'unica natura
[realtà]» (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), «immobile» (ἀκίνητον) e
immutabile, gli Eleati, in effetti, lo avevano pensato incausato27 . In De
Caelo si sottolinea ulteriormente la peculiare posizione di Parmenide e
Melisso: Οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας καὶ πρὸς οὓς νῦν
λέγομεν ἡμεῖς λόγους καὶ πρὸς ἀλλήλους διηνέχθησαν. Οἱ μὲν γὰρ αὐτῶν ὅλως ἀνεῖλον
γένεσιν καὶ φθοράν· οὐθὲν γὰρ οὔτε γίγνεσθαί φασιν οὔτε φθείρεσθαι τῶν ὄντων, ἀλλὰ
μόνον δοκεῖν ἡμῖν, οἷον οἱ περὶ Μέλισσόν τε καὶ Παρμενίδην, οὕς, εἰ καὶ τἆλλα
λέγουσι καλῶς, ἀλλ’ οὐ φυσικῶς γε δεῖ νομίσαι λέγειν· τὸ γὰρ εἶναι ἄττα τῶν ὄντων
ἀγένητα καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς
σκέψεως. Ἐκεῖνοι δὲ διὰ τὸ μηθὲν μὲν ἄλλο παρὰ τὴν τῶν αἰσθητῶν οὐσίαν ὑπολαμβάνειν
εἶναι, τοιαύτας δέ τινας νοῆσαι πρῶτοι φύσεις, εἴπερ ἔσται τις γνῶσις ἢ
φρόνησις, οὕτω μετήνεγκαν ἐπὶ ταῦτα τοὺς ἐκεῖθεν λόγους 27 Perplessità analoghe
sono espresse e discusse da Aristotele nei primi capitoli della Fisica (I, 2 e
3). 26 Coloro dunque che dapprima filosofarono intorno alla verità sono stati
in disaccordo sia rispetto ai discorsi che noi proponiamo, sia reciprocamente.
Gli uni, infatti, eliminarono completamente generazione e corruzione:
sostengono in vero che nessuna delle cose che sono si generi o si corrompa, ma
semplicemente che ciò sembra a noi. Così i seguaci di Melisso e Parmenide, i
quali, anche se si esprimono adeguatamente sulle altre cose, tuttavia non si
deve credere che parlino da un punto di vista fisico, dal momento che l'essere
alcuni degli enti ingenerati e completamente immobili è proprio piuttosto di
un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica. Costoro, invece, da un
lato non ritenevano esistesse altro oltre la sostanza dei sensibili, dall'altro
per primi pensarono delle nature di tale specie, se doveva esserci una qualche
forma di conoscenza o intelligenza: così trasferirono su questi enti
[sensibili] i ragionamenti riferiti a quell'ambito»(Aristotele, De Caelo III, 1
298 b12-24). Alludendo esplicitamente a Melisso e Parmenide, Aristotele ne
disloca il contributo rispetto a una ricerca incardinata sulla ricostruzione
dei processi di «generazione e corruzione» (γένεσις καὶ φθορά): considerare gli
enti «ingenerati» (ἀγένητα) e «completamente immobili» (ὅλως ἀκίνητα) è proprio
«di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica» (μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας
καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως). Eppure l'analisi della Metafisica rivela
come, secondo Aristotele, l’eleatismo presentasse al proprio interno
incrinature e fratture che l'appiattimento operato dalla dossografia sofistica
doveva aver coperto o trascurato28. Nel primo libro (Ι, 3 984 a27-b4) – dopo
aver discusso «l'opinione circa la natura» (περὶ τῆς φύσεως ἡ δόξα) dei
pensatori orientati a ricercare la causa prima (περὶ τῆς πρώτης αἰτίας) in
ambito materiale (di cui Talete sarebbe stato «i- 28 J. Palmer, Parmenides
& Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009, p. 35 giustamente sottolinea
come i raggruppamenti operati da Gorgia nel suo Sulla natura o sul non essere
avessero incoraggiato l'assimilazione "riduttiva" di Parmenide e
Melisso. Aristotele avrebbe avuto il merito di recuperare le differenze tra le
relative posizioni. 27 niziatore», ἀρχηγὸς) – lo Stagirita marca una
discontinuità nel contributo di Parmenide, capace di individuare la causa
specifica del mutamento (τῆς μεταβολῆς αἴτιον): οἱ μὲν οὖν πάμπαν ἐξ ἀρχῆς ἁψάμενοι
τῆς μεθόδου τῆς τοιαύτης καὶ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον οὐθὲν ἐδυσχέραναν
ἑαυτοῖς, ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς
ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν
καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην
μετα βολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν. τῶν μὲν οὖν ἓν φασκόντων εἶναι τὸ
πᾶν οὐθενὶ συνέβη τὴν τοιαύτην συνιδεῖν αἰτίαν πλὴν εἰ ἄρα Παρμενίδῃ, καὶ τούτῳ
κατὰ τοσοῦτον ὅσον οὐ μόνον ἓν ἀλλὰ καὶ δύο πως τίθησιν αἰτίας εἶναι· Coloro,
dunque, che fin dall’inizio aderirono completamente a tale tipologia di ricerca
e sostennero che uno solo è il sostrato, non si resero conto di questa
difficoltà, ma alcuni di coloro che affermano tale unicità, quasi sopraffatti
da questa ricerca, sostengono che l’uno è immobile e che lo è anche la natura
nel suo complesso, non solo rispetto a generazione e corruzione - questa è,
infatti, [convinzione] antica, su cui tutti concordavano -, ma anche rispetto a
ogni altro genere di mutamento. Questa è loro peculiarità. A nessuno, pertanto,
di coloro che affermarono che il tutto [l’universo] è uno è capitato di
scoprire tale tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a costui nella
misura in cui pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in un certo modo
due. È significativo che, illustrando queste affermazioni di Aristotele nel
proprio commento (in Metaphys. Ι, 3 984 b3), Alessandro di Afrodisia citi
Teofrasto: τούτωι δὲ ἐπιγενόμενος Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης (λέγει δὲ [καὶ]
Ξενοφάνην) ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται
καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ 28 ἀμφοτέρων
δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων,
κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς,
πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Venuto dopo costui (si
riferisce a Senofane), Parmenide - figlio di Pyres, da Elea - percorse entrambe
le strade. Dichiara infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la
generazione degli enti, pur non affrontando entrambe allo stesso modo:
piuttosto sostenendo, secondo verità, che il tutto è uno e ingenerato e di
aspetto sferico; ponendo invece, secondo l’opinione dei molti – allo scopo di
spiegare la generazione dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi
siano due, fuoco e terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente (DK 28
A7). Condizionata dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la
valutazione del contributo di Parmenide è chiaramente orientata dalla
prospettiva della περὶ φύσεως ἱστορία: non solo per l'attenzione alla «natura
nel suo complesso» (τὴν φύσιν ὅλην), al «tutto uno» (ἓν τὸ πᾶν), ma soprattutto
per l'evidenza della «ricerca dell'altro principio» (τὸ τὴν ἑτέραν ἀρχὴν ζητεῖν),
cioè del «principio del movimento» (ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως), per «spiegare la
produzione dei fenomeni» (εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων). In questo
senso Teofrasto poteva proporre Parmenide al centro di una delle due serie di
pensatori affrontati sistematicamente: quella che collegava i primi a «rivelare
ai Greci l’indagine intorno alla natura» (τὴν περὶ φύσεως ἱστορίαν τοῖς Ἕλλησιν
ἐκφῆναι) 29 agli atomisti30 . 29 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano
1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide discepolo di
Senofane - come riferiscono Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i
commentatori aristotelici Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro
(secondo quanto attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle -
«ammiratore» (ζηλωτής) e «imitatore» (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) - e
Leucippo - «unito a Parmenide nella filosofia» (κοινωνήσας Παρμενίδηι τῆς
φιλοσοφίας, DK 28 A8). 29 Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di
vista cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sorprendente31
e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue ricostruzioni: egli insegue
le tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata formulazione solo
successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le
principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie
aristoteliche)32. In questa prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra
registrato, avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si
sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta da quella del
sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i principi
diversi33 . Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è
da Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'universo (περὶ τοῦ
παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si sottolineano le ricadute interessanti
anche «sull'indagine in corso intorno alle cause» (εἰς τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων).
Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno «secondo la nozione [forma]» (κατὰ τὸν
λόγον), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di
determinatezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (κατὰ τὴν ὕλην),
come unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il primo tra costoro a
essere partigiano dell'Uno» (πρῶτος τούτων ἑνίσας) e per ciò ancora una volta
riconosciuto maestro di Parmenide – si sarebbe invece limitato, volgendosi
«all'universo nel suo 30 L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene,
Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo
riconosciuto complessivamente ad Anassimandro. 31 Nella ricerca contemporanea è
stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema Sulla natura dalla
cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf,
op. cit., p. 138. D’altra parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza,
David Furley ha opportunamente marcato la distanza tra «the centrifocal
universe» del poema e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The
Greek Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its
earliest critics, C.U.P., Cambridge 1987, pp. 53 ss.). 32 Un’ampia discussione
della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La natura
ama nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano
1998, cap. II (Storicismo peripatetico). 33 G. Colli, La sapienza greca, Vol.
II, cit., p. 327. 30 insieme» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad affermarne la divinità
(τὸ ἓν εἶναί φησι τὸν θεόν). Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel
Teeteto platonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di Parmenide,
a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus "aitiologico".
Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ troppo grossolani» (μικρὸν ἀγροικότεροι),
egli infatti sottolinea: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ
τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν
(περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν
τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων
εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ
καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto,
egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto
tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i
molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo
sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (986 b27-987 a1). Nella
ricostruzione aristotelica due sarebbero i cardini della dottrina parmenidea:
(i) la convinzione circa l'unità dell'essere (ἓν οἴεται εἶναι) - da un punto di
vista razionale (κατὰ τὸν λόγον) necessaria (ἐξ ἀνάγκης), imposta dalla
disgiunzione e mutua esclusione tra essere e non-essere: «non esiste ciò che
non è al di là di ciò che è» (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν εἶναι); (ii) la
presa d'atto dell'evidenza fenomenica: così, secondo noi, è da intendere
l'espressione greca ἀναγκαζόμενος ἀκολουθεῖν τοῖς 31 φαινομένοις (letteralmente
«costretto a essere guidato dai fenomeni [cose che appaiono]»). Proprio
l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità (πλείω κατὰ τὴν αἴσθησιν)
avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo Parmenide a introdurre
«due cause e due principi» (δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς), ciò legittimando
la sua rilevanza per la discussione aristotelica. Si tratta di una lettura che
trova conferma nella dossografia successiva, anche in un autore, Plutarco, che
attingeva probabilmente a una tradizione accademica, relativamente autonoma
rispetto alla linea teofrastea: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς
τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον
καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν
προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν
ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ < ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ
ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’
(Parmen. B 1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας
δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν
μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna
delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio, pone
l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo
"essere" in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per
uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in
quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile
vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge
l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei
mortali in cui non è vera certezza» [B1.29-30], perché esse sono congiunte con
cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come
avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e 32 l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus
Colotem 1114 d-e). Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente
significative perché intervengono a correggere l'interpretazione
"melissiana" di Parmenide (proposta da Colote), secondo cui
«Parmenide cancella ogni cosa postulando l'essere uno» (πάντ’ ἀναιρεῖν τῷ ἓν ὂν
ὑποτίθεσθαι τὸν Παρμενίδην): è appunto contro questo fraintendimento che il
platonico attribuisce anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della
realtà in «intelligibile» (τὸ νοητόν) e «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), avendo in
precedenza ricordato lo sforzo del Poema di produrre un «sistema del mondo»
(διάκοσμον), in conformità con quanto ci si poteva attendere da un «naturalista
arcaico» (ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ
στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ
τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ
σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν
φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν
Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la
tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in
effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta
anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti,
come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno
scritto proprio – non distruzione di un altro (Adversus Colotem 1114b, DK 28
B10). Questa testimonianza rafforza la convinzione che - sia per la tradizione
dossografica antica, sia per la posteriore (in gran parte però dipendente da
quella) - il tema del Poema parmenideo fosse anche la φύσις (nel senso sopra
sommariamente ricostruito), seb- 33 bene se ne registrasse la
"eccentricità" 34 e quindi la problematica riducibilità al paradigma
della περὶ φύσεως ἱστορία. Tra ricerca περὶ φύσεως e ricerca περὶ τῆς ἀληθείας
Aristotele, introducendo l’indagine «sull’essere in quanto essere» (περὶ τὸ ὂν ᾗ
ὂν), su ciò che appartiene «a tutte le cose in quanto enti» (ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι),
la differenzia rispetto a ricerche più specifiche: ciò che la connota è,
infatti, accanto alla eziologia propria di ogni sapere, l'apertura alla
totalità della realtà. Riguardo alla περὶ φύσεως ἱστορία, tuttavia, la sua
posizione è più sfumata: l'originale speculazione sull’«essere in quanto
essere» è proposta, infatti, in continuità con la precedente tradizione: ἐπεὶ δὲ
τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητοῦμεν, δῆλον ὡς φύσεώς τινος αὐτὰς ἀναγκαῖον
εἶναι καθ’ αὑτήν. εἰ οὖν καὶ οἱ τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας τὰς ἀρχὰς
ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος εἶναι μὴ κατὰ συμβεβηκὸς ἀλλ’ ᾗ ὄν·
διὸ καὶ ἡμῖν τοῦ ὄντος ᾗ ὂν τὰς πρώτας αἰτίας ληπτέον Dal momento che
ricerchiamo i principi e le cause supreme, è evidente come esse riguardino
necessariamente una certa natura [realtà] in quanto tale. Se dunque coloro che
ricercano gli elementi delle cose ricercavano questi principi, è necessario che
fossero anche gli elementi dell'essere non per accidente ma in quanto essere.
Per questo motivo dobbiamo comprendere le cause prime dell'essere in quanto
essere» (Metafisica IV, 1 1003 a26-32). «Gli elementi costitutivi delle cose
che sono» (τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων) – nella misura in cui sono intesi come
principi di tutte – 34 Ci siamo occupati di questo aspetto in Parmenide e la
tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero della sua eccentricità), in Il
quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di
S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011, pp. 165-178. 34 risultano
in effetti «elementi dell'essere in quanto tale» (τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν),
costitutivi di tutto ciò che è. In questo senso la cifra sapienziale comune
alla «scienza dell'essere in quanto essere» (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e
all'indagine dei φυσικοί è data, in definitiva, dalla convergente modalità di
realizzazione: «ricercare i principi e le cause prime» (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας
αἰτίας ζητεῖν) della realtà. Più avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele
rileva come «alcuni dei fisici» (τῶν φυσικῶν ἔνιοι) si fossero mostrati
evidentemente consapevoli di «ricercare sulla natura [realtà] nella sua
interezza e sull’essere» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος,
Metafisica IV, 3 1005 a32- 33), intendendo quindi la «natura» come una totalità
omogenea (dal punto di vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprietà
riconducibili a principi universali. Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν
coincidessero, che la φύσις cioè costituisse «tutta la realtà», quei «fisici»
avrebbero manifestato interesse per gli «assiomi» (ἀξιώματα), i principi più
generali di tutti, quelli che «appartengono a tutti gli enti» (ἅπασι ὑπάρχει τοῖς
οὖσιν), la cui discussione non è di competenza dello specialista (che si limita
ad applicarli) ma appunto della «ricerca del filosofo» (τῆς τοῦ φιλοσόφου
[σκέψεως]). Il riferimento è indeterminato ed è stato precisato in modo diverso
dagli interpreti: noi riteniamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per
la riflessione sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in
considerazione del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente
sembra istituire la riflessione ontologica, sia con l'analisi dei «segni»
(σήματα), delle proprietà che manifestano τὸ ἐόν, sia con l'insistenza sulla
reciproca implicazione di verità ed essere. Natura, essere, verità Lo
Stagirita, in effetti, rilegge la tradizione anche alla luce di un'intenzione
veritativa di fondo: 35 ὅμως δὲ παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς ἐπίσκεψιν
τῶν ὄντων ἐλθόντας καὶ φιλοσοφήσαντας περὶ τῆς ἀληθείας consideriamo comunque
anche coloro che prima di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e
hanno filosofato intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1), Espressioni come
«coloro che dapprima filosofarono intorno alla verità» (οἱ μὲν οὖν πρότερον
φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας, De Caelo III, 1 298 b12), ovvero che
«indagarono la verità intorno agli enti» (περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν,
Metafisica IV, 5 1010 a1), rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla
natura come indagine sulla verità, la prima comportando una presa di posizione
circa ciò che è Realtà 35. In questo senso i primi filosofi avevano contribuito
«all’indagine sugli enti» (εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων): in quanto convinti che la natura
fosse la realtà fondamentale, ricercando «sulla natura [realtà] nella sua
interezza» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως) essi avevano offerto anche riflessioni
«sull’essere» (περὶ τοῦ ὄντος): ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν
καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας,
καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι
γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον
εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Coloro che per primi hanno ricercato
secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, furono sviati
come su una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che
delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera
origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma ciò è 35 W. Leszl, Parmenide e
l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università
degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 16. 36 impossibile da entrambi i punti di
vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che
non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga
da sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata, affermarono
che non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I, 8 191
a25 ss.). Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui
principi (il primo libro della Fisica compare nei cataloghi antichi come Περὶ ἀρχῶν),
Aristotele (i) intende la riflessione dei primi filosofi (οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι)
come indagine a un tempo sulla natura e sulla verità (ζητοῦντες τὴν ἀλήθειαν καὶ
τὴν φύσιν τῶν ὄντων), e (ii) attribuisce il loro "sviamento", la loro
erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia (ὑπὸ ἀπειρίας).
Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la
difficoltà segnalata potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato
la riduzione a elementi base (questo appare il significato nel contesto di τὰ ὄντα)
36. In tal caso Aristotele riconoscerebbe all'indagine dei «fisici» un filo
conduttore ontologico, che in Parmenide sarebbe stato pienamente esplicitato. È
significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin
dall'antichità 37) alle opere di Melisso e Gorgia (di una generazione
posteriore a quella di Parmenide) emergesse già la consapevolezza
dell'inadeguatezza del tradizionale repertorio Περὶ φύσεως, con la proposta di
Περὶ φύσεως ἢ περὶ τοῦ ὄντος, nel primo caso, e Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως
nel secondo; e che in ambi- 36 Su questo in particolare Palmer, Parmenides
& Presocratic Philosophy, cit., pp. 130 ss.. 37 È tradizionalmente
riconosciuto che l'intenzione dello scritto gorgiano era di ribaltare le tesi
eleatiche (per esempio, W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971,
pp. 270-271). I due resoconti dell'opera – quello di Sesto Empirico (che ci
fornisce anche la titolazione completa) e quello dell'Anonimo del De Melisso,
Xenophane et Gorgia (forse I secolo d.C.) – potrebbero dipendere da Teofrasto
ed essere stati semplicemente elaborati in modo diverso. In alternativa, per la
seconda redazione, si è supposta la mano di un peripatetico antico (si veda la
nota di M. Untersteiner in Sofisti, Testimonianze e frammenti, a cura di M.
Untersteiner, con la collaborazione di A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009,
p. 234). 37 to sofistico proliferassero opere sulla «Verità» (Περὶ τῆς ἀληθείας
e Ἀλήθεια sono le titolazioni attribuite alle opere principali rispettivamente
di Antifonte e di Protagora). Aristotele, in ogni caso, con la formula
«indagine sulla verità» intende un’indagine sulla realtà genuina, tesa ad
accertare quale essa sia, spingendosi oltre le apparenze che la occultano38.
Illuminante un passo di De generatione et corruptione: Ἐκ μὲν οὖν τούτων τῶν
λόγων, ὑπερβάντες τὴν αἴσθησιν καὶ παριδόντες αὐτὴν ὡς τῷ λόγῳ δέον ἀκολουθεῖν,
ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ πᾶν εἶναί φασι καὶ ἄπειρον ἔνιοι· τὸ γὰρ πέρας περαίνειν ἂν
πρὸς τὸ κενόν. Οἱ μὲν οὖν οὕτως καὶ διὰ ταύτας τὰς αἰτίας ἀπεφήναντο περὶ τῆς ἀληθείας·
ἐπεὶ δὲ ἐπὶ μὲν τῶν λόγων δοκεῖ ταῦτα συμβαίνειν, ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων μανίᾳ
παραπλήσιον εἶναι τὸ δοξάζειν οὕτως A partire dunque da questi ragionamenti, e
spingendosi oltre la sensazione e ignorandola, dal momento che si dovrebbe
seguire il ragionamento, alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno,
immobile e infinito: il limite, infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro,
dunque, in questo modo e per queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora,
alla luce dei ragionamenti sembra che queste cose accadano così; alla luce dei
fatti, invece, il pensare così sembra quasi follia (Aristotele, De generatione
et corruptione I, 8 325 a13ss.). Qui Aristotele stigmatizza, per la sua
paradossalità (sintomatico il riferimento alla «follia»), una forma di
«razionalismo eleatico» 39 che, nel riferimento all'infinito, appare sostanzialmente
melissiano40: il contributo all'indagine sulla verità scaturisce da una 38
Leszl, op. cit., p. 17. 39 Così Migliori, Aristotele, La generazione e la
corruzione, traduzione, introduzione e commento di M. Migliori, Loffredo
Editore, Napoli 1976, p. 200. 40 Non è un caso che Reale abbia accolto le prime
righe del passo aristotelico come un vero e proprio frammento di Melisso:
Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione, introduzione e commento di G.
Reale, Firenze 1970, La Nuova Italia, pp. 98-104. 38 ricerca volta alla
comprensione della realtà naturale nel suo insieme (τὸ πᾶν). Una ricerca,
dunque, a un tempo "ontologica" ed "epistemologica" (in
senso lato), nella misura in cui la determinazione della realtà genuina dipende
da considerazioni di ordine gnoseologico (delineate nella contrapposizione ἐπὶ
μὲν τῶν λόγων - ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων). Ora, nei frammenti parmenidei non
mancano indizi (come rivelano le letture antiche) della possibilità che
l'espressione τὸ ἐόν («ciò che è» ovvero «l'essere»), di cui si definiscono
proprietà strutturali - «senza nascita» (ἀγένητον) «senza morte» (ἀνώλεθρον),
«tutto intero» (οὖλον), «uniforme» (μουνογενές), «saldo» (ἀτρεμές) (B8.4-5) –
si riferisca a quel che Aristotele indica come τὸ πᾶν, il Tutto dell’universo41:
Parmenide, nel suo sforzo di evitare le incongruenze colte nelle coeve indagini
sull'origine e sulla struttura del mondo naturale42, avrebbe trasfigurato lo
spazio cosmico nel compiuto, omogeneo, immutabile campo dell’«essere», così
spingendo la filosofia naturale ai limiti di logica e metafisica43. Né, d'altra
parte, mancano tracce di una trattazione περὶ τῆς ἀληθείας44: la prima sezione
del Poema si apre e si chiude con chiare menzioni della Verità – intesa come la
Realtà oggetto dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico dell'opera
tràdita riflette la tensione tra il resoconto genuino di quella realtà e una
sua accettabile ricostruzione a partire dall'esperienza che gli uomini ne
hanno. 41 Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek Cosmologists, cit.,
p. 54. Conche – in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction,
présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996, p. 182 – osserva
come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che è, e sia
dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella che proponiamo è
espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des
Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken, Vandenhoeck
& Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269. Di particolare rilievo le pagine
260-1. 42 Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare
comunque in ambito ionico e pitagorico. 43 D.W. Graham, “Empedocles and
Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, p. 175. 44 Leszl, op.
cit., p. 19. 39 Natura e verità in Parmenide In effetti, nel caso del poema di
Parmenide, presumendone unitarietà e coerenza, possiamo registrare: (i) lo
squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata all'esposizione
dell'«ordinamento [del mondo] del tutto appropriato» (διάκοσμον ἐοικότα πάντα,
B8.60) doveva essere assai più consistente di quella (la prima) relativa al
«percorso di Persuasione, che si accompagna a Verità» (Πειθοῦς κέλευθος - Ἀληθείῃ
γὰρ ὀπηδεῖ, B2.4); (ii) il costante richiamo, nell'introduzione del διάκοσμος,
a un lessico di conoscenza: B10 appare, in questo senso, un vero e proprio
programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra l'altro in sintonia con
il modello poetico esiodeo della Teogonia45: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν
αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν
ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ
καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄
ἔχειν ἄστρων. Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della
pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e
le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua]
natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e
come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. 45
L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica I,
4, introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando proprio ai
precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore. 40 Che
l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come περὶ φύσεως ἱστορία
sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile, così come
appare chiara la sua intenzione cognitiva: nella costruzione del Poema, è
allora possibile rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della seconda
sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8. L'obiettivo
dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è compiutamente
conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza
cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη quanto ai δοκοῦντα: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι
ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής.
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς
πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben
rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle
opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti
(B1.28b-32). La Dea sottolinea il proprio impegno a (i) rivelare la realtà
genuina (Ἀληθείη), tradizionale appannaggio divino, e (ii) denunciare le
infondate (senza «reale credibilità», πίστις ἀληθής) «opinioni dei mortali»
(βροτῶν δόξας), in ciò riflettendo il canonico pessimismo sulla condizione e comprensione
umana che aveva trovato espressione nella poesia e nella sapienza antica: τοὔνεκά
τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον· οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα τρέφει ἀνθρώποιο
[πάντων, ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει.] οὐ μὲν γάρ ποτέ φησι κακὸν
πείσεσθαι ὀπίσσω, ὄφρ’ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ’ ὀρώρῃ· ἀλλ’ ὅτε δὴ καὶ
λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέωσι, 41 καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ. τοῖος γὰρ
νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε.
Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi: nulla è più inconsistente
dell'uomo tra tutte le cose che nutre la terra, e sulla terra camminano e si
muovono. Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà, fin quando gli dei
concedono forza e le membra sono in movimento. Quando invece gli dei beati
infliggono anche dolori, pure questi sopporta, suo malgrado, con animo
paziente. Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra, quale il
giorno che manda il padre degli dei e degli uomini (Odissea XVIII, 129-137)
θνατὰ χρὴ τὸν θνατόν, οὐκ ἀθάνατα τὸν θνατὸν φρονεῖν il mortale deve pensare
cose mortali, non cose immortali (Epicarmo, DK 23 B20) ἄρα θεὸς μὲν οἷδε τὴν ἀλήθειαν
δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται soltanto dio conosce la verità, a tutti è dato solo
opinare (Senofane, DK 21 A24). Ma il programma non si esaurisce nella
contrapposizione tra comprensione divina e incomprensione umana, pur
limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà autentica -
per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini:
letteralmente «cuore che non trema» (ἀτρεμὲς ἦτορ) di «Verità ben rotonda» (Ἀληθείης
εὐκυκλέος ovvero, secondo altri codici, «ben convincente», εὐπειθέος) - è
certamente occasione per condannare di fronte al giovane poeta (κοῦρος)
l’inattendibilità delle convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema,
appare tuttavia funzionale anche alla presentazione di un resoconto
alternativo, plausibile (δοκίμως), del mondo dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα): 42
a dispetto dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile
delinearne una sintesi compatibile con la lezione di verità della prima
istruzione. Difficile credere che Parmenide non fosse in qualche misura
convinto della bontà del punto di vista espresso negli attuali frammenti
B9-B1246, ovvero della ἱστορία περὶ φύσεως tracciatavi, anche perché i rilievi
del testo richiamano puntualmente i divieti di B2-B8: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος
καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν
πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα
μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste,
secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a
quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla
pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Discorso affidabile
e ordinamento verosimile Eppure il passaggio tra le due sezioni è marcato in
modo inequivocabile: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo
punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a
Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie
parole ascoltando che può ingannare (B8.50-2). 46 Lesher, op. cit., p. 240. 43
In questi versi si incrociano le due prospettive che Parmenide tenta di
salvaguardare all'interno della tradizionale opposizione tra umano e divino:
(i) da un lato la "superiore" ottica della divinità, che si esprime
in un logos degno di fiducia: svolgendo rigorosamente la propria disamina
dall'alternativa «è e non è possibile non essere»-«non è ed è necessario non
essere», esso riconosce che: ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές
τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν,
ἕν, συνεχές senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme,
saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto
insieme, uno, continuo (B8.3b-6a), (ii) dall'altro i punti di vista umani,
molteplici e concorrenti, insidiosi e potenzialmente dispersivi: è
esplicitamente all'interno di questo orizzonte che la Dea introduce la seconda
sezione: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν
γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo,
così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Nessun resoconto
cosmologico, nella misura in cui si riferisca alle vicende di una molteplicità
di enti in divenire (instabili e mutevoli), può essere considerato
completamente affidabile, come, invece, il discorso su «ciò che è» (τὸ ἐόν),
sulla realtà colta come totalità (unitaria, immutevole, essendo nel suo
complesso tutto ciò che è). Per valutare correttamente l'impresa parmenidea
dobbiamo tenere conto di due elementi: 44 (a) del contributo scientifico47
(prevalentemente in campo cosmologico48) riconosciuto a Parmenide
nell’antichità: ancora una volta è interessante soprattutto il fatto che
Teofrasto (DK 28 A44) gli attribuisse la scoperta della sfericità della Terra: ἀλλὰ
μὴν καὶ τὸν οὐρανὸν πρῶτον ὀνομάσαι κόσμον καὶ τὴν γῆν στρογγύλην, ὡς δὲ
Θεόφραστος [Phys. Opin. 17] Παρμενίδην, ὡς δὲ Ζήνων Ἡσίοδον [in riferimento a
Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la terra sferica;
per Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo, e che altre fonti
risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e Lucifero (DK
28 A40a): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ
Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ
οὐρανὸν καλεῖ Parmenide pone come primo nell'etere Eos, lo stesso da lui
chiamato anche Espero; dopo di esso pone il Sole, sotto questo, nella parte
ignea che chiama cielo, gli astri, e sulla natura solare della luce della Luna:
Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται 47 Per
una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La riscoperta del vero
Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla natura, introduzione,
testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999, BUR Rizzoli (in
particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos.The Ionian Tradition
of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford
2006, pp. 179-182. 48 Naddaf ha d’altra parte segnalato come il modello
cosmogonico della seconda sezione del poema dovesse essere influenzato da una
prospettiva biologica e ricordato opportunamente le tracce di una
«antropogonia», attestata da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G. Naddaf, The
Greek Concept of Nature, cit., pp. 137-138. 45 Parmenide [dice che] la luna è
uguale al sole: da esso è infatti illuminata (DK 28 A42); (b) dell'evidente
contrasto tra la condanna della confusione "mortale" tra le due vie:
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ
παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la
stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna
all'indietro (B6.8-9) οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα Mai questo sarà
forzato: che siano cose che non sono (B7.1), ovvero dell’irrisolta opposizione
nelle cosmogonie correnti (ioniche? pitagoriche?): μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο
γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν Presero la
decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per
loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4), e la
sottolineatura (nel già citato B9) della riduzione omogenea all'essere delle
forme introdotte per il διάκοσμος ἐοικώς: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος
καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le
cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive
proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno
ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla (B9). 46 La distinzione tra i due momenti
dell'istruzione divina sembra quindi consapevolmente delineare due distinte
forme di conoscenza: (a) la certezza della comprensione razionale – evocata
dalla reiterazione di νοεῖν (comprendere, concepire, pensare) e νόος
(intelligenza, pensiero), nonché di espressioni come κρῖναι δὲ λόγῳ («giudica
con il ragionamento») - degli attributi universali di «ciò che è» (τὸ ἐόν, il
complesso della realtà colto come tutto-intero); (b) la plausibilità di una
conoscenza – l'uso di verbi di conoscenza è indiscutibile nei frammenti
attribuiti alla seconda sezione - che possiamo definire "empirica",
dal momento che si concentra sulla natura delle cose che incontriamo nella
nostra esperienza49 . In realtà il quadro è più complesso, perché fortemente
condizionato da una cornice religiosa che deve indurre cautela. Intanto, quella
che abbiamo indicato come «conoscenza razionale» (via d'accesso privilegiata
alla Verità) è proposta come contenuto diretto di una rivelazione (B1) che
costituisce il contesto dell'intera esposizione del Poema, e che pone
immediatamente (B2) le premesse da cui dipendono i ragionamenti successivi.
Come avremo modo di sottolineare nel commento, tale rivelazione non appare un
semplice escamotage poetico, estrinseco rispetto alla comunicazione di verità,
ma, al contrario, il vero nucleo propulsivo dell’opera, la condizione di
continuità entro cui le due sezioni assumono il loro senso e il loro statuto50.
Un elemento andato perduto nella ricezione di Parmenide nel IV secolo a.C.
(che, infatti, non ci ha conservato citazioni dal proemio), ma in sé di grande
interesse per la collocazione culturale dell'Eleate e per la valutazione del
suo contributo. L'oggetto di tale conoscenza - τὸ ἐόν – appare, a sua volta,
nei frammenti sia come risultato di una costruzione logica: 49 Lesher, op.
cit., p. 241. 50 Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova
edizione (La pensée de Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe
et Philosophie chez Parménide. 47 ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ
ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito
dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare
l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che
l’altra invece esista e sia reale (B8.15b-18), sia come concrezione di una
sintesi intuitiva, a partire dallo sguardo rivolto alla molteplicità degli
enti: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος
ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον Considera
come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi
completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4). In questo
secondo caso, la costante presenza dell'essere è giustapposta alla
presenza-assenza degli enti, prefigurando l'opposizione tra l'immutabile
presente dell'uno: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν,
συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno,
continuo (B8.5-6a) e il divenire - scandito da passato, presente e futuro –
degli altri: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι 48 καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
τελευτήσουσι τραφέντα Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose
ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine
(B19.1-2). Ciò può suggerire che i due momenti del discorso divino riflettano
l'originale rielaborazione parmenidea della tensione, implicita nella cultura
delle origini, tra la dimensione temporale delle cose in divenire (τά τ’ ἐόντα
τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, «le cose che sono, le cose che sono state e le
cose che saranno», Iliade I, 70) e quella peculiare alla concezione arcaica del
divino (θεοὶ αἰὲν ἐόντες, «dei che sono sempre», Iliade I, 290)51 . La
distinzione ben delineata nei frammenti tràditi, come abbiamo visto, è quella
tra: (i) la certezza (πίστιος ἰσχύς) che scaturisce dal giudizio razionale su τὸ
ἐὸν: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario: essere è infatti possibile, il
nulla, invece, non è (B6.1-2a); (ii) la verosimiglianza del resoconto
cosmologico, che pur legittimato dalla parola divina: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα
πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento,
del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei
mortali possa superarti (B8.60-1) si rivolge all'origine e sviluppo di fenomeni
prodotti dall'azione celeste: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα
51 Ivi, p. 102. 49 σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν
ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν Conoscerai la
natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente
Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai
periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura (B10.1-5a), e,
ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e cosmologici (in questo senso alle
condizioni generali del mondo naturale): εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν
ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων conoscerai anche
il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidando
lo vincolò a tenere i confini degli astri (B10.5b-7). La certezza è prodotto
del «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος) associato a Verità (Ἀληθείη)
ed essere (τὸ ἐὸν): Parmenide insiste sulla necessità di tale sapere,
chiaramente correlata a immutabilità, identità e stabilità del suo oggetto. La
ricostruzione del διάκοσμος ἐοικώς riflette, d'altra parte, la mutevolezza dei
fenomeni fissati dall'arbitrio delle denominazioni umane: in questo senso,
rispetto all'affidabilità del «percorso di Persuasione» che manifesta la
genuina realtà (la Verità), essa è proposta dalla Dea come κατὰ δόξαν, «secondo
opinione». Essere e natura in Parmenide Nel proprio schema (Metafisica I, 5 986
b27-987 a1) - che già abbiamo commentato - Aristotele aveva dunque colto
sostanzialmente nel segno: 50 Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ
γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο
οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν
τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων
εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ
καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto,
egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto
tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i
molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo
sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere. La lettura aristotelica
suggerisce, infatti, che l'oggetto – apparentemente diverso - delle due sezioni
del Poema sia in verità identico, sebbene prospettato secondo differenti
modalità gnoseologiche: «secondo ragione» (κατὰ τὸν λόγον) e «secondo
sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Una considerazione puramente razionale fa
emergere la realtà (naturale) come uno-tutto; il riferimento all'esperienza
manifesta la pluralità dei fenomeni: nel primo caso il livello di astrazione fa
perdere di vista i connotati fenomenici e risaltare i tratti di fondo della
realtà; nel secondo l'urgenza di dar conto dei fenomeni spinge
all'individuazione di efficaci principi esplicativi. Come non è possibile
parlare di due oggetti diversi, così non può sfuggire nei frammenti il
tentativo di Parmenide di ripensare il problema dei principi in termini
ontologici, attribuendo cioè ai principi alcune caratteristiche dei «segni» di
τὸ ἐὸν: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν
φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, 51 τῷ δ΄ ἑτέρῳ
μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo
e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma
etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione
identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche
quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e
pesante (B8.55-9) τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε αὐτὰρ ἐπειδὴ
πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ
μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e
queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose
e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe
alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Questo
autorizza l'ipotesi che la prima sezione – pur compiuta, autosufficiente e
autonoma – fosse effettivamente intesa come preparatoria alla seconda, con la
quale l'autore entrava in competizione (come sottolineato anche dalle parole
della divinità) con altre cosmologie. È plausibile che il modello esplicativo
del mondo naturale che vi si delinea abbia profondamente influenzato quello,
fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da Empedocle e Anassagora52, sensibili,
tra l'altro, ai rilievi “ontologici” di 52 In modo diverso giungono a sostenere
questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later
Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998; P. Thanassas,
Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, cit.; D.W.
Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 52 Parmenide53 – come risulterebbe da una
serie di frammenti (DK 31 B8, B9, B11, B12; DK 59 B17). 53 D.W. Graham,
“Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge
Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una più meditata e
articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare D.W. Graham,
Explaining the Cosmos, cit.. 53 IL TESTO DI PARMENIDE E LA SUE FONTI Si ipotizza
che la consistenza dell'unica opera di cui la tradizione sostiene Parmenide sia
stato autore, fosse approssimativamente di un migliaio di versi, 160 (circa)
dei quali abbiamo ricevuto attraverso posteriori citazioni da parte di altri
autori. Essi riferivano in qualche caso direttamente da una copia del poema, in
altri indirettamente da selezioni antologiche ovvero da citazioni altrui.
Riflettendo sulla storia di queste citazioni testuali, possiamo concludere che
il poema di Parmenide sia stato oggetto di due distinti momenti di attenzione,
a distanza di 4 secoli l’uno dall’altro, prima di scomparire definitivamente54
. Il materiale del Poema Possiamo supporre che una prima diffusione di copie
del Poema avvenisse sotto il controllo dell'autore e che forme di controllo sul
testo e sulla sua circolazione fossero esercitate dagli allievi nel periodo
immediatamente successivo alla sua morte. È plausibile che nel mondo greco
occidentale si conservasse una memoria testuale autonoma, da collegare forse ad
ambienti pitagorici 55 , e che, analogamente, tradizioni del testo si
affermassero anche in altre aree di civilizzazione greca, come l'Asia Minore,
dove il poema sembra essere stato conosciuto abbastanza presto. Si tratta solo
di congetture, dal momento che non disponiamo di evidenze di questa fase
pre-platonica, ma, secondo Passa56, non è da escludere che a una di queste
tradizioni abbia attinto Sesto Empirico. La prima attestazione del Poema risale
a Platone, che cita per cinque volte Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito
della tesi dell’unità e della immobilità dell’Uno-Tutto), nel Simposio (178b 54
N.-L- Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous
la direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris
1987, p. 4. 55 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua,
Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 143. 56 Ibidem. 54 a proposito del primato di
Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del «parricidio»; 244e a
proposito della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta,
replica la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita
il verso su Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16
(Metafisica IV, 5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza
postuma" del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16 (in
una versione diversa da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del
frammento 8 nello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo
derivino da Platone 57 . Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58,
non propriamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di «mancato
utilizzo» - il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare uso abbondante
dei frammenti del poema, aprendo di fatto la seconda stagione d’attenzione per
l'opera - la più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il VI
secolo. Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare
la posizione dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di
analisi da parte dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di
prima mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teofrasto. A
Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto
dell’intera opera di Parmenide 59, dobbiamo la citazione (in gran parte come
unica fonte) dei due terzi dei 160 versi tràditi del poema: egli cita
estensivamente anche perché consapevole della rarità del testo già nella sua
epoca (clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che
direttamente o indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio,
Boezio, Olimpiodoro60): καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος
ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε 57 Cordero, op. cit., pp. 4-5. 58
Ivi, p. 5. 59 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum,
Assen/Maastricht 1986, p. 1. 60 Cordero, op. cit., p. 6. 55 τοῖς ὑπομνήμασι
παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ
Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei
aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere
uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto
parmenideo (DK 28 A21). Cordero giudica molto probabile – sulla scorta del
lavoro filologico di Diels – l'utilizzazione da parte di Proclo (V secolo) e
Simplicio (VI secolo) di due differenti versioni del poema di Parmenide61.
Damascio (V-VI secolo d.C.) cita sulla scorta del commento perduto di Giamblico
(III-IV secolo d.C.) al Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI
secolo d.C.) come Ammonio, Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver
avuto la possibilità di accedere direttamente a copia dell’intero poema62 . Le
fonti e i loro problemi Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere
questa storia disponendo le fonti in tre raggruppamenti63: (i) Platone,
Aristotele, Teofrasto e Eudemo (tutti del IV secolo a.C.), gravitanti intorno
alle due principali istituzioni filosofiche ateniesi: Accademia e Liceo; (ii)
figure eterogenee appartenenti a centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco
(I sec.), Galeno (II sec.), Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III
sec.), Diogene Laerzio (III sec.); (iii) figure cronologicamente e
geograficamente distanti, ma unite culturalmente dal fondamentale
neoplatonismo: Plotino (III sec.), Giamblico (III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.),
Damascio e Ammonio (V-VI sec.): Simplicio è loro discepolo. 61 Cordero, op.
cit., p. 5. 62 Coxon, op. cit., p. 2. 63 Seguiamo Passa, op. cit., p. 21. 56
Fonti attiche Possiamo supporre che le fonti del primo gruppo abbiano avuto
accesso a copie del poema: secondo Passa64, si può facilmente dimostrare,
tuttavia, che in molti casi esse citano a memoria, ma è probabile che
sfruttassero anche la prima sistemazione del materiale presocratico a opera dei
sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e Aristotele ricorressero alle
selezioni approntate nella seconda metà del V secolo a.C. da Ippia (che nella
sua Συναγωγή aveva estratto, messo in relazione e commentato tesi presenti in
opere poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua volta, aveva estrapolato
dalla prima produzione filosofica enunciati teorici che potevano essere
organizzati per contrapposizioni, così sottolineando gli insolubili contrasti
tra filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato tracce ancora nelle
opere ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e Aristotele, che
rivelano nelle loro opere di combinare i due approcci, pur avendo modo di
consultare direttamente almeno una parte delle opere attribuite ai primi
filosofi, sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici nella
loro lettura66 . Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche -
Platone, Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero accesso a
copie dell’intero poema, è tuttavia significativo che Teofrasto e Eudemo non
siano fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi (3
volte su 4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco
accurati nel riportare il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di
differenti versioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può
essere indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due distinte
tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile per noi
risalire oltre la redazione attica del poema pos- 64 Ivi, p. 25. 65 J.-F.
Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età
dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp.
288 ss.. 66 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, cit., pp. 26-27. 67 Ivi, pp. 2-3. 57 seduta dall'Accademia e dal
Peripato, è dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo
usato (o citato a memoria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto.
Né, come abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni
alternative autonome siano sopravvissute nella tradizione più tarda68 . La
recente ricerca linguistica69 sottolinea come Platone citi da una versione già
in parte "atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato
interventi simili a quelli operati (nello stesso periodo) sul testo omerico:
modificazioni del vocalismo e introduzione di aspirazioni (in origine il testo
doveva essere psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso
accurato, sebbene, secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la
spiccata propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i
neoplatonici, con conseguenti gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da
Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella tradizione
"accademica" da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del Poema
disponibili. In considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che
Aristotele, a sua volta, dipenda da Platone, mentre Teofrasto potrebbe aver
attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca dell'allievo di Aristotele che si
sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la tradizione
"dossografica", quella delle fonti che derivano le proprie citazioni
da compilazioni70 . 68 Passa, op. cit., p. 26. 69 Ibidem. 70 La tradizione
dossografica si apre in effetti con le Φυσικαὶ Δόξαι (nella tradizione per lo
più indicato come Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in 16 libri): integrata
in periodo ellenistico, l’opera sarebbe stata poi utilizzata dagli Epicurei,
Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico, seconda metà II secolo),
dal fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò
questa revisione Vetusta Placita. Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata,
abbreviata e integrata – nel I secolo – da un autore indicato come Aëtius, la
cui raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da Diels. Il filologo
tedesco ha mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in realtà
pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una sintesi dell’opera di Aëtius (e il De
historia philosophica di Galeno un’ulteriore riduzione di pseudoPlutarco) e
soprattutto come da Aëtius (anche attraverso il materiale riassunto da
pseudo-Plutarco) dipendessero la monumentale antologia (solo 58 Fonti
ellenistico-romane Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il
primo autore, dopo il lungo silenzio dell'età ellenistica, a citare passi del
Poema: gli attuali frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14, B15 hanno Plutarco come
fonte; degli ultimi due egli è la nostra unica fonte. Sebbene dichiari di
ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα), alcune varianti di testo fanno supporre che
egli citi da fonti attendibili71 . È probabile attingesse a una tradizione
vicina o identica a quella "accademica" (le sue citazioni presentano
coincidenze con varianti trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle
alterazioni intervenute nella successiva tradizione neoplatonica. La redazione
plutarchea di B1.29, infatti, coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene
Laerzio, ed è alternativa a quelle di Proclo e Simplicio72. Indicativo della
validità della fonte plutarchea è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche
da Platone, Aristotele, Sesto Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico
testimone in grado di menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento,
con l'indicazione della sezione cui la citazione apparteneva (un unicum nelle
fonti)73 . Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon74, mostrerebbe nel
complesso Clemente Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò
che cita75: B1.29 s., B3, B4, B8.3 s., B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia
l'unico a riportare la variante ἀγένητον (nella dossografia impiegata per
sottolineare l'accordo di Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta ἀτέλεστον
- fa suppore, nella ricezione del testo, un condizionamento da parte di in
parte conservata) di Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun
affectionum curatio di Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da
ricondurre anche la Refutatio omnium haeresium di Ippolito (III secolo), gli
Stromateis di altro pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli
dedicati ai primi filosofi greci nelle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio
(III secolo). Su questo Mansfeld, op. cit., pp. 23-24. 71 Passa, op. cit., p.
27. 72 Ivi, pp. 27-28. 73 Ivi, p. 28. 74 Coxon, op. cit., p. 5. 75 Ivi, p. 3.
59 versioni dossografiche. Più recisa la valutazione di Passa76, secondo cui
gli atticismi delle citazioni rivelerebbero come Clemente lavorasse su un testo
fortemenete modificato, di fonti atticizzate. Il livello di corruttela farebbe
escludere (contro l'ipotesi di Coxon) la disponibilità di copia integrale del
Poema. La ricerca di Passa ha evidenziato la peculiarità del contributo di
Sesto Empirico nella storia del testo del Poema: egli sarebbe, in effetti, il
solo a conservare nelle proprie citazioni tracce di una tradizione testuale
alternativa a quella attica77 . In particolare è Sesto - cui dobbiamo anche la
citazione di B7.2-7 e B8.1-2) – l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e una sua
interpretazione allegorica: in genere si afferma che esse dipendano da fonte
intermedia, probabilmente di ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso italiano
ha avanzato l'ipotesi che Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il testo del
proemio e per la sua parafrasi78. Questa dipenderebbe effettivamente da
commento stoico; nel caso del testo del Proemio, tuttavia, Sesto è l'unico a
conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema: probabile,
dunque, che egli disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da
esemplare di tutto il poema79. Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver
attinto a una terza tradizione testuale, è ipotesi che anche Cordero80 avanza,
sebbene la citazione di B1.29-30 in tre lezioni differenti non ne possa
costituire prova conclusiva. A tradizione testuale molto vicina a quella
sestana (quindi non attica), potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che
fornisce identica redazione di B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7
(vv. 3-5)81 . Fonti neoplatoniche La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo
lo stesso Plotino (III secolo d.C.), che cita solo di passaggio frammenti
isolati: 76 Passa, op. cit., p. 32. 77 Passa, op. cit., p. 29. 78 Ivi, p. 31.
79 Ibidem. 80 Cordero, op. cit., p. 5. 81 Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume
invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti peripatetiche e stoiche. 60 B3,
B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu scolarca dell'Accademia
fino alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo un consistente numero di
citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3, B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26,
B8.29-32, B8.35-36, B8.43- 45, che rivelano la sua familiarità con l’opera
parmenidea82, ciò suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo
completo. Oggi si concorda83 sostanzialmente sulla notevole approssimazione dei
suoi riferimenti, probabilmente risultato di citazioni a memoria, eppure si
conviene che, in considerazione delle coincidenze non casuali con la versione
di Plutarco, il testo di Proclo dovesse essere antico almeno quanto quello di
Plutarco, e derivare dalla medesima tradizione testuale accademica84, sebbene
ormai modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide. Nella propria
edizione del Poema (1897)85 Hermann Diels attribuì a Simplicio - come fonte per
la ricostruzione dell'opera di Parmenide - enorme valore. A conclusione della
propria introduzione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare di
Simplicio dovesse essere di qualità eccellente (im Ganzen vortrefflich), forse
(vermutlich) risalente alla stessa biblioteca della scuola di Platone86, di cui
egli fu uno degli ultimi esponenti prima della chiusura a opera di Giustiniano
(529 d.C.); dall'altro, però, riconosceva anche come Simplicio e Proclo non
potessero aver ricavato dalla stessa copia le rispettive citazioni. Così,
nonostante risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i due
commentatori neoplatonici avrebbero utilizzato codici diversi87 , esemplari di
versioni testuali alternative all'interno della stessa tradizione accademica.
L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente discussa con
acribia da Passa88, secondo il quale è difficile credere 82 Coxon, op. cit.,
pp. 2-3. 83 Coxon, op. cit., pp. 5-6; Passa, op. cit., pp. 38-39. 84 Passa, op.
cit., p. 39. 85 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag, Sankt
Augustin 20012 , pp. 25-26. 86 Ivi, p. 26. 87 Ibidem. 88 Op. cit., pp. 35 ss.
61 che Simplicio potesse derivare la propria copia dalla biblioteca
dell'Accademia, dal momento che: (i) dopo la chiusura decretata nel 529
dall'editto di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il diadoco Damascio e
l'allievo Simplicio) prima si recarono in esilio presso il re persiano Cosroe
(531), per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Harran
(Mesopotamia) o in Siria; (ii) tutti i trattati simpliciani furono stesi dopo
il ritorno dalla Persia, secondo questo ordine: (i) de caelo, (ii) in physicam,
(iii) in categorias, (iv) de anima89 . Simplicio – cui dobbiamo citazioni degli
attuali B1.28-32, B2.3-8, B6, B7.1-2, B8, B10, B11, B12, B13, B20 - è stato, in
effetti, generalmente considerato fonte attendibile anche dagli editori
successivi: ancora Coxon90 giudicava l'esemplare a disposizione di Simplicio «a
rare and excellent copy». Nonostante si possa registrare come un certo numero
di sue citazioni sia ricavato da testi platonici, e plausibilmente sospettare
che sia ricorso a ὑπομνήματα e/o compilazioni antologiche (conosce infatti due
redazioni di B8.4, di cui una molto vicina all'esemplare di Plutarco e
Proclo)91 , a favore dell'affidabilità dell'attestazione di Simplicio depongono
l'esplicito impegno a trasmettere documenti del pensiero antico ritenuti fondamentali
e il fatto che egli mostri di padroneggiare la struttura del Poema sin dal
primo commento aristotelico (de caelo) 92. Soprattutto hanno pesato, nella
valutazione del suo contributo, i suoi espliciti rilievi, in precedenza citati:
«vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide
sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità
dello scritto parmenideo» (DK 28 A21). Passa93 ha tuttavia messo in dubbio
l'attendibilità della redazione simpliciana, facendo leva in particolare su un
indizio: citando i vv. B8.53-59, Simplicio (in physicam 31, 3) segnala: 89 Ivi,
p. 36. 90 Coxon, op. cit., p. 6. 91 Passa, op. cit. p. 40. 92 Ibidem. 93 Ivi,
pp. 41-43. 62 καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς
αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ
τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ
ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη
ἑκατέρως ἑκάτερα tra i versi si riferisce un passo in prosa come dello stesso
Parmenide, che dice così: per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e
morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come
oscurità, durezza e pesantezza. Dopo B8.57, evidentemente, nella copia
utilizzata da Simplicio, uno scolio era stato incorporato (da un copista che
non si era reso conto trattarsi di καταλογάδην τι ῥησείδιον, di «un passo in
prosa») all'interno del testo del Poema. Il commentatore, tuttavia, nel citare
il passaggio, non sembra preoccuparsene, riferendolo sostanzialmente allo
stesso Parmenide (ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου)! Whittaker94 ne ha inferito che: (i)
l'esemplare simpliciano del Poema doveva presentarsi come «the product of
unintelligent transcription from an annotated source»; (ii) la competenza del
commentatore (che non si avvede dell'inquinamento del testo) in relazione al
testo parmenideo doveva essere discutibile. Una valutazione che dovrebbe far
riflettere sulla problematica situazione testuale del Poema, soprattutto
accreditando l'ipotesi di Deichgräber95 che tutta la copia di Simplicio fosse
corredata di scolii. Passa ha proposto un'interessante spiegazione
dell'atteggiamento del commentatore neoplatonico: il mancato allarme di fronte
all'inserto in prosa nel corpo esametrico del Poema deriverebbe dalla piena
assimilazione del quadro proposto nel Sofista platonico (237a): 94 J.
Whittaker, God, Time, Being. Two Studies in the Transcendental Tradition in
Greek Philosophy, Osloae 1971, p. 21. Citato da Passa, op. cit., pp. 41-2. 95
K. Deichgräber, "Xenophanes' περὶ φύσεως", «Rheinisches Museum» 87,
1938, p. 3. 63 Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ
ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός
τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ
μέτρων - Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ
διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato ammettere che il non
essere sia: il falso, in effetti, non potrebbe darsi diversamente. Il grande
Parmenide, invece, caro figliolo, a noi che eravamo ragazzi testimoniava contro
ciò dall'inizio alla fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi
versi, che: «Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma
tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Platone documentava una
pratica di insegnamento in cui si intrecciavano la memorizzazione dei contenuti
fondamentali del Poema, l'esposizione dettagliata del maestro,
l'approfondimento e il chiarimento di temi attraverso la comunicazione di
informazioni supplementari96: è possibile che in tal modo egli recuperasse un
modello effettivamente operante in ambito eleatico97. Non va inoltre dimenticato
che, proprio a partire da questa "testimonianza" platonica, nella
tradizione tarda (come attesta Suda, X secolo) si diffuse la convinzione che
Parmenide avesse composto, oltre al Poema, anche opere in prosa: Παρμενίδης
Πύρητος Ἐλεάτης φιλόσοφος, μαθητὴς γεγονὼς Ξενοφάνους τοῦ Κολοφωνίου, ὡς δὲ
Θεόφραστος Ἀναξιμάνδρου τοῦ Μιλησίου. [...] ἔγραψε δὲ φυσιολογίαν δι’ ἐπῶν καὶ ἄλλα
τινὰ καταλογάδην, ὧν μέμνηται Πλάτων 96 Passa, op. cit., p. 25. 97 Ne sono
sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che richiamano questo punto. 64
Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu discepolo di Senofane di
Colofone; secondo Teofrasto, al contrario, di Anassimandro di Mileto. [...]
Scrisse di scienza della natura in versi e di altri argomenti in prosa, come
ricorda Platone (DK 28 A2). Non sorprenderà, quindi, che Simplicio, poco
avveduto sul piano filologico, potesse frettolosamente ricondurre l'inserto in
prosa a commento dello stesso autore. Queste considerazioni contribuiscono a
ridimensionare la fiducia nell'attendibilità dell'attestazione simpliciana, che
Passa98 giudica fondamentale ma sopravvalutata: [Simplicio] mancava infatti sia
della capacità di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero contesto
storico-culturale, sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi
dell'esemplare in suo possesso. Quel che però risulta più preoccupante per
l'editore del Poema parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane
si riflettano interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola platonica,
perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di Simplicio
potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa99 .
Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di
commento, si era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da
Numenio a Giamblico (III secolo), aveva puntato a una rilettura della storia
della filosofia (Φιλόσοφος ἱστορία era il titolo della grandiosa ricostruzione
del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino)
imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti
interpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una
verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di Zarathustra,
Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima, 98 Passa, op. cit., p.
145. 99 Ivi, pp. 35 ss.. 65 e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più
lucidi testimoni100 . Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico
(cui si deve un importante "canone" di lettura tematico-gerarchica
dell'opera platonica101) rispetto all'interpretazione porfiriana102 era la
valorizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e
Aristotele), che finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori
presocratici: così, per esempio, Parmenide figurava nel catalogo dei
pitagorici103 . È in tale ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in genere
gli strumenti necessari al ripensamento di Platone e Parmenide (visto come
anello di congiunzione104) e il materiale per le proprie citazioni. Le
citazioni di Simplicio rimangono comunque fondamentali (in particolare per la
possibilità del commentatore di ricorrere direttamente a esemplare del Poema,
che consente di conservare caratteristiche formali autentiche, perdute in altri
settori della tradizione105), ma non senza riconoscimento e consapevolezza
della presenza - all'interno delle citazioni stesse - di (i) un evidente
processo di adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello attico;
(ii) un possibile intervento sul lessico per impreziosire il testo106; (iii)
una probabile "normalizzazione"107 del testo sul piano dei contenuti,
alla luce della chiave di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante. 100 Molto
utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G.
Girgenti, Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita
di Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e
l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della
filosofia, Rusconi, Milano 1997. 101 (i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia
e Fedone; (ii) Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico: Sofista
e Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene).
Il tutto era poi ricomposto nella lettura di Timeo e Parmenide, che
riassumevano tutto l'insegnamento platonico sulla natura e la teologia. 102
Girgenti, op. cit., p. 11. 103 Passa, op. cit., p. 37. 104 Ivi, p. 145. 105
Ivi, p. 42. 106 Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa,
ibidem. 107 Ibidem. 66 BIBLIOGRAFIA Edizioni del testo consultate Per il testo
greco e la traduzione ho tenuto conto delle seguenti edizioni contemporanee: H.
Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Band I, Weidmannsche
Verlagsbuchhandlung, Berlin 19526 [indicheremo l'edizione come Diels-Kranz
ovvero DK. Per la traduzione italiana, quando non abbiamo personalmente
tradotto, abbiamo utilizzato quella, a cura di G. Reale: I presocratici,
Bompiani, Milano 2006] P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti,
Laterza, Bari 1939 (ristampa Arno Press, New York 1976) [indicheremo l'edizione
come Albertelli] I presocratici. Frammenti e testimonianze. I. La filosofia
ionica. Pitagora e l’antico pitagorismo. Senofane. Eraclito. La filosofia
elatica, introduzione, traduzione e note a cura di A. Pasquinelli, Einaudi,
Torino 1958 [indicheremo l'edizione come Pasquinelli] Parmenide, Testimonianze
e frammenti, Introduzione, traduzione e commento a cura di M. Untersteiner, La Nuova
Italia, Firenze 1958 [indicheremo l'edizione come Untersteiner] G.S. Kirk, J.E.
Raven, The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of
Texts, C.U.P., Cambridge 1963 [indicheremo l'edizione come Kirk-Raven]
Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L.
Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965 [rimane, per i problemi
testuali e la loro discussione, una edizione di riferimento. La indicheremo com
Tarán] Parmenides, Über das Sein, übersetzt von J. Mansfeld, herausgegeben von
H. von Steuben, Reclam, Stuttgart 1981 Les deux chemins de Parménide, édition
critique, traduction, études et bibliographie par N.-L. Cordero, Vrin, Paris
1984 [da 67 integrare con l’opera interpretativa aggiornata - dello stesso
autore – By Being, It Is, Parmenides Publisher, Las Vegas 2004:
complessivamente offrono un grande contributo testuale, grazie alla discussione
delle difficoltà e al confronto costante con la tradizione dei manoscritti.
Indicheremo lo studio del 2004 come Cordero] Parménide, Le poème, présenté par
J. Beaufret, PUF, Paris 19863 (edizione originale 1955) A.H. Coxon, The
Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986 [fondamentale, anche
per i riferimenti alla tradizione testuale e ai manoscritti, nonostante le
riserve di O’Brien. La indicheremo come Coxon] Études sur Parménide, sous la
direction de P. Aubenque, t. I, Le Poème de Parménide, texte, traduction, essai
critique par D. O’Brien, Vrin, Paris 1987 [strumento molto utile per la
discussione delle difficoltà testuali, ma anche per la doppia traduzione,
francese e inglese, con le scelte conseguenti. Lo indicheremo come O'Brien]
Parmenides of Elea, Fragments. A Text and Translation with an Introduction by
D. Gallop, University of Toronto Press, Toronto 1987 [indicheremo l'edizione
come Gallop] Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze
indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio
introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991
[non si distingue tanto come strumento filologico, quanto per l’ampio
commentario filosofico di corredo. Indicheremo la traduzione come Reale e il
commento come Ruggiu] Parmenides, Die Fragmente, herausgegeben von E. Heitsch,
Artemis & Winkler, Zürich 1995 [indicheremo l'edizione come Heitsch]
Parménide, Sur la nature ou sur l’étant. La langue de l’être?, présenté,
traduit et commenté par B. Cassin, Éditions du Seuil, Paris 1998 [indicheremo
l'edizione come Cassin] Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction,
présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale
1996) [indicheremo l'edizione come Conche] 68 Parmenide di Elea, Poema sulla
Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano
1999 [strumento essenziale – pur trattandosi di edizione tascabile - per la
discussione dei principali problemi testuali, e la chiarificazione dei nessi
con la letteratura greca arcaica. Lo indicheremo come Cerri] H. Diels,
Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser,
mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von
D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897)
[rimane opera fondamentale, soprattutto per la comprensione dell’ambiente
culturale e i motivi del poema. La indicheremo come Diels] Parmenide, Poema
sulla natura, a cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano 2006 Parmenide,
Sull’Ordinamento della Natura. Per un’ascesi filosofica, a cura di Raphael,
Edizioni Asram Vidya, Roma 2007 Die Vorsokratiker, Band II (Parmenide, Zenon,
Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung
von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009
[indicheremo l'edizione come Gemelli Marciano] Le parole dei Sapienti.
Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso, traduzione e cura di A. Tonelli,
Feltrinelli, Milano 2010 [indicheremo l'edizione come Tonelli] The Texts of
Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected Testimonies of the
Major Presocratics, translated and edited by D.W. Graham, Part I, C.U.P.,
Cambridge 2010 [indicheremo l'edizione come Graham] Per specifici problemi
testuali risulta ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides.
A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press,
New Haven – London 1970 (ora in edizione aggiornata presso Parmenides
Publisher, Las Vegas 2008) [indicheremo l'opera genericamente come Mourelatos].
69 Molto utili per la discussione di singoli problemi interpretativi J.
Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum,
Assen 1964 [indicheremo l'opera genericamente come Mansfeld] e W. Leszl,
Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia
antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo l'opera
genericamente come Leszl]. In generale, per lo status interpretativo fino alla
seconda metà degli anni Sessanta, è strumento di inquadramento l’aggiornamento,
a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo
sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967
(ora ristampato come E. Zeller, R. Mondolfo, G. Reale, Gli Eleati, Bompiani,
Milano 2011, con aggiornamento bibliografico a cura di G. Girgenti). Per una
dettagliata analisi del frammento B8 e delle sue premesse è davvero illuminante
la lettura di R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The
Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham,
O.U.P., Oxford 2008, pp. 189-229. Per la storia e lo stato del testo di
rilievo, insieme al fondamentale Les deux chemins de Parménide cit., il recente
lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua,
Edizioni Quasar, Roma 2009 [che indicheremo come Passa]. Letteratura critica
consultata J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An account of the interaction
between the two schools during the fifth and early fourth centuries B.C.,
Cambridge University Press, Cambridge 1948 J. Zafiropulo, L’Ecole Eléate, Les
Belles Lettres, Paris 1950 J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A
Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959 W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961 (edizione
originale 1953) 70 W.J. Verdenius, Parmenides. Some Comments on His Poem,
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Frankfurt a.M. (edizione originale 1934) M.C. Stokes, One and Many in
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Band 54. Parmenides, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1982 K. Reinhardt,
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die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008 Parmenide scienziato?, a cura
di L. Rossetti e F. Marcacci, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008 L.
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terza edizione, modificata e aumentata, di Mythe et Philosophie chez Parménide)
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testo risale al 1939) L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering
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Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006 C. Rapp, Vorsokratiker, Beck, München
20072 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza
dall'Odissea alle lamine misteriche, Utet Libreria, Torino 2007 Die
Vorsokratiker, Band I (Thales, Anaximander, Anaximenes, Pythagoras und die
Pythagoreer, Xenophanes, Heraklit), Au- 74 swahl der Fragmente und Zeugnisse,
Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis &
Winkler Verlag, Düsseldorf 2007 [indicheremo questa edizione come Gemelli
Marciano] A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un
reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008 The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy,
edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008 Ch.H. Kahn, Essays on
Being, O.U.P, Oxford 2009 Die Vorsokratiker, Band II (Parmenides, Zenon,
Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung
von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 G.
Wöhrle (Hrsg.), Die Milesier: Thales, De Gruyter, Berlin 2009 [Traditio
Praesocratica] Die Vorsokratiker, Band III (Anaxagoras, Melissos, Diogenes von
Apollonia, die antiken Atomisten), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse,
Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis &
Winkler Verlag, Düsseldorf 2010 Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in
onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano,
Perugia 2011 La Sagesse Présocratique. Communications des Savoirs en Grèce
Archaïque: des Lieux et des Hommes, sous la direction de M.-L. Desclos et F.
Fronterotta, Armand Colin, Paris 2013 Con la sigla LSJ indichiamo H.G. Liddell,
R. Scott, GreekEnglish Lexicon, revised and augmented throghout by H.S. Jones,
Clarendon Press, Oxford 1996 PARMENIDE SULLA NATURA Frammenti testo greco e
traduzione italiana1 1 Le note al testo greco si riferiscono a problemi di
determinazione del testo originale; quelle alla traduzione, invece, a problemi
di resa del testo greco e di interpretazione. 76 DK B1 ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον
τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι, πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος1
, ἣ κατὰ † ... †2 φέρει εἰδότα φῶτα· τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι
[5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον. ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ < ει
>3 σύριγγος ἀυτήν αἰθόμενος - δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν κύκλοις ἀμφοτέρωθεν
-, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός4 [10] εἰς
φάος, ὠσάμεναι κράτων5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας. ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι
κελεύθων, καί σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται
μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Δίκη7 πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. [15] τὴν δὴ
παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι λόγοισιν 1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua
originaria edizione del poema parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein,
1867) del genitivo δαίμονος nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce
l'arbitrarietà. 2 Non si tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente
corrotto: KATAPANTATH, trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη
(L), κατὰ πάντα τη (E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels legge: κατὰ
πάντ’ ἄ < σ > τη (partendo dall'errore di decodifica del codice N da parte
di Mutschmann). Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture
plausibili nel contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ;
Coxon suggerisce κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν >. Per la traduzione si
veda nota relativa. 3 χνοίῃσιν ἵ < ει > è correzione di Diels (1897) a
χνοῖησινι del codice N, χνοιῆσιν (codici EL). 4 Scegliamo, seguendo Diels, di
considerare Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo Ἦμαρ.
5 Il genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il
κράτων da Diels. 6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo
plurale di terza persona in uso nell'epica arcaica (σφε) all'interno della
aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da
Passa (pp. 99-100). 7 La forma Δίκη è degli editori moderni: nei codici δίκην.
77 πεῖσαν ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ
θυρέτρων χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν
εἰλίξασαι [20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9 · τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10 ἰθὺς ἔχον κοῦραι
κατ΄ ἀμαξιτὸν 11 ἅρμα καὶ ἵππους. καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί
δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν,
[25] ἵπποις θ’ αἵ 13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ, 8 La forma del genitivo
πυλέων trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di
Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a
Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels,
nell'edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27) sull'opportunità di
conservare πυλέων in vece di πυλῶν. 9 La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata
da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue Cordero, che
conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores. 10
Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo
codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello
stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in
verità, nell'edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa Cordero.
Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII, 424) e
esiodei (Scutum 237) nella formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto
(Passa, p. 85) che la lezione apparentemente superiore del codice N, copia di
uno scriba doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del
poema. 11 Si veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20. 12 I codici di Sesto
Empirico attestano unanimemente συνάορος, il cui vocalismo - ᾱορος appare fuori
posto in un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è
attestato συνήορος, preferito da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon
(ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897) rifiutò la correzione, seguito dalla quasi
totalità di editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa,
su diverse basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo
- ᾱορος il segno di una incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica
e tardo-arcaica: συνάορος non è lezione dei codici attici del poema (che
dovevano riportare συνήορος), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso
Parmenide, che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella
poesia contemporanea. 78 χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι
τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Θέμις15 τε Δίκη16 τε.
χρεὼ 17 δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης18 εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς 20 ἦτορ 13 I
codici LE riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come
osserva J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford
2009, p. 378): «the postpositive connective is required here». La presenza di
ταί nei codici si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1,
che può aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la
stessa lezione data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come
il passaggio da un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί
della copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare
che, meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di
N abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte
(ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi
difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato
appunto come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di
Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ
sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal pronome
relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la
mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu originariamente
composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel proemio, il caso di
κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici di Sesto Empirico
(NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da attendersi. È possibile,
dunque, che la redazione del proemio da cui discende la tradizione sestana
fosse psilotica. 14 Scegliamo, a differenza degli altri editori, di considerare
Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il contesto divino. 15 La scelta della
maiuscola è solo di alcuni editori. 16 Secondo M.E. Pellikaan-Engel, Hesiod and
Parmenides. A new view on their cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert,
Amsterdam 1974, p. 59, l'uso della minuscola in questo caso sarebbe legittimo,
in quanto non ci troveremmo di fronte alla «nozione concreta» di Δίκη
incontrata al v. 14. 17 Un caso di metatesi: χρεώ forma epica da χρήω. L'epica
conosce anche la forma più antica χρειώ (Passa, p. 77-9). 18 È interessante
segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni (Diels 1897; Diels-Kranz),
il testo greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη, evidentemente classificando
Verità tra le rappresentazioni divine. In considerazione della posizione - che,
seguendo Passa (p. 53), si potrebbe definire di «ipostasi divina» -
riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la maiuscola iniziale. La stessa
scelta è stata compiuta da Gemelli Marciano (II, p. 12). 79 [30] ἠδὲ βροτῶν
δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21
χρῆν δοκίμως22 εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα23 . 19 Degli ultimi versi del
proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto Empirico, diverse
citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Caelo aristotelico;
Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente di Alessandria, Proclo e
ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo di Simplicio riporta εὐκυκλέος
(«ben rotonda»), accolto da Diels in forza della qualità e interezza (presunte)
del manoscritto di Simplicio. Il filologo tedesco è stato in passato seguito
(tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero,
Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I manoscritti ellenistici (quello di
Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio), tuttavia riportavano εὐπειθέος
(che viene tradotto come «ben convincente»), che i più (tra gli altri Mansfeld,
Mourelatos, Coxon, Conche, O'Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa)
preferiscono. Solo Proclo usa εὐφεγγέος («risplendente»), poco attendibile.
Come in altri casi, si è rivelata decisiva la convinzione della affidabilità
della redazione di Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore
acribia, ha argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra
l'altro all'interno di una ricostruzione delle tradizioni testuali del poema
che mette in discussione proprio l'affidabilità della versione di Simplicio,
che risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di
Proclo). Di diverso avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe
invece molto attento alla conservazione del testo e del lessico parmenidei.
Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος, si trovano ora in Palmer
(op. cit. pp. 378-80). 20 Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math.
7.111) trasmettono ἀτρεκές («non torto»). Sulla lezione ἀτρεκές ha pesato la
liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi ha colto una trivializzazione,
riconoscendo, invece, nell'alternativa ἀτρεμὲς un «predicato caratteristico
dell'Ἐόν parmenideo». A contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la
lezione ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53 ss.), il quale ha dimostrato
come l'aggettivo non implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti
illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso, anche ἀτρεκές sarebbe stato
vittima di un rimaneggiamento secondario. 21 Passa (p. 121) segnala come la
forma contratta δοκοῦντα sia molto probabilmente un atticismo nella tradizione
del testo: egli esclude che δοκοῦντα (come anche φοροῦνται in B6.6) sia lezione
autentica. La lezione δοκοῦντα sarebbe stata sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα.
22 Nella sua edizione del poema (1897) Diels propose di leggere δοκίμως εἶναι
come δοκιμῶσ(αι) εἶναι. Tra gli editori novecenteschi Untersteiner è tra i
pochi ad aver rilanciato tale lezione, seguito di recente da R. Di Giuseppe, 80
[vv. 1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; vv. 28b-32 Simplicio,
In Aristotelis De Caelo 557-558; vv. 28b30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30
Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II,
366); Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos
VII, 114] Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011, che documenta
ampiamente, anche nella tradizione latina, le ragioni della propria scelta. 23
La lezione dei codici DEF di Simplicio è πάντα περ ὄντα, che accogliamo, mentre
il solo codice A riporta πάντα περῶντα («tutte le cose pervadendo»), per lo più
preferito dagli editori, sulla scorta del precedente omerico (Iliade XXI.281
ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei
presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 43) osserva che la forma περῶντα (da περάω)
non ha riscontri nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8),
incerto sulla lezione, ritiene che, accettando l'opzione περ ὄντα, si debba
comunque correggere la forma attica del participio di εἰμί in quella ionica ἐόντα:
in rapporto a un verbo fondamentale, nell'uso e nella frequenza, all'interno
del poema, è plausibile che Parmenide «abbia voluto usare sempre la stessa
forma, quella propria del suo dialetto». 81 Le cavalle1 che mi portano2 fin
dove il [mio] desiderio3 potrebbe giungere4 , 1 Il testo greco riporta ἵπποι
ταί, con il sostantivo dunque al femminile (come in Pindaro, Bacchilide e
Sofocle). Il tema del tiro di «cavalle» sarebbe di origine omerica: secondo
Tarán (p. 9) sarebbe forzato cogliervi prova di una influenza orfica. 2 Il
verbo φέρουσιν è al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel proemio
all’imperfetto (che indica abitualmente azioni continuate) e all’aoristo
(impiegato normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p. 14) l’uso del
presente sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con un viaggio
ancora davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse
effettivamente marcare delle sequenze temporali, costruendo un proemio in cui
nel canto (presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di rivelazione
(passato): rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria
attività, la scelta della via poetica (ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»).
G.A. Privitera ("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole di
Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di
scienza morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447- 464)
osserva come il Proemio sia «fondato sulla memoria» e «autobiografico»:
Parmenide avrebbe «elevato alla dignità di proemio una sua lontana esperienza».
A proposito dell'uso dei tempi verbali, il presente «mi portano» indicherebbe
in particolare che sono state «le solite cavalle di adesso e di sempre ad
averlo indirizzato nel viaggio»; il successivo imperfetto πέμπον che l'azione è
avvenuta nel passato; il sostantivo κοῦρος (v. 24) segnalerebbe l'età in cui il
viaggio fu intrapreso. (p. 449). 3 Traduciamo θυμός come «desiderio», ritenendo
che il termine greco, nel contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore
di «slancio», ovvero – ma il significato appare più generico - di «animo». È
plausibile che θυμός si riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che
parla: il termine, tuttavia, può essere simbolicamente collegato anche allo
sforzo della corsa delle cavalle (Coxon, p. 157). Secondo Chiara Robbiano
(Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag,
Sankt Augustin 2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero
all'inizio del viaggio verso la rivelazione, la scelta di θυμός nell’apertura
del poema suggerirebbe come la guida possa dirigere all’obiettivo solo se si è
già motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo. 4
L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè
un’indefinita frequenza (dunque: «giunge»), ma nella poesia omerica è attestato
un uso potenziale (senza ricorso alla particella ἄν: Robbiano, op. cit., pp.
65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche Mourelatos
(The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments,
Yale University Press, New Haven – London 82 mi guidavano5 , dopo che,
conducendomi, mi ebbero avviato6 sulla via7 ricca di canti8 1970, p. 17, n. 21)
sottolinea – sulla scorta di precedenti omerici - che la modalità rilevante è
quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala come la metafora del moto del
pensiero, paragonato al moto traslatorio, sia molto radicata nell’immaginario
greco arcaico. 5 Il verbo greco è all’imperfetto (πέμπον): l'uso di imperfetto
durativo e participio presente (φερόμην v. 4, τιταίνουσαι v.5, ἡγεμόνευον v. 5)
denoterebbe che l'apertura del proemio proietta al centro dell'azione in corso;
le forme dell'aoristo (βῆσαν v. 2, προλιποῦσαι v. 9), secondo uno schema
ricorrente in Omero (O’Brien, p. 8), indicano, per contrapposizione, quanto
precede. Conche interpreta πέμπον come “imperfetto storico”, optando dunque per
una traduzione con il presente indicativo. Ferrari, nella sua analisi del
proemio (F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza
dall’Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 104; ora anche Il
migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne,
Roma 2010, p. 162), ha sottolineato come l’intreccio dei verbi al presente e
all’imperfetto sembri evidenziare la continuità tra il presente e il ritorno
dall’oltretomba. 6 Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102) coglie
in questo passaggio un’eco dell'iniziazione poetica di Esiodo: ciò che
Parmenide intenderebbe suggerire è che le cavalle (figure dello slancio
interiore del poeta) del suo θυμός lo hanno avviato sulla via poetica
(connotata come ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»), che gli permetterebbe di
comunicare la rivelazione ricevuta nell’Ade. Parmenide porrebbe in primo piano
il risultato dell’incontro con la divinità iniziatrice. 7 La ὁδὸς πολύφημος
δαίμονος, ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα è contrapposta – secondo Cerri (p.
170) – alla strada pubblica, frequentata da tutti (secondo precedente omerico).
Possiamo individuare nel rilievo la possibile eco di un precetto pitagorico
riferito da Porfirio: τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade
popolari»). Maria Michela Sassi ("Parmenide al bivio", in «La Parola
del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 383- 396) – accostando sistematicamente il
Proemio ai frammenti di letteratura orfica, alle laminette e ai miti
escatologici platonici – interpreta l'espressione come indicante la via che precede
la porta dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea (p. 387):
simbolicamente vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di
iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini "tecnici" come εἰδώς
φώς o κοῦρε. Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come
rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo
cammino per giungere propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è
richiedo l'intervento di δαίμονες come ἡγεμόνες. 83 della divinità9 che10 porta
† ... †11 l’uomo sapiente12 . Ma l'espressione potrebbe più semplicemente
riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea), proposta in un
contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di πολύφημος). O ancora, come
sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides & Presocratic
Philosophy, O.U.P., Oxford 2010, p. 56) in relazione al contesto, essa potrebbe
designare il percorso che il carro del Sole deve tracciare ogni giorno. 8 Il
termine πολύφημος è qui reso in senso attivo, a indicare l’abbondanza di canti,
leggende, ma anche voci, suoni e informazioni: si tratta del valore più antico,
omerico, riferito per esempio a una piazza (che risuona di voci e rumori), come
di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102).
Diels e altri decidono invece di tradurre, sottolineandone il valore passivo,
come «molto celebrata». 9 Il termine δαίμων (maschile o femminile, secondo i
contesti) potrebbe riferirsi al successivo (v. 22) θεά: alla Dea interlocutrice
del poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., pp.
106-7): riferendo il successivo pronome ἣ alla divinità (e non alla via), egli
osserva che «il ritmo stesso del verso» suggerisce di considerare la relativa
come «una perifasi che sollecita l’identificazione della daimôn». In tal senso,
essa non coinciderebbe né con la divinità in genere (come crede invece Cerri,
il quale traduce ὁδὸν δαίμονος come «strada divina»), né con Dike, né con la
θεά del v. 22: i paralleli omerici ed esiodei inducono a credere che questa
divinità femminile, che guida su un carro condotto dalle figlie del Sole
«l’uomo sapiente», sia da identificare con Ἡμέρη, la figlia di Notte, ovvero Ἠώς,
Aurora. In Odissea XXIII.241-246 troviamo Aurora condotta attraverso l’Etere
dai cavalli «che portano luce ai mortali», un possibile modello per Parmenide.
Il genitivo è da considerare possessivo. Un’alternativa suggestiva – richiamata
dal successivo coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - è
quella secondo cui l’allusione sarebbe al Sole, sul cui carro il poeta starebbe
viaggiando (Leszl, p. 147). 10 Mantengo l’ambiguità di riferimento del relativo
ἣ: alla Dea o alla via (ὁδός): l’analisi convincente di Ferrari spinge nella
prima direzione, ma la nostra soluzione lascia aperta la possibilità che il
relativo possa riferirsi a un tempo alla divinità – Helios, il Sole – e al
tracciato celeste che essa percorre quotidianamente. 11 Abbiamo già segnalato
in nota al testo greco il problema della corruzione del passo. Le principali
proposte degli editori: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (Diels, seguito da molti),
«per tutti i luoghi» ovvero, letteralmente, «per tutte le città»; κατὰ πάν ταύτῃ
(Cordero), «là riguardo a tutto»; Conche, che accoglie la proposta di Cordero,
interpreta tuttavia ταύτῃ non come forma avverbiale, bensì come dativo del
dimostrativo femminile, riferito a ὁδός; κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν
> (Coxon), «through every stage straight onwards»; 84 Su questa via13 ero
portato14, su questa via mi portavano15 molto avvedute16 cavalle, κατὰ πάντ’ ἃ
τ’ ἔῃ (Cerri), «per tutte le cose che siano». Ferrari (op. cit., nota p. 114)
ha sostenuto a più riprese l’opportunità di recuperare la lettura κατὰ πάντ’ ἄ
< σ > τη, «come emendamento anche se non più come lezione tramandata». In
questo caso sarebbe tuttavia necessario tenere ben distinta la ὁδός πολύφημος
δαίμονος dell'apertura del proemio da quella di cui proprio la Dea sottolinea
il fatto che è ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου («lontana dalla pista degli uomini»).
12 L’espressione greca εἰδὼς φώς si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner,
Burkert), alla figura dell’«iniziato», secondo la terminologia propria della
tradizione misterica: «espressione quasi tecnica in tal senso», come nota la
Sassi (op. cit., p. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per
altri (Fränkel, Tarán), invece, all’uomo che già conosce la via per averla
percorsa; Coxon e Cerri insistono sul riferimento alle competenze e conoscenze
preventivamente richieste per la piena conquista della verità. Di diverso
avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die
menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 226-7), il quale, partendo da
Senofane B34, sottolinea come εἰδώς abbia un valore legato all’esperienza
visiva, che si conserverebbe in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica
è dunque legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine εἰδώς dovrebbe
rendersi allora come «[l’uomo] che ha visto» ovvero «che ha conoscenza». Nella
stessa direzione si è mosso Ferrari (op. cit., pp. 102 ss.), il quale
sottolinea come la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita
al poeta narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano
già avvenuti. La qualifica di εἰδώς indica, infatti, ancora in Aristofane e
Euripide, la condizione del «miste», di colui che ha ormai superato la prova
dell’iniziazione. L’immagine del sapiente che per il mondo diffonde con la
paola poetica la verità conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la situazione
(e la condizione del poeta) a un tempo successivo all’incontro con la θεά. 13
Intendo la forma avverbiale τῇ (ταύτῃ), ribadita nello stesso verso, come se si
riferisse non a un luogo determinato ma alla via lungo la quale il poeta è
condotto: «lungo questa via», dunque, o al limite «qui». Scegliendo di tradurre
in questo modo e non come per lo più si fa («là»), intendo marcare questa
sequenza – concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla successiva, che
si apre (v. 11) con un altro locativo (ἔνθα) e che propriamente introduce alla
rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal momento che τῇ può
rendersi tanto con «qui» che con «là», le indicazioni di luogo, analogamente ai
tempi verbali, possono avere un'incidenza nell’interpretazione complessiva.
Abbiamo scelto una perifrasi, cercando di conservare, anche in questa
occasione, l'ambiguità: «questa via» 85 [5] trainando il carro17: fanciulle18
mostravano la via. Nei mozzi emetteva un sibilo acuto19 l’asse, può riferirsi
alla via su cui al momento si muove il poeta nella sua missione pubblica,
ovvero la via al centro del successivo racconto. 14 Le due forme verbali del
verso – φερόμην e φέρον – sono imperfetti in diatesi passiva e attiva:
sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle) e il privilegio di essere
trasportato (del poeta). 15 Si tratta dell’ennesima ripetizione di una forma
del verbo φέρω nei versi iniziali. Tale ripetizione, sottolineata dagli
interpreti, è intesa da alcuni (Mourelatos, p. 35) come un difetto, un limite della
poesia di Parmenide, da altri (P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom,
Duckworth, London 1999, p. 135), invece, come mezzo per incidere sull’audience:
la ripetizione sarebbe «una tecnica per creare un effetto incantatorio».
Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 124), essa avrebbe essenzialmente una
funzione retorica: preparerebbe l’audience al concetto di guida, centrale nel
«second journey», cioè nel viaggio intrapreso, appunto sotto la direzione della
Dea, verso la verità. 16 L’aggettivo πολύφραστοι, riferito alle cavalle,
significa letteralmente «che hanno molto da dire»: supponendo che πολύ comporti
intensità, si può rendere con «molto avvedute», «molto sagge». Parmenide vuole
forse sottolineare le affinità tra le cavalle e le guide cui si allude ai vv. 5
e 9. 17 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro trainato da cavalle o cavalli
sia chiara metafora della poesia, impiegata spesso nella lirica corale: il
poeta sul carro guidato dalle Muse è avviato all’itinerario espressivo più
adeguato all’occasione. D’altra parte anche lo sciamano mediatore tra uomini e
dei, come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha la capacità di lasciare in
trance il proprio corpo e viaggiare in cielo o nell’oltretomba, per
accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una
divinità. Il suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un carro volante:
frequentemente accostata a certi animali, come i cavalli, la figura dello
sciamano - spesso poeta o cantore - narra in prima persona le sue esperienze
celesti. L’associazione con le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti (v. 9)
alla «dimora della Notte» (δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla «porta dei sentieri di
Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων) suggeriscono un nesso tra
il carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile
contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al
carro di Hades. 18 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi. 19 Così
traduciamo σύριγγος ἀυτήν, letteralmente «lamento di siringa [organetto a
canne]». Ferrari rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto
dall’asse nella sua rotazione all’interno delle sedi (χνοῖαι) che lo fissano al
carro. Kingsley (op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche
(Ippolito, Plutarco, Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a
86 incandescente20 (poiché era mosso da due rotanti cerchi da ambo i lati),
mentre si affrettavano21 a scortar[mi]22 le fanciulle Eliadi 23, avendo
abbandonato24 la dimora25 della Notte resoconti di incubation, cioè a
esperienze di trance: uno dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso
stadio di consapevolezza (tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della
σῦριγξ. 20 L’aggettivo αἰθόμενος letteralmente «infiammato», ma anche «surriscaldato».
21 L’ottativo σπερχοίατο avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e altri, valore
iterativo (come ἱκάνοι, v. 1). O’Brien (p. 10), invece, ne rileva – sulla
scorta di analoghe espressioni omeriche – l’uso per designare semplice
concomitanza di azioni. 22 Il testo greco non riporta alcun complemento
pronominale, ma è ovviamente da sottintendere, come nel precedente v. 4, che
πέμπειν si riferisca al poeta. Coxon (p. 161) fa osservare come il soggetto di
πέμπειν - e quindi anche della conduzione del carro del poeta - a questo punto
non siano più le cavalle ma le Eliadi. 23 L'espressione greca Ἡλιάδες κοῦραι
determina il precedente (v. 5) uso indefinito di κοῦραι: si tratta delle
Eliadi, le figlie del Sole. In Omero (Odissea XII.127-36) esse attendono
all'immortale bestiame del genitore, ma nel mito, cantato in un frammento
esiodeo (fr. 311 Merkelbach-West) e ripreso in un'opera perduta (Ἡλιάδες,
appunto) di Eschilo (alla cui rappresentazione in Siracusa Parmenide potrebbe
aver presenziato, secondo quanto ipotizza A. Capizzi, "Quattro ipotesi
eleatiche", «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; il
riferimento a p. 52), sono direttamente coinvolte nella drammatica vicenda del
fratello Fetonte, al quale consegnano il carro del Sole, all'insaputa del
padre. In questo modo esse sono corresponsabili della sua impresa punita
dall'intervento di Zeus con la morte di Fetonte. Per punizione Zeus le mutò in
pioppi: le loro lacrime si trasformarono in ambra. Nel contesto è significativo
ricordare che la prole del Sole è connotata nell’universo mitico in termini
sapienziali (Cerri, p. 173), e, d'altra parte, appariva funzionale all'economia
del racconto, del viaggio e della rivelazione. 24 Il participio aoristo προλιποῦσαι
– secondo il precedente omerico - indica il punto di partenza dell'azione
corrente (la conduzione del poeta da parte delle Eliadi). La «dimora della
Notte» - luogo di soggiorno alternato di Notte e Giorno – è, dunque, naturale
luogo di destinazione delle Eliadi che accompagnano il poeta. 25 Il termine δώματα
è al plurale («case»), probabilmente per accentuare le dimensioni della casa
della Notte. L’espressione δώματα Nυκτός richiama l’analoga Nυκτός οἰκία
esiodea (Teogonia, 744) e fa pensare, dunque, a una collocazione nell’abisso
del mondo infero (che in Esiodo domina sulla 87 [10] verso la luce26, rimossi
con le mani i veli dal capo27 . prigione dei Titani): la casa della Notte - in
cui alternativamente soggiornano Notte e Giorno – è probabilmente situata,
oltre la porta presso cui essi si danno il cambio, nel χάσμα sottostante. In
questo senso potrebbe leggersi l'indicazione del v. 11 a «i battenti dei
sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων). Mantenendo
il riferimento esiodeo, sembrerebbe quindi che Parmenide alluda in questi passaggi
non a una locazione genericamente ai limiti occidentali della Terra, ma a una
direzione sotterranea, verso le regioni del Tartaro e dell’Ade (Cerri, p. 173).
Nella letteratura orfica (fr. 105 Kern) abbiamo attestata l'espressione ἐν τοῖς
προθύροις τοῦ ἄντρου τῆς Νυκτὸς («sulla porta dell'antro della Notte»). Da
notare che, in questo caso, l'«antro» è sorvegliato da Dike, Adrasteia e Nomos.
D’altra parte, le porte di Notte e Giorno potrebbero intendersi come le
omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.), sorvegliate dalle Ore: Dike - in
Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos, p. 15). È possibile, tuttavia, che
sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a una tradizione mesopotamica:
W. Heimpel ("The Sun at Night and the Doors of Heaven in Babylonian
Texts", Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51) ha mostrato come i testi
sumerici e accadici presentassero esattamente lo stesso immaginario celeste e
infero, con analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto al passaggio del
Sole, analoga descrizione dei loro meccanismi di apertura, analogo soggiorno
notturno presso un dimora locata tra mondo celeste e mondo infero (il Sole in
effetti avrebbe svolto anche funzioni di giudice oltremondano). Su questo
Palmer, op. cit., pp. 55-6. 26 L’espressione εἰς φάος può essere riferita a
πέμπειν (v. 8), nel senso di «scortare verso la luce», ovvero, come è più
naturale, a προλιποῦσαι (v. 9), scelta preferibile, anche per la prossimità del
collegamento. Quindi: «[le fanciulle Eliadi] abbandonata la dimora della notte
[muovendo] verso la luce». In ogni caso la costruzione appare intenzionalmente
ambigua e l'interpretazione è stata spesso condizionata dalla punteggiatura:
DielsKranz, per esempio, inserivano la virgola prima di εἰς φάος, forzando il
suo riferimento a πέμπειν. L’espressione è ricca di implicite possibilità
simboliche: un viaggio verso il regno della luce è metafora appropriata per una
esperienza di illuminazione (Mourelatos, p. 15) ovvero di rivelazione; ma
potrebbe richiamare il fatto che il poeta accede all’αἰθήρ, alla estrema
regione di fuoco dell’universo fisico, di cui la dea innominata successivamente
(v. 22) citata sarebbe personificazione (Coxon, p. 163). Ma la luce potrebbe
anche rappresentare il nostro mondo, se interpretiamo il racconto come
resoconto di un νόστος, di un periglioso viaggio di ritorno dal mondo dell’Ade,
dove il poeta ha ricevuto la rivelazione (così Ruggiu, pp. 162-3). Cerri (p.
173) segnala come l’espressione ricorra in altri testi arcaici, per indicare
l’«azione portentosa del riemergere dall’Ade». Ferrari (op. cit., pp. 101-2)
con buoni argomenti sostiene questo tipo di lettura: nel 88 Là28 sono i
battenti29 dei sentieri30 di Notte e Giorno: proemio il tempo del racconto
scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale alla luce precederebbe il racconto
della catabasi nel regno della Notte. Secondo Privitera (op. cit., p. 460),
invece, proprio l'indicazione προλιποῦσαι δώματα Nυκτός εἰς φάος
rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e scoglio funesto, contro cui è
destinata a naufragare ogni interpretazione catabatica del viaggio di
Parmenide». 27 Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta nelle tenebre: καὶ
Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι E di Notte
oscura la casa terribile s’innalza di nuvole livide avvolta (Teogonia 744-745).
Nella stessa opera, le Muse sono introdotte come figure notturne: ἔνθεν ἀπορνύμεναι
κεκαλυμμέναι ἠέρι πολλῷ ἐννύχιαι στεῖχον Di là levatesi, nascoste da molta
nebbia, notturne andavano (Teogonia 9-10). I due passi, che non sono sfuggiti a
Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a illustrare il moto e i gesti delle
Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide. Anche Palmer (op. cit., p. 57)
suggerisce l'accostamento. 28 Cerri (p. 174) segnala come l’avverbio locativo ἔνθα
ricorra nella tradizione epico-teogonica in relazione all’Ade come connotazione
aggiuntiva. Nella lettura di Ferrari, a questo punto comincia «il resoconto
dell’esperienza oltremondana» (p. 103). 29 Il testo greco presenta il plurale
πύλαι, letteralmente «piloni» ovvero i pilastri che sorreggono un grande
portale a due battenti (su questo punto si leggano le osservazioni di O’Brien,
p. 11, e Conche, p. 49). Altri (Cordero 1984, p. 180, Coxon, pp. 161-2)
riferiscono il plurale a due porte distinte, una in faccia all’altra: Coxon,
per esempio, seguendo le letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede
che le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per le quali le anime sono
condotte, rispettivamente, a discendere εἰς γένεσιν («alla generazione,
incarnazione») e ad ascendere εἰς θεούς (verso le divinità), in altre parole a
viaggi di genere opposto. Il verso successivo sembra tuttavia smentire tale
lettura. In Omero è attestata l'espressione πύλαι Ἀΐδαο (Iliade V, 646; IX,
312; Odissea XIV, 156) per indicare i cancelli che immettono al mondo infero;
uso analogo (Ἄιδου πύλαι) nella tragedia eschilea. Secondo Privitera (op. cit.,
p. 453), che ricostruisce l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i
versi di Omero, Esiodo, Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il
quadro che 89 architrave e soglia31 di pietra li incornicia32; emergeva dalla
tradizione unificando quelle che erano in precedenza due porte distinte: la
Porta dell'Ade (attraverso cui si davano il cambio Notte e Giorno) e la Porta
del Sole (attraversando la quale, a occidente, l'astro trascorreva, sul bordo
dell'Oceano, verso una porta orientale, per tornare a risplendere all'alba).
Secondo lo studioso italiano, Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte
e del Giorno sulla Terra e l'avrebbe unificata con la Porta del Sole
(sdoppiandola dunque in una porta occidentale e in una orientale): la Porta
varcata dalle Eliadi riassumerebbe allora la doppia funzione nella tradizione
distribuita tra Porta del Giorno e della Notte e Porta del Sole. 30 Già negli
usi omerici e nella tragedia eschilea, il termine κέλευθος può indicare,
secondo il contesto, «via», «sentiero», «strada», ma anche ciò che viene
effettuato lungo quella via, cioè «viaggio» ovvero «spedizione». Il plurale
κέλευθα potrebbe rendersi in questo caso, mediando tra i due significati
segnalati, come «percorsi», come suggerisce anche Ferrari (op. cit., p. 109):
si tratta in effetti degli itinerari compiuti da Giorno (Ἡμήρη) e Notte (Νύξ).
La Sassi (op. cit., p. 388) fa notare come la porta, presso cui si incontrano e
attraverso cui accedono alternativamente al cosmo Giorno e Notte, dia accesso a
un «luogo mitico, analogo al Tartaro», dove, come in Esiodo (Teogonia 736 ss.)
è situata la «dimora della Notte». 31 L’Olimpica VI di Pindaro si apre con un
analogo riferimento alla soglia (οὐδός), a indicare l’esordio del canto. In
relazione alla espressione πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων è probabile che
οὐδός sia da intendere come entrata del mondo infero, accettando il
suggerimento di Cerri (p. 175) di accostare il passo parmenideo ai versi
esiodei di Teogonia 748-751: […] ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσονἰοῦσαι ἀλλήλας
προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται,
οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα
γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν
ἵκηται […] là dove Notte e Giorno incontrandosi si salutano, al momento di
varcare la grande soglia di bronzo, l’uno per scendere dentro, l’altra per la
porta se ne va, né mai entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé, ma
sempre l’uno, fuori della casa, la terra percorre, l’altra, dentro casa,
attende la propria ora di viaggio, finché non giunga. 90 essi, alti
nell’aria33, sono agganciati34 a grande telaio35 . Nel poema di Parmenide
troviamo λάινος οὐδός invece di χάλχεος οὐδός, come appunto in Esiodo e Omero
(Iliade VIII, 15). Secondo Cerri (p. 176) la correzione nell’uso dell’aggettivo
potrebbe essere dettata dalla finalità del poema fisico dell’Eleate: la
collocazione nelle viscere della terra avrebbe consigliato «pietrigna»
piuttosto che «bronzea». 32 Rendiamo ἀμφὶς ἔχειν come «incorniciare»: il poeta
intende segnalare i limiti verticali (la soglia e l'architrave appunto) della
struttura, che, così descritta non può essere propriamente un cancello ma un
vero e proprio portale. Sembra da escludere anche la possibilità delle due
porte. 33 L’aggettivo αἰθέριαι si riferirebbe, secondo una certa tradizione
interpretativa (Deichgräber, Coxon), alla collocazione della porta nella
regione estrema del cielo; per altri, più semplicemente, il poeta
sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale (Cerri: «battenti che
toccano il cielo»; Ferrari: «alta fino al cielo»). Alcune traduzioni (Tarán,
O’Brien) privilegiano il valore materiale dell’aggettivo, dunque la natura
eterea della porta: è vero però che Parmenide marca che essa è di pietra.
Proprio con l’incrocio lessicale di pietra ed etere egli potrebbe allora
suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo (Leszl, p. 151). La
scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op. cit., p.
453), perché rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per varcare non è
quella dell'Ade, la cui volta è descritta da Esiodo come sottostante il
soffitto del Tartaro. Al contrario, la PellikaanEngel (op. cit., p. 57) ritiene
che l'espressione αἰθέριαι πύλαι potrebbe essere ripresa sintetica del verso
esiodeo: τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν Di fronte a essa il figlio
di Iapeto tiene il cielo ampio (Teogonia 746). Il riferimento ad Atlante, che
con i piedi piantati per terra solleva il cielo con testa e braccia, potrebbe
(come vuole Burkert) essere avvalorato proprio dall'uso di λάινος οὐδός
(«soglia di pietra») in relazione a αἰθέριαι πύλαι, quasi a indicare gli
estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide potrebbe dunque aver
avuto Esiodo come modello per la sua porta dei «sentieri di Notte e Giorno»,
replicando l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel, op. cit., pp. 57-8).
34 La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale πλῆνται ha ingannato gli
editori: normalmente la si riferisce a πίμπλημι («riempire»), ma, come ha con
acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a πίλναμαι («avvicinarsi»),
di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto medio (πέπλημαι).
Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro contesto. 91 Dike36,
che molto castiga37, ne38 detiene le chiavi dall’uso alterno39 . [15] Placandola40,
le fanciulle, con parole compiacenti, 35 Anche in questo caso molti editori
sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il significato tecnico del termine
θύρετρα, che è plurale tantum usato anche come variante di θύρα («porta»), ma
il cui valore primario è «telaio [della porta]», come correttamente inteso da
Coxon e recentemente ribadito da Passa. 36 Nella tradizione omerica ed esiodea,
Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore, sorelle delle Moire, figlie di
Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V, 749; VIII, 393) era quello di
sorvegliare le porte del Cielo. È significativo che anche Eraclito (DK B94)
alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti del corretto percorso del
Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura di Dike è tradizionalmente introdotta
in relazione al rispetto dei confini: non a caso la ritroviamo a sorvegliare il
cancello che discrimina i percorsi di Giorno e Notte. Essa sarebbe responsabile
delle divisioni e distinzioni all’interno di natura e società (dei confini tra
parti e gruppi): in questo senso sarebbe garante di equilibrio (p. 157).
Tuttavia, come la studiosa correttamente segnala (p. 158), l’ordine cui
sovrintende la Dike parmenidea, rivelato nei versi successivi, non è quello
tradizionalmente inteso. 37 L’espressione Díkh πολύποινος è attestata nella
letteratura orfica (fr. 158 Kern), ma la datazione è incerta (Coxon, p. 163).
D'altra parte, come abbiamo già avuto modo di segnalare, Dike compare nella
stessa tradizione (fr. 105 Kern) come sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro
della Notte». Molto critico su questa prospettiva orfica Cerri (p. 104).
Certamente, come osserva Mourelatos (p. 15), la figura di Δίκη πολύποινος, che
tiene le chiavi (delle retribuzioni?), ricorda quella di una divinità
infernale. Ferrari nella stessa direzione traduce come «Dike sanzionatrice».
Nell'economia del racconto proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la
funzione di Dike sarebbe quella di permettere al poeta di accedere, vivo, alla
realtà oltremondana (Sassi, op. cit., p. 389). 38 L'interpunzione dell'edizione
Diels-Kranz autorizza a intendere il genitivo pronominale iniziale τῶν riferito
(come il pronome αὐταί, nella stessa posizione del verso precedente) a πύλαι.
39 L’aggettivo ἀμοιϐός – raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe
riferirsi al fatto che le chiavi consentono l’apertura alternata della porta
(Coxon, p. 164) ovvero al loro uso complementare (O’Brien, p. 11). Nel contesto
è probabile che il riferimento sia all’alternanza di Notte e Giorno: Dike
regolerebbe con la propria sorveglianza il passaggio del Sole. Questo potrebbe
spiegare la situazione drammatica di seguito descritta: non era in effetti
plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale viaggiatore. 40 Il verbo
πάρφημι (παράφημι) ha un valore simile al successivo πείθω, ed è spesso
associato all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo senso forse 92 [la]
persuasero41 sapientemente affinché per loro la barra del chiavistello
togliesse rapidamente dai battenti42. E questi43 nel telaio vuoto enorme44
produssero aprendosi, i bronzei cardini nelle cavità in senso inverso facendo
ruotare, [20] applicati per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46 , anche la
scelta del complemento μαλακοῖσι λόγοισιν, per sottolineare la gentilezza
dell'espressione. 41 Il racconto della (possibile) catabasi, introdotto con la
descrizione del portale al v. 11, ha qui il suo effettivo inizio, segnalato
dall’uso del primo aoristo (βῆσαν al v. 2 era stato utilizzato all’interno di
una subordinata), cui seguono quelli ai vv. 18, 22, 23. Il racconto, secondo
Ferrari cui si devono queste osservazioni (op. cit., p. 105), è prospettato
come premessa e ragione del “ritorno”, cui sono stati dedicati i versi iniziali
del proemio. 42 Un analogo repertorio di immagini, movimenti, meccanismi di
chiusura e apertura di portali, così come analogo superamento divino dello
stesso portale che discrimina mondo celeste e mondo infero a opera del Sole è
documentato negli antichi testi sumerici (per i quali si rinvia ancora a
Heimpel e Palmer, op. cit., pp. 55-6). 43 Anche in questo caso, come nei
precedenti ai vv. 13-14, il pronome ταί si riferisce a πύλαι. 44 L’espressione
χάσμ΄ ἀχανὲς sembra evocare il χάσμα μέγα esiodeo (in entrambi i casi χάσμα è
in relazione con il genitivo πυλέων), il baratrochaos che Esiodo nella Teogonia
(740) pone al di là della soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della
voragine al fondo della quale è collocata la prigione in cui, al termine della
titanomachia, furono rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151),
comunque, come non si abbia l’impressione che la porta di cui parla Parmenide
sia la porta di accesso alla casa della Notte. La Robbiano (p. 150), invece,
rileva la funzione drammatica dell’immagine, che si frappone, con la soglia
petrigna, tra la quotidiana esperienza mortale del viaggiatore e l’incontro con
la divinità. A rendere estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo
da parte di Parmenide contribuisce un dato significativo: il termine χάσμα non
ricorre in letteratura almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E.
Pellikaan-Engel, op. cit., p. 53). 45 A struttura e dinamica della “porta”
dedicano spazio i commenti di Diels e Conche, che si servono anche di opportune
illustrazioni a sostegno della spiegazione. 46 Seguiamo Ferrari nel rendere in
italiano la formula greca τῇ ῥα δι΄ αὐτέων, costruita con la particella
avverbiale locativa e il complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente
si dovrebbe tradurre: «Là, attraverso quella [porta]». 93 dritto condussero le
fanciulle lungo la via maestra47 carro e cavalli. E la Dea48 benevola mi
accolse: con la mano [destra] la [mia] mano 47 L'aggettivo (qui in forma
sostantivata) ἀμαξιτός, comunemente associato a ὁδός, indica la strada
attrezzata per il passaggio dei carri, quindi, derivatamente, una strada
principale. Secondo la Pellikaan-Engel (op. cit., p. 54), la scelta del termine
segnalerebbe che dalla porta al luogo dell'incontro con la Dea il percorso non
è breve. In questo senso potrebbe dunque approfondirsi la dimensione sotterranea
del viaggio. 48 Traduco θεά con «la Dea» per accentuarne il valore religioso:
mi pare plausibile alla luce del suo ruolo personale di interlocutrice
privilegiata, che guida, sollecita, espone, proibisce ecc.. Per
l'identificazione dell’anonima divinità, tra le proposte degli ultimi decenni è
interessante l’indicazione di Cerri (pp. 180-1): nelle città della Magna Grecia
(Locri, Posidonia e varie altre) erano diffuse iscrizioni alla «dea infera»,
«ninfa infera» o semplicemente «alla dea», in cui il riferimento era
chiaramente a Persefone. A conclusioni analoghe è giunto, indipendentemente,
Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.). Anche Passa ( p. 53) ha di recente
riconosciuto in Persefone la dea rivelatrice del poema. Secondo West (M.L.
West, La filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993, p. 289
n. 57), la θεά alluderebbe a Θεία (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle
Titanidi (come Temi), figlie di Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora
(371-4). Anche in Pindaro (Istmiche V.1) Θεία è invocata come «Madre del Sole».
Pugliese Carratelli (“La Θεά di Parmenide”, «La Parola del Passato» XLIII,
1988, pp. 337-346) ha proposto – sulla scorta di una laminetta orfica dedicata
a Μνημοσύνη, ritrovata nel 1974 a Ipponio – l'identificazione della dea appunto
con Mnemosyne (a sua volta una Titanide). La stessa ipotesi è avanzata su basi
analoghe da Sassi (op. cit., p. 393). Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia
di J.S. Morrison ("Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies»,
75, 1955, pp. 59-68) e W. Burkert ("Das Proömium des Parmenides und die
Katabasis des Pythagoras", «Phronesis», 14, 1969, pp. 1-30), ha di recente
concluso che la non meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che
Νύξ (Notte), variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In
particolare egli ha osservato come, nella tradizione epica, l’uso di θεά senza
ulteriori determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana
del portale, l’unica divinità nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit.,
pp. 58-61), seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su
Νύξ, giustificando la propria opzione non solo nel contesto del proemio, ma
rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al poema oggetto
di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari associate alla
figura di Notte nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan- 94 destra prese49, e
così parlava e si rivolgeva50 a me: O giovane51, che, compagno52 a immortali
guide53 Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva opposto a questa proposta di
identificazione l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era
quanto mai improbabile, proprio alla luce del precedente esiodeo. In
alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il Giorno), da Parmenide evocata
come Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos (op. cit., p. 161). Di
recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op. cit.,
pp. 461-2) ha proposto la Musa, portando sostanzialmente tre argomenti: (i) la
ricorrenza del termine θεά all'interno del proemio di un poema epico; (ii)
l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come θεά;
(iii) il costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema
"epico" di argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo che
questa δαίμων subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario
viaggio oltremondano tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove
l'iniziato è interrogato da «custodi» (φύλακες) presso la palude di Mnemosine
(Sassi, op. cit, p. 390). 49 Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a
testimonianze vascolari che ritraggono Persefone nell'atto di accogliere
nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro appunto la mano destra. 50 Il verbo
greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo προὔπεμπε (v. 26:
«spingeva»): i verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una missione sono
impiegati all’imperfetto perché implicano uno sforzo e indicano il punto di
partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire» (O’Brien, p.
8): la forma epica φάτο, in effetti, può essere anche imperfetto. 51 Il termine
vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del poeta,
potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella umana degli
interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e ionica di κόρος), relativamente
raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto all’anziano, sia il
figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può implicare anche un
legame particolare con la divinità, dal momento che κοῦρoι erano chiamati i
giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei (negli inni omerici a
Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso, il termine sarebbe
titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fa notare come l’appellativo
sia coerente con il contesto educativo, giustificando la disponibile e benevola
accoglienza della dea. La Sassi (op. cit., p. 387) associa l'appellativo κοῦρε
a εἰδὼς φώς, come espressione legata a una prospettiva iniziatica. 52 Il
termine συνάορος non significa semplicemente «accompagnato da», ma «associato
a», «collegato a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente ambigua da
accoglierne le sfumature. Etimologicamente è connesso a συναείρω («aggiogare»),
con il significato immediato di «aggiogato insieme»: anche in questo caso,
dunque, è evidente il debito del proemio 95 [25] e cavalle che ti conducono,
giungi alla nostra casa54 , rallegrati, poiché non Moira55 infausta ti spingeva
a percorrere questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli
uomini57), ma Temi58 e Dike 59 . Ora60 è necessario61 che tutto62 tu63
apprenda64: parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa, p. 137). Da
sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del κοῦρος in
questo modo un «compagno» delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come κοῦραι.
Secondo Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles
1986, p. 93), il rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle
Eliadi – κοῦραι - e del poeta - κοῦρος. 53 Il sostantivo maschile ἡνίοχος
designa chi guida un carro, l'«auriga»; derivatamente è utilizzato anche per
indicare chi governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e
governa. Nel contesto il termine si riferisce alle Eliadi. 54 Secondo Ferrari
(op. cit., p. 107), l'espressione ἡμέτερον δῶ («la nostra casa») richiamerebbe
δώματα Nυκτός («la dimora della Notte») del v. 9, spingendo alla conclusione
che la Dea sia da identificare appunto con Νύξ. 55 In Esiodo abbiamo tre Moire,
figlie di Zeus e Temi. L’espressione μοῖρα κακή ricorre in Iliade XIII, 602 per
indicare la morte: nel contesto, dunque, essa potrebbe alludere a un luogo
preciso dell’incontro con la divinità: l’oltretomba. In questo senso Cerri e
Ferrari traducono come «sorte maligna»: i traduttori, in effetti, per lo più
preferiscono associare al termine, nel nostro contesto, il valore di «fato» o
«destino». Così intende anche la Sassi (op. cit., p. 389). 56 L'espressione
τήνδ΄ ὁδόν sottolinea, con il dimostrativo, il privilegio del κοῦρος: a partire
dalla prima evocazione (vv. 2-3) della ὁδός πολύφημος δαίμονος, il tema della
strada/via è rimasto dominante sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato
lungo l'itinerario del poeta. 57 Conche (p. 60) osserva che il riferimento
coinvolge costumi, abitudini, modi di pensare diffusi tra gli uomini. È
probabile ritrovare in questo passaggio un’eco del precetto pitagorico
conservato da Porfirio (e sopra citato proprio in relazione alla ὁδός πολύφημος
δαίμονος dei vv. 2-3): τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade
popolari»). 58 In alternativa: «norma divina», ovvero «legge» (θέμις). Temi era
una delle Titanidi, figlie di Urano e Gea, madre delle Moire e delle Ore,
nonché una delle spose di Zeus. 59 Complessivamente il coinvolgimento di Temi e
Dike sembrerebbe essere proposto a garanzia della eccezionalità dell’evento
rivelativo. Il riferimento a Temi potrebbe giustificare l’intervento delle
Eliadi presso Dike per persuaderla ad aprire una porta che avrebbe altrimenti
dovuto rimanere 96 sia di Verità65 ben rotonda66 il cuore67 fermo68 , serrata
per un mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee nelle
parole della divinità innominata. Tenendo conto della associazione delle due
dee con la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento proietta e
impone sulla successiva “rivelazione” una forte impronta d’ordine e di
necessità (cosmici). In questo senso Tonelli, nella sua edizione dei frammenti
(p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike, unitamente ad Ananke (Necessità),
rappresenterebbero «la divinità femminile nella sua dimensione di norma
cosmica». 60 Pochi traduttori traducono la particella δέ. Ferrari le riconosce
valore avversativo («Ma»), altri continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano
(«also»), Tonelli («e»). L'introduzione della particella non è legata forse
solo a ragioni di equilibrio metrico, ma anche al senso della rassicurazione
iniziale della Dea: ella dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino,
quindi sottolinea il compito che lo aspetta. 61 Il termine χρεώ è associato
nell'epica a χρειώ, che nelle fasi antiche dell'epica era utilizzato come vero
e proprio nome femminile: nel corso del tempo esso fu trattato come un neutro.
Analogamente χρεώ, che, preso il posto di χρειώ, finì per diventare un sinonimo
di χρή (Passa, p. 77-8). La formula (con copula sottintesa) χρεώ rende una
necessità soggettiva, dunque opportunità, convenienza, piuttosto che una
costrizione oggettiva: si potrebbe rendere anche con «è giusto», «è opportuno».
In ogni modo, l’uso di tale formula implica che quanto la Dea sta per esprimere
è parte del compito, del dovere che il viaggiatore deve assumere (Robbiano, op.
cit., p. 75). Ferrari (op. cit., p. 104) giustamente osserva come il kouros per
la dea sia in fondo solo un «apprendista» (apostrofato appunto come κοῦρε). 62
La scelta del pronome neutro plurale πάντα («tutto», ovvero «tutte le cose») è
significativa perché garantisce al programma della comunicazione (rivelazione)
della Dea un orizzonte di verità piena, totale, giustificandone le
articolazioni annunciate negli ultimi versi. 63 L'insistenza sui pronomi
personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto la polarità
«tu» e «io», in contrapposizione ai «mortali»). 64 Il verbo πυνθάνομαι ha il
valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni)» ovvero
«imparare per indagine». Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva
ricezione, sia di attiva ricerca («di tutto fare esperienza»). 65 Secondo Coxon
(p. 168) il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non significherebbero nel
contesto del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e «reale». Di recente Palmer
(op. cit., pp. 89-93) ha rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce
con «Realtà». Nel suo Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik
(Auer, Donauwörth 1979, pp. 33 ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della
preistoria del termine, come 97 ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e
non dimenticanza) suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e
soggettivo di verità: ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe per esempio a significare
«riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto». In
effetti, in Omero ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi:
Gloria Germani ("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato»,
vol. XLIII, 1988, pp. 177-206) ha sottolineato in questo senso la «peculiarità
sintattica» del termine nella individuazione del processo unitario che connette
soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe infatti il riferimento a
chi parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale
manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui «conoscere
e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185). In effetti, già Aristotele,
riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3), poteva
sottolineare: αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν,
τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον la causa di questa opinione presso
di loro è che essi certamente ricercavano la verità intorno agli esseri, ma
supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili. L'accostamento
verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori presocratici è
ribadito in Aristotele, per esempio: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν
ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων Coloro che per primi hanno ricercato secondo
filosofia, indagando la verità e la natura degli enti (Fisica I, 8 191 a25). Ma
rispetto al nostro contesto è significativo, come ha fatto notare Leszl (p.
16), il fatto che, a un certo punto, in relazione alle opere di Melisso e
Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate, accanto alla
corrente indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί τοῦ ὄντος e
περί τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della inadeguatezza della
tradizionale titolazione). Passa (p. 53), che interpreta il proemio come
itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che esso contiene «la
rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da Parmenide»: Ἀληθείη,
in questo senso, sarebbe «figura del contenuto essenziale rivelato dalla dea,
assurto esso stesso a ipostasi divina». Come segnala l'autore, per altro,
Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei reperti archeologici (placche
d'osso) recuperati a Olbia Pontica. 98 È allora da soppesare con attenzione
l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina appena introdotta il perno
simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea del problema della verità,
dopo la profonda incrinatura dell'orizzonte arcaico, soprattutto a opera di
Senofane: il tema dell'accesso alla verità potrebbe fungere da chiave di
lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso proemio). Su questo
punto ancora la Germani, op. cit., pp. 186-7. 66 Accogliendo la lezione εὐκυκλέος
rendiamo letteralmente con «[Verità] ben rotonda». Effettivamente ci sarebbero
buone ragioni per l'adozione di εὐπειθέος, se si potesse senza problemi
tradurre come «persuasiva» (o «ben persuasiva»). Nel verso successivo si
rileverà come nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας) non vi sia «vera
credibilità» (πίστις ἀληθής): con una inversione, Parmenide passerebbe da una
«verità» (ἀληθείη) «persuasiva [credibile]» (εὐπειθής) a una «vera» (ἀληθής)
«credibilità» (πίστις). In B2.4, la Dea rimarcherà come la via «che è» (ὅπως ἔστιν)
sia «sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), in quanto «a Verità si
accompagna» (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). In conclusione della sua esposizione della
verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile
e al pensiero intorno alla verità. È indiscutibile l'insistenza parmenidea sul
nesso tra ἀληθείη e πειθώ, che in B2 sono proposte sostanzialmente come
ipostasi divine. Il vero problema dell'opzione εὐπειθέος è che il significato
antico dell'aggettivo εὐπειθής – attestato ancora in Platone e Aristotele - è
quello di «obbediente» «disponibile/pronto all'obbedienza»: il significato di
«persuasivo» è posteriore. Nell'economia del poema, anche l'aggettivo εὔκυκλος
– attestato sia in Pindaro sia in Eschilo – è comunque denso di implicazioni,
soprattutto in relazione ai versi del poema più citati in assoluto
nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a un'immagine: εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ («simile a massa di ben rotonda palla»). 67 Il
sostantivo ἦτορ era impiegato prevalentemente per animali, uomini, dei, quindi
in senso non astratto: il suo significato sarebbe vicino a quello di θυμός, per
veicolare l’idea di un’attività intellettuale emotivamente tonalizzata. In
Omero il termine ἦτορ (insieme a κραδίη), come θυμός, sembrerebbe coinvolgere
soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È significativo che
Parmenide opti di correlare Ἀληθείη a ἦτορ, la verità all’uomo che la deve
conoscere (Stemich, op. cit., pp. 78-80): nella letteratura arcaica ἦτορ è
piuttosto 99 [30] sia dei mortali le opinioni69, in cui non è reale
credibilità70 . connesso al corpo (Passa, p. 52). Il termine ἦτορ può indicare
la «coscienza vigile» («un cuore di bronzo», in Omero), da cui la fermezza
rilevata da Parmenide, ma anche la parte essenziale dell’uomo: in riferimento
al Tutto, la «verità ben rotonda», compiuta, perfetta (Ruggiu, p. 199). R.B.
Onians (The Origins of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951, p. 106) vi
vede racchiusa «la sostanza della coscienza», cui è associata la sede del
linguaggio. Questo può significare che all'espressione Ἀληθείης ἦτορ Parmenide
intendesse far corrispondere la «sostanza conoscitiva e insieme linguistica del
messaggio in esso [poema] contenuto» (Passa, p. 53). 68 L'aggettivo ἀτρεμές
(letteralmente «che non trema»), variamente tradotto (per adeguarlo al
contesto) come «intrepido» (Ferrari), «saldo» (Reale), «incrollabile» (Cerri,
che rende però la formula ἀτρεμὲς ἦτορ come «il sapere incrollabile»),
suggerisce immobilità, saldezza (e in questo senso lo ritroveremo annoverato
tra i σήματα in B8.4). 69 Contrapposte alla Verità, la Dea propone βροτῶν δόξας
(«opinioni dei mortali»), insistendo sia sul tradizionale discrimine tra sapere
divino e ignoranza umana, sia sulla opposizione tra «l’uomo che sa» (εἰδώς φώς,
v. 3) e «i mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν B6.4): a dispetto dei
mortali che non hanno conoscenza, il kouros deve conoscere tutto. Per connotare
il punto di vista dei mortali, la dea (Parmenide) ricorre a un termine – δόξαι
– che, a differenza del mero manifestarsi (φαίνεσθαι) e di una passiva
registrazione empirica, implica giudizio e accettazione (ancorché affrettati e
scorretti), opinione assunta attraverso una decisione, di cui, dunque, i
«mortali» non sono vittime ma responsabili. In questo senso Couloubaritsis, per
esempio, traduce con «considerazioni». È allora opportuno il rilievo di Conche
(p. 66): Parmenide evita di contrapporre la sua verità a quella degli altri, un
punto di vista ad altri alternativi. Il poeta, invece, è presentato come
portavoce di una divinità anonima, scevra della soggettività dei mortali,
impersonale: ella non è altro che la Verità stessa. Significativo
l’accostamento a Eraclito: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν
ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è
uno (DK 22 B50). Interessante il rilievo di Leszl (p. 37), in conclusione di un
lungo esame della nozione di ἀληθεια: δόξα indicherebbe a un tempo l’opinione
che abbiamo circa le cose e il modo in cui le cose si presentano a noi. 70 Il
termine greco πίστις conserverebbe – secondo Heitsch (Parmenides, Die Fragmente,
p. 95) – il valore di «prova, dimostrazione per credibilità o 100 Nondimeno71
anche questo72 imparerai73: come le cose accolte nelle opinioni74 fiducia» o
semplicemente di «prova, dimostrazione» (Beweis) sia negli oratori attici, sia
in Platone e Aristotele. Egli propone di utilizzare questo valore anche nel
contesto di B1. Palmer (op. cit., p. 92) osserva, invece, come πίστις sia in
questo passaggio impiegato con valore soggettivo, dunque nel senso di
«trustworthiness»: tale (non genuina) «credibilità» si riferirebbe, tuttavia,
non direttamente alle βροτῶν δόξαι, ma alla loro esposizione nel resoconto
della Dea. 71 Come segnala LSJ, la formula ἀλλ΄ ἔμπης - composta da
congiunzione avversativa (ἀλλά) e avverbio (ἔμπης) – è impiegata nel greco omerico
come sinonimo di ὅμως (all the same, nevertheless, «nondimeno»), più tardi con
valore più debole (at any rate, yet, «tuttavia, comunque»). Cordero (p. 32)
osserva come la formula ἀλλ΄ ἔμπης sia utilizzata in Omero per introdurre una
restrizione di senso rispetto a quanto appena enunciato: nel nostro contesto,
dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea intenderebbe sottolineare il
fatto che, a dispetto della loro non-verità, il kouros dovrà essere informato
sulle opinioni. La stessa convinzione era stata espressa da un altro grande
interprete di Parmenide, Tarán: i vv. 31-32 del frammento «show the purpose
that the goddess has in mind in asking Parmenides to learn the opinions of men
in spite [rilievo nostro] of the fact that they are false» (p. 211). 72 Il
pronome ταῦτα (letteralmente «queste cose») può indicare quanto precede
immediatamente, quindi riferirsi alle «opinioni dei mortali», ovvero
specificare ulteriormente πάντα («tutto», v. 28), riferendosi a quanto segue
(in funzione prolettica rispetto a quanto introdotto con ὡς). La prima
soluzione appare più naturale rispetto all'uso corrente, tuttavia è possibile
la lettura dei due versi finali con un futuro programmatico (μαθήσεαι) e una
proposizione dipendente introdotta per definirne gli obiettivi. In effetti,
come nota Cerri, nell’uso corretto greco, per anticipare quanto segue sarebbe
stato più naturale τάδε; ma, come dimostra M.C. Stokes (One and Many in
Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies, Washington 1971, p.
302 nota 27) con paralleli in Erodoto, l'uso contemporaneo non escludeva un
valore prolettico del pronome. Nella nostra lettura, la Dea, effettivamente, si
riferisce ancora alle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), i cui contenuti
(«le cose accolte nelle opinioni», τὰ δοκοῦντα) intende riscattare: ταῦτα,
quindi, a un tempo (e ambiguamente) evoca quel che precede, precisandone il
senso, e introduce l’ultimo punto del programma della rivelazione
(corrispondente alla seconda grande sezione del poema). 73 Il verbo μανθάνομαι
ha il valore di «imparare per esperienza o studio» (analogamente a πυνθάνομαι),
ma anche di «comprendere, discernere». 101 Patricia Curd (The Legacy of
Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University
Press, Princeton 1998, pp. 113-4) ha marcato le differenti implicazioni
semantiche rispetto al precedente πυνθάνομαι: πυνθάνομαι suggerisce che si
raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre μανθάνω suggerisce
piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto di giudizio. 74
Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα, cercando di salvarne
le implicazioni semantiche. L'espressione participiale τὰ δοκοῦντα indica le
cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono accolte nel giudizio
di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi, quanto del loro
contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano) in quei punti di
vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche τὰ ἐόντα (Ruggiu,
p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle opinioni», le cose
che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come è visto dai
mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα, di «correlati
intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai». Mourelatos (p. 204),
che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei termini greci in radice
dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα: «le cose che i mortali
ritengono accettabili», ma anche «le cose come i mortali [le] ritengono
accettabili». Parmenide intenderebbe, insomma, suggerire che i termini con cui
i mortali accettano o riconoscono le cose costituiscono l'identità propria
dell’oggetto della accettazione dei mortali. Brague (Études sur Parménide, t.
II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5) ricorda come in Simplicio ricorra la
formula τὸ δοκοῦν ὄν, «l’essere apparente», «ciò che sembra [essere] ente» in
contrapposizione a τὸ ὄν ἁπλῶς, «l’essere in senso pieno, assoluto». Una
formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere eco di una espressione
autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (op. cit., pp. 267 ss.), ribadendo il
doppio registro semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) - in una direzione rivolto
al discorso, in altra alla cosa - segnala il posteriore accostamento aristotelico
(Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di τὰ δοκοῦντα a τὰ ἔνδοξα e in genere
la convergenza insistita in ambito peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ e τὸ
φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ δοκοῦν rispetto all'altro termine
sarebbe tuttavia da rintracciare proprio nell'aspetto opinativo,
nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν («considerare») si
preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto legata alla parola e
all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene sviluppata nel poema. In
questo senso Couloubaritsis (op. cit., pp. 269-270) crede che l'espressione τὰ
δοκοῦντα rimandi alle cose in quanto designate dai mortali piuttosto che da
loro percepite. Più puntualmente: le cose che i mortali hanno designato per
spiegare il mondo in divenire. 102 era necessario75 fossero effettivamente76,
tutte insieme77 davvero esistenti78 . 75 L’imperfetto χρῆν seguito
dall’infinito può indicare un tempo reale del passato (pensando soprattutto
all’origine delle erronee opinioni mortali e all'alternativa proposta
esplicativa di Parmenide), ovvero un tempo irreale, del passato o del presente.
Nel contesto, come segnala Robbiano (p. 180), la forma verbale può riferirsi a
un requisito nel passato che o è stato o non è stato ottemperato. Ricordiamo
che nel greco arcaico il verbo esprime piuttosto convenienza che necessità
logica (quindi «è giusto, opportuno»). La concomitante presenza di δοκίμως
rende, secondo noi, più logico pensare che Parmenide intendesse contrapporre
alle «opinioni dei mortali» una prospettiva esplicativa alternativa e
plausibile rivolta agli stessi oggetti di quell'opinare: questo passaggio del
testo è colto efficacemente nella resa di Palmer (op. cit., p. 363):
«Nonetheless these things too will you learn, how what they resolved had
actually to be [...]». 76 L’avverbio δοκίμως è qui usato come complemento
dell’infinito εἶναι: il predicato in effetti può essere espresso da un
avverbio, facendo così assumere al verbo «essere» il suo valore pieno di
esistenza. L’avverbio può tradursi sia con «plausibilmente», «accettabilmente»
(Mourelatos, p. 204), sia con «realmente, genuinamente» (secondo l’uso
eschileo). Rendendo l’imperfetto (χρῆν) come forma di irrealtà, si determina
una costruzione ambigua, che afferma e nega a un tempo (come irreale)
un’esistenza qualificata come reale ovvero plausibile. Ne deriva una sorta di
gioco espressivo, del tipo rintracciabile nei frammenti di Eraclito (O’Brien,
pp. 13- 4). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 43) cita in
proposito DK 22 B28: δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει ... (anche)
l'uomo più considerato conosce e custodisce cose apparenti [ovvero opinioni].
Secondo lo studioso italiano, proprio la relazione tra τὰ δοκοῦντα e δοκίμως
comporterebbe un «cortocircuito etimologico»: il participio sostantivato, con
le sue potenzialità semantiche negative (parvenze), è coniugato con un avverbio
dal significato positivo di accettabilità, plausibilità. δοκίμως deriva da
δόκιμος («accettabile», «approvato», «stimato»); il verbo δοκιμάζω conferma il
senso di «mettere alla prova» e «approvare»: l'avverbio ha dunque in sé
implicite le sfumature di «come conviene» e di «realmente», «veramente». La sua
radice indoeuropea *dek- evidenzierebbe il senso di adeguazione, conformità (Couloubaritsis,
op. cit., p. 271). Accettando, invece, la vecchia lezione di Diels (δοκιμῶσ(αι)
εἶναι), ripresa, tra gli altri, da Untersteiner e recentemente da Di Giuseppe,
il senso di ὡς τὰ 103 δοκοῦντα χρῆν δοκιμῶσ(αι) εἶναι sarebbe: «come era
necessario acconsentire (riconoscere) che le cose che appaiono ai mortali
sono». 77 Traduco in questo modo il testo greco, intendendo διὰ παντὸς πάντα
come una formula, secondo il suggerimento di Mourelatos (p. 204), il quale fa
leva su paralleli testuali che vanno dalla letteratura ippocratica a quella
platonica. Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le cose] insieme» (all of
them together), ovvero «tutte [le cose] continuamente». Sulla scorta dell’uso
platonico (Repubblica, 429b-430b), Mourelatos (p. 205) propone di leggere in διὰ
παντὸς il riferimento alle prove sopportate nel corso di una competizione. In
alternativa si traduce διὰ παντὸς come «in ogni senso» (Tonelli), «in un tutto»
(Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo autonomo il significato e la funzione
di πάντα («tutte le cose»). 78 Si è dato notizia, in nota al testo greco, delle
due lezioni (περ ὄντα e περῶντα) dei codici di Simplicio. Come ha giustamente
fatto notare la Curd (op. cit., p. 114, nota 52), entrambe le letture rendono
complessivamente lo stesso significato. Traduciamo ὄντα come participio e non
come sostantivo (manca, in effetti, l’articolo τὰ), ricordando, tuttavia, come
il termine, in Omero e Esiodo, designasse le realtà che esistono davvero e nei
filosofi ionici l’oggetto della ricerca, la realtà permanente del mondo
(Brague, pp. 61-2). 104 DK B2 εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν 1 ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας,
αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι· ἡ μὲν ὅπως ἔστιν2 τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ
εἶναι, Πειθοῦς 3 ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ 4 γὰρ ὀπηδεῖ -, [5] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών5 ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα6 ἔμμεν ἀταρπόν7 · οὔτε
γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν8 - 1 Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν
(proposto come emendazione dei codici di Proclo da Karsten e accolto da Diels-Kranz
e dagli editori posteriori), legge con i codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν («orsù, parlerò
di queste cose»), difendendo la propria scelta con la consuetudine epica del
genitivo di argomento in dipendenza da verba dicendi. La proposta di Karsten
non solo è considerata più naturale dal punto di vista paleografico, ma
valorizza anche l’opposizione ἐγώ - σύ, che nel testo pare significativa. La
forma ἐγών riflette l'uso omerico, che dissimulava l'antico digamma perduto nel
dialetto degli aedi ionici: per eliminare gli iati creatisi nella dizione, fu
introdotto –ν nel testo omerico (Passa, p. 74 nota). Qui il –ν di ἐγὼν
supplisce il digamma iniziale di ἐρέω. 2 Come segnala Cordero (N.L. Cordero,
"Histoire du texte de Parménide", in Études sur Parménide, cit., t. II:
Problèmes d'interprétation, p. 21), ἔστιν è correzione di Mullach: la
tradizione manoscritta conserva ἔστι. Il codice moscovita W di Simplicio è
l'unico a presentare la forma similare ἐστίν. Passa (p. 97) osserva come i sei
casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico davanti a consonante
rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla dizione omerica». 3 Come
in casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale. 4 Seguiamo Gemelli
Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco maiuscolo. I codici di
Proclo e Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è proposta degli editori. 5 La
formula χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e in Pindaro si trova
solo l'uso assoluto dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή (Passa, p. 79). 6 I
codici di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli di Simplicio
παναπευθέα, forma corretta, come rivela il confronto con Odissea III, 88.
Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso Proclo cita a memoria. 7
Si tratta della forma ionica - ἀταρπός – dell'attico ἀτραπός (da τρέπω). 8 I
codici di Proclo riportano ἐφικτόν («che si può raggiungere», da ἐφικνέομαι),
quelli di Simplicio ἀνυστόν. La lezione di Proclo, che presenta paralleli in
Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha una sua 105 οὔτε φράσαις· [vv. 1-8
Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; vv. 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam
116-7; vv. 5b-6 Proclo, In Platonis Parmenidem, 1078, 4-5] plausibilità, ma la
forma ἀνυστόν («che può essere compiuto») ha riscontri "eleatici" in
Melisso (B2 e B7), e si trova ancora in Anassagora (B5). In questa occasione
Proclo potrebbe nuovamente aver fatto ricorso alla citazione a memoria: il
significato di οὐ ἐφικτόν è prossimo a quello di οὐ ἀνυστόν: «risultato che non
si può raggiungere». 106 Orsù1 , io dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una
volta ascoltata5 - 1 La formula εἰ δ΄ ἄγε per «orsù» è ampiamente attestata
nell’epica, anche in relazione al pronome ἐγώ (Cerri – p. 187 - cita a esempio
un verso formulare che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e Odissea). 2
Il pronome personale «tu» (σύ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si
rivolge. Questa interpretazione dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX)
ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide: alcune espressioni che
ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali») confermano la lettura
tradizionale. 3 Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι è quello di ricezione
e cura (come di cosa preziosa), forse anche di trasmissione (come vuole
Mansfeld, pp. 95-6). Tonelli (p. 119) rende questo complesso di significati con
«accompagna la mia parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit.,
p. 135) recupera, invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come
«riporta con te». 4 Il termine greco è μῦθος, che nella lingua greca tarda
significa (come il latino fabula) una narrazione meravigliosa, in origine
indicava qualcosa di completamente diverso: la «parola», la parola che esprime
ciò che è realmente, effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione della
oggettività: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in
questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in W.F.
Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 30-32).
Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come discorso,
comunicazione di verità. Mourelatos (p. 94, nota) contesta la traduzione di
Tarán («word»), preferendole nel contesto di B2.1 «account», quanto la Dea ha
da dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a Omero, in cui
il valore del termine è quello di «discorso», «pensiero» o «consiglio». Solo
progressivamente, nell’uso post-omerico, il significato di «discorso» sarebbe
sfumato in quello di «resoconto», finendo poi per indicare «mito». Anche alla
luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno preferito
tradurre con «story». Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the
Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000, pp. 17-18) distingue tra l’uso
di ἔπος per «parola» o genericamente «affermazione» e quello di μῦθος, che,
come rivelerebbero alcune ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un
«authoritative speech act». In questo senso, di recente Couloubaritsis, nella
nuova edizione del suo volume su Parmenide, ha insistito su una resa poco
familiare ma attenta a conservare un aspetto essenziale del valore originario
del termine greco: egli traduce (La pensée de Parménide, , Ousia, Bruxelles,
2008, p. 541) come «ma façon de parler autorisée». Una traduzione di
compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura delle mie parole dopo averle
ascoltate». 5 Tutto il verso ha una forte assonanza con Odissea XVIII, 129: 107
quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8 per pensare9 : τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ
σύνθεο καί μευ ἄκουσον Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi. 6 Il
valore di μοῦναι è stato da alcuni interpreti relativizzato, intendendolo nel
senso debole di «le sole legittime» (Conche, p. 76), da altri reso in senso
forte, come se le «vie di ricerca» indicate costituissero le due sole
possibilità per pensare (Cordero, p. 39). In effetti è difficile scindere il
valore di μοῦναι dal successivo infinito e dal relativo significato. 7 È
interessante segnalare come il termine ὁδός – che, nota Cerri (p. 60),
ossessivamente ritorna nel versi parmenidei – non abbia solo il valore
metaforico di metodo, cioè del percorso lungo il quale si sviluppa un’indagine
per giungere alla verità: esso può suggerire anche l’idea di «direzione di
vita», linea di condotta (Stemich, op. cit., p. 199), come è possibile
riscontrare in Eraclito, letteralmente e metaforicamente (in riferimento al
comportamento da assumere nella ricerca della verità). In Parmenide, tuttavia,
nel ricorso a ὁδός prevarrebbe la suggestione di un peculiare metodo di
pensiero e ricerca. La Stemich in questo senso indica (op. cit., pp. 200-1) una
convergenza tra l’illustrazione parmenidea del metodo per giungere alla
conoscenza dell’essere – inteso come via che conduce oltre l’ambito sensibile
in un ambito metafisico - e il percorso di ascesi filosofica all'idea del Bello
nel Simposio di Platone. 8 Coxon (p. 173) osserva come l’espressione ὁδοὶ
διζήσιος occorra solo in Parmenide (e in un frammento orfico di dubbia
congettura), forse per sottolineare la peculiarità della propria ricerca
rispetto a quella ionica. Secondo Kahn (Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P,
Oxford 2009, p. 147) δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine
ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). Oggetto di investigazione è (B6-B8)
l’essere (τὸ ἐόν), ovvero (B1.29 e B8.51) la realtà (ἀληθείη): «vie di
ricerca», dunque, perché hanno come obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5)
rileva come il verbo δίζημαι, corrente in Omero nel significato di ricercare
una persona o cosa scomparsa, ovvero ricercare per identificare qualcuno,
assuma il senso definito di indagare (e anche interrogare) in Eraclito e
Erodoto. L’espressione δίζησις sottolineerebbe così che la ricerca riguarda
qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. Secondo Chiara
Robbiano (op. cit., p. 125) il termine suggerisce anche l’attiva partecipazione
richiesta per l’indagine stessa. 9 Come puntualmente rileva Cordero (p. 40),
l’infinito aoristo νοῆσαι ha valore di infinito finale o consecutivo, ma è
spesso stato letto con valore passivo, come se εἰσι («sono») avesse a sua volta
valore di possibilità («siano [possibili] da pensare», «logicamente
pensabili»). La scelta del valore attivo 108 l’una10: [che11] è12 e [che] non è
possibile13 non essere14 – comporta che sia più facile spiegare la presenza delle
successive congiunzioni dichiarative (ὅπως, ὡς), che possono corrispondere alla
attività di pensare («l’una per pensare che …», «l’altra per pensare che …»). È
possibile inoltre trovare un riscontro nel poema Sulla natura di Empedocle,
dove il frammento DK 31 B3.12 presenta costruzione analoga: ὁπόσηι πόρος ἐστὶ
νοῆσαι («dove ci sia passaggio per conoscere»). O’Brien (pp. 153-4) fa
dipendere invece νοῆσαι da μοῦναι ovvero dall’unità sintattica μοῦναι + εἰσι:
«Je dirai quelles sont les voies de recerche, les seuls à concevoir». La
Robbiano (op. cit., p. 82) valorizza l’ambiguità nell’espressione di Parmenide,
e propone, di conseguenza, di accettare contestualmente entrambe le
interpretazioni: quella che fa delle vie l’oggetto del νοεῖν (da pensare) e quella
che fa del νοεῖν la meta delle vie (per pensare). Contro la resa attiva e
finale dell’infinito le osservazioni di Sellmer (S. Sellmer,
Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des Lehrgedichts und ihren
Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998, pp. 11-12), in particolare il
problema dell’impraticabilità della seconda via per il pensiero. Contro la
lettura potenziale di εἰσι νοῆσαι Kahn, Essays on Being, cit., p. 146, nota 4.
Abbiamo reso νοεῖν genericamente con «pensare», ma – come suggerito da vari
interpreti - si potrebbe scegliere una espressione più specifica, come
«comprendere», o anche «afferrare», che ancora conservano traccia
dell'originario valore di percezione mentale, capace di vedere in profondità e
più lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto Mourelatos, pp. 68 ss.).
Vero è che nei frammenti ci si riferisce a νόος (πλακτὸν νόον, B6.6) anche per
designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò potrebbe indicare che
Parmenide non si senta vincolato a un uso di νοεῖν e derivati nel loro
significato cognitivo più forte, che, a nostro giudizio, rimane, tuttavia,
l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea qui propone. Recentemente
Palmer (op. cit., pp. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa generica e
una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving understanding.
Tonelli, invece, rende direttamente come «intuire», per la continuità tra il
verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere che «attraversa e penetra
l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 10
L’indicazione delle «uniche vie» è introdotta (v. 3 e v. 5) dalla formula ἡ μὲν
- ἡ δέ: si tratta di una alternativa ulteriormente delineata con coerente
corrispondenza anche nella costruzione sintattica. 11 Consideriamo in questo
contesto ὅπως e il successivo ὡς congiunzioni che introducono una dichiarativa
(retta da un sottinteso: «per pensare» ovvero «che pensa», «che dice»). In
questo senso, suggeriamo la possibilità di 109 di Persuasione15 è il percorso16
(a Verità17 infatti si accompagna) – leggere il verso come: «l’una: è e non è
possibile non essere» (analogamente il v. 5: «l’altra: non è ed è necessario
non essere»). L’uso di ὅπως e ὡς per introdurre le due vie sarebbe – secondo
Chiara Robbiano (op. cit., p. 82) - illuminante: esso suggerisce che esse sono
due modi di guardare alle cose, due prospettive: ὡς sarebbe, infatti, preferito
a ὅτι quando si voglia accentuare una affermazione come opinione, ovvero
introdurre qualcosa intorno a cui esistano opinioni differenti. Per la studiosa
italiana (p. 83), insomma, ὅπως\ὡς, con le loro implicazioni avverbiali,
servirebbero a esprimere uno stato di cose da una certa prospettiva,
manifestando dunque il proprio punto di vista. Analogamente Ferrari (Il
migliore dei mondi impossibili, cit., p. 40), il quale rende in entrambi i casi
con «secondo cui». 12 La terza persona singolare – ἔστιν - del presente di εἶναι,
«essere», è qui resa letteralmente, senza decidere del suo valore
(esistenziale, copulativo, veritativo), per conservarle tutte le sfumature. Tra
i traduttori moderni, Tarán sceglie di renderla con «exists», Conche con «il y
a», per sottolineare l’idea di presenza. In coerenza con il testo greco, non
attribuiamo un soggetto al verbo, lasciandolo sottinteso: si rinvia al commento
per un chiarimento. Coxon ricorda che l’omissione del pronome indefinito come
soggetto sia ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore (p. 175). 13
Letteralmente ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι si potrebbe rendere come «che non
[c’]è/esiste non essere», ovvero, sostantivando il μὴ εἶναι finale, «che il
non-essere non è», cui corrisponderebbe, simmetricamente ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι:
«che, come necessario, il non essere è». Ma, proprio considerando l’emistichio
5b (dove la traduzione «è necessario che… appare più naturale), optiamo per
attribuire a ἔστι valore potenziale e considerare μὴ εἶναι come infinitiva:
«che non è possibile non essere» (più ambigua), ovvero «che non è possibile che
non sia». Si tratta, in ogni caso, di un passaggio controverso, anche per le
sue implicazioni logiche, per le quali è molto lucida l’analisi di Leszl (pp.
131 ss.). 14 La nostra traduzione è vicina a quella di Heitsch: «Der eine, (der
da lautet) “es ist, und Sein ist notwendig”». Frère (J. Frère, Parménide ou le
Souci du Vrai. Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012) rende: «Le
premier chemin énonçant: est, et aussi: il n’est pas possible de ne pas être».
15 Come divinità, Persuasione è nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad
Afrodite, alla dea dell'Amore, in quanto esercita fascinazione e seduzione. È
dunque originale e significativa la connessione stabilita da Parmenide, in
apertura della comunicazione divina, tra Πειθώ e Ἀληθείη: nel suo caso i legami
persuasivi saranno il risultato del rigore e della coerenza logica 110 [5]
l’altra: [che] non è e [che] è necessario18 non essere19 . Proprio20 questa ti
dichiaro21 essere sentiero22 del tutto privo di informazioni23: impliciti nella
affermazione appena introdotta :«è e non è possibile non essere». 16 Il termine
κέλευθος viene da Coxon distinto da ὁδός come il «viaggio» lungo la «via»,
contribuendo in questo modo a determinare successivamente (Platone) la nozione
di μέθοδος, e di filosofia appunto come viaggio (p. 174). 17 Abbiamo già
segnalato in nota a B1, come nel poema ἀληθής (e ἐτήτυμος) significhino «reale»
e ἀληθείη «realtà». Heitsch (p. 97) argomenta a favore di una resa più
esplicita, che ricava dai contraddittori caratteri negativi di μὴ ἐὸν (verso
7): egli traduce, infatti, con «evidenza» (Evidenz). Palmer ricorre a una
formula inequivocabile: «true reality». Pur concordando che la Dea si riferisce
alla realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro «verità» e con la maiuscola,
intendendo Verità come entità divina. In ogni modo, come nel linguaggio
omerico, anche in Parmenide il contrario di ἀληθείη non sarà il falso, indicato
da ψεῦδος o ψεύδεσθαι, ma l'assenza di ἀληθείη, la mancata manifestazione della
realtà (su questo Germani, op. cit., pp. 183-4). 18 Colleghiamo, come appare
naturale, l’espressione greca χρεών al verbo ἔστι, traducendo con «è
necessario», conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), χρεών
può stare da solo, inteso come un participio (χρή ἐόν), che, preceduto da ὡς,
assume valore avverbiale: ὡς χρεών potrebbe essere dunque inciso avverbiale in
una frase il cui significato complessivo non sarebbe modale («come
conveniente»). Il termine è usato nella cultura greca arcaica (e non) in
espressioni come κατὰ τὸ χρεών (Anassimandro DK 12B1: «that which must be»
secondo LSJ), ma per lo più nell'espressione χρεών [ἐστι] con il significato di
χρή («è necessario»). 19 Considerato μὴ εἶναι come infinito sostantivato e
interpretato ὡς χρεών avverbialmente, la traduzione del secondo emistichio
potrebbe essere: «e, come conveniente, il non-essere è». Si tratta di una
possibilità, che suona tuttavia piuttosto improbabile. Così come la traduzione
proposta da Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 137-8):
«l'una (via) secondo cui è lecito e non è possibile che non sia lecito...
l'altra secondo cui non è lecito ed è necessario che non sia lecito».
Coerentemente con la scelta del v. 3, Heitsch traduce: «Der andere, (der da
lautet) “es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig”»; Frère (J. Frère,
Parménide ou le Souci du Vrai…, cit.) rende: «L’autre chemin énonçant: n’est
pas, et aussi: il est nécessaire de ne pas être». 20 Traduciamo avverbialmente
la particella δή, che molti decidono di non rendere ovvero di rendere come
congiunzione («e») per marcare una 111 poiché non potresti conoscere ciò che
non è24 (non è infatti cosa fattibile25), né potresti indicarlo26 . transizione
nel discorso della Dea. In effetti, δή è frequentemente posposto a un pronome
(nel nostro contesto τὴν con funzione pronominale), con il risultato di
accentuare il rilievo nella frase. 21 Coxon osserva che il verbo φράζω, che in
epica significa «indicare, evidenziare», è usato da Parmenide con oggetto
diretto o accusativo e infinito nel senso (poi regolare) di «spiegare» (p.
177). 22 Il termine ἀταρπός è contrapposto a ὁδός e κέλευθος, impiegati in B1
(vv. 2 e 11) e qui ai vv. 2 e 4: mentre in B1.21 eravamo informati del fatto
che il poeta viaggiava κατ΄ ἀμαξιτὸν «lungo la via maestra», in questo
passaggio, accennando alla seconda via, Parmenide ricorre a un’espressione che
veicola l'idea di sentiero, tracciato secondario, scorciatoia. 23 L’aggettivo
παναπευθής può indicare – attribuendogli senso passivo - ciò che è del tutto
ignoto, ovvero, in senso attivo, appunto «ciò che è del tutto privo di informazioni»,
ovvero «imperscrutabile» (Tonelli p. 119), come la via che pensa che «non è».
Si tratta, nell'economia del discorso divino (e del poema), di un punto
essenziale: la seconda via delineata non è proposta come «falsa», non è
scartata come follia (non è prodotto di un πλακτὸς νόος, come si sottolinea in
B6.6 a proposito della presunta ὁδος διζήσιός «inventata» da coloro che sono
apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν); di essa si afferma che è sentiero lungo
il quale non si possono raccogliere informazioni, che non può manifestare la
realtà, come chiarisce immediatamente il verso successivo. 24 L’espressione τό
μὴ ἐὸν si potrebbe rendere anche come «il non essere». Secondo Coxon (p. 177)
essa si riferisce al soggetto della seconda via, di «non è», come manifestato
in B6.2 dall’uso del pronome indefinito μηδέν (nulla). In effetti l'espressione
τό μὴ ἐὸν è introdotta a giustificazione della dichiarazione del verso
precedente, dunque per identificare il presunto contenuto della seconda via,
necessariamente priva di informazioni. 25 L’aggettivo verbale ἀνυστόν è
attestato in Simplicio: con la precedente negazione (οὐ), il valore – da ἀνύω
(«fare, compiere») - è quello di cosa che non è possibile compiere. Nel suo
commento (p. 220), Ruggiu sottolinea come il valore di οὐ ἀνυστόν sia prossimo
a quello del termine ἀμηχανίη: esprime una impossibilità che scaturisce da
ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100) insiste sull'idea di impraticabilità
che οὐ ἀνυστόν porta con sé: «that which cannot be consummated». 26 La traduzione
di φράζω con «indicare» vuol rendere il senso di «manifestare in segni» (anche
a parole): ciò che non è non può rendersi (e essere reso) manifesto attraverso
tracce, come saranno i σήματα dell’ἐόν in B8. 112 Mourelatos (p. 76) segnala
che φράζω è impiegato nell’Odissea all’interno del motivo del viaggio, in
riferimento al gesto di una guida che mostri a un viaggiatore il luogo o il
percorso della sua destinazione. Si potrebbe rendere οὔτε φράσαις, restringendo
il campo semantico del verbo, con «né potresti parlarne». 113 DK B3 ... τὸ γὰρ
αὐτὸ νοεῖν ἐστίν1 τε καὶ εἶναι. [Clemente Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II,
440); Plotino, Enneadi V, 1.8; V, 9.5; Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia
platonica I, 66 (ed. Saffrey, Westerink)] 1 Il codice di Clemente riporta ἐστί;
il testo di Plotino, in due luoghi diversi, ἐστί e ἔστι. ἐστίν è correzione
degli editori. 114 La stessa cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3 . 1 Zeller,
seguito da Burnet, Cornford, Raven e altri, rende i due infiniti come dipendenti
da ἔστιν (non ἐστίν) con valore potenziale (analogamente a B2.3: εἰσι νοῆσαι),
quindi con «denn dasselbe kann gedacht werden und sein». Tarán, che accetta il
suggerimento di Zeller, rende con «for the same thing can be thought and can
exist». Anche per O’Brien (pp. 19-20) i due infiniti sono complementi del
pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità sintattica pronomeverbo. Quest’uso completivo
dell’infinito (νοεῖν) ammetterebbe che lo si traduca come un passivo o
equivalente: «C'est en effet une seule et même chose que l'on pense et qui est»
(«For there is the same thing for being thought and for being»). Il fatto che,
optando per questa soluzione interpretativa, il soggetto di uno dei due
infiniti (εἶναι) diventi oggetto dell’altro (νοεῖν), non rappresenterebbe un
problema, essendo già attestato nei poemi omerici. È un fatto, comunque, come
osserva Conche (op. cit., p. 89), che Parmenide ha scritto νοεῖν e non νοεῖσθαι.
D’altra parte, seguendo Plotino, la resa «più fedele» (Heitsch, p. 144), il
senso «ovvio» del greco (Conche, p. 89) sarebbe «pensare ed essere sono la
stessa cosa», con τὸ αὐτὸ predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della frase.
Un’alternativa sensata, che tiene conto di analoghe costruzioni nei frammenti
sopravvissuti e soprattutto del senso dei vv. 34-36a di B8: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν
τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν,
εὑρήσεις τὸ νοεῖν è quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as
is for being»), variata nella recente resa di Palmer (op. cit., p. 122): «for
the same thing is (there) for understanding and for being». 2 Secondo Cerri (p.
194), qui per la prima volta νοεῖν assumerebbe il significato specifico di
«capire razionalmente», significato che, tuttavia, non si può regolarmente
attribuire a νοεῖν (e νόος) nei frammenti. In una sua classica ricerca
filologica, von Fritz (K. von Fritz, “Νοῦς, νοεῖν and Their Derivatives in
Presocratic Philosophy (Excluding Anaxagoras). I: From the Beginnings to
Parmenides”, «Classical Philology» 40, 1945, pp. 223-242) osserva come νοεῖν in
Omero significhi «comprendere una situazione» e come questo valore sia ancora
presente nel poema di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo
di deduzione logica: sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto
con la realtà ultima (p. 237). Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν
come «intuire», cogliendo la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino,
nella percezione che 115 «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...]
facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 3 Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144)
osservano che, sebbene la continuità di B3 con B2 sia incerta, metricamente B3
costituirebbe con B2.8 una perfetta linea di testo. Calogero (op. cit., pp.
22-23) aveva in effetti già proposto di leggere B3 come prosecuzione di B2,
integrando il testo tràdito in questo modo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ
γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· [B2.7-8] τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι < ὅσσα
νοεῖς φάσθαι >, Ché quel che non è non lo puoi né pensare né dire: pensare
infatti è lo stesso che dire che è quel che pensi!. 116 DK B4 λεῦσσε δ΄ ὅμως1 ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει2 τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε
σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. [vv. 1-4 Clemente
Alessandrino, Stromata V, 2 (II, 335); v. 1 Proclo, In Platonis Parmenidem
1152; Teodoreto, Graecarum Affectionum Curatio I, 72 (22); v. 2 Damascio,
Dubitationes et Solutiones de Primis Principiis in Platonis Parmenidem I, 67]
La proposta e l'integrazione sono state poi ancora rilanciate da Giannantoni. 1
Due codici di Teodoreto con la citazione di Clemente riportano ὁμῶς
(«ugualmente») in vece di ὅμως. Tra gli editori moderni solo Hölscher e
Untersteiner preferiscono quella lezione. 2 I manoscritti di Clemente riportano
ἀποτμήξει, quelli di Damascio ἀποτμήσει: ἀποτμήξει sarebbe effetto di una
atticizzazione del testo parmenideo, probabilmente antica (come evidenziato
dall'unanimità dei manoscritti). Secondo Passa (pp. 34-5), come avevano colto
gli editori ottocenteschi che correggevano ἀποτμήξει in ἀποτμήξεις, la forma
verbale corretta sarebbe quella della seconda persona singolare del futuro
medio (ἀποτμήξῃ) nella probabile trascrizione di un esemplare attico. 117
Considera1 come cose assenti 2 siano comunque3 al pensiero4 saldamente5
presenti6 ; 1 Il verbo λεῦσσω è già impiegato da Omero (Couloubaritsis, pp.
336-7) per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e
avvenire per comprendere il presente: capacità associata alla maturità
dell’anziano, al suo discernimento, contrapposto alla precipitazione dei
giovani. Molti traduttori optano per una resa che ne accentui il valore
percettivo: «osserva», «guarda». Etimologicamente, d’altra parte, il verbo
deriva dall’aggettivo λευκός, che nel linguaggio omerico significa «chiaro»,
«limpido»: porta con sé, dunque, l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza,
come nell’italiano «chiarire», «rischiarare». 2 Ovvero «cose lontane». Il verbo
ἄπειμι, come il successivo πάρειμι, ha un valore a un tempo materiale e mentale,
indicando la distanza (πάρειμι la vicinanza) nel tempo e nello spazio.
Manteniamo in traduzione un senso indefinito. 3 Traduciamo così la congiunzione
ὅμως: nelle varie versioni, il suo valore oscilla tra l’avversativo e il
concessivo, secondo i contesti. Dal momento che è possibile legare il termine
sia al verbo iniziale, sia a ἀπεόντα, Ruggiu (p. 238) suggerisce che la
collocazione sia intenzionalmente polisignificante, secondo lo stile attestato
anche in Eraclito. 4 A chi debba essere immediatamente riferito il dativo νόῳ è
oggetto di discussione: è possibile infatti accostarlo direttamente a lεῦσσε,
nel senso di «chiarisci con intelligenza\intendimento», ovvero lasciarlo legato
a παρεόντα, sottolineando come il nesso ἀπεόντα-παρεόντα dipenda dalla visione
dell’intelligenza: l’espressione νόῳ παρεῖναι avrebbe appunto il valore di
«essere presente alla mente, allo spirito». 5 L’avverbio βεϐαίως (saldamente)
può essere collegato direttamente al verbo, come suggerisce Coxon (p. 188):
«gaze steadily with your mind…». Lo studioso giustifica la proposta per il
parallelo con il verso di Empedocle DK 31 B17.30: τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν
ἧσο τεθηπώς Guardala con intelligenza, non restare con sguardo esterefatto. La
collocazione dell’avverbio fa pensare tuttavia a un rapporto stretto con
παρεόντα, di cui esprimerebbe il modo d’essere, la solidità, la permanenza.
L’avverbio veicola infatti l’idea di stabilità, ma anche quella di costanza e
lealtà. Robbiano (op. cit., p. 130) rileva la connessione con ἀτρεμὲς ἦτορ 118
non impedirai7 , infatti, che l’essere8 sia connesso all’essere, (B1.29): βεϐαίως
esprimerebbe l’attitudine dell’uomo che ricerca sulla via della verità; un modo
di guardare, ma anche un modo d’essere. 6 Ovvero «prossime». Sulla struttura del
verso (lεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως) ha richiamato di recente
l’attenzione Graham (Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific
Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, p. 151), il
quale ne ha rilevato la struttura a chiasmo, che ricorderebbe quella di alcuni
frammenti eraclitei, per esempio DK 22 B25: μόροι γὰρ μέζον ε ς μ έ ζ ο ν α ς μ
ο ί ρ α ς λ α γ χ ά ν ο υ σ ι destini di morte più grandi ottengono sorti più
grandi. 7 La forma verbale ἀποτμήξει può essere terza persona singolare del
futuro indicativo attivo (così intendono per lo più gli editori moderni,
sottintendendo νόος come soggetto), ovvero, considerando la probabile
atticizzazione del testo parmenideo, come forma (attica appunto) della seconda
persona singolare dell’indicativo futuro medio: «tu non impedirai…». Secondo
Passa (pp. 34-5) sarebbe questa, in coerenza con analoghe espressioni del poema
(εἶργε, «allontana» B7.2b; μάνθανε, «impara» B8.52; εὑρήσεις, «troverai»
B8.36), l'interpretazione corretta del passo. 8 Traduciamo il participio ἐόν
preceduto dall’articolo (τὸ ἐόν) come «l’essere», senza articolo come «ciò che
è»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la formula con articolo è più
astratta. Come nota Cordero (By Being, It is, cit., p. 169), Parmenide molto
raramente usa l’articolo τò davanti al participio ἐόν; in effetti participio
senza articolo cattura più precisamente il carattere dinamico della presenza
denotata da ἐστί: «essendo, è». Il problema della traduzione del termine è
comunque complesso: Heidegger (M. Heidegger, Was heisst Denken, Niemeyer,
Tübingen 1954, p. 133) richiamò l’attenzione sul duplice valore di questo
participio: nominale (ciò che è) e verbale (l’Essere di ciò che è), per
sostenere la tesi che già con Parmenide la filosofia sarebbe scivolata
nell’oblio dell’Essere, non riuscendo a mantenere distinti i due valori,
confondendo quindi Essere e enti. Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha insistito
sul fatto che Parmenide avrebbe impiegato ἐόν esclusivamente in senso verbale,
come equivalente semantico di ἐστί. Il rischio di intendere il participio nel
valore nominale sarebbe quello di riconoscerne implicitamente l’esistenza come
unico ente, negando dunque la pluralità del mondo. Il che sarebbe contraddetto
dall’uso frequente di plurali (ἐόντα) nella sezione sulla Ἀληθείη (B4.1-2,
B8.25, B8.47-8). L’identità semantica e la sinonimia tra ἐόν e ἐστί sarebbe
inoltre 119 né disperdendosi9 completamente10 in ogni direzione per il cosmo11
, né concentrandosi. confermata da Parmenide nel poema stesso (B6.1-2).
Thanassas sostiene che ἐόν possa identificarsi estensionalmente con la totalità
degli enti che appaiono; intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto
concettuale), invece, ἐόν sembrerebbe distinto da essa: il suo significato
verbale, insomma, non si limiterebbe ad abbracciare la totalità degli enti, ma
farebbe del loro Essere il proprio obiettivo. 9 Il participio σκιδνάμενον, come
il successivo συνιστάμενον, si riferisce a τὸ ἐόν. 10 La funzione dell’avverbio
πάντως (interamente, completamente) sarebbe, in congiunzione con l’altro
avverbio πάντῃ (dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore
spaziale. 11 L’espressione κατὰ κόσμον appare come uno dei più antichi passi
presocratici in cui il termine κόσμος assume il valore di «ordinamento del
mondo», «cosmo» (Cerri, p. 199). Tarán, tuttavia, contesta che la nostra
espressione possa tradursi (così come abbiamo fatto) con un complemento di moto
«nel mondo» (o «per il mondo»), preferendo renderla letteralmente come «in
order», con il significato, dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la
Stemich (p. 190) sottolinea come dalla Dea il kouros sia chiamato a non
alterare l’essere «secondo l’ordine delle cose», attribuendo quindi alla
formula valore normativo. Coxon sottolinea il precedente omerico, traducendo
«in regular order». Noi preferiamo attribuirgli il valore cosmico, considerando
κατὰ κόσμον insieme alla forma avverbiale precedente (πάντῃ πάντως). 120 DK B5
ξυνὸν δέ μοί ἐστιν, ὁππόθεν1 ἄρξωμαι· τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις. [Proclo, In
Platonis Parmenidem 708] 1 La forma ὁππόθεν è correzione degli editori: i
codici di Proclo riportano ὅπποθεν. 121 Indifferente1 è per me da dove cominci,
dal momento che là, ancora una volta, farò ritorno. 1 Bicknell (“Parmenides, DK
28 B5”, «Apeiron», 13, 1979, pp. 9-11) ha proposto di tradurre ξυνὸν come «a
basic point»: «It is a basic point from which I shall begin: I shall come back
to it repeatedly». Collocando il frammento subito prima di B2, il senso complessivo
effettivamente è assicurato e, come è stato notato (Gallop, p. 37), suggestivo.
Difficile però avere un riscontro della traduzione proposta per ξυνὸν. 122 DK
B6 χρὴ τὸ λέγειν τò1 νοεῖν τ΄ ἐὸν 2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν·
τά σ΄ ἐγὼ 3 φράζεσθαι ἄνωγα. πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος † ... † 5
, 1 I codici di Simplicio riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten congetturò
invece τε νοεῖν, ripreso poi da Diels. Il testo corretto, dopo la riscoperta a
opera di Tarán e la ripresa da parte di Cordero, è tuttavia accolto solo da una
minoranza di editori contemporanei. 2 I codici D e E di Simplicio riportano τὸ ὂν,
il codice F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione degli editori. 3 Il testo greco in DK è
τά σ΄ ἐγὼ, secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp. 101-2) preferisce la
versione del codice D di Simplicio (considerato il più affidabile dallo stesso
Diels 1897): τά γ΄ ἐγὼ. Il codice E riporta: τοῦ ἐγὼ; il codice F: τά γε. 4 Il
codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 5 La
tradizione manoscritta presenta a questo punto una lacuna: la proposizione
manca del verbo. Congettura Diels, tradizionalmente accettata: εἴργω («tengo
lontano», «distolgo»), sulla scorta di B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε
νόημα - «ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero»). Congettura
Mourelatos: εἷργον («tenevo lontano»), in riferimento al rifiuto della seconda
via di B2. Congettura Cordero: ἂρξει («comincerai»). Congettura Nehamas: ἂρξω
(«comincerò»), ripresa di recente anche da Patricia Curd, che la preferisce
alla precedente in quanto mantiene il baricentro del discorso sulla divinità,
coerentemente con gli altri versi del poema. La Curd insiste in particolare sul
parallelismo con i versi B8.50-52: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo
punto pongo termine al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità;
da questo momento in poi opinioni mortali impara, ascoltando l’ordine delle mie
parole che può ingannare. L’espressione «pongo termine» corrisponderebbe a
«comincerò per te» appunto di B6.3, così come «da questo momento in poi» a «da
questa via di ricerca». A più riprese (cominciando da B1.28-30) la dea sarebbe
ritornata sulla 123 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν [5] <
πλάσσονται > 6 , δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν 7
νόον· οἱ δὲ φοροῦνται κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ
πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι
κέλευθος. [vv. 1-2a Simplicio, In Aristotelis Physicam 86; vv. 1b-9 Simplicio,
In Aristotelis Physicam 117; vv. 8-9a Simplicio, In Aristotelis Physicam 78]
propria strategia, enunciando i suoi principi fondamentali (B2), ribadendoli
(B6.3-4) e ricontestualizzando la propria esposizione in B8.50-52 (Curd, The
Legacy of Parmenides, cit., p. 58). Tarán, che pur accetta la congettura Diels,
suppone una lacuna successiva, tra i versi 3 e 4. 6 La tradizione manoscritta
di Simplicio riporta πλάττονται, dichiarato corrotto in apparato da Kranz. In
effetti πλάττονται sarebbe, secondo Cordero e Cerri (p. 210), atticizzazione
(intervenuta nella tradizione manoscritta stessa) di πλάσσονται, da πλάσσομαι
(«mi invento»). Dello stesso avviso O'Brien e Gemelli Marciano (II, p. 82).
Coxon (p. 183) sostiene la derivazione (per corruzione) da πλάζονται
(«vagano»). Diels fa della espressione una corrutela medievale di πλάσσονται,
variante dialettale di πλάζονται, utilizzato nel poema (e in altri autori) per
indicare sbandamento intellettuale, errore. Una recente messa a punto della
questione testuale si trova in Passa (pp. 104 ss.), il quale ha con acribia
sostenuto, su basi parzialmente diverse, la soluzione dielsiana con precoce
corruzione di πλάσσονται in πλάττονται. Ferrari (Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 47 nota) ha contestato tale ricostruzione, preferendo
tornare alla vecchia correzione πλάζονται, coerente con πλακτὸν νόον e φοροῦνται
(v. 6). Accogliamo la correzione πλάσσονται, pur considerando l'emendazione
πλάζονται, come sinteticamente insegna Ferrari, una valida alternativa. 7 I
codici DE di Simplicio riproducono πλακτὸν, il codice F πλαγκτὸν, forma
preferita da diversi editori (Coxon, O'Brien, Conche, Cerri, Gemelli Marciano,
Palmer). 124 Dire e pensare1 : «ciò che è è2 », è necessario3 ; essere4 è
infatti possibile, 1 Accogliendo la restituzione del testo originale di
Simplicio proposta da Cordero (su indicazione di Tarán), abbiamo qui due
infiniti (λέγειν, νοεῖν) introdotti da τό, da intendere: (i) come articolo
determinativo (sarebbe allora più corretto rendere con «il [fatto di] dire e il
[fatto di] pensare»), ovvero (ii) come pronome dimostrativo («dire questo e
pensare questo»). Nella nostra traduzione abbiamo seguito la prima soluzione: i
due infiniti articolari costituiscono soggetto congiunto del quasi impersonale
χρή, come suggerisce Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p.
111; ma si devono registrare le riserve di Cassin, p. 146). Costruzioni alternative:
(a) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è
il loro articolo e ἐόν il loro complemento oggetto («è necessario che dire e
pensare ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e Untersteiner. Una
variante interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux chemins
de Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la costruzione χρὴ
εἶναι (ἔμμεναι) τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν («è necessario dire e pensare ciò che
è». Cordero, tuttavia, nella revisione (2004) della sua opera, traduce
diversamente: «It is necessary to say and to think that by being, it is». (b)
χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è
articolo e ἐόν nome del predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario che
siano un essere»): così, per esempio, Diels (1897), Heidel, Verdenius. Coxon
(pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con paralleli (ἐὸν
εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo, Platone,
Aristotele). La sua traduzione (che accoglie il testo emendato da Karsten) è,
di conseguenza: «it is necessary to assert and conceive that this is Being».
Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ αὐτὸ
di B3). (c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui
dipendono λέγειν e νοεῖν («ciò che è da dire e pensare è necessario che sia»):
così, tra gli altri, Burnet e Raven. 2 Traduciamo ἔμμεναι con «essere», per
mantenere l'ambiguità che a nostro avviso caratterizza il testo, attribuendogli
tuttavia valore decisamente esistenziale. 3 L’impersonale χρή è formula di
necessità ma anche di opportunità: il valore del vincolo implicato può variare
in intensità, dal necessario, al corretto, all’opportuno. Ha insistito su
questo punto Patricia Curd (1998, p. 53), 125 il nulla5 , invece, non è6 .
Queste cose7 io ti esorto a considerare8 . riducendo così l’impianto modale dei
primi due versi del frammento. Ma il nesso con B2 suggerisce la forma di
necessità. 4 Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si
ripresenta infatti il problema di traduzione di ἔστι e si aggiunge quello della
traduzione dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi
correlati. Se, come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come
infinito sostantivato, soggetto di ἔστι, avremmo: «l'"essere" esiste»
(Cerri); «infatti l'essere è» (Reale), «denn Sein ist» (Kranz), «for there is
Being» (Tarán). Analogamente intende la Germani (op. cit., p. 191). Questa
lettura potrebbe essere avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio
riportano τò εἶναι (Cordero, Les deux chemins de Parménide, cit., p. 24). Nel
caso si accolga tale soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena esplicitazione
dei soggetti delle vie di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi
versi questa traduzione appare naturale, sebbene non risulti del tutto
perspicuo l'uso di γὰρ, a meno di privarlo del suo valore esplicativo per
riconoscergli una funzione confermativa. Se, invece, si intende εἶναι come infinito
retto da ἔστι, allora è naturale attribuire a questo valore di possibilità (che
sembrerebbe dare un senso alla particella γάρ). Alcuni sottintendono ἐὸν come
soggetto, traducendo: «solo esso infatti è possibile che sia» (Pasquinelli);
«For it is for being» (Coxon); «è possibile, infatti, che sia» (Giannantoni);
«perché può essere» (Tonelli, Ferrari). Altri, come O'Brien e Cordero, optano
per una formula impersonale: «car il est possible d'être»; «for it is possibile
to be». 5 Secondo Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in questo caso il suo
significato più stretto, quello di «non una cosa». L’intera frase, dunque,
asserirebbe che ciò che non ha essere, non è per niente una cosa. Kranz (in
apparato) riteneva che μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in questo senso
B8.10: τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili,
cit., p. 46 nota) considera possibile un rimando al non-essere, intendendo la
lezione (corrotta) del codice greco di Simplicio (Phys. 117) come μὴ δ’ ἐόν. 6
Anche in questo caso conserviamo l'ambiguità dell'«essere», intendendolo
comunque in senso esistenziale: la necessità di affermare l’esistenza
dell’essere sarebbe giustificata incrociando la possibilità dell’essere e
l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo essere
nell’intera formula valore di possibilità: «for it is possible for it to be,
but impossible for nothing to be». Analogamente Mansfeld: «denn dieses (sc. Das
Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». O’Brien (p. 27) è convinto
che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν abbiano valore potenziale, con l’infinito
in funzione completiva, e suppone un secondo infinito per completare
l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «il n’est pas possible 126 Per
prima, infatti, da questa via di ricerca 9 ti 10 , e poi da quella11 che
appunto12 mortali che nulla sanno13 (οὐκ ἔστιν) que (εἶναι) ce qui n’est rien
(μηδὲν)». L’alternativa, seguita da alcuni, è quella di rimanere fermi, in
entrambi i casi, al valore esistenziale, affermando (Tarán): «for there is
Being, but nothing is not». È possibile, tuttavia, attribuire senso potenziale
a ἔστι e senso esistenziale alla negazione οὐκ ἔστιν, come fanno Cordero (2004)
e, seguendo Colli, Tonelli, a dispetto delle obiezioni di O’Brien, che ritiene improbabile
la soluzione. Per conservare il senso modale di B2.3, Palmer (p. 113) propone
di considerare ἐόν unico soggetto sottinteso di B6.b-2a (ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν
δ΄ οὐκ ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore predicativo: «(What is) is to be,
but nothing it is not». Letteralmente più aderente al greco la traduzione senza
articolo: «nulla [ovvero niente] non è». 7 Il pronome τά (accusativo neutro
plurale) difficilmente può essere riferito esclusivamente al contenuto dei vv.
1-2a: è invece probabile che esso alluda a quanto seguiva B2 precedendo
immediatamente B6, cioè la esclusione della via «che non è e che è necessario
non essere» come effettivo percorso di indagine. 8 La formula τά σ΄ ἐγὼ
φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo: richiama l’attenzione
sull’esclusione della via «che non è e che è necessario non essere». 9
Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel
considerare questo riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός
διζήσιος) vincolato alla discussione di cui B6.1-2a costituisce la conclusione,
e che doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione cui allude
Simplicio nel contesto della citazione di B8.1-52: ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν
τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν Le cose stanno in questo modo dopo l'eliminazione del
non essere. Per evitare confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a
costruzioni meno ambigue: «this is the first way of inquiry from which I hold
you back» (Kirk-Raven-Schofield); «Questa è la via di ricerca da cui ti distolgo
per prima» (Cerri); «Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo lontano»
(Tonelli). Come quella che proponiamo, si tratta di soluzioni interpretative,
che indubbiamente forzano la resa più naturale. In ogni caso, per rimanere più
aderenti alla costruzione greca, abbiamo considerato πρώτης in funzione
predicativa. 10 Manteniamo, pur con prudenza, la congettura Diels. 127 [5] ,
uomini a due teste14: impotenza15 davvero nei loro petti16 guida la mente
errante17. Essi sono trascinati18 , 11 Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il
pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta Coxon a concludere che nel contesto
Parmenide si riferisca a filosofi, ricercatori. 12 Normalmente si lascia cadere
in traduzione δή, che pure, seguendo un pronome relativo, ne enfatizza la
posizione nella frase. L'uso nel contesto potrebbe alludere alla discussione
che precede B6. 13 L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il
tradizionale contrasto tra sapienza divina e ignoranza umana, riferendolo in
particolare a una tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della
κρίσις di B2. La ἀκρισία delle «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) manifesta la
loro «impotenza» (ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ εἰδότες
οὐδέν ritorna frequentemente per caratterizzare il fatto che i mortali non
conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro, ristretti
alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico,
l’ignoranza dei mortali è implicitamente contrastata dalla conoscenza che
Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα). 14 Il greco δίκρανοι si
riferisce alla condizione di coloro che manifestano una sorta di schizofrenia e
in questo senso hanno una testa (una mente) divisa in due: affermano a un tempo
essere e non-essere, fingendo di poter incrociare due vie in realtà (verità)
incompatibili. Robbiano (op. cit., pp. 104-5) segnala come nella lirica arcaica
il tema della indecisione-confusione propria della condizione umana fosse
espresso nel riferimento a un νόος diviso (Teognide) o a una sorta di doppia
mente (Saffo). 15 Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di
aiuti per risolvere una situazione di difficoltà: insomma, una condizione di
impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare (abilità nella
costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini,
ignoranti, conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che gli
uomini hanno potuto strappare agli dei alcuni dei loro segreti, facendo fronte
alla propria impotenza. 16 L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove
è marcato il nesso tra ἀμηχανίη e θυμός, la cui sede è appunto nel petto. Coxon
(p. 184) assume che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di θυμός
distinto da νόος, secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale
del carro (e poi reso celebre nel mito del Fedro platonico). 17 L’espressione
πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo luogo della
«mente» (così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del «pensiero»: la
mente, invece di essere guida sicura, conduce fuori strada. 128 a un tempo
sordi e ciechi19, sgomenti, schiere scriteriate20 , per i quali esso21 è
considerato22 essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti23 il percorso torna all'indietro24 . 18 La forma verbale φοροῦνται
rafforza il senso di sbandamento, deriva, cui conduce la mente dissennata dei
«mortali che nulla sanno». 19 L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol
marcare una condizione di disorientamento, a un tempo (ὁμῶς) di isolamento
uditivo e visivo. Anche Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la
stoltezza manifestata dalle opinioni correnti. 20 Il greco ἄκριτα φῦλα
sottolinea l’incapacità, da parte di un gruppo numeroso (φῦλόν indica razza,
tribù, classe, genia), di giudicare, di discernere. Evidentemente la Dea
intende marcare, per contrasto, la prospettiva di ricerca aperta in B2 con
l'alternativa delle «vie di ricerca per pensare»: in questo caso, la «mente»
erra, e i «mortali» non conoscono alcunché. Alcuni ritengono (tra gli altri
anche Cerri, p. 212), che Parmenide si riferisca qui ai seguaci di Eraclito. 21
Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come aveva a suo tempo rilevato
Burnet (seguito poi da Coxon e ora da Palmer), potrebbe fungere da articolo per
sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel contesto del frammento τό è da
riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, pp.
115-6), oltre a ricordare il frequente impiego da parte di Parmenide
dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha segnalato una
costruzione analoga in B8.44b-45: τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον
πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ è necessario, infatti, che esso non sia in qualche
misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra, in cui
τό rinvia a τὸ ἐόν del v. 37. 22 Il perfetto medio-passivo νενόμισται ha
attirato l’attenzione di Jaeger (La teologia dei primi pensatori greci, cit.,
p. 170, n. 36), il quale lo riferisce non all’opinione di un uomo o di qualche
individuo, ma alla malignità del νόμος dominante (costume, tradizione), alla
opinio communis degli uomini. Leszl in questo senso osserva (p. 230) come il
passivo di νομίζω abbia il significato di «è pratica corrente». Il ricorso a
νομίζω, con la soggettività implicata, fungerebbe, secondo Coxon (p. 185), da
contrasto ai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. 129 23 Il genitivo plurale
πάντων può essere qui inteso come neutro, riferito dunque a «tutte le cose»,
ovvero come maschile, riferito quindi ai «mortali», come il precedente relativo
οἷς, «per i quali». Coxon traduce: «and for all of whom»; analogamente O'Brien,
Palmer, Gemelli Marciano, che abbiamo seguito. La Gemelli Marciano (II, p. 83)
segnala la composizione ad anello, con cui nell'ultimo emistichio Parmenide
riprenderebbe il v. 4. 24 Secondo Mourelatos (p. 100), il senso dell’aggettivo
παλίντροπός sarebbe da vedere in connessione con οὐ γὰρ ἀνυστόν (B2.7),
indicando l’infinita regressione della ricerca lungo la via dei mortali.
Potremmo dire che la Dea in questo modo stigmatizzi la inconcludenza della
presunta via di ricerca inventata dai mortali, e quindi il destino di erranza
che colpisce chi pretenda di seguirla. Secondo coloro che propendono per una
interpretazione del frammento in chiave anti-eraclitea, qui avremmo una eco di
DK 22 B51: Οὐ ξυνίασι ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ
τόξου καὶ λύρης non capiscono che ciò che è differente concorda con se stesso,
armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira. Contro questa
interpretazione, tra gli altri, di recente A. Nehamas (“Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston &
D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 55-6), il quale sottolinea come il
termine παλίντροπός si riferisca qui in realtà ai mutamenti sequenziali delle
cose reali l'una nell'altra (come nella cosmologia milesia); in Eraclito,
invece, esso sarebbe impiegato in riferimento a un equilibrio statico. 130 DK
B7 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ 1 εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος2
εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα
καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ 3 πολύδηριν4 ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα.
[vv. 1-2 Platone, Sofista, 237 a 8-9, 258 d 2-3; Simplicio, In Aristotelis
Physicam 135, 143-144; v. 1 Aristotele, Metafisica 1089 a; vv. 2-6 Sesto
Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; v. 2 Simplicio, In Aristotelis
Physicam 78, 650; vv. 3-5 Diogene Laerzio IX, 22] 1 Alcuni codici di Aristotele
(EJ) e Simplicio (DE) riportano τοῦτο δαμῇ, quelli di Platone τοῦτ’ οὐδαμῇ.
Sono attestate anche le forme τούτου οὐδαμὴ (Simplicio F), τοῦτο μηδαμῇ
(Simplicio D), τοῦτο δαῇς (Aristotele recc.). 2 I codici di Sesto e Simplicio
riportano διζήσιος (nelle varianti dialettali διζήσεος, διζήσεως), quelli di
Platone il participio διζήμενος. 3 Nonostante i codici di Sesto e Diogene
Laerzio riportino la forma del dativo λόγῳ, Kingsley (P. Kingsley, Reality, The
Golden Sufi Center, Inverness (CA) 2003, pp. 139-140), all'interno di una lunga
discussione sul valore da attribuire al termine (prima di Platone), propone
(seguito da Gemelli Marciano) di leggere, in alternativa, il genitivo λόγου. 4
Il testo di Diogene Laerzio riporta πολύδηριν, quello di Sesto πολύπειρον. 131
Mai, infatti1 , questo2 sarà forzato3 : che siano cose che non sono4 . Ma tu da
questa via di ricerca5 allontana il pensiero6 ; 1 Coxon (p. 190) osserva
giustamente che la presenza di γὰρ presuppone un'asserzione da giustificare,
per noi mancante: questo solleva dubbi sull'effettivo riferimento del
successivo τοῦτο. 2 Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare di
τοῦτο in funzione prolettica (per la quale sarebbe stato naturale piuttosto
τόδε): nel contesto il pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto
precede (per noi perduto). 3 Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa
a quelle suggerite da O’ Brien e Conche: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera
dompté» («Mai, infatti, questo enunciato sarà domato») ovvero «Car jamais ceci
ne sera mis sous le joug» («Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo»).
Secondo l’indicazione di Diels (Parmenides Lehrgedicht, p. 74), il senso
dell’aoristo congiuntivo passivo di δαμάζω \ δάμνημι è da ricavare dalle
citazioni platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista
(241 d5- 7): Τὸν τοῦ πατρὸς Παρμενίδου λόγον ἀναγκαῖον ἡμῖν ἀμυνομένοις ἔσται
βασανίζειν, καὶ βιάζεσθαι τό τε μὴ ὂν ὡς ἔστι κατά τι καὶ τὸ ὂν αὖ πάλιν ὡς οὐκ
ἔστι πῃ. Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di mettere alla
prova il pensiero del padre, Parmenide, e di forzarlo [biázesqai] col dire che
il non-essere «è», sotto un certo aspetto; e che, per converso, l’essere, in un
certo senso, «non è» (traduzione M. Vitali, Bompiani, Milano 1992). A
rafforzare questo valore, c’è anche il βιάσθω del v. 3. Interessante anche il
suggerimento specifico di Liddell-Scott-Jones, di rendere il verbo in senso
lato come «sarà provato», che Cerri (p. 215) difende, pur apprezzando
l’interpretazione del passo offerta da O’Brien. Contro la scelta di Diels e LSJ
argomenta tuttavia in modo convincente Coxon (p. 190). A suo tempo Calogero
(Studi sull’eleatismo, cit., pp. 24-5, nota) aveva puntualmente contestato
l'ipotesi τοῦτο δαμῇ, preferendole τοῦτο δαῇς (l'emistichio risultava così:
«Non ti lasciar mai insegnare questo»). Alle osservazioni di Calogero si
richiama oggi la Gemelli Marciano (II, p. 84). 4 Il non-essere è in questo caso
espresso con il participio plurale μὴ ἐόντα, «cose che non sono». Secondo Tarán
(p. 75), ciò si collegherebbe alla successiva polemica contro il dato dei
sensi. 132 né abitudine7 alle molte esperienze8 su questa strada ti faccia
violenza9 , 5 Simplicio (Fisica 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ
διζήσιος - «questa via di ricerca» - alla seconda via: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ
συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9]
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] sostiene che la
contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano
vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli
opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In
Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono
l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver
allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge
[citazione B8.1 ss.]. Secondo Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla «via
che conduce al nonessere»; inoltre B7.1-2 seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1.
Come fa osservare Tarán (p. 76), Simplicio sembra distinguere anche tra l’obiettivo
polemico di B6 e quello di B7. 6 Il sostantivo νόημα è qui impiegato
probabilmente nel significato – già omerico - di mente, intelligenza, organo
del pensiero e della comprensione. I primi due versi del frammento sono citati
da Platone e Simplicio: essi costituiscono un primo blocco testuale. Diogene
cita isolatamente i vv. 3-5, secondo blocco. Sesto consente di cucire i due
blocchi, citando i vv. 3-6 dopo il verso 2. nella sua citazione, tuttavia, non
c’è posto per il verso 1. Non sorprenderà, dunque, che nella storia delle
interpretazioni il frammento abbia subito vari smembramenti e montaggi. Noi
scegliamo di conservare l’ordinamento che si può ricavare da Simplicio,
l’ultimo autore che si ha fondato motivo di ritenere disponesse di una copia del
poema (ancorché non esente da rielaborazioni linguistiche e contenutistiche). 7
Coxon (p. 191) legge ἔθος in contrapposizione a νόημα (abitudine versus analisi
intellettuale): la prima forzerebbe, la seconda condurrebbe in modo persuasivo.
8 Dal momento che ἔθος si connoterebbe autonomamente in contrasto a νόημα,
secondo Coxon (p. 191) πολύπειρον sarebbe da riferire a ὁδὸν: contribuirebbe a
determinarne il valore rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ del verso 133 a dirigere10
l’occhio che non vede, l’orecchio risonante11 [5] e la lingua12. Giudica13
invece con il ragionamento14 la prova15 polemica16 precedente. Cerri (p. 216)
giudica tuttavia inaccettabile la proposta (anche) per ragioni metriche.
Robbiano (p. 97) segue Coxon, insistendo sull’abitudine generata lungo la via
di cui i mortali hanno molta esperienza. Anche Nehamas (op. cit., p. 59 nota
50) preferisce riferire πολύπειρον a ὁδὸν, ma suggerisce la possibilità che
Parmenide intendesse riferirlo anche a ἔθος. Per quanto riguarda la traduzione,
abbiamo optato per una resa che sottolinei nell’aggettivo il riferimento
all’origine dalle molte esperienze; altri scelgono, invece, di marcare
l’effetto implicito in esse, rendendo quindi con «molto esperta», «molto
abile». 9 Il verbo βιάσθω si potrebbe rendere anche con «induca»: come informa
Cerri (p. 217), esso ricorre frequentemente nella poesia tra fine VI secolo e
inizi del V (Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo) nel senso di violenza
esercitata dalla menzogna sulla verità. 10 Cerri (p. 217) osserva che νωμᾶν nel
linguaggio epico significa «muovere, dirigere con abilità e destrezza». 11
Cerri (p. 217) rileva la natura ossimorica del verso: ἄσκοπον ὄμμα e ἠχήεσσαν ἀκουήν
evocano le metafore eraclitee. Lo studioso giustamente le collega a B6.7,
trovandosi però in difficoltà nell’interpretazione. In B6, infatti, esse
sarebbero riferite agli eraclitei, qui, invece, recuperate (nella stessa
prospettiva eraclitea) contro il sapere tradizionale. 12 Coxon (p. 192)
sottolinea come l’epiteto ἠχήεσσαν qualifichi tanto ἀκουήν quanto γλῶσσαν: la
lingua replicherebbe la confusione degli occhi e delle orecchie. La sua
proposta è contestata, per ragioni semantiche (il significato dell’aggettivo -
«risuonante» - mal si accorderebbe nel contesto con γλῶσσα), da Tarán (p. 77),
il quale suggerisce invece di considerare ἄσκοπον riferito tanto a ὄμμα quanto
a ἀκουήν e γλῶσσαν, con il valore avverbiale di «senza scopo», «a caso». Come
riconosce lo stesso Tarán, tuttavia, la lettera del verso 4, con i due
aggettivi immediatamente riferiti ai due sostantivi, rende più plausibile la
solitudine di γλῶσσαν: il termine, in relazione a ἔθος πολύπειρον, indica il
linguaggio ordinario. Heitsch (p. 161) suggerisce che, nel contesto, senza
ulteriori predicazioni, γλῶσσα non sia da porre sullo stesso piano degli altri
organi di senso: qui, dunque, il termine indicherebbe non l’organo del gusto ma
l’organo del linguaggio, come riconosce anche Robbiano (pp. 97-98), insistendo
sull’«organo che produce nomi che non sono in grado di riflettere la verità». 13
Kingsley (Reality, cit., p. 140) rende κρῖναι come «judge in favor of», nel
senso di «scegli» (opzione adottata anche da Ferrari, Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 50); la Gemelli Marciano (II, p. 19) preferisce
«entscheide dich für» («deciditi per»). 134 14 Secondo Cerri (p. 218), del
termine λόγος – corradicale di λέγω (dire) e dunque originariamente sinonimo di
μῦθος - qui sarebbe valorizzato l’aspetto semantico del ragionamento mentale
(emergente anche in Eraclito), mentre nella seconda occorrenza nel poema
(B8.50) l’aspetto semantico del discorso che verbalizza il ragionamento (λόγος
è in tal caso complementare a νόημα). Tonelli (p. 126), insistendo sul
parallelo con il contemporaneo Eraclito, mantiene una stretta connessione tra
λόγος e νόος: λόγος non indicherebbe qui «il raziocinio ma la facoltà umana di
cogliere il senso». A suo tempo Conche (p. 122) aveva sottolineato come, a
differenza del νόος che può errare (B6.6), il λόγος non si allontani dalla
verità, evidentemente intendendo con il termine la facoltà razionale. Ma di
recente Kingsley (Reality, cit., pp. 129-50) ha lungamente argomentato che tale
significazione è solo platonica e post-platonica, mentre in Parmenide λόγος
avrebbe ancora il valore di «discorso» o «discussione»: in questo senso, egli
preferisce (come segnalato in nota al testo greco) emendare il dativo in
genitivo, facendone dunque una specificazione di ἔλεγχος. Contro la tendenza a
contrapporre, in Parmenide, il λόγος all'esperienza, si esprime anche Cordero
(By Being, It Is, cit., pp. 136-137), convinto che il significato base sia
ancora quello di «discorso». A noi pare che la resa con «ragione» sia forzata,
e che l'invito espresso dalla Dea sia quello di valutare discorsivamente,
argomentativamente: il suggerimento di Cerri, insomma, evitando
l'identificazione di una facoltà (la ragione appunto) e limitandosi a evocare
un esercizio di controllo della discussione (λόγος, ἔλεγχος), pare prudente e
funzionale. 15 Si tratta di una delle prime attestazioni del termine ἔλεγχος.
Liddell-ScottJones, con esplicito riferimento al nostro testo, indica come
significato «argument of disproof, refutation». Di recente, Chiara Robbiano
(pp. 106- 107) – che legge B7 e B8 come costituissero un testo continuo - ha
ricordato come ἔλεγχος debba riferirsi non solo alla contestazione già
implicita nei versi precedenti, ma anche agli argomenti di B8, che hanno «la
forma di un elenchos». In B8.1-49 la dea metterebbe alla prova varie strategie
tradizionalmente ritenute in grado di condurre alla conoscenza. Interpretando
correttamente il suo (della dea) logos, l’audience non solo sarebbe stata
completamente persuasa dal non seguire la seconda via, ma avrebbe anche
riconosciuto alcuni dei caratteri dell’Essere che concorrono all’obiettivo
della prima via: la comprensione (insight) dell’Essere. 16 L’aggettivo
πολύδηρις sarebbe, secondo Coxon (p. 192), di conio parmenideo, e si
riferirebbe alla polemica contro la fisica ionica e pitagorica, poi ripresa da
Zenone. In πολύδηρις – come osserva Conche (p. 123) - c’è l’idea di lotta, di
combattimento (δῆρις): la forza della ragione opposta alla forza
dell’abitudine. Liddell-Scott-Jones – con esplicito riferimento al nostro testo
- rende con una espressione di senso passivo: «molto contestata». 135 da me
enunciata17 . Interessante l'analisi di Patricia Curd (The Legacy of
Parmenides, cit., p. 104): «The elenchos (testing) is poludēris (rich in
strife) because it must repeatedly fight against habit and experience; it is a
battle to be won over and over». Efficace la resa di A. Nehamas (“Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 59), il quale traduce κρῖναι δὲ λόγῳ
πολύδηριν ἔλεγχον come «giudica con la ragione l'argomento che molto contesta».
17 Mentre Diels e Calogero riferiscono la prova (che così sarebbe genericamente
«annunciata») alla sezione sulla Doxa, Verdenius, Tarán e Mourelatos la
intendono riferita ai passaggi precedenti (il participio va allora tradotto più
opportunamente con «enunciata»), in cui la Dea ha introdotto le due vie e
argomentato contro la presunta terza via. Si tratta della posizione prevalente
tra gli interpreti, tenuto conto dell’uso del participio aoristo ῥηθέντα, che
proietta il termine cui si riferisce (ἔλεγχος) verso un passato appena
compiuto. Preferiamo lasciare sospeso il riferimento, tenendo conto anche del
suggerimento di R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", in Presocratic Philosophy, cit., p. 76) di tradurre in
questo caso il participio aoristo come «when it has been spoken by me». 136 DK
B8 vv. 1-49 μόνος1 δ΄ ἔτι2 μῦθος3 ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι
πολλὰ μάλ΄, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε4 καὶ ἀτρεμὲς
ἠδ΄ ἀτέλεστον5 · 1 È possibile, sulla scorta della citazione di Sesto (Adversus
Mathematicos VII, 111), che il verso iniziale di B8 costituisse il secondo
emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Il testo dei codici di Sesto -
μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è tuttavia improbabile in epica, dove si
attenderebbe μοῦνος, forma (presente nei codici DE di Simplicio) che, in
effetti, alcuni editori preferiscono; d'altra parte, rettificandola, l'intero
verso non reggerebbe metricamente. Di recente Passa (p. 87) si è espresso per
la continuità tra B7 e B8, ritenendo di dover accettare μόνος come forma autenticamente
parmenidea. 2 In vece di δ΄ ἔτι, i codici DEF di Simplicio e LEV di Sesto
riportano δέ τι; il codice C di Sesto δέ τοι. Il contesto, tuttavia, suggerisce
l’adozione – largamente prevalente tra gli editori – dell'attuale versione. 3
Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς. 4 L'emistichio οὖλον μουνογενές τε è
lezione attestata in Simplicio (commento alla Fisica 120.23, 145.4, 30.2,
78.13, 87.21 e al De Caelo 557.18), Clemente e Teodoreto (che tuttavia non è
considerato fonte indipendente), originariamente accolta anche da Diels e per
lo più ripresa dagli editori contemporanei. Nella V edizione dei Vorsokratiker
a cura di Kranz, tuttavia, essa fu sostituita dalla trascrizione dei codici di
Plutarco (Contro Colote 1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές («è infatti intero [nelle
sue membra]»), accolta tra gli altri anche da O’Brien e Reale. Come segnala
Coxon (p. 195), ἔστι γὰρ potrebbe essere formula introduttiva di Plutarco:
Passa fa notare, tuttavia, come la stessa formula sia ripetuta in B8.33. Proclo
cita (commento al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30) in un caso solo οὐλομελές,
ma, quando riporta l'intero verso (nello stesso commentario, 6.1152.25), il
testo del primo emistichio è οὖλον μουνομελές τε. Si ha quindi l'impressione di
una citazione a memoria (in effetti il testo è per il resto identico a quello
citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come suggerisce Passa (p. 63),
potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale parmenidea a partire
dall'atmosfera pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec. a. C. e I sec. d.
C.. Analogamente, deformazione del testo a noi tramandato dai codici
simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in
PseudoPlutarco, Teodoreto ed Eusebio. 5 La ricostruzione del testo di questo
secondo emistichio è molto controversa. La versione più attestata nelle fonti
antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον. 137 [5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν 6 , ἕν, συνεχές7 · τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄
ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω8 φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ
ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος9 ὦρσεν [10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον,
φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών10 ἐστιν ἢ οὐχί. Tuttavia Simplicio presenta
anche (nel commentario alla Fisica 30.2, 78.13, 145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον.
La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare sostenibile, in quanto ripetizione di ἀγένητον
del verso precedente. Sulla variante esistono comunque dubbi e non mancano le
trascrizioni alternative nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον,
ἢ δι’ ἀτέλεστον. Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il
suo senso appare contraddetto da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον...
πάντοθεν (vv. 42-3). Accettando la variante di Simplicio e volendone evitare le
implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come ἠδὲ
τελεστόν (quindi «e perfetto»), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri
(Kirk-Raven-Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon) hanno
proposto ἠδὲ τέλειον («e completo»). Una minoranza (ma significativa: Hölscher,
Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον.
6 Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio,
Asclepio, Filopono, Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ μοῦνον.
A seconda della punteggiatura potrebbe rendersi come: «poiché non era, non
sarà, tutto intero insieme, ma è solamente», ovvero: «poiché non era, non sarà,
ma è solamente, tutto intero insieme». 7 I codici di Simplicio riportano ἕν,
συνεχές; in Asclepio è attestato invece οὐλοφυές («di natura intera»), lezione
difesa e preferita da Untersteiner. 8 Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni
codici di Simplicio, è da preferire ἐάσω, presente nei codici omerici e per lo
più anche in quelli di Simplicio (che presentano anche la variante ἐασέω). 9
Nell'epica χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel
significato originario di «debito» e in quello secondario di «bisogno» (che ha
riscontri in lirica e tragedia), come sottolinea Passa (pp. 82-3). 10 I codici
attestano qui unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo formula
analoga, le lezioni si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι. Passa (pp.
80 ss.) ha discusso specificamente il rapporto tra le forme χρεών e χρεόν,
sottolineando come sia accettabile in Parmenide (analogamente a quanto
riscontriamo nel caso di Erodoto) la forma ionica recente χρεόν, 138 οὐδὲ ποτ΄ ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, [15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ
κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ
ἐτήτυμον εἶναι. πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν12; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; [20] εἰ
γὰρ ἔγεντ΄13 , οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος14 ὄλεθρος. οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ
μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.
[25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. mentre χρεών sarebbe
atticismo: a confermare un meccanismo di atticizzazione parallelo a quello
operante sul testo omerico. 11 Il codice di Simplicio riporta ἐκ μὴ ὄντος («da
ciò che non è»): l’emendazione proposta da Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος consente di
concludere la dimostrazione come si trattasse di dilemma: l’essere non può
avere origine dal non-essere (v. 7), né dall’essere, dunque è senza origine (ἀγένητον).
La necessità dell’emendazione è analiticamente sostenuta da Tarán (pp. 95-102),
ma combattuta con buone osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con
qualche riserva sia relativamente alla fonte emendata – i codici di Simplicio
rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato – sia alle
implicazioni teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso
della successiva proposizione γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό. 12 I codici DE di
Simplicio riportano πέλοι τὸ ἐόν, generalmente accettato; il codice F rende
πέλοιτο ἐόν («potrebbe essere ciò che è», «essendo, potrebbe essere»), che una
minoranza di editori (tra gli altri Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten
propose di emendare il testo come ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò
che è»), soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi
abbandonata. 13 La forma [εἰ γὰρ] ἔγεντ΄ è correzione (Preller) non attestata
nei manoscritti simpliciani della edizione di Simplicio, che riportano invece ἔγενετ΄
(EF) e ἔγετ΄ (D). 14 Qui, in vece di ἄπυστος (De Caelo A e Fisica F), nei
codici DE del commento al De Caelo abbiamo ἄπαυστος («incessante»), nel
commento alla Fisica (ed. aldina) ἄπιστος («incredibile»), in Fisica DE il
testo corrotto ἄπτυστος. 139 αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον
ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε15 μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής.
ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον16 καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται [30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι
μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, οὕνεκεν
οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν 17 δ΄ ἂν παντὸς
ἐδεῖτο. ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ 18 πεφατισμένον19 ἐστίν, 15 Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei
codici EW di Simplicio (Phys.); i codici DF riportano τῆδε (τῆ δὲ E a ). 16
Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio
(Phys.) riproducono (con varianti) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di
Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει («identico,
resta in un identico [luogo]»). 17 La prima parte del verso è trasmessa con
varianti nei manoscritti di Simplicio (Phys.): ἐπιδευές· μὴ ἐὸν (30, 10, 40, 6
Ea F) ovvero ἐπιδεές· μὴ ἐὸν (30, 10. 40, 6 DE); ἐπιδευές· μὴ ὂν (146, 6 EF) o ἐπιδεές·
μὴ ὂν (146, 6 D). Da un punto di vista metrico, ἐπιδευές· μὴ ἐὸν non regge;
d'altra parte ἐπιδεές non è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute
ampiamente i problemi connessi con la scelta del testo greco più plausibile,
propende – con riserve – per l’adozione della soluzione ἐπιδεές, accettabile
appunto per la misura del verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori
(Tarán, O'Brien, Palmer, Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk,
espungono μὴ, conservando la forma epica ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.) ha con
buoni argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come ἐπιδεές
riflettesse in origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione
da parte di Parmenide, autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in cui
già era caduta la più antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito all'ἐπιδεῖς
parlato la sinizesi ἐπιδεές, «la sola grafia adeguata a un testo scritto».
Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta da Bergk,
conservando ἐπιδεές· μὴ ὂν. 18 I manoscritti di Simplicio riportano ἐν ᾧ,
quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ, dal significato sostanzialmente equivalente. O'Brien
(p. 55) ipotizza che in origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per
precisare il senso di ἐν ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito
da Couloubaritsis. 19 I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F;
143, 23-24 EF) riportano πεφατισμένον, privilegiato dagli editori; altri
manoscritti di 140 εὑρήσεις τὸ νοεῖν· οὐδὲν γὰρ < ἢ > ἔστιν20 ἢ ἔσται ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι22· τῷ
πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23 , ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, [40]
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, Simplicio (Phys. 87, 15 DE; 143,
23-4 D) presentano invece πεφωτισμένον («è illuminato»). 20 Il testo del codice
di Simplicio (Phys. 146, 9) riporta οὐδ’ εἰ χρόνος ἐστὶν («nemmeno se il tempo
esiste»), che, metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto.
Coxon (seguito da Conche) ha accolto la variante οὐδὲ χρόνος («And time is
not»), che, a sua volta, non risulta però illuminante. Tra le proposte per
aggiustare il senso del verso troviamo quella di Bergk - οὐδ’ ἦν γὰρ («né
esisteva infatti») – e soprattutto quella di Preller (la più adottata), che
(con qualche perplessità) seguiamo: οὐδὲν γὰρ ἔστιν [+ ἢ ἔσται]. Essa riprende
(integrandola con la congiunzione ἢ) una citazione di Simplicio (Phys. 86, 31)
– οὐδὲν γὰρ ἔστιν –. Va dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a
favore della lezione χρόνος di Simplicio in Phys. 146, 9 è buono: essa si
trova, in effetti, nel contesto della citazione continua dei primi 52 versi del
frammento (B8), quasi a garanzia di uno sforzo di attenta trascrizione
dell’originale, mentre l’altra lezione (Phys. 86, 31) ha più l’aria di una
libera parafrasi. Le difficoltà di questo passaggio potrebbero dunque
suffragare l'ipotesi di interventi di montaggio sulla copia del poema
disponibile a Simplicio. 21 I manoscritti EF di Simplicio (Phys. 146, 11; 87,
1) riportano οὖλον (D ὅλον); l'Anonimo (In Theaet.) οἶον («solo»); Platone
(Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto οἷον («come»). 22 I manoscritti di
Simplicio riportano τ΄ ἔμεναι (Phys. 146, 11) ovvero τ΄ ἔμμεναι (Phys. 87, 1
EF; D τ΄ ἔμμενε); quelli di Platone, Eusebio, Teodoreto (e Simplicio Phys. 29,
18; 143, 10) τελέθει; l'Anonimo τε θέλει. 23 Il secondo emistichio è di
difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici di Simplicio prevalgono
tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli editori: (i) πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται
(Diels-Kranz, Tarán, Cordero, Coxon, O'Brien, Conche, Cassin, Reale, Cerri);
(ii) πάντ΄ ὀνόμασται (Mourelatos, Casertano, Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli
accertamenti più recenti sui manoscritti sembrerebbero suffragare questa
seconda lettura, che ha un riscontro anche in B9.1. Accanto a varianti
secondarie, abbiamo come lezione alternativa il testo di Platone (Teeteto 180
e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto, Eusebio, Teodoreto: παντὶ ὄνομ
(α) εἶναι. Abbiamo mantenuto la lezione Diels-Kranz perché, nel contesto, ci
sembra più naturale il senso che se ne può ricavare, anche in traduzione. 141
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν. αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον,
τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς
πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον [45] οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν24 ἐστι τῇ ἢ τῇ.
οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν 25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι26 εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν 27 ἔστιν
ὅπως εἴη κεν28 ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ 29 γὰρ
πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει30 . [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio,
In Aristotelis Physicam 145-146, vv. 1-14 id. 78] 24 Si veda l'annotazione a
χρεών, v. 11. In questo caso i manoscritti riportano sia la forma χρεών, sia la
forma χρεόν (sul piano filologico lectio difficilior), che, come sottolinea
Passa (p. 81) difficilmente può intendersi come corruzione di χρεών. Manteniamo
dunque la forma χρεόν, consapevoli dell'improbabilità del fatto che Parmenide
impiegasse la stessa formula πελέναι ... ἐστιν, ricorrendo ora a χρεών ora a
χρεόν. 25 La lezione dei codici di Simplicio è οὔτε γὰρ οὔτε ἐόν (ovvero ὄν):
l’edizione aldina emendò οὔτε ἐόν in οὐκ ἐὸν, per lo più accettato. Diels
(1897) preferì l’alternativa οὔτεον (= οὔ τι), forma rara dell’indefinito. 26
La forma ἱκνεῖσθαι è attestata in Simplicio (Phys. DE), accolta dagli editori.
Simplicio F riporta invece κινεῖσθαι. 27 Il testo dei codici di Simplicio è οὔτε
ὄν, emendato da Karsten in οὔτ΄ ἐὸν. 28 La forma κεν è emendazione di Karsten:
i codici DEF di Simplicio riportano καὶ ἓν; l'edizione aldina κενὸν. 29 La
lettura οἷ (dativo del pronome personale) si è affermata nel corso dell’ultimo
secolo, a partire dalla proposta di Diels, il quale però intendeva οἷ come un
relativo («verso cui»). I manoscritti (DEF) di Simplicio riportano οἱ (articolo
determinativo ovvero dimostrativo), emendato nell’edizione aldina come ἦ
(espressione omerica per «in effetti», «certo»). 30 Così già leggeva Diels; i
manoscritti di Simplicio riportano in effetti κυρεῖ (EF), ovvero κυροῖ (D):
κύρει è emendazione degli editori. 142 Unica1 parola2 ancora, della via3 che4
«è», rimane; su questa [via] sono5 segnali6 1 Il complesso della costruzione
greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo) μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο accentua
la connessione logica del frammento con quanto precede: prospettate le due vie,
esclusa una delle due come impercorribile, discusse le contaminazioni dei
mortali, «rimane una sola via» da esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν. Sebbene
chiaramente l’aggettivo mónoj si riferisca a μῦθος, molti traduttori di fatto
lo applicano a ὁδοῖο: «One path only is left for us to speak of» (Burnet),
ovvero «So bleibt nur noch Kunde von Einen Wege» (Diels), «One way only is left
to be spoken of» (Raven). 2 Ricordiamo che il termine μῦθος ricorreva già in
B2.1, qualificato dalla fonte divina: la «parola» (ovvero il «discorso»)
proferita dalla Dea doveva essere accolta, meditata e custodita dal kouros. Il
valore del termine sembrerebbe dunque nel contesto quello di parola, discorso
di Verità. Nella relativa nota di B2.1 abbiamo richiamato alcune recenti
posizioni interpretative: Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the
Presocratics to Plato, cit., pp. 17-18) sottolinea nell’uso di mythos il valore
di «authoritative speech act»; Couloubaritsis (La pensée de Parménide, cit., p.
541) insiste sullo stesso valore con una traduzione poco familiare: «ma façon
de parler autorisée». 3 Il genitivo ὁδοῖο è per lo più reso come genitivo
oggettivo, di argomento, in relazione a μῦθος, di cui specificherebbe il
contenuto. Cerri (p. 219) difende una sua interpretazione “partitiva” («di via,
resta soltanto una parola»), riferendolo alle vie prese in esame. 4 Il valore
della congiunzione ὡς sarebbe – secondo Mansfeld (p. 93) – complesso: non
significherebbe semplicemente «che», ma anche «come». Per tale valore si veda
il parallelo di B1.31. 5 Coxon (p. 194) sottolinea la contrapposizione tra
σήματ΄ ἔασι e il successivo (v. 55) σήματ΄ ἔθεντο («posero segni»): alla
convenzionalità dell’imposizione umana è opposta l'oggettività delle evidenze
dell’Essere. 6 Il greco σήματα può rendersi nel contesto come «indizi»,
«segnali», anche «evidenze» (monuments, Coxon p.194). Essi possono essere
intesi anche come i «riferimenti» che consentono di mantenere la propria
direzione lungo una via: essi garantirebbero, in altre parole, al pensiero di
non perdersi. Così, secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 168), i σήματα
sarebbero indicazioni, «prove» del carattere necessario e unico del fatto di
essere: pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo la
via giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i σήματα –
rigorosamente parlando – non siano da intendere come segni dell’Essere, ma
della sua via, con la funzione, quindi, di guidare lungo il percorso di
conoscenza dell’Essere: il concetto di ἐόν assicurerebbe alla via la
determinazione 143 specifica. A Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un
rilievo: i «segni» fungerebbero essenzialmente da monito contro possibili
deviazioni dalla via dell’Essere, quindi non tanto da attributi positivi,
piuttosto da segnali negativi, che escludono ogni sovrapposizione con il
Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche da Scuto (G. Scuto, Parmenides’ Weg.
Vom WahrScheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung zur Beziehung des
parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, p.
142): tutti i segni ricavati da Parmenide sarebbero conseguenze necessarie e
inconfutabili della applicazione del principio di fondo secondo cui l’essere
non può sorgere dal non-essere. La Stemich (pp. 211-2) propone di analizzare i
segni in quanto indicatori e a un tempo strumenti di orientamento per il
kouros, segnavia ma anche descrittori della sua condizione spirituale nel
momento in cui attinga la conoscenza. Da ricordare, in ogni caso, che il
termine designa anche i «segni augurali» interpretati dagli indovini (Cerri p.
219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il mezzo di rivelazione di una potenza
superiore. L’eco religiosa potrebbe essere deliberatamente evocata dall’autore
anche per predisporre la propria audience (interna ed esterna) alla disamina
successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104) come σῆμα sia sinonimo poetico di
σημεῖον, termine che ritroviamo in Melisso (B8) e negli usi giuridici.
Mourelatos (p. 94) inserisce l’interpretazione dei σήματα all’interno del
motivo della quest: per raggiungere il fine della quest è necessario percorrere
la strada «è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i «segnavia».
Rimanendo fedele all’immaginario epico, Mourelatos propone di leggere i
segnavia come imperativi del tipo: «cerca sempre ciò che è ….». Di recente
Chiara Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e σήματα: essi,
in effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere usati per
provare, mettere alla prova (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona.
Robbiano si riferisce all’episodio del riconoscimento di Odisseo da parte di
Penelope, dove il termine σήματα è messo in relazione alla verifica dell’identità
del mendicante: è offrendo segni che Odisseo persuade della propria identità.
Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il nesso tra σήματα
e loro interpretazione. La dea guida attraverso σήματα, che l’audience deve
interpretare. La consapevolezza della necessità di interpretare segni per
giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22 B93: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι
τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore che ha il suo
oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni. Il modello che la dea in
questo caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che invia segnali ai
mortali, per far loro conoscere cose normalmente 144 molto numerosi: che7 senza
nascita8 è ciò che è9 e senza morte10 , fuori della loro portata. La Robbiano,
per altro, concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che σήματα non si riferirebbe
ai predicati enumerati in B8.2-6, ma ai successivi argomenti. A una funzione
essenzialmente argomentativa dei σήματα ha pensato invece Colli (Gorgia e Parmenide,
cit., p. 146): i «segni» costituirebbero gli argomenti della dimostrazione,
coincidendo di fatto con gli attributi fondamentali dell’essere. Essi sarebbero
in parte dimostrati nel seguito, in parte assunti senza dimostrazione, fungendo
da medi aristotelici e contribuendo al carattere razionale della dimostrazione.
7 Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν)
esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo ὡς come congiunzione
dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable» (Tarán p. 85); «whatis is
ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b) intendendo ὡς come
congiunzione causale: «since it exists it is unborn and imperishable» (Guthrie
p. 26); «étant inengendré, est aussi impérissable» (O’Brien, p. 171); analogamente
Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La costruzione σήματa … ὡς può (e
probabilmente intende nel nostro contesto) indicare sia la significazione del
come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia il che (dell’Essere) in senso
dichiarativo. I segni devono rivelare l’ἐόν e dunque la loro funzione può
sembrare quella di indicare il che; al contempo, manifestandolo, consentono di
prendere consapevolezza della sua natura (per cui il come potrebbe essere
giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos, p. 95), infine, la struttura
che viene introdotta a partire da questo punto: Parmenide annuncia
programmaticamente tutti i segnavia, quindi procede a una loro giustificazione.
8 Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o di poco posteriori a
Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50): Ἡ. μὲν οὖν φησιν εἶναι
τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον, λόγον αἰῶνα,
πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον· ‘οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν
ἐστιν ἓν πάντα εἶναι’ ὁ Ἡ. φησι. Eraclito sostiene che il tutto è diviso
indiviso, generato ingenerato, mortale immortale, logos eterno, padre figlio,
dio giusto, e afferma: énon me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che
tutto è uno», ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio): ἀ γ έ ν η τ α : στοιχεῖα.
παρ’ Ἐμπεδοκλεῖ «Ingenerati»: gli elementi secondo Empedocle. 145 L'aggettivo
indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita
(Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma
che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane sarebbe
stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è corruttibile» (πρῶτός
τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι). Secondo Coxon (p. 195), il termine
potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p. 97),
secondo cui esso ricorrerebbe qui per la prima volta nella letteratura greca,
assumendo un significato più forte del semplice «ingenerato»: ἀγένητον in
Parmenide escluderebbe ogni forma di processo in cui qualcosa venga all’essere.
Possiamo qui notare di passaggio che la caratteristica essenziale dei segni
parmenidei è quella di presentarsi come negazioni (alfa privativo + aggettivo)
di qualcosa di significante all’interno del linguaggio e della esperienza dei
mortali (Ruggiu p. 277). 9 Come già segnalato, traduciamo ἐόν come «ciò che è»,
segnalando invece τὸ ἐόν come «l’essere»: per noi si tratta di espressioni
sinonime, ma la seconda, con l’articolo, è la formula più astratta. Nel
contesto ἐόν, come forma participiale, potrebbe essere reso con valore verbale
(come fa, per esempio Leszl, p. 171): «essendo ingenerato è anche imperituro».
In tal caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di essere subordinate
alle prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto sottolineato da
Scuto (op. cit., p. 141), secondo cui in Parmenide assisteremmo al passaggio da
un valore ancora temporale del participio a un significato atemporale: si
tratterebbe di una netta correzione nella direzione dell'astrazione, con cui
dall’esperienza della costante mutevolezza degli enti si concluderebbe nella
certezza di un essere sottratto al tempo. 10 L’espressione ἀνώλεθρόν, come la
precedente - ἀγένητον - formata con l’alfa privativo, indica letteralmente «ciò
che è senza distruzione [morte] (ὄλεθρος)». Si tratta di termine veramente raro
nella letteratura arcaica: prima di Parmenide ricorre una volta in Omero
(Iliade XIII.761); dopo Parmenide ricompare per la prima volta solo in Platone
(Cerri, p. 220). Nella testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK
12 A15; 12 B3), in riferimento ad Anassimandro, abbiamo: καὶ τοῦτ’ εἶναι τὸ θεῖον·
ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον [B 3], ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν
φυσιολόγων E tale sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro,
come dicono Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della natura. Ciò
potrebbe significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai
pensatori arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo.
In ogni caso, i due aggettivi – ingenerato e imperituro – corrispondono alle
tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali. 146 tutto
intero11, uniforme12, saldo13 e senza fine14; 11 Il termine οὖλον (che rendiamo
come «tutto intero» per dar ragione sia della totalità sia della integrità
implicite) è di diretta eco senofanea: οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει
Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode (DK 21 B24). 12
Nonostante le difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di
μουνογενές dopo ἀγένητον (v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare il
valore derivato dell’aggettivo, che anche in Eschilo (Agamennone 808) non ha
significato letterale di «unigenito», ma quello di «unico». Cerri (p. 221),
collegando μουνογενές all’epiteto sacrale di Ecate (secondo Esiodo, Teogonia
426, 488), valorizza la «metafora arditissima» proprio nella «contraddizione
sarcastica» ad ἀγένητον. In realtà la radice *γεν esprime sia la nozione di
“nascere”, “divenire”, sia quella di “essere”, “esistere”. Il termine
μουνογενές potrebbe alludere a γένος piuttosto che a γίγνεσθαι e dunque
veicolare l’idea di unicità. Mourelatos (pp. 113-4) suppone che Parmenide usi
μουνογενές in diretta opposizione alla formula tradizionale per esprimere
distinzioni, familiare da Esiodo: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν
εἰσὶ δύω Non c’era dunque un solo genere di Eris; sulla τerra ce ne sono due
(Opere e giorni 11-12). L’aggettivo μουνογενές si contrapporrebbe a μορφὰς δύο
(B8.53): dietro οὖλον μουνογενές ci sarebbe dunque il rifiuto della
contrarietà. Alcuni interpreti (Barnes, per esempio) associano μουνογενές a ἀτρεμὲς:
"monogeneity" e immobilità sarebbero poi contestualmente riprese ai
vv. 26-33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", in Presocratic Philosophy…, cit., p. 73) questa soluzione
è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione alternativa a οὖλον,
sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo indipendentemente, nel
significato di «uniforme». 13 L’aggettivo ἀτρεμές esprime stabilità, solidità,
immutabilità: Conche (p. 133) vi coglie la «calma» dell’Essere, in contrasto
con l’«inquietudine» degli enti. Coxon (p. 195) associa l’aggettivo alle
successive espressioni ἀκίνητον (vv. 26 e 38: «immobile»), ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ
τε μένον (v. 29: «identico e nell’identica condizione perdurando») e ἔμπεδον αὖθι
μένει (v. 30: «stabilmente dove è rimane»): esse denoterebbero identità esente
da mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia anche McKirahan (R.
McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford 147 [5] né un
tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tutto insieme19 , Handbook
of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford
2008, p. 210), il quale però insiste nel suggerire che l’aggettivo sia inteso a
esprimere il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere
pienamente, effetto dei limiti che costringono la sua natura. Esso sarebbe,
quindi, impiegato per indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza
di cambiamento e movimento fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 147),
tra gli altri, leggendo il verso come ἔστι γὰρ οὐλομελές τε καὶ ἀτρεμὲς, lo
avvicina a Platone, Fedro 250 c3: ὁλόκληρα δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα
φάσματα μυούμενοί integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici
erano le visioni cui eravamo iniziati. Si tratterebbe di un riferimento ai
misteri eleusini, dove ὁλόκληρα («integralmente perfette») corrisponderebbe a οὐλομελές,
indicando la completezza di struttura fisica, mentre ἀτρεμές ritorna identico,
evocando «di Verità ben rotonda il cuore fermo» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ
B1.29). La ripresa platonica suggerirebbe allora una direzione interpretativa
alternativa: uno sguardo sul mondo della alētheia indimostrato, il cui
apprendimento è intuitivo, tanto da essere paragonato alla conoscenza
misterica. 14 Leggo ἠδ΄ ἀτέλεστον – con DK, Coxon, O’Brien, Conche, Reale,
Heitsch e altri – attestato da Simplicio. Il valore da attribuire a ἀτέλεστον
dovrebbe essere, nel contesto, quello di «senza fine», «senza termine». Cerri
(pp. 222- 3) interpreta l’aggettivo letteralmente come «incompiuto»,
riferendolo, senza interpunzione, alla riga successiva: «incompiuto mai fu un
tempo, né sarà, poiché è ora tutto omogeneo». Da notare che Simplicio (Phys.
30, 4), volendo accostare Parmenide a Melisso, asserisce che l’essere di
Parmenide è ἄπειρον, con ciò intendendo probabilmente ἀτέλεστον (Tarán, p. 93).
15 Intendendo οὐδέ ποτe come formula avverbiale, avremmo «non mai, giammai».
Abbiamo preferito conservare πότe come avverbio separato dalla negazione,
riferendolo sia a ἦν sia a ἔσται. Ruggiu (p. 283) interpreta πότε come
indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide contrapporrebbe
l’ἔστιν rafforzato dal νῦν, a esprimere il presente atemporale. 16 In questo
verso, come ha fatto giustamente osservare O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II Poblèmes
d’interprétation, p. 149), gli avverbi (πότε, νῦν) sono fondamentali come le
tre forme verbali di εἶναι (ἦν, ἔσται, ἔστιν). 148 17 Non è chiaro se ἐπεί si
riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές, cioè
se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due affermazioni
iniziali del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται: appare, in effetti, più semplice
escludere la possibilità che «ciò che è» (ἐόν) sia stato (e in qualche modo non
sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia ancora) per il
fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è pienamente,
senza mancare di alcunché che coinvolga in qualche modo «non è» (McKirahan, p.
207). 18 L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota
un istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136),
«l’essere è, “ora”», irriducibile a un istante senza durata, o a una durata
temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’«ora» indicherebbe
una «durata senza successione» (come il «durare di Dio» secondo Tommaso).
O’Brien (Études, II, pp. 335-362) sottolinea il nesso con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν:
la Dea intenderebbe escludere generazione e corruzione e dunque, in quanto
ingenerabile e indistruttibile, l’Essere sarebbe eterno. Secondo Cordero (By
Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa il tempo presente ἔστιν per marcare
la presenza propria dell’«ora» (νῦν), cioè il permanente presente dell’essere:
l’essere non avrebbe nulla a che fare con il tempo strutturato in momenti
temporali. A queste letture si contrappongono tradizionalmente quelle che, nel
rilievo dell’avverbio temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e
futuro, colgono la presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere
sarebbe presente eterno, fuori dal tempo. Privilegiano questa dimensione della
“atemporalità” dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero, Mondolfo,
Gigon, Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103
ss.) ritrova nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica
consolidata in ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali
(tenseless) sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e
implicazioni logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si
sarebbe ispirata. In B8.5 l’enfasi è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un
condizionamento temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo
Mourelatos: «né mai era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è».
In direzione analoga si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione di
Parmenide in B8.5 sarebbe quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo del
tempo in passato, presente e futuro per il suo progetto ontologico: l’Essere
non è nel tempo, non ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni mutamento.
Tarán (p. 95) insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una
continua durata temporale. È significativo, comunque, che sia assente una
esplicita argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan (p. 206) sarebbe
conseguenza di «ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile all’essenziale
pienezza dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and the
Metaphysics of Changelessness", cit., p. 73) propone una lettura 149 uno20,
continuo21. Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso? originale: in forza
degli attributi che τὸ ἐόν possiede «ora» (completezza, autosufficienza ecc.),
non ha senso supporre che possa non esistere in qualche momento del passato o
del futuro. 19 Conche (pp. 137-8), che valorizza il nesso con l’avverbio
precedente, traduce ὁμοῦ πᾶν come «tout entier à la fois», accostandolo al tota
simul con cui Boezio (e poi Tommaso) caratterizzava l’eternità. 20 Tra i
«segni» destinati a gravare sul destino del pensiero parmenideo, questo è
senz’altro il più importante. Nel contesto, tuttavia, ἕν è solo uno dei segni,
inserito in una sequenza - ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές – in cui l’autore sembra
insistere sulla compiutezza, integrità e omogeneità dell’essere piuttosto che
sulla sua unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p. 215), infatti,
è probabile che μουνογενές e ἕν fossero sostanzialmente intesi come sinonimi,
in relazione al gruppo di attributi οὖλον, ὁμοῦ πᾶν, συνεχές, la cui
giustificazione argomentativa ritroviamo ai vv. 22-25. Come giustamente rileva
Conche (p. 138), l’essere è «uno», non l’Uno della posteriore tradizione
platonica-neoplatonica. Alla lezione ἕν, συνεχές di Simplicio, Untersteiner
preferisce quella alternativa di Asclepio: οὐλοφυές, «un tutto naturale». Coxon
osserva (p. 196) che questo è l’unico luogo in cui sia usato da Parmenide il
termine ἕν, il cui posto sarà poi preso da oὐδὲ διαιρετόν (v. 22), con cui –
qui e in v. 25 – συνεχές è virtualmente sinonimo. Mourelatos (p. 95, nota) legge
come un unico blocco ὁμοῦ πᾶν ἕν, interpretando ἕν come predicato modificato
dall’avverbio ὁμοῦ e dal pronome πᾶν: il senso complessivo sarebbe «all of it
together one». Secondo Cordero (By Being, It Is, cit. p. 177), Parmenide
intenderebbe marcare come il «fatto d’essere» sia denominatore comune a tutte
le cose, affermando che esso è unico, non che tutte le cose sono uno ovvero che
l’essere è l’Uno. Ruggiu (p. 286), pur non accettando la variante οὐλοφυές,
ritiene che l’Essere valga come intero: esso non espungerebbe il molteplice,
ricomprendendolo piuttosto in sé. 21 L’aggettivo συνεχές, in relazione con il
precedente ἕν, sottolinea il fatto che «ciò che è» è «uno con se stesso»
(Conche p. 139). Non è del tutto perspicua la connessione di questa ultima
serie di attributi con quella introdotta ai vv. 3-4: si tratta di implicazioni
dei precedenti ovvero di nuovi attributi? In ogni caso, qui termina l’elenco
dei segni. Da questo momento in avanti si apre la loro discussione
argomentativa, che altri (per esempio Heitsch, Leszl, Plamer) fanno iniziare
dal v. 5. 22 Il termine γέννα potrebbe tradursi più semplicemente con
«origine», ma, seguendo il suggerimento di Coxon (p. 197), insistiamo sul
valore biologico della espressione. È possibile che – come nota la Stemich
(Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., p. 214) – in questo
passaggio il filosofo contrapponga alla comune accezione religiosa (per cui le
divinità sono sì 150 Come23 e donde cresciuto24? Da ciò che non è non
permetterò25 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare26 che
«non è»27. Quale bisogno28, inoltre29, lo avrebbe spinto30 , [10] originando31
dal nulla, a nascere32 più tardi o33 prima34? immortali, ma non senza nascita)
la sua concezione dell’essere, appunto «senza nascita e senza morte». 23 La
formula interrogativa πῇ πόθεν potrebbe rendersi (con O’Brien e Cassin): «verso
dove e da dove?», accentuandone le implicazioni spaziali, insistendo cioè su
direzione e verso della crescita. Anche Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce
senso locale a πῇ. 24 Il passaggio dal sostantivo (γέννα) al participio aoristo
(αὐξηθέν), con relativo cambio di sintassi, e il successivo (v. 8) implicito
riferimento all’infinito aoristo αὐξηθῆναι (essere cresciuto) in relazione agli
infiniti φάσθαι e νοεῖν, evocherebbero, secondo Coxon (p. 197) una tipica
situazione di dibattito (quindi di oralità). McKirahan (p. 193) ha sottolineato
le implicazioni tra le tre domande: assumendo che generazione e crescita siano
equivalenti (come ragionevolmente attestato dai successivi vv. 9-10), la
seconda e la terza domanda possono essere interpretate come riferentesi alle
sue condizioni necessarie: la generazione è un processo («come») che richiede
un’origine («donde»). 25 La formula οὔτ΄ … ἐάσω (futuro preceduto dalla
negazione) vuol marcare la proibizione logica imposta e fatta rispettare dalla
razionalità della Dea. 26 Letteralmente οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν dovrebbe
rendersi come «non è infatti dicibile e pensabile», con la proposizione
introdotta da ὅπως come soggettiva. I due aggettivi - φατόν e νοητόν – hanno
dunque complessivamente il senso di «cosa che si possa dire e pensare». 27
Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit.,
p. 77) suggerisce come soggetto implicito di οὐκ ἔστι «the potential
generator»: è la generazione dal non-essere che è impensabile. 28 La formula τί
χρέος; è corrispettivo poetico dell’ordinario interrogativo τί χρήμα; «quale
circostanza?» (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II, p. 87) rinvia a Pindaro e
Eschilo per la sua traduzione («Verpflichtung», dovere, servizio). 29 Come
segnalato da O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di καί in questo
caso non è solo avverbiale: esso rinforza l'interrogazione. 30 Rendiamo in
questo modo la forma «irreale» dell’interrogativo (che suggerisce una risposta
negativa) veicolata da ἄν + l’aoristo. 31 Rendiamo in questo modo il participio
aoristo ἀρξάμενον, che in realtà dovrebbe implicare anteriorità rispetto
all'azione espressa dall'infinito φῦν: altri preferiscono ricorrere a
perifrasi: «se comincia dal nulla» (Pasquinelli), «se fosse nato dal nulla»
(Cerri), «se trae inizio dal nulla» (Tonelli). 151 Così35 è necessario36 sia
per intero o non sia per nulla37 . 32 L'infinito aoristo φῦν può essere reso
come «nascere\sorgere» o «crescere»: i traduttori si dividono. 33 La particella
ἢ può avere funzione disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una comparazione (=
quam). 34 Traduco letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse
sono: «früher oder später» (Diels), «prima o poi» (Calogero), «later or sooner»
(Tarán), «dopo o prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima» (Cerri), «later or
before» (Coxon), «plus tard, plutôt qu’ […] auparavant» (O’Brien). In effetti ὕστερον
è comparativo dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi, letteralmente «più tardi
che [\o] prima», sebbene la costruzione possa sembrare asimmetrica. Nei versi
9-10 avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio di ragion
sufficiente»: nulla si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché
si verifichi così e non altrimenti. Secondo Conche (p. 141), si tratterebbe
della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare la
centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il
«pensiero dell’essere» di Parmenide. Una opinione diversa in proposito è
espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide intendesse
marcare l’assenza di una ragione (causa) perché l’essere si generi in un
qualsiasi momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe
offrirne alcuna. In realtà, come viene rilevato acutamente da McKirahan (p.
194), delle due possibili traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν, «più tardi o più
presto» ovvero «più tardi piuttosto che più presto», la prima evidenzia come
manchi una ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè non ce ne sia in
alcun momento; la seconda, invece, in modo più sofisticato e coinvolgendo il
“principio di indifferenza”, sottolineerebbe come non ci sia ragione perché
esso si generi «in un momento qualsiasi piuttosto che in un altro». Sempre
McKirahan osserva come l’argomento sia formulato in termini di domanda
retorica, che presuppone una risposta del tipo: in nessuna circostanza, da ciò
che non è potrebbe generarsi qualcosa. 35 McKirahan (p. 194) ha contestato la
tradizionale traduzione di οὕτως come «così, perciò», che introdurrebbe la
conclusione di un'argomentazione. Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il
senso del v. 11 appare – nel contesto - problematico: πάμπαν πελέναι è più
naturalmente collegato all'analisi dei successivi vv. 22 ss., piuttosto che a
quel che immediatamente precede. La sua proposta è dunque quella di tradurre
l’avverbio οὕτως collegandolo alla alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo
valore sarebbe allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua
funzione sarebbe prolettica: quanto detto nel contesto sarebbe rilevante per la
discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11 concluda un passaggio
(esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi precedenti. In
questo senso confermiamo la traduzione più comune. 152 Né mai 38 concederà
forza di convinzione39 36 McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come «è
giusto»: il suo significato - nel contesto dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ
οὐχί - sarebbe quello di prospettarne i corni come «le uniche possibilità» da
considerare relativamente a ciò che è. 37 Come segnala Coxon (p. 199) la
formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι πάμπαν πελέναι «o non deve essere per
niente». Parmenide sottolinea la contraddizione e l’esclusione di una terza via
(adottando di fatto il principio del terzo escluso): la via dell’essere esclude
non solo la via del non-essere, ma anche un'impossibile combinazione tra essere
e non-essere (Conche p. 142). Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non
costituisce elemento della prova successiva, ma serve solo a ricordare la
krisis radicale, la «decisione», operata in connessione con le due vie. 38
Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito, dobbiamo
comunque osservare che lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il nostro
passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso della emendazione: καὶ γὰρ καὶ
Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι
(οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti
sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si
genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non
essere (162, 11). D'altra parte, analoga impostazione dilemmatica è attestata
anche da Aristotele in un celebre passo della Fisica (I, 8 191 a28-33), con
chiara allusione anche agli Eleati (Palmer – Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., pp. 129- 133 - ha contestato, con buoni argomenti, che il
testo si riferisca esclusivamente agli Eleati): Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ
τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι
τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες
ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον
μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων
ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 153 che nasca qualcosa40 accanto41 a
esso42. Per questo43 né nascere né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le
catene45 , Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori
antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno
indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come
spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti
che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera,
necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile
che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera (perché è
già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve
fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano
allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. 39 L’espressione
πίστιος ἰσχύς è variamente tradotta: «la forza di una certezza» (Reale), «forza
di prova», ovvero «forza di argomentazione» (Cerri). In ogni caso, come osserva
Cerri (p. 224), è chiaro dal contesto che πίστις è termine da Parmenide
impiegato nel valore di «convinzione razionale». Coxon (p. 199) rileva come
l’Eleate scelga di esprimersi come se la certezza (πίστις, appunto) avesse un
potere attivo e non solo critico. 40 Nel τι Conche (p. 145) coglie un
riferimento all’ente: dall’essere non può essere generato né l’essere né un
ente qualunque (esso non potrebbe che essere generato da un altro ente). 41
Attribuiamo a παρά valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono
«oltre a», ovvero «in addizione a». 42 L'infinitiva γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος.
Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei
codici - ἐκ μὴ ἐόντος – è più naturale cogliere in αὐτό un riferimento al
non-essere, che appare però problematico: si dovrebbe ammettere che la Dea
introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i
precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare
ovvero nulla accanto, oltre a esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che
segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il pronome a ciò che è:
nella sua lettura l’espressione «che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere
accanto a esso» - interpretata come equivalente a προσγίγνεσθαι (accrual,
accretion) - suggerisce l’idea di crescita come addizione (accretion) a
qualcosa già esistente. 43 La preposizione εἵνεκεν, con il τοῦ dimostrativo,
introduce quel che segue come conseguenza di quel che precede (Conche p. 146).
44 Intendo Δίκη come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza
mitica al riferimento, riconoscendolo come «metafora» della «legge
dell’essere». Dike svolge in questo contesto quel tradizionale ruolo 154 [15]
ma [lo] tiene46. Il giudizio47 in proposito48 dipende da ciò: è o non è. Si è
dunque deciso, secondo necessità49 , di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile50 (poiché non è una via genuina51), e che l’altra invece esista e
sia reale52 . equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti,
che abbiamo notato nel proemio. In questo caso – come osserva Robbiano (p. 163)
– il limite che la dea deve rigidamente sorvegliare è quello che (al v. 42) è
definito πεῖρας πύματον, «limite estremo», all’interno del quale riposa sicura
l’intera realtà. L’effetto è allora quello di fungere, in quanto rigorosa garante
della separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante dell’interezza e
integrità dell’essere. 45 I termini impiegati da Parmenide (Δίκη, πέδῃσιν,
nella riga successiva κρίσις) insistono sul lessico giudiziario, probabilmente
per rendere con efficacia la forza della necessità logica. In effetti, come
sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171), Dike, con Ananke e Moira,
assicura a un tempo l'immutabile identità di ciò che è e l’inesorabilità della
via. 46 Intendiamo ἐόν come oggetto sottinteso di ἔχει, per analogia a quanto
sotto (verso 26) affermato, appunto a proposito di ἐόν. 47 Il termine greco
κρίσις – così come il successivo verbo κέκριται – veicola ancora, insieme alla
formalità del giudizio, l’autorevolezza della decisione: a marcare la forza
razionale del passaggio nella dimostrazione della Dea. È esplicito nel contesto
il riferimento all'alternativa di B2: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. In questo senso,
Mourelatos ritiene che i vv. 17-18 abbiano la funzione di richiamare (come il
v. 11) la «decisione» tra le due vie. 48 Letteralmente: «a proposito di queste
cose», ovvero sulla questione della generazione e della corruzione o della
nascita e della morte. 49 Letteralmente «come necessità»: rendiamo ἀνάγκη
(preceduto da ὥσπερ) con il suo valore generico, non personale. 50 La coppia di
aggettivi ἀνόητον ἀνώνυμον (proposti senza congiunzione) sono, a nostro avviso,
da intendersi congiuntamente come connotazione dell’impalpabilità della seconda
via (ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). 51 L’espressione οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός si riferisce al fatto che la via «che non è (ὡς οὐκ ἔστιν)» non
conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso, non è una «via genuina
(vera)». Conche (p. 147) insiste piuttosto sul fatto che non si tratti della «vera
via»: in altre parole, di una via che conduca alla Verità. A conclusione del
verso troviamo, invece, l’espressione τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι,
che sottolinea come «l’altra [via] invece esista e sia reale», cioè una via che
conduce effettivamente a una destinazione. Coxon (p. 168) ricorda come nelle
occorrenze del poema, ἀληθείη (B1.29) e ἀληθής (B8.17, 39) si riferiscano non
al pensiero o al 155 E come potrebbe esistere53 in futuro l’essere54? E come
potrebbe essere nato55? [20] Se nacque, infatti, non è56, e neppure [è] se57
dovrà essere58 in futuro. linguaggio ma alla realtà oggettiva. Cordero (By
Being, It Is, cit., p. 179) sostiene che per Parmenide la verità è prerogativa
di un logos presentato da una via: solo per illegittima generalizzazione, la
via stessa sarebbe da considerare vera. La verità risiede in un logos che, se
valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla verità: così B2.4
recitava: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ («di Persuasione è
percorso – a Verità, infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51) Parmenide,
introducendo la sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la formula
[νόημα] ἀμφὶς Ἀληθείης («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la Wilkinson
(Parmenides and To Eon…, cit., pp. 87 ss.) impropriamente una “via” può
definirsi «vera»: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che ἀληθείη nel poema si
riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a Persuasione, Πειθώ,
che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci sarebbe il riferimento
al discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi come «il mio discorso è».
52 Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è sostanzialmente coincidente
con quello di ἀληθής: i due termini sono impiegati sostanzialmente come
sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5. 53 Coxon (pp. 202-3)
difende il testo del codice F: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo ἐόν, e, rilevando in πῶς
δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente (tre volte) in Omero, in cui l’avverbio ἔπειτα
si riferisce alle asserzioni che seguono, rende diversamente l’intero verso:
«And how could what becomes have being, how come into being?». Il senso sarebbe
quello di contestare che ciò che diviene (what becomes) possa essere Essere o
diventare Essere. La variante (oggi trascurata) di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο
ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è») - invece, introdurrebbe un argomento
contro la corruzione. 54 Qui Parmenide usa eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν.
55 Ovvero «venuto a essere» o «divenuto», «essere stato». 56 Tarán (p. 105)
ritiene che il senso dell’affermazione si colga nella contrapposizione tra il
passato ipotetico di εἰ γὰρ ἔγεντο – aoristo che può riferirsi sia al processo
compiuto di venire ad essere, sia a una condizione remota («fu») - e il
presente di οὐκ ἔστι: dunque, se è venuto a essere, è ora diverso da come fu
(Tarán p. 105). Analogamente per il secondo emistichio: se sarà, se avrà da
essere, ora è diverso da ciò che sarà. Anche Mourelatos (pp. 102-3) richiama
l’attenzione sulla scelta dei modi e dei tempi verbali di questo passaggio:
γένοιτο, ottativo, non porta riferimento al tempo; ἔγεντo, 156 Così è estinta59
nascita e morte oscura60 . aoristo, si riferisce a una azione puntuale nel
passato; ἔστι, presente, veicola durata e continuità: se x è in un certo
momento, allora non è in senso continuo e assoluto. O’Brien (“L’Être et
l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., Tome II, p. 153) osserva come il
presente οὐκ ἔστι non si riferisca al momento fuggevole intercalato tra passato
e futuro, ma a un «presente» logico: al «nulla» anteriore a ogni possibilità di
nascita («più tardi o prima»). Analogamente Cerri, che parafrasa: «se è nato
(rinato), non esiste (nel momento in cui non è ancora nato\rinato) [...]» (p.
227). 57 Qui dovremmo intendere «se [è vero che]». 58 Il verbo μέλλω seguito da
infinito futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come «essere sul punto di, avere
l’intenzione di». Si suppone che l’azione o la condizione indicata
dall’infinito debba ancora avvenire. La presenza dell’avverbio (ποτε) rafforza questo
aspetto temporale dell’espressione (O’Brien, “L’Être et l’Éternité”, in Études
sur Parménide, cit., t. II, p. 139). McKirahan (p. 196) interpreta i vv. 19-20
come rivolti contro la generazione nel futuro, a completamento dell’argomento
di B8.5-6, per cui ciò che è non può essere in futuro. Era rimasta aperta la
possibilità che qualcosa che non è ora possa venire a essere in futuro:
B8.19-20 negherebbero questa possibilità. Mourelatos (pp. 106-7) parafrasa
diversamente il verso: «ciò che una cosa arriva a essere non è ciò che la cosa
realmente è, nella sua essenza o natura». Egli vi coglie un contrasto non tra
«arrivare a essere» e «essere durevolmente», piuttosto tra tempo e
atemporalità. 59 O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται («è estinta\spenta») come
complemento verbale sia di γένεσις (genesi, nascita) sia di ὄλεθρος
(distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella, adottata da
molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo emistichio e fa di
una due proposizioni coordinate: «Così generazione è estinta e distruzione
ignorata». Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del primo segno intreccia
intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione aristotelica di
tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono sottomessi al divenire
incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al problema la parte più
consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non si riferiscono a enti
particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo Essere può
rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9). 60 Cerri (pp.
227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche – l’espressione ἄπυστος
ὄλεθρος possa essere resa come «morte oscura (ma anche ignorata, oggetto di
oblio)». Molto diversa la resa di McKirahan: «Thus generation has been
extinguished and perishing cannot be investigated» (p. 196). Egli insiste (p.
223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo πυνθάνεσθαι («imparare, investigare,
cercare»), da cui anche παναπευθέα ἀταρπόν (B2.6), la via di ricerca scartata
perché impossibile da investigare, da cui era impossibile, dunque, ricavare
informazioni. In B8.21 ἄπυστος 157 Né è divisibile61, poiché62 è tutto
omogeneo63; né c’è qui qualcosa di più64 che possa impedirgli di essere
continuo65 , conserverebbe lo stesso valore: la corruzione, la morte non
possono essere oggetto di indagine, in quanto, come la generazione, impongono
di seguire una via che non può assolutamente essere investigata. Si tratta di
una osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97), secondo il quale Parmenide
non avrebbe ritenuto necessario argomentare contro la corruzione, rubricandola
all’interno della via negativa: ciò spiegherebbe appunto l’uso di aggettivi
come παναπευθής e ἄπυστος, riferiti alla via negativa e a ὄλεθρος. 61 L'espressione
διαιρετόν ἐστιν può rendersi (ed è effettivamente tradotta) sia come «è
divisibile», sia come «è diviso»: come osserva Leszl (p. 202), concettualmente
la prima possibilità dipende dalla seconda, dal momento che l’operazione
intellettuale della divisione non fa che rivelare divisioni già oggettivamente
presenti (come attestato anche dagli argomenti di Zenone). Anche Thanassas (p.
50) rileva come, nella discussione del secondo segno, Parmenide punti a
escludere la precondizione per ogni discriminazione interna dell’eon: esso non
ha parti in cui possa essere articolato. Ne seguirebbe che, considerando ogni
ente non come questa o quella cosa ma come Essere, non sarebbe possibile
riconoscere differenze: ogni determinatezza svanirebbe all’interno della uniforme
prospettiva dell’Essere. 62 Coxon (p. 203) sottolinea come da ἐπεί dipendano
tutte le asserzioni successive (vv. 22-25). 63 Traduciamo così l’aggettivo ὁμοῖον,
che altri rendono come «uguale»: ci sembra logicamente più efficace rispetto
alla indivisibilità (οὐδὲ διαιρετόν). È possibile anche una lettura avverbiale
e non predicativa di ὁμοῖον, da rendere (come fanno Owen, Guthrie, Stokes e
Gallop): «esiste tutto allo stesso modo». Tarán e Mourelatos hanno tuttavia,
con buoni argomenti, contestato tale lettura. McKirahan intende sia πᾶν sia ὁμοῖον
con valore avverbiale: ciò-che-è non avrebbe dunque l’attributo di essere tutto
uguale (o omogeneo), piuttosto ciò-che-è è in un certo modo, cioè tutto uguale,
«interamente e uniformemente» (v. 11: πάμπαν πελέναι). È l’omogeneità che rende
impossibile ogni discriminazione e divisione di ciò che è. Mourelatos (p. 114)
ritiene che Parmenide sostenga logicamente πᾶν ἐστιν ὁμοῖον con πάμπαν πελέναι.
In ogni caso la fondatezza della premessa di omogeneità è stata molto discussa:
mancherebbe un argomento a sostegno nei versi precedenti. 64 Traduciamo
l’espressione τι μᾶλλον genericamente come «qualcosa di più»: Coxon accentua il
valore intensivo del comparativo («any more in degree»). 65 McKirahan (p. 197)
sottolinea come συνέχεσθαι suggerisca non tanto continuità quanto «holding
together», tenersi insieme, e accosta il significato 158 né [lì] qualcosa di
meno66, ma è 67 tutto pieno68 di ciò che è69 . [25] È perciò tutto continuo70:
ciò che è si stringe71 infatti a ciò che è72 . del verbo a quello
dell’attributo ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che egli traduce come «all together». Robbiano
(p. 130) segnala come συνέχεσθαι possa riferirsi a unioni strette: l’unione
sessuale di individui o le estremità annodate di una cintura. Il senso è
comunque quello di estrema coesione. 66 Rendiamo τι χειρότερον come «qualcosa
di meno», per rimanere coerenti con la scelta effettuata traducendo τι μᾶλλον.
Coxon (p. 204) sottolinea ancora il valore intensivo dell’aggettivo: Parmenide
in questo senso avrebbe usato χειρότερον (inferiore) e non *hsson (meno). 67
Intendiamo ἐόν come soggetto sottinteso; altri intendono πᾶν come soggetto
(«but all is full of Being», Tarán). 68 L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος vuol
marcare come ciò che esiste è solo l’essere, quindi esso è continuo, omogeneo,
“denso” d’essere (uguale in tutto e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108)
osserva come la continuità sia dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204)
parafrasa: «Being is adjacent to Being», che implica l’assenza di qualsiasi
cosa di diverso dall’Essere. McKirahan (p. 197) insiste invece sulla completa
pienezza di ciò che è, che consegue dal bando di «non è». Si tratterebbe, nella
sua lettura complessiva di B8, di un “segno” fondamentale, che riformulerebbe
πάμπαν πελέναι del v. 11, cui essenzialmente si riferirebbero molti altri
attributi. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 50),
sottolineando come il contesto non sia quello di un’analisi fisica, ma di una
considerazione ontologica (condotta alla luce della distinzione fondamentale
tra Essere e Non-Essere), insiste nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν
ἐόντος come rilievo della «pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non
ha nulla da condividere con spazialità fisica, vuoto e massa. 69 McKirahan (p.
197) sottolinea il nesso tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (v.
22): egli, infatti, intende in entrambi i casi πᾶν avverbialmente (come nel
successivo v. 25 ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), così che ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe
equivalente a ὁμοῖον. 70 Ovvero «coeso». Riformulazione dell’inziale
indivisibilità: Coxon (p. 204) osserva giustamente che, a parte la solitaria
occorrenza di ἕν nel v. 6, ξυνεχὲς è l’unico termine parmenideo per «uno».
McKirahan traduce diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la
relazione con συνέχεσθαι suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è «si
tiene insieme» (holds together); così in vece di «continuo», con la sua
ambiguità spazio-temporale, egli preferisce usare per ξυνεχὲς la formula, di difficile
resa italiana, «holding together». 71 Il verbo πελάζω suggerisce l’idea di
avvicinamento. In questo senso potrebbe essere tematicamente collegato tanto
alla via quanto al viaggio che trascorre 159 Inoltre73, immobile74 nei
vincoli75 di grandi catene76 , lungo la via, seguendo i suoi segni. Robbiano
(p. 133) insiste nel cogliere nella immagine ἐὸν ἐόντι πελάζει la suggestione
dell’ultimo passo di un viaggio che si avvicina alla sua meta: l’Essere. 72
Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo leva sui due
"assiomi" di B2 - «è e non è possibile non-essere», «non è ed è
necessario non-essere» - e dunque escludendo sistematicamente il ricorso al
non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di τὸ ἐόν, la
molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei nell'«essere». In effetti
Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 153) osserva come questi versi documentino
il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto di «ciò che è» con «ciò
che è»: l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere una sorta di
molteplicità. Egli pone giustamente in relazione questo passo con B4. McKirahan
(p. 197) sottolinea invece il valore figurato dell’espressione: una
interpretazione letterale susciterebbe difficoltà. 73 Improbabile che nel contesto
αὐτὰρ abbia valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore progressivo
(vedi Curd, The Legacy of Parmenides, cit., pp. 83-4). 74 L’aggettivo verbale ἀκίνητον
può discendere dalla voce attivo-passiva o da quella media di κινέω: nel primo
caso il suo significato sarebbe «non suscettibile di essere mosso dal proprio
luogo»; nel secondo «non capace di muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos, op.
cit., pp. 117-120). Tarán giustamente sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς
(v. 4). L’aggettivo ἀκίνητον si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in
generale, alla immutabilità. Su questo si veda il commento. Una nuova,
convincente luce sulla questione è stata – a nostro avviso – proiettata dalla
lettura di McKirahan (p. 200), il quale insiste sul contesto immediato:
«immobile» ha a che fare con i limiti dei grandi legami piuttosto che con
assenza di generazione e corruzione. I vv. 27-28 ricavano dai precedenti vv.
6-21 due ulteriori conseguenze dell’essere ingenerato e incorruttibile, cioè
senza inizio o fine, di «ciò-che-è» (ἐόν). Attributi che non hanno in alcun
modo a che vedere con l’assenza di moto. Nel contesto l’espressione «immobile»
coinvolgerebbe l’idea della natura fissa, limitata e costretta di ciò-che-è. In
questa prospettiva rimane aperta la questione circa le convinzioni parmenidee
sul movimento o cambiamento di ciò-che-è. Thanassas (p. 51) privilegia nella
propria lettura un’immobilità fondata nell’assenza di relazioni con il
Non-Essere: Parmenide escluderebbe il «movimento ontologico» che avvicina
Essere e Nulla. 75 Ovvero «nei limiti» (πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra
efficacemente come alla nozione omerica di κινεῖν fosse associata non la nostra
idea di traslazione rispetto a un punto di riferimento stazionario, ma quella
di uscita, allontanamento da una posizione originaria e dai suoi limiti: il
caso paradigmatico sarebbe, insomma, quello di "e-gresso",
concettualmente 160 è senza inizio e senza fine77, poiché nascita e morte sono
state respinte78 ben lontano79: convinzione genuina80 [le] fece arretrare.
contrastante con la nozione di ὁδός («via»). Mentre il viaggiatore lungo la via
raggiunge il luogo di destinazione, colui che si muove, invece, abbandona il
suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti. Il concetto di «via» è centripeto,
quello di κινεῖν è centrifugo. La locomozione, in questo senso, sarebbe
qualcosa di simile a un autoestraniamento: muoversi è essere oltre sé stessi,
essere dove uno non è: è questa nozione di locomozione a essere oggetto di
attacco nel paradosso della freccia di Zenone. Si esprime l’idea – arcaica, ma
ancora operante in Aristotele (la teoria dei luoghi naturali) che il luogo di
una cosa, con i suoi limiti-confini, sia parte della sua identità. La relazione
tra ἀκίνητον e πείρατα escluderebbe dunque la locomozione intesa come moto
assoluto, "e-gresso" dal proprio luogo specifico. 76 Giustamente
Cerri (p. 229) segnala il cambiamento nel registro espressivo dell’autore, il
cui linguaggio «torna alle movenze epiche del proemio». Questo passaggio, in
particolare, è evocativo del mito prometeico, così come giuntoci nel dramma
eschileo. Della relativa, breve discussione di Cerri, sembra opportuno
valorizzare la possibilità che Parmenide e Eschilo (evitando improbabili
contatti diretti) si ispirassero, per il tema dell’incatenamento e della
conseguente immobilità, a un modello «già presente nella cultura
mitico-filosofica della tarda arcaicità». Non è chiaro, tuttavia, il senso
preciso dell’aggettivo «mitico-filosofica». Mourelatos (p. 115, nota), a sua
volta, evoca un passo omerico (Odissea VIII, 296-98), che costituirebbe buon
parallelo per l’immaginario parmenideo: ἀμφὶ δὲ δεσμοὶ τεχνήεντες ἔχυντο
πολύφρονος Ἡφαίστοιο, οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι e tutto intorno
le catene ingegnose chiuse, dell’astuto Efesto, ed essi non potevano più
muoversi né sollevarsi. 77 Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano la peculiare
immutabilità dell’Essere, diversa dalla immobilità di ciò che si genera e
corrompe. Per questo potrebbero implicare – se si accetta la lezione adottata –
la formula ἠδ΄ ἀτέλεστον del v. 4. Coxon (p. 206) vi coglie un’eco delle
affermazioni di Anassimandro (DK 12 A15): οὐ ταύτης ἀρχή, [...] ἀ θ ά ν α τ ο ν
γὰρ καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν di esso non c'è principio [...] immortale e
indistruttibile. 161 Identico e nell’identica condizione81 perdurando82, in se
stesso83 riposa84 , 78 All’aoristo ἐπλάχθησαν è possibile associare sia un
significato attivo (Coxon: «becoming and perishing have strayed very far
away»), sia un significato passivo (indicato in questo caso da Liddel-Scott):
come suggerisce O’Brien (p. 53), il secondo emistichio del verso giustifica la
resa passiva. 79 Coxon ricorda (p. 207) come l’espressione τῆλε μάλa occorra
una sola volta in Omero ed Esiodo, dove si allude alla distanza del Tartaro:
Parmenide potrebbe usarla per marcare analoga distanza dall’Essere di
generazione e corruzione. 80 Traduco πίστις ἀληθής non con «reale credibilità»
- come in B1.30: il diverso contesto – in particolare la sua impronta
argomentativa, autorizza una differente accentuazione del valore di πίστις,
intesa come convinzione, convincimento che scaturisce dall’esame condotto
correttamente. In effetti il termine ha un suo specifico uso giudiziario
(Heidel citato da Tarán p. 113), in cui designa l’evidenza o la prova addotta
in tribunale. Il legame con la Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo ἀληθής
(reale, vera, veritiera, genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare il
significato di convinzione. 81 L’espressione greca ἐν ταὐτῷ μένει è idiomatica,
con valore variabile tra «restare nello stesso luogo» e «restare nello stesso
stato» (Cerri p. 231). Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207) insistono piuttosto
sulla condizione, Coxon escludendo il significato locale (come confermerebbe
l’uso analogo dellespressione in Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane).
Abbiamo privilegiato la seconda lettura per la sua portata più generale
rispetto ai fenomeni del mutamento che Parmenide intende escludere dall’essere.
McKirahan (p. 201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura del
fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è, riformulato nel linguaggio
del limite, dei legami e della costrizione: in questo senso «identico e
nell’identico» sarebbero implicazioni di «è pienamente». Anche le scelte
verbali - «perdurare», «rimanere», «riposare» - supporterebbero questa lettura:
ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 82 L'intero
verso 29 sembra evocare il frammento DK 21 B26 di Senofane: αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι
μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι Sempre
nello stesso posto permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi
ora in un posto ora in un altro. 83 McKirahan (p. 201) rileva come καθ΄ ἑαυτό
possa significare sia «per sé», «solo», «solitario», ma anche «indipendente»
(prossimo al valore che gli darà Platone in riferimento alle Idee). Nella sua
prospettiva si tratta di una 162 [30] e, così, stabilmente85 dove è86
persiste87: dal momento che Necessità88 potente89 espressione plausibile per
descrivere qualcosa che è pienamente e non può cessare di essere in quel modo.
84 Opportunamente Conche (p. 155) richiama, per contrasto, le posizioni di
Eraclito e, soprattutto, nell’accentuazione dello spirito eracliteo, di
Epicarmo DK 23 B2.9: ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει ora
ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto. I versi 29-30 sembrano
riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119) osserva come
la formula καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται manifesti noninterazione: il v. 29, dunque, esprimerebbe
a un tempo, nella sua prima parte, autocontenimento e autoconsistenza, nella
seconda parte isolamento, risultando complementare all’attributo ἀδιαίρετον.
Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra ἐόν e identità: la saldezza dell’eon
non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al rifiuto di ogni relazione con il
Non-Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo della identità (sameness)
dell’eon con se stesso. 85 Rendiamo avverbialmente ἔμπεδον, che indica
stabilità, fissità: come correttamente osserva McKirahan (p. 200), il termine
nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al v. 29. 86
Traduciamo in questo modo αὖθι per evitare «qui», «là», che appaiono limitativi
e troppo immediati (anche se non è da escludere a priori che proprio tale
immediatezza fosse ricercata dall’autore). Conche (p. 156), invece, preferisce
«qui», che indicherebbe – in parallelo con νῦν che è un «ora» non temporale –
un «qui» non spaziale. 87 Come segnalano i commentatori, ἔμπεδον αὖθι μένει è
formula epica, che richiama il celebre episodio in cui Odisseo si fa legare
all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene (Odissea XII,
160-2): ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ,
ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω ma con funi saldissime dovete legarmi, perché io
resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate le corde.
Nel nostro contesto il valore della espressione non è tanto locale quanto
temporale: segnala l’esenzione dell’essere da qualsiasi variazione temporale
(Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere militare di ἔμπεδον
μένει: «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la stabilità spaziale o
163 nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra91 . temporale,
ma l’esclusione di ogni alterità e il radicamento dell’identità. Come già
segnalato in relazione a ἀτρεμὲς, McKirahan (p. 210) suggerisce una sostanziale
sinonimia tra i due aggettivi: entrambi esprimerebbero il fatto che «ciò-che-è»
è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei limiti che
costringono la natura di ciò-che-è. 88 Intendiamo Ἀνάγκη come nome proprio.
Come Giustizia e Moira, Necessità è figura tradizionale e incarnazione della
ineluttabile legge del destino (Tarán p. 117). Mourelatos, che identifica
Necessità, Fato, Giustizia e Persuasione, traduce come «Constraint»: l’immagine
della Costrizione che tiene ciò-che-è nel suo luogo rafforza la sua tesi
secondo cui ἀκίνητον escluderebbe la locomozione intesa come moto assoluto,
egresso dal proprio luogo specifico (pp. 118-9). Dalla triangolazione
Giustizia, Fato (Moira), Costrizione risulterebbe che in Parmenide il concetto
di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di necessità (Mourelatos p.
120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W. Gundel, Beiträge zur
Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene, Giessen 1914),
Gundel individuò il significato di Ἀνάγκη nel passo in questione come
Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H. Schreckenberg “Ananke. Untersuchungen zur
Geschichte des Wotgebrauchs“, «Zetemata» 36, München 1964, pp. 1-188, cap. I)
ne ha invece marcato la connessione tematica con altri termini, come giogo,
catene, corde, con l’idea di legame, imprigionamento, schiavitù, rilevando così
come sotto ananke non si sia in grado di scegliere che cosa fare. L’immagine
platonica di σύνδεσμος τοῦ οὐρανοῦ avrebbe origine proprio in ambiente
pitagorico, come Schreckenberg cerca di provare appoggiandosi alla
testimonianza di Aëtius – Πυθαγόρας ἀνάγκην ἔφη περιεχεῖσθαι τῷ κόσμῳ - e
collegandola alla nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo») e
all’abbraccio cosmico di Ananke. In questo senso essa avrebbe la funzione di
“destino” o “legge di natura”: qualcosa che si può esprimere in termini di
legami che vincolano, l’uomo o l’universo (pp. 75-6). 89 L’espressione κρατερὴ
γὰρ Ἀνάγκη richiama l’esiodea (Teogonia 517 ss.) κρατερῆς ὑπ’ ἀνάγχης, nella
descrizione di Atlante che «sostiene l’ampio cielo per una potente necessità ai
confini della terra», come segnalano vari commentatori. 90 Ovvero «nelle catene
del limite» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν). Ancora l’insistenza sui vincoli, ancora da
intendere sostanzialmente in senso logico, nonostante la tendenza da parte di
alcuni interpreti a insistere sui limiti spaziali. L’associazione di Giustizia
(v. 14) e Necessità suggerisce in effetti a McKirahan (p. 200) che in gioco
siano soprattutto forza e\o costrizione. Nel riferimento ai vincoli e alle
catene Barbara Cassin (“Le chant des Sirènes dans le Poème de Parménide.
Quelques remarques sur le fr. 8.34", in 164 Per questo92 non incompiuto93
l’essere [è] lecito che sia94: Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 163-169)
ha colto un’eco di Odissea XII, 158-162: Σειρήνων μὲν πρῶτον ἀνώγει θεσπεσιάων
φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα. οἶον ἔμ’ ἠνώγει ὄπ’ ἀκουέμεν· ἀλλά με
δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ
πείρατ’ ἀνήφθω Per prima cosa ci impone delle Sirene di evitare il canto e il
loro prato fiorito. Posso ascoltarlo solo io, ma con fune saldissima dovete
legarmi, così che io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso
siano fissate le funi. 91 Il confinamento da parte di Necessità-Costrizione è
paradigmatico della concezione tradizionale greca per cui giustizia è mantenere
il proprio luogo specifico, rispettare il proprio ruolo (Mourelatos, p. 119).
92 La congiunzione οὕνεκεν ha etimologicamente (οὗ ἕνεκεν) il significato di
«ragion per cui», «cosa a causa della quale»; ha anche il significato di «poiché»,
«a causa del fatto che» (privilegiato da Fränkel), e può essere usata come ὅτι
con il valore di «che», «il fatto che». Nel contesto preferiamo la resa
etimologica (privilegiata da Diels), ritenendo che la perfezione dell’essere
sia giustificata in quel che precede, ancorché con il ricorso a un’immagine (la
costrizione delle catene di Necessità) di probabile matrice letteraria. 93
Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe ἀτελεύτητον nella sua valenza
omerica di «unfinished». Rendiamo con «incompiuto», «imperfetto». Mansfeld (p.
100) sottolinea il nesso tra l’essere vincolato e l’essere compiuto e perfetto,
recuperando come implicito nel greco anche il valore di «realizzazione» e, di
conseguenza, l’idea di un vincolo che legherebbe la cosa alla propria
realizzazione. Si veda per questo R.B. Onians, The Origins of European Thought
about the Body, the Mind, the Soul, the World, Time and Fate, C.U.P.,
Cambridge19882 , pp. 426-66. Mourelatos (p. 121) sottolinea come il verbo τελέω
sia collegato al motivo del viaggio e abbia un'importante relazione con il
verbo ἀνύω (consumare) e forse con l’idea di πεῖρας, come legame circolare.
Nell’epica in generale il verbo esprime compimento, realizzazione di promesse,
desideri, predizioni e compiti (comprensivi di viaggi). È in relazione a questa
idea di compimento che il termine ammetterebbe il valore - più debole - di
«fine», nel senso di «estremità» o «termine». 94 Abbiamo cercato di conservare
la costruzione del verso greco, forzando la costruzione italiana. 165 non è,
infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere95, invece, mancherebbe di
tutto. La stessa cosa96 invero è pensare97 e il pensiero98 che99 «è»: 95
Intendiamo l’espressione μὴ ἐὸν come participio sostantivo, in contrapposizione
al precedente τὸ ἐὸν: quindi «il non essere» ovvero «ciò che non è»
(espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci troveremmo in presenza di
una articolazione del discorso imperniata su essere (τὸ ἐὸν) e non-essere (μὴ ἐὸν):
non è lecito che l’essere sia incompiuto: in effetti non manca di niente; il
non-essere, invece, mancherebbe di tutto». D'altra parte, μὴ ἐὸν può essere
reso in senso verbale: letteralmente la Dea ipotizzerebbe: «se [l’essere] non
fosse [non-manchevole], mancherebbe di tutto». 96 A questo punto avrebbe inizio
secondo Mansfeld (p. 101) un excursus che impegnerebbe Parmenide fino al verso
41. Dello stesso orientamento anche Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per
esempio, Mourelatos (p. 165). Molto convincente la lettura di McKirahan (p.
202): i vv. 34-41 esplorerebbero le implicazioni del precedente (B2.7-8) «non
potresti conoscere ciò che non è […] né indicarlo». Se qualcosa è possibile
conoscere o affermare, deve trattarsi non di «ciò-che-non-è», ma (come
conseguenza dell’alternativa) di ciò-che-è. Esiste una proposta
(originariamente suggerita da Calogero) di restauro del testo greco da parte di
Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im
Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp. 121-138), secondo
il quale il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il verso 52. Come ha
di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza sia nel blocco
centrale del frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso avviso Ferrari
(Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 32 ss.). Ciò significherebbe,
tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della redazione del poema
utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen vortrefflich»): come ha
sostenuto Passa nella prima parte del suo lavoro, il testo simpliciano ha alle
spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre fonti, un'interpretazione
del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e pitagorizzante, che può
averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia a indicare scelte
espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari) implica un vero e
proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili altri problemi
testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A Ebert va dato
atto, nello specifico, di aver sollevato un problema serio: nessun'altra fonte
antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41. 97 Rendiamo ἐστὶ
νοεῖν letteralmente. Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande discordanza.
Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa: (i) «thinking is»
(Owen, Sedley); (ii) «is to be thought» (Mourelatos), «is there to be thought»
(Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd). McKirahan (p. 203) traduce
«is to be thought of» intendendo l’espressione 166 [35] giacché non senza
l’essere, in cui100 [il pensiero] è espresso101 , come un richiamo di B2.2: ciò
che è disponibile per il pensiero (ovvero “per essere pensato”). 98 Intendiamo
il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua volta
conclusione di B2): ciò che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo ciò
che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò che
è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4). Sulla
scorta di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare anche
l’affermazione di B5: «indifferente è per me donde debba iniziare: là, infatti,
ancora una volta farò ritorno». 99 Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come
congiunzione equivalente a ὅτι («che»), come, tra gli altri, Calogero («La
stessa cosa è il pensare e il pensiero che è»), Guthrie («What can be thought
[apprehended] and the thought that “it is” are the same»), Tarán («It is the
same to think and the thought that [the object of thought] exists»), O’Brien
(«C’est une même chose que penser, et la pensee : “est”»), Conche («C’est le
même penser et la pensée qu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la
pensée que "est"»). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula pronominale,
composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione. Questa lettura è
difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il pensare e ciò a
causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is for conceiving as is
cause of the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe aber ist Erkenntnis und
das, woraufhin Erkenntnis ist»), Cerri («La stessa cosa è capire e ciò per cui
si capisce»), Cordero («Thinking and that because of which there is thinking
are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist zu denken und das, was den
Gedanken verursacht»). Diels, intendendo come τὸ οὗ ἕνεκα con valore finale
(ciò in vista di cui), aveva reso: «Denken und des Gedankens Ziel ist eins». Lo
ha seguito Beaufret («Or c’est le même, penser et ce à dessein de quoi il y a
pensée»). Lunga disamina critica in Tarán, pp. 120-3. Di recente McKirahan (p.
203) ha difeso la lettura causale di οὕνεκεν, ma ha avanzato l’ipotesi
suggestiva che l’espressione abbia contemporaneamente anche una sfumatura
finale. 100 Per evitare la difficoltà di una traduzione che sottolinea come il
pensiero sia espresso «nell’essere», sono state proposte varie alternative.
Zeller, Burnet, Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono rendere ἐν ᾧ con
una perifrasi: «a soggetto del quale», «in riferimento al quale», «rispetto al
quale». A conclusione di una lunga discussione (pp. 123-8), Tarán (seguendo
Albertelli e Mondolfo) propone «in what has been expressed». A questa
traduzione (cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia opposte obiezioni di
ordine grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La Robbiano (pp. 169-170)
intende ἐν ᾧ come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ, proponendo τὸ νοεῖν come
soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il passo in traduzione risulta quindi: «for
without Being you will not find understanding in that where understanding 167
troverai il pensare. Né102, infatti, esiste, né esisterà altro oltre103
all’essere104, poiché105 Moira lo ha costretto106 a essere intero e
immobile107. Per esso108 tutte le cose saranno nome109 , has been given
expression». In questo caso ἐν ᾧ non si riferirebbe a τὸ ἐόν, ma a una formula
implicita per «le mie parole, i versi del mio poema». La dea spiegherebbe,
insomma, che non si può trovare νοεῖν in ciò che esprime νοεῖν, se non si trova
l’Essere (τὸ ἐόν): per raggiungere la comprensione non è sufficiente ascoltare
le parole della dea, ma si deve trovare l’Essere. Preferiamo, come versione più
naturale, la traduzione (per lo più adottata dagli interpreti recenti) che
risale a Diels («denn nicht ohne das Seiende, in dem sich jenes ausgesprochen
findet, kannst Du das Denken antreffen»). 101 Secondo Ruggiu (p. 303, nota),
πεφατισμένον indicherebbe non solo che il pensiero è manifestativo dell’Essere,
ma che l’Essere è tale in quanto fondamento di ogni manifestabilità. In questo
senso, πεφατισμένον sarebbe equivalente a φατὸν e νοητόν (B8.8) e οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις (B2.7-8). 102 Rendiamo le
due congiunzioni < ἢ >... ἢ precedute da οὐδὲν come «né…né». 103 La formula
ἄλλο πάρεξ è adattamento di analoga formula epica (ἄλλα παρὲξ). 104 Secondo
Mansfeld (p. 101) Parmenide affermerebbe in questo passaggio l’identità di
pensiero e essere, implicando che il pensiero non possa essere qualcosa di
altro, indipendente, contrapposto all’essere o comunque estraneo a esso. 105
Anche in questo caso è la costrizione della divinità di turno (Moira) a
giustificare compiutezza e unicità dell’essere parmenideo. 106 Si ripete, con ἐπέδησεν,
la suggestione dell’incatenamento, della costrizione (da intendere, fuor di
metafora, in senso logico). La formula μοῖρ΄ ἐπέδησεν è epica. 107 Le due
connotazioni - οὖλον ἀκίνητον – marcano l’integrità e immutabilità,
reiteratamente richiamate nel frammento. Per ἀκίνητον, tuttavia, vale quanto
segnalato sopra: la sua comprensione, come suggerisce McKirahan, è
probabilmente da collegare alla metafora dei legami e della costrizione. Così,
l’integrità di ciò che è (espressa da οὖλον) è sostenuta dall’immagine della
costrizione a essere pienamente ciò che è. 108 Seguiamo Palmer (op. cit., pp.
171-2) nell'intendere τῷ come pronome relativo (riferito a τὸ ἐόν): dal momento
che egli accoglie la lettura πάντ΄ ὀνόμασται del secondo emistichio, la sua
traduzione risulta: «to it all things have been given as names». Lo studioso si
appoggia a una costruzione analoga presente in Empedocle B8.4: φύσις δ’ ἐπὶ τοῖς
ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν 168 quante i mortali stabilirono110, persuasi che
fossero reali111: [40] nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo112
e mutare luminoso colore113 . natura è data come nome a questi [processi di
mescolanza e separazione] dagli uomini. La resa pronominale di τῷ è comunque
assolutamente compatibile anche con la lezione Diels-Kranz da noi adottata: τῷ
πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται Per esso [τὸ ἐόν] tutte le cose saranno nome. Per lo più gli
editori hanno reso τῷ con valore assoluto come «perciò». 109 Il greco ὄνομα è
singolare, per marcare l’identità nominale dei neutri plurali πάντα e ὅσσα:
genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui natura mutevole si rivela solo
nome. La lezione alternativa dei codici di Simplicio - τῷ πάντ΄ ὀνόμασται - è
variamente tradotta: «wherefore it has been named all things» (Gallop),
attribuendo a τῷ valore avverbiale, ma anche «With reference to it [the real
world], are all names given» (Woodbury), intendendo τῷ come un dimostrativo
riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero (Leszl p. 231) «in relazione a questo è assegnato,
come nome». Da osservare che una lunga tradizione risalente a Diels, ha
tradotto l’emistichio introducendo un implicito aggettivo peggiorativo
(blosser, ovvero «mero») al sostantivo «nome», assolutamente assente nel testo
greco. Una diversa tendenza si è manifestata nelle versioni degli ultimi
decenni. 110 Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte nei frammenti del poema (qui,
in B8.53 e B19.3): sottolinea la matrice linguistica della ordinaria
comprensione del mondo. 111 Il greco è ἀληθῆ. McKirahan (p. 202) ha, secondo
noi, correttamente colto il senso complessivo del passo: i vv. 34-38
argomentano che l’unico possibile oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è;
i vv. 38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali
pretendano di riferirsi nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente
(veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è l’oggetto dei
loro pensieri, anche di quei pensieri che ricorrono a formule proibite come
generazione e corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide
sarebbe che i «mortali» applicano all'essere – commettendo un errore – tutte le
designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi all'essere
stesso, non nell'applicarli alle cose. 112 Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella
espressione τόπον ἀλλάσσειν, il sostantivo τόπος molto probabilmente significa
«spazio vuoto». Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica
nei confronti dei 169 Inoltre, dal momento che [vi è]114 un limite115
estremo116, [ciò che è] è compiuto117 da tutte le parti118, simile119 a
massa120 di ben rotonda121 palla122 , sostenitori della esistenza del vuoto, ma
solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno del moto locale. 113 Il
secondo emistichio - διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν – è variamente tradotto. Coxon
(pp. 211-2) rende con «change their bright complexion to dark and from dark to
bright». Come Reinhardt, egli coglie un'allusione alla successiva teoria (DKB9)
della composizione degli enti. Le differenze nelle traduzioni dipendono
soprattutto dall’intendere χρόα – accusativo di χρώς, «colore» - come χροιά
ovvero χρόα, «superficie». O’Brien (p. 56) sottolinea come al significato di
«complessione» (cui si riferisce anche Coxon) sia nel contesto da preferire
quello più generico di «colore». 114 La proposizione introdotta da ἐπεί può
omettere ἐστι: la traduzione può renderlo in questo caso come predicato verbale
(come abbiamo fatto) ovvero come copula: «il limite è estremo». 115 Mourelatos
(pp. 128-9) nota come l’immagine dei legami e dei limiti si faccia
progressivamente «più plastica e concreta» man mano che B8 procede, per raggiungere
il proprio culmine appunto in questo passaggio. 116 L’aggettivo πύματος
significa «estremo», «ultimo»: in Omero indica, per esempio, il bordo estremo
di uno scudo, ciò che lo limita e oltre il quale non c’è più scudo (Conche p.
176). 117 L’espressione τετελεσμένον πάντοθεν indica la completezza di ciò che
è, risultando equivalente di πάμπαν πελέναι. Come ha convincentemente marcato
McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni spaziali, letteralmente disseminate nei
vv. 42-49, possono essere intese anche in senso metaforico. Si tratta di
naturali sviluppi della nozione di πέρας, le cui prime occorrenze, anche in
ambito filosofico, hanno a che fare con i limiti spaziali, ma che presto è
usata anche per altre finalità, non spaziali (come attesta il contemporaneo di
Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo, valorizza una
interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva l’interezza del
reale (preservandola dal Non-Essere), consente da un lato di riconoscere l’eon
«completo da ogni lato», dall’altro di intendere tutte le apparenze
(appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe l’affermazione
conclusiva della dea nel proemio, che nella versione accolta da Thanassas e da
noi condivisa suona: διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, «tutte insieme davvero
esistenti». 118 L’avverbio πάντοθεν, sia che lo si intenda riferito a
τετελεσμένον ἐστί (come nel nostro caso), sia che lo si riferisca, invece, a εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, sembra esprimere comunque un punto di vista, una
prospettiva “esterna” (Mourelatos p. 126). Come, d’altra parte, per lo più 170
suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che
rinserrano tutto intorno). 119 L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente
una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a
σφαῖρη (palla, sfera), ma a ὄγκος (massa, estensione). 120 Il termine ὄγκος può
tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da
intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si riferisce probabilmente
all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta.
Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di recente McKirahan (pp.
213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non
dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a una sfera, ma «simile al corpo di
una sfera», una espressione giudicata «inaspettatamente elusiva». Non si
tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso di peso) della sfera, né della sua
misura, né di altre qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma
della sfera, di forma o superficie. L’espressione potrebbe approssimativamente
tradursi come «estensione fisica»: «fisica» per suggerire che non si tratta di
astratta nozione geometrica; «estensione», in vece di «misura», per evitare la
tentazione di pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva
a suo tempo segnalato il fatto che ὄγκος è espressione parmenidea per
estensione tridimensionale e che il carattere che essa accentua rispetto alla sfera
è la forma. 121 Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν
riferito a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe
un oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il contorno di un cerchio
perfetto. Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha
sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ - riferito a τὸ ἐὸν
– e ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica è forma
archetipica della perfezione e della totalità. 122 Seguo Leszl (p. 211) nel
tradurre σφαῖρη come «palla», analogamente all’omerico σφαίρῃ παίζειν (giocare
a palla). Ciò rende più efficace l’accostamento: Leszl osserva che «se l’essere
fosse detto «simile a una sfera», l’implicazione potrebbe essere che esso non è
veramente una sfera, mentre se è detto «simile a una palla», la giustificazione
per quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera». L’espressione
εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che Parmenide
qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la sfera (σφαῖρη),
la cui perfetta rotondità è sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου. In ogni caso è
ancora da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come la comparazione proposta
non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto tra la completezza di
ciò-che-è e l’espansione-estensione di una palla perfetta, ben-rotonda.
L’analogia si riferirebbe alla curvatura esterna della sfera. 171 a partire dal
centro123 ovunque di ugual consistenza124: giacché è necessario che esso non
sia in qualche misura di più, Diels e Brehier hanno voluto cogliere dietro
l’espressione l’influenza pitagorica: essa alluderebbe, quindi, a una immagine
geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal caso, non avrebbe senso
precisare εὐκύκλου. L’immagine sarebbe invece «fisica». Il sostenitore più
coerente della natura geometrico-spaziale dell’Essere parmenideo è De
Santillana (Le origini del pensiero scientifico, Sansoni, Firenze 1966):
l’Essere sarebbe il risultato di un processo di astrazione in cui Parmenide
avrebbe tenuto presenti spazio del matematico e spazio del fisico. L’Essere
sarebbe dunque un plenum, un'estensione corporea densa, cristallina: la realtà
fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello spazio geometrico,
occupandolo. Coerentemente con la propria interpretazione dei segni come indici
della consapevolezza cognitiva del kouros, la Stemich (op. cit., p. 212)
ritiene che l’immagine della sfera, cioè della più perfetta di tutte le forme,
attesti che la conoscenza dell’essere è la forma più pura del pensiero: la
somma facoltà di pensiero del kouros, nel momento della conoscenza dell’essere,
è completamente conchiusa in se stessa, coincidendo a tutto tondo con la verità
della Dea. 123 Dal momento che è difficile attribuire parti all’essere, il
termine μεσσόθεν è stato spesso volto in senso metaforico. Concordiamo con
Conche (p. 180), che il centro cui si riferisce la Dea sia quello del mondo e
che ella sottolinei come in ogni parte dell’universo l’essere sia lo stesso.
Coxon (p. 217), invece, sottolinea come l’equilibrio cui Parmenide allude con
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ sia di carattere «non-fisico», e funga da complemento
alla nozione di perfezione universale (somiglianza con il volume della sfera),
marcando la sussistenza in se stessa di questa perfezione, la sua totale ed
eguale dipendenza dal suo proprio centro. 124 Intendiamo l’espressione μεσσόθεν
ἰσοπαλὲς πάντῃ come un rilievo della compattezza dell’Essere: ἰσοπαλές concorda
con il neutro ἐόν\τὸ ἐόν, non con il maschile ὄγκος (o il femminile σφαῖρη),
dunque con il soggetto sottinteso («ciò che è»), non con «massa di ben rotonda
palla». Dal centro alla superficie della sfera si esprime la stessa forza
(Diels, Tarán), ovvero lo stesso «peso», lo stesso «equilibrio», la stessa
«spinta». Ruggiu (p. 309), riprende (da Calogero, Vlastos, Mourelatos e
Guthrie) l’idea che l’immagine della sfera esprima una «uguaglianza dinamica»:
forza e potenza dell’Essere si estendono in modo uguale dal centro alla
periferia e dalla periferia al centro, senza possibilità di differenza alcuna
in intensità o potenza d’essere. O’Brien e Conche preferiscono rendere come
«uguale a se stesso», privilegiando l’aspetto della omogeneità a quello
dinamico dell’aggettivo: è in particolare rilevante la sottolineatura, da parte
di Conche (p. 180), di un fatto che nel contesto può sfuggire: ἰσοπαλές si
riferisce all’Essere e non alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui,
invece, la definizione 172 [45] o in qualche misura di meno 125 , da una parte
o dall’altra126 . Non vi è, infatti, non essere127, che possa impedirgli di
giungere a omogeneità128, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è
129 - qui più, lì meno130, poiché131 è tutto inviolabile132 . di equidistanza: ἰσοπαλές
esprimerebbe l’idea di espansione uguale in ogni direzione. 125 Rendiamo in
questo modo οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον, per sottolineare l’omogeneità
dell’Essere in senso intensivo: non c’è un più o un meno d’essere. Si vedano
anche i successivi τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον (v. 48). 126 Ruggiu (pp. 309-10)
osserva come perfezione e stabilità dell’Essere non dipendano da vincoli
esterni, ma dalla simmetrica distribuzione delle forze interne e dall’assoluta
uguaglianza che sussiste tra le parti. 127 Traduciamo letteralmente οὔτε γὰρ οὐκ
ἐὸν ἔστι. Cerri (p. 239) osserva che, in questo caso, οὐκ ἐὸν «significa né più
né meno che “vuoto”, “spazio vuoto”, “assenza di essere\materia”». 128
Traduciamo così l’espressione εἰς ὁμόν: il non-essere potrebbe teoricamente interrompere
e discriminare l’identità e l’uguaglianza con se stesso di ciò che è. In questa
direzione anche le traduzioni di O’Brien («à la similitude ») e Conche («à
l’egalité à soi-même»). 129 Utilizziamo la forma dell’inciso (traducendo ἐόντος
come «di ciò che è»), per facilitare la lettura in italiano. Avremmo potuto
impiegare il pronome «di esso», ma abbiamo scelto di rimanere aderenti alla
ripetizione greca. 130 L’espressione τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον ribadisce
sostanzialmente omogeneità e uniformità già argomentate, e dunque la pienezza
d’essere di ciò che è. Come ha osservato McKirahan (p. 213), Parmenide ha ogni
motivo per concludere la trattazione di ciò-che-è sottolineando l’importanza
della tesi che «ciò-che-è» è pienamente, esprimendola in modi differenti per
catturare l’attenzione del suo pubblico e condurlo a comprendere il suo punto
più chiaramente. 131 Recentemente Palmer (op. cit., pp. 157-8) – per evitare di
fare del v. 49 (οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) la ragione (γὰρ)
dell'affermazione di v. 48b (πᾶν ἐστιν ἄσυλον), a sua volta proposta a
giustificazione (ἐπεὶ) dei vv. 47-48a, che contengono una delle ragioni a
sostegno di quanto affermato ai vv. 44b-45, rischiando così la circolarità – ha
proposto di inserire un punto prima di ἐπεὶ, legando quindi il v. 48b al v.
49b: «Poiché è tutto inviolabile – dal momento che è a se stesso da ogni parte
uguale – uniformemente entro i suoi limiti rimane». In questo modo 173 A se
stesso, infatti, da ogni parte uguale133, uniformemente134 entro i [suoi]
limiti rimane135 . ἐπεὶ introdurrebbe la ragione per l'affermazione
(riassuntiva) finale: «uniformemente entro i [suoi] limiti rimane». 132 Il
termine ἄσυλον evoca uno sfondo religioso: ἀσυλία era concetto del linguaggio
giuridico religioso e indicava la condizione di inviolabilità di persone o
luoghi sacri, associati al culto, la violenza nei confronti dei quali era
perseguita, come sacrilegio, con la condanna capitale. Secondo Colli (Gorgia e
Parmenide, cit., p. 150) l’allusione religiosa andrebbe posta in relazione con
la rivelazione del proemio. Nel contesto l’inviolabilità può intendersi come
altra faccia della costrizione che tiene insieme ciò che è, che gli impedisce
di essere diversamente da come è: impossibilità che gli siano sottratti i suoi
attributi o gliene siano imposti altri che non ha (McKirahan p. 213). 133
Parmenide afferma l’eguaglianza dell’essere con se stesso (οἷ πάντοθεν ἶσον) -
che esclude non-essere e possibili gradi d’essere – in relazione ai suoi
limiti. Come osserva Coxon (p. 216), l’Essere è universalmente uguale a se
stesso nel senso che è uniformemente confinato da un limite (ὁμῶς ἐν πείρασι
κύρει), il quale, essendo estremo, non lo divide da qualcos’altro ma lo
determina a essere quello che è e identifica la sua perfezione. Mourelatos (p.
127) suggerisce una lettura diversa: in riferimento alla sfera, si
valorizzerebbe il fatto che è un oggetto sempre uguale a se stesso, da
qualsiasi prospettiva lo si guardi. 134 Così rendiamo ὁμῶς, che si dovrebbe più
letteralmente tradurre come «ugualmente», «allo stesso modo». Mourelatos (p.
127) sottolinea come dire di qualcosa che «è presente» ugualmente entro i suoi
limiti sia un modo di affermare che è simmetrico. 135 Colli (Gorgia e
Parmenide, cit., p. 150) traduce κύρει come «tende»: il verbo introdurrebbe un
elemento dinamico, in tensione con la precedente connotazione statica
dell’essere, presentando l’essere quasi fosse un organismo vivente, che tende a
espandersi come un respiro verso i suoi limiti. In questo modo l’essere sarebbe
presentato dall’interno: dall’esterno ne sarebbe dunque accentuata
l’immobilità, dall’interno il dinamismo. 174 DK B8 vv. 50-61 [50] ἐν τῷ σοι
παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης1 · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας
μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας2 ὀνομάζειν·
τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν -· [55] ἀντία3 δ΄ ἐκρίναντο
δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν
4 , μέγ΄ ἐλαφρόν5 , ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο
κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε. [60] τόν6 σοι ἐγὼ
διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη 7 παρελάσσῃ 8
. 1 Come in B1.29 indendiamo Ἀληθείη come nome divino. 2 I codici DEEa F di
Simplicio Phys. 39, 1 riportano γνώμας, forma per lo più accolta dagli editori;
i codici DEF di Phys. 30, 23 e DEF2 di Phys. 180, 1 riportano invece γνώμαις. 3
Ι codici DE di Simplicio riportano ἐναντία; alcuni editori leggono τἀντία. 4
Nei codici DE di Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ in vece di ἤπιον ὄν. 5 I codici
delle tre citazioni di Simplicio riproducono il verso 57 con evidenti
irregolarità metriche, per la presenza di ἀραιόν (rarefatto) prima di ἐλαφρόν.
Il testo risulterebbe dunque: «che è mite, molto rarefatto e leggero....». Si è
per lo più ritenuto che uno dei due aggettivi fosse glossa dell'altro, con
conseguente espunzione. La versione del testo che suggeriamo è quella per lo
più adottata. Cerri, che sceglie di conservare il testo dei codici, senza
espunzioni, in una lunga nota testuale, con grande acribia ricostruisce la
probabile fisionomia del testo di Simplicio in questa forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν,
ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν. Da osservare che il termine ἀραιόν («raro», «rarefatto»)
è probabilmente da considerare un termine tecnico della cosmogonia milesia
(Anassimandro DK 12 A22, Anassimene DK 13 B1). Al contrario, il termine ἐλαφρόν
non è attestato nel linguaggio fisico presocratico. Coxon (p. 223) considera ἀραιόν
certamente parmenideo, in quanto utilizzato come opposto di πυκνόν da Melisso e
Anassagora e nella tradizione dossografica sulla fisica di Parmenide. 6
L'aggettivo dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον. Karsten propose di
correggere il testo dei codici con τῶν. Il senso sarebbe allora: «relativamente
a queste cose, io ti espongo ordinamento del tutto verosimile». 175 [Fonti
principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146; vv. 50-61
Simplicio, In Aristotelis Physicam 38-39] 7 Nella trascrizione dei codici,
alcuni editori (Stein, tra i contemporanei seguito tra gli altri da Coxon,
O'Brien) intendono γνώμῃ. Il significato complessivo del verso cambia di poco:
«così che nessuno dei mortali possa esserti superiore nell'opinione» ovvero
«nel giudizio» (o «practical judgement» Coxon). 8 I codici Ea F di Simplicio
riportano παρελάσση, i codici DE παρελάση: gli editori hanno corretto in
παρελάσσῃ. 176 [50] A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile1
e al pensiero intorno a Verità2 ; da questo momento3 in poi opinioni4 mortali5
impara6 , l’ordine7 delle mie8 parole9 ascoltando10, che può ingannare11 . 1
L'aggettivo πιστὸν è immediatamente riferito a λόγον, ma può riferirsi anche a
νόημα: in qualche caso le traduzioni scelgono questa strada. Qui abbiamo
preferito mantenere distinti i due oggetti - πιστὸν λόγον e νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης
– che ci sembrano reiterare e rafforzare lo stesso concetto. 2 Si potrebbe
rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – e si deve comunque intendere - anche come
«pensiero intorno alla realtà». 3 I due versi 50-51 segnano il passaggio tra
una sezione l'altra: la conclusione della Verità è segnalata da ἐν τῷ σοι παύω,
l'attacco della Doxa da ἀπὸ τοῦδε [...] μάνθανε. 4 Ovvero «convinzioni» o
«considerazioni». 5 L'espressione δόξας βροτείας – in considerazione del
soggetto divino della comunicazione - potrebbe forse rendersi semplicemente con
«opinioni umane». 6 L'imperativo μάνθανε riprende, nell'introdurre la sezione
sulla Doxa, il programmatico futuro μαθήσεαι di B1.31. Cerri (p. 242)
sottolinea il valore "scientifico" che il verbo venne ad assumere
all'epoca, non indicando il mero ascoltare e memorizzare, ma «l'essere fatto
partecipe di una elaborazione scientifica, di una dimostrazione rigorosa ed
esaustiva». Interessante soprattutto ritrovare un verbo come μανθάνω, senza
dubbio positivamente connotato in termini gnoseologici, nell'imminenza
dell’esposizione della Doxa: B10 presenterà ancora εἴσῃ («conoscerai»), πεύσῃ
(«apprenderai»), εἰδήσεις («conoscerai»). Lo stesso B11 doveva esordire con
un'esortazione simile. Tutti indizi di consistenza, evidentemente riconosciuta
dalla divinità al sapere che andava a esporre. 7 Si potrebbe forse rendere
κόσμον ἐπέων come «costrutto verbale», «sintassi verbale». In ogni modo è da
preferire una resa letterale del sostantivo κόσμος (come suggerisce O' Brien,
p. 57: «arrangement») nel senso di τάξις (Anassimandro). Mourelatos (p. 226)
indica come possibilità anche «forma». Nella cultura arcaica l'espressione
ricorre tra l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων ὠιδὴν fr. 2.2 Diels); nel V-IV
secolo in Democrito (DK 68 B21): in entrambi i casi si sottolinea la
composizione, l'artificio poetico. Coxon (p. 218), che rende il greco come
«composition», sostiene che il termine sarebbe stato scelto per la sua
congruità con il successivo διάκοσμος, «sistema», che la «composizione» deve
esporre. Una interpretazione radicalmente diversa è quella di J. Frère
("Parménide et l'ordre du monde: fr VIII, 50-61", in Études 177 sur
Parménide cit., vol. II, pp. 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν ἐπέων come
complemento indiretto («dalle mie parole») di ἀκούων, e κόσμον come «ordine del
mondo». Robbiano (op. cit., p. 182) avanza l'ipotesi che κόσμος mantenesse in
Parmenide il suo valore omerico (disposizione ordinata che è conveniente, che
funziona e che è anche bella da vedere: il prodotto di un essere intelligente),
precedente al riferimento (che per altro conservava aspetti della accezione
originaria) all'universo (per la prima volta forse in Eraclito B30). Nello
specifico, secondo la studiosa, kosmos si riferirebbe a prodotto della mente e
della parola umana: a ciò che vediamo da una certa prospettiva (umana) e non a
ciò che (e come) le cose sono nell'ottica divina. Nehamas ("Parmenidean
Being/Heraclitean Fire", cit., p. 60) ha invece ipotizzato che κόσμος
significhi nel contesto il mondo di cui la dea parla: «da questo punto in
avanti, impara le opinioni mortali, venendo a conoscere (attraverso l'ascolto)
il mondo ingannevole cui le mie parole si riferiscono». È possibile che le
affermazioni di cui consta la Doxa, la teoria che essa contiene, non siano di
per sé erronee, che descrivano correttamente un mondo di per sé ingannevole, in
quanto mascherato da realtà quando è solo apparenza. 8 L'uso dell'aggettivo
possessivo sottolinea l'autorità della comunicazione e l'assunzione di
responsabilità nell'introduzione della sezione sulla Doxa: analogamente ai
pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί (B5.1), ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ (v. 60). 9 Coxon (p.
218) segnala l'opposizione di κόσμον ἐπέων a λόγος: «discorso poetico» sarebbe
contrapposto a «discorso razionale». D'altra parte la cultura del V secolo
riconosceva un nesso tra ἔπη e δόξα (come risulta da Euripide, Eracle 111).
Cerri (p. 243) non è, tuttavia, disposto a esagerarne, nel contesto, le
implicazioni: in particolare, l'irrazionalità e l'ingannevolezza delle parole
che seguono sarebbero solo relative. Tarán (p. 221) sottolinea come la Dea, pur
impiegando parole secondo le regole della grammatica e della poesia, non potrà
evitare che il suo discorso risulti decettivo. 10 Nuovamente (dopo B2.1) il κοῦρος
viene invitato ad ascoltare, a manifestare con la disponibilità all'ascolto la
propria aspirazione alla conoscenza. 11 Dobbiamo a J. Frère (op. cit., p. 201)
il rilievo circa il significato antico di ἀπατηλός: che non sarebbe, come per
il corrispettivo moderno, «ingannevole», piuttosto «suscettibile di ingannare».
La sua resa francese è la seguente: «[un ordre du monde], où l'on peut se
trompeur». Lo studioso propone in effetti di collegare κόσμον e ἀπατηλὸν, senza
fare di ἐμῶν ἐπέων un genitivo dipendente da κόσμον, ma vedendovi un
complemento di ἀκούων (p. 199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo con
«seducente»: Ruggiu nel suo commento (pp. 313) sottolinea come il senso
dell'aggettivo vada colto nella relazione di apertura alla verità e all'errore
(come sarebbe proprio di ogni seduzione), alla luce del suo oggetto,
l'apparire. Mourelatos (p. 227) ha valorizzato le potenziali ambiguità della
formula κόσμον ἐπέων 178 Presero12 la decisione13, infatti14, di dar nome15 a
due16 forme17 , ἀπατηλὸν: è la stessa combinazione di parole a celare la
tensione di idee contrarie. L'espressione κατὰ κόσμον indica, in effetti,
parlare veritativamente, appropriatamente: la polarità κόσμος-ἀπάτη
segnalerebbe sia che le δόξαι sono decettive, sia che l'ordinamento delle
parole della dea o il loro contesto può suggerire molteplici e\o confliggenti
significati. In questo senso Mourelatos invita a tenere a mente la formula
esiodea ἐτύμοισιν ὁμοῖα («simili a cose vere», Teogonia 27) e l'espressione ἀμφιλλογία
(da tradursi come come «double talk», Teogonia 229), che Esiodo intenderebbe
deliberata e maliziosa. Affascinante l'accostamento omerico all'episodio di
Odisseo e Polifemo. Lo studioso ne ricava (p. 228) nel contesto una lezione di
ironia da parte di Parmenide: i mortali praticano "anfilogia"
innocentemente (senza saperlo), cadendo quindi in errore; la dea usa
l'anfilogia in modo pienamente consapevole, svelando quindi la verità sulle
opinioni umane! 12 Anche chi, come Coxon (p. 219), ritiene che il modello
dualistico proposto nella Doxa possa risalire al pitagorismo antico, è convinto
che κατέθεντο abbia comunque come soggetto genericamente «gli esseri umani»,
cogliendo una connessione tra lo stabilire nomi di questo verso e quanto sostenuto
nei vv. 34-41. Tuttavia il problema del soggetto del verbo si pone: Frére (p.
203), per esempio, osserva come sia difficile pensare che tutti i «mortali»
possano essere assunti come «dualisti», e decide di indicare come soggetto
«alcuni» (certains). Seguendo la proposta di Ebert ("Wo beginnt der Weg
der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", cit.) di
leggere la sequenza dei vv. 34-41 dopo il v. 52, il soggetto di κατέθεντο (e
dei successivi ἐκρίναντο e ἔθεντο) diventerebbe βροτοί. Ma quali?
Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., p. 261) ritiene, per esempio, che,
diversamente dai mortali (senza discernimento, che nulla sanno) di B6, i βροτοί
di cui la Dea parla negli ultimi versi di B8 si siano smarriti solo su un punto
preciso (B8.54). 13 Secondo Cerri (p. 245), la sequenza di aoristi (κατέθεντο, ἐκρίναντο,
ἔθεντο) rivelerebbe un riferimento del discorso della Dea a un lontano passato.
Secondo Diels (Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 92) γνώμη κατατίσθεσθαι sarebbe
da considerare formula abituale: Liddell-Scott traducono nel nostro caso
κατέθεντο γνώμας ὀνομάζειν come «recorded their decision, decided to name». Si
potrebbe rendere come «si decisero a nominare». In alternativa si potrebbe
costruire il verso facendo dipendere da κατέθεντο («stabilirono») μορφὰς δύο
(«due forme») e attribuendo all'infinito ὀνομάζειν valore finale (per dar
nome), con γνώμας come oggetto diretto: «stabilirono due forme per dar nome ai
loro punti di vista» (soluzione vicina a quella adottata da Cerri). O ancora,
considerare (come Deichgräber) sia γνώμας sia μορφὰς come oggetti retti da
κατέθεντο («posero due forme 179 [come] principi per nominare»). Cordero fa,
invece, di δύο γνώμας l'oggetto diretto di κατέθεντο e traduce quindi: «They
estabilished two viewpoints to name external forms». Couloubaritsis (Mythe et
philosophie cit., pp. 278-9) propone una soluzione analoga, intendendo γνώμας
come «marque signifiante»; ne risulta: «En effect, ils proposèrent deux formes
pour nommer les marques signifiantes». Pur essendo la struttura della frase
molto diversa, nella sostanza il significato non muterebbe, come sottolinea
anche Conche (p. 190). Frére (p. 203), invece, sottolinea come κατέθεντο non
possa in questo caso essere costruito con il complemento diretto. Tenendo conto
del fatto che· (i) i vari significati del termine γνώμη sono riconducibili
essenzialmente a giudicare, pensare e (conseguentemente) decidere; (ii) nel
contesto γνώμας si dovrebbe rendere con «opinioni», «giudizi», «punti di
vista»; (iii) esiste nei codici DEF la variante γνώμαις: se accolta, la
traduzione dovrebbe risultare: «[Uomini] stabilirono, infatti, due forme per
nominare sulla base delle [loro] opinioni»; (iv) in alternativa γνώμας potrebbe
essere inteso come accusativo di relazione (Frére: «en leurs jugements») –
tutto ciò considerato, optiamo per la soluzione più lineare: quella di
intendere κατέθεντο γνώμας come «risolvettero i [loro] punti di vista» e dunque
tradurre «presero la decisione», «si decisero a». Va menzionata l'analisi di
Mourelatos (pp. 228-9), che riscontra nel verso una costruzione a conferma
della sua lettura "anfilogica" della sezione: l'effetto sarebbe
quello di far avvertire all'uditore/lettore la tensione tra γνώμην κατέθεντο
(«essi decisero») e κατέθεντο δύο γνώμας (l'opposto: «essi erano di due
opinioni, vacillavano»; situazione che può richiamare quanto espresso da
δίκρανοι, B6.5). 14 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p.
354) ha di recente sottolineato come γὰρ qui abbia poco senso nel contesto, in
quanto quel che segue non sembra giustificare le affermazioni della dea nei vv.
51-2: assumerebbe altro valore accettando la proposta di Ebert di
"restaurare" i vv. 34-41 dopo il v. 52. In realtà la Dea, in quel che
segue, illustra proprio come e dove possa annidarsi la distorsione nel punto di
vista umano che va a presentare. 15 La decisione di nominare implica
un’arbitrarietà che Parmenide ha già stigmatizzato in B8.38b-39: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄
ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Perciò tutte le cose
saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali. Sullo
stesso motivo ancora in B19: 180 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ
μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον
ἑκάστῳ. Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono,
e poi, a partire da ora, sviluppatesi, moriranno. A queste cose un nome gli
uomini imposero, particolare per ciascuna. Se teniamo conto della proposta di
restauro del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da parte di Ebert, potremmo
effettivamente concludere che l'arbitrio della convenzione linguistica è
indissociabile dalla concezione parmenidea della Doxa. Leszl (p. 230) ha colto
in questo un’anticipazione della distinzioneopposizione tra nomos e physis. 16
Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che δύο abbia
una doppia associazione, traducendo: «i mortali con doppia mente hanno dato
nome a due forme». La descrizione dei mortali corrisponderebbe così a quella di
B6.4-5. 17 Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri (p. 246)
quello di strutture categoriali, create dall'uomo in funzione delle sue (due)
sensazioni più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe successivamente
la trama complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che sembra evocare
direttamente il verso parmenideo: θῶμεν οὖν βούλει, ἔφη, δύο εἴδη τῶν ὄντων, τὸ
μὲν ὁρατόν, τὸ δὲ ἀιδές vuoi che stabiliamo, disse, due categorie di tutto ciò
che è, l'una del visibile, l'altra dell'invisibile? (Fedone 79 a 6-7). Nella
stessa direzione Robbiano (op. cit., p. 181), che vede nelle due forme opposte
la possibilità di ridurre il molteplice dell'esperienza «to a minimal number of
categories». Per rimanere vicino all'uso arcaico del termine, Cordero (By
Being, It Is, cit., p. 156) insiste per rendere μορφαί come «external forms».
Analogamente Frére (p. 204) – che opta per «figures», anche alla luce del
successivo riferimento a δέμας, che designa corpo e aspetto fisico - e
Mourelatos, che rende con «perceptible forms». Granger (“The Cosmology of
Mortals”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 112) osserva come la scelta di
μορφαί (che significa appunto anche «forme esteriori», «apparenze per un
osservatore») potrebbe segnalare il fatto che la dea si è volta dalla realtà
alle apparenze. 181 delle quali l’unità18 non è [per loro]19 necessario
[nominare]20: in ciò sono andati fuori strada21 . 18 L'interpretazione del
valore di τῶν μίαν è stata oggetto di interminabile dibattito (che origina
nell'antichità!). La traduzione più fortunata è quella (proposta tra gli altri
da Zeller e alla fine accolta anche da Diels, inizialmente critico) che intende
rilevare come, delle due forme imposte dai mortali, una non avrebbe dovuto
essere introdotta, una è «di troppo» (ci si riferisce spesso alle due forme
come repliche di Essere e Non-Essere: la seconda non avrebbe dovuto essere
nominata); ciò costituirebbe l'errore dei mortali secondo la Dea. Si tratta di
fatto dell’interpretazione di Aristotele; essa è stata oggetto di critica, in
quanto: (i) da un punto di vista linguistico intende μίαν come se fosse ἑτέρην
(non si potrebbe leggere in μίαν il significato di «una delle due»); (ii) da un
punto di vista interpretativo accosta arbitrariamente essere e luce e
non-essere e tenebra. Una seconda linea di lettura (proposta tra i
contemporanei in particolare da Kirk-Raven) sottolinea come i mortali abbiano
stabilito di nominare due forme, di cui non si deve nominare una sola (cioè una
senza l'altra), come specificato da Raven: «two forms, of which it is not right
to name one only (i.e. without the other)». Coxon segue la stessa linea. Una
terza esegesi (anticipata da Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius,
Deichgräber, Untersteiner, Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford,
intendendo τῶν μίαν οὐ = οὐδετέραν: i mortali hanno errato nell'introdurre
(oltre all'essere) due forme: nessuna delle due avrebbe dovuto essere nominata:
«mortals have decided to name two Forms, of which it is not right to name (so
much as) one». La Curd l'ha riproposta all'interno della sua analisi delle due
forme come «enantiomorfe». Tarán (p. 219) ha sottolineato come tale resa
sottintenda qualcosa (οὐδὲ μίαν) che il testo greco non propone. Una quarta
possibile interpretazione è quella che abbiamo seguito: si può ritrovare già
nell'edizione del poema di Diels (1897), ma è stata soprattutto ripresa e
approfondita da H. Schwabl ("Sein und Doxa bei Parmenides", «Wiener
Studien», 1953, p. 53 ss.) e poi adottata da Tarán («for they decided to name
two forms, a unity of which is not necessary»), Couloubaritsis e da Reale. Gli
uomini pongono due principi che non si possono ridurre a unità, in ciò cadendo
in errore. Il genitivo del pronome (τῶν) non può essere partitivo (in tal caso
avremmo ἑτέρην) ma collettivo, e riferirsi a entrambe le μορφαί. Conclusione:
μία (da intendere in senso numerico) deve essere «una unità» delle δύο μορφαί.
Insomma l'errore consisterebbe nel porre due forme e nel non cogliere che sono
riconducibili a un'unica realtà (l'essere). Fondamentale dunque l'accurata
traduzione di Schwabl dei vv. 53-4, che alcuni ritengono l'unica
grammaticalmente accettabile (Mansfeld, p. 126): denn sie legten ihre Meinung
dahin fest, zwei Formen zu benennen, 182 von denen die Eine (d.h. eine einheitliche,
die beiden zusammenfassende Gestalt) nicht notwendig ist; in diesem Punkte sind
sie in die Irre gegangen. Si tratta di una lettura sollecitata dallo stesso
commento di Simplicio (Fisica 31, 8-9): τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν
συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας [si sono ingannati] coloro che non colgono
l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione. Su
queste esegesi si diffonde Reale nel suo aggiornamento a Zeller-Mondolfo,
Eleati, cit., pp. 244 ss.. Di recente Palmer (op. cit., pp. 169-170) ha
contestato la soluzione di Schwabl, ribadendo che il significato di τῶν μίαν è
«one of these», portando a esempio un testo di Erodoto (IX, 122), dove, però τῶν
μίαν è riferito a una pluralità di luoghi (πολλαὶ ἀστυγείτονες) e non all'alternativa
tra due elementi (che richiederebbe appunto ἑτέρην). 19 Importante per il senso
complessivo stabilire se la mancata postulazione è tesi della Dea ovvero parte
della sua analisi dell'errore dei mortali. Abbiamo scelto di seguire questa
seconda opzione, che ci sembra suggerita anche dalla relativa seguente. Dello
stesso avviso J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation
of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959, pp. 117-120. 20 L'espressione
con valore modale χρεών ἐστιν richiede l'infinito: sottintendiamo ὀνομάζειν.
Nei precedenti (B2.5; B8.11, B8.45) Parmenide utilizza εἶναι o πέλεναι, ma
l'accusativo μίαν suggerisce nel contesto ὀνομάζειν. 21 Il perfetto
medio-passivo πεπλανημένοι εἰσίν equivale a «si sono sbagliati»: conserviamo il
valore implicito in πλανάομαι. Coxon (p. 220) osserva come l'uso del perfetto
distingua l'allusione storica ai pensatori ionici dall'analisi dello status
delle due forme espresso dall'aoristo κατέθεντο. In particolare, πεπλανημένοι εἰσίν
richiamerebbe B6.4-6, per l'uso di πλάζονται (la variante che Coxon accoglie in
vece di πλάσσονται) e dell'espressione πλακτὸν νόον. In questo modo si
chiarisce anche che le allusioni di quel frammento erano ai pensatori ionici.
La natura dell'errore cui si allude dipende dalla lettura dell'emistichio
precedente: aver posto due principi, distruggendo il monismo ontologico, ovvero
aver posto due principi senza coglierne l'unità; aver posto un solo principio.
Secondo Patricia Curd (The Legacy of Parmenides…, cit., pp. 104 ss.) l'errore
dei mortali sarebbe da ravvisare nel fatto che essi hanno fondato la Doxa su
due opposti di genere speciale: enantiomorphs, «oggetti che sono immagini
speculari l'uno 183 [55] Scelsero22 invece23 [elementi]24 opposti25 nel corpo26
e segni27 imposero dell'altro [...] definiti in termini di ciò che l'altro non
è» (p. 107), dunque in una sorta di intreccio di essere e non-essere. Thanassas
rimarca la connessione tra κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν:
la formula «in questo essi si sono ingannati» concorrerebbe a restringere la
validità del termine «ingannevole» alle «opinioni mortali» criticate in 8.54-
9, così da aprire la possibilità di una nuova comprensione della relativa
incidentale (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν). Essa esprimerebbe esattamente l’errore
denunciato in quel che segue, poi corretto dalla «appropriata» Doxa divina (p.
65). 22 Seguiamo Coxon (p. 221) nel rendere – secondo il consueto uso epico di
κρίνεσθαι - ἐκρίναντο come «scelsero». Anche in questo caso si pone il problema
del soggetto: si tratta dello stesso soggetto di κατέθεντο? Ovvero, come crede
Frére (p. 204), di altro soggetto, per cui «alcuni presero la decisione di dar
nome a due forme» e «alcuni invece scelsero ... e segni imposero»? Optiamo per
la continuità di un soggetto indefinito. 23 Traduciamo δέ attribuendogli valore
avversativo (per lo più non è tradotto o gli viene aatribuito valore
copulativo), nella convinzione che la Dea, faccia seguito al proprio rilievo
critico del verso precedente. 24 Forzando l'interpretazione, sottintendiamo
«elementi» (e non genericamente «cose») nel neutro plurale ἀντία. Simplicio in
effetti parla di ἀρχαί e στοιχεία. Mansfeld (p. 140), sulla scorta di
Deichgräber, sostiene che i «segni» con cui sono connotate le due forme
concorrano a definire la nozione di «elemento», con cui, nella sua trattazione,
sostituisce il termine «forma». 25 Alcuni interpreti (per esempio O' Brien e
Frère) intendono ἀντία come avverbio («in modo contrario», «oppositivamente»)
riferendolo alle due forme nominate, «relativamente al corpo» (δέμας,
accusativo di relazione). Altri, invece, pongono δέμας come oggetto diretto di ἐκρίναντο
e pongono l'avverbio in relazione a esso. Coxon, dal canto suo, fa di πῦρ e
νύκτα gli oggetti diretti e di ἀντία un predicativo. Intendiamo ἀντία come
neutro plurale. 26 Il termine δέμας è sempre riferito a corpi viventi: secondo
Coxon (p. 221) ciò rivelerebbe che Parmenide considera le due forme come
divinità. Conche (pp. 194-5) ritiene che il significato omerico di forma
corporea non possa funzionare nel contesto: risalendo al valore di δέμω (che
indicherebbe un certo modo di costruire, per sovrapposizione di linee uguali),
egli individua «struttura» come resa più sensata. 27 Il termine σήματα avrebbe,
secondo Cerri (p. 248), qui il valore di «segni di lingua», «parole». Nella
scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld (p. 131) 184 separatamente28 gli uni
dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco29 , che è mite30, molto
leggero, a se stesso in ogni direzione identico31 , coglie una ripresa della
«disgiunzione» (κρίσις) di B2 e delle proprietà dell’essere (B8). 28 Rendiamo
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων come espressione avverbiale, per ribadire l'opposizione (ἀντία
δ΄ ἐκρίναντο). 29 Coxon (p. 221) ritiene che Parmenide, pur concordando nella
sostanza con Eraclito sul fatto che il fuoco è costituente ultimo del mondo
fisico, nella scelta della coppia luce-notte rivelerebbe come sua fonte
immediata la tavola degli opposti pitagorica. Charles Kahn, invece - nel suo
fondamentale Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett,
Indianapolis 1994 (originariamente Columbia U.P., New York 1960), p. 148 -, ha
mostrato come l'espressione φλογὸς αἰθέριον πῦρ risenta della omerica
connotazione di αἰθέρ (da αἴθω, «accendere, infiammare») come «celestial
light», originariamente indicante una condizione del cielo e solo derivatamente
l'elemento luminoso e raggiante connesso alla regione superiore dell'atmosfera,
a contatto con la copertura celeste (οὐρανός): nel tempo, insieme al correlato ἀήρ,
avrebbe modificato il proprio significato, finendo nel V secolo a.C. per
indicare una regione di puro fuoco (come ancora attesta Anassagora in DK 59 B1,
B2, B15). I sostantivi πῦρ e νύκτα (accusativi) sottintendono un verbo
reggente: nella nostra traduzione si tratta di ἐκρίναντο. 30 L'aggettivo ἤπιος
è per lo più tradotto con «mite», che nel contesto, dopo il richiamo a φλογὸς αἰθέριον
πῦρ, potrebbe apparire insensato: in alternativa Cerri (p. 249) propone «utile»
o «propizio». Ma anche questa soluzione, soprattutto nel confronto oppositivo
con i «segni» di «notte oscura», appare poco convincente. Manteniamo «mite»,
nel senso fisico, suggerito da Frére (pp. 207-8), di «non intenso». 31 La due
forme - «fuoco etereo» e «notte oscura» - sono poste a un tempo con la
caratteristica identità uniforme dell'essere e con la non-identità rispetto
alla forma opposta. Si tratta di caratteri fondamentali per l'interpretazione
della cosmologia parmenidea: il sistema di spiegazione adottato riflette proprietà
emerse dall'analisi della Verità. Su questo punto in particolare Graham (pp.
170-1). Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 281 ss.) vede in questo
rilievo una sorta di indulgenza della Dea nei confronti dei «mortali» in
questione, i quali si attengono parzialmente alla legge dell'essere: ciò
consentirebbe di riconoscere i Pitagorici dietro alle espressioni parmenidee.
Come abbiamo sopra ricordato, Mansfeld (p. 140) individua nei «segni» con cui
Parmenide connota le due forme la nascita della nozione di «elemento»: 185
rispetto all’altro, invece, non identico32; dall’altra parte, anche quello in
se stesso33 , le caratteristiche opposte34: notte oscura35, corpo denso e
pesante36 . proprio «auto-identità» e «non-identità» rispetto alla forma contraria
ne sarebbero i costitutivi concettuali decisivi. 32 Forse è proprio questo
rilievo a segnalare il limite della posizione criticata: come suggerisce
Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., p. 288) non aver saputo cogliere
fino in fondo la legge della identità e non aver posto, per la conoscenza,
l'orizzonte dell'unità. È possibile che il gioco di τωὐτόν - μὴ τωὐτόν richiami
le «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) di cui in B6.8-9a si dice: οἷς τὸ πέλειν
τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν [...] per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa. A questo
ha di recente prestato attenzione Granger ("The Cosmology of
Mortals", in Presocratic Philosophy, cit., p. 111). Mansfeld (pp. 133-4)
ha osservato come l’identità dell’essere sia differente da quella delle due
forme: l’auto-identità dell’essere è identità nella quiete. L’auto-identità
delle forme, inoltre, è auto-identità di aspetto che non esclude ma anzi
concede allo stesso tempo una contraria auto-identità di aspetto. Nehamas
(“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 55)
ha invece sottolineato come i due principi della Doxa - separati l'uno
dall'altro, ognuno completamente identico a sé e differente dall'opposto - non
si mescolino in alcun modo l'uno con l'altro: la loro «separazione radicale»
sarebbe dunque, «linguisticamente e filosoficamente», contraria alla «pervasiva
confusione di essere e non-essere» denunciata in B6. 33 Diels (DK vol. I, p.
240) legge κατ΄ αὐτό τἀντία come se αὐτό avesse valore avverbiale («gerade») e
κατὰ reggesse τἀντία («all'opposto»). 34 L'espressione τἀντία è qui intesa come
τά + ἀντία («gli opposti», «le cose opposte»), come oggetto indeterminato del
verbo reggente (ἐκρίναντο), utilizzato per introdurre il vero oggetto (νύκτα) e
le sue connotazioni. 35 L'aggettivo ἀδαής indica l'impossibilità di discernere,
percepire, conoscere (costruzione con alfa privativo del verbo δάω, «imparare»,
«conoscere», «percepire»): «absence de sens», secondo O'Brien (p. 60), ma anche
«absence de lumière» (δαίω). Liddell-Scott indica come secondo valore «oscuro»,
proprio in questa occorrenza nel poema di Parmenide. Coxon (p. 186 [60] Questo
ordinamento37, del tutto38 appropriato 39, per te40 io41 espongo42 , 223) preferisce
rendere l'aggettivo in senso attivo come «unintelligent». O'Brien in francese
rende con «l'obscure nuit», in inglese offre una versione più sfumata: «dull
mindless night». È da notare come questa connotazione di Notte possa essere
intesa in senso epistemico negativo (impenetrabilità conoscitiva): ciò potrebbe
aver spinto all'accostamento aristotelico tra Notte e non-essere. Su questo si
veda Granger (op. cit. p. 113). Da osservare inoltre che alcune delle
caratteristiche qui associate a νύξ (in particolare oscurità e densità)
richiamano quelle arcaiche di ἀήρ, connotata come nebbia densa, oscura, fredda
(per esempio Esiodo, Opere e giorni 547-556). Sulla origine e sui caratteri
degli elementi nella cultura greca arcaica è ancora essenziale il contributo di
Kahn, op. cit., pp. 119-165. A proposito di ἀήρ le evidenze testuali mostrano
come in origine il termine non designasse una regione o un elemento specifico,
ma una condizione: la condizione che rende invisibili le cose, assimilabile
dunque sia a νέφος (nuvola) sia all'oscurità, intesa come positiva realtà (p.
143). 36 Mansfeld (pp. 132-3) vede nella corrispondente sequenza di segni delle
due forme tre distinti aspetti: (i) denominativo (αἰθέριον πῦρ/νύξ), (ii)
teoreticoconoscitivo (ἤπιον/ἀδαῆ), (iii) fisico (μεγ’ ἀραιὸν/πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε). Una quarta corrispondenza è ritrovata nel rilievo della comune
autoidentità e etero-differenza delle due forme. 37 Mourelatos (p. 230) coglie
nell'uso di διάκοσμος un aspetto decettivo. Esso può indicare «ordine del
mondo», ma suggerire anche attività: un ordinamento in divenire nel tempo, una
cosmogonia. Inoltre, in relazione a τἀντία e τ΄ ἐναντίον (B12.5),
l'implicazione di ordine (κόσμος) di διάκοσμος sarebbe rovesciata nel senso di
«segregazione, divisione»: il κόσμος dei mortali sarebbe dunque, in realtà, un
campo di battaglia. Il termine è tuttavia impiegato anche in Aristotele per
indicare l'ordinamento cosmico pitagorico e in genere anche nella forma verbale
διακοσμεῖν conserva una valore positivo. Robbiano (op. cit., p. 183),
riprendendo la propria interpretazione del termine κόσμος, osserva come
διάκοσμος sia qui utilizzato per ribadire all'audience che il kosmos non è un
aspetto della realtà, non esiste oggettivamente; che vedere un kosmos è vedere ed
esprimere la realtà usando parole. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…,
cit., pp. 64-5) osserva, invece, come il termine diakosmos implichi un
intreccio delle due forme, che prelude alla introduzione della nozione di
mescolanza, impiegata per la Doxa “appropriata”. In questo senso, le
espressioni «ordine ingannevole delle mie parole» e «ordinamento del mondo del
tutto appropriato» denoterebbero due diversi livelli e obiettivi della Doxa: è
importante che essi non siano confusi (pp. 67-8). 187 38 Mourelatos e
Couloubaritsis intendono πάντα come aggettivo, concordato con τόν διάκοσμον:
«this whole ordering [system, framework]»; «l'ordonnance totale». 39 Il
significato del participio ἐοικώς usato con valore assoluto è secondo
Liddell-Scott «seeming like, like» ovvero «fitting, seemly». La verosimiglianza
è qui da intendere in relazione ai caratteri attribuiti alle due forme, in
analogia con quelli dell'essere. Ruggiu osserva come, per connotare la doxa,
Parmenide ricorra ad aggettivi, con caratterizzazione positiva, che hanno
radice nell'apparire: ἐοικώς e δοκίμως (B1.32). RealeRuggiu scelgono comunque
di rendere ἐοικώς come «veritiero», seguendo Schwabl e il suo suggerimento di
leggere l'aggettivo «sulla base del linguaggio spontaneo di Omero» (p. 323), piuttosto
che con quello della (posteriore) sofistica. In Omero effettivamente il
significato prevalente di εἰκώς è «appropriato, adeguato». Untersteiner (pp.
CLXXVII ss.), in questo senso, insiste sul nesso con Senofane B35 (ἐοικότα τοῖς
ἐτύμοισιν), marcando l'accordo e la coerenza con i fatti. Anche Couloubaritsis
(Mythe et Philosophie chez Parménide, cit., pp. 264-5) sottolinea la positività
del termine, optando per il valore di «conveniente», adeguato, analogo a quello
(appunto) dell'avverbio δοκίμως. La dea segnalerebbe al giovane la propria
intenzione di esporre l'ordinamento delle cose «che conviene», cioè tenendo
conto della critica rivolta ai mortali (B8.54). Di diverso avviso Mourelatos
(p. 231), per il quale anche ἐοικότα manifesterebbe lo stesso gioco di
positività e negatività che in genere impronta la Doxa parmenidea: per i
mortali non iniziati ἐοικότα significherebbe «adeguato, appropriato,
probabile», per la dea e il kouros «apparente». Per Robbiano (op. cit., p.
183), la dea ricorrerebbe qui a ἐοικότα per correggere l'impressione negativa
che l'audience poteva associare al precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl osserva
(p. 223) come in questo verso di solito si renda διάκοσμον ἐοικότα come «ordine
(disposizione di cose) conveniente», ritenendo che ἐοικώς non possa qui valere
come «simile (a qualcosa)», in quanto sarebbe assente il termine di paragone.
Ammettendo tuttavia che in questo verso vi sia un richiamo al v. 52
(κόσμος-διάκοσμος) e che la descrizione tradizionale (omerico-esiodea) della
falsità sia quella di dire cose simili a quelle vere (ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in
effetti il termine di paragone risulterebbe introdotto indirettamente:
l'essere, concepito come la realtà genuina. 40 Si susseguono i due pronomi
personali σοι ἐγὼ: abbiamo di nuovo ben marcato nell'interlocutore diretto il
destinatario dell'esposizione ancora rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di
interesse (Coxon p. 223). 41 Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea
attribuisca la «decisione di nominare due forme» e la scelta di luce e notte
agli esseri umani, considerandole integrali alla natura dell'esperienza umana,
ella invece sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς)
è 188 così che mai alcuna opinione43 dei mortali possa superarti44 . suo. Un
aspetto rilevato anche da Thanassas (op. cit., p. 71): il pronome personale ἐγώ,
in greco non necessario, sarebbe impiegato per enfatizzare il carattere
rivelativo di quel che segue, così segnando il passaggio dalla Doxa ingannevole
a quella appropriata. 42 Coxon (p. 224) intende φατίζω come «io dichiaro»,
modificando la struttura della frase: «This order of things I declare to you to
be likely in its entirety». Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., pp.
262-3) sottolinea come, nel linguaggio corrente, φατίζω fosse utilizzato per
indicare una promessa, un impegno. Come se la scelta verbale di Parmenide
impegnasse la Dea nella esposizione che segue. Interessanti le implicazioni
lessicali: il sostantivo φάτις in effetti significa «parola», in particolare la
parola di un dio o di un oracolo; ma anche «ciò che si dice di qualcuno», una
«voce» e, di conseguenza, «la rinomanza». Si tratta, dunque, di espressione
ambigua, il cui valore oscilla tra «verità» e discorso inverificabile.
Utilizzato dalla Dea, φατίζω viene da un lato a significare parola vera
(B8.35), che dovrà permettere al giovane di acquisire rinomanza, così da
risultare credibile come «uomo divino» (θεῖος ἀνήρ). Questo spiegherebbe,
secondo Couloubaritsis, il passaggio alla proposizione conclusiva: nessun
sapere umano potrà superare quello così acquisito dal giovane. In ogni caso,
anche per una valutazione complessiva della sezione sulla Doxa, è opportuno
marcare (seguendo Frère, op. cit., p. 209) come φατίζω rinvii, all'interno di
questo frammento, alla parola che manifesta l'Essere (vv. 35-36a: οὐ γὰρ ἄνευ
τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν). 43 Il termine γνώμη ha
uno spettro semantico piuttosto ampio, che spazia da «pensiero», «giudizio»,
«opinione», a «decisione», «massima pratica», «proposito». Reale-Ruggiu (pp.
316-7) interpretano l'espressione βροτῶν γνώμη come se non indicasse
semplicemente altre opinioni, altri giudizi «dei mortali», ma una forma di
"saggezza" (come quella veicolata attraverso gli enunciati
"gnomici" appunto, massime di saggezza pratica) tutta umana, che si
riduce a mere parole. Tarán traduce in effetti come «wisdom» e Couloubaritsis
come «savoir». 44 Il verbo παρελαύνω ha il significato di «passare»,
«superare». Mourelatos (p. 226 nota) osserva che il verbo appartiene al
vocabolario delle corse di carri. Il senso sarebbe dunque da rintracciare nel
superamento/sorpasso («outstrip»), ma anche nel rivelarsi superiore in ingegno
(«outwit»). Untersteiner ha sottolineato anche il valore di «portare fuori
strada», «sviare», seguito da Reale-Ruggiu e anche da Cerri. Manteniamo la
traduzione più comune. Su questa conclusione ha fatto per molto tempo leva
l'interpretazione "dialettica" della Doxa parmenidea: uno strumento,
il migliore possibile, per concorrere con successo con cosmologie rivali. Ma
pur sempre "ingannevole"! Una recente ripresa, ben argomentata, è
quella di 189 Granger (op. cit., pp. 102-3): l'impegno della Dea sarebbe stato
quello di fornire il miglior strumento per individuare l'inganno che si annida
nelle cosmologie. Nella misura in cui il giovane allievo fosse stato in grado
di riconoscere i difetti del pensiero dei mortali nella cosmologia che la Dea
aveva approntato, nessuna opinione mortale avrebbe più potuto sorprenderlo: la
cosmologia più ingannevole, in effetti, è quella più vicina alla realtà. Tarán
(p. 207) aveva marcato come i due versi finali del frammento non affermino che
la ragione per esporre il διάκοσμος sia che esso è il migliore, ma solo che
l’intero ordinamento è offerto perché nessuna sapienza umana possa superare
Parmenide. 190 DK B9 αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται1 καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν. [Simplicio, In Aristotelis Physicam
180] 1 La forma verbale ὀνόμασται è in realtà nei codici DEF2 ὠνόμασται,
corretta dagli editori per ragioni metriche. 191 Ma poiché tutte le cose luce e
notte sono state denominate1 , e queste2 , secondo le rispettive3 proprietà4 ,
[sono state attribuite] a queste cose e a quelle5 , tutto6 è pieno ugualmente7
di luce e notte invisibile8 , 1 Coxon (p. 232) difende l'inversione tra
soggetto e predicato: dal momento che in B8.53-59 si parla di nominare due
forme, «luce e notte» dovrebbero essere soggetto della proposizione, mentre
«tutte le cose» diventerebbe predicativo. I due nomi sarebbero, insomma, la
sostanza della molteplicità di enti fisici. 2 Il pronome dimostrativo neutro
plurale τά secondo Tarán (p. 161), seguito da Conche (p. 198), si riferisce a
φάος καὶ νὺξ; Diels, invece, seguito da altri (per esempio Pasquinelli, Coxon),
lo intende riferito a ὀνόματα. Gigon, Fränkel, Raven rendono il verso come
espressione semplice: le cose in accordo con le qualità di luce e notte sono
state attribuite a queste cose e a quelle. 3 L’aggettivo possessivo σφετέρας
può essere tradotto con valore riflessivo («proprie») o meno: il valore dipende
dalla decisione circa il significato da attribuire a τά. 4 Il termine δυνάμεις
avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e Coxon (p. 233) un valore analogo a quello
di σήματα. Conche (p. 199), a nostro avviso giustamente, interpreta come le
«qualità opposte» associate a luce e notte. Untersteiner (p. CLXXXIV, nota 66)
vi coglie invece sinonimia con φύσις. In effetti il termine dovrebbe nel
contesto significare proprietà, qualità essenziale. È vero però che la
dimensione entro cui Parmenide inserisce la Doxa è certamente anche
linguistica, donde la scelta di Tarán di tradurre con «meanings». Coxon
sottolinea nella implicazione tra δύναμις e μορφή un carattere della posteriore
associazione tra δύναμις e ἰδέα o εἶδος. 5 L'espressione ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς
si riferisce agli enti fisici, con i loro opposti caratteri. 6 Il pronome πᾶν
può essere riferito al Tutto ovvero a «tutte le cose», alla totalità delle
cose: nel secondo caso, è l'insieme delle cose a essere pieno di luce e
tenebra, non ogni singola cosa. B12.1 sembra avvalorare la seconda lettura,
così come Teofrasto in DK 28 A46. Tra gli altri, Tarán (p. 162), Coxon (p. 233),
e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche (p. 200) esplicitamente contesta questa
lettura: come è possibile che la totalità delle cose sia ripiena a un tempo di
luce e notte se non non lo sono anche le singole cose? Guthrie (vol. II, p. 57)
e Cerri (p. 255) insistono sulla equipollenza quantitativa. Ruggiu (p. 328)
esplicitamente sottolinea come «ogni cosa sia costituita insieme e ugualmente
di Luce e Notte». 192 di entrambe alla pari9 , perché insieme a nessuna delle
due [è] il nulla 10 . 7 L'avverbio ὁμοῦ può rendersi come «insieme», «allo
stesso tempo», «egualmente». Se il valore sia da intendere nel senso di una
rigorosa misura quantitativa, dipende da come si interpreta πᾶν. 8 L'aggettivo ἀφάντου
è usato per marcare come, benché invisibile, la notte, opposta alla luce, è pur
qualcosa (Coxon p. 233). 9 All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων si può riconoscere
valore quantitativo - come fanno Diels e Reinhardt e di recente, per esempio,
Cerri (p. 255), per il quale Parmenide preciserebbe come i due principi debbano
essere quantitativamente equipollenti – ovvero, come preferisce Tarán (p. 163),
interpretare nel senso di una equivalenza funzionale, ovvero di status o
potere, come vuole Coxon (p. 233). Empedocle (DK 31, B17.27): ταῦτα γὰρ ἶσά τε
πάντα καὶ ἥλικα γένναν ἔασι questi sono infatti tutti uguali e coevi, sembra
alludere a una equivalenza (non quantitativa) di funzioni delle quattro radici.
Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità
nell'opposizione assicura la stabilità del mondo (Conche, p. 201). L'idea di un
equilibrio di forze, tuttavia, sembra comportare una interpretazione
quantitativa. 10 L'espressione ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν è stata variamente
tradotta, ciò comportando una diversa accentuazione del suo senso complessivo:
(i) Diels, Burnet, Reinhardt, Cornford, Riezler, Untersteiner: «poichè nessuna
delle due ha potere sull'altra»; (ii) H. Gomperz, Coxon: «con nessuna delle due
c'è il vuoto»; (iii) Schwabl, Kirk-Raven, Beaufret, Hölscher, Mourelatos,
Kirk-Raven-Schofield, Austin, Reale, Palmer: «poiché insieme a nessuna delle
due è il nulla» (ovvero, Mourelatos: «since nothingness partakes in neither»);
(iv) Zafiropulo, Casertano: «perché non esiste alcunché che non dipenda
dall'una e dall'altra»; (v) Fränkel, Calogero, Verdenius, Tarán, O'
Brien:·«perché non c'è nulla che non appartenga all'uno o all'altro dei
principi»; (vi) Guthrie, Conche, Pasquinelli, O'Brien, Tonelli: «poiché niente
partecipa di nessuna delle due». Abbiamo preferito la terza soluzione, in
quanto sembra marcare con decisione la svolta rispetto all'errore imputato alle
«opinioni mortali» criticate in B8.53- 59: come sottolinea Ruggiu (p. 329), il
rilievo della Dea ribadisce come tutte le cose siano, come in esse si manifesti
l'Essere. La lettura di Simplicio sembra corroborante: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν
[...] εἰ δὲ μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι
δηλοῦται 193 e poco dopo ancora [citazione B9]; e se «insieme a nessuna delle
due è il nulla», egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono
opposti. Da segnalare come Gomperz e Coxon (suo allievo) ritornino sulla
questione dell'equazione nulla-vuoto: in un contesto fisico – secondo lo
studioso anglosassone (p. 234) – μηδέν significherebbe spazio vuoto, la cui esistenza
Parmenide avrebbe rigettato implicitamente (in B8, insistendo sul pieno),
Melisso esplicitamente. 194 DK B10 εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι
πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν1 ἐξεγένοντο,
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα2 σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν3 ἔφυ τε4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων.
[Clemente Alessandrino, Stromata V, 14 (419)] 1 Si tratta di correzione degli
editori; il codice di Clemente riporta ὁπόθεν. 2 Gli editori moderni hanno
corretto la forma περὶ φοιτά del codice di Clemente in περίφοιτα. 3 Il codice
di Clemente riporta, dopo ἔνθεν, μὲν γὰρ, poi espunto dagli editori. 4 La forma
ἔφυ τε è correzione moderna: il codice di Clemente riporta ἔφυγε. 195
Conoscerai1 la natura2 eterea3 e nell’etere tutti i segni4 e della pura5 fiamma
dello splendente6 Sole le opere invisibili7 e donde ebbero origine8 , 1 La
forma del futuro εἴσῃ, come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare il
valore positivo del verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la natura
programmatica del frammento e la sua funzione di cerniera nell'opera. 2 Il
termine φύσις è stato in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come
«nascita»: Parmenide non si proporrebbe di esporre la «costituzione» o
l'«essenza» (Diels traduceva con «Wesen») dell'etere o della luna, analizzarne
la composizione, ma di spiegare il loro venire a essere, la generazione dei
costituenti del mondo e la genesi dei fenomeni (Conche, pp. 204-5). Non pare
tuttavia naturale rendere l'espressione αἰθερίαν φύσιν come «la nascita
dell'etere», né necessario intendere «natura» come «essenza»: il riferimento
alla costituzione dei fenomeni implica, nel caso della cosmogonia della Doxa,
illustrarne l'origine. 3 Dalla testimonianza di Aezio (DK 28 A37) possiamo
intravedere come Parmenide intendesse αἰθήρ come l'atmosfera più pura,
rarefatta, nella quale si muovono gli astri, e ἀήρ, invece, si riferisse
all'atmosfera sublunare, dislocata a ridosso della superficie terrestre, più
densa, meno pura. 4 In questo caso σήματα assume il suo valore comune nella
lingua greca arcaica (Omero): gli astri intesi in generale come «segni» per
l'orientamento. 5 Il termine καθαρή, «pura», ha un valore prossimo a una delle accezioni
di εὐᾰγής (con alfa breve), utilizzato in questo verso nel senso di
«splendente» (εὐᾱγής con alfa lunga): si tratta di purezza anche in senso
religioso. 6 Abbiamo già detto di εὐᾱγής (con alfa lunga) con valore di
«splendente», da preferire all'altra forma, εὐᾰγής (con alfa breve), per
ragioni metriche (Cerri, p. 260). 7 L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα è attestata in
Omero, dove significa «azioni odiose» (Iliade V, 897): in questo contesto si
potrebbe rendere – come fanno molti traduttori - come «operazioni distruttive».
Ma l'aggettivo ἀΐδηλος – costruito con alfa privativo e la radice ἰδ- di
«vedere» - può indicare tanto la capacità di far sparire, rendere invisibile
(dunque «distruttivo»), quanto la indisponibilità alla vista (quindi «oscuro»,
«ignoto»). Nell'insieme il significato di «invisibile» appare più convincente.
Ricordiamo, inoltre, come fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57 la Dea aveva
connotato il fuoco come ἤπιον (mite, utile). Conche (pp. 205-7) sostiene la sua
traduzione «les oeuvres destructrices du pur flambeau du brillant soleil»
rinviando alle funzioni cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro unione implica
generazione del mondo, la loro dissociazione distruzione del mondo. Nella
misura in cui il fuoco solare si purifica al punto di liberarsi dalla
componente notturna, 196 e le opere apprenderai periodiche9 della Luna
dall’occhio rotondo10 , [5] e la [sua] natura11; conoscerai anche il cielo che
tutto intorno cinge12 , donde ebbe origine13 e come Necessità14 guidando lo
vincolò15 a tenere16 i confini degli astri. esso diviene funesto e dunque
dissociatore della mescolanza e distruttore della realtà. 8 Il verbo (aoristo
medio) ἐξεγένοντο, alla terza persona, è riferito a tutti i termini elencati in
precedenza, e non semplicemente al neutro plurale ἔργ΄ ἀίδηλα: si troverebbe
altrimenti alla terza persona singolare. 9 Seguiamo Conche (pp. 207-8) nel
tradurre ἔργα περίφοιτα come «opere periodiche», evitando «vaganti», troppo
generico e fuorviante rispetto al senso implicito nell'aggettivo (che LSJ
traducono nel contesto come «revolving»): quello di una ripetizione costante:
già nell'ambito del pitagorismo, infatti, la lunazione sarebbe stata fissata in
4 periodi di 7 giorni. Il senso del rilievo parmenideo sarebbe allora quello di
sottolineare la periodicità dell'azione lunare. Tonelli (p. 137) preferisce
riferire a senso περίφοιτα a σελήνης («della luna errante»). 10 Qui κύκλωψ ha
il valore di «occhio rotondo» (LSJ «round-eyed») e non si riferisce ovviamente
al gigante dall'occhio solo, il Polifemo omerico. 11 In questo caso, come
scelgono di fare alcuni traduttori (per esempio Coxon, Conche), φύσις potrebbe
rendersi con il suo valore etimologico di «origine», «nascimento». 12
L'espressione οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (letteralmente «cielo che tiene intorno») si
riferisce alla funzione del cielo nel sistema astronomico di Parmenide: quella
di racchiudere in sé l'universo, l'insieme di etere (contenente gli astri) e di
aria (che fascia la Terra). 13 L'espressione interrogativa ἔνθεν ἔφυ
rivelerebbe l'insistenza sulla spiegazione a partire dall'origine (Conche, p.
209). 14 Ritroviamo Ἀνάγκη, a governare (ἄγουσα) il cielo e soprattutto a
costringere entro i limiti (ἐπέδησεν πείρατ΄ ἔχειν). In B8 Ἀνάγκη costringeva
l'Essere alla identità e immutabilità; qui garantisce l'ordine dell'universo e
la sua costanza. Coxon (pp. 229-230) sottolinea la relazione di somiglianza,
analoga a quella che intercorre (in conclusione di B8) tra le due forme e
l'Essere. 15 Letteralmente «legò» (ἐπέδησεν): torna anche in questo luogo l'eco
prometeica che il verbo porta con sé (Cerri, p. 262). 16 Significativo il fatto
che il Cielo abbia una doppia funzione: avvolgente (ἀμφὶς ἔχοντα) e limitante
rispetto alla marcia astrale (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). 197 DK B11 πῶς γαῖα καὶ ἥλιος
ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν
1 μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι2 . [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 559] 1 I
codici DE di Simplicio riportano θερμῶν. 2 I codici AF riportano γίνεσθαι. 198
[...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune1 e la Via Lattea2 e l'Olimpo
estremo3 e degli astri l'ardente forza4 ebbero impulso5 a generarsi6 . 1
L'espressione αἰθήρ ξυνὸς si riferisce probabilmente al fatto che tutti gli
astri sono immersi nello spazio etereo. 2 La formula greca - γάλα οὐράνιον –
significa letteralmente «latte celeste». L'uso dell'aggettivo potrebbe
autorizzare a pensare (Conche, p. 211) che per Parmenide la Via Lattea fosse
composta di stelle. 3 Nel contesto l'espressione ὄλυμπος ἔσχατος - «Olimpo
ultimo» o «Olimpo estremo» - si riferisce chiaramente a quanto sopra abbiamo
trovato indicato come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, «il cielo che tutto attorno cinge».
Esso costituisce l'estremo limite dell'universo, così forzando in circolo il
corso degli astri. 4 In Empedocle (DK 31 B115.9) abbiamo un'espressione
analoga: αἰθέριον μένος. Il valore di μένος sarebbe quello di forza vitale.
L'impiego dell'aggettivo θερμός si spiega con la natura ignea degli astri. 5
Significativo nel contesto il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che sottolinea la spinta,
l'impulso interiore: è tale impulso a guidare il processo di costituzione delle
cose. In B12.4 Parmenide lo attribuirà alla potenza immanente di una δαίμων. 6
Come sottolinea la scelta espressiva (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), il contenuto del
frammento è comunque in continuità con il tema cosmogonico-cosmologico del
precedente. 199 DK B12 αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο1 πυρὸς ἀκρήτοιο2 , αἱ δ΄ ἐπὶ
ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·
3 γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει [5] πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον
αὖτις5 ἄρσεν θηλυτέρῳ. [vv. 1-3 Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; vv. 2-6
Simplicio, In Aristotelis Physicam 31] 1 I codici di Simplicio riportano παηντο
(Ea ), πάηντο (D1 ), πύηντο (D2E), ποίηντο (edizione aldina). Bergk ipotizzò
prima (1842) πλῆντο (adottato da Diels), quindi (1864) πλῆνται, per ragioni
metriche. Gli editori contemporanei sono divisi: alcuni (Tarán,
Kirk-Rave-Schofield, O'Brien) preferiscono πλῆνται, che risulta tuttavia più
improbabile dal punto di vista paleografico; altri la forma da noi adottata, πλῆντο,
che presenta difficoltà metriche. 2 La forma ἀκρήτοιο è correzione di Bergk: i
codici riportano ἀκρήτοις (DEa ), ἀκρίτοις (EF), ἀκρίτοιο (edizione aldina). 3
Il testo greco dei manoscritti DEF è πάντα γὰρ στυγεροῖο, problematico a
livello metrico. Karsten e Diels propongono l'introduzione del pronome ἣ dopo γὰρ.
Così ancora Cordero e Reale. Mullach preferì correggere πάντα in πάντηι,
seguito da alcuni editori (Tarán, Coxon, O' Brien). Altri, appoggiandosi al
manoscritto W, ignoto a Diels, leggono πάντων: così molti editori
contemporanei: Mansfeld, Kirk-Raven-Schofield, Conche, Gallop. Si tratterebbe
comunque, secondo Franco Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili…, cit., p.
86 nota), di congettura bizantina. 4 La forma μιγῆν τό τ΄ è correzione di
Bergk: i codici riportano μιγέν τότε (DE), μιγέν τότ΄ (F). 5 La forma αὖτις si
trova nel codice F: DE riportano αὖθις. 200 Quelle1 più strette2 , infatti, si
riempirono3 di fuoco non mescolato; le successive4 [si riempirono] di notte, ma
insieme si immette5 una porzione6 di fuoco; 1 L'articolo αἱ, qui usato con
valore pronominale, e l'aggettivo στεινότεραι si riferiscono probabilmente a
στεφάναι, come insegna Cicerone (DK 28 A37), il quale traduce il termine come
corona e orbis. Coxon (p. 235) osserva giustamente come i versi che precedevano
le citazioni di Simplicio dovessero vertere sugli elementi e sulla struttura
delle sfere, evocate senza dettagli o nomi qualificanti in apertura. 2
Simplicio, nel contesto della citazione, si limita a dire che i versi seguivano
un passo sui due elementi, e non chiarisce quindi a quale sostantivo
l'aggettivo si riferisse: si intende comunemente στεφάναι. In questo senso
στεινότεραι qualificherebbe quelle «più strette», ovvero quelle «interne»,
dunque le corone più vicine al centro del sistema. Nell'interpretazione
complessiva che Diels proponeva già nell'edizione del poema (1897), il
riferimento sarebbe alle corone interne di una doppia coppia, che costituirebbe
centro e periferia del sistema cosmico: (i) la coppia di corone non mescolate
(quindi una esterna di pura Notte, una interna di puro Fuoco) posta al centro
costituirebbe la struttura terrestre con la sua crosta solida e il suo interno
infuocato (fuoco vulcanico); (ii) quella alla periferia corrisponderebbe alla
solida (di pura Notte) parete esterna contenente (indicata anche come ὄλυμπος ἔσχατος
in B11, ovvero come «cielo che tiene tutto intorno», οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in
B10), e alla corona di puro Fuoco, evocata in B11 come αἰθήρ τε ξυνὸς. 3
L'aoristo (πλῆντο) di πίμπλημι significa decisamente «divennero\furono
riempite»: Parmenide sta dunque alludendo alla formazione delle corone (Coxon,
p. 237). 4 L'espressione αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς significa letteralmente «quelle sopra
[ovvero dopo] queste»: per mantenere l'ambiguità di riferimento, abbiamo deciso
di rendere con «le successive» (così Tonelli). I due pronomi dimostrativi (αἱ e
ταῖς) si intendono riferiti sempre a στεφάναι: il problema è capire esattamente
a quali «corone» si alluda. Nell'ipotesi di Diels, di recente rilanciata da
Ferrari, si tratterebbe delle corone comprese tra la coppia centrale e quella
periferica (composte di "elemento puro", di Fuoco all'interno, di
Notte all'esterno); corone "miste" di Notte e Fuoco. 5 Si passa dal
passato (πλῆντο) al presente (ἵεται), forse per marcare la perduranza degli
effetti cosmogonici: il valore dei versi è dunque sia cosmogonico sia
cosmologico. 201 in mezzo a queste7 la Dea8 che tutte le cose governa9 . 6
Letteralmente αἶσα – termine omerico - si dovrebbe tradurre con «parte».
Parmenide preferisce l'espressione poetica, rara negli autori presocratici, a
μέρος. 7 L'espressione ἐν δὲ μέσῳ τούτων è ambigua, come fa notare tra gli
altri Tarán (p. 248): essa può riferirsi al centro dell'universo o al centro
delle «corone miste». Nel contesto la seconda sembrerebbe la soluzione più
naturale. 8 Aëtius esplicitamente identifica la δαίμων con una delle «corone
miste»: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν
> κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον
ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone frammiste [di fuoco e oscurità],
quella centrale è principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la
indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e
Necessità (DK 28A37), facendola coincidere con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli
salda nella teogonia e cosmogonia della Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e
B10 a Δίκη e Ἀνάγκη. Ma Simplicio, evidentemente interpretando diversamente da
Aëtius il riferimento di ἐν δὲ μέσῳ τούτων, intende la dea come collocata al
centro dell'universo: καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω
ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli
pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è
causa di ogni generazione (contesto di B12). Qualcuno ha suggerito che ciò
avvenisse in quanto il commentatore accostava la δαίμων parmenidea alla Hestia
pitagorica: si veda, per esempio Filolao B7: τὸ πρᾶτον ἁρμοσθέν, τὸ ἕν, ἐν τῶι
μέσωι τᾶς σφαίρας ἑστία καλεῖται la prima cosa ben composta, l'uno, nel mezzo
della sfera si chiama Hestia (DK 44 B7). 9 L'espressione δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ
sarebbe, secondo Tarán (pp. 248-9), probabilmente connessa con l'idea, più o
meno corrente all'epoca di Parmenide, di una divinità suprema che governa
l'universo. Coxon (p. 242) 202 Di tutte le cose ella sovrintende 10 all'odioso
11 parto e all’unione12 , [5] spingendo l’elemento femminile a unirsi al
maschile13, e, al contrario, il maschile al femminile. vi ha voluto cogliere
un'analogia con Eraclito, per cui il potere razionale del fuoco governa ogni
cosa (DK 22B41). 10 Il senso più appropriato di ἄρχει, in un contesto in cui si
parla dell'azione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ),
sembra essere quello di «presiede», «sovrintende». Si potrebbe rendere anche
come «è principio di» ovvero «è all'origine di». 11 L'uso di στυγερός (da
στυγέω, «avere in orrore») rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, eco
della Stimmung della sua epoca, come riscontrato soprattutto nella poesia,
epica e lirica. Da notare (Conche, pp. 225 ss.) che in questo caso il
riferimento non è esclusivamente alla nascita umana, ma alla genesi di tutte le
cose: la condanna del filosofo sarebbe rivolta al divenire come tale (p. 227).
Altri, tuttavia, attenuano il senso negativo dell'aggettivo proprio in
relazione al sostantivo τόκος, traducendo «doloroso [ovvero duro] parto»
(Reale), riferendolo quindi esclusivamente alla pena del travaglio, non ai suoi
effetti. 12 Il greco μῖξις è reso, alla luce del verso successivo, come unione
«sessuale», «coito» (Cerri), «amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve
dimenticare che qui il poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di
maschio e femmina, ma in genere all'unione dei due principi. 13 Le forme
aggettivali sostantivate τό ἄρσεν (il maschile) e τό θῆλυ (il femminile)
alludono forse - come nella tradizione pitagorica (secondo quanto attesta
Aristotele) - alla riduzione del primo elemento alla luce e del secondo alla
notte. 203 DK B13 πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… [v. 1 Platone,
Simposio, 178b; Plutarco, Amatorius 13; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos
IX, 9; Stobeo, Anthologium I, 9, 6; Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; v.
1b Aristotele, Metafisica, 1, 4 984 b 23] 204 Primo tra gli dei tutti ella1
concepì2 Amore. 1 La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di B12. 2 Traduciamo in questo modo
(ambiguamente) μητίσατο: il senso – nel contesto garantito dalle testimonianze
di Platone e Aristotele (che pur lasciano incerto il riferimento al soggetto),
Plutarco (che riferisce il verbo a Afrodite) e Simplicio (che invece
esplicitamente identifica il soggetto nella δαίμων di B12) - dovrebbe essere
quello di generare, ma il significato del verbo μητιάω è «meditare, deliberare,
pianificare». Il verbo qualifica dunque la dea come una potenza razionale
(Coxon, p. 243). 205 DK B14 νυκτιφαὲς 1 περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς…
[Plutarco, Adversus Colotem 1116 A] 1 La forma νυκτιφαὲς è correzione dello
Scaligero: il codice di Plutarco riporta νυκτὶ φάος. 206 di notte splendente1 ,
vagando intorno alla Terra2 , luce d'altri3 1 Il composto greco νυκτιφαὲς
significa letteralmente «di notte visibile\splendente». Come fa notare Cerri
(p. 274), in tutti i composti del tipo νυκτι- il primo elemento ha valore di
determinazione temporale («di notte»). Questo è il senso che anche Conche (pp.
234-5) attribuisce al composto νυκτιφαὲς: «brillant la nuit», contestando la
poco convincente resa di Coxon («shining like night»?!). L'aggettivo ricorre
solo un'altra volta in Orphica, Hymnii 54, 10: ὄργια νυκτιφαῆ, in relazione ai
riti dionisiaci, che si tenevano (evidentemente) alla luce delle torce.
Aristotele documenta analoga interessante costruzione in riferimento al Sole:
νυκτικρυφές, «di notte nascosto». Rivendicato da Jaeger come citazione
parmenidea, l'aggettivo è stato accolto come frammento nella edizione
Untersteiner. Lo facciamo seguire come B14a. 2 L'espressione περὶ γαῖαν ἀλώμενον
riferisce alla Luna il moto di rivoluzione intorno alla Terra: in B10.4
Parmenide aveva usato la formula ἔργα τε κύκλωπος περίφοιτα σελήνης («le opere
periodiche della luna dall'occhio rotondo»), alludendo già con περίφοιτα al
regolare movimento (e quindi all'azione periodica) dell'astro. L'espressione
sembrerebbe poi implicare la sfericità della Terra, come attestato anche da
Teofrasto (Diogene Laerzio): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν
μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma
di sfera e giace al centro [dell'universo] (DK 28 A44). 3 L'espressione ἀλλότριον
φῶς, da intendere letteralmente come «luce altrui», si riferisce alla luce
riflessa della luna (luce «presa in prestito», come traduce Conche). Parmenide
consapevolmente gioca sull'assonanza con l'omerico ἀλλότριον φώς («straniero»).
Come osserva Cerri (p. 275), tale formula era evidentemente opposta a ἴδιον φῶς,
«luce propria». Espressione analoga in Empedocle (DK 31 B45): κυκλοτερὲς περὶ
γαῖαν ἑλίσσεται ἀλλότριον φῶς in forma di cerchio introno alla Terra si aggira
luce non propria (ovvero straniera). 207 B14a [...ἥλιος, ... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ]
νυκτικρυφές [Aristotele, Metafisica, VII, 15 1040 a31] 208 [... il Sole, ...
colui che va intorno alla Terra o] il di notte nascosto1 1 Secondo l'editore
della Metafisica - W.D. Ross – in questo caso Aristotele non avrebbe citato
Parmenide, ma forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia con Parmenide
(νυκτιφαὲς). 209 DK B15 αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. [Plutarco,
Quaestiones Romanae 282 B; Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B] 210 sempre
volta e attenta1 ai raggi2 del sole. 1 Il participio παπταίνουσα dovrebbe
letteralmente tradursi come «guardando attentamente». Come segnala Cerri (p.
276), è qui molto probabile che Parmenide giochi sulle implicazioni della
relazione tra i due termini, maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna
innamorata volge il suo sguardo intenso verso il Sole. Immagine analoga in
Empedocle (DK 31 B47): ἀθρεῖ μὲν γὰρ ἄνακτος ἐναντίον ἁγέα κύκλον contempla di
fronte a sé il fulgido disco del suo signore. 2 Come osserva Cerri (p. 276), αὐγὰς
vale non solo «raggi» ma anche «sguardi». 211 DK B15a [Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον
[εἶπειν τὴν γῆν] [Scolio a Basilio di Cesarea] 212 [Parmenide nei suoi versi
dice che la Terra] ha radici nell'acqua1 1 Secondo Conche (p. 242), che si
sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si allude è
quella ricoperta di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è
effettivamente fonte di nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione
genetica: alla luce delle testimonianze, non è l'acqua all'origine della Terra,
semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento sia
alla massa di terre emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di
diverso avviso, in passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco,
Torino 1949, pp. 269 ss.), che riscontra in questo riferimento all'acqua una
allusione al mito di Okeanos, che avrebbe circondato la Terra. 213 DK B16 ὡς γὰρ
ἑκάστοτ’ 1 ἔχῃ 2 κρᾶσιν3 μελέων πολυπλάγκτων4 , τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν5
· τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί·
τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ 6 νόημα. [vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5 1009 b21;
Teofrasto, De sensu, 3; vv. 1-2a Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis
Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5; Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam
(parafrasi) 277; vv. 3-4 Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam
(parafrasi del testo) IV, 5] 1 Αlcuni codici aristotelici riportano ἕκαστος
(«ciascuno»), preferito da DielsKranz; altri ἕκαστοι o ἑκάστῳ. Il codice di
Asclepio ἕκαστον. Gli editori contemporanei (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien,
Cerri) hanno optato per la versione di Teofrasto e di autorevoli codici
aristotelici (i più antichi) della Metafisica: ἑκάστοτε (lectio difficilior). 2
Seguiamo Coxon e Cerri nel preferire ἔχῃ - attestata da un solo codice (E)
aristotelico – a ἔχει (per lo più accolta dagli editori) o ἔχειν: come spiega
Cerri (p. 280), il congiuntivo ἔχῃ è non solo lectio difficilior, ma anche
scelta più sensata nel contesto. Passa (p. 48) sottolinea l'opportunità della
scelta di Cerri e Coxon, trovando riscontri nell'uso omerico delle comparative.
3 La forma κρᾶσιν è attestata in Aristotele e Teofrasto (in unione a ἔχει o ἔχειν).
Estienne modificò in κρᾶσις, ancora accolto da alcuni editori (Tarán,
KirkRaven-Schofield, O'Brien, Conche). A κρᾶσιν alcuni (Coxon, Palmer)
preferiscono la forma ionica κρῆσιν. Passa (p. 120) avanza perplessità in
proposito. 4 Il testo aristotelico, Alessandro e Asclepio riportano πολυκάμπτων
(«dai molteplici movimenti»). Il testo di Teofrasto πολυπλάγκτων, preferito
dagli editori. 5 I codici aristotelici (insieme a quelli di Alessandro e
Asclepio) riportano il presente παρίσταται, accolto da Diels-Kranz (e di
recente ancora difeso da Passa, pp. 48-51), di cui tuttavia è stata segnalata
l'impossibilità metrica. La tradizione teofrastea propone invece il perfetto
παρέστηκε (che ha esattamente lo stesso valore), metricamente accettabile. La
forma παρέστηκεν è degli editori. 6 I codici di Aristotele e Teofrasto
riportano ἐστὶ; quello di Alessandro λέγεται. 214 Come, infatti, di volta in
volta si ha1 temperamento2 di membra3 molto vaganti4 , così il pensiero5 si
presenta agli uomini6 : poiché è precisamente la stessa cosa 1 Attribuiamo al
verbo valore impersonale. Per l'alternativa costruzione personale sono state
proposte diverse possibili candidature al ruolo di soggetto del verbo: νόος del
v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto rafforzerebbe la correlazione ὡς... τὼς),
ovvero, adottando il testo greco di Diels-Kranz, ἕκαστος, o ancora un soggetto
implicito (Cerri: «qualcuno», «ciascuno», «l'uomo») o sottinteso (Ferrari: τις
βροτῶν Β8.61). Altri, emendando κρᾶσιν in κρᾶσις, hanno fatto della
«mescolanza» il soggetto. 2 Il termine κρᾶσις ha un valore più forte di μῖξις:
quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non sia più possibile discernere
le componenti (come invece accade in una μῖξις, semplice mescolanza). La κρᾶσις
trasforma gli elementi in una nuova entità unitaria e armonica: per questo il
termine viene reso con «fusione» (Ferrari) ovvero «impasto» (Cerri), «unione»
(Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla scorta della testimonianza di
Teofrasto (DK 28 A46), anche tale amalgama presuppone una composizione
variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi come «temperamento», anche
in considerazione della lezione che giunge dalla tradizione della medicina ippocratica,
dove l'idea di κρᾶσις era associata a quella di riconduzione del molteplice a
unità (Stemich, op. cit., pp. 157 ss.). 3 Ricordiamo che nei poemi omerici il
termine σῶμα non indica mai ciò che noi comunemente intendiamo con «corpo»,
bensì il suo contrario, il «cadavere». Omero non rappresenta il corpo dell’uomo
come unità di una molteplicità: impiega infatti termini per lo più al plurale,
come μέλεα (o γῦια) appunto, che noi traduciamo con «membra». Ciò cui qui
Parmenide intenderebbe riferirsi con il termine μέλεα non sono dunque gli
«organi di senso» (Diels) o gli «elementi» (Schwabl), ma il corpo, come ha ben
rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante la proposta di Cassin-Narcy
(B. Cassin – M. Narcy, “Parménide Sophiste”, in Études sur Parménide, cit., II,
p. 289) di mantenere al termine la doppia significazione, riferendolo sia
immediatamente al corpo, sia mediatamente alle componenti universali. 4
Traduciamo l'espressione κρᾶσις μελέων πολυπλάγκτων come «temperamento di
membra molto vaganti [erranti]», intendendola riferita all'unità del corpo
umano, che è articolata appunto in appendici mobili, che si agitano in molte
direzioni. 5 Rendiamo il termine νόος con «pensiero» ritenendo che in questo
caso Parmenide non si riferisca genericamente alla facoltà (mente), ma alla sua
215 ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del [loro] corpo9 ,
condizione in relazione alla situazione del corpo. La costruzione dei primi due
versi e il loro contenuto propongono un'eco omerica: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων
ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli
uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini
e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). 6 È significativo che in questo contesto la
Dea non ricorra a un'espressione come βροτοί ma a ἄνθρωποι: il termine assume
un valore descrittivo, marcando l'identica natura degli esseri umani «tutti»
(καὶ πᾶσιν καὶ παντί). 7 Ricostruzione letterale dei vv. 2b-4a: «perché è la
stessa cosa ciò che pensa (τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει) la natura del corpo
(μελέων φύσις) negli uomini, in tutti e in ciascuno (ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ
παντί)». Nella letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer
e ora anche Marcinkowska-Rosół) di tradurre linearmente il testo greco,
supponendo νόος come soggetto (sottinteso) di ἔστιν: ὅπερ sarebbe complemento
oggetto e φύσις soggetto del verbo (φρονέει): perché [esso (il pensiero)] è
precisamente la stessa cosa che la costituzione del corpo pensa negli uomini,
in tutti e in ciascuno. Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos
e, tra gli altri, da Hölscher, Barnes, Bormann, Mansfeld) è quella di fare di
φύσις a un tempo il soggetto di ἔστιν e φρονέει: «la natura delle membra è
negli uomini la stessa cosa che [essa] pensa». Tarán, Heitsch, Mourelatos,
Gallop, O'Brien, Gadamer (tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una
traduzione letterale, che fa di φύσις μελέων il soggetto di φρονέει, di ὅπερ un
accusativo, e di τὸ αὐτό il soggetto di ἔστιν: «la stessa cosa, infatti, è ciò
che la natura delle membra pensa negli uomini». In questo modo si lega τὸ αὐτό
a ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί, marcando quindi l'identità dell'oggetto del
pensiero. 8 Intendiamo in questo contesto φύσις come «natura, costituzione»
(μελέων φύσις: «costituzione del corpo»). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide,
cit., p. 189) intende φύσις come «essenza»: il νόος, come elemento della
struttura dell'uomo, operebbe una fusione nella molteplicità delle «membra».
Tonelli riprende nella sua traduzione queste indicazioni. 9 Rendiamo il plurale
μέλεα come «corpo», secondo l'uso omerico segnalato sopra. 216 in tutti e in
ciascuno: ciò che prevale10 , infatti, è il pensiero11 . 10 In questo caso
intendiamo πλέον come comparativo di πολύ («molto»): τὸ πλέον non vale dunque
«il pieno» (πλέος aggettivo: «pieno»), ma «il più», «quanto prevale», riferito,
a quanto si ricava dal contesto della citazione teofrastea, agli elementi
(Fuoco-Notte, ovvero caldo e freddo). Teofrasto interpreta infatti: «la
conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale» (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν
ἡ γνῶσις). Tra coloro che interpretano τὸ πλέον come «il pieno», interessante
la posizione di Tarán (pp. 256-60), che argomenta a lungo a partire dallo
stesso contesto teofrasteo. Teofrasto, infatti, citerebbe il frammento per
marcare come determinante per il pensiero non tanto l'elemento che prevale, ma
una certa proporzione tra i componenti (συμμετρία). Così, quando una certa
proporzione delle componenti di Luce e Notte è presente nel corpo, ne
risulterebbe lo stesso pensiero, dal momento che il pensiero è il risultato
dell'intera mescolanza. Coxon (p. 87) interpreta «the plenum» come «the subject
whose nature has been expounded in the Way of Truth»: esso sarebbe il solo contenuto
del pensiero. Recentemente M. Marcinkowska-Rosół, in Die Konzeption des
"Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p.
187, ha proposto di leggere τὸ come pronome dimostrativo (= τοῦτο) in funzione
prolettica, πλέον come avverbio, e ipotizzando una relativa in funzione di
completamento: «[denn dies ist mehr das Denken], was in der Mischung jeweils
überwiegt». 11 Qui νόημα è decisamente il risultato dell'atto di pensare. 217
DK B17 δεξιτεροῖσιν1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ 2 κούρας… [Galeno, In Hippocr.
Epid. VI, 48 (XVII, 1002)] 1 La forma δεξιτεροῖσιν è intervento degli editori:
il codice di Galeno riporta δεξιτεροῖσι. 2 Il testo di Galeno riporta δ’ αὖ:
per ragioni metriche è stato emendato in δὲ (Scaligero, poi Karsten). Cerri (pp.
283-4) ha contestato tale emendazione come inutile banalizzazione. 218 a
destra1 i maschi, a sinistra le femmine. 1 Le due forme dative δεξιτεροῖσιν e
λαιοῖσι sono riferite nel contesto del discorso di Galeno (che cita) alle parti
dell'utero: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι
τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli
antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito nella parte destra
dell'utero. Parmenide infatti afferma.... Gli aggettivi andrebbero dunque
riferiti alle parti dell'utero. 219 DK B18 Femina virque simul Veneris cum
germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans
bene condita corpora fingit. Nam1 si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant
unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. [Celio
Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV, 9] 1 Nella tradizione
si trova At come alternativa a Nam. 220 Quando femmina e maschio mescolano
insieme i semi1 di Venere, la potenza2 formatrice nelle vene3 , che [deriva] da
sangue4 opposto5 , conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti. Se,
infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono [5] e non diventano
un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche affliggeranno
il sesso nascente con il [loro] duplice seme6 . 1 Dalla parafrasi di Celio
Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui Parmenide
credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero entrambi un
ruolo nella riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad Alcmeone di
Crotone, ma fu contestata nell'antichità da Anassagora e Diogene di Apollonia.
2 Il latino virtus traduce il greco δύναμις («potenza, forza, qualità, proprietà»).
3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei genitori o a quelle
dell'embrione: la costruzione, con l'uso di «diverso ex sanguine» suggerisce
che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon, p. 254). 4 Evidentemente
per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue, rispettivamente maschile e
femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò differenzi la posizione di
Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare il seme dal cervello),
mentre al sangue pare rinviasse Pitagora. 5 Come suggerito da Conche (p. 262),
«diversus» non ha qui valore generico, ma, in relazione al sangue maschile e
femminile, il significato di «opposto, contrario». 6 Si allude alla situazione
in cui l'individuo generato risulti possessore sia del seme maschile sia di
quello femminile, caratteristici normalmente di uomini e donne separatemente
(Coxon, p. 255). 221 DK B19 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε1 καί νυν2 ἔασι καὶ
μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον
ἑκάστῳ. [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 558] 1 I codici DE di Simplicio, in
vece di ἔφυ τάδε, riportano ἐφύτα δὲ. 2 I codici di Simplicio riportano καὶ νῦν·
καί νυν è correzione degli editori. 222 Ecco, in questo modo1 , secondo
opinione2 , queste cose3 ebbero origine4 e ora5 sono6 , 1 La formula οὕτω τοι è
impiegata per riassumere quanto detto: introduce quindi una ricapitolazione
ovvero la "lezione" che si ricava dal discorso precedente (Conche, p.
265). 2 In conclusione della seconda sezione del poema, nella quale la Dea affrontava
– come recita B8.51 - δόξας βροτείας, appare legittimo tradurre κατὰ δόξαν come
«secondo opinione». In realtà, molti scelgono di insistere sulla radice in
δοκέω, traducendo l'espressione come «secondo parvenza», «secondo apparenza»
(Tonelli), «selon ce qui semble» (Conche), «according to belief» (Coxon). Il
senso della formula a noi pare comunque salvaguardato: la Dea conclude la
propria trattazione della realtà dal punto di vista dell'esperienza umana, cioè
di quel punto di vista che matura a partire da τὰ δοκοῦντα («le cose che
appaiono e sono assunte sulla base della esperienza»: Simplicio, a proposito di
tale punto di vista parla di διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν), ribadendo il carattere
che contraddistingue i fenomeni che registriamo (τάδε): nascita (ἔφυ), sviluppo
(τραφέντα), morte (tελευτήσουσι). Nella sua interpretazione introduttiva,
Simplicio impiega una formulazione platonico-aristotelica: egli parla di ὑπόστασις
τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ ma anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare Coxon
(p. 256), i due versi B19.1-2 mettono in contrasto la natura delle cose che
appaiono nell'esperienza umana con la natura attribuita all'Essere in B8.5: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. 3 Il pronome dimostrativo τάδε è
qui impiegato per designare l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto della
trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν nel linguaggio di Simplicio) precedente.
Secondo Conche (p. 265) si riferisce alle cose che i mortali hanno sotto gli
occhi: «queste cose qui», di cui il discorso cosmogonico ha spiegato l'origine,
la natura e il destino. 4 Il testo greco riporta una irregolarità nell'uso del
verbo: il plurale neutro τάδε regge sia la terza persona singolare ἔφυ, sia la
terza plurale ἔασι e τελευτήσουσι: il passaggio da singolare a plurale
nell'ambito di una stessa frase esistono comunque precedenti in Omero e
Senofane (DK 21 B29). 5 La formula καί νυν, come segnalano Diels e Coxon, è
comune in Pindaro (e Omero). 6 Come abbiamo già segnalato, è chiaro come in
questo passo «queste cose» siano connotate da un punto di vista temporale in
senso opposto rispetto a τὸ ἐόν: i tempi verbali (passato, presente futuro),
gli avverbi (νυν, μετέπειτα), le scelte verbali (φύω, τρέφω, τελευτάω)
contrastano la determinazione dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν
ἔστιν ὁμοῦ πᾶν di B8.5. 223 e poi, in seguito7 sviluppatesi, avranno fine8 . A
queste cose, invece9 , un nome gli uomini10 imposero11, distintivo12 per
ciascuna. 7 La formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε (letteralmente «dopo, a
partire da ora») contrasta la labile puntualità di νυν ἔασι. Leggiamo ἀπὸ τοῦδε
collegato al participio τραφέντα. 8 La costruzione greca - τελευτήσουσι
τραφέντα – consente diverse soluzioni nella traduzione (Cerri, p. 289): (i) la
combinazione di futuro medio e participio aoristo può intendersi nel senso del
compimento dell'azione indicata dal participio, quindi: «porteranno a termine
la propria crescita»; ovvero (ii) nel senso di una cessazione di quell'azione,
quindi: «cesseranno di crescere» (si interromperà il oro sviluppo); o ancora
(iii) subordinando l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal
participio: «una volta cresciuti/sviluppati, avranno fine». 9 Sottolineiamo il
valore avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò contribusce a conferire
senso critico al rilievo successivo. 10 Anche in questo caso, come in B16, il
poeta opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre insomma a una designazione diversa
rispetto alla diminutiva βροτοί. Sintomo, forse, del fatto che in questo
contesto la polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a una
ricostruzione oggettiva. 11 L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama
puntualmente B8.38b-39a: πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο e B8.53: μορφὰς
γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν secondo quella che Cerri (p. 289) definisce
«la più tipica movenza della "composizione ad anello"». 12
L'aggettivo ἐπίσημος si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a ὄνομα)
di distinguere, contraddistinguere (ἐπί-σημαίνω). All'instabilità del nascere,
crescere, morire è sovrapposta la relativa stabilità del nome. 224 COMMENTO 225
IL VIAGGIO [B1] Introduzione Sesto Empirico, unica nostra fonte per i primi
trenta versi del poema Περὶ φύσεως (Sulla natura), ne contestualizza il proemio
in questi termini: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης τοῦ μὲν δοξαστοῦ λόγου
κατέγνω, φημὶ δὲ τοῦ ἀσθενεῖς ἔχοντος ὑπολήψεις, τὸν δ’ ἐπιστημονικόν, τουτέστι
τὸν ἀδιάπτωτον, ὑπέθετο κριτήριον, ἀποστὰς καὶ < αὐτὸς > τῆς τῶν αἰσθήσεων
πίστεως. ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον Il discepolo
di lui (= Senofane), Parmenide, svalutò il discorso opinativo – intendo quello
che ha concezioni deboli -, e assunse come criterio quello scientifico, cioè
quello infallibile, avendo preso le distanze anche lui dalla fiducia nelle sensazioni.
Iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo … (Adv. Math. VII,
111). Il successivo commento (§§112-114), nel quale Sesto identifica il viaggio
del poeta con lo studio filosofico (τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν), ha
nei secoli condizionato la ricezione del proemio, sia nel senso di proporlo
come mera approssimazione metaforica all’istruzione filosofica del poema, sia,
conseguentemente, nel senso di misconoscerne il rilievo teoretico, riducendolo
a orpello poetico (in fondo trascurabile): ἐν τούτοις γὰρ ὁ Παρμενίδης ἵππους
μέν φησιν αὐτὸν φέρειν τὰς ἀλόγους τῆς ψυχῆς ὁρμάς τε καὶ ὀρέξεις [1], κατὰ δὲ
τὴν πολύφημον ὁδὸν τοῦ δαίμονος πορεύεσθαι τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον
θεωρίαν, ὃς λόγος προπομποῦ δαίμονος τρόπον ἐπὶ τὴν ἁπάντων ὁδηγεῖ γνῶσιν [2.
3], κούρας δ’ αὐτοῦ προάγειν τὰς αἰσθήσεις [5], ὧν τὰς μὲν ἀκοὰς αἰνίττεται ἐν
τῶι 226 λέγειν ‘δοιοῖς ... κύκλοις’ [7. 8], τουτέστι τοῖς τῶν ὤτων, τὴν φωνὴν
δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ ὁράσεις Ἡλιάδας κούρας κέκληκε [9], δώματα μὲν Νυκτὸς
ἀπολιπούσας [9] ‘ἐς φάος < δὲ > ὠσαμένας’ διὰ τὸ μὴ χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι
τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ δὲ τὴν ‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας ἀμοιβούς’
[14], τὴν διάνοιαν ἀσφαλεῖς ἔχουσαν τὰς τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν ὑποδεξαμένη
[22] ἐπαγγέλλεται δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεμὲς ἦτορ’
[29], ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ ‘βροτῶν δόξας ...
ἀληθής’ [30], τουτέστι τὸ ἐν δόξηι κείμενον πᾶν, ὅτι ἦν ἀβέβαιον. In questi
versi Parmenide dice che le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i
desideri irrazionali dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di
canti della divinità, [intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica;
la quale ragione guida a guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose
(2, 3); le fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse accenna
all'udito laddove dice «due rotanti cerchi» (7, 8), cioè i cerchi delle
orecchie, attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle Eliadi
(9), che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno «verso la luce>
(10), poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che procedono verso
la Giustizia «che molto punisce» e che tiene «le chiavi dall'uso alterno» (14),
[intendendo] la ragione che possiede una conoscenza certa delle cose. Essa lo
accoglie (22) e promette di insegnare queste due cose: «il cuore saldo di
verità ben persuasiva» (29), che è il fondamento immutabile della scienza, e
l'altra «le opinioni dei mortali in cui non è reale credibilità» (30), cioè
tutto quanto ricade nell'opinione, che non è saldo. In realtà, sin dalla fine
del XIX secolo – dall'edizione (1897) del poema a opera di Hermann Diels - si è
reagito al rischio di una banale allegoresi della poesia parmenidea, recuperando,
proprio nel proemio, uno sfondo frastagliato di prospettive e possibili 227
suggestioni culturali, che hanno in comune l’effetto di renderne la relazione
con i successivi frammenti molto più complessa. Dobbiamo alla competenza del
filologo tedesco l’inquadramento dell’opera di Parmenide all’interno di
un’articolata cornice di plausibili precedenti (e motivi) poetici, che appaiono
rilevanti per apprezzarne l’originalità. Nella consapevolezza che la conoscenza
della tradizione poetica intermedia (secoli VII-VI a.C.) tra le fonti omeriche
ed esiodee e il poema parmenideo è, per noi, in gran parte compromessa, Diels
valorizzava in particolare1 : (i) il modello della speculazione cosmogonica e
cosmologica di Esiodo, che avrebbe improntato soprattutto la seconda sezione
del Περὶ φύσεως, ma da cui dipenderebbe la sua stessa struttura bipartita -
corrispondente all'iniziale sottolineatura delle Muse in Teogonia, vv. 27-28: ἴδμεν
ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι
sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando
vogliamo, il vero cantare, insieme al motivo della “doppia via” (verità ed
errore), che evocherebbe l’analoga alternativa tra miseria morale (κακότης) e
valore morale (ἀρετή) in Opere e giorni (vv. 287 ss.); (ii) il modello della
poesia orfica, di cui nel poema riecheggerebbero termini e immagini: nel
riconoscerne l’importanza, le connessioni con altre correnti religiose
contemporanee (misteri) e il radicamento nella tradizione più antica, lo
studioso ne marcava l’ampia incidenza nella cultura greca in genere, rilevando
tracce del «pessimismo» (Pessimismus) di questo movimento di «riforma»
(Reformation) anche nel «razionalismo» (Rationalimus) della filosofia ionica. 1
H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und
Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten
Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione
originale 1897), pp. 12 ss. 228 In tale prospettiva, Diels richiamava
l’attenzione sulla tradizione dei leggendari «profeti» del misticismo greco
arcaico (Epimenide, Onomacrito, Museo) che avrebbe ancora trovato espressione
nei Καθαρμοί di Empedocle: nel caso della forma poetica («rivestimento poetico»,
poetische Einkleidung) privilegiata da Epimenide per la propria «rivelazione»
(Offenbarung), ritroveremmo, per esempio, il prototipo della «narrazione in
prima persona» (Icherzählung) di un’esperienza di Incubation, quale riferita da
Alessandro di Tiro: ἦλθεν Ἀθήναζε καὶ ἄλλος Κρὴς ἀνὴρ ὄνομα Ἐ.· οὐδὲ οὗτος ἔσχεν
εἰπεῖν αὑτῶι διδάσκαλον ἀλλ’ ἦν μὲν δεινὸς τὰ θεῖα, ὥστε τὴν Ἀθηναίων πόλιν
κακουμένην λοιμῶι καὶ στάσει διεσώσατο ἐκθυσάμενος· δεινὸς δὲ ἦν ταῦτα οὐ
μαθών, ἀλλ’ ὕπνον αὑτῶι διηγεῖτο μακρὸν καὶ ὄνειρον διδάσκαλον. ἀφίκετό ποτε Ἀθήναζε
ἀνὴρ Κρὴς ὄνομα Ἐ. κομίζων λόγον οὑτωσὶ ῥηθέντα πιστεύεσθαι χαλεπόν· < μέσης
γὰρ > ἡμέρας ἐν Δικταίου Διὸς τῶι ἄντρωι κείμενος ὕπνωι βαθεῖ ἔτη συχνὰ ὄναρ
ἔφη ἐντυχεῖν αὐτὸς θεοῖς καὶ θεῶν λόγοις καὶ Ἀληθείαι καὶ Δίκηι. Venne ad Atene
anche un altro Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui seppe dire chi gli
sia stato maestro, ma era straordinariamente competente nelle questioni divine,
tanto che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare la città degli Ateniesi,
afflitta dalla peste e dalla discordia civile. Ed era così esperto in questa
materia non perché l'avesse imparata, ma si diceva che suo maestro fosse stato
un lungo sonno con un sogno. – Arrivò un tempo ad Atene un Cretese, di nome
Epimenide, portando un racconto difficile da credere, formulato nei seguenti
termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella grotta di zeus Ditteo,
rimase immerso in un sonno profondo per molti anni, e si intrattenne in sogno
con dèi e discorsi di dèi, con la Verità e con la Giustizia (contesto DK 3 B1.
Traduzione di I. Ramelli e G. Reale). 229 Proprio Epimenide (nei suoi Καθαρμοί,
in particolare) sarebbe figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle
credenze religiose elleniche (in associazione con fenomeni rilevanti, anche a
livello letterario, come le epifanie, i sogni, i sacrifici), in cui, rispetto
al più generale tema della purificazione e della relativa iniziazione, decisivo
diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno, del contatto con una realtà
trascendente: in questa direzione la poesia genericamente orfica avrebbe
incrociato l’elemento “estatico”, di cui appunto il «viaggio celeste»
(Himmelreise) costituirebbe frammento. All’interno di tale orizzonte culturale,
il Περὶ φύσεως si propone in una luce diversa, tale da suggerire maggiore
cautela ermeneutica nella riduzione dei suoi contenuti ai moduli del dibattito
contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai frammenti). Nel caso del
suo proemio, in particolare, si rischia il fraintendimento proponendolo come
mera introduzione d’occasione o tributo formale, in cui il sapiente (un
filosofo!), per opportunità letteraria e compiacenza verso il proprio pubblico,
avrebbe optato per un mascheramento allegorico della propria concettualità
(assumendo l’implausibile veste del poeta!): è necessario invece conservare al
testo la sua polisemia e al complesso dell’impresa teorica di Parmenide uno
spessore originale2 . 2 Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si
intrattengono su questo nodo interpretativo: la sintesi più recente del lungo
dibattito si può leggere in L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si
tratta delle terza edizione di Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia,
Bruxelles 2008, cap. II "Le «Proème» comme producteur de chemins".
Molto utile anche l’introduzione (“Parmenides and His Predecessors”) di M.J.
Henn al suo Parmenides of Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays
and Commentary to the Text, Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la
propria introduzione sul tema “The Poet as Shaman and Singer of Mysteries in
the Homeric Style”, dedicando molto spazio all’analisi della struttura
dell’esametro parmenideo. Una riconsiderazione complessiva della poesia del Περὶ
φύσεως è proposta da L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering
Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London – New York 2009:
le pagine 69-79 sono dedicate al problema del proemio. Un’ampia e sostenuta
lettura del proemio come chiave per l’interpretazione del poema è oggi proposta
in R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011. 230 Come di
recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano3 , il proemio parmenideo non
è inutile orpello o artificio letterario: esso è invece fondamentale per
comprendere carattere, metodo e finalità del poema. Nel contesto
storico-geografico, sociale e religioso in cui si muoveva Parmenide, cantare
un’esperienza eccezionale, rappresentare, nel ritmo e nella musicalità proprie
delle forme esametriche, un viaggio nell'aldilà, evocando un linguaggio
iniziatico e performativo, era cosa ben diversa dall’erudita esercitazione che
l’allegoresi di Sesto presuppone: il poeta Parmenide si rivolgeva a
un’audience, un pubblico convenuto per ascoltare le parole di una dea e
partecipare all’esperienza evocata in versi. È significativo, per la
comprensione storica del poema, che del proemio non resti traccia nelle
citazioni antiche, che esso sia stato ignorato da coloro (Platone e Aristotele)
che hanno contribuito a fissare i contorni della figura di Parmenide per la
tradizione successiva. Perché la poesia? Il problema della natura e portata del
proemio è strettamente connesso a quello, più generale, della scelta di fondo –
da parte di Parmenide - del medium poetico, di cui la narrazione riflette
alcuni motivi tradizionali, culturalmente di grande significato teoretico anche
nella prospettiva specifica del poema. Ci si riferisce in particolare
all’intimo nesso tra poesia, rivelazione e mito, certamente una chiave per
decifrare l’impianto creativo del Περὶ φύσεως, in cui si intrecciano racconto,
comunicazione divina della «parola» (μῦθος) e «verità» (Ἀληθείη). Rimane ancora
molto utile il vecchio aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R.
Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III:
Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967. 3 "Lire du début. Quelques
observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique»,
7, 2007 (Présocratiques), pp. 7-37. l'osservazione è alle pp. 11-12. 231
Poesia, mito, verità In un frammento (fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di
Pindaro, contemporaneo di Parmenide, noi troviamo una sorta di
autointerpretazione mitica del ruolo del poeta e della poesia nella società
greca tra VI e V secolo a.C.. Pindaro racconta come, dopo aver ordinato il
mondo e il regno degli dei, Zeus avesse loro domandato se, per caso, mancasse
ancora qualcosa alla sua fatica: essi, allora, lo avevano pregato di creare
alcune divinità per «celebrare con parole e musica quelle grandi opere e
l’intero suo ordinamento»4 . A tale scopo, per onorare la bellezza
dell’edificio cosmico, e manifestarlo nella sua totalità, Zeus introduce nuove
divinità, le Muse: così la sua opera si compie con la nascita della parola, del
canto (originariamente identici), espressioni divine che ne rivelano l’essere.
Per il grande filologo tedesco Walter Friedrich Otto, il supremo evento del
mito è che l’essere delle cose si riveli nella parola con la sua divinità5 :
ogni mito genuino si rivolge alla totalità del reale, come uno sguardo complessivo
sulla sua manifestazione originaria. In questa prospettiva, l’esperienza del
mito è intesa come esperienza, a un tempo, della bellezza e della verità: da
cui l’impressione arcaica che il poeta possa avvicinare, più degli altri
uomini, l’essere delle cose; che la sua parola possa afferrare la realtà in
profondità in forza della sua “ispirazione”. L’invocazione alle Muse
dell’antica poesia greca palesa la recettività del poeta: l’ – osserva Otto -
non si apre con la superbia (tipicamente moderna) di una coscienza creatrice,
ma con la modestia di chi ascolta. È la divinità a cantare, il poeta è solo suo
mediatore: in questo senso la poesia è un’ombra dell’essenza del mito. Eppure
il poeta (tipicamente per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto
autore di ciò che canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle
Muse: egli si distingue dalla massa degli altri uomini ed è più vicino agli dèi
in quanto sua è la voce 4 Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in
Id., Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44. 5
W.F. Otto, Il mito (1955), ivi, p. 60. 232 attraverso cui le Muse si esprimono.
Egli è un «maestro di verità» (Detienne), le cui parole proclamano piuttosto
che suggerire: per questo poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro
la tradizione omerica) rivendicano una condizione privilegiata rispetto a
quella dei “mortali”. Donde il carattere spesso esoterico della filosofia
antica 6 . Parmenide e la poesia Nella scelta poetica di Parmenide questi
elementi, come si avrà opportunità di rilevare, si ricompongono in modo
originale, soprattutto nel plasmare l’atteggiamento del destinatario della
comunicazione divina: è un fatto, tuttavia, che essi siano presenti nel Περὶ
φύσεως, che il mito assuma la forma del manifestarsi di ciò che è originario,
di quanto viene altrimenti designato come il divino (τό θεῖον).
Significativamente, la θεά introdurrà (B2) l’assiomatica della sua istruzione
intorno alla Verità ricorrendo proprio alla formula «e tu abbi cura della
parola, una volta ascoltata» (κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας): il «giovane» (κοῦρος)
è esplicitamente sollecitato a «prendersi cura» (κόμισαι) del μῦθος divino, che
dischiude la comprensione della realtà. Dei termini greci arcaici per «parola»
ritroviamo dunque nel poema: (i) μῦθος (B2.1; B8.1), la forma primitiva per
esprimere ciò che è realmente, effettivamente accaduto: la parola che dà
notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole;
(ii) λόγος (B7.5), che ha il valore di di ciò che è stato ponderato, che serve
a convincere (donde il valore di «ragione») 7 , della parola ragionevole. In
questo senso, in B7.5, la Dea innominata inviterà il κοῦρος a valutare
razionalmente (κρῖναι λόγωι, «giudica con il ragionamento») l’argomento
proposto. 6 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 29. 7 W.F.
Otto, Il mito e la parola, in Id., Il mito, cit., pp. 30-32. 233 Già nel
registro verbale è possibile intravedere l’intervento creativo di Parmenide
sulla tradizione. Nel rilevare la contrapposizione apparente del poema di
Parmenide con la razionalità ionica sul terreno dei contenuti e dello stile,
Ruggiu8 ha colto nella ripresa della forma e del metro epico una modalità
espressiva appropriata alla parola come μῦθος: il contenuto dell’epica è
costituito, insieme, da «le cose che sono, quelle che sono state e quelle che
saranno» (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, Calcante in Iliade I, 70) e
τά ἀληθέα (le Muse in Teogonia 28), da intendere come sinonimi. Dal momento che,
anche per Parmenide, valore primario è la Verità (Realtà), attribuire a una
divinità la rivelazione del contenuto dell’opera sarebbe dunque escamotage
espressivo coerente con la tradizione sapienziale arcaica: il disvelarsi del
reale si palesa come manifestazione del divino stesso9 . È questo, allora, il
motivo che induce all'adozione della forma e del metro epico? Parmenide è
ancora persuaso che il discorso cantato come pratica comunicativa garantisca la
possibilità di una “comunicazione vera”, di un «autentico contatto» (Vernant)
con il divino10? Proprio il proemio, in effetti, sembra giustificare le scelte
di Parmenide alla luce dei suoi possibili modelli di riferimento: (i) l’inno
alla divinità in funzione di proemio rapsodico (nel campo della poesia epica),
ovvero l’invocazione alle Muse in funzione di protasi; (ii) i proemi delle
opere di Esiodo, Epimenide e Aristea (nel campo della poesia cosmogonica), che
celebrano l’investitura poetica e la rivelazione da parte della divinità11. Non
vi è dubbio che, optato per il medium della rivelazione, l’adozione della forma
poetica fosse scontata e il metro dell’epica tradizionalmente 8 Parmenide,
Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione,
traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario
filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991, pp. 155- 156. 9 Ivi, p.
160. 10 Wilkinson, op. cit., p. 67. 11 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura,
introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano
1999, pp. 109-110. 234 funzionale all’istruzione 12 ; ma è anche vero che la
scelta dell’epica avrebbe a suo modo naturalmente comportato quel medium
(almeno nella forma dell'ispirazione) tradizionale. Si tratta di due
prospettive distinte e complementari, che potremmo così schematicamente
caratterizzare: la prima opzione sottolinea l’orizzonte della verità in cui si
iscrivono i contenuti del poema, che la divinità garantisce con la propria
autorità e autorevolezza; la seconda richiama soprattutto la sua efficacia
comunicativa, un aspetto spesso trascurato, ma che di recente ha assunto grande
rilievo nella letteratura critica13 . Poesia, educazione e vita Proprio
considerando i plausibili modelli che si celano dietro le scelte e i moduli
espressivi di Parmenide, non pare azzardato sostenere che il proemio annunci un
processo di trasformazione della persona (il κοῦρος istruito dalla Dea), in cui
il momento cognitivo tradizionalmente privilegiato dagli interpreti è in realtà
funzionale a una modificazione radicale dell’esistenza di colui che è destinato
a ricevere la comunicazione divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in
passato ai miti escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo
della Repubblica (mito di Er) e quello centrale del Fedro (mito dell’auriga).
Almeno alcuni elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere: (i)
la ripresa di un motivo, quello del viaggio, centrale non solo nella
letteratura omerica ma anche in quella religiosa; (ii) la meta del viaggio:
l’incontro con la divinità; (iii) la scenografia cosmica dell’incontro; (iv) le
modalità della rivelazione divina. Gli interpreti sostanzialmente concordano
nel riconoscere nella scelta parmenidea del metro (esametro) dell’epica 12
Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L.
Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965, p. 31. 13 Mi riferisco, in
particolare, ai contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008).
235 un’intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno strumento
culturale ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora considerare
tale opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i
poemi epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e
offre educazione. Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in
versi fosse la soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare
una materia del massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al
pubblico, era poi possibile rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica14.
Nel caso di Parmenide si trattava di suscitare aspettative, soprattutto se -
ammettendo la circolazione di idee nel complesso del mondo greco, orientale e
occidentale - interpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in
prosa provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico poteva
aspettarsi: (i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di un modello di
comportamento15. A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura tra VI
e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato
Omero ed Esiodo, così denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica
arcaica su mentalità e costumi. Non va trascurata la possibilità che Parmenide
abbia valutato l’impatto “didattico” della performance poetica, la forza
comunicativa della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto
culturale ancora decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in questo
senso Parmenide avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che garantiva il richiamo
alla sapienza del canto poetico omerico ed esiodeo (facilitare diffusione e
memorizzazione della propria scrittura, attingere a un repertorio di immagini e
analogie di sicuro effetto), con la possibilità, poi, di dar forma – in piena
autonomia – a nuovi concetti e formule astratte16 . 14 C. Robbiano, Becoming
Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, International Pre-Platonic
Studies, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 42. 15 Ibidem. 16 M. Stemich,
Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008, pp.
30-31. 236 Della poesia greca arcaica17, il Περὶ φύσεως, nel suo proemio,
conserva senz’altro il riferimento paradigmatico al mito come memoria per
recuperare creativamente temi e motivi della tradizione in funzione
didascalica, insieme al rilievo dell’ispirazione divina (donde l’istituto
stesso del proemio, cioè l’abitudine di far cominciare il canto - epico o
lirico - con l’invocazione alle Muse o ad altre divinità) e alla (probabile)
destinazione performativa pubblica, collegata alla scelta della forma metrica
(esametro), secondo le indicazioni interne alla stessa tradizione omerica
(l’aedo Demodoco nell’ottavo libro dell’Odissea). Gentili segnala18 come alla
fine del VI sec. (504-501) il rapsodo Cineto di Chio fosse il primo a
«recitare» Omero a Siracusa (in un’area geografica non remota dalla Magna
Grecia di Elea: pare che Parmenide soggiornasse presso la corte di Ierone, che
aveva richiamato artisti e intellettuali da tutta la Grecia19), inserendo
nell’ordito dei poemi omerici originali versi epici. Non va dimenticato come,
in un sistema culturale – quale quello greco arcaico - fondato quasi
esclusivamente sull’oralità della comunicazione del messaggio poetico, il
cantore epico fosse destinato a trasmettere, attraverso la narrazione,
l’enciclopedia del sapere (tecnico, giuridico, scientifico) in cui, per secoli
(nel caso dell’epos omerico), si era riconosciuta (e intorno a cui si era
venuta organizzando) la società ellenica20. Per la comprensione del testo di
Parmenide, che noi oggi leggiamo, è quindi essenziale la contestualizzazione,
non solo per le trame teoriche, ma anche per quelle formali: ciò consente -
rispetto a quelle arcaiche forme enciclopediche, in cui tutta la saggezza era
incorporata nella concretezza della narrazione - di apprezzarne la specifica
natura, l'originalità dell’impianto e l’audacia dei suoi assunti (astratti e
sistematici). 17 Ricavo questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura
arcaica) di B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V
secolo, Feltrinelli, Milano 2006. 18 Ivi, p. 22. 19 Su questo A. Capizzi,
"Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato», XLIII, 1988,
pp. 42-60; riferimento alle pp. 52-53. 20 Gentili, op. cit., p. 69. 237 Non va
comunque trascurato il fatto che la scelta espressiva – probabilmente
condizionata da esigenze di diffusione e trasmissione (non ultima la stessa
memorizzazione) – implicava, in quello sfondo culturale, la dimensione
“spettacolare” (recitazione e canto) della sua ricezione21, che Parmenide non
poteva ignorare. Questa considerazione, da un mero punto di vista formale,
aiuta a comprendere la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως e
l’insieme drammatico del proemio (viaggio, difficoltà, incontro con la
divinità), così come la sua intenzione di coinvolgere il pubblico destinatario,
non solo a livello intellettuale, ma anche emozionale, incoraggiandolo a
seguire l’esperienza «trasformativa» del poeta, convertito dal contatto con la
verità22 . In questo senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare
come il poema suggerisca: (i) una diversa modalità di approccio alla Verità:
nella poesia omerica, la presenza del divino era evocata e invocata attraverso
la Musa e i versi originavano dalla «memoria divina» 23; nel poema in generale,
e nel proemio soprattutto, l'invocazione è sostituita da un incontro
divinamente garantito e da una diretta comunicazione divina, che fanno del
poeta qualcosa di più di un semplice tramite ispirato; (ii) una probabile
integrazione della dimensione performativa: l'invito alla valutazione razionale
(κρῖναι δὲ λόγῳ) fa pensare a una relazione educativa del tipo delineato dal
Sofista platonico (237a): come ha di recente sottolineato Passa24, la
rievocazione, per bocca dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da
Parmenide ai discepoli potrebbe essere indicativa – oltre che dello stesso
modello pedagogico dell'Accademia – di un'originale impronta dell'Eleate:
Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο
ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ 21 Ivi, p. 49. 22 Robbiano, op. cit., p. 49. 23 Wilkinson,
op. cit., p. 32. 24 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di
lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 25. 238 μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός
τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ
μέτρων Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ
διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che ciò che
non è sia; il falso, infatti, non potrebbe prodursi in altro modo. Il grande
Parmenide, tuttavia, figlio mio, a noi che eravamo ancora bambini, cominciando
e fino alla fine testimoniava contro questo discorso, ribadendo ogni volta con
le sue parole e i suoi versi che: «Questo infatti mai sarà forzato: che siano
cose che non sono; Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Si
tratta di un «fotogramma di interno scolastico»25: la memorizzazione dei
contenuti fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe stata funzionale) era
affiancata dal commento e dall'argomentazione dettagliata del maestro, che
approfondiva e chiariva i temi (comunicando probabilmente informazioni
supplementari, non divulgabili all'esterno). Il poema potrebbe essere, almeno
in parte, un reperto di tale situazione didattica: donde le sue asperità e
l'impressione che fosse probabilmente rivolto a una cerchia ristretta26 .
Parmenide poeta È significativo che, in quella che potrebbe essere la più
antica allusione a Parmenide, egli sia annoverato tra i «poeti»: 25 Cerri, op.
cit., p. 94. 26 Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte
culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et
C. Louguet (éds), Qu’estce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic
Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord)
2002, pp. 89-90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito. 239 ἆρα ἔχει
ἀλήθειάν τινα ὄψις τε καὶ ἀκοὴ τοῖς ἀνθρώποις, ἢ τά γε τοιαῦτα καὶ οἱ ποιηταὶ ἡμῖν
ἀεὶ θρυλοῦσιν, ὅτι οὔτ’ ἀκούομεν ἀκριβὲς οὐδὲν οὔτε ὁρῶμεν; Mi chiedo se vista
e udito abbiano una qualche verità per gli uomini, oppure se queste cose stiano
proprio come sempre ci ripetono i poeti: che non udiamo né vediamo alcunché di
preciso. (Fedone 65b), a dispetto di una tradizione che avrebbe poi, a più
riprese, manifestato un certo disappunto di fronte ai versi dell’Eleate: τὰ δ’ Ἐμπεδοκλέους
ἔπη καὶ Παρμενίδου καὶ θηριακὰ Νικάνδρου καὶ γνωμολογίαι Θεόγνιδος λόγοι εἰσὶ
κιχράμενοι παρὰ ποιητικῆς ὥσπερ ὄχημα τὸ μέτρον καὶ τὸν ὄγκον, ἵνα τὸ πεζὸν
διαφύγωσιν. I poemi di Empedocle e Parmenide, le Teriache di Nicandro e le
Sentenze di Teognide sono discorsi che, servendosi della poesia come di un
veicolo, ne prendono il metro e la dignità, per evitare la prosa [il prosaico].
(Plutarco; DK 28 A15) μέμψαιτο δ’ ἄν τις Ἀρχιλόχου μὲν τὴν ὑπόθεσιν, Παρμενίδου
δὲ τὴν στιχοποιίαν [...] Ad Archiloco si potrebbe rimproverare il soggetto, a
Parmenide il modo di fare versi […] (Plutarco; DK 28 A16) ὁ δέ γε Π. καίτοι διὰ
ποίησιν ἀσαφὴς ὢν ὅμως καὶ αὐτὸς ταῦτα ἐνδεικνύμενός φησιν Parmenide, pur
risultando oscuro a causa della poesia, espone e afferma a sua volta le stesse
cose. (Proclo; DK 28 A17). La forza del pensiero sarebbe stata, insomma,
artificiosamente costretta in una forma espositiva inadeguata, producendo un
duplice effetto negativo: l’oscurità dell’espressione e la scadente qualità dei
versi. Scontato, per la tradizione platonica, che Parmenide avesse elaborato il
proprio contributo indipendentemente dal 240 medium espressivo, cui si sarebbe
applicato in un secondo momento, valutandone l’impatto comunicativo: donde i
compromessi e le incongruenze cui accenna Proclo: αὐτὸς ὁ Π. ἐν τῆι ποιήσει·
καίτοι δι’ αὐτὸ δήπου τὸ ποιητικὸν εἶδος χρῆσθαι μεταφοραῖς ὀνομάτων καὶ σχήμασι
καὶ τροπαῖς ὀφείλων ὅμως τὸ ἀκαλλώπιστον καὶ ἰσχνὸν καὶ καθαρὸν εἶδος τῆς ἀπαγγελίας
ἠσπάσατο. δηλοῖ δὲ τοῦτο ἐν τοῖς τοιούτοις [B 8, 25. 5. 44. 45] καὶ πᾶν ὅ τι ἄλλο
τοιοῦτον· ὥστε μᾶλλον πεζὸν εἶναι δοκεῖν ἢ ποιητικὸν < τὸν > λόγον. Lo
stesso Parmenide, nel poema, pur essendo costretto, certamente a causa della
forma poetica, a far ricorso a metafore, figure e tropi, privilegiò tuttavia
una forma d’esposizione disadorna, controllata e semplice. Mostra ciò in questi
versi [B8.25, 5, 44, 45] e in tutti gli altri di questo tenore, così che il suo
discorso sembra piuttosto prosa che poesia. (Proclo; DK 28 A18). Sembra
rivendicare invece l’originaria e originale intenzione poetica dell’opera
parmenidea Genetlio: φυσικοὶ [sc. ὕμνοι] δὲ ὁποίους οἱ περὶ Παρμενίδην καὶ Ἐμπεδοκλέα
ἐποίησαν [vgl. 31 A 23]. […] εἰσὶν δὲ τοιοῦτοι, ὅταν Ἀπόλλωνος ὕμνον λέγοντες ἥλιον
αὐτὸν εἶναι φάσκωμεν καὶ περὶ τοῦ ἡλίου τῆς φύσεως διαλεγώμεθα καὶ περὶ Ἥρας ὅτι
ἀήρ, καὶ Ζεὺς τὸ θερμόν· οἱ γὰρ τοιοῦτοι ὕμνοι φυσιολογικοί. καὶ χρῶνται δὲ τῶι
τοιούτωι τρόπωι Π. τε καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἀκριβῶς ... Π. μὲν γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἐξηγοῦνται,
Πλάτων δὲ ἐν βραχυτάτοις ἀναμιμνήισκει. Inni fisici, come quelli composti da
Parmenide, Empedocle e dai loro seguaci […] Essi sono tali quando, levando un
inno ad Apollo, diciamo che è il sole e discutiamo della natura del sole, e di
Era diciamo che è l’aria, di Zeus che è il calore: inni di questo tipo infatti
riguardano l’indagine sulla natura. Si servono di questa forma d’espressione
Parmenide ed Empedocle in modo rigoroso […] Parmenide ed Empedocle infatti
fanno da 241 guida e Platone lo ricorda brevemente. (Genetlio; DK 28 A20).
Parmenide ed Empedocle sarebbero stati campioni in un genere, quello dei «poemi
fisici» (φυσικοὶ ὕμνοι), vere e proprie «indagini sulla natura» (φυσιολογικοί),
riconosciuto nell’antichità (Platone). Simplicio suggerisce, dal canto suo, un
ulteriore interessante accostamento: εἰ δ’ ‘ε ὐ κ ύ κ λ ο υ σ φ αί ρ η ς ἐ ν α
λ ί γ κ ι ο ν ὄ γ κ ω ι ’ τὸ ἓν ὄν φησι [Β 8, 43], μὴ θαυμάσηις· διὰ γὰρ τὴν
ποίησιν καὶ μυθικοῦ τινος παράπτεται πλάσματος. τί οὖν διέφερε τοῦτο εἰπεῖν ἢ ὡς
Ὀρφεὺς [fr. 70, 2 Kern] εἶπεν ‘ὠεὸν ἀργύφεον’; Se [Parmenide] afferma che
l’essere uno è «simile a massa di ben rotonda palla» [B8.43], non ci si deve
meravigliare: a causa della poesia, infatti, egli ricorre anche a qualche
finzione mitica. Che differenza c’è dunque tra questo modo di esprimersi e
quello di Orfeo: «uovo d’argento»? (Simplicio; DK 28 A20). La ricerca
contemporanea ha documentato la matrice omerica praticamente dell’intero
lessico del poema (Coxon27), e rilevato la raffinatezza della sua composizione
ritmica e musicale (Henn), a dispetto della complessità della sua materia
(rispetto ai precedenti di riferimento, Omero ed Esiodo), rivendicando quindi
la dimensione poetica dell’opera di Parmenide e soprattutto la sua formazione
di rapsodo (Schwabl28), riconoscendo, in altre parole, che «Parmenide era un
bardo omerico, erede dei tesori di secoli di recitazione orale» (Henn29),
impegnato a comporre all’interno della tradizione epica e non contro di essa.
Parmenide, insomma, era (come Empedocle, probabilmente) in primo luogo un
poeta, interessato a sperimentare le potenzialità 27 A.H. Coxon, The Fragments
of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, pp. 9-13. 28 H. Schwabl,
“Hesiod und Parmenides, Zur Formung des parmenideischen Prooimions (28 B1)”,
«Reinisches Museum», 106 (1963), pp. 134-142. 29 M.J. Henn, Parmenides of
Elea…, cit., p.5. 242 del verso nel campo d’indagine della natura: i modelli
epici potrebbero tuttavia non ridursi ai poemi omerici ed esiodei, e
comprendere anche (soprattutto per la seconda parte del poema) la produzione
orfica, soprattutto teogonica e cosmogonica30, attribuita a Museo, Epimenide e
Onomacrito31 . La rivelazione di Parmenide La scelta di una portavoce divina
esprimerebbe per alcuni il desiderio di Parmenide di marcare l'oggettività del
suo metodo32: se l’esito della ricerca fosse stato avanzato semplicemente come
la sua verità, avrebbe finito per riproporsi come un punto di vista, l’opinione
di un mortale in concorrenza con le opinioni degli altri (mortali)33. Secondo
il modulo epico, invece, il poeta-pensatore non è che portavoce della Dea e
della Verità: come il contemporaneo Eraclito rimarcava che: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ
λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos
ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50), così Parmenide non
intende riferire la verità immediatamente a un soggetto, ma alla divinità, per
garantirne l’assolutezza34 . 30 Sull’orfismo in generale si vedano ora i
numerosi e preziosi saggi contenuti in A. Bernabé y F. Casadesús (coords.),
Orfeo y la tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In
particolare, nel primo volume A. Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos,
pp. 241-246; M. Herrero, Tradición órfica y tradición homérica, cit., pp.
247-278. 31 Per questi aspetti R.B. Martínez Nieto, Otros poetas griegos
próximos a Orfeo, ivi, pp. 549-576. 32 Tarán, op. cit., p. 31. 33 Parménide, Le
Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M.
Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996), p. 66. 34 Ivi, p. 65. 243
Questa plausibile spiegazione della cornice religiosa non può tuttavia non
tenere conto proprio della natura argomentativa della prima sezione del poema -
indicata dalla Dea come «discorso affidabile e pensiero intorno alla Verità»
(πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come ἔλεγχος
(disamina, prova), invitando il κοῦρος a giudicare razionalmente (κρῖναι δὲ λόγῳ):
consapevolezza che sembrerebbe contraddire l’urgenza di un pegno divino per il
logos proferito. Rivelazione e verità In realtà Parmenide, come Senofane,
sembra per lo più aderire alla concezione pessimistica della condizione umana
espressa tradizionalmente nella poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il
contemporaneo Teognide (vv. 139-41): οὐδέ τωι ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα
θέληισιν· ἴσχει γὰρ χαλεπῆς πείρατ’ ἀμηχανίης. ἄνθρωποι δὲ μάταια νομίζομεν εἰδότες
οὐδέν· θεοὶ δὲ κατὰ σφέτερον πάντα τελοῦσι νόον Nessuno degli uomini ottiene
quanto è nei suoi desideri; si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura
inettitudine. Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla,
mentre gli dei pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente35 .
È significativo che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i tratti con cui, in
B6 e B7, caratterizzerà l’impotenza dei «mortali» (βροτοί): essi sono
apostrofati come εἰδότες οὐδέν («che nulla sanno», come in Omero, Teognide,
Mimnermo, Semonide); la loro incapacità di realizzare ciò che è nei loro
intenti è stigmatizzata 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il
corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa
1994, p. 162. 244 come ἀμηχανίη («impotenza», «inettitudine», come in Teognide
e nell’Inno Omerico ad Apollo, vv. 189-193); la loro attitudine cognitiva
liquidata come πλακτὸν νόον («mente errante», con paralleli in Archiloco fr.
58)36 . A dispetto di questo quadro, del fatto che l’uomo, con le sole sue
forze, non possa pervenire alla conoscenza piena della realtà, il proemio narra
come l’intervento e la benevolenza delle divinità consentano – almeno al poeta
– di ricevere e partecipare di quel sapere che è appannaggio divino37. Non
sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2) della
successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato a
valutare, come se ormai, grazie alla comunicazione dei principi, potesse
concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello
stesso proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi
(B3-4), facendo quasi coincidere la percezione intelligente (νοεῖν) con il
proprio oggetto (εἶναι) 38 . La specifica cornice letteraria e l’implicito
motivo della comunicazione divina sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e
strumentalmente, allo scopo di certificare verità e disponibilità dei principi
dell’argomentazione: Parmenide, insomma, avrebbe attribuito i fondamenti della
propria enciclopedia a un’anonima docenza divina, per assicurarne
incontestabilità e universalità. Ovvero, come intende Conche, il sapiente-poeta
avrebbe conservato, nella finzione della Dea, l’idea tradizionale
dell’onniscienza divina, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo insieme:
avremmo in questo senso, come già nel caso di Senofane, non più una divinità
religiosa ma filosofica39 . 36 Ivi, pp. 163-4. 37 Ivi, p. 166. 38 Su questo
ancora Leszl, op. cit., p. 168. 39 Conche, op. cit., p. 66. 245 Il problema
della verità Nella pratica poetica sembrava dunque risolversi un cruciale
problema cognitivo40: dal momento che gli esseri umani, nella loro impotenza,
sono soggetti a illusoni, come può il sapiente riconoscere la verità, sottrarsi
a quella condizione di diffusa deficienza (cognitiva) e pretendere di sapere?
Nella cultura greca arcaica, solo un dio poteva essere fonte di verità, e il
linguaggio della comunicazione divina era quello dei versi: Omero ed Esiodo
validavano la loro poesia marcando il fatto che essa annunciava la verità, la
cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epica41. In questo senso,
il motivo poetico della comunicazione divina è in Parmenide pervasivo,
abbracciando entrambe le sezioni del poema42: l’intero campo del sapere è
esplicitamente ricondotto alla lezione della Dea, tanto le tesi intorno
all’essere, quanto l’enciclopedia del «sistema cosmico» (διάκοσμος), senza
alcuno spazio per una piena rivendicazione autoriale da parte del poeta. Se
consideriamo la struttura dell'opera delineata in conclusione del proemio, e i
passi superstiti della prima sezione, risulta evidente, nella narrazione, come
il rilievo della lezione divina sia funzionale alla focalizzazione del problema
dell'accesso alla veri- 40 Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W.
Most, "The poetics of early Greek philosophy", in The Cambridge
Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge
1999, pp. 332-362. Nello specifico rinvio a p. 353. 41 Ivi, p. 343. 42 Sulla scorta
delle indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε […] A questo punto
pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da
questo momento in poi opinioni mortali impara […] le due sezioni sono
tradizionalmente designate come Verità e Opinione. 246 tà43. Veridicità ed
essenzialità44, in effetti, erano fondamentali obiettivi poetici che le opere
di Omero ed Esiodo si proponevano e rivendicavano (implicitamente o
esplicitamente): gli inni teogonici, per esempio, articolavano il pantheon
riconducendolo all’origine del cosmo, così assicurando, in forza della
rivelazione della Musa, una conoscenza superumana di cose distanti nel tempo e
nello spazio45 . Quando le Muse di Esiodo dichiarano: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν
ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte
menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare –
(Teogonia 27-28), l’intenzione non è di mettere in guardia dal contenuto della
buona poesia, piuttosto dalla comprensione della maggioranza degli uomini, così
scadente da non poter discernere il vero dal falso46. Senofane, probabilmente
nello stesso ambiente culturale di Parmenide47, aveva già chiaramente
manifestato segni di scetticismo nei confronti del mito e di quella tradizione
poetica: πάντα θεοῖσ’ ἀνέθηκαν Ὅμηρός θ’ Ἡσίοδός τε, ὅσσα παρ’ ἀνθρώποισιν ὀνείδεα
καὶ ψόγος ἐστίν, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν ogni cosa agli
dei attribuirono Omero ed Esiodo, 43 Su questo punto G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ
in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206.
44 Most, op. cit., p. 343. 45 K. Algra, "The beginnings of
cosmology", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit.,
pp. 45-65. Il passo cui ci riferiamo è a p. 49. 46 Most, op. cit., p. 343. 47
La tradizione dossografica antica costantemente associa Parmenide a Senofane:
tale relazione è stata conservata nella tradizione fino al XX secolo, nel corso
del quale essa è risultata profondamente scossa. Con buoni argomenti ha di
recente rilanciato la dipendenza di Parmenide dal pensatore di Colofone John
Palmer (Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 186
ss.; Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 324 ss.). 247 quanto
presso gli uomini è cosa riprovevole e censurabile: rubare, commettere
adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B11) Ὅμηρος δὲ καὶ Ἡσίοδος κατὰ
τὸν Κολοφώνιον Ξενοφάνη ὡς πλεῖστ(α) ἐφθέγξαντο θεῶν ἀθεμίστια ἔργα, κλέπτειν
μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν Omero ed Esiodo, secondo Senofane di
Colofone: Numerosissime azioni illegittime hanno narrato degli dei: rubare,
commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B12). Egli (come
Eraclito) prende apertamente posizione contro la falsità dei contenuti di
quella poesia, contro la distorsione della corretta concezione del divino: è
significativo, in questo senso, che proprio a cavallo tra VI e V secolo a.C. si
sviluppi la più importante «misura di recupero»48 a protezione dei poeti:
l'interpretazione allegorica. A Teagene di Reggio dovremmo, in effetti, il
tentativo di sanare la frattura tra le fonti tradizionali dell'autorità poetica
e i più recenti criteri di argomentazione concettuale49 . Certamente la critica
di Senofane rischiava di accentuare il divario tra piano umano e piano divino,
come emerge da alcuni dei frammenti conservati, rendendo conseguentemente
problematico l'accesso alla verità: οὔτοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν,
ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον non è vero che dal principio tutte
le cose gli dei ai mortali svelarono, ma nel tempo, ricercando, essi trovano
ciò che è meglio (DK 21 B18) 48 L'espressione è di Most, op. cit., p. 339. 49
Ibidem. Sulla relazione tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi,
"Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato, cit.. 248 καὶ
τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα
λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ
οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe,
né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se,
infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui
stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34). Benché
testo e significato dell'ultimo frammento rimangano ancora controversi50, esso
sembra anticipare la conclusione scettica per cui non esiste criterio per
stabilire una verità evidente e del tutto affidabile. Analogamente si
esprimeva, tra i contemporanei di Parmenide, Alcmeone: Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης
τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς
Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte
e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la
certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi51 (DK 24
B1). La scelta di Parmenide - di far ruotare intorno a una figura divina la
comunicazione del poema - potrebbe allora simboleggiare 50 J.H. Lesher,
"Early interest in knowledge", in The Cambridge Companion to Early
Greek Philosophy, cit., pp. 225-249. Il riferimento a p. 229. 51 Dal passo
iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la
Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente
traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du
début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques",
«Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19). 249 «la ripresa e la
soluzione parmenidea del problema della verità»52 . Non va quindi trascurata la
possibilità di cogliere, negli echi della poesia religiosa e della stessa
poesia esiodea (con la ripresa di elementi cosmologici della Teogonia), la
specificità dell'esperienza narrata nel proemio come prefigurazione del
complesso dei contenuti dell’opera. Motivi poetici e suggestioni In uno studio
molto innovativo per l’attenzione alla forma poetica del Περὶ φύσεως,
Mourelatos 53 individuò alcuni motivi 54 dell’epica chiaramente presenti nel
poema. Tra questi appaiono di particolare interesse (i) quello del viaggio, certamente
il più importante, anche per le possibili implicazioni (in precedenza
segnalate) con la poesia religiosa; (ii) quello dell’istruzione, marcata
dall’uso della seconda persona nella comunicazione divina, e dal ricorso a
formule programmatiche (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; μαθήσεαι; κόμισαι δὲ σὺ μῦθον
ἀκούσας; πεύσῃ; εἰδήσεις), memori di Esiodo (Le opere e i giorni) e Omero.
Viaggio ed erramento Dei cinque aspetti rilevati55 nella struttura di questo
«motivo» (motif) omerico - (i) progresso nel viaggio di ritorno, (ii) regresso
ed erramento; (iii) navigazione esperta; (iv) azione folle; (v) ricerca di
informazioni sul ritorno da parte dei parenti a casa – i 52 Germani, op. cit.,
p. 187. 53 A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image
and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 1970,
pp. 12-14. 54 Non mi addentro nella distinzione, proposta dallo studioso, tra
«tema» o «concetto», per cui le pure forme poetiche fungono da veicolo (oggetto
della «iconografia»), e «motivo» o «significato complessivo», «valore
simbolico» (oggetto della «iconologia»). Ibidem, pp. 11-12. 55 Ivi, p. 18. 250
primi quattro appaiono marcatamente sfruttati nel poema. La compiuta
circolarità del viaggio nell'Odissea pone in primo piano il ritorno a casa
(νόστος), per cui esiste una specifica impresa di ricerca (νόστον διζήμενος):
nel proemio si alluderebbe esplicitamente o implicitamente – a seconda delle
interpretazioni – alla stessa situazione (viaggio alla dea e ritorno tra gli uomini).
In ogni caso centrali risulterebbero, nell’economia del poema, la conduzione
(πομπή) delle guide (divine) di scorta al viaggiatore e – per contrasto –
l’erramento (πλάνη) dei «mortali»: analogamente, l’eroe omerico - accorto e
istruito dalle divinità - sa di dover osservare un certo comportamento, mentre
i suoi compagni, privi di lungimiranza, si rendono colpevoli di azioni
irresponsabili, d’ostacolo al viaggio di ritorno56. Così, al kouros la Dea non
manca di riferire le coordinate (i «segni», σήματα) della via corretta (B8.1-2:
μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν), mettendolo in guardia dalle insidie della «abitudine
nata dalle molte esperienze» (B7.3: ἔθος πολύπειρον); alla cui deriva, invece,
come i compagni di Odisseo, si abbandonano i «mortali che nulla sanno» (B6.4:
βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), connotati come «uomini a due teste» (δίκρανοι). Ma il
motivo del viaggio non riconduce solo al paradigma omerico: è probabile ne
esistesse una variante letteraria nella poesia apocalittica 57 , diffusa nei
circoli pitagorici, a partire dai Καθαρμοί del leggendario Epimenide sopra
ricordato. Non è solo Diels a crederlo; tra gli specialisti del XX secolo,
Guthrie58, per esempio, coglie, almeno a livello verbale, echi orfici, che
tuttavia non dimostrerebbero altro che il radicamento nella tradizione della
poesia più antica e in quella contemporanea (Pindaro, Bacchilide, Simonide),
mentre ritiene più consistente la possibilità di una influenza dello
sciamanesimo, proprio sulla scorta dei precedenti di Epimenide e altri
(Aristea, Abari, Ermotimo). 56 Ivi, pp. 18-21. 57 Uso l’aggettivo – come Diels
– nel suo significato etimologico da ἀποκαλύπτω (scoprire, rivelare appunto).
58 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. II. The Presocratic Tradition
from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965, pp. 10 ss.. 251
Esperienze dell'altro mondo Come segnalato in nota ai versi del proemio, alcune
scelte espressive di Parmenide – per esempio il vocativo κοῦρε (con cui la
δαίμων apostrofa il viaggiatore giunto al suo cospetto) e soprattutto la
formula εἰδὼς φώς (con cui è indirettamente designato il poeta) – hanno fatto
pensare a un esplicito richiamo a modelli misterici, destinati a fortunate
riprese in particolare da parte di Platone59 . Rivestono in questo senso un
notevole interesse le laminette funerarie classificate come "orfiche"
(le più antiche risalenti al VIV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a
quell'ambiente religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade:
non agile, non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa esperienza
che propongono (il giudizio della anime a opera di Dike), sia per specifici
elementi che presuppongono (l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare
una scelta di fronte a un bivio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come
l'itinerario del poeta nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia
«molto in comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti percorrevano
nell'oltretomba», seguendo più o meno puntuali istruzioni60 . Non si
tratterebbe solo di dettagli di contorno (come segnaliamo in nota) che
Parmenide avrebbe recuperato per garantire solennità alla propria composizione,
ma di suggestioni che l'avrebbero informata, fornendo il nesso profondo tra il
racconto del proemio e il resto del poema, saldando «il tema dell'iniziazione
alla fondazione logica del sistema»61 . Così sarebbe possibile ricostruire la
topografia del viaggio parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione
delle EliaEliadi: κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un "iniziato"
(εἰδὼς φώς) lungo la via che conduce alla porta dell'oltretomba (ὁδός 59 Per
questi aspetti è ancora molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per
un'interpretazione del proemio", «La Parola del Passato», cit., pp.
383-396. 60 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza
dall'Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 115. 61 Sassi, op.
cit., p. 386. 252 πολύφημος δαίμονος, vv. 2-3)62 sorvegliata da Dike, la quale
non solo consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per testimoniarne),
ma soprattutto l'incontro con la δαίμων e, conseguentemente, la sua istruzione.
Un tragitto che, a suo tempo, in uno studio pionieristico, Morrison aveva
connotato come quello del «poeta-sciamano in cerca di conoscenza»63,
accostandolo all'esperienza del platonico Er. In modo sorprendentemente simile,
le istruzioni (incise su laminetta aurea) per l'anima del defunto nel sepolcro
di Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono: ἐπεὶ ἂμ μέλληισι θανεῖσθαι εἰς Ἀΐδαο
δόμους εὐήρεας Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costrutte di
Ade64 , dove, presso la palude di Mnemosine (Μναμοσύνη λίμνη), l'anima sarebbe
stata affrontata e interpellata dai «custodi» (φύλακες): [ h ] οι δέ σε εἰρήσονται
ἐν φραςὶ πευκαλίμαισι ὄττι δὴ ἐξερέεις Ἄιδος σκότους ὀλοέεντος che ti
chiederanno nel loro denso cuore Cosa vai cercando nelle tenebre di Ade
rovinoso65 . Ma le laminette propongono soprattutto un'altra suggestione, che
potrebbe emergere in Parmenide (per giungere poi ai miti dell'aldilà platonico)
come riflesso di un fondo escatologico comune 66 : la possibilità che una tappa
nell'itinerario tracciato da 62 La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito
oltremondano del Fedone (107d ss.) le anime dei defunti, per coprire il cammino
verso l'Ade, abbiano bisogno di δαίμονες che le conducano come ἡγεμόνες. 63
J.D. Morrison, "Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies»,
75, 1955, pp. 59-68. La citazione è a p. 59. 64 G. Colli, La sapienza greca,
vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-3. 65 Colli, op. cit., pp. 172-3. 66
Sassi, op. cit., pp. 390-1. 253 Parmenide sia costituita dal bivio
dell'oltretomba ben attestato nelle laminette (e nei testi platonici): ἔστ’ ἐπὶ
δ < ε > ξιὰ κρήνα, πὰρ δ’αὐτὰν ἐστακῦα λευκὰ κυπάρισσος [...] ταύτας τᾶς
κρᾶνας μηδὲ σχεδὸν ἐνγύθεν ἔλθηις· πρόσθεν δὲ [ h ] ευρήσεις τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ
λίμνας ψυχρὸν ὔδωρ προρέον c'è alla destra una fonte, e accanto a essa un
bianco cipresso diritto [...] A questa fonte non andare neppure troppo vicino;
ma di fronte troverai fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine
(laminetta di Ipponio) εὑρήσσεις δ’ Ἀίδαο δόμων ἐπ’ ἀριστερὰ κρήνην πὰρ δ’ αὐτῆι
λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδὸν ἐμπελάσειας. εὑρήσεις
δ’ ἑτέραν, τῆς Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ψυχρὸν ὕδωρ προρέον E troverai alla sinistra
delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a
questa fonte non accostarti neppure, da presso. E ne troverai un'altra, fredda
acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Petelia, circa 350
a.C.) εὑρήσεις Ἀίδαο δόμοις ἐνδέξια κρήνην, πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν
κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδόθεν πελάσηιςθα. πρόσσω εὑρήσεις τὸ
Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ὕδωρ προ < ρέον > Troverai alla destra delle case
di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a quella fonte
non accostarti neppure, da presso. E più avanti troverai la fredda acqua che
scorre 254 dalla palude di Mnemosine (laminetta di Farsalo, circa 330 a.C.)67 .
Così come l'iniziato è preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle
fonti cui attingere per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa
la propria allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del κοῦρος: εἰ δ΄
ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della
parola, una volta ascoltata (B2.1), evoca (B2.2) l'immagine delle «vie di
ricerca», evidentemente biforcate: (i) ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3); (ii) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5); per
trattenerlo dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade
(analogamente alle anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai
«mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, B6.4)68 . Sono stati compiuti,
negli ultimi anni, tentativi per individuare un modello unitario per tutto il
materiale funerario di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai
secoli V-II a.C.), giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che
farebbero da sfondo alle istruzioni per le anime dei defunti69. Più
prudentemente, riferendosi alle laminette di Ipponio, Petelia, Farsalo e
Entella (fine V- fine IV secolo a.C.), Ferrari ha sottolineato come ci si trovi
di fronte «a una traccia poetica sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì
che le rimodulazioni dei vari testimoni risultano a tratti 67 Colli, op. cit.,
pp. 172-7. 68 Sassi, op. cit., pp. 392-3. 69 Il tentativo più sistematico è
quello di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II:
Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, II, K.G. Saur, Münche-Leipzig
2005, p. 13. di ciò dà conto Ferrari in La fonte del cipresso bianco, cit., pp.
115-6. 255 importanti e complesse»70. In ogni caso, un elemento risulta nel
nostro contesto significativo: il fatto che nelle laminette (pur recuperate in
località diverse e in qualche caso distanti: si va dalla Magna Grecia per le
prime due laminette, alla Tessaglia per la terza, alla Sicilia per l'ultima) si
faccia «ripetuta menzione di Mnemosine come divinità che dispensa il dono di
ricordare»71, e che rivelerebbe l'appartenenza dei defunti a circoli
pitagorici, a quella cultura, in altre parole, «che appunto alla memoria
assegnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di perfezionamento della
persona»72. Non è un caso che Pugliese Carratelli, editore delle laminette,
proponga, in relazione all'ambiente e allo specifico richiamo del proemio di
Parmenide a quella temperie, Mnemosine come la δαίμων innominata di Parmenide.
Esperienze sciamaniche Abbiamo citato Morrison a proposito del suo accostamento
del viaggio di Parmenide al tragitto di un «poeta-sciamano»: la figura dello
sciamano - il cui rilievo nell’ambito della cultura arcaica era stato notato,
qualche anno prima del contributo di Morrison, da Dodds, in una delle opere più
originali sulla civiltà greca73 - è quella di un mediatore tra uomini e dei,
che ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e di viaggiare in
cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni
mediche o cultuali da una divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente
narra in prima persona dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo
viaggio (il mezzo di trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e
può presentare momenti di erramento prima del desiderato confronto con la
divinità. 70 Ivi, p. 119. 71 Ivi, p. 124. 72 Ibidem. 73 E.R. Dodds, I Greci e
l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951),
capitolo V (Gli sciamani e le origini del puritanesimo). 256 Anche Mourelatos
74 riconosce le somiglianze tra l’itinerario del kouros e il complesso di
elementi focalizzati da Dodds e ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie.
Se concediamo la presenza di certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il
riferimento, nel proemio, al viaggio del protagonista e alla sua scorta divina
(Guthrie parla di «odissea spirituale dello sciamano») avrebbe allora potuto
immediatamente evocare, nell’immaginazione di un ascoltatore
"iniziato" a tali pratiche, i segni dell’esperienza sciamanica. In
questo senso appare ancor più significativo l’accostamento a Odisseo. In
particolare, Mourelatos è convinto che, dietro o sotto la poesia di Parmenide,
si possa rintracciare, oltre a Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di
poesia cultuale e profetica del VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è
la mancanza di esemplari per valutarne la reale incidenza, forse più importante
di quella omerico-esiodea. È probabile, tuttavia, che l’importanza di questo
retroterra dipenda in larga misura da motivi e temi condivisi dall’epica
precedente, sebbene impiegati in una nuova prospettiva e con una nuova
contestualizzazione. Parmenide avrebbe così usato il complesso del viaggio
sciamanico come modello per il suo viaggio speculativo. Nonostante l’assenza di
evidenze testuali che autorizzino a parlare di un “motivo” letterario,
allusioni al paradigma dell'esperienza sciamanica sarebbero rintracciabili,
secondo Kingsley 75 , proprio nel proemio, quasi a inquadrare la successiva
dottrina in una cornice sapienziale indiscutibile. Anche per l'autore inglese,
infatti, il modo di presentarsi del poeta (come «uomo che sa», εἰδὼς φώς)
costituirebbe uno standard nel mondo greco arcaico per indicare l’«iniziato»76,
colui che, in virtù delle proprie conoscenze, poteva giungere dove ad altri era
proibito. Analogamente l’espressione κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta
denoterebbe una figura al limite (e tramite) tra mondo umano e divino77:
l’esperienza descritta, infatti, sarebbe quella di un’eccezionale 74 Op. cit.,
pp. 44-5. 75 P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999.
76 Ivi, p. 62. 77 Ivi, p. 72. 257 κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità
associata al mondo infero78). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a
modelli letterari, che coniugavano il tema della discesa nell’Ade in quanto
luogo della rivelazione (Odissea XI), a un determinato contesto cosmologico
(Teogonia 736-774) e a particolari figure di predestinati, come l’eroe Eracle79
o il leggendario poeta Orfeo (in questo senso da leggere, analogamente a
Dodds80, come sciamano). A conferma della propria lettura (che in realtà si
regge su tradizioni posteriori), Kingsley porta testimonianze ricavate
dall’arte vascolare dell’epoca e della regione di Elea, che ritraggono
l’incontro di Eracle con Persefone secondo lo schema ripreso da Parmenide,
ovvero quello di Orfeo con la stessa dea infera, e la presenza sullo sfondo di
Dike81. In questo modo sarebbe attestato, se non un motivo poetico-letterario,
almeno un retroterra culturale, tradizionale e locale, in cui il poeta poteva inserire
i propri riferimenti, permettendosi l'anonimità della dea82. In effetti, che il
ruolo di divina interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è suggerito dalla
stessa accoglienza del kouros da parte della θεά: non una sorte infausta (la
morte?) lo ha allontanato dal mondo degli uomini, ma un destino di conoscenza
sotto l’egida della giustizia divina. Come se, appunto, ella fosse preoccupata
di rassicurare il poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti. D’altra
parte, è assai probabile che il poeta si attenesse a norme compositive,
ricorrendo a scelte espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un
determinato obiettivo. Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla
ripetizione costante del verbo φέρω nei primi versi, la cui frequenza sarebbe
difficilmente tollerabile, da un punto di vista poetico, se non per l’effetto
“performativo” (immaginando la recitazione), di incantamento e trasporto.
L’attenzione per alcuni dettagli fa inoltre pensare che Parmenide evocasse
precisi riferimenti cultuali (se non poetici), così inquadrando la propria
rivelazione in uno sfondo comprensibile ai 78 Ivi, pp. 62-3. 79 Ivi, p. 61. 80
Op. cit., pp. 186-7. 81 Op. cit., p. 94. 82 Ivi, p. 97. 258 propri ascoltatori
(iniziati): potrebbe dunque non essere casuale il particolare rilievo iniziale
del suono («sibilo acuto», σῦριγξ) emesso dall’«asse del carro nei mozzi […]
incandescente», dal momento che esso ritorna nella posteriore tradizione dei
papiri magici greci, associato proprio al silenzio della «incubazione» e al
viaggio cosmico83 . Maria Laura Gemelli Marciano84 ha inoltre richiamato
l'attenzione sullo spazio (21 versi) dedicato nel proemio (che consideriamo
conservato integralmente) alla descrizione del viaggio e sull’acribia con cui
ne viene resa l'esperienza sensoriale (acustica e ottica), nonché la
topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il mero impiego
simbolico, tanto più considerando85 la stretta relazione tra suoni («sibilo», σῦριγξ),
movimenti rotatori (i «cerchi rotanti» δινωτοῖσιν κύκλοις dei vv. 7-8) –
segnali di alterazione dello stato di coscienza - e il manifestarsi delle
figure divine86. Indizi che possono autorizzare la lettura del poema come
resoconto di un viaggio estatico. Alcuni elementi esteriori concorrono in
effetti a collegare Parmenide a questo retroterra apocalittico. Nel 1962 fu
ritrovata a Velia (l’antica Elea) un'iscrizione su blocco marmoreo che
recita87: Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio di Pireto,
è riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios (venerato nell’area
anatolica, da cui provenivano i profughi focesi che fondarono nel VI secolo
a.C. Elea), e physikos, a un tempo ricercatore della natura e medico: dal
momento che ad Apollo Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è possibile
che la figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla iatromantica (di
cui l’archeologia conferma la pratica in Velia), nel solco dello sciamanesimo
(Epimenide) attestato dalla tradizione testuale. Nella stessa direzione punta
un’altra evidenza dossografica: 83 Ivi, pp. 129-130. 84 Die Vorsokratiker, II,
p. 54. 85 Sulla scia dello stesso Kingsley. 86 Gemelli Marciano, Die
Vorsokratiker, cit., II, p. 55. 87 Kingsley, op. cit., pp. 139 ss.. 259 ἐκοινώνησε
δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι
δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους
τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν
προετράπη. Parmenide, come affermò Sozione, ebbe familiarità anche con Aminia,
figlio di Diochete, pitagorico, uomo povero, ma nobile e retto, ciò che tanto
più ne favorì l’influenza. Quando questi morì, Parmenide, che era di famiglia
illustre e ricca, eresse per lui un monumento funebre. Fu proprio Aminia, non
Senofane, a volgerlo alla tranquillità di una vita di studio (Diogene Laerzio;
DK 28 A1). Il termine ἡσυχία - qui tradotto come «tranquillità di una vita di
studio» - avrebbe in realtà un valore molto diverso, soprattutto riferito allo
stile di vita esemplare del pitagorico Aminia: qualcuno parla di vita
contemplativa, ovvero di vita filosofica, ma letteralmente il significato è
quello di «quiete, riposo», «silenzio, immobilità». L’ascetico Aminia sarebbe
stato maestro di «incubazione», avrebbe cioè avviato Parmenide alle tecniche di
concentrazione già in uso presso i gruppi pitagorici88 . Come ha rilevato la
Gemelli Marciano89, l'«incubazione» può fornire la chiave per collegare la
iatromantica, riferita all'Eleate dalle evidenze archeologiche, all'attività di
legislatore attribuitagli sempre da Diogene Laerzio (sulla scorta di
Speusippo): almeno secondo lo schema che Platone ricorda nelle Leggi (624b) in
relazione al mitico Minosse, ma che abbiamo ritrovato in Epimenide e che
potrebbe emergere anche nel caso di Zaleukos, legislatore di Locri, di cui si
sosteneva avesse ricevuto le leggi direttamente dagli dei. Sebbene non sia dato
cogliere in quale modo questo insieme di elementi potesse costituire un
“motivo” letterario, è possibile ipotizzare una sua codifica in una qualche
forma recitativa (come nel 88 Kingsley, op. cit., pp. 179-181. 89 Op. cit., II,
p. 45-6. 260 caso delle Purificazioni di Epimenide), cui Parmenide potrebbe
essersi ispirato (viaggio, incontro con Giustizia e Verità ecc.), evocando
situazioni e particolari significativi in una società ancora legata a quelle
pratiche (importate, come crede Kingsley, dalla patria di origine, Focea, sulle
coste dell’Asia Minore). La cornice cosmologica: Esiodo Il motivo del viaggio e
della sua destinazione divina – con le diverse, possibili suggestioni - risulta
comunque proiettato, nel proemio, all’interno di uno sfondo cosmico
(parzialmente delineato nelle allusioni del testo) modulato su un terzo grande
modello poetico, probabilmente decisivo nell’elaborazione letteraria di
Parmenide: la Teogonia di Esiodo. Sulla sua incidenza pochi hanno dubbi, anche
quando, come Mourelatos 90 , privilegino il confronto con Omero. Sommariamente,
infatti, possiamo rilevare: (i) le analogie tra il proemio del poema e l’inno
alle Muse91 della Teogonia; (ii) in particolare la possibile criticità del già
citato rilievo delle Muse in Teogonia 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν
ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne
simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare -, rispetto
al programma didattico proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra
verità e incerto opinare umano; (iii) la presenza strutturale di dettagli dello
scenario cosmologico dell'opera esiodea nel proemio, oltre alla chiara
intenzione cosmogonica (e teogonica) della seconda sezione del poema. 90 Op.
cit., p. 33. 91 Su questo, tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e
soprattutto M. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their
Cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974. 261 Quasi
Parmenide volesse sovrapporre o contrapporre la propria verità a quella del
poeta di Ascra. A livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di
utilizzare creativamente il precedente esiodeo appare evidente. Egli si muove
in effetti all’interno delle novità da questi introdotte nella tradizione
aedica: il riferimento dell’autore a se stesso nell’esordio dell’opera e la
funzionalità del proemio rispetto al poema. In relazione all'originalità
esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha colto, nel modo di proporsi del poeta
rispetto alla memoria letteraria, il doppio risvolto della «contrapposizione
polemica» e, soprattutto, del «distacco critico», garantito dalla rivelazione
delle Muse 92: l’investitura poetica e il dono divino della verità, come
proposti in apertura della Teogonia, giustificano la pretesa di una poesia
diversa dalla tradizionale, in cui l’autore fondatamente rivendica una visione
unitaria del cosmo. D’altra parte, anche la risorsa proemiale è da Esiodo
sfruttata in modo peculiare, nella misura in cui essa non si riduce ad
artificio estrinseco rispetto al canto poetico vero e proprio, a inno
propiziatorio da recuperare nel repertorio di evocazioni dedicate, sul tipo
degli inni tramandati come omerici: il nesso tra proemio e poema è, nel caso
della Teogonia, molto stretto, sia per il coinvolgimento diretto del poeta e
della sua esperienza personale, sia, in particolare, perché tale esperienza
illumina la sostanza complessiva dell’opera: «il proemio, con il racconto della
epifania delle Muse, costituisce la garanzia del carattere di veridicità del
contenuto del poema»93 . A richiamare l’attenzione dell'interprete sul
precedente esiodeo sono tuttavia soprattutto alcuni elementi di contenuto, in
primo luogo lo scenario complessivo del proemio parmenideo, con un viaggio che
conduce, lungo la direttrice del sentiero di Notte e Giorno (il percorso lungo
cui essi si alternano), a un imponente portale (a protezione della dimora
divina), il quale, aprendosi, rivela un «vuoto enorme» (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco
delle «porte» (πύλαι) che chiudono (e dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo: 92
Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8. 93 Ivi,
pp. 129-130. 262 ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο
καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα,
τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν οὖδας
ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ
θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι. τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς
ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι. τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο
πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν ἑστηὼς κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν ἀστεμφέως, ὅθι
Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν
χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς
ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ
δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται· ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι
φάος πολυδερκὲς ἔχουσα, ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί, κασίγνητον Θανάτοιο, Νὺξ ὀλοή,
νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ. ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν, Ὕπνος
καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς Ἠέλιος φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν
οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων. τῶν ἕτερος μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα
θαλάσσης ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι, τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη,
χάλκεον δέ οἱ ἦτορ νηλεὲς ἐν στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν πρῶτα λάβῃσιν ἀνθρώπων· ἐχθρὸς
δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare
infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i
confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dèi hanno in odio, voragine
enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi
passasse dentro le porte, 263 ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta
crudele; tremendo anche per dèi immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la
casa terribile s'inalza, da nuvole livide avvolta. Di fronte a essa il figlio
di Iapeto tiene il cielo ampio reggendolo con la testa e con infaticabili
braccia, saldo, là dove Notte e Giorno venendo vicini si salutano passando
alterni il gran limitare di bronzo, l'uno per scendere dentro, l'altro
attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo la casa dentro trattiene,
ma sempre l'uno fuori della casa la terra percorre e l'altro dentro la casa
aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga; l'uno tenendo per i terrestri
la luce che molto vede, l'altra ha Sonno fra le sue mani, fratello di Morte, la
Notte funesta, coperta di nube caliginosa. Là hanno dimora i figli di Notte
oscura, Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro Sole splendente guarda coi
raggi, sia che il cielo ascenda o il cielo discenda. Di essi l'uno la terra e
l'ampio dorso del mare Tranquillo percorre e dolce per gli uomini, dell'altra
ferreo è il cuore e di bronzo l'animo, spietata nel petto; e tiene per sempre
colui che lei prende degli uomini, nemica anche agli dèi immortali.94 (vv.
736-766). Come ci ricorda Privitera95, abbiamo nella cultura greca arcaica due
prospettive sull'alternanza di luce e oscurità: una fisica, rintracciabile
nell'Odissea, l'altra mitica, presente invece in Esiodo, ma con riscontri anche
nell'Iliade. La prima sarebbe "orizzontale", dal momento che i
fenomeni coinvolti (il movimento del Sole, nel suo trascorrere celeste da
oriente a occidente, e il suo 94 Esiodo, Teogonia, cit., pp. 111-3. 95 G.A. Privitera
"La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole in Mimnermo",
«Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei», s. 9, v. 20, 2009, pp.
447-464. 264 tragitto di ritorno a oriente navigando su Oceano intorno alla
Terra) hanno luogo sulla Terra e nel cielo sovrastante. La seconda, al
contrario, "verticale", in quanto i fenomeni terrestri e celesti sono
radicati nel mondo "infero"96. Non si tratta di prospettive
incompatibili, come puntigliosamente dimostra lo studioso: nel caso di
Parmenide (come nel precedente di Stesicoro97) registreremmo un originale
tentativo di inquadrare il rapporto tra Luce-Sole-Notte entro una cornice
cosmica in cui si completano le due prospettive tradizionali98. Nella lettura
di Privitera, ciò avrebbe comportato concentrare strutturalmente il baricentro
del proemio sul percorso solare, trasferendo la Porta del Giorno e della Notte
dall'Ade sulla Terra: sarebbe in questo senso esclusa qualsiasi forma di
katabasis verso il regno dei morti. Eppure i versi esiodei, a dispetto delle
divergenze che pur ne caratterizzano le interpretazioni cosmologiche 99 , si
prestano a suggestioni diverse, proiettando decisamente verso il mondo infero
la ripresa proemiale di Parmenide. Dopo la narrazione della Titanomachia (665
ss.), della sconfitta dei Titani (713 ss.) e della loro segregazione in un
remoto luogo infero (720 ss.), Esiodo ci informa che sopra quella prigione,
nelle profondità sotterranee, si sviluppano le radici del mare e della terra
(729): come intendesse garantire sulla sicurezza della detenzione, il poeta
fornisce particolari sulle modalità di reclusione dei Titani (immobilizzati da
«lacci tremendi» 718), e sulla località di carcerazione («un'oscura regione,
all'estremo della terra prodigiosa», cintata tutta intorno e assicurata da
portali di bronzo, e guardiani infernali, 731-5). La descrizione del mondo
sotterraneo è dunque organicamente inserita nel contesto teogonico,
sottolineando la rassicurante distanza infera delle ostili forze titaniche: ἔνθα
δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος
96 Ivi, p. 449. 97 Ivi, p. 453. 98 Ibidem. 99 Si vedano, per esempio la
discussione specifica in Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III), ma anche le
annotazioni di Arrighetti (op. cit., pp. 151-2). 265 ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ
πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ. ἔνθα δὲ μαρμάρεαί τε
πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός, ἀστεμφὲς ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς, αὐτοφυής· πρόσθεν
δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων Τιτῆνες ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο. Là della terra
oscura e del Tartaro tenebroso, del mare infecondo e del cielo stellato, di
seguito, di tutti, sono le scaturigini e i confini, luoghi squallidi e oscuri,
che anche gli dèi hanno in odio. Là sono le porte splendenti e la bronzea
soglia, inconcussa, su radici infinite commessa, nata spontaneamente; davanti,
lontano da tutti gli dèi, i Titani hanno la loro dimora, di là dal caos
tenebroso100 (vv. 807-814). In questa sua intenzione, è possibile che Esiodo
effettivamente giustapponesse (come vogliono Privitera e Arrighetti)
prospettiva orizzontale e verticale, oscillando tra una dislocazione
occidentale e una sotterranea dell'«al di là», ma, come ha puntualmente
indicato nella sua analisi la Pellikaan-Engel101, va presa seriamente in
considerazione l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro cosmologico diverso
da quello (sostanzialmente emisferico) della tradizione omerica. La Terra vi
comparirebbe come un disco piatto (ancorché ondulato sulle due superfici),
immobile, circondato dalla solida, rotante sfera celeste, il cui emisfero
sovrastante sarebbe stato designato propriamente come «cielo»; quello
sottostante avrebbe invece costituito quella regione infera in cui proiettare
la minaccia titanica e localizzare il sistema di tutele contro la sua risorgenza.
In questo senso, allora, è possibile che, alla luce del ruolo e del corso
cosmico e mitico del Sole, Esiodo incrociasse, rispetto all'esperienza
terrestre, il tradizionale orientamento orizzontale (estovest, secondo la
direzione quotidiana dell'astro), con la prospet- 100 Teogonia, cit., p. 115.
101 Op. cit.. Si veda in particolare il capitolo II. 266 tiva verticale
rappresentata dalle opposte estremità, a ridosso della sfera celeste
avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro. Una certa confusione (stridente in
qualche dettaglio) si avrebbe semmai, secondo quanto rileva la
Pellikaan-Engel102, tra fenomeni (diurni e notturni) e loro personificazione
(Giorno e Notte). Così, nel quadro che possiamo ricostruire dai versi citati,
all'estremo limite occidentale della Terra, dove Atlante («il figlio di
Iapeto») sorregge la sfera celeste (per impedirle di gravare direttamente sulla
superficie terrestre e impedire il passaggio del Sole), si incontrano e danno
il cambio Giorno e Notte, i quali, alternativamente, discendono verso il mondo
infero per soggiornare nella «casa della Notte», e ascendere poi, quando giunge
il loro turno, verso il mondo terrestre (che quindi passa regolarmente dal
regime diurno a quello notturno). A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero
i versi del proemio: «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» avrebbero la
funzione di discriminare i due mondi, attraverso cui si succedono i passaggi
delle due divinità, consentendo l'accesso al mondo infero, in cui sarebbe
locata «la dimora della Notte» (δώματα Nυκτός). Ad accentuare tale prospettiva
"verticale" la possibile associazione tra tale sito e l'accesso
all'Ade, proprio come nella poesia esiodea: ἔνθα θεοῦ χθονίου πρόσθεν δόμοι ἠχήεντες
ἰφθίμου τ’ Ἀίδεω καὶ ἐπαινῆς Περσεφονείης ἑστᾶσιν Lì davanti del dio degli
inferi la casa sonora, del possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza
[...]103 (vv. 767-769a) Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta
struttura cosmologica che fa da sfondo al racconto parmenideo, le analogie con
il modello esiodeo potrebbero dunque autorizzare l'ipotesi che il superamento
della soglia sorvegliata da Dike apra al poeta non genericamente uno spazio
oltremondano, ma propriamente la 102 Ivi, p. 38. 103 Teogonia, cit., p. 113.
267 direzione dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizionalmente
privilegiato per le rivelazioni. Parmenide e la poesia: conclusioni provvisorie
È probabilmente questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli
altri elementi della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo
originale, materiali tradizionali, significativi nella comprensione dei
contemporanei. Questo non implica che egli abbia semplicemente puntato
all’effetto comunicativo, curandosi essenzialmente dell’impatto persuasivo
dell’immaginario così plasmato. Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e
ancora della Gemelli Marciano) circa il radicamento del pensatore all’interno
di un sistema di credenze e pratiche ereditate dai costumi e culti del suo
popolo, potremmo ipotizzare che l’intenzione di Parmenide fosse quella di
veicolare, nelle forme ispirate della tradizionale poesia epica, arricchite
dell’eco suggestiva (suoni, movimenti ecc.) di una straordinaria esperienza
sciamanica, un nuovo punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel
confronto con la cultura ionica e pitagorica, e la conseguente condotta di
vita. Una prospettiva interpretativa che, a partire dalla centralità
dell’elaborazione poetica, impone il problema di determinare il nesso tra gli
elementi di immediatezza ed emotività di quello sfondo culturale e
l'indiscutibile impianto logico del Περὶ φύσεως. Anticipando le conclusioni
delle successive analisi, è da rilevare come la difficoltà dell’interprete, nel
caso di Parmenide, risieda proprio nella determinazione della continuità tra
esperienze religiose, il cui retroterra emerge nell’espressione poetica, e
razionalità scientifica, che prende corpo nelle due sezioni del poema. Le
strade per lo più battute nella storia delle interpretazioni sono, in realtà,
quelle (maggioritarie) che scorporano i frammenti successivi dal proemio, quasi
si trattasse di corpo estraneo all’originale comunicazione parmenidea, ovvero
quelle (minorita- 268 rie) che unilateralmente insistono sull’evento rivelativo
(e sui suoi contorni), trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era
l’oggetto di analisi (anche dettagliata) nell’opera, come attestato dalla
titolazione tradizionale e, soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione.
È plausibile, al contrario, che il complesso del proemio prefiguri le tesi del
filosofo e che queste non siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano),
indistricabilmente connesso alle esperienze evocate. In questo senso, si può
condividere il suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza
comunicata nel poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante
l’accezione di filosofia poi affermatasi (secondo la lezione di Hadot104) nel
socratismo e soprattutto nella cultura ellenistica. In dissenso da Mourelatos,
per il quale, invece, gli imperativi della dea sono tutti rivolti a un’attività
di tipo cognitivo, non al bios o al prattein105 . D'altra parte,
contestualizzando la lettura del proemio, è prudente rigettare un approccio
meramente allegorico, rintracciandovi piuttosto l’espressione di un’esperienza
vissuta. Appare fondata l’osservazione di Leszl106, secondo cui
un'interpretazione allegorica - come quella fornita da Sesto Empirico - si
scontra con il fatto che la pratica dell’allegoresi era, al tempo (fine VI
secolo a.C.), solo agli inizi, con Teagene di Reggio (forse, come Parmenide,
legato all’ambiente pitagorica107. Possiamo supporre108, allora, che, nella
narrazione del viaggio del poeta Parmenide, siano confluiti elementi eterogenei
- il resoconto di una genuina esperienza visionaria, allusioni cosmologiche,
intenzioni didascaliche: il poeta avrebbe plasmato, nel modulo espressivo più
vicino alla sua formazione rapsodica, immagini e contenuti a un tempo adeguati
a manifestare le sue conquiste spirituali, ed efficaci per co- 104 P. Hadot,
Exercices spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris 20022 . 105
Op. cit., p. 45. 106 Op. cit., p. 144. 107 Allegoristi dell’età classica, Opere
e frammenti, a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2007, p. XII. 108 Come
fanno lo stesso Leszl, op. cit., p. 145, e Coxon, op. cit., p. 156. 269
involgere (emotivamente e intellettualmente) il pubblico destinatario
(plausibilmente un gruppo ristretto di discepoli109). Ciò comportava,
naturalmente, anche consapevoli opzioni simboliche, per le quali egli poteva
attingere all’immaginario dell’epica e, probabilmente, della stessa poesia
apocalittica: il poema appare in effetti concentrato sull’effetto (il mutamento
della prospettiva cognitiva e la correlata trasformazione dell’attitudine personale)
dell’impatto con la verità, della scoperta del reale assetto del tutto cosmico.
Il viaggio e la sua esperienza L’esplicita indicazione di Sesto Empirico ci
attesta – come abbiamo riscontrato introduttivamente - la tradizione integrale
dell’incipit del poema in quello che è classificato, nella edizione
Diels-Kranz, come frammento B1: il privilegio di disporre dell’esordio nella
sua originale interezza offre l’opportunità di valutarne costruzione, impronta
e ufficio all’interno dell’impresa complessiva di Parmenide. Comunque se ne
interpreti il messaggio, è chiaro come il poeta intenda marcare l’eccezionalità
dell'esperienza cantata, che – abbiamo sottolineato - non appare mera, scontata
formula di indirizzo, sebbene, prendendo in considerazione i contenuti
dell’opera conservati nei frammenti successivi, l’aura del mito possa
superficialmente risultare stridente con gli incoraggiamenti alla ponderazione
razionale (B7 e B8) e con le fatiche argomentative di B8. Come abbiamo già
rilevato, è plausibile, infatti, che il preambolo proponesse quella veste
proprio in funzione di quei contenuti e degli obiettivi educativi che il
filosofo-poeta si prefiggeva. 109 Questa è l'impressione della Gemelli Marciano
(M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques:
adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce
que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses
Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. Il
riferimento alle pp. 89-90. 270 Nel segno dell’eccezione Nonostante i
particolari sfumati della rappresentazione d’insieme - dettagliata in alcuni
passaggi (descrizione del carro e della apertura della porta) e molto
indeterminata in altri (tragitto oltre la porta)110 - abbiano dato adito a vari
tentativi di contestualizzazione del viaggio, il suo carattere straordinario è
segnalato da due momenti ben evidenziati nei versi parmenidei: (i) l’intervento
delle Eliadi (Ἡλιάδες κοῦραι) presso Dike, austera (πολύποινος, «che molto punisce»)
guardiana del portale, per persuaderla a consentire il passaggio del carro che
conduce il poeta: le fanciulle devono placarla «con parole compiacenti» (μαλακοῖσι
λόγοισιν) e «sapientemente» (ἐπιφράδεως) convincerla a concedere una
possibilità evidentemente non garantita ad altri mortali; (ii) la formula di
accoglienza della Dea, la quale rileva che: (a) non è stata «Moira infausta»
(Μοῖρα κακὴ, destino infausto) a spingere il giovane (κοῦρος) al suo cospetto;
(b) la via (ὁδός) per cui è stato guidato è «lontana dal percorso degli uomini»
(ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου). Incrociando i rilievi, si evince che l’esperienza
di cui è protagonista il poeta eccede i limiti dell’umano e che ciò accade
secondo un disegno cui concorrono le aspirazioni (θυμός) del filosofo (v. 1): ἵπποι
ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il
[mio] desiderio potrebbe giungere, e il decisivo ausilio divino (vv. 8b-9a): ὅτε
σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι mentre si affrettavano a scortar[mi] le
fanciulle Eliadi. 110 Leszl, op. cit., p. 141. 271 L’eccezione coinvolge in
particolare due aspetti. Il poeta ha chiaramente l’opportunità: (i) di
spingersi oltre i confini stabiliti per le ambizioni mortali, e, in tal modo,
(ii) di accedere non semplicemente alla rivelazione della verità, ma più
esattamente a una lezione articolata, che lo informerà circa (a) la natura
della realtà (vv. 28b-29): χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς
ἦτορ Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore
fermo, (b) la natura del comune fraintendimento (v. 30): ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità, (c) fornendo soprattutto (pensando alla struttura del poema), alla
luce di quegli errori, gli strumenti corretti di comprensione del mondo della
nostra esperienza (vv. 31-2): ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν
δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche questo imparerai: come le
cose accolte nelle opinioni era necessario fossero realmente, tutte insieme
davvero esistenti. A sancire tale eccezione registriamo, insomma, un triplice
avallo divino: (i) la scorta delle Eliadi, che si muovono a sostenere e
realizzare lo sforzo del poeta\filosofo; (ii) la condiscendenza di Dike, che
veglia sulle infrazioni ed è garante dei limiti; 272 (iii) la comunicazione
della θεά senza nome - che può offrire la chiave per giungere alla Verità -
meta del viaggio cui viene finalizzata l’aspirazione del poeta\filosofo. Il
quadro è, nell’insieme, una modulazione di quello arcaico tradizionale: sotto
protezione divina al poeta è permesso accostarsi a una condizione sovrumana111,
che descriveremmo in termini di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In
altre parole, il privilegio della conoscenza superiore costituisce una sorta di
trascendimento dello status mortale: nel rispetto, tuttavia, dell’indiscutibile
primato del divino. Come anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni
al testo del frammento, le indicazioni del proemio sembrano dislocare tale
trascendimento nel mondo infero. In tal senso si può interpretare il
riferimento della dea a «Moira infausta» (ovvero «destino infausto») e,
soprattutto, alludendo a δώματα Nυκτός, all’abisso del Tartaro descritto meticolosamente
da Esiodo (Teogonia 736- 745)112, con la prossimità della «dimora della Notte»
(scortata nel suo corso da Sonno e Morte) alla «porta del possente Ade e della
terribile Persefoneia» (vv. 758-778). In analoga direzione concorrono vari
elementi esteriori (rilievi archeologici113, dati storici114), cui abbiamo
sopra accennato, che confermano, nel caso di Parmenide e di Elea, la probabile
relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la θεά,
innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio nel regno dei
morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze sciamaniche,
già in Omero (Odissea XI) risultava cruciale per la conoscenza della verità. La
stessa figura di Δίκη πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος ricorre solo in un
altro testo, un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in cui Dike affianca
111 Leszl, op. cit., p. 167. 112 Cerri, op. cit., p. 173. 113 Kingsley conferma
che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che accoglie nell’Ade Eracle
e Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio come la dea innominata fa con
il kouros del proemio. Op. cit., pp. 93-100. 114 Elea era centro di un culto
dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p. 108). 273 Zeus nell’atto di
relegare i Titani nel Tartaro115 - troverebbe in tale scenario la propria
naturale collocazione: nell’Ade i morti subiscono il giudizio divino e
ricevono, conseguentemente, la punizione delle colpe commesse in vita. La
plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta avrebbe, tuttavia,
anche un secondo e non meno rilevante risvolto nella prospettiva del poema. Il
percorso indicato, infatti, richiama la visione mitica del cosmo espressa in
Esiodo e Omero, in cui i confini del mondo coincidono con quelli della terra
(la cui superficie è piatta), sui cui limiti estremi poggia il cielo-cupola116:
in questo senso, nel caso dell’Odissea, la katabasis non è intesa tanto come
discesa sotto la superficie della terra, piuttosto come raggiungimento di un
luogo oltre i limiti della superficie terrestre117 . La nozione del limite (e
del suo superamento) è poi significativamente evocata dal vettore e dalla
scorta, che richiamano l’immagine del carro del Sole e il mito di Fetonte118 .
In effetti, la conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il Sole appunto) e il
tragitto verso «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ
Ἤματός κελεύθων, v. 11), che complessivamente tracciano i contorni celesti, se
da un lato sembrano insistere sul punto di vista privilegiato garantito al
poeta, dall’altro, indirettamente, attraverso l’implicita rievocazione di
Fetonte (fratello delle Eliadi, la cui imperizia nel condurre il carro,
sottratto di nascosto al padre Sole, richiese l’intervento riparatore di Zeus),
suggeriscono anche l’idea della regolarità e della misura cosmica, rafforzata
dalla presenza severa di Dike. Come in Esiodo e in altri pensatori arcaici
(Anassimandro e il contemporaneo Eraclito), la processualità della natura –
l’alternanza di notte e giorno ai confini del cosmo - si svolge in conformità
con le prescrizioni della giustizia119. Al poeta è dunque attribuito – garante
Dike – il favore 115 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 116 Leszl, op. cit., p. 149.
117 Ivi, p. 144. 118 Benché in genere l’accostamento non sia sfuggito ai
commentatori, mi pare particolarmente felice la lettura che ne propone Leszl
(p. 147). 119 Ibidem. 274 di seguire il corso del Sole, abbracciando così nel
tragitto mitico l’intera realtà cosmica e accedendo ai misteri dell’oltremondo.
Al di là dell'esperienza quotidiana L’eccezionalità dell'esperienza del poeta,
sottolineata nel suo indirizzo dalla θεά, non sarebbe allora riducibile
semplicemente a una discesa (κατάβασις) agli inferi, ovvero a una ascesa (ἀνάβασις)
celeste: quanto risulta marcato nei versi del proemio è la distanza della via
seguita nel corso del viaggio «dal percorso degli uomini» (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου ἐστίν, v. 27). La porta del Sole, identificata con la Porta dell’Ade
(Iliade VIII, 13- 16; Odissea XXIV, 11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757;
811-814), è, in effetti, miticamente situata nell’occidente estremo,
lontanissima quindi dalle regioni abitate: poggia sulla superficie terrestre,
al di sotto della quale si radica nel profondo, mentre i suoi pilastri si
elevano tanto da toccare il cielo. Oltre essa l’abisso, il mondo dei morti, il
regno di Ade e Persefone120. Come ricorda Cerri, si tratta di una «porta
cosmica», sia in quanto discrimina il percorso del sole e quindi giorno e
notte, sia in quanto separa il mondo dei vivi e quello dei morti121 . Ciò che,
in realtà, viene sottolineato nel resoconto parmenideo non è l’allontanamento
dalla terra per pervenire alla porta del cielo, superare i confini del mondo e
incontrare, nell’etere celeste, la dea rivelatrice (Mansfeld), né propriamente
il viaggio nell’oltretomba (Burkert) ovvero verso il centro del cosmo
(Pellikaan-Engel). Il poeta, scortato dalle Eliadi sul carro solare, perviene
presso e oltrepassa la «porta cosmica», raggiungendo, dunque, il punto
privilegiato che è accesso, a un tempo, all’Ade e al cielo (con la duplice
valenza, quindi, di rivelazione e illuminazione). In ogni caso, la tradizionale
oscurità dell’Ade appare, per la meta del viaggio, più giustificata nel
contesto rispetto alla luce 120 Cerri, op. cit., p. 98. 121 Ivi, p. 99. 275
celeste122: sono le Eliadi a doversi portare «verso la luce», muovendo dalla
«dimora della Notte» (dove hanno soggiornato durante la pausa notturna: il loro
viaggio comincia, dunque, presumibilmente all’alba), a cui ritornano, con la
compagnia del poeta, percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare
(cioè al tramonto, quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria dimora per
dar cambio a Giorno). In questo senso, pur ribadendo la convinzione che a
Parmenide prema soprattutto evidenziare l’oltrepassammento dell'esperienza
quotidiana e la distanza dell’accesso alla Verità rispetto all’ordinario spazio
delle relazioni umane, la katabasis certamente offre al poeta un paradigma
influente. Al nodo della “direzione” del viaggio è poi legato quello dei suoi
tempi. Il poema si apre con il presente: ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς
ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere
(v. 1), quasi a marcare un’abitudine123 ovvero, all’interno della narrazione,
un elemento di sfondo, indipendente dallo sviluppo del racconto, come i
successivi rilievi (sempre riferiti al presente) sulla «strada […] della
divinità»: ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα che porta † ... † l’uomo sapiente
(v. 3), sulla struttura della “porta cosmica” e sul ruolo di Dike: ἔνθα πύλαι
Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός·
αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Díkh πολύποινος ἔχει κληῖδας
ἀμοιϐούς. Là sono i battenti dei sentieri di Notte e Giorno: architrave e
soglia di pietra li incornicia; 122 Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A.
Privitera, op. cit.. 123 Guthrie, op. cit., p. 7. 276 essi, alti nell’aria,
sono agganciati a grande telaio. Dike, che molto castiga, ne detiene le chiavi
dall’uso alterno (vv. 11-14). Nel primo caso sarebbe accentuato il tratto
sciamanico della figura del poeta, avvezzo a straordinarie escursioni; nel
secondo valorizzata, invece, la sua disposizione al sapere, la sua aspirazione
(θυμός, desiderio) alla verità124, condizione dell'esperienza di conoscenza
annunciata nel poema quanto la successiva rivelazione della Dea. In ogni caso,
l’uso del presente comporta che le «cavalle», soggetto della relativa, abbiano
una relazione non episodica con il poeta-narratore e dunque siano irriducibili
a mero vettore in una esperienza eccezionale, che continuino, cioè, a operare
nella contemporaneità, siano parte di un’esperienza di verità che possa
ripetersi (a cui altri, al limite, possano essere avviati125). Nel senso
allegorico proposto da Coxon126, il poeta è ancora sul carro, con un viaggio
ancora davanti a sé, con le cavalle che continuano a essere le sue forze
motrici: il viaggio diverrebbe allora figura del conseguimento metodico della
filosofia, secondo la lezione ricevuta; le cavalle figura della forza (θυμός)
che lo spinge a filosofare. Nel passaggio al secondo verso, al contrario,
appare chiara l’intenzione di Parmenide di raccontare, nelle sue sequenze, la
vicenda che lo ha visto privilegiato discepolo della Dea: πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν
βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος, ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα· 124 Martina
Stemich, nella sua ricerca su Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des Weisen,
Grüner, Amsterdam 1996, pp. 41 ss.), rintraccia una precondizione filosofica
analoga nel frammento DK 22 B18: «Se uno non spera, non potrà trovare
l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio». 125 In questo
senso ingressivo la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit.,
pp. 39-40) interpreta l’intera esperienza del proemio: sebbene il percorso
verso la Dea sia già stato compiuto, esso – in quanto motivo connesso a una
trasformazione comprensibile solo come sviluppo sistematico – diventerebbe
emblematico della graduale approssimazione alla conoscenza ricercata dal
filosofo. 126 Coxon, op. cit., p. 14. 277 τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι
φέρον ἵπποι ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον [Le cavalle] mi
guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato sulla via ricca di canti
della divinità che porta † ... † l’uomo sapiente. Su questa via ero portato,
perché su questa via mi portavano molto avvedute cavalle, trainando il carro:
fanciulle mostravano la via (vv. 2- 5). L’uso dei tempi verbali impone sia la
prospettiva dello sviluppo e della continuità dell’azione nel passato
(imperfetto, che, comunque, qualcuno127 interpreta come “imperfetto storico”
traducendolo con il presente), sia quella delle sue successive e puntuali
sequenze compiute (aoristo), rafforzata, nel verso 2, anche dal ricorso alla
congiunzione ἐπεί («dopo che»). L’intero proemio è costruito intorno a questo
ordito temporale che, se valorizziamo l’opposizione presente-passato, potrebbe
alludere – come intendono Mansfeld128 e Ferrari129 - al presente della
condizione sapienziale del poeta, conseguita grazie alla rivelazione della Dea
e dunque giustificata dalla narrazione, dal passato. Nel presente della
performance recitativa il poeta evoca l’avventura della conoscenza che lo ha
visto fortunato protagonista al cospetto della divinità, del cui dono si
propone di far partecipi gli altri mortali: il sapiente, l’uomo che sa (εἰδὼς
φώς), è tale per essere stato guidato, condotto lungo la «via della divinità»
(il genitivo δαίμονος ha valore soggettivo e oggettivo a un tempo: «della
divinità» perché a essa appartiene ovvero a essa conduce); il canto poetico
documenta quel privilegio. Questa prospettiva temporale, che collegherebbe al
presente dei versi 1 e 3 una condizione di conoscenza giustificata dall'e- 127
Conche, op. cit., p. 44.. 128 J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und
die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 228-229. 129 F. Ferrari, La
fonte del cipresso bianco…, cit., cap. VIII "Il ritorno del
«kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo
dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il ritorno". 278
sperienza (εἰδώς implica etimologicamente l’esperienza visiva) narrata in
quelli successivi 130, può essere messa in discussione partendo dall’uso che,
dell'espressione εἰδὼς φώς, si sarebbe fatto, nella ritualità misterica, per
indicare l’«iniziato» (analogamente, come sappiamo, potrebbe intendersi anche
il ricorso a κοῦρος al v. 24), e che potrebbe dunque designare una minoranza
predisposta, per intelligenza e tirocinio, alla scoperta della verità131. Il
termine εἰδώς si potrebbe allora riferire alla conoscenza pregressa di
Parmenide: in relazione all’obiettivo da raggiungere, ciò garantirebbe un senso
anche a θυμός (v. 1), allo slancio dell’animo del poeta verso il contatto con
la verità. Nulla vieta, tuttavia, di mantenere distinte le qualità necessarie
per accedere alla verità – che il poeta\sapiente avrebbe evocato con il
paradigma iniziatico dell’εἰδὼς φώς – dalla piena cognizione di essa,
disponibile – all’interno del tradizionale modello oppositivo tra conoscenza
umana e conoscenza divina – in virtù dell’eccezionale prerogativa di una
rivelazione divina. In tal caso la condizione che consente al poeta di
annunciare la verità (presente) è conseguita grazie alla comunicazione divina
(passato), in cui si realizza comunque la sua originaria aspirazione.
Accentuando (arbitrariamente) la significazione e composizione simbolica nel
racconto, si potrebbero identificare due movimenti – quello del poeta sul carro
tirato dalle cavalle e quello delle Eliadi che intervengono a scortarlo presso
le divinità – come rievocazione della tensione religiosa del κοῦρος verso
l’esperienza della rivelazione ovvero figurazione della ricerca di un accesso
alla piena conoscenza della realtà. Ancora sul nodo delle divinità Abbiamo già
avuto modo di portare l’attenzione – nell’economia complessiva del frammento B1
e nello specifico 130 Si tratta appunto della proposta di Mansfeld, op. cit.,
pp. 226-7. 131 Cerri, op. cit., pp. 169-170. 279 rilievo dell'eccezionalità
dell'esperienza celebratavi – sul ruolo delle figure divine proposte nel
proemio: (i) l’incarico di direzione, guida e tutela delle Eliadi; (ii) la
funzione di garanzia e sanzione di Dike; (iii) l’ufficio rivelativo della θεά anonima,
rispetto a cui, globalmente, nella vicenda cantata, gli altri due risultano
subordinati. In un contesto già popolato da molte altre potenziali132 entità
divine (Notte, Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro rilievo non può essere
meramente narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza che il poeta intendeva
comunicare, doveva probabilmente celare anche una valenza simbolica.
Riprendiamo brevemente la questione. Dike deve essere persuasa dalle Eliadi ad
accondiscendere all’eccezione, proprio per consentire la rivelazione: la dea è
evocata in una mansione che il pensiero arcaico le riconosce, come «ipostasi
mitica della legge della physis» 133, che vincola elementi e fenomeni
nell’equilibrio del tutto. È significativo che anche in Eraclito essa si esplichi
in relazione al movimento solare e in genere alla regolare alternanza di giorno
e notte (che tanto rilievo cosmologico hanno nel proemio): Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται
μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν le Erinni che
troveranno Helios, qualora egli oltrepassi le sue misure, sono ministre di Dike
(DK 22 B94). Incrociando nell’universo mitico la sua figura con quella delle
Eliadi (divinità solari dell'illuminazione)134, Parmenide si rifaceva al mito
di Fetonte, che esse, in una variante della storia (ripresa in una perduta
tragedia eschilea – le Eliadi appunto -, alla cui rappresentazione a Siracusa
Parmenide potrebbe aver presenziato135) aiutarono nell’impresa di guidare il
carro del Sole. Alla luce di 132 Se se ne accetta la personificazione,
giustificata dall’insieme dell’indirizzo e del tono religioso del poema. 133
Cerri, op. cit., pp. 104-5. 134 Come ricorda Cerri, op. cit., p. 173. 135
Capizzi, op. cit, p. 52. 280 questa circostanza, che i versi dell’esordio
poetico possono richiamare, Parmenide si proporrebbe come una sorta di nuovo
Fetonte, sebbene, nel suo caso, come ricorda la Dea, il viaggio proceda (vv.
26-8) sotto buoni auspici136: di questo le Eliadi devono convincere Dike,
perché autorizzi il passaggio lungo la traiettoria solare. Se accettiamo questo
accostamento, la divinità allusa nei vv. 2-3 potrebbe essere proprio il Sole:
il carro su cui viaggia il poeta potrebbe essere allora il suo, così come la
via quella che il Sole percorre, e che conduce ai confini del mondo. Ma l’associazione
tra Eliadi e Dike è evocatrice anche in un’altra direzione: abbiamo ricordato
come, nella cosmologia mitica esiodea ricostruita puntualmente dalla
Pellikaan-Engel, la «dimora della Notte» sia collocata nelle profondità del
Tartaro (il mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade (il mondo dei
morti), in una regione in cui hanno le loro radici la terra, il mare, il cielo,
abisso senza fine (caos), luogo terrificante anche per gli dei137. In tale
dimora soggiornano alternativamente Notte e Giorno: da essa muovono e a essa
conducono le Eliadi. Esse, uscite dalla porta cosmica del Giorno e della Notte
(su questo punto in Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero essere due,
collocate alle estremità orientali e occidentali), prelevano Parmenide (all’alba:
si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa porta, alta tra la terra e
il cielo, seguendo verso occidente il percorso del Sole. Al di là c’è il mondo
infero: il suo vestibolo è a livello della superficie terrestre (descrizione
omerica), ma immediatamente dopo si spalanca il baratro immenso. Parmenide ha
il privilegio (come iniziato, εἰδὼς φώς) di varcarne, ancora vivo, la soglia,
per attingere la conoscenza: Dike è al suo posto, nella misura in cui deve
giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il poeta viaggiatore in qualità di
patrocinatrici (impiegano parole suasive per ammansire la inflessibile
sorvegliante dei confini)138 . Gli elementi che abbiamo riassunto suggeriscono
che l’eccezionalità dell’impresa cantata coincida con il massimo pri- 136
Leszl, op. cit., p. 146. 137 Ivi, p. 147. 138 Cerri, op. cit., pp. 106-7. 281
vilegio previsto per un mortale nell’universo mitico: come Odisseo e Orfeo, al
poeta è concesso di accedere (anche se non forse propriamente “discendere”)
all’Ade, per incontrare la divinità che vi è regina, Persefone. In questo
senso, probabilmente, Parmenide insiste inizialmente sull’uso del presente
contrastato da quello del passato: per marcare lo straordinario esito della sua
esperienza, la cui specifica difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce,
tra i vivi, al presente della condizione umana. Prima di concludere su questo
punto, è ancora necessario chiarire un aspetto. Abbiamo continuato a
interpretare il proemio in un senso prossimo alla sua lettera, come si trattasse
del resoconto di un viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando,
quindi, le letture allegoriche secondo il prototipo proposto dallo stesso Sesto
Empirico. Questo non comporta trascurare il valore simbolico delle scelte
espressive di Parmenide, evitare di attendere alle implicazioni che certe
immagini o situazioni concrete dovevano già avere assunto nella attività
poetica all’epoca di Parmenide: la pratica allegorica stava compiendo solo i
primi passi, ma è possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura
pitagorica cui si dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la formazione di
Parmenide. Il contemporaneo Pindaro, per esempio, nella Olimpica VI, faceva
ricorso al motivo del viaggio con intento manifestamente metaforico, sebbene l’accostamento
a Parmenide risulti difficile (il viaggio di costui appare ben più complesso).
In ogni caso, è forse la natura stessa dell’eccezione evocata a rendere
plausibile un’intenzione simbolica del proemio: l'esperienza liminare (un
viaggio oltre i confini del mondo) compiuta dall'anima del poeta
(spiritualmente), prefigurava, nell'insegnamento della Dea, una vicenda
conoscitiva di cui altri avrebbero potuto fruire. Così, sfruttando al massimo
l’incidenza dei dettagli concreti della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con
la propria "odissea", delineato un modello per le avventure
dell’anima nel grande mito del Fedro platonico140 . 139 Coxon, op. cit., p. 14.
140 Su questo punto ampia è la convergenza degli interpreti. 282 La sequenza
del racconto e il progressivo (non casuale) coinvolgimento di quelle divinità
fanno comunque apparire poco convincenti le letture che marcano nel proemio la
mera figurazione allegorica di opzioni gnoseologiche o la semplice
legittimazione, in chiave di illuminazione superiore, di una proposta
filosofica. L’autore, invece, proprio attraverso la narrazione in prima persona
del viaggio, ha la possibilità di coinvolgere il suo pubblico in un'esperienza
di trasformazione radicale della persona, che richiede l’identificazione con il
protagonista (donde l’adozione della prospettiva del viaggiatore)141. È la
futura condotta di vita il vero obiettivo delle istruzioni della dea: il
viaggio, in tal senso, sarebbe rappresentazione di una forma di κάθαρσις142. Lo
sciamanesimo di Parmenide potrebbe leggersi in questa prospettiva: non
traduzione poetica di una trance onirica (incubazione), ma assunzione della
pervasività emotivo-esistenziale (forse direttamente esperita) di quella prova
al servizio di uno sforzo di profondo riorientamento – teorico e pratico –
nella realtà quotidiana. Alla concretezza di un fenomeno culturale (la pratica
sciamanica), forse radicato nell’ambiente eleatico143, Parmenide associa un
percorso di conoscenza, proposto esemplarmente ai propri uditori, in cui la
dimensione di estraneazione dalle distorsioni della quotidianità è funzionale a
un processo di trasformazione spirituale e a una prassi di vita. Il corso delle
Eliadi ai limiti del mondo, la sanzione di Dike e la verità di Persefone
scandiscono evidentemente una ricerca destinata a modificare l’intera
personalità: in un contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di
iniziazioni e incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini
simbolici, all'efficacia coinvolgente (da cui l’attenzione per alcuni 141 La
Robbiano (pp. 65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto, individuando due
elementi che, da un lato, favoriscono l’identificazione tra pubblico e
viaggiatore, dall’altro contribuiscono alla costruzione di una nuova attitudine
mentale: (i) la focalizzazione e l’invenzione della autobiografia: le strategie
dell’Io; (ii) il ritratto e le strategie del tu. 142 Coxon (op. cit., pp. 15-6)
parla di katharsis pitagorica. 143 Come confermerebbero i rilievi di Kingsley e
le osservazioni della Gemelli Marciano. 283 dettagli riconducibili, secondo
Kingsley, all'esperienza dello sciamano) di una forma di ascesi
estatico-religiosa. La rivelazione e il suo programma Con il concorso delle
Eliadi e la condiscendenza di Dike (guadagnata proprio grazie all’intervento
persuasivo delle figlie del Sole), il poeta – superata la porta cosmica in cui
si incontrano i sentieri di Giorno e Notte – giunge infine presso la Dea: che
ella rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23 versi, è chiaro
nelle parole con cui la stessa θεά accoglie e rincuora («rallegrati!»)
l’attonito visitatore. Esse rivelano come viaggio e accompagnamento non siano
né casuali, né naturali, ma risultato di un disegno: ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ
προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ
Qémij τε Díkh τε Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere questa
via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini), ma Temi e Dike
(vv. 26-28). Non è stata la morte, un disgraziato destino, a condurre il poeta
al cospetto della dea infera, per una via ben lungi dai sentieri comunemente
battuti: la rassicurazione divina sottintende che quella distanza dai mortali
sia da considerare un privilegio e non un accidente, e che lo straordinario
incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del protagonista (che è
stato piuttosto spinto da Moira) quanto all’eccezionalità della scorta. La
«via» (ὁδός) che gli consente di raggiungere la residenza divina (ἡμέτερον δῶ
«la nostra casa») – probabilmente la stessa ὁδὸς πολύφημος δαίμονος («via ricca
di canti della divinità» vv. 2- 3), lungo la quale le cavalle conducevano il
poeta all’esordio: in 284 ogni caso una strada principale, come chiarisce
l'indicazione κατ΄ ἀμαξιτὸν («lungo la via maestra») – è percorsa sotto l’egida
della giustizia, in compagnia di «immortali guide » (ἀθανάτοισι ἡνιόχοισιν). Le
scelte espressive di Parmenide – il vocativo κοῦρε («giovane») e il nominativo
in funzione vocativa συνάορος («compagno») – apparentemente descrittive della
condizione giovanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in
realtà, alla sua dedizione religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque
legittimarne il privilegio. Imparare tutto L’eccezionalità della situazione si
riflette anche nella completa disponibilità della Dea, nella sua accoglienza e
nell’informazione successiva: rilevando didascalicamente - secondo il
tradizionale paradigma144 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina -
l’opportunità per il «giovane» di «tutto apprendere» (πάντα πυθέσθαι), ella
propone un programma articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco
(vv. 29-30) dalle congiunzioni ἠμέν …. ἠδὲ («sia … sia»), in conclusione
ulteriormente precisati (v. 31) – ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης
(congiunzione avversativa + avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure»
«anche così». L’interpretazione di questo passaggio è molto controversa, ma
anche decisiva, dal momento che all'articolazione programmatica presumibilmente
corrisponde poi la struttura del poema (cioè la successiva esplicitazione dei
contenuti della rivelazione), e dunque dall'interpretazione di quella dipende
la comprensione di questo. Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato
su tutto: ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ 144 Secondo Cerri (p. 182) la
fraseologia dell’incontro tra il poeta e la dea riprende tipicamente quella
delle scene di incontro tra dei e mortali in Omero. 285 ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali
le opinioni, in cui non è reale credibilità (vv. 29-30). Si tratta
dell’opposizione fondamentale, che genera tutti i contenuti del poema: il
nucleo essenziale (ἦτορ, «cuore») di Verità (Ἀληθείη), di ogni verità (εὐκυκλέος,
«ben rotonda»), la sua necessità immanente (ἀτρεμὲς ἦτορ, letteralmente «cuore
che non trema»); le incerte «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), che non sono
veramente credibili: esse risultano, letteralmente, inaffidabili, in esse non
risiede πίστις ἀληθής («reale fiducia»). La qualificazione umana delle doxai
giustifica la loro debolezza, assumendo per scontato che la proposta della
Verità sia divina. Il modello è ancora quello di Teogonia vv. 27-28: ἴδμεν
ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι
sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando
vogliamo, il vero cantare, sebbene in Parmenide l'opposizione tra proferire
menzogne (ψεύδεα λέγειν), cioè contraffazioni del genuino stato delle cose, ed
esprimere le cose reali (ἀληθέα γηρύσασθαι) sia rimodulata nella tensione tra
la salda stabilità nella relazione con la realtà («di Verità il cuore fermo»)
illustrata dalla Dea, da un lato, e l'incredibilità dei punti di vista mortali,
dall'altro. Nel poema non vi è propriamente traccia dell'esplicita e secca
contrapposizione verofalso: così l’oscillazione esiodea tra «cose false»
(ψεύδεα) e «cose vere» (ἀληθέα) diventa nel contesto parmenideo opposizione
determinata oggettivamente da una norma (esplicitata in B2). La divinità di
Parmenide è meno volubile delle Muse esiodee: la sua rivelazione è vincolata
alla manifestazione della realtà (Verità) e, conseguentemente, alla denuncia
dell'origine degli sviamenti umani nelle molteplici opinioni. In questo senso,
allora, possiamo leggere la conclusione del programma: 286 ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα
μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure
anche queste cose imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario
fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (vv. 31-32).
Nell’impegno a tutto insegnare, la Dea non si limita – attraverso
l'illustrazione della norma di verità – a denunciare l’inattendibilità delle
convinzioni umane (come vedremo, rintracciandone la distorsione genetica), ma
intende proporre una ricostruzione affidabile (δοκίμως) della totalità degli
enti che quelle opinioni travisavano. Il ricorso a δοκίμως suggerisce, nel
contesto, l'intenzione della Dea di riconsiderare comunque il materiale delle
inverosimili δόξαι βροτῶν, così da fornirne un quadro attendibile (credibile
alla luce della verità). Possiamo dunque articolare il programma della Dea in
tre momenti145: (i) l’esplicitazione della norma immanente (le «vie di ricerca
per pensare»), dell'intima necessità della verità (B2, B6), con la conseguente
manifestazione della struttura essenziale della realtà (B8); (ii) la denuncia
dell’errore di base delle opinioni dei mortali (B6, B7); (iii) la
riformulazione dei contenuti di quelle opinioni (quindi del mondo della
esperienza umana) conformemente a quella norma (B9 ss.). Tale scansione ha
dunque risconto nella struttura del poema: (a) una prima sezione (primo logos),
indicata convenzionalmente come “Verità” (Ἀλήθεια) dalla formula: πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς ἀληθείης («discorso affidabile e pensiero intorno alla verità»
B8.50-51), in cui, in successione e strettamente connessi, sono affrontati i
momenti (i) e (ii): i principi del corretto ricercare e le origini dell'errore
dei «mortali»; 145 Ruggiu, op. cit., p. 196. 287 (b) una seconda sezione (secondo
logos, considerevolmente più consistente), convenzionalmente nota come
“Opinione” (Δόξα) e nel poema denotata per i suoi contenuti: δόξας βροτείας
(«opinioni mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del programma,
naturalmente più composito (riferendosi al complesso dell'esperienza). Variante
di questa prospettiva di lettura è quella di Coxon146 , secondo cui, invece,
Parmenide, in conclusione di B1, rievocherebbe le posizione espresse da
Senofane e Alcmeone nei passi sopra citati: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν
οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ
μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι
τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente
intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli
capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo
saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B 34). Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης
τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς
Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte
e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la
certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi147 (DK
24 B1). 146 Op. cit., p. 169. 147 Dal passo iniziale del frammento vero e
proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di
espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose
invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début…", cit., p. 19).
288 Sarebbe dunque ribadita la contrapposizione omerica tra incerte convinzioni
umane (elaborate inferenzialmente nel caso di Alcmeone) e conoscenza divina:
Parmenide si limiterebbe semplicemente a riformularla nel senso di un contrasto
tra forme cognitive: una affidabile perché in grado di manifestare il reale,
l’altra opinabile e convenzionale, espressione di meri punti di vista. Solo
riconoscendo l’insufficienza dell'esperienza ordinaria, gli uomini hanno la
possibilità della certezza: ciò che Parmenide avrebbe tentato nella seconda
parte del poema è appunto una ridefinizione del campo delle doxai in termini
non contraddittori. Questa interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga
tradizione che attribuisce valore diverso alle parole della Dea, per lo più
assimilando i punti (ii) e (iii): alla saldezza (razionale) della verità (i),
Parmenide contrapporrebbe l’incertezza (empirica) dell’opinare umano (ii), di
cui offrirebbe comunque, a scopo esemplificativo e\o critico, esposizione (o
ricostruzione) coerente (iii). Leszl 148 ritiene, in effetti, che la
distinzione verità-opinioni, che chiude la comunicazione della dea nel proemio,
corrisponda alla distinzione, enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e
falsità: in entrambi i casi le divinità si rivelano in dominio completo
dell’ambito del vero e di quello dell’ingannevole (da Esiodo considerato tale
perché simile al vero), sebbene, a differenza delle Muse che si limitano a
esporre il vero, la dea di Parmenide espone anche ciò che non è vero,
nell’intento di coprire «tutto», di offrire un sapere globale che non
ritroviamo in Esiodo. Lo stesso parallelismo con l’inno alle Muse della
Teogonia è sfruttato da Mansfeld149, il quale riscontra, nel doppio resoconto
prospettato dalla Dea, l’analoga pretesa delle Muse di dire verità e menzogne:
in questo modo, evidentemente, tutto quanto si riferisce all’ambito della doxa
è stigmatizzato come ingannevole, con il risultato paradossale di ridurre
proprio la sezione cosmogonica e teogonica, più vicina al modello divinamente
ispirato del poema 148 Op. cit., pp. 153-4. 149 Op. cit., p. 33. 289 esiodeo, a
occasione per repertare gli errori dei mortali (sottolineando come τὰ δοκοῦντα
dovrebbero essere ma non sono150). Non è da escludere, invece, che proprio il
secondo logos rappresentasse il nucleo centrale e originario del progetto di
Parmenide, quello in continuità con la riflessione arcaica περὶ φύσεως (donde
la titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa riprodurrebbe anche
la logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα, delle «cose accettate nelle opinioni», a
principi, «forme» (μορφαί) nel lessico parmenideo (B8.53); ma che l’elemento di
originalità (da cui l’attenzione tra gli antichi e la conservazione nelle
testimonianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche contenute nel primo
logos, che forniscono la cornice e le condizioni di una coerente enciclopedia
del mondo naturale, denunciando a un tempo le debolezze delle ricostruzioni
alternative151 . 150 Ivi, p. 210. 151 Il dibattito sulla natura della doxa
parmenidea è sterminato: a parte il vecchio aggiornamento di G. Reale a E.
Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I,
Volume III: Eleati, cit., la questione è stata sistematicamente ripresa nello
specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on
Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997. Molto
utili J. Frere, "Parménide et l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II Problèmes
d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 192-212; R. Brague, "La
vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)", ivi, pp. 44-68; A.
Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited
by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 45-64; H. Granger,
"The Cosmology of Mortals", ivi, pp. 101-116; P. Curd, The Legacy of Parmenides.
Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press,
Princeton 1998, cap. III: "Doxa and Deception"; le pagine di D.W.
Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy,
Princeton U.P., Princeton 2006 dedicate all'argomento (pp. 169-184). 290
Opinioni: credibili e non Secondo uno dei più accreditati studiosi ed editori
contemporanei di Parmenide - Cordero152 - la Dea prospetterebbe,
introduttivamente, il contenuto del suo «corso di filosofia» nell’ambizioso
riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti complementari:
(i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei mortali». A completamento
del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile modello per
le «opinioni»: la verità è assente dalle opinioni, ma «riconoscere che le
opinioni non sono vere è vero»153. Ciò che rende, a nostro avviso, implausibile
questa proposta di lettura è soprattutto l’estensione e l’articolazione che
supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi come poema
didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere enciclopedico154. È
necessario dunque intendersi preliminarmente sul valore delle opinioni155 . Una
prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei lettori antichi:
Aristotele, per esempio, osserva: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν·
παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν,
καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν
κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ
δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ
κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν 152 N.-L. Cordero, By
Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas 2004,
p. 30. 153 Ivi, p. 32. 154 G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di scienza
parmenidea», in Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci,
Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 80. 155 Torneremo sull'argomento
commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo logos".
291 Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia:
ritenendo, infatti, che non esista affatto, oltre all’essere, il non-essere,
egli crede che, di necessità, l’essere sia uno e nient’altro. […] Costretto
tuttavia a tener conto dei fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione,
i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo
sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Aristotele, Metafisica I, 5 986
b27 - 987 a1; DK 28 A24). A sua volta, Teofrasto (secondo quanto attestato da
Alessandro di Afrodisia) rileva: Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς.
καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων,
οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον
καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι
τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον
καὶ ποιοῦν. Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade.
Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione
delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto,
secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto
sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la
generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno
come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Il problema dei
due logoi era già delineato come incrocio tra due forme diverse di esplorazione
della realtà, che potremmo sbrigativamente indicare come razionale ed empirica:
la seconda parte del poema avrebbe così riproposto un approccio alla physis,
dai fenomeni ai loro principi, analogo a quello ionico; la prima 292 parte,
originale, avrebbe invece introduttivamente messo a fuoco le implicazioni ontologiche
a priori dell’indagine156 . Certamente il programma della Dea prevede un
momento critico, che investe indiscutibilmente le «opinioni dei mortali», in
cui non risiede «reale credibilità»: individuare la norma di verità comporta
necessariamente denunciare l’origine di erronee convinzioni circa il mondo
dell’esperienza, senza escludere tuttavia la possibilità che la stessa materia
sia passibile di una trattazione diversa, rigorosa e plausibile. Questo il
senso della precisazione introdotta dal restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης: tra la saldezza
della Verità (illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la
(contraddittoria, come vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie
convinzioni umane, si annuncia la possibilità di una credibile (in quanto
coerente con i presupposti che fondano la ricerca) ricostruzione dei fenomeni.
Benché l’intervento divino sia teso a legittimare la norma di verità (che non
può giustificarsi empiricamente), l’impianto educativo del poema, la scelta del
kouros e la sollecitazione critica nei suoi confronti sembrerebbero autorizzare
un'interpretazione positiva dei versi conclusivi del proemio. Ciò che colpisce,
nell’articolazione della lezione divina, è, in ogni caso, soprattutto il punto
(iii) del programma, che risulta nel contesto meno scontato: comunque si
intenda, infatti, la direzione del viaggio cantato nei versi parmenidei,
indiscutibilmente la sua meta è rappresentata dalla rivelazione divina, che
presuppone, con l’esito veritativo, l’opposizione tra il sapere che la Dea può
manifestare e quello che gli esseri umani possono attingere. Così la compiuta
(εὐκυκλέος, «ben rotonda» 157 ), salda consistenza (ἀτρεμὲς ἦτορ, «cuore
fermo») di Verità è (naturalmente e tradizionalmente) contrapposta alla debole
(οὐκ ἀληθής, «non reale 156 Si tratta di una relazione che potrebbe ancora
trovare riscontro nell’organizzazione del poema Sulla natura di Empedocle, nei
cui frammenti (DK 31 B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide
chiaramente saldata alla prospettiva di una positiva indagine della physis. 157
Per la lettura che proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante εὐπειθέος
(«ben convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e
Diogene Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni, di cui diamo
notizia in nota al testo greco. 293 [genuina]») «credibilità» (πίστις)
riconosciuta alle βροτῶν δόξαι: «nondimeno», a proposito di queste opinioni, il
poeta apprenderà, dall’istruzione della Dea, anche come «le cose accolte nelle
opinioni» (τὰ δοκοῦντα: il contenuto empirico di tali opinioni) siano da
intendere «effettivamente» (δοκίμως: realmente, genuinamente), considerandole
«tutte insieme davvero esistenti» (διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα), in altre parole
riconducendole rigorosamente alla «via di ricerca» lungo la quale è
effettivamente possibile procedere (B2.3). Senza questa precisazione il
percorso formativo destinato al kouros sarebbe incompleto: la formula (χρεὼ)
che lo introduce sottolinea come esso sia opportuno, adeguato a conseguire una
nuova consapevolezza della realtà158. A tale scopo non è sufficiente (almeno
non per la formazione del kouros) conoscerne l’essenza e dunque prendere
coscienza della genesi delle opinioni erronee: per il poeta, destinato a
tornare tra gli uomini e a rivaleggiare con altri presunti sapienti, è
necessario saper affrontare i contenuti dell’esperienza umana. Non pare – come
invece molti sostengono159 - che la vera novità parmenidea sia rappresentata
dal fatto che la Dea offra agli uomini la possibilità di imparare e la verità e
le opinioni, se per doxai si intendono quelle illusorie dei mortali: esse
saranno sbrigativamente liquidate (B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2)
dei criteri di verità. Ciò che, invece, risulta originale nella rivelazione
della Dea del poema, a dispetto della tradizionale frattura tra sapere umano e
sapere divino, è l’ardita combinazione di rigorosa affermazione (B2, B8) di una
realtà non immediatamente manifesta all’esperienza umana, e articolata
esposizione di un accettabile «ordinamento» (διάκοσμος, B8.60) dei fenomeni
naturali. La comunicazione dell’anonima divinità avrebbe insomma abbracciato
sia quanto tradizionalmente considerato appannaggio esclusivo del dio (la
verità), sia l’oggetto della contemporanea ricerca (περὶ φύσεως ἱστορίη): in
questo modo, il poema avrebbe ridefinito, nel suo insieme, il quadro
cosmologico (e cosmogonico) della Teogonia esiodea. 158 Robbiano, op. cit., p.
77. 159 Tra gli altri Robbiano, op. cit., pp. 51-2. 294 Verità e opinione Sul
programma introdotto dalla dea innominata in conclusione del proemio (vv.
28-32), possiamo ancora osservare come, a livello espressivo, l’articolazione
su cui abbiamo insistito emerga chiaramente nelle scelte verbali: χρεὼ δέ σε
πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. Intanto risultano essenziali due verbi - πυθέσθαι e
μαθήσεαι – il cui valore è quello di «apprendere per esperienza», «imparare per
indagine», ma anche «discernere»: essi possono veicolare, dunque, sia l’idea di
ricettività, sia quella di ricerca, perfettamente in contesto laddove la
docenza (divina: θεά) guida il processo di apprendimento, marcando a un tempo i
temi su cui verterà la lezione impartita (Ἀληθείης ἦτορ; βροτῶν δόξαι; τὰ δοκοῦντα)
e l’urgenza di comprensione da parte dell’allievo (κοῦρος). La prima formula
didattica sottolinea l’opportunità che «tutto tu apprenda»: come in precedenza
rilevato, è netta la costruzione oppositiva dei vv. 29-30, in cui la saldezza
della Verità è contrastata esplicitamente dalla incertezza delle «opinioni», e
la garanzia di verità del nesso θεά-κοῦρος implicitamente alla inaffidabilità
dei «mortali»: la rivelazione del «cuore fermo di Verità ben rotonda»
comporterà la contestazione della consistenza delle loro convinzioni. La
seconda formula introduce gli ultimi due versi, testualmente molto tormentati:
il fatto di ribadire «imparerai» sembra implicare che questa sezione della
lezione divina sia ulteriore e autonoma rispetto alla prima opposizione (verità
e credenza non vera), sebbene il complemento oggetto - «anche queste cose» -
plausibilmente rinvii al contenuto delle «opinioni dei morta- 295 li»160 e
soprattutto sia evidente il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice
(δοκ) di δόξας, δοκοῦντα e δοκίμως. Come Mourelatos 161 ha chiarito nella sua
ricerca, il verbo δοκέω può significare sia (a) «aspettarsi», «pensare»,
«supporre», sia (b) «sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma anche (ii) di
«apparire»: presenta dunque a subject-oriented sense e an objectoriented sense.
Mentre δόξα e δοκίμως sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua
«funzione criteriologica», il ricorso al termine δοκοῦντα rivela piuttosto le
implicazioni oggettive di (b), nonostante la derivazione da δοκέω lo renda
irriducibile a una «funzione fenomenologica» (quella dei derivati di φαίνομαι).
In δόξα (opinione-convinzione) e δοκίμως (rendendo l’avverbio come
«plausibilmente») troveremmo allora coinvolta l’idea di valutazione e
accettazione, di approvazione; di conseguenza in τὰ δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν ὄν,
come in Simplicio) «le cose ritenute accettabili» ovvero «le cose come sono
accettate». Ma l’avverbio δοκίμως è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il
valore di «realmente» (Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare
all’accezione oggettiva, a una situazione di fatto, a come stanno
effettivamente le cose (così lo abbiamo inteso nella nostra traduzione). In
ogni caso, le βροτῶν δόξαι - che vengono denunciate come non fededegne - non
rappresentano mere impressioni ma punti di vista assunti, condivisi e diffusi,
con cui ha evidentemente senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali
punti di vista che viene contrapposta la verità comunicata dalla dea. Gli
ultimi due versi del proemio ritornano sulla materia di quelle confuse
assunzioni, per riproporla in modo adeguato: in questo caso Parmenide impiega
non il termine δόξαι ma τὰ δοκοῦντα: non i punti di vista ma le cose che in
essi sono accolte. A τὰ δοκοῦντα collega la complessa (e testualmente
controversa) espressione participiale διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, che abbiamo
reso come «tutte insieme davvero esistenti». La scelta appare non 160 In
funzione prolettica, Parmenide avrebbe – di norma - dovuto impiegare τάδε, non
ταῦτα, che sembra invece riferito a quanto precede. 161 Op. cit., pp. 195 ss..
296 quella di ricostruire la genesi dell’errore dei mortali, ovvero quella di
proporne una versione più coerente, piuttosto quella di mostrare come «le cose
accolte nelle opinioni» avrebbero dovuto («era necessario\opportuno», con
possibile valore di irrealtà) essere intese nella loro totalità come ὄντα
(esistenti), in altre parole considerate alla luce della Verità, ovvero come
genuina realtà. La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali (δοκοῦντα,
ὄντα), e la struttura del poema, con un secondo logos di natura enciclopedica,
suggeriscono di considerare positivamente il terzo punto del programma della
dea, ben distinto dal secondo (che riceve indiscutibilmente una connotazione
negativa), di cui tuttavia sembra condividere due elementi essenziali: (i) il
contenuto materiale, costituito dalla pluralità delle cose che accogliamo sulla
base della esperienza; (ii) la prospettiva (espressa dall’insistenza sulle
forme in δοκ), il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa
attraverso l’esperienza, ma che, non per questo, deve essere giudicato
inaffidabile. La Dea procederà quindi: (i) in primo luogo, a introdurre quella
verità di cui è esplicitamente (e tradizionalmente) garante (B2): si tratta
delle premesse (B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per manifestare la
struttura della realtà (B8); (ii) poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla
scorta della forma (logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e
impossibilità del non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le cose
e il loro divenire; (iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione
coerente con i parametri veritativi della Dea, l'«ordine del mondo»
(διάκοσμος), vero obiettivo dell'opera. In questo modo, il poema contiene,
complessivamente, la rivelazione di tutta la Verità: della sua natura
intrinseca («cuore fermo»), fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e
della sua adeguata applicazione al campo dell’esperienza umana. Parmenide si
riferisce a due ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si
sovrappongono: la meditazione della «parola» (μῦθος) della Dea, che segnala la
traccia che conduce ad Ἀληθείη, 297 assicurerà al κοῦρος la consapevolezza
degli errori comuni tra gli uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo
della sua esperienza. In questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione) hanno
lo stesso oggetto (non potrebbe essere diversamente per la logica del poema):
la realtà, manifestata nella sua unitotalità essenziale dall'intelligenza, e
nella pluralità dei processi naturali dall’esperienza. La scansione di tale
programma nei moduli della tradizionale istruzione poetica è significativa: lo
scarto tra sapere umano e sapere divino, proposto nella cornice
dell'eccezionale tragitto ai limiti del cosmo, dove cielo e terra, notte e
giorno, mondo dei vivi e mondo dei morti si incontrano, è ribadito non solo
nella relazione didascalica tra θεά e κοῦρος, ma anche nella complementarità
dei loro due diversi sguardi sulla realtà. Quello della Dea si rivolge
impassibile (logicamente coerente e inattaccabile) all’essere, alla totalità
razionalmente afferrata nella sua omogeneità e identità ontologica; quello dei
mortali è invece condizionato (e per lo più sviato) dal filtro dell’esperienza.
Compito del poema condannare le distorsioni e produrre – con la lezione divina
– una consapevole mediazione. Per via Prima di concludere l’esame del proemio e
dopo averne considerato gli ultimi versi e il programma contenutovi, è
opportuno ritornare riassumere i nostri risultati. Parmenide compone nei moduli
della tradizione epica, evocandone il rilievo veritativo e educativo e
sviluppandone in particolare il tema del viaggio, centrale non solo per l’epica
omerica ma anche, in generale, per l’esperienza culturale e religiosa arcaica
(sciamanesimo). Modulando tali paradigmi, il poeta insiste sull’eccezionalità
della propria esperienza, sia per gli auspici che ne assicurano lo svolgimento,
sia per la meta oltremondana, sia, infine, per l’incontro con la dea
rivelatrice: ciò comporta, da parte sua, valorizzare, con la lezione divina,
anche il percorso del viag- 298 gio, la «via» (ὁδός πολύφημος δαίμονος) che la
dea innominata ci informa essere «lontana dalla pista degli uomini. A sancire
tale percorso e la legittimità della percorrenza, Parmenide colloca Dike e
Temi, giustizia e norma divina: l’accesso alla verità, dunque, non è casuale,
accidentale, ma risultato di uno slancio educato (il poeta in apertura evoca la
spinta del proprio desiderio, θυμός), forse di una iniziazione (come
rivelerebbe, in particolare, l’uso della espressione εἰδὼς φώς). La lezione
della Dea non si limita a manifestare la Verità (di cui rileva la saldezza, il
nucleo inattaccabile), mediandola a un mortale, ancorché favorito, ma è attenta
anche a dar conto del mondo dell’esperienza, delle «convinzioni» umane, sia per
denunciarne gli stravolgimenti, sia per offrirne un’illustrazione adeguata,
coerente, nei suoi principi esplicativi, con la realtà annunciata (l'essere). I
modelli e i temi interessati suggeriscono che la comunicazione di verità,
certamente centrale nei frammenti disponibili, non fosse fine a se stessa, ma
costituisse l’elemento intorno a cui realizzare un profondo ri-orientamento
della esperienza umana e una radicale ri-determinazione del rapporto tra
soggetto umano e realtà (come cercheremo di dimostrare in B3 e B8)162 . La
formazione alla verità porterà il kouros a vedere il mondo in una prospettiva lontana
dalla quotidianità, ma soprattutto a scegliere diversamente dalla società163 .
162 Analizzando il valore di ἀλήθεια nella cultura arcaica, la Stemich (op.
cit., pp. 84-6), convinta che in Parmenide non si possa delimitarne nettamente
la prospettiva oggettiva (che insiste sul referente, sull’entità data al di
fuori dell’individuo) da quella soggettiva (come nelle espressioni dire vero,
fare vero, in cui è sottolineata la relazione dell’uomo alla verità), osserva
comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista piuttosto sulla seconda,
ovvero sulla condizione che consente all’uomo di superare il senso comune
quotidiano. 163 È significativo che, di recente, oltre a Martina Stemich anche
Chiara Robbiano (op. cit., p. 56) abbia richiamato l’attenzione su questo
punto: la ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel programma educativo della Dea,
sarebbe il risultato di un punto di vista (che il kouros deve maturare), e
dunque soggettiva, ma, dal momento che esso svela l’essenza della realtà, allo
stesso tempo oggettiva. In questo senso il poema riguarderebbe una
trasformazione 299 Che si tratti di percorso astrale – quello solare – che
conduce alla porta cosmica, chiave di volta non solo dell’alternanza
giorno-notte ma anche dell’accessibilità al mondo infero, ovvero di itinerario
celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole Mansfeld), o ancora
di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la divinità è comunque
destinato a un impatto che sarebbe riduttivo considerare esclusivamente sotto
il profilo conoscitivo, come per lo più si è fatto nella tradizione. L’evento è
decisivo non solo per quello che consentirà di conoscere ma per come consentirà
di condursi nell’esistenza: questa è forse la ragione della scelta comunicativa
di Parmenide, con le sue potenzialità performative (la recitazione) e le
allusioni a esperienze (rivelazioni, illuminazioni ecc.) note soprattutto per
la loro incidenza esistenziale. Non a caso, dunque, il poema si apre con
riferimenti allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle cavalle di scorta,
e all’egida divina di Temi e Dike, per procedere all’incontro con una dea (che
potrebbe essere Persefone) la quale introdurrà la propria rivelazione (B2) con
l’evocazione dell’immagine di un bivio, di fronte al quale il kouros è chiamato
a scegliere. del punto di vista tale da investire non solo l’oggetto della
comprensione, ma anche - alla fine del viaggio - il soggetto ( p. 37). 300 LE
VIE E LA VERITÀ [B2] Nonostante i vari problemi di traduzione e interpretazione
suscitati dai versi di B2, con certezza possiamo asserirne, come nel caso del
precedente B1, la collocazione: all’inizio della prima sezione del poema1 , a
ridosso del proemio (se non addirittura in continuità e contiguità con esso).
Possiamo inoltre ragionevolmente ritenere che B2 costituisca, con i successivi
B3, B6, B72 , un blocco argomentativo continuo: l’introduzione dei presupposti
per manifestare (B8) i segni (σήματα), le proprietà della Realtà concepita come
un tutto, ovvero di quanto anticipato (B1.29) come Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ
(«di Verità ben rotonda il cuore fermo»). All’interno di uno schema espositivo
che esplicitamente richiama l’attenzione sul rilievo fondativo dei versi B2.2-8
(la Dea, infatti, marca la significatività del proprio μῦθος, sollecitando
l’interlocutore a prenderne nota e averne cura), alcuni hanno voluto
valorizzare la condizionante presenza dei principi della logica occidentale3 ,
altri invece vi hanno colto le premesse dell'ontologia4 . Dire, ascoltare La
continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva della
comunicazione, in cui esortazione e insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo
della Dea (ἐγὼν ἐρέω, «io dirò») e la ricezione (l’ascolto attento) del poeta
(κόμισαι δὲ σύ μῦθον, «e tu abbi cura 1 Ricordiamo che, nella cesura di
B8.50-1, la Dea si riferisce a quel che precede come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης; B2.4 sembra riferirsi alla stessa materia con l'espressione Πειθοῦς
κέλευθος. 2 Coxon, op. cit., p. 173: la sequenza proposta è, nella numerazione
DK (diversa da quella ricostruita dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7. 3 Per
esempio Heitsch in Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch,
herausgegeben, übersetzt und erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung Tusculum,
Artemis & Winkler, Zürich 19953 . 4 Per esempio Leszl, op. cit., p. 85. 301
della parola»), destinata, a sua volta, a trasformarsi, attraverso il canto,
nella mediazione della verità a un discepolo: il σύ («tu») impiegato dalla
divinità è rivolto tanto da questa al poeta, quanto da questi al proprio
ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu ascolta e riferisci. Al poeta,
giunto alla meta del viaggio (infero), non sono riservate privilegiate visioni
o rivelazioni immediate; lo attendono, invece, parole, di cui si raccomanda
l'ascolto5 . La sua ricerca della Verità dovrà dunque muovere da esse: parole
con cui la Dea non nomina se stessa, non descrive se stessa o la casa in cui
risiede, non designa neppure puntualmente un soggetto6 . Un solo impegno è
stato assunto e quindi fa da sfondo alla sua parola: «è necessario che tutto tu
apprenda» (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι). Come sarà sottolineato in altro luogo
(B7.5), l’espressione κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας («e tu abbi cura della parola
una volta ascoltata») certamente sollecita attenzione per la verità del
messaggio (μῦθος), ma implica anche – nella ricezione\cura - la sua valutazione
e trasmissione. Sintomatica nel contesto la scelta del termine μῦθος, la
«parola» divinamente ispirata del poeta, la parola che veicola, attraverso il
poeta, il canto delle Muse, e dunque sancisce, a un tempo, il vincolo di
dipendenza del mortale dall’immortale, ma anche l’eccezionale rilievo del
poeta, la sua peculiare posizione sociale, la sua σοφίη 7 . 5 L. Atwood
Wilkinson, Parmenides and To Eon… cit., pp. 89-90. 6 Ivi, p. 79. 7 Su questo
punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama Senofane, DK 21
B2.11-14: ῥώμης γὰρ ἀμείνων ἀνδρῶν ἠδ’ ἵππων ἡμετέρη σοφίη. ἀλλ’ εἰκῆι μάλα τοῦτο
νομίζεται, οὐδὲ δίκαιον προκρίνειν ῥώμην τῆς ἀγαθῆς σοφίης Migliore è infatti della
forza di uomini e cavalli la nostra sapienza. Ma si valuta questo in modo
veramente dissennato: e invece non è giusto preferire la forza alla buona
sapienza. Lo stesso Senofane aveva così introdotto la propria sapienza: 302 Io,
tu La polarità comunicativa ἐγώ-σύ introduce anche la dialettica del testo
parmenideo: essa, in effetti, sottolinea l’urgenza di illustrare la forza
persuasiva del messaggio al destinatario (B2.4: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ
γὰρ ὀπηδεῖ: «di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna») e
dunque la dimensione argomentativa (che si impone soprattutto in B8). A
dispetto del tono e della situazione solenni, è progressivamente sul piano
della (co)stringente discussione (ἔλεγχος) che si sviluppa la rivelazione della
Dea, quasi assumendo il «tu» come muto interlocutore, di cui B8 sembrerebbe
confutare il punto di vista ordinario. In questa prospettiva, la dialettica
comunicativa esprime l’intenzione educativa anche nella forma di una lezione
sull’uso degli strumenti razionali. B2 proporrebbe allora, in modo originale,
le premesse di base della successiva trattazione: Mansfeld, in particolare, ha
sostenuto che il ruolo condizionante della divinità e della sua rivelazione si
manifesterebbe nei due passaggi introdotti dalle forme verbali in prima
persona8 , negli asserti imposti dall’autorità di ἐγώ («io»): εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω
[…] Orsù, io dirò (B2.1a) χρὴ δὲ πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνεῖν εὔφρονας ἄνδρας εὐφήμοις
μύθοις καὶ καθαροῖσι λόγοις bisogna che in primo luogo celebrino il dio uomini
assennati, con racconti adeguati e puri discorsi (B1.13-14); e: ἀνδρῶν δ’ αἰνεῖν
τοῦτον ὃς ἐσθλὰ πιὼν ἀναφαίνει, ὥς οἱ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς da
lodare, poi, tra gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole,
conformemente a memoria e aspirazione alla virtù (B1.20-1). 8 Op. cit., pp.
61-2. 303 τὴν δή τοι φράζω Proprio questa ti dichiaro (B2.6a). Il primo momento
coinciderebbe con l’enunciazione (B2.2) delle «uniche vie di ricerca per
pensare» (solo A e B sono «per pensare», A e B sono immediatamente
incompatibili), in questi termini (letterali): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere
(B2.5). Il secondo con l’asserzione dell'impercorribilità della seconda via: τὴν
δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Proprio questa ti dichiaro essere
sentiero del tutto privo di informazioni (B2.6). Che (i) «è» e «non è»
rappresentino alternative incompatibili e che (ii) τό μὴ ἐὸν non sia
effettivamente disponibile per un'autentica ricerca, costituirebbero le matrici
(garantite dall'iniziativa divina) della successiva discussione, come
evidenziato dall'invito all’ascolto9 : il poeta paleserebbe in questo modo sia
il proprio proposito argomentativo sia la consapevolezza del suo articolarsi.
Anche non condividendo la tesi di Mansfeld, appare comunque indiscutibile
l’intenzione di Parmenide di sfruttare la presenza della Dea per muovere da una
verità fondamentale. Altri, invece, riconoscendo l’uso didascalico del mito, vi
hanno colto la rivendicazione di una verità indiscutibile (che non è mera
opinione umana) 10 , ovvero l’espressione della matura consapevolezza
dell’oggetto e dei mezzi propri della filosofia11: non sarebbe stato 9 Ivi, p.
86. 10 Conche, op. cit., pp. 79-80. 11 La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il
primo filosofo ad argomentare, a dare ragioni a supporto della propria
posizione, a elaborare consapevolmente 304 più sufficiente enunciare la verità;
era necessario assicurarla con la costrizione del logos. Forse, più
semplicemente, per il sapiente-poeta, che componeva all'interno di una cultura
in cui, in un modo o nell'altro, ogni sapere era radicato nella sfera della
comunicazione divina12, era scontato rispettare la convenzione e fondare le
premesse dei propri argomenti sulla parola della Dea. Uniche vie di ricerca per
pensare All'esortazione di apertura che l’«io» della Dea rivolge al «tu» del
poeta (v. 1), invitandolo ad «aver cura di» (κόμισαι) – ovvero «prender nota,
meditare e trasmettere» – quanto ella sta per rivelare, fa immediatamente
seguito (v. 2), sintatticamente retto dall’impegnativa espressione omerica ἐρέω
(«dirò, proclamerò»), la prima indicazione concreta sul contenuto della
rivelazione: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι che abbiamo reso come:
quali sono le uniche vie di ricerca per pensare. Il verso presenta alcune
difficoltà, non indifferenti per l'interpretazione relativa e complessiva.
Quale valore riconoscere a ὁδοὶ διζήσιός? Quale a μοῦναι? Come rendere εἰσι?
Come νοῆσαι? La Dea, riferendosi a ὁδοὶ διζήσιός, ritorna (dopo averlo già
fatto in B1.2, B1.5 e soprattutto B1.26-7) sul tema della via, impiegando
un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo nel motivo
omerico del viaggio13. Il termine parmeni- il proprio ragionamento con metodo,
è di Cordero (By Being, It Is, cit., p. 38). 12 Su questo aspetto della cultura
greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito e sapere",
in Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig e G.E.R. Lloyd,
vol. I, Einaudi, Torino 2005, pp. 49-62. 13 Mourelatos, op. cit., p. 67. 305
deo δίζησις è infatti di derivazione epica, essendo δίζημαι utilizzato in Omero
per «ricercare persone o animali perduti» ovvero nel senso lato di «concepire»:
esso implica desiderio del e interesse nell’oggetto ricercato (la cui esistenza
quindi non sarebbe in discussione). La formula ὁδοὶ διζήσιός alluderebbe allora
a un investigare impegnato a raccogliere informazioni che conducano all’oggetto
desiderato. È significativo che il contemporaneo Eraclito usi δίζημαι nel senso
di ricercare in profondità: χρυσὸν γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν
ὀλίγον Quelli che cercano oro rivoltano molta terra, ma trovano poco [oro] (DK
22 B22), marcando la propria direzione d’indagine verso quanto nascosto e
inaccessibile ai più: la ricerca della φύσις, in contrapposizione alla
πολυμαθία di poeti e sapienti tradizionali. Eraclito, tuttavia, sottopone il
verbo a un’ulteriore, originale, torsione: ἐδιζησάμην ἐμεωυτό ho indagato me
stesso (DK 22 B101), che Mourelatos14 legge in relazione a: ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ
ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει i limiti
dell’anima non potrai mai trovarli, sebbene tu ti spinga per tutte le strade:
tanto profondo è il suo logos (DK 22 B45). L’uso arcaico di δίζημαι sottolinea,
insomma, il fatto che si ricerca intorno a qualcosa che non è manifesto o
accessibile fin dall’inizio. In questo senso il nesso stabilito nei versi 3-4
tra la prima ὁδός e Ἀληθείη: 14 Mourelatos, op. cit., p. 68. 306 Πειθοῦς ἐστι
κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ di Persuasione è il percorso - a Verità infatti
si accompagna. È necessario un percorso di ricerca per appalesare quanto è
immediatamente nascosto: la via conduce alla scoperta della realtà, e in questo
senso alla «verità». La verità richiede dunque una specifica ricerca: solo
seguendo una «pista» (termini come πάτος, κέλευθος, ἀταρπός sono ricorrenti nei
primi due frammenti) non casuale è possibile cogliere ciò che è genuinamente
reale. Parmenide sceglie di ricorrere all'espressione «vie di ricerca» proprio
per dare risalto al fatto che esse hanno come obiettivo essenziale la realtà
(verità)15 . La Dea proclama dunque solennemente: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι
νοῆσαι (letteralmente: quali vie uniche di ricerca sono per pensare). La
costruzione greca ha autorizzato sia (i) la lettura che insiste sulla
concepibilità delle vie (εἰσι νοῆσαι in senso potenziale, da rendere come:
«sono possibili da pensare», «possono essere pensate», «sono
pensabili/concepibili»), sia (ii) quella che, come pare corretto nel contesto,
facendo leva (a) sul valore finaleconsecutivo dell’infinito, (b) sul suo nesso
con μοῦναι, e (c) sulla successiva determinazione delle ὁδοί con formule
introdotte da ὅπως e ὡς, esprime il lato attivo del pensare (dunque: «quali
sono le uniche vie per pensare»), introducendo due modi di pensare («pensare
che...»). Qualcuno16 ha ipotizzato che Parmenide intendesse evocare entrambi i
valori, intenzionalmente giocando sull’ambiguità (in analogia con le modalità
di comunicazione del contemporaneo Eraclito): una chiave interpretativa che
potrebbe applicarsi ad altri passaggi del testo. 15 Leszl, op. cit., p. 124. 16
Robbiano, op. cit., pp. 81-2. 307 Ma il testo pone anche il problema della resa
di νοῆσαι: generico «pensare», o, secondo l’uso arcaico, «apprendere,
conoscere»17? La traduzione in questo caso impone un'opzione interpretativa:
«pensare» rischia di risultare troppo indefinito rispetto all'unicità
conclamata delle vie, consentendo, per esempio, di ammettere, oltre alle
razionalmente legittime, anche «le vie dell’irrazionale» (illuminazioni,
rivelazioni, ispirazioni ecc.), illegittime agli occhi della ragione18, come in
effetti alcuni frammenti del poema (soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire.
D’altra parte, si potrebbe obiettare che, rendendo in senso forte νοεῖν con
«apprendere\conoscere», come pur giustificato dalla conclusione del proemio19,
risulterebbe poi problematica la comprensione della via introdotta in B2.5
(letteralmente): ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι che non è e che è
necessario non essere. Di essa, in effetti, la Dea si affretta subito a
osservare: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ
ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa di dichiaro essere sentiero
del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è
(non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8); sottolineatura
ripresa e accentuata ancora in B8.17-8: ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός
17 Mourelatos, op. cit., p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch
opta per erkennen. Per una discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit.,
pp. 69 ss.. 18 Come nel caso di Conche, op. cit., p. 77. 19 Ch.H. Kahn, “The
Thesis of Parmenides”, in Id., Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, pp.
146-147. 308 impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina).
Eppure è proprio questa difficoltà a risultare illuminante rispetto alla natura
e alla funzione delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοί μοῦναι διζήσιός
νοῆσαι): solo la nozione di νοεῖν come pensare del tutto intellettuale, capace
di prescindere dalle sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato,
appare in grado di giustificare l'alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) prospettata
nei versi B2.3 e B2.5. Intendendo νοεῖν come un «pensare» generico, si può
ridurre il paradosso di una «via di ricerca per pensare» connotata come «sentiero
del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν) e, addirittura, come
«impensabile e inesprimibile (ἀνόητον ἀνώνυμον), ricorrendo alla distinzione
tra la sua prospettazione a priori e l'effettiva (a posteriori) sua
praticabilità. Crediamo, tuttavia, che sia solo la comprensione di νοεῖν
secondo la prospettiva omerica (improntata all'analogia con il vedere) di una
relazione percettiva immediata con l'oggetto20, a dare senso alla disgiunzione
«è»-«non è»: essa allora esprimerà, per quella funzione ricettiva,
l'alternativa radicale tra necessità di rivolgersi a una realtà che è, e
impossibilità di afferrare ciò che non è. La Dea annuncia nel contesto quali
siano le «uniche vie di ricerca per pensare»: tre sono gli elementi da
considerare: (i) la ricerca (δίζησις), (ii) i percorsi lungo per cui essa si
sviluppa, (iii) la finalità che essa intende realizzare, designata
dall'infinito aoristo νοῆσαι: «pensare», svelare la realtà (verità), ovvero,
come suggerisce Palmer21, «comprendere», «giungere a comprensione». Il contesto
di B2 suggerisce palesemente anche l'obiettivo conclusivo delle ricerca, che
traduce in risultato la finalità dell'unico effettivo percorso di ricerca: come
abbiamo già osservato, della prima via di ricerca (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι) la Dea sottolinea che (a) è «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς
κέλευθος), 20 Germani, op. cit., p. 189. 21 Op. cit., pp. 72-3. 309 in quanto
(b) «attende alla Verità» (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). L'apertura di B6 preciserà
(letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι è necessario il dire e
il pensare che ciò che è è, fissando quindi in quanto espresso da ἐόν l'oggetto
specifico di comprensione. D'altra parte, le «vie» annunciate sono «uniche» (μοῦναι)
in forza di ciò che esse si propongono di pensare: in B8.16 sinteticamente
proposto come ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν («è o non è»), esso è in B2 rinforzato da due
formule modali: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che
non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Lungo la prima
via (per pensare), la ricerca si sviluppa riflettendo a partire dall'immediata
evidenza: «è» (ἔστιν), rimanendo saldamente sul terreno dell'«essere»
(escludendo cioè la possibilità del «non-essere»). La seconda modalità, invece,
prospetta una ricerca che si svolga a partire dalla negazione di quella
evidenza: «non è» (οὐκ ἔστιν), pretendendo di svilupparsi conseguentemente sul
terreno del «non essere». Delineata come alternativa alla precedente, essa si
rivela di fatto impercorribile, dal momento che il pensiero non avrebbe
alcunché da afferrarvi e manifestarvi: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν·
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa
ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non
potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti
indicarlo. 310 Per pensare Prima di procedere alla determinazione delle «vie»,
è opportuno, tuttavia, in relazione al verso 2, soffermarsi ancora sulle
implicazioni dell’annuncio della Dea: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω [...] αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι
διζήσιός εἰσι νοῆσαι. Comunque si valutino queste parole, è evidente come in
esse Parmenide anticipi il senso di un messaggio (divino) che investe
indiscutibilmente la dimensione cognitiva del νοεῖν: si tratterà di riassumere,
nella schematica astrazione di due forme («vie»), le modalità di fondo del
«ricercare», del portare a conoscenza22, discriminandole rispetto all'ampia
fenomenologia di tentativi e sviamenti «mortali» (le δόξαι βροτῶν). Se si può
riconoscere alla narrazione del proemio anche un'intenzione simbolica,
ricordiamo come la θεά, accogliendo il κοῦρος, rilevasse (B1.27): τήνδ΄ ὁδόν
[...] γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν. Il filo che lega l’esordio della
comunicazione della θεά (B1.24 ss.) alla rivelazione di B2 è costituito dal
tema della ὁδός: la Dea dapprima (B1.27) – con riferimento alla via che, grazie
all’intervento di eccezionali coadiutrici, ha condotto al suo cospetto -
segnala come essa sia «lontana dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου); in B2 ella ne rievoca il tema nelle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός, precisando in
modo rigoroso i criteri per valutare la fondatezza di ogni punto di vista. In
gioco è esplicitamente (B1.29) la Verità: (i) nella sua “essenza” (Ἀληθείης εὐκυκλέος
ἀτρεμὲς ἦτορ); (ii) nella sua manifestazione 22 Come ricordato in nota al
testo, Kahn (Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, cit., p. 147) ha sostenuto
che δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη
(«ricerca scientifica»). 311 all’esperienza umana (τὰ δοκοῦντα); (iii) nella
sua diffusa distorsione (βροτῶν δόξαι). La realtà da scoprire (Verità) rimane,
in effetti, al centro anche di B2, come abbiamo in precedenza sottolineato a
proposito della espressione δίζησις e della sua derivazione dall’omerico
δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore paradosso. Secondo una corrente
interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è stata raggiunta a
conclusione di un viaggio lungo la «strada ricca di canti» (ἐς ὁδὸν πολύφημον)
che conduce «l’uomo che sa»: ella rivela di non essere la fonte diretta da cui
attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuovo) percorso
per conseguirla23. È questo decentramento della verità dalla Dea che
giustifica, per esempio, la lezione di Untersteiner, il quale fa coincidere la
verità con la via stessa. In ogni caso, nell’economia complessiva del testo, il
riferimento al νοεῖν – del poeta e del lettore\ascoltatore – è essenziale per
coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si snoderà a partire dalla
comprensione delle implicazioni di due enunciati divini, insistendo sulla
centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι: tale comprensione risulterà
ugualmente vincolante per la Dea e per i «mortali» (manifestando un decisivo,
comune denominatore razionale): (i) legittimando, da un lato, il taglio
argomentativo di alcuni dei frammenti della prima sezione (segnatamente B8,
parzialmente B6) e l’ἔλεγχος adottato dalla divina interlocutrice per istruire
il κοῦρος; (ii) contribuendo dall’altro a determinare l’oggetto intorno a cui
verte il discorso, indicato dallo stesso Parmenide (nella formula più astratta)
come τὸ ἐόν. Le «vie» e i loro problemi: natura e articolazione della ricerca
Le «uniche vie di ricerca per pensare», come abbiamo visto, sono proposte
letteralmente come: 23 Ruggiu, op. cit., p. 211. 312 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς
οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario
non essere (B2.5) ovvero, volendo risolvere le infinitive in una soggettive
esplicite (come appare più naturale): l’una che è e che non è possibile che non
sia l’altra che non è e che è necessario che non sia. La nostra preferenza per
la resa infinitiva è legata alla possibilità di rimanere più aderenti alla
costruzione greca e soprattutto di sfruttarne gioco espressivo e ambiguità. In
apparenza, l’alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) reitera – pur senza
sovrapposizione, come vedremo - lo schema oppositivo già impiegato dalla Dea
nella propria allocuzione di saluto, quando aveva sottolineato al κοῦρος
l’esigenza di «tutto» apprendere: ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν
δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia
dei mortali le opinioni, in cui non è vera credibilità (B1.29-30). L'una -
l’altra Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due opposizioni,
cariche di significato in forza delle reciproche introduzioni (nel primo caso -
B1.28 – l’urgenza di χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; nel secondo l’interrogativo
implicito in αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι), appaiono evidentemente
collegate, 313 anche se non (come vorrebbe qualcuno24) nel senso di una
puntuale correlazione. Nel caso di B2, l’opposizione emerge non solo, sul piano
espressivo, nella scelta della costruzione (ἡ μὲν ὅπως ... ἡ δ΄ ὡς), ma
soprattutto, sul piano logico, nella peculiare costruzione degli enunciati, che
possiamo rispettivamente articolare nei due emistichi dei versi 3 e 5, quindi: ἡ
μὲν ὅπως ἔστιν […] (B2.3a) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν […] (B2.5a) καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3b) καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). Letteralmente dovremmo tradurre,
attribuendo (come prevalentemente si fa) a ὅπως e ὡς il valore di congiunzioni
(subordinanti) dichiarative (sottintendendo, dunque «che dice» ovvero «che
pensa»): l’una [che pensa] che «è»25 […] (B2.3a) l’altra [che pensa] che «non
è» […] (B2.5a), e che «non è [possibile] non essere» (B2.3b) e che «è
necessario non essere» (B2.5b). L'alternativa più credibile a questa
costruzione dichiarativa non pare tanto quella avverbiale discussa da
Mourelatos26: l’una come è e come non sia non essere l’altra come non è e come
sia necessario non essere, 24 In modo coerente per esempio Cordero. 25 Il
virgolettato vuol sottolineare il contenuto dichiarato. 26 Op. cit., pp. 49.51.
Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma in realtà con valore
interrogativo: «come una esista e che non è possibile che non esista» (p.
LXXXVI). 314 quanto quella proposta da Ferrari27, almeno per quel che concerne
la resa di ὅπως e ὡς con «secondo cui», che ben suggerisce l'idea delle diverse
prospettive di ricerca. Il rilievo oppositivo delle «vie» può essere rafforzato
se – come è possibile e per certi versi naturale nel contesto – B2.3b (καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι) è reso con espressione modale; avremmo così: e che: «non è
possibile non essere» [ovvero: che non sia] (B2.3b) e che: «è necessario non
essere» [ovvero: che non sia] (B2.5b). In questo caso, sarebbe evidente come
Parmenide abbia deliberatamente costruito le «vie di ricerca» facendo leva
sulle opposizioni «è» – «non è» e «non è [possibile] non essere» - «è
necessario non essere»: la Dea – per acclarare αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι
νοῆσαι - ricorre a due formule coordinate 28 : (i) «[pensare] che A e che B»
per la prima via; (ii) «[pensare] che non-A e che non-B» per la seconda. In
greco abbiamo: A = ἔστιν; non-A = οὐκ ἔστιν; B = οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; non-B =
χρεών ἐστι μὴ εἶναι. Nello schema che così si delinea, da un punto di vista
logico «non-B» dovrebbe corrispondere alla negazione di «non è possibile non
essere» e dunque a «è possibile non essere», non a «è necessario non essere». In
questo senso, è stato giustamente osservato (Kahn, Mourelatos, Lloyd, Leszl)
che, alla luce della posteriore logica aristotelica, gli enunciati 2.3a e 2.5a
sarebbero effettivamente contraddittori29, mentre gli enunciati 2.3b e 2.5b
(costruiti sulla opposizione «non è possibile...»-«è necessario...») solo
contrari30, e che dunque la formulazione alternativa non sarebbe esaustiva.
Eppure nell'insieme appare chiara (Aubenque, 27 Il migliore dei mondi
impossibili, cit., pp. 135 ss.. 28 Proposta da Cordero, By Being, It Is…, cit.,
p. 43. 29 Ammettendo, ovviamente, l'identità di soggetto: uno necessariamente
vero, l’altro necessariamente falso. 30 Non potrebbero essere, quindi, veri
entrambi, ma potrebbero essere entrambi falsi. 315 Heitsch) l’intenzione di Parmenide
di esprimersi attraverso alternative esclusive (quindi in termini di
espressioni incompatibili)31 . In questo senso la nostra scelta di rendere il
testo greco con subordinate implicite: l’una: è e non è possibile non essere
l’altra: non è ed è necessario non essere, quasi la Dea puntasse ad associare
all’immediato rilievo dello stato d’essere (ἔστιν) la forma infinitiva32
(«essere»), in altre parole ad anticipare, nel gioco verbale, i due oggetti al
centro della disamina (B3, B4, B6, B7, B8): ἐόν, τό ἐὸν, τό μὴ ἐὸν. Una volta
delineata la formulazione oppositiva delle vie d’indagine, due questioni
delicate (da un punto di vista interpretativo complessivo) si impongono: a chi
o che cosa si riferiscono affermazione e negazione (quale il loro soggetto)? Quale
valore (esistenziale, copulativo, veritativo) attribuire al verbo «essere»? È -
non è Il primo interrogativo è ovviamente suscitato dall'assenza, in greco, di
un soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν: dal momento che le principali lingue moderne
richiedono che esso sia in qualche modo esplicitato, la traduzione del testo ha
sopportato svariati tentativi di completamento: dalla scelta dell'assoluta
indeterminatezza33, a quella della forma impersonale34, dal ricorso a pronomi35
31 Si veda la discussione in Cordero, op. cit., p. 71. 32 Heitsch rende ancora
più esplicitamente questa situazione: Der eine, (der da lautet) «es ist, und
Sein ist notwendig» Der andere, (der da lautet) «es ist nicht, und Nicht-Sein
ist notwendig». 33 Tipicamente Calogero. 34 Fränkel. 35 Si tratta della
soluzione più frequente. 316 (it, es, on), sostantivi (l’essere36, la via37, la
Verità38, il mondo reale39, il corpo40), all'uso di intere formule sottintese -
«whatever can be thought and talked about»41 (come viene da alcuni tradotto il primo
emistichio di B6.1), «whatever we inquire into»42 . Da un punto di vista
filologico l’ipotesi di una lacuna relativa al soggetto - azzardata per esempio
da Cornford43 e Loenen44, i quali propongono rispettivamente ἐόν (l'essere) e
τι (qualcosa) – appare forzata: i codici conservati di Proclo e Simplicio,
infatti, presentano lo stesso identico testo45 e l’operazione sul verso
risponde quindi a un'esigenza essenzialmente interpretativa. Parmenide,
evidentemente, ha scelto di esprimere i suoi enunciati in questo passaggio del
poema senza un soggetto esplicito. Può essere in questo senso provocatorio il
suggerimento della Wilkinson, la quale, in considerazione della naturale
destinazione recitativa del poema, considera l’assenza di un soggetto definito
per ἔστιν come una modalità intenzionale per esaltarne, nella ripetizione, la
formula: la sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per l’audience di
Parmenide il termine (soprattutto senza soggetto o come soggetto esso stesso)
fosse una novità46 . D’altra parte, l’esame del frammento consente di
individuare un soggetto implicito: la stessa logica di costruzione delle «vie»
comporta, infatti, che, nel momento stesso in cui la Dea sottolinea: 36
Tipicamente Cornford. 37 Untesteiner. 38 Verdenius. 39 Casertano. 40 Burnet. 41
Russell, Owen. 42 Barnes. 43 F.M. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge
& Kegan Paul, London 1939. 44 J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus,
Gorgias: A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen 1959. 45
Come osserva Cordero (By Being, It is…, cit., p. 37), è curioso che le
citazioni di questi versi (in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di
un millennio. 46 Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss.. 317 οὔτε … ἂν γνοίης τό γε μὴ
ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις non potresti conoscere ciò che non è (non è
infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.7-8), conoscibilità ed
esprimibilità – negate a τό μὴ ἐὸν - debbano essere riferite a un ancora
implicito [τὸ] ἐόν 47, come chiarito in B6.1-2a (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν
τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν è necessario il
dire e il pensare che ciò che è è; è infatti [possibile] essere, [il] nulla,
invece, non è. Se è vero, come segnala Coxon48, che l’omissione del pronome
indefinito (denotante «la cosa in questione») come soggetto è ampiamente
diffusa nell’epica e nel greco posteriore, nel contesto dell’attuale B2, in
altre parole all’esordio della comunicazione divina, è tuttavia assai probabile
che Parmenide rinunciasse intenzionalmente al soggetto (per altro non
immediatamente desumibile e quindi difficile da sottintendere per
l’ascoltatore), insistendo piuttosto sull’impatto espressivo dell’intreccio
oppositivo ἔστινοὐκ ἔστιν (con relative formule modali), per (i) catturare
progressivamente l’attenzione dell’ascoltatore e (ii) coinvolgerne l’impegno
intellettuale, lungo le due vie delineate, nell’enucleazione della verità.
Saremmo, in questo senso, in presenza di un’ambiguità ricercata a scopo
pedagogico. Se, come per lo più si conviene, l’ordinamento DK dei frammenti
della prima parte del poema è relativamente plausibile, allora, da B2 a B8,
assisteremmo a una graduale manifestazione del 47 Questo rilievo in R.
Mondolfo, “Discussioni su un testo parmenideo (fr. 8.5- 6)”, «Rivista critica di
storia della filosofia», 19 (1964), p. 311. Si veda anche Coxon, op. cit., p.
177. 48 Op. cit., p. 175. 318 soggetto sottinteso49 in B2.3: dalla pura
affermazione «ἔστιν» si passerebbe, in B6.1, a un soggetto (ἐόν) sotto forma di
participio ricavato dallo stesso verbo εἶναι, determinato poi, in B.8, come
vera e propria nozione (τὸ ἐόν), con relative proprietà50 . La scelta
espressiva di Parmenide (rinunciare a un esplicito soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν)
– che imbarazza il traduttore moderno, spesso costretto a ricorrere al pronome
neutro come mero soggetto grammaticale51 - ha l’effetto di porre in risalto nei
versi (per il lettore), ovvero nella recitazione (per l’ascoltatore)
l’assolutezza di ἔστιν (οὐκ ἔστιν) 52 , una ricorrenza insistente nel poema53.
L'«impertinenza linguistica» di Parmenide54 si sarebbe concentrata
deliberatamente su una forma verbale esposta all’ambiguità, per la rottura
dello schema sintattico soggettopredicato verbale, e l’uso (di conseguenza
incondizionato) della terza persona singolare indicativa (ἔστιν). Con l’effetto
di richiamare l’attenzione sull’esperienza del reale55 implicita nel linguaggio
ordinario: l'evidenza del puro fatto d’essere56. Come verbo assoluto, senza
vincoli grammaticali e logici (soggetto, predicato), ἔστιν esprimerebbe
immediatamente lo «stato puro»57 della realtà, 49 Su questa proposta convengono
alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis, Cassin, Aubenque, Ruggiu. 50
O’Brien, op. cit., p. 164. 51 Che preannuncia il vero (reale) soggetto: Conche,
op. cit., p. 79. 52 Grazie al supporto delle formule modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e
χρεών ἐστι μὴ εἶναι. 53 Su questo aspetto, in particolare, Wilkinson, op. cit.,
p. 94. 54 P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical
Interpretation, Marquette University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p.
35: l’enfasi sull’«è» sorgerebbe da una certa awareness of language, e sarebbe
in realtà funzionale al rilievo delle implicazioni dell’uso pre-filosofico del
verbo «essere». 55 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 89. 56
Convincente per questo aspetto la lettura di Cordero, By Being, It Is, cit.,
pp. 61 ss.. Va per altro osservato come Parmenide coniughi il rilievo «ἔστιν»
con la formula «οὐκ ἔστι μὴ εἶναι», che certamente lo rafforza: è a partire
dalla sua assolutezza che si potrà procedere all'estrazione (B6-B8) di un
soggetto (con l’introduzione di τὸ ἐόν o εἶναι). 57 R. Di Giuseppe, Le Voyage
de Parménide, cit., p. 93. 319 presupposto in ogni affermazione58. Per questo
l’aggiunta di un pronome indefinito (qualcosa, τι in greco) tradirebbe
(attenuandola) la radicalità dell’indicazione della Dea, che potrebbe piuttosto
essere intesa come veicolo dell’originario stupore per, della primitiva
attenzione al «fatto d’essere». Nella lettura che proponiamo, infatti,
all’immediata rilevanza dell’ἔστιν la Dea farebbe seguire, con una sequenza
verbale ad effetto59 , οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, cioè l’estrazione e l’affermazione
(attraverso la doppia negazione) di εἶναι. Per quanto si valorizzino le
implicazioni linguistiche (come segnalato da Calogero, e da altri poi in vario
modo ribadito60), il contesto della dichiarazione della Dea rimane comunque
quello della determinazione di «vie di ricerca per pensare», nel senso di
percorsi prospettati per giungere a comprensione della realtà: Parmenide
intende dunque riferirsi in ultima analisi alla realtà sottesa a quelle
espressioni, delineata nella sua assolutezza («non è possibile non essere»).
Così, quando afferma (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· è
necessario il dire e il pensare che ciò che è è (B6.1a), ἐόν emerge come
espressione concettuale, consapevole sviluppo astratto, dell’immediato
contenuto di ἔστιν, denotando, a un tempo, la totalità degli enti (di ognuno
dei quali si dice che è «ciò 58 In questa prospettiva, è forse ancora utile
l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni (G. Giannantoni, "Le
due 'vie' di Parmenide", «La Parola del Passato», cit., pp. 207-221),
circa la scelta dell'«è» «in quanto puro elemento logico e verbale dell'affermazione»
(G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772 , pp. 20-2).
59 L’effetto musicale in greco della sequenza verbale in ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ
ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι non è facilmente riproducibile in traduzione, mantenendo
il valore potenziale di οὐκ ἔστι. 60 Riflessione intorno all’uso della copula
(Thanassas, op. cit., p.32; Cerri, op. cit., p. 60), alla sua funzione
«speculativa» nel rivelare il predicato essenziale di un soggetto (la copula
funzionerebbe da conveyer verso la realtà della cosa: Mourelatos, op. cit., p.
59); riflessione sul fatto che, in greco, il linguaggio quotidiano indica le
cose come ὄντα (Cordero, op. cit., p. 60.). 320 che è», ἐόν/ὄν), ma richiama
anche la attenzione sull’essere (ἐόν, εἶναι) di quegli enti61 . [Pensare] «che
è», [pensare] «che non è» La seconda questione suscitata dalla formulazione
delle «vie di ricerca […] per pensare» è relativa al valore da attribuire al
verbo «essere» negli enunciati: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς
χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5).
L'insistenza sull’incrocio oppositivo di ἔστι e εἶναι risalta sia in lettura
sia all’ascolto: «è»\«non-è», «non è [possibile] nonessere»-«è necessario
non-essere». A partire da questo dato testuale è aperta la discussione tra gli
interpreti su come intendere le espressioni verbali. Nella conclusione
dell’esame precedente abbiamo posto in relazione l’affermazione di B2.3 con il
primo emistichio di B6.1: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι. All'interno
del verso, «essere» (qui nella forma epica ἔμμεναι) è riferito a un esplicito
soggetto, il participio ἐόν, con un valore che appare, naturalmente,
esistenziale (predicato verbale: «esiste»). Ora, volgendoci 62, senza
forzature, a B8, possiamo ulteriormente rilevare due passi chiaramente
significativi: 61 Thanassas, op. cit., p. 45. Interessante il rilievo secondo
cui l’ἐόν di Parmenide sarebbe in questo senso direttamente comparabile alla
espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν. 62 Seguendo l’esempio di O’Brien, op.
cit., pp. 170 ss.. 321 […] ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza
nascita è ciò che è e senza morte (B8.3), οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις
εἶναι per questo non incompiuto l’essere è lecito che sia (B8.32). In questi
casi si individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio ἐόν (B8.3) e
nel participio sostantivato63 τὸ ἐόν (B8.32), mentre ἐστιν e εἶναι sono
impiegati con valore copulativo64. Più complessa la situazione di B8.5-6: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές· né un tempo era né
[un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6), dove
soggetto sottinteso è ἐόν di cui sopra (B8.3), e ἔστιν ha un duplice ruolo: a
un tempo valore esistenziale (con l’avverbio: «è ora») e funzione copulativa65
. Se poi guardiamo alla ricostruzione delle premesse dell’argomento della Dea
(B8-15-18), dove Parmenide rievoca la κρίσις (decisione) intorno a «è o non è»,
il senso dell’ἔστιν in B2 si approfondisce: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ
ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. […] Il giudizio in
proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, 63
Che certamente comporta valore esistenziale. 64 In realtà per B8.3 la
situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi
diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»; «essendo ingenerato,
l’essere è anche indistruttibile». 65 O’Brien, op. cit., p. 177. 322 di
lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina),
e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15-18). La via (ὁδός) che pensa che
«non-è [e che è necessario non essere]» è abbandonata, in quanto «impensabile
[e] inesprimibile», perché «non genuina» (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla di
«sentiero del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovvero
«indicarlo» «non è in effetti cosa fattibile». L’altra si è invece «deciso»
(κέκριται) «sia\esista» (πέλειν) e «sia reale\genuina\vera» (ἐτήτυμον εἶναι).
Se in B2, nell’economia della lezione divina, è essenziale soprattutto
focalizzare l’attenzione sul valore decisivo della espressione verbale ἔστιν,
preparando il terreno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione
delle «vie», in B8, al contrario, riscontriamo gli effetti della sistematica
applicazione alla prima «via», con altrettanto sistematica esclusione della
seconda. La prima via per pensare (comprendere) afferma ἔστιν; la seconda lo
nega (οὐκ ἔστιν). La prima via completa e assolutizza l’affermazione con la
negazione del non-essere (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), ovvero della possibilità del
non-essere. La seconda via assolutizza la negazione affermando la necessità del
non-essere (ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con la prima via, attraverso l’esplicito
(e incondizionato) rilievo di ἔστιν e dell’impossibilità di μὴ εἶναι, viene
implicitamente imposto l’oggetto pienamente positivo della ricerca (ἐόν, εἶναι);
con la seconda, che nega quanto la prima afferma, viene, di conseguenza,
delineato l’oggetto alternativo, radicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν,
dichiarato al v. 7 come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla
manifestazione. In B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν 323 è necessario il dire e il pensare che ciò che è è:
poiché è possibile essere, il nulla, invece, non è. con la piena esplicitazione
del contenuto delle due vie, avrà poi inizio la disamina critica. Se questa
prospettiva è corretta, allora in B2 le formule della pura affermazione (ἔστιν)
e della pura negazione (οὐκ ἔστιν) - sostenute dalle relative formule modali,
possono generare, in quanto «vie di ricerca» (le sole «per pensare»), due
soggetti diversi e due espressioni tautologiche, su cui appunto Parmenide fa
leva in B6. La necessità di «dire e pensare» che «ciò che è» (il participio ἐόν)
«è, esiste» fonda la propria legittimità sulla duplice premessa: (i) che
«essere» (εἶναι) «è possibile» (ἔστι); (ii) che il «nulla» (μηδέν) «non è» (οὐκ
ἔστιν). Il comune errore dell’opinare umano si accompagna proprio al
fraintendimento della portata di queste tautologie, nella contraddizione
generata dall’affermazione incrociata (ancorché solo implicita) di essere e
non-essere. Alla luce di questa considerazione – ribadendo quanto sopra a
proposito della deliberata opzione parmenidea per forme verbali (ἔστιν - οὐκ ἔστιν),
nel contesto immediatamente impersonali (senza soggetto e predicato) e dal
valore (esistenziale, copultativo, veritativo) ambiguo – appare insostenibile
il tentativo di attribuire τὸ ἐόν come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e
B2.5). Dalle due formule saranno ricavati due soggetti distinti: uno reale (τὸ ἐόν,
appunto, «l’essere»), l’altro fittizio, pura espressione verbale e funzione
logica (τό μὴ ἐὸν, «il non-essere», μηδέν il «nulla»), segnavia di una pista
che la ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso possiamo parlare
di due «vie»: (i) una manifesta la «realtà» (Ἀληθείη) di «ciò che è
(necessariamente); (ii) l'altra spinge a riconoscere (come evidenzia
l'intervento della Dea) l'indisponibilità effettiva di «ciò che non è
(necessariamente)», che pertanto andrà sistematicamente escluso dall'orizzonte
dell'umano indagare. 324 Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si
debba attribuire la contraddizione che, invece, viene denunciata nelle
«opinioni dei mortali»: condivisibile su questo punto quanto sottolineato da
Mansfeld66 . L’identificazione della seconda via con quella del mondo
dell’esperienza è errata: ricordiamo come la seconda via è ancora connotata in
B8.17-18: τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. [Si è deciso] di lasciare l’una [via] impensabile
[e] inesprimibile (poiché non è via genuina). Della via «non è» non si può
concepire un contenuto reale: essa è allora ἀνόητον, ma anche ἀνώνυμον
(letteralmente «senza nome»: non si può indicare ciò che non è in senso assoluto).
Ma sono proprio i «nomi» a caratterizzare il mondo fenomenico, come sottolinea
la stessa divinità (B8.38b.41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome,
quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire,
essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. A rimanere «senza
nome» è definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla, quanto appunto
espresso nella formulazione della seconda via, e designato come τό μὴ ἐὸν. Le
due enunciazioni divine (affermativa e negativa) – in quanto «vie di ricerca,
le uniche per pensare» - devono essere reciprocamente alternative ma in sé
incontraddittorie, e tracciare i percorsi (κέλευθος, ἀταρπός) per i quali: (i)
generare le nozioni di «essere» e «non-essere»; (ii) valutare, in relazione al
coerente ri- 66 Op. cit., p. 55. 325 spetto dell’alternativa concettuale
prodottasi, la consistenza dei punti di vista umani. D’altra parte, il motivo
dell’intransitabilità della seconda via è non il suo carattere contraddittorio
- come accade appunto nel caso della “presunta” via (B6.5-9) che i «mortali che
nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, «uomini a due teste» - δίκρανοι), si
fingono -, ma il fatto che (B2.6-8) «non potresti conoscere ciò che non è, né
potresti indicarlo», in quanto «cosa non fattibile». Prospettata (con la
negazione οὐκ ἔστιν) come alternativa a ἔστιν, la via che pensa «che non è e
che è necessario non essere» è «percorso» (ἀταρπός) assolutamente privo di
contenuti, e quindi indicato come τό μὴ ἐὸν. L’unica via, per la piena
consistenza dei suoi contenuti, effettivamente accessibile e percorribile «per
pensare» (cioè per afferrare la realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui
soggetto sarà esplicitato come ἐόν (B6.1) ovvero τὸ ἐὸν (B8.32), ma già
implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di B2, come formula
contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν. Si è detto67 che l’unico modo per
rispettare il valore oppositivo delle vie che la Dea propone è di mantenere lo
stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che la linea di
pensiero di Parmenide sia stata in realtà un’altra, che in B2 si lascia
intravedere. Attraverso l'asseverazione della tesi «è» (ὅπως ἔστιν), pura
espressione dell’immediata esperienza della realtà, coniugata con la
contestuale negazione modale dell’antitesi («non è possibile non essere», ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι), la divinità pone le premesse per l'estrazione della nozione
positiva di τὸ ἐὸν, che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e
necessario, il soggetto ontologico di cui si manifesteranno le proprietà in B8:
la prima via è in questa prospettiva «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος).
Nei versi 5-8, invece, dall’altrettanto pura negazione (ὡς οὐκ ἔστιν) di
quell’originaria esperienza, coniugata con la relativa formula modale («è
necessario non essere», ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι), ella ricava la nozione di τό μὴ
ἐὸν, marcandone subito l'in- 67 Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221). 326
disponibilità facendo leva su un’ulteriore, immediata evidenza: non è «cosa
fattibile» (ἀνυστόν) conoscere e indicare «il nonessere» (τό μὴ ἐὸν). Il
percorso di Persuasione La rivelazione divina delle «vie di ricerca» è
accompagnata da due rilievi. Relativamente alla via «che è e che non è
possibile non essere», la Dea osserva che: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ
- di Persuasione è il percorso (a Verità infatti si accompagna) (B2.4),
marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e soggettivo, come il
viaggio per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀληθείη): essa appare,
allora, come un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica esclusione del
non-essere) da seguire nell'indagine. Nella stessa prospettiva, le formule
modali di B2.3 e B2.5 possono essere intese come ammonimenti divini, affinché
siano evitati gli sviamenti tipici dei «mortali che nulla sanno»: il «percorso»
(κέλευθος) lungo la ὁδός anticipa effettivamente l’idea della μέθοδος che
Platone introduce68, prospettando poi la filosofia (dialettica) come viaggio69
. 68 In Fedone 79e: Πᾶς ἄν μοι δοκεῖ, ἦ δ’ ὅς, συγχωρῆσαι, ὦ Σώκρατες, ἐκ
ταύτης τῆς μεθόδου, καὶ ὁ δυσμαθέστατος, ὅτι ὅλῳ καὶ παντὶ ὁμοιότερόν ἐστι ψυχὴ
τῷ ἀεὶ ὡσαύτως ἔχοντι μᾶλλον ἢ τῷ μή Mi sembra – disse - che chiunque, Socrate,
anche il più tardo, muovendo da questa via [ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου], debba
convenire che l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò che è sempre
che a ciò che non lo è. 69 Coxon, op. cit., p. 174. Il passo di Repubblica
(532b) è il seguente: 327 L’insistenza sul processo (la via, il percorso) è
importante perché sottolinea come la Dea prospetti, nell’immediato,
essenzialmente la direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razionale
del κοῦρος. In questo senso, la dimensione della (progressiva) scoperta della
realtà autentica (Verità), che culminerà in B8, se da un lato conferma
l’associazione (heideggeriana) tra ἀληθείη e disvelamento (non-nascondimento),
dall’altro accentua gli aspetti di attivo condizionamento del ricercare, donde
il rilievo della “cognizione critica” (B7.5: «giudica con il ragionamento», κρῖναι
δὲ λόγῳ) e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν. La realtà (Verità) è
obiettivo del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea, «si
accompagna», ovvero «tien dietro», ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di
apprendimento, conoscenza e discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella
misura in cui svela la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che
ricerca con intelligenza) lungo la via (che pensa o afferma) «che è e che non è
[possibile] non essere» è ulteriormente marcato – come abbiamo più volte
rilevato – dall'indicazione con cui la Dea stigmatizza l'alternativa, seconda
via (B2.6-8): Τί οὖν; οὐ διαλεκτικὴν ταύτην τὴν πορείαν καλεῖς; Ebbene, non è
proprio questo itinerario che chiami dialettica? Poche righe sotto (532 d-e),
Glaucone invita Socrate a determinare la natura della dialettica: λέγε οὖν τίς ὁ
τρόπος τῆς τοῦ διαλέγεσθαι δυνάμεως, καὶ κατὰ ποῖα δὴ εἴδη διέστηκεν, καὶ τίνες
αὖ ὁδοί· αὗται γὰρ ἂν ἤδη, ὡς ἔοικεν, αἱ πρὸς αὐτὸ ἄγουσαι εἶεν, οἷ ἀφικομένῳ ὥσπερ
ὁδοῦ ἀνάπαυλα ἂν εἴη καὶ τέλος τῆς πορείας Devi dirci allora quale sia il modo
della facoltà della dialettica, quali siano le specie in cui è divisa, e quali
le vie; queste infatti, come pare, sono le vie che potranno condurre là dove,
pervenuti, potrà esservi riposo dal cammino e fine del viaggio. 70 Mourelatos,
op. cit., p. 66. 328 τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro
essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere
ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. Si tratta
di un rilievo decisivo: la divinità mette in gioco l'autorevolezza del proprio
“io” (τοι φράζω, «ti dichiaro») per rivelare, della via «che non è e che è
necessario non essere», che essa è un «sentiero» (ἀταρπός, tracciato
secondario) per cui non si accede alla realtà, lungo il quale non si può fare
esperienza o imparare raccogliendo informazioni. Ciò-che-non-è È in questo
contesto che la Dea introduce la formula τό μὴ ἐὸν (participio sostantivato).
Nella cornice di un processo di indagine che evoca il tradizionale motivo
omerico del viaggio71, la precisazione è netta: il ricercatore che pretendesse
lasciarsi guidare dall'assunto «non è ed è necessario non essere», non potrebbe
propriamente incontrare, né «indicare» (φράζειν) qualcosa. Pensare «che non è e
che è necessario non essere» non porta da nessuna parte: nemmeno la guida
divina può tracciare concretamente tale via, portando a casa un risultato
conoscitivo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν poiché non
potresti conoscere ciò che non è - non è infatti cosa fattibile (B2.7).
Possiamo allora, per contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo
l'assunto «è e non è [possibile] non essere», 71 Mourelatos, op. cit., p. 76.
329 ci si muove verso «ciò-che-è» (verso la realtà-Verità), e che tale percorso
può essere compiuto (cioè è «fattibile» - ἀνυστόν – a differenza dell'altro):
la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni o i criteri della via72 .
Dal momento che – come rivela la dea senza nome - non è in assoluto possibile
(«cosa fattibile») conoscere, ovvero determinare «ciò che (necessariamente) non
è», solo la prima via, che pensa e afferma «che è e che non è possibile non
essere», che muove dalla evidenza «è», è in grado di manifestare la verità, di
estrarre dall’«è» indicazioni positive e ultimative riguardo alla realtà (donde
il successivo impiego delle nozioni equivalenti di ἐόν e τὸ ἐὸν). I dati
fondamentali su cui il κοῦρος è invitato a riflettere sono dunque: (i)
l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprendere]» (in questo senso
esse sono appunto designate come ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito «per
pensare» ne specifica la natura); (ii) la loro reciproca incompatibilità
(sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e alle formule modali - su
cui ancora tra breve); (iii) l’impercorribilità della seconda via: non è
possibile conoscere o indicare «ciò che non è»; (iv) la loro (conseguente)
natura ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare opposti modi
d'essere: la modalità dell'essere necessario e quella del necessario
non-essere73 . B2 attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν per
«nonessere», probabilmente dandone per scontata l’immediata evidenza per il
lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò induce ad anticipare
le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo senso, l’argomentazione di
Parmenide appare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e fondare la
contrapposizione tra τὸ ἐὸν («essere») e τό μὴ ἐὸν («non-essere»)74, marcando
(a) la loro reciproca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere,
così da 72 Ivi., p. 78. 73 Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive
Palmer, op. cit., pp. 83 ss.. 74 Leszl, op. cit., p. 105. 330 concludere
(letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta riconoscere, con Cordero75, che
l'assolutizzazione del concetto di «essere» è ottenuta da Parmenide attraverso
la negazione della contraddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico
del poema (sinteticamente ribadito con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν:
«è [possibile] infatti essere, il nulla invece non è») è così proposto
contestualmente all’unico, fondamentale rilievo sul non-essere: «non è
[possibile] non essere». Due formule: «non è possibile non essere», «è
necessario non essere» Torniamo allora ancora una volta alla formulazione delle
due vie per concentrarci sulla loro struttura formale: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra: non è ed è necessario non essere»(B2.5).
La presentazione di ognuna consiste (nella nostra traduzione) in un verbo
semplice (enunciato non modale), in forma impersonale, coniugato con un
enunciato modale: «è», «non è possibile non essere»; «non è», «è necessario non
essere»76 . Ogni verso è articolato in due coppie di emistichi corrispondenti,
(a) e (b); la prima coppia (a): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν l’una [che pensa] che è, ἡ δ΄ ὡς
οὐκ ἔστιν l’altra [che pensa] che non è; 75 Op. cit., pp. 64-5. 76 O’Brien, op.
cit., p. 182. 331 la seconda coppia (b): τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e che non
è [possibile] non essere [ovvero: che non è possibile non sia], τε καὶ ὡς χρεών
ἐστι μὴ εἶναι e che è necessario non essere [ovvero: che è necessario che non
sia]. La formula della prima coppia (primo emistichio) propone l'opposizione
tra affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la dipendenza di ὅπως e
ὡς da νοῆσαι («le uniche per pensare: l’una che pensa che …, l’altra che pensa
che…») ovvero (come spesso si è fatto) da verba dicendi («l’una che dice che…,
l’altra che dice che…»), non presenta particolari problemi di resa – a parte
quelli (essenziali) già ricordati, relativi al soggetto inespresso e al valore
da attribuire al verbo «essere». Nel caso della seconda coppia (secondo
emistichio) si impongono invece difficoltà nella resa dal greco. Il greco οὐκ ἔστι
può essere predicato verbale («non esiste», «non c’è»), ovvero, come può
apparire naturale alla luce del corrispondente uso dell'espressione χρεών ἐστι
(«è necessario») in B2.5b, e della (comune) relazione con lo stesso infinito (μὴ
εἶναι), può tradursi con epressione modale («non è possibile»). Se, in questo
caso, seguendo Aubenque77, interpretiamo la formula modale οὐκ ἔστι come
sinonima di ἀδύνατον (impossibile), traspare allora l’intenzione parmenidea di
proporre l’alternativa in termini netti: nell’enunciare la tesi della prima via
(l’affermazione «è»), Parmenide marca, indirettamente, la sua necessità
sottolineando l’impossibilità della antitesi (la negazione «non è»). Quanto
affermato nella tesi non può essere negato, non può rovesciarsi nella antitesi:
nella argomentazione della Dea, l’affermazione è collegata strettamente alla
posizione della necessità logica e della impossibilità logica78. Resa italiana
in 77 P. Aubenque, "Syntaxe et Sémantique de l’Être dans le Poème de
Parménide", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 109. 78 Ruggiu, op.
cit., p. 218. 332 questo senso più efficace potrebbe essere: «è e non è
possibile che non sia». A sua volta la formula della seconda via, οὐκ ἔστιν
(«non è»), vede accentuata la propria forza di negazione da un’espressione -
χρεών ἐστι μὴ εἶναι – che ribadisce l’intensità della antitesi («è necessario
che non sia»). L'enunciazione delle vie evidenzia, quindi, per un verso, la
loro assolutezza, per altro la loro reciproca incompatibilità. Non si deve
tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel mettere in guardia il κοῦρος
rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con l'espressione τό μὴ ἐὸν,
stigmatizzando l’impossibilità di afferrarne e determinarne la negatività (οὐ γὰρ
ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», in cui spicca – come nel termine epico
ἀμηχανίη - la strutturale impotenza)79. Le vie non hanno, quindi, una mera
consistenza logica, ma finiscono per enucleare due distinte nozioni
ontologiche. 79 Ivi., p. 220. 333 PENSARE ED ESSERE [B3] Il frammento (è
proprio il caso di usare il termine) ha assunto nel corso dei secoli il valore
di sintetica espressione dell’essenza della filosofia di Parmenide1 : esito
paradossale dell’elaborazione della tradizione, dal momento che,
oggettivamente, esistono difficoltà per la sua contestualizzazione all’interno
del poema, e dunque anche per la sua intellezione. A ciò si aggiunga che, da
parte degli interpreti, sono talvolta considerati con sospetto contesto e
cotesto delle testimonianze di Clemente2 e Plotino3 , che citano il verso
parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi, quella che
appare la traduzione più naturale è stata spes- 1 Tarán, op. cit., p. 41. 2 Il
contesto di Clemente riporta: Ἀριστοφάνης ἔφη· δύναται γὰρ ἴσον τῷ δρᾶν τὸ νοεῖν,
καὶ πρὸ τούτου ὁ Ἐλεάτης Παρμενίδης· τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστί < ν > τε καὶ
εἶναι Aristofane ha detto: «il pensare ha lo stesso potere dell'agire», e prima
di lui Parmenide: [B3]. 3 Il contesto di Plotino (Enneadi V, I, 8) è il
seguente: οὖν καὶ Παρμενίδης πρότερον τῆς τοιαύτης δόξης καθόσον εἰς ταὐτὸ συνῆγεν
ὂν καὶ νοῦν, καὶ τὸ ὂν οὐκ ἐν τοῖς αἰσθητοῖς ἐτίθετο “τ ὸ γ ὰ ρ α ὐ τ ὸνο ε ῖ ν
ἐ σ τ ί τ ε κ α ὶ ε ἶ ν α ι ” λέγων. Καὶ ἀ κ ί ν η τ ο ν δὲ λέγει τοῦτο -
καίτοι προστιθεὶς τὸ νοεῖν - σωματικὴν πᾶσαν κίνησιν ἐξαίρων ἀπ’ αὐτοῦ, ἵνα μένῃ
ὡσαύτως, καὶ ὄ γ κ ῳ σ φ α ί ρ α ς ἀπεικάζων, ὅτι πάντα ἔχει περιειλημμένα καὶ ὅτι
τὸ νοεῖν οὐκ ἔξω, ἀλλ’ ἐν ἑαυτῷ Già Parmenide aveva in precedenza aderito a una
opinione simile a questa, quando riconduceva a unità essere e pensiero, e non
poneva l'essere nell'ambito delle cose sensibili, affermando: [B3]. E dice
anche che è immobile, dal momento che – avendo aggiunto il pensare – gli toglie
ogni movimento corporeo, affinché rimanga nell'identico stato, definendolo
simile alla massa di una palla, in quanto raccoglie tutto in sé e il pensare
non gli è esterno ma interno. 334 so rifiutata, a favore di altre meno
immediate e più tormentate dal punto di vista grammaticale, in quanto si è
intravisto il rischio di fare di Parmenide un neoplatonico ante litteram4 . La
collocazione Nel tentativo di offrire contesto e senso al frammento si è per lo
più operato in due direzioni, che appaiono legittime: (i) ricondurlo a
complemento di B2.7-8 5 e quindi proporlo a sostegno (γάρ) dell'indicazione
secondo cui il non-essere non può essere né indicato né conosciuto6 ; (ii)
proiettarlo verso B6.1-2 e B8.34-37, come in particolare oggi propone Cordero7
, con argomenti convincenti. B3 e B2 Nel primo caso si insiste soprattutto
sulla compatibilità metrica e logica8 con l’ultimo verso di B2: i termini
coinvolti – νοεῖν e εἶναι – sono chiaramente correlati nella prospettazione
delle due vie («le uniche per pensare»), mentre in B2.7 Parmenide utilizza
l’espressione τό γε μὴ ἐὸν per indicare l’oggetto su cui andrebbe a vertere la
seconda via: oggetto che non può essere conosciuto e indicato. B3, dunque, non
farebbe che esplicitare il nesso identita- 4 O’Brien, op. cit., p. 19. D’altra
parte il senso della citazione di Proclo (Theol. plat. I, 66) appare
indiscutibile: ταὐτόν ἐστι τὸ νοεῖν καὶ τὸ εἶναι, φησὶν ὁ Παρμενίδης 5 Come
fanno – più o meno decisamente – Giannantoni, Ruggiu, Coxon, Sellmer, Heitsch,
Gallop, e, in passato, Calogero. Scettici Tarán, Conche, O’Brien. 6 Ruggiu, op.
cit., p. 233. Secondo Calogero (p. 19), B3 andrebbe congiunto a B2.8, con
l’aggiunta dι ὅσσα νοεῖς φάσθαι: si avrebbe così: «perché pensare è lo stesso
che dire che quello che tu pensi esiste». 7 E a suo tempo propose Giorgio
Colli. 8 Coxon (p. 180); Sellmer (p. 33); Gallop (p. 8). 335 rio tra εἶναι e
νοεῖν: le relative nozioni si implicherebbero inscidibilmente9 . Questa
conclusione non è in discussione: essa appare effettivamente il perno della
tesi di Parmenide anche in B6.1 e B8.34- 37, sebbene le traduzioni possano
diversamente modulare la relazione tra i due termini. In discussione è, invece,
il fatto che l’impossibilità di afferrare il nulla (B2.7-8) abbia bisogno della
dimostrazione introdotta da γάρ (B3): non è immediatamente chiaro che nel nulla
non c’è nulla da conoscere, concepire, pensare10? D’altra parte, l’implicazione
tra essere e pensare non sembra, a sua volta, aver bisogno della mediazione di
un argomento: è stato giustamente osservato come, nell’uso greco arcaico, il
verbo νοεῖν non veicolasse la possibilità di immaginare qualcosa di non
esistente, denotando fondamentalmente un atto di riconoscimento immediato11.
Concepito in analogia con la percezione sensibile, νοεῖν comportava nell’uso
che si pensasse appunto qualcosa di dato indipendentemente dall'attività stessa
del pensare, e che il rapporto con l’oggetto fosse del tutto immediato, una
sorta di contatto con esso12 . È possibile che la Dea, in B2.7, si limiti a
rilevare come τό μὴ ἐὸν non possa essere conosciuto, osservando semplicemente:
οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», quasi a richiamare un'evidenza,
per cui non è necessario ulteriore argomento. A questo corrisponderebbe il
rilievo di B3, secondo cui εἶναι si identifica con νοεῖν: leggendo in
continuità i due frammenti, non dovremmo riconoscere alla congiunzione γάρ un
valore esplicativo, piuttosto intenderne nel contesto la presenza a conferma
della tesi di fondo. Dovremmo inoltre, in traduzione, attribuire a νοεῖν non il
generico significato di «pensare», ma, come suggerito da vari interpreti,
quello specifico di «conoscere» o «comprendere» («capire»13 , «Erkennen» 14 ,
«Erfassen» 15 o ancora, più debolmente, 9 Heitsch, op. cit., p. 144. 10 Conche,
op. cit., p. 87. 11 Guthrie, op. cit., pp. 17-8. 12 Leszl, op. cit., p. 67. 13
Cerri. 336 «conceiving»16). L’uso arcaico di νοεῖν evoca effettivamente
funzioni analoghe a quelle del verbo γιγνώσκω (normalmente tradotto con
«conoscere»), sebbene suggerisca in primo luogo il riconoscimento, la capacità
di penetrazione intellettuale17 . B3, B6.1 e B8.34-7 Anche Cordero ammette che
in B2 si stabilisca una relazione tra un oggetto (l’essere), il pensare
quell’oggetto e l’esprimerlo in un discorso: i versi B2.7-8 mirerebbero a marcare
il carattere assoluto e necessario di tale oggetto, essendo la sua negazione
impossibile. Come conseguenza, pensare e parlare non possono fare a meno di
questo oggetto18. Ma per lo studioso è rilevante la connessione con B6.1,
inteso a dimostrare la necessità di quella relazione: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄
ἐὸν ἔμμεναι·(B6.1a) è necessario dire e pensare che – essendo - è 19; e
soprattutto B8.34-7, in cui Parmenide attribuirebbe al pensiero una sola
causa20: il fatto d'essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. oὐ
γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐφ’ [invece di ἐν] ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν·(B8.34-36a)
pensare e ciò a causa del quale c’è il pensiero sono la stessa cosa dal momento
che senza l'essere, grazie a 21 cui è espresso, 14 Heitsch. 15 Sellmer. 16
Coxon. 17 Leszl, op. cit., p. 68. 18 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 83. 19
Usiamo, traducendo in italiano, la versione dello stesso Cordero. 20 Come si
vedrà, noi interpretiamo il passo in modo diverso. 21 Cordero utilizza la
versione ἐφ’ (invece di ἐν), unanimente attestata nei manoscritti di Proclo.
337 non troverai il pensare22 . Cordero osserva come nei due versi successivi
si precisi che «senza l'essere (τὸ ἐόν) […] non troverai il pensare», ciò
comportando che τὸ ἐόν designi sinteticamente quanto introdotto come οὕνεκεν ἔστι
νόημα («ciò a causa del quale c’è il pensiero»). Senza τὸ ἐόν, νοεῖν risulta
privo di fondamento, poiché (γάρ), come osserva Parmenide, c’è solo «l'essere»
(B8.36-7)23: οὐδ΄ ἦν γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος Né,
infatti, esiste, né esisterà altro oltre all’essere. È chiaro come ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ
νοεῖν (B8.34) equivalga a τὸ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν (B3) e quindi è plausibile che τε
καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα (B8.34) articoli la formula più secca τε καὶ εἶναι (B3).
In forza di questo accostamento, difficile sostenere l’interpretazione
idealistica che vorrebbe l’essere dipendente dal pensiero: «senza l'essere» (ἄνευ
τοῦ ἐόντος), il pensiero non esiste; ovvero, positivamente, esso esiste solo
quando esprime qualcosa su ciò che è24 . Da B2 a B3 Mantenendo aperte le due
prospettive e dunque collocando B3 concettualmente tra B2, B6 e B8, il
frammento andrebbe tematicamente inquadrato tra l’esclusione della concreta
possibilità di riferirsi al nulla nel pensiero e nel discorso (quindi della via
«che non è»), la conseguente affermazione della via alternativa alla precedente
(«che è»), e l’esplicitazione delle sue implicazioni per il pensiero e il
linguaggio. L’estrapolazione non consente di stabilire se B3 fosse effettivamente
parte di un argomento ovvero, come sopra abbiamo prospettato, semplice
precisazione a sostegno della tesi di B2. Certamente in B8 l’implicazione tra
pensiero 22 Come per B6.1, traduciamo il testo di Cordero. 23 Cordero, By
Being, It Is, cit., p. 85. 24 Ivi, pp. 88-9. 338 (νοεῖν, con il suo specifico
valore conoscitivo) e essere è inserita in una cornice argomentativa. Un
elemento testuale deve far riflettere l’interprete: Clemente, Plotino e Proclo
citano B3 senza collegarlo in alcun modo a B225 . In altre parole, le tre fonti
del frammento vi leggono l’asserzione dell’identità di pensare (o conoscere) ed
essere, indipendentemente dalla discussione sulle «vie di ricerca»26. Plotino,
in particolare, mostra di intendere B3 chiaramente nell’orizzonte di B8, insistendo
sulla riduzione a unità di pensiero ed essere e sulla posizione dell’essere al
di fuori del campo sensibile («non poneva l’essere nell’ambito delle cose
sensibili»), e parafrasando in tal senso proprio B8. Le ricostruzioni
peripatetiche (Teofrasto e Eudemo) del logos di Parmenide (secondo Simplicio
che riferisce in proposito la testimonianza di Alessandro di Afrodisia) fanno
tuttavia intravedere il nesso tra B2 e B3: τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν· τὸ οὐκ ὂν οὐδέν·
ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ciò che non è, è nulla; dunque,
l’essere è uno (Teofrasto; DK 28 A28) τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν, ἀλλὰ καὶ μοναχῶς
λέγεται τὸ ὄν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ma l’essere si
dice in un solo senso, dunque l’essere è uno (Eudemo; DK 28 A28). Nel citare i
versi 3-8 di B2, Simplicio precisa che essi contengono le «premesse»
(προτάσεις) del discorso di Parmenide: εἰ δέ τις ἐπιθυμεῖ καὶ αὐτοῦ τοῦ
Παρμενίδου ταύτας λέγοντος ἀκοῦσαι τὰς προτάσεις, τὴν μὲν τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὂν
καὶ οὐδὲν λέγουσαν, ἥτις ἡ αὐτή ἐστι τῆι τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, εὑρήσει ἐν ἐκείνοις
τοῖς ἔπεσιν 25 Un punto richiamato da Mansfeld, op. cit., p. 73. 26 Coxon, op.
cit., p. 179. 339 Se invece qualcuno desidera ascoltare da Parmenide stesso
queste premesse, quella che dice che ciò che è oltre l’essere non è ed è nulla,
che è la stessa di quella che dice che l’essere si dice in un modo solo, le
troverà in questi versi [B2.3-8]. Significativamente Diels annota che B3 si
connette a questo: in effetti, l’espressione peripatetica τὸ ὂν μοναχῶς
λέγεσθαι, che chiaramente Eudemo propone come premessa del sillogismo27 ,
comporta la determinazione dell’essere come κατὰ τὸν λόγον ἕν («uno secondo il
concetto»), versione aristotelica di B3. Come rilevato da Mansfeld28, l’unità
concettuale dell’essere funge logicamente da assioma nella ricostruzione
peripatetica di B2: un assioma indipendente, implicito, che Aristotele non
introduce formalmente nella sua ricostruzione: Παρμενίδης μὲν γὰρ ἔοικε τοῦ κατὰ
τὸν λόγον ἑνὸς ἅπτεσθαι […] παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης
ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν Parmenide sembra aver inteso l’uno
secondo la forma (il concetto) […] Poiché egli ritiene che oltre l’essere non
ci sia affatto il non essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno
e null’altro (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b18, 986 b27; DK 28 A24). La
congettura adottata da Mansfeld, per giustificare a un tempo l’uso implicito di
B3 come assioma nella tradizione peripatetica, e la sua autonomia da B2
attestata dalla tradizione neoplatonica, è quella di proporlo come
modificazione della conclusione dell’argomento di B2, per noi solo implicita29:
solo l’essere (ciò che è) vi è allora per pensare e dire. 27 Mansfeld, op.
cit., pp. 78-9. 28 Ivi, p. 73. 29 Ivi, pp. 82-4. 340 Solo l’essere può essere
oggetto per pensare: con τὸ ἐόν Parmenide avrebbe introdotto qualcosa che manca
nella enunciazione della prima premessa (la prima via) del sillogismo di B2 (la
cui conclusione, quindi, avrebbe dovuto essere: «solo la prima via – che è e
che non è possibile non essere – è per pensare»). L’introduzione del soggetto τὸ
ἐόν sarebbe giustificata proprio da B3: nel testo tradito di B2 ci si limita a
rilevare l’impossibilità («non è infatti cosa fattibile») di procedere lungo la
seconda via, designata dalla espressione τό γε μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare
immediatamente – come precisazione - alla conclusione formale, in cui essere e
pensiero sarebbero stati esplicitamente correlati. La Dea allora
sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di vista è una evidenza:
l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in B8.34 ss. con una più
articolata riflessione). Essere e pensare Nella nostra traduzione abbiamo
scelto di mantenere la struttura sintattica più naturale del verso greco, cercando,
allo stesso tempo, di preservarne l’ambiguità: la Dea di Parmenide
didascalicamente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri frammenti)
risultato dell’argomento delineato in B2: (i) da un lato per marcare il nesso
tra νοεῖν e εἶναι e la sua natura intellettuale - così preparando la nota
discriminante rispetto all’ἔθος πολύπειρον, all'«abitudine alle molte
esperienze» (B7.3); (ii) dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος sul
contenuto della prima via (altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν). Il
pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri empirici;
un’attività in cui si è semplicemente chiamati a riconoscere un'evidenza: che –
pur considerando la possibile alternativa – per pensare e conoscere la verità
c’è una sola via da percorrere. Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3
sottolinea lo stretto rapporto tra il percorso (la sola «via di ricerca» che
effettivamente è possibile seguire) e il suo esito: la via è in qualche modo
impo- 341 sta dalla realtà stessa (cui si allude forse con l'infinito εἶναι).
La via (o il metodo) è concepita come la via del discorso (λόγος) che ha
l’essere (ovvero la realtà) come contenuto30 . Quale identità? Nel suo commento
Cerri 31 ha segnalato, nell'identificazione dei due verbi, «stranezza
apparente» e «sinteticità paradossale»: νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della
mente (che viene reso come «capire»), εἶναι uno stato delle cose. L’atto
intellettivo sarebbe dunque solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due
cose (esse sembrano diverse, essendo in realtà la stessa cosa); quell’
identità, invece, l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo. Ruggiu32
sottolinea, da un lato, l’aspetto linguistico dell’identità, la connessione
immediata tra termini nel linguaggio ordinario non considerati identici;
dall’altro l’aspetto che potremmo definire “dialettico” della relazione:
l’identità è anche distinzione e si costituisce come rapporto di reciproca
implicazione. Thanassas, infine, rileva come l’identità tra essere e pensiero
non sia da intendere in senso matematico: il testo greco con τε καὶ suggerisce
un’interazione, una «mutua connessione e reciproca referenza». Nessun pensare
senza essere, nessun essere senza pensare33 . Dall’incrocio con B2, B6 e B8
abbiamo ricavato segnali abbastanza definiti circa la relazione cui allude la
sintetica formula del frammento: (i) rilevata l’impossibilità di percorrere un
corno della disgiunzione tra le vie («è e non è possibile non essere - non è ed
è necessario non essere»), in quanto non si può conoscere (γιγνώσκειν) né
indicare (φράζειν) «ciò che non è», e (ii) probabilmente integrato il rilievo
con la necessaria conclusione positiva circa la effettiva praticabilità della
via alternativa (conoscere e indicare ἐόν, «ciò che è»), la Dea (iii) estrae
quella che nella sua ot- 30 Leszl, op. cit., p. 64. 31 Op. cit., p.193. 32 Op.
cit., pp. 233 ss.. 33 Thanassas, op. cit., p. 39. 342 tica è un’evidenza
basilare, implicita nella impostazione di B2, espressa in termini astratti,
generali, con due infiniti. Il verbo νοεῖν non è più assunto a designare
genericamente un'operazione intellettuale, ma connotato specificamente per
veicolare un atto di riconoscimento (che riassuma sostanzialmente lo spettro
degli altri due verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι, impiegato per denotare
quanto si ritrova, come suo oggetto necessario, al fondo di un pensare che sia
riconoscere-esprimere-indicare: il fatto d’essere. Ma nell’identità accennata
da τὸ αὐτό, la Dea non si riferisce semplicemente alla connessione tra pensare
e essere, ma soprattutto alla reciproca implicazione: non solo il pensiero deve
avere come oggetto ciò che è, ma l’essere deve essere espresso, manifestato nel
pensiero. In apertura di una comunicazione di verità, questa osservazione è
capitale: pur prospettato (più avanti, in B8.34) come «causa del pensiero»
(Cordero), l’essere deve svolgersi completamente davanti al pensiero34, deve
essere pensabile (il che non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di
vista della Dea, almeno, nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere che
la Dea comunica al filosofo (e di cui questi è tramite rispetto ai propri
discepoli e al pubblico di ascoltatori\lettori) è un sapere assoluto35 . Ancora
su pensare e essere Abbiamo insistito, nel commentare il frammento, sul rilievo
della sua collocazione per una corretta attribuzione di significato; in
particolare, proponendolo come sentenza con cui la Dea, ellitticamente, svela
un principio fondamentale della sua rivelazione, dell’esposizione della Verità.
B3 è l’occasione per interrogarsi sul valore di νοεῖν e εἶναι. Abbiamo già
colto indicazioni in tal senso: ipotizzando la prossimità testuale e logica di
B2 e B3, abbiamo determinato il campo semantico di νοεῖν in relazione a
γιγνώσκειν e φράζειν, in- 34 Conche, op. cit., p. 90. 35 Ibidem 343 tendendolo
come atto di riconoscimento immediato; in εἶναι abbiamo individuato la forma
verbale con cui Parmenide esprime l’evidenza presupposta per ogni attività di
pensiero: quanto possiamo indicare come «essere» ovvero il fatto di esistere.
Una certa tensione sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore di νοεῖν. Mentre in
apertura della propria comunicazione la Dea salda l’alternativa delle «vie di
ricerca» a νοεῖν (esse, ribadiamolo, sono «le uniche per pensare»), dunque
collegando al verbo non solo la via positiva, ma anche quella negativa - non
solo quella che avrà il proprio soggetto in τὸ ἐόν (B8.32), ma anche quella che
(non) lo trova (B2.7) in τό γε μὴ ἐὸν -, nella formula sintetica del nostro
frammento il pensare sembra vincolato all’essere, addirittura si afferma che
pensare ed essere sono la stessa cosa. In che senso, allora, è possibile
sostenere la relazione tra νοεῖν e la via: «che non è»? Abbiamo già osservato
in sede di traduzione come i curatori delle edizioni dei frammenti abbiano
spesso optato per determinare νοεῖν in modo da evitare di renderlo
genericamente come «pensare»; ma non è facile aggirare la difficoltà, a meno di
non decidere di mantenere il valore generico in B2.2 e introdurne uno specifico
(comprendere, capire) in B3. Operazione legittima ma un po’ forzata. Secondo
Leszl 36 , invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν come atto puramente intellettuale
(implicitamente da contrapporre all’immediatezza del riscontro sensibile), che
coglie l’alternativa delle vie in quanto possibilità del tutto astratte. Tale
atto, tuttavia, sarebbe in ultima analisi riconducibile a un caso di
intellezione immediata dell’oggetto, consistendo di fatto nel riconoscimento
(intuitivo) della validità del principio del terzo escluso. In attesa di trovar
sottolineato in B4 un ulteriore, essenziale carattere della facoltà indicata
come νοεῖν - la capacità di rendere presente qualcosa che può essere lontano
nello spazio e nel tempo -, possiamo provvisoriamente concludere che: 36 Op.
cit., p. 69. Leszl intende B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι) come
«quali sono le vie di ricerca, le uniche che sono da pensare», quindi
attribuendo a noēsai valore passivo. 344 (i) νοεῖν è inizialmente introdotto in
relazione alle «due vie di ricerca», come loro finalizzazione («le uniche per
pensare») - evidentemente designando un atto di comprensione che dà senso
all’indagine -, ovvero, intendendo diversamente il testo greco, come loro
condizione di possibilità («le uniche da pensare\pensabili»), quindi
accentuandone il significato logico; (ii) νοεῖν – pur non ancora esplicitamente
contrapposto ai sensi – riceve una connotazione metaempirica: le vie sono «per
pensare», non sono fatte per essere esperite percettivamente; νοεῖν è in grado
di evidenziare quanto celato o sfocato nella percezione; (iii) νοεῖν è dunque
attività che si spinge oltre l’immediato sensibile, nel nostro contesto
probabilmente oltre la complessità dei dati empirici, per ridurli al loro
essenziale, al loro comune denominatore (fondamento) ontologico: nello
specifico, il fatto d’essere (condizione del pensare stesso) e la nozione
(opposta) di τό μὴ ἐὸν. In questo senso è giusto designarne la facoltà come
«penetrazione intellettuale»37 . D’altra parte νοεῖν è costantemente
riscontrato su εἶναι o termini connessi: le vie sono determinate come «l’una
che è (e che non è possibile non essere)», «l’altra che non è (e che è
necessario non essere)»; l’oggetto della seconda è ulteriormente ripreso come
«ciò che non è»; attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν, νοεῖν è sovrapposto a εἶναι.
All’acume e intelligenza di sguardo del νοεῖν corrispondono dunque la
profondità e comprensione della nozione di εἶναι, che appare designare, nel
contesto, analogamente al termine Ἀληθείη, ciò che genericamente indicheremmo
come «la realtà», ciò che accomuna le cose che sono. Nell’uso quotidiano
«essere» è sempre oscurato da questa o quella cosa, sempre presupposto in ogni
possibile predicazione («è»): il νοεῖν riconosce come proprio oggetto specifico
e condizione appunto questo presupposto, questa realtà. 37 Ivi, p. 68. 345 ENTI
ED ESSERE [B4] Conservatoci nella sua interezza dalla sola citazione di
Clemente di Alessandria, il frammento ha sempre costituito una croce per gli
interpreti, divisi sul problema della sua collocazione assoluta e relativa:
incerti riguardo alla sua appartenenza alla prima o alla seconda sezione del
poema e (ulteriormente) alla sua posizione e funzione all’interno di esse. In
proposito abbiamo due proposte estreme: (a) Diels, nella sua edizione del 1897,
presentava il nostro testo come primo frammento della prima sezione,
collocandolo subito dopo il Proemio (che in quella edizione, tuttavia,
includeva anche B7.2-6); (b) Bicknell1 e Hölscher2 , al contrario, lo hanno
considerato conclusione dell’opera (collocandolo, quindi, dopo B19)3 , quindi
nella seconda sezione. Possiamo considerare intermedie tutte le altre proposte,
variamente schierate, che fanno registrare convergenze su un punto da
valorizzare, anche perché potrebbe spiegare la oggettiva difficoltà degli
interpreti: il ruolo di cerniera di B4. Secondo Ruggiu, per esempio, esso
collegherebbe i contenuti propri dell’Opinione (τὰ δοκοῦντα), al tema primario
della Verità (τὸ ἐόν), marcando il radicamento del molteplice nell’Essere4 .
Che cosa rende di così difficile contestualizzazione, all’interno del poema, i
versi del frammento? Che cosa contribuisce al disorientamento degli interpreti
– arrivati con Fränkel a negare piena intelligibilità a B4? Si possono
agevolmente individuare tre questioni: 1 P.J. Bicknell, “Parmenides' Refutation
of Motion and an Implication”, «Phronesis», 1, 1967, pp. 1-6. 2 U. Hölscher,
Parmenides von Wesen des Seienden. Die Fragmente, Frankfurt a.M. 1969. 3 In
questo sono stati seguiti anche da L. Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez
Parménide, Ousia, Bruxelles 1986), il quale, tuttavia, nell'ultima edizione
della sua opera (La Pensée de Parménide, Ousia, Bruxelles 2008), ha optato per
un inserimento all'interno di B8 (tra i vv. 41 e 42). 4 Op. cit., p. 245. 346
(i) il ruolo del νόος e la probabile valenza gnoseologica del frammento; (ii)
il nesso tra ἀπεόντα - παρεόντα e τὸ ἐόν (vv. 1-2) e l’ulteriore implicazione
tra gnoseologia e ontologia; (iii) i possibili riferimenti cosmogonici e
relativi obiettivi polemici (vv. 3-4). Il noos e il suo operare Per decidere
del significato del frammento è importante il contesto della citazione di
Clemente Alessandrino (V, 15): ἀλλὰ καὶ Π. ἐν τῶι αὑτοῦ ποιήματι περὶ τῆς ἐλπίδος
αἰνισσόμενος τὰ τοιαῦτα λέγει· [B4], ἐπεὶ καὶ ὁ ἐλπίζων καθάπερ ὁ πιστεύων τῶι
νῶι ὁρᾶι τὰ νοητὰ καὶ τὰ μέλλοντα. εἰ τοίνυν φαμέν τι εἶναι δίκαιον, φαμὲν δὲ
καὶ καλόν, ἀλλὰ καὶ ἀλήθειάν τι λέγομεν· οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς
εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι. Ma anche Parmenide, nel suo poema, alludendo
alla speranza, sostiene cose di questo genere: [citazione], in quanto anche
colui che spera, come colui che ha fede, con il pensiero vede le cose
intelligibili e quelle a venire. Se ora affermiamo che c'è qualcosa di giusto,
diciamo anche che c'è qualcosa di bello, ma anche che c'è qualcosa di vero:
nessuna di queste cose, tuttavia, mai vediamo con gli occhi, ma solo con il
pensiero. L’autore alessandrino sottolinea come quel che Parmenide afferma in
B4 alluda enigmaticamente (questo il senso del verbo αἰνίσσομαι: adombrare,
alludere per enigmi) alla ἔλπις (e alla πίστις) cristiana: il saper
rappresentare (rendere presente) il futuro da parte dell’intelligenza (νόος).
In questo senso, Parmenide riconoscerebbe al νόος la capacità di rendere
presenti enti assenti e 347 lontani 5 . La prospettiva appare certamente
gnoseologica, investendo una facoltà cognitiva che Clemente decisamente
caratterizza rispetto all’organo di senso: un «vedere» (εἴδομεν) «con il
pensiero» (τῶι νῶι) contrapposto (con l’avversativa) al vedere «con gli occhi»
(τοῖς ὀφθαλμοῖς). Ad accentuare l’opposizione troviamo anche l’indicazione di
oggetti specifici (τὰ νοητὰ) per l’intelligenza, diversi (significativo
l’accostamento a τὰ μέλλοντα, «le cose a venire») da quelli immediatamente
colti sensibilmente: si osserva, infatti: οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς
εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι nessuna di queste cose mai vediamo con gli occhi,
ma solo con il pensiero. Cose assenti presenti Ora, se passiamo alla citazione,
possiamo effettivamente intravedere la ragione del suo recupero da parte di
Clemente: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· Considera come cose
assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1). La Dea, che ha
la parola, invita il κοῦρος a osservare e prendere in considerazione come «cose
assenti (o lontane)» (ἀπεόντα) possano risultare «al pensiero» (νόῳ) a un tempo
«presenti (o prossime)» (παρεόντα). Precisando ulteriormente: οὐ γὰρ ἀποτμήξει
τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι non impedirai, infatti che l'essere sia connesso
all'essere (B4.2). 5 Per l’analisi della testimonianza di Clemente è essenziale
e convincente il contributo di C. Viola, “Aux origines de la gnoséologie:
Réflexions sur le sens du fr. IV du Poéme de Parménide », in Études sur
Parménide, cit., t. II, pp. 69-101. 348 È chiaro come la possibilità di pensare
(rappresentare) cose assenti o lontane come presenti o prossime passi
attraverso la consapevolezza dell’omogeneità di τὸ ἐόν: il νόος raccoglie e
supera, nella omogeneità di τὸ ἐόν, le differenze che si impongono sul piano
empirico. Il νόος, in questo modo, si impone come uno sguardo altro rispetto a
quello dei sensi, in grado di superarne le discriminazioni alla luce di una
realtà che solo l’intelligenza stessa dischiude. È indicativo il fatto che Parmenide
scelga un verbo – λεῦσσω – etimologicamente legato a λευκός (nel linguaggio
omerico «chiaro», «limpido»), che porta con sé dunque l’idea di chiarezza,
luminosità, trasparenza6 . Un verbo che può essere direttamente messo in
relazione con νόος (νόῳ), per assumere il valore di «chiarire con il pensiero
[l'intelligenza]». I primi due versi di B4, quindi, si prestano alla curvatura
gnoseologica che il contesto della citazione di Clemente implica, senza
tuttavia comportarne necessariamente le opposizioni; senza imporre, in
particolare, l’opposizione tra due inconciliabili visioni, sensibile e
spirituale, come ha correttamente rilevato la Stemich, sottolineando come in λεῦσσε
νόῳ siano a un tempo coinvolti entrambi gli elementi 7 . Possiamo inoltre
marcare come il frammento non autorizzi a retroiettare in Parmenide una teoria
dei due mondi (sensibile e intelligibile, ovvero presente e futuro), ma
semplicemente registri due distinte modalità di guardare alla realtà:
l’immediato sguardo sensibile e la più accorta considerazione
dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni. Con il risultato (che
traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due prospettive, una
soggetta a distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia del poema sono
accentuate come «opinioni dei mortali» e «Verità»). È nostra convinzione (che
presuppone una complessiva interpretazione del pensiero di Parmenide) che
proprio da questo frammento possano ricavarsi preziose indicazioni riguardo
alla capacità dell’intelligenza di superare la frammentazione del dato 6 Viola,
op. cit., p. 80. 7 Stemich, op. cit., p. 178. 349 empirico, raccogliendone
pluralità e differenze nella unità e compattezza dell’Essere. L’uso del plurale
ἀπεόντα-παρεόντα, quindi del singolare τὸ ἐόν, segnalerebbe appunto come ἀπεόνταπαρεόντα
siano (-εόντα), in quanto τὸ ἐόν mantiene l’unità e la compattezza
(nell’Essere) di tutti i suoi momenti8 . Elementi che puntano in direzione
della seconda sezione del poema. I due versi iniziali autorizzano, dunque, ad
associare a νόος (e νοεῖν) due distinte ma coordinate operazioni: (i) superare
i vincoli spazio-temporali “presentificando” la pluralità dispersa
(spazio-temporalmente), rappresentando presenti «cose assenti»; (ii) cogliere
la loro connessione (veicolata dal verbo ἔχεσθαι) in τὸ ἐόν (ovvero il fatto
che τὸ ἐόν è connesso a τὸ ἐόν). La seconda operazione è propriamente
“ontologica”, nel senso che riconosce e traduce in termini di τὸ ἐόν la
molteplicità espressa nei due plurali del primo verso (ἀπεόντα-παρεόντα): la si
è voluta leggere anche come un portare le cose lontane-assenti alla presenza
dell’essere9 . Lo spessore gnoseologico (ed epistemologico) del passaggio
consiste nel fatto che l’oggetto (τὸ ἐόν) cui il νόος è riferito,
direttamente10 o indirettamente11, è diverso dagli oggetti molteplici ai sensi
(senza tuttavia trasformarsi in una entità che neghi la molteplicità del
mondo12): li abbraccia e li raccoglie interamente, senza dislocarsi su un piano
di realtà altro. Come nota puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che
si spinge oltre l’immediato sensibile, rendendo presente l’assente, senza la
sua preliminare evidenza percettiva: un pensare del tutto intellettuale, che ha
per oggetto qualcosa che si impone 8 Ruggiu, op. cit., p. 241. 9 Couloubaritsis,
Mythe et Philosophie, cit., p. 336. 10 Se accettiamo che ἀποτμήξει sia terza
persona singolare dell’indicativo futuro, con νόος appunto soggetto sottinteso
del verbo. 11 Nel caso si legga (come facciamo noi, ma di recente anche Palmer
e Tonelli) lo stesso verbo in seconda persona singolare futuro indicativo
medio, e la Dea quindi si limiti a esortare il κοῦρος a non ostacolare la
connessione di τὸ ἐόν. 12 Thanassas, op. cit., p. 43. 350 all’intelligenza13.
Non deve però essere trascurato un aspetto del passaggio: il movimento dalla
assenza alla presenza rivela che l’uomo è comunque radicato nel mondo, legato
allo spazio\tempo14. Così, nel contesto di un discorso che verte sulle «vie di
ricerca», che focalizza il «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), non
può sfuggire il fatto che il νόος sia connotato dinamicamente, attraverso quel
movimento, che porta con sé anche la potenzialità del suo errare15: la sua
conoscenza è esposta alla distorsione. È possibile che l’operare del νόος
riceva ulteriore significazione dall’accostamento a λεῦσσω, che Omero
utilizzava per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e
avvenire per comprendere il presente 16. Una capacità associata alla maturità
dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei giovani, e
che nel poema potrebbe avere un riscontro nella relazione didascalica tra θεά e
κοῦρος. «…saldamente presenti» Ritornando sull’apertura di B4, è chiaro che
l’uso dell’avverbio βεϐαίως (saldamente) nel primo verso, e l’intero contenuto
del secondo contribuiscono a determinare νόος come un pensiero che conduce alla
continuità e stabilità dell’essere: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano
comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l'essere
[ciò che è] sia connesso all'essere (B4.1-2). 13 Op. cit., p. 68. 14
Couloubaritsis, op. cit., p. 340. 15 Viola, op. cit., pp. 94-5. 16
Couloubaritsis, op. cit., pp. 336-7. 351 Effetto dell’operare del νόος è la
solidità della connessione degli enti (-εόντα), al di là delle loro coordinate
spazio-temporali, e il riconoscimento del loro comune denominatore nell’Essere
(τὸ ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da una parte, illumina
e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta di introdurre
discriminazioni (spazio-temporali) in τὸ ἐόν 17. Alla luce di B3, esso aderisce
completamente all’ἐόν: l’avverbio βεϐαίως veicolerebbe allora l’idea di
stabilità, costanza, caratteristica dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto), ma
suggerirebbe pure qualcosa circa l’atteggiamento di chi è sulla strada della
verità: la certezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di B1.29) di un
modo di vedere, corrispondente a un modo d’essere; a un νόος saldo e pieno di
fiducia18 . Dal momento che manca una specifica argomentazione a sostegno della
affermazione di B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven, West, Gallop) hanno messo
in relazione B4 con B8.22-5: οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ
τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν
ἐόντος. Τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει Né è divisibile, poiché è
tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò
tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Questa indicazione,
concettualmente apprezzabile, non comporta inevitabilmente una presa di
posizione sulla collocazione del frammento nel complesso del poema. Non
implica, in altre parole, necessariamente la dipendenza di B4 da B8 e dunque a
una sua dislocazione nella sezione sulla Doxa (o addirittura all’interno dello
stesso B8, dopo i versi 22-5). Forse, accettandone le impli- 17 Viola, op.
cit., p. 100. 18 Robbiano, op. cit., p. 130. 352 cazioni cosmologiche, la
funzione di B4 potrebbe essere stata prolettica, nella introduzione del
discorso della Dea, che poi B8 avrebbe articolato e precisato. È significativo
che nella sua prima edizione del poema (1897), come abbiamo sopra ricordato,
Diels proponesse l’attuale B4 come B2, dunque all’inizio sostanzialmente della
prolusione divina. Rimane comunque l'impressione che il frammento possa aver
svolto, nell'economia dell'esposizione divina, un ufficio di raccordo, tra le
due sezioni, analogamente a B9. In alternativa, valutando soprattutto il
contesto della citazione di Clemente e la sua intenzione di marcare la
differenza tra visione percettiva e visione spirituale, e convenendo con
Coxon19 che Parmenide non sia in questo frammento interessato alla natura
dell’Essere (la cui indivisibilità sarà argomentata proprio in B8.22-5), ma
alla natura del νόος come capacità intellettuale, potremmo ipotizzare il
posizionamento di B4 in relazione ai rilievi di B6 e B7 sui rischi della
«abitudine alle molte esperienze» (ἔθος πολύπειρον). L’espressione kata kosmon
e le implicazioni cosmologiche Sono comunque gli ultimi due versi (3-4) del
frammento a rappresentare il maggior cruccio per gli interpreti, soprattutto
per la determinazione del valore del greco κατὰ κόσμον e del senso della
dinamica imperniata intorno ai due participi σκιδνάμενον e συνιστάμενον, che
indicano dispersione e raccoglimento. Essi sono riferiti immediatamente a τὸ ἐόν,
della cui connessione interna (rilevata dal νόος) costituiscono una
alternativa: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ
πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον 19 Op. cit., p. 187. 353 non impedirai,
infatti, che l'essere sia connesso all'essere, né disperdendosi completamente
in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4.2-4). Parmenide si limita
a stigmatizzare la prospettiva di un moto – ordinato (conforme a un ordine) -
di disseminazione e concentrazione degli enti, quale potrebbe essere rappresentato
dalle cosmogonie ioniche, ovvero, più specificamente si riferisce a un modello,
intenzionalmente impiegando il termine κόσμος per designare l’assetto
complessivo della realtà? Il noos e il cosmo Che egli possa aver imboccato –
tra i primi - questa seconda direzione, è suggerito dai passi paralleli -
segnalati dagli editori - in Empedocle (B17.18-21; riferimento già in Clemente)
e Anassagora (B8), in cui la dimensione cosmologica è indiscutibilmente
centrale, implicando un’ontologia influenzata da Parmenide: πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα
καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος, Νεῖκός τ’ οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον ἁπάντηι, καὶ
Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε πλάτος τε· τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο
τεθηπώς Fuoco e Acqua e Terra e l’altezza immensa dell’Aria, e Contesa,
disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque, e Amore, in essi, uguale in
lunghezza e larghezza. Osservala con l’intelligenza, non restare con sguardo
stupito (Empedocle; DK 31 B17.18-21). οὐ κεχώρισται ἀλλήλων τὰ ἐν τῶι ἑνὶ
κόσμωι οὐδὲ ἀποκέκοπται πελέκει οὔτε τὸ θερμὸν ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ οὔτε τὸ ψυχρὸν ἀπὸ
τοῦ θερμοῦ Nell’unico universo non si trovano separate le cose, le une dalle
altre, e non risultano tagliati a scure né il caldo dal freddo né il freddo dal
caldo (Anassagora; DK 59 B8). 354 Nel suo commento a B4, Cerri ha invece
richiamato l’attenzione sulla pagina iniziale del trattato Sul cosmo per
Alessandro attribuito ad Aristotele (ma più probabilmente di autore
genericamente peripatetico20), che contiene passaggi che sembrano
effettivamente riecheggiare i versi parmenidei: Πολλάκις μὲν ἔμοιγε θεῖόν τι καὶ
δαιμόνιον ὄντως χρῆμα, ὦ Ἀλέξανδρε, ἡ φιλοσοφία ἔδοξεν εἶναι, μάλιστα δὲ ἐν οἷς
μόνη διαραμένη πρὸς τὴν τῶν ὄντων θέαν ἐσπούδασε γνῶναι τὴν ἐν αὐτοῖς ἀλήθειαν,
καὶ τῶν ἄλλων ταύτης ἀποστάντων διὰ τὸ ὕψος καὶ τὸ μέγεθος, αὕτη τὸ πρᾶγμα οὐκ ἔδεισεν
οὐδ’ αὑτὴν τῶν καλλίστων ἀπηξίωσεν, ἀλλὰ καὶ συγγενεστάτην ἑαυτῇ καὶ μάλιστα
πρέπουσαν ἐνόμισεν εἶναι τὴν ἐκείνων μάθησιν. Ἐπειδὴ γὰρ οὐχ οἷόν τε ἦν τῷ
σώματι εἰς τὸν οὐράνιον ἀφικέσθαι τόπον καὶ τὴν γῆν ἐκλιπόντα τὸν ἱερὸν ἐκεῖνον
χῶρον κατοπτεῦσαι, καθάπερ οἱ ἀνόητοί ποτε ἐπενόουν Ἀλῳάδαι, ἡ γοῦν ψυχὴ διὰ
φιλοσοφίας, λαβοῦσα ἡγεμόνα τὸν νοῦν, ἐπεραιώθη καὶ ἐξεδήμησεν, ἀκοπίατόν τινα ὁδὸν
εὑροῦσα, καὶ τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ συνεφόρησε, ῥᾳδίως,
οἶμαι, τὰ συγγενῆ γνωρίσασα, καὶ θείῳ ψυχῆς ὄμματι τὰ θεῖα καταλαβομένη, τοῖς
τε ἀνθρώποις προφητεύουσα. Τοῦτο δὲ ἔπαθε, καθ’ ὅσον οἷόν τε ἦν, πᾶσιν ἀφθόνως
μεταδοῦναι βουληθεῖσα τῶν παρ’ αὑτῇ τιμίων Ho più volte pensato che la
filosofia sia cosa veramente divina e sovrumana, o Alessandro, e soprattutto in
quell'aspetto per cui essa, da sola, innalzandosi alla contemplazione dei
componenti della realtà nella loro totalità, si è impegnata a conoscere la
verità che è in essi. E, mentre tutte le altre scienze si tennero lontane da
questa verità a motivo della sua altezza e grandezza, la filosofia non temette
l'impresa e non si reputò indegna delle cose 20 Rivendica la paternità
aristotelica dell’opera G. Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul cosmo per
Alessandro attribuito ad Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996. 355 più
belle, e, anzi, ritenne che la conoscenza di quelle cose fosse in sommo grado
congenere alla propria natura e massimamente conveniente. Infatti, poiché non
era possibile col corpo raggiungere i luoghi celesti, lasciare la terra e
contemplare quelle sacre regioni, come follemente tentarono gli Aloadi,
l'anima, mediante la filosofia, preso l'intelletto come conduttore, varcò il
confine e abbandonò l'ambiente che le è familiare, avendo trovato una via che
non stanca. E le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel
pensiero, con facilità, credo, perché riconobbe le cose che le sono congeneri e
con il divino occhio dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli
uomini. E questo le accadde perché desiderava, nella misura in cui era
possibile, far partecipi senza restrizione tutti gli uomini dei suoi tesori21 .
Quello che risulta interessante - in chiave eleatica – è, nei versi empedoclei
e nelle righe peripatetiche, il nesso tra lo sguardo del pensiero (νόος,
διάνοια) e la dimensione del tutto - le quattro radici in Empedocle, il
riferimento agli elementi della totalità nello pseudo-Aristotele; nel frammento
anassagoreo, invece, l’uso di κόσμος nel senso evidentemente di universo,
complesso del mondo (e non genericamente di ordine), come rivelato dal
riferimento ai tradizionali contrari cosmogonici «caldo-freddo», unitamente
alla negazione della separazione delle cose nella unità del κόσμος. Lo stesso
Empedocle (DK 31 B26.5) impiega κόσμος nella formula εἰς ἕνα κόσμον («in un
unico mondo») nell’ambito della descrizione degli effetti cosmogonici
dell’alternanza ciclica di Amore e Contesa; mentre in Eraclito (B30: κόσμον
τόνδε), il termine è presente in senso già prossimo al valore cosmico, per
indicare cioè l’ordine delle cose. L’espressione del pensatore agrigentino
«osservala con l'intelligenza» (τὴν σὺ νόωι δέρκευ) sembra effettivamente
ricalcare il parmenideo λεῦσσε νόῳ, così come la pseudo-aristotelica «le cose più
lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero» (τὰ πλεῖστον ἀλλήλων
ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ 21 Ivi, p. 175. 356 συνεφόρησε) richiama
complessivamente B4.1 (λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως).
L’impressione è che i versi del Περὶ φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose
lontane e vicine, assenti e presenti, allo sguardo del νόος, fossero
chiaramente significativi in prospettiva cosmologica già nel V secolo
(Empedocle, Anassagora), a ridosso della sua composizione: forse perché
estrapolati dalla sezione cosmologica del poema, forse perché in quel senso
andava inteso l’insieme dell’impegno parmenideo (come si evincerebbe in
particolare dalla ripresa peripatetica, che risente tuttavia della lezione
aristotelica). La possibile (probabile) implicazione cosmica, l’accenno alla
dinamica di concentrazione-dispersione (eco plausibile della cosmogonia di
Anassimene), e, in relazione a τὸ ἐόν, il rilievo della funzione omogeneizzante
del νόος potrebbero suggerire ancora una posizione introduttiva del frammento
rispetto alla revisione cosmologica proposta dall’Eleate (sulla scorta della
lezione di B8): premessa, dunque, alla vera e propria esposizione
fisicocosmologica della seconda sezione. Disperdendosi, concentrandosi I versi
3-4 alludono a qualche specifico precedente cosmologico-cosmogonico, ovvero
dobbiamo pensare a un riferimento generico? Gli interpreti sono divisi anche su
questo punto: qualcuno, come Coxon22, vi coglie una polemica nei confronti
della teoria di una sostanza prima soggetta a condensazione e rarefazione
(Anassimene23, pur non escludendo il coinvolgimento polemico di Eraclito DK 22
B9124); altri, come Guthrie25, ritengono Parmenide 22 Op. cit., p. 189. 23 Su
questo concordano Reinhardt, Gigon, Albertelli. 24 Il frammento recita: ποταμῶι
γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι καθ’ Ἡράκλειτον οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι
κατὰ ἕξιν < τῆς αὐτῆς >· ἀλλ’ ὀξύτητι καὶ τάχει μεταβολῆς σκίδνησι καὶ
357 alluda a Eraclito (B91)26; altri ancora, come Conche27, valorizzando l’intenzione
ontologica del frammento, dubitano che possa riferirsi a fenomeni di
condensazione-rarefazione, giudicando tale lettura “obiettivista”, superficiale
e banale. In realtà, se si prende sul serio l’interesse cosmologico del poema
di Parmenide, pare corretto individuarne un obiettivo polemico, da cui il
filosofo avrebbe preso le distanze: nella logica dell’opera si potrebbe
ipotizzare che la riflessione più strettamente ontologica offra gli strumenti
concettuali per contestare alternativi modelli esplicativi della natura e
fondare una più consapevole e coerente teoria fisica. Schematicamente
convincente la lezione di Graham28, il quale, ammiccando a Thomas Kuhn,
individua tre “paradigmi” scientifici, successivamente attivi tra VI e V secolo
a.C.: (i) quello con cui originariamente si ricercò la scaturigine (φύσις)
degli enti, il loro principio (ἀρχή), e si tentò di inquadrare i fenomeni
naturali, indicato come Generating Substance Theory (GST); (ii) quello che
avrebbe, secondo l’autore, radici nella seconda parte del poema parmenideo e
sarebbe poi stato sviluppato, più o meno coerentemente, dai pensatori
tradizionalmente designati come “pluralisti” (Empedocle, Anassagora, atomisti),
definito come Elemental Substance Theory (EST); πάλιν συνάγει (μᾶλλον δὲ οὐδὲ
πάλιν οὐδ’ ὕστερον, ἀλλ’ ἅμα συνίσταται καὶ ἀπολείπει) καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι
Non è possibile scendere due volte nello stesso fiume, secondo Eraclito, né si
può toccare due volte una sostanza mortale nell'identico stato; ma, per lo
slancio e la velocità del mutamento, si disperde e di nuovo si raccoglie
(piuttosto, non di nuovo né dopo, ma a un tempo si riunisce e si separa), viene
e va. 25 Op. cit., p. 32. 26 Su questo concordano Diels, Nestle, Cornford,
Vlastos, Calogero, Mondolfo. 27 Op. cit., p. 94. 28 D.W. Graham, Explaining the
Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University
Press, Princeton and Oxford 2006. 358 (iii) quello espresso pienamente nei
frammenti di Diogene di Apollonia, riconosciuto come Material Monism (MM). Il
primo corrisponde al programma scientifico ionico, così riassunto per punti29:
a) esiste una sostanza originaria da cui tutto il resto è sorto; b) esiste un
processo per cui gli elementi costitutivi del cosmo scaturiscono dalla sostanza
originaria; c) tali elementi si dispongono negli strati materiali del cosmo; d)
le strutture e i materiali del cosmo si stabilizzano nell’ordine che
conosciamo; e) emergono gli esseri viventi; f) un’ampia varietà di fenomeni è
spiegabile secondo il modello. Rispetto a questo paradigma (modulato da
Anassimene nel senso di una vera e propria teoria del mutamento30), Eraclito
(cui è dedicata da Graham un’analisi convincente31) avrebbe abbandonato l’idea
di primato della «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo
universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra,
acqua). È alla luce di questi precedenti, in particolare dell’impatto della
lezione di Eraclito32, che Graham interpreta l’ontologia di Parmenide. La prima
parte del Περὶ φύσεως metterebbe in campo tutti gli strumenti concettuali per
negare il divenire come generazione dal non-essere e affermare una concezione
di «ciò che è» che l’autore ritiene compatibile con il pluralismo di sostanze
ingenerate, incorruttibili, omogenee, immutabili e complete (Graham parla di
Eleatic Substantialism): la seconda sezione (Doxa) avrebbe quindi proposto una
cosmologia basata sulle proprietà focalizzate nella Aletheia, coerente con i
principi della metafisica di Parmenide33 . Lasciando per il momento in sospeso
altre valutazioni, la collocazione della riflessione dell’Eleate proposta da
Graham appare 29 Ivi, pp. 8-9. 30 Ivi, pp. 45-84. La rivalutazione del
contributo del “terzo” milesio è uno degli aspetti più interessanti dell’opera.
31 Ivi, pp. 113-147. 32 Ivi, pp. 148-162. 33 Ivi, pp. 182-5. 359 sensata e
potrebbe aiutare a leggere correttamente anche il nostro frammento. Da un lato,
infatti, i versi attestano un ruolo del νόος chiaramente inteso a ricondurre
gli ἀπεόντα alla presenza di τὸ ἐόν, negando quindi lo spazio del non-essere
potenzialmente implicito nel movimento assenza-presenza; dall’altro anticipano
(ovvero sottintendono) i rilievi di B8 sull’omogeneità dell’essere, per
rifiutare quelle proposte esplicative che sembravano comportare, di fatto,
accanto all’essere del principio\natura, l’implicita ammissione del non-essere.
Anassimene (DK 13 B1), in effetti, sulla base di quanto espone Plutarco,
avrebbe sostenuto: τὸ γὰρ συστελλόμενον αὐτῆς καὶ πυκνούμενον ψυχρὸν εἶναί
φησι, τὸ δ’ ἀραιὸν καὶ τὸ χ α λ α ρ ὸ ν (οὕτω πως ὀνομάσας καὶ τῶι ῥήματι)
θερμόν [Anassimene] dice infatti che la parte dell’aria che si contrae e si
condensa è fredda, mentre la parte che è dilatata e “allentata” (è proprio
questa l'espressione che usa) è calda […] (DK 13 B1). Eraclito, a sua volta:
σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει [...] καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι […] si disperde e di
nuovo si raccoglie […] viene e va (DK 22 B91). Il frammento di Parmenide – un
breve passaggio nelle centinaia di versi complessivi del poema – potrebbe
dunque essere risultanza di una più o meno esplicita evocazione dei precedenti
ionici, per marcare l'originalità del contributo eleatico soprattutto in
termini di coerenza – come attesterebbe l’insistenza sul νόος e sul suo operare
- con i presupposti taciti nella stessa concezione della realtà della φύσις- ἀρχή
ionica. Proprio questa possibile funzione critica farebbe di B4 una sorta di
passe-partout per il poema: 360 (i) come controparte gnoseologica
dell’argomentazione di B8 e dunque degli effetti paradossali di una coerente
riflessione ontologica rispetto ai dati del senso comune; (ii) come trait
d'union tra la sezione ontologica e quella cosmologica, a sottolinearne la
continuità, cioè nell’ambito di una positiva interpretazione della φύσις sulla scorta
della Verità, come vuole Ruggiu34 . 34 Op. cit., p. 251. 361 UN’ESPOSIZIONE
CIRCOLARE [B5] Il breve frammento ci è conservato in una citazione di Proclo,
che lo connette a B8.25 (ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, «ciò che è si stringe infatti a
ciò che è») e B8.44 (μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ, «a partire dal centro ovunque di
ugual consistenza»), riferendolo dunque all’Essere. In realtà, come spesso è
stato riconosciuto, è difficile sfuggire all’impressione di una
decontestualizzazione disorientante. Se l’indicazione di Proclo può suggerire
un suo significato ontologico, in linea, per altro, con la relazione tra νοεῖν
e εἶναι che emerge da B3 e la dinamica ἀπεόντα-παρεόντα-τὸ ἐόν di B4, è forte
tuttavia tra gli interpreti l’opzione metodologica, che appare in qualche
lettura particolarmente convincente1 . Anche nel caso di B5, la questione del
suo significato è decisiva per la sua collocazione. Laddove prevalga il rilievo
del suo senso ontologico, l’attuale sequenza può essere mantenuta2 . Laddove,
al contrario, sia privilegiato il senso metodologico del frammento, il suo
posizionamento nell’attuale ordinamento del materiale andrebbe rivisto (come
fanno, tra gli altri, Pasquinelli e Coxon), a ridosso di B1 e prima di B2, come
preliminare della esposizione divina. Registrata la ricorrenza dell’immagine
del cerchio all’interno delle citazioni del poema - la verità «ben rotonda»
(B1.29); l'analogia tra τὸ ἐόν e εὐκύκλου σφαίρης ὄγκος («massa di ben rotonda
palla», B8.43); il discorso sulla verità indicato come ἀμφὶς Ἀληθείης (B8.51);
il concetto di «limite estremo» (πεῖρας πύματον, B8.42) – appare comunque
forzata la conclusione di Ruggiu3 , secondo cui B5 esporrebbe la forma nella
quale l’Essere esprime la propria natura. Soprattutto se teniamo conto della
possibilità che il materiale conservato rappresenti solo una quota minoritaria
dei versi del poema integrale. Nell’ambito della comunicazione della Dea,
invece, il passo potrebbe essere inteso e marcare lo scarto tra 1 È il caso
dell’analisi di Coxon e di quella di Conche. 2 Ovvero, ipotizzando una
(improbabile) lacuna in B8 (Cornford), potrebbe essere accettato il suo
inserimento tra i due riferimenti di Proclo. 3 Op. cit., p. 253. 362 sapere
divino e sapere umano: la necessità di un ordine espositivo rivolto al κοῦρος e
la sua indifferenza rispetto alla conoscenza di chi lo propone. Conche4 ha
giustamente messo in relazione il frammento con il programma di insegnamento
annunciato dalla Dea: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι È necessario che tutto tu
apprenda (B1.28). La verità che il κοῦρος apprenderà è la verità del Tutto, un
sapere compiuto: i limiti dell’uomo non consentono tuttavia che tale sapere sia
acquisito tutto in una volta. È necessario un ordine, corrispondente alle tappe
di una ricerca, modalità tipicamente umana di accedere alla conoscenza. Il
percorso, la via da seguire (affermazione di una via ed esclusione di un’altra,
ecc.) rappresentano un escamotage didattico che ha senso solo per il discepolo,
non per la Dea: per lei il punto di partenza e l’ordine di esposizione sono
indifferenti. In relazione a una verità definita nel poema εὐκυκλής («ben
rotonda»), Cerri valorizza, a sua volta, la prospettiva didascalica del
frammento5 , rafforzata dal possibile accostamento a Eraclito (DK 22 B1036 ) e
dall’eco nel Sofista platonico (237a7 ): Parmenide implicherebbe una sorta di
circolarità della ricerca scientifica e del discorso che la espone8 . 4 Op.
cit., p. 98. 5 Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo
coinvolgimento all’interno di una (in vero implausibile) specifica
argomentazione geometrica. 6 Il frammento recita: ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ
κύκλου περιφερείας Comune è, in effetti, nella circonferenza del cerchio il
principio e la fine. 7 Il passo è il seguente: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι
τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ
παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους 363 In ogni caso, alla luce
della successiva trattazione dell’Essere e del mondo della natura, sembra
difficile poter insistere su tale circolarità, come ha opportunamente segnalato
Coxon9 : nel primo caso, infatti, lo sviluppo argomentativo procede in una
direzione lineare; nel secondo l’esposizione delle «opinioni dei mortali»
doveva diffondersi sul piano storico-descrittivo. Né è plausibile che la
circolarità indifferente possa riferirsi al complesso delle due esposizioni,
dipendendo la comprensione della seconda dalle analisi della prima10.
Indifferente e circolare, invece, potrebbe essere considerata la discussione
delle possibili vie di ricerca, non necessariamente legata a un ordine di
sequenza e in questo senso indifferente rispetto all’argomento da articolare.
Come segnala Coxon11, la circolarità di quella preliminare discussione sarebbe
contrapposta alla linearità degli argomenti sviluppati lungo la via imboccata
verso la Verità (B8). Una variante interessante è quella avanzata da
Bicknell12, che abbiamo registrato nelle annotazioni alla traduzione:
intendendo ξυνὸν come a basic point, B5 potrebbe essere immediatamente
anteposto alla κρίσις di B2, per marcare come a essa l’argomentazione della Dea
avrebbe dovuto ripetutamente richiamarsi. τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε
λέγων καὶ μετὰ μέτρων [DK 28 B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che sia
ciò che non è: il falso, in effetti, non potrebbe generarsi in altro modo. Il
grande Parmenide, invece, ragazzo mio, a noi che eravamo ragazzini proprio
contro questo discorso testimoniava dall'inizio alla fine, in prosa e in versi,
che [citazione B7.1-2]. 8 Cerri, op. cit., p. 202. 9 Op. cit., pp. 171-2. 10 In
questo senso non convince il rilievo di Pasquinelli (I presocratici, p. 396)
sulla presunta comunanza di tutti i punti del discorso della Dea. 11 Op. cit.,
pp. 171-2. 12 P.J. Bicknell, “Parmenides, DK 28 B5”, cit., pp. 9-11. 364 ESSERE
E NULLA [B6] Il frammento, ricostruito a partire dalle sole sparse citazioni di
Simplicio (quindi, come osserva Cordero1 , ricomparso a un millennio dalla
stesura del poema), è dallo stesso commentatore per un verso direttamente
connesso a B22 , per altro proiettato su B7 e B8: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ
συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9]
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Sostiene che le
proposizioni contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la
contraddizione non sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono
insieme gli opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione
B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro
che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9]
e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2],
soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2). È dunque
introduttivamente importante, per una valutazione del senso e della posizione
del testo, ricordare che la citazione di Simplicio è intesa a confermare l’uso
condizionante del principio di contraddizione3 (donde l’accostamento a B2) come
premessa 1 By Being, It Is, cit., p. 90. 2 Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo
aver citato B2.3-8. 3 In questo senso Simplicio ne confermava l’implicita attribuzione
a Parmenide da parte di Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35): 365 che lo
stesso Simplicio salda esplicitamente all’argomento ontologico successivo (B8).
In effetti, il primo verso e il primo emistichio del secondo sono richiamati
dal commentatore, in altro contesto, proprio per marcare il nesso tra pensiero
ed essere: ἀλλὰ καὶ τὸ πάντων ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν εἶναι λόγον τὸν τοῦ ὄντος ὁ
Παρμενίδης φησὶν ἐν τούτοις [B6.1-2a]. εἰ οὖν ὅπερ ἄν τις ἢ εἴπῃ ἢ νοήσῃ τὸ ὄν ἐστι,
πάντων εἷς ἔσται λόγος ὁ τοῦ ὄντος Ma che la nozione di tutte le cose sia una e
la stessa, quella dell'essere, Parmenide sostiene in questi versi: [B6.1-2a] Se
proprio l'essere è ciò di cui è possibile dire e pensare, di tutte le cose vi
sarà una sola nozione, quella dell'essere (In Aristotelis Physicam 86, 25-30).
Per la sua discussa interpretazione è corretto e inevitabile rinviare al
complesso B2-B3, a maggior ragione ipotizzando che gli attuali B4 e B5 siano
fuori posto (in particolare che B5 possa precedere immediatamente B2 e B4
trovarsi a cavaliere tra prima e seconda sezione). È possibile, infatti,
intravedere nei versi e nel contesto della citazione la centralità del
riferimento critico a τό μὴ ὥστ’ ἐπεὶ δῆλον ὅτι ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι (τοῦτο γὰρ
αὐτοῖς τὸ κοινόν), τοῦ περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν γνωρίζοντος καὶ περὶ τούτων ἐστὶν ἡ
θεωρία. διόπερ οὐθεὶς τῶν κατὰ μέρος ἐπισκοπούντων ἐγχειρεῖ λέγειν τι περὶ αὐτῶν,
εἰ ἀληθῆ ἢ μή, οὔτε γεωμέτρης οὔτ’ ἀριθμητικός, ἀλλὰ τῶν φυσικῶν ἔνιοι, εἰκότως
τοῦτο δρῶντες· μόνοι γὰρ ᾤοντο περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος
Così, in quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in
quanto sono (l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui
che indaga l'essere in quanto essere anche lo studio di questi [assiomi].
Perciò, nessuno di coloro che si limitano all'indagine di una parte si cura di
dire qualcosa di essi, se siano veri o no: non il geometra, né il matematico.
Ne parlarono, tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di
essere gli unici a ricercare sul complesso della natura e sull'essere. 366 ἐὸν
(Simplicio: τὸ μὴ ὂν), formula estratta dalla seconda «via di ricerca» di B2,
che evidentemente aveva costituito il preliminare oggetto di discussione nella
parte mancante del primo logos della Dea. Come rivela l’ampio dibattito intorno
alla traduzione del testo greco e alla sua intellezione, il frammento è
decisivo per determinare: (i) la natura delle «vie di ricerca per pensare»;
(ii) il numero di tali vie; (iii) l’obiettivo della polemica parmenidea. In
particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento oggetto di
contesa l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ εἰδότες οὐδέν («mortali
che nulla sanno»), δίκρανοι («uomini a due teste»), e ἄκριτα φῦλα («schiere
scriteriate»), che molti hanno inteso come allusioni a Eraclito e seguaci,
trovando nelle espressioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale
(come abbiamo segnalato in nota): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9). La natura delle vie Il
primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fornire nell’insieme
un asserto e le condizioni che lo giustificano (come evidenziato dal ricorso
all’indicatore di premessa γάρ), introducono il primo problema interpretativo:
χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν che
può rendersi letteralmente come: 367 È necessario il dire e il pensare che ciò
che è è; poiché è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è possibile
infatti essere], il nulla, invece, non è». La nostra traduzione4 ricava due
formule modali («è necessario», «è possibile») dal testo greco, che appare
invece immediatamente costruito su tre formule tautologiche: ἐὸν ἔμμεναι
(letteralmente: «ciò che è [l'essere] è»), ἔστι εἶναι (che si potrebbe rendere
letteralmente: «è essere» ovvero «[l']essere è»), μηδὲν οὐκ ἔστιν (letteralmente:
«ni-ente non è»). L’essere dell’ente Il primo emistichio è costituito da tre
blocchi testuali: (i) l’espressione verbale χρή, che abbiamo reso come «è
necessario»: si tratta di una formula con cui la Dea rileva un passaggio
significativo della propria comunicazione, proposto come conclusione di un
argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ); (ii) le due forme
verbali all’infinito – λέγειν e νοεῖν – precedute da τό, con valore di articolo
sostantivante («il [fatto di] dire», «il [fatto di] pensare»), ovvero, come
crede qualcuno, di dimostrativo in funzione prolettica («dire questo e pensare
questo: ….»); in ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge due
verbi particolarmente pregnanti nel contesto della sua rivelazione: νοεῖν
richiama immediatamente B3 e B2.2 (νοῆσαι), mentre λέγειν può collegarsi a
φράζω (B2.6-8); (iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι, formato dal participio
presente del verbo «essere» (ἐόν, forma ionica di ὂν: «essente», ovvero «ente»
o ancora «ciò che è» e quindi anche «essere») e dall’infinito dello stesso
verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che 4 Per le costruzioni e traduzioni
alternative rinviamo alle note testuali al frammento. 368 abbiamo reso, come
appare naturale, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta da λέγειν e
νοεῖν: si tratta della prima formulazione ambigua (per la multivocità del verbo
essere) della tautologia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa che esprimerla in
negativo: da una lato l’«ente» di cui si afferma l’essere, dall’altro il «ni-ente»
di cui si nega lo stesso essere). Nel contesto la traduzione proposta appare
plausibile, ed evidenzia la difficoltà di interpretazione dell’ultimo blocco:
la scelta di Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità semantica
della coppia participio-infinito dello stesso «essere», per marcare l’identità
di soggetto e verbo. L’effetto ricercato potrebbe essere quello – su cui
giustamente insiste la lettura heideggeriana di Beaufret 5 e Conche 6 - di
richiamare l’attenzione sull’εἶναι (ἔμμεναι) dell’ἐόν, sull’essere di ciò che
è; ovvero, più semplicemente, sul fatto d’essere, sull'evidenza dell'esistenza.
È da tener presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come: οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· poiché non potresti
conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo.
B6 si apre appunto sostituendo all’espressione negativa τό μὴ ἐὸν di B2.7 il
positivo ἐόν; al rilievo dell’impossibilità di conoscere e indicare (esprimere)
«ciò che non è», quello della necessità di dire e pensare l’«essere» dell’ἐόν.
Nel passaggio interviene l’importante novità dell’introduzione del soggetto di
εἶναι (ἔμμεναι), ἐόν appunto: l’affermazione «è e non è possibile non essere»
(B2.3: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) che caratterizzava il Πειθοῦς
κέλευθος, «percorso di Persuasione», trova in B6.1a ἐόν come proprio naturale
soggetto di referimento. Nella sequenza B2-B6, possiamo intendere ἐόν come
formula concettuale scaturita dalla riflessione sull'espressione della prima
via di 5 Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, cit., p. 81. 6 Op.
cit., p. 102. 369 ricerca per pensare7 : formula che manifesta l’essere di ciò
di cui si afferma ἐστίν, ovvero come formula sintetica riassumente la totalità
delle cose che si manifestano nella esperienza (come ricorda Thanassas8 , è
frequente l’uso del plurale ἐόντα nella sezione sulla Alētheia) di cui ἐστίν
focalizza il fatto d’essere: ciò che è, l’ente, la “cosa”, «è», esiste. Siamo
portati decisamente a credere che, nel contesto, il valore di ἔμμεναι sia
esistenziale, pur avendolo reso ambiguamente con «essere». L’uso dell’iniziale
χρή – anche senza volergli attribuire il significato forte di necessità logica
– è funzionale alla ripresa della conclusione negativa di B2 riguardo a τό μὴ ἐὸν,
integrata dal rilievo di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa
cosa, infatti, è pensare ed essere. Delle «due vie di ricerca» di B2 – le
uniche «per pensare» - quella che pensava che «non è» è di fatto indisponibile,
perché, come abbiamo ricordato, «ciò che non è» non è conoscibile né
esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso tra νοεῖν e εἶναι,
tra il pensiero che svela (νοεῖν) e l’unico suo reale oggetto possibile (εἶναι)
alla luce dell’iniziale alternativa tra le vie. Nell’apertura di B6, ai due
infiniti (λέγειν e νοεῖν) viene esplicitamente attribuito un oggetto: la
dichiarativa ἐὸν ἔμμεναι («ciò che è è»). La Dea non si limita in questo modo a
riprendere ed esplicitare la propria tesi: sottolinea anche come pensiero e
discorso debbano correttamente ammetterla9 . A tale scopo, in B6.1b-2a, ella
reitera nella sostanza le risultanze di B2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
essere, infatti, è possibile, 7 Thanassas, op. cit. p. 45. 8 Ivi, p. 44. B4.1-2,
B8.25, B8.47-8. 9 Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il carattere
di necessità logica che Cordero attribuisce a χρή. 370 il nulla, invece, non è.
La formula ἔστι εἶναι può estrarsi positivamente dall'insieme di affermazione e
proibizione nella prima «via di ricerca per pensare»: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι. L'espressione μηδὲν οὐκ ἔστιν, a sua volta, ribadisce l'assolutezza
della seconda via: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, attribuendo
coerentemente a οὐκ ἔστιν un adeguato soggetto logico. La traduzione dei due
emistichi e la loro interpretazione sono comunque particolarmente controverse.
Essere, non-essere Traducendo letteralmente: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
abbiamo almeno tre possibili costruzioni e relative plausibili soluzioni: (i)
intendere il precedente ἐὸν come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del
secondo: poiché [ovvero: infatti] è essere, il nulla, invece, non è; (ii)
intendere ἐὸν come soggetto di entrambi, con μηδὲν predicato (come εἶναι):
poiché [ovvero: infatti] è essere, e non è nulla; 371 (iii) intendere εἶναι
come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero:
infatti] l'essere è, il nulla, invece, non è. Nell'ultimo caso, esplicitamente
ritroveremmo la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι, accompagnata dai due soggetti
logici (il primo εἶναι, il secondo μηδέν) che la trasformano in una duplice
asserzione tautologica (quindi vera). Per molti versi si tratta della versione
più naturale10, ma ha lo svantaggio di non dare del tutto ragione dell’uso di
γάρ. Seguendo una affermazione (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι), esso
dovrebbe introdurre le proposizioni in grado di giustificarla: ora la doppia
tautologia (si tratta dell’aspetto che rende più perplessi) sembra
semplicemente riformulare la dichiarativa (εἶναι funge da soggetto in
sostituzione di ἐόν), negando l’essere al soggetto contrario («[il] ni-ente»).
La Dea, dunque, sosterrebbe la propria tesi direttamente, marcando la non
esistenza del non-essere: oggetto del dire e del pensare non può allora che
essere «ciò che è», perché solo «ciò che è [l’essere] è [esiste]». Il vantaggio
di questa soluzione è quello di mettere in valore la possibile struttura delle
due vie di B2: come abbiamo osservato, la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι è riformulata
in termini tautologici, dunque investirebbe in realtà due verità, in questo
senso proposte come le uniche vie di ricerca per pensare11, una delle quali
(sviluppare coerentemente la premessa «che è») feconda, l’altra (sviluppare
coerentemente la premessa «che non è») assolutamente improduttiva. Questo
spiegherebbe il tono del discorso della Dea, che cambia e si fa sprezzante solo
quando denuncia la confusione dei βροτοί che incrociano le due vie: come fa
osservare Giorgio 10 Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal fatto che due
codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι. 11 In questo senso la lettura
della Germani, op. cit., p. 191. 372 Colli12, la via enunciata in B2.5 non era
stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade invece con quella
formulata a partire da B6.4. Le altre due soluzioni, in fondo, non si
allontanano concettualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto
dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso («poiché è
essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'essere di «ciò che
è» (ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del
"ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno naturale) la Dea
otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che «ciò che è» è «essere» e non è
«nulla». È necessario, è possibile, non è possibile Un’interessante soluzione
alternativa alla traduzione letterale è quella proposta da O’Brien: essa,
rendendo ἔστι\οὐκ ἔστι con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre espressioni
modali: necessità (χρή), possibilità (ἔστι), impossibilità (οὐκ ἔστιν): Il faut
dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est possible d’être, il n’est pas
possible que ce qui n’est rien. Poiché è possibile essere ed è impossibile che
il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti nel ragionamento) dovranno
riconoscere come loro oggetto necessario l’ente. Come ricorda l’autore13,
infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono ἐόν e μηδέν: il
primo può esistere, il secondo no. La difficoltà di questa interpretazione è
principalmente legata alla lingua greca, in cui ἔστι assume valore potenziale
in relazione con un infinito: è dunque legittima la traduzione del secondo
emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella quale, 12 Gorgia
e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti,
Adelphi, Milano 2003, p. 175. 13 O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I,
p. 214. 373 non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
< εἶναι >). Anche Mansfeld14 opta per una (diversa15) resa potenziale in
entrambi i casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur riconoscendo
ininfluente la traduzione con valore esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto
di fare). Parmenide potrebbe dunque aver derivato, dall’affermazione della
possibilità dell’essere e dalla negazione del nulla, la necessità che l'essere
sia16 . Resta comunque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 17 , per cui,
attribuendo alle due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la
simmetria e soprattutto l'uniformità nell’impiego del verbo. Le due vie di B2
in B6 In apertura di B6, insomma, la Dea ritorna sull’alternativa delineata in
B2, precisandola: sottolinea la necessità (correttezza) del riconoscimento
dell’ἐόν come oggetto di λέγειν e νοεῖν, escludendo che μηδέν (τό μὴ ἐὸν di
B2.7), teorico contenuto della via di ricerca «non è ed è necessario non
essere», esista. In pratica ci troviamo di fronte a una riproposizione in
positivo della conclusione di B2. La puntualizzazione riguarda «le uniche vie
di ricerca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς οὐκ ἔστιν
si sostituiscono le espressioni tautologiche – ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, e μηδὲν
οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione, dunque, di adeguati soggetti logici. 14 Op.
cit., p. 90. 15 Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts
hingegen kann nicht sein». 16 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha
osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 (ἐὸν ἔμμεναι) sia l'enunciazione
della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò confermerebbe,
secondo Colli, i soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa
lettura fa cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una
congiunzione delle due vie. Tra la possibilità che l’essere sia e la necessità
che il nulla non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe
a sua volta necessità. 17 Op. cit., p. 133. 374 In B2 la Dea aveva prospettato
due potenziali percorsi di indagine – gli unici «per pensare»: (i) l'uno,
ricercava pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, in pratica
sviluppando le implicazioni dell'affermazione di esistenza - «è» - e negando
possibilità al non-essere: valorizzando il significato arcaico di νοεῖν (come
un vedere che coglie immediatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere
che lungo questa pista di indagine il focus era destinato a concentrarsi
assolutamente sull'essere; (ii) l’altro, al contrario, tentava la ricerca
imboccando la direzione opposta, pensando cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι, nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione «non è»
rinforzata dal vincolo di necessità: in tal modo la seconda «via di ricerca per
pensare» tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in tale
direzione non vi era «ni-ente» (μηδὲν) da vedere e riferire. La seconda via
poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e
sostanzialmente per confermarne la necessità: non è possibile νοεῖν, nel senso
originario di percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva
immediatamente connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace
di condurre alla vera realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente chiarimento
in merito era giunto però solo nei versi successivi, quando, a proposito della via
alternativa, ella aveva ammonito che τό μὴ ἐὸν è indisponibile all’effettiva
conoscenza ed espressione. In B2.7 la Dea aveva dunque estratto l'oggetto della
seconda via, implicitamente ponendo quello della prima. In B6.1-2a, abbiamo
l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄
ἐὸν ἔμμεναι e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati delle formule delle
vie: «ciò che è è» (ovvero «l'essere è») e «il nulla [ovvero, letteralmente:
ni-ente] non è». A questa lettura – che ha conseguenze, come vedremo,
sull'interpretazione dell’intero frammento - si contrappone in particolare 375
quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel complesso 6.1b-6.2a
si registrerebbe la presentazione della prima via18: «il nulla non esiste» di
B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: «non è possibile non
essere», riferendosi quindi alla prima via19. In questo senso si è orientato di
recente anche Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la Dea
alluderebbe invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di
essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo,
come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ ἐόντα «che esistano cose che non sono»). La
struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è necessario»
riconoscere (dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι – è la compiuta, esplicita
espressione della formula per la prima via; a sua giustificazione sono addotte
la possibilità dell'essere e l'inesistenza del nulla. È decisivo soprattutto
questo rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la
seconda via e τό γε μὴ ἐὸν: essa era «sentiero del tutto privo di informazioni»
(παναπευθής ἀταρπός) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e
indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μηδὲν οὐκ ἔστιν,
come elemento dimostrativo per richiamare l’attenzione sulla necessità
dell'opposto ἐὸν ἔμμεναι. Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la
riconsiderazione critica (argomentativa) del Πειθοῦς κέλευθος («percorso di
Verità»), inizialmente introdotto in forma direttiva, sia la definizione
ufficiale del suo oggetto: ἐόν. Il numero delle vie È indicativa la formula
utilizzata per valorizzare l’argomento proposto in apertura di B6: la Dea,
infatti, con espressione caratteristica dell’epica omerica ed esiodea, insiste:
18 By Being, It Is, cit., p. 99. 19 Ivi, p. 105. 20 Parmenides &
Presocratic Philosophy, cit., pp. 112-3. Palmer offre comunque
un'interpretazione diversa delle vie. 376 τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα Queste cose
io ti esorto a considerare, che sembra richiamare l’invito iniziale di B2: εἰ
δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura
della parola, una volta ascoltata. Come in quel caso, la Dea sottolinea il
rilievo dell’alternativa tra le due vie per la corretta comprensione della
realtà: il fraintendimento della loro natura, in effetti, è all’origine della
confusione dei «mortali che nulla sanno», come appureremo tra breve.
Analogamente, dopo aver presentato la via « è ed è necessario non essere», la
Dea si premura di osservare (B2.6): τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν
Questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni; in B6.3,
allora, ella ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che «il nulla invece
non è»): πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω > Da questa prima
via di ricerca, infatti, ti < tengo lontano >. Questa versione del testo
greco, con l’integrazione della lacuna dei codici assunta da Diels (sulla base
di una tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata
vigorosamente avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas21 (e dalla
Curd22), i quali propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo ἄρχω-ἄρχομαι
(forma media), «cominciare»: 21 A. Nehamas, “On Parmenides’ Three Ways of
Inquiry”, «Deucalion», 33-34, 1981, pp. 197-211. 22 Di ciò diamo conto in nota
al testo greco. 377 πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει >
since you < will begin > with this first way of investigation, πρώτης γάρ
σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος << ἄρξω > For, first, < I will begin
> for you from this way of inquiry. L’esigenza di mettere in discussione la
lezione tradizionale, sebbene giustificata da un punto di vista filologico
dalla oggettiva corruzione del testo dei manoscritti (con l’ulteriore
possibilità che la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla
incoerenza cui si va incontro interpretando i primi due versi del frammento
come ripresa della sola via «che è e che non è possibile non essere», da cui,
ovviamente la Dea non potrebbe «trattenere» ovvero «tenere lontano»23, bensì
solo «cominciare» o invitare a cominciare. Pur segnalando la lacuna e
riconoscendo la coerenza degli argomenti filologici di Cordero, non crediamo
necessario integrare secondo la sua lezione 24 , ma offrirla solo come
possibilità. L’interpretazione che proponiamo è coerente con la lettura
tradizionale, dal momento che consente di riferire il complemento iniziale e il
dimostrativo ταύτης alla formula μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Essa evocava l'unica indicazione
desumibile dalla via di indagine «che non è e che è necessario non essere»:
l'oggetto che se ne può estrarre in verità non esiste. È probabile che dopo
l'enunciazione delle due vie la Dea avesse condotto la discussione a partire
dalla seconda, mettendo in guardia dal suo coinvolgimento: B6 e B7
rappresenterebbero la conclusione di tale disamina, mirata ad affermare la
necessità del riconoscimento che ἐὸν ἔμμεναι. In questo 23 Noto, per inciso
che, nel caso del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione τ’ dei codici BC a
quella σ’ (pronome personale) di D (con E e F), di cui si era sottolineata, per
la lezione del verso precedente, la bontà. Traducendo con il personale «ti»,
l’integrazione proposta risulterebbe impraticabile nel caso di Cordero, meno
naturale nel caso di Nehamas («comincerò per te»). 24 Che appare comunque
plausibile, dal momento che la costruzione ἄρχεσθαι + ἀπό è caratteristica
nella letteratura greca arcaica. 378 senso, la seconda via prospetta diventa
«prima» nell’ordine espositivo. Da questa prima via di ricerca, poi da quella….
Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva su B2 per sostenere un
modello duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una difficoltà, che la
soluzione di Cordero e Nehamas effettivamente sembra risolvere, indicando una
sequenza nell’esposizione della Dea. Adottando la congettura di Cordero
avremmo: πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ
τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > con questa prima via di
ricerca comincerai, poi con quella che mortali che nulla sanno s’inventano. Una
sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del poema, e richiamare
B8.50-52, considerato passaggio conclusivo della Alētheia e introduzione alla
Doxa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε
βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine
per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare. 379 Nella tradizione interpretativa, è stata decisiva (come
per altri aspetti) la presa di posizione di Karl Reinhardt25, il quale, dal
confronto tra B2 e B6, ricavò l’indicazione di tre vie: (i) quella che affermerebbe
«l'essere è» (ricavata da B2); (ii) quella che affermerebbe (a) «l'essere non
è» (ricavata da B2) ovvero (b) «il nonessere è» (ricavata da B7.1); (iii)
infine quella che affermerebbe «l'essere sia è sia non è» ovvero «sia l'essere
sia il non-essere sono». La prima via da evitare (nella lettura tradizionale di
Diels di B6.3) sarebbe la seconda via di B2; l’altra via da evitare (B6.4)
sarebbe allora una terza via rispetto alle due menzionate in B2: dal momento
che essa esplicitamente coinvolge la condizione dei mortali, Reinhardt
concludeva che dovesse concernere l’ambito dell'opinione26. È proprio per
precisare questo passaggio classico delle interpretazioni parmenidee che il
nodo delle vie richiede di essere affrontato e risolto (per quanto è possibile)
in questa sede. A noi appaiono indiscutibili alcuni punti: (i) B2 delinea in
modo netto una alternativa (ἡ μὲν ὅπως ... ἡ δ΄ ὡς), marcando l’esaustività
(«le uniche per pensare ») delle «vie di ricerca» prospettate; (ii) B2 offre
con «le uniche vie di ricerca per pensare» due direzioni d'indagine lungo le
quali dirigersi: (a) la prima muove dall’immediata evidenza: «è» (ἔστιν),
estraendone «essere» (εἶναι) e respingendo la possibilità della sua antitesi (οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι); (b) la seconda dalla connessa negazione: «non è» (οὐκ ἔστιν),
marcando la necessità del non-essere (χρεών ἐστι μὴ εἶναι); (iii) lo stesso B2
registra immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine,
infatti, non potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe
discernervi alcunché: non è possibile conoscere né indicare «ciò che non è»;
(iv) le «vie di ricerca per pensare» sono introdotte come vere e proprie
premesse della complessiva esposizione della Dea: le sue 25 Nel suo epocale K.
Reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio
Klostermann, Frankfurt a.M. 1916. 26 Sulla questione molto chiara la
ricostruzione di Leszl, op. cit., pp. 120-1. 380 parole («io dirò - e tu abbi
cura della parola, una volta ascoltata») suggeriscono il rilievo cruciale
dell'alternativa per il kouros (e dunque anche per il discepolo, l’ascoltatore
e il lettore); (v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla
Dea la responsabilità di sostenere come possibile via di indagine («per pensare»!)
la tesi contradditoria: οὐκ ἔστιν ἐόν - «via dell'errore», come vorrebbe
Cordero27: è vero, piuttosto, che alla seconda via si alluderà (B8.17-8) come οὐ
ἀληθής ὁδός («via non genuina»), percorso di indagine che non può
concretizzarsi in conoscenza; (vi) dalle due vie, invece, potranno essere
estratte due verità basilari per le successive argomentazioni: l'essere è
necessariamente, il non-essere non esiste. Mentre si potrà procedere
ulteriormente a determinare la prima via (seguendo i σήματα di B8), nulla potrà
dirsi di più della seconda, evocata solo per marcare la necessità della
direzione d'indagine alternativa. Come segnala la Germani 28 (e, in una
prospettiva diversa, Cordero29 ), potrebbe in questo senso non essere casuale
l'eco parmenidea della formulazione aristotelica del principio del terzo
escluso: τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν
εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές dire che l'essere non è o che il non essere
è è infatti falso; [dire] che l'essere è e il non essere non è è invece vero
(Metafisica IV, 7 1011 b26-27). B6.1-2 costituirebbe, quindi, lo sviluppo della
conclusione di B2: la Dea, rievocando (implicitamente) l'alternativa tra le
vie, afferma la necessità di riconoscere che «ciò che è è» (ἐὸν ἔμμεναι),
attraverso il rilievo della possibilità di «essere» (ἔστι 27 By Being, It Is…,
cit., p. 73. 28 Op. cit., p. 193. 29 By Being, It Is…, cit., p. 105 nota. 381 εἶναι),
e dell’inesistenza del nulla (μηδὲν οὐκ ἔστιν) 30. In B8.15-18 il passaggio
sarà richiamato: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται
δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός -
τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò:
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via]
impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra
invece esista e sia reale. Il testo è significativo, secondo noi, perché
scandisce efficacemente le sequenze del procedimento parmenideo: (a)
introduzione (logica: le vie sono per pensare) della disgiunzione «è\non è»;
(b) esclusione della via «che non è» in quanto ἀνόητον e ἀνώνυμον (che
richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoscimento dell’unica via
praticabile per la ricerca: essa esiste è vera\reale (ἐτήτυμον), mentre l’altra
non lo è (non è «genuina», ἀληθής), non può costituirsi, per sua natura, come
effettivo percorso di ricerca. Liquidata la via ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι in quanto percorso di ricerca impraticabile («il nulla non è»), prima
ancora di dedicarsi al sondaggio dell’unica via genuina (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι), la Dea si sofferma sull’erronea «invenzione» dei «mortali che
nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), effetto del colpevole misconoscimento
delle implicazioni nell’alternativa ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Ancorché prospettata
come ὁδὸς διζήσιος, la strada imboccata dai βροτοὶ εἰδότες οὐδέν è chiara- 30
L’argomento sarebbe quindi: (i) ἔστι εἶναι, (ii) μηδὲν οὐκ ἔστιν ® ἐὸν ἔμμεναι. 382 mente
caratterizzata, nelle scelte espressive dell’autore, come illusione31 .
L’impotenza dei mortali Il registro linguistico all’interno dei frammenti del
poema muta sensibilmente, per assumere i toni della risentita disapprovazione:
αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >,
δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον e poi da quella
che appunto mortali che nulla sanno , uomini a due teste: impotenza davvero nei
loro petti guida la mente errante (B6.4-6). Questi versi assumono una grande
importanza soprattutto per lo sfondo culturale che sembrano evocare: Gigon,
Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la terminologia parmenidea,
ricavata da formule consolidate dell’epica e della lirica greca arcaica,
veicoli un senso tragico dell’esistenza. Non a caso Jaeger32 richiama i versi
del Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema Sulla
natura): λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν’ ἀνθρώποις ἔχων, ἀλλ’ ὧν δέδωκ’ εὔνοιαν ἐξηγούμενος·
οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι
μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα 31 Soprattutto se intendiamo il
verbo retto da βροτοί come forma di πλάσσομαι, «mi invento» e non di πλάζω
«vado errando», come interpreta Diels, seguito da molti altri. 32 W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 155. L’autore osserva: «par di
sentire l’eco di un’esortazione religiosa». 383 Parlerò senza disprezzo per gli
uomini, narrando solo del favore dei miei doni. Dapprima essi, pur avendo
occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni
simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo,
Prometeo incatenato 445-50). Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6, sia
impegnato a stigmatizzare una condizione mortale, facendo riecheggiare spunti
della tradizione letteraria che si possono ancora riscontare nella produzione
filosofica del V secolo in Eraclito ed Empedocle. La ἀμηχανίη segna la
costituzione dei βροτοί (ricordiamo che è una divinità a parlare, ribadendo un
consolidato stereotipo già impiegato dal poeta nel proemio): l’«impotenza» si
traduce in una sorta di paralisi della comprensione, in una confusa percezione
della realtà e in un vano orientamento. Proprio come denunciato da Prometeo.
Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito, Parmenide pone l’accento
sull'incapacità di discriminare tra le due vie, e dunque su un intreccio
perverso di essere e non-essere: l’obiettivo polemico appare dunque una falsa interpretazione
del mondo reale, dell’esperienza, di cui si sottolineerà l’inconsapevole
consolidamento nel linguaggio del sentire comune, in una vera e propria
“seconda natura” (ἔθος di B7.3)33 . La Dea riferisce ai «mortali»una prima
serie di caratteristiche negative. Li qualifica come εἰδότες οὐδέν, «che nulla
sanno», una formula frequentemente impiegata nell’epica e nella lirica per
indicare la limitatezza dell’orizzonte umano34 (concentrato sul presente,
immemore del passato e ignorante del futuro)35 . Li connota come δίκρανοι,
«uomini a due teste», coniando un termine ad hoc per alludere allo specifico
deficit di comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie comporta che
quei mortali guardino contemporaneamente in due direzioni. Attribuisce loro la
“finzio- 33 Su questo Ruggiu, op. cit., p. 257. 34 Ivi, p. 259. 35 A questa
situazione mortale era stata contrapposta la conoscenza rivendicata in B1.3 (εἰδώς
φώς). 384 ne” (πλάσσονται, «si inventano») di una via: invenzione evidentemente
frutto della confusione delle «uniche vie di ricerca per pensare». Denuncia la
loro ἀμηχανίη, la debolezza per cui la loro mente (νόος) cede all’attrazione
del non-essere - alla vertigine del nulla, come si esprime Conche36. In tal
modo ella collega a un impulso irrazionale la chiave dell’erranza dei mortali: ἐν
αὐτῶν στήθεσιν, «nei loro petti», potrebbe riferirsi a una localizzazione dello
θυμός che consenta di differenziarne la funzione rispetto al νόος. Queste
determinazioni negative sono ulteriormente accentuate con espressioni che
sottolineano la fenomenologia del disorientamento: οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς
τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα Essi sono trascinati, a un tempo sordi e
ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.6-7). I «mortali», dunque, non sono
in controllo di sé; il loro atteggiamento ne svela la radicale incomprensione,
che si manifesta a tre livelli: (i) nella perdita di contatto con la realtà:
gli organi di senso deputati (la vista e l’udito) producono – nel loro caso dei
«mortali» – isolamento, distorsione; (ii) nella conseguente tonalità emotiva
della sorpresa37, da intendere nel contesto non come positiva apertura alla
comprensione, bensì come sintomo della condizione contraria: profonda
confusione; (c) nella mancanza di giudizio38, di discernimento (κρίσις, κρινεῖν),
con cui spregiativamente la Dea connota le «schiere» (φῦλα) dei βροτοί, cioè la
loro massa, il loro insieme indistinto, come confusa è la loro percezione della
realtà. 36 Op. cit., p. 108. 37 Con formula omerica (τεθηπότες): in Omero (Odissea
XXIII, 105) lo sgomento era attribuito allo θυμός e localizzato «nel petto» (ἐνι
στήθεσσι). 38 Si tratta, a nostro avviso, dell’indicazione più importante
nell’insieme del frammento. 385 Le due sequenze su cui ci siamo concentrati
sono interessanti perché mostrano lo sforzo di Parmenide, per bocca della
divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale della fragilità mortale:
così nel poeta-sapiente non troviamo alcuna condanna dell’uomo in quanto tale,
semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare la norma razionale che
vincoli umano e divino (Untersteiner). In questo senso la posizione di
Parmenide appare vicina a quella del contemporaneo Eraclito: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’
ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ
πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι,
πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν
διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες
ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre
gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo
averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano
privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io
presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli
altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi
destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto
Empirico; DK 22 B1) ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι,
τούτωι διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται
proprio dal logos con cui hanno sempre costantemente rapporto, essi discordano,
e quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee (Marco
Aurelio; DK 22 B72) ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι·φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ
παρεόντας ἀπεῖναι 386 ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di
loro è testimone il detto: pur presenti sono assenti (Clemente Alessandrino; DK
22 B34) ὁ Ἡ. φησι τ ο ῖ ς ἐ γ ρ η γ ο ρ ό σ ι ν ἕ ν α κ α ὶ κ ο ι ν ὸ ν κ ό σ μ
ο ν ε ἶ ν α ι , τῶν δὲ κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴ δ ι ο ν ἀποστρέφεσθαι E. dice
che per coloro che sono desti il mondo è unico e comune, invece ciascuno di
coloro che dormono ritorna a un proprio mondo privato (Plutarco; DK 22 B89) ξὺν
νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως.
τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον
ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται Coloro che vogliono parlare con
intendimento devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla
legge, e ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, infatti, si alimentano
dell’unica legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per tutte le
cose e avanza (Stobeo; DK 22 B114). Senza voler entrare nel dettaglio
dell’interpretazione del pensiero di Eraclito, è sufficiente osservare come
nelle citazioni sia marcato l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni
condivise dai più: il suo discorso consapevole (λόγος) che annuncia come
«tutto» accada secondo il logos (che manifesta dunque la struttura stabile del
mutamento) è contrapposto all’incomprensione (mancanza di intelligenza della
realtà) degli «altri» (uomini). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente
una condizione di inversione: pur essendo il logos alla base della realtà (in
Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di κόσμος come ordine del mondo)
che li circonda, gli «uomini» (ἄνθρωποι) ne ignorano la normatività; essi
vivono così non da «desti» (ἐγρήγοροι) in una condizione di torpore,
stordimento: una sorta di sonnambulismo. L’adesione al logos è adesione a «ciò
che è comune» (τὸ ξυνόν) e quindi sensato, oggettivo, diversamente
dall’ottusità della incon- 387 sapevole esperienza quotidiana, che convince
falsamente di un mondo frammentario, discontinuo, caotico (il tema
dell’estraneità). L’«io» della Dea di Parmenide e l’«io» personale di Eraclito
sono – come correttamente segnalato da Conche39 - dalla stessa parte, in quanto
«cooperatori del vero»; dall’altra ci sono coloro che non giudicano con la
ragione: il segreto dell’erranza dei «mortali» è nel loro stesso pensiero40. A
noi pare che lo studioso francese abbia colto nel segno sottolineando come
l’espressione ἄκριτα φῦλα evochi l’«uomo collettivo», incapace di assumere la
decisione (κρίσις) riguardo alle due vie: in questo senso, analogamente a
quanto registriamo nei frammenti dell’Efesio, giudicare con intelligenza è
possibile solo all’individuo che si distacchi intellettualmente dalle credenze
collettive41 . Una via “inventata” Per riassumere e concludere sulle vie di B6,
ribadiamo la convinzione che Parmenide reiteri, in apertura del frammento,
l’alternativa di B2, introducendo poi, in relazione a essa, il tema specifico
dell’errore di fondo dei «mortali». Il passaggio alla confusa combinazione
delle vie è accompagnato nel testo dal recupero del motivo tradizionale
dell’impotenza umana (tanto più significativamente in quanto affidato alle
parole di una divinità), che viene tuttavia “curvato” per corrispondere alle
peculiari esigenze polemiche dell’autore. Il linguaggio parmenideo sembra
insistere soprattutto sulla natura illusoria di una ὁδὸς διζήσιος («via di
ricerca»), scaturita in realtà dalla presunzione e debolezza cognitiva dei
«mortali». In questo senso esso non avalla alcuna “terza via”, non le riconosce
alcuna consistenza, nemmeno sul piano strettamente logico: mentre la via che
pensa «che non è e che è necessario non essere» si presentava come uno dei
corni della alternativa 39 Non a caso editore sia dei frammenti parmenidei, sia
di quelli eraclitei! 40 Conche, op. cit., p. 107. 41 Ivi, p. 108. 388
fondamentale e, pur impercorribile, poteva almeno essere prospettata
correttamente, questa presunta “terza via” è stigmatizzata come “invenzione” di
«coloro che nulla sanno», dunque come logicamente insostenibile. Le due vie di
B2 possono essere ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: ἐὸν ἔμμεναι
e μηδὲν οὐκ ἔστιν; anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua
negatività, è possibile, dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente
formale (μηδέν, ovvero τό γε μὴ ἐὸν). Dei βροτοὶ εἰδότες οὐδέν - che nel loro
scorretto argomentare e confuso parlare “si fingono” un commercio delle due vie
alternative - si rileva invece: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν per i quali esso è considerato essere e non essere la
stessa cosa e non la stessa cosa (B6.8-9). È opportuno ricordare che Simplicio
cita B6.1b-3 (dopo B2), tralasciando l’esordio del nostro frammento e
concentrandosi sulla disgiunzione essere-non essere: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι
τὰ ἀντικείμενα Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano a un
tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi in cui
biasima coloro che mettono insieme gli opposti (In Aristotelis Physicam 117,
2). Precisa inoltre: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι
νοητῶι Dopo aver biasimato coloro che congiungono l’essere e il non-essere
nell’intelligibile (Simplicio, Phys. 78, 2; DK 28 B6). 389 Pur non concordando
con l’analisi specifica di Leszl (vicina a quella di Cordero), mi sembra
inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende rilevare la contraddizione
in cui cadono i mortali combinando termini incompatibili (essere e non-essere).
Dei «mortali che nulla sanno» la Dea parmenidea denuncia essenzialmente
l’incapacità di discriminare πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι («essere e non essere»),
ταὐτὸν κοὐ ταὐτόν («la stessa cosa e non la stessa cosa»), che finiscono per
essere contraddittoriamente riferiti a ἐόν. Nella loro finzione, secondo la
Dea, essi indifferentemente assumono e combinano termini in realtà
contraddittori, senza rendersi evidentemente conto della loro incompatibilità:
proprio nella contestazione di tale ingiustificata, infondata assunzione, in
questo come nei due successivi frammenti, si appalesa l’accanimento verbale di
Parmenide. L’obiettivo della polemica Ma chi sono i «mortali» cui si rivolge
l’attacco parmenideo? È possibile individuare un obiettivo specifico, ovvero
dobbiamo pensare a una generica presa di posizione? Parmenide si limita a
marcare la strutturale, originaria impotenza umana (come vuole Reinhardt),
magari per legittimare la funzione rivelatrice della divinità (come vuole
Mansfeld), oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei successivi di
B7) la condanna di un errore determinato? Più precisamente: le assonanze
espressive giustificano il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non meglio
precisati seguaci) come oggetto delle critiche (come credono in molti), o
dobbiamo piuttosto supporre che Parmenide prenda posizione in generale rispetto
allo sfondo complessivo (e grandioso) della sapienza milesia (come sostengono,
tra gli altri e in modo diverso, Untersteiner e Gadamer)? In un certo senso,
citando a conferma della nostra lettura i frammenti eraclitei, abbiamo indirettamente
già preso posizione, almeno rispetto ad alcune posizione consolidate del
dibattito interpretativo. 390 Quella che mortali che nulla sanno s’inventano Se
da un lato è corretta l’osservazione di Coxon, per cui in B6.4 il complemento
pronominale (ἀπὸ τῆς) si riferisce alla ὁδὸς διζήσιος del verso precedente, e
dunque a “ricercatori”, è dall’altro possibile che Parmenide abbia colto
l’occasione per polemizzare nei confronti di coloro (il greco indica
genericamente βροτοί, «mortali») che propongono un punto di vista ordinario,
teoreticamente ingenuo, in una veste ispirata o sapienziale. Nel linguaggio
della Dea sarebbero allora apostrofati («nulla sanno», εἰδότες οὐδέν) presunti
sapienti che esprimono, in verità, solo opinioni volgari. L’errore ascritto – la
mancata discriminazione delle due vie di B2 - potrebbe genericamente riferirsi
all’incapacità di offrire una coerente (con le «uniche vie di ricerca per
pensare») spiegazione dei processi naturali, preoccupazione esplicitata in
B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema. Ricordiamo che anche
Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici, una polemica
analoga: la sua nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a rifiutare i
modelli della tradizione, discutendone lo spessore (il caso di Omero) o la
competenza (Esiodo), dall’altro a contestare l’enciclopedismo dei
contemporanei: τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι
καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως Sosteneva che Omero fosse degno di essere cacciato dagli
agoni e frustato e analogamente Archiloco (Diogene Laerzio; DK 22 B42)
διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην
καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν Maestro dei più è Esiodo – costui
credono sapesse una gran quantità di cose, lui che non aveva conoscenza di
giorno e notte: sono infatti la stessa cosa (Ippolito; DK 22 B57) 391 πολυμαθίη
νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά
τε καὶ Ἑκαταῖον l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza,
altrimenti l'avrebbe insegnata a Esiodo e Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo
(Diogene Laerzio; DK 22 B40) Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων
μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην,
πολυμαθίην, κακοτεχνίην. Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più
di tutti gli uomini e raccogliendo questi scritti ne produsse la propria
sapienza, il saper molte cose, cattiva arte (Diogene Laerzio; DK 22 B129).
L’obiettivo, nel caso di Parmenide, potrebbe dunque essere generale, e
coinvolgere le alternative al modello di sapienza filosofica che proprio la Dea
interveniva a delineare, sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a
giudicare con intelligenza. Sul terreno filosofico è difficile pensare che le
posizioni della tradizione milesia potessero meritare un'attenzione così
critica e sprezzante. Il quadro offerto da Parmenide appare per molti versi
analogo a quello delineato a Mileto, con la fondamentale differenza che, nel
suo caso, non si punta a riscattare l’instabilità del divenire nella permanenza
della φύσις-ἀρχή: nel complesso dei frammenti si può cogliere, semmai, la
denuncia della debolezza degli schemi interpretativi ionici, come abbiamo già
registrato nel commento a B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di B6 e
B7 apparirebbe comunque eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura
scientifica di Mileto (sempre ammettendo la praticabilità, all’epoca, di
confronti del genere). L’impressione è che essa si rivolga piuttosto a una
volgare contraffazione del sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi
un riferimento alla massa di non filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di
intendere la parola della Dea, la parola della Verità. Anche in questo caso,
potrebbe valere l’analogia con Eraclito. 392 Uomini a due teste All’inizio del
secolo scorso Döring42 propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica
antipitagorica: una prospettiva rilanciata dall’adesione di una quota
minoritaria degli specialisti (tra i più autorevoli certamente Raven43). Tra
gli assunti di Döring44, soprattutto la convinzione che i primi pitagorici
asserissero l’esistenza del vuoto, considerato identico al non-essere:
posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella sua «terza via», combinando
essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi discutibili, che
speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze
documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la
sua tendenza a retroiettare verso l’origine conquiste teoriche maturate nel
tempo. È vero, d’altra parte, che proprio queste difficoltà non consentono di
escludere che Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto
insistito, potesse attaccarne posizioni specifiche, immediatamente comprensibili
nel contesto storico-culturale in cui erano avanzate, a un pubblico
essenzialmente di uditori o discepoli. Raven, in particolare, ha ravvisato in
B6.4-9 un riferimento al modello dualistico pitagorico45, in cui lo studioso
riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso troverebbe espressione nella
tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile alla originaria
opposizione di limite (πέρας) e illimite (ἄπειρον), cooperanti nella
generazione di tutti gli enti46 . 42 A. Döring, Geschichte der griechischen
Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. Dello stesso autore “Das Weltsystem des
Parmenides”, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 104,
1894, pp. 161-177. 43 J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An Account of the
Interaction between the Two Opposed Schools during the Fifth and Early Fourth
Centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948. 44 Si veda Tarán,
p. 68. 45 Sebbene nella successiva opera con Kirk tale riferimento cada, a
favore della possibilità del tradizionale coinvolgimento di Eraclito. 46
Aristotele, Metafisica, I, 5 986 a17-21: τοῦ δὲ ἀριθμοῦ στοιχεῖα τό τε ἄρτιον
καὶ τὸ περιττόν, τούτων δὲ τὸ μὲν πεπερασμένον τὸ δὲ ἄπειρον, τὸ δ’ ἓν ἐξ 393
In questo senso, gli uomini «a due teste» (δίκρανοι) cui allude Parmenide
potrebbero essere genericamente pitagorici oppure i pitagorici responsabili
dell’elaborazione di quel modello dualistico: la testimonianza aristotelica,
infatti, a dispetto dell’accenno a un contributo specifico dedicato
all’argomento, rivela, (come nel ricorso all’espressione «i cosiddetti
pitagorici», οἱ καλούμενοι Πυθαγόρειοι), incertezze di documentazione e
difficoltà di determinazione, ricostruendo un percorso di ricerca (dallo studio
matematico all'applicazione dei suoi principi a tutta la realtà) che potrebbe
implicare un'evoluzione delle posizioni interne alla scuola. In ogni caso è per
noi significativo il riferimento ad Alcmeone (contempoaneo di Parmenide) in
relazione alla tavola delle due serie di contrari: ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων
ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου
παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι
Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων,
λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας [...] In
tal modo pare pensasse anche Alcmeone Crotoniate, sia che questi prendesse tale
dottrina da quelli, sia quelli da questo; poiché, quanto a età, Alcmeone fiorì
quando Pitagora era vecchio, e si espresse in modo molto simile a costoro.
Sosteneva, infatti, che la maggior parte delle cose umane sono dualità, pur non
determinando, come fanno questi, le opposizioni, ma proponendole a caso [...]
(Metafisica I, 5 986a 27-34). ἀμφοτέρων εἶναι τούτων (καὶ γὰρ ἄρτιον εἶναι καὶ
περιττόν), τὸν δ’ ἀριθμὸν ἐκ τοῦ ἑνός, ἀριθμοὺς δέ, καθάπερ εἴρηται, τὸν ὅλον οὐρανόν
[Essi pongono] come elementi del numero il pari e il dispari; di questi, il
primo è illimitato, l'altro limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi
(è, infatti, insieme, e pari e dispari). Dall’Uno, poi, deriva il numero; e i
numeri, come s’è detto, costituirebbero l’intero universo. 394 Secondo la
Timpanaro Cardini47, dalla testimonianza aristotelica si può concludere che,
come alla fisica ionica andava probabilmente ricondotta l'originaria dualità
pitagorica (ἄπειρον-πέρας), così alla cultura scientifica milesia dovevano
risalire quelle opposizioni (riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone
contribuì a introdurre nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una
elaborazione sistematica. Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che
le allusioni critiche dei versi parmenidei possano investire temi e figure di
una tradizione che doveva risultare riconoscibile nello humus locale: in
un’epoca per la quale è difficile valutare l’incidenza della distanza degli
ambienti culturali, non vi è dubbio che appaia plausibile una referenza
pitagorica. Sul rapporto con la tradizione pitagorica avremo comunque modo di
tornare nel commento a B8. Il percorso torna all'indietro Sin dall’Ottocento
(Bernays) è maturata tra un numero consistente di accreditati interpreti
(Diels, Kranz, Mondolfo, Guthrie, Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri,
Graham, tra gli altri) la convinzione che il vero obiettivo della polemica di
B6.4-9 sia Eraclito (o, in alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla
supposizione motivata da considerazioni di contenuto (Guthrie48), alla lettura
sostenuta dall'attenzione per la forma logica dei frammenti (Tarán e
Couloubaritsis), alle conclusioni giustificate da assonanze espressive (per
esempio Cerri). Sono spesso impiegati, come possibili evidenze testuali, le
seguenti citazioni eraclitee: οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει·
παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης 47 Pitagorici antichi,
Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano
2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134- 135. 48 Op. cit., p. 23. 395 non
capiscono che ciò che è differente concorda con se medesimo: armonia di
contrari, come l’armonia dell’arco e della lira (Ippolito; DK 22 B51) συνάψιες ὅλα
καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ
ἑνὸς πάντα congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armonico
disarmonico, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose (Pseudo-Aristotele
[de mundo 5 396 b7]; DK 22 B10) ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν,
εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non
siamo (Eraclito; DK 22 B49a) ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι non si
può discendere due volte nel medesimo fiume (Plutarco; DK 22 B91a). Nel testo
di Parmenide si valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più
tradotti diversamente49): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato
essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti
il percorso torna all'indietro. 49 La resa italiana più frequente è la
seguente: per i quali l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa
e non la stessa cosa: di tutte le cose c’è un percorso che torna indietro. 396
Secondo Tarán, la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DK 22 B10)
l’identità dei contrari come identità-nelladifferenza, secondo un modello del
“sì e no”50, che l’Eleate ricondurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non
essere (per cui appunto «l’essere e il non essere sono considerati la stessa
cosa e non la stessa cosa»). In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’attacco
di Parmenide sarebbe rivolto a una impostazione (quella eraclitea) ancora
prossima alla logica ambivalente del mito, in cui la complementarità degli
opposti suppone un legame indissociabile. Eppure lo studioso belga, nella
modalità eraclitea di pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze
da quella ambivalenza, soprattutto per l’introduzione di un’opposizione più
inglobante, comune a tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22 B49a,
B91)51. Proprio la rottura radicale di quella logica caratterizzerebbe la
κρίσις della Dea parmenidea, discriminante dunque allo stesso tempo anche
rispetto alla posizione di Eraclito52 . Ancora di recente, Graham53 ha proposto
di leggere l’ontologia parmenidea come reazione prodotta dall’impatto
dell’opera di Eraclito, la cui provocazione sarebbe consistita nella
esasperazione della polarità presente nel modello ionico, con l’abbandono
dell’idea di primato di una «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di
processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari
(fuoco, terra, acqua). A questi elementi di contenuto o struttura, si aggiunge
poi il riscontro di un’eco espressiva eraclitea, quasi Parmenide intendesse
colpire un avversario evocandone le parole. Sebbene Tarán, a proposito del
conclusivo πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος, metta in guardia dalla
tentazione di leggervi un puntuale riferimento alle parole di Eraclito (DK 22
B51)54, altri hanno molto insistito su questo punto: tra i contemporanei, per
esempio, Cerri 50 Tarán, op. cit., p. 71. 51 Couloubaritsis, op. cit., p. 199.
52 Ivi, p. 200. 53 Per esempio, sia in Explaining the Cosmos, sia in The Texts
of Early Greek Philosophy. 54 Semmai vi si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione
delle vedute degli assertori dell’identità dei contrari (p. 72). 397 trova
conferma in B6.9 di una vera e propria «tecnica della citazione», già emersa
nel proemio con la evocazione del mito di Fetonte e delle Eliadi55 . Come Tarán
e Couloubaritsis, anche lo studioso italiano marca vicinanza e distanza
specifica della posizione di Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur
avendo anticipato la teoria dell'identità nella (apparente) differenza,
manifestò nei suoi enunciati paradossali viva consapevolezza della
problematicità di tale verità, delle oggettive contraddizioni insite nella
realtà naturale e umana 56 . Così non vi è dubbio, secondo Cerri, che siano
proprio le formule scelte da Eraclito, del tipo «è e non è», a essere imputate
da Parmenide: il filosofo di Efeso avrebbe infatti praticato quella (presunta)
“terza via” denunciata dall’Eleate57 . Lo studioso italiano, inoltre,
sottolinea come le scelte lessicali di Simplicio, nel citare B6, mostrino come
egli avesse inteso che la (presunta) “terza via” del frammento non si riferisse
a un ingenuo atteggiamento ordinario della mente umana, ma alla tesi specifica
di un indirizzo filosofico: il linguaggio impiegato dal commentatore, infatti,
sarebbe quello con cui la tradizione peripatetica connotava inequivocabilmente
la dottrina eraclitea58 . Questa osservazione, tuttavia, non comporta alcunché
riguardo all'identificazione del referente dell’attacco di Parmenide: tra gli
specialisti è noto, infatti, come le ricostruzioni platonica e aristotelica
propongano un’anomalia di fondo, che si ritiene effetto dei peculiari canali
nella ricezione delle opinioni dei pensatori arcaici. Le prime collezioni delle
loro tesi, infatti, sarebbero da attribuirsi, nella seconda metà del V secolo
a.C., ai sofisti Ippia59, che avrebbe approntato una selezione per temi, e
Gorgia, che invece avrebbe disposto il materiale per contrapposizioni teoriche:
è dunque molto probabile che la versione offerta da chi (Platone e 55 Cerri,
op. cit., p. 208. 56 Ivi, p. 206. 57 Ibidem. 58 Ivi, p. 208. 59 J. Mansfeld,
“Aristotle, Plato and the Preplatonic doxography and chronography”, in G.
Cambiano (ed.), Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Torino 1986,
pp. 1-59. A. Patzer, Der Sophist Hippias als Philosophiehistoriker, Münich
1986. 398 Aristotele appunto) diede inizio alle prime forme di storiografia
filosofica risentisse profondamente di quegli schemi riduttivi60 . Mansfeld61
ha marcato come ciò risulti particolarmente evidente proprio nel caso di
Eraclito e di Parmenide: del primo sarebbero stati esasperati la dottrina del
flusso universale e della diversità (a scapito delle affermazioni su unità e
stabilità); del secondo il motivo dell’Uno e dell’immobilità62. In realtà, come
abbiamo già avuto modo di rilevare in precedenza, è possibile leggere i
frammenti di Eraclito in una prospettiva alternativa, tale da rendere
problematici le facili schematizzazioni. L’Efesio, in effetti, proprio nelle
citazioni sopra riportate, potrebbe essere impegnato in un'operazione analoga a
quella parmenidea: considerare i modelli cosmologici e cosmogonici della prima
riflessione ionica e delle teogonie poetico-religiose per estrapolarne gli
schemi ricorrenti, sviluppando così la prima indagine sistematica sulle forme
della razionalità applicata alla ricerca. Concretamente questo si sarebbe
tradotto nel rilievo di tre aspetti essenziali: i) l'universale pervasività del
divenire; ii) la forma inerente al divenire; iii) la stabilità persistente nel
divenire. Significativa anche l’altra convergenza già segnalata: Eraclito
esplicitamente polemizza con alcune figure della tradizione - Omero, Esiodo,
Archiloco - e intellettuali contemporanei - Pitagora, Senofane, Ecateo - dalla
cui sapienza egli si proponeva, evidentemente, di prendere le distanze, per
delinearne, consapevolmente, quasi marcandone la novità, una propria. Eraclito
manifesta una verità – relativa alla costituzione del mondo fisico e umano - a
cui, pur avendone potenzialmente accesso attraverso esperienza e riflessione,
la maggioranza degli uomini - indicata spregiativamente con l’espressione «i
molti» (οἱ πολλοὶ) - rimane estranea. In questo senso, analogamente al kouros
privilegiato dalla rivelazione della Dea, egli avverte e marca il proprio
isolamento, sottolineando lo scarto tra una visione che va 60 Sebbene sia
plausibile che Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo)
avessero accesso a un manoscritto dell’intero poema. 61 F. Mansfeld, “Sources”,
in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, C.U.P.,
Cambrdige 199, pp. 22-44. 62 Ivi, p. 27. 399 al fondo delle cose afferrandone
la natura e la semplice, superficiale erudizione (πολυμαθίη) o la percezione
parziale e distorta che impronta le credenze degli uomini (δοξάσματα). La
pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica,
all’interno di due limiti essenziali: i) il «logos che è sempre» (τοῦ δὲ λόγου
τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ); ii) la totalità degli enti che «sempre divengono secondo
questo logos» (γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε). Eraclito sottolinea
il valore di norma del λόγος rispetto a ogni accadere, con allusioni all’unità
della legge civile (νόμος) - cui si riconduce la identità della polis - e alla
unicità della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la
funzione strutturante all’interno dei singoli enti. Così, con riferimento al
λόγος, «tutto è uno» 63, sia nel senso che le cose sono tra loro unitariamente
organizzate secondo il suo piano, sia nel senso che nella natura di ogni
singola cosa si riflette il suo schema. Il λόγος è la legge che regola il
prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo natura nascosta allo
sguardo superficiale. È in considerazione di questi elementi teorici (al di là
dei problemi di cronologia relativa, di non facile risoluzione64) che la
supposizione di una polemica specificamente antieraclitea appare esagerata, a
meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più complesso (come
sembrano fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio, riconoscendo
come a Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da «archegeta») nella
ricostruzione della dottrina dell’«essere», giustifica l’attacco di Parmenide
come effetto dell’irritazione di fronte a un’incongruenza (la combina- 63 DK 22
B50: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι
non me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. 64 Su
questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178). 400 zione di «è» e «non
è»), che rischiava di vanificarne l’intuizione scientifica65 . In questo senso,
però, le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un errore ovvero
un'incoerenza che il sapiente poteva cogliere non solo nelle espressioni della
cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa sapienza ionica.
Ipotizzando per le opere degli autori presocratici – come ha fatto di recente
Maria Laura Gemelli Marciano66 - un «contesto culturale e pragmatico» molto
«concorrenziale», e concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia delle
idee nel bacino del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica parmenidea
un riferimento generico e specifico a un tempo: (i) agli ignoranti colpevoli di
fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali (da cui l’insistenza
sull’ottundimento degli organi percettivi: cecità, sordità); (ii) ai poeti
responsabili della divulgazione di quel volgare stravolgimento della realtà;
(iii) ai pensatori ionici, che non avevano evitato un’ambiguità di fondo,
riconoscendo la forza del principio a un elemento a scapito degli altri,
concentrando l’essere in un’area della realtà, piuttosto che in un’altra; (iv)
al limite allo stesso Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie
enunciazioni di un logos che, per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto apprezzare:
formule in cui, pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere e
non-essere si trovavano accostati. Al centro dell’attacco dell’Eleate – come
confermerà B7 – sono gli “uomini della contraddizione”, coloro che implicano –
consapevolmente o meno67 – l’assurdo: «che siano cose che non sono»; in altre
parole coloro («schiere senza giudizio») che, affidandosi acriticamente al dato
empirico, condizionati dai meccanismi irriflessi dell’abitudine, avanzano una
inaccettabile terza via. 65 Cerri, op. cit., p. 209. 66 M.L. Gemelli Marciano,
"Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et
destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la
Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses
Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. 67 In
questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni
dei mortali riguardo a pluralità e divenire l’«assurda implicazione» che
«essere e non-essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa». 401 Come
osserva Coxon68, la formulazione τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται
κοὐ ταὐτόν è da leggere in opposizione alla tesi di B6.1a: χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν
τ΄ ἐὸν ἔμμεναι: il verbo νομίζω, con la sua soggettività, è contrastato dai positivi
(e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. Conche giustamente può marcare come l’espressione
«mortali che nulla sanno» si riferisca alla massa di non filosofi, che
Parmenide trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la parola della
Dea, la parola della Verità69. Né va dimenticato un rilievo di Jaeger:
νενόμισται evocherebbe non l’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma la
communis opinio, «la perversione del nomos dominante (cioè della tradizione)»70
. A questa ignoranza, tuttavia, è possibile fossero associate nella condanna
anche quelle espressioni scientifico-filosofiche in cui il discrimine tra «le
uniche vie di ricerca per pensare» appariva debole o confuso: un fronte
potenzialmente ampio, dai Milesi a Eraclito, passando per i pitagorici, la cui
reale presenza polemica è comunque solo ipotetica. 68 Op. cit., p. 185. 69 Op.
cit., p. 109. 70 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p.
170, nota 36. 402 ESPERIENZA, ABITUDINE, GIUDIZIO [B7] Il frammento,
ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels e Diels-Kranz, è un
collage di diverse citazioni: (i) Platone (Sofista 237 a 8-9) e Simplicio (In
Aristotelis Physicam 143, 31–144, 1) riportano il secondo emistichio del primo
verso e l’intero secondo verso; (ii) Aristotele (Metafisica XIV, 2 1089 a)
riproduce l’intero primo verso; (iii) Sesto Empirico (Adversus Mathematicos
VII, 111) trascrive i versi 2-6, citandoli di seguito a B1.28-32 e
completandoli con B8.1b-2a; (iv) Diogene Laerzio (IX, 22) ci conserva i versi
3-5. Le sovrapposizioni sembrano quindi assicurare la plausibilità dell’attuale
ricostruzione e la ragionevole unitarietà del frammento1 , nonché la sua
probabile saldatura con B8, in considerazione del fatto che il secondo
emistichio dell’ultimo verso di B7 citato da Sesto corrisponde al primo verso
della citazione dell’attacco di B8 in Simplicio. Anche da un punto di vista
argomentativo appare piuttosto stretto il nesso tra B6, B7 e B82 e la loro
dipendenza logica da B2 e B3. Coxon3 ritiene possibile che B7 seguisse B4, a
causa dell’uso iniziale del plurale μὴ ἐόντα che richiamerebbe ἀπεόντα-παρεόντα
(B4.1). Mansfeld4 - che propone la sequenza di tre blocchi logici (B2-B3,
B6-B7, B8) – riconosce la possibilità che B5 si collochi tra il primo e secondo
blocco. Rispetto all'attuale ricomposizione del frammento, rimane aperto il
problema della (parziale) citazione sestiana in continuità con il proemio (e
per questo accolta originariamente da Diels nel primo frammento del poema5 ),
cui possiamo aggiungere anche quello linguistico e metrico, ipotizzando
l'ulteriore continuità di 1 Tarán, op. cit., p. 76. 2 Mansfeld, op. cit., pp.
91-2. 3 Op. cit., p 189. 4 Op. cit., p. 92. 5 Di recente Ferrari (Il migliore
dei mondi impossibili, cit., pp. 49 ss.), che è sostanzialmente tornato a
riproporre l'originale versione dielsiana. 403 B7.6[a] con B8.1[b]6 .
Attribuire l'origine delle difficoltà a una libera citazione antologica da
parte di Sesto, ovvero a una sua citazione da antologia poco affidabile7 , non
appare del tutto convincente, soprattutto alla luce del fatto che da Sesto
abbiamo l'unica citazione dell'intero proemio, con tracce della redazione
psilotica originaria (quindi di una tradizione alternativa a quella attica): è
possibile, dunque, che «egli disponesse di una buona copia del proemio,
derivata verosimilmente da un esemplare di tutto il poema»8 . Nel caso della
sua citazione sarebbe semmai da valutare l'intenzione teoretica di fondo:
mentre Simplicio esplicitamente si impegnava a documentare passi di un'opera
ormai irreperibile, Sesto potrebbe aver consapevolmente "montato"
parti del poema originariamente distinte, in funzione di un assunto generale:
respingere la validità della sensazione come vero strumento di conoscenza9 .
Nonostante perduranti perplessità, negli ultimi decenni la critica si è
mostrata tuttavia propensa a riconoscere la fondatezza della ricostruzione di
Diels-Kranz anche riguardo al presente frammento. Non è in discussione, in ogni
caso, il suo ruolo critico, per noi condizionato dalla ricezione di B6 e dalla
soluzione del problema delle “vie”. Una via che è impossibile addomesticare
L’attacco del frammento, infatti, ci proietta ancora sulla krisis di B2,
ribadita all’inizio di B6: 6 Nella citazione di Sesto, il verso iniziale di B8
costiuisce il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Ma la forma
tràdita - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è improbabile in epica, dove si troverebbe
μοῦνος (in vece di μόνος); d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non
reggerebbe metricamente. 7 Per esempio Plamer, Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., p. 380. 8 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e
questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 31. 9 Ivi, p. 30. 404 οὐ γὰρ
μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα·
Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa
via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). Il senso del primo verso
coincide con la reiterazione della condanna della contraddizione, da cui la Dea
mette in guardia il kouros, con scelte espressive (ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος, ma anche
εἶργε νόημα, se accettiamo l’integrazione Diels per la lacuna di B6.2) che
richiamano evidentemente il frammento precedente. Il nume sembra ancora
impegnato a denunciare gli «uomini a due teste» (δίκρανοι), uomini della
contraddizione appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei termini delle
«uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι B2.2),
l’assurdità. Un pensare “selvaggio” Due elementi spingono in questa direzione:
(i) l’espressione introduttiva (oὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) secondo cui è
inammissibile che «cose che non sono» (μὴ ἐόντα) «sono [esitono]» (εἶναι); (ii)
il sostantivo νόημα, che, come vedremo, può essere messo in relazione sia con
la formula κρῖναι δὲ λόγῳ, («giudica invece con il ragionamento» ovvero valuta
discorsivamente, attraverso l'argomentazione), sia, per contrasto, con ἔθος
πολύπειρον, l’«abitudine» nata dalle «molte esperienze». Per quanto riguarda il
primo aspetto, la traduzione che abbiamo adottato è sostanzialmente quella
tradizionale, che Diels suggerì sulla scorta della lezione platonica e Tarán ha
difeso per la sua sensatezza. Da O’Brien e Conche ne è stata proposta una
versione più letterale (di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che
aiuta a comprendere il valore dell’affermazione εἶναι μὴ ἐόντα: «Jamais, en
effet, cet énoncé ne sera dompté», «For never shall this [wild saying] be
tamed» (O’Brien); «Car jamais ceci se- 405 ra mis sous le joug» (Conche). Ciò
che la Dea vuol manifestare è l’insostenibilità, l’illegittimità della tesi che
può ricavarsi dalla confusa posizione dei mortali «che nulla sanno». La
contraddittoria commistione delle «due vie» (che si fondano sull’immediata
evidenza «è» e sulla sua negazione), il mancato apprezzamento della loro
disgiunzione, si traducono in una “selvaggia” (bestiale) contaminazione, che è
impossibile “domare”, “aggiogare”, ricondurre a norma. Liddell-Scott-Jones
propongono per damázw, in questo caso, proprio in relazione a questa attestazione
parmenidea, lo specifico valore di «to be proved». La durezza della presa di
posizione della Dea, che reitera le formule sprezzanti del frammento
precedente, non si giustifica come semplice messa in guardia rispetto alla
inconcludenza della “seconda via” (ὡς οὐκ ἔστιν), il cui statuto, ricordiamolo,
era stato immediatamente definito in termini inequivocabili10: τὴν δή τοι φράζω
παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε
φράσαις· Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di
informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8). Ciò che viene stigmatizzato è
piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o meno: il nume si riferisce
a quelle posizioni che assumono esplicitamente o comunque implicano l’esistenza
del non-essere. 10 Insiste su questo punto, in diversi passaggi del capitolo 5
(Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in particolare pp. 77-8. 406 Cose che non
sono Non è ovviamente sfuggito agli interpreti il fatto che in questi versi
Parmenide utilizzi il plurale - εἶναι μὴ ἐόντα (una infinitiva, per altro, con
soggetto senza articolo, così da lasciarlo indeterminato). Si è per lo più
voluto cogliere in questa scelta un rilievo polemico nei confronti
dell'esperienza sensibile11, di una “via” dei sensi che cerca di attribuire
esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo Cordero12, la critica delle
attestazioni sensibili salderebbe gli ultimi versi di B6 all’intero B7, in un
complessivo attacco al πλακτὸς νόος dei mortali. Insomma, l’infinitiva iniziale
(εἶναι μὴ ἐόντα), riassumendo B6.8-9, denuncerebbe l’esito di un modo di
pensare – quello di «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν) –
condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e dalla guida di un intelletto
instabile, a credere che esistano cose che non sono13 . Parmenide avrebbe
impiegato il plurale (μή ἐόντα) e non il singolare (μή ἐόν) perché il pensiero
"selvaggio" di chi si allontana dalla strada dell’essere è esercitato
a partire dalle cose che si presentano nell’esperienza14. In questo passaggio
il filosofo non intenderebbe, tuttavia, riferirsi al «non-essere», non sarebbe
impegnato a rigettare la seconda via15, ma a rilevare la contraddizione indotta
dal fraintendimento dell’esperienza16. L’insistenza su questo punto nei due
frammenti che precedono (secondo le ipotesi di ricostruzione cui abbiamo
introduttivamente accennato) la lunga analisi della “prima via” in B8.1-49,
rivela come esso sia cruciale nella economia del discorso di Parmenide,
soprattutto in funzione della seconda sezione del poema. 11 Tarán, op. cit., p.
77. 12 By Being, It Is, cit., p. 129. 13 Ivi, p. 130. 14 Ruggiu, op. cit., p.
263. 15 Come ritengono Cordero e Tarán. 16 Conche, op. cit., p. 117. 407 Una
posizione diversa e più specifica in proposito è quella espressa da Coxon17,
secondo cui il contesto di B7 sarebbe quello di una critica non genericamente
condotta nei confronti dell'esperienza sensibile o del suo fraintendimento, ma
delle teorie fisiche precedenti e contemporanee. Ciò sarebbe confermato da
Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11-2), che cita il verso 2
proiettandolo nella discussione aristotelica degli argomenti del V secolo a
favore o contro l’esistenza dello spazio vuoto: καὶ τὸ κενὸν οὐκ ἔχει χώραν ἐν
τῷ παντελῶς ὄντι, ὥσπερ οὐδὲ τὸ μὴ ὄν non può esservi il vuoto in ciò che è in
senso pieno, così come non può esservi il non-essere. Nella sottolineatura
parmenidea dell'inesistenza di «cose che non sono», avremmo allora una contestazione
delle teorie ioniche (i processi di condensazione-rarefazione cui alluderebbe
anche B4, i cui ἀπεόντα-παρεόντα sarebbero evocati appunto da μὴ ἐόντα), e
probabilmente delle posizioni di alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente
B7.1-2 dipenderebbe da B2 e B4, in quanto a essere coinvolta nell’attacco
sarebbe appunto la supposizione che esista il vuoto (equiparato al non-essere),
condizione per discriminare l’Essere in ἐόντα. In pratica la Dea richiamerebbe
il kouros (in questa prospettiva essenziale l’enfasi sul «tu» personale) dalla
tentazione di seguire coloro che asseriscono l’esistenza del non-essere
(vuoto)18. In effetti, come ci ricorda anche la Wilkinson19, il concetto di
«non-essere» sarebbe associato nella riflessione arcaica al termine e alla
nozione pitagorica di ἄπειρον (illimitato): come risulta dalla testimonianza
aristotelica, i Pitagorici sostenevano che, dall'esterno «illimitato soffio» (ἐκ
τοῦ ἀπείρου πνεύματος), il vuoto (τὸ κενόν) fosse penetrato nell'universo (οὐρανός)
come «respiro» (πνεῦμα), costituendo lo spazio discriminante e distanziante le
cose: 17 Op. cit., p. 189. 18 Ivi, pp. 190-191. 19 Op. cit., p. 101. 408 εἶναι
δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου
πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ
χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς·
τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermavano che
esistesse il vuoto e che esso dall'illimitato soffio penetrasse nell'universo
come se questo respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature, quasi il
vuoto fosse una sorta di separatore e divisore delle cose che sono in
successione. Questo accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti,
distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b22-27). Come abbiamo
osservato commentando B6, l’ipotesi di un confronto con le tesi pitagoriche è
suggestiva, anche per l’ambiente culturale cui si rivolgono i versi di
Parmenide: le indicazioni di Coxon, in effetti, sono supportate dall’uso di
aggettivi come ἔμπλεόν (B8.24) – riferito a ἐόν - ovvero πλέον (B9.3) per
«pieno»: Οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν
εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος Né è
divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa
impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di
ciò che è. (B8.22-24). Αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte
sono state denominate, 409 e queste, secondo le rispettive proprietà, a queste
cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di
entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla. (B9). Nei
due diversi contesti – la sezione sulla Verità per B8, e, quasi certamente,
quella sulla Opinione, per B9 -, Parmenide associa a ἐόν e πᾶν omogeneità e
pienezza, evidenziando, nel secondo caso, l’assenza del nulla. Ciò farebbe
supporre implicito il rifiuto del «vuoto» (τὸ κενόν) e la sua identificazione
con il nonessere (μηδέν, «nulla» appunto), che solo Melisso avrebbe esplicitamente
sostenuto: οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν· οὐκ ἂν οὖν εἴη
τό γε μηδέν Né esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è nulla; e ciò che
è nulla non può esistere (DK 30 B7.7). Coxon20 nota come Aristotele – nella
discussione sul vuoto commentata da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650,
11), cui si riferisce la citazione di B7.2 – coinvolga sul tema, oltre a
Leucippo e Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto attribuito al
vuoto una funzione discriminante, all’origine della pluralità (in primo luogo
dei numeri). La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto convincente nello
specifico, in quanto non è sufficiente a spiegare il ricorso a μὴ ἐόντα per
indicare il vuoto. Forse giustificato per designare i supposti enti molteplici,
effetto dell’assunzione del vuoto-nulla, l’uso del plurale – come conferma
anche il lessico di Melisso - sembra improprio in riferimento a qualcosa che è
in sé indiscriminabile e inconsistente. Appare dunque più probabile che
l’apertura dell’attuale B7 riprenda la polemica aperta in B6 contro gli «uomini
a due teste», formalizzandola in relazione alla krisis di B2: il γὰρ del primo
verso sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe trova- 20 Coxon, op.
cit., pp. 189-190. 410 re, nella formula contraddittoria εἶναι μὴ ἐόντα, la
possibilità di stigmatizzare con rigore l’assurdità implicita nelle assunzioni
di βροτοὶ εἰδότες οὐδέν. Forse la lettura di Mansfeld 21 è incauta
nell’assumere la validità dell’integrazione εἴργω di Diels per B6.3, ma la
proposta complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7
riformulerebbero B6; εἶργε (B7.2) richiamerebbe εἴργω (B6.3), completandone il
senso con un chiaro esempio di composizione ad anello. L’attacco ai «mortali
che nulla sanno» sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla
disgiunzione fondamentale (B6.1-2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) e
l’invito a «giudicare con il ragionamento» (κρῖναι δὲ λόγῳ): due modi per
evocare la krisis di B2, prima e dopo la descrizione del mondo umano22 . Che
siano cose che non sono La Dea mette in guardia il kouros: a dispetto
dell’alternativa rappresentata dalle «uniche vie di ricerca per pensare» e
dunque contro una coerente considerazione razionale della realtà, si tenta di
far accettare l’esistenza di cose che non sono. In gioco è la presunta
pluralità di “non-enti” (μὴ ἐόντα) in qualche modo associata, nei versi
successivi a ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze», un costume
mentale scaturito dal commercio quotidiano con il mondo. B4.1-2 può essere su
questo di aiuto alla comprensione: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano
comunque per la mente saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere
sia connesso all’essere. 21 Op. cit., p. 91. 22 Ibidem. 411 Ciò che non è
immediatamente percepito è comunque razionalmente raccolto nell’«essere» (τὸ ἐὸν),
perché il νόος impedisce di considerare l’essere a “intermittenza”, quasi fosse
alternato al non-essere. Sono i sensi ad attestare presenza e assenza immediate
degli enti; è l’abitudine a tale oscillante attestazione empirica a tradire la
corretta comprensione: una superficiale lettura dei dati empirici spinge a
riscontravi la successione di essere (presenza) e non-essere (assenza). I
sensi, in verità, non rilevano (né potrebbero) il non-essere, come giustamente
ricorda Ruggiu23: essi attestano la presenza di qualcosa, quindi la sua
assenza; mai, però, propriamente il nulla. Ciò che la Dea contesta è dunque una
superficiale inferenza condotta dai mortali a partire dalla loro esperienza: in
Parmenide, come in Eraclito, non è in discussione il valore dei sensi, ma
quello dei giudizi dei mortali24 . Ma tu … Leggiamo ancora una volta l’attacco
di B7: Οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος
εἶργε νόημα Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma
tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). La Dea esorta il
kouros a trattenere il pensiero (εἶργε νόημα) dall'incosciente illusione che
esistano cose che non sono (εἶναι μὴ ἐόντα). Ritorna il riferimento alla «via
di ricerca» (τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος), che richiama B6.4-5: […] ἀπὸ τῆς [ὁδοῦ
διζήσιος], ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν 23 Op. cit., p. 266. 24 Conche, op. cit.,
p. 122. 412 < πλάσσονται >, δίκρανοι […] da quella [via di ricerca] che
mortali che nulla sanno < s’inventano >, uomini a due teste […] Nel
frammento precedente si era iniziato a costruire lo stereotipo degli sprovveduti
mortali, impaniati nella contraddizione: il loro, in fondo, era solo un
“preteso” percorso d’indagine, in realtà forgiato indebitamente (πλάσσονται,
«s’inventano»). In B7, invece, si punta su due elementi: (a) la dura presa di
posizione (οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) rispetto alla pretesa che «siano cose che
non sono»; (b) l’appello personale (ἀλλὰ σὺ) a trattanersi - evidentemente
contrapposto con enfasi agli ἄκριτα φῦλα, alle «schiere scriteriate» (B6.7),
impotenti a discriminare essere e non-essere. Questo richiamo personale segue:
(i) l’iniziale allocuzione di saluto della dea al kouros (B1.24- 28) con
l’illustrazione del suo programma di istruzione (B1.28b: χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι); (ii) l’invito ad aver cura della comunicazione introduttiva sulle
due vie alternative di ricerca, da cui dipende la possibilità di accedere alla
Verità (B2.1: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας); (iii)
l’esortazione ad atteggiare coerentemente la propria intelligenza (B4.1 e B6.2:
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως; τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα); (iv)
la dissuasione dalla tentazione irriflessa di adeguarsi a uno stile di pensiero
(e comportamento) diffuso ma logicamente contraddittorio (B6.3-4: πρώτης γάρ
σ΄25 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω >, αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς...). In B7
registriamo dunque il compimento dello sforzo dissuasivo della dea nei
confronti del kouros, esplicitamente sollecitato a marcare il proprio
atteggiamento intellettuale rispetto all’«impotenza» dei «mortali», a
condividere razionalmente la disamina critica della Dea. La presunta
"terza via" è delineata es- 25 Il codice D di Simplicio riporta σ΄
(così come E e F); B e C, invece, τ΄. 413 senzialmente per distogliere da essa:
B6 e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di «liberare la mente dell'allievo
(e dell'uditorio) da presupposti invalsi e premesse fallaci» per concentrarla
sul compito arduo di «riconoscere i segni scaglionati lungo la Via
dell'essere»26 . Chiara Robbiano, interessata a valorizzare in chiave
performativa l’efficacia comunicazionale del poema, ha sottolineato lo
specifico effetto identificativo sull’audience. Essa è stata incoraggiata a
immedesimarsi nel destinatario della comunicazione divina: un «uomo che sa»
(B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’egida di Themis e Dikē (B1.28).
All’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le alternative «per
pensare» proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a condurre alla
manifestazione dei «segni» della realtà genuina, e l’altra, da cui ella mette
in guardia, dal momento che, come abbiamo sopra ricordato: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης
τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις. Ora, le vie dei mortali, nel loro
sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla: così in B7.4-5 la Dea
metterebbe sull’avviso la propria audience contro il modo comune di guardare
alle cose e di esperirle27, insistendo a stigmatizzarne confusione e
distorsione. In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del «tu»
ai «mortali» (e alle loro vie confuse), il riferimento della Robbiano allo
schema dissuasivo dell’antimodello28: tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno
stereotipo negativo (un antimodello, appunto), così da condizionare nella
scelta la propria audience interna (il kouros) ed esterna. Imboccare la via
sbagliata impliche- 26 Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp.
48-9. 27 Robbiano, op. cit., p. 97. 28 Secondo la lezione di Ch. Perelman &
L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris
1958, §80: le modèle et l’antimodèle. 414 rebbe, infatti, essere assimilati a
una tipologia umana con cui nessuno intende identificarsi29 . Da questa via di
ricerca… Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di Simplicio
(forse direttamente dal testo del poema) la «via di ricerca» da cui la Dea
inviterebbe a tenersi alla larga (B7.2) sarebbe la seconda di B2 (ὡς οὐκ ἔστιν),
diversa da quella evocata in B6.4, inventata da «mortali che nulla sanno»:
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Dopo aver biasimato
infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile
[citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere
[citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78,
2). Certamente la “seconda via” è coinvolta nel rilievo della Dea, ma non nel
senso che a essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta
implicata nella posizione espressa dai mortali che combinano indiscriminatamente
essere e non-essere. Ed è per questo motivo che B7.1 denuncia l'insostenibile
contraddizione: εἶναι μὴ ἐόντα, dove, come abbiamo già segnalato, il neutro
plurale plausibilmente si salda alla prospettiva del fraintendimento empirico
di cui si renderebbero colpevoli i «mortali». Condividiamo dunque la lettura di
B7.2 che Conche30 (e altri) hanno avanzato: la via di ricerca incriminata
sarebbe quella che βροτοὶ εἰδότες οὐδέν illusoriamente si forgiano, quella
appunto che pretende che i non-enti siano. Si tratta impropriamente di una 29
Robbiano, op. cit., pp. 103-4. 30 Op. cit., p. 120. 415 terza via, illegittima
dal punto di vista della Dea: in B2 sono definite le uniche vie legittime da un
punto di vista razionale (quello della Dea). Il pensiero e l’abitudine I versi
che seguono l’avviso della Dea contribuiscono probabilmente a chiarire
l’origine dello sviamento dei «mortali che nulla sanno»: μηδέ σ΄ ἔθος
πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ
γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza,
a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5).
Appena invitato il kouros a trattenere il pensiero (νόημα) dalla fittizia via
di indagine lungo la quale si trascinano i (o meglio certi) «mortali», il nume
richiama l’attenzione sulle insidie dell’«abitudine» (ἔθος), che allignano
nella irriflessa consuetudine quotidiana, con l’effetto di stravolgerne il
quadro: i termini in gioco sono appunto (i) ἔθος, che guadagna la sua forza dal
contrasto con (ii) νόημα. Il linguaggio dei versi 4-5 riprende chiaramente la
fenomenologia degli ἄκριτα φῦλα (B6.7): l’«abitudine» è contrastata con la
valutazione intellettuale implicita in νόημα, che può dissolvere le illusorie (perché
in sé contraddittorie) certezze empiriche. Costume irriflesso Di quale
abitudine si tratta? La Dea la qualifica come πολύπειρον, probabilmente per
marcarne l’origine dalle frequenti 416 esperienze, e ne rileva l’azione a un
tempo dispotica e insidiosa: evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con
le cose, quanquando non è guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e
spingere, inconsapevolmente, a ritenere che «siano cose che non sono». La nuova
messa in guardia è giustificata dai meccanismi irriflessi che condizionano il
nostro orientamento: proprio per questo i sensi non possono essere separati
dalla ragione31 . È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al
cattivo uso dei sensi per effetto dell’abitudine e non ai sensi stessi: è
infatti marcato nel testo come sia l’ἔθος πολύπειρον a “forzare” (βιάσθω) la
percezione. D’altra parte, se la Dea esorta a giudicare con la ragione è perché
lungo la via sconsigliata la ragione non è impiegata, sotto l’effetto appunto
dell’abitudine32. Costantemente sottoposti a input sensibili che
richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una
acritica dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una
spirale di incomprensioni. Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di
vista: κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων
Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime
barbare [balbettanti] (Sesto Empirico; DK 22 B107). L’Efesio riconosce
all’anima una funzione intellettuale – la presenza a sé stessi, la
consapevolezza - testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e
in genere sul corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) –
integrata dalla capacità di discernimento, senza la quale, sostiene il
filosofo, i sensi sono fuorvianti. I dati sensoriali in sé considerati sono
insufficienti, richiedendo il vaglio critico della psychē, proposta come
istanza indipendente rispetto alla sensibilità. Interessante, nella prospettiva
parmenidea, l’uso dell’aggettivo «barbaro», in cui è stata ravvisata la
probabile implicazione linguistica: il termine si riferisce, 31 Ruggiu, op.
cit., p. 267. 32 Conche, op. cit., p. 121. 417 infatti, o al balbettare di chi
non ha un buon controllo della lingua (gli stranieri) o alla incomprensione di
chi non conosce il linguaggio. A sottolineare l’essenziale ruolo dell’anima
come facoltà di raccolta, decifrazione e intellezione dei dati empirici. In
Parmenide, come in Eraclito, non è in gioco il valore dei sensi, ma quello dei
giudizi e del linguaggio dei mortali: i sensi, in effetti, non fanno che
attestare presenza e assenza; il resto è frutto del giudizio e del linguaggio
umani, che attribuiscono ai dati sensoriali una consistenza ontologica che essi
non rivendicano33 . L’erramento dei «mortali» è marcato dalla Dea (come in
B6.4-9) come erramento del pensiero, intellettuale: se consideriamo il contesto
del suo discorso, assicurato da B1, potremmo convenire con Conche che, se la
via della Dea è discosta «dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου
B1.27), l’abitudine, al contrario, pare proprio trattenere e intrattenere su
quel percorso34. In questa prospettiva l’esortazione rivolta al kouros in B7.2
(ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα) può essere letta di nuovo in
parallelo con il frammento B1 di Eraclito (già utilizzato nel commento a B6):
l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dagli «altri uomini»
(τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους) si rivela nella tensione tra il suo discorso consapevole
- che annuncia il dominio del logos su tutta la realtà - e l’incomprensione
degli uomini (nei frammenti connotata come torpore, stordimento, una sorta di
sonnambulismo) per le cose che li circondano, tanto più grave in quanto essi
pure si muovono nell’ambito di quella legge universale e eterna, cui è
improntato il divenire di tutti gli enti. Ramnoux35 preferisce allora al
termine «abitudine» il termine «costume», per evidenziarne un effetto: esso ci
spinge a giudicare come tutti gli altri, ad assumere un punto di visto
ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di una propria identità. Per
questo, dunque, l’appello personale della Dea al discepolo affinché valuti 33
Ivi, p. 122. 34 Ivi, p. 121. 35 C. Ramnoux, Parménide et ses successeurs immédiats,
Monaco, Ed. du Rocher, 1979, p. 111. La referenza è di Conche, op. cit., p.
121. 418 ragionando. Conche 36 ne ricava un'indicazione suggestiva: l’abitudine
esercita il suo potere in modo insidioso, facendo leva sulla pressione sociale,
con il risultato di alienare il giudizio personale nel giudizio collettivo. La
via ordinaria è la via “collettiva” dei mortali; la via della Dea, la via della
Verità, è la via “singolare” del kouros37 . Sempre in relazione a Eraclito, ma
all’interno del più generale quadro di riferimento della cultura arcaica, Cerri
38 valorizza l’espressione ἔθος πολύπειρον, il «vezzo di molto sapere». I
termini πολύπειρος e πολυπειρία (in greco sinonimo di πολυμαθία e ἱστορία)
indicherebbero l’attitudine alle molte esperienze, a collezionare notizie,
denotando in ultima analisi una forma di cultura nozionistica, nell’antichità
attribuita per esempio a Solone39, impartita con la memorizzazione scolastica,
che Platone (Leggi 7.811 a-b) esplicitamente condanna (come πολυπειρία e
πολυμαθία), ma già duramente stigmatizzata, come in precedenza ricordato, da
Eraclito (DK 22 B40; B129). Appoggiandosi a Gemelli Marciano40, anche Chiara
Robbiano ha di recente ricordato come nel contesto presocratico (in particolare
in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia costante la polemica nei confronti di
altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in campo culturale e
sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre critiche di
Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla πολυμαθίη come sapienza tradizionale,
che raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte cose41 . 36 Che,
ricordiamolo, è anche editore di Eraclito. 37 Conche, op. cit., p. 122. 38 Op.
cit., pp. 61-2. 39 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe compiuto viaggi in
giovinezza «a scopo di esperienza molteplice e di indagine conoscitiva». 40
M.L. Gemelli Marciano, “Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et
destinataires”, cit., pp. 83-114. 41 Robbiano, op. cit., p. 102. 419 Occhio,
orecchio e lingua La “forza” della consuetudine è dunque contrastata dalla
“persuasività” (B2.4) che caratterizza il viaggio lungo la via autentica42: il
logos deve rettificare l’eco confusa della comune ricezione empirica, la cui
cifra è, ribadiamolo, essenzialmente la distorsione: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν
κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né
abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere
l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5). Parmenide
recupera un motivo tradizionale, che ha riscontri in Omero43 e nei lirici e
ritornerà ancora in Empedocle (DK 31 B3), ma soprattutto, come abbiamo già
ricordato a proposito di B6.7, in Eschilo: οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον
μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον
εἰκῆι πάντα Dapprima essi [gli uomini], pur avendo occhi, in vano osservavano;
avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita
impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 447-50).
Couloubaritsis ritiene che i μὴ ἐόντα (analogamente a τὰ δοκοῦντα) sarebbero da
identificare con le “cose”, cui Parmenide 42 Coxon, op. cit., p. 191. 43 Coxon
(p. 192) sottolinea la risonanza omerica (non l’uso che se ne fa ) dell’intero
verso 4. 420 negherebbe lo statuto di essere, attribuendo al commercio
quotidiano con esse, all’esperienza multipla, quella violenza sul pensiero che
si traduce nella identificazione del reale con il divenire44. In verità, la Dea
insegnerebbe che il loro statuto è quello di «nome» (ὄνομα): svuotate di ogni
consistenza ontologica, le “cose” sono così destinate a sparire. Secondo
l’autore belga, dunque, questa prima forma di “nominalismo” condannerebbe ogni
tentativo di attribuire realtà alle cose come «vuoto parlare», «parlare per non
dire niente»45 . Noi riteniamo che in B7 Parmenide rilanci la propria denuncia
contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle: i mortali implicano
il non-essere nel tentativo di comprendere la realtà attraverso il dato sensibile:
dunque, per riprendere una osservazione della Robbiano46, la Dea ammonisce la
propria audience che quando si coinvolge il non-essere, non si troverà la
verità. Per riprendere una formulazione, che ci pare efficace, della
Wilkinson47, la Dea «non critica i mortali perché percepiscono in modo
scorretto, piuttosto critica i mortali perché nominano in modo scorretto quello
che percepiscono»48 . Logos e elenchos Il frammento si chiude con una
esortazione notevole: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα
Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata (B7.5-6).
L’interesse del passo è legato alla connessione tra vocaboli destinati a
diventare tecnici nelle filosofie posteriori - λόγος e 44 Mythe et
Philosophie…, cit., p. 201. 45 Ivi, pp. 201-2. 46 Op. cit., p. 97. 47 Op. cit.,
p. 105. 48 Enfasi dell’autrice. 421 ἔλεγχος: il kouros è invitato a valutare, a
sottoporre a scrutinio, con il logos (con il discorso, con l'argomentazione)
l’elenchos (qualificato come πολύδηριν, «polemico», ma anche «molto
contestato») appena proposto (sulle implicazioni temporali del participio
aoristo ῥηθέντα si veda la nota alla traduzione). La Dea, con trasparenza,
sollecita il proprio interlocutore a prendere piena coscienza della forza
(razionale) della contestazione condotta: (i) ogni distanza (tra umano e
divino) è così annullata sul terreno dell’argomentazione: il potere del logos
può accomunare docente e discente; (ii) giudicare e discriminare appaiono come
operazioni implicanti il logos e riferentesi a una «prova» destinata a
contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende accertare una
contraddizione. Il termine λόγος indicava originariamente l’attività e il
risultato del «raccogliere» (λέγειν), donde una prima associazione semantica
alla «numerazione» e le successive due linee di sviluppo: (i) «enumerazione» e
«racconto» (inteso appunto come raccolta e ordinamento di fatti), quindi
«discorso»; (ii) «conteggio, calcolo, stima, ragionamento». Nel nostro
contesto, e nella associazione con κρίνω, λόγος è espressione di operatività
razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito, λόγος
risulta polivalente, designando a un tempo il «discorso», la sua espressione
scritta, il suo significato; con una forte valenza ontologica, nella misura in
cui viene utilizzato per designare la struttura della realtà, la sua misura
interna. Secondo Ruggiu49 , anche in Parmenide, come in Eraclito B1, λόγος
indicherebbe quella peculiare forma di conoscenza razionale che (analogamente
al νόος) consente di penetrare il senso profondo delle cose. A determinarne
l’accezione è proprio l’associazione con ἔλεγχος: il valore etimologico
originario del verbo ἐλέγχω (da cui discende il sostantivo ἔλεγχος) è
«provocare vergogna», una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura;
collegato a esso è il significato di «smentire una menzogna», riuscire a
provare che qualcuno è colpevole di una menzogna. È possibile che in questo 49
Op. cit., p. 267. 422 modo il verbo abbia assunto il senso di «mettere alla
prova, verificare, accertare qualcosa». L’espressione πολύδηρις ἔλεγχος sembra
dunque riferirsi proprio alla critica, sviluppata tra B6 e B7, nei confronti
della presunta sapienza tradizionale, probabilmente delle tesi di pensatori
ionici e forse pitagorici. Una vera e propria confutazione, se consideriamo che
la polemica è consistita essenzialmente nel denunciare la contraddizione
implicita in quelle posizioni. La Dea dapprima (B2.3a; B2.5a) propone
l’espressione diretta della semplice e immediata esperienza della realtà, ἔστιν,
contrapponendole la negazione (οὐκ ἔστιν): da questa alternativa fondamentale e
radicale, può ulteriormente ricavare τό μὴ ἐὸν (B2.7) e τὸ ἐὸν (B42; ἐὸν B6.1)
come soggetti (ancorché il primo solo logico, il secondo reale) delle due
coerenti «vie per pensare». Quindi, dopo aver riformulato (B6.1-2) in termini
tautologici (ἐὸν ἔμμεναι; μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) il contenuto delle vie, ella si
concentra (B6.4-9; B7) sul cortocircuito prodotto nel pensiero (νόος) dei
«mortali» dalla loro contraddizione50, cioè dall’incauta contravvenzione delle
norme: οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b); χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). In questo senso
la «prova» intorno a cui la Dea invita il kouros a meditare è, nella posteriore
accezione aristotelica, una «confutazione» (ἔλεγχος), deduzione di una
contraddizione (ἀντίφασις), cioè procedimento dialettico per eccellenza 51 . 50
Heitsch, op. cit., p. 161. 51 Su questo si vedano in particolare i contributi
di Enrico Berti, ora raccolti in E. Berti, Nuovi studi aristotelici. I –
Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia 2004. 423 PERCORSI
NELL’ESSERE [B8 VV. 1-49] Il frammento B8 ci è interamente conservato da
Simplicio, in due passi del suo commento alla Fisica aristotelica, ma brevi
citazioni (per lo più di singoli versi) sono riscontrabili nello stesso
commentatore, in Platone, Aristotele, Pseudo Aristotele, Aetius, Plutarco,
Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto, Proclo, Ammonio, Filopono, Asclepio,
Damascio. La collazione dei codici ha creato, almeno in alcuni casi, non pochi
problemi per la ricostruzione del testo originale, con conseguenti, profonde
divergenze interpretative, come abbiamo già documentato nelle note. L’acribia
nella discussione critica si giustifica per il rilievo del lungo frammento,
attestato dalla stessa messe di citazioni e comunque dalla sua eccezionale
tradizione (B8 rimane uno dei più lunghi passi superstiti della sapienza greca
arcaica): con tutta probabilità in questi versi Simplicio ci ha conservato
(consapevole della rarità dell’opera) l’intera comunicazione di verità del
poema - dopo le premesse (B2, B3) e un primo esame critico (B6 e B7) - insieme
con l’introduzione della sezione convenzionalmente designata come Doxa (che,
secondo i calcoli contemporanei, da sola doveva coprire i 2\3 dell’opera): καὶ
εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ
πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ
λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος. ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ
μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν anche a costo di sembrare insistente, vorrei
aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere
uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto
parmenideo. Dopo l'esclusione del non essere, le cose stanno così: [B8.1-52]
(Simplicio, Commentario alla Fisica 144, 25-29). Nella nostra edizione e nel
nostro commento abbiamo deciso di dividere i due segmenti, ma solo per ragioni
di omogeneità: abbiamo in altre parole preferito concentrare l’attenzione prima
424 sulla presunta ontologia del poema, per passare poi in modo più sistematico
a discuterne i principi interpretativi della natura. La via «che è» e la Verità
Diogene Laerzio (IX.22), a proposito delle tesi di Parmenide, afferma: δισσήν
τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la
filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo
opinione. Alla luce di quanto risulta dalla nostra analisi di B1, tale
struttura emerge dal programma annunciato dalla Dea in B1.28b ss.: χρεὼ δέ σε
πάντα πυθέσθαι ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità
ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle
opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero
esistenti. Nella prima sezione (dopo il proemio) indicata - per antica
consuetudine, sulla scorta di tale programma - come Verità1 , ritroveremmo
dunque - concentrato essenzialmente in B8 - l’insegnamento (πυθέσθαι, anche
«imparare») del «cuore fermo di 1 E che – ricordiamolo - Parmenide in B2.4
designa come Πειθοῦς κέλευθος - «percorso di Persuasione». 425 Verità ben
rotonda» (ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ), correlato alla denuncia (B6, B7 e
ancora B8) dell’errore insito nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας). La
sezione indicata come Opinione sarebbe (nella nostra interpretazione) da
mettere invece in relazione all’ultimo punto del programma: conterrebbe cioè
una lezione (μαθήσεαι, «apprenderai») adeguata su τὰ δοκοῦντα, sui contenuti
dell’esperienza. È significativo dell'originalità della sezione sulla Verità –
soprattutto di B8 - il fatto che le citazioni relative siano più numerose e
consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui supponiamo fosse articolato il
poema – Proemio, Verità, Opinione - l’apertura proemiale, che si prestava
all’allegoresi, dovette riscuotere particolare attenzione in età ellenistica:
probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua interpretazione
da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne integralmente il
testo (forse da fonte non attica2 ). In genere, però, già la produzione del V
secolo a.C. attesta l’incidenza del modello argomentativo e della concettualità
della Verità, che doveva costituire novità rispetto all'arcaica elaborazione
ionica, sebbene, come vedremo, sia molto probabile che i
"naturalisti" posteriori, da Empedocle agli atomisti3 , abbiano
adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la consistente
eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo
subordinatamente (so- 2 Secondo Passa (op. cit., p. 31), infatti, Sesto avrebbe
utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi: nel
secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso,
invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica
redazione psilotica del poema. Passa ne conclude che è plausibile che Sesto
disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un
esemplare dell'intero poema. 3 Alexander Nehamas ("Parmenidean
Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of
Alexander Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot
2002, pp. 51-2) sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero
mutuato le caratteristiche ontologiche illustrate da Parmenide, nessuno si
sentisse in dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di elementi
giustificandola argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno,
forse, di continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce
esplicitamente a Parmenide le proprie posizioni, si impegnò a giustificare il
proprio «numerical monism»: un segno, forse, di discontinuità con il poema. 426
prattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva presentarsi
come una più tradizionale trattazione peri physeōs. È inoltre interessante
osservare come, anche da un punto di vista “musicale”, dell’esperienza di
ascolto dell’intero poema, B8 si distacchi dal resto, deviando spesso dalla
cadenza del verso omerico: solo nei versi nella terza sezione il linguaggio
ritorna alla semantica convenzionale e ordinaria e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio4 . La reiterazione di ἔστιν (senza soggetto)
produce (i) un’interruzione di ritmo (suono) e (ii) una dissociazione di
significato5 , come se Parmenide intenzionalmente rompesse la sintassi, le
regolari relazioni semantiche e le relazioni logiche o strutturali: sia che il
poema si legga in silenzio, sia che si ascolti in lettura, in B2 e B8 “è”
(senza soggetto) incombe, con eco amplificata dal ritorno al ritmo poetico
consueto nei due terzi finali del discorso della dea6 . La via che è L’attacco
del frammento (vv. 1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto: μόνος δ΄ ἔτι
μῦθος ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς… Unica
parola ancora, della via che «è», rimane; su questa [via] sono segnali molto
numerosi: che... Esplicito il richiamo a B2 (μῦθος; ὁδός) e ai suoi esiti:
rimane un’unica parola da ascoltare, dopo che si è riconosciuto
l’impraticabilità di alternative. È giunto dunque il momento di in- 4 L.A.
Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 5 Ivi, p. 96. 6 Ivi, p. 107.
427 camminarsi lungo la via che appartiene a Πειθώ e Ἀληθείη. Su questo
Parmenide è ancora più netto nei vv. 15-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ
ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. Il giudizio in
proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di
lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via
genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Nel sottolineare la bontà
del proprio argomento, la Dea ricostruisce sinteticamente la ratio per cui
μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται («unica parola ancora […] rimane» B8.1-2),
evocando l’alternativa dilemmatica - ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν (espressione sincopata
delle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι di B2.2) – e la conseguente, necessaria
esclusione della via «che non è» (B2.7-8): «non è fattibile» (οὐ ἀνυστόν)
conoscere (γνῶναι) e indicare (φράζειν) «ciò che non è» (τό μὴ ἐὸν). In questo
senso va intesa la coppia di aggettivi «impensabile» (ἀνόητον) e «indicibile»
(«senza nome», ἀνώνυμον): la via ὡς οὐκ ἔστιν (τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι) è
effettivamente impalpabile (B2.6), «sentiero del tutto privo di informazioni»
(παναπευθέα ἀταρπόν). La «decisione» (il «giudizio», κρίσις) è conseguente:
come destino («necessità», ἀνάγκη), ricorda la Dea, si è riconosciuto che non
si tratta di via «genuina» (οὐ ἀληθής ἔστιν ὁδός), lungo la quale sia realmente
possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa. All’inizio di B8, delle «uniche vie
di ricerca […] per pensare», non rimane quindi che imboccare quella «reale» (ἐτήτυμον),
quella, appunto, ὡς ἔστιν (τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι): muoversi sul terreno
di «è e non è possibile non essere», rinunciando a dare 428 consistenza a
«non-è ed è necessario non essere», garantisce intelligibilità e comprensione
della realtà7 . Una sola parola L’eco inziale del μῦθος che la Dea aveva
invitato il kouros ad accogliere e conservare - e che dunque propone i tratti
di un authoritative speech act (Morgan) – è funzionale alla successiva notifica
della vanità del nominare mortale (B8.38b-39): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ
κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Per esso tutte le cose saranno nome, quante i
mortali stabilirono, persuasi che fossero reali, ma anche al rilievo della
svolta introdotta in conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con una formula
indicativa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ
τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo
termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare (B8.50-52). La «parola» (il «discorso») di Verità della Dea
traccia i contorni della realtà attraverso l’esclusione sistematica di ciò che,
nella propria inconsistenza (τό μὴ ἐὸν), si rivela ἀνόητον ἀνώνυμον. Si tratta
della rigorosa applicazione argomentativa della formula della prima «via»: 7
Sul rapporto tra il tema della “via” e l’unicità del discorso in apertura di B8
si veda in particolare L. Couloubaritsis, Les multiples chemins de Parménide,
in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 29-30. 429 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è possibile non essere. In questo senso, in
B7.5 ella aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente (κρῖναι δὲ λόγῳ)
la «prova polemica» (πολύδηριν ἔλεγχον) fornita: donde forse – ipotizzando una
sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il
commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 111 e 114) – l’apertura
con l’espressione μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται. Tale μόνος μῦθος è relativo
alla «via: è» (ὁδός ὡς ἔστιν), di cui la Dea informa (vv. 2b-3a): ταύτῃ δ΄ ἐπὶ
σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄… su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il discorso
è uno, perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile; molti i
«segni» (σήματα) che consentono di identificarla8 , molti gli argomenti che
possono essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra πολύδηρις ἔλεγχος,
μόνος μῦθος e σήματα. Come rivela il precedente epico del riconoscimento di
Odisseo da parte di Penelope, essi, infatti, possono essere usati per provare
(sottoporre a elenchos) l’identità di una persona9 . Sarà allora lo stesso
intreccio dei «segni» a rivelare unità e omogeneità di τὸ ἐόν e dunque a
mostrare l’alterità tra il μῦθος della Dea e i discorsi dei «mortali»: essi
ipostatizzano quanto, in vero, è solo «nome»; assumono come evidenza ultimativa
la molteplicità di enti, senza ricondurla all’identità dell’«essere». Il μόνος
μῦθος che la θεά articola in B8.1-49 corrisponde a quanto annunciato (B2.4)
come Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Persuasione») in quanto Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ
(«tien dietro a Verità»): lungo la 8 Secondo gli interessanti rilievi di
Robbiano, op. cit., pp. 108-9. 9 Ibidem 430 «via: è e non è possibile non
essere» si esprime – non solo per l’autorevolezza dell'indicazione divina, ma
per l’intrinseca costruzione razionale – quella πίστις ἀληθής (B8.28) che era
stata negata (B1.30) alle «opinioni dei mortali» (ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής,
«in cui non è reale credibilità»). Con una differenza significativa: nel
proemio il kouros doveva semplicemente registrare un annuncio; la πίστις ἀληθής
rappresentava quella credibilità che la Dea disconosceva alle convinzioni
correnti. In B8 è lo stesso «convincimento», maturato argomentativamente, a
trattenere dalla distorsione tipica dei «mortali che nulla sanno»: considerare
(νομίζειν) (B8.27-28): ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ
πίστις ἀληθής poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano:
convinzione genuina [le] fece arretrare. Analogamente, in B6.4-9 e B7.1-5 la
Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione teorica corrente, mettendo in
guardia il kouros: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > […]
ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν […]
[ti tengo lontano] da quella [via] che appunto mortali che nulla sanno , […]
schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la
stessa cosa e non la stessa cosa […] οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ
σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε
βιάσθω Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. 431 Ma
tu da questa via di ricerca allontana il pensiero; né abitudine alle molte
esperienze su questa strada ti faccia violenza. In B8.38 ss. è lo stesso μόνος
μῦθος (articolato in relazione ai σήματα) a svelare in che cosa effettivamente
consista quello stravolgimento: perdere di vista il fatto che, prescindendo
dall’unico referente reale (l’essere), i vari nomi con cui designiamo i
fenomeni della nostra esperienza sono, in realtà, solo simboli: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται,
ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί
τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le
cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali:
nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore.
L’«essere» (τὸ ἐόν), ovvero «ciò che è» (ἐόν), è la sola cosa che possa essere
pensata ed espressa nel linguaggio: a qualsiasi cosa i mortali pensino o di
qualsiasi cosa i mortali parlino e in qualsiasi modo ne pensino o parlino, essi
in realtà pensano o parlano di ciò-che-è 10. Questa è la lezione che si ricava
dalla «parola» della Dea: trasfigurazione del linguaggio dell’esperienza, della
rappresentazione ingenua, ma anche della (contestata) cosmologia ionica. Una
lezione che discende, dunque, dalla krisis (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), condotta
escludendo τό μὴ ἐὸν: l’unica via praticabile troverà manifestazione rigorosa
attraverso i «segnali» che possono identificarla per la ragione. In questa
prospettiva i vv. 50-52 marcano effettivamente un passaggio, dal momento che
spostano l’attenzione (e l’istruzione) del kouros da quella manifestazione – il
«discorso affidabile» (πιστὸν λόγον) che esprime la Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)
– all’ambito delle nostre convinzioni empiriche (τὰ δοκοῦντα 10 R. McKirahan,
“Signs and Arguments in Parmenides B8”, cit., p. 205. 432 B1.31), da ridurre a
uno schema interpretativo adeguato (χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα
B1.32). È la stessa divinità a connotare la propria comunicazione (μῦθος): a
rilevarne con formule (κέκριται ὥσπερ ἀνάγκη) la cogenza, la dipendenza dalla
κρίσις (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν),·e, attraverso figure (Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα), lo
statuto trascendentale. La «parola», infatti, nel suo procedere argomentativo,
appalesa, della realtà (τὸ ἐόν), ordine e superiore garanzia: «Giustizia [lo]
tiene (ἔχει)», «Necessità potente [lo] tiene (ἔχει)», «Moira (Destino) lo ha
costretto (ἐπέδησεν)». La nuova sezione, introdotta al v. 50, è, a sua volta,
esplicitamente determinata: è sempre la divinità a sottolinearne la materia diversa
– conseguenza dell’adozione di un punto di vista che potremmo definire “umano”:
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε («da questo momento in poi opinioni mortali
impara» B8.51-2). Contestualmente, nell’abbandonare la parola garantita e il
suo oggetto immutabile (τὸ ἐόν e i suoi σήματα), è la Dea stessa a mettere in
guardia sul passaggio dal rigore del «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον), del
«pensiero intorno alla Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης), alla ricostruzione
potenzialmente fuorviante (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, «ascoltando
l’ordine delle mie parole che può ingannare»). Il poeta segnala il cambio di
registro anche a livello espressivo, tornando, come abbiamo in precedenza
ricordato, alla semantica convenzionale e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio: in questo senso, rispetto ai versi centrali della
Verità, ἀπατηλὸν (passibile di inganno) appare effettivamente l’organizzazione
stessa delle parole11 . L’attuale frammento B19 confermerà la natura “umana”
della prospettiva (κατὰ δόξαν) adottata, e la sua peculiare costruzione
linguistica: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ 11 L.A.
Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 433 Ecco, in questo modo,
secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito
sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero,
distintivo per ciascuna. La via e i suoi «segnali» La Dea si affretta a
osservare (B8.2-3), riguardo alla ὁδός (ὡς ἔστιν), come: ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι
πολλὰ μάλ΄ su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il rilievo è importante
perché sottolinea la fondatezza della comunicazione divina, sottraendola
all’arbitrio, e la sua intenzione razionale: essa allude a «segni», proprietà,
evidentemente da riconoscere come genuini indicatori della realtà, e
implicitamente è introdotta la loro discussione. La presenza di «segnavia»
lungo un percorso (κέλευθος) è naturale, così come la loro funzione di
orientamento: trattandosi di Πειθοῦς κέλευθος, il compito educativo della Dea
diventa quello di illustrarli e, così facendo, di sviluppare la conoscenza
della via, di guidare alla comprensione dell’essere. I σήματα si riferiscono
immediatamente alla ὁδός, non a τὸ ἐόν, ma la loro discussione, il
riconoscimento della loro funzione, contribuisce a determinare e far prendere
consapevolezza della nozione di τὸ ἐόν: la «via», in effetti, è indicata come ὡς
ἔστιν. In questo caso la natura descrittiva dei «segnali» rispetto al percorso
di conoscenza si fa ancora più netta. Simplicio (Phys. 78, 11) parla di τὰ τοῦ
κυρίως ὄντος σημεῖα, che potremmo tradurre come «connotazioni dell’essere che
veramente è». 434 Segnali La Dea ne propone un catalogo, nel seguito utilizzato
(anche se non integralmente) per l’analisi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν,
οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν
ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto
intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà,
poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Dei molti problemi testuali abbiamo
dato notizia in nota. Qui interessa tentare di comprendere che cosa i σήματα
rappresentino per l’autore. Una prima risposta possiamo ricavare dalla versione
che abbiamo proposto (una delle possibili): la via ὡς ἔστιν è tradotta in
termini proposizionali, con un soggetto (ἐόν, lo stesso emerso in B6.1) e,
apparentemente12, due serie di predicati: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον,
μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. I
«segnali molto numerosi» sulla via ὡς ἔστιν sarebbero dunque caratteristiche
che si possono legittimamente riferire a «ciò che è», sulla scorta – come risulterà
più chiaramente nel corso della esposizione divina (e come abbiamo anticipato)
- della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Formulando diversamente lo stesso concetto:
predicati essenziali di τὸ ἐόν, implicati (e deducibili) dalla 12 Come
segnalato in nota, Leszl, Heitsch e di recente Palmer (tra gli altri), fanno
iniziare l’analisi dei segni dal v. 5, con ciò considerando gli attributi dei
vv. 5-6 già parte della discussione e non propriamente σήματα. 435 stessa
nozione di ἔστιν (τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), con esclusione di οὐκ ἔστιν
(τε καὶ [...] χρεών ἐστι μὴ εἶναι); attribuiti all’essere, essi ne manifestano
la natura. È plausibile nel contesto che la Dea intenda σήματα e ἔλεγχος non
disgiuntamente, in altre parole che l’orientamento conoscitivo richieda non
semplicemente il catalogo, ma l’argomentazione che lo sostiene. Anzi, dal punto
di vista della lezione divina, la valutazione razionale del giovane allievo
appare preoccupazione primaria, come marcato in B7.5-6: κρῖναι δὲ λόγῳ
πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova
polemica da me enunciata. I «segnali» potrebbero dunque costituire il materiale
concettuale su cui esercitare la razionalità del kouros, con un duplice scopo:
(i) fargli prendere confidenza con τὸ ἐόν; (ii) fargli prendere coscienza delle
inconsistenze di altre posizioni teoriche (ioniche, forse pitagoriche). Si
tratta ovviamente di due risvolti della stessa strategia, nella misura in cui
il riconoscimento della natura di «ciò che è» comporta, per un verso, la presa
di distanza dalla superficiale lettura del dato sensibile, per altro la
contestazione di lezioni concorrenti. Così ritroveremo riaffermato (B8.34-36a)
il nesso tra pensiero (addirittura nella formulazione astratta τὸ νοεῖν) e
essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. Οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa invero è pensare e il
pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso,
troverai il pensare. Un rilievo che ribadisce appunto l’equazione di B3: τὸ γὰρ
αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere, 436
e soprattutto richiama la funzione “ontologica” del νόος di B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως
ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι
Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. L’aspetto che appare
tuttavia peculiare nella relazione tra σήματα e νοεῖν è il fatto che alcuni dei
«segnali» fondamentali siano evidentemente costruiti - sul piano linguistico –
con l’uso dell’alfa privativo, mentre su quello argomentativo (attraverso ἔλεγχος,
confutazione) tutti siano sostenuti ribaltando il dato di senso comune (nascita
e morte, accrescimento e diminuzione, mobilità ecc.). Un risultato che a loro
modo anche la sapienza ionica aveva ottenuto, ma, come rivelerebbe la
discussione parmenidea, in modo contraddittorio. In questo senso, i σήματα
possono essere letti come elementi concettuali espressamente rivolti a
contestare i metodi tradizionali di interpretazione dell’universo13. Il
catalogo e la relativa discussione investirebbero direttamente alcuni
contributi della elaborazione cosmologica arcaica14: (i) il paradigma di fondo
della cosmogonia (B8.6-21); (ii) il modello esplicativo per successive
differenziazioni – quale è possibile intravedere nelle testimonianze su
Anassimandro e Anassimene (B8.22-25); (iii) la riflessione sul mutamento – cui
possono ricondursi in parte i frammenti di e le testimonianze su Anassimene e
Eraclito (B8.26-31); (iv) il modello biologico di sviluppo dell’universo, che
possiamo ritrovare nelle testimonianze su Anassimandro (B8.32-49). È allora
possibile che la natura dei σήματα non fosse quella di predicati astratti,
concettualmente dedotti dalla nozione di «esse- 13 Robbiano, op. cit., p. 109.
14 Ibidem. 437 re», bensì quella di contrafforti dialettici scaturiti dal
confronto con specifiche dottrine, e, in questo senso, storicamente,
culturalmente determinati. La loro funzione “segnica” rispetto alla «via»
consisterebbe nell’evitare che essa possa essere abbandonata, seguendo il
richiamo di assunzioni acritiche ovvero di presunte, scorrette, teorie. Donde
l’impronta discutiva e confutatoria dell’analisi di Parmenide. La via, i
segnali e la guida D’altra parte è evidente nel testo come la Dea scelga di
riferirsi ai «segnali» nel contesto della propria istruzione al kouros, del
proprio esercizio di guida. Anzi: ella guida attraverso σήματα, che impegnano
razionalmente. La tradizione li conosceva come «segni augurali» che gli
indovini dovevano interpretare15, come mezzi di rivelazione di una potenza
superiore16. In questo senso il contemporaneo Eraclito evocava lo stesso
modello: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ
σημαίνει Il signore, di cui è l'oracolo in Delfi, non dice, non nasconde ma dà
un segno (Plutarco; DK 22 B93). Anche la dea di Parmenide invia segnali ai
mortali, per far conoscere cose normalmente oltre la loro portata: Robbiano e
Cerri hanno probabilmente ragione nel sottolineare come il termine σήματα non
si riferisca allora tanto ai predicati enumerati in B8.2- 6, quanto ai
successivi argomenti, risultando essenziale nella relazione tra l’umano e il
divino il momento dell'interpretazione dei segni per giungere alla verità. In
questa prospettiva – come rilevato da Mourelatos17 - σήματα e ὁδός (ὡς ἔστιν)
si salderebbero nel motivo della quest: per raggiungere il fine della ricerca è
necessa- 15 Cerri, op. cit., p. 219. 16 Mansfeld, op. cit., p. 104. 17 Op.
cit., p. 94. 438 rio percorrere la strada «che è»; per fare ciò è necessario
tenere d’occhio i segnavia. L’accostamento al modello oracolare - giustificato
non solo dalle implicazioni tra σήματα e σημαίνειν, ma pure dal nesso lessicale
tra σήματα e σημεῖον, termine per «segno divinatorio» (di qualsiasi tipo), e
«responso oracolare» (testo verbale) – è ricco di risvolti significativi nel
contesto. Il segno divinatorio, infatti, proviene dalla sfera divina: nel segno
la sapienza divina irrompe nell'ambito umano, per condensarsi poi nel
responso,: la parola del responso è umana come suono, ma rivela una conoscenza
che separa l'uomo dal dio18. Ora, non vi è dubbio che Parmenide rielabori, in
forme originali, questi elementi: la rivelazione, lo scarto conoscitivo e il
suo rilievo esistenziale, la comunicazione di verità come evento privilegiato.
Come ricorda la Robbiano19, la dea di Parmenide evoca un dio che manda segnali
ai mortali per far loro conoscere cose normalmente fuori della loro portata:
non dobbiamo dimenticare che in Omero la divinazione comporta la conoscenza
delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in
passato: […] τοῖσι δ’ ἀνέστη Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος, ὃς ᾔδη
τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, καὶ νήεσσ’ ἡγήσατ’ Ἀχαιῶν Ἴλιον εἴσω ἣν
διὰ μαντοσύνην, τήν οἱ πόρε Φοῖβος Ἀπόλλων Si alzò allora Calcante, figlio di
Testore, di gran lunga il migliore degli indovini, il quale conosceva le cose
che sono, le cose che saranno, le cose che furono, e aveva guidato le navi
degli Achei fino a Ilio grazie all’arte profetica che gli donò Febo Apollo
(Iliade I, 68-72). 18 Su questo punto si veda G. Manetti, Le teorie del segno
nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987. 19 Op. cit., p. 126. 439 In
Parmenide è la divinità stessa a indicare i «segnali» che tracciano la via al
pieno dispiegamento della realtà (Verità) nella conoscenza, e a interpretarli
per il kouros; è la divinità stessa a tradurre la propria sapienza in immagini
e discorsi: essa riassorbe in sé, insieme alla funzione rivelativa, anche
quella di μάντις e προφήτης, marcando l’eccezionalità del privilegio concesso.
Il «colpo d’occhio [del dio] che conosce ogni cosa» (Pindaro), la visione
simultanea di passato, presente e futuro, si presenta nei segni che l’indovino
deve riversare in parole (enigmatiche) e l’interprete chiarire per i mortali.
In questo senso la divinità di Parmenide ha un ruolo simile a quello delle Muse
(le quali garantiscono al poeta la trasposizione della loro sinossi nello
sviluppo del canto), ma “laicizzato”: analoga l’intenzione pedagogica, comunque
diversamente declinata. La Dea, infatti, propriamente non ispira un canto,
piuttosto insegna argomentando; pur marcando lo scarto tra umano e divino, ella
comunica razionalmente, insistendo sulla «forza di convinzione» (πίστιος ἰσχύς),
sulla «convinzione genuina» (ovvero «reale credibilità», πίστις ἀληθής), per
illustrare i σήματα al proprio interlocutore (cui è richiesto di non accogliere
supinamente, ma riflettere su quanto comunicato): interpretarli significa, nel
nostro contesto, giustificarli razionalmente alla luce dei principi (le «vie»)
introdotti in B2. Alla ripresa del motivo tradizionale segue, dunque, una
sostanziale revisione: è attraverso ἔλεγχος che la Dea sviluppa il tracciato
della «via che "è"»; è contestando ed escludendo errate assunzioni di
senso comune e contributi teorici concorrenti che ella viene determinandola
dialetticamente. È indicativo del retroterra culturale il fatto che Parmenide
scelga di proporre in prima istanza un catalogo (memorizzabile) di «segni»,
quindi un prolungato sforzo argomentativo – un unicum nel panorama della
produzione arcaica –, sostenuto da una serie di immagini plastiche (catene,
legami, sfera) e figure (divine). Ritroviamo sapientemente intessuti ἔλεγχος,
metafora e mito, quasi costituissero ancora tre aspetti inscindibili di una
stessa esperienza comunicativa. Segnavia 440 L’attacco di B8 sottolinea dunque
una volta di più il ruolo della guida divina e la centralità del tema della
via: è la Dea, infatti, a ricordare come rimanga ancora solo la possibilità di
un μῦθος; è la Dea ad annunciare i «segnavia» (σήματα) e quindi che il percorso
sarà discorsivo. È la Dea, insomma, che non solo anticipa al kouros l’identità
della via che resta (ὡς ἔστιν), ma prospetta pure la prova (ἔλεγχος) che il
giovane discepolo deve sostenere. Come opportunamente osservato da Coxon20, B8
è introdotto da un resoconto delle evidenze lungo la via, sulla quale, nella narrazione,
il kouros deve ancora viaggiare: gli argomenti di B8 valgono quindi come guida
(filosofica), grazie a cui è possibile mantenere la direzione e percorrere fino
in fondo la «via genuina» (ὁδός ἀληθής), in B2.4 connotata come Πειθοῦς
κέλευθος. Come anticipato, Parmenide sembra articolare un doppio registro di
evidenze da sottoporre all’attenzione; in effetti il testo recita (vv. 3-6): ὡς
ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον·
οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita
è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un
tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Ne
abbiamo sopra estratto due liste di attributi di ἐὸν: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν,
οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές.
L’argomento di B8 – pur coinvolgendoli complessivamente – sembra costruito per
privilegiare questi enunciati: 20 Op. cit., p. 193. 441 γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος è estinta nascita e morte oscura (B8.21) πᾶν ἐστιν ὁμοῖον è
tutto omogeneo (B8.22) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον
αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa,
e, così, stabilmente dove è persiste (B8.29-30) οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι·
ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές non incompiuto l’essere [è] lecito che sia: non è,
infatti, manchevole [di alcunché] (B8.32-33). In questo senso appare plausibile
la ricostruzione di Mourelatos21 (ripresa di recente anche da Robbiano22),
elaborata tenendo conto delle convergenze tra gli interpreti sui seguenti
blocchi testuali e relativi sÔmata di riferimento: B8.6-21: ἀγένητον
(ingenerato) e ἀνώλεθρόν (imperituro); B8.22-25: συνεχές (continuo) e\o ἀδιαίρετον
(indiviso); B8.26-31: ἀκίνητον (immobile, immutabile); B8.32-33: οὐκ ἀτελεύτητον
(non incompiuto); B8.42-49: τετελεσμένον (compiuto). Possiamo precisare
leggermente questo schema e privilegiare la discussione (ἔλεγχος) di quattro
σήματα di base, riferibili, in quanto «segnavia», direttamente a ὁδός (ma,
nella nostra traduzione, predicati di τὸ ἐόν), cui è poi possibile ricollegare
gli altri: (i) «senza nascita e morte» (ἀγένητον, ἀνώλεθρόν B8.5-21); (ii)
«tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον B8.22-25); (iii) «immobile» 21 Op. cit., p. 95. 22
Op. cit., p. 108. 442 (ἀκίνητον B8.26-31); (iv) «compiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον,
τετελεσμένον B8.32-49). Di recente McKirahan23 ha proposto un elenco più
minuzioso, classificando con una più articolata suddivisione in gruppi tutti i
predicati: A: ἀγένητον (ingenerato) ἀνώλεθρόν (imperituro) B: οὖλον (intero)
τέλειον24 (completo) ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme) συνεχές (che si tiene insieme) C:
οὐδέ ποτ΄ ἦν (né un tempo era) οὐδ΄ ἔσται (né sarà) νῦν ἔστιν (è ora) D: ἀκίνητον
(immobile) ἔμπεδον (immutabile) E: ἀτρεμὲς (stabile) F: μουνογενές (unico25) ἕν
(uno). Nella nostra esposizione seguiremo lo schema di Mourelatos che abbiamo
precisato, integrandolo con le osservazioni desumibili dall’elenco di
McKirahan. Ingenerato (e imperituro) Il vero e proprio attacco argomentativo
del frammento è formulato come interrogazione (vv. 6-7)26: τίνα γὰρ γένναν
διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?
Come e donde cresciuto? 23 “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The
Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham,
O.U.P., Oxford 2008, p. 191. 24 McKirahan legge hdè téleion in vece di ἠδ΄ ἀτέλεστον.
25 Noi abbiamo preferito rendere come «uniforme». 26 Ma alcuni sostengono che
l'argomentazione cominci al verso precedente con οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται... 443
L’implicita opzione discutiva impronterà lo sviluppo discorsivo: la Dea non si
limiterà a ragionare con il proprio (muto) ascoltatore, ma mimerà un autentico
confronto dialettico, attribuendogli le convinzioni teoriche (o di senso
comune) che è necessario confutare per dimostrare la propria tesi. Un possibile
modello argomentativo I versi 7-15 – nella versione (a dire il vero tormentata)
che abbiamo accolto e tradotto27 - possono esemplificare efficacemente la
struttura del procedimento razionale di Parmenide: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν
μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ
πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί. οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει
πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε
Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· Da ciò che non è non permetterò che tu dica e
pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». Quale bisogno,
inoltre, lo avrebbe spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima?
Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Né mai concederà forza di
convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. Per questo né nascere né morire
concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 27 Come risulta dalle
annotazioni al testo greco, abbiamo accettato l'emendazione proposta da Karsten
della forma ἐκ μὴ ὄντος attestata dai codici, in ἐκ < τοῦ ἐ > όντος. 444
L’argomento – insieme agli interrogativi che lo introducono - ha come soggetto
sottinteso (nella nostra traduzione) ἐόν (v. 3): per escluderne generazione
(τίνα γένναν αὐτοῦ; - «quale nascita di esso?») e derivazione (πῇ πόθεν αὐξηθέν;
- «come e donde cresciuto?»), la Dea non concede: (i) che esso possa nascere (φῦν)
«originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) - «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος);
(ii) che esso origini (γίγνεσθαi) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος). Non
rimanendo alternative, ella conclude il proprio ragionamento (a dimostrazione
della tesi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) appoggiandosi alla superiore
garanzia di Dike (il nume tutelare dei limiti e delle prerogative a essi
associate), la quale vincola ciò che è a essere ἀγένητον (e ἀνώλεθρόν). La
struttura dell’argomento risulterebbe dilemmatica, come segnalato dall'uso di οὔτε
(v. 7) e οὐδέ (v. 12): «non è vero questo, e neppure è vero quest’altro», dove
«questo» e «quest’altro» rappresentano le uniche due possibilità concepibili in
proposito28 , appunto ἐκ μὴ ἐόντος (v. 7) e ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (v. 12
emendato). Di questa struttura si trova conferma nello scritto Sul non-essere
di Gorgia (versione Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 71): καὶ μὴν οὐδὲ
γενητὸν εἶναι δύναται τὸ ὄν. εἰ γὰρ γέγονεν, ἤτοι ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος
γέγονεν. ἀλλ’ οὔτε ἐκ τοῦ ὄντος γέγονεν· [...] οὔτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος·[...] οὐκ ἄρα
οὐδὲ γενητόν ἐστι τὸ ὄν E ancora, l'essere non può neppure essere generato: se
è stato generato, infatti, certamente è stato generato o dall'essere o dal
non-essere; ma non è stato generato né dall'essere [...] né dal non essere
[...]. L'essere, di conseguenza, non è stato generato; 28 Leszl, op. cit., p.
177. 445 e in Aristotele (Fisica I, 8 191 a23 ss.), con chiara allusione anche
agli Eleati29: Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ
ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων
ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε
γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι
τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι·
οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι
γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ
μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei
pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi
hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono
sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi
sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge:
poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò
che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi30. L'essere,
infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal
momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le
conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere
stesso. Lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys. 77, 9; 162,
11), offre questo senso: 29 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy
cit., pp. 129-133) ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si
riferisca esclusivamente agli Eleati. 30 Enfasi nostra. 446 καὶ γὰρ καὶ
Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι
(οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti
sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si
genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non
essere (162.11). Accettando questa lezione, ritroveremmo Parmenide impegnato a
elaborare una dimostrazione dialettica rigorosa31: (i) gli interrogativi
(retorici: τίνα [...] γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;) introducono l’ipotesi
contraddittoria alla tesi che l’autore intende dimostrare (nella forma
gorgiana: εἰ γὰρ γέγονεν), in questo modo delineando la struttura dilemmatica
di base: «ciò che è è ingenerato» (ἀγένητον ἐὸν) - «ciò che è è generato»
(Gorgia: γενητόν ἐστι τὸ ὄν); (ii) tale ipotesi viene articolata in un nuovo
dilemma: nascita e crescita implicano necessariamente un’origine o (a) ἐκ μὴ ἐόντος
o (b) ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (secondo lo schema citato da Simplicio); (iii)
dal momento che entrambe le possibilità sono razionalmente insostenibili,
l’ipotesi (nascita e crescita di ciò che è) si rivela infondata, e la sua
contraddittoria, la tesi difesa da Parmenide, è dimostrata: «che ciò che è è
ingenerato» (ὡς ἀγένητον ἐὸν … ἐστιν). Come abbiamo già segnalato, anche il
contesto appare implicitamente dialettico: viene (monologicamente) mimato il
dibattito tra un sostenitore (che pone gli interrogativi) e un oppositore (di
cui si anticipano le risposte possibili) della tesi di Parmenide. Compito
(retorico-persuasivo) della Dea rispetto al kouros (e al pubblico di
ascoltatori e lettori di Parmenide) è di illustrare i passaggi della (virtuale)
discussione, marcando il nesso tra «forza di 31 Contro questa ricostruzione,
che presume l’introduzione (consapevole) di un modello argomentativo
dilemmatico da parte dell’autore, può valere l’osservazione di Leszl (p. 178)
secondo cui la sequenza di tre argomenti (vv. 7b-9a; vv. 9b-11; vv. 12-13a)
rende improbabile una struttura dilemmatica. 447 convinzione» (πίστιος ἰσχύς),
«giudizio» (κρίσις), necessità (ὥσπερ ἀνάγκη). Appare trasparente nella
confutazione della prima possibilità: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν·
οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò
che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è il
riferimento a B2.7-8 e B6.1: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν -
οὔτε φράσαις poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né indicarlo χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι È necessario il
dire e il pensare che ciò che è è. Questo comporta che quanto leggiamo a
livello frammentario fosse in realtà organizzato in una costruzione
argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone (e talvolta
richiama esplicitamente): in particolare il μῦθος di B2. Il modello delle
«uniche vie di ricerca per pensare» ricavate dall’alternativa «è»-«non-è», il
rifiuto del secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di
contenuto da pensare, dire e indicare) e dunque la piena accettazione della
prima via di indagine («che è»), insieme alla conseguente esclusione di una
effettiva “terza via” (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono a Parmenide di operare di
fatto con i principi di non-contraddizione e del «terzo escluso»32: donde
l’impossibilità di sostenere che «ciò che è» non sia, ovvero 32 Conche, op.
cit., p. 142. 448 ammettere qualcosa che possa comportare che «ciò che è» non
sia33 . D’altra parte la pervasiva presenza della Dea - che pone domande e
risponde (vv. 6b-7a: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;), che
sottolinea i passaggi (v. 7b: οὔτ΄... ἐάσω;) e richiama le condizioni (v. 15b: ἡ
δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν...), che complessivamente ribadisce il rigore
del procedimento seguito (v. 16b: κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη...) e ne
conferma i risultati con il proprio commento (l’inciso ai vv. 17b-18a: οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός) – ci ricorda che il contesto narrativo entro cui si inserisce il
ragionamento è comunque quello di una rivelazione. Il fatto che alcune premesse
rimangano implicite si giustifica forse proprio con la forma apodittica della
comunicazione divina: come osserva Mansfeld34, i «segni» sono ricavati -
immediatamente o mediatamente - dalla disgiunzione di B2, le cui premesse sono
garantite dal μῦθος della Dea. Questo potrebbe anche spiegare la scelta
dell’espressione σήματα, il mezzo di comunicazione di una potenza superiore:
Parmenide sceglie di lasciare la «parola» della Dea a fondamento di tutti i
processi (e progressi) del pensiero in B835. Ella sollecita l’autonomia del
discepolo, ma lo invita a registrare e ad aver cura di un μῦθος contrapposto a
quanto comunemente assunto dai «mortali»: il suo ruolo pedagogicamente “eccede”
lo stesso esercizio razionale, assicurandone i principi, così come le altre
divinità evocate nel frammento (Dike, Ananke, Moira) “trascendono”
(garantendolo) τὸ ἐὸν, ciò che, secondo l’istruzione razionale, pretende di
dominare – di fronte al pensiero – senza eccezione36 . 33 McKirahan, op. cit.,
p. 192. 34 Op. cit., pp. 103-4. 35 Mansfeld, op. cit., p. 106. 36 Su questo in
particolare la terza edizione dell’opera di Couloubaritsis, più volte citata,
Mythe et Philosophie chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de
Parménide (en appendice traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008,
per esempio p. 247. 449 Nascita e crescita Abbiamo sottolineato come la prima
sezione argomentativa si apra con tre interrogativi, che offrono alla Dea
l’opportunità di dimostrare ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν; essi sono così
formulati (vv. 6b-7a): τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale
nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? È possibile
intenderli come introduzione ai tre successivi argomenti: (i) vv. 7b-9a: ἐκ μὴ ἐόντος
ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò
che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e
pensare che non è; (ii) vv. 9b-10: τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ
πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale necessità lo avrebbe mai spinto,
originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? (iii) vv. 12-13a: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai
concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. 450 Le
relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai vv. 13b-15a: τοῦ
εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per
questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo]
tiene. Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e rinviare
a distinti argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a interrogativi
retorici (vv. 9-10) e la possibile articolazione dilemmatica sembrano evocare
l’incalzare dialettico di un confronto, i cui termini di riferimento – il
sostantivo γέννα («nascita», «generazione») e il participio αὐξηθέν
(«cresciuto», da αὐξάνω, «crescere, incrementare») – puntano direttamente al
problema dell’origine, come esplicitamente rivelato dall’uso di due espressioni
verbali indicative: ἀρξάμενον (da ἄρχω, «iniziare, cominciare, dare origine»,
da cui ἀρχή, «principio») e φῦν (da φύω, «generare, produrre», ma anche
«sorgere, nascere», da cui φύσις, «natura»). In questo senso le tre formule
inquisitive (τίνα γένναν, πῇ αὐξηθέν, πόθεν αὐξηθέν) potrebbero essere assunte
come equivalenti: la seconda e la terza, in particolare, come riferentesi alle
condizioni necessarie alla nascita: essa è un processo (questo spiega il
«come?») che richiede un’origine («donde?»)37. Analogamente gli argomenti
possono essere letti come momenti della stessa progressione negativa contro
l’ipotesi di γένεσις di τὸ ἐόν: le domande ne articolerebbero le implicazioni
per consentire di confutarne più efficacemente le condizioni di possibilità. 37
McKirahan, op. cit., p. 193; Robbiano, p. 112. 451 Nascita e morte oscura
Proprio la connessione tra γέννα e φύσις (di cui «nascita» esprimerebbe uno dei
significati originari) ha fatto supporre38 che Parmenide nel nostro passo
discuta il senso stesso della nozione di φύσις, scomponendola nei suoi
originari termini costitutivi, di fatto attaccando la riduzione dell’Essere a
φύσις. Obiettivi della confutazione sarebbero, in particolare, Esiodo (il quale
aveva posto il problema: chi venne per primo?) e i pensatori ionici (per la
ricerca della ἀρχή) 39. Esemplari in questa prospettiva i frammenti di
Anassimandro: ἀρχὴn ... τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον ... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵
καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν
ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. principio delle cose che sono è
l’infinito ... è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che
sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione [ovvero letteralmente: le
cose dalle quali invero le cose che sono hanno la loro origine, verso quelle
stesse cose avviene la loro distruzione secondo necessità]; esse, infatti,
pagano le une alle altre pena e riscatto della colpa, secondo l’ordinamento del
tempo (Simplicio; DK 12 B1) ταύτην (sc. φύσιν τινὰ τοῦ ἀ π ε ί ρ ο υ ) ἀίδιον εἶναι
καὶ ἀ γ ή ρ ω che essa [una certa natura dell’infinito] è eterna e non
invecchia (Hippolitus; DK 12 B2) ἀθάνατον . . καὶ ἀνώλεθρον (τ ὸ ἄ π ε ι ρ ο ν
= τὸ θεῖον) immortale .... e indistruttibile ( Aristotele; DK 12 B3). 38 Per
esempio a Ruggiu, op. cit., p. 289. 39 Ivi, p. 290. 452 Il frammento B1 ci è
conservato nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo commento alla
Fisica aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto (uno degli
ultimi a disporre probabilmente dell’opera del Milesio) nelle sue Opinioni dei
fisici: la citazione, che appare sostanzialmente accurata40, è inserita in una
presentazione delle opinioni di Anassimandro che è necessario non perdere di
vista per intenderne correttamente le parole: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον
εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν
μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον,
ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ...
τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα
μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον
ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν
γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...]
dichiarò l’apeiron principio e elemento delle cose che sono, adottando per
primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né
acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa
altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: [B1],
parlando di queste cose così in termini piuttosto poetici. È evidente allora
che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non
ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, ma qualcosa di diverso, al
di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno.
[...] (Simplicio; DK 12 A9). 40 Per l’analisi relativa si rinvia al
fondamentale contributo di Ch. Kahn, Anaximander and the Origins of Greek
Cosmology, Hackett, Indianapolis 19943 , in particolare alla prima parte,
dedicata alla documentazione dossografica. 453 Dal complesso di testimonianza e
citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di Anassimandro sei aspetti
su cui si sarebbe concentrata la sua indagine: (i) l’ἄπειρον come «principio
delle cose che sono» (ἀρχή τῶν ὄντων); (ii) «le cose che sono» (τὰ ὄντα), la
totalità degli enti della nostra esperienza41, sottoposti ai processi di
generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (iii) «le cose dalle quali» (ἐξ ὧν)
le altre («le cose che sono») hanno origine: nel contesto molto probabile il
riferimento agli «elementi» (στοιχεία) – nel linguaggio peripatetico della
testimonianza; più plausibile intendere i «contrari» (τὰ ἐναντία) da cui esse
si fomerebbero direttamente, come documentato da PseudoPlutarco: φησὶ δὲ τὸ ἐκ
τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι
καί τινα ἐκ τούτου φλογὸς σφαῖραν περιφυῆναι τῶι περὶ τὴν γῆν ἀέρι ὡς τῶι
δένδρωι φ λ ο ι ό ν [Anassimandro] sostiene anche che ciò che, derivato
dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato alla generazione di
questo mondo, e da esso una sfera di fiamma si sviluppò intorno all'aria che
circonda la terra, come la scorza intorno all'albero (DK 12 A10); (iv) «le cose
verso cui» (εἰς ταῦτα) si produce (γίνεσθαι) la corruzione delle altre cose:
gli elementi (ovvero i contrari) cui esse si riducono; (v) il come tale
processo si sviluppa: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del
tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν) 42; 41 Su questo punto la nostra
interpretazione diverge da quella di Kahn (pp. 180 ss.), che costituisce ancora
un riferimento imprescindibile. 454 (vi) il perché, la causa del processo: il
costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ
δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Da un punto di vista filologico, Kahn43
ha convincentemente insistito sulla probabile genuinità della citazione,
rilevando, con riscontri nella letteratura del periodo, le ascendenze ioniche e
arcaiche del lessico del frammento: è per noi di particolare interesse la
conferma – addirittura nella costruzione sintattica – dell’uso omerico di
γένεσις nel senso di «generazione» ma anche di «origine causale» e - accanto
alla plausibile autenticità di φθορά (termine non attestato prima di Erodoto e
Eschilo), come in Parmenide impiegato nella letteratura ippocratica in
contrapposizione a αὔξη («crescita») - la possibilità di τελευτή («morte»),
presente, con forme verbali derivate (τελευτᾶν), in Senofane (τελευτᾶι B27) e
appunto in Parmenide (τελευτήσουσι B19). Secondo quanto attesta Ippolito: οὗτος
ἀρχὴν ἔφη τῶν ὄντων φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου, ἐξ ἧς γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τὸν
ἐν αὐτοῖς κόσμον. ταύτην δ’ ἀίδιον εἶναι καὶ ἀγήρω [B 2], ἣν καὶ πάντας
περιέχειν τοὺς κόσμους. λέγει δὲ χρόνον ὡς ὡρισμένης τῆς γενέσεως καὶ τῆς οὐσίας
καὶ τῆς φθορᾶς [Anassimandro] disse che principio delle cose che sono è una
certa natura dell'apeiron, da cui si generano i cieli e l'ordine [il mondo] che
è in essi. Essa è eterna e non invecchia, e inoltre circonda tutti i mondi.
parla poi del tempo in quanto la generazione, l'esistenza e la dissoluzione
risultato ben delimitate (DK 12 A11), 42 Secondo S.A. White ("Thales and
the Stars", in Presocratic Philosphy cit., p. 4) l'espressione
rifletterebbe le conquiste astronomiche di Talete. Sullo stesso tema l'autore è
tornato più diffusamente in "Milesian Measures: Time, Space and
Matter", in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy cit., pp.
89-133). 43 Op. cit., pp. 168 ss.. 455 di quella «certa natura dell’infinito»
(φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου) Anassimandro avrebbe inoltre sostenuto che (i) è
«eterna» (ἀίδιον) e (ii) «non invecchia» (ἀγήρω). Predicati analoghi a quelli -
«senza morte» (ἀθάνατον, immortale) e «senza distruzione» (ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν )
- che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad Anassimandro, aveva a sua
volta citato, nel discutere dell’ἄπειρον come principio: non a caso marcandone
il nesso con «il divino» (τὸ θεῖον). Ora, è possibile che Parmenide, nel
complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti proprio il modello se non
addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze verbali (ovviamente per
quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del Milesio) appaiono
esplicite, così come l'esigenza di escludere che (i) «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος)
qualcosa possa «essere cresciuto» (αὐξηθέν) – ovvero che qualcosa possa
«nascere» (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον); appare chiaro
soprattutto il disegno di sistematica contestazione di nozioni come γένεσις e
γέννα (cui si deve aggiungere ὄλεθρος) e dell’idea stessa che (ii) «da ciò che
è» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος) possa generarsi «qualcosa accanto [o oltre] a
esso» (τι παρ΄ αὐτό). È una evidenza che la Dea, nella propria confutazione,
insista sulla γένεσις, senza produrre, in effetti, una specifica argomentazione
a supporto dell’incorruttibilità (ἀνώλεθρόν): sebbene poi sottolinei (vv. 14 e
21) di averlo fatto. Dobbiamo concludere44 che Parmenide giudicasse gli
argomenti a sostegno di ἀγένητον sufficienti anche per ἀνώλεθρόν (considerando
l’affermazione dell’indistruttibilità dell’essere implicita nell’esclusione
della sua generabilità45); ovvero che non ritenesse necessario confutare la
corruzione in quanto processo analogo, ancorché opposto, al precedente; o
ancora che la rubricasse tra le espressioni della via negativa.
Significativamente, egli connota ὄλεθρος («morte», distruzione) come ἄπυστος
(«oscura», oggetto di oblio) come aveva fat- 44 Con McKirahan, op. cit., p.
193. 45 Tarán, op. cit., p. 106. 456 to per la via negativa con παναπευθής
(«del tutto privo di informazioni» B2.6)46 . D’altra parte, l’idea di forze
elementari a un tempo «immortali» e tuttavia generate era parte della
tradizionale concezione del mondo omerica ed esiodea (donde il genere
teogonico) 47 . Lo schema della testimonianza teofrastea ribadita da Simplicio
potrebbe confermarne il residuo nella distinzione anassimandrea tra: (i)
«principio» - τὸ ἄπειρον, pensato eterno e stabile, in contrapposizione
all’instabilità degli elementi (στοιχεία); (ii) «contrari» (τὰ ἐναντία: di base
«caldo» e «freddo») che scaturiscono per «separazione» (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων),
«a causa del movimento eterno» (διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως), e che producono con
il proprio conflitto il processo cosmogonico (ovvero, più correttamente, la
«cosmo-gono-phthoria»48); (iii) «cose» (τὰ ὄντα) sottoposte alla vicissitudine
di generazione e corruzione. Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come,
secondo ragione, «ciò-che-è», oltre a implicare la stessa incorruttibilità
abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso immediatamente connesso (i
cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di «generazione», nel
duplice senso di derivazione da qualcosa di «altro» dall'essere o di produzione
di altro essere. Aristotele, i Milesi e Parmenide Possiamo trovare un'eco della
discussione arcaica sulla «generazione» nella ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia (Metafisica I, 3): a proposito della posizione della
«maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων
φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι), secondo cui «principi di tutte le co- 46
Mourelatos, op. cit., p. 97. 47 Ibidem. 48 A. Laks, Introduction à la
«philosophie présocratique», PUF, Paris 2006, p. 10. 457 se» (ἀρχὰς πάντων)
sarebbero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας),
Aristotele osserva: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ
εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι
μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ
τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ
σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da
cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un
verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono
essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si
generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva
sempre (983 b8- 13). Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle
origini della tradizione filosofica ritroveremmo, per dar conto del divenire
degli enti, l’applicazione di un principio: nulla si genera (dal nulla) e nulla
si distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una forma di «monismo
materialistico»49, di riduzione del molteplice empirico all'unità soggiacente
del principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè
verso «quella natura che si conserva sempre» (τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ
σωζομένης), richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso
al singolare e non al plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti,
precisando tale posizione che riconosce «unico il sostrato» (ἓν τὸ ὑποκείμενον),
Aristotele si riferisce implicitamente agli Eleati in questi termini: ἀλλ’ ἔνιοί
γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν
φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν
τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) 49 Secondo l'acuta lettura di Graham, Explaining the
Cosmos…, cit., pp. 48 ss.. 458 ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο
αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν ma alcuni di quelli che sostengono l’unità, come sopraffatti
da una tale ricerca, affermano che l’uno è immobile e così anche l'intera
natura, non solo rispetto alla generazione e alla corruzione (questa è infatti
convinzione antica, su cui tutti concordavano), ma anche rispetto a ogni altro
mutamento: e questo era loro peculiare (984 a29-984 b1). L’inciso nel passo
rende ancora più evidente l’assunto aristotelico secondo cui già i primi
filosofi accettarono la doxa che è impossibile che qualcosa sia generato da ciò
che non è, sviluppando sistemi in coerenza con essa: la peculiarità della
posizione eleatica (a Parmenide si accenna esplicitamente due righe sotto) è
risultato della “estremizzazione” della stessa doxa adottata dagli Ionici50. In
pratica, Aristotele da un lato avalla una sorta di continuità tra la posizione
ionica e quella eleatica - nella condivisione del principio esplicativo di
fondo, dall’altro rileva lo scarto alla base della deviazione eleatica
dall'indagine peri physeōs nella radicalizzazione dell’applicazione di quel
principio, che avrebbe condotto alla negazione di ogni forma di divenire e
dunque fuori dell’ambito della filosofia della natura. Torneremo più sotto sul
modello cosmogonico e cosmologico milesio e sullo schema interpretativo
aristotelico. È tuttavia opportuno anticipare come il complesso delle
testimonianze (di matrice essenzialmente peripatetica) faccia in realtà
intravedere la possibilità di una lettura diversa: dalla natura individuata
come origine (ἀρχή) si sarebbero generate, per effetto in ultima analisi del
moto intrinseco, alcune realtà elementari indipendenti (connesse ai «contrari»:
Pseudo-Plutarco accenna a fuoco, aria e terra), da cui deriverebbe tutto il
resto. Un modello pluralistico, che 50 Sulla ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia sono molto interessanti le osservazioni di Leszl in W.
Leszl, “Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to
the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy”,
in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di
M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 355-380, in particolare pp.
362 ss.. 459 ancora risentirebbe del politeismo teogonico esiodeo51, e che
avrebbe suscitato dunque almeno due ordini di problemi di
"second'ordine" (metacosmologici) per la riflessione posteriore: (i)
perché una realtà dovrebbe avere una precedenza, un primato (ontologico) sulle
altre? (ii) come è possibile che una natura ne produca altre? Da ciò che non
è... Tornando ora al testo, per mostrare l’insensatezza degli interrogativi
sull’origine di «ciò che è» espressi all’inizio della sezione: τίνα γὰρ γένναν
διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?
Come e donde cresciuto?, la Dea, come abbiamo già osservato, procede a
considerare una prima eventualità: che ἐόν sia scaturito (nato e cresciuto) ἐκ
μὴ ἐόντος. Tale possibilità è scartata sulla base di due successive
argomentazioni: la prima si richiama alla linea di pensiero sviluppata nei
frammenti precedenti: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ
νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò 51 Su questo schema
interpretativo si veda in particolare Graham, Explaining the Cosmos…, cit.,
capp. 3 e 4. Il tema era già stato affrontato dall'autore in saggi precedenti:
per esempio in "Heraclitus' criticism of Ionian philosophy", «Oxford
Studies in Ancient Philosophy», 1997, 15, pp. 1-50. A. Nehamas
("Parmenides Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy,
cit., pp. 45-64), con qualche distinguo, accetta lo schema proposto da Graham.
Elabora un modello analogo S.A. White, “Milesian Measures: Time, Space, and
Matter”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, cit., pp. 112 ss..
460 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è».
(vv. 7b-9a). Abbiamo sopra rilevato in questo caso la ripresa delle tesi di
B2.7-8 e B6.1, e dunque di quanto immediatamente rivelato dalla Dea: (i)
esistono solo «due vie di ricerca per pensare» (B2.2); (ii) «una: è» (B2.3),
«l’altra: non è» (B2.5); (iii) la seconda è di fatto impercorribile, in quanto
παναπευθής ἀταρπός («sentiero del tutto privo di informazioni» B2.6); (iv) è
allora necessario che ciò che è sia (cρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι
B6.1). Il primo argomento dipende direttamente dall’autorevolezza (e
dall’autorità) del μῦθος divino, per escludere, con le sue logiche implicazioni
(la formula χρή, con le sue sfumature di cogenza, correttezza e opportunità),
un percorso di ricerca che coinvolga la via negativa, cioè comporti
concettualmente – a qualunque titolo – il ricorso a «ciò che non è». A questa
contestazione fa seguito un secondo, più discusso, argomento (vv. 9b-10): τί δ΄
ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale
bisogno lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o
prima? Come abbiamo segnalato nel commento, il testo greco lascia adito a due
possibili interpretazioni. (i) Perché mai, in un momento qualsiasi, «ciò che è»
dovrebbe generarsi? Nel «nulla», in effetti, manca una ragione per cui esso
debba sorgere. (ii) Per quale circostanza – ammettendo che sia generato - «ciò
che è» dovrebbe generarsi in un momento dato piuttosto che in un altro («più tardi
piuttosto che prima»)? In realtà - «originando dal nulla» - non c’è ragione per
cui un momento debba essere privilegiato rispetto a un altro: non vi è affatto
ragione, dunque, per la sua generazione. In entrambi i casi ci troviamo in
presenza dell’applicazione del principio di ragione, per cui un evento
determinato è necessario 461 che abbia la propria «ragione», cioè la propria
causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche spiegarlo). La più
antica, esplicita formulazione del principio è in Leucippo (dalle fonti
ellenistiche supposto discepolo di Zenone e dunque considerato vicino alla
concettualità eleatica): οὐδὲν χρῆμα μάτην γίνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ λόγου τε καὶ ὑπ’
ἀνάγκης nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità (DK 67 B2). In
questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi sull’origine di «ciò
che è» è netta: nel «nulla» non è possibile rintracciare tale causa; non c’è
ragione per cui «ciò che è» debba nascere (φῦν) dal nulla. Ma nella seconda
interpretazione, al comune terreno rappresentato dal principio di ragione si
aggiungerebbe un’ulteriore implicazione: il ricorso consapevole
all'indifferenza rispetto al tempo52, per cui nulla si verifica senza che vi
sia una ragione sufficiente a spiegare perché è così e non altrimenti. La
nascita in un momento piuttosto che in un altro non è casuale, ma conseguenza
necessaria di una causa determinata53: (i) affinché «ciò che è» si possa
generare, è necessario si generi in un certo momento; (ii) ma, derivando dal
nulla, non c’è ragione per cui si generi in un momento piuttosto che in un
altro; (iii) non essendoci ragione per cui esso si generi in un qualche
momento, esso non potrà mai generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che
faccia la differenza: il non-essere non può fare differenza. È qui possibile
ancora un’eco di Anassimandro, nel cui scritto sarebbe stata presente una
particolare applicazione cosmologica del principio, per giustificare
l’immobilità e la centralità della Terra all’interno della sfera celeste: 52
Leszl, op. cit., p. 183. 53 Conche, op, cit., p. 140. 462 τὴν δὲ γῆν εἶναι
μετέωρον ὑπὸ μηδενὸς κρατουμένην, μένουσαν δὲ διὰ τὴν ὁμοίαν πάντων ἀπόστασιν
La Terra è sospesa, da nulla dominata: rimane nel suo luogo a causa della
equidistanza da tutto [da tutti i punti della circonferenza celeste?]
(Ippolito; DK 12 A11) μέσην τε τὴν γῆν κεῖσθαι κέντρου τάξιν ἐπέχουσαν la terra
giace in mezzo, occupando la posizione centrale (Diogene Laerzio; DK 12 A1) εἰσὶ
δέ τινες οἳ διὰ τὴν ὁμοιότητά φασιν αὐτὴν μένειν, ὥσπερ τῶν ἀρχαίων Ἀναξίμανδρος·
μᾶλλον μὲν γὰρ οὐθὲν ἄνω ἢ κάτω ἢ εἰς τὰ πλάγια φέρεσθαι προσήκει τὸ ἐπὶ τοῦ
μέσου ἱδρυμένον καὶ ὁμοίως πρὸς τὰ ἔσχατα ἔχον· ἅμα δ’ ἀδύνατον εἰς τὸ ἐναντίον
ποιεῖσθαι τὴν κίνησιν· ὥστ’ ἐξ ἀνάγκης μένειν vi sono alcuni, come Anassimandro
tra gli antichi, che sostengono che essa [la terra] rimanga in posizione a
causa della equidistanza: una cosa stabilita al centro, infatti, e equidistante
rispetto agli estremi, non conviene si porti verso l’alto piuttosto che verso
il basso o orizzontalmente; ma poiché è impossibile muoversi contemporaneamente
in direzioni opposte, necessariamente rimane in posizione (Aristotele, De Caelo
295 b11-16; DK 12 A26). Nel caso del Milesio l’indifferenza (e quindi l’assenza
di “ragione” per il movimento in una direzione o nell’altra) è espressa in
relazione ai limiti celesti; Parmenide l’avrebbe applicata al tempo, nel senso
di negare la possibilità che nel nulla si dia ragione per fare differenza, ai
fini di un’ipotetica generazione dell’essere, tra un momento e l’altro. Appare
tuttavia più plausibile che il filosofo intendesse semplicemente marcare la
mancanza di una ragione per cui, «originando dal nulla», «ciò che è» si possa
formare in un qualsiasi momento: nella completa negatività del non-essere non
può tro- 463 varsi alcuna necessità che possa generarlo, nulla che possa
fungere da ragione (causa) per la sua generazione54 . Al termine del secondo
argomento, al v.11, abbiamo un rilievo: οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Insistendo sul valore
avverbiale di οὕτως, qui non ritroveremmo la conclusione del ragionamento ma
solo una sottolineatura importante: «ciò che è» deve essere integralmente
ingenerato ovvero assolutamente non essere. In pratica la Dea ribadirebbe
l’alternativa fondamentale della propria rivelazione, escludendo che tra le due
vie possa darsi una via intermedia e dunque un commercio tra essere e
non-essere. Come indicato in nota al testo, McKirahan55 ha riconosciuto al
verso una funzione prolettica: segnalerebbe che quanto stabilito è rilevante
per la successiva discussione. In effetti, πάμπαν πελέναι appare plausibile
parafrasi di «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον), «tutto pieno d’essere» (πᾶν ἔμπλεόν
ἐόντος) - discussi a partire dal v. 22 – piuttosto che di «ingenerato» o
«ingenerato e incorruttibile». Se invece, come per lo più si riscontra tra gli
interpreti, si attribuisce a οὕτως valore conclusivo («perciò»), il verso
risulterebbe comunque anticipare la krisis dei vv. 15-16 («Il giudizio in
proposito dipende da ciò: "è" o "non è"»), ribadendo
l’assoluta incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un passaggio
dal non-essere all’essere (e viceversa): nel contesto questo significa bandire
definitivamente la possibilità di generazione «dal nulla», ovvero che ci possa
essere una diversità dell’essere nel tempo56. Leszl, in particolare, convinto
che l’uso degli avverbi sottolinei nei vv. 9-10 la preoccupazione parmenidea
rispetto alla generazione nel tempo, interpreta: «in ogni momento l’essere c’è
tutto o non c’è per nulla»57. In questo senso la conclusione – e- 54 Leszl, op.
cit., p. 185. 55 Op. cit., p. 194. 56 Leszl, op. cit., pp. 185-186. 57 Ivi, p.
185. 464 scludendo il variare nel tempo di «ciò che è» – effettivamente diventa
anche funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità. Né mai
dall’essere... Accettando l’emendazione di Karsten, i vv. 12-13a risultano: οὐδὲ
ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né
mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. In
pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di «ciò che è»
dal non-essere, la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità
alternativa: che «ciò che è» si generi da altro essere. In che senso, infatti,
«qualcosa» (τι) potrebbe «generarsi» (γίγνεσθαί) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ
> όντος)? Parmenide assume che la nozione di γένεσις ἐκ < τοῦ ἐ >
όντος introduca implicitamente la prospettiva di qualcosa di diverso
dall’essere, cioè che «accanto [o oltre] a esso» (παρ΄ αὐτό) possa prodursi
altro. È plausibile che anche qui egli si confronti direttamente con la
riflessione sull’ἀρχή: nella misura in cui si riconosca l’ἀρχή come «ciò che è»
e si tenga fermo il principio di esclusione del nonessere, che cosa potrebbe
generarsi «accanto [oltre] a esso»? In pratica ammettere la generazione
dall’essere comporterebbe riconoscere che: εἶναι μὴ ἐόντα siano cose che non
sono (B7.1). La Dea in proposito può ricorrere a una formula di divieto diversa
da quella “personale” utilizzata in B8.7 (ἐάσω ... οὐδὲ «non permetterò
che...»): in questo caso la proibizione risulta più astratta, vincolata a una
considerazione razionale (οὐδὲ ποτ΄ ... 465 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς «Né mai
concederà forza di convinzione [certezza]», B8.12), alla linea di pensiero
espressa nel testo precedente. Una versione alternativa dell’ultimo argomento è
quella tradizionalmente accolta sulla scorta dell’autorevolezza del codice di
Simplicio: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
Né mai dal non essere concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto
a esso. (B8.12-3) Si tratterebbe di un ulteriore sostegno (il terzo) alla
negazione della possibilità di generazione dal nulla, che presenta tuttavia una
difficoltà: il riferimento, nel contesto, dell’espressione παρ΄ αὐτό. Coxon58,
per esempio, traduce: Nor will the strength of conviction ever impel anything
to come to be alongside it from Not-being, riconoscendo a παρ΄ αὐτό valore
locativo e riferendolo all’essere. In modo analogo intendono il passo, tra gli
altri, Mansfeld59, per sottolineare come ogni origine dal nulla sia impossibile
(il nulla è l’assoluto nihil), e Cerri60, che vi intravede addirittura la
dimostrazione che l’Essere è οὖλον μουνογενές e ἕν, συνεχές. Altri, come
Leszl61 esplicitamente, riferiscono αὐτό a μὴ ἐόντος, e colgono una (nuova)
giustificazione del principio di ragione (ex nihilo nihil fit): il non-essere,
per la sua negatività, non può essere la causa di qualcosa. Conche62 segnala,
in questo caso, come risulti incomprensibile attribuire valore comparativo ad αὐτό
(«autre chose que lui-mêmê»), dal momento che così la Dea implicherebbe
l’esistenza del Non-essere. 58 Op. cit., p. 197. 59 Op. cit., p. 95. 60 Op.
cit., p. 224. 61 Op. cit., p. 187. 62 Op. cit., p. 143. 466 Alcuni 63 di coloro
che mantengono la lezione dei codici di Simplicio - e quindi non riconoscono
struttura dilemmatica all’argomentazione parmenidea, rilevandovi piuttosto tre
successive, insistite contestazioni contro la possibilità della genesi e
dell’accrescimento dal non-essere - colgono nel passo un riferimento al
concetto pitagorico di «vuoto» (= non-essere), così attestato in Aristotele: εἶναι
δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου
πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ
χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς·
τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermarono ci fosse
il vuoto, e che esso penetrasse, dall’infinito soffio, nel cielo [universo]
come se [questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà, quasi
essendo il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione;
affermarono anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti,
distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b) οἱ μὲν οὖν
Πυθαγόρειοι πότερον οὐ ποιοῦσιν ἢ ποιοῦσι γένεσιν οὐδὲν δεῖ διστάζειν· φανερῶς
γὰρ λέγουσιν ὡς τοῦ ἑνὸς συσταθέντος, εἴτ’ ἐξ ἐπιπέδων εἴτ’ ἐκ χροιᾶς εἴτ’ ἐκ
σπέρματος εἴτ’ ἐξ ὧν ἀποροῦσιν εἰπεῖν, εὐθὺς τὸ ἔγγιστα τοῦ ἀπείρου ὅτι εἵλκετο
καὶ ἐπεραίνετο ὑπὸ τοῦ πέρατος Non si deve allora essere per nulla esitanti
circa la questione se i Pitagorici non assumano o assumano la generazione: essi,
infatti, affermano chiaramente che, una volta costituito l’uno – sia da
superfici, sia da un piano, sia da un seme, sia da cose che sono in difficoltà
a indicare – subito la parte prossima dell’infinito fu attirata e delimitata
dal limite (Aristotele, Metafisica XIV, 3 1091 a13-18). 63 Cornford, Raven,
Untersteiner, Mondolfo, per esempio. 467 Mondolfo64, in particolare, nel
complesso della sezione B8.5- 21 non coglie semplicemente la negazione del
divenire come processo di generazione e corruzione, in antitesi ai modelli
cosmogonico e teogonico, ma l’attacco a una concezione determinata, di cui lo
studioso ritiene si possano tracciare i contorni definiti: una dottrina che
affermava la molteplicità in connessione con la discontinuità; che introduceva
la generazione dell’essere, senza precisarne processo e necessità, e,
soprattutto, suscitava il problema dell’inizio, suscettibile di accrescimento
in relazione al nonessere. Come risulta appunto dall'attestazione aristotelica,
si sarebbe trattato della cosmologia pitagorica, l’evocazione della quale
spiegherebbe convincentemente anche la sequenza di interrogativi ai vv. 6-7 e
in genere la scelta dei σήματα dell’essere da parte di Parmenide. Pur non
escludendo le due possibilità - (i) che la versione dei codici di Simplicio sia
quella corretta e (ii) che l’allusione sia effettivamente alla “respirazione
cosmica”, che avrebbe lasciato anche altre tracce antiche (in Senofane e
Pindaro, secondo Mondolfo65) – l’impressione è che in realtà l’insistenza del
poeta sia essenzialmente su γενέσθαι e ὄλλυσθαι e che l’eventuale riferimento
dottrinale sia da individuare all’interno di una discussione più ampia, in cui
per Parmenide era fondamentale attaccare le posizioni che in qualche misura
ancora implicavano γένεσις e ὄλεθρος. In questa prospettiva, l’emendazione che
abbiamo accolto e la connessa ricostruzione argomentativa (in cui οὐδέ al v. 12
richiama οὔτε al v. 7) appaiono più convincenti. Sarebbe forse praticabile
un’altra strada66 per l’interpretazione di ἐκ μὴ ἐόντος, tuttavia più complessa
e meno plausibile: ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura
parmenidea, proprio in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή,
quasi 64 E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo
storico, Parte Prima, vol. II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La
Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op.
cit., pp. 143-4. 468 che alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici
fosse connaturato il «non-essere». Aristotele è ancora prezioso: διό, καθάπερ
λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα
καὶ πάντα κυβερνᾶν per questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non
c’è principio, ma che esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e
tutte comprendere [abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK
12 A15). Marcando l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή
che è anche περιέχον (avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i
pensatori che ne ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe
fatto un “non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato
principio. È chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή
difficilmente avrebbe potuto essere inteso propriamente come nulla e appare
dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere
polemicamente. Giustizia e le sue catene A questo punto del suo ragionamento -
una volta esclusa la possibilità di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere
e ribadito che «ciò che non è» non è dicibile e pensabile - la Dea può
concludere provvisoriamente (vv. 13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è
legato al fatto che Parmenide sceglie, nel contesto della narrazione avviata
con il proemio, all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio
interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a
Dike – e poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una
lettura simbolica, quasi che la citazione della figura (e della funzione)
mitica fosse semplice «metafora»67. Così intendono molti interpreti, per i
quali i tre numi tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al
rispetto dei limiti, sottolineerebbero la «ineluttabile legge dell’Essere» 68 :
in altre parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso. La
questione è, in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione
del poema, sia da quello delle specifiche implicazioni: (i) Δίκη πολύποινος è
elemento strutturale della narrazione: le sono espressamente attribuite una
collocazione liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di
sorveglianza; (ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione:
persuasa dall’intervento delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito
di tutela del mondo infero e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale;
(iii) Θέμις e Δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio
del suo discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα
κακὴ, ma sotto l’egida della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke,
Moira), insieme allo schema del «cammino» (ὁδός) - ovvero «pista» (πάτος) o
«via» (κέλευθος), costituiscono la struttura portante nell'architettura
dell’opera69, elementi di continuità nella sua articolazione, le sue condizioni
“trascendentali”: il contesto entro cui le specifiche trattazioni su «ciò che
è» e sulla Doxa assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure
svolgono la propria mansione di 67 Ivi, p. 146. 68 Tarán, op. cit., p. 117. 69
Un aspetto, questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua
opera e accentuato nell’ultima edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470
garanzia “trascendendo” «ciò che è» (ἐόν), ovvero danno l’impressione, nelle
parole della Dea, di sovrintendere (problematicamente) all’Essere dall’esterno70,
a dispetto della sua assolutezza. In questa prospettiva, Dike, in particolare,
assume nel poema una posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν da γένεσις e ὄλεθρος
avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri termini preservandone il
perfetto equilibrio attraverso l’esclusione della coppia oppositiva
nascita-morte71. Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo costume, quello
di consegna al portale discriminante del mondo infero, di salvaguardia dei
confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro passo tale
connotazione si modifica nel senso che la garanzia passa per la discriminazione
tra essere e non-essere, con conseguente immobilizzazione e omogeneizzazione
dell’essere stesso: oltre l’essere non si dà un mondo altro. Possiamo solo
registrare alcune espressioni indicative: οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε
Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né morire concesse Giustizia,
sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν
δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (B8.30-31)
Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37). La Robbiano ha accostato, su
questo punto, la posizione di Parmenide a quella di Anassimandro, per cui, come
sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni cosa: Parmenide, reagendo 70
Robbiano, op. cit., pp. 166-7. 71 Ivi, pp. 174-5. 471 forse a questa soluzione
e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il riferimento a
un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di garanzia. A dispetto
delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare immutabilità ed
equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a turbare dall’esterno. Mentre
l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione della causa dell’equilibrio,
Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον),
non hanno consistenza ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la
comprensione dell’audience cui il poema si rivolgeva72 . In realtà, il recupero
del mito nel contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e
la conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza dell’essere,
potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a
giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione
sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la
limitazione dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea,
supplirebbe a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia assoluta:
utilizzate per significare l’essere come se lo trascendessero, le figure delle
tre divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto trascendentale e
sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema, tra discorso
significante e discorso mitico74 . Giudizio ed essere D’altra parte, che la
tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv. 15b-18: ἡ δὲ
κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72 Ivi, pp. 166-8. 73 Mythe et
philosophie…, cit., p. 217. 74 Ivi, p. 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν
καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è
dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia
reale. Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene»
(χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι
δεσμῶν v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει
v. 31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della
decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il
vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive
è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ ἀνάγκη).
Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni
della scelta dell’ἔστιν: (i) ripresa dell’alternativa tra le formule
contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν; (ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in
quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής), essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii)
conseguente concentrazione su ἔστιν: «che l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi
della sua comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato il
rilievo, la Dea può ribadire l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni
che in qualche misura lo implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una
precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule
contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo
apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν non
è «genuina», è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione con
l’unica realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa in
qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come
qualche interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21)
e concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di
controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε
γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale
sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è
esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua
resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo
livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla
contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma
anche πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo,
γένεσις). La convinzione da veicolare con tale costruzione verbale è che se
l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in
seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre
allo stesso modo75), così contraddicendo l’immediata evidenza della «via: è» -
che comportava l’altrettanto immediata ammissione: «non è possibile non essere»
(ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a
se stesso, come suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις
può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e
non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide
intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai
due verbi. 75 Leszl, op. cit., p. 190. 474 Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora
diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che
sarà76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è
inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e immortale). Interpretando,
potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale per la temporalità degli
enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’essere di cui la Dea
traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre uguale a se
stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente ovvero «venire
a essere»-«essere» (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile valorizzare
l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire all'esistenza,
in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla prospettiva temporale
(passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι) - una
non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo punto evidente il nesso
dell’argomento nel suo complesso con i vv. 5-6: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν
ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora
tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da non-essere a essere e
viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero l’eventualità di un mutamento
dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento l’essere c’è
tutto o non c’è per nulla»78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί v. 11), e
dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος al
rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica
caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6.
Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán, op. cit., p. 105. 77
Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται.
εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ
ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e
sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non
fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal
nulla (DK 30 B1) […] εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι
τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον
γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι [...] se diventa altro, infatti, è
necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e
si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila
anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La
stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo,
negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una
differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e immediati,
sottolineando soprattutto la durevole identità temporale dell’essere. In questo
senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν - «è eterno, infinito,
uno, tutto uguale» (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον πᾶν, DK 30 B7,
§1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutto insieme, uno,
continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario considerare
l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente il primo
emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra negare è la
possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν «[in] un tempo [passato] era»
ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra traduzione,
espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto modificate
dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe allora il
proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme avverbiali
temporali: da un lato «né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un tempo] sarà»
(οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora» (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni coordinate
sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» (ἐπεὶ) – alla
terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il rilievo
della completezza, omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di «ciò che
è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica
discriminazione temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche
nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra
sull’eventualità che «ciò che è» sia divenuto (nato e cresciuto), quindi (v.
19) considera interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν
ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ
ποτε μέλλει ἔσεσθαι E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Se riscontriamo i vv. 5 e 20: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare
come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o
esistenza futura (che implicano οὐκ ἔστι) e quella condizione presente (νῦν)
che si esprime nell’«è»79 e ne riflette il valore «stativo»80 . 79 Ma come
insegna Palmer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι;
o, come preferiamo, ἔστιν esprime immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ
εἶναι è contestuale inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit.,
p. 94. Sulla questione lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn,
ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e
assolutizzando) le espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι),
si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito:
l’idea dell’eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo.
Valorizzando, invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente
limitarsi a segnalare come – pur sempre all’interno di una prospettiva
temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in
relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento alle dimensioni
temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista sul
presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla
reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a)
κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del
laccio [lo] tiene (vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la
formulazione più pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως
ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso
riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione
verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν
ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore
circa identità 478 e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi
che possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con
l’esplicita esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per
quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi,
l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione» dell’essere
comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un
impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso
(si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni precedenti,
Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto essenziale nel
quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che
senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei processi
veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la decisione tra
«è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione, (iii) il
riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la caratterizzazione
della morte (distruzione) come ἄπυστος, «inaudita», «inconcepibile». Omogeneo e
continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco a giustificazione dei
σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme),
συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον,
τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.
τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile, poiché è
tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò
tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile al
non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον letteralmente
«tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in altre parole, è
«tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi) identico a se stesso
(uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra questo gruppo di σήματα,
il precedente e i successivi, la forte connessione garantita dai versi sopra
citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι
μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e,
così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30). L’indivisibilità,
l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità, alla sua densità, in
ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può inframezzarsi a «ciò che
è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente tale omogeneità con una
serie di espressioni: (i) «non c’è alunché che possa impedirgli di essere
continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è tutto continuo»; (iv)
«ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che centrale risulta la (ii):
πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che sembra ricavata direttamente dalla
enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι),
esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. 480 Dal riconoscimento dell’identità dell’essere con se
stesso (ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal contestuale bando del nulla (μηδὲν
δ΄ οὐκ ἔστιν), seguono sia che «tutto pieno è di ciò che è», sia che nulla
«possa impedirgli di essere continuo», e, ulteriormente, le due
caratterizzazioni equivalenti del verso finale del passo: «è tutto continuo» e
«ciò che è si stringe a ciò che è». Tutto intero, uniforme Parmenide suggerisce
compattezza, coesione e identità, in forza di scelte espressive che escludono
la possibilità di distinzione, riduzione, separazione: πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν,
ξυνεχὲς πᾶν, πελάζει. Le implicazioni materiali e psicologiche della pienezza e
dei vincoli evocati sono state messe in valore nell’analisi di Mourelatos81, il
quale ha marcato la presenza sullo sfondo di due elementi: (i) la semplicità
inqualificata di ciò-che-è; (ii) la negazione di dualismi. Questo consente di
collegare il passo in questione con l’iniziale rilievo (v. 4) dell’espressione
«tutto intero, uniforme» (οὖλον μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos82,
anticiperebbe l’argomento a sostegno dell'indivisibilità, anche grazie
all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato
in nota al testo, per il significato della formula μουνογενές lo studioso
richiama un importante precedente esiodeo, che Parmenide avrebbe avuto ben
presente e in opposizione al quale avrebbe coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα
μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε
νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή· διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν Non vi era dunque un solo
genere di Eris [Contesa], ma sulla terra ce ne sono due: l’una potrebbe onorare
chi la comprenda; 81 Op. cit., pp. 111-2. 82 Ivi, p. 95. 481 l’altra è da
riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere e i giorni 11-13). Il
segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di genere, di natura,
un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di potenziale discriminazione
all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe impiegato – nel nostro
frammento – in antitesi alla dicotomia che il filosofo pone al fondo delle
«opinioni mortali» (δόξας βροτείας v. 51), costruite intorno a una coppia di
«forme» (μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία δ΄ ἐκρίναντο v.
55), e reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων vv. 55b-56a).
Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente il ruolo
decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla scorta di
essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità” (o meglio
uniformità) di «ciò che è», escluderne differenziazioni, proporlo come un
blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν, è
possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione della
formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι.
È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora
un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come
abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e
Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di
formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato
primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ
ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene
che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato
alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου
Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην
φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην,
ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον
μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν,
εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ
τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di
Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura soggiacente,
non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata, chiamandola
aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per rarefazione e
condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco, condensandosi invece
vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi terra, poi pietre. Tutto
il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno il movimento per cui si
produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς
δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ τὰ γινόμενα καὶ τὰ
γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων.
(2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι
δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί·
οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο. (3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον
διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους
δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος < δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ
τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483
μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν
τε καὶ ψυχρόν [...] Anassimene, anche lui milesio, figlio di Euristrato, disse
che il principio è aria infinita, da cui si generano le cose che nascono e le
cose che sono nate e quelle che nasceranno e gli dei e le cose divine, mentre
le altre cose derivano da quanto è da essa prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è
questo: quando è del tutto uniforme, essa risulta invisibile; si mostra invece
con il freddo e il caldo e l’umidità e il movimento. Si muove sempre: le cose
che mutano, infatti, non muterebbero, se essa non si muovesse. (3) Quando è
condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso: quando si dirada fino
a essere molto rarefatta, diventa fuoco; mentre i venti, a loro volta, sono
aria condensata; dall’aria poi, per compressione, si formano le nuvole, e,
crescendo ancora la condensazione, l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e,
crescendo al massimo, le pietre. Così gli elementi fondamentali della
generazione sono contrari, il caldo e il freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte
comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e Ippolito è Teofrasto, un teste
affidabile: ricorrente - a dispetto della convinzione che di tutto unica sia la
scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è l’idea che: (i) fondamentale per la
cosmogonia sia l’azione dei contrari (Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ
κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si dispiega, in Anassimandro, a partire
da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò che può generare» (γόνιμον) caldo e
freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi di rarefazione e condensazione;
(ii) la separazione del principio generativo degli opposti (γόνιμον), nel primo
caso, ovvero la doppia azione esercitata sull’aria, nel secondo, sarebbero a
loro volta effetto di un «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος,
da Simplicio riconosciuto (per entrambi) come causa diretta del «mutamento»
(μεταβολή). 484 Il lessico peripatetico delle testimonianze fa intravedere la
possibile sovrapposizione di due schemi esplicativi, che potrebbero
ambiguamente essere stati compresenti nelle cosmologie (e cosmogonie) ioniche.
Il primo – delineato dalle affermazioni di Simplicio su Anassimene secondo cui
la «natura soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις) «si differenzia nelle sostanze per
rarefazione e condensazione» (διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας),
e confermato da qualche passaggio di Ippolito («condensata e rarefatta,
infatti, appare in modo diverso» πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον
φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta, sono aria condensata» ἀνέμους δὲ
πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che prevale in Aristotele (e che è
possibile ritrovare esplicitato in Diogene di Apollonia): la materia originaria
ed eterna subisce alterazioni a causa del suo interno moto incessante,
presentandosi così in varie forme fenomeniche. In questo schema le «sostanze»
della lista proposta83 (fuoco, venti, nuvole, acqua, terra, pietre) non
sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di passaggio nel ciclo di
trasformazione dell’unico principio materiale. Conseguentemente, in questa
prospettiva “monistica”, tutte le cose si ridurrebbero ad aria84 . Il secondo è
espressamente sottolineato da Simplicio in Anassimandro (citato in precedenza):
[...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων
τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως [...] Egli poi non fa discendere la
generazione dall'alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari,
a causa del movimento eterno (DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione
dall’originale teofrasteo: in questo caso non ritroveremmo una semplice
parafrasi, con la proiezione della dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma
forse il riferimento a un elenco effettivamente anassimeneo. Su questo punto
Kahn, Anaximander and the Origins of Greek Science cit., pp. 149-150. 84
Secondo un paradigma riduttivo già presente nel mito greco di Proteo, come
segnala Kahn, op. cit., p. 151. 485 ma rilevabile anche nelle testimonianze su
Anassimene, dove si marca la generazione di tutte le altre cose da un nucleo di
«sostanze» (fuoco, vento, nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema
(pluralistico, con probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal
principio materiale (ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate,
come effetto di compressione e rarefazione, alcune realtà elementari
indipendenti (le «sostanze» elencate), da cui risulterebbero tutte le altre
cose. Una possibile, analoga oscillazione tra i due schemi si lascia cogliere
anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε, τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν
οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον
μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo ordinato, lo stesso per tutti,
nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu sempre, è e sarà fuoco sempre
vivo, che si accende secondo misura e si estingue secondo misura (Clemente
Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ
χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono scambio con fuoco e il
fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono scambio con oro e l’oro
scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ
θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή per le anime è
morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte diventare terra, ma dalla
terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si genera] l’anima (Clemente
Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον,
ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco vive la morte della
terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria, la
terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da un lato, soprattutto
i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito riduca ogni cosa a
fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni trasformazione; dall’altro
il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36 e B76 suggerisce l’idea di
un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono gli uni dagli altri, senza
una reale identità di base85 . I limiti di documentazione (anche nel caso dei
frammenti eraclitei) e il lessico e l’impostazione peripatetici delle
testimonianze non consentono di stabilire con certezza quale schema fosse
effettivamente operante negli autori ionici: in ogni modo è chiaro che,
rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi potrebbero far sentire la
loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in precedenza segnalato,
nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e nell’eco biologica di
molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema (γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν,
αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare la centralità della dimensione
generativa decisiva nel secondo modello. Un lessico “biologico” è attribuito
chiaramente, nelle testimonianze, in particolare ad Anassimandro, come rivelano
l’uso del termine γόνιμον per indicare il nucleo originario dei processi
reattivi che conducono alla formazione di un mondo (una sorta di base seminale
del mondo stesso), e la scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) –
che evoca attività di secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto,
allora, come fertile, feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso
letterale), cui imputare in ultima analisi l’origine. In secondo luogo è
evidente, nel poema, la riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due
possibili paradigmi esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito
dalle testimonianze ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» (ὑποκειμένη
85 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss.. 487 φύσις), «unica e
infinita» (μία ἄπειρος), dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» (κίνησις
ἀίδιος), (iii) si produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente
nel (iv) suo differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da
cui» discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide
non sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere
della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale
delle «altre cose»; (b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare»,
διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando
con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello
stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In
effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i
primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto
rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità
di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ
γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν
ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli
di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono
state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e
nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente
dove è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo
[lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve
ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico,
il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i)
accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e
«senza fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente
esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; (ii) insistenza su identità durevole, fissità
di stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con
la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al
moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento
della propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare
interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità
(connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde
forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo
che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista
linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente
dove è persiste» ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό
τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di
grande catene» (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό
μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo
segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un
nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’
ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν
αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ
ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ
μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre
gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e
sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli
dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa
procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per
Zeus, , almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma
esse furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] — ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως·
ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν
χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’
ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...] [...] Così ora considera anche gli uomini: l’uno
cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il
tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane,
sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι
μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre
nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice
spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni
di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la
preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente
riferite al rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente
contrastano i processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale
degli esseri umani, con l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre
per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo
(«sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον
οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella
stessa condizione permane», ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι
μένει) 86. Significativamente, nel suo breve frammento Senofane sembra
giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli
si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di
Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base
di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate
dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo («convinzione genuina [le]
fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente
sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della
contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non diviene;
(ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità
(sottolineate nei versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν
con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea,
tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al
precedente, 86 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori
dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι
μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in
Parmenide. 491 limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη
(Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii)
l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione
e corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il
movimento viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi
escluso87 . Non incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di
«ciò che è» dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής
che esclude, dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος.
Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore
della perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι
γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto
l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non
essere, invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che
Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, «per questo») che riferisce
l’affermazione successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si
sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di
vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di
Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e
salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος).
87 Leszl, op. cit., p. 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments,
in Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press,
Oxford 1998, p. 18. 492 La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità,
identità e perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero,
uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo, coeso) – discende dal
rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque un carattere essenziale
dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a valutare
discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e
sui suoi «segnali» (B8.1- 2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di
ogni negatività che potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come
manifesto nel v. 33, comunque lo si intenda: (i) l’essere non può essere in
difetto in alcun modo (poiché «deve essere per intero o non essere per nulla»);
il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo
diversamente, invece, avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο
non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole],
invece, mancherebbe di tutto (v. 33); se l’essere fosse in qualche misura o per
qualche aspetto carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto,
come già marcato (o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
deve essere per intero o non essere per nulla. Se ora consideriamo, nel suo
complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento, possiamo forse
cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato
a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue
trasformazioni: che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata
e vitalità, per garantire gli enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di
Anassimene?) per giustificarne le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo
per sostenere gli incessanti processi di generazione e corruzione. 493 Essere e
pensiero È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce (vv.
34-38a) quanto appare come un excursus, oggetto di un articolato dibattito,
filologico e interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ
νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν,
εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ
τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa cosa invero è pensare e
il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è
espresso, troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà altro oltre
all’essere, poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile. Accettando
la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea recupererebbe
affermazioni avanzate in precedenza: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La
stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι
Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario (B6.1a). Ribadendo la connessione,
che fa da sfondo a tutta l’esposizione divina, tra νοεῖν e εἶναι - e dunque
anche l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) possa realmente essere
oggetto del pensiero89, secondo le indicazioni di B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό
γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις 89 Questo è quanto i versi in
questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic Arguments, cit., p. 19. 494
poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né
indicarlo - l’obiettivo sarebbe quello di escludere che possa darsi per
l’intelligenza della realtà oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος),
che possa in altre parole essere assunto come realtà quanto si manifesta a
livello di senso comune. Questa lettura sembra confermata da quel che segue
immediatamente (vv. 38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno
nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e
morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Gli
eventi che i «mortali» (βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo
irriflesso interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire»,
«cambiare luogo e mutare luminoso colore») – designandoli, illusi (πεποιθότες) della
loro genuina consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano, all'intelligenza critica
sollecitata dalla Dea, per quello che in verità sono: «nome». Gli uomini, in
altre parole, utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea già
esplicitamente proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare
luogo» - per articolare e cadenzare una realtà che, correttamente valutata,
risulta essenzialmente estranea a ogni accadere e mutare. L’unico genuino
(vero) oggetto di intelligenza e linguaggio è «ciò-che-è»: indipendentemente da
quel che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e discorsi, ciò cui
essi realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν 90 . 90 McKirahan, op. cit.,
p. 202. 495 Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν –
in particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il nodo cruciale
dell’immobilità, immutabilità e compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide
richiama l’attenzione su quanto implicito nelle sue affermazioni iniziali
(B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare consapevolmente
il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal momento che «ciò
che non è» (μὴ ἐὸν) è intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula
impiegata (vv. 34-36a): ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ
τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa è pensare
e e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è
espresso, troverai il pensare. Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra
ricordati, qui non si tratta semplicemente di un’affermazione di identità
(generica) tra pensare ed essere (B3) ovvero di una presa d’atto della
necessità per il pensiero di ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si
spinge a delineare a un tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di
dipendenza (espressa da οὕνεκεν, che traduciamo come equivalente a ὅτι «che»91)
- i cui membri risultato da un lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero»
(νόημα) «che "è"». Non c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere
non può che essere l’oggetto del pensiero: la Dea sottolinea, infatti, come
l’essere sia propriamente ciò «in cui» il pensiero è espresso, il campo entro
cui necessariamente il pensiero si manifesta. Dal momento che τὸ ἐὸν è in
verità il solo contenuto realmente pensato ed espresso nel linguaggio,
qualsiasi cosa i mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o
dicano, essi stanno parlando di ciò-che-è 92 . C’è tensione, dunque, tra quanto
essi sono «convinti» di nominare e 91 Ma che altri scelgono di rendere come «a
causa di». 92 McKirahan, op. cit., p. 205. 496 quanto in realtà essi nominano:
sebbene non ne siano consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte
(trascendentale) dell’essere non può sottrarsi il nominare dei mortali93 . Nel
contesto, insomma, a dispetto di una lunga tradizione interpretativa,
intenzione della Dea sarebbe non tanto aprire una parentesi per discutere
dell'inattendibilità dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che
altro (dall’essere e dai suoi «segnali») possa essere l’ambito del pensare. In
questione sarebbe allora la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma
non in quanto di per sé illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto
perché non inquadrato coerentemente, da un punto di vista logico, nell'unitaria
cornice d’essere, e dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio inadeguato
dei mortali è contrapposto il linguaggio della verità dell’essere94 . A chi si
riferisce il termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il
tradizionale rilievo della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza
divina) e dunque accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta?
Ovvero a un gruppo o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte espressive
di Parmenide (γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν
διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν), potremmo riconoscere sia una generica allusione
alle modalità ordinarie di lettura della realtà (cambiamento di luogo,
mutamento qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più specifico (nascere e
morire, essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato nelle
testimonianze relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e nei
frammenti eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo - apparentemente
una pausa nella sequenza argomentativa del frammento – faccia emergere un
aspetto peculiare dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione
speculativa. Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle
implicazioni (ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή,
denunciando le incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche)
circolanti, è 93 Ruggiu, op. cit., pp. 307-8. 94 Ibidem. 497 possibile si sia a
un certo punto concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà
(dunque sulla stessa attività di νοεῖν): questione di «secondo livello» 95
(meta-cognitiva), intesa a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni»
dell’essere, anche dei presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata
traccia così a un tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla
conoscenza: la comprensione (νοεῖν) esige determinate condizioni formali
(proprietà) per l’intelligibilità del proprio oggetto; condizioni che Parmenide
potrebbe aver fatto emergere nel confronto serrato (meta-critico) con le teorie
della natura della tradizione ionica96 . Moira lo ha costretto... Per la terza
volta nel frammento, la Dea assicura il proprio ragionamento ricorrendo a
un’immagine mitica (e a una formula epica): Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν
«a essere intero e immobile» (οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale
“destino” che nulla «esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ ἔσται) «oltre all’essere»
(πάρεξ τοῦ ἐόντος): ciò, in primo luogo, comporta ancora (come nel caso di
Giustizia e Necessità) che la garanzia di Moira risulti formalmente essenziale
per affermare integrità, unicità e immutabilità dell’essere (e dunque per
sostenere come i «nomi» dei «mortali» si riferiscano in vero sempre e solo
all’essere). Ma la superiore tutela di Moira impone, in secondo luogo, anche
l’identità di essere e pensiero, nel momento in cui marca, appunto, come non
possa esistere ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος («altro oltre all’essere»). In questo
senso, rispetto a νοεῖν e ἐόν, essa riveste una funzione “trascendentale”:
richiamando implicitamente le immagini dei legami (πείρατα) e delle catene
(δεσμοί) ed esplicitamente la fissi- 95 G.E.R. Lloyd usa l’espressione
«second’ordine», per esempio nel suo Le pluralisme de la vie intellectuelle avant
Platon, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie
Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., p.
166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi (πέδαι), con la figura di Moira la
Dea, da un lato, ribadisce la stabilità dell’essere, dall’altro indica in
quella invariabilità un carattere fondamentale della conoscenza. Questa
connessione tra saldezza di «ciò che è» e costanza del νόημα che la coglie è la
stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει
τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al
pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso
all’essere. La Dea le contrappone la precarietà tutta umana e artificiale («saranno
nome» ὄνομ΄ ἔσται) di quanto (πάντ΄ [...] ὅσσα) «i mortali stabilirono» (βροτοὶ
κατέθεντο), lasciandosi poi traviare (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ). Compiuto e
omogeneo I versi (42-49) che concludono la sezione sulla Verità ne riassumono
l’ontologia, insistendo particolarmente su compiutezza e omogeneità di «ciò che
è», attraverso un ampio ricorso a metafore “spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας
πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν
ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ
τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως
εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον,
ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει. Inoltre, dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò
che è] è compiuto da tutte le parti, simile a massa di ben rotonda palla, 499 a
partire dal centro ovunque di ugual consistenza: giacché è necessario che esso
non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o
dall’altra. Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a
omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì
meno, poiché è tutto inviolabile. A se stesso, infatti, da ogni parte uguale,
uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. I versi propongono contestualmente
due diverse prospettive: l’accostamento alla «massa di ben rotonda palla» (εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) presuppone infatti un punto di vista “esterno”, per
comunicare un’impressione ottica (“da fuori”) della compatta estensione
dell’essere, della sua compiuta integrità; d’altra parte, la sottolineatura
dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς πάντῃ) «a partire dal centro» (μεσσόθεν),
manifesta piuttosto un punto di vista “interno” (dal centro alla superficie
perimetrale). Complessivamente il testo vuol riproporre ἐόν come totalità
piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di «limite
estremo» (πεῖρας πύματον), di un confine che rende plasticamente l’assoluto
discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente essenziale a tutto il ragionamento
della Dea. C’è un limite estremo Anche in questo caso – come in altri passaggi
del poema – appare evidente il debito nei confronti dell’immaginario epico: ἔνθα
δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος
ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί
περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500 οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα
πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη·
δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν
νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare
infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i
confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine
enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi
passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta
crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte
oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide avvolta (Teogonia 736-745.
Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro
contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte
le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario infero in cui è
inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία
δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα Nυκτός) evocata
nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di
tutto informare» (B1.28): almeno didascalicamente, l’ottica della sua
comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere).
Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo
argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al
limite (πεῖρας) vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a) 501 ἀκίνητον
μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ἐπεὶ τό
γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira lo ha costretto a
essere intero e immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν
ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει dal momento che Necessità potente nelle catene del
vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί dal
momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42). Sono i
legami variamente evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione
e corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a
garantirne integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον,
τετελεσμένον). Come abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle
immagini di catene e vincoli sono associate figure di garanzia: Giustizia,
Necessità, Moira. L’idea è quella di costrizione come destino ovvero legge
dell’essere97, ma nel contesto, in relazione al pronunciamento circa
l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας πύματον), all'accostamento al
«corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) e alle
altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo trovarci in
presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98, l'idea di un
estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente
pitagorico, come documenterebbe Aëtius: 97 H. Schreckenberg, "Ananke.
Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36, München
1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano, op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss..
Citato in Robbiano, op. cit., p. 140. 502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι
τῷ κόσμῳ Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo99 , e
confermerebbe la nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo»). In
effetti, Aëtius attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine
«cosmo» per indicare il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ
ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι τάξεως Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose
cosmo, per l'ordine che vi regna (DK 14 A21) Ricordiamo, inoltre, come il tema
dell’equilibrio del cosmo garantito dal confine cosmico si colleghi ad
Anassimandro, del cui principio (l’apeiron) Aristotele afferma: [...] διὸ
καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα
καὶ πάντα κυβερνᾶν [...] per questo motivo diciamo che di esso [principio] non
vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre
cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle (DK 12 A15). A suo
modo Parmenide avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del
tardo VI secolo il motivo dell'immutabilità e della stabilità dell’universo,
espresso soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di questa sezione: οἷ γὰρ
πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει A se stesso, infatti, da ogni parte
uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. Rispetto alla tradizione,
tuttavia, muta profondamente l'ottica adottata: all'interno della sezione sulla
Verità, l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la
dimensione d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321
b4. 503 sere (ἐόν), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di
discriminazione spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i
riferimenti temporali)100 . Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le
cose: «ciò che è si stringe infatti a ciò che è» (v. 25: ἐὸν γὰρ ἐόντι
πελάζει). In considerazione dell'alternativa radicale «è-non è», «ciò che è»
risulta compatto (v. 19: πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25: ξυνεχὲς πᾶν
ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι,
τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non essere, che possa
impedirgli di giungere a omogeneità (vv. 46-47a). La proibizione di percorrere
la via che pensa «che non è» fa sentire ancora la propria forza coinvolgente,
nel determinare i contorni della realtà. In effetti, la recisa affermazione
della Dea: «vi è un confine estremo» (πεῖρας πύματον) – sebbene ancora
formalmente giustificata, a questo punto, dall'insistenza (mitica e\o
metaforica) su vincoli e catene, e dalla sorveglianza dei relativi numi (Dike,
Ananke, Moira) - interviene a completare il quadro ontologico, marcando in
particolare l'integrità di «ciò che è» come totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές;
v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si enuncia: «è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν
ἄσυλον). La reiterazione di un avverbio connette inizio e fine del passo:
τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv.
42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im
Lehrgedicht des Parmenides, in Frühgriechisches Denken, a cura di G.
Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269, in
particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει
a se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti
rimane (v. 49). La compiutezza (in ogni direzione) di «ciò che che è» è
sostenuta sulla base della sua "densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως
εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci sia - di
ciò che è - qui più, lì meno (vv. 47b-48a). Nulla può alterarne l'equilibrio,
ovvero impedirne l'omogeneità (τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare
l'essere comporta escluderne (con il non-essere) ogni possibile deficienza e
dunque equivale ad affermarne eguaglianza, uniformità, totale identità con se
stesso, in altre parole la inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). Simile a massa...
Estremamente controversa a livello interpretativo è la similitudine introdotta
dalla Dea all'inizio del nostro passo (ma in conclusione della sua
comunicazione di Verità!): εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς
πάντῃ simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di
ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come abbiamo rilevato in nota al testo, tre
punti sono criticamente determinanti: (i) il soggetto (sottinteso) della
similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον); (ii) ἐναλίγκιον («simile») si
riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος); 505 (iii) ἰσοπαλὲς («di
ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso («ciò che è») della
affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla». Se è da escludere
l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile tuttavia – proprio in
forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi – sottrarsi
all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque esteso: il
tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque coincidere con
la realtà universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley101), colta "in quanto
essere", in altre parole intuita appunto come ἐόν («ciò che è»), ovvero –
più astrattamente – come τὸ ἐόν («l'essere»), con le relative conseguenze
logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei versi in esame)
sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da quella cosmica,
ma quella di concentrarsi sul «tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) - come già
documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla cosmologia
milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di definirla
"ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la stessa
realtà attestata dall’esperienza – alla luce di rigorose esigenze razionali,
che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ δὲ κρίσις
τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa attitudine con formule che
evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il
ragionamento la prova polemica», κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo
sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile
connessione tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione originale
della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e
cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di τὸ ἐόν:
nella sua identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν,
ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna,
continua gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of
the atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54. 506
cenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono
superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa
estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono
evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse
elementari - ed è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa
qualcosa di astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero
indiscriminato102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità
delle cose considerate appunto come essere103 . Solo in coerenza con l'esigenza
di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà
possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non
propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le
condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli
atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla»
è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione
della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν dal momento che [vi
è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a).
L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa
sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza
ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle
figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di
esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua
interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. 103 Thanassas
(Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν
di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on
*h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando
tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira)
e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al
carattere ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti
rimane» (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà,
rispetto all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera
insormontabile in cui tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in
Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di
conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La
similitudine insiste sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme:
sull’uguale consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha
osservato106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di
criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre
«identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema
nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato
soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le
ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo
fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente
intelligibile, nel Timeo platonico propone un’impressionante concentrazione di
allusioni (e parole) parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ
συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα
τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ
πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν
τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ
πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν
γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie
cit., p. 249. 105 Ruggiu, op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J.
Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 508 ἀκοῆς,
οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς
ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην
ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...]
E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al
vivente che doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella
che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una
sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle
estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se
stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese
perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non
aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno,
né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un
organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo
averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo
33b-c7)108 . 108 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR,
Milano 2003. 509 DALL’ESSERE ALLE FORME [B8 VV. 50-61] Sin dalla antichità si è
presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e due sezioni, di
diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via della
Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη τὴν
φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si
divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28
A1). È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero
marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati
soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo
B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che
doveva coprire i 2/3 del poema1 . Su questo elemento strutturale avremo modo di
riflettere ancora più avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi
12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente
il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto
delle citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί
[vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς
αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς
στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ
> πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…,
cit., p. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον
παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile,
Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando
dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime,
all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52],
pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima
antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o
identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati,
[citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la
posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle
sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il
linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre testimonianza
sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica aristotelica:
Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν
εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. […] Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che
l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua
volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e
terra. E di questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del frammento
è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta nell'esposizione
divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε
βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo
termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea al proprio
interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» (πιστὸν λόγον) e
della «riflessione sulla verità» (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme,
l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), mettendolo
sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare
fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde
l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano
puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della
dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente
correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei
mortali, (iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα
- «le cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra
convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in
B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8
allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo
genericamente di rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una
direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva
invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in
termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il
costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia,
probabilmente con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla
preziosa testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ
διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ
φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ
οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν,
τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come
elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e
mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul
sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto
circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della
natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. È
significativo il fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato:
come documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è
plausibile che fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto
premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei
compilatori: καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη
τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν
πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος
anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i
non molti versi di Parmenide 513 sull'essere uno, sia per il credito delle cose
da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). La seconda
parte, in fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica
milesia: non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente,
apertura e conclusione. «...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo
sottolineato in precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane
interlocutore circa il mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν
ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al
pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara,
l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Due dati
risultano fuori discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»;
(ii) il passaggio alla considerazione di «punti di vista mortali» (δόξας
βροτείας), in altri termini di una prospettiva diversa rispetto a quella divina.
Nel contesto della narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si rivolge
a un essere umano – adeguare il proprio registro espressivo: pur continuando la
propria lezione, ella avverte circa il potenziale disturbo (alla corretta
intelligenza della realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico adeguato a
quei punti di vista. Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il linguaggio
della pluralità e del divenire è virtualmente foriero di contraddizione e il
relativo correlato oggettivo, il mondo delle cose in mutamento, è, dal punto di
vista dell’essere, apparenza. Dal momento che – nonostante le denunce di B6, B7
e dello stesso B8 – la 514 Dea insiste perché il kouros apprenda (μάνθανε) quei
contenuti, possiamo inferire che la sua esposizione: (a) non si concentrasse su
opinioni che il giovane allievo potesse da sé ricavare dall'esperienza; (b) né,
diffondendosi (secondo quanto ci attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali
della realtà naturale, avallasse opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!);
(c) piuttosto riconducesse l'esperienza umana all'interno della cornice della
verità. A sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del
frammento (vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή
ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato,
per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si
tratta in pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a
cavallo tra Verità e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea)
offre indicazioni sul passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali
sottolineano che l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una
pluralità: così al κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60 l'espressione
διάκοσμον ἐοικότα πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero
dell'ordinamento cosmico, è comunque implicito il rinvio a una molteplicità di
elementi da sistemare: è possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia
valenza semantica di κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche «mondo»,
accentuando i rischi della costruzione verbale (che può risultare
«ingannevole», ἀπατηλόν). L'enunciazione divina è comunque connotata
positivamente: il rilievo dei pronomi personali (σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno
e la responsabilità della Dea, nei confronti del kouros, di fornire in ogni
modo una ricostruzione almeno relativamente plausibile del quadro complesso dei
fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica «mortale» implica la dimensione
qualitativa dell'esperienza (in questo senso sembrerebbe scontato il ri- 515
chiamo a τὰ δοκοῦντα), come rivelano in particolare le connotazioni delle «due
forme» (μορφαί δύο), e dunque l'adeguamento della prospettiva della
comunicazione divina: donde l'urgenza di ridefinire i tradizionali strumenti
(il modello oppositivo) di illustrazione dei fenomeni naturali, così da evitare
le contraddizioni stigmatizzate nei frammenti precedenti. Complessivamente la
preoccupazione è quella di fornire una spiegazione del mondo naturale (διάκοσμος)
comunque superiore a quella della concorrenza. Rispetto alla sezione sulla
Verità, in cui era essenziale determinare, con lo sguardo dell'intelligenza, la
compatta fisionomia dell'essere (attraverso i «segni» di B8), l'urgenza
avvertita nelle parole della Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza
il mondo dell'esperienza. Un ordinamento verosimile Può essere utile, per
comprendere le movenze intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4:
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος
ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. Considera
come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi
completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi. Se B4, la cui
collocazione nel poema rimane molto discussa, mostrava come per il νόος la
molteplicità dispersa degli enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον) si
riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν, alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν
τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver
illustrato quell’identità in cui tutte le cose si riassumono e averne
analizzato le proprietà, la Dea percorre in un certo senso la direzione
opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità che si manifesta
all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità dell'essere, possa
essere correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza pregiudizio per la
realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non annuncia una distinzione di
piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come all'unica realtà si possa
guardare nell'ottica immediata dell'esperienza, ovvero attraverso il sondaggio
dell'intelligenza, ricavandone due immagini sostanzialmente diverse: nel primo
caso il quadro multiforme e plurale di dati mutevoli, nel secondo la sua
estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in cui molteplicità,
differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza dell'essere. A
partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3 nell'espressione ἔθος
πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze») si è spinti a considerare reale
una molteplicità di enti in divenire, che si rivelano in contraddizione con gli
esiti dell'esame cui l'intelligenza sottopone «ciò che è» (ἐὸν). Si
tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale modulazione del
progetto di indagine ionico, almeno dando credito alla interpretazione
peripatetica delle origini, con la riduzione di «tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα)
all'unità di una «sostanza soggiacente» (οὐσία ὑπομενούσα), a un tempo
«principio» (ἀρχή), «elemento» (στοιχεῖον) e «natura» (φύσις) delle cose (τῶν ὄντων):
ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται
τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο
στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι
οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui,
infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si
generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza,
per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono 517 essere elemento
e questo principio delle cose, e per questo credono che nulla né si generi né
si distrugga, dal momento che una tale natura si conserva sempre (Aristotele,
Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere
la dimensione omogeneizzante che raccoglie a identità gli enti, ricavandone –
attraverso l'esclusione del non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver
denunciato le contraddizioni di fondo che minavano le cosmologie contemporanee,
offre nella Doxa una ricostruzione che colloca quanto si manifesta nell'esperienza
(τὰ δοκοῦντα) in un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα) – in
esplicita coerenza con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che è» (ὡς
ἔστιν), come evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ
τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ
νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà,
[sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno egualmente di
luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle
due [è] il nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente quello della
conoscenza e non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά
τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν
ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ
οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν
ἄστρων 518 Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti i segni e della pura
fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le
opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura;
conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come
Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. Diagnosi di un
errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla «riflessione intorno a Verità»
(νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) alle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας) e il mutamento
di registro - dalla necessaria enunciazione di «ciò che è è» (χρὴ τὸ λέγειν τò
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι, B6.1) all'ascolto dell’«ordine delle mie parole che può
ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, B8.52) – la Dea concentra la
propria attenzione, con una formula non priva di ambiguità, su uno schema
linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un verso dal significato molto
discusso, il limite concettuale: μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν
μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · Presero la decisione,
infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro]
necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4). Di che cosa
si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo indicato in nota al testo le
principali opzioni interpretative contemporanee: in estrema sintesi, gli
studiosi hanno individuato i destinatari della contestazione o genericamente
nei «mortali», intendendo l'universale approccio umano al mondo naturale, o
specificamente in una determinata posizione teorica (per lo più nel pitagorismo
antico). Ma non appare plausibile che il modello 519 (dualistico) cui la Dea
allude possa essere fatto valere in generale per gli esseri umani, né che esso,
in particolare, possa univocamente riferirsi alla riflessione cosmologica
milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un ruolo rilevante). D'altra parte,
la scelta di lasciare implicito il riferimento potrebbe spiegarsi – all'interno
della cultura aurale in cui matura l'opera di Parmenide – con la possibilità da
parte dell'audience di individuare facilmente il soggetto: in questo senso
potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle nostre incertezze circa la
sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica. Riteniamo, in ogni caso, che
il poeta intenda contestare non ogni possibile approccio "mortale",
ma quello di un certo gruppo di pensatori, da cui evidentemente egli ha
interesse a prendere le distanze, per introdurre poi un resoconto «appropriato»,
in relazione al quale impiega (in B9-10, come abbiamo sopra segnalato)
espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente riferibili a posizioni
giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore fuorviante (ἐν ᾧ
πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b) che viene
imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali, distinguendone due
momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο
γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme... (v.
53) (b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per loro] necessario
[nominare] (v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla nostra rapida
sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate analisi
linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del significato del
se- 520 condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte
interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è
probabile, come suggerito da Mourelatos2 , che il costrutto verbale fosse
intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un
efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in
altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi parmenidei,
censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento dell'unità nelle
due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura nell'antichità
già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν
γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro che non
colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione
(Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso materiale
conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea si
intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava
strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello
(pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con
l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν
ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di
procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del
non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione
delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»:
non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per
poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ
φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν [...] tutto è
pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2 Op. cit., pp. 228-9. 521 di
entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4).
Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso,
secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν...,
«poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il
quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali»
criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono
ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe l’errore delle
ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della «appropriata» (ἐοικότα)
Doxa divina3 . In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico
introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων,
τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄
ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente
gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto
leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece,
non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche
opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59). Rispetto alle
precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione
si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la
requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9: 3 Op. cit., p.
65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da quella [via] che mortali che
nulla sanno s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti
guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi,
sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non
essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso
torna all'indietro. Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica
l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις
(decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità
(εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito
delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι
δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας
si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli
elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che
viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo
dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando
l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la
confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti
una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e
difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema
oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da
una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti- 523 colare,
l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e
indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
[...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό
τἀντία [...] Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero
separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione
identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche
quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...]. Diventa allora difficile
credere che in B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα
πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento,
del tutto adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali
possa superarti, la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena
determinate 4 , mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario
della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del
mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema
oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H.
Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239. 524 Un modello elementare
Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi
conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore
segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere
quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν
περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ
τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv.
50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο,
ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ
ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso
infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione
vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili,
o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in
cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle
cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco
e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in
precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea
prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come
«opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà
reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici
erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei
fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, [...] [...] ἀτὰρ
[...] τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma
etereo fuoco, che è mite, molto leggero [...] [...] dall’altra parte [...] le
caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59).
Dalla testimonianza aristotelica sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora,
qualcuno produsse un sistema seriale di opposizioni entro cui è possibile
riscontrare anche quella sfruttata da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς
ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον,
περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος, δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ,
ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ] καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ]
κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ
Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου
παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι
Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi stessi
[Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di
opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro,
maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e
cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che
egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui:
Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria
simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele
- che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche
ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia
un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato
quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago
accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti
sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per
stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza
dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di
Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6 . Ma di recente Kahn7 , pur rilevando
nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la
modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali
sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo
implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione»: κατέθεντο ὀνομάζειν)
che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente
umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il
dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse
risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la
considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e
le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile
Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον
Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ
Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι
Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον
ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ
πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven
(nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic
Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832 , p. 339. 6 Una indicazione analoga si può
ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek
Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans,
Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς
ἡσυχίαν προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane
(Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro). Tuttavia,
pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo quanto ha
affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di Diochete, un
uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando morì, dal
momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse un
monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla
tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ
Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli
eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK
28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee
correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8 . In alternativa,
sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli
"elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in
Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός)
i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo:
χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος
αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς
θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto;
celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia
ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica
che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit., p. 117). 528 che
da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il
salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti), e più tardi nelle
laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono
figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ
Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di
Petelia)9 . Un’opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a
quella tra regione celeste (οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in
cui, come mostra ancora Kahn10 , αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ
assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la
formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma,
sarebbe possibile rintracciare un’estrema essenzializzazione e concentrazione
del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione
cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli
opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro,
dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto
le sue due serie di proprietà (δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»),
[ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον («mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono
riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo
diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν («denso»), ἐμϐριθές («pesante»)
concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco
e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp.
172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett,
Indianapolis 1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529 Se
consideriamo nel complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle
connotazioni nella tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo
in realtà bisogno di coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella
tradizione Parmenide avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i poteri
(δυνάμεις) cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole e
terra e che Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che ancora in
Empedocle, colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello
elementare (le quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo
rilevante: ἀλλ’ ἄγε, τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν
προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα
δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον
τε· ἐκ δ’ αἴης προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa
attestazione delle cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è
mancato qualcosa alla forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto,
quante cose imperiture sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la
pioggia in tutte le cose oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose
compatte e solide (DK 30 B21.1-6). In ogni modo, come sappiamo, Parmenide
intervenne a correggere quello schema cosmogonico su un punto essenziale:
l'assoluta posizione della separazione delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο
δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ
δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία [...] 530 Scelsero invece
[elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri
[...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece,
non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche
opposte [...] (vv. 55-59a), emendata con la sottolineatura del fatto che esse
sono e sono nell'essere: τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - ·
delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati
fuori strada (v. 54). Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella
direzione della determinazione di due elementi-principi, qualitativamente
connotati in funzione della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non
sono frutto di una indebita confusione tra essere e non-essere: in questo
senso, come ha rilevato Nehamas12 , essi danno ragione di molteplicità e
cambiamento nel mondo sensibile mescolandosi in proporzioni differenti, senza
che nessuno dei due si trasformi nell'altro. Identico, non identico Comunque
sia stato ricavato, dalla lezione di contemporanei pitagorici, come alcuni
credono, ovvero distillando un modello dalla tradizione, come abbiamo
ipotizzato, lo schema che Parmenide introduce ai vv. 53 ss. rivela, una volta
sottoposto all'esame dei criteri ontologici di B8.1-49, la propria falla.
Inquadrate all'interno della fondamentale alternativa «è-non è», le polarità
oppositive, nella loro identità con sé stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A.
Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit.,
pp. 61-62. 531 non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua
esclusione, appaiono foriere di potenziale contraddizione: donde l'esigenza di
denunciare il rischio13 . La situazione appare paradossale, perché da un lato
Parmenide, di fronte al compito di spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il
dualismo giudicandolo più coerente con i criteri ontologici, rispetto, per
esempio, alla cosmologia ionica che cerca di dar ragione dei fenomeni facendo
appello alle trasformazioni di un singolo principio di base14; dall'altro,
però, avrebbe avvertito l'implicita debolezza del modello. Come abbiamo sopra
sottolineato, il lessico dei frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza
(B10: εἴσῃ «conoscerai», πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala
che in qualche modo tale debolezza era stata aggirata. La nostra lettura,
tuttavia, non sembra aver superato il paradosso: perché introdurre «due forme»
e poi insistere sulla loro unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto
occasione di ricordare, interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ
που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι,
τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ
τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς
αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν
λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto,
egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] 13 In questo
senso la Curd riferisce correttamente la natura «enantiomorfa» del modello
delineato nei versi conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a
Parmenide, il quale, invece, lo propone per sottolinearne il limite. 14
Nehamas, op. cit., pp. 61-62. 532 Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo
che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua
volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e
terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il
non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Solo per dar ragione dei
fenomeni, Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i precedenti
cosmologici) e solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a
quella di essere e non-essere15: Simplicio ne coglie il senso citando B9: καὶ
μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ "μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν "
καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e poco dopo ancora [citazione B9];
e se "insieme a nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente
che entrambi sono principi e che sono opposti. Il commentatore rileva
l'interesse del passo parmenideo nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς
e νύξ: per le loro proprietà costitutive - che condensano le tradizionali
opposizioni elementari – e nella misura in cui escludano il nulla, esse possono
fungere da ἀρχαὶ. Pur opposte nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e
«notte è». Insomma, l'Eleate avrebbe conservato un consolidato schema
esplicativo del mondo fenomenico, emendandone le implicazioni inaccettabili sul
piano ontologico: la mutua esclusione degli opposti doveva evitare la
trasformazione dell'uno nell'altro, senza spingersi tuttavia fino alla loro
assolutizzazione. Presero la decisione di dar nome... Il passaggio dalla prima
alla seconda sezione del poema è sottolineato dalla antitesi tra «pensiero
intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e «opinioni mortali» (δόξας βροτείας):
come già 15 Così interpreta Mansfeld, op. cit., pp. 137-139. 533 indicato nei
versi che precedono, una componente essenziale dell'opinare umano è riscontrata
nel linguaggio, o, meglio, nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In
questo senso era stata netta la presa di posizione di B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄
ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι,
εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò
che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che
fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare
luminoso colore. Alla necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος
λείπεται) con cui, in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della
«via che è» (ὁδοῖο ὡς ἔστιν) e il riconoscimento della relativa sequenza di
«segni» («su questa [via] sono segnali molto numerosi: che ...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ
σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...), la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le
«opinioni mortali», la decisione di «nominare» (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la
scelta di «opposti» (ἀντία ἐκρίναντο δέμας) e l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο).
Non sorprende, dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le
potenzialità fuorvianti dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν
ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων). Il passaggio fa registrare dunque una significativa
svolta nell'atteggiamento intellettuale proposto all'interno dell’esposizione
divina. Da una considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia
con l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e
guadagnandone argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione
l'attenzione si sposta sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere
dal dato sensibile: questo non comporta comunque una forma di
"empirismo", come confermano appunto i rilievi circa la rielaborazione
"umana" della Doxa attraverso lo schema degli opposti. La posizione
introdotta non è assimilabile a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος
πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ
γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza,
a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua.
L'operazione di riduzione dei fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è
certamente altra cosa rispetto alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato
empirico (ἔθος πολύπειρον), pur avendo di mira la stessa realtà attestata e
accettata sulla scorta dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è
valorizzata da Parmenide soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o
categoriale: l'insistenza su formule verbali che implicano valutazione
(κατέθεντο, ἐκρίναντο) e disposizione (ἔθεντο) è infatti associata al rilievo
del «nominare» (ὀνομάζειν). Così la Dea attribuisce il compito di ordinare il
campo dei fenomeni all'umana risorsa del classificare (attraverso i nomi),
sebbene ella individui esplicitamente nei nomi l'origine di un potenziale
fraintendimento della realtà (come denuncia B8.38b-41). Anche questo
contribuisce a spiegare il cambiamento di registro all'interno del poema e il richiamo
ai rischi impliciti nella comunicazione della Doxa. Questi rilievi non devono
spingere a concludere che il mondo della Doxa sia appunto un mondo puramente
"verbale", inconsistente, illusorio: non condividiamo l'opinione di
Nehamas, secondo cui la Doxa proporrebbe una descrizione accurata di apparenze,
la quale, per quanto accurata, rimarrebbe pur sempre descrizione di apparenze,
dunque di un mondo falso16. È vero piuttosto che Parmenide aveva denunciato
tale illusione nell'immagine della realtà - in sé contraddittoria –
caratteristica di coloro che in B6.4-5 sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν
e δίκρανοι. La seconda sezione del poema, al contrario, era probabilmente
intesa 16 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 63. 535 come
alternativa alle cosmologie ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che
avrebbe dovuto illustrare la superiorità della sua analisi ontologica.
L'orgoglio dell'impresa potrebbe ancora riflettersi nelle battute conclusive
del frammento: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε
βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io
espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61).
D'altra parte, se l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è»,
alla totalità dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili
all'alternativa «è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della
seconda sezione, l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica,
delle strutture portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole
della Dea, del tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino,
nonché l'uso di espressioni, come δοκίμως (B1.32, «realmente», ma anche
«plausibilmente») e ἐοικότα (B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche
«verosimile», «probabile») potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la
consapevolezza dei limiti della περὶ φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura
si è, su questo punto, evocato il possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν
σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ
πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε·
δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero l'evidente verità nessun uomo la conosce, né
mai ci sarà 17 Come ipotizza Graham (Explaining the Cosmos…, cit., p. 184), è
forse possibile che la sfida fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla
stregua di un cosmologo. 536 chi sappia intorno agli dei e alle cose che io
dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in
sommo grado, lui stesso non lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK
21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute
simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte
le cose che essi [gli dei] hanno mostrato ai mortali perché le osservassero (DK
21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν
ἄμεινον Gli dei dall'inizio non hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel
tempo ricercando essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di
recente rilanciato l'accostamento, rilevando come i frammenti di Senofane
avrebbero presentato, tra VI e V secolo, qualcosa di simile a uno status quaestionis,
una prima meditazione sui limiti della conoscenza del mondo naturale,
concludendo che essa non sarebbe sicura. Posizione analoga a quella del giovane
contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι,
ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei
possiedono la certezza, ma gli uomini devono imparare per inferenza (DK 24
B1)19 . 18 Explaining the Cosmos…, cit., p. 176. 19 Come abbiamo in precedenza
ricordato, del testo greco esiste oggi una versione proposta da M.L. Gemelli
Marciano (“Lire du début…, cit., pp. 7- 37), che ha espunto la virgola tra i
due complementi iniziali, offrendo quindi un senso profondamente diverso: 537
Il pensatore di Crotone (che Diogene Laerzio vuole discepolo di Pitagora e
dunque proveniente dalla stessa area geografica e culturale di Parmenide)
avrebbe ripreso la tradizionale opposizione (μὲν θεοὶ ... δὲ ἀνθρώποις) per
precisare come gli uomini abbiano solo la possibilità di procedere per evidenze
sensibili e relative inferenze. Parmenide potrebbe aver reagito alle
provocazioni di Senofane indicando come in realtà fosse possibile una
conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è», sforzandosi poi, negli ultimi
versi del nostro frammento, di rintracciare delle linee di stabilità che
consentissero di riordinare il campo fenomenico alla luce delle indicazioni
ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni» attribuiti alle due
«forme». περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις
τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in
quanto uomini, è dato solo di trovare degli indizi. 538 LE FORME, L’ESSERE, IL
NULLA [B9] Simplicio offre, nel caso di B9, un'indicazione preziosa, ancorché
approssimativa, circa la sua collocazione nel poema parmenideo. Afferma infatti
il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ
‘μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν ’ καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται
e dopo poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E se "con nessuna delle due è
il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono
opposti. Dal momento che il rilievo è posto subito dopo la citazione di
B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi di B9 seguissero dappresso la
conclusione di B8, anche se non necessariamente come prosecuzione (come
ipotizza Cerri1 ). Appare di conseguenza discutibile la scelta di alcuni
editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11 (ovvero di ipotizzare
la successione B11- B10-B9, come fa O' Brien), o addirittura, dopo altri
intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld), nonostante l'evidenza di
una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione generale all'esposizione
cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte le cose sono state denominate In
effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19 l'importante
riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo visto essere
centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In particolare, nelle
prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine delle due μορφάι: αὐτὰρ
ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε
καὶ τοῖς 1 Op. cit., p. 255. 539 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono
state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state
attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2). Nella dimensione plurale delle
cose (πάντα) attestate dall’esperienza e che l'intelligenza ha riassunto
nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è quello di
classificare e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel
commento al frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul
complesso dei fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις, «potenze»), i σήματα che
accompagnano le due μορφάι, così riordinando, attraverso un'articolazione
elementare, il mondo empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν,
comune denominatore che contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la
totalità degli enti, e averne approfondito le implicazioni (alla luce della
κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), Parmenide delinea una strategia conseguente di
recupero del cosmo dell’esperienza umana: Luce e Notte dovranno spiegare
l'apparire senza che venga ammesso come principio il nulla2 . Alcuni
accostamenti verbali manifestano questa operazione. Al verso B8.24b la Dea
aveva sottolineato (i): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò che
è, dopo aver ricordato (ii): οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ
τι χειρότερον né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno (B8.23-24a), e soprattutto (iii): 2 Ruggiu,
op.cit., p. 326. 540 οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è
divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22). A questa rappresentazione della
omogeneità e compattezza dell'essere possiamo far corrispondere l'affermazione
centrale del nostro frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων
ἀμφοτέρων tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile di entrambe alla
pari (B9.3-4a), dove l'originario nesso ontologico di totalità e pienezza (πᾶν
δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è declinato al duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς),
salvaguardando comunque l'esigenza di uniforme densità e continuità – veicolata
in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν (B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che
da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι (B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον
ἐστὶν ὁμοῦ e dalla precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna
delle due è il nulla Ma, al di là di queste convergenze che paiono
indiscutibili, il διάκοσμος proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato
discriminante rispetto alle narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione
ontologica essenziale a tutela della fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ
μέτα μηδέν perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto
orientata a ordinare ciò che è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il
pensare) ovvero il νόος (l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso
argomentativo) confermano nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello
oppositivo e della relativa disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di
δυνάμεις (proprietà) riba- 541 disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μηδέν).
Insomma, il linguaggio della doxa ripropone quello della alētheia,
sottolineando, sul terreno dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης, quasi che la doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα,
ne costituisse la diretta prosecuzione3 . Perché, ci si potrebbe chiedere,
Parmenide avrebbe dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una
realtà già ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può
contribuire a una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a
ridosso della dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα
πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento,
del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei
mortali possa superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un
mortale; così l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con
una puntuale disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da
scriteriate assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω,
νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte
esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non
vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua
ineludibilità, la Dea si impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione
adeguata di quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e
qualitativa, senza contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9
si inserisce appunto in questo contesto, con le sue "istruzioni"
circa l'ordinamento lin- 3 Ibidem. 542 guistico del mondo dell'esperienza e il
suo "riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno
esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità
del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa
prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata –
come sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ
διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ
φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ
οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν,
τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come
elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e
mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul
sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto
circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della
natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro, può
far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della
Verità fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione
cosmologica e cosmogonica. Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la
costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio significativo per la
complessiva interpretazione della Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
[...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e
notte invisibile. La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende
dalla coerenza della sua costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le
interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii)
aver individuato un modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema
polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti
(B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4),
Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le
cose. In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle
due μορφάι – e i relativi σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è
associata a caldo, leggero, raro; la notte a freddo, pesante, denso, come
possiamo evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ
καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως·
ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ
α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν
καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· tra i versi è riportato un passo in
prosa come fosse dello stesso Parmenide; esso afferma: «per questo ciò che è
raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il
freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza». Quanto è stato
denominato conformemente a tale strategia assume lo spessore di un mondo
comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in premessa l'espressione
πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος
καὶ νυκτὸς. 544 Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro
complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo4 . Il fatto che
entrambe siano parte dell'Essere rende possibile una fisica della mescolanza
(κρᾶσις) 5 . La κρᾶσις funge così da principio di costituzione di tutte le
cose: l'uguaglianza delle due forme e la presenza delle rispettive potenze
spiega come ogni cosa sia costituita insieme (anche se non nella stessa misura)
di Luce e Notte6 . È tuttavia necessario ricordare – con Conche 7 - che le due
μορφάι parmenidee non sono assimilabili agli elementi di Empedocle o degli
atomisti: non si tratta di principi eterni e immutabili, ma di «forme» nominate
dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc, per una adeguata spiegazione
dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve rendere cauti rispetto a una
loro ontologizzazione: nulla ne giustifica l'assolutizzazione al di fuori di
questo mondo. 4 Conche, op. cit., p. 201. 5 Ruggiu, op. cit., p. 327. 6 Ivi, p.
328. 7 Op. cit., p. 200. 545 UN GRANDE AFFRESCO COSMICO [B10-11-12- 13] I tre
frammenti B10-11-12 sono conservati da due fonti diverse: Clemente Alessandrino
(II-III secolo d.C.) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De
caelo, B12 in due passi del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce,
per B12, un’indicazione approssimativa circa la collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα
δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...]
poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa
efficiente, dicendo così [B12.1-3] [...] Ricordiamo che con analoga
approssimazione («poco dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui
testo avrebbe seguito dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano
trovarsi a ridosso di B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due
citazioni e il loro contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di
B12 con B10 e B11, e, ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono
state proposte diverse soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine,
conservato da varie fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico,
Stobeo, Simplicio), viene citato da Simplicio in stretta connessione con B12.
Clemente (autore che rivela dimestichezza con il poema, risultando unica fonte
di quasi tutto quello che cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος
οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου
‘ε ἴ σ η ι . . . ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi
vuole ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai ... degli astri».
Il commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν
ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν
μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili
afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle
cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali.
Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla
vera e propria descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco
(Contro Colote 1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della
Doxa parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una
loro plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ
λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ
γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων
ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del
mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i
fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli
uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo
arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non
distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro
orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose
fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema
del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore,
chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea
l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha
composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); (ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è
funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον)
implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione.
Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica
(conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra»
(στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e
per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ)
«tutti i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine che il progetto scientifico
doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», πολλὰ) «sulla Terra, e sul
Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema cui alludono
programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere a delineare
l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce in B13 (e
successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale successione,
ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura programmatica
di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie (εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις)
che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della Teogonia esiodea1 ,
unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il fondamento (funzione
dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello stesso B92 . A ciò
osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa) di Simplicio, nel
contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla conclusione della
precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10 costituisca una sorta di
indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che chiude il proemio: ci
troveremmo in questo senso in presenza di un "secondo" 1 Cerri, op.
cit., p. 263. 2 Ruggiu, op. cit., p. 332. 548 proemio3 . B10 e B11 annunciano –
Clemente parla di Parmenide «che promette» (ὑπισχνούμενος) - e descrivono
sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica e cosmologica)
che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma, ancora al
prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei processi e della
struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci aiutano a
ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che una tessera
programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze immediate, sul piano
cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme» (B8.53-59), e quindi
fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva. O'Brien4 , in
alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti principali (B11) e il
passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una precisazione sulla
natura delle due «forme», prima dell'introduzione della δαίμων che le «governa»
(la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La disposizione proposta da
Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto compatibile con le
indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque preannuncia
(promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν
τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄
ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ
φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν
Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell propose di
integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell, «Parmenides,
fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur Parménide, cit., I,
p. 246-7 (in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura eterea e nell’etere
tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e
donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio
rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge,
donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo costrinse a tenere i confini
degli astri. La promessa è quella di: (i) far «conoscere» (εἰδέναι) «la natura
eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni» (πάντα σήματα) nell'etere; (ii) e le
«opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα) del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν)
esse si generarono (ἐξεγένοντο); (iii) far «apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere»
(ἔργα) della Luna e «la [sua] natura» (φύσιν); (iv) far «conoscere» (εἰδέναι)
«il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto intorno» (ἀμφὶς ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν)
«scaturì» (ἔφυ); (v) far conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν)
il cielo a «mantenere nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri. Il contesto
della citazione di B11 (nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo
disegno di Parmenide: Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione
B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν
παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di
dire [B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono,
fino alle parti degli animali. 550 Conche5 ha osservato, a proposito di questi
rilievi, come Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine
parmenidea, evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli
animali) i temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi
naturali nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra
parte non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10
in Empedocle (DK 31 B38): εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο
τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα, γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ
σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα. Orsù, ti dirò delle cose prime e ; da cui divenne
manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida
e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose. L'impressione è che
Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la
sezione astronomica del proprio poema 6 . Le opere della natura Di questo
programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61,
l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in
particolare: (a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni
come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e
l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo
dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la
«generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις:
nel contesto il primo termine 5 Op. cit., pp. 210-11. 6 Cerri, op. cit., p.
259. 551 – che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò
che dà origine (φύω, «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in
ἔργα. Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di
formazione, il manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα),
nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota
identità, a un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di
classificare i fenomeni 7 : in questo senso la formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν
ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8 . Nell'indirizzo
della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i)
quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici risale alla natura
che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 9 . Nella
stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ
τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν
γίγνεσθαι. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e
l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In
questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta
la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide
non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e
posizioni relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e
γίγνεσθαι è indicativa della sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7
In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi
pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione»
dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda
Ruggiu, op. cit., pp. 333-5. 9 Ibidem. 552 δύναμις che si esprime in «segni» e
«opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà
[δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo
concordare con Ruggiu10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si
manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo,
costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche
Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo
"catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è
lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato,
nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche
nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio
dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli
dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς
ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette
[interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si
riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco. 10 Ibidem.
11 Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto
medio (πλῆνται), proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12
alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio cosmico (come
vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre del
sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste
(sfera solida esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui
si muovono i corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della
«Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione
"copulatrice": ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις
ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di
tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo
l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al
femminile (B12.3-6). Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non sia
rivolto tanto alla contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui
riscontrare armonie ed equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto
al compiaciuto rilevamento della fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che
nell'universo manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi
a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla
loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della
riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente
«invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai
processi cosmici. 554 Il sistema del mondo Articolando il programma scientifico
annunciato in B10, B11 si riferisce al «come» (πῶς) Terra, Sole, Luna e etere
«ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al processo di
formazione del cosmo a partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9,
infatti, doveva essere molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la
citazione dei primi 3 versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μετ’ ὀλίγα
δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως
[...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la
causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo
più accettata, i versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque
l'introduzione degli elementi materiali (στοιχεία); d'altra parte essere
dappresso anche a un primo riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι)
cosmiche, di cui ci dà notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano
implicitamente in apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ
ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·
Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le
successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di
fuoco; in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il
processo cui alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la
comprensione dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua
configurazione e composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei
frammenti superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo
estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto
intorno cinge» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da
Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) «a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν
ἄστρων); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il
cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di
uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel
testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche
consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato,
sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o
«corone» (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni
cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa)
testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro
d'insieme entro cui collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους,
τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ
σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν,
ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης
[sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ
< αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν
καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι
τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν
ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος
καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit.,
p. 104. 556 τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν,
ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno
all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra
queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è
solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che
è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle
corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e
causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che
governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione
della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più
intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna
mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una
cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come
«anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto,
dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche,
anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ
μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato:
come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi impossibili.
Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), στερεόν è infatti una
integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo restaurato sarebbe:
καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης, «e la circonferenza
al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona] ignea». 14 Il greco
stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del testo dei
manoscritti: κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti». Simplicio,
dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ
ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, «[Parmenide sostiene che la
dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso
opposto». 557 di «denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza degli
elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre corone
«miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una evidente
corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ σκότους.
Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο
υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα,
altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione conclusiva τὰ
περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse la Terra,
come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e Aëtius (DK
28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι
questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e
giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν
[τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε
ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ Parmenide e
Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti,
rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte
piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si muove. La
struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da Aëtius,
analogamente al centro sferico (τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι)
dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ ς δίκην
στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ περιέχον δὲ πάσας). Qui
incontriamo una prima difficoltà: la 558 consistenza attribuita al contenitore
cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius) dovrebbe
comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la sua natura
densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere» avvolga tutto
«dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’ ἀνωτάτω
πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una sfera di
pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente
costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche, contrastate, al
centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte
densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico).
Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo
una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels
con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la corrispondenza
tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος ἔσχατος
(B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua struttura
cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa interpretazione
delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso americano, con gli
anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno contestato questa
ricostruzione. Coxon18 , per esempio, pur rilevando che la testimonianza di
Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che l'accostamento al
muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato dello stesso
Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla fine di un
saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su τὸ
περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di
Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come
si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella
sua edizione del 1897, cit., p. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili,
cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 559 περιστάντος
δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ
κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37) nam P. quidem commenticium quiddam: coronae
simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis
orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora qualcosa di
fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e
di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...] (Cicerone; DK 28
A37). L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di Aëtius: Parmenide
distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius – costituirebbe in
Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il cielo delle stelle
fisse (οὐρανὸς) 19 . Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei frammenti e delle
testimonianze in modo analogo. Il termine στεφάνη nel pensiero arcaico
designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata intorno a un punto centrale:
dal momento che al centro delle στεφάναι in Parmenide sta la Terra, concepita
come sferica, la struttura dei cieli sarebbe sferica: la periferia sarebbe
occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che tutto contiene, ancora igneo,
sarebbe della consistenza di un solido muro. D'accordo sostanzialmente Cerri21:
nel complesso delle στεφάναι – corone sferiche concentriche – la più esterna,
il confine limite dell'universo visibile, sarebbe formata da uno strato di
«etere rigido», avvolgente un'altra corona di etere rarefatto e igneo,
denominata οὐρανός. 19 Ivi, p. 227. 20 Op. cit., p. 343. 21 Op. cit., p. 266.
560 Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una doppia funzione per il
cielo, che ancora può intravedersi nei frammenti: esso è, per un verso, (i) οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente limitante, circoscrivente; per altro (ii)
vincolante: «Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄
ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). Il cielo, dunque, è anche legame per
tutti gli elementi celesti: gli astri, dislocati sulle στεφάναι, con i
rispettivi moti, immersi al suo interno nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22 . In effetti
risulta evidente, nelle testimonianze, il nesso tra cielo ed etere. Parmenide
avrebbe indicato due aree nell'etere celeste: (i) l'etere che si estende tutto
intorno al cosmo, libero da astri; (ii) l'etere popolato da astri,
condensazioni di fuoco23. A questo alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e
ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a: Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ
νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς
ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo
nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero. Dopo quello dispone il
Sole, sotto il quale sono gli astri nella zona ignea che chiama cielo. Alla
luce delle indicazioni che si possono ricavare dai frammenti e soprattutto da
Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la fascia più interna del sistema cosmico -
densa di «aria» secreta dalla Terra (τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37)
- e la volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος), che tuttavia potrebbe essere stata
concepita a sua volta come etere rigido. Il termine οὐρανὸς appare nelle
testimonianze di Aëtius con i significati correnti nella tradizione
peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura celeste delineata e il
lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele: 22 Ruggiu, op. cit., p.
336. 23 Conche, op. cit., p. 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν
καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν
λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν
τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα
καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ
συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων·
καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ
περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν
λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης
περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ
σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι.
Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il cielo e in quanto modi lo
diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto d'indagine. In un senso dunque
diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del tutto, cioè il corpo naturale
nell'estrema volta del tutto; è appunto la regione estrema e più elevata che
siamo soliti chiamare cielo, in cui affermiamo aver sede tutto quanto è divino.
In altro senso [diciamo cielo] il corpo contiguo all'estrema volta del tutto,
in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri; anche questi, in effetti,
affermiamo essere nel cielo. In un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo
abbracciato [compreso] dall'estrema volta; siamo soliti, infatti, definire
cielo l'universo e il tutto [ovvero: l'intero universo]. Essendo inteso il
cielo in questi tre modi, l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di
necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste,
562 né è possibile si generi fuori del cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25).
È plausibile che nella propria sintesi Aristotele tenesse conto anche della
cosmologia parmenidea ovvero di un modello analogo o condiviso (pitagorico?)
dall'Eleate: in effetti «il corpo naturale nell'estrema volta del tutto» (σῶμα
φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto
intorno cinge» (B10.5 οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2- 3 ὄλυμπος
ἔσχατος), anche per la sua associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί
φαμεν). È per altro chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona
ignea che [Parmenide] chiama cielo» (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν
καλεῖ) si riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo
all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli
astri» (τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ
ἔνια τῶν ἄστρων). Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione
"cosmica" di οὐρανός: «l'intero abbracciato dall'estrema volta
consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun
corpo esiste, né è possibile si generi fuori del cielo». La tentazione di una
lettura "cosmica" di Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza
dell'essere manifestata dalla sfericità, traduceva in immagine ontologica la
perfezione che la doxa poteva riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον
καὶ τὸ πᾶν) di cui parla Aristotele. In conclusione non si può dunque non
ribadire la difficoltà nella ricostruzione del quadro cosmologico del poema:
troppo frammentarie le citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla
concettualità della posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo
constatato, sono pochi i dati certi sulla struttura cosmica: (i) la forma
complessivamente sferica del centro (Terra) e della periferia (τὸ περιέχον,
ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo estremo»), pensata come una parete solida (τὸ
περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν); 563 (ii) l'esistenza di una
prima fascia celeste superiore eterea, composta cioè di corone, anelli
cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda fascia intermedia di corone in cui
Fuoco e Notte sono compresenti; di una terza fascia a ridosso della superficie
della Terra, corrispondente a una atmosfera aerea prodotta dalle evaporazioni
terrestri; (iii) la distribuzione dei corpi celesti tra le prime due fasce
(sulla loro disposizione le indicazioni non sono concordi). La δαίμων e il
cosmo Il contesto e la citazione di B12, insieme alla relativa testimonianza di
Aëtius, pongono un ulteriore problema interpretativo: quello relativo alla
posizione e al ruolo della δαίμων che lì viene evocata: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ
τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘α ἱ γ ὰ ρ . . .
κ υ β ε ρ ν ᾶ ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι
γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π.
λέγων· ‘α ἱ δ ’ ἐ π ὶ . . . θ η λ υ τ έ ρ ω ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος
μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν
δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi,
introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa
efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei
che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv.
2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo
al tutto ed è causa di ogni generazione ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·
πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει 564 πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό
τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le
cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione,
spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il
maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste
[di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il
neoplatonico Anatolio di Laodicea (III secolo d.C.) offre un'ulteriore
indicazione: πρὸς τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί
τινα ἑναδικὸν διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι
[...]. ἐοίκασι δὲ κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα
καὶ Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν πάλαι σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν
φύσιν ἑστίας τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ τὸ ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν
Oltre a queste cose [i Pitagorici] sostenevano che nel mezzo dei quattro
elementi sta un cubo unitario di fuoco, la cui posizione centrale era nota
anche a Omero [...]. Sembra che abbiano in questo seguito i Pitagorici i
discepoli di Empedocle e Parmenide e per lo più i [lett.: «quasi la maggioranza
dei»] sapienti antichi, dal momento che affermano che la natura monadica è
posta al centro come focolare [Estia], e che conserva la stessa sede in 565
forza dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla perimetro del sistema]
(DK 28 A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta affinità con quello
filolaico, quale possiamo ricostruire da frammenti e testimonianze: ὁ κόσμος εἷς
ἐστιν, ἤρξατο δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ μέσου εἰς τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν
τοῖς κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς
γὰρ κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ
μέσον κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il cosmo è uno; iniziò a
formarsi dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso gli stessi passaggi
verso il basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo giacciono in senso
opposto a quelle che sono al di sotto. In effetti le cose che sono in mezzo si
trovano rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle sopra e le altre in modo
simile: dal momento che rispetto al mezzo entrambe si trovano nella stessa
relazione, solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν
τοῦ παντὸς καλεῖ [B 7] καὶ Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν καὶ μ η τ έ ρ α θ ε ῶ ν β ω μ ό ν
τε καὶ σ υ ν ο χ ὴ ν καὶ μ έ τ ρ ο ν φ ύ σ ε ω ς . καὶ πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω
τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ μέσον, περὶ δὲ τοῦτο δέκα σώματα θεῖα
χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν σφαῖραν > τοὺς ε πλανήτας,
μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’ ἧι τὴν ἀντίχθονα, μεθ’ ἃ
σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ μὲν οὖν ἀνωτάτω μέρος τοῦ
περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν στοιχείων, ὄ λ υ μ π ο ν καλεῖ, τὰ
δὲ ὑπὸ τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς πέντε πλανήτας μεθ’ ἡλίου καὶ σελήνης
τετάχθαι, κ ό σ μ ο ν , τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν τε καὶ περίγειον μέρος, ἐν
ὧι τὰ τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν . καὶ περὶ μὲν τὰ τεταγμένα
τῶν μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν , περὶ δὲ τῶν γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ
ρ ε τ ή ν , τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην. Filolao definisce il fuoco in
mezzo attorno al centro «focolare del tutto [dell'universo]» e «casa di Zeus» e
«madre degli dei», «altare» e «vincolo» e «misura della natura»; l'altro fuoco
in alto invece «l'involucro». Sostiene che primo per natura sia quello in
mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi divini, primo il cielo delle stelle
fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole, quindi la Luna, poi la Terra, poi
l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del focolare, che risiede intorno al
centro. Chiama la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la
purezza degli elementi, «Olimpo»; quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono
collocati i 5 pianeti con il Sole e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la
parte sublunare e circumterrestre, entro cui sono le cose della generazione
mutevole, «cielo». E intorno alla disposizione delle cose celesti verte la
sapienza, intorno al disordine delle cose in divenire verte la virtù: quella
perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK 44 A16). È probabile che alcuni particolari
delle concezioni pitagoriche siano stati utilizzati per ricostruire a
posteriori il quadro del cosmo parmenideo, sempre che quegli elementi non
fossero sullo sfondo della stessa elaborazione eleatica, almeno come tratti
consolidati di una tradizione. Aëtius (che si appoggia alla lezione di
Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse ὄλυμπος «la parte più alta
dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi», distribuendo
poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός – compatibilmente con la
rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica sottolinea la
preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi
nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico delle «corone»,
probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto
punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del
principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da Parmenide anche in sede
ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): Π., Δημόκριτος διὰ τὸ
πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν
δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e Democrito sostengono che
la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio,
non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra
(Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia)
filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva
lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del
ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che
costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse
nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente»
(ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il
rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo
della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale
al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη:
καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην
καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente
una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione.
D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al
centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa, 24 Op. cit., p.
234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste
[di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando B13,
osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον
ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν . . . π ά ν τ ω ν ’ «perciò
Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella
cosmogonia [B13]». Le testimonianze e i frammenti superstiti consentono di
affermare che effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione
cosmogonica (πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose
ella sovrintende all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è
invece la questione della sua collocazione cosmologica e della sua
identificazione. La dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco
è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse
accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione
attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con
Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente 25 Su questo
punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27- 28. 569
non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che
concorrono alla generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι
γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di
Afrodite la generatrice di Eros e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non
possiamo stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata o solo una
speculazione ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella
cosmogonia» (ἐν τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In
ogni caso, nella misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13
sembra suggerire che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il
controllo dell'accoppiamento26 . D'altra parte, poiché la testimonianza di
Aëtius colloca la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco,
assimilandola di fatto a uno di essi, è possibile, incrociando le due
testimonianze, ipotizzare che essa coincidesse con un'entità astrale concreta,
fonte fisica dell'influenza cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo
a identificare Eos (Ἕως ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e
Espero (Ἕσπερον, la stella della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν
δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone
nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe
aver dato per primo il nome di Afrodite all'astro27 . Contro questa
identificazione e collocazione si pongono le informazioni che giungono dal
contesto delle citazioni di Simplicio, che chiaramente parla a favore della
centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ: in effetti, l'espressione
parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene introdotta, è ambigua,
potendosi riferire sia al centro delle corone miste (come appare più probabile
nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile pensare, tuttavia, che il
commentatore, che certamente disponeva di una 26 Cerri, op. cit., pp. 267-268.
27 Ibidem. 570 copia del poema, potesse fraintenderne il testo su questo punto;
né la sua indicazione contraddice quella di Plutarco, il quale si limita a
identificare la δαίμων come Ἀφροδίτης . La testimonianza di Anatolio di
Laodicea è dello stesso tenore, marcando in particolare la continuità con le
cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la «natura monadica» (τὴν μοναδικὴν φύσιν)
è posta da Parmenide (ed Empedocle) al centro (ἐν μέσωι) «al modo di un
focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle citazioni di Filolao e delle
relative testimonianze confermano che nella tradizione pitagorica del V secolo
«il fuoco in mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva
con il divino «focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ παντὸς), ovvero «dimora di Zeus»
(Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν ) o «madre degli dei» (μ η τ έ ρ α θ ε ῶ ν ), connotazione
che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ μέσον οἶκον ἔχεις πυρὸς ἀενάοιο
Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco eterno (Orphica, Hymnii 84.1-2)
ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη, da te [Hestia] ebbe
nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica, Hymnii 27.7)28 , e
che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di B13: ταύτην [δαίμων ἣ
πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la [dea che tutto
governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La collocazione
della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili convergenze con il
pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina, potrebbero avvalorare
il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit.,
pp. 104-5. 571 proposto da Diels, per cui il nucleo centrale dell'universo
risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla superficie terrestre
(sfera di pura Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà implicite nelle
testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta di Cicerone
(A37), una diversa soluzione circa natura e collocazione della divinità. Come
abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea appare come «una sfera di
fuoco e di luce che avvolge il cielo»: coronae simile efficit (στεφάνην
appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem
appellat deum immagina una corona (egli la chiama στεφάνην), cioè una sfera di
fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio; incrociando il
dato cosmologico con quello fornito da Aëtius: περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ
αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη
τὰ περίγεια. L'etere poi tutto avvolge dall'esterno [dalla posizione superiore]
e al di sotto di esso è posto proprio l'elemento igneo che abbiamo chiamato
cielo (Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe concludere – come abbiamo visto - che
l'orbis lucis (secondo Cicerone, indicata da Parmenide come «dio»), la «corona»
ignea e luminosa che abbraccia il cielo, coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge
οὐρανόν. Questa identificazione sarebbe compatibile sia con la tradizione
peripatetica (che attribuiva al fuoco il ruolo di principio efficiente), sia
con i dati relativi alla tradizione ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ
ἀπείρου οὐκ ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον
ὡς ἀρχή τις οὖσα· τό τε γὰρ 29 Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος
λαβεῖν, καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’
αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι
μὴ ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ
θεῖον· ἀ θ ά ν α τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν , ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ
οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων Ogni cosa, in effetti, è o principio o [deriva] da
principio; dell'apeiron però non v'è principio, dal momento che vi sarebbe un
limite di esso [apeiron]. E ancora, esso è ingenerato e incorruttibile, in
quanto è un principio: è necessario, infatti, che ciò che è generato abbia una
fine, e vi è un termine finale di ogni corruzione. Proprio per questo motivo
diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso
stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e
tutte governarle, come affermano quanti non pongono oltre all'infinito altre
cause, per esempio Intelligenza o Amore. E questo è il divino: è infatti senza
morte e senza distruzione, come sostengono Anassimandro e la maggioranza degli
studiosi della natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν
ὄντων ἀέρα ἀπεφήνατο· ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι.
'οἶον ἡ ψυχή, φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς, καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα
καὶ ἀὴρ περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα). Anassimene, figlio di
Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è l'aria: da essa tutto
si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la nostra anima, che è
aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno universo» (aria e
soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν,
ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων 573 esiste una sola
sapienza: riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto (Diogene
Laerzio; DK 22 B41) [λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῶι διὰ
πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι κατευθύνει,
κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ
τῆς διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον] [Eraclito sostiene anche che abbia luogo un
giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il fuoco, in
tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con il
fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo fuoco è
dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento [dell'universo]
(Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze espressive potrebbero avvalorare la
convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle origini della
speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della naturaprincipio
(καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un compito direttivo sui processi
cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose» (Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα
καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare l'universo» (Anassimene: ὅλον τὸν
κόσμον περιέχει), in analogia con il controllo dell'anima sulle nostre funzioni
vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει,
che, come vuole Coxon30, potrebbe alludere direttamente ad Anassimandro (cui
Teofrasto riconosce il merito di aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È
tuttavia possibile che la parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco
identificata come Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς , sia in realtà solo l'espressione mitica
della potenza generatrice cui alluderanno Empedocle e Lucrezio, il quale - ci
ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni analoghe a quelle del filosofo greco
(quae ... rerum naturam sola gubernas, I.21). A insistere per questa lettura è
so- 30 Ivi, p. 242. 31 Ferrari, op. cit., p. 106 nota. 574 prattutto Ruggiu32,
per il quale la δαίμων sembra essere la personificazione della stessa forza
vivificatrice (mana) presente in tutte le cose: l'impulso immanente alla
generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι). Nel senso di una attribuzione ad
Afrodite della forza demiurgica è orientato anche il commentatore (IV secolo)
della teogonia (V secolo) del papiro Derveni, e conferme ulteriori si
potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros, che potrebbe coinvolgere
il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche, documentate negli Uccelli
(vv. 695-9) di Aristofane. La funzione cosmo-teogonica della δαίμων B12 allude
quindi chiaramente a un processo cosmogonico e, in relazione a esso, al ruolo
direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della δαίμων, la quale «spinge all'unione» (πέμπουσα
μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e «maschile» (ἄρσεν): ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ
πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ
μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che
tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e
all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al
contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Un ruolo, come sappiamo, ben
documentato nel linguaggio peripatetico di Simplicio (contesto B12): 32 Op.
cit., p. 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ
τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ . . . κ υ β ε ρ ν ᾶ ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ
αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν
συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ’ἐπὶ . . . θηλυτέρωι ’. [...]
καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην
καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver
parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv.
1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma
anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto
chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e
comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione, e
connesso a una (probabilmente correlata) analoga funzione teogonica: ταύτην καὶ
θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν . . . π ά ν τ ω ν ’ κτλ. καὶ τὰς
ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν.
sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli dei, dicendo [B13], e
sostiene che invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso
opposto (Simplicio; contesto B13). L'indicazione di Simplicio suggerisce una
prossimità almeno tematica tra B12 e B13: πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο
πάντων… Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore, confermata dalla
testimonianza di Plutarco (contesto B13): 576 διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀ φ
ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν .
. . π ά ν τ ω ν ’ perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di
Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due
frammenti si può cogliere nel contesto della citazione aristotelica di B13
(Metafisica I, 4 984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ
τοιοῦτον, κἂν εἴ τις ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον
καὶ Π.· οὗτος γὰρ κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν μ έ ν
, φ η σ ί ν Ἔρωτα … πάντων’ [ B 1 3 ] Si potrebbe sospettare che Esiodo per
primo abbia ricercato una [causa] del genere, anche se qualcun altro pose negli
enti, come principio, amore o desiderio, per esempio Parmenide. Questi,
infatti, ricostruendo la genesi del tutto, affermò: [B13]. Ancora utile,
sebbene condizionata dall'esplicita liquidazione (e incomprensione) della
strategia parmenidea, è anche la testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P.
quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat),
continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat
deum; in quo neque figuram divinam neque sensum quisquam suspicari potest.
multaque eiusdem < modi > monstra: quippe qui B e l l u m , qui Discordiam
, qui C u p i d i t a t e m [B 13] ceteraque generis eiusdem ad deum revocat,
quae vel morbo vel somno vel oblivione vel vetustate delentur; eademque de
sideribus, quae reprehensa in alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina
qualcosa di fittizio: una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco
e di luce che avvolge il cielo e che egli chiama dio; in cui non si 577 può
supporre ci sia figura divina né sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre
altre assurdità di tale specie: riferisce infatti dio a Guerra, Discordia,
Passione [B13] e tutte le altre cose del genere, le quali sono distrutte o da
malattia o dal sonno o dall'oblio o dalla vecchiaia. Le medesime cose sono
dette anche degli astri: essendo già state criticate in altro luogo, possiamo
ometterle in questo. Quelli che abbiamo elencato sono i testi che
complessivamente autorizzano la speculazione sulla cosmo-teogonia parmenidea.
Pochi gli elementi sufficientemente certi: (i) la testimonianza di Simplicio –
che pone la funzione della δαίμων in relazione diretta con i «due elementi»
(περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste decisamente sulla divinità
come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e comune» (ἓν κοινὸν), origine
di ogni generazione (γένεσις); (ii) la sua causalità efficiente appare come
impulso alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν) dei due contrari: la divinità è causa
comune in quanto, attraverso la mescolanza delle δυνάμεις di Fuoco e Notte,
rende possibile quanto i mortali definiscono generazione e corruzione33; (iii)
a nascita e morte allude probabilmente Simplicio quando osserva che «[la dea]
invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς
ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo
stesso fenomeno si riferisce Parmenide in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει di tutte le cose sovrintende al doloroso parto
e all'unione. Conche (tra gli altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da
στυγέω, «avere in orrore»), che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di
fondo di Parmenide, portato di una Stimmung riscontrata soprattutto nella
poesia arcaica: un pessimismo proiettato nel 33 Ivi, p. 340. 34 Op. cit., pp.
225 ss.. 578 suo caso, rispetto alla poesia, dalla condizione umana al divenire
nel suo complesso; (iv) la mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o
almeno accostata a) una forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente
il ruolo di Eros. Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è
anche «causa degli dei» (θεῶν αἰτία), mentre Aristotele esplicitamente
attribuisce al concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la
genesi del tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν); (v) a dire di
Cicerone, altre figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare
all'attività direttiva della δαίμων: evidente l'analogia con le forze
cosmogoniche di Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato
direttamente al modello parmenideo). In quella che Plutarco chiama κοσμογονία,
è possibile dunque che Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione
propriamente cosmogonica era accompagnata e intrecciata a una versione
immediatamente teogonica. Ciò è suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4,
della formula «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che sembra
implicare una spinta immanente, dall'interno della natura stessa del cosmo,
dall'altro, dalla attribuzione aristotelica a Eros di una funzione analoga.
Secondo Ruggiu35 l'impulso (cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi
il processo di costituzione delle cose) sarebbe guidato dalla potenza
immanente, da quella forza vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀ φ ρ ο δ ί
τ η ς ), di cui Eros (insieme alle altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe
espressione teogonica e cosmogonica a un tempo, nella misura in cui l'unione
sessuale rientra tipicamente nelle forme di congiunzione\mescolamento,
essenziali, nello schema parmenideo che prevedeva due principi elementari di
base, per produrre generazione e corruzione. Sarebbe, insomma, in vista
dell'«odioso parto» e dell'«unione» che la dea avrebbe «concepito»
(letteralmente «meditato, pensato») Eros36. Si può dunque osservare
ulteriormente che: 35 Op. cit., p. 340. 36 Coxon, op. cit., p. 242. 579 (vi) la
δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico (κυϐερνάω: pilotare,
timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai processi,
sembra dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μητιάω: meditare,
deliberare, ma anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e della
tradizione teogonica evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un rapporto
di pura filiazione concettuale»37 . 37 Cerri, op. cit., p. 273. 580 NOTTE DI
LUNA [B14-14A-15-15A] I quattro frammenti sono propriamente delle schegge del
testo del poema (B14a, per altro, normalmente non considerato frammento
autentico ma imitazione aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il
cui valore è discusso. È significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15
siano citati da Plutarco non per documentare il sistema astronomico di
Parmenide, ma, strumentalmente, per illustrare altre relazioni (B14) ovvero
(B15) per le implicazioni etiche (obbedienza volontaria a un superiore)1 : οὐδὲ
γὰρ ὁ πῦρ μὴ λέγων εἶναι τὸν πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ
Παρμενίδην [B14: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου
χρῆσιν ἢ σελήνης φύσιν. nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o
la Luna Sole, ma come Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla
Terra, luce d'altri» – elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι
τοσούτων τὸ πλῆθος ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ
παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la
sola [Luna] va in giro bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide. ...sempre
rivolta verso i raggi del sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito
sostanzialmente un significato poetico e solo subordinatamente astronomico. Si
è insistito sulla costruzione ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui
ricorre Parmenide: la Luna come donna innamorata rivolta a contemplare il proprio
amante (il Sole), illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine
che Empedocle avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota
al testo. 1 Coxon, op. cit., pp. 244-5. 2 Cerri, op. cit., p. 274. 581 Dai
pochi versi si possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni
cosmologiche: (i) la conferma della natura circolare del moto di rivoluzione
della Luna («vagante intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον); (ii) donde
l'inferenza circa la probabile sfericità della stessa, confermata dalle
testimonianze teofrastee; (iii) l'attestazione della relazione di dipendenza
della luce lunare dalla luce solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è
necessario precisare che, attraverso Aëtius, siamo informati della origine e
composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου
κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ
τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene che il Sole e la Luna si siano
formati per distacco dal cerchio della Via Lattea: il primo è costituito dalla
mescolanza più rarefatta, che è calda; l'altra dalla più densa, che è fredda
(DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός
La luna è mescolanza di entrambi, di aria e di fuoco (DK 28 A37) Π. πυρίνην
[sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’
αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ.
... ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di fuoco. Parmenide sostiene [che
la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in effetti illuminata da esso.
Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata dal Sole; analogamente
Pitagora, Parmenide ...... È la diversa commisurazione degli elementi base, pur
derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la Via Lattea), a produrre,
nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici) più deboli 582 rispetto a
quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza): il pallore della Luna è
connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla calda e quindi neppure
splendente3 . 3 Conche, op. cit., pp. 235-6. 583 IL CORPO E IL PENSIERO [B16]
Frammento di interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce
effettivamente una sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione
del testo all'interno della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico
difficoltà per quanto concerne la sua comprensione. In assenza del contesto
immediato, infatti, la costruzione sintattica non è del tutto perspicua e
univoca, e le possibili, diverse soluzioni producono per lo più significati
diversi. Incerta risulta anche la sua collocazione all'interno della struttura
del poema. Prevalente è l'orientamento di Diels, che considerò i versi come
appartenenti alla sezione sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra
gli studiosi contemporanei (Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le
proposte di assegnarlo alla sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli
uni il frammento esprimerebbe una concezione soggettivistica del comune pensare
umano, costantemente condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo
pensante; per gli altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra
pensiero e realtà. L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a
comprendere il senso dei versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento
nell'opera. Il contesto peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali
peripatetiche - in Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu
3) – e due parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al
testo aristotelico. Aristotele Aristotele cita il frammento all'interno di una
disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le
opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita 584
fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti
specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo
posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια
ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità circa le cose che appaiono ad alcuni
è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης
τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι
τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano
sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli
sensibili (1010 a1-3). Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide
verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla
conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche
riguardano invece la sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come (i) pensiero
(φρόνησις), ovvero (ii) processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις). La
citazione di B16 avviene appunto in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν
φρόνησιν μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν
ἐξ ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ
τῶν ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς
μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται
ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν,
τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται
τὸν αὐτὸν τρόπον·[B16] 585 Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia
pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la
sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni
che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti]
si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che,
mutando la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione
presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per
quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare
cose diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16]. È
interessante notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, infatti,
afferma che, mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero
(μεταβάλλειν τὴν φρόνησιν), prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere
ἕξις e φρόνησις, come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ
Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον anche Parmenide si esprime nello
stesso modo. In effetti i primi due versi del frammento parmenideo sono
costruiti sulla connessione ὡς.... τὼς: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων
πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται2 come, in effetti, di volta in
volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 1 È questa la forma verbale
prevalente nei codici: nello stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la
lectio difficilior ἔχῃ (congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento
abbiamo accolto la versione παρέστηκεν dei codici di Teofrasto. 586 così il
pensiero si presenta agli uomini, così che la citazione, nel contesto del
discorso aristotelico, suggerisce di riscontrare la correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις):
si è spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come
corrispettivo di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto
che la seconda citazione empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ'
σφισιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando
diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama,
nella formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare
per l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι
è riferito in un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche
evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le coordinate di
lettura di B16. Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama
ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει
τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν
καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ
ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι
ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’
καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ
τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου ‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν
σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ
ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è
per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare,
il riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano
qualcosa come il sentire (in entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e
conosce qualcosa degli enti), e del resto gli antichi sostengono che il pensare
e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò: «in relazione alla
situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove: «per
quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare
cose diverse». La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: «tale è infatti
la mente». Tutti costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di
corporeo come il sentire, e che sentire e pensare siano del simile attraverso il
simile, come abbiamo detto inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3
427 a17-29). Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto
doppiamente: perché l'equazione aristotelica tra «pensare» e
«percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta
agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla connotazione conclusiva del
pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ
αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè, ancora, «gli
antichi»). Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione
omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII, 698), di cui
molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che
vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei
(Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la
costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale dipendenza
dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava nella poesia
arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a quello divino.
Possiamo rintracciare lo stesso motivo in 588 Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl),
Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3 ,
Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del
maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un
testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16
troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De
Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione
(dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata)
lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν·
οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ
Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν
γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν
διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην
δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑκάστοτε , φησίν, ἔ χ ε ι . . . ν ό η μ α ’
(B 16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει· διὸ καὶ τὴν μνήμην καὶ
τὴν λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν δ’ ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον
ἔσται φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι
καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ
θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς
καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν
οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν.
3 Op. cit., p. 247. 589 Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e
diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal
contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e
Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato
alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce
secondo l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o il freddo,
il pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è comunque quello
secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa proporzione.
[citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della stessa cosa:
perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose attraverso la
mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità che gli
elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e quale la
sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario
in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto
non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che
percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che tutto
l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli sembra
eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A
differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici
materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea,
il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica.
Dobbiamo tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di gnoseologia
generale4 : né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini parmenidei νόος e
νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν ovvero i derivati αἴσθησις
e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due intendesse realmente
attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a percezione5 ,
riferendosi entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza del mondo
sensibile. 4 Cerri, op. cit., pp. 277-8. 5 Coxon, op. cit., p. 251. 590 In ogni
caso, Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno dell'esame
delle due opinioni prevalenti (secondo lo schema delle testimonianze
aristoteliche che doveva già risultare condizionante6 ): la prima novità
rispetto all'indicazione del maestro, infatti, interviene proprio su questo
punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ
τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι,
οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le
opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile,
gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci
di Anassagora e Eraclito dal contrario. Parmenide viene classificato tra i
sostenitori della derivazione della percezione dall'azione del simile sul
simile, sebbene all'inizio della trattazione specifica Teofrasto segnali come:
Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha
precisato alcunché [...]. La seconda novità della testimonianza teofrastea è
che, immediatamente di seguito, essa valorizza un particolare trascurato da
Aristotele: ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ
γνῶσις [...] ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce
secondo l'elemento che prevale. Si tratta probabilmente di un riferimento
proprio alla conclusione di B16: 6 Su questo B. Cassin-M. Narcy,
"Parménide sophiste. La citation aristotélicienne du fr. XVI", in
Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 281. 591 τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα ciò
che prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di Teofrasto è questa
la peculiarità del contributo parmenideo in campo conoscitivo: il principio
della dipendenza del pensiero dall'elemento che prevale nella mescolanza. Il
terzo rilievo interessante della testimonianza è quello conclusivo: καὶ ὅλως δὲ
πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso [sostiene] anche che tutto l'essere
abbia una qualche capacità conoscitiva. La convinzione espressa potrebbe
discendere dai fondamenti della "fisica" parmenidea: i due
costitutivi "materiali" (Fuoco e Notte) presenti in tutte le cose
hanno «proprietà» (δυνάμεις) per cui funzionano anche come principi di
movimento e conoscenza. Possiamo così riassumere le preziose informazioni
teofrastee sulle concezioni gnoseologiche di Parmenide: (i) due sono gli
elementi coinvolti nella conoscenza (γνῶσις): «il caldo» (τὸ θερμὸν) e «il
freddo» (τὸ ψυχρόν); (ii) essa si produce con il prevalere di uno dei due (κατὰ
τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις): a seconda della preponderanza, «il pensiero
cambia [diventa altro]» (ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν); (iii) il pensiero
(διάνοια) qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν) è «quello
secondo il caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν); (iv) «una certa proporzione [degli
elementi]» è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος συμμετρίας); (v)
percepire e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ
φρονεῖν ὡς ταὐτὸ); (vi) la percezione è del simile attraverso il simile
(evidentemente Teofrasto ha presente una parte del poema per noi perduta): ὅτι
δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν
φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν τοῦ πυρός,
ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι Che egli faccia dipendere la
percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente
laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la
perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari; (vii) tutta
la realtà è dotata di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ
γνῶσιν): è chiaro nel contesto, dove ripetutamente si accenna ai due elementi,
che Teofrasto riferisce questa asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico.
Al centro dell'esposizione della dottrina parmenidea sono comunque i punti (ii)
e (iii), che giustificano la citazione di B16: Teofrasto ritrova evidentemente
nel poema il rilievo esplicito dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità
del pensiero, ma solo sotto il profilo della prevalenza di uno dei due
«elementi» (στοιχεία), sottolineando invece l'assenza in Parmenide di una
perspicua considerazione degli effetti dell'eventuale loro equilibrio.
L'impressione è che il frammento parmenideo sia impiegato non tanto per
sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva (non per marcare la
relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto piuttosto per rimarcare la
relazione psico-fisica che vi è tematizzata7 . Ricostruzione dei vv. 1-2a I
primi due versi del frammento sono di interpretazione relativamente più agevole
rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze nella ricostruzione
sintattica, il senso generale non cambia di molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν
μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des "Noein"
bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 181. 593 τὼς νόος
ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento
di membra molto vaganti, così il pensiero si presenta agli uomini. Come abbiamo
segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per il soggetto del primo
verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo, intransitivo). Complessivamente,
tuttavia, si conferma un'indicazione fondamentale: la condizione mentale degli
uomini è correlata alla loro situazione fisiologica. Negli esseri umani in
generale (ἀνθρώποισι), alle variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ) dell'amalgama corporea
(κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων), corrisponde il manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del
pensiero (ovvero della «mente», νόος). Come abbiamo registrato, è quanto
Aristotele rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις. Si tratta di una tesi di
antropologia generale che trova indirettamente conferma nella tradizione
dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν,
τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν
τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν
ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος
τὰ δόγματα. Disse che due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha
funzione di artefice, l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini
deriva in primo luogo dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il
caldo e il freddo, da cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che
l'anima e l'intelligenza sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto
nella sua Fisica, dove espone le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene
Laerzio; DK 28A1). Parmenides ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος
πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος
594 ταὐτὸν νοῦν καὶ ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide
dice che l'anima è costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide
e Ippaso dicono che l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha
sede l'egemonico. – Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che
l'intelligenza e l'anima sono la stessa cosa; secondo loro nessun animale
sarebbe completamente senza ragione (Aëtius; DK 28 A45). Parmenide avrebbe
ricondotto rigorosamente ai suoi principi (Fuoco e Notte, ovvero Fuoco e Terra)
la natura umana, attribuendo alla loro interazione la stessa attività
percettiva e conoscitiva. In particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare
la vicinanza di Parmenide alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone
ed Empedocle, nonché in Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del
temperamento delle componenti in un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il
genitivo μελέων (πολυπλάγκτων) non si riferirebbe (se non indirettamente) agli
elementi, ma immediatamente alle «membra» corporee, secondo il costume omerico
di designare il complesso fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare
dunque, in primo luogo, attento a rilevare, nella relazione psicofisica,
l'interdipendenza tra disciplina delle «membra» e condizione della mente 8 : in
tal caso, il tradizionale motivo poetico dell'instabilità ed eteronomia9 della
comprensione umana risulterebbe decisamente piegato all'esigenza di marcare non
tanto una generica dipendenza del pensiero (νόος) umano dalle circostanze
esterne - come nella formula omerica sopra ricordata (ed evocata anche da
Aristotele in De Anima): τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ
ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla
terra, 8 Su questo M. Stemich, op. cit., pp. 139-142. 9 Riprendo l'espressione
da Marcinkowska-Rosół, op. cit., p. 162. 595 quale il giorno che manda il padre
degli uomini e degli dei, quanto il suo condizionamento da parte del mutevole
equilibrio fisiologico corporeo10 . L'attenzione di Parmenide sembrerebbe
allora, in secondo luogo, tesa a marcare proprio la mutevolezza, l'instabilità
della situazione psico-fisica, come rivelerebbe la scelta dell'avverbio ἑκάστοτε
(«ogni volta, di volta in volta») e dell'aggettivo composto πολυπλάγκτων
(«molto vaganti, dai molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso, quindi,
nella prospettiva antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che
sia proposta una concezione del pensare come attività (e del pensiero come
prodotto: νόημα) che sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è
indicativa: παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante
di «membra che molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il
soggetto non sembra essere in controllo11 . Ricostruzione dei vv. 2b-4 Il
frammento prosegue: τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ
πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa cosa
ciò che pensa negli uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e in
ciascuno: ciò che prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi, p. 176. 11 Ivi, pp.
162-3. 596 Si tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema
sopravvissuto. Nella nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea,
riferendosi alla propria asserzione secondo cui la qualità del pensiero dipende
dal temperamento delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima come ciò accada in
virtù del fatto che «ciò che pensa negli uomini» (ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν)
coincide (τὸ αὐτό ἔστιν) con «la costituzione del loro corpo» (μελέων φύσις).
La soluzione interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza, quella
proposta originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del
frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella
tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων
φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po' artificiosa13
. A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero
(νόημα, qui da intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che
prevale» (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come
abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo
l'elemento che prevale. Il lessico di Teofrasto è lessico di
"conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare piuttosto lessico
di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la
determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra
posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco),
informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa
l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno
della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel
loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina
della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione
si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss.. 597 dei suoi processi di
formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici alla base delle
attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità didascalica per mettere
in guardia la propria audience. Soprattutto se consideriamo che, a differenza
di quel che accadeva nella rappresentazione omerica che teneva unite dimensione
corporea e dimensione spirituale, il ricorrente impiego di νόος, νόημα, νοεῖν
(B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso di Parmenide, una consapevole
distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e «spirito/pensiero» (νόος) e la
conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος è stato
invitato a: (i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica: μηδέ σ΄ ἔθος
πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν
né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza a
dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a),
(ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»: una strada
che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della realtà: ἀπὸ
τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν
αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε,
τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che nulla
sanno , uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente
errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere
scriteriate (B6.4-5a), 598 (iii) imparare attivamente, giudicando criticamente
la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον Giudica invece con
il ragionamento la prova polemica (B7.5b), (iv) riflettere sulla specifica
capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα
βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti
(B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo oggetto: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν
τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3). In B16, infine,
la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del pensiero sia da inquadrare
all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica: averne cognizione e
coscienza comporta, in prospettiva, potersene avvantaggiare, garantendo al
pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora non essere casuale la
relazione lessicale tra «mente errante» (πλακτὸν νόον, B6.5b-6a): ἀμηχανίη γὰρ ἐν
αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero nei loro petti guida la
mente errante, e «membra molto vaganti» (μελέων πολυπλάγκτων, B16): ὡς γὰρ ἑκάστοτ’
ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν come, in
effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 14 Così
la Stemich, op. cit., pp. 164-5. 599 così il pensiero si presenta agli uomini.
Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo, espressi da πολυπλάγκτα
μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il pensiero dei «mortali». Per
converso, possiamo ipotizzare che ai «segni» di stabilità e compattezza del
νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il miglior temperamento degli
elementi corporei: nella testimonianza teofrastea «il pensiero secondo il
caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione dei meccanismi
fisiologici condizionanti aveva (direttamente o indirettamente) la specifica
funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione: difficile, infatti,
immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere affidato a un accidentale
equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non avesse opportunità di
controllo15 . Queste supposizioni assumono maggiore consistenza se accettiamo i
riscontri giunti dalla ricerca archeologica16, i quali, dopo i ritrovamenti
dell'ultimo mezzo secolo, fanno intravedere la possibilità che la «scuola
eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un «cenacolo di filosofi
razionalisti»17: probabilmente un sodalizio consacrato ad Apollo Οὔλιος
(guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita forse dallo
stesso Parmenide, il quale è evocato in un’iscrizione recuperata a Velia
(l'odierno sito dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός
(Parmenide, figlio di Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre iscrizioni
recuperate nello stesso luogo confermano l'esistenza di una tradizione locale
di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός φώλαρχος, letteralmente
«risanatore medico signore della caverna» -, che onoravano un Οὐλιάδης ἰατρόμαντις,
un medico- 15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa, come si è
fatto tradizionalmente, come una messa in guardia nei confronti di una
elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo
visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione
del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati nel commento al proemio. 17
Passa, op. cit., p. 17. 600 indovino sacerdote di Apollo, da identificare
probabilmente con lo stesso Parmenide18 . È possibile, dunque, che egli
praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica vera e propria,
ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga
alla letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora
sorprendere il rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della
esposizione della Doxa. Il medico-indovino, in effetti, diagnosticava il male
in uno stato di trance, decifrando segni e ricavandone indicazioni terapeutiche
idonee19. Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza avveniva, dopo una adeguata
preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto silenzio, in un luogo
consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé il
manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva
interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione
della condizione psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo,
la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare
corretto. 18 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit.,
pp. 55 ss.; Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari,
Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss.. 19 Kingsley, op. cit., pp.
120-7. 601 MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti (B18 può essere solo
impropriamente definito tale) trattano della differenziazione dei sessi (B17) e
della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e psichici), delineando un
abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non a caso sono il risultato di
citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che doveva corroborare
la sua opinione circa l'originaria formazione del feto maschile: τὸ μέντοι ἄρρεν
ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν.
ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli antichi affermarono che il maschio
sia concepito nella parte destra dell'utero. Parmenide in effetti dice [B17].
Proprio l'intenzione di confermare le proprie convinzioni biologiche e
l'assenza di indicazioni che attestino il rimando diretto al poema hanno fatto
avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che rimane comunque una
"scheggia" testuale1 . A Celio Aureliano (V secolo?), traduttore di
opere della tradizione medica greca - in particolare, nel caso specifico, delle
due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν (Sulle malattie acute e
croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo invece la parafrasi in
versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La citazione è proposta nel
seguente contesto: Parmenides libris quos d e n a t u r a scripsit, eventu
inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines generari. cuius quia
graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos enim ut potui simili
modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘f e m i n a . . . s e x u m ’.
Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le modalità di
concezione, si generano talvolta 1 Conche, op. cit., p. 258. 602 uomini molli e
sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo proporrò io pure
in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore analogo, per quanto mi è
stato possibile, per non confondere il carattere specifico delle due lingue.
[B18] [...]. Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua non è citazione
letterale, ma traduzione-rielaborazione2 , sebbene, come ha osservato Coxon3 ,
la facilità con cui si possono volgere in greco i suoi versi latini attesta la
loro fedeltà al greco (come segnalato dalla precisazione: «ut potui simili
modi»). Per mettere a fuoco il nodo cui i passaggi del poema evocati dalle
citazioni si riferivano, sono essenziali le testimonianze di Aëtius e
Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc. Σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς
τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά. εἰ δ’ ἐναλλαγείη
τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα igitur semen unde exeat inter sapientiae
professores non constat. P. enim tum ex dextris tum e laevis partibus oriri
putavit Anassagora e Parmenide sostengono che i semi della parte destra sono
gettati nella parte destra dell'utero, quelli della sinistra nella parte
sinistra. Se la fecondazione è invertita, si generano femmine. Tra i cultori
della sapienza non vi è certezza circa la provenienza del seme [lett.: da dove
esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che provenisse ora dalla parte
destra, ora dalla parte sinistra (28 DK A53). Evidentemente Parmenide prendeva
posizione nel confronto scientifico circa natura e meccanismi del concepimento,
e loro effetti sul sesso dell'embrione. In particolare, la testimonianza di
Aëtius interviene a integrare e correggere l'indicazione di Galeno. Questi
richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori della 2 Cerri, op. cit., p.
285. 3 Op. cit., p. 253 603 tesi secondo cui il maschio sarebbe concepito nel
lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De generatione animalium
IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e «altri fisiologi» (ἕτεροι τῶν φυσιολόγων):
φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας
καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων· γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ
παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν,
καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς
Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi già in origine nei semi, come
Anassagora e altri fisiologi. Il seme, infatti, origina dal maschio, la femmina
invece fornisce il luogo; e il maschio viene da destra, la femmina da sinistra,
e i maschi si formano nelle parti destre dell'utero, le femmine nelle parti
sinistre, e associata a quella secondo cui il carattere sessuale preesiste nel
seme (fornito esclusivamente dal genitore maschio) al concepimento: il seme che
trasmette carattere maschile proviene dalla parte destra, quello che trasmette
carattere femminile dalla sinistra. Integrando Galeno, si può fondatamente
avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse derivare i maschi e le femmine
rispettivamente dalla parte destra e dalla parte sinistra dei genitali maschili
e femminili. La versione latina di Celio Aureliano aiuta in particolare a
chiarire la posizione di Parmenide circa il contributo al concepimento: Femina
virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine
virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Quando femmina e maschio
mescolano insieme i semi di Venere, la potenza formatrice nelle vene, che
[deriva] da sangue opposto, 604 conservando la giusta misura plasma corpi ben
fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune
informazioni importanti: (i) i semi originano dal sangue (maschile e
femminile); (ii) esistono quindi due tipologie di semi, rispettivamente
maschile e femminile: essi sono opposti come il sangue da cui provengono5 («da
sangue opposto», diverso ex sanguine); (iii) i due semi, maschile e femminile,
cooperano nella riproduzione. Incrociando queste informazioni con i riferimenti
delle testimonianze e dei contesti delle citazioni, possiamo così ricostruire
la probabile posizione parmenidea sulla relazione genetica dei figli ai
genitori6 : entrambi i semi delle parti (genitali) destre generano maschi
simili ai padri; entrambi i semi delle parti sinistre generano femmine simili
alle madri; negli altri due casi (semi delle parti sinistra e destra, maschile
e femminile), maschi simili alle madri o femmine simili ai padri. Parmenide
probabilmente riteneva che dalla corretta mescolanza di seme maschile e seme
femminile dovesse scaturire un'equilibrata costituzione psico-fisica: le due
tipologie di seme, infatti, conferivano specifiche proprietà (virtutes,
δυνάμεις), che, mescolandosi i semi, erano destinate a combinarsi in un'unica
potenza formatrice (informans virtus). È quanto si ricava dal rilievo in
negativo che chiude B18: Nam si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant
unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. Se,
infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono e non diventano
un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche 4 Conche, op.
cit., p. 262. 5 Ibidem. 6 Coxon, op. cit., p. 253. 605 affliggeranno il sesso
nascente con il [loro] duplice seme (B18.4-6), e dal commento di Celio
Aureliano alla sua citazione: vult enim seminum praeter materias esse virtutes,
quae si se ita miscuerint, ut eiusdem corporis faciant unam, congruam sexui
generent voluntatem; si autem permixto semine corporeo virtutes separatae
permanserint, utriusque veneris natos adpetentia sequatur Pretende infatti che
i semi abbiano, oltre a materia, anche virtù formatrici (virtutes), le quali se
si mescolano così da produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano
carattere (voluntatem) conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta
mescolato il seme corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati
desiderio di entrambi i tipi di amore. Se la misura nella opposizione dei semi
fosse stata rispettata (temperiem servans) nella loro mescolanza (permixto
semine), si sarebbe realizzata complementarità nelle loro proprietà, garantendo
così un'unione equilibrata e armoniosa (unam permixto in corpore). In caso
contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei corpi, producendo disagio
sessuale e psichico7 : lo sviluppo coerente della personalità sessuale
(congruam sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei contrari nella
costituzione dell'essere umano. Le presunte tesi biologiche di Parmenide
presentano certamente affinità con quanto attestato del pensiero del
contemporaneo Alcmeone, nella tradizione dossografica proposto come «discepolo
di Pitagora» (Diogene Laerzio; 24 DK A1). Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως
leggiamo infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰ σ ο ν ο μ ί α ν τῶν
δυνάμεων, ὑγροῦ, ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν
αὐτοῖς μ ο ν α ρ χ ί α ν νόσου ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi, p. 254. 606 ἑκατέρου
μοναρχίαν. [...]. τὴν δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene
la salute, afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo
caldo, amaro, dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera
di malattia: micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti.
[...] La salute, invece, è mescolanza misurata delle qualità. Sono evidenti le
consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla tesi
fondamentale di Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia
degli elementi contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le
testimonianze accentuano le convergenze anche nello specifico: ex quo parente
seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari dixit A. Alcmeone afferma che il
feto ha il sesso di quello, tra i genitori, il cui seme è stato più abbondante»
(Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che entrambi
i genitori contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur avendo
sull'origine dello sperma un'opinione diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι τὸ
σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello (Aëtius; DK
24 A13). Mentre Coxon8 nota in questo senso come Parmenide seguisse Alcmeone,
Ruggiu9 tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico
l'influenza sia stata esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in
effetti complessa. È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni
(umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.) dalla più antica 8 Op. cit., p.
252. 9 Op. cit., p. 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare
le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico
appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni
biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una complessiva
interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo
riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che abbiamo registrato
nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente in chiave cosmica:
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος
ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ. in mezzo
a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende
all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al
maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È possibile,
come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia effettivamente
elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte
pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia;
probabile che ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le soluzioni
ioniche. Dal momento che le testimonianze, soprattutto i recenti rilievi
archeologici, fanno supporre uno specifico interesse medico, non deve
sorprendere la possibilità che un confronto sia intervenuto anche in ambito
biologico. Il tema dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per
altro ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di
Alcmeone: come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva
dualità pitagorica ἄπειρον-πέρας [...], così da quella stessa fisica trasse
verosimilmente Alcmeone 608 alcune opposizioni [...] le cui potenze egli
constatava nella pratica della medicina10 . Su questo sfondo piuttosto sfumato
è possibile parlare di comuni obiettivi scientifici nella ricerca di Parmenide
e Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla scorta di paradigmi esplicativi
condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone una fiorente scuola medica
preesisteva all'arrivo di Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e
della pratica medica, sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito
della tradizione pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita
come μάθημα essenziale11 . 10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi.
Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale
1958-1964), pp. 134-5. 11 Ivi, p. 133. 609 B19 Il frammento B19 ci è conservato
esclusivamente da Simplicio (In Aristotelis de caelo 558), in un contesto
particolare (557-8), in cui si susseguono in poche righe tre citazioni del
poema parmenideo (B1.28-32, B8.50-53 e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν
ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου
τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς, ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν
εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ
καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν ἐπήγαγεν [B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε
πάλιν [B19]. πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ
νοητοῦ τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς
νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ
καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ
ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν; Quegli uomini [Parmenide,
Melisso] posero una duplice ipostasi: quella dell'essere che è veramente,
dell'intelligibile, e quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale
essi non ritennero opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che
appare. Per questo afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il
divenire. Parmenide, infatti, dice: [B1.28-32]. Ma anche una volta completato
il ragionamento intorno all'essere che è veramente, e sul punto di introdurre
[la trattazione sul]l'ordinamento delle cose sensibili, aggiunse: [B8.50- 53].
Dopo aver fornito esposizione sistematica delle cose sensibili, aggiunse
ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose
sensibili, lui che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di
condurre riflessioni di tale consistenza e mole da non 610 poter ora essere
riportate qui? Come ha potuto trasferire le caratteristiche proprie delle cose
intelligibili alle cose sensibili, lui che con chiarezza distingue tra l'unità
dell'intelligibile e del vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e non
ritiene opportuno indicare il sensibile con il nome di essere? Riflettendo sulle
indicazioni qui fornite da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse
citazioni, dovremmo concludere che: (i) il poema si articolava in due sezioni
principali, per le quali il commentatore trova conferma in B1.28b-32; (ii) il
passaggio tra le due sezioni avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era
apposto a compimento di quella che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν
αἰσθητῶν (sulla scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la
deduzione che esso chiudesse il poema1 . Ancora sulla doxa parmenidea Il
contesto ci fornisce dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella
culturalmente e teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del
VI secolo - sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo
Simplicio, delineato nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti:
(i) il primo dedicato al «discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως
ὄντος λόγος), in altre parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια):
nel lessico della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito
dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν), che costituisce l'«essere in senso assoluto»
(ὂν ἁπλῶς); (ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica
dell'«ordinamento sensibile» (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν), si riferisce all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui
statuto ontologico è quello di «essere che 1 Non tutti concordano su questo
punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il frammento –
naturale conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera
e propria chiusa. 611 appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura
«sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La
trattazione specifica è designata – in contrapposizione alla verità che
concerne l'essere in senso pieno - come «opinione riguardo all'essere in
divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα). È chiara, nel contesto del discorso,
l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ
δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν
δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. La struttura effettiva del poema doveva,
dopo l'introduzione, prevedere: (i) la rivelazione circa «di Verità ben rotonda
il cuore saldo » (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò cui allude
Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; (ii) la ricostruzione effettiva
(δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono», ovvero delle «cose
accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il commentatore designa
come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche
l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il
contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione
del Περὶ φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica
sezione riservata all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in
cui non è reale credibilità» (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che
doveva invece essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici
che seguono la citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del
poema che, all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante
precedente in Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς
τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς
ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν
προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν
ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ
ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ
παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι.
καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν;
οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo
ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere,
definendolo «essere» in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per
uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in
quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile
vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge
l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei
mortali in cui non è vera certezza», perché esse sono congiunte con cose che
accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe
potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e
l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e),
e nella dossografia peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας
ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι
πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν
τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ
γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην
τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. 613 Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse
entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di
spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse
convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e
ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine
di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e
terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Ma
chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in termini di
contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi aristotelica:
Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν
εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’
ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν
ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ
ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno
sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Possiamo leggere il passo aristotelico
proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della originaria ricezione
sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico: Aristotele intende
marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di Melisso,
il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragio- 614 ne)» (κατὰ τὸν λόγον)
dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro.
Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo
Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν)
«secondo ragione» (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la
sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare di Parmenide
il sostenitore di un mero «uno-tutto» ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν)
- formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica soprattutto
in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide, Sofista, Timeo)
2 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante dell'esperienza a
pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta di Plutarco), si
trattava effettivamente di una ricezione diffusa, probabilmente proprio sulla
scorta dello schema gorgiano del Περὶ τοῦ μὴὄντος ἢ Περὶ φύσεως . Ripercorrendo
le testimonianze e valutando gli interrogativi retorici che Simplicio faceva
seguire alla propria citazione di B19 e dunque al riferimento al complesso
della doxa parmenidea, appare giustificata una lettura "costruttiva"
della seconda sezione del poema. In Teofrasto e Simplicio – che certamente
disponevano di copie diverse del poema, trasmesse da tradizioni testuali almeno
parzialmente alternative 3 - si conferma, in particolare, la prospettiva aristotelica
di un doppio resoconto della stessa realtà4 : secondo ragione e secondo
esperienza. Parmenide, in altre parole, pur avendo coerentemente messo a fuoco
i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza – e quindi correttamente distinto
tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ
αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di individuarne la specifica realtà
intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli di fatto «proiettò sugli enti
sensibili quanto adeguato agli enti intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα
μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). 2 Su questo in particolare Passa, Parmenide.
Tradizione del testo e questioni di lingua, cit., p. 23. 3 Ivi, pp. 25 ss.. 4
Per questa linea interpretativa si veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., pp. 32 ss., in particolare pp. 38-41. 615 B19 e la doxa I tre
versi del nostro frammento, poco più di una scheggia testuale, ribadiscono
sinteticamente i termini della discussione: come abbiamo indicato in nota, la
formula οὕτω τοι introduce effettivamente la ricapitolazione del discorso sulle
cose «fisiche» considerate nel loro insieme (e ne traggono, in questo senso, la
lezione «metafisica»5 ): οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ
μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον
ἑκάστῳ Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora
sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un
nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna. Il punto di vista adottato -
κατὰ δόξαν – giustifica l'insistenza sulla dimensione temporale delle forme
verbali impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è difficile
intravedere la corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in
B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire
passa, in vero, attraverso scelte espressive ben ponderate: a) il passato
espresso con ἔφυ richiama etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις
(B10) nella ricerca condotta (διάκοσμος) nella seconda sezione del poema; b) il
presente connotato avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν
di B8.5, caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un
senso di precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la
caducità sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra
fine e compimento, con la ripresa di una forma verbale – τελευτάω - de- 5
Conche, op. cit., p. 265. 616 rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un
valore diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον;
B8.32: οὐκ ἀτελεύτητον; B8.42: τετελεσμένον): il senso è qui quello di
«concludersi in quanto giunto al proprio fine e al proprio compimento»6 . Per
la terza volta, dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo
spessore linguistico della doxa: e ancora, come nei due precedenti,
essenzialmente per rilevarne gli effetti distorcenti. L'origine dell'erranza
umana, dello sviamento che gli uomini perpetrano e perpetuano nel linguaggio,
risiede nell'ordinamento dei contenuti fenomenici all'interno di una
determinata cornice linguistica, in cui appare implicita la possibilità di
qualcosa di diverso dall'essere stesso7 . Non a caso l'interpretazione κατὰ
δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo principi (B9) di cui esplicitamente
si escludeva la partecipazione al nulla. In questo senso, Ruggiu8 ha colto nel
linguaggio di Parmenide - in particolare in questo passaggio - il tentativo di
elaborare un lessico più vicino alla verità delle cose; come in B4, dove
l'apparire era stato proposto non nei termini ontologici dell'«essere» e del
«non-essere», ma in quelli della «presenza» e dell'«assenza». Uno sforzo che
ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne avrebbe colto alcuni aspetti nella
sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν
καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας,
καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι
γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον
εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 6 Ruggiu, op. cit., pp. 370-1. 7 Ivi,
p. 370. 8 Ivi, pp. 370-1. 617 Coloro che per primi hanno ricercato secondo
filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, dall'inesperienza furono
spinti su una via diversa: essi sostengono che delle cose che sono nessuna si
generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o da ciò
che non è; ma è impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti,
non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si
generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da sostrato
[soggiacia]. Così si spinsero, aggravando le cose, ad affermare che non
esistano i molti ma che esista solo l'essere (Fisica I, 8 191 a25 ss.). Antonio Capizzi. Keywords: Velia, la scuola di Velia.
Zenone, sono/fui, l’adolescenziale, conversazione, calogero, veliatichi,
veliadi meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico, meleagride, pandionide.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capizzi” – The Swimming-Pool Library.
Capocasale (Montemurro).
Filosofo. Grice: “You gotta love Capocasale; my favourite is his ‘corso
filosofico,’ which the monks rendered as ‘CVRSVS PHILOSOPHICVS,’ almost alla
Witters! Capocasale multiplies the principles of reason – I thought there was
just one – On top, he uses the trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is
philosophising about the ‘vero principio della ragione,’ or its plural! In
fact, he is philosophising about conversational implicature!” Figlio di Lorenzo
e Maria Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre nel suo mestiere di fabbro
ferraio. Nel tempo libero si dedica alla filosofia, mostrando grande attitudine
nella filosofia romana antica in particolare. Con la morte del padre, avvenuta
quando Capocasale aveva 15 anni, visse tra Corleto Perticara, Stigliano e San
Mauro Forte, procurandosi da vivere come insegnante privato, dedicandosi
contemporaneamente allo studio della filosofia e del diritto. Dopo esser stato governatore baronale di
Sarconi, incarico ottenuto appena ventenne, lasciò la Basilicata per
trasferirsi a Napoli, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Dopo gli studi
universitari, insegnò filosofia nella scuola dallo stesso fondata a Napoli. Dal
1801 vestì l'abito talare e, dal 1804, fu nominato da Ferdinando IV precettore
di logica e di metafisica all'Napoli.
Perse tale incarico con l'arrivo di Giuseppe Bonaparte: sotto il suo
governo gli fu concessa solamente la docenza privata. Con la restaurazione,
Ferdinando IV lo nominò vescovo di Cassano nel 1816. Capocasale, tuttavia, preferendo
l'insegnamento, rinunciò alla carica, così come fece più tardi con l'incarico
di pari grado conferitogli per la diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo. Sempre
nell'ateneo partenopeo ebbe, dal 1818, la cattedra di diritto di natura e delle
genti: i suoi teoremi, di stampo lockiano, ebbero una certa risonanza, tanto da
essere citati da filosofi come Francesco Fiorentino, Giovanni Gentile e Eugenio
Garin. Alcuni suoi discepoli divennero
importanti personalità culturali del tempo come Francesco Iavarone, Giustino
Quadrari, Giuseppe Scorza, Gaetano Arcieri e Giuseppe Mazzarella. Sempre fedele
alla monarchia borbonica, si schierò contro le insurrezioni carbonare del 1820.
Dal 1822 fu precettore del futuro re delle Due Sicilie: Ferdinando II. Fu
inoltre membro di varie Accademie come la Parmense, la Fiorentina, la
Cosentina, l'Augusta di Perugia, Aletina e Renia di Bologna, degli Intrepidi di
Ferrara, de' Nascenti e degli Assorditi di Urbino, dei Filoponi di Faenza.
Altre opere:“Divota novena del gloriosissimo taumaturgo S. Mauro” (Roma); “Esercizio
di divozione verso il glorioso confessore S. Rocco” (Napoli); “Cursus
philosophicus” (Napoli); “Saggio di politica privata per uso dei giovanetti
ricavata dagli scritti dei più sensati pensatori” (Napoli); “Catechismo
dell'uomo e del cittadino” (Napoli); “Codice eterno ridotto in sistema secondo
i veri principi della ragione e del buon senso” (Napoli); “Saggio di fisica per
giovanetti” (Napoli); “Istituzioni elementari di matematica” (Napoli); “Corso
filosofico per uso dei giovanetti”. Dizionario
biografico degli italiani -- un filosofo lucano alla corte dei Borboni. Quoniam philosophia est scientia, quae viam ad felicitatem
sternit. Ea vero rationis solius ductu cognoscitur, ac demostrationis ope vernm
investigat. In vero autem inveniendo methodus utramque facit paginam: patet
primum philosophi studium esse debere, intellectum, sive facultatem cogitandi,
ad veritatem methodice investigandam, ac diiudicandam aptum reddere, eumque
mediis opportunis acuere, vel, si morbo aliquo laboret, salutaribus eidem
mederi remediis. Et quia veritas per demonstrationem invenitur, et iudicatur.
Demonstratio vero methodo perficitur, ut supra iam dictum est; liquet, ei
pecessarium esse, mentem quoque ad demonstrationem, ac methodum adsuefacere, ut
in eo habitum adquirat , in quo philosophi scientia consistit. Quamvis vero
omnes homines naturali quodam verum cognoscendi, iudicandi, rationes denique
conficiendi facultate praediti sint, eaque a multis usu, atque exercitatione ad
summum usqne perfectionis gradum sit redacta: quum tamen plurimis erroribus
sint obnoxii , nisi facul tatem illam regulis quibusdam certis , at que
indubiis dirigant , disciplina aliqua in veniatur , oportet , quae regulas ac
prae cepta tradat , quibus naturalis illa cogi tandi vis augeatur, perficiatur ,
et ad ve ritatis investigationem inoffenso pede dirigatur. Naturalis haec
percipiendi , iudicandi , ratio cinandique vis LOGICA NATURALIS appellatur ,
quae qunn in casuum similium observatione, adeoqne in sola praxi consistat ,
non solum erroribus est obnoxía sed rerum caussas et rationes ignorans ,
confusam tantummodo co gnitionem , non vero scientiam producere pol est . Ex
quo legitime fluit Logicae artificialis necessitas. Disciplina haec vulgo
LOGICA ARTIFI Cialis appellatur, quam definimus per do ctrinam , qua regulae
traduntur , quibus, humana mens in cognoscenda , et diiu ; dicanda veritate
dirigatur. * * Vocatur haec a ' nonnullis PHILOSOPHIA RATIONALIS, ARS
COGITANDI, et kat i Sony LOGICA ; 32 Logicae Prolegomena quae tantum abest , ut
essentialiter a Naturali differat , ut sit potius distincta eiusdem explicatio
, adeoque tanto illa praestantior % quanto distincta cognitio praestat confusae
. Ex quo patet, Philosophum sola Logica natu rali esse non posse contentum ,
sed ei colen dam esse artificialem . 14 Quandoquidem autem Logica artifi cialis
leges explicat naturalem iudicandi fa cultatem dirigentes: sequitur 1 . ut eas
ex mentis humanae natura deducat, adeoque 2. mentis operationes prius, carum
que naturam distincte explicare; deinde vero eam in veritatis investigatione ,
atque exa mine veluti manuducere debeat: uno verbo, ut prima theoriam , deinde
praxin ostendat. Vltro ergo mihi sese offert genuina Logicae divisio, in
THBORETICAM ET PRACTICAM. Atque hinc est, cur opusculum boc in duas partes
distribuerimus : in quarum prima de mentis operationibus; in altera de legitimo
carum usu , quantum satis erit, tractabimus. Quoniam autem humana mens tria bus
modis res cognoscit; vel enim eas tan tummodo percipit , vel de iis iudicium
pro fert , vel denique rationes conficit : * de tribus his mentis operationibus
priore pår te agemus. Quumque veritates vel per se pateant , vel per rationem
et meditationern inveniantur, vel denique ex aliorum scri Prolegomena. ptis
hauriantur : inventae vero cum aliis communicentur : de omnibus his parte se
cunda nonnulla haud proletaria monebi mus . } Experientia namque constat, nos
omnis cognis tionis expertes in mundum prodire ( quidquid pro ideis innatis
Platonici , et Cartesiani cla mitent ) , atque primo res simpliciter perei pere
, earumque ideas adquirere , deinde bi nas inter se conferre, tandem eas cum
aliqua tertia idea comparare, indeque novas verita tes deducere . Mentis actio
, qua res aliquas sensibus obvias percipit , aut ab iis abstra hendo novas
imagines sibi format, PERCEPTIO , sive idea dicitur : quum hinas ideas invicena
confett, IVDICIVM : dum vero eas cum aliis comparat , atque inde novas
veritates elicit RATIOCINIŲm nominatur. Nec aliae attente con sideranti mentis
operationes occurrere pote runt . Scholion. De Logicae utilitate non est, quod
plura dicamus. Quamvis enim quam plurimi eam scriptis suis ad astra tulerint;
quisque tainen in se huiusmodi periculum facere poterit : nam qnidquid ex recta
ra tione capiet emolumenti , id omne huic disciplinae se debere , aperto
cognoscet. Prima mentis hnmanae operatio est SIMPLEX PERCEPTI , sive notio, quam
de finimus per simplicem rei alicuius reprae sentationem in mente factam .
praesentationem autem intelligunt adcura tiores assimilationem eorum , quae
sunt exlra ens , in eodem *** . ** Dici quoque solet idea , conceptus , vel sim
** Per rea plex apprehensio , ut Scholis placuit. Sunt , qui perceptionem ab
idea distinguendam pu tant, atque illam esse aiunt , mentis actio nem in
obiecto percipiendo ; hanc vero ipsam abiecti imaginem menti percipienti obviam
, Sunt , qui eas terminis tantum differre do cent. Quidquid id est , nobis
placuit percep tionem cum idea confundere: adeoque nusquain hic de huiusmodi
distinctione sermo cadet. Ideam alii definiunl per imaginem menti ob versantcm
. Buddeus Phil. instrum . cum observ. alii per exemplar rei in cc gitante.
Hollmannus Log. Sed hae , aliaeqne definitiones eodem redeunt. ***
Repraesentationis vox absque definitione ad sumi poierat , quum sit cuique nota
: sed ut methodici rigoris amatoribus nonnihil daremus eam ita explicavimus ,
sequuti Baumeisterum Quoniam itaque notio est rei reprae sentatio : in omni
autem reprae sentatione duo considerarida veniunt, nem, pe modus repraesentandi
, et obiectum , sive res ipsa quae repracscntatur : liquet , in qualibet idea
itidem duo animadverti posse , scilicet percipiendi modum , et ob iecta nempe
res perceptas ; quorum ille FORMA, haec MATERIA idearum recte di, cuntur . Si
ergo ideae ad formam referan tur consideratio illa dicetur FORMALIS; si vero ad
nıateriam, OBỊECTIVA, vel Rialis appellabitur , Et quia utroque re spectu ideae
inter se differunt : de forma li , ac materiali earum differentia diversis sectionibus
agemus. MATE B nos De formali idearum differentia Experi Xperientia abunde
constat quaedam ita percipere , ut ca ab aliis in ternoscere possimus, quaedam
vero non ita . Repraesentatio illa , quae sufficit ad rem perceptam ab aliis
dignoscendam , idea di citur CLARA; OBSCURA contra , quae ad eam discernendam
est insufficiens. Vnde idea recte dividitur in claram , et obscuram E. Rosae
ideam claram habes , ei eam a lilio , hiacynto , aliisque floribus distinguere
scias , et quotiescumque tibi occurrit , eam dem agnoscas ; contra si arborem
peregrinam videas , eamque a reliquis plantis discernere nequeas, arboris
illius ideam habes obscuram. Huiusmodi sunt ideae infantum recens nato rum ,
hominum bene potorum , eorumqne , qui lethargo oppressi reperiuntur. CLARITAS
enim Physicis est ille lucis effectus, cuius operes externas circa nos positas
alias ab aliis distingnere possumus; contra vero OBCVRITAS est claritatis
absentia, scilicet tenebra rum eftectus : nam quun tenebrae in lucis privatione
consistant , haec vero obiecta exter pa distinguere faciat ; deficiente luce ,
deficit distinctionis facilitas : adeoque obscuritas in distinguendi impotentia
sita est . Quum res existentes innumeris de terminationibus, et circumstantiis
involutae observentur , ut infra dicemus ; hae vero, nisi attente consideranti,
sensuumqne aciem ad obiecta convertenti , innotescere non possint , ut
experientia patet : recte infer tur 1. éo clariorem fieri ideam , quo plu . ra
possunt in obiecta distingui ; * adeoque 2. ad claram idean adquirendam requiri
sensus cum attentione coniunctos , qua des ficiente , ideas fieri deteriores **
Esenplo sit hono in maxima distantia con stitutus , qnem qui vilet , primo
dubius hae ret , utrum corp is quidlibet sit , an vivens ; deinde in obiectum
illud oculorun aciem at tente convertens , a motu animal esse compe rit , sed
cuiusnam speciei , nescit ; propius ve ro'accedenten , ho nisen distinguit ;
tandem ex corporis habiti, facie, aliis que circumstan tiis Titium agnoscit.
Vides quan attente spe-. ctator consideraverit, ut Titium cognosceret!
Quemadmodun ideae meliores funt , si ex obscuris clarae evadant , ex confusis
distin ctae , ex inadaequatis adaequatae: ita deterio res redduntur, si ex
claris fiant obscurae ex distinctis confusae ex adaequatis inadaequatae. Quia
vero ab attentione penlet cla ritas idearum , eaque gralus ha bet , nec semper
, aut in omnibus eadem est : liquet 3. res alias aliis clarius a no 7 38 Logic.
Pars 1. bis percipi posse , ideoque obscuritatem dari non modo ABSOLVTAM sed
RELATIVAM. Hinc 4. obscuritatis caussam plerumquc in hominibus , raro in re
percepta quaeren dam esse ; ac proinde praecipitanter iu dicare illos , qui
absolute obscura esse di cunt , quae eorum superant captum : quo ut quae
ignorant ( ut Aesopica vul pes ) exsecrentur. * Obscuritas vel absoluta est ,
vel relativa. Illa habetur quum res percepta ab aliis prorsus internosci' non
potest; haec autem , quando rem qampiam aliqui subobscure , quidam clar re ,
clarius alii percipiunt. Quod quum acci dit , illorum claritas respectu maioris
horum claritatis est obscuritas relativa. fit , 21. Quoniam autem ad idearum
clarita tem utramque facit paginam attentio , qua deficiente deteriores fiunt:
con Sequens est 6. ut obscurae eyadant perce ptiones , si alicui meditationi
defisi alia percipiamus, vel 7 si unico actu plura 0 aut animo subiiciamus, 8.
denique si ab una perceptione ad aliam celerrime transeamnus. Et quia adfectus
attentionem turbant , ut cxperientia docet : infertur 9. menten adfectibus
agitatam * ad ideas cla ras vel numquam , vel raro admodum per, venire. Adfectus
enim sunt motus quidam vehementiores appetitus sensitivi ex idearum obscuritate
, et confusione orti , de quibus abunde in Psy chologia disseremus, adeoque iis
praedominan tibus nullae , nisi obscurae confusaeve ideae haberi possunt. Si
namque in ideis claritas et distinctio adesset , nullis adfectibus animus ve
xaretur. Hinc ergo est , ut a Philosophis ad fectus inter errorum caussas
enumerentur. E. xemplo sit homo ira aestuans , qui donec ea agitatur , nec res
clare percipere , nec perce ptionum suarum conscius esse potest. Vid . Seneca
de Ira Lib. I. cap. 1. et apud Virg. Aen. II. v. 315. Furor , iraque mentem
prae cipitant.Vides hinc , obscuritatis caussas easdem esse , quae attentionem
turbant vel minuunt : nem pe 1. distractionem , 2. obiectorum multipli citatem
, 3. praeproperam festinationem , 4 . denique adfectuum praedominium. Quae
omnia mentem frustra fatigant , et ad proficiendum în studiis ineptam reddunt.
22. Sed quia Philosophus non solis stare sensibus; rerum autem latebras et
recessus idest caussas et rationes inve stigare debet: per se patet 10. eum
claris notionibus adquiescere non pos * adeoque il . in distinctarum et adae
quatarum perceptionum statu versari debe re ut infra dicemus. 2 se ; · Clarae
namque ideae attento sensuum usu ad 40 Logic. Pars I. quiruntur; sensus autem ,
ut mox adparebit , res tantummodo exsistentes confuse repraesentant', in quarum
cognitione nullum ra tio habet exercitium : nihil ergo Philosophus age Tet ;
nec hihim quidem in scientia proficeret si claris dumtaxat ideis contentus rationem
ne gligeret, nec in caussarum inve stigatioue adlaboraret. > 2 23. Eadem
experientia docet , nos re rum quas clare percipimus , vel notas sive
characteres quibus ab aliis discer nuntur , distincte nobis sistere posse , eo
rum scilicet ideam claram nabere ; vel characteres illos invicem non posse
digno sive ipsos obscure percipere. Re praesentatio clara' notarum obiecti ,
quod percipimus , idea dicitur DISTINCTA : repraesentatio contra notarum obscura,
vo catur idea CONFUSA. Idea clara proin de merito dividitur in distinctam , et
con fusan . seere 8 Si quis invidiam novit esse taedium ob alterius felicitatem
, illius characteres sibi clare sistit , adeoque invidiae ideam habet distin
ctam. Si vero coloris nigri notas distinguere nequeat , licet eum ab aliis
coloribus discer nat , ejusdem ideam habet confusam : uti sunt omnes ideae
colorum , saporum , sonorum , odo rum , etc. , quorum characteres prorsus igno
ramus. Distinctio haec a Cartesio , et Leibnią * E. Cap. I. De Ideis. 41 tio
inventa fuit : alii namque grammatica vo cum significatione decepti, ideas
claras'ét di stinctas obscuras et confusas 'unum idemque esse docebant. Quum
idea distincta sit notio clara notarum ; ad claritatem autem notionum permultum
conferat attentio: consequens est 12 ut clarae ideae di stinctae fiant
potissimum attentione , qua deficiente , etiamsi distinctae sint , confu sae
evadant. Et quia singulae notae peculiaribus gaudent nominibus, qui bus
exprimuntur : infertur CRITERIVM ideae distinctae id esse , si cogitala nostra
aliis.cxponere, atque con is com municare queainus ; oppositum autem ess :
indicium ideae confusae . Hinc 13. idcas confusas aliis referre volentes ,
objecta , quae confuse percepimus , ipsis ostendere, vel cum alia re , de qua
ideam habent claram , comparare debemus. * Res clarior fiet exemplis supra allatis.
Qui notionem invidiae habet distinctam , is eam verbis explicare poterit: quod
recte ex sequetur , si notas , quib :is a :lfectuš iste ab aliis distinguitur ,
eau neret. Contra ei , quo modo coloris albi aut rubri nolas proferet , ut cum
aliis eius notionenı corninunicet ? Pro cul dubio , ut ab illo intelligatur ,
colorem illum , aut rem quampiar confuse perceptam, ipsius oculis admovere, vel
cum alia re iarna nota conferre oportebit , sicque in altero con fusa quoque
idea orietur. Hinc est , ut colo rum ideas coeco nato nullo modo explicarc
possimus , isque visu carens nullam , nequi dem obscuram , umquam huiusmodi
notionem adquirere queat. ** 25. Porro rei , cuius distinctam habe mus ideam ,
vel omnes novimus characte res ad eam in statu quolibet agnoscendam
sufficientes, et tunc idea distincta erit COMPLETA ; vel quosdam tantum ·
eosque insufficientes , eaqne INCOMPLETA dicetur . * Idea ergo distincta dispescitur
in completam , et incompletam . * Sic invidiae idea iam tradita completa est :
adsunt enim notae sufficientes ad eam in statu quolibet internoscendam. Si ve
ro hominem cum Platone definires per ani mal bipes implume , notionem haberes
incom pletam : * hae namque notae non sufficiunt ad hominem semper ab aliis
rebus discernendum , ut ostendit Diogenes Cynicus , dum hanc Pla tonis sententian
irridendo improbavit. Nec eam postea coinpletam reddere potuerunt Platonis
discipuli , addito latorum unguium charactere : nusquam enim homines a simiis
discernere illa nota valebat. Laert. Lib. VI. cap. 2. segm . 40 . ** Licet duo
clarissimiViri Leibnitius , et Wol. Cap. 1. de Ideis. 43 fius semper et ubique
in eamdem sententiam ierint : in hoc tamen hic ab illo discessit . Quumque
Leibnitius omnem ideam distinctam completam esse docuerit : Wolffins contra eam
in completam , et incompletam dividi debere , docuit et demonstravit. a * 26.
Denique eadem experientia edocti scimus , nos quaedam ita percipere , ut non solum
eorumdem characteres singilla tim agnoscamus , sed et novas characte rum notas
enumerare queamus ; . quorum dam vero solis distinctis ideis adquiescere . Quum
notarum characteristicarum notione gaudemus distincta ; idea totalis erit ADAEQUATA
; quum antem notas neb ; confuse repraesentamus, idea oritur INA DAEQUATA . Quo
fit , ut distinctam ideam rursus dividanius in adaequatam , et inadaequatam . *
E. g. Si quis invidiae notas rursus evolvat, sciatque taedium esse sensum
imperfectionis , et felicitatem determinet per siatum durabilis gaudii : is
invidiae idlea adaequata gandebit. Si vero in solis invidiae characteribus ail
juie scat : nec ulterius in iis evolvendis progredia tur , tunc ideam habebit
inadaequitam . Ob servandum tamen , quod quo novas notas , donec fieri possit ,
invenire liceat , eo adaequatior evadet notio. * Hanc porro doctrinam Leibnitio
debemus , qui eam in Actis Erud. Acad. Lips. ann. 1684. semper 44 Logic. Pars
I. p. 437. seqq. proposuit , eumque suo more sequutus est Wolffius Logic. cap.
i . f. 9. seqq. * 27. ANALYSIS IDEARUM est formas tio idearum adaequatarum .
Quumque idea fiat adequatioi, si novos semper cha racteres invenire liceat :
patet 15. eo adaequatiorem fieri notionem , quo longius eius analysis
procedere. Quoniam vero ob sensuura limites non possumus plura distincte
percipere : infertur 16. nos in notionum analysi" in infinitum progredi
non posse : ideoque 18. quum ad notas vel simplices , vel cuique claras perven.
tum fuerit uiterius eam instituere prohi bemur. ** * Notionum analysis
Medicoruin anatomiae simi lis est. Quemadinodum enim Medici corpus humanum in
partes dividunt, easque depuo in alias aliasque particulas resolvunt , donec ad
exilissima tandem filamenta perveniant , om nes interim earum connexiones,
structuram, et proprictates attente perscrutantes : ita et Phi Josophi idearum
noías singillatim perquirunt, easque iterum atque tertio in novas notas mente
resolventes , minima quacque adcurate contemplantur. ** Sicuti ergo Medicis ,
quum ad indivisihiles particulas pervenerint , eas in novas rursus se care non
licet : Philosophis etiam ea facultas Cap. I. De Ideis. 45 ademta est in
analysi notionum , si vel ad simplicia et indivisibilia , vel ad clara et evi
dentia fuerit pervenlum , vel finis obtentus sit , ob quem fuerat analysis
instituta. SECTIO II . De obiectiva , sive materiali idearum differentia . 28.
Haecaec de divisione idearum formali . Ad , materialem , sive obiectivam quod
at tinet , primo res , quas nobis repraesen {are possumus , vel sunt exsistentes
, vel proprietates iis communes. Quidquid exsi stit dicitur INDIVIDVVM , sive
RES SINGULARIS: individuum autem defiuiri po test id , quod est omnimode
determina tum . Repraesentatio ergo individui vo catur idea SINGULARIS sive
INDIVI DVALIS. E. g. “Socrates”, “Plato”, Aristoteles, Caius, Titius , haec
dumus , haec mensa , hic liber quem legis, sunt individua, quia in unoqucque
eorum adsunt tales circumstaniiae et detern ina tiores , ut Socrates sit
Socrates , et non Plato , Caius sit praecise Caius , et non alius : ita ut si
aliqua earum desit , desinant esse quae prius erant . Hinc individuum idem est
cum uno mathemat.co , quod concipitur tanquam 46 Logic. Pars 1. * >
individuum in se, et ab aliis separatum . Iu re igitur individuum res
singularis ; ideoque eius perceptio singularis pariter adpellatur. 29. Quamvis
autem individua sint omni mode determinata hoc est innumeris circumstantiis
involuta ( S. 27:), quae efficiunt, ut ea longe inter se differant : 11 bent
tamen aliquas determinaliones , in quibus perpetuo conveniunt. ** Harum de
terminationum complexus aliam ideam su periorem constituit , quae SPECIES dici.
tur. Non iniuria ergo species a recentio . ribus definitur per similitudinem
indivi duorum . Determinationis vocabulum , licet barbariem redoleat, iure
tamen hic a nobis adhibetur , et quia civitate donatum , et oh termini pu
rioris deficientiam . Absque definitione por, ro sumitur utpote experientia
seusuque com muni satis notum ; eius vero completam no tionem dabimus in
Ontologia , ubi methodici rigoris amatóribus abunde satisfiet. E. g. Socrates ,
Plato , Caius , Titius , li cet aetate , ingenio , roribus , conditione ,
habitu , ceterisque inter se multum distent, habent tamen commuue corpus
organicum , et animain ratione praeditam . Duae hae de terminationes speciem
constituunt , qnae ho m, dicitur. Hinc vides , haec omnia individua in eo
siunilia esse , quod sint homincs. Si plurium specierun pariter cir cumstantias
consideremus videbimus eas in plurimis toto , ut aiunt , coelo differre ; in aliquibus
vero perpetuo similes esse . Atque hae determinaciones , in quibus spe. cies ,
licet diversissimae , perpetuo conve . niunt , novam ideam , eamque supremam ,
constituunt , quae GENVS vocatur. Genus ergo recte definitur per similitudinem
specierum . E. g . “homo”, “equus”, leo , canis , quantumli bet in tot
determinationibus invicem diffe rant , habent tamen in vita et sensione con
venientiam. His circumstantiis conflatur genus, cui animalis nomen inditum .
Observes ita que , omnes illas species in hoc esse per petuo similes , quod
animalia nominentur, adcoque legitimam esse definitionem generis traditam, 31.
Quum genus sit similitudo specie rum ( S. 30. ) , idque constituatur a com
plexu circumstantiarum , in quibus species perpetuo conveniunt ; in speciebns
autem aliae determinationes exsistant , quibus il lae inter se differunt:
sequitur 1 , ut non abs se harum proprietatuin di versificantium summa a
Philosophis voce tur DIFFERENTIA SPECIFICA * E. g. Invidia et commiseratio id
habent commune , quod sint taedium . En genus. In eo ve ro differuut , quod
invidia sit taedium ob alte rius felicitatem ; commiseratio vero ob infelici
tatem. Id ipsum constituit differentiam specificam. 32. Repraesentatio , quae
exhibet pro prietates rebus exsistentibus communes , di citur idea VNIVERSALIS
. Et quia notio nes generum et specierum determinationes continent pluribus
speciebus vel individuis communes ( SS. 29. 30. ) : infertur 2. i deas generum
et specierum esse universa Jes . Rursus quoniam hae ideau couficiun tur , si
determinationes aliquas ab aliis se paratas consideremus; unum vero sine altero
considerare dicitur AB STRAHERE ; liquido patet 3. ideas uni versales esse
quoque ABSTRACTAS. * Hinc est , ut vulgo dicatur , ideas esse vel concretas ,
in quibus omnes simul adsunt de terminationes ; vel abstractas , quae aliquas
tantum exhibent mentis abtractione ab aliis seiunctas: quod idem est , ac si
dicas, omnes ideas vel singulares esse , vel universales. 53. Ex dictis porro
consequitur 4. ideas universales non exsistere , nisi in singula ribus , nempe
speciem ac genus nusquam inveniri , nisi in individuis ; adeoque 5. plus esse
in individuis , quam in specie ; plus quoque in speciebus, quam in genere. Ex quo patet 6. quam scite Logici pro
puntiaverint : Notionis extensionem esse in retione inversa comprehensionis. *
Regula haec aliter ab aliis enunciatur , sci licet : Ono maiorem habet idea
comprehensio nein , eo minorem habet extensionem , ct con tra. Comprehensio
dicitur complexus determi dationum , quae ideam aliquam constituunt. Ex tensio
vero est consideratio subiectorum , qui bus delerminationes illae tribui
possunt. Vid . la Logique, ou l'art de penser. part. 1. chap. 6. Quum ergo
individuum omnimodas determina tiones complectatur ( 9. 28. ) , ad unum tantum
subiectum extenditur ; genus vero paucissimas comprehendens circumstantias ( 5.
30. ) ad plu rima subiecta referri, nemo non videt. Posita igitur regulae
illius veritate, nullo negotio intelligitur 7 . nec ab individuo ad speciem ,
neque a spe cie ad genus umquam posse duci conclu sionem ; ac proinde 8. non
licere generi tribui , quod speciei convenit , aut ab illo removeri , quod huic
repugnat ; contra vero 9. a genere ad speciem , atque ab hac ad individuum bene
concludi , ideoque 10 . individuo dandum , quod speciei convenit, pariterque
speciei tribuendum esse quidquid generi convenire observatur. ** * T.I. C 50
Logic. Pars I. * Et recte ! nam nam in individuo comprehensio maior est ,
extensio minor , quam in specie, ut et in hac relate ad genus. Quidquid ergo de
individuo enunciatur , eius proprietates differentiales ; si ita loqui fas sit,
respicit , quae in speciem non ingrediuntur: ac proin de de hac enunciari
nequit . Eodem modo , quae de specie dicuntur, differentiam tantum specificam
spectant : genus autem proprieta tes multis speciebus communes continet ; adeo
que speciei attributa nullo modo cum genere coniungi possunt. Res clarior fiet
exemplo. Socrates est individuum , in quo omnimoda invenitur determinatio ; id
vero sub hominis specie comprehenditur. De So crate' recte enunciabis , quod
fuerit philoso phus , quia attributum hoc ei convenit ob scientiam , qua
praeditus erat ( S. 3. 4. ) , quaeque inter Socratis proprielátes individua •
les enumeratur. Possesne id de specie , idest de homine pronuntiare ? Minime
quidem : in determinationibus enim hominis specificis non scientia, sed
scientiae capacitas , nempe ra tio ', invenitur. Contra hanc regulam peccare
solent susurrones quidam , qui vitia vel de fectus in aliquo, vel aliquibus
individuis for san occurrentia toti speciei , coelui , vel clas si imputare non
erubescunt. ** Quum enim genus in specie , species pariter in individuo ,
contineatur ( §. 23. ) : quidquid generi conyepit , cum specie coniungi ; et
quik uid speciei convenit, de individuo quo Cap. I. de Ideis. 51 que enunciari
debet aeque, ac ab his removeri quod ab illis discrepat .E. g. Animal sentit ,
ergo homo sentit : homo est intelligens , quia libet igitur homo intelligens
est etc. 35. Res exsistentes rursus vel inira nos sunt vel extra nos. Prioris
classis sunt omnes animae actiones ; posterioris vero obiecta quaecumque
sensibus nostris obyer santia , vel mutationes in corpore humano ciusque
organis supervenientes . SENSV INTERNO percipiuntur, sive REFLEXIONE , hae
contra SENSIBVS EXTERNIS. Liquet ergo 10 , ideas omnes singulares sola sensionc
adquiri * Illae * Intra nos sunt affectus , et cogilationes vo strae, quae
interno sensu , conscientia refle xione ( haec opinia idem significant ) perci
piuntur. E. g . si quis tristitiam , vel metum sentiat , ciusque idcam sibi
formet , hanc sensu intern :) , sive conscientia , nempe atlen tione ad
proprias actiónes adplicatà , adqui sivisse dicitur. Extra nos porro sunt omnia
alia obiecta etsistentia sensibus obvia . Sic in deas omnes singulares,
quaecumque illae sint, sensibus percipi , nemo ignorat : superfluun enim '
esset id ' exemplis illustrare. ** Cuilibet autem de plebe noturn est , exter
sensus quinque numerari , visum nein pe, auditum , olfactnm , gustum , et
tactum , nos C 2 52 Logic. Pars 1. iisque totidem organa esse destinata ; visui
scilicet cculum , auditui aurem , olfactui na res , gustui linguam , tactui
denique specia tim manus , generaliter vero totam corporis humani superficiem .
36. Quum ergo res exsistentes sensibus percipiantur ; ideoque ideae sin gulares
sensione adquirantur ; ex singula ribus vero universales sola mentis abstra
ctione formentur ( S. 32. ) : liquido infer tuir 11. omnes ideas vel SENSIÚNE,
vel ABSTRACTIONE fieri dooque adeo esse ideas adquirendi mcdos. ** * nem * Et
hoc est , quod a multis docelur , omnes ideas partim SENSIONE, partim
ABSTRACTIONE , partim CONSCIENTIA , vel REFLEXIONE adquiri. Vid . Heinec.
Logic. S. 22. Nos enim sensio cum conscientia et reflexione confundi debere ,
docuimus supra ſ. 35. ** Addunt alii tertium adhuc ideas formandi modum
ARBITRARIAM scilicet COMBINATIONEM , veluti quum quis ideam hominis cum idea
equi componit , novamque Centauri notionem conficit : cuius census sunt etiam
notiones montis aurei , intellectus perfectissimi etc. , quae nihil aliud
revera sunt, nisi ice rum prius sensione adquisitarum combinatiores ab
intellectu , vel phaniasia in unum redactae, pro quarum veritate generalem
tradunt regulam : Si ideae arbitrio coniunctae sibi con tradixerint ,
impossibiles sunt , adeoque fal sae ( quae alio nomine CHIMERICAE , a Scola
sticis ENTIA RATIONIS vocantur ) ; si vero inter se non repugnent , pro
possibilibus, adeoque pro veris sunt habendae. TITIAS esse , 37. Ex quibus
omnibus plane consequi tur 12. recte adfirmari a Philosophis , i deas omnes ex
earum origine vel ADVEN. vel FACTITIAS . * INNA TAE namqne ab omnibus negantur,
quid quid de iis praedicent Plato , Cartesius eorumque asseclae , quorum tamen
au ctoritas tanta non est, ut eorum insomniis a sanioris Philosophiae
cultoribus praebea tur adsensus, ut in Psychologia distinctius adparebit. Per
adventitias enim intelligunt notiones sen sique adquisitas ( $. 36. ) : per
fictitias vero illas quae vel abstractione vel arbitraria combinatione fiunt. Plato
namque animas humanas ab aeterno praeexsistentes posuit singulas singula astra
inhabitantes, qnibus Deus monstruvii universi naturam , ac leges frtales edixit
: sed quum a diis inferioribus Dei ministris mones 'vocat in corpora fatali
necessitate inclusa fuissent eo rum omnium , aeternis ideis prius e rant
intuitae, statim ob quos dae. quae in с 3 51 Logic. Pars I. ' Jitas , non nisi
longo sensuum usu , àc nedita tione pristipam cognitionem recuperare. Plat. in
Timaeo. Hinc vulgatum eius effatum: Stu et discere idem esse , ac reminisci .
Cicero Tuscul. quaest. 1. 24. Illas ergo ideas, quas antea habebant , vocavit
innatas . Sed quum id purum putumque sit Platonis som nium , nequaquam erimus
de eo refutando solliciti . Cartesius hoc nomine donavit facul tatem homini
competentem omnia intelligibilia videndi. Tom. I. ep. 99. Respons, ad art. 14:
progranm . ann . Sed pèr hanc rectam rationem intelligi , quisque videt, quam
proin de ideam adpellare est potentiam cum actu confundere. Cartesiani denique
per ideas in natas intellexerunt axiomata quaedam eviden tia , quae ab ipsa
cogitaudi facultate ortum ducunt, veluti : totum csse maius qualibet sui parte
; non posse idem simul csse , et non esse ctc. At quis rerum omnium ignarus
iguo rat , haec esse pura judicia, quae a termino runi illorum relatione , ac
ab ideis totius et partis , exsisteniiue et non exsistentiae, sen su et
abstractione prius adquisitis immediate pendent ? Quae quum ita sini , ideas
invatas nullo modo dari posse , merito concludimus. 38. Ideae praeterea sunt
aliae SIMPLICES , a quibus nihil mente abstrahere pos sumus, ** aliae
COMPOSITAE , bus per mentis abstractionem plura divi dere , atque invicem
separare licet . ** in qui Ex quo necessaria consequutione conficitur 13.
simplices ideas claras esse , at confu sas ; compositas vero etiam distinctas. Tales
sunt ideae omnes colorum , sonorum saporum , voluptatis , taedii , quas ideo
aliis explicare non possumus , nec illarum chara cteres invicem discernere , ut
ita üs'definien dis omnino incapaceś simus. ** Sic in idea mensae cuiusdam
separatim con siderare possum matericm , formam , figuram , colorem , magnitudincm
, et id genus alia. His addunt aliqui ideas ASSOCIATAS , si ve coniunctas , eas
scilicet , quae ita simul a nobis adquisitae sunt , ut quum una nobis occurrit
, altera quoque menti obversetur : veluti si rosain olim videns odoris simul no
tionem accepi , quotiescumque odorem illum sentio , rosae etiam idea menti fit
praesens.Denique quuin vel substantias , vel modos , vel relationes pobis
repraesentare queamus , ideae sunt vel SVBSTANTIARVM, vel MODORVM, vel
RELATIONVM. Per SVBSTANTIAM intelligimus ens, cui atiributa ei accidentia tan
quam subiecto , : veluti inhaerere conci piuntur . . *. , MODI sunt adfectiones
, et attributa substantiis inhaerentia , a qui bus + D4 56 Log. Pars I. sola
mentis abstractione separantur. RE LATIONVM denique ideae sunt , quarum unius
consideratio alterius considerationem includit ita , ut haec sine illa non
possit intelligi. *** figura , * Veluti diximus , ut nostram imbecillitatem
adivemus : id enim in substantiis creatis lo cum habet , non autem in increata
, in qua nulla inter essentiam et attributa , nec inter ipsa attributa realis
distinctio dari potest, ut in Theologia naturali demonstratum ibimus. * MODI
vero sunt vel INTERNI, si in ipsa substantia. occurrant , ut dimensio , color
etc. in corpore ; vel EXTERNI, si in hominis mente sint , et tamen substantiae
tribuantur, veluti quum dicimus- virtutem ma sni aeslimatam , quae tamen
aestimalio est in hominum opinione. **** Relationes sunt ideae omnes
quantitatum , item Patris, Domini, Regis, et cetera id ge pus. Videatur abunde
ea in re Clericus in Logic. part. I. cap. 4. § . 2. seqq. , et in Arta Grit.
part. 1. cap. Ex quibus plane colligitur 14. nas in substantiis nihil aliud
cognoscere, nisi mo dos, ips4s vero substantias prorsus ignora re ; idcoque 15.
substantiarum ideas esse in relatione ad mentem nostram omnino sed tantummodo
abstractas et confuses, ram intelligibiles ; . quinisomo ló . rerun natu eo
magis agaosci, quo plures modi nobis innotescunt; maximam adhiben dam esse
cautionem in perpendendis re lationibus , ne vel earum fundamentum non recte
considerantes , vel absolute de relativis ideis enunciantes , praecipitantiae
errorisque arguamur, * Quantum haec doctrina roboris habeat in se dandis
hominum adfectibus , dici profecto, non potest. Exemplo sit is, qui se paupe
rem esse dolet , quia divitum opes non ha bet, et id absolute profert. Si vero
relationis pondus expendat, observetque alterum omnia bus necessariis rebus
egentem : declamare de sinet , quia sibi tantum superflua desunt. Be ne ergo
Seneca in Troad . v. 1016. Est mi ser nemo , nisi comparatus, Schol. Explicatis
iam notionum diffe rentiis, ad huius doctrinae usuin accedamus, quem paucis ,
iisque perutilibus , include mus regulis. Quisquis ergo Philosophiae operam
navas si solidae cognitionis es cupidus , sequentes animo infigito. CANONES. i
. Curato , ut rerum , quas pertra ctare cupis ', claram semper et distin ctam
cognitionem adquiras : attentionem proinde , quae ad idearum perfectionem
utramque facit paginam , in omni re adhibeto. Quoniam vero Matheseos studium
mirifice at tentionem acuit : hinc est , ut hodie studio rum initium a Mathesi
capiatur , exemplo Platonis ., qui neminem erudiendum suscipie bat , nisi
Geometria instructum . 2. In studendo praeproperam vitato festinationem ;
praecipue in primis scien tiarum principiis diu haereto , nec, nisi iisiprobe
intelleétis, ad cetera pergito .* * Quantum enim festinatio idearum claritati
osobsit, diximus in . 21. adeoque in adole. soentibus naturalis illa festinatio
, et praeci pitantia caute est obtundenda , ne superficia rie discant et
errores saepe labantur. Vnde VERVLAMIVS opportune docuit : Ius venum ingeniis ,
non plumas vel alas , sed plumbum el punderą auditinus. Caveio , ne nimia rerun
varietate mentem obruas, neve plura semel simul que addiscenda putes . - Panca
discito , eaque bune digesta contemplator. * Quum eaim attentio ad plura
dividitur, minor fit atque inepia : proindeque ideae deteriores fiant: ita ut
de iis perbelle dicat Seneca Ep. 2.: Nusquam est , qui ubique est. Qua de re
Plinius VII. ep.9 . praeclaram il lud monitum studiosae iuventuti perutile prae
buit : Non multa 7, sed multum . to 3 * AC 4. Priusquam ulterius progrediaris
ad idearum tuarum relationem attendi si qua sitt :: ne relativa pro absolu tis
accipiens in errores incidas, 5. Mentis solitudinem , animique tran quillitaiem
amato ; ne affectibus attentionem iurbes , iran , tristitiam , an liaque pathemata
; adeoque sodalitates , compotationes ., spectacula fugito. ** * Bene monuit
Ovidius Tristium l. v . 30. Carmina proveniunt animo dédlicta serenos *
Comessationibus enim corporis inertia aus getur , mens obstupescit et habetatur
, ani mus ad voluptates inclinatur s spectaculis ve vero attentio distrahitur,
i sensimqué a studüs 1 C 6 6o Logic. Pars I. animus avertitur , quo fit , ut
aut nullae ad quirantur ideae , vel saltem obscurae, a qui bus errores ortum
ducere infra docebimus. aut mie 6. Quae legisti , audivisti > ditatus es ,
ita familiaria tibi reddito , ut eorum notas aliis indicare queas . Ea proinde
vel in chartam coniicito, te ipsum saepe examinaudo , idcarum tuarum
distinctionem experitor. ** * vel * Stilum Cicero vocat oplimum , et praest an
tissimum dicendi effectorem , et magistrum. De Orat. l. 33. ** Notum est
vulgatum illud ; docendo disci mus . Rationem huius canonis invenies supra. nes , utpote rei immaterialis a stiones, nullo
modo sensibus percipiuntur: ea non nisi signis, quae in sensus incur ruot;;
abis potefieri possunt. SIGNUM enim est, res quaedam sensibilis quae praeter
sui notionem excitat in mente ideam alterius rei, Sed quum ideae ng ** strae ordinario vel voce, vel scripto patefiant:
binc prioris gencris signa VOCES, posterioris TÈRMINI, ntraqne vero VERBA
dicuntur. Hinc verba per idearum nostrarum signa recte definiuntur, ut et voces
signa quaedam sono articulato prolata, mentis nostrae conceptus indicantia.
Signa quidem generatim appellantur, quia praeter soni vel scripturae; nationum
nostrarum ideam in audientibus vel legentibus excitant. E. g. Lacrimae sunt
signum tristitiae: quia quum hominem videmus lacrimantem, illico eum tristitia
adfectum esse cogitamus. Fumus quoque est SIGNVM ignis, quia eo viso non solum
fumi, sed ignis etiam notionein ad quirimus. Quae de signorum diversitate Scha
Jastici docent utpote ad rem
impertinentia, praetermittimus: astin Ontologia quaedam observatu digna obiter
attingemus. Cave tamen credas, voces esse SIGNA conceptuum necessaria. Quum
enim eaedem res non iisdem vocibus a diversis gentibus exprimatur: liquet, tas
ab hominum ARBITRIO pena der, adeoque esse SIGNA conceptuum arbistraria. Cuique
vero notum est, ad sona nar ticulatum sex requiri, nempe PVLMONES, qui follis
vice funguntur, ORGANUM VOCIS scilicet trachea, eique apposita larynx cum suis
apparatibus; LINGVA, cuius vis Braliones vocem prae ceteris articulatam red
dunt; PALATVM, nempe fornicem, ubi lingua stras vid rationes exercet; quatuor
DENTES incisores dicti, quibus sibilantes litterae efformantur, et in quos nedum
lingua, sed et labia vibrant; ac denique LABIA, quae in se invicem et in
dentes, inpingunt, ut fu sjus coram ostendemus. Ex qua definitione patet verba
et voces inter se differre: quum verba et iam scripto, voces autem non nisi
sono articulato proferri possint. Nos ideo voces adhibere, ut ab aliis
intelligamur; proindeque. Iita loquendum, easque vo ces adhibendas esse, ut
alii, quibuscum loquimur, mentem nostram intelligere pos sint; adeoque non
licere terminis in anibus vet notionem deceptricem continentibus uti; sed
tantum ii , qui ali quam notionem habent adlixam; quitinimo, singulis terminis
eamdem semper ideam, eamque claram, respondere debere; ideo que cos, qui vel
obscuram, vel non semper eamdem exprimunt notionem, om nino esse proscribendos.
Alterius vero mentem intelligere dicimur quum, terminis easdem notiones
adggimus, quas loquens cum iis coniunxit . mus TERMINUS INANIS dicitur, qui
nulla , habet notionem sibi coniunctam: adeoque nis hil, praeter solam soni
ideam, excitare potsest: quapropter vocari solet vor mente case' sâ , vel sonus
sine menie, a Scholasticis terminius insignificativus. Talis est versus ille,
quemia Nimiodo prolatum in infimo Tartari aditu fingit Dyinus Poeta Etruscus:
Raphel mai umech zabi alini. Dant. Inf. cant: Quoties autem vocem proferentes,
aliquid cogitare videinur, quum tamen nihil cogita puldaunque sententiam cum ea
donium ginius: tunc terninus ille NOTIONEM DECEPTRICIM continere dicitur.
Huiusmodi sunt casus Epicuri, sensibilitas physica Hel yetii, historia e
rationis penu depromta Boulangeri et Rousseau, quorum analysin cora , et in
Metaphysica conficiemus. Si nam que vox aliqua vel non eamdem seniper, vel
obscuram notionem habeat adfi xam. In primo casu auditor dubius haerebit, quamnam
cum ea loquens, coniunxerit ideam, adeoque cui non intelligent. In secundo ves
ro, quomodo mentem eius poterit intelligere, qui se non intelligit TERMINVS
CLARVS est, qui claram coiitinet notionem, OBSCVRYS, qui eamdem habet obscuram.
Terminusi qui eamdem semper exprimit ideam, FIXVS vel DETERMINATV ; qui vero
incon der stantem vagunite tabet significatum, VAGVS aut INDETERMINATVS dicitur,
Plurės autem termini eandem rem significantes, SYNONYMA, sive termini synonymici.
adpellantur, Scolasticis eum adpellare placuit univocum, sive unicam rem
indicantem, ut ignis, aqua, A Scholis dicitur “aequivocus”, hoc est plura aeque
significans. E. g. Cultus varios habet significatus: saepe enim pro adoratione
Deo debita: quandoque pro honore: nonnumquam pro corporis, vel animi decore;
non raro quo que pro telluris cultura accipitur, Tales sunt gladius, ensis, qui
idem ar morum genus exprimunt. Eos e Scholis qui dam vocant “paronymos”, id
quod ad intelligendas barbaras huiusmodi loquutiones breviter adnotavimus. Non
heic inquirere licet: utrum in quolibet idiomate revera dentur synonyma?
quaestio namque haec ad philologiam pertinent. Philosophia contra in exprimendis
animae cogitationibus usum loquendi servat, et colit, quem penes arbitrium est,
et ius, et norma loquendi (Horat. De Art. Poet. 8. 27). Terminus CONCRETVS est
qui qualitatem expriinit sabiecto inhaerentem, ABSTRACTUS vero qui qualitatem
illam a subiecto separatam indicat, Terminus PROPRIVS dicitur, quando rem
exprimit, cui significandae est destinatus; IMPROPRIVS vero, sive METAPHORICVS
ad rem aliam indicandam transferatur ob quamdam similitudinem . si Sic “pius”
est terminus concretus, “pietas” terminus abstractus , Concretus porro a
Wolffio dicitur, qui notionem exprimit concretam (sive singularem); abstractus
contra, qui ideam continet abstractam (sive universalem ). Haec autem omnia idem significant. E. g. Vox
oculis proprie sumitur, si organum visui destinatuin indicet. Ubi vero Cicero
Corinthum Graeciae oculum adpellat, eius uippe ornamentum ac pracsidium: improprie
sive metaphorice vocem illam usurpat, Hinc vide , voces improprias esse vagas
et indeterminatas. USVS LOQVENDI est significatio vocum in communi sei mone
propria . At quoniam in familiari sermone voces aliquae occurrunt quas intelligimus
quidem, li, cit ad notiones ipsis adiixas animum non hae voces dicuntur termini
FAMILIARES, et ad usum loquendi non advertamus pertinent, Si quis ergo oculi
vocem ad significandum organum sensorium visui destinatum usurpet, is loquendi
usum servabit. Tales sunt voces omnes, quas frequentissime proferimus, ac
memoriae mandavimus: ees enim intelligimus, sed usu et consuetudine adeo
familiares evaserunt, ut eas proferentes ad sensum notionesque ipsis adfixas
nusquam attendamus. Patet igitur Philosophum servare debere usum loquendi,
adeoque terminis claris, fixis, atque in sensu proprio usurpatis ei utendum
esse. Quod idem est, ac si dicas a terminis vagis, obscuris, impropriis, et
familiaribos esse abstinendum: aliter enim non intelligeretur. Hic porro. Ex
pluribus vocibus inter se apte connexis oritur SERMO, sive ORATIO sive
PROPOSITIO. Definitur autem sermo per nexium plurium terminorum mentis nostrae
conceptıbus exprimendis idoneum . а Logicis dispesci solet in CIVILEM, et
TECHNICVII, sive eruditim, quorum ille in vita civili ab omnibus; hic in
coinmunicandis ideis ad disciplinas pertinentibus, vocabulorum technicorum pe ,
ab eruditis adhibetur. Nisi enim ideis nostris explicandis sit idoneus, non
sermo, sed confusus inanium vocum cumulus dici poterit. Dicuntur autem verba,
vel voces technicae, quae ideas scientificas quibusdam disciplinis peculiares,
usu annuente, exprimunt: cuiusmo di non pauca occurrunt in qualibet disciplina.
Schol. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, inania faere evaderent, nisi doctrinae
usum auditoribus nostris ostenderenus. Quae igitur de iis observanda putamus
paucis, isque tam familiari quain erudito sermoni inservientibus, complectemur
re gylis. Philosophus ergo noster scquentes observet CANONES. Antequam oum
aliis congrediaris, tecum attente perpendeto, quid cogites: Cogitationes porro
tuas totidem vocibus exprimilo, quot ideas hubes. Quantum adiumenti adfcrat hic
canon adolescentibus, ia promtu est. Quun enim fis familiarissima sit inanis
illa et garrnia loquacitas, fua fit, at persaepe in te veritatis notam incurant
des alimchanab inconsiifera to loquendi puriniz násvatur; facile parei, cur qui
cogitationibus suis atteindlit', nulla , nisi benedigestum , emitiere posse verbum
. Caveto, ne ideam soni habens, rei quoque notionem habere te credas ; aut
voces coniunctas intelligere quas disiunctas intelligis. Falluntur enim
persaepe homines , quum ter minos inanes, et notionem deceptricem con. tinentes
effutiunt , in quibus solam ideam $ 9 . ni habent, et nihil cogitantes aliquid
se cogitare creduat. E. g. Idea materiae et idea cogitationis possibiles sunt,
pariterque voces, quibus illae exprimuntur singulae intelliguntur. Coaiunclae
vero impossibiles evadunt, atque adeo intelligi nequeunt. Ecquis enim materiam
cogitantem exsistere posse imquam probavit ? Vid. Inst. nostr. Meiaph. P. 11.
Cap. 4. eas 3. sum loquendi semper
servato, nec novas temere cudito voces: quod si ad id quandoque necessitate
cogaris, adcurate definito, ne obscurus fias. In hanc regulam peccatur, si quando
vocabula technica, utut civitate donata, furene novitatis amore mutantur; iis
novae voces substituuntur, quamvis rem, de qua a gitur, adcurate exprimant. Et
si houe termini philosophici, reiecta barbarie, pristinae restituuntur puritati,
ea non novatio dicen et proda est, sed renovatio, idest vocum ad pro prium avitumque
decus restitutio Peregrina vocabula Latino, vel Italico sermoni ne iminisceto,
nisi vel Tocendi, vel amici cuiusdam oblectandi caussa: alias eniin in
paedantismum Empinges. Vid. Heineccium in Fundam . Stil. cultior. Id vero
egisse Ciceronem ex eiusdem scriptis didacticis, et Epistolis ad Atticum abunde
colligitur. Quum eniin paedantismus sit inanis glorio lae cupiditas in minotüs
, ineptisque rebus sectandis quaesita; paedagogi vero , a quibus hoc nomen
obvenit, id quoque habeant in vitio , qnod singulis verbis latinas interse runt
phrases ac textos : ideo hanc notain incurruut quicumque, vel ad ostentandam e
ruditionis niultiplicitatem , vel ob nimium tem poribus inserviendi studium ,
nullum , nisi pe regrino sale conditum , queunt formare ser monem . 5. Si aliis
displicere non vis , quoties cumque loqui oportuerit , modesto vultu atque
amoeno fuam proferto sententiam: ne docere ex cathodrá potius , quam veruin
dicere , videaris. 7Est et haec paedagogorum nota , qui pueris in docendo
imponere adsueti, inagisiral e illud supercilium ubique servant , seque invisos
au dientibus , maximo veritalis detrimento , red dunt. Vid . Buddei Oratio de
bonarum littera rum decrcinento nostra aetate non tenere me tucndo. Dea rei
distincia completa verbis expressa dicitur DEFINITIO. Res vero ipsá , sive definitionis
obiectum, vocatur DEFINITVM. Ordo igitur po stálat, ut post'ideas earumque
signa; bre vein de ddinitionibus tractationem hic sub iungamus, Quid sit idea
distincta , et qua ratione ad quiratur , dixiinus supra . seq. De idea completa
cousule , quae breviter do cuimus g. 25 ; diffusius enim hic , quae de illa dici
merentur , enodabimus.Quemadmodum antem idea voce prolata di citur terminus , isque
clarus si claram expri mat notionem; ad exprimendam, vero ideami distinctain ,
sive ' emuinerando ; il dias characteres , non uno , sed pluribus claris opus
est termiuis : ita complexus ille yocum , * Cap. HI. De definitionilus. 71 hoc
est idea distincta completa sermone expli cata , definitio dici consuevit;
adeoque non abs re tractatus bic doctrinain sequitur ter minorum . 2. eas ** ne
49. Ex qua definitione consequitur 1 . in definitione notas et characteres
enume rari oportere , qui sulliciant ad definiturn in statu quolibet
agnoscendum, et ab aliis rebus distinguenduin ; notas tales esse debere , ut
nulli , nisi so li definito in tota eius extensione , conve niant ; quare 3.
merito a Logicis ad firmari , definitionem neque latiorem que angustiorem sno
definito , sed ipsi aco, qualem esse debere , ut sibi invicem sub stilui
possint. *** * Id autem , per quod res ab aliis rebus distin guitur , eius
essentia a Metaphysicis adpellari consuevit : inde ergojest , ut definitionem
Lo gici esse dicant orationem , qua rci essentia explicatur. Quia vero per
extensionem intelligimus quod cuinque subiectum , cui determinationes ideam
aliquam constituentes tribui possunt; perinde est , ac si dicas , definitionis
notas tales esse debere , ut omnibus subiectis, spe ciebus nempe , et
individuis sub definito con tentis conveniant. Porro inter characteres il los
insunt proprietates genericae , et specifi ** Logic. Pars I. *** Si cae , quae
integram definili essentiam expo. nunt , et repraesentant. Non iniuria igitur adfirmari
solet , definitionem ex genere et differentia specifica constare debere. Si
namque definitio talis non sit , ut possit definito substitui , vel ( ut aliis
placet ) cam eo reciprocari , vel illo latior , vel angustior erit , adeoque
deficiens. Substitutio autem in co consistit, ut definitio pro subiecto ,
defini tum pro attributo , et contra, adsumi possit. E. g. Spiritus est
substantia intellectu et vo luntate praedita : contra vero substantia intel
lectu et voluntate praedita dicitur spiritus. 90. Ex eodem quoque fluit 4 in
defini tionem ingredi non posse , nisi ea , quae Jei perpetuo et constanter
insunt , idest ATTRIBUTA, vel ESSENTIALIA; proin deque 5. locum in ea non
habere ACCIDENTIA , seu MODOS. * * Quaenam sint essentialia , et attributa , pate
bit in Ontologia. Id unum hic notasse sull ciet , tam essentialia, quam
attributa rei cou stanter ac immutabiliter inesse : nam attributa sunt eiusmodi
characteres , quorum ratio suf ficiens cur rei insint , in eiusdem essentia et
natüra continctur : ut sunt tria latera et tres anguli in triangulo. Quoniam
vero definitio est idea rei distincta; haec autem est no nec tio clara notarum ( 5. 23. ) : sequitur ut
ea vocibus claris sit exponenda , obscuri quidquam continentibus; ideoque 7.
nec vagis ( $ . 43. ) , nec metaphoricis nec negativis ** terminis in illa sit
locus. Imo vero 8. eam in vitio poni perspicuum est , si sit IDENTICA vel
CIRCVLVS in definiendo committatur . Si tameu termini definitionem ingredientes
ob scuri quid habere videantur , prius adcurate definiantur , ut claritatem
adquirant. Sic in vidiae definitionein supra allatam nemini proferre licebit ,
nisi prius taedii si gnificatus alia definitione sit determinatus. Terminis
negativis concipitur definitio > si explicet quid res non sit : ut si dicas
, invi dia non est commiseratio. Hinc vides, eam esse vagam et indeterminatam ,
adeoque defi niti ideane inde oriri confusissim un , quod est contra definitionis
indolem: Exceptio tantum datur in rebus contradicto riis nullun inedium
adinittentibus , quarum una recte definita , altera negativis terminis
explicari potest. Sic ens simplex non immeri to dicitur quod partibus caret ,
substantia , quae non exsistit in alio , tamquam in subie *** Definitio
identica est , quae idlem per idem explicat, cuiusmodi suut nonnullae Scholarum
cio etc. definitiones quas confusiones rectius dixeris. Exemplo sit quantitatis
definitio ab iis allata per accidens, a quo res dicitur quanta . Quid , quaeso
, haec verba significant , nisi quod quantitas sit quantitas ? Cui vero usui
definitiones istae esse possint , tironibus ipsis iudicandum relinquimus. ****
Circulus enim Geometris est figura plana linea curva in se redeunte terminata :
in defi niendo ergo circulus committitur, si in evol vendis definitionis
characteribus , eorumque novis definitionibus formandis , in aliquam ipsarum
definitum ingrediatur. Tunc enim per definitum explicaretur id , per quod
defini lum ipsum explicari deberet; adeoque res re diret ad definitionem
idemlicam , quae in vi to posita est . Illa notas et characteres e numerat
sufficientes , quibus definitum ab aliis rebus in siatu quocumque discerni
possit ; haec autem rei definitae genesin et originem exponit, ** unde et
GENETICA dicitur. * Per definitionem nominalem veteres intelligc bant grammaticam
vocis explicationem , qua vel radix sive origo nominis investigabatur, et tunc
Etymologia dicebatur : vel multiplex eiusdem significatio , eoque casu
Homonymia; Cap. III. De definitionibus. 25 vel denique plures voces eumdem
sensum ha bentes, et Synonymiae nomine veniebat. Quae enim nobis nominalis est
, realis inter illos audiebat. ** Nominalis ergo est definitio spiritus , si
eum definiveris per substantiam intellectu et volun tate praeditam : realis
autem , si invidiam definias per taedium ob alterius felicitatem : in ea enim
eiusdem caussa et origo explica tur. Vides hinc , nominales definitiones esse
arbitrarias : reales contra necessarias. > 53. Si vero idea rei distincta
quidem sit sed incompleta : tunc non definitio , sed DESCRIPTIO nominatur ;
adeoque in descriptione accidentia qnoque locum inve piunt , qnae quum in
individuis tantum concreta observentur, hinc est, ut res sin gulares
describantur, abstractae vero deti niantur; ** proinde illae Oratorun et Poe
tarum hae Philosophorum propriae sint . Descriptio itaque , licet plures
enumeret no tas ; quam definitio , eas tamen ad rem in sta tu quolibet
agnoscendam exhibet insufficien tes. Tales notae non exsistunt , nisi in rebus
singularibus ;, utpote omnimode determinatis: universales namque ab iis mentis
abstractione erguntur, paucio resque adeo, ac sufficientes ipsis distinguendis Ꭰ . 76 Logic . pars I. >
continent characteres. Inde ergo fit, ut ha definiri possint, illae tantum
describi. Intelligitnr hinc: cum generum et specierum definitiones apud
Philosophos inveniamus, in dividuorum nihil nisi meras descriptiones Poetis ac
Oratoribus familiares , et si ab his definitiones proferri videmus , eas vel
incom pletas novimus, vel magno verborum ambitu expressas , ubi accidentia
attributis , caussas effectibus permixta observamus , quas tamen Philosopho
imitari nefas erit , quippe cui idearum analysis , essentiae rerum investiga.
tio , verborum praeterea praecisio in deliciis esse debent. Schol. Superest ,
ut quae studiosae iu ventuti utilitatem adferre possunt, ea pau eis exponamus
regulis huius doctrinae usum continentibus. Philosophiae igitur initiatus, si
quid a studiis suis commodi percipere cupit , sequentes animo imbibat CANONES.
1. Definitiones , utpote rei naturam et essentiam explicantés , ciim cura disci
to , ' ạtque teneto . ' Iudicium porro cum m moria coniungito : ideoque aliorum
definitionibus ne adquiescito ; sed ope rum dato , ut eas intelligas , et ad
tru tiram revoces. re Sunt enim, qui soli memoriae consulentes , quidquid in
aliorum scriptis repererint, id omne discunt , ac turpe putant ab eo discedere
. Hinc fit, ut si memoriae pondus inutile au feras, nihil, praeter arroquarov
quoddam , maneat. Homunciones isti memoriae dumtaxat exercendae intenti ,
iudicii vero prorsus ex pertes , libros quosvis sine delectu memoriae mandare
adsueti , innumeris snnt expcsiti er roribus ; quotcnmque eorum oculis
subiiciun tur. Ne igitur adolescentes , qui memoriam tantum in Scholis huc
usque exercuerunt , eamdem premant viam , sibique pessime cou sulant : visum
est , cautionem hanc eo neces sariam , quo prima scientiarum hic funda menta
sternuntur , ipsis suggerere et inculca re, ut iudicium excolentes in aliorum
senten tiis ad examen rcvocandis , et ad eruendas inde propria meditatione
veritates apti red dantur. ver 2. In legendis Auctorum libris , prum
phrasiumque lenociniis ne conti eto : sed ut sententiam ipsis subiectam lare ,
ac distincte intelligas , pro vi ili curato. Ita vitabitur stupida illa aliorum
sententiis adquiescendi consuetudo , quae in caussa fuit, ut liberculi aliquot
ex transmontanis, transma rinisque regionibus huc appulsi stilo quodam auribus
pruriente tot incautos captarint ado D 3 78 Logic. pars. I. lescentes , quos
inter crassae incredulitatis te nebras errabundos non sine magno dolore vi
demus. Hi namque culpabili ignorantia verbis tantummodo adquiescentes, nec
sententias in tellexerunt, nec eas ad trutinam revocare sunt ausi , iudicandi
quippe facultate destituti. 3. Rerum, quas nondum distincte in telligis ,
definitiones proprio marte con ficito , ut ex iteratis' actibus , continua que
exercitatione habitum in eo adqui ras. Res quidem non parvi momenti erit,
multun que laboris impendendum , pauco forsan aut irrito eventu . Animo tamen
non deficiant a : dolescentes : ab exiguis enim initiis maxima procedunt ,
atque experientia tandem , qui sit huius canonis fructus , addiscent. Poterit
autem quisque imitando incipere , experiundo prosequi , ac notionum analysi
sednlam na vans operam felici demum exitu proficere. Vi de quae docebimus
infra. Caveto, ne res omnes definiri pos. vel debere, credas ; * aut definitio
nes verbis diversas re quoque differre putes. ** * Videantur interim a nobis
ante dicta G. 27. Gap. III. De definitionibus. 79 ¥ Si namque dantur synonyma ,
verba nempe et phrases eumdem habentes significatum, quidni definitiones illae
verbis diversae synonymicis erunt expressae terminis , adeo que re unum idemque
significare poterunt ? 5. Si e Philosopho Orator aliquan dofieri cupis ,
definitiones pro definitis adhibeto : tunc enim auditorum animos inani verborum
ambitu non fatig abis solidaeque doctrinae clarissimum dabis indicium . Exemplo
sit elegantissima M. Ant. Mureti pe riodus Part. I. Orat. 1. ubi de laudibus
Theo logiae acturus , amplificat syllogismun quam brevissimum has continentem
propositiones : Facultas hominem Deo con ugens est omnium praestantissima.
Egpyas a eius talis est . Nam si eorum omnium , quae in hac inmensa re rum
universitate cernuntur, unumquodque per ficiendi sui desiderio tenetur ; et
animus no ster ad similitudinem Divinitatis effictus tan to perfectior est,
quanto propius ad illud , a quo ductus et propagatus est , exemplar ac cedit :
dubitari profecto non potest , quia ea sit omnium praestantissima facultas ,
quae , quoad eius fieri potest , cum humanis divi na copulando , mortalitatem
nostram , quantum illius imbecillitas patitur, Divinae natura e ar ctissima
colligatione devincit. Vides hic Theo D 4 80 Logic. pars 1. logiae definitionem
, oratorio licet more pro latam , multum orationi pulchritudinis ac di gnitatis
adferre. 6. Definitionem tuam , si ab aliis di stingui exoptas , efformare
curato ; id que obtinebis, si intellectuales morales que virtutes tibi
comparare studueris. * Hi namque definitionis characteres esse de bent. Quod ni
facias in vulgi turba confu sus eris , nomenque tuum in tenebris , ob scurumque
manebit ila , ut vel patrio , vel alio adpellativo nomine indigitari debeas. Notional
Otionum analysin in adaequatarum idearum formatione consistere , snpra iam
ostensum est. Porro in hac o peratione ideam aliquam in partes , sive notas
dividi , hasque rursus in alias disper tiri , quisque novit qui earum naturam
habet exploratam . Tunc igitur idea illa ut totum consideratur , characteres
autem ut eius partes : adeoque non abs re analysis idearum verbis expressa
DIVISIO nominatur , * quae recte definitur , quod sit to tius in partes
resolutio . * Quum autem in divisione novae notarum de finitiones
suppeditentur: iure doctrinam hanc definitionibus subiungimus. 2 55. Quoniam
vero quidlibet ut totum considerari potest : variae totius relationes sunt
enatae. Et quidem 1. totum essan tiale quod constat ex partibus ad ajus
essentiam pertinentibus, 2. totum integra le , compositum nempe ex corporibus ,
quorum snmma eius integritatem constituit, 3. genus, quod plures species suo
ambitu comprehendit , 4. subiectum , quod plura accidentia sustinet , 5.
accidens quod pluribus subiectis inhaerere potest, 6. caus sa , quae plures
producit 7 effectus, qui a pluribus potet procedere caussis. Quidquid tandem
pro ratione obiectorum, circa ' quae versatur in tot partes distribui potest ,
quot sunt objecta . Inde ergo est , ut va riae a Logicis tradantur divisionis
species veluti TOTIVS sive essentialis , sive in tegralis , in suas partes,
GENERIS in suas species subordinatas , SVBIECTI in sua Accidentia in suos
effectus, EFFECTVS CAVSSAE , ACCIDENTIS in sua snb 7 , D 5 82 Logic. pars 1.
iecta , rei in suas caussas , denique caiusvis per sua OBIECTA. Primae classis
est haec : Homo dividitur in animam et corpus ; vel as dividitur in duo decim
uncias. Secundae : Animal dividitur in hominem , et brutum. Tertiae : Homo est
, vel doctus vel indoctus. Quartae : Bonum est. vel animi, vel corporis.
Quintae : Philoso phiae dogmata alia intellectuin instruunt, a. lia voluntatem
dirigunt. Sextae : Veritatis impugnatio, vel ab ignorantia, vel a malitia
procedit. Septimae denique : Philosophia theo retica alia circa res corporeas,
alia circa incorporeas et intellectuales versatur. 56. Totum illud , quod in
divisionem cadit , DIVISUM ; partes vero , in quas dispertitur , MEMBRĀ
DIVIDENTIA no minantur. Sin membra haec in novas rur sus partes resolyamus.,
SVBDIVISIO di citar. * * E. g. Homo dividitur in partes suas essentia les
animam nempe et corpus ; hoc autem in caput , truncum o et artus reliquos. En
subdivisionem , 57. Ex membrorum itidem dividentiam numero nova quoque
divisionis oritur dif ferentia. Si namque duo fuerint membra Cap. IV. De
divisionibus. 83 dichotomia sive DIMEMBRIS ; si tres ? trichotomia seu TRIMEMBRIS
; quatuor tetrachotomia hoc est QVA TRIMEMBRIS divisio, appellabitur . SI Sic
bimembris erit divisio lineae in rectam , et curvam , trimembris trianguli in
aequila terum , isosceles, et scalenum ; quatrimembris denique parallelogrammi
in quadratum , rc ctanguluin , rhombum , et rhomboidem ., 58. Quoniam divisio
est totius in par tes resolutio ; totum autem ae quale partibus simul sumtis
esse debet : consequens est 1 . ut membra dividentia simul totum adaequare
debeant divisum adeoqne nec plus illo, nec minus compre hendant ; * 2. ut non
sibi coincidant, sed repugnent, sintque per novas definitiones , easque
oppositas , distincta ; ** 3. ut ex ipsa rei dividendae natura petantur , scili
cet in tot membra totum dividatur , capax est ; 4. denique ut ad confusio nem
vitandam prius idea totalis ab am biguitate liberetur , posteaque divisio insti
tuatur . i quot *** * Contra hanc regulam peccant , qui angulum dividunt in
rectilineum et curvilineum , vel qui lineam esse aiunt , vel rectam , vel curvam
& derari potest: vel mixtam . In primo enim casu membra di videntia simul
sunt diviso minora ; in se cundo autem eodem maiora. ** Huic quoque regulae
adversantur ii , qui bo. num dividunt in honestum , utile , et iucundum: haec
enim membra simul in uno coexistere debent, ut genuinam boni denominationem tue
ri possit : adeoque non sunt repugnantia . Peccant etiam ii , qui licet totum
in membra opposita distribuant , ea tameu definitionibus non repugnantibus
determinant, ut quum cns in simplex et compositum diviserunt, et hoc esse
dicunt, quod partibus constat : illud contra definiunt per id , in quo nihil
consi *** Repréhensionem ergo .eruditorum merito incurrunt Ramistae , qui tam
superstitiose di .chotomiis adhaerent , ut in plura membra totum dividere
irreligiosum putent. Nec ali ter iụdicandum est de iis , qui nimiae mem brorum
multiplicitatis sunt amatores . Idem enim vitii, inquit Seneca , habet nimia ,
quod nulla divisió. Ep. 89. 59. Quum autem divisiones et subdi visiones potionum
analysin contineant, haec autem in idearum adaequa tarum formatione consistat,
ideo que ad maiorem distinctionem in nobis producendam sit comparata : sequitur
5. ut divisionibus aeque , ac subdivisionibus, quae iisdem ' reguntur regulis ,
omnia vi tentur , quae confusionem adferre possunt; proindeque 6. liquido
patet, non licere p? as ter necessitatem subdivisiones multiplicare, ne memoria
fatigetur , ac intellectui veių. ti tenebrae offundantur , Schol. Haec de
divisione . Ad hujus porro doctrinae usum nunc transeamus quem paucissimis inde
nascentibus include mus regulis . Logicae itaque Tiro utilissi mos aeque , ac
necessarios hosce discat CANONES, In dividendo subdividendove non aliorum
systemata , sed naturam tantum consulito . * Confusionem aeque , ac tae dium
vitare curato. * Hoc namque modo nec Ramistarum supersti tiosa restrictio , nec
Scholasticorum nimia di visionum membrorumque multiplicatio locum habebit.
Natura enim omnium optima, et ad curatissima est magistra. 2. Divisiones ne per
saltum facito. * Ordinem ac seriem in unaquaque re ser vato. Dicitur autem
civisio per sattum , quae ordi... nem non scrval , et in qua ea , quae in sub
divisione cxprirai deberent , comprehendun tur : e.g. si ideam diviseris in
claram et ina daequatam , divisionem conficies per saltum; inadaequatam enim
quae in subdivisionem ingredi deberet in divisione locum habere observas.
Series ergo atque ordo ne pertur betur, quisque in studia incumbens cavere stu
deat. CAPVT QUINTVM De iudiciis , et propositionibus , 6o. Hactenus de ideis ,
earumque ana lysi, quantum instituti brevitas tulit, actum . Eas vero si
comparemus , scilicet si duas ideas inter se coniungamus vel separemus, alia
mentis oritur operatio , quae IVDI CIVM adpellatur. Est autem iudicium duarum
idearum comparatio earumque relationis perceptio. Iudicium porro ver bis
expressum dicitur PROPOSITIO vel E NUNCIATIO. ** * E. g . Si ideam spiritus cum
idea indestructibi litaiis conferas , videasque unam alteri conve nire , tunc
spiritum esse indestructibilem ndi cas : contra , si indestructibilitatis ideam
cor Cap. V. De iud . et prop . 87 separas: haec poris notioni non convenire
observes ,corpus non esse indestructibile colligis. In primo ca su ideas
coniungis ; in altero mentis operatio , qua earum relationem ex pendis, iudicii
nomine venit. ** Nonnulli discrimen inter haec duo nomina statuunt: ut prius
locum inveniat, si in syllo gismo spectetur ; posterius vero , si extra id
inveniatur. Sed in re tam parvi momenti diu immorari, foret ineptum. 61.
Quoniam iydicium duas ideas compa rat , et si verbis exprimatur , propositio di
citar ( $ . 60. ) ; idearum vero signa sunt voces seu termini: liquet, quam
libet enunciationem duobus constare termi nis , quorum ille , cui aliquid
convenire vel discrepare ennuciatur, SVBIECTVM ; is vero , qui subiecto tribuitur
vel ab eo removetur , ATTRIBVTVM vel PRAEDICATVM nomiuatur , qui duo simul pro
positionis EXTREMA dici consueverunt. Quumque eorum nexus verbo substanti vo
exprimatur : merito vox illa ex hoc verbo desumta , quae propositionis extrema
coniungit , COPVLA vocatur. E. g. In hac propositione, “Deus est aeternus,”
Deus est subiectum , quia ipsi tribuitur aeternitas ; aeternus dicitur
attributum, quia Deo convenire enunciatur ; vox deniqne “EST”, quae duo haec
extrema coniungit, atque unum al teri convenire indicat , copula , hoc est coniunctio
, adpellatur. Hinc ergo colligitur, quain cumque propositionem SUBIECTO,
COPVLA, et ATTRIBVTO constare debere , ut enunciatio LOGICA PERFECTA dici pos
sit. Si namque horum aliquis lateat , CRYPTICA, vel IMPERFECTA dicilur , quia
naturalis compositio crypsi aliqua tegitur: id autem accidit, quum verbuin
aliquod copulae et attributi vices sustinet e. g. Deus mundum creavit : idem
enim esset ac dicere : Deus est Creator mundi. Est et alia propositionum
crypticarum species , iu quibus sub uno verbo tota enunciationis latet
compositio per ellyp sin eruenda : ut in illis : veni , vidi , vici : hic
namque tres iusunt enunciationes ex iis dem verbis repetendae , nempe: “Ego
fui-ve nens , ego fui videns , ego fui vinccns.” QvanVandoquidem in qualibet idearum
comparatione sex potissimum con fiderari possunt, scilicet: materia , sive
ideae quae comparantur; forma, seu comparatio ipsa ; qualitas comparationis;
eiusdem quantitas ; objectum, 6. denique evidentia relationis : ideo sub
totidem adspectibus propositiones intueri possumus ; videlicet, ratione MATERIAE,
FORMAE, QVALITATIS, QVANTITATIS, OBIECTI, et EVIDENTIAE. Quamvis autem hunc ordinem
divisionis natura suppeditet : liceat nobis in hac tractatione qualitatem ante
omnia perpendere , utpote quae in aliis distributionibus usui esse debet;
quaque postposita , nonnulla obscuritate laborarent. Propositionis QVALITAS
consistit in extremorum combinatione tione. Quum ea coniungimus , scilicet prae
vel separa dicatum subiecto convenire enunciamus ADFIRMARE dicimur; NEGARE
contra, si illa seiungamus, seu unum ab altero discrepare pronuntiemus. Recte
igitur omnis propositio, si qualitatem spectes, dividitur in AIENTEM et
NEGANTEM. E. g. Quum dico, “Mundus est contigens”, praedicatum cum subiecto
coniungo, adeoque de mundo adfirmo esse contingentem. Quando vero enuncio,
“Mundus NON est aeternus”, extrema seiung , idest aeternitatem a mundo removeo
et hoc est quod dicitur negare. Ex quo vides, negationem (“NON”) copulae
praepositam reddere propositionem negantem: quod si non copulam, sed terininorum
ali quem, vel eius partem negatio afficia , non negans, sed INFINITA orietur
enunciate. E. g. Marcus Aurelius Romano Imperio pote ral non nocere, quia
Philosophus. Distinctio haec aliter ab aliis enunciatur, scilicet in
adfirmativam et negativam . Vtrum que apte. 64. Si ad propositionum materiam attendamus,
eae sunt vel SIMPLICES, vel COMPOSITAE. SIMPLEX enunciatio dicitur, cuius
termini plures non sunt sed unuin habet subiectum , et unum prae dicatum; COMPOSITA
vero, quae plura > Cap. V. De iud . et prop 91 continet vel subiecta, vel
attributa; eaque est vel EXPLICITA, si compositio sit mania festa, vel
IMPLICITA, Scholastico nomine EXPONIBILIS , si compositionem habeat latentem ,
et paullo obscuriorem. Addunt alii enunciationem COMPLEXAM eamque haberi aiunt
, quoties terminus ali . quis propositionem contineat incidentem sibi adnexam ,
quae , licet ad essentiam proposi tionis non pertineat , ad eam tamen intelli
gendam plurimum confert , exprimiturque per pronomen relativum QVI. E. g. Plato
, qui divinus fuit dictus , ideas innatas admisit. Propositio illa , qui
divinus fuit dictus , in , çidens est. Sed distinctio haec in Logica aut parvi
, aut nullius fere est momenti. Simplex ergo erit propositio : Deus est ae.
ternus , iten que : aer est gravis. *** In quo vero consistat palens , vel
latens compositio , ex sequentibus abande patebit , ubi de explicitarum
implicitarum que enuncia tionum speciebus sermo erit. Id porro sedulo
observandum , in compositis non unam , sed plures contineri enunciationes , id
quod ex earum analysi poterit elucescere. EXPLICITA enunciatio dividitor in
CONDITIONALEM; CONIVNСТАМ; DISCRETAM; CAVSSALEM; DISIVNCTAM et RELATAM.
Conditionalis, alio nomine hypothetic , est, quae praedicatum habet subiecto
tributum sub aliqua conditione: e . g. “Si mundus est ens contingens , non
exsistit a se” -- in qua prima pars conditionem , altera propositionem continet.
De hac autem observandum. I. conditio existentiam non largitur : visi enim
veritatem adquirat , enunciatio vera esse non potest. Sic si dicas, “Si navis
ex Asia venerit , centum tibi me daturum promitio”: promissio vera non erit ,
nisi navis ex Asia redux fuerit ; 2 . conditio impossibilis habet vim negandi.
Et -recte : nam conditio impossibilis numquam in exsistentem abire poterit ;
adeoque enunciatio nullibi veritatem adquiret. Vnde idem est di cere : si
digito Coelun tetigeris , centum ti bi dabo , ac si diceres : numquam tibi dabo
centum : conditio namque impossibilis est. Coniuncta , sive copulativa dicitur
, in qua termini ita connectuntur, ut de pluribus su biectis idem attributum;
vel plura altributa de eodem subiecto enuncientur. E. g. “Iustitia et prudentia
sunt virtutes”; “Deus est aeternus et omnipotens”. Disiuncta, vel disiunctiva est , in qua uni
subiecto plura tribuuntur praedicata, vel u Cap. V. De iud. et prop. 93 num
attrubutum pluribus subiectis , ut plu ribus unum , vel uni plura conveniant ,
licet indeterminate. E. g. Aut doctus eris , aut in doctus. Quae de hac
observari merentur , con fer in S. 58. cur ( 1 ) Caussalis est , in qua ratio
additur , praedicatum subiecto tribuatur. E. g. Vitia nostra , quia amamus ,
defendimus: Politicas quia prudentiae regulas tradit , sedulo exco lenda, 1 Discreta
dicitur , quae duo de eodem s biecto judicia continet qualitate diversa : ut
illud Horatii. Coelum , nou animum mutant , qui trans mare currụnt. Item illud
Terent. andr. 1. SC. 2 . Davus sum , non Oedipus. Relata , seu relativa est,
cuius una pars ab altera vim sunnit, ad eamque refertur ut il lud Virgilii Georg. II. v . 291. et quantum
vertice ad auras Aetherias, tantum radice in Tartara tendit. IMPLICITAE vero
species sunt EXCLVSIVA; EXCEPTIV; COMPARATA RESTRICTIVA: licet alii quoque
inceptivas , desitivas, et 'reduplicativus adiungant. Exclusiva est, in qua
sensus duplicatur per particulas exclusivas solum, tantum, dumta xat etc. ,
estque vel exclusi praedicati, e. g. oculus tantummodo videt. Exceptiva est, in
qua particulae exceptivae praeter, nisi, et similes, sensum multiplicant. E.
g.: “Omne ens, praeter Deum , est contingens.” Comparata cicitur propositio,
vel particu la quaedam comparativa relationem adferat inter subiectum et
praedicatum, ita ut ge mipus inde emergat sensus e. g., “ira est amore validior. Restrictiva denique est, quae multiplicem
continet sensum per particulas restrictivas. quatenus , in quantum , quoad etc.
geminatum. E. g.: Ilomo , quoad corpus ', est mortalis. INCEPTIVAS vocant, quae
actionem aliquam in principio enunciante, ut: successio temporum a creatione
incoepi ; DESITIVAS, inquibus ejus cessatio et finis praedicatur, ut: tutela
pubertate finitur: REDVPLICACIVAS denique , in quibus subiectum geminalum at
liud iudicium continet tacitum. E. g. “Corpus, qua corpus est , a spiritu
differt. Sed de his plura coram. Si enunciationis FORMAM spectemus, erit
NECESSARIA, CONTINGENS (fortuitam Cicero adpellat), POSSIBILIS, IMPOSSIBILIS:
in quibus si necessita , contingentia , possibilitas etc. reticeantur, ABSOLVTAE
dicentur ; si vero exprimantur, MENTALES. Necessariam dicimus, cuius extrema
ita contiunguntur, ut aliter se habere non possint. E. g. “Circulus est
rotundus”. Contingens est, cuius termini nullam neces sariam habent
connexionem, sed ita cohaerent, ut aliter esse queant. E. g.: “Crastinus dies
erit serenus”. Possibilem vocamus, in
qua attributum sn biecto non repugnat, ut cera liquescit. Impossibilis dicitur
proposition, cuius termini inter se repugnant, ut, “Circulus est quadratus”.
Ratione OVANTITATIS enunciatio dividitur in VNIVERSALEM, si attri butum
subiecto in tota huins 'extensione conveniat; PARTICVLAREM, si ad aliquas
tantum species, ant individua in subiecti notione contenta extendatur; denique
SINGVLAREM, si individuum subiecto exprimatur, Addunt alii inde finitam, sed
eam non esse ab universali dstinctam, infra abunde patebit. in. Alia universalem
vocant propositionem, qua ratio sufficiens, cur praedicatum subie cio
tribuatur, latet in ipsa subiecti natura, scilicet, si praedicatum sit
attributum essentiale subiecti. Ita haec enunciatio, “Homo est libertatis
capax”, est universalis tum quia subiectum in tota eius extentione sumitur
nullus enim homo invenietur, nullus enim homo invenietur, cui libertate careat;
tum quia ratio sufficiens , cur libertas homini trihuitur, latet in ipsa
hominis ESSENTIA et natura , hoc est, ut Scolastici aiunt, rationalitate.
Signum universitatis in aiente propositione est “OMNIS” (italiano: “ogni”); in
negante NVLLVS. Quae de universalitate metaplıysica et morali Philosophi docent,
ea hic persequi brevitas non patitur, sed in ipsis praelectionibus aliqua no
tabimus. Particularem propositionem alii esse dicunt, in qua ratio sufficiens;
cur praedicatum subiecto naturam est repetenda; E. g. “quidam homines sunt
crudili”. Vides hic subiectum non in tota sua extensione accipi, sed ad aliqua
tantum individua extendi, ita ut ratio sufficiens, cur homini eruditio tribuatur
hominis naturam inveniatur, scilicet in studio aique exercitatione.
Particularitatis nota est QUIDAM, ALIQVIS; in negante vero additur particula
NON. E. g., Livius Romanorun historiam
ad sua usque tempora scripsit. En propositionem singularem : subiectum enim est
terminus singularis. 6g. Ex quibus omnibus consequitur v . ad essentiam propositionis
universalis non reqniri notam uuiversitatis, sed eam pro lubitu exprinii vel'
omitti posse; INDEFINITAM dici propositionen in qua pota reticetur ac proinde
recte a Philosoplus adfirmari, propositiones in definitas aequipollere universalibus;
qui nimmo, signum universale numquam efficere posse, ut enunciatio talis
evadat; falli ergo eos, qui universalem propositio hem defipiunt per eam, cuius
subiectum signo aificitur universali; particula rem facile in universalem commutari
pos se, si subiecto addatur ratio suficiens, cur ei convcniat allributum,
Ecquis enim propositionem hanc: “Omnis homo est doctus”, ideo universalem esse
aufirmabit, quia signo universali subiectum adficintur? Hinc si propositionem
universalem particularibus , vel particularem universalibus terminis signisque
exprimamus a veritate deficiet, ut suo loco dicemus. Sumas e. g. hanc
propositionem: “Quidam homo est philosophus”, habes propositionem particularem.
Adde snbiecto caussam, cur de homine esse philosophum enunciatur. scilicet
scientiam; eamque sequenti modo exprimito: “Omnis homo scientia praeditus est
philosophus”, ex particulari in universalem abibit. Mirum quantum transmulalio
ist haec in scientiis prodest. Ab ea enim pendet propositiomm analysis; puta
earumdem resolutio in hypothesin ct thesin. Nobis in secunda part , ubi de
experientia sermo erit , huius modi commutationis usus erit obiter attingen
dus. Iuvat hic compendii loco addere , veteres harum propositionum differentiam
quatuor vocalibus indicasse: “A”, “E”, “I” et “O”, id quod se quentibus expressere
versiculis: Asserit “A”, negat. “E”, verum universaliter ambae. Asserit I ,
negat O , sed particulariter ambo: De rat. et Syll. S E Ć T10 11. De
propositionibus mathematicae methodo inservientibus. Ostrema enunciationum
divisio quae earum obiectum, et evidentiam res spicit, ea est, quae in
recentioribus Phi osophorum et Mathematicorun scriptis pas sim observatur
peculiaribus desiguala nominibus, quaeque a nobis ideo distincte tradenda, quia
me!l dun mathematicas in hisce justitutionibus sequi statuimus. Ratione ilaque
OBIECTI pto positio est vel THEORETICA, in qua a liquid de subiecto enuncialur,
vel PRACTICA, quae aliquid fieri posse aut debere adfirmat. Sic propositio
theoretica est haec, “Omnes ro dii eiusdem circuli sunt aequales”. Practica vero:
“Quovis centro et intervallo circulus describi potest. Vides hinc, theoreticam
propossitionem veritatis alicuius enunciationem; pra cticam vero operationis
faciendae expositiouera continere, Quo ad EVIDENTIAM enunciatio vel talis est,
ut extremorum nexus per se clare pateat, vel quae demonstratione in digeat.
Illa INDEMONSTRABILIS, haec DEMONSTRABILIS dici consuevit. Quibus enodatis, ad
peculiaria propositionum nomina explicanda transcamus. Indemonstrabilis ergo
est enunciation, “Totum sua parte maius est”. Demonstrabilis . contra haec: “Scientia
Philosopho est necessaria”, ea enim ex collatione definitionum scientiae et philosophi
debet demonstrari. Propositio indemonstrabilis theoretica dicitur AXIOMA. Si
vero practica fuerit, POSTVLATVM vocalır.
E.g. “Totum est aequale omnibus suis partibus simul sumti”. D. de
Tschirnausen axioma vocat quamcumque propositionem ab unica definitione
immediate deductam ; Euclides au tem illam , quae primo intuitu ab unoquoque
perspici potest. Res eo redit , ut axioma vo cemus enunciationem per se claram
, adeoque demonstratione non indigentem , sive a defini tione , sive aliunde
evideutiam suam repetat: ac proinde nostra definitio utramque amplectitur
sententiam , ut diffusius coram ostendemus. ** E. g Quovis centro ac quovis
intervallo cir culum describere. Coguita enim circuli defini tione , postulati
huius veritasan. scitur, Cap. V. De iud. et prop. IOL Enunciatio theoretica
demonstrabilis THEOREMA vocatur; practica contra dicitur PROBLEMA. In
Theoremate ergo propositionis veritas ex plurium definitionum collatione
demonstrari debet. E. g., “Deus est aeternus” Huius enim demonstratio ex
definitionibus Dei , et aeter ni inter se collatis peti debet. Hinc est, ut
duabus illud constet partibus , nempe enunciatione, qua veritas șive propositio
theoretica enunciatur, et demonstratione, qua ea dein confirmatur : ideoque in
fine demonstra tionis addi solet Q. E.'D. , hoc est , “quod erat
demonstrandum.” Quum Problema sit propositio practica, pa lam est , illud
tribus absolvi, propositione sci licet, quae quid faciendum proponit,
solutione, quae modum, quo fieri potest, ostendit, et demonstratione, quae rem
bene processis se concludit , addends, “Q. E. F”. idest, “quod erat faciendum”.
Sic problema est haec enunciatio : Commiserationem in altero excitare. COROLLARIVM,
sive CONSEOTARIVM dicitnr quaevis enunciatio, quae ab alia immediate, et
necessariae consequutione oritur. E. g. Cuum demonstraveris propositionem E T.
hanc : Nihil est sire ratione sufficiente , per teris inde eruere corollarium;
Ergo, id omne, quod ratione sufficiente destituitur, nec est , nec esse
potest. SCHOLION, seu SCHOLIVM, est
oratio, qua illustratur quidquid in propositione obscurum videbatur. In eo igitur
doctrinae usus exponitur, historia narratur, auctorum sententiae referuntur
aliorum obiectiones proponuntur et refelluntur, ce teraque observatu digna
enucleantur: ut videre est in omnibus Mathematicorum , et Philosophorum
recentium scriptis. LEMMA est proposititio
ex aliena disciplina desumta, quae tamen ad demon strandum aliquid in doctrina
, quam tra ctamus in subsidium adhibetur. Ita Aritmetici in costructione
quadratornm et cuborum lemmata ab Algebra muluantur, ut est propositio illa :
Cuiuscumque numeri bi partiti quadratum aequatur quadratis parti una cum facio
dupli partis unius in al teram lucti. um Cap. V. De iud. et prop . 103 S E C
T10 lll . De propositionum adfectionibus. HaecAec de enunciationum diversitate.
Superest , ut de earum adfectionibus pau ca dicamus , de quibus quamplurima in
Scholis praecipiuntur laboris quidem plena, vtilitatis autein expertia. Ad
propositionum adfectiones referuntur: OPPOSITIO, SVBALTERNATIO, CONVERSIO, et AEQVIPOLLENTIA. OPPOSITIO
est duarum proposi tionum inter se pugnantium collatio : estque vel CONTRARIA ,
si earura utra que sit universalis in qua propositio nes ambae possunt esse
falsae , sed non ambae verae ; vel CONTRA-DICTORIA, si etiam quantitate
differant , *** in qua enunciationum illarum necessario una ve ra esse debet ,
altera falsa ; vel deni que SVBCONTRARIA , si ambae sint par ticulares , ****
in eaque propositiones am bae verae , at non ambae falsae esse possunt. * Sic
oppositae sunt hae propositiones : Omnis E 4 spiritus cogitat ; nullus spiritus
cogitat: pu. gnant enim inter se , quum de eodem subie cto idem una adfirmet,
altera neget. ** E. g. Omnis homo est ratione praeditus : nullus homo est
ratione praeditus, quarum una vera est , altera falsa. Possunt tamen da ri
casus , in quibus ambae falsae sint , veluti huum unirersaliter enunciatur ,
quod particu lariter proferri debebat. E. g. Omnis homa est eruditres : nullus
homo est eruditus. Om nibus enim tribuere quod quibusdam tan tum convenit , est
falsum dicere dicere, ut infra videbimus. *** Ita propositiones : Omnis
spiritus cogitats quidain spiritus non cogitat , sunt contradi ctoriae , earum
enim una universaliter ait, al. tera particulariter negat. Iure igitur exclusa
altera includitur , et contra : nam falsum est a quibusdam removere quod
omnibus con renit , vel aliquibus tribuere quod nulli com petit. ***** Talis
est sequens oppositio Quidam ko mines sunt divites : quidam homines non sunt
divites : Vides hic ambas propositiones veras esse. Quod si dicas : quidam homo
est liber : quidam homo non est liber, quum haec falsa sit , altera vera esse
debet. Rationem eius re gulae , ne longius provehamur , coram dabi una , mus. 7SVBALTERNATIO
est duarum Cap. V. De iud. et prop. 105 propositionum sola quantitate differen
tium , sed eosdem terminos habeniium mutua quaedam relatio. Vniversalis enun ciatio
SVB-ALTERNANS ; particularis vero SVB-ALTERNATA, a Logicis dici con suevit. *
De qua adfectione duo notanda occurrunt : 1. Veritatem subalternantis veritas
quoque subalternatae consequi tur , non contra ** . 2 : Falsitas propo sitionis
' subalternatae falsitatem etiam subalternantis arguit , non autem con tra. E.
g. Duarum propositionum : , Omnis homo est eruditionis capax ; quidam, homo est
eruz ditionis capax , illa subalternans , haec subal ternata dicitur. ** Sic
quum ia superaddito exemplo verum sit , omnes homines doctrinae esse capaces ,
verum quoque erit, quosdam homines doctrinae capa ces esse. Ratio huius regulae
est. Contrariae ambae verae esse non possunt ( S. 78. ). Si ergo 'subalternans
vera sit; eius contrará falsa erit. Quum autem huic contradıcat subalterna ta ,
et in contradictoriis necessario una sit , altera falsa ( C. eod. *** ) ,
liquet subal ternatan necessario verum esse debere ; alias , enim in
contradictione falsitas ex utraque par te daretur , quod est absurdu :n. Contra
ea si verum est , quosdam hom nºs esse eruditos vera E 5 106 Logica Pars. I.
cui quum non certe infertur omnes homines eruditos esse . *** Si namque
subalternata est falsa , eius con tradictoria vera erit; sit contraria
subalternans , haec non poterit non esse falsa , adeoque subalternae falsitatem
necessario sequi. E.g.Falsum est, aliquem spiri tum esse mortalem : falsum
qnoque erit, omnem spiritum esse mortalem . At şubalternantis fal sitas non ita
subalternatae falsitatem includit. Quum enim in subalternante , utpote univer
sali , subiectum in tota sua extensione suma tur ( $. 68. ) , poterit
attributum aliquod extra subiecti naturam rationem sui habere sufficientem ,
adeoque aliquibus tantum spe ciebus , aut individuis conveniens propositio piem
efficere particularem ( f. eod. *** ). Fal sa in hoc casu' erit subalternáns ,
non vero subalternata. Hinc si falsuin est , omnes homi nes ésse doctos, non
ita falsum erit , quosdam homines esse doctas. 80. CONVERSIO est mutua
extremorum salva enunciationis veritate , substitutio Ea fit tribus modis ,
scilicet 1. SIMPLICITER , quum eadem qualitas et quantitas manet ; 2. per
ACCIDENS , quin quan titas sola mutatur ; 3. denique per CONTRA-POSITIONEM ,
quum salva pro, positionis quantitate , terminis additur ne galio , qua fit ,
ut enunciatio lex determi pata in infinitam abeat. Cap. V. De iud. et prop :
107 * Scholerum est ha ec doctrina a nobis recensi ta in gratiam eor um , qui
huiusmodi loquite tiones scire cupiu nt ; sed non caret sua uti litate ; imo
haud raro est necessaria, Sim plex igitur est conversio : Omnis spiritus est
substantia cogitans : omnis substantia cogi tans est spiritus. ** E. g. Omnis
doctus est homo , copyertitur per accidens hoc modo : ergo quidam homo est
doctus. *** Sic : Quidam homo non est. pius , per con trapositionem convertitur
: ergo quoddam non pium est homo. Sed quorsum haec ? ais. Con fer, Dan.
Richterum diss. de convcrs. propo • sition. Halae 1740 AEQUIPOLLENTES denique
dicun tur enunciationes , quae verbis licet di versae , cumdem tamen sensum
habent. * Duae ergo propositiones synonymicis termia nis expressionibusque
prolatae aequipollentes sunt, nempe eumdem valorem habentes. Ego Omne animal
vivit et sentio : nihil tam ani manti proprium est , quam vita et sensie. Quae
de his postremis propositionum adfectionibus laboriosius a Scholasticis
traduntur , tempus terendum potius , quam ad rationein excolendam sunt
adcommodata. Nobis haec tantum notasse sufficiet. Schol. Quae de iudiciis , ac
propositio nibus cupidae iuventuti observanda arbitra. mur , ea paucis
exponenda supersunt. Qua propter tironi Philosopho sequentes tenea di sunt
CANON ES , 1 , Q Voniam iudicia sunt sapientiae , vel stultitiae fidelia
indicia , par cius iudicato ne aliis sis ludibrio teque in errorem temere
coniicias. 4 * Sensus namque communis a iudicandi peritia scientiam hominis
metiri solet. Ea de re quum de alterius sapientia vel stultitia iudicium
proferre volumus eum criterio pollentem pel carentem adpellamus. 2. De nuila re
, nisi cuius adaequa tam , aut saltem distinctam habes ideam, iudicium
proferto, tuum . Idearum enim confusio praeiudiciorum mater est fera cissima. *
Quum enim rerum , de quibus iudicare volu mus , distinctatu vel adaequatam
habemus ide am : tunc eas undequaque cognoscimus , re lationesque perpendimus ;
adeoque termino rum nexibus optime coguitis , recte iudiça þimus, Cap. V. De
ind . et prop. 109 4. In vel tuo i quocumque iudicio vel alieno caussam et
rationem atten te perspicito , cur tales ideae tali modo coniungantur vel
scparentur , nec alio . * * Etenim infra abunde patebit , verae prope, sitionis
criterium esse , si ratio sufficiens ad. sit , cur praedicatum subiecto
tribuatur , vel ab eo removeatur. Tali ergo ratione perspem cta , non poterit
iudicium non esse verum ; ac proinde errandi metus procul aberit. 4.
Praecipitantiam fugito : ideoque in iudicando tardus , in enunciando tardior
esto, ne levitalis errorisve arguaris. Me mento Augustini praeclarum illud :
ver IA BIS AD LIMAM , SEMEL AD LINGUAM , Ne cit enim , monente Horatio , vox missa
Leverti. Notum est responsum illud nescio cui num quam loquuto , ac pro
sapiente seinper habi. to , datum , postquam semel toqui voluit : Si tacuisses
, Philosophus mansisses. 51. De moribus , et viia hominum num uam iudicato .
Nemo enim alterius in er est a Deo constituius: > Hinc sapientissimum illud
Servatoris nostri 110 Logica Pars. I. monitom gauctiope muniiuin habemus Matth.
VII. 1. Nolite iudicare , ut non iudicemini. Qua vero ratione praeceptum istud
homini bus inculeatum sit , ostendemus in Iure Naturae . Quoniam duarum idearum
convenien tia , aut discrepantia non semper unica intuitu aguosci potest ,
adeoque dan tur veritates demonstrabites( s 71. ) ; de monstratio autem
ratiociniorum serie absol vitur: ordinis ratio postulat , ut de ratiocinatione
verba faciamus. Est vero RATIOCINATIO, sive RATIOCINIVM , actio mentis , qua ex
duobus iudiciis no tionein communem habentibus tertium eli citur ; vel practice
est duarum idearum cum teriia comparatio', earumque rela tionis. deductio .
Ratiocinium porro verbis expressa dicitur SYLLOGISMVS. * Quando igitur mens de
veritate iudicii alicu ius nouduin certa , eius extrema , sive ideas confert
cum idea aliqua tertia , et ab earum convenientia vel discrepantia , tertium
elicit Cap. IV . De rat. et Syll. III iudicinm : tunc ratiocinatur , hoc est
rationes conficit , ut veritatem inveniat. E. g. Ut sciat, an aer sit gravis
comparat ideam aeris, et ideam gravis ; cum tertia idea corporis , ob servatque
, num inter eas adsit convenientia : qua comperta , duas illas ideas inter se
quo que convenire concludit hoc modo : Omne corpus est grave : Aer est corpus ;
Ergo aer est gravis. En ratiocivium . Quod si verbis exprimatur , erit
syllogismus. 83. Experientia teste scimus , duas ide as cum tertia triplici
modo comparari pos se : vel enim cum illa conveniunt , vel u na convenit ,
altera discrepat , vel ambae ab ea discrepant. In primo casu elicitur ter tium
iudicium aiens , in secundo negans, in tertio vero nihil exsurgit. Totum ergo
ratiocinii pondus duobus his axiomatis con tinetur : nempe 1. Quae conveniunt
cum aliquo tertio ea conveniunt inter se : 2. Quorum unum tertio cuidam
convenit, alterum autem ab eo discrepat , illa in ter se quoque discrepant *
Primum axioma est ratio sufficiens syllogismi aientis ut videre, est in exemplo
supra al lato ; alterum negantis : e g . Qui Deo servit non servit Mammonae:
sed Christianus Deo. 1. servit: ergo Christianus non servit Mamm onae. Vides
hic duaru n idearum Christiani et Mam monae servientis., alteram convenire cnm
ter tia Deo serviendi , alteram vero ab ea di screpare : unde infertur a se
invicem discrepare. 84. Ex quibus rebus clare consequitur 1. in omni
ratiocinatione tres tantummodo ideas esse debere, adeoque 2. in omni syllogismo
tres tantuin terminus; * unde 3. si plures ad sint tirinini ; guain tres ,
syllogisuum es se falsum . ** Quumque tres ideae totidem combinationes
adinittant ( per exper. ) : sequitur 4 : ratiocinium tria quoque iudicia
continere ; ac proinde 5. syllogismum tres, nec plures , enunciationes admittere)
Advertendum hic , tam terminos , quani pro positiones syllogismums, componentes
y pecu liaribus a Logicis ' donata fuisse nominibus. Et ut a teruninis
incipiamus , praedicatum tertiae propositionis ,, quae principalis dici potest
, MATOR adpellatur , subiectum eiusdeni , MINOR ; {erminus vero , qui tertiam
ideanı ex . primit , quique rationem continet suffizientem couvenientiae , vel
repugnantiae termini ma ioris cum minore, MEDIUS voćatur. E pro, Cap. V. De
iud. et prop. 113 > positionibus etiam illa , in qua medius cum maiore
confertur, MAIOR, vel PROPOSITIO simpliciter ; illa , in qua medius cum minore
comparatur, MINOR vel ASSUMPTIO; ambae vero PRAEMISSAE dicuntur , propositio
denique, quam principalem supra, adpellavimus CONCLUSIO COMPLE xto , a Scholasticis
CONSEQUENTIA nos minantur. Sic in primo exemplo gravis est terminus maior , aer
minor , cor pus est terminus medius , adeoque prima pro positio est maior ,
altera minor , tertia con clusio . * Solet enim quandoque quartus irreperę ter.
minus , et syllogismum corrumpere , idque raro patenter; nam saepius in termino
aliquo , vel compositione latet. Fieri hoc potest 1 . per aequivocationem , ut
fi terminuin aliquiem yagnum adhibeas in sensu diverso : eg: Vilpes habet
qualuorpedes , Herodes est vulpes ; er go Herodes habet quatuor pedes. In quo
ob servas vocem vulpes prino proprie ; secundo vero metaphorice suintam ; 3.
per supposi tionis mutationem , ut si idem terminus ma terialiter in una ,
formaliter in premissarum altera sumatır . E. g. Iinne ens est generis
neutrius: femina est ens, ergo fernina est ge neris ncutrius , in quo nocens in
miori gran . matice ; in minori philosophice anceptum est; 3. per confusionem
termini abstracti cum con creto . E.g. Omnis prudentia est habitus bo nus :
Titius est prudens: ergo Titius est ha bitus bonus. Tres ergo enuuciationes
syllogismi materia dici possunt : forma namque legibus absolvi tur , quas infra
'exibebimus. 85. Quamvis vero ratiocinium tam fa cilis exequutionis primo
intuitu videatur : difficilis tamen admodum est termini me dii , qui communis
idearum mensura est inventio. Sed ut omois difficultas evanescat, experientiam
philosophiae matrem consule re decet. Ea enim duce discimus , mentem postrani
in ratiocinando duplieem ingredi viam : vel enim notionum alteram ad pro prium
genus , vel speciem revocat , et quid quid his convenit , illi quoque tribuit ,
vel definitionis characteres evolvit , eosque al . teri convenire observans
definic tum quoque coniungit. Duplex ergo est medium inveniendi methodus : altera
sub iectum ad genus , vel speciem , sub qua continetur , reducendi, eique
tribuendi , vel adimendi quidquid ideae genericae con vepit , vel ab ea
discrepat ; altera attributi definitionem cum subiecto comparandi , et ab eorum
convenientia vel discrepantia , praedicati quoque cum subiecto coniunctio nem
eruendi. cum ea Cap. IV . De rat. et Syll. Exemplo sit sillogismiis supra adductus.
Scire cupis , aer sit gravis ? Reduc subiectum sub genere corporis , et vide ,
utrum huic conveniat gravitas , eam de aere quoque enunciabis , ita
ratiocinando. Quodlibet corpus est grave , aer est corpus : ergo aer est
gravis. Haec erit prima medium inveniendi methodus. Rursum gravitatis defi
nitionem evolve , eiusque characteres , nem pe corporum inferiorum pressionem confer
cum aere. Quumque ei conveniant , attribu tum cum subiecto coniunges hoc modo :
Quidquid corpora inferiora premit , est grave: Aer premit corpora inferiora :
Ergo aer est gravis Habes hic alteram medium inveniendi me thodum . Eodemque
modo in aliis ratiociniis investigando procedes : quod si adcurate ser ves ,
numquam tua te fallet ratiocinatio . 86. Ex hoc principio fluunt sequentes
regulae ratiocinii fundamentales. I. Quid quid convenit generi vel speciei ,
conve nit etiam omnibus speciebus , et indivi duis eorum ambitu conteniis. 2.
Quid quid repugnat vel generi specici, repugn it omnibus quoque speciebus , et
individuis sub iisdem contentis. * 3. Cui convenit definitio , convenit pariter definitum : ac
proinde 4. a quo discrepat definitto , di screpat etiam definitum . * Vides
ergo ideam mediam semel universaliter sumi debere , quia ideam universalem , ge
. mus nempe vel speciem , exhibet. Quod si bis particulariter sumeretur ,
ratiocininm vi tio laboraret , ut infra dicetur. Quumque praedicatum tam latc
pateat , quam subiectum cui tribuitur , ut cuique manifestum est : li quet ,
propositionem , in qua medius vicem praedicati sustinet , particularem esse.
Debet ergo medius terminis universaliter sumi in ea propositione , cuius
subiectum constituit Et quoniam propositio , in qua subiectum in tota sua
extensione sumitur , est universalis: liquido infertur , saltem unam praemissaram
esse debere universalem. Variae syllogismorum figurae Scho lasticis fuere in
deliciis , quas barbaris ali quot vocabulis , versibusque distinguere
consueverunt. Nos , missis futilibus tracla tionibus , regulas quasdam
Tironibus ma xime inservituras , quibus syllogismi leges breviter exponuntur ,
hic subiiciinus , quas. sequcntes exhibent. Cap. IV. De rat. et Syll. 119
CANONES. In syllogismo non plures termini sunto , quamtres. Si quartus irrepserit,
vitiosusiesto. Est lex eo magis observanda , quo omnia sophismata , si bene
perpendantur, contra illam peccare observamus. Ecquid enim sunt fallaciae tanto
labore a Scholis evolutae, an liquitatis , amphboliae , dictionis composi
tionis , divisionis , caussae , dicti simpliciter, con e juentis , accidentis ,
cetera, nisi syllogi smi e quatuor terminis conflati , in quibus quarins
cryptice latet ? Veritas hace altcate consideranti baud aegre patescet . Vide
quae de quatuor terminis diximus g. Medius terminus numquam conclu sionem
ingreditor. Monstruosuin enim es set , caussam in effectus constitutionem
immisceri. : * → Intellectus enim in ratiocinando vice Mathe matici fungitur.
Quia vero Mathematicus dua rum magnitudinuin aeqnalitatem ex cniusdam tertii
adplicatione cognoscit , nec , nisi in comparatione , mensuram adhibet : ita et
in tellectus in ratiocinando ex duobus indiciis 118 Logica Pars. I. * tertium
ervit , in quod medium comparatio nis ingredi , valde foret absurdum. Vitiosum
ergo esset ita raziocinati : Omnis bonus Phi losophus est homo : Titius est
bonus Philo sophur : ergo Titius est bonus homo. Medius Damque terminus ex
parte in conclusionem irrepsit. 4. Non esto plus minusve in conclu sione, ac
fuit in praemissis, ne quatuor inde éxoriantur termini. Si nanque praemissae
sunt veluti comparatio nes duarum magnitudinum cụm tertio eisdem adplicato ,
scilicet mersura : iudicium ex comparatione ipsa procedens , perfecte com parationibus
ipsis convenire debet. Quando vero in conclusione plus minusve continetur, quam
in praemissis , idem esset , ac si dice res productum maius vel minus esse
altero, quod ex iisdem factoribus est ortum Plus cotineret conclusio , si ita
diceres: Qui alium l'aesit , puniendus est : Cajus alterum laesit: Cajus ergo
morte puniendus est. Minus con tra , si sic ratiocinaris : Qui furium commi sit
, restitutioni et poenac subiacet : Titius fur tum commisit : tius restitutioni
subiacet. 4. Ex puris particularibus , vel ne gantibus ( praemissis ) nihil
sequi , ius estc . Cap. V. De rat. et Syll. 119 * Diximus enim f . 86. * ,
praemissarum unam saltem esse debere universalem : unde si am hae essent
particulares , impingeretur in regulam 1.1 . S. cit.; si vero ambae negantes ,
tunc duarum idearum neutra cum tertia conveniret , adeoque nihil sequeretur per
S. 83. Falsum ergo esset dicere : Quidam bo mines suni doeti : quidam homines
sunt in docti : ergo quidam docti sunt indocti. Item Nullus impius salvatur :
nullus impius est pius : ergo nullns pius salvatur. 5. Conclusio partem
sequatur debilio rem , probe curato , ne in superiora pecces. * Pars debilior
est propositio particularis , vel negativa. Si ergo una praemissarum fuerit
particularis , conclusio quoque particnlaris , conclusio quoque particularis
esse debet , alias plus esset in conclusione , quam in praemissis ; quod est
contra regulam 3. : si vero una praemissarum fuerit negans con clusio adfirmans
contra regulam 2. In hoc eniin casu extremorum conclusionis unum cum medio
convenit , alterum ab eo discre pat ; adeoque ea inter se quoque discrepare
concludendum est ; quare conclusio negans esse dcbet. Quae de diversis
syllogismorum figuris regulae vulgo traduntur , eae ad rem non faciunt ; ac
proinde a nobis tuto prae terinittuntur, 120 Logita Pars. I. CAPVT SEPTIMVM .
De aliis ratiocinandi modis. 38. Sunt et aliae ratiocinandi formae , quae licet
a syllogismo diversae adpareant syllogismum tamen continent vel 1. CRYPTICVM ,
vel 2., COMPOSITVM , vel 3. MVLTIPLICEM. De his obiter praesenti ca pite
agemus. SYLLOGISMUS CRYPTICVS est , in quo forma ordinaria ( * . 71 * ) quo
modolibet périurbatur , aut occultatur. CRYPSIS ergo inducitur i . per ordinis
perturbationem , * . 2. per propositionum aequipollentiam per propositionis
alicuius omissionem , quo casu dicitur ENTHYMEMA , 4. denum per contractionem.
* Ordo perturbatur , ai quando propositiones transponuntnr : ut si prino
conclusionen vel minorem , de nde maiorein vel conclusio riem ponas. E. g. Quum
ira sit adfectus minor ) , debei omnino compesci (conclusio) ; omnis namque
adfectus est compesccn dus ( maior ). ܪ Cap. VII. De aliis rat.
" modis. 121 ** E : 8. Adfectus est attentionem turbare . Quum ergo ira
sit molus vehementior appe tus sensitivi ': infertur , in iracundo attcntio nem
mirifice perturbari. *** ENTHYMEMA igitur est syllogismus dua bus constans
propositionibus , quarum prima ANTECEDENS altera dicitur CONSEQUENS. In hac
argumentandi forma praemise sarum aliqua reticetur , speciatim vero illa , quae
cuique patet , ut : omnis adfectus tur bat attentionem : ergo ira turbat
attentionem. Minor deest , utpote quae ab audiente sup pleri potest. Eodem modo
et maior retice ri , minor contra exprimi solet : e. g. ir & est adfectus:
ergo estcompescenda. SYLLOGISMUS CONTRACTUS dicitur in quo solus maior cum
medio termino pro punijatur, relicto iniuore cum omni combi patione. Talis est
Cartesii syllogismus. Cogi 10 , ergo sum : ubi eogito est medius , est terminus
maior ; adeoque minor , scilicet ego , cum tota propositionum connexione
reticetur: integrum enim ratiocinium lioc,mo do exponendum erat: Quid juid
cogitat,exsistit ego cogiio : ego igitur exsisto. SYLLOGISMVS COMPOSITVS est ,
in quo adest aliqua' propositio composiía , estoque vel HYPOTHETICVS ; * vel CO
PULATIVUS, ** vel DISIVNCTIVVS , vel tandem ex hoc primoque coalescens, qui
proprio nomine vocatur DILEMMA. Tom . I. F . Sun : Hypotheticus , sive
conditionalis est , eut ius maior est propositio hypothetica: é g. Si homo est
rationalis , sequi tnr , ut sit libertatis capax : atqui est ratio nalis ; ergo
est capax liberatis De hoc te nenda regula : Adfirmata conditione, adfir matur
conditionatum ; et negato conditionato, negatur conditio. Quum enim in
hypothesi contineatur ratio sufficiens veritxtis proposi tionis , adfirmata
caussá adfirmatur effectus contra vero negato effectu, eius quoque caus sa
negari debet.. ** Copulativus , sive coniunctus est, qui malo. iorem habet duas
simul propositiones coniun gentem , et negantein , quarum unam minor adfirmat ,
alteram conclusio negat. E. g. Non potest anima sinni aeternum vivere , et cum
corpore perire , atqni aelernum vivit : ergo non perit cum corpore. **
Disiunctivas est cuius propositio maior est dis iunctiva. E. &. Aut anima
cst ens ' simple: aut compositum : sed non est cns compositum , ergo est
simplex. Notanda crgo regula : Ad firmato uno disi!ınctionis membro , reliqua
negantur ; ct negatis rcliyuis, unuin ad fir tur. Confer tamen quae de
disiunctivis pro positionibus diximus. Si ergo in maiori propositio bypothetica
cum disiunctiva copuletur , DILEMMA con surgit quod argumentatio bicornis vel
crocodilina vocari solet. Id vero definitur : Syllogismus hypotheticus , cuius
mai oris ' al 7 Cap. VII. De aliis rat. mo dis. Tera pars est disiunctiva ,
quae in minore negatur , et in conclusione totum destruitur. E. g. Si ens
simplex naturaliter cx alio en te oritur tunc aut ex alio simplici , aut e
composito oriri debet : sed neque ex alio ente simplici , neque c composito
oriri potest : ergo naturaliter ex alio ente non potest orlum du cere.
Mirificum est Dilemma AVGVSTINI Tract. 1. in Joann , quo Arianorum errorem
circa Verbi aeternitatem egregie confutarit Huc referenda quae diximus de
divisione MVLTIPLICEM SYLLOGISMVM , licet imperfecte exhibent 1. EPICHERE MA ,
in quo alterutri , vel utrique prae missarum probatio additur ; * 2 PROSYLLOGISMVS
, in quo ' prioris syllogismi conclusio posterioris eidem iuncti maiorem
constituit POLYSYLLOGISMUS , qui plurium syllogismorum connexionem contínet, e
SORITES, qui plures ita connectit propositiones , ut prioris aliribu tudi si !
posterioris subicctum . EPICHEREMA ergo rsl syllogisms . cuius praemissis
compendii caussa ralio Quirlitur Exemplum habes iu Cic. pro Sex Rusc. MAI. Vt
quis parricidii sit suspectus , is sce lestissimus ét audacissimus sit ,
oporlei. RATIO est enim crimen horrendum. NIIN . Sex Roscius non est talis
PROB. Non est audax , non luxuriosus mon avarus. 124 Loigica Pars. I. CONCL.
Non ergo est parricidii suspectus. ** In PROSELLOGISMO itaque duo adsunt
syllogismi coniuncti , quorum posterior ma iorem habet in prioris conclusione
contentam : quapropter eius minor SVBSVNTA vocatur MAI. Omnis spiritus est ens
simplex , MIN . Anima humana est spiritus : CONCL. Ergo anima humana estens
simplex. MIN . SVBSVMTA. Atqui ens simplex est indestructibile. CONCL. Ergo
anima humana est indestructibilis. Si prosyllogismus uiterius procedat , aliae
que minores subsumtae et conclusiones snb inugantnr , dicetur polysyllogismus,
hoc est plurium syllogismorum connexio legitime fa cta . Exemplum habebis infra
Part. II. Cap.3. Sect. 2. ubi demonstrationis specimen dabimus. SORITES a
Cicerone de Divin . Lib II. cap. 4. acervalis dictus , est plurium propos
sitionum cumulus ita connexarum , ut unius praedicatum sit alterius subiectum ,
adeoque tot syllogismos continet , quot sunt propo sitiones , demptis duabus ,
eodem fere modo, quo polygonum aa Geometris per diagonales in tot triangula
resolvi potest , quot sunt la tera demtis duobus. Haec autem argumenta tio nisi
cautiones quedam adhibeantur ad fallendum aptior est. Cautiones istae funt. 1 .
Nulla praemissarum diibia sit , aut falsa : > 1 Cap. VII. De aliis rał.
modis. 123 coram. ex falso enim antecedente non potest verum consequens oriri.2.
Non insint in Sorite duae propositiones negantcs. Hoc enim casu in eius
resolutione aderit syllogismus ambas praemis sarum negantes habens , quem vitio
laborare supra observavimus ( F. 87. can. 4. ) . En Soritis exemplum .
Quodlibet corpus est ali quo loco : quod est in uno loco , potest etiam esse in
alio : quod potest esse in alio loco , potest rnutare locum : quod potest
mutare lo cum , est mobile : ergo quodlibet corpus est mobile. Eius vero
analysis rationem reddemus 92. Syllogismo , eiusque speciebus . e diametro
opponitur INDVCTIO, quse vere ac proprie dici potest argumentatio a posteriori
, quippe quae a singularibus ad particularia , alquc ab bis ad universa lia
procedit. Haec autem syllogismo prior est : nam quum ope experientiae praemis
sas conficiat , indeque conclusiones eliciat universales , hac vero syllogismi
praemissas constituant , utpote qui ab universalibus ad particularia , vel ab
his ad singularia gra dum facit : hunc sine illa construi non posse , quisque
videt, INDVCTIO itaque est argumentatio , in qua quiquid de singulis speciebus
vel individuis speciation praedicatur , generatim quoque de toto genere vel
speeie enunciatur ; adeoque in ea tot minores adsunt , quot species vel in F 3 dividua
exprimuntnr. E. g. aurum , argentuan orichalcum , cuprum , stannum , plumbun ,
ferrum , igni inieclun liquefiunt : ergo omne metallum igni ni ectum liquefit.
Ad inductio nem ergo duo requiruntur , 1. plena partium enumeratio , 2. ut quod
inferioribus tribuitur, ile superiori pariter enuncietur. Si ergo par tes omnes
enuncientur , inductio dicelur com pleta , sin aliquae tantum , incompleta erit
: si denique una dumtaxat fars proponatur, EXEMPLUM adpellabitur, quod tamen ad
oratores non ad Philosophos pertinet , quum sit contra 34. S. n. 6. ** Ex iis
enim , quae diximus Cap. 1. , liquet, ideas universales abstractionis ope a
singulari bus erui. Eodem modo Par. 11. Cap. 4. Sect. I. ostendemus , indicia
universalia a sin gularibus abstrahendo confici. Id vero est , quod Inductionem
constituit. Quum autein praemissarum syllogismi saltem una debeat es se universalis,
patet , In ductionem syllogismo principia praestruere : adeoque illo priorem
esse. Schol. De hụius doctrinae usu tandem pauca delibare juvabit. Quae de
universa hac tractatione homini philosopho servanda sunt , qui sequuntur ,
exponunt. Cap. VII. De aliis rat, modis.127 CANONES, QVandaquidem ratiocinando
veritas + vi . innotescit , principia prius con siderato num solida sint et
indubia . Propositiones deinde ad trutinam revo cato , ac denique eurum
connexionem adcurate perpendilo , ne in quolibet r'a riocinandi modo fallaris:
“ . Quum enim syllogismus materia et forma con siet : illan vero propositiones
, hanc propo sitionum connexio , lioc est syllogismi "leges constituant;
cuiuslibet autem rei bonitas materiae soliditate ac formae aptitudine
absolvatur : patet; Philosophum de utraque sollicitum esse debere , ut ratioci
. nia sua tulo proferre possit. 2. Quoniam omnis argumentatio ad unum redit
syllogismum , id agito , ut huius leges nocturna diurnaque manu verses : alioquin
loqui scies , non ratio cinari. Exploratum namque est , quamcumque ar
gumentationem syllogismuni esse vel crypti cum ", vel compositum , vel
multiplicem: nisi ergo syllogismi probe gnaa rus , nulliusmodi argumenta
poterit quisque proferre. Qua de remiramur, viros alioquin F4 doctissimos , et
de Philosophia optime atque abunde meritos , syllogismo fuisse adeo in fensos ,
ut eum inutilem , immo nullins bo ni effectorem esse clamitarint. Infra vero ab
unde patebit , scientificam methodum sola syllogismorum concatenatione absolvi
: unde evidenter proseguisque deducet , syllogismum homini philosopho esse
omnino necessarium Videatur Wolffius in Log. Germ . S. III. seq. , ubi
mathematicas demonstrationes absque illo fieri non posse , experiundo ostendit
3. Si cum alio res tibi fuerit , omnia eius argumenta in syllogismos resolvito
: tunc enim clare perspicies, cunctane re. cte procedant, an aliquis lateat
error , an sub ambagibus fallacia occultetur. Varii namque sunt fallcndi inodi
a Scholasti cis magno labore evoluti , qui tamen si ad sillogismum eiusque
leges , tamquam ail ly, dium lapidem , exigantur, oppido evanescent, Ut hoc
exempli loco addamus , si soriten duas propositiones negantes habentem in syl
logismos resolvas : 'nonne statim patescet do lus, quum tres negantes
propositiones in ra tiocinio , adeoqoe contra quartam eiusdem " legem
peccatum esse , observabis. Praeclaro igitur hoc duce uti nolle idem esset , ac
in. ventis frugibus , glandibus vesci. Hucusque usque satis satis.dede mentis
mentis ope ope rationibus actum . Quum autem Logicae sit non contentiones
nequicquam fovere, sed hominum vitae consulere , atque intel lectum in
veritatis investigatione dirigere: doceamus , oportet , qua ratio ne tribus
hisce mentis operationibus in cognoscendo diiudicandoque vero recte uti
debeamus. Quod ut commodius effici pos sit , pauca quaedam de veritate
generatim spectata, eiusque genuina tessera , hic prae mittemus, VERITAS est,
vel METAPHYSICA, quum ens aliquod actu exsistens suam habet essentiam ; vel
ETHICA quando quilibet sermo interno sensųi , F 5 130 Logica Pars. II. scilicet
conscientiae , respondet ; ** vel denique LOGICA , si cogitationes nostrae
obiectis suis sint conformes. Quia vero hic cum Metaphysica atque Ethicą nihil
no bis est negotii , de veritate logica verba tantummodo faciemus. Metaphysice
ergo verum dicitur quidquid om nibus gaudet proprietatibus , quae ad con
stituendam eius essentiam sunt necessariae : adeoque huic falsum opponi nequit
, qoia es: sentia entis est necessaria et immutabilis ut in Metaphysica fusius
docebimus , ac proin de nequit ens exsistere , et sua simul essen . tia carere.
Ita aurum est verum aurum , qu pin omnia auri adsunt requisita. At non_da tur,
inquies , falsum aurum ? Minime. Tunc enim non aurum , sed cuprum , orichalcum
, aliudve , aut e pluribus metallis revera mi xtum erit. Illud autem verum
aurum iudica. re , est nubem po lunone amplecti , atque a veritate Logica
aberrare. ** Verę loqui dicimur , quum secundum cong scientiam loquimur , idest
dicimus quae trinsechs sentimus. Atque ḥaec veritas dicitur moralis sive ethica
, cui opponitur falsilo suium , quod est sermo contra concientiam prolatus , de
in Moralibus agemus. quo 93. VERITATIS LOGICAE vocabulo itelligimus
convenientiam cogitationum no strarum cum rebus ipsis, Quumquç no . De ver.
eiusq. crit. 131 stra congitandi facultas tribus tantum mo dis sese exserat ,
vel in ideis forinandis vel in iudiciis eruendis vel denique in rationibus
conficiendis ( S. 15. ) : liquet , logicam veritatem vel in ideis , vel in iu diciis,
vel in ratiocinatione reperiri. * Hac definitione veritatem abstracto modo con
sideramus : concreto namque definiri posset per cogitationem obiecto suo
consentaneam . Porro veritasa Logicis dispescitur in FORMALEM, et OBIECTIVAM .
Illa est , cuius obiea ctum extra nos vel non existit vel non tale ut a mente
nostra concipitur : quales sunt veritates omnes purae geometricae; haec ve ro ,
cuius obiectum extra nos realiter exsistit. Ham alii INTERNAM hanc EXTERNAM
adpellare consueverunt. Illa est clara , distin cta , et indeficiens , quippe
qua mens de se suisque operationibus iudicat , haec vero ob scura, dubia , et
fallibilis : non enim per eam, scire possumus , utrum cogitatioues nostrae
obiectis suis extra nos positis conveniant necne ? adeoque quum veritatem
habemus in ternam , de reali extra nos obiecti exsistentia iudicare non
possumus ; quum contra veritatis externae compotes certi simus obiectum in
cogitatione exsistens extra eamdem etiam rea liter existere. 96 IDEA VERA
dicitur , si quando nca bis rem , uti in seu est , repraesentemus : *verum est
lyDICIVM , siconiungenda co 2 F 6 132 pulemus , separanda seinngamus ; 've rum
itidem RATIOCINIVŇ , si ' neque in materia , neque in forma peccaverit, * Idea
ergo singularis ( $. 28. ) vera est , si quando eius obiectum extra nos
realiter exsi stat , eoque modo , quo nobis illud reprae sentamus : vera
pariter dici debet idea uni versalis , dum compositio vel abstractio a re rum
natura non recedit , ita ut characteres illam comitantes simul in uno inveniri
pos sint. Vides hinc , ideas deceptrices , chimae ricas , aliasque obiectis
suis nullo modo re spondentes dici non posse veras. Advertas - tamen ,
absolutam obiecti deficientiam , vel ideae ab eo discrepantiam veritati nocere.
Si namque obiectum non sit evidens , nec ideae characteres eum eo conferre
queamus ; con tra vero sufficientibus indiciis de eius verita te certi simus :
notionem illam deceptricem vel terminum eam exprimentem inanem ad pellare , est
contra Logicae regulas , ac pri ma cognitionis humanae principia tnrpissime
peccare. In hunc errorem incidunt quicum que de mysteriis Sanctae Religionis
sermonem instituentes , aliquam credentibus notam inu rere conantur , quod
vocabula mente cassa proferant e id quod alibi diffuse enodabimus. ** Nimirum si
de re quapiam aliquid adfirme mus vel negernus, quod adfirmari aut negari
oporteret : veluti quum soli spendorem iri, buimus vel tenebras ab removemus ?
tunc judícia nostra veritate gaudebunt, f 2 2 eo 2 Cap. I. De ver. eiusq. crit.
133 *** Ratiocinationis , sive syllogismi materiam es se tres illas
propositiones , e quibus confla tur ; formam vero leges . ( S. 87. ) expositas,
supra docuimus ( 6- 84.** ). Si ergo pro positiones fuerint verae : leges autem
adcuras te servatae , ratiocinium non poterit non es se verum : quia , quum
qualis est caussa , ta lis esse debeat effectus , non potest ex veris
praemissis falsa legitime fluere conclusic. Ex quo liquido colligi potest , eum
, qui prae missas concessit, non posse negare conclusio nem ex iis legitimo nexu
fluentem . Cave tas men , ne ex conclusione , licet evidenter ex praemissis
deducta , de hárum veritate audeas áudicare : potest enim conclusio vera
legitime ex falsis ambabus oriri praemissis. Talis es, set sequens syllogismus
: Omnis virtus est fugienda : Avaritią est virtus ; Ergo avaritia est fugienda,
Vides hic veram conclusionem legitime ex fal sis praemissis deductam . Possesne
conclusionis veritate praemissarum quoque veritatem ar 97. Quoniam iudicium
verbis expres sumi propositio dicitur ( § . 60. ) : evi dens est. propositionem
dici veram , quae adfirmanda adfirmat negandaque ne gat , servata ubique
quantitate. * Sed quia non omnium cnunciationum veritas , nec ab omnibus
distincte perspicitur : criterium aliquod inveniatur , oportet , ad quod guere?
134 Logica Pars. I1. tamquam ad lydium lapidem , propositio nem quamcuinque
exigentes , eius verita tem dignoscere queamus. ** • Veluti quum particulariter
enunciatur de su biecto quidquid extra illius naturam ; vel uni versaliter
quidquid in eius essentia rationem habet sufficientem . Vid. supra Part. I.
Cap. 5. Sect. 1. . 68 . ** Hoc autem criterium exsistere debet quo
propositiones veras a falsis , a phanta smatis , realitates ab insomniis
discernere pos simus : alias enim homo in perpetua illusia ne versaretur , id
quod est Divinae sapientiae, homini, ipsiqne humanae menti iniurium . Quia de
te Philosophi omnes in eo consenserunt, li cet in adsignanda illa tessera in
contrarias partes opinando ierint, res 98. CRITERIVM VERITATIS est ra tio
quaedam sufficiens , per quam intel. ligitur cur praedicatum subiecto tribua
tur , vel ab eo removeatur . * Nimirum ut cogitationum nostrarum cum obiectis
suis conformitatem perspicere possimus in 93. ), eiusmodi characteres in promtu
haberi de bent , quibus attributi cuin subiecto con venientia vel discrepantia
ita determinetur, nt mens adquiescat , nec ullus de earum veritate supersit
dubitanli locus. ** Qua propter characteres illi REQVISITA ad peritatein recte
dicuntur, *** Cap. I. De ver . eiusq. crit. 135 Variae de veritatis criteriis
omni aetate fuere Philosophorum opiniones , exceptis Academi cis , üsqne, qui
Scepticismum ad furorem usque provehere ausi , atque a Pyrrkone Pyr.
rhonistarum nomine insigniti , nihil a nobis vere sciri posse , temerario ausu
adfirmarunt, quorum insania comploranda potius esset , quam confutanda. PLATO
yeri tesseram es se statuit , evidentiam intelligibilem aeterna rum idearum
mentibus participatarum ; EPI CURUS fidem sensuum. ARISTOTELES medium inter hos
iter tenens , utramque evi dentiam veri criterium posuit : illam nempe in
intelligibilibus ; hanc in iis , quae sensi bus percipiuntur. STOICI , secundum
Laer , tium , veri indicinm aibeant comprehensibilcm phantasiam hoc est ,
evidentiam &maginationum; CARTESIUS cum recentioribus , elaram, et distin
ctam perceptionem : in Medit. 4.; MALEBRANCHIUS cam evidentiam , quam inter na
animi coactio sequitur , ut ei adsensum denegare nequeamus. Lib .I.de inquir.
verit. LEIDNIȚIUS in triplici evia dentia , intellectus , sensus et auctoritatis
criterium illud posuit. Quae vero de his ob servari merentur , in ipsis
praelectionibus ex ponemus. In hac ergo propositione : Aer est gravis ,
qualitas attributi, hoc est gravitas, per no tionem aeris determinatur : in hac
enim inest ratio sufficiens cur ipsi illam tribuatur. Quum enim aer corpora
inferiora premat ; idque > 136 Logica Pars. U. ad costituendam gravitatis
notionem requira tur : clare patescit, aerem esse gravem , adeo que
propositionem esse veram . Et hoc est, quod Wolffius , criterium verae proposi,
tionis ésse determinabilitatem attributi per notionem subiecti. 7 *** E. In hac
propositione : Caius est invia dus , requisita ad veritatem sunt invidiae cha
racterés alibi enumerati , qni in Caio deprehenduntur , quique rationem con
tinent sufficientem , cur Caio to invidum es se tribuatur, Quum igitur
veritatis criterium in ratione sulficiente consistat , et a requisitorum collectione
constituatur sequitur 1. ut inter veritatis crite ria adnumerari debeant
quaecumqne iis de terminationibus praedita sunt , ut a mente, quamvis invita ,
adsensum extorquere pos sint. At quia experientia quotidiana docet, mentem
nostram non convinci , nisi ' sen suun testimonio in rebus sensibilibus, * in
tellectus evidentia in intelligibilibus , auctoritatis deuique pondere in iis ,
quae neque sensu , nec ratione percipi possunt : liquet 2 . criteria illa pro
rerum di. versitate tria statuenda #Y *** esse , intellectus sensuum et
auctoritatis EVIDENTIAM. nempe , Cap.II. De ver. eiusq. crit. 137 * Per res
sensibiles intelligimus non modo cor poreas quae sensibus exsternis , sed et
ipsas animae actiones , quae sensu interno perci piuntur. Quum igitur :Naturae
sa pientissimus Auctor hominem conscientia , sen suque cum omnibns organis
instruxerit , ut : omnium cogitationum suarum obiecta distin gueret , eorumque
conscius esset : non ab re vera esse pronuntiamus, quae internus eter nique
sensus ita se habere testantur. ** Et quidem omnium axiomatum evidentia a primo
cognitionis humanae principio , nempe non posee idem simul esse et non esse ,
ori ginem suam repetit ; hoc vero principium in timo sensu cunctis innotescit.
Quaecumque porro propositiones a veritatibns evidentibus legitimo nexu
deducuntur eamdem evidentiam adquirunt, quam illae habebant , id quod ra tione
duce ac demonstratioris ope conficitur quibus intellectus convincitur ,et mens
adquie scit : evidens ergo est , veritates tam demon strabiles , quam
indemonstrabiles ad Logicae reguias cxactas revera exsistere , ab homini bus
certo cognosci posse , earumque criterium in intellectus adquiescentia reponi
debere nempe ut Malebranchius ait , iu ea 'eviden ' tia , qnae internam
producit coactionem , at que a mente adsensum extorquet. Huiusmodi sunt
propositiones humanum ca ptum superantes , nobisque ideo imperviae , quae quum
ab Ente intelligentissimo tantum agnosci possint , revelatae tandem addiscun
tur , fidemque mereatur : quum entis illius perfectiones sint infinitae , nec
de illarum 2 I veritate addubitari sinant. Eiusdem commatis sunt facta , sive
propositiones singulares , quae in locis temporibusve remotis extiterunt, qnae
que nec. sensibus , nec ratione a nobis una quam erui possunt, quidquid contra
dicat D. Rousseau Disc. sur l ' inegalité parmi les ho mm . ; sed sensibus olim
ab adstantibus coaevis que percepta , ab his vero vel scriptis vel per manus
tiadita ad . nos pervenerunt : ct quia narrantium auctoritas suspecta non est ,
certitudinem , aut saltem probabilitatem in mente producunt. Vides hinc ,
sententiam nostram in intelli gibilibus rationem, in sensibilibus experien liam
, in factis rebusve humanum captum ex superantibus auctoritatem commend.ve ;
adec que eamdem asse cuin Cartesiana , Malebran chiana, et Leibnitiana. Sed
quia tessera haec certitudinem potius , mentis scilicet nostrae statum , quam rei
veritatem respicit , de ea, quam producit , evidentia plura infra , ubi de
veritate certa sermo erit , haud spernen da dicemus. Interim confereudus
Io.And. Osiander Diss. de Crit. Verit. Tubingae 1748. FALSITAS veritati
opposita est di screpantia cogitationum nostrarum ab obiectis. Quumque
oppositorum contrariae sint adfectiones , patet , falsitatem vel in ideis, vel
in judiciis, vel in ratiociniis reperi ii ; * adeoque FALSITATIS CRITERIVM esse
manifestum rationis illius sufficientis defectum . Cap. I. De ver . eiusq. Falsa
ergo est idea , quum aliter se habet a re repraesentata ; falsum iudicium aiens
. , si quando subiecto non conveniat attributum , negans vero quoties boc illi
conveniat ; adeo que falsa propositio , quae neganda adfirmat, adfirmandaque
negat , vel quae universaliter enunciat quod particulariter enunciari
debe . bat ; falsum denique ratiocinium , quod in materia vel forma peccat
: i illa , quando propositiones sunt falsae ; in bac vero , quum syllogismi
leges, violatae sunt. ** Propositionis falsae rera tessera est , si non modo
desit ratio sufficiens, cur praeuicatum subiecto tribuatur , vel non ; verum
adsit rl tio , cur contrariuin enuncietur : tunc enim subiecti notio determinal
qualitatem attribu ti oppositi. Porro in ratiociniorum forma fal sitas esse
potest vel patens , vel latens . Si vitinn sit manifestum , dicuntur PARALOGISMI
; si vero crypsi aliqua tegatur , vo cantur SOPHISMATA A Scholasticis am bo
vocantur FALLACIAE. Paralogismus est sequens: Omne homicidium est vitandum ,
nullum furtum est homicidium ergo nullum furtum est vitandum. In co enim aperto
peccalum est colra Can . 4.6. 87.: me dius enim terminus his particulariter
sumtus est. Sophisma contra crii , si sie ratiocinabea ris : Populus ex terra
crescit : mulliluilo ko. 140 Logica Pars. II. minum est populus : ergo
multitudo hominum ex terra crescit : quatuor namque termini ir repsere per
aequivocationem termini populus, qui in maiori arborem , in minori hominum
multitudinem siguificat. ** Plurima de fallaciis ad nauseam usque a Scho
laflicis tradita invenientur , qui tamen tot tan tisque tractationibus nullum
fecerunt operae pretium. Quia vero in huiusmodi failaciis, fi ve dictionis,
five (ut ipsi aiunt) extra di ctionem , vitium plerumque latet in quarto
termino cryptice tecto : Auditorum nostro rum mentes non ultra fatigabimus :
attamen, si sapient , syllogismi leges memoriae inscul pent, et ad terminorum
numerum semper animum adverlut. Quibens relligiose servatis, aut nihil scimus ,
aut numquam , neque de cipi ratiocinando , nec alios deçipere pote runt. Schol.
De huius tandem docirinae usu opus cst , ut aliqua addamus. Ea paucis iisquo
baud spernendis comprehendemus regulis . Qui ergo Philosophi nomen adse qui
cupit , hos probe teneat. Cap . 1. De ver. eiusq. crit. CANONE S. I Dea , quae
characteres continet si * bi invicem repugnantes, deceptrix est : imaginaria
vero , qua ob similitudinem quampiam nobis fingimus quod non est, ut quasi per
imagniem oculis obiectum praesens sistamus. ** * Hae igitur ideae proprie
loquendo non falsae, sed potius impossibiles dici possunt , quia nihil sumt: ut
' idea circuli quadrati , ligni ferrei , creaturae infinitue', ec. ** Vocantur
istae a Wolffio vicariae realium , quia earum vices gerunt , ut si memoriam ti
bi rapraesentes per receptaculum idearumi : licet enim nulla adsit analogia
inter spiritum el corpus , atque adeo inter eorum proprie lates : ob
similitudinem tamen , quod , sicut in receptaculo plura servamus , quae inde ,
quum opus fuerit , depromiinus , ila memoria plures ideas , quae tamdiu latuere
nobis sug gerit , memória ipsam veluti receptaculum nobis sistinus 2. De eo ,
cuius clare et distincte ra tionem perspicis sufficientem , tuto adfir mato :
negalo vero , quod eidem pari ratione refragari cognoscis. Si eam non adhuc
nosti : licet pro incerto haberi 142 Logica Pars. II. ſas sit , ne temere
iudicato , donec veri tatis eius , falsitatisve criterio polleas. Hoc quidem
modo vitari poterit audax illa in iudicando praecipitaptia , quae incautos
maxime adolescentes quamplurimis subjicit erroribus. Hi ramque sola suarum
virium praesumtione freti iudicia sua nec rationc ful ciunt, nec ad criterium
aliquod exigunt ; quo fit , ut ea praecipitanter nimis prouentiare adsueti , ratione
tandem destituantur, et quid quid in buccam venerit effutiant. 5. Si diu in
veritate invenienda fru . stra taboraveris , examen reintegrato. Si ne id
qutdem profuerit , ne rem pro falsa , aut impossibili venditato , nitam
ridiculus sis , qui mentem tuam veri ful sigue mensurani esse existimes. * *
Perutilem harc cautionem inculcat Genu eusis noster , quae dici non potest ,
quanto sit omuibus adiumento. Quum enim obscurilas plerumque sit relativa ,
eiusque caussa in - bo mirum n.entibus , raro in re percepta , sit quaerenda (
S. 20. ) : nullum est huiusmo di iudicium , quod non ex praecipitantia fluat .
Qui enim ita se gerunt, ni mia de in tellectus sui viribus praesamtione
laborant, idque agunt , perinde ac si supremum persprie caciae cognitionisge
gradum obtineant, cui an tefcratur remo, pauci pares putentnr. In hanc rigrilam
offendunt quicumque mundi creatio Cap. II De ign. et er. cor. caus. 143 nem iu
tempore , aliasve doctrinas , quas intellectu adsequi nequeunt , proimpossibi
libus venditant , ut fusius in Metaphysica docebimns. Id vero quam ridiculum
sit , nemo non videt. De ignorantia et errore , eorumque caussis. A Ctio mentis
, qua verum ( S. 94. ) agnoscit, resque sibi re praesentat ac percipit , COGNITIO
adpellatur. Eius vero absentia dicitur IGNORANTIA, quae definiri pot est per
statum mentis cognitione desti tulae . * Sic e g. qui disciplinae alicuius
veritates ac praecepta novit , eaque mente tenet , illius cognitione gaudet :
contra vero , si ea cogni lione sit 'destitutus , disciplinam illam igno rare
diciiur. 103. Experientia quisque sna it aliena doceri potest , hominnm
plerosque nihil aut minipium admodum in rebus cogno scere ; plurima quoque
nesciri ab iis , qui acriori se praeditos ingenio jactant : cos vero , qui
doctissimorum virorum nomine gaudent , quo longius sua sese exserit co gnitio ,
eo plurima se ignorare comperient. 144 Logic. Pars II. * Ex innumerabili rerum
, quae sciri possunt , puniero ingenii cuiuscumque vires superante,
domesticaque experientia fluxit mos ille lau dabilis ad utilium rerum
cognitionem ani mum adplicandi , neglectis iis , quae ad cu iusqne statum
minime pertinentes, inter su ferflua et inuțilia referuntur. Recte namque
observaverat Seneca necessaria a nobis igno rari , quia superflua discimus. Id
ipsum er go argumento est , homines , postquam ad sublimiorem , ut aiunt,
cognitionis apicem pervenerint , quamplurima adhuc habere , quorum nulla se
gaudere cognitione animad vertant, illoruinqe esse admodum ignaros. 104. Ex quo
patet 1. omnes homines in stalu verae ignorantiae versari , ac ne minem un
quani reperiri posse , qui omui moda rerum cognitione praeditum se tuto
adfirmet : quapropter oportere 2. ordine na in studiorum curriculo servari , ut
primo necessaria * deinde ütilia , postremo iu cunda discantur ; adeoque 3.
eruditorum reprchensionem merito incurrere eos , qui neglecta hac methodo ad
superfluarum re rum siudiuin animum adplicant , param curantes ea , quae ad
interni extervique status suiperfectionem sunt necessaria. Necessaria dicuntur
, quae Dei suique cogni tionem spectant , item quae facultatem quam quisque
profitetur , postremo quae ad socie tatis commoda promovenda pertinent. Cap.
II. De ign. et er. eor. cans. 1.45 ** Suo itaque officio deesset Medicus , si
ne glecta medendi arte, eruditioni, hoc est quid quid extra Medicinae ambitum
est , operam daret. Ignorantiam quoque suam magis pro moreret Legisperitus , si
pro legum codici bus , medicos aliosve sibi inutiles libros evol veret. Alque
utinam nostro hoc aevo Lit teratores isti extra aleam aberrantes defide,
rarentur ! 105. Ad ignorantiae porro caussas de tegendas nobis lucem quam
maximam ail fert experientia. Ea enim duce scimus igno rantain oriri a 1.
DEFECTV IDEARVM , non solum in iis rebus , quae nostrum si perant captum , sed
etiam in iis , quae iu jus limites von excedunt , 2. MENTIS IMBECILLITATE ,
sive impotentia co gnoscendi idearum nostrarum relationem , LABORIS IMPATIENTIA,
qua fit, ut attentio minuatur, ideaeque fiant deterio res, STVDIORVM CONFVSIONE
, MEMORIA vel nimia, vel labili, 6. denique SVBSIDIORVY INOPIA. (t ) Impotentia
haec ab idearum mediarum defe ctu pendet : quo fit , ut communi illa defi
ciente mensura , nec conferre inter se nolis nec propterea vertalem delegere
quaemus. ( ones T. 1. ** Confusio
studiorum habetur , vel quia fine attentione aut ordine fiunt , vel quia
plurima eodem tempore cursimque discuntur : ex quo pluribus intentus minor est
ad singula sen sus. Hinc nimia illa sciolorum turba , solis frontispiciis
praefationibusque furfuroscrum , nostram invasit aetatem, ** Nimia namque
memoriae praestantia laboris impatientiam, adeoque ignorantiam parit ; illius
vero infidelitas cognitionis defectum au get. Ecqua enim cognitio ei , qui unam
al teramve propositionein memoria retinere non valet ? ( + ) Subsidiorum nomine
veniunt Magistri, si ve viventes illi sint , sive mortni, scilicet li bri. Ex
horum enim defecte lici non po test , quot sublimia vilescant ingenia , quae
vel mechanicis adeo artibus, aut otio et libidi ni se addicunt. Elegantissimum
est Alciati em blema , quo ingenia ista iuveni euidam com parat , cuius
sinistra manus duabus alis in Coclum tollitur , dextera vero ingenti pon dere
impedita deorsum fertur. Cujus em blematis dilucidationem reddemus Dolendum
autem magnopere est , quod si quando iuvenes isti litterario furfure vix in
crustati Rempublicam invadunt , societatis perturbatores , bilingues ,
susurrones , ad pessima demum et turpissima quaeque , ( si paucos excipias )
parati evadunt. 106. Haec de ignorantia. Quando au tem propositicni verre
dissensim , falsae contra adsensum praebemus, tunc ERRA coram Cap. II De ign.
et ei. cor. caus. 147 RE dicimur, sive judicia confundere. Qua propter ERROR
definiri potest , quod sit confusio iudiciorun . Error autem in iu dicando
commissus PRAEIVDICIVM * adpellatur , quod esse dicimus iudicium erroneum
praecipitanter et sine maturi tale latum. Dicitur vero praeiudicium , vel quia
sanae mentis praevenit iudicium , vel quia praema ture et fine criterio
profertur. Talia sunt pleraque vulgi praeiudicia , veluti: discum solis
diametrum habere circiter bipalmarein: cometas esse bellorum caussas : et alia
eius modi. 107. Quum praejudicium sit iudicium erroneum ; error vero confusio
iudiciorun: evidens est s . praeiudicia na sci ex idearum ob curitate et
confusione, adeoque 2. eorum originem ab intellectus corruptione unice esse
petendam . Equidem sunt plerique , qui praeiudiciorum originem a voluntaté
repetunt, eamque pri us emendandam esse aiunt ; ii tamen io to aberrant coelo :
voluntariam namque praeiudiciis adhaesionem vel negligen liam animum ab iis
liberandi , pro praeiudia ciis venditant . Si vero rem probe per penderint
videbunt, ea , quae voluntatis vitia asserunt , ab intellectus vitiis vel
imagin natione pendere : et si qui méntem obun brant ad feclus , appetitus quippe
sensitiyi * * 7 G 2 148 Logica Pars. It. ** vehementiores molus , non aliunde ,
quam ah ideis obscuris et confusis ortum trahunt. Qua de re legatur Syrbius in
Phil. rat p : 5 . 108. Duo intérim sunt praeiudiciorum genera , AVCTORITATIS
scilicet , et NIMIAE CONFIDENTIAE . * Illa sunt , quae nostris viribus parum
confisi , nimi aque oscitantia laborantes ab aliorum , quorum apud nos plurimum
valet ancio ritas , scriptis vel sententiis kausta adopta mus , eaque pro
sanctis habenda puta mus ; hec vero , quae nostris viribus niinium fidentes ,
quamquam praecipitan ter et sine meditatione prolata . , tainquam vera lamen
adsumunus illis firmiter achae remus , et proeiis , veluti pro aris et fo . cis
, pugnamus. * Addunt alii praeiudicia AETATIS. At quum illa non sint, nisi
opiniones praeconceptae a nutricibus parentibus , atque magistris a teneris ,
ut aiunt , unguiculis haustae : ea ad auctoritatis praeiudicia referri , nemo
non ri det . Illustris VERULAMIUS de augm. scient V. 4. praeiudicia , , quae
iilola vocat , in quatuor dividit classes , quarum prima am plectitur idola
tribus, scilicet quae in ipsa hamana natura fundata sunt ; altera idola specus
, hoc est hypotheses a nobis ipsis provenientes ; tertia i: lola fori , idest
prae concept as opiniones , quae ab hominum com mercio mabant ; quarta denique
idola the *** Cap. II. de ign. et er. eor. caus. 149 atri , videlicet erronea
iudicia , quae ex Phi losophorum sententiis bauriuntur. Quae 0 mnia ad duas ,
quas retulimus , classes com mode referri possunt , ut coram ostende mus. *
Auctoritatis praeiudicia sunt ea , quae a nu tricibus , magistris ( vivis illis
mortuisve ) , aut populo haurimus : eiusmodi sunt opinio pes omnes aliquibus
civitatibus , familiis , vel.: sectis familiares , quarum cultores illis , tam
quam glebae , adscripli , nulloque utentes iu dicio , eas, tamquam oracula ,
pronuntiant seque inde dimoveri non patiuntur. Curio sissima est Galilaei
narratio in Systemate co smico , de viro quodam nobili Peripatheticae
philosophiae addicto , qui qunm Venetiis in domo cuiusdam Medici sectionem
anatomicam perfici vidisset , in qua maximam nervorum stirpem e cerebro
exeuntem , per cervicem transire , per spiralem distendi , ac postea per totum
corpus divaricari observasset , nec, nisi tenue filamentum , funiculi instar ,
ad cor pertingere , a Medico rogatus , adhuc in Aristotelis sententia manere
vellet rumque originem a corde repelere? non sine magno adstantium risu
respondit : Equide:n ita aperte rem oculis subiecisti, ut nisi tex tus .
Aristotelicus aperto nervos corde deducens obstaret , in sententiam tuam per
tracturus me fueris. Quis , quaeso , haec au diens a risu ' temperaret ? ***
Vocari quoque solent praeiudicia receptae hypotheseos , novitatis , similia :
ut sunt sy nervo e G 3 750 Logica Pars 11. MAE , stemata omnia ab eruditis
inventa , quibus tam acriter inhaerent , ut uullum sit rationis pondus , quo ab
opinione sua dimoveri pa tiantur. 109. De errorum caussis, restat, ut paulo ca
addamus, Eae vel REMOTAE sunt quae mentem ad errores ac praeiudicia praeparant
et disponunt; vel " PROXI. , quae mentem ipsam ad iudicio rum confusionem
impellunt , erroresque producunt. Remotae rursus in generales dividuntur , et
speciales . Caussae generales sunt ATTENTIONIS DEFÈCTVS, qui ideas reddit
deteriores ADFECTVS , quos attentionem turbare , idearumque obscuritatem parere
supra ob. Servavimus, SCIENDI LIBRO ciun ralurali corporis inertia, COMPENDIA
et DICTIONARIA disciplinarum, in quibus nulla idearum analysis reperitur MALVS
vocabulorum VSVS , quo fit, ut auctorum sensus non intelligatur denique LI
BERTAS PHILOSOPHANDI. Praeiudiciorum cnim origo ab idearum ob scuritate
repetenda est , idearum vero obscuritatem pariunt attentionis defe clus et
adfectus er his ergo caussis praeiudicia nasci , quisque intelligit. Quainvis
enim corporis inertia laboris impa Cap. 11. De ign. et er. Cor. caus. ¥
tientiam creet , adeoque ignorantiae tantum Caussa esse possit ( * 105. ) : cum
sciendi tamen libidine conjuncta errorum genitrix est: etenim sciendi pruritus
efflcit , ut intellectus tali cupiditate ductus intra ignorantiae fuae te
niebras consistere nolit , opportunisque prae • diis vacuus ea investiget ,
quibus par non est , ac proinde in plurimos lahatur errores. ** Libertas enim
philosophandi iuxto maior in receptas hypotheses illidit ; nimis autem con
etricia in auctoritatis praeiudicia nos urget , sel saltem crassam parit
ignorantiam . 110. Speciatim autem AVCTORITA TIS praeiudicia oriuntur harum
trium abaliqua EDVCATIONE, scilicet, CONVERSATIONE [conversazione], et
CONSVETVDINE; ut et praeiudicia NIMIAE CONFIDENTIAE aa nimia INGENII FIDUCIA. Et
ut de educatione quaedam singularia attingamus , id sedulo notandum : praeiu
dicia , quae ab ca procedunt , tribus cha racteribus optime distingui, temporis
BREVITATE, 2. loci RESTRICTIONE , cognitionis DEFECTV. Qui quidem characteres
si desint , propositio non in ter praeiudicia , sed inter veritates com muni
hominum consensione probat as est referenda . Quot mala hominibus adferat
educatio , vix dici potet. Parentes enim tantum abest , ut puerorum intellectum
perficere eorumquemor is mederi curent , ut potius eorum aninum maximis
praeiudiciis, anilibus fabeliis , erro neisque opinionibus imbuant. De
magistrorum educatione nihil dicemus , ab iis enim quam multa hauriuntur
praeiudicia , quum iuvenes in magistrorum verba iurantes quaeuis eo run effata
sancta esse putent , ac de illis veluti de Religione , dimicent ! Conversatio
cuin libris et eruditis , consuetudo cum po pulo quot foveant errores , quum
res sit me ridiana luce clarior , in ea explicanda nihil immorabimur Legatur
interim Tullius Tuscul quaest. Lib. III. cap. 1 . Qui nimium suo indulget
ingenio , fieri non potest , quin in errores incidat, el pacdın tismum vel
contradictionis spirituin induat , quae duo vitia aliorum aversionem odiuinque
conciliant. Praeterquam quod novitatis studi um quanta hominibus mala
produxerit , ii sciunt, qui Ecclesiae vel litterarum vices er annalibus
didicerunt. *** Nimirum educationis praeiudicia tantisper in animo sedent,
donec ad maturitatem ra tionisque perfectionem sit perventum ; nou sunt ubique
earlem , sed quamvis in cuius cumque Regionis gentibus praeiudicia sedeant,
diversa tamen pro educationis morumque di versitate inveniuntur ; rudium tandem
von eti am sapientum mentes occupant ita , ut dum illi inter praeconceptas
opiniones erroresque iacent , hi eorum insipientiam ac ignorantiam destruere
nullo modo valentes vel rideant, vel de ea conquerantur. Cap. II, De ign. ei er.
eor. caus. 253 mus Omnes illae , quas recensuimus caussae praeiudiciorum
remotae sunt ; pro Xima namque est PRAECIPITANTIA . Quae quum ita sint ,
optimum , idqne uni cum , ad praeiudicia vitanda remedium est iudicium
suspendere, seu DUBITARE : est: enim DUBITATIO « prudens iudicii su spensio.
Tanc autem iudicium suspendi quum propositionein aliquam nec adfirmamus neque
negamus. * Cave la nen credas , ad praeiudicia vitandą conferre Scepticismum ,
vel Pyrrhonismum insanam nempe illum de onnibus dubitandi miorem , quo
hodiernos incredulitatis fauto . res uii , non sine dolore videmus. Stolidi tas
enim , nedum temeritas infanda foret sine sufficienti ratione dubitare. Sobriam
quip pe ac prudentem commendamus dubitationem eo fine institutam , ut
suspendatur iu licium , donec mens ad ideas distinctas clarasve per veniat. **
Totum hoc de rebus intra rationis fines ex sistentibus , nullaque evidentia
suffultis est intelligendum . Etenim quae Divina auctorita te nituntur , aut
mathematica gaudent eviden tia de illis dubitare , impium ; de his ve ro ,
foret adprime stullum . Schol. Espositis mentis humanae imbe . cillitate et
vitiis , reliquum est jis praebeanius medelam. Quamvis Feromul, 7 ut aptam ti
philosophicarum rerum Magistri , inter quos Nicolaus Malebranchius , et
Antonius Genuensis , quamplurima ad id remedia . proposuerint , quibus vel
minimum quidem addere , non opis est nostrae ; licebit ta men , ad Auditorum
nostrorum instructio nem , si plura n quimus , eadem saltem ab ipsis tradita
paucis repetere. Quisquis ergo ignorantiam errorenive yitare cupis , hos menti
infigito CANONES. MEREntem sedulo studio attentio ne , meditatione ab
obscuritate et confusione liberato. * In hoc enim in . tellectus perfectio sita
est, a qua exsu lant ignorantia et praeiudicia . * Ut id consequantur
adolescentes , prae ocnlis habeant quae in prima harum Institutionum parte
observavimus , ea praecipue , quae de ideis cap. 1. Schol. adnotavimus. 2. Ad
studia praeiudiciis liber ac do cilis , uti modo in lucem editis infans,
accedito . Magistrum eligito optimum ab eoque necessaria atque utilia disci io
, nihil verens ab eius , qui te ad sa pientiam manuducit, prius ore pendere:
Cap. II. De ign, et er. eor. caus. 155 ut praecepta demum , quum te ignoran tia
deseruerit ad examen revocare possis. * In Magistrorum electione magna cautio
adhi benda est : abea namque pendet cognitionum nostraram soliditas et
rectitudo. Ad eorum dotes praecipue attendendum , de quibus ideo pauca inferius
delibabimus. 3. Methodum ubique atque ordinem cordi habeto. In studiis
eapraecedant per quae sequentia intelliguntur. Ex hujus canonis neglectu oritur
studiorum confusio , quam ignorantiae caus sam haud postremam esse ,
experientia sensusque com munis evidenter ostendit Auctoritati nec nihil , nec
multum deferto. Nimia namque aliis adhaesio servum pecus ; sensus vero communi
ne glectus audacem efficit , omniaque sibi permittentem. 5. De iis , quae vel
Divina auctori tate , vel maxima evidentia destituta sunt , prudenter dubitato
, donec certus fias. Rectam rationem prius, sensum dein de optimorum communem
consulito . Quae captum vero tuum superant ne perqui rito , nisi prius
opportunis mediis probę fueris instructus. * G6 156 Logica Pars. II. * Si vero
captum humanum superent , ca non investigare omnino , recta ratio docet. 6.
Laboris patiens , memoriae ac per spicaciae tuae ne nimis fidens esto . Me
mento Poetae illud: ABSQUE LABO RE.NEMO MUSARUM SCANDIT AD ARCEM. Vides hinc ,
quam immerito a nostrae aetatis adolescentibus voluptati ac vanitati deditis
laboremque horrentibus cognitio studiorum que felix exitus expectetur. Compendia
et dictionaria , quippe quae nihil solidi profundique continent, ne multum
amato . Paucos habeto libros, eosque lectissimos. * Cum lectione me ditationem
semper coniungito Non nostrum est
praeceptum , sed Senecae , qui ut facilem Lucilio suo viam ad virtutem aperiret
, librorum paucitatem diserte com mendat his verbis : Cum legere non possis
quantum habueris , sat est habere quantum legas. Ep. 2. Vide quae diximns Part.
I. 8. Poetas caute legito , ne inanibus fabellis animunı imbuas. Populum , utpo
te pessimi argumentum , ut anguem fu gito . Senecam audito dicentem : SANA
TIMUR , SIMODO SEPAREMUR A ÇOETU, cap. 1. Schol. Cap. II. De ign. et er . cor.
caus. 157 Ad poetas quod attinet , eorum lectionem adolescentibus vel omnino
interdicendan , vel arctissimis includiendam cancellis cuperernus, quippe qui
vivida phanthasia pollentes ima ginationi retinere potius, quam laxare debent
habenas : id quod ia legendis Poetis contra evenit. Populi porro damna paucis
expressit idem Seneca, quum ait : Inimica est mullorum convcrsatu. Ep. 7. De
Veritate ceria , melliisque ad cam perveniendi. $ 12 . sis ad veritatis
investigationem gradum faciamus. VERITAS vel CERTA est, si in ea adsint omnia
veritatis requisita, ut nulla nobis de illa re maneat suspicio aut dubium , vel
PROBABILIS , si propius ad certitudinem acce dat , nempe quum non omnia insunt
re quisita . De illa nunc , de hac subsequen ti Capite agemus. CERTITUDO est
mentis status veritati adensum ita praebentis ut nulla de opposito adsit
sollicitudo Ex consequitur i , ut si quam minima adsit suspicio non certitudo ,
sed INCERTITUDO vocetur. Et quia non idem est om. nibus mentis status ,
sequitur 2. eamdem evunciationem uni certam esse posse , al teri incertam .
Tandem quoniam quisque mentis suae statum agnoscit , consequens est 3. ut nemo
aliorum certitudinis sed suae tantum iudex esse possit. * Quia omne , quod
verum est , vel absolute et in se tale est vel in relatione ad mentem , quae
non semper terminorum nexum distincte percipit : ideo Philosophi certitudinem
divide bant in OBIECTIVAM et FORMALEM , il lamque esse , aiebant , nexum
propositionis in trinsecum , hanc mentis nostrae statum respi cere. Nos illam
proprie VERITATEM , hanc CERTITUDINEM adpellamus. E. 8. Axioma ; Totum est
maius sua parte , si absolute et in se spectetur , VERUM dicitur , si vero ad
men tem referatur, CERTUM est , quia talia ad sunt indicia, ut ipsi absque ulla
oppositi formi dine adsensuin praestemus. Quoniam indicia ad certitudinem
ducentia trium generum esse possunt , sci licet vel absolute infallibilia vel
dalis tantum permanentibus caussis naturalibus , vel denique sccundum huinanae
prudentiae leges : evidens est 4. triplicem etiam esse certitudinem,
METAPHYSICAM nempe yel MATIEMATICAM , quae illis ; PHY. Cap. 111. De veritate
certa etc. 159 SICAM , quae istis ; MORALEM tandem , quae his fulcitur indiciis
, quaeque alio no mine FIDES HUMANA adpellatur. * Primi generis sunt axiomata,
aliaeque pro positiones nullis obnoxiae vicibus ;alterius haec propositio:
corpus non suffultum cadt : pos fremi vero haec : Augustus fuit primus Ro
manorum Imperator. 115. Experientia abunde constat , men tem nostram non statim
, nec semper , quod verum est , certo cognoscere- Via ergo quaedam ipsi
monstranda est , qua tuto ad certitudinem perveniat : eaque , pro certitudinis
varietate , diversa est ; spe ciatim vero triplex, EXPERIENTIA sci licet, RATIO
seu DEMONSTRATIO , et AUCTORITAS , de quibus singillatim , et quantum res ipsa furet
, breviter agemus. Uidquid a nobis sciri potest , vel singulare est vel
universale ( S. 26. seqq. ) ; itemque vel effectus, vel caussa . Singulares
porro ideas sensibus ad quirimus; universales' vero in 160 Logica Pars II.
tellectus abtractione conficimus. Rursus quaelibet caussa effecluin salte in
natura , praecedit , ut in Metaphysica do. cebimus. Duae igitur cognoscendi
viae no bis aperiuntur , altera , quae a singulari bus ad universalia ; itemque
ab effectibus ad caussas ascendit , nemp: a sensibus , si ve experientia
incipit ; ideoqne dicitur co gnitio a posteriori: altera , quae ab uni
versalibus ad particularia , a caussis ad ef fectus rationis ope descendit
descendit ,, ac proinde vócatur cogniíio a priori. De illa nunc ; de hac
sequenti sectione agemus. Omue itaque , quod experientiae ope scimus, dicitur COGNITIO
A POSTERIORI. Est autem EXPERIENTIA cognitio adqui sita ex attentione ad
obiecta sensibus obvia, Sic per experieutiam novi'nus aquam made. facere, ignem
col fucere , ceram igni admo tam liquefieri , ct id genus alia. 117. Quum
experientia sit in rebus sen sibus obviis; sensibus auien percipianlur les
exisientes sive indiviadua: patet 1. a uobis res tan tum singulars experimento
addisci , * extra eas nsilium alind esse experientiae obiectum , adeoque 3. eam
in abstractiş 2 2 . Cap. Ill. de Veritate certa ctc. 161 sensus et
universalibus locum non habere, licet haec ab ipsa deriventur. Igi tur 4. qui
demonstrationem aliqu am posteriori conficere vult , is casum singu larein ,
allegare debet, dummodo experien tia non sit cuivis obvia ; 5. denique , ex perientia
non datur in iis, quorum n ullam habenius ideam . * Quoniam vero est vel internus
, vel externus experientia quoque est vel INTERNA, vel EXTERNA. Illa habetur
qnum nobis ipsis attendentes aliquid in anima nostra contingere percipimus : e.
g quoties nobis malum aliquod repraesentamus ; toties taedio nos adfici
animadvertimus ; haec ve ro , si res in organis nostris mutationem pro ducentes
percipimus: ut si manu igui admota, calorem igui inesse observemus.
"Experientia rursus dividitur in VVLGAREM , quae mnibus aeque patet , ut
calor ignis, et ERVDITAM , quae speciali studio, atque adhi bitis necessariis
mediis cooficitur , arleoque so lis innotescit eruditis , ut ' aeris gravitas ,
elasticitas ctc. 118. Habitus , sive promtitudo aliorum vel propria esperimenta
colline andi, et ex iis conlusiones elicianendi, dicitur ARS EXPERIVNDI. Quae
quidem ab experientia tam longe distat, quantum ba bitus dfert ab actu. * Non
ergo sufficit unam alteramye experientiam peragere , aut aliquot instrumenta s
ertractan . 162 Logica Pars II. di peritiam habere , ut experiundi arte prae
ditus quis dici possit , sed opus est habitn longa exercitatione adquisito ,
non solum res experimento subiiciendi , sed propria aliorum que experimenta ad
critices regulas exigendi, atque ex iis conclusiones scientificas , sive
corolla ria legitimo rationis usu deducendi 119. Quoniam experientia sensibus
ni titur; ad sensionem autem duo requiruntur , scilicet mutatio in or ganis
sensoriis ab externis obiectis produ cta , et repraesentatio in anima huic obie
cto conformis ( ut in Psychologia ostende mus ) : consequens est 6. ut sensus ,
po sitis ad sentiendam requisitis quam fallant ; * proindeque 7. nos non &
sensibus, sed a iudicio , quod ani ma praccipitanter fert super experientia ,
persaepe falli. Rinc. 8. cautiones quaedam ad errorem hunc vitandum adhibendae
> num sunt. et Requisita ad sentiendum tria sunt , orga norum sensoriorum
sanitas 2. attentio , 3. justa obiecti distantia. Quotiescumque ve ro de visu
agitur , et quartum requisitum adesse debet , nempe èiusdem mcdii in ter
obiectum et organum interpositio. Quum enim in visione radii lucis in corporum
superficiem incidentes reflectantur , et in acre prius , deinde in oculi
humoribus ac lente cristalli ua refracti ad retinam usque pertingaat , u Cap.
111. De Veritatė certa etc. 163 hi motum in nervo optico , quod sensationis
caput est , producunt : si partim in aere partim in aqua aliove densiori medio
obie clum ponatur , non eadem erit lucis refra ctio , adeoque non idem locus
obiecti parti ' bus adsignabitur : unde fit, ut illud fractum vel recurvum
adpareat. Si ergo neglecto hoc requisito adparentiam illam pro realitate
sumamus , non sensuum , sed judicii defectú id provenire , fatendum est.
Cautiones , quas inculcamus sunt 1. ut sior gana sensoria paullo debiliora
fuerint, debi tis armentur instrumentis , 2. ut obiecta in iusta ab organis
distantia posita attente ob serventur 3. ad tot sensus , ad quot redi gi
possunt , redigantur. Si cautiones istae adhibeantur nullus in percipiendis
rebus sensibilibus irrepere poterit error : si vero quae dicta sunt probe
attendantur , non in surgent amplius difficultates , nec erunt qui
vetustissimam cipionis in aqua fracti , turris que emimus rotundae adparentis
cantilenam ad nauseam usque repetentes , sensuum fal laciam ulterius inculcare
velint. 120. Quia vero per experientiam sin gularia tantum cognoscimus sequitur
ut VITIVM SVBREPTIONIS incurrant ii , qui ea , quae minime ex perti sunt , vel
quae imaginationi aut ra tiociniis experientia deductis debentur , pro
experientia obtrudunt. * Tales sunt , qui pliaenomeni alicuius caussam
raperientia constare adserdut. Veluti si quis 164 Logica Pars II. ferrum a
magnete altrahi videns , experien. tia compertum esse diçat , ex magnete efflu
- via exire ferrurn attrahendi vim habentia , vitium subreptionis incurret. Quum
ergo res singulares tantum modo experiamur; earum ve ro repraesentatio dicatur
idea singularis: recte infertur 10. notiones expe rientiae ope immediate
formatas esse ideas singulares , ut et 11. singularia iudicia ipsis innixa . *
Quumque his nova deducta iudicia non nisi ratiocinationis ope eruan tur :
evidens est 12. haec nova iu dicia di ci non posse singularia , sed DIANOETICA
sive ratiocinantia.Vocantur huiusmodi iudicia INTVITIVA , quia in his , quae in
rei cuiusdain notione comprehensa intuemur , eidem tribuimus : ut ignis est
rulidus : aqua madefacit. Scholastici ea vocabant discursiva : ratioci nium
namque ab iis dicebatur discursus. E. g. ignis est cctivus : vapor est
elasticus. Quandoquidem indicia intuitiva conficiuntur tribuendo rei quidquid
in ipsi us potione comprehenditur: sequilur . 13. ut ea conficianlur accipiendo
rem perceptam pro subiecto, eique tribuen I 22 . Cap. III De Veritate certa
ete. 165 do quidquid attente consideranti in ipsa occurrit , vel ab ca
removendo quod in aliis , non etiam in illa observatur. * remove * In primo
casu habebis iudicium aiens , in secundo negans. E. g. Ignem percipis eique
calorein inesse observas . Sume ergo ignem . pro subiecto , calorem pro
attributo , et ha bebis iudicium aiens : ignis est calidus. Contra quia alias
observasti aquam madefa cere , id vero in igne non intueris : ab igne hoc
attributum , eritque indiciun negans : ignis non adefacit. 123. Quemadmodun
autem enunciatio . nes particulares in universales comunitari possunt: ita ,
quamvis notiones et iudicia ab experientia deducta sint singularia, commode
tamen in u niversalia transmulari possunt , si regulae sequenies exacte
servcolur. 12. Quoniain individua'sunt omnimo de determinata ( $ . 18. , et
variis circum stantiis involuta: 14. at tente separari a re percepta debent acci
dentia sive modi ab attributis essentialibus, quibus tantumu modo est
attendendun : 15. allributa haec essentialia onipibus speciebus vel individuis
166 Logica Pars II. convenientia abstractionis ope retinenda , atque inde notae
characteristicae depro mendae sunt , quae ad rem illam ab a liis discernendam
sulliciant . Hi quidem ermut characteres definitionis a posteriori ex in
dividuis casibus eruendae. 125. Vt antem operatio recte procedat, oportet 16.
tot facere iudicia intuitiua quot res ipsa percepta suppeditat , 17. ac
cidentia omittere , 18. attributa , quae non seinper eadem sunt ,
determinationis bus particularibus liberare , ac tandem 19. plura ea in re
adducere exempla magna pe sollertia attendere in quibus perpcluo conveniant ,
aut inter se discrc pent. * E. g. Vt scias quid sit commiseratio , ob serva
casum aliquem , in quo videas te , aut alium alterius commiseratione percelli.
Ad duc et aliam huius modi speciem , aut plu res etiam , si id res exigat ,
videtoque cir cumstantias , quae sunt perpetuo similes. Hoc modo in notescet
tibi commiserationis idea universalis , cuius notae definitionem suppe ditabunt
realem , commiserationem nempe es . se tacdinm ob alterius infelicitateir. Conf
Wolfi. Log. Lat. §. 492. 126. Nunc quo modo iudicia universa lia a posteriori
coulcianlur , observemus. Cap. III. De Veritate certa etc. 167 Quia ab
experientia oriuntur iudicia intuitiva: videatur primum , num praedicatum sit
attributum rei perceptae essentiale : quo casu enunciatio erit uni versalis (
$. 68* ). Deinde experientiam multoties repetendo dispiciatur , utjum at
tributum illud rei perceptae perpetuo et costanter insit. Quod si non semper
illud inveniatur , investiganda est ratio , cur in ea aliquando deprehendatur ,
eamque biecto addendo , indiciuin enascetur uni versale ( 5. 69. ): * Ita e .
g. esperientia novimus , igni semper calorem inesse , ceram autem non seinper
es se liquidam . Iudicium ergo ignein esse cali dum erit universale : at non
universaliter ius ferre poterimus ceram esse liquidam ;sed opor tet invenire
rationem cera aliquando liguescat , quae quun sit in igne , cui tunc admovetur
, hac subiecto addita , universalis orietur ennnciatio : cera igni admota li
quescit. cur > 1 127. Philosophus interim in rerum ca ussis et rationibus
investigandis studiose versatus regulas quasdam sequa tur oportet , ut
veriiates ex experientia de ducere queat. llae regulae sunt : 1. Si in obiecto
aliquo mutatio observetur , qun ties obiecto alteri iungitur , idquc con 168
Logica Pars I. stanter : tunc hoc esse illius caussano 3 tuto concludi potest.
* 2. Si duo vel plura , licet perpetuo , coexsistere wel se mutuo sequi
observeniur , sta tim inferre licet , unum esse alterius ca ussam , nisi prius
recta rario sic esse convicerit. non * Id clare patet exemplo cerae liquentis
igni , aut solis radiis admotae. ** Si ergo bellum simul cum cometa existat ,
vel eumdem sequatur: praecipitantia erit iu dicare , hunc esse caussam illius.
21 . 128 Ex quibus omn : bus clare deducitur 20 propositiones ex experientia
legitime uistitala confectas esse certo veras ; quouicumque sensioni omnibus
requisitis in stuctae convenit , pro certo haberi , adeo . que 22. et
definitiones experientiae adiu mento legitime efformatas , et 23. axio mata vel
postulata ex his de ducta itidem certitudine pollere. Rationem definivimus per facile tum distincte
perspiciendi. Il la ergo utimur si qnando enunciationem , de cuius veritate
iudicium ferre volumus , ita cuin aliis connectimus , ut inde ter minorum nexus
ctare perspiciatur : id ve . ro est , quod dicimus COGNITIONEM A PRIORI.
Connexio isthaec vocatur DEMONSTRATIO , cuius est veritates ex certis
principiis per legitimam ratioci nandi seriem eriiere ( š. cod. ) . SERI ES
porro RATIOCINÀNDI habetur , si ex pluribus syllogismis invicem connexis
conclusio prioris sit praemissa sequentis ut inox adparebit: qni quidem
SYLLOGIS MI CONCATENATI dicuntur. 130. Ex quibus nullo negotio sequitue 1. in
omni demonstratione duo requiri , nempe principia demonstrandi certa it in :
dubia , eorumqne cum conclusione coone xionem . Et quia experientiae rite
institu definitiones , axiomata et postulata T. 1. tae , 2 > H 170 Logic .
Pars II. certitudine gaudent ( s. 128. ) : infertur 2. ea ad eiusmodi principia
esse referen da , proindeque 3. illum adserta sua nou demonstrare , qui ea ex
incertis dubiisque principiis deducit. 131. Quia vero duplex cognitio datur , a
priori scilicet , sive per rationem ; et a posteriori , seu per expe rientiam:
sequitur hiec 4 . duplicem quoque dari demonstrationem, earoque vel A PRIORI
confici vel A PO. STERIORI : illam haberi , quando veri tatem aliquam a principiis
legitime connexis deducimus , vel effectum per suas caussas probamus ; si
quando eam ex experientia reete institu ta , vel caussam per suos effectus
demon stramus. ** Quum ergo a priori demonstrare volumus , principia statuamus
necesse est , antequam ad syllogismorum concatenationem deveniamus. Id darius
fiet exemplo. Ponamus hanc proposi tionem : Deus caret adfectibus. Eam a prio.
ri sic demonstrabimus. DEFINITIONES. 1. Deus estens perfectissimun. 2.
Intellectus perfectissimus est , qui omnia * hanc vero , sibi distinctissime
repraesentat, 3. Appetitus sensitivus est. qui oritur ex idea boni confusa. 4.
A'fectus sunt motus vehementiores appe 1. tu sensitivi. Cap . II!. De Veritate
certa etc. 1 . ) : sed era mo AXIOMATA. 1. Ens perfectissimum gaudet in
tellectu perfectissimo. 2. Distinctissima omnium repraesentatio ex cludit quamcumque
idearum confusionem . THEOREMA. Deus caret adfectibus. DEMONSTRATIO . 1. Ens
perfectissimum in tellectu gaudet perfectissimo ( ax. Deus cst ens
perfectissimum ( def. 1 . ) ; go Deus gaudet intellectu perfectissimo. 2.
Quicumque intellectu gaudet perfectissi omnia sibi distinctissime repraesentat.
Deus vero gaudet intellectu perfectissimo ( num. 1. ) : onania ergo sibi
distinctissime repraesentat. 3. Qui omnia sihi distictissime rapraesentat ,
ideis caret confusis ( ax. 2. ) : at Deus om niasibi distinctissime
repraesentat. ( num . 2 ) : ergo Deus caret ideis confusis. 4. Ab ideis boni
confusis oritur appeti !us ser sitivus ( def. ? . ) : quuin ergo Deuts careat
idcis confusis ( num .' 3. ) ; liquet , eum care re quoque appetitus sensitivi.
5. Qui appetău caret sensitivo , is caret adfe clibus ( def. 4. ): atqui Deus
carct appetitie sensitivo ( num . 4. ) : ergo Deus caret adfe ctibus. Vides hic
syllogismorum connexione a principiis ceriis deducta confectam esse
demonstratio nem . ** A posteriori demonstratur animae in nobis exsistentia hoc
modo. EXPER. Si nobis ipsis attendamus , obserica biinus , aliquid in nobis
esse , cuius ope nosa H 2 172 Logic. Pars. II. metipsos ab aliis rebus extra
nos positis , inter eas vero alias ab aliis distinguiinus , boc est nostri
rerumque extra nos positarum conscii sumus. DEFINITIO . Id. ipsum , quod nobis
sui rerumque extra se positarum est conscium , dicitur anima. TIIEOREMA.
Exsistit in nobis anima. DEMONSTRATIO. Experientia enim constat , aliquid in
nobis esse nostri rerumque extra nos positarum conscium : id ipsiin autem est
quod dicitur anima ( per defin. ) : e: c sistit ergo in nobis anima. Demonstratio
iterum est , vel D. RECTA sive Ostensiva * vel INDIRE DIRECTA seu apogogica.
**. Illa est qua ex notione subiecti colligitur eius nexus cum attributo ; haec
autem in qua oppositum tamquam verum assumen tes , conclusionem falsam inde
deduci mus , ut propositionis nostrae veritas elucescat. Directa ergo erit
demonstratio , si ordinem sequatur hactenus explicatum ( $. 131. , si ve a
priori sil , sive a posteriori : ut videre est in superadductis exemplis ( $:
131 " ); ** Indirecta demonstratio vocari quoque solet redactio ad
impossibile vel ard absurdum , quia oppositam propositionem ut veram alla
sumens , ex ea absurdum aliquod , sive cou clusionem impossibilem, eruit. Talis
crit de monstralio scyueas. THEOREMA. Nibil est sine ratione sufficiente.
DEMOSTRATIO. Ponamus aliquid esse sine ratione sufficiente. Ratio ergo , cur id
sit aut fiat , erit in nihilo : adeoque nihilum ex sistet simul , et non
exsistet. Essistet , quia aliter non posset esse caussa alterius : non exsistet
, quia aliter non esset nihilum . Quod quum contradictionem involvat , sitque
ideo impossibile : ergo nihil est sine ratione suffi ciente. 133. Ex hactenus
dictis patet 1. quam cumque propositionem legitime demonstra tam esse certo
veram idest certitudine gaudere metaphysica , proindeqne 2. de inonstrationem
csse viam ad certitudinem perveniendi praestantissimam . Quumque ex perientiae
et demonstraționis excellentiam ostenderimus : ' recie concludi mous 3.
veritatem certain dici . dubia ' sensione , vel evidenti principio ni titur ,
dummodo in demonstrando CIRCU LUS non irrepscrit. In hoc vitiuni incurrunt ii ,
qui propositio nem probantem demonstrant per propositio nem probandam : quia in
tali casu idem per idem demonstratur. Huic adfiuis est illa , quae a
Scholasticis adpellari solet PETITIO PRINCIPII , nempe quum principium de
monstrandi vel nullum est , vel nulla certi tudine aut ' evidentia gaudet.
Huiusmodi sunt pleraeque enunciationes Epicuraeorum , Pla quae in H 3 174
Logic. Pars Ir. quis tonicorum , Stoicorum , aliorumque, de bus in Metaphysica
erit disserendi locus. 134. Quoniam autem in detegendis per demonstrationem
veritatibus ordo , sive methodus requiritur : ne longius hic pro grediamur , de
ea sequenti capite , prout res exegerit , breviter enodateque tracta bimus. R
Elite ut de AVCTORI TATE pauca dieamns . Ea non scientiam , ut experientia et
rutio ; sed FIDEM parit. Est autem FIDES : ad sensus propositioni datus ,
alterius te stimonio itinixus. Ex quo patet , rationem fidei sufficientem esse
narrantis auctorita tem. Quumque auctoritas vel Divina sit , vel humana : fides
quoque in DIVINAM et HVMANAM recte dispertitur. 136. Ex qnibus liquido infertur
1. fidei fundamentum in eo consistere , ut narrans taliasit , qui nec falli nec
tallere possit ; ac proinde 2. eo firmiorem esse fidem quo certiores sumus de
scientia et veraci tate narrantis. Et quia Deus est omniscius Gap. VI. De
Veritate certa 175 et infinite verax , quippe in quem nulla cadere potest '
imperfectio ( per princip ; Theo. nat. ) : evidens est 3. fidem Dic vinam
parere certitudinem omni exceptione maiorem ; pariterque 4. Dei loquentis au
ctoritatem esse fundamentum veritatis com pletum , omnibusque numeris absolutum
; adeoqu 5. debere nos Deo loquenti ad quiescere , nec umqnam Dei testimonio
demonstrationem ullam opponere , utpote vel falsam prorsus , vel indigestam . *
Non potest enim certitudo certitudini adver : sari , quia si id esset , tunc
contrariarum propositionum utraqua vera esset , adeoque idem simul esset et non
esset : quod quum repugnet, non potest ergo fidei Divinae demonstratio ulla
obiici. Quumque Dei verbum sit fundamentum veritatis com pletum ( num . 4. f.
huius. ) : patet , quam cumque demonstrationem ei adversantem esse falsam. Quandoquidem
autem auctoritas humana fidem parit bumanam, et certitudinem moralem : de ea
pauca adhuc addenda supersunt. Et primo quidem , quum fundamentum fidei sit opi
nio, quam de narrantis scientia bitate habemus; eoque fir mior sit fides , quo
certiores sumus de hu et pro H 4 196 Logic. Pars II. jasmodi dotibus ( S. eod.
) : liquet 6. l dem humanam parere in nobis certitudi Nem moralem completam ,
si non adsit ra tio , cur in narrante aut imperitiain , aut malitiam supponere
possimus : veluti si evidentia scientiae probitatisque indicia de derit si
nihil emolamenti ex iis , quae narrat , perceperit , si ' parratio rectae ra
tioni non repugnet ; si denique pro nar rationis suae veritate dimicaverit ,
vel per secntionem passus sit. * Deinde quoniam non omnes homines eadem
praediti sunt scientia et probitate , nec de his semper certo iudicare possumus
, quum id io so la opinione versetur: exsurgit hinc probabi litas, de qua
paullo post praecepta dabimus. * Postremâ haec conditio maius certitudini mo
rali pondus adiungit: si vero deficiat , liu modo priores adfint circumstantiae
, certilu do vim suam non amittit .. Schol. Nunc in eo sumus , ut explica tae
doctrinae usum paucis tradamus. Qua propter Philosophus noster hos , qui se
quuntur, observet. CANON E S. AMD quidlibet erudite experiundum, nisi
necessariis praemunitusa in strumentis me accedito . Si haec desint, Cap. III.
De Veritate certa etc. 177 aliorum experimenta consulito , dummo do eorum
integritatis scientiaeque con stiterit, atque inde tuas deducito con clusiones.
Si per insrumenta liceat , aliorum experimenta ad examen revo cato ut sacriorem
eorum ideam ad quiras , caussasque facilius investigare possis . * Et quidem
experientia erudita instrumentis opus habet , sine quibus experimenta fieri
nequeunt. Si ergo desint , observationes nul lae erunt : ac proinde aliorum
experimenta consulenda , praemissis cautionibus , quae de eorum veritate
dubitare non sinant. Hinc Physicis admodum necessarius est machina rum
instrumentorumque apparatus , ut phaea nomena observari possint , a quibus ad
caus sas proximas rationis ope concludendum est. 2. Ne phantasiae partus, aut
ratiocim nia ex experimentis deducta pro expe rientia venditato ne subreptionis
ar guaris. *. Quidquid enim imaginationi debetur, reale non est, sed
phantasticum. At in experientia realis rerum exsistentia observatur ; adeoque
qui phantas mata pro rebus obtrudunt , su bripiendo a dsensum extorquere
conantur : et tunc evenit , ut cum ratione experientia pu gnare videatue , de
quo infra sermo erit . Quod sem el expertus es , ne teme ? depromito , sed
experimenta saepius H 5 178 Logic. Pars II. repetens, an costantia sint ,
observato; nec , nisi certior omnino factus, de iis enunciato . Saepe enim
accidit , ut effectus aliqui a cir cumstantiis oriatur accidentalibus , vel
caus sae cuidam externae debeantur. Repetenda er go experimenta , ut diiudicari
possit, utrum principali , an accessorüs caussis , effectus il le tribuendus sit
, adeoque non mirum , si facta semel observatione , effectus productio propriae
caussae non tribuatur, 4. Demonstrationes non nisi certis in dubiisque
principiis superstruito. Ratio ciniorum catenam ne interrumpito ; sed
sequentium veritas ex antecedentibus patefiat. * Eo namque modo habebitur
legitima syllo gismorum concatenatio in qua demonstras tionis essentia sita est
, ut supra diximus. Ne ciedito , quamcumque enuncia tionis probationem pro
demonstratione sumi posse : qaamvis omnis demonstra tio sit probatio. Ex
debilibus enim prae inissarum probationibus exilis enervisque exsurgit
demonstratio cui nihil potest roboris accedere . * Nimiruni demonstrationis
robur a praemis stabilitate , legitimaque connexione procedit , adeoque pro;
earum firmitate con clusionis pondus augetur , vel minuitur. sarumriat , 6.
Demonstratio , ut certitudinem ра talis esto , quae neque per mate riam , neque
per formam ulla possit ra tione convelli . Iunc enim adsensum etiam ab invito ,
extorquebis. 7. Si metaphysicae certitudini expe rientia adversetur ,
haecfallax esto. Absurdum namque foret id exsistere , quod rectae rationi
repugnat. * Eo namque casu duas habemus 'propositiones inter se contradicentes
, alteram singularem , quae quidpiam exsistere pronuntiat , univers salem
alteram , quae idem existere posse ne gat ; adeoque duo haec enunciata inter se
pugnantia ita comparata sunt, ut quod pri mum sensibus perceptum fuisse ait,
illud alte rum solidis rationibus intrinsecus impossibile esse demonstrat. Quum
itaque ab impossibi litate ad non exsistentiam conclusio duci pose sit ( per
princ, Ontol, ): recte colligitúc, in hac collisione rationem vincere, ac
proinde experientiam dici debere fallacem , quippe non experientia , sed
subreptionis vitium rea pse adpellanda. Et hoc universali omnium phi losophorum
consensione pro inconcusso axiom mate habendum est: ut ita Genuensis noster
praecipuum inter suos de veritatis criterio cả nones illum posuerit: Si
intellig :bili evidentiae physica adversetur , FALLAX HABETVR PHYSICA , est enim
haecminor , cui proii # 6 180 Logica Pars 11. + de vals dicere, quam de
intelligibili subdubitan re , quae summa est , acmathematicam parit
certitudinem , par est. Cui deinde subiungit : Fingamus ( quaquam id falsum
keputo , ma thematica evidentia demonstrari terram mye veri: si qui sensuum
evidentiam reponeret , non esset audiendus, nisi matorem minori evi dentiae
praeferre velimus. Art. Lozicocrit Lib. IIT. cap. 3. 15. can 1 , Sed quid , in
quies , alienam auctoritatem in re tam evi , denti confulere conaris? Nimirum
quia canon bic a quibusdam , apud quos Genuensis no stri plurimum valet
auctoritas , nigro lapillo notatus est : ut sciant sententiam nostram non
singularem aut phantasticam , sed ratio De aç unanimi hominum ratione utentium
consensione fultam . cum eius quoque Viri ipsis non suspecti adsertione
congruere. 8. Nihil Divinae auctoritatį opponere fas esto, Quum Deum loquutum
esse con stal , cuncta silento . Huic metaphisicą, certitudo numquam refragator
: sed si per rationem liceat , demonstrationes ad calculum revocato ; * vel si
Dei vera bum explicatione egeat , Ecclesiam in , fallibilem eius interpretem
con sulit o . * Referentes nồs ad ea , quae diximns, quia demonstratio Dei
verbo repugnans fal sa est , dummodo intra rationis fines quaer stip sit
rationes ,iterum conficiautur , e de Cap. IX. De. Methodo. 181 monstrationes ad
calculum revocentur , ut adpareat, undenam oppositio illa ortum duxe rit,
principiisne dubiis et incertis, , an a defectu legitimae connexionis ? * Ratio
huius canonis haec est, Onnis lex eiusdem Legislatoris spiritu est explican da
Si enim leges humanae difficultate aut: ob scuritate aliqua laborent, earum
explic atio et interpretatio tantum a Legislatore , eius que Administris est
petenda , non a pri vatis Doctoribus proprio marte cudenda. Quan to magis ergo
Divina lex quae verbo Dei con tinetur, ab eo qui eiusdem Dei spiritu gau det
est explicanda. Ecclesiam autem Dei spi șitum habere , patet ex ipsis
Servatoris no stri verbis Matth. ult , ubi Apostolis ait Ec ce ego vobiscum sum
omnibus diebus usque ad consumationem saeculi. Et loan. XVI. 18. Cum , venerit
ille Spiritus veritatis ( Pa . raclitus ) , docebit vos omnem veritatem . Quid
quid ergo Ecclesia pronuntiat , assistente su premo animarum Pastore Christo ,
et docente Spiritu Sancto pronuntiat ; adeoque per eana Deus ipse suum
interpetatur verbum 182 Logica Pars. Į1. G A PUT QVARTV M De Methodo . 138. Vum
in demonstrationibus con clusiones ex certis principiis per legitimam
ratiociniorum seriem dedu ci debeant; illa vero series arglimentorum METHODVS
dicatur: non abs re brevem hanc de metho do tractationem doctrinae de
demonstrationis bus subiungiinus. 139. Quilibet experiundo agnoscere po - test
, enunciationis cuiusvis veritatem du plici modo detigi posse , scilicet vel
eam dividendo , et ope analyseosed prima simpliciaque principia perveniendo ,
vel componendo idest , principiis ad conclu siones sensim ac legitimo nexu
progre. diupdo . Vnde clare patet , methodum esse vel ANALYTICAM sive
divisionis , vel SYNTHETICAM seu compositionis. * Methodus ergo anulytica a
principiatis ad principia , synthetica a principiis ad princi piata ( uti
Scholae aiunt ) procedit. Dla composita resolvit. haec simplicia componit, Rem
exemplis illustrabimus. Ad demqnstran dam enunciationem alibi ( S. 131, )
allatam ? Deus earet adfectibus : analytice ita ratio cinabimur. 1. Quicumque
caret appeti tusensitivo , caret @ap. IV . De Methodo, 183 etiam affectibus (
per defin. aff. ) : atqui Deus caret appetitu sensitivo ; ergo Deus caret affectibus.
a, Min. prob. Quicumque caret repraesentatio nibus confusis , caret quoque
appetitu sensi tivo ( per defin. app. ) : Deus vero caret repraesentationibus
confusis, ergo Deus ca. ret appetitu sensitivo . 3 Min prob. Quicumque omnia
sibi distinctist sime repracsentat , repraesentationibus caret confusis ( est
axioma ) : sed Deus omnia si bi distinctissime repraesentat : caret ergo
repraesentationibus confasis. 4. Min . prob . intellectu gaudens perfcctissi mo
omnia sibi distinctissime repraesentat ( per defin . intell. Quum igitur Deus
gau deat intellectu perfectissimo : omnia sibi distictissime repraesentat 5.
Min. prob. Ens perfectissimum intellectu gaudet perfectissimo ( est axioma ) :
Deus autem est ens perfectissimum ( per defin. Dei ) : ergo Deus gaudet
intellectu perfe ctissimo Eamdem propositionem synthetice demonstravi mus ( $ .
131. * ) . At in gratiam Tironum , quos ad Philosophiam manuducere instituimus
, aliam adhuc dabimus demonstrationem , bre vem illam , at mathematico more
confectam hoc modo: THEOREMA, Deus caret affectibus . DEMONSTRATIO. Est enim
ens perfectism simum (defin. 1. ) , cuius est intcllectu gaudere perfectissimo
( ex 1. ) , qmniaque 184 Logica Pars ir. sibi distinctissime repraesentare (
defin . 2. ) id quod omnimodam ab eo idearum confu şionem excludit ( ax. 2. ),
Quum itaque ab idearun confusione pendeat appetitus sen sitivus ( defin. 3. ) '
, cuius vehementiores motus dicuntur affectus ( defin . 3. ) : iure colligitur,
Deum omnino affectibus carere. Vides hic , quam bene monuerimus in fine primae
partis , maximum atque insignem esse usum syllogismorum in conficiendis mathema
ticis demonstrationibus : atque hinc patet , quam inepti ad demonstrandum sint
ii , qui syllogisınıim eiusque leges negligunt, et igno rata vituperante 140.
Quoniam methodus analytica a dif ficilibus ad facilia , a compositis ad sim.
plicia progreditur ( s. 139. ); synthetica vero a principiis ad conclusiones (
S. eod. ) conséquens est 1. ut illa in veritate inve nienda , haec in alios
docendo adhibeatur ; * adeoque 2. eruditorum reprehensionem in currant qui ip
docendo illam potius, quain hanc sequi amant. Et quia feracior illa est , haec
sterilior ** : novit quisque 3. docendi ordinem id exigere , ut post quan
auditoribus synthetice veritas fuerit explanata , iisdem "analytice modus
. indi cetur , quo fuit ab auctore inventa . Analyticam enim methodum in
docendo ad bibere idem esset , aç opposita et difficili ti 9 Cap. IV . De
Methodo. 185 rones ducere via , eosque ad veritatem vel numquam , vel raro
admodum pervenire ** Feracior quidem est analytien methodus quia singula ad
examen revocat , minuta quae que considerat , atque possibiles omnes fin git
casus , inde ab hac quasi sylva conserta , enodatis extricatisque ambagibus ,
ad rem ipsam perveniat ; synthetica vero sterilior , & generalibus namque
principiis brevi atque ex pedita via pergit conclusiones. Eadem autem ratione
illa difficilior , haec facilior est : adeoqne illa viatori tramitis inscio ,
qui di vinando et om nia tentando difficiliter quo tedebat pervenit : haec
eidem perito similis , qui brevi apertaque via iter conficit , et finem ideo
suum cito consequitur, 541. Iam ad melhodi leges , tum utri que communes
cum alterotri peculiares , tradendas accedamus. Eas aliquot complc clemur
regulis ; quarni quinque genera les , ceterae vero speciales sunt, analyticae
praesertim methodo inserviturae. Quicum que igitur veram : methodum in
veritatis investigatione cailere cupit , hos rigides servet . 186 Logica Pars.
II. CANON E S. I. Q Votiescumque ad demonstrandum accedis , cur ato , ut a
facilibus notisque incipias , indeque ad ignota et difficilia gradatim
progrediaris. Prin cipia itaque solida , ideasque selig ito medias , atque ea
semper cordi habelo * Est haec lex , quam inculcavimus ( $. 130. ) et alibi
retulimus. In -singulis ratiocinationis gradibus eamdem semper servato
evidentiam , ut altei um ab altero derivari clare sentias. * * Ita vitabitur
paedantismus , hoc est inutile illud memoriae pondus iudicio destitutum , et in
minimis quibusque sectandis vanam quae ritans gloriolam , de quo vide supra
Part. I. Cap . 3. Schol. Can. 4 3. Stilo utitor facili , ac naturali , non
oratorio vel ampulloso. Verborum tantum , quantum ideis clare exprimen dis
satis est adhibeto : nec , nisi in ideis claris , quidquam tentato. * Verborum
enim copia ignorantiae confusioni sve indicium est : quae namque ignoramus vel
confuse scimus , ea nimia verborum cir cuitione explicare cogimur. Cap. IV. De
Methodo. 187 4. Argumentum pertractanduſ ab am biguitate , si quafuerit , liberato
prius ; deinde in tot membra dividito , quot ca pax est : singula attente
examinato ac definito : * omnia clarissimis explica to verbis , ac quaestione
quam simplicis sime exprimito . * Prae oeulis tamen habeantur , quae de de
finitionibus diximus Verba : quce obscuritatis aliquid habent , adcurata
definitione dctermina to , in eoque semper sensu adhibeto. * Confer quae
diximus SS. 5. 46. De methodo analitica livec habeto : 6. Ad veritatem
inveniendam , quae stionemve solvendam , ne nudus princi. piorumque inscius
accedito : num sorida cognitione ad id paratus advenias , se dulo perpendito. *
Sinamque incapax principiisque destitutus rem aliquam adgrederis , fieri non
poterit , quin inepta et ridicula effutias. 7. Quaecumque cum proposita quae
stione aliquam habent connexionem di 古 88 Logica Pars II. ligenter exquirito : omnes possibiles ti
bifingito hypotheses : quaecumque ei lu men adferre possunt , ne rciicito sed
Omnia simul colligito et comparato. 8. Principia quaeque atque ideas mutuo
conferto: omnium relationes perpendito efinesque sectator , eaque , superflua
de mendo in parvum referto numerum . Omnia deinde corrigito diuque considera to
, ut tibi familiaria fiant. * Speciatim vero principiis diu haereto.
Repetitione namque attentio renovatur ius ope ideas meliores fieri docuimus F.
19. Schol. Quas de syudetica methodo tradenda forent , ea partim a nobis incul.
cata sunt, partim infra , ubi de modo alios docendi sormo erit , enodabuntur .
Si quis autem metho dum hanc callere cupiat, is Christiani Wolf fii tractatum
de methodo mathematica , universae Matheseos elementis * praemis-. sibi curet
reddere familiare CU sum * Exstant haec 5. voluminibus in 4. excusa Ha lae
Magdeburgicae. Cap. V. De Veritete Probabili. GA P VT QUIN T V M De Veritate
probabili -542. o 142 Eritatein dici certam mnia adsunt requisita quamcum que
oppositi formidinem excludentia , su pra docuimus. At intellectus nostri
infirmitas persarpe impedimento est, quo minus nobis illa veritatis indicia pa
. teant ita , ut veram absque ulla oppositi suspicione perspiciamus. Hinc ergo
est , cur in praesenti capite de probabilitate , quantum satis erit , dicere
instituerimus. 143. Est autem PROBABILITAS status mentis ex indiciis
insufficientibus verita ti adhaerentis , cum aliqua tamen op positi formidine,
PROBABILIS ergo di cilur enunciatio in quc adest ratio in sufficiens , cur
praedicatum subiecto tri bu atur. * Ita Cicero pro Milon. cap. 10 probabilibus
argumentis probat , Clodium Miloni insidias struxisse. Ait enim : Clodium
dixisse , Milo nem esse occidendum ; 2. eum Miloni neces sarium iter Lanuvium
facienti obviam ivisse , 3. idque itinere effecisse maxime expedito , et
praeter consueludiuem ; 4. servos cu: n les lis ante fundum suum collocasse.
Probat id 190 Logica Pars I. esse > in quidem , sed probabiliter , insufficientibus
quippe indiciis , adeo ut aliqua adhuc adsit oppositi formido. Ex quibus
definitionibus clare de ducitur 1. eo probabiliorem esse proposi tionem , quo
plura adsunt veritatis indicia 2. dici vero DVBIAM , si ex alterutra parte
aequalia fuerint rationum momenta, adeoque 3. IMPROBABILEM qua paucissima
inveniuntur ; quibusque e contrario fortiora indicia opponuntnr ; 4. omne
probabile , esse quoque possibile , quamvis 5. non omne possibile dici pro
babile possit . * Probabilitas enim supponit possibilitatem : quum enim
probabilitas veritatis alicuius exsi sicntiam indicet , exsistere vero nequeat
, cui deest possibilitas , liquet, tunc de pro . babilitate qnaestionem
institui posse quum rei possibilitas firmata sit: ut ita qui eam esse im
possibilem demonstravit , uihil aliud oneris habeat , omnemquede probabilitate
contro versiai tollat . Possibilitas autem non infert probabilitatem : nam quum
possibile sit , quod non involvit contradictionein ( per princ. Onol. ) , non
ideo probabile dici potest , nisi quaedam adsint circumstantiae , quae id
revera exsislere evincant. 145. Quia dantur enunciationes probabi les,
sillogismus autem propositionibusconstat: liquet 6. Cap. V. De Veritate
Probabili. 191 dari quoque syllogismum probabilem . Et quia couclusio
sequidebet partem debiliorem; debilior vero est pro positio probabilis , prae
certa : consequens est 7. ut conclusio sit probabilis, si alte rutra
praemissarum talis sit . Sed quoniam conclusionis vis est aggregatum virium
praemissarum (s . 82. seqq . ), infertur 8. ut si utraque praemissarum sit
probabilis , conclusionis probabilitas minuatur pro sum ma graduum , quibus
illae a certitudine recedunt. * Denique quum demonstra tiones coficiantur ex
syllogismis concatena tis , quorum unus ab altero vim sumit: evidens est 9.
integram de monstrationem , in qua vel una probabi lis propositio irrepsit ,
non esse , nisi 7 pro babilen. * Certitudo namque in philosophicis se habet ,
ut aeqealitas in mathematicis. Sicuti ergo ae qualitatis nulli sunt gradus ,
ita et certitudi nis. Probabilitas autem maior est vel minor provt minus
magisve a certitudine recedit,ut et inaequalitas servata proportione. Ponamus
ergo certitudinem constare gradibus 12. Si una prae missarum tantum certa sit ,
altera duobus gradibus ab ea recedat , habebimus conclu sionem probabilem
duobus dumtaxat gradi 192 Logica Pars II. Io bus a certitndine distantem : tunc
enim ma ior erit Ei , minor - , quibus addie tis , babetur in conclusione summa
= 2. quae duobus tantum gradibus ab unitate , sive certitudine diftat. Ponamus
porro prae missarum unam ita probabilem esse , ut duo bus gradibus a cerit
udine deficiat , altera ve ro tribus ; habebimus conclusionem sive summam
fractorum et E quae quinque gradibus ab uuitate pe a certitudine recedit , quot
deerant in am babus praemissis. Dem . 146. His generatim expositis , ad pro
babilitatis species transeamus. Probabilitas recie dividitur ib HISTORICAM,
PHYSICAM, POLITICAM, PRACTICAM, et HERMENEVTICAM . De singulis pau ca
delibabimus. A probabilitate differt OPINIO , quae est propositio
insnfficienter probata , scilicet a principiis nondum certis , et precariis
dedu cta, quae ideo est mutabilis , ac proinde po test ut plurimum esse falsa :
unde opinio di viditer in PROBABILEM , et IMPROBA, BILEM , prout principia sunt
prout princi pia sunt probabilia , vel precaria , omni nem pe rationis auxilio
destituta. Sap. 7. De Veritate probabili. He completanarratio eae De
probabilitate historica. SISTORIA, est factorum fidelis et . Eius au ctores
sunt homines : fidem ergo parit hu mapam. Homo vero factum aliquod fideliter et
complete narrans , HISTORICUS vel TESTIS dicitur. Sed quia aliorum narrationes
neque experientia , nec demonstratione ad examen revocari possunt ob vitae
intellectusque nostri brevitatem mentisque imbecillitatem , nec de omnium
probitate certo constare potest: quando ` id in sola opinione versetur , non
certitudinem , sed probabilitatem in nobis gignunt. Quumque hominum aucto
ritate freti adsensun historiae praebeamus : evidens est , historicae probabilitatis
funda mentum esse fidem humanam . * Ut autem narratio historia dicatur , dcbet
non modo esse fidelis , hoc est res clare , eoque , quo contigerunt, ordine
narrare , sed completa etian ', omnia scilicet factorum adiuncta ,
circumstantias , relationes , caussas ; et fines amplecti.Hinc Cicero Historici
perinde, ac Oratoris dotes paucis expressit, nempe talem esse debere ne quid
falsi dicere audeat ne quid veri non audeat.Quia fides aliorum testimonio in
nititur, estque fundamentum pro babilitatis historicae; homines autem ob
ignorantiam malitiamve , aut fal li aut fallere possunt , ut experientia testa
tur : consequens est , ut ad adsequendam probabilitatem historicam cautiones
quae dam adhibendae sint , quibus testium an ctoritas , factorum genuinitas ,
natrationuin qucque veritas dignoscatur. eam * Hinc ergo enata est ARS CRITĪCA
, sive habitus aliorum auctoritatem ad trutinam re. vocandi , recte adhibendi ,
factaque scienter ac sine erroris nota dijudicandi:Tapinps 1 namque indicium
notat. Et quamvis artis cri ticae officium , vulgarem sequuti opinionem , infra
ad solum librorum examen atque in terpretationem restringamus ; non ideo no
bilissimam hanc artem cancellis adeo angu stis coarctare volumus ; sed quidquid
de usi auctoritatis , rernm gestarum examine ac in dicio dicenda sunt , ea ad
artem criticam : pertinere , qnisque sciat : id quod semel pro sem per
observandum . 119. Quia ergo in omni narratione tria considerari possunt ;
narrans nempe , bar ratiun , et ipsa narratio : hinc est , ut in fide humana ad
tria potissimum attendi so leat , scilicet i . ad homines narrantes, ad res
narratas , 3. ad modima parran di . * Ab hominibus nunc ordiamur. * Atque in
his , quae sequuntur , regulis tam historicam , quam hermeneuticam probabilita
tem respicientibus , nedum librorum genui nitatem integritatsmve expendentibus
, gene rales totius críticae leges ad singulares spe cies et circumstantias
adplicandae consistunt, in quibus addiscendis eo maiorem operam collocare debet
, qui philosophi nomen tue ri cupit , quo frequentius in evolvendis li bris ,
factisque diiudicandis erit ei , re exi gente , versandum, Quoniam hominibus ,
licet eadem natura , non cadem tamen est perspicacia, mcrumque probitas , nec
omnes iisden sensibus eamdein rem percipere possunt (per cxper. ) ; hoinnes
autem factum aliquod narrantes testes vocantur 147. ) : patet in quolibet teste
tria concia derari posse , scilicet INTELLECTVM, VOLUNTATEM et SENSUS, Si
intellectus spectetur , testesa sunt vel PRVDENTES ac PERSPICACES , yet RVDES et
IGNARI; si VOLVNTAS ,idem sunt vel NEVTRI PARTI, vel VNITANTVM faventes ,
itemque vel PROB!, vel IMPROBI; si denique SENSVS, sunt vel I 2 ATI 196 Logica
Pars II. OCVLATI, qui factum quod narrant ocu lis perceperunt , vel AVRITI ,
qui illud ab aliis audiverunt ; et hi denno vel Co AEVI sunt , qui eodem facti
tempore vi xerunt , vel RECENTIORES qui id postea ab aliis acceperunt. Sic Livius inter testes prudentes est referen
dus : multo namque po!lebat iudicio. Idem tamen Romariorum parti favebat ,
quippe Romanus et ipse. Tandem factorum , quae sua aetate evenerunt , testis
coaevus , eorum autem , quae ante conditam condendanıve urbem , ac per tot
saecula ad sua usqne tem posa accidisse tradebantur , recentior dicen dus est.
152. Ex quibus omnibus patet 1. in fa cti alicuius narratione , quod
attentionem iudiciumque requirit , homines prudentes et perspicaces rudioribus
ignavisque esse antehabendos ; promiscue vero se habe re in rebus solis
sensibus , non etiam iu dicio , indigentibus , dummodo in illis af fectus
partiumve studium non metuatur : tunc enim rudiorum testimonium proba bilius
erit ; 3. testes neutrales alterutri parti faventibus recie pracferri , nec non
4. oculatos auritis , 5. coaevos recentiori . bus , inter auritos autem prudentes ru dioribus ,
eos tamen , ad quos ex oculato Cap. IV . De Veritate Probalili. 197 nullam esse
, fide digno magnaque auctoritate pollente facti fama pervenit , ceteris
incerto alio . quin rumore ductis esse anteferendos , ac denique 8. coaevi
testimonium plurium contestium narratione augeri , cui nescio quidnam ad
probabilitatem ultra deesse possit , 153. Quod altinet ad res ipsas narratas
síve facta ; observandumu 9. probabilitatem si circumstantiae adsint sibi
invicem repugnantes ;nihil enim impossibi le potest esse probabile ( S. 144. )
; 10 . nullam quoque esse probabilitatem , si testis unicus factum aliqnod
insolitum et mira bile narret : licet 11. probabilius id ha bendum sit , si a
pluribus probatae fidei viris unico contesta narretur ; 12. nulla itidem probabilitate
gaudere , narrationem, quae claris rationibus -aperto repugnat ; 13. non idem
tamen dicendum de ea , quae moribus opinionibusque nostris ad versatur , ***
nec 14. si caussa modusque ignoretur , aut vim artemque nostram su peret. Sic
pleraque prodigià ab uno Livio narrata nullam merentur fidem , utpote omni
proba bilitate destituta : veluti quod scribit Lib. 1. ca. 12. post pugnam
Romanorum cum Albanis , Tullo ' Hostrilio Rege 1 factam , I 3 198 Logica Pars.
II. in Monte Albano lapidibus pluisse ; vel quando , Tarquinio Prisco regnante
, Au guris Attii Nevii cotem novacula discissam refert Lib. I. cap. 25. : id
enim mirabile quidem et insolitum , sed a Livio tantum relatum . Qua de re iure
idem Historicus de his , fimilibusque factis improbabilibus vocabulo ferunt
fidem suam sartam tectam servat , non modo singulorum narratione, sed et in
historiae suae proaemio, ubi cas ideo nea adfirmare, nec refellere velle
fatetur , ut potc poeticis magis decora fabulis , quam incor. ruptis rerum
gestarum monumentis confirm mata . nempe Lu nam ** Huiusmodi sunt fabulae illae
, quibus Mu hamedanum scatet Alkorauum , a Muhamede bifarian digito divisam
partemque in vestis manicam delapsam iterum in coelum repositam ; palmae
eiulatus in eius absentia , et id genus alia. > *** Sunt enim , mores pro
regionum ac tem porum varietate , varii. Quidquid ergo mori bus nostris turpe
est , fortasse apud alias Gentes honestum erit , et quod nostro sae culo nefas
habetur id licitum esse alio : tempore potuit. Quis enim ut cum Cornelio Nepote
loquamur , non vitio verteret The bano Epaminondae, saltasse eumcommode
scienterque tibiis cantasse ? Et tamen haec aliaque nostris moribus indecora
inter eius virtutes commemorantur. Nepos. in Proem. Cap. V. De Veritate
probabili. 199 154 Quoad modum narraudi tandem , id sedulo advertendum , facta
stilo simplici non oratorio aut poetico , narrari debere. Si itaque simpliciter
atque historice nar ratio scripta legatur , maiorem meretur lidem , quam quae
poeticis pigmentis aut oratorio fuco lasciviens aures demulcere conatur. SECTIO
II. De Probabilitate physica , politica , et practica. 153.TJAEc de fide humana
, quam qui ritatis praeiudicio occupatus conseri debet . Ad alteram nunc
probabilitatis speciem ac cedamus , nempe PHYSICAM ; quae ha betur , quum ex
pluribus phaenomenis ad caussam aliquam physicani concludimus, cui illos
tribuimus effectus. Gravesandius eas vocat hypotheses. 8 Probabile est , fluxum
maris à lunae solisque attractione pendere: nam ex plurie . bus phaenomenis
hanc illius caussam ess posse , compertum est. Ad physicam probabilitatem eruen
dam quatuor adhibendae sunt cautiories : 1. ut phaenomenon adstumtum sit
certum, eiusque distincta idea , aut clara saltem , habeatur , ne chimaeram pro
re , aut nu bem pro Iunone amplectamur ; 2. si phae nomenon illud sit ab alio
relatum ad historicae probabilitatis regulas, tamquam ad lydium lapidem ,
exigatur : 3. eius porro caussae omnes pose sibiles investigentur , et.cum
phaenomeno conferantur ; ac denique 4. ex iis una plu resvc adsumantur, quae
cum omnibus cir cumstantiis apte conveniant . * Quum autem doctrina haec ad
Physicam fa cultatem pertineat : sufficiat de ea quaedam tantum hic notasse :
commodius enim in Phi. sica tractabitur. POLITICA probabilitas ea est , qua ex
alicujus personae phaenomenis in dolem animi arguimus. ' Quumque in ex
propensiopuni signis ad ipsas propen siones concludamus : evidens est tracta
tionem hanc ad Ethicam potius , quam ad Logicam pertinere : adeoque non mirum ,
si eam inoffenso pede oniittamus. ea Ut clarius politica probabilitas intelligi
pos sit , sumamus e. g. aliquem , in quo vultus hilaritas, iocandi studium ,
corporis mobi litas , laboris impatientia , prodigalitas' , in constantia ,
garrulitas etc. observentur : non ne eum statim voluptati deditum esse con Cap .
V. De Veritate probabili. cludes: Haec erit probabilitas politica. Lega tur
interim Cl. Heineccii dissertatio : Dein cessu animi indice. Quae de
probabilitate PRACTICA dici inerentur , ea fusius persequuti sunt Andreas
Rutigerus in Lib. de sensu peri et falsi. III. 8. , et Ludovic. Mart. Kallius
in Elementis Logicae probabilium Nos paucis rem expediemus. Eam Rudige rus
vocat , qua ex physicis vel moralibus principiis futurum aliquem praedicimus
even tum . Quod quum in practica casuum si milium expectatione consistat ,
eaque ex pectatio vocetur analogia evidens est practicam probabilitatem recte
adpellari ARGUMENTUM AB ANALOGIA ; id quod maximo apud Politicos usui esse
solet . * * Politici namque in gubernandis rebus publi cis probe versati probabiliter
unius aut alterius Regni praedicunt eversionem , propte rea quod aliae res
publicae post easdem cir cumstantias subversae sint : adeoque a simi Jium
casuum exspectatione practicam eruunt probabilitatem . CA habetur , quum a
quibus dam in Auctoris scripto obviis eius sen. surn eruimus . Saepe enim
accidit , ut in auctoris alicuius interpretatione quaedam occurrant , quae
multiplicem sensum ad mittunt : tunc ex auctoris fine , verborum significatione
, locorumque collatione pro babiliter colligitur , quidnam auctor ille voluerit
intelligere, idque fit ope ARTIS HERMENEUTICAE, quae definiri potest per
habitum Auctorum loca interpretan , di , sive eorum sensum eruendi. SENSUS
AUCTORIS est ceptus , quem scriptor vel loquens vult in legentium auditorumve animis
per ver ba produci. Auctorem ergo interpretari dicimur , qumun ex legitimis
principiis eius sensus investigamus. Et quia ars hermes neutica est facultas
auctorum loca inter pretandi; consequens est 1 ., ut eius sit genuinum auctoris
sensum erue Te ; adeoque 2. regnlae tradantur , opor tet, quarum ope sensus
ille quam proba, bilius investigari possit, соп Cap. v . De Veritate,probabili.
203 Quumque in his regulis totius Hermeneuticae adeoque et Criticae artis leges
Auctorum in terpretationem respicientes pofitae fint : non mirum , si a
canonibus huic sectioni subii.. ciendis abstineamus , quippe qui superflui
omnino forent, et loquacitatem potius , quam logicam praecisionem arguerent. Quoniam
Scriptoris sensus perver ba significatur: colligitur in de 3. ut interpres
linguam , qua scriptor conceptus suos expressit , eiusque idiotis, mos probe
calleat : adeoque patet 4. falli eos , qui linguam illam ignorantes aliorum
versionibus translationibusque fidunt ; 5. ut ad scriptoris sectam , finem ,
affectus,mu nus, aetatem , gentis suae mores ' attendat : unde 6. integrum
Auctoris systema prae oculis babeat , ac de eo secu dnm dome sticas notiones ,
non ex propriis opinioni bus , iudicium ferat ., quid > * Praeclare id monet
Clericus Arte Critica Part. Il Sect. 2. cap. 2. $. 7. et 8. Opor tct , inquit
Vir eruditissimus , nostrarum opi nionum veluti oblivisci , el quaerere ,
veteres illi Magistri senserint non quod sentire dcbuisse nobis videniur , ut
sape rent. 162. Ex eodem principio fluit 7 inter pretein affectibus ,
praeconceptisque opinionibns omnino vacuum esse debere ; nee 8. Auctoris verba
extra contextum legere aut considerare , sed antecedentia et con sequentia
attente conferre : multoque ma gis y. loca parallela auctoris eiusdem sol
licite comparare , ut quod obscuritatis ir , repserat , statim evanescat .
Quumque ad cognitionis claritatem ac distinctionem om ne momentum ferat
attentio ( m. 19. ) : sequitur 10. ut qui librum aliquem probe interpretari
vult , eum attente atque ordi ne legat , et codicem habere ' curet quam
emendatissimum. ' * Quantum ad librorum interpretationem con ferat editio ,
ratio in promptu est. Videmus enim , quam multis scateant erroribus edi tiones
quaedam ab indoctis ignarisque con fectae typographis , ut Delio saepe notatore
opus habeant. "Nitidissimae prae ceteris sunt editiones a Viris claris ,
qui id oneris susce perunt, effectae, quibus multum iure merita debet
Respublica litteraria, Cop. V. De Veritate probabili. Uoniam magno
Hermeneuticae adiumento est Ars Critica : non abs re fuerit , pauca de hac
illustri arte haud contemnenda degustare. Quam bene de ea meritus sit Vir
multiplici eruditione praeditus Ioannes Clericus , communi sa pientum consensu
probatur. Nos eius du ctu regulas saltem generales nostris audi toribus trademus
ut quantum fieri pote rit , libros genuinos a nothis , integros a corruptis
discernere valeant. Res quidem foret laboris plenissima et satis prolixa , si
Critices distincte praecepta trade re conaremus. Id adcurate cxsequutus est
Clericus , quo'nemo elaboratius eam pertra ctare , operaeque pretium facere
posset. Nos autem tironibus scribentes , notiones maxime genericas jis
suppeditare adlaboramus ; quia, quum perfectum fuerit ipsorum iudicium , et
matura aetas , omnia, quae hoc super argu mento scienda forent , in eodem
Clerico legent. ARS CRITICA est habitus libro Fum genuinitatem et integritatem
diiudi, 20 Logica Pars I. Candi. * Quae definitio ut intelligatur, oportet
claras notiones genuinitatis , et in tegritatis librorum in legentium animis
excitare . * Notandum tamen hic Crilices vocabulum strictissimo iure usurpari',
regulasque ea in re generales tironibus suppeditari : latiori Damque
significatione tam historicam proba bilitatem , quam hermeneuticam amplectitur,
de quibus per summa capita praecedentibus sectionibus sermonem instituentes
praecepta , yeluti per lancem saluram , ex hibuimus. Earum. LIBER GENUINUS
dicitur , qui ab eo , cuius nomen prae se fert ,-. fuit exaratus ; SUPPOSITUS
autem , qui ab alio , quam cuius nomine insignitúr , scripius est. * Liber
dicitur INTEGER , si tantum contineat , quantum Auctor in eo descripsit ,
CORRUPTUS vero al quid ab alio additub sit , vel demtum: speciatin Viro si
additum INTERPOLATVS ; sin den tuni , MVTILVS appel . latur . si 2 * Dici
quoque solet spurius fictus vel fictitius: liniec vocabula ab aliis
distinguantur. Sed non est idoneus huic quaestioni locus, Cap. V. De Veritate
probabili. 2014 * Huius corruptionis quatuor caussas tradit Clericus: nempe
Librarios ( dictantes perin de , ac scribentes ) , Criticos , impostores ,
tempus. Satis erit haec generatim scire guia singillatim percurrerenon vacat.
166. Criticae leges ab eodein Clerico de cem adisignantur. Eas nos sequentibus
ex ponemius regulis , quas philosophus nos ter observabit. Sequantur ergo .
CANONES t . " S " ppositum habeto librum , qui in vetuslis codicibus
alii tribuitur Auctori ; interpolatum , si in aliis de sideretur, quod in eo
reperitur; muti lum denique, si quae in ipso desunt in antiquis codicibus
inveniantur. 2. Si a veteribus quaedam a libro ali quo exarata sint , ea vero
nunc in li eadem inscriptione. insignito deside rentur : aut alius esto , aili
muiilus. Si aliter legantur, suspeciels. Si vero omnia aptu cohaereant ,
genuinus esto et inte ger , nisi alia adsit ratio dubitandi. 3. Liber , cuius
nulla fit inentio in veteribus catalogis , aut a scriptoribus proxime
sequentibus , plerumque fictus esto , cut saltem suspectus, . 209 Logica Pars
I. > 4. Scriptá a veteribus diserte reiecta, aut in dubium vocata , nequit
recentio, rum auctoritas , nisi gravissimis rationi. bus, , pro genuinis
admittere. 5. Liber dogmata continens iis con trária , quae scriptor cuius
nomen praefert , alibi constanter defendit , ut plurimum aut spurius esto , aut
interpo latus. 6. Idem iudicium ferto de eo , in quo personae , facta , uut
nomina com memorantur Auctore , cui tribuitur , recentiora . 7. Spurium quoque
aut interpolatum iudicato librum in quo controversiae tractantur post
Scriptoris tempora na tae , vel adest scriporis imitatio . 8. Talis quoque ut
plurimum esto si fabulis scatens , aut ineptus , viro docto minimeque imperito
tribuatur. 9. Liber stilo scriptus diverso a stilo Auctoris aut saeculi , in
quo ille vixit, spurius esto , eiusque censendus , ius stilo est conformis. In
. Vocabula recentiora Auctorem arguunto recentiorem , aut libri interpo
Talioncm : in translatione vero , si ni hil est quod sapiet linguam , in qua
scripsisse constat Auctorem , cui tribyi: utr , translatio non esto , cu * Cap.
V. De Veritatc probabili. 209 * Pluribus hanc doctrinam persequi deberemus,
idoneisque illustrare exemplis : sed res est maximi momenti, et nimis implicata
, nec in stituti brevitas eam disquisitionem patitur. Quivero plura cupit,
adeat Clericum in Ar te Critica , ubi plurima inveniet suo gustui . adcommodata.
Id interim notasse sufficiet , in hisce omnibus ad praxin adplicandis ma gna
cautione opus, esse ne in praecipitan tiam , adeoque in errores prono cursu la
bamur CAPVT SE X T V M. De Veritatis inquisitione. 167. Sendus pecialior
Logicae usus nunc evol vendus , nempe PRAXIS , qua mentis nostrae operationes
sint in verita tis investigatione dirigendae.Veritas inveni tur vel proprio
marte, sive per meditatio nem rite institutam ; vel ab aliis inventa quaeritur
et ud trutinam revocatur. Quia vero nec meditationi , nec bonae lectioni par
est , qui hasce lautitias nondum degus tavit : Logicae est regulas suppeditare
quibus mapuducti adolescentes et recte mea ditari , et libros cum fructu legere
dis cant. Quumque nostrum sit auditorum nos trorum utilitati studere : de
duobus his veri tatem inveniendi modis hoc capite agemns. MEDEDITATIO est
conformis co gitationum nostrarum bonae methodi legibus adplicatio. Meditamur
itaque , quum cogitationes nostra's bonae methodi legibus g . 138. seqq. ) ita
dirigimus , ut veritates ex veritatibus, co gnitiones ex cognitionibus eruamus.
Ex qua definitione sequitur 1 . ait quantum diſfert regula ab eius adplica
tione , tantum optima methodus a medi tatione distet , . meditaturus leges
quibus bona methodus absolvitur ( S. 141. ), callere debeat ; adeome 3. eo
felicius meditetur , quo exactius leges illas esequitur ; nec non 3. aliquarum
saltem veritatum debeat es se gnarus , ut ex ijs veritates aljas erue re
legitime possit ( S. 167. ) . 5. Tirones ergo , aliique bonae methodi ,
veritaium que ignari ad meditandum sunt inepti . * Cui enim serei principium
deest , nullo mo do seriem ipsam , hoc est veritatum catenam conficere potest.
Pari modo qui concatenationis leges ignorat , quantumvis veritatum mente te *}
Cap, VI. De Veritat. inquisitione. 211 neat , nec illas recte disponere , nec
ordina tam seriem formare valet. 170. Quia ad bonam methodum requi ritur
idearum claritas ( 5 141. cap. 3. ); ad claritatem autem confert attentio ( S.
19. ) ;consequens est 6. ut qui feliciter meditari vult , attenitonem praecipue
colat ; quin 7. et praeiudiciis liber et 8. certis indubiisqoe principiis ( S.
131 ) praemunitus ad meditandum accedat. Quum que ad principia referantur
praecipue de finitiones ( f. eod . ) : recte consequi tur 9. ut res de qua
institui vult mcdi . tatio , edcurate definiatur , f . 141. cap. 5. ) , ac inde
novis definitionibus omnia dividantur. El * Serventur tamen , quae de
definitionibus ( Par. I. Cap. 3. ) , et divisionihu:s ( Cap. 4. ) docuimus , et
quomodo definitiones ex ex perientia eruantur. quoniam inter principia etiam
axiomata et postulata enumerantur ( S. 130 ), eaque es definitionibus legitimue
eruuntur: liquido infertur 10. medita turo innotescere quoque debere modum ex
definitionibus axiomata eruendi , * ut om nes principiorum species probe tencat.
Quonam autem modo ex unica definitione ar. iomata et postulata formentur, hic
adden dum . Tribus quidem modis id effici posse certum est : scilicet PARTIS
OMISSIONE , nempe quum genus vel differentiam specificam omittimus. E. g. ab
hac definitio ne : Invidia est taedium ob alterius felicita tem , omitte genus
, et habebitur axioma: Invidia respicit felicitatem alterius : omitte
differentiam , eritque aliud axioma : Invidia est taedium 2. INVERSIONE , si
definitio in definiti locum substituatur. E. g. Qui er alterius felicitate
taedium percipit est invi. dus 3. CONVERSIONE , si aientes pro positiones in
negantes convertamus E. g. Qui ex alterius felicitate non percipit taedium ,
-non esi invidus ; vel eum , qui non est in vidus , alterius feliciiaiis non
taedet. Postu lata eadein ratione conficiuntur , si nempe modus exprimatur ,
quo quid fieri potest : sed ea melius ex realibus , quam ex nomi nalibus
definitionibus deducuntur. Sic ex ea dem definitione habebis postulatum :
Invidia excitatur , si invido alterius felicitas reprae sentetur. 172.
Praestructis ita principiis , opor tet il . ut ex eorum collatione THEO REMATA
, vel PROBLEMATA compo nantur , j 12. et unde consequentiae im mediatae sese
offerunt , COROLLARIA deducantur , vel 13. ubi maiori explicatio ni locus erit
SCHOLIA subiungantur. De Veritatis Inquisitione. 213 Est enim Theorema
propositio theoretica de monstabililis, demonstratio autem ex principiorum collatione
conficitur, ut videre est in superioribus Cap 3 . Sect. 2. et Cap. 4. Hoc modo
ex principiis ( §. 171. * confectis erui poterit theorema : Invidia oritur ab
odio , et similia . Pari mo do quia Problema est propositio practica , eius
solutio et demonstratio ex eorumdem principiorum collatione petitur. Ita ex
eisdem principiis orietur problema : Juvidiam in altero excitare ; cuius
solutio haec erit Invidia ex odio nascitur. Fac er go ut is, in quo invidiam
excitare vis , ala terum odio prosequatur , cuius inde felicita tem ei ostende:
ex ea namque taedium per cipiet , adeoque in eo invidia excitabitur.
Corrollaria vero tam ex indemonstrabilibus, quam ex demonstrabilibus
enunciationibus des duci possunt. Sic ex superioribus axiomatis varia oriuntur
corollaria , veluti ergo qui tae dii non est capax , invidus esse non potest :
item ex postulato: ergo ubi non adest feli citatis repraesentatio, locum non
habet invi dia ex secundo item theoremate ergo qui alterum amat , ei non invidet
; atque ita porro . 173. Haec omnia vero praecepta , ut aemoriae infingantur ,
brevissimis ample temur regulis , quas , qui sequuntur , shibent 214 Logica
Pars II. CANONES. ANicquam meditationem instituas, ipsam quantum natura ipsa
fert , exa cte dividito . 2. Ex definitionibus axiomata , item postulata
deducito , atque ab his per im mediatas consequutiones corollaria con ficito .
3. Plura principia vel antecedentes propositiones mutuo conferto , et sic
theoremata vel problemata efformabis , ex quibus , quae haberi poterunt , erues
consectaria . 4. Propositiones - inventas bona me thodo legitimoque nexu
comparato , et id agito , ut omnia per demonstratio nes apte cohaereant. 1 *
Ita novae orientur veritates , novaque semper ratiocinia fluent. Perinde ' vero
est , qua met hodo ratiociniorum series in ordinem rediga tur , modo regulae
alias ( $. 141. ) propo sitae rite observeutur. Scol. Sint haee satis de
meditatione , ei usque legibus , quae numerosias protra here non fert instituti
compendium. Qui Cap. YI. Da Veritatis Inquisitione. 115. vero longius et
distinctius meditandi re gulas vellet addiscere , ei Baumeisteri dis sertatio
de arte meditandi attente legen da foret , eaque in syccuin et sanguinem
vertenda . Interim ad auditorum nostrorum instructionem hic brevem subiicere
praxin censuimus , quo facilius artem hanc per discere possint. Qua de re
eruditissimiVic ri exemplopi addncemus pulcherrimum . Si quis AMICI characteres
sit exploratu. rus , absque librornm auxilio , sequentem instituens
meditationen , haec habibit. § . I. Ex casuum sin vularium observa tione g .
124. seq . ) critor Amici DEFI TIO : Amicus est persona , quae nos amat, f . II
. Ad definitionis porro notas atten dens quisque videt , notionem amoris de.
finitione indigere. Eodem igitur modo. hacc noya definitio eraalur. Sic . amare
alierum nihil aliud significat , quam ex alterius felicitatc volup'atem
percipere. 6. JIÍ. Ex his definitionibus eo , quo diximus , artificio axiomata
de dacantur . Et quidem ex prima definitione ( 1. ) fiunt AXIOMATA. 1. Amicus
al terum amat. 2. Qui alterum non amat non est amicus.3.Quicumque obligatur ad
ali un amandum , ad amicitiam ei praestan 116 Logica Pars 11. dam obligantur.4.
Vbi nullus amor , ibi nulla omicitia. 5. Quamdiu durat amor , tamdiu durat amicitia
. 6. Qui efficit , ut ab alio ametur , eum sibi red dit amicum. Quidquid amorem
in altero excitat amicitiam foret. 8. Quid quid amorem impedit , amicitiam
tollit. 5. IV. Ex amoris defimtione ori untur sequentia . 1. Qui alinm amat ,
ex illius felicitate deleciatur. 2. Quicumque obligatur ad volupiatem ex
aiterius fe licitate capiendan , obligatur ad alte rum amandum . 3. Qui iubet ,
ut volup tatem ex a terius felicitate capiamus , alterum , iubet , ! ť umemus.
4. Quid quid promovet voluptatem , ex alterius felicitate capiendain , promovet
amo rem . 5. Qui illum impedit , hunc sis tit . V. Collatis inter se duabus
illis de. finitionibus , nascitur. THEOREMA. Amicus alterius feli. citate
delectatur. DEMONSTRATIO. Qui alterum a. mat , alterius felicitate delectatur (
s. 1. ) : amicus alteruu amat ( §. III. cud 1. ) ; ergo amicus alte rius
felicitaie delectatur. 5. VI . Ex quo inmediata consequutico ne cequentia
fluunt, IV. AX Cop. IV . De Veritatis Inquisitione. 217 COROLLARIA. 1. Anicus
ergo ex amatae personaefelicitate nullo taedio afficitur. 2. Sed potius ex eius
infeli citate taedium sentit. S. VII. In quibus , quum taedii facta sit mentio
, perapte addi potest. SCHOLION. Est autem invidus , qui, ex alterius
felicitate taedium percipit misericors vero , quem alterius infelici. tatis
taedet. $ . VIII . Hinc ergo habentur THEOREMA I. Amicus non est in vidus.
DEMONSTR. Invidus enim est , qili ob'alterius felicitatem taedio adficitur ( S.
VII. ) : Quod quum in amico non reperiatur: amicus " go non est invidus. THEOREMA.
Amicus est mise ' icors. DEMONSTR . Taedium enim percipit x personae amatae
infelicitate ) $ . II. or. 2 : ) : quod quum dicatur coinmise atio ( 5. VII. )
: amicus ergo commi eratione tangitur erga personum ama zm . § . IX. Nova
rursus inde sequenlur COROLLARIA. 1. Invidus ergo non si bonus amicus. 2. Qui
ergo nescit Tom . 1. 218 Logica Pars. Ij. > novae r'e commiserari alterius
vices , eumque ab infelicitate , dum potest , non vult eri pere , non se dicat
amicum . 6. X. Si meditatio continuetur inde sequentur veritates. Et quidem
defi niendo rursus notas voluptatis et felicita tis , maxima enunciationum
seges adpare bit. Sint ergo . DEFINITIONES. Voluptas sive delectatio est sensus
perfectionis. 2. For licitas est status durabilis gaudii . . XI . Ex quarum
prima oriuntur AXIOMAT'A. 1. Delectutio ex aliqua supponit eius bonitatem ac
per feciionem , earumque repraesentationem . 2. Quicumque obligatur ad sensum
per fectionis in altero promovendum , obli gatur. ad voluptatem in eo
excitandum. 3. Oui - iubet primum , praecipit secun dum . § . XII . Ex altera
vero fluunt sequentia AXI. 1. Qui alterius felicitate dele ctatur , ex eius
statu durabilis gaudii voluptatem capit. 2. Qui alterius statum durabilis
gaudii promovet , eius felici tatem promovet. 3. Qui illud iubet , hoc quoque
iubet . 4 Quicumque obligatur ad primum , obligatur ad secundum. 1. XIII .
Conferantur definitiones cum antecedentibus , indeque nasceutur. Cap. VI. De
Veritatis Inquisitione. THEOREMA I. Amicus alterius feli citatem sibi , tamquam
bonum , reprae sentat. DEMONSTR. Alterius enim felicita te delectatur ( $ . V.
) : quod quum fie ri nequeat , nisi illam sibi , iamquam bonum , repravsentet. Ergo
amicus alterius felicitatem sibi tamquam bonum , repraesentat. THEOREMA II.
Amicus delectatur alterius statu durabilis gaudii . DEMONSTR. Quum enim ex
alterius felicitate delectetur; felicitas vero sit status durabilis gaudii ( S.
X. def. 2. ) : ex hoc patet , amicum, quo que va luptatem percipere, THEOREMA. Amicus
alterius gauuium durabile sibi , tamquam bonum repraesentat. DEMONSTR. Eius
namque statu de lectatur ( per theor. 2. ) , quod fieri non potest , nisi id ,
tamquam bonum , sibi repraesentet. Ergo amicus alterius gaudiun durabile si bi
, tamquambonum , repraesentat. § . XIV . SCHOLION. His praemissio succurrit lex
appetitus , qua anima id , quod sibi , tamquam bonum repraesen tal , adpetit ,
et promovere studet. Plurimae hinc propositiones de duci poterunt. Et quidem
THEOREMA. Amicus alterius felici tatem , idest gaudium durabile , adpe tit , et
promovere studet. DEMONSTR. Omne , quod nobis , tamqnam bonum , repraesentamus
, ad petimus et promovere studemus ( XIV . ) amicus sibi alterius felicitatem
statum que durabilis gaudii , tamquam bonum , repraeseníat: er go ea omnia
adpeiit ; et promovere stil det . *. XVI. Ex quo, sponte manant, COROLLARIA. Ergo
amicus om nia cavet , quae alterum taedio affi ciunt 2. nec ullam omittit
occasionem quai personae amatae iucunditatem et voluptatem promovere possit .
S. XVII. Durabilis gaudii porro notio nem evolvendo occurret. DEFINITIO.
Durabile gaudium est voluptas eminentior ex possessione ve iarum perfectionum
grta . 9. XVI. Ex qua ultro sese off -rt. AXIOMA. Qui alterius gaudium du
rabile promovet , eius quoque proinovet perfectiones. Atque inde exurget novum
THEOREMA. Amicus alterius per fectiones promovet. DEMONSTR. Eius enim gaudium
durabile promovet ( $. XV . ) , quod idem est ac promovere eius perfections. F. XX. SCHOL. Est autem legis Natu rae iussum
: Tuas aliorumque promove to perfectiones . S. XXI. Jude ergo oriuntur.
COROLLARIA . 1. Amicus ergo legem Naturae observat 2. Nos ergo obligati sumus
ad amicitiam colendam , 3. Adeoque,qui homines sibi reddit ini. micos Naturae
legem violat. 4. Vo. luntati ergo Divinae: conveniens est , ut aliis simils
amici . etc. Haec brevi meditatione compertae sunt veritates, Quod si modilatio
aliquamdiu proferretur , dici non potest , quot novae propositiones exurgerent.
Huic autem exer citationi si adolescentes adsueverint , aut nostra nos fallit
opivio , aut sine multa lectione , brevi tempore , minimoque la bore Philosophi
acutissimi evadent. K 3 2 ? 222 Logica Pars IT S E C T I O. II. De librorum
lectione. Q" non 174 Vum intellectus noster arctis simis sit limitibus
circumscrip tus , atque adeo veritatibus omnibus pro pria meditatione eruendis
incapax :facile est and intelligendnm , cur aliorum scripta le genda sint, ut
quae proprio marte possumus, ab alis detecta inueniamus. Sed quia non omnia ab
omnibus adcurate scri pta , plerique etiam intellectus voluntatis vitio
laborant , ideoque errare possunt: cautio quaedam adhibenda est in legendis
eorum libris , ac proinde Lo gicae interest praecepta tradere , quibns in jis
ad examen revocandis , dijudicandisqne veritatibus ab aliis inventis aut
exaratis mens dirigatur : id quod in praesenti se ctione docendum . 175. LIBER
est aut HISTORICVS , aut ŚCIENTIFICVS .Ille , in quo facta, seu enunciationes
singulares ; hic , in quo pro positiones universales et dogmata traduntor.* *
Hac librorum divisione nulla alia exactior. Quorum eum librorum habemus
notitiam , Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 223 nihil , nisi duorum , quae
enunciavimus , ar gumentorum alterutrum esse potest obiectum Patet ergo ratio ,
cur libros omnes in histo ricos , et didacticos sive scientificos distri
buerimus. 176. HISTORIA , quum sit rerum quae acciderunt fidelis narratio ( S.
147. ) , facta vero vel Naturae opera , vel Societatem vel fidelium communionem
nempe Eccle siam , vel deniqne litterariam Rempublicain spectent , esse potest
NATVRALIS , ClVILIS, ECCLESIASTICA, vel LITTERARIA . * Rursus quoniam omnium ,
aut quo rumdam , vel alicuius ex quatuor illis , fa cta refert , dividitnr in
UNIVERSALEM , PARTICULAREM, et SINGULAREM. Jarum prima Naturae opera enumerat ,
altera hominum vices et facta commemorat , iertia Ecclesiae vicissitudines et
annalia narrat , po strema vel disciplinarum et librorum , vel eru ditorum
vitas et fata omnia refert. ** Historia Naturalis ergo erit VNIVERSA LIS , si
omnia in ea Naturae opera eno dentur ; PARTICVLARIS si alicuius tantum classis,
veluti ex Regno vegetabili , fossili, ani mali etc. SINGVLARIS si alicuius
tantummo do plantae , lapidis, metalli , aut viventis inventio , usus ,
incrementum etc, narrentur. K 4 224 Logica Pars II. civili , ecclesiastica , et
litteraria , de quibus plura coram 177. Quia libri vel scripta ideo . legun tur
ut veritates ab aliis inventae et dete ctae discántur ( 5. 274. ) ; ea vero
verbis referta sunt , ut auctoris sensus intelliga. tur ( §. 160. ) , idest
eaedem ideae ver bis adsignentur , quas Auctor cum iis con iunxit ( S. eod . )
: per se patet genera lis in legendo servandus. CΑΝΟΝ. IMN legendis , aliorum
scriptis curato , uit easdem notiones cum verbis con iungas, quas Auctor voluit
iisdem adfigi. 178. Ex quo legitima consequutione na scitur i . in cuiuscumque
libri lectione at tendendum esse ad definitiones , quibus sin gularum
significatio determinatur , vel and conceptum ab usu loquendi tributum 11s ,
quae sine definitione adsumuntur. Et quia claras ideas ac distinctas adquirere
si ne attentione non possumus ( 9. 19. ) : se quitur 2. ut ad id potissimum
requiratur attentio , crebriorque repetitio , in libris praecipue historicis ut
facta facilius me inoriae mandentur. * 9 Cap. VI. De Veritatis Inquisitione.
225 * Vide quae de attentione ac repetitione dixi mus in Part. I. cap. 1. Seol.
can. ult. 179. Et quoniam in historia tria potis simum spectantur , nempe
veritas , ordo ac finis , facile patet 3. in libris histori cis legendis
attendi debere ' ad rerum sive factorum veritatem , ad eorum ordinem et
legitimam seriem et ad finem an sci licet liber Auctoris scopo respondeat. >
* Pro diiudicanda rerum VERITATE, bislo ricae probabilitatis regulae traditae
sunt( $ .152. seqq. ). ORDO vero tuin in locorum , tuna in temporis circumstantiis
consistit. Eius ergo legiiimitatem quoad loca suppeditat GEO GRAPHIA , circa
teinporis autem seriem CHRONOLOGIA. FINIS demum ex üsdem scriptis abunde
patebit , adeoque , an ei res pondeant, ex eorum lectione diiudicari pote rit
Historiae nituralis finis est obiecta rario ra adcurate describere , phaenomeni
alicuius cuncta notatıı digna , partiunqne nexum di stincte exponere ; Civilis
est politices civilis que prudentiae regulas exemplis et factis con firmare ;
Ecclesiasticae scopus est , statum Ecciesiae , incrementin , in file
costantiain , in profligandis erroribus - prudentiam Su premi item Numinis , in
ea conservanda au gondaque Providentiam , 2 gelis , ostendere ; Litteraria ?
tandeſ , inveniendi arlena , quam EVRISTICAM vocant , aptis aliaque id K 5 226
Logica Pars II : subsidiis , et veritatum a veteribus invenla rum cognitione
perficere. Cognito itaque libri scopo , restat ut attente legatur ( S. 178. )
statimque innotescet , utrum suo fini respon deat. 1 180. De librorum
scientificorum lectio ne sat erit , si pauca degustemus. Quo niam in scriptis
didacticis methodus reqni rit , ut nullus adsumatur terminus , nisi notionem
habeat sibi adiunctam , atque ut ea praemittantur , per quae sequentia in
telliguntur: consequens est 4 . ut in iis legendis singulae veritates prius in
classes dispescantur , ibique videatur utrum ad principia an ad propositiones
iu de deductis pertincant ; deinde 5. ad sin gulas voces et notiones jis ab
Auctore ad fixas attendatur ; (ac deni que 6. ut legens veritates antecedentes
si bi reddat familiares , nedum demonstratio nes in syllogismos resolvat , in
quibus vi. deat , si quid doli contineatur. 181. In scriptorum porro
didacticorum examine ad eorum dotes potissimum respi ciendum , de quibus
sequenti capite age. mus. Id unum porro meminisse juvabit; ad illorum examen
conficiendum requiri absolụtam et continuatam libri lectionem , Cap. VII. De
l'erit. comm. 227 attenta mque veritatum earumque nexus con templationem : *
quae omnia si desint , le ctio dicetur SUPERFICIARIA . * Ad id ergo ineptissimi
videntur scioli quidam in sola romanensiiim fabellarum lectione ver sati , qui
in dijudicandis per tabernas comoe diis scurrilibus , aut ephemeridibus omnia
studia sua contulerunt ; vel adolescentuli vo culis tantum , phrasibusque meinoriae
infi gendis adsueti , qui vix e paedagogorum fe rula manum subduxerunt: "
Requiritur autem laboris patientia , attentio , mens methodo ac meditationi
adsuefacta , non vero in expen ex . dendis rerum corticibus solo sensuum et
phan tasiae ductu exercita. OVampdoquidem a Platone * monitum non praeclare ,
non est no bis solum nati sumus , adeoque nec nobis sed aliorum commoda pro
movere debemus : veritates a nobis dete ctas, vel quae ab aliis inven tae nobis
ope lectionis innotuerunt, aliis proponere Natura obligamur. Qui vero verbis
alium ad ignotarum veri talum cognitionem perducit , is eum Do 5 K 6 228 Logica
Pars. Ir. CERE dicitur adeoque DOCTOR CO gnominatur. 7 * Ip Ep. ad Archytam
Tarentium . Vid. Cic. de Fin . Lib . II. cap. 14. ** Latius hic patet docendi
vocabulum , qu am a Cicerone de Offic. Prooem . usurpatur. Id ve ro ex
definitione admodum completa prono , ut aiunt , alveo fluit. Ceterum in hoc
usum loquendi sequuti sumus : vulgari namque ser mone tritum est , Magistrorum
alios esse vi VOS , alios mortuos , qui Scriptorum vel Auctorum nomine
distinguuntur , ita ut libros melonymicę magistros mortuos vulgo appel lent.
183. Et quoniam verba vel voce profe runtur , vel scripto exaranțur ( S. 42. )
: patet , duplicem esse docendi modum , vo ce scilicet , atque scriptis ;
adeoque MA GISTRUM dici debere , tam eum qui li þros in lucem edit , quam cum
qui in A cademiis iuventutem instruit. Speciatim autem in sequentibus eum , qui
scripta didactica ( de quibus hic tantum ser mo est ) conficit, SCRIPTOREM vel
AU. CTOREM ; eum vero , qui adolescentes ro ce docet DOCENTEM , DOCTOREM ,
MAGISTRVM dicemus : idque ad evitan dam confusionem , atque inutilem verborum
repetitionem . Sed quia doctrinam hanc in dus as dividere instituimus sectiones
, nt de utri Cap. VII. De Verit. commun . 229 se esse usque virtutibus ac
vitiis aliqua dicere posse mus : nunc , quae utrique communia sunt ,
dispiciemus. Ad calcem denique capitis quae dam de discentium dotibus ae naevis
com pendii loco addemus. 184. Quia vero docents est , alios ad ignotaruin
veritatum cognitiovem prducere; cognitio avlein debet certa et distincta eaque
vel a posteriori vel a priori: consegucas esi 1. ut lectores vel auditores de
veritatibus certi reddendi sint , adeoque 2 , indiciis sufficientibus at que
inf.l.bilibus ad veritatis cognitionem adducendi ( $ . 1 : 4 . ) . quod ut fiat
, 0 portet 5. ut docens ab iis intelligatur , ideoque 4. sit perspicuus , ad
quod requiritur 5. ut artein , in qua versatur , distincte intelligat * ( $ .
24 ) 6. bonam methodum rigide servet ( . 138. seqq . ) , 7. et si quid
implicatum confu suinque occurrat , distincte explicet. > * Criterium enim
notionis distinctae est , si cum aliis eam possimus per verba communi Care:
nisi ergo distincta artis suae docens cognitione gaudeat , fieri non potest ,
ut eius praecepta perspicue aliis proponere queat. CONVICTIO est actio , qua al
terum de veritate certum reddimus. Quod quum fiat demoustrationis ope ( . 133.
) quisque videt , convictionem sola demon stratione absolvi. * Ex quo liquet 8.
do centem alios de veritate , quam docet , debere convincere , ** ac proinde 9.
pro babilibus argumentis uti ei non licere : *** nisi res talis sit , ut sola
probabilita te cognosci possit . * Quoniam ergo convictio demonstratione ab
solvitur demonstratio vero est vel directa vel indirecta , ( 132. ) , vel a
priori vel a poste riori ( $. 131. ) : non abs re convictioni ea dem nomina ,
prout veritates demonstrantur, a Philosophis tributa sunt. ** Vt vero rationis
pondus in convincendo ani mum sese insinuet , oportet , ut iHe sit atten tus ,
in demonstrationibus versatus , et talis ; qui rationum momenta perpendere
possit. Quapropter solidis demonstrationibus , non conviciis , irrisionibus ,
dictisque iniuriam in ferentibus ad veritatem est trahendus. Convi cia nanque
odium iramque pariunt, et atten tionem turbant. *** Dici haec solet PERSUASIO ,
quae quum sit rationibus insufficientibus innixa , convi ctio dici nequit ,
quippe quae a convictione longe multumque distat. " Hinc vides , convictio
sit Philosophcrum propria , perсиг Cap. VII. De Verit. commun. 231 suasio vero
Oratorum , qui in investigatione verosimilium argumentorum versantur , quan tum
sufficiat ad caussam probabilem redden dam , de quo conferendus est Cicero de
In vent. cap. * 186. SOLIDITAS est completa artis, quam profitemur , methodique
cognitio, Hinc ergo patet 10 maximam et praeci puam doceotium dotem esse
soliditatem , adeoque 11. litteratos superficiarios es se ad scribendum aeque ,
ac docendum ineptos . * Vitium vero soliditati oppositum in speciali bus
tractationibus infra explicabimus. Ad eas itaque progrediamur, SECTIO I. De
Librorum dotibus. IBER , in quo veritates continen tur , SCIENTIFICVS dicitur ,
alio nomine SCRIPTUM DIDACTICVM . Eius dotes sunt SOLIDITAS, PERSPICVITAS, METHODVS,
et SVFFICIENTIA. SOLIDITAS consistit in principio rum firmitate , ac
deinonstrationum stabi 232 Logica Pars II. bilate . Solidus ergo dicitur liber
1. si eius dim principia certa fuerint atque indubia ( $ . 150. ) , 3. si
propositiones singulae rig de sini demonstratae , si bona me thodus in
demonstrando adbibita pec in
demonstrando cir culus irrepserit. Si vero bonae methodi leges fuerint negle
ctae , tunc liber SVPERFICIARVS dice tur. Huiusmodi vero libris Rempublicam ca
rere litterariam , foret maguopere optandum . 189. PERSPICVITAS in verborum pro
prietate , iustaque eorum cum ideis pro portione sita est . Verborum PROPRIETAS
es'git , ut voces omnis secundum usum loquendi fixo sign ficatu adbibeantur, adcuratisque
definitionibus deter spineniar. Iusta verborum cum ideis PROFORTIÓ requirit ,
ut liber non sit prolixior , nec brevior , quam scopo SIO conveniat. *
Quemadmodum enim prolixitas verborum mul titudine mentem obruit : ita et nimia
brevi tas Auctoris sensum occultat , adeoque am bae oliscuritatem pariunt,
scilicet vitium per spicuitati oppositum Vid. Heinec. Fundam . Stili culiior.
Part. S. cap. 2 § . 50. Cap. VII.De Verit. comm un. nexu 190. METHODVS in eo
est ut veri tates ex veritatibus et principiata , ut aiunt , ex principiis
legitimo et continuo sint deducta , nihilque confusionis vel perturbationis
inveniatur ; denique si ea praecesserint , per quae sequentia intel. ligi
possunt. SVFFICIENTIA tandem id exigit, ut liber sit COMPLETVS, idest veritates
et propositiones exhibeat Auctoris fin i suf ficientes : qui namque finem non
ahso lvit , INCOMPLETVS adpellatur. * Longum valde foret , si sufficientiae
particu lares characteres , hoc est fines lot tantorum que librorum percurrere
vellemus. Sufficiat tamen generales eiusdem notas evolvisse : id enim ex
attenta cuinsque libri lectione quisque poterit diiudicare. 192. SYSTEVIA est
congeries verita tum inter se connexurum , et a prin cipiis suis legitime
deductarum . Et quia id quatuor , quas recensuimus, dotibus absolvitur : hinc
est , ut Logici dicant , librum quemcumque scien titicum systematice scribi
oportere. * Non omnes tamen qui libros scribunt systema conficere possunt ; sed
ii tantum qui veritates a se detectas , et ad eumdem 234 Logica Pars IT. >
scopum tendentes in libros referunt. Eorum autem , qui alienis laboribus
insudant , alii sunt COMPILATORES , qui aliorum opera hinc inde dispersa
colligunt, atque in lucem edunt , mulla ordinis habita ratione ; E PITOMATORES
qui brevius aliorum scripta prolixiora componunt. Et hi qui dem reprehensionem
numquam , quandoque vero laudem ( illi praecipue ) ab eruditorum universitate
reportant. Sunt vero quidam , qui aliorum scripta suffurantes ea typis man dant
, impudentique fronte suo nomine inscrie bunt , iique PLAGIARII nuncupantur. De
his autem quidnam dicendum , sit , omnes no runt. SECTIO II . De Doctorum
virtutibus et vitis. DOCTO OCTOR appellatur , qui alios voce ad rerum ignotarum
co gnitionem perducit, vcos de veritatibus , qnas tradit , certos reddit, atque
convincit. Eius virtutes partim ab inte !lectu , par tim a natura , partim a
voluntate penden tes , sunt quatuor : ab intellectu SOLIDITAS , et in doendo
PRUDENTIA ; a na tura DOCENDI DONUM ; a volnntate ve ro AMOR. De singulis pauca
disquiremus. Cap. VII. De Verit. Commun. Ex doctoris definitione sequitur 1. ut
generales docentis characte res possidere debeat is , qui doctoris munere fungi
vult ; adeoque 2. prima et praecipua eius virtus sit SOLIDITAS qua fit 3. ut
res abstractas et intellectu difficiles exemplis illustret , at que
propositionum omnium sive a se , si ve ab aliis enunciataruin analysin
instituat. Nisi enim exemplis ac similitudinibus res dif ficiles illustrentur,
aegre ab auditoribus au dietur , quibus abstrahendi ars vel ignota prorsus est
, vel laboriosa : adeoque taedium concipientes attentione carebunt nihilque
intelligentes doctorem fine suo frustrabunt. 195. Quia vero doctor auditores
suos de veritate cerlos reddere debet ( S. 184. ) ; ad certitudinem autem ducit
demonstratio: consequens est 5. nt scientia praeditus, verborum facilitate in
fructus ct ad rationem de omnibus red dendain promlus esse debeat . Et quia au
ditores convincendi sunt, et ad hoc in eis attentio requiritur: patet 6.
Doctorem DOCENDI DONO in. signitum esse debere , idest dicendi promti tudine et
suavitate , quo deficiente , ad proprium munus obeundum ineptus erit. 236
Logica Pars II. parvum in eo 9 a do * Vt enim auditor sit attentus , cavere
debet qui eum docet , ne taedio, eum adficiat. Tae dium autem haud excita bit ,
si verborum inopia , dicendi infelici tate , animique imbecillitate laboret. Eo
nam que casu non modo attentionem minuet sed et illius ludibrio se exponet. Qui
ergo se huiusmodi suavitate ac promtitudine senserit destitutum , ei auctores
fuerimus , ut cendi munere se abstineat , si operae preti um perdere nolit.
196. Quoniam autem non eadein omni bus est adolescentibus perspicacia , que non
tam voce , quam exemplo erudiuntur : liquido infertur 7. ut doctor facoltate
gau deat doctrinas ad discentium captum ge niumgne adcommodandi . ac media ad
fi nem rite disponendi, nec non 8. in ex sequendis praeceptis auditores
manuducat, seque iis pracheat antecessorem : praecipue veio 9. si in moralibus
vitaque civili ver setur institutic , animum ipse prius ad vir tutem instruat,
ut ad hoc vivum exemplar omnes conformari studeant. * Et hoc est, quod dici
soiet PRVDENTIA INDOCENDO. * Si namque docentis actiones a praeceptis dis
crepent , nequicquam laborum suorum fru ctum exspectabit , et adolescentes
exemplum potius malum , quam bonam vocem sequuti Cap. VII. De verit. commun.
237 nihil , praeter praeceptoris imitationem , prae se ferent : quum bene
monuerit Iuvenalis : Omnes duciles sumus pravis ac turpibus imi tandis suos .Postrema
doctoris virtus eaque magni momenti, est AMOR erga Quum enim in erudiendis
pueris aut ado lescentibus permulta opus sit fidelitate inserviendi
promtitudine , patientia patientia , et labore haec auien omma nisi ab iis ,
qui nos amant , sperare non possumus : recte infertur 10. doctorem sincero audi
tores suos amore prosequi; adeoque 11 . et studio ; 7 commoda promoveadi
adfcctum esse debere. eorum * Quam necessaria sit haec in doctore virtus , ex
sequentibus alimde patebii. Si namque amor deficiat , et studium deerit
disceniium utilitati inserviendi : ac proinde pro doctore exsurget mercenarius
vel utilitati , vel existi mationi propriae consulens; et tanc nec morun ratio
umquam habebitur , et omnes lucri fa cendi artes promovebuntur. Si haec omnia
ponantor , habebimns magistrum , vel leo poribus inservientem , in muneris
exercitio ne gligentem , timidum , sui dumtaxat studio abreptum , et ad
vilissima quaeqne facilem ; vel inaccessibilem , clatum , ' omnia sibi per
mitientem , quandoque etiam garrulum , ét e cathedra , tamquam e suggestu ,
aliorum no mina lacerantem , quo tutius possit de suis virtutibus declamare.
198. Si virtutum quas recensuimus opposita evolvautur , illico doctorum vi tia
ad parebunt, quae breviter enumera bimus. Eorum primum et praecipuum est
IMPERITIA, idest artis methodique-igno. ratio . Huius effectus sunt 1.
obscuritas , qua fit , ut talis doctor terminis inanibus , vagis obscuris , nec
recte definitis sit con tentus , resque difficiles exemplis illustrare nequeat
: 2. confusio quae methodi negli gentiam , analyseos ignorantiam , ac con vincendi
impoientiam parit : 3. docendi ineptitudo ; quum enim ars ignoratur et methodus
, deficit prompitudo et suavitas , quibus ducendi donum absolvitur * ( S. 95.)
: 4. molesta prolixilas , aut obscurabre vitas ; ignorata namque arte vocabula
quoque technica ignorantur, quo fit , ut vel inanibus circumloquutionibus, vel
paucis et insufficientibus rei explicandae verbis uta tur: 5. superfluorum
tractatio et necessa riorum omissio , quam veram ignorantiae causam esse ait
Sencea ( S. 103. * ) : 6. ser monis barbarics , cui proxima est obscuri. tas et
taediuin , adeoque ad minuendam ten dit attentionem. Cap. VII. De verit.
commun. 239 * Non desunt equidem , qui naturali quodam suavitatis defectu
laborantes nec genio , nec captui auditorum se accommodare sciunt , li cet
doctissimi sint et omnimoda, eruditione praediti. Naturalis autem haec
imbecillitas non inter vitia sed inter defectus est referen da, adeoque
imperitia dici neqnit. Quamvis enim huiusmodi doctoribus lepor desit : me
diorum tamen excogitatio aliaqne pruden tiae subsidia praesto sunt.
Ineptitudinis ergo caussa non alia adsignari debet , quam impe ritia , scilicet
soliditatis absentia. > 199. Alterum doctoris vitium a primo oilum ducens
est IMPRVDENTIA in do cendo , quae in caussa est , ut auditorum Caplui genioque
se adcommodare , atque media ad finem ducentia excogitare , ac proinde animis
morbo aliquo laborantibus mederi nesciat. * Quae enim prudentia in imperito ?
Imprudentiae quoque debetur illa paedagogo rum imbecillitas , qua inter se
invicem de futilibus inoptisque rebus decertantes , vel aliis invidentes
discentium animos adversus aemulos stimulanti. et ad pueriles irrisiones
dicacitatesque concitant : quo fit , ut ipsi in spretum et abietionem incidant,
adolescentes contra pessimos , audaces , ridiculosque mo res induant. 240
Logica Pars II. 200. Ad voluntatis vitia , quae amorem excludunt, referuntur : AMBITIO
, si ve nimia gloriae laudisque cupiditas , qua fit , ut vana eruditionis, autº
eloquentiae ostentatione , nimioque sermonis fuco di sciplinarum praecepta non
explicentur , sed implicentur , propriaeque existimationi potius , quam
discentium utilitati doctores consulant. - 3. AVARITIA , quae omnia trabit
commodum efficitque , ut sola sit utilitas iusti prope mater et aequi:
VOLVPTATIS CONSECTATIO , quae ignaviam , laboris im pa tientiam oilierique
neglectum parit , atque soliditatis defecium arguit , quum bene monterit
Genuensis .noster : difficile esse reperire hominem vere doctum simul autem et
mollem , ad suum > * * * * Inde quoque fluxit Cynicus iile mos , et ef
fraenis alios lacerandi consuetndo , quae in caussa fuit , ut de quorumdam
adolescentum petnlantia ad satyras proclivium emunctae nae ris homines
conquesti · gint : videbant enim pravam consuetudinen a pessimo doctorum exemplo
vatan in naturam paullatim ac cor ruptionem abituran Ex codem tandem fons te
manat ctiam illa docentium praesumtio , qui , ne discipulus supra magistrum
esse vie deatur , vel aliquot sublimiores doctrinas sla Cap. VII. De verit:
commun . 241 bi solis reservant , vel sublimia auditornm in genia deprimunt ac
despiciunt. Praeterquam quod ambitio in doctoribus novitatis amorem gignit ,
eosque opinionum singularium et ab surdarum , saepe etiam impietatis studiosos
efficit : id quod maximo adolescentihus detri mento est , praecipue quum
auctoritatis prae indicium altius in iis radices agat. Vid Hei nec. Ethic. l.
77. ** Quando quis avaritiae studet , non aliorum , sed sua tantum commoda
promovet , idque per fas an nefas , nihil sua referre videtur. Hinc auditorum
quosdam opibus pellantes , vel praeceptorum gratiam muneribus ementes reliquis
praeferunt, eos seorsum instruunt , ac speciali cura in aliquibns reconditis
rebus erudiunt, eaque praedilectione prosequuntur , ut se aliorum odio ,
invidiae vero illos expo nant, adeoque nihil neque hi pro . ficiant. *** Art.
Logicocritic. Lib. I. cap. Voluptati nanque dediti plerumque sunt ignavi ,
desides , et laboris impatientes ; atque inde fit , ut non satis praeparati ad
doces dum accedcntes in lycaeo quidquid in buccain vererit effutiant, et quia
ex abundantia cor dis , ut Servator ait , os loquitur , bonos persaepe mores
verbis factisme corrumpant. Delicatuli isti suat etiam meticulosi , adeoque
veritatem , quam alias intrepido vultu , si ri te munere suo fungi vellent ,
dicere debe ne aliorum indignationen incurruni Tom . I. L neque illi reni , )
242 Logica Pars II. aut dissimulant , aut tegunt, aut ( quod val de dolendum )
foede corrumpunt. Praeterea in huiusmodi hominibus ridicula quaedam et
thrasonica reperitur ambitio , scilicet paedan tismus', quo furentes nusquam ,
nisi de suis rebus gestis plurima exaggeranti, auditorum , que risui se
exponunt. 201 • Superest , ut doctrinae usum do etorumque officia exponamus ,
ut si qui munus hoc inire cupiunt , bene incipere , feliciusque prosequi
possini. Quicunque cr go ad istruendam iuventutem animum ad. pellis , hos
diligenter observato : CANON ES. Avditores eligito perspicaces, mui toque
supientiae umore Nagrantes. Eo rum porro attentionem excitato sae pius , ac
vitia , quibus eos laborare per cipis , prudenter sensimque corrigito. 2.
Doctoris munus , nisi solida artis methodique cognitione imbutus , ne te mere
suscipito : idque summa fidelitate, prucuttia , ac sincero erga discentes amore
absolvito. 3. Adolescentes in moralibus civili Cap. VII. De Verit. comm . 243
busque disciplinis non tam voce , quam exemplis erudito. Evidentissimum numiz
que , teste Augustino , docendi genus est subiectio exemplorum . 4. Religionis
amorem , morumque in tegritatem in discentibus foveto , neque te illis
familiarem nimis reddito , ne , excusso subiectionis fraeno , doctores
parvipendentes nihil proficiant, et ad pessima quaeque praecipites ruant.
" , SECTIO III . De Discentium dotibus ac naevisn's 202 , Am de dotibus
IAm vitiisque discça tium pauca apperidicis loco ad damus. Eorum est de veritatibus
certos reddi ; solidache imbui co gnitione, quae non nisi es claris
distinctisque oritur notionibus. Ad claras vero ac distinctas ideas adquirendas
requiritur attentio et libertas a praeiudiciis : Quidquid ergo attentionem tur
bat , vel praeiudicia fovet , ab iis abesse debet . 203. Priina ergo et maxima
discentium dos est BONA NENS, DOCILITAS, ATTENTIO sincerus erga stu. dia et
docentes AMOR, LABORIS PATIENTIA et otii
fuga , + 6. de. nique ANIMI SOLITUDO . It * Bonae mentis vocabulo intelligimus
non mo do naturalem ingenii perspicaciam , cuius de fectus hominem reddit
cognitionis incapacem , verum etiam animum bene educatum vcrae que Relligionis
amantem : quum Divino oracu lo monituin sit initiuin om nis sapientiae esse
timorem Domini. Hoc est libertas a
praeiudiciis ,ut supra di clum est, animique inclinatio ad quaecunque praecepta
ediscenda , et ad pra xin adplicanda. ID adeo * Si namque Doctores et studia
amemus , his sedulam navamus operam , illosque atter te auscultamus : si vero
amor hinc absit , taedium supervenit . , attentio minuitur , que aut parum aut
nihil in studiis profie mus. | Laboris enim impatientia ignorantiae cause est ,
ut dixiinus ; quoniam veri tates vel propria meditatioue vel Aucts rum lectione
inveniuntur, medtatio vero perinde ac lectio laborem cai gunt , ut ex superioribus
abunde constat. De verit. eomm. 245 # Multitudo namque non modo praeiudicio rum
fons est sed at tentionem quoque distrahit aut saltem mi nuit : adeoque solum
oportet esse , qui sa pientiae sentit amorem. Ex iisdem principiis sponte
manant discentium vitia , qualia sunt 1. Religionis spretus , quem conse quitur
voluntaria praeiudiciis adhaesio , 2. mentis hebetudo , 3. attentionis distra
ctio , 4. otium et laboris impatientia a dolescenlibus familiarissima , 4.
aversio a studiis vel doctoribus , 6. denique spe ctaculorum , multitudinis ,
et sodalita tum amor , quo fit , ut attentio distraha tur ( $ . 40. Schol. Can.
5. ) , et ad voluptatem inde ac perditionem praccipiti Cursu ruant. Schol. Quae
de discentium officiis tra lendae forent regulae, eae ab eadem do trina huc
usque exposita facile deduci po erunt. Quapropter hic a canonum addi tione con
mode abstinemus. De litterario certamine. zv ERTAMINIS LITTERARII no Emine
intelligimus quascumque disputationes, quae pro veritatis disquisitione vel
diiudicatione instituuntur. Hae disceptationes similiter vel scriptis , vel vo.
ce liont : et quidem SCRIPTO, vel alio rum errores confutamus , vel nosmet ab
eorum imputationibus defendimus: VOCE autem rationes utrinque conficiuntur , et
ad examen revocantur. Si ergo alterius errores scripto detegantur , actio haec
dicilnr CONFITATIO ; si pro positiones ab alterius impugnatione vindicentur,
DEFENSIO, si denique coram disce platio instituatur, propio nomine DISPVTATIO
adpellatur. De harum qualibet diversis sectionibus agemus qua alium erroris
convincimus. Ex qua definitione patet 1. confutantem de Cdium erroris
convincimus. Ex bere falsitatem propositionis, quam alter pro vera asseruit
demonstrare, idque a priori vel a posteriori, directe aut apogogice indiciis
sufficientibus, hoc est principiis demonstrandi certis ei utendum esse. Etquia
eadem propositio non potest esse simul vera et falsa (alias in contradictionem
inpingeretur ): evidens est. propositio nem legitime denionstratam confutari
non posse, adeoque. eius demonstration, nem esse contrariae confutationem. Antequam
vero confutatio instituatur opore tet STATVM QVAESTIONIS conficere, idest verum
suctoris sensum intelligere, ut propositionem falsam ex ipsius auctoris men le
demonstret. Eo enim ipso vitabitur LOGOMACHIA, qua propositio vera impetitur,
cuius veritas, licet ab adversario sit cognita, aliis tamen verbis expriiuiiur
et impugnatur, adeoquc insurgit quaestio de verbis . Vid . Weienfelsium de
logomachiis eruditorum . Si vero indicia fuerint insufficientia, scilicet principia
probabilia et precaria, tunc non con L'utilis , sed IMPVGNATIO dicetur.
Impugnari tamen potest, nempe dubiis au dificultatibus quisbusdam subiici , ut
eius veritas clarius elucescat, nec ulla remaneat op positi suspicio , id quod
infra in Seet. 3. docebimus. Quoniam confutatio ost convictio; haec autein
requirit , ut con vincendus sit attentus , nec adfectus in eo attentionem turbantes
exciteptur : liquido infertur 5. confutantem ea omnia quae attentionem in
altero per turbant , atque adfectus excitant , vitare debere ; consequenter 6.
a conviciis , ir risionibus, vel consequeniiis periculosis, quae confutandi
famam laetlunt , abstinen dum esse. Sunt autem PERICVLOSAE huiusmodi CONSEQVENTIAE
, quae non quidem ex genui no Auctoris sensi , sed ex confutantis opi nione
eruuntur , quaeque non veritatis de fendendae gratia deducuntur , sed ut adver
sarii fama in discrimen vocetur , isque alio rum ludibrio exponatur. Harum
porro con sequentiaruin confectores proprio nomine CONSEQVENTIARII vocantur.
208. Qaum ergo consequentiae pericu losae aliorum odium Auctori concilient ( $.
207. * , ) eique invidiam creent : non abs re a Philosophis argumenta ab invi
L4 1 + Cap. ult. de titt. cerlamine. 249 * dia fuerunt appellatae. Ex quo patet
ARGUMENTUM AB INVIDIA ductum in confutando sollicite esse vitandum ; a deoque
8.non abs re consequentiarios a Wolfio PERSECUTORES cognominari . * Logic. Lat.
pag. 752. Idque iure merito . Nam confutator vere dicitur , qui veritatem ab al
terius paralogismis vindicare studet. At qui non veritatem , sed adversarii
famam perse quitur , nullo inodo confutator dicendus est, sed alterius
persecutor, quia id non rationis auxilio , sed invidiae stimulo perficit.
Schol. Quoniam itaque in confutante solius veritatis amor exigitur : ut in con
futatione nihil vel minimum peccetur , hos qui sequuntur , servare curato . CAN
ONE S. I. A, D confutandum solo veritatis a more , non odio adversus alte rum
ductus accedito . Adversarium soli dis rationibus non conviciis , dictisve
famae nocentibus de errore et falsitate convincito . 2. Si obscuro impropriove
stilo ad edəssarius scripsit , ut dictionem corriagat , seque intelligendum
praestet , ad wertito. Si quid ab altero in demonstran do peccatum , sive
principia falsa sint, sive connexio illegitima , cuncta distincte modesteque
patefacito. Demonstrationis rigidus custos principiorum diligens investigator
esto , ne tibi ab adversario nota inuratur. E tenim TURPE EST DOCTORI , QUUM
CULPA RE DARGUIT IPSUM. DEFENSIO est propositionis ab alterius impugnatione
vindi catio . Ex eadem ergo definitione sequitur 1. ut propositio legitime
confutata defen din non possit , ut et 2. ad defensionem propositionis
sufficiat eius veritatem solide demonstrare , aut 3. si de terminis tan tum
quaestio sit , eos adcuratis definitio nibus determinare. Duobus vero modis
defensio insti taitur. Vel enim propositionis veritatem ab alterius
impugnatione vindicamus , vel Cap . ult. De litt. ccrtumine. 251 impugnantis
errores itidem detegimus . Pri mae classis seripla dicuntur APOLOGE TICA ;
alterius vero POLEMICA vel E RISTICA. * jin , * Horum quidem scriptorum minorem
num rum Respublica optaret litteraria. His nam que nec veritas invenitur , nec
ratio perfici tur , sed contentiones animique perturbatio nes aluntur , nulla
prorsus utilitate, magno autem Societatis , ac iuventutis studiosae malo. ?
211. Defendenti ergo , ne a recto. aber ret , Sequentes proponimus. , C ANONES.
1 . PhoRopositionem a te légitime demon Stratam , aut notionem cum ver bis rite
' conjunctam ab alterius cuiusvis impugnatione ne defendito. Pro të nam que
evidentia pugnabito ? ? 2. Eius , qui te maledictis conviciis que laesit ,
scriptis modesto respondeto silentio . * la cedendo victor abibis. * Si namque
simili stilo , respondeas , nullum operae pretium facies , adversarii
petulantiam temeritate lua iustificabis , inque idem vitium incides , quod in
alio reprehendis. Quidquid ab altero tibi impugnari sentis , in eo tua versetur
defensio. * Si vero argumentis ab invidia periculosis que consequentiis ab
aliquo persecutore adfectus fueris , sat est eius malitiam et nocendi studium
ostendere teque commiseratione potius , quam ira per citum perhibere. Si ergo
deverborum sensu quaestio sit , eum te explicasse sufficiet : si principia
impugna tor urgeat eorum certitudinem ostendas oportet : si in
demonstrationibus te ar guere velit , earuin legitimam connexiouem prae oculis
ponere ; si vero aliqua consequen tia absurda tibi imputetur , aut ipsius conse
quentiae veritatem , aut eam ab adversario non recte deductam , demonstrare
debebis. Quod si persecutor obscurae famae sit , te tacente veritas ipsa
loqietur , tuaque mo destia impudeutem adversarium confusione " obruet.
SECTIO III . 7 212. , 18. De Disputatione. A D veritatis tandem disquisitionem
accedamus , quae non scripto , sed voce fit , quaeque disputationis no. De
litt. certaminemine venit. Est igitur DISPUTATIO -aru ritatis alicuius
discussio voce facta. Ea tribus ' personis absolvitur , quarum una
propositionem'impugnat , altera eamdem defendit , tertia vero huic suppetias
fert. * Adeoque qui veritatem difficultatibus du bisque implicat , OPPONENS ;
qui vero eaka ab eiusmodi impugnatione vindicat , DEFENDENS, vel RESPONDENS ;
qui deni que huic aliquid adiumenti adfert , PRAESES aupellatur. 1213. Ex qua
definitione liquet 1. di- , sputationem esse impugnationem proposi tionis
veraen eiusque. defensionem ; ideo que 2. , utramque demonstratione absol vi ,
ut disputantium alteruter de veri tate convincatur ; quare 3. quidquid ge
neratim de convictione dictum, de disputatione etiam intelligatur , prae cipue
vero 4. status quaestionis formandus et
5. oportet , ut lingua loquantur clara et intelligbili, hoc est amboruin captui
adcommodata 6. ut u trique nec animus nec lingua deficiat. Su per omnia autem 7
affectibus carcant , odio , praesertim et invidia, Non enim ad rixandum , sed
ad disputandum. descendunt. At affectus convicia iniuriasque pariunt , quibus
attentio turbatur ( S. 207. ): ac proinde a disputantibus louge debent ab esse
, ne ira odiove perciti tantum absit ut veritatem inveniant , ut potius .a convicis
ad manus transeánt. Ex eadem definitione fluit 8. di sputantes debere in
terminis contradicto . riis versari , hoc est ut idein ab uno a d. firmetur ,
ab altero negetur'. Et quia idem subiectum in contradictione requiritur;
eruitur 9. disputantes debere in terminorum notionibus convenire: quapro pter
10 si verborum sensus- lateat , eorum explicationem a respondente peti posse,
ut in claris distinctisque rebus incidat contro versia, ct ' sic logomachiae
vitentur. Disputatio vel' ACADEMICA est , vel DIALECTICA. Illa continuato ac
paene oratorio dicendi genere , haeć syllo gistico more conficitur . In illa
opponens disscrtatione quadam propositionis veritatem impugnat, respondens
contra eodemstilo obiectiones diluit , ihesiique defendit ; in hoc vero
syllogisniis aliisque ratiocinandi modis chunciationem opponens inpugnat , ' et
ex Cap. ult. De litt. certamine. adverso respondens ratio cinia ad trutinam
revocans propositiones veras concedit , falsas negat , dubiasque distinguit,
eoque progre diuntur , donec ad principia perveniant.Addi potest methodus
disputandi SOCRATI CA, quae Opponentis interrogationibus , et Defendentis
responsionibus dialogico stilo ab solvitur. Sed quum ea iam pridem ab usu
recesserit : ab eius explicatione merito ab stinemus : in ipsis tamen
praelectionibus , quae de ill a dicenda forent , paucis expe diemus. Vides ergo
methodum Academicam ad eru ditionis et eloquentiae ostentationem in Aca demiis
prae se ferendam unice inventam esse. In disputando autem , quum homini pede
stanti in uno ñec eruditio , nec verborum copia praesto esse possit ,
Dialectica metho dus merito praeterenda, Vtcumque vero disputatio instituatur
invabit disputantiirin munera paucis expo nére : id quol sequentibus exequemur
re gulis. Et primo quidem amborum , dein de opponentis; postremo respondentis
mu nia recensebimus . Quisquis ergo ad dis putandum accedis , hos religiose
castodito : Phim Rimum omnium controversiae sta tum conjici ! ) . Nihil porro ,
nisi terminis claris fixisque expressum , in e am incidito . Obscura quaeque
explica to . 2. Dispu'ans adfectibus vacuus , veria tatis tantum amans, eiusque
invenienda cupidus esto . Cuncta modeste, suaviter , amice proferto . Convicia
et dicta mor dacia , velut angiem , fugito. OPPONENTIS hae fere partes sunto .
3. Quacunque meihodo thesin aliquam adoriris , syllogisticam artem cuidi ha
beto . Argumentu solida non sophismata ineptasve fallacias, proponito . Conclu
sio thesi impugnatae semper e diametro contraria esto 4. Si quid a respondente
tibi propo nitur explicandum , explicato : si vero probandum , tamdiu
syllogismorum , au xilio probato , donec ad principia per veneris. Ad singula
respondentis verba et distinctiones attendito . Si illa obscura sint, illi
explicanda dato ; si vero clara , Cap. ult. De litt. certamine. 257 novas
exceptiones , prout res tulerit , contra formato. Praecipue videto , si ad
versarium ex assertis suis convincere et refutare, proprioque , ut aiunt, gladio
iu gulare possis Et hoc est , quod vocari solet ARGVMENTVM AD HOMINEM, de quo
tamen videa tur lo. Lockius de intell. bum . IV . 17. , qui eius
insufficientiam in vero inveniendo et de bilitatem ostendit. Nos autem tantum
in ex ercitationibus litterariis , quae coram fiunt id commendamus: de veri
namque investiga tione fusius supra tractavimuis. RESPONDENS demum id sibi negotii
sciat praecipue datum. Argumentum opponentis prius repe tito , deinde sedulo
perpendito , num de bila gaudeat soliditate . Praenissarum quae tibi dubiae
videbuntur , probatio nem postulato . 7. Syllogismum in forma peccantem totum
reiicito. Si haec bene processerit materiam ad examen reyocaio. Propo sitiones
falsas negato , veras concedito, dubias vero distinguito : sed de omnibus
rationem reddere memento., ne ridiculas, evadas . 258 Logic. Pars. ii. 本
Perridicula ergo est illa Scholasticorum regula: Semper nega , numquam concede
raro distingue. Si namque casu neges, duo rum alterum exspectare debebis , vel
ut ne gationis caussam adferas , vel ut lucem quo que neges meridianam :
utrumque homini sen sibili acerbissimum . . 8. Si oppositae propositionis
impossi bilitatem demostrare possis ; nihil ultra oneris habebis . Si vero in
auctoritate probatio ' versetur : sat erit adversarii te.ctus obscuros claris
auctoritatibus re fellere . 9. Caveto, ne propositionem concedas, in qua
adversarius struxit insidias : ne cx eius admissione incidas in laqucos. Schol.
Ceterum disputandi regulac usu magis ct exercitio , quam praeceptis , ad
discuntur ' . Si tamen dicendum quod res est , in huiusmodi litterariis
contentionibus von soliditas, sed promtitudo , immo ve ro impudentia valet et
veritas amittitur potius , quam invenitur : Qua de re vide inus
eruditos doctosque viros raro admodum ad disputandum descendere. Legatur
Bud seus Obseru . in Plit. instrum . Pur: III. Cup . 3. g. 11. Giuseppe
Capocasale. Keyword, assoc: ‘tears’ are a sign of sadness, but the kind of sign
that ideas are related with are arbitrary, not necessarily natural signs. The
correlation can be iconic, arbitrary, associative, etc. A sign is not
essentially connected with the purpose of communication (smoke means fire).
Grice is into ‘communication,’ not signs as such – a theory of communication,
not a semeiotic. Capocasale does not
expand on the intricacies of the cocodrile’s tears, because he is not
interested, but it woud just take a footnote to his comment on ‘lacrimae’ being
a ‘signum’ traestitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocasale” – The
Swimming-Pool Library.
Capocci (Viterbo). Filosofo. Grice:
“I like Capocci; he was a Griceian; he opposed Aquinas on the dependence of
will and intellectus – surely they are independent, and possibly the will is
more basic! La ‘volonta,’ as the Italians call it! -- “That’s how I shall call
himothers favour “Giacomo da Viterbo.”” Essential Italian philosopher – Di
famiglia nobile, studia a Viterbo. His monicker was ‘il dottore speculativo”.
Insegna a Napoli. Il suo saggio più conosciuto, “De regimine christiano” Approfondisce
i temi della teocrazia, e del potere temporale del cesare e il suo stato. Altre
opere: “Quaestiones disputatae de praedicamentis in divinis”. “Summa de
peccatorum distinctione” – “there are surely more than seven sins – Multiply
sins beyond necessity --. Dizionario Biografico degli Italiani.Vi sono in cui Giacomo viene
raffigurato con un'aureola – segno naturale accordo di Peirce del santo.Mariani
identified two manuscripts containing a Summa de peccatorum distinctione:
Biblioteca Nazionale di Napoli, cod. vii G. 101 and Biblioteca di Montecassino,
cod. 743, both of which ascribe the work to James. Ypma does not mention. Summa
de peccatorum distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae Theologiae
Professoris , Fratrum Eremitarum Sancti Augustini , Archiepiscopi Neapolitani.
D. AMBRASI , La Summa de peccatorum distinctione del b . Giacomo da
Viterbo dal ms. VII G 101 ... D. GUTIERREZ , De vita et scriptis Beati Iacobi
de Viterbo , “ Analecta Augstiniana ” , XVI , 1937 Lectura super IV libros
Sententiarum Quaestiones Parisius disputatae De praedicamentis in divinis
Quaestione de animatione caeli Quaestiones disputatae de Verbo Quodlibeta quattuor Abbreviatio In Sententiarum Aegidii Romani De
perfectione specierum De regimine christiano Summa de peccatorum distinctione
Sermones diversarum rerum Concordantia psalmorum David De confessione De
episcopali officio Like many of his
contemporaries, James devotes serious attention to determining the status of
theology as a science and to specifying its object, or rather, as the
scholastics say, its subject. In Quodlibet III, q. 1, he
asks whether theology is principally a practical or a speculative science.
Unsurprisingly, perhaps, for an Augustinian, James responds that the end of
theology resides principally not in knowledge but in the love of God. The love
of God, informed by grace, is what distinguishes the way in which Christians
worship God from the way in which pagans worship their deities. For
philosophers—James has Cicero in mind—religion is a species of justice; worship
is owed to God as a sign of submission. For the Christian, by contrast, there
can be no worship without an internal affection of the soul, i.e., without
love. James allows that there is some recognition of this fact in Book X of
the Nicomachean Ethics, for the happy man would not be “most
beloved of God,” as Aristotle claims he is, if he did not love God by making
him the object of his theorizing. In this sense, it can be said that philosophy
as well sees its end as the love of God as its principal subject. But there is
a difference, James contends, in the way in which a science based on natural
reason aims for the love of God and the way in which sacred science does so: sacred
science tends to the love of God in a more perfect way. One way in which James
illustrates the difference between both approaches is by contrasting the ways
in which God is the “highest” object for metaphysics and for theology. The
proper subject of metaphysics is being, not God, although God is the highest
being. Theology, on the other hand, views God as its subject and considers
being in relation to God. Thus, James concludes, “theology is called divine or
of God in a much more excellent and principal way than metaphysics, for
metaphysics considers God only in relation to common being, whereas theology
considers common being in relation to God” (Quodl. III, q. 1, p.
20, 370–374). Another way in which James illustrates the difference between
natural theology and sacred science is by using St. Anselm's distinction
between the love of desire (amor concupiscientiae) and the love of
friendship (amor amicitiae). The love of desire is the love by which
we desire an end; the love of friendship is the love by which we wish someone
well. The love of God philosophers have in mind, James contends, is the love of
desire; it cannot, by the philosophers' own admission, be the love of
friendship, for according to Aristotle, at least in the Magna Moralia,
friendship involves a form of community or sharing between the friends that
cannot possibly obtain between mere mortals and the gods. Now although James
concedes that a “community of life” between God and man cannot be achieved by
natural means, it is possible through the gift of grace. The particular
friendship grace affords is called charity and it is to the conferring of
charity that sacred scripture is principally ordered.Like all scholastics since
the early thirteenth century, James subscribes to the distinction between God's
ordained power, according to which “he can only do what he preordained he would
do according to wisdom and will” (Quodl. I, q. 2, p. 17, 35–37)
and his absolute power, according to which he can do whatever is “doable,”
i.e., whatever does not imply a contradiction. Problems concerning what God can
or cannot do arise only in the latter case. James considers several questions:
can God add an infinite number of created species to the species already in
existence (Quodl. I, q. 2)? Can he make matter exist without form
(Quodl. IV, q. 1)? Can he make an accident subsist without a
substrate (Quodl. II, q. 1)? Can he create the seminal reason of
a rational soul in matter (Quodl. III, q. 10)? In response to the
first question, James explains, following Giles of Rome but against the opinion
of Godfrey of Fontaines and Henry of Ghent, that God can by his absolute power
add an infinite number of created species ad superius, in the
ascending order of perfection, if not in actuality, then at least in potency.
God cannot, however, add even one additional species of reality ad
inferius, between prime matter and pure nothingness, not because this
exceeds his power but because prime matter is contiguous to nothingness and
leaves, so to speak, no room for God to exercise his power (Côté 2009). James
is more hesitant about the second question. He is sympathetic both to the
arguments of those who deny that God can make matter subsist independently of
form and to the arguments of those who claim he can. Both positions can
reasonably be held, because each argues from a different (and valid)
perspective. Proponents of the first position argue from the point of view of
reason: because they rightly believe that God cannot make what implies a
contradiction, and because they believe (rightly or wrongly) that making matter
exist without form does involve a contradiction, they conclude that God cannot
make matter exist without form. Proponents of the second group argue from the
perspective of God's omnipotence which transcends human reason: because they
rightly assume that God's power exceeds human comprehension, they conclude
(rightly or wrongly) that making matter exist without form is among those
things exceeding human comprehension that God can make come to pass.Another
question James considers is whether God can make an accident subsist without a
subject or substrate. The question arises only with respect to what he calls
“absolute accidents,” namely quantity and quality, as opposed to relational
accidents—the remaining categories of accident. God clearly cannot make
relational accidents exist without a subject in which they inhere, for this
would entail a contradiction. This is so because relations for James, as we
will see in section 3.3 below, are modes, not things. What about absolute
accidents? As a Catholic theologian, James is committed to the view that some
quantities and qualities can subsist without a subject, for instance extension
and color, a view for which he attempts to provide a philosophical
justification. His position, in a nutshell, is that accidents are capable of
existing independently if they are thing-like (dicunt rem). Numbers,
place (locus), and time are not thing-like and are thus not capable of
independent existence; extension, however, is and so can be made to exist
without a subject. The same reasoning applies to quality. This is somewhat
surprising, for according to the traditional account of the Eucharist, whereas
extension may exist without a subject, the qualities, color, odor, texture,
necessarily cannot; they inhere in the extension. James, however, holds that
just as God can make thing-like quantities to exist without a subject, so too
must he be able to make a thing-like quality exist without the subject in which
it inheres. Just which qualities are capable of existing without a subject is
determined by whether or not they are “modes of being,” i.e., by whether or not
they are relational. This seems to be the case with health and shape: health is
a proportion of the humors, and so, relational; likewise, shape is related to
parts of quantity, without which, therefore, it cannot exist. Colors and
weight, by contrast, are non-relational, according to James, and are thus in
principle capable of being made to exist without a subject.The fourth question
James considers in relation to God's omnipotence raises the interesting problem
of whether the rational soul can come from matter. James proceeds carefully, claiming
not to provide a definitive solution but merely to investigate the issue (non
determinando sed investigando). The upshot of the investigation is that
although there are many good reasons (the soul's immortality, its spirituality
and its per se existence) to say that God cannot produce the
seminal reason of the rational soul in matter, in the end, James decides, with
the help of Augustine, that such a possibility must be open to God. Thus, it is
true that in the order which God has de facto instituted,
the soul's incorruptibility is repugnant to matter, but this is not so in
absolute terms: if God can miraculously cause something to come to existence
through generation and confer immortality upon it (James is presumably thinking
of the birth of Christ), then he can make it come to pass that souls are
produced through generation without being subject to corruption. Likewise,
although it appears inconceivable that something material could generate
something endowed with per se existence, it is not impossible
absolutely speaking: if God can confer separate existence upon an
accident—despite the fact that accidents naturally inhere in their
substrates—then, in like manner, he can confer separate existence upon a soul,
although it has a
seminal reason in matter. Scholastics held that because God is the creative cause of all
natural beings, he must possess the ideas corresponding to each of his
creatures. But because God is eternal and is not subject to change, the ideas
must be eternally present in him, although creatures exist for only a finite
period of time. This doctrine of course raised many difficulties, which each
author addressed with varying degrees of success. One difficulty had to do with
reconciling the multiplicity of ideas with God's unity: since there are many
species of being, there must be a corresponding number of ideas; but God is one
and, hence, cannot contain any multiplicity. Another, directly related,
difficulty had to do with the ontological status of ideas: do ideas have any
reality apart from God? If one denied them any kind of reality, it was hard to
see how they could function as exemplar causes of things; but to attribute
full-blown essential reality to them was to run the risk of introducing multiplicity in God. One
influential solution to these difficulties was provided by Thomas Aquinas, who
argued that divine ideas are nothing else but the diverse ways in which God's
essence is capable of being imitated, so that God knows the ideas of things by
knowing his essence. Ideas are not distinct from God's essence, though they are
distinct from the essences of the things God creates (De veritate, q.
2, a. 3). One
can discern two answers to the problem of divine ideas in the works of James of
Viterbo. At an early stage of his career, in the Abbreviatio in
Sententiarum Aegidii Romani—assuming one accepts, as seems reasonable,
the early dating suggested by Ypma (1975)—James defends a position that is
almost identical to that of Thomas Aquinas (Giustiniani 1979). In his Quodlibeta,
however, he moves to a position closer to that of Henry of Ghent. In the
following I will sketch James' position in the Quodlibeta as
it provides the most mature statement of his views. Although James agreed with the notion
that ideas are to be viewed as the differing ways in which God can be imitated,
he did not think that one could make sense of the claim that God knows other
things by cognizing his own essence unless one supposed that the essences of
those things preexist in some way (aliquo modo) in God. James' solution
is to distinguish two ways in which ideas are in God's intellect. They are in
God's intellect, firstly, as identical with it, and, secondly, as distinct from
it. The first mode of being is necessary as a means of acknowledging God's
unity; but the second mode of being is just as necessary, for, as James puts it
(Quodl. I, q. 5, p. 64, 65–67), “if God knows creatures before
they exist, even insofar as they are other than him and distinct (from him),
that which he knows is a cognized object, which must needs be something; for
that which nowise exists and is absolutely nothing cannot be understood.”
But James also thinks that the necessity of positing distinct ideas in God
follows from a consideration of God's essence. God enjoys the highest degree of
nobility and goodness. His mode of knowledge must be commensurate with his
nature. But according to Proclus, an author James is quite fond of quoting, the
highest form of knowledge is knowledge through a thing's cause. That means that
God knows things through his own essence. However, he does so by knowing his
essence as a cause, and that is possible only by knowing “something (aliquid)
through a cause, not merely by knowing that which is the cause (i.e., God)”. Although James' insistence
on the distinctness of ideas with respect to God's essence is reminiscent of
Henry of Ghent's teaching, it is important to note, as has been stressed by M.
Gossiaux (2007), that James does not conceive of this distinctness as Henry
does. For Henry, ideas possess esse essentiae; James, by
contrast, while referring to divine ideas as things (res), is careful
to add that they are not things “in the absolute sense but only determinately,”
viz., as cognized objects (Quodl. I, q. 5, p. 63, 60). Thus,
divine ideas for James possess a lesser degree of distinction from God's
essence than do Henry of Ghent's. Nevertheless, because James did consider
ideas to be distinct in some sense from God, his position would be viewed by
some later authors—e.g., William of Alnwick—as compromising divine unity. The concept of being,
all the medievals agreed, is common. What was debated was the nature of the
commonness. According to James of Viterbo, all commonness is founded on some
agreement, and this agreement can be either merely nominal or grounded in
reality. Agreement is nominal when the same name is predicated of wholly
different things, without there being any objective basis for the application
of the common name; such is the case of equivocal names. Agreement is real in
the following two cases: (1) if it is based on some essential resemblance
between the many things to which a particular concept applies, in which case
the concept applies to these many things by virtue of the self same ratio and
is said of them univocally; or (2) if that concept is truly common to the many
things of which it is said, although it is not said of them relative to the
same nature (ratio), but as prior to one and posterior to the others,
insofar as these are related in a certain way to the first. A concept that is
predicated of things in this way is said to be analogous, and the agreement
displayed by the things to which it applies is said to be an agreement of
attribution (convenientia attributionis). James believes that it is
according to this sense of analogy that being is said of God and creatures, and
of substance and accident (Quaestiones de divinis praedicamentis I,
q. 1, p. 25, 674–80). For being is said in a prior sense of God and in a
posterior sense of creatures by virtue of a certain relation between the two;
likewise, being is said first of substance and secondarily of accidents, on
account of the relation of posteriority accidents have to substance. The reason
why being is said in a prior sense of God and in a secondary sense of creatures
and, hence, the reason why the ‘ratio’ or nature of being is different
in the two cases is that being, in God, is “the very thing which God is” (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 412), whereas created being is
only being through something added to it. From this first difference follows a
second, namely, that created being is being by virtue of being related to an
agent, whereas uncreated being has no relation. These two differences can be
summarized by saying that divine being is being through itself (per se),
whereas created being is being through another (per aliud) (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 425–6). In sum, being is said of
God and creature, but according to a different ratio: it is said
of God according to the proper and perfect nature of being, but of creatures in
a derivative or secondary way.James' most detailed discussion of the
distinction between being and essence occurs in the context of a question that
asks if creation could be saved if being (esse) and essence were not
different (Quodl. I, q. 4). His answer is that although he finds
it difficult to see how one could account for creation if being and essence
were not really different, he does not believe it is necessary to conceive of
the real distinction in the way in which “certain Doctors” do. Which Doctors
does he have in mind? In Quodl. I, q. 4, he summarizes the
views of three authors: Godfrey of Fontaines, according to whom the distinction
is only conceptual (secundum rationem); Henry of Ghent, for whom esse is
only intentionally different from essence, a distinction that is less than a
real distinction but greater than a rational distinction; and finally, Giles of
Rome, for whom esse is one thing (res), and essence
another. Thus, James agrees with Giles, and disagrees with Henry and Godfrey,
that the distinction between being and essence is real; however, he disagrees
with Giles about the proper way of understanding the real distinction.The
starting point of his analysis is Anselm's statement in the Monologion that
the substantive lux (light), the infinitive lucere (to
emit light), and the present participle lucens (emitting
light) are related to each other in the same way as essentia (essence), esse (to
be), and ens (being). The relation of lucere to lux,
he tells us, is the relation of a concrete term to an abstract one.
To-emit-light denotes light as an act, just as to-be (esse) denotes
essence from the point of view of an act. Now, a concrete term signifies more
things than the corresponding abstract term, e.g., esse signifies
more things than essence, for essence signifies only the form, whereas esse signifies
the form principally and the subject secondarily. By ‘subject’ James means the
actually existing thing, which he also calls the aggregate or supposit (Wippel
1981). Esse and essence thus signify the same thing
principally, but differ in terms of what they signify secondarily. Although
this difference is only conceptual in the case of God, it is real in the case
of creatures. It is this difference that explains why one does not predicate
to-emit-light (lucere) of light itself (lux) or being of
essence: what properly exists is that which has essence, viz., the
supposit. Esse denotes essence as existing in a supposit.The
kernel of James' solution, then, lies in the distinction between what terms
signify primarily and secondarily. To his mind, this is what makes his solution
closer in spirit to Giles of Rome than to either Godfrey or Henry, without
committing him to a conception of the distinction as rigid as that of Giles.
The distinction is real for James, but in a qualified way (Gossiaux 1999).
Because identity or difference between things is determined to a greater degree
by primary rather than by secondary signification, it follows that essence and
existence are primarily and absolutely the same (idem) and
conditionally or secondarily distinct. Yet, although the distinction is
conditional or secondary, it
is nonetheless James devotes five of his Quaestiones de divinis
praedicamentis (qq. 11–15), representing some 270 pages of edited
text, to the question of relations. It is with a view to providing a proper
account of divine relations, he explains, that it is “necessary to examine the
nature of relation with such diligence” (Quaestiones de divinis praedicamentis,
q. 11, p. 12, 300–301). But before turning to Trinitarian relations, James
devotes the whole of q.11 to the status of relations in general. The following
account focuses exclusively on q. 11. James in essence adopts Henry of Ghent's
“modalist” solution, which was to exercise considerable influence among late
thirteenth-century thinkers (Henninger 1989), although he disagrees with Henry
about the proper way of understanding what a mode is.The question boils down to
whether relations exist in some manner in extra-mental reality or solely
through the operation of the intellect, like second intentions (species and
genera). Many arguments can be adduced in support of each position, as
Simplicius had already shown in his commentary on Aristotle's Categories—a
work that would have a decisive influence on James' thought. For instance, in
support of the view that relations are not real, one may point out that the
intellect is able to apprehend relations between existents and non-existents,
e.g., the relation between a father and his deceased son; yet, there cannot be
anything real in the relation given that one of the two relata is a
non-existent. But if so, then the same must be true of all relations, as the
intellectual operation involved is the same in all cases. Another argument
concerns the way in which relations come to be and cease to be. This appears to
happen without any change taking place in the subject which the relation is
said to affect. For instance, a child who has lost his mother is said to be an orphan
until the age of eighteen, at which point it ceases to be one, although no
change has occurred: “the relation recedes or ceases by reason of the mere
passage of time.”But good reasons can also be found in support of the opposing
view. For one, Aristotle clearly considers relations to be real, as they
constitute one of the ten categories that apply to things outside the soul.
Furthermore, according to a view commonly held by the scholastics, the
perfection of the universe cannot consist solely of the perfection of the
individual things of which it is made; it is also determined by the relations
those things have to each other; hence, those relations must be real.The
correct solution to the question of whether relations are real or not, James
contends, depends on assigning to a given relation no more but no less reality
than is fitting to it. Those who rely on arguments such as the first two above
to infer that relations are entirely devoid of reality are guilty of assigning
relations too little reality; those who appeal to arguments such as the last
two, showing that relations are distinct from their subjects in the way in
which things are distinct from each other, assign too great a degree of reality
to relations. The correct view must lie somewhere in between: relations are
real, but are not distinct from their subjects in the way one thing is distinct
from another.That they must be real is sufficiently shown by the first
Simplician arguments mentioned above, to which James adds some others of his
own. However, showing that they are not things is slightly more complicated.
James' position, in fact, is that relations are not things “properly and
absolutely speaking,” but only “in a certain way according to a less proper way
of speaking.” A relation is not a thing in an absolute sense because of the
“meekness” of its being, for which reason “it is like a middle point between
being and non-being” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p.
30, 668–9). The reasoning behind this last statement is as follows: the more
intrinsic some principle is to a thing, the more that thing is said to be
through it; what is maximally intrinsic to a thing is its substance; a thing is
therefore maximally said to be on account of its substance. Now a thing's being
related to another is, in the constellation of accidents that qualify that
thing, what is minimally intrinsic to it and thus farthest from its being, and
so closest to non-being. But if relations are not things, at least in the
absolute sense, what are they? James answers that they are modes of
being of their foundations. “The mode of being of a thing does not differ from
the thing in such a way as to constitute another essence or thing. The
relation, therefore, is not different from its foundation” (Quaestiones de
divinis praedicamentis, q. 11, p. 33, 745–7). Speaking of relations as
modes allows us to acknowledge their reality, as attested by experience,
without hypostasizing them. A certain number's being equal to another is
clearly something distinct from the number itself. The number and its being
equal are two “somethings” (aliqua), says James; they are not,
however, two things; they are two in the sense that one is a
thing (the number) and the other is a mode of being of the number.In making
relations modes of being of the foundation, James was
clearly taking his cue from Henry of Ghent, who has been called “the chief
representative of the modalist theory of relation” (Henninger 1989). For Henry
and James, relations are real in the sense that they are distinct from their
foundations and belong to extra mental reality. However, James' understanding
of the way in which a relation is a mode differs from Henry's. For Henry, a
thing's mode is the same thing as its ratio or nature; it is
the particular type of being that thing has, what “specifies” it. But according
to James' understanding of the term, a mode lies beyond the ratio of
a thing, like an accident of that thing (Quaestiones de divinis
praedicamentis, p. 34, 767–8). In conclusion, one could say that in his discussion
of relations, James was guided by the same motivation as many of his
contemporaries, namely securing the objectivity of relations without conferring
full-blooded existence upon them. Relations do exhibit some form of being,
James believed, but it is a most faint one (debilissimum), the
existence of a mode qua accident. James discusses individuation in two places: Quodl. I,
q. 21 and Quodl. II, q. 1. I will focus on the first
treatment, because it is the lengthier of the two and because the tenor of
James' brief remarks on individuation in Quodl. II, q. 1,
despite certain similarities with his earlier discussion (Wippel 1994), make it
hard to see how they fit into an overall theory of individuation.The question
James faces in Quodl. I, q. 21 is a markedly theological
one, namely whether, if the soul were to take on other ashes at resurrection, a
man would be numerically the same as he was before. In order to answer that
question, James tells us, it is first necessary to determine what the cause of
numerical unity is in the case of composite beings. There have been numerous
answers to that question and James provides a short account of each. Some
philosophers have appealed to quantity as the principle of numerical unity;
others to matter; others yet to matter as subtending indeterminate dimensions;
finally, others have turned to form as the cause of individuation. According to
James, each of these answers is part of the correct explanation though it is
insufficient if taken on its own. The correct view, according to him, is that
form and matter taken together are the principal causes of numerical identity
in the composite, with quantity contributing something “in a certain manner.”
Form and matter, however, are principal causes in different ways; more precisely,
each accounts for a different kind of numerical unity. For by ‘singularity’ we
can really mean two distinct things: we can mean the mere fact of something's
being singular, or we can point to a thing qua “something complete and perfect
within a certain species” (Quodl. I, 21, 227, 134–35). It is
matter that accounts for the first kind of singularity, and form for the
second. Put otherwise, the kind of unity that accrues to a thing on account of
its being a mere singular, results from the concurrence of the “substantial”
unity provided by matter and the “accidental” unity provided by quantity. By
contrast, the unity that characterizes a thing by virtue of the perfection or
completeness it displays is conferred to it by the form, which is the principle
of perfection and actuality in composites.Although James thinks he can quite
legitimately enlist the support of such prestigious authorities as Aristotle
and Averroes in favor of the view that matter and form together are
constitutive of a thing's numerical unity, his solution has struck commentators
as a somewhat contrived and ad hoc attempt to reach a compromise solution at
all costs (Pickavé 2007; Wippel 1994). James, it has been suggested, “seems to
be driven by the desire to offer a compromise position with which everyone can
to some extent agree” (Pickavé 2007: 55). Such a suggestion does accord with
what we know about James' temperament, namely, his dislike of controversy and
his tendency, on the whole, to prefer solutions that present a “middle way” (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 11, p. 23, 513; Quodl. II,
q. 7, p. 108, 118; De regimine christiano, 210; see also Quodl. II,
q. 5, p. 65, 208–209). However, James' professions of moderation must sometimes
be taken with a grain of salt, as there are some positions he wants to pass off
as moderate that are quite far from being so, as we will see in Section 7 below.The belief
that matter contains the ‘seeds’ of all the forms that can possibly accrue to
it is one of the hallmarks of James of Viterbo's thought, as is the belief that
the soul pre-contains, in the shape of “propensities” (idoneitates),
all the sensitive, intellective, and volitional forms it is able to take on. We
will look at James' doctrine of propensities in the intellect in Section 5, and his doctrine of
propensities in the will in Section 6. In this section, we
present James' arguments in
favor of seminal reasonsOne important reason for subscribing to the existence of seminal
reasons is that the doctrine enjoys the support of Augustine. Although
James is sometimes quite critical of his Augustinian contemporaries, including
his predecessor Giles of Rome, he is an unreserved follower of Augustine,
especially when it comes to the greater philosophical issues, such as knowledge
and natural causation. However, what is particularly interesting about James is
the way in which he enlists such decidedly un-Augustinian sources as Aristotle,
Averroes, and especially Simplicius in the service of his Augustinian convictions
(Côté 2009). James
offers a thorough discussion of seminal reasons in Quodl. II,
q. 5. The question he raises there is not so much whether there are
seminal reasons, for this is “admitted by all Catholic doctors” (Quodl. II,
q. 5, p. 59, 16), but rather, how one is to properly conceive of them. A
seminal reason, according to James, has two characteristics: it is (1) an
inchoate state of the form to be, and (2) an active principle. Most of the
discussion in Quodl. II, q. 5 is devoted to establishing the
first point. James thinks that the thesis that forms are present in potency in
matter is consonant with the teaching of Aristotle, who, he claims, follows a
“middle way” on the issue of generation, eschewing both the position that forms
are created, and also Anaxagoras' “hidden-forms hypothesis,” according to which
all forms are contained in act in everything. Now to say that forms are present
in matter inchoately or in potency, according to James, entails that the
potency of matter is something distinct from matter itself.
One argument in favor of this thesis is that matter is not corrupted by the
taking on of a form: it remains in potency towards other forms. Also, potency
is relational, whereas matter is absolute. When James states that matter is
distinct from potency he does not mean to say that they are entirely distinct
or unconnected, quite the contrary: potency is the potency of matter.
However, potency adds three characteristics to the concept of matter. First, it
adds the idea of a relation to a form (matter is in potency towards a form);
second, it adds the idea that the form to which it is related is a form it
lacks; finally, it implies that the form which matter lacks is a form it has
the capacity to acquire, for as James explains, one does not say that a stone
is in potency toward the power of sight merely because it lacks sight. In order
for something to be in potency toward a particular form it must both lack that
form and also possess an aptitude to take it on. James neatly summarizes his views
in the following passage: “[the potency of matter] denotes a respect of the
matter toward the form, attendant upon its lacking that form and having the
aptitude to take it on, so that four properties are included in the concept of
potency, namely matter, lack of form, aptitude toward the form and a respect
toward the form insofar as it is educible by an agent and motor cause” (Quodl. II,
q. 5, p. 69, 359 – p. 70, 363).
The originality of James' position lies in the way in which he
conceives matter's aptitudes. The term “aptitude” has a precise technical
meaning, which he fleshes out with the help of Simplicius' commentary on
the Categories. It denotes a certain incipient or inchoative
state of the form in matter. Potency and act, James tells us, are two states or
modes of the same thing, not two distinct things. What exists in the mode of
actuality must preexist in the mode of potency, but in an inchoate way. James
is aware of the several objections that may be leveled against his conception
of aptitudes or propensities. The most serious of these is perhaps the charge
that their existence makes generation, i.e., the production of new beings,
impossible or useless. James replies by suggesting that those who argue in this
fashion misconstrue Aristotle's doctrine of change. For change, according to
Averroes' understanding of Aristotle (see Quodl. III, q.
14), does not result from an agent's implanting a form in a receiving subject,
for this would imply that forms “migrate” from subject to subject; it results rather
from an agent's making that which is in potency to be in act. For this to
occur, however, more is required than the mere passive potency of matter: the
seminal reason must also be viewed as an active principle. The activity of
potency manifests itself in the shape of a natural inclination or tendency to
attain its completion. Generation thus requires two things (besides God's
general operative causality): the “transmutative” agency of an extrinsic cause
and the intrinsic agency of the formae inchoativum which
inclines the potency to attain its completion. James' doctrine of seminal reasons would elicit considerable
criticism in the early fourteenth century and beyond (Phelps 1980). The initial
reaction came from Dominicans, e.g., Bernard of Auvergne, the author of a
series of Impugnationes (i.e., attacks) contra
Jacobum de Viterbio, and John of Naples who argued against James'
distinction between the potency of matter and potency. But James' theory would
also encounter resistance from within the Augustinian Order, e.g., from
Alphonsus Vargas of Toledo. James'
doctrine of cognition must also be understood in the context of his
thoroughgoing Augustinianism and against the backdrop of the late
thirteenth-century arguments against Thomistic abstraction theories. According
to Thomas Aquinas' theory of knowledge, the agent intellect abstracts a thing's
form or essential information from the image or representation of that thing.
The outcome of this process was what Aquinas called the intelligible species,
which was then taken to “move” the possible intellect to conceptual
understanding. However, as thinkers such as Vital du Four and Richard of
Middleton were to point out (see the articles by Robert and Noone), the
information coming in through the senses is related to a thing's accidental
properties, not to its substance. How, then, could abstraction from the senses
produce an intelligible species relating to the thing's essence? Although James of Viterbo
agreed by and large with the spirit of this objection and believed that the
replies by proponents of abstractionism were unsuccessful, he had another
reason for rejecting the theory. This was because it implied a view of the
intellect which he thought to be profoundly mistaken, namely, the view that
there is a real distinction between the agent intellect (which abstracts the
species) and the possible intellect (which receives it). If it were truly the
case, he reasoned, that one needed to posit a distinct agent intellect because
phantasms are only potentially intelligible, then, by the same token, one would
have to posit an “agent sense”, because sensibles “are only sensed in potency”
(Quodl. I, q. 12, p. 164, 234). But given that no proponent of
abstraction admits an agent sense, one should not allow them an agent
intellect. Furthermore, if there were an agent intellect distinct from the
possible intellect, it would be a natural power of the soul and so would be
required for the cognition of all intelligibles, not just a
certain class of them. Similarly, qua natural power, its use would be required
not only in the present life but also in the afterlife. But of course that
would be absurd, as the agent intellect, ex hypothesi, is only
necessary to abstract form from matter, something the mind does only when it is
joined to a corruptible body. James was well aware that by denying the
distinction between the two intellects, he was opposing the consensus view of
Aristotle commentators. Indeed, his views seem to run counter to the De
anima itself, though, as he would mischievously point out, it was
difficult to determine just what Aristotle's doctrine was, so obscure was its
formulation (Quodl. I, q. 12, p. 169, 426—170, 439). He replied
that what he was denying was not the existence of a “difference” in the soul,
but merely that the existence of a difference implied a distinction of powers (Quodl. I,
q. 12, p. 170, 440–45). The intellect, he held, was both in act and in potency,
active and passive, but one could account for its having these contrary
properties without resorting to the two intellect model. This is because
intellection is not a transient action (like hitting a ball), requiring an
active subject distinct from a passive recipient; rather, it is an immanent
action (like shining). James' solution, in other words, was to conceive of the
intellect (as indeed the will) as essentially dynamic, as an “incomplete
actuality”, its own formal cause, spontaneously tending toward its completion,
much in the way seminal reasons tend toward their completing forms—indeed both discussions
drew their inspiration from the same source: Simplicius' commentary on
Aristotle's analysis of the second species of quality. The intellect was
described as a general (innate) propensity made up of a series of more specific
(equally innate) propensities, the number of which was a function of the number
of different things the intellect is able to know: “The intellective power is a
general propensity with respect to all intelligibles, that is, with respect to
the actual conforming to all intelligibles. On this general propensity are
founded other specific ones, which follow the diversity of intelligibles” (Quodl. VII,
q. 7, p. 93, 453–55). Of course, as James readily acknowledged, although the
intellect is its own formal cause, it cannot issue forth an act of intellection
without some input from the senses. However, the type of causality the senses
were viewed as exercising was deemed to be purely “excitatory” or “inclinatory”
(Quodl. I, q. 12, p. 175, 613–16), making the senses not the
principal but rather an instrumental cause of intellection. In all, three
causes account for the operation of the intellect, according to James: 1) God
as efficient cause; 2) the soul and its propensities as formal cause, and 3)
the object presented by the senses as “excitatory” cause. Although, as we have just
seen, James rejected the distinction between the agent and possible intellects,
there was another, equally widely-held distinction in the area of psychology
that he did maintain, namely the distinction between the soul and its
powers.For the purposes of this article, it will suffice to think of the debate
regarding the relation of the soul to its powers as being motivated at least in
part by the need to provide a coherent understanding of the soul's structure and
operations in view of two inconsistent but equally authoritative accounts of
the soul's relation to its powers. One was that of Augustine, who had asserted
that memory, intelligence, and will (i.e., three powers) were one in substance
(De trinitate X, 11), and so believed that the soul was identical
with its powers; the other was Aristotle's, who clearly believed in a certain
distinction, and whose remarks about natural capacities (dunameis) as
belonging to the second species of quality, in Categories c.
8,14–27, and hence to the category of accident, making them distinct from the
soul's essence, were commonly applied by the scholastics to the soul's powers.
Each view, of course, had its supporters; and, naturally, as was so often the
case, attempts were made to find a middle way that would accommodate both
positions. During James' tenure as Master at the University of Paris, the
majority view was very much that there was a real distinction. It was the view
held by many of the scholastics whose teachings he studied most carefully,
namely Aquinas, Giles of Rome, and Godfrey of Fontaines. There was, however, a
commonly discussed minority position, one that eschewed both real distinction
and identity: that of Henry of Ghent. Henry believed that the powers of the
soul were “intentionally”, not really, distinct from its essence. James,
however, sided with Thomas, Giles, and Godfrey, against Henry (Quodl. II,
q. 14, p. 160, 70–71; Quodl. III, q. 5, p. 83, 56—84, 63).
His reasoning was as follows. Given that everyone agreed that there was a real
distinction between the soul and one of its powers in act (between the soul
and, e.g., an occurrent act of willing), then if one denied that there was a
real distinction between the soul and its powers, as Henry had, one would be
committed to the existence of a real distinction between the power in act
(e.g., an occurrent act of willing) and that same power in potency (that is,
the will, qua power, as able to produce that act), since the power in act is
really the same as the soul. But as we saw in the preceding section, something
in potency is not really distinct from that same thing in act. This followed
from James' reading of Simplicius' account of qualities in the latter's
commentary on Aristotle's Categories. For instance, seminal
reasons are not really distinct from the fully-fledged forms that proceed from
them, nor are intellective “propensities” really distinct from the fully
actualized cognized forms. Hence, James concluded, the powers must be really distinct from the soul's essence. The question of the will's
freedom was of paramount importance to the scholastics. Unlike modern thinkers,
for whom establishing that the will is free is tantamount to showing that its
act falls outside the natural nexus of cause and effect, showing that the will
is free, for medieval thinkers, usually involved showing that its act is
independent of the apprehension and judgment of the intellect.
Although the scholastics generally granted that a voluntary act results from
the interplay between will and intellect, most of them preferred to single out
one of the two faculties as the principal determinant of free choice. Thus, for
Henry of Ghent, the will is the sole cause of its free act (Quodl. I,
q. 17), so much so that he tends to relegate the intellect's role to that of a
sine qua non cause. For Godfrey of Fontaines, by contrast, it is the intellect
that exercises the decisive motion (Quodl. III, q. 16). Although James
of Viterbo sometimes claims to want to steer a middle course between Henry and
Godfrey (Quodl. II, q. 7), his preferences clearly lie with a position
like that of Henry's, as can be gathered from his most detailed treatment of
the question in Quodl. I, q. 7. James' thesis in Quodl. I, q. 7 is that the will
is a self-mover and that the object grasped by the intellect moves the will
only metaphorically. His main challenge is to show is that this position is
compatible with the Aristotelian principle that whatever is moved is moved by
another. As we
saw in the previous section, James believes that the soul is made up of what he
calls “aptitudes” or “propensities” (idoneitates), which are the
similitudes of all things knowable and desirable, “before [the soul] actually
knows or desires them” (Quodl. I, q. 7, p. 91, 407 – p. 92, 408). The
pre-existence of such aptitudes implies that the soul is neither a purely
passive potency nor made up of fully actualized forms, but rather an
“incomplete actuality” or, perhaps more correctly, a set of “incomplete
actualities,” which James describes as being “naturally inserted in [the soul],
and thus, remaining in it permanently, though sometimes in an imperfect state,
sometimes in a state perfected by the act” (Quodl. I, q. 7, p. 92,
419–24). In
order to show how this view of the soul is compatible with Aristotle's
postulate that every motion requires a mover distinct from the thing moved,
James introduces a distinction between two sorts of motion: efficient and
formal. Efficient motion occurs when motion is caused by a thing that possesses
the complete form of the particular motion caused; formal motion occurs when
the moving thing has the incomplete form of the thing moved. Heating is given
as an example of the first kind of motion; “gravity” or rather heaviness, i.e.,
the tendency of heavy bodies to fall, is cited as an example of the second kind
of motion. Aristotle's principle applies only to the first kind of motion,
James asserts, not the second. Things which possess an incomplete form
naturally—i.e., in and of themselves without an external mover—tend to their
completion and are prevented from reaching it only by the presence of an
external obstacle. For instance, a heavy object naturally tends to move
downward and will do so unless it is hindered. Such, mutatis mutandis,
is the case of the soul and especially of the will: the will as an incomplete
actuality naturally tends to its completion; in that sense, that is, formally
but not efficiently, it is self-moved. The difference between it and the heavy
object is that whereas the object moves upon the removal of
an obstacle, the will requires the presence of an object; it
requires, in other words, the intervention of the intellect in order to direct
it to a particular object. However, once again, the intellect's action is
viewed by James as being merely metaphorical, that is, extrinsic to the will's proper operation. Like
Albert the Great and Thomas Aquinas, James of Viterbo holds that the moral
virtues, considered as habits, i.e., virtuous dispositions or acts, are
connected. In other words, he believes that one cannot have one of the virtues
without having the others as well. The virtues he has in mind are what he calls
the “purely” moral virtues, that is, courage, justice, and temperance, which he
distinguishes from prudence, which is a partly moral, partly intellectual
virtue. In his discussion in Quodl. II, q. 17 James begins by
granting that the question is difficult and proceeds to expound Aristotle's
solution, which he will ultimately adopt. As James sees it, Aristotle proves
in Nicomachean Ethics VI the connection of the purely moral
virtues by showing their necessary relation to prudence, and this is to show
that just as moral virtue cannot be had without prudence, prudence cannot be
had without moral virtue. The connection of the purely moral virtues follows
from this: they are necessarily connected because (1) each is connected to
prudence and (2) prudence is connected to the virtues (Quodl. II, q. 17, p. 187, 436 – p. 188, 441). Since
the time of Augustine, theologians had agreed that man needs the gift of grace
in order to love God more than himself, and that he cannot do so by natural
means. However, in the early thirteenth century, theologians raised the
question of whether, at least in his pre-lapsarian state, man did not love God
more than himself. That this was in fact the case was the belief of Philip the
Chancellor as well as Thomas Aquinas. Other authors, such as Godfrey of
Fontaines and Giles of Rome, argued further that to deny man the natural
capacity to love God more than himself, while allowing this to happen as a
result of grace, was to imply that the operations of grace went counter to the
those of nature, which was contrary to the universally accepted axiom that
grace perfects nature and does not destroy it. By contrast, James of Viterbo
famously argues in Quodl. II, q. 2, against the overwhelming
consensus of theologians, that man naturally loves himself more than God. He
has two arguments to show this (see Osborne 1999 and 2005 for a detailed
commentary). The first is based on the principle that the mode of natural love
is commensurate with the mode of being and, hence, of the mode of being one.
Now a thing is one with itself by virtue of numerical identity, but it is one
with something else by virtue of a certain conformity. For instance Socrates is
one with himself by virtue of his being Socrates, but he is one with Plato by
virtue of the fact that both share the same form. But the being something has
by virtue of numerical identity is “greater” than the being it has by reason of
something it shares with another. And given that the species of natural love
follows the mode of being, it follows that it is more perfect to love oneself
than to love another (Quodl. II, q. 20, p. 206, 148 – p. 149, 165).
The second argument attempts to infer the desired thesis from the universally
accepted premise that “the love of charity elevates nature” (Quodl. II,
q. 20, p. 207, 166–67). This is true both of the love of desire and the love of
friendship. In the case of love of desire, grace elevates by acting on the
character of love: by natural love of desire we love God as the universal good.
Through grace God is loved as the beatifying good. Regarding love of
friendship, James explains that God's charity can only elevate nature with
respect to its “mode,” that is, with respect to the object loved, by making
God, not the self, the object of love. In other words, James is telling us that
if we are to take seriously the claim that grace elevates nature, there is only
one way in which this can occur, namely by making God, not the self, the object
of greatest love, which implies that in his natural state man loves himself
more than God. James' opposition to the consensus position on the issue of the
love of self vs. the love of God would not go unnoticed. In the years following
his death, such authors as Durand of Saint-Pourçain and John of Naples
criticized him vigorously and attempted to refute his position (Jeschke 2009). Although
James touches briefly on political issues in Quodl. I, q. 17 (see
Côté, 2012), his most extensive discussions occur in his celebrated De
regimine christiano (On Christian Government), written in
1302 during the bitter conflict pitting Boniface VIII against the king of
France Philip IV (the Fair). De regimine christiano is often
compared in aim and content with Giles of Rome's De ecclesiastica
potestate (On Ecclesiastical Power), which offers one of the
most extreme statements of pontifical supremacy in the thirteenth century;
indeed, in the words of De regimine's editor, James' goal is “to
formulate a theory of papal monarchy that is every bit as imposing and
ambitious as that of [Giles]” (De regimine christiano: xxxiv).
However, as scholars have also recognized, James shows a greater sensitivity to
the distinction between nature and grace than Giles (Arquillière 1926). De
regimine christiano is divided into two parts. The first, dealing
with the theory of the Church, is of little philosophical interest, save for
James' enlisting of Aristotle to show that all human communities, including the
Church, are rooted in the “natural inclination of mankind.” The second and
longest part is devoted to defining the nature and extent of Christ's and the
pope's power. One of James' most characteristic doctrines is found in Book II,
chapter 7, where he turns to the question of whether temporal power must be
“instituted” by spiritual power, in other words, whether it derives its
legitimacy from the spiritual, or possesses a legitimacy of its own. James
states outright that spiritual power does institute temporal power, but notes
that there have been two views in this regard. Some, e. g., the proponents of
the so-called “dualist” position such as John Quidort of Paris, hold that the
temporal power derives directly from God and thus in no way needs to be
instituted by the spiritual, while others, such as Giles of Rome in De
ecclesiastica potestate, contend that the temporal derives wholly from the
spiritual and is devoid of any legitimacy whatsoever “unless it is united with
spiritual power in the same person or instituted by the spiritual power” (De
regimine christiano: 211). James is dissatisfied with
both positions and, as he so often does, endeavors to find a “middle way”
between them. His solution is to say that the “being” of the temporal power's
institution comes both from God—by way of man's natural inclination—in “a
material and incomplete sense,” and from the spiritual power by which it is
“perfected and formed.” This is a very clever solution. On the one hand, by
rooting the temporal power in man's natural inclination, albeit in the
imperfect sense just mentioned, James was acknowledging the legitimacy of
temporal rule independently of its connection to the spiritual, thus
“avoid[ing] the extreme and implausible view of [Giles of Rome]” (Dyson 2009:
xxix). On the other hand, making the natural origins of temporal power merely
the incomplete matter of its being was a way of stressing its subordination and
inferiority to the spiritual order, in keeping with his papalist convictions.
Still, James' very choice of analogies to illustrate the relationship between
the spiritual and temporal realms showed that his solution lay much closer to
the theocratic position espoused by Giles of Rome than his efforts to find a
“middle way” would have us believe. Thus, comparing the spiritual power's
relation to the temporal in terms of the relation of light to color, he
explains that although “color has something of the nature of light, (…) it has
such a feeble light that, unless there is present a more excellent light by
which it may be formed, not in its own nature but in its power, it cannot move
the vision” (De regimine christiano: 211). In other words, James is
telling us that although temporal power does originate in man's natural
inclinations, it is ineffectual qua power unless it is informed by the
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naturale della santita. Refs.: Luigi
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Capodilista (Battaglia Terme). Grice:
“I like Capodilista – good vintage (literally)! – Capodilista is difficult to
comprehend, but when I was struggling to find examples of implicatura due to
exploiting ‘be perspicuous,’ he was whom I was thinking! Keywords in his
philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos eroticus’ – filosofia dell’espressione –
metafisica – equilibrio apolineo-dionisiaco, positive-negativo –“ “Un pensiero perfetto in sé non esiste; un
pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile dei pensieri che nascono da
esso.» (Quaderni). Appartenente ad una
famiglia veneziana di nobili origini, nacque nella villa di famiglia da Angelo
Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni
sul nihilismo sono un'anticipazione della filosofia di Heidegger. Debitore dell'attualismo gentiliano. Partendo
da questo, giunse a trasformarlo in una filosofia dove l'atto è la re-figurazione
dell'auto-negazione del nulla che comunque conserva una sua funzione positiva
così come nela religione romana la morte del corpo ha la funzione di salvezza
nella redenzione dello spirito (animo). La forma superiore dello spirito
intristisce e cerca invano di uscire da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza
di salvezza che trova senso nella religione romana. Dio espia la sua universalità.
Distrugge ogni valore e il proprio, sì che lo sparire, il nascondersi di Dio
nella sua espiazione non è altro che la nuova creazione dei valori, e così il
ciclo ricomincia. Dio si abolisce col suo stesso realizzarsi. Un altro punto
fondamentale di sua filosofia è la figura centrale dell’intersoggetivita., del
rapporto concreto particoare, particolarizato, inter-personale contrapposto
all’astrazioni di una collettività IMpersonale generalizato (universalita,
universabilita, generalita formale, generalita applicazionale, generalita di
contenuto --, sia quella esaltata da uno stato etico (la communita, la
popolazione, la societa). Una diada conversazionale non può essere un dato. Una
diada conversazionale può essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due
resurrezioni. Il filosofo è assillato da questo fondamentale problema. Il
problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede
autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell'attività e la
convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere)
alla immortalità, cioè all'assoluto? La diada conversazionale ha bisogno
dell'assoluto (l’universabilita) e pertanto il suo problema è questa partecipazione
all'assoluto. Come raggiungerà l'assoluto le due uomini – le due maschi --
della diada conversazionale? Quale sarà la sua fede laica? Non certo quella
collettivistica-sociale che ha fatto uso della violenza, la forza, e la
autorita illegitima, e ha fallito ma neppure quella etrusca che ha compresso la
libertà di coscienza. I etruschi sono
nati sotto il segno dello scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa
azione originaria. Perché in ogni fede
vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso
nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è
l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua
negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti
sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di
distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti
sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla
se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono
orgogliose delle due nudità che socializzanoa. È quindi con la libertà
degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di
uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola
di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza
duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta
espressione del "singolare duale".
Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo
musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia
e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico”
(Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci,
Roma); “La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano
progressivamente come le monete, come, appunto, i valori. Quando
pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può
“usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se
comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.
La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una
verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima
irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che
altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione.
Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di
sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra. È lecito
ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità
di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei
romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi
scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi
estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come
l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio
se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più
mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire
in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna)
del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che
abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella
sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli
intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della
sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità,
conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio
unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se
stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A
noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di
distaccarci dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra
assolutezza. Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei
ricordi. Sono la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra
memoria che si risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo,
cioè di tutto. La memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica.
La forma letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la
lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e
abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un
pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un
destinatario, individuale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo
neppure. Nessuno scrive per sé. L’immagine e la rappresentazione, che
dovrebbero essere la fedeltà assoluta delle cose rappresentate, sono allora
infedeltà altrettanto assoluta, diversità radicale dal rappresentato? Il
rappresentato in quanto oggetto è per definizione diversità assoluta dal
soggetto; come allora, con quale sintesi si può superare questo iato? In quanto
differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la negazione, la pura negazione; e
questa negazione, in quanto puramente essa stessa, è soggetto essa medesima,
cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del soggetto, in quanto questo atto è
l’atto del negarsi. Quindi noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui
tutte le cose sono e vivono, cioè l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La
negatività è l’universalità dell’atto. (Q. 331, 1970) L’eco è la voce del
nulla, la parola del nulla, appunto perché è esattamente la nostra voce e la
nostra parola, obiettivata, ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del
soggetto che non può mai ripetersi? (Q. 336, 1970) Tutto ciò che pensiamo
o scriviamo è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro
oggetto che il proprio nulla. (Q. 336, 1970) L’arte dello scrivere è
l’arte di far dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e
sono – tutta la loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando
si affermano, e tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione.
Mediante la loro trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una
negazione (cioè dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le
parole finiscono per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la
frase: L’organismo della frase e del verbo che trasforma la negatività della
parola in un atto. La parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità,
negarsi e trascendenza e diversità, sono sempre, e sempre attualmente
congiunti; perciò la parola contiene il seme della frase, del discorso. (Q.
340, 1971) Forse il nostro nome è soltanto uno pseudonimo; forse anche i
nomi delle cose sono pseudonimi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le
cose come crediamo di vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi
stessi e il nostro essere siamo pseudonimi; di un nome che forse non
conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà suprema. Una realtà
unica. Una sintesi invisibile di realtà e verità. Una realtà che la conoscenza
(la scienza) non può dissolvere, analizzare. (Q. 244, 1971) Gli scritti
di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i modi di
esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche verità in forma breve. Ma
ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione dell’assoluto, e quindi
non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono relative all’assoluto,
senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa ampiezza, ampie come la
vita. La vita, essendo universale, può essere plurale. (Q. 347, 1972) Il
Mangiaparole rivista n. 1Il Mangiaparole 6 Mario Gabriele Lo scrivere è una
forma silenziosa (fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare
privilegio di non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la
coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al
discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore
obiettore di coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire? (Q.
347, 1972) La nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che
non coincide con ciò che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente;
allude a qualcosa di originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa
di diverso. La parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità
da se stessa e perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità
originaria che vuole esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la
fede dell’età dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è
sempre un quid al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non
sarebbe una metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la
negazione; noi alludiamo alla diversità con la negazione, con la
identificazione. (Q. 355, 1973) …Noi siamo la verità; è proprio per
questo che ci è impossibile conoscerla. la conosciamo quando diventa altro da
noi. La conoscenza, l’espressione, la stessa memoria creano l’anteriorità della
verità e della sua attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla
solo quando ne siamo fuori, quando ne siamo espulsi ed esiliati. (Q. 359,
1973) L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel
lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo.
Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci
di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con
l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto. (Q. 370, 1975) Soltanto
l’inesprimibile è degno di un’espressione… (Q. 372, 1975) La parola è un
irrazionale ed è strano che essa esista in un mondo razionale e quantitativo;
nel mondo dell’identità. la razionalità è soltanto nel numero; la Parola è
divina, anzi la scrittura ha identificato la Parola (il verbo) e la divinità;
per gli antichi il numero aveva significati simbolici, cioè spirituali. Oggi il
numero privato di ogni significato è identificato dalla sua «posizione» (nello
spazio è o sarà il vero successore della parola – ma troverà in se stesso una
nuova irrazionalità?) Il numero è la massima razionalità e insieme la massima
irrazionalità come serie infinita; non possiamo vivere senza irrazionalità,
appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità; il numero può vivere? (Q.
372, 1975) … Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema
scadenza del silenzio… (Q. 372, 1975) L’espressione più perfetta è quella
che crea l’inesprimibile… (Q. 381, 1977) Parola L’aforisma e
l’ironia sono una professione di scetticismo nei confronti della poesia.
L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione, la risoluzione in
termini umani della lirica; l’ironia è la scoperta dei suoi motivi non lirici:
uno sguardo dietro le quinte… (Q. 9, 1921) Come esprimerò io il mio
pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe essere
l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere
l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui
ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica, istintiva e
simpatica affinità e parentela… (Q. 9, 1929) La quantità di parole
inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente proporzionale
all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui nessuna, o quasi,
parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per noi; altri in cui
si possono togliere tutte… (Q. 14, 1932). Andrea Emo Capodilista.
Emo Capodilista. Keywords: I taccuini del barone Capodilista, il taccuino del
barone Capodilista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capodilista” – The
Swimming-Pool Library.
Capograssi (Sulmona).
Grice: “I love Capograssi; at Oxford we’d call him a lawyer, but the Italians
call him a philosopher! My favourite of his tracts is his attempts – linked as
he was to the Napoli area – Vico relevant! Oddly, he stresses the ‘Catholic,’
or RC, as we say at Oxford, rather than the heathen, pagan, side, of this
illustrious philosopher who Strawson – as along indeed with Speranza -- think
as the greatest Italian philosopher that ever lived – I mean, what can be more
Italian than Vico?!” Si occupa principalmente di filosofia del diritto. Fu
membro della Corte costituzionale. Da un'antica famiglia nobile che vi si
era trasferita da un comune della provincia di Salerno nel 1319, a seguito del
vescovo Andrea. Si laurea a Roma con “Lo stato e la storia", in cui già
affiorano le problematiche connesse alle interrelazioni fra individuo, società
e stato: problematiche che impegneranno tutta la sua filosofia. Insegna a
Sassari, Macerata, Padova, Roma, e Napoli.Nel luglio del 1943 prese parte ai
lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli. La sua
filosofia si centra nell’esperienza giuridica ed è rivolta alla
centralizzazione della volontà del soggetto agente, che si imprime nell'azione
stessa, vera fonte di espressione giuridica e di vita. La filosofia dovrebbe
quindi occuparsi della vita e dell'azione, avendo a centro della sua
speculazione la "persona". Il suo pensiero si ricollega al
personalismo. Il ponere al centro della sua filosofia il rapporto essenziale
che intercorre fra il diritto inteso come esigenza giuridica e la vita consente
alla filosofia del diritto di superare il campo della tecnica giuridica per
pervenire ad una visione organica e totale del reale, cioè a Dio. Fede e
scienza; Lo Stato; Riflessioni sull'autorità; democrazia diretta; Analisi dell'esperienza
comune; L’esperienza giuridica; La vita etica; Il problema della scienza del
diritto); Incertezze sull'individuo, Milano, Giuffrè). “Pensieri” sono alcuni scritti vergati su
foglietti e conseglla. Nei Pensieri, poi raccolti e pubblicati, si colgono i
momenti salienti della sua filosofia. La teoria dei valori. Il personalismo. Il positivismo giurdico in Italia.
Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo. I sentieri dell'uomo comune. Dizionario
biografico degli italiani. Kelsen
avrebbe, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una Norma Fondamentale
come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio perché essa è tale,
non si identifica con la pura fatticità della Forza, come, invece, pensa
Capograssi. Ed è rivendicando la funzione costituente della Norma Fondamentale
che Bobbio può osservare: Il Capograssi sostiene che tutta la costruzione
kelseniana è così solida solo perché poggia su alcuni presupposti, e che questi
presupposti non sono soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla ricerca, ma si
fondano su una vera e propria concezione della realtà. E che questa concezione
è che il diritto è forza (N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p.
24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in
«Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID.,
Opere, vol. V, Giuffrè, Milano). Le argomentazioni di Capograssi, secondo
Bobbio, rinviano a una concezione giusnaturalistica del diritto che confonde
«il criterio di validità e il criterio di giustificazione del diritto», e
aggiunge che il Kelsen si limita a dire che il diritto esiste
(indipendentemente dal fatto che sia giusto o ingiusto) solo quando la norma,
oltre che valida, è anche efficace (il cosiddetto principio di effettività).
Non si potrebbe mai trarre dalla concezione kelseniana il principio che il
diritto è giusto in quanto è comandato, perché da nessun passo del Kelsen si
può trarre la conclusione che il diritto, il quale esiste in quanto è comandato
(e fatto valere colla forza), sia anche giusto53. Dunque, l’insoddisfazione di
Bobbio per la soluzione kelseniana nasce dal fatto che il giurista viennese
lascia aperto il problema del che cosa fondi e legittimi il sistema normativo e
l’ordinamento giuridico, con la 50 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto e i
suoi critici, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», (1954), 8
pp. 356-377, poi ristampato in ID., Studi sulla teoria generale del diritto,
Giappichelli, Torino 1955, pp. 75-107. Il saggio è ora in ID., Diritto e
potere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992. Utilizzo quest’ultima
edizione. La citazione è alla p. 39. 51 Cfr. N. BOBBIO, MaxWeber e Hans Kelsen,
«Sociologia del diritto», (1981) 8, pp. 135- 154, ora in ID., Diritto e potere,
cit., pp. 159-177. 52 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24.
Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in
«Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID.,
Opere, vol. V, Giuffrè, Milano 1959, pp. 311-356. 53 N. BOBBIO, La teoria pura
del diritto, cit., pp. 25-26. 88 ADELINA BISIGNANI conseguenza che la stessa
funzione costituente della Norma Fondamentale non viene esplicitata. L’esigenza
di superare i limiti teorici di Kelsen non comporta, però, il recupero del
giusnaturalismo come ideologia (come idea di una fondazione del diritto su
valori assoluti e trascendenti), ma sollecita il pieno recupero di quelle
ragioni etiche e sociali che, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale
e dopo l’olocausto, si erano manifestate come una “rinascita del giusnaturalismo”54. Per
queste ragioni Bobbio non si lascerà mai tentare dal ridurre lo Stato al suo
ordinamento giuridico; a quello Stato-Forza che Capograssi rinfaccia a
Kelsen. REFS.: Impressioni su Kelsen. CAPOGRASSI, KELSEN E IL
NICHILISMO GIURIDICO. ASPETTI DELLA CRISI DELLA SCIENZA GIURIDICA. Le
“Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo giuridico
kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars destruens”
di Capograssi. Capograssi scrisse le “impressioni su Kelsen tradotto” poco dopo
la traduzione della teoria generale del diritto e dello stato da Cotta e
Treves, edita dalle Edizioni di Comunità. Si tratta di un saggio denso, in cui
la prosa capograssiana e la sua cifra stilistica è mossa, libera, sinuosa,
andante come sempre, ma particolarmente severa, austera, critica, propositiva,
concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella “pars destruens” che nella
“pars costruens” del saggio. La pars destruens è chiara e persuasiva. La
dottrina kelseniana dello stato e del diritto si pone fuori i reali problemi
della scienza giuridica ed una prima immediata impressione ha il lettore, e
deve subito dirla, una impressione singolare di riposo. Sarebbe così bello se
uno potesse accettare questo pensiero. Come si capisce il successo che ebbe
quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci è ormai così lontano e che era
così facile ad accogliere ogni genere di illusioni. Qui non ci sono più
problemi. Come per un’operazione di magia i problemi sono spariti. Non ci sono
più disordini, incertezze, incoerenze, nel pensiero e nella realtà. Ogni cosa è
sistemata ordinata disegnata in una specie di piano regolatore, che smista e
distribuisce tutto in compartimenti separati. Se uno potesse accettare. Con
tanto più impegno di attenzione il lettore è indotto a leggere. Il diritto come concepito e teorizzato dal
Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento
giuridico” richiamando proprio in nota il pensiero capograssiano testè citato.
E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di
dovere contrapposta all’essere, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge
nell’opera surriferita, ma anche in altri scritti, tra natura (essere) e
spirito (devere). Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formale,
fondata sulla norma giuridica, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano.
Il diritto è un ordinamento coercitivo basato sulla validità, cioè la forza
vincolante e sull’efficacia cioè l’effettiva applicazione delle norme
giuridiche. L’ordinamento giuridico è un sistema di norme connesse fra loro in
base al principio che il diritto regola la propria creazione. Lo stato, il
potere dello stato, i tre poteri dello stato, gli elementi dello stato, sono
soltanto stadi diversi nella creazione dell’ordinamento giuridico. Così come,
in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali
forme di governo, democrazia ed autocrazia, sono modi diversi di creare l’ordinamento
giuridico. Lo stato, entro una simile ed asfittica concezione, è un ordinamento
giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci, collocate in un
sistema giuridico gerarchico, in cui ogni norma trae il fondamento della sua
validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa costituzione è
ridotta a norma sulla normazione, sulle procedure di formazione della legge.
Capograssi nota opportunamente che lo stato è, altresì, un ordinamento
relativamente accentrato, a differenza dell’ordinamento internazionale più
decentrato. Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva la
giurisprudenza normativa, che coincide con un sistema di norme valide, che è
l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del filosofo della
giurisprudenza. Capograssi osserva, inoltre, che in Kelsen il diritto in senso
sociologico che descrive l’effettivo comportamento umano che rappresenta il
fenomeno del diritto e cerca di predire l’attività degli organi creatori del
diritto e specialmente quella dei tribunali e lo stato in senso sociologico
riguardano la sfera dell’ efficacia del diritto, delle norme, e sono
condizionati dal diritto normative, così come quest’ultimo concerne la sfera
della validità delle norme e condiziona la scienza sociologica del diritto. Ma
scienza delle norme e scienza dei fatti sono scisse, ciascuna vive di vita
propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed
eterogenee. In questi due mondi così puri l’uno e l’altro, il filosofo si muove
con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria. Di conseguenza, la
giurisprudenza normativa non si interseca mai con la giurisprudenza
sociologica, il diritto come tecnica della sanzione ed ordinamento coercitivo
può rivestire qualsiasi contenuto, in una concezione del dovere assolutamente
formale che non ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dovere,
perché questo dovere non ha nulla del
dovere reale. E afferma altresì l’insigne autore, citando Bobbio e comparando
la teoria generale del Kelsen a quella di Carnelutti, che se la teoria generale
è teoria generale del diritto POSITIVO, sicuramente quella del Carnelutti, a
differenza di quella del Kelsen, è relativa alla vita stessa della realtà
giuridica, perché muove dalla nozione di diritto come composizione di conflitti
di interesse. La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla superficie
della norma e della vita dell’esperienza giuridica comunale, perché il sistema
gerarchico di norme valide trae il suo fondamento da una norma non da un fatto,
da una norma fondamentale, una “Grundnorm”, presupposta ed ipotetica, ricavata
con procedimento interpretativo dal filosofo. Quest’ultima pone una data
autorità, non si fonda su nessuna norma, è valida» in virtù del suo contenuto e
non «perché è stata creata in un certo modo, al pari di una norma di diritto
naturale, a prescindere dalla sua validità puramente ipotetica, ed il suo
contenuto è il fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale
come il primo fatto produttivo del diritto. La norma fondamentale cioè significa
in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto. La perfetta
separazione della forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da
qualsiasi contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la
norma fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano
proprio perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il
contenuto a dare qui validità alla norma fondamentale»[23]. L’«identificazione
perfetta» tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e
“l’esteriorità” del diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del
diritto «come forza», come «diritto naturale della forza»[24]. E’sistema di
«norme sanzionatorie» che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte
al perpetuo oscillare della forza»[25], ma la cui validità è “emanazione” di
una “norma fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’ «evento di
forza che si è assicurato il potere vale a dire il diritto di riempire le forme
vuote delle norme».[26] Questo è il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il
«diritto naturale della forza» che fonda il diritto positivo statale. La prosa
capograssiana sul punto è vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza
organizzata, cioè forza e forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma
riveste la forza»[27]. La “pars destruens” del saggio in esame giunge al suo
acme con una metafora corrosiva: «la rappresentazione del diritto che è in
questo libro…richiama la visione di quegli spettri di città e paesi, che i
bombardamenti avevano demolito in modo che erano rimasti in piedi muri e travi:
non c’era più nulla tranne quel tragico scheletro di case nude e vuote,
terribili sotto la luna», «ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse
preso quei “cadavera urbium” per città viventi, per le case dove gli uomini
vivono? Ci sarebbe stato errore pari a questo? E così accade per il diritto,
come è esposto in questo libro»[28]. Il diritto è, in definitiva, confuso dal
Kelsen per «eventi di forza», «dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi».
2. – La “pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del Vico ed
alla concezione del “diritto come esperienza” La “pars costruens” dello scritto
oggetto delle presenti considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma
convincenti, il pensiero del Vico, sempre presente nella riflessione del
Capograssi, la storia e lo storicismo, la nozione di esperienza. Capograssi
indica come prioritaria la necessità «di non mutilare l’oggetto della scienza
del diritto, cioè l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla
cosiddetta forma o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza» e alla «vuota
forma»[29]; la «necessità di vedere l’oggetto, cioè l’esperienza, nella sua
integralità vivente, nella sua natura, cioè vichianamente nel modo di nascere
perenne e quotidiano del diritto come vita e come esperienza, e quindi con
tutto quello per cui nasce, per cui si afferma, per cui si concreta in forme
concrete nella realtà»[30]. Al riguardo si accennano idee di grande importanza
che hanno più ampi sviluppi nell’opera principale del Nostro, “Il problema
della scienza del diritto”: la possibilità della conoscenza della realtà e del
diritto si compie «nella comune coscienza umana di colui che osserva e conosce
e di colui che opera nella realtà che è osservata e conosciuta. In quanto chi
osserva partecipa della stessa vita, degli stessi principi, delle stesse
esigenze di chi opera, è il segreto per cui chi osserva riesce a rendersi conto
di quello che fa colui che opera»[31]. Ne “Il problema della scienza del
diritto” si legge, infatti, ad esempio, che «con tutto il suo lavoro
l’intelletto riflesso che si pone come scienza viene faticosamente e lentamente
, perché fa il suo cammino momento per momento e tappa per tappa, scoprendo
quella che è l’idea viva del diritto, la viene scoprendo traverso tutte le
forme concrete e particolari dell’esperienza che essa forma»[32]. E «l’idea
viva del diritto» si forma come «parte essenziale dell’esperienza», «momento e
parte della vita stessa dell’esperienza» che «conosce sé stessa nella sua
effettiva e determinata puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa
nelle sue molteplici e puntuali determinazioni»[33]. Capograssi, inoltre,
soffermandosi ulteriormente sull’opera del Kelsen richiama anche «la grande
verità vichiana che il mondo storico lo conosciamo perché lo facciamo…»[34];
richiama il monito, proprio del Vico, di non «mettersi fuori
dall’umanità…»[35]. E rileva che «se uno si mette al mondo supponendolo già
compiuto…e quindi estraneo all’osservatore, necessariamente l’integralità
dell’esperienza gli sfugge»[36]. In tal modo l’insigne autore coglie, dunque,
il punto di maggiore fragilità dell’impianto teorico del Kelsen, cioè la netta,
irriducibile, incolmabile separazione tra la “norma giuridica” e la “coscienza
dell’individuo”, tra l’ “oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma estrinseca al
soggetto e il soggetto estrinseco alla norma»[37]. La “pars costruens”
capograssiana ruota, quindi, intorno al concetto di «unità in perenne movimento
che è tutta la natura dell’oggetto» del diritto[38], «l’esperienza nella sua
vivente umana unità» che è “falsata” (perché l’ “oggetto” è falsato) dai
presupposti e dai postulati della teoria generale del diritto e dello Stato di
Hans Kelsen[39]. E l’illustre autore, perciò, individua la «positività del
diritto» come «coerenza intrinseca al processo di vita», «coerenza interna e
vitale», e non «coerenza formale e artificiale», delle «determinazioni della
vita giuridica», che «vivono nel concreto»[40], ricordando un’opera in tal
senso significativa, gli “Orientamenti sui principi generali del diritto” del
civilista Antonio Cicu. 3. – Sull’attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi
e su alcuni aspetti significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica
alla luce di recenti saggi monografici sull’argomento. Per una critica del
“nichilismo giuridico” (ontologico) Perché è attuale la critica capograssiana
al formalismo giuridico kelseniano? Perché nell’ “ambiguità del diritto
contemporaneo”, per riprendere il titolo di un notissimo saggio del grande
pensatore abruzzese, del 1953 [41], si parla di frequente di “crisi”, con ciò
indicando, per riprendere il linguaggio dello stesso Capograssi, «una
situazione che non vorremmo», «un elemento di disapprovazione» ed «un elemento
di speranza», il richiamo di una «situazione passata» o «pensata», «che
crediamo migliore, vale a dire che preferiremmo»[42]. Ora, tra gli autori che
hanno approfondito gli aspetti dell’attuale crisi della scienza giuridica sono
di notevole importanza, a parere dello scrivente, tre saggi monografici, il
“Diritto senza società” di Pietro Barcellona[43], il “Nichilismo giuridico” (e
la più recente opera dello stesso autore, “Il salvagente della forma”) di Natalino
Irti[44] ed “Il diritto e il suo limite” di Stefano Rodotà[45]. Ritengo che la
sfida più radicale ed invasiva[46], tra le teorie sviluppate in questi saggi,
sia quella del “nichilismo giuridico” ( più precisamente del “nichilismo
giuridico ontologico”, riprendendo la ricostruzione di una recente monografia
di Mario Barcellona, “Critica del nichilismo giuridico”[47], che lo distingue
dal “nichilismo giuridico cognitivo” nordamericano) e quest’idea è affermata
dall’angolo visuale di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone con
lucidità[48], risposte alternative al nichilismo. Il nichilismo, senza voler
entrare nel merito di tutti i suoi significati[49], secondo il filosofo Emanale
Severino ed il giurista Natalino Irti, significa, in un senso specifico al
diritto ed alla tecnica economica, «ricavare le cose dal niente» e «riportarle
al niente»[50]. Franco Volpi scrive che esso è «la situazione di
disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti
tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al
“perché”e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo»[51]; Friedrich
Nietzsche ne parlava come «il più inquietante tra tutti gli ospiti»[52]. Sul
punto penso al “Dialogo su diritto e tecnica”, scritto in più atti dai due
stessi importanti autori surrichiamati, Irti e Severino, in cui l’Irti afferma
che «l’unica superstite razionalità riguarda il funzionamento delle procedure
generatrici di norme», «la validità non discende più da un contenuto, che
sorregga e giustifichi la norma, ma dall’osservanza delle procedure proprie di
ciascun ordinamento»[53] ed il Severino ritiene che «la tecnica è destinata a
diventare principio ordinatore di ogni materia, la volontà che regola ogni
altra volontà»[54], «la “capacità” della tecnica è la potenza effettiva
(“potenza attiva” nel linguaggio aristotelico) di realizzare indefinitamente
scopi e di soddisfare indefinitamente bisogni»[55]. L’idea di sistema giuridico
unitario e di diritto statale «portatore di valori», in un simile orizzonte, è
ormai destinato al declino irreversibile, sul viale tramonto. Il diritto della
globalizzazione, e questo è il “topos” di crisi più acuta, porta alle estreme
conseguenze quella scissione tra “liberalismo” e “liberismo” che Benedetto
Croce già tracciava negli anni trenta[56]. Lo stesso Irti scrive che «la
tecno-economia non conosce differenze soggettive ma soltanto variazioni di
quantità»[57]. Il “diritto globale”, come nota un altro grande giurista,
Francesco Galgano, fondato sul principio di effettività e non su quello di
legalità, è pienamente funzionale all’ “idea di produzione” che viene
dall’economia e, come scrive l’Irti, «caratterizza l’economia globale»[58], i
cui spazi sono fluidi e sottratti al controllo giuridico e politico degli Stati
nazionali sovrani. E’ in crisi, come opportunamente pone in risalto lo stesso
insigne autore ne “Le categorie giuridiche della globalizzazione”, il «dove del
diritto», il «dove applicativo», il «dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca
ed originaria spazialità del diritto», l’idea di “confine” consustanziale allo
Stato nazionale moderno che si afferma con il capitalismo mercantile[59]. Non
solo: i ritmi produttivistici della tecnica e della sua volontà di potenza,
posti in evidenza e criticati, pur se ritenuti ineluttabili da Emanuele
Severino[60], secondo lo stesso Irti «producono un vorticoso succedersi di
norme giuridiche…» che «attesta la “nientità” del diritto, i canali delle
procedurequesti che potremmo chiamare nomo-dotti, poiché conducono le volontà
dalla proposizione alla posizione di norme - sono pronti a ricevere qualsiasi
contenuto.Ogni ipotesi può scorrere in essi: la disponibilità ad accogliere
qualsiasi contenuto è indifferenza verso tutti i contenuti…»[61]. Per cui,
l’attuale crisi del diritto, «nella postmodernità giuridica», è «l’indifferenza
contenutistica” che “sospinge verso il culto della forma” e costituisce perciò
realizzazione ed inveramento dello “Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre
in norma qualsiasi contenuto” (“la Grundnorm di Kelsen – che Severino
definirebbe “logos ipotetico”- spiega la validità di qualsiasi
ordinamento»[62], è il trionfo del vuoto formalismo giuspositivista che «si
svela nelle procedure produttive di norme», nella razionalità tecnica e
nell’«autosufficienza della volontà normativa». Al riguardo si deve porre
l’accento su un altro notevole autore, di diversa formazione culturale, il
filosofo marxista Galvano Della Volpe, che in un saggio dal titolo emblematico,
“Antikelsen”, contenuto nel suo volume “Critica dell’ideologia
contemporanea”[63], individuava i limiti propri della dottrina del diritto e
dello Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad una
concezione meramente formale, raffinata e colta espressione di un’idea borghese
del diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto
importanti le profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha
giustamente parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina
adattabile a qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di
contenuti[64]. Per tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti dell’attuale
crisi della scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i due aspetti
pregnanti di un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”[65], “senza società”,
come scrive Pietro Barcellona[66] realizzazione anche, secondo quest’ultimo
autore, delle distorsioni della teoria sistemica di Luhmann[67]. Rodotà nella
sua opera summenzionata scrive che «il diritto deve misurarsi con una tecnica
di cui è stata da tempo esaltata l’irresistibile potenza, la continua
produzione di fini, alla quale sarebbe ormai divenuto impossibile opporsi. Così
la tecnica annichilirebbe il diritto, condannato ormai ad una umile funzione
servente. Ma questa è una profezia destinata a realizzarsi solo se la politica
diviene progressivamente prigioniera di una logica che la induce a delegare
alla tecnologia una serie crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in
questa deriva, accettasse un’espulsione da sé di valori e scopi, determinado
quella che Michel Villey ha chiamato una “mutilazione del diritto per ablazione
della sua causa finale”»[68]. Per cui viene da chiedersi, in termini comunque
molto problematici, se è possibile individuare una via d’uscita al declino dei
sistemi giuridici e della certezza del diritto, alla “crisi di razionalità”,
per riprendere Habermas, delle società capitalistiche postmoderne,
all’oscuramento dei contenuti essenziali degli ordinamenti giuridici
democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i diritti fondamentali (lo stesso
Rodotà ritiene altresì che «la ricostruzione di un fine del diritto intorno ai
diritti fondamentali si presenta così come una guida quotidiana, come un test
permanente al quale sottoporre anzitutto le scelte giuridicamente rilevanti.
E’un impegnativo programma, che mette alla prova politica e diritto. La
politica, considerata non più nell’area dell’onnipotenza, ma del rispetto. Il
diritto, non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a un sistema di
valori, dunque in grado di offrire una guida pur per le scelte
tecnologiche»)[69]. Insomma: qual è oggi lo scopo del diritto?[70] Ed in che
senso l’antikelsenismo vichiano e personalista di Capograssi[71] è attuale e
può costituire, “storicizzato” ed adeguato al “presente storico”, una chiave di
lettura delle asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici vigenti e
degli attuali “usi sociali del diritto”?[72] La critica capograssiana al
formalismo costituisce un richiamo al presente. Essa rappresenta una delle più
significative alternative teoriche agli esiti del nichilismo formalista; essa,
per riprendere le parole del Maestro che ricordiamo, è «sforzo per costruire la
storia», per «realizzare la vita nei suoi termini di attualità», e quindi il
diritto «nella profonda vita delle sue determinazioni positive»[73]; anche
perché il diritto, come scriveva un altro importante giurista, Salvatore Satta,
è «dover essere dell’essere» e non «dover essere» contrapposto
all’«essere»[74], “Sollen” staccato dal “Sein”. Capograssi ne “L’ambiguità del
diritto”[75] propone delle conclusioni dense di speranza, affermando che
«quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni così gigantesche…non
fa che mettere al centro di questo mondo e delle sue creazioni niente altro che
l’uomo». Ed esse possono essere un’alternativa alla “nientità” del diritto
globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico e
massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di cui parla Severino
ne “La filosofia futura”[76], che quasi lascia presagire la «fine della storia»
e del «divenire storico» come «farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere
Jhering, della “lotta per il diritto”[77]. [1] Il presente testo riprende,
nelle linee essenziali, la relazione presentata al Convegno di studi internazionale
sull’ “Attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi”, tenutosi a Sassari tra
il 16 ed il 18 novembre 2006, i cui atti sono in corso di pubblicazione con la
casa editrice “Il Mulino”. V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, in
“Rivista trimestrale di diritto pubblico”,1952/4, 767-810, ora in ID., Opere,
Milano, 1959, V, 313-356. [2] V. H.KELSEN, General theory of law and State
(1945), Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., a cura di S. Cotta
e G. Treves, Milano, 1952. [3] V. P. PIOVANI, Introduzione a G.Capograssi, Il
problema della scienza del diritto, Milano, 1962, VIII. [4] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 314. Per una differente concezione del
diritto critica verso il formalismo gradualista di Hans Kelsen v. G.WINKLER,
Teoria del diritto e dottrina della conoscenza.Per una critica della dottrina
pura del diritto (1990), tr. it. di A. Carrino, Napoli, 1994, 249 (ove è
scritto che «la dottrina pura e generale di Kelsen è stata…, sin dall’inizio, nelle
sue premesse epistemologiche e gnoseologiche, priva di fondamenta solide…»);
189 (pagina in cui si afferma che «la dottrina pura del diritto di Kelsen si
impiglia inevitabilmente in molteplici dilemmi. Un aspetto di questi dilemmi
risiede nel tipo di determinazione dell’oggetto, un altro nella concezione
della scienza. Un altro ancora nella ipostatizzazione di un orientamento
metodologico che deifica il concetto teoretico del diritto, lo interpreta nel
senso della logica formale, lo deforma e lo priva al tempo stesso del suo
oggetto empirico»). [5] V. A. PIGLIARU, Persona umana ed ordinamento giuridico,
Milano, 1953, 98. Su quest’opera v. G. BIANCO, Prefazione ad Antonio Pigliaru,
Persona umana ed ordinamento giuridico, in “Diritto @ storia”, n. 5, 2006 =
http://www.dirittoestoria.it/5/Contributi/Bianco-Pigliaru-persona-umana-ordinamento-giuridico.htm
ed in A. PIGLIARU, op.ult.cit., Nuoro, 2008. [6] V. H. KELSEN, Teoria generale
del diritto e dello Stato, Milano, 1984, 35, 121,399. [7] V. H. KELSEN, Teoria
generale del diritto e dello Stato, op.cit., 30 ss., 111 ss., 125ss. [8] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 18 ss. [9] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 29 ss., 123. [10]
V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 111ss. e G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 316-317. [11] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 274 ss. [12] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 288 ss. [13]
V.H.KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 126 ss.
Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra “Costituzione
formale” e “Costituzione materiale” specificando che «presupposta la norma fondamentale,
la costituzione rappresenta il più alto grado del diritto statale. La
costituzione è qui intesa non già in senso formale, bensì in senso materiale.
La costituzione in senso formale è un dato documento solenne, un insieme di
norme giuridiche che possono venir modificate soltanto se si osservano speciali
prescrizioni, la cui funzione è di rendere più difficile la modificazione di
tali norme. La costituzione in senso materiale consiste in quelle norme che
regolano la creazione delle norme giuridiche generali, ed in particolare la
creazione delle leggi formali». Questa distinzione è, ovviamente, eterogenea
rispetto al dualismo “Costituzione formaleCostituzione materiale” proposta dai
“realisti”, in particolare da Costantino Mortati, Carl Schmitt, Giuseppe
Guarino, peraltro con connotazioni peculiari in ciascuno degli autori
richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel che resta della Costituzione
materiale (tra congetture e confutazioni), in “La Costituzione materiale.
Percorsi culturali e attualità di un’idea”, a cura di A. Catelani e S.
Labriola, Milano, 2001, 487-502. [14] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen
tradotto, op.cit., 315. [15] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello
Stato, op. cit., 165 ss. [16] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto,
op. cit., 318. [17] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit.,
319. [18] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 320. [19]
V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 327, nt. 1. [20] V.
G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [21] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [22] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328. [23] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328-329. [24] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 331. [25] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [26] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [27] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 333. Ed il nostro aggiunge nella
stessa pagina, con il consueto tono intelligente ed appassionato, che
«concepito il diritto come forza e come forma, è evidente che l’ordinamento
giuridico ha una doppia faccia, la forza, cioè l’efficacia, la forma, cioè la
validità. La seconda dipende dalla prima ed è condizionata dalla prima; la
prima finchè dura si esprime nella seconda; la validità è l’espressione formale
dell’efficacia, e l’efficacia è la realtà sostanziale della validità. Per
questo i due diritti in senso normativo e in senso sociologico si rispecchiano
e vanno di conserva: sono due facce dello stesso fatto»(p. 333). Dappresso è
scritto che «la forza è il principio del diritto; gli interessi, le passioni,
le ideologie sono il contenuto; e la forma è la norma come puro dispositivo
della sanzione, e l’ordinamento che è il sistema delle norme valide fondato
sull’evento di forza che costituisce il contenuto della norma fondamentale. Si
può dire, può non chiamare nuda, perché non ha in sé nulla di razionale: forza
nuda dall’esterno, poiché s’impone per qualsiasi via e vince se è legittimata,
forza nuda dall’interno di sé stessa, perché non è altro che il (preteso) fondo
irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte la concezione del diritto
come nuda forza è stata espressa e svolta con più riuscita e più completa
coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi e compiersi nelle forme
vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più razionale e perfetta il diritto
naturale della forza e la sua dogmatica»(p. 335). [28] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 347. [29] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353 e 351. [30] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [31] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [32] V. G. CAPOGRASSI, Il
problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (con introduzione di
Pietro Piovani), 181. [33] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del
diritto, op.cit., 181. [34] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del
diritto, op.cit., 353. [35] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto,
op.cit., 354. [36] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit.,
354. [37] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [38]
V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [39] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [40] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense e
particolarmente significative sono le vivaci conclusioni del saggio in
considerazione: «Quello che è essenziale è questo riportare a questa unità
vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di vita, proprio le profonde
esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un interesse formativo della
vita; quel cogliere dall’interno e come componente il diritto tutta la sostanza
etica del fenomeno giuridico. Qui il giurista è non il tecnico che fa uno
sforza di costruzione puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente
formale, ma l’uomo, proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di
cogliere il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e
nelle profonde e immutabili connessioni, con i principi e le esigenze
costitutive della vita e della coscienza. Qui il giurista è proprio il
collaboratore della vita, il collaboratore indispensabile del segreto processo
traverso il quale la vita concreta si trasforma in esperienza giuridica, e
l’umanità del mondo della storia viene perpetuamente difesa contro la barbarie
sempre presente e sempre immanente della forza. E se non è questo, che cosa è
il giurista? Che cosa ci sta a fare nella vita? Perché vive?» [41] V. G.
CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del
diritto, Padova, 1953, 13-47, ora in ID., Opere, V, op. cit., 385 ss. [42] V.
G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op.ult.cit., 387. [43] V.
P. BARCELLONA, Diritto senza società, Bari, 2003. [44] V. N. IRTI, Nichilismo
giuridico, Bari, 2004; ID., Il salvagente della forma, Bari, 2007. [45] V. S.
RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006. [46] Sia
consentito di rinviare a G. BIANCO, Nichilismo giuridico, in Digesto IV,
disc.priv., sez.civ., III vol. di agg., Torino, 2007, 790 ss. [47] V. M.
BARCELLONA, Critica del nichilismo giuridico, Torino, 2006, 181 ss. e 287 ss.
[48] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole, op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in
particolare, tra i molti spunti presenti nel saggio monografico, che «sullo
sfondo scorgiamo la fine di un’epoca nella quale esistevano valori generalmente
condivisi, mentre oggi viviamo in un tempo caratterizzato da un politeismo dei
valori e da controversie intorno al modo di dare riconoscimento al
pluralismo…Si scorge una frontiera mobile, addirittura sfuggente, tra diritto e
non diritto…»(p. 16); «il percorso tra diritto e non diritto porta al
disvelamento progressivo dell’inadeguatezza della dimensione giuridica
tradizionalmente conosciuta rispetto alla vita quotidiana…nello stesso ordine
giuridico possono annidarsi i fattori che si oppongono al dispiegarsi della
personalità, alla pienezza della vita» (p. 23); «non siamo più di fronte
all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto»(p. 25). [49] V.in modo
particolare sul punto M. HEIDEGGER, Il nichilismo europeo, tr. it., a cura di
F. Volpi, Milano, 2003, 108; F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, frammenti
postumi ordinati da P. Gast e E. Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura
di M. Ferraris e P. Kobau, Milano, 2005, 7, 8, 17. [50] V. N. IRTI, Atto primo,
in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Bari, 2001, 8 ss.; ID.,
Nichilismo e metodo giuridico, in “Nichilismo giuridico”, op. cit., 7. [51] V.
F. VOLPI, Il nichilismo, Bari, 1996, 4. [52] V. F. NIETZSCHE, La volontà di
potenza, op. cit., 7. [53] V. N. IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO,
Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 8. [54] V. E. SEVERINO, Atto primo, in
op. ult. cit., 27. [55] V. E. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 28-29.
[56] Su cui v. B. CROCE, Liberismo e liberalismo, in “Elementi di
politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v. al riguardo N. IRTI, Il diritto e gli
scopi, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss.
Sull’argomento v. pure le riflessioni contenute in B. LEONI, Conversazione su
Einaudi e Croce, in ID., Il pensiero politico moderno e contemporaneo, a cura
di A. Masala e con introduzionedi L.M. Bassani, Macerata, 2008, 337-374. [57]
V. N. IRTI, La rivolta delle differenze, in “Esercizi di lettura sul nichilismo
giuridico”, in Nichilismo giuridico, op. cit., 144. [58] V. N. IRTI, Nichilismo
e formalismo nella modernità giuridica, in Nichilismo giuridico, op.ult.cit.,
25. Sul pensiero del Galgano v. ID., Lex mercatoria, Bologna, 2001, 234 ss.
[59] V. N. IRTI, Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Norme e
luoghi. Problemi di geodiritto, Bari, 2006 (2a ed.), 143 ss., 144. [60] v. tra
i molti scritti dell’illustre filosofo Id., La filosofia futura, Milano, 2006,
p.150sgg.; Id., Destino della necessità, Milano, 1980, p.41sgg.; Id., Essenza
del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg. [61] V. N. IRTI, Atto secondo, in E.
SEVERINO-N. IRTI, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 45-46. [62] V. N.
IRTI, Atto primo, in op.ult.cit., 8. [63] V. G. DELLA VOLPE, Antikelsen, in
ID., Critica dell’ideologia contemporanea, Roma, 1967, 91-100. [64] V. N.
ABBAGNANO, Stato, in Id., Dizionario di filosofia, Torino, 1983 (2a ed.), 835.
[65] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. cit., 87 ss. e 151 ss. [66]
V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si
legge che l’epoca della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo
tramonto della società come istituzione (come tecnica organizzativa), attraverso
la quale si realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e l’ordine prodotto
dall’autogoverno della società, e come fine della storia intesa come
metamorfosi dell’orizzonte di senso entro il quale si sviluppa la dialettica
sociale…I concetti di Stato nazionale, che aveva rappresentato la forma
dell’organizzazione sociale, e di sovranità, che aveva individuato nella
democrazia, come governo di popolo, la base di ogni ordinamento, sono
inutilizzabili per descrivere e comprendere le forme della globalizzazione».
[67] V. P. BARCELLONA, op. ult. cit., 151 ss., ove si afferma che nella teoria
surrichiamata «il sistema può fare a meno delle intenzioni e dei progetti,
della volontà e della coscienza e, in definitiva, degli uomini in carne ed
ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta circolarità della
riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi “dispositivi” e della
sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto del moto perpetuo e per questo la
sua teoria è ormai il nucleo vero di tutte le rappresentazioni della
modernità…»(p. 152). V. al riguardo N. LUHMANN, La differenziazione del diritto
(1981), tr. it., Bologna, 1990, 61 ss. [68] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole.
Tra diritto e non diritto, op. cit., 35-36. [69] V. S. RODOTÀ, La vita e le
regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 37. [70] Su cui v. in generale le
classiche pagine di RUDOLF VON JHERING, Lo scopo del diritto, tr. it., con
introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è scritto che «lo scopo è
il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica che non
debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo pratico». Sul tema è stato
opportunamente notato che «là dove si parla di scopo…si allude a processi
intenzionali, consapevoli, voluti» (R. RACINARO, Presentazione di “La lotta per
il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano, 1989, XX). [71] Sull’attualità
del pensiero del Capograssi v. anche il paragrafo quarto di G. BIANCO,
Nichilismo giuridico, op. cit., 790 ss. [72] Al riguardo v. la ricostruzione
contenuta in S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto,
op.cit., 9 ss. [73] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit.,
356. [74] Sul tema v. S. SATTA, Norma, diritto, giurisdizione, in “Studi in
memoria di Carlo Esposito”, III, Padova, 1973, 1623 ss., 1629; ID., Il giurista
Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo”, Milano,
1963, IV, 589 e ora in ID., Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova, 1968,
433 ss. Sull’argomento sia consentito rinviare, per una più articolata ed ampia
trattazione, a G. BIANCO, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore Satta,
in “Clio”, n.4/2003, 703 ss., 709 e 711. [75] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del
diritto contemporaneo, op. cit., 415. [76] V. E. SEVERINO, La filosofia futura,
op.cit., 150 ss., 155-156 (pagine nelle quali si afferma che «la volontà che
nell’Apparato si vuole sempre più potente e decide in questa direzione, in ogni
momento del suo sviluppo decide innanzitutto di eseguire quell’insieme
determinato di azioni che in quel momento aumentano determinatamente la sua
potenza. In quantoè questa decisione, la volontà è quindi certa
dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di esistere nel futuro in
cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più potente
non è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in cui la sua
potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in ogni
momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza e cioè di
trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del proprio tentativo. Decide che,
in ogni momento del futuro in cui essa si troverà esistente, tenterà di
aumentare la propria potenza», pur non essendo «certa che il divenire sia
eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più potente riconosce la
possibilità del proprio annientamento»). [77] V. R. VON JHERING, La lotta per
il diritto, op. cit., 71 sgg. Sostiene l’Insigne giurista che “il diritto ci
presenta, pertanto, nel suo movimento storico, il quadro del tentare, del
combattere, del lottare, in breve dello sforzo faticoso…il diritto come
concetto rivolto a uno scopo, posto nel mezzo dell’ingranaggio caotico di
scopi, aspirazioni, interessi umani, è costretto incessantemente a tastare,
saggiare per trovare la via giusta, e, quando l’ha trovata, ad atterrare ancora
innanzi tutto l’opposizione, che gliela preclude” (pp. 91-92). Giuseepe
Capograssi. Keywords: positivismo, positivismo giuridico, H. L. A. Hart,
Kelsen, il concetto di stato, stato come forza, stato come autorita, Capograssi
contro Bobbio. La critica di Bobbio a Capograssi, essere/devere –
Capograssi/Hart – Capograssi e il fascismo – in concetto di stato come medimen
– kelsen, positivismo giuridico – l’esperienza giuridica, azione giuridica, due
tipi d’obbedenza: formale (vacua) e materiale (intenzione inclusa), intenzione,
agire, vita etica, intersoggetivita, soggeto, individuo, interpersonalismo,
l’interpersonalismo di Capograssi – Aligheri, Leopardi, Zibaldone, Rosmini. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Capograssi” – The Swimming-Pool Library.
Caporali: Grice: “You gotta
(as we say at Berkeley) love (as we say at Berkeley) Caporali – typically
Italian he dedicates his life to philosophise on Pythagoras (or Pitagora, as he
prefers) just because he is ‘italico,’ or ‘Italiano,’ with the capital I that
was then in fashion!” Grice: “What I like about Caporali is that, unlike the
98% of Italian philosoophers, he detests German philosophy, as represented by
Muri – “See how clear the religion of the Italian anti-clerics is compared to
the German obscurity of Muri!’ And right he is, too!” --
Grice: “For the Oxonians I always recommend his “epitome di filosofia
italiana,’ which, I subtitle it as “From Pythagoras to Pythagoras, and back!” –
His three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo, Other) is fascinating –
especially the other – he also philosophised on ‘scienza nuova.’” -- Enrico
Caporali (Como), filosofo. Laureatosi in giurisprudenza all'Padova, studiò
anche storia e geografia presso l'ateneo bolognese, così come approcciò, sia
Italia che all'estero, le scienze naturali e la matematica. Nel corso dei suoi viaggi si avvicinò al
movimento metodista, tanto che nel 1875 a Milano, dove l'anno prima aveva dato
alle stampe la Geografia enciclopedica, ne ricevette l'ordinazione a
evangelista, mentre quella a diacono la ricevette a Terni nel 1879. E, non a
caso, Caporali è stato segnalato fra le menti più eccelse
dell'evangelicismo. Dal 1876 a Perugia,
e poi come ministro a Todi dalla fine del 1881, finì per distaccarsi dal
movimento metodista. È in quel contesto che diede vita alla rivista La nuova
scienza, uscita in 6 volumi tra il 1882 e il 1896. La notorietà che ne conseguì
gli portò l'offerta di reggere come titolare, su indicazione di Nicola
Fornelli, la cattedra di filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali
rifiutò. Dal 1905 riprese e approfondì
le questioni filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora,
che avrebbe ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e
latina, in funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione
pitagorica del numero reale consentiva di riconoscere la relazione
dell'espressione della coscienza e della volontà umane con i problemi della
vita. Opere principali Geografia
enciclopedica rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente,
Politti, Milano 1873. Epitome di Filosofia italica della nuova scienza.
Vademecum delle persone colte che vogliono diventare filosoficamente italiane,
Tip. dell'Umbria, Spoleto 1911; La natura secondo Pitagora, Atanor, Todi 1914;
L'uomo secondo Pitagora, Atanor, Todi 1915; Il pitagorismo confrontato con le
altre scuole, Atanor, Todi 1916; La Chiara religione degli anticlericali
italiani con la nebbiosa tedesca di Romolo Murri (della pubblica opinione
moderatore), Tip. Tuderte, Todi 1916. Note
L'Enciclopedia Italiana, vedi , indica il 1841 come anno di
nascita. V. Vinay, Luigi Desanctis,
Claudiana, Torino 1965240. In tal senso
B. Croce, Pescasseroli, Laterza, Bari 192255, che lo cita con i filosofi
protestanti Taglialatela e Mazzarella.
G.B. Furiozzi, Enrico Caporali tra politica, religione e filosofia, in
Idem, Dal Risorgimento all'Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli 1997, 125–136. R. Mariani, Del
sommo filosofo pitagorico Enrico Caporali da Como (1838-1918): da Pitagora ad
Alberto Einstein, Domini, Perugia 1955. Altri progetti Collabora a Wikimedia
Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Enrico
Caporali M.C.C., «CAPORALI, Enrico», in
Enciclopedia Italiana, I Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
1938. Luca Pilone, «Enrico Caporali», in Dizionario biografico dei protestanti
in Italia, Società di studi valdesi, sito studivaldesi.org. Filosofia Filosofo
del XIX secoloFilosofi italiani Professore1838 1918 Como TodiScrittori italiani
del XX secoloPersonalità del protestantesimo. LA NUOVA SCIENZA di
ENRICO CAPORALI Alcuni pedanti, non intendendo la sacra scienza dei Numeri, o
dei Principii Universali, che Pitagora fece il centro del suo sistema,
attribuirono a questo grande Maestro teorie confuse e assurde. Così gli
studiosi, i quali non seppero discernere il pensiero Pitagorico dalle aggiunte
e dalle non scientifiche interpretazioni che ne fnrono fatte dopo Pitagora, supposero
che la radice e i rampolli della Antiquissima Italicorum Sapientia fossero
ormai disseccati, e trascurarono l'Italo Maestro per andare ad abbeverarsi a
fonti straniere. Con tutta fede dunque, e sicuro di fare opera veramente
italiana, il Prof. Enrico Caporali, più di trentacinque anni fa, si ritirò
nella misteriosa solitudine della sua villa presso Todi per dedicarsi tutto
alla restaurazione del Pitagorismo tra il plauso e l'ammirazione dei migliori
pensatori nostrani e stranieri. Redasse allora la Nuova Scienza e in seguito
pubblicò altre opere fra le quali i volumi della Sapienza Italica presso questa
Casa Editrice. La quale, avendo ora rilevato dall'eredità giacente dell'illu
stre estinto, quel che rimaneva della sua prima opera suddetta, la presenta
agli studiosi. La Nuova Scienza è composta di 25 spessi fascicoli in-8°, e va
dal 1884 al 1892. Restano quarantasette copie dell'Obera completa e si vendono
al prezzo di L. 125 ognuna. Si vendono anche separatamente alcuni fascicoli che
possediamo in maggior numero, al prezzo di L. 5 ciascuno. Diamo qui i titoli
delle principali dissertazioni contenute nella detta opera La Nuova Scienza:
L'odierno pensiero Italiani (dal 1° al 12° fascic.) — La Formula Pitagorica
della Cosmica Evoluzione ;dal 1° al 23°) — L'Evoluzione anticlericale Germanica
nella dispera zione (7°) — L'Evoluzione anticl. germ. negli errori finalisti
(10°) — L'Evoluzione malin tesa e la sua negazione (dal 13° al 18°) — //
Monismo Pitagorico antico (21°) — Perpetua voce umana— Commedia degli Spiriti
(id.) — La psicogenia pitagorica di M. F. Pauthan (12°) — La sostanza
impasticciata del Prof. Dal Pozzo (23°) — // principio Eraclitico con frontato
col Pitagorico (22°) — // Pitagorismo di Giordano Bruno (23°) — La formula
Pitagorica dell'Evoluzione Sociale (24° e 25°). O. La Sapienza Italica mmfà i opera insigne del filosofo nella
quale facendo rivivere il Pitagorismo alfa luce dello scibile moderno sì mira
alla restaurazione della nazionale *coltura Casa Editrice " Atanòr „ -
Todi 1914 La Natura secondo Pitagora ossia La progressiva concentrazione
e sistemazione delle unità senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat
àpt&fiov. Tutto l'iTiiiverso è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog
èaxl [isxa^oXr] où5s(iia oì)xs auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e
nel continuo. Aristotele (Phys. Vili. - 8). La Sapienza Italica i La
Natura secondo Pitagora opera insigne del filosofo Enrico Caporali il - nella
quale facendo rivivere il Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira
alla restaurazione della nazionale coltura Con cenni storici su Pitagora
e la sua Scuola Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914 3244 PROPRIETÀ
LETTERARIA Tutti i diritti riservati per tutti i paesi compresi la Russia, la
Svezia e la Norvegia MI STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA Pitagora, secondo
Teopompo, Aristossene e Aristarco (citato da Clemente), era figlio di un
gioiel- liere etrusco, che mercanteggiava in Oriente, e di una donna greca
chiamata Partenide. Nacque venticinque secoli fa, 587 anni avanti Gesù Cristo
in Samo. La Pitonessa di Delfo, consultata mentre Partenide era incinta, aveva
detto : « Avrai un figlio che sarà utile a tutti gli uomini, in tutti i tempi».
Pitagora, fin dalla sua prima gioventù avido di scienza, seguì le lezioni di
Ermodamate a Samo e quelle di Ferecide a Siro, poi visitò in Mileto Talete,
l'iniziatore della filosofia greca, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A
Memfi, presentato a quei sacerdoti d'Iside dal Faraone Amasis, al quale,
dicesi, era stato raccomandato da Policrate il tiranno di Samo, fu da essi
ricevuto nel loro tempio e iniziato alle loro dottrine segrete. Così, durante
gli anni di questa sua iniziazione, egli potè bene internarsi in esse, e
principalmente versarsi con ardore in quella sacra scienza dei Numeri, o dei
Principii Universali, che egli fece di poi il centro del suo sistema e formidò
in un modo originale. Egli arrivò agli alti gradi del tempio, ma, essendo
avvenuta in — 6 — questa epoca una ribellione in Egitto, dopo aver assistito al
saccheggio dei santuarii e allo scempio compiuto su le opere millenarie dalle
orde della plebe, fu condotto, secondo alcuni, insieme con altri adepti a
Babilonia. A Babilonia accrebbe il suo sapere ed ebbe rivelati gli arcani
dell'antica sapienza Caldea. Da qui ritornò alla sua isola, che un usurpatore
straniero, dissoluto e crudele, ora tiranneggiava ; e volle subito fuggirne.
Venne in Grecia e quindi nella Magna Grecia, ove si stabilì a Cotrone, nel
Golfo di Taranto, che era, con Sibari, la città più fiorente d' Italia. Ora
egli che aveva attinto a sì pure fonti di sa- pere e acquistato grande
esperienza della vita, nauseato dalla indisciplinatezza delle democrazie, dalla
insipienza dei filosofi, dall' ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che
veniva a diffondersi, ebbe vi- sione di un rinnovamento da effettuare fra gli
uo- mini. Onde stabilì di fondare una scuola di scienza e di vita dalla quale
uscissero, non dei politicanti e dei sofisti, ma dei giovani dall'animo nel
vero senso della parola virile, e che dovesse essere il nucleo, come il punto
di partenza per la trasformazione graduale dell'organamento politico della
Città, in cor- rispondenza al suo ideale filosofico, secondo il quale, affinchè
lo Stato fosse ordinato armonicamente, do- vevasi conciliare il principio
elettivo con un reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione
dell'intelligenza e della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto
pe- dagogico di quei tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile
tentativo d'iniziazione laica che sia stato mai impreso ; e in breve ebbe a
fiorire in tal modo che, non solo nella Magna Grecia, come — 7 — a Metaponto, a
Taranto, e più tardi a Eraclea, furono stabilite filiali, ma anche in altre
parti d'Italia e principalmente in Etruria, la sacra terra donde il Maestro era
oriundo. Egli si circondò di scelti discepoli, maschi e femmine, e tutti
sedusse, poiché avviluppò di grazia Vausterità dei suoi insegnamenti. Essi
dovevano le- varsi all'alba, adorare Dio, seguendo una dorica danza, quando il Sole
appariva su l'orizzonte, passeggiare nel parco dell' istituto dopo le abluzioni
di rigore, recarsi nel tempio di Apollo in silenzio, affinchè l'anima, così
nella sua verginità, si raccogliesse all'inizio del giorno. Indi, in ampie
sale, venivano istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella medicina e
nelle scienze naturali, o nella politica, nella morale e nella religione,
secondo le classi o gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica
istrumentale e corale. A mezzogiorno, dopo la pre ghiera agli Dei, si
faceva un pasto frugale di pane, mele, noci e olive, e quindi si andava allo
stadio per gli esercizi ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato,
erano tenuti in onore. Poi si discuteva di amministrazione della città, di
morale e di 'po- litica generale, e in fine si andava a cena, dove si mangiava
anche carne in piccola quantità e si beveva vino, sedendo intorno a ogni tavolo
in numero di dieci, poiché dieci è il numero perfetto. Durante la cena, uno dei
più giovani faceva una lettura ad alta voce, e questa lettura era seguita da
libere obie- zioni e discussioni ; poi si ricordavano le regole dell' Istituto,
e, cantando un inno alle Muse, si andava a letto. Il vestito di tutti i
discepoli era di bisso, a forma egiziana o etnisca. Le fanciulle con vesti
bianche egualmente di bisso, strette leggiadramente al corpo, — 8 — e con la
fronte recinta di una bendella di porpora, erano anch'esse con ogni cura
istruite, ma non partecipavano alle lezioni del mattino, ne agli esercizi
ginnastici con i giovanetti, ne ai dibattiti e alle deliberazioni della sera.
Il grande Pitagora a sessantanni si trovava ancora nella pienezza delle sue
forze. Fra le fanciulle dell'Istituto ve riera una di meravigliosa bel- lezza,
chiamata Teano. Teano fu compresa di grande amore per il Maestro e non volle
tener celata a lui la sua passione. Egli che fino a quel giorno, come tutti gli
adepti, aveva rinunciato alla donna per darsi tutto all'opera sua, fu
singolarmente colpito dalla purezza di lei, e non pose indugio a sposarla,
giacche in questo caso l'amore giustificava il matrimonio, com'egli aveva
sempre insegnato. La splendida Teano entrò in breve completamente nel pensiero
del suo maestro e marito ; e divenne abilissima nell' insegnare alle giovinette
dell'Istituto. Ella ebbe due figli, Arimneste e Telangete, e una figlia, Damo o
Mia. Arimneste fu autore di prose e poesie morali, Telangete divenne più tardi
il maestro di Empedocle e a lui trasmise i secreti della dottrina. Mia andò
sposa al più celebre degli atleti, Milone di Crotone. Dall'Istituto pitagorico
uscirono geometri, medici, artisti, amministratori ed uomini politici
ragguardevoli, che portarono, sotto certi aspetti, la Magna Grecia al disopra
della Grecia. Non si concedeva di entrare nell' Istituto a giovani di famiglie
non onorate o di costumi cattivi. Fa per avere rifiutato un certo Cilone,
giovane ricchissimo, il quale desiderava di far parte dell'Istituto, che
Pitagora venne una sera assalito mentre stava in casa di Milone e di sua figlia
Mia. E, cogliendo — 9 — pretesto dal voto contrario che Pitagora aveva dato
sulla distribuzione delle terre di Sibari, che i Crotoniati avevano
conquistate, il suo nemico Olone indusse la plebaglia a dare l'assalto
all'Istituto, uccidendo e ferendo molti giovani alunni. Allora Pitagora che
aveva già ottani' anni, si rifugiò negli istituti filiali di Locri, di Taramto
e di Metaponto, morendo in quest'ultimo nel 497 cioè dieci anni dopo. Pitagora
non credeva nella metempsicosi, ma sol- tanto nella immortalità dell'anima razionale.
Però permise che la metempsicosi dei Misteri Orfici fosse presentata al popolo
come opportuna per spronare alla virtù ed impedire la delinquenza. Infatti egli
non ha collegato in nessun modo la metempsicosi al suo sistema filosofico. Egli
si sforzava sempre di liberare gli schiavi e di dare agli umili cittadini il
sentimento della dignità morale, e diceva che la virtù non è perfetta se non è
accompagnata dalla fede in Dio, perchè l'ordine universale si regge sulla mente
divina ordinatrice e perchè Dio solo può dare alla morale sanzioni efficaci.
Diogene Laerzio narra che Pitagora scrisse tre libri, uno sulla Educazione, uno
sulla Politica ed il terzo più importante sulla Natura: ma andarono tutti e tre
perduti e ne rimangono soltanto i frammenti citati da Aristotele e da altri
filosofi posteriori. Fra i discepoli di Pitagora si distinsero Archita di
Taranto, Timeo di Locri, Ocello di Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao,
Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed Hipparco. Quando Platone viaggiò nella Magna Grecia,
fu Archita di Taranto che gì' insegnò la dottrina del Numerante : ma Platone la
guastò nell' intrecciarla alla sua teoria delle Idee Eterne ossia concetti gè-
— 10 — nerali delle cose ch'egli supponeva esistere da se, indipendenti e
separati dalle cose. In una scuola Pitagorica di Agrigento sorse Empedocle,
nato quindici anni dopo la morte di Pitagora, il quale abbracciò con ardore lo
studio della Natura comune ai Pitagorici, ma mentre egli osser- vava da vicino
una eruzione del vulcano Etna soc- combette asfissiato nel 425. Nella scuola
Pitagorica di Siracusa brillò poi Archimede, il fondatore della idrostatica, il
quale scoprì anche la quadratura della parabola, oggi an- cora ammirata dai
Matematici. Ma qual era il carattere del sapere Pitagorico? Pitagora fu
Venciclopedista del suo tempo: fondò la Filosofia Italica, ben diversa dalla
Greca. Come fa notare il prof. Zeller (nella sua introduzione ai cinque volumi
di Storia della Filosofia Greca) gli errori di Platone e di Aristotele erano
quelli del popolo greco, troppo idealista e portato a giudicare le cose con la
fantasia, ed a studiare poco la Natura. Erano artisti e poeti e non scienziati:
appena avevano fatto delle osservazioni superficiali, volavano a stabilire
delle massime generali. Invece Pitagora era in stretto senso uno scienziato, un
appassionato scrutatore della Natura, sicché potè fondare il Naturalismo
Italiano. Diede per primo il nome alla filosofia, come lo diede al mondo,
chiamandolo Cosmo, che vuol dire Ordine, vale a dire che porta in se la gran
Legge della tendenza di tutti gli elementi a formare più alta Unità: in modo
che ogni particella sta in ar- monia col Tutto ed è fatta da una forza
numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la manifestazione della Energia
divina, che si contrappone i punti di forza o Atomi, i quali, derivando da una
potentis- — 11 — sima Unità, tendono a riunirsi ed a ritornare alla Unità
primitiva, sicché^ tutte le cose si fanno dal di dentro al di fuori. E un
Monismo del Noumenon vivente in ogni individuo, che fa i fenomeni della
Sensazione e del Moto. Gli Organismi sono governati dal Sentimento, trovando
piacere neWassurgere a più alta Unità, e dolore nello scomporsi. Anche la
Natura inorganica sente e vuole il suo sviluppo, il suo godimento, benché non sia
provvista di nervi: ma è da essa e dalla sua rudimentale sensazione e vo-
lontà, che a poco a poco, attraverso la evoluzione delle attrazioni molecolari
chimiche dei colloidi, si vanno formando, per successiva divisione del lavoro,
gli or- gani ed i nervi. Egli precisò con ripetuti esperimenti il rapporto fra
la lunghezza, il diametro e la tensione delle corde sonore e la qualità dei
suoni ; indovinò per il primo che la terra è sferica e gira attorno al sole,
che le stelle sono altrettanti soli in movimento ; scoprì il teorema sulle
proprietà del quadrato della ipotenusa nel triangolo rettangolo ; calcolò la
teoria degli iso- perimetri, dimostrando non commensurabile il rapporto fra la
diagonale ed un lato del quadrato ; in- trodusse nelVaritmetica il sistema
decimale, e nella musica l'ottava, la quarta e la quinta. Il filosofo Lucio {in
Plutarco Symp. VIII. 7) narra che gli Etruschi, che stimavano Pitagora quanto i
Greci, osservavano i simboli di Pitagora. Ad un acuto osservatore come Pitagora
non poteva sfuggire la legge di attrazione e coesione che forma e tiene assieme
tutti i corpi gazosi, liquidi e Egli ne supponeva la causa nella tendenza di
tutti gli elementi a riunirsi ed a formare più alta Unità, ed invano i fisici
moderni ne cercarono la — 12 — causa in pretese pressioni dell'etere cosmico.
Più tardi Empedocle di Agrigento la chiamò poeticamente Amore Universale,
contraponendovi l'odio o repulsione, che avviene contro tutto ciò che disturba
il piacere dell'unione. Empedocle pensò la Naturaorganica, piante ed animali,
come un processo di crescente unificazione e sistemazione (benché non
conoscesse la cellula) e la malattia e la morte come un processo di
dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere non è per Empedocle in
continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose nuove (come pretendeva
Eraclito d'Efeso che nella Grecia orientale emulava Pitagora), ma è l'unirsi
delle particelle, lo ascendere a pnu alta Unità, il formarsi dai molti l'Uno:
mentre il morire discioglie la Unità nella Molteplicità. Era bene istruito del
pensiero pitagorico Anassagora, il primo greco che separò lo spirito dalla
materia, e che suppose le anime degli animali e degli uomini come formate di
Omeomerie, specie di Numeranti, che separano, distinguono, scelgono, conoscono
le cose utili e respingono le inutili al bene dell'individuo e della specie. Ma
i suoi discepoli Socrate e Platone intesero poco il Pitagorismo, in modo che
dopo Anassagora la filosofìa Greca si allontanò dalla Italica. Pitagora fu il
genio tutelare del pensiero laico Italiano, e ^diede sempre il midollo alla
coltura nazionale. E grazie a Pitagora che nell'antichità e nel Medio Evo
l'Italia non fu una provincia della filosofia greca. E grazie a Pitagora che un
po' alla volta fu sorpassato il Platonismo e fu vinto l'Aristotelismo. Nel
Rinascimento con le invasioni dei bar- bari si oscurò ogni luce di pensiero, ma
la idea pitagorica tornò a brillare per la prima e a dare — 13 — impulso alla
nuova filosofia italiana grazie al car- dinale Nicolò di Cuza, nato a Treviri,
ina educato in Italia. Egli nel 1440 scrisse: «Ratio est men- « sura quae omnia
in multitudinem, magnitudinem- « que resolvit. Mens est viva mensura quae
mensu- « rando alia, sui capacitatem atiingit » . La mente è la unità che si
esplica nella diversità. Essa discerne confrontando e misurando. L'
investigazione della Natura, che era stata lo scopo principale delle Scuole
Pitagoriche venne pro- mossa dall'Accademia di Cosenza (a 40 miglia da Cotrone)
fondata nel 1500 dal Parrasio - dalla quale sorse Bernardino Telesio che
scrisse: « Della natura delle cose secondo i propri principii » -,
dall'apertura in Padova nel 1644 del primo Orto Botanico, dalla Aliatisi
botanica iniziata nei giardini di Alfonso aVEsie, dalle Accademie dei Lincei a
Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a Napoli con G. B. Porta, le quali
servirono di stimolo e di esempio ai popoli di oltralpe per la fondazione delle
loro Accademie Maggiori. Giordano Bruno sostenne poi contro gli Aristotelici
che gli elementi medesimi della natura si ritro- vano in terra e in cielo,
indovinò la trasformazione degli organi animali secondo l'uso che se ne fa,
notò che la Unità domina nell'uomo e che alla sua Monade centrale convergono
quelle periferiche del corpo, sicché l'organismo è come un dispiegarsi del-
l'anima. Lontano dalla luce del Pitagorismo, Cartesio trasse per alcuni anni in
errore col definire la Materia come Res extensa, confondendola con lo Spazio,
fantasticandola come piena di vortici, credendola sostanziale. Ma la verità Pitagorica
della Attrazione fu dimostrata da Newton e il newtoniano Boscovich 14 concepì
gli Atomi come punti di forza. Ad essa furono poi aggiunte l'attrazione
molecolare chimica, elettrica e magnetica, le quali diedero ragione agli
antichi Pitagorici e ad Empedocle. Nel libro che segue noi supponiamo che
Pitagora siasi istruito dello scibile moderno, e consideriamo la Natura dal
punto di vista pitagorico, che è il più fecondo per intenderne le leggi. La
Nafta secondo Pilajora La progressiva concentrazione e sistemazioni delie unità
senzienti.Noi fondiamo la filosofìa sopra la totalità del- l'Esperienza, ossia
stiamo sempre sulla base dei fatti, come li prende, li elabora e li interpreta
il nostro stromento del conoscere (lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta
non ci fosse niente: e che dal Niente venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil.
UHegelismo, che, invece di stare ai fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e
quindi prende il Concetto del Nulla come equipollente a quello del- VEssere li
ha sposati per farne uscire il Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente
e lo la- sciamo nei cervelli che lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è
sempre stato. Che questo essere eterno fosse molteplice, nes- suno che guardi
il mondo e conosca la Unità delle forze fisiche che si manifesta, non solo
sulla (1) Non bisogna esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla
precedere ad ogni studio filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L'
uomo secondo Pitagora di prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono filo-
sofare senza prima determinare i confini della ragione, somigliano a colui che
non vuol entrare nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. — 18 — Terra,
ma in tutti i 50 milioni di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle
più lontane la cui luce impiega più di diecimila anni per ar- rivarci, quando
si studiano colFanalisi spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere
eterno era Uno. Che cosa era questo Essere uno eterno ? Ardigò dice che era la
Sostanza Psicofisica, ossia psiche (unità), e poi forza materiale
(molteplicità). E così può essere. Nel voi. IV. delle sue opere (pag. 270) egli
ci dice che questo primo Essere ha cominciato a sdoppiarsi in Spazio e Tempo,
per poter fare la esteriorità, ossia il Mondo: ed aggiunge che lo spazio era
allora convertibile nel tempo e viceversa, senza dirci a quanti anni, mesi,
giorni ed ore corrisponda un determinato spazio. Noi c'inchi- niamo al prof.
Ardigò per questa bella trovata, la più positiva e la più radicale della sua
filosofìa, così immaginosa, che la bellissima Cerezada, per divertire il
potente sultano Sciariar nelle Mille ed una notte, non avrebbe saputo
inventare. Il male si è che (se fosse vera la convertibilità dello spazio nel
tempo e viceversa), sarebbe impossibile la Natura. Il Senatore B. Croce poi, di
natura non ne vuol sapere affatto e nel gennaio 1909 scrisse nella sua Critica
che la filosofia può abolire la natura (1). Questa è fatta di sensazioni, di
senti- menti, di volontà, di movimenti, dei quali è dif- (1) S'intende che egli
non pretende di abolire la Natura, bensì, come dice a pag. 75, il concetto di
Natura. E la filosofia ha da essere tutta dello spirito, senza impicciarsi di
Natura. — 19 — fìcile formarsi concetti esatti, e si richiede, per intenderla,
uno studio vastissimo e profondo. Sarebbe comodissimo di risparmiarlo. Le
scienze naturali, dice il Croce, sono fatte con concetti sbagliati, e la
pratica che ne consegue, è fatta di volere e di azione, ossia di soggetto fatto
oggetto. Sia come ipostasi della scienza, sia come forma pratica dello spirito,
che diventa volontà ed azione, e quindi oggetto, è meglio tagliar corto, e
considerare come abolito il Concetto della Natura. Fino ad ora nessun filosofo,
neppur Hegel, ha potuto ^fare a meno di tentare una Filosofìa della Natura. E
vero che sarebbe stato prudente abolirla, come la volpe dichiarava non matura
quell'uva, alla quale non poteva arrivare. Se vi è un lettore inimicato contro
la Natura, potrà con essa conciliarsi in questo Libro, nel quale cercheremo di
penetrare appunto nella Natura. Avvertiamo che V Essere eterno ed uno ha dovuto
essere attivo sempre, estrinsecandosi (poiché essere vuol dire essere attivo)
pensando prima i due sistemi di punti e di istanti (lo Spazio ed il Tempo) e
poi contrapponendosi i punti di energia. Dunque il nostro studio
deve cominciare da queste estrinsecazioni primissime dell'Essere Eterno;
vale a dire la matematica in spazio e tempo, e la fisica in atomi eterei ed
atomi ponderali. CAPITOLO I. La prima estrinsecazione dell' Essere Divino
(Spazio e Tempo) La fisiologia dei sensi ha mostrato come dal tatto, dalla
vista, dal senso muscolare sorga in noi l'idea dello spazio e le condizioni in
cui questa intuizione si forma ancora nei bambini. Questa esperienza è sempre diretta
dalla Unità di coscienza. Altro è la intuizione di spazio e il concetto dello
spazio, ed altro è lo Spazio, ossia il fondo eterno. Se un centimetro quadrato
contiene 1.000.000 di punti, mezzo centimetro quadrato dovrebbe con- tenerne
mezzo milione. Ma non si può ficcarvene dentro altri milioni allo infinito ;
altrimenti i punti si toccano e diventano di due o tre un punto solo. Chi nega
la realtà dello spazio, nega la realtà del mondo, che è tutto esteriorità. Se
fosse puramente nostro subbiettivo e continuo, non vi sarebbero punti fissi,
uno fuori dell'altro, non vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto, cioè il
passaggio di un corpo da un luogo ad un altro, non avrebbe realtà. Zenone di
Elea infatti negava la realtà del moto, perchè lo riteneva continuo, come
spazio e tempo, e diceva che, se il veloce Achille sta un passo dietro la
tartaruga, non la potrà mai raggiungere. — 22 — Ma quando si considera lo
spazio come un si- stema bene connesso di punti pensati dall'Essere Divino e
quindi reali, e il tempo come un seguito di istanti, divisi da minimi
intervalli, allora si ca- pisce che il moto reale è possibile, perchè il corpo
che si muove va a scatti, cessando di essere nel punto dove era, per cominciare
ad essere laddove non era. Altrimenti un corpo in moto non sarebbe in nessun
luogo. Celere è il moto i cui intervalli o riposi sono brevi. Lento è quel moto
i cui in- tervalli sono meno brevi. Lo spazio ed il tempo non hanno energia
motrice, ma non sono nulli ed hanno una realtà numerica. E siccome il Numero è la
realtà maggiore della Logica, come dimostra Hegel, così la loro realtà è certa
(1). Kant suppose che noi creassimo lo spazio ed il tempo, ossia che fossero
come occhiali colorati o nostre intuizioni che ci obbligassero a vedere e
toccare le cose esteriori in un modo subbiettivo della nostra coscienza.
Ipotesi resa impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le fonografìe ci di-
mostrano che le macchine fotografiche vedono le cose come noi e notano così le
divisioni dello spazio come noi, e le macchine fonografiche dividono il tempo
come i nostri orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate e quindi i suoni.
È vero che riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo em- (1) Lo spazio, il
tempo, gli atomi, sono la molteplicità del mondo che non può essere fatta se
non da una Unità spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni numeriche tra
loro, la sostanza comune numerica dello spazio, del tempo e delle minime unità
atomiche, va considerata nella Unità Cosmica.piricamente : e che per i bambini
non sono altro che forme della distanza degli oggetti voluti e del moto
necessario per raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso muscolare,
ossia il senso dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del moto, e
della resistenza, che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo senso a
comparire nella evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è il da
mihi ubi constitam della filosofìa scientifica. Nella « Teoria del cielo » Kant
riconobbe la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indi- pendente dalla
materia, anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno, infinito,
vuoto: e aggiungeva « dubito che se ne sia mai data una « definizione adeguata.
Le determinazioni dello « spazio non sono conseguenze del posto che oc- «
cupano reciprocamente gli atomi, ma queste sono « conseguenze dello spazio, e
le diversità nei corpi si « riferiscono sempre allo spazio assoluto, che non è
« oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen- « tale, la quale rende
possibile tutte le altre. Di « modo che non si può percepire un corpo se non in
« relazioni spaziali con altri corpi » . Più tardi però Kant concepì spazio e
tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le quali noi
mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stra- nezza seguito dallo
Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da
Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da
Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da
Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri
provarono che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono
anche se lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come
Riemann, credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte
dimensioni. Ma, se lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza
e profondità), tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a
distanza ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale
inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A.
Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano
che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli
atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il
rapporto inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole
dimensioni, si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre
ipotesi la gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione
delle distanze. — Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi
fisiche, ci provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra
anche il chiaris- simo professore Federico Enriquez trattando della Geometria
non Euclidea e non Archimedea nei suoi « Problemi della scienza » Bologna 1905.
La realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il
maggior fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò
che si deve prenderlo per base di tutte le misure (1). (1) Abbiamo riassunto le
ragioni e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza
pa- gina 81 a 84. — 25 — La realtà del tempo poi che (come dice Neioton) «
fhixus mutari nequit, equabiliter fhlit » è dimostrata vera da molte leggi. Se
non vi fosse un centro immobile nell'Universo, tutta la meccanica serebbe
fallace. Se non fosse reale il Moto assoluto, addio astronomia. Tutto cangia o
di luogo, o di forma, o di qualità, e nessun cangiamento può av- venire se il
tempo non fosse una realtà. Si potrebbe dubitare della realtà del tempo
soltanto se niente si cambiasse. Non sono inerti spazio e tempo, perchè
assoggettano, come sistemi inalterabili di punti e di istanti , a regole certe
i moti, le azioni e le resistenze. Lo spazio ed il tempo sono così obbiettivi
come subiettivi, sono i due Oceani della possibile espansione di qualsiasi
energia. Il fondo eterno non può essere che uno. Lo implica la interazione
delle forze ; lo implica il coesistere di un numero enorme di scopi e di azioni
e di moti che si incontrano e lottano fra loro senza confusione. Se non vi
fosse la sistemazione dei punti di spazio e degli istanti di tempo,
sistemazione che è tutta dovuta alla Unità Reale eterna {Numerorum Fons di Giordano
Bruno) discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto che è l'espansione della
Energia in questi due Oceani, non avrebbe mai precisione ; anzi non sarebbe
possibile. La possibilità dei coesistenti (spazio) e dei successivi (tempo)
rende facile l'azione dei punti di forza. — Spazio e Tempo esistono per se come
sistemi di termini puntuali indivisibili (1) e tra i termini puntuali ci (lì
Una superfìcie è definita lunghezza e larghezza, senza profondità. Una linea
lunghezza, senza larghezza, ne profondità. Un punto, ciò che manca di
larghezza, di — 26 — sono intervalli infinitesimi, ma non nulli. Se fos- sero
nulli non sarebbe possibile il moto e specialmente il moto curvilineo, die si
calcola col diffe- renziale. Infatti una curva cambia continuamente di direzione,
con grandezze infinitesime, che cre- scono o diminuiscono. Il differenziale è
un valore che limita e non una grandezza numerata. Per variare la direzione in
una curva qualsiasi, vi è bi- sogno di un nuovo impulso, sia pure infinitesimo,
ma non nullo. Possiamo pensare come infiniti lo spazio ed il tempo, ma lo
infinito non è mai una realtà. La loro connessione e tale che sembrano continui
e si trattano come tali; nondimeno i punti dello spazio e gl'istanti del tempo
sono realmente fuori gli uni degli altri e quindi numerabili, senza tener conto
degl' intervalli infinitesimi (1). Ogni punto è numelunghezza e di profondità.
Se i punti, le linee, le superficie non avessero per limiti dei punti
indivisibili, questi limiti sarebbero composti di molte parti, di cui nessuna
sarebbe l' ultima ; non vi sarebbe alcuna figura definita, non vi sarebbe linea
lunga e linea corta perchè tutte sarebbero composte di parti infinite, mentre
in realtà la linea corta è quella composta di minor numero di punti. Ecco la
realtà dello spazio: sta nell'essere numerabile. Il tempo poi è composto di
istanti indivisibili, perchè se non si potesse arrivare alla fine della sua
divisione, vi sarebbe un numero infinito di istanti (ossia di elementi del
tempo) contemporaneamente. Locchè è assurdo. Il tempo è fatto dalla Unità
cosmica e intuito dalla nostra Unità intima e non è un concetto empirico. Senza
l'Unità in- tima non riveleremmo il Moto e il cambiamento delle cose tutte,
come lo rilevano anche gli animali, perchè non si confronta se non vi è l' Uno
vivente. Gli istanti sono reali e numerabili e fanno la realtà del Tempo. (1)
Contro questi intervalli Pascal diceva che i punti dello spazio o si toccano
interamente e allora invece di — 27 — rato, ogni istante del pari, sono tutti
diversi e discernibili, hanno tutti una esistenza separata e permettono di
evitare la confusione nel Cosmo e nella Scienza. Cartesio rinnovò la geometria
cambiando la qualità, ossia la forma dei corpi, in quantità; riducendo la forma
alla posizione e determinando la posizione con le linee coordinate potè
sostituire alla misura diretta la indiretta e trovare le quadrature, le
cubature ecc. Egli applicò l'al- gebra alla geometria, osservando che ogni
spazio chiuso può determinarsi dalla lunghezza delle li- nee perpendicolari
abbassate su due linee rette o su tre piani che si taglino nello stesso punto
ad angolo retto. Così le linee e le superfìcie curve possono determinarsi dalle
loro equazioni, in cui le relazioni variabili sono combinate con quantità
costanti, ed i numeri servono a constatare le proprietà dello spazio. Il che
sarebbe impossibile se lo spazio non fosse realmente composto di punti separati
indivisibili. Inversamente, le proprietà dello spazio, può dirsi che dipendano
dalle proprietà del numero; sicché lo spazio si risolve in un sistema di
numeri, pensato dalla Unità suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le leggi d'
inerzia, scoprì an- che la necessità del moto assoluto, almeno nel calcolo, e
quindi del Tempo assoluto. — Kuno Fischer ha dimostrato (contro Trendelenburg)
che il moto è preceduto e spiegato dal tempo e non gedue sono uno : o si
toccano soltanto in parte e allora sono divisibili. E sbagliava, perchè non
sono circoli, ma punti e non hanno parti, ma essendo fuori l'uno dell'altro non
si toccano. L'estensione dello spazio deriva appunto da questo, che non si
toccano.nera né il concetto ne la intuizione pura del Tempo. Nei suoi «
Philosophiae naturalis Principia » , 1714, (Def. Vili) Newton scrive : «Eadem
est Buratto seu perseverantia rerum, sive motus sint celeres, sive tardi, sive
nulli » . Il tempo sarebbe il medesimo anche se l' Universo e i suoi , moti
fossero affatto diversi da quelli che sono. È un pensiero della Eagione eterna
di cui Descartes (Lettera a Vatier nov. 1643) scriveva : « Tempus non est
affectio rerum sed modus cogitandi » . Aristotile. Phys. IV. 10 chiama
àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero del moto. 11 tempo è eguale da per tutto e
questa sua ubi- quità non permette di prenderlo per una linea, benché sugli
orologi e nelle clessidre lo si misuri sopra una linea. Newton dice che il
tempo è un sistema d' istanti che non dipende dalla nostra coscienza. Ogni fi-
nalità si appoggia sulla idea del tempo, senza la quale niente si farebbe, non
potendo aspettarsi effetto alcuno dalle proprie azioni. La legge d' inerzia
prova che il moto è assoluto come lo spazio ed il tempo. Essa è dimostrata vera
da tutte le esperienze (benché sia impossibile la esperienza fondamentale
perché stiamo in un pianeta del sistema solare e non nel centro universale).
Essa prova la realtà dello spazio e del tempo e la loro uniformità. Che lo
spazio ed il tempo per noi sieno concetti a priori o sieno in- tuizioni, poco
importa. Quello che importa di sa- pere è quello che sono in se stessi. Sono
due sistemi di punti e di istanti separati e discernibili, perchè numerati. La
realtà che hanno è minima, mancando di energia, ma se non vi fosse, si avrebbe
il caos e la indeterminazione. Spinoza diceva: « Quo plus realitatis aut Esse
unaquaeque res habet, eo plura attributa ei competunt » e questi due sistemi di
punti e d'istanti non hanno altro attributo che l'ordine, il mimerò, la realtà
dell' Essere puro, del Numero. Lo esigono la Meccanica, l' Astronomia e tutte
le scienze esatte. Al principio delle cose non vi poteva mai essere (come
supposero parecchi Metafìsici, ed anche YArdigò) Vessere indeterminato. Come
prova il grande matematico Cantor, lo spazio ed il tempo sono due oceani di
punti e di istanti nei quali anzitutto si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il
Numero è così alla genesi di ogni possibile energia. Pitagora, dando al Mondo
il nome di xoajjto? (ossia ordine) comprese che il generatore dell'ordine era
il Numero. E Leibnitz scrisse che « omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum »
. La seconda estrinsecazione dell' Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) Come
non sono continui lo spazio ed il tempo, così non è continua la Materia (come
crede Ardigò)1 e se lo fosse, non opporrebbe resistenza, come dimostrarono
Poisson e Cauchy. La forma sferica non basterebbe all'equilibrio di un corpo di
materia continua ; una siffatta materia si dissi- perebbe nello spazio: sarebbe
una specie di atmo- — 30 — sfera diffusa allo infinito, con strati concentrici,
sempre più rarefatti. Parti di numero indeterminato, mai non potrebbero fare un
tutto di numero determinato, come dimostrò fin dal 1844 Saint-Venant. Nella «
Révue du mois » 1906, Jean Perrin provò la discontinuità della materia con la
radioattività e con altri fatti. Ciò che è sostanziale non può concepirsi come
indeterminato o indefinito, quindi l' indistinto di Ardigò è un concetto
inapplicabile in fìsica. Tutte le leggi fisiche e chi- miche ci provano
concordi che gli atomi serbano sempre proporzioni definite nello scambiare le
loro forze (attrazione, calorici specifici, equivalenti elettrici e chimici,
ecc.). Il Secchi ( « Unità nelle forze fìsiche » ) fa os- servare che
teoricamente l'equivalente definito e multiplo esige che la materia sia
composta di centri distinti e semplici. Questo lo aveva già in- tuito Pitagora,
quando distinse nettamente il nu- merato o numero concettuale dalla Unità Reale
o sostanziale : e fu svolto il suo pensiero da Ecfante di Siracusa, il quale
mostrò che le Unità reali erano Atomi, intendendoli come unità immateriali,
esistenti a se, come punti di energia propria se- movente, prevenendo così le
obbiezioni degli Eleatici contro la possibilità del moto. Spazio e tempo sono
le condizioni numeriche nelle quali ci si presentano la materia e il moto nelle
esperienze di forza, mentre l'energia atomica, come vedremo, sente e vuole e fa
il moto opponendo alle forze incidenti la forza propria della impenetrabilità.
L' Essere atomico non si lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la
volontà, ossia una attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla
scientifico, se non si dice che è la me- — 31 — desima in quantità. Bisogna
dire che quello che persiste è Vertergià, la Unità Reale. Il carattere
distintivo della scienza italica fu di eliminare l'in- determinato, e di
cercare il concreto misurabile. Il Moto non è altro che un rapporto di spazio e
di tempo e non ha esistenza in se stesso. La realtà sta nell' Atomo senziente e
volente. Lo ammise il Taine nel 1892 e lo aveva, dodici anni prima, ammesso
anche Herbert Spencer scrivendo nella Revue Philosophique de la France « La
forza « cosmica non può somigliare alla nostra : ma sic- « come la genera,
devono essere modi diversi della « stessa energia. Il potere manifestato in
tutte le « cose è alla fine quello che in noi scaturisce sotto «forma di
coscienza. La materia vive in ogni « Atomo per se stessa. Questo centro, questa
Unità « interiore di tutte le cose e inaccessibile alla nostra « coscienza : le
scienze studiano i loro fenomeni « e non la realtà conscia che li fa. Ma
siccome « noi dobbiamo sempre pensare la manifestazione « esterna nei termini
della Energia intima, così, « (conclude l'eminente filosofo inglese) si arriva
« ad un concetto psichico degli Àtomi » . Quando si dice che gli atomi sentono
un tantino, è inutile spiegare che non si parla dei nostri sensi, che sono
frutto di lunghissima evoluzione, nella quale gradualmente si sono accmnunati
il sentire ed il volere di milioni di Atomi, dividendosi il la- voro
fisiologico, e formando così organi perfezionati. Ma si intende che gli Atomi
debbano avere il solo senso dinamico (o della forza fondamentale che tende a
formare più alta unità). Infatti la coe- sione è universale e non è mai un
moto, ne fatta da moti esterni. E se viene disturbata, fa il moto termico o
calorico e la elettricità dinamica. In al- — 32 — tre parole si parla di quella
sensazione primitiva minima dell' Èssere in se, dalla quale derivano tutte le
altre più complicate e più raffinate della chimica e della biologia. Quando la
violenza del verito fa accavallare le onde del mare, un buon Capitano (come ce
lo de- scrive l'ammiraglio francese Cloué) fa portare in- torno i sacchi di
telaforte, pieni di stoppa imbevuta di olio di pesce, di foche o di marsuini,
fa forare con aghi da vele i sacchi, legandoli alla poppa o alla prora, non mai
più vicini di dieci metri fra loro. Ogni ora escono da tutti i sacchi da due a
tre litri di olio, formando quasi una strada piana, larga 50 a 80 metri, che
manda lembi di olio fino a 400 o 500 metri ai due lati della nave. Questa
pellicola di olio che si diffonde sul mare e calma le onde furiose, non può mai
essere piegata dal vento, per quanto sia veemente. Eppure questa pellicola ha
lo spessore di i /QQ , 0QQ di millimetro (poco più delle bolle di acqua
saponata), e basta a far cambiare la direzione alle molecole dell'acqua che
arrivano con impeto. E perchè ? Unicamente per la forza di coesione delle
minime molecole dell'olio. Il Cloué ha avuto più di duecento rapporti
concludenti da varie società di salvataggio, da molti capitani di lungo corso,
che attra- versano periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione è dunque una
gran forza, se in una pellicola poco più grossa della bolla di sapone può
arrestare i marosi in burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da qualsiasi
altra, che non deriva da cause meccaniche, ma unicamente dalla sensazione
dinamica, dal piacere di unirsi delle molecole di olio. — 33 — L'atomo di una
goccia di acqua non vede, non ode, non ha ne palato, ne olfatto, ne udito, né
vista, ne tatto; ma ha bensì il senso rudimentale, dal quale (con lunga
evoluzione) uscì il tatto chi- mico e quello delle cellule degli organismi
inferiori. E quando milioni di atomi fanno la goccia di acqua senza esserci
costretti da alcun moto, da nessuna pressione di etere (come fu constatato), la
fanno godendo, altrimenti non la farebbero. Il maggior neocritico tedesco, il
Wundt, con- cepiva gli atomi come volontà elementari, come es- seri attivi che
sentono (benché più semplicemente di noi) : e li aveva concepiti così anche
Antonio Rosmini, come si vedrà nel terzo Volume. Materia inerte non esiste che
in apparenza. « Instar arcus tensi, qui non indigent stimulo alieno, sed sola
suòlatione impedimenti» diceva Leibnitz. La Materia è un Concetto vuoto di una
cosa che la Scolastica credeva sostanziale, che non ha qualità propria, ma si
supponeva servisse di base alle forze, le quali sarebbero state (secondo gli
scolastici) meri accidenti : mentre sono le vere realtà. La Materia (dice il
senatore A. Righi) ha per proprietà distintiva Vinerzia ; e gli elettroni (o
atomi veri), benché non sieno materiali, perchè le loro masse crescono colla
velocità (Moderna Teoria dei fenomeni fisici, 1907, pag. 234), la mostrano in
molti casi, quando stanno fermi, come punti di forza disposti simmetricamente
intorno ad un centro positivo ; ma in moltissimi casi non la mostrano,
cambiando il modo di sentire e di volere. La cosa reale non può essere che un
sistema di punti di energia senziente. Anche nell'urto meccanico, il corpo urtato
si muove per una intiina reazione, ossia perchè le molecole ritornano al posto
in cui trovavano la coesione gradita. Nessuno misura la Materia se non come
peso, massa o volume: di cui i primi due si risolvono in forze e il terzo in
spazio occupato dalle forze. Gli atomi sono punti, ma fanno la massa e la
densità, perchè vi è fra loro dello spazio, anche nei liquidi e nei solidi:
ciascuno esiste in sé, e persistendo in relazioni diverse, si sviluppa in
molteplice. La causa del moto è sempre intima, nella sensazione delle forze.
Gli atomi veri che il prof. Stones ha chiamato Elettroni, non sono estesi,
perchè, se fossero estesi, sarebbero divisibili: ma sono punti di energia, che
irradiano nell'Etere il quale è pure discontinuo e (secondo Helm e Vogt)
darebbe origine agli Elettroni. Invece di Materia, si dica dunque Corpo, vale a
dire complesso di energie: e si lasci la Materia alla scienza morta di
Aristotile e degli scolastici medioevali e moderni. L' Energia di qualsiasi
specie si trasforma con- servando il suo valore numerico : ogni Energia è potenziale
rispetto a quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre misurabile ed è
l'unica che ci interessa. Si compra la materia come la- boratorio di energia.
L'Elettrica ha un valore commerciale, dunque è realissima, benché la parte
materiale degli impianti elettrici non si alteri, né diminuisca col consumo.
Sembra che il calore sia energia cinetica, ma non si può trovare la sua
potenziale, se non è nel disturbo della coesione, che è un modo di avvicinarsi
godendo l'armonia. Nessuno sa se la Elettricità sia energia cinetica oppure
Energia potenziale: non è fatta dal mo- — 35 — vimento dagli atomi complessi di
Thomson, ma soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono punti di forza senza
nucleo materiale, senza caput mor- tuum che li porti, come la terra va attorno
al sole senza essere portata dall'Elefante o dalla tartaruga degli Indiani. «
Omnis Ens, aut in se, aut in alio est » diceva Spinoza e gli Atomi sono in se,
elementi psichici che non si lasciano distruggere e se disturbati reagiscono.
Lotze osserva che la reazione non è mai simile all'azione, ne Veffetto somiglia
alla causa, almeno nella qualità. Chi è colpito si difende in modo diverso
(Microcosmos I 165 a 168). E Lasson filosofo di non minor valore del Lotze,
aggiunge : « Non esistono cose meramente oggettive, passive, esterne» . Una
energia reale (osserva Guyau) deve avere un modo interno di essere: un
appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono eminenti fisici (oltre ai
filosofi), quali furono : G. Bruno, Leibnitz, Kant, Boscowich, Maupertius,
Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner, Fechner, Wundt, Haeckel,
Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer, Ostwald, Mach (1). Nella
sua « Mechanik in ihrer Entwickelung » ossia « La meccanica nel suo sviluppo,
il Mach scriveva che « La mitologia Meccanica è sbagliata. (1) Il Marchesini e
gli altri discepoli di Ardigò credono che gli Atomi siano materiali e si
affannano a combattere la falange dei, veri pensatori di cui qui abbiamo dato
alcuni nomi. E giusto però osservare che hanno male inteso Ardigò, il quale
scrisse che « la Materia è Pensiero ». S'intende non dei sassi, né dell'uomo,
ma della Sostanza Psicofìsica, di quella divinità inconscia dello Schelling
ch'egli chiamò V Indistinto. - 36 - « La nostra fame non è molto diversa dal
bisogno « di combinarsi delle molecole. La nostra Volontà « non è molto diversa
dalla pressione del tetto « sulle pareti di una casa » . E Kromann, filosofo di
Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss) osserva : « se l'Atomo fosse ma- «
teriale, non opererebbe se non nel posto ove si « trova, non irradierebbe
energia termica o elet- « trica ; anzi non si continuerebbe il moto dopo « V
urto, se non per alcuni istanti, e andrebbe « estinguendosi per l'attrito.
Avviene l'opposto : « dunque l'Atomo è Energia psichica » . Il considerare la
Fisica come una estensione della Meccanica va bene fino ad un certo punto, per
la comodità dello studio esteriore, ma la filo- sofia non è limitata dagli
orizzonti della Materia estesa e cerca la realtà intima che fa le forze
originali. Bisogna evitare di fare della scolastica positivista una Metafisica
di Materia, di Forza, di Massa, di Moto, di finzioni logiche, che si pigliano
per reali quanto più sono lontane dalla realtà, mentre sono meri simboli, meri
concetti astratti. I fatti reali di coesione, di solidarietà dell'etere e
dell'aria, senza la quale non vedremmo la luce, non ci arriverebbero ne luce,
ne suoni, ci con- vincono che sotto le astrazioni della scolastica
materialista, ci sono le realtà psichiche indivi- duali minime. L'Etere cosmico
forma un tutto solidale ed elastico, è quindi composto di tanti punti di forza
che reagiscono. Quando questi punti di forza si scindono in due elettricità,
l'una positiva al centro e l'altra, composta di elettroni negativi, alla periferia,
fanno gli atomi ponderali, che ten- — 37 — dono ad unirsi, se vicini, con la
coesione, e se lontani colla gravitazione, in ragione inversa del quadrato
della distanza. L'etere è il mezzo che porta istantaneamente l'attrazione da un
punto al- l'altro, per quanto sia lontano, Coesione e gravitazione, ossia le
forze attrattive, ci indicano che la prima tendenza intima degli atomi è quella
di formare più alta unità (1) anzi ce lo indica già la costituzione degli atomi
sferici in due specie di elettricità, il cui centro è positivo e la periferia è
negativa, ossia composta di elettroni negativi (2). La massa è il numero degli
atomi di un corpo, il peso è invece relativo al corpo celeste sul quale si sta;
cosicché un corpo pesante un chilogramma sulla Terra, peserebbe sul Sole 28
chili, su Marte 4 /2 chilo, sulla Luna 37 centigrammi. Ma il platino pesa 80
volte il sughero di egual volume in qualunque posto si trovi. Le prime forze
dunque sono di elettricità statica. Quando questa è disturbata, ne segue un
moto disordinato e dispersivo che si dice calorico e sembra spiacevole, perchè
appunto è disordinato e ogni corpo cerca di rigettarlo sui vicini e si di-
sperde. Questa è la seconda forza fondamentale della Natura. Ed è sempre un
eccitamento a ri- (1) Ben inteso che l'attrazione o coesione incomincia a una
distanza minima sì ma non quasi nulla, perchè quel punto che si dice atomo non
può essere annichilito. (2) Nella nostra Nuova Scienza abbiamo lungamente
mostrato che i tentativi di Lesage, Secchi, Isenkrahe ed altri di spiegare la
coesione e la gravitazione per pres- sione dell'Etere, erano falliti; e di
questa opinione sono tutti i maggiori fisici, fra cui l'eminente prof. Augusto
Righi. 3 — 38 — tornare all'armonia facendo la elettricità dinamica, ossia
quelle correnti che divennero nella moderna industria mezzi di grande
efficacia. Già nei vecchi esperimenti di Siebeck e di Nobili il calorico si
trasformava in elettrico contrasto. Che dal calo- rico (moto disordinato) gli
atomi appena lo possono, passino all' elettricità ed al magnetismo (moti
ordinati e piacevoli), venne recentemente dimostrato dai professori
Ettingshausen e Nernst, mettendo in un campo magnetico una piastra di bismuto,
perpendicolarmente alle linee di forza: poi riscaldando la piastra da una
parte, si vede dall'altra parte sorgere una corrente galvanica. Una data
quantità di energia termica è sempre equivalente ad una determinata quantità di
ener- gia elettrica (2) qualunque sia la sua temperatura; si ottiene sempre lo
stesso valore trasformando una nell'altra. L' Elettricità che non si manifesta
in tensione (statica) si manifesta in corrente (di- namica) o in rotazione
(magnetica) o irradiando e vibrando. Le proprietà di isolare o di condurre la
elettricità dipendono dall'aggregazione molecolare, p. es. il Carbonio nel
diamante isola, nella grafite conduce; i corpi a molecole bene orientate si
elettrizzano bene scaldandosi poco (come l'ambra, la ceralacca, il vetro); ma i
metalli composti di atomi neutri, avendo le molecole male (1) Avendo Carnot
provato che il calorico non si con- verte in lavoro meccanico se non quando
passa dai corpi caldi ai freddi, Thomson ne dedusse che una parte sempre
maggiore della Energia convertita in calorico si disperde nel cielo e il lavoro
scema : così alcuni credono che l'ener- gia dopo molti milioni di secoli si
estinguerà ; ma questo sarebbe già raggiunto (se fosse vero), perchè l'Universo
non ha avuto principio nella sua energia potenziale. — 39 — orientate, si
lasciano molto riscaldare con lo sfre- gamento senza elettrizzarsi, sono
elettropositivi, e si possono jonizzare con poca energia. Un corpo carico di
elettrico, sebbene isolato, produce nei vicini uno stato elettrico di specie
opposta (negativa o positiva) in ragione inversa della distanza. Con una
macchina di induzione si elettrizzano migliaia di cilindri di latta. La
elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non si ricompone se non
allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla negativa. Niente
passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di questo assumono la
corrente, senza che l'e- tere frapposto si elettrizzi ne si polarizzi - e
questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La fisica nuovissima
fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche perseveranti.
Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i li- quidi ed i gas,
si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi elettrici, rispetto ai
quali le cariche sono multiple, come numeri interi di atomi elettrici. Helmholtz
l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi trovarono che l'Etere è
elettri- cità di forza minima ed il principio di ogni materia, ha una massa ed
una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa i vortici elettrici,
l'atomo vorti- coso di sir William Thomson (lord Kelvin) il quale conteggiò il
numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono emessi con enorme
velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal radio (raggi
beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai e sono
deviati dalle calamite (1). fi) Kauffmann : La costituzione dell'Elettrone,
1906. - Annalen der Physik, quarta serie, voi. 19. - 40 — Il prof. Abraham di
Gottinga nel 1902 ha cal- colato la massa apparente dell'Elettrone per le diverse
velocità, supponendo che abbia causa elet- tromagnetica e che l'Elettrone sia
sferico e rigido. Kauffmann confermò che non vi è nocciuolo materiale
nell'Elettrone. Un magnete, ossia una pietra di ferro sulla quale si scaricò
probabilmente il fulmine e nella quale le due elettricità restano separate ed
in contrasto continuo, attrae il ferro, come tutti sanno. Il magnete non attrae
cei*to per la pressione dell'etere, che si esercita su tutti i corpi. Dopo il
ferro, il nikel e il cobalto sono i metalli più magnetizzabili: un pezzo di
acciaio che subisca un forte sfregamento con un magnete, diventa un magnete e
serve a fare altri magneti. I gas e le materie contenute nelle fiamme sono
magnetizzabili e di- vidono le fiamme in due corni. Jonizzare vuol dire separare
da un atomo neutro alcuni suoi elettroni negativi: e si fa facilmente nei
metalli, composti di atomi neutri. Si jonizza sia col gran calore, sia con urti
violenti che scal- dano molto, sia coi raggi catodici, di Rontgen o di
Becquerel. Un filo arroventato jonizza il gas che lo tocca, ed i gas delle
fiamme sono tutti for- temente jonizzati e ridotti ai più semplici elementi
Uberi. Le scariche elettriche sono fatte dai joni dei gas, urtati
violentemente, scomposti in elet- troni negativi. La luce deriva da vibrazioni
elettriche trasversali e perpendicolari ai raggi da destra e da si- nistra. Se
la destrogira o la levogira ritarda, non danno più una riga sola nello spettro,
ma due. I raggi scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai catodi ossia dai poli
negativi in sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici volte più corte di
quelle della luce del sole, e non si vedono, ma fotografano e non si
rifrangono, non sono carichi di elettricità come i raggi catodici ; ma fanno
sor- gere l'elettricità nei corpi conduttori. I raggi scoperti da Becquerel nel
1897 non partono da sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti dalla
pecliblenda (q sono i seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo) vengono
emessi anche nel vuoto ed a temperatura glaciale e sono di tre specie: alfa,
beta e gamma. Gli alfa sono fatti da joni positivi e deviabili e jonizzano i
gas che urtano. I beta più forti anche nel fotografare, si comportano come
raggi catodici e deviano in senso opposto agli alfa. I gamma sono più veloci e
più penetranti degli alfa e dei beta. Trasformano l'ossigeno in ozono, il
fosforo bruno in rosso. Non derivano da scomposizione chimica, ma da emissione
di elettroni. Arrestano le scintille di , una fortissima macchina elettrica,
perchè egualizzano le elettri- cità accumulate, e le scaricano da se. I raggi
Rontgen sono esplosioni elettriche (materia radiante di Crookes, il quarto
stato di Faraday) e scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni negativi.
Traversano i corpi opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile rimaste
nelle ferite. I raggi Becquerel dei corpi radio attivi permettono di scoprire
in un miscuglio di gas elementi in proporzioni assai più piccole di quelli
indicati dallo spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è teso in
lunghezza e premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza magnetica
sono cerchi perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente elet- trica
è un flusso di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è uniforme si ha
Vinduzione, come dice Righi - (La moderna teoria dei fenomeni fi- sici, 1907,
Bologna, p. 257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal magnetizzarsi
della luce. La efficacia della elet- tricità e del magnetismo diminuisce col
quadrato della distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra un disco di
vetro, la positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle ramificazioni
si- mili alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che l'elettricità si propaga
con onde dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore erano ridotte a 6 centimetri,
ma colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e nelle macchine dei telegrafi
senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di Coltano. — Le onde di Hertz
dipendono da esplosioni per urto (1). La elettrolisi è la scomposizione in joni
degli elementi delle molecole: p. es. il sale di cucina sotto l'azione di una
pila e di due elettrodi, si di- vide in joni di Jodio positivi che vanno al
polo negativo, o Catodo, e in joni di Cloro, negativi, che vanno al polo
positivo o Ànodo. E l'acqua si scompone in ossigeno, che va al polo positivo, o
Anodo, ed in idrogeno, che va al polo negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si
fondano gli accumulatori, o casse cariche di elettricità, ottenuta separando il
(1) Le scariche oscillanti, come quelle fatte negli Oscillatori di Marconi sono
prodotte da molti alternati passaggi, da una serie rapida di flussi che,
urtando violente- mente l'Etere, vi fanno delle onde concentriche assai lunghe.
Il ricevitore o coherer alternando lo stato magnetico permette di far segnali.
— 43 — piombo dall'ossido di piombo (che si adoperano per muovere i tram
elettrici). La genesi degli elementi ossia delle varie specie di Atomi fu
studiata dal Crookes in Inghilterra, dal Mendelejew in Russia e da altri (1).
Dalla in- focata nebulosa, per la irradiazione del calorico, e l'abbassarsi
della temperatura, si formarono dapprima i 14 elementi leggeri (2) e poi, per
successivi raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa
240 volte l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per
successive differenziazioni e complicazioni. — Raffreddandosi le stelle, la
elettricità ci va for- mando nuovi elementi e si complica la loro strut- tura.
Così nelle stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle gialle,
come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle stelle rosse
che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i metalli sono (1)
Tutti sanno che la piccolezza delle molecole è estrema. Gli Elettroni non sono
che punti di forza. Si può assottigliare l'oro in lamine di cinque milionesimi
di millimetro. Certi infusori provvisti di organi hanno un diametro minore di
un millesimo di millimetro. (2) Idrogeno, Litio, G-lucinio, Boro, Carbonio,
Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio, Fosforo, Solfo
disposti in due serie : la elettrizzata positivamente e la elettrizzata
negativamente, ciascuna di 7 ele- menti. (Per gli elementi seguenti vedi Wendt,
Evolution der Elemente, 1891, Berlino). L'analisi spettrale datante linee
quanti sono gli elementi che compongono i corpi incandescenti. Nei laboratorii
chimici è difficile superare 2.400 gradi centigradi, tuttavia gli atomi di
idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel sole, nelle nebulose o in un tubo
di Geissler riscaldato, perchè danno lo stesso spettro. tutti combinati. Ma ad
altissima temperatura gli elementi si dissociano, perchè gli Elementi non sono
gli Elettroni o Atomi veri, ma sono atomi composti vorticosi, che Thomson
mostrò essere circolari, non tagliabili che vibrano quando sono urtati.
Dissociando gli elementi, diventano radioattivi, come dicemmo sopra, e la
dissociazione può arri- vare a tale energia che, col disgregare un soldo di
rame, si avrebbe forza bastante per far muovere un treno di centinaia di
quintali. Il prof. Ramsay vide il radio trasformarsi con- tinuamente in elio.
Le cinque leggi principali della fìsica pura mostrano la Unità ideale e reale
di azione e sono : Inerzia, Indipendenza delle Forze, Eguaglianza fra Azione e
Reazione, Conservazione della Materia e Conservazione della Forza potenziale
(non della manifestata). Del resto il principio di conservazione della Energia,
ha valore per i fatti osservati ; ma è inesatto l'applicarlo agli altri. Tutti
i fatti meccanici, sono nello stesso tempo fatti elettrici o chimici. La
meccanica ne coglie un solo aspetto : risolvere il mondo in figure è una
mitologia. Le forze interne sono le essenziali, sono psichiche. Il nostro
Giambattista Vico diceva che il conato o virtus movendi è fatto dall'appetito,
dal desiderio. Del resto tutte le spiegazioni meccaniche, quando escono dal
problema dei tre corpi, ossia cercano di determinare le variabili che
preponderano, di tro- vare le relazioni funzionali tra loro, per predire lo
stato futuro di un sistema di corpi, non danno mai la certezza e sono soltanto
approssimative. Se si considerano sistemi isolati come conservativi, vi s'
introducono delle variabili, riguardandoli 45 come porzioni di un sistema
conservativo più ampio : ma gli attriti, le viscosità e le complicazioni dei
moti di altri corpi, e sopratutto le rotazioni, rendono la soluzione
impossibile: come ben dice E. Picard (La mécanique classique, 1906). Laplace,
invece di supporre che l' impulso fosse proporzionale alla velocità, ritenne
che fosse una funzione della velocità e variasse con la velocità, come si è
trovato poi per gli Elettroni, le cui masse crescono con la velocità, per cui
non sono materiali. Così bisogna abbandonare le equazioni differenziali e
cercare le equazioni funzionali, se si vuol prevedere l'avvenire di un sistema
di corpi. I corpi non sistemati o che sono in moto lento, sono soggetti a
cambiare direzione e velocità, se vengono urtati. Non è l'urto, ne la pressione
che si converte in calore : bensì l'urto eccita le forze- interne a difendersi
con moto rapido irregolare che dilata e si disperde. Se si urtano due palle
lanciate una contro l'altra, le forze che risultano sono momenti eguali, ma
opposti : così che entra nel corpo urtato la sola differenza. II moto che segue
all'urto non avviene mica per una infusione di moto come suppongono gl'ingenui
: ma esso si verifica sempre per la solidale elasticità delle molecole, che
ritornano al loro stato abituale di coesione, come ha dimostrato fin dal 1887
Todhunier (nella sua bella Theory of Elasticity). Fin qui abbiamo considerato
la Materia nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei e ponderali, cercando (per
quanto era possibile) le sue forze intime. Se ora la consideriamo nel massimo,
dobbiamo riconoscere che l'Universo non può essere infinito, — 46 — come è
sempre ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa, ne in energia
potenziale, perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il centro di
gravità sarebbe in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia se ne andrebbero
a rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le stelle, pag. 334 a
336) se il mondo fosse infinito e popolato di infinite stelle, la vòlta celeste
ci comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua estensione. Chi avesse
occhi sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe potuto nem- meno
formarsi. Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe nello spazio : ma
questo è impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi sotto zero, (che è
quella della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori delle regioni più
lontane della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le forze della Materia
sono anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel seguente Capitolo. Le
ripulsive sono quelle della impenetrabilità, del calorico, dell'elettricità che
abbia eguale dire- zione e le esplosive dei composti chimici in cui entri
l'azoto e delle cariche elettriche. Derivano dal disturbo del godimento che è
caratteristico delle forze attrattive. La solidarietà degli Atomi in generale
Coi principii delle scienze fìsiche insegnati da Cartesio in poi, non si è
riusciti mai a spiegare l'attrazione e la coesione, che tengono insieme tutti i
corpi e sono le prime forze iniziali (1). Quanto tendano a stare insieme gli
Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità dell'Etere. Quanto tendano
a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo vede nelle goccie di acqua,
nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni duri, nei corami, nelle corde di
canapa, nei diamanti,. in molti metalli e specialmente nei fili di ferro : anzi
in tutti i corpi liquidi o solidi compreso il proprio. Al di là di una piccola
frazione di millimetro, la coesione diminuisce e si estingue e su- bentra
l'attrazione in ragione inversa del quadrato della distanza, perchè gli Atomi
irradiano sopra superfìcie tanto più grandi quanto più sono lontane. Newton e
Faraday hanno intavolato bene il problema dell'Attrazione Universale. Ma gli
Empirici,, ed anche il gesuita padre Secchi (che non era punto filosofo, e
credeva come tutti i Tomisti, nel Motore immobile divino) lo hanno oscurato.
(1) L'amore degli animali e anche dell'uomo è la su- blimazione di quella
tendenza fondamentale che tiene as- sieme tutti i corpi del mondo. — 48 —
Newton per un quarto di secolo ci meditò so- pra (1) e stabilì due punti vale a
dire che l'agente della gravitazione non può essere meccanico (nella Prefazione
ai suoi Principii 1713), e che l'agente immateriale muove. Dunque è la unità
energica psichica degli Atomi ponderali, che trasmette per l'Etere la tendenza
a congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione arriva ad altri
Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca. Faraday
commentando (nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume XXIV),
scriveva « Nella gravitazione la forza va per l' Etere alle « maggiori
distanze, partendo dai punti Atomi di « Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo
centro a « tutto il sistema solare » . Newton non ammise che la gravitazione
fosse dovuta ad una causa immateriale (che sarebbe la psichica Unità reale
degli Atomi) perchè come fi- sico diceva « hypothesis non fìngo » ma non lo
escluse e lo lasciò pensare al lettore. Egli vide bene fin dal principio e
concluse definitivamente nel 1681 che ogni teoria meccanica sulla gravità non
si può sostenere mai, perchè non si propaga, non si al- tera, non devia per
l'interporsi di qualsiasi so- (1) Newton studiò la ipotetica pressione dell'
Etere per spiegare la gravitazione fin dal 1675, e ne scrisse una Memoria che
lesse alla Royal Society. Ma nel 1686 di- chiarò in una Lettera ad Halley che
tale ipotesi non aveva il minimo fondamento. Sfortunatamente per loro e per la
scienza fìsica alcuni Empirici ed anche il padre Secchi nei due ultimi secoli
perdettero il tempo nel tentare di scoprire come V Etere facesse tale
pressione, che già il genio di Newton, dopo maturo esame, aveva trovata
impossibile. — 49 — stanza gazosa, liquida o solida, non prende mai la
direzione di una risultante, non si rinette, non si rifrange, non si trasforma
come la luce, non può essere un moto, ne derivare da un moto, è istantanea. I
tentativi di Lesage, di Schramm e di Secchi di far derivare la coesione e la
gravità dal flusso e dalla pressione dell'Etere, per quanto ingegnosi, rimasero
così imbrogliati da difficoltà enormi che non persuasero alcun filosofo. Arago
in Francia, Maxwell in Inghilterra ed altri grandi fisici li dimostrarono
inani. Clerk Maxwell ne enumerò così gli assurdi: 1 . — Eichiedono un punto
motore che agisca fuori e al di là dell'Universo. 2. — Esigono che la materia sia
ora creata ed ora annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora acquista
una enorme velocità. 3. — Riducono la gravità, che è forza perenne in-
distruttibile, ad un semplice effetto di di- verse forze che ci sono ignote. 4.
— Implicano la esistenza di capitali strabocchevoli di energia nell' Etere,
capitali che nes- suno ci ha trovati. 5. — Se fossero vere, farebbero andare in
frantumi varie volte al giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro
non fece che generalizzare per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N.
Scienza,. IV voi., 282 e seg.) (1). (1) È molto deplorevole che alcuni giovani,
unicamente^ mossi dall'orrore per la psiche e per ogni interiorità (senza-
badare che essi sentono, vogliono e pensano) e volendo spie- gare tutto il mondo
con la esteriorità, ossia meccanicamente, sprechino oggi il loro ingegno nel
cercare a quali squili- — 50 — Newton (nell' Ottica) dichiarò assurdo che la
gra- vitazione fosse proprietà dovuta a moto di materia. Il suo concetto si
trova nei Principia (alla fine del libro) dove suppone che la forza psichica
degli atomi faccia la gravità; benché, come dice- vamo or ora, seguisse la
regola del suo tempo, fondata sul pregiudizio di Cartesio che la Materia nulla
avesse di psichico, che « in Philosophia experimentali hypotheses locum non
habent » „ — Egli veramente non arrivava fino a supporre che gli atomi avessero
un germe di sensazione, ma cre- deva in uno spirito pervadente gli atomi, e
lasciò (come Cartesio) la materia inerte passiva, mossa dallo spirito divino.
Fu Voltaire che presentò alla Francia il Newton della gravitazione universale,
considerata come una brìi dell'etere possano attribuirsi la coesione e la
gravita- zione ; dando prova unicamente della insolubilità del pro- blema. Fra
questi va notato l'egregio ingegnere M. Barbèra nel suo libro «L'Etere e la
materia ponderale» uscito a Torino sulla fine del 1902, nel quale, in meno di
140 pa- gine fa 1400 ipotesi : ma nella Prefazione del quale egli ha però il
buon senso di confessare che il meccanismo di ogni fenomeno fisico « rimane
affatto misterioso, e che i risultati della ricerca di esso sono quasi sempre
concezioni stranissime ed assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose ».
Dal momento cbe fu riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi
ed altri, cbe gli Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale,
sarebbe meglio fare a meno di scervellarsi per restare materialisti, limi-
tandosi a dire : « Sic volo, sic jubeo : sit prò ratione vo- luntas ». Se non è
assurdo cbe io, cbe sono composto di Atomi, senta, non sarà assurdo cbe un
atomo abbia un germe di sensazione gradita, nella Coesione. proprietà della
Materia, e divulgò quello che Newton dichiarò assurdo, vale a dire che la
materia agisse dove non era. Ma Voltaire non era che un letterato. Nella
evoluzione fìsica in grandi masse, come nella evoluzione chimica in piccole
masse, più o meno lentamente, le parti si rendono solidali nella sensazione
rudimentale dinamica (o della forza): perciò tutti i corpi (siano allo stato
gasoso, liquido o solido), sono elastici. Alla superfìcie di una massa liquida,
per 10 a 12 milionesimi di millimetro, la coesione è massima. Alla profondità
doppia è diminuita di 3/4 . Rucker nel 1885 con esperimenti ottici elettrici
confermò questi risultati. Quincke nel 1887 ha analizzato le pellicole liquide
che bagnano i solidi e disse che a meno di 25 milionesimi di millimetro
incomincia la coesione per le molecole dell'ac- qua. Nelle bolle di sapone la
pellicola è costante, se lo spessore eccede cinque soli milionesimi di
millimetro, e torna a crescere, se lo spessore viene ridotto ad un milionesimo.
Un liquido è formato da diversi strati, cosicché due porzioni di acqua si
attraggono quanto più stanno alla superfìcie: alla distanza di un dieci-
milionesimo di millimetro si attraggono con una forza massima. Thomson nel 1886
disse che l'at- trazione capillare non è altro che l'attrazione Newtoniana resa
più intensa per le molecole mobilissime che fanno il liquido. La forza di
coesione è tanta da resistere a grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese
molti cubi di rame aventi le loro superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul
tavolo uno sopra l'altro e vide che, prendendo in mano il più alto, gli
restavano attaccati tutti i sottoposti. — 52 — I fenomeni della capillarità nei
tubi stretti sono ben conosciuti da tutti. Centinaia di esperimenti svariati
della solidarietà furono fatti da Plateau (Statique expérimentale et théorique
des liquides soumis aux seules forces moléculaires). Facendo ca- dere a goccie
certi olii sopra l'acqua, si distendono come piani : mentre le goccie di altri
olii cadendo si dispongono in forma di lenti più o meno convesse. La coesione
delle molecole di olio è tanta che i marinai calmano le onde furiose del mare
vicino alla loro nave col versarvi sopra un sottile strato di olio nel modo
indicato nel Capitolo precedente. La natura numerica della coesione si può in-
vestigare pigliando certe soluzioni, fortemente colorate, di permanganato di
potassa e facendone cadere alcune goccie sull'acqua, a minima distanza da
questa, e lentamente. Si vedrà che la sostanza colorata, nel suo discendere e
nel modificare l'as- sociazione molecolare assume la forma di anelli vorticosi,
cinti da una pellicola, che, sempre più assottigliandosi, si rompe : ed ogni
frammento degli anelli maggiori, discendendo, assume subito la forma di minore
anello vorticoso e via di se- guito, dando una figura di polipo che genera
sempre nuovi e minori anellini vorticosi fino a che diviene invisibile. — Con
una goccia di inchiostro il fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità
che riesce impossibile di studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in
questo esperimento dalla forza di coesione in lotta col peso : prova che molti
atomi simili sempre tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e
che l'unità domina i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a for-
mare delle goccie. L'astronomo Young (Il Sole, — 63 — p. 220) dice che il Sole
(che sembra sia in gran parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con
goccioline di metalli. Non vi è corpo gazoso che non possa gustare la coesione.
Infatti Cailletet e Wriblowcki, con macchine possenti, sono riusciti a rendere
liquidi quasi tutti i gas. La teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e
Maxwell non si regge più, perchè gli urti obliqui farebbero roteare le
molecole, il moto di traslazione si rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la
legge di Mariotte e Gaylussac (essere a temperatura costante il volume di un
gas in ragione inversa della pressione) non si verifica che poche volte, come
provò Regnatili: anzi Hirn variò a piacere la temperatura senza che cambiasse
la resistenza (1). Clausius cre- dette che le molecole dei gas corressero senza
vi- brare e spiegava così la discontinuità degli spettri dei gas, dei liquidi e
dei solidi. Ma recentemente vari fisici hanno attribuito gli spettri lineari
dei gas alla piccolezza delle loro molecole, invece che alla fantasticata loro
corsa vertiginosa, e fu tolto al Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo
spettroscopio. Venne allora Hirn a provare che, se le molecole dei gas
corressero in linea retta, non vibre- rebbero e non potrebbero mai dare un
suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro parti solidali e sistemate,
come una corda tesa vibra ; ma se non è tesa, non vibra più. Per vibrare
occorre (1) Tait nel suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal
1884 le gravissime difficoltà che presen- tava l' ipotesi cinetica dei gas del
Clausius, che venne accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le
molecole ritornino allo stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di
Chladni e di Savart perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse
costituita al modo escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici
chilometri, secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare
che tutti i corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di
aria vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in
un minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa
da onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non
corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva
dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la
gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione,
si spiegano senza bisogno che cor- rano molti chilometri al minuto e senza che
su- biscano tanti urti. — Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La
solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere
collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che
tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde
vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si
tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano
via, anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo
suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non
toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una
solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e
non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali,
battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano
del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo
so- noro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di
stromenti musicali applicano con- tinuamente questa legge, che prova la
solidarietà degli Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente
non soltanto fra gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma
anche fra gli Atomi eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi
ponderali. Locke (nel suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare
quanto sia stupido cercar di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali
inventando una pressione dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono coerenti
e solidali fra loro, esigerebbero per spiegare questa pressione un secondo
Etere che premesse il primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di seguito
all'infinito. Sopra un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei. Faraday
provò che il mezzo etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di forza si
curvano. Hirn ne dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano un tutto
elastico persino nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in flusso
continuo, se fosse di densità variabilissima come supponeva il padre Secchi per
poter darsi l'aria di spiegare la coesione, non potrebbe mai trasmettere la
luce con tanta regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si riflette un
poco. Secondo Lorentz l'Etere deve — 56 — essere in stato di relativa quiete e
di solidarietà nel suo complesso, per permettere il moto della Elettricità e
della Luce. Senza questa solidarietà non avremmo la luce del sole e delle
stelle, come senza la solidarietà dell'aria non avremmo il suono : quindi non
si sarebbero formati ne occhi, ne orecchi ; ed è alla solidarietà dell' Etere e
dei gas che dobbiamo la civiltà ed i maggiori piaceri della parola e dell'arti
belle. Alla stessa solidarietà dobbiamo le onde scoperte dal prof. Hertz assai
grandi, sulle quali si fondano i telegrafi senza fili. Quando la coesione degli
atomi e la loro solida- rietà vengono disturbate, sorge il moto irregolare del
calorico, che allontana gli atomi gli uni dagli altri, dilata i corpi, liquefa
i solidi, volatilizza i li- quidi, disperde e non si concentra mai. Hirn
schiacciando il piombo (senza accrescerne la densità) provò che il calore
deriva dal disturbo della coe- sione e che è un moto degli atomi e non delle
molecole. Ben a ragione dunque il fondatore della ter- modinamica Mayer diceva
che la coesione e l'at- trazione non sono moti, ma tengono della natura della
sensazione, sicché la Materia bruta inorganica ha un senso di solidarietà
innegabile e l' Unità do- mina la moltiplicità, il molteplice tende ad unirsi e
di questa tendenza sono visibili gli effetti in tutta quanta la fìsica. Fra le
soluzioni separate da membrane permeabili ha luogo sempre uno scambio, nel
quale la più densa assume più che non ceda e la meno densa perde più che non
acquisti; fatto che prova la tendenza ad associarsi di tutti gli atomi. Il
disturbo dell'armonia fa l'allontanamento degli atomi, la dilatazione dei
corpi, la disgregazione. — 57 — La tendenza all'armonia fa i contrasti
elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei gas, la coesione dei
liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani. Così si manifesta
nella fisica la tendenza a for- mare più alta Unità, che si accentra poi e si
rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella Biologia e nell'Amore
delle Piante e degli Animali, sempre per cause intime e non mai per le forze
incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il Prof. Tait di- ceva
bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il Calorico sia un moto:
come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che il Pensiero sia
Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1' Elettricità, ossia le
forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto dalla sensazione
rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della loro volontà
primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti stu- dino pure i
fenomeni fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà conscia,
ossia alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag. 20) (1).
Siamo coerenti e riconosciamo che la (1) Lo stesso Ardìgò scrisse, come
Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e doveva dire non del
Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto il suo sistema non
seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti delle forze incidenti
ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia si poteva affermare
una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo nei suoi Principia
Definitio IIIa : « Materiae « vis insita est potentia resistendi ». Egli aveva
pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé quindi solidali) scrivendo
nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è assai più elastico e più attivo
dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non può bandire la psiche dalla
fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e indovinare la loro intimità.
I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo fatto della fìsica e non della
filosofia, mostrerebbero corto intelletto; perchè abbiamo stabilito e provato
che la Materia sente e che è tutta solidale. E nei seguenti Capitoli lo vedremo
ancor meglio. CAPITOLO IV. La solidarietà geometrica cristallina Il materiale
dei cristalli è chimico : ossia fatto da molecole ; ma la costruzione è fisica,
e conserva le proprietà fìsiche delle molecole, orientandole secondo le
direzioni dei tre assi; e specialmente il calorico, la elettricità e la luce.
Chi non ammette la psiche nella Materia e si affanna a spiegare la coesione
delle molecole di una goccia di acqua, inventando la assurda pressione
dell'Etere, ha bisogno poi di tutt' altra pressione, per spiegare la formazione
di un cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere più schiacciante (1). (1)
L'Illustre Presidente della Società Geologica Inglese, il prof. Judd diceva che
« Each minerai like each plant, or animai, possess its own individuality ». Le
forze a tergo, gli urti, le pressioni non spiegherebbero mai la gran varietà di
strutture che presentano i cristalli (Sulla formazione dei cristalli parlammo
nella nostra Nuova Scienza, voi. IV. pag. 479 a 481 e in altri siti). La
coesione geometrica cristallina indica chiaramente la tendenza a godere la
Eleatica quiete fra i contrasti elettrici. Evers disse che la preparazione
biotica è evidente nei cristalli; è l'alba della vita che si chiude fra le
pareti ; è una vita modesta, casalinga, incipiente, quella che si rappiatta fra
i tre assi di coesione geometrica e mantiene le loro pareti. Le molecole allo
stato liquido, quando si abbassa la temperatura (se trovano la calma e le
soluzioni necessarie) tendono a cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale
che fa il cristallo, gli Atomi della soluzione vanno disponendosi in tre assi
perpendicolari (i quali rivelano che sono tre e non più le dimensioni dello
spazio reale, come nel Capitolo I fu detto). E prendendo le forme di tetraedri,
di prismi, a base triangolare o parallelopipedi (1) non le prendono per quelle
forze esterne a cui lo Spencer e VArdigò ricorrono, e che non possono riunire
altro che detriti, arena, polveri e spazzature : le prendono per la tendenza
delle Unità interne a formare, unite coi simili, dei sistemi di equilibrio
stabile di godimento durevole, fra i contrasti elettrici. Il punto centrale
dove si intersecano i tre assi rimane indifferente fra le polarità. Scaldando
un (1) Ai sistemi cubico, prismatico, romboidale ecc. si aggiungano le
strutture lamellari dei marmi, la granulare del gres, la ramificata delle
miche, del bismuto, del cobalto grigio, la capillare dell'asbesto,
dell'amianto, quella a pagliette o lamine sottilissime degli scbisti. In
qualunque forma gli spigoli opposti si modificano insieme. Il clivaggio o
spaccatura produce polveri della forma medesima a quella di ogni cristallo.
Soltanto il granato e lo smeraldo si rompono in frammenti irregolari. cristallo,
l'asse dominante si dilata per primo e maggiormente ; il polo positivo si
riscalda, il negativo si raffredda. Le proprietà ottiche variano secondo che la
luce segue l'asse principale o gli assi secondari. Nei cristalli della neve
cinque o sei aghi diacciati a forma di stella formano l'ossatura. Tra questi
gli aghetti trasversali formano un ricamo regolare. Si crede che le forme dei
cristalli sieno, se non eguali, almeno analoghe a quelle delle molecole della
medesima sostanza; perciò l'acqua, avendo le molecole semplicissime, di quasi
nove decimi di ossigeno e poco più di un decimo di idrogeno, cristallizza in
forma di aghi. Non cristallizzano i Colloidi, perchè le loro particelle o
molecole sono in moto irregolare e senza centro, e si ritengono essere reti di
cristalli filiformi, entro le quali si organizzano gruppetti di molecole che
tendono ad una elasticità variabile : però si induriscono facilmente in colle,
in pelli, in unghie, in corna. Nella parte non cri- stallina, non filiforme dei
colloidi, ossia nella parte elastica, la tendenza alla vita è di un altro
genere (gomma, amido, colla, destrina, tannino, albumina ecc.) diverso dal
cristallino, ma non an- cora cellulare. Lo stato colloidale si verifica anche
nell'argilla ed in qualche metallo. Le sostanze amorfe sembrano gelatine
compatte, come il vetro, il quale, benché assai duro, è elastico, probabilmente
per la gelatina inserita nella rete dei minimi filetti cristallini di silice,
dai quali derivano le sue proprietà ottiche di trasparenza. — 61 — Nelle vere
gelatine le parti molli si ingrossano nell'acqua, assorbendola per endosmosi.
Nelle roccie cristalline vi sono molti cristalli. I metalli sono miscugli di
cristalli e di sostanze amorfe, che non lasciano passare la luce e la as-
sorbono o la riflettono. Per lo più le terre sono metalli ossidati. L'interna
struttura dei cristalli non è in generale omogenea: essi sono divisi in
magazzini, che contengono acido carbonico, ed alcuni liquidi ed hanno delle
vescicole che si muovono da se. I cristalli si formano subito nell'acqua
ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della loro specie. Il Thoulet
professore di mineralogia a Nancy col signor Germez, preparavano, ad esempio,
soluzioni ipersaturate contenenti del borace ottaedrico a 5 equivalenti di
acqua, e del borace rombico a 10 equivalenti di acqua e poi vi immergevano
corpi di diversa qualità senza che il liquido perdesse la sua purezza. Ma
appena si poneva nella prima un minimo frammento di bo- race ottaedrico e nella
seconda un minimo poliedro di borace rombico, la vita cristallina si
cominciava, la temperatura si elevava, ed in pochi minuti tutto quanto il
borace disciolto veniva cristallizzato. Sicché si può dire che ogni cristallo
imita il tipo della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso gli inferiori ;
tutti cercano di innalzarsi, di ascen- dere a più alta Unità. E se non arrivano
ad imitare le forme superiori, vi si avvicinano. Così il feldspato potassico
triclinico si trasforma in monoclinico, l'assofìlite monoclinica diventa tetra-
gona ecc. ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, p. 94). II principio della inerzia
o della eredità, lotta an- che nei cristalli, come nelle cellule, col principio
— 62 — della variazione, secondo le circostanze valutate dalla Natura che si fa
ossia dall'intima Unità. Soltanto la formazione e lo adattamento e
perfezionamento dei cristalli sono molto più lenti e la loro vita è molto più
semplice di quella delle cellule. Link vide che il principio di ciascun
cristallo che si forma in una soluzione ipersaturata, sta in una vescicola più
ipersaturata nella quale le molecole si concentrano meglio. Attorno alla
vescicola si formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le figure
geometriche, rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy, alla
molecola fìsica di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si elevano,
mediante il polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati, se hanno
la soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche adulti,
essi variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni variazione
del- l'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di fuori per virtù
propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le forze incidenti
dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La durezza, la
conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza ed altre
proprietà di- pendono dalla simmetria con cui sono disposte le molecole del
cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici, da incipienti
efflore- scenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani sono molto
diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei Minerali. — 63 - I
cambiamenti vitali delle rocce provengono dalia- tendenza di quello che è
instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una perfetta gradazione
fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i tipi vulcanici
(riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle lave uscenti dai
vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si raffreddano, nell'
interno restano semiliquide e vi- scose, solidificandosi mano mano che corrono
giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi cui la metà è silice
(combinata sotto forma di sili- cati coll'allumina, col ferro, colla calce,
colla magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse vitree mostrano al
microscopio milioni di cristallini inci- pienti chiamati microliti. Ve ne sono
anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano, prima di essere
eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi, inglesi e francesi
ten- tarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in qua, tali eruzioni
vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al bianco
abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato (punto
a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e riducendo la
temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e ritirando poi
dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di cristallizzarsi (1) in
serie. Ed ottennero in tal (1) A rinforzare quanto nella Introduzione
dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei Cristalli formati
fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare nella nostra
Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chi- modo la leucotefrite
del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre roocie, della cui
ori- gine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili ad ottenersi sono
le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed ortosi. Si è tentato
recentemente di esperimentare i miscugli di detriti organici nella formazione
dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti misti di forme nuove. Un
sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von Schrón di Napoli delle
petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il prof. Dubois di Lione,
depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro, di bario e di radio, e
ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che si dupli- carono.
Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio. lometri al secondo
e talvolta il doppio, chi ascolta le de- tonazioni che ne succedono, crederebbe
che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma rimangono solidi e freddi nel
loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina nel Brasile e pesa 250 quintali
: in termine medio non vanno oltre mezzo quintale. Tre quarti cadono nei mari;
delle altre ben poche in terre coltivate. Le meteoriti ci mettono nella
condizione di un generale che riesce ad impadronirsi di qualche prigioniero, e
lo interroga su tutto quello che si è fatto nel cielo, perchè ogni minerale
testimonia delle circostanze in cui nacque. Ebbene, questi avanzi condensati
delle nebulose, hanno gli elementi delle primitive roccie Terrestri. Vi si
trovano delle specie mineralogiche identiche, che possiedono i medesimi angoli,
le stesse faccie nei loro cristalli, e sono spesso associate nel medesimo modo.
La silice o acido silicico (tanto energico nelle temperature elevate), ci
testimonia l'alto calore in cui furono generate le Meteoriti. Il Peridoto (il
quale si forma allor- ché nelle officine viene ossidato il silicio) lo si trova
an- Nel 1904 BurTce mettendo sopra uno strato gelatinoso del cloruro o bromuro
di radio, guadagnò i primi Radichi, o microbi del radio, in uno, due o tre
giorni. Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro, mai di più, avevano nuclei
oscuri, si segmentavano e si scioglievano nell'acqua. Il radioli distruggeva e
finivano col cristallizzarsi. Ben si vede nella materia inorganica una ten-
denza ad unificarsi sempre maggiore. Essa assuma aspetti diversi (come li
abbiamo ora indicati) nei colloidi, nelle gelatine, nei vetri, nei metalli, nei
cristalli : sempre la intima unità generatrice della forma cristallina, che
dalla vescicola centrale dispone le molecole in contrasti elettrici, o della
forma colloi- dale che fra le reti cristalline dà origine a gruppi elastici, o
della forma pseudocellulare che fa muffe e granulazioni nei miscugli di detriti
organici coi minerali, va assurgendo ad armonie speciali. che nelle meteoriti e
nelle roccie profonde del nostro globo e può dirsi la scoria universale. La
contestura soprafina delle Meteoriti rassomiglia a quella della neve, ed è do-
vuta all' immediato passaggio del vapore di acqua allo stato solido. Come la
neve, e malgrado la loro tendenza ad una cristallizzazione nettamente
geometrica, le combinazioni silicato delle Meteoriti presentano cristallini
confusi e minutissimi. Il silicio che sulla Terra ha bruciato, formando l'acido
silicico, deve essere stato causa di un gran riscaldamento degli astri quando
si combinò con l'ossigeno. Cuocendo il ferro fuso, per trasformarlo in ferro
malleabile od in acciaio, l'ossigeno dell'aria brucia il carbonio ed il silicio
ed una parte del ferro, producendo una scoria nera che contiene un Peridoto a
base di ferro che ha V identica chimica costituzione e la medesima forma
cristallina del Peridoto magnetico delle Meteoriti conser- vate nei principali
Musei. Sono frammenti di vecchi corpi celesti, errabondi fra i sistemi
stellari. — 66 — Sono le forme primitive, spesso non ancora ben -definite della
vita, la quale diventerà poi libera e forte nell'accentramento Cellulare e più
che mai nell'Organico. Ogni forza attrattiva della Natura è ministra di ordine,
che parte dalle Unità senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una
filosofìa nebulosa, non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti
che si vadano distinguendo colla di- visione delle forze come nello Hegelismo e
nell'^lr- digoismo, ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che
si fa coadunando, anno- dando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed
intermittente quello che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione
e della solidarietà, ma diventa, raffron- tato con altri della Chimica, un
cardine di principii naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a
fare indagini nuove. Non si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto
della cristallografìa, perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di
questa non siamo entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto
alcun cenno); abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della
materia che si crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere,
all'esercizio sempre più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa
alle chimiche combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento
notevole e graduale della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi
simili e poscia impara a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero,
il cloro libero, lo idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono
sempre appaiati in molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi
dagli urti di particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia
di qualsiasi elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro
equivalenti meccanici sono enormi. Ad esempio se si combi- nano per formare
36,5 di acido cloridrico, un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono
tanto calore da innalzare di un grado la temperatura di venticinque chilogrammi
di acqua (come osserva Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto
(il quale forma quasi quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed
il più indifferente di tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se
non vi è spinto dalla elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando
i compagni. Non è per cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi
tutti gli elementi con grande facilità od ardore. Unito con poco più di un
decimo di idrogeno fa l'acqua, così benefica in tutta — 68 — la natura. Ma
unito coi metalli fa gli ossidi e le terre. Unito con corpi combustibili
brucia, fa la fiamma del legno, delle candele, dell'olio, ecc. e forma e
conserva e rinnova i corpi organici. Unito coll'azoto fa gli esplosivi, i cui
atomi si spaccano, slanciano i projetti con velocità di chilometri per minuto
secondo (2 la polvere di fucile, 7 ad 8 la nitro manite). Non è per cause
meccaniche che il Carbonio e sempre un elemento di accentrazione, il quale con
l'ossigeno, l'idrogeno e l'azoto serve a comporre i corpi organici, che
vogliono continuamente scambiare i loro elementi. Non è per cause meccaniche
che tutti gli ele- menti i quali si trovano in equilibrio instabile si
combinano con ardore. La polvere da fuoco alla prima scintilla svolge un grande
volume di gas acido carbonico, grazie all'azoto indifferente ed inerte, per cui
l'ossigeno ed il carbonio si trovano in equilibrio instabile. E più ancora
nella nitro- glicerina e nella dinamite. Non e per cause meccaniche che le
combinazioni chimiche cambiano profondamente il modo di sentire e di operare
dei loro elementi. Chi ravviserebbe nel sale di cucina, bianco, cristallino i
suoi due componenti, vale a dire il cloro (gas giallo attivissimo) ed il sodio
(metallo argenteo leggerissimo). Chi riconoscerebbe nell'acqua, composta per
quasi nove decimi di ossigeno comburente, con oltre un decimo di idrogeno,
combustibile, i suoi elementi ? Chi troverebbe nel quarzo che cri- stallizza in
aghi esagoni trasparenti, il silicio nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno
formato? ~L'Ardigoismo venga un po' qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi
delle famose linee del tempo e dello spazio, e con la sua legge di formazione,
dividendo la linea e suddividendo all' infinito. Non è,'col dividere, ma
coll'unire che si trova piacere e si fa l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un
po' col processo antitetico dei suoi concetti universali e concreti queste
combinazioni chimiche ed i loro effetti, dovuti evidentemente a modi diversi di
sentire e di volere. Non è per cause meccaniche che le sostanze iso- mere, vale
a dire composte della stessa qualità e del medesimo numero di Atomi, hanno
spesso un modo diverso di sentire e di operare. Ad esempio il fosforo bianco è
velenoso; ma, scaldato nel vuoto, fa il fosforo rosso, che è innocuo. Il
cianato di ammoniaca è velenoso, mentre non lo è l'urea. Sono Isomeri molte
glucosi e saccarosi, l'amido, il legno e la destrina. Se le cause meccaniche
facessero le combinazioni chimiche, la atomicità o valenza degli ele- menti
(che si può chiamare la loro dose di energia) avrebbe una legge invariabile.
Questa fu supposta quando nel 1855 il compianto senatore Cannizzaro (allora
professore a Pisa) provò che non esiste contraddizione fra la legge di Avogadro
che determina il peso delle molecole e quella di Dulong e Petit che determina
il peso degli Atomi. Ma la ipotesi svanì ben presto (1). (1) L'idrogeno ed il
cloro valgono 1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno
una valenza superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e
con 4 di cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d'
idrogeno. Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo
di carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che
è trivalente, può surro- Anche i pronubi delle nozze (che sono in generale il
calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle
che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della
somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno
convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette
Endotermiche, hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong
considera la chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione
è eguale alla reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la
tendenza a formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di
idrogeno e 1 di ossi- geno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è
saturato, e può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre
univalenti sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La
valenza è di 1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una
combinazione non saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi
delle leggi di Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è
sempre bivalente e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con
elementi più pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2
atomi di azoto ne sposano 1 di car- bonio ed invertendo l'urea in cianato di
ammoniaca la diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro
vale 2 nel bicloruro e vale 4 nel bisolfuro; si as- sodò che il solfo, il
selenio ed il tellurio valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle
anidridi, e si constatò che l'azoto ed il fosforo che in generale sono tri-
valenti, in alcuni casi si fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4,
quando fa l'ossido di carbonio, di- venta soltanto bivalente. i fermenti o
catalizzatori le accelerano. La meccanica chimica è fondata sulle leggi di
Newton che non sono meccaniche. I composti binari della chimica organica
(idrogeni carburati), i composti ternari (alcool, olii, grassi, acidi) ed anche
i quaternari (amidi, ligneo, aldeidi, destrine, gomme, gelatine, albumine) esi-
gono lungo tempo per formarsi, moltissime essendo le loro molecole. Quando un
tipo è formato, questo si ripete e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il
tipo dell' idrato di potassa, o quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un
tipo di formazione superiore, è imitato e moltiplicato. E questo prova il
principio pitagorico dell'ascesa a più alta Unità per godere, insito in tutti
gli Atomi. Se non si frappongono ostacoli, la moltiplicazione dell'azione
chimica è continua. Così nelle fabbriche di acido solforico, pochissimo
biossido di azoto basta a provocare l'unione dell' ossigeno dell' aria con
grandi quantità di acido solforoso. Come è naturale le combinazioni chimiche
du- rano e resistono quanto più sono semplici. Fra i minerali, i protossidi, le
terre e gli alcali. Resistono meno i deutossidi, i tritossidi ed i perossidi
nei quali 2, 3, 4 Atomi di ossigeno stanno congiunti ad un Atomo di metallo o
di altro elemento. I sali poi, che sono composti di 5 o più Atomi, non
resistono al forte calore : meno che mai i sali doppi. Appena 30 o 40 gradi
centigradi bastano per danneggiare i composti organici, come è noto a chiunque
: e per poco che si vada oltre i quaranta si distruggono. — 72 — La vita non
sta mai nelle sostanze chimiche, ma nella morfologia, ossia nella capacità
unitaria di fare funzioni ed organi, scambiando e dominando le sostanze
chimiche. Perciò i chimici non arriveranno mai a fare nei loro laboratori nna
cellula. Nondimeno l'analisi e la sintesi degli elementi organici si è ottenuta
da mezzo secolo in qua sempre meglio, nelle sostanze meno essenziali alla vita.
Berthelot sperava di arrivare a formare gli zuccheri. E. Fischer ottenne le
sostanze zuccherine naturali semplici. Nessuno arrivò ancora a fare le
albumine. Hegel definiva la vita e V idea arrivata alla esi- stenza immediata »
; sicché le forze fìsiche avrebbero, secondo Hegel, soltanto una esistenza
mediata, ossia non esistono in se: non sentono, non sof- frono, non godono. Ma
allora sarebbero esseri puramente passivi e quindi non esseri. L'Unità
assimilafrice cellulare L'acqua alla sua superficie, di 1 /25000 di milli-
metro, tende a colloidare. E sotto una atmosfera gravida di carbonio, e dopo
che un vulcano abbia versato solfo e fosforo, nel periodo geologico
Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di car- bonio si sieno combinati
con l'ossigeno, con l'idro- geno dell'acqua e con un po' di azoto dell'aria,
per formare i primi biomori o granuli invisibili, - 73 — i quali poi diedero
origine al bioplasma reticolato, visibile eoi microscopio. Dal bioplasma si
formarono i plastiduli ed i citodi che si sono concentrati in cellule.
Concentrazione mille volte disfatta e mille volte rifatta forse, secondo le
intemperie. Grazie alla intima tendenza delle molecole di formare più alta
unità, e di accrescere e rendere durevole il godimento, acquistando capacità di
fare moti volontari, tale concentrazione ha finito per durare. Da queste prime
Cellule è uscita tutta quanta la Natura organica sopra la Terra. La forma
sferica persistette poi in tutta la flora e la fauna allora quando, abbondando
gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente e si concatenarono, formando
colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli organismi superiori, l'elemento
necessario ed universale, perchè tutte le reazioni chimiche vitali avven- gono
in essa, essendo essa composta, per quasi nove decimi, di ossigeno. L'acqua
discioglie e mette in circolazione ed in conflitto le sostanze di ogni
organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in basi libere, come lo farebbe un
forte riscaldamento, perchè libera il suo calorico la- tente (Gautier). E
quando l'uomo stesso sente diffondersi sostanze inette alla vita, bevendo ac-
qua si prepara ad eliminarle. — I sali, e specialmente il marino, o cloruro di
sodio, rialzano lo scambio vitale, penetrando da per tutto, per la piccolezza
delle loro molecole e determinando la solubilità o insolubilità di molte so-
stanze proteiche. L'agente della vita non è una pretesa forza vitale staccata
dagli Atomi; ma è Velevazione delle — 74 — Unità atomiche ad Unità più alta e a
godimenti maggiori (1). Se si guardano le cellule dal punto di vista della
Unità formatrice si intendono e si penetra nella causa che è la Natura che si
fa; mentre, se si guardano dal punto di vista del molteplice materiale, non si
hanno che dei frammenti slegati ed inerti. Delle prime cellule viventi ci può
dare un'idea oggidì il protoplasma o parte sempre giovine delle piante. La
cellula si forma unificando e restando una nella varietà. Infatti le molecole
binarie, ter- narie o quaternarie della sostanza proteina del protoplasma (per
la instabilità dell'azoto), sentono le variazioni di temperatura, e le
vibrazioni elettriche e luminose, come la coesione e l'attrazione molecolare.
Il protoplasma delle piante è colloide, viscoso, non traversa mai le membrane
per diffusione, ed è formato da due o più sostanze albuminoidi (2), con acqua e
sali. Non si scioglie nell'acqua, ma ne assorbe moltissima, e senza essa non
vive. Si muove sempre ed ha granuli (3) che vanno alle pareti della cellula a
prendere aria ossigenata (1) A questo innalzamento giovano molto gli accelera-
menti dei processi chimici che sono cagionati per Catalisi, ossia per la
presenza di una minima quantità del prodotto della combinazione bramata, che
ecciti al piacere della sensazione superiore. (2) Una molecola di albumina ha
72 Atomi di carbonio al centro, che trattengono in un solo sistema sociale pa-
recchie centinaia di Atomi di idrogeno, di ossigeno e di azoto. (3) Questi
granuli sono per lo più di materie proteiche, però ve ne sono di grasse e di
minerali — 75 — e luce ed a nutrirsi di polveri e fanno appendici come amebi,
variando la vita a seconda delle cir- costanze, finché queste non sono troppo
avverse. Nei nostri laboratorii si studiano le combinazioni in proporzioni
costanti delle sostanze non più viventi, perchè le viventi variano troppo le
loro combinazioni per essere osservate con sicu- rezza. Con l'acido acetico si
scioglie il protoplasma delle cellule, ma non il loro nucleo. Il protopla- sma
staccato dalla sua colonia è sempre morto, ed assorbe indifferentemente tutte
le sostanze, anche il cloruro di sodio ed il nitrato di potassa. Ma quando è
vivente, respinge queste e tutte le sostanze nocive, e non assorbe se non
quelle che può assimilare, provando così che la Unità interna fa la vita, e che
la struttura materiale, ossia la Natura fatta ne dipende. Infatti il protoplasma
perde ogni irritabilità e vitalità se viene sottoposto all'azione dell'etere e
del cloroformio, come se fosse un animale. Del protoplasma quattro quinti sono
acqua, un quinto è formato dalla materia granulosa vitale della quale ora
parleremo. Questa massa granulosa è sempre molle ed estensibile, ma non è densa
se non attorno al nucleo. Ogni varietà di granuli si assimila le materie
opportune. Senza sensazioni gradevoli o spiacenti, senza figurazioni non si
sarebbero mai fatte le cellule del protoplasma. La funzione precede la
struttura; ma il protoplasma rimane sempre allo stato ameboide. Una macchina a
vapore è fatta dal di fuori, unendo pezzo a pezzo, come l'uccello fa il suo
nido e il castoro la sua capanna; se viene guastata, non — 76 — si accomoda da
se, non si provvede da se di ac- qua e di carbone, ed è indifferente se invece
di carbone si ponga materia non combustibile sotto la caldaia, e se dentro
questa si metta dell'arena invece di acqua, e se invece di vapori arrivi
ghiaccio nel suo distributore. Ma il protoplasma si fa da sé stesso, come una
società cooperativa, dal di dentro, per slancio delle energie chimiche, intente
ad accrescere le loro sensazioni rudimentali di os- sidazione. Perciò è pronto
a riparare una ferita, un danno. Non vi è una forza vitale particolare: ina
tutte le forze fisiche e chimiche cooperano nell'ascesa alla Unità Cellulare.
1j assimilazione è una prima funzione delle Unità confrontanti, e sta nel fare
(come lo dice il nome), simili alla propria cellula le sostanze diverse che
incontra. L'azoto non serve se non come elemento indifferente, dando agli
elementi attivi (carbonio, ossigeno, idrogeno e sali) la facilità di scomporsi
e di ricomporsi, onde cambiare le molecole inerti e semplici in molecole
operose e composte, ascen- dendo (se l'ambiente è favorevole) a maggior pia-
cere di vivere. La cellula scompone le materie incontrate, trat- tenendo quelle
che può appropriarsi, dando loro il SUO tipo, e respingendo od escretando le
altre, conservandosi nella sua forma e nella sua chimica composizione, nella
sua armonia, come un Tutto bene sistemato. Il protoplasma è una continua
affermazione dell'Unità reale, ossia dell'Essere Uno, per se. Quando una
cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità formatrice si raddoppia, divide le
sue molecole in due segmenti, che diventano ciascuno eguale alla cellula madre,
e così di seguito. Ogni cellula ha il suo nucleo, distinto dai granuli
microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel quale ci è sempre un po' di fo-
sforo) è una minima cellula interna centrale, con sugo alcalino e molti
granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella segmentazione (chiamata
Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale, che fa un citoplasma
(rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal centro-soma
cominciano, nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o centri di
fibre diramate verso la periferia e contenenti, nella loro rete, materie
contrattili e sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un solco, la
cellula madre si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli, ma la
Unità del Tutto che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e milioni
di volte. Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione delle
piante e degli animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si conserva
in tutte le cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La spiegazione
meccanica qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche tutti sanno
che dall' 1 al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +- V2 + 7^ -b 78 4- 716
ecc. ecc. Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la costante degli
Integrali. L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale ereditata, il tipo
assimilato?^ che sa conservare la sua identità in tutte le cellule che ne
derivano, distinguendosi sempre dall'ambiente. Chi volesse vedere la vita
incipiente non ha che a passeggiare lungo gli stagni. — 78 — Se si raccoglie in
uno stagno una goccia di acqua, e se la si osserva col microscopio, si ve-
dranno cellule non protoplasmiche, ma separate le une dalle altre; cioè Amebi
privi di colore, che si muovono con lentezza e si nutrono di pol- vere
vegetale, facendo una lunga digestione e rigettando il soverchio. I più
sviluppati sono la Terricola, la Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e le
Molière non abbiano struttura, hanno sensazioni e volontà e rispondono agli
eccitamenti. Guardando col microscopio la materia granulosa delle muffe, degli
Amebi, non presenta cel- lule : è un plasma semifluido con granuli che as-
similano e si nutrono. In questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro
che non è il tessuto che fa la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto,
la vita, che è tendenza all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di
dentro al di fuori fa poco a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le
cellule dei Protozoari, prima che divengano animali o piante, e vide che
sentono gli eccitamenti, si nutrono, as- similano, escretano, si adattano
all'ambiente, ed accumulano energia chimica. Cercano di acquistare materiali
per rendersi indipendenti (ecco il principio della vita, l'opposto dello
Ardigojano che fa sorgere gli individui per le forze incidenti dello ambiente)
per rendersi indipendenti nel nutrirsi, nel respirare e nel lottare. Esse
manifestano la facoltà di discernere quello che è utile da quello che è dannoso
nel sistema di armonia che si ven- gono formando, in cui trovano piacere (1).
(1) Nessuna bestia mangia erbe velenose. — 79 — Nella putrefazione della carne,
nascono in un paio di giorni innumerevoli bacteri, i quali nel giorno seguente
fanno cigli e flagelli, ed arrivano alla lungezza di i j iQQ o 2/ l00 di
pollice; poi si gonfiano e seminano un liquido da cui nascono punti vivi, che
diventano granuli e germinano i figli per segmentazione. In alcuni infusori il
protoplasma si differenzia in parte contrattile e sensibile e parte digerente,
che trasforma in clorofilla. In essi si vede la ge- nesi dei due regni animale
e vegetale. Quando la parte nutritiva di una massa di cellule prevale sulla contrattile,
sensibile, la vita ameboide si ri- trae in pochi punti e si rivivifica
solamente nella stagione degli amori. Gli esseri inferiori assumono, a seconda
dell'ambiente, il carattere vegetale o iL carattere animale. Ad es. le Euglene,
benché provvedute di bocca e di apparato digerente, si nutrono come vegetali,
prevalendo in esse la clorofilla. — I Protozoari o Protofiti non sono
organismi, perchè cambiano di struttura: ma sentono il calore, la luce, l'
umidità, il contatto, e si nutrono, si moltiplicano. Alcuni tastano, gustano,
nuotano, vi- vono in società e spiegano i loro pseudopodi, ten- dono ad
impadronirsi dei frammenti vegetali che trovano vicini. Sono i viventi più
piccoli e più allegri e non hanno struttura visibile. I preludi delle azioni vitali
sono per lo piùfatti dai fermenti. I fermenti, figurati o no, aiutano
l'assimilazione nelle piante e negli animali, come Catalizzatori, accelerando o
ritardando le reazioni, senza prendervi alle volte parte attiva,, come fa la
polvere di platino nella fabbricazione dell'acido solforico. — 80 — I fermenti
aerobi respirano l'ossigeno dell'aria. I fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno
senza contatto con l'aria, cercandolo nei liquidi dove si trovano. Ogni
fermento è una vitalizzazione od unificazione (animale o vegetale) di succhi, e
l'agente che li fa può essere solubile, ossia senza forma organica, ma la sua
solubilità è però soltanto apparente. Ve ne sono in ogni protoplasma vivente;
ce ne sono dei digestivi, degli idratanti, che sa- ponificano i grassi (come la
steapsina) degli ossi- danti (come la laccasi) dei coagulanti (come la
caseasi), degl' invertivi (sucrosi) che, se affondati nel glucosio, scompongono
lo zucchero per cavarne l'ossigeno, sia nel mosto, sia nei frutti carnosi; se
ne trovano anche nei germogli del grano e della barbabietola. Il fermento
lattico inacidisce lo zucchero del latte; il mycoderma aceti ossida il vino e
l'alcool, il mycoderma vini cambia l'al- -cool in acqua e acido carbonico,
alcune muffe di- struggono aerobicamente lo zucchero e la celluiosi. Il lievito
di birra, secondo le circostanze, è aerobio o anaerobio. Invece il butirico e
la maggior parte dei bacteri sono anaerobi ; tolgono l'os- sigeno agli zuccheri
ed agli amidi e fanno all'oscuro la loro sostanza albuminoide. Quasi tutte le
terre contengono fermenti, i quali trasformano l'azoto dei concimi animali in
azoto nitrico. Le terre di leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra
le radici e nel 1886 furono descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese
Bootmley ha scoperto il modo di modificarli e di renderli adattabili anche ad
altre piante coltivate, sicché ogni coltura diventerebbe capace di ingras- sare
la terra da se, senza sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i
trifogli e le erbe me- — 81 — diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro
quinti dell'aria e sotto l'azione della elettricità investela terra arativa e
fino ad oggi andava perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere
facile la coltura intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici
non somigliano affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a
quelli di cui fu detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di
sentire, di operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano
la filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la
Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio
del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il
loro senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una
Unità centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a
dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di
Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione
dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,,
(che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma
che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le
medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere
vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata
in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi
superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole
forze chimiche, e tanto meno con le sole forze — 82 — incidenti dell'ambiente,
al modo Ardigojano ; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla
forza unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ot- tenuto
nella cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare
stabilmente il sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle
società umane : p. es. la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910
da forze incidenti, venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla
tendenza -a godere la libertà ed a governare dei cittadini più istruiti,
irradiando dall'Accademia a tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò
la .Monarchia clericale dei Braganza. Come le Unità Cellulari si accentrano
nelle Piante per godere l'amore Nelle grandi associazioni di cellule, le varie
parti hanno sensazioni assai diverse, perchè la Unità generale del
Collettivismo dà a ciascuna parte funzioni specifiche, e quindi si vanno for-
mando differenti strutture. Però la chimica composizione è presso a poco la
medesima. Questa è una prova palmare che le diverse tendenze e funzioni non
dipendono da cause materiali. Ogni cellula dell'organismo (oltre la funzione
nutritiva e la facoltà di segmentarsi in due) ha — 83 — una funzione sociale,
che le viene imposta dalla collettività nell'atto della segmentazione. In
generale le piante sono fatte da idrati di carbonio (amido, zucchero, grassi,
albumine e clorofille). L' amido diventa celluiosi e legno, e nutre le piante
dietro la luce che passa per le parti verdi o clorofille. Anassagora ed
Empedocle insegnarono per i primi che le piante crescono per appetizione
(éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo pia- cere o dolore. In generale
le piante sono colonie o collettivi- smi di amebi protoplasmici che, facendo
prevalere la parte nutritiva sulla semovente, si sono fatte delle costruzioni
sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per godere gli alimenti, l'aria,
l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere disturbati. In- vece di essere
fatte dall'ambiente (come pretende lo Ardigoismo), cercarono fino dall'inizio
di premunirsi e difendersi contro il medesimo. La natura che si fa cerca sempre
di rendersi indipendente dall'ambiente. Noi vediamo le sole costruzioni e non i
microscopici costruttori. Questi differenziano una parte del protoplasma in
piccoli dischi di clorofilla con pigmento colo- rato in verde, per impedire la
soverchia ossidazione dei carbonati e per moderare la propria respirazione
dell'ossigeno. Della clorofilla due terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno,
1' 11 °/ idrogeno, il B °/ azoto. Essa respira in modo contrario della parte
animale delle piante, cioè assorbe il gas acido carbonico, ed emette l'ossigeno,
e serve a proteggere gli amebi. Senza la clorofilla il protoplasma animale non resisterebbe
al sole e si dissolverebbe sotto la pioggia. Le cellule o dischi verdi
sovrapposte sopra le coste dei mari, fecero le Alghe ora in linee semplici, ora
a lamine, ed ora a rami. Si ingrandirono, riunendo le tre dimensioni, e si
ingrossa- rono, mentre il protoplasma animale ascendeva e le soluzioni saline
col gas acido carbonico penetravano per endosmosi attraverso le membrane di
celluiosi. Il protoplasma animale andava intanto concentrando il senso della
coesione e delle chimiche combinazioni in modo sempre più perfetto, ed ar-
rivava così a fare dei punti sintetici di amore ossia delle spore incipienti.
Il diletto dell'unione si affinò e le colonie vegetali crebbero d' importanza.
Come diremo nel Capitolo XIII, non si può chiamare memoria la riproduzione del
collettivismo vegetale, perchè è piuttosto una legge sociale diventata
meccanismo, come nella cellula la segmentazione in due cellule riproduce
raddoppiata la cellula prima, per un modo di associarsi divenuto abituale a
tutte. Le prime specie vegetali andarono così formandosi dal di dentro al di
fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino a cento metri. E nelle prime Epoche
Geologiche non vi furono altri vegetali che questi. Tutti sanno che le Epoche
Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui noi viviamo, furono quattro, e
che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse non tutti sanno che, ritenendo
che, per i detriti delle roccie e le terre portate dai fiumi, il fondo del mare
si alzi di un millimetro al se- colo (in termine medio) e misurando lo spessore
— 85 — dei sedimenti sottomarini che, per le sollevazioni delle Catene montuose
(1) vennero in parte portati alla luce dalla prima Epoca in poi, si calcola che
sono passati 40 milioni di anni divisi così: PERIODI Nell'Epoca Primitiva o
Arcaica Laurenziano — 10 Milioni di anni Cambrico — 6 » > Siluriano — 7 » »
Neil' Epoca Primaria o Paleozoica Devoniano Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca
Secondaria o Mesozoica Trias Giurese Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o
Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene (1) Una volta il sollevamento delle Catene
montuose veniva attribuito a spinte verticali date dal magma centrale dal sotto
in su. Elia de Beaumont, Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui
Federico Sacco, professore di Paleontologia nella Università di Torino,
dimostrarono che deve attribuirsi invece al raffreddamento del globo, che
obbligò la prima crosta a corrugarsi, facendo delle catene montuose per la
j^ressione laterale. Ripetendosi la causa, si formarono molte catene parallele
una sotto l'altra come nelle Alpi, nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande
e nelle Montagne Rocciose : oppure 6 — 86 — In tutto 40 o 41 milioni di anni
dopo le roccie primitive della scorza terrestre, e prima del periodo in cui
viviamo (1). Quando le acque si ritiravano per l' innalzamento graduale di
qualche costa, poco a poco le Alghe mandarono al fondo alcune appendici, che si
tra- sformarono in radici. In pari tempo si andarono complicando e
perfezionando gli organi della nutrizione, della re- spirazione e di difesa.
Questi progressi furono lenti e graduali e sempre la Natura che si fa restò la
parte minima, mentre la Natura fatta o meccanismo fu la parte una a distanza
dall'altra in linee arcuate o diritte. E lungo queste Catene si sprofondarono i
mari, il cui fondo, alle volte, veniva poi sollevato in parte. I vulcani
trovansi sopra le linee soggette a movimenti più pronunciati. I terremoti
avvengono dove il corrugarsi continua. L'eminente geologo prof. F. Sacco ha in
molte memorie chiarito queste ed altre leggi di orogenia, e specialmente nell'
« Essai sur l'Orogénie de la Terre», 1895, Turin. Clausen. Egli segue la nostra
filosofìa pitagorica e desi- dera che essa venga accolta dalla maggioranza
degli scienziati - anzi crede che questo dovrà verificarsi in un tempo più o
meno prossimo. (1) Si crede che soltanto al principio dell'Epoca Terziaria
cominciassero i ghiacci ai poli e sopra le più alte catene di montagne, ossia
un milione di anni fa, dice il Falsan « La période glaciaire », pag. 221.
Sicché per 30 milioni di anni la nostra Terra potè svi- luppare una vegetazione
di paesi caldi. Ma i ghiacci si estesero in Europa soltanto quando il Sahara
diventò un mare e quando cambiò il corso del Gulf Stream dell'Atlantico. E il
clima mite nostro ritornò al disseccarsi del mare sahariano e al modificarsi
della cor- rente calda dell'Atlantico dalle Canarie alla Norvegia ed
all'America. — 87 — massima della vegetazione. Però la minima parte della
Natura che si fa bastava a fare l'Evoluzione ed a dare origine a migliaia di
specie diverse, sempre più rigogliose. Ancora oggi nelle Alghe Desmidie, nelle
Diatomee, nelle Spirogire, tutte Alghe unicellulari e microscopiche, la copula
è di semplice condensazione, e il protoplasma viene scambiato sotto la vecchia
scorza e le fa ringiovanire. Per dare un' idea del numero immenso di queste
semplici Alghe basterà dire che la scorza silicea delle Diatomee (numerosissime
in tutte le acque dolci e salate del mondo), forma quella terra fina detta
tripoli che serve a pulire i metalli. Benché una goccia di acqua contenga delle
migliaia di* queste minime Alghe, pure il loro numero è così grande, che ne
sono formati degli strati estesis- simi prima della Epoca Terziaria. Nelle
Alghe composte di molte cellule si formarono le prime spore come centri
dell'Amore. La filosofìa ha trascurato finora lo studio delle prime
manifestazioni dell'amore, che tanti insegnamenti racchiudono. Le zoospore,
animaletti microscopici, riuniscono in se la energia morfologica delle piante
primitive, che non è Memoria come pretendeva Federico Deipino « La psicologia
dell'avvenire » , ma è una legge sociale la cui sintesi s'impone nel
protoplasma animale delle piante. Nelle più semplici Alghe Porfirie, le spore
cadute si muovono strisciando come gli Amebi. In altre Alghe esse si riuniscono
in gruppi di cellule ovoidi, con delle appendici vibranti, le quali, col
fissarsi in terra e col segmentarsi, produssero i primi talli germinanti. Molte
Alghe per le inondazioni morirono nella melma; ma dai loro frammenti privi di
clorofilla, uscirono i Funghi composti di filamenti ramificati. Da quelle poi
che erano più putrefatte si crede che siensi formati i Bacteri, i quali
rimasero sempre minutissimi, ma si moltiplicarono assai, re- stando innocui
finche vivevano all'aria (1). Nelle Alghe superiori cominciò la divisione delle
spore in femmine ed in maschi. I due sessi si as- sociarono per fare gli
Sporangi od Oogoni capaci di germinare. Nei posti dove le Alghe erano prossime
ai Funghi si unirono con questi per formare i Licheni. Ma i Funghi ed i Licheni
(essendosi dati a vita parassita) rimasero piccoli e deboli. Le Alghe Characee
popolarono le acque dolci e gli stagni. (1) È noto che quando i Bacteri penetrano
nel sangue di un animale ferito, avendo bisogno di ossigeno, ne alterano il
sangue, producendo una malattia contagiosa. Sopra di essi venne studiato il
processo di evoluzione con facilità, perchè ve ne sono di quelli che in due ore
si raddoppiano, sicché in pochi anni si possono ottenere molte migliaia di
generazioni. E così si vide che era possibile col variare la loro ali-
mentazione e l'ambiente e di rendere innocue le specie più virulenti. Pasteur
li coltivava nel brodo, che presto si altera e non si coagula che a 0° gradi.
Roberto Koch di Berlino li coltivò nella gelatina, che si solidifica a 16 gradi
centigradi e quindi nel clima di Berlino permette quasi tutto l'anno (meno il
breve estate) di fissare i bacteri sopra una lastra di vetro in un sottile
strato di gelatina e di osservarli col microscopio fornito del così detto «
Mare di luce Abbe ». Il Koch arrivò così a scoprire i bacilli della tisi, del
colera, della febbre gialla, della peste ; riformò la teoria Le Fucacee furono
le più diffuse nei mari e formarono delle masse estese dette Sargassi. Al- cune
Alghe come la Macrocystis arrivarono alla lunghezza di centinaia di metri. Le
Alghe dei terreni che andavano asciugandosi, rese robuste, aspirando bene
l'ossigeno, si trasfor- marono poco a poco in Muscinee o Muschi non più alte di
mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le piante femmine producono degli archegoni o
sacchetti in cui si sviluppa l'oosfera che, fecondata, fa l'uovo che germinerà,
mentre le piante maschie fanno le anleridie o sacchetti dai quali scappano gli
anterozoidi, che vanno a fecondare le oosfere delle sorelle. Dalle Muscinee
vennero le Epatiche piene di spore, anch'esse per lo più divise in piante
maschie con anteridie e piante femmine con gli archegoni, piene di acido malico,
che attrae i maschi. delle infezioni ed ebbe numerosi discepoli, fra cui il
nostro Gosio professore a Roma. Anche la muffa delle cantine (Pennicillum
glaucum) le cui spore sono tanto minute che girano nell'aria, messa nel sangue
di un animale senz'altro muore; ma, se viene coltivata ed abituata poco alla
volta a stare nel sangue caldo, può far morire un coniglio in due giorni. I
Bacteri sono a milioni nei paesi tropicali e in certi paesi sono cospersi o
influiti da corpi radioattivi tanto da^ far luccicare le acque del mare. Se ne
raccolgono molti di questi innocenti bacteri per farne in Germania delle lam-
pade a luse verdastra-azzurra, le cui onde sono molto brevi, e si conservano
senza rinnovare l'aria per parecchi mesi, permettendo di leggere i giornali di
notte e di fare qua- lunque lavoro. Invece nei paesi assai freddi i Bacteri
mancano, o sono pochi. Per questa ragione la carne degli animali uccisi si
conserva benissimo nelle terre polari, giacche la causa della putrefazione
delle carni non è il calore, ma sta nei Bacteri. Le proporzioni crebbero nelle
Felci e nelle Preste. I vasi interni lunghi si moltiplicarono, per mandare in
alto i succhi nutrienti e per formare edifìci e magazzini dove albergare e
gustare la vita e l'amore, formando dei 'protalli. Alle Felci aventi spore,
seguirono i protalli a Félce, con generazione alternante : l'una intenta ad
accrescere la nutrizione, riproducendosi senza nozze; l'altra a gustare l'amore
ed a migliorare la morfologia, mediante la riproduzione sessuale. Nella Età
paleozoica le Crittogame avevano raggiunto proporzioni colossali anche ai poli
: ma oggi si sono ristrette alle regioni tropicali. Nelle Preste dove i maschi
erano separati dalle femmine, intorno al tallo permanente, ne sorsero altri più
piccoli, a formare lo sporogono nelle Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio,
diventò il più gradito convegno di spore dei due sessi, e servì alla evo-
luzione morfologica delle specie superiori, fino alle Fanerogame del nostro
tempo. Dal periodo Devoniano al Permiano la vegetazione fu superba in
Crittogame ed in Gimnosperme, soprattutto in Pini, mentre nessuna Angiosperma
era ancor nata. Le Crittogame e Gimnosperme si svilupparono per milioni di anni
e lasciarono, laddove si sono fossilizzate, il Carbon fossile, che contiene
quattro quinti di Carbonio puro. Si restrinsero dopo il periodo Permiano e
allora prevalsero le Conifere e le Cicadee. Nel Trias co- minciarono le
Angiosperme. Dopo il periodo giurese prevalsero le Fanerogame, che prima erano
piccole, e crebbero in al- tezza. — 91 — Fin dalle prime Ofioglossee il tallo
dell'amore si era impiccolito e fatto incoloro e sotterraneo, e si
moltiplicarono gli sporogoni o sporangi : il tallo poi fu ridotto quasi a nulla
nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono dominando si divise in spore maschie e
spore femmine nei Licopodi. Finalmente nelle Fanerogame (Gimno ed Angiospermé)
lo spo- rogono nascose il tallo facendo spore maschili o polline e spore
femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si organizzò più in corpuscoli, ma
attraversò per endosmosi le pareti del tubo pollinico e andò ad impregnare i
corpuscoli dell'ar- chegono. Le foglie dello sporogono furono trasfor- mate per
la festa dell'amore in variopinti e vellutati petali, stami e pistilli,
emulando le spighe a sporangio floreale delle Crittogame. Nelle Gimnosperme
(conifere e cicadee) la macrospora, ossia il sacchetto embrionale contenuto
nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un piccolo protallo che rimase nel-
l'ovulo e ad un endosperma con archegoni, che il polline andò a fecondare; dopo
di che YOosporo potè fare il granulo del seme. Il polline è un surrogato
dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto di ainebo, ma ne ha la
virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria nutritiva; è un
perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la robustezza. In questa
lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente che la psicogenia è
fatta dalla sen- sazione piacevole e che la somagenia non è altro che un
risultato della psicogenia ripetuta con per- severanza. La Natura che si faceva
nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra. Nelle antere,
nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale : sono relativamente caldi e
respirano - 92 — più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo ha molte
cellule irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco embrionale,
composto di due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite dalle vicine :
una di esse farà il germe con due cotile- doni che diverranno la radichetta e
la piumetta. Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in tutte le parti
giovani. I Protonti tendevano a fare un protallo sessuale permanente: ma non vi
riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle Gimnosperme il protallo
sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla maggior parte delle specie
vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni perpetui, nei quali per
spore e per germorgli si gode una riproduzione più diffusa, benché i germogli
non si stac- chino dalla pianta madre, come facevano le spore delle Felci. —
Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di altre specie meno comuni
nel clima temperato, si moltiplicano per germogli, quanto per semi - perchè
spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In generale nelle piante
attuali prevale la generazione agamica o la sessuale ; ed è rara la generazione
alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle Fanerogame le parti
giovani hanno sempre spore e possono germogliare ; tutti sanno che nelle
Begonie persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di produrre una
pianta perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle fo- glie parte
dal centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti che ne
derivano, poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle Meduse
ed ai Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si
riproducono senza nozze. — 93 — Nelle miriadi di specie erbose ci sono
individui agami alla radice, e nel fusto : mentre in cima al fusto sorgono
individui fiori. Il fusto risulta dai fusticini posti a capo uno dell'altro,
tutti con ra- dichette, con fibre, con vasi, con trachee. Mirabile
composizione, formata lentamente nell'ascesa a più alta unità del collettivismo
di ogni specie. Nelle Piante (come negli Animali) il fattore delle maggiori
trasformazioni fu l'Amore. L'ambiente, il clima, l'uso e il non uso degli
organi influirono meno della sintesi goduta nei piaceri intimi della Natura che
si fa liberamente. Dorhn variando Fambiente, vide che gli organi restavano a
lungo i medesimi, ma le funzioni variavano subito ; poco a poco la funzione che
era secondaria, diventava primaria, modificando in alcune generazioni tutta la
struttura. Ed oggi il De Vries attribuisce la evoluzione delle piante a rapide
mutazioni. La maggior cernita sta nelle mutazioni del si- stema riproduttivo,
più che nell'adattamento al- l'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri
(come degli allevatori del bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi
vecchi e di somministrare all' individuo che si vuol variare una forte
nutrizione. L'Embriogenìà, origine dell'individuo organico, è un raccorcio
della Filogenìa, origine della specie, anche fra le piante. Nelle Fanerogame si
tro- vano reminiscenze delle Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame.
Dove la pianta ha vita più attiva è aerobia ed animale, come nel seme che
germina, nella gemma che si sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che
matura: e consumano molto ossigeno riscal- dandosi. I fiori assorbono in 24 ore
tanto ossigeno quanto l'uomo (a parità di volume). — 94 — Le parti più vive
sono sempre più azotater giacche l'azoto, essendo indifferente ed instabile,
favorisce la decomposizione e la ricomposizione delle molecole a seconda dei
bisogni. Queste parti sono le più calde e le più zoidi; però la parte animale
delle piante resta sempre minima, benché diffusa. Le piante più attive, come la
sensitiva, si affaticano e poi dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe
gli insetti in trappola. La Drosera segrega in pari tempo un vischio che li
uccide e li digerisce. Sono le piante più azotate di tutte. — In tre piante
insettivore fu scoperto nel 1900 da Huberland un vero organo del tatto,
sopratutto nella Mimosa pudica. Nel 1904 Kollwitz vide il principio di una
struttura nervosa anche in altre piante. F. Hook attribuisce alle piante anche
sentimenti e volizioni (1). La lenta Evoluzione delle varie specie di piante
compiuta in milioni di anni nelle Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce
affatto gì' influssi delle idee- eterne del Platonismo e dello Hegelismo e più
ancora la pretesa formazione naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo
incrocio della linea del tempo nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro
perpendicolari dello spazio e prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che
le piante si sono formate per sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il
godimento e la moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In
generale le radici sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le
quali (quanto più si trovano verso la punta), assorbono per endo- (1) Sind
Pflanzen und Thiere beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti.
L'acqua passa più presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i
succhi minerali e sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda,
potassa, calce, silice e talvolta il ferro. Darwin as- somigliava le radici a
talpe, che volessero andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero
di stendersi nel terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza sciogliendoli
nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a sciogliere marmi
e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra fatto dalla
intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle punte vi
sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle foglie
il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si abbassa
la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire l'irradiazione
notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in piccola parte, ma
assai più dal sole ; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed inerti come lo
sono l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e quindi
incombustibili. Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il gas acido
carbonico, lo scompone e rigettando l'ossigeno (1) mette il carbonio in grado
di far zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto l'amido (C6 H10 O 5 ) e
la glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole azotate, (1) Di notte la pianta
vive come un animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio. Una
foglia, re- stando all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo volume
di ossigeno, mentre l'uomo ne prende 14 vo- lumi ed un passero 200 a 260. pigliando
l'azoto dalla terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai nitrati. Con questi
elementi saturati incombustibili la pianta fa molecole combustibili non
saturate e cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla comincia nei punti
gialli dei cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno diventare verde il
loro pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e dalla luce assumono
l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia chimica che assorbe il
carbonio. Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad esempio negli spinacci è
fatta di C 40 H62 A2 O 4 , nella erba medica G 42 H63 A2 O 4 . Nelle piante
acotile- doni è ancora assai diversa. Assorbendo il carbonio, i glomeruli verdi
formano le aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i corpi grassi, il tannino e le
materie albuminoidi, con un lungo e fecondo lavorìo. Negli albuminoidi, oltre
al carbonio e agli elementi dell'acqua e dell'aria, entra sempre qualche po' di
solfo e alle volte anche di fosforo: elementi accentratori, che vedremo cre-
scere negli animali e di cui vi sono traccie già nei nuclei delle cellule degli
amebi e del protoplasma. L'acqua col carbonio fa l'aldeide più semplice, il
quale polirnerizzando fa lo zucchero. I fermenti della cellula, sotto la luce
del sole fanno nelle foglie zucchero ed amido. Tenuto al- l'oscuro l'amido si
cangia in celluiosi o mucilaggine. La celluiosi è una sostanza idrocarbonata
insolubile negli acidi e nelle basi (che sotto l'in- fluenza degli alcali può
tornare amido) con cui si fanno le parti più solide delle piante C 12 H10 O i0
. Le piante prendendo l'azoto non dall'aria, ma dalla terra, riducono i nitrati
ad acido cianidrico. — 97 — Nelle sementi a lungo private di qualsiasi umidità
i gruppi di cristalli poliedrici delle aldeidi, gruppi (che si chiamano i
miceli) si toccano. Mase penetra l'acqua, si rianimano ossigenandosi, e, se la
temperatura è dolce, germogliano. Mettendo del grano di frumento nell'acqua te-
pida, non si cambia il suo amido finche non germina. Ma appena principia a
germogliare, l'amido si idrata e si trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle
analogie interne fra le piante e gli animali. Il liquido assorbito dai succhi
digestivi in cui le radici hanno trasformato i sali ed altre sostanze minerali
ascende nel fusto, sciogliendo alcune so- stanze che trova nel passaggio e diventa
linfa. Quanto più questa ascende, tanto più diviene densa. Essa forma dei
canali o arterie capillari, nei quali scorre, attratta dalle gemme sbocciate
sul fusto, ed arriva agli stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove si
ossigena, evaporando l'acqua. Da queste foglie il succhio ridiscende sotto la
corteccia, divenuto latice (piccolo sangue, di cui la parte essenziale si
coagula, come il sangue ani- male). Come latice empie i canali laticiferi
ramificati dal parenchima, e fa, nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il
latice è pieno di granuli vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e
depongono il nutrimento nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo,
formando quel deposito di materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia
delle piante dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano
le gemme laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei
fasci fibrosi vascolari arcuati — 98 — sparsi nel fusto. E perciò nelle
monocotiledoni il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica
di queste Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie
precedenti ; e così avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti
laticiferi abbondano presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e
delle gomme sotto la corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle
dell'arando, del mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole
interne ed opache son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie
resinose, la cera impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali
moderano la evaporazione, e non sono escre- menti. Così nei pini, nei pioppi,
nei castagni d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il
trasudamento resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso
svaporerebbero troppo i succhi : la polvere di cera segregata da peli
glandulosi copre le foglie dei cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed
altri frutti. Molte piante sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato
vischioso che impedisce all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono
escrezioni: lo sono invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi
gelatinosi. F. Loed (The dinamics of living matter, 1906, .New-York) considera
ogni organismo come una macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare
l'assimilazione e la morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede
ad ogni bisogno interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono
eguali a quelle animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari
agli acidi, alle basi ed ai sali. — 99 — Le globuline vegetali o Edestine, sono
fatte per metà di carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di
ossigeno: il resto è idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come
dicevasi nel Cap. VI) in- grassano le piante sono fatti di una globulina so-
lubile nell'acqua chiamata myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili
nell'acqua) fanno il glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi.
II protoplasma è alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente.
Le fibrille vive pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri,
grassi, amidi, tutti len- tamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di
un albero, scendendo nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle
radici, perdono la loro acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la
celluiosi. Rie- scono polimerizzando a fare alcuni principii aro- matici. Una
parte importante l'hanno i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a
fermenti ossi- danti detti ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono
gli acidi. Nelle sementi del papavero, del ricino, della canapa, del fico, del
lino, della veccia, del granturco, ci sono le steapsine che sa- ponificano i
corpi grassi ed idratano. Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in
molti Funghi vi è la laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti
ed agisce sui germogli e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola.
Wiirtz trovò la papeina, fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo
negli Animali quante funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali
aerobi, distruggono nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di
carbonio, con lenta combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto
dove si moltiplicano le cellule in- terne e si organizzano, vi è combustione e
riscal- damento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si
verifica in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo
indicate sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la
clorofilla o parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva,
limitandoci ad investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime
della loro formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla
Natura fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece
interessa altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie
ricchissima di fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è
la persistenza ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti,
diventarono strutture ed organi. Dalla psiche del Proto- plasma, non già
dall'Inconscio Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni : e tutte le
forme mirabili della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di
specie abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di
fuori, all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. « E questo fia suggel ch'ogni
uomo sganni ». Origine psichica delle specie animali Ogni forza nella sua
intimità, lo abbiamo visto fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere:
sentire il contatto delle cose esteriori portate nella propria unità; e poi
volere l'allontanamento di ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene
: e giova a sviluppare la propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni
forza organica ha la sua finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura
che si fa era, ed è ancor sempre nelle specie vegetali ed animali sentire,
desiderare e volere. Il sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi
lo seguono. Negli animali più che nelle piante si manifesta la causa evolvente,
cioè la tendenza di elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più
complesse, operando e dominando in relazione. « Et mihi res, non me rebus
submittere amor ». Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a
rimettersi; nel processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta,
e più sicura di dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di
combustione, si potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali
superiori, di cui si può conservare per alcune ore la digestione, la
respirazione, la circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. — 102
— La formazione lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e
procurarsi il piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in
organi, dapprima deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e
robusti. La funzione è la distribuzione della forza che un organismo oppone a
quanto inceppa il suo libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il
materialista crede che le Turbellarie non re- spirano, perchè prive di
branchie, che i Polipi non sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non
hanno circolazione perchè non hanno arterie, né vene; ossia credono che la
funzione dipenda dall'organo, il quale organo poi si sarebbe fatto
miracolosamente per virtù dell'ambiente. Invece secondo Schelling, Hartmann si
sarebbe fatto per virtù dell'Inconscio, Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da
tutti e due. Ma il zoologo filosofo sa che le funzioni prive di organi si
compiono meno bene, ma si compiono : e che ci vuole molto tempo a fare gli or-
gani. La vita intensa non si manifesta se non quando le materie azotate si
scompongono, per ricomporsi con atti Unitari Morfologici, che ordi- nano le
funzioni e formano poco alla volta gli organi. Le correnti interne delle Monere
fanno le prime appendici e la contrattibilità: esse non hanno ah tro organo
della volontà che i così detti falsi piedi, formati dal loro protoplasma
esterno viscoso : e quando hanno finito di muoversi, li ritraggono nella massa
comune. I cigli permanenti principiano negli Actiniferi ed irradiano da un
centro. Nelle specie superiori degli Infiisorii (1) si riuniscono in una coda,
detta flagello (anche le spore delle Alghe verdi hanno cigli vibratili). Le
larve dei Celenterati ne sono coperte. Engelmann distinse i moti degli Amebi,
che sono sarcodici o ad appendici brevi, o fila- mentosi, dai moti oscillanti
dei Bacteri. Gli animali sono in generale assai più azotati delle piante; e
quindi di composizione più instabile, più facile ad adattarsi alle nuove
circostanze e tendenti a dominarle. La loro psicogenia fa la somagenia più presto
che nei vegetali. Dalla gelatina che è Valfa delle materie proteiche, essi
arrivano in poco volgere di tempo a far Valbumina che ne è Vomega. L'albumina,
con 14 elementi diversi, forma molecole composte di centinaia di Atomi, la cui
struttura si presta alle più diverse funzioni, grazie alle isomerie, per le
quali (con l'aumento di Atomi della medesima specie nella stessa molecola
(polimerie) oppure con la metameria (che lascia lo stesso numero di Atomi di
ogni specie, cangiandone soltanto la disposizione) si ottengono nuovi
adattamenti all'ambiente e nuove forze per svilupparsi (2). (1) Fin dal 1848 il
prof. Ehrenberg di Berlino scoprì 400 specie di Infusori microscopici che
vivono in diversi strati dell'atmosfera, ed altre centinaia se ne scopersero poi,
di una piccolezza tale da essere invisibili, nella pioggia, nella nebbia, nella
neve, nel mare, negli stagni. La vita ani- male pullula dapertutto dove vi è
ossigeno, anche in forme minutissime. Ci sono animaletti che si muovono con
molta alacrità, sanno evitare gli ostacoli che si oppongono al loro corso : i
grossi vanno a caccia dei piccoli. Se ne sviluppano molti nelle infusioni
fredde o macerazioni vegetali. (2) Queste materie proteiche vengono nei
Laboratori delle Università, cimentate con l'idrato di barite, con poco risul-
tato, perchè l'albumina morta non è più capace di nulla. La sintesi piacevole o
dolorosa guida l'animale a fare le funzioni più adatte, trovando mezzi
migliori, e respingendo, abbandonando i meno utili per nutrirsi, per respirare,
per muoversi e per riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la quale (come
dicevamo) si compie anche se gli organi sono di- fettosi o mancano del tutto,
benché allora si compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea viene estratta
dal sangue nella superficie mucosa dell' in- testino. Quando una funzione
comincia a localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo leggermente
modificato. La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare opportunamente
la Morfologia. La formazione degli organi di relazione e so- pratutto degli
organi dei sensi, ci mostra che una continua crescente attenzione a determinati
scopi fu rivolta dai più semplici animali. Le successive accumulazioni di
energia e di abilità acquisita, benché piccole negl'individui, da- vano una
grande somma, dopo una lunga serie di generazioni, con la legge ben nota della
diminuzione del lavoro biologico generale a vantaggio di un organo particolare.
Furono certamente figurate con perseveranza le varie maniere di difesa che si
fecero animali di scarsa intelligenza. Quando un atto nuovo, per speciale
combinazione, è trovato utile, i più stu- pidi animali arrivano a farne una
funzione, e ri- petendola per varie generazioni in favorevoli cir- costanze un
organo efficace. Così i Bagni in ori- gine segregavano un liquido viscoso per
farsene bozzoli ; ma discendendo dalle frasche mentre il vento li gettava sui
rami prossimi, videro che ri- - 105 — tornando più volte al primo ramo ed
incrociando i fili, pigliavano mosche, finche impararono a far reti
geometriche, che all'aria si induriscono. Alcune Formiche, il Bombardiere,
alcuni Scarafaggi videro che getti e spruzzi loro servivano ad allontanare i
nemici e ne appresero l'arte. La Seppia imparò ad intorbidare le acque. Le
Torpedini del Mediterraneo, i Siluri del Nilo e del Senegal, il Gimnoto dell'
Orenoco ed altri Pesci, con apparati nervosi pieni di cellule prismatiche di
gelatina, si fecero delle batterie elettriche con le quali danno scosse
violenti a chi li insegue. In un Vademecum destinato alle persone colte in
generale, per far meglio intendere la multiforme attività della psiche, che va
facendo e moltiplicando ogni specie, ci sembrò utile di dare alcuni esempi
caratteristici. Se una divinità inconscia presiedesse alla evoluzione degli
organismi o se questi fossero fatti dalle forze incidenti dell'ambiente (che
YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto influenti), non sarebbe vero il fatto
osservabile in tutti gli ani- mali e nell'uomo stesso, che le funzioni fatte
con coscienza e ripetute, rendono i moti più facili e più coordinati, omettendo
gli inutili, per insistere sugli utili, con teleologia sempre più
chiaroveggente, interna dell'animale e non esterna dell' Inconscio cosmologico
universale. Quando la funzione, ripetuta per alcune generazioni, ha formato
sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi, cessa il lavoro di convergenza che
atten- deva ad un determinato progresso morfologico : la coscienza se ne
ritira, dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni; ma la coscienza e la
convergenza ritornano sopra quei punti, quando cambiano le — 106 — circostanze,
e l'animale tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e quando impara un
mestiere. La convergenza assomma le Unità senzienti come un fiume assomma le
acque di tutta una valle. La convergenza della Natura che si fa, trova i moti
migliori e li combina. La Natura fatta delle cellule associate per fare i moti
nuovi, dopo averli imparati, li continua come una macchina, come i soldati,
dopo aver imparato l'esercizio dagli uffi- ciali, li continuano da se soli e li
ripetono centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si fa poco a poco,
perchè, con la semplice ripetizione di un movimento, l'ani- male, sente
fortificarsi i muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si
inseriscono, ed i centri nervosi che li eccitano. Un animale superiore
racchiude in se milioni di sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che
egli, nella sua vita conscia generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe
confuso, come un generale condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La
cenestesia o sentimento comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione
interna sintetica, che ^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un
tatto interno, che sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose,
nelle ghiandole, nei muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni,
nei nervi: è, come vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i
sentimenti, le sensazioni, i ricordi e le voli- zioni : base psichica, che
viene dalle singole unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne
dall'Inconscio, Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il
neonato sappia ancora farli funzionare : la coscienza degli antenati li ha
fatti poco a poco, ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli.
La funzione va presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo :
senza nuove aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli
impreveduti. Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la
Natura che si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per
fare dei cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet,
mentre il lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo,
ossia della Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per con-
vergenze particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I
vantaggi acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e
rafforzati coll'esercizio, e se la Volontà li abbandona, gli organi si
atrofizzano. La selezione fatale per la sopravivenza dei più adatti a vivere in
un determinato ambiente (the sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo
Darwin esigerebbe molti più milioni di anni di quelli che attesta la stratificazione
dei sedimenti geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto maggiore
importanza alle cause intime, alla Unità noumenica, ossia non fenomenica, la
quale sentendo, desiderando, volendo, cambia le funzioni e le perfeziona.
Romanes ha mostrato che VAmore ha separato le specie animali, perchè, fra certe
famiglie si stringevano alleanze, che escludevano gli altri, e — 108 — le
isolava; cosicché alla fine, le nozze con altre famiglie restavano sterili.
Infatti la prima cura degli allevatori è eli impedire l' incrociamento delle
nuove varietà coi vecchi tipi. — La figurazione amorosa, separando ed isolando,
fece e fa le specie nuove. La umana imaginazione è una piccola parte delle
combinazioni di imagini e di sen- sazioni che ebbero gli Animali, e sopratutto
di quelle relative al miglioramento delle proprie condizioni e dei propri
organi ed alle scelte sessuali. Sembra che le modificazioni degli animali su-
periori sieno avvenute bruscamente, nell'ovario o nella prima fase
dell'embrione, quando erano state lungamente richieste dalle circostanze e vi-
vamente figurate e bramate dai genitori. L' imaginazione della madre ha la più
grande influenza sull'Embrione, non soltanto nel concepirlo, ma anche quando si
va svolgendo nel ventre, come lo provano tanti fatti di cui alcuni ne ci-
teremo in seguito (molti somigliano a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di
specie minute resta meravigliato di vedere come siensi fornite di organi così
diversi, così opportuni per la vita, nelle fo- reste, sui monti, sul mare,
sulle acque dolci, correnti o stagnanti. Gli Insetti che volano hanno valvole
pulsanti sparse in tutto il corpo e perfino nelle zampe, ed un intricato
sistema di vasi e di tubetti secretori che fanno sughi gastrici e in al- cune
specie (numerosissime sulle rive del fiume Orenoco in America) veleni per i
nemici. GÌ' Insetti hanno foggiate le membra loro a mille usi per afferrare o
masticare i cibi, per succhiare od incidere le piante e le carni (mandibole,
palpi labiali, proboscidi, trombe, lancette). Alcune specie, come VElater
tropicale e le nostre Lucciole, sono fosforescenti e la fosforescenza è
dominata dalla loro volontà. Il verme di acqua dolce fa le branchie dalla
pelle; il Crostaceo phyllopodo le fa dalle zampe. Nel Gambero gli anelli sono
assai diversi : gli uni portano antenne, i seguenti mascelle, zampe e l'addome.
E tra le zampe, ve ne sono di ambulanti, di prensili, di respiranti e di
natanti. Tutti conoscono molte specie di Molluschi, le quali si fecero un
mantello, emettendo, a lamine di carbonato di calce, una Conchiglia del colore
del mantello, piccola casa portatile. Così gli Uccelli fanno le uova con guscio
calcare. In generale le parti mediane cambiano difficil- mente. Invece le
estremità vennero adattate fa- cilmente in tutta la Fauna ai nuovi bisogni,
quando duravano per varie generazioni. Il graduale innalzarsi (con sentimento,
desiderio e volontà) delle specie animali, fu studiato da C. Darwin e da
Haeckel e tenteremo di darne le linee principali (per quanto si può in un paio
di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi generali di evoluzione sopra
esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale ha li- brato i fenomeni della
Embriologia e le testimonianze della Paleontologia, dando un quadro
approssimativo della generale evoluzione morfologica dalle prime colonie di
cellule. Dai Polipi idroidi derivano le Meduse e stac- candosi, formando la
testa, gli Anellidi. Gli Articolati (Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e
Crostacei) saldarono i loro muscoli ai tegumenti esteriori, che in principio
erano semplici indurimenti della pelle e poi si coprirono di chitina. — 110 —
Come dagli Articolati venissero i Molluschi non è deciso, vi sono due
spiegazioni. (Vedi Capitolo XIII). Dai Molluschi si staccarono i Tunicati,
animali assai piccoli, per la tunica a sacco, nella quale chiusero le branchie,
gl'intestini, il cuore, ed i vasi sanguigni (Ascidìe, Bifore, .Pirosome, ecc. a
generazione alternante. Si crede che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e
dello Amphioxus (che non ha ancora cervello) sieno derivati i primi Pesci,
alcune specie dei quali sono prive di ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora
oggidì. Tutti i Pesci hanno un cuore, che corrisponde alla metà del nostro, e
sangue freddo: tutti hanno molte dita per nuotare. Se ne staccarono i
Dispneusti, nel periodo Devoniano, i quali resero la loro vescica natatoria
capace di funzionare come polmoni, entrando per molte ore al giorno nelle
foreste prossime al mare. Per cacciare animaletti vivi i Dispneusti ridussero a
poche le dita e le accorciarono. Dai Dispneusti provennero gli Amfibi, i quali
nascendo respirano ancora con le branchie, ma nella età adulta respirano coi
soli polmoni, abituandosi a vivere sulla terra. Essi ridussero a 5 sole le dita
di ogni membro e queste rimasero poi 5 in tutti i Vertebrati, compreso YUomo.
Le Rane inghiottiscono l'aria per la bocca. Perdendo affatto la respirazione
bronchiale, complicando il cuore, ed acquistando quella membrana detta Amnio
che riveste il feto e li fece chiamare Amnioti, si formarono dai più elevati
Amfibi gli Stegocefali, che divennero padri dei Rettili. Come le più energiche
forze plutoniche erano necessarie per dare origine ai basalti ed alle altre Ili
roccie ignee della prima scorza terrestre, così le forze organiche più
energiche erano necessarie a dare i primi abbozzi della Flora e della Fauna. E
le Unità intime confrontanti in tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari
nell'epoca Primaria o Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel
cambiare e scegliere le forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età
Mesozoica i tipi fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo
Siluriano, ossia nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già
Molluschi superiori ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Si- luriano avevano un
sistema nervoso dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o
centrale dei Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano
diversi tipi fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea.
Nel periodo Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico
al Devoniano, abbondarono le Trilobiti (1), che sembrano essere stati i primi
Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi
estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi
e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e
formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel
Devoniano erano Felci arboree colossali, Si- gillane e Lepidodentri) tutte
Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro- (1) H. E.
Ziegler : «Die Descendenz Theorie in der Zoologie », 1902, Iena. -Piate: « Das
Darwinistische Prinzip der Selection», 1905, Lipsia. — 112 — stacci, i Zoofiti,
i Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili raggiunsero dimensioni assai
notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri e il loro tronco
aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso nei sedimenti di
quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40 metri, con tronchi
enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime foglie; bastino
questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si movessero quei
grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano, Amfibi e Rettili divennero
padroni delle terre boscose e delle ac- que dolci. Il sangue restava freddo, e
si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso, senza passare per i
polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per lo più, a lingua
secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo, dalle Lucertole
derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per inerzia ed atrofìa
le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè vivevano sempre
sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare (1) nel fango e fra le alte
erbe. Gli Amfibi antichi erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi
avendo degenerato. Invece i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi
arrivarono ad agguerrirsi con squame e con corazze. (1) L'apparato velenoso
delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono materia gialla
velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la bestia afferra
la vittima ( Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Tri- gonocefalo, Najadi). Dai
Rettili ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero una parte delle
costole a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti della pelle che,
senza permettere loro di volare, gio- vavano però a sostenerli come paracadute
nel sal- tare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi non stanno
quasi mai per terra, ma vi- vono sulle cime degli alberi o si gettano nelle
acque in cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che mangiano.
Ve ne sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole della
Sonda. Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro
sangue. Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo ;
essi vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie potenti,
avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra le prede,
e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese si
estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie
affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio
dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero ori- gine agli Uccelli,
diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si
allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e
volate ed in- nalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si
vede nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e
mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: " Archaeopterix
di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. An- oor oggi gli embrioni
degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci. Nei Pesci
come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di circonvoluzioni.
Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un prolungamento del retto,
detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in tutto il corpo, con le cel-
lule membranose, perfino nelle ossa, per il grande esercizio della respirazione
che fanno volando. Lo sterno è grande e solido, dovendo sostenere le ali. Per
cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la faccia a due mascelle, formando
il becco, ren- dendo così impossibile la masticazione; per cui in pari tempo
modificarono l'apparato digestivo, incominciando a digerire nel ventricolo
succenturiato, per continuare poi nel ventriglio, dove si forma il chilo. Neil'
Epoca Terziaria le specie degli Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a
proporzioni enormi. Alcune di queste poco o nulla volavano come YEpyornis del
Madagascar, oggi estinto, che era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda
alti 2 metri e mezzo, lo Struzzo dell'Africa e dell' India, alto anche più e
più grosso, ma che non vola più e corre fornito di cosce grosse come quelle di
un uomo, colle sue gambe alte 130 cent, più del cavallo. Vive in truppe e
mangia erbe; oggi si alleva con profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un
po' meno alti, il Casoar nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il
Nandù del- l'Argentina. Gli uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle
dimensioni: VAquila dell'Europa e dell'Asia, il Condor delle Ande non superano
quasi mai il metro in lunghezza. Essi rappresentano nell'aria quella caccia fe-
roce che è stata continua sulla terra e nell'acqua, caccia clie si esercita
sempre contro altre specie. Fra i membri di una famiglia, fra quelli di una
società animale, regnano l'amore o l'amicizia, e vi sono esempi numerosi di
abnegazione e di sacrificio. Il numero delle specie di animali che vivono di
erbe supera quello delle specie che vivono di carni, come il numero delle tribù
selvaggie pacifiche, supera quello dei selvaggi feroci, e quello degli uomini
civili e laboriosi supera quello dei delinquenti. E bisogna guardare all'
origine dell' egoismo feroce. Come nella Fisica e nella Chimica le forze
fondamentali ed universali sono le attrattive, e sol- tanto quando l'armonia e
l'esistenza è minacciata sorgono le ripulsioni, così, quando le specie animali
imparano a far caccia e guerra, è per lo più quando sono minacciate nel
pacifico possesso dei loro mezzi di vivere, quando non trovano da sfa- marsi
(1). I primi Mammiferi furono i Sauro-mammoli ed i Monotremi nel Trias e ne
vennero 3400 specie, (1) Gli animali domestici ben trattati restano come
fanciulli affezionati, mentre quelli maltrattati perdono la natura pacifica
ereditata. All'opposto gli animali di specie feroce sono più o meno adatti a
diventare domestici. Così si fa con gli orsi nelle locande del gran Parco
Nazionale del Yellowstone negli Stati Uniti, così si fa con gli alligatori ed i
coccodrilli negli Stati meridionali di quella grande Repubblica, i quali ornai
nel Mississipi si allevano per venderli come carne da macello. delle quali metà
sono già estinte. Il periodo glaciale le obbligò a surrogare alle squame i
peli, mandando molto sangue alla pelle a formarvi le ghiandole pilifere per
ripararsi dal freddo; così si fecero anche le lane delle pecore. Meno gli
Equidi e le Antilopi, che impararono a correre più veloci, gli Ungulati, che
tanto si erano moltiplicati, furono tutti mangiati dai Carnivori, derivati nel
periodo Eocene dai Marsupiali, Laddove la persecuzione dei carnivori era più
minacciosa, i Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi {Balene, Delfini) ed i
Pinnipedi (Foche) si salvarono nel mare, lasciando inerti le membra posteriori,
svilupparono in natatoie le membra anteriori ; ingrossarono la musculatura
della coda ed impararono ad allargare sempre più la bocca, per ingoiare molti
pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli del Miocene e del Plio- cene
dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti, riposando quando erano satolli,
digerendo lentamente, si fecero quattro stomachi, risalendo i cibi dal pansé
nella bocca per essere macinati, e tornare poi nel secondo stomaco {cuffia) e
nel terzo (centopelli) e passare finalmente nel caglio che termina la
digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti della Russia. Per prendere
i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare qualsiasi piccolo oggetto, gli
Elefanti prolungarono il naso in proboscide, onde restare comodamente piantati
sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per scavar la terra le Talpe
cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe ; per mangiare le foglie più
alte delle Palme le Giraffe allungarono molto — 117 — il collo ; per nutrirsi
di mosche e di farfalle not- turne il Pipistrello distese sopra le membra
anteriori un mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai lunghe una membrana
che serve come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero allargò le natatoie del
petto e le allungò in ali. Per difendersi, i Ruminanti si fecero spuntare sulla
testa le corna ; per arrampicarsi sugli alberi le Scimmie cambiarono le zampe
in mani; per armarsi di sassi e di bastoni con le mani alcune di esse si
abituarono a stare dritte sulle membra posteriori e ne vennero i nostri piedi,
e quell'af- flusso di sangue al cervello durante la gestazione del feto, che
aumentò l'intelligenza. Studiando le differenze fra Scimmie ed Uomini il prof.
Keit trovò che 312 caratteri morfologici sono propri di questi ; 186 sono comuni
all'Uomo ed al Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al Gorilla e 396 allo
Scimpanzè. Selenica mostrò che la embriogenià umana somiglia moltissimo a
quella di queste specie. Certo è che l'embrione nostro diventa successivamente
in nove mesi : Monerula, Morula, Blastosfera, Gastrula, Cordoniano, Acranio,
Ictioide, Àmnioto, Mammifero placentato e Primate, giacche la Ontogenia o
evoluzione dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o evoluzione
della specie. Il posto relativo delle parti negli animali di un medesimo tipo
non cambia mai ; benché se ne foggino stromenti tanto diversi (come ne abbiamo
indicati parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben distinguere la
Omologia o somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza delle
funzioni, giacche la modificazione degli organi — 118 — per farli servire a
funzioni nuove è stata assai frequente in tutti i tipi. Vi sono specie
fluttuanti per i molti incroci (cani, sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha
fatto tutte le specie estinte o viventi, compendiando le anteriori. Quindi con
perseverante volontà l'uomo può perfezionare il sistema nervoso, il cervello
sopratutto, il sistema vasomotore, il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le
volte che i figli tendono al medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura
che si fa e perfezionano il corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed
intellettuali migliori. Vi sono famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e
famiglie di pittori, di musici e di scienziati. La Civiltà è una gara continua
nel far atten- zione a nuovi oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a
pensare, e quindi a sviluppare gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è
sempre un risultato della perse- veranza del Conscio nell'attivare nuove
funzioni. Ne abbiamo addotte in prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto
può addursi per dimostrare che dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo
nihil. Ciò nullameno Schelling nel 1799 diede all'In- conscio la parte di fare
l'Ordine nel mondo, ed Ardigò lo riprodusse. « Die Materie ist erstarrte
Intelligenz, disse Schelling, la materia è pensiero congelato » . Ed Ardigò
Voi. IV, p. 269 « Il contenuto di ciò che si dice Materia, non è altro che lo
stesso Pensiero del quale è una forma » . «L'Infinito inconscio fa l'Ordine nel
mondo» disse Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II, 235. « La Unità ordinatrice dello Indistinto
assoluto fa la Natura » , p. 247. « Tutto risulta da urti : lavoro meccanico :
ma in fondo vi è una razionalità sapientissima » , p. 249. « L' Indistinto
Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine » , p. 250. « L'ordine
nel caso, e il caso nell'ordine : ecco la ragione della distinzione o
formazione naturale », p. 129. «Lo Indistinto è Infinito, ed è l'ambiente che
sta sotto ad ogni distinto » , p. 183. E Ardigò conchiude che 1' Indistinto
assoluto esclu- de il sopranaturale. E fa alcune osservazioni al padre Secchi,
cercando di provare che la Natura è infinita e che l'Ordine viene da questa
Infinità. Però noi abbiamo dimostrato nei primi Capitoli di questo Libro che
l'Infinito non è mai una realtà, che non vi può essere materia continua, che il
mondo non può essere infinito. Dalla falsa premessa che il mondo è infinito,
non si può tirar fuori l'ordine; e dal cambiare il sopra naturale in sotto
naturale non si può tirar fuori nulla, perchè l'effetto è lo stesso, che venga
dal di sotto o dal di sopra, V Indistinto è la causa dell'ordine. Però VArdigò
si contradice volendo parere positivista. Ed a tal uopo scrive, p. 249 : « La
Intelligenza viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto » . I suoi
discepoli poi ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima
schellinghiana, del loro maestro : Marchesini ( « Vita e pensiero di Ardigò » ,
1907, p. 338), scrive : «L'umano pensiero si è formato per la continuazione di
accidentalità infinite, succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre »
. E a pag. 259 ci dà questa bella genesi degli Uccelli : « La specie della
Gallina è un apparato — 120 — « fisiologico riuscito, per aggiunte e
modificazioni « casuali, occasionate dalle azioni e reazioni del- « Vambiente »
. Qui dunque lo Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più
nulla: è il caso, è l'ac- cidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice
ripetizione di un moto ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L'
Indistinto a che cosa è ridotto ? Si vuol ne- gare che venga da Schelling, da
Hegel, da Hart- mann. Si vuol tirarlo fuori dal nostro sentire: « Potendo
invertire le sensazioni che fanno il Me « da quelle del Mondo o Non Me, dice il
Mar- « chesini (pag. 308 a 312) si scopre che la sen- « sazione in se stessa è
indifferente ad essere « oggetto o soggetto, ed abbiamo così lo Indi- « stinto
sottostante ad ogni distinto. Indistinto po- « sitivo trovato per induzione. «
Via i misteri della divinità, avanti la conti- « nuità funzionale della Natura
infinita, che si « manifesta come Materia, come Spirito. La espone rienza della
nostra sensazione ci dà il sottostante « indistinto » . È questo il Positivismo
radicale delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far apparire come
Positivo lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha mai avuto una
sensazione che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta, indifferentemente
Oggetto o Soggetto : nessuno invertisce il proprio Io nelle cose o le cose nel
proprio Io. Ne Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai ten- tato di spiegare
l'ordine e la formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché con trovate
come quella della gallina or menzionata. La me- schinità dell' Ardigoismo si
vede dai suoi frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e l'Indistinto
Infinito ha costretto VArdigò a continue contraddizioni ed oscurità. La verità
è che la Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha fatto nella lunga
evoluzione le varie specie animali, organizzando la psiche inconscia o passiva
Natura fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non andiamo a cercare la
causa delle varie specie animali nelle stelle, nelle nebulose, nello ambiente
infinito di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po' più modesti e positivi, e
cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le cellule ed i primi viventi,
e che sentiamo capace di modificarci e di svilupparci ancora. Questo è il vero
Positivismo armonico, pitagorico, Italico (1). CAPITOLO IX. Come la psiche fa
la vita interna sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella sua- « Crisi del
positivismo » ) stentar tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi
inorganici e il pensiero dagli animali, mentre Ardigò d'accordo con (1) Non è
una divinità inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati
scopi al disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si
muovano senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il
caso, come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il
proprio sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filo- sofia)
scriveva che la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè
sulla unità del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere
nelle dot- trine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla
parte schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, p. 250:
«L'Indistinto è « la nebulosa verso il sistema solare, è l' Embrione rispetto
all'animale adulto. 253: L'In- « distinto è la realtà unica fondamentale della
« Unità e molteplicità della Natura. 254 : la realtà «della psiche e della
materia insieme. 260: L'or- « dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto
« e del ritmo. Per l'Indistinto ogni accidentalità « è subordinata all'ordine
universale. Per il ritmo « vi è ordine e numero (tautologia). 296 : A sostrato
« dei due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi- « cofisico che ne è la
ragione esplicativa (mentre « Ardigò diceva che l' Indistinto non si può spie-
« gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e « questo è l'art. 6 del suo
Catechismo). 331 : Il « che cosa sia non si rivela che sentendolo e si «
risolve nel Divenire che è VEssenza dell'Essere « (frase presa da Hegel). E il
divenire è per noi « ed in noi necessariamente sensazione » . Marchesini non ha
capito che, se il divenire è sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali,
le piante, le cellule e le molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il
suo Indistinto dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. — Io non
l'ho preso (come Spencer) dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero
filosofico, e poteva aggiungere tedesco. E in- fatti il Panteismo di Schelling
ed egli non ha — 123 — mai negato di averlo preso dalla Germania: fu sempre
studioso assai della filosofia tedesca, citò nella Psicologia molti autori
tedeschi, per cento pagine, e quando fu accusato di essere Metafìsico, si
schermì evasivamente (come diremo nel nostro III Volume). Se prendiamo V Indistinto
deìYArdigò non verniciato di Positivismo,. non mascherato dal manto di
pontefice dell'Ateismo Italiano, vedremo che è una nebbia panteistica, che (a
quanto egli dice) contiene in sé la ragione della differenziazione e della
continuità fra i differenziati. Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene
che la gran legge di formazione delle cose è questa: che una linea si suddivida
in punti infiniti (pag. 115). Certo la linea è continua e contiene in se i
punti. Ed è tutto. Questa è la sua gran spiegazione. Chi non se ne contenta,
non ha capito come si sono fatte le piante, le bestie, gli uomini e pretende
troppo dall'Ardigoismo. Ora questo Indistinto nebuloso e vago non ha fatto,
secondo noi, veramente niente. Tutto era preciso e numerato fin dalle prime
nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno fatto l'ordine della flora e della
fauna sono le Unità viventi, distin- tissime e precisissime della Natura che si
fa, che cerca di aumentare la sensazione piacevole e di evitare la dolorosa,
formando le più utili funzioni (e con la loro ripetizione, gli organi), della
di- gestione, della respirazione, della sanguificazione o Ematosi,
dell'assimilazione, della generazione. Per poco che noi penetriamo nella genesi
della vita interna, potremo ben convincerci, sulla base dei fatti. Digerire
vuol dire scomporre, macerare, idroliz- zare le materie ingerite e poi
combinarle con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes, 1896) suppone
che i fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità generale dell'organismo.
Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione digestiva dalla motrice. Nei
Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma che modificando gli ali- menti
accumula energia, dall' Ectoderma che fa tentacoli. Gl'Infusori hanno bocca,
faringe e ca- vità digestiva protoplasmica. Ma nei Polizoari YEntoderma diventa
un canale alimentare, che si divide in esofago, stomaco ed intestino. Nelle
Ascidie il sugo nutriente si separa dalle feci. In principio il fegato, il
pancreas, sono semplici cellule escrementizie biliari: poi si riuniscono in
sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura che l'assimilazione si
afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi digerenti come nelle Salpe.
Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi (1), negli Echinodermi, negli
Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un vero fegato. I Crostacei si
sono già formato un fegato di cellule peptiche ed epatiche. In tutte le cellule
delle ghiandole, che ricevono dalla unità generale dell' organismo la funzione
di secernere, si compie un delicato lavoro di scelte feconde, e finiscono
alcuni nervettini (i quali provengono negli animali superiori, sia dal gran
simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale). (1) Meno nella Tenia ed in altri
parassiti. Il corpo della Tenia riceve dapertutto gli alimenti, senza farsi un
apparato circolatorio, ne digestivo. Tutte le sue cellule si nutrono e
respirano. Sono questi nervettini che dirigono la funzione speciale del
secernere. E non hanno bisogno di essere animati dallo Inconscio di Schelling e
di Hartmann ne dallo Infinito sottonaturale che, se- condo Ardigò, è la causa
dell'ordine. Il parenchima (o epitelio ghiandolare) attrae dapprima dal sangue
l' acqua ed i principi in essa disciolti : la ghiandola, che era pallida, si
ar- rossa, e si riscalda, elaborando sotto l'azione del sentire - desiderare -
volere, mediante i nervettini, il suo secreto, traendo dal sangue, che filtra
at- traverso ai capillari ed ai tubi porosi, la sostanza specifica. Le
ghiandole sono i chimici o farmacisti del collettivismo organico. Il tessuto
retico- lare delle ghiandole è privo di fibre. Mettendo della pepsina e
dell'acido lattico con- tenuto nel sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare
una digestione artificiale. Ma non si può nei laboratori chimici far nascere il
sugo gastrico. Per farlo è necessaria la sintesi organica, non fatta per
accidente ad uso Marchesini, ma per godere la vita. Tutte le secrezioni sono
finaliste, tutte si compiono per atto unitario sintetico, così quella del sugo
gastrigo, come quella della saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una
finalità fatta poco alla volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di
Ardigò, provando e riprovando, insistendo sulle sensazioni piacevoli ed
evitando quelle che dispiacciono. Per eredità della specie la digestione si fa
anche nell'embrione, che non è ancora provvisto di nervi. Negli animali
superiori la digestione rende i cibi capaci di essere assorbiti dalla mucosa
inte- stinale ed assimilati nel sangue e nei tessuti. — 126 — Gli animali,
mangiando vegetali, ne desumono Carbonio, Azoto, Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che
sono pronti nelle albumine e nei grassi. Se gii animali dovessero prendersi
l'azoto ed il zolfo fuori delle albumine vegetali, morirebbero : perchè essi
non possono cavarli dalla terra, ne dall'aria, come fanno le piante. La
maggiore vitalità e mobilità ottenuta dagli animali, dipende non già
dall'Indistinto della teo- logia germanica o dell'Ardigoismo, ma dalla facilità
di alimentarsi mangiando i vegetali, perchè le Unità senzienti formano più
presto e più gagliarda la unità organica dell'Animale. Il riassorbimento del
chilo nell' intestino, è fatto dalle cellule epiteliali (che tappezzano la
parete interna dell'intestino) che assumono il cibo per contrazione attiva,
come fanno gli Amebi ed i Rizopodi. Una parte più vitale l'hanno le cellule
linfatiche, le quali emigrano dal tessuto adenoide, vanno fra le cellule
epiteliali fino alla superficie dell'intestino, per ghermire le gocciole di
grasso, e non lasciano passare veleni. Va notato che le sostanze alimentari
solubili nell' acqua, non scendono mai dall' intestino al cuore per il condotto
toracico, ma per la vena porta e per il fegato (che le assimila prima che
entrino nel sangue). Le cellule linfatiche assu- mono sole il peptone disciolto
nell'acqua. Le sostanze velenose ingoiate si fermano tutte nella bile. La linfa
empie gli interstizi fra i tessuti ed i vasi linfatici ed è un complesso di
trasudati non utilizzati, composto di plasma liquido e di corpuscoli, granuli o
globuletti bianchi (circa 8.000 per millimetro cubico), e goccie di grasso.
Quando ar- rivano nel sangue questi globuletti, diventano globuli bianchi (più
grossi), e poi rossi. Nella linfa vi sono già gli elementi chimici del sangue
(acqua, siero, albumina, fibrina, grassi, e specialmente 1' acido butirico,
cholesterina, glucosio, leucina, urea, sali, carbonati e fosfati). Ma la linfa
(che aumenta sempre durante la digestione), si coagula più lentamente del
sangue ed è meno alcalina. Contraendosi ritmicamente il cuore, il sangue
inturgidisce le arterie formando il polso. I globuli rossi trasfusi in animali
di altra specie si combattono e si uccidono a vicenda, non già perchè abbiano
una diversa composizione chimica, ina perchè è diversa la loro sintesi, ossia l'impulso
loro dato dalla Unità generale organica, il che prova ad un tempo la
individualità dei globuli rossi, e la psiche passiva loro imposta dall'Unità
generale (1). Le unità dei globuli rossi debbono adunque es- sere formate da
elementi morfologici vitalissimi. Sono clorotici coloro, i cui globuli rossi
sono piccoli (una metà od un terzo del giusto), hanno cuore piccolo e vasi
troppo stretti. — Nelle morti apparenti, il sangue non è morto. Se si fa
entrare per due terzi nelle carni un ago pulito, dopo un'ora, se il sangue
vive, l'ago si può ritirare an- cora pulito : ma se il sangue è morto, l'ago
sarà arrugginito. — L'asfissia uccide i globuli rossi e (1) Va notato che (come
provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si può mescolare senza recare
grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e viceversa, mentre non
sopporta la mescolanza con altre specie ani- mali, locchè prova una certa
consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. — 128 — l'ossido di
carbonio uccide la emoglobina del san- gue ed i tessuti. La formazione del
cuore non si spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità confrontante perchè
nessuna persistenza della forza può formare ventricoli ed orecchiette, arterie
e vene contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti sintetici
mirabilmente accordati in tutta la lenta formazione della specie, che viene
accorciata nel feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia falso at-
tribuire l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e
\Ardigoismo. Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali
per vedere la sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del
Noumenon e della Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie
che furono mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa,
che scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia.
Che una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci
dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano
nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in
muscolina, nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel
tessuto congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra
loro differenti. La chi- mica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice
Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende
Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse
albuminoidi, tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie
— 129 — parti del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il
sangue, o i muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo ?
forse per le accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo
estraneo ? forse per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto
sottostante ad ogni distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non
la divisione della linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze
chimiche. Dividere e suddividere, distinguere e sotto di- stinguere non è fare
da artista morfologo. Dunque bisogna riconoscere che la Unità or- ganica
intima, il Noumenon reale, che cerca il piacere e fugge il dolore esercitando
le funzioni essenziali del digerire, del far sangue, della assi- milazione,
organizza le materie in modo da mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia
la propria Vita, combina le molecole in guisa da dar loro efficacia, e
esercitando la funzione si fa la compagine fisiologica, adatta a lottare contro
le dif- ficoltà ed a rendersi indipendente dall'ambiente. Non è dividere e
distinguere: è piuttosto co- struire, riunire, combinare, disegnare nuove
forme, nuovi sistemi di forze: è unificare, in una paro] a r e quindi godere la
varietà nella Unità. La legge della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la
divisione e suddivisione di un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di
assimilazione, l'animale trasforma gli idrati di carbonio che mangia in
glicogene nel fegato, in glicosi nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido
lattico nei muscoli, in lat- tina nelle mammelle, in tunicina nella pelle dei
Tunicati, sempre sotto la influenza del sistema nervoso, che sente il dolore e
il piacere. — 130 — Lo stesso dicasi dei grassi. Qualsiasi cibo prenda un
animale, egli farà (senza aiuto dello Inconscio Indistinto sopra o sotto
naturale) nelle cellule adi- pose della pelle butirina ed oleina, nel tessuto
cel- lulare del ventre stearina oleina e palmitina ; nelle mammelle butirina e
margarina ; nelle api farà della cera, e via dicendo. Eppure nel chilo, nei
gangli del mesentere, vi sono sostanze omogenee: ma questi grassi, quando .sono
arrivati nei diversi organi, si differenziano assai, ossia si specificano in
sostanze nuove. L'assimilazione non. è una scelta dei materiali portati dal
sangue. È piuttosto una metamorfosi operata da ogni cellula, sotto la influenza
del si- stema nervoso, ordinato dalla Unità organica del- l'animale, dando
origine, col medesimo chilo e con lo stesso sangue a nuove sostanze, le quali
nel sangue e nel chilo non esistevano. Anzi l'assimilazione complessiva, sotto
la in- fluenza del sistema nervoso, allorché l' animale non riceve più grassi,
né principi amilacei, lo rende capace di formarsi le sostanze occorrenti,
traendole dai suoi propri albuminoidi, idratandoli, ossidandoli ed arrivando a
farsi nella milza la Emoglobina o materia rossa del sangue, la quale pesa il
doppio della albumina, ed è assai più complicata delle albuminoidi mangiate.
Tra i fattori dell'Ordine secondo VArdigoismo primeggiava dal 1870 in poi
l'Indistinto, pallida luna, la cui luce rifletteva il sole dell'Inconscio di
Schelling. Degenerando (per la sua intrinseca contraddizione di essere in fondo
panteismo germanico e di voler parere ateismo positivista) ha finito col
ridurre lo Indistinto ad una astrazione dalla sensazione indifferente tra
soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e a renderlo così impotente a fare
l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel suo tentativo di popolarizzare
l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra). Restarono così a far l'ordine in
generale e Vor- dine biotico in particolare il caso ed il ritmo. Ma il ritmo
non è altro che la ripetizione ad intervalli dello stesso moto e non può fare
del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così VArdigoismo per la sua intrinseca
contraddizione ed oscurità e per la sua ostinata trascuranza di studiare la
natura vegetale ed animale e le leggi di tutti gli organismi, va isterilendosi
in una ontologia e fraseologia d'indistinto, d'infinito, e di casi. Perciò gli
scienziati Biologi Italiani che non seguono il Pitagorismo oggi si sono dati
alla fi- losofia dell' Inconscio di Schelling e di Hartmann (Die Philosophie
des Unbewussten, 2 voi.) altri- menti, per fare codazzo al rispettabile prof. Ardigò,
sarebbero stati condotti a dare di ogni or- ganismo una origine del tutto
casuale, come quella insegnata dal Marchesini (vedi sopra) (1). Ad ogni modo,
se VIndistinto che sta sotto ad ogni distinto è (come credeva VArdigò) un
pensiero, ci si dica se questo pensiero che opera sotto, en- tra davvero
nélVanimale e lo fa sentire, volere, godere o soffrire. Se sì, allora è inutile
l' Inconscio e si viene nel nostro Positivismo Pitagorico bruniano, ossia nella
filosofìa Italica. (1) Si legga la splendida Conferenza tenuta nell'Acca- demia
dei Lincei dall'illustre fisiologo prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M.
il Re nel 1910. — 132 — Se no, allora l'animale resta un trastullo della
divinità. E nello Ardigoismo (che nega la unità intima di ogni organismo) se
non si ricorre al- l'Indistinto Inconscio divino, manca ogni principio
informatore, e la gallina e l'uomo stesso (compreso il prof. Ardigò) diventano
prodotti del caso cieco e sterile. Nel delicatissimo lavorìo che prepara i
succhi nutritivi, si manifesta la vita sintetica della Unità organica generale,
che determina le funzioni di ciascuna ghiandola. I globuli bianchi sono
preparati dal fegato e dalla milza, la quale può dirsi una doppia ghiandola
linfatica, sierosa, chiusa, piena di vasi sottili, intrecciati in fitta rete,
specialmente nei corpuscoli del Malpighi. Dal fegato, dalla milza, dal chilo,
dalla linfa, escono i globuli rossi nuotando nel siero senza imbeversene,
contrattili, e si chiamano Ematite, Il plasma in cui le Ematie sono sospese contiene
la fibrina (che manca nel siero) e risulta dallo sdoppiamento del fibrinogene.
La trama delle Ematie o globuli rossi è fatta da un albuminoide ferruginoso
detto Emoglobina, da globulina, lecitina, cholesterina e sali minerali, per
assimilazione sintetica senza che intervenga nessun Inconscio Infinito. Di pari
passo con la funzione circolatoria procede quella di respirazione, che rinnova
ad ogni istante il sangue venoso a contatto con l'ossigeno. La pelle, fatta di
tessuto connettivo molle, non contrattile (ossia privo di muscoli) ma indurito
all'aria, emette sempre vapore acqueo, gas acido carbonico, ed un po' di azoto,
assorbe ossigeno, e fa, negli animali inferiori, quello che nei superiori è
affidato alle branchie ed ai polmoni. La funzione respiratoria si svolge
lentamente come la digestiva e la circolatoria. Nei Vermi marini le branchie
sono foglietti di vasi capillari. Nei Vermi superiori ed in alcuni Crostacei
sono a fasci di fili od a pennacchi. Nei Molluschi maggiori e nei Pesci
diventano interne, quasi fogli di un libro. 'NegYInsetti le trachee conducono
l'aria dapertutto e così anche in alcuni Ragni e negli Uccelli. Negli animali
superiori, poi si sono formati quei milioni di alveoli o sacchetti polmonari,
fatti di fibre muscolari liscie che nell'uomo presentano all'aria penetrata nei
polmoni la superfìcie di una sala (circa 200 metri quadrati) dove il sangue
venoso cambia la sua emoglobina in Oxy-emoglobina. Secondo Smith un uomo
sdraiato prende un litro di aria nel medesimo tempo in cui un uomo seduto ne
piglia 1.18, ed un uomo in piedi 1.33, chi cammina lento 1.90, chi va presto 4,
chi corre 7 litri. La funzione respiratoria tra le vitali è quella che si può
aumentare e perfezionare con maggiore facilità. In ogni organismo, oltre gli
atti vitali, vi sono quelli non vitali. Ogni cellula fa prima le sostanze
azotate, poi le non azotate, cioè i corpi grassi, la saccarosi, l'amido, la
inosite, il glicogene. Il sangue si depura per atto vitale nei reni, che
spremono fuori dal sangue la orina. Ma non è per atto vitale (bensì per forze
chi- miche soltanto), che le albuminoidi coli' idratarsi si cambiano in
creatina, lisatina, urea ed acido lattico. E per forze chimiche soltanto che la
urea fa il carbonato di ammoniaca. — 134 — Il sangue sano contiene mezzo grammo
per litro di acido urico che si idrata e si ossida e si elimina nei sani allo
stato di urea, di acido os- salico e di acido carbonico. Tutte le perdite di
carbonio, che è l'elemento accentratore, si fanno per atti non morfologici, non
vitali, non diretti dalla Unità organica generale, appena l'ascesa a più alta
unità, ossia al piacere di vivere, si rallenta in qualche parte. Queste perdite
avvengono disassimilandosi, idra- tandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le
funzioni principali della vita interna sana e specialmente l'assimilatrice sono
sempre fatte dalla Psiche poco a poco e diventano abituali, regolari, quanto
più sono ripetute di generazione in generazione e quanto più la specie ha
imparato a rendersi indipendente dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente
nel trovare abbondanti cibi, aria ed acqua salubri e nel perfezionare la
facoltà di vitalizzare il chilo, la linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la
Psiche fa le guarigioni. Come le malattie mentali derivano per lo più da disturbi
o da irregolarità della convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la
Per cezione e la Memoria, così le malattie del corpo dipendono spesso da
disturbi e da irregolarità nella irrigazione sanguigna. I vasetti capillari
sono lunghi nell'uomo 500 volte più delle arterie e delle vene non capillari.
Ogni capillare è composto di cellule fusiformi con un nucleo in cui arriva il
nervettino vaso- motore. Ogni organo può rendere indipendente dalla
circolazione generale la sua particolare. Vi sono due provenienze dei
nervettini vasomotori: quelli che dipendono dal gran simpatico, nelle emozioni
si restringono e quindi rallentano il corso del sangue; quelli invece che
dipendono dal sistema cerebro-spinale, si allargano, accele- rando il corso del
sangue. Nell'uomo sano, bene equilibrato, queste due azioni si alternano e si
combinano in guisa da mantenere l'armonia fra tutte le funzioni. Nell'uomo
immorale si disturbano a vicenda. I delinquenti ed i pazzi sono più o meno
inetti a regolare i vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora è eccessiva. La
sfiducia e l' inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione, e quindi
anche la ematosi o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie per le
quali corrono la sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che gli
animali si fanno dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla
propria unità generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per
regolare la Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa
la somagenia, ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri
della natura che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono
in una natura che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto,
per avere deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi — 136 — dei quali ha
bisogno (1) portano verso le uscite anche i veleni prodotti dalla fatica o
ponogeni (dal greco nóvoc, fatica) che sono l'acido lattico ed i leucomani, i
quali impediscono di rimanere attivi. La circolazione nutritiva della notte
rifa le forze esaurite nel lavoro diurno. I vasi capillari asportano per i
reni, per i polmoni e per la pelle i veleni ponogeni. I vasomotori regolano
sempre la produzione del calore animale. Si restringono se fa freddo, si dilatano
se fa caldo per far sudare e svaporare. Per molte ragioni adunque, guastare i
vasomotori è guastare la salute ; e la Unità disordinata da desideri immorali e
da passioni li guasta. La febbre è fatta dal sistema nervoso del gran simpatico
irritando i nervettini vasomotori ed il cuore, e le arterie ; alza la
temperatura da due a sette gradi sopra la normale, e stanca i muscoli. È una
reazione naturale che eccita gli organi ad eliminare le cause di malattia
esterne ed interne e specialmente le alterazioni del sangue: perciò questa
reazione salutare (a parità di cause) è maggiore nei fanciulli e minore nei
vecchi. La reazione salutare è sempre più benefica quanto più vi è fede,
speranza e piacere e non avviene o resta debole e fiacca in chi ha sfiducia o
paura. Del resto gli animali tengono nella loro milza un serbatoio di fagoceti.
La milza fa (oltre ai globuli bianchi e rossi della linfa e del sangue) anche i
così detti Lenii) Anche calce e fosfati per darli alle cellule del periosto e
per rendere possibile la formazione e lo induri- mento delle ossa, quanto più i
muscoli vi si appoggiano. coceti o Fagoceti che sono amebi atti a fare il tes-
suto congiuntivo attorno alle ferite ed a guarirle, cacciando via le infezioni.
Infatti gli animali privati della milza soffrono di infiammazioni. Nelle
infiammazioni essudative i Leucoceti cor- rono verso la parte che trovasi
minacciata, come i medici corrono agli ammalati. La infiammazione in generale
come la febbre è un processo salutare. Non è un processo fisico chimico, ma è
una reazione di queste guardie sanitarie benefiche che si chiamano Fagoceti o
Leucoceti. I quali corrono a prendere quella parte dei tessuti che si è
guastata per portarla fuori verso le uscite. Nelle malattie acute scendono a
milioni a purificare i tessuti, ed agguerriscono il corpo a procedere sicuro
tra le insidie dell'ambiente ed a rendersene indipendenti, all'opposto di
quanto pretende YArdigoismo. E sono sempre diretti dalla Unità generale
dell'organismo e non dall'Inconscio Infinito sopra o sotto naturale. Grazie
alla polizia sagace che viene esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati
si trovano leucomani basiche dannosissime. Ma la psiche riesce diffi- cilmente
ad impedire il moltiplicarsi dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal
moltiplicarsi dei Bacteri e specialmente le contagiose : I microbi anaerobi
fanno escrezioni velenose che il prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine.
Sono malattie ve- nute dall'esterno, che poco dipendono da disturbi della
irrigazione sanguigna. Sono regali dell'ambiente, che fanno ammalare e mai
guarire. Un'altra causa di gravi morbi è l'eccesso del mangiare e del bere
liquori e vini alcoolizzati, che produce una combustione vitale non completa,
arrivando a quadruplicare l'acido urico. L'inazione, l'inerzia, produce gli
stessi effetti della fatica eccessiva, cioè acido urico, che si depone nelle
giunture, perchè l'ossigeno del san- gue stenta molto ad ossidare le cellule
organiche. Le malattie per combustione incompleta producono erpeti alla pelle,
depositi artritici presso le ossa, guasti epatici ed ingrossamenti del fe-
gato, nefriti e litiasi: e cagionano le così dette diatesi braditrofiche, ossia
malattie croniche per rallentamento della nutrizione. Poco a poco, col
massaggio e la ginnastica, la psiche può libe- rarsene. Tutti conoscono la
riparazione dei tessuti che si opera rimarginando le ferite con tessuti nuovi e
simili, anche il nervoso. L' uomo può riprodurre il cristallino dell'occhio (se
non era stata levata la capsula), può rinsaldare le ossa rotte, e rifarne la
parte che manca (se è rimasto il periosto). Gli animali inferiori riparano
anche più presto. Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli fanno un
tessuto embrionale con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare le cellule
grigie del midollo, i gangli nervosi ed i muscoli. Se una impressione morbosa
ha cagionato una negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti, si fa una
neomembrana, detta Essudato, in cui si or- ganizzano nuovi vasetti capillari,
che riassorbono il male, per espellerlo nel torrente della circola- zione. Se
l'Essudato è soverchio, e non può essere -assorbito, si liquefa, si cambia in
pus, e va verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un corpo straniero è
penetrato nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con suppurazione per
espellerlo ; se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti profonde, dalle
quali non si può mandarlo via, viene circondato da vasetti capillari nuovi, che
formano una membrana di rivestimento o cisto, isolandolo per proteggere i tessuti.
Anche nei tumori del fegato formati da entozoari, avviene lo incistimento con
membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si empiono di concrezioni
calcari che loro impediscono di cre- scere. I flemmoni acuti della fossa iliaca
dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella vescica e negli intestini,
cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si chiude, si organizza una
vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi delle sostanze vele- nose,
la Unità organica fa poco a poco i contraveleni. L'animale vaccinato con le
antitossine, diventa immune, anche con dosi di un cinquemilionesimo di grammo
(1). (1) Due o tre secoli fa quando moltissimi contadini inglesi andarono a
lavorare nelle fabbriche, la tisi fece strage. Nel secolo decimonono i loro
organismi in poche generazioni divennero resistenti ed oggi la mortalità per
tisi è inferiore in Inghilterra a quella di ogni altro paese, perchè, come
dimostrò il prof. Sanarelli della Università di Bologna, gli organismi (quando
se ne lasci il tempo oc- corrente) tendono ad immunizzarsi. Così nelle Pelli
Eosse e fra i Negri, i germi della tisi portati dagli Europei fecero morire a
centinaia, perchè i loro organismi non erano abituati a lottare ed a vincere i
bacilli di Koch. Tra gli emigranti Italiani che andarono a stare nelle città
industriose dell'America soccombettero alla tisi quelli che provenivano da
provincie Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è rara, mentre quelli venuti dalla
Lombardia o dalla Liguria dove è frequente hanno resi- stito assai meglio.Le
malattie croniche sono per lo più cattive abitudini della natura che si faceva,
ossia meccanismi formati da errori e trascuranza dell'Unità di coscienza.
Creighton (Inconscious Memory in di- sease, 1886, London) attribuisce alle
cattive abitu- dini dei tessuti certi moti riflessi patologici, ed a quelle dei
tessuti certe febbri persistenti, certe affezioni cutanee ed anche catarri
cronici. Quando la legge sociale morbosa si è radicata, si forma una diatesi,
che viene ereditata. Ma l'esercizio muscolare e il sudore guariscono un po'
alla volta anche queste, e la Unità generale invita l'animale a far moto celere
per sudare. Il sudore (che traspira per la secrezione dell'acido lattico,
dovuta all'aumento della innervazione e della circolazione, al riscaldarsi del
sangue che corre verso la pelle per raffreddarsi) è il caccia- mali per
eccellenza, portando via ogni acidità e lasciando l'organismo alcalino e sano.
Quante guarigioni ha fatto il sudore! Il maggior vantaggio dell'esercizio
muscolare (sia fatto per lavoro professionale, o sia fatto per sport), sta
nell' accelerare la circolazione sanguigna, e quindi lo scambio dei materiali
inetti coi vitali, giacche in un muscolo che lavora passa 9 volte più sangue
che in un muscolo che riposa, mentre si rende più. facile la innervazione e la
dilatazione dei vasi. E siccome l'esercizio muscolare è sempre re- golato dalla
coscienza dell'individuo, ognuno ha il mezzo più sicuro per guarire dai suoi
mali. Il movimento non è necessario solamente al- l'apparato circolatorio,
respiratorio e al digestivo; ma a tutti gli altri apparati semplici e locali.
Lo stato liscio delle cartilagini, la secrezione regolare del liquido sinoviale,
la flessibilità dei ligamenti, tutte le condizioni anatomiche, indi- spensabili
al funzionare di un'articolazione, spariscono man mano che si sta fermi,
arrivando ad ossificare le fibre dei ligamenti, a fare delle ossa vicine un
solo osso ; mentre chi molto si muove conserva benissimo le giunture e
moltiplica le fibre ligamentose. I muscoli stessi che, nella inazione si
ritraggono, e perdono ogni elasticità, l'acquistano a misura che vengono
esercitati. Però va notato che il moto non è mai un tocca e sana, un rimedio
istantaneo, e produce le sue modificazioni salutari soltanto un po' per giorno,
sicché tardano per settimane e per mesi a manifestarsi pienamente, dovendosi
colla nostra natura che si fa, formare una natura fatta, cioè un meccanismo che
vada poi da se solo, salubremente, regolarmente. Un poeta inglese disse: Mentre
sei nella tua casa di carne muoviti; ci sarà tempo di riposare poi nella casa
di creta. Gli Inglesi se lo ripetono e nella età matura non poltriscono, ma
accrescono gli esercizi. Il football da ottobre ad aprile è frequentato assai
in tutti i prati che rompono la monotonia dei sobborghi di Londra. Si corre, si
salta, si danno pugni non solo i diritti ma anche gli storpi. E in pari tempo
si con- serva la tranquillità dell'animo, la fiducia e l'al- legria. In
America, Mistress Mary Eddy Baker ha fondato una religione che chiamò «
Christian Scientism » , ha i suoi templi in Boston ed altre città e diffonde la
fiducia nella salute; guarisce anche realmente molti mali e mantiene migliaia —
142 — di Ladies Cureers (1). A questo proposito non è inutile di ricordare che
in tutte le religioni si sono curate le malattie con la fiducia e che a
Cachemire, nella moschea maggiore, si conser- vano tre peli della barba di
Maometto i quali ogni anno fanno delle cure mirabili. E chi se ne potrà
meravigliare, se pensa che in tutti gli atomi e specialmente in quelli che
appartengono ad un organismo, nel quale hanno accomunato il sentire ed il
volere per un certo tempo, vi è un unanime accordo nelVassurgere a vita più
intensa e ad unità più alta? Accordo delle Unità molecolari cellulari ben inteso,
senza che venga giù dal Cielo Infinito di Ardigò, dalla sotto natura o dalla
sopra natura, alcuna di quelle cause alle quali VArdigoismo attribuisce
l'ordine. Si promuove la guarigione col crederci e col volerla. Spesso gli
organismi inferiori che parevano morti, ma dei quali non si era guastata la
morfologia, risorgono (come lo descrisse fin dal 1860 il Pouchet nelle sue «
Récherches et expériences sur les animaux résuscitants » ). Egli fece risusci-
tare fino a dieci volte dei Rotiferi disseccati col tornare a bagnarli. E così
pure fece rivivere degli Ostracodi e dei Radiati, delle ova di Apus, e delle
Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di idrogeno, di carbonio, e d'azoto, si
elevano nella mor- (1) Educate nel « Theological Metaphysical and Psychological
College » di Boston. Il Finot nella sua Revue disse che la volontà ha sopra
l'organismo la potenza di ringiovanirlo, guarirlo, raffor- zarlo. E consiglia
di svolgere tutte le forze con fiducia ottimista, preparandosi robusta salute e
vita lunga. fologia cellulare che trovano, rifacendo la Unità generale degli
animali che sembravano rigidi. Perfino dei Vertebrati offrirono non dubbi
esempi di risurrezione. Certe Rane chiuse da secoli fra le roccie appena ebbero
l'aria si mossero. Certi Pesci agghiacciati dai crudi inverni, quando ri-
sentivano l'aria e l'acqua tepida, poco a poco ricominciavano lo scambio col
mondo esterno e ritornavano sani. Qui non ci entra affatto l'Ipnotismo. Gli
organismi si sono fatti un po' alla volta per il piacere; e se la morfologia
non è guastata, appena il piacere ridiventa possibile {perchè ritorna la
umidità od il calore che mancavano)y ritorna la vita. Sopratutto nelle malattie
che dipendono da stasi sanguigne e in molte altre, la Psiche guarisce
agevolmente. In quanti sono i morbi che affliggono l'uomo poi, i bravi medici
cercano sempre di inspirare fiducia e coraggio, ben conoscendo che questi hanno
maggiore efficacia della Farmacopea. Non mancheremo, terminando questi cenni
sulla guarigione, di osservare che la Natura che si fa per guarire, non è
solamente la Unità generale dell'organismo; ma che vi concorrono le Unità dei
singoli organi, essendo tutti intenti, anche quelli della psiche passiva
diventata meccanismo, a conservare e ristabilire la salute. Come la Psiche fa
il Sistema Nervoso. Le due funzioni del sentire e del muoversi, quando furono
ripetute, depositano nelle vie per- corse delle sostanze più instabili, che
sono deli- catissime e dalle quali si formano i nervi e servono col semplice
rivolgersi delle loro molecole, a tra- smettere sensazioni e volontà. Il
sistema nervoso è assai rudimentale nei Celenterati, nei Polipi e Acalefi, come
le Meduse, nelle Pholades (molluschi inferiori). Diventa visibile nei Vermi
inferiori, e cresce bene nei Crostacei, nei Ragni e negl' Insetti, con-
centrandosi in fili bianchi formati da molti fasci e formando dei gangli o
gruppi. I gangli si avvicinano specialmente nel torace e nella testa. Nei
Molluschi Cefalopodi i gangli si accostano tanto da formare una sola massa
attraversata dallo eso- fago. Negli Scorpioni vi è quasi un piccolo cervello in
due lobi, poco separato dal grosso ganglio del petto. Le larve degli Insetti
sembrano Vermi, e con- servano come i Vermi la catena dei gangli : ma nella
metamorfosi il sistema nervoso si concentra in una massa, tripartita in testa,
torace ed addome. I Tunicati e YAmphioxus sviluppano meglio il sistema dorsale
ed il cervello ; e nei Pesci inferiori questo si divide in midollo allungato o
cervelletto, cervello medio (di lobi ottici e tubercolari) e cervello
anteriore, in due emisferi, che ingrandiscono poi nei Vertebrati superiori.
Sotto queste cinque forme (la diffusa dei Protozoari, la disseminata dei
Radiati inferiori, la ra- diata delle Meduse e degli Echinodermi, la bilaterale
ventrale dei Vermi, degli Artropodi e di alcuni Molluschi e la mediana dorsale
dei Tunicati e dei Vertebrati), la composizione della sostanza nervosa si
perfeziona gradualmente e arriva nei Primati e nell' Uomo ad avere molta
lecitina, che è la sostanza la più instabile e la più adatta a ricevere
impressioni. I fili nervosi fanno cilindrassi, chiusi in fo- dere di Keratina e
dal neurilemma. Della sostanza nervosa tre quarti sono acqua, il quarto che
resta solido è per metà di albumina e gelatina, e per l'altra metà di lecitina,
cholesterina, e di altre sostanze grasse e di fosfati. I fosfati predominano
nelle cellule grigie, che stanno alla fine di ogni nervo sensibile ed al
principio di ogni nervo motore, ed hanno l'ufficio di ricevimento o di
trasmissione dei dispacci. Nelle cellule grigie quasi nove decimi è acqua,, il
12 °/ è solido. La sostanza bianca che arriva nei gangli e nel cervello non ha
che il cilindrasse e la myelina, senza fodere ; è acida, con poca lecitina. La
lecitina si compone di molto carbonio, ed ossigeno, con qualche grasso, con
neurina ed acidi fosforici. La convergenza che fa sorgere la Unità intima
generale dell'organismo va sempre a finire nelle cellule grigie. La Natura che
si fa, col ripetere i moti, li fa andare con crescente facilità, finche di-
ventano moti riflessi, ossia Natura fatta. Nell'uomo il centro moderatore degli
atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello, dietro ai tubercoli
quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi, grazie ai quali
vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti gli atti
riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal cloroformio
(1), mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e quindi di
psiche passiva, ma recente, in- dividuale, non ereditata (come lo scrivere, il
nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal cloroformio.
— Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle celerissime parate
opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più tempo, e queste,
come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti, sono impossibili
sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi ereditari non soffrono
per il cloroformio (2) e predominano in tutta l' infanzia e l'adolescenza ed
anche negli adulti nelle funzioni interne, quali sono il deglutire, i moti
peristaltici degli intestini, l'animazione dei globuli rossi, il ritmo della
respirazione, la contra- zione dei muscoli, la defecazione, il parto, la
regolazione del corso del sangue che fanno i minutissimi nervettini vasomotori.
(1) L'imperatore Commodo dava nel circo al popolo Romano lo spettacolo di
parecchi struzzi che, presa la corsa, erano decapitati col lanciare frecce a
falce al loro collo : essi compivano gli altri tre quarti della corsa nell'anfiteatro,
per puri atti riflessi della loro spina dorsale. (2) Gli anestesici, cioè gli
Eteri ed il Cloroformio, sono volatili ed il loro effetto è passeggero. — I
nervi motori si avvelenano col curaro, i sensibili colla stricnina, e questi,
essendo contripeti, basta avvelenarne uno per ucci- dere l'animale. I muscoli
si avvelenano col cianuro di potassio. Nei moti riflessi abbiamo la prova
evidente che il Conscio fa l'Inconscio. Questi moti riflessi sono stati una
volta imparati dalla psiche attiva dei genitori, giacche l'In- conscio non può
fare mai il Conscio. Ex nihilo nihil. E dalla unità generale di coscienza
dell'or- ganismo animale deriva la combinazione di tutti gli scopi assunti
nella evoluzione, che esprimono lunghe serie di atti compiuti per godere la
vita, e deriva pure la prevalenza nell'uomo dei nervi sensibili sui nervi
motori (1). La maggior parte dei moti riflessi dipende dal sistema del gran
simpatico, che va dal midollo allungato al petto ed al ventre ed a tutte le
ghiandole. Dipende pure in parte dal medio simpatico detto anche nervo vago, o
pneumogastrico, che regola i moti del cuore. Il midollo allungato o bulbo,
regola la respirazione, la deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il nervo
splanchico può inibire l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello degl'
intestini è fatto dai gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi
dipendono dal si- stema rachidiano della spina dorsale, in cui, in-
trecciandosi i due sistemi nervosi (del cerebro e del gran simpatico), vi sono
quattro colonne : due dei nervi sensibili e due dei nervi motori. Anche le
cellule grigie sono doppie. (1) Sherrington mostrò nel 1906 (The integrative
action of the nervous system. New York) che i riflessi maggiori sono composti
di riflessi semplici e successivi, sopra una serie combinata di archi riflessi,
divisi ciascuno in metà efferente e metà afferente ; ossia partendo dalle
cellule grigie ed andando al muscolo o alla ghiandola. Il nervo conduttore è
fatto di neuroni che si toccano, ma non sono mai continui. — 148 — Nel cervello
la sostanza grigia trovasi alla periferia, sotto la corteccia nelle
circonvoluzioni e supera la metà, e la bianca con poca grigia sta nel centro;
ma nel midollo la disposizione è in gran parte contraria, ossia la bianca sta
alla periferia e la grigia nel centro. Però questa si con- tinua nella grigia
del cervello fino allo strato ot- tico e al corpo striato, dove si agglomera
nel mezzo del cervello. Le cellule grigie sono moltipolari, ossia hanno molti
poli o prolungamenti e sono alcaline. Quando una sensazione colpisce una
cellula grigia, segue l'assimilazione nuova. Il nervo in riposo è alcalino:
lavorando diventa acido e le sue sostanze più vitali cominciando a guastarsi,
fanno la cholesterina. Alla filosofìa importa molto la distinzione fra la
Natura che si fa ed i moti riflessi, e tra la scomposizione e la ricomposizione
delle cellule grigie. Herzen credeva che si avesse coscienza quando le cellule
grigie si disintegrano; ma appena si di- sintegrano la convergenza nervosa che
fa la co- scienza le reintegra, con una nuova figurazione. Allora alla
negazione di ciò che sembrava male fondato, ossia alla imagine difettosa,
succede l'af- fermazione di quello che dall'animale o dall'uomo è ritenuto
vero, utile o bello, una imagine cor- retta o nuova. Per sistemare il nuovo,
occorre prima disgregare la formazione erronea. Ritorneremo a parlare della
Natura che si fa sotto quattro nuovi diversi aspetti nel Cap. XII sui Muscoli,
nel Cap. XIII sulla Psiche generatrice, nel XIV sul Sentimento e nel XV sulla
Volontà. Insistiamo sopra questi rapporti, perchè la Natura che si fa è conscia:
mentre la Natura fatta è necessitata e va come un meccanismo, come quegli
struzzi privati della testa, che l'Imperatore Commodo dava in ispettacolo ai
Romani. (Vedi sopra, la noterella pag. 146). Come il midollo spinale ha quattro
colonne, due dei nervi sensibili e due dei nervi motori, così il cervello ha
quattro parti, di cui le due anteriori piò. alte giudicano e muovono in quei
centri che il prof. Flechsig chiamò i quattro centri spirituali; dopo che le
due posteriori e più basse hanno sentito in quei centri che lo stesso fisiologo
ha chiamati i cinque centri sensitivi. La massa delle cellule grigie nel
cervello alto è distribuita intorno sotto le meningi in 9 strati doppi sottili.
Ha circa mezzo miliardo di cellule, ciascuna delle quali mediante 4 fili
comunica con le vicine e con la sostanza bianca e grigia, che sta al centro del
cervello. I cervelli sono magazzini d'imagini che con- servano nelle cellule
grigie le più minute divi- sioni dello spazio e del tempo di quello che si è
veduto, toccato ed udito. La convergenza dei nervi per l'attenzione, si porta
appunto sopra quelle cellule grigie, dove si fa la percezione o che dopo fatta
questa, in- teressano per ravvivare nella memoria alcune determinate imagini.
II punto focale della convergenza generale è la vera Unità dell'organismo, e fa
l' Io che gode, soffre e pensa: e al di là, subito al di là di questo punto
focale, una minutissima divergenza delle stesse linee arrivate colla
Convergenza, lascia sul piano delle cellule grigie l'imagine di quello che si è
percepito e che si può in seguito rammentare, ritornando a convergervi le
forze. Io. Il punto focale della convergenza adunque è mobile, si forma a
seconda dei bisogni di questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si
riuniscono le imagini fatte nel cervello basso o strato ottico, stanno negli
strati corticali interni, mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule
grigie diventano sempre più piccole e contengono probabilmente gli estratti dei
simboli delle imagini. Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano
e si rinnovano cinque volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno
le percezioni o le astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme
nelle cellule grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento
delle cellule grigie av- viene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di
materiali, senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni astratti,
i quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le imagini
materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo delle cose
vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte dai sensi
dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite pensando
ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece quelle del
senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose vedute,
toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della Energia
fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce, ricorda,
rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il Pensiero è
un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il lavoro dei
muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella carne
contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è impossibile sta-
bilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il cervello anteriore
regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto regola il senso
muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i cordoni
posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue arte- rioso e
ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati corticali ed è
chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il cervello alto, ed un
altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata nevroglie, sotto le
meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie, del cervello alto, i
cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati consumati nel
pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello, avvengono
svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale contrazione
dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad un tratto,
si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce. Basteranno questi
pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel Volume Secondo
«L'Uomo secondo Pitagora». Il cervello umano pesa un solo quarantesimo del
corpo, ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie carotidi e le
due vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600 nei Pesci (che
sono i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili, come 1 a 212
negli Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto approssimativi e
presi in termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un cavallo che pesa
come sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha quattro libbre.
Dunque, relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello e più pensiero
del cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei precedenti Capitoli
abbiamo veduto il progresso graduale mirabile della Natura che si fa. In questo
vedremo come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza aver ancora al- cun
organo negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui protoplasma contrattile
si compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche non solubili. Il
protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori vi somiglia
assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi amorfi: i
nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V ultimo a
morire, è quello che governa la circolazione del san- gue e non si arresta mai
: è il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un uccello il
muscolo che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina), i suoi
movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si ac- celerano e si
pronunciano : ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue
(arterie) e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una
vescicola che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto:
diventa un cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la
orecchietta va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa
la quarta ca- vità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come
avviene la contrazione dei muscoli ? Avviene grazie a molecole di protoplasma
assai grosse, chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo
molto eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino.
Naturalmente nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille
intrapposte a contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il
sangue porta continuamente ai muscoli car- bonio, sotto forma di grassi e di
zuccheri (che sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non
consuma la propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue
arterioso ; anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e
poi in grado minore i quaternari cioè gli azotati (1). E la combustione non
avviene (1) I prodotti della combustione completa dei ternari sono l'acido
carbonico e l'acqua, e il prodotto della combustione completa dei quaternari è
l'urea. Ma se la combustione fu incompleta, il prodotto dei ternari è l'acido
lattico, e quello dei quaternari o azotati è l'acido urico, la creatina e la
creatinina, cause di grassezza, di artrite, di gotta, di renella, di calcoli
orinari e di nefrite. se non allora che la Volontà fa contrarre i muscoli
gonfiando i sarcous. Il gonfiamento dei piccoli in- visibili sarcous produce
quello dei muscoli visibili. Dunque la Psiche, che ha fatto i muscoli, è quella
che li fa contrarre. La combustione dei grassi e zuccheri è la principale
sorgente del calore animale. La contrazione è atto vitale psichico della Unità
intima volente, esercitata nella syntonina di cui fanno parte i sarcous. Invece
la elasticità, per cui le fibre muscolari ritornano ad allungarsi dopo che
erano contratte, è una proprietà fìsica della fodera delle fibre muscolari
detta sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i moti, li fa diventare abituali
ed atti riflessi. Il plasma muscolare dei sarcous, detto myosina o syntonina,
che sta fra le fibre, si coagula come il sangue. I muscoli viventi sono
elastici, mentre i morti sono rigidi. Un muscolo affaticato non si contrae più.
Ma se la Volontà è forte, ed esercitata, bastano 2 minuti per riattivare tutti
i muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di lotta ne prendono 2 di riposo e
così continuano per parecchie ore. Ogni 3 minuti l' Unità intima raccoglie la
sua energia per tornare a gonfiare i sarcous. II sistema muscolare è una
batteria di archi intrecciati ; ma chi lancia la freccia è la Volontà, forza
unitaria più delicata. Due uomini della stessa musculatura, lavorano molto
diversamente, secondo la loro volontà. La differenza può andare dall'uno al
dieci. Quando i nervi eccitano i muscoli a contrarsi, il sangue ci corre per
avidità dell' influsso nervoso — 155 — dal quale furono fatti, essendo il
sistema muscolare una continuazione dei nervi motori. E va notato che lo stesso
nervo motore può contrarre il muscolo e può anche inibire il movimento, secondo
che comanda la Unità intima, per il bene del Collet- tivismo organico. Il nervo
motore comincia a deperire nella cel- lula grigia cerebrale, perchè la volontà
è centri- fuga; mentre i nervi sensibili cominciano e deperiscono a partire
dalla periferia, essendo emissari del cervello, che devono prendere le
impressioni dell'ambiente. Perciò le sensazioni si diffondono ; mentre il nervo
motore muove un solo muscolo. I muscoli sono un po' innervati continuamente,
quanto maggiore è la Energia della Natura che si fa ; e sono quindi elastici,
perchè gli estensori ed i Settori si equilibrano. Marey dice che, se i muscoli
non fossero elastici, dovrebbero fare un lavoro decuplo, con un risultato
ridotto al decimo. La loro elasticità si può far crescere con la Volontà e con
l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente quei lavori di equilibrismo,
di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali difficili in alcune
professioni, che si ammirano. La Natura fatta della Volontà si può vedere sui
corpi delle persone addestrate da lungo tempo alle ginnastiche: ed è un
complesso di vasomotori, di nervettini del senso muscolare, di arterie, di
vene, di muscoli collegati, che permettono di fare con prontezza movimenti
impossibili a chi non è esperto, sempre diretti dalla Unità intima Volente.
Quando danno spettacolo di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati, gli
equilibristi, questa Natura fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i prò- —
156 — tagonisti, stanno attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove circostanze
che si presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca, Acrobatica ed
atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad innervare le
spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono incomparabilmente
più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli hanno dei
nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare, col quale
noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche anestesiche possono
fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola sensibilità muscolare.
Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà. Fra i muscoli bisogna
distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre liscie. Le fibre liscie
(lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella vescica, nelle ghiandole,
nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si con- traggono ad ogni
improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai delicati che vengono dal
gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran simpatico anche i muscoli
che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo l'addome ed il diafragma
più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per sviluppare la salute sono i
muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla colonna dorsale, che sono i
più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi' intestini. Piacere e dolore
crescono con le fibre striate. I più dipendenti dal^ cervello sono quelli della
laringe. E evidente la Natura numerica della Unità in- tima quando cantano
Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una interna ed elevata capacità di proporzionare
la lunghezza delle corde vocali, rie- sce impossibile di emettere i suoni
voluti. A tal uopo la struttura fatta dalla Volontà di cantare deve essere
diventata un Meccanismo. Nell'uomo la laringe ha due corde che fanno le note
basse, vi- brando in tutta la loro lunghezza. La glottide le ravvicina per
farne vibrare una parte soltanto, a misura che il suono si vuol fare più acuto.
Finite le note di petto, la sola parte che vibra dà un falsetto, perchè manca
l'aria. Per fare le note gravi la faringe si contrae, la epiglottide si alza.
Un tenore, un baritono, un basso profondo, un soprano, col muscolo tiroide (se
hanno una Natura fatta esercitata) possono, senza preamboli, emettere quella
Nota che desiderano. Basterebbe osservare questa facoltà di proporzionare i
movimenti muscolari ed emettere le varie Note per far diventare pitagorico
chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni fatti della fisiologia utili a
dar fondamento alla filosofia della vita. Il Pitagorismo esclude l'indeterminato
e vuole che tutto sia definito se è possibile matematicamente, giacche la
matematica è l'ossatura delle forze fìsiche, chimiche e biotiche come disse il
Galilei. In fisiologia questa ossatura è determinata dalla Natura che si fa
della Unità organica distinta e precisa, che numera col numero reale (e non col
concettuale) intenta ad esercitare le funzioni es- senziali: digerire,
respirare, sanguifìcare. assimilare e generare, attenta a cercare il piacere e
fuggire il dolore, bramosa di ascendere a più alta unità e di affermarsi. Più
che in tutti gli altri muscoli, in quelli della laringe, i nervi nel farli,
nell' intrecciarli, nell'educarli, misurano col Numero reale. Della Parola
diremo nel Yol. II. La Psiche generatrice Vedemmo ette gli organismi sono
associazioni collettivismi di cellule, formati sentendo, desi- derando e
volendo. Fra il sentire e il volere, vi è di mezzo non già il Concetto
Hegeliano, ne lo Indistinto Ardigojano, ma una figurazione dell'atto necessario
per svilupparsi. Ripetendo quell'atto, la Natura che si fa lo cambia in Natura
fatta poco a poco. All'individuo bastano pochi giorni per fare un'abitudine :
alla specie abbisognano molte generazioni. Le abitudini di due o tre
generazioni non divengono Natura fatta della specie, ma quelle conti- nuate da
molte generazioni rendono durevole la modificazione. Nel Oap. sul sistema
nervoso abbiamo distinto gli atti riflessi che sono di natura fatta individuale
o di poche generazioni, da quelli di molte generazioni, che si compiono senza
avere la imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le parti più antiche,
cioè i tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di tutte agli
anestesici. 1 muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali, ma
continuano ad essere irritabili se non sopravvengono gravi guasti
nell'organismo generale. Meno dei muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole,
il senso nutritivo, il senso respiratorio, il senso erotico. Invece la
sensibilità conscia è subito abolita, appena vengono somministrati Etere o
Cloroformio. Gli atti della sensibilità conscia progrediscono poco a poco e
sono essi che fanno i piccoli perfezionamenti degli organi digestivi, dei
respiratori, della circolazione, delle secrezioni, della sen- sazione e della
locomozione clie vanno complicando e perfezionando gli organismi, facendoli
passare dallo stato di Protozoari a quello di Animali più evoluti. La Natura
fatta acquisita è una consuetudiner una legge, un esercito addestrato in modo
diverso e proprio di ciascuna specie, in cui si riflettono tutte le sensazioni,
tutte le volizioni, tutti i coefficienti del passato : cosicché ogni dettaglio
nelle forme e nelle funzioni di un animale, ha avuto la sua causa intima.
Questa legge di evoluzione si riproduce rac- corciata nel seme, nell'embrione,
nel suo modo di crescere e di fruttificare — il che si esprime dicendo che la
filogenia (origine della specie) si ricapitola nella ontogenia (origine
dell'individuo). Quindi bisogna precisare che non è una memoria, come la
chiamano molti naturalisti poco filosofi, quella che fa uscire dal seme l'una o
l'altra pianta, e dal seme di un animale l'uno o l'altro tipo zoologico. Non è
una Memoria,, ma è una Legge, una forma di moto, una psiche obbediente,
passiva, inconscia nel suo complesso. Da molte uova di pesci e di uccelli di
specie diversa, escono pesci ed uccelli assai diversi. Da spermatozoidi e da
ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di Primati, di Uomini, escono Vertebrati assai
differenti, senza che la psiche sociale inconscia, nel ricapitolare la lunga evoluzione
della specie,. mostri mai una libertà di volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto
va meccanicamente, necessariamente ; ed anche le mostruosità, le forme terato-
logiche hanno sempre cause straordinarie di di- sordine. I moti una volta
imparati vanno senza imagine, sono ornai voluti fortemente, organizzati,
diventati meccanici : camminando non pensiamo al moto delle gambe. Non si può
chiamare Memoria se non quella dell'Individuo, al quale ricorda le sue
percezioni, i suoi atti. Non si può avere Memoria senza possedere il sistema
nervoso e specialmente la so- stanza grigia, in cui deporre e conservare le
inda- gini. Hering professore a Vienna è stato il primo a chiamare erroneamente
Memoria questa Legge o statuto sociale, progressivo delle specie che si
-evolgono. Nella sua Dissertazione all'Accademia Viennese 1870 disse che la
Memoria è una funzione generale della natura organica, e questa parola male
applicata ha generato poi molta con- fusione così in zoologia, come in
fisiologia ed in psicologia. La Legge o statuto sociale organico procede sicura
fintanto che l'ambiente non sia troppo av- verso. E intimamente connessa con la
Unità che la figurò. Le filosofìe straniere non spiegano il mistero della vita.
Lo Inconscio di Ed. Hartmann come può far tante meraviglie nella sua
inconsapevolezza? A che servirebbero il dolore ed il piacere degli organismi,
se questi sentimenti non governassero la loro vita e la loro evoluzione e tutto
fosse operato da una divinità inconscia? Tanto più che nello Inconscio di Hartmann
la Volontà lotta sempre con l'Idea. In
realtà non vi è affatto questa pretesa lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma
fra il Sentire e il Volere vi è la figurazione del moto che può giovare,
figurazione che non si può chiamare Idea, Concetto o Pensiero. Le altre scuole
non facendo la distinzione fondamentale fra la Natura che si fa, libera, e la
na- tura fatta, necessitata restano impotenti nei problemi essenziali della
vita e dimenticano la Unità intima che dà il piacere di vivere, fattore primo ed
essenziale. Piacere che è più che mai sentito e goduto nell'Amore, quando tutte
le psichi degli organi si fondono in una grande unità, ed è sentita colla
figurazione delle forme teleologiche del sistema di forze proprio di ogni
specie, ossia della legge o statuto sociale dell'organismo. Un sentimento
finalista, prepara in questa figurazione le generazioni future. La sintesi del
collettivismo organico, agognata e goduta con sentimento, figurazione e
volontà, è la causa della Eredità e somiglianza dei figli agli antenati, salvo
quelle piccole modificazioni che furono vivamente bramate. I passi più notevoli
nella bellezza e nell'utilità della struttura, si preparano a lungo e si fanno
prontamente nella sintesi Erotica, e nell'Embrione quando il Collettivismo
organico è vivamente sintetizzato. Platone vedeva il divino nell'Amore ses-
suale, perchè (egli diceva) prende tutta l'idea della specie, e la realizza.
Possiamo dire che è la tra- smissione della Legge sociale del Collettivismo. La
forza di ogni cellula dell'organismo, con- verge e concentra sopra poche
cellule tale funzione, sia che si faccia per germinazione, sia che si faccia
per fusione di nuclei germinativi sessuali. Dapprima il piacere di congiungersi
si compie senza sessi, ringiovanendo i nuclei delle cellule, per semplice
fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei Magellati. Le cause meccaniche non
bastano per aggruppare intorno ad un progenitore, per riproduzione senza nozze,
individui primordiali, per formare un individuo superiore, e tanto meno a dar
ra- gione delle forme seriate, ossia disposte in serie, e meno che mai a
spiegare la differenziazione autonoma. Sono necessarie le cause interne vitali
(sensazione, desiderio, figurazione, volontà) a trasfor- mare gli organi. Ci
vuole poi gran concentrazione morfologica per moltiplicare l' individuo e fare
le -colonie. E gli animali inferiori stentano tanto a fare tale concentrazione,
che la prole resta impotente a diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni
gradatamente si sviluppano fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori
{Celenterati, Crinoidi, Vermi e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi
mai un organismo uguale al genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ri-
corda il primo individuo delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei
Corollari, e degli Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si
muove, diviene un primo anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà
poi di testa nei Vermi {Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra
di acqua dolce non vi sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei
Polipi idrati sono migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che
si isolano nuotando per godere le nozze, le — 163 — fanno. Un siconoforo è una
federazione fluttuante di Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori
e nutrici. I Polipi del Corallo formano grandi co- lonie ; ma anche fra essi vi
è VAnemone che vive isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il
rampollo, come nei Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono
formati essi pure da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle
altre. Negli Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa,
ma ogni anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio
nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano,
fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe,
nuotatrici, tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre
piccolissime, associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna
le funzioni riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede
nascere, e le nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono
con nuovi anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione
si fece per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare,
portando al centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i
Molluschi, cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi
dai ne- mici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià,
non mostrano mai di es- sere segmentati, e possono anche non essere derivati
dai Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o
parti ta- gliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle
Piante. I Crostacei derivano in gene- — 164 — rale da specie che avevano venti
segmenti. Il Pe- neonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il
gambero ha 21 segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni
nati avanti tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche
senza di esse, quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo ani-
maletto, finche mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali
quando sarà crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sem- pre una
crisi di maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i
germi della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando
il guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da
succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api,
nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si
osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile
senza le forze che accumulano le ener- gie delle precedenti generazioni (1). La
concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli
ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è
maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la
femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes:
Evolution of sex. 1890, Londra). (1) Nella « Biologia taurinensis » di A.
Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice che chi vuol spiegare fisicamente la vita,
prende sempre per isbaglio delle analogie parziali, come se avessero valore
totale. — 165 — L'ovulo nasce nella donna dall'epitelio dell'ovario, che è uno
dei tessuti più bassi, e più antichi dell'organismo. Anche gli spermatozoidi
nascono dal tessuto epiteliale dell' uomo. L' uovo fecondato del maschio non si
sviluppa in modo molto diverso dalle uova partogenetiche. Loeb e il prof.
Delage della Sorbona 1906, trovarono il modo (con so- luzioni saline e
semidolci miste a tannino), di pro- vocare la fecondazione artificiale delle
uova di al- cuni minuti animaletti marini, alternando la coa- gulazione (con
acidi) e la liquefazione (con alcali) delle albumine dell'uovo. L' uovo femmina
ha molto citoplasma ed un pronucleo privo di corpo centrale. Il maschio ha un
centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun ci- toplasma. Il centrosoma maschio si
biparte fecondando la femmina. Ogni organismo superiore esce da uno sper-
matozoide che, nel suo mezzo milione di cel- lule, riunisce l'idea vitale da
svolgere, ossia la psiche passiva degli antenati, in sintesi morfologica, che
incomincia il suo impulso nell'astro del coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale
in tutte le specie superiori, ma ben diversa è la psiche passiva che riceve dai
genitori. Entrando nell'ovulo lo irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula
uovo principia a segmentarsi ed a sviluppare (con struttura semifluida)
l'embrione, dotato di una psiche passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo prodotto
in una delle vescicole dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto sangue,
gonfiandosi e rompe il follicolo, andando nelle trombe falloppiane, facendo
mestruare la scimmia e la donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei mammiferi è
piccolissimo, ha quattro parti, cioè la vitellina, o zona pellucida esterna, il
vitello pieno di granuli, e fra queste la vesci- cola germinativa di Purkinje e
quella embrionale di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di più l'albume ed
il guscio calcare, dovendo essere nutrito e riparato fuori dell'alvo materno,
covato tre settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i materiali nutrienti
dalla placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle vacche sono
parecchie). Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi contorti,
che sboccano nel canale eiaculatorio : in ogni tubetto si formano strati di
cellule di cui le più centrali allungano una coda e divengono così
Spermatozoidi. Brown Séquard iniettando sotto la pelle dei neurastenici
l'estratto dei testicoli di giovani animali fatto a freddo, ne guarì molti. La
spermina iniettata sotto la pelle è tonica per due settimane e non fa mai male.
Lo sperma contiene un numero enorme di sper- matozoidi ed uscendo si accompagna
al liquido delle ghiandole del canale eiaculatore, al fluido delle ghiandolette
del prostata ed a quello delle ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo
sperma cristallizza alla superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi
estinguono i movimenti degli spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li
conservano. La testa dello spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il
corpo è fatto da materie albuminoidi con lecitina e ce- rebrina, e il 5 °/ di
fosfati (1). La Psiche ge- (1) Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte
dal trasformarsi delle proteine nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel
Salinone, il testicolo cresce a spese della — 167 — neratrice è affidata a
questi elementi chimici, in- vestiti dalla Volontà o Legge o Statuto sociale
ereditario. Quando corre molto sangue all'utero fecondato, incomincia alle
mammelle la secrezione de] latte, umore albuminoso pieno di globuli bianchi e
di cellule nucleate dolci, che dopo il parto diventa un composto di caseina, di
lactosi, di sostanze grasse neutre e di sali. Siccome il sangue non contiene
caseina, ne zucchero di latte, così è certo che vengono segregate nelle
mammelle che gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i globuli
butirici rendono opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte si
altera : ma presto ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre il
sangue dopo la fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte le
cellule nella cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione
che si moltiplica, finche si forma la così detta Morula ; un assieme di palline
come mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro
della Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le
pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo,
intanto che gli animali non mangiano. — Secondo Bang, invece di protamine vi
sono istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più
tardi in protamine e proteine, che for- mano le teste degli spermatozoidi. Del
resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di
tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli
ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro
di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma.
Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè
il Mesoderma in- vaginando : il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni.
L'Esoderma si sviluppa in sistema ner- voso muscolare, con un primo tubo di
nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio.
La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un
corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati,
fa- cendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che
diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione:
è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di
fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte
difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la
genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli
organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le
forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo
zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle
fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono
diversamente. La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di
formazione delle specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La
Unità infima nel Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo
organico, ed è piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La
sensibilità organica (che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita
animale, tenendone gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici)
detta in greco Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i
muscoli, nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della
respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da
milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e
della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è
ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità.
Il carattere viene dal complesso di tutte le cel- lule nervose, mentre l'
intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è
dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali.
Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime
stasi sanguigne; nella salute si gode fa- cendo una ginnastica, aumentando la
circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra.
Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due
se- — 170 — condi minuti, dopo l'eccitamento ; tempo necessario per fare il
bilancio dei vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono
confronti fatti dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra
mai, relativi all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed
alle forze dell'in- dividuo ; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima.
Il tempo è abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni
localizzate nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2
centesimi di minuto secondo dopo l'ec- citamento. La differenza del tempo dal
sentimento alle sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento
eccita il cervello e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle
degl'intestini, nella collera quelle del fegato, nelle in- quietudini i reni e
la vescica depuratori del san- gue ; nel dispiacere e nel dolore le lagrimali.
Nei sentimenti che deprimono, il cuore si ral- lenta e nel primo istante si
arresta. In quelli stellici il cuore batte più celere e le arterie si al-
largano, il cuore si vuota più facilmente, nelle emozioni liete, e più
difficilmente nelle emozioni tristi, per cui il popolo attribuisce i sentimenti
al cuore. I sentimenti di piacere e dolore, salute o malattia, coraggio o
paura, simpatia od antipatia esprimono il rapporto in cui stiamo con le cose e
in massima parte dipendono dal sistema nervoso del gran simpatico, operando sui
nervettini vasomotori. Essi promuovono la Evoluzione destando i desideri e
facendo la convergenza sulle sensazioni e sulle imagini che più giovano a preparare
il proprio vantaggio. Esprimono a fondo la Unità numerante, perchè consistono
dal principio alla fine in confronti di proporzioni (benché fatti senza Numero
astratto) e sono comuni agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte fra le varie
vie, i cibi, le bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi di condursi,
le risoluzioni importanti prese d' improvviso e anche le meditate sono
suggerite dal sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione del
sentimento il sistema vaso- motore modifica la digestione e la secrezione della
saliva, dei reni, delle lagrime, del latte (1) ecc. Il piacere ed il dolore
sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico, dell'Intensivo conti- nuo
nella sua intima forza : Varmonia che fa espandere le Energie, la disarmonia
che le co- costringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni piacere aumenta la forza
muscolare ; prova che ogni energia vuole ascendere. La felicità corporea sta
nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla ed è vizio il
dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua nascita ed è quindi
ascendente in ogni specie, in ogni individuo che progredisce. Ogni Io sorge in
condizioni diverse dagli altri, e (come diceva Góihè) chi gode meno è chi
scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo intelligente è originale nel modo
di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione armonica fa piacere più assai che
la ripetizione delle co- (1) La gioia aumenta la secrezione del latte, la paura
la diminuisce e l'arresta. La vacca e la capra munte da mano straniera non
danno latte. — 172 — nosciute e già provate : e questo è lo stimolo che fa
ascendere i piaceri e specialmente quelli artistici. Ogni allargamento del
dominio sopra le cose è piacevole, ogni restrizione ed asservimento è doloroso.
L'ambizione di promovere il bene comune è sempre piacevole e non è vero quel
che disse Bahnsen (nella sua Charactérologie) che sia mossa dall'egoismo. La
gioia giova molto al cuore, ai vasomotori, allo stomaco, al fegato, a tutto il
sistema nervoso e ghiandolare. L'amor sessuale aumenta molto la circolazione
del sangue, la respirazione, il godimento del tatto, del senso muscolare. Ogni
espansione di vitalità e di forza, che non esaurisca, fa bene: rende l'occhio
più vivo, il cuore batte più celere, le narici si allargano, la respirazione si
fa più frequente e profonda, i muscoli si alzano, il sugo gastrico corre allo
stomaco, la saliva alla bocca, tutto il corpo aumenta la Cenestesia, non
soltanto nei piaceri corporei della tavola, dell'alcova, della ginnastica, ma anche
negl'intellettuali, come la contemplazione di un ca- polavoro dell'arte, di un
bel paesaggio alpestre, di un progetto industriale promettente, o l'ascol-
tazione di una musica che gradevolmente ci molce l'orecchio (1). Le teorie che
fanno derivare i sentimenti benevoli dalla esperienza, dalla utilità sono
superflue e false. L'amore infatti pervade tutto l'uni- verso e dà maggiore
piacere che la malizia ed il calcolo egoistico, anche ai più vili animali. (1)
Nei piaceri intellettuali l'aumento della circolazione, della innervazione è
minore in paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano piacevolmente i
vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità, specialmente se sono
variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non confondersi con
l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la re- spirazione, e la vita
e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte può far piangere per la
pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto cagionato da dolore aumenta la
circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto per cacciar via le imagini
tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da ammirazione per la bellezza,
la bravura e la bontà (1) per cui si entra nel modo di sentire dell'ammirato e
la Unità intima dell'ammiratore si mette all'uni- sono con quella di colui che
lo incanta. La collera e la gioia aumentano la innervazione dei muscoli,
dilatando i vasi, mentre la paura e la melanconia abbassano V innervazione e
restrin- gono i vasi. La paura fa impallidire perchè re- stringe i vasomotori,
raffredda il corpo, rilascia gli sfinteri, peggiora le malattie. Il terrore
inibisce ed arresta il cuore. La melanconia è l'atonia di spirito deprimente, è
un rinunciamento ad ogni convergenza, e se dura a lungo, sconcerta ogni
funzione vitale e si co- munica altrui, come gli altri sentimenti. Il disgusto
deriva dal palato e dall'odorato, che sono legati al pneumogastrico, promovendo
moti ri- (1) Ed è comune anche fra gli animali. Si sono visti vertebrati di
varie specie rifiutare il cibo e morire d'ina- zione per aver perduto l'amante,
cani desolati per la morte del loro padrone, e persino oche ed anitre zoppe
sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi intestinali
e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto hanno un
fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono movimenti di
avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è, perchè lotta
sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si intellettualizza, genera
l'in- vidia, e il risentimento, composti dallo istinto ag- gressivo e del
calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per evitare le vendette
e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che hanno le varie specie
di delinquenti non vanno ascritti a necessità ere- ditata (benché si erediti il
carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni nuove. Esagerando le
ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole di un gran numero di
osser- vazioni personali sui delinquenti e sui pazzi, so- vente male applicate,
Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a moltissimi italiani viventi che
i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i nostri delinquenti sieno uomini che
ritornano allo stato dei loro antenati selvaggi. Però non è così ; se vi sono e
vi furono popolazioni selvaggie feroci, ve ne sono e ve ne furono molte
pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù, fra popolo e popolo va ascritta
più che a nativa malvagità, alla debolezza del pensiero ed alla incapacità di
estendere il proprio ideale sociale al di là di certi limiti, di fiumi, di
monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini di lavoro. Infatti (come
osserva l'eminente economista prof. Achille Loria) , i delinquenti convicts,
deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono in una sola
generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda democrazia del «
Common Wealih of Australia » dove due città più popolose di Roma e di Napoli
(Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di beneficenza ed
hanno meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa l'anima : ma è
l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente : chi è triste
rende tristi i suoi confabulatori, chi è al- legro tiene allegra la brigata, un
buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le carceri, il
domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le
conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il
Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la
causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia
passionale, è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che
si sceglie a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che forma
le sue abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare la
fìsonomia e per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della loro- carriera
molti delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si dimentica che
la Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo fabbricato poco a
poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico del disordine del
carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il disordine del sistema
vasomotore, per cui la reazione ora è ec- cessiva, ora insufficiente e manca
l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze dei propri atti e di
moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee Lombrosiane, l'eminente
penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla sua dottrina fatalista,
at- tribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad una malattia, di cui
l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non va dispregiato più
che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova scuola penale, quando
guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte del leone ai parenti
malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il Maudsley (Crime et folie,
p. 255) dice che allorquando il cervello ha principiato a degenerare, l'uomo
può prevenire o con- tenere la pazzia o il delitto con lo sviluppare il
controllo della volontà e col proporsi un alto scopo. Non è la morfologia, ne
l'atavismo che fa i cri- minosi, ma l'educazione data al popolo dai cattivi
Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d' Italia perchè l'Austria
amministrava onesta- mente, come la Repubblica Veneta. Invece nel Lazio dove l'
ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo ogni cittadino comunicarsi a
Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si con- cedeva per favore a chi obbediva
e serviva al clero ; in Sicilia, dove la polizia dei Borboni stava agli ordini
dei Feudatari, e l'autorità sembrava disonesta e nemica del popolo (il
Colajanni assi- cura che facilmente ancor oggi si depone e si giura il falso in
giudizio) ; nel Napoletano, dove a questi mali si aggiungevano i cattivi
esempi, venuti dalle alte classi, la delinquenza è massima. Bisogna badare alle
fonti dalle quali provengono i germi di degenerazione delle idee e dei sentimenti.
A guastare le idee provvede fra noi una filosofìa balorda, a guastare i
sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti di Assise e le
cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri, il domicilio
coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania riuscirono a convertire
a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso riteneva inconvertibili.
Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi diri- genti erano morali,
lo diventavano anche i popolani e viceversa. I sacerdoti ed i feudatari malvagi
hanno diffuso la diffidenza e la ferocia. L'eroismo e l'esal- tazione, quanto
il panico e la paura, e i sentimenti di odio e di vendetta, passano dai
caratteri forti ai deboli, come provarono il prof. Sigitele ed altri. Chi non
ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille ? Chi non sa quanto gli occhi
dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi valessero ad in- fiammare i
giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria libera quando era serva?
Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché Medici ed i suoi trecento,
difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue come un sol uomo? Dunque i
sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il sentimento religioso, come lo
ispirano i sa- cerdoti, colla paura dell'inferno, può trovarsi negli animali
domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo intesero così basso. Certe
specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di adorazione al levarsi del sole
e seppelliscono i loro morti. Il sentimento religioso (come lo dice il nome) è
quello che fa sentire la parentela che abbiamo con tutte le cose, con tutti gli
esseri, e la derivazione dalla conscia Unità del Cosmo. Ma non si è sviluppato
se non molto tardi nella storia. Vico e Comte sbagliarono supponendo che la
prima età fosse quella degli Dei. Era piuttosto consacrata al culto dei defunti
e delle forze naturali. I selvaggi primitivi credevano che la Natura fosse un
seguito di fatti causati dagli spiriti incorporati nel sole, nelle stelle,
nella luna, nei monti, nei numi, nei mari, nelle piante, negli animali e persino
nelle rupi. Tiele provò che tutte le religioni più antiche cominciarono
dall'adorazione delle forze naturali e dal culto degli antenati, dei genii
protettori, o dei genii malvagi che mettevano paura. Lo spiritismo odierno ci
mostra con quale fa- cilità uomini anche istruiti, ma inetti a pensare, si
danno a credere alla esistenza di spiriti invisibili ed alla loro influenza. E
infatti, in moltissime tribù selvagge, divengono sacerdoti o maghi coloro che
possono ipnotizzarsi ed entrare in estasi, costringendo i de- moni a desistere
dai loro perfidi propositi, ed invocando l'aiuto dei buoni genii. Le tribù tu-
ramene dell'Asia centrale e settentrionale e quelle di varie parti dell'Africa
credevano tutte che, per- dendo la coscienza e lasciandosi ispirare dalle
potenze occulte si trovasse il rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei dei
popoli selvaggi, anche se più evoluti, operano sempre come uomini, capaci d'ira
e di vendetta. L'origine dei miti sta nella combinazione d'idee che è propria
dei selvaggi, per cui si rassomigliano le leggende dei Greci, dei Celti, dei
Lapponi, degli Eschimesi, degli Iro- >ehesi, dei Cafri e dei Boscimani, come
li ha confrontati fra loro Andrea Lang. Il progresso mitologico consisteva nel
conside- rare come astratti, vecchi e privi di attività gli Dei di prima e come
realissimi quelli immaginati dopo. Così al Cielo e Terra dei Turanici, gli Ari
opposero Varuna o Ritam che fa l'ordine; ma poi Varuna tramontò e si fece
annanzi Indra il dio della luce. Allora la religione ascende di grado e diviene
più razionale ed intima. Si fanno sagrine! e scongiuri magici, nel mentre si
prega come persona a persona e già nei più antichi inni Vedici, Varuna è
invocato a perdonare i peccati. La lode della divinità si accende per la
speranza nella vittoria dei propri fini individuali o sociali : e per
conseguirla si viene accentuando la potenza e la generosità del Dio ; gli si
fanno offerte, sagrine!, gli si erigono templi, si stabilisce un culto. Il
Cielo degli Indiani è anche il Dyaus Patir, il Padre celeste; il Tien dei
Cinesi è il padre degli Dei e della Natura simbolo del maggior Dio; in Egitto
il sole unificava gli dei locali primitivi, e così fra i Summeri e Accadi sull'
Eufrate e fra i primi Semiti. Il culto del sole prevalse fra i Malesi, i Baici,
primi immigranti nella China, e nei Sinto del Giappone, ed anche nel Messico e
nel Perù, quando passarono in America la magìa e l'astro- logia dell'Asia. Ra,
Dio del sole, ispira a Tot o Ermete i quarantadue libri sacri degli Egiziani,
che insegna- vano la eternità della vita e del pensiero. Il Dio accadico del
fuoco, Kebir, si fuse col Dio iranico del fuoco e col Bel, Dio del sole.
Nell'India andò perduto il carattere personale del Dyaus Patir degli Ari
primitivi e si pensò Brama come spirito assoluto, volontà impersonale che fa la
Maya o illusione del mondo. — 180 — Invece nell'Iran (Sogdiana, Battriana) fu
concepito un Dualismo del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro Arimane capo
dei demoni. L'idea di un regno di Dio in cui tutti sono solidali e il merito di
alcuni si estende a tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola città di Ur,
dove fio- riva una delle scuole teologiche di Zoroastro uscì Abramo,
capostipite degli Ebrei che conservarono il dualismo iranico, di angeli e
demoni. Il riformatore dell'India si limitò a predicare l' eguaglianza, la
grazia eguale per tutti, anche per le donne, gli schiavi, i criminali,
abbattendo le Caste. Secondo Badda la convinzione di essere peccatori ed il
pentimento rigenerano, e si prova col lenire i dolori degli uomini e degli
animali, liberandosi dalla Maya o illusione del mondo. Il riformatore della
Palestina Gesù fu il maggior genio del sentimento e rese la religione un
affrancamento dalla necessità, una viva fiducia nell'Essere trascendente, una
speranza di vita celestiale, che contrasta coi bassi ideali di ric- chezza e di
potenza dei sacerdoti del suo tempo e di quelli del nostro. I suoi discepoli
avrebbero dovuto essere focolari di rinnovamento della coscienza morale, centri
degli assetati di giustizia, intenti a diffondere luce ed amore; quindi non
potevano abbracciar mai la universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si
limita, come il Buddismo, a svincolare da ciò che è illusione, interesse, va-
nità e superbia; ma contempla il sole della vita nella sua unità ed
onnipotenza. Consiste essenzialmente nella comunicazione dei sentimenti di
amore, di abnegazione, di fede, spe- ranza, che aveva Gesù. E stupido quindi
l'abbassare Gesù a livello di profeti volgari. Per operare il bene, per muovere
gli uomini all'altruismo, alla solidarietà, si esige un centro, un faro, un
modello, il maggior genio del sentimento. Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di
Brescia a Dante (Vedi Gebhart, «L'Italie mystique», 1890), dandole il
sentimento profondo che i preti non conoscevano. Risuscitò l' Europa, per mezzo
della Riforma e della Rivoluzione francese, che rovesciò quella che Voltaire
chiamava l' Infame, dando al popolo per lievito : Liberté, Egalité, Fraternité.
E sempre sarà necessario, più dei geni della scienza, delle arti belle, della
politica, il genio del sentimento, centro motore dell' umanità buona, perchè i
sentimenti non s'insegnano, non s'imparano da pochi, ma si comunicano a tutti. La Unità Numerante nella Volontà Se il
Sentimento è il Governo di ogni Collet- tivismo organico animale, la Volontà è
il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i nervi motori e per soldati i
muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte l'ordine, e per il fascio
piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il centro ovale arriva alla
capsula interna che penetra nel corpo striato. I corpi striati (sul dinanzi del
cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come due uova 12 di tacchino e
rossi, formati di cellule grandi grigie poligone. Ogni corpo striato dirige i
movimenti del lato opposto. Al corpo striato seguono il peduncolo cerebrale ed
il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i nervi motori ed i muscoli.
L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto dalla attività del cervello
e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà: Questo fattore psichico è il
yero motore dei muscoli (1). I moti riflessi sono effetto della Volontà degli
antenati diventata meccanismo. I più invariabili dipendono dalla spina dorsale.
I riflessi cerebrali si adattano a complicate reazioni. I sensori motori
vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati ottici. Ferrier (The
functions of the Brain, p. 287), vide che i centri inibitori impediscono la
distra- zione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in disturbi
viscerali. Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne
contrariato per inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a
scrivere muove la faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere
solamente gli occhi e la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione
illimitata inutile, una diffusione ristretta e limi- tata al movimento che
serve al loro scopo, e fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito,
(1) La Volontà non può essere Elettricità: come di- cemmo sopra, perchè va
infinitamente più lenta ; è tutta psichica, e può così bene contrarre, come
rilasciare i vari muscoli. Essa spende la forza nervosa accumulata e chiama
sangue arterioso a vivificare i muscoli che lavorano. quanto più si ripete,
tanto più si moltiplicano le fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto
riflesso, ossia in meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale
formazione del meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema
muscolare, XIII sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di
vista, perchè la Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è
necessitata. Non manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere
nella Natura che si fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la
parte massima, mentre la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli
atti volontari liberi sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per
abitudine e per moti riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per
abitudine esige ancora l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non
ha più bisogno della imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo
esprime quello che gli antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è
una combinazione di processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and
Will) dice che l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la
struttura nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi
atti, quanto nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che
si arresta la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la co- scienza
si va concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si
sono svi- luppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e piacevoli.
E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano facili,
finche si resero moti riflessi irresi- Questa genesi della Natura che si fa e
della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica. Ma
nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano
l'indivi- duo e riducono la coscienza ad un'astrazione, ri- sultato del
processo di antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti
dell'ambiente per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire,
volere e pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere,
Voi. I, p. 141 a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. « La
coscienza non è altro, egli dice, che l' insieme delle rappresentazioni o
esterne (dalle quali si astrae il il concetto di materia) o interne (dalle
quali si astrae il concetto di spirito o di anima) (pag. 145). Il riferimento
delle sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti esteriori, non ha luogo
per intui- zione immediata: ma è un puro effetto di esperienza, per la quale ne
facciamo poco a poco l'abitudine (pag. 149). Dunque non vi sono schemi a priori
dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono tutti, anche il Me,
prodotti da abitudine empirica (pag. 150). La coscienza è un risultato delle
forze incidenti {pag. 151). Non è vero che il fenomeno non si possa pensare
senza il soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare,
ma non un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni
psicologici non è altro che un astratto che si chiama Anima, è in- stabile, e
segue le variazioni logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei
fatti » (pagina 163). « Non vi è differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e Pensiero
: Gli atti volontari altro non sono che sensazioni e sono riferiti all'anima
per errore (pag. 180). Le facoltà rappresentative, affet- tive e volitive, sono
solamente combinazioni variate dei medesimi elementi di sensazione, come
altret- tante parole formate col medesimo alfabeto (pagina 181). Le cognizioni,
gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono tutte sensazioni o ricordanze di sen-
sazioni, e dipendono dall'organismo » . Così l' Italia non si faceva dal di
dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni garibaldini e alle masse : no,
erano gli effetti inconsci dell'ambiente che spingevano Garibaldi a Calalafìmi
a rispondere a Bixio : « Non ci ritiriamo : qui si fa l' Italia o si muore » .
E dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni attinsero il
coraggio e l' entusiasmo : risultati delle forze incidenti, sentire, pensare,
volere : tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni uomo ha i suoi
doveri: e se li segue è come una nave che va al porto, per forza propria,
avendo buon capitano, buona bussola, buona macchina, buone vele, e questo è
l'uomo pitagorico bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una nave che
non sa andare in porto se non per caso, e che, quando i venti sono contrari, ed
i marosi minacciano, si lascia travolgere dalle forze inci- denti, come un
trastullo. E questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la Coscienza, il
Soggetto, e la Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto altro che
seguire il Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero
fondamentale dello Indistinto che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia
allo Inconscio di Schelling. L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella
di Feuerbach e di Spencer non è stata trovata à&WArdigò: né poteva
trovarla. Il disaccordo è evidente nella teoria della Volontà. Chi è che vuole
quello che fac- ciamo noi ? Se è l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo
contro l'ambiente (e lo fanno tutti gli animali) siamo snaturati, delinquenti
che vanno contro il loro papà l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più
Ardigò: e una eco della gente che lo circonda. Il prof. Giuseppe Sergi poi,
nella sua « Psychologie physiologique » 1888, fa derivare gli atti volontari
dai moti riflessi/ e tratta della prima differenza tra la volizione e l'atto
riflesso, nel sospendere dopo l'eccitamento il moto, per cer- care una via
nuova e arrivare così all'atto spontaneo, il quale, deriverebbe dall'attività
automatica (sic) degli elementi nervosi e muscolari. È inutile proseguire.
Intelligenti pauca. Il confusionismo è madornale. Gli atti riflessi non si sa-
rebbero mai formati, se non fossero stati voluti e ripetutamente voluti dagli
antenati degli ani- mali che oggi ne sono forniti. Se la Volontà uscisse dai
moti inflessi, sarebbe perfettamente inutile, essendo meccanismi che vanno per
necessità. Grazie a queste false ed assurde teorie, oggi nell'antica patria del
diritto (che era tutto fondato sulla libertà), si crede che l'uomo sia schiavo
delle proprie passioni: e la scuola Lombrosiana, attribuendo i delitti, le malattie
mentali e anche il genio alla epilessia larvata, è ^esagerata a tal punto che
il Morselli scrisse nella Cronaca d'arte di Milano che, con tali teorie, si può
giungere a chiamare l'uomo un animale epilettico. La nostra dottrina della
Natura che si fa e della Natura fatta fu, non solo adottata da valenti
professori Italiani di filosofia del diritto, ma approvata anche all'estero e
specialmente dallo eminente magistrato e pensatore francese Tarde, il quale la
segnalò nella Reme Philosophique come «profonde et habituelle distinction » .
Essa concilia in modo strettamente scientifico il sentimento della libertà, i
bisogni della giurisprudenza, della politica, della morale, con le esigenze del
Determinismo ; ed è tutta fondata sui fatti. Altri due illustri filosofi
francesi più del Tarde espliciti amici della nostra Nuova scienza cioè B.
Perez, «Le caractère de l'Enfant à l'homme», 1892, e Fr. Paulhan, « Les
caractères » , 1894, opposero egregiamente i padroni di se stessi, ossia gli
uo- mini riflessivi, che sanno sistematicamente inibire i movimenti superflui o
dannosi, agi' incoerenti, agl'impulsivi, ai suggestionabili, ai deboli, ai di-
stratti, agli storditi, ai frivoli, insomma a coloro che si lasciano imporre
dalla società e trastullare dalle forze incidenti (agli uomini ardigotici).
Sono questi i mezzi caratteri o i senza carattere, assai numerosi nelle grandi
agglomerazioni umane. Però i veri caratteri si possono ridurre a tre, cioè
quelli in cui predomina V intelligenza, che sono pochissimi, calcolatori, i
quali nulla lasciano al caso ; i sentimentali che vivono sopratutto nella loro
intimità, suscettibili, meditativi; e i volitivi che vivono molto all'esterno,
nell'azione, audaci ed ottimisti (1). (1) Tutti sanno che gli antichi Greci
distinguevano quattro temperamenti e li dicevano base di quattro ca- ratteri:
il sanguigno leggero, versatile, corrisponde ai 1 veri caratteri sono unificati
e stabili, durevoli, cambiano poco e difficilmente (1). Le divisioni fon-
damentali dei caratteri sono date adunque nella distinzione delle tre facoltà
psichiche : sentimento, pensiero e volontà. Se fosse lecito trovare qualche
analogia nel mondo fisico si potrebbe osservare che gli uomini nei quali
prevale il sentimento corrispondono al Carbonio (elemento accentratoro); quelli
nei quali è maggiore la volontà all' Ossigeno, (elemento che si combina cogli
altri più facilmente) ; quelli senza carattere o di semicarattere all' Azoto
(elemento in- differente ed inerte); quelli finalmente che pen- sano più di
tutti, non hanno naturalmente corri- spondenza nella natura bruta;
corrispondenze che forse hanno poco valore. I grandi capitani, come Napoleone,
i grandi uomini di Stato, i maggiori industriali sanno mezzi caratteri, tipi
misti; il melanconico che Lotze chiamò sentimentale, esitante e profondo; il
collerico che ha molta imaginazione e passioni intense, corrisponde ai
volitivi; e il flemmatico o linfatico molle, di poca imaginazione, freddo,
agisce lentamente, corrisponde ai senza carattere. Cabanis vi aggiunse il nervoso,
che è una varietà del sentimentale, e il muscolare che è una varietà del
volitivo. B. Perez classifica, osservando i moti, in vivi, lenti, ardenti, e
tipi misti. F. Paulhan osservando la legge di associazione delle idee, ossia
l'attitudine di ogni ele- mento, desiderio, idea a suscitarne altri, per uno
scopo comune. Veggasi pure Janet, « Des caractères dans la sante et dans la
maladie ». (1) Le conversioni sincere come quella di S. Paolo, di Lutero,
Agostino ecc. lasciavano stare il fondo del carattere, mutandone solamente l'
indirizzo e gli scopi. I can- giamenti di carattere dovuti a malattie od a
ferite della testa non sono conversioni ma caratteri nuovi, dipendenti da
organismo modificato. combinare questi caratteri, in modo da trarne il maggior
frutto per la guerra, la politica e gli affari: e se mancano il carbonio o
l'ossigeno, Velemento indifferente mette in equilibrio instabile alcune
società, alcune burocrazie, alcuni organismi, che guidati da mano più sapiente
prospererebbero. Il Volere fa tutti i moti. La volontà è la finalità resa
causale, giacche al sentimento ed al giudizio fa seguire l'atto di difesa e di
sviluppo. Maine de Biran vide che il tipo su cui percepiamo le cause esterne è
la nostra volontà, poiché essere vuol dire sentire, volere, agire, ed infatti
Schopenhauer concepì il mondo come fatto da Volontà cieca. Ed il viennese
professore Stricker, che meglio degli altri pensatori lo interpreta, os- serva
che la Volontà è la vera causa (Ursache, Urquelle), che essa è il tipo della
forza universale. Con l'esperimento si provoca, a nostro piacere, un fenomeno,
e si riconosce il modo di agire delle energie cimentate : assimilando le forze
della natura alla volontà nostra. iSTon è tanto il succedersi co- stante dei
fenomeni, che ci assicura sulla vera causa, quanto il cooperarvi col nostro
senso muscolare e con la nostra Volontà. Siamo costretti a considerare ogni
moto come causato e trasferito da una Volontà, da una forza simile alla nostra
Volontà. Huxley e Dubois Reymond credevano che ci fosse un abisso fra la
volontà e il moto, fra la psicosi e la neurosi. Però l'abisso non vi è punto
,se si pensa che l'Intensivo continuo della coscienza volente è il centro
attivo del moto centrifugo. E la Volontà è misurante in tutto quello che si fa,
anche in una carezza ad un bimbo: se non misurasse, invece di fare una carezza
darebbe uno schiaffo e per farsi la barba si taglierebbe la pelle: ne cucire,
ne scrivere, ne disegnare, né lottare e tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi
lavoro si potrebbe se la Volontà col senso muscolare non fosse misurante e non
sapesse continuamente proporzionare i movimenti. La volontà che misura senza
numero concettuale è sopratutto evidente nelle partite di boxe, dove la
direzione e la veemenza dei colpi sono calcolate ad ogni istante con colpo
d'occhio si- curo nei minimi atteggiamenti. Spettacolo interessante la
ginnastica; e specialmente una partita di boxe. Johnson campione della razza
negra del Texas e Jeffries campione della razza bianca dell'Ohio, nel luglio
1910 presso la Università di Reno, città universitaria del Nevada, mostrarono
tutte le risorse della Volontà più esercitata a forza di pugni: e vinse il
Negro, benché meno alto e meno robusto. La Volontà non sta punto in proporzione
della intelligenza. I Batraci sono meno intelligenti dei Rettili, ma non meno
risoluti. Fra i Mammiferi, che superano per intelletto gli altri Vertebrati, la
Volontà è sovente inferiore a quella dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i
tropici si lasciano affascinare. Certi serpenti affascinano uccelli, scimmie,
conigli, col solo guardarli concentrando la loro Volontà. Mentre i piccoli
animali che vor- rebbero divorare stanno sugli alberi, il serpente che sta per
terra, li aspetta, li attrae: ed essi si sentono paralizzati, e mezzi morti di
paura: fin- che vanno nella bocca del tiranno, per un ipnotismo che li conquide
a far loro rinunciare alla propria volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre
potrebbero ancora scappare volando o sal- tando altrove (1). Torneremo sulla
fascinazione nel Voi. II: L'uomo secondo Pitagora, Cap. IX. Spesso un uomo d'
ingegno ha volontà mediocre \ ma viceversa grandi passioni, desideri violenti
sor- gono non di rado in uomini di cervello debole. Oltre ai mille modi di
esercitare la Volontà nel lavoro e nella lotta per la vita, vi è la scarica
leggiera e piacevole del Riso, che non ha alcuno scopo di utilità conoscitiva,
ne economica, ne estetica, ma si fa spontaneamente, come esplosione di libertà,
quando ci colpisce qualche contrasto improvviso di idee che si escludono, o
qualche notizia gradita che promette lo sviluppo del be- nessere nostro o dei
nostri cari o quando si fa un giuoco ginnastico divertente, o quando ci
minaccia chi non può misurarsi con noi. Si comincia col sorriso, che increspa
le labbra e mostra i dentini delle Delle donne; si accresce facendo brillare
gli occhi e mostrando (come disse il Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore,
si arriva a scuotere piacevolmente il petto e il diaframma^ ad abbracciare i
vicini ed a saltare. Il giudizio muove il riso : ma è la volontà che scarica la
forza nervosa. Un giovanetto che studia Tlnglese, p. es., e pronuncia
Shakespeare ora come Schiacciaspie, ora come l' immortale Scappavia, desta l'
ilarità irresistibile ; ridono anche le scimmie. (1) Per suicidarsi ci vuole,
oltre ad una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali
inevitabili : giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni,
se messi vicino al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro
dardo avvelenato nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il
torace, fa emettere il gas acido carbonico, ed aspirare os- sigeno, vivifica il
sangue, abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le
idee, dà innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di
superiorità, di vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa
generalizzarsi. Certo negli uomini poco civili è più raro, e negli ani- mali
inferiori ai quadrumeni manca. Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si
annoiano stando soli, perchè non hanno la potenza di ridere da sé. La umanità
nel ridere dimostra che è libera, e gode ogni qualvolta s'innalza sopra
l'ambiente, e si svincola da ogni ostacolo, da ogni ceppo, da ogni meschinità.
INDICE Cenni storici su Pitagora e la sua Scuola . . Pag. 5 Introduzione » 17
Capitolo I. - La prima estrinsecazione del- l'Essere Divino (Spazio e Tempo) »
21 Id. IL - La seconda estrinsecazione del- l'Essere Primo (Atomi eterei e
ponderali) » 29 Id. III. - La solidarietà degli Atomi in generale » 47 Id. IV.
- La solidarietà geometrica cri- stallina » 58 Id. V. - L'ascesa alle chimiche
combinazioni » 67 Id. VI. - L'Unità assimilatrice cellu- lare » 72- Id. VII. -
Come le Unità cellulari si ac- centrano nelle Piante per godere l'amore » -82
Id. Vili. - Origine psichica delle specie animali » 101 Id. IX. - Come la
Psiche fa la vita in- terna sana » 121 — 194 — Capitolo X. - Come la Psiche fa
le guarigioni Pag. 134 Id. XI. - Come la Psiche fa il Sistema Nervoso » 144 Id.
XII. - Come la Psiche fa il Sistema Muscolare » 152 Id. XTTI. - La Psiche
generatrice ... » 158 Id. XIV. - La Unità intima nel Senti- mento » 169 Id. XV.
- La Unità Numerante nella Volontà . » 181 ^ LBOL'20 SAN TOMASO D'AQUINO
Della Pietra filosofale e dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione L. 3,-
MARCO SAUNIER La Leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici . . . .
L. 6,- ERMETE TRIMEGISTO Il Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal
greco per il D.r Bonanni, con una Introduzione L. 3,- CIRO ALVI L'Arcobaleno L.
3,50 Frate Elia » 2,— Vangelo (II) di Cagliostro, con una Introduzione di
Pericle Maruzzi L. 3, — Prossimamente : Gr. Uebini - Arte Umbra. L. Fumi -
Eretici e ribelli nell'Umbria. Dr. Keller - Le basi spirituali della Massoneria
e la yita pubblica. Enrico Caporali. Keywords: l’implicatura di Pitagora
– pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe sulla lapide di Caporali a Todi –
Caporali – il mito di pitagora – la mistica di pitagora – scuola di mistica
pitagorica – reincarnazione – concetto di metempsicosi – filosofia italica –
pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e Platone – Pitagora ed Aristotele --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” – The Swimming-Pool Library.
Cappelletti: Grice: “I like
Cappelletti – and so does he! He is into what he calls, in Latin, to show off,
‘philosophia anthropologica,’ which is MY thing – I mean, one can explore the
philosophy of ‘life’ (bios) per se, and Aristotle on the ‘entelechia’ of a
vegetable, but vegetable implicatures are boring (to us); the idea of
‘psychology’ features large, and also ‘vita.’ When Cicero dealt with
Aristotle’s philosophy of life (zoe, bios, psyche) he found himself in trouble:
vita, anima – And then came Ficino and Pico! Cappelletti knows it all, and it
shows!” -- Vincenzo Cappelletti (Roma ),
filosofo. Dopo gli studi liceali
classici, si laurea prima in medicina poi in filosofia. Nel 1967, consegue la
libera docenza in storia della scienza che, dal 1968 al 1971, insegna, per
incarico, all'Perugia, quindi, dal 1972, all'Roma La Sapienza dove, nel 1980, consegue
l'ordinariato; ha successivamente insegnato la stessa disciplina all'Università
Roma Tre fino al 2002, quando è andato in quiescenza. Nel 1956, inizia a collaborare con l'Istituto
dell'Enciclopedia Italiana di Roma, fino a diventarne, nel 1969, vicedirettore
generale, quindi, l'anno successivo, direttore generale, carica che manterrà
fino al 1992. Questo periodo, vedrà una progressiva affermazione sia in campo
nazionale che internazionale dell'Istituto, con un forte incremento nella
produzione delle opere nonché l'apertura di nuovi ed innovativi progetti
editoriali. Dal 1992 al 2002, è
vicepresidente e direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana, carica
rivestita negli anni trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De Sanctis,
quindi da Aldo Ferrabino di cui Cappelletti sarà appunto collaboratore negli
anni 50'. Già condirettore della rivista di storia della scienza Physis (dal
1991) e degli Archives Internationales d'Histoire des Sciences, dirige, dal
1956, Il Veltro. Rivista della civiltà italiana (da lui fondata assieme a Aldo
Ferrabino), nonché presiede la casa editrice Studium. È anche socio storico dei
"Martedì Letterari". Dal 1970
al , è presidente della Domus Galilaeana di Pisa e, dal 1989 al 1997,
dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences. Dal 1999, è presidente
della Società Italiana di Storia della Scienza (presidente onorario dal ) e,
dal 1997 al , dell'Istituto Accademico di Roma. Inoltre, dal 2001 al 2005, è
commissario straordinario dell'Istituto Italiano di Studi Germanici, quindi
presidente dal 2006 al , promuovendone il passaggio da istituzione culturale a
ente di ricerca. Presiede inoltre, dal 1988, la Società Europea di Cultura, fra
gli anni 80' e 90' il Centro Italiano di Sessuologia (CIS), la Fondazione
Nazionale "C. Collodi" dal 1989, il Consorzio BAICR-Sistema Cultura
(Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma) dal 1991, la Fondazione FUCI
dal 1996 al . Dottore honoris causa
dell'El Salvador e di Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero
dell’Accademia delle Scienze di Bucarest. Nel 1991, riceve il Premio
internazionale Montaigne per le scienze umane. Medaglia d'oro al merito
accademico, è insignito, nel 2003, della medaglia Koiré dell'Académie
Internationale d'Histoire des Sciences e, per due volte, della medaglia d'oro
al merito della cultura italiana, sia per gli sviluppi dell'Enciclopedia
Italiana che per la promozione degli studi di storia della scienza. La sua attività scientifica ha riguardato
inizialmente la storia e l'epistemologia delle scienze biologiche nella
Germania dell'Ottocento, quindi le teorie psicoanalitiche, in particolare la
psicoanalisi freudiana e la psicologia analitica, nei loro rapporti con le
altre discipline socio-umanistiche, fra cui l'antropologia, la politica e la
filosofia. Ha anche curato collectanee su aspetti del pensiero nonché le opere
di alcuni scienziati del Settecento e dell'Ottocento, fra cui Giovanni Battista
Morgagni, Emil Du Bois-Reymond, Rudolf Virchow, Hermann von Helmholtz. Quindi,
dopo aver ulteriormente approfondito gli aspetti storiografici e metodologici
delle scienze esatte e naturali, i suoi interessi di ricerca si sono rivolti
verso la filosofia e la sociologia delle scienze, analizzando, sia dal punto di
vista storiografico che epistemologico, i rapporti storico-dialettici fra
scienza e società, con particolare riguardo alle scienze umane. Pubblicazioni principali Emil Du
Bois-ReymondI sette enigmi del mondo , Firenze, Tip. L'impronta, 1957. Atomi e
vita, Bologna, Edizioni Cappelli, 1958. Entelechìa. Saggi sulle dottrine
biologiche del secolo XIX, Firenze, G.C. Sansoni, 1965. Opere di Hermann von
Helmholtz , Torino, UTET, 1967 (2ª ed., 1995). Rudolf VirchowVecchio e nuovo
vitalismo , Roma-bari, Editori Laterza, 1969. L'interpretazione dei fenomeni
della vita , Bologna, Società editrice il Mulino, 1972. Emil Du Bois-ReymondI
confini della conoscenza della natura , Milano, Giangiacomo Feltrinelli
Editore, 1973. Freud. Struttura della metapsicologia, Roma-Bari, Editori
Laterza, 1973. Epistemologia, metodologia clinica e storia della scienza medica
(), 5 voll. (IV e V curati da V. Cappelletti e Dario Antiseri, 1982), Roma,
Arti grafiche E. Cossidente, 1977-82. La scienza tra storia e società, Roma,
Edizioni Studium, 1978. Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a
Valerio Tonini , Roma, Casa Editrice Jouvence, 1983. Antropologia dei valori e
critica del marxismo , Roma, PWPA-Edizioni dell'Accademia, 1984. Alle origini
della "philosophia anthropologica", Napoli, Guida editori, 1985. De
sedibus, et causis. Morgagni nel centenario (curato assieme a Federico Di
Trocchio), Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1986. L'Enciclopedia
Italiana per l'Europa: le nuove opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro,
1992. Le scienze umane nella cultura e nella società odierne , Edizioni
Studium, 1993. Etnia e Stato, localismo e universalismo , Roma, Edizioni
Studium, 1995. Introduzione a Freud, Roma-Bari, Editori Laterza, 1997 (2ª ed.,
2000; 3ª ed. ampliata, ). Filosofia come scienza rigorosa. Edmund Husserl a centocinquant'anni
dalla nascita (con Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Editore,
. L'Università e la sua riforma (curato assieme a Giuseppe Bertagna), Roma,
Edizioni Studium, . Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Roma,
Aracne Editrice, . Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e
dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della
cultura e dell'arte — Roma, 28 novembre 1992 Note Notizie bio-bibliografiche sull'autore si
trovano in V. Cappelletti, Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici,
Aracne Editrice, Roma, , Introduzione di G. Cimino ( 9-48), Appendice (
247-252). Cfr. V. Cappelletti,
"Attualità della storiografia scientifica", in: La storiografia della scienza: metodi e
prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, N. 5, Domus Galilaeana
(Pisa), CLUEB, Bologna, 1975,
315-329. La maggior parte delle
notizie biografiche qui riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore
scritta da G. Cimino per l'Enciclopedia Italiana (cfr. sezioni "" e
""). Istituto Italiano di
Studi germaniciHome page Società europea
di CulturaHome page Guido Cimino,
CAPPELLETTI, Vincenzo, in Enciclopedia Italiana, V Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1991, vincenzo-cappelletti. Altri progetti
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Cappelletti Vincenzo Cappelletti, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. italiana di Vincenzo Cappelletti, su
Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Registrazioni di Vincenzo Cappelletti, su
RadioRadicale, Radio Radicale. Vincenzo
Cappelletti: La nascita della Psicoanalisi. Aforismi, storia del termine
inconscio, documento video, Rai Scuola.Filosofia Filosofo del XX secoloStorici
della scienza italiani 1930 2 agosto 21
maggio Roma Roma. Il termine entelechia
(entelechìa, dal greco ἐντελέχεια) è stato coniato da Aristotele per designare
la sua particolare concezione filosofica di una realtà che ha iscritta in se
stessa la meta finale verso cui tende ad evolversi. La crescita di
una pianta, con cui essa tende a realizzare la propria entelechia. È infatti
composto dai vocaboli en + telos, che in greco significano «dentro» e «scopo»,
a significare una sorta di «finalità interiore». Aristotele parla di
entelechia in contrapposizione alla teoria platonica delle idee, per sostenere
come ogni ente si sviluppi a partire da una causa finale interna ad esso, e non
da ragioni ideali esterne come affermava invece Platone che le situava nel
cielo iperuranio. Entelechia è quindi la tensione di un organismo a realizzare
se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto.[1] È
noto infatti come, secondo Aristotele, il divenire si possa considerare pienamente
spiegato quando se ne individuino le sue quattro cause: Causa Materiale, Causa
Formale, Causa Efficiente e Causa Finale. Per designare il compimento del fine
Aristotele usò appunto il termine entelechia che indica lo stato di perfezione,
di qualcosa che ha raggiunto il suo fine. I neoplatonici si avvicinarono
in parte alla concezione aristotelica secondo cui la forma di un corpo doveva
essere anche immanente ad esso e non solo platonicamente trascendente, tuttavia
trovarono riduttiva l'identificazione dell'anima con l'entelechia, essendo
l'anima per costoro qualcosa di anteriore al corpo e comunque autonomo rispetto
ad esso. Una sintesi tra la concezione aristotelica e quella neoplatonica si
trova in Campanella, per il quale la natura è un complesso di realtà viventi,
ognuna animata e tendente al proprio fine, ma d'altra parte tutte unificate e
armoniosamente dirette verso una meta comune da una stessa universale Anima del
mondo. Anche Leibniz conciliò l'entelechia aristotelica con la visione
neoplatonica, facendone una proprietà essenziale della monade, cioè di ogni
"centro di energia", capace di svilupparsi autonomamente verso la
propria meta o destino: ogni monade non riceve alcun impulso dall'esterno, ma
tutte insieme formano un complesso unitario, retto al suo interno da un'armonia
prestabilita da Dio, Monade suprema. Esse sono infatti coordinate al pari di
tanti orologi, funzionanti per conto proprio ma sincronizzati tra di
loro. Goethe in seguito designò come entelechia l'archetipo della pianta,
cioè il modello ideale di ogni tipo vegetale che si estrinseca in maniera
tangibile nelle sue fasi di sviluppo esteriore, adattandosi di volta in volta
alle differenti condizioni ambientali in cui si imbatte. Nel Novecento il
termine entelechia è stato riproposto dal filosofo e biologo Hans Driesch per
designare la forza vitale da lui ritenuta immanente agli embrioni e
responsabile del loro sviluppo, in opposizione alle teorie meccaniciste che li
consideravano alla stregua di «macchine». Aristotele ne parlava infatti come di
qualcosa che ha la «vita in potenza» (De Anima, II, 412, a27-b1). ^ Così
Plotino in Enneadi, IV, 7, 8. ^ Goethe, La metamorfosi delle piante (1790). ^
Sul concetto di entelechia in Goethe, cfr. il saggio di Giorgio Dolfini,
L'entelechia di Faust, Olschki, 1983. ^ Dizionario di filosofia Treccani. Voci
correlate Aristotele Monade Collegamenti esterni (EN) Entelechia, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata
(EN) Entelechia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su
Wikidata Controllo di autorità. GND (DE) 4356679-0 Filosofia Portale Filosofia:
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AristoteleConcetti filosofici greciNeoplatonismoStoria della scienza. entelechia Termine usato da Aristotele in contrapposto a
«potenza» (δύναμις), per designare la realtà che ha raggiunto il pieno grado
del suo sviluppo. Il termine fu ripreso da G. Leibniz per indicare la monade,
in quanto ha in sé il perfetto fine organico del suo sviluppo. Nel campo
delle scienze biologiche il termine è stato usato per definire il principio
dirigente dello sviluppo di ogni organismo. In questa accezione il termine e.
fu ripreso da H. Driesch, che nella sua dottrina neovitalistica ammise l’esistenza
di un principio organico individuale avente in sé l’idea della realtà perfetta,
cioè dell’organismo completamente sviluppato.Vincenzo Cappelletti.
Keywords: entelechia – vita – filosofia della vita – Grice, “Philosophy of
Life” – Aristotle on entelechia – storia della scienza – storia dela psicologia
filosofica --. Il concetto di entelechia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cappelletti” – The Swimming-Pool Library.
Capra (Nicosia).
Filosofo. Grice: “Plato, who never fought, thought the soul was in the brain;
Aristotle, who taught Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was aware
of the sinews of the body; he thinks the ‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’
– Ryle laughed at them all, stupidly. The issue is VERY subtle – And Marcello
Capra explores the conceptual intricacies of applying a spatial concept (like
‘sedis,’ the most general spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good
thing is that he philosophised with his companion while they did peripatetics
along the valley of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always
have to self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of
Ordinary Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s
followers’s, and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra,
bored of Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had
unfortunately to SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto
Montano e Falloppio – un ginecologo. Tornato a Nicosia, fonda una scuola,
societa, gruppo di gioco, o club di filosofia. In seguito, si trasferì prima a
Palermo e poi a Messina. Divenne assistente di Giovanni D'Austria e medico della
flotta del suo 'Impero per cui partecipa alla battaglia di Lepanto. Tornato in
Sicilia, su incarica del vice-ré Don Diego Enriquez de Gusman studia l'epidemia
di peste e descrisse i risultati dei suoi studi in un
volume dal titolo De morbi pandemici causis, symptomatibus et curatione,
pubblicato a Messina. Scrisse anche un volume sulle proprietà mediche della
scorzonera. Pubblica a Palermo saggi filosofichi. Un saggio filosofico e di
dedicato alla sede corporea dell'anima e considera i principi di Aristotele e i
quesiti di Galeno. Per Aristotele, contro Platone, la sede corporea dell’animo
e nel cuore; per Platone alla testa!Altro saggio tratta dell'immortalità
dell'animo alla luce della psicologia filosofica funzionalista di Pitagora, Aristotele,
Pitagora, ed Epicuro. Di Marcello Capra non si conoscono esattamente il luogo e
la data precisa della morte. Uomini
illustri della Sicilia. Dizionario biografico degli italiani. l'immortalità dell ' animo umano è considerata come
incerta. Ma ciò sia detro di passaggio ; che noi non vogliamo , ne dobbiam
difendere l'Immortalità dell ? animo Umano con tanto pericolo. E a chi domandi
, l'immortalità dell'animo è vita futura ? rispondiamo , esser futura la
sanzione. ftante la lor confufione coll'anima universale diffusa in tutta la
mole corporea · Onde opponendo quegli Antichi l'immortalità dell'animo alla
mortalità del corpo , mostravano , che questa immortalità intendeano , come una
permanenza eterna. La sola immortalità, dunque, alla quale si possa pensare, e
alla quale effettivamente si è sempre pensato, affermando l'immortalità dello
spirito, è la immortalità dell'Io trascendentale; non quella, in cui si è fantasticamente
irretita la mitica. L'uomo adunque , come egli è creato in mezzo fra l ' Angelo
, e la bestia , cosi alcuna cosa comunica con gli Angeli , cioè l'immortalità
dello spirito , e in alcune cose comunica con le beftie , cioè la . mortalità
della carne insino , che la carne ... Sulla sede dell’anima e della mente. De
Sede Animae et Mentis ad Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur
notandum , quando de Sede Animæ rationalis disputamus , per Sedem strictè nos
non intelligere firum , qui exigit distinctionem seu divisionem partium in loco
, folisque competit corporibus , sed , ut Scholastici nuncupant ... Dialogus de instrumento philosophiae. Publication: Messanae
: ex typographia Fausti Bufalini, Marcelli Caprae , ... de Immortalitate
rationalis animae juxta principia Aristot . adversus Epicurum , Lucretium et
Pithagoricos quaesitum . — Panormi , apud J. F. ... De Immortalitate rationalis
animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos
quaesitum il Capra, nicosioto , il quale nel 1589 inandava fuori due
Quesili, l'uno De sede animae et mentis ad Ari stotelis praecepta , adversus
Galenum , l'altro De Immortalitate A nimae rationalis , justa principia
Aristotelis, adversus Epicurum , Lucretium , et Pythagoricos; Caprae Marcelli,
nicosiensis , De sede animae et mentis ad Aristoteles praecepta , adversus
Galenum , Quaesitum. Panormi 1580 in 4 . De immortalitate animae rationalis ,
iuxta principia Ari stotelis, adversus Epicurum , Lucretium , et Pythagoricos,
Quae situm. Ibi 1589 in 4 . Qualche relazione con quest'Istituto devono aver avuto le opere
pubblicate dal Capra in quel torno di tempo , come : De sede animae et mentis
ad Aristotelis praecepta , adversum Galenum . Quaesitum ( Panor . , 1859 ) ; —
De immortalitate. Capra, filosofo siciliano originario di Nicosia, può essere
considerato un altro esponente non secondario della quaestio che interessa la
sede dell’anima (o animo) razionale. Studia a Padova sotto Monte e Falloppia,
esperienza questa da cui aveva mutuato l’interesse, tutto padovano, per i
problemi di fisiologia generale e psicologia. Per un’introduzione alla non
vasta biografia di Capra, si vedano PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO --. Nel
“De sede animae et mentis ad Aristotelis principia adversus Galenum (Palermo)
dedicato al viceré don Diego Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste. Infatti,
Capra dà ampio saggio delle sue attitudini filosofiche in campo medico, prende
le difese della psicologia aristotelica. Per Capra la quaestio de sede animae
si presenta immediatamente duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda
l’anima come principio di fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e
corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un
principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de sede mentis).
Disputaturus (ut ad peripateticum pertinet) de animae sede. quoniam una
aeterna, ut in nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis. Quibus non
eodem modo sedes convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de
sede animae quae interitui est obnoxia. Mox agam de sede mentis: hoc est illius
partis quae venit deforis, et post corporis dissolutionem remanet superstes. Quanto
all’impostazione, il saggio si presenta come una serrata fila di quaestiones e
responsiones secondo l’uso scolastico, mentre l’obiettivo polemico è
rappresentato dalla tesi galenica dell’estensione e dislocazione reale dei
principi psichici nel corpo. Capra distingue anzitutto tra “principato”
(principatum) ed “estensione” (extensio) dell’anima. Il principato riguarda
l’organo che per primo si attiva, si modifica o cessa di funzionare in
determinate condizioni. L’estensione, invece, ha a che fare con la reale
presenza dell’anima nelle strutture materiali. In quest’ultimo senso si hanno
due alternative: o l’anima si trova ad essere suddivisa in più parti del corpo,
oppure si trova tutta insieme in una sola di esse. Entrambe le opzioni vengono
però respinte, anche con argomentazioni tratte da esperimenti anatomici. In
generale l’estensione dell’anima viene negata poiché, in ossequio al dettato
aristotelico che vuole l’anima forma del corpo organico, la sede dell’anima
deve essere considerata il corpo nella sua interezza -- principatum
consideramus; cum obtinet in aliqua corporis particula. At si consideramus
extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam ad huc quispiam instare posset
per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam per ligamenta conspicimus
privari membra sensu et motu. Quod non contingeret si anima per totum corpus
esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere animam esse in
spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus principatum, et
insuper colligimus spiritum esse id principium, per quod anima iungitur
corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse extensam, quia
reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem esse
temperamentum; cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis
vegetalem esse temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si
id esset, tunc non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec
essent extensae per universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut
corpori, nec ita si una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore:
et dum quaerimus sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse
animae sedem. Quanto all’estensione del principato in cui essa si manifesta,
invece, si tratta di un’estensione per accidens, che spetta realmente forse
solamente ai vegetali e ad alcune specie di insetti. Per questa via, distingue
quindi l’estensione spaziale dalla divisione concettuale. La prima compete
all’anima in quanto soggetta alle forme materiali di cui si serve. La seconda
rappresenta la molteplicità delle sue funzioni come espressioni di un'unica
attività. Gli esperimenti sulla legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso
che qualsiasi organo, separato dalla sua connessione con il cuore, diviene
torpido o mal funzionante. Et authoritatibus, et rationibus confirmare
possumus. Et primo nos conspiciamus quod si a corde ad reliquas particulas
claudatur iter, aliae partes vitae privantur: nam et motu et sensu distincte
conspiciuntur. Ut in obstructionibus, in epilepsia, in ligationibus servare
licet. Id minime eveniret si anima esset tota in quavis parte. Ma essi, secondo
Capra, evidenziano anche come l’anima abbia la tendenza a ricostituire
spontaneamente quella totalità che viene interrotta o sopressa con le
operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la sua dipendenza da un
principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità in tutto il corpo ed
ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in questo dalle altre forme
materiali che, quando viene divisa, essa recupera la totalità che tuttavia non
è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto essa possiede un
principio dal quale dipende. E per questo Aristotele afferma che l’anima è una
in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo tale da interessare
allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle forme inferiori, ma
in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché tali forme si
osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le veci del
cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come l’anima sia
forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è estesa in
relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo tuttavia dal
cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le parti più
sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a motivo
delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e le
specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque, l’anima
dipende dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono origine
dal cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa est
tota in toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis materialibus.
Quod quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non tamen
totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum principium a quo
pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu, plures potestate.
Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis partem et convenit
formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia Item
considerantur in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem. Haec
omnia ex eo sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam,
et divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem corporis, et
divisibilis, pendens tamen infieri, et inconservari a corde, mediantibus
spiritibus, et subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem,
et mobile ob varias partes: et spiritus distinctionem, et animae diversitatem
ad formam misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus
partibus, et a corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione
corporea compete dunque all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e
quindi di organi secondari dei quali per accidens condivide la corporeità,
mentre substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa
in molte parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede
dell’anima è l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al
corpo ed è dunque l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere.
Rispetto ad esso il cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per
rintracciare l’origine del principio fisiologico e la sua sede, Capra fa affidamento
alla dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes quae origo, et
principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec operari valet. Sed
huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes affirmant. Immo Hyppocrates
ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove infatti ha origine il calore
naturale – egli argomenta – ha origine anche l’anima quae educitur primo de
potentia materiae. Ma, calore e vita hanno origine dal cuore e si diffondono
attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto il corpo: a quanti dicono che gli spiriti
siano sede dell’anima si deve rispondere che è necessario considerare il calore
come sede. Infatti gli spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un
certo tipo di spirito, giacché nello spirito si conserva il calore, la cui
origine non è né il fegato né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine
precipua. E se anche alcuni anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti
alla pulsazione, si sono sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa
esperienza. Infatti, il cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più
sottili del sangue, debbono avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che
viene attratta. Perciò si deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che
possa adattarsi a ciascun singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo
vivente è il cuore. Ad id quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos
calore considerare debemus. Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor
naturalis quidam spiritus est. Cum in spiritu servatur calor. Non epar non
cerebrum est origo. origo itaque praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli
pulsui. Id tribuerunt. Falluntur, et falsitate experientia nituntur. Nam
caloris origo cor est, et ibi spiritus extenuissimis partibus sanguinis gigni
debent: non autem ex attracto aere. Propterea ea est censenda animae sedes.
Quae singulis viventibus convenire valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo
dunque il cuore quale sede dell’anima, prosegue Capra, si riuscirà facilmente a
giustificare i fenomeni di accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei
nervi. A questo punto, però, l’autore è costretto a fare i conti con la
tradizione prettamente medica che si richiamava a Galeno ed agli esperimenti
relativi alla separazione dei principi fisiologici nel corpo, ad iniziare dal
movimento dimostrato dal cervello relativamente alla sistole ed alla diastole,
affermato dai medici ed accettato con grande riluttanza da Capra. Et cum cor
primo movetur vere potest esse principium motus aliorum: nam et si moveatur per
sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime
diiudicatur. Non enim censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici,
quod cerebrum quoque movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id
conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel
ritenere che il cervello sia importante tanto quanto il cuore medici falluntur,
scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche,
esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il cervello è di per se stesso
insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già
visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo
Capra il solo scopo di dimostrare che, separati dall’attività di infusione di
calore e vita propria del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle
proprie funzioni, non può far altro che dichiarare false la maggior parte delle
dimostrazioni anatomiche ottenute mediante legamento: Gli anatomisti inoltre
legano un cane, e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi
legano quattro vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane,
che grida e corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in
primo luogo perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente
incerte, e forse in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono
anche dopo che sia stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti
spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il
cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia
formato e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa,
invece, che ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici quidam canem
ligant, et secare iubent citissime toracem. Mox ligant quatuor vasa cordis. Et
cor eximunt, deinde solvunt canem qui vociferat, et currit. Evasiones hae
nullae sunt: et primo quae ab eis referuntur valde sunt dubia, et fortasse
magna ex parte falsa. Vivunt enim nonnunquam homines quibus aliquid cerebri
detractum fuit. Et avulso capite saepe progredi conspecta sunt animalia.
Insuper informationes embrionis genito corde ante quam sit cerebrum productum,
sentit embrio et si pungitur contrahitur. Non tamen adhuc cerebrum habet. Dunque,
in sede fisiologica, l’instrumentum commune communi sedi resta il cuore, da cui
hanno origine tutte le concoctiones e quindi tutti i temperamenti; attraverso
di esso, inoltre, un’anima immateriale si unisce (copulatur) con le funzioni
vitali dell’organismo attivando in successione tutte le altre: secondo Capra,
infatti, gli esperimenti di legamento indicano che ciascun organo, interrotta
la via che lo collega agli spiriti prodotti dal cuore, cessa pian piano la propria
attività peculiar. Questa strenua difesa del cardiocentrismo aristotelico in
pieno Cinquecento può sembrare arretrata rispetto al clima costituitosi sul
finire del secolo intorno all’intepretazione anatomica del Quod animi mores, e
soprattutto del De placitis, ma si ricollega di fatto anche a sviluppi
successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui il primato del cuore non
necessariamente implica una svalutazione delle funzioni del cervello. Ed, in
effetti, l’importanza del cervello come sede del pensiero verrà in parte
recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De sede mentis. Se la
concezione galenica relativa alla localizzazione delle funzioni psichiche si è
rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima è infatti indivisibile
--, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la totalità delle
funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può tuttavia negare che
gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba essere considerato
sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale. Anche in questo
caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è, in quanto tale,
immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso, prove a
favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo Capra e possono
essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il pensiero
richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il ribollire o
fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo analogo nel
cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur restando
inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a motivo
della preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo) negli
accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non
raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni
dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla
corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la
soluzione fornita da Capra è quella di postulare una duplice unione tra anima e
corpo; una secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa
il cuore in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la
natura dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un
organo di per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le
operazioni della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma
avviandomi alla soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei
Peripatetici ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte,
come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede
dell’intera anima sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie
premesse, asserì proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la
mente è eterna, ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici
coppulatione): una per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene
nel cervello, dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che
all’anima si addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che,
in duplice modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per
operazione. Per natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo
in cui vengono portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>,
ed in questo senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire: conclusione. Alla mente non spetta una sede.
Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non
dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione.
Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione
della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono portate
a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra
dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta
verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama
unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima.
Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto
operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli
spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro
strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in
particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è
la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed intrinsecamente
membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è membro
divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché ciò che è
eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che Dio è sede
della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine ultimo
sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem considerandum. Quod
quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque interitui obnoxiam esse
afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere deberent totius animae
sedem esse cor. Et ideo Alexander innixus suis fundamentis id asseruit. Qui
vero contra. Aeternam dicunt esse Mentem. Isti censent. Quod ut duplici
coppulatione nobis iungitur. Una per naturam. Altera per operationem nobis coppularetur.
Quoniam ea efficitur in cerebro tunc dicendum. Quod cererbum est sedes Mentis.
Si vero ei duplicem asserimus convenire coppulationem; tunc duplici quoque modo
probatum est ei sedem convenire. Unam per naturam. Alteram per operationem. Per
naturam iungitur animae. Eo praesertim loco ubi opera perficiuntur, et ad hunc
sensum erunt istae conclusiones verae, Videlicet. Conclusio. Menti non convenit
sedes. Haec vera est ea ratione qua diximus. quod mens a corpore, vel corporis
partibus non dependet, nec organo particulari eget. Conclusio. Cerebrum est
sedes mentis. Haec est vera non ratione dependentiae sed ratione operationis.
Nam in cerebro perficiuntur opera imaginativae. Haec autem est ministra
intellectus. 3. Conclusio. Cor est sedes mentis. Haec est vera ratione
coppulationis intellectus nobiscum quae nuncupatur coppulatio per naturam. Conclusio.
Cor est praecipua animae sedes. Sedes inquam virtutis. Conclusio. Cererbum est
sede. Operantis animae, et operationum. Conclusio. Animae sedes sunt spiritus.
Cum sint quasi vehiculum facultatum, eiusque commune instrumentum. Conclusio.
Tota humana species est sedes mentis. Proprie tamen homo sapiens. Conclusio.
Imaginativa est sedes mentis. Conclusio. Cor essentialiter, et intrinsece est
praestantius membrum quam cererbum. Conclusio. Cerebrum accidentaliter, et
extrinsece est divinissimum membrum. Conclusio. Sed cum aeternum aeterno
coppulari debeat dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam in eo solo
conquiescimus et in ultimo fine supernaturali. Per infinita saecula saeculorum.
Amen. Nella serie di conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni storiografi
ottocenteschi hanno voluto scorgere una dichiarazione di averroismo. Sembra
tuttavia difficile distinguere la presunta influenza averroistica da una sincera
e piena dichiarazione di fede. Con il De sede animae et mentis Capra si assiste
al tentativo di riportare il problema della localizzazione psichica ad un unico
centro funzionale, il cuore, di contro al poli-centrismo galenico. Ma
l’operazione – di per sé condotta in osservanza del più rigido aristotelismo –
sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione con il corpo (“duplex
coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà il dual-ismo galenico
tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra della rete mirabile,
quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della differenza che intercorre
tra operazioni puramente mentali o psicichee ed operazioni lato sensu “fisiologiche”.
Il suo contributo è interessante, semmai, dal punto di vista dell’interpretazione
che egli fornisce agli esperimenti galenici circa la legatura di nervi e vasi,
come pure delle contro-prove empiriche che adduce a sostegno della propria
tesi. In effetti, in Capra è soprattutto l’idea che il principio psichico,
inteso quale principio basilare della “vita”, debba avere un centro a tenere
banco nella discussione, discussione che pure non può fare a meno di costanti
appelli agli Anatomici, e quindi alla tradizione medica del proprio tempo. È
comunque sullo stesso piano – l’intepretazione di esperimenti che nel loro
orizzonte osservativo si coordinano tutti intorno alla lettura del De placitis
Hippocratis et Platonis, e quindi del Quod animi mores – che si muove anche la
critica antigalenica mossa da Bernardino Telesio nel Quod animal universum. Marcello Capra.
Keywords: animo, spirito, l’immortalita dell’animo, l’immortalita dello
spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello spirito, Method in
philosophical psychology, psychic versus psychological, functionalism, manifestation
in behaviour – body/soul – corpore animo – hylemorphismo, life, soul –
Aristotle on soul and life – zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo –
Aristotle monism, dualismo. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Capra” – The Swimming-Pool Library.
Capua (Bagnoli
Irpino). Filosofo. Grice: “I like Capua – from the middle of nowhere – Lago
Laceno – he founds an “Accademia degl’Investiganti” in Capri! To philosophise!”
Vestigia lustrat, i.e. even in dreams the hound follows the trace of the hare!”
-- Impegnato nella ricerca e nella sperimentazione, in antitesi ai vecchi
capiscuola come Aristotele, Ippocrate, Galeno ed altri, fu a capo di
un'accademia dal nome gli "Investiganti". Pubblicò il
"Parere", sostenendo le idee di chi opponeva la ricerca medica e
scientifica al sapere della tradizione. Nacque a Villa Capua, in Via
Carpine, da Cesare e Giovanna Bruno. Nonostante la famiglia fosse facoltosa,
non gli venne assegnato un precettore che lo seguisse negli studi oltre le basi
grammaticali. Ad ogni modo, si dedica con passione, sin da giovanissimo,
all'approfondimento del latino, del greco e della retorica. Persi entrambi i
genitori e dovette cominciare a provvedere da sé alla sua educazione.
Trasferitosi a Napoli per seguire la sorella, frequenta la scuola dei padri
della Compagnia di Gesù. Impara le Istituzioni di Giustiniano, leggendo al
tempo stesso anche le osservazioni di Giacomo Cuiacio, testi che segnarono
profondamente la sua formazione, come è evidente in vari passaggi del suo
"Parere" e nelle sue "Lezioni intorno alla natura delle
mofete". Si laurea e fa ritorno a
Bagnoli, con l’intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali ed
anatomiche, effettuando osservazioni dirette su animali vivi sezionati e con il
supporto di testi reperiti a Napoli. Proprio in quegli anni prese forma il suo
pensiero critico circa l'inadeguatezza del metodo della filosofia. Degli anni
di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. Amenta, autore
di una sua biografia, ci riferisce anche di una certa attività letteraria,
collocabile in questo periodo, di cui, tuttavia, non ci è giunta testimonianza.
I suoi testi furono rubati mentre era in viaggio verso Napoli. Si
trasferì definitivamente in Napoli. Probabilmente il suo trasferimento fu
favorito dalla presenza a Napoli di Cornelio, suo amico, il quale vantava una
lunga preparazione alla scuola galileiana e indirizza Di Capua alla ricerca
scientifica nella linea segnata da Galilei e da Cartesio, protagonisti della
rivoluzione che la filosofia sperimentale portava all'interno di una cultura
legata al passato e in cui vigeva la legge dell'"ipse dixit". Sulla
scia di questo fervore intellettuale, fonda insieme a Cornelio, e Borelli
Gl’Investiganti, gruppo di gioco filosofica di neta ispirazione anti0aristotelica.
La sua casa fu spesso luogo, ad ogni modo, di incontri tra gli intellettuali
napoletani che facevano capo agl’Investiganti. Ottenne il riconoscimento dal
Principe Francesco Carafa, di essere iscritto all'Arcadia di Roma, con il nome
di Alessi Cillenio. Tale riconoscimento scaturisce dalla fama e dall'operosità
scientifica che ottenne non solo a Napoli, ma in tutta Italia. A causa del suo
ruolo di spicco all'interno dell'Accademia e della pubblicazione della sua
opera più celebre, il "Parere", e coinvolto nel processo agl’ateisti che
fu da molti visto come un processo indetto dal tribunale dell'Inquisizione per
contrastare il diffondersi delle nuove idee in ambito scientifico e filosofico.
Il processo era ancora aperto quando morì. Fu un professionista scrupoloso e un
illustre innovatore scientifico nello scenario culturale napoletano della
seconda metà del Seicento. Egli dimostrò notevole interesse per le dispute
galileiane e i processi contro lo scienziato pisano, che in quegli anni erano
al centro delle cronache del mondo politico, religioso e scientifico. In quel
periodo Di Capua era anche interessato al pensiero di Bruno, Campanella e Porta,
ma soprattutto era affascinato dalle novità scientifiche a cui lo introdusse il
suo amico Cornelio, riguardanti i libri e le pubblicazioni dei principali
scienziati e filosofi italiani ed europei come Francesco Bacone, Cartesio,
William Harvey, Thomas Hobbes, Pierre Gassendi, Daniel Samert, Hooke, Willis,
Boyle. Tra Cornelio e Di Capua sorse una solida amicizia basata su ideali
comuni: entrambi non condividevano né l'autoritarismo aristotelico né le
vecchie teorie di Ippocrate e di Galeno. Dello stesso pensiero era Giovanni
Alfonso Borelli (1608-1679), medico fisico e matematico, ammiratore, anche lui,
del metodo di Galileo. Infatti lo sperimentalismo galileiano, basilare
nell'attività dell'Accademia del Cimento, influenzò e si congiunse con
l'attivismo speculativo degli Investiganti napoletani. L'ambiente
culturale napoletano era dunque vivo e attivo e le librerie di via San Biagio
dei Librai divennero centri di raduno intellettuale, in cui si discuteva sulle
novità di fisica, astronomia, filosofia e medicina. Di Capua, ancora prima
della fondazione dell'Accademia degli Investiganti, aveva già incominciato a
contribuire al risorgere della cultura napoletana, partecipando attivamente
alle riunioni e ai circoli culturali sorti a Napoli nella seconda metà del
Seicento, tra cui quello fondato da Camillo Colonna. In un’ottica del tutto
contrastante alla Controriforma della Chiesa cattolica che da circa cinquanta
anni aveva preso piede, Napoli diventa il centro della vita letteraria e delle
attività scientifico filosofiche, spostando l'attenzione da Firenze a Napoli:
si passa dal Cimento e dai Lincei agli Investiganti, dalle Accademie fiorentine
e romane a quella napoletana. Si forma quindi in questa “nuova” Napoli,
sotto lo stimolo, l'esempio e l'amicizia di Cornelio e Borelli, i quali,
durante i loro viaggi, erano stati illuminati dall’ “Accademie des Sciences” di
Parigi e la “Royal Society” di Londra. È in questo contesto culturale che ‘Il
Parere” richiama l’attenzione di Redi. Lui e Redi erano entrambi scienziati,
intellettuali, accaniti osservatori della natura; tutti e due seguivano il
metodo sperimentale secondo lo spirito galileiano. Redi scrisse a Di Capua una
lettera dopo aver letto le sue "Lezioni sulla natura delle mofete",
in cui gli manifesta tutta la sua stima e ammirazione. Redi fu il primo ad
effettuare ricerche sul cancro e sulla parassitologia. L’ammirazione che
provava nei confronti del Di Capua era la dimostrazione che quest’ultimo era
inserito nell'élite culturale italiana del tempo, anche al di fuori del
circuito napoletano, fino al punto che la Regina Maria Cristina di Svezia si
interessò vivamente a lui e alle sue idee, comunicandogli il desiderio di
conoscere con maggiore chiarezza ed approfondimenti il suo parere sullo stato
dell’incertezza della medicina. Scrisse allora i “Tre Ragionamenti sull'Incertezza
dei Medicamenti”. Nelle sue pubblicazioni non fa menzione di Vico, suo
devoto alunno, probabilmente in quanto al momento della sua morte il Vico aveva
soltanto 25 anni. Quindi non aveva avuto modo di intuire le capacità
intellettuali di Vico, il suo genio raziocinante di storico e di filosofo.
Certamente Vico fu influenzato dalle idee e dalle teorie di Di Capua, che
affiorano in alcune orazioni giovanili vichiane (il concetto della divinità presente
in tutta la natura). Vico, di natura solitaria, fu molto sensibile alle novità
scientifiche e filosofiche del tempo, partecipa al movimento culturale napoletano
e frequenta la casa Di Capua, che considerava il suo ideale maestro. Capua,
Cornelio, Andrea, e Borelli fondano a Napoli “Gli’Investiganti”insieme ad altre
illustri personalità del mondo scientifico filosofico napoletano. Gl’Investiganti
sorgeno in uno scenario di fervore intellettuale nuovo, dall'esigenza, quindi,
di allontanarsi dalla filosofia aristotelica e dalle teorie di Ippocrate e di
Galeno, per abbracciare le nuove teorie rivoluzionarie. Il motto
degl’Investiganti e una citazione di Lucrezio: "vestigia lustrat" seguito
dall'immagine di un cane che segue le tracce e fiuta le impronte, rappresentando
a pieno lo sforzo degl’nvestiganti nella ricerca delle cause alla base dei
fenomeni naturali. L'Accademia fu chiusa per la peste nel 1656. Venne
riaperta dal marchese Andrea Conclubet, spinta da una nuova energia vitale:
superare l'arretratezza culturale del paese per mettersi al passo con gli altri
Stati europei. Gli investiganti si riunivano ogni 20 giorni e non si limitavano
alla discussione dei vari argomenti, ma anche alla sperimentazione proprio come
gli accademici della Royal Society di Londra e del Cimento. Alla riapertura
dell'Accademia, quindi, le prime lezioni furono tenute dal Di Capua su
argomenti di natura scientifica. Altre lezioni ebbero come argomento l'anima,
la fisiologia e l'embriologia. Si eseguirono anche esperimenti di fisica,
meccanica e idromeccanica in situ, cioè nei luoghi dove certi fenomeni si
verificavano (per esempio nella grotta del cane di Pozzuoli, nota per i
fenomeni mefitici). Le nuove teorie degli Investiganti determinarono una
reazione nel mondo del conservatorismo gesuitico, che sfociò nella fondazione
di un'Accademia antagonista: l'"Accademia dei Discordanti", guidata
dai famosi medici Carlo Pignatari e Tozzi. Quest'ultimo fu primo medico del
Regno di Napoli, professore alla Sapienza e in seguito alla morte di Malpighi gli
venne affidata la carica di archiatra pontificio. Da allora i contrasti tra le
due Accademie si moltiplicarono a tal punto che il viceré Pedro Antonio de
Aragón dispose di chiudere entrambe le Accademie. In seguito riapre una sua
scuola, dando prova della sua convinzione sulla fondatezza delle sue teorie e
sul desiderio di trasmettere queste verità agli alunni. Questo periodo
rappresenta un momento di massima notorietà del pensiero culturale a capo di Di
Capua, tanto che, il viceré spagnolo Ferdinando Gioacchino Faiardo indisse un
congresso, in cui diversi medici dovettero esprimere il proprio parere per ciò
che concerne lo stato delle teorie medico scientifiche oggetto di disputa. Fu
così che, in occasione del convegno, Dcompose il suo "Parere Divisato in
otto ragionamenti..", che ottenne notevoli riconoscimenti oscurando il
conservatorismo cattolico dei suoi detrattori. Nonostante il Seicento, secolo
del barocco, avesse come personaggio di spicco a Napoli Giambattista Marino, ritenuto
dai suoi contemporanei un genio poetico di grandezza insuperabile, si dichiara
nettamente anti-marinista, in quanto la sua mentalità era di natura critica,
analitica e scientifica. Si forma nel pieno delle dispute letterarie tra
marinisti e tradizionalisti di stampo petrarchista. In quell'epoca predomina il
trecentismo linguistico, perorato da Bembo e codificato dalla Crusca, che
Salviati detta e di cui nel solo Seicento esistevano ben 3 edizioni. La
notorietà, l'autorità, il peso culturale di questo nuovo dogma della lingua
italiana ebbe una notevole presa su Capua grazie anche alla sua
predilezione per la poesia di Petrarca. Poiché i petrarchisti sono considerati
“antiquari” dai marinisti, lui stesso venne etichettato come un antiquario, in
quanto purista linguistico e seguace della tradizione dei dettami della Crusca.
Di fatto, tuttavia, egli sosteneva principi rivoluzionari di scienza, seppur mediati
da un linguaggio ormai arcaico. Tuttavia a Napoli, nella seconda metà del
Seicento, si afferma intorno a lui un movimento puristico, a tendenza
arcaicizzante che esercitò il suo influsso anche su Vico. Questo sottolinea il
suo aspetto conservatore, riferito esclusivamente al linguaggio da lui usato,
tipico del purismo letterario petrarchesco. In contrasto con questo
atteggiamento letterario antiquario, fu senza dubbio un rivoluzionario in
ambito scientifico nello scenario culturale napoletano. La sua produzione
filosofica è, dunque, caratterizzata nel complesso da una forte contraddizione
tra il nuovo del suo pensiero scientifico ed il vecchio o antico della lingua
da lui scelta. La sua oè costituita da duemila sonetti, due tragedie ("Il
martirio di Santa Tecla" e "Il martirio di Santa Caterina"), alcune
commedie, una favola a sfondo idilliaco e altri scritti filosofici vari. Di questa produzione non abbiamo
testimonianza a causa del furto subito da lui in viaggio verso Napoli. I
sonetti, tanto nella forma quanto nel contenuto, sono di imitazione
petrarchesca. La stesura di questi ultimi, inoltre, è collocabile al periodo
dell'adolescenza e, pur non potendolo affermare con certezza, è lecito intuire
che la sua cosiddetta produzione non abbia potuto assurgere ad alte cime,
considerata anche la sua indole disposta più allo studio dei fenomeni e al
razionalismo che all'aspetto psicologico o ai fattori emotivi. Le opere
drammatiche sono, al contrario, ispirate al modello di Porta. Il Parere divisato
in otto ragionamenti è indubbiamente la sua opera più importante, pubblicata a
Napoli, ristampata con le Lezioni intorno alle mofete. In questo testo parte
dalla pretesa di dimostrare quanto vana, quanto priva di ogni salda dottrina
fosse la filosofia di Aristotele, rivendicando un rinnovamento culturale , un
bisogno di liberarsi dagli eccessi del potere politico ed ideologico di alcune
posizioni. Proprio a causa di questo spirito di rivolta rintracciabile nel
testo fu intentato un processo contro lui da parte dei Gesuiti, capitanati da Benedictis,
che si svolse a Napoli. Nel Parere, tuttavia, più che negare il pensiero di
Aristotele nel campo della conoscenza, intende contestare l'atteggiamento di
coloro che ne avevano adottato in maniera eccessivamente pedissequa il metodo.
La posizione da lui presa è tutta in favore della rivalutazione delle scienze e
di un approccio nei confronti di queste che non sia statico, bensì critico
anche nei confronti della tradizione. La medicina in particolare è una scienza
che non può fondarsi, a suo parere, su nozioni incontestabili, ma deve
piuttosto essere costantemente messa in discussione, pur mantenendosi nei limiti
dell'esperienza e della debole ragione. Nell'opera, comprensiva di otto
ragionamenti, viene anche delineata la figura ideale del "buon filosofo",
il quale deve essere allo stesso tempo anche amante della filosofia e buon conoscitore
della geometria. Agli otto ragionamenti aggiunse un'appendice al
"Parere": "L’incertezza". In entrambe le opere Di Capua
finisce con il constatare lo stato dubbioso tanto della conoscenza e come
proprio il loro caratteristico elemento di imprevedibilità, anche in quanto soggette
agli elementi umani, rendano impossibile una conoscenza del tutto obiettiva. Le
Lezioni sulla natura delle mofete riprendeno i concetti già esposti nel
"Parere" sull'aria, concepita come anima dell'universo. Anche nella
descrizione e nello studio delle mofete, fenomeni naturali caratterizzati
dall'uscita di anidride carbonica, vapore acqueo e altri gas da terreni di
origine vulcanica, rivela le sue attitudini alla razionalità, alla
dimostrazione obiettiva di ogni evento fisico, sostenendo come la conoscenza di
un fenomeno debba essere fondata sul metodo sperimentale. Altra opera
pubblicata a Napoli e una biografia del condottiero Andrea Cantelmo, il quale
milita nell'esercito di Ferdinando II D'Austria e a cui veniva attribuita
l'invenzione delle mine volanti e di un tipo di pistola a ripetizione con 25
colpi. La biografia diventa il pretesto per l'autore per far affiorare la sua
concezione sull'individuo, sull'uomo, sui giochi della fortuna, sulla
dialettica tra gli avvenimenti storici riguardanti l'uomo come personalità
unica ed individuale e l'intreccio dello svolgimento degli eventi. Generoso De
Rogatis, Cenni biografici degli uomini illustri di Bagnoli Irpina. Carmine
Jannaco Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia (F. Vallardi, Milano,
Piccin nuova libraria, Padova); . Mario
Puppo, Discussioni linguistiche del Seicento, UTET, Torino). “Parere del signor
Lionardo di Capoa divisato in otto ragionamenti, ne' quali partitamente
narrandosi l'origine, e'l progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della
medesima si fa manifesta” (Antonio Bulifon, Napoli); Niccolò Amenta, Vita di
Lionardo Di Capua, Venezia). Niccolò Amenta, Vita di Lionardo di Capoa detto fra
gli Arcadi Alcesto Cilleneo” (Venezia). Nicola Badaloni, Introduzione a
Giambattista Vico , Laterza, Roma; Bari); Cotugno, La sorte di Giambattista
Vico e le polemiche scientifiche e letter. dalla fine del XVII alla metà del
XVIII secolo, Tip. del R. Ospizio V. E., Giovinazzo. Salvo Mastellone, Pensiero
politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, D'Anna
editore, Messina-Firenze); Walter Maturi, Fausto Nicolini, La giovinezza di Gian
Battista Vico; saggio biografico, Napoli); Camillo Minieri Riccio, Cenno
storico delle Accademie fiorite nella città di Napoli, Bologna); Luciano Osbat,
L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Edizioni di storia e
letteratura, Roma); Amedeo Quondam, "Minima dandreiana: prima ricognizione
sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino"
in Rivista storica italiana, Napoli); Gabriele Reppucci, Saggio monografico su Capua,
scienziato-medico-filosofo bagnolese (Circolo Sociale "Leonardo di
Capua", Bagnoli Irpino). Dizionario Biografico degli italiani. Vico,
Autobiografia, a cura di B. Croce Bari (Edizioni Pauline, Milano). Lionardo Di
Capoa's Parere is just that: an opinion in response to a specific request by
the Viceroy and the Consiglio Collaterale in 1678 put to a group of prominent
Neapolitans for counsel on a legal regulatory policy. Di Capoa's attack on
Aristotelian discursive modes seems simple, ordinary Aristotle-bashing. Di
Capoa maintains a theoretical investment in the anima: this is not a
recuperation, or a conscious continuation, of Aristotle on Di Capoa's part. Di
Capoa wishes then, to protect medicine not only from mechanical applications of
logical techniques, but also from premature, reductionist applications of
beast/machine metaphors. Di Capoa wishes then, to protect medicine not only
from mechanical applications of logical techniques, but also from premature,
reductionist applications of beast/machine metaphors. Aristotle offers a
'biological concept of the soul' as the 'first actuality of life', the
principle of life. IL PARERE DEL SIGNOR LIONARDO DI CAPOA
divisato in otto ragionamenti, ne’ quali partitamente narrando l’origine, e'l
progrello della filosofia, chiaramente l'incertezza della medefima ſi fa
manifefta . SOMA I N N POLI Å Per Antonio Bulifon MDCLXXXI. Columa de
Superiori. 1” All'Illuſtriſſimo, ed Eccellentiſſimo Sig. LCTEA IL SIGNOR D. FRANCESCO
CARRAFA Principe di Belvedere, Marcheſe d'Anzi , &c. On avendo io coſa ,
Eccellentiſsimo Signor mio , che m'abbia in più pre gio di quel che fo la
padronanza voſtra , cerco per quanto poſso , di farla paleſe a ciaſcuno :
ficome altri fa il poſſedimento delle coſe più care, e prezioſe, ch' egli
s’abbia , o per ſua induſtria , o per fortuna ac quiſtate . Ho penſato dunque ,
che a ciò fare io non potrei avere migliore opportunità di queſta , che mi
porge il preſente libro , che per mia gran vençura eſſendomi capitato alle
mani, ho preſo a far iſtampa re, s'io il mettesli fuori ſotto ilnomevoſtro, La
ſcrit tura veramente a giudicio di Voi medeſimo, e d'ogn altr'huomo intendente
è tale , che agevolmente poſ ſo da lei promettertii il fine , che m'ho propoſto
;im perciocchè ben toſto n'andrà ella per le mani delle perſone di miglior
giudicio nelle buone letiere , sì per per ta cognizione , che s'ha dell'autore
dilei , doa vunque ha di quelli , che ſe ne dilectano , sì perch' ella il vale
, per l'eloquenza , e doctrina, di che ſi ve de ripiena : oltre all'autorità ,
e fama, che le ſi accre fcerà dall'iſteſso nome voſtro ch'ella porta ſeco .
Poichè posſiam dire, che poche ſono quelle parti d' Europa, ove non s'abbia
conrezza diVoi, e delle voſtre egregie qualità , o per la fama, o per la pre
ſenza di Voi; ma che quaſi tuttele havete cerche colle lunghe , e laudevoli
peregrinazioni, le quali in quella guiſa , che da Voi ſono ſtate
fatte,ſidebbono riporre fra quegli ſtudj , con che vi ſiete ſempre in gegnato ,
e v'è venuto fatto d'aprirvi la ſtrada allº intera cognizione delle umane cofe
, e d'accreſcere con le doti dell'animo , e dell'ingegno lo fplendore ch'avete
ereditato da'voſtri maggiori . Oltre a ciò non doveva queſta ſcrittura venirne
fuori ſotto al. tro nome , che'l voſtro : mentre , e la ſtima, che Voi fate
dell'autore di eſsa , e l'affezione , che gli porta te , ficome fare ancora a
ogn'altro huomo lettera to , e l'antica dimeſtichezza, ch'egli ha con eſſo Voi
il richiedeano . Ricevete dunque ilpreſente dono , ch'io vifo di queſto libro ,
o per più vero dire , della picciola parte , ch'io ho in quello , per l'opera
da me polta in farlo ſtampare , con l'uſata voſtra uma nità in ſegno
dell'oſſervanza,ch'io viporto . E pre go Iddio , ch'avanzi in bene ogni voſtro
deſiderio; e alla buona Voſtra mercè umilmente mi raccomando. Di V. E ,
Vmiliſs. Servidore. Giacomo Raillar D. Carlo Buragna ; a'Lettori. E Gli sono
già alcuni meſi paſati,che d'ordine del Signor Vicerè fu tenuto conſiglio da
alcuni Medici di metter qualche compenſo agli abuſi , ed errori , che tutta via
ſi commettono nel medicare . Edopo qualche ragio namenti intorno a cotal
biſogna avuti , diviſarono eglino , che per potere con piis loro acconcio
eſaminar le ragioni , eipareri propoſti , e da proporſi , ciaſcuno doveſſe
mettere in iſcritto il fuo. Perchèconvenne al Sig. Lionardo di Capocs, che fu
uno de’chiamati a queſta adunanza ſcrivere il parer ſuo intorno a cotal materia
; e parendo a lui, che ciò non fi poteffe fare acconciamente, senza conſiderare
innanzi tratto , e riandar con diligenza la natura della coſa , che s'aveva a
trattare , cioè della medicinz : sì il fece egli con tanta dottrina , elo
quenza , ed erudizione, che , ejfendo il ſuoſcritto venuto al le mani d'alcuni
huomini letterati , e altri amici di lui, par ve loro dettato più toſto per
l'univerfalità di coloro , che fi dilettano delle bettere piie eſquiſite , che
per haverfi egli awe rimanere fra i termini d'una picciola , e privata
compagnia: comechè l'autore di quello non s'aveffe nello ſcrivere propoſto
altro fine , che di ſoddisfare al carico da quella impoſtogli.Sti marono dunque
coſtoro , che foſſe una tale ſcrittura dameia ter in luce per mezzo delle
ſtampe : e tanto fecero ,che alla per fine perſuaſero il Signor Lionardo a farne
loro copia , e a con tentarſi, che ſi stampaſealmen queſta delle molte, e
diverſe opere fue, ch' egli tieneappreffo di fe. E in ciò non pure eb bero
eglino riguardo al piacere, che ſarannoper prender i doe tine i curioſi della
lettura di queſto fcritto , ma all'utile an che ne può riſultare a ogni forte
di perſone , e Spezial mente agli avveduti, e giudiciofi ragguardatori delle
cofe . Poichè , vedendo eglino la varietà delle opinioni, edelle Seite, e le
diverſe , eSpelle volte contrarie guiſe di medicare , che fra i medici ditempo
in tempofonvenute sì , anche ſenza entrar coʻfiloſofanti in più ſottili
Speculazioni , potranno age volmente accorgerſi, con quanta ragione altri
Àfaccia a cre Bere D 1 grand 4 derë , o voglia dare a vedere, che una profeffione
perfefef ſa cosè dubbiofa , e incerta , habbia in ſe dottrina , o principi, ſu
i quali altri pola porre alcuno ſtabile fondamento;e quan to fa pericoloſa coſa
il vederſi nelle mani di coloro , che così fi dannoad intendere, espezialmente
dove ne va la ſanità , e la vita . Oltre a queſto , chi non vede di quanto
frutto può rium Scire queſto ſcritto a'giovani, che danno opera alla medicina ?
mentre dalla fola lettura di lui potranno efi per avventura apparar più di ciò
, che alla cognizione della natura di lei s'appartiene, che non farebbono col
rivolgere tutt'ora i volumi de'più riputati, e folennimaeſtri di quella : e
accorger fi a un'ora qual via nell'impreſa del medicare ſi vuol tener da colui
, che laſciate andarele giunterie, e le ciance , intende Secondochè la
condizined'untal meſtiere comporta , faronore a fe , e giovamento agli
infermialla ſua cura commeſſi . Ne meno faranno efli, e ciaſcun'altro, che
attende a’migliori ljudj, per vedere apertamente quanti , e nella medicina, e
nell'altre Scienze ci sono ſtati, e fono di quelli , che fi vanno ſtillando il
cervello pur dietro a quello, che o norciès o pure non ſi ritro va ; e, come
dile il noſtro Dante, Trattando l'ombre , come coſa falda . Maſenza, che Io mi
diſtenda più oltre in voler dimoſtrares chente, e quale , e quanto profittevole
, e dotta fi fia queſta ſcrittura , a ſufficienza il lettore ſol potrà egli
vedere di ſe: e come anche non eſſendo ella fata dettata a fine d'averſe a
divolgare , non per queſto rimane, ch'ella non corriſponda al la fama
dell'ciutore di efsa , e all'opinione , che portanodi lui gli huomini più
intendenti, e giudiciof . Sta ſano . EMINENTISSIMO SIGNORE A I Ntonio Bulifon
eſpone a V. Em. come deſidera darë alle ſtampe un libro intitolato Parere del
Signor Lionardo di Capoa , intorno alle coſe della medicina , per ciò ſupplica
V. Em .commetterne la reviſione a chi me glio parerà all’Enı.V.ut Deus, &
c. N Congregatione habita coram Eminentiſſimo Domino Cardinali Caracciolo
Archiepiſcopo Neapolitano ſub die 3. O &tobris 1679. fuit dictum , quod
R.P.Franciſcus Verciulli Soc. Ieſu revideat , & in ſcriptis referat eidem
Congregationis. MENATTVS VIC. GEN. Iofeph Imp. Soc. Iefu Theol.Eminentiſs.
EMINENTISSIMO SIGNORE O letto per comandamento di V. Emin. il libro del Si gnor
Lionardo di Capoa : intitolato Parere intor noalla medicina , ne vi ho
ritrovato coſa alcuna con traria alla dottrina della Fede , overo a' buoni
coſtumi . Per queſto lo giudico degno di ſtapa, per pubblica utilità , e per
ammaeſtramento degl' ingegni curioſi di recondita , e fruttuoſa filoſofia . 13.
di Aprile 1680. HE Dell'Em. V. Antico, umilifs. Servo Franceſco Verciulli della
Comp.di Giesi . N Eminentiſs. Dom . Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo
Neapolitano fuit dictum , quod ſtante relatione (upra ſcripti Reviſoris ,
imprimatur MEN ATTVS VI C. GEN. 1 Iofeph Imp. Soc. Ieſu Theol. Eminentifs. 1
ECCELLENTISSIMO SIGNORE A Ntonio Bulifon eſponea V. E. come deſidera dare alle
ſtampe uno ſcritto intitolato Parere del sig. Lionardo diCapoa , intorno alle
coſe della medicina, perciò ſupplica V.E.commetterne la reviſione a chi meglio
parerà a V.E. ut Deus, & c . Magnificus Michael Biancardi videat ,
&inferiptis referai. CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Proviſum per Suam
Excell. Neap. dic 4. Aprilis 1680. Maſtellonus. ECCELLENTISSIMO SIGNORE PA Er
obedire a'comandidi V. E. ho letto il libro intitola to Parere del sig.
Lionardo di Capoa,intorno alle cose della inedicina , e perchè in eſſo non ho
ritrovato coſa contraddicciite alle Regie giuriſdizioni, giudico poterli dare alle
ſtampe,fe cosi reſterà V.E. ſervita . In Nap. 16. Maggio 1680 DiV.E. Devotifs.
Servidore ! Michele Biancardi Viſa ſupraſcripta relatione , iinprimatur, &
in publicatione fervetur Regia Pragmatica CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG.
Maſtellonus RA: RAGIONAMENTO PRI M O, 8CMA 220 GLI non hàveramente impreſa , o
Signo ri, che più ragguardevole comparir faccia la maeſtà d'un prudente, e
valoroſo Prin cipe , quanto l'adoperar sì col ſenno , e colla mano , che i
Popoli alla ſua cura commeſſi non vengano da ſtraniero ferro aſſaliti, o ſenza
vendetta miſeramente oltraggiati. Ma non è opera per mio avviſo men laudevole ,
e generoſa il render loro poi ſicuri da gl'inganni de’dimeſtici nimici;i quali
al lora più gravemente nuocer ſogliono ,quando ſotto il vela mo della
benivolenza,edella carità aftutiffimamente ſi cuo prono; e ch’infingendoſi
tutti umani, e compaſſionevoli al l'altrui fciagure, tendon poi loro sì
inſidioſilacciuoli, che rade volte ,o non mai ſenza mortale offeſa ſchifar ſi
poſſo no . E nel vero, che monterebbe eglimai l'uſcir talvo , e ſicuro da'
manifeſti riſchi della guerra ad huom , che poi nella tranquillità della
pace,in tanto più acerbi,quanto più naſcoſi pericoli inavvedutamente cader
doveſſe ? Anzi queſti di tanta maggior compalfione degno ſarebbe, quáto più
gravi , e più dure , e lagrimevoli da giudicar ſono le А ſven Ragionameñto
Primo ſventure di quella nave, che ſcampata da più alti mari , giunta poi in
bocca del porto miſerabilmente virompe . Perchè non mai a baſtanza potrà
commendarſi il pietoſo , e faggio avvedimento - del noſtro Eccellentiſſimo
Signor Vicerè ; il quale auendo con maraviglioſa , e incredibile felicità il
primo ottimamente compiuto ; e reſi vani gl'in tendimenti , e gli sforzi di
quelle armate, che ſuperbe, e crudeli infeſtando i mari , e le terre , ad
ogn'or di ſangue , e di fuoco ne minacciavano ; e ſgombrate ſimigliantemen te
le fchiere de gli sbanditi, e de gliſcherani, che le ſtrade tutte, ei contadi
ſcorrendo il noftro Regno malmenavano; ora con ogni ſtudio , e diligenza và
riparando, che non ſia mo aman ſalva nell'avere,e nella perſona miſerabilmente
oltraggiati per lomal'uſo della Medicina. La quale per ciocchè a ciaſcun forſe
abbiſogna, ſicome ove ſia infra’li miti mantenuta della ſperienza , e della
noſtra comeche debil ragione, eſſer puote per avventura di qualche giova mcnto
al comune : così allo incontro s'egli mai avvien, che fi torca à ſiniſtro
cammino , affai più delle malattie mede fime dannofa fi ſperimenta, e nocevole
al genere umano . Nè prima alla notizia di lui gl’infelici avvenimenti d'alcu
ni infermi fon pervenuti, per li quali le Chimiche medici ne forte
s’accagionavano, ch'eglitantoſto ne impone, che per noi con minuta diligenza li
cerchi ogni modo più op portuno da potervi dar riparo : e inſieme di preſcrivere
a Medici, ove faccia meſtiere , certe , ſicure , e falde regole nel loro
operare. Ma io quantunque voltemeco penſando riguardo quan te , e quali ſian le
malagevolezze d’un tale affare , tante fra me mcdeſimo confuſo oltre modo, e
fofpeſo rimango;per ciocchè, o che ficome in tutt'altre biſogne di gran conſide
razione interviene, o che natura di tal'arte nol patiſca, du ro molto , e
malagevol ſembra il dar legge alle coſe a quel la appartenenti . Perchè amerci
più toſto ſenz'altro fare , tacendo di non darmene briga , ſe non fapelli,
ch’in sì fat ta maniera contravvcrrei a ' comandamenti di colui , icui senni
,non che le richicke debbo di preſente , ſenza replica alcu Del Sig.Lionardodi
Capoa. 3 alcuna , e con ſomma venerazione ſeguire ; da' quali ſol moſſo , ed
anche dal giovamento, ch'alla mia patria ne po trebbe forſe avvenire,
volentieri, e di grado mi vilaſcierò entrare . Ed acciocchè ogni diliberazione
, o partito, ch'intorno a ciò ſia da prendere, a vano , ed inutil fine affatto
non rie ſca , tutte le forze del mio deboliflimo intendimento im piegherovvi ;
diviſando in prima le malagevolezze , in cui di leggier s'avvengono non che
Principi, o Maeſtrati ; ma Medici ancora , comechè faggi , e intendentiſſimi in
dare ſtabili , e certe leggi alla Medicina ; eſſendo fommamente una tal'arte di
ſua natura incerta , e dubbitoſa, ed incoſtan te . Indi poi pian piano , e con
diſcreto avviſo più adden tro facendoci,ilmodo proporremo , col quale quanto
law natura della coſa comporti, un buon Medico , ed un mi glior Chimico far ſi
poſſa. Ne altro provvediméto intorno a ciò al preſente mi ſovviene, che
valevole , ed a propoſito ſia per riparare alle perpetue , e quaſi fatali
calamità della Medicina. E per cominciare dalle memorie più antiche , laſciando
da parte ftare quanto poco duraſſe in India, in Babilonia , edin Afiria quel
lor diviſo di dover allogure gl'infermi nelle più uſate contrade e della Terra,
perche fuffer cura ti da’ viandanti; nell'Egitto là , dove l'arti tutte, e i
più no bili ſtudj nacquero in prima , e fiorirono , ſolamente a’Rè , ed a'
Sacerdoti , ed a pochi Baroni d'alto affare ilmedicar gl'infermi era conceduto
; onde da Manetone fra' Medici d'altiffimo fapere annoverati furono Antotide
ſecondo Rè della prima dinaſtia de'Tiniti, il quale laſciò ſcritti alquan ti
libri di notomia : e Tofortro Rè della terza dinaſtia , la qual’era
de'Menfitani . Ma poi tratto tratto cotal meſtiere con tutti s'accomunò ,
eziandio colla minuta plebe; e tan to il numero de' Medici s'accrebbe , che ben
per ciaſcun male era il particolar Medico ſtabilito , che ad altro malo re non
dovea por mano , come ne dà teftimonianza Erodo. to della Greca Iſtoria padre ,
con queſte parole : ; dè intpoxaj A κατα : 1 2 I Strab. lib . 3.8 . 16.
Ragionamento Primo κατι δέ σφι δέδασε μιής νούσου έκασG- ιησος, και ου πλεόνων»
παντού δ ' ιητών επί σλέα.οι μενεγαρ οφθαλμών Ιητοί κατεσέασι, οι δε κεφαλής ,
οι δε όδόντων, οι δε τών και νηδήν , οι δε των αφανέων νούσων, cioc fala
Medicina appo loro divifaeflendo per ogni malore, e nongià per più il ſuo
Medico : Ondetuttoilpaeſe vien da Medicin gombro ,perocchè altri curano gli
occhi, altri il capo , altri i denti , altri le parti del ventre , e altri i
mali interni , e na Scofi . Rimaſa poi in man ſolamente delle private perſones
non ſi può creder di leggieri , quanto cadendo dal ſuo pri mo ſplendore
l'Egiziaca medicina cangiolli per l'infingar dia, ed ignoranza de' novelli
Medici, iquali eran di così poco talento , che come dice ilteſtè mentovato
Erodoto, i primi della Corte del gran Rè della Perſia , allorche a co ſtui gli
ſi era dislogato ilpiè, non pur no’l ſepper guarire , ma coʻloro argomenti a
peſſimo ſtato il riduſlero . Perchè ſicome ſenza fallo è da credere , fù
a’Medici , come narra Diodoro, nell'Egitto per legge vietato il traviar
da’coman damenti degli antichi Maeſtri , a' quali ſe alcun contrave gnendo
interveniva , che piggiorato ne foſſe lo infermo , n'era perciò acerbamente
punito ,xq'v Teis ex tās iegãs 616nou νόμοις αναγινοσκουμένοις ακολουθήσαντες
αδυνατήσωσι σώσαι τον κά. μνοντα ,αθώοι παντός εγκλήματG- απολυόνται.εαν δε
παρά το γεραμ μένα ποιήσωσι, θανάτου κρίσιν υπομένεσιν. Εnel vero fu non po ca
fortuna di Galieno (per tacere al preſente d'Ippocrate, e d'altri) il non eſſer
egli nato à que'tempi,ed in quc'paeſi; perocchè non così agevolmente n'avrebbe
ſchivata la pe na, ſe quaſi ad onta della reverenda autorità di tal legge oso
pur dire quette parole: ου γαρΙπποκράτης μόνον , αλακαν τοϊς άλλους παλαιούς,
ουχ απλώς οίς αν είσαι τίς αυτών πυρεύω βασανίζω δε και αυτός τη τεπείρα , και
ταλόγω. ciοε , πότερον αληθές εςιν , ή fèuda ö yayçá Daci , Io ciò offervo non
ſolamente negli ſcritti d'Ippocrate, ma in tutt'aliri libri de gli antichi; che
non così di leggieri foglio commendare ciò che ciaſcun di loro ne aveſſe
laſciato ſcritto ;maprima il vò ben’io ejjaminando colla Sperienza, e colla
ragione,ſe vero, o falfo fifia ;ſe pure egli, che valente maeſtro di loica era
, per iſchermirfi non aveſſe tali chioſe fatte in su gli ſcritti de gli
antichi, e tanto i lor Del Sig.Lionardo di Capoa. 3 . i lor ſentimenti
ſtravolti, ed avviluppati , finche paruti fof ſer conformi a ciò che più gli
era a grado. Coſtuina , che più di ogni altra han poi ſeguita, e ſeguono
tuttavia i Me dici, che gli vanno appreffo , i quali in tal guiſa i ſuoi detti
sformano , ed anche que’d'Ippocrate, che ſovente fan ve duta di dir tutt'altro
di ciò che da prima ſi propoſero . E forſe gli Egizziaci medeſimi con
iſchernire la lor legge anch'eſſi vezzatamente cotal arte operavano ſecondo il
proverbio : fatta la legge , penſata lamalizia . E a tanto giunſe per avventura
la lor traſcutata arditezza , che ſo vente vegnendo toſto alle purgagioni , e
per lo più con in felice avveniméto per ripararvi traſandata la prima legge una
nuova ne publicarono, ſecondochè ne narri Ariſtotele con quette parole: Εν
Αιγύπτω μετα την πταήμερον κινείν έξεσι τοις Ιατζούς, έαν δε πρότερον επί τω
αυτε" κινδύνω , eler lecito a' Medici muovere ſolamente dopo il quarto
giorno , che fe'l voglion far. prima, lo ſi facciano a lor pericolo .La qual
mellonaggines non ritrovò gran fatto , ch'io mi creda , ricevitori , ſe mai
avviſarono quanto di leggier poſſano avvenir que’mali, a ? quali fa meſtieri
d'eſtremi medicamenti anche nel primie ro giorno, e toſto che ſi fan manifeſti.
Ma o quanto da nul la ſtato ſarebbe quel Medico , che procurato aveſſe l'altrui
ſalute a coſto della propria vita, Eda tali ſconvenevolezze avendo per
avventura riguar doi Greci, i quali come nell'arti , c nelle ſcienze, così nel
la prudenza civile ogni altra nazione ſi laſciarono ſenza contraſto addietro :
non mai dar vollono determinate leggi alla Medicina, ed a que', che la
eſercitavano; amando me glio , che ne'liniſtri avvenimenti de gli infermiper
colpa ' de’Medici n'aveſſercoſtoro in condegna pena la ſola infa mia portata :
και πιο σιμον γαρ ιητικής μούνης έν τήσι πόλεσιν ουδέν 60315042 Tinio a'došíns
, la quale a coloro, cui preme l'animo cu ra di vero onore, più ch'ogni altro
fupplicio grave riuſcir fuole, e nojofa. La qual coſtuma ſi vede manifeſta da
File, mone, ovc dice : Μόνω. 2 Ippocrate , 6 Ragionamento Primo 1 111 Μόνω
διατάω τούτο και συνηγόρω Εξεσιν αποκτείναν μεν , αποθνήσκαν δε μη . Cioè a
dire , al Medico ſolamente, ed al giudice fi permet te uccidere a man ſalva le
genti . Piacque ciò anche all'al to ingegno del divino Platone , laſciando egli
così nella ſua Republica ordinato : Aniuna pena fia ,che foggiaccia il Medicó,
s'alcun infermo da lui curato contro ſua voglia fia che ne muojaιατρών δε
περιπτάντων αν ο θεραπευόμενων υπ'αυτών τε arvoſi xabago's tsw na odvopov . Dal
cui divilo non punto ſi di lungo Luciano , ove diſſe : L'arte della Medicina
quanto di maggior pregio è degna , e più dell'altre alla vita giovevole, tanto
i ſuoimaeſtri debbono più godere di libertà' ; e convene volcoſa è , che goda
di qualcheprivilegio, nè fia giamai liga ta , o foggiogata da potenza veruna
una dottrina confecrata agl'Iddij,e diporto degli uominipiù ſcienziati,nè vegna
alla dura ſervitù delle leggiſottomeffa , e al timore , e alle pene acTribunali
. π δε της ιατζικής όσω σεμνότερόν έσι και τώ βίω Χρησι μώτερον τοσέτω και
ελευθεριώτερον είναι προσήκει τοϊς χρωμένοις , και πνα πονομείων έχειν την
τέχνην δίκαιον τηεξεσία της χρήσεως , αναγκάζεσθαι δε μηδεν , μήδε ποσάττεσθαι
, πράγμα ιερον και θεών παίδευμα και ανθρώ πων.σοφών επιτήδευμα.μήδ ' υπο
δελείαν γενέσθαι νόμου μήδ' υπο φόβος και auweiar dixæsnetw . E cõciofoſſecoſa
, che frà Greci gli Ate nieli ſolamente vietaſſero alle donne , e a'ſervi lo
ſtudio del la medicina ; non è però gran fatto da lodare , per non dir che molto
da biaſimar ſia un cotale ſtatuto ; perciocchè,co me più avanti diraſli , lo
intendimento di valoroſe donne contro al loro avviſo s'è moſtro più fiate
valevole a viril mente imprendere i più alti ſtudj; ed a ' ſervi ancora conce
dette la natura più volte animo , e ingegno alla libertà fi loſofica acconcio :
perchè a ragione non guariappreſſo fù rivocato : rapportando Igino :
Obſtetricibus neceffitatis , honeſtatis gratia ufus medicina tandem ab
Athenienſibus con ceffus fuit . E molto meno dovrem noi credere , che rima
neſſe in piè la beſſagine di Seleuco , che tal potremoſenza fallo quella ſua
legge chiamare , colla quale non altrimen te , che ſe veleno ſtato foſſe proibì
il ber vino ſotto capi tal pena a tutti gli ammalati Locreſi, ſalvo ſe prima
non ne ayer 1 DelSig. Lionardo di Capoa. aveffero da loro Medici la licenza
ottenuta. 3 Ens Aoxgüv των Επιζεφυρίων νοσών έπεν οίνον α'κρατον μη προσάξαν7G-
ταθεραπεύ αντG ,εί και περιεσώθη θάνατG- ή ζημία ήν άντώ, οπ μη προσαχθέν από
o'Se triev. La Romana Republica , che non pur nel governo militare , ma nel
politico ancora avanzò di gran lunga le greche tutte, e lebarbare nazioni,
giudicò convenevol com fa il non commetter ſenza freno alla balia deMedici la
cu sa della vita de gli uomini ; e perciò preſe per partito, che Aquilio
Tribuno della plebe, non so ſe Gallo , o altro e' ſi fofíe,con un plebiſcito ,
il qual fu poi annoverato infra le leggi di Roma,qualche penaa'loro fallimenti
iinponeffe , per la qual’accorti divenuti foſſero , e cauti nell'operare . Non
per tanto dimcno è da credere che legge tale, o ple biſcito , che ſi foſſe ,
non mai ſi metteſſe in ufo , ch'altrimen te avrebbe avuto il torto Plinio di
ſclamare in sì fatta gui. fa contra’Medici. + Nulla præterea lex punit
inſcitiam capitalem , nullum exemplum vindiétæ : indi ſoggiugnere : difcunt
periculis noſtris, experimenta per murtes agunt: ed in fin conchiudere :
Medicoque tantum hominem occidiſe fumma impunitas eft. Ma vi ha di vantaggio
ſecondo il me delimo Autore tranfit convitium , &intemperantia culpa tur ,
ultroque qui periere argauntur . E perciò immagino , ch'in compilando i Digeſti
per commandamento di Giuſti niano a bello ſtudio traſandaffero que celebri
Legiſtila fentenza troppo dura nelvero, e crudele di Paolo ſopra la legge
Cornelia de Sicariis . S Si ex eo medicamine, quodad falutem homini , vel ad
remedium datum erat homoperierit, is qui dederit ahoneftior fuerit, in inſulam
deportatur, humi lior autem capite punitur . La quale a giudicio di quella
grand'animadella civil ragione GiacomoCujacio, alla già detta legge Cornelia
non può propiamente ridurſi; peroc chè dice egli il Medico ſanandi,non nocendi
animodedit. Ed avvegnacchè i medeſimi Legiſti nelle Hituta , e ne’Di gefti vi
rigiſtraffero non ſolamente il già detto capo della legge Aquilia , ma ancora
le ſeguenti parole d'V Ipiano , SicutiMedico imputari eventusmortalitatis non
debet , itad quod * Elannt. lib 2.9.cap.z. lib.recept.lent. 6 Cuias.in Ang Corn
de Sioar. 8' Ragionamento Primo tores quodper imperitiam commifitimputari ei
debet, ebo pretextu fragilitatis humanadeliétum decipientis in periculo homines
innoxium eſſe non debet. Nientedimeno o di rado, o non mai certamente fur meſſi
in uſo cotali ſtatuti, avvegnachè non ſolamente Plinio, ma molti, e molti anche
dopo lui le que. rele medeſime replicando con più vive doglianze l'acca
gionaſſero ; infra’quali il dottiſſimo Agnolo Poliziano in una ſua piſtola al
Leoniceno così ſcrive, indolui rurſus ge neris humani vicem , quod in fegraſari
tamdiu impune tri ſtem hanc inſcitiam patiatur, atque ab ijs interdum vitæ fpem
pretio emat, unde mors certifima proficifcatur ,e'l Vives co sì grida : Errata
illius (del Medico ei favellando) impung funt:immomercede compenſantur, e
Battiſta da Mantova: His etfi tenebraspalpant eſt facta poteſtas Excruciandi
ægros, homineſqueimpune necandi. E un Satirico Italiano ſcherzando col titolo
del Dottor dice a queſto propoſito medeſimo del Medico: Mapoichè un tal ci può
donar la morte Senza punizione, e ſenzapena Forzaè, che sì gentil titol riporte
E'l noſtro Accademico in quel ſuo vaghiſſimo dialogo , hoc tamen ipfo -ſecuri ,
dice parimente deMedici, quod nulla fit lex,quæ puniat infcitiam capitalem :
immo vero cum mercede gratia referatur, ed altrove: Carnifici medicus par eſt:
nam cædit vterque Impune: &merces cædis utrique datur . E un'altro Autore:
Si quæcamque ſuaplectuntur crimina lege Quas Medici maneant modo veſira piacula
pænas ? Quiplerumque ipſo facitis medicamine morbum, Etdiro ante diem ægrotos
demittitis orco . ? Scilicet hoc vobis indulſit opinio rerum Vna potens. Clades
inferre impune per Orbem Mercedemque alieno obitu , laudemque parare.
Edavvegnachè Maſlimino condennaſſe nella perſona tutti ſuoi Medici , perche non
gli aveſſero o ſaldate affatto le piaghe, o alleggiato il dolore , nondimeno
l'eſfemplo d'un tal DelSig.Lionardo di Capoa. 9 tal tiranno non può dar vigore
a leggeniuna ; e fu queſta non men, che tutt'altre ſue crudeltà biaſimata da
gli ſcrit tori del ſuo ſecolo , ſicome anche Aleſsádromeritevolme te riportò
titolo di crudele, per haver fatto ingiuſtamente ammazzar Glaucia Medico , per
ſoſpetto, ch'egli aveache colui poco faggiamente aveſſe curato il ſuo cariſlino
Éfc ſtione. Comeallo incontro grandemente vien commenda ta la clemenza, e
umanità di Dario Iſtaſpe Redella Perſia, il quale i Medici già alla morte
dannati , perchèlui aveſſer malamente cnrato , volentier permiſe , che liberaci
foſſero da Democide illuſtre Medico da Cotrone . Ma non però creda alcuno ,
aver iMedici per traſcutaggine de’reggi menti una tal libertà guadagnata ; anzi
egli è ſomma nc ceſſità del comune, e quaſi arte di buon governo; perocchè
ſarebbeli quaſi affatto ſpenta , e com’Io avviſo annullata fin la memoria del
meſtier della Medicina, ſe contro aʼme dicanti con rigor di giuſtizia ſi
procedefle. Ed in vero qnal huomo mai, ſe non ſe ſommainente ſciocco, e
ſcimunito, o temerario aſſai avrebbe vanamente logorato il tempo , e le fatiche
dietro ad un'arte ( ſe pur arte poſſiamo chiamar la Medicina , non avendo
quella niuna certa , e filla regola nelle ſue operazioni ) quanto a ſe
ſpiacevolc,e malagevo liſſima a conſeguire , e ne gli avvenimenti dubitoſa
aſſai? E dicola ſpiacevole, perocchè qualmaggior noja, e ſpiaci mento , che
quel di colui , che continuo ha da bazzicar co? malati, e veder ſempre , &
udire l'altrui miſerie ſenza aver talora opportuno argomento da riſanarli ? Ed
è anche malagevole ad imprendere , e incerta ſempre negli avve. nimenti :
imperocchè nella cura delle malattie non meil dell'avvedutezza del Medico il
caſo ancora, e la fortuna vi fan la lor parte '; perchè ſurſe quel volgar
detto: Fa meſtieri il Medico ejjer forto benigna coſtellazion nato . Ed o
quanto aſſai ſoyente avviene , che contro ad ogni avviſo umano , ficome ſcriſſe
Celſo , etiam Spes fruſtratur : & moritur aliquis , de quo Medicus fecurus
primòfuit. Ed : Ippocrato medeſimo avvegnacchè altiſſimoMedico , &
avvedutiſſimo B giu 7 Plutarcom: 11 / a ? ! . 10 Ragionamento Primo giudicato ,
purconfeffa se da tal meſtiere ancor più di bia limo, che di lode
aver’acquiſtato. r fywye doréw pasiove uspelo Morgíny topov xexangãoBan Thin
Tégun.E quinci è, che duracoſa, o malagevoliſſima, o impoſſibile ſempre mai è'l
ravviſare ſe le cattive uſcite de' mali da dapocaggine de' Medici più toſto
avvengano , o da natura delmale , o da altra interna cagione , in cuiſenno
alcuno , ne umano provvedimento giammai non vaglia. Incertiſſimi ſempremai, ed
oſcuri gli uſcimenti delle malattie ſi ſono ,maſſimamente delle acute, ſecondo
il ſentimento d'Ippocrate ; perchèdiceva anche Celſo: Neque ignorare oportet in
acutis morbis fallacesma gis effe notas falutis ,& mortis. Senza che
ſoglionſi ne'cor pi degli animali ingenerare, e talvolta anche di preſente ,
iveleni per ſubitana, o precipitazione , o coagulazione ; e può anche huomo,
che non altri, ma Apollo, ed Eſculapio medeſimogiudicherebber faniſſimo,aver
dentro enfiature, o altri nafcofi malori , che quando egli men ſi crede ſian ,
valevoli ad irreparabil morte condurlo ; e ciò anche nel tempo ſteſſo , che li
s'appreſtano i medicamenti; perchè a torto poi i rimedjmedeſimi, e non il
malore accagionatine vengono. Ed oltre a ciò poſſono alcuni medicamenti, che
buoni, e giovevoli alla ſalute degli huomini ſi giudicano , tal curbamento
dentro cagionare , che l'ammalato le new muoja avanti , che noi col noſtro
corto intendimento pof fiamo ne pur badarvi : 8 Quæque medendi caufa repertow
ſunt ( comene fà teſtimonianza Celſo ) nonnunquam in pejus aliquod convertuntur
, neque id evitare humana imbe. cillitas in tanta varietate corporum poteft .
Perchè non ſarà egli colpa de'Medici l'avertalvolta piggiorato co’ſuoi me
dicaméti lo infermo; ne in ciò le leggi potranno giámai coſa del mondo
determinare . Ma su concedaſi , pure , che per legge ſia a' Medici l'uſo del
medicar preſcritto : come mai potrebber coloro eſſer caſtigati ſe la travalicaſſero
? o co me mai potrebbe porſi in chiaro il delitto , acciocchè poi ſecondo il
diritto delle leggi vi ſi procedefle ? E chi baſte volmente non sa quanto i
Medici tutti ſian contrarj di ſet te, s lib.z.cap.6. DelSig. Lionardo di Capoa.
IT ) te, e diſcordanti ſempre ne’loro ſentimenti ? Perche oda paleſe nimiſtà ,
o dacoperta invidia, il che è peggio, ſempre ſtuzzicati, o tratti dall'amore e
dalla benivoglienza de’lo ro parziali, traſandata la verità delle coſe
rappreſentano al Giudice tutt'altro , che di giuſtizia dovrebbero ,e dannoli a
divedere, come ſuol dirlila Luna nel pozzo, ſecondo il lor diſiderio ; ſenza
che il timor della pena , in cui potrebbe di leggieri incorrer il Medico,
ſempre ſoſpeſo, e inviluppa to il terrebbe in prender partito anche quando
faceſſe me ſtiere dipiù efficacemente operare ; ed egli timido , econ fuſo per
non porre a riſchio la ſua perſona nelle piu gravi malattie ſcioperato, e colle
mani penzoloni ſe ne ſtarebbe; o pure per non partirſi dal comun ſentimento del
vulgo , comechè falſo , e almal contrario, talvolta vani, e perico lofi rimedi
uſerebbe . Coſa , chepiù ch'altrui a'Medici de Principi , come avvisò il
Cardano , avvenir ſuole ; i quali per tema non pur dell'infamia , ma di mal
maggiore ſi ten gono di adoperar grandi, e non uſati medicamenti. Ne ſam rà quì
fuor di propoſito l'apportare un'eſemplo del meſtier della guerra,da quel della
Medicina non guari in verità per l'incertezza de'ſucceſſi lontano . Compativano
anzi che nò i Romani Maeſtrati gli erroride' Capitani de’loro eſer citi;e ben
ſi vede a quale altezza ne montafſe perciò lo im perio di Roma, come
all'incontro sa ciaſcuno a qual miſe rabil fine ſi conduceſſero i Cartagineſi
per operar ſempre mai ilcontrario . E più vicin deʼnoſtri tempi ben lo mani feſtarono
i Viniziani con loro gravoſiſsimo danno, e quaſi con la caduta univerſale del
lor comune, quando ingiuſta mente per la ſua tracotanza decapitarono il
Carmagnuo la; perchè poi ſmagato il Liviano, e ſecondando il fenti mento
de’malcauti provveditori,ne perdette la giornata di Vicenza , e miſerabilmente
con tutto l'eſercito ne reſtò tagliato, e ſconfitto . E forſe la morte data al
Vitelli fu an che una delle principali cagioni , onde i Fiorentini traditi dal
Baglione,la libertà poi miſeramente ne perderono. E ben potrebbe qui alcuno non
ſenza qualche ragione andare ſpiando,che la legge Aquilia, cometutt'altre leggi
B 2 de' 12 Ragionamento Primo 1 ! de’Romani da noi teſtè rapportate, nõ già per
li valétiMea dici oMetodici , o Empirici, o Razionali ſtare foſſer fatte, ma
ſolamente pe’ſoli popoleſchi Empirici,e volgari; eſſen do comunal ufo appo
coloro di non ſolamente con nome di Medico i volgari Empiricichiamare , ma
quegli ancora, che di caſtrare i fanciullieran uſi ;come agevolmente ſi può
ne'Digeſti, e nel Codice così di Teodofio, come diGiuſti niano comprendere . E
certamente in coſtoro ſolamente da credere , ch'aveſſe luogo l'ignoranza
dell'arte ; per ca gion della quale furono in Romacontro a' Medici ordina te le
leggi. Ma sì fatta razza di medicanti ben ne do vrebbe eſſere acerbamente
punita: intramettendoſi teme rariamente in meſtier di tanta conſiderazione ,
quanto è il mcdicare; e ordinando alla cieca rimedi di riſchio sù la vi ta de
gli ammalati. Perchè ſtimo ben fatto aſſai, ch'in mol te parti dell'Europa ,
venga loro ſotto graviſſime pene if medicare interdetto ; avvegnacchè poi
cotali divieti poco, o nulla fian melli in uſo . E ben d'eſſo loro a gran
ragione dice Anneo deRoberticiocchè degliStrolaghi diſſe in pri maTacito :
Genus hominumpotentibus infidum , Sperantibus fallax : quod in Civitate noſtra
vetabitur femper ; & retine bitur: Se non ſe troppo fcarſo èil paragon del
Roberti ; che i cattivelli degli Strolaghi altro no fanno,che con lor cian cie
tenere a bada le brigate de' curioſi con paſcer loro di vaniſſime ſperanze; e
gli Empirici volgari co'lor vani ſegre ti , e con lor ciarle , o rattengono gli
ammalati , che non prédano rimedj da'buoni Medici,ondepoi ſe ne muojano: o pure
con lor nocevolifumi medicamenti eglino medeſimi gli uccidono. E giuſtamente
per avventura furon prima digradati , c poi nella perſona condenvati que'
viliſimi paltonieri nel reame di Francia , ch’in vece diguarireil Rè Carlo
Seſto , preſſo a morte coʻlor medicamenti , e quaſi a perduta ſpe ranza
ilcondufſero . Ma egli fu per mio avviſo poco ſag. gio, cavveduto quel valoroſo
Re arriſchiando in mano di giuntatori , e pancaccieri la propia vita; e ben
come da pri ma li s’offerſero di voler riparare a'ſuoi malori , così do 1 veali
Del Sig.Lionardo di Capod. 13 veali toſto e ſenza niuna pruova fare , o
aſpettar di lor pro meſſe :del temerario, e folle ardimento punire. Se pure non
fu malavoglienza , edaſtio de’maligni Medici di que’tem pi,che fe si
malcapitare que'cattivelli, Ma come potevan giammaicon ſalde, e durevoli leggi
ſtabilir la Medicina, oi Popoli , o i Maeſtrati , i quali po co , o nulla per
la più parte di quella s'intendevano ; le a tanto non poteronmaii più ſaggi, e
avveduti Medici per venire, li quali per lungo ſtudio, ed eſercizio molto adden
tro in quella ſentivano ? Inventore per quel che fi creda , o almeno
antichiſſiino ſcrittore fu della medicina Eſcula pio , e come ne da
teſtimonianza Ippocrate , o chiunque altro fi foſſe l'autor della piſtola a
Democrito, molte re gole all'eſercizio del medicare egli preſcriffe : ma ben to
fto non buone conoſcendole parecchj ſaviſſimamente diſ fenne; quròs , dice e'
parlando d’Eſculapio , è moois deepcóunge καθάπες ημίν αι των ξυγκαφέων βίβλοι
Perchè può dirſi col toſcano lirico , che Solchi onde, in rena fondi, e ſcriva
in vento colui , che dietro lo ſtabilimento di sì fatte regole s'affati ca, e a
cuic.iglia di chiarirfene cercherò per quanto io pof ſa di inoſtrargliene con
ordinato diviſamento le cagioni. La medicina tanto , e tanto oggimai creſciuta,
e avanza ta, che ben di maggioranza co’più illuſtri , e più nobili ſtu dj
gareggiar ſi vede, e colla ſua giuridizione fin détro i più rimoſſi,ed
vltimiconfinidella natura s'innoltra : pure fra gli anguſti limiti di
pochiſſime piante ſi vide in prima riſtret ta, come avviſa per tacer d'altri
l'antico chioſatore d'Ome ro vidpxxia inteixen év GOTÁVOLS ñ ; e'l nostro
Seneca : Medicina quondam paucarum fuit fcientia herbarum ; anzi in quel dolce,
e ſovr'ogn'altro avventuroſo tempo Quando era cibo il latte Del pargoletto
Mondo, e culla il boſco. col ſolo digiuno gli huomini ſi medicavano, 9 E pur
viuean que'primi huomini allora, Elefebbriſcacciar, quando l'aiuto Non 9
Ercol.Bentiv.Satir, 3 . 14 Ragionamento Primo Non davan l'erbe, ne'lfapere
ancora, o perchèpoco loro abbiſognaſſe la medicina, come avviſa altresì Seneca
: Firmis adhuc, folidiſquecorporibus, & facili cibo,nec per artem ,
voluptatemq; corrupto: o perchèficome à tutt'altre coſe di quaggiù è dato ,
eziandio alle più grandi, da deboliſſimi principj dovea la medicina trarre
l'origine; que’medicamenti uſando gli huomini allora, che loro, o dal caſo , o
da bruti animali , o dalla propia induſtria venian manifeſti . 10 Perchè
ragionevolmente credeſi, che Age nore , e Chirone tenuti per alcuni ipiù
antichi di tutti i Medici,coll'uſo delle ſole piāte medicaſſero. Túcsospeli
Aynuo είδη,Μάγνητες δέ Χείρωνα τοϊς πρώτους ματςεύσαι λεγομένοις απαρχας κα
μίζουσι.ρίζαι γάρ εισι και βόταναι δι' ών ιώντι τες κάμνον ζεις.Ε di Chi rone
ritrovatore del Panace Chironio : πρώτην μεν χείρων G- επαλθέα ρίζαν ελέσθαι
κενταύρου χρονίδαο φερώνυμον, ήν ποτε χώρων πολίω εν νιφόεντι κικών εφράσσατο
δείρη narra 11 Euſtazio , ch'eſſendo egli nella mano ferito , oco me vuole
Plinio, nel piede ritrovaſſe la medicina dell'erbe, χείρωνα γάρ φασι σώθενζ ποπτην
χώρακαι την δια βοτανών επινοήσασθαι ixreixn\v: e per tacer di Mercurio
,ilquale inſegnò come can ta Omero l'uſo ad Vliſſe dell'erba Moli Ως α'eg
φωνήσας πάρε φάρμακον Α'ργαφόντης Εκ γαίης έρύσαςκαι μιν φύσιν αυτού έδειξεν e
ſi pare, che medicaſſero altresì non con altro , che colle fole piante Ercole,
onde traſſe il nome il Panace Erculeo; e Ilide e Oſiride, e Apollo, e Arabo , e
Cadmo, e Bacco per opera del quale come dice Plutarco, si ritrova
primieramente, e monta in pregio il vino , medicamen to poderoſo , e ſoave, e
venne anchepaleſata al mondo la gran virtù dell'edera , la quale
maraviglioſamente riparar ſuole i danni , che provenir poſſono dal vino
ſtrabocche γolmète ufato , ο ΔιόνυσG- και μόνον τώ τον οίνον ευρώνιχυρόα τον
φάρ μακον και η διεν,ίατρος ένομίσθη μέτσι, αλα και το τον κιτζόν ανπταπό μενον
μάλισα τη δυνάμει πεος τον οίνον ας πμην προαγαγών και τεφανά . σθαι διδάξαι τα
βακχένοντας , ως ήταν υπότα οϊνα ανιόντο , τα κιλά κα ποσβεννύνθG- την μέθην τη
ψυχρότητ: δηλοί δε και των ονοματώ, ένια την Σ 10 Trif.appo Plur. u lib.i'lliad
Del Sig . Lionardo di Capoa. Is 2 την πιο ταύ πολυπραγμοσύνην. Le fole erbe
dovettero pari méte adoperarc Eſculapio inventore del Panace Aſclepio , col
quale egli,comecāta Nicádro guarì lola figlio d'Ificle: a's" χει και
πίνακες φλεγυήϊον όρρατε πρώτο παιήων μέλανG- ποταμε " παρg χάλG- αμερσεν
αμφιτζυωνιάδαο θέρων, ΙφλίκλεG- έργG έντε συν ηρακλή κακήν έπυράκτεν ύδρην e
che come avviſa il ſuo chioſatore ſolea nclle cure de gli altri fuoi inferimi
anche adoperare . δ Ασκληπιον τέτω λέγεται Ιατεύσαι όσις ήν της κορωνίδα της
θυγατςός τ8 φλεγύο παιήων só coxnýma. ed Amitaone, e Melampo , il quale come ſi
legge in Dioſcoride dell'elleboro ſerviſſi nel curar le fi gliuole di Preto Rè
de gli Argivi. Mercun Qutisaitór @ toe's Afolty Osya tegas Hayelous év ained,
cioè coll'ellebero xa Jogou weó tos ĉ beeg Tolcay , e Podalirio, e Macaone non
d'altro , che d'erbe fi valfer pe' feriti dell'oſte greca , e prima della
guerra Trojana Medea , come narra Diodoro coller be guarì le ferite di
Giaſone,di Laerte,d’Atalanta, e di Te fpiade. Ιάσονα και Λαέρτην, έπ δε
Αταλάντης, και τους Θεσπιάδας προσα γορευομένους· τούτοις μεν ουν φασίν υπο της
Μηδείας εν ολίγαις ημέραις Tori písars Borzívass DeexWeu Iñvou . E Trifone appo
Plutarco in nalza , e loda ſommamente gli antichi nneisy xexenuefuésmo' Qurwv
ixrçıxß. Quindi provati più volte , e riprovati poi i lor medicamenti , dieder
la prima bozza all'arte del medicare, como cantù Manilio : Per varios caſus
artem experientia fecit Exemplo monftrante viam . Macome pochi , e ſemplici
erano in prima i medicamenti, poche, e ſemplici altresì eſſer dovettero allora
le regole della medicina: quindi per gli errori, ne'quali puotè age volmente
incorrere la ſperiêza,abbiſognò ,che cotali rego le,comechè pochiſſime,pure
talvolta mutafler faccia ,cam biandoſi tuttavia , è migliorandofi i primi
medicamenti. Così cominciò la medicina ſu'l bel principio a far manifeſta la
ſua incoſtanza . Ma non guari così ella in man delle ſemplici perſone riſtette
, che tratto tratto non vi poneſſer mano anche i filoſofanti; i quali è da
credere, che da prima da 16 Ragionamento Primo da ſola curioſità, e diſiderio
d'inveſtigar la cagione de'me ? dicamenti tratti vi cifoſſero ; ma pian piano
vie piu avan zandoviſi,ericoncentrandoviſi,giunſero poi a tale,che bia ſimando
, comeincoſtante, e pericoloſa l'antica ſemplicità del medicare, le prime
fondamenta gittarono della razio nal medicina ; comeche Euſtazio ne faccia
Podalirio il primiero inventore , ed egli ſembri per quelche ne narri Eriſimaco
appo Platone, ch’un tanto onore al ſuo padre Eſculapio ſi debba attribuire :
onuéte? Quiséger G Astana's ( ως φασιν διδε οι ποιητα, και εγω πείθομαι
)συνέςησε την ημετέραν τέχνην . ή τεν ιατζική (ώσπερ λέγω ) πάσα δια το θεε τε
του κυβερνάται.Ε pri ma aveaegli detto:έπισήμη των τε' σώματG-ερωτικών προς
πλησμο νην και κένωσιν , και ο διαγιγνώσκων εν τα' τους τον καλόν τε και αίρον
έρω το , 8'τός εςιν ο ιατρικώτιτς- και ο μεταβάλειν ποιών ώστε αντί το ' ετέρα
έρωτG- τον έτερον κτησάσθαι : και οίς μη ένεστιν έρως δει δ'εγγενέσθαι,έπισα
μενG- εμποιήσαι , και εν όντα εξελεϊν , αγαθός αν είη δημιουργός : δεί γαρ δη
τα έχθισα όντα εν τωσώματι , φίλα οΐόντ είναι ποιείν , και έραν αλήλων , έξι δε
έχθισα , τα εναντιώτατα ψυχρoνθερμώ,πικρον γλυκεί , ξηρονυγρό πάνω τα τοιαύα
τούτοις έπιςηθείς έρωτα εμποιήσω και ομόνοιαν . Ma non per tanto non
ceſſarono,mavie più moltiplicarono le ſue muitazioni e le ſue incertezze : e
come varj erano , e diſcordanti quei , chela cſercitayano, così varia ella ne
divenne, equaſi in inille parti diviſa. Ma pur ſi manteneva intanto con
iſtrettiſſimo legam alla filoſofia la razionalıncdicina congiunta ; intanto che
da'più ſaggi, e prudenti ſtimatori delle coſe , come Celſo avviſa, parte di
quella veniva concordevolmente giudic.ee ta: eral parve che ſe ne ſteſs’ella
fino all'età di Erodico, detto da alcunimalamente Prodico . Or coſtui come rio
traceiar ſi puote da quel che ne narr. Platone nel Ginna fio , di cui egli era
Mactro, cpriino miniſtro , cagionevole divenuto della perſona, per lo biſogno,
che gliene faceva , a coltivarla medicina con tutto l'aniino , e conogni ſtudio
maggiore ſi volſe; e quella alla Ginnaſtica congiugnendo, e preſcrivendole
alquante regole da lui per via della ra gione, e della ſperienza daprima
ritrovate, li parve,ch'an zi d'ogni altro qualche forma d’arte a darle
incominciaſſe. E illo DelSig.Lionardo di Capoa . 17 E allora venne ella pian
piano a perderdella filoſofia l'an tica uſata dimeſtichezza : comechè Celſo, ed
altri portino opinione eſſer ciò per opera d'Ippocrate primieramente avvenuto .
E da Erodico ſembra eglipoi, ch'il reſtì da noi mentovato Ippocrate ſuo ícolare
, ed Eurifonte , e altri il coſtume di trattar ſeparatamente dallafiloſofia le
coſe alla medicina appartenenti apprelo aveſſero . Ed avvegnachè ad alcuniciò
ſembraſſe ben fatto affaire digran giovamen to alla medicina ; non però di
menomolto manifeſto egli ſi potrà comprendere per colui , ch'alla verità delle
core voglia ben profondamente guardare, cſſergliene anziche no graviſſimo nocimento
ſeguito. Imperciocchè quindi i filoſofanri niuna curanon dandoſi di por mano
alla media cina , e quinci i Medici delle biſogne di quella groſamen te
diviſando , per poco di razional non le rimare , altro che'l nome. E giunſe a
tale sì biaſımevol coſtume, ch’in di fenderlo tuttavia i lor poſteri
pertinacemente s'affaticava no : e oſtinati in su la credenzi coglievan pruova
da farlo a credere alle genti . E Galieno pure osò dir d'Ippocrate , aver lui
certamente gran ſenno fatto in non inframetterſi giammai di volere ſicome ſi fè
poi da Platone , inveſtigar la natura , e la generazione delle qualità di
que'loro quat tro primi corpi, ondegiudicano ciaſcuna coſa , ela malli ...
turta del mondo cſſer compoſta, e ordinata; dicendo, un cotalbriga
a'filoſofanti ſpezialmente , e non già a'Medici appartenerſi; i quali ogniloro
uficio han baſtantemente , compiuto,toſto che a ſapere aggiungono la ſanità
de'corpi dal temperamento , o dalla meſcolanza del caldo , e del freddo , e
dell'umido , e del ſecco ingenerarſi,ſenza più ol tre curioſamente ſpiarne. Ma
qual di queſta giammai po trebbe alla medicina coſa più offendevole , c più
dannoſa immaginarſi? Così per lungo uſo ne' Medici , che razionali appellar ſi
facevano l'amor della fapienza tratto tratto mancando , più fiere aflaise più
crudeli le conteſe della malandata mc dicina rappiccaronſi; perciocchè ove in
prima i ſentimenti gli uni de gli altri per vaghezza ſolaméte della verità con
C trila 18 Ragionamento Primo traſtar ſolevano , allora affondati tutti nelle
fazioni, e oſti nati ne gli appoſtamenti, non rifinarono di piatire , e riot
tare, e carminarſi l'un l'altro, e proverbiare; intanto che ne meno i primi
maeſtri, e ritrovatori dell'arte ne fur ſalvi, Apollo giudicato Iddio della
medicina , era allora poco a capital dalla fciocca gétese volgare torma de
Medici tenu to , rimproverandoli apertamente eſſer luiciarlone , e mil
lantatore; e ſovra tutto d'ingratitudine anche il cacciarono; perciocchè avendo
egli dall'altrui urmanità , e corteſia law medicina apprefa,tutto ſuperbo poise
gonfio ſe n'andavas come s'egli, e no altri dapprima per propria induftria
ritra vata l'aveffe. Anzi perchè egli in maggior pregio ,e gloria formontar ne
doveſſe incominciò lo ſcaltcrito ,e fagace pá cacciere,avédone appreſa l'arte
da Glauco, ch'era un volpā vecchio, a cicciar carore,e far l'indovinello
,aprēdo la ſtra da alle frodi, e aſtuzie da trccellar le genti. Proverbiò altri
Eſculapio anch'egli Dio della medicina,perchè egli bergol foſſe , è di poca
fermezza in mcdicando ;e non poche be ſtemmic ancora li furono ſcagliate per la
ſua ingordilimizu avarizia: imperciocchè egli in priina d'ogni altro , ficome
narrano, 12 l'arte ragguardevole, e ſacrosāta della medicina in profan’uſo
rivolgendo, tratto da vil guadagnos2 prezzo medicando a un'infermoPrincipe
vendèinfinito teſoro al quante poche erbe, e radici, perchè giuſtamente
eglimeri tóne poi cffer fulmimato ,ed arſo daGiove;e laſcionne a'pe fteri un
così ſeoncio , e così abbominevole eſemplo . E ol tre a ciò dicono ,ch'egli in
far l'indovino, el malioſo , ci tutt'altre giunterie, e frafche il ſuo padre
Apollo digran lunga avanzaſſe, perchè poi funne ſovraſtante a gli augurj, e
all'arte divinatoria per ciaſcun creduto. E côtro di lui di vantaggio
aggiungono aver lui con mille modi , e artifici fconvenevoli dato a divedere
altrui, ficome fè ſuo pa dre , che anche i cadaveri ſapeſſe egli in bella vita
riporre; e che in sì fatta gaiſa il titolo di divino fecleratamento d'accattar
fi proccuraffe . Ma per recarvi le molte parole in una , e'conchiudono alla
perfine, ch'Apollo poco,onul la Pindaro, Del Sig.Lionardodi Capoa : 19 la di
medicina s'intendeſſe : e molto meno ne ſapeſſe il ſuo figliuolo Eſculapio ;
perciocchè sfidandoſi colui di poter nell'arte propia il figliuot compiutamente
ammaeſtrares, fotto la diſciplina di Chirone fegliele lungamente impren dere.
13 E coſtui dopo cotanto ludio , e tempo, che logo rovvi, tanto ne venne in
ſuſo , che per guarire un menomo dolor di denti fu a riſchio di perdervi il ſuo
buon nome; e le ftanco alla perfine con una preſta diliberazione per torli
d'addoſſo una cotal ſeccaggine a viva forza no'l cavava , fuora al malato chi
sà che gliene farebbe ſeguito ? E'l ſuo gran Maeſtro Chirone non che altri , ma
ſe medeſimo cu far non valſe , allor che a caſo da Ercole ferito preſe per
partito di far larga rinuncia della vita , e dell'immortalità 2 Prometeo , e
così uſcir valoroſamente fuor d'ogni impac cio . 13 E ben da ciò fi può
apertamente comprendere , re vere foſſero quelle tanto maraviglioſo , e tanto
impareg giabili pruove , che di lor falfamente la menzoniera anti chità và
millantando . Così per avventura gli aftioſi con tradittori di que'primi
maeſtri favellano : c Io ancora a vo lerne dire al preſente ciò, che me ne paia
, non mi ſembra gran fatto da porre in dubbio eſfer que’ primi ritrovatori
della medicina appo'Greci poco in quella cercamente pro firtati; ſe nc'ſecoli
appreſſo ancora , quando colletà in cia lcuno ſtudio , carte avanzavaſi
ilmondo, meno ſaviamente coloro diviſandone, moſtraron'altresì d'aſſai poco
ſaperne. E quantunque eglino in tanto buon nome , e pregio per tutto ne
montaſſero; non però di meno non dobbiamo noi dalla noſtra credenza rimanerci ;
giudicando nelle prime bozze dell'arti al ſemplice, e creſcente mondo eſſer ſem
brati maraviglioſi, e divini ritrovati le prime opere della medicina. E fu ciò
più che a tutt'altri inventori, agevol molto a’Medici ; perciocchè ogni lor
grave fallimento , ed errore in medicando, eſſendo, come diſle colui, naſcoſto
in fieme coʻgli ucciſi da loro forterra ; e allo incontro appa rendo folaméte
di quà le loro comechè menomiſſime pruo ve ne'vivi da loro riſanati, ſenza
troppa invidia poteronfi C 2 age 13 Apollodoro . RagionamentoPrimo agevolmente
acquiſtar loda , e pregio immortale . Senzaa chè nelle più ribalde, e cattive
perſone certamente ciò avviene ; le quali ſicome aſute , e malizioſe ſi van
procac ciando per tutto favorevoli , e parteggianti ; e dalla vera
fapienzalontane non laſciano qualunque froda , 0 giunte ria , onde preſſo la
minuta bruzzaglia delpopolo diventi no ragguardevoli. Perchè è certamente da
giudicare eſſere ftati coſtoro , di cui cotanto buccinavaſi, aſtutiſſimi giunta
tori , e ramanzieri. Nè Io ho in animo di recarvene qui molti eſempli,chea gran
dovizia potrei ritrarre dalle anti che , e dalle moderne memorie ; ſolamente
non laſcerò di rapportarc ,effer'antica fama,che Acrone d’Agrigéto aveſ ſe una
volta damortifera peſtilenza liberata la Città d'A . tene colle grandi
luminarie , e fuochi , cheper entro vi fè accendere. Ma ſe ciò da fuoco avvenir
poſſa , non che da altro ,da gli occhi noſtri propjcertamente ce ne habbiamo
potuto ricredere.Narrali il medeſimo aver fatto a’ſuoi tépi İppocrate . E
Toſſare ancora dopo morte acquiſtonne e Itatue, e ſacrifici, ed altri onori
divini; perciocchè, come narra Luciano, in tempo che Atene era più che mai
dalla fogadella peſtilenza malmenatas e tutto che dipopolata , e ſgombra ,
diceſi eſſer apparſo colui ad Architele moglie d'un cotal huomo dell'Areopago
,e averle ſicuramente det to , che ſe gli Atenicli fpargeſſero le ſtrade tutte
divino, di preſente farebbcſi attutata la peltilenza ; e ciò facendo co loro ,
dilubito , conforme colui loro promeſſo aveva,ne fur del tutto rimofti , δπι
της ελάδα κατά τον λοιμον την μέγαν έδοξεν και Αρχιτέλος γυνή Αρεοπαγίτε ανδρος
επιφάνια τώ λοιμώ έχόμενοι, ή τας σενωπες δίνω παλά ράνωσι τέτε συχνάκις
γενόμενον ( 8 ' γαρ ημίλη σαν Αθηναίοι οι ακούσαντες ) έπαυσε μηκέτι λοιμώξειν
αυτούς. Or qui io amereil'uſato ſuo avvedimento in Luciano , il quale
ſcioccamente ſe'l crede, e va fantaſticando , ciò eſſer potu to avvenire da
vapori del vino , i quali trameſtati all'aria Paveſſero purgata , e dilibera da
gli aliti peſtilenzioſi, che l'infcrtavano .Madominc ſe coteſte peſtilenze non
manca rono, fe no ſe dopo lungo ſterminio ,c mortalità delle genti, allorchc
ſtanco rimafeli il male ; perchè dovrem noi dire eller BIBLIOTICA NA effer ciò
avvenuto per opera de’vani, e poco giovevoli ar gomenti , e non più toſto per
isfogamento , c periſtracce del malore? Cosi certamento è da giudicare, che
gliaſtuti, e molto ſcalteriti giuntatori conofcendo il male effer già nel calo,
e nel menomamento,per procacciarſi loda, e pre gio immmortale vezzatamente
v'aveſſero poſto conſiglio; acciocchè poi l'opera delſalvamento foſſe più coſto
a loro , che alla natura del male attribuita . Artificio ,che tutto dì ſi
ſperimenta ne'Medici ancora de’noſtri tempi. Ma in qual to ad Eſculapio ben può
egli rimanerſene có quella gloria, che per eſſer egliſtato il primo Maeſtro del
mondo in civar déti,glivien ragionevolméteattribuita dal romano Orato re, quádo
che diceÆfculapius : primus dentis evulfionem in venit:concioffiecoſachè le
cure per lui fatte sì rare,e si ma raviglioſe elle ci vengano in tante , e si
diverſe guiſe nar rate , ch'elle come avvisò ſaggiamente Seſto Empirico ſon per
ciò da dire del tutto favoloſe , wwóJeon gas éautois yolañ λαμβάνοντες οι
ιπεικοί ή ορχηγών ημών και επιςήμης Ασκληπιον κεκε » egυνώ.θα λέγεσιν εκ
νεκέμνοι τω ψύσματι, ενώ και ποικίλως αυτό μεG anárixa. Narra Steficoro effer Eſculapio
alla ſua maggior gloria formontato per aver riſuſcitati co'fuoj inedicamenti
alquanti di coloro ch'in Tebe crano trapaſſati; ma Polian to dice ellerli
Eſculapio refo ragguardevole per eſsere ſta ti di ſua mano riſanati alquanti
per iſdegno di Giunone impazzati . E Parraſio racconta eſser fui ſopra tutto
ſtato commendato peraver da morte ricolto Tindaro. E Maſta filo vuole, chcil
ſuo maggior pregio foſſe ſtato ľaver ri congiunto , e riſuſcitato Ippolito
ſquarciato in cento brini da fpaurati corſieri .Ma Filarco rapporta tutto il
ſuo buon nome, e onore dalla viſta ritornata a figliaoli di Fineo aver avuto
dirivo. E Teleffarco finalmentcrafferma efser lui ag giunto infra '
Dij,perciocchè tentato aveva di riſuſcitar da morte Driσne. ΣτησίχορG» μεν εν Εριφύλη
ειπων , όπ πινας των επι Θήβαις πεσόντων και ανισά . ΠολύανθG-δε ο Κυρηναίς ,
εν τω πρί των Ασκληπιαδών γενέσεως. ότι τάς Προύσε θυγατέρας κατα χόλον Ηράς εμ
μανάς γενομένας ιάσατο .Παρράσιο- δε , δια το νεκρόν Τυνδάρεω ανα ·
τηςαι.Σλάφυλφ δε εν τω περί Αρκάδων , όπ Ιππόλνιου έτράπευσε φέ EMANUEL BLI
UBIO EMANUE BOMA govca 22 Ragionamento Primo 1 γονία εκ Τροιζήνα- και καλα τις
παραδεδομένας κατ' αυ78 ° έν τοϊς τραγωδε μένος φήμες . ΦύλαρχG- δε , εν τη
εννάτη για το της Φινέως υους των φλωθένας απκαςήσαι χαριζόμενον αυτών τη μηρή
Κλεοπάτρα τη Ερεχθέως . Τελέσαρχος δε και εν τω Αργολικώ, και ότι Ωρίωνα
επεβαλέτο avasãows, Ma quali artificj e' non tcntò per eſser tenuto di ligente,
e ſcorto nel medicare ancora che ſchifi, e abbomi nevoli fuſſero ? Egli volle (
liçome narra Cclio Rodigino , c venne in ciò Eſculapio da Ippocrate imitato
sallaggiar fin le feccie degl'inferni, coinc ſe ciò necellario ancor foſse a
rintraciar le cagioni delle malattie, perchè poi da Ariſtos fane nel Pluto
proverbioſamente oxaloDeéy @ ne fu chiama to , e Noipiù acconciamente potremmo
à lui dire col no ftro Azzio Sincero . Efe idem poteris Merdicus, &Medicus;
Ma ſopra tutto giovaron lommámente ad E/culapio gl’in dovinelli, le malie,gli
oracoli, i ſacrificj, gli agurj, e altre,e altre molte ſorti di ſuperſtizioni,
e d'altre fraſche ,e giunte rie , ch'egliuſava ; ficcando carote alla ſciocca
gentane , c tenendo in sù la gruccia con ſuoi cicalamenti gl'infermi. Cola la
quale ſi coſtumava allora da chiunque voleva con qualche lode eſſercitar la
medicina. E per tacer di Medea, c d'altri molti, Melampo con sì fatti artificj,
e fanfaluche , oltre alla fama grande , che gliene ſeguì, di povero conta dino
, ch'egli era , inſieme con ſuo fratello divennero ric chiſſimi Principi , e
ſovrani Signori delle due parti delRe gnodiPreto , e mariti delle figliuole di
lui da sè riſanaten, le quali chiamavanſi per quel che ne dica Apollodoro, Li
ſippe, e lfianaſſa; ma ſecondo Eliano Elea, e Celene; e che o per lo troppo uſo
del vino , o per opera della Reina di Cipri impazzare andavan paſcendo
brancoloni, e muge ghiando coinc vacche per le valli della Morea , e d'altri
paeſi intieme con lor ſorella Ifinoc , la qual prima di eſser medicata ſe ne
morì : delle quali narra Virgilio nella Bu. colica: Pretides impleruntfalfis
mugitibus agros; At non tamturpes pecudum tamen ulla fecuta eft Concubitus ;
quamvis collo timuiffe: aratrum , Et 1 Del Sig. Lionardo di Capoa. 23 Et fæpè
in levi quæfiffet cornuafronte. E che per opera di Melampo poi poſeſi conſiglio
al lor fu rore,e furono ricoverate a ſanità coll'elleboro nero, come vuol
Dioſcoride ; avvegnachè Galien giudichi , e con più falda ragione ,eſsere
ſtatolelleboro bianco,che ciò opera to aveſse . Il qualmedicamento apparò in
prima Melampo dalle pecore,come vuol Teofraſto , o più toſto dalle capre,
ch'e'guardava ,come ſcrive Plinio; le qualicon paſcer l'el leboro ſi purgavano
. Comechè alcuni portinoopinione eſser da Melampo l'impazzate donzelle guarite
non già coll’elleboro , ma con latte di capre paſciute in prima di quello ; e
altripur vogliano eſser non già quel Melampo caprajo , che loro il ſenno
ricoverato aveſse ; ma un'altro Melampo detto l'indovino : E Polianto ciò ad
Eſculapio attribuiſce , ſicome narra Seſto Empirico , ed Eudoilo appo Stefano
antichiſſimo Geografo : Ma che che ſia di ciò, non è da dubitare, che Melampo
dopo lunghe cerimo nie, e facrifici ,e ſuperſtizioni volle, che imprima le
impaz zate Donzelle fi lavaſſero in quella famoſa fonte d'Arca dia chiamata
Clitorio ; perciocchè in memoria di ciò vi ſi leggevano in un marmo que'
belliſſimiverfi rapportati da Iſogono antichiſſimo Scrittore dell'acque. Αγρότα
συν ποίμνεις το μεσημβρινόν ήν σε βαρύνη Δύψος αν εσχατιας κλείτορG- ερχόμενον
, Της μέν από κρήνης αρύσαι πόμα , και παρα νύμφαις Υδριάσι σήσον παν το σόν
αιπόλιον . Αλα συ μήτ' επί λετρα Gάλης κρόα μη σε και αύρη Πημένη θερμής εντός
εάνια μέθης . Φεύγε δ' εμην πηγήν μισάμπελον ενθου μελάμπες ΛεσαμενΘ- λύασης
ποιτίδας αργαλίης Távla xabaqueor fxoļev daóx gupov súr’ ár át' deyes συρεα
τρηχείης ήλυθεν αρχαδίης.. Perchè poi ſurfe conteſa infra gli Scrittori di
giudicar di verſamente quella cura : e altri dicono eſſere ftato il ſacri ficio
ſolamente, e'l bagno: altri l'elleboro; ma certamenre per quel che per
noiavviſar fi poffa, egli ſi pare , ch'amena due i medicamenti vi fuffer da
Melampo adoperati; perchè Pittagora così dice appreffo Ovidio: . Clito 24
Ragionamento Primo Clitorio quicumquefitim de fontelevarit ; Vina fugit:
gaudetquemerisabſtemius undis , Seavis eft in aqua calido contraria vine :
Sive, quod indigena memorant, Amithaone natus, Prætidas attonitas poftquam per
carmen , &herbas Eripuit furijs ;purgamina mentis in illas Mifit aquas;
odiumquemeri permanfitin undis. Al qual coſtuine avendo per avventura riguardo
l'Omero Ferrareſe volleche Aſtolfo faceſſe lavar più volte in mare il ſuo
forſennato Orlando pria che gli da se bere il licores avuto in Ciclo per
guarirlo: 1.0 fà lavare Aſtolfo ſette volte , E ſette volte ſott'acqua
l'attuffa Si che dal viſo , e da le membra folte Lava la brutta ruggine , e la
muffa. Ma non ſi contentava già disì fatti artificj ſoli Melampo, ma a render
più ragguardevoli,e famoſe le ſue cure ſi van tava anche come ſcorgerſi puote
in Sinelio 14 di ſapere in terpetrare i ſogni , e ſi valca oltre a ciò degli augurj,
e da va ad intendere a tutti che gli aveſſe Apollo inſegnata l'ar te
dell'indovinare , e che avendoſi egli allevate in caſa al quáte bilce, quelle
poi dormendoſi egli nel più alto filézio della notte gli haveſſero leccare
l'orecchie, ond'egli ſubita mére p paura deſtatoſi havelle inteſo preſlo
all'alba chiara mente i linguaggi tutti degli uccelli, os, parlando di Melāpo
dice Apollodoro, επί των χωρίων διατελών ,ε'σης πτό τε οικήσεως αυτού δρυός,έν
και φωλεος όφεων υπήρχεν αποκλεινανίων των θεραπόντων τους όφας,τα μη ερπετα
ξύλα συμφορήσαςέκαυσε τους και τ όφεων νερατους έθρε . ψενοι δε γενόμμoι τέλιου
σειράντες αυτώ κοιμωμδύω τώμων εξ εκατέρω : ma's exca's Txis gaca sesi
exclougor . o de avasara moi gerópfu were δεης των υπερπτπρίων ορνέων τις φωνας
συνία . και παρ' εκείνων μανθεί vwv, niuna arte dunque gianmaiebbe , per quanto
lo mi creda, tanto commercio colle menzogne , e colle frodi , e colle
ſuperſtizioni, quanto il meſtier della medicina. La qual cola così manifeſta ſi
pare a chiunque ſia di quella mezzanamente inteſo, che non abbiſogna al
preſente, ch'io 14 lib.3 . di van Del Sig.Lionardo di Capod. 25 di vantaggio mi
v'affacichi. Non però di meno non laſce ? rò d'accennare le ſtrane, e ridevoli
cerimonie, ch'adopera vano gli antichi in raccorre le piáte, acciocchè poi più
ma raviglioſi, eragguardevoli dalla ſcimunita gente giudicati foſſero i lor
medicamenti. Non poteaſi la Peonia coglier di giorno ; perciocchè dubitavano
non v'aveſſero a perder di preſente la viſta,ſe da qualche ghiandaja vi foſsero
in colti. Colui, che cavar voleva la Mandragola, conveniva, che ben ſi
guardaſse dal verto contrario : e prima dicavar la formavale con un coltello
incorno tre cerchi: e in divel lendola poi tener ſi voleva la faccia volta
verſo Occiden te : e mentre divellcvaſi faceva di meitieri, ch’un'altro le
andaſse intorno faltando, e ſghignazzando, e dicendo non foquali parole ſconce,
e laſcive , come racconta Teofraſto con quette parole . Περιγράφειν δε και τον
μανδραγόρgν εις τάς ξίφα: τέμνειν δε πεός εσπέραν βλέπονται τον δε έτερον κύκλω
περιορ - χεΐσθαι , και λέγειν ώς πλείσα πτρια φροδισίων τέτο δεόμοιον έoικε των
περί τξ κυμίνε λεγομλύω κατι την βλασφημίαν όταν σπείρεσ . Le Quali poida
Plinio nel ſuo volgar cavate non fur così intiera mente rapportate . Cavent,
dice egli, effofuri contrariun ventum , & tribus circulis ante gladio
circumfcribunt:poftea fodiunt ad Occaſum ſpectantes. Mach afsai maggiori
cerimonie cavavaſi preſso gli anti chi la Baara, la qual vogliono aicuni, che
altro certamente non foſse, che la Mandragola medeſima. Eglino in prima le
gittavan ſopra del ſangue metruo , o dell'urina delles donne , quindi cavandole
intorno alla barba la terra liga vanla cautamente dietro un cane ; il qual poi
chiamato dal padrone in correndo la ſtrappava di terra , e di preſente ne
moriya. Cosìda Giuſeppe Ebreo vien narrato a dágay γος δε και κατά την άρκτου
περιεχέσης την πόλιν βαάρας ονομάζεται τόπος φία σε ρίζαν ομωνύμως λεγομένην
αυτώ αύτη φλογί μεν την χροιαν έoικε , περί δε τοις εσπέρας σέλας απασρέπτεσα
τους δε επιεσε και βε λομένοις λαβείν αυτήν εκ έσιν ευχείρώτος αλ' υποφεύγει
και επόπρον ί' Edi quell'altro delmedeſimo Ariſtotile , che il tralaſciar da
parte i ſenfi per laſciarne cie camente alla ragione guidare, d'aſſai debolezza
d'ingegno ar gomento ſia ? O forſe non fu egli del medelimo ſentimento anche
Galieno ? ecco le ſue parole : coloro tutti da giudicar fono , anzi forſennati,
che ſavj, i qaali potendo le coſe pie namente comprendere , ed apparar da'
ſenſi, voglion pures che da apprender fieno dalle ſoledimoſtrazioni . Ealtrove
il medeſimo autore: è dottrina da tiranno , e piena di confu fioni , e di
contefe quella di coloro , che ſolamente agli altrui detti s'appoggiano. E di
grazia leggan pure una volta il me deſimo fentiinento nel loro Avicenna ; e ſe
non altro , va dano, e sì l'apparino dal Principe de' Teologi , Giovanni Scoto
54 Ragionamento Primo Scoto , ove dice , che tutti coloro, che'a' ſenſinon
voglio no dar fede , degni giuſtamente ſieno delle fiamme. E ſap piano di
vantaggio, che chiunque abbia qualche ſcintilluz za di ragione , diqualunquc
Serta egli ſi ſia , debba pure con quel gran lume della Galienica, e
dell'Ippocritica medicina Niccolò Leoniceno dire : non debemus profecto de
Situere ita nosmet ipfos, ut aliorumfemper veſtigia fequentes, nihil ita per
nosmet ipfos decernamus. Hoc enim verè effet alienis oculis videre , alienis
auribus audire , alienis naribus odorare , aliena ſapere intelligentia : ac
nibil nos aliud quam lapides effe ftatuere, fi omnia alienisaffertionibus
committe remus , nihilque à nobis ipfis diſcutiendum putaremus . E queſta
pertinacia medeſima un'altro parzial di Galic no ( 1) oltremodo tacciādo,prende
a narrare un piacevoliſ fimo avvenimento; cioè, che un pubblico lettore uſato
lun , go tempo , ed invecchiato in ſu'libri d'Ariſtotile , abbatté. doſi per
avventura un giorno in una notomia , e veggendo manifeſtamente la vena cava
dalle innumerabili fila , ora dici , chę ſon nel fegato la ſua originç trarre ,
tutto ingom, bro , e pien di maraviglia , Come chi mai avf4 incredibil vide,
confeſsò , che nel vero per quel, che gliene moſtraffero i fenfi la vena cava
diramar dovelle dal fegato ; ma non per ciò egli credédo a' fenfi contraddir
doveffe al ſuo maeſtro Ariſtotile , il quale tutte le vene nell'huomo aver
principio dal cuore, coitantemente afferma; perocchè,diceva egli, più agevole
allai eſſere , i noſtri ſenſi talvolta ingannarſi, che il grande , e fourano
Ariſtotile in errore alcuno giammai eſſere caduto . E più avanti cbbe di male
la ſua oſtinazio ne,chę vegnendo per alcun diinoftro in brigata d'huomi ni
letterari,eſſere intorno al cuore alquanta lugna , la qua le a ficvol lumicino
di candela liquefacevali, con tutto ciò per difender oſtinatamente il ſuo
Ariſtotile, negante law medeſima coſa , osù pur dire , che quel dalui veduto
non era miga graſcio . Maaſai per certo piacevole egli ſi è ciò , che a tal pro
poſito anche narra il chiariſlimo Redi, che un ' profondo 1 1??30 , ( 1 )
Santoro. DelSig. Lionardo di Capoa mac ro in iſcriteura peripatetica , perchè
non veniſſe egli coſtretto a confeſſar per vere le ſtelle , ed altre nuove core
dal gran Galilei in Cielo ravviſato , ricusò l'ajuto dell'oc chiale ; e ch’un
altro più teſtereccio non volle mai degnar di vedere aprir da lui una di quelle
picciole rane , che per le polveroſe ſtrade in tempo diſtato ſpicciano , per
non eller altresì coſtretto a confeſſare , ch'elleno non s'ingene rino nello
ſtante dell'incorporamento della gocciola con 1.2 polvere. Maove Io ferbero di
narrare i piati, e le conteſe, che nella medicina del nobiliſſimo medico
Proſpero Mar ziano in Roma s'accrebbero ? il quale di non volgare dot trina , e
di faggio avvedimento fornito , quanto avea dita lento, ed'induſtria, tutto
glorioſamente in iſpicgare la doc trina d'Ippocrate impiegando, diè manifeſtamente
a vede re , che allai ſovente Galieno,o non aveſſe compreſo,o non avelle
comprender voluto il vero ſentimento di quelgran vecchio . E ciò anche Pier
Caſtelli narrando dice, che Ga lieno così parimente foſseſi adoperato in
iſpicgar del divi no Platone i dottilimi ſentimenti : Galenus , vel non intel .
kexit, vel intelligere noluit Hippocratem , & Platonem , ut ſua extarent.
Quindida'rimproveri , e da’mordimenti dilui difende il laviffimo vecchio ,
ſpezialmente intorno alle c.2 gioni delle febbri, coſtantemente affermando ,
non ſola mente Ippocrate non avere a ' febbricitanti giammai pre ſcritto il
lalaro , ſe non ſe ove caſo di grande infiammagio ne d'entro richieſto l'avelse
: il che già prima di lui piena mente Girolamo Cardano avviſato avea; anzi per
ſentimé to d'Ippocrate vudl , che la febbre una di quelle cagioni ſia, che il
ſegrare affatto abborriſcono . E queſte , ed altre buone dottrine il
valent:huomo del Marziano faggiamente manifcftando , ravvivò con eſle la caduta
, c quali eftinta ferta del ſuo caro Ippocrate . Ma non ſolo come fin ora abbia
dimenticato una dona na , la qual comechè tale , pur merita d'eſsere in
iſchiera de' più nobili letterati annoverata . Io dico la Signoras D. Oliva
Sabuco: Co Ragionamento Primo 1 Coſtei gl'ingegnifemminili , egli uſi Tutti
Sprezzo fin da l'etade acerba : A’ lavori d'Aracne , a l'ago , a' fufi Inchinar
non degnò la manſuperba: Ed eſsendo ella di valore, c d'ingegno più che
maſchile abbondevolmente fornita , animoſamente fi iniſe col cere vello , e con
l'animo ad inveſtigar le coſe naturali; e più ol tre avanzandoſi, ed in biſogne
di maggior utile , e prò la mente rivolgendo , acciocchè le Spagne, e'l mondo
tutto qualche concio ne traeſsero, ad un nuovo , ed ingegnoſif fimo diviſo
dimedicina diè maraviglioſamente principio . Ella così all’Auguſtiſſimo Monarca
Filippo Secondo d'e terna ,e glorioſa memoria in una lettera ſcrivédo,iſuoi pre
gi manifeſta. Reſulta muy clara y evidenteměte, como reſul ta la luz del Sol,
eſtar errada la medicina antigua que ſe lee yeſtudia en ſus fundamentos
principales, por no aver enten dido ni alcançado los Filofofos antiguos y
Medicos, ſu natu raleza propria, dondeſe funday tiene ſu origen la Medicina.
Delo qual no ſolamente losſabios y ChriſtianosMedicospue den ſer juezes, pero
aun tambien los de alto juyzio de otras facultades , y qualquier hombre abil
yde buen juyzio. E quin di poco appreffo : y el que no la entendiere ni
cumprehendie re , dexela para los orros y para los venideros , o crea a law
eſperiencia, y no a ella , pues mi pericion es juſta, queſeprue ve efta miſecta
un año,pueshan provadola medicina de Hip pocrates y Galeno dos mil años , y
enella han hallado tan poco effecto y fines tan inciertos , comoſe vee claro
cada dia , y so vido enelgran catarrotavardete , viruelas, y en peftes paf
Sadas , y otras muchas enfermedades dondeno tieneeffetto al guno , pues de mil
no viven tres todoel curſo de la vidabaſta la muerte natural : y todos los de
mas mueren muerte violen ta de enfermedad , fin aprovechar nadaſu medicina anti
gua . E nel dialogo della vera medicina : Nomepodreys negar (Señor Doctor ) que
la medicina eſcrita que ufays eſta incier. ta , varia y falta y que ju fin , y
efeto fale incierto , falfu y dudoſo,como vemos claramente ellasde m34s artes
iener füis 1 1 fines Del Sig.Lionardo di Capo a. 57 20$ fines y efetosciertos ,
y verdaderos fin variacion , ni engažo, comola Aritmetica, Geometria, Musica,
Astrologia, y las de mas , que a quel fin , y bien que prometen , lo cumplen, y
fale cierto ſiempre y verdadero. Todo lo qualbien vers que falta en la medicina
,pues eſta tanengañoſa , incierta; yva ria :luego claro eſta que eſta arte
tiene algunafalta en las raga zes , y fundamentos ,pues no echa el fruto,
conforme a lo quc promete, que muchas vezes esperamos lindas māçanas echa
eſcaramujos agallas y niſpolas :lo qual al buen juyzio pondra en duda, y dira
por ventura, Eſte aunquepaſtor trae , razon , que los antiguos tambien fucron
ombres como eſte. E più ſotto ſeguendoil medeſimo ſentimento ſoggiunge: No nze
podeys negar ,Señor Doctor , la incoſtancia, y quantas ve zes fuemudada la
medicina , y que eſtuvo vedadamucho tič po en Roma , y que muchos ſabios mo le
han dado credito , ni ſe han querido curar con medico por las cauſas que tengo
dichas, que ſon degran eficacia . Ylos Sarracenos, y los del Reyno de la China,
no admiten inedicos , j' ay mas gente que en Eſpaña . Y eſosmiſmos autores
antiguos , graves le ponen gran dificultad , diziendo , que la vida esbreve, y
el arte es largo , el juyzio difficultoſo , la eſperiencia engañoſa , & c.
I dixo Hippocrates : que perfecta yacabada certinidad de la medicina no ſe
alcanca , y no me podeys negar , Señor Do Etor que fueron hombres, cimo
noſotros: y que ſus dichos , no forçaron a la naturaleza del hombre, a que ella
fueffe lo quc ellos dezian , que ella ſe quedo en lo queera , y ſu dicho no la
mudo , y pudieron errar como hombres,pues tantas vezes fue frrada y mudada ,
como lo podeys veren Plinio , donde dize que ninguna de las artes
fuemasincuſtante ,y mudable, que la medicina : y que cada dia ſe mude. Più
oltre crapaffala signora D. Oliva , i cui fourani pre gi nou è mio diviſo al
preſente raccorre , ed annoverare , che troppo a lungo ne verrei . E baſterammi
accennar ſo lamente molte coſe averſi alcuni de'più rinomati autori in veſtite
, inillantando falſamente, ſe eſſere ſtati i primi a mani feſtarle , come
intorno all'ordimento , che tien la natura in compartire alle parti de'corpi
animati il nutriinento, che H cla 58 Ragionamento Primo ellämolto avanti
ravvitate appieno , e glorioſamente già paleſate ne'luoi libri l'avea . Surſe
dopo coſtei nella noſtra Italia un novello Siſtema di razional medicina, e fu
gentil trovato diquel celebre filoſofante , e maeſtro in divinità Tomaſſo
Campanella . Non miſe egli già le mani all' opere della medicina : ma pure
ſpiar volle di quella i più ripoſti arcani ; e comeage vol fu al ſuo pellegrino
intendimento lo ſceverar la ſua fi loſofia dalla volgare , che nelle ſcuole
comunemente inſe gnavafi , così potè ancheordinar con belle dottrine un'al tro
trovato dirazional medicina , e quindi ancor ne ſegui rono molti, e varj
rimeſcolamenti, e conteſe nell'arte. Ma i ſegni, e le coſtoro mete , o quanto
trapaſsò gene roſo a’giorni noſtri il grand'Ermete della balla Germania ,
Giovan Battiſta Elmonte , che con più alti apparecchi , e colla mente di più
nobili arredi fornitas tentò Ia grand'im preſa , onde vie più s'accrebboro i
contraſti , e le miſchie . Coſtui a ſingolar acutezza d'ingegno, cãdidezza
accoppia do di non volgari coſtumi, rivolto curioſamente alla Spa girica ,
intorno allo ſcioglimento de’naturali corpi tutto dieſſi, e ne a fatica,ne a
ſpeſe giammai perdonando, tant'ol. tre avanzoſi, che laſciandoli dietro l'orme
glorioſe dal Pa racelſo ſegnate s nórimai ſi riſtette', fino a tanto, che ull
maraviglioſo , e non più udito liſtema di razional medicina egli giunſe
felicemente a formare . E a qucſta medeſima guiſa veduto abbiamo a ' di noſtri
per lo ſentiero dell'immortalità, e della gloria avviarſi a gran paſſi co'l ſuo
novello ſiſtema di razional medicina il celebre Tomaſſo Vilfis ; ne di
leggieripuò crederſi, qua to egli con ogni ſtudio maggiore proccuraffe
d'ammannar tutto ciò , ch'avvisò dovergli farluogo a sì nobil lavoro : e con
qnale sforzo, con qnai ſudori, con quali vigilie egli s'adoperaſe per condurlo
allo intero ſuo compimento. Ma non vi durarono minor fatica", ne minore
induſtria adope rarono per fomigliante impreſa , e’l Silvio , celebre per lo
innumerabile drappellode Fuoi ſeguacije'l Gliffonio ,e l'El vezio , e'l Meſfonieri;
e'l Travaginis , ed altri illuſtri l'ette rati Del Sig.Lionardodi Capoa . 59
rati dell'età noftra , a molti de'quali, che che ſtata ne forte la cagione, non
è venuto fatto di poter mettere fuorii loro concetti. Taccio al preſente di
que'valent' huomini, che tuttavia ſudano all'opera , e colla ſcorta de’moderni
trova ti della notomia , e della moderna filoſofia naturale, ſpera no, quando
che ſia divenire a capo de’lor generoſi diſegna menti dietro a yarj ſiſtemi di
razional medicina. E taccio altresì di coloro, che ſottilmente van tutto di
diviſando (i ſtemi di ſperimentale, e di metodica medicina , ma dall'an tica
gran fatto varia , ediſcordante , Ma o quantoperciò più le têzoni de Medicine
ſiano acceſe con porre ſottoſo pra , ed avviluppar la medicina tutta , non fa
meſtierial preſente narrare , ſe tutto dì co’propj occhj apertamente il
veggiamo. Perchè ſe a'dì noftri l'eloquentiſſimo Plinio vi vo fosse, griderebbe
dicerto più che mai con quelle ſue adirate parole: mutatur ars quotidie toties
intarpollis, & in geniorum flatu impellimur , non già di que’della Grecia
ora Icioperata , e incodardita ſotto'l giogo della barbarie ; ma di
que'celebratiſſimi dell'Inghilterra, e d'altre Provincie , da lui ne’tempi ſuoi
barbare giudicate , Malo ormai giunto mi veggioal più copioſo ſtormo de
medici,in tante ſchiere , e tazioni partita , e quaſi ſtraccia ta veggendo la
medicina, che ormai per ingegno umanono fi può più avanti partire. F ſon
coſtoro que'cutti,che nondi Greco , o di Latino, o di Barbaro, o d'altro ſtrano
ſcrittone , modernoso anticoch’e'ſiaſi,ſeguirvogliono la peſta ,ed a gli altrui
ſentimenti ſempre ligarſi; ma liberi affatto , e ſciolti gir con iſpedito voloi
valtiſſimi Regni della natura fcorré do ; quindi cozzando contro i più duri, cd
oftinati malori con quell'armi , ch'a coſto delle propie fatiche s'acquiſta
rono ,nonpreſe , o tolte da gli arſenali altrui , ed alla cic ca adoperate ,
fanno con glorioſe impreſe render eterni , e illuſtri i lor nomi. Così nulla
altrui credendo , ſalvo ſelor non venga da propj ſenſi, o da certiſſima
ſperienza appro vato , tutcoyogliono ſpiare , a tutto penetrare, e tutto ſot
tilmente con occhio curioſo eſaminare ;ne per iſmaltire hā no altre ragioni,
che quelle ſolamente,ch'all'avvedutezza H 2 del 80 Ragionamento Primo delloro
intendimento confannoſi . Ed eſſendo a tutte ſet te contrari, e a niun
de'ſertegiantiaffatto nimici, giurano che in queſta guiſa,più che altri
oftinataméte fi faccia, l'or me d'Ippocrate , e di Galieno vengano ſopratutto a
ſegui tare . E perciocchèlo giudico , che aſſai monti al noſtro intendimento il
vedere, ſe una tal libertà , debba loro eſa fere permeſfa: priegovi o Signori,
poichè a baſtanza par mi d'aver ragionato, nella vegnenteaſsemblea ad udir loro
ragioni. RA 81 RAGIONAMENTO SECONDO, 322 ) EBBO per ſoddisfare all'obbligazion
del la mia promeſsa diviſarvi oggi,o Signori, le ragioni di quei filoſofanti ,
che alla li bertà de'loro ingegni alcun freno di fer vitù generoſamente
ſdegnando , voglion gir liberi a lor talento fpaziando pe' vaſti, e ſiniſurati
campi della Natura . Ma conciosſiecofachè el le fien molte , e molte , e tutte
di gran lieva ,io non ſo qual prima mi debba dire , quafdopo ; ſenzachè a me
non fu conceſſa in ſorte larga vena diben parfare , perchè con purgato ſtile
ſpianandole ( e quale alla lor dignità per av ventura ſi converrebbe ) la for
ſaldezza , e valore veniffer per voi più chiaramente compreſi. Ma forſe hanno
elle an cora ciòdi vantaggio , che rôzzamente accennatc poffano, e pregio , e
commendazione non ordinaria da voi merite volmente ricevere . E per venirne
omaia capo, parmi che alcuno autor di quelle a queſta guiſa d'eſſo loro
parlamen , tando potrebbe imprenderne il filo . Egli non alzò certamente natura
con ſingolar vantaggio fovra tutt'altri animali all'huomo inverlo il Ciclo la
fronte ; di sì 68 Ragionamento Secondo di sì generoſi , e ſublimi, e liberi
ſpiriti abbondantemente fregiandolo , perchè egli poi qual paluſtre mergo ,
raden do lempre maiil ſuolo , non avelle ardimento di battere generoſamente in
alto le penne, per potere da ſe medeſi mo ſpiare, e inveſtigare quelle si
varie, e sì ſtrane apparen ze , onde bello ſi rende , ed ammirabile l’Vniverlo
; ma acciocchè largamente per tutto ſpaziandoli , il tutto e'cer chi, il tutto
e'ravviſi,il tutto e' pienamente comprenda , non già nelle copie incerte , e
ragionevolmente d'error ſo ſpette , manel primo , c vero loro originale . Così
quell' Aquila deGreci filoſofanti glorioſamente adoperando, con felice., e
ſpeditiffimo volo Proceſſit longè flammantia mænia mundi, Atque omneimmenfum
peragravit mente ,animoque. E pure ad onta d'una sì provveduta madre, v'hà chi
a dáni, ed a rovina diſe , e de gli altri Segnò le mete , e'n troppo brevi
chioſtri L'ardir riſtrinfe de l'ingegno umano , facendo sì , che i troppo
creduli, e ſciocchi poſteri ad altro non badaffero , ch'a leggere, c rileggere,
e tutto dì di chio ſe , e di coinenti gli arzigogolise le fanfaiuche d'un mondo
tutto fantaſtico caricare . Quicfto non volle già,che faceſſe in modo alcuno il
giovinetto Lidia , quel gran maeſtro della greca filoſofia Antiltene : quando
di nuovo libro , di nuoyo ſtile , ditavolette nuove a doverſi fornir gl’impoſe
', fe filoſofar con ello lui voleſſe ; e ciò , perchè egli compré deſfe , che
le coſe ,che per lui , da regiſtrar foſfero , eſfer quelle non doveano , che
già da altrui ſcritte in prima , diviſate ſi erano .. Eciò anche molto innanzi
ad Antiſtene inſegnò quell'antichiſſimo Savio , che primadi tutt'altri,
Filoſofia chiamò con nome degno, quando a ' luoiſcolari diceva , non doverſi da
loro nella , popolare ſtradaconfuſamente co'l volgo ignorante cammi nare .
Equeſta libertà nelle ſcienze ciaſcun'altro de più ce lebri , e rinominaci
filoſofi comunemente ancor richieſe : c da più illufri medici, e per valor
d'ingegno , e per opera di mano eccel'éti faclia Grecia futta oltre modo abbrac
ciata. Del Sig. Lionardo di Capoa. 69 ciata . La cui altezza d'animo
ſaggiamente imitar volle il famoſiſſimo medico , e filoſofo Claudio Galieno ,
ficome in più luoghi ne da pienamente teſtimoniāza nelle ſue ope re, o
quand'egli oltremodo uccella , e berteggia i tenacif ſimi ſeguaci d'Eraſiſtrato
,i quali a' detti di lui , come agli oracoli d'Iddio riverenti
s'acchetano,faldiſſime, ed infalli bili verità , ſempre mai giudicandole, o
quando coſtante mente afferma eſſer egli d'ingegno rintuzzato affatto , ed
abbattuto lo farſene ſcioccamente a’derti, ed alle ſenten ze , cd a'giudicj
altrui , non volendo coſa alcuna bilancia re , ne punto a lor paſſare innanzi:
o quando altrove iſtan cemente priega , e ſcongiura i parteggianti tutti a por
giù la ſcabbia , e'l furore , e la ſtolta follia delle ſette : 0 quin do
adiratamente grida effer dura , e malagevole impreſa a ridur coloro alla
ſtradadella verità , i quali già ſotto il ſera vilgingo di qualche ſchiera ſottomeſſi
fi fieno . Quindi la ra gion recandone ſaggiamente ſoggiugne, che le falſe
opinio niingombrando gli animidegli buomini, non folamente fordi, ma ciechi
ancora renderglifogliano, intanto che ſcorger affat to non posſano ciò , che
altri di neceſſità rimira . O quando altrove proteſta , eſſer egli un male da
non potere in verű modo guarire,la folle , e ſciocchiffima caponeria di cotali
parreggianti; e di qualunque ſcabbia più dura affai, e ma ſagevole a trarre : e
che cotali uccellacci non che fappian , giammai nulla di buono , anzi ne men
d'appararlo ſi ſtudj no : o quando ſtizzoſamente ſclama, amarpiù toſto, coloro,
cfer della patria , che della propriafetta traditori , e rubelli. Et o piaceſſe
pure al Cielo , che coralidetti non ſi vedeſ fero a giornate dall’oſtinatiffima
pertinacia di coſtoro av verativolendo : più toſto manifeſtamente uccidere i
miſeri infermi , che ſpiccarſi punto daʼnocevoliſentimenti de’loro amati
Maeſtri . Ma perchè dobbiam mai ſempre noi con follc oſtinazio ne laſciarci
trarre afreverendiſlimo parer degli antichi? for ſe non ſono ſtate lor molte
coſe a grado , ch'a noi ſpiace voli ora ſono , ed affatto nojofes Cosi 64
Ragionamento Secondo 1 Cosi la gente prima,chegià viſe Nel mundo
ancoraſemplice, ed infante Stimò dolce bevanda , e dolce cibo L'acqua , e le
ghiande, ed orl'acqua, ele ghiande Sono cibo , e bevanda d'animali , Or che s'è
poſto in ufoilgrano, e l'uva , O forſe alcuna coſa , ch'al lor cortiſlino
intendimento vera parve, ora falliſiima manifeftaméte p opera degli ingegnoſi
moderninon ſi è ſcorta ? Così ſon veriſſiine prove de’mo derni notomiſti il
ritrovato dell'aggiramento dei ſangue, delle vene lattec, edel códotto del
Virſungo ,e del ſaccolat to, e de'vali acquoſi, e degli uſi delle glādole, e
d'altre par ti, e altri infinici nuovitrovati ,che crollano, c ſcovolgono,e
da’fondamenti abbattono , cd atterrano ogni razional ſi Atema d'antica medicina
. O forſe farà egli colpa degli in nocenti moderni l'effer' eglino nați dopo
gli antichi auto rir ma ſe ciò è fallo , e colpa , certamente commiſerla in
prima coloro , i quali da' ſentimenti de' loro più antichi maeſtri tralignando
, e nuove ſchiere di filoſofia , c di me, dicina anmutinando , ofarono in prima
novelli ſcolari ri bellarc a'loro antichi maeſtri, e darne nocevole cſemplo di
si follo , e temerario ardiinento . Imperciocchè ognianți co a'tempi ſuoi fu
moderno ; perchè figgiamente il Princi pe Claudio Ceſare apppreſſo Tacito ebbe
a dire : quæ nunc vetuftifſima creduntur nova fuere : inveterafcet feculum no
firum, & quod hodie exemplis tuemur , inter exempla erit, (1 ) cd a queita
medeſima cagione avendo riguardo un mo derno Poeta contro que' , che per eller
egli moderno biafi mavano il Paracelſo , in ſomigliante guiſa conchiude , Qui
nova damnatis , veteres damnetis oportet ; Aut iſta nihil eft in novitate novi
Saran dunque acerbamente da vituperar Platone , Antiſte nc , Eſchine, ed
altrifamoſiſſimiingegni, i quali poſto in non cale le vecchic ſcuole , che
allora nella Grecia fioriva . no , a quella di Socrate , che nuova era , per
imprender fi loſofia coraggioſamente ſe'n girono ? anzi ne furon perciò foin (
1 ) Etienne Paſquier . 1 1 Del Sig. Lionardo di Capoa 05 sómamente da
cómnendare. E nuove altresi furono le ſcuole di Platone:e pure Ariſtotile,e
Senocrate,e Speuſippo,ed al tri molti cotăto tépo v’uſarono; 11e alcuno ebbe
perciò giá mai ardiméto alcuno di biaſimargli . E dalla novella ſcuola
d'Ariſtotile in tanta gloria mótò Teofraſto per l'uſarvicon tinuo , che uguale
, e forſe al inaeſtro ſuperior ne divenne; perchè dal padredegli ſtoici
filoſofanti Zenone , funne poi grandemente lodato. E nuova anche fu la ſcuola
di Zenga ne , e nuova quella d'Ariſtippo , e quella di Fedcne, equel. la di
Euclide daMogara . Così anche fur nuove le ſcuole d'Eubolide , d'Epicuro , di
Menedemo , d’Arcuila , e d'al tri molti maeſtri di filoſofia , e pure per
huoinini illuftri,ed egregj, alle vecchie , e famoſe ſcuole degli antichi
filoſofan ti furono antipoſte , riportandone ſempre mai buon nome, e fama non
ordinaria dicandidi, e veritieri ſcrittori di que tempi . E perchè nó ſarà
lecito anche a noi tralaſciando le vecchie ſcuole ad una novella indirizzarci,
e maſſimamen te in quelle coſe , ove già i manifeftiffimi errori degli anti chi
maeſtri abbiam compreſi ? E forſe ſarebbe a tanta altezza pervenuta la
nobiliffima arte della pittura , ſe gli antichi maeſtri paghi ſolamente della
rozžillima imitazione del vecchio Filocle,nö ſi foſſero ſtudiati di vantaggio
con la loro induſtria di limarla : e col tirar ſolamente le linee dell'ombre de'corpi
aveſſero così alla groffa ſchizzate ſempre le lor confuſe, e diſtinate figu re
? O forſe fu egli troppo ardimentoſa tracotanza dell'in gegnoſo Cleofante , odi
Parrafio , o di Polignoto , o di Zeuſi, o d'Ag laufone , o del vaghiſfimo
Apelle il dar loro più vivi i colori,e più regolati i diſegni,e più ſquiſite le
om bre , onde poi vive , e perfettiſlime riſaltando,n'aveffero ,e gli augelli ,
e i deſtrieri, ei cani , ei maeſtri medeſimidell arte glorioſamente ad
ingannare ? così anche i noſtri avan zandoſi di mano in mano l'un l'altro
a'tempi di Dante Ali ghicri, Credette Cimabue ne la pittura Tener lo campo, ed
or ha Giotto il grido; Si cbe la fama di colui ofcurawi I Quin 86 Ragionamento
Secondo Quindi fu il famolo dipintor di Madonna Laura Mae Itro Simone cotanto
commendato dal Divino Petrarca, ed altri famoſiſſimi dipintori. Ma ſopratutti
ſi tolſero il van to , ed al preſente s'ammirano comemiracoli dell'arte l'o
pere maraviglioſe di Rafaello , e di Tiziano , e di quel grande Michel più che
mortale Angel divino. Necertamente potrebbe la Grecia gir ſuperba, e altiera
della ſonora tromba del grand'Omero,del grave coturno di Sofocle della ſublime
lira di Pindaro, e de' ſouviſlimi verſi d'Anacreonte , di Teocrito , e di
tant'altri illuſtri , c nobili Poeti ; o Roma de' ſuoiLucrezj , de’ Virgilj ,
de’ Catulli , de' Properzj, de' Tibulli , degli Orazj . Ne la Spagna
ammirerebbe l'altiſſiino canto del Camoes, e le colte rime del Garzilaflo . Ne
goderebbe la Francia l'ornato ſtile del dottiſſimo Ronzardo , e del Bert: ſſo.
Ne il noſtro più ,che tutt'altri, dolce,vago,e bello Idioma, vātar potrebbe il
divi no cato dell'incóparabile Torquato Taſſo ,di Giovani della Caſa , o la
maraviglioſa evidenza dell'Arioſto , e dell'Ali ghicri,o la dolciſſima muſa del
Petrarca,del Bébo,dell’Ala māni, del Triſlino, delMolza,del Guidiccione ,del
Taffo Pa dre,del Guarini,di Galeazzo di Tarſia ,edi altri,ed altri no bili
ſpiriti,che di valor colla ſuperba grecia gioſtrano ,o pur la vincono , ſe
coſtoro tuttida'veſtigj de'rozzi antichi non aveſſero oſato d'allontanarſi; il
perchè faggiamente ebbe a dire Iſocrate:yeggiamo noi l'arti,e tute'altre coſe
eſſer van taggiate , e creſciute non già per coloro , che le comunali, e
uſitate ritennero , ma per coloro , che d'ammendarle , e torne via glierrori ,
e migliorarle preſero ardimento: ta's επιδόσεις δρώμεν γινομένας, και των
τεχνών , και των άλλων απάντων , και δια της εμμένονάς τοϊς καθεξώσιν , αλα δια
τηςεπανορθένας, και τολμώνας «ί τι κινείν των μη καλώς εχόντων . Ε fe cio fi
vedea giornates anche in quelle arti avvenire, nelle quali pare , che omai poco,
o nulla fi poffa più oltre andare , e pure non vi ha altra ſtrada d'avanzarli a
maggior perfezione, che del mai ſempre nuove coſe inveſtigare: perchè non ſi
dourà an che ciò alla filoſofia , ed alla medicina permettere ? malli mamcn
DelSig.Lionardo di Capoa . 67 mamente , che il campo di eſſe è queſto si vafto
, e grandif ſimo teatro dell'univerſo, nel quale ad ore , ed a moinenti apparir
tutto dinuove , e nuove coſe fi veggiono , da te nervi i più ſublimi, e
pellegrini ingegni mai ſempre img piegati . Multa dies , variufque labor
mutabilis ævi Rettulit in melius; ſenzachè certiſlima coſa è , che'l mondo più
ſempre mai col tempo invecchiando ,dinuovi , ed utili ritrovati per la noſtra ſperienza
di mano in mano i ſecoli arricchiſce . Co sì noi veramente ſiam da dirci vecchi
, e gli antichi, i quali nel vecchio mondo ſiam nati , e non que’tali , che
nelmo do infante, e giovane,men di noi ſperimentando conobbe ro . Anzi coloro ,
che per innanzi naſceranno , più di noi ſaran vecchj , ed antichi, e conſeguentemente
d'eſſer più di noi dotti, e ſperimentati , e diquant'altri per l'addietro mai
furono , auran cagione . Ed a propoſito di ciò ſovven gonmi quelle belliſſime
parole del gran Baccone da Vero lánio: de antiquitate autě(dice egliopinio
,quam homines de ipfa fovent,negligens omnino eft, ex vix verbo ipfi congrua :
Níundi enımſenium, & grandavitas pro antiquitate vere habendafunt;quæ
temporibus noftris tribui debent,non junio ri ætati mundi, qualis apud antiquos
fuit. Illa enim ætas re Spectu noftri antiqua, &major ; reſpectu mundi
ipfius,nova , minor fuit.Atque revera quemadmodum majorem rerum humanarum
notitiam , á maturius judicium , ab homine fene expectamus , quam à
juvene-propter experientiam , & rerü , quas vidit , & audivit, &
cogitavit, varietatem , copia eodem modo, do à noftra etate (fi vires ſuas
nuffet , & expe riri , &intendere vellet)majora multo , quam à prifcis
tem puribus expectari par eft ; utpote ætate mundi grundiore, infinitis
experimentis, & obſervationibus aucta, & cumulata . E in verità , chi
ha mai tante , e si diverſe maraviglie in Cielo , e in terra , e nell'acqua, e
negli augelli, e ne’peſci, e ne' bruci animali, e nelle piante ſcovrir potuto ,
dove turto di attenti , ed intricati gli ingegni tutti de' più ſottili I 2 filo
88 Ragionamento Seconda filoſofanti viſi aminirano, ſe non ſe la noſtra età ,
cioè a dire il mondo vecchin, il quale ne va nuove maraviglie di giornata in
giornata rappreſentado; intanto , che ora d'ogni tempo quafi n'è lecito a dire.
quod optanti divum promittere nomo Auderet , folvenda dies en attulit ultro .
Oltre a ciò gli antichi ſavj, ſicome i confini delle loro co trade appena
s'argomentarono di paſſare , così altii ani mali,altre piante,ed altri minerali
fuori di quelle non iſpiar mai, ne conobbero , e ſe ne rimaſero alla ſemplice
relazio ne de'marinari , c d'altre perſone idiote , e volgari , dalle quali
ingannati,ne ſcriſſero poi tante incredibili bugie . E chi potrebbe mai tener
le rila in leggendo ciò , che Erodo to favoleggiò dell'incenſo, dicendo, che
gli Arabiil colga no profumando in prima l'arbore con iſtorace : iinperocchè
fra irami di quello s'appiattano folti (tuoli di ſerpentelli coll'ali di
variati colori : τον μέν γε λιβανωτον συλλέγεστ , την σύeακα θυμιών της . E non
guari apprefio,τα γαρ δένδρεα Gύτα του λιβανωτοφόρ , όφιες υπόθεροι και μικροί
τα μεγάθεα, ποικίλοι τα είδεα , Qurárrs01 , Trnýber mondo, me ei sér d por
exasov . E del Laudano ,affer: mò eſſer quello odorifero , e dilettevole a
fiutare , e pur na ſcere in luoghi puzzolenti , e ſpiacevoli; e che ritrovaſi
ſu le barbe de'becchi a guiſa di muffi, che naſce da' legni pu tridi: έν γαρ
δυσοδμοταίω γινόμενον,ευωδέ αλόν εσ • των γας αιγών των τζάγων εν τοίπ πώγωσε
ευρίσκεται έγινόμενον , οιται γλοιός από και o'rins . Ma Rufo da Efeſo dice ,
alle barbe delle capre ap piccarſi il L.audano allor che le frodi del Ciſto van
ghiot tamente paſcendo Αλο δε πε κατι γαίαν έρέμβων λήθανον εύροις Αιγών αμφί
γένια • το γας καθύμιον αιξε Κισσε ανθήενθG- επέδμεναι άκρα πίτηλα Τον δ' από
λαχνήεν7G- ανεπλήσθησαν αλοιφής Λίγες υπαί λασίασε γενίασε πλευρά τε πάνω . E
forſe il medeſimo volle dire Erodoto. E ſimilniente fi pare , che credeſſe
Dioſcoride colà, ove ſcriſle parlando del Ciſto : Imperocchè pafcédo le ſue
frõde i becchi, e le capre lor fu la barba, e ſu'l vello dell’anche
s'appiaitriccia quella tena DelSig.Lionardo di Capoa. 69 tenace graffezza ,
onde poi pettinandola la raccolgono i Paſtori, e colata non altrimenti, che ſi
faccia del miele, e ne forman paſtelli, e la ripongono . Sonyi alcri, che
tirando, e sbattendo certe corde ſopra queſti arboſcelli raſchiano poi la
graſſezza , chevi s’appicca, c fannone paſtelli, e a quefta guifa la
riferbano:τα φύλα γας αυτού νεμόμεναι αι αίγες και οι τεάγοι ή λιπαρίαν
αναλαμβάνει το πώγωνα γνωρίμως • και τους μερούς πτοσπλαήoμένην δια το
τυγχάνειν ιξώδη• ην αφαιρώντες ύλίζει, και απο τίθενζι αναπλάοσοντες μαγίδας ·
ένιοι δε και χοινία επισύρεσι τοις θάμνοις , και το πζοσπλασθεν αυτοίς λίπG-
αποξύσαν τις αναπλάσει: Il medeſimo dir vollc Plinio , ma in traslatido le
parole di Dioſcoride poco bene peravventura intendendo la parola Jauvois, e
l'altra unigovor ſcriſſe : Sunt qui herbam in Cypro , ex qua id fiat,ledam
appellent : etenim illi ledanum vocant : hu jus pingueinfidere:itaque attractis
funiculis herbam eam con volvi, atqueita offas fieri.Vidiede ancora inciera
credenza Galieno , quando dice gevers auto del laudano, favellan do ) κατά τα
γένεια των τάγων έν πτ χωeίοις επιγίγνεώι: e Paulo da Egina λάδανον από τον
κίσε τού λάδανος λεγόμενον γίνεθαινεμόμεναι γαρ αυ τον αι αίγες , εν τοίς
πώγωσι , και τοϊς μηρούς αυτών και λιπαρώτε ρον , και οπώδες πόας αφαιρούνι .
Éd Eichio λάδανον το με απο των πωγώνων των αιγών , και τάγων Ma à chi cgli non
ſembrerà incredibile ciò ches del Malabatro narrano Diofcoride, e Plinio , pur
troppo groſſi nell'informarſi , e nelcreder leggieri. Eftima il pri mo naſcer
quello nelle lacune a guila di lente paluſtre ; e'l ſecondo no’l fa punto
diverſo dalle foglie del Nar do Indiano; e pur ſappiamoeſſer foglia di ben
grande , co ſpazioſo albore , non già paludoſo , ma ſalvatico , emon tano . Io
non farò menzione delle tante , e tante inyeriſi. mili bugie, ch'cglino
medefimi, e Teofraſto della cotanto celebrata ( piganardi inventarono . Ne mi
fermcrò a ſpia nare i fallimenti di Dioſcoride colà ove diffe , che le radici
del gégiovo fié così picciole,come quelle del Cipero; è co me ciò,che
buccinavaſi appo gli antichi dell’ambra gialla moſtri anch'e' di credere ,
cioè,che il liquor d'amendue i pioppi preſſo le rive del Po in diſtillando da
tali alberi fi rap 7ο RagionamentoSecondo rapprenda in ambra, ſeguendo in ciò
la volgar fama de'ma fonieri Poeti, i quali fan che l'ambra ſia il doloroſo
umore, che per gli occhj fuor verſarono le pie , e addolorate ſorel le, che
dell'acerbo caſo del lor Fetonte dogliendoſi furono in quegli alberi
ſtranamente converſe , onde poi Fluunt lacryme : ſtellataque fole rigefcunt De
Ramis electra novis : qua lucidus amnis Excipit , du nurubus mitiit geſianda
larinis. Ma non men piacevoli a udir ſono i falli del ſovraca cennato Erodoto
dietro al raccoglimento della caſſia, e del cinnamomo. Credette egli con altri
antichi, e la lor creden za gli Arabi, c molti de'noſtri follemente ſeguirono ,
que Ite effer due piante fra eſſe lordifferenti; e vuol egli , che la callia
naſca in una palude non guari profonda ,per entro , e d'intorno alla quale
ſoggiornano alcune fierucole alate fimili a' vipiſtrelli, che mandan fuori
orribili ſtrida, e ſono di gran forza , e vigore ; ma gli Arabi per iſchermirli
da' yelenoſi lor morſi, in cogliendola ſi cuoprono il volto , e'l corpo tutto
,da gli occhi in fuora ,di cuoja ,e d'altre pelligec colefue parole : επταν
καζδήσωνοι Βύρσησι δέρμασι άλoισι πάν το σώμα, και το πόσωπον , πλην αυτών των
οφθαλμών έρχονται επί την καασίην • η δε έν λίμνη φύεται ου βαθέη , σιρι δε
αυτήν, και εν αυτή αυ . λίζεται κού θηeία ερωτι , της νυκτίρια ποστίκελα
μάλιστα και και τί . SUYE δεινον και ες αλκήν άλκιμα • τα δη απαμυνομένες από
των ópfamutów . E quale aggiraméto di ſtrano cervello ſi pare ciò , che leggeli
rapportato da Teofraſto, che i rami della caſſia P cſfer nervoſi non poffano
ſcortecciarſi , ma tagliinſi in pic cioli pezzetti , i quali ſicuciono dentro
a’pclli di bovi pur mo ſcorticati , perchè i vermicelli , che nel corromperſi
del legno s'ingenerano ,roſicchiádone la midolla, inutile laſcia no la
corteccia intera , mercè l'amarezza , e l'acrimonia del fuo odore , την δε
κασταν φασι τας μέν ραβδες παχυτέρας έχαν, ινώδης δε σφόδρα , και ουκ είναι
τριφλοίσα , χρήσιμον δε ταύτην τον φλοι δν· αν ουν τέμνωσε πως ραδες και
κατακόπαν ως διδακτυλα το μήκG-, ή μικρά μάζω ταύταδ' άς νεόδωρον βρείνον
καταρραΠεαν · ατ ' εκ ταύτης, και των ξύλον σκυμένων, σκουλήκια γίνεσθαι , από
μια ξύλον κατεσθίει • τα φλοιού δε ουχ απεπειι , δια την πικρότητας και
δριμύτητα 7ης οσμής , 1e O 1 1 quali parole cosìtraslatò Plinio con l'uláta
eleganza:Con fecant furculos longitudinebinum cubitorum , mox præſuunt
recentibus coriis quadrupedum ob id interemptarum ,ut ijs pu trefcentibus
vermiculi lignum erodunt, & excavent corticem tutum amaritudine . Ma che
direm noi delle lunghe dice rie del Cinnamomo appo Erodoto più incredibili
delle ciance del verace Turpino preſſo del Bojardo, e del l'Arioſto . Il
Cinnamomo , dice Erodoto che non ci fia manifeſto ove , e'n qual modo naſca ,
ſe non che pro babilmente ſi crede ingenerarſi in que'paeli, ove Bacco fu
nutricato , e le feſtuchedi eſſo eſſer quindi da certi grandi uccellacci
traſportate in alcune ſcoſceſc, einacceſſibili mo. tagne per fabbricarvi
inidi,contro a’quali han gli Arabi ritrovato un ſottil modo : cglino tagliano
in pezzi, e con quidono le membra di boyi, d'aſini, e d'altri giumenti, e
quelli appreſan quanto è poſſibile a’nidi, e quindi ſi dipar tono ; gli uccelli
intanto calan giù , e preſo della carne la ripongon entro a’lor nidi , i quali
non valevoli a ſoſtener tanto peſo caggiono a terra , e gli Arabi allora ne fan
race colta :όκα με γας γίνει αι , και ήτις μιν γή ή τσέφεσα έστ , έκ έχεσι -
πών, πλην όπλόγω άκόπ χρεώμενοι , εν πίστ δε χωeίοισι φασί πνες αυ η φύεσθαι εν
τοϊσι ο Διόνυσος εξάφη • όρνιθας δε λέγεσαι μεγάλες φορέ eaν ταύται το κάρφεα,
τα ήμεϊς , απο Φοινίκων μαθόνης , κινναμωμον καλέομεν · φορέειν δε τους όρνιθας
ές νεοσιας πεπλασμίνας πηλό πέος αποκρήμνοισι ούρεσι , ένθα πόσβασην ανθρώπω
ουδεμίην άνοι : πεος ών δή ταύα τους Αραβίους σοφίζεσθαι τάδε · βοών π και όνων
των απαγινο . μένων, και των άλλων υποζυγίων τα μέλια διαμόνας ως μέγια και
κομί ζειν ες Gύτα τα χωρία και σφεα θένας άγχου των νεο Αστέων απαλάασε . « θαι
έκας αυτέων• τας δε όρνιθαςκατο πετυμένος και αυτών τα μέλεια των υποζυγίων
αναφορέαν επι τας νεοσπαστας δε ου δυναμίνας ίσχειν,καταρρής γνυσθαι γαρεπί
γήν, τους δε επόντους συλλέγαν ούτω με πκινναμωμον. Ma fe quefto fembra fogno
d'infermi, ben fola di Ro manzi ſarà, ſenza fallo , quel convenente
d’Ariſtotile in torno al medeſimo fatto ,dove e' narra, ch’un uccello detto in
Arabia Cinnamomo (comechè appreſlo Plinio chiami fi Cinnamologo) vada cogliendo
i fuſcelli della canella, e fe · ue fabbrichi il nido ſu le cimede gli alberi ,
onde pofcia gli Secondo Regionamento ܐܶܡ gli Arabi con faette di piombo lo
ſcroſtano , e caduto giù in terra l'adunano φαστ δε ο κινναμωμον όρνεον είναι
οι εκ των το . πων εκείνων , ¢ το καλούμενον κινναμωμον φέρων πεθέν τούτο το
ορειον, και την νεολίαν εξ αυτού ποιείσθαινεολεύα δεφ' υψηλού δένδρετε εν τοις
θαλ. λοϊς των δένδρων, αλλά τους εγχωρίες μόλιόδον προς τοις οισοίς πέοσαρ των
τας , τοξεύοντας καζβάλειν τε ού7ω συνάγειν , έκ του φουτου το κινναμωμον :
elmedefimo vien confermato da Antigono, ov ” codices λέγαν δέ τινας τε το
κιννάμωμον όρνεον είναι , και αρώμα & φί. ραν , και τους νεοφίας εκ τούτου
ποιείσθαινεοτεύειν δ' εφ ' υψήλων δένδρων τ' α Gάτων , 7ους δε εγχωρίες
μόλιόδον τοϊς δίπϊς προτιθών ας τοξεύαν , και κα - αρρηγνύειν τας νεολίας . E
non molto diffimile e cio , che ne vien creduto da molti altri antichi appo
Teofraſto: néger aus δέ πς και μύθος υπέρ αυτού · φύεσθαι μεν γάρ φασιν εν
φάραγξιν , εν ταύζις δ ' όφης αναι πολλές δήγμα θανάσιμον έχοντας : πεος ούς
φραξάμενοι τας χώρας,και τες πόδας , καταβαίνεσι, και συλλέγεσιν,είθ' ό'ταν
εξενέγκωσιδιε λόντες βίαμέρη διακληράν τει πεος τον ήλιον Ma ſe mai mi foffe in
animod'annoverare gli errori tut ti , ne'quali caddero gli antichi per eſſer
eglino maldelle ftraniere faccende informati:Io direi come Plinio follemé. te
dica, che'l Cinnamomo naſca nell'Etiopia , ed indi aſſai più vaneggiãdo
ſoggiúga,che gli Eriopi il coprano da que de'proſſimani paeli;e che giungendo
poiegli al colmo del le vanezze, apertamëte contraddicendoſi, non ſi vergogni
d'affermare , ch'eglino ſe'l portino per alti mari con lun ghe , e pericoloſe
navigazioni, ove non giova governo de nocchieri , ne vela , o remi,inafol
l'umano ardire, e la for tuna gli regga . Direi come in alcuni antichi Greci
comentarj leggaſi , che'l Cinnamomo col ſolo toccaméto ,l'acque bogliéti rin
freſchi , e meſſo ne'bagni, i ferventi loro vapori in un bel freſco tramuti ;e
che tutti gli animali di putredine nati,am 2nazzi:ότι ζέοντος φασή του εν
λέβητα ύδατος είπες θίγοι μόνον η κιννα. μωμον ευθυς καταψύχειν το ύδως και και
λετάω έπεισενεχθέν διαπύρω μετα ποιεϊν τον εν τώ αίρι φλεγμον εις ψυχρότειν ,
και αφανισικήν των εκ φθο ράς πνος ζωογονουμένων την φύσινέχαν.Direi di
vantaggio , co medel pepe favoleggiado Dioſcoride ne narri , naſcer quel lo in
India da un coral arbuſcello , che produce un frutto 1Ο Del Sig.Lionardo di
Capoa. 73" lungo , ſicome baccello , il qual chiam ali pepelungo : den tro
del quale dice ritrovarſi alcune granella non guari dau quelle del
migliodiſſomiglianti; e che queſto ſia il perfer to pepe;imperocchè aprédoſi
col tépo n'eſcon fuora i raci moli carichi di granella , ficome gli veggiamo; e
queſti anzi d'effer venutia maturezza colti, fāno il pepe biaco , e'l nero poi
dice egli conciosſiecofachè ſia maturo, eſſer odorifero ,e dilettevole al guſto
più che'l bianco ; il quale perciocchè a debita maturezza non è pervenuto , non
è cotanto perfetto . Πέπερ , δέρδρον 15ηρείται φύομεναι εν ενδία βραχύ καρπον
δε ανίησι , κα . &ρχας με πξομήκηκα θάπερ λοβούς όπες επί μακρόν πέπερι:
έχον τα ένο (λεις ) κέγχρω παραπλήσιον και το μέλι έσεσθαι και τέλειον πέ. περι
. όπερκαλα τους οικείας καιρούς αναπλoύμνον βότρυς ανίησε κόκκινο φέροντας
οί'ες ίσ μου και τους δε, και ομφακώδες και οι τινες εισι το λευκόν πε . περι ,
epoco appreffo:το δε μέλαν ήδιον και δριμύτερον του λευλου , φύσιμώτερον· και
μάλλον δια 10' ναι ώριμον αρωματίζον• εύχρησότερόν τη εις τας αρτύσπις· το δε
λευκών και ομφακίζον ασθενέτρον των πτοειρημέ . ng IWY , Ma troppo lūga materia
da ſtancarne nell'impreſo arin farebbe il volere ad uno ad uno tutt'altri lor
fallimenti annoverare . Perdoniam pure a gli antichi ogni lor negli genza ,
ſenulla ſeppero , over nulla curarono del muſchio , dell'ambra grigia ,del
zibetto, della noce moſcada,de'ga rofani e d'altri, ed altri aromati. Non fia
lor colpa, ma del la fola fortuna , il non aver eſſi avuto contezza niuna della
Mecciocana , della Contrerba, del Saſſafras, del Cafè , del Legno Guajacosdel Balſamo
del Perù, dell'Erba Te,dellas Salſa , della China , e d'altri quaſi
innumerabili ſtranieri ſemplici, che al preſente ſon così manifeſti, e conti ,
che van per le bocche, e per le mani d'ogn’uno . Mache più: laſciam pur, che
gli antichi ordiſcan degli animali le più incredibili fole , che peravventura
cader potrebbono in penſamento umano : 0 pure avendole da altrui udito , co me
ſe da propj occhj ſtate foſſer vedute , sì le abbinn per vere , e le rapportino
. Laſciam , che creda Anafſagora appo Ariſtotile , che i Corvi uſin per bocca
colle lor fem . K 74 Ragionamento Secondo 1 minc , e dea cagione dicantare a
colui :. CorueSalutator, quare fellator baberis. E trapaſſiam fotto ſilenzio
ciò che infinſero agli antichi della Catapleba , di cui Plinio, e Solino fan
parole, e Sor gona appellafi appo Ateneo , la qual vogliono,che talma lìa dal
ſolo ſguardo diffonda, che immantinente l'animal rimirato , ſtupido,ed
inſenſato divega,e poco ftante fi muo ja ; il che vagamente deſcriſſe in
quc'verli il Petrarca. Ne l'eſtremo occidente V na fera è ſoave , e queta tanto
, Che nulla più . Mapianto E doglia , e morte dentro a gli occhi porta
Neprendiam briga d'annoverar ciò che favoleggiarono Megaſtene , Daimaco ,
Nearco , Ariſtea , Onoficrito, Te fia , ed altri appo Erodoto , Strabone ,
Diodoro , Plinio , e Gellio degli huomini, che in Oriente preſſo il Gange
naſcono ſenza bocca, e ſol Gi paſcon d'odore : degli huo mini , che in India
appo i Nomadi vivono ſenza naſo : de gli altri, ch’appo i Troglodici ſon ſenza
capo , e collo, ed han gli occhj ſu la ſpalla :d'altri , che han faccia di
cane, e latrano , e di tant'altri di fimil figura , a quei , che la ma ga
Alcina in guardia al ſuo palaggio teneva . Non fu veduta mai piùſtrana torma ,
Più moſtruoſi volti , e peggio fatti . Alcun dal collo in giù d'huomini ban
forma , Col viſo altri diſcimie , altri di gatti . Stampa no alcun co’piè
caprigni l'orma: E traſandiam Platone , che verace credette quella bugiar da
fama de'Poeti , che i Cigoi preſſo l'eſtreno for giorno mandin fuori più bello,
e più ſoave il canto; e non ci fer miamo a ſtacciar la cagione, che di tal
fatto ne arreca táto ſottile, che da per ſe la ſcavezza, cioè, che eſſi cantano
pe'l gran contento , che prendono del preſto ritorno , cli’al lo ro Apollo a
far hanno . E con queſto diPlatone,laſciamo impunito anche il fallo
d'Ariſtotile, qualor prende licenza di dir , che nell'Africa molti ne furveduti
da’marinari, che buſamente , e doloroſamente cantavano ; eſſendo in veri tà Del
Sig.Lionardodi Capoa. 75 tà il lor căto un'imporcuno gridare ,comedioche
ſalvati che,anzi che no.Ne prendiam niuna cura diripigliar Teo fraſto ſeguito
da Celſo , da Solino , e da altri, perchè po co , o nulla ſagace ſcriveſſe del
Cainelconte', ch'egli il 'a ria ſi viva:così d'affermarlo niuno ſcrupolo non
avendone, come ſe ſtati foſſero un di quei Poeti , che coll ulata lor licenza
cantarono, ſicome Ovidio , Id quoquequod ventis Animal nutritur , & aura
El'Alciato Semper hiat,ſemper tenuem qua vefcitur auram Reciprocat Cameleon . O
di caffar quegli, che vollero ,eſſere it Camelconto della
grandezzadelCoccodrillo , ſe pure non fu queſto , crrore di Plinio ;imperocchè
tutto ciò che narra delCameleonte , dice d'averlo tolto di peſo a Democrito ,
che un libro in tiero ne fcrife , ρve dicendo και το μέγεθος ομοιον είναι τώ
κροκο dergoe, ' non badò punto , che nel Ionico linguaggio , nel qual Democrito
favellava ,la parola xpowodeina , val quel la Lucertola , che appo gli Atenieſi
, e gli altri Greci dice fi sæūgos, ficome fanno gli ſtudioſi di tal linguaggio
. Elaſciamo ſtare ciò , che gli antichi, a'quali ſi parve , che deffer credenza
Varrone , Plinio , Solino , Columel la , Marziano Capella , e Servio follemente
vaneggiaro che alcune cavalle ſu'l Tago ſieno ingravidate dal vento , e moran
fuori polledrivelociſſimi al corſo . Co per vero dir non men fantaſtica del
Pegaſeo di Bellero fonte , o dell'Ippogrifo d'Aſtolfo , e ben degna , che ne
freggino i lor Poemicoloro, cui a par de'pittori è cócedu to di poter tutro
ardicainente attentare . E sì cantar puo. tè Omero de'Cavalli del fuo Achille ,
Εάνθαν και Βαλίον ,τωάμα ποιηση πελέσθην , Tες έτεκε Ζεφύρω άνεμω άρπια Ποδάργη
. E ſimilmente Virgilio Ore omnes verſa in Zephyrūſtant rupibus altis
Exceptante; leves auras, á fæpefine ullis Conjugiis , ventogravide, mirabile
dicru ! E Silio Italico delo lociſfimo Peloro no , fa K 2 Nu 76 Ragionamento
Secondo Nullus erat pater ad Zephyri nova flamina campis Vectonum eductum
genitrix effuderai Harpe E dell'Aquilino il noſtro ammirabil Torquato , Queſti
ſu'lTago nacque , ove talora L'avida madre del guerrero armento Quando
l'almaſtagion , che n'innamora , Nel cor le inftiga il naturaltalento , Volta
l'aperta bocca incontra l'ora , Raccoglie i ſemidel fecondo vento , E de'tepidi
fiati( o maraviglia! ) Cupidamente ella concepe , e figlia . E finalmente
perdoniamo agli antichi ciò che ſognarono de'Pigmei , della Fenice , del
Centauro , dell'Aquila, del I.eone , del Coccodrillo , della Salamandra , della
Pirau ſta , della Remola , del Cavallo marino , del Baſiliſco ,del l'Elefante ,
de'Satiri, degli Ipogrifi , de'Ciclopi , delle Si rene ; e tant'altri errori ,
ne' quali non pur degli animali , ma de’minerali altresì in trattando
incorſero, i quali di bé groffi volumi, non che di brevi dicerie ſarebber lunga
ma teria , ſol che a noi ſi conceda picciola ,e ben dovuta rin chieſta , il
poter da’lor falli ritrarci , uſcir da’lor rei inſe gnamenti, non coſto
iinboccarne loro ſtrane ſentenze , e per ſeguir la verità tutti lor falſi
rapporti porre in no cale ; a noi, cui tutto il mondo, è già quaſi omai ſcorto
, e mercè la diligenzza delle lunghe pellegrinazioni, non pur ſap piamo i
luoghi , i portamenti, i coſtumi degli abitatori : ma di che animali qualche ſi
ſia paeſe venga fornito , quali piante germogli , quai minerali produca . E non
v'ha ge te nel vero sì barbara , e feroce , la quale , o per avventu ra , o da
neceſſità coſtretta non abbia a pro del comune qualche commendevol rimedio
ritrovato , il quale ad al tre più umane , e ben coſtumare nazioninon è occorſo
. E ben ciò a pruova ſappiamo ; imperocchè ne per lunghe vi gilie , ne per
iſparti ſudori di'ſavj greci , o daʼnoſtri fi po tè ritrovar mai rimedio tanto
valevole a domar la ferocia delle febbri , quanto è quella maravigliofa
corteccia ,inſe gnatane da' barbari abitatori del Perù e Eto quanto se quan .
DelSig. Lionardo di Capoa 77 quanto egli ora ammirerebbe per Dio queſta
fortunata , e prodigioſa fecondità , e con qual leggiadria , ed altezza di
ſtile egli anche per celebrarla ſarebbe,il ſublime poeta filoſofante Lucrezio ,
ſe dique' pochiſſimi trovati del ſuo ſecolo così maraviglioſamente preſe a
cantare : quædam nunc artes expoliuntur : Nunc etiam augeſcunt : nunc addita
navigiis funt Multa : modoorganici melicos peperere fonores. Denique natura hac
rerum ratioque reperta eft Nuper , & hanc primus cumprimis ipſe repertus
Nunc ego fum in patrias, qui poſſim vertere voces. Deh ſi paragonino p Dio le
ſtorie della natura di quc fto noſtro ſecolo non ancor finito , con tutte
l'antiche , e veggaſi ſe più fecondo di maraviglioſi trovati fia queſto poco di
tempo, che itati non ſiano per addietro tanti , tanti altri ſecoli paſſati. Si
paragonino pur le perſone, ci medici, e i filoſofinti antichi, emodernifi
bilancino . Ma che dico Io deMedici, e filoſofanti moderni ? baſta ſolo un ſol
filoſofo , l'ingegnoſiſſimo Galileo , per tacer di Re nato , del Gaſſendo ,
dell’Obbes , del lungio , e di tant’al tri , ad oſcurare , cſommerger affatto
la gloria di tutta quanta l'antichità . Orche direbbe Plinio il giovine in
rimirar tanti belliſſi mi , e nuovi trovati dell'età noſtra ? ſe de’tempi ſuoi,
che pur ne furono affatto ſterili , ed infecondi, così ebbe a di re : Sum ex
illis fateor , qui mirer antiquos ; non tamen , ut quidam temporum noftrorum
ingenia deſpicio. Neque enim quafilaxa , & effeta natura elt , ut nihil jam
laudabile riat . Ma ſu concedaſı pure ciò , che a niun modo conce der mai
certamente ſi dee , cioè a dire , che alla antichità ſolamente abbiamo a
ſtarcene ; come mai potrà egli ſenza guida di boſſolo il corſo della ſua nave
reggere il nocchie. ro?come ravviſar l'aſtronomo le nuove ftelle ſenza il nuo
vo occhialone? come abbatter le ſchiere nimiche, o rintuz zarne gli affalti il
Capitano ſenza gli archibugj, e l'arti glierie, e ſenz'altri moderni ritrovati
da guerra ? Che farà il filoſofo , e'l medico ſenza il microſcopio ? Quanto ri
pa mar 78 Ragionamento Secondo 1 2 2 ! 1 1 . 1 1 marrà a ſuper della Terra al
Geografo , ſenza le novelle ; tavole dell'America ? in quaiviluppi , cgarbugli,
e con fuſioni troverrebberſi mai gli Stronomisi quali a far prova aveſſero del
Siſtema di Tolomeo infino a’di noſtri, quafi comunemente per tutti ricevuto ?
Non s'addofferebbero le ſghignazzate , e le riſa anche del popolo minuto , e de
più ſemplicifanciulli , s'eglino mai a negare ardiſſero lo innumerabili ſtelle
della via lattea ? o faceſſer veduta di non iſcorger in faccia al Sole le
macchie? oi compagni di Saturno ,ch'alcuniorecchj, altri anella , ed altri
manichi chiamano, o le nuove ſtelle Medicee , o lo ſcambiar della faccia di
Venere , o'l dimorar più in là delle lunari regio nile Comece , o le montuoſità
della Luna ; o l'aggirarſi di Venere , di Mercurio , di Giove, e di Marte
intorno al So le ? E con qual fronte ofercbbero i filoſofi ora difender
l'incorruttibilità de'corpi celeſtiali, la faldezza de' Cieli , la sfera del
fuoco , e tanti , e tant'altri ſogni d'ozioſi cer velli ? E come ardirebbero i
medici ſenza i novelli trovati della notomia morta , e della notomia vitale ad
impren der eure ſenza manifeſtiſſimo riſchio de'mileri ammalati ? Ed o quanto,e
quanto mal conſigliati ſarebber quegli in fermi, chenelle lormani li
porrebbono; edo quanto in názi tratto ſarebbe il migliore ad arriſchiar la vita
più to ſto in man d'avveduto, e ſaggio Empirico , il cui meſtiere, comechè
manchevole , tuttavia a pericolo d'errare aſſai men ſoggiacer ſi vede , che la
falſa razional medicina daw Galieno in guiſa tale abborrira , e biaſimata , che
ezian dio contro le regole dialettiche egligiudica eſfer coſa iin poſſibile
poterfi mai da’ falli principjdi quella altre con cluſioni, cheſempre falſe ,
cavarc . Ma laſciando ciò al preſente , che troppo larga materia da diſcorrer
ſarebbe, dico, che un talmio diviſo di dover ſi ſemprcmai al miglior di
ciaſcuno , o antico , o moderno autorch'egli diafi , appigliare, ne a '
ſentimenti d'alcuno tenacemente ligarli , ſenzachèè egli ragionevole aſſai, e
conveniéte, fù di vataggio da tutti gli ſcrittori di maggior lieva abbracciato
, e da' più ſavj filoſofancije da ſacriTeo . 1 logi Del Sig. Lionardo di Capoa.
79 logi comunemente leguito , e fommamente da ciaſcun commendato. Odafi di
grazia fra’primi quel Principe de Lirici, e de'Satirici Poeti Latini,checol
ſuaviſſimo ſuo me. tro i rigidiprecetti dell'Epicurea , c della Stoica
filoſofia addolcendo , così ne canta Quod verü ,atque decens,curo, di rogo
&omnis in hoc să . Condo , &compono,quod mox deprumere poffim . Ac ne
forte roges quo me duce , quo lare tuter : Nullius addictus jurare in verba
magiftri, Quo me cunque rapit tempeſtas , deferor hofpes ; Nunc agilis fio ,
& verfor civilibusundis ; Virtutis vere cuſtos , rigiduſque ſatelles : Nunc
in Ariſtippi furtim præcepta relabor's Et mihi res , non me rebus ſubmittcre
conur. Equel , ch'altrove eglimedeſimamente va diviſando. .., Quodfitam
Gracisnovitas inviſa fuiſſet Quameſt nobis , quid nunc effet vetus ? aut quid
habcret. Quod legeretztereretque viciſim publicusuſus ? Odafi Quintiliano :
neque id ftatim legenti perſuaſum fit, omnia , quæmagni autoresdixerunt ,
utique efleperfecta ; e recando « gli di ciò la ragione, ſoggiunge: nam , &
labun tur aliquando , & oneri cedunt , & indulgent ingeniorum , fuorum
voluptati : nec intendunt animum : Odali il Roma no Oratore : non tam autores
in diſputando, quam rationis momenta quærenda funt ,quin etiam abeft iis qui
dicere van lunt , plerumque eorum autoritas , quife docere profitentur :
definunt enim fuum judicium adhibere , atque id habent ra tum quod ab eo , quem
probant judicatum vident. Indi tra paſſando a condennare il vituperevole
coſtume de' Pitta gorici , a'quali per certa, ed infallibil ragione l'autorità
fo Jamente del Reverendo lor maeſtro baſtava : conchiude : tantum opinio
præjudicata poterat , ut etiam fine ratione va leret authoritas . Odali oltre
a' già rapportati autori più fiace il medeſimo avviſo dalla ſaggia mente di
Platone, ac comandatone ſpecialmente nel Critone , ove diffe : 10 ſon di sì
fatta natura , che a niun'altro mai mi ſon condot to a preſtar fede, ſalvo, che
a quella ragione , che più vol te da go Ragionamento Primo te da me
diligentemente ſtacciata , e diflaminarā alla fine ho ritrovato eſſer l'ottima
: as iywa õ jóvov vũ , anc ' wy de Tolos 1G- , οΐG τωνεμών μηδενί άλω πάθεσθαι,
ή τώ λόγω , δς αν μοι λογιζα Hér w Gea Tigos Paívntou , Odaſi il famoſo
Ariſtotile, ilquale , avendo a trattar certa quiſtione, ove le faceva uopo per
la verità d'impugnar le determinazioni de'ſuoi amici,veg gendoſi quaſi allo
ſtrettojo, pur ſaggiamente diliberando, cbbe a dire,più umana coſa eſſere il
preporre la verità agli amici αμφοίν γαρ όνπιν φίλων , όστον πτοπμαν την
αλήθειαν , e pri ma auea egli detro a pro della verità , far meſtiere , maffi
mamente al filoſofo , diſtrugger le ſue proprie credenze ; ma odaſi quella
maraviglioſa , e divina ſentenza ch'egli medeſimodal Fedone del ſuo maeſtro
apprefe, e pur da tut ti coloro , che Ariſtotelici, o Ippocratici , o
Galieniſti in torto chiamar ſi fanno , vien comunemente traſandata,an zi
affitto ſpregiata : Amico Socrate, Amico Platone, ma più amnica la verità ; la
qual diviſando, esfigurando queſti Iciocconi indegniſſimi del nome di vero
filoſofante , foven temente dir ſogliono : eſſi amar meglio di ſcioccheggiar
con Ariſtotile , Ippocrate , e Galieno che con altri laggia mente diſcorrere .
E ben di quella più amico ſoventemo ftroſli il medeſimo lor Ariſtotile, ſe
migliaja di yolte ripre ſe,e biaſimòTalete , Pittagora , Parmenide , Anafſiman
dro , Anaſlimene , Meliſſo , Democrito , Anaffagora , cd altri molti , che
prima di luieran lodevolmente feduti fra filoſofica famiglia ; e ne meno per
riverenza talor ſi ritena ne , chea'medeſimi ſuoi maeſtri Socrate , e Platone
il fi inigliante non faceſſe, i quali manifeſtamente alle volte bialima , e
riprende ; e forſe ſe ſua malavoglienza , ed ill vidia non foſſe, potrebbeſi
ancor credere , che egli per ſo lo zelo della verità così loro villaneggiaſſe,
e carminaſſe , chiamandogli talora, e ſcempiati, ed ebbri , e farnetici , e
ſciocconi, e ſtolti , e ſcimuniti , e non farebbe per avven tura gran ſenno ,
che ſon pur coloro gran maeſtri in filoſo fia , e danon così gravemente mordere
. Ma queſta cotai ſentenza ebbero in bocca poi tutti i ſuoi più celebri
diſcepoli, e ſeguaci, Licome ſcorger.age. 2 vol DelSig. Lionardo di Capoa 80
volmente e'ſi puote , in Teofraſto , in Ermia, in Iſtracone, iu Ariſtoſſeno ,
in Ipparco , ed in altri molti, i quali ſi vide ro mai ſempre antiporre la
verità , ſe mai lor ſi parve d'a verla rinvenuta , almedeſimolor maeſtro , e
duce Ariſtote le , non che ad altri filoſofanti; e'l ripigliano liberamente e
ſenza ritegno,qualora in qualche fàllo il tolgono; e queſta medeſima ſentenza,
dipoi han comunemente avvuta fiffa inmente tuttii moderni riformatori della
filoſofia , a’quali tanto , e sì fattamente piacque ad ogn'orapreporre la veri
tà ad Ariſtotele , che allora con ſignoria da tiranno in tutte le ſcuole del mondo
regnava, ed a guiſa di celeſtial nume per ciaſcun riverivali, checon eroica
fortezza, e con in vincibile , e veramente filoſofica coſtanza , nulla curanda
che perciò ne foſſero eglino mai ſempre , e proverbiati , e deriſi,il ripreſero
ſoventemente , e lo dimentirono di non , pochi ſuoi falli. Ma odaſi
omaiquell'altra non men famoſa ſentenza, la ) quale à Socrate ſuo maeſtro è da
Platone attribuita rávws γαρ και 1ειο σκεπτέον ός τις αυτο είπεν, αλα πότερον
αληθές λέγεται η ου , Non già chi abbia detta la coſa , ma s’eidica , o non
dica il vero ,doverſi conſiderare . Ne in ciò punto è da tralaſciare il celebre
latino Stoico; il quale al ſuo Lucilio in una piſtola, così favella: Epicurus,
inquis , dixit : quid tibi cum alieno? quod verum eſt, meum eft: indi egli
foggiugne con quelle veramente memorabili parole: Perfeverabo Epicurum tibi
ingerere, utifti qui in e verba jurant , nec quid dicatur æftimant, fed à quo
fciant, quæ optima ſunt eſſe communia . Ne meno è da notare as noſtro propoſito
ciò che altrove parimenteegli dice contro i miſerevoli parteggianti: qui alium
fequitur , nihil inve nit , immonequequerit; e ciò , che altrove ancora : Non
ergo fequor priores ? faciofed ; permitto mihi, bu invenire ali quid , mutare,
nec fervio illis fed , aſſentior, e ciò, che un' altra fiata egli così proteſta
: Qui ante nos ifta noverunt,non domini noftri , fed duces funt. Ne è da paſſar
ſotto filézio quel belliſſimo detto di Por frio το αληθεύειν και μόνον
δύναταιτους ανθρώσες ποιάν Θεό Παραλεσίες, L. caya 82 Ragionamento Secondo 1
cavato nel ſuo volgare dal beato Girolaino con queſte vo ci . Poft Deum
,veritatem colendam , quæ fola bomines Deo proximos facit . E ſe tanto può far
la verità , dove più riporrem noi l'a nimo , a qual'altro fine indirizzerem noi
i noſtri ſtudj,dure rem noſtre fatiche , ſpargerem noftri ſudori, vegghierem le
gelide, e ſerene notti, ſe non perla verità ? Eccovi, ecco vi o Signori il vero
ſentiero dell'immortalità , e della glo ria. Ecco quel ſentiero, che ſegnarono
i barbari daprima, indi i Greci, ed ultimamente i moderni noſtri filoſófanti ,
che in tanto pregio ,e tanta fama glorioſamente falirono ; e perchè crederem
noi, che l'antica età aveſſe , e Talete , e Anaffimenc, e Senofane , e
Anafſimandro , e Pittagora , ed Empedocle, e Leucippo , e Democrito , ed
Eraclito, ed Anaſlagora, e Socrate , e Platone, ed Ariſtotele , ed Epi curo , e
Zenone , e tanti , e tant'altri filoſofi d'immortal fa ma degni: e ſi pregin
parimente , e lidian yanto i noſtri ſex coli d'aver recati almondo il Cardinal
Cuſano , e' Co pernico , el Patrici , e'l Teleſio , el Ramo , e'l Do nio , e
Ticone, e'l Cheplero, e'l Bruni, e'l Gilberti, e'l Montagna , e'l Merſenni, e'l
Baſſoni, e'l Galilei , e lo Sti gliola , e'lCampanella , e'l Verulamio, e
Renato , e'l Gaf fendi , e'l lungio , e'lConte Digbi , e'l Oggelandio , e'l
Boile , e’l Borrelli , e'l Maignano, e'l Robervallio , e'l Mal pighi, e'l Redi
, e lo Stenone , e'l Ricci ,e l'Vliva , e'l Por zio , e ' Bellini, e'l
Marchetti , e'l Montanari, e queſti,che ſommamente fregian la noſtra patria
Tomaſſo Cornelio Gio: Battiſta Capucci , e D. Carlo Buragna, dicui ben to ſto
s'ammireranno gl'ingegnoſi filoſofici trovamenti, ed al tri incomparabili eroi,
che con gloriofiffima gara lundcl l'altro fe'n vanno per le vaſtiſſime regioni
della natura, fu perbi ,e alti voli lpiegando: fe non perchè tutti coltoro va
ghilimioltremodo di ſpiar la ſola verità,non vollero giá mai ſtarſene a niuno ,
ne a' derti di niuno traportar cieca mente ſi laſciarono . E viuran ſeipremai
pe'l contrario ſenza fama , e ſenza lode appo i faggi, e prudenti ſtimato ri
delle coſc tutticoloro , che toglier non vogliono una sì 1 com .-s 1 Del Sig.
Lionardodi Capoa. 83 commendevole, e neceflaria libertà ; anzi ſovente in tai
fal. limenti dalla lor cieca oſtinazione ſon tratti, che ne ſenza riſa
rimembrare, ne ſenza nota d'obbrobrio , e di vitupero nominar unque ſi poſſono.
E io comechè ſopra ciò diviſar lungamente potrei , e di sì fatti errori quaſi
infinito numero rapportarvene,purnon dimeno rimarrommene per modeſtia ; c fie
baſtante il ri duryi amemoria , ſol ciò, che d'un ' oſtinato , e duriſſimo
Peripatetico narra il Sagredi appreſſo quell'altiſſimo filo ſofante,ch'oggi
l'Italia tutta onora più che altri già non fe la ſua Grecia . Mi troyai,
dic'egliga caſa un Medico molto „ ſtimato in Vinegia , dove alcuni p loro
ſtudio ,e altri per » curioſità convenivano talvolta a vederqualche taglio di „
notomia per mano d'uno , non men dotto , che diligen te , e pratico notomiſta;
ed accadde quel giorno , chę ſi andava ritrovando l'origine , e naſcimento
de'ner » vi , ſopra di che è famoſa controverſia infra' medici „ Galienifti, e
Peripatetici ; c moſtrando il notomiſta , co » me partendoſi dal cervello , e
paſſando per la nuca il gra » diſſimo ceppo de' nervi , s'andava poi diftendendo
per es la ſpinalc , diramandoſi per tutto il corpo : eche ſolo un fil
ſottiliflimo , come di refe n'arrivava alcuore : voltofi 5 ad un gentil'huomo ,
ch'egli conoſceva per filoſofo Pee ripatetico , e per la preſenza del quale
egli avea cons iftraordinaria diligenza ſcoverto, e moſtrato il tutto,gli „
addomandò , s'egli reſtava ben pago , e ſicuro, l'origine de'nervi venir
dalcervello , e non dal cuore : al quale il „, filoſofo dopo eſſere ſtato
alquanto ſopra diſc , riſpoſe : voi m'avete fatto veder queſta coſa talmente
aperta , e ſenſata , the quando il teſto d'Ariſtotele non foſſe in chiaro ,
ch'apertamente dice i nervi naſcere dal cuore, biſognerebbe per forza
confeſſarla per vera . Ragione. volmente adunque potè cantando eſclamar colui.
Sæpe graves, magnoſque viros , famaqueverendos , Errare , & labi contingit
, plurima fecum Ingenia in tenebras cunfuerunt nominis alti Autores ,
uticonnivent , deducere eajdım , 1. Ta . 2 84 Ragionamento Secondo Tantum
exemplavalent , adeo eſt imitabilis error. Fin quìha potuto trarmi con
convenevol diſdegno dive dere in tanti errori i miſerelli parteggianti
vitupcrofamen ce cadere . Ma vegnamo a moſtrar ora, ſicome già propo nevam di
fare,quanto i Sacri Teologi la libertà , che noi commendiamo, eglino altresì , ed
approvino , e lodino . E chi baſtantemente mai rapportarpotrebbe,con quan co
fervore s'attraverſi a coloro che la libertà degli Scritto ri intendonodi
riſtrignere, quel ſottiliſſimo fra gli Scolaſti ci Teologi Durando ? Egli con
chiare , ed efficaci ragioni manifeftaméte il ci va dimoſtrado con dire che ſe
mai noi dovremo agli altrui detti acchetare ( il che non ſi deca niú modo
concedere ) chi così temerario , e così folle farà ,the più toſto a’Pagani , e
perfidi gentili fede preftar vorrà , che a’ facri , e piiſcrittori , e Padri di
Chieſa Santa da divin lu me illuftratis e pure Agoſtino proteſta di non
voler'egli già , ch'a'ſuoi detti dar s'abbia ferma credenza : ma che ciaſcuno
in prima ben bene gli diſamini , & abburatti, e ſe veri non gli pajano
ſenz'altro alcun riguardo gli rifiuti to Ito , e rigetti ;indi le parole
medeſime di Agoſtino recate avendo così fieramento ſcagliandoſi contro alcuni
barbaf fori , che vogliono impor meta alla libertà degli altrui in gegni, e
ridurli al durofervaggio di qualche fi fia ſcrittore, e che altro , eſclama
egli , è ciò per Dio, ſe non che un vo lere quel tale ſcrittore antipurre
a'Dottori di Santa Chieſa ? fe non che un chiudere il varco a color ,che vanno
in traccia della verità ?Se non che un far argine a quei , che s'inviano
pe'lſentiero della ſapienza : ſe non cheun'ammorzar violen temente , non che
oſcurare il chiariſſimolume della ragione . Così quel gran Dottor della Chieſa
, non men d'ammira bil ſantità , che di profonda ſcienza dotato, ſcrivendo al
Gran Girolamo, lume maggiore della Criſtiana Religio ne , dopo avergli detto ,
ch'egli dava intera , e ferma credenza a'libri ſolamente della ſacra Scrittura
, ed agli autori di quella , degli altri in sì fatta guiſa egli favella : Alios
autem omnes ita lego , ut quantalibet San &titate do Etrinaqueprecellant ,
non ideo verum putem , quia ipfi itas Jenſe is DelSig:Lionardo di Capoa . 85
fenferint,fed quia mibi, vel per illos authenticos autores ,vel probabili
ratione , quod à vero non devient perſuadcre po tuerunt . Ma prima di S.
Agoſtino quel criſtiano Tullio, Lattan zio Firiniano,avendo iſentimenti
medeſimi con eloquenza; ed efficacia non ordinaria manifeſtati,ſiegue a dir
poi, ch' ogni ſapienza da ſe caccian via coloro ,che ſenza diſcreto giudicio ,i
trovati degliantichiapprovano , e a guiſa di pe corelle dietro a quelli ſi
laſciano ciecamente trarre ; per ciocchè : ficome egli ſoggiugne : Hoc eos
fallit , quod maa jorum nomine pofito non putant fieripulje , utaut ipſi plus
fa piant , quia minores vocantur , aut illi deſipuerint , quia majores
nominantur: cd alla fine così gridando ei conchiu de : Quid ergo impedit , quin
ab ipfis fumamus exemplum , at quomodo illi , quifalſa inveneruntpofteris
tradiderunt, fic nos , qui verum invenimus poſteris meliora tradamus . Or
dunque , fe tanta libertà ſi tolgono i Sacri Teologi , che talor dove ragion
ripugna contraſtano ferventemente a'lo ro maeſtri , ed a’Dottorimedelimidi
Chieſa Santa , ere tāta libertà richiedeſi a'filoſofanti a poter ſaggiamente in
veſtigar la natura delle coſe ; quanta crederem noi ch’ab.
biſognardebbaaʼmedici . Anzi coſtoro di tutt'altri certa mente maggior la
debbon godere ſenza alcun paragone ; imperocchè ſei filoſofi volendo pur
ſtrettamente appiccar ſi ad alcuno , altro per avventura non fanno, che con in
gannar ſe medeſimitrarli alcun'altro dietro ſenza nocimé to alcuno , che
all'altrui vita ſeguir ne poſſa: i Medici per lo contrario , con laſciarſi
a'lormaeſtri ingannare , non di naſconder ſolamente altrui le verità naturali
,non di ficcar carote al baſſo vulgo ſolamente ſi ſtudiano , ma oltre a ciò
da'vani,e ſtoltiloro aggiramenti,offeles c per lo più mor talijanzi ſterminje
rovinc cagionarſitutto di crudeliſſima mente veggiamo . E pure i mediciduri , e
oſtinati dietro al lor Galieno le veſtigie di lui , nõ già la verità ,vā
ricercă do ; e come ſaggiamente notò l'avveduciſſimo Signor di Montagna: On ne
demande pas fiGalien a rien diet qui vail le:mais s'il a diet ainſin,ou
autrement. Esì gli antichi am, . 1 mae 86 Ragionamento Secondo maeſtramenti, anzi
gli antichierrori ſempremai ſeguir vom gliono ; e mi ricorda a tal propoſito ,
che ritrovandomi in brigata di curioſi, e dotti amici a caſa il noſtro Severino
quivi da un diligente notomiſta Daueſe ne fur moſtre le vene acquoſe in un cane
da lui aperto ; ma immantinente levolli ſuſo un teſtereccio Galieniſta (il
qualeſimili trova ti prendendo a gabbo poc'anzi avea detto effer eglino ar
zigogoli di moderni ingegni per far contraſto al for ſaggio Galieno ) e contro
al buon notomiſta in ceffo rabbuffato , c adattandoſi gli occhiali al naſo
ſtizzoſamente ſcaglioſli con un preſto argumenter contra : ne era inai egli per
rifi pare , ſe oltre alle riſa de'circo tantichetamente , e in vo ce piena di
carità , e di modeſtia, non gli aveſſe il prudente Notomiſta replicato , ſe non
valere ſtar su le difeſe , mu eſſer pienamente pagodi ciò , che gliocchi, e le
man pro pie le facevan chiaramente vedere . O ſtrana , o incredi bil pertinacia
de parteggianiMedici, voler eſſere anzi cic chi , e ſordi, e tradir ſe medeſimi,
ei malati, che ponen do giù la dura , e pertinace loro oſtinazione ricrederſi
de' manifeſti errori de’loro macſori: anzi porre in oblio l'uma nità ,
e'lnatural conoſcimento , e lume, per gire così loro inconſideratamente
appreſſo , Come le pecurelleeſcon del chiuso Ad una , a due, a tre : e
l'altrefanno Timidetteatterrandol'occhio , e'l muſo ; E ciò che fa la prima , e
l'altre fanno , Addo andoſi a lei s’ella s'arreſta, Semplici, e quete , e lo
perchè non ſanno Ma chczben ſo lo , che per la più parte ciò fanno coſto ro ,
non peraltro , ſe non ſe ſolamente per torſi da doſo la troppo nel vero gravoſa
, e malagevolc briga d'inveſtigar con iſtenti, e ſudori la naſcoſa , ed a’lor
m.cítri non cono ſciuta verità ; e perciò fan veduta d'eſſer ſaggia elczione di
ragionevole genio, quella , che certamentealtro non è , che
dapocaggined'intelletto groſſo , e tondo ; e sì la loro ignoranza, e la loro
pecoraggine cercan di ricoprire, onde poi d'aſtio , c d'invidia fremēdo, per
dar quanto (torpo per lo DelSig.Lionardo diCapoa. 87 loro ſi poſſa alla gloria
de moderni ſcrittori, quella degli antichi mai sëpre d'innalzar fi argomentano;
del quale ma ligno, e biafimevole artificio , forte lagnádoſi Marziale col ſuo
Regolo così canta : Eifequid hoc dicam vivis, quod fama negatur Et ſua quod
rarus tempora leltor amet. Hifuntinvidia nimirum Regule mores Præferat antiquos
ſemper,utilla nuvis. Nono Signori, che non ſon già queſti i veri ſentieri,per
cuine’tempiantichi s'avvivono , ed Ippocrate , e Diocle, e Pliſtonico , e
Praſlagora , ed Erofilo , e Filotimo , e Cri fippo , ed Eraſiſtrato , ed
Aſclepiade, per tacer d'altri , es d'altri famoſi razionali medici antichi.
Così anche a'tem pi noſtri ſi ſon vedutimontar feliceméte al titolo de'ſaggi,
e'l Valentino , c'l Paracelſo, e'l Quercetano ,e l'Elmonte, e'l Villis , e'l
Silvio, e tant'altri avvedutiffimi medici moderni . Non è giàtale crederemio
Galienifti, non è già tale il ſentiero del voſtro Galieno ; (gannatevi pure una
volta , e ſe non altrui , credetelo a lui medeſimo, che oltre a quel , che
n’abbiam di ſopra rapportato , egli più ch'altrove af faichiaramente quivi
l'afferma, ove diſe medeſimo narra , che egliavea per coſtumedi chiamar ſervi
tutti coloro , i qualidaIppocrate, e da Praffagora , o da chiunque altro fi
foſſe predevano il nome, e che da tutti egli uſava di mai fempre fcegliere il
migliore : ήρετο πνα των εμών φίλων από ποί και έην αιρέσεως • ακούσας δ'όπ
δούλες ονομάζω τους εαυτός αναγο ρεύσανας ιπποκρατείας, και πραξαγορίες , η
όλως από πνος άνδρας , εκ λίγοιμι δε τα παρ' εκάσες καλά, δεύτερον ήρετο , ίνα
μάλιση των πα hasūv in aivoso: ma che ? un'altra fiata lo ſteſſo voftro Galie
no non dice, che a manifestiſſimo riſchio d'incorrer in nons pochi
erroricoluis'eſpone, che fermamente ſecondar ſem premai vuole i ſentimenti ,
che il maeſtro della ſua fettan come falde, ed infallibili verità gli diviſa ?
conciosſiecofa chèſecconc una certiMima ragione di ini medeſimo colle ſue
propie parole ) Χαλεπόν γαρ ανθρωπιν όν % μη διαμαρτάνειν εν πολ . λοίς: τα μεν
όλως αγνοήσαν τα , τα δε κακώς κρίναντα , τα δε αμελί segov ypay ar to ,cioè :
egli è malagevol molto , o pure impoſſi bile, 88 Ragionamento Secondo bile
cheunoseſſendo buomo,in tante, e si diverſe coſe ialor non s'aggiri, alcune
affatto non ſappiendo,enon conoſcendo,e d'al tre malgiudicando , e d' altre
alla fine con poca cura, ed avo vedutezza favellando. Fin quì Galieno , il cui
faggio av viſo non ſolocome mai pofla per Galieniſta alcun traſan darſi , o
manifeſtamente diſpregiarli; e pure egliè tale, che più , che a tutt'altri,
dovrebbe eſſer a cuore a'Galieniſti , i quali lodovrebbon prontamente ſeguire ,
ſe non mai per altro , almeno per darne a divedere, ch'elli veramente há bo in
quel pregio , ed in quella ſtima , che tutto dì millan tano , il lormaeſtro ,
il lor principe Galieno ; altrimente vero dirà Paganino Gaudenzio, il quale
queſto graviſſimo fallo loro rimproverando, prorompe in queſte parole , Ga
Lenum voce tenus extollunt, re ipſa autem deferunt , atque contemnunt . Tanto
dice o Signoriilſaggio , e ben conſigliato rino vatore della vera filoſofia , e
medicina , e con ragioni, e con teſtimonianze forſe di maggior lieva più oltre
proce derebbe , s'egli non avviſaffe , che il rimanente ben pote te voi, come
ſavj,per voi medeſimi pienamente compren dere; onde con quelle divine parole,
le quali già lo inge gnoſiſlimo Teleſio ſotto l'effigie della Verità
giuſtamente ( culſe Móva pod pina , cioè a dire Sola coſtei a me amica ; e con
quelle parole , che replicar così ſovente il Paracelſo folea : Alterius non
fis, qui ſuuseffe poteft, ê ſe ne rimane Ma io aggiugnerò di vantaggio , coſa ,
che per avven tura a primafaccia ella creduta nó mifie, e pur ella è vera, e
pur ella è certa : ne loolerei dirla, ſe non ilperaſli farve la toccar con mani
, cioè , che poco men , che tutti i più celebri , e più ſtimati parteggianti di
Galieno da chiarore di verità talvolta illuminatihan fatto come propj i medeſi
miſentimenti , e quaſi tutti tanto nel filoſofare , quanto al fatto del
medicare foglion ſovente dall'orme di Galieno, e d'Ippocrate medeſimo partirſi,
alcuni liberamente ciò có deſfando, altri poidiſimulando la coſa , e'l
contrario tutto con Del Sig. Lionardo di Capoa. 89 con fatti adoperando, di ciò
,che ſempremai con parole proteſtar ſogliono . E percominciar dalle Spagne , acciocchè
per noi in si lungo narramento con qualche ordine ſi proceda , Tomaſo Rodrigo
Viega,infra gli altri Spagnuoli nobiliſſimo inter petre di Galieno, ſcuſandoſi
una volta di aver contra a’sé. timenti del ſuo maeſtro diviſato, di cui allora
appunto egli ſtava il libro delle differenze delle febbri comentando,co si ebbe
a dire : Eſſer egli da credere , che noi non pur fiam nati ad interpetrare gli
altrui detti, ma altresì a diſami nargli ben bene, più pregiandola forza della
ragione, che l'autorità de'maeſtri ; ed ove ſiam da neceſſità coſtretti, li
beramente da lor ci dipartiamo , perchè dalla verità non venghiamo a dilungarne
; e quindi a poco paſſando a di ſaminar le ſue dottrine , il toglie in non
pochi falli,de'qua li ſuoi avviſi ſommamente egli pregiandoſi, alla fine con
chiude : quæ animadverſiones liberum animum oftendunt,com uni veritati vacantem
. Nequi rapporterò lo altre ſue parole intorno al mede fimno ſentimento , che
troppo lungo ne verrebbe il mio di. ſcorſo ; ma non laſcerò lo già di dire ,
come forte per lui ſi ripigli , l'haver Galieno la reſpirazione al cervello
aterie buita,ſognandoviſi per ſoſtener sì folle opinione , unamé brana non mai
per niun Notomiſta ravviſata. Ne men ta cerò , come chioſando egli quel luogo,
ove Galien con feſla apertamenteeſſerſi eglimededelimo ingannato in
giudicandod'un ſuo propio male , contro luiprorompa in queſte parole: Galenus
qui in propriis malis cæcutivit, quid in alienis faceret ? Ma chi potrebbe mai
il famofiffiino Galieniſta Frances ſco Vallelio séza taccia di traſcuraggine
intorno a ciò tra laſciare ? cgli avvedutiffimo ne'luoilentimenti , non pure il
ſuo maeſtro Galieno , e'l ſuo divino Ippocrate nelle co ſe di maggior
confiderazione arditamente abbandona , fi come nelpurgare , e nel cavar ſangue ,
quantunque quafi con argani, e con lieve, co tutte ſue forze a ſentimentiluoi
di traſcinargli ſi affatichi ; ma in un particolar luo libbri M cino 90
RagionamentoSecondo 1 cino alcuni detti del ſuo Galieno rapportar volle,
coranto fra ſe contrarj , e diſcordi , ch’in niun modo , ſecondo lui , difender
mai , o riconciar baſtantemente fi poſſono ; la qual coſa prima di
luiaveaſiancor tolta a fare quell'altro dotto compilator di Galieno Andrea
Laguna. Così anco ra dal giogo degli antichi due Greci maeſtri ſi ſon talvolta
ſcolli,, e ſtrappati , e per altre ſtrade liberamente avviati il Lemoſio, il
Mercato , ilMena , il Segarra , il Peramati , il Pereira , e'l Mattamoros. Ma
ciò far ſi vide più di tutt'al tri Spagnuoli, e con maggior nerbo,
l'avvedutiſſimo Pier Garlia nobiliſſimo profeſſor di medicina nell'Accademic
Compluteſe ; la qualcoſa così egli faggiamente proteſtā do , dice , che altri
non prenda maraviglia, ſe di quelle co ſe , ch'e' rapporta , alcune n’abbia
colte altrui variamen te diſaminandole, e ſe inolte ſien nuove, e nonmaidaglian
tichi pria dette, ne pubblicate in alcun modo: quàm( ſog giugnendo ) in rebus
ad examen revocandis non authorita tes ,sed rationum momenta conſtet
preponderare , indeque , vetus verbum : Amicus Plato , fed magis amica veritas,oy
tum babuiſe . E per far motto intorno a sì fatta maniera , ancor de Medici di
Valenza , i quali sì con Ippocrate, e con Galicno ſtar ſogliono ſtrettamente
confederati , che anzi a ſommo fallo li recherebbon , che no, il dilungarſi in
un ſol minuto punto dalle loro dottrine . Pure il Pereda fuo chioſatore forte
fi briga diſcuſar Michel Paſcali cele bre ſcrittor di pratica Valenziano,
perchè queſto poco ti? lor ſiaſi curato delparere di quegli antichi maeſtri,
così dicendo ; cum bic vir doctus ſcripſerit tempore quo multæ falf &
barbarorum ſententiæ vigebant, veritates Galeni,quas modo multorum auctorum
lectione habemuserantocculte. Ma che forſe il Pereda in quelle ſteſſe ſue
chioſc , ove a fuo potcre egli crede di rimettere il Paſcali nella diritta ſtra
da , non ne torce ancor'egli , e non una , o due , ma più, e più fiate ? certo
, che sì ; imperocchè in trattando delle febbri ardenti, così ne ragiona: Cum
vero in hac febre non apparent figna fanguinis, non eft neceſſaria ſanguinis
miſſio , fed purgatio bilis, neque inomni putrida febri ſecandaeſt ve 14 , ut 1
DelSig.Lionardo di Capoa . 91 na , ut multi recentiores medici cum Galeno X1.
Meth . vo. lunt . Or ecco , come da Galieno ribellando il ſuo giura to campione
, e lotto le bandiere del barbaro , e miſcredé te Avicenna
fuggendoſi,arditamente gli fà teſta , e cerca , di mandare a terra una
dellebaſtie più celebridella Galie nica medicina, fondata in ſu quella
univerſal ſentenza,che veruna eccezione non patiſce , cotanto replicata da Ga
lieno, e celebrata da’ſeguaci di lui: xala ,soy eli cw , ws dignton, φλέβα
τέμνειν ου μόνον εν τοίς συνόχοις πυρετούς , αλα και τοις άλλοις απαστ τοϊς επί
σήψ « χυμούς , όταν γε ήτοι τα τ ηλικίας , ή τα τ δυνά pescos pead montées :
Egli è coſa falutevoliſſima , ficome io hogià detto , ilcavarſangue , non folo
nelle finoche , ma eziandio in tutt'altre febbri, che daputridi umori fon
cagionate , fol, che l'età , o be forzeno'l vietino . E comechè li forzi egli
di ceſſare la fellonia , con dir , che Galieno non faccia men zion del falaſſo
altrimenti nella terzana ſemplice, ed altri moltiſſimi eſempli vada ei
rapportando : queſto però è un volere ſaldar la piaga con pannicelli caldi,
direbbe lo’nfa rinato della Cruſca, ed un'aggiugner colpa a colpa, fallo 2
fallo , in modotale , Che non l'avria Demoſtene difeſo ; imperocchè vien'egliin
sì fatta guiſa ad accufare il maeſtro di contradizione, o di poca fermezza
almeno , il che affai monta in faccende di così gran rilievo.Ne men moſtra ,che
molto fedel ſia di Galieno il Pereda, colà ove dice: Mul ti fequutiGalenum
lib.VI.derat. vict. in morb. acut. in by dropeanafarca ex fuppreſiunemenfium ,
d hemorrhoidibus, autalia plethoricaaffectione orto ,quando incipit fecant ve
nam, quod difficillimum nobis videtur,immo falfum , quia in hydrope jecur
maxime refrigeratū eſt, do funguinis misfio ex accidéti refrigerat.E
finalmétericordevole d'eſſer filoſofo, d'esſer medico, d'eſſer libero, a viſo
aperto dice altra volta il Pereda , favellando d'un luogo d'Ippocrate
malamente, ſecondo lui da Galieno ſpiegato ; quem locūzignofcant mihi ejus
manes , Galenusnon recte explicuit . Stefano Roderi go da Caſtello ,
Portogheſe,celebre lettor nella famoſilli M 2 ma ſcuo 92 Ragionamento Secondo
ma ſcuola di Piſa , nei libro de Meteoris microcoſmi, ove ſommaméte proneggia
d'effer medico , e filoſofante libe ro , dapoi ch'egli ha commendaro Ariſtotile
, che ne ha laſciaci credi del ſuo libero filoſofare , forte ſgridando co loro
, che voglion ſempremai gir carpone collo inge gno , e farti ſervi d'altrui ,
così favella : fed quotus quiſ que eft, qui hanclibertatem velit ? Proh dolor ,
ingewa phi lofophia ſervos parit: ed altrove : ego vero quid antiquiores
fenferint parü ſollicitus , &nulli ſedia addictus.E poco ap
preſſo:Neotericorú inventa, fi qua mihi arrident, amplector, quæ difplicēt
relinquo.Chiama egli più d'una fiata Galieno negligente , duro , oſtinato ,
caparbio , protcryo , e catti vo filoſofante; e cotanto allontanoſſi dalla
dottrina di Ga lieno il Roderico nel menzionato volume , che vennnea formare un
novello ſiſtema di razional medicina . Il celebre fra'GalieniſtiSpagnuoli
Andrea Santacroce , quante volte, e quante all'opinion di Galieno, e d'altri an
tichi , o non bada , o non cura , o talora lc fpregia ? Noil dic'egli una volta
: mihi fufpe &ta eft Galeni doctrina ; ed al tra volta motteggia il
medeſimo, perch'e'malaméte ſpiega un teſto d'Ippocrate có dire:frigida
explicativ; ed altra fia ta ripigliádo có viſo d'armi Galieno,nó dice, ch'egli
a tor to ofa cacciare Ippocrate , come colui , che non intera mente aveſſe
aflegnate le cagioni della debolezza delles forze nelle malactie : eccone le
ſue parole : Hippocrates elio modo , & forfan clariori caufas debilitatis
nobis propo fuit , quamvis Galenus illumfine ullo fundamento repreben dere
aggrediatur . Ma quale oggidiaperto campo, e libe ro nello Spagne tutte a'
medici lia dato da potere agiata mente perciafcuna fetta ſcorrerc, affai fie
manifesto a chi pon mente alle parole framezzate nell'opera del medico della
Regal caſa Gaſpar Bravo , valoroſo , e forte cam pione della doctrina diGalieno
: e fono le ſeguenti : liens Non eft conformatum à natura , ut fit receptaculum
bumoris melancholici redeuntis è jecore , quod Galenus , & reliqui
dugmarici antiqui illi ſubſcribentesfinem pracipuum quare fuerit lien à natura
conformatum ignorarunt; quod Galenus in ina Del Sig.Lionardodi Capoa. 93 in
infantis anatomes non potuit circulationem fanguinis , cu motum percipere. E in
priina , di Galieno medeſimo avea già detto :fiabſolute velit
interdicerefanguinis miſionem in pueris, non ftandum ejus doctrine . Senzachè
volen tier coſtui ad alcuni novelli trovati dà piena credenza , fi come
all'aggirarli del ſangue , ed alle vene latree, e ad al tri molci diviſi
moderni ; perchè ragionando d'Arveo, così manifeſtanente dice : quod Haruei
doctrina, ſi vera,non ob ftat , quod nova , ab illo noviter dicta , quia in
naturali busnon tam quis dixit , quam quid dixit examinandun. O faggia
veramente, e prudentiſſima ſentenza, e degna d'un vero filoſofo , degna d'un
vero medico , degna d'uns vero , ed avveduto diſcepolo d'Ippocrate, e di
Galieno ! E che direm noi o Signori dell'Accademie tutte delle Spagne, da
quella di Valenza in fuori, la qual ſola , eco ſtantemente di non dipartirſi
giammai in coſa niuna dal ſuo Ippocrate, e Galieno ſi da vanto ? Coſtoro
certamen te han ſeguito ſempre , cſeguon tuttavia per ſolo titolo i medeſimi
Greci maeſtri ; ma in verità quanto poi da loro nell'adoperare dilunghinſi ,
non ſi può egli bastantemente narrare . Eben'avviſollo una volta il teſte mentovato
Ga lieniſta Andrea Santacroce , il qual dopo aver due luoghi delluo Galieno
recati, ove coluidice, che ne’troppo fred di , o nc'troppo caldi tépi non ſi
debba a niun partito cavar ſangue , avvegnachè grave , e di riſchio ſia la
malattia ,e l'infermo freſco , e giovine , c ben’atante della perſonas
foggiugne inanifeſtamente poi : certe qui hæc legit,quomo dotempore Eſtivo,
&in ifta tam calida Matriti regione,pre cipue hoc anno, tam audacter mittit
fanguinem ? quid mira quod multi interierint , ut dicitGalenus? fed quid mirum
fi tantum aberrent multi , ut mittantſanguinem folius refri, gerationis gratia
? Malaſciādoci omai addietro le Spagne,valichiamo pu ., rca ragionar della
Frácia, nella quale avvegnachè la oſti natiſfiina ſcuola di Parigi aveſſe col Quercetano
tutt'altri Chimiciperſeguitati , e banditi , non fù ella poi così fal dase
coſtante , che non abbandonate talvolta , ed aper tamen 94 Ragionamento Secondo
tamente non rintuzzaſſe la ſcuola d'Ippocrate , e di Galie no ; imperciocchè
da’ſentimenti di coſtoro , quanto al fat to delle purgagioni, e del ſegnare , e
d'alcune altre core di lieva alla medicina appartenenti, tanto , e si fattamen
te fi dipartono , e s'allontanano , che più non farebbero p avventura i
medeſimi liberi , o vaghi mcdicanti ; il che pienamente ſi può per ciaſcun
comprenderedall'opere de più famoſi medici di coral nazione. Ne permio avviſo è
da logorar punto di tempo in far parole del famoſiſſimo Rondelezj; eſlendo
purtroppo manifeſta la libertà , con cui egli imprende a vagliare, ed a
riprovar l'antiche opinioni, e produrre in mezzo, e ſtabilir le novelle, dal
propio inge gnioritrovate. No meno è gran fatto da prender cura di porre in
chiaro quanto il dottiflimo Valerioia îi moftraſſe ſempremai fido amatore , e
difenſor della verità ,le cuilo di di celebrare , ed innalzar fino alle ſtelle
non è mai ſtan ca la ſua eloquentiffima penna ; oltremodo commendan do altresì
Galieno , perciocchè ancor'egli per amor della verità avelle più fiate
fronteggiato il venerando macſtro Ippocrate ; eſſendo egliciò ben conoſciuto a
chiunque l'o pere diluiabbia rivolte . E oltre a ciò quanto il medeſi mo
Valeriola ſenza alcun ritegno ove gli ſia in concio ad Ippocrate , Ariſtotile ,
e Galieno faccia contraſto ; palesí do ſenza riſpetto , quanto ſoventemente,l'un
detto diGiz lieno l'altro annulli , ſpezialmente colà , ove ſi briga di vo lere
ſpianar la facoltà dell'orzo, o dove ragiona filoſofan , do dell'amaro ſapore ,
e tutt'altri fallimenti di lui, qualo ra gli vengan conoſciuti, non laſcia con
generoſa libertà di ſvelargli, e ripigliargli. Ma non potrei tacer'io
dell'elegantiſſimo Fernelio , il quale , comeche foſſe motteggiato dall'Italico
Galieno Aleflandro Maſſaria con quelle pungenti parole : fummus cum ratione hic
vir ſuo libro titulum inferipfit , Ferneliime dicina ; namque fi totam illius
inftitutionem , omniaque dig mata diligenter animadvertas,ea majoriex parte
juntite ejus propria, epeculiaria , ut prope fint nullius alierius:pur decegli,
non ſolo gran lume della riſtorata cloqueaza Ro mila , 1 DelSig.Lionardo di
Capoa. 98 mana, ma ſovrano pregio dell'arte della medicina eſtimar fi ; perchè
credendolo proverbiare il Maſſaria , il vennes anzi a commendare , che nò ;
imperciocchè , fe ad altro , ch’a ricercar nuove coſe , e per alcun'altro non
mai prima tocche ebbe il Fernelio l'animo tutto , e'l penſier rivolto , per
certo , che egli fi fe in tal guiſa conoſcere per degno imitatore , anzi einolo
d'Ippocrate, e di Galieno. Ma forſe il Maſſaria non riguardò punto a quelle
parole , le qualiil Fernelio ,antiveggendo ,che delle ſue novità ſareb be per
alcun da eſſer tacciato ,nelprincipio del ſuo vaghiſ ſimo volume laſciò ſcritte
; la dove egli con sì efficaci , e convincenti ragioni, econ sì maraviglioſa
facondia , la fua cauſa difende , che più non farebber per avventura , o'l
fottiliſſimo Demoſtene, o l'eloquentiſimo Tullio; le qua li per eſſere
ſoverchiamente lunghe qui io non rapporto; ma non gia tacerò lo quell'ultime
ſue parole , colle quali maravigliando egli de famoſi trovati dell'età fua , così
al tamente favella :nihilvere docto illifeculo debet hæc invi dere . Dicendi
ratio , fummaqueeloquentia nunc paffim flo refcit, philofophiæ genus omne
excolitur :m :ufici , geometra, fabri, pictores , architecti
,fculptores,aliiquc artifices innu merificmentis aciem extulerunt , ut artes
quique ſuas pre claris, magnificiſque operibus exornarint, quevetuſtioribus
illis uno omnium ore celebratis nihilcedant. Neque inven tis folum ornamenta, e
incrementa adjunxit temporum ex curfio , fed &artes novasprotulit,ad quas
priorum nunquã, velingenium , vel induſtria penetraverat . Quindi ſieguo egli a
raccontar delle bombarde, delle ſtampe , delle bof fole da navigare , e d'altri
maraviglioſi ritrovati de'tempi addietro ; e intorno al navigare ſi vanta
ſommamente d'a vervi anch'egli fatta la ſua parte. Mao quanto più il benz
parlante Fernelio com menderebbe la noſtra età , fe vedeſſe a' dì noftri di
nuove , e più maraviglioſe pro ve la fperienza accreſciuta, e ſempremai
ritrovarſi da gli ingegnoſi moderni , o le carrette a vela , o le trombe
parlanti , o le lanterne magiche , o i teleſcopj, oimicro ſcopi , o le tante ,
e tante , e sì maraviglioſeforti d'oriuo J ligo 96 Ragionamento Secondo li, o i
varj, e varj, e non mai poſti più in opera ſpecchi co cavi,che repentemente
liquefanno anchei metalli più du. ri: o le Pitture, che apparir fíno
a’riguardáti, Protei di mil le forme le colorite telc : o con qual arte da
guerra infra brieve ſpazio di tempo in terra ſi gettino le Cittadelle , ultimo
rifugio de’vinti , & ultimo ſtento de’vincitori : e co me dall'acceſe
bombarde li mandi ſoccorſo alle caden ti fortezze , traendo argomento di ſalute
da’medelimi ſtrumenti d'offcfe: 0 come a diſpetto quaſi della natura ſi poſla
forc'acqua francamente navigare . E come egli au rebbe aggrottate per iſtupor
le ciglia in avviſando altreer ranti , ed altre fille non mai più vedute Itelle
, ed altri , ed aleri movimenti, oltre a quegli già per l'addietro conoſciu ti
nel Ciclo dagli antichi. E che aurebbe egli detto dell' Elatere dell'Aria, de'
Barometri, delle Termometre , e degli ſtrumenti del vuoto , in cui non rimane
ne men pic cio iſlimoacomo d'aria ? Eche de’nuovi, e maraviglioſi uſi della
calamita ? e che del trasfonderli del ſangue e di cotant'altre prlove , che
commendevol tanto rendono, e amipirabile l'età noftra . Certainente con maggior
mara viglia egli ſclimato aurebbe , e con onta pur degli inutili e pecoroni
parreggianti : fi omnem laborem pofteri collocaf-, fent , ut eas folum artes,
diſciplinas exædificarent , qua rum fundamenta priores jecerant , nunquam tam
multa di fciplinarum copia creviſet. Si qua in veterum mentem non venerant,
juniores non aperuiſſent, neque illorum induftriam fuis vigiliis excitafent:
nova ingeniorum lumina minime lucefcerent . Ma e'l Fernclio , e tutt'altri
autori Franceſchi prima di lui , quanto al filoſofar liberamente poſſon ceder
tutti la maggioranza a Lorenzo Giuberti nobilillimo lettore nell’Academia di
Mompelieri ; il quale dopo ellerli oltre modo lagnato de gravioltraggj , che
per opera d'Ariſtote le han villanamente molti degli antichi ſavi patiti ,
haven do colui si fittamente i lor ſentimenti inviluppati , e {tra yolri , che
s'eglino pur ci ritornaſſero , non più , comopro pi lor parti ravviſur certamente
gli potrebbero: indico 4 1 1 4 silog. Del Sig.Lionardo di Capoa 97 sì
loggiugne. Hinc res eò miferia tandem reducta fuit , ut quum
maximophilofophurum damno aliorum commentaria periiſſent ,in iis nullo
refragante poſteritas tenaciffime inhee Jerit, ea tantum vera eſe ſibi
perſuadens , quæ fine contro verſia proponerentur. Quindi egli con animo libero
, e fin loſofico, dinon dover ſenza minuta conſiderazione laſciar fi trarre a
gli altrui pareri,manifeſtamente proteſta : avve . gnachè ſian quelli pure
diGalieno medeſimo, dicuiegli così dice . Hec dum animadverto,non poffum non
illius quo que dicta exactiusperpendere , de pleriſque dubitare : ut
diligentiore facta inquifitione veritastandem ( abfit invidia dicto )
eluceſcat. La qual faggia libertà , dice egli, da cia ſcun doverſi ſommamente ſeguire,tra
per l'utilità , che ol tremodo ſe ne ritragge , e per l'autorità de'letterati
più prodi , ed in iſcienze più valoroſi , che ſempre glorioſamé te l'han
ſeguita ; de'quali egli fa un brieve, ma ſcelto ca talogo,arrollandovi anche in
fine l'avvedutiſſimo Gugliel mo Rondelezj , e ſommamente commendandolo. Ma non
ſolamente Lorenzo Giuberti nel ſoftener la fin loſofica libertà moſtrar volle
la ſua maraviglioſa coſtan ża , anzi non pago di ſe medeſimo d'imprimere, e
propag ginar sì nobili ſentiméti anchenegli animi de' ſuoi ſcolari ſommamente
ſtudiosſi . Perchè un diloro ebbe già quell'e legantiſſima orazione , che
oggidi ancora vien da'curioſi con maraviglia guardata; e nella quale dopo aver
colui có forti, e valevoli prove ſaggiamente la ſua ragion difeſa , la gran
forza ſpiegando della verità , dice , quella ſola la greca filoſofia a
cotant'altezza aver potuta condurre,e por l'ultima mano alla latina eloquenza :
e da quella ſola ani cora eſſer la Criſtiana Religione introdotta , e ſeminata
in Europa: e cô la verità medeſima aver fatto capo a Socrate ache Platone; e
côtro Platone poi eſſerſi armato Ariſtotele; e nell'Italia gran tratto dagli
Aſiatici aver ſeparato Cice rone . E fu opera anche della verità il replicare
appreffoi Criſtiani Paolo a Pietro , e opporſi Agoſtino a Cipriano ; e altri
molti eſſerſi per ſola vaghezza di quella l'un l'altro perſeguitati. Quindi
rivolgendo il ſuo ragionamento a’ri N gidi, 1 1 98 Ragionamento Secondo gidi, e
ſuperſtizioli barbafforidi quella ſcuola rancida , che più le viete anticaglie
degli ſtolidi maeſtri, chela nuova , e pur mo nata verità ſcioccamente pregiano
così ſoggiugne . Et paganorum quorundam ( cioè a dire d'Ippocrate , e di
Galieno ) memoriam ſuperſtitiosè coletis ? eorum nomina tam
aniliterperhorrefcetis , ut à falfifſimis quorundam decretisnon poffe
quemquamfine nefario ſcelere deficere judicetis ? Ma non comporta il tempo ,
che più avanti lo ne rapporti , comeche per tutto quel libbricino vaghiſſime,
ed ingegnofiffime coſe ſparſe vi lieno : ed a cui caglia di leggerlo forſe non
rincreſcerà . Di tanta, e sì valevol forza fur le perſuaſioni, e l'au corità
de'due valentiffimi maeſtri , cioè del Rondelezine del Giuberti , che traendoſi
dietro già tutta la ſtudioſa gioventù di Mompelieri , da indi in poi in quella
famofiffi ma Accademia fempre la libertà del ben filoſofare è cam. peggiata .
Ne con più ardente , e con più vigoroſo ſtile altra ſcuola di Francia armolli
mai a far teſta a quella di Parigi a pro della Chimica, e del Quercetano ,
quanto la famofiflima ſcuola di Mompelieri : da cui ſon ſempre uſci ti , ed
eſcon tuttavia valorofi germogli . Che più ? egli è táto non chebiaſimevole,ma
impoſſibi le a fofferire la fervitù delle Sette agli ſtudioſi ingegni
Franceſchi, che non che altri , macoloro , i quali la liber tà in altrui
ſommamente riprendono , come il Silvio , l'Ol Jerio , il Doreto , eiduo Riolani
, lor fa meſtieri , ch'a ' giurati maeſtri , o di naſcoſto ſi ſottraggano , o
manifeſta mente ribellino . Anzi (chi il crederebbe !) anche colui , ch’a difeſa
di Galieno contro il Vefalio sì fieramente ar moſſi , voi m’intendete o Signori
, io dico il rabbioſo An drea di Lorenzo , udite come pur ebbe a dire : Ego
enim hactenus is fui ,qui nullius jurare in verba magiſtri aſſuevi, multa
prioribus ſeculisincognita , & diligenti noftra ubfer vatione animadverſa
in apertam lucem profero . Mala Lamagna , quantunque foſſe ſtata il Teatro
,ovej con Paracelſo da prima , e poſcia con gli ſcolari di lui ten zonaſſero i
più oſtinati difenſori degli antichi maeſtri : es quan Del Sig .Lionardodi
Capoa. 99 quantunque ſurti vi foſſero , ed in quel meſcolamentoal ſchermo del
lor Galieno.v'aveſſer fatta puntaglia il Fuſio , il Platero , il Cratone , ed
altri acerbiffimi,e valorofi Gas lieniſti : nonpertanto ſono ſtati i Tedeſchi,
de France fchi medeſini nel filoſofar ſemprese nel medicare aſſai più
liberi,licome ne dan piena teſtimonianza Giorgio Agrico la , come colui , che
in trattando delle coſe minerali tante, e tante fiare va ripigliando gli
antichi maeſtri , e Taddeo Duni , il quale , tutto cheGalienifta, pur contro.il
mede fimo ſuo maeſtro Galieno , un libro partitamente compo ſe , ove nel
procmio così apertamente dice: Galenusquis dem amicus eft, & fcriptor
antiquus, & illuftris., vene randus : veritas tamen , & antiquior ,
& illuftrior , dve. neranda magis.. E che direm noi di Geremia Triverio ,di
Felice Plateri, di Corrado Geſncro , di Martin Rollando , e d'altri aſſai, ma
più di tutt'altri di Mattia Vnſeri.il qua le al ſuo Galieno apertamente
ribellandoſi infra l'altre una volta dice con efficaciſſime ragioni aver lui
dimoſtro ,andar Galieno follemente errato nel filoſofare delle cagioni del.
l'Epilellia : e che de' ſuoi falli eredierano rinaſi gli oſti nati ſuoi
ſeguaci, negli animi de'qualila falla dottrina del lormaeſtro così tenacemente
ſi trovava radicata , ut ( per dirla colle ſue propie parole ) Scirrum quamvis
durum cia tius digeras , quain inveteratam hanc opinionem àpuero con ceptam ,
ipfis è mente eripias . Ma quel che maggiormente recar dee eglimaraviglia fiè,
che imedeſiminimici,e per fecutori del Paracelſo , eziandio i più fieri, ed
acerbi anch'eglino talvolta dalla loro annodata congiura mani feſtamente fi
partono, come Felice Plateri , Tomaſo Era fto ,Giovan Cratone,GaſparreOfmanno
,nimico il più im placabile, che mai Chimici aveſſero ilqual tutt'altri medi
ci, anche di ſua ſchiera, intinto biaſimò, e ſquarciò , che afpriſfimamente da
due diſcepoli di Galieno anche funne ripreſo : l'un de'quali , che fù Daniello
Orſtio , così pro verbiando il motteggia : ad Hoffmanni modum , qui inftar anys
rixoſe heroes medicos paſſim fcurrilitertraducit; e l'al tro , che è Riollano
il figlio , ſdegnato oltremodo, di lui N 2 ſcri Tôo Ragionamento Secondo ferive
: Hoffmannusnimis liberè, & licentiosè caftigat omnes Medicos , utfolusſibiſapere
videatur. Mainfra gli altri partiſſene ancora Rinieri Solenandri filoſofo , e
medico digran pregio, il quale coll' armi , dal medeſimo Galieno un tempo
adoperate , coraggioſaméte diféde la ſua ragione ; e dopo d'aver acculato
Galieno de' falli p lui comeſſi nel libro de’séplici medicaméti,così con tro di
lui , e degli altri antichi maeſtri ſaggiamente ragio na . Si in his medicina
partibus , in quibus plus externi ſon Jus , experientia valet , quam judicium ,
& ratio , tantū deliquerunt majores noftri, quid credere debemusfactum ef
feincæteris omnibus , quæ fola ratio, & ingenii ac umen af Sequi,
eperſuadere poteft ? E che direbbe ora il Solenan dri , ſe vedeſſe di già fatto
palele al mondo , quanto G2 lieno, e altri Antichi,della verità andaſſero
lungamente er rati, in filoſofando dietro le parti tutte della medicina? Ma non
v'ha infra tutti i Tedeſchi Galieniſti, che de’detti del lor maeſtro Galieno sì
poco conto faccia, quanto , ſecon do , ch'io mi creda , quel tanto celebrato
ſeguace di lui Daniel Sennerto ;del quale perciocchè e' fa moſtra in ogni luogo
d'eſſer libero, no fà meſtieri al preséte ch'io sétéza alcuna ne rechi. Tanto
ſolamente apporterovvene ciò, che egli in difeſa di ſe ad Antonio Guntero
ragiona . Semper novum ( dice egli) Suſpectum fuit , antiquum vero lauda tum ;
fed an jure ſemper , dubito; nam , quod nobis antiqui, olim novum fuit :
ideoque non tempore , fed rationibus opi niones affirmandæ funt , eæque
veriſimehabende , quæ cum natura , qua antiquiſſima eft', confentiunt . E poco
avă ti : multa adhuc in natura reſtant explicanda; & plurimas in ea ita
obſcura ſunt , ut magni etiam viripleraque vix de finire aufi fint . Ma non hà
egliper mio avviſo animo me no nobile , e generoſo del Sennerti , il famoſo
Galienilta Ollandeſe Giovan Antonio Lindeni intorno al giudicar li beramente ,
e fecondo ragione,la verità delle coſe , ſenza eſfer di vaſallaggio alcuno.
Coſtui infra gli altri ſuoi li beri , e memorabili conſigli, una fiata
ragionando di Ga lieno , e avviſando in quante beſtemmie , cd empiezze foffe
DelSig.Lionardo di Capoa. ΤΟΥ foſſe coluinelle ſue dottrine ſtrabocchevolmente
caduto così eſclama : Quid eft abnegare Deum , fi hoc non eft ? fi enim iſta
non poteſt , ne quidem Deus eſt ? alla fine contro i parteggianti di lui
ſtizzoſamente prorompe: &hic eſt illes homo ,cui non aſſurrexiſe
grandenefas eft ? cuique contra dixiſſe mortale peccatum eft ? E altra volta
così del ſuo mae ftro Galieno ragionando : Galenus ( diſſe ) magnus eſt, &
fuit , &erit ; non tantus tamen , quem patiar libertati med fibulam
imponere in iis , qua meliori ratione, atqueexperiêm tia certiore habeo
comprobata. Ne men del Lindeni maa gnanimo , e libero fu quell'altro Galieniſta
parimente Ol landeſe Zaccaria Silvio ; intanto che non laſciandoſi tra ſcinare
,ma ſolamente condurre a reverendi ſentimenti del maeſtro , ritroſo , e reſtio,
ſovente a quelli ricalcitra ;e tra viando dagli antichi ſentieri , per nuove, e
non uſate vie s'argomenta talvolta , comechè poco felicemente , d'ag giugnere alla
verità . Priorum veſtigia (dice egli) omnia premere, & eaděſemper inculcare
ridiculū eft.E no guari ap preſſo : Pigri eft ingenii contentum effeiis,
quæfunt ab aliis inventa , fiquidem mentis acrimoni: nihilnon humanarum rerum
ſubjicitur . Perciocchè ficome egli medeſimo ra giona , non è la medicina , o
la filoſofia così ſtretta , così anguſta , e di sì poca ſpazioſità , che di
preſente dagli an tichi primi macſtri ſi foſſe potuta ingoinbrar tutta, ſenza
laſciarne ſpanna altrui ; ne così manifeſta , e ſviluppata, iz ciaſcuno è la
verità delle coſe chei primicri inveſtigatori di quella aveſſero avuto ventura
di prenderla liberamen te ſenza gli argomenti di cotante ſperienze; e giugnendo
primieri alla gloria vincerla ſolamente della mano ; veri tas , fù ſentenza di lui
, in multo altiorem demerfa puteum eft, quam utpaucis inde extrahi poſſit
feculis . Énel mede fimo ſentimento fu certamente ciaſcun'altro medico , fi
loſofante di Ollanda ; c Io ne potreiquì rapportare infini te teſtimonianze ,
ſe non che io temo per avventura di ſo verchiamente ſtuccarvi colla mia
lunghezza. Ma non poſſo perciò tralaſciare a dire dell'ingegnoſo filoſofante, e
medico de'ſuoitempi Giacomo Bacchio ; il qual veggens е doſi 102 Ragionamento
Secondo doſi da' ſentimenti, e dalla ragione perſuaſo ,anzicoſtret to , e vinto
a confeſſar l'aggiramento del ſangue, niente curando,ch'una tal dottrina non
l'aveſſc egli apparata da' volumi degli antichi maeſtri, sì volentieri la
ricevette , e intanto l'abbracciò , che conchiuſe alla fine doverſi quella in
diſpetto degli oſtinati Galieniſti tutti ſeguire,ſe ben l'or dine tutto
dell'antica medicina aveffe foſſopra a ſconvol gerſi , e andarne a fondo;
perciocchè ſecondo un sì nuovo diviſo in aſſai coſe fi riformerebbe la medicina
, e in mi glior filo certamente ſi metterebbe . Sic contingit , oſſer vò egli ,
concefo , ftatutoque ſanguinis circulatorio motu ,in numera veteris doctrina
fiatuta inverti ; unde totus docendi ordo turbatus præpoſtere , & fine
certa methodo, & doétrina omnino confuſe inſtituitur , addiſcitur; quam
pofitioni bus cashenatim cohærentibus , &certo ordine inſtructis ſia biliri
decer . Ma che direm poi del medicar della Lamagna, il quale , da queldella
Francia poco certamente s'allontana ? ſe non fe i Tedeſchi aſſai più de
Franceſchidi ſegnar ſi ritengo no ; e intanto l'abborriſcono , e ne ſon ritrofi
, che deter minatamente giudicano, i Salaſli mai ſempre eſer danne voli , e
ſconcj, e ſe non altro alla per fine menomandone gli ſpiriti , raccorciarne
miſerabilmente la vita . No lo mi prenderò quì punto briga in provarvi quanto i
Tedeſchi ſien filoſofi , emedicidabbene , e amatori della verità , no
appiccandoſi oſtinati, e provani a Setta niuna ; ed egli ſiè ben manifeſto a
ciaſcuno , non più fortemente altronde che dalla Lamagna eſſere ſtato dimentito
, e ricreduto più fiate de'ſuoi errori Galieno . Ma non men libera dell'altre
nazioni fu la gran Bretta gna in non yolermai tenacemente appiccarſi a'
ſentiinenti d'Ippocrate, e di Galieno , o d'altri antichi medici, ſenza in
prima lungamente abburattargli, e porgli allo ſquitti no delle ſperienze , e
delle ragioni. E ciò agevolmente potrà comprendere chiunque prenderaſli briga
tanto qua to di rivoltarci tarlati, e polveroſi volumi dell'antico Ric cardo ,
o di Giubetto , o di quelGiovanni, che ſopra tutti 1 inani DelSig.Lionardo di
Capoa 103 ز manifeſtò i ſuoi laudevoli, e generoſiſentimenti in quel li bro
mandato fuora da lui , ſotto nome di Roſa Anglicana ; e da cotant'altri antichi
Inghileſi, a' quali , comeduchi,e maeſtri del filoſofare , e dell'opere di
medicina , piacque anzi gli Arabi dottori, che i Greci maeſtri nelle loro ſcuo
le ſeguitare . E più allor crebbe , e avanzoſſi nell'Inghil terra la libertà
del medicare, quando pofta giù la ruggine di que'rozzi ſecoli, più preſſo
a'tempi noſtri,per opera de gļItaliani maeſtri, rinacquero quivi le lungamente
ſepolte greche , elatine lettere ; perciocchè allorcertamente con maggior ſenno
, e avvedimento ſi puotè per valenti lette rati gareggiar vicendevolmente per
la verità; e crebbe tă to poi nella famoſa penna del Primeroſio , dell'Igmoro ,
e d'altri valenti Galieniſti Inghilefi la libertà delloſcrivere nella medicina
, che ſoverchio ſarebbe il raccontarlo. Pu re non mi terrò di ſommamente
commendar quelle famo ſe ſcuole ,onde ſi moſſe da prima l'incontraſtabile
difeſa a pro dellaggiramento del ſangue , la qual sì forte , e valo . roſamente
Fiaccò le corna del ſoverchio orgoglio al gonfio , e folle Pariſano , che
vergognato , e ontoſool tremodo divenutone, non osò il cattivello per innanzi
far ne più motto . Ma chi mai pareggiar potrebbe il valore del grãde Ar veo ?
ilqual ſgombrate da ſe tutte paffioni di Sette , e di nimiſtà , intanto
avvantaggioſſi colla ſua laudevole liber tà ne'ſentimentipiù veri delle coſe ,
che nelle ſue glorioſe . opere così par , che ſaggiamente ragioni : Io miſon
forte fovente meco medeſimo maravigliato di coloro , anzi tal volta hogli preſo
a gabbo , i quali follemente s'avviſano aver l'operc d'Ariſtotile , o di
Galieno , o d'altro più cele bre maeſtro cotanta perfezione , e compimento, che
nulla certamente lor poffa aggiugnerſi più di vantaggio . Non è la natura delle
coſe cotanto aprima faccia manifeſta che compiutamente per huom’poſſa
prenderſi, ſenza ben cutca in prima diſtintamente ſpiarla . Ella ha i fuoi
ſegreti na ſcondigli, a'quali non può certamente aggiugnerſi, ſenza la 104
Ragionamento Secondo la guida di lei medeſima: e ciò , che in alcune coſe confu
ſamente, e inviluppatamente n'accenna , altrove poi reſa . ne fedeliſſima
interpetre , più diſtintamente , e manifeſta mente n’eſpone. Perchè ſenza
dubbio mal potrà giugnes re a diterminar coſa del mondo intorno all'uſo , o
alme ftier delle parti del corpo umano , chiunque in prima non n'abbia ben
preſo argomento da ciaſcun ' altro bruto ani male , e'l ſito diligentemente , e
la fabbrica , eicongiunti vaſi , e altri accidenti di quelli , e delle lor
parti conoſciu to , e l'uſo loro per pruova ſaputo . Et putabimus, dirolla pure
colle ſue propie parole , nihil prorſus commodi ab his auxiliisfcientiarum
nobis accedere ; verum omnem plane fa pientiam à primis ftatimfeculis abforptam
fuiſe ? Ignavia profeéto hæc noftre, haud naturæ culpa eſt . Ma che non di ce
egli, e quali ſaldiſſiine ragioni non apporta in concio a' ſuoi liberi
ſentimenti , o nella famoſiſfima lettera dirizza ta al Collegio di Londra , o
nel proemio del libro della generazion deglianimali ? Pudeat, udite , come
all'alta impreſa del liberamente filoſofare ne ſtuzzichi , e ne ſpro ni il
magnanimo amator della verità : pudeat itaque in hoc nature campo tam ſpacioſo,
tam .admirabili, promifique majora femper perſolvente,aliorum fcriptis credere
; incerta indè problemata videre ; &ſpinofas, captioſaſque diſputa
tiunculas nectere . Natura ipſa adeunda eft; & ſemita quă nobis monſtrat
infiftendum . Ma dalle nazioni ſtraniere , paſſiamo omai a narrar del. la
noſtra vaghiſſima Italia , pregio delle più belle lettere, e ricovero ditutte
ſcienze ; la qual certamente , intorno alla medicina, oltre a gli Abbanije i
Niccoli, c i Gentili , e i Dini, ei Tomalli, e i Taddei, e i Ferrari, e gli
Vghi, e i Girardi , e i Platearj, e i Turiſani,e i Salvatichije i Giacomi da
Forli, e i Mattei da Grado , e gli Arduini , e i Montagnani, gli Arcolani, c i
Zerbi, ei Savanaroli , e cento , c millal tri avvedutiſſimi ſeguaci dell'Arabeſchedottrine
: hebbe anche Aleſſandro de Benedetti, e Matteo Curzio , eGio van Manardi , e
Giovan Battiſta Montani, e Antonio Mu fa Brafavolo , c Nicolò I.coniccni, per
tacer d'altri molti, a’quali DelSig. Lionardo di Capoa: 105 a' quali più di
ciaſcun'altro per avventura piacque le doe trine d'Ippocrate, e di Galieno
fominamente ſeguire . E pur veggiam talvolta effer coſtoro manifeitamente ,
trali gnati dalle reverede dottrine de’lor carimaeſtri , e in mol te , emolte
coſe , che a grado lor non furono , avvegna chè di non poca conſiderazione,loro
apertamente contra-. ſtare . Ne reco Io già al preſente per teſtimonio del mio
ragionaméto Gabriel Fallopio, ne il Trincavelli, ne il Mer curiale,ne Ercole di
Saſſonia ,ne Girolamo Capodivaccas ne Orazio degli Eugenj,ne Ceſare Magati,ne
altri , e altri avvedutiſlimi medici, e filoſofi commendati ne’loro tempi, c
pregiati allai . Solamente ricorderò le glorie del famo fiflimo Giovanni
Argenterio , e cotant'altri loro valoroſi ſeguaci , e imitatori; i quali
traſandate le leggi, e le ſtret tiifime mere degli antichi maeſtri, ſcorſero
liberamente perlo gran campo della medicina , ſenza appiccarſi molto
tenacemente, ad Ippocrate , o a Galicno ,comechè Ippo cratici , e Galieniſti
eglino li foſſero . Ma cometutt'altri , e in dottrina , cin chiarezza di fama
avanza di gran lun ga queltanto valoroſo , ed eccellente ſcrittore Girolamo
Cardano , così a niuno certamente egli cedede Galieniſti medici Italiani nella
gloria del liberainente filoſofare.Egli a niun pregio tenendo maeſtro alcuno ,
ſolamente s'affa . tica , e ſi ſtudia per la verità, e non ha quaſi facciuola
nel le ſue opere , ove egli non ſi vegga oftinatamente conten dere col ſuo
Galieno , prendendo cagione tratto tratto d ' accoccargliela , e manifeſtamente
biaſimarlo, intorno alla maniera del ſuo filoſofare , e del ſuo ſcrivere , e
del porre in opera il ſuo furbeſco meſtiere ; infra le quali non mi par da
dover tralaſciare quel che in un de'ſuoi libri , di lui narra , dicendo eſſere
ſtato colui prima Cerulico: e che in ciò pure non molto tempo , e ſtudio
logorato v’aveffe,ac ciocchè al colino di tal meſtiere ne foſſe dovuto formota
re . E delinedeſimoGalieno altra volta forte biaſimando ſi, dice ſoiainente
eſſere ſtata cagion di cotanti ſuoi errori, e fallil'effer egli riſtato in sù
gli arzigogoli dello ſpecula re , ſcnza diſcender giammai all'operare , e ſenza
far prìo O va del 106 Ragionamentosecondo 1 va delle ſue mal credute dottrine :
Caufa errorum in medi cina eft , quod quicontemplantur, non medentur, ut Galenus,
Paulus , & c Princeps , & hodie omnes medicine profeſores; ideo (
avvertimento ben degno da dover far faldiffima im preſſione ne’noſtri medici)
loco regularum , &dogmatum fcribuntfomnia. Mayperchèa far parole del
Cardano ci ſiam condotti , e'nó mipare di dover tacere, quáto nella
ſchicttezza,e bo tà dell'animo, e nell'amor della verità egli lungamenteve
Galieno medeſimo,non che altri ſi laſciaſſe addietro ; per ciocchè biaſimando
oltremodo la malvagità , e la caſtro naggine de' teſtereccj , émalandati parteggianti
de' ſuci tempi ,infra l'altre , cosi una volta ſtizzoſamente gli pun ge , egli
beffeggia . Demiror , dice egli , credulitatem , de mentiam , & impietatem
medicorum noftræ ætatis , quorum aliqui eo deveniunt , ut cbliti omnis
humanitatis , maline perdere homines , utferviant pertinaciæ , quam revocari, a
eosſervare. E oltre a ciò vaegli conſiderādo intanto giu gner l'oſtinazione, e
l'affetto degli accieciti parteggianti, che riguardando alle dottrine de’loro
cari maeſtri, non che a capital niuno la verità teneſſero , anzi l'anime loro
medeſimc non curando , foventi fiate il diritto delle divi ne leggi, e delle
naturali traſandano: cdeo ſectis , grida egli pictoſamente piagnendo , addicti
ſunt , at nec immor talitatis aninorum ,nec præceptorum philofophiæ reſpectus
ul lus eos teneat . Machirccherammi amcinoria tutti gl'infelici, e com
paſionevoli avvenimenti, i quali dalla mellonaggine,dalla pertinacia ,
dall'ambizione,dall'avarizia, e dalla malvagi tà de'cattivi parteggianti tratto
tratto ſeguir ſogliono, che egli lungamente va diviſando : Eglino ſempre
oſtinati ncl le loro fanciullaggini, non che foſſer giammai da tanto , che
guarir ſapefiero alcuna malattia diconſiderazione;an zi fovenci volte si , e
tanto operano colle loro trappole , che ne tolgono la voita aʼmedici più
valoroſi. E ſon pur così ribaldi, e ſcellerati , che sfregiando colle loro
opere il digniffimo nome di Criſtiano , e laſciata affatto la pietà, cla ! Del
Sig.Lionardodi Capod. 101 e la carità unico patrimonio de'ſeguaci di Criſto ,tuttiaya:
ri , e ambizioſi,ſi veggono,ſolamenteiricchi, ei nobili am. malati viſitare , e
i poveri, e miſerabili, dalla fortuna ab. bandonati,dopoaverglilungaméte
ſpolpati, o affatto non curare , o ſe pur vi vanno frettoloſi, e ſuperbi, come
vili giumenti, o come altri bruti animali crudelmente trattar gli . Del quale
graviſſimo misfatto certamente la cagioa ne ſi è il lor Maeſtro Galieno , da
cui eglino tutto apparā doprendono ancora ad eſſer oltremodo ambizioſi, e
avari. Hujus tanti mali, ſono le parole propie del Cardano , au tor fuitnofter Galenus,
qui nil ubique jactat, niſi proceres , atque Imperatores ; quum tam
juveniseffet, ut ambitione, inani nomine potius, quamartis peritia eis
innotuerit. Nc oltre a ciò tace il Cardano l'aſture frodi di que'Vol poni
maeſtri , i quali a perpetuar la lor tirannia,agl’ingan ni , alle millanterie ,
alle beffe , all'aſtuzie , aile giglioffe rie gl’innocenti ſcolari tratto
tratto avvezzavano . E di tanti misfatti , e ſcelleratezze'non laſcia
d'accagionarne ſopratutto le perſone nobili , e d'alto affare , i quali per
ciocche delle coſe del mondo , e della natura poco, o nulla ſi conoſcono , non
laſciano a ciò porre acconcio compen ſo, ficome certamente dovrebbono ; anzi
intanto giugne la lor biaſimevole dappocaggine, chc in luogo di ricercar
ne'medici profonda dottrina , buoni coſtumi, intendimen to di linguaggi,
avvedimento grande , ſcienze alla medi cina appartenenti, pierà de gl'inferini,
antivedimento del Je future cole, ſperienza delle cure malagevoli , conoſci
mento delle matematiche, ripoſo di mente , amor di glo ria , che naſca dal ben
operare , diſpregio d'altre coſe ſol lazzevoli , e ardente diſiderio d'apparare
; vi richiedeva no orrevoli veſtimenta , aſpetto grazioſo , viſo piacevole,
adulazion di parole , abbondanza d'ammalati illuſtri , e grandi,magnificenza di
ricchezze, e cento, e mille altre ſo miglianti vanità. E ben gli parve , che
meritevolment , coſtoro ne portaffer poi la debita penitenza , omorendo ne loro
i più cari parenti, o ſtandone eglino medelimi ſem premai ſparuti, c
triſtınzuoli , e cagionevoli aſſai dell i per 0 2 108 Ragionamento Secondo
perſona : diuturno cruciatu protractorum per longumtempus morborum : per
rapportarvi omai alcune altre delle ſue pa role medesime,che mi ſovvengono:
preterea fiderationum , debilitatum ,quæ poft fanationem illis relinquuntur ;
avs vegnachè affatto non ſi vedeſſe Gir del pari la pena colpeccato, mal
capitandone non pur eſli,magl’innocentiloro figliuo li , e amici . Ma troppo
piacevol coſa è a ſentire ciò , che finalmente egli contro i medici de'ſuoi
tempi narra , i quali baldanzoſi , e tronfi liberamente ſcorrendo a lor talento
per tutto , e abborrando, e malmenando la medicina, co ( trignevano alla fine i
cattivelli infermi, che male a lor uopo nelle lormanicapitavano , a pagare a
ingordiſino prezzo i rimedj, e talora anche la morte ; facendo eglino ancora
forſe la lor mano negli ſtrabbocchevoli guadagni degli ſpeziali.. Ma, che direm
noi di Giulio Ceſare della Scala digniſ fimo medico de'ſuoitempi . Egli comechè
fieriſlimo ne mico foſſe del Cardano , e s'argomentaſſe a ſpada tratta
dirimbeccarlo quaſi in ogni parola; intanto , che ne pur la loro oſtinatiſſima
nimiſtà Ha diſciolto colei , ch'il tutto ſolve . Atque ut etiam nunc poſt
cineres , dice coll' uſata elegan za il noſtro Severino.ſtridēt in ævum ab
ipfis exaratæ chara te ; non però di meno , ove ſol ſi tratta della libertà
della filoſofia , e di non laſciarſi dictro gli antichi ciecamente traſcorrere
, allorcertamente poſto giù lo ſdegno , e’lli vidore ſon tutti di convegna a
ritrarſi di parteggiare , e far capo oſtinatamente alle ſette . Errata majorum
, diſſe generoſamente una volta Giulio Ceſare della Scala , diſi mulanda non
funt , ne eo ipfo pofteritati imponamus .E benſi valſe egli del ſuo avviſo ,
quádo cruccioſamente diile d'Ip pocrate al Cardano : Tueris , atque profiteris
nefandum illud Hippocratis deliramentum , à quo non abfunt Galeni
trepidationes, animam nihil aliud eſſe, quam cæleſte calidum: avvegnachè ſenza
ragione alcuna aveſſe egli rimprovera to una volta a Galieno una sìfitta
libertà , e ſtizzoſamé 1 te bia . Del Sig. Lionardo di Capoa. 109 te
biaſimatolo d'aver egli ſovente contraſtato il reverendo Ariſtotele;come ſe
graviſſimo fallo , c ſcelleratczza ciò ſi foſſe: Galenus avidiſſimus ,dice egli
, carpendi longe de meliorem ; in quella guiſa appunto , che quel nobile Ga
lieniſta Giulio Aleſſandrinovoleva , che ſolamente all'Ar genterio foſle
vietato il por mano all'opere degli Antichi per ammendarne gli errori ; della
qual coſa , non ſenza gran ragione per avventura forte fi biaſimail Solenandri
, così rimproverandogli: Verum fateris,antiquiores fcripto res erraſſe,
concedifque aliis omnibus , qui funt ingenio , em judicio aliquo prediti, ut
poffint ea reprehendere , quæ ma lè funtdieta , &meliora tradere : foli
Argenteriohanc li centiam adimis . Ma prima delCardano , e di Giulio Ceſare
della Scala, per ripigliare ilfil del noſtro ragionamento, grandiſſimali bertà
ufar ſi vide , e nelfiloſofare , e nello ſcrivere un'ala tro valent'huomo nelle
inatematiche , e nella filoſofia , e nella medicina aſlai bene fcorto , ed
cſercitato ; perchè meritonne d'eſſer'altamente pregiato , e onorato da quel
generoſo favoreggiatore , e intendente delle buone lette re Lione il Decimo ,
Sommo Pontefice . E fu coſtuiGio vanni da Bagnuolo, il qual non mica pago nelle
ſcuole d' averdato ſaggio del ſuomagnanimo, e nobile ſpirito , no curante
l'altrui autorità in non poche concluſioni: e aven do fuor dell'uſo comune
mandata avanti la Chimica: coſa a que’tempirariſima, maſlimamente in Italia :
volle in cc minciando un capo diquel libro, ch'egli fa dell'ecliſſe del la Luna
, più manifcftamente proteſarlo , portando ſenti menti veramente da filoſofo
ragguardevole , e di gran lie va . Quoniam noſtri antiqui progenitores , dice
egli ,fcien tiarum inventores , rationibus , experimentis, comperie runt
ſcientias ; veriphilofophantes ipfos imitando conari de berent no perfiftere
inventis,fed nova nature ſecreta venari. Maquel famofiffimo medico, e filoſofo
, e pocta de Verona Girolamo Fracaſtoro , avvegnachè da' ſervili fen timenti
delle ſcuole ingombro troppo commendaſſe il fuo maeſtro Galieno , e molto a
capitale il teneſſe ; non però dime 110 Ragionamento Secondo di meno , reſo
talvolta avveduto dalla verità, non ſi tiene, ove gli venga in concio,
d'aſpramente riinbeccarlo, e qua. to al fatto de’giorni critici rinfacciargli
ch'egli pur troppo ſcioccamente ponendo in non cale gl'inſegnamenti de’alo
ſofi, a'vani preſtigj degli ſtrolaghi ſia ricorſo . E oltre a ciò nelmedicare
,e nel filoſofare da'diviſamentidi lui ſi di lunga; come agevolmente ſi può
veder ne'ſuoi libri della fimpatia, e antipatia delle coſe, e della contagione
, eins altri luoghi ; ma ſopratutti nel ſuo divin poema della Sifi lide , per
cui huom certamente crede , lui all'altezza del gran Marone eſſer’aggiunto , e
che tutt'altri poeti felice mente G laſci addietro . Nel qual poemacontro
l'opinion del ſuo Galieno va egli cantando , l'aria ſola di tutte coſe eller
principio , così manifeſtamente raffermando: Aër quippe pater rerum eft,
&originisauctor. E prima egli così del naſcimento delle coſe avea diviſato
: Principio quæque in terris, quæque æthere in alto : Atque mari in magno
natura educit in auras , Cuncta quidem nec forte una , nec legibus iiſdem
Proveniunt, sed enim, quorumprimordia constant Epaucis,crebro ac paſſim pars
magna creantur : Rarius aſt alia apparent, non niſi certis Temporibufve ,
locifve , quibus violentior ortus, Et longefita principia: ac nonnulla prius,
quam Erumpant tenebris , &opaco carcere noctis , Milletrahuntannos
,fpatiofaque ſecula poſcunt Tanta vicoëuntgenitaliaſemina in unum . Quindi con
l'uſata ſua eloquenza della cagion de'mali di viſando, cosiegli canta Ergo
&morborum quoniam non omnibus una Nafcendi eft ratio , facilispars maxima viſu
eft, Et faciles ortus babet , &primordia praſto. Rarius emergunt alii ,
poft tempore longo Difficiles cauſas , & inextricabile fatum , Et
feropotuere altas ſuperare tenebras. Ne men del Fracaſtoro al ſottiliſſimo
Andrea Cefalpi. ni piacque ſommamente levarſi ſuſo contro il ſuo maeſtro Galie
DelSig.Lionardo di Capod. ilt * Galieno, e iſeguaci di lui , prendendola
oſtinatamente a favor d'Ariſtotele , e de'Peripateticiin ciò , che da coloro
dipartonſ i Galieniſti ; ſenzachè egli è pur troppo mani feſto a ciaſcuno
eſſere ſtato primiero il Cefalpinia ſcoprir glorioſamente al mondo
l'aggiramento del ſangue:tutto , che parer poſla ciò, che moltoprima di lui
aveſſe fatto Pla tone con quelle parole: Μέγιστν δε όταν α'μαι καθαρά
συγκερασθείσα , το τών ινών γένος , εκ της εαυτών διαφορή τάξεως . αι
διεσπάρησαν εις αίμα , να συμμέ Πρως λειότητος ίχοι και πάχους , και μήτε δια
θερμότη ως υγρών εκ μανού του σώματG- εκρέσι , μήτ' αυ πυκνοτέρον δυσκίνητον
ον, μόλις axaspécouto iv Cais Preti,che ſuonano in noſtra lingua : E maf.
fimamente quando ( la bile )col puro ſanguemeſcolata,difor dina quella ſpezie
di fibre ,le quali ſono ſparſe per lo ſangue, acciò ſia in eſlo una mezzanitate
tra'l groſo, e'lſottile:per chè mediante ilcalore non iſcorra per lo corpo
,ficome ogni li quida cofa fcurre perun corporaro, neſia troppo groſo , e
difficile a ſcorrere , sì, che appena poipoteſſe andare , eritor nare per le
vene . Ma non poco certamente e' ſiparc, che Santorio Santori, famoſo, e
raggaardevol medico de'ſuoi tempi profittafleſi in liberamente ſcrivere , non
avendo ri guardo a ſetta niuna , per aver eglicol Sarpi , e col Gali Jei un
tempo ufato ; i cui ſentiméti vollc cgli in molti luo ghide'ſuoi ſcritti, come
ſuoi propj diviſamenti manifeſta re , e ſpezialmente in quel libro cotanto per
ciaſcun com mendato, della Staticamedicina , comcchè il più delle vol te male
egli apprendendo le commendevoli dottrine di que’valent'huomini, e alle ſue
volgari ſconciamente me ſcolandole , fe ne faceſſero le ſcherne gli accorti
lettori. Maciò da parte al preſente laſciando , non ſi può egli di leggier
narrare, quanto da lui carminati, e proverbiati du ramente foſſero i
parteggianti tutti medici , e filoſofi ; e quantunque volte gli vien fatto loro
l'accocca , rapportão do in ſuo pro varie, e molte autorità d'Ariſtotele, e di
Ga lieno ; di cui ſeguendo la traccia arditamente ofa afferma re,alquanti
Aforiſmi d'Ippocrate ritrovarſi talora dalla verità non poco lontani : e molti,
e molti errori ne'moder ni, e 112 Ragionamento Secondo - { ni , e negli antichi
ſcrittori dimedicinaegli ravviſa: e non pochi anche ne ritrova in Galieno. Così
eglibiaſimando, e maladicendo oltremodo la follia, ſicome e'dice , di pa recchj
ſcuole dell'Europa , dice , che in quelle ſcioccamé te maggior credenza preſtar
ſogliaſi all’orrevole autorità d'Ariſtotele, d'Ippocrate, o di Galieno , che a'
ſentimenti noſtri medefimi; e pur dice cgli Ariſtotele medeſimo, Galieno di
comun conſentimento più volte affermare, ef ſer anzi alla ſperienza , e a'
ſentimenti, che all'altrui auto rità da dar fede. E poichè in concio al ſuo
ragionamento più luoghi di Galieno egli rapporta , così alla per fine con
chiude: Quare quum Galenus,neque meus fueritaffinis, confanguineus , aut
majorum meorum avunculus , quod ſciã , neque in Sanctorum catalogo fit
collocatus, quiafflatusdi vinitate fuerit loquutus , non video cur omnes non
poffint honorificè , fi fenfibusudverſetur, eum relinquere. Neè da tralaſciare
al preſente di narrare ancora del fa moſiſſimo Andrea Mattioli , il qual
comeche parzialiſſimo del ſuo Galieno , purc in più luoghi, della verità reſo
ay veduto , dice manifeſtamente , eſſerſi colui in leggendo Dioſcoride aggirato
,e ſovente non averne parola inteſo ; e una volta infra l'altre non puotè
ritenerſi di non iſtizzo ſamente gridare : videtur Galenus non folum plurimum à
Diofcoridis fententia ,ac hiſtoria aberraſſe , fedetiam à ra tione ipfa ,
acveritatelongè fane abeffe . E oltre a ciò dice eſſere ſtato Galieno di poco
ſenno ,ein molti luoghima nifeſtamente contradirli; ed eſſer egli ſtato nato a’
Poeti , c troppo di leggieri alle loro vanillime fa vole aver preſtato fede,
non altrimente , che ſe ſtate foſſe ro incontraſtabili verità da raffermar con
tutti i ſacramen ti del mondo . Ma il dottiſſimo Proſpero Alpini in tutti
que'ſuoi libri della metodica medicina , avvegnachè ancor egli di parte
Galieniſta pur altro certamente non fa, ſe non ſe difendere i
metodicida’mordimenti del ſuo Galieno , e d'altri R.2 zionali medici ; e
ſpezialmente ove Galieno così ſconcia mente carica di bialimi, e di maladicenze
Attalo famoſif troppo affezio fimo DelSig.Lionardo di Capoa 113 Timomedico
metodico , dicendo , che per opera di lui for fe ftato ucciſo Teagene filoſofo
cinico . Ma quanto poco capital faceſſe di Galieno, e d'altri razionali medici
il nar rato Attalo , ſi può agevolmente comprendere dall'acerba riſpoſta da lui
data a Galieno ;la qual coſtuipoſcia,come ſua sóma lode foſse , volle
nell'opere ſue laſciare ſciocca mente regiſtrate . E forſe fuella più ancor
pugnereccia, e di piggior talento , che egli ne racconta . Eche direm noi del
valoroſo Girolamo dall'Acquape dente digniſſimomaeſtro del grand’Arveo ? Quante
fiate ) egli, comechè Galieniſta, pur da’ſentimentidiGalieno ra gionevolmente
ſi diparte ? Quante ,e quante fiate grave mente il proverbia , e riprende di
ſciocchezza, ed'igno ranza ? Pure infra cotanti biaſimi, e rimprocci , ch'Io
per brevità tralaſcio , recheronne al preſente uno , che val per cutti ,
lagnandoſi egli forte del tempo , ch'avendone tolte tutte le bell'opere degli
antichi filoſofánti, ne abbia ſola mente laſciate quelle d'Ariſtotele , e
diGalieno , como ſchiuma de libri , e viliſfimo fondaccio di tutte le buone
dottrine ; eſſendo coloro in molte , e molte coſe ſempre mai fallati ; e
ſpezialmente taccia Galieno diquella folle ſua opinione intorno alla formazion
della viſta . E intanto è vero ciò , che noi raccontiamo , eſſerſi i va lenti
Galieniſti pur talvolta per vaghezza della verità al lor maeſtro Galieno
ribellati , che maraviglia è a narrar come Aleſſandro Maſſaria,cotanto
oſtinato, e leal parteg. giante di Galieno , pur’una fiata ponendolo in non
cale, aveſſe oſato cavar ſangue nella diſſenteria , comechè cer caſſe poi a ſua
poſta didarne a vedere con fievoliſſime ra gioni, eſſer ciò anche ſecondo il
ſentimento del ſuo G2 lieno ; e'l celebre Settala ancor' cglicotanto fedel
ſegua ce del medeſimo , pure l'aveſſe fronteggiato , e ripigliato , 12, ove
egli ragiona delle cagioni del color glauco degli occhj ; ed ove dice , che
l'acque de'pozzi non fiano ,me appajano fredde l'eſtate più , che in altri
tempi; percioc. che ſi toccano colle mani calde; e che l'inverno al contra rio
ne pajano calde , perocchè ſi toccano colle mani food P dc. . 114 Ragionamento
Secondo 1 1 1 de. Ma quel , ch'è più da conſiderare ſi è ,ch'egli in un'in ?
tero libro riprova l'antico , e praticato uſo di medicar le ferite ,
appigliandoſi ad un nuovo modo da Ippocrate, e da Galieno non mai conoſciuto ,
non che adoperato . Ma troppa gran briga fermamente lo mi prenderei , ſe recar
qui ora voleſsi ciò, che ad uno ad uno tutti gli ec cellenti, e famofi
ſcrittori Italiani lungamente ne diviſino . Chiudaſi adunque sì nobil corona
colle parole del ſotti liffimo Pier Caſtelli, il quale una fiata infra l'altre
contro cotali pecoroni da greggia maggiormente ſdegnato , così proruppe : An
omnia novit folus Galenus ? an nihilreliquit pofteris inveſtigandum ? Quo
merito infudit illi uni Deus (quod alteri nulli) totam , perfectam ,
&integram medici nafcientiam ,nihil nobis reliquens ? e dopò molte
graviſſime parole , che egli apporta a queſto propoſito , così alla fine
conclude : Patet boc , quia poft Galenum tanta medicinefa Eta eſt additio , ut
triplo auctam dicere poflimus. E si nobil costume di liberamente filoſofare in
medi cina,ben da molte , e molte fcritture publicate in iftampa , apertamente
ſi ſcorge, ch’abbian ſeguito a gara l'Accade mie , ond'è sì abbondevole ,
ctanto fi pregia tutto il bel paeſe, Ch’Appennin parte , e'l mar circonda, e
l'Alpe. Ma io tralaſciando a bello fludio tutt'altre parti , ragio nerò ſolamente
della nobili : lima noftra Città , delle Sirene , e delle Muſe amenillima
ſtanza , che non pur nella gloria delle lettere , ma in ogni altra a niuna
delle più celebri , cd illuſtridell'Vniverſo riman certamente feconda . E
laſciā do di favellar del Belli , del Bozzayotra , del Tucca , e d' altri , e
d'altri lettori diminor grido oſtinatiſſimi ſeguaci, e parziali d'Avicenna :
come potrò mai lo pienamente nar rare co quanta maraviglia udiſfer già legger
le noſtre ſcuo le il teſte da noi mentovato Argenterio ; al cui ſottile in
gegno , ed avveduto giudicio ,non miga, come altri per av vétura coftumano
,baltādo il copiare , e l'appropiarſi l'al trui viete dottrine ; ma volendo
egli diſaminare , e far pro va delle coſe della medicina ne’libri già ſcritte,
il diſcreto, e av Del Sig. Lionardo di Capoa 115 e avveduto , e giuſto
Giudiceſtudiavaſi d’aſſomigliare ; il qual non a tutti pienamente dà
fede,maaltri approva, al tri traſanda , altri manifeſtamente rifiuta, ficome
appunto ragion chiede; ficome avviſa quel ſuo difenditore . Su mus omnes in
arte noſtra tanquam in fenatu conſtituti, in quo non ut pedariiftatim pedibus
in aliorum fententiam ire debe mus , fed ut prudentes Senatores viderequid
conveniat ; at que ita ingenue proferrede rebus , quod rationi confonum ar
bitramur. E ben per ciaſcuno il finiſſimo , ed eccellente giudicio
dell'Argenterio intorno al noſtro propoſito potrà agevolmente da queſte parole
di lui ravviſarſi . Non tam Servili, dice eglifimus , animo , ut omnia
veterumplacita , oraculorum inftar indiſcriminatim veneremur , vel tam ab jecto
, ut pofteris omnem , meliora excogitandi occafionem prareptam , ac præciſam
effe arbitremur ; quafi vero non idő nuncſit , quod olim Cælum, eadem terra ,
idēgenerandimo dus : eadem denique, & facilior etiam , quam aliis fueritdin
cendi , inveniendique ratio . Ma certamente non men dell’Argenterio ſdegnarono
con filoſofica libertà altri Na poletani lettori aſſai, di lcgarſı-a'
ſentimenti d'Ippocrate , o di Galieno: avvegnachè per ceſſar forſe l'invidia della
ribaldaglia del volgo , con parole alcuni di eſſi il diſfimu laſſero , facendo
ſempremai veduta di abbracciar , e di ri tener tenacemente tutto ciò , che
inſegnato viene per Ip pocrate , c per Galieno . Infra'quali Filippo
Ingrafiagavi do oltremodo , e curioſo di conoſcer la vera fabbrica del corpo
umano, ebbe ventura d'abbatterſi il primonelle veſi chette ſeminali,non più per
addietro da alcun degli antichi medici ravviſate ; ed infra l'altre coſe ebbe
ardimento, nc d'Ippocrate , ne di Galieno punto curando , di purgare cziandio
nelvigor delle malattie . Così anche gencrofa mente ſi ſottrailero alle ſchiere
de parteggianti Bernardi no Longo , Paolo Monaco , e Giovanni Antonio Piſani :
un diſcepolo de'quali ( 1) in una apologia in difeſa diſe , e de'ſuoi maeſtri
compoſta,volle, che per ciaſcun ſi leggeſſe: femper licuit omnibus literarum
profefforibus non folum con P 2 ( 1 ) Ferdinando Caſſani, t tra 116
Ragionamento Seconda tra recentiores medicos , & Philofophos ,ſed etiam
contra Gao lenum ipfum , &Platonem , alioſque illuſtresfcriptores dice re ,
fi quando ratio dictaverit . Seguiron poi con la mede fima libertà ſempre
Girolamo Polverini, Quinzio Buon giovanni , e Latino Tancredi,huomo, come dice
Sertorio Quattromani, di molte lettere , e di molto giudicio , e gran difenſore
della dottrina del Telefio . S'allontanò altresìda gli antichi talora ſalvo
Sclani , e Mario Zuccari, il qual co sì forte , e vigoroſamente riprende
Galieno nel giudicio che colui diè intorno alla malattia d'Erofonte : ed
altrove sì ardicamente , che nulla più , e come ſuol dirſi, a ſpada tratta
prende a difender il coſtume de’Napoletani , intor no al cibar gl'infermi,
contro i più valoroſi Campioni, ch' aveſſer mai le dottrine d'Ippocrate, e di
Galieno ritenute. Ed a' di noſtri abbiamo pur veduto Giovan Battiſta Ma fulli ,
Antonio Santorelli , e Girolamo Fortunato , il qual tutto ciò , che nell'opere
d'Ippocrate , e di Galien fi riſer ba , sì fattamente per le maniavci , che non
v'era forſe parola , di cui improviſo domandarone non gli veniſſe to ito a
memoria ; e nondimeno tanto , e sì fovente ove gli pareva , cheragione il
richiedeſſe , coſtumava egli a rim beccar l'antiche , e comuni opinioni , che
per tanto a' Ga lieniſti tutti n'era in uggia , e crepacuiore: e ſofina , e
cavil Joſo ſempre chiamavanlo . Ma ben comprendelí l'animo fuo libero , dal
libro , ch'e' compoſe de’principi delle coſc naturali , ed in quello ancora de
ſenſi ,il quale egli ſotto nomc d'un ſuo ſcolare mandò fuora . E dietro alle
ſue ver ftigie poi non guari lontano andar mirammo Onofrio del Riccio , huomo
veramente per vivezza d'ingegno , e per dabbenagginc d'animo , tenuto
fommamente caro dalla Città tutta . Ma perchè addietro laſcio ora Io Paolo
Emilio Ferrilli della nuova , e della vecchia medicina parimente inteſo , e di
ciaſcuna di effe egualmente libero profefforc ?il qual da' fuoi lunghi viaggi ,
e pellegrinazioni tante, e sì fatte forti di nobili, e cari medicamenti alla
patria riportò , che ben volentieri a pro di ciaſcuno le botteghe tutte degli
ſpeziali 1 1 * cor Del Sig. Lionardo di Capoa. 117 corteſeméte arricchiune. E
dove lo trapaſſo ſotto ſilenzio ingratamente aſcoſo il piùſovrano pregio , che
aveſſer mai le noſtre ſcuole , il dottiſſimo Marco Aurelio Severino , il qual
non ſolo , ſe miglior Chimico , o medico, e ſe più va lorofo in fiſica , o in
cirugia, e ' li foſſe . Egli animoſamen te ſeguédo l'orme del famoſo Giulio
Azzolini ſuo maeſtro : anzi oltre affai più gittandoſi , in favellando , ed in
iſcrivé docon filoſofica libertà ripigliò Galieno , e gli altri anti chi , e
nelle noſtre ſcuole tante fiare , e tante fè conmae ftra mano chiaramente
vedere paleſi, e manifcfti agli oc chj di tutti i ſolennillimi falli, che
iGreci , egli Arabi , ei Latini lor ſeguaci nel notomizare i corpi aveano in
prima commeſli. A bello ſtudio poi non fò lo aleuna menzione quì di Baſtian
Bartoli , non avendo huom , che non ſappia , che tra'vantaggi fuoi maggiori ei
ripoſe il goder mai ſem pre , e valerſi d'una sóma libertà nel filofofare ,
colla quale egli conſumò l'impreſa d'un novello filtema di medicina. Ma che
tanto infra i lettori Napoletani andarmipiù rav . volgendo , ſe tutti i maeſtri
delle noſtre ſcuole da Diego Raguſi in fuora , che ſaldi , & interi i
ſensimenti d'Ippo crate mai ſempre ſeguir volte, il qual pure, così in queſto,
come in altro non ſi vide ſecondar nella ſteſſa maniera poi Popinion di Galieno
, in ciaſcun tempo conformaronſi se pre con l'uſo del noſtro comun medicare il
quale quanto dalla dottrina se da' ſentimenti d'Ippocrate , cdiGalieno s'allontani
, avvegnachè il contrario comunemente fi giu dichi , agevolmente può da ciaſcun
ravviſarſi . Ed Io ,per chè di più non mipermette il tempo , daronne al
preſente qualche breviſſimo ſaggio . E percominciar con qualche ordinato
diviſamento , manifeſta coſa è , che gli argome ti maggiori , de'quali fornir
ſi vuole la medicina , s'ella mai di giugner intende al ſuo laudevot fine
d'approdare il genere umano, per comun ſentimento di tutti più ſaggiIp
pocratici , e Galieniſti ,a tre capi quali tutti, principalmen te fi
riſtringano , nella Dieta , nella Cirugia, e in quel,ch' appreffo iGreci
chiamaf; Φαρμακευσης . Intorno alla Dieta quanto da' due Greci Mae ſtri 118
Ragionamento Secondo 1 ſtri i Napoletani medici fian diſcordanti , dicalo ir
mia vece quel famoſo Galieniſta Melaneſe Lodovico Set tala , (1 ) fuerunt ,
dice egli,quiprimis tribusfaltem diebus, aut inedia , aut tenuiffimo vietu
laborantes exficcabant , pro grelu autem temporis cibos tum in forma, tum in
quantita te adaugebant ,quos Galenus in lib. method. med. pluribus in locis
exagitabat. Hanc cibandi rationem fervare intelli go Hiſpanos medicos,
Neapolitanos. Narra egli minuta mente il modo daʼnoſtri Napoletani tenuto nel
cibare gľ infermi; indi poichiaramente dimoſtra eſſer ciò affatto con trario
agli inſegnamenti d'Ippocrate, e di Galieno ; la qual coſa aſſai già prima del
Settala avea un de'famoſi maeſtri del paſſato ſecolo , Paolo Tucca avviſato
,così nel la ſua pratica del medicar Napoletano dicendo,fciendum , quod
longediftat modus dietandi Hippocratis, Galeni, & Avicenna , ab eo quem
obſervamusdiebusnoftris. Illi enim principes voluerunt in febrium principio
craſſiusfore reficien dum : in ftatu vero , aut nihil offerendum , aut
tenuiſine dietandum . Nos vero quaſi oppoſitum obfervantes in ftatu reſumptive
, in principio autem alternative cibamus. Ma da Paolo Tucca in poi non può di
leggier crederſi quanto vie più da Ippocrate , e Galicno in cibar gl'infermi
ſianli i noftri medici dilungati, e ciò fu cagione di quella famo fiffima
difeſa , che ancora va per le mani de’letterati , fatta a pro di Giacomo
Bonaventura medico di Cleméte VIII. contro Mario Zuccaro, già in queſto noſtro
ſtudio lettore per Maſſenzo Piccini da Lecce. Ma non che nella quantità , e nel
tempo co'due Greci maeſtri i Napoletanimedicimanifeftamente conſentano , anzi
nel modo ancora , e nella qualità de'cibi ſopratutto da color fi partono , di
tutt'altrevivande nutrendo gli in fermi , che diquelle , che da’lor venerandi
maeſtri ne fuz rono in prima ne’loro libri diviſate.E dove di grazia ſono ora
l'acque melate , e l'orzate, e altri ſomiglianti beverag gj, cotanto da'Greci
commendati, certamente in lor luogo i brodi di polli , e le peſte carnidelle
galline nella noſtra Cit 1 (1) In comment.in problemat. Ariftot. Del
Sig.Lionardodi Capoa. 119 ye Città ſi coſtumano.L'orzata , dice una volta
Ippocrate ( 1) di ragion mi pare, ch’alle vivāde di fermēto ſia da antiporre, e
lodo coloro , i quali l'antipongono. Iltocáva refü šv douée oefãs ποκεκείσθαι
των σιτηρών γευμάτων εν τετέοισι τοϊσι νοσήμασι και εποι vÉo To's asforgivavtas
. Ed altra volta dice , eſſer l'orzata oltremodo valevole ad umettare , e
perciò a' febbricitanti recar grandiſſimo giovamento;a’quali ſecondo i fentimen
ti di lui medeſimo, l'umettativo cibo è sépremai convene vole ed allo incótro
le carni tutte nocevoli.E l'altro Greco maeſtro Galieno ( 2) oltremodo
berteggia, c proverbia Pe trona,aſpraméte rimproverādogli, che agliammalati
ſuoi có lor no poco nociimento concedeſſe le carni. Perchè ma nifeſtamente ſi
comprende, i Napoletani medici irrorno al nutricar gl'infermi , anzigli
ammaeſtramenti di Petronas , che que' d'Ippocrate (3) o di Galieno (4) feguire
. Così è da dir, che le brodadelle galline non ſian da dare agl'in fermi di
febbre, conciosſiecoſachè quelle al parer d'Ippocrate , e di Galienio abbian
certamento vigor di ritenere, e di ſtrignere , dove l'orzata, ſecondo i
ſentimenti di coloro, è mollificativa , e mezzanamente umoroſa ,ne punto riſtri
gnente , perchèqueſta , c non quelle a ' febbricitanti ra gionevolmente dar ſi
vuole . Ma che direi noi del vino , che da’Napoletanimedici , non altrimente ,
che ſe toſſico foffe ,a ' febbricitanti ſi victa ? e di Galieno fir pur dato ad
un'ammalato di febbre acuta , e come egli ne narra, di cal do , e ſecco
temperamento ; anziegli manifeſtamentene conſiglia , e ne conforta , che
inzuppandovi il pane ſi dia , mangiare a'febbricitanti , anche talvolta nel
comincia mento delribrezzo . Ne è già mio intendimento al preſente di dar
giudicio fopra si futre quiſtioni, o ſopra tutt'altre , ch'io qui rap porti ;
ma ben ſolamente dico, ſembrarmi agevol molen , e piano il coſtumedel cibar
Napoletano ; e che null'altro , che dappoc.iggine, e vaghezza di riſparmiar
fatica l'abbia in pri (1) lppocr . nel lib.i.della dieta (2) nel com . 1. fop. il
2.11b.della diesa ne'male Atw8. (3 ) nel s . della dieta. (4) nel 1.lib . della
facoltà de'med.Jemplo I20 Ragionamento Secondo in prima a'neghittoti
Cittadiniportato , traſandandoſi co sì pian piano, ed abbandonandoſi quel
d'Ippocrate , e di Galieno, che malagevole affai, ed intralciato a’beſci uc
celloni medici delbarbaro ſecolo ſembrava. Iinpercioc chè , licome il primo
de'Greci maeſtri dice , ( 1 ) e l'altro il conferma ( 2 ) eragione il richiede
, dee il ſaggio ,ed avve duto medico in prima ben avviſare quanto egli per
durare il mal Gia ,ed in ciò gli argomēti tutti del ſuo ſottiliſſimo in
tendimento adoperare. Il che quanto ſia malagevole a certamente comprendere ,
ſenza reſtarne talvolta da' ſuoi avviſi ingannato , ciaſcun da per se
baſtantemente , ſenza ch'io divantaggio gliele inſegni potrà ravviſare . E ciò
ri chieſero ne'medicique’due maeſtri, acciocchè nelle brevi malattie debba
ſempre con iſtrettiſſimo cibo nutricarſi l'a malato , e nelle men brevi non
così coſto da prima gli fi menomi a ſpiluzzico , onde poi nel maggior avanzo
del male ne venga debole , e ſpoſato , e ſenza poterſi con ar gomenti ajutare;
ma pian piano riſtrignendogliele, poffin poi il medico nel colmo della malattia
maggiormen te ſcarſeggiando , poco , o nulla concedergliene . Intorno poi alla
Cirugia cgli è duro molto a credere , quanto da ſentimenti d'Ippocrite , e di
Galieno , il medicar di Na poli ſia lontano. E laſciando da parte ſtare come
quì ſu bitamente, e ſenza conſiderazion niuna in ciaſcuna febbre fi coſtumi
cavar ſangue,contro il proponimento d'Ippocra te , anzidi tutt'altri medici del
ſuo tempo , o più antichi , i quali , ficome narra il Cardano:in febribusnon
folebant mit tere fanguinem ,etiam ardentifimis; ora cavaſi a giorna te il
ſanguenella noſtra Città, non ſolamente a’vecchi, e deboli , ma eziandio
a'bambini di latte , e talora anche a' ſoſpettidileggeriſſimi mali; quando
tutto il contrario di ce Ippocrate : Τα δ' οξέα πάθεα , φλεβοτομήσεις, ήν
εαυρον φαί γηται το νούσημα, και οι έχοντες ακμάζωπ τη ηλικία, και ρωμη πανή
aúrtorw . Ma negli acuti malori cavarſangue fi dee ove fire grande il male , e
l'infermo giovane fia ,e ben gagliardı, e vi goroſo. Il che richiede anco in
molti , e molti luoghi Ga ( 1 ) ippocrate nit lib . 1.degli Aforij.nell' A
or.7.8.9.10 . ( 2 ) Gal.nel Com . * lieno DelSig.Lionardo di Capoa. IZI lieno (
1) in un fra glialtri dicendo : si péya zo voonud reordea κoίημεν ειναι και η
παρον ήδη θεoρoίημεν , ή αρχόμενον επισκεψάμενοι την ρώμην της δυνάμεως
έξελούντος του λόγε μόνατα παιδια .. Dunque ſe noi temiamo non avvegna qualche
gran malattia, oſe pre Jente quella già ,o pure in ſu'l cominciar fia ,avědo
ben prima le forzedell'infermoconſiderate,aprirem poſcia la vena :So lamente da
queſto divifamento i fanciulli riſerbădone. E po ſcia egli medeſimo l'età
preſcrive., ove da prima i fanciul li ſegnare fi poſſano , dicendo (2 ) , che
non ſi debba no aprir le vene a' fanciulli , intin , che giungano all anno
quattordiceſimo . E altrove ( 3 ) anche dice , che ſe le forze di colui , che
ammalerà di febbre per putrefa zion d'umore,nel lor vigor dureranno , toito
come coinin cierà ella a farſi vedere gli ſi converrà cavar ſangue : ſolo , che
non abbia crudità nello ſtomaco , e l'età 'l conſentiſca, e le forze ſien
robuſte ; perciocchè altrimenti aon gli fi dee in modo alcuno aprir la vena. E
quindi poco appreſſo ma nifeſtamente ſoggiugno : che ſe l'infermo farà bambino
, o non giunto ancora all'anno quattordiceſimo,non gli fica coſa delmondo
ſangue. Ne ſon da tralaſciare quel l'altre parole del medeſimo Galieno ; le
quali molto al no ſtro propoſito ſi confanno:ove ſpiegando tutto ciò , ch’al
falaffo richiedefi cosi dice : ( 4 ) δεύτερG- σκοπός της φλεβότα μίας εςιν , ει
ακμάζει καλά την ηλικίαν οκάμνων» ούτε γαρ παίς , ούτε γέ έων , φέρει την
φλεβοτομίαν , ουδ ' αν μέγα νόσημα νοσώσιν. La fecd da cofaze che ſi
richiedenel dover trar ſangue fiè,cheguardar fi deeſelámalato ſia giovane
perciocchène i făciutli,ne i vec chiSoſtēgono ilfalaſſo,avvegnachèpur gravefase
di riſchio la malattia , che loro dea noja : E tralaſciando di rapportare al
triluoghi , ove ſempre il medeſimo, e'grida , e ripete, di rem ſolamente
de'tempi , ch'egli giudica al ſalaiſo oppor tuni: mentre che in Napoli , ſenza
alcun riguardo alle troppo freddo, o troppo calde ſtagioni avere , cavaſi co
munemente in ogni tempo ſangue da Galieniſti, a' troppo .crcduli , e mal
conſigliati infermi; i quali iinınaginano,an Q zi fer ( 1 ) Gal.della maniera
del curare col falafo. ( 2 ) aelmed.luogo ( 3 ) nel mes. ( 4) nel.com.ſop.illib
d'ippocr.della Dieta. vi per . 122 RagionamentoSecondo zi fermamente credono
venir medicati ſecondo le regole di Galieno , e d'Ippocrate. E pure i noſtri
medici nulla ba dano a’rigoroſi divieti di coloro , e maſſimamente di Gaa lieno
(1) il qual vuole , che oltremodo ſi debba dal medi. co aver riguardo al
temperamento dell'aria ,ch'ella non ſia eſtremaméte calda , e ſecca, ſicome è
infra'l tépo del naſci méto del cance dell'Arturo ;e ravviſa egli , che tutti
colo rosa'quali i medici nulla alle ſtagioni badado, traſfer fuora del ſangue ,
irreparabilmente morirono . Così vuol Ga lieno ancora che nelrigor del
verno,ſia molto da temere il falaſſo, e dice effer manifeſta coſa , che da ciò
molti, e gra vi pericoli ſeguir ne poffano . E perciocchè egli ſtima va eſſer
ciò coſa di grandiſſima conſiderazione , dopo tan to , e tanto manifeſtarlaci ,
di nuovo con queſte parole la ci perfuade:( 2 ) πτoσθήσω δε ένεκα του μηδεν
λείπειν , τον από του περιέχον ημάς αέρG- σκοπών , όταν η θερμος ικανώς και
ξηρος , ως διαφορεΐσθαι ταχέως υπο του που το σώμα τηνικαύζ γαρ αφισάμεθα της
φλεβοτομίας 4 και μέγα το νόσημα , και ακμάζων ο άνθρωπG- άη - Ma acciochè
nulla vi manchi , aggiugnerò quell'altra coſa , alla quale è di meſtieri
averminutoriguardo,cioèa dire l'a ria , che ne circonda : e guardare s’ella fia
sformatamente calda, e fecca , intanto , che molto ne venga a ſvaporare , ed
sfalare il corpo ; imperciocchè allora di ſegnar ci rimarremo: comechè
graviſſima ſia la malattia , e l'huom per tofa , e robuſto . Ma no meno i
Napoletani medici nel trar fangue avvifan punto ſe la compleſſion del corpo ſia
fie vole , o vizzi , graffa , o ſcialba, nelle qualiſecondo il lor Galieno ,
avvegnachè grave infermità il richicgga,o nien te certamente , o molto poco
fangue è da trarre ; ma nien te in verità poi ne ſecchereccidella ſtate . Ma
egli è omailuogo da tralaſciar per iſtrettezza di té po altre condizioniper
Ippocrate, e per Galieno , al ſalaſ ſo richieſte , alle quali o poco , o nulla
mai i Napoletani medici riguardar fogliono.Finalmente trapaſſando al ter zo
ftruméto della medicina chiamato da Greci Maguáxeu ois dimoſtrerem brevemente,
come ne precedenti abbiam ( 1 ) nel 1.lib.dell'arte curat. A Glaucone. ( 2 )
nel com. 4. fop. il lib. della Dieta. altro vigo mani DelSig.Lionardo di Capoa.
123 manifeſtato, quanto i Napoletani medici in adoperarlo ſom gliano da
Ippocrate , cda Galieno allontanarſi . Eglino in priina molti , e molti
medicamenti coſtumano , che da Ippocrate , e da Galieno ne inen per nome
conoſciuti già mai furono ; ficome ſenza dubbio veruno son la Callia , i
Tamarindi, il Riobarbaro , la Siena , la Scialappa,ilMec ciocano la Gottagomma
, la China , la Salſa,ed altri aſſai , che per eſſer ben conoſciuti, e per non
recarvi noja al pre fence tralaſcio . Le compoſizioni poi deʼmedicamenti nelle
noſtre bot teghe introdotte, ſono il più ,o dagli Arabi tratte , o da gli
Ermetici filoſofanti; ina quel, ch'è di maggior conſdera zione nell'uſo de
medicamenti puganti ſi è , che i noſtri medici Napoletani,laſciati da parte ,
ed abbandonati af fatto i due Greci maeſtri,van per diverſe tracce cammina do ,
ſenza ritegno, o ſcrupolo niuno di purgar audaciſfima mente in ognitempo , in
ogni diſpoſizione di ſtagione , in ogni età dell'infermo, e in ogni ſtato di
malattia:e purga do eziandio i corpi ſani, con far credere alla ſemplice , e
credula gente , che cosìvoglia Ippocrate , e che così co mandi Galieno ;
imperocchè ingeneranſi continuamen re in noi vizioſi eſcrementi, da dover con
gli argomenti delle purgagion continuo anche vuotare . La qual nuova coſtuma,
quanto da Ippocrate , quanto da Galieno ſia ri provata ben ſi comprende da ciò
, che Ippocrate una vol ta dice: φυλάσσεσθαι δε χρή μάλιστα τας μεσολας των
ωρέων τας μεγίτας και μήτε φάμακον διδόναι εκόντος.Βifogna minutamire ri
guardare alle grandi mutazioni de'tēpijacciocchè in quello no s'appreftino di
leggieremedicamenti agl'infermi. E'l medeſi moIppocrate nó guari appreſſo ,
cosi parimétedice : jiti κινδυνόλαι ηλίκ τζοπαί αμφότεροι, και μάλλον θεριναί •
και ισημερινα νομιζόμεναι είναι αμφόπραικαι μάλλον δε αι μετοπωριναί • δά δε
και των άτρων στις επιταλας φυλάσσεσθαι , και μάλιστα τα κυνός· έπειά αρκλέρη,
και επί πληϊάδων δύσει • τε γαρ νοστύμα μάλιστα εν ταύτησα τησαν ημίρηση
κρίνεται και τα μου απο φθίνει , τα δε λήγα , τα δε άλα πάνω jebésalom és ÉTELOV
GÒ Qu, weg,étépnu xatásamov • Pericolofifuno amē, Q.2 due i ' 124 Ragionamento
Secondo 1 1 due iSolſtizi ; eſpezialmente quel della ſtate; pericoloſo ale
tresì l'uno, e l'altro equinozio ; ma quel maggiormente dell' Autunno . E
biſogna ancora aver riguardo al naſcimento delle ſtelle,mafimamentedella
Canicola ; quindi altramon . sar dell'Artaro, e delle Pleiadi; imperciocchè le
malattie in queſtigiorni più, che in altriſi giudicano: altre morte recan do ,
ed altreſvanendo, o d'uno in altroftato facendo paſſag gio . E Galieno in altro
luogovuole , che anche a ' tempi troppo caldi , o troppo freddipormente ſi
debb.2 ; che lè'l temperamento della ſtagione, o del luogo ſarà qual'eſſer
dee’del tutto ce ne terremo; ma ſe talnon è , purgheremo sì bene , ma molto
meno di quel che faremmo, qualora ne l'un , ne l'altro il ci vietaffe . E del
tempo della ſtate egli dice (1) confermando il detto d'Ippocrate , che ne'gior
ni caniculari, cd avanti di quelli, malagevole , e danno ſo ſie l'uſo
de'medicamenti purganti . E parimente in un' altro luogo ( 2 ) egli dice , che
coloro , i quali, o per crudi tà, o per altra qualunque cagione accolgono
abbondanzas di non cotto umore , oche più dell'uſato averanno gonfio, il ventre
, e'l corpo tutto ingroſſato , non ſofferiſcono pur gagioni. Egli vuole altresì
Galieno , che que'febbricicá ti, i quali abbondano d'umori crudi , che moleſtan
loro lo ſtomaco , non ſi debban ne ſegnare ne purgare : A niun di coſtoro ,
ſono le ſue propie parole , e' fi fuole trar ſangue giammai , chenon gliene
provengagraviſſimo danno,e come chè a lor faccia meſtieri la vacuazione,
nonpoſſono nientedi meno eglino tollerare, ne le purgagioni, ne i Sala, fe
fenza queſto ſincopizzanti pur fono : (3) éx' Sevd's twv Toroutwv cipecto της
αφαίρεσης άνευ μεγίσης έωθε γίγνεσθε βλάβης· και τσι δέονται γε κενώσεως • αλ '
έτη φλεβοτομίαν , έτε κάθαρσιν φίρεσιν εύγε , και καρλς Tobrwv étaipuns
ougróMorlar. Ed un'altra fiata egli medefimo dice, la ſoſtanza de' fanciulli
infra l'altre tutte agevoliſſi mainente digerirſi , e diſliparſi; eſſendo ella
ſopra tutte maggiorméte abbõdevole d'umore,comechè meno fredda ella fia : ma
però men di purgagione aver biſogno, perchè da ſe medeſima ella vuotar li ſuole
. Ed altrove ancora ma 1 (1) nel 14.lib . del metod. (2 )nelmetod,allib.9 .(3)
nel met, al lib.12. 1 nife Del Sig.Lionardodi Capod. 125 nifeſtamente
inſegna,che'l vuotare i ſoperchj umori, che nel corpo continuo ne s'ingenerano
, non è di giovamento alcuno alla gente ; anzi le alcuno per temna, che l'abbon
danza degli cſcrementinon gli noccia , voleſſeſi avvezza. re a purgarſi una , o
due volte il meſe , oltre al manifeſto nocimento , che gliene fiegue,
prenderanne il corpo una dannevole , e peſſima uſanza . Ma ſopratutto , quanto
al purgar gli umori nelle malattie , i quali abbian dicocimi to biſogno ,
da’ſentimenti d'Ippocrate , e di Galieno ina nifeſtamente ſi partono i noſtri
medici ; quantunque a tut ta lor poſſa con belle parole di dare a divedere
altrui il contrario ſempre s'argomentino . Ne lo prenderom mi troppa briga di
dimoſtrar ciò con lunghe , e ben’ordi nate ragioni;ma baſtcrammi ſolamente le
parole d'Ippo crate , edi Galicno rapportare , acciocchè da quelle per ciaſcun
comprender baſtevolmente ſi poffa , quanto nella crudità degli umori, onde
cagionaſı il male,da coſtoro sé pre i medicamenti purgativi vietar fi fogliano,
ſalvo,che radiſſime volte , e nel principio di quellemalattie , che có
enfiamento cominciano . Ilmaeſtro di Galieno , e de' Ga lienifti, per quel
ch'eglino tutto dì dicano,fipare , che ne ſuoi Aforiſmi , ne’qualibrievemente ,
quanto mai di buo no, o ſcritto, o oſſervato negli anni tutti della ſua vita
egli mai aveſſe riſtringa , una cotal co ? a con una general pro
poſizionenediffiniſce ; colla quale quanto altrove ne dice tutto conformaſi ,
anzi quindicome conſeguenza ſi cava ; la qual coſa è sì chiara , e manifefta ,
che di vantaggio più manifeſtar non ſi può; perchè a confeſſarla per verail me
deſimo Vittorio Trincavelli,non che altri funne coſtretto , oftinatiſſimo
diféditore della cótraria fentéza.Egli aduque ( 1) così dice ; ab hoc aphoriſmo
cæteri omnes , qui huc fpe ctant , tanquam corollaria deducti ſunt : ed oltre a
ciò ſog giugne : ita ut nullam aliam exceptionem admittat, niß eam quam ipfe
expreffit : quum morbusturget. Ed è l'Afo riſmo, il qual da Galieno,oracolo fù
chiamato una volta, cosi ( 2) Le materie cotte purgare , e muover fi debbono;
mas, non ( 1 ) del confer.la fan.nellib. 4. (2) nell'afor. 22. dellib . 1. -
126 Ragionamento Secondo 1 . non già le crude ; nemica nel cominciamento; ſe
nonſe allor , che turgidefono,malepiù volte turgide non ſono : Témava Pago
μακεύειν, και κινέαν , μη ωμα, μηδε εν αρκήσιν , ήν μη οργά • τα δε πλά sve oux
ogy : Intorno alla qual voce opgør mi par doverſi cô . fiderare , che in queſto
luogo appreiſo Ippocrate altro non dinoti , che diſiderar ferventisſimamente ,
e con impazien za ; ed avvegnachè non men dell'animate, che delle inani mate
coſe dir ſi ſoglia , tuttavia più acconciamente agli animali ella conviene ,
ſecondo il ſentimento di Galieno,il qual forſe da Ariſtorile ( 1 ) appreſo
l'avea . E diceſi di quegli animali ,che tratti da iinpetuoſa foga di libidine
ſtā no in ſucchio , e come diſſe Virgilio In furias , ignemque ruunt: quindi
preſeli la metafora degli umori nel corpo uma no , i quali avidi di fcappar
fuora,ſtrabocchevolmente , e con impeto , diparte in parte ſi muovono , non
laſciando aver punto di ſoſta al povero ammalato . Ma noi , avve. gnachè
diſcorrimento , o foga più ſaggiamente da dir ſia , o enfiamento , o pure con
nuova voce alla noſtra lingua Turgenza , o Turgidezza: dal gonfiare , o ſia
enfiare,e dal turgere diciamo ad imitazione dique'valent’huomini, che nel
latino linguaggio‘l'opere d'Ippocrate , e di Galieno traportando,preſero la
voce turgere : onde poi novellame re ne diramaron quell'altra Turgentia , ad
orecchio latino de'buonitempinon mai più per quel,che mi paja per l'ad dietro
udita : gonfie , e turgide parimente chiamiamo, quelle materic , che a si fatto
movimento ſoggiacciono ;ed in verità gli umori , che’n tal guiſa ſi muovono, ſi
formen tano , ſi rarefanno, egonfiano. Ma alla coſa ritornádo: queſto Aforiſmo
appunto cófer mafi per quell'altro ( 2 ) Nel cominciamento delle acute ma
lattie di rado lepurgative medicine da uſar ſono : e ciò con diſcreta
avvedutezza ſide'fare : iv Toirov ožico maderav énezaéxus εν αρκήσι τησι
φαρμακείοσι χρέεσθαι , και τούτο πξοεξευκρινήσαν τις sterkev. Per la qualcoſa
avendo egli in priina avviſato , che folamente quegli ammalati da purgar fieno
, ne' quali liu mate ( 1 ) nel lib.o dell'iſtoria degli animali : ( 2 ) nel
1.degl' Aforiſmi. ( Del Sig . Lionardodi Capoa. 127 materia , onde il mal
s'ingenera , ben cotta , e digerita ſia , fe pur quella non turge , è che rade
volte ciò avviene; e ritrovandoli nel cominciamento di tutte le malattie mai
ſempre cruda,e non digerita la materia: fiegue di neceſſità, che rade volte in
ſu'l cominciar delle malattie, fieno gl’in fermi da purgare. Ed è pur piacciuto
ad Ippocrate , ſcar ſo altrove di parole , enegli aforiſmi ſenza fallo
ſcarſiſsi mo , e riſtretto , oltre ad ogni ſuo coſtume quivi la mede fima coſa
avvedutamente ridire,acciocchè per tutti i me dici l'importanza di sì grave
precetto avviſar ſi debba , ed apprender quanto quello lor faccia di meſtieri,
e di riſchio fia a travalicare . Etali Aforiſmi con avvedutezza non or dinaria
chioſando poi Galieno ,oltremodo ciò ne impone , e ne accomanda: e sempre, che
egli di tal biſogna impren de a dire , toſto a quelli ne rimanda,comea
faviſſīme nor me , che il tutto intorno a tal materia perfettamente con tengano
. Ed avendo in un'altro Aforiſmo Ippocrate parimente detto ; ne'mali oltremodo
acutifon da purgare il medeſimo giornogli ammalati, ſe vi è gonfiamento ;
concioſiecofachè allora l'indugiare è dannoſo affai( 1) Papuaxetes , év
toñosning οξέσιν , ήν οργα, αυθημερον• χρονίζαν γαρ εν τοϊσι τοιούτοισιν ,
κακον Galieno però vuole , ed eſpreſſamente n'impone , che an che in queſto
caſo dell'enfiamento , il che molto di rado 'avvenir fuole , vi s’abbia in
prima ben bene a riguardarc, e penſare , cioè con tal riguardo,e ritegno
adoperare , che nulla più : ne meno ove fia enfiamento purgando, ſe il cor po
valcvol non fià a ſoſtenere il purgamento ; perchè aj tal propofito Galieno
dife ( 1 ) ώς τ' ευλόγως ολιγάκις εν τοις οξίσιν νοσήμασι κατ' αρχάς γενήσεξι
ημϊν χρώα φαρμάκων , τω μήτε πολάκις οργάν εν αρχή τους λυπούνας ,μήτε , ά και
του υπάρχει και του κοσουνίG- αν επιληδεία προς την κάθαρσιν όντG- , αλα μηδέ
καιρών ημίν παρέχοντG- επιτήδειον παρασκευάσαι. Per la qual cofa nelle acute
malattie ragionevolmente operando, di rado , nel prin cipio impiegheremo noi
purgative medicine ; concioffiecoſachè gli afflittivi umori , nel principio le
più volte, ſtuzzicati non fieno , (1 ) nel lib.di que'che convien purgare . 128
Ragionamento Secondo fieno , e potrebbe intervenire altresì , che ove eglino
fienosi fattamente ſtuzzicati , allor non foſelo infering a fojtener la
purgagione adatto . E più addietro , de' medelimi umo. ri favellando avendetto:
τους ούν τοιούτος εκκενούν πξοσήκες , τε τέσι τους εν κινήσει , και φορά, και
ρύσι • τους δε καθ' έν πμόριονεσηεγμέ νς,ούτ' άλω πνι βοηθήματα χρή κινείν,
ούτε φαρμακεύειν , πζίν εφθή . ναι : τηνικαύτα γας και την φύσιν έξομεν
βοηθούσαν . Αdunque con venevol coſa è , che cotali umuri ſtando in continuo
moto, e diſcorrimento , e fluffo, fi vuotino ; ma que' , che in qual che luogo
del corpo giä ſi ſon fermati, ne con argomento alcu no , ne con purgativa
medicina damuoverfono, anzi che fieno ben digeriti ; imperocchè allora anche la
natura dello infermoalla purgagione fauorevole auremo. Ma il principio delmale
, ficome ne inſegna Galieno , prendeſitalora per lo primo aſfalimento , o
quando da prima comincia a chiocciar l'ammalato ; altre volte anche inſino
a’tre primi giorni ; e aſſai ſovente per tutto quello ſpazio di tempo ,nel quale
niuno affatto , o troppo debi le , e oſcuro ſegnal di cocimento ſi pare . E'l
gravamento , o accreſcimento del male liè , quando manifeſtamente il cociinento
, o pur ſegnia ciù contrarj ſi ſcorgono ; e dura finattanto , che alla dovuta
perfezione il cocimento ridu caſi ; per la qual cofa allora maggiormente le
moleſtie , e le noje degli ammalatiad accreſcer ſi vengono . Ma il gó fiamento
avviene, o toſto, che alcuno ad ammalar comin cia , o non molto indiappreſſo ,
cioè nel primo, o nel ſeco do giorno , ſicomc par , che in più d'un luogo
avviſi Ga licno . Ma ritornando al tempo delle purgagioni : ſo ben’In , non
eſſer paruto ſaggio a Galieno il diviſo di colui, che volle,non doverſi porger
giammai le purgagioni, anzi de' primi tre giorni : ma ſi ben dopo il quarto , a
coloro , che patiſcono ſcorrimento di ventre ; il qual parere egli ri provando,
conchiude così dicendo : Egli adunque è di meſtiere, che non già dopo il terzo
giorno fi pergano imedica menti , ma ficomediceapertamente l'aforiſmo( 1) Negli
acu. 11 111.1 (7) L’Aforij.24.ditlib.i. ' DelSig.Lionardo di Capoa. 129 - ti
malori di rado,e nelprincipio dobbiam delle purgagioni va lerci. E perciò ci
biſogna diffinir la coſa giuſta la mente de gii aforiſmi, ed inveſtigar ove
abbiamo a purgare in fulprin cipio, ed ove abbiamo ad attendere il cocimento
del males. Imperocchè fe alcun determinerà ſolamente nel principio , o non
iſtabilirà alcuna delle parti , rimarràſenza fallo ingan κato . πτοσήκεν ουν
ούχ ως πανώ μεία τας ταϊς, αλ' ώσπερ ο αφορισ μός εςι τοϊος • έν τοϊς οξέσι
πτέθεσιν ολιγάκις , και εν αρχίσει τησι φαρμα κίησι χρέεσθε , και χρή καλα τους
αφορισμους διορίζεσθαί τε και σκέλεσθε, πότε κατ' αρχάς έξι χρησέον τη
φαρμακείη , και πότετην πέψιν αναμείναν . τιτε νοσήματος. έαν δε πς ήτοι κατ'
αρχάς είπoι απλώς , και μη διορισάμε . ν ©· , εκάτερον σφάλετε: Adunque per
Imanifefto fentimento d'Ippocrate , c di Galieno , di rado nel cominciamento
delle acute malattie da inuover ſono gli umori, e nell'avā zo non mai , ma
ſolamente,facendo di meſtiere, nello ſce mo del male . E ben ſaggiamente troppo
, ſecondo che ad huom paja , in tal biſogno ſpeſe più lunghe parole l'av
vedutiſſimo Ippocrate più , e più volte i medeſimi ſen timenti divilaudonc ;
imperocchè egli avviſava graviſ ſimno danno dal muover gli umori crudi dover
certamente ſeguire . Perchè altrove favellando egli di que' , che pur gano nel
principio dell'infiammagioni: il che Galieno nel comento vuol , ciic s'intenda
anche , di que' tutt'altri mali , chedagli umori procedono :dice , che per coſtoro
nulla dal luogo offeſo certamente ſi vuota , non mai cedé do alla forza del
medicamento , ciò che ancora è crudo ma per lo medicamento debilitanſi, e
ſciolgonſi più coſto quelle coſe , che ſane eſſendo , al inal contraſtano , per
chè infievolitone il corpo , agevolmente farà dal mal ſo verchiato, ed
abbattuto : ne potràricoverarſi più mai per argomento alcuno » ο κόστ δε τα
φλεγμαίνον εν αρχή νόσωνευ θέως επιχορέασι λύειν φαρμακη και του με ξυνεταμένου
, και φλεγ μαίνοντG- έδεν αφαιρέσον • γαρ ενδιδοί ώμον εον το παθG- , τα δε
αντί . χον% τω νεσήματα και υγιεινα ξυντήκασιν ασθενές- δε του σώματG- κνο μένα
το νούσημα επικρα ]έι · οκόταν δε ονούσημα επικρατήση του σώ μας το τοιόνδε
ανιάτως έχα. Ma ſe ciò per buona ventura dell' ammalato pur non R gliene 139 Ragionamento
Secondo 3 gliene liegue , non per tanto certiſſimi danni, ed irrepara bili
avvenir gliene debbono; e ſe non altro , certamente gliene andrà alla lunga il
male , e ſconvolgeraſli il giudi cio , che ſopra quello da dar era ; ſicome non
una, ma più fiate Ippocrate ,e Galieno ( 1) pienamente ne dimoſtrarono. Ora quì
, chi non iſcorge allai chiaro , che minorar ſecon do Ippocrate , e Galieno non
mai li puote la cruda mate ria , come beſtialmente ſi perfuadono i noſtri
mcdici; i qua li tentan ciò fare colle ininoranti , che lor dicono,medici. ne .
Ma comechè in ciò grandiſſima arte , emalizia ado perar ſogliano coloro , che
ſon di contrario ſentimento , p coprire , e naſcondere al Mondo, la manifeſta
lor ribellio nca’maeſtri ; pur non fanno sì fare , che da ciaſcun non li
conoſca , e non ſi ſcopra la ragia , onde ne reſtin poi vergognoſamente
dinnentiti , e convinti; così ſciocche ſon le chioſe , eicomenti , co' quali ſi
ſtudiano a tutta lor poſſa d'inviluppare , e travolgere gli apportati Aforiſ mi
, e con lor ciance far calandrini , non ſolo la volgare , e cieca gente ,
Cheficrede ogni coſa, che l'è detto : ma col volgo ancora que'letterati , che
poco , o nulla a sì filtre coſe ,avvegnachè digrandiſſima conliderazione , ſo
glion badare . E certamente non poſſo non maravigliarmi forte della lor
tracotanza : ſe così poco, o nulla eli riguar dando alla ſtima di sìvenerandi
maeſtri , ad ogn'ora così vituperevolmente gli beffano . Perciocchè volendo
coſto ro, che nella copia grande , nella malizia , e nella ſorti gliezza degli
uniori, e ſomigliantemente ne'caſi di confi derazione, o per riguardo della
dignità della parte offeſa, o della gravezza del male , o della grandezza delle
cagio ni , o del pericolo imminente , o per altre ragioni ſia das purgar l'ammalato
, tutto che la materia cruda lia , e non pur nel principio , ma nell'aumento ,
e nel vigore delma le : o ciechi affatto , e diflennati ; e pure ſcioccamente
ma lizioſi, e maligni apertamente a tutti ſi fan vedere, non ſolo, perchè
vengono ad accagionar di ſoppiatto , ſe non (1) nel lib.4. della dies. p.44 .
di mal Del Sig.Lionardodi Capoa 131 di malvagità, di traſcuraggine almeno , i
lor maeſtri ; poi chè in materia di tanta conſiderazione , ne Ippocrate , nes
Galieno di cotalicaſi han fatto menzione alcuna , comes certamente doveano; ma
anco , perchè, o non avviſano , o fingono dinon avvederſi , che poco men , che
ſempre ; o una , o più delle coſe per lor dette, ne'mali acuti ſi trova no .
Laonde , ſe tale veramente , qual per loro fi finge, li foſſe ſtata veramente
opinione d'Ippocrate , e diGalicno, aurebbon elli in verità tutto il contrario
dovuto dire: cioè, che no miga già di rado,come dicono, ma ſovétiſſimamen te ,
o poco men , che ſempre nel principio degli acuti ma li ſi debba purgare , e
che nell'aumento , e nel vigore di ef fi ciò anche ſi debba eſeguire . Ma pure
per iſchermirli da cotal colpo s'argomentan coſtoro di traſcinare a'lor
ſentimentiqualche ſentenza de'loro maeſtri: da cui tutt'altro certamente ſi
compren de , che qucl, ch'elli intendono . Ne dovea in buona veri tà Ippocrate
, ſe pure frenetico, e mentecatto egli del tut to non era , in que'luoghi , ove
del gonfiaincnto ſolamente fe menzione , non annoverarvi ancora quell' altre
condi zioni , per le qualis’aveſſe parimente a purgar la materia, non anche al
debito cocimento pervenuta . Che ſe non è da dire , lui quivi averle per
balordaggine dimenticate , masſimamente negli aforiſmi, ove tutto il ſuo
ſtudio,e tut ta l'avvedutezza maggiore egli logorò , perchè per ogni parte
perfetta l'opera riuſcir doveſſe , biſogna di neceſlicà conchiudere,talenon
eſſer mai ſtato il ſentimento di lui , cioè a dire, che gli umori non cotti,
anche ove gonfiamé to non foſſe , a purgar s’aveſſero • E Galieno, che così
abbondatisſimo di parole egli ſi fu, che anche in coſe di niun momento
vanamente alla lunga ſcialacquolle, come poi vogliam dire , che in materia di
tanto affare, oltre al ſuo natural coſtumeaveſſe affatto ri ſparmiate. E
certamente non ſi dee in niun modo crede re , ch'egli così traſcurato ſi foſſe
, che quivi ancor nons v'aveſſe fatta la ſua diceria , fe ftato foſſe meſtieri
, diviſan done a ſuo modo quáto n’abbiſognaffe in que'caſi'la pur R 2 gage 4
132 Ragionamento Secondo ga , e quanto ſtrabocchevoldanno , e nocimento, traſan
dandola,per ſeguir ne foſſe al malato . Ma certamente no fu tale il ſuo
ſentimento , ficome cotefti diffeonati ſquali modei vogliono follemente darne a
divederc. E ben avvi faronlo anche molti valentisſimi Galicniſti , cosìdel
paſſa to , come del preſente ſecolo; masſimaméte Giulio Ceſare
Claudino,avvegnachè del purgare ainicisſimo, pur nõ po cédolo ricoprire
apertisſimainete cõfeffollo ,dicédo : Equia dem fic exiſtimo valdè efe
probabile, mentem efe Galeni, a Hippocratis, cruda materia nunquam
efſeexhibendum phare macum excepto uno turgentia caſu . E di lui molto innanzi
Giovan Manardi, che per conoſcerſi bene della greca fa vella , e perciò più
leal interpetre de’veri ſentimenti d'Ip pocrate eſſendo ,così delle purgagioni
nel principio delle malattie , ebbe a dire . Et licet Hippocrates dicat buc
raro faciendum , nos rationibus adductismoti, crebrius id face re poſſumus ,
debemus. E de’noſtrimedici replicar po trebbe Aleſſandro Maſſaria ciò , che del
Manardi e di tute' altri del ſentimento di lui già diſſe . Hippocrates ducet,ra
roin morbisacutis effe medicamenta adminiſtranda: contra non defunt Manardus,
&alii ,ſidiis placet , Heroes , qui audent affeverare, illa effe crebrius,
immo Semper admini ſtrandas. Ma omai s'è táto oltre in diſpetto di Galieno, e
d'Ippo crate l'uſanza di purgar la materia cruda pian piano avan zata , che ove
in prima non altri medicamenti ſi metteva no in opera , che piacevoli, e deboli
, ne più , che una , o pur due volte : ora a gran dovizia grandi ,ed
efficaciſſime purgagioni cosìcompoſte ,come ſeinplici, da'noſtri Galie niſti
largamente diviſanſı; e ſe pur talvolta , o per tema , che n'abbiano
gl'infermi, o per altra cagione , alquan to più lievi , e deboli loro le
impongono , nondimeno , o con accreſcerne la quantità , o con meſcolarvi per entro
alero in ggior medicamento , o collo ſpeſſo reiterar delle medicine coſtringono
maggiormente a vuotarſi il corpo con dannograviffimo, e irreparabil riſchio
degli ammala ti ; fe puread Ippocrate preſtar fede noi vogliamo ; il qual fico
Del Sig.Lionardo di Capoa 133 ficome di ſopra è detto , tante , e tante fiate
manifeſtol loci : e Galicno medeſimamente , il quale oltre a ciò av vifa , che
3Gν αρχηταί η νόσημα των εκκρινομένων αδέν έκκρίνε. αι τίωικανά τα λόγω της
φύσεως , αλ' έσιν άπαντα συμπτώμα των εν τω σώματι παρά φύσιν , διαθέσεων • ν ώ
γας χρόνω βαρύνεται με υπό των νοσωδών αιτίων η φύσις , απεψία δ ' ες των χυμών
, εν τέλω κενέσθαι τη χρησώς αδύνατον • πτοηγάσθαι μεν Κρή πέψιν, ακολα θησαι
δε διάκρισιν , 49' εξής κένωσαν την αγαθή γένηται κρίσης. Cioc. quando alcun
male comincia , ſe cofa maiavvien, cheppura ghi, allor certamentenon
purgheraftſecondonatura , ma ciò Farafficontro le diſpoſizioni diquella;
imperocchè ,'quando la natura vien aggravata dalle cagioni delle malattie , ma
fon crudi gli umori , allora impoſſibil coſaè, che alcuna eva
cuazionefelicemente rieſca ,concioffiecofachèfadi meſtieriche in prima il
cucimento , quindi lo fceveramento , e finalmente l'evacuazion ſi faccia ,
perche ſia buono il giudicio. E fomi gliantemente in quel luogo ove dice.Per la
qual coſa effen. dovi nelcominciamento delle malattie sēpremaiſegni dicru .
dità , ſemprealtresi nocevol ſarà , e darnofa l'evacnazione di si fatti umori :
ώς τ' εα ειδη κατα την αρχήν τα νοσήματος απε . ψίας εσιν αι σημάα , μοχθηρα δια
παντός έσαι των τοιέτων χυμών ή xívwos : E quindi, per tacer altri luoghi, ſi
ſcorge quan to vadano errati , così coloro , che follemente immagina no non
aver vietate altrimenti quelle purgative medicine , cheminorantieſſi chiamano,
no Ippocrate , ne Galieno nella crudezza degli umori : comequegli altri ancora
, che ofano affermare , che Ippocrate, e Galieno, non per al tro vietafler le
purgagioni , che per non eſſer note loro, ſe non che quelle purgative medicine
, che violenti ſono nell'operare ; il che però eſſer molto , e molto dal veroló
tano chiaramente ogn’huom vede ; imperocchè per tacer del latte rappreſo ,
dicuicosì ſovente Ippocrate ſi valles certiſſima coſa è , che gli antichi
ebbero contezza della Mercorella ( la quale per poco val quanto la Siena)
dell'E pittiino , della Fumaria , dello Goico , del Polipodio , dell'Agarico,
il quale per Galicno malamente venne ſti mato radice , comeche fungo egli
veramente ſia , e d'al tre , e 134 Ragionamento Secondo 1 tre,e d'altrebenigne
purgative medicine. Ne è daracer qui, cheGalieno dice a Glaucone, che dar egli
debba l’Aſsézio, leggeriſſimo, ſenza fallo, medicamento, nelle terzane, allo ra
quando apparir ſi veggano i ſegni del cocimento . Ga lien parimente viera,
cheſi deanell'infiammagioni interne la Iera di Temiſone, leggeriſſima medicina
, ſe non che quando la materia ſarà al cuocimento pervenuta; ed avve gnachè
alcuna delle accennate medicine lenitiva ſolamen te fia, nondimeno , come la
ſperienza , ne inſegna data in quantità grande divien purgativa. In quanto
all'Epit timo , ed alPolipodio , Galien dice chiaramente eſserel Jeno benigne
medicine,e che moderatamente purgano ( 1) E quanto è a me , Io porto fermiſſima
opinione, che lo pocrate , e Galieno aveſsero dalle continue, e diligenti of
fervazionide'Sacerdotidell'Egitto un tal parere appreſo ; e perciò
eſſer'avvenuto , che così ſtabilmente poſcia l'avel fer ſempremai conſervato ;
eche dall'Egitto le sì fatte of ſervazioni quel gran padre della filoſofia , e
medicina Ita liana,Pittagora,in prima aveſse nella Grecia recate ; quel
Pittagora lo dico, di cui altri ella non vide, da Democrito in fuori , che il
pareggiaſse, non che con lui poteſse entra re in gaggio, o'l ſuperaſse giammai
. Ma che Pittagora , foſse di tal ſentimento , egli li par manifeſto per quel
che nc fia ſcritto in quel celebre Dialogo , che della natura dell'univerſo
compoſe il divino Platone, la ove Timco no biliſſimo Pittagorico introduce
delle purgagioni in ſimil guiſa a favellare. La terza ſpecie del commovimento
ſuol riuſcir , ma non però ſempre giovevole ad huom , che da grave neceſſità vi
ſia tratto ; ne altrimenti da chi ſia di ſana mente è da uſare, cioè quella
forte di medicina purgativa; * imperciocchè que’mali,che no ſono guari
pericololi , non ſono da ſtuzzicar con purgagioni ; concioffiecoſachè la di
ſpoſizione di ciaſcun male fie ſomigliante alla natura degli animali : c
certamente la coſtituzion dicoſtoro è talmente ordinata , che generalmente ha i
termini della vita già ſta biliti , e qualunque animale ci naſce , con fatale ,
e deter mina ( 1 ) nelmerodal.lib.13.6.15. DelSig.Lionardo di Capoa 135 minato
ſpazio ncmena egli i ſuoi giorni: trattone fuora quelle paffioni , che di
neceſſità avvengono; imperocchè i triangoli dal naſcimento di ciaſcú d'eſso
loro tal virtù ſor tiſcono , che ſol yale a mantenere il loro ordinamento per
infino ad un certo tempo , oltre al quale a niuno è conce duto dipoter più
avanti allungar la ſua vita . Lamede ſima diſpoſizione adunque è data alle
malattie , e ſe altri colle purgagioni contro al fatal tempo ſconccralla , al
lora di piccioli,grandi , e di pochi , molti diverranno ; il perchè col
regolamento del vitto le sì fatte malattie ſon da correggere , e rintuzzare ,
per quanto a ciaſcun veriì , ad huopo ; ne il durevol male con medicamenti irritar
fi dee : Πίτον δε αδG- κινήσεως και σφόδρα ποπ αναγκαζο μένω χρήσιμον , άλως δε
ουδαμώς τα νούν έχοντι προσδεκτέον , το της φαρμακευτικής καθάρσεως γιγνόμενον
ιατρικών • τα γαρ νοσήμα όσα μη μεγάλος έχει κινδύνες , ουκ ερεθισέον
φαρμακείαις · πα σα γαρ ξύτα στις νόσων , όσον πνα τη των ζώων φύσει ποσέρικε
και γαρ η τούλων ξύ. νοδG- έχασα πάγμένες του βίον γίγνει χρόνος , του ο γένες
ξύμ . παν G καθ ' αυτό το ζώον ειμαρμένον έχον έκαςον, τον βίον , φύει χωρίς
των εξ ανάγκης παθημάτων • το γαρ τσίγωνα ευθυς καρχας εκάσων δύναμιν έχον
& ξυνίσταται μέχρι πνος χρόνε δυνατού εξαρκών , ου βίον ούκ αν ποτέ τις ας
το περgν έπ βιώη» τόπος ουν αυτης και της πε και τα νοσήμα ξυάσεως ήν • όταν
τις παρα την ειμαρμένην του κράνε φθείρη φαρμακίαις , άμα εκ μικρών μεγάλα ,
και πολλα εξ ολίγων νοσήμα τα φιλί έγνεσθαι· διο παιδαγωγών δεά διαίταις πάντα
τα τοιαύται καθ , όσον αν και τα αλή » αλ ' ου φαρμακεύοντας κακον δύσκολον
ερεθιστον , Ma diſcédédo a qualche particolarmalattia ,egliè da ſapere che fu
ſentimento diGalieno, che in quelle febbri, che portan ſeco i flulli da purgar
giāmai,ne da ſegnar fia l'am malato, quantunque ben fi pareſſe , che la materia
per la ſoccorrenza uſcita , non foſſe ella alla debita purgabaſtá te , o altro
vi foffe da dover cacciar fuora nell'ammalato ; ſoggiugnendo manifeſtamente
Galieno al ſuo Glaucone , eſſervi ſtatialcuni , che ſcioccamente in sì fatto
caſo ab bian condotti, preſſo che a gli ultimi sfinimenti, gl'infer mi . Mai
noſtri mediciavvegnachè d'eſſer di Galien fede liſſimi ſeguaci ſommamente di
pregino, pure i ſaldiſſimi ann 0ae 136 'Ragionamento Secondo maeſtramenti di
lui affatto traſcurando , a lor talento , e purgano , e ſegnano in ſomiglianti
caſi, nulla guardando a’riſchj, che , ſecondo egli avviſa , ſeguir ſovente ne
pof ſono . Così ſomigliantemete Galieno nelle febbriſincopa li (p tacer della
diffenteria)vieta in tutto il falaſſo , e le pur gagioni'; e pur coſtoro
arditamente contro i ſentimenti * del lor maeſtro tutto dì ve l'adoperano .
Così anche nel la puntura quando appajano gli ſputi del ſangue,e nel do lor
delle coſtole , vieta apertamente Ippocrate l'aprir la vena, ſe pure nel dolor
delle coſtole qualche manifefto ſe gno d'infiammagionenell'interiora non appaja
. Ma cote iti diſcreti diviſamenti del loro Ippocrate non altrimente , che
vaniſſime fuperftizioni fi foſſero diſpregiando i noſtri Ippocratici medici,
baſta ſolamente loro in tali avvenime ti , che col dolor vi ravviſin la febbre,
che come in prima poffono, cosìin diſpetto d'Ippocratc ,e di chiunque ad Ip
pocrate crede, per iſvenare i miſeri cattivelli arruotano barbaramente le
lanciuole , direbbe Proſpero Marziano per avventura . Ma dove laſciato avea lo
il purgar le dó ne levate appena del parto , e non paſſati ancora i termi ni
fatali aſſegnati apertamente da Ippocrate a ciò conve nevolmente operare ? E
dove nelle lunghe malattie , nelle quali la materia ha maggiormente di
cocimento biſogno , ne fegnal d'enfiamento eſſer mai vi puote, il purgar de’no
Itri medici contro i manifefti divieti d'Ippocrate , e di Ga lieno:E dove il
cibare a roveſcio gli ammalatise non guar dar punto all'età de'fanciulli, e
de’vecchi , o alle ſtagioni dell'anno , e cento e mille altre coſe di
grandiſſima confi derazione , ovemanifeſtamente da’lormaeſtri ſi partono ?
Troppo largo campo o Signori da valicare aurei , s’lole voleſti fil filo tutte
narrare: ne per poco di venirne a capo Io ſpererei, Ma come ciò avvenuto ſia ,
che in tante coſe , e malli mamente nel purgare , c nel trar ſangue dal loro
Ippocra te , e Galieno i noſtri Galieniſti partiti fi fiano : e che ezian dio
que' che han riſtorata la lor medicina, e ſottrattala al l'arabeſca rozzezza ,
pure travalicando i lor diviſi abbia no in Del Sig.Lionardodi Capoa . 137 no in
ciò manifeſtamente fallato ; lo ciò giudico avvenirc, perchè gli ammalati , e i
lor parenti, efamigliari ſian ſem pre deſideroſi oltremodo di rimedj, e
ſpezialmente di quei, che per manifeſta vacuazione adoperar fi veggono ; come
fe da quelli il lor ſalvamento , e non più toſto la lor morte dependa . Perchè
nelle malattie , e maſſimamente nelle più gravi, e nel vigore , e accreſcimento
di quelle , ove l'intermo maggiormente languiſca, per non moſtrarſi i me dici
ſcioperati ſenza ajutarli con argomento niuno , fi va gliono di cotali medicine
, e talor vi ſono dagli ammalati medeſimi, o da congiuntidi coloro contro
lorvoglia i me dici menati ; perchè altrimenti a color non ſarebbon a grado. E
quinci anche è , che alcuno de’moderni intro duttori di nuovi ſiſtemidi
medicina ,abbian ritenuti in par te sì fatti modi di inedicare : non perchè
egli veramente crcda , che ſien valevoli conſigli, da riſtorare ammalati ; ma
perchè egli avviſa in tal errore eſſer già foinmerſa , ed incallita la gente,
che ſe altriméti adoperaſe,niuno certa o pochiſſimi ammalati da medicar gli giugne
rebbono. Adunque manifeftamente da ciò , che detto è compré der ſi puote , che
purtroppo grandemente nel medicare , da Ippocrate, e daGalieno i
Napoletanimedici ſi diparto no , e s'allontanano ; emolto più aſſai di quel,
che'l Paracelſo , e l'Elmonte ſteſſo , e altri moderni ſpargirici, o altri ,
ch'elli fieno, per avventura ſi facciano . Mafi laſci ad altri la briga di ciò
conſiderare: baſti a noi il ſapere,co . me ancora da ciaſcun Galieniſta
Napoletano ſi viene con fatti a commendar ciò , che con parole da alcuni di
loro manifeſtamente ſi biaſima ; e come ancor' eglino laſcia no il loro
Ippocrate, ed il loro Galieno , ove lor venga in talento : e che tutti
igualmente abbandonando l'an tiche ſtrade più ch'alle cieche autorità de'
creduti maeſtri , alla ragion ne laſcianio guidare. E perciò per Dio ceſſino
coſtoro d'abbajare addoſſo a’moderni medi canti , e di mordere , e di lacerar
tutto dìla loro lode vole libertà , ne mai più per innanzicon uggia , e crepa
mente > S CUO 138 •Ragionamento Secondo cuore ſi ſtudjno di contradiarla , e
di metterla in fondo ; poichè, come per addietro ſi è fatto per noi manifeſto,
da' più ſublimi ingegni,che ſtati fieno in ciaſcun tempo s'è ab bracciata , e
mantenuta da' più nobili ſcrittori, edalle più illuſtri Accademic , e Scuole
dell'Italia , della Lamagna , della Francia , dell'Inghilterra , della Svezia ,
della D2 nia , della Polonia, e da tutt'altre parti del mondo glorio famentc
ſeguita. Ma riſerb.andomi di ciò favellare a miglior huopo, ri tornerò pure
a'piati ,ed alle conteſe deimedici; onde già mi partii. E quantunque fin'ora
per me molte narrate ne ſieno , pur molte ancora , e quaſi infinite a raccontar
ne rimangono; le quali poichè mi pare d'aver oggi ragionato a baſtanza , e già
il ſole comincia a gir ſotto , riſerberolle. alla ſeguente aſſemblea . RA 139
j: Milli RAGIONAMENTO T E R Z O Beda Vantunque volte meco ſteſſo penſando
rammento quel tranquillo , e feliciſſimo ſecolo , che meritevolmente dell'oro
per ciaſcuno vien detto : tante a biaſi mar la preſente , e miſerevol noſtra
età; quaſi di forza ſon tratto . Non pure , perchè a quella la terra
dall'aratro non ancor tocca , tutto ciò , che al mantenimento di noſtra vita
abbiſogna abbondantemente produceva ; ed ora a romper zolle col Vomere , e col
Raſtro , a ſveller pru ni c ſtecchi anza , e ſuda , e talora anche in darno il
Bi folco ; ne perchè allora , e nuvoli , e nebbie ,e tempefte ', c turbini non
intorbidavano , ficome or fanno , i lucidi ſereni dell'aria ; ne perchè
l'eſecrabil fama dell'oro, non ancor ſignoreggiava il mondo : reſo ora
ſcellerato, e crude le, poichè fol vince l'oro , e regna l'oro ; ne per tant'al
tri privilegj , che diquella s'annoverano , de'quali altro che un'intenſo
deliderio , ch'il cuore acerbamente ne pun ga a noi non n'è rimaſo ; ma ſi bene
perciocchè , e liti , e S 2 pia 2 1:40 Ragionamento Terzo piati , econtefe , ed
armi,eguerre non allignarono . No arruotava le zanne a mordere il cinghiale ;
non digrigna va i denti il maſtino ;non rabbuffava il doſlo il Lionefra ;
l'erbe , e fiori s’appiattava ſenza veleno l'angue . Ma che è ciò ? l'huomo ,
l'huomo di tutt'altri animali duca , e ſigno re non fabbricò nave ,
ch'apportaſſe guerra agli altrui li di , non forbì , non arruotòferro
periſvenar l'altrui petto : non aſſordò l'orecchie con iſtrepito ditrombe , di
corni, o di bellicofi tamburi ; vivea ciaſcun ficuro ſenza il riparo di murate
Città . Ed a'dinoftri , che più fi tenta , che più fi machina , ove più fi bada
, fe non ſe a' nuovi ordigni da guerra , perchèl'un Principe, l'altro abatta;
l'una Repub blica , l'altra eſpugni; l'una Signoria, l'altra atterri; l'una
Città , l'altra ſtermini; l'un nimico, l'altro affondi; ſi com batte nelle
campagne , ſi combatte nelle Città , s'armas contro l'un l'altro amico,'e fin
dentro il nario albergo con l'un, l'altro fratello, anzi il padre co'l figlio
calora conten de; va in ſomma il mondotutto in conteſe , e benchè tar dis pure
è gionto agli antipodi il furore dell'armi. M2 egliè pur vero , chele diſcordie
abbian per qualche tempo auuto fine , ne in ogni tempo le porte di Giano ſieno
ſtate sbarrate . Ma quel, che pür troppo è da maravigliare , è ciò , che lo
ne’paſſati ragionamenti v'ho detto , e debbo nel preſente ſeguire ; egli cono
le tante , e tanto invilup patecontefe de’medici. Queſte non han mai ſofta ,
quefte non han inai line ; e comeche moltisſime ve n’abbia fin or diviſate ,
pur altre aflai a narrar ne rimangono ; le qua li lo fon ora
perdiviſarvibrievemente , e darvia diveder , che tutte quante dall'incertezza
dell'arte abbiano origine; la quale perchè più chiaramente per voi ſi
comprenda,dirò brievemente altresì,chente mi paja delle ſette de'medici. E
perchè fi comprenda , quanto queſt'arte fia ſempre mai nemica naturalmente di
pace: ne baſterà per avventi ra il riguardar ſolamente al cófuſiſſimo drappello
de'Ga lieniſti, che co’lor diverſi, confuſi, e ritorti ſentimenti ban turbati i
mari Con menti avverſe, ed intelletti vaghi, Non 1 Del Sig.Lionardodi Capoa.
141 Non per ſaper , ma per contender chiari . Eper la verità delle loro ſtrane ,
e ſtravolte opinioni da . to brigando romoreggiano , che poco men fanno per av
ventura l'onde torbide, e fonanti del noſtro Tirreno qual ora nelle più atroci
tempeſte giungono furioſe a riverfar G ſu i lidi. Magna mentis admiratione
diftrahor , dper surbor ( dicea di loro appunto favellando Giovanni da Sa
lisberia ) quod a fe ipfo tanto verborum conflictu, &collifio ne rationum
defiliunt, &difcordant. Neancor paghi del le lor lunghe e, oſtinate conteſe
aggiugnendo ſempre pia tiapiati, quiſtioni a quiſtioni , ne preſero anche in
preſto dalla brigante filoſofia , altri più inviluppati , e nodofi , da fare
ſtancar inutilmente per un'intero ſecolo i più riottoſi dicitori del mondo .
Perchè riſtucco , ecrannojato l'avve durisſimo Lodovico Vives , così (clamando
proruppe. Ex fcholaftica illa phyfice exercitatione ingentem , ácopiofifſimă
difputandi materiam in hanc quoque artem, tanquam plar ftris invexerunt, de intentione,
& remilline formarum, de raritate, & denfitate departibus
proportionalibus, de inſtáribus: ea que nec funt, nec unquam evenient
ventilantes fua fomnia ; defertapugna cum morbis interea loci premen tibus ,
atque occidentibus . Ea res fecunda , e infinita non aliterquam bydra quædam
diutiſſimèremurata eft ingenia, cum fructu aliis vacatura. Videre eft
cavillariones a, trj. cas Iacobi Forlivienſis, nec minus fpinofas, nec minus
inu tiles , quam Suiceticas: nec prolixitate, cu moleftia cedentes. E Gregorio
Giraldi huom di rara , e di ſquiſita letteratu ra , così de’diſcordanti
pareri,che a danno altruiportano , e mettono in campo i medici , fe vagamente
parole . Nec minus quoquo medici noſtro periculo de medēdi ratione ejuſq;
partibus difenſere, aliis alia fubindeapprobantibus , ut no ftra etiam hac
ætate tanta fit inter medicos diſſimilitudo , ut corumaliqui vena inciſiunem
omnino prohibeant, alii ad eam aperiendam potius exclamext. E per recarne
brievemente un faggio , eglino intorno aº principj delle coſe naturali
contender fieramente ſogliono: ne ſi può di leggier credere quante diverſe , e
confuſisſime opi 142 Ragionamento Terzo opinioni ciaſcun di loro ne porti .
Dicono alcuni ritrovar fi veramente , e formalmente gli clementi ne'miſti:
altri in contria opinion tratti ,ſolamente in virtù, ed in potenza. Vogliono
coſtoro , ſecondo ilſentimento del lor maeſtro , effer le qualità formevere
degli elementi, e de'milti : co loro tutte le forme eſſerveriſſime ſoſtanze
giudicano. S'ay vilan molti collor Galieno , amendue le qualità nel lor fommo
grado eſler igualmente negli elementi ; altri una in più alto , e altra in più
baſſo grado ne allogano ; quin di infra coſtoro altra nuova quiſtion forge, ſe
colle più fie voli qualità degli elementi le côtrarie accoppiar ſi ſoglia no .
Ma ſe le dette qualità ſien tutte , come dicon poſiti ve , e vere : 0 pure alcune
di loro ſolamente privazioni di quelle , lungamente affai ſi contraſta ora
eziandio in fra’ Galienifti medici. Ed oltre a ciò giudicano alcuni,in qua
lunque,comechè picciolisſima particella deʼmiſti , formal mente avervi parti
corriſpondenti a ciaſcuno degli elemé. ti ; altri ſono dicontrario parere . Ma
chi potrebbe mai intorno a ciò rapportar tutte le antiche, e le moderneopi
nioni ? ſenzachè non ſon minorile conteſe , s'egli ſia pur vero , che vi ſia
temperamento ; ſe quello veramente ſia l'anima medeſima dell'huomo, come
cmpiamente avviſoſ ſi Galieno , o pure altro , che quella ; ſe ſia da porre il
ſo ſtanzial temperamento ; e ſe quel poſto , del qualitativo in nulla
differente egli ſia . Oltre a ciò quante le differen ze deil'uno , e dell'altro
teinperamento ſi ſieno ; ſe il qua litativo ſolamente nella proporzicn delle
quattro prime qualità riſieda , o pure in altra qualità da quelle riſurtu . Ma
troppo a lungo ne verrei, ſe tutte diſtintamente nar rar volesſi intorno a sì
fatta materia , le zuffe , e le conte ſe de’alieniſti filoſofanti. O forſe
almen , ſe in tutt'al tro ſi rodon l'un l'altro il baſto, faranno a buon concio
ra nodati , e concordi in render ragione dell'eſiſtenza de’lor quattro elementi
nella natura ? Anzi in ciò più che altrove gareggiano in rintuzzarſi ,
rifiutando altri ciò, che altri ne dice , e tutti l'un l'altro oſtinatamente
carminandofi ; an zi fra cllo loro Vopiſco Fortunata Pemplio dopo averne molte
I DelSig.Lionardo di Capou . 143 . molte , e molte ragioni recate ,e tutte
rifiutate,ultimame. te con tali parole i ſuoi propj ſentimenti ne paleſa. Sed
hæc omnia quăfint imbecillia quilibet videt.Quapropter aliorum etiam qui
hactenus id ipfum conati ſunt argumentis penficum latis ,puto non poffe vera,
& efficaci rationeprobari, ejetan tum , veleffe debuifle quatuor elementa ,
ſed id ita effe, nos accredere Ariſtoteli toti omnium fcientiarum fapientia
lumi ni . Concluſione indegniſſima nel vero non pur di lui : ma di qualunque
più cattivello ſcolaretto , che per filoſofante ſi voglia fare acredere; c ne
verrebbe ſicuramente cgli dal ſuo Ariſtotele , c dal ſuo Galicno ſchernito , e
forſe da lor nc torrebbe in capo del ſer Meſtola, e delgocciolone , le il
ſecodo ne meno ad Ippocrate vuol dar fede ſenza il pc gno in mano delle ragioni
, el primo allega l'autorità nel l'ultimo luogo dopo tutt'altre pruove , con
ciò manifeſta mente inſegnando , che non miga delle autorità , ma delle ragioni
lo intelletto ſolamente debba eſſer pago. Ma pu re Iddio voleſſe ,che aſſai non
vi foſſero a’dì uoſtri, di quel li , i quali ſecondo il ſentimento del Pemplio
, non alla migliore, ma alla maggior parte degli ſcrittori voglion gir dietro
,pecorum ritu ,perdirlo colle parole di Seneca , non qua eundum eft , fed qua
itur . Cattivelli di loro, che tratti dalla bordaglia de letterati,immaginano ,
che allora ſien da lor meſſi in ſu’l filo del vero ſapere, qualora da lo ro
forſe più, che da ogn'altra coſa del mondo, ne fon di ſtornati, e danneggiati
così , come cantò il Bembo nello ſuc diviniſſime ſtanze : Sicome nuoce al
gregge ſemplicetto La ſcorta fua quandell'eſce diſtrada , Che tutto errandopoi
convien,che vada . Ed’o ſe mai eglino fi riducellero alla memoria la ſentenza
del teſte da noi citato filoſofo , Argumentum peſſimi turba eft. E quell'altre
parole del medeſimo,non eadem hic,cioè nel filoſofare, quam in reliquis
peregrinationibus condicio eft in illis comprehenfus aliquis limes ,
interrogati incola non patiuntur errare : at hæc tritiſima quaquevia,
&celeberri ma maxime decipis : certamente infomiglianti falli ſcimu. niti ,
14 Ragionamento Terzo niti , ch'elli ſono , non fi laſcerebbono traſcinare. Ma
egli però giova credere, che il Pemplio non già da fenno, ma per irrifion
parlaffe , ed ironia , ' fe poi ſenza al cun rimordimento , e fenza ſcrupolo averne
di temerità, in trattando delle qualità,paleſemente delle dottrine d'Ari
ftotele , e di Galieno famoſtra di non curare . Malaſcian do da parte ſtare
tutt'altre quiſtioni, nelle quali inveſchia ti, e impaſtojati i Galieniſti
tutti ſtralciar mainon ſi poſe fono , ficome ſon quelle intorno a' principj
dello ingene. rarſi dell'huomo , al caldo natio, all'umido , che dicon ra
dicale, all'eſiſtenza , alla natura , e al numero degli ſpiriti ; e
ſomigliantemente intorno all'inviluppatiſime, e tutto che innumerabili quiſtioni
della natura , del numero, del luogo , della diſtinzione delle potenze, e
ſpezialmente in torno a quelle coſe , onde il chilo , e'l ſangue, e gli altri
umori s'ingenerano ; o pure in trattar del polſo , dell'arte rie , e del
movimento del cuore : ed onde i ſentimenti nc végano, e formiſi il moto.Chimai
baftevol ſarebbea por gli d'accordo intorno a quella cotanto celebre , e
faniores conteſa , e di tanta conſiderazione in medicina , ſe la bi le , la
flemma , ela malinconia ftian di fatto , o pure in po tenza nella maſſa , come
dicono,del ſangue ? Il che in buo ſentimento viene a dire , fe veramente vi
lieno , o no; im perciocchè certamente nulla monta il potervi eſſere , ac
ciocchè ſi dica,che vi ficno ;ficome direbbeſi altresì , che nel ſangue vi
ſieno in potenza , e carne , e vermini , e cene to , e mille altre coſe ,
chequivi ingenerar ſi poſſono . Ma a cui caglia di vedere un confuſiſſimo
rimeſcolamento di diverſe , e ſtrane opinioni , riguardi digrazia a' Galienilti
medici intorno al diviſar della natura , delle differenze, e delle cagioni
delle materie delle febbri, e de'luoghi, ove s'ingenerano ; riguardi all'opere
de’loro antichi, e moder ni maeſtri : e poi, ſe potrà, ridicamiquando mai
potreb be alcuno ſcalappiar dall'intralciato , e confufiffimo labi rinto di
tanti , e sì fatti riboboli, e indovinelli; e guari pu re a quali debolillime
fila aſſai ſovente la medicina di Galicno s'attenga , Tralaſcio pure le lunghe
, ed inviluf pate 1 1 DelSig. Lionardo di Capoa 145 pate quiſtioni intorno
all'apopleſſia, al catarro, al letargo, alla mattezza ,alla malinconia, a'
capogirli, al mal caduco, alla peſtiléza,almalfrāceſco, eda täi'altre dubbioſe
cotro verlie , che non ſarebbe per avventura minore impreſa il raccorle quì
tutte, che l'arene del mare, e le ſtelle del Cie to minutamente annoverare . E
comechè per queſto capo incerta , e confuſa , e inviluppata la medicina de'
Galieni fti oltremodo ſi ſcorga , e perciò inucile , e nocevole ad
adoperare:non peròdi meno non è ella intorno alle mag giori biſognedell'huomo
incerta maggiormente, ed in tralciata, cioè a dire intorno alla dieta : i fini,
e le condi zioni del trar fangue : la natura , la facoltà , gli effettia e'l
modo dell'adoperar de’medicamcnti : quando , ed in qua’rempi del male ſien da dar
le purgagioni: ed altre , ed altre infinite quiſtioni,delle quali queſte,ch'io
ho quì bric vemente raccolte , una menomiſſima particella ſi fono , e
certamente lo m'avviſo , ch’in leggendolei curioſi da non poca inaraviglia ſien
ſoprapreſi; anzi forte ſoſpirerano , s ſdegneranſi , veggendo a quante
controverſie,a quanti ſo fiſini, a quanti pericoli per lor ſi faccia foggiacere
il bene ftare , e la vita deglihuomini. E chicon occhio aſciutto può rimirar il
crudeliffimo ſterminio , che fan tutt'ora de gli ammalati di febbre maligna,
per non ſaper di quella , cofa del mondo? Eglino piatiſcono in prima delle
cagioni di fuora , chenti , e quali elle fiano , e d'onde naſcano , come
operino , e muovano il male ; quindi intorno a quel. le d'entro combattono , ſe
fien verainente qualità : efe tali, naſcoſc più toſto , o manifeſte , o pur ſe
da loverchio di putrefazione avvengano , o da tutta la ſoſtanza più to ſto
gualta ; e corrotta ; e oltre a ciò in quali luoghi elle fi covino ,
diverſamente contraſtano . Così mordendoſi l'un l'altro , e piatcndo , niun
l'imbrocca , e tutti a malpartito menano gli ammalati ; volendo altri i falaſſi
, ed altri vie tandogli, ed altri una fol volta permettendogli , chi ſcar
ſamente , cchi fino a trar loro tutto il ſangue , chi dalle venc delle braccia
, e chi da quello de piedi , e chi anches da quelle parti , delle quali è bello
il cacere , con appic T carvi 140 · Ragionamento Terzo carvi le mignatte; altri
a tutti coſtoro cótraſtando voglió , che dalla buccia ſolamente per coppette fi
tragga . Alcu ni vengon toſto alle purgagioni, altri aſpettan qualche de
boliſſimo ſegnal di cocimento ;ed altri, o nel principio pur gar logliono , ove
turgide lien le materie , il che di rado . avvenir ſuole, o pure inſino allo
ſcemo del male s'indugia no . Molti poi nel purgare , de’violenti medicamenti
fer vir ſi fogliono ,molti de'mezzani, ç moltide’deboli , e be nigni
n'adoperano : e parecchi ancora con lenitivi rimedi folamente medicar
s'argomentano. V'ha chi purga una ſol volta , e chi più volte in ogni tempo , e
ſtato del mal lo coſtuma . V'ha alcuni , che come il mal comincia , cosi toſto
con le purgagioni v'accorrono ; ma dopo i trè dì af fatto le victano ; e
dicoſtoro altri di vomitive, alori di sé plici purgative medicine ſervir ſi
fogliono. Alcuni ne'pri migiornidel male a' rimedj , che chiaman veſcicanti ,
gli infermi condannano ; altri vuol, che in prima purgati , e ſegnati color
fieno ; echi in un luogo, e chi in un'altro cô -sì fatti rimedj marchiar gli
vogliono , togliendo loro così manifeſtamente le forze , e crucciandogli , e
dando loro vigilie , e dolori, e forſe con riſchio di gangrene,di piaghe nelle
reni , e nella veſcica, di malagevolezze d'orina ,e d'altri malori , che ne
foguono . Ne mancano eziandio infra'Galieniſti medici alcuni più rinominati ,
che per be nevoglienza al lor maeſtro Galicno , cd Ippocrate , o per chè così
veramente lor paja,cotal ritrovato come peſtilen zioſo ; e ficriſlino, e di
barbara gente, e crudele , oleremo do vituperino, e danninozil quale non a
confortar vaglia, ed ajutare il cocimento , ma ſolamente a fraſtornarlo , ed
indugiarlo , con accreſcer le cagioni ad un'ora , e gli effet tidel male , e
con piagar , ed infiammar malamente ſpeſſo ſpeſſo le reni , e la veſcica, e far
talora gli addolorati lan guenti di puro fpafimo miſerabilmente morire . E v'ha
, eziandio di coloro , che non d'altri rimedi, che de ſolian sidoti nelle
maligne febbri ſervir fi fogliono; ed intorno a queſti ancora diverſamente
piariſcono . E forſe faran mai per riconciarſi, e porſi d'accordo infra qualche
ſpazio di + tein DelSig.Lionardo di Capoa 147 tempo le lor conteie ? e le loro
incertezze appianate , fari per porſi fuora, quando che ſia un più ſtabile , e
veriſimile fifteina di medicina? anzi per quanto ne poſſiam conghier turare
eglivie piů a giornate s'accreſcerannoi piati , e le conteſe , e ſempre più
confuſo , e incerto , e pericoloſo il lor meſtier diverráne. E nel vero,chi mai
potrebbe deci derle ? non le autorità , non le ragioni , non l'eſperienze ;
imperciocchè , così gli uni , come gli altri, di loro eſperi menci egualmente
fan moſtra , e pompa ; morendo vera mcnte , e guarendo così degli uni , come
degli altri , i malati . Per amendue le parti poi lor ragioni ſi produco no in
mezo; equinci , e quindi ogni conteſa ha ancora i fuoi parziali . Ne v'ha
cagionealcuna , per la qual mag giormente attenerci dobbiamo a Giovan
Manardi,ad Er cole Saſſonia , ad Orazio degli Eugenj , che d'altra parte più
coſto ad Aleſſandro Maſſaria ,ed a Fabio Paccio , eze Pietro Salio, o a Girolamo
Cardano preſtar fede, conciofa fiecoſachè tutti egualmente ficn di pregio, e
lieva nella Gia lienica medicina , ed egualmente di maggioranza gareg giar îi
veggino . Perchènon ebbero certamente il torto , per quelch’lo ini creda ', a
dir quc' valene' huomini:non . polje comprehendi patere ex eorum qui de his
diſputarunt di fcordia ; ciim de ifta re , neque inter ſapientia profeſſores ,
neque inter ipfos medicos conveniat. Ma poiche Io in par te vi ho diviſato
a’quali tempeſtoſe procelle di litigj ediconteſe la medicina tutta ſoggiaccia ,
diſconveneyol coſa non farà ', ch'Io mi ſtudi per avventura , e mi argome ti di
recarvene brievemente la cagione . Alcuni ſciocca . mente fi perſuadono ciò
ſolamente per colpa deʼmedici avvenire , i quali oltremodo d'onor deſideroſi,ed
avariſfi mi del denajo , e naturalmente ancora riottofi , e ſuperbi, ſi
graffjno ſeipremai , e ſimalmenino ; cercando a ſpada tratta ciaſcuno , ove a
lui venga in concio, altrui travaglia re , e neinichevolmente affitto atterrare
. Così vengono a partirſi in fazioni, e ſempremai a premerſi,e tenzonare , non
altrimenti , che tutt'altri macftri di cialcun'altro me ſtier fi facciano;
perchè faggiamente diffe Eriodo وا T 2 Ka? 148 RagionamentoTerzo 1 Και κεραμεύς
κεραμά κοτέα , και τέκτονι τέκτων Και ωχός πτωχώ φθανέα , και αοιδος αοιδώ .
Che in lingua noſtra riſuona Al fabbro , è'l fabbro in odia : e'l vafellajo Non
puòſoffrir compagno : arde diſdegno Contro un mendico l'altro : el’un cantore
Contro l'altro cantor di rabbia freme. Malo per me fermamente credo , che alcra
di ciò ne ſia la cagione : e che non tanto per uggia , e mal talento deʼme
dici, quanto per mancamento dell'arte medeſima così in certa,e intralciata ,e
dubbioſa no poſſan goder mai, ne pa ce ' , ne ripoſo que', che l'eſercitano.Negià
in tante, e tan te diverſità di ſentiméti ciafcun'altro meſtiere partir fi fuo
le , in quante la medicina ſi parte , ſe già non foſſe , che la filoſofia , e
tutte quelle ſcienze , c'han colla filoſofia qual che attacco , o dependenza ,
alle inedeſime tempeſte del la medeſima ſoggiacer ſi veggono ; nelle quali
malagevol molto , e difficile è lo inveſtigar la verità , licome confeſſa no
que'filoſofi , e medici medeſimi, che d'haver preſte loa lor pruove , e
dimoſtrazioni falſamente ſi pregiano , Nemailetto di ſelva allor , che priva
L'arbor difoglie il venta,ha tante fronde quante , e quante diverſe , e
diſcordevoli fette ha l'anti ca , e la moderna filoſofia ; o in ciaſcuna ſetta
di quelle's quante, e quanto diverſe infra loro fian de parteggiatilo pinioni.
Così de'Peripatetici ſolamente , chi non sa quam to li premano , e li
rintuzzino iGreci ,egli Arabi , eiLa tini Maeſtri ? quorum fudium , dice un di
loro, perpetuum ,ut contradicant, ab aliis femperdiffentiant . Ed a cui non ſon
manifeſte le continue , ed oftinate contefe delle dire Peripatetiche ſchiere
ancora,che nominali chiamano, creali ? E a tanto giunſe la lor riottoſa
oſtinazione , che poco fallò , ch'un dì in Parigi venendo alle mani , nó iſve
gliaſſero nella Francia una nuova , e fanguinofa guerra ci yile . Ed infra i
Reali medefimi chi potrebbemai, co’TO miſti gli Scottiſti rappartumare? e chi
co’Tomiſti i Tomi fti medelimi:econ gli Scottiſti gli Scottiſti ? ma per noi 3
di DelSig.Lionardo di Capoa 149 dipartirci della noſtra medicina, in queſta altro
non è egli per certo di tante , e tante diſcordie cagione , ſe non ſe la
medeſima malagevolezza del rinvenir la verità delle coſe naturali . E ciò
ben’avvisò Galieno medeſimo, ove quel, le parole di Ippocrate va in prima
chiosãdo xehosganemi il giudicio difficile : ο λόγG- δ'αν ηκρίσης άη , το
κρίνεσθαι παρ' αυτό τα ποιητία .χαλεπος και δυσθήρατός εσιν όγε αληθής , ως
δηλόι και το πλήθG- των κατα την ιατρικής τέχνης αιρέσεων •ου γαρ αν άπερ οίον
τ' ήν ραδίως ευρεθήναι το αληθές , ας τοσούτον ήκον αντιλογίας αλήλοις οι
ζητήσαντες αυτό τοιούτοι τε και τοσούτοι γενόμενοι . 11 giudicio , dice egli ,
fi è la ragion medeſima : poichèper quella le coſe , che da far fono , fon
giudicate. E certamente egli è difficil molto , e malagevole , a rinvenire, Io
dico il giudicio vero , il qual manifeſtamente ravvifarfo fà dalla diverfità
delle fetre della medicina. Concioffiecofachè le agevol foſſe il xin venir la
verità , non ſi ſarebber tanti , e tanti valent'huomi ni , che per imprenderla
con ogniſudio ſi ſono affaticati, in colante ſette partiti . Fin qui l'avveduto
Greco.Manoi più avanti procedendo ci avviſizmo , il rinvenir la verità effer
certamente molto più malagevole , o piùardua imprefa aſſai di quel', che
s'immagini , e dica Galieno . Ad inve Aigar di ciò la ragione convien ridurci
amemoria , che noi non men , che gli altri animali , poveri , e mudi affatto di
qualunque , comechèmenoma contezza delle coſe,naſcii mo ; verità così chiara ,
e conoſciuta per ognuno, che non le fa d'alcuna pruova meſtiere , e molto ben
ad ogniora Iz ravviſiano, e Platone ſteſſo venne coſtretto a confeſſar fa ,
avvegnachè altra volta faccia ſembiante di tener con truia opinione , dicendo ,
che'l noſtro apparare altro in vero egli non ſia , ſe non , che un rammentarci
quelle co ſe appunto nredelune , che già noi prima di naſcere ſape vaino ; ed
imperciò tutte le notizie ſenza fallo conviene , che da noi ſteſſi l'appariamo;
ma come, e da cui,non èma lagevol troppo per avventura ad inveſtigare.
L'animanoſtra , alla quale , come a parte più nobile , e più principale
dell'umana compoſizione, ſolamente con. viene l'apprender le coſe ; ondefolea
ſaggiamente Epicar modi 150 Ragionamento Terzo mo dire: la mente vede, la mente
ode, l'altre coſe tutte fon forde , e cieche ; l'anima noſtra lo dico , comechè
in corporca forma , ed inviſibile ella fia , in sì fatta guiſa no dimeno unita
, ed avviticchiata , per così dire, ella al cor po ſi ritrova,che ſe queſto
dalle ſenſibili coſe di fuora toc co , emoflo ad eſſer mai viene , varj , e
varj penſamenti in effa egli è valevole a ingenerare ; c ciò avvicne qualunque
ora elleno toccano ,e muovono le fibre de’ncryi , le quali a guiſa di fila
ſottiliflime di ſeta trapunte in ricamato pan 10, {parce per tutto ilcorpo
ravviſanſi, e che queſte poi avvalorate da un diſcorrente , e ſottil licore ,
gli avvti mo viinenti alla prima loro origine riportano nel cerebro principal
ſedia dell'anima , ove quella il comprende, o per me dire ſente . E le fibre
poi col venir variamen te premute da quelle parti del corpo , che ſi chiamano
organide'ſenſi, ecoltorcerſi, e col piegarſi in varie, ed in varie maniere sì ,
e tal mutamento ricevono ne pori, enel ſito delle lor particelle , che da loro
, e dalla diverſità de li ſenſibili oggetti di fuora la diverſità del
comprendera , o fia de'ſenſi,ncll'animna procede . Quinci ſcorger ſi puore ,
chei ſenſi ſono quelli , per li quali non altrimenti , che per le fineſtre liz
luce , entrano nell'anima le prime contezze delle coſe, e da queſte ella poi
altre , ed altre contezze col mezo del diſcorſo tracndo , tratto tratto ſe ne
viene ad arricchire ; ma come, e dove ſi riſerbino l'acquiſtato notizie , e
come l'anima l'abbia più , o meno pronte, quae do valer ſe ne vuole , e come
per ſe ſteſſe talora all'anima firappreſentino , è malagevoliſſimo ad
inveſtigare ; ne queſto propoſito più che tanto appartiene forſe a noi il fa
perlo . Ed al ſentir dell'anima ritornando, lo dico libera mente , e confeſſo ,
che i ſenſi nc ſe medelimi , ne l'anima mentir non poſſono gianmai; inperocchè
i ſenſi le im preſſioni degli eſterni ſenſibili oggetti mai ſempre tali all'
anima rappreſentano , quali eſſi appunto le ricevono, fen za curare, o
prenderſi d'altro brigi. Verità , la quale non ſo lo come de'peripatetici le
ſcuole col maeſtro Ariſtotile abbiano ofato negare;cocioffiecofachè ſe nella
maniera , la qui Del Sig.Lionardodi Capoa. 151 quale effi fingono andaſſe la
faccenda, ogni fabbrica di no Itro diſcorſo certamente a terra ne verrebbe,
come faggia mente avviſa quellaltilimo filoſofante , e poeta latino: .. Vt in
fabrica ſipravaſt regula prima:“ Normaque fi fallax rectis regionibus exit: Et
libella aliqua fi exparte claudicat hilum : Omniamendose fieri :atque obſtipa
neceſ umft: Prava : cubantia : prona : Supina: atq; obfona tecta Iam ruere ut
quædam videantur velle: ruantq; Prodita judiciis fallacibusomniaprimis. E ſe i
ſenſi mai poteſſero una ſol volta , o ſe , o altri ingão Nare , ſi toglierebbe
via certamente dal mondo ogni con tezza , ogni giudicio , ogni fede ; e non per
altro in vero gli antichi Padri della Chieſa così acerbamente ripigliaro no i
filoſofanti d'una sì erronica , e ſciocca dottrina : Re cita Ioannis
teftimonium , dice Tertulliano , quod audivi. mus ; quod vidimus oculis noſtris
, quod perfpeximus, ma nus noftræ contrectaverunt de verbo vitè falfa utique
teſta -tio fi oculorum , aurium , & manuum fenfusnatura mer titur . Ma a
chi mai ricorrer ſi dovrebbe per conoſcer, ed ammendare i fallimenti di ciaſcun
ſenſo ? ad altro forſe ? certamente no; imperocchè dell'uno non meno l'altro ſen
ſo farà ſoſpetto difalſità , e d'errore; ſi chiederà forſe aju to agli altri
ſenſi tutti : manon ſono queſt'altri ancora ſom ſpetti di falſità ? o ſia una ,
o ſieno più le perſone , che ne deano teſtimonianza , nulla importa,fe di eſſe
tutte è dub biofa , ed incerta la fede . O forſe, come Ariſtotele ſi per Snade
, gli errori de'ſenſiconoſcerà la ragione ? ma come potrà cio mai eſſa fare ,
fe per avvederti dell'error d'un ſenſo , ad ammendarlo , dineceſſità le fa
meſtieri fervirſi dell'opera d'un'altro ſenſo , e di notizie , e di regole col
me. zo de'ſenfi parimente avvte . A queſte, e ſimili malagevo lezze ponendo
mente peravventura Ariſtotele , ne aven do altro rifugio dice, che ben può la
fagione giudicare del l'error d'un ſenſo colla ſcorta d'un'altro ſenſo , il
quale abbia però più ben fatto , e ſquiſito l'organo ; e fi ſerve egli per ciò
dimoſtrare dell'eſemplo dell'anello , il quale mello و IS2 RagionamentoTero
meſlo ſenza frámettervi ſpazio notabile ditempo, or nel l'uno , or nell'altro
dito della inano appare al ſenſo del tatto non uno , ma due eſſer gli anelli ;
il quale per error del tatto vien ſecondo lui avvertito , ed ainmendato dalla
ragione col cõſeglio del ſenſo della viſta: l'organo del qua le è più
eccellente di quello del tatto . Ma a chi per Dio un sì fatto riparo vano non
ſembra; poichè quancunque l'eccellenza dell'organo perfetta aſſai , e compiuta
ſia , nó ſarà mai valevole ad operare, che quel ſenſo non men degli alori non
vada ingannato . E per valermi del medeſimo p · lui rapportato eſemplo del
ſenſo della viſta, non s'inganna queſti , ſecondo cheporta opinione il medeſimo
Ariſtote. le , ne'colori dell'Iride , e delcollo della colomba; anzi ſe
poteſſero mai i ſenſi ad alcuna forte d'errore ſoggiacere , fi ritroverebbe per
tale , che ben ſottilmente vi badaſſe, affii più agevolmente ad errare il ſenſo
della viſta , che tutt'al tri ſentimentiincorrere . Ma lo forte mi maraviglio
poi , come non avviſaffe Ariſtotele , che ſoventemente l'errore del ſenſo , che
ha più eccellente l'organo , da un'altro fen fo , di cui l'organo è aſſaimeno
ſquiſito conoſcaſi , e cor reggafi; comeincontrarſuole nelremo dentro
dell'acqua, ove l'organo della viſta dal toccamento vien ricreduto, e ciò lo
dico favellando fecondo i ſuoi medelimi ſentimenti. E alla fine domáderei ad
Ariſtotele, ſe i ſenſi de'quali egli intende doverſi la ragione ſervire per
riprovar altri ſenti menti , ſieno anch'eglino tali , e ſe tali pur ſono ,
perchè cglino ancora non potranno eſſer fall? adunque mai potrà giudicar la
ragione appiccata allc lor pruove , c certamen te mal può convincer perſona di
falſità quel Giudice , al quale convenga dineceſſità valerſi di teſtimoni
ſoſpetti. E a ciò riguardando forſe Ariſtotele con la ſua uſata poca fermezza
in alcun luogo dice , i ſenli non potere in modo alcuno errare, cche ſia
debolezza d'intelletto i ſenſi per la ragione laſciare. Ma quantunque non
poſſano iſenſi , ne ſe , ne altri in gannare , non però di meno poſſono molto
bene allo in telletto , cui propianente il giudicar s'appartiene , effer 1
cagio Del Sig.LionardodiCapod. 153 cagione d'errore , e d'abbagliamento ;
ecomechè poffafig avventura l'inganno , o l'errore ſchivare col non precipi tar
coſto ,e inconſiderataméte il giudicio, ma ſoſpedédolo, e ritenédolo finattanto
che fiarrivi a quell'evidéza de’sē timenti , tanto , e tanto celebrata per
Epicuro : tutta fia ta ,perciocchè ne in tutticorpi,ne in ciaſcuna particella
di quelli, tra per la lor picciolezza , e per altro impedimento egli non è
a'ſenſid'internarſi , e di profondarſi conceduto, e quando ben loro ciò venga
permeſſo , ne men altro egli no certamente comprender ne potráno ſe non
ſecotali im preſſioni ſolaméte,che da quelliricevono , pchè no già mi ga i
corpi, ma qualche operazione ſolamēte de'corpi vien loro ad eſſer manifefta ; ma
la ragion poiè quella chedal le varie , e varie operazioni de'corpi , varie , e
varie core alla natura lor pertinenti imprende ad inveſtigare. Ma pera ciocchè
dell'operazioni medeſime, che per li ſentiinenti s'avviſano , varie , e diverſe
eſſer poſſono le cagioni , e nel trarne argomento vezzoſa talora , e
ingannevole loro ſi fa davanti Falfa di verità ſembianza , e larvä, agevolmente
la ragion vi s'inganna, giudicando fallaces mente ,da tale cagione un'effetto
naſcere,che da altra cer tamente avviene ; e come già cantò l'Ennio noftro Ita
liano : Veramentepiù volte appajon coſe, Che danno a dubitar falſa matera Per
le vere cagion , che ſono afcoſe, così s’alcun dicelle, che l'oriuolo collo
ſtelo , e colmare tello tratti da contrapeſi,e da ruote,n'additi l'ore del
giore no , vero per avventura egli direbbe ; ma non mai potreb be certaméte
affermarlo,potendo altri ed altri ſtrumentila medeſimacoſa operare . Perchè
ciaſcun fillogiſmo, che intorno alle coſe naturali formaſi,probabile ſolamente
ef ſer può , non già dimoſtrativo , ſe pur toglier non nevo gliamo alquanti ben
pochi, che da quegli effetti ſi dedu cono , i quali d'una ſola , e certa
cagione poſſono avveni re ; ſicome per avventura farebbe il dire, dover eſſer
ne V ceſke 154 Ragionamento Terzo ceſſariamente corpo ciò , che gli organi
de'ſentimenti ne muove ; concioſliecoſachè la coſa, che muove, a ciò fare è ben
di meſtier , che tocchi; e'l toccamento , ſalvo che da corpo ,non ſi può
incontrare: perchè ſaggiaméte Lucrezio: Tangere , vel tangi , niſi corpus,
nullapoteſt res. Così ancora , che'l corpo mentre egli è dimenſionato poſſa in
parti parimente dimenſionate eſſer diviſo . Che tra uno, &altro corpo eſſer
nó pofta altro di divario,ſalvo , che nella grandezza , nella figura , nel
moviinento, nel l'eſſer diviſo in parti, o non divifo, e nell'aver le parti ol
tre alle già dette vario il ſito, e l'ordine tra di eflo loro ;co
ciofliecoſachè altro di queſto non poffa, ne al corpo, ne al le parti , nelle
qualiil corpo ſia diviſo , avvenire . E però è da dire , la diverſità , che
così grande eſſer noi veggia mone'corpi dell'univerſo , altronde certamente non
pro cedere , che dalle coſe già dette , che'l calore , la freddez za , la
ſaldezza , il diſcorrimento , icolori, ei ſapori tutti , cd altre ſomigliantiqualità
, le quali a noi parc , che nc corpi dell'univerſo ſieno jaltro verainente non
ſieno , ſe non ſe ,o l'accennate coſe : ſe veramente elleno ne'corpi ſono : e
ſe ſono in noi, cffetti di quelle , o per me' dire de' corpi per
quellemodificati . Maqueiti ,e ſomiglianti argomenti ſon così pochi , e
generali, che per lor non ſi può al vero conoſcimento di quelle particolari
cagioni pervenire , ove ſenza fallo, del 12 natural filoſofia il pregio tutto è
ripoſto . E ciò sì bene fu conoſciuto al principe di tutti greci filoſofanti
Demo crito , ed a molti ancorde’ſavjantichi, che perciò in ap portando le
cagioni delle naturali apparenze, delle fole probabili ragioni s'appagavano; e
ſaggiamente il Padre de Criſtianifiloſofi Agoſtino il Santo ebbe a dire:latet
ve rit atis quærenda modus; e'l gran Galileo de Galilei , che tanto abbiun
veduto a’dì noſtri gir dentro alle ſecrete coſe delle ſcienze, che al parer del
dottiſſimo Obbes : Primus aperuitvobis Phyfica univerſaportamprimam : pur dir
ſo leva eſſer pochiuimicoloro , che qualche particella di filo fofia ſi
ſappiano , e Iddio ſolamente ſaperla tutta , eche quan Del Sig.Lionardo di
Capod. 155. * quanto più in perfezione monterà la filoſofia , tantomeno merà il
novero di quelle concluſioni, che da quella dimo ſtrar ſi fogliono. E'l
celebratiffino fondator della peripa tetica ſcuola , avvegnachè talvolta
d'altro ſentir faccia veduta , pur tanta forza ha la verità , che gli potè purc
al la fine una volta trar di bocca , e far apertamente confer fare , eſſer la
noſtra mente alle coſe più manifeſte della na tura , qual'occhio di notturno
augello a'rai delSole ; e 'altrove , che diquelle coſe , che ſono a’noftri
ſentimenti naſcoſe allor baſtevolmente d'aver ragionato penſar dob biamo ,
quandoſecondo il diritto della ragione provevol mente , come eller poffino ne
ragioniamo. E quel Fio rentin filoſofo , c poeta fa , che ſecondo il ſentimento
del la ſua peripatetica ſcuola la ſua Bice gli dica , e facciagli a ſapere .
dietro a’ſenle Vedi, che la ragion ha corte l'ali . E innanzi parimente avcagli
colei detto : Erra l'opinione de'mortali Ove chiave di ſenſo non differra . Ma
non penſaron mai, licome far certamente doveano , o pure il naſcoſero , e Dante
, ed Ariſtotele, le naturalico ſe eller a' ſentimenti, non perla lontananza ſolamente
de gli oggetti, ma per altro ancora vietate , e che noicolsé ſo non già le coſe
, ma ciò , che in noi le coſe operino ſo lamente comprendiamo. Verità aſſai ben
penctrata da quegli antichi ſavj , che diſſero appo Aulo Gellio : (1)om xes
omnino res, que fenfushominum movent são osis , cioè a dire , come egli ſpiega
: nibil eje quicquam quod ex fefe conſtet , ncc quod habeat vim propriam
naturam ; fed om nia prorſum ad aliquid referri:taliaque videri effe,qualis
fit. eorum ſpecies, dum videntur: qualiaque apud fenfusnoftros, quopervenerunt
creantur,non apud fefe, unde profeeta sunt. Ma a che più da filoſofi ,eda’Poeti
mendicar teſtimonian zein coſa cotanto manifeſta , la qual dalla verità medeſi
ma ne fu ſpiegata per bocca del ſapientiſſimo Re Salamo V 2 ( 1 ) lib.iLcap.i .
ne : 0 m I56 Ragionamento Terzo ! ne : Omnibus, quæ fiunt fubfole hanc
occupationem pesſimam dedit Deus filiis hominum , ut occuparentur in ea .
Intellexi quod omnium operumDei nullam poffit homo invenire ration nem eorum
quæ fiunt ſubfole , & quanto plus laboraverit ad quærendum tantò minus
inveniet . Etiam fi dixeritſapiens ſe ea noſſe ,non poterit reperire. Or qual
contezza dunque aver mai potrà la incdicina intorno alle coſe a ſe
appartenenti,ſe quelle medeſime fo no , ove s'intralcia , e s'inviluppa
maggiormente la filoſo fia ? Ne in ciò la medicina , dalla filoſofia è
differente , re non fe quella in più largo campo forſe va ſpaziando, e nel la
contemplazion ſolamente , o ſemplice diſcorſo s'acche ta : e queſta ha per ſuo
fine, e berſaglio il porre in opera• Perchè ſicome la filoſofia , la medicina
ancora di pochili me coſe naturali conoſcer douraſi , e quelle forſe poco, o
nulla al medicar ſaranno acconce : intanto , che non ſap piendole non è gran
fatto per huom da curarlene. Ma per diſcendere in qualche particolarità,e far
quãto più ſi pof fa una tal verità manifeſta : non vi par’egli , o Signori ,
che alla medicina ſovra tutt'altre cofe farebbe di meſtierc,che gutte le parti
liquidc, e ſalde del corpo umano, e l'aficio le facoltà, e la natura ne foſſero
interamente manifcfte? or dove mai ne fa ſcorta la coſtruttura dello ſtomaco ,
degli inteſtini , del fegato , della milza, delle reni, della veſcica, del
pulmone , del cuore , delle glandule , le quali ſparte per tutto il corpo poco
men che innumerabili fono , ele più di effe di canta picciolezza,che fenza
l'ajuto del micro fcopio non ſi poſſon raffigurare , per tacer d'altre , e d'al
tre parti ; e quantunque a tal ſegno di perfezione eller giunta a'dì noſtri
veggiamo la notomia , che nulla più : nientedimeno non ſi è egli potuto , ne
men ſi potrà giam mai camminar ſicuro , ne determinare , ſe non ſe pochiſſi me
coſe intorno all'ammirabile magiſtero de' corpi degli animalized agli uficj,ed
alle operazioni delle parti di quel li.Ed a dir liberaméte il vero , licome
avvenir noi parimen te veggiamo , in tutt'altre partidella filoſofia , e della
me dicina dopo tante induſtrie, e fatiche durate, e dopo tan . ti ſparti ! Del
Sig.Lionardodi Capoa. 157 ti ſparti ſudori per cotanti valent’huomini,altro
alla firms non ſi è arrivato a ſapere,ſe non fe altrimente in verità an dar le
coſe di quel , che s'avviſavano , e davano a noia divedere gli antichi; e
comechè gliocchi de’modernino tomiſti dal microcoſpio avvalorati poco men che
lincei fie divenuti , eche eziandio colla ſcorta dell'avveduto Bilſio apparato
abbiano a fchivare alcuni intoppi aʼnotoiniſti de' vivi animali , per
l'addietro inſuperabili ; impertanto non poſsono in modoalcuno nelle
menomiſfime particelle pe netrare , le quali ſe non vengono ben ſottilmente
avviſa te , e ad unaad una diligentemente conſiderate , Io non ſo in qual modo
ſaper fi pofsa la fabbricazione,e la coſtruttu ra delle parti maggiori, che
ſenza fallo di quelle compo fte, e formate ſono . Perchè egli avvien ſovente
,dover noi in sì fatte bifogne camminare al bujo , attenendone ſola mente a
troppo deboli , e incerte conghietture , e per cal. laje inviluppate andando .
La inalagevolezza inedeſimi, anzi maggiore vienſi ad incontrar poi negli uficj
e nell'o perazioni dieſſe parti ; e quel configlio, che porger ne puote in sì
fatte traverſie il vital notomiſta , fia pur detto con pacedel Valentino , del
Paracelſo , c dell'Elmonte , quantunque grande , ofere ognicredere egli ſi paja
, e che torno d'ogni briga magnificamente ne prometta , fovente ſuole, per la
malagevolezza eſtremadella coſt, ſcarſo , e debole molto riuſcire , e talvolta
anche in tutto inutile ; il che da non altro certamente naſce , ſe non ſe dalla
troppo fquiſita, e dilicata finezza del lavorio de ' corpi degli ani mali . Ma
della fabbrica del cervello cotanto intralciata,e ma ravigliofa , Dio buono,
che han potuto giammai, o gli an richi, oimoderni Notomiſti di certo raccorre ?
non è ſta ta egli ogni lor fatica inutil ſempre,e vana , facendovi ma la pruova
la loro induſtria , e’l loro ſtudio ? Egli ſono le fi bre , che'lcervello
compongono , così minute, e ſpeſſe , e ſottili , e sì la for teſſitura , e
reticulazione è dilicata , e la lor ſoſtanza molle , che a volerle ben partire
fenza riſchio di romperle , o di perderle , inalagevole anzi impoſſibile : ogni
158 Ragionamento Terzo ) ogni impreſa rieſce . E sì, e tanto egli è ſpinoſa ,
ed intri cata, che'l gran Renato delle Carte reſtādovici anche egli tutto
inviluppato , e preſo, ragionevolméte quell' huom, ch'egli compoſe per molti
valenc'huomini vēne propiamé te idcale, e ſuo luomo appellato . Ma ſe tanto
avvien del. le parti grandi del corpo perciaſcun vedute , che farà cgli da dir
poi delle picciole , inolte , e inolte delle quali ha forſe la natura a nobiliffmi
uficj, ed operazioni deputate ? eci ha alcune di eſſe parti cotanto menome , e
ſottili , che non ha mano cosìſcaltra , ed avveduta , che poſſa ſperar di
venire a capo di dividerle co'l ferro giammai. E altre vi fono più ſottili
aſſaile quali appena per la lor sóma piccio lezza ſi poſſono col più fino ,
eſottile microſcopio ravvi fare ; E di queſte ancora vi ſono altreminori , e
quaſime nomillime linee , nelle quali inutile ſi prova ogni arte , vano ogni
ſtrumento per ravviſarle . Ma chi mai potrà le particelle del ſangue darne
piena mente ad intendere , le quali ogni chimico ritrovamento per farne notomia
vincono ? Chiquelle del ſugo nutritivo , della linfa , del licor pancreatico ,
dell'orina,del fiele ,del la mucilaggine, che veſte le membrane, detta dal
Paracel . ſo finovia , e d'altre , e d'altre diſcorrenti ſoſtáze del cor po
delle qualiinfin’ad ora nulla ſe ne fa , ne ſe ne potrà giammai per avventura
per huom ſapere, comechè ſcorto, e diligente nel meſtier del far notomie egli
fia . E chi finalmente aggiugnerà a capire , ſe non ſe per in certe , e
fallabili conghietture , o la grandezza, o la figu ra , o'l lito, o'l movimento
di quegli inviſibili corpicciuoli, che ogni inenoma particella delle falde , e
delle liquide parti del corpo dell'animale compongovo ? E ſe ciò all'u mano
ingegno è naſcoſo , come potrà egli mai paſſar oltre a-ſpiarne le facoltà, gli
uficj, e l'operazioni , e tute'altre biſogne , che di neceſſità all'economia
degli animali s'ap. partengono . E come ravviſar mai potrafli , da chi , ed in
qual manie ra s'ingencri il Chilo , e comc, e per chi a cambiar ſi ven ga in
ſangue , e coine il ſangue ad ogni ora in tante, e tan te mae DelSig.Lionardo
di Capoa 159 te maniere ſi muova, e mai ſempre caldo ſe ne ſtea, e ten ga in
vita i membri tutti dell'animale , e come ſi faccia il ſenſo, e'l moto: e
cante, e tante altre operazioni,le quali non ſappiêdoſi, ne men certamente
conoſcer fi potrebbono gli ſtravolgimēti di eſſe,cioè a dire le malattie e
queſte igno rādoſi,come poi ſi potranritrovar certieſicuri argomenti da
riſanarle ? Ma per darvi anco qualche ſaggio dell'incer rezza degli
antivedimenti de'medici , ſe non ſi fa , ne può ſaperſi giammai coſa , che
certa , e ſicura ſia dell'orina , e de polli ,chi può indovinarmai, per Dio ,
non che ſalda mente ſapere, tutte quelle cagioni , per le quali eglino ,
malimamente ipolli, anche in un momento ſpeſſo ſpeſſo variando, così
ſtranamente ſi cambjno ? che direm poi de gli altri ſegnali della medicina ,
onde argomentar parimé. te ſogliono imedici le malattie , e le cagioni di eſſe
non meno de’polſi, e dell'orina , anzi aſſai più di queſti talora incerti , e
fallaci ? Certamente non mai potrà compren derſi perloro la qualità del inalore
, e la cagione argomé tare. Ed ebbero ſenz'altro il torto di sì fatti ſegnali
cotá to millantare i greci maeſtri, ſpezialmente Galieno, come ſi può ſcorgere
, per tacer d'altre ſue opere , in quellibro, ch'egli a Poftumo intorno a tal
materia ne ſcriſſe; che lo per me credo , che quelle , che a forec loro ne
riuſcirono , certamēte colcarbon bianco ſi ſarebbon potute ſegnare . De'cibi ,
e de’medicainenti, e delle loro facoltà , e valore nulla certamentenemen potrà
ſaperſi, nonſolo per defimi, ma per quel, che poſſano nel corpo umano opera re
. E comechè i Chimici più che tutt'altri d'aver delle già dette coſe più pieno
conoſcimento giuſtamente vantar potrebbono ; pure quel che ne fanno riſpetto a
quel che rimarrebbea fapere è poco , anzi nulla . E ſon di vantag gio tutte le
pruove non altro , che probabili , e poco ſalde conghietture ; perciocchè , non
ſolamente imcitrui(liami pur lecito al preſente uſar termini dell'arte ) ma
l'aria an cora , e'l fuoco , e ivaſi, e tutt'altri ſtrumenti , che vi s'a
doperano, ragionevolmente d'errore , e d'inganno pofſon render ſoſpetta ognilor
più diligente , e accorta notomia, ſe me 1 con 160 RagionamentoTerzo ne ſeco
conmeſcola per entro a'corpi, che ſi dividono qualche lor particella , che
magagni , emuti la lor compleſſione i E mallimamente l'aria, in cui tanti,e sì
diverſi corpicciuo li diſcorrono ; i quali dalla terra , e anche altronde melli
fuora , e infra quelle monome particelle del corpo diviſo per avventura
meſcolandoſi , agevolmente le potranno in altre cambiare. E'l fuoco d'altra
parte introducendovial cune di quelle particelle , licvi , e ſottili , che
rubate ad altri corpi ſuol con leco ſempreportare ; o pur portando per li pori
del vaſo le medelime particelle delcor po del quale ſi fa notomia , e
maſsimamente le più nobili, ele più operative , che in eſſo dimorano : comechè
la boca ca del vaſo ſia bene, e come dicono, ermeticainente turata ; o purcolla
ſua forza nel digeſtire , e nel formentare , e nel lo ſceverare,ch'egli fà le
particelle del corpo , del qual li fa notomia , diſponendo altramente quelle ,
e altramente meſcolandole , e dando lor movimento , per nulla dirdel. la
grandezza , e della figura loro per eſſo diverſamente cambiate . Perchè fe
tante , e tante cagioni poſſono alla fotomia delle coſe intervenire,come potrà
egli mai ilChi mico notomiſta co'ſuoi argomenti vantuti dipienamente ,
conoſcerle : Anzi tanto egli ne ſaprà meno, quanto mag giormente
faticandovil'havrà guaſte, e ſconce. Adunque ſe vaniancora , e infruttuoſigli
avviſi , e gli argomēti de'più intimifamigliaridella natura ci rieſcono; e ſe
nulla approda la più diligente , e ſottil notomia delle coſe a ſpogliar dalle
dubbietà , e dalle incertezze la noſtra Medicina : Io per mè non ſaprei qual
conſiglio prender mi doveſſi a dichiarirla dalle ſue nubi . Ne è da tralaſciare
a queſto propoſito quanto agio s’a veſler preſo i Medici
filoſofantidall'incertezze della me, dicina a ragionar ſovente , e piatir nelle
ſcuole or d'una , or d'altra parte, più per vaghezza d'ingegno, che per amor
della verità , difendendo tutte opinioni, ed ove lor con cio vi ene , giudicando
non altrimenti che quel ſottiliſſimo filoſofante Pittagora faceaveder della
filoſofia de omni re pervalermi delle parole di Seneca ) in utramque partem
diſpu 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa . 101 difputaripoleexaquo.Perchè nõ è da
maravigliare, ſe Dica nilio Egeo prendendo a difender cento contrarie opinioni
in altrettanti capi partite , diede a diveder manifeſtamente l'incertezza di
cotal arte . Il primo capo delle ſue conte ſe ſiè,che egualméte dal padre,e
dalla madre fiinādi fuo ra il ſeme a ingenerar gli animali. Il ſecondo , che
non d'ambedue ſi mandi. Il terzo, che ſi mandi da tutto'l cor po . Il quarto ,
che iteſticoli ſolamente v’abbian parte . Il quinto , che'l cibo nello ſtomaco
per opera del calor ſi (maltiſca. Il ſeſto , cheno . Il ſettimo, che ciò ſia
per lo ſuo sfacimento , e ſtritolamento . L'ottavo , che no . Il nono ,che ſia
dalnativo fpirital calore . Il decimo , che no . L'undecimo , che per lo
corrompiincnto del cibo fia . Il duodecimo , che no. Il tredecimo , che avvegna
per propietà de' ſughi. Il quartodecino, che no . Il quinde cimo , che il calor
natio a qualità s'appartegna. Il ſede cimo , che no . Il diciaſettefiino, che
per lo calore avve gna la digeſtion de'cibi. Il diciaotteſimo, che no . Il di
ciannoveſimo , che la diſtribuzion de'cibi lia per attraimé. to di calore . Il
venteſimo , che no . Il ventuneſimo , che dagli ſpiriti la digeſtion ſi faccia
. Ilventidueſimo, che no . Il ventitreeſimo cheper opera dell'arterie ſi
digeſtiſca Il ventiquattreſimo, che no . Il venticinqueſimo, che ciò ſia
permancamento a vuoto accompagnato . Il venteſimo feſto , che non per ogni
mancamento eglilia . Il venzette. fimo, cheil glauco degli occhi per mancanza
d'alimento al condotto viſivo s’ingeneri. Il ventotteſimo, che no. Il
ventinoveſimo , che quel naſca per diſcorrimento di fan , gue nelcondotto
vilivo . Il trenteſimo , che no . Il tren tuneſimo , che dalla graſſezza degli
umori , e dalla eſala zione ſi faccian gli occhi glauchi. Il trentadueſimo, che
no , Il trentatreeſimo , che la freneſia dal diſtendimento delle membrane del
cerebro , e dal corrompimento del ſangue fi cagioni . Il
trentaquattreſimo,cheno . Il trentacinque fimo , che per ſoverchianza di calore
ella non avvegna . Il trentelimo fcfto, che no . Il trenzetteſimo, che per infiam
magione ella ſia . Il trentottelimo , cheno . Il trentano X volimo, : 162
Ragionamento Tero 1 1 velimo, che da infiammagione ſi cagioniillecargo. Il qua
ranteſimo, che no . Il quarantuncfimo, che per diſtendi mento , e per
corruzione egli ſia . Il quarantadueſimo che non già per ſoverchianza , ma per
la qualità dell'eſa lazione avvegna. Il quarantatreeſimo che la fames e la fere
ſia di tutto il corpo . Il quarantaquattreſimo, che, dallo ſtonxaco folamente
provenga. Il quarantacinqueſia mo , che ſia ſol nel penſiero , e
nell'immaginazione . !! quarantefimo feſto , che la ſete per diſſeccamento
s'accen da . Il quaranzetteſimo,cheno . Il quarantotteſino, che nello ſtomaco
due diverſe operazioni ſi facciano . Il qua rantanoveſimo , che no . Il
cinquanteſimo , chedalla pelli cella dentro dal cerebro traggano il lor
principio i nervi . Il cinquantunelino , che'l traggan da quella di fuora . Il
cinquantadueſimo, che le parganti medicine operino per lo corpo fpargendoſi. Il
cinquantatreeſimo, che colloro fcorriincnto folamente , ſenza fpargerſi vuotino
. Il cin quantaquattreſimo , che da uſar fieno purganti medica nienti.
Ilcinquantaciirquelimo, che no.Il cinquantefimo fefto ,cheda ſegnar fia . Il
cinquāzettefimo , cheno . Ilcin quattrotteſimo,che ſia da dare a febbricoli il
vino. Il cinquá sanoveſimo,che no . Il ſeſsãtefimo,che adoperar debbano il
bagno. Il ſeſsātnneſimo che no.Il feſtancaduelimo,che nell' accreſcimento
de’nrali fia da far if crifteo agl'infermi. Il fola sātatreclimo che no.Il
feſsátaquattrefimo, che in ſu’l prin cipio delle malattie fan da uſar
leunzioni. Il ſeſsátacinque fimo,che no.I)fefsātefimo fefto ,che nella teſta
poſſanoado perarſi i cataplaſini. Il fellazettelimo , che no ; ma ſola mente vi
li debbano porre coſe odorifere . Il feflantotteli mo,effer giovevoli quelle
coſe , che muovono a vomito . Il fefsancanoveſimo , che no . IHfettantcfimo ,
che dal cuor fi dirami al corpo ilſangue . Il fettantunelimo , che no . Il
ſettantadueliino,che gli fpiriti dal cuorfi mandiitos ne dall'arterie ſien tratti
. Il fettantatreeſimo , che no . Il fettátaquattreſimo,che da per ſe il cuor ſi
muova.Il ſettan tacinquefimo , che no . Il ſettantelimo ſeſto , che l'arterie
per lor natura ſieno ſtanza del ſangue . Il ſettanzetteſimo , che 1 Del Sig.
Lionardo di Capoa 163 che no. Il ſettantotteſimo, che tuttii vali che
ſopraſtano, e gonfiano , fieno ſemplici. Il ſettancanoveſinio , che i
ricettacoli ſieno invoglie inteſſure. L'ottantelimo, che per mezzo
de'nervifacciali il ſentimiento , el moto . Lottan tuneſimo , che no .
L'ottantadueſimo, che'lcuor fia prin cipio delle vene. L'ottantatreeſimo,che
no. L'ottantaquat trelimo, che ſia il fegato . L'ottatacinqueſimo , che no .
L'ottanteſimo ſeſto che ſia il ventricolo . L'ottázetteſimo, che no .
L'ottantottelimo, che tutti i ricettacoli ſi dirani no dalle pellicelle, che
veſtono il cerebro. L'ottantanoveli mo , cheno . Il nonanteſimo , che'l pulmore
ſia priucipio dell'arterie . Il nonantunefiino , che no . Il nonantaduefi ſimo
, che quell'arteria , la quale ſta preſſo alla ſpina , ſia di tutt'altre
arteric capo. Il nonantatreeſimo , che no . I nonantaquattreſimo , chedal cuor
naſcano tutte larteric . Il nonantacinqueſimo, cheno . 11 nonanteſimo feſto ,
che dalla membrana del cerebro traggano i nervi origine, non già dal cuore . Il
nonanzcttcrimo , che no . Il nonantot tcfimo , che non nel cuore , ma nella
teſta la potenza it tellettuale dimori . Il novantanoveſimo , che nelcuore . Il
centeſimo , che nel ventricino del cerebro ella ſia . Ma di cotante rivolture ,
e mutamenti d'opinioni, e di ſentimenti certamente egli non è da maravigliare,
ſe tanto forſe avrebbe ancor fatto Galienomedeſimo , ove in con cio gli foſſe
venuto . E di ciò egli ſteſſo ne' ſuoi libri ſi vā millantando ſommamente di
poter improvviſo cial cuna ſerta dc'medici de' ſuoi tempi a buona ragion difen
dere . Perchè ſe dir non vogliamo , eſser egliſtato Galie no un riottofo
giuntatore , o berlingatore ſofiſta , che co' ſuoi fiſicoſi aggiramenti per
diritto , e a torto il tutto a di fender togliendo , uccellar n'aveſſe voluto,
convien di ne ceflità affermare , ciaſcuna ſetta de'ſuoitempi anche ſeco do il
ſentimento di lui eſsere Itata igualmente ragionevo le ; e conſeguentemente a
niuna certezza eſſer la medi cina appoggiata . EccmechèGalieno ciò dimenticando
vanti fovente di poter far pruova de'luoi detti, avendo sé pre in lor concio
nuove diinoſtrazioni ; non però di meno X 2 (il ci ta , 7 164 Ragionamento
Terzo il dirò pur con buonapace di lui) le ſue millanterie row vente ſogliono
in vaniſimo vento riuſcire. Anzi egli me deſimo dimentendoſi talvolta , e in
più luoghi contaſtan doſi, ne fà della fua beſsaggine , e della fua poca fermez
za avvedere . Quid enim , dice di lui ſtizzoſamente gridan do il Giuberti ,
quid enim in Galeni fcriptis frequentiusoc currit , quàm ipſumplerumque videre,
quod alibimultis ra tionibus fueraidemolitus,id conſtantiſime afferere ? ERi
nieri de'Solenandriznon men delGiubcrti della dottrina di Galieno
intendentiſſimo, così parimente avviſollo . Gale nus , quiuberrimo ingenio fuit
, ca oratione liberali ferè prodigus , innumeros propè confcripfit libros: in
quibus rerü, &dogmatum multitudine plurima ſuntdiſcrepantia , nec fo bi
ipfis conſentientia ; quafi quis attentè cum judicio legit ,fi quis diligenter
in unum colligit , ingens chaos agnoſcit. Ma lo dirò di vantaggio ( il che non
mi ſarebbe per av ventura peralcun creduto, ſe con l'autorità del medeſimo
Galicno Io non gliene facelli certa , e ben falda pruova ) che ſe ancor la
medicina foffe dattanto , che a ſaper dicer to molte , e molte di quelle coſc
aggiugneſſe , le quali per addietro dicemmo eſſer di quelle ,chein quiſtion
cadono tutto'l giorno , e più altre affai: ne meno alla ſicura nell’o perar
ſarebbe ; abbiſognado a tale effetto, ſecondo Galie no , che molto bene in
prima la propria natura , e com plexió di colui ſi conoſceſse, il quale ſarebbe
da medicare. il che ſecondo, che cgli medeſimo apertamente confeſſa , non ſi
può per partito alcuno baſtevolmente giammairav viſare , Ma ſe sì poco da noi
in medicina per la ſua dubbiezza è da avere a capitale la ragione, non però
dimeno e'non creda alcuno , che ſicura nc fia la ſperienza ;anzi per mag
giormente incerta, e dubbioſa più avanti per noi ſarà mo Itrata . Perchè
ſeguiranne poi ſicuramente , che non purla sagione dalla ſperienza
accompagnata,valevol ſia a render certa , elicura la medicina ;
concioffiecofachè verifimile a veriſimile accozzádo ; e no certo a non certo, e
per lunghi argométise pruove che vi ſi aggiugono, non potrà mai, che I cer
DelSig. Lionardo di Capoa 105 .1 } certa , e incontratabil fia , ſicuramente
riſorgerne. Magià ſi è per queſte , e per altre coſe addietro diviſa te veduto
a baſtanza , e con quanta diligenza per noi li è potuto la varietà delle ſette
della medicina, e le diverſe ; e ſoventi fiate contrarie inaniere del medicare
, e la varieră dell'opinioni , che fra’mnedicanti di tempo in tempo ſono venute
in sù , non da altro, che dalla grandiſſima incertez za dell'arte pervenire ;
egli forza fit, ch'al preſente fati gi per noi ſi duri in eſatninar le letto
della medicina come già proponemmo , ed intorno a quelle i noſtri fenti menti
ſpiegare ; quantunque a chi attentamente voleſse alle parole, che fino adora di
tutta la medicina breveme te abbiam fitto , riguardare, non farebbe forſe
meſtieri più diſtintamente diviſargliene , potendoſi ognuno a ſuffi cienza
accorgere , ſe giammai un'arte così dubbiola , in coſtante , ed incerta poſſa
avere in ſe dottrina , o principi tali , che su vi poſſa huom porrealcuno
ſtabile fondamen to , e ſicuro . Ma per dar cominciainento dalla volgare
Empirica , chiamata imperfetta , è ella certamente la più copioſa, c abbondevol
di ſeguaci, che tutt'altre ſchieredi medicina unite inſieme, e rannodate fi
vantino giamnsai d'arrollare ; infanto , che dir potrei, come ad altro pro polito
il noſtro lirico, Non ba tanti animili il far fra l'onde, Ne lafsio
fupra'lcerchio de la lung Vide mai tante ſtelle alcuna notte , Ne tanti augeili
albergan per ti boſchi, Ne tant’erbe ebbe maicampo,nepiaggia . Onde ebbe
ragionevol cagion di dubitare colui , ſe più coſtoro ſi foſſero , o l'infinita
ſchiera degli ſciocchi; ne ba fa tutti interamente a comprendere quel volgar
diſtico, Fingitfemedicumquiſquis idiota profanus, Iudæus .... hiſtrio , rafor ,
anns. E ben diſſe il Carlectone : Medicos ſe fingunt quoque Rizo tomi ,
Seplaſarii , fordidi Balneatores,triobolares Phleboto matores,fpurcidici
Lenones,indo&tiparochiaram Sacrificuli, favella egli de’miniſtri della
falla ſciſmatica Chieſa In 1 3 ghi 166 Ragionamento Terzo ghileſe , de'quali fa
parole altresì , e forte ſi duole il Pri meroſio ) Chymiſte carboniperdes ,
audaculi Edentato res, impudentiſſimi V romantes , veteratores Fatidici , lj
bidinoja obſtetrices 231Sádes, a pre cæteris omnibus perfi da illa ,
ingratifimaque impoſtorum gens , Pharmacopo le ; qui ſuntin Rep. agrorum
pernicies,reimedicècalamitas, & Libitin & præſides . Che più , fe
toccar quaſi co’mani l'innuincrabil torina di sì farti medici al Duca Nicolò da
Ferrara il motteggevol Gonnella , allor , che nel novero di coloro , oltre
allamaggiorparte della Città, il medeſimo Duca arrollando ripole ; ed egli era
così celebre , e ftima to tanto in quella Città la volgare Empirica, che molti
, e molti de'Razionali inedici oltreinodo godeano di militar ſotto le ſue
inſegne . Maper Ferrara medicando quanti Veggo andar io , che barbagianni funo
Ridicoli , ineſperti , ed ignoranti : Che non ftudiar d10 anni , fur a ſuono
Digran campana alzati al dottorato Per amicizia o per promeſſo dono : Che ne
Ariſtotel mailejer,ne Plato, Ne Avicenna , o Galien , ma due ricette, E le
regole appena del Donato. Ma ciò permio avviſo , non altronde certamentewviene,
che da una tal naturale inchinazione, che ſempremai inver la medicina par che
tuttiegualmente abbiamo , e del co prender quanto quella ne abbia ad ogn’or luogo
tra per noi medeſimi, e per gli amici , e per tutt'altre perſone del mondo . E
perciocchè ad interamente apprenderla, e ado perarla , qual veramente fi
conviene , di grandiflima fiti ca , e di ſudore non ordinarione fa meſtiere ,
ciaſcuno, co me il meglio puote malmenandola , ed abborrandola , in pochi
giorni l'appara , e ſenza troppo diſagio la mette iz opera . E in vero
cotalforte di medicina è molto agevole a imprendere , e ſovente dinon poco
pregio , eguadagno Suol eller cagione ; perchè parecchj diigraziati,cuile robe
o per nanfragj, o per fallimenti mancarono, o a giuochi, 4 o dic
DelSig.Lionardo di Capoa 167 o dietro a feminine diinondo , o nelle follie
dell'Alchimia vanainente fcialacquaronle , ſtenchi alla fine ,eigannati ri
courar ſoyére al ſicuro porto d'una tal medicina ſi veggo no . Ed ora mi
ſovviene di quel gran miniſtro di ſtato , il quale avédo perduti có la grazia
del ſuo Principe ache tut ti gli avanzi delle ſue miſere fortune, diedeli
ultimamente lo Igraziato a compor ballotte da medicina , e ſpacciarles a
prezzo,qual vilisſimo pancacciere, ſoſtentando così l'in felice ſua vecchiaja.
Ma non fa meſtier , che intorno a coſtoro lo troppa brin ga mi prenda in
manifeſtar le lor beſsaggini, e i loro erro ri ; che purtroppo chiaramente per
ciaicun ti conoſce quanto eglino ſempremai ciecamente medichino , ed ari fchio
, ed a ventura ; non ſappiendo talora ne men groſsa mente , econfuſamente i
ſegnali delle inalacrie , non che la natura di quelle ; perchè convien poi loro
nel diviſare, e adoperarc i medicamenti andar ſempre atatone , con af pettarne
, timoroli, gli avvenimenti. Maggior fatica fen za fallo rimane in dar giudicio
della perfetta Einpirica ; la qual per le ſue regolate maniere di adoperare ,
nelle qualianifeftamente ſi ſcorge aver qualche ſcintilluzza di ragione ,puofſi
in certo inodło covenevolméteRazionale Empirica chiamare ; conciolliecoſachè la
perfetta Empi rica inedicina ſopra uma falrima baſe aver ſembri le ſue
fondamenta, che è la fperienza , non folamente per la baſ. fa gente, ma per
gl’ifteli medici raziunali cotanto ſtimata , e a capital tenuta : che
apertamente talora, e in ifcritto , e in voce una delle due colonne della
medicina chiamarla fogliono ; eſſendo l'altra , fecondo lor ſentimenti la ragio
ne . Anzi huomini chiarillimi diqueſta medeſima ſembra glia de'Razionali cotáto
agli Empirici nemica (tra’quali fur Eraclide da Taranto medico , e filoſofo di
sì gran fapere, ecosì nell'arte eſercitato , che agevolmente e' li puotè ad
ogni più eccellére medico greco paragonare) abbadonādo la lor fetta Razionale e
laſciate affatto le ragioni alla fola ſperiéza degliEmpirici ricoverati alla
fine ſi rifuggirono ;ed altri comechè perſeverino nella ſetta de'Razionali,pur
ma nifc 168 Ragionamento Terzo niſeſtanente confeilano eſſer ſoventi volte da
antiporre la ſperienza alla ragione ; e dicono , che ove d'una parte la ragione
, e d'altra la ſperienza il contrario ne perſuadono , che allora il medico
laſciar debba affatto la ragione , e la ſperienza ſolamente ſeguire. Ed infra
filoſofi di grido Ari ftotele apertamenteconfeffa , all'arti tutte aſſai più di
con cio , e d’utile la fperienza recare , che la ragione , e che'l medico
maggiorinente in pregio ſormonti nel far pruova continuo degli ammalati, checon
beccarſi tutto giorno il cervello ne’libri . E quel ſcrittore , che col ſuo acu
tilimo intendimento ſi ſeppe così addentro innoltrare ne gli affari del mondo ,
avvisò , la medicina non eller altro , che ſperienza fatta dagli antichi medici
,fopra la quale fosi dano i medici preſenti i loro giudicj; ma prima dilui avea
detto Quintiliano,medicina ex obfervasione falubrium ,atq ; his contrariorum
reperta eft , & ut quibufdam placet,tota co hat experimentis ; nondimeno
l'Empirica medicina , non che abbia giammai nulla di certo , anzi ſoventi volte
in graviffimi errori traſcorrer ſuole , laſciandoſi oltre al dove. re alla ſola
ſperienza ciecanente guidare ; la qual come Ippocrate grandiffimo
ſperimentatore avviſa , ſovente è fallace,e vana . E in vero ſe la ſperienza è
ricordo di quel le coſe,le quali più d'una volta ſtate ſono oſſervate , chi
oſerà mai certamente affermare , che ciò che più volte av venne , debba poi
altre , cd altre volte ſomigliantemente avvenire ? Certamente niuno , ſe non
colui ſolamente , che inveſtigatane la cagione , onde quelle volte già que gli
effetti avvennero,delle ſeguenti riuſcite ragionevoli ar gométi potrà cavarc;
delle quali cagioni , ſe le medeſime ſaranno , certamente nc ſeguiranno i
medeſimi effetti , ma ſe peravventura non ſaran deffe,o quanto diverſi,e varjef.
ferti uſcir ne potranno; ſenzachè la medeſima cagione per la diverſità delle
molte circoſtanze , che l'accompagnano , non ſempre ſuole i inedeſimi effetti
produrre , ina diver ſi , ſecondo la diverſità delle perſone , de'luoghi, c
d'altre coſe , che vi concorrono , Alche ficome in tutte ſcienze è ſommainente
da riguardare , così non è da traſcurar punto DelSig.Lionardo diCapoa. 169 1 I
punto in medicina: nella quale avviſaſi a giornate , noul ſempre i medeſimi
mali dallemedeſime cagioni avvenire : non ſempre congiurar le medeſime
circoſtanze in mante ner le medeſimemalattie : e finalmente non ſempre que,
mali , che i medefimi eſſer ſembrano , effer veramente ta li, quali ſi pajano ;
concioſliecoſachè i ſegni tutti e gli in dizj, pe'qualicomprender ſi poſſono,ingannevoliſovente,
e fallaci fieno , facendo veduta d'eſſer manifeſtamented un male , il qual poi
tutt'altro ſarà di quel , che noi alla prima faccia argomentiamo. Ma ne meno
giudicar puoſ, fi con piena certezza , ſe ſia ſtata opera del medicamento il
migliorare,e'l guarirc dello infermo ; imperciocchè tal volta dalla ſola natura
del malato , o del male ſuole ava venire ; ed altri pur follemente immaginerà ,
eſſere dal ſuo medicamento ſolamente ſeguito . E allora più mala gevol ciò, e
intralciato ſi rende, quando all'ammalato più d'un rimedio ſi porge ;
perciocchè allora non può age. volmente imbroccarſi, qual di que’tanti
medicamenti ab bia per avventura all'inferno approdato. Ma tacciaſi al preſente
di ciò , che di leggier forſe po trebbeſi ſchivare , comealtresì è da tacer
della credenza , la qual ſenza manifeſto riſchio d'errore non ſi può piena
mente alle ſtorie degli ſcrittori preſtare : coſa la qual già tanto contra gli
Empirici rimproverarſuole Galieno . Ne meno faticheremo in dir cola alcuna intorno
al paſſag gio , che da parte a parte far fogliono gli Empirici , e dal la ben
compoſta analogia di male in male ; che ben ciaſ cuno a prim'occhio potrà
agevolmente comprendere,quã. to ftrabocchevole, e inviluppata ſia la lor
dottrina , e d'e videntiſſimi riſchj tutta ripiena . Manon fia forſe fuor di
propoſito il rapportare al preſente ciò che della ſperienza un graviſſimo
autore , e più , che altri per avventura in quella eſercitato ne manifeſta
dicendo ,eſſer la ſperienza in man del medico , non altrimenti , che il cuor di
bella donna in mano di fido amante; il quale, quádo più immagi na di tenerlo
ſtretto allora quello in altrui inani ſe n'è vo lato . Verità anchemolto ben
conoſciuta all'avvedutiſſi. Y moje 170 Ragionamento Terzo mo , e faviſſimo ſperimentator
de’noftri tempi Franceſco Redi; il quale ſcrive trovargiornalmente, che le
ſperien ze più malagevoli, e più fallaci lien quelle, le quali intor no alle
coſe medicinali fi fanno . Ma volete voi , ch'lo brievemente vidia a diyedere
quanto vana , e fallace ſia nella medicina la ſperienza ? Ella non ha mai
potuto ne pur una delle famoſe quiſtioni appianare, che mai ſempre le penne
de'medici tengono affaticate . Ma riguardando i maeſtri, e fondacori della
Metodica medicina all'incertezza dell'Empirica : e d'altra parte av viſando
quanto la Razionale in ſu le fanfaluche degli ar gomenti, e delle ſofiſticherie
vanamente s'aggiri : vollero ſolamente a certe poche coſe veriffime, e
manifeſte del tutto appiccarfi, e quivi l'arte tutta della lor medicina piantare.
Eglino a due foli generi i mali tutti del mondo riſtringono : uno de'quali
diſcorrente , e l'altro ſtretto chiamano . Naſce il diſcorrente allora, quando
i pori del corpo fon ſoverchiamente allargati , e fatti maggiori aſſai di
quelli, che in prima erano ; o quando altri nuovamen te accreſciuti glie ne
ſono; e lo ſtretto allo incontro è quż do le parti oleremodo ſtrette infra loro
, e congiunte lì ſo no , perchètalora , o più abbondevolmente , o più di ra do
li vuota il corpo . Quinci eglino due forme di manife fti indizj di ciò , che
far li dee argomentar fogliono : una di ſtrignere , ed una di allargare : e
queſte chiaman comu nità curative , e quelle paſſive; aggiugnendovi di vantag
gio le comunità temporali, cioè a dire il principio , l'avā zamento, il vigore,
e lo ſcemo della malattia . E percioc chè il male talvolta d'amendue le prime
comunità con polto effer ſoglia , cioè diſcorrente inſieme, e ſtretto : vo
gliono allora i metodici , doverſi la cura alla maggiore , e più ragguardevol
parte ſolamente indirizzare . E tanto baſtial preſente aver de’loro principj
accennato ; chi più addentro ne vuol ſpiare,leggane più diſtintamente in Ga
lieno , e Proſpero Alpini , il qualcon lunga fatica accolſe inſieme, e ragunò
tutti gli avanzi dell'antica Metodica medicina , e di difender quella con cutta
forza oſtinata medite i DelSig. Lionardodi Capoa 171 ſenza troppa mente ſi
ſtudia ; ma non puote però per fatica, che v'ado: peri far sì,che non rieſca
malagevoltroppo,ed intralcia to a' curioſi l'apprenderne intera la dottrina ;
concioſie coſachè alcune coſe , poco forſe bene, e fedelmente egli rapporti; ed
in altre faccia meſtiere andar pur tentone , ed alla cieca . Ma lo quanto è a
me , voglio al preſente più di Galie no medeſimo eſſer liberale a'Signori Metodici
, e conce der loro di vantaggio molte, emolte di quelle coſe , che fatica
durare , agevolmente negar loro po trei . Sien pure , com'eglino s'avviſano ,
le comunità cut te manifeſte , e piane , e a quelle nulla mai oppor ſi poſſa:
or come, e in qual modo baſterà ciò ſapere per prender aº mali conſiglio ,
ſenza più oltre ricercare argomenti a ciò opportuniz ma eglino nel medicare ſi
laſcian pure allora ciecamente trarre alla ſperienza ; adunque eglino anco ra
in ſembraglia de’Razionali, e degli Empirici andando alla ventura , e facendo
argomento dall' incertezza degli avvenimenti , manifeſtamente talora inceſpando
traripa no . Ma ciò traſandando,ſia pur da curar malattia di ſtret tezza , come
di poftema , o d'altro ſomigliante malore , che di allargamento abbia biſogno :
manifeſta coſa è,che la materia ingozzata , e rattenuta in qualche luogo della
perſona;cotal ſtrettezza cagioni ; ed acciocchè poſſa li beramente far punta ,
ed uſcir fuora, conviene in primas, che la durezza liſciolga , ed ammolliſca: ed
altro s'impré da con argomenti a ciò fare valevoli, & opportuni . Or come
potrà mai ciò ſeguirc, ſe non ſi ravvili in prima , di qual natura ſia la
materia indurata, acciocchè poi libera mente il ſuo vero , ed acconcio rimedio
trovare , ed adato tar viſi poſſa : O forſe ciò , che ſcioglie una ſoſtanza,co
sì ſomigliantemente tutt'altre ſcioglier puote? anzi talora in contrario da
quello indurar le veggiamo, Limus, ut hic durefcit, bæc ut cera liquefcit V no,
eodemque igne: Ed ecco brievemente abbattuta a terra l'evidenza de Metodici ;
ecco , che pur convien loro entro i confini de? 1 1 Y 2 Ra 172 Ragionamento
Terzo Razionali medici alla fine ricoverare . Ne più intorno alla lor dottrina
impiegherovvial preſente parola . Ma delle ſchiere Razionali degli antichi
Greci così ſcarſe rimaſe ſono appreflo noile memorie , che non v'ha luogo
alcuno di diviſarne, non che d'abburattarle , o per avventura riprovarle; anzi
ne men ſaper certamente por ſiamo , chi mai ſtato fi foſle il primiero
tra'Greci , cui foſ ſe venuto fatto di dar principio alla Razional medicina , e
ciò chealtrove andato ſe n'è per noi ricercando , non li è potuto ancora così
rinvenire , che foſſe valevole a to gliere ogni dubbietà . Ma non è egli però
da porre in for ſe , ove ſottilmente la coſa ſia riguardata, che la Razional
medicina da tempi aſſai più lõtani di quel, che per avven tura comunemente
s'eſtima, tragga la ſua origine ; e forſe forſe ella è sì antica , che non pur
ne convien dire , ch'af fai prima della volgare Empirica ella naſceffe , ma
chel Empirica volgare ſia della Razionale , anzi, che no giove nil parto , e
creatura ;la qual coſa in sì fatta guiſa leggier mente noitoccheremo . Quelle
coſe onde diſcacciar ſi ſogliono talora da' corpi le malattie , e che rimedj
comunemente ſi chiamano, con vien dineceſſità , che tutte da ſe ſteſſo l'huomo
le im prenda ( non avendo altri ch'inſegnar gliele poſſa ) natu ralmente , da
alquante poche in fuora ſi alla medicina non fanno , le quali gli vengono da'
bruti animali dimoſtre ; ma può tali medicamenti l'huomo ap prendere , o a caſo
in effi abbattendoſi ; o col diſcorſo in veſtigandogli. E
concioffiecoſachèrariſien quei rimedi, che a caſo ritrovar ſi poſſano ; nc
ſembri veriſimil punto , che le tante erbe , e radici, onde negli antichiſſimi
tempi, non pur le ferite , ma gl'interni malori altresì medicavan ſi ,
veniſſero a ſorte lor conoſciute ; rimane adunque, che per la più parte dalla
ragione i medicamêti ftati fieno ſco verti . Ma come que'primi rozzi huomini
per queſta via aveſſero potuto rinvenir le sì varie virtù de'medicamen ti , non
è coſa molto malagevole per avventura ad inveſti gare,ſopratutto cui voglia
pormente a'bruti , e andar mi > che nulla qua nutamen DelSig.Lionardo di
Capoa. 173 nutamente ſpiando come tutto di s'adoperino in ritrovar le medicine
perloro malattie . I brutistutto che d'anima ragionevole privi, pur nondimeno
oltre a' ſenſi , ſi trova no di tutto ciò , che a lor fa meſtiere a comprendere
le ; coſe neceſſarie al proprio mantenimento, baſtantemente provveduti
,anziabbondevolmente dalla larga , e prodi ga mano della natura arricchiti .
Vengono talora agli animali le medicine dal caſo di moſtre , comedel Dittamo ,
erba crinita , e di purpureo fiore , avvenir ſuole , eſca oltremnodo gradita ,
e foave al palato delle capre ; onde ſoventi fiate ſavoroſamente la paſcono ; e
ravviſando elleno , che ſe mai ferite vengano da' cacciatori dopo haverla
poc'anzi paſciuta ,dalla fe . rita , allora Volontario per fe loftralſe'n eſce,
ſi riſtagna di preſente il ſangue , e ractamente ſe ne fugge il dolore : ad
ogni ora poi,che ferite ſi ſentono, a paſcerlo frettoloſe ſe ne corrono ; e per
queſta da noi menzionata ſtrada , e non già per quella del ſognato , e favoloſo
iſtin > to , . maſtra natura alle montane Capre ne inſegna la virtù celata Qualor
vengon percole , e lor rimane Nel fianco affilala faetta alata ; e a queſto
medeſimo modo fors'anche addottrinati De la Scimmia il Leon languente, ed egro
Avidamente cerca il feropaſto; E beve il Pardo de la Capra il ſangue, Epafcei
ramofcei d'oliva il Cervo; perocchè eſſendone cibati a caſo , allora , che
infermi fi ritrovavano , giovevoli aſsai ſperimentarongli : E ſomi gliantemente
altresì La teſtuggine allor , che'l fero tofco De la ſerpe l'ancide , e dentro
ſerpė Il paſciuto velen falute , , e vita Dall'Origano cerca , e non indarno.
Opera ſomigliantemente del caſo , e' certamente ſema bra, i 174 Ragionamento
Terzo bra ,ſe per qualche male infaſtiditi,dalcibo aftenendoſi gli animali
avviſan riuſcir cotale aſtinenza loro giovevole, c perciò per innanzi per
ſimili cagioni ſi rimangono di ci barſi . Ma con più ſottil modo, e più
fagacemente ven gono gli opportuni medicamenti di vantaggio lor cono ſciuti ;
comene'lupi ,ne'gatti , e ne' cani, per tacer d'al tri , manifeſtamenie ſcorger
ne lece, allora , che ſenten doſi eſſi aggravare , e moleſtar lo ſtomaco pe'l
guaſto , e corrotto cibo , ed avviſando , che alcune erbe , le quali talora
forſe loro punſero il muſo , poſſano , ſtuzzicando le parti interne,provocar di
leggieri il vomito; di quelle op portunamente ſi vagliono . Chiunque andaſle
poi con qualche minuta diligenza , e ſollecitudinc ricercando , ravviſerebbe
per avventura,che ove il gran fattore della natura ha della ragionevole ani ma
privi i bruti animali, abbia nondimeno lor dato forſe alcun ſentimento
de’noſtri più dilicato , e perſpicace , valevole più agevolmente a comprendere
ogni menoma impreſſione, che lor da ſenſibilioggetti ſi venga a fare, on de
poſſano la lor vita acconciamente regolare ; ma ſe tal ſentimento poi, cone
ſovente avvenir egli ſuole , diritta mente non gliſcorge , elli ne argomento
alcuno hanno di riparare a'lor mali, ne fanno, ne poſſono dalle mortali di
ſavventure in modoniuno ſchermirſi;perchè veggiam tut to dì le capre , le
pecore, le vacche, i cavalli , ed altri ani mali infermar gravemente ; e ſpeſſe
volte per aver palaiu to erbe nocevoli, e velenoſe ; il che quando mai altra ra
gion no'l dimoſtraſse, nc dà chiaramente a divedere , non ritrovarſi veramente
negli animali quel maraviglioſo , ed inverifimilc iſtinto, che cosi
inagnificamente lor s’attribui ſce percoloro , che non ſi avanzan più oltre nel
filoſofare , che nella prima ſola corteccia delle coſe . Or ſe tanto a’ bruti
animaliè conceduto , che poſſan talora con qualche dilicato ſentimento, e con
rozzo, ed imperfetto modo in veſtigare , o pure rinvenir qualche ombra di
Razional medicina ; come non aurà potuto l'huomo , ſoura loro d'anima
fpirituale, e ragionevole, e immortal dotato come 1 dico Del Sig. Lionardo di
Capoa 175 : dico non avrà potuto ſino a’ primi tempi , e col naſcente mondo,
col diſcorſo i medicamenti ricercare , e ritrovare ? ſenzachè fa meſtier
certamente all'huomo, ſe ſcovrir pure egli vuole la naſcoſa virtù medicinale o
di pianta , o d'ani male , o di vegetabile alcuno , prender in duce , e in iſcor
ta la ragione; imperocchè l'huomo non gode di quella feli cità in guatando le
coſe , che grande a maraviglia aver- , fi ſcorge ne'bruti; ne'quali, coine di
ſopra dicevamo , o liau per le ſvariate diſpoſizioni degli organi, o ſia pure,
che'l di Icorſo rechi qualche impedimento alſentire, Dove manca ragione ilfenfu
abbonda. E in confermazione di quanto lo dico, s'egli ſi riandaſſero, comechè
leggiermente l'antiche memoric, ſi ravviſerebbe apertamente , che a'primi
maeſtri della medicina convenne valerſi della ragione per inveſtigare, e
rinvenire i medica menti. E percominciar da’ Cineſi : Popoli ſenza fallo di
tutt'altri più antichi:leggeſi ne' loro annali, che'l grans, monarcaCinnungo
,il quale ſuccedette a Fojo che no guari dopo il diluvio refle l'imperio della
Cina, c che quivi prin cipe de' medici , e inventore della medicina vien comune
mentetenuto, ritrovaſſe perpruova fatta in ſe medeſimo la virtù di molte ,
emolte radici , e piante, abili non ineno produrre, che a diſcacciare
lemalattie; ech'egli ne compo neſſe varj, e varj libri, de'quali infino ad ora
li ſon valuti , e fi vagliono anche oggidi i Cineſi medici con felicità non or
dinaria nel medicare. Or non sebra mica egli credibile che a caſola prima fiata
e' poteſſe Cinnungo pormano a quel la tal pianta , o radice per farne la
pruova? Ma è veriſimil molto, che foſpinto e'veniſſe a ciò fare da qualche
ragione; altrimenti non ne ſarebbe egli giammai potuto venir a ca po; tanto
più, che Cinnúgo, ſicomeivi è furna, nell'anguſto { pazio d'un anno ſolo
inveſtigò ,e rinvenne ben ſeſſanta ve lenoſi ſemplici, caltrettanti
falutevoli,e abili a rintuzzare, e a vincere illoro veleno;e contale , e tanto
avvedimento econ ſucceſſi così fortunati egli vi ſi adoperava, che comu
neinente buccinavaſi eſſere i luoi occhj vie più aſſai di que' del lupo
ccrviero acuti , c penetranti. E più chiaro molto rio 170 Ragionamento Terzo
ciò che lo ora dico ſi ſcorgerebbe per avventura , ſe colui che ſi diè cura, e
impiegò il ſuo ingegno a traslatare in la. tino idioma le croniche de'Cineſi,il
medeſimo fatto aveſſe de'volumi della lormedicina . Ma più certo ſi rende , che
que'primi Cineſi medici , da ragione ſcorti, aveſſer rivolto l'animo ad
inveſtigare i medicamenti ,daciò ch'eglino a queſt'opera fare, ancor della
Chimica valuti commodamé te fi foffero. Per la qual ragione creder pariméte ſi
dee, che que', che nell'Egitto la medicina trovarono , i quali altresì della
chimica ſcorti furono, e inteſi:parimente ſi foſſero del diſcorſo valuri : non
riſtandoſi in ciò, che dal ſolo caſo lor ſi parava davanti.E per dir qualche
coſa anche della Scitia, la quale non ſoggetta allo imperio d'altra nazione,
conten de d'antichità (comeper Trogo Pompeo narraſi) coll’Egit to medeſimo ;
tutto che da Erodoto un tal vanto alla Fri gia s'attribuiſca ;della Scitia lo
dico, chi mai recar potrebbe in dubbio, che i primi medici per via della
ragione rinve niſſero i medicamenti: ſe in Prometeo , dal quale, ebbe il ſuo
primo cominciamento la medicina degli Sciti, accom pagnata mai ſempre ſi vide
la medicina, colla filoſofia; e fe non aveſſero alla ragion poſto mente, come
mai que’primi medici dell'Arabia ravviſar potevano la puzza del bitume, e delle
barbe de'becchi dar cõpéſo alle infermità cagiona te a que'popoli dalla
ſoverchiaza degli odori ſoavi . Ne meno in verità nella Fenicia i nepoti
diScdoc, i quali, co me narraſi per Sáconiato ,o lia Filalete, appo Euſebio
ritro varono primieraméte, qual ſorte d'erbe, oqual maniera di cã to valevol.fi
foſſe adomar queſta,o quella malattia, ſenza l'ajuto d'una profodiſfına natural
filoſofia ciò inveſtigar mai poterono.I Druidi poi dellaGallia , nõ meno in
filoſofia , che in medicina ſcarti,che infra l'altre medicine adoperavano, quel
,che dica Plinio , il fūmo della ſelaginc al mal degli oc chj.no avrebbon fenza
fallo mai a caſo ardendo la ſelagine Sperimétar potuto agli occhi giovevole
ilſuo fumo:ma pri ma di ciò fare cóvié dire ,ch'eglino aveſſero in prima alla
na tura dalla ſelagine,e del ſuo voláte ſale poſto mente. E p fa vellar della
Grecia , da qualche ragione moſli furono Chi rone Del Sig.Lionardodi Capoa. 177
rone , Eſculapio , Ercole , Melampo , ed Achille a valerli primieramente della
Centaurea , dell'Aſclepio , dell'Era clio , dell’Achillea , piante che non
poteva certamente il caſo loro porle davanti, per effere elle amariſſime, e non
mai per huom veruno , in cibo uſate . E ſe mai eglino vo lendole ferite
turare,di qualch'erba ſi yalſero, la qual ven . ne sì factamente la ſua virtù a
ſcoprire: comepotea mai ciò avvenire delle radici, malimamente , che alcune di
loro convien che con zappe , o marre dalla terra a viva forza li ſuellano ; e
parea vana affatto una tal fatica, quando coll erbe più agevolmente, ed
aflaimeglio all'aperte piaghe approdar ſi potea . Fu dunque l'eſperienza dalla
ragion ; preceduta ; ed ebbe il corto Quintiliano affermando il contrario colà
ove difle :Vulnusdeligavitaliquis , ante quam hèc ars effet , & febrem
quiete , eo abftinentia , non quia rationem videbat :fed quia id valetudo
coëgerat,mis tigavit. E come mai fu egli poſſibile , che Melampo , il quale
parve , che nella greca medicina introduceſte l'uſo de'mi nerali ,rinveniſſe a
caſo effer la ruggine del ferro giovevo le alla ſterilità . Ma ſe razionali
furono avvegnachè roz zi , ed imperfetti quegli antichisſimimaeſtri , ed invento
. ri della medicina,convenevole certamente egli ſembra .' che qualche coſa
anche di loro da dir ſia . E daremoa tal diviſamento da'Cineſi principio . Coa
me, e quanto oltre nelle coſe della natura filoſofando s'a vanzaſſero i Cinefi,
il grande teſtè di noi mentovata lin peradorc Cinnungo , e gli altri primi
medici della Cina , Io porto per me ferma opinione , che penetrar non ſi pof ſa
per huom giammai; concioſsiecorachè i libri poco mé, che tutti furono al niente
dalle voraci fiamme condotti, gia ſon due mila anni traſcorſi, per ordine
dell'Imperado re Cino , il quale rizzò incontro a’ Tartari quelle ma.
raviglioſe mura , e delle lettere implacabil nimico maisé pre moſtrosſi;
avviſando faggiamente, che'l troppo ſtudio di quelle , rendea gli animi ſnervati,
ed imbelli, ediſadar tia difender la patria dagli allalti nimici; e ſe alcuni
pure Z de 178 Ragionamento Terzo 1 de’più antichi tuttavia per avventura
ſalvınerimaſero.no vi avendo ora chi intender poſſa que’miſterioſi caratteri,
ne’quali ſcritti furono , è tanto , comeſe ſmarriti anch'e glino , ed
abbruciati fi foſſero . Ma da qualche veſtigio , che tuttavia ne rimane , ſi
ſcorge apertamente , che i Ci neſi nella geometria , nella filoſofia , e
nell'altre ſcienze molto furono addottrinati , e ſi valſero della Chimica , e
conobbero ,un ſolo eſſere il principio delle coſe naturali; e fer ſecondi
principj le cinque ſoſtanze dette da loro me tallo , legno , acqua , fuoco , e
terra ; ma diverſi da que' corpi, che comunemente con tal nome ſi chiamano, e
non disſimili per avventura da' principj de' noftri Chi mici . Ma ſi par
certamente , che Cinnungo non molto nella filoſofia , e nella medicina
avanzaffeli ; mal potendo per opera d'un ſol huomo sì grand'impreſa , c di
tanta lievas in un tratto naſcere , e ricevere l'ultimo ſuo compimen to ;
masſimamente alla medicina richiedendofi molto re po, e che molti, e niolti
huomini a tal lavoro s'adoperino, acciocchè a qualche ſtato di perfezione , e
di eccellenza pervenga . Ma chi no ſarà periſcorgere anco a prima viſta poi qua
to fien favoloſe , ed inverilimili quelle pruove,chedi Cin nungo ſi narrano ,
che egli faceſſe in ſe ſteſſo lo eſperimen so delle piante nocevoli , e rift
orative , e che nello ſpazio sì breved'una ſola giornata , tante ne provaſse, e
ne ripro vaffc ; il che fa chiaramente conoſcere , quanto la medici na , ſe
acquiſtar vuole eſtimazione , in tutti i tempi , cd in ructii luoghi abbia in
coſtume di porre in opera le men zogne , ele millanterie . Quáto poi valeſſero
gli antichi medici Cineſi nella Chi mica , chi potrà mai indovinare fi la ſolo
, che eglino s' ingegnarono di trovar medicine , non ſolo acconce agua rir le
malattie : ma anche valevoli negli huomioi ad eter nar la vita ; e
comediRaimondo, d'Arnaldo da Villanova millantano i frati della Roſea Croce ,
che vivi anche oggi ſien o , che vadano ſempremaiper lo mondo vagando; co sì
fin 1 ! Del Sig.Lionardodi Capox . 179 . sì fingono ,e danno ora ad intenderei
moderni Cineli Chi mici , eſser molti , e molti di quegli antichiſapienti, che
, fattafi colla gran medicina immortali , dimorino nelle cia me degli
altisſiini monti , e quindi vadano , anzi volino dove lor più ſia a grado , ed
anche in Cielo, Sciolti da tutte qualitati umane, Ma più , che tutt'altri ſi
laſciarono nella Cina da' Chia mici ingannare i troppo ſemplici Imperadori;e
narraſi,che da lor perſuaſo l'Inperadore luoo a comporla medicinas da poter
divenire immortale, faceſse fabbricar un pala gio di cedro , di cipreſso,di
canfora, e d'altri legni odori feri, che'l loro odore lūgia inolte miglia facea
ſentirſi.Al zò nel palagio una torre dibronzo altisſima nella cui vce ta eravi
una conca parimente di bronzo , formara a guiſe d'unamano , nella quale ogni
mattina avcaſi a raccorres. purisſima la celeſte rugiada: ove macerar pofcia fi
dovea no le perle , ed altre peregrine, e rare coſe , delle quali compor li
doveva quel prezioſo , e divino medicamento , che facea l'immortalità
conſeguirea qualunque adoper2= valo . Ed anche a’giorni noftri ſi veggon per
tutti i reami diquel vaſtisų moimperia , andar ad ogn'ora vagabon deggiando ,
in grandisſimonumero i Chimici; i quali in fingendoſi dicſer nati più e più
ſecoli addietro , vendon altrui la medicina , che fà gli huomini immortali, e
tra per le loro trappole , e per lo deſiderio , che è in ciaſcheduno di
conſeguir l'immortalità , ritrovano , e più tra’letterati che tra gli altri ,
chilorpreſta credenza . Ma laſciando sì fatte memorie da parte ſare , ſi ſcorge
quáto ben forniti foſſero de'rimedi efficaci gli antichi Ci ucfi , dalle
maraviglioſe cure , che con eſli tuttavia fanno i moderni medici . Solamente
potrebbeſilevare incontro taluno,dicendo che non ſiano giunti a ſaper quanto
dilet. tevol ſia ilber freddo, ne mai habbia meſſo in uſo i ſalalli; ma tali
appoſizioni recar potrebbonſi eglino a ſomma lo da ; imperocchè col ber caldo
ſi ſono i Cineſi ſottratti al nale della pietra , alle podagre , e ad altre
atrociffime malattie , che così frequenti , ed abbondevoli ſono fra z 2 noi 180
Ragionamento Terzo . 1 1 3 noi . E quanto al non trar ſangue, oltre al novero
de’gre ei , e de’noftri medicanti, che ſeguono il medeſimo iſtitu to: la ben
lunga preſcrizione di quaranta, e più ſecoli , ne? quali han potuto guarir
feliciffimamente, ed in iſpazio al ſai brieve le malattie , non gli rende degni
, non dico di ſcuſa , ma d'altiſſima loda ? eda ciò vorrei, che poneſſer mente
tutti coloro, che così di leggieri ſi laſciano a' medi ci trar ſangue. I
moderni Cineſi medici non altrimenti , che gli antichi già fi faceſſero,
de’ſemi , delle frondi , delle corteccie d'alcune piante ſi vagliono, e
d'alcune pictre al tresì , e ſerban libri, ove ſon figurate l'immagini di tali
piante , e pietre , e le loro virtù narrate ne’precetti, e nelle
regolemedicinali,non guarida noi eglino ne van lontani . Preſcrivono a’loro infermi
sì rigoroſe diete , che alle volte laſcian paſſar fino a venti dà fenza dar
loro altro cibo , che certo ſugo dipere , tre , o quattro fiate il giorno , e
ber quãto acqua richieggiono; e sì molte graviilime malattie a buonoje perfetto
ſtato riducono. Immagina alcuno , che tal dieta non potrebbe fofferirſi
da'noſtri huomini; ma quanto egli vada errato,ilpuò far vedere l'eſſere ſtata
in uſo appo gli antichiſſimi greci , e l'eſſere i Cineſi di noi più teneri, e
dilicati aſſai.Ma che che ſia di queſte,van tutto dì i Cineſi compilando
libride'ſegni,delle cagioni, e degli effetti de' mali,da’quali,non avendo nella
Cina ſcuole di medicina, e da' proprj lor padri i Cineſi la ſogliono apparare •
Di. cono tutti , che i Cineſi medici ſono séza alcun paragone aſſai più
de’noftri,valenti in guarire i mali; ma nondimeno ancora ivi colla medicina
s'accompagna l'inganno, e l'ar tificio ; ed eſſendo eglino intendenti molto
de'polli, tutta via per parere in ciò da più affai , s'interrégono fin’a mez '
ora , fingendo d'oſſervar minutamente le lor mutazioni in toccandogli , e danno
a diveder dapoi , che con una tal diligenza eſſi aggiungano a ſapere d'ogni
varia , e più oc culta interna diſpoſizione , e diqualunque più ſtrana mas,
lattia la natura , e la vera cagione . Ma è per mio avviſo il pregio maggiore
della lor medi cina l'aver certi argomenti da poter talora porre utile cos pen
. DelSiy.Lionardo di Capoa ISI penſo alle più gravi malattie . Vlano
frequentemente la prezioſa radice, detta da loro Ginſen , dalla quale ſové te
ſi veggon guarir gl'infermi , eziandio morienti, e però una libra di eſa , non
val meno di tre libre d'argento . Nil la io dico dell'erba Te , percioccliè
ella ſi adopera tutto dì anche ora appo noi : comcchè non ſi veggian quì d'cila
que’maraviglici effetti , che narraſi ſoler nella Cina mo ſtrare, o ch'ella
colla navigazion così lunga perda per lo maggior parte quel, che chiamar
fogliono i Chimici vola tile Alcali , e con eſſo inſieme poco men , che tutta
la ſui virtù , o qualunque altra ſiane la c.igione. Eavvegnachè alcuni
de’noftri ſcrittori ſi ſieno ſtudiati di tor via altrui ogni buona opinione ,
che di tal erba portavano ,dicendo, ch'ella ſoglia talor cagionare Apoplesſia a
cui ſovente l'u fi ; non però dimeno noi ben ſappiamo per pruova , cſſer ciò
falſo; e ſe egli è incontrato , che alcuno avendola ado perata fia caduto in
Apopleſſia , certamente non vi ha avu to ella parte niuna . Egli è vero però ,
che talerba ſoglia apportar qualche moleſtia, ſe ſi prenda allor, che nello ſto
maco non ben digeſto il cibo ſia , e di ſoverchio acetofo : il che adoperar
ſuole altresì il Cafè , ela Cicolata ; alla , qual coſa riparare ottimo rimedio
è il digiuno . Ma io no voglio laſciar di dire con queſta opportunità, che in
luogo dell'erba Te lo ſoglio ſověte imporre a'malati qualch'er ba noftrale ,
cos lor giovamento non ordinario :e che gli Ollandeſi portano nella Cina le
frondi della Salvia involte a guiſa della Te, e per una libra di frondi di
Salvia tre tan te ne riportano di Te; cotanto le ſtraniere coſe più in pre gio
delle propie dagli huomini tengonſi . Ma avvegnachènella Cina i medici, quanto
alfatto del medicare fien così fortunati, comediviſato abbiamo: non dimeno
avuti vi ſono in pochisſimo pregio ,c ſtima. E quinci avvien poi , che tutti
coloro , i quali ſien d'alto in gegno , e di ſaggio avvedimento dalla natura
forniti,nul. la badandoviaila , moral filoſofia ſtudioſamente ſi volga no ,
onde a'primi onori del regno agevolmente poi pervé gono.E ciò permio avviſo è
Itata una delle principalica, 1 { gioni 182 Ragionamento Terzo 1 1 ! doti ,
gioni , per la quale de'buoni libri dell'antica medicina , e della natural
filoſofia pochi rottami ſi trovino , e che a? di noſtri ogni ſtudio di natural
filoſofia tralandiſi. Ma per trapaſſare all’Egiziaca medicina; quanto chia
ri,erinominati al inondo , ſe'n viſſero già lungamente per fama , quegli
avveduti , e ſapientisſimifiloſofi, i quali la medicina ritrovarono
primieramente , e ſtabilirono il Egitto : altrettanto certamente ſono oggi in
lunga dimé cicáza ſepolti, e ſol ſervono all'umana cupidigia per pruos va della
leggerezza , e della fragiltà della gloria monda na ; perciocchè eziandio di
coloro , iquali ebbero già vé tura d'eſſer collocati infra’Dei immortali, non è
a noine meno il vero nome pervenir potuto . Caſtigo ben douuto all'invidia ,cd
alla tracotanza di quei Principi , e Sacer , i quali ſotto pene gravisſime a
tutti l'apparare , e l'eſercitar la medicina victarono; e per maggiormente na
ſconderla , e invilupparla con cnimmi,econ caratteri da lor ſolamente
compreſi,ſempremai di ricoprirne i miſteri ſommamente ſi ſtudiarono . Perchè io
giudico , che po co , o nulla della medicina Egiziaca apprender certamen te
poteſsero que'curioſisſimi valent'huomini Greci, i qua li tratti dal deſiderio
d'appararla inſieme colla inacemati ca , e colla filoſofia naturale , e altre
buone arti nell'Egit to pellegrinarono ; ed in quel tempo appunto per lor di (
grazia vi giunſero, che caduta ivi affatto dal ſuo ſplendo re la medicina, ed
empirica volgar tutta divenuta , comun nemcnte da' medici ſcimuniti , e balordi
ſi malmenava ; ed i ſacerdoti l'antiche note più non intendeano , o ſe pu re
qualche coſa ne penetravano,ſommamente avari delle loro dottrine , tenevanſi
d'inſegnarle altrui , e masſima mente a' foreſtieri ; del che manifeſtisfima
tcftimonianza è il leggere ciò che della ſtrologia avvisò Luciano , quan do e'
diſſe , che i Greci niente di eſsa affatto dagli Egizi n'aveano mai apparato .
Eλήνες δε ούτε παρ' Αιθίοπων,ούτε παρ' Aiguntów césporogins ma ei ou fèy óxx
gav . Senzachè, ſe a Greci al trôde venuta foſse la medicina ,certamente ella
non ſareb be tanto indugiaca ad allignarvi , e di veniryi a tanto ſtato 1 1 1
di glo Del Sig.Lionardo di Capoa. 183 di gloria , a quanto ella poi in proceſſo
di tempo creſcen do aggiunſe. E comechè per oltraggio de'ſecoli niunas certezza
a noi dell’Egiziaca medicina ſia pervenuta ;pur potrebbeſi ragionevolmente
argomentare , eſſere ſtata quella a grandiflima altezza da' Re , e da'
Sacerdoti del l'Egitto condotta , da ciò, che ne ragiona Omero colà ove narra ,
che la moglie di Tono Re dell'Egitto diede la can to celebrata Nepente ad Elena
. Ενθ' αύτ ' αλ' ενόησ’ Ελένη Διος εκγεγαλα , Αυίκ' άρ' ας οίνον βάλε φάρμακον
ένθεν έπιναν Νηπενθέςτ'αχολόν τε, κακών επίληθον απάντων . ος το καταβρόξειεν
επην κρητήρι μιγείη , Ούκ άν εφημέριος γε βάλοι και δάκρυ παρειών , ουδ ' ά οι
κατατεθναίη μήτης τε , πα ής τε , Ουδ' ή οι πιοπάροιθεν αδελφεόν, και φίλον τον
Χαλκώ δηγόων , όδ' οφθαλμοίσιν δρώτα . Τοϊα Διός θυγάτης έχε φάρμακα μηπόενα
Β'θλα ταοι Πολύδαμνα πόρην Θώνος παρξί κοιτς . Onde a la bella , e vaga Elena,
figlia Del ſommo Giove,allbor nuovopenſiero Venne ne l'alma , che nel vino
infuſe Ch'efibevean 'un prezioſo , alme Liquur , che toſto ogni dolor diſcaccia
Da l'almaoppreſſa , e l'iraſpegne, ed indi Induce dolce , e graziojo oblio Di
tutti i mali ; onde ſe alcun guſtoffe Di tal bevanda nella tazza miſta Non
potria mai per tutto un giorno intero Sparger dagli occhi per le guance l'onde
Del pianto ; o d'attriftarſi ;ancorchè morti Davanti aveſſe i cari madre , e
padre ; Nefe con gli occhi propri anco vedele, Troncar col ferro l'infelici
membra , Del frate amato , o del fuo dolce figlio . Cosifatti i liquori erano ,
e i ſughi De l'alma figlia del gran Giove eterno ; Cb'erano utili, e buoni, a
lei dati Polia 184 Ragionamento Terzo Polidanna gli avea di ToneSpoſa . Il qual
medicamento , qualcertamente fi foſſe in que' te pi malagevol molto è ora ad
inveſtigare ; ne comporta il mio ſcarſo ragionamento , che lungamente lo ne
favelli, ne che fra sì varie , e cotante opinioni inutilmente lo mº aggiri ,
mentre altri vogliono , non altro eſſere la Nepēte, che una ſemplice, e cruda
erba infuſa nel vino ; altri allo incontro medicina artificioſamente preparata
, chi dice d'uno , echi di più ſemplici compoſtage lavorata . Io giu dico , ne
forſe da' limiti della ragione gran tratto queſto mio ſentimento s'allontana ,
chela Nepente opera foffe della Chimica; imperocchè sì piacevole ed efficace,e
pre zioſo medicaméro, qual ne vien dagli antichi narrato , al tro cercaméte non
ſembra chedi que', che tutto dà i noſtri Chimici metton fuora nelle loro
botteghe . E fu nel vero la Chimica nell'Egitto antichiſſima ; pcrciocchè
Vulcano figliuol di Nilo guardiano dell'Egitto,Opi, e Fia da' ter razzani anche
chianato,daprima il fuoco, e l'uſo di quel lo ritrovò , e diè principio egli
altresì all'arti tutte , che del fuoco ſi ſervono ; il cheoltre a Zezze moderno
, e ſti mato da alcuni poco veritiere ſcrittore , il qual dice . Πύρ , και
τέχνας δε ύκ πυρος οπό σας tutti i Tcologi,ei Filoſofi antichi di comun
ſentimento af fermano ; 'e Vulcano altresì , ſecondo Ariſtotele , e So zione
appreffo DiogeneLaerzio , inveſtigò da prima i prin cipj della natural
filoſofia;perchè potrebbeſi danoi a buo na ragione affermare , aver lui per dover
più acconciamé te farc , e rinvenir ne'corpi diſciolti , eminuzzati, i primi
lor componenti , adoperato da prima il fuoco , e sì fatta niente dato alla
Chimica rozzamente principio . E quin ci nacque per avventura la favola
dell'adulterio di Marte, e di Venere da Vulcano a gli altri Dii paleſato ; con
la qualc ne vollono per mio avviſo dare a divedere quegli antichi filoſofanti,
qualche gran miſtero della Chimic'arte eſſere ſtato da Vulcano primieramenre
trovato , e dalui poſcia a’Re,ea Sacerdotidimoſtro.Ma laſciando a'Chimi ci tut
Del Sig.LionardodiCapod. 185 ci tutto ciò, che dietro a tal fatto potrebbeſi
più profon damente eſaminare . lo dico , che non ha dubbio veruno avere gli
Egizi Sacerdoti per la lor medicina tratto gran , pro dalla Chimica ; imperocchè
ella venne a tale , cheti to altamente ne puotè favellare il dolciſſimo
Iſocrate con queſte parole : gli Egizi Sacerdoti per guarire il corpo dalle
malattie ritrovarono la medicina; non già quella , che ſi valede’ınedicamenti
pericoloſi, ma ſi bene quell'al tra , che potendoſi colla medeſima ſicurtà
adoperare , che gli ordinarj cibi d'ogni giorno ; recar ſuole poi tanti, e ta
li giovamenti, che gli fa vivere ſani lunghisſimo tempo : Ιατρικήν εξεύρον
επικερίαν , και διακεκινδυνευμένοις φαρμάκοις χρω - μένην : αλα τοιέτοις , α
τίω μεασφάλμαν έχ ομοίαν τη τροφή τη καθ' ημέραν : τας δε ωφελείας τηλικαύτας ,
ωπ εκείνες ομολογεμένως ogcevozallos ng Harga61w télys civos. Magran pezza
avanti Iſo crate , e nel tempo appunto , che in Egitto fioriva la ve ra medicina
, avea detto Omero , dell'Egitto favellando, Ιητςος δε έκασΘ-έπιαμενΘ-. περί
πάντων Αν θρώπων . cioè, ficome volgarizza il Baccelli: Ivi ciaſcuno è melico
perfetto, F più ,ch'gn 'altro ajui perito, e fuggio. Poichè in verità ciò che
ſconciamente dell'Egiziaca me dicina vien narraco per Diodoro , quand'e'dice :
gli Egi zj non aver meſſo maialtra forte di rimedio in uſo , fe non fe criſtci
folamente , purgative medicine , c digiuni, e vo mitivi : τας δε νόσους
περκαταλαμβανόμενα και θεραπεύει το σώμα . τα κλυσμοϊς , και ποτίμοις τε
καθαρτηρίοις και νησείαις και εμέ. τους και ενίοτε μου καθ' εκάτην ημέραν,
ενίοτε δε τάς ή παρgς ημέρας dia menortes .e'debbeſi ſolaincnte di quc'tempi
prendere,nc' quali la medicina da'Re , c da' Sacerdoti, in mano della più minuta
bordaglia del popolo eraſi vergognoſamente invilita , eſſendo già caduta dal
ſuo primo ſplendore, ed in iſtato di miſerevole ignoranza ridotta ; ſicome
avviſaſi da quelle leggi, da noi nel primo ragionamento recate , che il
mediconon aveſſeſi giammaia dipartir dagli ammae ſtramenti degli antichi, ne
foſſe lecito porger a’malati al; A a cun -186 Ragionamento Terzo cun
medicamentoprima del quarto giorno , ſe non ſe a ri ſchio della propia perſona
del medico . Al che forſe po nendo mente il Corringio, e non diſtinguendo i
tempi, af ſolutamente ebbe a dire , la medicina degli Egizi eſſere ſtaca rozza
aſſaige materiale . Ma ſe perciò dal Borric chio egli meritevolmente ne venne
biafimato , egli fareb be certamente aſſai più da biaſimar Galieno , il qual ne
gar non potendo, che gli Egizi prima de Greci avefler contezza de'medicamenti ,
pure osò dire eſſere ſtato il lo ro conoſcimento affai groſſo , e rozzo , e che
con l'agio di aprire i cadaveri p imbalſamargli ritrovato aveſſero mol te coſe
alla notomia dell'huomo pertinéti. Ed era tanto in: Egitto la medicina caduta,e
avvallata allor;che quel pae ſe da’Perſianiſoggiogato venne , e domato in
guerra , che i ſuoimedicipiù celebri , e più valorofi , quali effer do veano
ſenza fallo que" , che medicavano il Re,furono vin ti agevoliſſimamente da
Greci, i quali ancora erano roz zi , enovizi nell'arte . Caduto poil'Egitto
ſotto l'Imperio d'Aleſſandro , l'Egi ziaca medicina , ruinà anch'ella , e
tracollò sì facramente, che i medeſimi Egizi da’Grecimaeſtri poi l'apparavano..
E infino alla cadura del Romano Imperio in Aleſſandria le ſcuole di varie ſette
de' medicanti Greci in grande ſtato , edorrevole durarono ; e tratto tratto poi
crebbero in tanta fama di dottrina , che a Galieno , come egli me delimo ne da
teſtimonianza ,non increbbe d'andarvi per udir Nemeſiano, famofiflimo
infra’diſcepoli di Quinto ,che di Galien medeſimo era ſtaro maeſtro ; e ſi
mantennero le ſcuole d'Aleſſandria in ranta grandezza , e ſplendore lun go
ſpazio di tempo intanto , che, come narra Ammiano Marcellino,baſtava in
que'tempi, chehuomo aveſſe ftu diato in medicina in Aleſſandria per eſſer in
pregio poi di valentiſſimo medico tcnuto . Narrali per Damaſcio nella vita
d'Iſidoro , i fatti egregi di Giacomo medico Aleſſandrino, per li quali meritò
egli, che gli ſi ergeſſero ſtatue in parecchi luoghi, e ſpezial mente in Atene
. Coſtui quarant'anni continui logorò fa cendo DelSig. Lionardo di Capok 187
cendo eſperienze , e dopo aver tutto il mondo traverſato cſercendo ſempre la
medicina , ed inſegnandola al figlio , che ſeco conduceva: pervenuto poi in
Coſtantinopoli,tro vò quivi medici, che poco , o nulla di medicina ſappien . do
, non con la ſperienza , come doveano , ma congli al trui detti medicavano a
ritroſo , anzi ( conciamente mal megavano i caccivelli infermi; maGiacomoin
medican do, cosi egli, come il figlio ſervivaſi delle purgagioni, e debagni,non
traendo a niuno mai ſaugue. E quanto al fatto della Cirugia , oglino ſolean
molto di rado porre in opera il ferro, e'l fuoco ; ma le maligne piaghe con la
fola dieta curavano. Eben coſtoro amendue farebbero da ri putar degni di molta
loda , ſe non foſſero ſtati ſuperſtizio fi , e idolatri , come par,che dica
Fozio , comechè un an rico autore appo Suida affermi , Giacomo eſſere ſtato
Criſtiano ; maavviſa il dottiflimo Iſacco Cauſaboni, che Fozio ciò aveſſe derto
di Giaccmo , moſſo ſolamente da coloro , che'l credeano mago ,per le
maraviglioſe cure , ch'ei facea . Dice di più Damaſcio , che diſcepolo di
Giacomo fù Aſclepiodoto , il qual di muſico , ch'egli era in prima,li fè medico
, e infra breve tempo cotanto in ſapere vantag gioſli , che in molte coſc ,
emolte , ſi laſciò dietro il me delimo ſuo maeſtro . Fu coſtui gran matematico
, c'l più eccellente infra tutti i filoſofanti de' ſuoi tempi , comeche di
coranto intendimento non foſſe , che poteſse i miſteri d'Orfco, e de’lavj
Caldej penetrare. Egli de' medici de ſuoi tempi avea ſolamente in pregio
Giacomo ſuo Mae ftro , e degli antichi, Ippocrate , Sorano , Cilice , e Mal
leoco . Perchè ſembra , ch'egli, e Giacomo ſuo maeſtro foſſero ſtati metodici ;
e quinci ſi ſcorge,ch'a'que'tempi vi cran de'valenr'huomini , che in niun
pregio avcano Ga lieno . Rinovò Aſclepiodoro felicemente l'uſo dell'Elleboro
bianco , già lungo tempo traſandato , e ne vinſe incura bili malori. Entrò egli
nella famoſa mofeta di lerapoli,e ſe ne uſcì ſalvo , ponendoſi al naſo , e alla
bocca la veltes Аа 2 ripie 188 Ragionamento Terzo ripiegata sì fattamente , che
racchiuder vi poteſse qual che particella d'aria , onde egli agevolmente
reſpirar do veſse ; quindi accoppiando inſieme varj minerali,con ma. raviglioſo
artificio una ſomigliante mofeta ne compoſe. Ciò , che di vantaggio di lui
narra Damaſcio per non recarvi tedio al preſente tralaſcio . Tanto vo dire,che
de' medici d'Aleſsandria altro non raccontandoſi, ſi vede,che poco alla fama
riſponder dovea il loro valore . Ne pur nell'Egitto la greca medicina nel ſuo
buon nome lungo tempo durò ; perciocchè di mano in mano piggiorando magagnoli,
finche tolto al Romano Imperio per opera de' capitani d'Omare l’Egitto, e
venuto in mano de Saracenia poco a poco vi fi ſpenſe la greca medicina, ed in
ſuo luogo un'imperfetta volgare Empirica vi rimaſe;alla quale ſucce dette poi ,
e fin’ora vi regna un'ombra di Razionale, o per ine’dire , di Metodica mcdicina
aſsai rozza, e ſciocca, iil una, o in duc cotali coſe appiccata , e ſtabilita ,
le quali ſembrano a que’maeſtri ſcimmioni , cvidenti principi, fondamenta di
quella , c non altrimenti che ſe foſscro già al tempo d'Erodoto . Egli ha ora in
Egitto un'infinita fchiera di medicanti barattieri , i quali per pochi bajocchi
ottenuta licenza di medicare dall'Alimbali , over princi pe de'medici,
deſtinato , ed eletto a quell'uficio per denaro dal Barsa del Cairo , o che
ſappia egli , o non ſappia di me dicina,medicano , una o più fortidi malattie ,
comc più lo ro in concio viene ; c giudicano eglino , due ſole eſser lo cagioni
di cutti mali yil caldo , e'l freddo; ed eſsendo l’E gitto grandemente al callo
ſottopoſto , immaginano qui vi follemnente , che tutte le malattie , o procedan
dal cal do , o fian da ftrabocchevole caldo almeno accompa gnate ; perchè
giudicando, che l’un contrario ſi ſpegna per Taltro , ſeryonli mai ſempre di
rimedj acconci , ſecondo la loro opinione , e valevoli a rinfreſcare . Perchè
traggon · largamente ſangue in tutte le empleſſioni , in tutte l'età , in tutte
le ſtagioni dell'anno , ed a tutti infermi , e dan be re acqua agghiacciata ;
il che «i ! anto fuor d'ogni ragione la fascia , non ha cercamente huomo di sì
mezzano inten dimen DelSig. Lionardo di Capoa 189 dimento , che di leggieri
avviſar no'l poſsa ; ſenzachè i cauterj , e le ſcarificazioni, che
crudelisſimamente, e fen za riguardo alcuno anche nelle più menome malattie ſo
gliono adoperare , tolgono affitto loro ogni buon nome ; intanto , che affatto
contrarj a quegli antichi mediciſein brano , i quali avean piacevoli argomenti
folamente il uſo . Ma ritornando alla medicina degli antichisſimi Egizzi,
certamente lo non ſo , come iſcuſar ſi poſsa quel graviſſi mo fallo , nel quale
que'Re, e Sacerdoti incorſero in te nendo cotanto a riguardo l'eſercizio della
medicina; il că po della quale è così vaſto , e così malagevole, cheappe na ,
che più , e più persone colle lunghe eſperienze , e col le ragioui una menoma
parte oggi coltivar ne poſsano . Ma no meno da biaſimar íono gli Egizi medici,
per aver oglino primieramente colla vanità della divinatoria fero logia ,
corrotta , e magagnata la medicina, ſe pure è de preſtar credenza alle parole
di Giulio Firmico : Nekepfo egli dice , Ægypri jufiifimus Imperator, a
Aſtrologus val de bonus , per ipfos Decanos omnia vitia , valetudineſques
collegit , oftendens quam valetudinem Decanus efficeret, quia natura alia
vincitur , quia Deum frequenter alius Deus vincit , ex contrariis ideonaturis ,
contrariiſque pote ftatibusgumnium ægritudinum medelas divinæ rationisma
gifteriis invenit . Triginta ſex itaque Decani omnem Zo diaci poffident
circulum , ac per duodecim fignorum numeri ifte Deorum numerus , ideft
decanurum dividitur . Se poi dagli antichi medici cra ſtato introdotta nell’E
gitto quell'uſanza , che nel tempo d'Erodoto , nel quale fenza fallo la buona
medicina iyi affatto era mancata, fer bavali , clic per tre giorni di ciaſcun
meſe dell'anno gli huomini per conſervarli fani ſi purgavano col vomito , e ſi
Ιανοvg!'inteftini τόπω δε ζόης τοιώδε διαχρέωνται : συρμαΐζεσαι σάς ημέρας
επεξής μηνός εκάσg , εμέτοισι θηρώμενοι την υγίειην , και κλύσμασι, νομίζονες
απο τών τξεφόνων στίων πάσας τας νούσος τοϊσι ανθρώποισι γίνεσθαι . loper me non
credo,come si poſſa generalmere favel lan 190 RagionamentoTerzo 1 lando ,
comeche rieſca calor peravventura giovevole , tal coſtume in tutto lodare ;
conciolliecoſachè coll'uſare il yomito , ei medicamenti, lo ſtomaco, e
gl'inteftini a poco a poco s'indebiliſcono , e fi ſconvolgono notabilmente , e
alconciano oltremodo le lor commeſſure, c li vuotano in ſieme con i cattivi
umori le mucilagini , che veſtono , e difendono le loro membrane , ed altre ,
ed altre ſoſtanze non ſolo utili , ma ſommamente ancora all'economia , all'
operazioni , ed alla vita degli animali neceſsarie, non che gioveyoli. Altro
non rimane a dire dell'Egiziaca medi cina , ſe non chenon coſtumò ella ne meno
allora quando era caduta dal ſuo primiero ſtato , per quel, che ſe ne ſap pia ,
di trarre mai ſangue : comechè comunemente credam ſi, che dall'Ippopotamo , o
ſia cavallo di fiume, in Egitto da prima i medici l'apprendeſsero; perciocchè
egli,come Diodoro racconta,nel fondo del Nilo quivi dimora , oco. me Ammian
Marcellino , fra'canneci delle rive di quel 1o . Ma Prometeo , o pure Magog ,
onde ebbero la prima origine gli Sciti arricchìpreſso quelli la medicina, per
ſua opera primieramente ritrovata , dinoli, e molti nobili , cgiovevoli
medicaméri, co’quali ebbe egli fortuna dico si felicemente eſercitarla,ch'egli
ragionevolmente ſi vanta appreſso il ſublime poera Eſchilo , ch'egli medicava
me [ colando inſieme medicine acconce, ed atce a domar le malattie , con guarir
tutti coloro , che così malamente ſi ritrovavano ridotti , che non ſi cran
pocuti per niun riine dio in prima riſanare , e che prima , che a lui veniſse
fatto di ritrovarle, e di porle in opera , non vi avea rimedio al cuno per le
malattie To pelice régason , & nis vóm glori, Ουκ ήν αλεξημ’ δεν έδε
Βρωμον, ρύ χρυσόν , και δε πιςον , αλα φαρμάκων Χρία κατέσκέλoντo πείν έγω
σφίσιν Εδάξα κegίσεις ηπίων ακεσμάτων Αις τας απάσας εξαμάζονται νόσος , Ma di
lui ancor ragionevolmente dottar ſi potrebbe,nó egli 1 Del Sig.LionardodiCapoa.
191 egli aveffe dato alla ſua medicina principio con iſcioglie re i corpi più
duri , quali ſono i mecalli, per opera dei fuo co : mentre è coſtante fama appo
l'ancichità , ch'egli pri ma di tutti da varie, e varie minicre ritraele i
metallico me ſi può da que'verli vedere, Χαλκόν , σίδηρον , άργυρον, χρυσύνη
της Φησεν αν πάροιθω εξεύρειν έμού . E conciofoffe coſa , che atanta impreſa
gli faceſſe cer tamente meſtieri riguardar ſottilmente ancora al fuoco , e in
diverſi gradi partirlo , e perciocchèegli peravventura , del calor del Sole
ſervisſi : finſero , ch'egli affole il fuoco imbofaco aveſle . Ma tafciam di
ciò , a' Chimici il penſie ro , come anche di fpiegar l'allegoria dell'effer
Prometeo al raffo legato per comandamento diGiove; il che cicga remente vien
nel fuo idioma da Eſchilo medeſimo narra to , ed è nel noſtro tale il ſenſo ,
Gia fiam giunti,o Vulcan , ne'vaflicamping E nelle folitadini deferte Per dove
a Scitia valle; a te s'aſpetta i decreti adempir delGenitore ; Equeſto audace
all'alte eccelſe rupi Con lacci indiſolubil didiamante Legar fra i duri faffi .
Eito fplendore Del foco onnipotente , onde tu altero N'andavigià , furotti,
damortali Dono nefeo : dritroi , che d'un sal fallo Pagbiagli Dei la meritata
pent's ondiegti a venerar l'alto potere Di Giove, e l'huomo almeno amare
apprenda. lo perme immagino , che Promeceo , o che'l caſo il por: taile , o da
qualche ragione ſoſpinto accendeffè il fuoco con i raggi del ſole , e che da
queſto traerſe origine la fa voka accennata . Mache che fia di ciò , li diede
Prome teo ad intcrpetrarc i ſogni, e diceſi, ch'ei trovaſſe gli au gurj: Teórus
di nous isoleradio il che fa vedere , che in fin al ſuo primo cominciamento la
f media 192 Ragionamento Terzo 1 medicina ſempremaiaccompagnoli coll’arti
ſuperſtizio : ſe , e vane . Ma come poi gli Scici della medicina di Pro meteo
ſi valeſſero , Io non ne ſaprei dir altro , ſalvo , cho eglino ſi ſervivano
delle purgagioni , e della dieta nel cu rare le malattie , come appo Plutarco
riferiſce Talete την δίαιταν αυτή & τον καθαρμον ο χρώνται Σκύθαι περί τους
κάμ νοντας και αφθόνως , και προθύμως παραδέδωκε Ma trapaſſando ora alla
Fenicia :ebbe ella ne'primi tem pi huomini d'acutiſſimo, e maraviglioſo
intendimento , e ſopratütro aſſai vaghi d'inveſtigar le biſogne del mondo , si
fattamente , che prima di ciaſcun'altra nazione ebbero ardimento di condurfi
per nuovi mari ( fabbricando ad ogni ora nuove Città , e popolandole di gente
douunque capitavano ) a lontani, e per addietro non conoſciuti paeſi d'Africa ,
e d’Aſia , e d'Europa , perchè creduto venne, che i Fenici foſſero i primi, che
ſolcaſſero co’legni il mare: onde diſſe Tibullo . * Prima ratem ventis credere
docta Tyros. Perchègiudicar dobbiamo, eſſere ſtati i Fenici, abi. li ſoprammodo
a imprender colle ſpeculazioni, e colles ſperienze la medicina , e che però ella
nella Fenicii , fe condochè la natura d'un talc affare comporta , alcolmo della
perfezioneaggiugneſſe . E di vero convennc , cho gni ſua parte arricchita , ed
illuſtrata veniſſe dal profondo fapere di Cadino , come colui , che dopo
diverſe,c glorio ſe vittorie dell'Africa avute , come canta Nonno nel poema
dc'fatti dfBacco , edificò cento Città . • ... Λιβυσίδι ΚαδμG- αρούρη Δομήσας
πολέων εκατονταδα , δωκε δεκάτη Δύσβαζα λαϊνέοις υφούμενα τύχεα πύργοις e
ſpezialmente la famoſa di Tebe, ove egli regnar poi do veva . Quindi egli
ſpogliando dell'antica rozzezza , c pe coraggine la grecia , le diedeinſieme
con tante , e tante doctrine molti vocaboli , e le lettere ancora , e
l'umanità. Il chei medeſimi Greci apertainente confeſſano , dicendo Erodoto
>, per tacer di Filoſtrato , d'Ateneo , e di Diogene Laerzio , chei Fenici,
che vennero con Cadmo, conmol te al . . DelSig.Lionardo di Capoa 193 te altre
dottrine , le lettere , che prima non vi erano , in Grecia introduffero: ως δε
Φοίνικες ούτοι ως συν Κάδμω απικό. μενοι , εσήγαγαν διδασκάλια είς τους
Ελληνας, και δη , και γράμματα ουκ toy a aliv eranos . Conoſceſi anche
manifeftamenre in ciò , che nella Fenicia la vera natural filoſofia allora
regnavas la quale, come Strabone ,e Poſſidonio appo Seſto Empiri co raccontano,
da Moſco Fenice , Leucippo da prima apparò . Ma più che altro , l'eccellenza
della medicina de Fenicj ne da manifeſtamente a divedere, l'aver ella pe netrar
ſaputo , come ſi poſſa col canto domar la ferocia delle malattic ; al che
certamente imprendere ben ſalda, e ſottil filoſofia loro abbiſognava ,
eun'avvedimento non . miga ordinario , e volgare; eſſendo loro neceſſario
dilige temente inveſtigare la materia del ſuono , qual veramen te ella lia , ſe
l'aria , o ſe pure qualche ſpezial ſoſtanza,che nell'aria fi crovi , e le
figure , e la grandezza delle parti celle , che la compongono ; e come la
lingua , che forma il canto per via di miſure , e di convenenza , or fortemen
te , or pianamente , or velocemente , or tardamente la muova ; e coine sì fatto
movimento or s’uniſca , or fi di funiſca , or creſca , or manchi , or fi
rifletta , or s’attuti ; come intorno intorno egli così velocemete liſpáda;e
co. me all'orecchio finalmente pervenuta la ſonora ſoſtanza , o penetri i
poridel timpano, e per li tortuoſi ſentieri del laberinto , e della chiocciola
aggitandoſi, a percooter rat ta ſe'n vada ne'nervi dell’udico , o pure le ſue
particelle dieno il lor movinento al timpano , e'l timpano le com munichialle
particelle dell'aria , qual falfamente inn.itu chiamaſi , e queſte poi alla
membrana, che veſte la chioc ciola il compartano . Ma ſopratutto inveſtigar
loro cer tamente ancora conveniva , come le fibre de nervi dell'u dito ,
rappreſentando fedelmente all'anima lc vare, e va rie maniere, colle quali elleno
tocche , e percofie furo no , facciano sì , ch'ella la sì varia , e táta
diverſità deluo ni ne venga ad imprendere ; e come l'anima poi da una ſorte di
ſuono noja , e da un'altra diletto tragga ; e come da ciò s'ingenerino in eſſa
amore , odio , ira , timore , ed Bb altre, 194 Ragionamento Terza 1 altre , ed
altre paſſioni ; e come queſte finalinente , o cre ſcendo, o ceſando il
movimentodel ſangue , e dell'altre diſcorrenti ſoſtanze del corpo , o
allargando , o riſtrignen do , o chiudendo i pori delle parti ſalde, fi rendan
valevo li , come d'ingenerare , così anco di menomare , c di eſtin guere
parecchie malattie . Mache che ſia del filoſofar, ch'eglino ſi faceſſero intor
no a tal facenda, quáto giugner poſta la forza del căto tut to dì ne' bambini a
noſtre caſe oggi'l veggiamo ; a ' qu ali per lo ſolo canto, avvegnachè non
ancora i ſentimenti del le voci pienamente comprendano , s’alleggiano i
dolori,e talvolta affatto ancor fi tolgono , e ſi ſeccan ſu le pupille le
lagrime,luſingādogli pianaméte alla quiere il sono;e vede ſi talora huomo
pe'lcāto aſsõnare, in cui vana ache la virtù dell'oppio ſperimétata ſi era.Il
che ne può far fede vero efa fer potuto ciò,che d'Aſclepiade ſi legge cioè
ch'egli la rab bioſa furia del ribellante vulgo colla muſica , ecol ſuono
eſtingucſse . Mapoimaggiore senza filo ſi prova la virtù del căto,ove ſia
chiintéda la ſignificāza delle parole ,come quelle , che ancora per ſe ſtelle
fole, gli affettinell'animo, valevolia deſtar ſono . Onde non ſenza maraviglia
lo lege go in Diodoro , che la muſica dagli Egiziachi, non ſolo inutile , ma
nocevole anzi che no venille ſtiinata , Tu'vuge σακην νομίζεσιν , ου μόνον
άχρηστν υπάρχειν, αλα, και βλαβεραν, ecio che Eforo appreſſo Polibio dice : la
muſica eſſere ſtata ri trovata per ingannare gli huomini : ettes , ¿ ' atémy,
aggona πία παρεισήχθαι τους ανθρώποις . Perché non eeglia mio cre dere affatto
inveriſimile, che Damone co'l căto aveſſe té perar potuto , e raffrenar le
menti offuſcate , ed alterate dall'ebbrezza . E ciò , che narrafi di Terpandro
, e d'A rione , ch'aveſſer col canto riſanati gli abitatori di I.esbo; chc di
graviſſiine malattie moleſtati, ed oppreffi langui vano ; e di Pittagora ciò ,
che ne narra Eutimio,che a ſuon di cornamuſa aveſſe ad un giovine tutto
infiammato d'a moroſo foco , l'ardentiſſime fiamme amoroſe ſmorzate , ad
un'altro, che infuriato correva col ferro ignudo, lo sfre nato orgoglio
arreſtato ; e di Timoteo , che con furioſo canto Del Sig.Lionardodi Capoa. 195
canto iſtigaſſe Aleſſandro Macedone a prender l'ar : me ; ma addolciando le
note sì adoperaffe, che le poneſſe giù di bel nuovo ; e di Aſclepiade , che le
impazzate men ti, e da furor turbate , aveſſe con ſoave melodia in iſtato di
ſanità ridotte ; e del medeſimo, che a ſuon di tromba a’ fordi renduto aveſſe
l'udito . Ma non così di leggieri pe I ) ſembra ,che preſtar ſi poſſa fede a
Marziano Capella , il quale afferma,eſſere ſtate guarite le piaghe perla muſi
ca ; ed à ciò , che diceli d'Itinenia Tebano, che col canto guariſſe la
ſciatica, comechè li fien fovente vedute per im provviſo timore , e le podagre,
e le quartane febbri dipre ſente fanate . Ma che Talere poi colla ſoavità della
Ce tera la peſtilenza aveſſe fugar potutz , coſa ſembra affatto lontana dalla
verità . · Ma il valor della muſica ben venne conoſciuto a tutte quelle
nazioni, che in mezo alle battaglie vollono i ſuo ni , e l'armonie framettere ;
come quelle , che troppo va levoli lor lembravano a trarre gli animi
de'combattenti, e colle varie note ſvolgergli, ove più l'era a grado ; e talora
incoraggiargli a più pericoloſe impreſe . E sìi Geti uſa rono le Cetere , e le
Siringhe : i Creteſi ', le Lire : i Lidi ed i Lacedemonj gli Auli,a ſuon
de'quali pria di comin ciare la miſchia , di cantare un melos qucſti eran uſi,
che Embetterio appellarono. E gli Arcadi p incoraggiare la lor giovētù ad
altiſſime impreſe, e per addolciar la rozzezza de’ioro animi,cagionata
dall'aſprezza dell'aria ,, con ogni ſtudio ferventemente alla mulica
s'impiegavano ; e l'eſſer ne ignoranti aurebbonſi a fommo ſcorno recato ; onde
diffe Polibio, che fin dalla tenera fanciullezza s’avvezavan gli Arcadi a
cantar Inni, e Perni , i quali ſecondo il patrio coſtume erano indirizzati a
lodare gli Eroi, e gli Dei della Patria ; e altri ufici della lor inuſica va il
medelimo Polibio lungamente diviſando ; e ne fa anco parola Atenco .. Vennero,
ma non guari feliceméte i Fenici da’mcdicanti dell'altre nazioni imitati , i
quali le maraviglioſe pruove, che per coſtoro col canto facevanſi ſcorgendo , e
non ſap piendone la cagione, ne per iſtudio c'huom vi mertelle Bb giam 2 196
Ragionamento Terzo 1 7 1 giammai penetrar potendola, li fecero a credere , che
l'ar monia tucti mali diſcacciar poteſse ; anzi vi ebbe di van taggio chi
ſconciamente filoſofando immaginò , non ſo lamente ſopra gli animali, maaltresì
ſopra l'infenſate co ſe quella ſignoreggiare , e fin ſopra i Cieli , e nel
baſso in ferno diſtenderſi. E perciò vollono , che colà giuſo nell abiſso
calando Orfeo, co'l ſuon della ſua Cetera ſtrozzal ſe ſu le fauci di Cerbero i latrati
, che uſo era contro a ' paſsaggieri con crudel rabbia di mandar fuori:
raffermal ſe l'orgoglio delle furie ſmanianti: e l'anime tutte perdue te ,
aveſler dall'acerbe lor pene alcuna triegua: ne lacera te p allor foſsero dagli
Avoltoj a brano a brano le viſce re a Tizio , ne le membra a Siſifo dal grayoſo
ſaſso sfra cellare ; ne per ſete delle vicine acque, e per fame delle vedute
poma arrabbiaſse Tantalo . E tutti quanti in ső ma l'inceſsabili torméti col
ſuon della ſua lira in quel paſ ſaggio ſgombraſse; anzi colla dolce armonia sì
poteſse fa re , e tanto , che dagli infernali Dei a'regni della luce law ſua
cara Euridice otteneſse di riportare ; il che vagamen . te deſcriſse
l'ingegnoſo latino poeta. T alia dicentem , nervofque ad verba moventem , Exangues
flebant animæ,nec Tantalus undam Capravit refugam : ſtupuitq; Ixionis orbis.
Nec carpere jecur volucres urniſque vacarunt Belides: inque tuofedifti Siſyphe
ſaxo. Tum primum lacrymis vibarum carmine, fama ef Eumenidum maduiſſe genas :
nec regia conjux Suſtinet oranti , nec qui regit ima , negare : E per tal
cagione altresì,ad imitazione di Teocrito , Virgi lio introduce Alfefibeo a
dire Carmina , vel Calo poſuntdeducere lunam . Carminibus Circe focius mutavit
V lalei Frigidus in pratis cantando rumpitur anguis : Eplamedeſima cagione
pariméte quel noſtro Poeta puo tè far dire alla Ninfa , dicui narrò
Ricciardetto aRu. giero: Dal Giella Luna al mio cantar difcende , S'ago
DelSig.Lionardo di Capoa. 197, . S'agghiaccia il foco , e l'aria fifa dura , Ed
bo talor con ſemplici parole Moffa la terra , ed ho fermato il ſole . Ma
cotanto oltre portofſi la ſomma ſmcmoraggine di quegli ſciocchi imitatori
de'Fenici, che non ſolamente nel canto , manelle parole ſole ancora una tanta
virtù, ed ef ficacia conſiſter crederono , e di quelle in medicando fer vivanſi
: onde fi legge in Omero ,che colle parole ſtagnals ſero il ſangue delle ferite
d’Vliſse i figli d'Autolico, Τονμάρ Αυτολύκου παίδες φίλοι αμφεπένοντο, Ω'πιλήν
δ ' ο'δυσπG- αμύμονG- αναθέριο Δήσανέπιαμόνως • επαοιδη δ' αίμα κελαινόν
Εχεθος: cioè , Mad' Aurolico i figli eſtrema cura si preſer del divino Vliſſe ,
e prima Congrand'arte legaron la ferita Tenendo ilſangue , che già fuor n'uſcia
Conparole d'incanto entro le vene . Ma non ſolo i greci, maanche i noſtri
poeti, per cacer de’latini , ſecondando i ſentimenti del vulgo ciò ſcriſſero ,
infra' quali il Taſso padre finge , che la donzella della fa ta Silvana
medicaſse colle parole quell'Inghileſe Cava liere gravemente per man d'Alidoro
ferito , cosìdicendo: E con la forçade'magici incanti Fe in lui tornar la virtù
già ſmarrita, Se ricourati i vaghiSpirti erranti , Gli fanò in breve tempo ogni
ferita . E dicono altri ſcrittori aſsai, che operino ciò anche le parole in
tutt'altre malattie : infra’quali Vindiciano: Namque eft res certa Carmen ab
occultis tribuens miracula verbis : e priina di lui Quinto Sereno:
Multaquepræterea verborum monftrafilebo; Nam febrem vario depelli carmine polle
Vana fuperftitio credit , tremuleque parentes. La qual beſſaggine è durata fempremai,
edura tuttavia nel 198 Ragionamento Termo nel mondo , attenendoſi a cotali
fraiche , e novelle'; non ſolo la ſcempiata plebe , maancora quei , che
tra’letterati tengono qualche luogo; e nel paſſato ſecolo il Perrino,fa
mofiflimo Peripatetico , per tacer d'altri di minor liéva , con vaniſſimi
ſofiſmi, diſoſtener sì fatte pecoraggini fol lemente argomentoſſi, cercando di
dare a divedere,che le parole naturalmente ciò poſſano operare; anzi di vantag
gioancor giudicano , che le parole eziandio ſcritte , e ad doffo portate , non
ſolo a guarire i mali , e le febbri, ma anche a render yani i colpi delle
ſpade, e delle palle degli archibuſi ſommamenteapprodino. Onde poi prendono i
noſtri Poeti a favoleggiar de’loro Cavalieri crranti , co me di Ferraù narra
l'Arioſto: Ch'habbiate ſignor mio già intefo eftimo, Che Ferraùper tutto era
fatato , Fuorche là dovel'alimentoprimo Piglia’lbambin nel ventre ancor
ferrato. E del ſuo valorofifſimo Orlando : Era egualmente il Principe
d'Anglante Tuttofatato , furrche in una parte : Ferito eller pote a fotto le
piante: Ma le guardòcon ogni ſtudio sed arte . Duro era il reſto lor ,come
diamante ( Sela famadal ver nonſi diparte ) E l'uno , e l'altro andòpiùper
ornato , Che per biſogno a le battaglie armato . Ma più ridevole in vero, e
ſtrana allai, èpreſſo il Bojardo , e l'Arioſto , la novella d'Orillo , il quale
ingaggiato a bàttagiia con Grifone , ed Aquilante ſu le ſponde del Ni lo , non
mai da que’prodi campioni potea trarſi di vita : imperocchè per virtù diparole
,e d'incanto , egli era sì fattamente ciurmato , che dopo eſſere ſminuzzato , e
tri tato, di nuovo, que'minuzzoli da per ſe acozzandoſi , -ri tornava ,
ſicomeprima a vivere , e a combattere ; onde cantò il Bojardo Segli tagliafſi
il collo , il petto ,e l'anca Piùminuto il tritaſi, che'l panico, 6 Mai
DelSig.Lionardo di Capoa. 199 Mainonſarà dello Spiritoprivo, Spezzato in mille
parti torna vivo. Famoſa ſenza fallo , e chiara al mondo fe la medicina de
Traci il valencillimo medico , e filoſofante Orfeo , come colui , che per
teltimonianza di Clemente Aleſſandrino nelle ſecrete coſe della natura fi fè
addétro aſſai ; e fu il pri mo, checurioſamente, per quel che ſi ſappia ,
dell'erbé ſcriſfe : primus, dice Plinio , omnium , quos memoria novit Orpheus
de herbis aliqua prodidit . Compoſe egli ancora alcuni libri della natural
filoſofia, delle gemme, del ſito delle fibre , e un libro ſe'l ver dice Galieno
della compoſia zione degli antidoti, e molti , e molte altri libri di coſe
naturali ; ſenzachè non ſi può egli di leggier credere, in quanto pregio avuto
egli foſſe tra per la dolciſſimaarmo nia del ſuo canto , e per altre ſue rare
dottrine , maſlima mente della politica , di cui ſecondamente che ne raccon ta
Pauſania , fù egli un gran maeſtro , molte , e molte di di quelle coſe
inſegnando , le quali alla vita, e al regime to degli huomini abbiſognano. E
anche fu egli pregiato molto , e tenuto a capitale per le molte , e valevoli
medi cine a corali malattic non men del corpo , che dell'animo dalui ne'ſuoi
infermi felicemente adoperato. E comechè favoloſo affatto , e vano fia ciò ,
che vien narraro di ſua moglie Euridice,da luicol canto riſuſcitata : non però
di meno vogliono molti antichi ſcrittori , che Orfeo la riſa naſſe , preſſo a
morte ridotta dal morſo d'una ſerpc, e che poſcia ella ſe ne moriſſe per
colpadel medeſimo Orfeo .Ma ſe foſſe veramente d’Orfeo quel poema
dell’Argonautica, che la bugiarda Grecia ſotto il ſuo nome divulgò , dottar non
ſi potrebbe , che egli non foſſe ſtato della Chimica molto , e molto avviſato ,
mentre ſi deſcrive in quel libro minutisſimainente ciò, che ſi richiede per lo
gran magiſte ro , che deſcritto era , come ſi finge nel libro , che Orfeo con
gli altri argonauti a Colco conquiſtarono. E quinci certamente ſi pare poi, che
i poeti prendelſer l'occaſione di finger quel celebre favoloſo racconto del
Vello dell'o ro:, il quale , come dicono lo ſcoliaſte d'Apollonio ,e Sui da, e
200 Ragionamento Terzo da , e Varino Favorino , altro veramente ei non era ,
che una pelle , nella quale l'artificiofa maniera da cambiar in oro qualunque
altro demetallideſcritta leggevaſi. Ma le tante arti , e ſpezialmente la
muſica,e la poeſia ; nelle quali dilettavali aſſai Orteo , e l'eſſer egli ſtato
, CO me Simplicio riferiſce,autore, ed inventore deltaco , e no per altro, che
per iſcuſarſi, e riveſciar ſopra la di lui inevi. tabile neceſſità quelle
morti, che per ſua colpa a'poveri in fermi avvenivano , mi dan per avventura
giuſta cagione di dubitare, non egli foſſe ſtato nella filoſofia,e nellamedi
cina da mé, che altri credevalo ;ne tāta loda meritar dovel ſe , quanta in
prima guadagnoli nel creſcere dell'arti ap preſſo i troppo ſemplici , enon
eſperti antichi, iquali pa ghi ſolainente delle primeapparenze delle coſe ,
nonnes venivano troppo addétro a penetrare le cagioni;comeche Pittagora
ſtudiato oltreinodo ſi foſſe delle doctrine di lui apparare , e diſcerner ſuoi
librilegittimi da non veri,ſico me non pochiſcrittori teſtimoniano, e
ſpezialmente Siria no , il quale di moſtrare a' fentiinenti d'Orfco que'diPi
tagora , e di Platone concordevoli argomentolli. E più avanti è da dottar della
ſua dottrina , e valoria ; percioc chè non è egli vero ciò , che il ſemplice
vulgo parimento di lui credeva , efſer le ſue azioni , ed andamenti tutti con
una coral gravità di coſtumi, e lantità di vita ſempremai ſtati accompagnati ;
conciofoſſe coſa , che egli dimoltes malvage uſanze , c cattive vezze la Grecia
cutra gualta, e corrotta aveſſe : Sacra Liberi Patris , dice Lattanzio , pri
mus Orpheusinduxit in Greciam , primufque celebravit in monte Bootie Thebis ,
ubi Liber natus eft. E di vantaggio ſcrive di lui Ovidio : Ille etiam Tbracum
populis fuitauthor amores In teneros vertiſe mares : Ma la medicina de Traciin
fama,edonor maggiorinen te poi crebbe per opera di Zamolſide, non meno ſaggio ,
che valoroſo lor Principe, da alcuni fallamente appo Ero doto creduto ſervo , e
diſcepolo di Pittagora . Ma della medicina di Zamollide altro noi non abbiano,
ſe non quel poco DelSig. LionardodiCapoa 201 poco che appo Platone ſe nelegge,cioè,nó
poterſi medicar gli occhj ſenza la teſta ,ne la teſta ſenza tuttoilcorpo, ne il
corpo ſenza l'anima. E queſta dicca Zamolſide eſser la ra gione, perchè molte
malattie de'corpi fieno naſcoſe a'me dici Greci , a’quali non è manifeſto dove
primjeramente faccia meſtieri applicar la medicina, cioè al tutto , il qua le
non iſtando bene , è imposſibile , che qualunque ſuas parte ſe ne ſtea
bene;cócioſliecoſachè,ficomc egli dicevil ', ciaſcun noftro bene , o male
dall'anima noftra ne diſcenda al corpo , e da quello conſeguentemente a
ciaſcuna parte di ſe, e perciò agli occhj ſi partiſca ; e però giudicava in
prima eſſer l'anima ſopratutto da medicarc ; acciocchè bé poi ne ſteſſc la
teſta , e tutto il corpo .Mal'anima egli volc va , appo Platone,che da medicar
foſsc có incanci; e queſti diceva eſserci buoni ſermoni , e indirizzamenti, i
quali certamente fan pro a render l'huomo temperaro , e ſigno reggiante
l'impeto de'ſenſi alla ragione rubelli ; e quindi 1.2 ſanità al capo , e a
tutto il rimanente del corpo agevol mente poicompartirſi: ecco le ſue parole
sa's dº itu'sa's Guo ας , τες λόγες είναι τις καλές • εκ δε των τοιέτων λόγων
εν αις ψυχαίς σοφροσύνην εγγίγνεσθαι ,ής εγγενομένης , και παρέσης ράδιον ήδη
είναι την υγίειαν , και τη κεφαλή, και το άλω σώμαπ πορίζων , Ma non facea
meſtieri certamente di molto ftudio , e di molta acutezza d'intendimento a
porre in aja sì fatti di viſamenti , che poſsono di leggieri cadere in mente
anche alle più idiote perlone . Nevero egli ſi ritrova , che le malattie tutte del
corpo , dall'anima dependano , o ſem - prc , chepatiſce una parte , debba
neceſsariamente patir il tutto , o'lmal delia parte da tutto il corpo, o da
qualche parte principale di quelle dependere; perciocchè ben può eſser tutto il
rimanente del corpo, ſano , & una , o altra parte ſolamente magagnata . È
ciò avvenir tutto dì live de ,maſſimamente nelle ferite, ed epfiamenti, che
colme dicar la parte offeſa ſola, ſenza badar ad altro , quella feli cemente ſi
riſana ; e ciò conferma l'eſemplo del fatto a'no ſtri tempi avvenuto , dicolui
, che portar non potendo il troppo acerbo dolore , che per la podagra pativa in
un de Сс diti 1 2 202 RagionamentoTerzo diti del ſuo piè , venne a tanta
diſperazione, che preſo un coltello, troncoſselo , ne più mai in altro luogo
poi venne gli la podagra . Macon gran prontezza venne abbracciata , e con gra
disſima ſuperſtizione oſservata sìfatta guiſa di medicare da'Greci medici
razionali ; e di quella tuttavia ſivaglio no i noſtri medici ancora , tra per
far pompa di quel ſape. re , ch'effi non hanno , ed ancora per menar la cura
alla lunga ; ma ſopratutto per non aver rimedio opportuno al male ; e di cotali
ſorti di medicine ſi ſervono , le quali al la malattia punto non s'appartengono
; e nondimeno egli no millantando dicono uſarle opportunamente: acciocchè prima
il tutto , e le parti principali medicate ſieno ; e quin di all'offeſa parte fi
venga a dar riparo ; e immaginando follemente ancora , che ciò far conaltro
argomento non ſi poffa , i lor ſalalli , e le ſtomachevoli purgagioni, che fono
i maggiori ricoveri della loro ignoranza , mettono di preſente in opera,co
imporgli largamente ovunque più loro aggrada , fino a far infralir gli ſpiriti
, e preffo , che amorte giugner i malati; ma ben ſovente incontrar ſuole, che
da qualche femminella , o altro menomo Empirico ' , cui il vero rimedio ſia
conoſciuto , di sì fatte lor cianceri mangan beffati , e ricreduti . Ma per
altro poi molto manifeſto fiſcorge, che in Za mollide aſſai più che'l
ſapere,parte v’ebbero l'aſtuzic,ele frodi, delle quali niun forſe di lui meglio
ſi ſeppe a'luoi tempi valere . Fabbricò egli un belliſſimo palagio ( co me
narra Erodoto , comeche Strabone altrimentijl fatto deſcriv2 ) nel quale
convitava a mangiare la gente più principale , e lor perfuadeva , che ne eſſo ,
ne alcun di co loro , che gli tenean compagnia giammai morirebbe; ma inſieme
con eſo lui dopo il trapallamento della preſentes vita , eterna beatitudine
goderebbono. Edificò egli un ' altro palagio ſotto terra, la dove egli
infingendoſi mor to ſtette celatamente tre anni ; nel qual tempo con pieto fi
ſoſpiri, ed amare lagrimc doloroſamente fu pianto da que'popoli; ed uſciione
poſcia diè a diyedere, ch'egliera in vi DelSig. Lionardo diCapoa 203 ciò , in
vita ritornato ; e queſto , ed altro egli ebbe agio di fa . re , perch'era in
grandiſſima gloria ſalito , tra per la medi cina , e tra per eller qnci popoli
groſſi , e materiali ſoprá modo ; intanto , chenon ſolo diedero intera credenza
a che detto aveya : ma ancora dopo mortc in cotanta , maraviglia fu tenuto ,
che venne da loro per Dio adora to ; ed a’teinpi di Erodoto eglino ancora
avevano in co ſtume di madargli uno ambaſciadore con una nave di cin que
hucmini: aʼquali era impoſto , che giunti ad un ſoli tario , ed ermo
luogo,prendeſſero per lo piede il detto am baſciadore, e lo ſoſpingelſer ſu in
modo tal , ch'eglive niſo a cader giù loura tre lance a tal effetto acconce ;
il quale fe immantenente ſe ne moriva , eran ſicuri , che Za molde favorevol
farebbe ſtato alle lor dimande ; ma ſe per avventura morto non foſſe , n'era
accagionato , coine indegno dell'ambaſceria , e reo , e perfido huomo era ap
pellato; ed un'altro ambaſciadore a queſt'opera fare eleg gevano , al quale le
medeſime ambaſciate imponevano Quefta fortuna medeſima appretſo lui participarono
i ſuoi fcaltriti diſcepoli, come quei, che poteron dare agevol mente a divedere
a quc'ſemplici popoli , che valevoli foſ ſero coʻloro argomenti a dare altrui
quella immortalitá che per ſe medeſimi conſeguir non potevano. Ma Bacco,
ſapientiſſimo, e valoroſiſſimo Principe de' popoli Affirj, della medicina de'
quali ora lo intendo di ragionare , avendo in pochiſſimo tempo a forza d'ar me
vinta l’Iberia , e la Libia , e l'Oriente tutto , e più, e più volte calcate
colle vittorioſe piante l'arene dell’O ceano , e fin l'ultime regioni della
terra penetrate , e po ſtevi per eternamemoria de'ſuoi trionfi quelle due famo
ſe colonne: così ragguardevole, e glorioſo in tutto'lmon do divenuto,pur ebbe
in cotanto pregio la medicina , che non già monarca , e conquiſtator delmondo,
ma medico ſolamente volle elles chiamato . E nel vero così magnifi che, c
gloriofe furle fue impreſe , che per tacer de Fenicja ftudiaronli i Greci
millantatori colle loro uſate menzogne di Cadmo al nipote , huom di loro
nazione propiamente Сс 2 inve 204 Ragionamento Terzo 1 1 inveſtirle ; ma ſi ben
non ſeppero con loro novelle la coſa comporre , che non ſene doveſſe
manifeſtamente avvede. re ciaſcun , che de'tempi di coloro faceſſe ragione ;
per ciocchè egli è coſa manifeſta , che molto tempo addietro a Cadmomedeſimo,
non che a ſuo nipote, ci foſse Bacco vivuto , ſecondamente che s'avviſa in
Euripide , introdu cente nella Bacchide Cadmo a comındare il culto di Bac co ,
fol perchè egli antico fi foſse : Πατος παραδοχας, άσθ' ομήλικα , χρόνων
Κεκτήμεθ' , έδεις αντο καβάλει λόγG-. Ed Ateneo ,graviſſimo ſcrittore,
ſomiglianteméte dice,far fi menzione di Bacco nella lapida del ſepolcro di Nino
, il qual viſſe certamente ſeicento anni prima de'tépi di Cad mo ; ſenzachè
appo Filoſtrato affermano in verità gl'In diani , eſſer Bacco , non dalla
Grecia , comealtri crede , ma dall’Affiria nelle loro contrade capitato. La
maggior opera, che Bacco in medicina faceſse, ſem bra ſenzafallo il
ritrovamento del vino . E ciò fù per av ventura , che adoperando cgli il ſugo
dell'uva per cotal fua biſogna a caſoqualche parte nelvaſo avanzata ne for
ſe,la qual poi bollendo,e formétandoſi in vino fi cambial fe: e diciò
avvedutofi egli , a bello ſtudio poi la colaj provaſse , eriprovaſse, finchè
avviſandolo alla fine così ſpiritofo , e giovevole al genere umano l'adoperaſſe
in prima nelle malattie, quindi ancora agli huomini ſani lar gamente il
concedeſse . Ma forſe egli , ſecondochè lo immagino , per via della Chimica
ritrovollo ; la qual , ficome in Egitto , così anche doveva allora in quelle
con trade ſommamente adoperarſi. E veramente ſolo a'Chi miciconviene col
digeſtimento , e formentazione neʼlu ghi vegetabili ſuegliar gli ſpiriti, i
quali pigri in prima, e quaſi addormentari in quelli dimoravano . E potrebbe
eſser’anche , che Bacco apparato l'aveſse in ciò , che lo frutte , da ſe
medeſimeforinentar fi ſogliono , el ſapore e l'altre qualità convencvoli al
vino acquiſtare; avvenen . do ciò per opera de'movevoli ſommamente , &
acuti cor picciuoli , i quali dall'aria intorno lor communicandoſi, e ajuta Del
Sig .Lionardodi Capoa. 205 ajutati da cotali atometti di quelli , onde il fuoco
s’ingco nera,che continuo portan ſeco ,e che in que'corpi trovano, fuiluppano
tratto tratto, e ſciolgono quella nobiliſsima foſtanza , ch'anima del vino può
dirſi , e da' Chimici , che colla diſtillazione ſoglion dal vino
ſepararla,acquarzente, e ſpirito di vino ſi chiama. Ma comechè del ritrovamento
del vino ſe ne debba veramente l'onore al noſtro comun padre Noè ; impertá to è
da credere, eſſer' il modo di fare il vino da lui già ri trovato ,per
travalicamento di tempo , ſmarrito : cche Bacco poi da capo il rinveniſſe . lo
fo , che alcuni favo leggiando voglion con lor novelle darnc a divedere ,eſſere
ſtata una medeſima perſona Noè , e Bacco ; ma ciò trala fcio , per non effer
egli in modo alcuno da credere ; per ciocchè per quel , che comprender ſi poſſa
dalle ſagre car te , non guerreggiò giammai Noè , ne altra impreſa fece , che
ſpezialmente a Bacco s'attribuiſca . E molto meno è da preſtar credenza al
Voſſio padre , il quale a deboliſſime fondamenta appoggiato , giudica , non
altri eſſere ſtato Bacco , che'l ſanto Moisè ; perciocchè Moisè non fu mai in
India a guerreggiare , non chepunto ta foggiogaſſe. Ma ciò non appartenendo punto
al noſtro propoſito dico, che ciò , che ſifacefle in inedicando Bacco , e quali
altrimedi camienti egli adoperaſle , e come co'l vino guariſse i mala ti , e
coll'edera poi a'nocimenti del vino e' riparaffe , non ; ne abbiamo al
preſente,per quel ch’lo ſappia, contezza alcuna . E avvegnachè
valentisſimomedicante e' li foſſe, c imperciò dall'oracolo il dator della vita
chiamato , non però di meno eſſendo egli avido di loda , e vanaglorioſo aflai,
pur comegli altri per maggiormente cfſer tenuto a capitale , vollemueſtrevolmente
render più maraviglioſe le ſue cure , con far veduta , che qualche coſa
ſopranatu rale anchev'aveſse ; perchè ſerviſſi delle divinazioni e de
facrifici, i quali tra per queſto , e per la ſperanza di veni re anch'egli dopo
mortequal Dio dagli huomini celebra . to , nell'Alliria , e ne'paeſi dalui
ſoggiogati , in primaj introduſſe. 200 Ragionamento Terzo 1 Ante tuos ortus
ar& fine honore fuerunt Liber , & in gelidis berba reperta focis . Te
memorant Gange, totoque Oriente ſubalty Primitias magnofepofuiße lovi . Cinnama
tu primus, captivaque thura dediſti , Deque triumphato viſceratoſta bove. Ma
trapaſſando dalla medicina degli Affirj a quella de gli Arabi , ſe rozza
veramente , e ſciocca oltremodo ne gli antichi tempiquella fi foſſe ,o ſe talpur
ſi pareſc,ben G ravviſa in ciò , che da Agatorchide per teſtimonianza di
Strabone, e di Diodoro , che da lui tolfer di peſo ciò , chc ſcriſſer delle
coſe degli Arabi, narrato ne viene . Do po aver detto Agatoichide, che
nell'Arabia per la trop pa fragranzia,e acutezza, che ivi fentivaſi degli odori
del le loro piante , diffolvendoſi , e dilatandoſi tratto tratto la teſſitura
delle membra di quegli abitatori, divenivano i cattivelli in fierisſime cagioni
, e malattie . Soggiugne egli poi , che a quelle co'l fumo, ccolla puzza delle
bar bc de'becchi , e del bitume davan riparo : da#reouév8 rõrúa ματG- υπ '
ακράτε , και μη τικής δυνάμεως , και την συμμετρον πύκνω. σαν επιπλεονεξίσης,
ωπάγαν ας έκλυσαν ισχύ την .Ρcrche fembra ad alcuni , che a ciò fare ſoſpinti
foſſer gli Arabi medican ti da quel volgar ſentimento , che l’un contrario ,
per l'al tro curarſi debba . Ma che che ſia della verità di ciò ,tan to , e
tanto oggi meſſa in dubbio da’moderni medici : di co , che ſe rimedio pur
quellera , certamente era cgli più acconcio a conſervare , e difendere da
quelle malattie i pericolanti paeſani , che le già appiccate ceffare. Ne è pū.
to vero ciò, che il dottiſlimo Salmafio giudica , esſere ſta ta queſta in
Arabia una cotal ſorte di metodica medicina ; perciocchè i Razionalimedici
ancora ſi prendon guardia di non laſciar di ſoverchio turati , o ſpalancati i
pori degli animali , e oltre al convencvole ſtemperati. Maccrtamē te è da dire
, che eſſendo ora cosi odorifera di ſpezierie l'Arabia , quale in quegli antichissimi
tempi ſi era:ne per ciò cagionandoſi quivisì fatte malattie , fieno affatto fa
volore, e vane cotali no c!le di que'tcmpi; o alti vode,che dagli Del
Sig.Lionardodi Capod. 207 dagli odori foſſe ciò avvenuto. Ne poſto in ciò della
tram { curaggine di Strabonc , e di Diodoro forte non maravi gliarmi,i quali
non ſi dieron mai cura di ravviſare un cotal farfallonenegli antichi, e pure
nc'loro tépi affai ben cono ſciuta ſi era l'Arabia.Ma nella Grecia da chi , e
in qual té po da prima ritrovata ſi foſſe la medicina , Io quanto a me confeſſo
affatto non ſapere ; nondimeno farei d'opiniones molto tempo avanti di quel ,
che comunemente ſi giudi ca , quivi eſſere ſtata quella ritrovata : e ben
priina aſſai , che Cadmo le priine lettere vi recaffe ; perciocchè per le gravi
, e crudeli malattie , che continuo quella infeltava no , ſommaméte allora
faceva la medicina alla Grecia me ſtieri . Il che fu anche cagione , perchè con
tanto ſtudio, e in tanto novero i Greci tutti allora alla medicina s'impie
gaſſero; e non fu egli al mondo ,per quanto ſi poſſa in iſto ric avviſare ,
nazione alcuna , che cotanto vis'inviluppal ſe , quanto la Greca . Perchè
ſembrami egli certamente imposſibile , che nelle tenebre di tanti , e tanti
paſsati ſe coli , e da poche, e non ordinate memorie , che appena ai noſtra
notizia fien pervenute, ſi poſſa in alcun modo inve ſtigar la verità di cotali
coſe ; ſenzachè fon le loro ſtories tutte ſofperte di falſità , e
millantatrici, ccon l'uſate lor favole , e novelle ſempremai meſcolate;imperciocchè,
co me avviſa Giuſeppe Ebreo: non avēdo avuto i Greci ſcrit ture pubbliche ,
nelle quali fedelmente ficonfervaſsero fe . memorie delle coſe avvenute ,
oguiſcrittore poteva ,come più gliera a grado narrar le coſe,ſenza aver timore
di po ter mai eſser colso in fallo ', e convinto di bugia . Arro ge , che i
Greci , come afferma Dione , erano così avvez zi al piacere , che ſtimavan vere
tutte le coſe , che narrate foffero con eleganza di ſtile ; il che poi
cagionava, che gli ſcrittori d'altro cura non ſi deſsero , chedivagamente, ed
ornatamente ſcrivere , fenza durar fatica nell'inveſtigar la verità de' fatti ;
anzialcuni ſovente ſi ſtudiavano , meſco . lando a bello ſtudio menzogne
coll’iſtorie , di fare altrui delle loro ſtrabocchevoli impreſe maravigliare ;
e altri fi adoperavano in ben comporre , e inviluppar le coſe per coglier 1 1
208 Ragionamento Ter 70 6 1 coglier poicagione di trarre a ſua patria ciò , che
di ma. gnifico , e di pregiato andaſſe attorno . Così il comun der Greci le
glorioſe geſte in medicina d'Oſiri Egizio , perta cer d'altre ſue impreſe , che
non fanno al preſente a noſtro propoſito , al ſuo Apollo figliuol di Latona
mentendo at tribuì; e'l figliuol di Semele reſe chiaro , e illuſtre co' fat ri
di Bacco Afirio . Così ancora quanto di grande , e di glorioſo in medicina
operaſle Tofortride, inſieme coʻl ſuo medeſimo ſoprannome al ſuo Eſculapio
falſamente attri buì; laſciando così in tanti volumi , e confuſioni il pren .
derſi cura gli ſcrittori di rapportare il tempo , in cui par citamente quegli
antichi medici Greci viſſero , de'quali ancora a' noftri tempi ne ſon giunte
qualche contezze,che malagevole , anzi impoſſibile egli ſembra ad huom lo ſvi
lupparſene . Ma io in quanto potrò per fornire il mio di viſo , faronne una
breve , comechè confuſa accolta , eſc condochè alla memoria a mano a mano mi
ſovverrà , ter rò ragionamento di ciaſcuno . E prima di tutt'altri mi convien
narrar di Peone tenuto in sì gran maraviglia appreſſo gli antichi per la ſua
impareggiabil’arte del medicare , che ragionevolmente giudicarono , aver lui
meritato d'eſſer medico diGiove, e cotanto lafsù pregiato , e tenuto a
capitale, che più dicia fcun'altro Dio preſſo a quello orrevolmente ſi
ſedeſſe;nar, rando di lui Omero . Παρ δε διά κρονίωνι καθέζείο κύδει γαίων ,
e'l medeſimo poeta nell'Odiſſea avea detto , i medici del l'Egitto eſſere
eccellenti per eſſer della ſchiatta di Peone : Tlainavos dirigevédans . Il che
ci può far credere , che Peone foſſe Egizio , e non Greco di nazione , ma
inſieme con gli altri , che teſtè dicemmo agli Egizi da'Greci rubbato ; e
intanto crebbe nella Grecia la fama di Peone , che ciaſcun medico dopo di lui
giudicava , ſe eſser ſommamentelti mato , e commendato, ſe col ſuo nome chiamar
ſi faceſse; anzile mani inedeſime de'valenti medici da Galjeno, c da altri
ſcrittori vennerdette pconie ; e peonie parimente fi diſsero l'erbe più
giovevoli,ed efficaci ad uſo di medicina; perchè cantò il Poeta Et ful 4 - Del
Sig.Lionardo di Capoa 209 fuperas Cali veniſe sub auras Peoniisrevocatum herbis
, cioè a dire , come avviſa Servio , à Peone Dcorum medico Vsò Peone in
medicando le ferice, piacevoli, e dolci mc dicamenti, co’quali curò egli
Plutone, per le mani d'Er cole grayemente ferito : Τα δ ' επι Παιήων οδυνηφα
φάρμακα πέσων, Η'κέσατ' Dalla qual cura ſi può agevolmente avviſare, eſsere ſta
to Peone appreſso gli antichi in maggior pregio aſs :ri del medeſimo Apollo :
comechè alcuni vanamente giudichi no , la modelima perſona eſſer Peonc , ed
Apollo . Ma ciò quanto ſia lontano dal vero manifeſtamente in ciò ſi conoſce ,
che Omero nel ſuo maggior poema , di Peone, e d'Apollo , come di due diverſe
perſone ſeinpremai farvel 1.1. Ne è punto da dar credenza al chioſator di
Nicandro, che vuole,Peoneeſſere ſtato il medeſimo , ch'Eſculapio ; nel quale crrore
cadde poſcia Artemidoro ,quando diſse : Slautwv gas ó Arxassatoo's heyeces:
imperciocchè nc' tempi d' Omicro , Eſculapio non era ancora deificato ;
trattando Omero comc huono Eſculapio allora quando e' dice , in favellando di
Macaone, che egli era figlio d'Eſculapio ec cellentiſſimo medico : Φώτ' Α '
σκληπιά υον αμύμον G- ιητήρG- , Maciò laſciando al preséte, e ritornando al
noſtro pro poſito della medicina , dico , che di Peone non s'hà ine moria ,
ch'Iomiſappia , niuna , fuor ſolamente della Peo nia : Vetuftifima ,narra
Plinio , inventio paoniæ eft , no menque authoris retinet. MaIo quanto a me
giudico, non cffer lui ſtato cotanto valoroſo medico, qual per avventu ra lo ci
danno a credere i troppo rozzi antichi; percioc chè altro delle ſue pruqve non abbiaino,
che l'aver lui una fola ferita ſaldaca . Perchèè cgli a buona ragion da crede
re , che Peone per dovere a cotanta gloria , quanta egli acquiſtonne ,
condurſi, tutti i buoni, c malvagj contigli adoperati y’aveſe,facendoſembiante
alla ſciocca , e fem , D d plice 210 Ragionamento Terzo plice gente,con
ſuefruſche,di tar lemaraviglic . E per av ventura egli ſi fu il primo, che ne
fe credere cotáte ſcioc chezze della ſua peonia: dicendo,dover'huom quella in
lis la notte cogliere, per non eſſer dalle ghiandaje veduto ,le quali ſtandole
continuo a guardia, crocchiando , e volan do accorron coſto a bezzicar gli
occhi di chi la ſvelle ; ſen zachè dicono correr colui manifeſto pericolo di
cicpargli gl'inteſtini , ſe digiorno la coglie . Novella ſecondochè giudica
Plinio , a bello ſtudio ordinata, e compoſta per dar maggiormente ammirazione
alla coſa . Ma non che ciò ſia vero , anzi le virtù tante della Peonia cotanto
dagli ſcrittoricommendate , e da Peone forſe da prima a quella attribuite , ora
in verità tutto vane , e falſe ſperimentate fi ſono : ne ad alcun lieto finc
giammai riuſcir ſi veggono . Perchè colſer cagionc alcunidi dubitare , non
forſe que Ita noftra Peonia altra fi foſſe , che quella cotanto tenuta in
pregio dagli antichi , e adoperata in diverſe lor malat tie. È altri giudicano
effer veramente quella ; ma per conſervarli nelle ſue virtù vogliono , che ſia
in certi tem pi ſolamente , e ſotto cotal coſtellazione da raccoglicre . Ne è
da tacere in queſto propoſito , quanto arditamente uccellar ne voglia Galieno ,
il quale afferma aver lui me delimo ſperimentato , che la radice della Peonia
appicca ta al collo de fanciulli, c quivi da lor tenuta , non ſolaine se
glidifenda dal mal caduco , ma anche quando già pre ſi ne ſono, facciagli di
preſente rinvenire. Malaſciando al preſente Pconc , e trapaſſando a dir d'
Apollo , creduto comunemente Dio della medicina : egli è da ſapere , che molti
Apelli già furono in Grecia , e cctante, e sì diverſe , e dal vero lótane ſono
quelle coſe , che per gli ſcrittoridilor ſi narrano , che ſarebbe certa mente
un logorar fuor di propoſito il tempo , il venirle qui ad una ad una a
raccontare. Solaméte dirò del figliuol di Latona quelle poche , e confuſe
memorie alla ſua me dicina pertinenti , che per quanto lo ſappia a' noſtri tem
pi pervenute ſono . E in prima , quantunque Apollo al cuna erba ritrovaſſe ad
uſo di medicina , quale è quella per 1 Del Sig.Lionardo di Capoa. 211 percid
detta Apollinare, che è una cotal ſpezie di Solatro; Apollo hanc berbam ,dice
diquella Apuleo, fertur inveniffe, da Aſclepio dediffe,&apollinaris nomen
impofuiſſe ; inper tanto non è perciò egli da eſſerne cotantoonorato col rag
guardevol titolo di Dio della medicina , ficome dal vula go , or follemente ſi
giudica ; perciocchè in quel medeſi mo tempo , ch'e'fioriva , molto d'altra
parte in medicina vantaggiavaſi Chirone ; il qual certamente in ciò cotanto di
lui fu maggiore , ch'egli inedefino conoſcendolo tale , volle, ch’Eſculapio ſuo
figlio per maggiormére profittar vi, da Chircne la medicinaapparaſſe , come da
maeſtro di ſe più valoroſo aflai . Senzachè narra Igino,cſſere ſtato Apollo il
primicro ſolamente a ritrovar la inedicina degli occhj , non di tutt'altre
malattie del corpo umano. Ele disse d’Apollo, Callımaco, che da lui
primieramente gli huomini apparato avevano a cellare i pericoli della morte:
Κάνε δε θυμαι και μάντιες : έκ δε νυ Φοίβε , Iyisod dedeany , ardermoor Java
Toio : ſeguì in ciò certainentc egli la comun credenza della gente volgare ,
non badando punto alla verità del fatto. Ma ſia pur ciò , comeſi voglia : lo
quanto a me immagi gino , che Apollo , o avendo egli col ſuo ſtudio , e colla
ſua diligenza rinvenuta cotal medicina a’malori degli oc chi giovevole , o pur
da qualche vegliarda appreſa aven dola , a quella adoperare con ogni ſuo ſtudio
continua mente intendeſſe; e comechè in quella parte reſo fi foſ ſe
ragguardevol molto alla gente di que'tempi, non pe rò di meno egli è da dire ,
nel rimanéte eſſer lui ſtato mol to rozzo , e dappoco in medicina , e'l ſaper
ſuo manche vole affai; ajutandoci a ciò giudicare la comun mellonag gine di
que’tempi, e maſſimamente nella Grecia nell'arti più ragguardevoli. E che cotal
foſſe ſtato anch'egli Apol lo , in ciò certamente ravviſar fi potrebbe ,
ch'egli poco alla ſua ſcienza fidando per dovere aggiugnere a gloria di
valoroſo , quella parte della medicina a imprender ſi dic de , la quale intorno
agli antivedimenti s'adopera;quindi D d 2 росо 2 IZ Ragionamento Terzo poco in
quella ancor profittando,peraltre ſtrade ſconce, e ſuperſtizioſe argomentofli
di venire a capo de' ſuoi avviſi, apparando dal vecchio Pane l'arte ſcaltrita ,
cingannevo le del vaticinare . Quindi andato in Delfo , la dove Te. mide dava
le riſpoſte, e avendo quivi la ſerpe ingannevol mento ucciſi , la quale gli
vietava l'entrata nell'aperturu dell'oracolo , ingombrollo di preſente , e
cominciovvi in un tratto maeſtrevolinente a profetizzare; ſcrivendo di ciò
Apollodoro quette perole: Απόλλων δε την μαντικήν μαθών παρα του Πανός , του
Διός Θυμάρεως ήκεν ας Δελφούς χρησμωδούσης το σε Θέμιδα • ως δε ο φρερών το
μαντίον Πύθων ώρις εκώλυεν αυτόν παρελθείν εις το χάσμα και του τον ανελών , το
μανλείον παραλαμβάνει . E queſto vien altresì conferinato di Strabonc, il quale
meglio ſembra per mio avviſo , che abbia ſaputo la coſi . Dice egli ch'effedo
ſtato Apollo ammaeſtrato nell'arte de' vaticinj da Pane , che diede le leggi
agli Arcadi , ſe n'an daffela dove la Notte,e la Dea Temide davan le riſpoſte,
ed ammazzato il tiranno di quel luogo chiamato Pitone, ribaldo , e terribile huomo,che
per la ſua grandearroganza dicevali se zw ,cioè Dragone,preſidéte allora della
menſa de’ vaticinj, ſe ne impadroniſſe , e celebrar vi faceſſe gli ſpettacoli .
Coſtuma poi ſeguita per tanti ſecoli da que gliempi , c fugaciſuoi facerdoti, e
miniſtri , i quali imi tando in ciò il loro aſtuto maeſtro , vezzatamente
davanj le riſpoſte inviluppate d’enimmi, e diriboboli, intanto , chequalunque
caſo poi n'incontraſſe, ſipotea ben dire , eller quello verainente ſecondo il
lor divino predicimen to ſeguito . Nc in ciò punto meno ſcaltriti, c maliziofi
fi rono dopo Apollo gli altri medici, col tener macítrevol mente mai ſempre i
cattivelli malati a bada, e ragionando ſemprea riguardo , c con duplicità ,
delle lor malattie,per dover ſempre poi indovinare, a qualunque fine il mal ne
siulciffe . E quelle fi fur larti, onde in tanta fama, e pregio 2p preſo il
vulgo montò Apollo , che guadagnoſsene il titolo k ! maggior medicante del
mondo,anzidi Dio della me sna. Misi, e tanto non potè egli con fue afuzicado 1
Del Sig.Lionardo di Capoa. 213 perare , che di più intendenti, ed avveduti
huomini non foſſe ignorante , e poco del meſtier della medicina confa pevole
reputato . Ne per pruova altro che talcertamen te potevano giudicarlo ,
riguardando tutto giorno per mā, di lui, e di Diuna ſua ſorell.2 ( la qual
medica ancor ella , ritrovò , e diede ilnomeall'Artemiſia) morirſi a centina.
ja i miſeri malati , ſenza mai guarirfene niuno . Infra’qua li furono i figli
della ſventurata Niobe ; di chic eila cotan to dolor preſe, che mancandole ad
un tratto i ſentimenti, e riſtretti in ſe gli ſpiriti , ſenza alcun motto fare,
chiuſei le pugna, pirò ; perchè poi preſer cagione i Poetidi favo leggiare ,
ch'in fafso ella cambiata ſi foſſe . E quinci nac que poi , ch'eziandio dopo
che furono Apollo , e Diana nel numero degli Dei allogati ,credevaſi
comuneméte, che tutti quegli infermi , che capitavan niale delle lor malat tie
, ſe femmine follero , perman di Diana , e ſe huomini, per man d’Apollo
moriſscro ; perchè Omero, Ε'λθων αργυρότοξ - Απόλλων Αρτέμιδι ξυν και οίς
άγανούς βελέσουτ κατέκτεινε . E’l medeſimo poeta finge , ch’Apollo mandaſſe la
pe ſtilenza nel campo greco ; ne per altro , al creder di Por firio furono
poſtele ſaette nelle mani d'Apollo , é ne ven ne giudicato Dio infernale . Qual
ſi foſſe egli poi ne'co ftumi , il taccio ; eſsendo pur troppo manifeſte a
ciaſcuno le ſue infamie , e ciò che avveniffe alcattivel di Giacinto , per fua
mano , e a Lino . Tanto mipar , chedebba lo ac cennare ciò , che alnoſtro
propofito ſi conviene , cioè, ch ' cgli avvili da prima , e profanò il ſanto
meſtier della me dicina , inſegnandola ad Enone in pagamento d'averle tolta a
viva forza la verginità , e l'onore ; perchè ella co sì preſso Ovidio fi vanta
, Me fide conſpicuus Troje muwitor amavit Ille med fpolium virginitatis habet ;
Id quoqueiaétando : rupi tamen ante capillos, Öraque ſuntdigitis afpera facta
meis. Nec pretium ſtuprigemmas , aurumque popofcit; Turpiter ingenuum munera
corpus emunt . IR . L : 214 Ragionamento Terzo ! Ipfe ratas dignam medicas mihi
tradidit artes, Admiſisque meis ad fua dona manus . Quècunque herba potens ad
opem ,radixque medendi Veilis in toto nafcitur orbe ,mea ef . Ma trapaſsando a
Melampo : grande nel vero , e non ordinario fu il pregio , che guadagnoſli oglicolla
me dicina , mentre oltre alle figlie di Preto , egli guarà an cora della
ſterilità , per quel , che nc narri Euſtazio , Ifi cle , colla ruggine del
ferro ; comechè ſecondo l'ufan za comune de'medici , maſſimamente di que'
tempi, per più ragguardevole render l'opera , facefle egli veduta ,do po aver
ſacrificato un bue agli uccelli , con diſtribuire a ciaſcuno di eſſi la ſua
parte , ch'un avoltojo alla fine croc chiando gli rivclaſſe , che la ſpada ,
colla quale Iflaco té tò d'uccider lficle , e da quello affiſſa ad un pero
ſelvaggio, l'aveſſe reſo infecondo. Ma ben fi pare, che Melampo foſſe di non
mezzano intendimento fornito , e che egli for ſe il primo , che cominciato
aveſſe a medicar nella Grecia co’minerali . Perchè agevolmente porraſſi
argomentare ', l'uſo di quelli eſſere ſtato antichiſſimo nel mondo : comc che
per loro poca uſanza, maffimamente eſſendo ſtati ado perati ſempre da medici
ſolamente diprima lieva , detto fia , che l'antica medicina nell'erbe ſolamente
confiftelſe . Ma come ciò avvenir poſla , che la ruggine del ferro ab bia virtù
ditor via la ſterilità dall' huomo , e di diſporlo a potere acconciamente
ingenerare , egli non è certamen ce troppo malagevole, ad avviſare a chiunque
ben fappia, onde provenir ſoglia cocal vizio nel corpo umano; per. ciocchè
ſuol'egli naſcere talvolta dalla ſoperchievole ace toſità de'lughi : alla quale
ammendare fa certamente gra diſſimo proil ferro , e maſſimamente la ſua ruggine
; la quale oltre che non ſuole alle viſcere quella gran moleſtia cagionare , che
la limatura diquello talvolta apporta , el la preparata dagli aliti acetoli del
nitro , e del fal ma rino , che continuo per l'aria diſcorrono , i qual eſsendo
più ſottili affai di quelli fpiriti, che per arte li fanno , più cfficace , e
profitcevole ſi rende di quella ruggine , che per ! man Del Sig.Lionardodi
Capoa. 215 man de'Chimici maeſtri li lavoraziinperciocchè è più accô . ia a
meſcolarſi colle ſottiliflime , e acute particelle , che travagliano le viſcere
. E di ciò fenne più volte pruova quel celebre Franceſco medicante Riverio il
vecchio . Ma ſoſpettar p avvétura alcú potrebbe,che o nell'Egit to , o nella
Fenicia in ſicmecoll'uſo delle purgagioni una tal medicina Melampo da, priina
appreſa avelle ; percioc chè, focondamente chenarra Erodoto , egli dell'Egitto
alla Grecia , inlieincco'ſacrifici di Bacco , molte , e molte novelle ufanze
reco: Εγώ με νύν φημί Μελάμποδα γενόμενον άν δes oφoν , μαντικήντα έωυτή συσή
σαι , και πυθόμμoν απ’ ΑΙ' γύπτου άλα και πολλά απηγήσασθαι Ε΄ληση , και τα
περί τον Διόνυσον ολίγα αυ των πειραλάξανά . Tanto , e tanto oltre portoſli
nell'arte col ſuo altiſſimo intendimento Chirone , che non ſolo all'indebolite
parti del corpo , come Maſſimo Tirio racconta , con efficaci ar gomenti la
ſm.rrrita ſanità egli ſi vedea tutto di rivocare's m.i agli animi ancora
utiliſime medicine appreſtava . Ne ſolo fu cgli ( per quel , che n'avviſi
Stafilo ) eccellente in filoſofia , e in aſtronomia ; ma valſe ancora affai
nella mu fica , e in modo , che ſeppe, come il medeſimo Stafilo , e Boezio
narrano , parecchjinfcrinità coll’arinonia della ſua cetera guarire;e fu
cotanto vago di ſpiare i ſegreti del la medicina , che in volontario eſilio
lungi dalle Cittàan doffene aid abitar nelle ſelve , per poter ivi a più
bell'agio la natura , e le complellioni dell'erbe inveſtigare ; nel che
s'adoperò egli si bene , che inventor della inedicina dell' erbe ne venne
comunemente tenuto: e da altri inventor di tutta quanta la micdicina fu detto ;
e in cotanta fama , e grido crebbe , che non iſdegnarono ( come narran Filo
ftrato , e Zezze) per appararnela medicina, d'abitar con e To lui entro la
grotta del moute Pelio ,oye egli ſtanziava, Telamone , Peleo , ed Achille , e
Giaſone , ed Ariſteo , ed Ercole , c Teleo , ed altri : huomini di gran pro ,
eva lore ; i quali , coine laſciò ſcritto Maffino Tirio , egli in continue
fatiche d'ogni ſorte eſercitando , e nelle cacce , e nel corſo , facendo loro
giacer nella nuda terra , e per 216 Ragionamento Terzo e per burrari , e per
aſpre vic affaticandogli, e dando lor fcrini cibi mangiare, e ber ſemplici
acque di fiume, ad un perfettisſimo ſtato di ſanità riduccvagli ; e doppia
utiliti da tali ſuoi diviſamenti traevan quei grand'huomini ; per. ciocchè non
pure il modo di ſe medelimi regolare, ma di curar áltri ad un ora apparavano .
Neè da tacere, che pcr più profittar egli con maggior copie di ſperienze ,
media car ſoleva anche i bruti animali ; anzi cgli li fu il primo a ciò fare ;
e imperò venne Itimato figliuol d'un cavallo.Ne per mio avviſo è vero, che alla
Cirugia , comealtri ſi dan no a c.edere, e ' ſolamente daſic opera; avendo egli
, coine narra Apollodoro , relicuita la viſta a Fenice , il qual fu poi un de '
compagni d'Achille nella guerra Trojana : cù . το υπ του πατρός έτυφλώθη
καίGψευσαμένης φθο, Κλυτίας και του πα τζος παλακίδος . Πηλεύς δε αυτον προς
χείρωνα κομίσας υπ' εκείνα θε egπευβέντα τας όψεις , βασιλέα κατέςησ: Δολόπων.
ΕPindaro an cora par , che voglia dire, che Chirone ogni forte d'inter mità
aveſſe mcdicato ;poichèdeſiderava ,ch'egli tornaiſe in vita , acciocchè aveſſe
potuto render la ſanità all'infermo Ierone , perciocchè egli pativa del mal
della pietra , co me dice un'antico Scoliaſte di Pindaro , o di fcbbre, com'
altri vogliono. Ηθελον χώρωνα κε φιλυρίδας , et Κρεαν του3 αμετέρας από γλάς -
σας κοινον εύξαθαι έπες , ζώειν τον απικόμδυον , Io vorrei ch'il Filliride.
Chirone, ( Se tanto defiar lice a chiſpera ) Tornaſea reſpirar l'aure del
giorno: cpoco appreffo ,, « δε σώφρων αντιξον έναιεν έπ Χείρων , και 1ι οι
φίλον εν θυμώ μελιγαρυες ύμνοι αμέτεροι τίθεν , ατήρα του κέν μιν πίθον , και
νυν έσλοίππα αέάν ανδράσι θερμάν νουσών , Or Del Sig.Lionardo diCapoa 217 Or ſe
ne l'antro fuo foſe Chirone E che queſt'Inno mio gli foſe grato , Saria mia
voglia inteſa A dirle fol tua medica arte adopragi: Onde i mali , ch'induce
Eſtremo caldo, bai didomar valore. Diceſi che Chirone tanto valeſſe nella
Cirugia , che'l antiche ulcerazioni, e malagevoli a guarire, da luipoichia mate
foſſero chironic , o perchè lorluogo aveſſe il valor di Chirone , come vogliono
Euſtazio , e Paulo da Egina, o ch'egli foſſe ſtato il primo , che sì fatte
piaghe aveſſe riſa-. nate, com'eſtima Galieno . Ma io , ch'alla fama comun
degli ſcrittori non così di leggierimilaſcio trarre , a cona feſſar il vero ,
aſſai dappoco , e rozzo parmi, chefoſſe ſta to Chirone anche in Cirugia ;
perciocchè egli l'uſo del ta ſto , e le maniere da faſciar le ferite affatto
non ſapeva . Perchè ragionevolmente immagina alcuno, che chironic fi dican le
piaghemalagevoli a guarire , perchè Chironie prima di tutti foſſe ſtato ad
averle ; e sì fattamente , che vano riuſcì tutto il ſuo ſtudio , e ſapere , nó
che a guarirle, ma ad alleggiare almeno il dolore acerbiſsimo , che quel le gli
cagionavano ; intanto che a morte poi ne divenne ; comeche alcuni dicano ,
ch'egli da ſaetta folgore ucciſo morille . Ma vengaſi ora alla medicina
d'Eſculapio cotanto fa moſa , enegli antichiſecoli celebrata . Tiene Eſculapio
, per comun conſentimento degli ſcrittori, il più orrevol grado in medicina ,
che inedico giammai aveſſe ; intanto che meritonne quel famoſo Inno del maggior
poeta de' Greci. Di lui varie coſe , e di gran lieva ſi narrano, le quali
traſandando lo , alcune diquelle, che alla medicina s'ap partengono ſol
brievemente dironne .Già dicevam di lui, eſſer fama, che primad'ogn'altro
metteſſe fuora alquante regole di medicina; manon ſembrandole poi all'eſperien
za , e alla ragion conformi, alcune correſlene., altre di sfenne affatto , el
contrario ne preſcriſſe'; e forſe quelle ch'e'laſciò dopo morte , cancellate in
tutto , ed annullate Еe avreb 218 RagionamentoTerzio avrebbe , ſe di ciò tare
gli foſse avanzato tempo . Credeſi dalla più parte degli ſcrittori, ch'egli a
veſse folamente inteſo alla Cirugia , ne d'altre parti di medicina fi foſse
giammai intramelso .Ma ſe vogliam prcfar credenza ad Erodoto, o qual che ſiaſi
colui cheſcriſsc il libro detto in troduzione, overo , il medico: egli è da
dir, che di cia ſcuna parte della medicina egli pienamente ſi conoſceſse ;
perciocchè quivi leggeſi, ch’Eſculapio fu quello il qualow ritrovò la perfetta,
e in tutte ſueparti compiuta medicina; e Pindaro parimente dice, ch'a lui
accorrevano per curar (i non ſolasiente i feriti , ma i febbricitanti ancora ,
c que ch'entro d'altre malattie erano magagnati: τους με ών όσοι μόλον
αυτοφύτων έλκέων ξυνάονες , και πολιώ χαλκώ μίλη πτωμένοι , ή χερμάδι τηλεβόλω
, À Deenvã Avei nego tórefwoodśuas , και Xepewo , aurons amor , áa λοίων αχίων
εξαγεν • τους με μαλακαίς επαοιδαίς αμφίπων , τους δε προσανία πί νοντας , ή
γύoις περιάπων πάντοθεν * φάρμακα και τους δε τοματς έπασιν ορθούς . Quindi
veniano a lui le ſchierea volo De’languenti infeliciegri mortali , O traejjero
in fen fiftola ,o piaga , O dapietre , odaferro aſpra ferita , O pur nafceffeil
duolo , Da'diſcordi fra lor femivitali , Ogni dolor , ogni tormento appaga :
Porge con molli incanti a queſti aita , Ed a quei con bevande il malor toglie
Per un farmacod'erbe inſieme aduna, Per altro acque raccoglie. A chi con tagli
induſtri, e Cirugia , Drie 1 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 219 Drizza le membra
, e fero duol travia , E prima l'aveva chiamato difcacciatordi tutti mali
Ασκλαπιών άρω παντοδαπών αλεκ' ήετανούσων. Ffculapio s'appella , Sourano Eroe
diſanità perfetta, Có'ogni morbo da lbson caccia , e ſaettai Egli non ſembra
veriſimile adunque ciò , che dice P12 tone, ch’Eſculapio traſcurato aveſſe
quella parte della me dicina , la quale ſuole il cibo agl'infermi diviſare. Ma
fo pra qualifondamenta egli appoggiato aveſe il ſiſtema del la ſua medicina,
egli è malagevol molto ad inveſtigare ; perciocchè nc libro alcuno dilui c'è
pervenuto, ne ſenten zaveruna ſua appo altri ſcrittori ſi ritrova. Tanto ne vie
ve accennato appreffo Platone,ch'egli inſegnato n'aveſse esſer.nel corponoftro
molte, e molte coſe infra lor nimi. chevoli , e tenzonanti; e di loro
abbiſognar,che'lmedico diſcreto ne rintuzzi, e raccheti le contele , e vadale
pian piano co’ſuoiargomentirappaciando ; e queſte diſcordá ti coſe vuol egli ,
che ficno il freddo, e'l caldo : l’amaro , e'l dolce : il fecco , e l'umido , e
altre sì fatte. Ma ſe altro di ciò non ritrovò in medicina Eſculapio ,
certamente è da dir , che troppo ftrabocchevoli le lodi immeritevolmé te gli
addoffaſſe il buon Erodoto ; -e ben ne potrebbe egli a buon concio
eſſercontento di meno ; imperocchè, non che egli l'intero compimento aveſſe
giammai dato alla medicina , come Erodoto immagina, anzine men la pri mabozza ,
per que , che fi ſappia , certamente le dicde.' E che mai potrà il medico
ritrarre dal ſapere, che s'abbia no le diſcordanti parti ad accordare , o che
queſte nel cor po umano ſi trovino , ſe poi più avanti non ſappia minuta mente
, ove elle fiano allogate, ove ſia il dolce, ove lama ro ', ondeil freddo ,
onde il caldo -s'ingeneri, onde la lor nimiſtà provenga , in che la lor natura
conſiſta , con quali argomenti poſſan porſi d'accordo , come vuotarli , qualo
ra lien di foverchio rigoglioſe , e ſtrabocchevoli, o am mendarſi qualora
piggiorino ,o porger loro ſoccorſo qua Ee 2 lora 220 Ragionamento Terzo lora
infievoliſcano ; che per altro quel , che ſappiamo averne diviſaro il
grandiſſimo Eſculapio , ad ogni huom di contado agevolmente potrebbe
occorrere,ed eſſer ma nifeſto . Affai rozza dunque, e imperfetta oltremodo fu
ſenza fallo d'Eſculapio la medicina , ne sì grandi , e rag . guardevoli furono
i ſuoi trovati,come huomdice ; e ſc cgli oltre all'accennate coſeritrovò
qualch'erba, anche i ruſti ci , ei bruti molte, e molte n’han ſapute
ritrovare;nę grād' acutezza d'ingegno per ritrovar il taſto , oʻl modo di fa
ſciar le ferite abbiſognava , o per trar fuora i denti dalla bocca , che lo
perme non vo torgli queſt'altra gloria , co mechè Cicerone ad un'altro
Eſculapio l'attribuiſca colà ove dice . Aeſculapiorum primus Apollinis , quem
Arcades volunt,qui ſpecilluminveniſe, primuſque vulnus obligaviſ fe dicitur .
SecundusſecundiMercurii frater : is fulmin percujus dicitur humatus effe
Cynoſuris. Tertius Arſippine Arſinoe :qui primus purgationem alui , dentiſque
evulfio nem , ut ferunt , invenit . Ne ſembra punto vero quel ,che Diodoro dice
d'Eſculapio ,ch'egliparecchjinfermi co'ſuoi argomenti guariſse; onde fe
poifavoleggiare altrui,ch'e gli aveſſe richiamati anche in vita i morti;
imperocchè Strabone , graviſſimo autore , e degno ſenza fallo , che gli ficreda
aſſai più che a Diodoro, chiaramente dice, che lo gni furono d'huominiozioſi, e
ſcioperati, quali certame te i Greci ſi furono , le cure tutte ad Eſculapio
attribuite. E Celſo in lode d'Eſculapio altro non ſeppe dire, ſe non fe , cſſer
lui ſtato ricevuto nel numero degli Dei , perchè l'arte della medicina aſſai
rozza,e materiale in que'tempi, aveſſe alquato dalla ſua groſſezza forbita :
quoniam adhuc rudem , a vulgarem , dic'egli, parlando d’Eſculapio , banc
fcientiam paulòfubtilius excoluit , in Deorum numero rece ptuseſt. Convenne
adunque certamente , ch’Eſculapio có l'uſate frodide’medici la ſua grandiſſima
debolezza ap piattata tenelse ; imperciocchè cgli,come Pindaro dice, li valle
dell'incantagioni; ma più nc ſi fa manifeſto in ciò che San Cirillo ne ſcrive,
ch'egli intento oltremodo alle guadagnerie, continuó con giunterie , ed altri
rei artifici an . DelSig. Lionardo di Capoa 22 1 > andato ſe ne foſseper io
inondo diſcorrendo ( il che mol to ajutar ſuole i medici , ad acquiſtar fama, e
pregio ) offerendo liberamente a ciaſcun , che biſogno n'avel ſe il ſuo
meſtiere e dove che giugneva prometten do le maraviglie . Così egli
vanagloriando per tutto, ſe non huono mortale , ma celeſtiale Dio eſser diceva
, e millantaya temerariainente il ſuo valor diſtenderſi fino a riſucitare i
morti . Le quali arti , e giunterie , acciocchè poteſse a fine più
acconciamente condurre, ſi pensò egli , che l'iſpida , e folta barba nudrendo ,
e laſciandola a gui ſa dicaprone lunga ſcédergiuſo dal méto al petto avreb be
più di leggieri alle ſue trappole trovato crcdito . E sì il fece egli, e con
tanto vantaggio adoperovvili , che ſervì d'eſemplo a tutti i medici appreſso .
Il che diede forſe cagione a Luciano di far dire da Momo ad Apollo , ch'egli
non operaſse come fanciullo , ma favellaſse ani moſamente, é diceſse luo parere,
ne fi vergognaſse ad ar ringare per non aver barba; perchè era ſuo figliuolo
Eſcu lapio , il qual così grande , e lunga , e folta l'aveva üst menn μaegκιεύε
πεος ήμας , αλα λέγε θαρρών ήδη τα δοκάνα , μη αιδε . σθεις , αγένειο» ών
δημηγορήτις , και αυ% βαθυπώγωνα , και ευγέ ναον έτως τον έχων τον Ασκληπιόν Vì
ha chi vuole , ch’Eſculapio a quella guiſa appunto , che a'noſtriciurm.dori
veggiam fare , portaſse ſecole ſerpi : e che per riſparmio camminaſse a piedi :
e che que ſta ſia la vera cagione perchè alle ſue ſtatue, o ritratti ſipo neſse
in mano la ſerpe , e'l baſtone ; ſopra le quali coſe poi ſognate ſi ſono tante
, e tante fraſche di allegorie per gli ſcrittori , chemolto lunghe, c nojoſe
farebbono a rac contare . Ma vie più dopo inorte crebbe in fama , edono re
Eſculapio , tanto era folle , e cieca allor la gentilità : perchè glivénero
alzati in diverſe parti delmodo,e parte, e per materia ricchiffimi tépj, co
maraviglioſe ,e belle ſtatue dimarino , d'avorio, d'argento , e d'oro, e
medaglie infini te furon ſtampate colla ſua effigie ; e sì , e tanta era la
fede, che aveyano gli huomini in lui,che i ſuoi tempj ſempremai ſi vedevan
pieni d'infermi, trattivi d'ogni parte ; i quali # di 222 Ragionamento Terzo 2
di notte, edi giorno quiviil ſuo ajuto aſpettando ſe ne gia cevano;e per tacer
d'altri, abbiam di ciòmeinoria nel Cure culione di Plauto , dove del ruffiano
dice Fedromo a Pa linuro : Id eo fit,quia hic leno ægrotus incubat In
Aeſculapii fano ; e così ſtandoimalati,venivan loro i facerdoti malizioſi ,
fcaltriti , facendo veduta dinulla ſaper dimedicina , o del male , che coloro
avevano ; quindi appreffati all'oracolo fingevan ch’Eſculapio rivelato loro
aveſe il medicamento all'orecchio. Talorapareva,ch’Eſculapio medeſimo all'infer
mo in ſogno additaſse il rimedio ;c ciò per avventura avve niva tra per lo aver
lui guatato ffaméte il giorno la ſtatua d'Eſculapio , c per li lunghi
ragionamenti , che dietro a tal materia coʻminiſtri dei tempio avevan forſe
tenuti , i quali avevangli per avventura le maraviglioſe cure d'E fculapio
narrate vero per aver inteſo quel rimedio fterfo da'incdici ,o da’altri . Ma
pur v'aveva fra' Gentili huomini di ſcalcrito intendimento , chea ciò niuna
credé za preſtavano , come Filoſtrato narra di Filemone;al qua le avêdo in ſogno
detto Eſculapio ,che s'egli voleva guari re dalla podagra, conveniva, che ſi
afteneiſe dal bere fred do , egli deſto poi la vegnente inattina diſle ad
Eſculapio proverbiandolo , c che altro rimedio o valent' huomo a nreſti tu dato
, le medicar avelli voluto un bue ? E ſe mai interveniva , che alcuno ( o che'l
rimedio , o ch'altro ca gioné ne foſſe ) guariſſe , oltra’doni , che coluiagli
altari offeriva , toſto alle mura un'effigiata tavoletta , a perpetua memoria
della ricevuta ſanità appendevaſi a gloria d'E ſculapio ; perchè poi ſe ne
traſcriſfero nc'libri de' medici parecchj rimedj ; c delle dette già tavolette
, anche a' di noſtri ſe ne vede alcuni ; delle quali per eſemplo vi ridur rò a
memoria quella pietra , in cui fu regiſtrato , che di ſperato da tutti Giuliano
per unvomito di ſangue,eſſendo ricorſo all'oracolo, n'ebbe riſpoſta , che
veniffe , e da tro altari piglialle pinocchie di quelli per tre giorni con inic
le mangiaſſe; ed in tal modo liberato colui, lefe le grazie al Del Sig.Lionardo
di Capoa. 223 alla prefenza di tutto il popolo , αίμα αναφέροντα Ιαλιανώ ,
απηλπισμλύω υπο παντός ανθρώπε εχρημάτσεν ο θεός ελθών, καιεκ τα Βιβώνκαι άραι
κόκκος προβύλες και φαγών μετα μέλιτG- επι της ημέ . φας , και εσώθη , και
ελθών δημοσία ηυχαρίσησεν έμπροσθεν τε δήμε. Ma trapallando alla medicina
d'Ercole;ſe Ercole come fu in medicina , foſſe così ſtato valoroſo Ne l'ardue
impreſe del ſanguigno Marte , non avrebbe certamente ripieno il mondo delle ſue
mara viglioſe prodezze , ne ſtancate di tanti , e tanti ſcrittori le penne per
celebrarle . Ma ciò non ſi dee punto a neglige za attribuire , o a poco
intendimento , ch'egli avuto avef ſe ; perciocchè logorò egli gran tempo ,
egran fatica ad imprender la medicina ; e fu sì profondo , ed acuto il ſuo
intendiinento , ch'ei ſi fu il primiero a comprendere , che per ta fimilitudine
, la quale i Chimici chiaman ſegiratu , ra , ravviſar ſi poteſſe la complesſion
delle piante'; e per uſo propio ſe nevalſe allor,che preſso a morte ferito dal
l'Idra , ricorſe per guarire alla Dragontea , la quale coll? Idra ha alquanta
ſomiglianza; quantunque egli poiso per tener ciò altrui naſcofo , o per più
ragguardevol renderli appreſso la gente , o per altra cagion , che ſi fofse ,
infin . geffe ciò dalla riſpoſta dell'oracolo aver apparato : il qua le
l'aveſse impoſto , ch'egli ſi inetreſse in camino verſo la dove naſce il ſole ;
perciocchè quivi al valicar d'una rivie ra aurebbe ritrovata un'erba
ſomigliante all'Idra ,colla quale lc ferite da’morfi dell'Idra fatregli poi
egli aurebbe ſicuramente potuto medicare , eguarire . Io non ſo , ſe collo
intendimento G foſse Ercole tanto avanti portato , che foſse giunto a penetrar
, che la Dragontea col ſuo fab volatile acuciſſiino , del quale eila oltremodo
è abbon devole, forza aveſse di ammendare l'acetoſità , in che co filte il
guarir delle piaghe ; ma la medicina non era allora tanto oltre paſsata , che
aveſse potuto sì fatte ſottigliez ze ſcoprire . E queſta, e non altra dovette
eſsere la cagio NC , per la quale Ercole non potè nella medicina sì eccel lente
divenire , e che guarir non poteſse egli le piaghe al fuo maeſtro Chirone ,
comechè gli veniſse fatto di guarir lamo 1 224 Ragionamento Terző la
moglied'Achille preſso a morte ridotta ; onde poi Eu ripide finſe nell'Alceſte
, averla lui da morte riſucitata : E queſto è quanto Io ho potuto raccogliere
della medici na d'Ercole Tebano fra le tante,e tante varietà degli ſcrit ti ,
iquali così di lui confuſamente ſcrivono , che nulla più ; dicendo Varrone ,
eſsere ſtati quarantadue famoſi huomini di tal nomé; altri dodici , altri tre ,
altri due, e Ci cerone ſei ;ed evvi ancora , chi porta opinione , non eſser mai
ſtato sì fatto huomo al mondo . Ma della medicina d'Ariſteo figliuol d'Apollo ,
o pur di Giove , come altri giudica , non ne vengono ſcritte , per quanto lo
ſappia , ſe non certe poche , e confuſe memorie ; ſolamente ſap piamo da
Cicerone , e dallo Scoliaſte d’Ariſtofane, che Ariſteo aveſse ritrovato il modo
di far l'olio , il miele , e'l Gifo.ΆρσαίG- δε ο Απόλλων G και Κυρήνης πτώτην
την εργασίαν τα σπλ . φίον εξεύρεν , ώσπερ , και το μέλλG- . Infegno parirnente
Ariteo meſcolare il vino col miele, per quel che dica Plinio : Ari Seusprimus
omnium in eademgente,melmiſcuiſe vino fua vitate præcipua utriuſque natura
ſponte provenientis: e non fi dee tacere ciò , che d'Ariſteo dice Giuſtino :
Arifteum in Arcadia lase regnaffe, eamque primum , apum , á mellis ufum ,
&lactis , &coagulihominibus tradidiffe , folftitia . leſque ortus, do
federum primum inveniſe. Ma quantun que il filfio , e'l miele, e l'olio, i
quali Ariſteo non fola mente ritrovò, ma prima di tutti inſegnonne agli altri
me dici la virtù , e la maniera, colla quale adoperar fi doveſ ſero , abbiano
recato gran giovamento al mondo;non pe rò di meno s'altro di ciò non fece Ariſteo
, non sò locome ei ſi poſsa infra gli altri eccellenti medici annoveraré; m2
pure fu egli di tanto avvedimento fornito , che ſeppe con l'uſate giunterie ,e
menzogne riparare alle diffalte del ſuo poco ſapere ; e raccontaſi di lui da
Teofraſto , da Apollo nio , da Cicerone , da Germanico, e da Igino, che eſſendo
l'iſola di Ceo dal rabbioſo furor della canicola gravemés te percoffa , sì che
feccavan le biade , e gli huomini mi ſeramenre morivano , eche avendo Ariſtco
al ſuo padru Apollo domandato , come ſi poteſſe a tanta calamità ri para 1 Del
Sig.Lionardo di Capoa 225. parare, n'aveſſe rilpoita,che proccuraffè egli prima
di pure garcon vittime , e ſacrificj l’Ilola , la qual era così atro ceméte
punica o aver dato ella ricovero agli ucciditori d ' Icario ; e quindi pregaffe
Nettuno,ſicome Germanico Cé fare riferiſce, coinechè Teofraſto , ed Apollonio
Rodio cd Igino dicano aver riſpoſto Apollo, che pregar egli doveſse
Giove,ch’allo ſpuntar della Canicola faceſſe per quaranta giorni,ſoavi venti
ſpirare, che queſti agli ardori di cotale Hella aurebber dato agevolmente
compenſo ; cd avendo ciò egli puntalmente cſeguito ,ſpiraſſero i promeſli
venti, e. ceſſalsero di preſente i danni tutti dal ſoverchiante caldo w
?quell'Iſola cagionati ; perchè ne venne egli poi Giove Ariſtço , ed Apollo
Agreo chiamato , e frale ſtelle in Cie: { o collocato . Or chiper Dio non
ravviſa, che una cotat folenne giuntcria imboccaffe Ariſtco a quel rozziſſimo
po polazzo , ſappiendo di certo , che il naſcimento delle cas nicola gli ulti venti
preceder fogliono , cd accomp2 guare? Venue fomimamente commendato Achille
dalla ſonora cróba del greco pocta per le maraviglioſe prodezze da lui nella
guerra Trojana operate;ne altro quaſi in tutta l'Ilia de raccontaſi , che
l'invincibil fortezza d'un tanto Eroe ; ne in quel divino pocma ſenza lunga
maraviglia legger fi pofiono le ſanguinoſe battaglie , ele ragguardevoli im
preſe d'Achillc.Ma doveva egliper mio avviſo da non mi nor pocta d'Omero eſſer
altrettanto commendato per la contezza, e perl'eſercizio cli'egli ebbedella
medicina e con tanta maggior ragione , quanto più generoſo , e più magnifico
ſenza fallo è il dare , che'l torre altrui la vita . E ben'egli conobbe di
quanta loda meritevole e ſe ne rés deſſe , che però appo Stazio egli vantoſfi
eſſergli ſtata in fra l'altre coſe la medicina ancora da Chirone fuo Avolo
inſegnata . Quin etiam ſuccos ,atque auxiliantia morbis Gramina, quo nimius
ftaretmedicamineſanguis: Quid faciat fomxos , quid hiantia vulnera claudat,
Queferrocohibenda lues , que caderes herbis Edocuit. Ff Fu 1 226 Ragionamento
Terzio Fu cgli tanto ſtimato nel greco campo, in medicina,ch' Euripilo
gravemente ferito , volle effer ſolamente da Pa troclo medicato , perchè
eglifoſse compagno d'Achille , c'l vero modo di medicar le ferite n'aveſse
apparato ; Νίζ υδαπ λιαρώ , επί δήπια φαρμακα πασσε Ε'εθλα , τα σπ ποπ φασίν
Αχιλήφ»δεδιδάχθαι . Ma ſopratutto vien commendato Achille per aver co noſciute
le cagionidella peſtilenza , che allor travagliava ſommamente il campo greco ;
e per aver anco ritrovato il Millefoglio,per lui detto Achilleasil quale anche
a' dì no ftri molto giovevole alle ferite , e ad altri parecchj malili
ſperimenta ; e ſomigliantemente per aver riſanato Telefo, nella cura del quale
adoperò egli la ruggine della mede fima lancia, colla quale ferito cgli prima
l'aveva : Eft , rubigo ipfa , ſcrivePlinio , in remediis, cific Telephum pro
diturfanaſeAchilles , five id area , fiveferrea cufpide feo cit ; ed in
un'altro luogo il medeſimo Plinio dice : arugi nem inveniſe , utiliſimam
emplaftris , ideoque pingitur ex cuſpide decutiens eam gladio in vulnus Telephi
; avvegna chè altri vogliano averlo egli con l'Achillea guarito ,ed al tri, con
l'Achillea , ccon la ruggine del ferro . Perchè moſtra, ch'egli fu il ſecondo ,
cheſi fappia infra'greci me dici, che i minerali adoperati aveſſe in medicina.
Ma po trebbe per avventura alcun ſoſpettare , e con qualchera gione, non egli
applicua aveſſe la ruggine del ferro alla Jancia imbagnata in fangue d'Euripilo
, non già alla feri ta di lui ; e che gli ſcrittori, i quali la biſogna
pienamente non coinprendevano,contentati ſi foſſero ſolamente di di re , che
l'atta d'Achille modelima faceva, e riſanava le feri te . Il che ſe vero foſſe
, non moderno ritrovato , ma ben molto antico da dir ſarebbe la cura , che
chiaman ſimpa tica nclle ferite . Dice Plutarco , che Achille intendente foſſe
del modo di guarir colla dieta , e ch'egli trovaſſe con ragione, che i corpi, i
quali avvezzi in prima alle fatichc, in proceſſo di tempo poi le laſciano , e
li ripoſano , toſto triſtanzuoli, e cagionevoli, e languidi di compleſſione
divengono ; e pe 1 rò di Del Sig.Lionardo di Capoa. 227 1 rò dice che egli
ſoleva far paſcere a cavalli che avevā ma gagnati i piedi per l'intermeſſo
eſercizio , l'appio rimedio grāde a tal male.Macon pace pur di Plutarco, Io non
ſo , che gran coſa queſta fi ſia ; ne per eſſa , ne per l'altre di lui narrate
coſe ſi può dire in verità , che Achille gran medi co ſtato e’ſi foſſe. In
quáto poi alla cura ſimpatica delle ferite: lo p me la ſtimo favoloſa invētione
del Valentini; e forte mi maravi glio, che tanti , e tanti valent'huomini vi fi
lieno oltremodo affaticati, in contendendo alcuni cheper ſopranatural po tenza
doveſſe quella intervenire; e altri ciò coſtantemente negando ; e cercando
d'inveſtigarne altronde la vera ca gione ; ma , ne queſti, ne quelli avviſano ,
chele ferite tal volta ,eziandio più gravicpericoloſe ſenza rimedio alcuno
guariſcono; perchè non ſi può trarre argomento niuno dal. la lor guarigione a
pro della ſimpatica medicina . Io non ſaprei ridire ſe Palamede inventore di
cotante ; coſe , ch'abbiſognano alla vita degli huomini aveſſe anco ra in
medicina qualche bella curioſità rinvenuta; avvegna diochè ſia molto
veriſimile, ch'egli ciò facerſe, come colui, che di natura era molto acconcio a
filoſofare; in tanto , che ne venne appellato noivoo PG , cioè a dire il ſavio
di tutto, come leggeli in molti verſi fatti in ſua loda ; quantunque Omero non
faccia di Palamede menzione alcuna , o per invidia , che gli aveſſe, perchèegli
era miglior poeta di ſe, o pure per renderſi grato a ſucceſſori d'Agamennone,
ili tra'l quale, e Palamede fu mortal nimiſtà ; impertanto li ſcorge
manifeſtamente in altri ſcrittori più degni di fede aſſaidi Omero , eſſere
veramente ſtato Palamede il più fa vio di guerra di tutti greci,e in prodezza
non puntominor d'Achille . Madi ciò ch'operaffe in medicina Palamede', altro
non ne abbiamo,ſe non ſe ciò che ne racconta Filo { trato ; il quale
l'introduce una volta a dire, che a chiunque voglia preſervarſi dalla pefte ,
faccia meſtierimangiar po co , e affaticarſi molto , e che così egli avvezzati
aveſſe a viv ere i ſuoi ſoldati; perchè poi la crudel peſtilenza da Po to nella
Città dell’Elleſponto , ed in Troja appiccata , aw ni un de’greci noja mai
diede ; comechè eglino fi foſſero in Ef 2 perti 228 Ragionamento Terzo
peſtilenzioſi luoghiaccampati. Ma quanto cotali avver . timenti lontani dal
vero ſieno, non ha tra noi,chi non l'ab bia non ha guari pienamente
ſperimentato ; e però di più dirne al preſente mirimarrò . La medicina di
Patroclo compagno d'Achillo , e di Po dalirio , e Macaone figliuoli d'Eſculapio
, che ſerbaraſſi eterna , ed immortale nella memoria degli huomini mercè del
ſovrano poeta greco , che ſi diè cura di cele brarla : ſembra ad alcuno , che
ſolamente nelle ferite s'a doperaſſe ; e veramente a riparar i
dannidellapeſtilenza , che nel greco campo faceva fieramente ſentirti,non ſi
leg. ge in Omero , che in coſa alcuna, o Podalirio, o Macaone, o Patrocło mai
s'adoperaſſero : avvegnachè la cura de’ga voccioli , e d'altre enfiature, che
ſuolo cotal morbo cagio nare , alla Cirugia dirittamente s'appartenga; la qual
coſa vien raffermata ancheda Celſo , allor che facendo men zione di Podalirio ,
e di Macaone, dice : Homerus non in peftilentia , neque in variis
generibusmorborum aliquid at tuliſe auxilii , fed vulneribus tantummodo ferro ,
& medi camentis mederi ſolitos elle propoſuit. Ma con pace pur di Celſo,
dall'aver ciò taciuto Omero non ſi può certamente argomentare eller loro ſolamente
ſtati cerufici; e fe noi medicaron la peſte,forſe ciò fecer eglino per non
tracollar dal loro buon nome in medicar quel morbo , cui non v'ha rimedio
alcuno , e che l'antichità credeva,che ſolamente gli Dii poteſſero riſanare; ne
ha ſembianza alcuna divero, ch’Eſculapio lor padre,emaeſtro la Cirugia ſola
loro infc gnaffe ; ſenzachè(comeavviſa Eulazio ) Podalirio , non ſolamente curò
diverſe infermità : ma prima di tutti, come egli dice, gittò le fondamenta
della razional medicina. Ma a quale ſtato di perfezione la medicina per
Podalirio Macaone , e per Patroclo uſata montafle, dal poema mag giore d'Omero
ſi può agevolmente comprendere . Primie. ramente ſolevano in medicando
ſucciartalora eglino colle labbra il ſangue delle ferite ; e'a tal modo Macaone
medi car ſi vide a Menelao la piaga fattagli da Pandaro, Aύ πιο επα δεν έλκG- '
έμπιστ πικρος οιτς Αίμ' εκμυζήσας επ' άρ' ήπια φάρμακα είδως Πασσα . Sem . ,per
DelSig.Lionardo di Capoa. 229 Sembrare egli potrebbe per avventura ad alcımno
il ciò fa re vano , ed inutile , anzi per l'umidità della ſaliva alles ferite
anche nocevole ciò li pare , ſenzachè è ſtomachevol coſa , e pur troppo alla
dignità de'medici ſconvenevole Nero io , comeil primo Baron dell'oſte greca , e
nipote diGiovediſavanzando dal ſuo pregio, inchinar ſi poteſse ad una sì vile ,
e vituperevole opera . Non ſolo permet teyan poi coſtoroa'feriti mollidi fudore
, edi ſangue, pu re allora uſciti dalla battaglia, lo ſtarſene giacédo all'om
bra , ed al frelco ventilar de’zefiri per riſtorar dolcemente la ſtanchezza ;
ma lo ſteſso medicante Macaone dopo ch ? egli fu ferito ciò fece : οίδε
έδρώαπεψύχοντο χιτώνων Irávte ne Ti Tvorni zaregi og ános. Ma quanto polfa
nuocere il vento ad huomini anchei faniqualor eglino molli di ſudore fiano ,non
che a’feritija ? quali feoza fallo per lo minor danno inacerbir puore les
piaghe, non è chi noʻl fappia . Ponevano altresi medica do alla groffa, entro
le ferite,radici d'erbe crude , e ſem plici fenza eller punto confattese
preparate ad uſo de’me: dicamenti: επί δε ρίζαν βαλε πικρών χερσι διατρέψας. Ma
inolto più ſciocchi, e più rozzi furono i loro divi famenti intorno al
regolainento del vitto degl'infermi ; eglino cibavangli di groſse cipolle , e
di miele κρόμμυρν ποτώ όψον, Η δε μέλι χλωρον παρ' δ' άλφιτα ιερά ακτήν. edavan
loro berc il loro ufato contadineſco Ciceone ; bem veraggio il qual di farina,
e di cacio di capra, e di più grá di , e poderoſi vini delle Smirre componeyaſi
Πινέμαι δ' εκέλευσεν επαρ' όπλισε κυκεώ . E queſte fono le care , e falucevoli
vivande, e beverage gj , che la belliſſima Ecamede concubina dell'antico Nem
ftore dava loro ; i quali non iſcherni, ne rifiutò il medefi mo Macaone,ſenza
conſiderare , ne pure un menomori ſchio d’infiammagione, che agevolméte ſeguir
ne poteva Ma 1 230 Ragionamento Terzo Ma ben ſo lo , che di fomiglianticoſe ,
ed in pro, ed in contro diſputando, veriſimilmente dir ſi potrebbe, che no già
eglino ſomigliantiguiſe di sì reo , eſconcio medicar praticafsero ; ma che
Omero a ſuo talento le finga , poco eſsendo della verità informato ; che ſe ciò
vero foſse , lo non ſo come infra gli altri cotanti pregj inveſtir ſi potreb be
ad Omero l'eſser lui ſtato di tutte ſcienze, più di qua lunquc altro maeſtro
,affai ben conoſciuto; nihil unquam . ceciniſe , dice Pier Laſena , quod nun
prudenter excogita tum ,ex induſtria diſpoſitum , &in alicujus rei utile
dixeris documentnm . Potrebbe anche dirſi, eſsere il Ciceone di que' tempi
valevole , a ſtagnar il ſangue delle ferite , o pure a ſciorlo , ove egli fia
rappreſo , e corrotto ; avve gnachè Platone dica eſser molto nocevole cotal
beverag . gio a’malacije oltre all'infimagione,che apporta, ingene rare anche
non poca flemma;e per avventura con più falda ragione potrebbeſi delle cipolle
dire , che per lo lorotale aguto , oltre allo ſcioglimento del ſangue
potrebber'an che difender le ferite dall'accroſità , da cui certamente la
febbre , e'l dolore , e lamarcia ,e l'infiammagione,e tutt' altro male a'feriti
avviene . E ſe pure coloro uſava no con ſemplici radici , e crude, medicar le ferite
, ciò era, perciocchè eglino ben’avviſavano eſserl'erbe cotanto più giovevoli ,
e vigoroſe , quanto più ſemplicemente ne ſon dalla natura ſomminiſtrate, e che
col tanto confarle, e ma cerarle , e logorarle ad ufo delle noſtre medicine,
manchi alla fine, e ſvaniſca ognilorvigore; fe pure nonvogliamo dire , eſsere
ſtate di tanta virtù , e di si ſaldo giovamento da’ medici ſperimentate, che
ſenza confettarſi punto,o sé. za contiglio dimeſcolamento niuno le più gravi
ferite ma raviglioſamente ſaldavano ; ne a ciò foſse itato anco me.
ſtieriregolamento alcuno di mangiare , o di bere: per ciocchè egli narrafi per
coſa certa ,che a' tempi più a noi vicini, il Paracelſo,per lo gran valore
de'ſuoi medicaméti, poco , o nulla a ciò badando laſciaſse che a lor talento fi
nutricaſser gliufermi, facendogli talora ſeco a deſco lie tamente federe ,
mangiando in brigata ; ſenzachè Platon dice, DelSig. Lionardo di Capoa 231
dice, che per eſſer quegliantichi aſſai regolati nel mangia re , e pel bere ,
non avevan poi gl'infermi biſogno , che regola alcuna intorno a ciò la
preſcrivelſe ; e finalmente l'uſo di ſucciar le ferite, non eſsere fuor di
ragione ; impe rocchè cotal medicamento molto fa pro a riparare al gua ftamento
del ſangue , traendol fuora delle ferite, e difen dendolo col fuo ſale
dall'acetofità , per cui elleno marci ſcono ; perchè cotal medicamento a'di
noſtri ancora co munemente l'uſiano e, per pruova tutto di ſperimentia mo eſser
giovevole a'feriti , e utile aſsai ; ficome anche ſi può ſcorger ne'cani : da’quali
per avventura Podalirio , e Macaone , oi loro più antichimacſtri ildovettero da
prie ma appararc ; perchè ſe veggiamo, che cotanto approda a'feriti, perchè
ſarà egli da biaſimare ?Maper me non cre do, che si facce difeſe loro facciā
luogo; imperocchè Ome ro tutto che la incdicina ignoraſse , deſcriſse
nientedime no le coſe, o coine di altri ſcrittori venivan narrate, o dal la
famaerano rapportate , maſlinamente dove cgli non aveva cagione alcuna
d'allòtanarſi dalla verità, o per ren der più vago , c più inır.zviglioſo il
ſuo poem 1,0 per altra cagione ; ne punto vale l'eſemplo del Paracelſo ,
imperoc che , ſe pur è vera la ſtoria , il Paracelſo fi ſerviva di bala ſamisì
prezioſi, e valevoli a guarir le ferite , che non fa ceva loro d'alero
meſtieri. Ma in quanto al Ciceone ; egli è una bevanda in verità sì ſconcia , e
mal fatta , che ſenza fallo non può ella altro inai , che nocuinentu agli
huomini ſani , non che agl'infer mi apportare , che che ſi credan Plutarco , ed
Ateneo , i qualinon avviſarono la ſtrana, e nocevole formentazio ne , che'l
cacio , il vino , e la farina inſieme meſcolati far poſsono nelle vifcere .
Vltimamente , le radici , e l'erbe non preparate , maffimamente l'Achillea , e
l’Ariſtologia , colle quali molti antichi ſcrittori ſi credono , che Podali rio
, Macaone, e Patroclo medicaſsero , abbondevoli ſo no d'umore acquoſo , e non
ben digeſto , il quale oltre che infievoliſce il ſolfo , e l'alcaliloro
volatile , in cui law vir 232 Ragionamento Terza virtù conſiſte , per ſc iteſso
altresì egli è ſommamente alle ferite nocevole . ... In quanto poi al lavar ,
come è già detto con l'acqua ſemplice le ferite , non è vero'ciò , che
alcunidicono, che ciò eglino-faceffero per iſtagnar di preſente il ſangue;men
cre ciò non ſolamente non licſprime da Omero , appo il quale ſi ſuol fermare il
ſanguecon l'incantagioni ; ina di ce eglichiaramente , che l'acqua , colla
quale le ferite li lavavano era calda, e perù più acconcia aſſai ad aprire, che
a riſtrignere; al che avendo per avventura riguardo il lati no poeta,con
l'acqua allora allora tratta dal Tevere fin ge , che'l ſuo Mezenzio ſi lavaſſe
le piaghe . Interea Genitor Tyberini ad fluminis undam Vulnera ficcabat lymphis
, corpuſque levabat . Nove , aphyſice , dice ſu queſto il chioſatore Servio,
nan cum aqua omnia infundătur,hic aitficcari vulnus ab aqua , Oratio vera eft
,quia fluxussăguinis aquarü frigorecôtines Yur.Ma Servio freddamente troppo,per
mio avviſo ſcuſa il ſuo Virgilio d'una sì ſtravolta maniera di favellare : ma
un tal modo di mcdicar le ferite , con l'acqua lavandole , tut to che ricevuto
,ed uſato anche dopo grăde ſpazio di tem po da’Latini, e da'Greci , onde dice
Silio purgat vulnera lympha: anzi ſin’al paſſato ſecolo da molti Ceruſici anche
coſtuma to, quáto lia nocevole ravviſar puollo facilmente ciaſche duno,che
punto abbia d'incendimento ;laonde con più lag gio avviſo da’moderni medicanti
leferite col vino , o col l'acquarzente , ovc,lor huopo ciò lor faccia , vengon
lä vate . Maquantunquc sì malamente medicaſſero Podalia rio , e Macaone ,
venncro non ſolo vivi, ma anco dopo morte in sì gran pregio tenuti , che
furonodi ſtatuc, di té pj , e facrificionorati . Quelle coſe poi , che di
Podalirio narra aver letto in al cuni antichilibri Celio Rodigino , elle fon
tutte, per quel ch'io micrcda novellette da Romanzi ; ciò Zono ,degli avendo
rotto in invar preilo la Caria, fu ſottratto al perico lo da 0 ! Del
Sig.LionardodiCapoa. 233 lo da un'avvenente paftore,e lu’l lido corteſemente
accol to ; e che poi; il Re di quel paeſe avendone coutezza avu ta , per
luimandato aveſſe perchè medicaſſe una ſua fis gliuola, che dalla vetta d'una
torre era giuſo caduta ; cui egli facendo crar ſangue da amendue le braccia , e
con al tri rimedi aveſſe in buona ſanità rimeſſa ; di che il padre oltremodo
contento magnificamente della Provincia del Cherſoneſo dotatala , data gliele
aveſſe per moglie; e che Podalirio nel Cherſoneſo födate aveſſedue belle, ed
egre gic Città , una col nome della moglie Cirene , e l'altra col nome di quel
Paſtore chiamandone. Convenevol coſa ſtata ſarebbe, che noi ſecondo lo in
cominciato aringo ordinatamente procedendo , avellimo molto addietro fatto
parole di Teſco , di Giaſone , di Pe. lco , di Telamone , e del ſuo figliuolo
Teucro , e d'Erobo te : ora concioſliecoſachè ſcarliflime memorie di loro fien
no a noi pervenute, n'è convenuto tacergli ; e perciò pal farem ſomigliantcméte
ſotto filenzio,'e Nicomaco , c Gor gaſo figlidiMacaone, e d'Anticlea , i quali
ſuccedettero al regno di Diocle loro Avolo materno , e come nar ra Paufania ,
lolevano gl'infermi corteſemente curare , e maſſimamente le dislogate oſla , o
membra in buon concio rimettere ; onde per grado, gran tratto ne furono come
Dij da’poſteri venerati . Ne meno terrò lo ragiona mcnto diSoſtrato ,di Dardano
, di Cleomitide , di Teo doro , di Criſime , dc'quali oltre aʼnomni, nulla
affatto noi non poſſiamo fpere. Ma prima ch'a' più baſſi , e più vicini tempi
facciamo paſsaggio,n’è paruto bene il doverci alquanto intertenere a ragionare
di quel ſiſtema , del quale Ippocrate fa parole nel libro della vecchia
medicina;ritrovato ,comepar ch'ca. gli porti opinione, da’primi inventori
dell'arte. Or dice Ip pocrate,che quegli átichisſimi e ſagaci inveſtigatori
della medicina,faggiamere avviſaſſero ,che ne il caldo,ne il fred do , ne l'umido
, nc'l fecco , ne altra ſomigliante coſa all' huomo foſſe d'alcun nocumento
gianımai; ma di sì fatte coſe il fomino , o l'ecceſso , che vogliam dire , il
qual per Gg ſover 234 Ragionamento Terzo ſoverchio di vigore , non poſſa eſſer
dalla natura ſoprava zato , ſia agli animali d'offeſa, e didannaggio cagione; U
queſto proccuravano có ogni ſtudio di reprimere,o tor via ; il quale ecceſſo
dicevan' eſſi avvenire , qualora l'amaro , amariſſimo : il dolce , dolciſſimo :
l'acetofo , acetofilimo divenga ;mentre portavano opinione, l'Amaro , il Dolce;
il Salſo , l'Acetoſo , il Diſcorrente , l’Acerbo , e altre infi nite coſe di
varie, e molte virtù fornite, dovere eſſere di ne ceflità nell'huomo, sì
veramente , che fteano frá eſlo lor meſcolate , e confuſe, e l'una temperata
dall'altra ; che foj mai avvien ch'alcuna di eſſe da tutt'altre appartandoſi ,
così ſceveratamente ſe ne ſtca , allor fallendo al diritto or dinamento del
corpo umano cominci a farſi con mole ftia ſentire , e grave offeſa recare. De'
cibi buoni, ed offendevoli, eglino ſomigliantemé te diſcorrevano :dicendo cheil
Pane, o altri cibi, onde 1 huom niun male non pruova,ſia dall'accennate coſe ,
e ſa pori acconciamente temperato, e che quegli , onde alcun danno riceve ,
abbiſogni ch'una delle già dette coſe ab bia ſoverchiamente d'aſſai. Più avanti
volevan'effi , che il caldo , e'l freddo men di tutte le già dette coſe fieno
operativi ; cd ove rimeſcolici inſiemeneſteano niun danno giammai non facciano
; ma quantunque volte ſi leparino ,e che o riprezzo , o furiofa febbre perciò
hucm ne patiſca l'altro contrario imman tinente accorrendovi , e la furia del
tiranneggiante nimico affrenando, toſto venga l'infermo d'ogni affanno a
liberar fi . Il che ſe pur non li vede nelle ardēti febbri,nelle infiá magion
de'polmoni, ed in altre gravi malattie avvenire , dicevan'eglino , che in sì
fatti cali non già dal folo caldo , ma inſieme colcaldo dall'amaro, e
dall'acetoſo, o da altra fimil coſa la febbre veniffe generata . Finalmente
tutto ciò , ch'Ippocrate dietro a tal materia fiegne a narrare , e come egli
prenda a ripigliar coloro che dipartendoſi da queſti diviſamenti,le cagioni di
tutti i ma li all'umido , al ſecco , al freddo , al caldo fi ftudiavano d '
attribuire,per eſſer molto lungo , e forſe di poco momen to, lo Del
Sig.Lionardo diCapoa 235 to , lo tralaſcio diriferire . Ma quanto al fatto del
teſte da noi rapportato ſiſtema, egli ne ſembra per le parole del medeſimo
Ippocrate, che Apollo , o Chirone , o Eſculapio , i quali è fama d'aver
primieramente la medicina inventata, ſtati ne ſiano gli au tori. E quanto ad
Eſculapio , comechè contuſamente ne faccia parole Platone , e a guiſa d'huom ,
che di dubbia , coſa favelli, par che dir voglia , ch'egli in tal modo fi
loſofaſſe , ed è veriſimil molto , che dal ſuo maeſtro Chi, rone , o
dialcun'altro egli appreſo l'aveſſe : e Chirone da alcun'altro fimilméte di lui
più antico : eche poi avendolo Eſculapio altrui inſegnato tratto tratto infino
a' tempi d ' Ippocrate per altri andatoſi foſſe avanzando ,e a quelter mine
condotto , ſicome egli il riferiſce ; ma egli è nondi meno per mio avviſo ,
aſſai manchevole , e ſcempiato , ne Ippocrate interamente , e qualli
converrebbe il rapporta; si che ne laſcia cagion di dabitare, che ne men'egli
il con tenuto di tal fiſtemi capiſſe . Ne ſembra impertanto, che non già di
ſoli medici; madi filoſofanti , e medici inſie me , o di ſoli filoſofanti ſia
tal lavoro; e per una tal breve, e confuſa notizia , che può averſene, pur
manifeſtamente ſi ſcorge , che non mai dovette cader in penſiero a que gli
antichi medici, e filoſofi , che di quattro corpi, che ſon comunemente Elementi
chiamati , tutto l'Vniverſo com pongali, i quali diquelle , che prime qualità
le ſcuole , appellano forinati, con altre , che ſeconde nominano ac cozzati, i
tanto varj corpi miſti vengano a ingenerare; m2 che quaſi infinite particelle
di figura diverſe ,in varie gui le ora accoppiandoſi, or ſeparandoſi,tuttele
coſe faceſſe ro ; o per me'dire , e più ſecondo la loro opinione , da tale
accozzamento , o ſceveramento tutte le coſe ſi faceffcro in varie guiſe
ſenſibili ; e che , ne generazione, ne corrompi mento v'abbia in Natura
giammai, ficome dice chiaramé. te nel libro della Dieta il medeſimo Ippocrate ;
ma che ogni coſa , che dinuovo ſimanifeſta , pureravi innázi . Il qual modo di
filoſofare , ſe non è appunto il medeſimo có quel di Anaſlagora , certamente da
quello non è guari di verſo . G g 2 La 236 Ragionamento Terzo La maniera del
medicare di quegli antichiſſimi medici autori di sì fatto ſiſtema , viene
apertamente accennata da Ippocrate quando dice , ch'eglino davano .opera a tor
via dall'huomo tutto ciò , ch'eſſendo della ſua natura via più valevole , e
no'l potendoella vincere , offefa ne rim.z. ne ; come l'amariſfimo , il
dolciſſimo , e altre ſomiglianti teſtè mentovatecoſe; le medicine poi a
vuotarle voleva no eglino, che ſi daſſero nel tempo opportuno a ciò fare , cioè
allor,che per eſſer elleno al dovuto cocimento perve nute , era ceffato il lor
impeto , e mitigato il furore; d'on de fi cava , che quegli
avvedutiffimihuomini non adope ravan le purgagioni, ſalvo che nella
declinazione del nia le ; e chiaramente dice ſecondando i lor ſentimenti Ippo
crate , che allor , che nell'huomo ſomınamente creſce la collera , in tutto
quel tempo , ch'ella ſi trova ſtemperara ; cruday e ſincera per arte niuna ſi
poſsono , ne il dolore, ne la febbre , che da leicagionanſi mitigare , non che
eſtin guere. Macon quali argomenti eglino cercato aveſsero di cuocere , e
diridurre al lor primicro ftato le nocevoli materie,Ippocrate non ne tien
ragionamento; folamente fi pare , per quanto raccoglier fi pofsa dagli altri
ſuoi libri, e dalle parole , che reftè abbiam noi recate,che eglino in ciò non
ſi valeſsero de'falasſi . Ritrovò a'noftri vicini tempi un sì facro fiftema , oltre
al Paralcelſo , al Severino , ed al Quercetano altri , eal. tri doctisſimi
ricevitori ; i quali colle tante , e rante cu rioſe , e ſottili dottrine , che
viaggiunſero ſommamente il nobilitarono , e lo fecero altro in verità parere da
quel lo , che così rozzamente defcritto nel libro della vecchia medicina
ſcorgeſi ; ma non poterono nientedimeno que' valentisſimi huomini , per quanto
mai s'affaticaſſero, e che poneſsero ancora in opera per ciò più acconciainente
fare la vital notomia , ritrovar argomento giammai , che effi cacemente provar
poteſſe , che nell'huomo , ed in altri corpitante, e tante varietà innumerabili
ſi trovino di coſe ; laonde degni certamente diſcufa mi pajono que'primi au
tori del ſiſtensa ,fe ne meno eglino non le vennero in quel il a Del
Sig.Lionardo di Capoa. 237 li a dimoſtrare ; ed in verità lo per me crcdo , che
ne me no eglino non aveſſer potuto ciò fare giammai ; imperoc chè ſe ſono ,
come esſi vogliono , in minutisſime particel le diviſe , e l'une coll'altre
meſcolate , e confuſe , necon i ſentimenti ſi arrivano a comprendere , ne
effetti poſſono produrre , da’quali argomentar ſi poſlá lor ritrovarſi at
tualmente nell'huomo , ed in altri corpi , e ſe mai pure in eſso loro talvolta
feorganfialcune delle dette ſoftanze di quando in quando venir ſuſo, non ſi può
ſapere certa mente ſe vi erano in primanaſcoſe , o le pure elleno da' primi lor
femi di nuovo fiſiono ingenerate. Orper diffalta di queſte certezze,non farà
egli manche vole, e ſcépiata quella medicina, che preſupponendole, ſu vi
s'appoggia ? Ed oltre a ciò fe prima diligentemente non inveſtigheraſſi, e
giugneraſſi a faper qualſia la natura dell' acerbo, delPacecoſo , e d'altre
ſimili coſe , qual contezza de’loro effettipotrà averli, o del loro operare, e
delle ma lattic , e della virtù deʼmedicamenti , e del modo d'ufar gli . E
forte aggiroffi Ippocrate , ſofifti tutti que' fapien tìſliini filoſofi ,
emedici nominando,i quali volevan,che il medico foſſe pienamente di tutti gli
affari della natura in formato , e intefo minutamente di tutto ciò, onde
l'huomo compongali , e quanto al ſuo mirabiłmagiſtero concorra . E parvc al
buon huono , che il conoſcimento di ciò antaa più alla pittura , che alla
medicina s'apparteneſſe ; e ba it are al medico ſol tanto , ch'egli conoſca l'huomo
in ri guardo al mangiare , e al bere, che gli convicne . Ma quefto medelimo chi
non vede , che non mai poſſa fa perfi, fe la natura dell'huomo in prima , e poi
di tutti i cia bi, e beveraggi, e d'altre, e d'altre coſe e non iſcorgaſi. Io
nóho preſo a vagliar ciòsche dicefi pariméte,che qua Jora popera del ſolo caldo
ſeparato dal freddo fi cagionano le malattie, il freddo v'accorra a dar riparo;
che ſomigliati fraſchenõ maiimmagino ,che foſſero ufcite di bocca dique'
valoroſi átichi;ne fo Io,comeIppocrate fe l'abbia maiim maginar potute.
Aurebbono bēdovuto dire eglino , o eſſer mol 238 Ragionamento Terzo altra opera
, greca , molto, e molto agevolea ritrovare il rimedio, ſe le malac tie
dalcaldo , o dal freddo ſolo avveniſſero , avendo noi pronti ſempre tra le mani
quegli argomenti, iquali, o ſcal dare , o raffreddarne poſſono; o pure, che il
loverchievol caldo , in perdendo le particelle , che fanno il moto , les quali
sfumano velocemente , ove non v'abbia coſa , che vaglia a intertenerle,coſto
s'ammorti,e venga meno.E ſo migliáteméte eglino ácora dir potevano delfreddo
fover chievole ,che tor ſi poſſa agevolméte via incótanéte ſenza che della ſola
continua formentazione del ſangue. E tanto baſti del più antico ſiſtema della
medicina , ficome a noi ne giova credere, al preſente aver detto ; onde come
d'abbondevole , e larga fonte tanti, e vari ruſcelletri poi d'altri ſiſtemi di
razional medicina tratto tratto li diram irono : chenon pur la grecia tuttav ,
ma alere barbareſche, e più rimöte nazioni allagarono. E primieramente quel ſe
ne vide uſcir fuori, di cui ſicome noi teſtè dicevamo fa Ippocrate mézione ; il
quale dell'u mido , del ſecco , del caldo , del freddo nel filoſofare ſi valſe
; e quell'altro purdalmedeſimo Ippocrate accenna to , di coloro , i quali più
ſottilmente le coſe fin da’loro primiprincipj fil filo d'inveſtigare li
ſtudiavano ; ed altri , ed altri Siſtemi ancor covenne,che a que'répi ſi
adaffer tut tavia mettendo fuora per que' filoſofi, che in molte , e varie
ſchiere eran partiti; alcuni de’quali, come addietro accennammo, ciò fecero per
avventura ſol per render pa ga la lor curioſità , e per vaghezza di ſpiarei
ſegretidella natura ; ed altri per intendere oltre al filoſofare , anches
all'opera della medicina , fino a’tempi d'Erodico , oveda prima ad alcun ſembra
che dalla filoſofia indegnamente divorzio faceſſe la medicina ; le pure alai
molto prima, e per opera d'altri ciò non avvenne , e ben’ Ippocrate nel libro
della natura dell'huomo, oltre a'già narrati,di quegli altri Siſtemi ta menzione,
formati da que'medici ,che volevano , o dal ſangue , o dalla collera, o dalla
flemma elfer formato l'huomo , Ma 1 DelSig. Lionardo di Capoa 239 Ma tempo
ſarebbe omai di patrare ad altro ; más poichè non è queſt'opera da dover
fornire in brieve ſpa zio di tempo : ed lo tanto oltre mi ritrovo col mio fa-.
vellar traſcorſo , che già omai è l'umid'ombra della not te ſopravenuta , egli
fie convenevole, che ad un'altra ada nanza l'eſaminamento degli altri ſiſtemi
di medicina lo ri ſerbi. KK KE UP) RA: 240 All RAGIONAMENTO QV A RT 0. 22 S E
quelle gravi , ed acerbe quercle , che veggiam tutto di metterſi fuora dalle pé
ne di tanti, e tanti ſcrittori contro le bar bareſche armate , perchè coile più
bello meinorie della famoſaGrecia abbia quel le i più prezioſi libri della
medicina cru delinente malmenatic diſtrutti: vorrem noi dirittamente guardare,
ritroverein per mio avviſo eſſer quelle in veri tà poco ragionevoli , cmenche
giuſte doglianze ; iinpe l'occhè ſe gli ſmarriti libri della greca medicina
eran fimi glianti a queſti, che a noſtre mani ſon pervenuti , fideu certamente
ſtimare alſai ben lieve la lor perdita , ne da do Ierſene gran fatto , anzi da
non mettere in conto ; mare pure quelli di maggior lieva ſi erano , e più vera
, e fotril doctrina contenenti , bcn'a torto , s'io pur non vado erra to ,
oiGoti, o gli Alani, o gli Vnni , o iBulgari, o i Sa raceni di sì grā misfatto
accagionanſi; imperchè di coſtoro certaméte niuno giunſe giamai a depre.larc,ed
a ſignoreg giare la Grecia tutta ; c quãdo ultimaméte il Turcheſco fu rore
ſurſe ſtruggédola , ed ingiuſtaméte uſurpádola , cd oc cuparl Del Sig .Lionardo
di Capoa. 241 cupandola inleme colla Città , ſede, e capo dell'Orientale ,
Imperio , allora preſſo che tuttii libri , che vi avevano della greca nazione,mercè
all'induſtria degli Italiani huo mini nelle noſtre contrade vennero
traſportati; ſenzachè v'han pure molte Iſole greche, ch'all'Ottomano giogono
ſottomeſse dell'antica libertà anche a' di noſtri ſi godo no . La vera cagion
dunque della perdita de' più beilibri non purdella medicina , ma delle più
nobili arti , e delle più ſovrane ſcienze,non già alla furia dell'armi , o
delle fiamme nemiche : non già alla rabbia del tempo di tutte l'umane coſe
fiera divoratrice ; ma recheſi ad altrettanto più cruda, quanto men furioſa , e
mentemuta cagione.Diec tracollo , chi'l crederebbe ! dier tracollo dal lor
primo ſplendore le lettere , non per altro , ſe non ſe per manca mento, e per
colpa de'letterati medeſimi; c donde atten devan ſoftegno , e riſtoro , quindi
ſterminio elleno ebbe ro , c ſtruggimento ; conciofoſse coſa ,che , ficome
talora in bello , e ſpazioſo campo di grano ſoglion naſcer avene , logli , ed
erbe ſterili , e dannoſo , e ſoffocarlo , cosìſur ſero tratto tratto nella
Grecia fra quell'anime grandi , es valenti , che del vero ſapere eran ſolamente
paghe, alqua ti huomini di ſtolido , ed ottuſo intendimento , i quali da
vaghezza tratti divano onore , e di popoleſca fama, ogni loro ftudio ponendo in
farſi tener alla minuta plebe ſapie ti ſol dieder opera ; e tutti intelero a
certe vane ombre di dortrine ; e perciò laſciando in abbandonamento i buoni
libri a conſumar dalla polvere, e a roſicchiar dalle tarme, ſol cura ſi diedero
di riſerbare , e di tramandare a' po fteri que’libri , che con pompa , cd
arringo di belle parole facevan veduta d'inſegnar tutto quando poco , o niente
in lor v'era di pregio ; e delle lodi di sì fatti volumi,aven do eſſi riempiute
le carte , la troppo credula , anzi cieca , pofterità , come prezioſi teſori
gli ha ricevuti , e ſempre mai venerati. Mai voſtri ingegni, o Signori,per cui
veggio omai ſcorgerci da miglior lume la verità : mi danno ani mo ch’lo
proſeguendo la incominciata tela de’varj ſiſtemi de'Greci medici, vi faccia
ſcorgere ad un'ora per la più Hh par 242 Ragionamento Quarto parte falſe eſſere
quelle eccelléti prerogative, che di mol ti ſcrittori va buccinando da per
tutto immeritevolmente la fama. La medicina di Erodico ,la quale quatūque in
vitupere vol guiſa per Platoneſtata foſſe trattata: no però di meno dal gétilillimo
ſuo ftilc ella vene sõmaméte nobilitata ,ere ſa immortale, per fatica , che vi
ſi duri , Io non ſo vede re , come ſi poſſa giammai ad eſaminazione acconciamen
te ridurre,poichè d'efla sì poche, e cófuſe memorie avázate ne fono,che appena
ne ſi aprirà capo da potere alcun degli argomentiond'ogli fabbricolla
indovinare ; impertanto a volerne dir ciò che per noi fi può , rammentomi, che
Platon riferiſce, Erodico eſſere ſtato miglior maeſtro d'in ſegnare, come
gl'infermi eſercitar doveſſero le membra, e ſtropicciarle , ed ugnerle , e
regolatamente prendere il ci bo , chedi giovevoli , ed efficaci medicamenti a
coloro preſcrivere;perchè e'ne viene dal medeſimo Platone affai Íconciamente
vituperato ; dicendo , ch'egliin sì fatta gui fa non diſtruggeva altrimenti le
malattie , ma le complcf fioni ſolo a poter quelle lungamente foſtenere ajutava
; ond' egli paſsò ad affermare la medicina d'Erodico eſſer arte da Pedagogo
;imperocchè ficome da coftoro i fanciul lini, così da quella i mali reggevāli;
mache di ciò Erodico la dovuru pena aveſſe meritevolmente pagata ; imperoc chè
della ſua inutil medicina , penofa , e cagionevolvita traſſe continuo , e ad
una lunga , e ftentata morte ſempre diſpofta,perocchè da una nojofiffima, e
mortal malattia preſo , egli per trovarqualche argomento da ſoftenerla , tutto
nello fludio della medicina s’involſe , traſandando tutt'altre biſogne , e ſolo
a ciò di forza intendendo , altro non gliene avvenne , ſe non ch'egliebbe a
viver si parca mente , e regolato, che ſe mai dall'uſato cibo ſi dipartiva,
toſto ritornava ad ammalare , e più che prima cagionevo le diveniva ; e a
queſta guiſa reſo a ſe medeſimo inutile, e grave peſo , viſſe infino all'ultima
vecchiczza ; ove di que favita rinereſcédogliil morirc, ſdegnofaméte fi dipartio.E
alla finc Platone motteggiandolo conchiude , che una ec cellen Del Sig.Lionardo
di Capoa 243 cellente , e ragguardevol palma e' riportaſſe dall'arte ſua, e
talc , qual veramente gliſi conveniva , come a colui , il qual non ſapeva ,
ch'Eſculapio una cotal guiſa di medica re a' pofteri non aveſſe inſegnata, non
già perchè non gli foſſe aliai bé conoſciuta : ma ſi bene perocchè egli ſcorge
va,che in una bé ordinata Città a ciaſcun debba eſſere l'o . pera ſua
convcncvole aſſegnata , alla qual fornire doven do intendere , mal potevagli
ozio lungo avanzare , du potere a ſtéto da una tal medicina attender prò , o
riſtoro ; coſa , la quale certamente ridevole ella ſembra ſe vien el la mai
negli arteficiconfiderata . Reca Platon l'eſemplo d'un legnajuolo , il quale ſe
mai, come porta la ſua diſ grazia ritrovali preſo da grave malattia , egli
toſto inan dando per lo medico, da lui richiede , che diviſandoglial cuna
purgativa , o pur vomichevole medicina , o col fer ro proccuri toſto di torgli
ogni inale , e ogni ſeccagin da doſſo ;ma ſe allora il medico
ſolpreſcrivcſſoglilungadieta, e altri così fatti riguardi , certamente , che
colui gli re plicherebbe, non eſſer miga ſuo intendimento di menar il can per
l'aja , e foggiacere a una sì nojoſa, e miſerevol vi ta ; e così datogli
dipreſente il congedo coll'uſata libertà ſe ne rimarrebbe ; e ſemai avveniſſe
per forte , ch'egli guariffe , ſi viverebbe per innanzi felice ; ma ſe il corpo
no potendo al mal far contratto ſe ne moriſſe, almen verrebb’ egli ad eſſere da
tante noje ſviluppato . E dopo queſti ra gionamenti Platone apertamente una tal
medicina caccia via dalla ſua repubblica , come dannoſa , e tale , che i ſuoi
cittadini non meno alle lor private biſogne , ch'a quelle del comune verrebbe a
fraſtornare, e ritorre. D'una tal materia ſi legge una lettera dello Speroni ,
con la quale egli va dimoſtrado con vani ſofiſmi,la vita ſobria eſfer no cevole
uzi che no; infra l'altre coſe dicendo , la vita ſo bria non poterſi appellar
ſana, eſſendo la ſanità un'acci dente , che coll’inferinità , ch'è il ſuo
contrario via ſi cac cia del ſuo ſoggetto ; perchè ſe nella vita ſobria non può
effer inferinità , non può eſſer (anità vera; c ſe tinto , e non più fi mangia
, quanto baſta al vivere noi ne coin H h 2 bar 1 244 RagionamentoQuarto
batteremo, ne cămineremo,ne falteremo giámai, ne potre mo ciò fare , perchè non
averemo le forze,mangiando fo lamente per vivere , il che ſarebbe un gran
difetto nell huomo . Oltre a ciò e' dice, che come la mano ſtorpiata , non è
mano , perchè no può come mano operare,così la ſo bria vita no è vita,ma meza
morte, perchè no opera quan to , e come dee l'huomo operare.Dice parimente egli
che il morir per riſoluzione ſia la peggior guiſa di morte, che poſſa fare
l'huomo :perchè queſto è inorir di fame ; della qualmorte parlando Omero in
perſona de'compagni d'V Jiffe l'abborriſce infinitamente : ed elegge più coſto
lo an negarſi , che'lmorir di fame į ne peraltro Dante biafi matanto i Piſani,
che per aver fatto morir di fame il Con te Vgolino ,benchè foſſe traditore
della Patria . Con chiude egli alla fine , che chi è ſobrio nel cibo faria
huopo cffer ſobrio in molt'altre coſe : peſare il vino, e'l pane, nu merare
l'ore: farebbe luogo ancora pefare i peſieri, lo ſcri vere , il leggere', e
ſimili cofe , che impediſcono la dige ſtione : numerare i palli, e le parole ,
che ajutano la dige ſtione : non dormir ſe non tante ore il dì , e tante la
notte . Ma il chiariſſimo Signor Luigi Cornaro , a cui era in dirizzata la
lettera ; col ſuo proprio cſemplo fe veder ma nifcſtamente quanto ciò vano , e
fuor di ragion fia : impe socchè egli colla rigorofa dieta lano , c vigorofo ,
e bene atante della perſona anche nella cadente età ſi mantenne , e viſſe
oltr'a cent'annipronto ſempremai , e col ſenno , e colla mano alle biſogne
tutte della ſua patria ;comechè ca gionevole aſſai di compleſſione e'li foſse
in prima ſtato ncl Ja ſua giovanezza , ca molti, e graviſſimimali ſoggetto ;
intanto , che comunemente da'medici dopo varj , e diverſi argomenti indarno
adoperativi , diſperato ſovente di ſuas ſalure ſtato ne foſſe . Ma quanto vane
,quanto deboli , e fanciullefche fien le ragioni, con che Platone s'argomenta
d'abbatter Erodi co ,e come ſcioccamente la dappocaggine d'Eſculapio , e de
figliuoli di lui egli di ſcuſare s'ingegni : Io non pren derommi al preſente
briga di dimoſtrarlo , potendo ciaſcũ 1 da per Del Sig.Lionardo di Capoa. 245
da per fe a prima veduta baſtantemente comprenderlo . Macome non ſi può in modo
niuno negare, che quel me dico , il quale aveſse per le mani ſicura ,ed
efficacemedici na , che ſenza indugio poteſse un grave male di prefence guarire
, non dovrebbe certamentead altri medicamenti aſpettarſi; nondimeno non ſo lo
fe Eſculapio , cotanto da Platone commendato, aveſse pronta ſempremai unas
cotal medicina non che a tutti mali acconcia , ma ſola mente alle ferire ;
eſsendo rade molto cotali forti di me dicamenti , e radiſsimi coloro , che
alcun certamente ne ſappiano ; perchè lopratutto fa meſtieri, che'l medico per
ogni via ſappia all'infermo ſoccorrere, eſe non può riſa, narlo,poſsa almeno
tantoſto indugiar la fua morte , tem poreggiando , e ſcherinendolo a ſuo potere
. Perchè fom mamente egli è da lodare il ſaggio avviſamento d'Erodi co , il
quale molto bene a pruova ſcorgendo quanto poco a capitale da tener foſse
l'operazion de’medicamenti, diede opera più che altro a quelle coſe , che ſe
non ſono ditroppo vaglia , s'annoverano fenza fallo infra le meno incerte
dellamedicina . Ecertamente per quelle uſare no fi corre pericolo niuno
da’malati , e poca , e niuna fatica . s'imprende a porle in opera .
MadalPaverle Erodico dalla ginnaſtica portatealla me dicina,quanta lode egli
per ciò ne meriti , Galieno mede. fimo il confeſsa ; il qual nondimeno una
tanta lode ad Ip pocrate attribuiſce . Io per me ſtupiſco della fcimunita
tricotanza di tal’huomo che avendo letto più volte i dia loghi della repubblica
di Platone , e recatone nel fuo li bro pur qualche luogo, ardiſca pure
d'affermare , che Platone in ciò ſolamente la cattiva ginnaſtica biaſimaſſers
la quale ſi predeva cura di difpor gli Atleti ad eſser valo roſi , ed abili a
loro eſercizj . E certamente ſe quellibro di Platone ſinarrito per ayventura ſi
fofse , ciafcun farga mente le ſciocchezze di Galieno crederebbefi . E come
voleva Platone biaſimar la ginnaſtica, che per Galien cat tiva dicefi , s'egli
nella ſua Città ordina , che s'edifichiil ginnaſio , e diſegna con molte parole
la contrada acconcia per i 246 Ragionamento Quarto per quello , e vi ricerca in
iſpezialità copia d'acquc cor renti , così per derivarla in uſo de' caldi bagni
, coine per irrigare il terreno , e render vago , eadorno il luogo ; ſen zachè
no mai ſtanco ſi moſtra Platone in tutte le ſue ope re di celebrare il ginnaſio
, e quegli eſercizi , che ivi fico ftumavano di fare : come ſommamente utilia
conſervar la ſanità ; e fra l'altre egli ebbe a dire una volta, eſsere ma
lagevol molto il ritrovare diſciplina miglior di quella, la quale fin’alla ſua
età in lunghiſſimo ſpazio di tempo s'era ritrovata ; cioè della muſica , che
all'animo , e della gin naſtica , che al corpo appartiene. Ma laſciando ciò da
par te ſtare , egli va grandemente per mio avviſo errato Pla tone
nell'affermare, che que'buoni antichi medici non cu raſsero il regolaricibi
a'malati , e che ciò eglino faceſse ro , non peraltro , ſe non perchè non
avevali a que’tempi di ciò punto biſogno, perchè agli antichi , i qualimaisé.
pre regolaramente vivevano, non faceva poſcia inferman doſi huopo diregola
alcuna di medico ; concioffiecofachè le tante , e tante förti di malattie , che
fra gli antichi ſové teniente ſi vedevano , faccian’aperta , e fedele
teſtimonia za del contrario . Ma quantunque vero foſſe ciò ,che Pla tone
immagina della ſobrietà grande degli antichi huo mini , pure altri cibi
a'lani,ed altri a'malati convengono; e quelmedico , il quale cibaſse l'infermo
come fano , e'l ſano come infermo ugualmente nel certo all'uno , ed all l'altro
nocerebbe . Egli poi non ha dubbio alcuno , che'l regolar i cibi foſse la prima
coſa certamente , che s'ado peraſse in medicina ; anzi da ciò venne ſuſo
primieramé ce la medicina ; e prima , che foſsero i medici , i medelimi infermi
da per ſe il ritrovarono ; e illuſtri.fimo in queſto affare è il luogo di
Celſo; il quale ci giova quì tutto rec.le re , comemolto al noſtro propoſito
faccente: Ægrorums, dice egli, qui fine medicis erant , alios propter
aviditatem primisdiebusprotinuscibum affumpfiffe , alius propter faſti dium
ahſtinuile, levatumque magis eorum morbum effe , qui abſtinuerant :
itemquealios inipfa febre aliquid ediſ Te , alios paulò ante eam , alios poft
remiffionem ejus , optime dein Del Sig. Lionardo di Capoa 247 ! deinde his
ceflife , quipoft finem febris id fecerint . Eadeque ratione alios inter
principia protinus ufos effe cibo ple viore , alios exiguo , graviureſque eos factos
qui fe imple rent. Hæc, ſimiliaque quum quotidie inciderent , diligentes
homines notaje: quæ plerumquemelius refponderent ,dein deægrotantibusea
præcipere cæpiſſe :fic medicinam ortam-, ſubinde aliorumſalute ,aliorum
interitu pernicioſa diſcer nentem à ſalutaribus, Ma intorno al cibari malati,
certiſſima coſa egli ſi è, che gli antichi medici gră pezza affai prima
d'Ippocratemol . te coſe , e molte diviſarono, come ſi può agevolmente ve dere
nel libro della vecchia medicina , ed in altre opere d ' Ippocrate medeſimo ,
onde parimente ravviſar fi puote quanto errato vada Galieno, il quale di ciò
far yolle il buo Ippocrate autore. Ma , che che ſia di tali faccende, terri
bile allai ſembrami nel vero la cenſura , con la quale Ip pocrate, non avendo
veruno riguardo alla venerazion do vuta al maeſtro Erodico , fconciamente il
riprende,e vitu pera ; dicendo, ch'egli togliere la vita a tutti que'cattivel
li febbricitanti , ch'e' medicava colle fatiche , e co' fummi. caldi , che loro
imponeva; e ne reca egli di ciò la ragione, dicendo cfler a' febbricitanti il
pareggiare, il correre,e gli ftrofinamenti , eifomenti oltreinodo contrari
.Aggiugne Galieno a ciò che dice lppocrate , che Erodico in ciò fa re, ne anche
alla ſperiéza guidar certaméte e'li faceſſe ,non volendo niuna ragion delmondo
, che'l male col male, la fatica colla fatica , il ſimile col liinile da
medicar ſia ; an zi e'dice , che gli argomenti tutti adoperati per Erodico
nelle febbri , valevoli più toſto ſiano ad accreſcere sfor matamente il calore ,
che a toglierlo . Ma certamente no molta fatica aurebber egli durata i ſeguaci
d'Erodico in rimboccare Ippocrate , e Galieno ,dicendo ,che Erodico, come buon
medico razionale non già alle febbri, ma alla cagione di quelle riguardar
doveva,alla qual togliere cer tamente quemedeſimiargomenti fi convengono, i
quali egli adoperava , avvegnachè in prima ſe ne creſca talottas la febbre per
qualche poco ſpazio di tempo ; ma poi ſen za fala 248 Ragionamento Quarto za
fallo rimoſſane la cagione del tutto ſi ſpegne ; ſenza chè ben potrebbono di
vantaggio aggiugnere , il medeſi mo appunto farſi da Ippocrate , e da Galieno :
i quali con fregamenti , e con dare a {piluzzico , e a riguardo il cibo medicar
parimente ſogliono i febbricitanti . Ne qui deb befi tacere , ſcorgerſi da ciò
chiaramente eſſere antichiſ ſimo coſtume de'medici biaſimare in altri , come
manche voli , e malfatte anchequelle coſe , che eglino medeſimi in ſomiglianti
caſi operar tuttavia ſogliono. Ne poffo sé. za maraviglia riguardare alla gran
tracotanza di Galieno, il quale così aſprainenre riprende il diviſamento
d'Erodico ſenza punto penſare , che ello ancora alcune febbri linco pali
co'fregamenti, e col digiuno curar foglia ; perchè egli vien forte ripigliato
dal Tralliano , il quale rintuzza lo , c percuotelo , e con maggior ragione per
avventura , con quell'arme medeſime, che Galieno aveva contro Ero dico
adoperace. Vltimamente ſe un ſomigliante coll'alcro da curar ſia , coloro ſe'l
veggano , i quali comeche con parole il biaſimino , purcon fatti talvolta il
ſogliono ado. perare : ſolamente lo avviſo , che Ippocrate medeſimoma
nifeftaméte afferma, che'l yomito col vomito ſi cefla ,e che col limile il
ſimile ſi cura . Quinci ſcorger ſi puote , chcgli huomini tutti,e più che
altriimedici, Togliono di leggieri nell'arti, chedi nuovo imprendono ad
eſercitare , valerſi di quelle coſe, alle qua li per qualche ſpazio di tempo
diedero in prima opera ; e percið Erodico per mio avviſo ſi ſerviva così ſpeſſo
degli Itropicciamentiin medicando gl'infermi, e d'altre opere , ch'erano in uſo
nel ginnaſio , di cui egli aveva avuto la cu ra ; così veggiam que' ,che, o
d'Aſtrologi, o d'Alchimi ſti divengono medici , non preſcriver rimedio alcuno ,
che non ſe ne fian colle ſtelle , eco'fornelli conſigliati; ma no penſi però
alcuno , che'l maeſtro , o preferto del Gimnaſio aveſſe cura di far
ſtropicciare , o d’ugnere que' ch'eran deſtinati alle lutte , al corſo , e agli
altri gilochi , che ſi fa cevano nel Gimnaſio ; ma il ſuo uficio ſi era il
comandar nel Ginnaio , e conliſteva nella ſupreina autorità di quello p li vile
Del Sig.Lionardo di Capoa. 249 li varjufici a quella ſottopoſti, e per le ipeſe
, che per l'e ſercitazioni facevan meſtieri ; edun taluficio era in sì grá
pregio,edonore tenuto,che nó foleva darſi,ſe non ſe a'più nobili , o ben’agiati
huomini del paeſe; c durò lungamen te tal uſanza sì fattamente ,che i medeſimi
Romani Im peradori talvolta non iſdegnarono in volendo favoreggiar qualche
Città amica, e qualche popolo a loro affeziona to , infra i titoli , egli onori
degli altri maeſtrati, d'accet tar anche quello di prefetto , o maeſtro del
Ginnaſio . Ma non men della medicina montò in grandiſſimo pre gio , e
venerazion l’arte ginnaſtica , la qual fu cotanto ce lebrata a que'rempi dalle
dotte penne de ſagaciflimiſcrit tori , che nulla più ; d'alcun de'quali con
ſomma lode fa menzion Galieno, appo il quale leggefi di vantaggio ,che non
ſolamente eglino contendevano co’più chiari , ed il luftri medici razionali, ma
che quegli fteffi , chenel Gin naſio bazzicavano proverbiar ſolevano Ippocrate
,che egli temerariamente inipreſo aveſſe ad inſegnar un'arte , dicui cgli era
affatto ignorante , e digiuno . Ma ritornando ad Erodico , chc che ſi dica di
lui Platone , non ſi fermò egli nelle coſe ſole della ginnaſtica ncll'eſercitar
la medicina , ma ſi valſe d'altri , e d'altri rimedj, de' quali altri medici
dopo lui parimente fi valſero : come ſi può vedere in Ce lio Aureliano , il
quale in facendo parole della ſciatica , delle medicine d'Erodico così dicc :
Herodicus igitur, ut Aſclepiades memorat , ventrisadhibet purgationem , atque
pofl cenam vomitus , quifunt implebiles potius quam ficcabi les: tum
vaporationibus tepidis aceti decocti exhalatione con fectis utitur , vel aqua
marina , admifta thalsa herba,atq ; biljopo, & his fimilibus, veficis
bubulis repletis corpus va purandum probat, vel aliis quibufque majoribus
inflatis tu mentia loca pulſari jubet , e tanto baſti della medicina d’E rodico
avere accennato. Eurifonte celebre medicante dell'antichiſſima ſcuola di Gnido
, il quale ,come riferiſce Sorano inſieme con Ippo crate medicò Perdicca Rè
della Macedonia , dalle poche memorie , che n'abbiamo, non ſi può ſcorgere in
qual ma I i niera 250 Ragionamento Quarto 1 niera egli medicaffe , ene meno
come egli in medicina fi loſofato aveſſe ; e delle ſentenze Gnidie, dicui
voglion ch ' egli li foſſe l'autore, ne reca tanto poco Ippocrate , il qua le
fi diè cura di eſaminarle , ch' Io per me non ho che di viſarne . Egli vien
rapportato da Ippocrate , che i compi latori di quel libro aſſai minutamente,
ed a ſpiluzzico avel ſer raccolto , e diviſato tutte quelle coſe , che avvenir
ſo gliono agl'infermi in ogni lor malattia ; ma non è per ſuo avviſo da far
gran fatto ſtiina della coſtoro induſtria , come quella, ch'aſſai leggiera , ed
agevole impreſa è a chiunque neprenda cura , quantúque niente informato di
medicina egli ſia : baſtado ſol,che dallo infermo della nojoſa iſtoria della
propia malattia pienamente véga avviſato.Ma lo ,có buona pace d'Ippocrate ,
ſono in contrario parere; e lem brami, che gran ſenno faccian que’medici , e
fieno ſom mamente da commendare , qualora ſi danno ſomiglianti brighe;
imperocchè,non di ſole ciance,madicoſe in qual chemodo rilevāti ſi vedrebbon
ripiene le ſcritture de’me dici . Ma che è ciò , che ſoggiugne poſcia
Ippocrate, che egli fia queſto un peſo da tutte braccia , ne v'abbiſogni in
tendimento di medicina ? E chi non vede quanto dalvero manifeſtamente il ſuo
parer li diparta? da che a ſimili rac conti fa luogo comprender le variazioni
de' polli, e altre biſogne ſola medici conoſciute; edo che vaghe novelluz ze da
riftuccar la pazienza di ciaſcuno ſarebbon le imper tinenti ciuffole , ed
anfanie , che talor foglion narrare a ' medici gl'inferini, fe quelle appunto
aveſſero a deſcriver ſi poi ! e ſe per alcun, ſicome affai ſovente avvenir
veggia mo , foffe offeſo il cervello , che domine potrà unqua ridir
dirittamente giammai de'ſuoi travagli l'infermo ? nondi. meno, quantunque una
tal impreſa lia aſſai propia del me dico , lo giudico , che ſe altri vi ponetle
mano , chemedi co non foffe,peraltro riguardo maggior utile ſe ne ritrar. rebbe
; iinpcroccliè nurrerebbe egli ſemplicemente come và la biſogna ſenza giugnervi
nulla di ſuo , ove da ' medici mercè dell'ufire loro aliuzie , tra per ridur'la
cagion d'o gni avvenimento de'ma i alle lor concepute opinioni,o per altrid 1
DelSig. Lionardo di Capoa 291 alera cagione,cofa ,che ſoſpetta di
falſicà,cd'errore non ſia non pongono in iſcrittura giámai . Soggiugne
Ippocrate, che di quelle coſe , delle quali dee aver contezza ilmedi co per
propia fua induſtria , oltr'a quelle , che poſſon ſa perſi dalla bocca dello
infermo , molte ne tacquero que gli ſcrittori; e ch'egli di quelle notizie ,
che s'acquiſtano per opera della conghicttura, e che pertinenti ſono al mo do ,
col quale curar fi dee ciaſcuna malattia , non s'app.2 ga affatto di ciò , che
color ne dicono ; e quinci ſi pare, ch ' Eurifonte medico razionalc ſtato ſi
foſſe , e che , ſecondo i ſentimenti d'Ippocrate medeſimo ſuo emulo, aveſſe
ſcrit to affai bene in medicina : nientedimeno, per quel che Ip pocrate
parimenteriferiſca , chiaramente ſi ſcorge,che co sì Eurifonte , come que'
della ſua ſcuola di Gnido ben molto poco valfero nella medicina ; imperocchè
nel medi car le malattie, toltene l’acute, fi valevano ſolaméte dell'e
Jarerio,del latte, e del fiero; e veramente intorno a ciò IP pocrate a gran
ragione ne ripiglia l'autore di quel libro ſoggiugnendo, che ſarebbe degno di
gran lode l'adoperar pochi medicamenti,ſe quelli buoni li foffero e conveniffe ro
veramente a que’mali , a'qualieglino gli preſcrivono; ma che altrimenti vada la
biſogna . Vengono in ciò i medicanti da Gnido imitati da parec chj de'moderni
medici , i quali ſi tengon le mani a cintola ne'mali lunghi, ed allo incontro
poi nellacute malattica non dan mai foſta a' poveri infermi , travagliandogli
ad ogn'ora con importuniffimi rimedj , la dove dovrebbono ſenza fallo il
contrario operare ; concioſliecofachè il ma de , il quale qualche ſpazio di
tempo dur.2 ,renda aſſai age vole al medico il potere inveſtigarne, e
rinvenirne il rime dio ; il che nc'mali acuti malagevolmente riuſcir puote , i
quali per ſe ſteſſi , o bene , o male finiſcono in brieve. Ma nondimeno egli è
ſommo artificio di medico il medi car sì fatti mali con molti rimedj: imperocchè
ſe l'infermo guariſce, il vulgo ignorante agevolméte crede eſſer ciò per opera
avvenuto di alcuno di que'tanci rimedi , che gli furono dal medico preſcritti :
non avviſando , che celeres, ! I i 2 & acu 252 Ragionamento Quarto 1 cu
acutæ pafſiones, etiam fponte folvuntur , &nunc fortuna, nuncnatura
favente, come laggiamente Celio Aureliano avvila ; e ſe purl'infermomai vienea
capitar male, tutta via della ſua induſtria ognuno contento , ed appagato li
tiene , inmaginando , che egli non abbia laſciata coſa p riſanarlo. Ma che che
ſia di ciù ne'mali lunghi,ove nel vero l'imprendimento, e l'opera del buon
medico maggiorme te ſi richiede , perciocchè, ficome avviſa il medeſimo Ce lio
, neque natura , neque fortuna folvuntur , ſi portò pelli maméte, per avviſo
d'Ippocrate,Eurifóte;maſe crediamo a Celio Aureliano, nelmedeſimo fallo
incorſero parimen te con Ippocrate ſteſſo tutt'altri greci medici , che furono
prima di Temilone. Ma ricornando ad Eurifonte , Io non ſo, s'egli, o pure alcri
compilando la ſeconda volta il libro delle ſentenze Gnidie,maggiormente , come
porta opinione Ippocrates, il perfezionaffe: parte delle coſe, che in prima vi
li legge vano , come chioſa Galieno , affatto togliendo , e parte in altro
cambiando ; effetti, come altrove abbiamo pa rimente avviſato ,che provenir
ſogliono dall'incertezza della medicina ; e queſto è quanto laſciò ſcritto
Ippocra te della medicina d’Eurifonte . Si valſe cgli , come Ce Jio Aureliano
dice , di qualche medicamento d'Erodico , e ſcriſſe per quel che narri Galieno,
di notonia,e di quel le inedicine ,che ſi poſſono in luogo d'altre , che mancal
ſero porre in opera . Ma trapaſſando ora alla medicina d'Ippocrate, egli cer
tamente oltrealcrcder di ciaſcuno malagevole mi ſembra a diviſarne ora i miei
ſentimenti ; perciocchè di que’libri, che ſotto il ſuo nome ſi leggono, ne pure
a teinpo dell'an tico ſcrittore , che ne racconta la vita , dar fermo , e ſicu
ro giudicio ſe ne poteva . Ma che unque diciò ſia ,manife ſta coſa è , che
parecchi dell'opere dilui per travalicamé to di tempo ſmarrironſi , ed altre
manchcvoli in parte , tronche li riinaſero ; ed in altre ancora molto, e molto
co ſe , o da ſuoi ſcolari, o da altri aggiunte furono ; noiz però di meno c'fi
pare ad alcuno che , coll'efler perdute l l'ope 1 Del Sig.Lionardo di Capoa.
253 -- Popere d'Eraliſtrato, di Diocle d'Aſclepiade,e d'altri buoni medici
antichi, in queſte ſolaméte, che ſotto nome d'Ippo crate ne rimaſero, oggi ſia
quaſi tuttoquáto di buono v'ab bia infra'Greci di medicina,cópreſo; impertanto
moſtrano manifeftaméte, che non riſpondono a quel gran nome,che da alcun medico
greco in prima , e poi da altri anchenon medici ſenza troppo ben'eſaminar la
coſa ,egli n'ha ripor tato ; ne lo ſo permevedere , come ſi poteſſer mai, nu
Platone , ne Ariſtotcle approfittarli per efle tanto quanto nella filoſofia
naturale , come Galieno , e altri medici ſo gliono ad ogn'ora millancare . Ma
chi per Dio paſſerà sé . za riſa la beſtaggine di Macrobio , il qual poco di sì
fatte coſe conoſciuto , e nõ avédo forſe mai letti i librid'Ippocra te,
follemére cómendandolo , gli attribuiſce ciò che a Dio ſolamente conviene,
dicendo: Hippocrates qui eam fallere, quam falli neſcius. Nulla poi dico
diGalieno ,il quales tutto che non ſi vegga mai pago di lodare Ippocrate , con dire
una fiata infra l'altre ,che le ſentenze dilui tutte ve riffime fieno , Ta' ti
Ittasaxegéros dogueala mutu le árugega tab iar e che la parola d'Ippocrate fi:
come la voce d'Iddio: Notip Des our nj In Toregros réžis:impertātono approva
egli poi co* fatti ciò, che dicecolle parole: imperocchèmolte,emolte fiate
apertamente dalla ſua dottrina s'allontana ; anzi tal volta dimenticando quanto
aveva detto in ſua lode , for te il proverbia, e'l biaſima, come altrove
dimoſtrato ab biamo . Mai più ſapienti,cd ayveduti tra gli antichi ſcrit tori ,
quali furono ſenza fallo i Setteggianti, e queich'eb ber più valore, e più nome
tra ’ loro ſeguaci, in pochillimo pregio tennero Ippocrate : come ſi può
agevolmente ve dere in Celio Aureliano; ed Aſclepiade chiamar ſolevala medicina
d'Ippocrate Meditazione della morte . Ma noi non badando a'cicalecci di niuno ,
diciamo primicramente , ch'egli ſi pare certamente , che Ippocra te aveſſe in
qualche grado avuto quel natural talento, che alla medicina richiedeli; e che
ſi foſse altresì cgli ſtato un' huomo infin da’primi anninello ſtudio , e
nell'eſercizio di ella continuamente involto ; e comechè non ben intelo ſcor
254 Ragionamento Quarto I ſcorgeli ſovente delle coſe , ſembra pure , ch'egli
ciò che ſi conoſceva in medicina in que'rozzi tempi, ne’libri degli antichi
letto , & veduto egli aveſſe; e chi ben vi affiserà la mente ravviſerà
nelle ſue opere affai più manifeſte le fondamenta delle varie , e diverſe ſette
della medicina, di quel , che già follemente millantando Plutarco ne ſcriſſe ,
d'avere i principj tutti delle ſchiere de'filoſofi ne' Poemi d'Omero pienamente
rinvenuti ; perchè fi dee ‘ certamente credere,o cheIppocrate impiegato tutto
nell'uſo delme dicare non aveſſe avutomaitempo d'inveſtigare , e deter minare
ciò chepiù vero gli foſſe paruto in medicina:o che pure avendo egli coſa per
coſa minutamente ſtacciata , ed abburattata, ftanco alla finc,manifeftaméte
avviſato aver ſe non eſſer più da appiccarſi ad uno , che ad un'altro fi ſtema
di medicina,per la loro egual dubbietà ;e quinci egli poi di varj , e tra effo
loro contrarj ſentimenti da' capi di diverſe ſette appreſi i ſuoi ſcritti
riempic ; e per tacer d'al tro per ciaſcun ſi ravviſa aver Ippocrate nel libro
della natura umana impreſo a parlare d'uno ſpezial fiſtema di medicina , ed'un
altro nel libro della vecchia medicina , e d'un'altro nel libro degli fpiriti,
e d'un'altro ultimamen te nel libro della dieta , comechè qucftie'confonda con
gli altri ſiſtemi da lui poco ben'inteſi , e ſpezialmente con quello della
vecchia medicina ; il quale ultimo ad alcuno ſembra , che intorno a tal materia
.e ' compoſto aveſſe ; e viene ſcioccamente da molti creduto non già ď
Ippocrate , ma di Democrito ; ma certamente fuor d'ogni ragione ; perciocchè in
altra più nobile , e più ſottil ma niera quel ſublime filoſofante compoſto
l'avrebbe . Ma che che di ciò ſia,per tornare a quelchereſtè dicevamo, pié
d'incertezze , e tcmpellante : Ippocrate , par che talvolta alla ſperienza , ed
alla ragione il tutto raſſegni; ed altre yolte ſembra, ch'egli alla ſperienza
ſolamente s'attenga ; e da ciò moſſi negli antichitempi alcuni , come narra Ga
ļieno , ed alcuni altri della noſtra età, infra'quali è il Mon tano , preſero
cagionedi piatire, fe Ippocrate in medicina da parte empirica , o da parte
razionalc veramente tenuto ha Del Sig. Lionardo di Capoa 25.5 ! + haveſſe ; ma
non poteva certamente egli,comechènon foſe ſe di molto grande intendimento
fornito, nel maneggiar tutto dila medicina non avvederſi della poca fermezza e
della molta dubbierà di quella . Ma per altro poi, quan to Ippocratemancaffe di
quell'intendimento , che a gran filoſofante , emedico , qual vien' egli
comunemente te nuto appartienfi:ſcorger fi può chiaramente in tutte le ſue
opere, e particolarmente nel libro della vecchia medicina; nel quale avendo
egli avviſato eſſer da filoſofare in medi cina in quella guiſa appunto , che
cgli quivi ſecondo i fen timenti de'più antichimaeſtri diviſa, da chiunque al
vero, e perfetto conoſciinento di quella aggiugnere intenda:ed oltre a ciò ,
che la medicina non foſſe ella ancor tutta a ' ſuoi tempi ritrovata , ma
unamenoma ſola parte di quel la, e che molto ancor ne reſtaffe per innanzi a
ſcoprire; egli nondimeno, ne molto , ne poco vi s'affutico ; anzi andò dietro
ad altri, ed altri ſiſtemi di medicina a guiſa di cieco , che séza guida alcuna
vada caſtoni, ed attenědoſi a ciò che , incontra , or per una , or per altra
ſtradì errando , ſenza mai venire a capo del ſuo cammino;la qual verità ben vé
ne dului me.Iclimo conoſciuta , e finceramente paleſata nella piſtola ( ſe
alori ſecondo i ſuoi ſentimenti in nom :) fuo , pur non la finale ) che egli
ſcrive a Deinocrito ; over apertimente dice ſeno eſſere ancora pervenuto a quel
le gno nell'arte , che diviſato ſi aveva , avvegnachè negli an ni molto , e
molto avanzato, e nell'uſo del inedicare con tinuanente logorato fi foſſe . Map
far pienamérc vedere,e toccar co muni quáto po co in filoſofia avázato fi foſſe
Ippocrate, egli ſi convégono ad uno ad uno elaininarle fondamenta de'varj ſuoi,
e co tanto infra loro diſcordanci ſiſtemi di medicina ; coinechè ciò per
avventura ſoverchio giudicar ſi potrebbe; percioc chè tali , e tante ſono le
dippocaggini di lui , e le ſcioco chezze de'ſuoi ſentimenti , che tolto per
qualunque mez zano intendimento ſenza troppa firtica avviſar li potreb bono ;
il che egli ancor conoſcendo , e reſtandovi alla fine inviluppato , e contuſo ,
in njun di quelli riſtr fermame te ſi > 256 Ragionamento Quarto te fi volle
, dottando, e tempellando ſempremai di ciaſcu no. E conciofoſſe coſa, che del
Giſtema della vecchia me dicina altrove baſtevolmente detto ſia', cominceremo
al preſenteda quello , che nel libro della dieta con lungo , e magnifico
apparecchiamento di parole egli neporge. Pri mieramente in quel libro e'nedice
ſecondo il ſentimento , ch'egli altrove rifiutato avea dique'valent'huomini da
lui contro ogni ragionechiamati ſofiſti, che chiunque a ſcri ver imprenda della
dieta all'huom pertinente , egli con venga in primain prima aver piena ,e
perfetta contezza della natura dell'huomo, e di qualiprincipj egli da prima
compoſto foſſe : e oltre a ciò ſpiar minutamente , e com prendere quali di
que'principj in lui maggiormente s'avã taggino . Sentimento quanto ſaldo ,
evero , e che non ha di pruova alcunabiſogno , altrettanto volgare , e agevole
a penſare; perchè eglimoſtra ,che Ippocrate non abbia per quello , ſe pure è
ſuo , cotanto merito appo i medici dovuto acquiſtare ; non peròdi meno lo
ſcaltrito temen do negato non gli foſſe sì bel diviſaméto ,ne vuol far pruo va
, ſo giugnendo , che ciò non fi ſappiendo , mal ſi po trebbe cibo ,che
profittevole abbia ad eſſere , ad huom ’ ragionevolmente diviſare. Indi
foggiugne convenire an cora aʼmedici la compleſſion di tutti cibi , e vivande,
che noi uſiano eſſer conoſciuta ;e ſopra ciò con lunga,ed inutil diceria grā
pezza cgli di provar s’affatica,comcchè di pruo va niuna ciò abbia punto
biſogno.E quindi il ſuo ragiona mento cominciando intorno a principj delle coſe
della natura , in sì fatta gniſa ne parla. Così l'huomo, come tutt'altri
animali di due principj so compoſti, i quali comechè diverſi ficno quanto alle
lor facultà , all'uſo nondimeno ſon concordevoli , e acconci; ciò ſono l'acqua
, e'l fuoco ; i quali amendue non meno a tutt'altre coſe , che l'uno all'altro
ſcambicvolmente ba fano ; ina ciaſcuno per fe a ſe inedefimo , ne ad altra coſa
del mondo non baſta ; e la virtù , e la forza di ciaſcun di effi è tale cheper
lo fuocoli muove ciaſcuna coſa qualun qne clia lia , c in qualunque luogo
dimori : e per l'acqua Con DelSig.Lionardo di Capoa 257 convenevolmente ella ſi
nutrica , e creſce . Ma in conti nui piati, e battaglie elliftando ſempremai fi
contraſta no , e ſi vincono ; non però sì fattamente , ch'alcun d'eſli cotanto
abbattuto , eſpoſſato ne rimanga , che niente più di vigore,o di forza non gli
avanzi; perciocchè ove il fuo co preſſo all'eſtremo dell'acqua
ſtrabocchevolmēte è per venuto , toſto il debito nutrimento gli manca; perchè
egli volgeli colà , ove nutricar ſi poſſa ; e l'acqua d'altra parte quando
all'eſtremità del fuoco è aggiunta riman priva di inovimento , e nulla vale ;
perchè vien toſto dallo ſcorre te fuoco in nutrimento cambiata . E imperciò nel
conti nuo lor tempellaméto niun di loro sì pienamente può ſo verchiar l'altro ,
che affatto l'uccida ; ma amendue vengo no in sì fatta guiſa ſcambievolmente a
ſoſtenerſi, che egli no ſolamente baſtevoli ad ogni coſa rieſcono per doverla
in qualunque modo comporre. Orchi domine cotáto ſarà di cieca paſſionc ingombro
, che non iſcorga pienamente quanto vani , e ridevoli ſieno i diviſamenti
d'Ippocrate intorno a ' ſuoi principj . Vn ſol principio , dice egli ,non baſta
; ma baſterà egli , che sì il dica ? anzi vi ſarà chi vi replichi , uno eſſer
ſufficientiſfi mo , ove le parti, che il compongono di diverfa figura fie no, e
diverſamente fieno allogato , e infra loro compoſte, e ſi muovano : perchè
poidi yarie facce le coſe tutte del mondo compor debbano ; ſenzachè ſe principj
delle coſe vuole egli , che ſieno il fuoco , e l'acqua, perchè egli non ne
ſpiega lor natura ? ne baſta in ciò ſolamente dire eller il fuoco valevole a
dare il movimento ; perciocchè ben do veva egli più avanti ragionando ſpiar la
cagione del movi mento delfuoco , e ricercarminutamente diche egliſia compoſto
, e chedifferente il faccia dall'acqua : e queſte coſe ritrovate riporle poi
per principj delle coſe , come quelle , onde tuce'altre vengono ingenerate: e
non già il fuoco , e l'acqua , che non ſon primieri nell'ingenerare . Ma mentre
egli con l'uſata ſua traſcuraggine di ciò niuna briga ſi prende , certamente
dall'acqua , e dal fuoco in quella guiſa , ch'e' ne favella , nc huomo, ne
altro animal K k niu i 258 Ragionamento Quarto 1 niuno coinpiuto , ne coſa
altra delinondo non ſe ne potrå comporre giammai ; econtraſtino pure , e ſi
meſcolino quanto ſi vogliano l'acqua , e'l fuoco tra cſſo loro , che poche coſe
infra lor diverſe riuſcir ne dovranno : licorne di due lole lettere dell’Abici
non poſſono per rimeſcola mento comporſi , fuor ſolamente , che due fillabe :
conie da A , ed L : di cui altro , che LA , ed AL non può for marfi. Macome
potran mai riſtrignerſi cotanto , eammaſlarla le particelle dell'acqua , che
formar ſe ne poſſano , ecar ne , e oſſa , e nervi, e cotant'altre fulde , e
dure parti d'a nimali , e d'altre coſe del inondo ? Ne ciò può adoperarli punto
dal fuoco ; perciocchè egli nell'acqua altro far non può, che le particelle
diquella col ſuo movimento , che chiaman dilatante , ſempre partire , e
ſceverare , licome noicontinuo incontrar veggiamo : perchè l'acqua vie più
liquida , c diſcorrente , e rada ne diviene , non che s'am maſſi, e fi
riſtrigna in coſe falde , e dure . E alla fine ell2 dal fuoco cotanto menoma ,
e faccil diventa , che ſe non , d'aria , d'un corpo all'aria ſomigliante ,
certamente ella prende forma ; ſenzachè l'acquanon può per troppo ſpa zio di
tempo ritencre il fuoco , e convien ſe calda ſi vuol mantenere, che continuo
altronde quello le venga ſom miniſtrato . Ma che'l fuoco ,come s'avviſa
Ippocrate , dall' acqua nutrito fia , e perchè l'un l'altro vincer non poſla ,
ſciocco troppo lo mi terrei , ſe perder tempo lo voleli in rifiutarlo . Vuole
oltre a ciò Ippocrate , che l'acqua fia fredda, ed umida,e'l fuoco caldo, c
ſecco : e che'l fuoco riceva dall'ac qua l'umidità , e l'acqua vicendevolmente
dal fuocolas ſecchezzaze che così eglino l'un nell'altro adoperando,le tante ,
e tanto varie forme, e generazioni di ſemi, eda nimali vengano a produrre : e
cotanto diverſe infra loro , che ne quanto all'apparenza , ne quanto alla lor
virtù hā nulla di ſomigliante ; perciocchè non iſtando giámai l'ac qua , e'l
fuoco nello ſtato medeſimo : e ſempreinai cam biandoli , e diſcorrendo , forza
è , che le coſe , che da lor 1 : fife Del Sig.Lionardodi Capoa. 259 fi ſeparano
, eli producono ,diſſimiglianti oltremodo rie ? fciano . E certamente , com'e'
diviſa, niuna coſa del mon do non muore , nc ſi fa quel che in prima non erazma
me ſcolate inſieme, e partite ſi cambiano le coſe : come chè giudichi alcuno ,
che da Pluto per accreſcimento tratto venga alla luce, e ſi crii : e altro incontrario
,che dal la luce per iſcemamento a Pluto giunto ſi diſtruggage dice poi,che nó
ha dubbio veruno , che fia più toſto da preſtar fede agli occhi , ch’alle
opinioni , o pareri degli huomini. Reca eglipoi di ciò la pruova , dicendo
animali ef ſer queſtie, quelli , e non eſſer miga poſſibile, ch'uno ani mal ſi
conſumi , non con tutti : conciolliecoſachè chi po tri mai diſtruggerlo ? ne
può ingenerarli giammai quel che non è , non avendovicofa alcuna ,che non ſia ,
onde poſſa ingenerarſi;mabé s'accreſcono tutte coſe,e li meno mano a soma
grādezza,e picciolezza in quanto egli ſi può: e quinci s'ingenera, e muore
alcuna coſa. Indi egli ſpiega in grazia del Vulgo , che lo ingenerarſi, e'l
corróperli del le coſe altro non ſia , che'l meſcolamento , e lo ſcevera mento
. Ma più avanti facendoſi dice , che lo ingenerarſi, e'lcorromperli la medeſima
coſa ſieno : e'l medeſimo pa rimente il meſcolamento , e lo ſceveramento : e
che lo i13 generarſi altro che il mefcolamento non fia : el corrom perſi , e'l
menomare altro non fit , che lo fceveramento : e che ciaſcınıa coſa ſia la
medeſima , che l'altra : e tutte lien uno ; e in queſte sì fatte coſedice egli
l'uſanza eſſer con traria alla natura ; ma ſpartamente ciaſcuna cofa , o ſia di
vina , o umana ,ſufo , e giuſo vicendevolmente, giorno, e notte , più , o meno
traſcorrere. Indi fiegue egli a di se il fuoco, e l'acqua hanno avvicinamento ;
il Sole l'hà lunghiſſimo , e breviſſimo ; di nuovo queſti , e noi qucfti ; la
luce a Giove , le tenebre a Pluto : la lu ce a Pluto , e le tenebre a Giove
avvicinanſi, ecam ' bianſi quelle quà, e quelte là;d'ogni tempo paffano quello
coſe di queſte,e queſte di quelle ; ne fi lanno quel che el leno medeſime fi
facciano , comeche faccian veduta di fa . perlo :ne ciò , che veggono,conoſcono
, ma in tutto ciò Kk 2 ogni 260 Ragionamento Quarto 1 . ogni coſa loro per
divina neceſſità avviene, così in quel le coſe , che vogliono , comein quelle ,
che non voglio no , perciocchè accozzandoſi , e partendofi quelle quà,e queſte
là , fra eſſo loro avviluppate , e confuſe , ciaſcuna il preſcritto fato
adempie. Or chi ſarà così da paſſione accięcato , e imbard.ato , che
manifeftamente non ravviſi in ciò , che rapportato nº abbiamo , effer egli una
ſtrania cervelliera , e poco men , che ſpiritata colui, che ſognandolo lo
ſcriſſe Ė non fico prende chiaro in cotanti aggiramenti, ed arzigogoli, che
Ippocrate parla aſſai di ciò ,che meno intende ? e che nő ſolo coll'oſcurità
delle parole vuol naſcădere la ſua dap pocaggine , e ignoranza ; ma anche farne
cotanti Calan drini :e tenendo lo ſciocco vulgo in parole , il qual fem premai
coſtuma di pregiare aſſai più ciò che non gli èma nifeſto , darne conmaraviglia
a divedere ch'egli delle co ſe della natura oltremodo conoſciuto ſia . Egli è
ben ve ro, che molti anche di coloro, i quali letterati ſtimanſi,há creduto , o
moſtrato di credere , che in queſti riboboli , cd enimmi d'Ippocrate , e in
altri ancora, che largamen te ſon ſeminati entro i libri tutti della dicta, e
in quel del la vecchia medicina , edell'alimento , ch'egli tutti i più naſcoſi
, e pregiati miſteri della medicina , e della filoſo fia abbia deſcritti; e non
ha guari che'l Tacchenio nel ſuo Ippocrate chimico ſi è ſtudiato con queſto
libro di darne a divedere eſſere ſtato Ippocrate un valentiſſimo chimi co . Ma
ritornando a ciò , che diciavamo, lo m'avviſo , che Ippocrate ciò trovaſſe
ſcritto in qualche libro d'alcú di quelli antichi filoſofi, i quali ſolevano
cosi vezzatamé te favellare :e che poco cgli incédédoiſentiméti di coloro, così
ſconcj, e guaſti l'abbia portati , in quella guiſa,che fileggono ; e tanto più
, chemoſtra ,ch'egli confonda in ſieme, e meſcoli due ſiſtemi di medicina, e di
filoſofia fra ello loro contrarj ; da che egli dopo aver portati que? due
primieri principj delle coſe, avvedutofi forſe, che non baſtavano , parla poi
non altrimenti , che ſtabilito aveſſe in prima , che ciaſcuna coſa in ciafcuna
coſa ſia , nel . Del Sig.Lionardodi Capoa. 201 nella maniera appunto, che ſi
accennò nella cenſura del libro della vecchia medicina; perciocchè e' dice, che
nul la ci s'ingenera di nuovo , ma sì ſi meſcolano inſieme le parti, e
compongono le coſe,e lefan grandi,ne alcuna co fa li muore al poſtutto , mà
ſparpagliandoſi, e dividendo ſi vien meno . Coſa, la quale non può intenderſi
in verű modo di ciò , ch'aveva egli in prima detto ; perciocchè ſe l'acqua ,
e'l fuoco i principj ſono dell'huomo , meſcolan doſi queſti , e accozzandoli a
formar l'huomo, non ſe ne potrà certamente altro naſcondere , che l'acqua , e'l
fuo co medeſimo,prendendo ſembianza delle parti dell’huo mo , com'e' dice ; ma
non già le parti dell'huomo, ciò ſo no carne , offa , nervi, e altri membri di
quello, eſſendo ci in prima , comechè appiattate , e naſcoſe , nel meſcola
mento dell'acqua , e del fuoco ci ſi laſcino poi di preſen te vedere ; ne
partendoſi poi l'acqua dal fuoco, e guaſtā doſi il lavorio dell'huomo non
diverrà ne la carne ,ne l'ol fo così menoma , e tritolata , che non ſi parrà ;
ma tutta la carne , e tutto l'oſſo diverrà acqua , e fuoco : e queſti che in prima
non apparivano , manifeitamente nelloro .ſcioglimento poi ſi vedranno . Si pare
adunque,ch'e ' vo glia dire eſſer nell'acqua le particelle , chc chiaman ſimi
lari, ma così menome, e ſottili, che non ſi poſſan per huom ravviſare : le
quali poi rannodate, o ſciolte dal fuo co , compongano, e guaſtino le coſe . Ma
ſe pur queſto cgli volle intendere , comepotrà mai il fuoco le particel le
dell'acqua colla ſua forza annodare, ſe il movimento è dilatativo, come dicono
, e ſempremai ſcioglie, e parte ? Convenivaadunque , che Ippocrate altre, ed
altre ragio ni ne recaſſe , le quali ciò poteſſer operare . Ma concedaſi ciò
pure a lui : non perciò l'acqua,c’lfuoco , ma le par ticelle ſimilari ſarebbon
da dir principi delle coſe. Ma cadendogli dalla memoria ciò ,che poco anzi egli
detto aveva, ricorre di nuovo all'acqua , eal fuoco : e in favellando
dell'anima dell'huomo,non mçno ſciocco ,che empio , e miſcredentc,dice quella
ancora, come tutt'altre coſe , eſfer d'acqua , e difuoco compoſta . E tante, e
tali ſono 262 Ragionamento Quarto 1 4 ſono le ſue ſcempiezze, e mellonaggini
neʼlibri della die ta , che lungo ſarebbe ad una ad una narrarle . Ma
trapaſſando all'altre ſueopere , contende il Vale riola , e con luianche ſi
conforma il Cardano , non eſſer d'Ippocrate illibro intitolato mei quoär ,
overo degli ſpia riti groiſi, o vizioſi : peralcuneſciocche , e falſe dottri ne
, che in quello s'avviſano , e altre ancora contrarie a quelle , che in altri
ſuoi volumi egli divisò , Ma fe tale oppofizione aveſſe luogo , converrebbe
certamente con dannar come non ſue l'opere tutte , che ſotto il fuo nome fi
leggono ; perchè è da dire , che poco ragionevolmente aveſſe perciò cotal libro
ilValeriola colto a lppocrate;ma Galieno , comeche in quel libro vi ſien
diviſamenti poco a' ſuoi pareri conformi, non però di meno riconoſcendo lo egli
d'Ippocrate , il reca ſovente in concio di qualche ſuo ſentimento . Sembra
certamente il libro miglior per avventura di tutt'altri,chc intorno a
ſomigliante materia aveſſe mai compoſto l'autore ; imperciocchè ha egli ordi ne
, e qualche forte di chiarezza : e moſtra fovente , che l'autore intenda bene
ciò, che ſi dica . Vuole egli in eſſo darne a divedere , che tutti mali , che
n'avvenge:10 , da una ſola cagione ſi dirivino ; comeche per li diverſi luo
ghidelcorpo , ove n'aggravano, diſſomiglianti affai ne ſembrino . Tutti corpi ,
eglidice , così dell'Iruomo,come d'altri animali,del cibo ,dello fpirito , edel
bere ſi loſten tano . Gli ſpiriti, che ſono entro il corpo , vengono da
Ippocrate chiamati quoca: e quello, che è fuora del cor po aveõua cioè : a dire
, aria . L'aria fecondo Ippocrate ha grandiſſima parte fra le coſe , che
accaſcano alcorpo : ed è donna , e lignora del tutto . Indi egli lungamente
fopra quella ragionando , dice delle fue gran virtù , ed opere , Itabilendo in
prima qualche ſentenza ; la quale preſe 2 gabbo dal Valeriola n'è moſtra a' di
noſtri per ve re dalle maravigliore , c fommamente comincndevoli of fervazioni
de’noftri moderni . Dice egli , che tutto ciò she fra’l Cielo , ela terra
s'interponeſia , da ſpirito ingôn bro : e che lo ſpirito cagioni il verno , e
la ſtate : e che'l cor DelSig. Lionardo di Capoa 263 1 corſo della Luna , e
delle Stelle per lo īpirito facciali : e che lo ſpirito alimenti ilfuoco ,
intanto che ſenza quello non poſſa il fuoco più vivere : c che l'aria ſottil
perpe tua purimente perpetuo mantenga il corſo del Sole . E oltre a ciò avviſa
Ippocrate ritrovarſi achcin mare lo ſpio rico ; perciocchè ſe quelnon vi foſſe
, dice egli , che i pe ſci non potrebbono in niun modo vivere ; concioſliecola
chè non participerebbono dello ſpirito dell'acqua traen dolo . Aggiugne di
vantaggio effer la terra fondamento dell'aria,c queſta veicolo della terra: ne
aver coſa niuna al mondo vuota di quella : e quella ſolamente eſſer cagione a
noi della vita , e diciaſcuna malattia , che n'avviene ; intanto che avendone
meno infra bricve ſpazio di tempo ciaſcun ſi muore ; perciocchè ben può
ciaſcuno ſenza ci bo , o beveraggio alcuno viver qualche giorno: ma non già
ſenza ſpirito ; e ben poſſiamo poſando ceſar di tutte noſtre operazioni ,
comechè menome, e brievi elle ſieno; ma non già del reſpirarc . E quinci egli
vuol trar conſe guenza , eſſer molto ragionevole, che ficome la morte , così
anche le malattie tutte dallo ſpirito n'avvengano , e che quello calor compreſo
, e putrefatto da altre cagioni diſcorrendone per lo corpo n'offenda . Quindi
egli co minciando dalle febbri và diviſando , ficome ciaſcun ma le dallo
ſpirito ſi formi : e tutti minutamente gli anno vera . Ma un sì fatto liſteina
, perchè ingegnoſo fia , e conte gna in se qualche coſa di ragionevole, non
però di meno , generalmente ragionando , falſo affatto , e inveriſimiles eſſer
fi ſcorge; concioſliecoſachè quantunque grande fia il biſogno , chedell'aria
abbiamo, non è perciò quel a ſo la , che ne mantiene , e ne nutrica : ma
l'acqua ancora al noſtro vivere è neceſſaria , e altre molte coſe , così den
tro , come fuora del corpo ; le quali , o mancando , oſo verchiando , o
alterandoſi, non men dell'aria medeſima cſfer poſſono a noi cagion di malattie
. Nemeno al preſente è da tacere , come cotal ſiſtema di medicina s'appoggi
a'divilainenti , i quali non cheda Ippo 264 Ragionamento Quarto Ippocrate
foſſer provati , anzi dalvero talora manifeſta mente appajon lontani . E
comechèalcuni di loro ne sém brino aver qualche ſembianza divero ; non però di
meno fon da lui con parole non propie , e ambigue a bello ſtu dio inviluppati ,
e adombrati ; acciocchè aggiugnendo noi con malagevolezza, e fatica a
ritrovarne il coltrutto , da quelli poi prendeſimo argomento di giudicar
talijan zi maggiori gli altri ſuoi ſentimenti ſciocchi, e vani , com poſtida
lui per uccellarne maggiormente . Ma ſe lo ſpirito,ſecondochèIppocrate così
liberamen te afferma , è colui , che ſignoreggia , e governa ciaſcuna coſa del
mondo , e che la vita , e la morte ne porge : per chènon iſpiega egli poi ,
ficome certamente fargli con veniva , come, e con quali artificj tante
maraviglie quel lo adoperi ? e perchènon ragiona della natura di quello , e
diquell'altre ſoſtanze , che , come e' dice , imbrattan dolo, e inſuccidandolo
cotanto a noinocevole , e peſti lenzioſo il rendono ? E per avventura gran
ſenno egli fe a non addoſſarſi cotanta briga; perchè è da dire , che ciò egli
non ſappiendo, non potrà certamente mai la natura , e la generazion delle
malattie per sì fatta ſtrada incoglie re ; e ſeguentemente gli argomenti ancora
, come a quel le da proveder ſia non ſaprà. E quinci avvien poi , che ne men di
que’mali, cheper compreſſion dell'aria vera mente n'avvengono, no mai egli coſa
alcuna di ſaldo rap porta; perciocchè non ſappiendo egli la natura dique'cor
picciuoli,da cui compreſso lo ſpirito quella generazion di febbre cagiona , la
quale , com'eglidice, è tutta comune, e appellati peſte : ſenza dubbio non giugnerà
egli giam mai a penetrare gli effetti tutti , che da quelle diverſame te
provengono, e le varie maniere , colle quali ciaſcuno animale offendono. E ſe
egli non cura d'inveſtigare altre si quali ſoſtanze ſieno quelle, che
s'accompagnano collo ſpirito allor che racchiuſo entro noi ne muove la colica
,o altri ſomiglianti mali , come ne potrà egli mai compiuta mente ragionare : o
donde trarrà egli gli argomenti da porvi ragionevol conſiglio ? Ma 1 Del Sig.
Lionardo diCapoa 205 Ma ſe le ſoſtanze , che collo ſpirito -meſcolanſi , ſon ca
gion di cotante malattie , come potralli eglia buona ragić dire , che lo
ſpirito medeſimo, enon più toſto quelle ciò adoperino ? perchè è da dire , che
ſtabilendo Ippocrate it ſuo ſiſtemà, alla prima v'abbia dato di becco , e vi
ſia infe liceinente fdrucciolato , dicendo eſſer l'aria cagion del. le noſtre
malattie , e non più toſto le varie , e diverſe for ſtanze , che per quella
diſcorrono , e collaria inſieme en trano ne'noſtri corpi: quali ſono molti
ſemi, e animaletti, chę ſovente fi ravviſano , così nelſangue , come nell'altre
parti liquidedi noie, le rendono mal'acconcc ad adem piere i loro uficj: e
fermandoſi talora o nel cuore , o nell? altre parti ſalde del noſtro corpo in
molte, e molte manie re le moleſtano ; ſenzachè ſon nell'aria varie , e varieme
nomiſſime altre ſuſtáze da'vegetali, e da’ıninerali corpia quella mandate :
alcune delle quali, quando di ſoverchio vi diſcorrono , fannofi anoi per opera
dell'odorato ſentirez e l'avvedutiſſimo Elmonte intorno a ciò narra chente , es
quali ritrovate egli n'aveſſe una volta in una tela ſtata al quanto appiccata
al merlo d'un'alta torre ; perchè egli for: te fi maraviglia,come noi che
continuo le beviamo, lunga mente viver poſſiamo ſenza nocimento alcuno; ma non
aya visò egli eſſer ancora nell'aria molte , e molt'altre ſoſtanze a noi
giovevoli,le quali certamentepoſſona'dannidi quel le riparare . Ora in queſte,e
in ſomigliati oſſervazioni cõveniva, che il buono Ippocrare tutto il ſuo ſtudio
impiegafle,ricercan do diligentemente le vere cagioni della peſtilenza, accioc
che prender vi dovelle convenevol riparo : e non fare il pancacciere con lunghe
dicerie , e vane , e inutili fraſche tenendone a bada in quel ſuo fainoſiſſimo
libretto,ove egli lungamente ragiona degli ſpiriti. Ma lalciãdo alpreséte ciò
da parte ſtare,quáto Ippocra te manchevole, e difettoſo ſia ſtato in queſto ſuo
nuovo ſi ſtema di medicina, ſi può agevolmente conoſcerc in ciò , che cgli
della febbre và diviſando . Dice egli, che allor che diſoverchio empieli il
corpo di cibi, ingencranfi in 1. 1 130i 266 :: Ragionamento Quarto noi grandi
ventolit , le quali non potendoper lo ventre di ſotto uſcire per ritrovarlo
chiuſo , ruggiando per ic bu della diſcorrono all'altre parti del corpo ,
maſlimamente a quelle, ove ſerbaſi il langue , e sì l'infreddano , e'l fanno
intriſire . Or come domine potrà mai dentro de' ſuoi vaſi infreddare il săgue
plo ſpirito che è nelle viſcere ? ma egli ingannofi forſe Ippocrate avviſando
il ſanguc tratto dalle . vene, il qual per l'aria di fuora divicn freddo . Ma
che che ſia di ciò, davcva ben egliconſiderare non potcrne in mo do alcuno
raffreddare il ſangue dentro alle vene l'aria , in che di verno crudo , e
rabbruzzata dalle nevi , comeche continuo ne circondi, e continuo da noi fi reſpiri.
Erra ancora grandemente Ippocrate in dicendo , che'l ſangue dall'orrore , e dal
treinore fopravegnenté intimo rito ſi rifugga alle parti più calde del corpo :
ove poi ſi ri ſcaldi, e ſiraccenda per maniera tale, che anche l'aria me
delima, che prima infreddato l'aveva,nc divenga calda; e sì amendue
ftraboccheyolmente affocati riſcaldino cutto il corpo, e'l faccia febbricoſo .
E certaméte in ciò egli ragio nando, molto ſconciamente s'ingāna;perciocchè,le,
come egli confeffa , il caldo tutto al corpo dal fangue fi cagio. na,come potrà
mai infreddato il ſangue niuna parte del corpo rimaner calda ; anzi treinerà
egli per tutto, e diver rà ghiaccio , come cantò l'antichiſſimo fiorentin
Poeta. Qual'è colui, c'ha sì preſſo il riprezzo De la quartana , c'ba già
l'unghiaſmarte, E triema tutto purguardando il rezzo . Ma, ſicome egli s'avviſa
, rimangano pur calde l'altre parti del corpo , nedall'infreddardel ſangue fi
mortifichi no ; non mai tanto però faran vive , e affocate , che vale voli
ſiano a raccender l'agghiacciato ſangue, e ſvegliare in quello un sì
rabbioſocalore,qual ſenza fallo è quel del la febbre . Ma troppo nojolo lo nc
verrei , ſe tutti minutamente raccontar voleſſi gli errori d'Ippocrate intorno
a sì fatto ſia ſtema ; perchè rimanendomi al preſente di più ragionarne
trapaſſerò a quell'altro ſuo ſiſtema di medicina cotanto ICITU 1 1 1 Del Sig.
Lionardodi Capo a. 287 eenuto in pregio , e commendaco dal luo chiòfator Galie
no , che nulla più : di cui cotanti filoſofi, e medici in ragioz nando , e in
iſcrivendo ſi ſon valuti , e tuttavia li vaglionoj che ſembra omai
ſconvenevoliſſimo , e indicibil fallo il mu* farvi contro , non che
manifeſtamente abburattarlo . E queſto ſi è il diviſamento , ch'e'fa nel libro
della natura umana ; il qual libro non può recarſi ir dubbio,che-d'Ip pocrate
verainente non ſia , in ciò che , come faggiamente avviſa , e argomenta Gilieno
della teſtinonianza di quel lo ſerviſſi più volte Platonc ; e ben può per
quello chiun que n’abbia talento agevolmentecomprendere ,fin’a quá to
d'Ippocrate ſi ſtendeſſe l'intendimenco , ela valoria, co sì nell'inveſtigar le
coſe della natura, come in altre, ed ala tre coſe alla medicina pertinenti ; e
coincchè per Galien ſi contenda eſſere ſtato verannénre Ippocrate il pri:11 )
ittle tore , e inventore d'un sì fatto ſiſtemi; noa però dimeno per
teſtimonianza delmedeſimo Ippocratc apertimento ciò eſſer fa ſo s'avviſa ;
concioſliecoſachè rapportandolo egli nel libro della vecchia medicina
manifeſtamente na ragiona , come di dottrina da altri già prima di lui ricrova
ta , einſegnata;anzi nel medeſimo libro della natura un la 112 agevolmente per
ciaſcun ſi può comprendere , che Ip pocratc,non come di ſuo propio diviſamento
ne ragionin . Miche che fadi ciò tralaſciandolo digiudicar noi al pre ſente ,
darem cominciamento dal titolo dellibro così an pio , e inagnifico , che nulla
più ; e certamente cilcuno abbattédoſi nella prima faccia nel libro deci puoi
cvJpurs, ſcaglierebbeſi tolto a leggerlo, e a volerne imprender con ingordigia
tutto ciò , ch'e defidera : giudicando , ch'un si valentemedico , e
filosofantc, qual Ippocrate comuneiné te ſtimaſi , verainente trattata l'aveſic
, licomealla propo fta materia ſi conveniva : cche,comegià Marco Tullio del
divino Democrito , il quale nel cominciuniento d’un ſuo libro ſcritto aveir ,
b.ec loquarde univerſis , ebbe a dire nit excipit de quo non profiteatur , così
d'aſpettar foile d'Ippo crate, chenulla già quivi tralaſciato aveſſe di quanto
alla natura umana s'appartiene. Ma tolto egli del.no avviſo LI 2 folier 268
Ragionamento Quarto [ chernixo , e beffato rimarrebbeli,vedendo in quante brico
vi parole fuggendo Ippocrate traſcorra tolto una così ma lagevole , e così
vaſta matcria ; e ciò , che è affatto impor tevole in lui, che cotanto nella
brevità dilettoſli , egli è il libro più ricco aſſai di parole , che dicoſe ;
anzi di poco falla , che tutto parole egli non ſia : e quelle pochiſſime coſe ,
che vi ſono , così ſconce, e ſenza ragione ſi portanto , opure con cosi vani,e
fanciulleſchi ſofiſmiintralciate, che nulla di ſaldo vi ſi può per huom giammai
apprendere. Egli dice primieramente Ippocrate con lungo aggira mento di ciarlc
, che alcuni giudicavano eſſer l'huomo ſo lamente una coſa ; ma , che coſtoro
tuttimal certainente comprendevan quello , di cui favelſavano, e che perciò di
verfâmente l'andavano ſpiegando ; concioſlīccofachè quá tunque ciaſcun di loro
concordevolmente diceffe, tutte co ſe , che ci ſono eſſer una , e queſta
medeſima effer una a tutte; non però di meno diſcordavā poi oltremodo inſieme in
dando a quella nome ; perciocchè altri dicevano eſſer aria , altri fuoco ,
altri acqua , e altri terra . Soggiugne egli poi , che ciafcun di coſtoro
recava teſtimonianze , e ſe gni , ma di niuna lieva, in concio del fuo
ſentimento; e che tenendo tutti la medeſima opinione , e contradiandoſi nel le
parole , davan manifeſtamente a divedere, che niun di Loro ſapea veramente la
coſa ; e che ciò parimente ſi ſcor geva ili vedendo tutti coſtoro nel lor
continuo piacire, che tratto tratto facevano , non mai per tre fiare continové
riu fcir dalla battaglia i medelimi: maoruno, or altro eſfer il vincitore ,
ſecondamente che ben parlante egliera , edat popolo tenuto in pregio .
Conchiude alla fine Ippocrate , chuom , che di coſe vere, e da ſe ben
conoſciute faceſſe pa role , ſempremai dalle conteſe con vittoria uſcirebbe ; o
che ſembra a lui , che coſtoro piatiſfer con parole più per iſocmypiczzi , che
per altro ; perciocchè tutti alla per fine convenivano infra loro nel
ſentimento di Mcliffo . Ma Galicno chiofando queſto luogo d'Ippocrate, con '
gran pompa di parole forte fi maraviglia , una sì fciocca credenza eller caduta
nell'aniino di que'filoſofanti, i qua live Del Sig .Lionardodi Capoa: 269 Si
venivano in sì fatta guiſa a coglier via la contemplazioni delle coſc naturali,
mindando a fondo la vera filoſofia. Ma ftiaſene pur con pace Galieno : non
ſembra per Dio , che con sì fatto cominciamento prometter ne voglia Ippocra te
un trattato beir lungo della materias ch'egli imprender a ragionare , e quale
appunto quella richiede ? mapoinon trapaſſando oltre a divifarne, par che ne
vogliamanifeſta mente uccellare , laſciandone affatto digiu ni della mate ria ,
ne inſegnandone coſa alcuna di lieva . Ma ſi per doni queſto pure a Ippocrate :
qual ſi foſſe veramente las ſentenza di que’valent’huoinini, Io nonmidarò al
prelen te curz niuna d'inveſtigare ; tanto accennerò , che eglino tutti una
medeſima coſa dicevano : e cheniun di loro giu dicava , che o l'acqua , o la
terra , o l'arir , o'l fuoco foſſe principio delle coſe dell'Vniverſo :ne di
ciò mai fu conteſa infra loro , comeſcioccamente giudicano Ippocrate, e Ga
licno ; ma ſolainente eglito piativano, e andavan confide rando di qual faccia
veſtiſſe l'univerſo da prima , allor,che fu fatto ilmondo ,ſe d’acqua , o di
fuoco , o d'aria , o di terra . Ne laſcerò d'accennare quanto vana', e ridevole
fia la ragioneper Ippocrate recata ; concioſſiccofachè chiſa rà colui, che
manifeſtamente non ſappia,che nel piatir de? letterati huomini , maſſimamente
appreſſo il vulgo , non mai vincer foglia colui ' , che ſa ben la coſa, e che
dice vero : ma colui, che meglio con vaghe' , e ben ordinate dicerie Ja fa
colorare : eche il più delle volte nelle conreſe ne ha ſempre la miglior parte
l'ignorante , e'l ſofiſta ,come ilme deſimo Ippocrate ancor rafferma ? Macome
que’valent" huomini porevan mai eſſer d'accordo colla ſentēza di Me liffo
, il qualnon diterminò mai il principio delle coſe nx turali , fe eglino , comc
Ippocrate racconta , il ditermina vino Ma che che ſia di ciò , Io per me immagino,
che te neſſer veramente eglino la ſentenza di Meliſſo , come Ip pocrate dice' ;
ma ſe ciò era , a torto certamente da lui fur biaſimati : dicendo egli, che
coloro determinato aveſſero il principio delle coſc qualli foſſe , con
chiamarlo o arias , o acqua ,o fuoco , o terra ; ſe pure non vogliam dire , che
-- Ip 270 Ragionamento Quarta Ippocrate veramente non intendeſſe ciò che
que’valent huomini fi diceſfero , it che fe ben li conſidera , il fue vellare ,
che in tutto il ſuo libro ne fa Ippocrate, ſembra nel vero più ragionevole .
Fin qui e' fi pare , cheIppocra te abbia de'filoſofanci ſoli favellato : ora
ſe'n viene egli a’ medici , e dice , che alcuni diloro affermavano non alira
cola , che ſangue eſſer l'huomo; altri eller quello ſolamen tecollera : ed
altri ſolamente flemına ; perchè dice egli che coſtoro imitavaro que’hiloſofi
dalui in prima raccon tati , tenendo uno eſſere il principio dell'huomo, e chia
mandolo col nome, che più lor veniva a grado, o di colle ra , o diflemma, o di
ſangue , e che quello dalcaldo,e dal freddo a cambiar fi venga in ſembiante ,
ed in virtù , e di venga, e amaro , e dolce , e bianco e nera , cd
ogn'altra.com fa . Soggiugne indiappreſſo Ippocrate , che molti, emol ti così
dicevano , e che altri , ed altri dicevan parimente coſe da queſto non guari
lontane. Or quinci ſi vede chia ramente chenei ,cqualiſi foſféro anche ne tempi
d'Ippa crate infraʼmedici le conteſe ; perchèmoſtra veramente , che da ſe
ſteffa la medicina altro non ſia , ch'un fertiliffi mo campo , che litigj,piati,
e diſcordio ad ogn'ora pro duca . Ma riprova Ippocrate si fatte opinioni con
quell'argo mcnto cotanto per Galienu ammirato , e celebrato , che nulla più :
ſe una coſa fola , dice egli , l'huomo ſi foſſe non verrebbe certaméte eglimzi
a dolerſi:imperchè nó aureb be egli donde venir gli potefíe il dolore , per
eſſer ogni coſa una ſola coſa ; e fe pure l'huom mai li doleffe , convera rebbe
ſenza fallo , che uno ſi forre il rimedio , coʻl quale egli guarir doveſſe ; ma
in farti va altrimenti la biſogna. Micomechè nella prima vista ogn’un ch’abbia
punto d' intendimento avveder ſi poſa della vanità di sì fatto argn mento ,
pure ne farem noi qualche parola'; ma veggiani prima ſe contro coloro , a'quali
par propiamente indiriz zato , coſa alcuna egli conchiuda. lo permeavviſo , che
que'buoni medici nulla curar fi dovettero mai di sì tutte ciuffole , ed anfanie
, imperciocchè eglino tenevano , che 1 1 1 o '! 10 Del Sig.Lionardo di Capoa.
271 o'l fangue, o la collera , o la flemma ſia quelprincipio prof fimo, cioè
donde iminediatamente s’ingeneri l'huomo:ma che ciaſcun di eſli venga
poicompoſto da quell'altro pri mo principio , del quale l'altre coſe del mondo
tutto fatte ſono; e che queſto foſſe ſtato lor ſentimento ſcorger fi puo te
chiaramente dalle parole , chc Ippocrate medeſimo di lor riferiſce allor
ch'e'dice , che eſi volevano , che o dal ſangue , o dalla collera , o dalla
flemma ſi-cagioni l'amaro, e'l dolce , e tutte altre coſe , che nell'huomo li
ravviſano ; or comenon può agevolmente l'huomo,tutto che di ſana gue ſolo
formato e' li foffe , ayer cagione di dolore dall'a . maro , dal falſo ,
dall'acetoſo je da altre , e altre coſe, co mechè eſſe dal ſoloſangue ſi
foſſero ingenerate ?ora a que. fte tante cagioni de’dolori non fa egli
meſtieri, che con più d'uno rimedio li ripari : e ſe in ſentenza di
que'valent'huo mini nelle vene altro non è , ſalvo che o ſolo ſangue , o ſo la
flemma, o ſola collera : potrannocertamente rondime no nelle vene ſteſſe , o
dal fangue ſolo , o pur dalla flem ma ; o dalla collera . , ed oltre a ciò
nello ſtomaco da'cibi molte, e molte coſe parimente di diverſa natura
,contrarie ; e moleſte all'huomoingenerarfi , che potranno ſenza fallo elfer
cagioni di dolori , e di varie ; e varie generazioni di malattie, le quali
certamente con altrettante medicine di fcacciar ſi convengono . Egli doveva
adunque provar Ippocrate primicramentes che dal ſolo ſangue , o dalla ſola
flemma, o dalla collera , fola,nientealtro ,che o ſangue, o flemma , o collera
inge: nerar fi poffa; il chein niun modo fa egli , e ne men fare veramente il
potea : concioffiecofachè favellando ſecondo i medeſimi ſentimenti d'Ippocrate
aurebbon potuto dire que'medici , il ſangue, la flemma,e la collerà eſſer non
ſemplici, ma compoſte coſe di que'quattro corpi , che Ip pocrate vuole , che
ſiano i primi principj; e come tali ben poter eglino in varie , e varie forme
cambiarſi; ed in vero fe le varie , e varie ſoſtanze onde l'huom ſi nutrica ,
come dovetter fenza fallo conoſcer que'valent'huomini, non ſo : no di ſangue formate
, e d'eſſe nondimeno s'ingenera il să gue r . 272 RagionamentoQuarto gue,
convien neceffariamente dire , che varie , e varic coſe che ne meno han
ſomiglianza niuna col ſangue , fi pof fan dal ſangue parimente ingenerare ; e
cosi ſomigliante mente della collcra , e dellaflemma aurebbon potuto co loro
filoſofare , Ma aurebbe poi per avventura riſpoſto un di que'filo ſofi, che
Ippocrate s'avviſa parimente colla ſua ragione di riprovare , chel'aria ſola
col riſtrignerſi , e coll'allargarſi , e con altri , e altri movimenti delle
ſue particelle valevole fi renda a ingenerare , e ſangue , e carne, e oſſa , e
nervi, c altre , e altre parti cosìſalde , come diſcorrenti dell'huo mo, e che
ſimiglianteméte coʻmedefimi ſuoi vari moviine ti cagionar poſſa mole’altre generazioni
di varie altre lo ftanze, onde ricever poi debba l'huomo non una, ma più, e più
cagioni di dolori , e di malattie , alle quali faccian , meſtiericotantialtri
medicamenti per ſuperarle. Ma cer tamente Meliſso , e gli altri buoni
filofofanti, i quali fole lemente ſi fa a credereGalieno ch'abbia Ippocrate
vinti, direbbono , che non ſolo veramente uno ſia il principio.di tutte coſe ,
cioè il corpo : ma che ſe uno il principio non foſſe, non ci ſarebbe ne dolore
, ne malattia , ne rimedio alcuno giammai , e che a fare diverſità di inali, e
di rime dj altro non vi ſirichiegga, che l'eſſer quell'uno corpo di verſamente
ſtritolato , e partito : lecui ſottiliflime particel le di tante, e sì varie
figure compoſte, ſolamente in ciò dif feriſcano . Mimaraviglio poi oltremodo di
Galieno , il qualnon s'avvede,ciò che impugna Ippocrate eſſer crede za
d'Ippocrate medeſimo ; ma ciò che nedee recar vcra mente più maraviglia , ſi è
ch ' una tal opinione dallo ſteſ ſo Galieno vien tenuta in tutte le ſue opere,
e particolar méte nelle chioſe di queſto medeſimo libro.Ma Ippocrate dopo aver
recata la ſúdetta ragione folleméte dice,checo lui ilquale porta opinione , che
l'buomo ſia ſolo ſangue , debba mo& rar , che'l ſangue non muti ſpezie, ne
ſi cábj in varie , e varie maniere,c allegnare almeno un'ora ſola dell' anno ,
o qualche età dell' huomo , nella quale non altro che ſangue in eſſo lui fi
ravviſi, e ſimilmente dice egli degli altri . Del Sig.Lionardo di Capoa 273
aleri . Ma perdonifi ad Ippocrate il non oſſervar lui l'ordi nato diviſamento
nel favellare , avendolo egli ſempremai per coſtume : Io l'addimando in prima ,
perchè ſecondo lui la collera , il ſangue, e la flemma, e la malinconia nel
comporre varie , e varie parti dell'huomo, poterono sì be no cambiar natura : e
cambiar non potralla ciaſcuna di lo ro ſeparatamente ? e s'egli riſpondeſſe ,
che non già col cambiar natura , macol ſolo meſcolamento quelle parti formarono
, lo gli ritorno a dire, che non mai col ſolo meſcolamento quattro corpi a far
mai valevoli ſaranno tá ta , c tanta varietà dicoſe ; e addurrei per eſemplo ,
che quattro lettere dell'alfabeto col ſolo meſcolarſi pochiſſi me ſillabe
arrivano a formare . Ma ſe que’mcdici diceſſe ro eſser un di que'loro umori
compoſto de quattro corpi d'Ippocrate , come potrebbe mai Ippocrate quelli impu
gnare ? ciò, che promette poi Ippocrate di fiar vedere, che quelle coſe , delle
quali egli compone l'huomo ſi trovino mai ſempre nell'huomo medeſimo : Io per
me non ſo , co me ſarà egli ciò mai per moſtrare ? Contende parimento Ippocrate
non poterſi farla generazione da un ſolo princi pio; recando perragione , che
un ſolo principio non poſsa meſcolarſi . Ma chiaramente ſi dimoſtra ciò che in
pri ma lo avviſai, Ippocrate non miga comprenderei veri se timenti di que'filoſofi;
concioffiecoſachè un principio , il quale abbia particelle diverſe tra di loro
per figura , per grandezza , e per movimento , con meſcolarſi clieno infra loro
in varie, e varic guiſe,valevole egli è certaméte ad in gencrar tutte coſe .
Per far pruova poi maggiormente della ſua ragione ſog giugne Ippocrate : ſe ne
meno il caldo , il freddo ,e l'umi do , e'l ſecco ,fe temperati eglino non ſono
,non baſtano a far la generazione , come aurà mai vigor di farla un ſol
principio : Io per me non ſo , che ſorte d'argomentar ſi ſia queſta d'Ippocrate
; doveva certamente egli , il che mai no adempie , provare in prima con
efficaci ragioni, che di quclle quattro coſe il tutto s’ingencri ; e poi
addurle per elemplo. E nel certo egli non ha dubbio, che a lui avreb M m bon
274 Ragionamento Quarto 1 · bon riſpoſto quei filoſofi , che clleno , comeche
ten perate ſi fingano , non poſsano in niun modo ciò fare, un principio ſolo a
tanto bene valevol' eſsere : ficomenes terra ,ne acqua,ne pietra, ne aria, ne
altre, e altre coſe mol te poſsono formare una ſpada, un'elmo,una corazza , e
tanti , e tanti iſtrumenti da guerra, che'l ſolo ferro può fa re : imperocchè
il ferro ſolo è quello, il quale ricever puo te le diſpoſizioni neceſsarie a
formargli, non altrimenti il corpo , il quale in particelle , o ſia già diviſo
, o divider ſi poſsa , le quali ricever poſsano parimente varie , e varie
grandezze , fito ,figure , eordine, può ogni coſa produrre , ne que quattro
corpi d'Ippocratenel modo, che egli va filoſofando , potranno mai ne anco un
menomiſlimo gra nello di ſenape giammai ingcnerare . Ma non altrimenti , che
s'egliavuta già aveſse la vitto ria , faccendo gran gallorìa trionfa il buono
Ippocrate di quegli antichi maeſtri, e dando a lor la ſentenzia finale co tro ,
determina temerariamente la quiſtione con dire , che eſſendo la natura
dell'huomo , e dell'altre coſe chente , e quale egli ha diviſato , non uno ſia
l'huomo: ma che ogn' una delle coſe , che lo ingenerano abbia una cal virtù,
che al corpo ella ha dato . Magodaſi pure Ippocrate della ſua vittoria , e ne
riceva l'applauſo da Galieno , il quale non per altro certamente fa ſembiante
di farne cotanta ſtima , ſe non ſe per acquiſtar fede alle ſue opinioni ; qual
coſtu maegli parimente negli altri autori tener ſempremai ſcor geſi , delle
teſtimonianze de'quali ſe mai egli a ſuo pro fi vale commendagli , che nulla
più ; ma ove poi cofa inſe gnino alle ſue opinioni contraria , non ha villania
, che ſi diceſſe mai a triſto huomo , che lornon dica . Ma ripi gliando il
noſtro diſcorſo , vuol egli intendere certamente per le teſtè menzionate
parole, che que' quattro ſuoi corpi ritengano il calore , la fredezza , la
ſiccità , e l'umidità nel corpo per loro ingenerato . Ma cotante altre , che
nell’ huomo ravviſanſı donde cglino naſcono ? Dirà egli dall' accénate quattro
qualità;ma ſe altri ciò negaſſe,come glie le neghiamo noi , come il proverebbe
mai? Ma così ſcon ciaméte diſcorre Ippocrate p no aver voluto mai volger 1 .
ſiad Del Sig.Lionardo di Capoa. 275 fi ad inveſtigar la natura di quelle ſue
quattro qualità ; il che certamente al filoſofo, e al medico far ſi
conviene,mal. Gimamente ove imprenda a trattare della natura dell'huo mo : e
dall'aver ciò traſandato Ippocrate , avvien , ch'egli forte aggirandoſi
immagini potere il leggiero , e diſcorré te caldo quelle coſe operare ,che a
ſpiritual ſoſtanza ſola mente convengono. Ma laſciam noi a miglior huopo il
diviſar di ſomigliante biſogna: ſoggiugne appreſſo Ippo cratc con lungo giro
d'ozioſe ciance , che in diſtruggendo fi l'umancompoſto , tutti e quattro i già
detti corpi ſce verandoſi, alla lor primiera natura ritornino ; e ciò vuoľ
anch'egli,chenel disfacimento di qualunque altra coſawa avvegna . Ma le egli
ficomea caſo , in fretta , e ſenza niu no avviſo ſomiglianti coſe afferma, così
foſſe andato a poco a poco con ſagace diſcernimento diſaminandole , lo porto
opinione, che in cotanti errori non ſi ſarebbe lalciaa to così agevolmente
traſcorrere; perciocchè oltre alla Chi mica arte,altro ancora ne rende ſicuri ,
che quelle ſoſtanze in cui nel lor disfacimento ſi riſolvono i corpi,ſiano non
, miga ſemplici, ficomee'vuole , ma compoſte. Paffa più oltre Ippocrate
coll'impreſo ordine a dir, che nel corpo umano viſia il Sangue , la Flemma, la
Collera gialla, enera,iquali umori ove ſiano con quell'ordinamen to , che ſi
convenga, l’huom viva in ſanità :mafe'l contrario avvenga e' toſto ammali .
S'affatica egli con lunghe dice ric di moſtrar , come poffan que' quattro umori
tutte le malattie ingenerare :maciò fa egli troppo groſſamente , e generalmente
ne'dubbj maggiori tacitamente paſſandoſe ne ; e dopo queſto torna di bel nuovo
alla canzone dell' uccellino, che ſian quattro gl'umori de'corpi degli anima li
, di natura , e di nome fra effo lor differenti ; la qual di verſità immagina egli
di ſtabilire, e poter ſaggiainente ar. gomentare dalla diverſità de'colori, e
dalla diffomiglian za del tatto , che ſecondo lui vi s'avviſa . Ma s'aveſſc
egli mai poſto mente a cotante coſe ; ch'avendo un medeſimo colore fon di
natura poi diverſiſſime, e al contrario ad al tre , ch'avendo una medeſima
natura han colori aſſai di M m - 2 ver 276 Ragionamento Quarto 1 verſi , ſicome
le Fraghe , le Ciriegie , le Azzaruole , le Corniuole , eľVve , e i Fichi ,
certamente , del ſuo ab baglio ſi ſarebbe avveduto . E più avanti dovea
fomiglia temente avviſare , che v’abbian parecchi, e parecchj altre coſe, che
per poco artificio variando grandeméte nel colo rela medelima natura pur
ſerbano;licome della Cera, dell' Ambra gialla,dell'Inceſo,delCorallo,del corno
delCervio avvenire a giornate ſperimentiamo;evidétiſlimo argomen to , che i
vari colori non ſian buoni, e fedeli teſtimonjdel la varietà della natura delle
coſe . Ne la ragione il con trario ne addita ; imperocchè la varietà de'colori,
non al tronde avviene falvo che dal variamento del ſito , o della diſpoſizione
della ſuperficie de'corpi, la qual diverſamen te i luminoſi raggi riflette. Ma
che domine cadde cgli in mente ad Ippocrate allor che diſſe , che dalla varietà
del toccamento , poſſano iva rjumori diſcernergli E quale è mai quel divario,
che mer cè della mano poſſa avviſarfi , ſe tutti egualmente caldi fi
ſperimentano , tutti egualmente nelle vene , e nell'artcrie so diſcorréti. E da
cotali lor vaſi uſciti eglino p la più par te e'li rapprendono , e in una maſſa
s’uniſcono , nella quale, poco , oniun divario per lo toccamento può ſcorgerſi
E ſe più avanti facendociconſidereremo l'altra ragion pre ſa dalla varictà del
calore , dell'umidità , della ſiccità , no aurem di forza a confeffar , ch'ella
più frivola aſsai, eri devol fia delle prime , e che moſtri ben’appieno quanto
egli sbalcſtrato in filoſofando Ippocrate vanamente s'ag giri?
concioſiecofachè, ſe negli umori non v'ha ficcità , come potrebbeſi dalla
ficcità la lor differenza conoſcerſi ? e ſe l'umidor del corpo altro non è , ſe
non che la ſua di ſcorréza, c'l poterſi agevoliéte ad altro corpo appiccare,
ficome conſentir ſi dee da chiunque voglia Tanamente fi loſofure , egli dourà
concederſi , che tutti gli umori del corpo umano egualmente fian umidi , dache
tutti s'ap piccano parimente alcorpo tangente , e tutti parimente ſon
diſcorréti,e quanto al calore détro al corpo, tutti ſono egualmente caldi , e
fuor di quello tutti fimilmente dalla circon Del Sig. Lionardo di Capoa 277
circonſtante aria raffreddati vengono, o riſcaldati . Ma più avanti: ſe gli
umori nel corpo umano ſognati da Ippocrate , ſicome e vuole veramente ſi
foſſero , e alcun di elli , o calorc,o freddo eccitaffe , impertanto no
potrebbe dirſi effer cotale umore,o freddo , o caldo : imperocchè ſe o ſpina ,
o chiodo , o altra pugnente , o doloroſa materia in alcuna parte del noſtro
corpo violentemente ſi ficcarella ſuol poco ſtante , e freddi riprezzi , e
ardenti febbri ecci tare ; e pur la ſpina , il chiodonon per tanto , o freddi,
o caldi potrà dirſi,chefiano . Finalmente ſi sforza Ippocrate queſta varietà
d'umori di Atabilire con conghietture tratte dalle purgative medicine. Se
medicina purgante la flemma , dice egli , ad huom da raſli giammai , certamente
fi vuoterà la flemma, e così pa rimente ſiegue a dire dell’una,e dell'altra
collera; e ſoggiu gne appreſſo : veggiam noi per ogni ſcalfittura uſcir fuora
il ſangue, e ciò in qualunque tempo , o d'eſtate , o d'inver no, o digiorno , o
di notte ; ma ſe alcun primieramente riſpondeffe ad Ippocrate , come per tacer
de’noſtri, già fe rono i più valenti , e più celebri fra gli antichi medici,non
avervi medicina , che vaglia a vuotar determinato umore , che mai incontro gli
ſi potrebbbc per lui replicare? E a yo ler dire il vero, lo ſtimo da non dover
mettere in forſe, che Ippocrate niuna notizia aveſſe delmodo, comeoperano le
purganti medicine ; che ſe mai di quello ſi foſſe alquan to inteſo , forſe non
gli ſarebbono dalla penna uſcite cotante fraſche , e novelluzze ; ne ftillato
s'aurebbe il cervello per dimoſtrar gli errori in cui credette eſſere tutti
coloro chediſſero uno eſſer l'huomo,e non già dal guazza buglio di sì diverfi
umori compoſto : c pur egli non giunſe mai la mente di que'valent’huomini
ſanamente a compren dere , come chiaro dal medeſimo ſuo diviſamento ſi fior ge
. Credettero , dice Ippocrate , coloro uno effer l'huo mo; perciocchè vedevano
per le purganti medicine morir ſene alcuni con vuotarſi un ſolo umore ; perchè
ſtimavano altro non eſſer l'huomo , che quel folo umore; ed altresì dallo
ſcorgere ſolamente ſangue nfcir a' decapitati,non ef fer al 278 Ragionamento
Quarto 4 fer altro l'huomo,che ſangue; e per la medeſima cagione non mancò chi
diceſſe eſſere il ſangue l'anima umana . Or contro ad eſſi la vuole Ippocrate ,
e immagina di gettare a terra tutti i loro argomenti, e opinioni , dicendo non
mai alcuno eſſer morto colla vacuazione d'un ſolo umore, ſenza tutt'altri
eſsere inſiemcmente ſcappati fuora ; e vuol che quantunque volte huom prendendo
medicina purgante la collera ſe ne muoja , vomiti primicramente la collera , ap
preſſo la flemma, indi la malinconia , e finalmente il ſan gue di forza
ancordalla purgazione ſia tratto fuori , e ſo migliante avvenga nell'altre
purganti medicine . Ma chi quinci non iſcorgerebbe, che Ippocrate, o voleſſe
altrui uccellare , o ſcriver ciò che prima gli cadeſſe in penſiero , fenza
prenderſi briga di narrar gli avvenimenti diquegl'in fermi, cheper virtù delle
purganti medicine forſe a gior nate gli morivano nelle mani;e perciò anche
aveſſe a sì gra zioſa favoletta aggiunta una più vana ragione , cioè , che il
medicamento entrato in corpo vada da prima movendo , e cacciando fuora
quell'umor, che ha porianza di trar fuo ra . Aggiugne per iſpianar la
materia,l'eſemplo delle pian te, le quali dic'egli ; dalla terra per lor
nutriméto traggono varj ſughi dolci,acetoſi, e falli ; c ſomigliantemente po
tranno le purganti medicine trarre da tutto il corpo uma no i varj uinori, ma
coll'ordinamento , che teſtè accenna vamo : cioè , che la medicina purgante la
flemma debba vuotar prima la flemma, e poi gli altri umori , e finalmen te il
ſangue , e cosìſimilmente tutt'altre ; ma dagli ſcan naci prima il ſangue , poi
la flemma , e appreſſo la collera eſca fuori. Ma con tale eſemplo delle piante,
non che non agevoli egli l'intelligenza de'ſuoi trovati, ma vie più l'in
garbuglia , e ravviluppa ; concioffiecoſachè non mai può ſembrar vero, cui
voglia la coſa pe'l ſuo verſo guardare che le piante ſenza uncini avere , o
mani , e ſenza poter dar di grappo poſſano trar ſugo dalla terra , o altro ,
che lor bi fogni; elleno ſi nutriſcono della terra , macon altro ma giſtero di
quel che troppo groſſamente immaginò il buon Ippocrate . Evvi nelle piante una
fotcililina , e volantes ſoltan DelSig. Lionardo di Capoa 279 ſoſtanza
ſomigliante molto allo ſpirito del ſangue degli animali , la quale ſtando in
continuo movimento diforme cazione, la picciola pianticella sbucciando ſcappa
fuori, e framiſchiaſi colla terra proffimana alle radici ; or tra per lo
movimento d'eſſa , e per quello , checontinuo dal Sol ri ceve la terra , e
damolt'altri minuti corpi , che perla lor focofa, e attiva natura , a guiſa di
tanti ſpiritelli l'agitano ,e la commuovono , molte parti d'eſſa in ſu vengon
fofpinte in licve alito aſſottigliate, le quali di leggier poſſono i pic cioli
pori delle radici, in cui s'abbattono penetrare , e fic candofi elleno in così
farti buchi vengonoa cambiar figu ra , e da'formenti digeſtivi delle medeſime
piante altro va riamento ricevono si, che pian piano vengono la pianti cella ad
accreſcere , in lei traſmutandofi ;ne queſta trasfor mazione è maligevol molto
a comprendere, anziin molte frutta può agevolmente oſſervarſi ; pongaſi mente
alle me lagrane , che a volerle aſſaggiare ritroveralli , che le ſue fibre
portano a' granelli un amarisſimoſugo , il quale , o dolce , o alquanto agro
divien nella carne d'eſlo granello, ma nell'oſſo inſipido , e ſcipito ; e
ſimilmente avviſeremo altresì in quelle frutta , che colte da propj alberi , e
ripo ſte ſoglion venire a inaturezza : alcunide’quali eſſendoin prima amari
divengon poi dolci , e ſaporofi, ficome ſono le ſorba , le neſpole , e le
melegrane medeſime. Non fa dunque luogo di traimento veruno alle piante ,
acciocchè fi nutrichino ; il qual traimento da filoſofi è ſtato meſſo nella
natura , comechè di ciò alcuna pruova giammai non aveſſero:ne ſo lo pchè
vogliano farci a credere,ch'un ſimile abbia a trar l'altro fimile séza
adoperarvi altro , cheſimpa tia, la quale altro noè, che un bel vocabolo.
Nóv'ha adun que medicina al modo, che vuoti il tale,o'l tal determinato umore ;
ne mai vero diſſe chiunque affermò aver ciò offer vato : ma le purganti
medicine ciò che nelle viſcere ritro vano, formentano, e rendon mordace, e
fangli cambiar na túra ; e quinci avvien,che ciò che ſi vuota appaja di diver
fi colori , e prenda una puzza ſimile a'cadaveri sper , eſſer le
purgativemedicine si ſtimolofe , che aprono ledelicate boc 280 Ragionamento
Quarto boccuzze de'vaſi facendo , da eſſe uicir fuori il ſugo in ef ſo lor
contenuto , e corrompendolo ; e conſiſtendo la virtù delle purganti medicine
ne'lali , chein eſſe ſono, in quelle foſtāze elle più operano, e la efficacia
lor dimoſtrano mag giormente ove i ſali più preſtamente diſſolvonſi ; e quinci
avvien , che le fecce, che per eſſe ſi vuotano liquide diven gono , e
diſcorrenti. Finalmente lo immagino , che non mai veduto avelle Ippocrate
ſcanar Porco njuno ,e che ſe pur cgli guatato mai aveſſe immolar vittime negli
altari , aveſse avuti gli occhi di glauco,o di nero colore tu le pupille ripieni,õde
la gialla, e nera collera nel lor ſangue diveder raffembrogli. Scorſe egli per
avventura alcuna fiata, Io bé glicle cóſento ,ad huo dopo aver preſo vomitiva,o
altra ſimigliante medicina,get tar perla bocca fuori inſipido,amaro, acetoſo,
biáco,o gial lo uinore, ma non giunſe a conſiderar tanto che baſti,cioè che i
sì fatti umori s'ingenerano nello ſtomaco de'corpi c.2 gionevoli , e
infermicci, e chenon ſi ravviſano nelle venc , ne pur quand'huomo inferma. Ne
deve egli così toſto ob bliar ciò , che altrove più d'una fiata racconta ,
altri ſughi aver egli oſſervato recere , c per ſotto altrui cacciar fuori certi
altri umori , i quali eglinondimeno vuol , che nelle vene non abbian luogo ; sì
cheanche ſecondo lui , non è fano diſcorſo , ne concludente argométo a provar
gli umo ri eſſervinelle vene , perchè ſi vuotano colle purgagioni. Ma a che
domine dovrà egli tanta fatica logorar tanto tempo indarno , ſtillarli sì
fattamente il cervello , e porger cagione a' poſteri di ricercar ſempremai
Duovi ſofiſmi per iſtabilir la ſua ſentenza in materia, che con un foi fifo gua
tuento potea ben coſto determinare ? Ecco come una ri cevuta opinione ne fa
velo alla mente,si ch'ella obblia ſo vente i più piani ſentieri della verità .
Orlo , direi ad Ip pocrate , e a tutti quanti i ſeguaci di lui, traggaſi ad
huom fano il ſangue , cd aſsaggiſi , chee' non ritroveralli ne af ſai ne poco
amaro ; oue è dunque la collera? e non ſarà l'a cctoſo , oveè la malinconia ?
Replicheran per avventura, che'l miſchiaméto, ela cõfuſione di sì fatti umori
fraſtorni DelSig.Lionardo di Capoa . 281 tal diſcerniméto al palato ; ma ſe a
giuſta porzion di ſangue poche gocciole d'acetoſo liquore,o picciola quãtità di
fiele ſi meſcoli, e ſi dibaſti in modo, che daper tutto ſi ſparga ,e fi confonda,noi
proverem nel ſangue,e l'acetoſo, e l'amaro ſapore:adunque ſe nõ vi ſi
aſſaggiavano in prima , novi do vevan eſſere . Più avanti veggiam ſe
ſceverandoſi i diverſi liquori, che nel raffreddato ságue ſi ſcorgono ſi
poſſano av viſare i quattro umori d'Ippocrate;egli è ver,che nel ſangue ſia un
liquore acquoſo ,in su'l quale vogliono i ſeguaci d'Ip pocrate, che nuoti la
collera,ingannati da un certo giallor, che vi ravviſano, e'l rimanente ſia
tutto ſiero ; ma s'egli ciò vero foffe , abbiſognerebbe , che la ſuperficie del
detto li quore amareggiaffc ;il che no mai veggiamo avvenire.Se poi tutto il
ſiero ſitragga via dal ſangue, rimarrà una materias rappreſa , la qualroffa nel
ſommo,e nera apparirà nel fon do ; ma non miga egli è vero , ficome per coloro
ſi eſtima che quella , ch'è in fondo del vaſo ſia la malinconia , 1013 efſendo
ella di niun modo aceroſa , ma del ſapor medeſimo della roſſa; ſenzachè fe tal
fanguigna maſſa foſfopra ſia ro veſciata , la roffa parte in nera , e la nera
ſcambieraſli in rof. fa ; il che avvien dall'aria , la qual movendo le
particello ; della fuperficie del ſangue , le fa così roffe, e di più allegro
color dell'altre apparire. Ma oltre alle già dette coſe , due altre ſoſtanze
nel rapa preſo ſangue ſi ſcorgono; una dellequalicſſendo diſcorre te , e bianca
, ne fa chiaro veder , ch'ella fia chilo , in fan gue non ancor traſınutato :
l'altra gaglioſa,e tenace , di cui ne fa purmenzione Ippocrate ; e
perciocch'ella è deſtinata a nutrir le parti tutte del corpo, da' moderni ſugo
nutriti vo acconciamente vien detto; e queſto ſugo va col ſieroſo
migliantemente miſchiato ; e agevolmente la coinprenderà chiunque ponendo il
vaſo del detto fiero ſu le lente bragie nie farà tutto l'acquoſo unore
agiatamente eſalare . Nefi nalmente voglio laſciar d'avviſare , che in quelle
febbri, le quali per parere d'Ippocrate ſon dalla bile prodotte, non , mai
ritroveralli il ſangue d'alcun'amaro ſapore , nepur quella parte , che vi va a
nuoto ; ne in quell'altre , che per Nn avvi 282 Ragionamento Quarto avviſo di
lui dalla malinconia provengono , il ſangue ſenti rà miga dell'acetoſo ; ne men
quella parte d'ello che , nera appariſce; ſicome ſenza durarvi molta fatica
potea chiarir fene Ippocrate , ſe pur ſicome non ebbe a ſchifo le ſtoma chevoli
fecce degl'infermi aſſaggiare,così la pūta della fin gua in cotai parti del
ságuedegnato aveſſe d'intignere, qua lora veniva tratto agli ammalati di
terzan2,0 quartana;e ſe a coſtoro egli non ne traeva , in altre opportunità
potea farne eſperimento . E più di lui era debito di Galieno tal fatto , nie
dovea a chiuſi occhj in biſogna di cotanto rilievo preſtar fede ad Ippocrate .
Ma Io non poflo non ammirar quì quelle anime grandi, le quali a torto accagiona
Ippocrate , perchè elle dicano , effer flemma l'huomo ; perchè avendo nel
ſangueſcorta quella bianca ſoſtanza ch’appella flemma Ippocrate, giun ſero a
comprendere , di quella effer formato l'huomoje ve ramente di quella vié la
parte materiale del ſeine formata , di quella il latte , diquella tutt'altre
parti del corpo uma no nutricanſi. Ma ad Ippocrate ritornando : tralafciò egli
in queſto luogo di far parole della più nobil parte del ſan gue , dico della
parte ſpiritofa ; quantunque altrove oſeu ramente ne faccia motto , e ſenza
penetrare , o diſaminar tanto che bafti la ſua natura ; e moftra , che la
riponeſe fra le ſoſtanze diſcorrenti non umide , licome è l'aere,e non già fra
le umide , com'è l'aqua : il cui ſembiante più coſto par, che ritiga lo ſpirito
del fangue ;il che no dovea trapal farſi tacitamēte da Ippocrate;e doveaegli
por mēte altresì a cotāte altre umide ſoſtanze dell'huomo, e diſaminar così di
effe , come delle parti ſolide , la natura , gli uficj,e le ope razioni ; le
quali ignorand'egli nulla viene a ſaper della na tura di quello , la quale
altrui pretende d'inſegnare, ne può ſiſtem.2 alcuno ne meno manchevole , e
ſcempio ftabi fire di razional medicina . Ma il buono Ippocratc , come ſe taſe
uficio aveſſe inte ramente compiuto , e come ſe quanto avea diviſato foffes
incontraſtabile , e fermo , paſſa più avanti nel fuo libro a nar
DelSig.Lionardodi Capoa. 283 narrare, che l'inverno s'avanza nell'huom la
flemma,come quella, che più d'altri umori a cotale ſtagion confaffi,eſſen do
più di tutt'altri fredda; la qual coſa egli vuol ritrarre non altronde , che dal
toccamento ; ed afferma coſtante mente , cha la fiemma,del ſangue , e della
collera ſempre ha'l tocco più freddo ; la qual coſa però quanto ſia falſa è
teſte per noi detto. Fa egli , che l'inverno abbondi più ch ' altro tempo la
flemma; perocchè in più larga copia ne veg giam per le bocche , per le narici
degli animali uſcir fuori; e per l'enfiature , e altri mali dalla flemma
cagionati , che ſovente in quella ſtagione afcir ſogliono agli huomini . Ma ſe
l'inverno, ficomealtroveafferına Ippocrate più che mai le viſcere , ele
interiora ſon riſcaldate , non ſo lo come poſs'egli argomentar ch'abbiano
allora a ingenerare abbó dante copia di flemma, poſto che la flemma foſſe da an
noverare infra gli umori; e flemma foſſe ciò, che per la boce ca ſi ſpurga, e per
le narici , e ch'ella produceſſe que'mali, che freddi s'appellano . Ma più
avāti al diviſamento d'Ippocrate fa la continua cſperienza contraſto , e
ſcorgeſi, che l'eſtate , ſe avviene ad huom qualche catarro , qualunque ne ſia
la cagione, e' ſcaricherà per le narici , e per la bocca le flemme, ch'e'di ce,
in tanta copia, cheſtimeraſli colui non aver altro inca po , ne in corpo ,
ſalvo che flemma. Ora Ippocrate a voler faggiamente diſcorrere , dovea bé
avviſar, che l'inverno per lo freddo riſtrigonfi i pori della' noſtra pelle :
il perchè non potendo per eſli uſcirne cosi ah bondantemente quella ſoſtanza ,
che in ſottile alito ,altro tempo ſvaporar ne ſuole , vienaa rapprenderli in
flemma, edella natura per più larghe ſtrade ſivuota. La Primavera vuol , che ancor
ſian copioſe le flemme ; ma collo ſcemamento del freddo comincino pian piano w
ſcemarli, e'n loro veceil ſanguigno umor vada creſcendo . Ma feper opinion di
lui anche la primavera le vilcere lon cal:liffim , chefanno in corpo le fléme ,
e chi loro da luo go ? Ma la ragio , che ne reca per l'avanzaméro del ſangue,
cui no fem ! rerebbe dimoſtrazion di ſcrupoloſo Geometras Nn 2 ܐܐ 284 Ragionamento
Quarto : la Primavera dic'egliè calda, ed umida,e caldo , ed umido è altresì il
ságue:adúquc alla primavera cofaſſi. Ma pur noi veggiamo,che a quel tempo
ilſiero alquáto più copioſo di venga , anziche no , ſe a quel tempo ſon più
abbondanti le urine, e oltremodo patiſcono gli Idropici , in lor ſover chiando
sformatamente le acque. E che abbiam noi a dir degli altri argométi, ond'egli
ſi sforza Ippocrate di confer mare tal ſoperchiamento di ſanguenella già detta
ſtagione: in cui , dic'egli , fogliono avvenir diffenterie , e vacuazion di
ſangue per le narici , ed è il ſangue più caldo , e roſſo , che mai ? Certamente
come altre fiate abbiam detto ; im perocchè la diſſenteria non puòdal ſangue
avvenire,il qual giuſta i ſentimenti d'Ippocrate è umor piacevole , e dolce
anzi che no ; e più toſto la malinconia, e la collera dovreb bon eſserne
accagionate , le quali eſsendo aſpre , e ſtimo Joſe avrebbon a rodere le
inteſtina , e farne uſcir fuori il fangue. Rimarrebbono altre leggiere coſe a
diſaminare in que fto libro d'Ippocrate dietro tal materia de'quattro umori, le
quali da lui coll'uſato ſcioperìo , e groſſezza fi trattano, e altre coſe degne
da avvertire occorrerebbono per avven tura a chiunque con minuta diligenza
l'andaſse rivolgen do, ch'Io per fretta non ho curato d'oſservare . E baſtami
d'averne fol tanto confuſamente rapportato, perchèfi ſcor ga qual foſse la traccia
da Ippocrate temtita nel filoſofare dietro le biſogne della medicina ; e
ch'egli andato foſse nolto lungi dal vero , ne mai imbroccato aveſse al legno .
Ma ſe pure a lui non venne fatto di poter con pruove fta bilire i quattro primi
corpi,no è da prenderne maraviglia : imperocchène iné v'aggiuſe Ariſtotele ;il
quale,e pl'altez za dell'intédiméco, e per le notizie di varie coſe,digrā lūga
gli ſi dee antiporre,che che ſe ne dica in contrarioGalieno ; e veramente le
ragioni per colui rapportate eſſer frivole , e di niun valore, non che da
altri,mada'medefimi Peripatetici vien conſentito ; ma che chc ſia di ciò , non
avendo Ippo crate potirto giámai provar ne l'eſiſtenza de'primi quattro corpi
ſemplici, ne de'quattro umori , tutto il ſiſtema deila ſun Del Sig.Lionardo di
Capoa. 285 - ſuamedicina,chelu vi fő:la,cõvié,che crolli ad ogni leggier foffio
, e cada giù in terra. Maben s'avvide Ippocrate della debolezza de' ſuoi
ſiſtemi; onde o di rado, o non mai in al tri ſuoi libri volle valerſene , e
particolarmente in quei de gli Aforiſmi;i quali non voglio lo traſandar ſotto
lilenzio, poichè da molti ſono avuti in sì gran pregio appo Suida , che loro
non già inortal coſa , ma opera di ſouraumano in gegno raſſembra, non
altrimenti, che dell'Alcorano ſi fac ciano i melenli ſeguaci di Macometto . E
per lo meno cre de altri , che non maisì grand'impreſa fu da un’huomo ſo lo
compiuta ; c anche coſtor ſon partiti, alcuni credendo , ch'egli da varj
ſcrittori gli aveſſe raccolti ; c altri , ch'e' la veſſe copiatidalle tavolette
affilfe nel tempio d'Eſculapio . E certamente ſe mai vero foſſe , che Ippocrate
, come An drea antichillimo autor riferifce , miſe a fiamme, ed a fuo co quella
cotanto celebre libreria di Gnido , egli ſarebbe da fufpicare, che nõ pur gli
Aforiſmi,maquát’opere van del fuo nome intitolate,ſtate folero altrui fatiche,
ed ei per ac cattarne reputazione, come propie le aveſſe divolgate. Ma avend'
egli per avventura poco ſanamente le opinioni di quegli autori compreſe,sì
malamente compilare le aveſſe ; e quinci ſia altresì avvenuto , che tante varie
, e diſcordan ti dottrine , e opinioni per entro vi ſi ritrovino ; e perciò ſia
indarno gettata la fatica di coloro , che di accordarle tanto lungamente ſi
ſtudiano ; a ciaſcun de'quali potrebbe ram mentarſi l'avviſo di Franceſco
Ottomanno : Vercor ne ple rumque in iis , qui confultò inter fe diffentiunt
conciliandis nimium ingenioſi eſe velimus. Ma che che ſia di ciò , lo per me
ſon ſicuro, che agevolmente accorgerafli , cui caglia di chiarirſene , non effer
degni di cotante lodi gli Aforiſmi d'Ippocrate , quante d’uma cieca, e comun
fama ne han ri cevuti ; e perciò nella ſchiera de poco accorti foſſe il noſtro
Petrarca ,ovein favellando di biſogna a lui poco conoſciu ta ebbe a dire: E
quel di Coo , che fe vie miglior l'opra , Seben intefi foller gli Aforiſmi.
Sicome del poco lor valore s'avvider tutti que’medici,che infra 286
Ragionamento Quarto 1 nfra i Greci ebbero inaggiore ſtıma,e rinomea ;i quali
non men , che di tutte altre opere d'Ippocrate , tenner pochiſſi mo , o niun
conto degli Aforilmi; la qualcoſa ſi ſcorge rebbe manifeſtamente da noi,ſe
ſpente non foſſero ,e ſmar rite tutte loro ſcritture ; ma nondimeno può
argomentar ſi ſenza rimanerne in forſc , dalle reliquie , chene' libri di
Galieno , e di Celio Aureliano , a ' dinoſtriſe ne riſerba no ; e per quelle
poche memorie , ch'abbiam di Giuliano eccellentiſſimo filoſofo , e medico ,
quantunque il con trario ſis forzi dimoſtrarGalieno . Ma ſe ancor foſsero in
piè que’libri, che ilmedeſimoGiuliano compilò contro gli Aforiſmi, o ſe foſſero
almen rimaſe le chioſe , che ſu d'er ſi fe Lico , il quale ſi diede cura
d'andargli un per uno mi nutamente , e ſenzariguardo alcuno diłaminando,
chente, e quali eſſi ſiano apparirebbe chiaro , comechè io non mi dalli briga
di favellarne ; ma poichè così va la biſogna: di co, che molti degli Aforiſmi
liano così generali, che per la medicina poco , o niun pro trar ſe ne poſla ; e
di leggier ſi potrebbono ad ogn'altra materia acconciamēte adattare; il che ha
porto occaſione di occupar certi sfaccédati cervelli a travorgergli con
pochisſimo ſtorciméto alla politica , alla milizia , e ad altre arti , e
diſcipline ; altri ve ne hanno co tenenti sì groſſo, e materialinotizie , che
ad ogn ' huom di 'contado aſsai meglio ſon conoſciute ; altri , come avviſa il
Santoro , non li poſson mai recare ad effetto ſenza molto ritegno , e ſenza
l'indirizzamento delle regole dell'arte ;di fetto , ſenza fallo ,gravisſimo ad
autor, che imprenda a pre. ſcriver certe regole , e leggi in qualunque arte ,
emaſlima mente in medicina ; e altri v'han cui facendo biſogno di pruove , fur
da lui tralaſciati ſenza alcuna ragione ; e ſe pu re alcuna fiata vi rapporta
qualche argomento , ritroveral fi eſſer poco ſaldo , o inefficace ; anzi
loventi fiate ridevo le, e frivolo ; altri ſe ne ritrovano ,la cui dottrina, o
aper tamente, o per poco che ſi vada diſaminando , falſa , e fal lace ſi
ſcorge. Altri finalmente per entro a quel libro ve n'han sì confuſi , e oſcuri
,e impigliati, ch'a volervi per in tendergli qualunque più grave farica durare,
non ſe ne ri trar Del Sig.Lionardodi Capod . 287 trarrà coſa , che monti un
frullo . Ma l'oſcurità è vizio si ordinario d'Ippocrate , che ne men Galieno
cotanto di co lui parziale potè contenerſi sì, che non ne faceſſe motto , a non
ne lo proverbiaſſe , e ſcherniffe più fiate. Ma fe è vizio , ed error grave
l'oſcurità in qualunque materia , egli è ſenza fallo graviſſimo , ove ſi tratti
dimc. dicina ; arte malagevoliſſima per ſe ſteſſa , e in cui l'crrare
potrebb’eſſer di graviſſimi danni , e nocumenti cagione ; if perchè non ſon da
intendere quelle ſcuſe , che dell'oſcurità d'Ippocrate voglion farſi per alcuni
, dicendo ch'egli a ſtu dio voleſſe sì fattamente ſcrivere le ſue opere , e
maſſima mente gli Aforiſmi, acciocchè sì prezioſiteſorinon iſtaffe ro ſenza
riſerbo ; ma quafi ſotto bel velo ricoverti , e aſco ſi; imperocchè lo
primieramente non ſo intendere qualſia mai quell'altezza di dottrine, che nella
medicina d'Ippo. crate ſia ripoſta , ne fin'ora v'è ſtato chi abbia potuto fco
vrirla ; anzi è avvenuto a coloro, che troppo v'han durato fatica a
interpretrarla , quel che accader ſuole ſoventeagli Alchimiſti, che in vece di
divenir dovizioſi d'oro , e d'arie tutto il for picciolo capitale ſcialacquano
. Ma fe Ip pocrate voleva aſconder la ſua dottrina,sì che da altri non mai fi
riſapeſſe, potea con un più bello , e fottil modo ben farlo , cioè
rimanendoſene in pace , ſenza ſehiccherarle carte , o por tanticervelli a
partito per intender la ſua mé te , con si grave riſchio de' poveri ammalati .
Or veggafi di vantaggio quanto egli foffe dabbene , equanto oſſerva tor
dell'impromeſſe,e facraméti ,co’quali dichiarò di voler a'ſuoi ſcolari tutta
quanta la medicina perfettamente inſe gnare ; e certamente ſe non altro lor comunicò
di ciò che ne'ſuoi libri , e particolarmente in que' degli Aforiſmi la fciò
regiſtrato , e in quella sì confuſa maniera , que' catti velli l'olio , e la
fpeſa indarno vi dovettero logorare. Ma il bujo di quella favella, ſe mal
puofli fofferire altrove,cer tamente nell'opere degli Aforiſmi, ove
principalmente egli vuol dar leggi , e regole di ciò , che fi dce nell'arte eſe
guire , è tanto biafimevole , e ſconcia , che nulla più ; e ſe Principe mai , o
Repubblica in dettando leggi , e ftatuti ſi valeſ. to , 288 Ragionamento Quarto
valeſſe dello ſtile degli Aforiſmi d'Ippocrate, in quali tea nebre , in quai
garbugli, in quali intrighi, in quantipiati , o conteſe ſe ne viverebbe quella
malnata Città , quellas infelice provincia? S'attēta altri di ſcuſare Ippocrate
col precetto d'Orazio Quicquid precipies eſto brevis,utcito dicta Recipiant
animidociles , teneantquefideles. Ma per coſtui non badoſli , a quel,che poco
avanti dal medeſimo Poeta fu ſcritto : Decipimurſpecie recti : brevis effe
laboro Obfcurusfio : Ne potè ciòdiſſimulare, comeche parzialisſimo d'Ippoa
crate , per tacer d'altri chioſatori, il Signor della Sciam bre , sì chenon
aveſſe arditamente a dire d'Ariſtotele , ed' Ippocrate , e de'loro eſpoſitori
favellando : ita perplexe, & obfcurè uterque locutus eſt, ut ad ſingula
verbaceſpitandum illis fuerit,antequam tantis tenebris lucem aliquam afferro
potuerint . E quantunque egli appreſſo imprenda a farne ſcuſa, indi a poco
ſoggiugnendo: Atque id ſaneHippocrates quadam neceffitate impulſus præftitit in
Aphoriſmis : cùm enim ad pauca quædam capita vaſtam , & immenfam artem
contrahereftatuiffet, ne trunca, manca redderetur, necef fe illi fuit ſuh
unoquoque plura præcepta recondere , quàm quæ verbis deſignarentur:
&fingulos Aphoriſmos prêter id , quod exprefsè docent, proponere , ut figna
, du notas , quibus aliarum rerumeadem ſpectantium recordatio excitaretur: no
però dimeno lo perme non ſo ſe venga sì fattamente ad iſcuſarſipiù tolto , o ad
accagionarli Ippocrate ; imperoc chè qualbiſogna , o diſtretta lo sforzò mai a
favellar di tut to , e'l tutto avviluppare, ed entrar nell'aringo ditanti , e
sì diſgiunti ragionamenti per diviſar pochiſſimecoſe , c di niun rilievo ? E
qual lode è mai d'uno ſcrittore l'accennar ſotto velame d'oſcurillime parole
una cofa , e laſciarnu cento , e mille , cuiabbiſognerebbe , che
dall'intendiinen to del diſcreto lerrore fi ſuppliſſero; il che ſe mai il letto
re far poteſſe da ſe medeſimo , a che affaticarſi in sicer carle fu le altrui
ſcritture con ſuo diſtento . Ma ſe pur po telle Del Sig.Lionardo di Capoa 289
teſse Ippocrate ritrovar qualche perdono persì fatte ſcule in alcunadelle ſue
opere, chi mai potrebbe ſofferir quelli oſcurità , che per tacer d'altri ſi
ravviſa nc' libri della Die ta , degli umori, degli alimenti , in cui ebbe a
dire quel celebre galieniſta Antonio Fracanziano ſuo chioſatore , Hippocrates
anigmaticè , dw obfcurè adeo loquitur , ut divi nandum magis quandoque , quam
afferendumquid voluerit: orin quegli certamente le ſottili difeſe del Signor
dellau Sciambre non poſſono a niun modo aver luogo . Egli adú que nc fa
meſtieri di dire a voler ſchiettamente la verità có. feffare , che l'oſcurità
d'Ippocrate avvenga dal rozzo , e oſcuro conoſcinicnto , ch'ebbe di quelle coſe
, che a ſpia nare egli impreſe; e perciò con oſcure , c affai brevi parole
cerchi toſto sbrigarſene , come fan coloro, che di future, e loro ignote coſe
ragionano.Ma pur troppo bene è riuſci ta ad Ippocrate, e d'onde biaſimo e'
meritava, e vitupero, quindi gli avvenne lode , e commendazione dalla voigare
ſchiera de'letterati; i quali ciò che meno intendono , comes cofa maggior
de’loro ingegni vie più commendano ; e per ciò è avvenuto , che sì folta turba
de'chioſatori abbia in darno tanta fatica durata,per
volerdimoſtrare,ch'altiſlima dottrina ſotto l'ombra di quel favellar ſi
naſconda; e dico indarno : imperocchè a gente di ſano intendimento quelle
cotante lor novelluzze malagevoliſſimamente iinboccar poſſono ;
eſſendomanifeſto , che ove Ippocrate favella di coſe, ch'egli intenda ,e
ſappia, ſicome quando narra avve nimenti , e iſtorie di malattie, o fa parole
di qualche parte di notomia , ch'egli avea oſſervata, non torbido , e confuſo
ſtile;ma cõchiaro ,e intelligibil ragionaje ſe ben ſempremai ſparge per entro a
tai ragionamenti qualche antica , e vieta, e poco inteſa parola : impertanto
non può renderli tutto il favellar sì avviluppato, che in fine la ſua mente non
fi com- ' prenda . Egli è adunque oſcuro , ove di ciò che non inten de ,
imprende a favellare. Ma per non iltar quaſi ſempre in ſu l'ali , c diſcender
omaia qualche particolarità : lo dico , che il primo, ove procura di ſcorgerne
la medicina , come poſta lu la vet Oo t2 290 Ragionamento Quarto 1 1 ta d'un
erta , e lunga , e ſtraripevol roccia ,' oue mat puofli, tra per la brevità della
vita ,ei molti , e gravi peri coli , che vi s’incontrano per huom pervenire ; e
tale,e tan to , che vale a torre il pregio a quanti e'ne ſoggiugne;im perocchè
ſe cotante malagevolezze ha la medicina per fe medelima , ei, che dovea far
altro , fe non ſe a tutto sforzo . agevolarne il ſentiero ? e pur coʻſuoi
Aforiſmi il varco sì fattamente impruna , che ove huom dietro a lui mettaſi in
cammino,a diftento fenza offefa potrà ritrarne il piede.Do vea ben avviſar
Ippocrate , chela brevità, ove l'oſcurità non iſchifi, quanto ſcema allo
ſcrittor di fatica , al lettore altrettanto ne aggiugne . E nel vero chi
potrebbe confide rar quanto ftento dovettero durar tutti coloro , che prima di
Galieno ſi dieder briga d'interpetrar l'opere d'Ippocra te ; e pur nientedimeno
non uſciron dal laberinto , come vuol Galieno; il qual ſoggiugne lui aver
primieramente porto il filo da poterlo ſpiar tutto , e ritornare in ſalvamé to
; quantunque v'há chi non gliele vuol credere , e affer ma coſtantemente
ch'egli vi ſia rimalo avvolpacchiato,co me tutt'aleri ; e ne ci reca la ragion
dicendo , che ſe vera mente per Galieno foſſero ſtati compreſi i ſentimenti
d'Ip pocrate , cotante quiſtioni , e piati dopo lui non ſarebboe no inſurti ,
per indovinar , che diavol d'inſegnamenti ſian que' d'Ippocrate ,maſſimamente
negli Aforiſmi. Orail té. po , che in ván fi logora in sì fatti litigj,nó
ſarebbe meglio, e con maggior pro nell'inveſtigar tante coſe, che fann'huo po
allame licina , opportunamente impiegato ? Ma nella feconda parte di queſto
primoAforiſmo, poi chè tanto gli è a cuore la brevità , a che perder parole per
dire,che , acciocchè il medico adempier poffa felicemente il ſuo uficio ,
abbiſogni che vi concorrano l'opere dello in fermo , de’famigliari, e
tutt'altre eſteriori coſe al biſogno fian preſte ? O utiliſſimo , o raro , e
non mai caduto in mé. te umana conſiglio del diviniflimo Ippocrate ! e Monna
Berta , e Monna Nonna ſomigliantemente non l'averebbe ſaputo ? Ma il ſecondo
Aforiſmo, per la cui eſpoſizione veggiam venire fino a villane parole i
Chioſatori, e alqua 1 le più Del Sig.Lionardo di Capoa 2.91 1 le più coſto con
aringo d'ornate ciance , che con faldezze di dottrina , cerca difar riparo
Galieno a petto degli argo menti , che incontro gli avventa Giuliano : non
contien al tro certamente , ſalvo che unadottrina molto volgare, tanto baſſa ,
ch’un Maeſtro Simone, non che altri G verge gnerebbe d'averla meſſa in dozzina
, maſſimamente ſules prima fronte d'un libro di tanta eſpettazione ; ella è
tales : le vacuazioni , che per vomito , o di ſotto ſpotaneamente avvengono ,
ſe fian tali, quali eſſer denno , giovano , e age volmente ſi collerano ; e ſe
ilvuotamento de’vaſi tal lia,qual çiler dee , giova , e ſi tollera .
Orlaſciando da parte ftare, che con chiarezza , e brevità maggiore potea cotal
diviſa mento ſpiegarſi, per avventura dicendo , cheſe l'arte , o la natura
vuoterà ciò che pecca nel corpo , fie di giovamento l'evacuazione: lo quì
chiederci, chemifoſſe moftro , ove ſia l'altiſſima ſapienza, ove il ſottile
intendimento del Prin cipe , e dell'inventore , come Galien lo dice , della
razio nal medicina Ippocrate ; adunque in faccenda di cotanta lieva haſſi a
giudicar degli eventi : A che dunque vagliol tanti ſiſtemi di razional medicina
, sì lungamente, eintan ti libri da lui regiſtrati? A che giova l'aver
eglicotanto ra gionato degli uinori, e dell'altre cagioni delle malattie , e
delle altre coſe confacenti alla medicina,ſe al miglior huo po non gli vagliono
un frullo ,egli abbiſogna , ch'a ſuomal grado ,alla fallace empirica abbia
ricorſo . Ma più oltre: onde fe meſtieri ad Ippocrate dirigiſtrar tale
avvertimento nel divin volume degli Aforiſmi, ſe non v'ha perſona così
ſcicmpiata tra'l vulgo , che molto bene non ſappia , che al lor , chenon reca
moleſtia allo infermo, e ch'egli ſe n’ap profitta , che tale qual eller
deeſiaſi la vacuatione; ma do vea certamente , &aurebbe fatto il
meglio,avviſare Ippo crate , che quantunque non ne tragga alcun diſagio l'infer
mo , e che imınantinente dopo la vacuazioncegli guariſca, avvenir può talora ,
che l'umor vuotato non ſia tale , quale vacuar ſi dec ;imperciocchè ben
potrebbe egli di leggieri avvenire , che dopo la vacuazione di qualche materia
, la quale niente aveſſe che fare colmale , riſtoraſleli l'infermo Oo 2 per --
292 Ragionamento Quarto per qualche vacuazione inſenſibile di ciò , che cagiona
il male,fattanel medeſimo tempo. Nedee ciò recar maravi glia , ſe talora ne’più
gravi , e pericolofi malori , quanto più rigoglioſi,cotanto menome, e fottili
ſono la cagioni, che l'adoperano ; e ben ſovente avviene fenfibilc vacuazione
per opera di quelmovimento ,cheſi fa nel corpo nello ſcio glierli , e
nell'ufcir fuora , e nel mutar faccia , fito, o movi mento que corpicciuoli ,
onde il mal ſi cagiona : a pruova conoſcendoſi , che huom ſuda , vomita , e
manda fuori per altre parti quantità d'umori , e ſi ſgrava immantinente dal
male ; che ſe non uſciſſe allora o pietra , o altro , che'l ca gionaſſe ,
ogn’un di certo giudicherebbe, che per la vacua zion di quelle materie foffe
l'infermo riſanato. In confer mazion di ciò che lo dico, in quci , che ſon
morſi dalle vi pere noi veggiamotutto di dopo preſi gli antidoti vacuarſi per
vomito , e per ſudore gran copia dimaterie nel tempo medeſiino , che guariſcono
; e pure quelle non han coſa del mondo che fare col veleno della vipera , il
quale in altro non conſiſte , che in una piccioliſſima, e poco men ch'insé
fibile ſoſtanza , la quale rappigliandone il ſangue nelle ve ne toſto n’uccide
. Ma che non veggiamotutto di nelle poſteme; e nelle ferite , ed in altre ſorti
di malattie vuotar fi copia d'umori ad eſſe non pertinenti,c guarire , ma per
al tra cagione,gl'infermid e quinci poiinginn.icii medici con falaſli , e
purgagioni , ed Jorinojoſi , cimportuni rimedj i loro infermi crudelmente
ſogliono malmenare ; giudican do così imitar l'opere della natura ; e per aver
talvolta av viſto , che qualche febbre , o altro male ſi ſia diminuito dopo un
grand'uſcimento di ſangue : comandan poi , che nelle febbri ſi tragga langue.
Ne per altro parimente,nulla curando l'avviſo d'Ippocrate, e di Galieno,ſi
vagliono del le purgigioni nel principio , nell'accreſcimento ,e nel vigo re
delle malattic , ſe non ſe dall'aver eglino veduto , come chè radillime volte ,
che dopo eſſerſi vacuata qualche ma teria in que’rempi lia migliorato , e
riſanato qualche infer mo ; e queſto è quello , s'io non vado errato , che
dovca norar Ippocrate negli aforiſmi. Ma ne meno ſempre che quel DelSig.
Lionardo di Capoa 293 qnelle materie ſi vuotano , quali appunto da vuotar ſono,
ciò vien lievemente comportato dall'infermo ; concioffie coſachè molte volte
elleno tra per la loro mordacità, e per la delicatezza della parte , per la
quale ſi vuotano , e per altre cagioni ancora recar ſogliono noja grande
agl'infer mi ; come Ippocrate medeſimo ſe ſteſſo dimenticando al trove avviſa ;
ma non ſenza ragione Giuliano prover bia , e ripiglia Ippocrate dicendo ,
ch'egli incominciando queſto aforiſmo afferma come vera una propoſizione non
miga per lui provata , ne dimoſtrata in prima, cioè , che naſcan le malattie
dalla foprabbondanza ſolamente , o dal cambiamento degli umori in altra qualità
di quella , che in prima aveano , la qualvien da'medici, corrottela , chiama ta
; ch'egli però giudica ,che ove non ſi ſcorga legno di cor rottela d'umori,che
la ſoperchianza ſia de’inali cagione . Coſa , la quale foggiugne Giuliano , in
modo veruno in tender noir fi puote , ne è vera : imperocchè fe ciò foſſe ,
eglinon ha dubbio , che tutte in fermità agevolmente gua rir potrebbonſi : ne
fi vedrebbe giammai lunghezza di ina lattia : e una ſola la maniera di tutte
curarle certamente fac rebbe ; imperocchè ciaſcun potrebbe agevolmente qualo ra
a grado gli foſse , effendo ciò in ſua mano , comeilmal l'affale , così toſto
ripararvignon gli biſognando a ciò altro , falvo che fa ſola vacuazione , la
quale in qualunque tein po porre ſi può in opera col ſegnare , ſe'l male ſarà
cagio . nato dal ſangue , e fe dalla flemma , e dalla collera ,condar loro
acconce medicine. Riſponde Galieno all'argomento di Giuliano con dire , che allora
oltragli umori, abbia an cora nelle parti falde del corpo qualche vizio ;
perchè va cuito l'umore dura ancora il male; ma ſe nel inale ,ficome Ippocrate
ſuppone, tengono gráī parte gli umori, dovrebbe almeno tanto quanto fcemarlo il
vuotamento di quelli ; il che certamente non avviene ; anzi Galieno medeſimo ri
portando in ciò molte fperienze , coſtantemeure altrove il niega . Ma come
allor, che fon crudele materienel princi pio de’mali ,quando le parti ſalde non
ſon potute ancora contaminar da eſſe , le vacuazioni riefcono nocevoli , non
che 1 294 Ragionamento Quarto che infruttuoſe : e allo incontro poi, licomecon
Ippocrao te afferma Galieno , elle giovano affai,e colgono via il ma lenel loro
ſcemo, quando non può eſſere , che non ſiano rimaſte offeſe gravemente, e
contaminate le partiſalde , le quali in tutto il tempo delmale in varieguiſe
moleſtate , e ſconce ne vennero ? adunque direbbe Giuliano, non avran nulla che
fare con quelle malattie le diſcorrenti ſoſtāze del corpo ; e allor , che li
veggono dopo la vacuazion di qual che umoré ceſſar le malattie, ciò non avvien
certamente per la vacuazione,comeIppocrate afferma. Ma par egli certa mente ,
che Ippocratemedefimo non troppo fitidi in ciò della ſua dottrina ; imperocchè
avviſa egli poi nell'ultima parte dell'aforiſmo, che convengafi aver riguardo
al paeſe, alla ſtagione , e alle mulattie, e all'età, ove da far Giala va
cuazione . Ma per tacer della ſtagione , dell'età , e del paeſe , onde niuna
certezza trar ſi puote , con qual argo mento in tata incertezza delle coſe
dell'arte potrà mai rin venire il inedico fe fia , e qualſia quella parte
diſcorrente , che cagioni l'infermità ? Credeſi la collera cagionar la ter zana
: la malinconia , la quartana : e pure queſte alla va cuazione , che penſan fare
i medici di tali umori , non ce dono :'maſivincono ſenza vacuazion’alcuna colla
ſcorza del Perù , e con altre molte sì fatte medicine. Il terzo Aforiſmo per
mio avviſo parve al Paracelſo co tener dottrina di sì poca conſiderazione , che
egli lo tra sformò sì , che in tutto è diverſo da quello d'Ippocrate;ma ſe cosi
debbonſi chiofare, e interpetrare i detti degli auto ri , egli ſe'l veda · Dice
Ippocrate, lo ſtato degli Atleti, i quali ſian pervenuti al ſommo della bontà
eſſer pericoloſo; imperocchè non potendo poſare,ne vantaggiarli in meglio,
convien , che vada al peggio; e che però dipreſente huopo faccia vuotargli .
Primicramente la ragion d'Ippocrate, la quale ha dato cagione di quiſtionar
canto , e d'aggirarſi fra vani argomenti al Forli alSermoneta , e ad altri
ozioſi cervelli, è troppo rozza nel vero ., e materiale , e più li ſten de
aſſai di ciò , che Ippocrate s'avviſa ; imperocchè perpe tuamente ſe la detta
ragione aveſſe luogo , sìfatte perſone dovreb Del Sig.LionardodiCapoa. 295
dovrebbono andaralpeggio ; il che falſo ſi ſperimenta ; e ben ſi conoſcerebbe
apertamétc per ciaſcuno la falſità del la menzionataragione d'Ippocrate ,
s'egli come far dovea, l'aveſſe con più parole ſpiegata , comepofcia fecero i
ſuoi chioſatori , dicendo , che non poffan mantenerſi nello ſta-, to preſente ,
nepofare : perchè continuamente cibandoſi sì fatti huomini, e ingenerandoſi in
loro il chilo , e'l fangue , c queſto ad ogni ora diſtribuendoli per le parci
del corpo , ne potendoſi a quello unire per non eſſervi luogose peròſo
verchiandos debba di neceſſità cambiar in peſſimo il lorot timo ſtato . Ma non
poſer mente coſtoro alla copia grande. del ſangue, e delPaltre tuţte
diſcorrenti parti , e ſalde del. le loro foſtanze , checontinuamente G
dileguano, e per sé.. fibili,e p cieche ſtrade efco fuora da'corpi degli
huomini p . la continua formentazione di quello , che in aliti lotciliſi- . mi
mai ſempre gli va ſciogliendo ; e quanto più abbonde vole , e di buona
condizione è il ſangue, tanto più egli è vigoroſo , e valevole
ne'ſuoimovimenti, e nell'altre ſue operazioni ; e quindi ſcorgonſimolcijemolti
dicotali huo mini ftar bene lungo tempo : e comechènondimeno qual-, che volta
coſtoro pur ne pericolino, ciò non èmiga già per la ragione per Ippocrate
apportata; maperchè venendo ta lora oltre al dovere per qualche cagione di
fuora a muo- , verfi , e a rarificarſi ſoverchiamente il ſangue, ſi rompono
ivaſi, che'l contengono : 0 pure quello diſcorrendo in co pia grande nelle
parti falde delcorpo , cdivi fermatofi, or una , or un'altra ſorte di mali , e
talvolta con impedir affar to la circolazione del ſangue repétina morte alcresì
cagio na ; e ciò è quanto dovea il noſtro buon Ippocrate avvi fare . Appreffo
fålla egli gravemente , ſenza dubbio , in tacendo come, e in qual maniera
s'abbia negli Atleti a tor. via la pienezza; ſe colle vacuazioni , o pur colla
dicta ; s'egli quì intende di quella vacuazione, che ſi fa colla die. ta ,
comedicono i chioſatori di queſto aforiſmo,dovea pur certamente egli avviſare
quando ciò far convenga colla ſc. la dieta , e quando altrimenti e in sì fatta
maniera non in fruttuoſi affacco ,e vani farebbono ſta i per avventura i ſu : i
avvertimenti . Im 296 Ragionamento Quarto Imprende poi ne ſeguenti
aforiſmiinfino al venteſimo a far paroleIppocrate dietro al cibar degl'infermi
; e come chè in lor ſi contenga qualche utile avvertimento, pur col Puſato ſuo
modo intrigato del favellare , confonde quelle materie , che meſtier fenza
fallo gli facea illuſtrare ; eſſen do nel vero la maniera del cibar gl'infermi
una delle coſe più neceſſarie a ſapere in medicina ; eavendo in quegli aforiſmi
alcune regole , alle quali fa meſtieri d ' eccezione , le dovea egli almeno
accennare ; ed era aſſai più neceſſario l'inſegnar ciò , che le tant' altre
bazzicatu re , in cui inutilmente di certo ſpende egli tante parole das vegghia
, come quello, che agevolmente lapute ſono,e co noſciute per ogn’uno. E in
verità, chi è , che non ſappia eziandio fra quelli, che non mai ſtudiarono in
medicina , che ne'mali lunghi s'abbian’a mantener le forze dello in fermo, e
conſeguentemente, che dar non gli ſi debba a ſpi luzzico il cibo , ma un poco
più largamente x Chiè , che non conoſca , che nell'acceſſioni della febbre ,
non ſi debba a niun modo cibare il malato ? ma sì general legge dover cgli
riſtrigaendo avviſar , ch'alcuna fata anche ciò far colz venga . Nel duodecimo
aforiſmo fi da briga , e ragionevolme te nel vero Ippocrate, di narrac i
ſegnali delle durate delle malattie ; ma in materia di sì gran lieva, e onde ,
com'e gli medeſimo avviſa, depende il diritto regolaméto del nu tricar
gl'infermi,ſecondo il ſuo coſtume, ofcuro , e intral Lito favella , e con poche
parole ſi toglie dal doffo ogni ſeccaggine ; tralaſciando non per ſuo mal
talento , ma per ſuo poco ſapere di far motto de'polſi. E quanto al fat to
deglieſempli , egli è molto ſcarſo : recandone un ſolo della pleureſi, e nemeno
in quella fi trova ſempre eſſer ve che apparendo nel cominciamento di quella lo
ſputo , il male abbia poco a durare . Va errato parimente Ippo crate in dar
intera credenza a ſudori , alle fecce , e ſpezial mente all'orina ; la quale
per tralaſciar altre ragioninon tutta li ſepara dal ſangue ;maparte di eſſa
trapelando dal ſacco latteo per una breviſſima ſtrada tragittaſi alle reni ; e
ro , come Del Sig. Lionardo di Capoa. 297 comechè una sì fatta ſtrada ignoraffe
Ippocrate, dovca pur cgli por mente ad alcuni beveraggi , che appena tranghiot
titi , di preſente ſi orinano : e agli ſparagi , al Terebinto, e ad altre coſe
, che ſenza toccar punto il ſangue alterano sé, fibilmente l'orina . Nel
tredecimo aforiſmo dice Ippocrate , cheivecchi portano agevolmenteil digiuno ;
e quindi paſſa a far paro le dell'altre età . Ma queſto è un'errormaſchio ;
imperoc chè dal continuo ſperimento ne fi fa chiaro , ch'a’vecchi tra per la
lor debolczza ,e perchè poco nutrimento traggo no da'cibi, aſſai ſpeſſo faccia
meſtier riſtorarſi . E verilimo troviain noi l'avviſo di Celſo : inediam
facillimè fuftinet media etates , minus juvenes , minimè pueri, &
fenectutes confećti. Vien poil'Aforiſmodecimoquarto, il qual tanto ammi rar ſi
ſuoledaʼnoſtri medici , cioè , che coloro , i quali cre ſcono , abbiano in
copia grandeil caldo innato, e che per ciò faccia lor meſtiere abbondevol cibo
, alorimenti il cor po ſi conſumi . Ma non avviſano coſtoro , che alcuni peſci
creſcono oltremodo , e non che eglino caldi fieno , anzi só freddi si
fattamente , che lc loro interiora agghiacciate,no altrimenti che neve li
ſentono : come avviſa de’luccj del la nuova Francia il Padre Giuſeppe Breſſani :
ho aperto (dic' egli) il luccio ancor vivo , e trovato il freddo del ſuo
ſtomaco, quafi inſopportabile alla mia maro. Altra coſa adunque co vien
certamente dire, che ſia quella , per la cui opera ben ,' digeſtendoſiicibi , e
altra cagion concorrendovi creſcano glianimali; e a quella in prima dovea por
mente Ippocra te , e poi diterminare ; ma eglia ciò non badando , indias poco
ſiegue a dire nell'altro aforiſino , che di verno , o di primavera fiano le
viſcere per natura caldiſſime , ei louni lunghiſſini ; e perciò in quelle
ſtagioni più largo cibo dar ſi debba ;concioliecofachè l'innato calore allor
creſca , cui maggior cibo certamente abbiſogna , e che di tal coſa nes fan
pruova l'età , egli Atleti. Ma che fan qui tantc parole a ſpiegar una sì breve
ſen tenza : ecco l'uſata felicità del ſuo breviffimo ſtile ; ma ab biz Рp 298
Ragionamento Quarto I biaſi pur ciò per niente , egli non è tuttoda trafandar
fotro ſilenzio , che quantunquevero in tutti huomini , per tacer d'altri
animali, ciò che diceIppocrate ſi ſperimentaſſe, che diverno , e di primavera
affai meglio fmaltiſcanſi i cibi : la ragione nondimeno , che di ciò e' ne reca
è falſa ; concior fiecofachè falfo apertamente ſia , che nelle menzionatcſta
gioni caldiſſime fiano leviſcere degli animali; e perchè ciò vero fofle , nemen
nulla montcrebbe : non facendoſi altri méte dal calore la digeſtione de'cibi:
ficome ne ſiamo omai tanto accertati , chenon fa luogo, che lo vi ſpenda
parola. Perchè in van brigafi Galieno di recare in concio d'Ippo crate le ragioni
fanciulleſched'Ariſtotele , che le viſcere di verno caldiffime fiano, perchè il
caldo, come ſenſo egliavel fe , e del circoſtante freddo ſentiſſe l'offeſe ,
alle più naſco fe interiora ſi rifugga ; e certamentecotal ſciocca filoſofia ,
che i luoghi ſotterra caldi ſiano di verno , e freddi di ſtate , per lo
Termofcopio falſa apertamente ravvifaſi , comeché tali pajano a noi , che di
ſtate caldi, e di verno freddi v’en triamo dentro . Ma avvegnachè a pro
d'Ippocrate dir potrebbeſi , che di verno per eſſer chiuli i poridegli animali
ſi venga aritener quella ſoſtanza , che di ſtate eſce fuori , la quale da al
ſan gue col movimento il calore : non però di meno , come fiè accennato ,
manifcſtamente in noi ſtesſi ravviliamo le parti dentro del noſtro corpo tutte
, non altrimenti, che quelle di fuora , effer più affai calde di ſtato , che
diverno; ne per altro nella detta ſtagione così volentieri acque freſche, e
altri raffreddari liquori beviamo ; ne Ippocrate medefimo oferebbe ciò negare ;
il quale dice altrove , che di verno s' ingenera la flemma, ſecondo
luifreddiflimo umore , eche avvengano lunghe , e cagionate da tardi , lenti , e
freddi umori le malattie . Ma Galieno volendo le parti del ſuo maeſtro
difendere , immagina sì fatta malagevolezzaceſare, con dire , che di ftate ſian
calde , maggiormentc che diverno le viſcere , di quel caldo , ch'egli
avveniticcio , e foreſtiere chiama ,ma non già miga deicaldo innato . Chiama
egli caldo innato una i 1 1 DelSig.Lionardo di Capoa . 299 remo . una aerea
acquoſa ſoſtanza d'un calor mite, e ſoave inſieme con gli animali nata , e
avveniticcio allo incontro poi chia ma un caldo terreo mordace affocato ; e di
queſto egli di ce nell'infelice difeſa del precedente aforiſmo d'Ippocrate
contra Lico, che abbondevoli fiano maggiormente i giova ni , e di quello i
fanciulli. Ma quanto ciò poco , anzi nulla approdi a difefa d'Ippocrate, noi or
brievemenre dimoſtre Primieramente convien ſapere, che'l calore negli anima li
naſce tutto dal ſangue ; perclié folea dire l'Arveo , altro non eſſere il caldo
innato , che'l ſanguemedeſimo: folusnē pefanguis eft calidum innatum , ſeu
primo natus calor ani. malis, uti ex obſervationibus noſtris circa generationem
ani. malium , præfertim pulli in ovo luculenter conftat : utentia , multiplicare
fit fupervacuum . Argomento manifeſtiſimo è di ciò , ch'io dico lo ſcorgere ,
ch'abbandonata dal ſangue qualunque parte dell'animale , immantenente ogni
calor viene ella a perdere : e ſe mai eſce dall'animale tutto fuori il ſangue ,
ben toſto dal cuore , dalle vene , dall'arterie , da altre parti falde tutto il
calor fi diparte. Vano , e falſo adunque è ciò, che con Ariſtotelecomunemente
dir ſi ſuo le , il cuore effer fonte del calore : ne ſo lo vedere , come in sì
fatta opinione compiaceſſeſi quel grandiſſimo filoſo fante Renato delle Carte ;
imperocchè agevolmente egli avviſar potea il cuore noneſſer più caldo , che
l'altre vilce re deglianimali. Ma fe'l ſangue ( e ciò avviſa infra gli al tri
il noſtro Ippocrate ) per ſe ſteſſo non è caldo , convien! inveſtigare , onde
il calore in prima gli avvenga,e la cagio ne per la quale caldo mai ſempre
nell'arterie , e nelle vene quello mantieneſi . Credettero alcuni degli
antichi, che'l fangue ſi riſcaldi , e caldo continuamente ſi mantenga , perlo
movimento , che dal cuore , o dall'arterie egli conti nuo riceve ; ma non baſta
certamente un si debile movie, mento a ingenerar nel ſangue sì gran calore ;
anzi prima che'l cuore , e che l'arterie ſi faccian vedere nell'huomo , caldo
vi ſi ſperimenta il ſangue ; ne meno a ciò baſtevole è certamente il ſuo
perpetuo muoverſiin giro ; ma chiunque P p 2 pon 300 Ragionamento Quarto pon
mente alla materia , onde ingeneraſi il ſangue, più age? volmente peravventura
inveſtigar ne potrà la cagione. E gli faſſi séza dubbio il sāgue del Chilo, e'l
Chilo s'inge nera d'erbe , e di frutta , e di carni, che altresì dell'erbe, e
del le frutta vennero fatte , e ingenerate ; or sì fatte vegetabili ſostanze,
come ancora le minerali,per la formentazione ſo la divengon calde sì factamente
, che ſenza aver d'altro bi ſogno., mentre dura la forinentazione, dura
parimente in loro più , o meno il calore ; cofa,la quale nel mofto, c in al tri
ſomiglianti fughi da chiunque mente vi pone ad ogni ora ravviſar eglifi puote ;
ma d'altra affai più nobile , e più maraviglioſa maniera certamente e' ſi pare
quella formen tazione,che faffi nel fangue , la quale in parte è ſomiglian te a
quella , che avvenir ſcorgeſi alle diſcorrenti ſoſtanze minerali ; onde avviene
che lo ſpirito ,che per chimica ma no dal ſangue li trae, ſia gran fatto
diffimile da quello che ſi tragge dal vino e da altri ſughi formientati
vegetabili trar fi ſuole . Ma come veramente una tanta opera nel ſangue fi
faccia , e qual ne ſia la cagione, non mi par tempo oppor tuno a conghietturare
; e baſti per ora ſolamente ſapere, la formentazioneeſſer quella , la quale
diliberando nel fan , gue i ſemi del fuoco da que'ritegni , per li quali non
pote vano eglino muoverſi di quel moto mai ſempre dilatante propio delfuoco ,
v'ingenera, e vi mantiene continuo il ca lore;ma nel ſangue poi(o in altro ſugo
al fangue equivale te )de’peſci, o d'altri ſomigliáti animali, no mai calor fi
rav vila; cõcioffiecofachè i femi del fuoco in lor fieno , o molto pochi, o in
sì fatta guiſa con altri, & altri ſemi di varie altre coſe avviluppati,che
mal ſi poſſono eglino per lo movime to della formétazione,conechè grāde e’lia
agevolınéte ſvi luppare . Ma che che fja di ciò, uno ſolo è certamente per
manevole negli animali il calore , il quale , or naturale , or non naturale
porrà dirſi, fecondochè convenevole , o non convencvole e farà alla natura di
quelli . Ma fe'l ſangue concinuo va cõſumandoſi cô ingenerarſene ſempre mainuo
vo, intanto ,che dopo qualche giorno non ne riman più goc cia alcuna del
vecchio, certamente convien dire ch'appena ne'fan DelSig.Lionardo di Capoa. 301
ne fanciullinon inolto guari dopo i loro naſciinenti il caldo innato ritrovar
puoſſi; ed ecco, s'io pur non m'inganno, ca duti, e ſparti a terra fin dalle
fondamenta i maggiori argo menti in difeſa della doctrina d'Ippocrate , portati
per Ga licno . Ma per ritornare al noſtro propoſito : di ſtate pllo calore
dell'aria circonſtante , la qual continuamente dagli huomi niper la
reſpirazione li bee , e per le ſoſtanze del volante . ſalc , che'n quella , più
, che in altra ſtagione nell'aria ſi ri trovano , sformatamente la
formentazione del ſangue , e in eſſo in prima , e poi nelle viſcere divien più
grande,e pa riinente ilcalore ; allo incontro poi il verno, mancando all' aria
que'ſali, e tra per queſto , e per la ſua freddezza ſi di minuiſce colla
formentazione, così nel ſangue,come nelle viſcere neceſſariamente il calore ;
ne per altra cagione nel le parti di Settentrione il ſangue , e le viſcere ,
maſſimame te di verno non molto calde ſcorgonſi ncgli animali, e in alcuni di
eſli mancar affatto ſi ravviſa ogni fcintilluzza di calore,sì fattamente , che
per ogn’uno trapaſſati ſi ſtimereb bono ; ne pare dalla verità lontano ciò che
de' Lucumori narra Sigiſmondo Libero : Dicono che agli kuominidi Lucu morie :
coſa mirabile , e incredibile , e che ha più della favo la , che del verifimile
: fuole intervenire , chequelli per ciaſ cun'anno , cioè a' ventiſette del
meſedi Novembre , nel qual giorno appreffo de', Ruteni è la feſta di S. Giorgio
, muojano,6 chepoi nella ſeguenteprimavera a'ventiquattro d'Aprile al la
fimilitudine delle ranocchie di nuovo riſuſcitino . Ma che che faſi di quelli :
lo dico , che ſe Ippocrate , e Galieno aveſſer voluto veramente filoſofare ,
avrebber per avven tura ritrovato la vera ragione , per la quale di verno , e
di primavera i cibi meglio aſſai fi digeſtiſcano, eſſere ſolo per chè a
que’tempi quella nobiliſima ſoſtanza, la quale fico municâ dal ſangue allo
ſtomaco , e fa la digeſtione,affai più vigoroſa, e forte fia, che di ſtate non
è, in cui per lo calore oltremodo in quello accreſciuto ſi diſlipa , e fi
dilegua ; cf fendo ella , comechè accender non fi poffa , vie più dello {pirito
delvino volante , e ſottile ; e per mancamento d'u pa co 302 Ragionamento
Quarto na cotal ſoſtanza ſenza fallo avviene , che gli huomini, co mechèpiù
caldi , men gagliardi ſi ſentano , e atanti della perſona . Ma nc .men ſe ſi
concedeſſe a Galieno , che v'abbian ve ramente due ſorti di caldo negli animali
, ſarebbe ciò pun-, to per giovare ad Ippocrate ; concioſliecoſachè , o innato
, o avveniticcio che'l caldo fi concepiſca, purchè e' s'avanzi .nell'animale ,
conſumerà ſenza fallo il corpo diquello ; la onde ſe fi ammette la ragion da
Ippocrate nel precedente aforiſmo recata , converrà certamente dire , ch'a'
giovani più ch'a' fanciulli , e che di ſtate più che di verno abbon devol cibo
faccia meſtiere ; ma ciò Ippocrate , e Galieno fe'l vedano , che per altro
poiifanciulli più largamente eſ ſer denno cibati ; sì perchè abbiſogna lor
copia di materia per creſcere , sì perchè la lor ſoſtanza più agevolmente fi
dillipa; e quantunque di ſtate abbian più biſogno di riſtoro , e dicibo gli
animali , nondimeno non molto bene, e per fettamente in quel tempo facendofi la
digeſtione , convien che parchi ſiano alquanto eglino nel cibarſi. Ma lo laſcia
to aveva di rammentarvi , che Ippocrate medeſimo rifiuta incautamente ciò, che
Galien delle due ſorti di caldo, a pro di lui dice; imperocchè Ippocrate reca
l'eſemplo degli atle ti, in cui certamente il caldo avveniticcio , è quel che
ſovrabbonda ; tralaſcio ciò che dice parimente Ippocrates, cheivecchj per avere
ſcarſità di calore , non ainmalino co sì , come i giovani difebbri acute; co
che pare, che ne me no il calor de'febbricoſi , ſecondo Ippocrate, differiſca
dal l'innato , ſalvo che per gradi . Maper mio avviſo la colpa tutta non è miga
già diGalieno, ma d'Ippocratc ; imperoc chè egli,comechè no'l dica apertamente
, ſuppone le due ſorti di caldo ; perchè nel medegmo aforiſmo a ſe medeli mo
e'viene a contraddire . Nell'aforiſmo ſedecimo fi dice, chci cibi umidiconven
gono a 'febbricitanti tutti. Ma a color , che patiſcon coti diane febbri, o
terzane, diquelle chechiamāli( purie , i qua per tutto il corſo del male
tengono lo ſtomaco , e l'altres viſcere ripiened'acquoſe , ed unnidiſſime
ſoſtanze , lo per me li Del Sig. Lionardodi Capoa 303 me non sò , comegli umidi
cibi poſſan unqueinai approda re. Lafciando egli poi di favellar più de'cibi ,
fa ſtrano pal faggio Ippocrate alle medicine purgative ; foggiugnendo nell'aforiſmo
venteſimo, che quelle coſe , le quali o figiu dicano , o giudicate interamente
già ſono , non ſi debbano muovere, e ne con medicine , ne con altro irritare ,
ma lila fcin così ſtare ; ſentenza, la quale con altre de' libri degli aforiſmi
volle Ippocrate , che ſi leggeſſe nel libro degli umori , ed in altre ſue opere
, e contiene ſenza fallo uil, atiliffimo avvertimento ;mapotea certamente
Ippocrate far di meno ditorſi una sì tatta briga , cotanto ella è chia ra, e
manifeſta coſa ; e nel vero chi ignorar mai potrebbe , avvegnachè non inai
ſtudiato abbia in medicina , che ad huom perfettamente guarito della malattia ,
non che lava cuazione, che potrebbe di nuovo ſcopigliare il ſano ordi namento
del corpo , ma niuna altra forte di rimedio non faccia meſtiere ? Ma forſe
ſcorger dovette Ippocrate, che i medici de'ſuoi tempi, non altrimenti che li
facciano og. gidì que' de’noftri , o poco , o nalla vi badavano ; e ciò per
mioavviſo avviene , perchè di lor natura i medici avidi ſon mai ſempre di far
coli, chepaja al vulgo grande ; come è il vuotar con ſalafli , e con purgative
medicine ; e van cer cando ogniora qualche apparente cagione di poter ciò egli
no fare ;eforſe che'l medeſimo Ippocrate non gliele porge allor ch'e ' dice in
un'altro aforiſmo, che ciò che rimane dopole malattie foglia dinuovo
ingenerarle ? ma chi ben riguarda la coſa , apertainente ſcorge, che non
ſolamente in ciò ,che accénato abbiamo,maquaſi in tutte altre materie ritrovano
i medici ciò, che lor fa inefticre, nell'opere d'Ip pocrate ; e queſta
certamente è la cagione , per cuida'no Atri Setteggianti ſia Ippocrate in
qualche pregio tenuto. Ma che che lia di ciò , dovea annoverar Ippocrate
minutamen te i ſegni , per li quali ravviſar poſſa il medico , che'l male
interamente lia andato via ; c que'ch'egli altrove , e Galić nelle chioſe
brievemére produce in mezzo ,quáto ſianofal laci ognun per ſe ſteſſo conoſcer
puote . Doveva pariméte Ippocrate ſpiegar diligenteméte,che ſia ciò che rimane
do po le A 304 Ragionamento Quarto po lemalattic ; es aitro e' non dice, niente
certamenteegli inſegna , chenon ſia a tutti ben noto . Dice indi nell'aforiſmo
venteſimo primo Ippocrate, che ciò che vuotar fi dee ,per le ſtrade, onde ha
egli cominciato ad uſcir fuori, e per li convenevoli luoghi convenga vuo tarlo
. Qui il gran macſtro delle più aſcoſe materie dell'ar te , non fi dipartendo
dall'uſato ſuo coſtume , imprende ad inſegnare faccenda, eziádio alle madrine
manifefta; e non fa menzione di niuno di quegli avvertimenti, i quali dovca
egli negli aforiſmicertamente regiſtrare ; cioè quali vera mente li licno
que'luoghi, ch'egliappella convenevoli, come talora tra per la delicatezza
d'alcune parti , e per le mordacità de’lughi , o per altra cagione convenga al
me dico altrimenti operare di quel ,che li faccia la natura. Vien poſcia
quell’Aforiſmo altrove da noi recaro , che contiene nel vero un'ammaeſtramento
molto , e molto ne ceffario a ſaperſi dal medico intorno al tempo delle purgam
gioni nelle malattie ; ma da’ſeguaci d'Ippocrate , e diGa licno , come abbiam
dimoſtrato,in niunconto tenuto . Mów la colpa , s'Io pur non vado errato , in
gran parte ſi dec ad Ippocrate attribuire, ilquale dovea certamente ſcriver co
ſa di sì gran momento d'altra miglior forma,e produrre in mezzo le ragioni, e
le ſperienze, che fanno al propoſito , e poſſono la verità dalui inſegnata
appieno aʼmedici perſua dere. Ma il buono Ippocrate ciò traſandando logora il
té po in narrar altre inutili novelluzze ; anzi con recar egli quell'altro
Aforiſmo :nel cominciamento de’mali , ſe pu re ti pare, che s'abbia a muovere,
tu muoverai: séza giugner altro, comecertamente dovea eglifare,da cagione di
por re in dubbietà ciò che prima avea egli inſegnato . Nell’Aforiſmo
ventitreeſimo ripete Ippocrate vanamé te ciò ch'egli altre fiate avea detto;ma
ciò ch'e'poſcia v'ag giugne , egli è certamente un'avviſo così fuor di ragione
, che giuſtamente da più avveduri medicanti , comechè per altro ſuoi
parziali,vien traſandato ; cioè che vuotar fi deb ba fin’allo sfinimento , ſe
mai ne ficcia inelticri, purchè pof ſa comportarlo l'infermo. Maquinon ha
dubbio nuno , che Del Sig.Lionardodi Capoa. 305 che Ippocrate dato c'non abbia
il cervello a rimpedulare; imperciocchè non ſi rammenta , che poco addietro
corali vuotamenti avea egli oltremodo biafiinati, ſaggiamente ſti mádogli di
grādilimo riſchio; quantunque egli in ſe ritor nato altrove poidi nuovo gli
rifiuti.Ma più v'è di male , che Ippocrate no fa parola niuna diqual vuotaméto
intēder vo glia ; ſe di quel , che per li ſalaſli , come ſpiega Filoteo , o
pure diquel, che per le purgagioni s'adopera; come rac coglier fi può da ciò ,
che in prima egli ha detto ; o diquel che fafli , e per gli uni , e per l'altre
,comevuol Galieno , il quale ſcioccamente approva nelle chioſe la menzionata ,
dottrina dell'Aforiſmo, Ma ſe mai d'un sì grave fallo ſcu ſazion ritrovar
poteſſe Ippocrate , e vero foſſe ancora in qualche malattia haver luogo sì
fatte eſtreme,e mortali va cuazioni, Io ſaper vorrei da lui,comemai cotali
purgagioni s'abbiano a porre in opera sì , che o giúgano appunto allo
sfinimento,o no’ltrapaffino anche di molto; perciocchè con graviſſimo riſchio
del povero infermo sì fattamente ancora operar potrebbono, che colle liquide
ſoſtanze curte ſi vuo caſſero päriméte le falde,anzil'anima ácora, e 12 vita ;séza
chè p cercana (periéza abbiamo, che debile, e ſpoſfata puc gativa medicina
ralormolto vuoti , e groſſo calice d'ama riſſimo , e violentiſſimo beveraggio
nulla non operi, ſecon dochè 'l corpo, più, o menvi & ritrova adatto
;perchè trop po pericoloſo nel vero riuſcirebbe a porre in opera l'avviſo
d'Ippocrate , ponendoci a troppo ſtretto riſchio d'ammaz zar l'infermo, o di
nulla giovarlo . Ma poſto , che ciò che inſegna Ippocrate ſi poreifc dal medico
ſicuramente legui re, qual pro per Dio a’milerellilanguéti mai ne avverrebbe,
ſe di neceſſità le più nobili, e utili foſtāze del corpo s'avreb bono ad un'ora
a vuotare? e quì ci accade d'avviſar la ſcioc ca pecoraggine d'alcuni medicāti
de'noſtri tempi, i quali no avendo ardimento d'imnitar Ippocrate , e Galieno
nel ſe gnare fino allo sfinimento , l'imitano poi nell'uſare violen tillime, e
nocevoliſſimepurgagioni: follemente immagi nando ,nel far grandemente vuotare ,
tutto il ſapere, e'l va lore del medico , e l'eccellenza dellamedicina
confiftere ; e RI pure 306 Ragionamento Quarto - pure il medeſimo lormaeſtro
Ippocrate apertamente avvi ſa,che non miga per la quantità s'abbiano a ſtimare
le pur gagioni , ma per la qualità degli umori,che ſi vuotano.Ma trapaſſando al
ſeguente Aforiſmo:ciò che ſi dice in quello , giàvenne detto in prima
nell'Aforiſmo ventidueſimo; per chè chiaramente ſi vede , che Ippocrate
follemente riſpar miando le parole nel biſogno maggiore , le conſuma poi , ove
non fa meſtieri ; ma non una , o due fiate egli in ciò ſi vede fallare ; e ſimigliantemente
ciò , che ſi dice nell'ulti mo aforiſmo, fù detto già nel ſecondo ;perchè egli
vien giu dicato ragionevolmente vano , e ſoverchio da Galieno ,che che fi
dicano in contrario gli altri chioſacori :onde non è da farne più motto . Egli
era sì agevole impreſa ad Ippocrate il dettar aforif mi , che lo immagino , che
egli dormendo ancora ne com poneſle; imperocchè non ſolamente in queſta , ma in
cuce ' altre ſue opere gliva egli ſeminando; e quelche più dej recar maraviglia
ſiè , che ne reca alcuniegli ſovente , che colla materia , la qual ſi tratta
non han punto che fare; ma quando di ciò lo vado ricercando la cagione, ritrovo
da al tro una sì fatta agevolezza non procedere, ſe non fe dal ſuo poco
intendimento , e dal non diſaminar lui bene le coſe ; perchè fi verifica in
Ippocrate quel faggio avviſo d'Ariſto tele , che coloro, che a poche coſe
riguardano agevolmea te diterminano ; e quindi avviene , ch'egli tratto tratto
diſguiſato , econfuſo non ſerba ordine, o maniera alcuna , a guiſa de’noſtri Romanzatori
, i quali di palo in fraſca ſem pre faltando, quando men s'aſpetra, rompendo il
fil del ra gionamento ci laſciano , e d'alcro imprendono a ragionare. Malafciam
Bradamante , e non v'increfca V dir , che così reſti in quell'incanto, Che
quandoſarà il tempo , ch'ella n'eſca La farò ufcire, c Ruggier' altrettanto,
Come raccende il guſto il mutare efca , Così mipar , che la mia iſtoria quanto
Or quà ; or là più variata ſia , Mero a chi l'udirà nojoſafia. Così Del
Sig.Lionardo di Capoa 307 2 L Così il noſtro Ippocrate ora laſciando di
favellar delle purgagioni,nelſecodo libro a far parole del ſonno trapaſſa,
dieědo : il ſonno ove in alcuna malattia fia tormentoſo ne addita quella eſſer
mortifera ; ma ſe ſarà egli giovevole,ne fa avviſati non eſſer mortale . Egli
l'ha indovinato certamente alla prima ; e non veg giam noi tutto di trap.affar
molti, emolti, che tempo del male piacevol ſonno agiatamente ſopiva : e allo
incontro rimaner in vita altri , che nelle loro malattie da funcſtif
limiſogni,o da altro aſpramente fur dormendo travagliatis Or non avvien quaſi
ſempre nell'avanzamento dell’avute malattie , che gli infermi più moleſtia in
ſonno , ch'in veg . ghiando patiſcono ? e purnondimeno eſli per la più parte
riſanano ; oltr’a ciò le terzane , e tutt'altre febbri intermit centi fogliono
il più delle volte con faſtidioſi ſonni gli am , malati sformatamente annojare
: e pur le sì fatte,ſecondol' avviſo del medeſimo Ippocrate,non fon di riſchio
veruno; e quantunque ,per parere diGalieno, Ippocrate non intenda , di favellar
de fonnida tali febbri avvegnenti, pur nondi meno era il diritto ch'egli
l'aveffe apertamente ſpiegato, ne miga alla diſcrezion de'chioſatori , o de'
lettori laſciato. Nel ſecondo Aforiſmo afferma Ippocrate , che ſe'l ſon no la
farnetichezza raccheta , vada ben la biſogna . Ma che è ciò per Dio , ch'egli
dice ; Io vo conceder , che talor vaglia , ne vi ha chi il nieghi , ch'un
placido, e ſoave ſonno valevole ſia una ſinaniante farnetichezza ad attutare :
eche aver fano l'intelletto ſia coſa non che buona, maottima ; ma ſe un sì
fatto giovamento s'aveſſe altronde, che dal sô no , domine ſe ſarebbe male ? e
ſe ſarebbe ancor bene,ab biſognava certamente Ippocrate dir nell' Aforiſmo :
buona coſa è , che i farnetici dal lor farneticare riſanino ; e five drebbe
ſenza fallo regiſtrata una dottrina nel divino volu medegli Aforiſmi da fare
ſcorno alla concluſione di quel ſovrano collegio de’medicanti, la ove tutti
conchiuſcro, che Mecenase non aveva ſonno , E queſt'era cagion,che non dormiva
”. Ma quanto meglio avrebbe fatto Ippocrate , e quanto Q92 con 308 Ragionamento
Quarto 2 $ con avanzaméto della medicina ſpeto avrebbe egli il tem po, ſe in
vece delle sì fatte novelluzze aveſſe impreſo a rac corre , e a dimoſtrarne di
quanto riſtoramento ne fia il ſon none come allettar fi poffa a recarne quelle
tante utilità ,on de ragionevolmente ilParacelſo ebbe a gridare : fomnus Jant
um arcanum eft in medicina ut libenter ab aliquo fcire velim , abfit difto
error , an , & qua medicina fit, quæ in omnibus morbis, tampræfens, &
repentinumfit auxilium , adeoque corpori , acfanitati condueat æquè ac fomnus.
Co sì col grave fafcio di penſieri ſogliono i malati laſciar an che i più
oſtinati dolori della perſona, allorche luſingando loro le pupille il ſonno
dolcemente gli abbandona in fule piume; laonde non ſenza qualche ragione
l'autore dell'in no ad Orfeo attribuito,chiama il ſonno Re degli huomini, c
degli dei Somnequies rerum ,placidifſime fomne Deorum , Paxanimi , quem cura
fugit,tu pectora duris, Feſa minifteriis mulces , reparaſque labori . Canta
Ovidio ; e Seneca Tuque à domitor Somne malorum , requiesanimi, Pars
humanamelior vitae E'I Caſa O ſonno, o dela queta umida ombrofa Noite placido
figlio , o de’mortali Egri conforto, oblio dolce de'mali Si gravi , ond'è la
vita aſpra , e nojosa E'lTallo Padre Orche m'arde l'a febbre gorche'l vigore
Vital m'invola il duolo acerbo , e rio , Col ramo: molle dell'onde d'obblio
Torrai laluce agli occhi, ame l'ardore ; ne altro rimedio ritrovò Erminia (
appo il maggiore deno Itri Poeti ) .a? ſuoi dolori,che'l ſonno Cibo non
prendegià , che de'ſuoi mali Solo fi paſce, e för di pianto ha fete ; Ma'l
funno, che de'miſeri mortali E' coiſko dolce obblio poſa, e quiet thing Son .
DelSig. Lionardodi Capoa 309 Sopš coʻfenfi i ſuoidolori , e l'ali Diffefe fuura
lerplacide , e chete . Ma comechè ciò fia vero , pocomontava a noi certame te
il faperlo , fe non fappiamo inſieme chenti , e quali ſiano irimedj daciò
operare;perchèdovea certamente Ippocra te diviſare inſieme degli argomenti , onde
a’malati ſi può chiamare il ſonno ; e comechèoſtinato ingannarlo : e non
folamente dire cheil ſonno approdi a corali infermi. Ma forſe lo vado errato ;
perciocchè non fo com'egli il pur rivelò af fuo Signor de la Sciambre , e fe ,
che colui n'in fegnaffe i ſentimenti di lui, o per fua dappocaggine, o per la
ſua natural mutolezza in prima naſcoſi : conciofoffe co fa , che chioſandocolui
queſto ſecondolibro, ſcritto aveffe: nel titolo : nova ratioexplanandi
aphoriſmos Hippocratis , per quam uſusaphoriſmorum ab Hippocrate intenti, nec
ta. mea conſcriptireperiuntur . Econ queſte magnifiche pro. meſſe venendo egli
poi al poſtro Aforiſmo , dice per fenté za d'Ippocrate : ad praxim revocabitur
hæc prognofis, ſiis ejufmodi effe&tibus appoſitis remediis fomnus concilietur
. Ma prima,chc a lui ne diè la curaIppocrate alParacelſo d'avvi ſarlo , il
quale nelle chioſe del derro Aforiſmo diſſe : Som nifera quomodocunqueea
vocentur àquolibetmedico fummo perè conſideranda Junt ; fomnusenim medicina ef
ſuperans omnia arcana gemmarum ', cu lapillorum pretioforum . Qui Natura
Arcantfomniferumexconvenienti effentia desīte ptum ,rectè applicare novit,is
magni apud ægrotosfaciendus eff . Non igitur folum
defomnisnaturalibusHippocrates bic loquitur ,fed oportet ut euminrelligatis ,
fcut medicum ex pertum , qui ex fpiritu medicina locutus eft , non ut Humori
Ba, qui ignorat quid fit fomniferum ,fed ut artifex . Mache mivo Io più nel
farnerico degli Aforiſmi d'Ippocrate lun gamente avvolgendo , i quali di sì
picciola levatura ſono , quára per noifin'ora s'è accénata. Vegga pur
chiunquecó animo tranquillo , e ripofato , e veramente da filoſofo daw niuna
paſſione imbardaro , e'sì gli giudichi cutti , e ſottil mente gliſtacci,
cheſenza troppa fatica logorarviagevol mente ritroverà eſſer i rimanenti tutti
della medeſima va glia 310 Ragionamento Quarto 1 9 1 glia diquelli, che fin quì
diviſati abbiamo :eche malamē: te allogata abbian l'opera in affibbiarvi tante
chioſe , eco mentiſopra,i noſtri medici, mallimamente il narrato Signor della
Sciambre , il quale lo non sò con qual arte s’indovis ni , e a noivoglia
comunicar corteſemente ciò che Ippo crate avea intenzione di dire , e'l racque
ſolamente per ri ſerbare al ſuo valoroſo ſegretario la gloria d'una sì magui.
fica impreſa . Ma ſe bene Ippocrate detto veramente aveſ ſe ciò che il Signor
della Sciábre diviſa , e pretende aver il maeſtro a bello ſtudio tacciuto ,
gran coſa pur cgli non fa rebbe , come ſi può ſcorgere nelle ſue chiole . Ma
incom portabile certamente, e' mi pareil Signor de la Sciambre, Aon ſolamente,
perchè in ogniaforíſino coſtantemente egli afferma queſto , o quell'altro aver
Ippocrate avuto in men te di dire,ma eziandio, perchè talora in materie
chiariffime ci vuol'egli far vedere per roſſo il giallo , ficome quando p ſoftenerche'l
, ſuo modo di medicare non travii dagl'inſe gnamenti d'Ippocrate , vuol farne a
credere colui aver avu to in animo , che ancora fuori del gonfiamento le crude
materie vuotar fi debbano ; error,che in verità non mai gli porè cadere a niun
modo in penſiero . Or ſe la potente faſcinazione dellepaſſioni non aveſſe
magagnate le menti de'chiofatori , eglino ſiſarebbono , fe lo diritto eſtimo,
da per ſe del poco , 0 niun valore del volume degli Aforiſmi agevolmente
avveduti, almen per quelli che perentro ma nifeſtamente falfi vi s'avviſano ;
intanto , che ne meno il tanto parzial d'Ippocrate Galieno , e altri ſeguaci di
quel lo gli han voluti torre a difendere . Ma comechè cotanto imbardato fi
moftri Galieno delle dottrine d'Ippoctate pur egli falſo a cento , c mille
pruove confeſſa apertamente ayer lui ritrovato quell’Aforiſmo, il qual dice ,
che ſe mai la rete efca del ventre fuori, abbia di neceſſità a infracidire.
Machi falſo parimente non ravviſa quell'altro , ove inten de Ippocrate didarne
certi ſegnali da conoſcer le donne in cinte , dicendo ; ſe conoſcer tu vorrai
quando la femmina gravida ſia , innanzich'ella vada a coricarſi, dalle bere la
mulla, e s'ella ſarà moleftata da’dolori del ventre, di certo, che
DelSig.Lionardo di Capoa 311 che ſarà gravida: ſe nulla ſentirà ella nonaverà
concetto.E fe l'aforiſmo è falſo , abbiſogna anche dir , che in vano ſi
becchiil cervello Galieno per recare la cagione, perchè abbia a farſi dopo il
definare cotal operazione ; è falſo diſ fe Avicenna,chedell'error dell’Aforiſmo
in parte s'avvide , che tal fatto avvenga a quelle donne, che non hanno in co
ftumetal beveraggio ; imperocchè a quelle donne, le qua li per addietro non mai
l'aſſaggiarono , o gravide , o non , gravide , che ſiano elleno , foglia talora
la mulla dolori di ventre cagionare : il che avviene ancora dalla mulla com,
poſta coll'acqua piovana , della quale alcuni immaginano aver Ippocrate
favellato. Falſo pariméte ſcorgeſi l’Aforiſ mo , che mortale ſia a donna
gravida ogni acuta malattia . L'Aforiſmo , di cui meritevolmente dice il
Santoro : ne , mofana mentis defenderet hunc aphoriſmum : cioè, che co loro ,
de'quali l'orina è fabbionoſa abbian la pietra nella veſcica, che che a difeſa
d'Ippocrate il Zecchi ſi dica , egli è così apertamente falfo , che Ippocrate
medeſimo altrove lo rifiuta , e ripiglia fortemente alcuni antichi medici , che
ciò dicevano · Galieno ancora avvifa la ſua falſità , e dice eſſer errore
d'Ippocrate , o dc'copiſti, e che l'Aforiſmo do vea dire , o nella veſcica , o
nelle reni ; ma con cutta que fta aggiunta di Galieno , falſo altresì tutto di
egli ſi ſperi menta.e Girolamo Cardano nelle chiofe,dice lui ſteſſo per lo
ſpazio di trenta anni aver avuto l'orina ſabbionoſa , ſen za aver avuta mai
menoma pietra , o nelle reni , o nella ve fcica . Soggiugne oltre a ciò , che
di dieci perſone appena che una additar ſe ne poſſa , che non abbia l'orine
ſabbjo noſe : e pure rari fon coloro , che han pietre nelle reni , e radiſſimi
coloro, che l'han nella veſcica . E oltre a ciò egli racconta , che gli
Spagnuoli poco men che tutti fan l'orina ſabbionofa , e nondimeno pochiſſimi vi
ſono infra loro, che patifcano il mal della pietra . Ma non menofalſo è quello
altro aforiſmo ,che'n bocca de’medici tutto di eſſer veggia mo,cioè,che
que'febbricofi,i quali fan corbida l'orina , qua le è quella de giumenti, o
hanno attualmente , o auranno di preſente dolor nel capo . E quell'altro , che
a coloro , a ’ qua 312 RagionamentoQuarto quali nelle febbri ogoigiorno viene
il rigore , ogni giorno le febbri ſi tolgano. E quell'altro , di cui Giulio
Ceſare della Scala , così a Girolamo Cardano ragiona : nequemés ægrotat , ut
falfo voluit Hippocrates , cum dolorem , quo cru ciamur non ſentimus: comechè
non vera ſi trovi la ragione , checolui poi ne recà ſoggiugnendo :fed quoniam
dolentem ad locum fubfidii ergo diſtracti ſpiritus non repreſentantur,
imaginationi. E quegl’aicri, ch' alle femmine, alle quali corrono imeſtrui,e
agli Eunuchi,non mai vegna loro la po dagra . Maquale ſciocca femminella nõ
riderà ſtrabocche volmcntc in udendo quell'aforiſmo , che i malchi per lo più
s'ingenerino nella parte deſtra della donna , e le fem mine nella ſiniſtra ? E
di quell'altro , che ſe la donna aura conceputo maſchio , ſi vedrà ben colorita
in volto ; mares avrà conceputa femmina , farà pallida ; e di quell'altro : ſe
una donna non ſarà gravida, e vuoi ſapere ſe concepirà ,co prila bene con
panni, e di ſotto adopera ſuffumigji e feľo dore per entro il corpo vedrai, che
vada alla bocca , e alle nari , ſappi, che per ſe ella non è ſterile . Taccio
altri , altri aforiſini intorno alla medicinal materia, che fan vede re , che
Ippocrate poco avea che fare certamente quando fcriveva un tal libro , ſe vi
pone sì fatte fraſche , che ſe ben vere elle foſſero, non però di meno non ſono
tali, che debu ban regiſtrarſi in un'opera nella quale intende Ippocrate
inſegnare le più ſegrete coſe dell'arte. Ma ad altro facendo paſſaggio: già noi
veduto abbiamo quanto poco Ippocrate intelo foffe della natura delle co fe
pertinenti alla medicina ; ma ſpezialmente anche ſi pa che niente fi fu egli
certamente ſcorto della ſto ria delle parti del corpo umano , e degli ufici di
quel lc , e del modo , col quale adoperano , come ogn'un può ſcorgere in tutti
i ſuoi libri , che non fa meſtieri, ch’lo ne faccia parola . Solamente narrerò,
come per ſaggio dell' altre coſe , ſicome intorno a ciò filoſofi egli una fiata
, di cendo , che quelle parti , che ſono ampie nel ventre, e ftret te nella
bocca , com'è la veſcica , il capo , e lå matrice, ſon fatte per attrarre, eche
apcrtamente queſte sformatamen re , 1 1 1 . te tras 1 i DelSig.Lionardo di
Capoa. 31 ; te traggono , e ſon pieni degli attratti umori ; ene reca per
ragione il vederſische colla bocca aperta nulla ſi trae , e che fporgendoſi in
fuori poi, e ſtrignendoſi le labbra , e adata tandovi una fiſtola ,ſi trae
agevolmente ciò che ſi vuole , e che le ventoſe , le quali ſogliono appiccarſi
per attrar re dalla carne , ſiano ampie nel ventre, e ſtrette verſo la bocca;
ccco le fue parole : Το μειο ελκύσει εφ' εαυτό, και έπεσα σας υγρότη εκ τέ άλε
σώματG- , πότερον τα κοίλα π , και εκπτ . παμύα, ή του στρεά της και τρο/γύλα,
και του κοίλα τε, και ές στνον εξ ευρές . συνη μία , δύναιτ' αν μάλιστα , οίμαι
μύτσι τα τοιαύτα εις ενόςσυγγ μένα εκ κοίλε ε , και ευρίG-' καζ μανθάνειν δε
δεί αυτα έξωθεν εκ τω. φανερών • τέτο με γαρ,τησόματι κεχίωώς , υγρόν δεν
αναστάσεις προσμελήναςδε , και συσείλας και πιέσεις τε τα χίλεα · έτι τε αύλον
ποθέ. μυς , ρηιδίως αναστάσεις αν ό , τι θέλας • τούτο δε, αί στκύαι ποζαλό
μίμαι εξ ευρές ως πνώτερον ενενωμέναι πες τούτη τεχνέαται , προς το έλκαν από
της σαρκος , και επιστά αλλά και πολ α τοιούτοςοπα · των δ ' έσω του ανθρώπς
φύσης, χήμα τοιούτον• κυρίς τε , και κεφαλή , και υπέ es γυναιξί - και φανερώς
αύτο μάλιαάλκει και πλήρεςέπν επαρκτα υγρό Tuloi aici . Non occorre , che Io mi
dia briga in diſaminar si fatte fanfáluche , potendo ogn'ın per ſe medeſimo
ravvi fare, ſolamente in udirle ſoluna fiata, che contengono più errori , che
parole . Egli vuole , che la veſcica tragga l’o . rina ; il che tanto è ,
quanto s’un diceffe,che'l letto del ma re tragga l'acqua da'fiumi;e'l medeſimo
dir ſi puote del ca po , e della matrice . Ben ſi pare poi , ch'egli
ignorimolte di quelle ſtrade, per le quali le diſcorrentiſoſtanze ſi por tano
in diverſe parti del corpo. Ma egli è diſadatto l'eséplo della bocca, e delle
ventoſe, comechè egli pur ſi cõcedeſſe , ch’elleno adoperaffero per traimento ,
ficome fin ' a' dìno ſtri han follemente creduto , e inſegnato le ſcuole ; ma
qual maraviglia , che ciò Ippocrate aveſſe affermato , s'cgli ſcriſ ſe ancora
nel libro della natura del fanciullo, che lo ſpirito caldo tragga a ſe lo
ſpirito freddo , e ſe ne nutrichi : Távce δε , σκόσα θερμαίνεταικαι πνεύμαέχει
το δε πνεύμα ρήγνυσι , ποιέει οι οδον αυτ έωυτώ , και χωρέσα έξω · αυτό δε το
θερμαινόμενον έλκα ες έωυτο αύθις έτερον πνεύμα,ψυχρόν δια της βαγής , αφ' και
τρέφεται. Νce vero cioche diccAndrea diLorézc, cheIppocrate ſapeſſe títo
dinotomia Rr quan Ι 314 Ragionamento Quarto 1 quanto gli faceva luogo per la medicina;
concioſliecolache dubitar non ſi poſſa ,che molte, e molte coſe di notomia ,
che neceſſarie séza fallo ſono alla medicina razionale ,igno te affatto gli
foſſero ; imperocchè, per tacer d'altro,cgli è certamente neceſſario a quella
il conofeer chenti, e quali fieno i movimenti dell'arterie , le itrade del
chilo, l'aggira mento del ſangue , la fabbrica , e gli ufici delle giandole, e
altre , e altre molte coſe , delle qnaliniuna conrezza ebbe egli giammai ;
nondimeno avvegnachè queſte, e altre co Scaffai, pertinenti alla medicina
ignoraffe Ippocrate , non ſi può negare , cheegli molto nous'avanzaffe ſopra
tutti gli altri medici de'ſuoitempi, per quel , che noi fappiamo , il che da
altro certamente non nacque , che dal talento natu Tale , che egli ebbe adatto
aſſai al ineſtier della medicina, il quale ajutò egli , e accrebbe ſommamente
in coltivan do oltremodo quella parte alla medicina , molto neceſ faria , qual
è ſenza fallo l'offervazione ; e nel vero Ippocra te fu un curioſo oſſervatore
; perchè ebbe a dire di lui Ga lieno , ch'egli affai più coſe colla ſperienza ,
che colla ra gione conoſceſſe; e il meglio certamére avrebbe fatto egli, le
trafandate tutte altre biſogne, a queſta ſola inteſo ſem pre aveſſe ; e ſenza
ad altro inframmetterſi aveſſe folamen te narrata la nuda, e femplice ſtoria
intorno agl'infermi da lui medicati ; ma nondimeno non ſi ſcorge aver egli
tanti felicità nell’ofſervazioni Ippocrate , che, o per poca dili genza , o per
alcro , che ſi fia egli ſovente non inciampizma quel , ch'è peggio, anche
talora in coſe agevoli molto ad offervare e fallare ſcioccamente ſi vedese ciò
ch ' e'nenar ra , ne men per avventura il direbbe un rozzo, ed ineſperto huomo
dicontado . Ma in quella parte poi della medicina , ch'alla dieta ap partiene
egli li portò nel vero così bene Ippocrate, che niu na cofa par che glimanchi;
e di certo e' ne meriterebbe una grandiſſima loda , ſe queſto medeſimo non
faceſſe aperta mente conoſcere , ch'egli ſtato foſſe molto manchevole , e
difettoſo in quel, che più propio , e neceſario egli è in me dicina, e in cui
conſiſte , ed è riporta l'eccellenza, anzi l'cf fere Del Sig.Lionardo di Capoa.
315 1 ſere tutto del medico ; cioè nella concezza de'inedicamen ti :
maſſimamente di quelli , che tali veramente ſono , e che da’moderni , ſpecifici
chiamanſi ; i quali ſenza cagionar ne vacuazione , ne movimento altro niuno han
virtù d'eſtin guere il male , e riſtorar l'infermo ; ina comechè in ciò affai
mancaffe Ippocrate, purebbe egli tanto intendimento,che ne'mali acuti della ſola
dieta per lo più ſi valſe , rade volte adoperando i vuotamenti, come colui, che
ben conoſceva, ch'eziandio con yuotare gran quantità d'umori , le malat tie per
lo più ſi mantengano nel loro vigore. Ma che poco foſte inteſo de
medicamentiſpecifici Ippocrate, ſipareaper, tamente da chiunque ſi da cura di
legger i libri degli Epi demj , ne'quali ſi veggon le malattie ne'terminiloro
fatali , o in bene,o in male eſſere oftinatamente terminate; c alcu . na fin’al
centeſimo giorno eſſer durata . Si ſcorge ancora ciò nelle medicine , le quali
egli adopera , come quelle che pericoloſe ſono , e poco efficaci, come ſono
infra l'altre ch' Io taccio , comea tutti conoſciute, le cantarelle , di cui
egli ſi vale temerariamente in verità nell'Idropiſia ,e in altri ma li dando
cinque di effe , e togliendone ſcioccamente il ca po , i piedi, e l'ali, che
potrebbono in parte rintuzzare il lor veleno ; e racconta Galicno, ch’un medico
per ciò aver yo luto fare aveffe ucciſo miſerevolmente un'infermo; ma tã. to e'
ſi compiacque di sì beſtial medicamento Ippocrate , che con peffimo conſiglio
e' vuol , che le cantarelle ſi met tano entro la matrice per vuotarla
de’malvagi umori ; ove pone egli in opera ancora l'Aglio, il Pepe, e la
Sandaraca, la quale,comemoſtra il Mattioli , è una ſpezie d'orpimen to velenoſo
corroſivo , cd altre, ed altre cauterizzāti medi cine ; il che volendo
ſcioccamente un medico de’noſtri tem pi parzial molto d'Ippocrate una fiata
iinitare , riduſſea , pèſſimo ſtato una povera inferma.Neper altro,che p máca méto
ď' efficaci medicine nell'interne infiamagioni ſegnar ſuole Ippocrate fin allo
sfinimento ; c quel che ſi è il peg gio , e Galieno malagevolmente il comporta
contro le ſue medeſime regole,nella pleureſi,ſe nelle parti interiori ſi ſtea
da il dolore , ſolve egli il ventre coll’elleboro, e col peplio, Rr 2 Ma و 310
Ragionamento Onarto Ma chi voleſſe annoverar le mal preparate , violcntise
veler noſe oltremodo , c ſtrabbocchevoli medicinc,che ſuol por re in opera
Ippocrate , elle ſon tali, chei medeſimi ſuoi fee guaci meritevolmente l'han
poſte in miſuſo . Ne per al tro parimente egliconfiglia, che la febbre non
s’abbia a mi tigare nella punta, per fette giorni, e ſi debba dar largamé, te
bere,o aceto co mniele , o aceto con acqua: Ineueſten we xex άσθαι ή πυρετόν μη
παύεινέστα ημερέων ποτέ δε χρήσθω,ή οξυμε aixpýtw ,vi šče xzi üfatı:oltre a ciò
ſoggiugne egli poco ap preſſo,che nel quinto , e nel ſettimo giorno ſi debbano
por re in opera gagliardiflimemedicine da ſpurgare ben bene il petto
,acciocchèil ſettimo giorno menmoleſto all'infermo poi fi faccia fentire : και
έτι τή αίματη , και την έκτη ισχυροτύτοιστ χρέεσθαι τσιστν επαναχρεμπτηeίοισι
φαρμάκοισι , ως την εβδόμην δια jnásoe spegno dydyn . Ma da queſto ,e dal non
eſſer ben lui ſcor to dell'altre coſe della medicina naſce il peſſimo conſiglio
, ch'egli da al medico :che non avédo egli contezza del male adoperar
debbamedicine,manon molto gagliarde ; e ſe co un tal argométo ſcemerà il
male,gli addicerà,che curar e'l debba coll'aſciugare ; ma ſe'l male non ne
ſcemerà , e ne di verri piti graveil citrario fardovrafi: Τών νουσημάτων ,ών μη
επί 5ηταί τις , φάρμακον είσαι μη ισχυρό ,. ήν δε ράων γένηται , δίδεικται «δος
, εύπεπιέον έσιν ισχνάναντα • ήν δε μη ραων ή , άλλα χαλεπώτερον Xu tavavila .
Dalle quali parole, e da quel che indi appreſſo edice apertamente ſi ravviſa
aver Ippocrate voluto in tendere , che il medico ,non ſappiendo qual male
l'infermo paciſca,fi vaglia delle purgative medicine ; e che altro per Dio
avrebbe mai potuto Maeſtro Simone nello ſtudio di -Bologna a'ſuoi ſcolari
infegnare Magli ſcherzi laſciádo , intorno a ciò certaměte parmi più faggio
aſſai il coſiglio d ' Avicenna, il quale vuole,che il medico no conoſcêdo ilma
Ic , altro farnon debba , ſalvo che preſcrivere all'infermo una rigoroſa dieta
, e intáto ſtar cauto , cariguardo per po, ter quello per qualche ſegnal
fotcilmente avviſare . Ma della fuadebolezza ben avvedutofi Ippocrate , per
guadagnarſi il buon nome, ſeguendo egli il coſtume degli alori medici,
cheabbiamonarraci , coll'arti, e colle giun, 1 terie Del Sig.Lionardodi Capoa.
317 terie ricoprir cercolla , perchè diede opera grande agli arr tivedimenti ,
e ne ſcriſſe molti libri; ne per altro cgli com pole ancora illibro degli
inſogni; opera ridevole allai nel vero, la qual ſembraverainente fatta per huon
, che lo gnando færnetichi ; perchè mi maraviglio forte della follia di Giulio
Ceſare della Scala , che ſi diè briga d ' appiccar gli sù un comento . Divulgò
altresì Ippocrate per la me deſima cagione quel celebre ſuo ridevole giuramento
, in cui no lo lo fe più ammirar ſi debba la ſua ſciépiezza , o law fua malizia
. Quelle cofe , ch'e' giura Io non le reco ; ma ben può ſcorger ciaſcuno ,che
elle vi ſono poſte tutte per farlo credere huomopio , e divoro , non altrimenti
, che Ser Ciappelletto per la ſua falſa confeſſione. Ma nientedi meno non
furono baſtevolitanti se sivarj artificj , ch'egli non cadeſſe dalſuo buon nome
, e che , come egli mede fimo confefſiz , più biaſimo affai,che gloria dal
mcdicare e ’ no riportaſſe;ilche non ſolamente gli avvenne,permio av viſo , dal
non aver lui avuto niuna contezza di nobili , e va loroſe medicine, per le
quali egli in pregio montaffe,e l'ac quiſtata gloria e' non perdeffe , qualora
in qualche finiſtro accidéte in medicãdo incorreſſe; ma ancora dal coprendere
aſſai bene Ippocratc , ammacſtrato dalle ſue continue of ſervazioni , i viluppi
, e l'incertezze della ſua arte , e qua to poco ſia il frutto , o'l giovamento
, che poſſa da'ſuoi ar gomenti huom ritrarre ; perchè egli ſcarſo anzi che no
mai ſempre fu d'imporre ne'mali acuti que'rimedi chegrā di chiamanſi da'Greci;
temendo oltremodo di ciò, che age volmente ſeguirne poteſſe ; ne coſtumava egli
, come ab biam veduto , trar ſangue nelle febbri, ſe non fe quando ſcorgevale
da grandi, e interne infiammagioni accompa gnate : ne purgar coſtumava, ſe non
ſe molto di rado, e nel cominciamento ſolo de'mali acuti; perchè n'era talora
ol tremodo biaſimato dalle genti minute , le quali giudica vano , comechè grave
foffe , e di riſchio il male , eſſerne nondimeno piggiorato l'infermo ,
ſolamente per la tra . ſcuraggine, e manchevolezza del medico che non ci avel
ſe al tempo con valevoli purgagioni, e con replicati falafi fat 318
Ragionamento Quarto 2 fatto riparo ; ſıcome la ſciocca rubaldaglia deʼmedici
allor forſe avea per coſtume; i quali in ſomiglianti malattie mol ti , e varj
medicamenti ,ficome egli narra , adoperavano , non altrimenti, ch'or ſi
facciano poco men , che tutti i Ga lieniſtide’noftritempi. Cosìnella paſſata
ctà videroi no. ftriantichi con biaſimi di traſcuragginc indegnamente ol
traggiato , o proverbiato maiſempre Proſpero Marziano, e prima di lui anche
GirolamoCardano;i quali ſaggi,e avve duriſſimieſsédo in gir dietro ad Ippocrate
le medeſinc tac cc del lor maeſtro agevolmére ſi guadagnarono.E a' tempi noftri
abbiamo pure uditi i brôtolaméti, erimproccjcutto di ſcagliati a Paulo Emilio
Ferrillo , per eſſer lui nelle febbri dal preſcrivere le purgagioni ritroſo ; e
indi a poco acerba mente cffer proverbiato Diego Raguſi , perciocchè nel
ſegnare, e nell'uſare le purgative medicine fedelisſimo ſe guace d'Ippocrate, e
del Marziano ſi dimoſtrava , ne mo riva giammai infermo, chenon ne veniffe loro
rimprove rata la dappocaggine , e traſcuratezza d'aver colui ſenza gli acconcj
medicamenti miſeramente laſciato morire. Com tanto il non operare ſecondo la
folle opinione del cieco vulgo , grave crrore , e biaſımevole ſempremai fi
giudi ca e; maggiormente allor, che no li ficgue ciò, che comu mente dalla
traccia de' menovili maeſtri coſtumar ſi ſuole , 1 1 RA 319 1 1 RAGIONAMENTO
QVINTO, des S É ſtanco, c anſante pellegrino , cui lunga, e faticoſa ſtrada
ancor rimane, acciocchè pofla gli ſmarriti ſpiriti rivocando, al fine
diterminato agiatamente pervenire,or in ombroſa felva al canto di piacevole uſi
gnuolo s’arreſta ,or indilettevol poggiore fpirãdo fi ſiede,or lūgo la riva
d'un qualche fuggére, e chia risſimo fiumicello ſi slaccia or in un pratello di
freſchiſ fima, e minatiffimaerba ripieno , e di vaghi fiori,dolceme te ripoſa;
e ſe Natura rizzare, e ſparger volles come huom crede, in mezzo agli fpaziofi
campidel inare tante , e tante Iſole , acciocchè quando a'Soli più tiepidi
s'accolgono ,ri trovaſſero agios e poſa ne'loro lunghiſſimi voli le varies
tormedegli uccelli; ragionevolmente dobbiam noi, o Sig. poichè sì dura, e
malagevole imprefa di dover ragionādo traſcorrere le ſcuole de più famoſi
medici abbia già comin ciata ragionevolméte dico dobbiam noi talora interrāpédo
i noſtri lúghi ragionaméti préder nuova lena; e táto più , che vie più ſghembo
, e inviluppato ſentiero di quello, chedie tro n'abbiam laſciato , orci ſi fa
innanzi ; imperocchè ab } bia 320 Ragionamento Quinto biano , ficome avere
potutofin'ora comprendere, piena mentediinoſtro ,ſe'l mio avviſo non m'inganna
, a quanto mal riuſciſſe a coranti valene'huomini il volere alcun fifte ma di
razional medicina ſtabilire; e fornigliante di molt’al. tri appreſſo andrein
diviſando ;avvegnachèa trattar dico ſtoro aſſai più grandemalagevolezza
s'incontri ; imperoc chè di loro opere nulla a' noſtri tempi non ſe ne ſerba ,
e quelle poche, e intralciate memorie , che di eſſe abbia mo, maffimamente appo
Galieno, o poco, o nulla n’appro dado a farne diviſar di loro dottrine ;
imperciocchè quel buon huomo , tra perchè non l'intendeva , e anche , perchè
vezzatamente ſtudiavali d'oſcurare , e porre a fondo ogni lor fama, e gride ,
cosìſconce,o travolte le ci narra talora, che a gran pena illor intendimento ſe
ne può ritrarre , Ma comunque ſia la biſogna, Iomiargomenterò ſecondo mia poffa
d'illuſtrar quanto poſſibil fia i loro ſentimenti e la lor dottrina ſtacciando
, ſeguitar la coſtuma del noſtro im preſo diviſamento . E tralaſciando quì in
primadi far parole d'Apollonio ,di Diſippo , e d'alcun' altri ſcolari
d'Ippocrate:i quali per va rj , e diverſi ſentieri avviandoſi , a varie, e
diverſe altre ſet te di medicina dicder principio: come di quelli,de qualial
tro non ho che dire , ſe non che alcuni di loro vennero ini vituperevolguiſa
crattatida Eraſiſtrato : darem comincia mento dal famoſo Diocle . Dico adunque
, ch'e' fi puòbé ammirare , e commendare la ſua grandiflima corteſia , o
umanità veramente ſingulare, colla quale , come teſtimo nia Galieno,uſar ſolea
con gl'infermi ; ma tion già la ſua dottrina , eſſendo molto rare quelle
notizie , che a noiper venute ne ſono ; ſi legge nientedimeno ancor oggi una
ſua cpiftola del inodo del conſervar la ſanità , dove permio av viſo non ha
coſa per cui meriti egli quelle ſomme lodiche dagli ſcrittori, e
particolarmente da Galicno sfoggiataméte inveſtire gli vengono; nesébra punto
chesì fatta piſtola Gia degna di quel ſapientiffimo Principe , al quale ella è
fcrit ta ; vi ſi ſcorge tuttavia , che Diocleera aſſai vago dell'A ſtronomia ,
e che ben poco egli gradiva le compoſte medi cine Del Sig. Lionardo di Capoa 321
را cine , e che non moito gli erano a cuore le purgagioni. Per quel poi, che di
lui vada dicendo Galieno , egli ha Dio cle per fondamenta del ſuo ſiſtema il
caldo , e'l freddo , e'l fecco , e l'umido ; de'quali i due primi,agenti, e gli
altri pa zienti e' vuol , che fieno . Dottrine , che quanto dal vero modo di
filufofare vadan lontane, altra fiata avendone lo fatto ſermone , non fa lungo,
ch'al prefente più il dimoſtri; ma comechè Diocle d'altiſimo intendimento , e
ben acco cio al filoſofare ſi foſſe , non però di meno , o per manca mento di
maeſtro , o di guida , ch'al diritto fentiero l'avel fe fcorto , o per altro ,
che ciò operato aveſfe ;ſconciamente laſciandoſi trarre a’hiſicofi impigli
della dialettica , sì , e tal mente bambo , e ſcempiato ne divenne , ch'oltre
a' già detti crrori, impreſe a foftenere , non eſſer altrimenti il ſu dore,
vuotamento naturale;e quantunque a Galieno ſem braſſer molto probabili fue
ragioni , nondimeno da colui, come troppo durauna talopinione, e come
ripugnante , e contraria all'evidenza de'ſenſi vien forte bialimata , e rifill
tata . Ma quanto molto poco in filoſofando in medicina egli s'avanzaffe Diocle
, chiaramente il ci da egli medefi mo a conoſcere, quando favella della
malattia ipocondria ca , di cui un libro ben'intero e compofe , il quale ſcëpia
to , emancheyolc ftimnafi per Galieno ; ma che che nedica colui , degno
certamenteini pare di grandiflima foda quel libro ; imperocchè ci fa vedere il
fuo componitore eſſerfi molto ben avveduto della incertezza della medicina , da
che tutto ſoſpettofos e rentonc e' ſempre ſe'n va in con ghietturando le
cagioni delle maraviglioſe , e ſtrane appa senze di quel male. Dice infra
l'altre coſe in quel ſuo libro Diocle,doverſi fo ſpettare in coloro, che ſon
travagliati da’mali ipocondria ci , non quelle venc , che ricevono l'alimento
dal ventrico lo , abbian aſſai più calore del convenevole , e'l ſangue in effo
loro ſia più groſſo aſſai divenuto ; concioliecoſachè cerca coſa ſia le
menzionate vene eſſere in quelli oppilate i edice ciò argomentarſi
dall'alimento , ch'al corpo accon ciamente non ſi diſtribuiſce , e nel
ventricolo, indigeſto ri Sf inane ; 322 RagionamentoQuinto mane ; quando
davanti per li meati ſi ricevea ,e per la mag gior parte con agevolezza
s'avvallava al ventre , come dal vomito poi manifeſtamente s'avviſa , quandoil
giorno ap preſſo così guaſto ſi rece , per non eſſerſi diſtribuito al cor po il
cibo ; mache'l calore in sì fatti infermi fiz più del na turale ſoverchievole ,
agevolmente fi ravviſi , così dall'in focamento , che a loro avviene , come da
quelle coſe ,che anche lor li danno ; imperocchè giovevoli eglino ſperimé tano
i cibi freddi, i quali ſogliono certamente rintuzzare , e fpegner in parte il
calore: τες δε φυσώδεις καλεμόες , υπολαμ . βάνειν δεί πλέον έχειν το θερμόν
του ποσήκοντG- εν ταις Φλεψί Gίς εκ της γασρος την κοφίω δεχομλύαις · και το
αίμα πεπαχιώθαι τούτων δηλοί γαρ ότι μου έσι έμφeαξις περί ανώς τις φλέβες τω
μηκαταδέ χεθα το σώμα την τοπίω · αλ' εν τη γασρί διαμένειν ακατέργασον» πρό
τερον των πόρων τοίχων αναλαμβανόντων , τα δε πελα αποκρινάντων ας τω κάτω
κοιλίαν και το τη δευτεραία εμών αυτες έχ υπαγόνων ας το σώ. μα των στίων · ότι
δε το θερμόν πλέον εα του καιτου φύσιν» μόλις αν της κατανοήσσεν, έκ τε των
καυμάτων των γινομένων αυτούς , και της ποσ φοράς • φαίνονlαι γαρ υπό των
ψυχρών όφελούμενοι σιτίων•ταδε πιανα το θερμόν καταψύχων , και μαραίνουν σωθεν
. Soggiugnc indi appreſſo Diocle , che affermino al cuni eſfer infiammata in sì
fatto male la bocca dello ſto . maco , la qual s'uniſce con gl'inteſtini, e per
la infiamma gione quella parimente oppilarſi, e vietar , che i cibi non calino
giù agl’inteſtininel tempo opportuno , e ſtabilito ; perchè dimorando i cibi
poi,oltre alconvenevole nello ſto maco,cagionino igonfiamenti, e'l calore, e
l'altre coſe tur te , che menzionate per lui in prismafi fono : Λέγεσι δε πνες
επι των τοιούλων παθών ή σόμα της γασρος το συνεχές των εντέρω φλεγμαί ΥΑν ,
δια δε την φλεγμονίω έμπε πξάχθαι , και κωλύειν καταβαίνουν τα σιτία ας το
έντερον τοϊς τεταγμένοι χρόνοις· τούτα δε γιγνομένα , πλείονα χρόνο του δέον-
έντή γατε μένονά , τους πάγκες παρασκευάζει,και τα καύμαζ, και τ' άλατα
πποειρημένα , Egli vien Diocle ripigliato da Galieno , perchè infra le tante
coſe , ch'egli in mezzo produce , del timore , c della triſtezza , che propie
ſono delmale ipocondriico , e'punto non favelli , ma Galien medeſimo diciò poi
lo ſcuſa , fog giugnendo dallo ſteſso nome del male farli ciò manifeſto , imper
DelSig.Lionardodi Capok 323 impertanto Diocle non averne fatto menzione; ma
nondi meno a Galieno non diſpiace la maniera del filoſofa te di Diocle intorno
a ciò ;maſolamente forte fi maravi glia , dicendo eſſer una quiſtione degna da
fare , perchè non abbia Diocle recata la cagione, per la quale in sì fat to
male venga la mente offeſa:masì fatta quiſtione, s'egli vi aveſſe poſto bé
méte, nó gli era molto agevole a folvere; imperocchè ragionevolmente nel vero
non volle darſi bri ga niuna Diocle di produrre in mezzo coſa ,qualegli non
avea avuta fortuna d'inveſtigare: nel che avrebbe certame, te il meglio fatto
ad imitarlo Galieno , il quale così ſcon ciaméte ebbediciò a filoſofare, che
meritòd'efferne acerba mére proverbiato,e deriſo da’luoi medeſimi parziali. Ma
noi laſciādo da parte ſtare Galieno,diciamono molto bene nel vero aver
de'maliipocondriaci filoſofato Diocle; cõciof ficcofachè in priina , per tacer
d'altro ,non continuo ſi avviſi ſmoderato calore nello ſtomaco , o nelle parti
vicine , ma talora fredde ſenſibilmente ſi ſcorgano in coloro , che pa ciſcono
sì fatto male ; perchè convicn certamente giudica re , che'l calore quandunquc
in lor ſi trovijalcro non ſia, ſal vo che un effetto del male medeſimo; la qual
certezza fal fa apertamente ne fa conoſcere l'opinion teſtè rapportatas da
Diocle, di coloro iquali ſtimavano cóſiſter sì fatto ma le in una
infiammagione, o altro ſimile della bocca del Pi loro . Gli argomenti poi , che
reca Diocle per far pruova della ſua opinione quanto deboli fieno , e fallaci,
non fa meſtieri, ch'lo dica ; concioltecofachè ogn’un per ſe ſteſ ſoconoſcerpuò
, che da cibi, chefreddi egli appella ,ſovés te ſaccrefca oltremodo ilmale,
comechè talora ſembrich ' cglino lo mitighino in qualche parte, col rintuzzar
la mor dacità de'ſughi secol reprimere la ſtrabocchevol lor fora mentazione .
Chi poi ben riguarda alla fabbrica, call'ufi cio delle vene , le quali picciole
nelle loro boccucce ſi van tratto tratto allargando , perchè acconce, e
valevoli firé dono a ricevere più agevolmenteil ſangue , s'avvede inco tanente
quanto dal ver ſi diparta la ſentenza di Diocle,co tanto cómendara , e tenuta
in pregio dal vulgo de medici , SI 2 che 324 Ragionamento Quinto le che le vene
meſeraiche ſi poſſano oppilare . Ma fievolej molto certamente ſi pare
l'argomento, onde provar imma gina Diocle eſſer negli ipocondriaci le vene
meſeraiches: oppilate , perchè l'alimento al corpo in lor non fi diſtribui ſca:
imperocchè dovea Diocle conſiderare , che non diſtria buendofi l'alimento al
corpo dell'animale,non guari dité. po egli in vita durar potrebbe , e
chemolti,e molti ipocó driaci, anche forti talora, e vigoroſi fin’all'ultima
vecchiz ja veggionſi tutto dì pervenire ; falſo adunque ſi è ciò chè di loro va
filoſofando Diocle ; ſenzachè ben chiaro ognun vede la parte più ſottile
dell'alimento,qual è quella la qua. P le vene meſeraiche,com'egli ſtima al
corpo li diſtribui fce, continuo trapelare, e diſcorrere agl'inteſtini, avvegna
chè la parte di luipiù groſſa nello ſtomaco rimanga . Mavi dovea altresì por
mente , e inveſtigar Diocle , onde avve gna , che'l cibo nello ſtomaco degli
ipocondriaci,indigeſto rimanendo ,non n’eſca fuori nel tempo uſato ; ma certamé
te s'egli innoltrato ſi foſſe nella ſpeculazione delle coſe 112 turali,ne
avrebbe di leggieri ritrovata per avventura la ca gione ; e tanto più , che pur
egli avviſa nello ſtomaco degli ipocondriaci la pontica , e ſtitica acetoſità ,
la quale non permettendo , che'l cibo ben ſi digeſtilca,increſpa ,e ſtrigne la
bocca del Piloro, per inodo, che dallo ſtomaco non pof ſano nel tempodovuto
calari cibi agl'intcftini . Ma laſcia do di ciò più favellare : non ineno e' ſi
ſcorge il modo del filoſofare in conghietturando di Diocle, da ciò,ch'egli dice
: appo Plutarca: επι δε τοϊς φαινομένοις δοαται ο πυρετόςεπιγενόμG"
nečuvala , noi Prey Movad,sy 6x6õves , cioè : le cose , le quali a noi
manifeſtamēte fi fă vedere,additano le nafcofe : poichè ſi vede la
febbre,colleferite,colle infiammagioni, e cõ i gavoccioli ac compagnarſi ; dal
che certamente egli vuol cavare Diocle , che in quelle febbri, nelle quali
nulla appare di fuori del le menzionate coſe , ficno entro al corpo elleno, o
altro fimile , che colla febbre parimente s'accompagni. E rav viſaſi eziandio
la maniera del filoſofare di Diocle allor che appo il medeſimo Plutarco va
inveſtigando le cagioni, per le quali i maſchij ſtendi ſono.4.0
disocyóvoustousaideges ,na es' Del Sig.Lionardo diCapoa. 325 Θα το μήθ' όλως
εύνες σπέρμα πιοΐεσθαι,ή παeg το έλαήoν του δέοντG . και παρά το άγονον είναι
το σπέρμα , ή καλα παράλυσιν των μορίον , κατα λοξότη του καυλού μη δυναμένε
τον γόνον ευθυβολεϊν,ή περί το ασύμ Mergov tæv porów.alo's Tajvané saory oñs
peýrsas. Ma oltraciò ſappia di Diocle aver lui, contro quel , che avca
inſegnato Ippo crate negli aforiſmi avviſato, l'itterizia , d'ognitempo,ch'
ella ſopravegna alla febbre eſſer giovcvole ; al che cgli poi aggiugner volle,
che ſopravegnendo all'itterizia la febbre, mortifera coſa quella ſia: arquatum
morbum , ſono parole di Celſo , Hippocrates ait, fi poft feptimum diem
febricitante agrofupervenit, tutum effe, mollibus tantummodoprecordiis
fübftantibus ; Diocles ex toto , fi poft febrem oritur,etiam pro defe , fi
pofthanc febris, occidere. Ma non meno dell'afo riſmo d'Ippocrate la ſentenza
di Diocle falſa cutto di fi ſperimenta . Coltivò egli poigrandemente la notomia
, ma come qucl rozzo ſuo ſecolo comportava , poco felicemente nel vero ; non
però di meno cgli in ciò è da commendare ;m2 séza fallo poi a ſommo onore
attribuir gli ſi dee, l'eſſer lui ſtato il primo, ch'aveſſe ofrto pubblicar con
un libro partia colare al mondo le coſe , ch'egli avviſate avea nel far no
tomia degli animali. Ma procedendo più oltre ci ſi fa davanti l'altro famoſo
Principe deʼRazionali inedici Pralfagora, cotanto celebras to , c in pregio
tenuto da Galieno , il quale diſſe eller lui ſtato in tutte le parti della medicina
eccellentiſſimo , e in tendentiſfimo di tutte le più ſottili (peculazioni delle
coſe naturali . Ma di queſt'huomo non è per mio avviſo da far giudicio diverſo
da quel , che di Diocle noi teltè fas ; cemmo ; poichè iinitando in ciò Diocle,
portò Praffagora, altresì opinione dalle quattro primieramente comuni qui lità
appellate dirivar tutte l'operazioni della natura ; e con queſta credenza
camminando avanti , di neceilità dovette , da uno in altro crror tratto
inceſpicare. Oltra ciò viens forte Praſlagora biaſimato da Galieno, perchè egli
ſcrivel fe con tanta oſcuritàche ſembrano fc fue ſentenze enigmi da tener mai
ſempre in biltento il lettore . Ma con pace. pur ! 326 Ragionamento Quinto pur
di Galieno,Io non giudico queſt'errore cotanto propio di Praſſagora, che non ne
ſia ſopratutto da cacciar lamedia cina medeſima , per la grandifinna incertezza
di quel la ; onde imaeſtri più accorti , e malizioſi , per non farſi torre in
fallo foglion sì facramente ſcrivere chenon ſi pof fa per niuno ne’lor veri ſentimenti
penetrare. Ma impertáto fallò grádeméte Praſſagora,e lervi di pel fimo eſemplo
agli altri Razionali medici , che dopo lui furono , e particolarmente a
Galieno, in voler con ſue ciar le farne calandrini, ecercare di render
poſſibile l'impoſſi bile , cioè certa , l'incertezza della razional medicina .
Vien biaſimato anche Prafſagora da Galieno , ch'aven do egli in prima detto ,
che gli umori non ſi contengano al trimenti dentro l'arterie , cerchi nondimeno
egli poi d'in ſegnare , e minutamente additando vada , come per opera del
toccamento avviſar, eglinon ſi poſſa quali umori fia-. no quelli , che nell'
arterie ſi naſcondono ; ma lo immi gino, che in ciò non ſi contraddiceſſe
altrimenti Pralſago 11 , come dice Galieno , ma ch'aveſse egliportato opinio
che allor , che l'huomo è rano non abbia alcro nell'ar terie , che ſangue, ma
che infermando egli poi altri umari ancor vi diſcorrano ; ne potea egli in
verità altrimenti di rc , s'egli pur non era affatto di ſenno fuori . Che ſia
vero quanto lo dico ,apertamente ſi ſcorge in ciò , che il mede fimo Galieno di
lui riferiſce , cioè ch'egli ne men nelle ve ne credea che vi ſieno gli umori.
Ma errò certamente , e in iſconcia guiſa Praſsagora , in portando opinione
l'arterie cambiarli finalmente in nervi ; avvegnadiochè difender s'ingegnino
giuſta ogni lor pof ſa si ſtrana, e dal vero apertamente lontana opinioncscome
favorevole al lor Ariſtotele , il Cefalpino , il Reuſnero , e'l Marziano ; ma
di non poco biaſimo degno ſi rende appo molti antichi ſcrittori Praſsagora per
lo ſtrano , e crudel modo, col quale egli intende, che s'abbia a medicar
l’lleo, volendo egli infra gli altri rimcdi,che all'infermo fi faccia vomitare
, e dopo il vomito gli li tragga il ſangue , emol to forte gli ſi premano collc
mani , il ventre , e gliinteſtini, cal nes Del Sig. Lionardo di Capoa 327 e
alla per fine poi col ferro ſi taglino ; ond'ebbe a dire ra gionevolmente Celio
Aureliano : quo probatur magnificam mortem Praxagoram magis quam curationem
voluife fcri bere; ſenzachè vié egli tacciato dal medeſimo Celio, ch'e'li
yaleſse anche nel curarlo degli ſconcj rimedi d'Ippocrate : Aliquos etiã poft
vomitum phlebotomat,&vento perpodicem replet , ut Hippocrates . Item libris
de caufis , atquepaſſio nibus ,& curationibus vinum dulce dari jubet , d
rurſum Hippocratis ordinem ſequitur congerens omnia peccata . Macon qual
eccellenza di dottrina , e con qual artificio pervenir aveffe potuto al
principato della razional medici na il celebratiſſimo diſcepolo di Praſſagora,
Pliſtonico , chi farà mai che poſſa ſpiegarlo fra le sì ſcarſe memo rie , che
di lui ne ſon rimaſe ? Io permeſolamente, e ap pena ne lo quanto per Galicno
all'avviluppata, eſcarfamé te ſe ne racconta: e gli ſi afcrive ciò a ſomma
losa,cioè che raffermaſſe egli quanto in prima diviſato avea Ippocrate
de’quattro umori; la qual coſa ſe tale è veramente, qual ſi jarra egli , ne fa
apertamente vedere , quíto troppo grofa ſolanaméte foffe căminato Pliſtonico in
filoſofando; ina no dimeno pur ſembra , che qualche ſcintilluzza di lume in
quelle folte tenebre, e oſcure egliſcorgeſſe allor , chej porta opinione , che
le digeriſca il cibo nello ſtomaco putrefacendoſi ; il che nel vero fu aſſai ad
inveſtigar ma lagevole a lui , che non avea contezza niuna di Chi mica, e
veramente il cibo nello ſtomaco non maiſi ſcioglie, e muta natura , fe non vi
concorre l'opera d'una pronta , c velociffima filoſofica putrefazione. Scriffe
Pliftonico della materia de'medicamenti , macom'egliin ciò li portafle al
cri.per meve'ldica . Ma trapaſſando ad altri, Io non potrei dire,ne'l mio det
to ritroverebbe agevolmente crcdéza, in qual pregio ſovra tutt'altri Principi
della Razional medicina il grand'Erofilo s'avázaſſe.E certamente degli ſtudi
della notomia egli mol to ſi conobbe , e gli poſſon ceder ſenza contraſto la
maggio ranza non pur Galicno, ficome giudica dirittamente il Vera ma
quant'altri notomiſti prima, e dopo lui nella Grc 1 fatio , cii 328
Ragionamento Quinto cia tutta fiorirono . E quanto alla dialettica, egli
cotanto lungamente divifonnes e tanto minutamente , che il vulgo ſciocco dalle
tante fraſche delle quiſtioni , delle diftinzio ni ,e diffinizioni, e
argomentioffuſcato,comeſe da ſovrano nume ftate fofſer dettate, le dottrine di
lui celebraya oltre modo , e riveriya . Ma il tanto ſtudio della dialettica do
vert'eſſere alla ſetta d'Erofilo dinon picciol damnaggio ; e quinci forſe
avvenne , che molti , o sfidando d'intender pienamente le tante ſottigliezze di
lui, e altri a niun pre gio , comevani, e inutili arzigogoli avendole , ad
altre ſcuole ſi rivolgeſſero. Ma impertanto la ſua dottrina ritro vò inolti , e
gravi ſeguaci , e fù aflai commendara ; anzi narra Strabone,che infin nella
Frigia v'era a'ſuoi tempi una famola ſcuola della dottrina d'Erofilo . Or Io,
quantunque a voler dire il vero eſtimi, che gran pro alla notomia abbia
apportato Erofilo , nondimeno fembramifarfallon da Ro . manzo quel del
Falloppio : Contradicere Herophilo in Ana tomicis,eſt contradicere Evangelio
.Ma ebbe Erofilo per co ſtume di paleſar séza riguardo niuno ciò che a fui
veraméte parea delle coſese cotraddiſſe quando egli ſtimava, che ine ſtier ve
ne foffe , a tutti gli antichi , non la perdonando ne meno al ſuo divin Maeſtro
Praſagora . Fuegli molto prati co nella materia demedicamenti,e fcrille
parecchi volumi del modo , come ſe nc debbano imedici valere ; il che fu gli
agevole affai, avendo egli logorato tutti i giorni della ſua vita in far prove,
e fperienze;per le quali non ſi può ne gare , ch'e'non merti grandiſſima loda;
comechè non cſen do a noi pervenute , niuna utilità del mondo abbian potu to
recarci . Ebbe vétura Erofilo d'abbatterſi nelle vene fartee ;ma egli
traſcurato , sì bella opportunità laſciofſi uſcir delle mani, non dandoſi cura
d'ilveſtigarne il lor proceſſo , e l'uſo ; ma di cotal negligenza è fomigliantemente
da accagionar Ga lieno , e tutti quegli altri notomiſti , chedopolui anche ſe
ne rimarono . Non molto diffimile dal fallo d'Erofilo fi fu quello del noſtro
Bartolomeo di Euſtachio, il quale avendo sitrovato il canal pettorale , non ſi
diè briga d'altro, e la 1 fcion Del Sig. Lionardo di Capoa. +329 fcionne il
penſiero al Pecchetti, a cui meritevolmente la gloria tutta di così gran fatto
ſi dee. Ma ritornando ad Erofilo: non fu egli nel vero molto fe lice in
ritrovar coſe grandi , e maraviglioſe, o molto com mendevoli in ſagaceNotomilta
; avvegnachè tutto dì ta gliar ſoleſſe non ſolamente i cadaveri, ma eziandio
vivi gli huomini. Scelleratezza tanto crudele, tanto infame, e vi tuperevole, e
degna d'eterno biaſimo,che val ſolo ad oſcu rar ogni ſuo pregio , e a far
conoſcere al niondo ad un'ora, quanto la fierezza de'medici, il diritto delle
naturali, del le divine , e delle umane leggitraſandando , oltre palli law
crudeltà d'ogni più fiero tiranno ; perchè a gran ragione certamente ebbe a
gridare il gran Padre Tertulliano : He rophilus ille medicus , aut lanius ,
quifeptingentos exſecuit , ut naturam ſcrutaretur , qui homines odit , ut
noſlet. Man prima di lui Cornelio Cello, dopo aver detto ,ch'Erofilo, ed
Eraſiſtrato aveano alle lor notomie vivi gli huominide ſtinati, cosi ách'egli
un cosìabbominevol misfatto deteſta: crudele vivorum hominum alvum , atque
præcordia incidi , & falutishumanæ præfidem artem , nonfolumpeftem alicui ,
fed hanc etiam atrociffimam inferre . Sopra tutto s'affaticò Erofilo nella
materia de polſi, la quale,valendoſi egli della muſica, cercò d'illuſtrare, e
di ti durre a perfezione, per modo, che nulla vi ſi aveſſe di vātag gio a
diſiderare ; ma tanto , e tanto egli vi ebbe a ſofiſtica re , che
meritevolmente forſe perGalieno ,e per altri ne venne più d'una volta ripreſo ,
e proverbiato ;mad'altra parte per altriſommamente commendato , come ſi può ve.
dere in Plinio . Arteriarü pulfus in cacumine maxime merebro rū evidens in
modulos certos,legeſq; metricas, per atates , fta bilis , aut citatus , aut
tardus defcriptus ab Herophilo medici na vate miranda arte . E queſto accrebbe
in modo la ſua fama , e buon nome , che nulla più ; promettendoſi cgli , e
dando altrui ad intendere, che col mezo de'polli , com' ab biamo con Galieno accennato
, poſſanſi avviſare ancor les coſc impoſſibili a conoſcere; come ne’barbari
ſecoli comu liemere li vider poſcia farei medici coll'orinc , colle quali fa Tt
cean 330 Ragionamento Quinto 1 cean veduta diconoscere pienamente lo ſtato
de'malati , e de’lani; di che ancor qualche veſtigio tuttavia nella noſtra
Italia , e altrove ne rimane . Mache / a'tempi noſtri in va rie .guiſe noipur
veggiamo da qualche medico ſcaltrito porre in uſo si fatte frodi, e riportarne
ſempremai premj, e laudi non ordinarie. Ne è da maravigliare ; perciocchè il
mondo gode in tal guila d'effer ſemprcmai uccellato ; il che apertamente ſi fa
vedere dalla grande ſtima , chevien fatta della Srologia , e della Gabbala , e
d'altre arti vane , e ſu perſtizioſe ; e tanto prevalſe, e montò in pregio con
fomi glianti artificila gloria d'Erofilo , che di baſſo, e rintuzza to
intendimento' , e come della ſua dottrina incapaci venis van giudicati coloro ,
che ſi dipartivano dalla ſua ſcuola ; perchè diſſe Plinio di lui favellando :
nimiam propter ſubti bitatem defertus: e della ſua ſetta facendo parole :
deſerta hac Secta eft , quoniam neceffe erat in ea literas ſcire. S'af faticò
parimente Erofilo , come Galien riferiſce, in inve itigar la natura dell'erbe ;
e dir ſolea , non haver così gra ve, e pericoloſa malattia ,che non ſi poteſſe
coll’erbe curare ; ma non però di meno il valor di molte di quellenou effer
conoſciuto , e alcune di loro gran virtù avere ' , le qua li tutto dìda noi fi
calpeſtano : inde plerofque, fono parole. di Plinio, ita video exiſtimare ,
nihil non herbarum vi effici poffe , fed plurimarum vires effeincognitas ,
quorum innume 70 fuitHerophilus claras medicina , à quoferunt dictü quaf dam
fortaſſis,etiam calcatas prodeffe. Solea far altresi grá diffima ſtima Erofilo
dell'Elleboro ; il quale, come altrove vien ſcritto dal medeſimo Plinio, veniva
pareggiato da lui ad un fortiſſimo Capitano ; perchèturbate egli avendo en tro
il corpo tutte le coſe ,foffe poi il primoa uſcirne: elleború fortiſſimi Ducis
fimilitudini aquabat ; concitatis enim intus omnibus,ipfum in primis exire.Mada
ciò apertamente ſcor geſi, che poca , o niuna contezza aveſſe Erofilo di quelle
nobiliſſime medicine , le quali ſenza recar moleftia , e dan no niuno ſon
valevoli a domar le più gravoſe , e feroci ma lattie: e ch'egli altresì
ignoraſſe ilmodo , per lo quale la fciandogli intera la parte
giovevolemedicinale,ſi toglie all '. Elle Del Sig.Lionardo diCapoa. 331
Elleboro la velenofa ; ſenzachè non è miga vero ciò ch'e . gli
trancaméteafferma , che l'Elleboro fia il primo ad uſci re ; imperocchè talora
non li diparte dallo ſtomaco , e dall altre viſcere allo ſtomaco proſſimane,ſe
nõfe ha fatto vuo far egli all'infermo in prima quanto di cattivo , e di buono
nel ſuo corpo ſi ritrovava. Non è ſtato adűque in medicina il valor d'Erofilo
così grande , quale il ci narra millantan do la fama , Ma doveva Io certamente
aſſai prima far parole di Me necrate da Siracuſa; il quale col fuo ſtrano modo
di filoſo fare, e di medicare rinnovar volle l'antico uſo di Apollo, e d'Eſculapio
, facendoſi venerar come un Dio. Ma a bello ſtudio venne da me tralaſciato ,
per non haver Io potuto p quanto lo mi vi fia affaticato , niuna contezza aver
mai dėl ſuo liſtema; ritrovo ſolamente di lui , ch'egli ſcriſſe , per quel,che
ne narri Galieno , un libro de'medicamenti , de quali egli molti da ſe ſteſſo
trovò , Fu egli Meneçrate così ſuperbo , ambizioſo , e vano, che non volle egli
giammai denajo , o altro premio dagſinfer mi di mal caduco , che guarivano per
le ſue mani ; folo ri. chicdea , che eglino ſuoi ſervi fi doveſſero confeſſare,
e che col nome di Giove l'aveſſero a chiamare , e come Gio ve il doveſſero
onorarc.Solea egli ſpeſſo in mezzo a coloro , traveſtiti, chi da Ercole , chi
da Apollo , chi da Eſcula pio , chi da altro Dio minore , a guiſa di Giove con
coro na d'oro in teſta , colla veſte di porpora , e collo ſcettro in mano farſi
in pubblico vedere , 1.a qual si ſciocca traco tanza imitar volle Ottaviano
Ceſare , quando, come rac conra Suetonio , con gli abiti d'Apollo fra huomini,
e fra donne rappreſentanti Dij , e Dec, e'feder yolle in un ſono tuofo convito
; Cum primum iftorum conduxit menfa choragum , $exque Deus vidit Mallia , exque
deas; Impia dum Phabi Cafar mendacialudit, Dum nova divorum cænat adultera :
Omnia fe à terris, tunc Numina declinarunt, Fugit auratos luppiter ipfe thronos
, Tt 2 1 Ma 332 Ragionamento Quinto . ! Mapiacevole egli è a udire ciò che
avvennea Menecran te con Filippo Rè diMacedonia , comechè Plutarco dicas con
Ageſilao Rè di Sparta; ſcriſſe a Filippo egli in sì fatta guifa Φιλίπσω
Μενεκράτης ο Ζεύς εν πτά θαν: maFilippo trattado lo da pazzo, qual egli
veraméte era, così gli riſpoſe : dínia πος Μενεκμάτα υγιαίνειν συμβελεύω σοι
ποσάγαν σεαυτόν επί τοϊςκα στο Ανήκυραν τόποις · ηνίδετο δε άeg δια τούτωνόππαραφρονώο
ανήρ . Vna volta anche il medeſimoRè invitò Menecrate a deſinar ſeco,egli fe
porre un deſco da parte, facédoglidar cótinua méte incenſo, in tépo,che gli
altri convitati in altra tavolas allegramente ciurmavanſi , e facevan
gozzoviglia. Mene crate nel principio fommamente godeva dell'onore fattogli dal
Rè , come å un Dio; ma poichè gli ſopravenne la fame, e gli fè vedere , ch'egli
era huono, comegli altri , fi parcì dolendofi , e lagnandofi fortemente della
beffa fattagli dal Rè . Mi ſi fan davanti ora Neſiteo, Filotimo, Eudemo, e M2
rino , i quali comechè ſommamente cominendati, e in pre gio avuti foſſero da
Galieno , è da dir nondimeno , che no troppo bene filoſofaſſero cglino in
medicina , c che molto poco altresì valeſſero in notomia ; ficome da qualche
lor ſentimento rapportato dalmedeſimo Galicno, apertamen tc per ognun ravviſar
ſi puotc . Maintra le ſette più chiare , e più famoſe , che nell'air tiche
ſcuole già s'inſegnavano della razional medicina ( ſe cgli s'ha riguardo
alcorſo non mai interrotto Per volger d'anni , oper girar di luftri) che nelle
Città , e nelle Provincie più nobili s ove la greca fapienza era in pregio ,
glorioſamente fiorirono : o le pur fi mira all'onore , alla fama, e al numero
ragguardevole de lor maeſtri, niuna certamente , s'Io pur non vado errato
egliſembra , che agguagliar fi poffa , non che antiporre a quella , che da
Crilippo in prima ritrovata , indi per opera di Medio, e d'Ariſtogene celebri
tra' ſuoi ſcolari,maſopra tutto per Eraſiſtrato ſommamente accreſciuta ne vennc
, e ftabilit2. Quinci ſi può agevolmente conghietturare ché te , e quale egli
ſtato ſi foſſe il fapcre, l'avvedimento, law fpe . d 0 0 1 1 1 DelSig. Lionardo
di Capoa. 333 i 1 ſperienza , e l'induſtria d'Erafiltrato , che di Criſippo,d'A
riſtogene, e di Medio nulla v’abbiam che dire ; ma ciò più aſſai in verità
argomentarlece da quelle pochiſſiine coſes comechè tronche , e ſmozzicate, Che
fan col duro tempo afpro conflitto, che di lui nell'altrui opere , e più che in
altre , in quelle de ſuoi einuli tuttavia ſi leggono ; nelle quali pariinente
egli moſtrò quanto , e quanto oltre condotto fi foffe per le più dure , c
ſpinoſe malagevolezze dell'arte ; intanto che ad acquiſtar meritamente e' ne
venne la Signoria curta della medicina ; e non ſenza ragione certamente
venncgià da al cuni valent'huominicreduto , ch'egli laſciato di gran lun ga
s'aveſse addietro nonch’altri, Apollo, Eſculapio ,e Peo ne medeſimo. Così egli
da Appiano Aleſsandrino ,venne appellato meetóvuje @u ,c Galieno parimé : e con
orreuoli, e riverēti maniere trattandolo, 11011 iſdegnò di ragguagliarlo ad
Ippocrate ; chiamando egli l'uno , e l'altro : iv dožoTátis iørção. E
avvegnadiochè pure alcuna fiara moſſo , o dal zelo della verità , o
dall'invidia , o dall'emulazione, o daw troppo altieris e ſuperbi portamenti
de'parreggiatiei ſegua ci di lui, ſconciamenre egli lo biaſimise prendaa
gabbole ſue opinioni ; nientedimeno in tanto pregio , e in sì gran ,
yenerazione ebbe Galieno la dottrina d'Eraliftraro , ches prender volle fatica di
commentarmolte delle ſue opere : e di lui favella più d'una fiara con molto
riguardo, e onor di parole ; e mi ricorda , ch'una volta infra l'altre
togliendo egli ad impugnar una ſua opinione, ſcuſando quali il ſuo troppo
ardimento con eſo luicosì ne favella : Si compiac cia di grazia Eraſiſtrato ,
che in quella guiſa appunto,e col la medeſimalibertà lo tratri lui , e le ſue
quam le egli trattar mai ſempre ebbe in coſtume Ippocrate , ela doctrina di
quello . Ne fi dee anche aſcrivere a poca lodo d'Eraſiſtraco , ch'egli,
comenarra Galieno , ſi foſſe ſtato il primo autore , e introduttore della vera
arte ginnaſtica , e che per opera del ſuo ſenno, e della ſuamano in piede ſi ri
metteſſe ; anzi ſi ritornaſſe in vita la notomia, la quale per infingardia
degli antichi medici già affacco caduta, e ſpen ta fe ne giacea . Ma 1 opere ,
colla ! 334 Ragionamento Quarto < + 1 Ma qual maniera egli tenelle
Eraliitrato nell'inveſtigare le cagioni in ſeno della natura appiattate, e
naſcoſe , e quai foſſero i ſuoi ſentimentiintorno a ' principi delle coſe ſenfi
bili , malagevole molto egli è ad avviſare ; impertanto ſi ſcorge
apertiſſimamente , ch’Eraſiſtraço era affai libero nel filoſofare , e oltremodo
ſchiyo , anzi nimico di far pompa appo il vulgo di mentito , e apparente ſapere
; onde mai non ſi vide ricovrar egli alla franchigia tanto da’ſofiſti uſi ta ,
e praticata , delle facoltà , e d'altre fimili vanillime novelle , e ciance ,
le quali non altro in verità , che Nomije fenza ſoggetto Įdolifono, nelle
malagevoli , e inviluppate tenzoni della filoſofia , e della medicina ; nella
qualcoſa ,comechè ne doveſſe Era fiftrato con ogni ragione , s'Io pur diritto
eſtimo , ſomma lode ritrarre , malignamente troppo in verità , e a gran for to
funne ripreſo , e vituperato da Galieno ; il quale oltre a ciò ardiſce
anchetemerariamente a vituperarlo , e a biafi marlo, perchè ſempremai moſtrato
ſi foſſe ſul filoſofeggia re , duro, e implacabile avverſario dell'opinioni
d'Ariſtote le , nulla curando , che ſuo avolo ſtato e' fi foſse ; col qua le ,
e coʻPeripatetici in una ſola coſa convenne, ciò fu nell' affermar
coſtantemente, che per la natura niéte a caſo mai vegna fatto , e poſto in
opera.. Ma non rammentò Galieno , che Ariſtotele , ed Erafi Atrato convengono
bene inſieme anche nel dire , che le re ni, e la milza non fervano a coſa niuna
; ma della milza . prima di tutti ſcriſſe colui ad Ippocrațe, parlando della na
tura dell'huomo, παλίων απέναντι £'δα , πάγμα μηδέν αιτίμο». Furicevuta una tal
opinione da Rufo da Efeſo , il quale dif ſe,che la milza foſse anánt , ni
avevéeyn ,mano già da’ſco Jari d'Eraſiſtrato , come que’ , che diſsero , che la
milza preparaſse al fegato il ſugo da generare buon ſangue , tör το σπλάγχνον
περπαρασκευάζειν το ήπατπ τ έκ ή σιτίων χυμόν ής α' Mateu xensă girsar , Ma
benchè Erafiltrato sì grande , e sì valent'huomo ſi foſſe , e che tanto dalla
natura foſſe favo. reggiato , e di rari doni , ç maraviglioſi arricchito, c per
ső mo sforzo di ſtudio molto avanti fontille nelle coſe dellam! natu 1
DelSig.Lionardo di Capoa 335 matura , e che colla altezza del fuo anino
ſtudiato fi folle di aggiugnere anche talora fin la dove forſe non potè per
addietro pervenire altro intendimento mortale : e coll'e ftremo diſua poſſa di
formareſi foſſe argomentato il fiſte ma della ſua razional medicina ſommamente
perfecto , e compiuto ; nientedimeno più d'una fiata dal diritto ſentier della
verità inolto , e molto lungi ſi trova; e ſi leggon di lui alcune ſtrane, e
ſconce opinioni, comeche in alcune a cor to accagionato talora e' ne vegna da
Galieno' , e in alcun con aſſai fievoli , evane ragioni riprovato ; il che
ravviſa no talvolta , e ſono coſtretti a confeſſare i medeſimiGalie niſti
ancora Ma nientedimeno a grandiſſima ragion certamente vien da Galieno
aſpramente ripigliato Erafiftrato per aver dct to egli, che nell'arcerie nello
ſtato naturale dell'huomo no v'abbia ſangue , ma ſolo ſpirito vitale, ſecondo
lui :e fpiri to' animale ſecondo Criſippo ſuo maeſtro ; coſa', della qua le ,
così evidentemente ne appare il contrario , che forte mimaraviglio ,
comeGalieno quantunque abbondevole d'ozio , e di ciance aveſse potuto darſi
briga di compilare un libro intero per impugnarlo . Ma, o Quanto è'l poter
d'una preſcritta ufaniza ! equanto dileggieri un’huompaſſionato in gravi falli
quaſi inavveduramente traſcorre . I ſeguaci d'Eraſiſtrato per niu na ragionedel
mondo , neper evidenza de'ſenſi , che loro apertamente additaffe il contrario,
abbandonar mainon vollero i ſentimenti del lormaeſtro"; il quale non
altrime ti , che ſe Dio ſtato foſse', ſe preſtar lece in ciò fede a Ga lieno
ſolevan eglino ammirare', e venerare ; avendo per vero , e ſaldo, e indubitato
ogni ſuo qualunque detto. Ma ritornando a noſtra materia ; egli è da creder ,
che dall'o pinion , che reſtè abbiā noi rapportata , prendeſse cagione
d'inſegnar poi Eraſiſtrato , altro non eſser la febbre , che un movimento
inuſitato del ſangue , che dalle vene, dove naturalmente riſiede , all'arterie
tragittiſi: e cheſicome al lor , che non ſoffiano i venti , pofa abbonacciato ,
E nelſuo letto il marfenz'onda giace ; ma 330 Ragionamento Quinto ma ſoffiando
poi fortemente Oſtro o, Aquilone enfia , ed eſce fuori impetuoſo , e rapido
dall'uſate ſue ſpon de, e inonda , ed allaga le piagge tuttc , c le campagne
vici ne ; così anche , fe non v'ha coſa , che l'agiti, o'lcommuo va, dimori
placido il ſangue nelle vene:maſe per ſoverchia abbondanza gonfio , o per altra
cagione ſoſpinto , e agita to mai venga , sboccando ſubito dalle vene , ratto
all'arte rie diſcorra, e ſe quindi dallo ſpirito , che in eſso dimora ſia
altrove riſpinto , vada a fermarſi , e ſtagni in quelle cic che ſtrade , dove
terminano l'arterie ; e quivi riſtrignen doſi, crappigliandoſi, formerà
l'infiainmagione; e la feb . bre ; ecco le ſue parole rapportate da
Plutarco:Nuperds isi zí. νημα αίματG- παρεπιπλωκός ας του τα πνεύματG- αγγείο
απιοαιρέτως γινόμενον • καθάπερ γαρ επί της θαλάττης , αν μηδέν αυτήν κινη ήρες
μί , ανέμε δε έμπνέοντG- βιαία παρά φύσιν , τότε εξ όλης κυκλεται. ούτω και εν
τω σώματι , όταν κινηθήτο αίμα και τότε εμπίπτει μες στο αγγα των πνευμάτων ,
πυρέμενον δε θερμαίνει το όλον σώμα . Αrtifciofotis trovato nel vero , ma che
appoggiato in aſsai poco falde fó damenta non può far , cheda ſe ſteſso non
crolli, e rovini. Manon laſcerò già lo quì di narrare ciò che immagina . alcuno
, ch'altri ſi foſsero intorno a ciò iyeri ſentimenti d ' Eraſiſtrato , e
chemal'inteſi , e peggio ſpiegati a noiſien pervenuti; e tanto più , che come
Galienoavviſa,Eraſiſtra to a ſtudio oſcuro alle volte Con giri diparole
obblique incerte recar ſuole le ſue opinioni ; e che perlo ſpirito egli abbia ?
intender voluto un ſangue ſottiliſſiino ,e di quelle particel le , onde ſi
forman l'etere , e l'aere per la più parte ripicno. Macheche ſia di queſto ,
certamente ſi deecgli credere, ch ? a niuna guiſa mai avrebbe Erafiltrato dato
fuori così inve riſimili, e vane fanfaluche, ſea lui foſse pervenuta qualche
menoma contezza del vero movimento del ſangue; e pure egli vi fu molto da
preſso : imperocchè ravviso , e conob be , che dalle vene all'arterie, comechè
vi lien le ſtrade, na turalmente non ſi tragitti il ſangue ; il che diede
poſcia ca gione a Galieno d'affermare, che l'arterie traggano il ſan gue dalle
vene . Qui riſtette, ne paſsò più avanti Eraſiſtra to, con Del Sig. Lionardo di
Capod. 337 -- to ; comechè la ſua gran virtù molto bene il valeſſe , merce che
non già alla Grecia , ina alla noſtra Italia era la glo ria riſerbata dello
ſcoprire l'aggiramento del ſangue . Oltre a ciò ſi pare ,che ſommaméte lodar ſi
debba Eraliftra 10 , perchè al ſuo grande avvedimento , e induſtria aſcon der
no li potè il ſugo nutritivo ma: pur fallò egli in immagi nando , che quel
ſolamente ſerviſſe a nutricare i nervi , ſe è vero ciò che ne narra Galieno .
Conobbe ancora Erafiftrato le vene lattee; niétedimeno rinvenir non ne ſeppe
l'uſo ; s'accorſe egli anche , ed è egli non picciolo ſuo vanto , che'l
reſpirare non diedes già a noi natura , comeimmaginò con Ippocrate , Diocle, e
Ariſtotele , Perchè'l caldo delcor temprato fia . Ma non potè penetrar egli nientedimenoil
vero ,'e propio uſo della reſpirazione: e perchè alcuni animali fieno ſtati
formati sì , che debbano reſpirare ; imperocchè contendes Erafiltraco , che la
reſpirazione ad altro non vaglia , fe non fe a poterempier d'aere Parterie ;
coſa, che da per fe appar dal vero così apertamente lontana ,cheimutilmente
colle fue ciance Galieno impréde a dimoſtrarla alțresì tale.Mafe Eraſiſtrato
aveſſe avviſato, che il sague,tutto che no appaja di coſe diffimiglievoli eſſer
cópofto, pur contenga molte , e molte parti dinatura diverſisſime avrebbe
potuto agevol mente ſpiegare, qual ſia la neceſſità dell'aere , e della refpi
razione neglianimali; imperocchè avviene , che nel ſepa rarli dalſangue la
parte più ſottile , e per così dire , ſpirito ſa , ſi faccia anche
neceſſariamente ſeparazione di varie al tre parti groſſe ;come nella
formentazione del moſto , e d'al tre liquide foſtanze chiaranxente ravviſaſi ;
queſte groffe porzioni, forza è , che s'abbattano, ſeparate cheelleno ſo no , o
nell'acre , o in altro corpo ſimile , il quale contenga pori acconci a
riceverle , e che ricevutele , ſia valevole a tragittarle fuori de'vafi:a
quella guiſa appunto , che al ráno s'appaltano le lordure, le quali imbrattano
il panno, e che col ráno ſe ne van via; e ſe perdiſgrazia dell'animale qual che
tratto di tempo , quancunque aſſai menomo , non fao V u cel 338 Ragionamento
Quinto ceſſe nel ſangue una cal purificazione, intoppando agevol mente negli
anguſti vaſi dieſſo colle craffe porzioni ſepa rate i ſottiliſſimi formentāti corpicciuoli,ſarebbono
queſti incontanente coſtretti ad abbandonare il movimento loro dılacante; e
ſeoltre a'formentanti corpicciuoli aurà nel são gue abbondanza di ſoſtanze
d'altro genere, ma altresì vo lanti , tra le quali viliano in copia grande i
ſemi del fuoco, così queſti , come quelle non incontreranno molta diffi coltà a
liberarſi da' ritegni ; e ſe vi ſi aggiugnerà qualche altra circonſtanza , onde
, e l'uno , e l'altro movimento , e di formentazione, e dicalore rieſca grande
, e notabilmée te impetuoſo , allora cgli grande oltremodo converrà ch '
avvegna la ſeparazione : per lo che non baſtando . dilatare , il ſangue dalle
groſſe, c importune porzioni quell'aere,che inceſſantemente negli animali per
li pori trapela , abbiſo gna , che altra aria mediante la reſpirazione fi beva
; e di quì ravviſato ſenza fallo avrebbe Eraſiſtrato , che parecchi animali no
poſſano vivere colla ſola traſpirazione, maloro faccia huopo pariméte della
reſpirazione; e ſe'l moviméto formentante non ſarà molto grande , ne verrà da
notabile, calore accompagnato , allor l'animale avrà di pochiſſimo aere biſogno
, e baſteragliquello , che, o colla ſola traſpi sazione , o con qualche forte
ancora di imperfetta reſpira zione ſuccerà ;e p cal cagione poſſono détro alle
acque vie vere i peſci; imperocchè nell'acque, benchè aere non vi ſia almeno
che ſenſibile appaja , vi ſono impertanto parecchi, e parecchj aliti , i quali
cosìdalla terra , come altronde gli vengono ad ogn'ora ſomminiſtrati; e
trapelando queſtinel corpo de'peſci, adempiono il medeſimo uficio dell'aere col
riportarvi quelle ſoſtanze, che , o nel fangue, o ne'liquori al ſangue
equivalenti impedir potrebbono la formentazio ne, col mettergli giù nell'acqua
, acciocchè l'acqua ſe n’ abbia a ſcaricare, comunicandola all'aere più vicino;
il che ſe mai lor viene impedito , rimangono i peſci poco ftanto privi di vita
. Nell'uovo poi , e nell'utero eſſendo i mo vimenti dell'animale non molto
grandi , e maſſimamente fra queſti il formentante, ed eſſendo anche oltremodo
mol lise DelSig. Lionardo di Capoa 339 li ; e pieghevoli , e poroſi i ſuoi vali
, può baſtar ſolamente quell'aere,che per li pori vi trapela; e ſe mai dal
freddo , o da altra cagione vegan chiuſi i pori,nõ entrādovi più l'aria, ceſſa
nell'uovo , e nell'utero la formentazione del ſangue, e ſe ne muore l'animale ;
ſenzachè non è di picciolo mo mento a mantener il debile moto formentativo
nell'anima le racchiuſonell’vuovo ,ilpicciolo ,e rimeſso eſteriore caldo, che o
dalla chioccia,o dalla fornace , o dal fime gli vié comum nicato ; e come tutto
dì veggiamo,nc'vaſi ermeticaméte fi gillati, il calore del bagno,o del fime è
valevole a far sì, che non ſi attuti , anzi duri , e fi accreſca nc'liquori la
formen tazione . Aggiugneſi , che mal ſi può render volante quel la nobiliſſima
ſoſtanza , la quale continuamente a vivificar le parti dell'animale dal ſangue
lor ſi communica,ſenza l'ac re, in cui mai ſempre troyanſi quc'volanti
corpicciuoli, che ajutano la formentazione . Ma laſciando queſto ſtare al
preſente , forſe noi cammi namo dietro la guida d'un cieco ; e altra
peravventura ſa rà la vera opinione d'Eraſiſtrato , la quale a dir il vero vien
portata in sì fatta maniera da Galieno , che ſembra ch'egli, o non l'aveſſe
inteſa , o non l'aveſſe voluta intendere, come fa anch'egli nel rapportare
quellaltre opinioni d'Eraſiſtra to intorno alla cagione ,per la quale ſe ne
muojan gli ani mali nelle mofete . Vuole Eraſiſtrato , per quel che ne nar ri
Galieno , che ſe ne muojan gli animali nelle mofete , e nelle ſtanze chiuſe ,
einfette o dagli alitidella calce, o dal fummo de carboni , per ritrovarli in
sì fatti luoghi l'aere ad un tal grado ſommo di tenuità ridotto , chene fi
riceva dall'arterie , ne ricevuto per eſſe ſi poſſa ritenere; ma con
grandiflima facilità fe n'eſca fuori; laonde per mancamen to di ſpirito egli ſe
ne muoja neceſſariamente l'animales . Prende a gabbo una tal ſentenza Galieno ,
e dice , che do vea dire più toſto Eraſiſtrato ,che ficome nel pane , ne’logu
mi , e in altre ſomiglianti vivande fi ritrova una qualità as noi contraria ,
così ancora una sì fatta diſpoſizione d'ae re ſia bcnigna , e amica agli
ſpiriti , e un'altra maligna , es nimica . Vu 2 M2 340 RagionamentoQuinto 1 ! .
Ma nondimeno conobbe chiaramente Galieno la vani rà del ſuo ragionamento ; onde
vien coſtretto a confeſſare d'eſſergli di ciò naſcoſa la vera cagione; come ſi
può vedere nel libro dell'utilità della reſpirazione ; ma che che ſia di
Galieno , lo ammiro grandemente l'acutezza dell'ingegno d'Eraſiſtrato , e'l ſuo
modo non guari lontano dal vero filo fofare intorno a tal faccenda;e forſe la
fua opinione ſe ſi va fottilmente vagliando non ſi ritroverà tale , quale la
s'im magina, o la fi dipigne Galieno ; il quale a dir il vero ſem brami troppo
groſſo in ciòse materiale,anzi che no , facen dofi egliacredere, che
Eraſiſtrato da lui medeſimo in sigra pregio avuto aveſſe ſognar mai potuto che
Paer pregno del fummo de carbonizfia del puro aere piu tenue, e più ſottile. Ma
lo per me porto fermiſlina opinione ,chc Eraſiſtrato aveſſe fatto differéza tra
fúmo e acre, come da ognun falfi fra l'aere, e l'acqua;e che non altro per
tenue aveſſe egliin tendervoluto , che picciolo , o poco : imperocchè la p.2
rola asfilos, della quale e' li valſe , ſecondochè dice Galie no ſteſſo , non
ſolamente ſuol eſfer preſa da'Greci antichi a fignificare quel che noi Italiani
diciamo foteile , e che da' Jatini ſi dice tenuis ;ma ancora per dinotare,come
ſi può ve derein Ariſtotele , e in qualch'altro autore di que' tempi , quel,
che i latini chiamano , cxiguus , e noi picciolo , o po co diciamo . Or
chidomine non fa , che la dove è aſſai de ſo il fummosivi ſi ritrovi in meno
quãtità l'aere? Conferma fi ciò che lo dico dalle ſteſſe ragioni d'Eraliſtratos
per Ga lieno recate; imperocchè ſe l'aere delle mofetc, e di sì fat si luoghi
egli foffe tal veramente , qual Galien dice ch’af fermiErafiltrato , ch'egli
ſia , cioè troppo ſottile :con gran di ſlīmaagevolezza ſenza fallo penetrar
egli potrebbe alles art erie ; concioſliecoſachè le ſoltanze diſcorrenti tutte
, qu anto più ſottili ſono , tanto più convenga , che compo he , e formate
licno di minutiffime penetrevoli particelle ; lao nde ſcimunito affatto ſarebbe
Eraſiſtrato in dicédo,che per eſſer l'aere delle mofete troppo ſottile,
tragittar egli no lip offa volentieri alle arterie ; ma entrarvi poi allo incon
tro . DelSig. Lionardo di Capoa 341 tro malagevolmente vi potrà l'aere qualora
eſſendo egli pochiſfimo venga con copia grande di denfe , e groſſe fo ſtanze
accompagnato . Ma non ſi ſarebbe vanamente nel vero aggirato infra tante
ciuffole , e anfanie Erafiltrato , ro con diligenza degna d'un sì grande
filoſofante aveſſe poſta ben mente alla natura delle mofete ; perchè
agevolmente aurebbe per avventura rinvenuta la vera cagione , per liza quale in
quellamuojono glianimalisin iſcorgédo la mofe ta eſſer una diſcorréte ſoftāza
più groſſa, e grieve affai dell? aria; e comechè nõ umida, in altro poi non
guari dall'acqux disſomigliāte;e gli aliti della mofeta unirſi nella guiſa me
deſima appunto ,che veggiam infieme unirki i zampillidel le acque, e mátenerf
nelle cocavità nõ meno ſtrettamente uniti infieme , e congiunti , che que'
dell'acqua nelle fon tane fi facciano ; e non altrimenti che l'acqua
incontrando declivo il terreno, correr alla in giù la mofeta . Errò pari mente
Eraſı trato la dove c'credette eller la carne non al. tro, ch'un accozzaméto di
ſangue rappigliatose raſſodato , da che la carne è veramente un compoſto di
picciole, c mi nute fibre ; e di fibre parimenté vengon formate le piccio
liffime glandolette , che ſparſe perentro , e ſeminate vifo no ; c quantunque
la carne del fegato , e della milza paja , nella prima viſta una mafſa di
ſangue , pur nondimeno tal non ritroveralla chiunque mettédola in acqua a
macerare, faccia , che ſe ne ſepari quel ſangue , che vi ftà meſcolato ; che
allora manifeſtamente delle già dettc fibre tutta appa rirà ella refuta. Ma
paſſando ad altro , che in Erafiſtrato lo ho ritro vato ; egli mi ſembra , che
ſi foſſe in qualche ſembian za di verità incontrato in diviſando delle febbri ,
in quella guiſa , che s'è da noiaccennata ; non conſiſtendo verame te in altro
la natura della febbre , ſe non ſe in un tal certo movimento non ordinario , e
non naturale del ſangue ; ma non prende egli a ſpiegar mai poſcia , anzine men
cura, per quelche fappiamo per bocca di Galieno, d'andar inveſti gando , come a
razionalmedico fa meſtieri, le cagioni,on de ciò poſſa avvenire ; il che
avrebbe potuto fareegli age vol 342 Ragionamento Quinta 1 volmenteper
avventura,ſe li foſſe innoltrato maggiormen te nella filoſofia ; ne gli mancò ,
al mio credere , ingegno , ne animo ad una tanc'impreſa acconcio ; ma gli
vennero meno gli ſtrumenti, i quali la ſola Chimica da lui nonco noſciuta
ſomminiſtrar gli potea Ma che cheſia di questo , non potè celarſi all'acutezza
del ſuo intendimento, che la digeſtion del cibo non ſi fà al trimenti dal
calore ; ma inveſtigar nondimeno , e rinvenis non ſeppe egli mai que'
ſottiliſſimi vapori nel ſangue, onde il cibo ſidivide , e li rompe in
minutiſſime parti nello ſto maco ; e comeche conoſceſſe ben egli ancora il
ſangue non eſſer da ſecaldo , non potè egli nondimeno però penetrar mai, onde ,
e come il ſangue caldo diveniffe , e fi conſer vaſſe negli animali . Maper far
qualche parola dietro all' eſercizio del ſuo meſtiere : egli maneggiò l'arte
Eraſiſtrato così magnificamente , che niun'altro tanto mai più ,ne pri ma , ne
poi, per quello , che noi ſappiamo sì ragguardevol mente la ritenne. Ma egli
non ha però dubbio niuno,che col profondo ſapere , colla gran fua diligenza , e
induſtria gli s'accompagnaſſe proſperevole anche la fortuna: la qua le al
maggior huopo nonmancò di favoreggiarlo , avendo egli dalla vicina morte
ſottratto , e penetratane la cagione a tutti naſcoſa della graviſſima malatcia
del regal giovanet to Antioco figliuolodi Seleuco,il quale in ſua lode così fa
, vella appo il noſtro loyrano lirico E ſe non foſe la diſcreta aita Del fiſico
gentil , che ben s'accorſe, L'età fua ſul fiorire era finita, Or chi è per Dio
, che apertamente non conoſca aver avu to in ciò grandiſſima parte la fortuna .
E non potea egli agevolmente ingannarviſi Eraſiſtrato , e in vece dell'oro,
delle dignità ſupreme, degli onori, e della gloria immor tale ,
ch'e'guadagnonne , obbrobrio , e vituperio eterno riportarne ? Ma in ciò imitar
lo volle anzi emularlo Galie no, le pur è vero il ſuo magnifico racconto
allorche e' ſco verſe quella Romana femmina eſſer preſa forte dell'amor di
Pilade ballerino ; c comechè egli vanti aver in ciò ſupe lato Del
Sig.Lionardodi Capoa. 343 . rato il medeſimo Erafiftrato , ſe pur tale appunto
andò law biſogna , qual egli la narra, non però di meno per eſſere fata colei
viliſſimadonnicciuola , non ne riportò Galieno , ſe non quella gloria, ch'egli
a ſe medeſimo attribuiſce , in iſcrivendo a Poſtumo talconvenente . Ma per toccar
qualche coſa intorno alla maniera del medicare tenuta da Erafiltrato,fi pare
,ch'egli nonmolto ſi Je i Salopsi ſoddisfece , ne troppo ſi valſe delle
purgagioni : delle quali affatto ſi tenne egli nelle febbri ; e dar ſolamente
le ſolea in altre malattie , che'lrichiedeario ; ſi portava egli sì fattamente
con gli infermi,che ſenza lor molta moleſtia, e riſchio alcuno recare , e ſenza
porgerne loro cagione , fol con iſtrettamente cibargli , felicemente conſeguire
ſperava ciò che altri dalle purgagioni, e da’ ſalaſli attendeano. Ma nonmeno
Eraſiſtrato, di quel che Criſippo ſuo maes ftro s'aveſſe già adoperato ,
ftudioſſi egli ancora di ridurre alla ſua antica ſemplicità innocentee, inerme
la greca me dicina ; vietando ſeveramente i ſalafi, i quali s'erano a po co a
poco in tutte le ſette della medicina introdotti ; per chè ſi vede chente , e
quale e' fi foſſe il valore , e quanto grande l'animo di Criſippo , e
d'Eraliſtrato , i quali ebbero ardimento primieramente di far fronte
all'oſtinata bruzza glia del vulgo, e rincuzzare una già quaſi preſcritta
uſanza nella medicina . Ma le ragioni delle quali eglino fi valſe ro a ciò
perſuadere,vengon deliderate da Galieno; ne accé na egli una ſola d'Eraſiſtrato
: la quale ſiè , che nel ribut tamento del ſangue non ſi dee ſegnare, acciocchè
per lo mancamento di eſſo non vegna poi coſtretto il medico a cibare fuor di
tempo l'infermo ; e in ciò loda grandemente egli Criſippo ſuo maeſtro , il qual
dice , che in ciò ebbe ri guardo,non ſolo alpreſente , ma all'imminente male anco
ra ; concioſſiecoſachè al ributcamento del ſangue agevol mente ſeguir ne ſoglia
l'infiammagione, in cuiilcibare ric fce ſenza fallo molto, e molto pericoloſo
a' poveri infermi; ed egli è forteda temere, che chiunque dopo l'etſer legna zo
dee portar la famc gran tempo , non vegna a mancare; indi poſcia ſoggiugne ,
che per sì fatta maniera adoperan doni 344 · Ragionamento Quarto doſi nel
medicare Crilippo , n'acquiitaſſe lode , e gloria immortale . Mas'altra ragione
di ciò ne recalle Erafiſtrato , Io no'l ſaprei diterminare ; non potendoſi
preſtar fede in si fatta materia a Galieno ; cercando egli , come avviſa
eziandio alcun de'ſuoi più parziali ſeguaci , a diritto , e a roveſcio il
meglio ch'e'potea d’avvallar la gloria , e la famad'Erafi ſtrato ; c anche
talora tentando a forza di ſofiſmi, e dica lunnia (trappargli di mano la
ſignoria della medicina. Recar ſi veggiono in mezzo da Galieno alcune frivolei
ragioni de'parteggianti d'Eraſiftrato ; ma da Galieno me. delino per avventura
fognate . Maegli ſi dee fermamen te credere , che non poteano mai, ne Criſippo
, ne Erafi . ſtrato , ne Medio , ne Ariftogene bandire , introdurre , mantenere
in piede poi una maniera sì da quella diverſa ch'era comunemente in uſo , ſenza
farne ben prima pruos va con qualcheprobabili ragioni, colle quali moſtraffera
eſſere ſtati a ciò fare tratti di peceſſità , e non da vaghezza alcuna ; ne
poteano altrimenti facendo difenderſi ne'lini ftri avvenimenti delle malattie ;
e forſe Criſippo , o pure Erafiltrato qualche libro particolare ne compofe non
per venuto alle mani di Galieno; il quale dice chiaramente una volta , che
l'opere di Criſippo crano molto vicine a ſmar richi , e ad eſſer ſommerſe in
perpetuadimenticanza . Ma quando primieramente cominciato foſle nella Gre cia
un sì crudel coſtume d'aprir col ferro , o col morſo di velenoſi vermini le
vene , e colla luſinghevole ſperanza di fottrarla a' preſenti, o
a'ſopravegnenti mali,impoverir dell? unico ſuo ſoſtentamento la vita , egli è
coſa malagevolen aſſai nel certo ,anzi per avventura impoſſibile a diſtinguere;
folamente,che non ſi poſſa porre in dubbio e' mi pare ,che'l crar
ſaugue,nemolto nepoco , ne'primni antichillimi tempi della medicina appoi Greci
in uſo niuno noirera ; ne Ome ro , il qual non iſdegna con abbaſſarſi alle più
menome par ticolarità delle coſe porre in non cale la dignità, e la gran dezza
, e magnificenza convenevole all'eroico poeta , livi de giammai far mézione
alcuna del ſegnare nella cura del le fe . DelSig. Lionardodi Capoa 345 : le
ferite di Marte , diMenelao , d'Euripilo , e di Macaone; perchè , per tacer
d'Achille , e di Patroclo , ne Podalirio ne Macaone, eſſendo favoloſo ciò che
di lai narrali intorno a tal convenente per Celio Rodigino , ne Chironę lor
maeſtro , ne Eſculapio lor padre , ne Apollo lor avolo , ne Peone medico di
Giove conobbero , e.miſero mai in uſo i ſalafli, e ne meno fi fa fe'l
fegnare,da loro mcdelimi i Gre ci trovaſſero , o pur da altri popoli
l'apprendeſſero;macer tamente ciò non poterono iGrecidagli Egizaj antichi ap
parare , i quali per teſtimonianza di Socrate ,da noi altro ve apportata,non ſi
valfero mai di rimedi pericoloſi; ne ore no da’moderni: imperciocchè coſtoro ,
come avviſa Dio doro , altra ſorte dirinedj non ebber mai in uſo , fuoriſo
Jamente , che criſtei , digiuni, purgative medicinc,e vomi tive . E ſi pare ,
che dagli Egizzj nell'altenerſi oglino mai ſempre da’lalaſli veniſſero imitati
i fapiéciflimi popoli Chi neli, nel cui paeſe, che poco cede in grandezza
all'Europa, ma l'avanza di gran lunga nel numero degli abitatori,non di vide
mai , comedicemmonoi già , trar ſangue in infer mità vcruna; il cui eſemplo han
ſeguito quei della Coccin cina, del Giappone,e tutti quegli altri popoli porti
in quell' eſtremo tratto della terra , che bagnata viene dall'Oceano orientale
; e in modo tale abborriſcono i Cineſi medici i falali , che ne i Saraceni ,
allora quando i Tartari occupa rono quell' imperio , neinoſtrive l'han mai
potuti intro durre . ? Ma che che ſia di queſto , chi poſe in uſo primiero il
trar ſangue , Io immagino , che fi movcffe , e ſpinto vi . foffe , non già come
immaginò Plinio ( ſeguito in ciò fol lemente dalMontano, e dal Vonio)
dall'eſemplo del caval lo del fiume ; non eſſendo miga vero ciò , che ſe
neraccon ta, come. Avempalace Arabomedico avvisò; ma dallo ſcor gere forſe ,
che dopo qualche ſpontaneo uſcimento di fan gue,o dalle narici , o da altra
parte ſi vedea cedere in qual che parte il malc e sì crebbe l'uſo del ſegnare
nella Grc cia , checonvenne , che Ippocrate, c.prima gli altri più ani tichi
landaſſero a poco a poco riſtrignendo , sfidando per It' ! 346
RagionamentoQuinto d ſe per avventura di torlo via affatto Ma non ſarà forſe
fuor del noſtro propofito a rap portare ora alcuna delle tante ragioni , colle
quali po trebbeſijs’Io pur non vado errato , sì fatta opinione difen dere . La
vita degli animali ( dico ora vita , largamente parlando x quello , ſenza cui
al corpo, comechè compiuto, e ſufficientemente organizzato; non può l'anima
accoppiar ſi , o ſtar tantoquantoin lui ) egli ſembra , che in altro ve ramente
non confifta , che nel ſangue, o in qualche altro- li quore alſangue
equivalente , che in alcuni animali in vece di quello (i mira . Coſa , la quale
non può punto dottarſi da chiunque avviſa, che collo ſcemo del ſangue fcemaſi
agli aniinali anche manifeſtamente la vita ; perchè ſe non per forte diſtretta
, e neceſſità quello non li convience vuotar negli animali . Ma delle due
maniere , colle quali il ſangue menomac puoſli , ciòſono , ocom trarlo fuora a
viva forza da'vafi , che'l contengono , o con dar ſtrettamé te', e a riguardo
il cibo ; il trarlo certamente è quello , il qual reca nocimento , e danno
maggiore , e più gli animam li affraliſce ; concioſliecoſachèfgorgando il
ſangue , con quello inſiemene ſvaporano quelleſottiliſſime volanti ſo ſtanze:
per le quali , e del chilo s'ingenera il ſangue, cin , priina de'cibi
s'ingenera il chilo ; ne può il ſangue mantc werſi nel ſuo ſtato, nevivificare
le parci dell'animale, ſenza loro ; il che apertamente da chiunque mente vi
ponga; po tendoſi di leggieri avvilare, non fa luogo, ch'Io ne faccia parole .
Quinci chiaramente ſi vede, c'l confeffa il medeſimo Ga lieno , che potendofi,
qualor ne faccia meſtieri, acconcia mente coldigiuno menomare il ſangue , non
fia ciò da fare in modo alcuno coltrarlo fuor delie vene,maſſimaméteove ègrade
malattia ;imperocchè quelle nobiliflime foſtāze ,che detro abbiamo effer
nelſangue , ajutano oltreinodo gl’in fermia ſtar vigoroſi della perſona ſenza
eſſere diſvenuti, affranti dal male, e giovano affai al mantenimento di quel li
, cafar laro ricoverar la ſalute ; perchè quanto più gra voſe , e di riſchio
ſono le malattie, più nocevole certamen te è Del Sig.Lionardo di Capoa. 347 O
te è il erar fangue, e men fi eonviene . Malaſciandoda parte ſtare ciò che
berlingando diceſi Galieno intorno al dovere fcemareil fangue , onde preſeg
cagione i ſuoi ſeguaci di continuo aggirarli infra vane , e inutili contefe :
certa coſa è, che'l ſangue può eſſer nocevo le agli animali , o per ſoverchio
di rigoglio , e d'abbondan za, per cui o di preſente cagionar puofli in
quelligrave ma latcia , o perchè egli è sì , e talmente piggiorato in tutto, in
parte , che traligni dalla ſua natura, e non ſi conformica quella
dell'animale:0 pure perchèegli inſieme e malvagio , e ſoprabbondevole s'avviſa.
Ora in tutti , etre queſti caſi certiſſima coſa è , che'l ſegnare è fommamente
nocevole E per cominciar dal ſoverchio del sāgue, chi negherà quel lo non eller
mica vizio nella perſona: ficome anche vizio egli non è nella vita civile
l'effer riccamöte fornito a denari, o d'altro,che meſtier faccia ad huomo per
bene, e agiatame te vivere . E apertamente avviſafi, che coloro , che fom
mamente in ſangue abbondano , ſon più d'aleri forci , e be atanti della
perſona. Ma ficome la copia delle ricchezze , comechè buona coſa quanto a ſe ,
pure ad uſo cattivo da gli huomini adoperandori, ſuol di gravidanni talora
eſſer cagione: così anche l'abbondanza del ſangue , avvegna chè buona , e
laudevole fia ,può talora nuocere , ſeconda mente che per noi ſopra il fecondo
aforiſmo del primo li bro d'Ippocrate già fu accennató . Orrel foverchio del
ſangue può táto nella perſona adou perare , che ragionevolmente ne debba temere
il medico , poco ſenno ſenza fallo farà di lui a volervi riparar col fa Jaffo :
potendo ben eglicon imporre ſtretto digiuno ciò ac conciamente fornire . E ſe'l
male è già fufficientemente appiccato , ne di quello il ſangue punto più
s'inframerre ; che monterà egli attutar la canapa , acciocchè la girandola già
preſa di foco non ſi conſumi? o pur che monterà egli ſpuntar la ſpada , perchè
la ferita fattane fi ſaldi? E ſe pur dura oſtinato il ſangue a tener mano al
male , oglirecas qualche impedimento alla cura di quello , può bene il me dico
avveduto ſenza ricorrere al pericoloſo partito della X X 2 1 : { so 348
Ragionamento Quinto laſſo , con imporre all'infermo , che più o meno fi riman
ga da' cibi : o più , o'meno , ſicomcli conviene , menomar lo . Nein ciò è da
riguardare a ciò che in contrario ſi dice Galieno , cioè , ch'alcuni corpi
v’abbia , i quali non così agevolmente potľano il digiuno comportare, per eſſer
egli no caldi, e ſecchi in compleſſione,e come e' dice, collerici ; '.
concioſliecofachè, per tacere, che ritrovar non ſi poſſa mai ficcità ove ſia
gran ſangue, maſſimamente laudevole,e buo no , qual G ſuppone : e che la
collcra non s'inframetta pun . to nelle vene , nelle quali, come altrove
diviſato abbiamo, ne meno in que'mali, che ſecondo effo Galieno dalla col lera
avvengono , nelle vene ſi trova : e che in sì fatti corpi non poſſa eſſer troppo
abbondevole il ſangue per lo ſmalti mento , che continuo di quello falli : può
bene il medico co medicine , che attutino la collera , e con beveraggi , che
non facciano ſe non ſe pochiſſimo ſangue, acconciamente a ciò dar riparo ;
ſenzachè in cotali corpi, i quali oltremo do abbondan di collera ,ſicome
faggiamente avviſano Ip pocrate , e Avicenna ,ſon pericoloſi iſalasſi ; e ſe
ciò fonte, c'huom collera aveſse nelle vene , impoſibil certamente egli ſarebbe
, che non n'aveſſe ancor nello ſtomaco : nel qual caſo ne men Galieno medeſimo
ardirebbe a trar ſan . guc agli infermi , per qualunque gran male cglino aver
ſero , Ma ſe'lſangue è malvagio , o cgli è per ſe ſteſſo tale , o pur altronde
la reezza gli vien comunicata. Se altronde gli vien comunicata , non che giovi
mai il falaſſo , anzi egli è ſommamente nocevole ; imperciocchè , non che per
lo trar del ſangue ſi ſcemi mai il mále,anzi ne monterà egli maggiormente , c
più fiero , e rigoglioſo diverranne , ufcé do inſieme col ſangue quelle
nobilisſime ſoſtanze , che di cemmo : le quali poſſono , e nel ſangue , e in
quella parte, ond’al ſangue diſcorre il male, rintuzzarne l'impero :e ſcio
gliendo , e aminendandocacciar via dal corpo per cieche , o per ſenſibili
ſtrade quel caccivo ſugo, onde cotanto attri ſtivali il ſangue . Echi voleſse
ammendare il ſangue coil cavarne dalle vene , farebbe come colui che con trarre
ac, qua * DelSig.Lionardo di Capoa. 349 qua da un lago , in cuicontinuo acqua
ſalmaſtra, o dall'int. teriora della terra ,o altronde trapeli, voleſſe quelle
addol cire . Ma ſe'l ſangue per ſe ſteſſo è cattivo , con trarne parte , non mé
cal rimane, qualſe vin ravvolto, o aguzzo emend.:re ſperaſſe mai ſcimunito
contadino, con trarne dalla botte al quáti maſtelli ; ſenzachè l'infermo ,
perdendo anchequel le menzionate fpiritualı ſoſtanze , le quali ſole poſſono i
difetti del ſangue ainmcndare , il nuovo ſangue , cheper quelle s'ingenera ,
e'l chilo diverranno mai ſempre pig giori . E quinci apertamente avviſar
puofli, che ne merz faccia luogo il ſegnare , quando il ſangue nella perſona ab
bondevole inſieme , e viziofo ritrovali . Ma per farci più addentro nella
preſente quiſtione : l'al terazione , o'l cambiamento del ſangue , o egli è in
tut to effo , o pure in qualche una , o più delle ſue parti, ość. fibili , o
inſenſibili ch'elle ſiano ſi trova ; oveche ſi covi il difetto ,certaméte
inutile affatto, e dáncvole ſarebbe il crar lo ; concioffiecoſachè il l'angue
in guiſa meſcolato per lo continuo movimento della tormentazione , e confuſo ne
vali ſi ritrova , , che non men della parte vizioſa di quello, la buona ancora
col ſalaſſo fuori ne ſcorga; perchè queſta, debile , e infiebolita rimaſa ,
meno certamente potrà rin tuzzare , e ammendare l'avanzo della cattiva . Ma
potrebbe per avventura alcun dire , incontrar tal volta ne'malati, che il
ſangue loro ſia tutto buono: ma che ſol qualche ſoſtanza di qualità cattiva , o
dentro a’ vaſi in generata, o altronde in quelli venuta,come vermini, e altre
fomiglianti ſtrane coſe, chenel ſangue talora anche d'huo mini ſani ſi ſcorgono
, renda quello vizioſo; e allora col fa laſlo ſi poſſon molto bene quelle
vuotare ; ne per altra ra gione alcune malattie ſcemanſi talora , o affatto li
ſpegno no per uſcimento di ſangue dalle nari, o da altra parte del la perſona .
Io certamente , ſe ciò foſſe vero , a sì fatto argomento non ſaprei lo che
riſpondermi : e non che a ſegnare diſtor nerei i noſtri medici , anzi a ciò
ſommamente confortar gli deurei 350 Ragionamento Quinto devrei ; ma in verità
altrimenti va la biſogna; perciocchè, o che nel ságue la vizioſa foſtáza
s'ingeneri , o che altróde a quello avvegna,no guaridopo il ſuomagagnaméto tra
plo moviméto in giro del ſangue ,e per quel della formentazio ne , convien ,
che quella sì, eralmente ſi meſcoli, e li ri volga inſieme con quello , che è
buono , che ſe di tutti , e due non ſi ſgoccino interamente i vaſi , certamente
non ſe ne potrà egli giammai tutto il malvagio ſpiccare. Anzico me in
tutt'altri vuotamenti avviene , anche in quelli, chej per più larga bocca ſi
fanno , certana coſa è , che allora il fangue piùpuro, e più ſottile più
agevolmente ne ſpiccia fuora, rimanendo ſempre quaſi inorchia in fondo ilmalv.2
gio ; ſenzachè può talvolta ne pori de'vaſi sì facramente fare inframeſfa la
cattiva ſoſtanza , che per trarne tutto il ſangue ne mencertamente quindi
ſpiccar ſi potrebbe . Ma ſerbiſi pure ella ſolamente nel ſangue , e per lo
cotinuo ri volgimento di quello ella ancora ſimuova : certamente il caſo ſolo
operar potrebbe, che in paſſando per lo ſpiraglio della vena , trattadalla foga
del ſangue ancor ella per la medeſima ſtrada fuora ne ſgorgaſſe . Ma certamente
il co trario tutto di avvenir veggiamo , maſſimamente nel velen della vipera:
il qual penetrato una volta entro il ſangue,no ſi può quindi per ſalaſſi ritrarre
giammai , ſe non ſe quando di preſente ſi taglia l'offeſa parte ; perciocchè
allora non penetrato ancor molto addentro il veleno , inſieme col fan gue fe
n'elce fuora . Ne dee ſempre il medico avveduto prender guardia d' imitar co'
ſuoi argomenti in ogni coſa la natura ; concioſ fiecorachè non può egli ſapere
comc , quando , e perchè quella opcri. Avvien talora , che s’alleggj, o affatto
ſpe gnaſi qualche malattia dopo uſcimento di ſangue;percioc chè nel tempo
medeſimo incontra per avventura, che la ca gion vera del male, la qual nó avea
coſa che fare col sāgue, come altrove è detto , ſi è tolta via . Talora la
cagion del malce nel ſangue : ma dalle partiſalde nel tépo medefimo
dell'ufciméto , o poco avanti, e prima,che mclcolată fi fof ſe con tutto il ſangue,
a quello mandata ; e talora, perchè nel 4 1 1 3 1 DelSig.Lionardo di Capou. 351
Ael medeſimo tempo ella del ſangue ſi è partita : e giunta... alle boccucce
de'vali colla ſua mordacità le ſtimola,leapre , e inſieme col fangue n'eſce
fuora . Or fe poteſſe il medico mai per ſenno avviſar sì fatte coſe; forfe
ſarebbegli permel ſo talvolta il ſegnare; ma perciocchè egli èmalagevole al
fai, anzi impoßībile a comprenderle , impoſſibile altresì ſi rendea lui la
pericoloſa impreſa di poter col ſalaſſo vin cer le malattie . Perchè quando
egli follemente s'arriſchia ad adoperarlo , ſi pone inmano della fortuna:e'l
nocimen to , e'l danno è ſicuro , e'l giovamento molto incerto , che ne poffa
all'infermo ſeguire ; e maggiormente che rariſſi me fiate ciò che lo hodetto
incontrar fi vede.Perchè ſcioc chi ſon da ripurar ſenza fallo coloro, che da
quelle pochiſ. fiine volte , che felicemente per opera della natura ciò av.
vcnire ſcorgono gvoglion , che parimente dall'arte ſempre mai ſeguir debbawo
Mafe nel fangue farà per avventura in parte ſcema to il movimento in giro , o
quel della formentazione , allora ccrcamente, non che rieſca giovevole , ma
dannoſo olcremodo ſi ſperimenta il Talaſſo ; imperciocchè per quello fcemandoli
quelle parti, onde al ſangue cagionanſi eſimo vimenti , diverranno eglino ſenza
fallo minori;ma le i movimenti faran creſciuti , comechè fembri , che per
ſegnare debban ceflare , fcemandoſiquelle ſoſtanze nel la perſona , onde effi'
movimenti procedono : non però di meno rimanendo in piede la cagione non
naturale , per cui il' moviméto in giro, e quel della formentazione nelſangue
accreſciuto ſi era , nonſolamentevano ſarà il falaſſo , ma altresì ſommamente
nocevole; perciocchè con quello fi vé gono a tor via dal fangue le ſoſtanze
ſpirituali , le quali ſo le poſlon vincere, e ſgombrare la cagione non
naturale,per cui que’movimenti oltre al dovere , sformatamente accre fciuti ſi
erano ; ſenzachè in que'movimenti sì factamente avanzati , ſi fà grandiſſima
perdita di Sangue : e poco , o nulla fi dee cibar l'infermo; perchèfe vorreio a
quello col ſalaſſo ancora torre il ſangue, egli correrà certamente grá diſſimo
pericolo della vita. Ma 352 Ragionamento Quinto Ma ſe'l ſangue li ferma in
qualche parte falda del corpo, come veggiamonelle infiammagioni avvenire ,
allora non è da ſcemare il ſangue co'ſalaſli : ma sì ſi dee prender guar dia ,
che ſi toglian via le cagioni, onde quello a fermarſi quivi fu coſtretto se ciò
non ſolamente , perchè il ſangue allor dalla febbre , che s'accompagna
coll'infiammagione, grandemente ſcemaſi , e perchè poco, o nulla ſidee l'infer
mo cibare : ma ancora , perchè quantunque ſe ne traggu daʼvafi,quel,che
rimane,ſi fermerà pure Oſtinato quivi,e tā to più ,quáto ſarà facto men
vigoroſo il ſangue a più oltre pasſare;come veggiamo ne'mali della gola , e
della pleureli avvenire ; ę fcorto manifeſtamente ſi è allor che ſpina , o al
tra fomigliante coſa ſi ficca nella carne , che con quantun que ſangue trarre ,
non ſi può far sì, che non vi accorra in fiammagione : evi ſi ripara ſolamente
con trarne la ſpinews ſenzachè col ſalaſſo dipartédoſi dal corpo ciò che
ſcioglier puote il ſangue rattenuto nella parte offefa , ne viene av
montaremaggiormente il male . Neha luogo niuno certa mente quì , o la
derivazione , o la rivulſione , che chia mano i medici , percui eglino tutto dì
ſono a zuffc , eacă teſe in volendo riconciliare alcuni luoghi d'Ippocrate , e
di Galieno : i quali variamente ne favellano; imperciocchè movendo di continuo
il ſangue in giro, da qualunque par te egli ſi tragga , ſempre ne liegue il
medeſiino : c niente ri lieva quantunque l'arterie ſi ſegnaſſero; imperciocchè
vuo. tandoſi l'una parte del ſangue da'vaſi colla lanciuola, inco tanente nuovo
ſangue dall'altra vi diſcorre : ficome in fiue micello avviene, le cuiacque per
varj ravvolgimenti ricor rando a guiſa diconfuſo labirinto s'incontrano : E
mentr’ei vien ,se , che ritorna , affronta , E comechè i moderni per no li
dipartire in medicando da gli uſi comuni, ſi ſtudjno, e s'affarichino dicoglier
pruove ; no però di meno apertaméte ſi vede cheindarno li beccano i geti; per
maniera,che un di loro ebbe manifeftaméte a co feffare, che in ciò deſli ſtare
alla ſola ſperienza; comcchè al cuni più ſaggi,e avveduti affermino le ſperiēze
tutte recate dagli Del Sig. LionardodiCapoa 353 dagli antichi a queſto
propofito eſſer fallaci, e vane.Perchè ragionevolmére temevano i più famoſi
Galienifti, che fiori vano a que'tempi che da prima ſparſeſi la circolazion del
ſangue ,no ſe n'aveſse a travolger tutto, e andar a foqqua dro l'uſo del
medicare comunemente ricevuto ; e queſta fi fu una delle cagioni, perchè un sì
lodevol ritrovato tanto lor rincreſceſse .; el principal.degli argomenti, che
contro a ciò giammai fi ftudiaffero di fare il Riolano , il Primero fio , il
Pariſano ,e altri ſi fu, che come narra l'Arveo: ftão se circuitu phlebotomia
nonrevelli; quit ſanguisnibilominus parti affetteimpellatur . Ma comechènó
ſapeſſe l'avvedu tisſimoGio:Battiſta Elmonte dell'aggirainento del ſangue, pure
ebbe egli tanto d'intendimento ,chegiunſea conoſcer ja vanità della revulſionc
,, .e della dirivizionc ,allor che iit facendo paroic della punta c'diſle: Quam
circumfpečte ſunt Scholæ in fermocinalibus , &artificialibus : que in
natura nil nifi ludicra ſunt! Quoniam etiamfi vena cubiti ufque in cavam totum
depleat cruorem : do hecconſequutive èvena azygos cruorem extrahat ; fcire
tamen deberent ſcholæftatim poft, totumiterum cruorem æqualiter in venas
reftitui : adeò licet.vena cubiti tatapoffetevacuari ( quodnunquam ) tamé mox
iterum totus cruor equareturper totum venarum cótex tum . Vnde manifeſtum fit
vanas efle revulfionis , deri vationis nanias : quippe quibus conceſſis adhuc
non nifi pro paucula mora inſervirent intenţiopi , Perchè ad alcuna delle dette
ragioni, per tacer della ſperienza , riguardando per avventura quegli
antichiſſimi medici della Grecia , i quali prima d'Ippocrate fiorirono , ma in
quel tempo , che'l ſegnare era già nella Grecia in trodotto , furono così
ritroſi , e guardinghi in crar ſangue: ne mai oſarono ſegnar nelle febbri,
anche ardentiflime.Ne Ippocrate medeſimo, come ſi vede nc’libride'luoghi dell'
huomo , e in altre ſue opere , fegnò giammai nelle febbri , ſe non folamente in
quelle , che da grande infiammagione dentro cagionanſi; e in alcuni mali vuole
egli di ſtrettamen te , che da ſegnar ſia con tal convegna , che non vi ſia feb
bre ; e avviſa egli oltre a ciò una fiata , che dopo lungo uſci Y y nicht 354
Ragionamento Quinto 1 1 1 1 1 mento di ſangue dalla matrice d'una donna , le
ſopraven ne la febbre : coſa ,la qual veggiamoanchenoi più d'una volta avvenire
. Ne è punto vero ciò che dice Galicno , che Ippocrate porti opinione , che in
tutte acute , egrandi malattie ſia datrar ſangue;concioſliece ſachè in quel
luogo per noigià recato , in cui ſi conrende da Galieno', che ciò egli affermi
, egli nel vero non di tutti mali acuti vuol che s'intenda , ma di
que'ſolamente , de'quali egli quivi ragio na , sì veramente , che ſien grandi;
e imperò vípoſe la par ticella deg che i Latini dicono fed , o pure verùm , e
noi diciamo ma: della qual particella Galieno in ſu quel luogo non fa menzione
alcuna , e artaramente la tace per poter quello recare a ſuo concio ; perchè i
ſeguaci d'Ippocrate forte ne'l tacciano, dicendo , ch'egli falſato aveſſe il
teſto d'Ippocrate . Ne è da tacere quanto Galien ſi maravigli , perchè una cal
ſentenza non ſia ſtata poſta da Ippocrate negli aforiſmi; e perchè egli altresì
non abbia detto , che ne'mali grandi anche non acutiſi debba trar fangue. Ma ne
men da’Galieniſti medeſimi viene ricevuto e ap provato il lor macſtro Galieno
in quel ſuo famoſo decco : che in tutte febbri ottima coſa ſia a trar ſangue ,
non fola mente in quelle , ch'egli chiama finoche , ma in quelle an. cora,che
da putrefcenza d'umori fon cagionate . E nel ve o eglino in ciò gran ſenno
fanno a laſciar da parte la reve renda autorità del lor maeſtro , e ſtar
guardinghi , e ritroſi di cavar ſangue in tutte ſorte di febbri; anzi licome
eglino nella quartana , e nella terzana ſemplice di ſegnar ſi guar dano ,così
nelle altre ancora ſe sbandeggiaſſero affatto i ſa laſli , o quanto
miglioriſarebbon da eſler giudicati, e più aſſennati aſſai del lor medeſimo
maeſtro ; concioliecolachè nelle febbri maſſimamente acute , e più in quelle ,
che ſino che chiama Galieno, per la ſtrabocchevole formentazione, e per lo
troppo riſcaldamento del langue, cotato egli liſce ma, e s'affraliſce , e
s'infieboliſce la perſona, che pericolo ſo alfai, e nocevole riuſcirebbegli
ilfalaſſo ;ſenzachè dal la ſcarſezza del cibo ancora , e per lo poco
ſmaltimento di quello s’aſſottigliano sì fattitebbricoli, e quali a buccia
eſtreina dimagrano. Ma . Del Sig.Lionardo di Capoa. 355 Ma avvegnapure , che
con ſegnare rinfreſcaſſeli veram mente il fangue, ilche in cotalifebbri non ſi
ſcorge, ſe non fe di rado , eperpochiſſimo ſpazio di tempo avvenire, ri
furgendo teſteſo vie più che mai impetuoſo, e fervente il calore ; non
però,dimeno aſſai ſciocchezza certamente fa rebbe a volerper poco
rinfreſcamento pericolar graveme te la perſona , e manifeſtamente porla a
riſchio dimorte ; perciocchèſovepti volteincontra , che dopo il falaſſo vol
gendofi a maligna la febbre., più coſto n'uccida. E fe pur vogliam rinfreſcare
il ſoverchio calor ne'malati: che non cercar di ſcemarlo con argomenci acconcj,
ſenza metterci al pericoloſo partico de ſalaſſis che non cercar rimedj da to
glier la cagione ,onde nel ſangue colla formentazione il ca lore
ſtrabocchevolmente ècreſciuto , laſciando in lui quel la vital ſoſtanza, che
ſola puòl'infermo ne' ſuoi mali aju tare ? Ma ſopratutto certamente vorrei Io
domādare ad Ippo. crate , e Galieno , perchè eglino diſideravan , che ſi traef
fe ſangue fin’allo sfinimento dello infermo nelle febbri ca gionate da grandi
infiammagioni dentro, maſſimamente.ne' mali della gola , e della punta?
perciocchè in quelli , fico me il inedeſimo Galieno inſegna , ogni ſperanza di
riſto ramento nelvigor.dello infermo allagaſi; ilqual ceſſando molti ſe ne
veggion miſeramente morire , eziandio nel di .chino del male , non avendo in
lor virtù, perla fiebolezza , da poter il puzzo già cotto , e digeſtito
ſpurgare. Ma ſe Galieno non vuole,che ſi tragga ſangue a'fanciul li prima del
quatroidecimo anno per qualunque graviſſimo male elli abbiano , non per altro
certamente , ſe non ſe per la grandiſſima inſenſibil vacuazione , che continuo
coloro fanno : perchè farà eglida trar ſangue nelle febbri , malli anamente
sipoche, e in quelle dell'interne infiamagioni,per cui l'inſenſibil vacuazione
, che fasſi negli infermi è ſenzaw paragone affai maggior di quella
de'fanciulli ? Ma per avventura egli non fu Galieno così amico di ſe gnare.,
comeſi fanno a credere i ſuoi Galieriſti ; e forſe più per oggia , e diſpecto ,
ch'egli aveva nella nimica ſerta di Y y a d'Era 356 RagionamentoQuinto 1
Eraliftrato , cotanto egli commendò i ſalali, che per ra . gion , che veramente
ve'l traeſſe ; perchè con tante leggi, ' e convegne , e riguardi egli ne
riſtrigne l'uſo , che certa mente delle diecivolte , che i noſtri Galieniſti
ſegnano , ſe bé li mir231on ne ſaran due per avventura ſecondo il vero
ſentimento del lor maeſtro Galieno adoperate ; e rariſſiine volte certamente
quelle ſarebbono , che ſegnar ſi dovreb be ſecondo il lor Galicno ; ma eglino
credendo d'adoperar bene nelle malattie , con porre ayanti un sì gran rincdio,e
sì giovevole, qual e' dicono; non curano di trarre a' mini feltisſimo riſchio i
malati, ordinando largamente i falasſi in ogni malattia ſenza riſpetco alcuno,
anche contro i divi lamenti del lor medeſimo maeſtro . E comechè Galieno , come
teſtè diciavano , n'aveſſe una volta inſegnato , che ottimo ſia a ſegnare in
tutte ſorte di febbri,pur quando poi più minutamente nevuol divifare
raccontando ad una ad una al ſuo Glaucone le maniere di toglier via le febbri ,
quaſi dimentico del falaſſo no nefà motto niuno nella cu ra della ſemplice terzana
la qual ſecondo lui muove dapll treſcenza d'umori ; e nella cura della terzana
baltarda egli dubitoſo, e in nube ne favella , tempellando nel ſuo ani mo tra'l
ſoſpetto , e la paura di non offender con sì fatto medicamento gl'infermi.
Perchè ragionevolmente il Ro rario di ciò avveduto, forte proverbiandolo
diinunifeſta contraddizione nc'ſuoi ſentimenti l'accagiona: quum aliud videatur
proponere in univerſali methodo , ficome e' dicu , quàmin particulari exequatur
. Ma non che Galieno die fcendendo al particolare, a ciò che prima accennato
ave va in univerſale, minutamente fi conformi; anzi cotanto fciocco , ebalordo
egli è nelle ſue regole , come già diviſa to abbiamo , che in preſcrivendole in
univerfale , fache ſo vente l'una all'altra contraſti, e vicendevolmente fi com
battano . Così nel libro del modo di medicar per via di fa lasſi,contro il
rapportato duo diviſamento dice : lo dimos ftrerò in queſto libro , che non che
a ciaſcuno convenevol fia il falaſſo , anziche ne men coloro , ch'abbondan
oltre fiodo ia langue , fian da ſegnare , ſe prima manifeſtamente non DelSig.
Lionardo di Capoa 357 fa non ſappiafi. di qual natura fia l'abbondanza del lor
fan gue : e quale lo ſtato dello infermo, e gli anni, e'l luogo , e la ſtagione
, e la complesſion dell'aria ſia : e chenti, e quali fegniabbia egli patito' o
patiſca nelcorſo della fua ma lattia; per ciaſcuna delle quali convenienze dice
egli di do verne inaniteſtamente dimoſtrare , che molti ſenza graviſ fimo for
dáno ſegnar non ſi poffano . Ecco le ſue parole : Εγω επιδείξω κατατον εξής
λόγον , και μόνον άπαντας και δεομένες φλεβοτομίας , αλ' εδέ τες πληθωρικές
αυτούς , εαν μη πεότερον αυτό το πλή θG- , οποίον πτην φύσιν εα διορίστι μετα
τούτα την έξιν του κάμνονlG Xoxíarte , xai megy, noi xwegen wij , satíscos ,
@osc te thonyera , sche όσα περεστ τω κάμνονασυμπώμας καθ' έκασον γαρ
τούτωνεπιδείξω πολ . λους μη φέρον ως αβλαβώς την φλεβοτομίαν . Ωltre acio
avendo Galieno nel libro cótro di Eraſiftrato , e altrove inſegnato , che del
ſoverchio ſangue trar G debba copioſamente infino allo sfinimento ; nel quarto
libro poi del inetodo eglicer tamcnre in miglior ſenno rinvenuto affermanon
cffer il ſo verchio ſangue indizio del ſalaffo ; perciocchè ſe huom ſa no
sformatamente in ſangue abbonda , non è egli si toſto da ſegrare : ma sì fi dee
con purgagioni, e con menomargli il cibo , c con iftropicciamenti e, altri
rimedj ajirtare. Co sì anche egli inſegna nell'undecimo del ſuo metodo , che
nella febbre ſinoca no debba il medico troppa copia di sã gre allo infermo trarre
: acciocchè il debito alimento alles parti rimanga , ne fia ſtretto l'infermo
per ricoverar le ſinarrite forze a doverſi troppo ghiottamente nutricare ; non
però di meno egli medeſimo altrove dice ſe aver nella febbre finoca fino allo
sfinimento ſegnato . Ma più che in ogn'altronel nono libro del metodo moſtra
affai ma nifeftaméte Galieno quáto egli ondeggiáre, e dubbioſo in torno al
ſegnar fia ; conciosſiecofachè egli quivi dica do verſi trar ſangue di preſente
a'malati di febbre finoca ſenza punto por cura che fia ilfeſto , o'l decimo
giorno , o altro giorno critico : e ciò diſtrettamente egli comanda ſenza ri
fpecto alcuno . Matoſto poi rivolgendoſi,indi a poco ſog. giugne , che ſe
peravventura da altri medici , o dagli asli ſtenti , o dal malato medeſimo ti
verrà ciò vietato , allor tu : debbi - 358 Ragionamento Quinta debbj imporgli
beveraggi d'acquafredda ,e agghiacciata potendoli ciò ſicuramente adempiere
ſenza nocimento al. cuno dello infermo; e ſe ciò pure ſicuramente adoperarnon
ſi puote , allor comanda,che il medico ſi debba ad altri ri. medj rivolgere
forſe più accoci di queſti. Dal quale diviſa méto manifeftaméte s'avviſa quáto
poco fperava Galieno nel falaſſo a dover guarir la febbre ſinocajāzi qnāto egli
no men del ſalaſſo temeva anche dell'acqua fredda: la qual ſe .condo lui ſmaga
la perſona , affieboliſce le membra, e ren de crudi gli umori, e ſveglia
tremori , e dibattimenti nel corpo , e cagiona nonpocamalagevolezza nel
reſpirare . E ſe con molta ragione egli ebbe nel libro primo del metodo a
coinmendare oltremodo gli antichi medici ; i qualicosì ritroſi, e guardinghi
erano in permettere agli in . fermi vino,o acqua, o altro rinfreſcamento della
loro ſete ; che non altrimenti, che i rigorofi Capitani a’ſoldati comā dino , o
i Principia i lor popoli, cosi eglino in ciò ſtretta mente ubbidir ſi facevano
da' loro infermi: certamente Galieno , ſc avelle creduto eſſer neceſario il
falaſſo a cota li febbri, avrebbe egli il ſuo medico conligliato ,che ripu
gnando altri medici, o gli aſſiſtenti, o l'infermo medeſimo, di quello ſi
rimaneſſe ; maſe più a capital ſenza fallo auuto l'aveſſe, egli ſaldo, e
oſtinato nelſuo proponimento avrebe be pur confortato ilſuo medico a doverlo
metter avanti, o pure d’abbádonardi preſente la cura dello infermo; ficome
altrove in ciò che conoſce neceſſario al ſalvamento de'ma lati, più volte il
ſuo medico diſtrettamente egli ammo niſce Mache direm noi quanto egli
generalmente poca ftima faccia de Calaſſic poco in lor lifidi? maſſimamétein
quelli bro , quando contro ad Eraſiſtrato maggiormente aiz zato , e riſcaldato
vuol provar quanto ſia convenevole , neceſſario a'malari il ſegnare ;allora nel
maggior caldo del la pugna , quali ſchivando la propoſta , che cotanto in pri
ma avea preſa per la punta , li rivolge contro coloro ,i qua li giovani, e mal
pratici in medicare, temerariamente ove non ſi conviene adoperano il Calaſſo ;
e sì cutta la colpa ri yerla 1 Del Sig .Lionardo di Capoa. 359 1 verſa ſopra
coloro, i quali quantunque nel cominciamento del male traggan ſangue', dice
nondimeno,cheper lor dap pocaggine ſpeſſo gravemente pericolano gl'infermi; per
chè conchiude egli diſiderar più toſto , che cotali nuovi uc celloni non
s'infrámettano dibiſogna così pericoloſa ,e più toſto per ſalvamento demalatiſe
ne rimangano . Mamol to aftuto , e malizioſo ch'egli è , ſe per prender riparo
di cotanti mal capitati infermi per lo ſalaito , n'accagiona la tracotanza , e
la befraggine de'giovani e mal praticime dici : come ciò colpa foſſe dell'età
di coforo , e non più to fto del medeſimo medicamento ; perciocchè egli dice' ,
e manifeſtamente confeffa, maggiore aſſai eſſere il numero di que’malati, che
per malamence ſegnarſi ſi morirono , che , di coloro , a'quali tratta non fu
mai goccia di ſangue. Eal la per fine egli conchiude, che gran danno , e
nocimento agl'infermi apportano que'medici, che giudicano nel co minciamento di
tutte tebbri doverſi crar ſangue. Ma che che ſia dell'opinione diGalieno,la
continua ſpe rienza di ciò baſtantemente ammaeſtrar ne puote : e ſe li beri
d'ogni neo di paſſione negli uſcimenti delle malattie riguardiamo, ben
coinprender pofliamo quelle per ſalaſli non eſſer mai ſcemare, le per avventura
giunte non ſienoa' termini loro facali se da ſe ſono ſenza argomento alcunori
ſtate ; ma non così negli altri rimedi, i qualivantar poſſo no di riparar
veramente alle malattie , e cacciarle fuora dalla perſona per lor virtù , e
giovamento ; ficome nelle terzana , e nella quartana avviſar puoſli: le quali
non cede do a’ſalalli ; o alle purgagioni, pur dalla ſcorza del Perù só vinte ,
e fignoreggiate ; perciocchè quella ſolamente è ri medio acconcio loro ,e non
già il falaſſo, o la purgagione,le quali coſe più coſto offédono ,che giovano
in corali malat tie.Nein ciò voglio lo diftédermi al preſente,co farne lun ghe
pruove: ſolamente rapporterò l'avvenimento del Sere niſlimo Cardinal Infante;al
quale comechè per li tanti ſa laffi non foſſe rimaſta gocciola difangue nella
perſona,pur. dura , e oſtinata la ſua febbre non ceſsò mai , ne rifinò, fin chè
cacciollo diqueſta mortal vita . Anno 1641 Noven bris 300 Ragionamento Quinto
bris diſſectum fuit curpus Principis FerdinandiHiſpaniarum Regis fratrisCard .
Toletani, qui 89.diebus tertiana febri agitatus obiit ætatis 32.annorum .
Etenim fublatis cordes bepate, cu pulmone , adeoque difettis venis ,arteriis,
vix cochlear cruoris in cavuum thoracis confiuxit ; planè nimiru hepar oftendit
exangue: cor verò inſtar crumena flaccidum : biduo enim ante mortem plus
ediffet ,fi ipfi conceffum fuiffet , Fuit enim per venæ feitiones , purgationes,
hirudineſque ità exhauftus , ut dixi; non definebat tamen tertiana fuum sypă
Servare. Ne muove punto ciò , che ſi porta per Galieno , ſe pur cgliè vero , di
quelmalato difebbre ſinoca, che ſegnato da lui fino allo sfinimento ſi guarì ;
concioffiecoſachè veg. giam noi molti, e molti guarir turto dì da și facte
febbri ſenza verſargoccia di ſangue ; ed'altra parte infiniti anche ſono coloro
,come teſtimonia il medeſimo Galieno , i qua li fino allo sfinimento ſegnati G
morirono; e coloro ancora, i quali a peſſimo ſtato della lor ſalute ne giunſero
: e coloro , i quali anche per teſtimonianza del medeſimo Galieno ,co loro
grandiſſimo riſchio ,dopo ſegnati fino allo sfinimento , affieboliti , e
raffreddati di tutta lor perſona n'ebbero ſudo ri grandiffimi, e ſoccorrenze,
comechè poi loro ne folie ccffata la febbre. Ne di ciò è punto da maravigliare;
con cioſliceofachè tra per lo perdimento del ſangue,e degli ſpi riti s'agitino
, e ſi perturbino sì fattamente le parti (alde, e diſcorrenti della perſona , che
per lo ftrabocchevol rime ſcolamento ſe ne viene a fommuovere,e disſipare la
cagione della lor malattia : e sì rimangono liberi , e lani di preſente co non
poca maraviglia de’inedeſimi medicanti. Così veg giamo per ira , o per timore,
o per altra grave , e ſubitana paffione le gotte , e le quartane , e altre dure
, e pertinaci malattie eſſer di preſente riſtate. Quinci manifeſtamente ſi
comprende , ſciocchi oltremo do , e ſcimuniti eſſer coloro , i quali per
picciol ſalaffo per fuadonſi aggiugnere a ciò , chè Galieno con largamen te
trar ſangue fino allo sfinimento aggiugner fi crede va ; perciocchè coſtoro per
non porſi a riſchio d'ammaz zare Del Sig.Lionardodi Capoa : 361 1 zare i malati
nonolano loro con iftrabocchevolmente rea gnargli torre affatto le forze,e sì
porli in bilico della lor vie ta ; ma si mezzanamente ſegnandogli certamente
non po tranno mai muover a rimeſcolamento le parti falde', e di fcorrenti del
corpo , onde taloramaraviglioſamente,come chê con non poco riſchio della
perſona , ſi riftanno le ma. lartie ; perchè da’loro falaffi altro certamente
ſperar non ſi può , che certisſimo danno, e nocimento ſenza ſperanza di
riſtoramento alcuno ne'malati . E fenza fallo gran ſenno fanno coloro , che ne
più , ne meno ſegnano , pereſſer i ſa lasfi ne'malati, o gravemente dannofi , e
di riſchio , o affat to inutili . E a ciò riguardando i più pratici , e vecchi
nel meſtier deilamedicina,ritrofi oltremodo , e guardinghi ſo 110 nel fegnare :
ficome Raſi, e altri valeuti medici nell'ulti- , ma lor vecchiaja dalle
continue pruove addottrinati, nois mai ; ſe non molto di rado , e con
grandisſimo riguardo ſi videro adoperare i ſalasſi. Mainoitri medici , comechè
di ciò pure fien ſufficientemente ſgannati , e ricreduti , pure per non metter
affatto in miſaſo l'antichisſima coſtuma de ſalasſi , e si laſciare anche in
ciò la medicina del lor mac. ſtro Galicno , così ſcarſamente, e a biſtento
ſegnano , ch'o ve gli antichi medici largaméte traevano il fangue a libbre ,
coſtoro ſolamente il traggono a pochisſime once; ritenen do così ſolamente in
nome , e per veduta l'eſler Galieniſti in trar ſangue , quando in verità non
ſono. Ma per ritornare allamedicina d' Eraſiſtrato , egli fem bra, per quel che
nemoftriGalieno , che della materia de medicamenti egli ſi foſse allai ben
conoſciuto ; e viencegli oltrcmodo da Galien celebrato : perciocchè
pellegrinando egli, e non avendo una fiata in acconcio una ſua medicina per lo
ſtomaco , ponetie ſaggiamente in opera alcuni ſughi d'erbe,le quali quivi
abbondanteméte erano;eGalien pari mente di luiracconta , che trovandoſi cgli
medeſimo un giorno infermo in contado, e abbiſognandogli al ſuoma lc il
paſtello d'Androne, ne potendolo quivi avere, in luq go di quello aſſai
felicemente adoperò il ſugo del Rovo ; c ſoggiugne Galieno , chee'non venne
Eraliſirato a ciò fa Z Z 1 1010 362 Ragionamento Quinto re ſoſpinto altrimenti,
o perſuaſo', come millantavano Sea rapione , e Menodoto, dal paſſaggio, o
argomento dal fi mile al fimile , non avendolomiglianza niuna tra'l paſtello
d'Androne, e'l ſugo del Rovo,madalla general contezza , la qual egli avea della
facoltà de'ſemplici ; per la cui' mea deſima ſcorta,ad emulazioned'Eraſiſtrato
ritrovò poiGa lieno parimente quel medicamento , che'l fa tanto ſtraboce
chevolmére pavoneggiare,cioè il ſugo delle noci.Or penſa te voi che ſchiamazzio
avrebbe farto egli, e qual loda avrebbea ſe ', e ad Erafiltrato attribuita
Galieno , ſe qual che menoma delle chimiche medicine aveſſer potuto mai eglino
rinvenire . Ma ne Eraſiſtrato , ne Galieno ſeppero mai' , che nel ſugo del Rovo
, e delle noci viabbia un ſale adatto a ſciogliere molte, e molte di quelle
materie , onde ingenerar fi loglion le poſteme; e che non ſolo i fughi già
detti ſono riſtrignitivi,mavalevoli anche a fare cambiar na tura a quelle acetoſe
ſoſtanze', oude s'ingenerano l'infiam magioni . E quinci ſi ſcorge apertamente
, chevada errata in ciò la medicina razionale antica , la qual ſi crede , uſana
do medicamenti sì fatti nel primo cominciamento dell'in fiammagioni, porre in
opera coſe , che di ripercuotere, o di riſtrignere ſolamente abbian valore.
Maritornando a noſtro propoſito : bé potea anche effer agevolmente vero ciò che
diceano que’gran lumi dell'em pirica medicina , Serapione , e Menodoto , che da
qualche ſomiglianza no penetrata da Galieno tra'l Rovo,c'l paſtel lo d'Androne
indotto ſtato foſſe Erafiſtrato a ciò fare ; e in verità tra'l Rovo , e la
Galla ,per tacer del vitriolo , onde vien formato il paſtello d'Androne, potea
non che Eraſi ſtrato , ma huom di mezzano intendimento di leggieri av viſare
eſſer non poca lomniglianza . Maquanto sì fatta ſo miglianza poſſa ingannare ,
non ſi richiede gran forza di loica a farlo vedere ; e ſe , come pare a Galicno
, Eraſiſtra to avea una general contezza de’medicamenti per quella acquiſtata ,
certamente egli l'avea per iſperienza , o da fe , o da altri fatra , la quale
agevolmente può eſſer fallace : 0 pure per via di ragioni non meno della
ſperienza ſoſpettes d'er 1 1 1 Del Sig.Lionardo diCapoa . 363 d'errori, e
d'inganno.; perchè in un punto cosi principale manchevole , difettoſo , e
incerto il fiftemadella razional medicina d'Eraſſtratoanche ritro.yafi. Ma
trapaſſando ad altri : Io non ſaprei dire s'empirico e ſi foſſe , opur
razionale quel famoſo medicante Petronas, il quale dopo Ippocrate , maprima
d'Erafiftrato ebbe ad introdurre un iſtrano , e non più veduto , o intero modo
di medicar le febbri . Solea coprir egli i febbricoſi di tanti pannilani,che
loro ſi yeniffe a creſcere olcremodo il caldo, e la ſece; matantoſto, che
incominciava il febbril caldo as ſcemare, ei facea loro pienetazze trangugiare
di freſc'.ac qua , il ſudore aſpettandone; il quale ſe non compariva, di nuovo
tacealorbere nuovaacqua, e proccurava ch'eglino vomitaſſero ; riſtata poi la
febbre , gli cibava di carne di porco arroſta , econcedea loro liberamente il
vino ; maſe la febbre non ſi partiva , facea bere agli ammalati acquad calda, e
fale per render lubrico il corpo; e in queſto tutti igrantrovati della ſua
medicina eran ripoſti. Mamipare da non dover logorare indarno il temponella
cenſura d'un sì fatto modo di medicare ; e comechè in alcune fortidi febbri , e
in qualche huomo gagliardo , e ben atante della perſona non foſſe per avventura
fuor di ragione il farlo tuttavia in tutte ſorti di febbri, in tutte perſone,
egli fem bra certamére una ſciocchezza non punto diverſa da quel la d'alcuni
medici de'noftri tempi: i quali non con altro che .colle purgagioni , e
co'ſalali immaginano ciaſcuna gene razion dimalattic rilanare . E più
ragionevole certamente egli ſembra la manicra del medicare alcune febbri, dagli
Albaneſi uſara ; i quali nel cominciamento di quelle foglion dare all'infermo
vin generoſomeſcolato.con iſpezierie, fimile al vino ippocra tico , e al vin
brugiato degli Inghileſi. Ma quino ſi può certaméte lodare il cófiglio
diCornelio Celſo, che nelle febbri lente tratto tratto fidebbail corpo imbagnar
con acqua fredda meſcolata con olio ; che in tal guiſa egli credette , che ſi
verrebbe a riſvegliar il riprezzo, e conſeguentemente anche il calore,
ondeagevolmente ne Z 2 2 po 364 Ragionamento Quinto potrebbel'ammalato guarire
: fæpe igitur, egli ſcrive , et aquafrigida , cui oleam foc adječium, corpus
ejus pertractan-, dumeft ; quoniam interdum fic evenit , ut horror oriatur, ds
. fiat initium quoddam novi motus , exque eo , quum magis corpus incaluit
,fequatur etiam remiffio. Ma quantunque alcuna fiata a ciſo poſſa il fatto
nella guiſa da lui deſcritta accadere , ed agli ammalati alcun pro avvenire ;
pur non dimeno ſenza manifeſto riſchio non va la biſogna ; impe rocchè ſe
altrimenti riuſcirà , n'andrà ſenza fallo da male in peggio l'infermo. E quinci
fi ſcorge con quanta ragio ne abbian laſciato i Galieniſti il pericoloſo modo,
col qual guarito aver fi gloriava la febbre finoca Galieno , confar uſcire il
ſangue dalle vene per via del falaſſo , fino allo sfi nimento dello infermo ;
da chefacendoſi gran movimento nel corpo fogliono i ſudori copioſiſſimi,e
l'uſcite del corpo , e'l vomito anche talora , come avviſa il medeſimo Galicno,
avvenire ; per li quali , e per le quali o ſperano , che debba mancare affatto
,oin parte la febbre . Ma in vano certa mente eglino poi attendono tal opera
da’lor piccioli ſalallı; al che non dovette aver riguardo Avicenna,la ove diſſe
el fer meglio affai accreſcere il numero, che la quantità de’la laffi ; cioè
più cofto in più volte il ſangue , che tutto inſie metrarlo fuori , Ma per più
d'una pruova avviſando il grand'Atenco , fra quante traverſe , fra quanti
viluppi , fra quante incertezze vacillanti s'andaſſer ad ogn'ora aggirando le
varie , e tra effo loro diſcordanti dottrine, che per le fcuole più cele bri
della razional medicina nellaGrecia s'inſegnavano,im preſe anch'egli una
fabbrica di novello fiſtema di medici na ; perchè tutte le forze del fuo
acutiffimo intendimento egli vi poſe in opera ; c tanto in ciò fare ebbe
ſeconda las fortuna, che da molti valent’huomini vennero a gara le ſue opinioni
ricevute , e approvate ; e per tutto quel tempo , che le lettere fiorirono
nella Grecia , e nel Romano impe. rio , celebre fi manterne la ſua Setta , e in
buon nome, las qua le ſpirituale venne chiamata ; imperocchè una fortiliſ ſin a
fpiritual ſoſtanza clla immaginava ; la qual per tutti i 1 corpi Del
Sig.Lionardo di Capoa 365 corpidell'Vniverſo diſcorrendo mai ſempre, e
penetrando, non meno il grande , che'l picciol mondo regger doveſſe ; é dove
ella non foſſe primjeramente offeſa ,non poteaſi, fe condo il ſuo ſentimento ,
male alcuno ingenerarſi; il qual diviſaméto ſi parve egli, che’n parte adombrar
voleße Vir gilio in prima dicendo . Principio cælum , duterram ,campofque
liquentes, Lucentemque globum Luna, Titaniaque aſtra Spiritus intusalit
:totamque infufa per artus Mens agitat molem , & magno fecorpore mifcet. E
poi Torquato Taſſo Ele menzogue antiche Di chifiloſofando , e menie , e Spirto
Dieda queſta mondana , ed ampia mole ? Il qualper entr'a lei trapaſa, e ſpira ;
Com'a lor parve , e'l Cielo , e l'ima terra , E laſpera delſollucente, e vaga ,
E’l globo de la Luna , e l'auree ſtelle , E de l'aria , e del mare i larghi
campi Nutre , e miſto al gran corpo in varj modi, Move agitando le
diverſemembra ? Ebbe la ſetta fpirituale oltre ad Ateneo, e a Criſippo fuoi
principi , e alMagno , ad Agatino, ad Erodoto , altri , e al tri valentiffimi
huomini, che colle loro opere univerſalmé te avute a grado ,ſommamente la
nobilitarono , e l'illuſtra rono ; e fra gli altri Archigene:il quale , tra per
lo medica che felicemente mai ſempre fece , e per li tanti doctiſ ſimilibri ,
ch'e' diede fuora, ne'quali non laſciò cofa , ne grande , ne piccola, che trattata
diligentemente per luino foſſe nella medicina , non ha che cedere a niuno ,
ch'abbia o prima , o dopo lui ſcritto , e medicato infra'Greci ; im pertanto
per la ſoverchia applicazione alla loica , onde a gran ragione talora vien
Archigene accagionato da Galie no : e per valerſieglino della filoſofia degli
ſtoici, i manca mentidella quale altrove da Noi fien conti , difettoſo , e
fallace moltoegli riuſcì il loro fiſtema di medicina razio nale . Oltre re ,
366 Ragionamento Quinto Oltre a queſto e'miſembra , che riprovino eglino me
deſimi il loro ſiſtema ; imperocchè in medicando le malat tie , poco ,
anzinulla a sì fatto Spirito badar fogliono ; con che danno a divedere non
altro eſſer queſto loro ſpirito , ſalvo che un gentil trovato per fare parer
maraviglioſa al vulgo la lor medicina. Doveano adunque eglino provar in prima
con ſaldiđimi argométi eſſervi un cotale ſpirito; indi diligentemente
inveſtigare , chente ,equal li fia la ſua nas tura , cioè qual figura qual ,
grandezza, equal movimento abbiano le particelle , che'l compongono, e come
egli fac cia le ſue operazioni nelcorpo umano , e come nell'inge nerarſi le
malattie egli offeſo vegna ; e in qual guiſa dar li pofla a'ſuoi diſordinamenti
compenſo .. Poco men che crucciato ſi maraviglia Plinio , in pone do egli mente
alle ſtravaganti pur troppo, e maraviglioſes felicità nelvero d'Aſclepiade
;huomo com'e'dice , quan to al naſcimento , di condizionemolto vile , e di
maſtro di ritorica ch'egli era in prima , perciocchè aſſai poco gli fruttava ,
in un tratto medico divenuto . E sì , e tanto egli adoperò , che nuova
ſembianza in breviſſimo tempo ve ſtir facendo alla medicina , a rimaner ne
veonero l'antiche regnanti ſette ſconvolte tutte , e poco men, che affatto op
preſe, e abbattute ; ed egli folo vincitore,e trionfante de gli altri medici ,
a guiſa di perpetuo dittatore nella Città donna,e capo del mondo , ne ordinò a
ſuo talento , e ne diſpoſe le leggi: ſupremo, e aſſoluto arbitro , della vi ta
, e della morte diquelpopolo , nelle cui mani ſtava la morte , cla vita
d'ogn’uno ripoſta . Ma fermamente egli fi dee credere , che a tanta grandezza
perveniſſe Aſclepia de , non tanto com’alcuno immagina, ch'egli ottimo e pro to
parlatore ſi foſſe , quanto che colſenno, e col valor no punto ordinario viſi
portaffe , comechè la fortuna anch'el la vi concorreſſe con qualche gran fatto
; quale appunto di fu quello , che vien narrato dallo ſteſſo Plinio ;
ch'eſſendo ſi un giorno egli a caſo incontrato in un miſerello , che per morto
era portato alla ſepoltura , facendolo egli a caſa rie tornare , con valevoli
argomenti in perfetta ſanità il rimiſe . Eben 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 367 .
túrós , E ben palesò egli al mondo la grandezza del ſuo animo' , e la ſingolar
fua prudenza: allor , che prevedendo la fa tal rovina del gran Re di Ponco
Mitridate , generoſamente diſprezzando la gran ſomma dell'oro da colui per amba
fciadori offertagli, ricusò d'andare alla ſua corte . Malale tezza del ſuo
acutifſimo intendimento appieno benmoſtra no quelle, che delle tante , e tante ſue
opereſcarſiſſimes particelle a noi ſono rimaſe ; nelle quali ſi vede apertainéa
te , che non iſchivando egli mafagevolezza niuna, ne ſi fermardo nella prima
buccia delle coſe , s'ingegnava ſeco do ogni ſua poſſa d'internarſi nc più
ripoſti ſecreti della na Primieramente vuol egli Aſclepiade , che non già per
caſo, ma di neceſſità , e per l'indirizzamento della natura ognicoſa avvegna
nell'Vniverſo : e che fa natura altro ve ramente non ſia , che'l corpo medeſino
, o'l ſuo moto : per la cui perpetua, e iron mai ſtanca opera i corpicciuoli, i
qua li cosìpiccinli ſono, ch'alla menteſola permeſſo viene co prendergli ,
veloci , e ratti , e con volante foga fra' effo lo ro incontrandoſi , e con
vicendevoli percoffe , l'un coll'al tro cozzando , e forte battendoſi , fi
vengano a ſminuzza rc , e a dividere in minutilíme, e innumerabili ſchegge ; le
quali con diverſi movimenti andando l'una verſo l'altra , e
inſiemeaccoppiandoſi, e congiugnendoſi , prive d'ogni qualità , col moro , col
numero , colla grandezza , collow figura , e coll'ordine le coſe , e
l'apparenze tutte ſenſibili producano;ne eſſere fuor di ragione,egli
poiſoggiugne ,che ſien privi diqualità i corpicciuoli ; concioſliecoſachè altro
dal tutto , altro dalle parti ne ſegua; l'argento è bianco, ma nera è la ſua
radicura ; il corno ènegro , mala ſua polvere è bianca ; ma dovetre dir egli
ancora , che le qualità altro non fieno , o per me'dire altro non le faccia
apparire , che'l concorrimento , la figura , e’l fito , e la grandezza , e l'or
dine , e'l moto di que'corpicelli; perchè allor che concor rono inſieme
piccioliſſimi corpicelli , o ſperali, o piramida li , e con dilatante moto
velociſſimamente ver noi fi lancia no , a formar ne vengono quel ſentimento ,
che dicalore ſi chiaina. Di 368 Ragionamento Quinto Dice oltre a ciò
Aſclepiade,chenell'accozzarſi inſieme, appigliandoſi le particelle , o ſchegge
ſuddette nel formar le membra degli animali , vi laſciano molti , e molti ſpazj
vuoti, per opera delſolo intendimento compreſi , varj di grandezza , e di
figura ; i qualiſe aperti fi mantengono al tragitto de ſughi, ſi mantiene
l'animale ſano , callo incon tro , ſe impediti fono per la dimora de'corpicelli
,a far li vê gono ſecondo la varietà delle parti , e degli ſpazj, varie, e
diverſe le malattie ; ma non però già tutte malattie, ſecon do Aſclepiade ,
avvengono per la dimora de'corpicciuoli, fe non ſe alquante ſolamente , come la
freneſia , il lecargo , le puinte , e lefebbri grandi ; ma altre poi avvengono
per ſoverchio aprimento : e s'ingenerano per la curbazione de ſughi , e degli
ſpiriti, per la quale ſtrabocchevolmente s’al. largano gliſpazj, come nella
fame canina , e nella fover , chia magrezza ſi vede : 0 nuovi ſpazj a viva
forza in non , convenevoli luoghi ſi aprono , come nell'Idropiſia acca de ,
Vuole oltre a ciò Aſclepiade, che non iftiano le cagioni operatrici de’mali
ne'liquidi corpi ripofte ; ma nel vero al tro quelle non eſſerç , ſe non ſe le
cagioni antecedenti . Si ride egli di quel grande ſchiamazzio , che fanno i
medici in. torno a'giorni critici ; portando opinione , che d'ogni tem po ,
com'egli avea avviſato , poſſano creſcere , e ſcemare, o ſpegnerſi affatto le
malattie . Ma per accénar qualche coſa intorno all'altre parti del la medicina
d'Aſclepiade: egliamo di condurre iſuoi infer mial deſiderato fine della
ſalute, con moleſtargli il men , ch'c'potea; avendo ſempre in bocca quelle
celebri ſue pa role , che vengon per Cornelio Cello rapportate: tutè,citò,
jucundè ;perchè cra egli nimiciſſimo di que'medicamenti, che così ſovente , e
per lo più fuor di teinpo venivan da al tri medici adoperaticon incerțillima
ſperanza d'avere a re , care qualche giovamento agl'infermi ; e allo incontro
con ſeguirne loro licuriſſimo , e pronto il danno , ela nojx;per chè chiamar
egli folea la medicina degli antichi , medita zion della morte; e molto
ben’ayyisādo l'accortiſſimo huo . 110 , e DelSig.Lionardo di Capoa. 309 mo , e
di sì fatte coſe aſſai intendente , quanto poco atten der fi poteſſe
dal'incertezza della medicina , e dalla fiebo lezza de'ſemplici , o compoſti
medicamenti, che in que' tempi erano in uſo , nel ſapere ben regolar la vita
col ci bo , coll'eſercitar le mébra,e altresì fatte piacevoli cole , poco men
che tutto il sómo del ben medicar ripofc. E nel vero ciò non fe già egli , come
huom crede , da neceſſità alcuno ſtretto ,per no aver contezza, ne men
mezzanamite de’rimedj; anzi egli ſi fu della materia de’medicamenti co sì
ſemplici, come compoſti sì ben conoſciuto , che ſicoine Galien dice ,
egregiamente cgli ne ſcriſſe : e molti, e molti medicamenti di ſuo ingegno egli
ritrovò , e poſe primiera mente in uſo , e ne compoſe un particolarlibro; i
qualime dicamenti, non che da altri foffer mai tacciati , anzida’ine deſimi
ſuoi emuli , e avverſarj commendatioltremodo , e fovente adoperatifurono ;
infra’quali ſi ammira per Galic no quel celebre impiaſtro per le piaghe, che
non ſi dee ri muovere, ſe non ſe dopo tre giornizonde fi pare,che Aſcle piade
apriſſe la ſtrada alnuovo modo in queſto ſecolo in trodotto di medicar le
ferite . Oltre a ciò abborrì egli ſoprammodo le purgagioni; ma fivalſe de
criſtei . Danrò ancora, come racconta Plutarco, ivomiti, che troppo
frequentemente allora erano in ufo, e che a' tempi noſtri ancora fi uſano da
alcuni i quali per dir la colle parole di Cornelio Celſo : quotidiè ejiciendo,
vo randi facultatem moliuntur: ma non già egli il tolſe affatto dalla
medicina,anzivuol'egli, che nelle terzane ſi proccu ri il vomito ; del quale ,
com'c'medeſimo narrazli ſervìnel curar quella nobile femmina di Samotracia . Ne
ſi dee qui tacere , che ſi pare,ch'Aſclepiade vicino ftato foſſe ad aver
contezza dell'elatere dell'aria , come ravviſar ſi puote dal le ſeguenti parole
di Plutarco , avvegnachè coſtuimoſtrino aver ogni particolarità compreſa de
ſentimétid'Aſclepiade: υπομιμνήσκα δε αυπ επι της κλεψύδρας Ασκληπιάδης και τον
με πνεύμα να χώνης δίκην συνίσησεν , αιτίαν δε της αναπνοής την εν τω θώρακι
λεία μέρειαν υπο τίθεται • πεος ήν τον έξωθεν αερα ράν , τε και φέρεσθαι παχυμε
. ρη άνε πάλιν δε αποθεϊσθαι ,μηκέπτε θώρακG- οί'ε πόντος μήτ' έπεισ A23 370
Ragionamento Quinto 1 re δέχεσθαι , μήθ' υπρεϊν • υπολειπομένα δέ τιν G- εν τω
θώρακι λελομερές dei begyiQ ( šgaię o nav ixreiveron ) neos Tšto nánar có trw
umojéves βαρύτης του εκτός αντεπεισφέρεται αυτοι δε ταϊς σκύις ασικάζα: την δε
και προαίρεσιν αναπνοήν γίνεσθαί φησι συναγομένων των εν τω πνεύ μονι λελοτάτων
πόρων,και των βρογχίων πνεμένων » τη γας ημετέρα G. &υπακούει πιοαιρέσει .
· Machi potrebbe mainarrar tutt'altri diviſamenti, e opi nioni, le quali fallo
Iddio , come riferite vengono ; e per la più parte da chi punto non l'intendea
; e talor anche da al cuni per vggia , e mal talento a ſtudio guaſte , e
travolte . Il che oltremodo malagevole rende la cenſura del ſiſtema della ſua
medicina ; pur lo brievemente ne dirò in qualche coſa il mio ſentimento . E
primjeramente parmi, ch'aveſſe errato aſſai ſconcia mente Aſclepiade nella
notomia; portando egli opinione con Ariſtotele , ed Eraſiſtrato , che le reni
non abbiano al cuna operazione: echeciò , che ſi bee , ſciolto in vapori ſe'n
vada nella veſcica,dove poſcia li ftipi in orina ; delche meritevolmente vien
egli ripigliato da Galieno ; comechè a gran torto dal medeſimo venga poi
biaſimato , perchè c' non fi vaglia della facoltà ſeparatrice, che vuol dire in
buo ſenſo , perchè egli non ſi metta a filoſofare con ciance, e anfanie . Ma
fuor d'ogni ragione,e a corto non meno sfac ciatamente fi accagiona per Galieno
Aſclepiade , dicendo, che contro l'evidenza de'ſenſi egli aveſſe negato, che
quel le coſe ,le qualiognun vede , che vanno verſo quelle,dalle quali ſi crcde
eſſer elleno tratte ,veramente vi vadano;che certamente non potea egli sì
milenſo , e ſciocco eſſere un tanto huomo , Negò ben'egli la facoltà attrattiva
, e co'buoni filoſofan ti ſtimò eſſere per lo lume della ragione
manifeftiffimo,che ne ſomiglianza mai , ne facoltà , ne altra coſa del mondo
potrebbe far sì, che un corpo moveſſe altro corpo ſenza toccarlo , o per ſe
ſteſſo , o per altro corpo da ſe parimente tocco , e moſſo ; poichè a trarre a
ſe un corpo lontano fa certamente meſtiere uncino , o fune , o altro
ſomigliante appiccatojo, che'l prenda. Ma * I 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 371
Ma non poſſo lo laſciar di forte non ridire , quantunque volte rammento quella
ragione , colla quale Galieno con tro Aſclepiade ,ed Eraſiſtrato , e altri
buoni filoſofantiſen za vederne altro ,fermanente credette , ſe averela virtù
at trattiva già faldamente provata ; dic'egli,che per induſtria
d'alcuniladroncelli, i quali poneano vaſi di creta pieni d' acqua nelle
carrette del grano, quello ne creſceva manife ftaméte dipeſo ;coſa la quale
avvenir nó potea,fecondochè cgli ſtima , ſe'l grano non aveſſe la virtù
attrattiva; concio foſſecoſa che eſſendo egli diſcorſo per tutte fette di medi
cina rinvenir non aveſſe mai potuto ragione alcuna , che in ciò punto
l'appagaſſe . Quinci ſi pare ,che meritevolinen te il Veſſalio avendo anch'egli
avvifata un'altra cotal ra gione a queſta poco, o nulla diſſimile , prorompeſſe
in sì fatte parole motteggiã do i libri della dimoſtrazione di Ga licno :profeito
ſiGaleni libri de demöftratione , cjufmodi crebris Scatent
demonſtrationibus,que ipfi & fimodo aufim proloqui) non infrequens , ac
poriſfimum in quamplurimumGalenusex celluit anatome ſunt , non eſt ut eos
libros tantopere expecte mus . Ma laſciando ad altri più di noi ozioſi ſopra
ciò fa vellare, certamente venner conoſciute molte , e molte coſe di notomia
per Aſclepiade , che avrebbono fenza fallo po tuto render chiaro , e
ragguardevole oltremodo il ſuo ſite ma : comechè paruto fo fe , ch'egli aveſſe
portata opinio ne , che'l nutrimento alle parti non diſcorreſſe per quel cá
mino , che co'nunemente per ciaſcun ſi credea ; impertanto immaginò egli , di
ſottiliſſimo vapore in guiſa portarſi per tutte parti dei corpo il cibo crudo ;
ma non diſse perchè, e comeſi ſmaltiſca nello ſtomaco per renderſi valevole a
pe netrare in quegli anguſtiſſimi ſpazj da lui immaginati. Ad imitazione
poid'Aſclepiadevolle l'Ofmanno, che in forma di vapore il chilo dalle vene , e
dalle arterie miſeraiche tratto veniſse . Ma prima d’Aſclepiade pare che
Eraclito , Ariſtotele, ed Eralitrato aveſser detto , che in guiſa della
ruggiada il chilo , e l'alimento per lo corpo ſi ſpargeſse. Ma laſciando di
favcllar di queſte coſe , nelle quali, non ſolo Aſclepiade, ma tutt'altri Greci
andarono errati; egli Aaa 2 è ben 372 Ragionamento Quinto èben 1 cerco , che
dovea minutamente Aſclepiade per dar l'ultimo compimento alla ſua dotcrina più
avanti diſami nando riconoſcere , chenti , equali, e dove veramente fof ſero
nelle membradeglianimali gli ſpazi, e la grandezza, e la figurą , e'l fito , e
l'ordine , e'lmovimento di quei cor picelli, i quali o affatto , o in parte
turandogli , o più del convenevole dilatandogli , o altri nuovi ſpazj formando
ſien poi cagione, ſecondochè egli vuole d'ingenerare i mali negli huomini ;
perchè fa meſtieri aver piena contezza di tutti corpicelli, onde le parti
diſcorrenti, e falde vengan compoſte ; e ciò non ſappiendoſi,malagevolmente
potralli, come a razional medico fi convienc , alcun ſicuro , e certo rimedio
per ragion ritrovare . Dove poicgli dice farſi la freneſia , il letargo , la
punta, ele febbri da'corpicelli , chenegli ſpazj inframelli dimora no , perchè
egli non ſoggiugne ( o forſe no'l ſappiam noi s'egli il Gfacefle ) quale quegli
abbian grandezza, e figu ra e, come ſeano compoſti, e accozzati infra loro
que'pic cioli buchi ? e avvegna pure ,ch'egli accennalle avvenir la contina dal
rattenimento de corpicelligrandi, la terzanz de'piccioli , e la quartana
de’menomi: non è però queſto ſuo parere ſaldamente raſſodato dalle ragioni,
ch'egli rap porta ; anzi pajon'elle molto leggieri : e ſono queſte , che i
corpicelli grādi più agevolmére gli ſpazj riemoiano ; e più agevolméte gli
ſgõbrino ,e i piccioli meno;ma ſe la biſogna pur così andaſſe.com'e'diviſando
ne ragiona,queſta contez za fola al medico razionale non baſterebbe al ſuo
intendi. mento fornire ; ma di ſaper anche il movimento , la figura, el ſito di
quelli farebbe a lui meſtieri , ficome poco 'addie tro noi dicevamo ; e ſe
impoſſibile per avventura una sì fąt ta impreſa pare che ſia da poterſi per
intelletto umano co durre a capo , yana ſenza dubbio ricſce ogni induſtria,
ogni argomento d'Aſclepiade, o di qualunque altro ingegno , che di ſtabilir
ſetta veruna di razional medicina preſuma ), E avvegnachè Aſclepiade , come
detto abbiamo aſſai ben inteſo fi foſſe della materia de'medicamenti, a modo
che , comeperGalieno ſi narra , egli ſolo , e Dioſcoride d'ogni ſorta 1 DelSig.
Lionardodi Capor 373 Torta dimedicamenti,cosìdell'erbe,come degli arbori,deld
le frutta ,de' ſughi , de' liquori , e d'altre , e altre coſc fof ſero
pienamente informati : nientedimeno , ſe le pruover che intorno alla loro
natura , e al loro operare egli nellas ſua opera recò , ancora di leggeſſero ,
ſi troverebbono, per quel che ſi è accennato , ſolamente probabili, o forſe po
co falde ragioni ;e meſtier certamente farebbe ad Aſcle piade , alla fola
ſperienza , non men che altro più vile Em. pirico ricorrere . Ma ben ciò
conobbe egli , ne'l diffimulò punto , e confeſsò apertamente , altro la
medicina non ef fere , ch'una cotal ſemplice conghiettura ; onde ebbe a dire
Plinio , ch'egli : medicinam ad caufas reuocando conjectur.i fecit : o come
legge Giacopo Dalecampj : conjecturalem fecit. Nel curar le febbri terzane,e
quartane egli ſembra ,che non molco bene ( comechè'l contrario dica Cornelio
Cel ſo)faceſſe in laſciando la coſtuma di Cleofanto antichillimo medico ,
ilquale alquanto ſpazio avanti al cominciar della febbre uſava dare aglinfermi
il vino , e bagnar loro con acqua calda la teſta ; ove in inolte altre coſe i
coſtui avviſi era uſo di ſeguitare . Vuolanche Aſclepiade, chenon ſi tragga mai
ſangue , fuor ſolamente ne'dolori ; e ciò perchè facendof queſti da’ grandi
corpicelli nelle parti ſalde fermati, c rattenuti , ſe condo il ſuo ſentimento,
gli pare , che ſi poſſan trar fuora dagli ſpazj per opera del ſalaiſo. Maegli
ſenz'altro fallò; sì perchè i piccioliflimi, e velo ciſſimicorpicelli ,che
formano il fuoco , cagionar ſoglio no il dolore : come anche perchè converrebbe
per la me deſima ſua ragione trar ſangue nella contina ; il che da lui
inceſſantemente ſi nicga;ſenzachè,ſe com'egli immagina , i corpicelli fermati
negli ſpazj ſono cagione de'mali,e queſti tutti nelle parti ſalde conſiſtono :
e le liquide , benchè fuor di modo abbondino ne'vaſi , non ne ſono cagioni vere
, e preſenti , ma ſolo antecedenti: che monterà egli il trar fuo ra mai le
parti liquide de’vaſi per la cura de dolori Mache che ſia di ciò , egli non mi
par, che ſi poſſa punto dubitare, chc 374 RagionamentoQuinto 1 } che
profondiffimi fi foſſero i ſentimenti d'Aſclepiade,e che cgli, il quale
tra'greci medicimaggiore, e più alta contez za ebbe delle cole della natura e
ſolo ardì a ſpiar tutto , e a ſcriver tutto , ciaſcun maeſtro più valoroſo
", e più rino mato in medicina a molto ſpazio dietro ſi laſcj; perchè fai
meſtieri dire , che grandiflimo danno per la perdita dello ſue opere fia alla
medicina, calla filoſofia ſeguito , Quinci ſi vede , che ſcarſemolto, per non
dir altro, ſem bran le lodi ,colle quali Plinio volle onorare Aſclepiadeo
Afclepiadi Prufienfi, condita nova feéta ,fpretis legatis, doo
pollicitationibus Mithridatis Regis reperta ratione,qua vinü agris
medetur,relato è funere homine , ofervato ,ſed ma xime/ponfione falta cum
fortuna , ne medicus crederetur fi unquam invalidus ullo modofuiſſet ipfe ,
& victor fuprema in ſenecta lapſu ſcalară exanimatus eſ. Ma laſciando
Aſclepiade,che pur troppo n’abbiam dete to , e trapaſſando ad altri
ſetteggianti medici; qual e ſi foſſe veramente il ſiſtema della medicina del
famofiffimo Antonio Muſa, lo non poſſo ne meno immaginare, non che diviſare; e
fe'l favore , e l'autorità d'Ottavio Ceſare potè farlo prevalere a tutt'alori
di que'tempi: non per tanto fù cgli da tátoge baſtevole a mantenerne vive le memorie
ap po i pofteri. Potrebbe di leggieri eſſere , ch'egli per mag
giormentepareggiar Temiſone ſuo maeſtro , fifoffe fatto di qualche nuova forte
di metodica medicina inventore . Veggiam di lui ſolamente alcune forme , o
ricette di co pofizion di medicamenti aſſai volgari , e di molta poca co
ſiderazione , dalle quali nulla comprender puoſſi dalla maniera per lui tenuta
nel medicare Ottavio ,tutta travolta da quella di Cimolio ; perciocchè Ottavio
, licome narra Suetonio, quia calida curari non poterat, frigidis curari coa
&tus authore Antonio Muſa. Perchè potrebbe ragionevol mente dubitare
alcuno, non egli empirico foſſe ſtato di ſet ta ; ma per avventura a ciò fare
da qualche apparente ra gione egli fu moſſo . Neciò è nuovo, che i razionali
ſiva gliano di tal regola ; poichè il fece Ippocrate ancora ; co mechè egli poi
moſtri , ch'aveſſe altro in animo, con inſe gna 3 Del Sig.Lionardo di Capoa.
375 gnare una fiata il contrario, la ove diſſe,che chiunque ope ra con ragione
, avvegnachè ſenza profitto , e infelicemen te fi faccia , dee coſtantemente
camminare per la ſteſſa ſtra da : návraisatakóyov meséori ,xai pen'govojévwv *
xara'dégor ,designer swßaives , i inapoy, pérovt QuTð dóžavo iš devās, il che
da cao gione a molti medici di pericolar ſovente i loro infermi; i quali
veggendoapertamente , che a mal fine rieſcon pure le lor cure, non per tanto ſe
ne riniangono, o ad altro divi ſo volgono i loro intendimenti , con graviffimo
dan no de' cattivelli . E mi ricorda in acconcio di ciò aver letto in un coral autore
', che avendogli ſcritto un ſuo ſcolare , che avea egli per più d'una pruova
cono ſciuto , che'l ſegnare in alcune febbri ', che allora la Città di Vinegia
fieramente malmenavano , conduceva a ficura morte gl'infermi : impertanto ſe
n'era egli rimaſo cô nolto giovamento di quelli : egli replicogli una gran vit
lania , chiainandolo ſciocco empirico, biaſimando il ſuo fa lutevol diviſo ,
non altrimenti , che ſe colui aveſſe una gra ve ſcelleratezza comeſſo; e
diſſegli ſpacciatamente, che tor naſſe al falaſſo di prima , nulla curando, che
gl'intermi per ciò fare certamente fe ne moriſfero ; e in ciò rammentogli la
teftè apportata dottrina d'Ippocrate; non avviſando ,che comechè verilimo ſia
il detto d'Ippocrate , nientedimeno è ragionevolmente da ſoſpettare non ſia
manchevole, e fal lace la ragione , allor che non le riſponde l'uſcimento . E
chi ſa poi tra le tante incertezze dell'arte , qual ſia la vera, e legittima
ragione ? ma come ſaggiamente avviſa Galie no,non è peſo da tutte braccia , ne
opera d'huom di poca dottrina il ciò poter ben avviſare . Egli li fu Antonio
Muſa , per quel che s'argomenti dal ſoprannome impoſtogli, d'ingegno aſſai
nobile, ed elegá te ; ne per altro Euripide nel Palamede chiamò colui col
medeſimo ſoprannome: εκτάνετ' εκτάνετε ταν πάνσοφον , μεν ουδέν αλγύνεσαν
αηδόνα μούσαν . M2 376 Ragionamento Quinto Maqual fi foſſe veramente
l'eleganzadell'ingegno d'An conio Muſa, manifeſtamente ſcorger ſi può da
quelvaghiſ, fimoEpigrammadi Virgilio . Cuivenus ante alios Divi,
Divumqueforores Cuneta ,nequeindigno Mufa dedere bona . Caneta quibus
gaudetPhabus ,chorus ipſeq; Phabi Doctior o quiste Mufa fuiſse poteſt? O quis
se in terrisloquitur jucundior uno , Clejo nam certè candida non loquitur .
Sivalſe Antonio Muſadella carne delle vipere, enedam va mangiare con non poco
giovamento a coloro che da in fanabili piaghe languivano: i quali
maraviglioſamente con incredibil velocità , ſe'l ver dice Plinio , ne
guariyano. Io yo meco diviſando ,che'lMuſa aveſſe ciò appreſo dal vale tiſſimo
tra'greci mediciCratero, cotāto daCicerone in iſcri védo ad Attico ,celebrato
;dicui narra Porfirio che riſanato aveſſe un miſerello ſchiavo , cui in iſtrana
guiſa dall of Ia la pelle ſpiccavaſı , fol coldargli mangiar vipere prepa rate
a guifa di pefci: Kegπρούτου ικττού οικέτης ξένων περιπεσών νο τήματα , των
σαρκών απόφασιν λαβεσών εκ των οδών, τοίς μου ωφέλι ούδέν , ιχθύω- δε κόπο ίχα
εκευασθένη , και βρωθένπδιεσώθη της σαρκός συγ 2014 nbbons . Ma ſopra ogn'altro
medicainento ſi ſervì Anto nio Muſa de bagnidell'acqua fredda ; e egli, e'l ſuo
fratel do Euforbo medico di Giuba RediMauritania ne introdur fc primiero
l'uſosappo il quale in sì grande ſtima Euforbo crâ, che zvédo egli ritrovata
un'erbamedicinale,volle,che colnome d'Euforbo foſſe chiamata . Mail Muſa folea
ba gnare i ſuoi inferini prima nell'acque calde,voladosper mio avviſo , aprir
loro in prima bene i pori, acciocchè le fredde poimegliovi poteſſero penetrare;
quindi entroall' acque fredde gli laſciava agghiacciare.Del qual modo di medica
se così narra Orazio nelle ſue piſtole,dimádádo Numonio Valla , ſe in Salerno ,
e in Velia foſſe così fredda l'aria ,che dimorandovi egli poteſſegli giovare
a'ſuoi mali; percioc. chè il ſuo medico Antonio muſa , freddiſſima gliele
richies deva per dover prendervi i bagni freddi . Aua DelSig. LionardodiCapoa
377. ? Quæ fit hyems Velie ,quodCalum Vala Salerni, Quorum hominum regio ,
&qualis via.( nam mihiBajas Mufa fupervacuasAntonius, &tamen illis
Mefacit inviſum : gelida cumperluur unda Per medium frigus; ſanè myrteia relinqui,
Dictaque ceſsantem nervis elidere morbum Sulfura contemni , vicus gemit ,
invidus ægris : Quicaput, & ftomachum fupponerefontibusaudent Clufinis,
Gabiosquepetunt, & frigida rura. Ma certamente ebbegran ventura il Muſa ,
che dopo l'el ferſi bagnato in sì fatta guiſa Ottavio , guariſi d'una gra
villima inalattia ; comechè dica Plinio , che ciò foſſe avve nuto per opera
delle lattughe,delle quali egli cibavalo co tro il parere di Cimolio ; perchè
fu queſti della caſa di Ot tavio ſcacciato fuora ; indi cominciarono i Romani
ad uſar ſovente nelle lor menſe le lattughe , che per averle anche fuor di
teinpo , riſerbavanle nell'oſſimele. Per la qual cura Antonio Muſa in sì
rilevato ſtato montonne , e in cotanto credito , cheoltre alle ricchezze , agli
onori, e a'privilegi, che per ſe non ſolo , ma per tutti altresì i medici
ottenne, l'adulatore Senato rizzogli una ſtatua di bronzo nel ſegno d'Eſculapio
, come ne da teſtimonianza Suèronio : Medico Antonio Mufa , cujus opera ex
ancipiti morbo convaluerunt , ſtatuam , çre collaro juxta fignum Eſculapii
ftatuerunt . E fe'l mio avviſo non m'inganna , d'oro gliele avrebbe certa mente
rizzata , ſe più coſto Ottavio morto ne foſſe;percioc chè non bene allora
ſtabilita ancora la tirannide , n'avreb be per avventura la libertà egli
ricupcrata ; e veramente ſe la fortuna fecondato aveſſe il diſiderio de'Romani,
non ſa . rebbe riſtato per lui di far co'ſuoi bagni ciò che Bruto , ne Caffio ,
ne Seſto Pompeo , ne Marc'Antonio con tanta oſte per mare , e per terra non
avean potuto adoperare . E bé ſi vide quanto nocevole e' foſſe il modo del
medicare del Muſa , quando da lui in sì fatta guiſa trattato, come narra Dion
Callio , ſe ne morì Marcello ; perchè di preſente e'per denne !, gloria , che
guadagnata s’avea ; non ſi dee imper 1.2 . P ; CXLV2Livi , come o telo 378
Ragionamento Quinto poteva nel Dione dicc, che allora buccinayaſî,che eglicon
que' ſconci rimedj lo faceſſe a bello ſtudio morire ; anzi morilli Mar. cello
in Baja , come teſtimonia Properzio , il quale viſse a que'tempi His preſſus
Stygiasvultum demiſit in undas Errat, in veftro fpiritusille lacu .
Neſembramiveriſimile ciò , che ne va conghietturando quel ſottiliſſimo
inveſtigatore, e d'ogni rara dottrina ſovra no maeſtro Giuſeppe della Scala ,
facendoſi egli a credere, che Properzio cosìvezzatamente la biſogna rivolgeſſe
per ‘iſcagionar Livia , e fargliene ſervigio ; 'perciocchè allor ſu ſpicavaſi,
che in ciò ella certamente aveſſe tenuto mano;vo luit , ſono ſue parole ,
gratificari ei , que de ejus morte ſu Specta fuitLivi& Aguftę. Ein vero non
ha dubbio alcuno, che per machinazione di Livia no meno morir le acque di Baja
Marcello ,che in quelle di Stabia , la dove alriferir di Servio egli moriſli; e
ficome immagina il mede Simo Giuſeppe,la ſua morte avvenne nell'acque acetoſe
di quella fonte , che a tempo di Plinio chiamavali di Medio. Io porto
opinione,che'lMufa bagnaffe più d'una fiata Mar cello nell'acque calde di Baja,
e poi,com'e’avea per coſtu me, nelle fredde il poneſſe , e che alla fine
nell'acquecalde colui abbandonaffe la vita ; ne dal narrainento di Properzio
argomentar fi puote : Marcellum in aquis Bajanis fulz merſum interije : coine
va interpetrando lo Scaligero;im perocchè altro nő,è il ſentiméto di Properzio,
fe no ſe Mar cello effer morto per quell’acque,colle quali,eſsédo egli si
tiſicuzzo , e triſtanzuolo, e col Toverchio lor calore, o rõpe dogli qualche
interno tumore , il ſoffogallero : o di ſover chio creſcendo il moviméto del
ſangue li diffipaſſero le ſot tiliffime particelle, dalle quali depéde.la vita
negli animali, onde repétemente egli mādafle fuori l'anima;coli, la quale
eziādio ad altri è avvenuta; ne veraméte fi puote sõmerge re niuno in
que’bagni, ſe a viva forza altri non ve l’affoghi; onde maggiormente avrebbe
dato cagione alle genti diſu ſpectare non ciò foſſe per opera di Livia avvenuto
; e ca to balti del Muſa aver fin'ora accennato . Ma paſſiam oltre a dir
DelSig.Lionardo di Capoa. 379 a dir di Clinia da Marſiglia . Fu la guiſa del
coſtui medica. re nel vero ſtranamolco ,e ſuperſtizioſa : imperocchè infi
gnevaſi egli di non darmaia malato niuno ,o cibo , o medi cina , fuor ſolamente
, che in certi puntiaſtrologici di fito , o dicongiunzioni della luna , o
d'altri corpi celefti : e bert gli approdarono sì fatte malizie ; poichè montò
in sì buon nome, e fama appo i Romani,che oltremodoricco in brie, ve tempo ne
divenne ;delle quali ricchezze, parte cgli co funionne largamente per cinger di
novelle mura la propia patria , e parte alla medeſima ne fe dono ,
acciocchèpoter Le riſtorar quelle , quando huopo ciò lor foſſe . Ma lo non
prenderò a dar giudicio dietro il fiſterna del la ſua medicina , non avendene
niuna certa , e ſicura con tezza; ma mi darò briga di far paleſe la ſciocchezza
di lui, conoſcendoſi molto bene da chiunque abbià fior d'inten dimento non
eſſer altro la ſtrologia da lui in medicãdo ado perata , ch'un ſottile , e
malizioſo ritrovamento per paſcer divanc ciance , e promeſſe le troppo credule
perſone . Ma forſe , come i Romani ſi ſervirono degliauguri ſecondochè la
neceſſità il richiedea : ne folean giámai darcominciamé to all'impreſe , ne
trar fuora gli cſerciti , ne far giornate , nc alcuna coſa di confiderazione ,
o civile , o militare ado perare , ne mai ſarebbon andati a gucreggiare , ſe
prima non perſuadevano a l'ofte , che gli augurj avean promeſſo loro la
vittoria , affinchè i Coldati maggiormente incorag . giati prédeſſero ſperanza
divincere : dalla quale ſperanza ſpeſſo certamente naſce la vittoria : così
Clinia valevali della ſtrologia, acciocchè gl'infermi deſſero piena fede alle
medicine loro preſcritte ; e forſe ſe ne valſe altresì egli per iſchivare,
quádo più in cõcio gli era di preſcrivere qualche medicina , la quale da lui
non convenevole al male foſſe ftata ſtimata ;ma dalla minuta gente giovevole ,
e neceſſaria giudicata ; valevaſi dico della ſtrologia appunto a quella guiſa,
che coll' artificio degli Auguri i Capitani Romani fi rimanevano dal
coinbattere,quando giudicavano non do ver la battaglia a lieto fine dover per
loro riuſcire. Il ſiſtemadimedicina di Carmide conyenne ſenza fallo , Bbb 2 che
380 Ragionamento Quinto cono . 1 che foſſe non meno fciocco ,che ſtrano, come
quello, che poſti in non cale , e dannati, e vituperati, i diviſamenti di tutti
gli altri medicijalle più rigide ſtagionidell'anno glin fermi, avvegnachè
vecchi nell'acque gelide fommergeva; iinpertanto ritrovò gran ricevitori,come
Plinio ed altri di Ma per venire allamedicina di Galieno , vana per avvé tura ,
eſoverchia giudicherà alcuno la mia fatica in abbu rattarla ; imperciocchè chiunque
avvedutamente v'affiſe rà lo ſguardo , ben toſto ſcorgerà i mancamenti , e i
difetti di quella : i quali non tanto dalla natura medeſima della medicina ,
quanto dal ſiniſtro modo del filoſofar di Galie no naſcer fiveggono ;. il quale
avvedutiſſimo in fuggire il ranno caldo di ſpiegar diſtintamente le
particolarità della medicina , ch'e'medefimoconfeſſa , e proteſta eſſer tanto a
' medici neceffarie : a bello ſtudio par , che riltando in s l'ali , o dando
lunghe , e inutili aggiratc , a quelle ſpiegar ne giammai ſcender non voglia.
Perchè luo mal grado gli è pur di meſtiere d'abbatterſi,e d'impaſtojarſi
ne'mede fimigruppi, e nodi, ove parimente i Metodici, e gli Empi rici tutti
s'impigliano . Così con le medeſime ſue pruove, con che egli lorcerca d'abbattere,
gli ſi ſcagliano pur con tra i ſuoi nimici;e dicendo , ch'egli inneſta in
ſu'lſecco , or dinando falſamente il ſuo liſtema, e ponendo a ſuo talento i
fondamentialla medicina , niegano conſtantemente gli eleincnti', e gli minori ,
e l'altre coſe cutre '; ove egli coil poco ſode , ed efficacipruove la gran
machina della ſua medicina pianta, ed appoggia. Ma lo ciò al preſente trala
fciando , renderommi lecito di brevemente accennare, che di Galieno la medicina
non ifpieghi punto il vero , e fiſio comodo come naſcano , o naſcer poſſano le
quattro fue prime qualità ,ma ſolamente le ponga già nate ; ne men , quella
tanto quanto ne diviſa,in qualcoſa il lor eſser conſi ita ; perchè poi valeyol
non è a manifeſtar la maniera del loro operare , ne quant’oltre la lor forza fi
ſtenda , ne pur gli effetti che per lc , o per accidente da lor fortiſcono . Ma
come egli maile natura delle qualità ſpiegar potea, ſe la > natu Del Sig .
Lionardodi Capoa 381 natura della materia , dalla quale quelle dirivano ed in
cui, coine e' medeſimo dice, e naſcono, e muojono, giámai inve Aigar egli non
cura; il che quanto monti , agevolmente da ciò potrà comprenderli , che
traſandato il conoſcimento delle qualità l'economia degli animali , ne la
natura delle malattie , ne le cagioni diquelle , ne i medicamenti mede fimi non
ſi potranno in modo veruno comprendere . Per chè non ſarà medico, che
abbattendoſi in qualità di ſover chio rigoglioſe , o manchevoli di ciò cheal
corpo richieg gafi, poſsa mai,la ragione adoperando alla debita propor zione ad
agguaglianza ammendandole riporle ; e ne men per la medeſima cagione provar
egli mai non ſi potrà , in che conſiſta la árminatío , o nimiſti , che tra loro
eſser fi dice ; perchè anche ne fiegue , che non ſi ſappiano , ne
convenevolméte ſi poſſano perGalicno ľaltre qualità ſpie gare , che ſeconde
chiamanli ,e che egli pocoriguardando a ciò che gli antichi nel lib.della
vecchia medicina ne nar rano , giudica , che cheno non pofsan cola alcuna
opcrare; € pure avviſar egli poteva, che l'acetofo, per eſemplo,avve gnachè
freddo , o caldo , o temperato, pur nelle ferite meſ lo , dolore , e
infiammagione apporti ;e che non altrimenti , che dal caldo , dallacetoſo anche
l'acetoſo s'ingeneri ; e ſe Pamaro fembra a lui effetto del caldo, il caldo
eziandio na fca dall' amaro Macertamente ſe Galieno aveſſe bene avviſata la
natura delle prime qualità, iion avrebbe giamai fopra quelle il fiſtema della
medicinapiantato ; concioſſie coſachè ben egli compreſo avrebbe non eſser
quelle baſtá ti a ſpiegar tutto ciò , che nella naturä vedeſi . Perchèi più
ſcorti tra ſeguaci di ſua ſchiera, ove s’abbattono a diviſar delle coſe della
natura , fono ftretti ricorrere alla propria foſtanza , o pur alla forina
eſsenziale , all'amiſtà , o alla ni miſtàgalla fimigliáza, o diſimiglianza tra
le coſc , e alle qua lità naſcoſe; che è tanto quanto a dire a cagioni, delle
qua li nulla non ſi ſa, ne ſaper fi puote . Quindi: per racer del Fernelio, e
del Severino: il ſottilif fimo Andrea Libavio amico per altro di Galieno, colſe
ca gione di dire: in magneticis, quum omnia elementa excufse runt, 1 382
Ragionamento Quinto . ränt, elementarii medici nibil inveniunt,nec de proprio
ſubje cto virtutis , nec de caufa prima. Mala vero funt princi. pia artis ea ,
qua inexplicatam tādem relinquüt quæſtionem . Talia verofuntelementa
Galenicorum : ex quibus non potes demonſtrare rationem facti offis , carnis ,
fuccini,magnetis , & cetera ſecundum formam eſsentialem . E Daniel Senner
ti, pertacer d'altri aſsai, cosi diſse:ubicumque pluribus eçdē affectiones ,
& qualitates infunt , per commune quoddams principum infint neceſse eſt
;ſicut omnia ſunt gravia pro pier terram , calida propter ignem . At
colores,odores , Sapores efse progosov , fimilia alia , mineralibus, metallis ,
gema mis , lapidibus ,plantis , animalibus infunt . Ergo per com mune aliquod
principium , & ſubjectum infunt. At tale prin cipium non funt elementa :
nullam enim hatent ad tales qua litates producendas potentiam . Ergo alia
principia unde fluant inquirenda funt. Ed una tal neceſſità molto bene
avviſando molti degli antichi, e poco men , che tutti imo derni Galieniſti, ſe
maicoſa alcuna malagevole , ed oſcura intorno all'economia degli animali a
ſpiegare imprendono, o ſcorger intendono la natura ,e la cagione di qualche
ſtra na , c non conoſciuta malattia , allora abbandonato affac to il lor
maeſtro Galjeno , e poſta in non cale ogni ſua dot trina , ed ogni diviſamento
della ſua razionale , e vana mie dicina , a’nuovi ſiſtemi de'Chimici
filoſofanti toſto s’appi gliano , E ben di ciò avvideſi anch'egli Galieno ; e
rimirando alla manchevolezza,e dappocaggine delle ſue fondamen ta, dopo aver
più , e più fiate diſegnato , le facoltà non có fiftere in altro , che nel
temperamento, o meſchianza delle quattro primnequalità , avviſando alla perfine
mal poterli con quello l'opere della facultà baſtantemente ſpiegare , così
ſcagionandoſi apertamente confeſsa, che eſso per non ſaper la natura della
cagion factrice , la chiama facoltà , o potenza; c però dice eſser nelle vene
una certa potenza da ingenerare il ſangue, e nello ſtomaco un vigor di
cuocere', e nel cuor di palpitare ; e in tutt'altre parti del corpo eſser anche
una tal potenza d'adoperar quelle coſe , chcin eſse ſi fan . 1 1 4
DelSig.Lionardo di Capoa. 383 fi fanno . Con cheGalicno apertamente confeſſa
cgli me defimo, le facoltà , che coſa mai elle ſi ſiano, affatto non ſa pere ;
e ſolamente così per via di ragionamento chiamarle. Ma non fi potrebbono con
parole ſpiegare, tante elleno, e tante ſono , quelle fiate , che per Galien ſi
ricorre ad una cagione , la qual eglimedeſimo , non ardiſce, o corporca, o
incorporea determinare ; e che egli ignorando , che coſa ſia veramente ,
inſieme col vulgo coſtumacol nome di Na tur'a appellarla . E ridevole veramente
ſi è la maniera,col la quale egli una fiata imprende a ſpiegar ,come le partide
gli animalifacciano le loro operazioni;dice egli , che ſico me al comandamento
di Vulcano , ſecondo finge Omern, i mantici da ſe ſteſſi mandavan fuori, o'più
, o neno il fiato ; e le dózelle d'oro da ſe ſi muoveano ; cosinel corpo degli
animali niuna coſa eſſer immobile , ed ozioſa ; imperocchè dal ſupremo facitore
alcune divine virtù ſono ſtate impreſ fe alle parti di quelli , sì che le vene
non ſolo il nutrimento dello ſtomaco deducono : ma l'attraggono , e lo
preparano al fegato ; ilquale così preparato da' ſuoi ſervi ricevendo lo , gli
da l'ultima perfezione di ſangue : müstepOuengo εποίησεν αυτοκίνητα τουτου
Ηφαίςκαι δημιουργήμα , και τας μια φύσας ευθύς άμα τα κελεύσαι τον δεσπότην,
παντοίων, εύκρηκτον αύτμηνεξανι είσας : τοις δε θεραπείνας εκάνας τας χρυσας
ομοίως αυτά τώ δημιουργώ κινουμένας εξ αυτών ούτω μοι και συνοεί κατά το του
ζώου σώμα μηδέν αρ . γον μήτ' ακίνητον, άλα πάντα μεία της πεσούσης καζασκευής
βίας τινας αυτοϊς δυνάμεις τουδημιουργού χαρισαμύου,κοή, τας μέν φλέβας, ου πα
eaγούσας μόνον την τξοφήν εκ της γασφος , ' έλκούσας άμα και πιο
παρασκευαζούσας το ήπατι τον ομοιόταν εκείνων τόπον , ως αν και eαπλησίας αυτώ
φύσεωςυπαρχού σας , και την πξώην βλάσησεν, εξεκεί YOU MEWCimpéva . Ed è anche
manchevole la medicina di Ga lieno, per non faperſi in quella il meſtiere, e
l'uficio di mol e molte parti del corpo ; perchè malamente l'economia degli
animali , ed ondenaſcan le malattie , ei luoghi , e le cagioni, e gli effetti
di quelli vi ſi potrà convenevolmente ſpiare. Concioffiecofachè Galieno
medeſimo principe, e titrovator di quella , non ebbe ne men ventura di ravviſar
baſtan te , j 384 ' Ragionamento Quinto baſtantemente la coſtruttura , e gli
ufici delle parti dalı conoſciute;non che d'abbatterſi mainel: canale del Ver
ſungio, o nelle vereacquoſe , o nelle vene lattee , o in alą tre , cd altre
infinite coie da’moderni deſcritte . Ne ſeppe cgli ne men per ombra il vero
movimento del cuore , e dei fingue : ritrovato , del quale ſecondo l'avviſo dell'inge.
gnoſilliino Renato, nullum majus, & utilius in medicina eft. Ne del vero
cammin del chilo ſeppe boccata; le quali due coſe ſole di tanto pregio , e di
tanta conſiderazione parve l'o al nobiliſſimo filoſofante Pietro Gaſſendo , che
meritc volméte egli chiamarle ſoleai due poli della medicina; e de queſti due
trovati, che l'un l'altro conferma maggiormen te , craſſoda, egli ſommo
contento prender ſoleva , quindi fperando, che'la medicina , quando che fosſe,
aveſſe avuto a ritrovar qualche coſa diſaldo a pro degli huomini; malli.
mamente in quella parte , in cui dall'economia degli ani maliella s’argomenta
di riſtorar la perduta ſanità ; almen finattanto, che novello lume lo
dimoſtraffe l’orſa;imperoc chè della volgar medicina, che tutta ſi briga in diſaminar
le qualità , ed in aggiugner ciance a ciance, eglicēto niun non facea : Ma
perciocchè queſta ſarebbe opera da trattar con maggior agio , e tempo in
un'intero volume , laſcerolla al preſente, riſtrignendomi ſolamente in un capo,
ch'a dover lo quì brievemente accennar mi tira . · La maggiore, c principal
parte , e pił d'altra alcuna nel meltier della medicina neceffaria,ſenza alcun
dubbio quel la fiè , che alla materia de'cibi, e de'medicamenti s'appar: tiene
; or queſta nella medicina di Galieno è certamente tutta
impirica;conſeguentemente a tutte quelle jacertezze, e a tutti quegli errori ,
e falli ſottopoſta , che Galicno me deſimo, ei ſuoi ſeguaci tanto , e sì
factamente negli Impiri ci dannano , erimordono . Ed è ciò dicanta conſiderazio
ne , e rilievo , che in utili a baſtanza , c infruttuofe, e vane le contezze
cutte della medicina , ſe mai clla in altre parti alcuna n’aveſc, render puote
: le qualitutte ad altro non fono indirizzate , che a diviſare , & proporre
agli ammalati i cibi, siinçlicamen :1 , 3 ? fu conced.fipreselierelli 13,45's
DelSig.Lionardo di Capoa. 385 ra , medicina di Galieno s'abbia certa, e ſicura
contezza dell'ea conomia delcorpo umano , della cagione , e della natura
de’mali, e d'altre ſomiglianti coſe molte a ciò pertinenti, ed acconce:qual pro
giammai peropera di tali notizie dal la razional medicinapotrà ritrarſi ?
certamente per quel che Io micreda , niuno , ſe non ſi prenda inſieme a diviſar
con efficaci , e ben certe ragioni, come,e qual ſorte di me dicamenti , e
dicibida dar ſiano agli ammalati. E ciò cos me mai vorráno i Galieniſti
convenevolmére porre in ope, ſenza in prima pieno , e faggio conoſcimento
dellana, tura , e della propietà di quelli avere ? Ma queſto per lor non
avendofi, avvegnachè d'eſfer razionali millantino,cm pirica certamente , e
incerta farà da dire la lor medicina ; per tal modo , che non ne potrà ſe
non-ſelargamente il no. bile , e laudeyol titolo dell'Arte meritare . Ed
interviene nella medicina ciò che ſi vede anche nella Loica avvenire; che per una
menoma particella , che nella definizione , o nel partimento , o nel fillogiſmo
dubbiofa fia , ed incerta, toſto dubbioſo , e incerto il tutto anche diviene ;
e per una pic cioliſſima taccherella ſi sfregia . Senzachè la medicina in tanto
è arte , e conſeguenteinente certa , in quanto ella ha ficuri, e certimezzi,
quali ſono ſenza fallo i inedicamenti, ei cibi, per ritrarre il ſuo bramato, ed
aſpettato fine della ſalute degli huomini . Adunque non eſſendo queſti certi ,
ç ſicuri, conſeguentemente non ſarà da dir veramente arte la lor medicina .
Perchè poi veggiamo iGalieniſti medici, quanto più avveduti , e più dorti
eglino ſono , tanto più dubbiofi, e tertennanti ſempremai medicare ; ne dalla
lor doctrina , e diligenza mai nulla di certo promettere. Nequáto in fin quì ho
detto ha biſogno alcuno di pruo va ; imperocchè manifeftiffima coſa è , che
Galieno mede ſimo, non che altri , con iſchiettezza veramenteda filoſo fo , e
degna di lui , molte , e molte fiate apertamente il co felli ; ed una infra
l'altre mordendo , e biaſimando alcuni medici de'ſuoi tempi , che troppo
arditamente ſtudiavanſi di inveſtigare per via di ragione da’ſoli effetti la
natura, e la proprictà de’medicamenti; dicendo : non laſciaremoin Сcc . tanto,
380 Ragionamento Quinto tanto, paffar ſenza gaſtigo la ſoverchia tracotáza di
coloro, i quali dalla coſtruttura, e dal colore , e dall'odore, e dal fa pore ,
e dalpeſo , e dalla leggerezza di ciaſcuna coſa del modo,la di lei propria
virtù diſpiar s'argométano . Quindi appreſſo ſoggiugne , che tutta la ragione
d'eſaminare , e giudicar bene la biſogna nella ſperienza ſopra tutto confi iter
debbia , avvegnachè v'abbia aſſai de’medici, chequel la traſandata, ſolamente
in avviſar ſe vermiglia, o di buono odor la roſa ſia vanamente s'indugj . Ed a
ciò anche riguar dando di Galieno il fedeliſſimo interpetre, Vallelio, così al
la fine prorompe . Modoillud unum ftatuimus nullum effe certum argumenti locum
ad inveniendum , rei cujuſpiam temperamentum ex ſecundis qualitatibus ; fed ex
modo , quo nos afficiunt ſolum ; ita ut in hac doctrina nullum locum ra tio
kabeat , fed tota fit empirica . Con la qual ſentenzas certamente egli abbatte
infin da' fondamenti, cmanda au terra la medicina tutta del ſuo maeſtro , e
ſpezialmente ciò che egli medeſimo nelle ſue côtroverſie avea in prima infra
l'altre sbracciate arditamete millantato : Poj]Galenum non amplius interpollis
ars fuit ,fed perpetuo eadem veris de monftrationibus confirmata . Ma
certamente s'egli riſuſci taffe a' tempi noſtri il Valleſio, rimarrebbeſi per
innanzidi gracchiar più del ſuo divino Galieno; e ricreduto a’moder ni
ritrovati, non più di colui vanterebbe : nihil ti ejus in ventis adhuc eſse
additum : quoniam hic author nihil , quod ad artis attinet conſtitutionem non
reliquit inventum , quod pofteriſuperadderent. E tanto più, che il Valleſio fu
ſempre amiciſſiino della verità : poichè , per tacer d'altro , non ſi ritien
per quella di rimproverare a Ippocrate medeſimo.co. tanto da lui ſtimato , il
non ſaper punto di Loica; e più ma nifeſto ſi vede nel fin delle ſue fatiche
intorno alla ſacra fi loſofia , ove infra l'altre coſe accreſcendo il numero
degli elementi dice , che quelli non ſiano ſtati mai , ne fuora del corpo miſto
eſſer poffano: i quali ( ſon ſue parole ) actu qui. dem nullibi, potentia vero
in omnibus miſtis eſse dicimus. E ben’egli avvedutoſi de’vaneggiamenti, e degli
errori di Ariſtotele , ſpezialmente intorno alla materia prima , dice . mani
Del Sig.Lionardo di Capoa. 387 manifeſtamente , e confeſſa , che quella Aggira,
ed avviluppa il capo agli huomini. Ma laſciando queſto ſtare al preſente , dirò
coſa non da trapaſſar forſe ſenza qualche ammirazione ; anche il mede fimo
Galieno, nonche altri s'avvide eller tutta la ſua razio nal dottriaa non altro,
che vaneggiamenti , cd inutili ciar le ; poichè avendo egli ſognato , che
ſarebbon guariti due infermi , ſe lor tratto fi foſſe dall'arterie della inan
deſtra copioſo il ſangue , ei prontamente gliele craſſe , e tutt'altri ſuoi
ſtudj,ſpeculazioni, e fatiche in non cale ponendo , fe guì l'indirizzamento
d'un vanillimo ſogno ;e certamente un tal fatto appo me non ritroverebbe niuna
fede , ſe Galieno medeſimono’l confeſſaſſe ; ed Io il ridirovvi colle parole di
lui ; πξοτζαπείς υπό τήνων όνειρά τον δυοϊν εναργώς μοι γενομένον , ήκον επι την
εν τω μείζξυ λιχανού τε και μεγάλου δακτύλου της δεξιάς χει ρος αρτηρίαν,
επέτρεψα ερείν , άχρις αν αυτομάτως παύσηται το αίμα , κελεύσαντG- ούτω τε
ονείρατG- ερρύη μεν εν εδ' όλη λίτζα • παραχρή μα δεσπεύσατο χρόνιον άλγημα
κατ' εκείνο μάλισα το μέρG- ερείδον ένθα συμβάλα τα διαφράγματι το ή παρ' εμοί
μεν ουν τούτο συνέβη νέω την • ηλικίαν όντι • θεραπευτής δε του θεού εν περγαμω
χρονίου πλευράς αλ γήματG- απηλλάγη δι ’ αρτηριοτομίας,εν άκρα και τη χaei
γενομένης και εξ ονείρα G- επι τούτο ελθών και αυτος. Ho lo tralaſciato a bello
ſtudio di riferir poi ad uno ad uno , come fanno il Veſſalio ,ed altri,ed altri
notomiſti,tan ti , e tanti errori , che nel deſcriver le parti del corpo uma no
preſi furono per Galicno : per non recarvi consì lungo racconto più di noja ,
che per avventura non ſi conviene . Ne menomiho preſo briga d'avviſarciò ,che a
ciaſcuno è manifeſto , che l'opere di Galieno ſenza alcun paragone ſian più di
vane ciance , che di coſe ripiene ; sì che quantū Andrea Lacuna l'accorciaffe ,
a più picciol volume po tca ſenza fallo riſtrignerle . Ne meno ho curato
accennar come coſa a tutti nota , chc la dottrina inſegnata da Ga lieno , per
la più parte ſia colta di pelo ad altri ſcrittori; e tal volta male da lui
inteſa , c peggio ſpiegata . Ho trala ſciato altresì per la medeſima ragione ,
di narrar come Ga lien poco intendente fi paja delic ſentenze di Democrito, Ссс
2 di que 1 388 Ragionamento Quinto di Placone , e d'Ariſtotele , e come al
roveſcio anch'egli ſovente ſpiegar fi vegga i ſentimenti d'Epicuro;comechè da
un particolar maeſtro n'aveſſe egli la filoſofia epicurea ap parata ; il che
ſovente anche egli fa dell'opinioni d'Eralia Itrato , d’Aſclepiade , e d'altri
Setteggianti; avvegnachè eº millanti, che di tutte ſette e' ſtato foſſe nella ſua
giovanez za da più celebri maeſtri di quelle addoctrinato . Ho tra laſciato
anche di far parola dello ſconcio modo del filofo fare , che mai fempreGalieno
adopera , non iſccndendo mai alle particolarità delle coſe ; e ſe talor e'fi
pare , che viſcenda , il fà per modotale,che'l traſcurarlo ſenza fallo farebbe
menmale . E nelvero chi è , che non conoſca,co me per lui ſcioccamente ſi
filoſofi dietro agli clementi , a' temperamenti, agli ſpiriti', al caldo innato
agliumori; la natura delle quali coſe non mai filoſoficamente egli ſpiega; ne
mai pruova , ſe non ſe con ſole parole la lor eliſtenza ? Chi non fa poi, come
egli ſcorriamente favelli dell'inge ncrazione, del naſcimento, del creſcimento
dell'huomo, e come follemente e' ragioni dell'ingenerazionedelchilo , e del
ſangue , della natura , e degli uficj , delle parti, e di tut te altre coſe
all’huomo appartenenti ? Chi è per Dio , che non iſcorga , com'egli
facendofimenare per la barba dagli ſtrolaghi, vanamente favolegojde giorni
critici , e com'e . gli oltremodo vancggj in facendo parole della materia del
la natura , delle cagioni , e deglicfetti delle febbri , e d'al tri mali, e
particolarmente dell’Apopleſſia ,e dell'Epilcilia . dicendo egli , amendue
queſti mali avvenire per l'oppila zione de’ventricoli del cervello fatta da
freddo , groſo , e tenace umore ; recandone per ragione , che di preſenta
faccianſi, e di preſente finiſcano ; o eſſendogli caduto dal la memoria, o
ponendo in non cale d'aver lui altra fiata ,più al vero conformandofi,
argomentato il palpitar del cuore di botto ingenerandoſi, e di botto riſtando ;
di neceſſità ca gionarſi da ſoſtanza aerea , e ſottile ; ſenzachè ſe ver folle
, com’ei dice, dall'intera oppilazion de’ventricoli del cervel lo l'Apoplefia ,
e dalla non intera l’Epileſia ingenerarſi , converrebbe chemai ſempre
dall’Epileſſia cominciaſſe l'A popiel DelSig. Lionardo di Capoa 389 ra ,
poplellia : e che queſta in quella mai ſempre terminalſe ; il che non ſi avviſa
, ſe non ſe di rado ; ma ciò fa vedere le gran traſcuraggine di Galieno nelle
coſe della medicina , che non curoffi mai di aprir cadaveri ; perciocchè
aurebbe rinvenuto in alcuno oppilati i ventricoli del cervello , il quale no
foſſe morto d'apoplesſia,o d'epileſſia;ed altri eſſer morto di sì fatti mali ,
ſenza tenere ne' ventricoli del cer vello umore niuno. Laonde potrebbe a
Galieno addattarſi molto bene quelcelebre detto d'Ariſtotele :87 @ gu dangrasa
γα, αλα μαντεύεται το συμβησόμενον εκ τείκότων , και προλαμβάνει και ως ουτως
έχον και πειν γινόμενον ούτως . Or non fi coglie da ciò che è detto , che
Galieno della coſtruttura delle parti del cervello , e del loro uficio non
ſapeffe boccata? il che da egli anche chiaramenre ad inten dere , allor , ch'ci
fa parole degli altri mali della teſta ; ed ora mi ſovviene ,come follemente ei
filoſofi dietro alla pau ed alla triſtizia de'malinconici , in così dicendo :
ficome le tenebre eſteriori apportano ſpavento a quegli huomini , cheaudaci , o
fapienti non ſono , così la malinconia col fuo colore offuſcando , ed
ottenebrando la ſedia dell'anima , le reca timore ; ne' qualiderti è certamente
da ammirare , che ſié più errori che parole; e moſtrafi chiaraméte per eſli,
che Galieno niéte foſſe della natura dell'anima, edi quella delle qualità
intcſo :eche nó ſapeſſe, che coſa foſſe la luce , che coſa foſſe il colore , ne
come le ſenſibilità, e l'immagi nazionc , o'l diſcorſo in noi fi facciano ;
perchè ragione volmente nel vero , comechè non a baſtanza ne vien egli per
Averroe proverbiato , e deriſo . Or come per Dio huom , che ſuperficialmente
filoſofu della natura , e delle cagioni delle malattie , mai può in medicando
della ragione valerſi ? .e certamente , per ta cer d'altro , a Galicno ne meno
una terzana ſemplice gli verrà mai fatto poter con ragione operando ſecondo i
ſuoi diviſamenti medicare ; imperocchèquantunquegli ſi con ceda eſſer vero ciò
ch'e' finge della terzana , cioè , che ſi cagioni la terzana dalla collera , la
quale fuor delle vene s'imputridiſca:e s'abbia p cofa provata,e vera la ſua
rego la, che 390 Ragionamento Quinto la , che curar ſi debba per li contrarj ;
le Galien non fa la natura della collera , come potrà ſaper mai come s’impu
tridiſca , e che imputridir la faccia,e come per la putreſce za vi s'accenda ,
e ſi comunichi al corpo il calore: e d'onde egli potrà coglier gli argomenti ad
inveſtigare ciò che all' altro ſia contrario ? lo ſo ben, ch'e' dice la collera
eller un umor caldo , e ſecco,corriſpondente all'elemento del fuo co ; ma s'ei
non fa qual ſia la natura del calore , e della ſic cità , e del fuoco
,certamente nulla ei non ſaprà della colle ra , ne comprender mai potrà , come
ella , e per chi s'im putridiſca , e come ella cagioni la febbre , e comea ciò
ſi poffa dar compenſo . Certamente meglio partito egli avrebbe preſo , ſe della
ſola impirica valuto li foſſe ;la qua le , ſecondo quel ,
ch'eglimedeſimoafferma, è aſſai mens fallace della falfa razionale , Ne meno lo
dirò , ch'ebbeGalíeno avvegnachè compi laſſe tutto Dioſcoride,diſagio di buoni
, ed efficaci medica menti : c che egli la più gran parte delle compoſte medici
nedegli altri inedicimeſcolò nelle ſue opere: e che adope raffe ogni maggior
diligenza, per apparar rimedj , ricercă dogli eziandio infra altri ſetteggianti
, e cra’volgari impiri ci ; perchè diſperato egli anco di ciò , fu coſtretto
ne'falar fi, nelle purgative medicine , e nella dieta , e ne'giornicri sici
tutte ſue ſperanze riporre. Or ſe a queſte,e ad altre cole, che ſe Io voleli ad
una ad una narrare per ora non ne verrei a capo , aveſſe avuto Gi rolamo
Cardano riguardo , certamente e non avrebbe fra quei ſuoi dodici più ſottili
ingegni del modo meſſo Galie no in iſchiera , nc mai ſi ſarebbe laſciato
traſcorrer dalla penna ultimus fubtilitate ſed clariſimus arte Galenus metho
dis , pulſibus, atque diſsectionibus. Ma quanto a queſt'ul tima parte,ben qual
ſi foſſe Galieno , il riconobbe , e l'ad ditò il Veffalio , che più del Cardano
ne fudi gran lungu informato . De' poiſi poi,che coſa potea indovinarne mai
colui , che per iſpiegarne la cagione , alla facoltà ricorſe , ne punto ſeppe
de’movimenti del ſangue ? Ma nella loica , quanto egli poco valce , il dica
Aver roc, i 1 DelSig. Lionardo di Capoa 391 tropo ſtudio . roc , il dican
aldri, che tanti errori gli ſcoprirono in doſſo . Ma queſto è il veleno di
tutte ſue opere , il della loica : e fe Galien conobbeſi bene della loica,
ficome pare al Cardino, che monta ciò , s'egli non ſapea ,ne pro to avea fra le
mani ciò ch'avea eglicolla loica a diviſare ? e tanto baſti avere al preſente
della medicina di Galien fiz vellato ; e dicoloro , che dopo lui vennero ,
paſſeremo omai a far brievemente parole, comechè novelliſiſtemino ritrovaſſer
eglino di medicina . Furono di così poco taléto que' che dopo Galieno ſcriſ
ſero in medicina, che non ſoppero altro , che le coſe mede fime dagli antichi
già dette , malamente per lor compreſe , e peggio rapportate , compilare ; anzi
in ciò pur cotanto bambi, e goccioloni diinoſtrarõſi,che tralaſciando perdap
pocaggine le migliori , ſolaméte alla ſchiuma inteſero; per chè Giuliano Cefare
avendo commeſſo ad Oribaſio , che di tutti antichi libri di medicina il più bel
fiore coglieſe ', mal puotè vedere il ſuo deſiderio a nobil fine códotto; per
ciocchè colui non altro che di fraſche, e di novelle,e di va niſſiine anfanie
ſolamente fe faſcio . Ma dovea purGiulia no , ſe filoſofante era , qual ſi
ſtudiava di far vedere ad al trui , avviſar ben cgli eſſer queſta d'altri omeri
loma , che dello ſciocco berlingatore d'Oribafio ; ne alcuna coſa di pregio
certamente atrendere da quegli infeliciſſimi tempi potcaſi, ove i medici anche
eglino nelle loro dottrine reſi ſervi,parean ſol nati a ſeguir prontamente i
fallimenti, e gli errori de'ſecoli traſandati , edi queimaeſtri, i quali ſicome
da ciò che addietro da noi è detto ſi può agevolmente ri trarre , anzi alle
ciance , e alle lunghe dicerie , che alle fal de operazioni avean l'animotutto
, e'l penſiero rivolto . E sì , e tanto queſta ſconcia , e biaſimevol coſtuma
crebbe, e diſcorſeper tutto a que' tempi, che i medeſimi impirici ,
ancora,laſciando da parte le loro pruove , e le ſperienze , tutti nelle
ciuffole , e ne'ben compoſti cicalamenti ancor ella s'impigliarono; perchè
meritevolmére Galieno una fiata fi biaſimava di quel valentiffimo medico di tal
ſetta , ch'avef fe voluto logorar la ſua induſtria , e'l tempo in contraſtare !
ic 392 Ragionamento Quinto le ſette razionali ; perchè in iſperimentare , e in
medicare folamente adoperandoſi maggior frutto certamente confe guito n'avrebbe
. E fe gran ſenno quell'altro dottiſſimo impirico , ch'or mi ricorda eſſere
dalmedeſimo Galieno co loda mézionato : il quale a un inferino, che avea dato
orecs chic ad una lunghiſſima diceria tenuta dietro alle cagioni , alla natura
, a’ſegni , e a’rimedj della ſua malattia per un ciarlatore razionale , così
diſſe; Io per me non ſaprei io, ond'è , che tu più coſto debbi attenerti alle
vane ciance di coſtui , che alle tante , e tante pruove fatte permefin'ora ;
dal che moſſo lo infermo , diede di botto comıniato al van ſofiſta , e nelle
mani dello ſperimentato impirico rimiſeſi . Ma certamente cotanto ciarlare , e
anfaneggiare appararo no gli antichi incdicanti greci dal ſoverchio ſtudio
della loica ;avvegnachè per quella intorno alrimanéte,anzigua fti che
addottrinati ftati foſſero in avviſar le cagioni, e vere ragioni delle coſe:
cotanto ſconcia, e travolta l'adoperava no . E forſe in ciò potrebbon ritrovar
pietà , non che per dono , ſe già l'oſtinazione, e la fracotanza d'alquanti di
lo ro non foſſe giunta a tale , che per fermo eglino ebbero , e per coſtante ,
così veramente andar le biſogne della natų. ra, come eglino le îi davano ad
intendere , Ritroſi ancora ſi parvero , e negligenti affai i Greci mę, dici
nell'inveſtigar le parti così diſcorrenti , come faldede gli animali ; e poco o
nulla s’affaticarono per iſpiarne l'e , conomnia , e l'ingenerazioni , e
gliavanzamenti delle ma lattie ; ma ſour'ogn'altra coſa ſi vider traſcurati in
raccon tar la ſtoria de'medicamenti , la quale così dubbia , incer ta , e
favoloſa eſſer s'avviſa, come ſe a ſtudio di tal formar la ſtato foſſe il lor
principale intendimento; tante, e sì ſpeſ ſe fraſche , e novelle ſi troyano
colla verità in quella me ſcolare , e confuſe , E ben ſi ſcorge ciò dalla
raccolta, che ne fe il noſtro Plinio; ina foyra tutto dal volume di Diofco ride
, il qual da varjantichi autoriritraendo le virtù de'mc dicamenti ſenz'avviſar
ſe vere , o falſe elle fi foſſero , di tut te pienamente fece faſtello ; e tali
vengono poi per Galic no, per Oribalio , per Paplo , per Aczio , per Simon Seti
trat DelSig.Lionardo di Capoa 393 tiatto tratto deſcritte, quali
appunto.le.laſciò Dioſcoride regiſtrate; ſe non ſe ſcioccamente (forſe per far
ſembiante, che da coloro erano ſtate le coſe affai minuramente difa minare ) in
qual grado il ſemplice, o caldo o freddo ,o.umis do , oſecco egli.fi foffe v'aggiunſero
.. Ma ſe talora in qualche menomiſlima parte vien per lo ro mai Dioſcoride
ripigliato , certamente il fanno dove e * no'l merita ; ficoinc allo.incontro
il commendano , dove no'l vale . Ne lo ciò dico per diftorre imedici dalla
lettu ra di Dioſcoride , ch'egliè anzi permio avviſo il volume di lui la
miglior' opera di quante della medicina de' Greci alle noſtre mani ne lian
pervenute : ma perchè eglino vi ſia cauri , guardinghi, e ſenza rigoroia
efaininazione alle cofe per lui riferite alla rinfuſa non dian intera credenza
. E quinciancor manifeftamente s'avviſa , che non che nulle giovaffe.a'Greci la
Razional traccia a difcernere le facoltà de'medicamenti, anziella di vantaggio
loro oltremodo nocque ; perciocchè più veritieri aflai trovanfi i rapporti
delle virtù de’ſemplici appo i barbareſchi popoli, privi, digiuni di lettere,
che nelle limite , e ben culte ſtorie loro . Io tralaſcio di far parole
de’medicamenti compoſti de’Gre ci, che afai chiaro fi pare , quantodalla
fortuna, dal caſo, anzi che daila ben regolata loro ragione ne vengano di
viſati; mal porendofi dirittamente accozzare , e comporre infieme imedicamenti
femplicida colui , che di quellinon fia pienamente informato . E ben s'avvidero
i Greci ine dicanti più ſagaci ,.e più ſtimari della . poco lieta uſcita de'
loro medicamenti; perchè andando per innanzi maggior mente a riguardo:
folamente nel preſcrivere fobrio , e ben regolato vivere , l'arte tutra,e'l
ſommodel medicare ripo fero ; e sì , e tanto-in.ciò furono ritenuti , e
rigorofi, ch'a molti infermi più giorni ogni cibo vierano , cad altri la fo la
mulla permettevano. Poco accorti in mole'altre coſe li videro i Greci medici ;
perciocchè per iſpiarequanto lor foſſe ſtato poſſibile deca gioni delle
malattie di tanti infermimorti nelle lor mani no fi diedero maicuca d'aprire
icadaveri; avvegnachè una tal Did dili . 394 Ragionamento Quinto
diligézainutile altrui poſſa sebrare,eflendo malagevol mol to lo inveſtigare ſe
ciò che guaſto nelle interiora ſi ritrova , più toſto ſia effetto ,che cagion
delmale ; pur nondimeno alcuna fiata potrebbeperavventura a qualcheutilità
riuſci re . Ma quelche più rilieva, ne meno fcriſſero i Grecile ſtorie de'mali
, ſe però non le ci ha tolte la lunghezza del tempo ; e quelle poche, chenoi ne
abbiam focco nome da Ippocrate , elleno ſon cosi rozze, ed imperfette , che
r.2- ' gionevolmente huom favoloſe le crede . Perchè non è po co da lodare il
diviſo di que'moderni , che ſi ſono attentati di ſcriverle , comeche Pabbian
poſcia meſſo infelicemente in opera , o perchè lor venne in talento di
raccontar le ma raviglie , ſicome fece Amato nelle ſue ſtorie :0 pure, perchè
dalla faſcinazione delle ſette adombrati', vider le coſe al trimenti diquel
ch'elle erano ; ſe pur non ſon elli imalizio fi , che le coſe ſempre aroveſcio
, e travolte ne vogliono da re a divedere ; ſicome alcuni di loro cento, e
mille fperien ze, matutte falſe , per difender le loro opinioni tutto di van
recando . Egli furon poi i Greci cosi per vaghezza brigāti, eriot tofi che ,
tal ſovente videli , nonche ad altri ,ma a ſe me d'elimi far contraſto ; ſe
bene in ciò non tanto eglino ſono da accagionare, quanto i viluppi , e le
malagevolezze di quell'arte , che eglino cotanto con biftentis e vigilie , e
fudori ſtudiaronſi d'illuſtrare , emaggiormente offuſcaro no ; perchè non ſenza
rifa da huom di ſano intendimento leggerafſí la millanteria di Pelope Maeſtro
di Galieno , il qual vantava di ciaſcuna coſa di medicina ſaper la vera ;
incontraſtabil cagione . E già parmi leggiermente avet cocca, e traſcorſa tutta
la medicina de'Greci;e quantunque non abbia lo fatra ſpezial menzione d’Areteo
, il cuili bro per avventura ſembra ſcritto con diligenza maggior di quanti ne
fon rimaſi interi della medicina deGreci,e con filoſofica libertà; pur non è da
maravigliarvene, perciocchè egli contien le dottrine medeſime da noi più fiate
diſami nate , e riprovate . Finalmente ſi conoſce , che non hanno gran coſa i
Greci in medicina adoperato ; imperocchè les aveffer 1 1 Del Sig.Lionardodi
Capoa . 395 aveſfer qualche coſa di pro eglino mai rinvenuto , certame te
qualche veſtigio appo gli autori , chealle noſtre mani so pervenuti,ne
apparirebbe. Ma chedovrem noi dire della Arabeſca medicina ella fu tanto nel
paſſato ſecolo abburattata , e premuta,che par che d'altra eſaminazione non le
faccia più meſtiere . E ciò maggiormente , che dagli Arabi fu maiſempre il
filoſofar in inedicina di Galieno ſuperſtizioſamente ſeguito; del cui
mancamento molte coſe abbiam noiragionato . Ma egli è in iſtato più miſerevole
la loro ſcuola , che dove alcunas volta Ippocrate , e Galieno non dipartendoſi
dalla ragio ne il ver dicono , ella ſconciamente gli abbandona . Nel rimanente
poi, e ſpezialmente nella materia de ſemplici: di leggieri immaginar nonpuoſli,
quanto ſciocchi ſi ſiano i diviſamenti degli Arabi;imperocchèbaſtava lor
ſolamente aver letto , o pur udito, che per Galicno una coſa ſi affer maſſe,
che immantinente per vera la credevano.Perchè poi gli Arabi ignorarono la greca
favella , l'un ſemplice , e l'un malore per l'altro ſpeſſe fiate colfero in
iſcambio; e de’libri della natomia de'greci molte coſe , emolte non inteſero ;
ma gran male queſto non ſarebbe ſtato per avventura , fe di vantaggio qualche
lor ſogno non ci aveſſer frāmeſſo . Ed anvegnachè fra’medicamenti dagli Arabi
ritrovati ve ne abbia forſe saluno , che a que' de Greci prevaglia . , niente
dimeno nulla ,.o poco ciò monta riſpetto al grave, e incom parabil danno ,
ch'apportarono gli Arabial mondo colla ver introdotto l'uſo del zucchero , per
cui ſi fono sbandeg giate perpetuamente le Sape , le Mulſe, gli Offimeli ſem
plici, e compoíti, e in tante guiſe formati; e ſono a lor ſuc ceduti con
graviſſiino danno degl'infermi,i ſciroppi ; con cioliecoſachè ſotto il doice
del zucchero ,un enordaciſſimo, e pungentiffimo fale ſi naſconda, valevole
colla ſua morda cità a ingenerarferventiſſimo caldo ; ed egli oltre a ciò ab
bonda il zucchero d'una cotal tenacità oppilante , e perciò alle viſcere
nocevole oltremodo , e nimici; della quale il miele è affatto privo , mercè ,
che le apiil rendon volatile , Ddd 2 e fot 1 390 RagionamentoQuinto é fottile ,
e penetrante e, quaſi ad una celeſtial quinteffens za il riducono ; perchè
facendo nelle viſcere il miele poca dimora, poca, o niuna offeſa può
certamenteil ſuo fale re carne , che men acuto anche , e mordace del ſale del
zuc chero ſi ſperimenta . Maſenza più diftendermi in queſto , ayendovifaſtiditi
pur troppo , lo fo quì fine al mio ragio mare . RA : 397 RAGIONAMENTO SE S TO,
vele Icome al partir della fredda ſtagione, dal grave peſo delle neviſgombra la
terra , tutta lieta: , e feſteggiante ringiovaniſce , e allo ſpirar de'tiepidi
zeffiretti laſciando ležiarſe, e ſquallide ſpoglie; di vaghi fio ri, e di
fronzute piante fi riveſte ; e fiabe belliſce : cosìparimente;o Signori ,le
ſcienze , e le più no bili artiscellati ifuriofi diſcorrimenti de'barbari, che
mala mentemalmenare l'aveano , cominciarono aʼnoſtri più yi cini tempiper
l'Italica induſtria tratto tratto a farſi vedere, a poco a poco riacquiſtando
l'antico', e forſe altro più rag guardevole ſplendore.Già la Greca, e la Latina
favella ,d'o, gni ſcienza antichemadri , riſurte fiorivano ; già la Poeſia ',
egli ſtudjtutti del ben parlare erano in ſu'l far frutto ; ne l'Archițettura
più , 12.Muſica ,o la Pittura , o ciaſcuna altra arte abbattutalanguiva ; ma
pur la medicina ſola;e la Filoſofia nel comun ſollevamento , in vil ſervaggio
vivens do ſe ne giacevano oppreffe , efgombinate dal barbareſco giogo
d'Ariſtotele, e di Galieno; quando piacque finalme. te a colui, che impoſe a
tutte umane coſe aver fine, che fi levala 299 Ragionamento Sesto 3 1 Ievaffer
fuſo alquantianimigrandi , e generoli, quali NOR G fperavano, e non poteano per
huom mai immaginarſi, ch , avallar doveſſerola ſignoria di coloro , e la
medicina , e la filoſofia alla primieralibertà, e al perduto pregio riporres O
ſpiriti veramente generoſi, e da elſer commendati per quantoil mondo durerà ; i
quali ardirono prima di far ri paro all'impetuoſo torrente dell'abuſo comune ;
e ad op porſi sforzatamente all'univerſalconſentimento delle gen ti . Maggior
gloria certamente fu di coſtoro , i quali furo no i primi a rompere il guado a
sì ardua impreſa , e arice ver a battaglia affrontata i pertinaci ſeguitatori
di Galieno: che di coloro , i quali in prima ſetteggiando a lor talento , nel confuſo
rimeſcolamento della medicina s'argomenta rono di trarla moltitudine ancor
libera a’lor ſentimenti; c . s'eglino , i quali riduſſero la medicina a qualche
più toſto apparente,ch'eſiſtente ſtato di perfezione , ed i primi ri trovatori
di quella in cima d'altiſſima gloria aſcefero,e for montarono : che farà da dir
di coſtoro , i quali, non che ab battuti e'fi foſſero in terren ſoluto ,e
d'ogni erbaccia purga to : anzi cotanto duro , e mafagevole , e ſpiuoſo il
ritrova rono , che ben convenne loro in prima durar lunga fatiga a liberarlo
da’bronchi, e da'pruni, c da’ravvolti ſterpi,che l'ingrombavano,anziche vi
poteſſero granello riporre. Ne ſembra certamente cotanto malagevolel'introdurre
da pri ma alcuna coſtuma infra le rozze genti : quanto egli è du To , e quaſi
impoſſibile , allor che quelle già auſare viſono, e tutto che indurate ,a far
loro cambiar uſanza , ericre derle , e ſgannarle de loro errori; perchè è da
dire , ches molto maggior vanto foſſe deʼriſtoratori della guaſta, e mal menata
medicina a rimetter fe medeſimi in prima, e poi gli altri al diritto ſentiero :
che non fu di coloro , i quali non incontrarono malagevolezza niuna
d'invecchiata , cpre ſcritta uſanza da ſuperare . Ma ciò al preſente laſciando
, trapaſſeremo a narrar de'noſtrivaloroſi moderni, ſecondo il noſtro
diviſamento ; e diremo chente , e quali ſiano le loro opinioni intorno alle
coſe più ragguardevoli della me dicina . 1 + 1 Egli Del Sig.LionardodiCapoa.
399 Egli fembracertamente , che prima diciaſcun'altro l'al cilimo Chimico , e
filoſofante Bafilio Valentino , monaco diS.Benedetto: fatto capo a' ſuoi tempi
nella Lamagna co tro la ſignoreggiante medicina di Galieno, e quella degli
Arabi, perpiù d'una prưova conobbe a deboliſme fonda menta quelle attenerſi , e
in ſü’l ſecco ſenza fallo effer in peſtate;concioffiecoſachèprive di ragioni,e
manchevoliol tremodo d'efficaci medicamenti végano alla per fine ſtret re a
riporre tutta loro ſperanza di vincer le pertinaci,e gra vi malattie nella ſola
natura : comcchè co ' falalli ,e colle purgagioni , e con altriſconcj, e
violenti rimedi render la ſogliono ſovente ſpoſfata, e poco acconciza fofferir
la vio lenza del male . Perchè argomentoſſi dicomporrenuove forti di
medicamenti profittevoli a malati ſenza riſchio di piggiorar loro con quelli di
nulla la conpleſſione. E con ciofoſſecofa,che eglivalentiſſimo Chimico foſſe ,
e molto in folver icorpi maſſimamente minerali affaticafléfi , diede egli
cominciamento a quel ſuo famoſiſſimo ſiſtema di medicina , chepoicompiuto,e
perfezionato venne da Teo fraſto Paracelſo . Ma comechè ponga egli per fondamen
to della fua medicina que’tre principi , de'quali anche ſer veli il Paracelſo :
çiò ſono zolfo , ſale , e mercurio ; non però di meno diſcorda egli non poco
dal Paracelſo in ciò , che egli giudica corali principj ingenerarſi dagli
elementi . Nel qualſuo ſentimento certamente egli non poco falla , laſciandoli
ſcioccamente menare alla piena del folle vulgo in ſupporregli elementi ;
perciocchè ben doveva egli avvi ſare , quelli ſolamente eſſer nel cervello
d'Ariſtotele , e di Galieno : e che tutti loro argomenti, malimamente quel lo ,
che ſembra aver qualche ſembianza di vero , cioè , che icorpi tutti in
iſciogliendoſi , a quelli come aloro primi componenti ritornino , ſiano yani, e
fallaci; alla qualcoſa fare bédovevalo ajutare lanotomia vitale;mal'aver lui
uſa . to qualche tempo nelle ſcuole in ciò pur dovette abbaci narlo . Adunque
egli giudica , che tutte coſe abbian lor materia , e lor forma, onde poi prenda
dirivo ciaſcuna lo ro operazione : e che queſta dalle ſtelle venga ingenerata,e
dagli 400 Ragionamento Seſto 1 1 dagli elementi formata , e da’tre principj
ſolfo , fale , e mer curio prodotta , e perfezionata ; ma pur.dice egli una
fiaca l'acqua eſſer la primamateria ditutte le coſe ; que, ſon fue parole ,
exficcatione ignis , & aëris in terram formata eft . Oltre a ciò egli
afferma, in ciaſcuna coſa dimorar cotali fpi riti vivificanti operativi , i
quali G nutrichino, e fi foftenti no de'corpi, ne'quali albergano: che in
queſti ſpiritila vir tù , e la forza d'effi corpi ſpezialmente conſiſta ; ma
come chè queſte, e altre fraſche aſſaiintorno alla natura di sì fat ti ſpiriti
egli vada ſcrivendo , pur ſi potrebbono le ſue parole intendere allegoricamente
, e con ſentimento forſe da non diſpregiarſi: ſe non ſe moſtra manifeſtamente
così in: ciò , comein altri ſuoi divifamenti eſſere ſtato lui molto [um
perſtizioſo , e vano nel ſuo filoſofare . Perchè o colpa foſſe de'tempi , o
altro, che il ſi faceſſe, comechè egli intenden tiffimo foſſe ſtato della vital
notomia , e che con quella ma raviglioſe coſe aſſaioperate aveſſe , avviſando
ſottilmente i più naſcoſi ſegreti della natura ; non però di meno non ſe ne
ſeppeegli sì ben ſervire , che penetrare aveſſe potutoi veri principj,onde le
operazioni, e gliefferci de vegetabi li , degli animali , e de'minerali
procedono . Mapure egli , come non poco arricchita aveſſe de' ſuoi comiendevoli
ritrovati , e di ſottiliffimi divifamenti la me dicina , e che ſaggiamente
giudichi infra l'altre coſe , che dal lavorio delle chiniche preparazioni de'
corpi naturali ne lieguano,naſcere il certo conoſcimento di cotal arte;im
pertāto.egli manifeftamête avviſando l'incertezza di qucl la , ne conſiglia ,
econforta a riguardar ſempre all'uſcimen to de’rimedj; perciocchè dal nocimento
, e dall'utile , che quelli recano a'malati, può il medico avveduto prender có
figlio , ſe debba più per innanzi adoperargli. o nulla , quanto al fatto del
medicare, il Va lentino delle chimiche operazioni fi valſe; imperocchè qua
tunque belli , e grandi, e copiofi medicamenti gli venine ro , mercè la chimica
conoſciuti ; la cui vircù egii profone damente ſpiò: e più avanti facendoſi
giugneſſea penetrar la propietà de' tre principi nondimeno non tols'egli a {pie
1 Ma poco , gi!re Del Sig. Lionardo di Capoa 401 gare, come da quelli
s'ingenerino , el guariſcano i mali. La quale imprela certamente fu dopo luidal
Paracelſo , ſe non compiutamente fornita , a grande ſtato condotta ; av
vegnachè il Valentino non tralaſciaſſe affatto di metternes fuora da quando in
quando qualche profittevole ammae ſtramento ; ſicomeè quello chea’mali
ch’abbian fatto cal lo , e di ſoverchio ſi fian radicati in corpo , ſolo le
fifle me dicine approdar poſſano , ficome quelle , che fin dalle ra dici gli
sbarbano; le non fiſſe ſaggiamente a quell'acques piovane aſſomigliando , le
quali toſto diſcorrendo per le Atrade , non penetrano per fonghe, o per foſſati
fin nelles viſcere della terra . Siinigliante è quell'altro ſuo avviſo , che
Come d'affe ftraechiodo con chiodo, così l'un ſimile vaglia l'altro a curare ;
allegandonc l'eſem plo del veleno , il quale non altrimenti che la calamita ſi
faccia il ferro , tragge , ed aſſorbiſce l'altro veleno ; ed in veggendo egli ,
che l'acqua arzente guariſce la Riſipola , immaginò, che il caldo di quella
l'interior calore di queſta attraeſe . Ma da queſto diviſamento può ciaſcuno
far con , ghiettura , ch'egli entrato ne’valti regni della natura , qui vi poi
li ſmarriſfe , ne fructo, e pro che dovea ne riportaſ ſe ; imperocchè s'egli ſi
foſſe dirittamente appoſto , avreb be detto , che ingenerandoſi la Riſipola
dall'acetoſità , gli Alcali volanti dello ſpirito del vino ciò adoperino ; il
che ben ebbe inteſo il Paracelſo, onde potè cotant'erbe di ſimi li alcali
volanti ripiene,valevoli a far contraſto all'acetoſità delle ferute agevolmente
rinvenire , e compornc tanti be veraggi , che vulnerarj ſon detri. Maciò , ch'è
di maggior conſiderazione , cgli non curò mai il Valentino d'inveſtigare ( il
che forſe a lui non guari malagevole ſtato ſarebbe) la figura , e tutt'altre
proprietà di quelle particelle , onde i tre principj ſono formati , eco me , ed
onde le loro operazioni avvengano; in tal guiſa avrebbe egli potuto
felicementenella filoſofia innolcrādoſi ſcorgere , come il ſuo Vulcano fia
conoſcitore , egiudica tore ditutte le coſe ne’ere principj ſolvendole , ficome
e'di Eec CC CON 402 Ragionamento Sefto 1 ce con quelle parole , che dal tedeſco
idiomanel latino così furono dalChercringio portate; Quum Chalybs durif
fimusfilice duro ſolidoque percutirur , ignis ignem excitat , commotione
vehementi , & - accenſione eliciente occultum ful phur, fiveignis occultus
manifeftatur.commotione ifta vehe menti , eper aërem accenditur , ita ut verè ,
& efficaciter ardeat ; fali maner: in cinere , &mercurius inde fe
proripit una cum ſulphure ardente . Ma ſe mai avutoegli aveſſe pie na
contezzadella naturadel fuoco ,di cuipoteva informar ſi dalle continue
operazioni, che gli ſe ne parávano innanzi agli occhj;séza fallo ,egli in
sifatramaniera none avreb be ragionato .. E ſe in cocal guiſa foſſe andato
confidcrara mente negli alti miſterj della natura innoltrandoſi , NTOI farebbe
ſtato da cotanta maraviglia ſoprapreſo per lo con tinuo ſcambiamento delvino in
aceto . Ne ſarebbe egli ſta to nelle ſue opinioni cotanto bergolo , e poco
ſtabile ;:fe forſe ciò non avvenne in lui dall'accorgimento , ch'eglieb be del
noſtro corto intendimento , e dalle malagcvofezze in cuici avvegniamnoi fovente
in filoſofando . Il perchè preſe ad eſclamare una fiata . Bone Deus !'natura à nobis
bominibus quodammodo indignatur tota: pervideri ! cum vi tri noftratempus
conftitueris adeobreve , & cu verus omnia judex multa refervaveris tibi in
creaturis; que non ſcientiæ , fed admirationi noftræ reliquiſti. Ma tempo è
omai di venire a Teofraſto Paracelſo ; ne già m'invicrò lo per la ſtrada
dall'Eraſto , dal Cortino , dal Riolano padre , e da altri famoſi Galieniſti
calcata ; i quali a biaſimar in lui ciò,che eglino medeſimi non comprende vano
fi miſero , porgendo giufta cagione ał gran Ticone di dire: Paracelſus pluribus
oppugnatus quam intellectus ; e lor fatica impiegando intorno a materie
bazzeſche,e gher minelle s'ardirono a rimbcccar quelle ragioni , che già più
fortunatamente avea il Paracelſo contro illoro Ariſtotele , e'llor Galicno adoperate
: intorno a' quali ſoleva il Para celſo dire , che con una ſola ſperienza
arebbe cento ſuppo fte dimoſtrazioni d'Ariſtotele abbattute, e mandate a ter ra
; ma rimarrò ſolamente pago di toccar pochiſſime coſe 1 di mio Del
Sig.LionardodiCapoa. 403 di mio talento , e ſpezialmente quelle , ſopra le
quali il di ftema tutto di lui vien piantato .. Lamedicina del Paracelſo ,
quantunqueragionevolme te a chi può dar di queſte coſe perfettogiudicio molto
più veriſimile dell'altre razionali fi paja , e che tanto ne' pro fondi miſteri
della natura innoltrata , e profondata lilia , cheminutamente ragguardar poſſa
a quelle minuzie , per le quali ſolamente l'arti alla debita perfezione
montarpor fano : ediſceſa ſi veggia più di tutt'altre medicine, ad ogni
menomillunaparticella diſtintamente Itacciare : coſa , la quale già tanto da
Galieno fu nella medicina fofpirata ; e quantunque nel diviſarle cagioni ,e la
natura delle målar tie , e diciù , ch'a quelle , ed all'economia degli animali
s'appartenga , valentiſſimo egli fia : edil ſuo autore abbia trovati , e
poſtiglorioſamente in uforimedj valevoli, ed ac concj a riſanare ancheque’mali
giudicati per addiecro infia nabili dagli antichi ; e quantınque alcuno dir
giuſtamen te vaglia , aver lui aſſai più di lume , e di vantaggio , e d'ui tile
recato al mondo co'foli ſuoi libri del Tartaro , che co® loro infiniti , e
voluminoſi libri di medicina tutt'altri fcric tori , così Greci , come Latini
inſieme s'ayefſer mai fac to ; non però di meno chiunque con occhio filoſofico
, e fpaffionato ben ſotcilmente vi badalſe,agevolmente ravvi far potrebbe la
dottrina per lei inſegnata eſſer alquanto manchevole , ed intralciata , e le
ſue saccherelle, comechè minori forſe dell'altre, avere anch'ella . E tutto ciò
certamente avviene tra per la natura della medicina, impoſſibile a comprendere
ad intendiméto uma no , come di ſopra baſtantemente è detto ; ed ancora per chè
il Paracelſo a tante , e sì diverſe , e ſtranemaraviglie da lui nuovamente
nella natura offervate, a guiſa d'occhio da troppa luce abbagliato , Che dal
troppo veder men'alto intende, tutto vinto , e tremolante più oltre non osò
guatare : ſule prime ſoglie della natura riſterteſi, ove maggiormente a fpiarla
per tutto inuoltrar fi dovea ; così Nun altrimenti ſtupido fiturba Ece 2 Il 1
404 Ragionamento Seſto 1 1 Il montanaro , e rimirando ammuta, Quando rozzo , e
ſalvatico s'inurba. Perchènon men , cheGalieno già de'ſuoi principj s’aveffe
fatto: grazioſamente immaginandoſi la natura della corpo rea ſoſtanza , e delle
quattro primjere da lui dette Relol lacee qualità : ene men inveſtigando onde
avvenir poſfa , ch'elleno sì poco valevoli ſiano nel corpo umano ad opera re ,
e cheniuna parte abbiano nelle gravi inalattie ; e per altre,ed altre
ragioni,nelle medeſime tacce delle quali ac cagionali Galieno poco meno
incorrer fi vede. Così il Pate racelſo intorno a'ſuoi principj non miga già,
ſicomea buo.si filoſofíte covenivaſi,riguardò alla natura , o alla proprietà ,
o a’modi del loro operare;ſenza le quali contezze non può certamente , ſe non
murarſi a ſecco, e poco durevol ſiſtema di razional medicina in piè rizzarſi .
Ma acciocchè quanto Io dico più apertamente ſcorger ſi poſſa , convien la coſaw
più minutamente diſaminare . Queſta grandiſſimamaſſa dellVniverſo e' fi pare ,
che da Teofraſto Paracelſo venga in due globi partita: uno al to , che due
elementiin ſe contiene , ciò ſono il fuoco , Paria : e un'altro più baſſo, che
ſomigliante due altrine ha, e ſono l'acqua , e la terra . I quali quattro
Elementi chia manfi ancora da lui vacuitadi;perciocchè vuoti d'ogni cor po
eglino ſono:altrimenti no potrebbono da' corpi agevol mente efſer ingombri.
Sono adunque gli elementi incorpo rei,cioè a dire privi d'ognicorporea
diméfone. Ma in que Ha vacuità dice egli , chela luce , e le ſeminali ragioni
di tutte cole dal loprano Facitore meſſe furono , allorches quello, di nulla
criò da prima l'Univerſo; quindi v'aggiun ſe le ſembianze , e le coperte propie
de corpi, le qualiallor che quelli veſtono , varie , e diverſe coſe ci
producono. Per quel, che ſi poſſadall'opere del Paracelſo argomentare : i
principi primi delle coſe fon di due inaniere; perciocchè, o ſono principj
propiamente tali , o alcuni di que', ch'elemé ti comunemente diconſi . Gli
elementi ſono due , uno è fecco , il qual terra dannata , e cenere , carena
anche tal volta chiamaſi: l'altro è umido , il qual flemmafi dice . La Del
Sig.Lionardo di Capoa 405 La terra dannata non ha virtù alcuna , ſalvo che
d'aſſor bere, e impiaſtrica,come dicono ; e la flemma parimente al tro non
adopera , che ammollare , e inumidire ; perchè ſon dette principi paſſivi . Ma
non ſolamente la ficcità , e l'umidore, giudica il Pa racelſo , che in nulla
s'adoperino in queſta maſſa mondiale; ma quell'altre dire qualità ancora ,che
dalle ſcuole agli ele menti s'attribuifcono , dice egli ad altro non ſervire ,
fuor folamente, che a riſcaldare,o a raffreddare; perchè da lui , tutte , e
quattro chiamanſi Relollacee, cioè a dire ſeioperd te , e ozioſe ; perciocchè
non hanno elleno virtù alcuna ſe minale . Nelche ſi pare, che il Paracelſo
imitare abbia vo Juto Ariftotele, ilquale vuol , che i ſemi tucti ſian d’unco
tal calore forniti, propiamente celeſte, e diverſo affatto dal calore
elementare. Perchè è da dire , che fecondamente chè giudica il Paracelſo , le
quattro volgari qualità altro non adoperino , che cccitare, e riſvegliare le
féminali virtù nc'corpi,ove clle ſono. Ma i principj propiamente tali , che
attivi egli chiama ; ſono anchetre , fecondo lui ; ciò ſono il Sale , il Solfo
, e'l Mercurio . Egli è il ſale una ſoſtanza ſalda , ſavorofa , la , qual
disfaſli , e ſolveſi volentieriper acqua,e per caldo derato fi ſecca , e li
raſſoda : e per ſoverchio fuoco ſi fonde. Il ſolfo è un corpo liquido, untuoſo
, agevole ad accender fi . E dalſale vengon tutti ſapori alle coſe : e per lo
ſolfo gli odori in quelle fpirano . Ma il Mercurio è un coralli quore
fottiliſſimo , echiariſſimo , il quale per la ſua ſottie gliezza in tutto
penetrando , agevolmente ſi diſperde , ei fvaniſce. Or sì fatti principi giuſta
i ſentimenti del Paracelſo abbi fognan tutti neceſſariamente a comporre ,
egenerare cia fcuna coſa del mondo; perciocchè il ſale è il fondamento di tutta
la faldezza de'corpi ; e non potendoſi il fale meſcola re , s'egli in primanon
li ſolve in minutiſſime particelle , fa meſtieri della fleminaa ciò adoperare .
Ma la flemma non può meſcolarli col fale per cóporre i corpi,ſenza l'ajuto del
ſolfo ; il qual parimente per la ſua untuoſità non potendo mo : ſi age 406
Ragionamento Sefto fi agevolmente partire, ficomefi conviene, abbiſogna dell'
acqua; la qualcompreſa, e impregnata del ſale ſciolto , fonde il ſolfo , e
maggiormente disfallo , acciocchè poſla diſcorrere , e meſcolarſi acconciamente
a formarle coſe del mondo . Vien poiil mercurio , il quale a guiſa d'anima nel
corpo , per cutto penetra , e diſcorre ; ma in niunama niera potrà certamente
ingenerarſi fermo, e ben faldo cor po , ſe per la terra dannata in prima non ſi
ſuccia , es’at trae la ſoverchia acqua , chesformatamentel'ammolla: per la qual
terra finalmente alla debita perfezione, e all'ultimo for compimentole maſſe
tutte de corpidivengono . Per le quali coſe dimoſtrandone il Paracelſo, che
diſtruggendofi qualunque corpo , in queſte cinque ſoſtanze folamente fi lolva :
e contendendo, che cotaliſoſtanze non poſſano cer tamente per cola del mondo in
altro giammai cambiarli , o folverſi : egli inſiemeraffermail ſuo diviſamento ,
e abbat te ſenza fallol'opinione d'Ariſtotele , e di Galicno intorno a’loro
priini quattro elementi. E sì avendo ben tutto ciò che fa meſtieri alla natura
de’principi, queſte ſole ſue ſoftá ze , e non altre dice il Paracelſo eſſeri
veri principi delle core . Ma Io per manifeſtare il mio parere intorno a cotal
di viſo del Paracelſo , non vo'ora opporgli , che y’abbia alcu ni corpi , i
quali , come affermal'Elmonte , e altri valoroſi maeſtri in Chimica , non ſi
poſſano maidisfare , o fciorre nelle loktanze da lui avviſate ; ficome
certamente è l'oro , e'l mercurio volgare;perciocchèegli agevolmente riſponder
potrebbe, ſe aver bene cotali corpi ſoluti ; comcchè ciò 2 coloro malagevol
fia, ſenza il vero artificio adoperare. Ne meno dirò , che cotali ſoſtanze
s’ingenerino di nuovo allor che disfannoſi i corpi : e che prima in quelli in
niun modo alliguavano ; perciocchè potrebbe egli ancor dire, che'lle gno per
qualche ſpazio di tempo macerato nell'acqua , le poi ſi brucia, non dimoſtra
nulla di ſale: ſegno manifeſtif fimo, che'l ſale allor, che in bruciandofi il
legno nonmace rato ſi pare , era in priina nellegno : e che dal legno l'ac qua
n’avea tratto colſuo maccramento il ſale ; anzi dirà il Para . Del Sig.
Lionardodi Capoa. 407 Paracelſo eſſer alcuni corpi, ne'quali ſenza artificio
alcuno , e ſenza ſolverſi v'appajano manifeſtamente cotali principi, ſicome
nelle ſugne , e in altri corpi grafli', e uotuolije nelle ulive anche non
ſolute il ſolfo-apertamente li ſcorge ; per ciocchè in quello ſommamente
abbondano ; ne a trar da quelli il ſolfo fa luogo lungo ftudio di chimica , o
ben fati colo favorio di diligentemaeſtro ; che poſfiamo dire eſſer il ſolfo
quivi tratto per l'artificio del fuoco, e in canta abbon danzaefferſi di
preſente ingenerato . Nepuò il fuoco , per direvole , e gagliardo , ch'egli
fiaſi ciò adoperare; percioc chè dalla terra dannata', o dalla flemma, ove
fólfo ,ne mer . curio, ne fale non alligna , non ſi potrà per opera difuo co ,
orlalaro chimico ſtrumento trarne goccia giammai. Tralaſcerò pure di dire
collElmonte , che dall'arena; dalla ſelce , non maiſolfo , o mercurio ſi può
trarre ; per ciocchè riſpõderebbe il Paracelſo in cotalicorpieſſer quel le
ſoſtanze cotanto ſcarſe , e poche , che nel volerle diſa minare ſi difperdono .
Ne recherò , che per far pruova diciò l'Elmonte con ſuo ſottiliffimo artificio
ſciolle in un purisſimo ſale l'arene , e le pietre : le quali s'avvisò egli no
aver perciò perduto nulla del loro primjero peſo ; percioc chè fa
pochiilimaquantità delſolfo , edelmercurio ſvapo raci,quello cotanto poco fa
menomare,che malagevolmen te fi pud per huomo avviſare ; ſenzachè ben può
penetrar qualche coſa in eſſi corpi, quando ſolvonfi,la quale riſtorar poſla il
perdimento delle ſoſtanze , che ne ſvaporano . Ne dirò pur coll'Elmonte ,
ſcambiarſi infra loid vicen devolmente corali principj; conciofoſſecofa , che
egli con maraviglioſo artificio ſcambiato aveſſe il ſale in olio , e l'o lio
poi tramutato in acqua ; perciocchè non così agevol mente il Paracelſo
avrebbegli in ciò preſtato tede , fe pri ma con gli occhj propj non l'aveſſe
veduto . E medeſima menteciò riſponderebbe il Paracelſo a quell'altra novella
dell'Elmonte , ove egli vantaſi da ſedici once di gromma di vino aver tratto
per diſtilazione un'oncia d'acqua , due once , e mezza di ſale , e dodici
d'olio , perchè egli n’argo menta poi contro al Paracelſo , che l'olio ſi ſia
nuovamente dal 408 Ragionamento Sefto , dal Cale acetoſo della gromma
ingenerato; conciofoſſecofa , che ſe tanta quantità d'olio ſtata in prima vi
foſſe ,ſarebbe & a più d'un ſegno certamente manifeſtaţa. Ė alla per fine
laſceròmolti, e molti altriargomenti da rintuzzare il ſiſtema del Paracelſo , e
i ſuoi principj : ficome quelli , a' quali cgli agevolmente riparar potrebbe .
Sola mente dirò , che quantunque lo ſcioglimento ottimo mnez zo fia da
dovereavviſarei principi delle coſe ; non però di meno tra per la ſcarſezza
degli ſtruinenti, e di tutto ciò ,ch ' a perfettamente fornirlo ſi conviene, e
ancora per lamala gevolezza dellavorio , ſi rende quaſi egli impoſſibile ; ſen
zachè nello ſcioglimento delle coſe,moltec molte lor por zioni delle più
ſottili, e però forſe più operative fa mestier, che ſvaporino , e ſi diſperdano
prima di potereſſer avviſa te ; c altre comechè pur virimangano , nondimeno per
la loro picciolczza non si poſſan comprendere , non che per altra notomia più
ſottile diſaminare. Ma ſopra qualunque altro argomento , che ſoſpetti rens de i
principi delParacelſo quello ſiè,che colle ſuddette ſue cinque ſoſtanze egli
non iſpiega, ne ſpiegar certamente po tea , come da loro le ſenſibili qualità
ad ognun conoſciu te , e quelle , ch'egli chiama Cherionie s’ingenerino ,eco me
operino , ſe pure il fanno ; ne è maraviglia , che'l Para celſo ciò non abbia
adempier potuto : da che egli non ſa qual ſia la lor natura ; ne certamente
ſaperla , anzine meno inveſtigarla egli giammai poteva , non ſappiendo la
natura della ſoſtanza ,onde quelle produconſi. Perchè egli fa meſtier
confeſſare , che la medicina del Paracelſo manche vole nella ſua maggior parte
ſi ſia. E ſe egli cotanto valoroſo ſi foſſe ſtato in iſcienza , qual veramente
giudicavaſi , dovea ben'egli in avviſando , che co'ſuoi principj non ſi potea
render ragione dell'apparenze delle coſe , prender quinci cagione di
ſoſpettarenon certa mente altri foffero i veri principj di quellc , e quindi
forte ſtudiarſi d'inveſtigargli ; perciocchè ſe a ciò aveſſe porav ventura egli
indugiato ; ſenza fallo avviſato avrebbe, le varie , e diverſe figure delle
menomiſſime particelle eſſer de'ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa 409 de' ſuoi
principj cagione ; perchè agevolmenteargomentar n'avrebbepotuto come, e perchè
quelli operaffero : eche non eglino , ma il corpo medeſimo in varie , e diverſe
brice fgrecolatose partito, forſe delle coſe del mondo il vero prin cipio, onde
poi ciaſcuna operazione di quelle prendeſſera dice , e cominciamento . Ma
intorno alla maniera dei medicare del Paracelſo , ſe credenza preſtar ſi deve a
que’libri , che ſotto ſuo nome vanno , èda dire , chemolto vaga , e in coſtante
ella ſi foſ fe , e di pochiſſima fermezza . Il che altronde certamente non
nacque , ſe non fe dall'avvederſi , ch'egli fe in medicão do , dell'incertezza
grande dell'arte ; non però di meno egli pur convien confeffare , niuno ,per
quel che ſi ſappia , aver avuto corante , e cotanto efficaci, evalevoli
medicine a fgombrar le più pertinaci, e diſperate malattie , quanto il
Paracelſo ; e sì ſaggiamente ſeppele egli a tempo adope rare , che non fu
certamente infra gli antichi medico co tanto valoroſo , e avveduto , ch'a molto
ſpazio , così nell' uno , come nell'altro non gliandaſic dietro . Perchè in tā
to pregio , e rinomèa montonne egli preſſo le genti, che non huomo mortale
tanto , o quanto della medicina cono ſciuto ,ma non altrimenti che dal Cielo
per ſalvamento del genere umanomandato comunemente giudicavanlo . Ne v'increſca
al preſente aſcoltarne anche da altri le lo di , ancorachè alcuni di loro per
uggia , e mal talento con biechi occhj il guardaſſero . Ecco il doctiſſimo
Spondano, il qual ſovente lumc, e occhio della Germania folea chia marlo , così
di luifcrive : creditur habuiſse præftantiffimum illud vellus aureum , quod
Iafon apud Colchos conquifivit : ( Intelligunt me qui Suidam legerunt) quo
defperatos mor bos fanavit ; ande magietiam opinionem apud quofdam cele bres
viros , quod magis miror , eft confequutus . E prima dello Spondano , Corrado
Geſneri, comeche parzial di Galieno , e di lui per invidia inimico , pur dalla
verità ſtret to ebbe a dire : audio multos paffim ab eo in morbis deſpera tis
curatos : & ulcera maligna ab eo feliciter ſanata . E al trove egli n'avea
detto : Paracelſus noftra memoria mugus Fff FJOR 410 RagionamentoSefto (
nondubito.quin hoc nomen magis fanèintelligas', ut apud Perfas ufurpatum fuit)
admirabilis homo, notusamicis qui. bufdam meis; à vicinis noftris Helvetiis
oriundus , perva. gatus magnam Orbispartem : chimica arte y qaamipfe puto
ſpagiricamvocat, excellentisfimus omnium , ita utper eam metalla immutaret .
E'l dottisſimo Geometra, e filoſofo Pietro Ramo di lui parlando fcrive:in
intima natura viſce ra ficpenitus introivit , metallorum , ſtirpiumque vires,
facultates tàmincredibili ingenii acumine exploravit,acper vidit , ad morbos
defperatosi, & hominum opinione infana biles, percurandum,ut cum Teofraſto
nataprimum medicina, perfett'aque. videatur . Madel ſuo incóparabilvalore; e
delle maraviglie adope. xate da lui in medicina;piena teſtimoniāza ne rende la
Città tutta , e la dottiſſima Accademia di Balilea, e'l Comun di Norimberga,
ove egli per tante maravigliole ſue pruove ragguardevol molto , e famoſo
divenne: intanto che ragio nevolmente ftipiditone il Zemeo avvedueisfiino
ſcrittor de'ſuoi tempi,cosìdi lui dice : Apud Germanos: nunc Thea phraſtus
quidam vir adolefcens'exiſtit, cui parem Orbis.non fert :doctioremme
legiſememor non ſum .. E Melchiorre, Adamo dilui pur raccontando dice: eum
ingenio acutisfimo, acferè divino fuiſſepreditum : din univerſa philofophia tàm
ardur , tum arcana', abdita eruiſse mortalium nemi nem : lepra , podagra,
hydrope,aliiſqueinfanabilibus malis, defperatis mulios liberaſse: "idie
per duas horas Ba flee tum aétiuamtumcontemplativam philofophiam fumma
diligentia , magnoque auditorum fructu eſseinterpretatum doctrină ,quam non ex
Hippocrate , fed experientia aſsegur sus erat. E'l Barthio pur di lui dice: Ego
de Theopbralo pre clarèfentio : admiranda praffitit; ſed qui cum perfectè intel
ligat , & quæ ipfe fecit faciat, nondum audivi. Ę France fco Oporino fuo
famigliare, per veduta anche di lui racco ta : pari induſtria novi ipſum
leprofos , bydropicos , e pilepti cos , podagricos , morbo venereo infectos ,
aliofque innume ros infirmos gratis fanare . Id quod Galenici Doctores non fine
notabili dedecore non potuerunt imitari ; unde in ma gnum DelSig.Lionardodi
Capoa. 411 gnum apud quoslibèt.contemptum inciderunt. E'l me delimo Oporino in
quella lettera appunto , ove fraſtorna to dagli emuli dilui , e
fommoſſoanch'egli in truppa , a rabbioſa monte mälmenarlo , infra le tante , e
tantc menzogne , e cacce , che per isfregiarlo farnesicando ſi fogna ( del che
gravemente poi pencilſı , ſicomene narra Michel Toſite ) pur non potè tanto
diffimulare , che apertamente talvolta non confeffaſſe eſſere il Paracelſo
valentiffiino medico , aver prontamentetra le mani mirabilem faciendi medicinä
in omni morborum genere promptitudinem , felicitatem , Quindi di luinarrando
foggiugne , che in curandis vulne ribus, etiam deploratiffimis miracula edidit
, nulla victus præfcripta , aut obſervata ratione . E de'ſuoi mirabili , e
valevoli argomenti maravigliato: laudano fuo , dice , ita gloriabatur , ut non
dubitarit affirmare ejus folius ufu ses mortuis vivas reddere pole; idque
aliquoties , dum apud ipfum fui, ipfe declaravir. Macelebre ſopra tutte fiè la
teſtiinonianza , che fe del le maraviglioſe cure del Paracelſo il
SereniſſimoArciveſco vo di Salburgo, il quale dopo averlo altamente anorato in
vita , e faccigli in morte famofiflimi eſcqui : volle , che nel Ja lapida del
fuo ſepolcro fi leggerle queſto orrevole ſopra ſcritto ; Conditur hic Philippus
Teophraſtusinfignis medicine doctor, quidira illa vulnera Lepram ,podagram
,Hydropem , aliaque infanabilia corporis.contagia, mirifica arte fubftulis , ac
bona fua in pauperesdiftribuenda , callosandaque curavit. Ma:2pertamente tutto
dì ſi ſperimenta il valor di qual che medicina del Paracelſo , comeche delle
men nobiliel la li fia , alla contezza noſtra pervenuta ; perchè tutto dà i più
valenti Chimici ſtudianti per rinvenirne alere nelle ſue opere . Ma delle
medicinedelParacelſo aſſai bene ſcorro Giovan Battiſta Elmonte, tuttochè ſuo
emulo , ebbe a dio re eller quelle così rare , e prezioſe , che meritevolmente
il gloriofo ſoprannome di Monarca degli arcani ne avelle egli riportato .
Maavvegna pure, checotanto valorolo foſſe ſtato il P.2 racclſo in medicina ,
qual noiraccontato abbiamo; non per Fff 2 rò di 412 Ragionamento Seſto rò di
meno non ſempre ſi veggono i rimedi di lui a liero ffa ne riuſcire : e ciò
maggiormente teſtimonia la non macura morte,che fopravennegli a mezzo il corſo
della fua vita , cioè a dire nell'anno quaranſetteſimo; dalla quale nó li po tè
egli per argomento niuno fchermire : comechè cotanti diſperati infermi
dall'orlo della ſepoltura ſottratti aveſſe, e quaſi di mano a morte
sforzaraméte ritolti; e pur egliavea detto in prima: nullus morbus fuo
medicamine defituitur . Che ſe'l maggior medicante del mondo non potè ceſsar la
violenza del ſuo fato , e adoperarsì co'ſuoi valevoli , co prezioſi medicamenti,che
la ſua vita a'più vecchi anni ſi ri ſerbaſſe , che dovrem noi ſperar mai di
certo dalla medici na , attenendoci a rimedjdeboli , eſpoſſati , per falvainen
to delle noſtre vite ? Ma egli ſcagionando in ciò l'incertez za grandiſſima
dell'arte , che pur troppo avveduto ſe n'eray e roveſciandone follemente la
cagione a'forcunoſi fati, dice che in baha di quelli ſia l'uſcimento de’rimedj
interamente ripoſto ; perciocchè da quellola vita , e la morte noſtra de pende
; quod autem , dice egli , parlando dell'incertezza de' medicamenti, ium
medicine , tum his atentes perfæpè à fa talibusgravius vexentur , &cuentum
conditioni medicina AC curſuinatura adverfum omnino experiantur;ideo nobis fa
Gere debet , ut inde diſcamus nimis obftixatam de hac fragili vita fiduciam ,ac
fpem deponere . Etfi enim nocentia fimul omnia , &medicinarum fimulomnium
virtutes , morbo rum genuinascaufas ; ac bis oppofit& remedia debita plenè
teneamus: nibilominus tamen hancconfidentiam incumbes fan tum infringit facilè
, ftatum formum omnem deftruit ; cui nos non modo non obluétari quicquam
poſsumus , ſed fatali bus caufs nofmet nudos totos potiøs objicimus, utpote que
nos in folidum mortalesfaciani , noftraque molimina infrin , gant, &
providentiam noftram , ac confilia univerſa ever Ma de'medicamenti di lui
cotanto poco approfittar ne poſſiamo , che comechè egli valentiſſimo medico , e
filorow fante ftato foſſe , pur le ſue opere in gran parte inutili, infruttuoſe
ne rieſcono ; cotanto piatto , e imbacuccato tant . egli 1 Del Sig.Lionardodi
Capoa. 413 egli ſi fu ne'ſuoi ſentimenti ,ch'a ben rugumargli malage
voliſſimamente ſe ne può cavar nulla di buono . Eoche foſſe ſtata invidia
aʼmedeſimi ſuoi ſeguaci , o altro ch'a ciò far lo ſpigneſſe ,dique'ſuoi
maraviglioſi medicamenti, on de cotanta fama egli accattofſi , pochi egli ne
volle inſe gnare :. e que'pochi cotanto monchi, e oſcuri ne fcriffe , che ben
ne laſciò nel farnetico di doyerne inveftigar con lunga fatica la traccia ;
de'quali egli medeſimo favellanda , dice : in quibus afsequendis paucisfimi
fcopum contingent . , Perchè alcuni inviluppativiſi ſconciamente vi favellarono
, togliendo in cambiouna coſa per altra , e sì con quelli pig giorando
gl'infermi delle loro malattie , e ſovente anche uccidendogli . Vuole egli, che
ciaſcuna malattia , toltenc quelle , che richiedono la mano del medico per
dover curarſi, e quelle ancora , che dalle ſole qualità relolacce avvengono ,
le quali ſenza argomento alcuno d'arte ſi guariſcono , dalle impurità ſemplici
del ſale , o del mercurio , o del ſolfo , o da tutte queſte foſtanze so da
parte di eſſe s'ingeneri no . Ma comechèegli cotanto danno ne dica da quelle av
venirne: ſe noi non ſappiamo , ne egli punto ne ſpiega qual ſia veramente la
natura loro , ne anche certainente avviſar poſſiamodi che forte d'impurità
quelle loro fiano, accioc chè acconciamente alle malattie da quello inoſſe
riparar posſiamo . Le medicine , dice il Paracelſo, effer debbono ſomigliá ti
al inale , ch'è da curare ; perciocchè quantunque ognun fappia , che le
malattie fian contrarie alla ſanità delle gen ti , e che perciò vincer ſi
debbano con argomenti contrar alla lor natura ; non però di meno le medicine ,
le quali G convengono alle malattie eſſer debbono pure della mede fima lor
generazione ; perciocchè altrimenti mala pruovan vi farebbono a raccattar la
ſanità . Quinci ſi è, che'l Para celſo dopo aver avviſato tre eſſer i generi
delle malattie , così dica : caveat itaque medicus ne arbores duas in unams
curam inferat :fed teneat regulas,morbis mercurialibus dan dum ejſe mercurium :
morbis falinis,falem :morbisfulphureis, ful 414 Ragionamento Sesto ſulphur ;
unicuilibet nimirum morbo fuum appropriatum ficut convenit . Ma in buona fe ,
che ha egli che fare la ſomiglianza con la cura delle malattie? Perchè ebbe
egli la ragione l'Elmo te di forte biaſimarnelo : igroravit bonus ille vir ,
quod ifta non fintagentia fufficienter ad fanationem requifita . Ne ciò è
ſempre vero , che le coſe più agevolmente poſſano alle ſomiglianti penetrare ,
cmeſcolarſi inſieme; ecome il me deſimo Paracelſo diffe:quodlibet fuumfimile
comprebendere. fuum fimile,non diverſum ; perciocchè avviſiamo noi tutto giorno
in molte , e molte coſe il contrario avvenire . Ele pur talvolta incontra , che
s'accozzino , certamente per al tracagione egli s'adoperajāzicotáto ciò è falſo
,che per co trario alcuno dir potrebbe più p diverſità, che p ſomiglia za
inſieme le coſe accozzarſi: ficome i corpiconcavi ſono , i quali
ſtrettiſſimaméte a’ritõdi s’uniſcono ;nei corpi ſpea rali , o ritondi , comechè
fomigliantiſſimi infra lorofiano, poffono in alcun modo convenirſi : avvegnachè
pur ſi con vegnanoi quadrati. Perchè dica pure a ſuo seno il Paracel fo
:Scorpio ſcorpionem curat , realgar ſuŭ realgar, mercurius fuummercurium ,
meliſir fuam melilă; che ditanta mara viglia non ſarà certamente cagione la
ſomigliáza;anzitute' altro di quello , che egli va diviſando ; perciocchè, per
ta cer dell'altre coſe , nello ſcorpione i pori auſati per lungo tempo a
ritenere in ſe quel ſuo veleno , e acconcj anche a riceverlo , più agevolmente
il ricevono dalla ferita , ch'egli fa nella carne d'alcuno , che non poſſon
riceverlo l'altre parti ſane vicine diquella ; perchè movendo per la forme
tazione le particelle delveleno nella fcrita , volentiericol loro diſcorrimento
nello ſcorpione paffano, e a riccrti me deſimi, onde uſcirono, fi ritornano . E
queſte ſono le con tezze ,che deve avere il medico avveduto per doverpren . der
argomento da porre avantile fue medicine, e non già le ſomiglianze , o altre
fraſche , le quali agevolmente poſ fono ingannarlo , e mettere per la mala via
iwiſeri infermi. Che ſe noiveggiamo alla giornata a' mali del ſale aceroſo
porfi conſiglio collaflomma , e colla terra dannata, e altri, Catri Del Sig.
Lionardodi Capoa. 415 $ 1 e altri mali guarirli con diſſomiglianti rimedi,
perchè do vrem noidire,che la ſomiglianza fola poffá diſmalare i cat tivelli
infermi, e nello ſtato ſalutevole del primiero vigore riporgli ? Maſu riccvaſi
pure',comevera,la regola del Pa . racelſo intorno a'generi de'medicamenti, e
ſia pur la fomi glianza da ſeguire in medicando ; come potrà mai il media co
avveduto avviſare qual forte di ſale, o di mercurio , o di folfo daelegger ſia
per riſtorar de’ſuoi mali l'infermo , feu prima egli pienamente no coprenda la
gencrazion di quel ſi , ch'a ciò il conduffero . Conviene adunque al medico fa
pere quali ſien quelle particelle , che forman l'apparenza dell'aceroſità nel
fal dell'aceto's quali l'amaritudine nel ſal della coloquintida , ſc
ragionevolmente egli proceder vuo Ic nel ſuo meſtiere. · Ma fe'l Paracelſo ebbe
la medicina univerſale , come è coſtante famaaverla lui apparata nel fuo lungo
pellegri naggio , non facea meſtieri ſapere; o'avvifar niuna disì fata re coſe
, ne'curar di vene łatice , o di acquoſe, ne della doc cia del Virfungo , o
della circulazion del ſangueso dal tri , e d'altrimoderniritrovati : comeche
ſembri aldortifia mo Vitiſchio aver parte luidi queſte coſe felicemente avvi
fate . E cócioſliecofachè l'univerfal medicina ſenza riguar dare a età o oa
compleſſione , o ad altra coſa del mondo , igualméte torte malattie vanti di
guarire;Io non ſo lorper chè il Paracelfo a si fåtte fraſche foſſelli: attenuto
, ſe egli diquella erisì ben fornito ; perciocchè quella diceni eller
ſomigliante albalſamo naturale, e perciò valevole a invi gorirlo , e ajutario
sì fattamente , ch'egline ſolva , vinci, e diſtrugga le cinture ſeminali di
qualunque ſorte zonda l'e malattie curte prendon dirivo . Diceſi balſamo
naturale dal Paracelfo' una coral ſpiriz tuale ſoſtanza di principi puriſſimi
compoſta , e participan te della natura celeſtiale : onde ella è quafi
incorporea ye incorruttibile ; adunque corale eller conviene l'univerſal
medicina, e che ſia partecipe di tuttiprincipj , acciocchè in ciaſcuna malattia
approdar poffa . Ma certamente non che il Paracelſo cotal medicina avuta aveſſe
giammai , anzie egli 416 Ragionamento Seſto egli fola il creder , che quella ci
ſia , o pofla mai eſſere :av : vegna pure , chealquanti medicamenti di lui
fieno ſtati va levoli a ſgomberar molte , e diverſe generazioni di graviſ fime
malattie . Ma egli tante,e tante ſortidi medicine ado però nelle ſue cure , e
argomentoffi dicomporre , e lavora te con ſuo gran biſtento , e noja
degl'infermi, che certa mente a cið recar non s'avrebbe dovuto , ſe quella ſua
uni verſal medicina conoſciuta aveſſe; ſenzachèegli , ſe non voleva pur
logorarla nelle cure baſſe , e menovili, ſarebbe fene almen ſervito perſe
medeſimo, allorche da graviſſi ma malattia ſorpreſo anzi tempo morilli , e
prima d'aggiu gnere all'anno cinquanteſimo della ſua vita. Ma ſe eglifof fefi
pur nella filoſofia tanto, o quanto innoltrato , no avreb be sì fatte
millanterie ſcagliate del ſuo valore , e della vir tù della ſua univerſal
medicina . Ne meno egli certamente detto avrebbe , che l'huomo per la ſola
immaginazione va levol ſia anche fuora del corpo a far le maraviglie , cche i
caratteri , e le immagini ſcolpite nelle piaſtre , e porta te adoſſo poteſſero
ſchermir le genti dalle inalattie, e libe rarle da quelle ; ne farebbeli
follemente ſognato , che'l ſole fo ne'corpi degli animaliſidiſtilli , ſi
fublimi, ſi riverberi, fi calcini , e ſi fonda : onde poi mettan fuora varie, e
diver fe forte di malattie : e che'l ſale , e'l mercurio in noi ſimi gliante ſi
diſtillino , fi ſublimino , e ficalcinino cagionando le malattie : è che'l
mercurio aſſottigliato oltremodo per la ſoverchia circulazione ſia cagione
delle ſubitane morti , e repentine:e che noi puntalmente n'aſſomigliamo
all'univer fo , e neſiamo vere imınagini in ciaſcuna noſtra parte : e che i tre
principj in noi cotante generazioni di malattie prodı cano , quante ci ha coſe
create : e tante , e tant'altre ciuffo le , e aggiramenti , che ſe tutti fil
filo gli vorrei narrare,non così agevolmente ne verrei a capo . E tutto ciò a
lui avvē ne per diſagio di profonda filoſofia. Ma per avventura egli non fu
cotanto ſciocco , qualnoi giudichiamo dalle man chezze dell'opere fue;
perciocchè quelle da' ſuoi malevoli per uggia , c per diſpetto cosìdiſguiſate ,
e travolte furo no con torne alcune ſentenze per entro , e altrs, o ſciocche, o
fans 1 1 Del Sig. Lionardo di Capos 417 o fanciulleſche, o empie vezzataméte
frapporrvi,che omai tralignano dallo ſplendor d’un tant'huomo, enon ſembran più
ſue. E alcune ancora affatto non ſon fue , licome il medeſimo Oporino , che
così fellonoſamente rubbellogli ſi , manifeſtamente rafferma; perchè non
dovrebbeſi certa mente coglier cagione per quelle d'accoccaglierla , c dir
glicne male ; ſenzachè manifeſta coſa è , che quelle , che ragionevolmente ſon
da credere opere ſue , vennero perla più parte ſolamente dalai diſegnate , ne
più poi per innan zi rivedute ; perciocchè egli dal ſuo focoſo , e diſcorrevo
{e ingegno traportato inteſe ſolamente in prima a ritrovar le coſe , e quali
dal profondo della natura cavarle , con in tendimento poi di più minutamente a
ſuo bell'agio quelle ſtacciare ,.e diſaminare, per poter metter avanti con
eterna fama del fuo valore quelſuolodevoliſſimo ſiſtema, che im preſe a
diſegnare; e per avventura ſarebbegli venuto fatto , s'a ciò tempo aveſſe avuto
; ma la morte, ch'improvviſo gli fopravvenne, fe riuſcire a vuoto i ſuoi
diſegnamenti, e non laſciogli agio di fornirgli ; perchè rotto a mezzo della fa
rica ilſuo lavorìo,cosìmonco , e diviſato rimaſe , qualnoi veggiamo. Ed è anche
opinione d'alcuni , che le menzio oate ſue opere foſfono componimenti de'ſuoi
ſcolari ; per ciocchè egli uſava folamente a boce inſegnar loro i ſuoi
ſentimenti, ſecondo la coſtuma di quc'rempi ; e quelli poi gli cópilavano in
iſcrittura, molte coſe giugnendovi dellor capriccio ,e molte non ben copreſe
travolgendo a lor talen to in tutt'altro , cheegli li voleva dire . E ciò tanto
più ne ſi fa manifeſto , quanto in eſli ſuoi libri più fiate le medeſi me ſue
coſe ſon ripetite , ſecondochè da diverli ſuoi ſcolari furono accolte ; anzi
dal loro natio tedeſco linguaggio nel Jatino idioina ſcioccamente traportate da
perſone diciò poco , o nulla intendenti , così confuſe , c inviluppate di
vennero , che malagevolmente ne vien fatto ad avviſarne , iveri ſentiméti
dell'Autore; col qualdifetto aggiūta anche l'ofcurezza , ch'egli a bello ſtudio
argomentolli frapporvi, certamente oſcuriſſimi , e malagevoli oltremodo quelli
ne, rieſcono ; conciofoſſecoſa,cheartatamente il Paracelſo co Ggg sì piat 418
Ragionamento Seſto sì piatto , e imbaccuccato ne' ſuoi ſentimenti con nubi di
riboboli, e d'enimmi i ſacroſanti miſterj:della natura avef ſe coperti,per far
quelli ſolamente , e con lunga fatica agli huomini dotti , e di maggiore
intendimento comprendere, enaſcondergli alla minuta: bcuzzaglia:delle genti, o comes
diſſe il Berni Alle brigate goffe, agli animali; Che con la viſta non pafsan
gli occhiali. Ilche ſenza fallo infra gli altri fu dalBorricchio avviſaperchè
egli dice : ne Eleufina ſacra.profanè Viiverſi pro fituerent: gnarus , id
factiraſse Egyptias, & Pythago ne affeclas ſacheche la di ciò, non ſono
impertanto da ſpregiare i ſuoi diviſamenti intorno alle coſe della medicina;
percioc chè per tacer de’ſuoi medicamenti, de' quali ſe vier mai quella priva,
poco men , che come corpo morto ſenza vita rimane : non può certamente eſſere
ne filoſofo , nemedico valoroſo colui che non ſappia appieno ciò ,che dellecoſe
della natura:glorioſamente.Paracelſo n’abbia diviſato .. Fra Tomaſſo Campanella
, comechè d'acutiffiino inten dimento, e libero filoſofante e' ſi foſſe , pur
sì fattamente tratto tratto favella delle cofe naturali , cheben ne da.aw
divedere quanto più agevole impreſa ſia lo ſchivar quegli errori', ove gli
altri incorli ſono , che il ritrovar la verità . Nocquegli più che altro
ſommaméte in ben filoſofare nel lamedicina,l'averlui-troppa credenza. voluto
preſtare alle opinionidel Teleſio ſuo maeſtro , per tacer della ſtrologia, e
d'altre vane ciurmerie ,c.indovinelli, ove egli fanciulle ſcamente dilettavaſi
; e l'averfi dato follemente a credere, che cotali.coſe, o enti favoloſi da lui
ſolamente immagi nati abbian parte nelle cofe della natura ; perchè non è da
maravigliare ſe'l ſiſtema della medicina , dalui fabbri cato , manchevole
oltremodo , e difettuoſo riuſciffe . Al la qual coſa fu egli anche cagione il
non aver lui eſercitato gianmai cotal meſtiere: ficome anche nocque a Cornelio
Celſo ; perciocchè aflai per avventura ſarebbonfi vantag. giati, ſe per pruova
ſperimentato aveſſero i lor diviſamenti. Ma Del Sig. Lionardodi Capoa 419 Ma
ſopra tuttonocqueal Campanella il no eſſerfi eglipũ to conoſciuto di nocomia ;
perchè egli poi traſcorfe in co tanti errori, e aggiramenti , dicendo il fegato
efferfonte , c origine del ſangue e la milza del fiele : e che tutto dal
cervello provenga: Organum fpiritus, dice egli , cor Jan guinis jecur ,fplen
fellis , & alia aliorum ; omnia autemiſta cerebrocauſsam habent ;arteria
vocalis manifeftè ex.com pite oritur , ubi et ftipitem amplisfimum
haber:igitur& alia; Junt enim ejufdem fubftantia , d originis . Etanti, e
tantal. tri falli egli preſe nella notomia anche in coſe manifeſtiffi me, e a
ciaſcunconoſciute,che ragionevolmente di lui cb be a dire ilLindeno : Quid
horum eft , quod fenfus teftis omni exceptione major manifefta fallitatis etiam
Anatomi corumpueris damnate.convincit? Ma non però di meno fep pebenegliil
Campanella da quel gran Padre di Chicas Santa,GiovanniCrifoftomo appararc ,
che'l nutrimento p una cotal cortiliffima foftanza ; la quale ſpirito appella
Cri foſtomo, dal cervello infieme colfenfo , e col movimento all'altre membra
degli animali fi difpenfi;comechèpai egli di ciò dimenticato,altramente
favelli.. : Ma che direm nai del fiſtema di lui , della nuova arte di
medicare,ch'egli ne compone ? Vuole eglicol Telefio il caldo ſolamente,
e'/freddo effer primi principj di tutte co fe , i quali egli chiamaagenti: e
l'umidità , e la ſiccità ef fer ſolamente diſpoſizioni della materia , ceffetti
di quelli; intanto che la materia delcaldo aflottigliata divenga umi da : e ſi
rondafecca , ingroffata dal freddo . Ne l'umido có altro può accompagnarfi,
fuor folamente che col caldo : nè'l ſecco con altro , che col freddo;
perciocchè ſel'umido s'accompagnerebbe col freddo : 04 fecco col caldo , dice
eghi, che ſarebbon da quelli toſto diſtrutti . Anzi dice egli, che'l caldo fia
cagione dell'umido.: e'l freddo del ſecco ; perciocchè il caldo ſolve le coſe ,
e le allarga , e l'aſſorti glia : e'l freddo per contrario le indura , le
ſtrigne , e le co ftipa. E queſti due principj dice egli effer foſtanze , o for
me eſſenziali , de quali accozzate alle lor materie formino il Cielo , c la
Terra; perchè anche due, e non quattro vuo Ggg 2 le cgli, 420 Ragionamento
Seſto fe egli, che ſian da dire gli elementi. E le forme dice efier nuovamente
introdotte nelle coſe dalla potenza della na tura agente , non già dal feo
della materia cavate. Maquel,che più è ridevole in lui ſi è ,chc dice egli
eſſer : altri principj incorporei, che régan parte nel componiméto delle colc ;
daʼqualivuol egli , che prenda dirivo ciaſcunas operazione la qualda'volgarifiloſofanti
alle qualità occul te delle coſe s'attribuiſce . E queſti principj incorporei ,
o primalità , ch'egli chiama, vuol egli , cheſiano lapotenza, la ſapienza , e
l'amore ; onde ciaſcuna coſa voglia , poffaw , e conoſca:onde anche quella
prenda naturalmente ſenſo della propia conſervazione . Ma quanto poco vero fia
sì fatto diviſamento de’princi pj della natura ,non fa meſtier , ch'lo ſpieghi;
potendo cia fcuno per fe agevolmente avviſare, non ſolamente il caldo, e'l
freddo effer nella natura , ma altre , e altre coſe diver filime da quelle ;
ſenzachè non ifpiegando il Campanella la natura del caldo , e del freddo in che
veramente conſiſtay mal può inveſtigar poi , non che dichiarare , fe quelli
vera mente operino , e come; imperciocchè ſovente egliſoftá ze chiamandole,par
che ne voglia certamente uccclare ; poichè egli medeſimo dice, la materia ſola
eſſer propiamé te ſoſtanza, e non altro ; perchè manifeſtamente s'avviſa , che
il Campanella nel primo ſuo filoſofare, e in ſu la ſoglia appunto di quello
ſconciamente fdrucciolando cadele : e grandiſſimo tratto dalla vera ſtrada
della filoſofia forvia to erraſſe ; perchè poicertierrori, e aggiramenti gliene
ſeguirono, che nulla più ; prendendo egli in cambio della mido il diſcorrente ,
che è ſuo genere, e non iſpiegando la natura di quello , ne del ſecco , o del
dolce ,, o dell'amaro , o di tuce'altre ſenſibili qualitadi . Negran fatto
v’abbiſo gna a dimentirlo delle operazioni de'ſuoi principj;percioc chè per
ciaſcun , che riguardiall'acqua , che per lo freddo congelata fi rarifica ,
agevolmente ſi può avviſare , che non feiapre il freddo condenſi le coſe .
Mache è ciò ch'egli di ce , che le coſe inanimate abbian ſenſo certamente a ciò
cre 1 . 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 421 1 credere, per tutti gli argomenti del
mondo, ne egli,ne il Tea lefio , ne l'Elmente ,che in ciò volle ſeguirgli,
m’indurreb bono . Ma ſpiegar poi non può egli in modo quelle ſue prima lità ,
c'huom finte da lui non le creda , e aver la loro eſiſté za tutta nel cervello
ſolo dell'autore; perchè non sà cgli dir neanchecome vengan quelle a
incorporarſi nelle coſe ſen fibili dell'univerſo ,eda far tutte quelle
maraviglioſe ope razioni , che da lor procedere tutto dinoi veggiamo . Ma per
darci ad intendere , che le coſe tutte abbian ſenſo , do vea certainente egli
prima farci vedere in quelle gli orga ni , i quali render le poſſano del ſenſo
capaci. Vuole il Campanella ,che l'huomo ſi componga del fal do , dell'umido ,
dello ſpirito , e dell'anima ; e che la ſal dezza dalla denſità naſca , e
queſta dallo ſpeſſo , e fulto ac eozzamento delle parti ſi componga ; perchè
dice egli, che le coſe condenſe , e falde , sì attamente, che di vantaggio più
riſtrigner non fi poſſono reſiſtano al toccamento,e fem brin dure.E d'altra
parte dice naſcer l'umidezza per diſa gio di parti;e per alkargamento diquelle
che ſon diradate,e folute , dice eglieffer la ſpiritualità : la qual non che
reſiſta al toccamento , anziella dileguiſ immantinente ,e fugge da ognjintoppo
. Ma purdice egli alcune volte gli ſpiriti operar faldamé te per l'unione non
già corporale , ma ſicomeeglichiama, affettiva :dalla quale invigoriti incontro
la forza, che lor fatta viene , riſcuotonſi quelli , e combattendo diſcacciano
ciò , cheloro è d'impedimento . Soggiugne il Campanella , ch’alle parti
ſaldefaccia me ftier dell'umide per dover nutricarſi delle parti di quelles più
groſſe , e per non dover ſeccarſi, erõperſi :e per cõrra rio l'umide delle
falde abbiſognare, come divafo , o di ri cetto , che loro dia luogo ,e le
ſoſtenga . Ma agli ſpiriti,di ec egli , far luogo le parti umide ,acciocchè
dalla lotti gliezza diquelleſi nutrichino : e le falde ancora, acciocchè
appiccati quivi dimorino , e non ſi portin via ; e per con trario l'umore
abbiſognare dello ſpirito , acciocchè quello pre 422 Ragionamento Sefto
premendo il cibo , e traendone il fucco , il formi: e ſomi gliante , acciocchè
per quello ſi riſcaldi , e diſcorra ; e al ſaldo ancora convenirli loſpirito ,
acciocchè per quello ſo ſtener fi poffa, e muoverſiovein concio gli venga. E
alla perfine dice egli che l'anima abbia ancor ella biſognodello ſpirito ,
acciocchè per opera di quello itu dioſamente muova il corpo , e la ſcienza
delle coſe natu rali apprenda ; perciocchè l'anima da'corporei oggettief ſer
non può mofla,ſe nonſe permezzo dello Ipirito : dalle cui paflioni ella vien
rattenuta , o reſa prontaalle ſue ope fazioni. Ma lo ſpirito allo incontro
haegli ancor biſogno dell'anima in quanto egli è umano: e acciocchè maggior.
mente egli perfecco ſi renda nelle ſue primalità, e più valo roſo nelle ſue
operazioni, e più ragionevole nel reggimen to delcorpo . Main quanto
eglièanimale,1100 chemeſtier gli faccia l'anima, anzi egli fortemente contro
quella com batte , maggior capital facendo degli agj propj di ſe , e del fuo corpo,che
de celeſtialidell'anima. Adunque dice egli, effer corali vicende fommamente
neceſſarie a ben viverle genti ; che le alcuna per mala ventura in quelle
traſandaffe, toſto le malattie mettan fuora : le quali ſciogliendo l'uma na
compoſizione, ne diſpongono alla morte. Ma quali ragioni adopererò lo per
mádare a terra si fat to fiftema , e rintuzzare il diviſamento del Campanella ?
Egli non ha dubbio veruno , che nella maggior parte di quello cotanto egli
dalla natura s'allontani , e trafandi,che ſenza ch'Io l'accenni agevolmente
ciaſcuno per ſe medefi mo il può avviſare. Ma s'egli pure fondar voleva ſiſtema
di razional medicina , conveniva in prima molto bene la natura del corpo
inveſtigare , e di ciò che a quello avvenir poffa : ficome fecero quegli antichi
greci filoſofanti, i quali egli follemente in quella piſtola ,ch'egli ſcrive al
Gaffendi forte biaſima, e riprende. La qual coſa egli certamente nonfacendo,
comechè egli col ſuo acuto intendiméto mol ti , emolci errori di Galieno , e de
ſeguacidi lui ſcoperti aveffe : pure per manchezza non poco danno gliene ſeguì
; perciocchè egli così poco acconciamente della natura del le m2 Del Sig .
Lionardodi Capoa. 427 fc malattie , e delle cagioni,e de'ſegni e delle cure di
quel le imprende a ragionare , che ineritevolmente ne fu ſghi» gnato , e
carminato da tuttimedicide'ſuoi tempi;non pe rò dimeno fra cotante fue
ſconcezze famoſa: ſenza fallo fi è quella ſentenza, ch'cgli reca intorno alla
natura dellow febbre : ne ſaper puoffi, ſe egli dáll'Elmonte, o pur l'El ,
monte da lui tolia l'aveſſe ; imperocchè ſcriſſero coſtoro nelmedeſimo tempo ;
ma ad amcnduc n'avez dato forfe cagione disì. Fattamente filoſofar della febbre
Roderigo Veig... Io la rapporteròcolle proprie parole del Cápanel la : Febris ,
dice egli , eft fpontanea .extraordinaria fpiritas agitatio , inflammatioque ad
pugnam contra irritantem mora bificam cauſam : quam fic.calefacit, agitar,
digerisque, red ditque expulfioniapsan , vel extinétioni', velmeliorationi .
Macomechè la febbre tutto ciò faceffe , nonperò di meno offendendo ella
ſoprammodo le operazioni, è ella cert2 ; mente da dir malattia ; ſenzachè Io
non ſolo , come lo ſpi rito poſſa aver ſentimenti : e non altrimenti, che
s'egli ani mal foſſe , quando gli metra bene , riſcuotaſi, e s'apparec chj di
combattere contro ciò che'l molefta , e gli reca in toppoalle ſue operazioni .
Cofia , la quale delcervellodel Campanella fofamëte,e:dell'Elmonte immaginar ſi
poteva: Ma intorno a medicamenti, eglivuole ,che la cura quan to a ſeda far ſia
perli contrari: ma per accidente talora dal le cofe comigliantiancor ſi elegga
; e alcuna fiata gli uni ,ė gli altri meſcolando compor fi convenga , acciocchè
il foa migliante appiccandoſi alfomiglianteaſe l'attragga;quin . di il
contrario combatrendolo il difçacci . Orcome egli fti ma le genti disi groffa
paſta , che ne vuol far Calandrinis dandone a divedere sì fatre favole x Reca
égli in pruova il fapone : fiquidem, dice , Sapone ex oleo , cinere , da calces
confefto maculas olei ex panno extrabimus: oleo invitantej oleum , &
alliciente : cinere , calce fimul expellentibus, Quare , ſoggiugne poi ,
maculas vini ex calce , di vino fa . pone confecto educes; fihanc nofti magiam
. Ma doveva av viſar pure il Campanella , non già per la fomiglianza , che
pulla opera , l'olio con l'olio fi meſcola , el vino col vino ; i mil 424
Ragionamento Sesto 1 1 ma per la figura , e per la diſpoſizione delle loro
particel le ; e doveva egli pure inveftigar la cagione , per la quale la cenere
, ela calcina radendo l'olio della veſte,allettaco . come egli dice ,
dall´altro olio , quello ne portin via ; per-. ciocchè ſe a ciò egli badato
avrebbe , ben ſarebbeſi accor. to coral purgamento altronde non naſcere, che
dalla figu ra delle particelle de'ſali di quelli , i qualiſe mai loro ven gono
colti , la calcina , ne la cenere , ne anche il ſapone , che di lor fi lavora ,
non ſaranno d'efficacia alcuna ; ſenza . chè fe per fomiglianza è , che l'olio
del ſapone attragga l'olio dalle veſti , e con la ſua amicizia ne lo ſpegoli ,
e dia vella:qual ſomiglianza giammai ritroverà il ſapone in curtº altre macchie
de' panni lini , che così gli imbianca so puc Laſciando il ſapone, qual
ſomiglianza avrà egli il bucato con quelle : 0'1 fummo del ſolfo colle macchie
de'veli? cer tamente non altra , che quella ,che ha la granata colla ſpaz
zatura della caſa , o l'erpice , elamarra colle zolle. Soggiugneil Campanella,
che quando ſi vuol preſcrive re purgativa medicina , ineſcolar ſi debbano
talora i ſimili co’contrarj , appunto come il ſapone da lui diviſato;accioca
chè i ſimili ateraggano'a ſe gli umori, ei contrari poi ſcac ciandogli fuora
gli purghino . E quinci , dice egli, nella compoſizion dell'utriaca ſi meſcola
la carne della vipera, acciocchè dal veleno di quella il veleno s'attragga , e
dagli aromati poi ſi diſcaccj. Ma alla Croce di Dio , chi non ſa, o chinon ha
per pruova avviſato ,che la carne della vipera non ſia veleno ? Perchè falſo ,
e vano eſſendo affatto il ſuo diviſamento intorno alle compoſizioni
de’medicamenti: come , e quando de ſomiglianti ,ede'contrarj, o ſemplici, o
meſcolatinelle cure delle malattie ſervir nc convengu : a'conſigli di lui
certamente in niun modo attener nedob biamo , fe a liero fine delideriamo i
noſtri medicamentido ver riuſcire . Fu egli ancora cotanto poco fcorto della
natura de' me dicamenti , che per tacer d'altri falli in ciò da lui preſi ,dif
ſe egli , che le coſe fredde non ſi convengano puntoal le cargo: perciocchè
eſtinguino gli ſpiriti ; e pure il caltoreo, il 90 : Del Sig.Lionardo diCapoa.
425 il quale è argomento acconcio aſſai ad affrenar la violenza di quel folto ,
che cagiona il letargo , avvalora gli fpiriti. Dice egli ancora , che
l'antimonio crudo gagliardiffimaw medicina ſia . Mapiù ſconciamente egli
trafanda in pre ſtando fede alle fraſche del Maeſtro Agoſtino del Roſli in
quella ricetta , in cui colui dice , che ſi tragga il mercurio dell'argento , e
che quello ſi meſcoli, e s'uniſca con l'arien to vivo volgare per dover
lavorarne il precipitato da cura re il mal franceſe. Ma ridevole ſopra tutto ſi
è quel ſuo di viſo di dover colle ventoſe d'oro trarre il inercurio dall'of ſa
degl'infermi:fi Hydrargyrus,dice egli, offa penetrarit,nec expellipoffit ,
cucurbitulisex auro confectis facilè educitur, tractione vacui; Sympathia
fimulnaturarum . Ma comechè in molte , e molte coſe , ficome accennato abbiamo
falli il ſiſtema del Campanella , e ſia ſopra de boliſſime fondamenta murato ;
impertanto non è affatto da ſpregiare quel ſuo libro della medicina ;
perciocchè può egli a chi ſaggiamente l'adoperi non poco giovamento recare ;
eſſendo nel vero egli ſtato un de' maggiori inge gni e più valoroſi , che la
noſtra Italia, e'l noſtro ſecolo ab . bia alleyati. Ma Roderigo Caſtello
anch'egli della debolezza della medicina di Gilicno reſo avveduto,imprende
forte a com batterla , e mandarla al ſuolo ; e proteſtando di dovere gli
inſegnamenti del ſuo Ippocrate ſeguitare, ſi biaſima oltre modo delle dottrine
d'Ariſtotele , e di Galieno , e diſtinta mente egli i loro falli ſcoprendo va
dagli antichi Greci filo fofanti ad accattar contezze di buona medicina ; ma
non gli venne cotanto fatto , chenon deſſe anch'egli in iſconcj, e biaſimevoli
errori , giudicando follemente in prima eſle re gli atomi delle prime qualità
forniti ; quindi in tanti , e sì grandi vaneggiamentie' traſcorre,che lungo
ſarebbe quì ad uno ad unoannoverargli. Ma ſopra tutto fi ftudia egli di darne a
divedere ciò che il Paracelſo prima di lui inſegna to n’aves : cioè a dire ,
che il mondo picciolo ritenga in fer tutte le parti , e tutte l'apparenze , che
nel mondo grande ſi veggono. E mentre egli da ciaſcuno qualche ſentiinento Hhh
imbo 1 426 Ragionamento Sefto 1 1 imbolando s'argomenta da cotanti meſcolamenti
ſconcj, e mal conformi far forgere un nuovo ſiſtema di medicina propio di ſe ,
filoſofandoora col Paracelſo , e ora con Ga lieno , avviluppa il tutto , e
comediſſe colui, Confunde le dueleggi a ſe mal note. Ma egli convien ora far
parole dell'ingegnoſiſſimo ſiſte ma di medicina diGiovan Battiſta Elmonte ; il
quale,a vo lerne liberamente dir ciò che me ne paja, aſſai più felice lun go
tratto fu in abbattere, e ſpiantare gli altrui edifici,che in fondare , e in
iftabilir fermamente i ſuoi, comechèdimol ti, e molti nobili, e utiliſſimi
ritrovati venifle fatto alla ſua induſtria d'arricchir la medicina . Il materiale
principio di tutte le coſe ſenſibili dell'univerſo , appo l'Elmonte,è l'ac qua
, non intervenendo nella compoſizione de'corpi miſti altramente l'aria , ne il
fuoco , come quello , che non è ſo ftanża , ne accidente , ma morte delle coſe;
argomen taſi provar una cotal fua opinione , con dire , che ciaſcuno corpo del
mondo poſſa ſempre che ſi voglia in ſale căbiar fi ; e'l ſale poi per opera del
circolato del Paracelſo, in ac qua d'altrettanto peſo ridurſi . Oltre a queſto
dice l'Elmo te l'acqua eſſer ſempliciſſima, e benchè contenga ella in qualche
modo il ſale, il mercurio , e'l ſolfo,i quali da quel la per natura' , e per
arte ſeparare giammai non ſi ponno;ne ſono veramente ſale , folfo , e mercurio
, come tali da eſſo appellati, per eſſer a quelli ſimili, e per non ſapergli
altri menti ſpiegare; no vuolc egli però, che l'acqua di ſolfo , di fale , e di
mercurio coinpoſta venga . Ma che che ſia dicið egli ſcorgeſi apertamente , che
l'Elmonte non manifeftis pūto , come far ſenza falloe'douea, che coſa l'acqua
vera mente fiafi ; ne fpiega di qual natura fornita l'aveſle L'alta cagion ,
che da principio diede A le coſe create ordine, eftato; anzi egli
manifeſtamente confeſſando di non ſaperne boc cata, conforta , e rimuove
chiunque d'imprender la natura dell'acqua s’affatica: così di quella dicendo ,
Quis unquam mortalium novit quid fit aqua ? qua tamen creatorum eft maximè
obvia , aperta ,viſibilis,atranslucida ? tantum enim deea Del
Sig.LionardodiCapoa. 427 de ea fcit rufticus, vel idiota quantum philofophus:něpè
æquam liter illam concipiunt per obſervationem fenfuum : quod fit .corpusgrave
, liquidum , humidum ,digitocedens , fluidum , amotoque digito ſerecludéns,
calorisſuſceptivum ,attenuabia le in vaporem :nemo tamē novit internam
aquaquidditatem , vel quare liquida fit,anhumida. Ma in vero egli ha il corto
l’Elmonte a ragionar sì fatra mente dell'acqua ; imperocchè s'egli così
ſolamente di.com loroſchiamazzatoaveſſei quali a coſto dicicalecci apprefa fo
il volgo,il nobile , e laudevol titolo di filoſofanti compe rar ſi
vogliono,vero per avventura egli detto avrebbe ; im perciocchè affermado eglino
l'acqua eſſer un tal corpo dal la natura compoſto ,e meſcolato d'atto , e di
potenza , ei freddo, e umido , ne ſpiegundo poi qual ſia l'atto , per lo quale
l'acqua a partir ſi viene da cuce'altre coſe , che acqua non ſono, e in che
conſiſta la potenza , e come ſi maturi nell'atto , e venga a perfezione , sì
che acqua , se non altra coſa più coſto quella divenga : ne diviſando , che
coſa las freddezza fia , ed onde avvegna il diſcorrimento , ne per qualcagione
alcuni de'corpi liquidi , e corſoj, umoroſi an. cor ſiano , ed altri no:nulla
certamente vengono ad inſe ghare intorno all'acqua , ne più di ciò che'l
popolazzo mi nuto ſenza il lor diviſamento ne ſappia . Ma fe l’Elmonte aveſſe
mai ben fiſamente riguardato 2 * dialogi di Platone, e a que'pochi
mnaraviglioſi avanzi del le divine opere , ch'ancor fi riſerbano di Democrito ,
o al diviſar degli altribuoni filoſofanti : o pur s'egli, ficome conveniva ,
dagli effetti rapportati, di penetrar poipiù ad dentro nelle cagioni di quelle
ſottilmente ſtudiato ſifoffe : o alla natura de' corpi diſcorrenti aveſſe poſto
mente : Io ſon ben certo , che in cotal guila dell'acqua egli ragiona. to non
avrebbe: e altro certamente egli principio di tutte coſe naturali, che quella
,la cui natura di non ſaper libe raméte cõfeffa,determinato
avrebbe;perciocchèconvenen do tuor d'ogni dubbio all'acqua il diſcorrimento , a
queſta guiſa poteva ben egli riuſcir nella più ſicura ſtrada da avvi. far la
natura di quella . E certamente in ciò , che ſi apro Hhh 2 no, e 42.8
Ragionamento Sefto ño , e ſi fendono agevolmente i corpi diſcorrenti, e da cida
ſcuna parte anchemenomiſſima, in ogni tempo ſon pene trabili : e dallo
ſpargerſi di quelli, e diſcorrer liberamente per tutto : e dal riempiere gli
ſpazj , e adattarſi agevolme te alla figura del vuoro, che ingombrano, intanto
che al tra forma non hanno fuor ſolamente quella , che loro da vali, che gli
contengono, e chediſcorrer non gli lafciano , vien preſcritta : e dall'avviſare
, che ogni particella loro participando delle medeſime propietà di eſli,
diſcorrentes anch'ella fia : ottimamente raccoglier egli poteva dovere eſſer
icorpi diſcorrenti compoſti di menome particelle, i1f ſenſibili , e tra eſſo
loro in atto partite , e fpiccate per un.. cotal movimento continuo , che non
mai le laſcia appicca re , e congiugnerſi inſieme. La qualcoſa egli avviſando
agevolmente fatto gli veniva di poter la natura dell'acqua apparare , e si
riparare all'ignoranza , ch'egli di se medeſi mo ne confeffa ;
concioffiecoſachè eſſendo l'acqua oltre modo diſcorrente , egli è da dir che
ſia un'accoglimento di menome , e inſenſibili particelle , le quali sì
fattamente fixo no accozzate ,eammaſſate inſieme, che ſembrino a'noſtri
ſentimenti una ſola coſa : avvegnachè in atto elle ſiano fe parate, e partite
,intanto che inſieme non maiforte fi ſtrin gano , ne meno per alcuno de’loro
lati : e ſeguentemente continuo ſi muovano . E ſcorto egli avrebbe altresì noi
avvenir loro sì fatto movimento dal caldo ; concioffiecofa chè l'acque ,
comechè fredde elle fiano, e poco mé che ag ghiacciate: non però di meno non
ſono elle meno diſcor rentije-ſdrucciolevoli delle calde,ſe non già ſiano in
ghiac. cioammaſſate;perchè avrebbe eglicertamente detto che'l movimento ,
checosì l'acqua ſciolta ritiene , abbia le par cicelle ſue , o da ſe medeſimo,
o altronde che dal caldo a : quelle comunicate ;: perciocchè l'acqua , almeno
perquel che noi avviſiamo , cede cheta al toccamento , e da luo go a ’ ſaldi
corpi ſenza vederſi. ella punto muovere : e di lataſi a'raggi della luce : e
riceve entro di ſe particelle di ſale marino, e d'altri corpi cheper la
ſomiglianza , che hā no con quello, parimente eſſi vengono ſali appellati :
avve gna 1 3 DelSig.Lionardo di Capoa 429 1 gnachè muovēdo in noi molre,e
diverſe varietà di ſentime ti nell'organo del guſto , convengano eſſer
diverſamente foggiati ; i quali corpi penetrando per mezzo effe particel le ,
ingombrano gli ſpazj piccioliſſimi tramezzati: o pure ingombrano gli angolije i
cătoncelli che quelle colle for fi gure formano, intanto che vi ſi poſſano
acconciamente le diverfe figure delle particelle faline allogare . E moltise
molti d'effi tramezzamentiper tal maniera compoſti , e or dinari ſono , che agevolmente
per entro , e ſenza niun rite gno diſcorrer vi poſfä fa luce. E oltre a ciò
riguardando l'Elmõte all'operazioni dell'acqua, avviſato ben'egli avreb be
eſſer quella un di que' corpi diſcorrenti , ch'agevolme te a'ſaldicorpi
s'appiccano , i quali tanto , o quanto fier poroſi: e che fi fpargano ſopra
tutti quelli, e penetrino lo ro dentro , c talotta anche in parte , o in tutto
gli ſolvano ; perchè comunemente diceſi l'acqua eſſer umida. E come chè egli nc
ſembrieſſer l'acqua tenera oltremodo , e molo le; non però di meno egli
alquanto d'aſprezza avviſato an che v'avrebbe, avvegnachè dipoco momento elia
fia :non iſpiccadofi l'acqua agevolméte da'corpi ſaldi sì, e talmen te,che
quelliaffatto sgocciolati nerimągano; e quincianch ' egli comprender avrebbe
potutonó effer le particelle dellº acquada tutte parti cotanto terſe; e
liſciatesquali per av vécura iminagina ilDeſcartes.Alle quali coſe tutte ſe
l’El mõte ben fiſamente riguardato aveſſe, certamente egli ar gomentata
n'aurebbe la figura d'effe particelle , ficome ferono già ne’primi tempi
Pittagora, Timco , Platone , altri, i quali la immaginarono icafoedrica: 0 pure
ſicome de’giorni noftri l'accennato Deſcartes, il quale giudicata l'ha
cilindrica , e pieghevole, e guizzante a guifr d'anguil le : 0 ficome
l'incomparabil filoſofante Gio : Alfonſo Bor relli , il qual.cosi'ne favella:
lanugo quedam tenuis , &de bilis inveſtiens.quodlibet aqua minimum ,
ſcilicet concipide bet interna , & individua qualibet aquæparticula ,
ſolidad's &dura : cujus figura octaedra . E avvifato ancora l'Elmon te
avrebbe eſſer le particelle dell'acqua d'una medeſimas foggia infra loro , o
almeno poco diſſomiglianci ; la qual for 1 1 430 Ragionamento Sefto forma loro
, o affatto non ſi può in altra cambiarc, o egli è cotanto malagevole , che
grandillima fatica meſtier vi fa rebbe a ciò operare ; ne fino a'tempi noſtri
ciò ad alcuno è venuto fatto , ne mai, per quanto Io poſſa comprendere ,
certamente verrà per innanzi:acciocchèin altra figura l'ac qua ſi tramuti . E
ciò egli anche avviſa l’Elmonte, e vera mente per ognun yedeſi, che non riceva
l'acqua fcambia mento alcuno ſenſibile:avvegnadio che a qualunque ingiu ria
ella ſi eſponga ., o di caldo , o di freddo,o di altra imma ginabile qualità ;
ſe non ſe riſerbandone ſolamente quella , che ella in agghiacciando riceve , o
riducendoſi in vapore; per le qualiè coſa manifeſta , e all'Elmonte ben
conoſciu che non già la figura delle particelle dell'acqua , ma il ſito
ſolamente , e'l movimento di quelle ficam bia.Maſenza far tante parole ,
l'acqua racchiuſa entro una guaſtadetta ermeticamente , come ſi dice ,
ſuggellata das Criſtofano Clavio , la quale dopo cotant'anni nel Collegio
Romano della Compagnia di Giesù dimoſtraſi: ella s'avvi ſa non punto dall'eſſer
ſuo naturale mutata ; e altre acque ancora per più ,e più ſecoli intere,elane
pariméte li fon mā tenute séza ricevere oltraggio veruno dal tépo ; perchè ſen
za fallo è da dire eſſer quelle di tempera dura , emalage vole aſſai a
ſolverſi, dall'onnipotente facitore da prima fabbricate :
Adunqueragionevolmente può dirſi dell’El. monte , che de'principi delle coſe
naturali Nonpinſe l'occhio infino alla prima onda. E per avventura dobbiam noi
confeffare , il medeſimo all’Elinonte eſſergià intervenuto, che in prima di lui
al Pa racelſo fortito era : che ove maggiormente egli ſciarpillar figli occhi
perpiù veder conveniva,quivi tralandındo,più , ch'altrove ſerrati gli aveſſe ;
ed avvegnachè di ſottiliſimo intendimento , emaraviglioſo foſſeſi
l'Elmonte,pure abba gliato al troppo luine della natura per troppo veder rintuz
zato ſi fofle și come ilſol, cheſi cela egli ſteſſo Per troppa luce , quando il
caldo ha roſe Le temperanze de'vapori Speli: c firta Del Sig.Lionardodi Capoa.
431 1 e fatto groſſo dall'abbondantiſſimapiena de curioſi:fegreti di quella
Quaſi torrente ,ch'alta vena preme foverchiando il letto , ed allagando le
prode;pertroppo ri goglio diſperſo ſi foſſe . E quinci certamente viene , che
nello ſpiegar l'economia degli animali, qualche fiata ricorre ancoregli alle
facoltà, nonmeno ,cheGalieno fi aveſſe fatto ; ne di ciò pago pro duce egli in
mezzo alcuni ſtrani arzigogoli, e nuovighiri bizzi del ſuo cervello :altri ne
toglic in preſto dal Paracel fo , come gli Archei, i Blas' , i Magnali;e
quelFormento , il quale per dirlo colle ſue ſteſſe parole , eft ens creatum
form male, quod neque fubftantia , neque accidensfed , neutrum » per motum
lucis ignis magnalisformarum conditumàmundi principio in locis fue monarchia ,
ut femina preparet;exiſtat , a precedat; con che' , e con altre molte fue
fantaſie, le qua li lo per non rediarvinon ridico , da apertamente a divedere
l'Elmonte, ch'egli non già nel mondo noftro , di cui tutto di nuove, c nuove
maraviglie egli ſcopriva ,main un mon do da lui immaginato filoſofava. Tanto ,
e tanto poi egli involto fi fu nella notomia vita le , ch'egli traſcurò la
morta , ne di queſta ſeppe altro di quel, che n'era ſtato già ſcritto ; perchè
alcuniaffatto non ſeppe', ed altri, poco curioſo non curò de’modernitrovati; i
qualimolto approdato avrebbono; rendendo ad un'ora più credibili , e manifeſte
alcunedelle ſue opinioni; perchè sé bra ' , che forſe non abbia tutto il torto
a morderlo, e biaſſa marlo il Gliſſonio , quando così di lui diſſe ; hic auctor
, utu eunque acerrimi ingenii ,in eo fuitminus felix , quod .veteri placitis
rariffime aſsétitur,& vix,nifi in iis rebus,in quibus il li ex certisſimis,
demonftratis neotericorum obſervationibus manifeſte coarguuntur Ma ſe dalla
maniera del medicare argomentar lece il va lor de’ſiſtemi della medicina, certamente
in ciò quello dell' Elmonte tutt'altria molto ſpazio ſilaſcia addietro . Per
ciocchè oltre alla contezza delle buone , e valevoli medi cine , , ch'egli ebbe
pronte così ſempre fra le mani, cotan to egli 432 Ragionamento Seſto . co egli
vanraggioſli negli ſtudi del ſuo meſtiere, e di si acum to intendimento fu ,
ch'avviſando i graviflimi danni , che per li ſalaſſi , e per.le
purgagionipoſſono intervenire : e'l veleno , che per entro quelle ſi naſconde:
così nimico ne fu , e così ritroſo d'adoperarle, che come confeſſa Andrea Cel
lario , comechè Galieniſta ', baud paucis medicam artem profitentibus oculos
aperuit . Ne laſcioſſi in ciò menare alla piena del ſecolo ,oalla famoſiſſima
rinomea del Paracel lo , che non aveffe egli ſolamente intefo quelle medicine ,
operare, le quali ſenza recar moleftia , o noja alcuna allo in. fermo , fan
vuotare ſolamente ciò che cagiona il male.Per chè egliin cotanto pregio,e onor
crebbeneadoperando ciò anche nelle più gravi , e pericoloſe malattie , che
daGalie niſti medeſiıni, non che da altri, ne venne ſommamente commendato , e
quaſia miracolo tenuto . Così infra gli altri Andrea Cellario in facendo parole
di lui , e del Paracelſo nel terzo tomo dei fuo Atlante celeſte , Chymicarum
,dice ,operationum adjumento admiranda hatte nus præftiterunt , ac talia
medicamenta produxerunt quæin morbis illis natura humana penetrantibus arêtius
, altius fe infinuantibus , & remediis à natura productis cedere ne Sciis ,
primas terent, &vulgaria medicamina longe ſuperăta E per tacer di Daniello
Orftio , Nicolò Franchimorc famo fillimo maeſtro infra'Galieniſti
nell'Accademia di Praga, in una piſtola mandata all'Arciveſcovo di
Colonia,dilui di ce: Helmont pater tanti fiebat Bruxellis , ut non niſi
deſperati ad illum quafi ad ſacram anchoram confugerent: quorum non exiguum
numerum ab orcifaucibus eripiebat; enon ceſſaro no i rabbioſinimici
d'orrevolmente commendarnelo , ſtret ti a ciò dalle maraviglioſe cure di
lui,per tacer de’liberi mc dicáti Frāceſco Glišonio, cd Olao Borrichio , che nó
ſi veg gion mai ſtanchi di ſommamentelodarlo . Ma cotantielo gj pur nulla fono
in riſpetto di ciò, ch’in ſua loda vantano i più nobili filoſofanti del noſtro
ſecolo , ciò ſono il Gallen do , elBoile , ed altrimolci di non poco pregio .
Ma doler ne dobbiamo eternaméte dell'Elinõte,come di quello , che niuna delle
ſue nobili, e prezioſe incdicinema 1 wife DelSig. Lionardo diCapod 433 wifeſtar
ci abbia voluto , e quancunque ilParacelfo nie al tri valenci Chimicigliene
aveſſero dato eſemplo ; non do vea pure egli , che sì corteſe , umano , e
compallionevole dell'altrui miſerie unquemai moſtroflisin ciòimitargli. Ne da
coſa , che di tanto pro era al mondo rutro ,dovea diftos lui , lamalignità
d'alcunimedicanti, i qualificome uſura parono ingiuſtamente gran parte de' ſuoitrovati
ſenza fag di lui menzione, così parimente avrebbon fatto delle ſues medicine .
Ma ſe egli più lungamente l'Elmonte viſſuto foſſe , con dar compimento alla ſua
maggior opera, che la cera , ed imperfetra in man del ſuo figlio rimafe ,
avrebbes forſe di sì fátti medicamenti alquanto più apertamente fas vellato ,
Ma affai più tardi certamente di quel, che fi richiedev. per avventura miſeſi
in alletto Pier Giovan Fabbri a dar cominciamento all'opera del ſuo novello
ſiſtema della ra zional medicinazimperocchè egli da prima dietro la vanità
dell'Alchimia per convertire in oroi più vili metalli conſu . mò lungo tempo ,
ed appreſſo trapaſsò ben ſei luftti medi. cando altrui, ſicome egli ſteſſo
confcſſa , ſenza alcun fruta to mai ritrarne ; ne maigli venne fatto di
ritrovare in tutto quanto quel tempo medicina , chevalevole a domarfolie le
malattie ; e quantunque egli dì , e norte ſtudiato avelle attentamente ne’libri
d'Ippocrate,e di Galieno, e molti cu daveri aperti d'huomini , e di bruti, per
inveſtigar l'efficie ti , e le materiali cagioni dc’mali: non mai potè giugnere
a ravviſare i luoghi de' putridi umori, ne in parte veruna di ſano , o
d'inferm'huomo, o la collera, o la flemma, o la malinconia putrefacte ſcorger
giammai. Il perchè pres'e gli per partito , di voler,laſciando le altrui
autorità a nons calere,per ſe medeſimo metterſi ne'più cupi pelaghi della
filoſofia navigando ; e poi i ſuoitrovati al giudicio de'fa vj , e diſcreti
eſtimatori delle coſe rimettere, così dicen do : Si rationes mea , cu experientia
non optimę videan tur , trutinentur , &ponderentur diſquiſitione naturali,
ut Aquid falſi continere videanturrejiciantur omnino , Celia minentur prorſus à
fcholis : quod fi vero probe experiantur lii quid 1 1 434 * Ragionamento Sefto
1 quid ni. amplexabuntur ,tutabuntur . Primieramente avviſa il Fabbrila materia
, onde fon le Senſibilicoſeformate efferpalpabile , viſibile , e falda na
giddiſtinguerſi dalla forma, la quale fecodo luisaltro no es cheuna
propriedeionatæ , virtùnella materia,laquale poits chè è ufcica fuori
sidiſtingueda lei ,come dalla ſua cagio nel'effetto . Ondeagevolmente può
ſcorgerſi,che ſefalſe andato il Fabbriin si fatca guiſa piùavantifiloſofando,
faa rebbe egli per avventura a qualche buon terminepervenu po : ma egli
appenamefſoli in camino , ſmarrì il diritto fen : tiero .. Immaginò il Fabbri
la prina materia non eſſer.al extocheil fale dell’Vniverſo nelquale il folfo
ilmercurio, ed'un'altro ſale ſi contêga : e credette ', che queſto medeſir no
áveffe voluto dire Ariſtotele, la dove della priina mate ria cosiofcuramente
favella . Vuoldivantaggio egli, chę tutte le coſe , omallimamente l'huomo
abbiano dentro di ſe un tale fpirito volanto oleremodo , e diſcorrente , di cui
tutteleſueparticompoſtebeno, ed'onde tutte l'operazioni della vita , e tutte
quelle coſe avvengano , che ſi oſſervano nellemalattie . Queſto ſpirito , dic'
egli , che nel fegato e alquantogre /fo : ma più ſottile nel cuore e
ſottiliffimondi seżvello ; naſcere:ad un parto colfeme, e nel'naſcere venir
dalle ftelle arricchito della luce , la quale ſecondo lui èlau farma eſſenzialc
, non ſolo dello ſpirito , ma di tutt'altres coſe del mondo ... Stimapariméte
il Fabbri:altro veraméte non effer. Ja na tura, falvochelaluce' , e che
dallaluce ilmovimento, e la quiete a'corpitutti dell'univerſo dirivi, e ſecondo
più , o meno , che lo spirito participidella luce , tanto più , o me, noegli
nelle ſue operazionivigoroſo, e potente divenga , Immaginaancora
ilFabbricheentrije penetri l'anima dell? huomo allo ſpirito , e che lo ſpirito
poia tutte le parti del ſuo corpo l'anima uniſcaaMa:Io pur troppo lūgone diver
, reiſe volcliquitute'altri ſtrani ſuoi diviſaméti narrarvijne midarò impaccio
di contraſtarglije gittarglia terra aduna ad uro ', facendomia credere , che
ciaſcun da per ſe in ſen dendogliraccontare,o.in legendogli ſia per accorgerſi
coſto del 1 $ . DelSie. Lionardodi Capod della lorvanica . E cerramenteſe
alcuna coſav'hadibuone no nel Fabbri yella è colta di peſo.al Paracelſo,
all’Elmon të, e ad altri valorofi Chimici: marelle eſſendo poi da lui có altre
volgariopinioniaccozzato vengono a perder tāto del lor valore , che ſembrano
prezioſegemme dal vil fangoia cretate . Or quantoal fatto del medicare e'non ha
dubbio, ch'al ſai dappoco ſi dimoſtraſſe il Fabbris imperocchè tralaſcian ,
doda parte tutt'altre mal fatte fue cure: nella peripneu . monia vuolegli,
ch'abbondantemente abbia da principio a trarſi ſangueallo infermo , c poi collc
viole ; e collo fpiri to del vitriolos o con altri simili argomenti abbia z
rinfre fčatli quel caldo , che collo ſpirito della vita di foverchio nc'polmoni
ribolla : ed il feguente giorno coll'antimonio ábbia aprocacciarfegli il vomito
, acciocchè con tal move mento venga ad aprirli alcunapoftema , ove vi ſia .
Ein tãto fi cibi l'infermo d'orzate colſal della prunella, e collo { pirito del
vitriolo.Orchi mai divifar potrebbe più folli di vifaméti di queſti e ben
per'talie'medeſimo gli conobbes poichè altrove confeſſa , che le più valevoli
medicine alla peripneumoniafianla verga del Toro ,e'lſangue dell'Irco . E
certamente dagli acetoſi medicamenti , che altro maiſe non ſe grave danno
avvenirpotrebbe a coloro , che di pe ripneumonia patiſcono; la qualgiuſta i
fencimenti del Fab bri,dall'acetolità s'ingenera ; e oltre aciòcol purgare l'in
fermo con sìpotente vomitivo, poich'egli è divenuto fpof fáto , e fievole per
l'antecedente falaſſo , qualpro ſe nepos trebbe per lui fperare? mafopra tutto
dal trar fangue, qual buono avvenimento ne potremo giammai attendere ? Ed o
quanto fe più ſenno il Fabbri , allorche dall'Elmonte ay viſato ,de'ſalaffi
altrove in altra guiſa favellando, ne diffes : MirorParifienfium
medicorumpertinacitatem , curationem febrium , & ferèmorborum omnium in
fanguinismisſione lar . ga , ocopiofa collocantium : cum fepe fæpius caulja moru.
borum , & potisfimumfebrium tam continuarum , intermite sentium non
refedeat in fanguine , imovirtus s proprietas: lii curana Ragionamento Seffo .
curandi morborum omniü in fanguine collocetur ,cum arcbeūs visalis fanitatis
economus , & morborum amniumcuratorin fanguine refideat: ea fublata ,dlarga
manu effufo effundan, tur etiam unacumſanguine vitalisſpiritus, undevires tola
luntur , di diffunduntur, &perinde tota rotius corporis nad Cura debilis
admodum fit, do curatio etiam morborum omniū , que ab ipſa
naturadependetevaneſcit;ita ut loco illius fubfc quaturmors ; aut
incurabilismorbus, E quinciſcorger li puote altresìchiaramente,quáro bere gol
fi foſſe ,e incoſtante ne'ſuoipareri il Fabbri , e quanto malagevole ; c dura
impreſa lia lo ſcaricarſi delle falle opi nioni fin dalla prima giovanezza
concette , e per vere al. cun tempoi fermamente credute ; il che nella ſtoria
della cure da luifatte più chiaramente ſi ſcorge ;nella quale fto ria , e nel
divilainento altresì delle chimiche medicine po trebbe da luiper
avventuralealcămaggiore, epiù ſincerità d'animo ricercarfi ; maciò traſändando,
quanto al ſuo liſte maſo replicherò , licome poco addietro accennava , che
troppo vacillante, e caduco e'fia ,eche il Fabbri poco , o niente non badando
ad inveltigar la natura de'ſuoi primi principj,forz'è,ch'egli abbia a
rimanerſene fenza poter mai de’loro effetti aſſegnar la vera cagione . - Ma la
SignoraD. Oliva Sambuco, della quale lodovea molto addietro , l'ordine de'tempi
( erbando , far parolesar vegnachè ſtudiata ſi foſſe continuo di ſvilupparli
dagli er: rori de’mueſtri , e delle dottrine già da loro imbevute : pur tanto
non potè ella dimenticarle', che non vi frameſchiaffe qualche ſentimento di
quelli talvolta entro al ſuo ſiſtema Svétura nella quale i più famoſi
filoſofanti veggőfiancora incorrere ; perchè la ſua medicina non altrimenti,
che quel le deglialtri razionali, è manchevole , e difertuofa ; edan co tale
ventura certamente le avvenne , per non aver ellow avuta cortezza della chimica
.Ma nocquenon poco a'ſuoi divifamenti l'aver ella più di quel , che fi
dovea,preſtata ... credenza alle parole di Platone ; et non eſſerfi a que’rem
pi aperca ancor la {trada della vera filofofia . Im. Del Sig . LionardodiCapod.
737 Immagina la Signora D.Oliva effer l'huomo ana travol ta pianta , le cui
radici fian nel cervello , onde un bianco fugo dipartendoſi ſe'n vada il tronco
, i rami, è tutto il ri manence a mutrire , tal ſugo bianco vuol che ſia freddo
, umido ; mache nel fegato facendoſi roſſo : caldo, e umido altresìdivenga; e
che nel cuor finalmente ſcambiato in să gue , in caldo , e fecco fi muri . Il
calor del cuore crede ela la , che ſerva all'huomo , come it caldo del ſole
alle pian te ; e che'l bianco fugo faccia l'uficio de quattro elementis
fcorrere dal cerebro cotal ſugo per la pelle, per li nervize per le dilicate
pellicelle , o membrane, che vogliam dire, delle vene :mapoiin roſſo , e
ſanguigno umor convertitos per altre vie , cioè per le vene, e per le arterie
ritornare . Or queſto fugo ove ſia malignato ,fuor delle proprie vie sboce
cando per tutt'altre parti del corpo ſconvenevolmente an dar penetrando ,
contro il provveduto ordinamento della natura . Tutto adunque il Florido ,e
vigoroſo ſtato di queſtº arbore , vuolella , chedalle radici , cioè a dire dal
cerebro avvenga : la dove fc quella , che pia madre fi appella , la dura madre
toccando, ftiano ambedue ſollevate, e diſteſes e quali alcranio appiccare,
allorvederſiverdeggiante , e fiorita tutta la pianta : ma ſe mai divengan vizze
, o alqua to s'abbaffino , fanguire parimenre lei; e quando finalmen te la pia
madre ſia dalla dura totalmente ſtaccata allor non poter avere a niun modo più
vita . Con queſto trovato , o purcon queſta ſomiglianza dell'arbore , vaella
tutti i con . venenti della vita , e della morte , e della generazione , u
della corruttura dell'huomo , e de rimedi, e delle malatı tie acconciamente
fpiegando. Tali ſono i divilamenti dietro alla medicina della Signo ra D. Oliva
; i quali comeche pajanoin gran parte dal vc to lontani, purealcuni di loro ſon
tali , che non poffeno . fenza lunghi encomj, enon ordinaria maraviglia guardar
fi; edIomifarò lecito d'arrogare a sì valoroſa donnaquel che già della poereſſa
Sulpizix diſfè Giulio Ceſare della Scala :ut tamlaudabilis heroina ratio habeatur
non anime objicere ei iudicii ſeveritatem : Ma 738 Ragionamento Sesto Ma
crapaſsado al ſiſtemadella medicina di Tomaſo Vil lifio ; egli ſipare, ch'in
fula foglia appunto diquello con ciamente fdrucciolandovaneggj.
Imperocchèavendoegli Popinion d'Ariſtotele rifiutata intorno a' principj delle
cos fe , ficome troppo groſſa , e ſciocca : e quella di Democri to , e
d'Epicuro , ficomefoverchiamente ſottile , e da’ſenli lontana : alla perfinc
egli alnuovo diviſainenco de'Chimi ci tutto s'appoggia , e vuolche ciaſcunacoſa
di ſpirito (co sì chiama egli ilmercurio ) .di ſale , di ſolfo , d'acqua , e di
terra formata ſia ; perciocchè in quelli ciaſcun corpo ſenga bilmente ſi
riſolva . E con quelto cinque ſoſtanze , in ciò , che elleno ne'corpi
compoſtihanmovimento e proporziou ne , ſi ſtudiacgli , e s'affatica di dar
ragione dell'apparen ze cutre della natura , e ſpezialmente diquelle,ch'alla mc
dicina s'appartengono. E comechè egli apertamente con felli cotali ſoſtanze non
eſſer ſemplici , ma comporte, e me ſcolate ; pur tutto il ſuo diviſamento quì
egli fermando,no fi prendepiù avanti briga di ſpiar di cheforte priacipj fora
fono quelli, onde le ſue prime cinque ſoſtanze ſon compo fte ; anzi egli dice ,
che non avendoviragionc , o ſtrada al cuna da potergli avviſare , ſciocchezza
ſia l'entrar nel fara netico didoverciò fornire:e qualunque coſa ſe ne dica
eller più coſto un grazioſo diviſamento , e voler giudicarc allas ventura , ea
riſchio delle.cofe del mondo , che conſaldez za di buona filoſofia ragionarne.
Ma quantochè egli con ciò di ſcagionar la ſua dappocaggine s'argomenti, imper:
tanto maggiormente in altri, e altri ſuoi divifamenci egli s'accagiona;
perciocchèa chiben vi ponga menre, tuttoil fuo filoſofare , avvegnachè egli
contro i buoni filoſofi fa vellando , dica procudere,autfomniare philofophiam
me nola le, lubens profiteor; altro nel vero egli non è , ch'un andare alla
cieca, e taftonc,ſenza certezza alcuna . Ma ciò laſcia do ſtare , o non
s'avvede egli , o s'infigne di non accorgerſi in dicendo chelo ſpirito una
coral ſoſtanza fortidiguna, ë voláte Gia; che spiegar uc doveva come cotal
ſostanza s'av valli , e fi deprima, c come poi ſi cſalti , e come con gli al
tri principj ſi meſcoli : c comc ammendi, e affreni i ftraboc chero 1 9 Del
Sig.Lionardodi Capon . 439 chevoli diſordinamentidel ſolfo', e del ſale : é
comequela to tante , e tant'altre operazioni faccia , le quali egligliat
tribuiſce . Certamente non mai egli ſaper potrà diche. for te particelle
quelle: fiano , ondela ſottigliezza dello ſpirito diriva ; e colcoccare , che
colmuovere ora in uno , oras ialtro modofogliono negli altri corpioperare .
Eben'e gli dovera ( ficomca buon filoſofante ſi conviene, ilqual fondar voglia
ſiſtema di cazionalmedicina) dalle appareze degli effetti la natura delle loro
cagioniinveſtigare : cav vifare , chenon puòlo ſpirito effer diſcorrevole , ſe
di pre fente nonceda atutti corpi ſaldi , che perentrovi paſlino je
perchèeglièda dire', cheloſpirito ſia in molte , e moltes particelle diviſo :
le quali continuo movendo infra loro sé.. pre ſeparate ftiano ;ne lo
ſpirito,foctile,c volante efferpuðn e per cutto perretrare , ſe le ſue
particelle picciolitime non fono , esì fåttamente foggiate , che molti gomiti
20 angoli, non abbiano . Neper darragione dell'opere del ſolfo giova ſapere eſ
fer quello , licomc egli dice , di coſtruttura alquauto più groffa',
emaggioredi quella dello ſpirito ; e che da quello nafca il calore , cla
varietà de'cofori , e degli odori alle co fe , e l'a lor bruttezza , e bellezza
: c per la più parte la di verſità de' ſapori ; perciocchè quantımqne tutto ciò
vero fi foffe ,cheegli ſenza niuna pruova farne grazioſamente , afferma, ben
potevaeglidall'apparenze,che dal fólfo vega giamo , argomentar, che le
particelle diquello comeche, in continuo movimento anch'elle fteano;ficome
quelle dela 16 fpirito e fiano peròmeno pulite , e ſdrucciolantii, calia
quanto' famoſc . E què è danocare , come il Villiſio vada divifando
dellacomplellion del fuoco ; egli dopoaver ava vifato effer quello
ſomigliantiſſimo alla materia prima de Peripatetici , in ciò che in tutto
partire in niuna dice quel, lb allignare, così poi faggiamente ſi ſpiega:Ignis
exfuina tura nullibi exiſtentiam , ac certum durationis modum obtin net .
Quindifoggiugne : formaignir omninòdepēdet à para siculisfulphureis infubjecto
quopiam agglomeratis.y - cona fërrimerumpentibus a quodque ignis nihil fit
aliud , quam ejuſmo 440 Ragionamento Sefa 1 1 . 1 + ejufmodiparticularum
impetuofius concitarum motus , deras ptio.Ma s'egliaveſſe mai poſtomente alle particelledel
fol fo, le qualieſſendo di neceſlità ramoſe, per la loro figuras non così
acconce ſono a muover velocemento, e a penetrar ne'corpi più duri , e fpeffi ,
ficome far veggiamo al fuoco : il qual perciò dice Democrico aver gli atomi
ſuoi ritondi : non avrebbe certamente eglicosì di quello filoſofato . Ma
Signori ancor Io immaginava una volta cosi andac la biſogna del fuoco, qualla
giudica il Villiſio: e acciocchè ceſſar poteſli le malagevolezze propoſte ,
mecomedeſimo penſava doverſi i ramidel ſolfo piegare in ingenerando il fuoco ,
e in ſe medeſimi ravvolti formar cotante ſperette , acciocchè agevolmente
muovere , e penetrar poteſſero; ma meglio poi il mio divilamento vagliando ,
ricreduto , igannato inutaiparere . Convien dunque dire , chele pare ticelle
componenti il folto diduefogge ſiano, una ramoſa, e un'altra ritonda. E
cosìſomigliante doveva egli delle particelle de'fali filoſofare , e ſpiar le
vere cagioni dell'o perazioni di quelli,e di que’loro ftati, ch'egli chiamafram
fionis, volatizationis,& fluoris:quali egli ſpiega co ſole pa role ſenza
recarne giovamēto alcuno. E certaméte non per altro ciò egli adopera, cheper
non curar d'inveſtigare la na túra , e la propietà de'componenti di quelli . E
doveva bé egli quanto più ciò era malagevole a fornire , cotanto mag giormente
argomentarſi perogni ſtrada diaggiugnere infin dove colla mano, ecol ſenno
arrivarpoteffe: e cið mallima mente egli col conſiglio dell'incomparabile Boile
, edal. tri valorofiffimi filoſofanci fornirpoteva ; ma egli per cele far
farica non volle di cotante biſogne imbrigarſi: perchè poi diſguiſata , e
ſconcia la ſua filoſofia ne divenne . Eles non da altro , almeno dagli effetti
de'ſali,ch'e' continuo da vanti agli occhi avevasben egli in ciò , che quelli
folvonli nell'acqua, e a temperato fuoco ſeccanfi , ca gagliardo fi fondono
avviſar poteva la natura delle loro particelle, e di quelle di tutt'altre
generazioni de' ſali: e ancora in ciò che quelli,davolanti divengono fiſſi , e
da fiffi di nuovo volar ti . E Gimigliante da ciò ben'egli inveſtigar poteva in
che con ! 1 1 1 + 0 Del Sig.Lionardodi Capoa. 441 1 convengano le
particelleinfra loro , le qualicotante gener razionidifali compongono ; e in
ciò ancora , che i volanti ſali agevolmente le loro propierà lafciano , divenendo
da aſpri, e amari , e acetofi: dolci , e foavis e per contrario da dolci,e
ſoavi:acetofi,e aſpri, e amari; e alla per fine inciò , che i ſali di qualúque
ſorte ſiano, ftranaméte cambiadoli, e laſciádo illoro natie ſapore, e
ditutt'altre propietadiſpo gliádoſisin ſalfezza ſolamēte ſi rivolgano
;perciocchè da ciò tutco ben'egli argométar poteva eſſer i ſali compoſti dipar
ticelle acconce a cambiar figura : 0 pure non eſſer quelle in loro d'una
medeſima forma, madivarie , e diverſe figuu te foggiate. Quindi oltre paſſando
avviſare' poteya' , iſali acetofi, in ciò che recano acerbiflimi dolori, eſfer
d'acutif fimc particelle compoſti : e l'altre generazioni de' fali cſfer più ,
o meno di quelleforniti , ſecondainenteche più o me no il palato nepungono. E
così anche dell'acqua, e della terra dannata certame te a lui faceva meſtierdi
filoſofare , ſe aggiugner voleva al ragguardevol nome di buon filoſofante . E
comechè negat non fi poffa che per la maggior parte riuſcir ſogliano gli ar
gomenti tanto , o quanto probabili folamente , e ragione. voli ſenza ſaldezza
alcunadicerta verità ; non però dime. no egli è il migliore affai, ſtudiarſi, e
affaticarſi per via di conghietture ,ed'argomenti d'aggiugnere a ciò , cheper
noi non ſappiamo: checosì ſenza nulla imbrigarfi d'inve ftigarne , laſciarlo
vergognoſamente in non calere pernou Ara dappocaggine: Ne lo al preſente midarò
briga d'eſaminare il poco lo devolfiloſofare del Villiſio intorno alla
formentazione, al ſangue , alle orine ,alle febbri, e ad altre malattie; percioc
chè ognuno agevolmente veder può , che non è altrimenti ſaldo filoſofare il ſuo
, ma ſolamente ragionarea riſchio, e a voto ſenza fondamento alcuno ; e ben
potrebbe per buo monegarſi poco men ch'ogni coſa , ch'egli afferma , ſenza
timore d'eſſer dalle ſue anfanie, e da'ſuoi aggiramenti rim beccato . Ma non
però di meno montò egli in qualche buo nome dei ſuo meſtiere, per eſſere Atato
egli molto avventu Kkk raro 442 Ragionamento Seſto 1 rato ne’luoi emoli;
perciocchè de’ſuoi tempi abbatteſt in tal , che nulla ſappiédo delle coſe della
natura, volle ſcioc camente e con fanciulleſchi argomenti carminarlo ; per chè
non durò molta fatica il dottiſiino Lovero ſuo ſegua ce' , non tanto
d'inframmetterſi della difeſa di lui , quanto per ricredere , e rintuzzare la
tracotata beffaggine dello ſciocco Galieniſta ; e nel vero ſe filoſofo ſtato
foſſe il Mea La, avrebbe egli minutamente ciò che lo ho accennato del la
medicina delVilliſio in prima detto . Ma nella notomia il Villifio fu molto
ſcorto, e avveduto, intanto che non v'ha notomiſta alcuno, che meglio di lui, e
più ſottilmente le parti del cervello ſpiare aveſſe;ma da cià altro certamente
noi raccoglier non poſſiamo , che la pro poſta da noi cotante fiate dimoſtrata
,ora maggiorméteper fuadere : cioè a dire che vano , e inutil ſia il diviſar di
me. dicina razionale : ne medico poter giainmai in quella tane to , o quanto
vantaggiarſiz.conciolliccoſachè dalla lunghif fima , e inolto ſcorta
diſaminazione , ch'egli fa dell'uficio delle parti del cervello , non altro
certamente ora ne ſap piamo,chequello , che in prima fapevamo :: cioè a dire
nulla di certo . Quanto alla maniera del medicare fu egli ſenza fallo ſciocco
,, e infelice aſſai ; perciocchè dopo aver appreſa , ed eſercitata la medicina
a quella guiſa , che in Inghilterra comunemente coſtumavali :volendo egli
filoſofare ſopra quella , ſi perſuaſe , che le continue ſperienze , così.dover
fi medicare additato aveſſero ; perchè non guari egli lontan
facendofia'comunali rimedi, nel ſuo ſiſtema,ſtudiof ſi di darne a credere eller
quellii veri argomenti da raccato tarne la ſanità , ricoprendo con sì
fattoavviſola ſua beſſage gine, c non rinvenendo nulla per giovamento
de'cattivelli, inferini'. Anzi vi fu di peggio nella ſua medicina , che non che
valevole argomento egli mai ritrovato aveſſe : anzi in qualche biſognatalvolta
, ove i volgarimedici bene ado peravano , egli diverſamente ſentendo
dipartiſlene. Ma prima difar parola della maniera del ſuo medicare , egli
conviene avviſare, cſſer poco ragionevole ciò che 1 1 d egli Del Sig.Lionardo
diCapoa. 443 egli giudica, cioè, che la febbre finoca puerida,ficome egli dice
, per eſſenza ſempremaiſia : e che la pleureſi , la peri pneumonia ,
l'infiammagion della gola , e altri fomiglianti mali ſiano effetti, e non
cagioni della febbre ; conciollie cofachè ciò manifeftamenteripugnar ſi vegga
all'evidenza: avviſandoſi fempremai tratto tratto avanzarſi , e ſcemarla febbre
, ſicome Icema , o creſce l'enfiagione ; anzi talora prima d'apparir la febbre:
il dolore , c l'enfiagione appa fiſcono : e cominciandoſi poi la ſoſtanza ivi
cntro racchiu fa'a formentare , e a comunicarſi al ſangue , e far ſaccajan
comincia altresì la febbre . Ma più manifeſto ciò s'avviſa nelle ferite , e
allor che qualche ſcheggia , o ſpina, o altrás ſomigliante coſa nella-carne ſi
ficca ;perciocchè ivi a poco accendefi la febbre nella piaga ſolaméte, enelle
parti prof ſimane , e talor anche pertutto il corpoſi fpande ; e leav vien ,
che le fibre alcuna fiata enfino , ciò nulla rilievaan dover far pruova del ſuo
diviſamento ; perciocchè quella medeſima cnfiagioneſarà anch'ella cagion della
febbre, no già effetto , ſicome immagina il Villilio ; concioſliecoſachè
manifeſtamente s'avviſi in sì fatte eiffiagioni rattenerſi il ſangue , e dal
ſuo uficio rifturfi; perchè poi naíce la febbre; ne ciò potrebbe in piun côto
negare il Villifio, confeſsado egli medeſimo quefta verità : Ab ejuſmodi
tumore,dice egli dellenfiamento delle fibre, calor, e dolor in parte intendű .
tur : fanguis in motu ſuo magis perturbatur : adeoque febris accenfa plus
aggravatur. Ma non men vano , e falſo è ciò ch'egli giudica
dell'ingencrazionedelle febbri, che chir mano intermittenti; la quaic opinione
potrei lo agevolme te rifiutare :ma perciocchè egli è manifeſta aſſai la ſua
fal lanza , e per non dilungarmitroppo me ne rimango.Sola mente dico ciò lui
fare perpoternella cura delle febbrila biaſimevol coftuma de ſalafi ritenere ;
nella qual certame te cotanto egli è più de'Galieniſti medeſimi tracotato , che
ovei più avvedutifra loro nella terzana intermittétenõ ar diſcono a trar sāgue,
egli pur vuol, che trar fi debba, accioce chè col ſuo mcnomamēto il sāgue fi
rinfranchi, e ſi rinfre ſchi , e mcnos'accenda , e più liberamente ſenza
riſchio ď K k k incen 1 2 1 444 Ragionamento Seſto incendimento diſcorrer poſſa
, e riandar perla perſona .Ma ſe aveffe avviſato il Villiſio le terzane
intermittenti divenir talora per li falalli contine , certamente cgli non
avrebbe così follcmente ragionato. M2 apertamente ſi vede, ch'egli dictro alla
bruzzagliai de’volgari medicanti , più negli effetti de’mali , che nelles
cagioni di quelli s'indugia . E per favellar con lui, ſecon do iſuoi medeſimi
ſentimenti , ſe la terzana s'ingenera, per ciocchè il facgue ſtrabocchevolmente
mordace , e punge te,non intride, e matura toſto il ſucco nutritivo : mala
maggior parte di quello in una cotal materia nitro - ſulfurca corrompendo muta
: come potrafli ella maiper lalafo am mendare, ſe il ſangue , che riman nella
perſona , anch ' egli mordace , e pungente vi rimane ? certainente egli ancora
, ſe non ſi addolcia , farà valevole a corromperc, e guaſtare il ſucco
nutritivo , e ingenerar la febbre ; anzi tanto mag giormente , quanto per lo
ſuo fcemo, più debole , e fpoſfato diviene a rintuzzar quella mordacità, che'l
corrompe,me nomandoſi in lui quella nobiliſſima ſoſtanza ,che ſolamente poteva
nel ſuo intero affinamento ritornarlo ; perchè poi il ſangue, che di nuovo
s’ingenera , diverrà ſenza fallo pig. giore : e non ben digeftédoſi il cibo, il
ſucco nutritivo yer rà anche a ingenerarſi cattivo : e manterrannc quel calo re
, checol ſalaſſo iinmagina di ſcemare il Villiſio;ſenzachè è egli inolto di
riſchio il ſegnar nella terzana ; perciocchè tra per lo cibo , che dentro dallo
ſtomaco de’inalaci ſi cor rompe,e per lo sfoggiato calore,ch'allottigliando, e
diradi. la collcra nel ſuovalo avvić,chequella nello ſtomaco ſi tra sfonda , e
cotanto mal cagioni : ſicome a quel giovinetto nobile intervenne , di cui narra
il medeſimo Villiſio ,che no oſtante la cardialgia avendolo cgli fitco ſegnare,
piggioró ne sì fatcamente , chequali ne fu per debolezzamorto , gliene
ſeguirono fieriſſimivomiti ,e ſpalime , c rivolgime ci d'inceſtini : ne
alleggioll in lui il dolore, ſe non ſe nel de clinamento del male . Vuole
ancora il Villiſio , che trarſi debba fangue nello febbri, ch'egli chiama
efiimcre, e nella finoca putrida , ac cioc Del Sig. Lionardodi Capoa 445
ciocchè perlo falaſſo diradandoſi il ſangue fia ventato : e le particelle calde
di quello per affoltata non ſi accendano; ſi . coinc adoperar veggiamo a
contadini, i quali rivolgendo, e ſcioperando il fieno difoverchio riſcaldato,
fannogli pré dere rinfreſcamento . Ma egli è certamente ſogno del Vil lilio ,
che liquorsche continuo muova , e diſcorra , ficome il ſangue , abbia quelle
particelle , ch'egliſcioccamente chiama calde , le quali poſſano ſtare
ammonzicchiate,e af faſtcllate , ficome ficno in palco , maſſimainente , che
pic cioliflime , e ritonde quelle fono , e ſi muovon rapidiſſim.2 mente allor
che fanno il calore ; perchè malagevolmente ſtar poſſono inſieme, ſe da qualche
materia viſcoſa, e tenz ce non ſianoben prima appiccate. Perchè è da dire , che
fconcio , e ridevole oltrcmodo ſia il paragon del fieno dal Villiſio apportato
,in cui lo ſtrignimento premendone il fucco cagiona la formentazione , e'l
riſcaldamento . Maw oquanto meglio egli avrebbe adoperato , ſe non già con
falalli , ma con rimcdj acconcja ciò fare , ſicomealtrove per noi è detto , ſi
foſſe argomentato di ſventolare il ſangue , edirinfreſcarlo . Ma egli più oltre
traſandando vuol che da ſegnar fiano anche i fanciulli : quandoil medeſimo Ga
lieno , che de ſalaſli fu cotanto amico, e altri antichi medi cistutti ad una
giudicano efſer quelli ſommamente a' fan ciulli dannevoli , e da fuggire . E
avvegnadiochè egli molce novelle ne racconti d'alcuni febbricoli da lui felice
mente col fataſſo guariti ; non però di meno , ficome egli medeſimo teftimonia,
non pochi ancora ne poſe per la ma la via ; ne è da credere , che coloro che ne
camparono ,fof fcro da falaſiajutati : anzi per qualche altro argomento, o
cagion da’lui non conoſciuta celsò loro la febbre : e fuma raviglia , che
infermo, chenon potè reſiſtere alla febbre ', aveſſe poi la febbre inſieme, e'l
mal del falaſſo contraftato. Che ſe veggiuno noi alcuni avvelenati ſenza
cóſiglio niu no campare, e altri cadere ftraboccati da alto ſenzafiaccar fi il
collo : ele ſcoppiate delle bombarde alcuna volta non colpire , perchè dobbiam
noi dire i ſalali ſolamente, per chè talvolta non ammazzino , non effer mali ?
Ma ben disi tra 440 Ragionamento Sefto 8 1 Travolto diviſamento portonne egli
la pena il Villiſio ; per ciocchè co'ſuoicari ſalasſi-egli-medeſimo s'ucciſe .
Ma gľ Inghilefi , huominicotanto pertraffichi , e per uſanze co noſciuti di
tutte coftume della maggior parte del mondo , Io non sò lo come ſi laſcino
ciecaméte portare alle beſlag gini de’loro medici , e non più toſto rimirino
alle varie , ¿ diverſe nazioni, colle quali eglino uſano , che ſenza laper mai
di lanciuole , o dimignatte , e ſenza 'logorar goccia di ſangue ſtan bene delle
perſone: e ſe pure infermano , altri argomenti coſtumano a raccattar la ſanità
, che i nocevoli ſalaffi. E per non andar ricercando detl’Indie , e d'altres a
noi rinnotiſfime partijagevolméte ciò potrebbono avviſa re da’Mori: i quali, ſicome
teſtimonia quel gran Maeſtro in divinità Tomaſſo Campanella, le malattie tutte
col ſolo di giuno , e colle unzioni, e co ' tropicciamenti curama. Ma non meno
ſciocco, e poco avveduto nelie purgagio niegli ſi fu il Vihiſio ;
concioffiecofachè egli talora ſenza riguardare al tempo delmale toſto le
purgative medicine,e le vomitative impor foglia, con graviffimo danno degli in
ferini; e ciò egli vuole anche dove la febbreſia grande , d'accendimento dentro
agevolmente temer fi poſſa. Ma quanto poco fermo e' ſi foſſe nelle ſue regole
il Vil lifio , manifeſtamente egli medeſimo il ci da a divedere, al for che
dopo averdiviſato ſecondo fua poſſa a che debba il medico riguardare per dovere
acconciamente i ſalaſſi , e le purganti medicine adoperare , maſſimamente nelle
feb bri peſtilenzioſe , e maligne : alla per fine avviſando egli la vanità
de'ſuoi diviſaınenti, e dimentito della certezza della medicina razionale , non
altrimenti , che ſe volgare impi rico e' fi foffe , conſiglia imedicifuoi
ſeguaci, che ſi laſci. no ſolamente in ciò alla ſperienza guidare . In his
cafibus , ſon fue parole, prater medicicujuſque privatum judiciums; experientia
potiffimam mededi rationem fuppeditat ; cã enim hæ febres primo
graffantur,finguli ferèfingula tētăt remedia : diex eorum fuccesſibus una
collatis facilè edifcitur , qua li demum methodo innitendum erit , donec ultimo
crebro ten tamine , feu tranſeuntiuin veftigiis via quafi regia , « Lata Del
Sig .Lionardo di Capoa 447 ád bujuſmodi affectuum rationem texitur, variiſque
obſerva tionibus , monitiſquemunita , Or quinci manifeſtainente comprēder
puoſli quanto po co egli affidato nel fuo fiſtema di medicina, il tutto nel
ſens; no , e nell'intendimento de'mediciavveduti roveſciaſſe, giu dicando non
eſſer rimedio cotanto certo , di cui noi poffil mo vivere a ſicuranza. Ma non
ſi dec egli nondimeno privar della meritata lo de il Villiſio , per eſſes e'
ſtato certamente il primiero tra' Chimicimedicanti,ch'abbia avuto ardimento ,
rendendo giuſta ogniſua poſſa cagioni veriſimili di tutte le coſe , di
fabbricar un ordinato ſiſtema di medicina razionale, e ſopra tutto per quelbel
libro , ch'ei compoſe della Farmaceutica razionale ; ove egli s'ingegna di dar
ragione dell'operazio ni tutte , che ſi fanno ne'corpi umani dalle medicine. Ma
non già egli però, come par,chemillanti con queſte paroleg. Spartam hanc
fcilicet operationis pharmaceutice Ætiologiam , prius fere intactam , fi nunc
temere agreflus, non dignefatis abfoluero , veniam utcunque merebor , quia
terram non modo: incognitam ,fed , GvaldeSalebrofam ,&quafi labyrintheam
peragrare. incumbebat , fù’l priino aqueſta opera ; poichè il Paracelſo , e
l'Elmonte , ſopra i diviſamenti de'quali áp-, poggia tutta la ſua machina il
Villiſio , ne trattarono , tut tochè non ordinatamente aſſai n'aveffero eglino
favellato Ma ne a queſti , nc al Villiſio , per non aver eglino conſide rata
innanzi tratto , e riandata con diligenza la natura del la coſa , cioè
que’principi primi , ondederivano immedia tamente le operazioni de'medicamenti,
riuſcì il-finir una sì commendevoleimpreſa , con quellafelicità , che le avca
no eglino dato principio. Malaſciando dipiù ragionar del Villiſio, e del ſuo
liſte ma, a quel di Franceſco delle Boe Silvio trapaſſeremo;egli fin da primi
anni il Silvio , licome di lui narra Luca: Schache negli ſtudi d'Ariſtotele , e
di Galieno involto, do po lungo tempo a ciò logorato, veggendo alla fine , la
Chi mica di que' tempi a grandiſſima altezza ſormontata per le maraviglioſe
cure dell'incomparabile Giovan Batrifta El mon 448 Ragionamento Sefto monte ,
di cui ſopra è detto , a quella apparare con tutto il ſuo intendimento , e con
non ordinaria fatica ſi rivolſe; e conoſciuti i grandillimi errori, e ſconcezze
delle volgári dottrine , per non dovervender la ſua ſcienza a minuto, ne? più
ſaldi ſtudi delle buone arti sì , e tanto innoltroffi , cher grandiſſimo, e
famoſo ne divenne: e di molte , e laudcvoli conoſcenze arricchito miſeſi a
diſcorrere pergli ſtrabocche voli campi della medicina. Ma ſicome ardito ,e
poco cſper co Nocchiere , avvegnachè di ſarte , di - gomene , di ve le , di
boffolo , e di tutto ciò , ch'a ben corredata nave fac cia meſtiere ,
ſufficientemente ſia fornito : impertanto per nuovi , e nonconoſciuti mari
navigando, no ſappiendo egli poi ben quelli adoperare , miſerevolmente
inghiottito vi muore ; così il Silvio , comechè dibuona filoſofia,per quel
ch'e' medeſimo dice : e di non ordinaria medicina fornito , non però dimeno non
ſappiendo egli quelle adoperare,ſcó- - ciamente fallovvi , e quaſi nocchier mal
pratico negli alti maroſi del ſuo meſtiere appena ſciogliendo, fortunolamen te
annego . Ma potrebbe alcun recare in dubbio , ſe ſcor ro in filoſofia si bene
il Silvio si foffe veramente itato , co me eglinevuoi dare a divedere ; e
nelvero per quel che comprender poſſiamo dalle fue opere , egli ſembra, che no
molto addentro e' la ſpiaſſe , comechè una fiata dalla ra dezza , che adopera
il fuoco ne'corpi,cgli argomēri le parci celle di quello effer piramidali; non
però di meno egli po co conoſcendoſi eſſer profittato nella buona filoſofia ,
co mechè ,i per quel, ch'e'nedica , trentatrè anni continuo in appararla e' ci
aveſſe logorati , proteſtando le ſue dappocaggini , manifeſtamente dice :
optabile foret naturalium rerum principia vera , eorundemque numerum certum ,
qualitates legitimas via,methodoq ; mathematicis demõltrari. Ma nella medicina
razionale più alquanto egli ardimé toſo , volle il ſuo ſiſtema diviſarne ,
dicendo tre umori prin cipali eſſer ne'corpi degli animali: cioè il ſucco
pancreatico, la collera , e la flemma; i quali nel ſottile inteſtino adunā.
doli inſieme, e meſcolandoli, quell'umor poicompongano, che da lui è detto
triumvirale ; che il ſucco pancreatico di 1 1 1 2 0 1.111 DelSigLionardo
diCapoa. 449 ſangue , edi ſpiriti animali dentro al pancrea s'ingenere quindi
agli inteſtini per la celebre 'doccia del Virfungio diſcorra ; chela collera ſi
formi di ſangue dentro alla ve ſcica del fiele ; e che ſia ella abbondevole
aſſai diſale ama ro , e volante , e comee'dice, liffiviale , da poča acqua foo
Luto : in cui alquanto d'olio, e di volante ſpirito anche s'av viſi; che la
flemma ſi crii della ſaliva , la qualdegli ſpiriti animali , e della più ſalda
, e tenace parte del ſangue com pofta , dalle glandole delle maſcelle per le
docce , che falia vali diconft, alla bocca trapeli , e continuo tranghiorten
doſi dentro allo ſtomaco diſcenda : e quivi le ſue tuniches ainmorbidando
digeſtiſca i cibi; quindiallinteſtino fottilc pianamente trapelando ivi
s'accolga,c per la più gran par te dimori . Venir la flemma di molta acqua, e
di poco fpi rito aceroſo , e volante se dipochiſſimo olio, e ſale lillavia le
compoſta ; perchèin quella una gran virtù formentantea ritrovarſi; il ſucco
pancreatico ingenerarſi degli ſpiriti ani mali, e del ſanguenel pancrea: e che
fia eglialquanto ace toſo : ne dalla flemmadiffomigliante , ſe non ſe più alqua
to ſottile ; che ſi tragittiegli perlo canal del Virſungio al fotcile inteſtino
, la dovenel meſcolarſi ch'egli fa colla collera , perla contraria diſpoſizione
dell'amaro di quella , edell'acetofodi eſſo,a riſvegliàr fi venga un cotal
bollimé to , per lo quale la parte più groſſa , e limacciola ſi ſeparije queſta
giù per gl'inteſtini s'avvalli : e quella per le venes lattce diſcorrendo al
cuore aggiugna ; e la flemma anco ra nel fuo ribolliméto fi ſolva: e che la
parte ſua più diſcor rente , e ſottile inſieme colla maggior parte della
collora, e del fucco pancreatico traſcorrano parimente al cuore : ove la
fermezza, e’lcompimento deano al ſangue; e'l lor rima nente diſcendendo giù per
gl’inteſtini groili , e alle fecces! meſcolandoſi , quelle maggiormente
colorate , e tenaci ré. dere , Cosìavendo formato con queſti tre ſoli umori il
fi ftema tutto della ſua medicina il Silvio , dal guaſtamento, e perturbazione
di effi vuol , che tutte le febbri dirivino ; concioſliecoſachè ritrovandoſi
talvolta per qualche cagio ne il pancrea oppilaco , quivi il pancreatico fucco
oltre all' LII uſa : 450 RagionamentoSefto ùfaço dimorando , maggiormente
acetoſo divenga , e mor: dace ; perchè egli poi faccia negl'inteſtini un
bollimento grande, c ſtrabocchevole aſſai più dell'uſato : e naſcerne la febbre
, qualdicono intermittente . E ſe quella parte della collora , della flemma , c
del ſucco pancreatico , la quale al cuor ſi tragetta , non ſia ben condizionata,
ella nel deltro ventricolo di quello un'altro diverſo ribolliméto riſ veglj , e
le contine febbri cagioni . Ma troppo lungo fa rebbe il voler qui raccontare
comedal rimeſcolamento di tutti , e tre queſtiumori vuole il Silvio , che
ciafcuna maa , lattia ne*corpi umani s'ingeneri. Io non ſaprei lo di leggier
narrare quante miſchie, quan te conteſe , eriotte abbia riſvegliate infra'
medici un cosi ftrano ſiſtema , così vivendo il Silvio , come anche dopo ſua
morte ; ma lo diciò non curando al preſente , folamente per quanto a mio
propoſito s'appartiene , dico eſſer vera mente ingegnoſo , claudevoleil
diviſamento del Silvio , e quale appunto a un cotanto valent'huomo conveniya ;
ma perciocchè egli tutto grazioſamente afferma ſenza nium pruova fare delle ſue
ſtranezze farà quello da dircertamēte una ben compoſta novella per tener a bada
con ſue ciarle l'ignoranza del vulgo, e preffo quello accattar titolo di va
lorofo filoſofante ;machi ſpia più addentro , non veggen do comepoffano effer
tali quei tre umori, quali e' glide fcrive , ecome poffano aver poſlanza di
cagionare i bolli menti , e le febbri, e tutt'altre malattie, che egli
racconti, poco certamente a capitale il ciene . Anzi radillime volte nella
flemma, e nel ſucco pancreatico l'acetofità egli avvi far ſi puore; ſenzachè
nel pancrea non ſi è giammai per al cuno acetofità , ne poca , nemolta
avvifara: e pure dovreb be ad ognora quella trovarviſi, le nel Pancrea
s’ingeneraf fe , e s'accoglieffe veramenteil fucco acetofo ; perchè ra de volte
ancora quel bollimento , ch'egli immagina ,negli inteſtini da quelli riſvegliar
puoſli ; anzi è egli imposſibi le , che per l'acetoſità il bollimento avvegna :
ficome per pruova veggiamo , che il liquor del fiele collo ſpirito del
vitriolo, o delſale , o con altro acetoſo umore meſcolato ri bolla: DelSig.
Lionardodi Capoa 451 bolla : che che in contrario fi dica Olaaldo Crollio , da
cui peravventura ciò apparò il Silvio : il qual contendendo co tro la manifeſta
ſperienza , ne vuol dare adivedere , chelo ſpirito del vitriolo a ſtomaco ,
cheabboudi in collera ,bol Jimento cagioni. Maſenza fallo egli di gran lunga
s'aggi , 1.3 il Silvio a dir , che gli ſpiriti animali ſiano aceroſi ; per
ciocchè, fe ciò foffe , inervicontinudrattratti , e in malei Itato ne ſarebbono
: ſappicndo ben ciaſcuno , che l'acctori tà , ſicomc (triguente , e lazza, e
pugnereccia , a’nerviol tremodo contraria , e nimica fia . Ma chela ſaliva allo
ſmaltimento de'cibinelnostro ſton macobaltevol fia , comechè ella pur gli ſia
diqualche gio vamento , chiunque al maraviglioſo artificio del digeſtimé. to
non abbia poſtomente, potrà folamente crederlo . E ſopra tutto è da
maravigliare di ciò ch'e dice delle febbri intermittenti ; perciocchè ſe quelle
dall'acetofità fi cagionalſero, ſenza dubbiogl'Ipocondriaciad ognorafi vch
drebbono , e terzane , e quartane patire; poichè in loro fo pra tutti il ſucco
delPancrea , ficome anche il medeſimo Silvio confefla , oltremodo acetoſo
s'avviſa . Ma riſerbando a più agiato tempo sifatte conſiderazio ni : ciò che
toglie maggiormente l'eſſere razionalmedico al Silvio , e'l fiſtemadilui manda
a terra , fiè , che egli trasa dando le fondamenta , a niuna cura prende
l'inveſtigar la natura di quelle prime ſoſtanze de Chimici, ſule quali egli
fonda la fua medicina. Mache che Gadella ſua filoſofia , il modo certamente del
ſuo medicare , comechèpovero , e manchevole degli arcani dell'Elmonte , e del
Paracelſo , non poco dee effer commendato ; perciocchè egli usò le
volgarichimicheme. dicine , e masſimamente l'alloppiate connon ordinaria fe
licità ,, e pregiodel ſuo nome ; fe non ſe quanto egli preſtò alle purgagioni
troppa credenza : ele pole talora in opera , ove in tutto , e pertutto
diſconvenivano : avvegnachè pur guardingo, e ritrofo alquantoegli ſtato ne
foſſe . E come chè cgli dicoloro , che così volonteroſi ſono a ſegnare, só
mamente ſi biaſimaffe, non però di meno per non dipartir LIT 2 ſi dall' 452 3.
Ragionamento Sesto folo può contrariare almale . Oltre a queſto la formentl
fidall'uſo comune , andò a bello ſtudio accattando cagioni di ſegnare
ancornelle febbriintermittenti: ove egli affer ma non aver luogo niuno il
fataſlo.Immagina poi egli , che faccia luogo il ſegnare nelle febbri
finoche,acciocchèilsā gue ſtrabocchevolmente radificato non rompa i vaſi ,o fac
cia qualche altro gran male ; non avviſando , che con altri ficuriargomenti ,
quandociòpur s'aveſſea temere , dar vi fi può compenſo , ſenza tor via , col
trar ſangue, ciò che zione,tutto che grande, nel fangue,non li dee con
-iſpogliar lo della ſua vital ſoſtanza impedire, poichè per quella ſteſ ſa
formentazione, grande eccitandoſi , o fenfibile , o inſen fibile vacủazione ,
fi difcaccian fuori del corpo le cagioni delle malattie , il che s'impediſce
certamente col ſegnare. Dopo il Silvio ,mi ſi fa davanti Lazaro Meffonieri, il
qua le troppo libero , coltre alconvenevole ardito , imprende a determinar
delle più ardue', epiù ripoſte quiſtioni, di cui piatiſfer mai con lungo ſtudio
ifilolofanti . Primieramente egli ſtabiliſce effer principidelle coſe il
mercurio , il fales , e'l folfo , e dice quefti , licome in cotante arche , o
matrici contenerſi negli elementi ; i quali ſecondo l'avviſo di lui, fon
quattro :cioè il fuoco, efficiente cagion di tutte altre coſe , in cui niun
principio egli v'alloga ; l'aere , in cui ri fiede il mercurio ;l'acqua , ove
ſtanzia il fale ; e la terra in cui dimora il ſolfo . Il fuoco ond'ogni altro
elemental mo to deriva , vien dal folto ajutato , ed eccitato dal mercu rio ; e
ſue proprietà ſono il dar movimento al mercurio , il riſplendere , il
riſcaldare , l'attrarre a fc le cofe oleaginoſe, e Peſſere attutato dall'acqua
; l'aria colfuo mercurio fa fare a ſegno il fuoco ; il mercurio è un certo
ſpirito aeree , il qual coagula l'acqua , e'l fal volante rappiglia , e che afo
fai bene col fuo ſal fiſſo s’uniſce ,ed al ſolfo cótraſta .Dimo ra ilmercurio
ne'luoghi piùdalle vie del ſole rimoti, fico me ſono amendue i poli;l'acqua
tiene una ftrettiſſima ami, ſtà col ſale , e nimiſtà grande allo incontro poi
colſolfo . La terra opprimeilfuoco, e quanto ella è del ſolfo amica,
altrettanto ſi moſtra nimica del fale . Indi Del Sig.Lionardo di Capod . 453 ,
0 Indideltemperamento il Meſonieri vegnendo a favel lare , così ne divifa : il
temperamento è un'armonia delles quattro prime qualità, avvegnente dalmeſcolamento
de gli clementi, e de’naturali principj:( Delle qualità , che gli elementi
compongono , due ne ſono attive , e due paſſive: attive ſono il calore , e la
freddezza , paflive l'umidità , e la ſiccità . Tre coſe vihan nell'univerſo
manifeſtamente calde , il ſole nelmondo celeſte , il fuoco nel mondo ele,
mentale , e lo ſpirito vitale nelmondo animale , e tre allo incontro
manifeſtamente fredde , la Luna , il mercurio , lo ſpirito animale . Alcune
ſtelle divantaggio vi han nelmo do celeſte ,dilornatura calde , e altre freddo
, ma occulta mente ; e altresì nel mondo elementale altre coſe calde fredde ,
macelatamente , o accidentalmente ſi trovano : umidifſime ſoſtanze fon da per
ſe l'acqua, e l'olio ; ſecchiſ fime la terra , e'l fale . Maicorpimiſti divengono
umidi,o ſecchi , allor che conalcuna delle già dette coſe 's accop piano . Le
ſeconde qualità daglielementi, e da principi naturali variamente fra eſfo loro
meſcolati dirivano . I 12 pori ditutte coſe naſcon dal ſale, gli odori dal
folfo , lam durezza dalla terra , e dal fale : la mollezza , e tenerezza ,
dall'acqua. Ed ecco in brevei lunghi diviſamenti del Mel fonieri
ridotti:ne'quali egli nel vero indarno tenta diridur re in un corpo folo ,
membra cotanto fra effo lor diſcorda ti, che non poffono a niuna guiſa
acconciarfi. E quinci ſcorger puoli, che quantunque egli molto ſtelle in fu
l'av vifo pernon laſciarſi trarre, e cader col yulgo de filoſofan ti in errore;
pur nondimeno non potè affatto obliar le ſcon ce , e falſe opinioni , che
cotanto tempo han tenuto maga gnate le ſcuole; le quali ' , come faggiamente,il
Verulamio avviſa : Elementorum commentum , quod avide à medicis acceptum ,
quatuor complexionum , quatuor humorum, qua juor primarum qualitatum
conjugationes poft fe traxit , tan quam malignum aliquod , infauftum fidus
infinitam , & medicine ,nec non compluribus mechanicis rebusfterilitatem
attuliſje, Maciò che egli poivi aggiugne del ſuo il Meſfonieri, in tut 454
Ragionamento Sefto curto ,e pertutto inverigmile fembri ; ficomcè il dir; che il
mercurio freddiffima, emobiliffimafortazaſi ſia ;e che ſte colà ne paeſi al
polo vicinijed alorcedaltre sì fatte fanfalu che', che lo non mi do briga
diriferire , per non logorare fuor di propoſito il tempo . Mada tanti , e sì
varj,e sìftra ni ſuoi arzigogoli, nonmai vien fatto alMeſfooieri di co glier
coſa che vaglia a dar ragione di quelle apparenze,ché tutto dì nel grande, e
nel picciolo li fan vedere.i ': Vuole oltre a queſto il Meffonieri, che di
tutte l'azioni del noſtro corpo ſien cagione gli ſpiriti animali, e vitali; lo
fpirito animale, dic'egli,è della natura del mercurio , aereos freddiffimo , e
dalcervello perlinervi, e perle membrane penetra, e fa il ſentimento , ed
ogn'altra azione animales; fi nutriſce della ſalſa , e acquola parte del ſangue
; lo ſpiri to vitale è della natura del fuoco, ed egli è il primo a muo vere ,
e a far impeto nel corpo, e a ſuegliar lo ſpirito anima lé , il quale da per
ſeimmobile,e privo di ſentimento farebo be ; tragittaſi dal cuore perle vene ,
e per le arterie infieme col ſangue, e forma i dibattimenti de'polli.
Nell'uniones d'amendue queſti ſpiriti conſiſte la vita dell'huomo, e nella
ſeparazione, perlo coptrário ,la morte . Maconcedaſi, che dal ver lontano non
ſia ciò, che divi ſa il Meffonieri,vorrei fapere, onde argomenti egli eſſere lo
ſpirito animale freddiffimo, ed immobile, e participar del la natura di quel
mercurio aereo da lui ſognato , e paſcerfin. enudricarſi del fale foluto
dall'acquoſa parte del ſangue ; e come parimenté egli provar poſſa aver lo ſpirito
vitale na tura di fuoco , e dar lui il moto , e'l vigore allo ſpirito ani male
. Ma formentandoſi continuo il ſangue nel corpo dell'huomo , e comunicando egli
ſempremai più , ome no calore a cucce le parti delcorpo , come , e dove por trà
mai l'animale ípirito olcremodo freddo , e inmo bile ingenerarſi ? Coavien
parimcnte poi , che'l Mcf ſonieri ci additi il modo , col quale s’uniſcano
fralo ro , el diſuniſcano si farciſpiriti ; e altresì , che ſaper egli cifaccia
, onde avvenga ,che'l caldo eſtremo dello ſpirito yitale non difrugga, e
diſlipi lo ſpirito animale ; ccoine al lo in DelSig. Lionardo di Capoa. 455 lo
incontro l'ecceſſivo freddo dello ſpirito animale non am morzi , ed eſtingua lo
ſpirito vitale . Laſcio di narrare,quanto il Meffonieri nell'aſſegnare gli
uficj alle parti del corpo umano , vada ſovente errato ; e quanto egli poco
felicemente lt vaglia (non riconoſcendo Je tali ) d'alcune falſe opinioni di
Galieno ; ma accennerò fol tanto ciò che follemente va diviſando dietro allo in
generarſi delle malattie: dicendo , che qualor l'azione dell' animale , o del
vitale ſpirito ſia impedita , gli huominiven gano damaloritravagliati ; sì che
le malattie propriamen te favellando fien tutte negli ſpiriti, e meno
propriamente poi negli humori, e nelle altre parti delcorpo ; e la cura delle
malattie tutte in altro non conſiſtere , ſalvo che in tor via quelle cofe , che
impediſcono l'azioni degli ſpiriti je conchiuder , che tutto ciò con cinque
generazioni ſole di medicamenti fare agevolmente ſi poſſa. Ma a queſti , cad
altri diviſamenti, ch'egli poſcia produ ce in mezzo in facendo parole delle
particolari malattie,no fa certamente luogo d'argomenti per moſtrargli fall .
Fi, nalmente la maniera delmedicare del Meſfonieriaſſai roz za nel vero , e
materiale effer ſi vede . Ma poichè da uno in un altro ſiſtema paſſando fin quì
lią giunti lo non voglio trafandar tacitaméte Franceſco Mea. ra celebre
medicante nell'Ibernia . Fu coſtui della ſchiera deGalieniſtiin prima : ma
avviſando egli poi quanto all'o pera del medicinare mal veniffero ad huopo le
vane ciance di Galieno , impreſe a metter fuori un'altro ſiſtema di ra zional
medicina ; nel quale egli fu tutto inteſo ad accozza. re inſieme le dottrine di
Galieno con quelle di Paracelſo, in quella ftrana guiſa appunto , che pittor
farebbe, ſe mai te Ita umana fopra un collo di cavallo tutto coperto di penne
di varj, augelli e dipigner voleſſe . Forte egli rimproccia tutti coloro che
ichimici principj ofano dinegare: cô que fte parole . Et miror profecto qua
fronte quiſquam experien tia Scientia omnis , & cognitionis inventrici)
repugnare prefumat , nifi pro ratione fufficiat , multos pudere , cos pige me
quiequam denovo admittere , quod confirmat& eorum upi niuni 456
Ragionamento Sefto nioni adverfetur , à quo ne látum quidem unguem recedere
Suftinent , ne prius non recte fapuille videantur: multos taria ta cum
fatuitate , ne dicam Idololatria, Hippocratem , Ari ftotelem ; aGalenum
venerari videas ,utquicquid ab illis non dictum , non dicendum , quicquid
abillis incognitum , no cognofcendum putent; e molto appreffo fi briga in
moſtrar , che in natura v'abbiano sì fatti principj; sì veramente però, che non
debba a crederſi , che ſian primi ; imperocchèegli vuole , che della materia
,della forma, e della privazione i quattro elementiſi formino , c'di queſti
facciali il ſale , il ſolfo , e'l mercurio , che ſon terzi principi; i quali
finalmél te col vario accozzamento loro , quanto v'hanell'univerſo coinpongano
, Ed ecco , ſecondo lui , onde formanſi le parti ſalde, e di. ſcorrenti del
corpo umano: e particolarmēte i quattro umo ri di Galieno ; ne’quali , allor ,
che il ſale , il ſolfo, e'l mer curio ſtan così bene adattati , che non vengano
fra ello lo ro a tetizone , n'avviene la ſanità , e per contrario lemalat tie .
Diviſa egli , ſecondo l'avviſo dechimici, lungamente de'ſali ; dicendo , che
altri ſe ne ravviſano nella flenna ſas lata , come è il fal comune , e'l
ſalgemma; altri nella flem ma acetofa , e in cerca fpecie di malinconia
parimente acç. tofa , come è il ſale armoniaco ; e così ancora diſcorre ra
gionando degli altri ſali , che ſono negli altri umori . Vna sì fatta dottrina
fu introdotta primieramente nelle fcuole per alcuni ſeguaci del
Paracelſo;immaginado eglino con ciòfare ,che celtaſſero le perſecuzioni chelor
faceano i Galieniſtis ma lor non venne fatto il diſegno ; anzi , come in tute
gare civili avvenir ſuole, cui non voglia ad alcuna delle fazioni attenerſi,
eglino divennero d'ambedue le par ti nimici ; e come alga , o ondamarina , che
da'contrarjvé . ti ſia , or quinci , orquindi agitati, così l'opinioni di coſto
ro furono da'Paraceláſti, e daGalieniſticótraſtate . Il per chè anche noi ſenza
quì intertenerci immaginamo, che da quel , che di Galieno , e di Paracelſo
addietro abbiam di: viſato , rimanga ilſiſtema del Meara baſtantemente impu
gnato ; imperocchè, ſe ne con gli elementi , ne co’principi chi Del
Sig.Lionardo di Capoa 457 1 1 chimici poſſono i varj avvenimenti del corpo
umano fpię garfi : di ſeguente è da dir , che ove ancor vero foſſe (il che non
potrebbe a niun modo concederſi)che i princpj chimi ci daglielementi ſi
formino, ne men coſa , che monti una frullo Gi farebbe mai a pro della medicina
ſcoperta. Quanto nocimto recar poſſa a ben filoſofare il non eſser l'huomo'da
prima indirizzato per diritta via , il ci fa mani feftaméte vedere Frāceſco
Gliſſonio ;il quale comechè d'ala tiffimo intendimento fornito , e nella
notomia , e in alte cofe alla medicina appartenenti oltremodo avanzato fi foſ:
fe ; impertanto non ſeppe egli sì , e tanco ſchivare le ſcom ee opinioni nella
gioventù appreſe , che intriſo alquanto, e guaſto non ne rimaneſle. E ben ne
diè egli manifcfti ſegni nel ſuo ſiſtema di razional medicina , allor che
veriſſimo giudicando il diviſamétode'Chimici dictro a’principj del le coſe naturali
,vuol , che il mercurio , o ſia lo ſpirito , e l'olio , c'l ſale , ela flemma ,
e'l capo morto , o terra dan nata fian l’ultime particelle, nelle quali le coſe
o per ingen gno , o per induſtria umana folver li poſſano. Ma dicia avendo lo
altrovci miei ſentimenti paleſati, qon fa luogo al preſente , che lo di
vantaggio ncragioni. Credeegli accordar queſte cinque ſoltanze con gli ele
menti d'Ariftotele, dicendo l'elemento del fuoco allo ſpiri to riſpondere , e
quello dell'aria all'olio , e quel dell'acquz alla flemma , a quel della terra
alla terra dannata, e allale. Ma in buona fe ,Signori ,chi non avviſa , che'l
fuoco non abbia punto che fare col mercurio il quale comechè foco siliflimo ſia
, e che le particelle , che'l compongono lian , piccioliffime', nonſono però
elle tali, che tutte quelle ope razioni, chedalfuoco naſcer veggiamo, adoperar
poſla ao . E ne men certamente l'olio potrà mai quella attegné. za coll'aria
avere , la qual peravventura immagina il Glif fonio ; perciocchè l'aria ,
comechè diſcorrevole , c vagas oltremodo ſia , non è perciò umida, ne ad
accenderſi,o bru , ciare acconcia , Ma avvegnachè l'acqua alla flemma ſia pure
in qualche parte conforme: che compenſo prenderà egli il Gliſſonio a voler duc
diverſillims cofs , quali ſono il Mmm file, 1 4384 Ragionamento Seſto . slaai
Cáte jela terra dannata , porre d'accorto , e far ch'una coſt fola , e un ſolo
elemento elle fiano E fe pur v'ha infra loro qualche attegnenza , nondimeno
fallò egli no poco Ari ſtotele a porre quattro , e non più toſto cinque
elementi, e principj delle coſe ; perchè ſcompigliata', e ſconvolta ner diviene
oltremodo la filoſofia d'Ariftotcle : la qual folle mente il Gliſſonio con
quella del Paracelſo ſi ſtudia di ri conciare . Ma ſufficienti non parendo si
fatti principj al Gliſſonio a falvar l'apparenze della natura, egli in luogo di
ſpiar ſottile mente,ſicome far doveva,i vcri principj onde fiicópongono quelli
, al Paracello , e all'Elmonte per dappocaggine ſi ri fugge, e togliendo da
foro ciò , cheeſli degli Archei mil lantando dicono : e giugnédovi di vantaggio
molte altres fraſche del ſuo , ſcioccamente con si fatti ripari di riſtorar la
ſua cadente Gloſofia s'argomenta : dandone apertamente a divedere con quanto
poco ſenno imbolato egli aveſſe il piggior di que’libri di que'valent
huomini','tralandando d ? altra parte coranti buoni , e pregiatiſſimi
diviſamemi , chę coloro in altre coſe,e fpezialmente intorno alla via da do ver
curar gl'infermi han laſciati Almondo , che giacea pien d'alto errore.".
Dice adunque il Gliffonio eſſer l'Archeo un cotale ſpi rito reggicore , il qual
negli ſpiriti di qualunque coſa,il.ca lor vitale , e attuale riſvegli: e muova,
e rilievi tutte le cor loro facoltà natūrali : e altri ſoſtegna : e ciaſcuna
natural parte dal corrompimento difenda : tenendola buona fperā. zagli fpiriti
, iquali egli in feſta , e lietamente fa vivere . Quindi il Gliffonio le varie
generazioni degli Archei di ftintamente va rapportando , ein prima quella
dell'Archeo dell'uovo»; il qual primieramente eglidice , che habbia lo fpirito
ſuo innato, il quale a tutt'altri elementi dell'uovo fi gnoreggi ; e oltre a
ciò contenga ancora , ma ſol virtualmé te l'infiuffo vitale , e animale , e che
fia ancora delle tre prime facoltà naturali fornito, le quali egli percipientes,
appetente, e movente chiama , da una ſpezial diſpoſizione circonſcricte , c
terminate . La facoltà percipiente , dicu , egli, DelSig :Lionardo diCapoa. 459
egli , che l'Idea dell'uovo , e quella ancor dell'animale dam ingenerarhi, o
della pianta in ſe comprenda; imperciocchè l'Archeodi quelli , non ſolamente
ſemedeſimo,e gli effer, ti , i quali egli può produrre , conoſce; ma l'idea
ancora dell'animale, o della pianta ravviſa ; ſappiendo oltre a ciò il modo'
ancora , e l'ordineditutta ſua formazione, e qual fa tempo acconcio a mandır
avanti le ſue operazioni. La diſpoſizione della facoltà appetente compréde in
ſe l'amor della natura rappreſentata per l'idea ,e una cotal brama di quella
limitata , sìche ſoſpeſa reſti laſua potenza infino al sempo opportuno . E
ultimamente, la diſpoſizione della faç coltà movēte porta con ſçco la ſua virtù
formatrice, euna tanta operazione valevole , e acconcia , maches'indugi
all'opportunità dell'attualeformentazione. Oltre a ciò vuole egli , che
l'Archeo nell'uovo anche dopo l'eſſer fuoriquello uſcito dall'ovaja,ligato
alquáto ję pigro nerimanga ; perciocchè le ſenza il conſiglio della chioccią ,
o d'altro ſomigliante ajuto la formentazion dello animale rentaſſc , ad
infelice fine ogniſuo ſtudio riuſcireb be . Quindi egli alquante propoſizioni
pertinenti alla na. tura di quello va ſpiegando, facendoſi a credere ſe averba
ftantemente ogni ſuo diviſamento ſpiegato per gli avvifi dell'ingegnoſo
Malpighinell'uovo. L'Archeo, dice egli,di tutto il corpo già formato è di tre maniere:
naturale , vita le , e animale ; il primo in due ſole coſe è differente da quel
ch'egli è già ſtato nell'uovo : l'una fiè , che egli in quello avca già
ſolamente la forza d'operare: e poi nel corpo for mato, in atto già opera ; e
l'altra ſi è, che al preſente egli in un caſamento già fabbricato abita , e
dimora : al quale in , acto egli fignoreggia . Ha cgli due miniſtri
generaliſciò for no l'Archeo vitale, e l'Archeo animale ; e oltre a coſtoro di
diverfi altri particolari miniſtri egli è fornito , quali ſono ſenza dubbio gli
Archei del fegato , de’polmoni, del ven tricolo , della matrice , e d'altre
parti del corpo a qualche uficio dalla natura dell'animal ſorteggiate .
L'Archeo vi tale , licoine il ſole è di tutto ciò, che la terra produce prin çipal
cagione , così eglią tutte parti del corpo l'effetto iq Mmm 2 flui 460
Ragionamento Sejto fluiſce , comechè da le ſolo niuna coſa egli ſpecificar
polfa. L'Archeo animale agli ſpiriti animali tutti è ſopraftante , i quali nel
ſucco nutritivo abitano , e dimorano. E dalla perturbazione , e rimeſcolamento
di coteſti Archei vuole egli , chele malattie tutte ne avvengano . Ma egli
ſarebbe un logorar vanamente le parole , ſe fil filo annoverarc Io vorrei i
diviſamenti tutti del Gliffonio intorno agli Archei . Dirò ſolamente apparer
manifeſto , ch'egli in luogo di ſpiegar , ſicome egli intende, la natura degli
Archei, il che traſandato a ſtudio venne dall’Elmon te , vie più oſcura , e
inviluppata la rende . E doveva pure cgli avviſare , che di quelle cofe , che nonci
ſono , ne eſſer poſſono , quantomaggiormente ſe ne favella , tanto men ſe i
nedice ;ne ſi può ſenza maraviglia conſiderare, come uns sì ſottile, e avveduto
notomiſta, qualſenza fallo ſi è il Glif ſonio , eſſendoſi ſottilmente
argomentato d'inveſtigar con fua fatica anche le più merome bazzecole da altri
poco curate , foffe poi sì vocolo , e traſcurato in ciò , che folle mente
ammannare aveſſe potuto cotante ciuffole,e giunte rie , non meno a' ſentimenti,
che alla ragion lontane. Ma non tanto del Gliffonio , quanto di tutti quali i
va Ient huominiun tal fallo ſi è ſtato ; i qualiper aver più mi nutamente le
maraviglioſe operazioni della naturaavviſa tc , diffidando per for manchezza
d'inveſtirne le cagioni corporali, e far che da quelle tutte dipender poteffero
,fi rifuggirono a sì fatte fraîche , e ne compoſero cagioni fia tc , e
favoloſe, onde natura . Diſdegnofa fen 'duole, e fene'ricbiama. Maſopra tutti
in ciò è certamente da biaſimare il fallo del Gliffonio ; il qual
manifeſtamente affermando , fe cfſer pago , e contento a ' principj chimici , e
a que primicorpi , che coloro chiamano componenti , avvegnachè egli con felli
poterſi più olere coll'intendimento procedere traſcor : se egli poi
ſconciamente a favolar degli Archei , e sicon fondere , e invituppar la fua
filoſofia con arzigogoli, non men vani , e ridevoli di quelli de'folleggianti
peripatetici Ma DelSig.Lionardo di Capoa 401 Ma che è ciò , ch'egli dice
de’pori di noitra buccia,negan do affatto quegli eſſerci mai ? c pur dice egli,
che perquel la ſottiliſſimeloftanze fuor del noſtro corpo continuo tra pelino .
La qual coſa nel vero cotanto ridevole fiè, quan to le pruove ancora ridevoli
ſi ſono , leqnali egli ſciocca mente a ciò raffermar va cogliendo . Ma chi non
iſmaſcel berebbe delle riſa in avviſare i forciliſfimi argomenti , co' quali ſi
ſtudia , e s’affatica il Voffio giovane di fare in ciò le fue parti ? Tralaſcio
a bello ſtudio , comeche aſſai vi ſarebbe da di re , ciò che egliintorno alle
maniere di ſeparar le parti de corpimiſti ragiona · Solamente accennerò quanto
egli di que’ſcioglimenti diviſa , i quali , ficome egli dice, avvengo no per
congregationem , vel attractionem magneticam , fi ve fimilarem . E in prima va
egli rapportando quelcomun proverbio: che'l ſomigliáte del ſuo fomigliante
goduzquint di egli loggiugne , che ſicome gli animali dilettanli oltre modo di
quelli della tor generazionc, così anche eſſer ra gionevole ad argomentardelle
coſe, che nonabbiano ani ma; imperciocchè ciafcuna coſa del mondo per narurat
tz Jento la confervazion di se difidera,la quale da’ſomiglianti avviene : e
fugge il ſuo diſtruggimento', il quale per li ſuoi contrarj le incontra .
Finalmente cglicoichiude: ex dictis conftat , quod per attractionem fimilarem ,
five magneticam intelligam.nempe alle &tationem , five incitamentum , quo
cora pus naturale ad aliud fui fimile fertur. Ma qual coſa in buona fe più
ſciocca, e ridevole può per travolto , e ſcempiatocervello immaginarfi
giammaisquí to queſta del Gliffonio , il quale a cutte inſenſate foſtanze il conofcimento
, e'l poterf a fua balìa muovere actribui ſce ? certamente fe di baona ragione
voleva egli filoſofare, dovea pure avvifare ,che le cofe , che ſtanchete , e
fenzów movimento , ſe già non fono animate, tali ſempre fe ne ſtao no , infin
che per urto da altricorpi tocche, e fofpinte di fuo luogo non partano .Eſe non
piace pure al Gliſſonio ciò , che naturalmente filoſofando ragionan que'
valent' huomini , de qualiegli l'opinion rapporsa incorno all'an dar 402
Ragionamento Sefto 1 ! 1 1 i 1 dar del ferro alla calamita , doyea ben egli
alcra più ragio nevol inaniera inveſtigare , onde ciò ayviene . Ma direbbő per
avventura coloro iquali follemente avviſa il Gliſſonio aver con ſue ragioni
abbattuti, infra l'altre coſe eller nella calamita una tale ordinanza di pori
dirittamente dall'aſſe , il qual dicon magnetico , del quale eſcan continuo
fuora particelle ſottiliſſime , e ſpiritali aſſai: e che ſian nel ferro i pori
pieni di particellemagnetiche travoltę infra loro , inviluppate per maniera,
che entrandovi le ſottiligime para ticelle fpiritali , che efcon fuora della
calamita , faccian , l'uficio della formentazione riſvegliando in quelle il
movi mento ; le quali poi movendo verſo il polo magnetico, dis rizzino , ci
fianchidel ferro forte percuotano : e sì quello co’loro colpi innanzi {pingano
; ma nella calamita -ancora farſi un cotal rimeſcolamento di particelle
ſpiritali , le qua. li urtano in eſſa , e ancor la ſpingono intanto ,
chevicende volmente incontro moyendo dagl' innumerabili corpice ciuoli d'entro
ſoſpinti, corrano a cozzarſi. Ne ciò deves punto recár maraviglia , che la
calamita ancorada ſua parte fi muoya , comeche più tarda, e lenta i perciocchè
ſe nel acqua il ferro , e la calamita ſi pongano,da qualche legno o altrá
ſomigliante leggiera ſoſtanza ſoſtenuti , intanto che ſopránocanti poſſano
andarea gall.2 , ſcorgefi toſto il ferro notar verſo la calamita , e la
calamita d'altra parte verſo il ferro . E ſe ciò pure non ſoddisfaceſſe al
Gliſſonio a voler cotanta maraviglia ſpiegare , dovrebbeegli in alera, e altra
maniera-la cagione di quella inveſtigare. Maad altro fac cendo paſſaggio, èegli
ſommamente damaravigliar della troppo ſcimunita ſchiettezza del Gliſſonio ;
perciocchè có tro i propjſentimenti talvolta alle comuni opinioni del vul. go
laiciali ſcioccamente traportare : ficome,per tacer d'al tro, manifeſto
avviſaſi in ciò che egli de'quattro volgari umori va ragionando; cioè;che con
util grande della media cina un tal diviſamento rinvenuto foſſe : e che
ragionevol mente damedici feguir debbafi , ficome loro molto pro fittevole , e
acconcio a dover porre in opera le purgagioni, e altre ſorte di votamenti ;
eche Galien d'altri diviſamengi degli DelSig. Lionardodi Capoa 403 1 degli
umori infrămetterſi non volle , ficome poco utili alla medicina. Madi ciò egli
toſto pētuto dice eſſervi un quin to umore, cioè a dire il ſucco nutricāte , il
qual giudica egli effer soinmamente a ſaperſi neceſſario ,no che utile a chibe
neje lodevolmente apparar voglia la medicina; e pure il fuo Galien di quello
nulla ragiona, ne moftra certamente pun to ſaperſene. Ne è vero ciò, che egli
millanta di Galieno, eſſer quello non poco commendevole per avere cotal divi
ſamento da primaritrovato ; concioſliecoſachè poſto che loda pur nedoveſſe
all'inventor ſeguire , certiſſima cofa . ſia , che la dottrina de’quattro umori
molte centinaja d'an ni, anzi che Galien naſceſſe divulgata già foſſe nelle
ſcuo le della medicina . Ma ſe il Gliſſonio intéder vuole di que. gli uinori,
che in varie , e varie parti del corpo fan dimora, non mica già quattro , ne
cinque, ma molti, e molti egli no ſono, de' quali alcuno non ſi è forſe ancora
ſcoverto . Nelle vene, e nelle arterie poi non trovarſi queſti quattro umori,
ſi è moſtro già ; ed i più ſcorti,e celebri fra'Galienia ftimedeſimil'han
conoſciuto . Vn divifamento poi quaľ è quel di Galieno dietro agli umori, che
non ſi da niuna cu . ra d'inveſtigar la natura delle coſe , non ſolamente utile
niuno , ma danno graviſſimo alla medicina ha recato Maquanto al medicare ,
comechè ſcorto molto , eave veduto egli ſi moſtri il Gliffonio in conſiderando
una fiata , che'l trar fangue nella Rachitide niun giovaméto rechi allo
infermo;nonperò di meno non ardiſce eglia riprovare una sì biaſimcvolcoſtuma
dagl'Impirici in Inghilterra , ficome cgli afferma , introdotta . Non propone
egli medicamen to , che volgar non ſia; ne contento d'un ſol medicamento ,
molti e molti inutilmente nemeſcola inſieme non men che gli altri medicanti ſi
facciano ;e in ciò ,per cacer d'altro, da egli manifeſtamente a divedere quanto
mal fornito'lia d'efficaci, e valevoli medicine . E ciò baſti avere al preſen
té del ſiſtema del Gliffonio accennato ; il qual per altro è certamente non
poco da commendare ; maſſimamente per la ſomma, e maraviglioſa diligenza , e
ſollecitudine da lui pſara nelle coſe dellanoromine Ma 464 Ragionamento Sefto
Ma di troppo lungo tempo abbilognerei , fe lo voleli eſaminare i fiſtemi cutti
dellamedicina dell'Ogelande, del Regio, del Moebbio , del Carlettone,
delBartoli , e d'altri ſcrittori . A baſtanza potrà ciaſcuno in leggêdo le loro
ope re da ſe fteſſo accorgerſi, che il più di loro poveri d'intendi mento , e
ſcarſi di partito per quanto facica vi duraſſero ,ra de fiate han potuto dar
paſſo ſenza la ſcorta d'altri ſetteg gianti,l'opinioni de'quali tutto cheda
loroſtravolte,abbia mo noi a ſufficienza conſiderate ,e riandate ; e altri di
loro , fra'quali il Tacchenio ,il Travagino,il Sualve,ilFlúdize'l Fo lio fon
così groſſi , e materiali ne'loro diviſamenti, che non fa huopo ,che ſe ne
abbia a far menzione alcuna particola re : Adunque chiaramente conoſccſi, che
da que primi tempi, che ebbecominciamento la razional medicina lino a giorni
noſtri,per quanta induſtria, e diligenza , che da'fi lolofanti antichi ,
emoderni vi ſi fia adoperata , e per qua te coſe per la morta , e per la vital
notomia liaoſi nelle ani. mali , nelle minerali, e nelle vegetali ſoſtanze
novellamen te ſcoverte , e per quantepruove , e ſperienze da'ſaggi, u avveduti
medicanti in sì lungo proceſſo dicempo nelle cus te delle malattic fieno
adoperace , non ſe n'è potuto giam mai rierar nulla di ſaldo a ſtabilir per
cercano conoſcimer to, e per vera ragione dottrina niuna . Ma non dee ciò re
car maraviglia a cui tanto , o quanto alle ragioni pongas mente ; per le quali
, s’Io pur non vado errato,apercamen-, te conoſceſi quanto ad huom’malagevole ,
anzi impoffibile affatto riefca lo ftabilir luftema alcuno di razionalmedicin
na; e ſe pure dalle preterite.coſe giudicar delli di quelle , che debbono
avvenire, per tanti,e canti, che infelicemente, vi ſon naufragaci non mai ſi
vedrà capitarne a ſalvamento ſeggettante alcuno; e ficome... Chi folca il lido
perde l'opra , e'l tempo, così avverrà certamente a ciaſcun' altro , che
tenterà una ſimile impreſa 3 ne potrafli così nel filolofare in medicina ,
comenell'adoperarla prometter ficuramente d'aggiugnere a ſaper la natura
de'mali,e come, e perchè ne noftri corpi s'ingenerino, e come riparar vi ſi
polia . Anzi, o infeliciflia condizione di noi mortali ! nel continuo ſu
buglio, DelSig.Lionardo di Capoa. 405 buglio , e rimeſcolamento
dellamedicinaper fatica , e di ligenza , che adoperata viſia , chi mai fin'ora
avviſare ha potuto , che coſa ſia un piccioliſſimo catarro , che ne mo- .
leſti? e . venne queſta veritàmolti, e molti ſecoli avanti co noſciuta per
tacerdi Pitagora)da Empedocle ,da Acrone,da altri antichi filoſofáci:e da
Platone, il quale della incertezza della medicina favellado ebbe a dire ήν δε
καλούσε μενΙατζικής βοήθεια δε πε και αύτη χεδόν όσον ώρεψύχα καύμαπ ακαϊρα ,
και πάση τοίς τοιούτοις ληίζονταιτην των ζώον φύσιν , ευδοκιμον δε ουδέν τούτων
είς αφίαντην αληθειάτην άμεσα γαρδόξοις φφάται τοπιζόμα. Venne
altresìconoſciutaqueſta verità, oltre a Seſto Empirico , da Cornelio Celſo
:allorche diſſe della medicina favellando : eft enim bęc ars conjecturalis ,neq
;ei refpondent,non folum có . jecture ſed nec etiã experientię per ; nulla
diredel Cardi- : nal Cuſano, e d'aleri moderni. E a ciò ſenza fallo riguar dádo
i più ſaggi, e ſcienziati popoli della Grecia, quali ve ramente fur gli Acenieſi:
allor che maggiormente in Aten ne fioriva la filoſofia , e le buone letterc ,
traſcurarono la medicina , no facendone niun capitale , come ſi può vede re nel
Pluto d'Ariſtofane Ούκούν ιατρον εισαγωγών έχρήν τινο Tis dñi iarsós ész vũv šv
tñ wóriet ; .. Ούπ γας ο μιθος ουδέν έσ' , ούθ ' η τέχνη . . E dietro agli
Atenieſi anche iRomani; i quali avveduti, c ſagaci in yotar dalla Grecia il
copioſo teſoro di tutte le buone arti , e ſcienze, la medicina ſolamente
d'imprender non curarono ; anzi dice Plinio : Populus Romanus neque 46- ;
cipiendis artibus lentus : medicinæ etiam amicus: donec ex pertam damnavit ; e
dagli Eccleſiaſtici ſcrittori vien anco l'uſo di sì fatto meſtiere ſommamente
abborrito , e danna to; infra'quali il Balſamone Patriarca d'Antiochia così
dela; le manchevolezze di quello avveduto, ne manifeſta: avve-, gnachè la
medicina pur quella veramente fia, che produces © riſerba la ſalute ſecondo lo
intendimento de laggi: non dimeno non può ella al ſuo fine aggiugnere; ed
Arnobio;, Medici curătanimal humi natū , ut confisú fcientia veritate; fed in
arte ſuſpicabilipofitum , conjecturarum eſtimationi bus nutans ; e'l medelimo
ne ſcrive llidoro Pcluſiost : clo Nnn niin 1 406 Ragionamento Sesto
migliantemente con molra vaghezza Stefano Veſcovo di Tornaja : Hippocratisin
ebo Galeni diſcipulos , ut mihi confu lant conſulo : incerta famper ab iis
oracula deportans, qui in vafevitreo coloris, & fubftantiæ peccata
diſcernunt . Perchè 9. Chieſa , come l'apportaro Patriarca Balfamone ne nar
ra,Puro, e'l meſtiet del medicare a fuoi Cherici interdiſſe : adunque , egli
dice , non è certamente ragionevole , che il Sacerdote , oʻI Diacono , o altro
qualunque Cherico tra fcurando un minifterio irrepréfibile, che già impreſe y
oraw s'impieghi ad er meſtice mutevole, edubbioſo , e alfai fo vente fallace .
E S. Bernardo volle, chei fuoi MonacidiS. Naftagia nelle loro malattie non fi
ſerviſler: punto de' me dici ; al che riguardando per avventura Franceſco
Petrarca huom di ſaldo, e intero giudicio,ſcrivédo a un ſuo amicogli diede
queſto ſalutevol conſiglio : Nulla eft rectior ad falute via ,quă medico
caruifje . E certamente, molto ben per mio avviſo venne conoſciuto al Petrarca
,quel che dopo lui avvi sò l'avvedutiſſimo Franceſco Berni , 2.4 . La medicina
como fue erbe , e coſe diri Che fa ? caccia carote a tutti mali ..'.... Infin
che l'huom perſempre fa ripoſe. Queſtofece ella al figlio d'un gran Rede noftri
tempi ; il qualeavvedutofi de vaneggiamentidella medicina , alla fine fece boto
scomedarra Giorgio Orni : Si Deus aliam prolem largiatur , nullo se
ampliusmedico ufurum . E per ciò oltremodo fu ſaggio l'avvifo diquel profodo cd
ampio pelago d'ogni più rara , ed antica doctrina Giuſeppe della Scála, il
quale ricusò ,come narra Daniele Einlio ,ognicoſi glio de'medicāti nell'ultima
fua inferinità ; ptaceredi quel gran filoſofante Franceſe; il qualecoll'altezza
del ſuo inté. dimentoporè montar ſu la vetta del più belſapere; Io di co Michel
diMontagna , che nelle ſue infermità rifiutò sê premai l'operade’medicanti : defichepoſcia
valevoliflime's ragioni e' ci reca ne'ſuoibelliſſimi volumi. Neparmi qui da
dovere trapaſſar lottó filenzio quel convenente di Do menico Sala , celebre
lector di medicina nella famofiffima ſcuola di Padová ; il quale canto non potè
tenerli, che alla fine , un giorno non apriffe a' fuoi fcolári quel che e' del
la Del Sig.LionardadiCapoa. 467 la medicina ſentiva , inqueſta difinizione:
Medicina ef ars * illudendimundum , &à qua totus mundusdelufus eft. La qual
definizione porſe cagione a Rafael Carrara di chiarir, ſi affatto della vanità
d'effa , di tralaſciarne l'eſercizio , e di cantare in quel ſuo giocoſo ſonetto
Ben diſe quel grand'huom lettor primero Nela Città d'Antenore fondata , La
medicina deve eſſer chiamaja Arte da mincbionar il mondo intero. Ma
chealtrondegir richiedendoteſtimonianze di colo ro , che a faccia ſcoverta
abbia la medicina guarata . Non folea Mario Zuccaro (a ciaſcun di noi ben
conoſciuto ) no ſolea , dico , ſovente dire a' ſuoi ſcolari : miferi , ed infer
lici noi , félmondo arrivale a faper maile,debolezze nofire , che ne meno ne
poffiam promettere colla noſtra médicina d'a yere a guarir un picciolo
carbõcello,certamēte chene cõverreh be apparar altro meſtiere ? E quinciè
avvenuto poi,c'huomi ni d'acuto intédiméto , e di ſano giudicio, e di profondo
fą. pere , e di nobil'animo forniti ,pulla abbian curato d’eſer citarla; infra
i quali per tacer.canţi antichi diligenti inve ſtigatoridelle coſe , ſavj
interpetri della natura , ed altri huomini inſigni dc'tempi noftri , lol faro
menzione del no ſtro Col’Antonio Stigliola , riſtoratore della Pitagorica
filoſofia : e di Gio; Alfonſo Borrelli chiaro , ed eccellente in ogni ſcienza .
Anzi quinciè egli avvenuto , che i medeſimi razionali medici,i quali moſtrano
che più diciaſcun'altro tengono a gran capitale la mcdicina , l'abbjan , nel
maggior hyopo mcNain son çalere . Intorno allaqual coſa miricorda d'un medico
infra’più venerandi di queſta noftra Città,ch'eſſen do non ha guari dell'ultimo
ſuo male infermato, e vani veg gédo riųſcire,e ſenza pro gli argométituttidella
ſua medi cina , diſperato alla fine miſeſi in mano d'un famoſo fpe -ziale ; ed
eſſendoſicolui una volta rimaſodi viſitarlo, egli impaziente entro una carrozza
fattoſi, un picciolo in atc raſſo allogare , comepotè il , inen male ; alla
bottega delo ſpeziale andollene a richiamarſi agram ente della graſcura tezza
dilui; cd avendogli par iſcurarſi colui detto : A voi Nnni 2 1012 468
Ragionamento Sefto 4 non fa meſtieri la mia opera , imperocchè quando vi foffe
in grado porreſte avereil Sig. tale ( così un principaliffimo medico
nominandogli, e di'lui amiciſimo) allora tutto crucciato l'infermo ripigliollo
dicendo, io vo'da voi ſola mente effer medicato; e ſareiben folle , ſe volelli
mettere in balia delle ciarle di lui la cura di mia ſalute . E dalla medelima
incertezza della medicina avvien,che P lo più i medici, ſe'l vero
avviſanomolti,e graviſſimi autori Sien così ingorda , e sì crudelcanaglia ;
poichè non potêdo mercè della lor opera promettere alcu na coſa dicerto , abbiſogna
loro , che alle giunterie , e alle frodi abbian ricorſo peraccattar lode,ed
eſtimazione. Ne fon elleno mica nuove le loro aſtuzie : ma fino a'tempi di
Galieno , per tacer de’più antichi , eran ſommamente in vi gore.E cui non è
noto quel celebre diviſamento di Galicno, tolto per la più parte da Ippocrate,
ov'egli mette nella via chi che ſi voglia , acciocchè buon medico divenga: in
que. fta guiſa ? In primad'ogni altra cofa è da diviſar delle viſi tazioni de'
medici ; perciocchè alcuniinfermi rade , e altri ſpeſſe volte deſiderano eſſer
viſitati.Non dec egli il medico ove il malato riposādo dimora étrar facédo
romore co'pie di , ſicome fanno alcuni; o alzando di ſoverchio la voce :
acciocchè ſvegliato colui non abbia a lagnarli , che gli ſia rotto in teſta il
ſonno . Ma i ragionamenti de'medici in al cuni ſono ſciocchi , e ſenza ſenno ,
ſicome per rapporto di Bacchio, d'un cotal Callinatte racconta Zeuſi: il quale
ef fendo da un infermo domandato ,' ſe di ſua malattia morir doveffe , rifpofe
con quelle parole , ει μή σε λητωκαλλίταις γά yato , e ad un altro infermo
ſomigliantemente riſpoſe: Κατθανε και ΠάτροκλG- όπερ στο πολών αμάνων. Morio
Patroclo ancor di tepiù degno. Oltre a queſto dee effer il medico affettatuzzo
della per ſona , e grazioſo in entrando , e in ſedendoſi , acciocchè nó gli
ſiano fatte le ſcherne ; ma non cotanto tronfio , e traco tato , ina
mezzanamente grave , ſe non ſe per avventura amaffe meglio l'infermo vederlo
alquanto modeſto , e umi le , o di ſoverchio altazzoſo . E ſomigliante dobbiam
noi dire de’veſtimenti del medico , i quali ancoramezzanamé te deb 7 Del
Sig.Lionardodi Capaa: 469 te debbono eſſer foggiati, ne cotanto ricchi, e
nobili, che troppo tracorato il dimoftrino : ne cotanto ofcuri , eruſti cani,
che il facciano poco a capital tenere dove egli ufaw ; ſe non ſe ancora agli
infermi, otroppo ornati otroppo vie li piaceffero . Così anchela tonditura
de'capelli eſfer dee a grado degliinferini, i quali egli medica ; perciocchè
ins corte d'Antonino padredi Commodo,ciaſcun famiglio per imitar la coſtuma
dello Imperadore , fino alla cuticagnato , devafi ; perchè Lucio chiamavagli
tutti Mimi; e per con trario i famigli di Lucio lūghe,e belle chiome nudrivano.
I medici ancora aver debbono l'unghie nette , e ben forbice; e fe per avventura
putiffe loro il fiato , o le dicella , o tutta la perſona,a modo di becco ,
fpiacevole odore gittaſſe , fi debbon eglino d'odoriferi unguenti , od’acque
nanfe for nire , prima che ad altri medicar fi preparino . Ma purvoleſſe Iddio
, che queſti, e non altri foſſero i lo ro artificj; eglino di vantaggio
ricorrono alle frodi, alle in vidie , alle maladizionije ed altre illecite
ſtrade, acciocchè fopra gli altri avanzarfi poffano , e maggiormentein pre gio
, e ſtima ſorinontare . Così vedeli , che un medicobia fima ; e danna i
medicamenti dell'altro ; tutto che que'me deſimi ſiano , ch'egli appunto
diviſati n'avrebbe , s’a lui foffe toccata in prima la volta. Al quale , ed
anche pega gior misfatto non vergognoſli Aſclepiade di confortare i fuoi
ſcolari , fe vogliam dar fede a Celio Aureliano che'l rapportascosìdilui
dicendo . Primo etenim invidiosè jubet fi qua ante ipſum medicus adhibuit ,
repudianda . At fi non adbibuerit ,tuncprobanda , tanquamlegitimaputans ut hæc
aliis adhibentibus noceant, ipfomedeantur . Earrab, biato ſeguace &
Afclepiade moſtrolli il famoſo Gabriel Zerbi , allor , cheſcriffe : Medicus
aliorum remedia ne lave det ,utſupra vulgaresfapere videatur ; e l'aſtioſo
Teſſalo fpinſe l'Imperador Nerone a diſpregiar tutt'altri : rabies quadă ,comenarra
Plinio, in omnisævi medicos perorans . E d'un tal medico ne narra il
giuriſconſulto Alfeno : medicus libertus , quod pataret , fi libertiſui
medicinam nonfacerevt, multo plures imperansesſibi habiturum , poftulabat , ut
feques rentur 470. Ragionamento Sefto rentur fet ; netie opus facereni , Ed'un
altro medico narra Calliodoro , che delbarbaro Tiranno Teodorico un sì fat, to
privilegio iinpetraffe : inter faburis magiftros folusbabea, ris eximius :
& omnesjudicio quo cedant , qui fe ambitiones maruzcontentionis.excruciant;
eſto arbiterartis egregie ,e04 rumquediſtingue confli& us , quos judicare
folusfolebat affe Etus. Or li potea penſarmai ſcimunitaggine maggiore di queſto
maeſtro Scimmione? Egli aveva a ſedere a ſcrannaa giudicar le più intratriate
quiftionidella natura, come ſe la medicina forſe arte da mattonar le ſtrade, a
da far bambuc cj ; o comeſemonna Natura ſtata foſſe una maſſaja fante, ſcá,
preſta a ſeguire icomandamenti del Sere . Ne è da die favolofa affatto la
novella di que’medici , che per uggia ze mal talento guaſtarono , e atterrarono
diſpetroſamente ; bagni di Pozzuoli ; e di que'ribaldi ancora , che il mede
fimo ferono alle pregiatiſime acque medicinali della valle d'Anfánto , di cui
ancor vive la famaappreſo que delpae ſe Irpino . Perchè ragionevolmente forte
l'avvedutiſfuno Pietro d'Aponamorde, e sfregia il medico , chiamandolo talora :
Invidie pelagus, derrationis organum , ambitionis perforatam clepſydram ;aliena
veritatis contradictorem gar . rulum , propriæ ignorantia conftantiffimum
defenforem , & inexcufabilem ægrorü neglecturē:c ancor faggiamente avvila
il Magati colà ove fi lagna, che'l ſuo govello modo dime dicare non avrebbe
trovato gran fatto ricevitori: da che no- sébrava di molto pro.aʼmedici,i
qualimzi ſempre fono alla propia utilicà,e al vil guadagno
intefi;foggiugnédocgli: denociniis, atque affentationibus , ut potentium gratia
uti ad queftum poffint, facram medicinam fædare,c libiitfis æter nas infamiæ
notasinurere nihili faciunt . E Giulio Celules della Scala nella fua poetica ,
de’medici parlando : turban, dice, videmus à primis literarü rudimentis
continuo ſe ipſam eo fenomine venditantem , invidam , maledicam ; cbtrecta
tricem ; novam ſpeciem cynicorum yavaram , temulentamus Supinam , ignavam
fimul,asq ; ignaram . E GirolamoCar dano di finiſſimo giudicio ; e più che
altri del meſtier della "incdicina intcndcnte , vuol ; che da eſa
neceflarianente 5 avve Del Sig. Lionardo di Capoa 471 avvegna ,che
taliticnoquei, chefeſercitaiio : medicina ! facit , ſono le ſue parole
,nonreruin memoris , fed verborü :1 callidos y verſatiles ingenio ;inuidos
avaros ; idolofos , las boriofos , non ingeniofos , de minime graves s opus
enim coni rúm , d exercitatio minusquam liberalis eft : e altrove pa rimente de
medici avea detto: funt autem improbi fermèi omnes noftra ætate , adeò ut nihil
pejus excogitari poffit . Perchè gli ftrolaghiallogando la medicina
conſervatrices ſotto labalia del Toro , e di Venere , onde huom fi consi dace,
per quel che eſſi dicono,ad ogni force d'impudicizitz e di diſonore : c la
medicina curativa ſotto quella diMarte, edello Scorpione, fer gran fenno a
dovere sì fatti fregj in veſtire, come ne diviſa il mentóvato Conciliatore ; il
qua-> le ſoggiúgne , chedalle ſtelle medefime , onde venir ſuole l'eccellenza
de’medici nel for meſtiere, vēga anche loro la malvagità de'coſtumi; perchè
finalmente ei conchiude,um", eccellente , e perfetto médico nonpoter
eſfere ſe non fer fcellerato huomo , e malvagio ; ed avvegáachè vani, efol li
fien ſempremai da giudicare i cicaleccj.delfa ftrologia : è nondimenodacredere
, chegl’intendenti dell'arte,ciò cut to a bella poſta fingeffero per adattár le
coſtellazioni a quelle coſe , chetuttogiorno nel meſtier della medicina', e
ne’profeſſori diquella s'offervano's Má chi mai ilmaltalento , e l'uggia
demedicinarrar ba ftantemente potrebbe, e come ſtizzoſamente l'un l'altro
tutt'ora ſi carminano , efimalmenano . Egli è coſa pur manifeſti a ciaſcuno
l'avere gli aſtioſi medicidi Danimarca tracollato dalla grazia del loro Rè it
benigniffimo ,e inge gnofifſimo Ticone della perduta ftronomia famoſiſſimo ri.
ſtoratore , intanto , chegliene fư tolta l'Iſola , e la Rocca d'Vraniburgo , di
cui egli era Signore : e sité tanto mara vigliofe operazioni', é ordignidella
ſtronómia , ele nobi lißime chimiche fucine rovinarono , che appená oggi,non
ſenza lagrime, fe neriſerba la memoria : E l'ombra foldi si gran corpo appare.
Ma ſcelleraggine così grande di tradir nemichevolmente la patria , ſpogliandola
di quello fplendentiffimo lume , non pur 1 472 Ragionamento Seſto $ . pur
delSettentrione,madel mondo tutto , onde foſſe sõi moſſa a commetterla la
cagneſcatabbia di que'ribaldi me dici, da cheIo non potrei ſenza lagrime
narrarlo , dicalo in mia vece Pier Gaſſendi : Erant in his medici quidam , qui videntes
non modo exDania , fed ex regionibus etiam cete ris maximam egrorum turbam ad
Tychonem confugere, cu Spagyrica illiusremedia , quę quibuslibet gratis
largiebatur expertifeliciter , ac morborumetiam valgo habitorum infa nabilium
levamen fentire , livore inſigni cxardefcebant, cu quapotenant apud
quoslibet,procereſquepotisſimum , quibus preftabant operam ,ipfius nomen
traducebant, E o quanti ale tri eſempli della coſtoro invidia rapportar potrei,
ſe non che troppo ne ſarei per andare alla lunga. Apollo crudca liſſimamente
ucciſe il celebre medicante , e , pocta Lino , la qui inorte pianſero eziandio
le genti barbare ; per lo che gli Egizi una flebile canzone ſopra tal
convenente com poſero , appellato in lor lingua Emaneco , ci Greci Lino, la
chiamarono . Ippocrate , comeſcrive Andrea antichiſe funo medico ,
inſidioſamente brụciò la nobile, e ricchiffima Libreria diGnido ; e quindi egli
poi per tcina fuggiſli . A Quinto , medico famofiffimo , dice Galicno , fu
meſtieri gombcrar Roma di prelente, per ceſſarele ribalderic d'al tri medici .
E in Roina pure attoſſicato da’rivali luentura.. tamente moriffi un grandisſimo
medico , come narra Gin lieno , ilquale anco di ſe narra , che egli fieramente
perſe guitato yenne da parteggiantimedici di quel tempo. E per nulla dir quì
delle occulte inſidie , c machinazioni, e delle trappole , e frodi ordinate
dagli Arabi medicanti inverſo Avicenna , Avanzavarre , e Raſi : quai vili
trattamenti nó fi ferono poi a Raimodo Lullio, ad Arnoldo da Villanova , a Pier
d'Abbano , c ad altri molti letterati di vaglia, perli maligni medici di que'
tempi? il dicano pure le fughe, gli elilj, le prigionie ; per tacer delle
ſatire, dell'invettive del le falſità , delle tradigioni, onde que’valent
huomini có punti oltremodo , e travagliati ne vennero; imperocchè di sì fatto
memorie per la tralcutaggine degli ſcrittori di que tempi De Del Sig
.Lionardodi Capod. 473 1 Debil aura di fama appena giugne. E laſciando da parte
ftare, come coſa dinon tanto rilie ? vo , quanto i limiti dell'oneſtade oltre
paſſafle in favellan do, é in iſcrivendo Maeſtro Gio : della Penna , ( chea 'di
ſuoi con aura di grido popolare in queſta noſtra Città eſer citar fi vide la
medicina , contro Maeſtro Frāceſco Zannel li; egli è ben certo , che più d'un
buonno ſcienziato , e il. luſtre trafſe già a fondo l'ardente , e peftifera
invidia di Maeſtro Dino dal Garbo medico Fiorentino . Ma quandº altri , e
quanti nobili e illuſtri medici, oltre al Veſalio a mal partito menòla
velenoſarabbia, e le cupide ambizioſe voglie di meſſer Giacomo Silvio !
collacui eſtrema aya rizia ſcherzando quelgran Poeta Scozzeſe finſe , che ſcola
piti foſſero nella lapida della ſua ſepoltura i ſeguenti verke Sylvius bic
fitus eft , gratis,qui nil dedis unquam , Mortuus , & gratis quod legis
ifta,doles. Ma quali onteper Dio, o quali ingiurienon ſoftenner que!
virtuoſi,che con eſfolui cócorrevano alla cura degl'infermi, dallamaladizione ,
e dall'altezzola , e sfrenata tracotanza delGalieniſta ineffer Frăceſco
Rabalefio così reoze malva gio huomo,che d'accordo col Marotto motteggevol
Poeta egliosò di gittar le prime födaméta dell'ercſia nella Frácia ? e da
Michel Servetto , la cuiempietà era inteſa a rinovellar gli errori di Paolo da
Samoſata , e di Marcello Ancirano : e dall'empia , e ſopraſtante arroganza di
Giorgio Biandra ti , e di Franceſco Stancato pur esli Galieniſti;per opera di
cui ribellando ſi fottraffe alla cattolica fede il giovanetto Principe Giovanni
Sepuſio , e quindi ſen ? vennead infeſtar dell'Arianeſimo colla più parte
dell'Ongaria la nobilisſima Proviácia tutta della Tranſilvania . E che non fe
contro i poverimediciſuoi emoli la barbara fierezza di Giacomo da Carpi; il
quale rinovando la lagrimevol carnificina d'E raſiſtrato , e d'Erofilo ,osò ,
come narra Paolo Giovio, far notomia , non già d'un reo alla morte condennato ,
come i già detti due Greci facevano , ma vie più ſpietatamente d'un innocente
infermo alla ſua cura commeſſo . E per far omai paſſaggio a coſe più note , e
men forſe moleſte : che Ooo non + 474 Ragionamento Sejto non oſarono , che non
imprefero , che non machinarono a danni del Paracelſo i Galieniſti medici della
Germania ? Necertamente è da credere il Paracelſo averſi lui ſteſſo tal briga
adoſſo recata perricredere , e rintuzzare il lor rives ritisſimo Ser Galieno :
conciosficcoſächè così fieramentes ancora eglino perſeguitarono , e malmenarono
Lionardo Fuſio , Giovan Cratone , e Andrea Mattioli ; il quale con meche
Italiano , e di patria. Sanefe, con eſfo foro dimora. va; e altri' , e
altrimedici,purGalieniftige della formede , fima banda parzionali; e fomigliáte
ferono i Galieniſti me dici Italiani a Gio: Battiſta Montano, a Girolamo
Fracaſto . ro , ea Matteo Curzio , comechè queſti tutti afpada tratta la
dottrina di Galieno difendeffero : e nel medeſimotempo eglino unitamente contro
Giovanni Argenterio diGalien nimicocongiurarono . Nedi coralrabbia innocenti ſi
ſer barono quegli altri pur Italianimedici ,che ſtizzoſamente &
'avventarono contro il dottiſſimo Girolamo Cardano. Ne dágli Italiani altresì,
c daʼFranceſimedici tralaſcioffi quá lunque ſtrada d'oſcurarc , e deſtinguere
quel chiariffimo lume dell'eloquenza e d'ognidottrina incendétifſimo Gilt , lio
Ceſare della Scala ;'eche non tentarono imaeſtridella famoſt ſcuola diMöpelieri
per abbattere il celebraciſſimo Rondelezj, e'l Giuberti, la cuiimpareggiabile ,
e non or dinaria dottrina ſopra tutt'altre ſcuole d'Europa di gran lunga
poggiar gli facea?Ne tono nuove le rabbioſe invidie, el'affrontarebattaglie
d'e’medici di Parigi controil Quer eetano ', il Torqueto , il Baucineto ,
l'Arveto , il Libaviowe tiaſcun'altro Chimico di que'tempi, da noi in
parteancor più addietro accennate . È chinon falacruccioſa invetti va compoſta
in Parigi da Germano Cortin contro i Para eelliſti fornita dicalunnie'ye di
fofiſmi tutti fanciulleſchi , fenza fermezza:niuna didimoſtramento ? Matroppo
lungo ne verreišs’Io diſtintamente narrar vo leffi le travaglie ; e le noje;che
nella Lamagna ,nella Dania , nella Franciada’rabbioſi rivali fofferirono Pier
Severino , Michel Tofſite , Bernardo Perotti , Girardo Dornei,Mar tino
Rolando,, Oſualdo Crollio , ealtri infinitimedici doro tillin Del
Sig.Lionardodi Capod 475 1 tiffimi, e avveduti affai ; i quali ſempre , o nella
fama, a nell'avere, o nella perſonalungamente fur'oltraggiati. E fenza andar
mendicando eſempli di fuora , laſciando das parte ftare le non meritare
perſecuzioni del noſtro Antonio Altomari,abbiam purnoi con gli occhi, o congli
orecchi baſtantemente per addietro compreſo la rabbia de'medici nella noſtra
Città contro il Ferrillo , e lo Schipani, e'l For tunato , e'l Ricci, per tacer
d'altri, e malmenato da rabbio . filime trafitture d'invidia il Macaone delle
noſtre contrade Marc Aurelio Severini ( le cui doctiflime opere in molte ,
varie lingue traportate non mai per tempo diincaricate la ranno) così
egliperaccuſad'invidiofi rivali,ſenza riguardo alcuno averli a'meritidella fua
perſona, fu prima incarcerz to , e poſcia toltoglilo ſpedale ove eglia
cocantiſpacciati infermi già la ſalute maraviglioſamente avea riportata , alla
fine de' ſuoi beni ſpogliato , Ma delle malvagità de'. medici, quali coſe
tralaſcerò lo , o quali ne ridiro ? E pero chè non fo lo côte ad una ad una le
ingiufte uccifioni , che medici innocentiffimi há per altio d'altri medici
miſcrevol mente patito : fra le quali mi rammenta prima di tutt'altre quella
ſpietatiſlimaal celebre Virsūgio data da quell'infa me medico Scozzeſe,nó
peraltra cagione, come ſcrive Giz no Leoniceno , ſe non ſe, per dirlo colle
parole di lui: ob con munem in praxi novatam operam , &à Virſungio non teme
re traduct am tăta in virum honeſtisſimum flagravitinvidia . Ma in paragone di
tutte queſte, lagrimevole oltremodo è la narrazione del gloriogfimo martire,
che ora beato gode nella preſenza di Dio,Pantaleonc : a cui tanto , e si fatta
-mente porè l'invidia de’mcdici , che accuſacolo all' Impe cradore di Roma
Maffimiano , non mai fi: rimaſero , finchè " non videro per man del
manigoldo dal buſto l'onorata te Ita ſpiccarſi. Mache dalla medicina medelma
avvenga, che i medici fian così ,comeabbiam diviſato malvagi,polliam farne più
chiaro argométo ,perciocchè eglino no pur nelle noſtre par ti , dove
parch'abbiſogni più d'un artificio ne'medici: ma anche la dove gli huomini ſon
grosſige materiali, anzi che Ooo 110 , 1 2 477 Ragionamento Sefto no , ufano
altresìi medici malizie; ed inganni per accie ditarſi nelfor meſtiere. E per
tacer d'altre parti: nell'Ia die Orientali , come riferiſce Francefco Silvio ,
Solent muka ti medici ad febrium variarum curationem acus aureas lone gas , ac
tenuisſimas in varias corporis partesintrudere, atq ; ita putant febres
miraculofe curare; e nel Tapui danno a di vedere a' cattivelli infermi, che la
cagion di lor malattie fian certe pietre , o animali , o ſterpi, o coſe fimili
, le qua li e'dicon , che gliele traggon dicorpo a forza di medicine, e
vomitivi ; e in tal guifa fi fanno a credere per grandiflimi bacalari ; e in
tanta reputazione ne montano, che anche i Re loro invidiandofa , voglion effer
diloro ſchiera . Nel ta muova Francia poi , ficome teſtimonia il Padre Brel
fani, i medici danno ad intendere a que’popoli, che tutti i medicamenti
infallibilmente le infermità guariſcano : ed ove no’l facciano dicon'eſfer il
mal ſovranaturale , a cui ſovranatural rimediofaccia meſtiere; e tali
aggiungono ef fere per la più parte le vomitive medicine, e só quei volpo . ni
sì deſtri , checol vomito vi meſcolan di botto , ſenza che altri lor tolga in
fallo , o ciocchetta di capelli, o pietra, o legno, o altro ſimile; il qual
ſenza durar molta fatica per fuadono altrui eſler la malefica fættura , la
quale anche ta tor fan veduta di cavarlz fuori colla pūca d'un coltello , che
tengono infra le dita , o altrove naſcofo ; e ſe poiavviens, che
piggioril'infermo, cglino ſoggiugnendo , che il mal d' un altro Demonio
fifaccia, il rimedio replicano ; e quando finalmente lo infermo fe ne muoja ,
ſi fan loro ſcuſe , con dir , ch'il Demonio ,che l'uccide, è del lor più
potente ; c in cal guiſa quei ghiottoncelli queſte, e millalcre novelluzze da
ridere a quegli imboccano . Or ſe la medicina è tales, che da per fe delle
frodi , e degli ingamni abbiſogna , deb bonſi ſtimare certamente oltremodo
felici que'popoli, che cosi zorîchi, c barbarida noi vengon detti ; .poichè a
loro è conceduto privilegio sì grande di non avere a provar l'o pera dicoſtoro
. Felicisſimi furono adunque i terreni del · la Libia y dell'Arcadia , e
d'altre fimili Regioni , in cui si dannofa gente allignar per alcun tempo non
ſi vide : fe. 1 1 ! + licil Del Sig.LionardodiCapoa 477 licisſimo per fei
ſecoli il Popolo Romano , il cui fenno che pote da debolisſimi iniz; ſollevare
alla ſignoria del mondo la fua Repubblica,faggiaméteper lo detto ſpazio di
tempo vietò affatto l'uſo de'medici. Felicisſima in ciò la gente del contado ,
che il lor conſiglio non curando,della vita allus ga il dubbio corſo ; onde
dieron cagione ad Ercole Bentis voglio di cantare in loro loda Però
ſaggioilvillan , chiam'io ,che quando Égli ba la febbre,che più arde se bolle
Non va cura di medico cercando; Ma nelgran parafiſmo il fiaſco tolle De
l'acqua,.e tanto bee chepoi diviens Diſalubre ſudor fovente molle : Overa
l'ombra de la viti amene Il Settembre o l'Agofto a luva mezzo A fare il corpo
lubrico fen ' viene; E la manna , el Riobarbarodiſprezza, La piumangbiunti , il
ſervizial , la curi , Che tolgon l'appetito , e la fortezza, DifeLafcia
diſporre a la natura : Che ſe dato è diſopra,chetu mora , Non ti guarrà dieta
,o lunga cura. E più avanti E narraci un villan nofiro canutog Ch'altro
nonmangia , cheformaggio,mentre Ha febbre ; emai non hamedico-auuto. E
nonvoglio ( foggiunse egbi) che m'entre Nojofo, e diſpiacevoleGriflero, Neamara
medicina in queſto ventre, Ede la febbre nel'ardor più foera Votai fovente in
vece di ſillopa Di moſto un capacisſimo bicchiero. E forſe ,che farà queſto
qualchenovellar dipocca , o da orator menſonieros Michel diMontagna filoſofante
,un de più grandi', che peravventura abbia avuto la Francia , o fommamente
veridico ,non cinarr'egli, che in un villaggio , ove inai non vi bazzicavaalcun
medico ,conmiglior ſanità, chial 778 Ragionamento Sejko 1 ch'altrove vivevafi?
Maſenza entrare in alcie provincicis ciò non veggiamoa pruova rutto
dìnell'Italia echiepper Dio di noiche , non ſappia ciò , che molt'anni
avveniffe in quella terra , chenon avendo mai per addietro ravviſata faccia dimedicoil
Signor di effa immaginandofarle ungrá pro un ve n'introduſe, ilquale
co'falaslijpurgagioni, cve Icicanti, e altri rimedj, ivi non primanominati ,
non che praticati, ſeppe sì ben pelarla , ch'eravicino ad eſſer vo ta
d'abitatori: ed avvedutiſene i vafſalli ,a guiſa di cani mordenti ſi ferono a
doffo al padrone, e lo sforzarono ad mandarne via il medico . Manon ſo come
caduto dalla . memoria mi'era ciò che al noſtro propofita avviſano il fan
moſisſimo Adriano Turnebo, huomio di fingolar giudicio , e di chiara fede:
Animadversi , ſctive , in dyfenteriæ popu • larimorbo , in vicis de pagis , qui
medicina non utuntur , mortuos , aut nullos ,aut paucos : in quibufdamurbibus
plu . rimos elatus à medicis maximofumptu :e Pier Gaffendi huo mo
inſignede'tempi noftri : ex iis ; qui medicas adhibent, aliquiſanantur, aliqui
moriuntur ;pari modo aliqui Sanar jur, aliqui moriunturex iis qui non adhiberi:
avvegnachè eglipoinell'ultimaſua infermità per non diſpiacere aʼme dicanti ſuoi
amici ciò traſandandoſi facefle da loro con re plicati ſalasſi uccidere ; e
quel celebre medicante Lazaro Meſfonieri ache dice: multi fineullis auxiliis
fpontè fanátur. in agris, & pauperes medicis deftituti . Malaſciando que
ſto ſtare al preſente, tra per la dubbiezza dell'arte , tra per la varietà
delle opinionidelle ſette; e per la nequizia ; e malvagità degli artefici fu
egli ſempreragion di ſaggio , e avveduto governo il non darloro orecchja
determinar fol lemente coſa alcuna in medicina ; e infra tanti ſubugli di
ſchiere , e fazioni non ſi yide mai faggio Principe , o ben , ordinato
reggimento vietar a mediconiuno, che con paro le , e con fattinon paleſaſſe
iſuoi liberi ſentimenti. Così con loro ragioni non poteronmai o Erafiftrato
ſommamé te caro al Re Antioco , o Aſclepiade amato aſſai, e tenuto in pregio
dal gran Pompeo , o Antonio Mofaonorato , e careggiato da Ottaviano Ceſare , o
Vezio valente adul tero DelSig.Lionardo diCapoa. 479. 1 tero dell'Imperadrice
Meſſalinamoglie di Claudio , o l'am, inicislimo dell'Imperador Nerone , Teffalo
, far sì, che a medici di contrarie fette gi per comandamento de loro Principi
foſſe il medicar vietato e in lor diſpetto liberer fempremai fr tennero le
fchierenemiche . Cosi fempremai in Romàse in tutt'altre parti delmondo , nomeno
i Razio nali, che i Metodici, e gl'Impirici liberaméte il lormeſtie re
eſercitavano , ciaſcun di loro ugualmente il privilegio della cittadinanza di
Romagodendo . E dopo le rovines dell'Impero Romano noir ſi videinfragli
Arabimedico vā caggiato ſopra altri : ne a'feguaci d'Avicennafu maiper opera de
ſeguaci diRaſi', o d Avenzoárre il medicarvieta4 to. Ne infra''noftri ancora,
comeche cotanto l'Arabeſche dottrineper tutto ſormontalfero , comeaddietro è
narrato , non però di menonon poterono far sì , che affatto abbats tutane foſſe
la ſchiera de’lornimicisſimi Galieniſti ;ned'al tra parte poreron mai coſtoro
dallor buornome pūto far gli cadere; e avvegnache con ſátire , einvettive
lungamen te piatifféro ; nondiineno di nulla mai', o reggimento , o maeſtrato ,
o Signoria vi s'inframmiſe, ne Principe', che faggio, oavveduto foffe's colle
maia parteggiarncalcunod Ein vero , non Sommo Pontefice , o Re delle Spagne, o
Imperadore;o Re della Francia, o dell'Inghilterra; o della Suezia ,o della
Dania; o altro Principe;oRepubblica mai; ch ," Io ſappia, ſi legge nelle
ſtorie, che voluto aveſſe prēder bri gadellegare; o dellediffenzionide’medici.
Ne il Re della Francia soi.parlamenti diquella ',e ſpezialmente queldi Parigi,
città in cui fivide lapiù lunga', e la piùfieracon tefa infra i medici Chimici'
, e Galieniſti; avvegnachèmols to ſtimolato ne foſſedalla ſcuola di Parigi ,
volle mai inan dare avanti i decreti diquella , nulla curandole ciarle di
PierGregorio da Tolofa ( il qual ſe tanto nella filoſofia ,e negli altri buoni
ſtudi del Lullio foſſefi innoltrato ,quan to nella Loica di lui s'avantaggiò ,
certamentenon aureb be egliuna sivergognoſa briga impreſa ) diedeagio a ' Pas
racelfifti di liberamente ſempremedicare ;e ad ontapure del Galieniſta
Riolanoilvecchio, edi cute'altri nimici , tư di 480 Ragionamento Seſto di quel
gran Principe ſempre in grazia il dottiffimo Giu ſeppe Quercetano medico , e
conſiglier dilui: e come egli certamente il valeva , ne fu da lui ſommamente
onorato ; e quantunque perquella ſcuola infra l'altre chimiche medi cine foffe
affatto vietato il dover dare l'antimonio per en tro : pure non che tal divieto
aveſſe avuto effetto alcuno, a i Miniftri del Parlaméto Paveſſer mai co' loro
arrefti raffer maco , anzi l'ancimonio per ciaſcun medico liberamente
adoperavaſi ,comechè nelle cure delle medeſime perſones reali. Ei Miniftri, e
ireggimenti tutti de’noftri Invitriffa mi Redelle Spagne , così ne'paeſi balli
, come in tuce'altres Provincie della loro Monarchia ſempre hapermeſſo ,le tur
tavia permettono l'uſo libero del medicare a' ſeguaci del Paracelfo, e
dell'Elmonte , e del Silvione del Villifio , fen-) za ritegno alcuno ;
ſpregiando ſempremai, e rifiutando de maladizioni, ei rapporti de Galieniſti .
Che ſe mai Prins cipe , o Maestrato inframmetter tałora s'ha voluto , e por
mano in affare pertinente alla medicina,e alcuna ſua cola , comechè menoma a
certa , e determinata legge ligare , bea fiè veduto perpruova , che ogni loro
ſtatuto , a ſconcio , e non laudevolefine ſempremai è riuſcito ; come ſi vide
av venire , oltre a quel, che è detto , allor , che perconſiglio de
Napoletanimedici venne perla Prammatica del 15620 Puſo della manna sforzata ,
qual dicono , come velenoſo vietato ; la quale fa meſtiere rivocarla nel 1573.
con per metterſi çſprettamente l'uſo della manna dell’Orno , e del Fraſſino ,
che poco prima era ſtata ſeveramente proibita . E no poffo no arroſsare in
leggere que'rimproveri fatti dal Clufio , e dalMattioli , il quale in
cotalguiſa favella : Er . rano non poco i medici Napoletani co’loro Protomedici;
i qua li fanno proibire ſotto graviſſime pene , che non ſi debba ven . der la
manna, che riſuda dalla ſcorza del frasſino , e dell'ora 10 , la qual
chiamanomanna sforzata, immaginandofis cle nonſia buona acofaveruna ,
imperocchè queſta, oltre che pur ga ſenzamoleftia alcuna , e daffi ficuramente
alle donne gra videin ogni tempo della gravidezza , è fantiffima , ed eccel,
Lentisfima medicina nelle petecchie , e febbri maligné, e pelli, lenzia DeSig.
Lionardo di Capod 487 : Jenziali,eſſendo che il fraſſino ha manifeſta virtù
controtua ti velewi ; però laſcimo omai iProtomedici Napoletani di peria
reguitar coloro, che cavano lamanna dalfrasſino , e non pris vino gli huomini
dicosì prezioſo medicamento non conoſciuto da loro , febene viforopiù propinqui
di Noi. E ben ſi vede altresì in quanti errori ſieno ircorſi alcuni Giudici in
laſciandola guidare a' ſentimenti d'alcuni medi ci: che ben lungo catalogo
recar ne potrei. Macontente rommi al preſente di mentovarne ſolamente
un'eſemplo di non poca conſiderazione , che facendoſi troppo ſemplice mente
alcuni Dottori di legge a credere, i bambini nati di otto meſi non potere
naturalmente vivere, come avviſavali Ippocrate , del quale il loro Bartolo
portando opinione i diviſamenti della natura cſfer non guari diffimili alle
leggi umane , dice : ftandum eft libris Hippocratis tanquam ad théticis :
giudicarono quelle eſſere vere ſconciature, e das dover eſſere d'ogni eredità
incapaci ; nel quale errore laſciaronſi traportare l'Alciato , e'l Cujacio , e
altri au tori di lieva in legge . Perchè il noſtro Matteo degli Af flicti ne
rapporta una deciſione ; ove in modo giudicoſlinel noſtro tribunale per haver
data intera credenza a' medici , che dal Caranza dottor di legge ſpagnuolo ne
fu ripigliato con queſte parole : venit improbandum judicium Protomedi ci
Ferdinandi Regis primi Neapolis , & aliorum quos Affli Etus decif. 236.
num.4, valentisfimos Philofophos appellat : eorumque ductu Sacrum Confilium
Neapolitanum octavo mē fenatum materna fucceffionis incapacem declaraffe afferit;
ut meritò decifionem iftam , d predictorum judicium impugna verit Boërius dec.
220.in fine,neque enim ita magnifacien dum eft judicium illud Confiliis
philofophorum , medicorü relatorum ab Afflicto fup.ut ab eo quiſquam non malit
diſce dere , quam à veritate . Maciò ſopra tutto ſi ſcorge da quel,che narra
quell'av veduto ,e giudicioſo ragguardator delle coſc Giacomo Tua no; dice
egli, che d'ordine d'Errigo Quarto Re di Frácia, il gran Lemoſiniere , e altri
ſuoi famigliari, che co'i may giori valent’hu onini di ciaſcun meſtiere tenner
conſiglio ppp i dair 482 Ragionamento Sesto 1 3 di dar compenſo agli abuli
della famoſa accademia di Pa . rigi , e che infra l'altre leggi , e ſtatuti
diviſarono delle bi. fogne della medicina : ordinando, che i medici di quella
ſcuola doveſſero legger l'opere d'Ippocrate , e ogni ſua opinione puntualmente
ſeguire :medicos ſono , parole del, to ſtatuto, rapportate dal Tuano, ut leges
fibi prafcriptas tee neant , divinum Hippocratem diligenter legant, præcepta
ejus religiosèfervent . Empiricam caveant , neque ea ullo modo utantur . Ma
cotale ſtatuto non potè giamınai eſſer poſto in opera ; e in vero ,
ſeque’valent’huomini aveſſero innan zi tratto conſiderata , e riandata cotal
biſogna, e riguarda to alla varietà delle ſette , e delle opinioni , e
all'incertez za di tal profeſſione, non avrebbono così ſciocco divieto mandaco
fuora . E tanto più , che que' inedici , che con figliarono una cal legge , ne
prima , ne poi i diviſamen ti d'Ippocrate oſſervarono ; e in iſpezialità nel
purgare , e nel ſegnare ,come nel ſecondo ragionamento avviſam mo ; ſenzachè il
non valerſi dell'empirica medicina è contro l'ammaeſtramento del medeſimo
Ippocrate ; e an zi tutti medici vengono di neceſſità aſtretti a yalerſi delle
impirica, come da quel ch'è detto agevolmente coglier fi puore ; perchè gli
ſteſſi riformatori convenne certamen te , che alcuna fiato, per non dir altro,
veniſſero con em piriche medicine curati , ſpezialmente ſe furono morſi da can
rabbioſo , o daſcorpioni, o da altri velenoſi animali . E già parmi o Signori,
ſe'l mio avviſo non m'ingannnas che per quel che da noifin qui ragionato foſſe
de tantidi vieri della medicina , che ſaldinon nai ſono fungo tempo durati :
delle diverle , e ſoventi fiate contrarie guiſe di me dicare , e dalle si varic
, e tante opinioni, che fra i medici di tempo intépo ſono venute inſư,
impoſſibili a porſi mai im alcun patto d'accordo: dalla lunga incertezza disì
dubbio fo , ed inviluppato meſtiere , il quale non ha in ſe dottrina , o
principj , ſui quali huomo unquemai poſta porre alcun menomo fondamento : e dal
maltalento demediciinvidio fise maligni, affai manifefte fi pajano le grandi
malagevo lezze , acui s'avvengono tutti coloro ,che d'ordinar lebis fogne 1
DelSig.Lionardo di Capoa. 483 + ſogne della medicinafi danno alcuna cura . E
perciò lag . gio ſembrami lavviſo di quella Città , o di que'Regni , ch' avendo
forſe a pruova legià dette verità conoſciute , non vogliono in alcun modo
prenderfene briga , ſeguendo in queſta guiſa la coſtuma dell'accorto poeta , il
quale , coine Orazio faggiamente avviſa , que Deſperat tractata nitefcere
poffe, relinquit . Talfu il fano conſiglio del Signor Duca diMedinaceliVi cerè
nella Cicilia ; il qual non che andar voleſſe a ſeconda di coſtoro , anzi
prendendole a gabbo , ſcheroù le ambizio ſe,e avare bramedi Filippo Ingraſſia
Protomedico di quell' Iſola ; il quale a diritto , ed a roveſcio volcva i
maliſcalche ſoggetti alla ſua giuriſdizion ridurre; perchè pubblicò unu libro,
ove ingegnofli di far chiaro (ne v'ebbe per avventura a durare la maggior
fatica del modo) che la medicina degli huomini,edelle beſtie in nulla foffero
fra ello lor differéti, * e che fra medico , e maliſcalco altro di divario non
v'abbia, che ſolamente nel pome . Ma lo finalmente non lo fe altri poſla più a
propoſito metterci innnanzi agli occhj l’infelice fine, a cui pervengono tutte
le ordinazioni in affári di mc dicina ; e ſpezialmente quelle che fatte ſono a
richieſta , o a conſiglio de'inedici , quanto Trajano Boccalini : allor che
narra , aver Apollo per ſecondar le perſuaſioni d'Ippocrate tenuto a conſiglio
alquantimedici ,a cagion di voler ripa rare ad alcuni diſordini ch'avvenivano
nel medicare : ma per l'ordinazioni di tali riformatori, non pure no iſcemaro
no in alcun patto , ma vie più moltiplicarono le malattie ; e le morti giunſero
a tale , ch'egli rimaſe forte maravigliato: ( ſon parole del Boccalini) ch'una
diliberazione fatta con ze lo di tăta carità aveſſe potuto fortire il fine
infelice d'una tan to calamitofa confuſione; onde bruttamente da Ippocrate chia
mandoſi offeſo , eſchernito , che ſotto zelo d'apparente carità verſo il
benpubblico , con quel pernizioſoricordo aveſſe volu to aprirſiſtrada
all'eſercizio della ſua ambizione: inpubblica udienza , con indignazionegrande
disfece il collegio, con ani Ppp 2 mo dia 484 Ragionamento Sefta mo
diliberatififimo di far contro Ippocrate qualche notabile rifentimento".
Orecco le riufcite di que'riſolvimenti, ches goglion prenderſi d'un arte
cosìfallace, e manchevole, Eche ix ſuobaso mai por ha certezzha 1 RAS 485 .
RAGIONAMENTO SET TIM Or 220 Bbiam finora fufficientemente diviſato , o Signori;
delle dubbietà ,.e incortezze del la medicina ,malagevoliaffaiperhuomo, anzi
impoſſibili a ſuperare :'infra le quali ondeggiandociaſcuno continuo s'aggirai;
non altrimenti , che picciola , e malforni ta barca irr tempeſtoſo pelago
dimare da'fortunoſi ventije dalflottar dell'onde dibattuta', e
percoffa'traballa ; o mal pratico viandante il qualecoleo da oſcura'norte,in
folta , non conoſciuta ſelva ;per travolti-bronchi , e fterpi andan do, quafiin
cófuſo-laberinto s'aggiri, séza potermai riuſci re a dritto ſentiero, ch'a
falvamento il conduca'. Perchè non potendoſi in così intralciato meftiere via ,
o modo al cunoavviſare , convienr'certamente , che'l tutto a poſta, e ad
abitrio didifcreto , e'ayveduto medico fi rimetta. Aduna que avendo
ilmedicoperle maniun sì grave affare, chento ſenzafallo è dagiudicar la vita ,
e la ſanitàdi ciaſcuno ,dse egliconogni ſollecitudine,e con ogniarte ingegnarſi
di far: giovamentoagl'infermi commeſt alla cura dilui , al mio gliormodo cheſi
poſſa ; çfecondochè la condizione d'un sal 486 Ragionamento Settimo tal
meſtiere comporta . E (come a coloro, cherompon per tempeſta in mare , i
qualiad ogni picciol cravicello , o pan chettirgi appigliano,così parimente dee
il medico negl'ince : uob; maroſi della ſua profeſſione valerſi di que’tutti i
Jabuli argomenti , che gli li fanno avanti; an corchè non ben ſicuro egli ſia
,che con quelli sì degna im preſa poſſa ridurre a quel fine, al quale l'avrà
indirizzita . E quinci ſi è, che quantunque poco ,o niuna certanza recar
poſlano al ſuo meſtiere le corezze,che per le cofe,o vedute, olette, o perlo
imperfetto, emāchevole umano modo dific loſofare s'acqui &ano;
egliimpertanto deein tutte quante Je coſe alla medicina perrigenti eſerbene
ſcorto , e cono ſciuto , chiunque voglia con qualche profitto , e laudevol
mente cſercitarla ; perchè fa meſtiere , che lo attenendo le promeſſe già fatte
in ſu’l principio di queſti ragionamenti, vegga minutamente chente , e quali
coſe a fare un buon medico , e perfetto,in quanto ſi poſſa umanamente, c quan
to la condizione d'una tal biſogna comporti, ſi riclrieggia no e per tutti
diviſatamente diſcorra. Egli ſembra certamente che non vada err ato Ippocra te
, o chiunqueegli (i foſſe l'autor del libro dell'arte, quan do dice , ch'a
coloro , che vogliono all'altezza della medi cina mόrare faccia meftieri
φύσεG-, διδασκαλίας, τόσο ευφυές , tendopatíns,Qinomovins,xpóvx,cioènatura
acconciaze nobilize vira tuoficoſtumi , e luogo allo ſtudiarconvenevole , e
buon alleva mentoinfin da fanciullezza , einduſtria, e tempo. Richiedeſi in
prima natural genio , ſecondo lui; conciolo fiecofachè mancando talvolta, vano
affatto , e inutile ogni ftudio , e ogni diligenza riuſcirebbe. Ne è vera
l'opinione del vulgo, cheſolo alla poeſia vuolch’abbiſogni quella na , turale
inclinazione , dache alla medicina apparare , e tute? altre ſcienze ancora
convien favorevole averla ; vero fem premai ciò che dice il noſtro Dante
ſperimentandoſi: Sempre natura,ſefortuna trova Diſcorde aſe , cum'ogn'altra
ſemente Fuor di ſua region fa mala prova ; Eſe'l mondo la giù ponce mente Al
fondamento ,che Natura pone, Seguen . Del Sig .Lionardodi Capoa . 487 Seguendo
lui auria buona la gente. Ma voi torcete a la religione Tal chefu natoa
cignerſi la ſpada, E fare Re ditalcb'è dafermone Onde la traccia voſtra è fuor
di ſtrada. Ma più ch'a tutt'altri meſtieri, alla medicina natural ta lento
richiederſi, egli ſi porrà chiaro a chiunque badar vo glia,ch’afmedico talora
improvviſo , ſenza aver potuto in prima dello infermo , o della natura di lui
molto diſtinta contezza , o eſperimento , convenga diviſar me dicamentijanzi
che dal malore iľvigore almalato ſia colto, o le forze ; eďove ancor queſte
ſiano all'ultimo ſcemo per venute,no perciò sbigottire allora, ma prendendo
cuore, e ardire a novelle cure lollevare lo intendimento . Alla qual coſa fare
, chi non avviſa , che fano giudicio , e ſpedito in gegno, e natural ſagacità
v’abbiſogni, c tale appunto qual fa meſtiere per avventura a'gra Capitani, e
a'comandatori diguerra . E mi ricorda a tal propoſito , che il Signor di
Molluch chiariſſimo capitano dir Tolea , ch ' ove il general della battaglia ,
iit veggendo rotte le ſue ſquadre', e ſcon fitto l'eſercito ,egli , o da
vergognago da timore oppreſſo , il ſenno , e l'ardir non perdeſſe ad'un ora ,
ſempremai buo na ſperanza gli rimarrebbe da poter raccozzare i ſparpa gliati, e
fuggitiviſoldati , e incoraggiargli di bel nuovo a fronteggiar l'ofte
vittorioſa . Ma potrebbealcun dire,che natura perapparar medicina punto non
abbia luogo; o che fe per appararla vi pur biſogni, certamente cotale inchina.
zione, eabilità ciaſcun di noi egualmente l'abbia ; impc rocchè, direbb’cgli ,
quantunque lo ſappia molti, e molti eſſer coloro , che per naturaľripugnanza di
genio , o d'ate titudine in altre arti , appena aſſaggiatele , dalla impreſa fi
fian riſtati: pur d'uno normi ricorda', ch'avendo l'a nimo alla medicina
rivolto , non ne fia medico poſciano e'n buono ſtato divenuto . Eforſe ciò
avviene , perchè eſ fendo la medicina al mondo rominamente neceſſaria per
riparare a cotante malattie' , il ſommoProvveditores n'ab bïaciaſcun
baſtevolmente d'attitudine fornito per apparar lized eſſerne da tanto ; ma a
ciò ſi riſponde i ſovrani conli gli 488 RagionamentoSettimo 1 . 6 gli
dell'eterno facitore dell'univerſo non eſſer dato di po tere ſpiare al corto
intender noftro , come temerariamente altri pur s'attenta di fare : ma ſe a
qualche conghiettura ne fi daiſe mai luogo, lo direi che anziperchèdi ſommo
pro, c di gran pregio èla medicina, perciò non eſſer peſo di tut tebraccia, ma
di pochisfime; ſicome avvien delle coſe più perfette, le quali ſono altresì più
rare . Maintorno abuonicoſtumi,che fiorir debbo in colui che d'eſſer medico intéda,
fu egli queſto sétiméto del méziona to autore,ſeguito comuneméteda
tutti;anziGalieno mede fimo in un luogo dice ,cbe colui, ch'èxibaldo, e di mala
co ſciéza no puòmainegli Studi d'un tal meſtiere vataggiarſi . Ne lo
ſtenderommi al preſente in ragionar del.conoſci. mento delle lingue; imperocchè
della Greca, della Latina, e forfe acor dell'Arabeſca ,e dcHa Tedeſca egli è
allai chia ro ,che p iſtudiar ne’libri in quelle cópoſti,bone,e interame te
delle medeſimedobbiamo eſſere inteſe: anzi il dottiffimo Samuel Bocciardi porta
opinione chesõmaméteal medico ſia neceffaria la lingua Ebraica. Eforſe anche
con qualche ſoverchio di diligenza per lo riſchio , chedal non pienamen té
intenderle ne può ſeguire ; il che avviſando l'avvedutiſ fimo Arnaldo da Villanova
ſtrettamente ne l'accomandò; cne lo diè per regola nell'apparar medicina, con
queſte parole : Notitia nominum prodeft ad doctrinam . Et nulla profeéto ars ,
curiofius , cautius vigilantius homini diſcenda , traétanda, meditanda eft ,
quammedicina , qua nulla eft pe riculofior: quippe quum in ea verſetur
falushominum , vi ta ; per tacer della Loica, che richiede Galieno nel medico;
il troppo ſtudio della quale nuoce , non ch'altro , a chiun que veramente
approfittar ſi voglia nella filoſofia , eſpe zialmente nella medicina,poichè
eſſendo l'intelletto avvez zo a quelle coſe finte , non fa poſcia dipartirſene
allor, che delle vere , e ſenſibili ſoſtanze imprendea filoſofare ; onde
faggiamente quella grand’alına del ſaggio Galileo folea paragonare i Loici agli
artefici degli ſtrumenti muſia cali , i quali tutto dimaneggiandogli, non ſanno
poi quan doloro biſogna, ſe non ſe rozzamente valerience Ma ş DelSig.Lionardo
di Capoa. 489 1 Ma la norma ſicura de'perferri, e dimoſtrativi fillogiſmi
ſolamente dalla Geometria ci ſi porge : e malamente al ſi curo fornito loico ,
e conſeguentemente buon medico ſarà colui, a cui per le mani gcoinetriche
dimoſtrazioni tutt'orx non ſono . E certamente avea la ragione , l'autor della
pi ftola a Teſſalo di tanto iſtantemente quello confortare , e fpignere allo
ſtudio della Geometria , e dell'Arilmetica : poichè la notizia di cotali
ſcienze, oltre agli altri concj,che arrecar ſuole , dice egli: tlu fug'us o
&uréple FE xxA THA Qvyesépleas a & ti tò év inagixí óvño Jou răvő mi
yeusercioè ,apporta chiarezza, e fortigliezza nell'intendimento , acciocchè
poffa ben rintraca: ciar tutte quelle coſe, che all'uſo della medicina
abbiſognano. E diſtintamente poi va dimoſtrando di quanco pro fia ad un medico
faper Geometria , affermando ancora lommamen te giovevole , e neceſſaria eſſere
a ben comprendere le deslogate offa , e l'altre biſogno nella medicina . Mamol
to avanti avrebbe egli certaméte della Geometria detto : ſe oltre a ciò ſaputo
aveſſe,che séza quella, poco, o nulla inté der ſi può delmovimento de'muſcoli,
e de’mali della viſta, e d'altre belliſſime dottrine molto alla notizia
dell'ordina mento del corpo umano utili , e neceſſarie . Ma fe ( come più
avanti dimoſtreremo) giammai non può eſſer medico , chifiloſofo in priina non
fia : c per apparar filoſofia , la Geo metria è ſommamente di meſtiere;egli è
pur manifeſto ,che il medico debba efter Geometra . Ne può punto dubitara ſi il
convenir cotanto a ' filoſofila Geometria; concioſſicco ſachè abbiamo nelle
ſtorie , che gli antichi filoſofanti , tan to biſognevole ſtimaſſero la
Geometria nelle loro ſcuole , che no volcan ,cheniuno in quelle entraſſe ,ſe
prima inGeo metria ſtudiato pienamente non aveſſe . E'l gran Galileo de’
Galilei , grandiſſimo maeſtro di coloro , ch’alla vera , e dalda filoſofix
attendono , diſſe ; In un vaſto volume farfe ne'lafiloſofia tutta deſcritta : e
quello eſserne ſempreinnanzi agli occhi aperto , cioè a dir l'univerfo ; ma non
mai poterviſe leggere , fc in prima la lingua , e i caratteri , co' quali egliè
Scritto, perfetiamente non s'apparino. Egli è ſcritto , dics in lingua
matematica , e i caratteri ſono triangoli , cerchi , - Q29 altre 490
Ragionamento Settimo 1 > altrefiguregeometriche,sēza i qualimezziè
impoffibile adin të der umanamenteparola : ſenza queſti, è un'aggirarſi vana .
měte per un'ofcuro laberinto. Comendaſi adunque oltremo do il ſaggio conſiglio
dell'avvedutiſſimo Cardano , il qual mi ricorda , ch'avrebbe voluto , che niuno
in medicina non ſi foſſe mai convertato , il quale , mathematicas perfecte no
calleret, per dirlo colle ſue parole ; del che recandone la ragione, ſoggiugne
: Nam his folum , nec fallere , nec falli contingit; unde qui in illis
peritusfuerit ,non eſt veriſimile in propria arte velle ſuperioribus ,
&fuis, ac fibi ipſi impo were . Ma oltre alla Loica, e Geometria, la
Stronomia , la Mu fica , e altri nobili, e liberali ſtudj in un perfetto medico
Galieno richiede ; e della Muſica favellando Tomaſſo Cá panella dice
:medicusnon ignoret , qui foni, quos motus in ( piritu ,adquas bonas
operationes excitět,ut medicinales fint;i quali ſtudj,ſecodo lo ſteſſo Galieno,
il primo luogo appreſſo Mercurio ingombrano ; e con molte , e ben compoſte pa
role l'utilità , che da quelli ſi trae , va egli ne'ſuoi ſcrit ti diviſando , e
quanto egli avanzato ſe ne foſſe ; ſenzachè, dic'egli , ſe il medico , non è di
ſtronomia intendente , gran tratto ei ſi dilungherà da’ſentimenti d'Ippocrate ,
il qual non pur conforta i medici tutti ad appararla, ma molte co ſe ha egli
ne'ſuoi libri ſcritte , le quali ſenza ſaper di ſtro nomia , impoflibil
certamente fie , che per huomo s'inten dano. Ma nel vero lo non ſaprei mai
comprendere , come ben ſi poſſa medicare , ſenza ſapere, il naſcimento , e loco
caſo delle ſtelle, e la varietà de climi,e altre ſomiglianti co le , neceſſarie
al meſtier della medicina , le quali tutte la ftronomia ne inſegna .
Eragionevolmente tutti coloro ch ' un tale ſtudio , come vano , e inutile
a'medici biaſimano , punge , e proverbia il buon Franceſco Vallefio , dicen do
, che la ſtronomia vien da alcuni giudicata coſa alla medicina affatto inutile
, non per altra cagione, ſe non per chè poſſano in cotal guiſa ſchifare lo
ſvergognamento, che dal non ſaperla gliene naſcerebbe . Perchè il non mai aba
Aan 1 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 497 1 1 ſtanza lodato Ipparco aſſomigliava
ilmedico ignorante di ſtronomia ad occhio privo della viſiva potenza; e'l famo
fiſſimo infra gli ArabiAlbumazar,dice chela ſcienza delle ſtelle a quella della
medicina , principio , eguida ſia. Ma fe la Stronomia richiedefi a'medici, non
men di quella certamente fa loro meſtieri il ſaper le ſtorie delle coſe, che
avvengono al mondo; concioffiecofachè oltre al ſaper di quelle , i principi,
egli avanzamenti delle piſto lenze , e d'altre aſſai malattie , manifeftamente
talvolta an che comprendonſi le cagioni de’malije i rimedj , ch'a quel li
talvolta hanno approdato , e ciò, che per pruova ha noc .ciuto , e giovato agli
huomini : e aſſai pienamente ſi com prende quanto dalla lezion di Tucidide
aveſſe Galieno tratto di profitto , e altri aſſai medici di gran lieva, e malli
manente da quello artificioſo narramento di lui della fie ra , e lunga
peſtilenza del Peloponneſo , traportato poi co tanta eleganza, e così ben da
Lucrezio nel luo natio idio mi . Ma ſopra tutto ſenza dubbio la natural
filoſofia al medico ſi richiede ; imperciocchè , fe perfettamente egli ſaper
dee la natura , è l'economia tutta del corpo uma no , le cagioni, così d'entro
, come di fuora delle malat tie , le qualità , e le coinpleſſioni dell'aria ,
delle acque,de' vegetali, degli animali ,e de’minerali turti: conſeguente méte
egli ďee ſtudiare in filoſofia,nó come dicono, di primº occhio , e diſcorrendo
: ma in quella con ogni intendimen to , e ſtudio involgerſi , e riconcentrarſi,
e in apprenderla , pienamente con ogni sforzo , e con ogni opera affaticarſi .
Perchè il Paracello chiamar folea la filoſofia madre, e fon damento della
medicina ; e Ariſtotele n'impone , che il me dico cominciar debba , ove il
filoſofo finiſca; che altro non vuol dir, per mio avviſo, che il medico dal
filoſofo non dif feriſca , ſalvo che nell'operare : e che la medicina altro no
fia , ch'una operatrice filoſofia . Folle adunque , e danne vole oltremodo è da
giudicar certamente il conſiglio d'A vicenna : che il medico ſenza più avanti ricercare
, appa gar ſi debba a' detti de filoſofiintorno alle coſe naturali; Raq 2 ne lo
492 Ragionamento Strimo ne logorar punto di tépo in abburattargli,e far pruova
del la verità ; concioffiecoſachè il medico in eſaminandogli no che dall'arte
ſua fi diparta giammai , come ſcioccamente s'avviſa Avicenna , anzi allor
maggiormente vi s'interna , e profonda , e più maturamente l'apprende. E bene
imma gino lo , che a ciò riguardando eſfo Avicenna , avviſaffe pienamente il
biaſimo grande , che di tal conſiglio guada gnare egli medeſimo ſi poteva i
perchè altro non te in tue to il corſo della ſua vita ',' che attentamente
ſpeculare , e contemplar le coſe della natura . Miglior ſenza fallo fu l'avviſo
di Galieno , il qual ſopra ciò ben’un libro inte . ro compoſe con queſto titolo
densos iarbós, og QorbootG.per * chè e' medeſimo dille altrove , il medicare
una piaga non, effer impreſa da tutte braccia , ma di color ſolamente che le
coſe tutte della natura hanno davanti agli occhi . Ma dove lo traſandava il
buono Ippocrate : il qual giudicò fi loſofia , e medicina eſſer compagne
ſtrette , e ſorelle ,giua te , ed avviticchiate ; e ſimigliantemente Cornelio
Celſo afferma , amendue coſtoro d'un medeſimo parto eſſer nate, così ſcrivendo
: Primomedendifcientia pars fapientia habe batur ; ut &morborum curatio ,
dow rerum nature contempla tio fub iiſdem auctoribus nata fit ;c di ciò ne
apporta ragio ne: fcilicet his hanc maximè requirentibus, qui corporum fuo rum
robora inquieta cogitatione , nocturnaque vigilia mi nuerant . Ideoque multos
ex Sapientia profeſsoribus peritos ejus fuiffe accepimus. E egli è pur troppo
manifeſto ,quan to Pittagora , Empedocle , e Democrito , e Platonc , e altri
grandiſſimi filoſofi più di qualunque altro Greco nel le ſecrete coſe della
natura innoltrati, più di tutt'altri me dici della Grecia ancor s'avanzaſſero ;
ſenzachè i fonda tori , e i Principi di ciaſcuna ſcuola di medicina , eziandio
della Metodica, e della Impirica , eilor più rinomati ſe guaci , tutti
concordementenegliſtudi della natural filoſo fia s'eſercitarono . Perchè il
fimile certamente ciaſcun al tro mcdico de’tempi noſtri dovrà fare; e di lor
direbbeſi po ſcia con quelle voci d'Ippocrate innsós gap Quómo , iostec , cioè
a dire : il medico filoſofo è ſomigliante a un Dio . E 1 1 quan 1 1 !
DelSig.Lionardo di Capoa. 493 > quantunque ,come ſopra abbiamodimoſtro ,
aſſai poco al baſſo , e loſco intender noſtro nelle coſe naturali di ſaper ſia
conceduto ; nondimeno queſto ſteſſo ci da a divedere effer neceſſario al medico
lo ſtudio della filoſofia, acciò egli pof fa agevolmente accorgerſi , non aver
la medicina certezza alcuna ; e a queſto avendo certamente riguardo , diceva
Cornelio Celfo : natura rerum contemplativ , quamvis non faciat medicum
aptiorem , tamen medicine reddit perfectum . Oltre alla naturalfiloſofia, la
morale ancora a'medici ſi conviene ; concioſGecofaché , ſe come di ſopra è
detto per ſentimento d'Ippocrate , di buoni , e laudevoli coſtumief ſer dee
fregiato il medico, Io non ſaprei già , come a tal pre gio mai aggiugner
poteſſe colui , che coile natural filoſofia la moraleancora non accoppj;
ſenzachè la moral filoſofia è quella , cha per oggetto Panino dell'huomo , e in
quello ſuol riconoſcere i malori,e lecagioni,e gli effetti di quelli,e darvi
baſtante compenſo , ed efficace ajuto . Orcome po trà il medico adoperando il
ſuo meſtiere, con valevoli me dicamenti fanar gli ammalati del corpo , ſe in
prima le ma lattie dell'animo loro non toglie ? cioè a dire , ſe non fa di
filoſofia morale a Imperciocchè i mali tutti del corpo , come da prima, e
principalcagione , da alcuna paſſion dell'ani mo ſovente naſcer ſogliono , la
qual certamente ne cono fcerc , ne rimuover potrà il medico giãmai , fe dalla
moral filoſofia no ſia fcorto. Tanta enim ,dice Sinforiano Cãpegio , per tacer
altri , eſt animi , &corporis neceffitudo , ut ſua om nia bona, ac mala ,
velint nolint, invicem communicent. Per chè della nostra anima facendo parole
cantò il Guarino . Qwell’immortal, che null'ha di terreno A terrenidifetti
ancor foggiace. E Platone nel Carmide lungaméte ciò va diviſando; la qual coſa
ancora , ficome teltimonia Ippocrate avea in coſtu me di fare Eſculapio s il
quale appreſa certamente l'a vea da Chirone ſuo maeſtro : e ſe pure dopo ſi è
co minciato a feparare l’un meſtier dall'altro , non èmara viglia , dice Malfmo
Tirio : perciocchè la medeſima artu di curare il corpo , così in fc ftella
diviſa , e lacera ſi vede, : chic 494 Ragionamento Settimo che altri ha cura
dimedicar ſolamente gli occhi , altri law veſcica , e altri altra parte del
corpo . Ma con quanto di fcadimento , c danno dell'arte , e de’maeſtri di
quella , per nulla dir de’poveri infermi, ciò avveniffe ,che partite , e
ſceverate queſte due profeſſioni abbiano i medici, ſolamen te inteſi a curare
il corpo , ſenza badar punto alle malattie dentro , lo dicano tante , c tante
malvagità , e ribalderie operate daʼmedici , come di ſopra dicemmo ;
concieſlico fachè non ſon per altra cagione i biaſimi tutti a' medici, e alla
medicina medeſima proceduti,che dall'aver clli traſcua rata l'arte dirender ſe
medeſimi in prima, e poi gli alţri tute si della verità , della giuſtizia , e
dell'oneſtà lodeyoli ama, tori . Ne per altro chiama Ippocrate, per mio avviſo
, il medico filoſofo ſomigliante a un Dio , fe non perchè dal medico filoſofo
non ſia da ſcompagnar cotal parte cotan 10 eziandio giovevole , e neceſſaria
alla medicina . Per chè guardando a tutto ciò Galieno , cercò di riparar ſe
condo ſua poſla a tanto diſordinamento , e di riunir di nuovo , e rannodar la
medicina colla morale filoſofia: onde compoſe quel libro , ove e' moſtra,
comes’abbiano a cono ſcere,per doverſi guarire,i difetti dell'animo; e
quell'altro, del ravviſare , e del medicare dell'anime le malattie . Ebé
chiaramente ſi vede quanto in ciò, che inſegna altrui e' me defimo profittaſle
; concioſſiccoſachè, come di ſe medeſimo egli narra , era egli avvezzo a
ſoffrire , e a portarein pace i caſi.umani, e d'animo grande , e immobile , ne
ſi crolla va punto agli urti di rea fortuna: ne perdita di beni , o altra
maggiore ſventura era per farlo ſmagare:ne movealo onor di gloria , o burbanza
divana ambizione , o qualunqne altra coſa maggiormente al mondo ſi pregia ..
Mail medico avendo a guwar le malattie de' corpi uma ni, ea provvedere a
quelle, che ſono a venire,non ha dub bio alcuno , che ſopra tutto egli della
natura del corpo umano aſſai pienamente dee eſſere doctrinato , e di quelle
coſeancora , che riſtorare il poſſano dalle cagioni, ovale. volmente ceſfarle .
Or chiunque voglia,per quanto glifia dalla debolezza dell'umano intendimento
conceduto , per veni. DelSig. Lionardo di Capon 495 venire a qualcheconoſciméto
della natura del corpo uma no , gli conviene in prima il ſito , la figura,
l'ordinamento, e la grandezza ,e l'uficio delic parti di quello diligétemente
inveſtigare : alla qual coſa manifeſto è , che ſenza l'ajuto della notomia egli
aggiugner non poffa : perchè della me dicina folea dir faggiamente Cello :
incidere mortuorum corpora difcentibus neceffarium . La qual neceſſità inolto
bé gli antichi medici conſiderando , come pienamente nete ſtimonia Galieno , a
ufare i noromici ſegamenti fin da fan ciullezza diligentemente s'avezzano . E
oltre a ciò egli dee bene inveſtigare , e con ogni ſtudio maggiore andar
rintracciando la propietà, o la natura dell'Erera ,dell'aria , dell'acqua,
della terra , della Luna , del Sole , e di tutt'al tri Pianeti del Cielo ;
da'quali corpi tutti continuo fotti liffime , e non vedute ſoſtanze ſgorgano,
quali a pro , e qua li a dannodell'umane vite . Quindi s'andrà egli pian piano
innoltrando a ricercar le naſcoſe virtù de'minerali , de've gerali, e degli
animali tutti , oide il cibo , e imedicamenti per gli huoinini ſi coinpongono .
Cola,la quale cotanto al medico è neceſſaria , che d'effa ſola ſi vanta Apollo
preſſo l'ingegnoſo Poeta latino Inventum medicina meum eſt : opifexque per
orbem Dicor : &herbarum fubješta potentia nobis . E'I Mantovano Omeroper
unico fregio del ſuo lodato Medico riconoſce Scire poteftates herbarum, ufumque
medendi. E l'altiſſimo Toſcano Poeta E già l'antico Erotimo , chenacque In riva
al Pò , s'adopra in ſuaſalute : Il qual de l'erbe , e de le nobil'acque Ben
conoſceva ogniuſo , ogni virtute . Intorno alla qual coſa folea ben dir
Oribaſio , che fenza un tal conoſcimento non fi poſſa dirittamente mádare ava
ti la medicina έχ οίόν τε είναι χωρίς ταύτης ιατρεύαν όρθώς. Ε gia molto prima
di lui la notizia de'ſemplici in più luoghi de' ſuoi libri affai avea
accomādara Galieno, i quali paſſo pal ſo potrannoſi da’curiofi ſcolari vedere :
e ame baſterà al preſen 490 Ragionamento Settimo 1 1 preſente per raccorciar la
lunghezza in così chiara materia d'apportare un ſolo , over'dice : chiunque nel
medicare vorrà da tutte parti eſſer ajutato,egli coviene in prima eſser molto
bene ſcorto , e auſato nelle piante, e negli aniinalise ne'metallize in
ciaſcun'altra cofa terreſtra, delle quali ſervir noi ci ſogliamo ad uſo di
medicamenti, e infra quelle , le più eſquiſite ſceglier ſappia ;
concioffiecoſachè non eſſen do egli in sì fatte coſe dottrinato , ſe mai oferà
un talme Aiere imprendere , ſappiendo , ſolamente in ciarle la nor na del
medicare,non mai ſaprà adoperar coſa degna di me dico , Quinci ſi pare quanto
errino i medici , comequelli, che pongono queſta parte , cotanto alla medicina
necella ria ,in mano degli ſpeziali; concioſſiccoſachè, come avvi fa il
doctiſſimo Fabio Colonna : in quo ille medebitur medi. cusiſilocis contingat
pharmacopolis carentibus, artem exerce re ? an ne verbis ? c più avanti
trapaſſa l'avvedutiſlimo Pier Caſtelli a minacciarne i mali , che di cotal traſcuraggine
agevoliſſimamente ne poſſono ſeguire: medicus , dice egli , neſcit quod agro
præfcribit: Pharmacopæus ignorat preſcri ptum medicementum : Rufficus herbarius
, qui fæpèlegere ne fcit , &à nemine doceripoteft , cafu colligit
fimplicia: &hoc modopreparatamedicine rarò fanitatem , fepiffimemortem
afferunt , ignorantiæ finem ; e quàforſe egli li parrà ad alcu chc per troppo
afpri, e faticoſi ſentieri avendo il me dico condotto, omai delle tante , e
tante malagevolezzo , che noi diviſate gli abbiamo , ſenza altra fatica durare
ſia per venire a capo . Ma egli va alcrimenti la biſogna, rima nendo ancora
dopo tanti viaggi nuovi altri pachi lontani troppo , e non conoſciutia piè
volgare : oye fra bålzi, e di rupi, per iſcoſceſi , e avviluppati ſenticri con
gran ſudore , e biftento giugner ſi dee . Egli è il vero , che giunto poi quivi
, trova ben cento , e mille vaghezze allettaprici , luſinghiere . Già parę di
udirvi dire concordemente , che lo voglia favellar della Chimica , nella qual
ſi comprende tutto il bello , tutto il vago , tutto il maravi glioſo , che può
mai operar la natura,o l'ingegno umano. Ne 10 , zia 2 Del Sig.Lionardo di
Capoa. 497, Ne Io fe cento bocche ,, e lingue cento Avesſi, e ferrea lena , e
ferrea voce , alcuna menoma parte de' pregj di sì iluſtre , e glorioſo me
ftiere potrei narrare.Ditelo intáto voi in mia vece, o arti il luftrio, rare
fcienze, o nobilisſimi ſtudi di quella figliuoli'; voi dilettoſe , giovevoli ,
e neceſſarie al gencre umano arti dell'agricoltura , del fabbricare , del
navigare, della mili della ſcultura , della pittura , della filoſofia, della me
dicina : voi facendo teſtimonianza della grandezza , e dellº eccellenza della
Chimica ,narrate pure, come da effa -i vo ftri natali , il voſtro accreſcimento
, ilvoſtro ſplendor trac fte : dite come a'voſtri intendimentiporſe la materia
, age volò l'opera : Netacete pure , o ultime pruove' dell'uma na induſtria ,
gloriofiffime memorie dell'antichità d'Egittor prezioſo nepente commendato
dalla ſonora troba de gra deOmero , che co’ſentimenti inſieme i dolori , e gli
affan ni de’greci Campioni potcſti aſſonnare; ricchiſſime coppes allanſonti; e
voi cento ,e cento altre Egizie maraviglie , che tolte a noi dal teinpo ,
appena chi vi preſti fede ritro vare interamente potere. Voi ſuperbe piramidi
di Mem fi , voi effigiati obeliſchi di Tebe ,che all'eternità confc crati Roder
non può del tempo invidalima, fare pur chiara l'eccellenza della Chimica ; e
ne'metalli, e nelle gemme , cnegli artificioſi ordigni da quella portivi raccotate
i ſuoi pregj,e le fue glorie eternaméte innalzate . Ne mé taccia il tépo quanto
a capital tenuta foſſe la chini ca dagli antichi,chegiudicando Diocleziano
baftar quella ſola agli Eğizj per frõteggiare, e mandar giù le glorietutte del
Romano Imperio, comenarra colui appo Suida,diedes alle fiame tutti i volumi di
sì nobil meſtiere, va reixnucios χρυσού , και αργύρε τους παλαιούς γεγραμμένα
βιβλια διερευνησαμG έκαυσε και προς το μηκέτι πλούτον Αίγυπλίοις, έκ τ τοιαύτης
προσγίνεσθαι τέχνης , μηδέ χρημάτων αυτουςβαρβούν ας πρεσία του λοιπού Ρωμαί
oss auliceiv . Ma quanto la Chimica faccia meſtieri alla medicina, da ciò
pienamente ſi può ravviſare , che ſenza quella non può Rrr vale. 498
Ragionamento Settima valevolinente operare , ne è da dir arte ſicuramente la
mes dicina ; perciocchè , fe come abbiamo di ſopra lunga mentedivifaro , in
cicchi , e confufilimi laberinti: invi luppata la medicina , nulla mai dicerto
fermamenteriſer ba, non v'ha più valevol lucerna , o più ſicura guida da poter
giugnere a qualche veriſimil conoſcenza delle coſe , che la vera ,
echimicąſperienza . Enel vero , che giove rebbe mai al medico il ſapere ad una
ad'una le partitutte annoverare , e ſcernere del corpo umano , ſe.poi della nas
tura , e del miniſtero diquelle digiuno. ſi foffe..? certo , che nulla ; licome
nulla ancor monterebbe , che notii fiini glifoſſero i ſemplici tutti ,
eivegetali , e gli aniinali, ei minerali , ſenza ſapere lui la propietà', e
l'efficacia di quelli . Perchè a inveſtigar la propietà, e Puficio delle par ti
del corpo umano lungamente affaticandoſi gli antichi fi loſofanti , fenza la
traccia della chimica a poco felice fine le loro opere riuſcir fi videro : e
ciò , tra perchè iſegui ,į le conghietture , onde di prenderle immaginarono ,
poco men che ſempre fallaci , evane fi erano : e ancora perchè parecchj di
coloro , il tutto a quelle ,, che chiaman prime qualità diridurre
s'ingegnarono, dovēdoſi per loro più to fto altre , edaltre qualità ſpiarc
,dalle quali molto più,che dalle prime , le operazionidelcorpo umano, come è
detto , dipendono. Matroppo malagevoli alcune di quelle fono , e ad
intendimento umano moltonaſcoſe ; così ayviluppatou fono , e infra lor
intralciate le particelle cutte , onde s'in generano :: 0 per la troppa
debilezza de'lor movimenti , o per la picciolezza;,.e cenuità di quelle , o per
altre fomi gliati cagioniagli organi de’noftri ſentiméti celandoſi,non ne
laſciano alla verità pienamente penetrare; Namneque pulueris interdum
ſentimusadhæfum Corpore , nec membris incuffam fidere cretam , Nec nebulam
noctu , neque araneitenuiafila Obvia fentimusquandoobretimur euntes . Così
ancor vanamente ſtudiandoſi gli antichi filoſofanti di comprender la natura , e
la propietà dell'aere , dell'ac que , della terra , delle piante , degli
animali, e de' mine rali, DelSig. Lionardo di Capoa 497 rali , in non pochi
errori inavvedutamente incorſero:; maw pur della loro dappocaggine ricreduti
Ippocrate , Teofra 1to ,, Diofcoride, e altri famoſi antichi filoſofanti ,
sfidan doſi di poter quella con piena, e perfetta ragionegiam mai ſcoprire ,
ſenza più addentro vanamente innoltrarſi in fu la lola corteccia ſi riſtarono
., quel ſolamente ſcrivendo ne , che per lungapruova già ſperimentato
:n'avevano . H che diè cagiondi iclamare a quel gran lume della filoſofia ,
edell'eloquenza Romana : mirari licet, quæ fint animad venfa à medicis herbarum
genera , qua radicum ad morſus beſtiarum , ad oculorum morbus , ad vulnera ;
quorun uim , aique naturam ratio nuſquam explicavit : utilitate, con ars eft,
&inuentor probatues, &indi a poco ſoggiugne:quod ſcămone & radix ad
purgandum ,quod ariſtolochia ad morfus ferpentum poffit , videmus, quod fatis
eft; cur posſit,nefcimus. E comeche altri filoſofanti , emedicidi grido,
dallapore , dall'odore , e daaltre ſimiglianti qualità d'inveſtigar ſi ſtu
diaſſero , come, o caldi , o freddi, o ſecchiidetti ſemplici foſſero , onde
poila virtù di radificare , o di ſtrignere , o di riſtorare , o d'altro
argomentar poteſſero : inutilenondime no,e vano ſempre da'brioni filofotanti il
loro ſtudio fu giu dicato ; e'l medeſimo Galicno , non che altri dice, queſta
eſſere una ſtrada , oltre ad ogni creder dubbievole., c falla ce; ſenzachè ben
rade voltc dal caldo , dal freddo , dall'u ! mido , o dal ſecco -naíce: ma
vifan la più parte l'amaro , e l'acetofo , ed altre fomiglianti qualità , che
ſeconde chia mano . Oltre a ciò , v'ha parecchi de'ſemplici,chène odo re alcuno
, ne ſaporc, ne altra manifeſta qualità avendo, só poi di grandiſfime virtù ,
eziandio belzoardiche , e veleno ſe dotati. E chi mai colla ſola guida de'
ſenti potrebbe av viſar , che l'acqua ftigia , che in niuna ſenſibil qualità
dall acqua comunale differente fi ſcorge , cosi peſtilenzioſa, en mortal poi
ſia ? Solola Chimica con ſue pruove faccendio manifeſti i naſcoſi veleni di quella
potrebbe avátiagli occhi di ciaſcuno quegli acutiſſimi ſali porre,che già
valevoli furo nel fior degli ani, e'nel caldo delle vittorie a roder crudelmé
te al grande Aleſſandro le viſcere ed ogni altra coſa conſu R.15 2 mano , 500
Ragionamento Settima mano , fuor ſolamente l'unghie degli aſimi, come dice Plu
tarco : e.de'cavalli avea detto Pauſania ,, Trogo , e Curzio; ed Eliano delle
Corna degli aſini della Scitia ; e di quelle delle muledice Plinio:ungulas
tătùmmularum repertas, ne que aliam materiā, quæ non proderetur à venena ſtygis
agudo E Vitruvio : conſervare antë eam , &continere nihil aliud po teſt
nifi mulina ungula . Machi potrebbe mai credere , cheſotto la dolcezza del
miele , e dei zucchero cotanto piacevoli alguſto,e ſoavi, a covino poi alcuni
ſpiriti pungenti, e roditori non molto dall'acqua forte, e dall'acqua.regia
diſſomiglianei ? delle quali gli acutiſſimi ſpiriti net vitriolo , nel nitro ,
nell' allu me , e nel ſal comune s'appiattano ; e che nel ſolfo diqua , lunque
ſapore ignudo , c digiuno dimori un ſale oltremo do acecolo , c roditore ; e
che nell'olio delle ulive due fali fi ragunino , uno acutiſſimo , c aſſai
valovole a rodere , e l'altro ſoprammodo piacevole , e ſoave ; e che l'acqua pu
ra , e ſchietta , che continuo ſi beve , e ſembra al guſto co tanto inſipida ,
ritengi un fale sì fattamenteacuto , e pene trevole , che ben balta egliſolo in
minutiſſime particelle a fminuzzare , e ſtricolare quel duriſſimo metallo ,
ch'alle fiąmme, ed a'fuochi punto non cede ; echenelle viole, nel ke lattughe ,
nelle roſe , ne'papaveri ,, e in altre ſimiglianti ierbe , e fiori, giudicati
anzi freddi che no dagli erranti medici, un cotalc ſpirito-affocato , ed
ardente mícoſo li ftia , dallo ſpirito del vino non punto diſſomigliante .
Vanillimi adunque, e fallaci i ſentieri ſono , ch’a ravviſar le qualità
de'ſemplici gli antichimedici s'impreſero : e per giugnere alyero conoſcimento
delle coſe, cgliè di meſtiere,che pré- . diamo ad avviarci Per ſentier nuovi a
nullo anco dimoſtri: cioè (viſcerando , e minutamente partendo ciaſcun corpo
per opera della vitaf notomia , la quale Sempre a vincer ſe beffa oprando
intefa noi veggiamo oggidi a sì bello ſtato eſſer condotta . E quanto sì
nobilc,e glorioſo meſtiere per aggiugnere a'no Itri intcadimenti aveſſe luogo ,
ben conobbelo il curiofiſla mo Ga . Del Sig.Lionardo di Capoa. for mo Galieno ,
allor che con ogni sforzo la natura dell'accto ftudiandoſi d'inveſtigare,
lungamente indarno diſiderando fi , così ebbe a dire : In queſta coſa Io non
ſon per tentar tutte le ſtrade , e tenterò di far ogni pruova , acciocchè
poftafi qualchearte , oqualche ingegnoritrovare , col qua le ſeparar ſi poſſano
le parti contrarie nell'aceto , ſicomeſuol farſi nel latte . Macertomala pruova
vi fe egli Galieno,na giugnendo a ciò, che per ogni menomo ſcolaretto dell'ar
te agevolisſimamente s'adopera . Or quat maraviglia fa rebbe
all'orgogliofoGalieno ,c quáto da inenoora li ftime rebbe', fe nel meſtier
della medicina dopo tantiſtudj,e tan ti fudori daun giovane Chimico frvedeſſe a
lungo ſpazio avanzare? nonpur ſappiendo coſtoro in due diverſe ſoltan zel'aceto
partire, il che grandisſimo vantaggio reputave Galieno , main altre , ed altre
molte quello agevolmente freverare: le quali ſottopoſte poi al ſottile,e
profondo eſa minamento de filaſofi , con dar probabile,e verifimile con tezza
delle lor varie ; e diverſe propietà , le tante , e tanto maraviglioſe
operazionidell'aceto ne vengono a manife ftare . Oltre a ciò lo immagino
altresì , che s'egli aveſſes mai il curioſisſimo Galieno qualchemenomacontezza
del la Chimica , comeche rozza; e imperfetta aver potut ? , 11011 đì -ſarebbe
certainéte maieglimaravigliato , come ſotto una sì grande virtù di riſtrignere
, quanta è nel vitriolostanto, tanto calorc covar fr poteffc .- Imperocchè egli
con far di quello notomia agevolmente ,el’una, e l'altra ſoſtanza ri. trovata
v'avrebbe, onde poi d'amendue gli effetcidi riſcal dare inſieme , e di
riſtrignere pienamente n’avrebbe la ca gion compreſa . Efeaveſſemaidiviſar
voluto come il me deſimo ſpirito del vitriolo dueeffetti in - fra le
contrariope rar mai poteſſe , ſciogliendo aleuni corpi caldiſſimi, e rap
prendendo d'altra parte alcuni liquidi , e fortili, e.volanti troppo , ch'a
qualunque oſtinato ghiaccio ligar non lila fciano: 0 como manchevole , e
imperfetto il ſuo filoſofar. .conoſciuto avrebbe . Or di queſta nobilisſima
arte non meno per avventura, che già ſi ſtimaſſe anticamente il pe netrar la,
dove F101 902 RagionamentoSettimo Fuor d'incognito fonte il nila muove , tra
per le tenebre folte disì antica età , e maggiormente per la non poca cura ,
che ebbero ſempre i ſuoi maeſtri di ferbarla a bello ſtudio naſcoſa a' più
altiingegni;o punto no iſcrivendone, o ſcrivendone purcon ritegno , e riguardo
, accennandola con ignoti geroglifici,c.con intralciati eniin . mi , e con
oſcure allegorie , e favoloſi racconti inviluppan dola :malagevolemolto,e
confuſo per certo , e poco mē,che impoſſibile rendeſi a volerne il ſuo primo
incominciamento rapportare; cofa,la quale in tutt'altre biſogne di conſidera zione
avvenir fimigliāteméte ſi vede. Ma che che di ciò Gia, .che di sì nobil
ritrovato deali la gloria all'antica Paleſtina , o pure alla Fenicia ,o
all'Egitto , o alla China , o a qualū quealtra parce forſe più ragionevolmente
la contraſta: egli è coſa ben certa,e ben da ſe medeſima appare eller la Chi
mica antichiſſima, e da’più rimoti tempi eller ritrovata nel mondo , avvegnachè
alcuni non affatto il concedano; e Sao muelBocciardi dica : novum effe inventum
della Chimica favellando , nec illius quenquam meminiffe ante Iulium Firs micum
; il che pienamente teſtimoniano Euſebio ,e Zoſimo; e Suida , c ſpezialmente il
Firmico , il quale tutto che fio tilſe a'répi di Coſtantino , pure traſſe le
ſueſcritture , come ei medelimo ne narra, dall'opere antichiſſime de'Caldei, es
degli Egizj; onde dice il teſtè menzionato Euſebio , che aveffe la Chimica
apparata Democrito:Aquóxer Qu Abdueírris φύσικο- φιλόσοφG- ήκμασεν εν Αιγύπου
μυηθας υπο Οσάνς του Μήδε σαν λέντG- έν Αίγυπω πα αξε τών τηνικαύζ Βαπλίων
Περσών άρχων 7 εν Αι. γύπω ιερών εν τω ιερώτΜέμφεως συν άλοις ιερεύσι και
φιλοσόφους , εν οίς ήν και Μαρία της εβραία σοφή. Και Παμμένης συνέγραψε περί
χρυσού , αργύρα , και λίθων , και περφύρgς λοξώς' . ομοίως δε και Μαρία εσ
ηγέθε σαν παρ' ο'τανε , ως πολσίς και σοφούς αινίγμασι κρύψαντες την τέχνην .
Μa che Democrito ſapeſſe la chimica , ſi può apertamente ve dere in quel che
dice di luiSencca in una ſua piſtola : exce dit porro vobiseundem Democritum
invenifle, quemadmodūs decoétus calculus in fmaragdum converteretur, qua
hodieque coétura inventi lapides coctiles colorantur ; le quali parole di
Seneca fan.conoſccre quanto vada.crrato Giuſeppe della Sca DelSig. Lionardo di
Capox For conto Scala ; in facendoſi a credere non avere ſcritto altrimenti
Euſebio , che Democrito nell'Egitto foſſe ſtato in Chimie ca addourinato ,ma
aveſſe ne'libri d'Euſebio un tal racco to, aggiunto , untal Pandoro monaco; e
comcchè ſi conce deſſe a Samuel Bocciardi, Oſtane non eſſere ſtato giammai in
Egitto , e ch'eglimorto {ifoffe gran pezza innanzi, che colà andaſſe Democrito
; impertanto qualch' altro di cotal nomepotrebbe effere ch’aveſſe qualche
operazione chimi ca a Democrito inſegnata. Ma ſe pure Euſebio errato aver ſenel
nome , da ciò non puòargomentarſi eflerturto il rac Ma ben l'antichità della
chimica affai: appieno dimoArano le fabbriche degli iſtrumenti dell'agricoltura
, las qual ſenza dubbio, niuno colmondo medeſimo nacque adi un'ora :: e'l modo
di coporre il pane, o dipremerdåll'uva, od'altre frutte il vino , e l'artificio
veramente maraviglioſo di fabbricare i vetri , e diformar le gemme, e'l meſtier
del la milizia , e d'altre antichisfimearti giovevoli non poco , e neceſſarie
al genere umano ; le quali ſenza la Chimica non fi poteron mai certamente
ritrovare.. Edella ſua antichif lima lega collamedicinaben ſi può ravviſar
qualche veſti gio appreſſo Teofraſto , ed altri antichi ſcrittori: e da qualche
medicamento ancora delle volgari botteghe ſi può co prendere non eſſer sì nuova
cotal arte , e da’moderni inge gni ritrovata . Mache che ſia di ciò: egliè
certamente l'uo. ficio , o'l meftier dell'arte chimica di ſciorre i corpi
unici, e di congiugnere inſieme i diviſi .. E quantunque ella ſia uns fpezial
arte , che da ſe medeſima reggafi, ne le faccia ne ftieri, o la medicina, o
alcra arte , di cui dipender debba; non però di meno per li molti , é diverſi
fini , in cui gli ar tefici le loro chimiche operazioni talora indirizzar
ſoglio . no , ella infra varie altre arti ſovente s'acconta ;, ma in tre ſpezie
principalınente è partita . La primaſiè, che ſolve, ed uniſce tutti metalli
imperfetti p condurgli a quellaper fezione ( come coloro s'avviſano j che l'oro
in ſe contiene:e queſta vien chiamata da’Greci aepurunanida , La ſeconda ſi è
la filoſofia ,per la quale sì fatte operazioni s'indiţizzano a fin 1 dico 04
Ragionamento Serrimo di conoſcere , e ravviſare la natura , e la propietà delle
co fe a' ſenſi ſottopoſte . La terza- ſi è la medica , che il mede
fimoſimigliantemente adopera per iſpiare; e conoſcerpie namente la patura de
corpiumani, e- giudicar delle ſanità, e delle malattie , e dell'arie , e
dell'acque, e demedicamć ti , e di tutt'altre coſe schad huomo faccian
meſtieri: e an cora acciocchè i medicamenti per quella ſoavi, e grazioſi fi
rendano , e di maggior efficacia ,e ſicurtà per noi ſi ſpe rimentino : e ſi
poſſa ad un'ora più felicemente il veroje conyenevole loro uſo inſegnare.
Comunque però ſi dica no , o ſi faccian gli artefici, egli è ben chiaro -effer
la Chimi ca una cotal arte da per ſe fola; colla quale tanto ha che far la
medicina, quanto delle matematiche , o d'altri ſtudij e virtù certamente
s’inframinette ; ſe non ſe per avventura dobbiam dire ,che maggiore , e più
manifeſta utilità recau alla medicinata Chimica , che tull'altri ſtudi di ſopra
ac cennati unitiinſieme, e rannodati ſi facciano . Perchè come medico Chimico
-ſuolchiamarſi dal volgo colui , che del la Chinica tanto quanto per lamedicina
ſi ſerve , così ſo migliantemente o ſtronomico , o geometra , o muſioo chia mar
colui-fi vorrebbe, che per maggior profitto inmedici na trarre , di sì fatti
ſtudi picnamente fi conoſce . Ma noi nondimeno del comuni favellare l'ulo
ſeguendo, chimnico medico , o chimico filoſofante-colui chiameremo , che del la
chinica arte , o per medicare , o per filoſofare quando meſtier gli faccia
ſervir Si fuole . Madall'uficio , edal fin della Chimica chiaro'fimiglia
temente ſi comprende quanto quclla ne vaglia, e n'ajusi,a1 ži ſicuramente détro
alle ſecrete coſe della natura metter ne poſſa . E ſe veriſſimo cgli mai
ſeinpre ſi crede , ch'allej naſcoſe coſe Non trova ingegno-umano aperto il
varco : chi può mai porre in dubbio , che lo ſcioglimento de'corpi naturali -
il più ſcuro, e'l più agevol modofia da pervenirea qualche conoſcimento
dique’principj, onde compoſti, e formati i naturali corpi ſono : come appunto
dallo ſciogli incnto dc'corpi artificioſi, comed'orioli; o d'altri ſimiglia .
ti in Del Sig .Lionardo di Capoa SOS و ti ingegni fi vengon toſto a ravviſar le
parti, che quei comº ponevano; il che ben conoſcédo i primi padri,e maeſtri del
la natural filoſofia , Pittagora , Parmenide , Anaſimandro , Democrito , e
altri ſaggj filoſofanti dalle continue conſide razioni , che attentamente
ſempre facevano nello ſciogli mento delle coſe , che daʼnoſtri ſentimentiſi
comprendo no le quali noi diciam corpi naturali,di quelle iprimi prin cipj
inveſtigar mai ſempre ſi ſtudiarono . Ne d'altro argo méto fervifli Ippocrate a
forınar l'opinione de'quattro pri mielementi , ſe non ſe di quello della
reſoluziou del corpo umano ; nella qual coſa egli fu poi da Ariſtotele ſeguito
: dicendo , nella carne ,nel legno, ed in altri ſimiglianti cor pi contenerſi
virtualmente il fuoco ,e la terra , poichè aper tamente ſe ne ſeparano; ma nel
fuoco poi noneſſervi altri menti legno , ne carne , ne in atto , ne in potenza
; imper ciocchè le vi foffero , certamente ſe ne ſeparerebbono . E tal
ſentimento dalla torma tutta de’lor feguaci vić abbracó ciato ; a'quali ſeinbra
aver aſſai bene ſtabiliti i quattro pri mi clementi , con dire , in bruciandoſi
una pianta aver vi, oltre al fuoco la cenere , che è terra , e'l fumino, che è
aria : e la groinma , la qual riſudando n’addita non mancar vi anche dell'acqua
. Ma quanto ſpoſata , e fievole una sì fatta pruova fia ,ben pienaméte il
coprede ogni meromo ſcolaretto in chimnica , cui troppo ben ſi manifeſta il
macaméto , e i difetti di cota le ſcioglimento ; concioſliecofachè in ardendoſi
sì fatti corpi,molte , e varic favoleſche, oltre a quelle , che per la
picciolezza in conto verun çavviſar non ſi poſſono , aperta mente per l'aria
ſparpagliar-ne veggiamo : ne è da dire la cenere , il fummo, la fiamma, e
l'umidore eller corpi ſem plici , e non compoſti, che queſti ancora ove più
minu tainente fi folvano , e inſino a primi ſenſibili componenti fi partano ,
ravviſanfi compoſti di particelle di natura , en d'operazione diverſi, come
quelle , che contengono un'ac qua ſemplice , ed infipida , ſenza altra virtù ,
falvo che d'u mettare: e un'olio puro, ed acceſibile,e uno ſpirito ſottile, e
penetrante, e un ſal volante, che ha in ſe, non micno il ſapo Sss re, che 1 506
Ragionamento Settimo le che la virtù tutta del legno : le ceneri altresì fon
com poſte di ſoſtanze diſſimili, ciò ſono un ſale fiffo acconcio a fonderſi nel
fuoco , ed a ſcioglierſi nell'umido , ed una ter ra priva di ſapore , e di
efficacia. E corale ſcioglimento no come il volgare degli antichi in pochi
corpi ſi può dimo ſtrare , ma col conſiglio della chimica , poco men , che in
tutti corpinaturali adattar puoſli ; oltre a ciò poi più addé troil chimico
facendoſi argomentar potrà i ſapori di tutte coſe dal ſal venire in quelle
contenuto , egli odori dal ſol, fo , e dal mercurio la penetrazione ; e per
tacer d'altro,più oltre ancora procedendo ritroverà , che i ſemi del liquido ,
e ſottiliſſimo fuoco nel ſolfo alberghino ; o che ſian quellia guiſa
d'acutiſſime piramidette , o dipiccioliſfimi globi : e che il ſolfo ſia
d'uncinute particelle , e aggavignate com poſto . E così pian piano ricercando
la figura delle parti celle del fale , è degli altri chimici principj trapaſſerà
a {piegare con probabili conghietture tutte le operazioni di quelli. Così
pariinéte dalle chimiche oſſervazioni avviſato , po trà chiche ſia inveſtigare
,come far ſi poſſano le piovese i grā . dini : come s'ingenerinoi tuoni,i
lápise le ſaette :come dalla forza delle folgori fi dileguise fi föda il ferro
della ſpada,rie manédo illeſa la guaina : come piovano foventi fiate pietre,
ſangue , elatte , e come alla fine ſi formino le ſtelle caden o; le
cagionidelle qualicole , e altre molte , potemo ogo gi col giovamento della
chimica , non ſolo aſſai veriſimile mente conghietturare , ma coll'opere, e
coll'eſercizio prat tico imitare ; imperocchè fifaccia dell'oro una polvere nel
la fornace chimica ; che dagli effetti oro fulminante appel laſi , la quale acceſa
, fa non folo lo ſtrepito , e lo ſtroſcia del tuono , ma anche ilcolpo , e la
violenza della faeţea ; il che fa altresì quella polvere da ' chimici parimente
ri trovata , la qual tonante chiamano . Così parimente raccoglieſi
dall'evaporazioni dell'acque piovane eſtives , un ſale , chemeſcolato con egaal
porzione di ſalnitro ,e có una particella di ſolfo fa an coral meſcolamento ,
che ac celo li fonde in pietra . Ma di troppo più tempo avrei bi fogno Del
Sig.Lionardo di Capoa. 807 fogno ſe voleffi Io far parole ditutte altre
maraviglie dela le quali le cagioni naſcoſe per addietro , e inviluppare agli
intendimenti de’noftrimaggiori ora per argomenro delle chimiche ſperienze ne fi
rendono in qualche maniera pia ne , e manifeſte . Perchè non è forſe dadubitare
, che ſe l'arte Chimica pervenuta foſſe a notizia degli antichi greci
filoſofanti, non avrebber certaméte coloro nelle loro ſcuo le huom ricevuto ,
che prima in quella non foſſe alcun té po uſato , e ben lungo vantaggio tratto
n’aveſſe ; e per mio avviſo con maggior ragionedi quella , onde Platone, e se
nocrate volean , che nel filoſofare non foffero ammelli com loro , che della
Geometria digiuni foffero , come teſtimo : niano Laerzio , Suida , ed altri;
perchè nella fronte dell'an drone dell'Accademia quelle famoſeparole ſcolpite
legge váli oudéis ayemjétentos sioitw . Concioffiecofachè la chimica fola il
più certo , e ſicuro fenticro lia,da condurre alla na tural filoſofia ; edella
ſola porger ne fappia le chiavi, con cui quelle ſalde ,e diamantine porte
differrar in qualche modo ſi poffano , ove i più cari, e ricchi tefori deita
natu ra fon riſerbati : perchè a ciò riguardando non ebbe il cor to certamente
il famoſiſſimo Meſue di chiamare per van. taggio , e per eccellenza floſofi, e
ſapienti coloro , che del la Chimicaconvenevolmente s'intendono. Ma per
diſcendere al più particolar giovamento , che della Chimica raccor fucle la
medicina : Io dico primiera mente, ch'a bene ſpiarla natura de’viventi, e
ſpezialmente delcorpo umano, e la ſua ben regolata economia ,la chimi ca
lommamente abbia luogo , e la ſua vital notomia ; im perciocchè ſiafi pure
coll’opere della morta notomia a mol te, emolte coſe aggiunto , le quali gli
antichi ſapicaci ravviſar non poterono ; e lungo tratto vi crrarono : e ſap
piaſi pure per quella il vero movimento del cuore , e del ſangue : e che il
ſangue non s'ingeneri nel fegato , o nelle vene , fecondochè con molti altri ,
così antichi , comemo derni porta opinion Galieno : ne men nel cuore,ſicome im
» magina Aristotele : c ſappiaſi anche , che il chilo tragittiſi non per le
vene miſeraiche , ficome vollono gli antichi me Sss dici ; 508
RagionamentoStrimo dici; maper le vene lattee al ſacco latteo; onde poi meſco
laro col ſangue trapaſſa al cuore : e ſappiaſi eziandio , che vi ha le vene
acquofe: c come, e per quali ſtrade l'orina per le reni trapelando alla veſcica
s'ayvalli : ecento , e mille altri moderni trovati degli ingegnofi notomiſti
de’noftri tempi , de qualierano affatto digiune Legentiantiche ne l'antico
errore; anzi concedaſi altresì volentieri ( il che non mai sì di leg gieri
conceder dovremmo ) che la notomia già all'ultima mano ſia giunta ; e che
de'tempi noſtri ſe ne ſappia quanto mai per tutti i ſecoli ſe ne potrà per
innanzi ſcoprire , o fa pere :non per tanto non potrà di tutto concio ſervire
al me. dico per farlo a quella perfezion ſormontare, che al ſuo
meſtier.Sirichiede ; anzidopo tante , e tante fatiche ſaprà cgli ſolamente una
vaga, c dilettevole ſtoria delle parti del corpo umano : utiliſſima certamente
, anzi neceſſaria a do ver ſapere ; ma non baſtevole già, ne meno a poter in
par te fondare , e mandare avanti una verifimile razionalme dicina : per la
quale fa meſtieri ſaper le cagioni dentro , ele probabili ragioni delle coſe ,
non già la ſola ſtoria, e'l ſem plice racconto di quelle . Ne da dir egli è
ſaper pienamen te l'economia del corpo umano quel medico , il quale non potrà
render ragione della natura della generazione , del movimento delcuore, del
ſangue, del chilo , degli umori acquoſi, e d'altre parti così correnti, come
ſaldodelcorpo umano , c della propietà ,e operazione di ciaſcuna di quel le ;
le quali coſe inveſtigare impoffibile certamente è ſenza dovere a chimici
ſcioglimenti ricorrere ; per virtù de'quali Avicenna d'inveſtigare ſtudiosſi l'umidore
dell'oſſa , e de' peli : ed affermò,cheavendo egli ſtillato nella boccia parti
eguali d'offa , e di peli , uſcì dell'offa maggiore abbon danza d'acqua, e
d'olio, e minor di feccia: perchè dic'egli, che l'oſſa più umide , c più
ſuccoſe fieno. Ma no pure a ben filoſofare i Chiinici dello ſcioglimēto de
corpiſervir fi debbono,ma co argométo ácora ditutt'al tre operazioni
dell'arte,bé poſſono veriſimilmente ſpiegare, come tanta varieti di cibi nella
ſoſtanza, e nel colore dilli mili DelSig.Lionardodi Capoa. 509 mili ſi traſmuti
ſoventi fiate in un bianchillimo , & unifor me licore , che chilo appellaſı
; come poſcia il candore del chilo in ſanguinoſa roffezza ſi trasformi; e donde
il cuore abbia il ſuo movimento , e'l ſuo calore , cioè aſſomigliana do la concozion
de'cibial diſcioglimento , over disfacimé to decorpiſolidi , in virtù di
convenienti liquori ; la gene razione della bianchezza nel chilo , e del
roſſore nel fan gue , alla trasformazionedel colore nel latte vergine , e
nell'eſſenza del fatirione , e altre ſimili coſe ; la continua produzione del
calore nel cuore , e nel ſangue : al fervore , che per la formētazione
s'ingenera ne’liquori de' corpi ve . getabili . E cotanto montano per mio
avviſo sì fatticono ſcimenti, che ſenza quelli nonſi può coſa del mondo intor ,
no alle malattie , a’lor effetti, e cagionigiammai diviſare; ne in altre
faccendo delcorpo umano , coſa alcuna di con ſiderazione potrà per huom
maidirſi , fe minutamente les dette coſe , e molte , e molt'altre per virtù
della Chimica in prima diligentemente non s'inveftighino , le quali tutte lungo
ſarebbe al preſente volerle quìfil filo narrare . Ma non men utile , non men
giovevole, e neceſſaria cgli è certamente ancora al medico l'arte de
Chimici,colla qua le egliponendo ad una rigoroſa , e ſottile eſaminazione
l'aria , le terre , l'acqua , le piante , e gli animali , eimine rali corpi ,
attentamente poine ſpia , e ne conghiettura la natura di ciaſcuna coſa ; e di
qualunque lor menoma parti cella le propietà , elevirtù , ele maniere tutte
dell'adope rare con probabili, e ſimili conghietture ravviſa . E nel vc ro
queſto , che ciaſcun di noi , e tutt'altri corpi di quà giù ſempremai circonda
, penctra , avviva, emantiene, valtiſ fimo, e diſcorrente , e lieve , e ſereno
, e ſottiliſſimo cor po dell' aria : la quale l'acutiſfimno infra gli antichi
Ita liani noſtri Timeo di ſgretolate , e minucillime particel le di ben venti
facce compone, non è egligià miga ſem , plice corpo , come il volgo follemente
s'avviſa ;ma di varie, e diverſe ſoſtanze compoſto inſieme , emeſcolato . Sorgo
no queſte dalla baſſa terra talora , edall'acque , che quella , irrigano, e
forſe anche dalla luna, dal ſole, c da altri corpi fupe. l 5102 Ragionamento
Settima faperiori vi piovono ; per li qualil'aria, o più , o menoalla
reſpirazione, e agli altri biſogni degli animali acconcia fi rende, poichè
nelle cimedegli altiſimi monti , ove non giungono l'eſalazioni dell'acqua , e
della terra , gli animali fi foffogano ; perchè poi in coloro in varie guiſe le
malattie naſcer veggiamo; perchè canrò Virgilio ſubito cùm tabida membris
Corrupto cæli tractu , miſerandaque venit Arboribufque ,fatiſque
lues,lethiferannus. Ma tali particelle meſcolate inſieme , e nell'aria coufuſe
aſſai malagevolmente per certo , aozi in niun modo ravvi-, far ſi poſſono , ſe
non ſi partan prima', ſolvendoſi ciaſcu na di loro ne' ſuoi primi componenti .
Il che con ma raviglioſo artificio da alcun de'più eſercitati, e più intens
denti Chimici felicemente operar ſi ſuole: e ben ſi ſcorges omai a tal ſegno la
coſtoro induſtria avanzata, che per ope: ra del famoſo Drebellj,parche vi ſi
fia già ritrovato perre ftituirlo all'aere, qualora ne veniſſe egli privo
,quelnobilif ſimo eliſlire, che giuſta i ſentimenti di Paracello vita infó de a
quanto Qui nel mondotra noiſimuove , & fpira ; che perciò egli vitale
l'appellasper cui l'aere non ſolamente agli animali ,maalle piante cziandio
oltremodo neceffaria eller li conoſce ; e ben di eſſo felicemente avvaler ſi
vide to ſteſſo Drebelli, allorche egliquella maraviglioſa bar chetta da lui
fatta a richicſta del Re Giacomo della Gran Brettagna con iftupor di tutti
ſotto acquanel Tamigi fena vigare ; coméchè il detto eliſfire altro ancor
faccia , cioè folvå , e precipiti giù quelle ſoſtanze nell'aere , che'l ren
dono mai atco alla relpirazione . Ma l'acqua, la quale per bevanda, e per altri
infiniti ug è cotanto biſognevole, quantunque chiariſſima, e traſpa rente , c
pura a tutta poffa fi ſcelga , eli proccuri ; e che al fapore , all'odore , e
alla leggerezza, ea tutt'altri ſesnali ſempliciſſimo corpo in prima neſembri;
pur riandata poi, oltre a diverſe foſtanze, che meſcolare vi ſi trovano , ſe ne
cava ancora un tal ſaie sì fattamente acuto , e pugnereccio , che DelSig .
Lionardo di Capoa JEI che di nulla ha che cedere in forza aque'ſali ,onde per
l'ac qúa regia quel duriſſimo metallo fi ſcioglie , comediſopra accennammo, che
a qualunque violenza di fuoco, ſaldo , e oftinatiſſimo mai ſempre contraſta ;
perchè è dacredere nó bene operar coloro , che il diſtillar acqua per limbicchi
di metallo , e maffimamente di piomboagli ſpeziali permet tono ;
conciosſiecofachè roſicchiato alquanto dallamorda cità di quel fale il piombo,
e trameſtandoſi l'uno all'altro , vengonoinſieme a corrompere,e meſcolare; e
guaſtar ma lamente la ſoſtanza diquell'acqua , che ftillaſi:e allora veg giamo
coforarſi a poco a pocol'acqua , e a guiſa di latte biancheggiare , quando
diſtillata a campana di piombo có altra femplice , e non diſtillara acqua
ſimefcola ; ilche fag giamente avvifarono già i dottiſſimi Accademici del Cinně
80. Ma che che fia di ciò , oltre al ſale , il ſolfo altresì , e'l mercurio , e
la flemma, ela terra dannata ritrovò nell'ace qua il dottismo medico , e
chimico filoſofante Borricchio . E che diremonoi de ſemidi tantis e tanti vegetali
semine rali, e animali, cheper la glorioſisſima induſtria d'alcunº altro
Chimico nell'acqua ancor ſi avviſano : il che diede per avventura cagione agli
Egizzjdi giudicarla primera , e univerfal materia ditutte coſecreate , da'quali
tolſe Ome ro a dire : Ωκεανόν πθεών γίνεσαν και η μητέρα τηθε ePautore di que'
verſi attribuici ad Orfeo Ωκεανόόσπερ γένεσις παντεσσι τέτυκάι . Ωκεανών πεώτG»
, καλιρρόσυ ήρξαι γάμοια oʻpos saoryvártee góptopýtoege TyIwTHEY, E’I noſtro
poeta , per tacer Virgilio , Catullo , ed altri, ſe . condo il medeſimo
ſentimento avendo egli al fuo Filagli teo fatto ragionare in prima della terra,
Pur non è ella il gran principio immenſo, Ilgranprincipiodele coſeeterno,
Benchèmadre fichiami, e velta : & vanti La reggia , ei figli ſuoidivize
giganti, fa poi, che coluiſoggiunga: Mafo degna di fede ,èfama antica L'O ! ST2
RagionamentoSettimo . L'Ocean de le coſe.è vecchio padre. Il qual ſentimento fu
anche di Talerc Mileſio , il qual ncl. la ſcuola de ſapienticosì preſſo Auſonio
va dicendo Milefius Thales , aquam qui principem Rebus creandis dixi. E ciò dal
vedere egli , come fasſi a credere Ariftotele , effer umido , così il ſeme ,
onde s'ingenera l'animale, come il cibo del qual ſi nutrica : e dal credere,
come riferiſce Plutarco , il ſole , e le ſtelle da'vaporidell'acqua nutrirſi, o
dall'avviſare ch'ogni qualunque coſa dall'acqua nafca , ed in ella diffolvafi,
comc racconta Euſebio . Malo immagi. no , che Talete non già principio delle
coſe abbia voluto eſſer l'acqua , ma giudicato aveſſe aver d'acqua in primas
avuta ſembianza e, forma quella materia , onde poiſecon do il ſuo avviſo i
corpi tutti ſenſibili del mondo si formaro no; ciò parimente ravviſar ſi puote
dallo ſcoliaſte d'Efiodo , allor che dice , il caos d'Eliodo , altro non eſſere,
che l'ac qua . Ma non men dell'acqua , e dell'aria ſi dee ancora prender cura
delle terre , c con attentisſima eſaminazione conſide rarle , ove certamente
infra tante , e tant'altre ſoſtanze,che Vallignano foglion diverſe , e varie
ſorti di minerali' ritro varſidagli ; aliti de'quali reſa talora peftilenzioſa,
e corrot ta l'aria , o l'acqua , o le piante, o le frutca , nuove , edi verfe
guiſe di malattie ſovente cagionano: ne altronde, per quel che già Io ini creda
, quelle gravisſime febbricomor tal riſchio degli ammalati in cotali ſtagioni
dell'anno accé der fi fogliono, che per cambiamento d'aria avvenir comu nemente
fi giudicano , ſe non ſe da sì fatti aliti, e ſuapora menti de'minerali, che
pervenendo al noſtro corpo , e dall' aria , ed all'acqua , e da' cibi quivi
racchiuſi , e ingozzati, ſcoppiano poi per la loro abbondanza, e ſoverchio
vigore in ardentisſime malattie ; imperoccliè in quelle ſtagioni il fervor del
fole facendo venir ſu gli alitį arſenicali, vitrio lati. , nitrofi , e ſulfurei
dalle occulte miniere della terra , rende l'aria dannoſa, e nociva alla unana
ſalute ; concioſ fiecolachè in ponçido noi mente alle chimiche operazioni e 1 o
ray 1 Del Sig. Lionardo di Capoa 513 2 ravvifarido , come alcuneſoſtanze , le
quali comechè ſc parate ſi prendano ſenza alcun nocumento per la bocca, im
pertanto confuſe formano un mortifero veleno , come nel ſolimato ſi vede , del
quale ogni qualunque menoma parti cella mortalmente offende, potrasſi
agevolmente conoſce re, come reſpirādofi ne'viaggi ora aliti mercuriali, o
a'mer curiali equivalenti, ed ora ſalini , pofſa produrſi nel cor. po noſtro
una ſoſtanza non guari disſimile al ſolimato ed indi poi quelle mortali
infermità di cambiamento da ria appellate agevolmente s'ingenerino . E ciò vien
conferinato dalla ſperienza, come quella , che ci dimoſtra, ivi avvenir le
malattie di cambiamenti d'aria , ove ravviſa fi maggior varietà diminerali , ed
ove il calor del ſole per cuota maggiormente ; ne da altro , che da aliti
velenoli, e nocevoli de'minerali da crederè, che s'accendano ancora quell'altre
febbri non men malvagc, e non men peſtilenzio ſe delle prime, che avventandoſi
tratto tratto con lor vio lenza alle Città, e a' contadi , e a’villaggi tutti,
fogliono così infra breve ſpazio di tempo impoverir d'abitatori le contrade .
Ed abbiam noi pure con gli occhi proprivedu to quanti , e quanti da sì fatte
cagioni nella noſtra Città miſerabilmente morti ſiano, e ſpezialmente ne'meſi
addie tro, quando crudelmente diſcorrendo in alcuni luoghi la peſtilenzial febbre,
laſciò vuoto , e diſpopolato il Borgo Sant'Antonio , ed altre terre ,non ſolo
della Campagna Fe lice , ma d'altre Provincie ancora del Regno noſtro . Ed è
egli neceſſaria ancora ſoprammodo a'mcdici la chi mica acciocchè eglino con
l'ajutodi quella valevoli a ſpiar la natura , e la propietà de'cibi, e
de'ſemplici medicamen ti render ſi poſſano ; conciosſiecofachè quantunquc vero
egli foſſe ciò che Galieno medeſimo coſtantemente niega's c rifiuta ;che i
ſapori , e gli odori, ed altre ſoiniglianti qua lità, certi , e ſicuri ſegnali
della natura de'cibije deʼmedica menti ſiano, pure perciocchè gli organi
de’noſtri ſentimen ti di sì ſottiltempera, c di sì acuto intendimento non ſono
, che poſlan ſempremzi ben comprendergli , egli ne fw certamente meſtieri per
iſcorta de'ſenſi rintuzzatil'Ermeti Ttt C2010 5.14 Ragionamento Settimo ca
notomia , la quale partendo i corpi , ed eſaltandone le qualità ( per ſervirmi
d'una voce dell'arte ) quelle poi ma nifeſte a'curioſi, e ſenſibili
maggiormente offerir poffa . E quale avviſo potrebbe mai per huom' prenderfi
dal ſolo fpiamento de ſenſi intorno a que'cibi,e a que'medicaméti : che pur
ven'hà molti : edanche intorno a que'veleni, che privi affatto ,e ignudi
d'odore ,e di ſapore,e d'altre ſimigliá ți qualità , di tanto vigore , e di sì
inaraviglioſa efficacia ſi conoſcon poiper pruova , qualia danno , c quali a
prode gli huomini , chc nulla più ? E quale argomento prenderem noi dal ſapor
di quelle coſe, che di ſoave dolcezza maſche. rate in prima , come già altra
volta abbiam detto, ne lufin gano il palato , e la lingua , e poi tranguggiate
, nello lo maco formentandoſi, le viſcere, cgl'inteſtini crudelmeute ,
n'offendono ? Coſa ,la quale nel zucchero, e nel mele , e in ciaſcun'altra
ſimigliante coſa manifeſtamente fi ſperiméra, Che dolce al guſto , a la ſaluteè
rea ; perchè facendo le beffe a' volgari medici il motteggevol Berni, così
proverbioſamente ne favella: Il melperchèmangiato altrui diſtempre, E’n collera
ſi volti ; a cui l'amaro Danno coſtor , che fan tutte le tempre: Queſto ſecreto
così degno , e raro Maſtro Simon ftudiandoil Porcografo Scoperſe a Brun , che
gli fu già si caro. Or fa tu l'argomento o Babualo , Edì , fe'l mele in cullera
ſi volta , Segno è , che d'amarezza non è caſo. Ma comechè così alla ſcoperta n'ingannino
i ſentimenti ilmele , e'lzucchero con far veduta d'eſſer cotanto dolci, foavi ;
pure de’lor falli agguati ne fan pienamente avveduti le chimiche machinazioni,
con darnemanifeſtamentea di vedere, nel zucchero, e nel mele un ſale acutiffimo
naſcon derſi, nonmolto a quel dell'acqua forte , e dello ſpirito del nitro
dicimile : Quis mellis dulcedinem nefcit? dice Pier Severino : nibilominusin
tanta dulcedine latent Spiritus illi acutisfimi , qui ubi exaltantur , & ad
extremitatem ducun :: tur, Del Sig.Lionardodi Capoa. 515 tur,venenatā perniciē
represētāt.Eprima dilui Baſilio Vale. tini già detto aveva:jā vero ex illo
fuavisfimiq ;faporismeile Corroſivă peffimü, atq ; præfens venenum
præpararipoteft. Or va medico ingannato , e ſciocco , e giudica pur dalle qua
lità , ch'a prima faccia viſcorgi,le cofe della natura ; con danna la rigidezza
nel ſal comune per la rabbiofa ſete , ch ' accenderſi da quello sformatamente
rimiri: ch'ad ontz pur della tua mellonaggine han ſaputo i Chimici un fales
aceroſo rinvenirvi ad attitare anche agl'Idropici più ane lanti la fete . E che
direm poi del pepe , che così mordace; e pungente , puré un dolciſimo, e
ſoaviffimo fale in ſe na fconde ? E che d'altre , e d'altre pruove infinite ,
che per interamente fpiegarle vi vorrebbono lunghi volumi , non che piccoli
diſcorſi di ragionamenti ? Sarà dunque da con. chiudere , che noi per quanto
con tutta noftra poffa a ſpia: rei ſegreti delle coſe del mondo ci adoperiamo ,
pur nonui ne poſſiamo fe nonſolamentele priincbucce comprendere; perchè ſe
chimica mano non le parge , c riſolve , e diſtinta mente elaminandone le parti
, le naſcoſe interiora di qucl le non ci addita , e le operazioni, e'l
convenevol modo di farlo , certamente chiunque ciò follemente intende Ne l'onde
folca , é ne l'arene femina. Eben di ciò fe manifeſta pruova il Cardano ,che
col lim. bicco , e colla Chimica giunſe a ciò che comprender mai non poterono ,
o Ariſtotele , o Galieno ; e ciò fu , che nó fappiendo coſtoro la cagione ,
perchè cotanto noccia il vi no ,maſſimamente generoſo , e pretto a colui, che
paciſca di mal caduco,egli ſolamente colla ſcorta della Chimica potè a fuo
credere affai veriſimile ritrovarla:hoc verò dico ( sõ ſue parole) nõ cõvelli
puerosà vini potu ob caliditatem ;quum neq; pipere,neq;aliis aromatibus id
eveniat: neq ;quod fithumidū; nă vel noeft, vel lac longè humidius, à quo tamen
non convel tuntur . Caufsa ergo eft aqua ardens , quæ in illo continetur : que
quum latuerit Ariftotelem ; & Galenum, meritò in Aris fotele admirationis cauffam
præbuit , in Galeno multa perpe tam commentandi; eftautem abundantior , quo
vinum craf Ttt . 2 pius eft. . 116 Ragionamento Settimo 1 : 1 2 fius eſt . Ma
ſe'l Cardano ſtato e’li foffe meglio inteſo nelle faccende della chimica ,
aurebbe certamente una aſſai più veriſimile cagione di ciò nel vino ſcorta , e
avviſata : im perocchè oltre allo ſpirito ardente , che giova anzi che no al
mal caduco , evvi un ſal fiffo acetoſo nemiciſſimo delle parti tutte nervoſe ,
del qual aſſai più , che dello ſpirito ardente egli è il vino groſſo
abbondevole , e copioſo . Ma intorno alle fattezze , così dentro , come fuori
delle coſe, giovevoli oltremodo a raffigurarne anche le vir tù dc'ſemplici ,
non comporta al preſente la ſtrettezza del tempo , ch’lo tanto quanto ne ragioni;le
quali per non dir d'altri vedeſi aver tolte dal Paracelſo , e da altrichimici
au tori, comechè di lor non faccia punto mézione,e averle de ſcritte nella ſua
Pitognomica il noſtro curiofiffino , emol to de’ſegreti della natura intédente
Gio : Battiſta dalla por, ta . Maniuno certamente ha , che con maggior
diligenzas per quel che me ne paja , e più felicemente ne tratti (per ta cer
del Crollio, e del Quercetano) quáto Federigo Elvezio , E coinechè noi fin qui
de'ſemplici medicaméti detto ab kiamo , non però di meno è da credere la
Chimica a'com poſti, clavoratimaggiormente abbiſognare . Furon que fi ingegnoſi
trovati del mondo già adulto ; imperciocchè negliannidell'oro , e nella felice
etade , quando i pomi , e le ghiande Eran del corpo umanlodevolpaſto : nelle
ſemplici piante la germogliante medicina ſolamentes confifteva ; e allora non
men che le ſchiette vivande , i me dicamenti ancora Vſar le fortunate
antichegenti; ma creſciuta poi oltremodo col tempo , e comprenden doſi dagli
huomini eſſer nclle piante qualche parte inutile per avventura, c qualch'altra
forſe nocevole, eglino di par tir l'une dall'altre per lor biſogne
avvedutamente propoſe ro ; quindi tra perchè non ſi fapeva , o non ſi potea
purlaw parte nociva , è inutile dalla buona ſeparare , e anche per chè così
diviſe, debile molto , e sforzata la parte medicinal He rimaneva, qualch'altra
pianta forſe ſaggiamente v’ag 1 4 giun Del Sig .Lionardodi Capoa . 517 1
giunſero valevole ariſtorare i mancamenti, e i difetti del la prima , é a far
sì, che quella nulla , o poco nocer potef fe ; anzi ſe pur Pabbiſognaſſe ,
quindi la ſua virtù notabile mente avanzar nedovefle . Così tratto tratto
cominciaro no nel mondo a comporſiinſieme , e meſcolarſi i medica menti ; e
ſarebbe pure aſſai bene potuta riſtare in tale fta to la biſogna , ſe già tanti
, e tanti indiſcreti , e ſmo dati medicinon aveſſer quindi preſo agio di
ſtrabocchevol mente ſcompigliare, e confonder la medicina tota , con ac cozzare
inſieme ; e meſcolar cotanti medicamenti per ren der la medicina , o più
malagevole , o di maggiorpregio al mondo ; e componendo inſieme una lunga
ſchiera di cento ſemplici medicamcnti, ne formarono talora uirconfuſo , e
inviluppatiſſimo guazzabuglio . Cofa , la quale ſommoſſe i più faggi, e
avveduti medici, ed inveſtigatori della natu ra a lūghisſime quercle,come
d'Erafiftrato narra Plutarco con quette parole: Ερgσίστρατοδιέλεγχε την
ατοπίαν, και περιεργίας με μεζλικα , και βοτανικα , και θηeμακα, και τα από γής
, και θαλάθης εις Te Quroovyzeegwúras oxandryce Citocécouvlas iv mitocrívy , og
díxua , και εν ύδρελαίω τηνιατζικην απολιπε . ΜαEragrafo biamo ol tremodo
l'indiſcrezione , e la curiofità di coloro , che i minera Li infieme , e le
piante , e gli animali, e ciò che mena laterra , o naſce in marein unomeſcolarono;
che più fennd af'ai avreb ber fatto , fe daparte laſciate cotantecoje folamente
co’farri , colle zucche , e coll'Idreleo aveſſer l'arte della medicina ter
minaia. E l'avvedutiffimo, e bé parlante Plinio.fraudes ho minum
,&ingeniorum capture officinas invenere ifas , in quibus ſua' cuique homini
venalis promittitur vita . E chi non maraviglierebbeſi di tante , e tante coſe
, ch'a com por la Triaca , o'l Mitridate, concorrer debbono , dan ftancare i
ſpeziali ,non che a raccorle,maſolamente in leg . gendone le ricette/ Theriace,
diſſe altrove il medeſimo Pli nio , vocatur excogitara compofitio luxuriæ ; fit
ex rebus ex ternis , quum tot remedia dederit natura , quę fingula ſuffi,
cerent. Mithridaticum antidotum ex rebus quinquaginta quatuor componitur , interin
nullo pondere equali , & qua . rundam rerum fexagefima denarii unjus
imperata . Que Deo 518 Ragionamento Settimo Deorumperfidiam iftammonftrante ?
hominum enim fubtilin tas tanta effe non potuit . E avvegnachè cotali medicamen
ti fiao poi nell'opera buoni, ed efficaci riuſciti, non ne ſom però mai da
troppo commendare i primilor ritrovatorizim perciocchè nel comporgli da prima ,
e nel lavorargli non con avveduto , e ſano giudicio certamente adoperarono , ma
a riſchio , e a caſo alcune di quelle coſe togliendo ( che pure alcune vi ſon
ſoverchie ſenza pro niuno, c viſi potreb . bono anche dell'altre , e forſe con
maggior ſenno , più ef ficaci aggiugnere)il tutto e nella ſceltage nel povero
,e nels la quantità di ciaſcuna ciecamente alla ventura riniſero , non
guardando minutamente comeſi richiedeva , al valor di quelle , ne punto
efaminandole . Impreſa per molti ca pi malagevol troppo , e quaſi ad huom
diſperata; ſenzachè nel meſcolarſi ,nel diſporſi, e nel formentarſi inſieme i
sé plici,varj , ediverſi mutamenti ſovence avvenir ne foglio 110 ;
iqualicertamente non è da dire , ch'aveſſer mai que primi ritrovatori di quelli
pienamente avviſar potuto. Per chè comenell'incendio di Corinto quel ricco
metallo co tanto dalle ſtorie celebrato nella fortunofa meſcolanza di altri
metalli alla vçntura formofli , così nõ meno il caſo an cora ha parimente
portato , ch'il Mitridate , la Triaca, o s'altra v'ha fomigliante compoſizione
, giovevoli, ed effica ci rimedi per molte , e graviſſime malattie
fortunoſamente fian divenuti. Ma che che di ciò ſia , manifeſta coſa è poterſi
molto be De l'antico ufo rinovando , colle ſole piante medicare ; la qual forte
di medicina, dirò con Adriano Turnebo ,huom di varia , ed eſquiſita letteratura
: fortaffe ad morborum fani taiem efficacioreft ,quam illa confuforum
miſcellanea compo fitis ; magno mortalium , & difpendio , &
damnointroducta. £ noi per tacer de' bruti animali , che felicemente ad ogn ora
l'adoperano il veggiamo pur fare alla giornata a parec chj de'noſtri contadini,
ne ha guari,cheil Caritrero, famo filimo medico Tedeſco , con ufar medicando le
ſemplici piante , non ordinaria lodå guadagnoſli ; e i popoli inge gnofillimi
del Braſile ,iſicome riferilce Guglielmo Pifone , medi DelSig.Lionardo diCapoa.
$19 medicamentis fimplicibus utuntur, noftraque derident , quia compofira ; e
degli abitacori del Mellico , Fra Martino Igna zio ne' ſuoi viaggj , così dice
: los Indios fon grandesberbo-, larios , ycuran fempre con ellas , demanera ,
che cafi non hay enfermedad para la qual no ſepan remedio , y le den :ya
eſtacaufa viven muyfanos , y cafi per maravillamueron, que noſea quando el
humido radical ſe conſuma : ed in quel va ito , e quaſi immenſo tratto dipaefe
della China , comete ſtimonia il Padre Matteo Riccio , fi è medicato permolti,
e molti ſecoli , e ſi medica tuttavia , ed aſſai felicemente coll uſo delle
folc erbe . E certamente come la natura delle ſchiette, e non meſcolate
vivandeoltreinodo ſi dilecta , Nam varieres Vt noceant homini credas , memor
illius eſcę , Que fimplex vlim tibi federit ; at fimulaffis Miſcueris elixa ,
fimulconchylia turdis ; Dulciafe in bilem vertent ,ftomacboque tumultum Lenta
feret pituita : vides ut pallidus omni Cæna deſurgat dubia ? quin corpus
onuftum Heſternis vitiis animum quoque pregravatuna Atque affigit humo
divineparticulam aura. Così anche ſchietti , e non compoſti medicamenti per
riſtorarſi richiede ; perchè Plinio : non fecit , diffe , ceraia , malagmata,
emplaftra , collyria , antidotaparens illa , ac di vina rerum artifex :
officinarum hæc , imo veriusavaritia commenta funt. Pure , poichè la coſtuma
de’meſcolati, co me de'ſemplici medicamenti, è tanto oggidà nel modo avā zata ,
che per legge è quafi da ciaſcun ricevuta, e ſi veggo. no sì fatti rimedinelle
botteghedegli ſpezialicötinuamen te a calca difpenfare : convenevol cofa egli
certamente , anzi neceffaria mi pare , dovere il medico degli unis e degli
altri piena , e ficura contezza avere ; e oltre a ciò nelle ma niere del
lavorare i compoſti medicamenti eſſer ottiinamé te ammaeſtrato . E certamente ,
o quanto farebbe egliil migliore , ſe il medico medeſimo i rimedj, che diviſa ,
po • neſſe in opera , e non ci foſſero ſpeziali, i quali tri per l'in gordigia
del danajo , e per la loro ignoranza il tutto traſcu rata : 520 Ragionamento Settimo
1 1 ratamente abborracciaffero ; o almeno lavoraffcro imedici qualche
medicamento dimaggior conſiderazione , laſcian-, do ſolamente in man degli
ſpeziali i più volgari , e meno vili: come già coſtumavano (ſecondo il narrar
di Galieno ) Archigene, Andromaco , Apollonio , Critone, Pacchio ,e altri
famoſiffimi medici antichi; i quali non iſdegnarono ď. ufar ſovente un così
giovevole , e aobil meſtiere ; an , zi lo ſteſſo Galieno vantaſi oltremodo
d'aver lui mede fimoa ſue mani la triaca lavorata; avyegnachè di que’tein pi ,
come e'medeſimo ne fa teſtimonianza , e molto addie- : tro ancora , il meſtier
delmedico da quello dello ſpeziale diviſo anche trovaffefi,come avvifa infra
gli altri Plinioidid cEdo, che alcunimedici de'ſuoi tépi no li davan cura niuna
dicoporre imedicaméti,gefepropriú,ſono ſue parole ,medie cine ſolebat:ene'répia
noi più vicini ebberoi medici ancora le lorbotteghe;avvegnachè conventati, e
onorati molto ſi foffero , e in quelle alcuni medicamenti ad uſo di vende re
riſerbaroro : come dal Decameron delBoccaccio nel la novella del Maeſtro Simone
agevolmente ſi può cópren dere ; a cui Bruno dicea : e ſappiate , che quelle
camere ſono nonmenoodorifere che fienoi boffoli delleſpeziedella bottega voftra
, quando voi fate peftare il comino. El Fernelio, ed altri famofiffimi
medicihan coſtumato pure di comporno alcuno s perchè l'avvedutiſlimo Orazio
Eugenj loda foin mamente coloro , che imedicamenti pe’loro ammalatian ſue mani
lavorano . Ne dovrebbe ilmedico certamente vergognarſi a pur farlo 3
perciocchè,comedice Primeroſio , remedia abfque medico curant,non autem medicus
abſque re mediis ; præftantior igitur medico erit remediorum natura : quare ea
præparare , &componere medicum non dedecet, qui naturæ tantum miniſter eft.
E nel vero egli è queſo un meſtier sì nobile , e lodevole , che non che i
filoſofi di mag gior lieva , e ſpezialmente Ariſtotele l'abborriſſero , e l'a
veſſero in diſpregio , anzi i Principi d'alto affarc ſovente l'adoperarono, e'l
tennero a conto. Or ſe il medico medeſimo a pro de'ſuoi infermi lavorar dee
DelSig. Lionardo di Capoa ser deeimedicamenti ,e ſconvenevol coſa non è a
ſalvamento degli huomini l'adoperarviſi ; come potrà giammai , quan tunque
faggio , e avveduto egli ſia ', porre in opera, e com porre i più malagevoli
rimcdj, ſenza avere in prima bene , uſate, e ſperimentate lungo tempo le
maniere , e gli artifi cj , co’quali ſi compongono ? iinperciocchè l'efficacia
, e'l valor di quelli dal niodo dell'apparecchiargliin gran parte depende. O
come potrà mai pienamente diviſar de'ſempli ci , de'inodi , co'quali tra loro
quelli accozzar ſi debbono, e tramcſtare ? perchè Giacomo Silvio
intendentisſimo di cotali affari vuol, che chiunque a bene imprender l'arte
della medicina indirizzar ſi voglia,debba alinen per lo ſpa zio di quattro anni
avercontinuo in prima uſato , ebazzi cato con gli ſpeziali nelle botteghe loro
; & quidem exifti mo , dice anche Pier Caſtelli , oprimum medicum hujus fu
cultatis debere effe expertiſſimum : alioquin fore , utfere fem . per in præfcribendis
medicamentis compofitis erret. Mari tornando , onde partiti eravamo: ch’al
inedico faccia biſo gnola Chimica , quanto al fatto delle compoſte medicine,
egli non è da porre in forſe ; poichè ſi ſcorge omai di per; tutto eſſer in uſo
le chimichemedicine; perchè ſe'l medico non aurà piena corezza delle faccéde
pertinenti a coral ar re , come potrà inai quando meſtier glie ne ficcia , o
colle fue propic manicomporle , o adoperarle, o conoſcere al meno , c riparare
aldanno , che quelle aveſſero per avven tura cagionato ; o ſe forſe da altri
medici diviſati foffero , raffermare i loro sériinéti, o rintuzzargli,ſecodo
egligiudi chcrà , che ſi convegna per lo miglior dell'ammalato. E nel vero come
potrà mai adoperar medicinenti un medico , ſe non ſe intendentistimo della
natura , e delle propietà delle parti, chic’lcompongono , e degli effetti
ancora , e del mo do del loro operare ? E come potrà mai egli ſaggiamente
ordinargli ad argomento d'una , o d'altra malattia ; e divi . farle ſtagioni, e
itempi , in che fan da dire , c alle conj: pleſſionidegl'infermi, e all'età
ragionevolmente adattaro gli ? o comcpotrà mai loro ordinare il inodo di
prenderglis e diviſarne la quantità : 0 temendo di qualche riſchio rin Vuu tuiz
522 Ragionamento Settimo tuzzarne, e attutarne la troppa violenza , o contro
quella agli ammalati di qualche yalevole ajuto di preſente ſoccor rere ; o
toglier lenoje, ei fastidi , che ſovente ingenerar ſo gliono ? Non è certamente
cosìagevole , ſecondo i ſenti menti del medeſimo Galieno, il poter medicamenti
adope rare a colui , cui conoſciuta in priina , e manifeſta molto bé non ſia la
virtù di quelli, e la forza per la quale gli effetti n ' avvengono . Or che di
grazia avrebbe detto Galieno , re : qualche contezza pur delle chimiche
medicine , comechè leggeriffima, gli foſſe all'orecchio pervenuta ? Certamente
conſiderando egli le ſtrane maniere , e malagevoli del loro operare, ayrebbe
ne' medici ricercato ſtudio , cavvedia mento maggiore ; e non che piane ,e
facili , e ſenza trop po riguardo giudicate l'avrebbe , ma pericoloſiſſime a
ſpe rimentare , e da troppo più, ch'a popolar medico non lico viene. Or vadano
pure coteſti medici di cromba marina, e colla ſola doctrina del lor macſtro
Galieno a far pruova de'chimici medicamenti a coſto della vita dc'inileri amma
lati ſcioccaméte s'attentino,che vedran pure a funeſto, e la grimeyol fine le
loro mal ardite follie sépremai riuſcire;im , perciocchè ne dalle ſcritture di
Galieno, o d'Ippocrateme defimo, ne da altri lor ſeguaci , che della chimica
medici na nulla certamente s'inteſero , comprender mai potranno coſa alcuna
intorno a'chimici medicamenti ; ne dalle rego le , che già coloro ne laſciarono
fi può trarre argomento 2 comporne alcuno; ſo per quelle le propietà
de'inedicamé timedefimi della lor comunal medicina, nc anche avviſar fi
poſſono: perciocchè , ficome è detto , in quelli ancora il chiariſſimo lume
della Chimica ne fa meſtieri .Ne quelno biliſſimo pronipote del gran Re di
Damaſco , Giovanni fi gliuol di Melue nella chimica medicina, e in quella di Ga
lieno , maſſimamente intorno alle purgagioni eſercitato , n' avrebbe mai
conſigliato , cſfer ſempre da leggere , e ſtudiar ne’libri de'fapienti (
cosìchiama egli per eccellenza i chi mici) s'aveſſe giudicato averfi ciò potuto
baſtevolmente in que' diGalieno, c dc ſuoi ſeguaci apparare :netanti , etā ti
valentillimi Galicniſti avrebber poi il conſiglio di Meſue qual DelSig.Lionardo
di Capoa. 523 qual legge ſeguito c, con molta fatica ne'volumi, e nelles fucinc
de'Chimici lungamente ſudatinon ſarebbono . E licomc ad huom poco giova
l'eſſere nell'antico meſtier dell'armi baſtevolmére eſercitato , ſe poi ad
abbatter Roc che, e Caſtella ,e ſorprender Città:dimine, d'archibugj , di bombe
, d'artiglierie , e d'altri nuovi , emoderni ſtru menti , ed ordigrida guerra
dalui per addietro nô mai più veduti, o ſperimentati, ſervir ſi vuole; ma
conviene in pri mache da nuovo maeſtro , e intendentiſiino di quelli pic
namente apprefi gli abbia,e come,e quando , o per offefa, periſcherno da
adoperar ſiano : così nulla ancora a'medici approda il ſaper coloro
compiutamente quanto mnai nell’ : antica , e volgare fcuola diGalieno apparar
ſi poſſa, ſe mai chimici medicamenti uſar ſaggiamente intendono ; ma egli fa di
meſtieri, che ben anche in prima da Chimico macſtro apprcli gli abbia, e la
maniera d'adoperargli, e l'arte di bé comporgli pienamente abbia apparata;
imperciocchè fe così sfornito dell'arte , e ſconſigliato ſi vorrà ad impreſa
çotanto matta , e malagevole arriſchiare, certo mala pruo va vi farà il ſuo
orgoglio ; e rimettendo il medicamento al Izventura , e alla cieca andando , a
manifeſto , e certiſlimo pericolo la ſua fama iuliemc, e'l falvamento
dell'anmala to alla fuacura commeſſo porrà . Così quella famoſa ſci mitarra
diquell'invittillimo Eroe Georgio Caſtriota , la cúi memoria ancor teme, e
trema l'infedel popolo ſaracino, diceſi , che in man di Macometto Re de’Turchi
le ſue glo rioliflime pruove laſciate aveſſe : ita plerique medicine, dice a
noltro concio Teodoro Chercringio , chymice præſertim , aut mortue ,aut (quod
deplorandum magis) mortisfæpè cauf ſefunt, quando non animantur periti
Doétorismanu, qui no verit eas tempore, &loco adminiſtrare . Così anche
dopo l'infelici pruove per lui fatte nella gioſtra, Colui ch'indoffo il non fuo
cuojo haveva, Come l'afino già queldel leone, il viliſfimo Martano , lo
dico,ritornato in Damaſco fu qui vilungamente ſcherno delle femmine , e
de'fanciulli. Ma tanto più da piangercè , comechèdirifi ancor degna ia ,la Vull
liioc 524 -Ragionamento Settimo ſciòcca tracotanza dicoſtoro ', quanto in
malamente uſan do le chimiche medicine , quantunquc ſicure , e piacevoli quelle
ſieno , pur n’ammazzano crudelmente gli ammalati. Così il dotto Galieniſta per
altro , e avveduto molto To waffo Eraſto collo ſpirito del vitriolo un cattivello
infer mo empiamente a morte conduſſe per no aver lui nel fuo maeſtro Galieno la
natura , e l'uſo di cotal medicamento apparato ; che ſe egli dal Severino , dal
Penoto , dal Dor neo, o da altro profeffor della Chimica medicina;da lui cos
tanto biaſimatas appreſo aveſſe , e pienamente conoſciuto come , o quando lo
ſpirito del vitriolo da dar ſia , certame tc eglicotanto misfatto comıneſſo non
avrebbe. 's E forſe , che nel medeſimo fallo appunto dell'Eraſto no ſi è quì
bruttamente cader veduto non ha guari un credu to , e molto ſtimato Galienifta
, il qual collo ſpirito fimi gliantemente del vitriolo un miſerabile infermo,
cui, per troppo ghiottamente eſſerſi riempiuto di freddi, e aceto ſi liquori ,
fi era riſerrato il perto , infelicemente ſtrago Jandolo licciſe ? E piaceſſe
pure al Cielo , che per l'abuſo di sì fatto mc dicamento non fi vedeſſero tutto
giorno miſerabilmente molte , e molte perſone morire . Egli è coſa troppo mani
fefta , ſe pur merita fede la ſtoria rapportata dal Checher manni, di quell'Elettor
Paladino, cui per l'uſo dello ſpirito del vitriolo l'interiora tutto guaſtc , e
roſe ritrovaronfi. Ne giova punto a cellare il pericolo de'ſuoi peftilenzioſi
effet zi l'adoperarlo con ritegno , e riguardo, e ſcarſamente uſar lo ,
teinperandolo anche talvolta con acqua , o altriſomi glianti liquori;
concioſiecoſachè dato più , e più volte co minciapianamente ad operare , ea
poco a poco rodendo , infin le tuniche del ventricolo , ſpietatamente alla per
fine conſuma, c divora . Così talvolta al continuo ftillar d'ofti nata goccia
mancano finalmente i duri macigni. Et leviter quamvis quod crebro tunditur ietu
, Vincitur in longo ſpacio tandem , atque labafcit. E pur lo ſpirico del
vitriolo per altro cosìbenigno,e pia cevole ſi ſperimenta , che ben felicemente
a'fanciulli anco :. ra da Del Sig .LionardodiCapoa 525 1 ra dacolui , che
cautamente ſervir ſe ne ſappia fuol darli . ? E ſe'l vitriolo baltevole a
guarir la quarta parte de'rnali da quel grand'huomo in medicina Teofraſto
Paracelſo vienu giudicato ,ben da colui ancora il ſuo ſpirito vien fomma mente
lodato con chiamarlo quartampharmacopolii partēs & lapidem angularem in
officinis pharmacopoeorum ; avve gnachè cotefto ſpirito , che comunalmente
nelle botteghe degli ſpeziali per ciaſcun fi diſpenſa , non fia veramente
quellofpiritodi vitriolo cotanto da Chimici commêdato na altro più groffo , e
di minor virtù , e giovamento di fuello . : ! is Ma per ritornare a'
grofliffimi errori , ne'qualiper nons aper di Chimica fogliono i medici,
comechè faggj , e av veduti, talvolta ſmucciare , egliè pur manifeſto a ciaſcun
quanto fcioccamente , e fanciulleſcamente dell'antimonio il dottiſſimo
infra’ſeguaci di Galieno , Mercuriale favelli. E chi non iſcoppierebbe delle
rifa in conſiderando la mel ionaggine di quel famoſiſſimo Gåſieniſta , e
cotanto nella lottrina del fuo maeſtro eſercitato , Aleſſandro Maffaria ?
vvegnachè più toſto da pianger fiat , che da ridere la com fioro ignoranza per
li ſconcj avvenimenti , e funeſti, che ne fuguono . Egliadunque intorno al medeſimo
antimonio dopo averne cosìinfelicemente favellato , venendone all' lifo del
darlo , e diviſando in che quantità da dar fia ,in und fua cotal ſciocca
ricetta ,cosi ragiona: Recipe antimonii pre parati 8.3. Orchi Domine giammai il
fentimento compré der ne potrebbe ſenza andar dalle gabbolc a ricercar ſe de
fiori , o del gruogo , o del vetro , o d'altre, e d'altre molte medicine , che
foglion farſi dell'antiinonio , abbia intender voluto ? Ecco appreſſo il nottro
Antonio Santorelli nella volgar dottrina de Greci, e degli Arabi maeſtri
famoſifli moſcrittore, diviſar dell'acqua arzente in una delle fue opere così
ſcioccamente, che nulla più . Ecco il dottiſſimo Galieniſta Giovanni Eurnio
così traſcurato in favellar del fale del vitriolo vomitivo , cheda piacevoliſſimo
chequel, loè , facendolo fomigliante nella violenza all'ariento vivo
precipitato , ed al vetro dell'antimonio , lo riftrigne , eris fpar ' 526
Ragionamento Settimo . ſparmia a nôn darlo all’ammalatosſe non nella quantità
ſo la di due minutiſſime granella digrano . Ecco d'altra parte il più illuſtre
, e famoſo medico de'ſuoi tempi Guglielmo Rondelezji doftar forte , e temere ,
non la raſchiatura del dente del Cignale rattenga talvolta nelmal della punta
lo fputo;nel qualviluppo certamente egli involto non fareb be , ſe nella
maniera del filoſofar de chimici in medicina baftevolmente avanzato fi foffe ;
concioffiecoſachè cota li rimedi per lo loro Alcali volante mai ſempre operiuo
; il qualpenetrando , e trameſtandoſi colfale aceroſo, che nel le vene , e
nella punta s'accoglie , eſciogliendo le dutez ze dell'apoſtema, agevolmëte
quindi per ogni via così aper ta , come occulta ,non che per quella ſola dello
ſputo,ne fa ſpiccar fuora la inateria tutta inſaccata . E ſe cotal via di
filoſofare quell'altro famoſiſſimo Medico Prevozio te nutå aveſſe ,certamente,
che ne anche eglicosì ſcioccamé te temuito ayrebbe di dar nelle febbri maligne
agli ainma latiil.corno del cervio . Ma come , o in qual guiſa a sì no bilmente
filoſofar'nelle maraviglioſe operazioni della chi mica potrebbon mai
indirizzarſi i tondi , c goccioloniGa lieniſti, ſe nelle coſe più piane , e più
manifeſte di quellow , anche v'ha infra loro chi Come notturno augel nemico
alſole cieco affatto ', e rintuzzato d’intendimento vive ? Egli non può
narrarſi certamente ſenza ſmaſcellar delle riſa la peco raggive di quel famoſo
conventato Galieniſta nell’Acade mia diGroninga, il qual troppo
fanciulleſcamente giudica va lo ſcoppio , c'l tuono dell'oro fulminante per
opera de ' Diavoli avvenire : e ciò turto pauroſo attendeva, non altri menti ,
che il Macſtro Simon fi faceſſe , quando ſu la beſtia imperverſata, e
nabiffante inyer la Conteſſa di Civillari ini corſo andava . Nuper aurum
fulminansracconta il Chippe ro , cujus fi granum unum , aut duo carbone defuper
lentè ac cendas , bombardam minorem fonitu aquat,ſi non antecellit; ut
meritoridenda fie Freitagii focordia ;&contradicendi ftu dium ; dum tale
quid fieripofle naturaliter denegat , ctſi oma ninò effectus evidentia
cuvincatur, ad Dæmones hujus cauſ; fam Del Sig.Lionardo di Capoa. 527 fam
refert : dignum certè hac patella operculum , & hoc philos fopho
hæcphilofophia. , Egli è dunque da conchiudere eſſer la chimica ſomma mente
neceſſaria alla medicina tra per li medeſimi volgari medicamenti de'Galienifti,
e più aſſai per quelli, che di el fa Chimica ſon propi , e che per opera
diquella , e de' ſuoi ftrumenti ſolamente ſi compongono ; e maggiormente in
quelli l'arte ſottiliſſima della Chimica fi conviene; che co me è già detto ,
così pericoloſi ſono ,e da temere inmaneg giarſiper le ſtrane, e non ordinarie
maniere del loro opera re . E concioſliecoſachè v'abbia cotali rimedj non
iſcorti alla lingua, e alle nare , e d'ogni ſenſibile qualità affatto ignudi ,
che per regole d'ordinaria medicina non può la lor natura agevolmente
comprenderſi: egli è di ineſtieri certa mente per non fallar nell'avviſargli,
alla chinica notomia ſopratutto ricorrere;ſenzachè havvi alcuni particolari me
dicamenti , detti ſpecifici , i quali convien fenza fallo , ch'a chiuſi occhi ,
e ſcioccamente lavori , e maneggi chiunque del meſtiere , c del modo del
filoſofar de Chimici non è bé dottrinato , e intendente affui ; perciocchè sì
fatte ricettev: nella pratica della medicina , così brevis ce ſecche , ecalor
confule , e incerte ne'buoni ſcrittori ſi trovano , che per im broccarnela
quantità , o'l tempo , o la maniera d'uſarle , o le malattie , nelle quali da
adoperar ſono, malagevole cer tanente ſarà ad intendimento umano; ed è ſolo de'
Chi miciragionevolmente , e ſenza fofpetro alcuno l'adoperar lc , e ſervirſenic
calora , dove lor faccia meſtieri, con effer in prima fotcilmente filoſofando
nella lor natura ben penetra ti ; e per quel che permeſſo ad huom ſia , con
aver le loro qualità baſtevolmente compreſc . Cofa , la quale quanto monti a
dover ceſare i riſchjge i danni, cheda sì fatti me dicamenti naſcer poſſono ,
pur troppo è a ciaſcun manife fta . Ne è già punto maraviglia , ſe gli arditi ,
e poco avve duti Galieniſti ſcioccamente inframmertédoviſi,la lor par te ancor
vifanno : ſe come è detto , anche nell'adoperare i . Jor medeſimi medicamenci
van carponi, e brancolando per l'incertezza,quaſi ciechi al bujo ; e in quelli
maſſimamente , a’qua 528 Ragionamento Settimo < aquali dan nomedi virtù
occulta , cioè a dire di ragion no conoſciuta , e non punto da lor compreſa ,
credendo così la lor groffezza , e laloro ſciocca pecoraggine coprire. Ma
d'altra parte i chimici medici filoſofanti innoltrandoſi quá to per huon ſi
puote nella contezza demedicamenti,eco noſcendo aſſai veriſimilmére la natura
dc'mali, e le cagioni, onde avvengono , ſicome con avveduto , e probabile divi
famento fortilmente ragionar ne ſanno , così con loro no bili , ed efficaci
argomenti digran vantaggio riparando ſo-, vente al genere uinano , degni
d'immortal gloria , ed'eter na fama ſirendono ..., mily Magià baſtevolmente
dimoſtrato quáto a color, che me. dicare intendono faccia meſtier: la Chimica :
a divilar de' chimici medicamenti , e quanto ſovente ne lian neceſſari.
trapaſſeremo. Ma comechè lo di ciò fivellar per comuns giovamento m'ingegnj, e
ne renda maggiormente avvedu-. ti gli huomini delmondo , pur dubito , non
alcuni dannā- ) do ,ebiaſimando sì fatti rimedj inalgrado per avventura me ne
fappiano . Dunque dirà taluno, queſt' altra nuova ſorte dipeſtilenza all'uman
genere mancava ? e non baſta va forſe a impoverir di gente le provincie, e i
Regni, il vuo tar di quel prezioſo liquore,a cui s'attiene la noſtra vita, per
, ogni menomacagion le vene ; e co'duri cauterj, e con crui deli veſcicanti , e
altriricroyati di barbare , e ſtrane nazioni martoriar miſerabilmente le
genti:e a toglier alle parti più ſodedel corpo umano il debito nutrimento , e
la virtù di ravvivarlo , e di riſtorarlo alle liquide : uſar le ſcamonces , gli
elaterj , le colloquintide , ilatirj , i pepli, gli Elleborin , iTurbitti ,
iMezerj, le ſquame del raine, le pietre lazule , e tante , e tant'altre forţi
di nocevolislimi veleoi più ches , di riſtorativi argomenti dell'antica volgar
medicina , ſe non vi congiuravano ancora a noſtro comun danno i potentiffi mi
precipitati , i mercurj divita , 0 Alcarotti , come altri gli chiama, i verri ,
i fiori, e altri cento violentiffimi vomi tivi tratti dell'antimonio ,del
vitriolo , del mercurio , o d'al tro qualunque più peſtilenzioſo minerale ? Deh
piaceſſo pure al grande Iddio , che, o non mai uel mondo foſſeliin he trodora (
DelSig.Lionardo di Capoa. 529 trodotta la medicina; o almen , che non inai ella
ſtata ſi for ſe colla ſpagirica arte accoppiata , e delle nuove , e ſtrane
fortide'medicamentidiquella dannevolmente accreſciuta : che mé malcerto ne
farebbe dalle malattie medeſime inter venuto di quel, che tutto dì oggi per mā
de’medici miſera bilmente proviamo. Or s'accreſcano pure a ſtruggimento, e
ſterminio delle noſtre vite nuovi, e muovi ſtrumenti di mora te ; e
gl'ingegniumani s'aſſottiglino,e s'affannino , e ſudina a gara per imprédere
un'eſercizio così in fauſtojcosì crudele, che nemeno a'ſuoimedeſimi artefici
ſuol perdonare, che im appreſsãdoſi ſolamëte a'fornelli no debban ſovente correr
manifeſto pericolo delle perſone. Così morifli ancor gio vane il Tedeſco
Teofraſto , non già da’maligni Galieniſtip invidia atroflicato ,
ficomecomunemente per tutto allor buccinavaſi,ma al parer dell'Elmonte ,buo
giudice in sì fata te coſe ,da’medeſimi minerali ; che continuamente e' manego
giava ; dal cui nocevole , e peſtilezioſo fummo l'Elmon te medeſimo confeſla ſe
eſſere ſtato più fiate in grandiſſimi riſchj della vita condotto . Così anche a
' tempi noftrive duto abbiamo quel cattivello nella ſtrada delle Campane dagli
ſpiriti del nitro , e del vitriolo , e da altri minerali do po continuo tremore
, ch'e' n'apprefe , e dopo lunghe , e gravi malattie miſerabilmente alla fine
morirſi . Orqual danno dovrà egli intervenirne a colui , che quaſi cibi inno
centivolentier gliſi tracanna , fe cotanto nocevole , e dan noſo è l'avergli
ſolamente davanti Ripone tra' ſuoi egregi vanti la Chimica di ſapere oltremodo
i medicamenti delle parti inutili , e nocevoli ſpogliare , e di rendergli
benigni aſſai, ed efficaci ; ma per tacere , che alcuni di quelli ( e'l
confeflano comechè mal volétieri i loro artefici medeſimi) deboli , e ſpotſati,
e di niun momento dal ſuo maneggiar diventano , parecchi , e parecchj ( coſa la
quale certamé te è peggio aſſai , e dura oltremodo a ſofferire ) di mezza
Haméte nocevoli, che in prima erano , o pur tali ſi dimoſtra vano , rendegli la
chimica col preparargli non altrimenti , che imedeſimipiù fieri toſſichi,
crudeliffimi, e micidiali . Dica pur queſta nobiliflima Città : quanti, e quanti
nel 1 Xxx ten 530 Ragionamento Settimo tempo della paſſata peſtilenza con
dolori acerbiffimi di vi. ſcere n'aveſſe fatti morire quel velenofiffimo
ariento vivo precipitato , ch'angelica polvere allora chiamavano , pro poſto
allordal Protomedico di que'tépi a comun ſalvamé. to degli ammalati,e co
pubblico editto diyolgato colle ſtá pe. E ragionevolmente per avventura
dubitonne alcuno , ſe più huomini allora per la potentisſima violenza di quet
medicamento , o per la medeſima peſtilenza mancaliero . Edo quanti, e quanti
alla giornata veggonfi privi di vi ta , o cagionevoli reſi della perſona per
opera di chimici ri medj, de’quali la maggior parte conſiſte in lavorare i mine
sali;i quali dalla noſtra natura affatto rimosſi ,altro mai, che dolori, noje ,
malattie , e morti recarnon poſſono . Odafi per Dio ciò , che di coteſti
Chimici , e della loro ſcuola di dica ildoctisſimo Erafto , l'eloquentisſimo
Cortino , il ſot tilisſimo Riolano il padre , e la ſcuola famoſisſima tutta di
Parigi. Odaſi come con ſaldisſimeragioni nuovamente gli rintuzzi , e mandi giù
l'acutisſimo peripatetico filoſofo, e Galieniſta Ermanno Corringio ; e
ſopratutto ſi riguardi a ciò , che dalle genti pe’mal capitati infermicontro
a'chi ci medicamenti tutt'or querelando ſi dica , e le beſtemmie atroci, che
per tutto contro lor ſi ſcagliano . Deh sbandi ſcafi per Dio da queſta Città,
sì nocevole , c dannoſo me ftiere , e con rigoroſisſimi divieti ſi mandin fuora
delle bota teghe degli ſpeziali, e da tutt'altri luoghi le chimiche me dicine.
Ne già mé ſaggj nel vero , e avveduti eſfer dobbiam noi de'medici Melaneli, che
il dannevole uſo dell'Alcarot to vietarono ; e ſe ſono , e con ogniragione ,
da' noſtri fta tuti proibiti gli uſi degli archibugetti e degli ſtili , e
d'altre ſomiglianti arme,come nocevoli algenere umano , quan. tunque tal volta
a ſchermo dell'onore , e della perſona pur buone fiano ; perchè non ſaran da
yietar poi medicine sì fie re , emaligne,che ſe mai pure di recar qualche
giovamento fan ſembiante , allor più crudelmente inſidiar la vita fi fpe
rimentano . Sono o Signori, sì fatte querele , e rimproccj in grā par te per
opera dc'malvagj Galieniſti contro la Chimica, ei ſuoi DelSig.Lionardo di
Capoa. 530 ſuoi medicamenti fovente adoperari ; i quali gittando la polvere
innanzi agli occhi della balſa,minuta,e troppo cre dula gēte , fan loro a
vedere che ichimici medicamenti più ch’altri ammazzar fogliano , e che tutto il
malc, che nel cu rare altrui intervenir ſuole , da color ſolamente avvegnavi
perchè la ſciocca torma del popolo da for moſſa lamente volmente gli biaſima ;
e con torti , evani giudizj ſovra i chimici, i misfatti de'Galieniſti medeſimi,
o le violenze del male empiamente riverla; E parla più di quel , che meno
intende. Ed è egli certamente cotal diſavventura a tutt'altri me. dici ancor
comune d'eſſer sépremai accagionati della mor te degl'infermi : non moritur
æger fine infamia medici: diſse Plinio e pural tépo dilui, o no v'era , o no
avea púto che fır nelle noſtre contrade, o in quelle de Greci,colla medicina la
Chimica . Così non giugnendo i medicamenti a rintúż zar la violenza del inale ,
ed eſſendone diterminata alla per fine la meta della noſtra vita', è certamente
da dire có quel valent'huomo, che nella medicina tutt'altro avvenir ſoglia, che
in ciaſcun'altro meſtier ſi coſtumi; perocchè dove i mã. camenti degli Artefici
a'difetti dell'arte comunalméte s'im putano , ſolamente in medicina il
mancamento dell'arte aʼmedici cattivelli ſovente fi riverſa ; e fon talvolta
inde gnamente accagionatidi ciò , che per argomento umano imposſibile ad
operare . Perchè certamente intorno a ' misfatti de’medici da prudente huomo ,
e aſſennato non è da preſtare agevolmente fede a’rapportati masſimamente da
altri medici per malavoglienza , o per nimiſtà , ficome di ſopra baſtantemente
diviſato abbiamo con l'eſemplo d ' Aſclepiade; eſſendo pur troppo vero quel
detto di Curzio: iai diverſis rebus id folet fieri ,ut alius in alium culpam
refe rat . Ne già è mio intendimento , che di cocal quereia al cun de'noltri
medici al preſente fi punga , come a ſe pro piamente inveſtita ; perciocchè lo
quì in general ragionare intendo del cattivo coſtume d'alcuni medici ; cben ſo
, che così quì, comealtrove v'ha de'medici dabbene , c onorati affai, e di
qualunque gran loda dignisſimi : avregnachè Xxx 02 532 Ragionamento Settimo 1 1
1 1 1 talvolta pur alcun di loro daʼfalſi rapporti ingannato, NÓIL . già per
altio , e permalayoglienza, maper troppa ſua dab benaggine vi falli . Pur male
a noſtr’huopo comincia tal volta leggeriſſimavoce , non ſo donde , o falſa , o
vera, ch' ella fiali , che roſto per tutto ſi buccina, c s'accreſce:intan to,
che agevoliſſimamente dalla bafla plebe , e dalle troppo credulaperſone vi ſi
preſta fede; i quali non che vogliano ſottilmente caminar comela biſogna
paſſata ſia , anzi tal volta ſenza ſaper come , o quando, c da chi cominciata
ſia , volentier la s'inghiottono : & fepè etiam quod falſo creditu eft ,
veri vicem obtinuit . Perchè poiveggiamo della mor te di taluno accagionarſene
medico , che non che viſitato giammai l'aveſſe ; anzi ne men chi colui foffe, o
dove ſi foſſe dimorato per avventura fapeva; pure comechè a sì fatta
diſavvetura ciaſcunmedico ſoggiaccia,nó però di meno ſo pra tutt'altripar
ch'a’miſerichimici maggiorméteella con traſti, quantunque certamente maggiori,
e più gravi dan ni da'volgari medicamenti alla giornata avvenir veggiamo, che
da’Chimici ; e pure quelli ſovente alla gravezza incon traftabile del male, non
alla dappocaggine del medico ac tribuir ſi fogliono: dove di queſtinel
contrario, laſciata dw parte qualunque altra cagione , folamente i chimici medi
camenti s'infamano ; maſtimamente per coloro , i quali nul la fappiendone ,
come di nuove , e non conoſciute coſe ſo ſpettando, ſempre ne temono ;
follemento mai ſempre,e in tutte le faccéde vera ſtimado quella séréza di
Cornelio Ta cito :fuper omnibus negotiis melius,atq ;rectius olim provisü :et
quæ cuvertuntur in deterius mutari. Ed è pur da aggiugnere a ciò quell'altra
cagione che per opera de’malvagi, e invi dioſi Galieniſti s'accrefcon mai
ſempre i timori della ſcioc ca plebe , intanto che ne men poſſono ficuramente i
chimi ci medicide' più volgari, e comunali medicamenti talor fer virſi ; che
pur diquelli il vulgo ignorante teme ; dove d'al tra parte fe dalla greggia de
creduti Galieniſtichimiche medicine , comechè violenti, e pericoloſe loro fien
porte ' , tantoſto alla cieca , e ſenza tema alcuna le fi tracannano , volendo
pertinacemente anzi che a'chimici,ne'loromedeſig 1 mi me DelSig. Lionardo di
Capoa 533 mi medicaméti, ſtarſene agli ſtrani, e talora ſciocchi Galie niſti,
cui ne men per nomequelli conoſciutiſono : non che ne ſapeſſer mai le qualità ,
e glieffetti , che ne'corpi umani quelli adoperar ſogliono . Non niego però ,
che tal malavventura ne' Chimici di non eſſer agevolmente creduti , eglino
medeſimi talvolta la ſi procaccino , quando o per ſoverchio dicompasſione , che
han de’miſeri ammalati, o per vaghezza di dover gưa rire gli abbandonati
da'Galieniſti , ambizioſi s'inframmer tono di medicare i diſperati, e voglion
quaſi dall'orlo del feretro trarre i morci.È la ſciocca géte n’aſpetta pur le
ſtra vaganze, quaſi foſſe propio de Chimicil'adoperare i mira coli; quando
forfe i Galieniſti non han faputo per poco co figlio la creſcente malattia
attutare , con dar loro al tempo iconvenevoli medicamenti; perciocchè
Principiisobſta : ferò medicina paratur, Quum malaper longas invaluere moras.
Anzi con avere i Galieniſti medicati talvolta a roveſcio , e alla cieca gli
ammalati , malignamente poi, ea gran tor to ne vien ripreſo,e cacciato il
Chimico ,e i fuoi rimedi bia fimati . E a tal fegno pure giugner veggiamo la
iniquitoſa malizia d'alcun medico , che di quel medeſimo infermo, cl egli
ſpacciato in prima , e già laſciato aveva , attribuiſce poi difpertoſamente
altruila morte, e i chimici medicamé te di colui empiamente n'accagiona. Così
non vergognof fi il Foreſto a ſcriver purc , che colgruogo di Marte un co
tal’Empirico ammazzato aveſſe un'ammalato tutto mar cio , e corrorto , e
com'egli medefimo narra , già moribon do , e fpirante. E piaceſſe pure a Iddio
,che non foſſe giūrå a tāto l'affocata malavogliéza di sì fatti ſquafimodei ,
che già reputādofia vergogna il falvaméto ,che allo infermo da loro ſpacciato
avvenir puore per cófiglio de'chimici, e già temédone gli avāzi,nó prédeſſero
alcuna briga di far pruo va delle loro bugie, con dar qualche ftorpio
a’riſtoramenti dello infermoze ſe pure in lor diſpetto neguariſce l'āmala to,nó
folaméte delmedico, che'l fanò, madi lui medeſimo capitali nimici rimangono;
ficome di quel Cote diffe quel motteggevol Satirico Italiano : Ha 534
Ragionamento Settimo Ha buon ز occhio , buon vifo ; buon parlare , Bella lingua
, buon / puto , e buon toffire ; Queſti fon ſegni , che non vuol morire;
Maimedici lo voglion 'ammazzare: Perchè non ci ſarebbe il loro onore , S'egli
ufciffe lor vivodalle mani , Avendo detto , egli è Spacciato , e more. Ma come
teftè ragionavamo con la lor ſoverchia pictà in voler curare infermidiniuna
ſperanza , danno agio i Chi mici a i ſoffiamenti degli invidiofi Galieniſti, e
cadono tal volta dal buo nomedivaléti medici. Ne certaméte p altro Ippocrate
vieta aʼmedicanti il dover por mano agli infermi difperati; e quell'altro
famoſo ſcrittore Arabo ne conſiglia a non doverci arriſchiare a prender cura di
malagevoli , sfidate malattie , ſe non vogliamo pure guadagnar titolo di
cattivi medici ; e anche avviſa Cello , prudentis hominis eft, eum , qui
fervari nonpoteſt , non attingere : nec fubire.fufpia cionem ejus, ut occifi,
quem forsipfius peremit . E a ciò an che riguardado Galieno parimente ne
conſiglia a dover la fciare alſolo predicimento cotali infermi, ſenza dar loro
niuna ſorte dimedicaméto , per no logorare indarno.i rime. dj,e fargli infam
uea torto preſſo il vulgo, õde poi ſi laſcian via, quando forſe ad altri
ammalati di minor riſchio giove voli ſono . E nella medeſiına guiſa Aleſſandro
de Benedet ti : prudentis medici, dice, ef ,inſanabiles, &defperatos mor
bos nun curare ;ne hominem occidiſſe , quifua forte interitu rus erat ,
exiſtimetur . E che direm noi di que'chimici medicamenti , che talor de perſone
ſi lavorano, e ſi diſpenſano, che dichimica , ne dimedicina ne ſan boccata?
Enel vero eglitāto omai è cre ſciuto l'abuſo delfabbricare malamente , anzi
abborrare i rimedjchimici , cheda'Ciurmadori , e da Cerretani , edas viliflime
femminelle uſar pubblicamente ſi veggono , e ven dong a macco in ſu le panche,
e per le fiere abbondanteme te li ſpacciano , e ben ſovente fi comprano anche
dagli ſpe ziali , e da’medici per diſpenſargli poi a 'loro ammalati;šć zachè da
Galieniſti medeſimi calor s'imprendono , e teme ruri . 1 . DelSig. Lionardo di
Capoa. 535 rariaméte dagli ſciocchiffimi uccelloni yeggőli ordinare , e
lavorare alla cieca . Navem agere ignarusnavis timer: abrotanum ager Non
audet,nifi quididicit dare.Quodmedicorum eft Promittuntmedici;tractant fabrilia
fabri. E s'attendono purecoteſti medici di tromba marina de' noſtri tempi a
maneggiar biſogne di cotanta conſiderazio ne , e di cotanto riſchio :
certamente ſe ad infelice fine poi rieſcono , e veggonfiatcriſtar le caſe , e
le famiglie , non gli innocenti rimedi biaſimar ſe ne vogliono , ma color ſola
doperano ; non altrimenti , che ſe ſpada , o archibuſo daw furioſa mano moſſo
fia , non n'è lo ſtrumento da accagionas. re , ma la follia ſolamente dello
ſcherano . Ne ſan coſtoro quanto ſenno abbiſogni in medicare , e ſpezialmente
con argomenti chimici, a cuicertamente di maggiore avvedi mento e di più ſaldo
giudicio fa luogo; che le malamente s'adoperano , maſſimamente le purganti
medicine, ove il medico non abbia in dandole riguardo al tempo , lità del male
, all'età dello infermo, o alla natura di lui, o alla ſtagione dell'anno,
certamente colui mal ne capiterà : Temporibus medicina valet: data tempore
profunt, Et data non apto tempore vina nocent ; Quin etiam accendas vitia ,
irriseſque vetando, Temporibusfinon aggrediareſuis . E o quanti per Dio ſe
neſon veduti e fe ne veggono tut tavia correr pericolo, e morirne talvolta
anche col medica mento in corpo per traſeutaggine , e colpa de’ſoli medici
ignorāti,e ſciocchi? Quante volte per beſſaggine degli ſcé pj Galieniſti ſono
ſtate biaſimate le manne , le roſe , le caſ. fie , e anche l'aloé , di cui non
ſi trova al comun parere mę. dicamento più innocente , e benigno ? E ſe alcun
prende rebbe cura di guarire ammalato, ſe egli nel cominciar d'in terna
infiammagione, o nell'acerefciinento , e nel vigor di quella deſſegli
ſcioccamente a tracanar chimica purgagio ne , qual colpa poi ſarebbe egli
dell'arte , ſe coluimalamé te adoperandola l'ammalato n'uccideffc ? Certamente
niu . najper . alla qua : 536 Ragionamento Settimo 1 na ;perciocchè come
Ippocrate medeſimo , e Galieno di viſano, anche le lor purgative medicine
allora ſon peſtilen zioſe , e da non uſarſi ; perchè a' mali precipitoſi,e
ftraboc chevolmente imperverſiti non ha certamente la medicina più ſicuro
conſiglio, che il guadagnar tempo con iſchermi readagio , e tenere a bada la
foga del male , ſenza voler glili alla rincontra oſtinatamente opporre có
purgative me dicine, masſimamente gagliarde ; che alla zuffa,che in un medeſimo
tempo due si oſtinati,esì poffenti nimici dentro dall'ammalato farebbono,
certamente egli n'andrebbe cof peggio :neq ;ulla alia fpes,diffe
avveducillimaméte Cello , ir malis magnis eft ,quã utimpetum morbi trahendo
aliquis effum giat , porrigaturque in id tempus, quod curationi locum pre Stet
:così parlavano que'buoniantichi, che ne'ſalafli, e nel le purgative
medicineſolaméte credeano eſſer ripoſte le cu re de'più gravi malori; ma i
moderni da'chimici addottri nati bé fanno co'rimedj valevoli, e generoſi,ına
che non of fendono punto lo infermo, eche in ogni tempo ſicuriffima mente ſi
poſſono adoperare darvi compenſo , ſenza ſtarſe neſcioperati, e neghittofi ad
afpettare il ſoccorſo , che non è dalla natura forſe per venir giammai . Ma ciò
da parte laſciando noi pur troppo veduto abbiamo nelle febbriche delpaſſato
anno han malmenato , e quaſi abbattuto il Bor go Sant'Antonio ,e altri luoghi
vicini, effer così malaméte riuſcite le purgagioni, e altri ſomigliāti
rimedi;perchè a grā ventura recaronſi poique' poveri infermi , che non ebber
agio di comperarſi la morte a contanti ne'medicamenti,che uſavanſi; e ſtando
alla bada ſolamente della natura,così sé. za rimedj la lor vita ſerbaronſi . E
per cacer d'altri, il me deſimo anche eſſeravvenuto novellamente in Francia,
rac conta l'Autor della giunta all'oſſervazioni di Lazaro Ri yerj. - Éfe egli è
dannevole oltremodo , e di riſchio lo - Atuzzi cargli umori crudi , e non
debitamente maturati, certamé te il medico ne farebbe da biaſimare , non
l'arte, ſe contro i giuftiffimi divieti d'Ippocrate , e di Galieno s'inframmet
. teſſe di purgare ammalato , in cui fian crudi gli umori ſex 2 :2 en Del
Sig.Lionardo di Capoa . 537 za enfiamento alcuno : in morbis quoquenihil eft
magis peri culofum , quam immatura medicina,comechè non medican-. te , avviso
Seneca ; perchè ſeguendo i ſentimenti de' ſuoi maeſtri avvedutiſſimaméte in
queſto capo Aleſſandro Maf ſaria, danna, e sbandiſcenelle febbril'uſo
dell'Antimonio, come nocevole oltremodo agli ammalati: e allora, egli di ce
maggiormente farſi a conoſcere il danno , che dalle purgagioni, oltre al
convencvol tempodate ne fiegue,qua do più gravoſo , e di maggior riſchio fiè il
male ; concior fiecofachè nelle lievi malattie , che molto non piggiorano dal
ſuo naturale ſtato l'inferino , poco nocimento ricever, certo egli ne foglia ;
perciocchè o ſe n'allunga il male,ficc me Ippocrate,e Galieno diviſano, o pursì
poco cagionevol della perſona coluinerimane , che nulla il medico quan tunque
accorto , ed eſercitato Gali , comprender mai ne puote . A torto anche vien
biaſimata la Chimica d'adoperar fo laniente i minerali; e ben detto è a
baſtanza contro la ſci munitaggine di alcuni,quanto ricca, e abbondevole di ine
dicamenti ella ſia; c nel vero, ne l’Ericina ebbe mai,o l'Ar denna , o s'altra
al mondo è più vaſta , e più folta ſelva,tã ti alberi , tante belve , quanto
ricca, e abbondante è la chi. mica di cofe a’luoi medicaméti accóce;e prédöli a
loro uſo, non ſolamente i minerali dalla terra ,madagli animali anco ra , e
dalle piante abbondantemente i rimedi ſi formano ; perchè troppo ſcarſa , e
mendica pur ſarebbe da dire la rapportata ſomiglianza ; perciocchè quanto
cuopre il Cies : lo , abbraccia l'aerc , nutrica la terra , e'lmarchiude, tutto
alla Chimica giuridizion ſoggiace : e'l meno di che ella s'inframmette ſono i
minerali; concioſliecofachè non abbia ſolamente in fua balia i falnitriji
ſalicomunisi vitrioli, i fer ri , i rami, e gli argenti , c gli ori , e le
gemme, comcchè di queſt'ultime coſe ſolamente i perfettiſſini Chimici, o icat
tivi , non già i inczzani ſervir li fogliano;ma e radici anco ra , c tronchi, e
frondi , e ſughi di cento , e mille infra lo ro diverſiffime piante , e anche
tutte parti ſalde , e diſcor renti di tanti , e sì varj animali,di cui la
Chimica i ſuoi me Yyy dica 538 RagionamentoSettimo dicamenti in sìvarie , e
tante guife ordina , e lavora. : Ne perchè la chimica medicina ne' minerali
talora s'a doperi ,e s'affarichi, è per huom da tacciarne : anzi fom mamente da
efferne commendata lo la giudico; concioffie coſachè non ſono i minerali
altrimenti , comealcun di loro follemente ſognoſli , veleni, e toſſichi:anzi
non poco in vero molti e molti diesſi all'umangenere giovano,e approdano; e ciò
a tutti buoni ſcrittori aſſai manifeſto egli fi è , anche antichi , che
liberamente , e fenza niun ſoſpettomettevan gli in opera , e così fchietti ,
comecon altre coſe meſcolati l'uſavano ; il che ſenza troppa fatica durare
agevolmente moſtrar potrei : maſſimamente, cheper tutti manifeftamé te ſi ſa
quanto Ippocrate della ſquama del rame fovente fi ſerviſle ; e Dioſcoride no
conſiglia , e conforta a dar per bocca liberamente il vitriolo: e ne'tempi
antichi anche s'a doperava il mercurio : e ancora a' dì noftri nella colica , e
ne'vermi , e in altri ſimiglianti mali ordinaſi da tutti medi ci, anche
a'fanciulli del lactime, ſenza ſofpetto dinocimé to alcuno ;e ſe fra’minerali
v'han di que' , che velenofi fo no , ve n'haparimente di queſti, ed in maggior
copia fra' vegetabili . Maſe egli avvien mai pure , che alquanti deʼnedicame ei
de'Chimici,compoſti divengano fpoffati, e debili , egli ciò non dee a colpa
della chimica aſcriverſi:ma de’poco av veduti artefici , e de’medici, i quali
intendenti non ſono delle chimiche preparazioni, e ravviſar non ſanno quai mea
dicamenti ſenza alcun preparamento fiano da porre in ope ra , e quali gli
richicggano . E ſe divantaggio i Chimici da'vclenofi, emicidiali ſemplici
ſoglion trarre ſalucevoliſ fimi antidoti , ciò loro a fomma gloria dee
riputarſi, che ciaſcun di loro fuor d'ogn’uſo Pieghi natura ad opre altere , e
frane. E ſe'l precipitato , e'l ſolimato , che potentiſſimi veleni ſono ,
cavanfi dalmercurio , e da altri minerali, non ne ſon però quelli da biaſimare
, ne i chimici medeſimi , che gli compongono ; concioffiecofachè anche l'oppio
, e altres molte comunali medicine , avvegnachè rieſcan poi vele nofc Del
Sig.Lionardo di Capoa 539 noſeall'opera, pur da ſemplici non mica velenoſi
compon ganſi, ne perciò tanto quanto ilor fabbricatori ſe n'acca gionino : e ne
balti ſolo al preſente fapere , che ciò non , lia ſpezial biaſimo della Chimica
; e ſe da quella i pre cipitati, ci ſolimati fabbricaronſi al mondo , no fu già
,per chè s'aveſſer quelli ad operar mai ad uſo alcuno dimedici na , ma per
altre, e altre biſogne; ne perſona ſe non priva affatto d'intendimento per
dover medicar giammai gli la vorò ;perchè ſe quel temerario Bacalare aveſſe
púto in chi mica ſtudiato, non avrebbe egli giammai ardito ad impor re agli
infermi per coſa delmondo il precipitato , il qual da tucci buoni ſcrittori
vien daʼmedicaméti sbadito, come ma nifeftiſfimo veleno;e ſpezialmére dal
Quercctauo,có queſte parole:precipitatú in aqua furti à nobis omninò
improbatar: 0 có quell'altre,ch'e' ſoggiugne:hæc, & fimilia effe
Empiricorii fecreta , quæbuccinatorum inftar pro maximismyfteriis pro mulgant.
Ne perchè i minerali lian da noſtra natura citra : nci , e rimoſi, dovrà ciò
darne punto di briga; e ſe pur co tal ragione aveſſe luogo , dovrebbervi eſſer
a parte anche i Galiçniſti in rintuzzarla, i quali non men deChimicime defimila
pietra lazula ,e l'oro , el’ematite , ci giacimi , e'l bolarmcnico, e le pietre
giudaichc, c altre, e altre ſomiglia. ti medicine lovente adoperano . Ma lo per
non darmene troppa briga ſervisõini al preſente di quelle parole del Tā .chio
là dove d'un cotal balordo , che con ſimiglianti fanfa luche ftuzzicavalo così
cgli al ſuo Oiſtio ſcrive : oppugnant, dice egli,medicamenta ex metallis parata
, ideo quia non iis alamurfed ; nec cornu cervi nos alit,neque uniones, aliaque
pleraque . Quænos alunt impura ſuntimnia , do quefacilē mutationem ſuſcipiunt
,fed quotidie agunt in balſamum na turæ , cum corrumpendo in fenium ;
labefactatis viribus noftri corporis facile illareficiuntur vegetabilibus ; fed
fixio illa in fixa; mineralia figuntſpiritus , purificant , & exaltant. E
prima di lui Avdrea de'Mattioli , così del biſogno de’mi nerali ne ſcriſſe :
ibi tum alibi , tã in chronicis morbis eſt ani: madvertendum , ubi tota
malafanguinea in univerſo vena rum ambitu corrupta eft , & referta multorum
morborum fe Yуу 2 mina 540 Ragionamento Settimo minariis , tunc ii inquam morbi
citra metallica devinci vix pollunt; avvegnachè egli poi faggiamente ne
configli a non dovere i Chimici medicamenti adoperare colui che di chi mica
pienamente non ſi conoſca ; il che noi baſtantemente altrove dicemmo . At qui,
dice egli , ejufmodi morbos ci tra ſcientiam res metallicas tractandi
aggrediuntur , ii ple rumque re infecta cummagno dedecore , & fui,
&artis me dicine defiftunt. Ma ſopratutto baſti recar qui le parole di GiacomoPrimeroſio
Galieniſta di primo grido: Cauffa eft, egli dice,cur plurimi Chymica hec
reformidēt;quia creduntur ſcilicet sti metallicis . Et fanè certum eft plurimos
Nebulones, qui hoc pallio technas ſuastegunt , metallicis fæpè , &malè
præparatis , & malèadhibitis uti ; verum ut jamfupra dixi mus , eadem eft
materia , & fubjeétum uperationis Pharma copæi utriuſque tàm Chimici , quàm
vulgaris ; neque minus vegetabilibus utitur Chymicus, quàm qui dicitur
Galenicusze non guari appreffo foggiugne . Nonne maximè probanda eft ars illa ,
qua fi quandoiis utitur, variè, &eleganter pre parata ,non integra exhibet
? Ne meno è da dire, che perchè i foro fummi ſian peſtile zioſi, e nocevoli
liano anch'eglino tali i minerali; percioc chè apertiffimamente veggiamo ſenza
punto di danno il falnitro, e'l vitriolo , elfal comune alla giornata ufarli ,
e'l fal comune maſſimamente in tutte vivande da ciaſcun porſi; i cui fumıni
certamente , come que d'altri,e d'altri minerali, nocevolilfinni fono . Pure
non è coſa cotanto utile , e gio vevole al genere umano , che nonnepoiſa
talvolta anches nuoceren Nilprodeft, quod non læderepoffit idem . Igne quid
utilius ? fi quis tamen urere tecta Cæperit , audaces inftruit igne manus.
Eripit interdum , modo dat medicina falutem . Le ragioni poi, e le
teſtimonianze dell'Eraſto , del Riola no, e d'altri sì fatti Galieniſti han
canto dello ſceno ,che da lor medeſime a baſtanza ſi rifiutano ; e comechè per
mani feſta, coftinata malavoglienza fianfi queſti ftudiati dimor der la Chimica
, e ſozzainente lacerarla , e quaſi metterla 1 in fon Del Sig .Lionardodi Capoa
541 1 in fondo ; pure non han potuto far sì , che ſtretti talvolta dalla propia
coſciēza, o dalle nimiche ragioni abbattutis no l'abbianomanifeſtamente
approvata. Così l’Eraſto medelia mo, che moſtroffi più ch'altro Galieniſta
acerbo, e fiero ni mico della chimica, purnel proemio di quell'operc,ch'eico
tro il Paracelſo fcriffe,nó potè no commendarla ;e la ſcuola tutta di Parigi
pur la permette,e l'adopera,ficome raccota il Riolano; il qual comechè nimico a
ſpada tratta le fi dimo ſtraſſe, pur delle chimiche medicine,comeãcorfece
l'Eraſto , ſerviſſzavvegnachè talora p loro ſcimunitaggine ad infeli cc fine
gli uſciſſero . Ma côtro a’piacitori, e a'maladicéti Ga lieniſti adoperarono
gloriofaméte le péne a ſchermo della chimica nelle loro dottisſime Apologie il
regio Protomedi co Torqueto , e l'Arueto , e'l Baucinero celebri e famoſiſſimi
maeſtri in medicina: e oltre ad infiniti altri il famoſo , e ben parlante
Libavio nella ſua Alchiinia trionfante ,di cuicon ) aringa di lode diſſe il
Caſtelli: Alchimie dignitatem adeo re Kituit Libavius contra fcholă Parifiensë
,ut nihil amplius addi polje videatur ; ma ſopra tutti imalzi, e difende la
chimica il ſottiliſſimo Borricchio , non men celebre , che dotto let tor di
quella , nella famoſa reale Accademia d’Afnia; il qual sì fattamente rimbeccale
ciance del Corringio , che nulla più . Ma quanto poco ſenno aveſſer facto i
medici meſaneſi in proibendo l'uſo dell'Alcarotto, apertamente ſi vede dalla poca
ſtima in cui vennetenuto il loro divieto ; poichè non men ,che prima in Melano,
e altrove le genti tutte l'adope rarono ; e oltre alla gloria molte ricchezze
guadagnoſſi Vittorio Algoreto per sì fatto medicamento, il quale altro * non è
, che il mercurio di vita;comechè p naſcõder sì caro fegreto il nieghino gli
eredi del medeſimo Algoreti; e forte mi maraviglio , che alQuercetano , sì bene
ſcorto nelle chimiche operazioni, e che tutto dì l'avea fra le mani, non
veniſſe fatto ciò ravviſare . Ed è egli pregiato l’Alca . rotto , eziandio
daʼmedici volgari , e Galieniſti, e per buo na , e giovevol medicina per tutto
ſtimato ; ma pur ſi vuos le 112 342 Ragionamento Settimo le in ufarlo aver
riguardo a' tempi,alla quantità,e agli ama · malati ; ne fi dee prendere ſenza
conſiglio di medici faggi in chimica , e conoſciuti affai; perciocchè ſe da
perſone dappocomallavorato folle , o foſſe pur ſenza riguardo at cuno preſo ,
certamente nuocer potrebbe , e a riſchio della perſona talvolta ancorcondurre;
ſicome non ha guari, ava venne a un Barone d'alto affare , il qual per
conſiglio d'un corale ſciocco,e temerario Galienifta avendone trangugis to
ſoverchiamente , con acerbiffimi dolori, feno'l receva di preſente , certamente
nemoriva . Ma di ciò ſenza dubbio , non n'è dabiaſimare il medicamento, ma la
follia più coſto del medico , cheoltre al dover l'iinpone; e più quella dell'
ammalato, che alla cieca , e ſenza riguardo alcuno ſe'l tra caima . E ben
ſarebbe il migliore, ſe laſciando da parte i volgariGalicniſti sì fatti
medicamenti,non s'inframmettel ſero púto di ciò, che non ſanno ; e come cantò
colui Velperfectèartem diſcant , vel non medeantur; Namfialiæ peccant artes
,tolerabile ceriè eft: Hæc vero nifi fit perfecta , eft plenapericli , Et
fævit,tanquam occulta , aique domeſtica peſtis. Ma noi luiluppati dasì fatte
conteſe, trapaſſereino intanto a far qualche parola dell'antimonio, come di
quello , ch'al noftro parlamento diede in prima cagione, L'ancimonio , che da
alcunicertamente non fuor d'ogni ragione chiamato viene colonna, e baſe della
medicina,egli sébra nel vero una corale ſtrana ; e nuova ſorte di minerale di
variege fra loro diverſe parti copoſta, e si lazza,e acerba , che
ragionevolmére alle poma anzi che mature fiano è raf ſomigliata;imperciocchè
tra per la troppo meſcolanza , che in ſe ritiene, e per l'inegual proporzione
delle parti,che'l co pongono , non eſſendo potuto alla debita maturità , e per
fezion di inccallo pervenire , così trameltato, e inal com poſto ſe ne giace .
La ſua ſtrana natura ', c le ſuc maravi gliole qualità malagevolmenteravviſar
ſi poſſono, non che per huom narrare; concioliecofachè quaſi Proteo de'minc
rali in facendoſi dilui notomia , in tante , e sì fatte guiſc fi ſcambi, e
traſmutische inviluppativi i più famoſi maeſtri della 1 Del Sig.Lionardodi
Capos. 543, ikclla chimica, dopo molci, e diverfi argomenti , e ſperien ze ,
ſtupidi alla per fine, e d'ogni loro avviſo ricreduti ſi ri mangono . Ma
perquanto col noſtro intendimento com prender ne poſſiano , due forri di zolfo
par che abbia nellº Antimonio : l’una fiffa , e pura oltremodo, in cui le
ţinture tutte,e i ſemi de'metalli e ſpezialmente dell'oro ſi rinvégo ao: pchè
daalcuni degli ſpagirici filaſofati,matrice de'me talli vié chiamato
l'Antimonio; l'altra fiè di zolfo dalla sé biáza del comun zolfo poco o nulla
diverſa ; perciocchè no filla , mainquieta y e volante, e oltremodo vaga ella
è;per chè potentiſſimage:ſoperchievole nelleſue operazioni viene da ciaſcun
giudicara. Havvioltre a ciò un cal mercurio me, tallico indigcfto , il qual
corto più , che ſe mercurio vivo non foſſe , della natura del piombo alquanto
ritiene ;e as queſta parte , che certamente è la maggiore nell'ancimonio ,
alori la violenza attribuiſcono , e'l poter , ch'egli ha nell'o perare ; anche
havvi alcune parti arſenicali, in cui ſecondo. chè altri ne dicano, il ſuo
veleno veramente ſi ſerba; c per fine havvi nell'Antimonio una cotal ſoſtanza
groffase terre ftra , la qual della ſua matrice ſommamente participando , con
quella inſieme,e con ſue particelle congiugoc,emelco la le parti arſenicali, e
quelle del primo zolfo, c delmercu rio indigeſto, e del ſale ancora di natura
vitriolato , che pur ven’ha : a cuila malvagità tutta , e'l veleno altri
aſſegnò , che tanto all'uſo , e all'operazione ſconcio lo rende. Ma l'Antimonio
crudo non inuove punto vomito , ne tanco , o quanto a colui , che'l prenda
offender ſuole ; perchè ne Galieno medeſimo , ne Dioſcoride , ne altri buoni
Autori de'ſecoli addietro l'allogară mai infra’veleni, o nel catalogo delle
vomitive medicine l'ānoverarono anzi Diofcoride medeſimo ne conſiglia , e
conforta a toglier via la poſſanza vomitiva dell'Elacerio , con meſcolarvi
deutro dell’Antimonio ,e così temperandolo ammendarlo; percioc chè ſenza dubbio
ha l'Elarerio più del veleno , che del me dicamento , ſe violento , e
rigoglioſo il ſenciamo , che se vorrai purgare , ſono le parole di Dioſcoride,
ove egli nar ra dell'Elaterio , meſcolavi altrettanto di ſale ed'Antimonio, 444
- 544 Ragionamento Settimo 1 quanto farà meſtieri ,laſciandoall'altrui
diſcrezione il divri Jarne la doſe : seisn &è mois diam vooõoty aj di autoữ
xabagors . ei pea ούν θέλεις κα το κοιλίαν καθαίρειν , διπλάσιον αλών, μίξας ,
και είμ plaws over gewoon e Il che eglicertamentefatto non avrebbe, s'aveſſe
mai , comechè leggiermente , ſoſpettato, non forte velenoſo , enocevole
l'antimonio . Nicolò Mirelio poi , it qual con accuratezza non ordinaria
accolſe inſieme le ri cette più nobili de’medicamenti, ch'adoperaſſer mai ne’té
pi antichi ipiù famoſi medici Greci, annovera l'antimonio infra iſemplici
dell’Antidoto ,ch'egli del Gengiovo chiana. E Baſilio Valentini narra , ch'a'
ſuoi tempi dell’antimonio ingraſſavanſi i porci : e nell’Efemeridi, o
giornalieri dell'In ghilterra abbiamo , che tutto dì oggi i porci, le vacche,
ci cavalli ſe n'ingraſſano,al peſo d'unadráma,e anche di mez za oncia per volta
prendendone ; e in molte contrade del noſtro Regno coſtumaſ a prender
l’Antimonio dalle donne gravide in quantità d'unanocciuola , ſenza danno, o
noci mento niuno , e'l chiamano volgarmente allegra cuo ré ; e nella inedeſima
noſtra Città in molte malattie uſali a ber l'acqua dell'antimonio con
grandiſſimno gio vamento degli ammalati; e nella Francia , e anche altrove,
l'Antimonio crudo , ſicome per M. de la Febure di ciò pie namente inteſo ſi
racconta , fe donne tout les jours tout crud par la bouche fansaucun accident ,
emeſmes aux enfans à la mammelle: e que de plus on le met boüillir juſques au
poids d'une demie livre dans les decoctions contre la verolle , &qu'on le
met de meſmes en infufion à froid dans de l'eau pour ouvrir le ventre gepour
ofter les obſtructions des viſce 1 5 Ma ſciolte da quegli intoppi , c da'legami
, chea freno, e a bada la lor violenza tenevano le nocevoli particelle
dell'antimonio , o ſaligne , o ſulfuree, o mercuriali, o arſe nicali , ch'elle
ſieno (perciocchè grandisſime quiſtioni , ei contefe intorno a ciò
infra'Chimici filoſofanti tutt'or vifo no ) non ſi può di leggier credere
quantenoje , e ſconcisſi mi danni quelle recar ſogliano ,con fondere, e diſtruggere,
e liquefar non ſolamente le parti umide, ma le falde anco ra del
DelSig.Lionardo di Capoa. 545 ra del corpo umano'; riſvegliando anche
vomitiimpetuofif fimi, e purgando per baffo ,finattanto ,che colvigor talvol ta
lo ſpirito , e la vita miſeramente ne manchi. Ma tacer non fi dee, che
ritrovali talora in qualche miniera , Anti monio , cheſenza niuna preparazione
voiniti, e fluffi ſoglia cagionare ; ſenzáchè'talora nello ſtomaco di colui ,
che'l prende , può eſſer coſa , che ſciolga da’legami lalparte ve Jenofa,
perchè l'antimonio d'ogni miniera , parimente può ciò fare ; e quel'è la
cagione , che ſpinge alcuni autori a fa vellar così variamente della facoltà
dell'antimonio crudo : Ma che che ſia di ciò , ſe per opera , e argomento
d'avve dutiffimo maeſtro reprimuto alquanto, e rintuzzato il loc nocevoliſſimo
veleno neſia , certamente allora valevole e Pantimonio a vincere, e ſgomberare
ogni peſtilenzioſo ma lore , ove a tempo , e acconciamente , e con riguardo per
huom ſi dea ; concioffiecofachè non ſolamente egli ne pur ghi , cvuoti dentro ,
ma ſovente ancora diſſolva , e miglio ri , e ſgomberi ciò che nel corpo di
maligno , e cattivo così nelle falde , come nelle diſcorrenti parti
peravventura ritrova; il che certamente a niuna altra forte di medicamé to , o
purganre , o vomitivo , ch'egli fia agevolmente ſi co cede. Nec conftat , dice
il Zuelfero, ex vegetabilibus unicũ emeticum , grad nainore cum
periculoexhiberi pifit , quàm aniimonium dextere , ac debitè præparatum ;
nunquam enim tormina ventris , convulhones , hypercatharſin , fluxumque nimium
colliquativumcauffabit , etiam fi frigida ſuperbiba tur . E egli però quelta
malagevoliſſima impreſa ,e difficil molto , p mio avviſo , anzi impoſſibile
affatto ad artificio umano ; perciocchè la parte velenoſa nell’Antimonio ſi è
quella , che muovelo ſtomaco a recere, e ſcioglie il ventre: la qual certamente
quantunque volte vi rimane, non ſi può in modo alcuno accutare , che a qualche
perſona alla fine,o in qualche tempo non abbia gravemente a nuocere . Nej per
altroʻi Chimici autori ora in biaſimo, or in lode de'varj apparecchiamenti
dell'antimonio purgante , o vomitivo fa vellar ſempre ſogliono, ſe non fe per
lo grare , e ftraboc chevol riſchio, che agevolmente vi ſi corre . E quel ſapie
Z zz tilfimo 544 Ragionamento Settimo tiſſimo nuomo nella Chimicafiloſofia, e
nella medicina pas rimente ſublime, e ſingolare Giovan Battiſta Elinonte ſolea
dire: Antimonium ,quandiu vomitum , aut fedes movet , mercurius
revivificaripoteft , venena funt: non boni virirea media . Soglioſi
dell'antimonio ſublimare i fiori;e ſi fôde egli an che in vetro , e in regolo ;
e'l mercurio di vita , e'l gruogo ancor ſe ne forma : purganti inſieme , e
vomitive me dicine . E per cominciar dal vetro , il qual comechè in viſta di
nulla ſi paja dall'ordinario vetro differente ; pure comunicar ſuole
minutiſſime , e però inſenſibili , e cieche particelle velenoſe al vino, o ad
altro ſomigliante liquore , in cui per qualche ſpazio di tempo ſia dimorato .
Egli è il vetro dell'Antimonio commendato aſſai da quel nobiliffi mo Vicerè
dell'Olſazia Enrico Ranzovio , Strolago infie me , e medico famofiflimo, e
Guerriero, e Poeta ; e dalGeri neri ſomigliantemente , e dall'Andernachi, e dal
Langio , e dal Mattioli è ſommamente lodato . Ma Pietro Severini d'altra parte
grandiſſimo maeſtro in Chimica , e in medici na , forte il biaſima , e danna ;
dicendo , che avvegnachè in quello cotanto fuoco trapaſfato ſia , non ſe n'è
però il buon giamai dalcattivo potuto ſeparare.E de'ſuoi ſentimenti an cora ſi
fan feguaci altri , ed altri famoſi medici , e chimici con apportarne molti
eſempli d'infelicisſimi avvenimenti . Vitrum antimonii , dice Giuſeppe
Quercetani , quo bodie multi imperiti maximo cum damuo utuntur , perniciofum
eft medicamentum ; quod ſwoarſenicali fpiritu facultatem irri tandoexpultricem
, perſuperiora , einferiora magna cum perturbatione ducat , evacuetque; quod
ego probare nullo mom do poffum . Dal che moſſo Duncano Borrero anch'egli ri
fiutandolo , affatto dalla medicina il bandiſce , dicendo : Vitrum hic
antimonii fciens omitto , tanquam pernicioſum medicamentum ; e'l dortisſimo
medico , e Chimico Teodo ro Cherchringio parimente del vetro dell'antimonio
dice , che comechè alcun guarito pur ne ſia , non eft tanti ifta for . tuita
quorundam fanitas, ut propterea , vel unius hominis vita exponendafit periculo
. Vidienim quum ager tantùm femiun . DelSig.Lionardo diCapoa. $47 Jemiunciam
fumpfiſjes infafionis , eum poft ingenies vomitus, &
fupercatharticasvacuationes ,fubito efflare animă. Ata binc ille lachryma ,
hinc clamoresifti contra Chymicos inſur gunt ; tanquamfiarti imputanda effet
aliquorum Pſeudochya micorum impia temeritas, quorum nihil refert quotfuneribus
impleant domos ; modo unus; alterve fanatuseorum ebuccines fama, &illi
audiant magni Doctorės , emungantque rufticis pecuniam . Ma avvegnachè egli
medeſimo una cotaltem pera , ecorrezione del vetro dell'antimonio rapporti, la
qualdice egliefſer ſicurisſima, e séza riſchio alcuno in ado perarlı ;
purecomeegli biaſima ſommamente', e riprova quella ; che dal Ranzovio , e dal
Mattioli , e da altri uſa vali, così verrà un tempo chi da qualche finiftro
avve nimento moffo , dannerà , e riproverà anche la ſua . Mi Ιο quanto a me
intorno a' vetri dell'antimonio non fa prei certamente che dirmene ; non avédo
mai fatta pruo. va di quell'avvertimento del Rolfincio , ove c'dice : quane do
coctio inſtituitur , favellando del vetro dell'antimonio col vino bollico ,
fupernatan'scuticula arſenicalis aufertur ;" E foglion certamente sì fatti
veli naſcer da'ſali, comenel bollir del ranno manifeftainente oiſervali; perchè
ſomiglia temente potrebbe dall’Alcali ingenerarſi il velo nel vetro
dell'antimonio , e non dall'arſenico , ficome il Rolfincios avviſa . Ma che che
di ciò ſia , in biſogna dicotanta confi derazione , lo conſiglierei i lavoranti
ad eſſer anzi ſover chianente ſcrupololi, che no , e a ſeguire il conſiglio del
Rolfincio , e a dubitare non forſe così foſſe , come cgli dices - Defiori
dell'antimonio dal Zappata , e da altri cotanto commendati ,così il teſtèmentovato
Quercetano favella : Antimonii vitrum idem ferociterpræfat ,quod ejus flos;idq;
obe Spiritum quendam album , & arſenicalem ipfi infitum quě nec à
floribusego exulare exiſtimem ; quippe quos adeo afro citer corpus concutere ,
ac devexare foleant tìm vomitu, tùm dejectionibus , ut res non caréat periculo.
E con lui anche ac cordãdofi Baſilio Valentini,dice pariinente i fiori
dell'anti monio effer nacevolisſimi, e velenoſi . Z z z M2 Ragionamento Settimo
Mai Regolo anche dagli antichimedici imperocchè coa hoſciuto, ne fáno
ſpezialmézione Dioſcoride,e Plinio (av , vegnachè vi fallaſſero no poco in
giudicar, che quello altro non foſſe, che Antimonio in piombo cambiato ) è
da’buoni Chimici avviſato per medicaméto violentisſimo ancora,ed oltremodo di
riſchio . E ciò anche a' Galieniſti medeſimi fu purtroppo conoſciuto ;
infra’quali il Priineroſio ,così dan nandolo nefavella ; omnem retinet
antimonii malignitatem , qua antea fub terreo excremento sopita latebat :
edindi ap preſſo : fed quum omnes pravas, e horrendas antimonii vi res adhuc
posfideat , poculum indè confeftum perniciofiffi mum effe neceffe eft ; ideo
puriores Chymici hoc ab ufæ me dico amninò ablegarunt. Ed un della ſcuola di
Lazaro Ri verj parlando del Regolo , così per ſentiméto del fuo mae ftro ne
ragiona : Calix chymicus toties in obſervationibus no Bris nominatus ,
communiterque adeo omnibus confectus non eft , ut nonnulli arbitrabantur, &
arbitrantur ex regulo An timonii vulgaris . Exregulo quidem eft :fed tertii
gradus , qui longè differt àvulgari ; quamvis etiam multi boc utan zur non
finepericulo bibentium . Ma il gruogo de metalli, col cui uſo cotanto
avantaggiar fi potèl'imperial medico Martin Rollando, e in tanto ono re , e
ricchezze formontare, è così chiamato dal Querceta no , perchè ſecondochè egli
ne dica , dell'antimonio tutti metalli s'ingenerano , e fpezialmente l'oro ,
l'argento , e'l piombo: egli è comunalmente da’buoni ſcrittori il mens violento
, e men pericoloſo infra le vomitive medicine an rimoniali giudicato.Ma
perocchè l'Alcali del nitro nőben ? anche tutta la parte velenofa
dell'antimonio ha tolta e pur gata, o p me dirc legata :la qual certaméteè
quella cheare . cer muove , ben li può di eſſo dire , che comechè per ope ra
d'eccellente , e ſperimentata mano nel meſtier della chi mica temperato fi
foffe , pure pofftan dire che L'ira s'intiepidi , ma non s'eftinfo perchè
ſoſpettar fempre dee l'accorto , e prudentemedia co , non ne ll'adoperarfi
,alcun ſiniſtro avvenimento ne ſe gua ; perci occhè pure , comechè di rado fortir
ne fogliono , Ed 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 649 Ed havvi un'altra
malagevolezza nel gruogo , imposſibil quafi a ſuperare ; perocchè quantunque
con la medeſimas proporzione del nitro , e dell'antiinonio diſpoſto fia , c quá
¢unque con tutte le medeſime circonſtanze lavorato į pure, talvolta più ;o men
vigoroſo ſortir ſuole , e sì da ſe mede fimo differente , che in dubbio ſempre,
e in timore delle ſue ſtrane qualità ne tiene, ne per accorto , e ſperimentato
che l'Artefice fia , potrà maicome , o perchè ciò avvegna baſtantemente
comprendere; ſenzachè cotalimedicamen ti recar fogliono talora uſcite
copioſisſimedi ſangue, o la egli , perchè fi rompa qualche apoſtema dentro
dall'huo mo,e con quello alcun vaſo grande ancora’del corpo : o che tra per la
violenza del vomito , e quella del medicamento alcun altro ſe n'apra , e ſi
roinpano, e ſquarcino l'interiora: oche partendofi dalle viſcere , e
dibucciandofi la mucilag gine , la quale infra gli altri ſuoi ufi, a guiſa di
veſte copré dole , difenderale dagli oltraggj de’ſali acuti , e pugnerec cj, o
d'altre ſoſtanze, quelle ignude,e ſcoperte rimanendo, dal medicamento
s'offendano : e rodanſi anche dalla me deſima violenza del medicaméto gli orli
de’vaſi delſangue; i quali aperti, eſquarciati, comechè picciolisſimi , pure
così numeroſi quivi ſono che ſgorgar oc può in ranta copia il fangue, quanto
n'uſcirebbe per avventura dal rompime to di qualche vaſo ben grande . E comechè
di ciò n'abbia parecchi eſempli; masſimamente nella noſtra Città ; purs
baſterammi al presēte rapportarquì una ofſervazione dell' avvedutis ſimno
Vartone recata dal Gliffonio con queſte pa role : Huc referamus hiſtoriam ,
quam mihi communicavit clarisfimus V varton, mulieris cujuſdam , quæ à fumptu
pharm macoafperiore in enormem fanguinis vomitum inciderat,cui, que ventriculum
poft obitum vocatusaperuerat . Nulla com paruit vena , fivèrupta , five exefa;
cæterùm in cavitate ventriculi adhuc nonnihil fanguinis reftitit ; fiquidem
multò maximam ejus partem ante obitum rejecerat. Fortè dum mi ratur unde ea
fanguinis copia promanaret , dorfo .cultri inte riorem tunicam , ut
penitiusreminfpiceret deterfit : boc facto innumera fanguinis pūčtula in
ſuperficie deterfafenfimcomo pare Ragionamento Settimo parebant ; ipfa quoque
funica quaficutis derafa: cuticules 1 . E che diremo noi de'copiofiffimi
ſudorifreddi , e viſcoſi, ch'uſcir fogliono dagli ammalati per opera
dell'antimonio sì fattamente lavorato i Certamente cotali ſudori,che chia man
diaforeticizangofce,e noje , e ſvenimentirecar foglio no , e talora anche con
toglier agl'infermi miſerabilmente la vita ; avvegnachè cotali effetti non
dall' antimonio fo . lamente , madalle manne ancora , e dalle roſe avvenir fo
gliano , ed eziandio da altremedicine , che per comun conſentimento più ſicure
, e piacevoli, e innocenti tenu te fono : memini non defuiffe, dice il Libavio
, qui Caffia fumpta omnia pateretur , que illi ,qui venenum hauferuns. Nedi ciò
è daprender maraviglia; perciocchèil medeſimo veleno , che è nell'antimonio , è
anche nella Callia , non che nella manna , e nelle roſe , e in altre
ſomiglianti media cine ; perchèſoverchiamente preſe, o fuor del convenevol
temporecar ſogliono talora gli effetti medeſimi dell' anti monio . Neq ;enim
,dice il medeſimoLibavio ,in favellando pur della Caſſià ,parum acrem inde
elicimus liquorem : tur batorem nimirumillum alui . E finalmente il mercurio di
vita è egli vero, e legitimo parto dell'Antimonio , non men di quel, cheſiali
il gruogo; comechè il Billicchio vanamente li perſuada eſſer quello operadel
mercurio , non dell'antimonio . Ma egli è ſenza dubbio men temperato , emen
gaſtigato del gruogo ; e fe guentemente maggiorinoje , e moleſtie recar
ſuolea'corpi umani per la parte maligna , e velenofa, che in eſſo preva le ;
perchè men certamente agli ammalatidar ſe ne vuole ; che non ſi dà del gruogo.
Ecomechè be fi poſſa in eſſo co tal vizio perarte.correggere , e ammendare , e
più forfes chc da'volgari maettri non ſi coſtuma; tuttavia per quanto
diligentemente per huomo lavorato ſia , temer fempre , e fofpettarne dobbiamo ;
ſenzachè il mercurio divita, come Cutt'altre medicine d'antimonio vomitive,
ſovente imediči da' loro avvifi ingannar ſuole , o nulla, o ſoverchiamente
operando. M.2 Del Sig .Lionardo di Capoa 151 Ma non perchè dannoſi talora , e
pericoloſi ad uſare co tali medicamenti ſiano , ſi vuol perciò dalla medicina
l'uſo dell'antimonio affatto sbandire ; conciofliecoſachè ben an che fabbricar
ſe ne potranno nobilisfini rimedj dadover darſi ſenza tema di nocimento niuno
anche a’vecehj e a'bā. bini , e alle donne groſſe , ficome agevolmente compren
der ſi può dall'opere del Valentini , delParacelfo, e dell? Elinonte . E
comechè non ſia impreſa da tutti il compor cotali poderoſi medicamenti , ma
innocenti però , e piace. voli e di qualunque veleno difarmaci;non però di meno
sér za troppafatica durarc potrannoſi agevolmentelavorarda chiunque
mezzanamente uſato ſia nella Chimica , que'po chi inedicamenti , che vanno
attorno ; come il belzoardico minerale , l'antimonio diaforetico , e altre
ſomigliantime dicine , nelle quali comechè attutato affatto ,e ſpento il ves
Jen ſia , pur sifattamente ligato ſe ne giace, Ch'a guiſa di leon quando fopofa
: non ſogliono , anzi non poffono perpoter ch'elle abbiano, colle lor
pungentiffime particelle offender giammai , ne ad huomonocimento alcuno
apportare ; non altrimenti, che innocenti anche in alcuni legni , e nellolio ,
e nella pietra focaja que piccioliſſimicorpicciuoli ſi giacciano ,de'quali il
concorſo , il movimento , la figura, l'ordine, e'l ſito formano il fuoco . Eben
diſs’Io non effer anche nell'antimonio dia foretico eſtinta , e fmorzata
affatto la ferocia; concioffieco ſachè fondédoſi quello
inkegolo,cagagliardiffima forza di fuoco ſtaccadoſi allora gli alcali,o pur
cábiádo sebianza , i quali il vigor del veleno affrenavano,e'ltenevano a badari
ſvegliaſi di nuovo, e riforge la fua primiera,e natia fierezza . Quinci ſi
vede,quanto dal ver fi diparta il Villiſio , il qual vuole , che l'antimonio
diaforetico , altro non ſia , ch'unw ſemplice terra dannata, e che come tale ad
altro e' non và glia, ch'ad aſforbire, ea dar luogo nelle ſue vacuità a que'
fali acuti,chefogliono travagliar le viſcere: e che egli non abbia niuna
facoltà diaforetica; ma ſe al Villifio foſſe ved nuto fatto d'avviſare i
maraviglioſi effetti dell'antimonio diaforetico , certamente in altra maniera
n'aurebbe favel la + RagionamentoSettima Lato,comeche Pantimonio diaforetico ſi
ſia veduto nellofte : maco d'alcuno non men ,che la polvere di Sicilia , detta
del Chiaramonte , e altre terre ſimiglianti,per la gran forza de faliivi
dimorāti talora impietrarſi ; il che però da béiſcor to chimico ſcanfare aſſai
bene ſi puote. Maciò laſciando di parte ſtare : e'manifeſtamente fi comprende
eſſer nell'anti monio la parte velenola fiſſa ; e forſe arſenicale,e non come
altri vanamenté s'avviſa , volante, e vaga . Ma ſe ciò è ve ro , potrebbono per
avventura ritrovarſi nelle viſcere delle ammalato ſughi così potenti , che
colla loro efficacia vale . voli foſſero ad operar quivi tutto ciò, che far
ſuole violen tiſfimo fuoco ne'fornelli, ſciogliendo nell'antimonio diafo retico
gli alcali , e riſvegliando la parte arſenicale ad ope rar dentro le viſcere la
ſua uſata peſtilenza : e allora chin? aflicurerà dell’acerbiffime noje, e
dolori , e ſtracciamenti di viſcere , che recar ſuol l’antimonio , non
altrimenti che ad uſo de'fiori, o di vetro lavorato ſia . Così ſperimentiamo
talora,che lo ſchietto , ed innoccnte mercurio , meſcolato dentro dall'huomo
,coll'acetoſo ſale , che vi ritrova , gua ftali agevolmente , es’aguzza, a
guiſa di violentisſimo pre cipitato; intanto chei medeſimi effetti di quello
crudelmé te adopera ; e ciò manifeſtamente ſi può comprendere dal le pillole
del Barbaroſſa ,e da’fumi, e dalle unzioni , e da al tre ſoinigliantimedicine .
Ma poſto che lavorato per ogni verſo l'antimonio sépre nocevole , e velepoſo
all'uman genere rieſca , non ſono però da biaſimare cento ,e mille altri
medicamenti chimici giovevoli affai, e falutevoli ſommamente ſperimentati.Ma
qualunque pur fieno i violenti rimedi della Chimica medi cina , maggiori
nondimeno , e più peſtilenzioſi aſſai ne ha ſempre la volgar de Galieniſti ,
ſecondo il ſentimento cos mune di loro medeſimi: Magis igitur familiare eſe
medicis (dice il Primeroſio ) qui Galenici dicuntur, ideft qui veterē Sequunturdiſciplinam
,validisfimis. uti medicamentis, quæ Chymici,aut raròin ufum adhibent ,
autſaltem melius pre parata . Nec verum eft à Chymicis omnia valentisfimo ignis
calore præparari ; fapillimè mitiffimus calor adhibetur . Sed pre 4 Del
Sig.Lionardodi Capoa . 553 : præterea ipſe Galenus docet igne valido pharmaca
plurimai acrimoniam , mordacitatem omnem deponere . Etcertum eft , egli poi
ſopraggiugnc,arte hac fpagirica ditta , & fero ciſſima medicamenta edomari,
& plurima alias venenata ademptis deleteriis partibus evadere cardiaca .
Perchè an che ſecondo i ſentimenţi d'un sì nobile , e valoroſo Galie niſta , e
d'altri affai,ch'Io non rapporto pernon tediarvi, gli ellebori, le
colloquintide, gli elaterj , le ſcamionee , e al tri non pochi violentiſſimi medicamêti
diſegnatine dall'an tica gróffal medicina , i quali già ella più forſe ad
offende reinteſa , che a riparare all'umana ſalute,fin da barbaré có trade a
carisſimo prezzocomprando recati avea, ora incr cè ſolaméte della Chimica
raddolcito il natio amarore , e pofta giù l’nfata fierezza, Ambrofios præbent
fuccosoblita nocendi. Aft ego, dice quel fedeliſſimo ſegretario della natura
cotan te volte da noi , coniechè non mai a baſtanza commendato Gio: Battiſta
Elmonte : aft ego volens paterno animo corri gere furiofam medicaminum vim ,
intelligo rerum vires pri ftinas manere debere , infui radicem introverti , vel
fub ſui fimplicitate transformari in dotes illas ibidem latitantes clanculum
fub cuftode veneno : vel de novo partas ratione additaperfectionis. Quopacto
colocynthislaxativam ,atque deletericam qualitatem introvertit ; emergitque ex
imo vis. reſolutiva , morborů chronicorum curatrix egregia . Id enim Paracelſus
in tintura Lilii antimonii cum laude attentavit ; filuit tamen, vel neſcivit
fieri idimin omnibus prorſus anima tium , &vegetabilium venenis per falem
ſuum circulatums: Siquidem omne venenum ipforum perit,fi in entia prima re
dierint. E queſto è appunto quel veramente maraviglioſo artificio , di cui
favellando Giovan da Bagnolo una volta diſſe : Generata naturalia inferiora
loco durioris compaginis conflata , & alta magnifactione , propter duritiem
nequeant abhominum mentibus diruiabſque magnorum philofophorum artificio .
Perchè ritornando al propoſto di prima, è da co chiudere , utilisſime molto , e
neceſſaric al genere umano Аааа effor Ragionamento Settimo 1 eller lechimiche
medicine. E nel vero có quali valevoliar gometi poreron mai cotanti miracoli
operare, eguarir ma li giudicati per addietro indomabili, e sfidanzati, l'Elmon
, te , e'l Paracelſo , ſe non fe per opera delle chimiche loro medicine ?
Eglino certamente con queſto meſtier poteronſi guadagnare il glorioſo titolo
de'inaggiori medici del mon do : e per queſto ſentiero in tanta altezza di
pregia monto il Paracelſo, che ragionevolmente meritonne il famoſo no
medimonarca della medicina . Ma oltre a ciò ſono i Chimici intendentiſlimi
de'ſempli, ci, e della lor natura : e ben ſanno ſciogliergli a tempo cô trarne
la parte inutile, e nocevole , e ſerbar folamente pus ra , e intera la medicinale:
ne loro punto naſcoſi ſono i gra. di , e le qualità del fuoco , e gli ſtrumenti
tutti , egli ordi gni acconci a lavorare , e'l tempo , e l'altre circonſtanze a
ciò confacenti oſſervano . Quindi dal loro faggio , e avve durisſimo operare
forgon poi tantiprezioſisſimi medicamé, ti : e fanno dal vino , e di altri
vegetabili , e viventi, e miş nerali corpicavar ricchisſimielisliri, e olj,e
tiņture , e fali, ed eſſenze , e ſpiriti ſottilisſiini oltremodo , e ſommamente
penetranti, e valevoli a riſtorare , eadar dipreſente ripa ro alla mancante
vita ; e a richianare addietro i ſpirie ei vaghi, e fuggitivi negli sfinimenti
, e nelle ſincopi, e ne più gravi, e mortali malori ; in cui convien di
preſente con prelto , c valevole argomento ſoccorrere . Nea ciò fare al tro che
la Chimica efficacisſimamedicina è valevole , cbi ftāte; perciocchè a’ınali
gravoli, e non agevoli ad effer vinci fembran certamente bazzicature i volgari,
e comunali rią medj; ne a tuto ſenzadubbio le più ſquiſite ricette di Ga, lieno
poſlono aggiugnere. Inde illa , gridaforte ſtupidito il principe degli
ſpagnuoliGalienilti LodovicoMercati,pro dierant miracula in diuturnis
malis,quaprofunda ele ſolens, diſtillatorum aque ardentis, quinie eflentia,
auripotabi. lis , fi ſcuſi nel Mercati , ignorante dell'arte , la follia del
preſtar credenza all'oro potabile: e la manchevole ragione, ch'egli reca
de’mąraviglioſi effetti delle chimiche medici, ne , così ſoggiugnendo , Chymica
enim arte fumma compan ratur Del Sig. Lionardodi Capoa. 555 : ratur miſtis
tenuitas , quæ duplieiter malis peritioribus profi cit , quia cedit ad imum ,
radiceſque mali penitus evellit, do quia cum toto affecto luco
penitusconverfatur, &mifcetur; ità ut facilealteret , &devincat. E
quindi ancor moſſo quel gran inaeſtro in divinità , e in ragion civile Martin
del Rio, comechè egli per altro non ſappiendo bé la coſa , creda col Mercati ,
econ altri mal pratici del meſtiere ; che ſia vera mente oro potabile quel
liquore che alcuni chimici ſoglio no chiamartale : ſommamentela Chimica loda ,
e innalza, ei ſuoi valevoli medicamenti commenda. Quam ego arré, dice egli
della Chimica , qua medicine adminiculatur janë laudo, &venerur , ut
phyſiologie fatum præftantifimum , in ventricem auri porabilis ,
reinonminusutilis adſanandum , quàm ad alendum , ac quoad fieripoteſvitam
prorogardam . Ma che cerco lo co raccor tutti quegli autori,chelodanole
chimiche medicinezánoverar col poetasqual degl'alti boſelti a terra caggia
Numero delle ſparſe aride frodi? trapaſſero dunque a diviſardell'altro capo
propoſto, cioè a dire a clti lavorare , e compor le chimiche medicine fi
convenga. - E in prima dico , che chiunquc lavorar chimici medica menti intenda
, e meſtier di tuo riſchio , è di tanta confi derazione imprender voglia , egli
della chimica filofofia , è della medicina ancora intendentisſiino eller debbà,
eco noſcer appieno , e comprender lanatura , e gli effetti di ciò che s'abbia a
comporre; concioſliecoſachè quantunque di tutto il chimico filoſofo aver piena
contezza poſa', e cia ſcun medicamento ottimamente comprendere, pure ſenza
lungo , e avvedutiflimo guatamento delle coſe,e ſenza ofat la medicina , mal
fenza dubbio i ſuoi medicamenti faprà fabbricare . E ciò bene avviſando il
Valentini , e’l Para celſo , e l'Elmõtese'l Quercetano , e'l Dornei, e'l
Penoto; e'l Severini , e'l Crollio, etutt'altri famoſimedici Chimici, no
ofarono mai confidare, fe non ſe allemedeſimelor manile compoſizione delle lor
medicine ; anzi que' due gran lumi della Chimica medicina , il Paracelſo , e
l'Elmonce foven te d'alcuni lor famigliariforte fi biaſimano ', ch’ardiſſerò a
comporre' , e difpenfarc i Chimici inedicamenticon gravey Аааа 2 dan 55.6
Ragionamento Settimo danno , e riſchio deglinfermi, e con non poca taccia della
Chimica . Ne per altro in vero in tanta infainia ,e ſcherno cadde cotal
meſtiere , e tuttavia ſi biafima, e fi vitupera dalle genti , quanto , che i
ſuoi graviſſimimedicamentiin man tutt'ora di ſciocchiſſime, e temerarie perſone
ſon mal menari. Perchè meritainente idetti valent'huomini, e altri Chimici
aſſainon laſcian maidi continuo conſigliare ,econ fortare i medici a non
commetter traſcuratamête all'altrui cura , e talento i ragguardevoli lor
medicamenti ; dicendo alcuni di eſſo loro , coluiſolamente effer vero medico ,
che a ſue propie mani le ſue medicine ſi lavori. Quo circa illum demum cum
Crollio , dice Criſtoforo Glucradt , verè genui num elle medicum cenfemus , qui
medicamenta debitè cogni ta , non ratione , ut rationalesmedicifaciunt, fed
propriaſua manupreparare , & à veneno, & feculentiis ſuis feparares
repurgare, &ad puram fimplicitatem reducere didicit; eaque imperito non
committere coguo ; e prima di lui n'avea recata la cagione il Penoto , facilius
eſt , R. fcribere, do ad im peritum coquumablegare agrotum, quàm in ipſa naturę
pe netralia carbonibus , cineribuſque ſordidum ingredi,& pro mereindè magno
fudore, quod ipſe egro exhibeat. E ſe'l lavo rio de' grandi antidoti licome ,
avviſa Galieno, propiamé tc al medico s'appartiene : perchè narrali, ch’i
Romani Im peradori nel comporla triaca il ſervigio de’baſſi ſpeziali ri
fiutando, a valorofi medici ſolamente il commetteſſero :Io non lo comead altrui
, chc a medico il lavorar le Chiniche medicine impor ſi debba ; perciocchè
molte , e molte di quelle di maggior vigore , ed efficacia fornite ſono ;
perchè certamente maggiore avvedutezza , e intendiméto richieg gono , che la
triaca medeſima,o qualunquealtro più famo jo antidoto , che gliantichi medici
componeffer inai; eres la lor compoſizione malne ſortiſce , aſſai più
certamente ne può di danno , e di nocimento avvenire ; imperciocchè molti, e
molti de chimicimedicamenti ſon così dilicati , e pericoloſi in lavorarſi ,
cheper ogni menomo fallo , o tra ſcutaggine , che vi ſi commetta , graviſſima
certamente , e mortal rovina ne può ſeguire . Perchè l'incomparabile Res nato
Del.Sig. Lionardo di Capoa 557 : nato delle Carte così alla Principeffa
Palatina ſua diſcepola ſcrivendo ragiona : Caurè etiam fecit celfitudo ſua ,
quod non luerit Chymicis remediis uti ; nàm quantumvis longa expe rientia
illorum vires comprobatę fuerint , tamen , vel minima in eorum preparatione ,
etiam quum optimè fieri creduntur , variatio, poteft illorum qualitates ità
immutare, ut non re media fint , fed venena; ſenzachè, ſe'l medico non vorrà pu
re apparare a fabbricare,e comporre le chimiche medicine, come egli potrà mai i
diverſize iſtrani mutamenti avviſare , che alcune di quelle , eziandio
ottimamente compofte , e apparecchiate far fogliono ? come afficurarſi mai
delle pe ricoloſe qualità dell'antimonio diaforetico ? il qual ſecondo gli
avviſi dell'avvedutiſſimo Zuelfero , quocunque modo fe và cum folo nitro , aut
addito etiam tartaro præparatum fit , traétu temporis aëri expoſirum pravam ,
da quaſ maligram induit naturam , fumptumqueintrà corpus , cordis anguſtias,
lipothymias , vomitufque , & fimilia prava ſymptomata pro creat . Come
potrà egli mai d'altri medicamenti comedel gruogo del metallo , comprenderla
vera , e giuſta quanti tà , ch’ad ammalato ſia da dare ? la qual certamente non
da altro li miſura , e conoſce, ſe non ſe dal ſaper l'operazione dell'Alcali,
che in ſu le parti arſenicali dell'Antimonio più, o meno è fatta : e quella
ſenza dubbio comprender non fi può , fuor ſolamente per iſperienza , e per
pruova, con far ne ſaggio in darlo ſcarſamente agli ammalati , e con rite gno
in prim ? : quindi a poco a poco andarlo accreſcendo finattanto ch’alla ſua
convenevol quantità giuſtamente ſi pervéga : oltre a queſto havviancora alcune
virtù di medi camenti , che come di ſopradetto è, avvegnachè nella me deſimacompoſizione
, e qualità de'ſemplici, cnelmedeſi mo tempo,e gradidi fuoco lavorate ſiano ,
pur diverſame te o più , o men vigoroſe , e valevoli ſortir ſogliono ; in torno
alla qual coſa non è tempo ora acconcio a filoſo fare,comechè molto da dir vi
ſarebbe ; ma pur come potrà egli tante, e sì fatte ſorti di lavorj
comprendere,ſenza aver le in prima ne'fornelli, e con fottiliſſimoocchio ſpiate
? co me poi diviſarne agli ammalati i medicamenti, lenza pun to conoſcergli ?
Ma 558 Ragionamento Settimo Maperciocchè infinitirimcdj a'medici pur s'apparten
gono , iquali eglino nonpotrebbono certamente tutti fora nire feinza tralaſciar
le viſite più neceſſarie degli ammalati; o altre lor bifogne : dico , chenon
haluogo al medico cur ti rimedj a ſue man lavorare , ma que' ſolamente , che di
maggior conſiderazione , e di maggior riſchio agl'infermi fono ; commettendo
ſolainencei medicamcnti piùmenovi li, e più ſicuria ' pubblici, e
fedeliſpeziali, da lui per pruo va già in primaconoſciuti dattanco ; eſſendovi
anche egli talvolta in fu'llavorio per maggior ſicurezza , quando la biſogna
peravventura il richiedeſſe . Ma convienmiritor : nar addietro ; imperocchè
caduto dalla mente miera di ri ferire a fuo luogo, quanto la
Chimicas'appartenga fapere, a coloro , che ben intender vogliano gli ſcritti
demedici; certamente non che altri, ma i libri medefimi de' Galieniſti la
richieggono.E nel vero chi mai potrebbe séza riſchio di groſiſſimi
falli,malfornito a tal meſtiere,pormano a'volu: mi d'Arnaldo, o d'altri
antichi, e moderni Galieniſti ? E ' no è peravvétura purtroppo manifeſto,quáti
falli preli abbia no i troppo séplici , e feiocchiGalieniſti in iſpor l’opere
di qualche autore per non eſſerſi da loro laputo diChimica perchè
ragionevolmente Giovani da Bagnuolo, Galieniſta medico , e chimico
eccellentisſimo, cosi querelandofi ſcla ma: Hoc voluit Ioannes Damafcenus in
herbarum decoctio nibus ; diſtillationibus , quamvis corruptê, di impiè intel
bigatur abignorantibus diftillaturiam artem ,nefciétibus evela bereelementa à
fimplicibus , tantum affumuns aquam endi: viæ primam ,oprojiciunt aërem , ignem
; non fpretos à doctis medicis benèintelligentibus naturæ principia , &
fecres ta : à doctisſimo viro Ioannéa Rupe feiffa : hoc voluit in selligere Ben
Cene in tertio lib.fen. 20. cap. 18. de fingular. med . ad augendum coitum ,
ubi toquitur de commiſtione falis Strucorum cum vitellis ovorum ,
&patentiffimum eft falem no poffe confici , nifi perdiſtillationem ; ducum
prima aqua dif folvere cinerem , abluere primam aquam , terram albifi cando ,
ut docent fapientes . Ma prima di lui ciò ravviſato avea Antonio de Ferrariſuo
maeſtro , c compatriota'nelle fue 1 Del Sig.LianardodiCapoa. 159 fue chiofe
ſopra la cantica d'Avicenna. Vadiinoſtrando egli poi quanto lia meſtier la
Chimica a 'medici per ben in tender gli Autori , con produrre in mezzo molti ,
emol ci altriluoghid'Avicenna male iſpoſtiso mal preſi daʼmedi ci , per non
conoſcerli di chimica ; e centoaltri ne potreme míonoi quì ſomigliantemente
annoverare , ſe dal tempo ne foſſe permeſſo . Maperchè ho laſciato lo anche di
rammo tare la Chimica efferoltremodo neceſſaria aʼmediciper po ter ben
conoſcere , e ravviſare tante , e sì fatte guiſe dime dicamenti , che fabbricar
tutto giorno, edifpenſar da mol ti, e molti artefici fi fogliono / intorno
aquali i ſemplici Galieniſti in nulla fappiendoſi delle lor vircùconoſcere ,
ſom vente a' rapporti de’medeſimi componitori diaeceſſità les ne ſtanno digiuni
affatto , e privi ritrovandoſi di qualunque contezza dichimica; ſenza la quale
comporcocali medica, menti , ne in quali forti di malattie , in qual' età, in
quales ftagione convenevolmente da uſar fieno, appieno compré der potráno
:cõciofſiccofachè cotali ricette fovéte appreſſo i buoni autori s'incontrino ,
i quali appena ſi pare,che l'ab . biano ne'lor volumi groſſamente accennate ,
non che par . titamente ſpiegate , e deſcritte , coprendo a bello ſtudio , e
inviluppando imiſterjpiù pregiati, e più profondi dellar te , per non
logorargli yanamente infra le genti volgari ,cu dibaſſo intendimento . E quinci
poi ingannati da’loro fal fi avviſi impongono vapamente agli ammalati
alcunisime dj , che chiaman prezioſi; facendoſi a crederc , che fien tali,
quando veramente fon viliffime bazzicature , e fanfaluche di niun pregio; fe
non vezzatamentele impongono per aver parte poiall'ingordiffime baratterie
degli ſpeziali. Ma coſtuma fu mai ſempre de' medici il dar a divedereu effer di
pregio grande i loro medicamenti; ficomc per ta cer di Pallada, teſtimonia
Sereno Samonico : Multos pratereamedici componere fuccos Afuerunt ; preciofa
tamen quum veneris emptum . Falleris,fruftraque immenſa numifmatafundeso E per
non dir nulla del file dell'oro , che cotanto alcuni ſopranmodo millantano :
come potrà egli un buon medico diſpor 560 Ragionamento Settimo diſporſi mai ad
ordinare al ſuo ámalato beveraggio di quel che chiamāſale d'argēto,ſenza pūto
le qualità diquello fa pere ? Oh ſep chimica conoſceſſero i Galieniſti
giámai,che cofa ſia quel malvagio medicamento , certamente non ne ſarebbono
cotanto a'ſuoi infermiliberali , perciocchè non è egli , ne eſſer può giammai
ſal d'argento ; ma sbriciolati, e ſottiliſſimi ſcamuzzoli del medefimo metallo
uniti inſie me , e rappreſi dalle particelle di quegli eſaltati fali acuti, e
peſtilenzioſi , onde già roſi , e ſgretolati furono; perchè cer tamente la
medeſima qualità riſerbar debbono di que' fali, e'l'medeſimo effetto
peravventura adopererebbono, che dal vitriol del rame far fi ſuole ; perchè
Giuſeppe Don zelli nell'arte della Chimica conoſciuto aſſai , così ne dice:
Quanto al mioſentimentoſtimo vanità le virtù , cheſipredia canodel ſald'argento
; e credo, che abbia indebolite più bor fe, che corroborati cervelli . Anzi
tanto più velenoſo,e mal vagio cotal ſale fi è , quanto più del vitriolo del
rame, o ď altro peſtilenzioſo veleno rode,e morde le viſcere, e ſpie tatamente
ſtracciandole ſtrabocchevolmente ne muove a recere gli inteſtini, e l'anima;
perchè con dolori acerbillimi correr ne potremmo anche mortal pericolo, ſe non
che co tanto poco dar ſe ne ſuole, che agevolmente , o la natura medeſima , o
altri medicamentiviriparano. E’lmedeſimoancora da dir ſarebbe dell'olio
dell'oro , e dell'oro , che chiaman potabile , del qual certamente niun mai
ſervir dovrebbeſi , ſe non aveſſe egli in prima per più d'una pruova baſtantemente
compreſo non poterli quello in niun modo ne'primicri ſembianti ritornare , e
prender di nuovo forma di metallo ,laſciato avēdo affatto d'eſſer tale . La
qual coſa da quel grā maeſtro dell'arte Elmõte ben con . ſigliata ne fu allor ,
che diſſe : ne metallicum ullum arcanu intra corpus accipiatis , nifi prius
redditum fit volatile , din nullum metallum reduci poffit. Eche direm noidelle
tinture de coralli , delle perle,del le quint'effenze, che millantar
fogliono,degli ſmeraldi,de zaffiri, e de’rubini , cd'altre ſomiglianti gemme,
le quali veramente,ne filoſofiche tinture, nc eſſenze non ſono con cior Del
Sig.Lionardo di Capoa sor ciosfecofachè a farle tali , egli convenga in prima
ſcioglier filoſoficamente que'corpine'primicris loro principj collo pera , e
col conſiglio degli Alchaeft, e d'altri ſomiglianti li quori: le qualicoſe
altro veramente non ſono , ſecondo il ſentimento d'alcuni valent' huomini, che
Sogni d'infermi, e fole di Romanzi; e nõ men vane, e bugiarde, che l'eroiche
sbracciate del Rc Artù , e lemillanterie di Lancillotto , di Triſtano ,
ed'altri crranti Cavalieri,che dimenzogneempion carte . E ſepur vere coſe , e
non vanisſime dicerie elle fono , ficome al quanti guari autori han voluto pur
credere , cgli però ſo 110 sì inviluppate ; e cieche , e rimoſſe dal noſtro
intendi mento , chemalagevoliſſimamente per huom ſe ne potreb beorma rinvenire;
così, ſe pur lealmente ne diviſano i mae Itri, e Senatori della Chimica
Repubblica, come il Valen tini, il Paracelſo , l’Elmonte , e altri, l'han ſapute
co' loro riboboli , ed cninmisì bene avvolgere , e intralciare , che
impoſſibile omai ne ſembra l'impreſa. Perchè lo ſciogli incnto , che
comunemente far pe veggiamo , altro certa mente non è , ch'un minuto
ſtrirolamento , o ſceveraniento delle parti , fatto , come è detto
,da’ſaliacuti elaltati ,e per ciò ſoinmamente velenoſi , i quali meſcolativi
per entro , e forte appiccativi non ſe ne potrebbono per tutte le bucate del
mondo toglier giammai; ſenzachè i bricioli dell'oro , o delle gemme,o d'altra
ſomigliante coía dura, ſcioltije ſgre tolati, e a que’ſali appiccati , ceſano ,
e fraſtornano l'ope razioni degli Alcali ; intanto che non potendogli quelli da
tutre parti inſiemeunire, no rieſcono valevoli ad iſpogliar glidella lor natia
acrimonia,con rendergli ottuſi affatto , e rintuzzati delle lor ſottiliſſime
punte ; ficoinenel tartaro vitriolato far ſogliono, ove sì fatto intertenimento
non hí 110. E ſe i fali pur non vi rimancſſcro , ma per opera d'ec cellente , e
ſaggio maeſtro già tutti interamente ne goin beraſſero , certamente iminuzzoli
dc'corpicciuoli ſciolti, c sbriciolati non reggerebber pure a galla nuorando in
ſu i pori delle umide ſoſtanze , ma tantoſto in fondo al valo sõ.
mergerebbonſi; ne meno ſcioglicrebbonſipunto per gli Bbbb wwin 502 Ragionamento
Settimo umidi aliti nel deliquio ; come gli intendenti del meſtier fa vellano .
E di ciò ben fi può far manifeſta pruova,conme ſcolarvi dentro l'Alcali del
tartaro ; concioffiecofachè bcn allor di preſente fi vegga l'argento , e l'oro,
e le gem me calar giù , e far toſtofondaccio : comechè alcuni cotali paltonieri
, e giuntatori de’noftriſecoli pur ſi ſtudjno di di moftrarne il contrario :
circumfuranei fallaces ,come dice il grand'Elmonte ,qui aurum , & argentum
furripientes aliud in borum locum fuppofuere ; incontro a’quali giuntatori al
trove riſerberommia ragionare . Ma de' lavoratori di sì fatti medicaméti,così
dice lo ſteſ fo Elmonte , huomo per univerſal conſentimento di tutti letterati
intendentiffimo di ciò giudicato . Pudendam pa riter deploro fimplicitatem
illorum , qui foliatum aurum , gē maſquecontufas
hominibusmagnaſpepropinant,magno ven dentesfuam ignorantiamfinondolum ; quafi
ftomachusinde, welminimum expectetfubfidium . Subtilior , ideoque magis
condolendus efterror eorum , quiaurum , argentum ,coralia , perlas, atque
fimilia per liquores acidos corrodunt, atque dif folvere videntur;putantque hoc
pacto intra venas admiffum iri , verè ſuasproprietates nobiſcum communicatura
.Nefciät enim , ah neſciunt acidum venis hoſtile ; ideoque peregrina
diſſolventiúfuperata , & tranſmutata aciditate,ejufmodi me talla ,&
lapides pulveré effesatante; qui utcunquein tenuiffi mum pollinemfit
redaétus,nihil tamen à ſtomacho conficitur, aut nobisfuas vires partitur. Ed
Angelo Sala nel meſtier della Chimica ofercitato affai , e ferino , e veritiero
ſcritto Te : omnes illi , ſclama , qui talibus portentofis promifis, quo rum ne
minimum re ipfa præftare pofunt, multum gloriantur, Banquam.agyrta ,
&impoftores babendi funt; licet ab aliqui bus , intendendo egli di coloro
appunto , de' quali noi ra gionato abbiamo : ſciocchi,e ignoranti della
Chimica, qui facilè vanis perſuafionibus ducuntur , tanquam profundi ar.
canorum naturæ fcrutatores fufcipiantur,magniquefiant, da contra ab iiſdem
ingenuisfine oſtentatione quantum in artis poteſtate eft exhibentes
negligantur. E prima di ciò avea egli detto : meritò fufpeéti habentur , qui
primam dari materia philo Del Sig. Lionardodi Capoa 563 philofophorum tùm ad
quorumcunque morborum curationem , tùmadmetallorum tranfmutationem , multis ,
jiſque ad oſtë tationem , & fraudem comparanis rationibus probare conan tur
. Qui ex auro , quod necfummaignis violentia , autul lo corroſivo cogi poteft ,
ut vim fuam metallicam exuat , se liquorempotabilemverum fine peregrina miſtura
conficere poffe jactitant . Qui non folùm colorem , innatam tin &tu ram ex
omnibus metallis , lapidibus presiofos , fed etiam fpi ritus , olea , &
ſales non minus , ac exvegetabilibus fe fepa rare poffe profitentur: Qui
ex.talco , corpore illu metallico , & incombuſtibili , balſamicum ,
&temperatumliquorem ad per petuam faciei venuftatem promittunt. Qui veram
tincturam coraliurum ejufdem cumipfis coraliis coloris , faporis, &tem
peramenti , majoris tamen virtutis ad Epilepſie, & Melan cholie curationem
vendunt; du ex ipfis margaritis talē quin tamellentiam ,quæ humidum radicale
confumptum meliusquá ullumaliud fimplex ,aut compofitumreftituat. E quancunque
gli acuti lali ſoglian talor raddolcirli al quanto, o per me'dir mitigarhi
accozzádoſi in modo co'mi nuzzoli demetalliſciolti, che le lor
fottiliffimepunteaca biar fito ne vengano, come nel vitriolodel ferro agevolmé
te fi può vedere; non,però di meno il più delle volte il con trario n'avviene;
perciocchè le punte delle particelle, che compongono i fali, accozzandoſi
talvolta con gli sbricio latiminuzzi de’metalli , vengon si fartamente a
ſchierarſi , e comporſi, ch’a guiſa di pungentiſſime ricciaje , od’aſpri riccj
fieramente aguzzandoſi, ed arruffandoſinefquarcia no le viſcere ', e con
mortali punzecchiamenti talor n’ucci dono ; ficomealla giornata nel ſoliinato ,
e nel precipitato , e achenell'oro ſciolto p l'acqua regia avvenir veggiamo.
Perchè l'avvedutiflimo Chimico Ofualdo Crollio , dicoral oro favellando,
dannandone ſommamente l'uſo,non datur, dice , illo nocentius toxicum . Ed io
porto pur ferma opi nione, che da sì fatti medicamenti , ſe non ſi deſſero
tanto miſuratamente , e a ſpiluzzico , non nien gravi , e manifeſti danni
ſeguirebbono , che dal ſolimato , e dal precipitato avvenir ſogliono ; perchè
non ardirebbono imedici ſcioc Bbbb 2 chi, c 564 RagionamentoSettimo chi , e
ignoranti , ſe nella chimica eſercitati foffero , cotali medicamenti ,
anzinocevoliſſimiveleni , a'loro ammalati per cagion veruna imporre ; e
comprenderebbon pure che corali, che chiaman riſtorativi, in luogo di dovere
agli in fermi sfidati lc ſmarrite forze ravvivare , inaggiormente gliele
abbattono . E ſappiano pure , che ſecondochè nes dicano i più veritieri
Chimici, più agevole aſſai è a fabbri car di nuovo l'oro , che'l già fatto
diſtruggere. Ne è dacredere , che quell'olio d'oro tanto celebre , e famoſo in
Portogallo , curi, e ſaldi le ferite con altro , ches co'ſali roditori , ed
acuti dell'acqua regia , che if diffolve ; perciocchè corrugando quelli, e
riſtrignendo i vaſi acquo fi del noſtro corpo, nó fanno alla ferita umore
alcuno trape lare ; perchè gli ſpiriti de ſali frizzanti, e lazzi la virtù
dell' olio dell'oro , o ſia egli oro potabile, è certamente da attri buire ;
che per altro, ficome diceva colui, l'oro sì fattamé. te ſciolto troppo
ſpoſfato , e di niun momento ſenza il fal roditore egli riuſcirebbe: ma affai a
ingordo pregio paghe rebbeſi quel poco d'utile , che rade volte ricever fe ne
ſuo le , ſe paragonafial riſchio , in cui la vita del malato mani feftamente incorre
. Ne altrimenti è da credere degli ap parecchiamentidelle perle , de’coralli ,
e dellc gemme ; perocchè , come di ſopra detto è , sì fattamente nel loro
Atritolamento gli acuti fali vi s’appiccano , che per quindi torgli vano
affatto , e inutile ogniſtudio riuſcirebbc .' Emi ricorda pure eſſer capitato
una volta alle mani del Donzel li un talmagiſtero di ſmeraldi, che
manifeſtamente di que' ſali , onde compoſto era , putiva; e quelvalent'huomoall
? aperto riſchio della perfona colui ſottraffe , che di preſente predere il
doveva. Perchè i buoniChimicisépre dal far co tali apparecchiamenti ſono ſtati
oltremodo guardinghi ; e'l Gluctradio medeſimo ne'cométi, ch'ei fe in fu'l
libro delſuo Beguino , forte gli biaſima, e danna . Anzi quantunque il Cratone nel
meſtier di cotali medicine ragionevolméte da ſeguitar non fia ; non però di
meno in ciò , chcnarra delle perle , egli ſenza dubbio ſembra dir vero . Acetum
radi catum , ſon ſue parolefua , acrimonia , & vi corroſiva, atq; caufti.
DelSig. Lionardo di Capoa. 585 cauſtica non modo margaritas , verum alia etiam
diſolvere ; &in cinerem quafi redigere , atque quemadmodum Chymiſte
loquuntur, calcinare polje nemini dubium eft . Huc autem no eft fpiritum
margaritarum elicere, fed totam earumfubftan . tiam corrumpere. D.Vaoylelius
ſenior mihi narravit Epiſco pumn Vratislavienſem Gaſparem Logum , magiſterium
hocper larumperſuaſum à fratrefepèporrectum à Paracelfifta quo dam ebibife,
atque eo demortuo tunicas ventriculi nigras, egy corruptas apparuiſe. Eodem
eventu ufam effe Marchionis Iohannis conjugem , in qua ventriculi tunicæ planè
fuerunt erofa . E ciò certamente avvenir debbe dal non aver ſapu to il
componitore di quellavorjo qual cofa apprèffo'l Para cello ſia veramente
l'aceto radicato, e dall'averſi egli ſervi to in luogo di quello d'un cotal
liquore minerale oltre modo acuto , e roditore . E quantunque diciò per avven
tura non ſi poſſa ne'magiſterj delle perle , e decorallifac ti per opera
d'alcuni piacevoli fali, o liquori vegetabili dottare,tuttavia comechè ſi
cõfacciaio a qualche āmalato , pure in molte,e molte malattie comuneméte ſi
dánano ;per chè in luogo d'abbeverarſi di quel ſale acetoſo , che nelle noſtre
viſcere calor ritrovano, accreſcendolo maggiormen te , le cagionidelle
inalattie ne multiplicano. Ma chi baſtevole ſarebbe giammai a raccontar le
frodi, c le baratteric , che in sì fatte materie tutto giorno com metter fi
fogliono ? Ed è egli recente ancor la memoria in queſtaCittà di quel Polacco,
chevedeva a carisſimo prez zo lo ſpirito del nitro per l'Alcacſt; e di quel
gran Barbar ſoro Ciciliano , ilquale con ſue ciarle , e giunterie molti, e
molti ne preſe faccendo Calandrini gli huomini, e dando a diveder loro
l'elitropia fu per lo mugnone , vendendo, e di fpenſando la tintura del
verderame per quella degli ſme raldi , c'l biſmuto calcinato con acqua forte ,
e ſciolto , co me dicono , per deliquio , in luogo di veraciſſimo latte di
perle; e f quel che minor male certamente era ) Peliſſire di propierà per
balſamo di Criſto , e la cintura del Chermes per quella de'coralli. Così bé
ſapea falſeggiar sì fatte ma raviglie, come colui, cui fa dire il noſtro Dante
la giu nella : deci 566 Ragionamento Settimo --- . decima bolgia dello Inferno
: Sì vedrai ch'Io fon l'ombra di Capocchio , Che falfaili metalli con Alchimia
: E ten deiricordar ſeben , t'adocchio, Com'Iofui dinatura buona foimia . E non
ha guari di tempo ; cheda qualche malvagio fpe? ziale comunemente vendevali (
edimedici pur l'imponeva no a'loro infermi ſotto nome d’eſtratto di caffia ) la
caffia medeſima, ineſcolatovi dentro gutgummi: e queſto mede fimo pure meſcolar
ſoleva nell'eſtratto del Rabarbaro per renderlo maggiormente efficace , e
vigoroſo , con quel dá no, e nocimento de’miſeri ammalati,che immaginar poſfia
mo ; e gli ſcimuniti, e balordi medici ignoranti affatto dela la Chimica,
ingaonacine reſtavano,giudicando ſcioccamé te maggiorſempre , e più vigoroſa
negli eſtratti l'efficacia dellemedicine dover riuſcire . E ſomigliantemente
dall'ignoranza della chimica anco ra avviene , che i baccelloni , e ſemplici
medici credendo di foverchio agli Artefici, veggonfi tutto dì mandar fuora
varie , e diverſe moſtruoſe, e ridevoliricette di medicines, le quali o non
inai fi videro al mondo , o folamente ne’libri di poco pregio , o dalle bocche
, o dalle penne di chi trop po lor crede furono appreſe; ma quanti danni ne
fian ſegui ti a’poveri infermi , chi potràmairaccontare :Dirò lo fola mente ,
ch'un celebre Galieniſta de'noftri tempi per aver lerro forle egli il Tirocinio
delBeguino , o altro ſomiglia te libro di Chimica , ftimandofi egli già gran
maeſtro in quella , preſe ardire d'ordinare a una cattivellainferma lo fpirito
del nitro volgare fchietto ; e comechè lo ſpeziale tá to quanto intendente
della biſogna a tutta ſua poſſa il con traſtafle , pur colei preſolo , dopo
acerbilliini dolori nabif fando , e rabbiando fe ne morì. Ma di sì ſciocche , e
irra gionevoli ricette ben ne potrei Io un lungo catalogo qui diviſare , ſe non
che per troppa modeſtia me ne taccio ; temendo non diciò ſe n'adiraſſe alcuno ,
come di fallo per avventura da ſe maffimamente commeflo ; ſenzachè v'ha
perſona, ch’avendonc finora un lunghisſimo ordine intel R 1 iuto , Del
Sig.Lionardodi Capoa. 507 ne , futo, infra non lungo tempo forſe divolgandolo,
farà intors, no aciò la vaghezza de'curioſi interamente paga . E dall'ignoranza
della Chimica medefinamente avvic che tutto di daʼmedici il ſale del vitriolo
ordinar ſi co ftumi ; il che certamente non avverrebbe , fe ſapeſſefi qua to
eglioltremodo malagevol fia il comporlo ; e che gli ſpe ziali in vece del ſale
del vitriolo , dar fogliano il vitriolo medeſimo bianco , o pure il vitriolo
riprodotto dal capo : morto , ſicome dicono ; il quale talvolta aſſai più del
vetro medeſiino , e de'fiori dell'Antimonio violento ſuol riuſcire; cagionando
acerbillimi dolori nelle viſcere , e talora anche manifeftamcnte uccidendo .
Così non ha guari di tempo per pochi granelli di cſſo moriſli in Caſtel
nuovomiſerabil mente rabbiando Gio :Battiſtade'Benedetti ftrolago di gra grido
. Ma i noſtri ſciocchi, e baccelloni medici immagi nando di porre in opera un
benigniſſimo, e piacevol medi camento, in luogo di quello un crudelifimo, c
micidial ve leno ne vengono talvolta ad ordinare . E ſon' anchei medicinegli
ſpiriti de'corpi vegetabili da? mueftridiſtillatori, ſommamente beffati ;
perciocchè colo ro cavar gli ſogliono per limbicchi di rame con gravilli mo
danno di colui , che prender gli dec ; conciolliecoſa chè la flemma di que'
corpi formentati, gravida di quel ſale acetoſo , che non mai partir ſe ne può ,
trae ſoven te qualche nocevol particella della campana , e con la ſua mordacità
tanto quanto la rode , e la ſminuzza. Quinci poi a poco a poco, ne l’huom ſe nc
può in prima avvedere,[con volge , e morde le viſcere , e diſtempera il corpo,
cagione vole oltremodo , e difettoſa l'economia di quello renden do . Ma veggo
Signori che s’lo diſtintaméte narrar vi volei gli errori tutti ne' quali
incorrono i medici p nó ſaper pūto di chimica troppo lūgo, e ſtucchevole ne
diverrebbe il mio ragionaméto; perchè ritornando di nuovo ad avvercirglin
confortargli, e ſcongiurarglia non inframmetterſi d'impre ſa di tanto riſchio ,
fe pienamente non ne fan riuſcire, dico di nuovo , che laſcjno da parte ſtare
le pericoloſisſime me dici. 5:08 RagionamentoSettimo : dicine della Chimica , e
ſolo alle lor menovili, ccomunali attendano : Ludere qui neſcit campeftribus
abftinet armis; Indoctuſque pila , diſcive , trochive quieſcit , Ne ſpiſſa
riſum tollant impunècorona. E perchè dirò lo non reſterà anche un medico della
Chi mica ignorante d'ordinarchimichemedicine?masſimamé re , che non ne fieguono
le ſcherne di lui , ma la morte de gli infermi; perchè a ragion lagnavaſi il
Sennerti d'alcuni maeſtriScimmionide'ſuoi tempi , i quali, com'egli dice , quum
rerum Chymicarum planè ignari fint ,ne tamen Chymi cis aliqua ex parte
inferiores videantur, chymica medicame ta , quorum vires , & præparationis
modum ignorant , fatis periculosè ufurpant . Or che direbbe egli , s'ancor
vivendo vedeſſe la tracotanza del noſtro ſecolo , e ſcorgeſſe pures in queſta
noftra Città , in queſto Regno non eſſere ſpeziale anzi no eller barbiere , non
eſſer cerrerano,non doniccico : 1a , che non componga Chimicimedicamenti:non
effermc dico , che non gli ordini , appena che ne ſappia il noine, o bene , o malc
, in tutte ſortidimalattie ? Anzi , che direb be egli pure , ſe vedeſſe cotali
Squaſimodei de'noftri tempi andar tronfj, e pettoruti biaſimando la Chimica in
cotali, che forſe ſaggiamente , e con prudenza l'adoperano, quan do eglino
ignoranti , e non punto intendenti di quella più ch' alcun' altro poi
follemente delle chimiche medicinc fi ſervono ? E comechècotalimaeſtri zucche
al vento diſa per tutto miliantino ; pur nulla conoſcendoſidella vecchia, e
della nuova medicina, abborrano, e meſcolano alla groſ ſa il tutto , con danno
, e rovina di chilor crede. Ma per favellare appunto de'tempi noſtri, dice
l'avve. dutisſimo, eingegnoſisſimo Roberto Boile,Obfervo noviſ fimis annis
Chymiam ceptam efe (uti meretur) à viris doctis, quiprius eamfpreverant , excoli
; ejuſquefcientiam à pluri bus , qui ipfam nunquam coluerunt, arrogari,ne eam
ignora. re exiſtimentur . Vndè faftum quodplures Chymicorum de rebus
philofophicis notiones fumptæ fint pro conceſis , atque in uſum verſa ; &
fic ab eximiis admodum ſcriptoribus,tiim phyſi Del Sig.Lionardodi Capoa: 150g
phyſicis , tùm medicis adopsate . E finalmente anche ſe alla medicina non foſſe
meſtier la chimica , a che ragunarſi a giornate tāti parlamenti, e tante ſcuole
di Chiinica nella Germania, nellaFrácia, nell'Inghil terra , e in altri molti
famoſisſimiluoghi d'Europa ? A che tanti valentisſimi medici ( de'quali
alquanti più famoſi Ga dieniſti per brevità ſolamente rapporterò ) avrebber
durate tante fatiche, ſparſi tanti ſudori, vegghiate tante notti per imprenderla
, per appararla ? E per racer d'Avicenna , di Rali, di Meſue, d'Abulcafi , e
d'altri famoſi medici Arabi, e ſomigliantemente di Ramondo Lulli , d’Arnaldo da
Vil lanova , e d'altri di que'barbari, e infelici tempi: quanto ſudor vi
ſparſero Giovanni da Bagnuolo,Gio :Battiſta Món tano : Giacomo Silvio
grandiffimo parteggiano diGalieno , Giovan Fernelio , Corrado Geſneri, Teodoro
Zuingero , Andrea de'Mattioli,Gio : Giacomo Veccheri , Gabriel Fal loppio ,
Felice de' Platteri , Martin Rollando , Anſelmo Boezio , Girolamo Cardano ,
Giulio Cefare della Scala , Gregorio, e Daniello Orftio , Pietro Caſtelli,
Marco Aure lio Severini , Daniel Sennerti , Girolamo de'Roſli, Andrea
Cefalpini, e Giovanni Eurnio, e Giovan Cratonc ? il qual, come alcun'altro
deʼmentovati, comeche con ogni sforzo in prima ſtudiato li foſſe di contraſtare
, e abbatter la Chi mica , pure alla per fine tratto dalla verità volle
appararla , e ſeguirla ; e introduſſe in Vienna , com ' egli narra , nel la
Corte Imperiale molti ſalutevoli , e nobili medicamē. ti ; perchè poi ne fu da
altri medici fieramente perſeguita to , e biaſimato . Ed egli ſembra certamente
ſventura ſin golar della Chimica , fe pur egli non è anche di tutt' altre cofe
grandi , e magnifiche : poichè non s'arri fchia alcun giammai a tacciar coſa ,
di che pienamente non ſappia , e non ne ſia in prima a baſtanza informato :ma
folo la Chimica fi biaſima , e s'accagiona da chi men n'in-. tende; e giugne a
tanto l'invidia,e la malavoglienza de'bef fardi, che con arrabbiati morſi fan
lacerare empiamente un meſtier ,dicui appena fanno il nome . : Machi baſterebbe
giammai ad annoverar tutti coloro , Сccc chc 570 Ragionamento Settimo che le
chimiche medicine adoperano ? certamente non è medico a'tempi noſtri , ch'abbia
fior di ſenno , che per be ne ciò fare , con ogni ſtudio diligenteméte nó
appari la chi mica ; e ſi è ciò ſolaméte vantaggio della noſtra ctà , o della
noftra fioritiffima Italia nella quale anche a'tempiaddietro la Chimica da
tutte genti,che tanto quáto n’ebber contez za avidiſſimamente fu ricevuta . E
Pier Caſtelli ad un co tal meſtolone, che inutile, e ſoverchia a'medici
giudicava fa , fciat,diſſe , in Germaniamedicină exercere Chymiæ igna rum non
poffe , &vixin Gallia , & in Italia ; e'l teſtè men tovato Daniello Orſtio
: encomia Chymie non opus eft , ut hic recenfeam : quia verum eft, quod habet
alicubi Heur nius : ceſpitat, jam profecto fine hacarte medicina . E prima
dicoſtoro avea già detto il Mattioli : medicum abſolutum effe non poſſe ; immo
nec mediocrem quidem , qui in Chymica non fit exercitatus: nella qual ſentenza
fu dopo ancora Da niel Sennerti , e in varj altri luoghi l'accennato Caſtelli ,
tant'altri valenti ſcrittori, Ch'a nominar perduta opra ſarebbe. Ho traſandato
a bello ſtudio di avviſare quanto l'uſo della Chimica ſi diſtenda nella maggior
parte dell'arti più curio fe, e più utili al genere umano : imperocchè
l'acqueodori fere, gli olj , tanta varietà di liſcj, che lavoranſi per orname
to delle donne, le gioje artificiali, che dalla Chimica, qua fi emula della
natura produconſi , la varietà de'colori , che formanſi per uſo della pittura ,
le paſte da indorare , e lac que da partire i metalli , che continuamente
adoperanſi dagli Orafi , tutti ſono effetti, coperazionidella Chimica; delle
quali la ſola operazione della menzionata acqua da partire i metalli, diè
cagione di tanta maraviglia a quel grā lume delle buone lettere Budeo , che nel
terzo libro de Af se , ebbe a dire : hujus eft id artificium , ut vi aqua
medicata , quam Chryſulcam appellant,quantulamcunqueauri partem argento , aut
cuivis metallo illitam , aut confufam ,nullo di Spendio abſtrabat , ita ut
inauraturis nibil jam depereat mă do , niſi quod ufu interteritur . Res omnino
fupenda auri ar gentiquequotamcunque portionem ex ære eximere , etiã, quod magis
Del Sig. Lionardo di Capoa 571 magis mireris manente vafculi forma quaſa
interdum , a inani , veluti quadam idea à materia abſtracta . E l’Alciato
ammirò pariinente la medeſima acqua in chiolando il teſto della legge Idem
Pomponius , S. fed fi D. de rei vind . nella quale ſi dice , che'l rame
miſchiato con argento non può ſepararſi,e però nõ vi può aver luogo la
vindicazione, qual dicono: onde e' ſcriſſe potuit hæc sētētia Vlpiani têpore
obſer vari , hodie forte aliud erit, etenim inventa eſt ars,qua Chry ſulcæ aqua
viaurum à quocunque alio metallo fepararipoteft, cujus rei quamvis pauci
ſintartifices , vixque finguli in ma gnis Civitatibus, cum tamen ſeparatio
fieri poffit, apparèt non effe fuprafcripta rationi hodie locum . Ma cotali
brighe a'cervelli più ozioſi de' noſtri laſciana do :poichè la chimica eſſer
così giovevole, e oltremodo ne cellaria alla medicina baltevolmente è detto,
trapaſſeremo ora a diviſare delle ſtrade , perle quali aggiugner ſi poſſa alla
contezza di sì nobil meſtiere . Primieramente colui che nel faticoſo meſtier
della Chimica eſercitar ſi voglia , conviene, che non ſolo , comc Teobaldo
avviſa, ſia nel latino idioma ben addottrinato : ma d'altri, e d'altri ancora
egli abbia conoſcimento :concioffiecoſachè in molte lingue del la Chimica i
volumi ſiano ſcritti , e con tanti eniminio eri boboli inviluppati, come
altrovc dicemmo,che ben richie dono ſottiliſſimi, c.alti cervelli per
iſpiegargli : Ea fuit om nium hactenus invidia , dice di lor querelandoli
Geremia Bartio , idque præpofterum occultandi ftudium , ac labor , ut non
tantum à fe inventa artificia ſpagyrica , tanquam eleuf , na facra celarint:
ſed veterum etiam arcana , fimpliciori , apertiorique orationis genere
propalata, impofioria perplexi tate, do notarum hieroglyphicarum obſcuritate ,
in tenebras ipfis Cimmeriis , & Ægyptiis denfiores conjecerint . E oltre a
queſto deeil Chimicoper lo ſciogliméto e per l'inneſtamé. to de’naturali corpi
aver diligentemente ſtudiato in fiſica , e conſeguentemente in Geometria , e in
tutte altre ſcienze ad imprender filica ſommamente neceſſarie ; ſenza le qua li
mal certamente può egli il ſuo intendimento fornire,quáa tuinqueavveduto fit ,
e valoroſo aſſai: così quel famolin C cc c 2 mo me . 572 Ragionamento Settimo
mo medico ; e chimico Arnaldo da Villanova: quicunque ad hancfcientiam
vultpervenire , &non eſs philofophus, fa tuus eft ; per tacere il Morieno ,
e altri . Maconviene oltrº a ciò ,che per internarſi nelle cupe , e profonde
ſpecula zioni della natura , ne' tre vaftiffimi reami di quella con ra
pidiffimo ingegno traſcorra , e molto in eſli ſpii, molto co prenda , e avviſi
tutte quelle coſe, ch'e' continuo aver dee tra le mani, e vada pure per
inveſtigare nuove coſe ; cer cando per lande , e per valli, e per colli , e per
fiumi, e per nuovi mari Fior varj, e varie piante , erbe diverſe, c oltr'a ciò
augelli , e peſci, e altri infiniti animali, e minic re , e gemme , e altre , e
altre fatiche a sì lungo meſtiere appartenenti volentieri imprenda , come già
fecero que chiarisſimi lumi dell'arteRamondo Lullio, e Teofraſto Pa racelſo .
Oltr’a ciò egli è di meſtieri al chimico eſſer otti mamente avviſato della
natura , e delle qualità di tutti gli ordigni , e ſtrumenti del meſtiere , e
ſopratutto del fuoco ; € fottilmente anche comprendere checo’ſemi di quello sé
premai ſi vengono ad accoppiarealquãte particelle, o fali gne , o d'altre ſorte
di quelle coſe , che ſi lavorano ; perchè poi vengono oltremodo a variarſene
gli effetti, e l'opera zioni delle chimiche medicine. Macertamente Nõ è pareggio
da picciola barca , e troppo fuor dimiſura n’allungherei il ragionamento ,fee
tutto ciò,ch'ad un perfetto Chimico abbiſogna recar quà partitamente lo vi
volesſi; ſolamente non laſcerò di nuovo d'avviſar coſa importantisſima a mio
credere a cal meſtie re : ed è, che il voler da’ſoli libridegli autorila
chimica ap parare , è impreſa oltremodo malagevole,e dura affai,mal ſimamente a
colui,cheper la filoſofia , e per la medicina ſervir ſe ne yuole . La qualcoſa,
ſicome dicemmo,ſopra tutto naſce dall'aver quella gli avveduti ſcrittori a
bello Audio con enimmi,e viluppi intralciata ; e ciò fanno per . non
manifeſtare a tutta gente i ſegreti più profondi dell'ar te ; nella qual cofa
adoperano certamente gran ſenno , ſe guitando i conſigli degli antichisſimi padri
dell'arte gli Ege. Del Sig.Lionardodi Capoa. 573 Egéziaci ſapientiperciocchè ;
, come cancò quel giocondo ſatirico Fiorentino nel ſuo Orlando rifatto, Le cofe
belle prezioſe , e care , Saporite , foavi, e delicate Scoverie in man non fi
debbon portare , Perchè da'porci non ſiano imbrattate. Perchè poi molti , e
molti , che ſi ſono affaticati, e s'af fatican tuttavia di ſpiegare gli aſcoſi
ſentimenti de’Chimi ci maeſtri , ne rimangono certamente di gran lunga ingan
nati , e ſovente ancora ne' loro errori traggonnon volendo coloro , che creduli
troppo preſtan lor fede; masſimamen te nelle bifogne di maggior conſiderazione
della medicina, come fon quelle intorno alle qualiora noi ragioniamo. E quel ,
che maggiorméte accreſce la malagevolezza fiè,che fpesſiſlime fiate , quandofan
ſembianza di parlar manife ſtamente , e alla ſcoperta ſenza aggiramenti di
parole , al lor maggiormente n’inviluppano . Omnium rerum , avvi fa il gran
Claudio Salmaſio , quæ ad hanc fcientiam perti nent vocabula , ab ufu , &
confuetudine communifubmoveritt auctores fui, &peculiarem fibi dialectum
vindicarunt , fa lis myſtis tanti arcani intelle &tam . Fornaculam fortem ,
ve caminum , in quo argentum ,& aurum fundebatur,quod ore hiāti,
&patulo effet.E fu ancora conoſciuto dal ſapiêtisſimo Boile,dicédo egli
quelle parole.Hæcpropterea adjicio , quod qui vel ullatenus in rebus Chymicis
eft verfatus, non poteft no ex obſcuro corum ambiguo , & ferè ænigmatico
tradendi, que docere præſe ferunt ,modo percipere ; ipfis. confilium non effe ,
st intelligantur ,nifi à filiis artis (utvocant , nec vel ab iis quidemfine
difficultate, & incerti ſucceffusexperimentis;adeo ut eorum nonnulli vix
unquam tàm candide loquantur, quă guando trita inter ipforum fententia utuntnr
: ubi palàm la quuti fumus, ibi nihil diximus . E’l dottiſſimo Samuel Boc
ciardi in favellado della chimica, ars enim ipſa tam eft abdi ta , ut in ejus
cognitione adipiſcenda oleum , & operam miſe rè perdant pleriquemortalium .
Et qui adeptos ſe putāt quaſ cæteris hanc gloriã inviderët,tot verborü
involucris,atq; am bagibus artis arcana obtegunt;ut videant , ideo folü
fcripfiffe 574 Ragionamento Settimo ut nõ intelligerent ? E peraddurre di ciò
un ſolo efemplo , chi non crederebbe interamente al Beguino , ea tant'altri
moderni autori eſſere lo ſpirito del nitro diſtillato coi bo lo ,
quelmedeſimoappunto , che gli antichi Chimiciin , molte malattie di darper
bocca uſavano ? Epur la biſogna non va così; perciocchè quel degli antichi
d'altra ,e più sé plice maniera componevali; e lo ſpirito rapportato dal Be
guino , non ſolamentenon giova , anzi n'offende notabil mente le viſcere ;
perchè molti della lor perſona mal capi tati ne ſono , per avere i medici
ſoverchiamente al Beguino preſtato credenza ; come dicemmo teſtè di quella
cattivel. la inferma : ecento , e mille altri eſempli addur ſe ne po trebbono .
E quinci avvien poi , che non ſi veggono a’dì noſtri quelle maraviglioſe cure ,
che ſi leggono già per iná degli antichi Chimici eſſer fatte;avvegna pure,che
que'me deſimi lor medicamenti ne’loro ſcritti ſi ritrovino, ma sì in viluppati
, e alla groſſa diſegnati , che inal certamente per huom ſi poſſono adoperare .
E a ciò ben dovea riguarda re Pier Caſtelli, che troppo mal conſigliato , il
libro de mendaciis Chymicorum , con ſua poca loda compoſe . Or veggali di
grazia chente , e quali fian le malage volezze ; le quali intorno a un sì
faticoſo meſtier s'in contrano , e come ſe ne poffa in ſoli due meſi huom mai
ſuis luppare , ficome non meno ſciocco , che malizioſo fi ſtudia di darnea
divedere, il Billicchio ; quando egli ſotto gli ann maeſtramenti di Angelo Sala
per imprender quel poco, ch' ei ne feppe , tanto tempo infelicemente logorovvi.
E concioſliecoſachè cotalarte più operativa , che ſpecu lativa fia : egli è di
meſtieri all'avveduto Chimico ,anzi coll' uſo , e colla ſperienza , che col
rivolger de’libri appararla ; perchè poco ragionevolmente colui i ſuoi ſcolari
confor taya , dicendo Vos exemplaria Gebri Nocturna verſate manu , verfate
diurna ; perciocchè quantunque in ſui libri diGebro , e d'altri fa. moſi
Chimici molto li poffa apparare, non però di meno ſe non ſi pruova col fuoco :
econ altri chimici ſtrumenti ,ciò, che Del Sig. Lionardo di Capoa che ne'libri
' de’valét'huomini ſi legge indarno di pienamen te ſaperlo vantar huom puore;
perchè il Chimico prudéte, e avveduto è da dir , che più co'carboni , e
co'fornelli che coʻlibri uſar debbia ; ne per altro certamente detto viene il
chimico, filoſofo pe'l fuocò . E comechè dura oltremo , do , e malagevole
talcoſaneſembri, pure chiunque d'in tendere a sì glorioſo ſtudio preſume,
ſappia innanzi tratto , ché Της δ' αρετής ιδρώG θεοί πτοπίροιθεν έθηκαν
Α'θάνατοι, μακρος δε και όρθιG- ομG-επ' αυτίω , Και τζηχυς το πρώτον:επήν δ'
εις άκρονίκητα , Ρηϊδίη δ'ήπατοι πέλα χαλεπήπτε εούσα . Innanzi a la virtù
poſto i ſudori Hannoglieterni , & immortali Dü : Aleiper lungo, ed erto
calle vaſſi , Che duro inprima appar , ma quando alfommo Si giugne , agevol
èquel , ch'aſpro apparve; ma per paſſar ad altro non fa certamente meſtiere ,
ch'Io avvili, potendofi agevolmente da quel ch'è detto cogliere, che dee colui
, che pretende avanzarſi in medicina ſtudiar in tutte le ſette di quella ; ne
in meſtier di tanta conſide. razione , quant'è la ſalute , e la vita degli
huomini haw egli a riſparmiar fatica in rivoltar qualunque libro , ne ar
roffarfi di ſpiarne da qualunque perſona, per appararne co ſa di comun
giovamento, e di qualche pro-alla inedicina ; perciocchè ſicome avviſa
l'intendentiſſimo Plinio : nullus adeò malus liber eft , ex quo non quidpiam
utilitatis erui pof fit . E Giuſeppe della Scala : ego ſum is, qui ab omnibus
di Scere volo,neque tam malum librumeffeputo , ex quo non alia quem fruitum
colligere poffim . Ne è perſona cotanto ſcioca ca , e balorda , da cui talvolta
non poſſaſi apparare qualche coſa , eſſendo vero il detto d'Eſchilo πελάκι του
και μωρος ανήρ κα @ καίρον είπε , che per tacere altri , il Padre della giocoſa
poeſia toſcana nell'Orlando rifatto , così gentilmente cantando ſpiegò
Haqualche volta un Ortolanparlato, Cofe molto a propoſito a la gente. Ma 1970
Ragionamento Settimo Maparticolarmente de’medici favellando ſcriſſe a tal pro ,
poſito Conſalvodi Toledo famoſo medico de'ſuoi tempi, e Arciveſcovo di Lione :
prudens le&tor , vel auditor , omnes libenter audit , omnia legit : non fcripturam
, non perfonam , non doctrinam Spernit :ab omnibus indifferenter , quod fibi
deeffe videtur querit , non quantum fciat,fed quantum igno ret , confiderat .
E'l Quercetano anch'egli dice, ch'un co tale ſconoſciuto contadino tolſe
d'addoſſo d'un gran per ſonaggio la ſeccaggine d'un moleftiffimo capogirlo ,
cui no aveapotuto porre alcun compenſo , e vani erano riuſcitii molti , e varj
conſigli de' valentiſſimimedici . E fenza dia partirſi da queſta noſtra Città,
egli è gran tempo , ch'ado perar folevanſi dalla gente volgare efficaciffimi
rimedi per li bozzoli della gola , e perle ſcrofole ; e al mal della pun ta
guarire alcuniuſavanocon feliciſſime riuſcite ,aftenendo ſi da’ falafli ,
l'olio del lino , l'olio dell'olive , il ſangue del becco , il ſalnitro ,
l'incenſo, la pece, la raſchiatura delde te del Cinghiale , i fiori del
papavere roſli , la calce, il gen giovo , e'l zafferano ; nella colica la
cenere d'alcuni legni, nella riſipola il ſangue della lepre , il ranno , e
l'acqua del vitriolo , e della calce, e altrimolti medicamenti , che non fa
meſtieri, ch'lo quì rapporti;il perchè ſembra degno, an zi di commendazione,
che no l'avviſo del Paracelſo , il qua le vuole, che'l medico non ſempre debba
uſare co'letterati, e bazzicar nelle ſcuole , come ſe da lor ſolamente, e non
altronde ancora s'apparaſſe tutto ciò , ch’alla medicina ri chiedefi ; ma gli
convenga anche girne dalle vecchiarelle , dalle zingane ,da'ciurmadori, e
da’vecchj , e ſperimentati contadini; dalle cui ſcuole talvolta apprenderanne aſſai
più , ch’altrove per avventura non farebbe ; e quinci fi coglie , the'l medico
, non menche del chimico è detto , debba an dar ſe poſſibil fia ,per dirla
co'verſi del poeta Peregrinando da'piùfreddi cerchi Del noſtro mondo a gli
Etiopi acceſi. E queſto ancora , acciocchè egli avviſar poſſa la varietà, o la
natura delle terre , delle minicre,dell’acque , degliani mali , dell'aria ,
delle ſtagioni , de'coſtumi , de'cibi, delle bcyan DelSig. Lionardo di Capoa.
577 bevande , delle medicine , delle malattie , e delle maniere di ciaſchedun
paeſe . Ma con tutto , che tanto, e tanto af faticato egli s'abbia il medico
per apprender le contezze già dette,no dee ftimar già ſe eſſere al fommo grado
della medicina pervenuto : concioffiecofachè ne men vero ſia ciò che l'Elmonte
dice , che in tutta l'Europa appena un ſolo medico ſi trovi :imperocchè queſto
ſteſſo ne'maggiori bi ſogni troveraſſi dal ſuo ſaper ingannato; come ſi vide ,
per tacer del Paracelſo , nell'Elmonte medeſimo , che forſe quell'uno ſi era,
il quale non potè ſe medeſimo del mal del la punta guarire;e pure di queſto
male,e de'ſuoirimedj egli più d'ogn'altro medico ragionevolmente filoſofaro
avea . Ma laſciando ciò daparte ſtare , mi par tempo omai , che veggiamo ,
quali efſer debbano i maeſtri, i quali introdur poſlano lo ſcolare al
conoſcimento di táte ſcienze, quali ab biamo avviſato ellerneceſſarie alla
medicina . E conciofi ſiecoſachè di ſopra ſia per noi detto , infra l'altre
coſe al medico la notizia dell'erbc ſommamente abbiſognare ; conveniente coſa
mi parrebbe , acciocchè gli ſcolari in ciò avanzar ſi poteſſero , d'un compiuto
, eperfetto giardin de femplici lenoſtre ſcuole ornare, e quivi un'eſpertiſimo
er bolajo ritenere , il quale gliele doveſſe ad una ad una ad ditare , con
iſpiegar loro la natura , i nomi, e gli effetti di quelle ; acciocchè
avveduramente poi ciaſcuno uſar le do velle . E ciò tanto monta al comun deila
medicina , che ragionevolmére il Caſtellicosì ne ſcriſſe : ficutmedicus fim
plicium ignarus non eft bonus medicus, ita Academia , quæ horto fimplicium
publico caret , non eft perfecta Academiae. E poco addietro egli medeſimo avea
molti , e molti danni annoverati , che per non eſſer nelle ſcuole della
medicina il giardino de'ſemplici, avvenirnefogliono . E certamente niun maiſaprebbe
, comechè ſagace , cavveduto molto ſi foffe , giugner al vero conoſcimento de
ſemplici alla me dicina appartenenti , ſenza aver huom , che d'efli affai pie
namente informato innanzi tratto diligentemente gliele inſegnale. La qual coſa
fu da Galieno avviſata , allorche dilic , parlando de'ſemplici : Convien
certamente , che non Dddd nina , 578 Ragionamento Settimo una , o due , o tre
volte,ma tratto tratto gli vada minutame te offervando con qualche'maeſtro , il
qualgliele additi ,come bocca gliele inſegni. E altrove : Quinci immagino i
giovani valorofi eller non pocoſpronatia comprender la materia de medicamenti ;
eglino medeſimi non una , o due , e tre fiates ma ſoventi volte ravviſandola ;
concioficofachè la vera co tezza delle coſe apparenti coldiligente gratamento
de ſenfi ap prender fi foglia . Ed altrove ancora biaſimando coloro, i quali di
ſapere per veduta le coſe lordiſegnate non curano : diſſe :Sonocoſtoro
fomigliantiffimi a Banditori, i qualii ſe gnali tutti , e i marchi
d'unoſchiavofuggitivo , comeche mai non l'abbian veduto , a ſuon di tromba
vanpubblicando; im perciocchè apparando ciò eglino daaltrui , comecanzone il vă
per tutto poirecitando ; che ſe per avventura intervenije , cbe il pubblicato a
bando loro dinanzi capitale, eglino certa menteper tutto ciò no'lravviſerebbono
. E ciò tanto mag giormente avviene , quanto ,che da’libri ſolamente degli
Icrittori non ſi poſſono agevofmente apprendere, tra perlaz traſcuraggine di
coloro nel dipignergli, e diſegnargli,e per le contele , ch'intorno a quelli
ſovente infra ſe hanno go anche pe’molti, e moltinomi, che i ſemplici hanno ,
chia mandoſi diverſamente da ciafcuno . Coſa , la qual cotanto fe ſudare , e
affaticare il doctiſſimo Ruellj; perciocchè , co mc egli dice : in berbulæ
cujufdam facie repreſentanda , no tas tam variè delineant, utquidvisaliud
potius, quam ſtir pemipfam demonftrare videantur : aut cerie eandem multi plici
prorſus effigie : quæ antalis ufquam effe poffit pleriqaw omnes dubitant. Quare
me tantorum impulit virorumdift fidium , per vaftas ire regionum multarum
ſolitudines , invia montium juga peragrare, lacus inacceffos Inftrare , abditas
terra fibras fcrutari, hiantes vallium ſequi ſpecus, vel cum corpufculi bajus
periculo præcipitia nonnunquam tentare , ut inſpectu eriam , ne dum cognitione
res ipfas comprehenderem . E ciò certamente fu non poca fatica d'un tanto
valenthuo mo, e convenevole a ciaſcuno , ch'a sì fatro meſtiere in tender
preſuma .Se non ſe noi in ciò riſparmiar ne potrem ino , con apparar quì in un
ben fornito giardino tutte l'era be da ! DelSig. Lionardo di Capoa. 579 . be da
confarſi ad ulo di medicina, ſenza andarle raccoglie do con tanto ſconcio , e
riſchio delle noſtre perſone. Ag. giungafi a ciò , ch'abbiamo detto che l'orto
de'ſemplici tão to più nelle noſtre ſcuole , ed entro queſta medeſima noſtra
Città biſognevoi ne fia , quanto che, come ben Dioſcorido avviſa ad acquiſtar
pienamente cotali conoſcenze ne con vegna , e nel tempo ,che germogliano , e
nel tempo , che creſcono , e nel tempo , che languiſcono le piante diligen
temente confiderare : τον δε βελόμενον εν τούτοις εμπειρίαν έχεις deti na to ye
try agtsQuñ Erasnov ix tūs gãsexuá(over, aig ade Ogexedeafso παρτυγχάνειν •
ούτεγαν ότι βλάση εν πτυχηχώς μόνον δύναται το ακ μαζον γνωρίσει ούτε έωes κως
το ακμάζονα και το αρτοφυές επιγνώναι .. Perchè a ciò riguardādo ilComū di
Piſa,di Perugia, di Bo. logna , di Mompelicri, di Parigi, e d'altre molte Città
d'Eu ropa,hánocógrádiſſima loda nelle loro ſcuole i séplicitut tiin
ragguardevoli giardini piātati.Maſopra tutti in ciò s'a váza il famoſiflimo , e
comendevole Orto di Padova find a ducento anni addietro di tutti i più ſtrani,
e ſconoſciuti sé plici, ch'a medicina ficcian meſtieri compiutamente forni to ;
del qual mai ſempre han tenuto cura huomini in tal meſtiere , e in tutt'altre
parti di medicina intendentiflimi : ficome certamente fu Luigi Mondelli , Luigi
dell' Anguil Jara , Melchior Guilandini , Giacomo Antonio Cortufio , Proſpero
Alpino , Giovan Prevozi, il Cavalier Veslinci Giovanni Rodio , ed altri molti
per le lor famoſe opere in iſtampa pubblicate almondo chiariſſimi. Ne
certamente con táto ſtudio ciò fatto avrebbono que fapientiflimi huomini,
cotanta ſpeſa , e tempo logorandovi, fe a più d'una pruova il grá biſogno di sì
fatto giardino pie namente avviſato non aveſſero ; il qual ſenzadubbio più,
ch'altrove , in queſta noſtra Città , in queſte noſtre ſcuole apertamente ſi
ſcorge, non avendovi ne pur uno mezzana mente inteſo de’ſemplici, a cui per
una, comechè non mol to ſtrana , e ſconoſciuta pianta ricorrer ſi poſſa ; da
poi che la paffata piſtolenza tutti gliene tolſe . Intanto , che l'av
vedutiſlimo Giuſeppe Donzelli , che in ciò pochi ebbe a ſc pari , infra i
ſemplici, de'quali in una cotal bottegaalai fi Dddd 2 1110 580 Ragionamento
Settimo -mofaa compor s’avea la Triaca , fei, o ſette adulterini un giorno
riconobbene . Or che della noſtra Città, e delle no ftre ſcuole quel famofo
ſcrittor direbbe, che sì ebbe a ſcla mare ? Conveniens in omnibus V
niverſitatibushurtus fimpli ciumpublicus non folum ad warięweden perfectionem
Academia, &ut diſeantjuniores medici , atque Pharmacopei,feu ad ur bis
ornamentum , decus , fed quod maximum , quod optă dum , ad civium ſalutem
neceſſarius omninò eft. Quot nãq; quafo errata à pharmacopæis in fimplicium delectu
committi tur ? quot agri indè necantur ? E cócioſliecoſachè ſia dimoſtro ſopra
più ,e più altre con tezze a un medico abbiſognare; e ſpezialméte lo ſtudio del
le lingue , farebbe meſtiere introdurre ne'noſtri ftudj, mae Ari di lingua
greca; perciocchè séza quella malagevolmére potrà ne’libri degli antichi huom
vātaggiarſi;eſlendo quel li in greca favella compoſti; e comechè nel latino
traporta ti già tutti or ne ſiano ; non però di meno molte fiate i vol
garizzatori non a baſtanza eſſendo , o della materia, o del la lingua
intendenti , in non pochi errori ſono incorſi; e per tacer d'altri , o quante ,
e quante fiatc vien ripigliato da' Galieniſti, e tolto in fallo ſconciamente
Avicenna peraver Jui troppo di leggieri preftato fede a coloro , che nell'ara
beſco idioma avevano i greci autori traslatati.E certamen te qual inai Xi!rem
noi per ficuro, e fedel traslatatore,ſe an che Plinio , anzi il inedefino
Cicerone,che così pratico fu della greca favella , pur malamente alcune delle
greche pa role nel latino trafportando,da molti avvedutiſſimi ſcritto ri ne
vien forte accagionato ? Ma meſtier anche farebbe ri ſtorar la vuota ſcuola
della filoſofia , ein man de'medici ri porla , come già prima coſtumavaſi. Ma
della notomia lo non ſo che dir mi debba ; certiſtima coſa eſſendo , che do po
Marco Aurelio Severini le noſtre ſcuole mai non abbia no Notomiſta avuto ;
ſenzachè il medeſimo Marc Aurelio , o perchè di fcco cotal biſogna le
riſpondeffe ,o che gli fta tuti, no’l richiedefſono, pochiſſima cura ei ſe ne
dava. Egli, silo non vado errato , una faccenda di tanta conſiderazio ne , e di
tanta lieva si dovrebbe eſſer ordinata , che un di ligen Del Sig. Lionardo di
Capoa 181 ligéte notomiſta alle ſcuole s'introducefle , e facédofi ada giare di
tutto ciò che biſogno a lui fia,un giorno alınen pec ogni ſettimana la notomia
diqualche particolar membro d'animal faceffe ; perciocchè in sì fatta guiſa non
ha dub bio , che a'giovani, perchè perfetti notomiſti diveniſſero , agevole
ſtrada fi ſcoprirebbe. Non fo poi lo fe ben fitro vino inſieme unite le due
cattedre della notomia , e della cirugia, e come di due peſi cotanto gravi un
medeſimo let tore acconciamente ſcaricar fi poſſa; perchè loderei , che queſte
due ſcuole amendue di ſomma conſiderazione, e d' igual fatica ſi partiſsero , e
dibuona ragione da due valen ti maeſtri ſi reggeffero. E fomigliantemete anche
direi del. le matematiche, le quali cotanto biſognevoli fono al co mune , che
non ſolamente per la medicina, e per la filoſofia fan meſtieri , ma per l'arti
della guerra ancora , c per la na vigazione , e per le mercatanzic , e per
tutto il civil con mercio . Ma oltre a tutte queſte ſcuole, che noi abbiamo
dovrebbeſila ſcuola della Chiinica imporre ; la quale per quel,chie già ne fia
baſtantemente per noidetto , così gio vevole , e neceffaria è al genere umano,
ne da'folilibriſen za la guida d'un buono , & cccellente maeſtro apparar
mai baſtantemente ſi puote ; e non ha il torto l'avvedutisſimo , ed aſſai ben
conoſciuto di sì fatte coſe Monſignor Giovan ni Cianpoli, a vituperare , e
biaſimare la dappocaggine delle ſcuole p no avervi la chimica introdotta; ma
ſpezial méte al noſtro ſtudio la ſcuola della chimica fa meſtiere : avédoſi a
far notomia dell'acquc minerali di Pozzuoli, e d ' Iſchia , alle quali i noſtri
medici ſenza eſſer della lor natura conoſciuti grå novero d'ammalati poco
faggiamente códá nano; quátúque talvolta non pocx ſciagura necoglieſſe ad
alcuno; alcheanche por mére dovea il noſtro Capaccio , quãdo diſſe : Medici hoc
têpore ( Sed quis medicus? quiGaleni tantum methodum legerit?qui impunè homines
occidit ? ) cum mihil reliqui habeant medendis corporibus , vel cum re ipfa .
ignorent , quo morbigenere ægri fins affecti, ad aquas Baja. nas eos rejiciunt
, quas nemini unquam prodeffe cognovi. No. vi tamen ftolidos noftræ ætatis
homines , quificaci eò profici Scan ' 582 RagionamentoSettimo fcantur , jam ſe
videre , caciores indè reverſicontendunt . E certamente una cotal biſogna a
comun giovamento fornir fi dovrebbe ; perciocchè non abbiam noi fin'ora ſcrittor
di lieva avuto, ilqualdiſtintamente eſaminate l'abbia , come chè il Iaſolino
ſcriva eſſerſi valuto dell'opera d'un certo Chimico per eſaminare i bagni
d'Iſchia ; dal quale ingan nato, follemente credette eſſer non ſo quali miniere
di fo le , e diluna in quelle acque. Ma per accennar qualche coſa dell'altre
parti della mea dicina : Io richiederei , che i Lettori di ella , oltre alle
yolgari opinioni d'Ippocrate , e diGalieno ſpiegar dover fero tutt'altre
ſentenze degli antichi , e moderni autori,ac ciocchè gli ſcolari, ſicomeGalieno
, c altri famoſi valend huominigià ferono , di tutto ciò chenella medicina ſi
trat: ta,appieno inforınar ſi poſſano ; e ſe bene sì fatte contezze di poco, o
niun momento fieno alla medicina, avendo noi a fufficienza dimoſtrato eſſer
quella per ſe ſteſſa incerta, e fallace , e che niuna ſetta di quella abbia in
ſe dottrina , che vi ſi poſſa per huom alcuno ſtabile fondamento porre , ne
coſa di certo mai determinare ; impertanto potranno agevolmente ayviſare i
giovani in ponendo mente alla va rietà delle ſecte , e dell'opinioni , e alle
varie , e ſoventi fia te contrarie maniere di medicare , che fra i medici ditem
ро in tempo ſono venyte in ſu , qual via nel meſtier del me 'dicare debban
genere , Ne in queſta guiſa alcun contraſto allo ſtatuto del noſtro Regno mai
fi farebbe , ficome alcuni daquelle parole : li bros authenticos tam
Hippocratis, quamGaleni in fcholis da Geant : vorrebbono argomentare, c
ftabilire; e che altro, che la dottrina d'Ippocrate,e di Galieno nons’avelſe a inſegna:
re ; cócioſliecofachè col dipartirli talvolta da Galicno ,i sé timenti di
Galieno medeſimomaggiormente fifoguano; ne potrà a buona ragionechiamarli
ſeguace di Galieno colui, il quale non faccia , come Galieno adoperò ,
ſcegliendo datutti libri il migliore , ſicome a ciò fare egli i ſuoi ſcola . w
inſtantemente conforta . Solo - nó laſcerò d'avvertire ſo pra l'accennato
ſtatuto , ſecondo le fpoſizioni d'alcuni, che 11012 DelSig. Lionardo diCapoa
583 sion vietò la legge per quelle parole,il ſeguire , einſegnare ; ancoraaltri
nonininori autori; coſtumando le leggi, qua do vogliono riſerbare , e vietar
tutt'altre coſe, diſegnarle con quelle particelle duntaxat, tantummodo , folum
, che i Dottori chiamano taſſative ; ſenzachè, ſe colla mente del Legislatore
vogliam noi ſporre la legge, come ragio , nevolmente è da fare , certamente non
che lo ſpiegare an , che altri nomen famoſi autori vietato ne fia , anzi egli
n'è apertamente conceſſo , o per medire impoſto ; conciollie cofachè
l'intendimento del legislatore in ordinando una si fatta legge ,, altro
certainente ſtato non ſia , ſecondo che da quella ſi puòcomprendere, ſe non ſe
di formare un , perfetto ge valentemedico ; il quale, conte già abbiam di
moſtrato ,cal divenir non potrebbe , s'egli di tutto ciò che fin'ora in
medicina è ſcritto piena contezza non abbia . E. certamente ſe l'Imperador
Federicoamici!limo , e bene in formato delle buone lettere' , che fe lo ſtatuto
, e Pier delle Vigne,per quanto cõportaffer que'barbari tempi, ſciéziato huomo
, che ſcriſfelo , econrpilollo , aveſſer mai potuto di tantie sinobili
ritrovati, e dottrine de" novelli medici , e filoſofanti alcuna concezza
avere , eglino ſenza dubbio non pure permeſſo ,ma commendato anche avrebbono
,che nelle ſcuole a pro del Comune ſpoſti, einſegnati ſi foffero. E tanto più
del noſtro avviſo ora noici rendiam ſicuri, qua to che riguardando alla volgar
coſtuma di quel barbaro , e rozzo ſecolo, veggiamo apertamente, che corale
ſtatuto, o no mandolfi mai di que’tempiad effetto ;o pur ſe andò avā ti , fu
preſo ſempre in quelmedeſimo ſentimento, nel quale ora noi lo ſpiegamo;
inperciocchè in Padova , e altrove la dottrina degli Arabiallor pubblicamente
ſi ſponeva; e ab biamo, chepiù che d'Ippocrate ,e di Galieno,i medicaméti di
Ralis,d'Avicena ,c di Meſueallor ſi coſtumavano ; anzi in queſte noſtre ſcuole
medeſime,laſciati da parce i Greci maeſtri , con comandamento đe’noftri
maeſtrati il trattato delle febbri d'Avicenna allor leggevaſi,per racer del
nono di Rafi: cum publico bujus almeCivitatis juſu ordinariams Avicennale
&turam de febribushoc anno interpretarer, fcrifle già 584 Ragionamento
Settimo 1 gia Paolo Tucca , famoſo maeſtro in medicina di queſta noſtra Città .
Ne altre doitrine in vero , o diviſamenti,ſe nó que'degliArabi,quà sépre ſono
ſtati ſeguitati in medicá do , licome già baſtantemente per noi ſi diffe; e
tuttaviade' noftri cempi ancor ſeglionfi ; ſegnal certiſſimo , che i me deſimi
ancora ne ſiano ſtati ſempre nelle ſcuole de maeſtri inſegnati. Ne Giovanni
degli Argentieri, oftinatiſlimo nimico di Galicno , e de'Galieniſti
tucci,havrebbe quì midi potuto liberamente mandar giù le loro doterine , aper
tamente cozzandovi , ſe per legge ne foſſe ſtato impo ſto a dover āzi
Ippocrate, c Galieno,che la verità medeli ma , e la ſperienza ſeguire . E che
direm noi di cotanti al tri autori, che da ſentimenti di Galieno traſandando ,
ove la verità il richiedeva apertamente il contraſtarono ? certa mére male a
lor huopo táta tracotáza impreſſa avrebbono , ſe contro i divieti imperiali
altronde , che da Ippocrate , e da Galieno raccolta l'arte faticoſisſima della
medicina nel - le ſcuole inſegnata aveſſero.E lo mi fo a credere,che tāto ito
doposì fatto ſtatuto ,comeche foſſer preſi a leggerfi i di ſegnati autori, pur
tutt'altro chequelli ſpiegar dovevanſi;ne in modo alcuno da’ſentiméti di coloro
la medicina tutta di pēder poteva: poichè allora pochisſime opere d'Ippocratese
di Galieno dall'arabeſco nel latin linguaggio ſconce,e gua íte , e tutte piene
di barbarie erano traportate: e l'opere d'Ippocrate poco certamente a capital
tenute furono dagli Arabi ; de'quali la doctrina allora per tutto trionfando
fio riva ; intanto , che Avicenna per comun yoce era principe della medicina
chiamaco . E tanto parmial preſente della traccia , che tener debbano nell'inſegnare
i pubblici mae ſtri della medicina aver baſtantemente accennato . Ma lo ben
m'accorgo, che alpreſente ne verrebbe a huopo, chu attenédo le promeſſe già
fatte, diviſar de’mnaeſtri della filo Cofia , comeanch'esſidebbiano eſſer
liberi, e non appiccar- , fi all'altrui autorità nell'inſegnare ; ma di ciò nel
ſeguente ragionamento farem parole , 1 RA 585 VAN RAGIONAMENTO O T TA V O E VLT
I M O. Rai più illuftri, è più glorioſi pregidi que ſta oltre ad ogn'altra
d'Italia,belliſſima,e amena Città,è da giudicare : p mio avviſo laver ella
ſempremai, o prodotti, o al tronde a lei venuti corteſeinente accolti , % 9 e
albergati pellegrini ingegni, e ſaggi , ſcorti, e liberi nello inveſtigare i
ripoſti, e profondimiſte rj della natura . E nel vero per non far parole de'
più anti chi tempi , chi è di voi , che non ſappia, che quìBernardi no Teleſio,
cui diede ilcuore innanzi ad ogn'altro di fron teggiare i maggiori tiranni
della filoſofia, che quella avea no a vile , e duriſſimo fervaggio miſeramente
condotta, co poſe, e diè fuora que ſuoipregiatiſſimilibri della natura delle
coſe ? Chi è di voi che non ſappia, che quì pariméte poi Sertorio Quattrománi,
Aſcanio Perfio, L.atino Tácredi, Tomaſo Cápanella,Vincézo,c Giovan Battiſta
della Por ta, Col’Antonio Stigliola,Frāceſco Muti,e altri, e altri egre gj
filoſofanti ſcosſero virilmente il giogo impoſto alle ſcuo. le dell'autorità
degli antichi mnaeſtri , della quale dubitar Еесс PU 380 Ragionamento Ottavo
punto non che farle alcuncontraſto avrebbe il coinune cõ lentimento delle genti
a ſomma ſcempiezza recato ? Vlti mamente , chi è divoi , che non ſappia , e che
non abbia co’propi occhjveduto, che quì cbbe cominciamentoquel la nonmai
baftevolmente commendata accademia, che de. gl'inveſtiganti appellofli , ſol
perchè era intendiméto di lei, poftergata ogni qualunque autorità d'huomo
mortale , alla ſcorta della ſperienza ſolamente , e del ragionevol diſcorſo
andar dictro per iſpiar le cagioni de'naturali avvenimentia Echi giammai
potrebbe colle dovute lodi tutti i nobili fpi riti , che in tal famoſa
aſſemblea felicemente filoſofar fi vi dero rammentare? Ella ricoveroſſi , come
voi ben ſapete , ſotto la protezion di D. Andrea Concubletti già Marche fe
d'Arena, ch'ebbe l'animo intefo a vincer la virtù de’luoi maggiori, i quali fur
ſempremai larghiſſimi favoreggiato ri delle lettere più eſquiſite; e annoverò
ella fra'ſuoipiù ca si un Monfignor Caramuele , un Daniello Spinola,un Frá
ceſco , e Gennaro d’Andrea, un Gio: Battiſta Capucci , un Luc' Antonio Porzio ,
un D.Michele Gentile , un To maffo Cornelio , e altri , e altri curiofi , e
ſagaci interpreti della natura , che collor fenno, e ftadio ,e gloriofe fatiche
generoſamente s'oppofero all'impetuofo torrente delPabu fo , chegià ſtabilito ,
e accreſciuto diforze dal conſentimen to deglihuomini,e dallautorità che gli
avea data il tempo , alvero, e alla ragione ſovraftar avviſavanſi ; huomini
vera mente d’immortal gloria degni, e certamente da commen dare, e da avere in
pregio vie più di que' primi, che alla fi Jofofia diedero operá, ecominciamento
; conciofficcoíachè; fe eglino difcorrendo regolatamente, e oſſervando con dili
genza saperfono la ftrada alla contezza delle coſe naturali, altro veramente
noh fecero , ſaluo chc fecondare quef rego lamento, per lo quale caminar fogliono
l'arti, e le fcienze , e l'altre coſe tutte di quaggiù, le quali cominciando da
roz zi, e baffi principi, dal cattivo, e men buono, al buono, indi al migliore
e alla fine a qualche ſtato di perfezione aggiuo gono; ne a queſta opera fare
altra malagevolezza s’incontra di quella dell'applicazione,e della fatica,ſenza
le quali non è da Del Sig.Lionardodi Capoa : 587 è dato agli huomini acquiſtare
utile, o onore veruno. Ma ove p rammendare ciò che p fatal legge delle coſe
umane, o per altro accidente fia venuto una fiata in dichinamento , e
corruttura, primieramente hanſi a ſuperare i gravi impedi menti del mal abito
già fatto per lo conſentimento della moltitudine, e per la lunghezza del tempo
fortemente ra : dicato negli animi; e dopoauer ciò operato durar fi debbom no
parimente le medeſime fatiche , ſe non maggiori, che durarono que'primi autori
, e padri della filoſofia; perchè non è lingua,non è penna,che gli poſſa a
baſtanzacommen dare. Maio perchè tante volte pazientemente avete degna to
d'aſcoltarmi,o Signori,in queſto ultimo mio ragionamen to, che dovrò fare , ſe
non ſe incoraggiarviad una sì bella impreſa di liberamente filoſofare, e
diviſarvi altresì quanto di liberi filoſofanti, e maeſtri le noſtre ſcuole
abbiſognino ; ne a ciò fare veruna induſtria , veruno ſtudio , veruna fati ca
reputerò vana , e inutile : imperocchè ove ſia ſeguito il mio avviſo., ſpero ,
che a voi ſomma gloria alcomun ſom mo pro , camefelice termine di queſte poche
fatiche , che per altrui utilità ho durate, ſia per ſeguirnezeper dare omai
comincianento ,dico , ch'egli ſembrerebbe ad alcuni ben fatto aſſai , che
s'aveſſe a rinovellare l'antico , e ormai per lungo ſpazio in tralaſciato uſo
di ſporre a parola p parola il teſto d'Ariſtotele. E quancunque il miglior
partito ſareb be,intorno a ciò imitando le più famoſe ſcuole d'Europa ,ri
pigliare l'antichiſfima traccia già tenuta da’ Greci nello in ſegnare , Oye poi
queſta non li voleſſe ſeguire , certamente giudicherei il men male , che ſi
faceſſer le chioſe in ſu'l già detto teſto d'Ariſtotele; imperocchè in sì fatta
maniera grande ſcemo ne verrebbe il numero innumerabile di quel le quiſtioni ,
in cui, e'l tempo,e'l cervello, non men de’mac ſtri,vilogorano tutto di
milerevolmente gli ſcolari; sì ve ramente , che poi i maeſtri a quella guila ,
e con quella li bertà l'opere d’Ariſtotele aveſſero a trattare, colla quales
cgli quelle di Platone, e d'altri antichi trattar ſolea . E co me a ſuo eſemplo
fecero poi delle ſue mcdefime Tcofraſto, Ermia , Filopono , caltri , e altri
ſuoi più nobili ſeguacije Ессе 2 clio 588 Ragionamento Ottavô chioſatori , cioè
a dir, ch'egli s'aveſſe minutamente a cri vellare ogni fuo detto , diſaininar a
fpiluzzico ogni ſua ra gione , econ nuovi,ė nuovi ſaggi provare, e riprovare
ogni fperienza, ch'egli aver fatto teſtimonia nelle coſe della na tura ; e
ficomene'miſterjdalla Divina eterna fapienza , che ne ingannar ſi plote, ne
ingannare altrui a noi già rivelati, nő dobbiamo più oltre inveſtigare ; così
nelle dottrine in. fegnatene da’šiloſofi,e particolarmente dallo Stagirita,egli
fi dee ſempreinai ſtare in ſu l'avviſo,ed aprir , come fuol dir fi , mille
occhi , e mille , per veder ſe ciò ,che egli nel ſuo indice ne ſcriſſe
ficonformi coll'ampio , e immenſo volun medell'Vniverfo . Ma perchè chiaro
appaja , e ſi poſſa quaſi diſli toccar cô mani quáto mal ſicurain quallivoglia
materia ſia la dottri na d'Ariſtotele ,ne daremo ora , comechè breve , qualche
faggio ; e primieramente in que ſentimenti , che da criſtia no orecchio
fenz'orrore no potrebbongiammai udirſizcioè, che l'eterno Dio non ſia il gran
fattore dell'Vniverſo, e de gli huomini : ne di noi punto fi brighi , ne con
noi voglia , o poſſa uſare in alcunaguiſa , ne in ſonno , ne in vegghia: e
ch'egli non ſia colui , ond'ogni bene avvenga. Che la per fertabeatitudine fol
nella preſente vita neli conceda , ſen za alcun godimento nellaltra poterfi
ſperare . Che la det ta beatitudine nella fola virtù non confifta : ma le fac
cia meſtiere de'beni della fortuna : dipartendoſi dal parcr del ſuo Macſtro
Platone ( cotanto commendato dal gran Padre Agoſtino ) colà ove diſſe , cſſere
la perfetta beatitu dine non altrocheil godimento di Dio. Che buona ſia l'é pia
legge di Minoffe ,il quale volca, chelecito foffe il pec car cótra a natura ,
acciocchè nó creſceffe oltre al cõvene vole il numero de'cittadini. Che gli
huomini abbian la vera fapienza : burlandoſi di Simonide, che detto avea effer
Dio folamente il ſapiente ; e ftizzandoſi contro Platone , ches ſcriſſe eſſere
l'umana ſapienza vile , e bazzeſca . Che igio , vani debbano fraftornarhi ,
comcincapaci, dalle morali dio fcipline . Che la modeſtia non fia virtù : nc
virtù di fortez za ſia il ſofferir pazientemente le ingiuric , la povertà , gli
1 efilj, DelSig.Lionarda di Capoa. 189 efilj , la morte , o altri infortunj :
le quali coſe , come em pie la medefima gentilità condannerebbe, che fortiſſimi
sé, za contraſto ſtimò Meltiade nel ſoſtener la prigionia,Temi ftocle l'eſilio
, Socrate la morte . Ma che direm poi di quel ſuo ſentimento dietro all'eters
nità del mondo,tante , e tante volte da lui ridetto , e pro varo, facendo
contro il vero arme i ſofiſmi?Che dell'empie fuc beſtemmie intorno alla natura
del grande Iddio , il qua le ſcioccamente egli chiama (wor , cioè a dire
animale . E a lui di vantaggio egli l'onnipotenza , ela providenza , elas
libertà dell'operare empiamente toglie ; oltre a ciò non potendo talor la
fuafolle , e pertinace miſcredenza celare , apertamente dice eſſere la
religione un politico ritrovato da tener a freno le genti , e che la dignità del
Sacerdozio debba compartirli a' ſoldati veterani. E che diremo intor no alle
pene, e premj , che dila ſi danno ſecondo l'operes che di quà per noi fatte
fono : E che direm’anche dello in ferno , il qual egli dice effer certamente
novella da vegliar de ; morendocon noi l'anime ancora , ne altra coſa di noi
reſtando dopo morte , fe non ſe il freddo cadavero , ſenza , fentimento niuno ?
e tali alla per finc Ariſtotele ne trattadig come Se fate foſſim’anime di ferpi
. Ma non verrei mai a fine , ſe tutte quì diſtintamente re car lo voleſſi le
fue empie , e peſtilenzioſe doctrine , dalle quali contaminato il miſcredente
Arabo chioſacore in's prima ; e poi altristolſero l'occaſione di comporre , e
di co pilare quell'infame libro,de'tre ſeduttori del mondo. Quin ci apertamente
fi pare con qualita ragione detto aveſſe già Lattanzio Firmiano : Deum non
colit, nec curat omninò Ari Hoteles : e prima di lui il grande Origene nel
libro , cli’ei ſcriſſe cótro Celſo Epicureo,avea già detto eſſere Ariſtote le
piggiore aſſai d'Epicuro ; e dipiù biaſima Origene mole? altre malvagità,e
ſcelleratezze inAriſtotele,e la peripateti ci ſcuola tutta ne taccia ; e'l
beato Serafino da Fermo , e S. Vincenzo Ferreri abboininando , e maladicendo la
dottri na d'Ariſtotele, e quella d'Averroe ſuo ſeguace ſoleva.gri dare i4 590
Ragionamento Ottaud dareeffer quellephialas ire Dei projectas fuper aquasfapië
tiæ chriſtiane , unde facte furtamare, ficut abfynthium ; per chè anche la
venerabile ſua ordine avca ſeveramente proi. bito a’ſuoi frati il leggere
l'opere d'Ariſtotele . E ben ſi paa re , cometeſtimoniano Laerzio Diogene ,
Ammonio , Cle mente d’Aleſſandria , e altri , ch'Ariſtotele rivolto fi foſſes
agli ſtudidella filoſofia per ordinazione di quel Diavolo , che ſotto il mérito
nome d'Apolline già dar ſoleya le riſpo Ite in Delfo ;ne altra cagione ritrova
San Girolamo alla Arriana ereſia , che dottrine d'Ariſtotele : Arriana berefis
argumentationum rivos , de Ariſtotelæo forte mutuatur : fic enim Arrianos
inperfidiam iviſse cognovimus,dum Chri Si generationem putant
ufufaculialligandam , relinquunt Apoftolum , fequuntur Ariſtotelem , E S.
Baſilio il magno ſchermendo , e vituperando oltremodo l'Ereſiarca Euno mio dice
, che coll'armi d'Ariſtarele tentava egli d'abbat tere , e diſtruggere Criſto ;
e ſpezialmente in un luogo, ov? egli dice : deh laſcia forſennato il malvagio ,
e danneyole gærrir d'Ariſcotele: laſcia io c'avverto quel velenoſo, e pe
ſtilenzial ſuo favellare intorno alla natura dell'anima : è in tutto caccia via
da te quelle ſue mondane ſentenze, copi nioni . Or ſe nelle coſe , che abbiam
noi di certo , come loni quelle della noſtra ſanta Fede , così manifeſtamente
Ari ſtotele graſandò ; certamente dovremmo noi anche nell'al tre tenerlo
ſoſpetto , e dubitarne continuo degli uſati ſuoi crrorijanzi dovremmo pure
giudicar falſo apertamente tut te quelle ſue premeſſe , dalle quali egli pervia
di neceffarie cõſeguéze ſuol cavare gli ſciocchiſſimi ſuoi falli intorno alla
noftra sáta Fede.E veraméte il ſiſtema in ſu'l quale egli ap. poggia , o tutta
, o la maggior parte della ſua vana filoſo fia,egliè l'eternità della materia,
del movimento, del mon do , delle intelligenze : la neceſſità di Dio
nell'operarc,e la virtù finita di lui : e altri , e altri ſentimenti a queſti
fomi glianti. Ma che dire noi di quelle coſe d’Ariſtotele,le quali quã tunque
per la noſtra S. Fede non fi determinino,pur la Ipe 1 ricn DelSig . Lionardo di
Capoa اور rienza così manifeftamente ora a noile dimoſtra , che nulla più èda
dubitarne ? O forſe negando noi fede agli occhi noſtri medeſimi, e dimentendone
i ſentimenti , e le dimo ſtranze , crederem noi oſtinatamente ad Ariſtotele , e
non ne prenderem pure faggio da altri più avveduti, e men cre. duli ſcrittori i
quali in buona verità affermino ſe avere fpe rimentato tutt'altro di ciò ,
cheAriſtotele nefcrive : Adun que perchè credere noi,che l'arco celeſte nó
poffa maggior d'un mezzo cerchio apparere , quando contro l'avviſo d'A :
riftotele, Franceſco Pico della Mirandola , il Campanella , il Gaſſendi , il
Blancani , ed altri molti maggiore affai l'of ſervarono ? Anzi Io l'ho
purriguardato , che non ſol mag giore, del mezzo cerchio apparir foglia , ma
talvolta anco ra in un cerchio compiuto , e intero , dove il Sol fia alto , e
l'huom da qualche monte aſſai rilevato ilriguardi. E dell' arco celeſte
lunare,perchè'giudicherem noi eſſer quello co tanto malagevole aformarſi, che
ne' plenilunj ſolamente apparer radiſfime volte ne foglia : anzi le egh è pur
vero (perciocchè vien comunemente giudicato, maffimamente da Alberto Magno per
una delle più favolofe novelle d'A riſtotele ) cgli dovrebbe pur più ſovente
apparere , che non Polervòcolui in due fole volte per lo lunghiffimo ſpazio di
cinquant'anni ; quafi egli in ciaſcuna notte dicotanto tem po ſenza prender mai
ſonno foſſe ſtato ſempre a bada al ſe reno per riguardarlo ; non altrimenti che
Fra Puccio ftayaſi digiuno orádo alle ſtelle , mentre la fua donna rinchiuſa có
colui troppo alla ſcapeſtrata ruzz.ava . Ma degli errori d'A riſtorelein si
fatte materie ne diſcorrono appieno il Tele fio , il Campanella , ed altri
eccellenti autori. Ma che direm noi della proporzione, e convenenza,che infra
fe hanno nel mondo peripatetico quaſi in ben librata bilancia in andar ſu le
coſe leggiere , e giù le gravi? E la fciando per ora ad Ariſtotcle il creder,
ch'ei fa fuor d'ogni ragione effere la leggerezza non men che la gravezza me
delima , qualità delle coſe : e come poi per ſua dappocag gine lafciando di
ſpiegare d'amédue la natura ad altro tra paſli: dirò ſolamente della ſua
fciocchilimatracotanza il non 592 Ragionamento Ottavi -- -- non volere far
pruova di ciò , che ſogna , che una pietra di mille libre fcenda mille volte
più preſto , ch'un altra d'una libra ; potendo con durar poca fatica ,ravviſare
, che que due mobili , tutto che tanto diſuguali di peſo , diſcendano però
eguali in velocità . E chedirem noi intorno aciò , che Ariſtotele vaneggia do
ne vuol dare a divedere delle coſe , che poſte in acqua , o ſcendano giù , o
galleggino ? e come egli tratto dalla ſuaſciocca maniera del filoſofare ,
vuol,che peropera della larghezza, o ſtrettezza della figura, o fendan
l'acqua,o nuo tino a galla coſe più gravi aſſai dell'acqua medeſima , non
riguardando egli punto alle vere cagioni, che in ciò con venir poſſano .
Intorno alla qualcoſa così ſmentito , eri creduto ne fu egli dal noſtro
ſottiliſſimo Galilei , che nutta più ne ſarebbe il favellarne. Ma che direm noi
dell'acque del mare? onde egli appre . ſe il noſtro Ariſtotele eſſer quelle più
dolci aſſai, e men fan late nel fondo ,che di ſopra li ſieno ? Ahi quanto cauti
gli huomini efer denno Preſso a color ,che non veggon pur l'opra; Ma per entro
i penfier miran col fenno. Così traſcurati , e bambi ſi ſon laſciati trarre a '
ſuoi ſco cj , e difettoſi fillogiſmi i poco avveduti ,e troppo creduli ſuoi
ſeguaci, che nulla curandodi vederlo per pruova,giu rano , ch'egli ſia
infallibile verità : quum hoc , dice Giulio Ceſare dalla Scala , pro comperto
,veroque habeatur, in fun do maris aquas dulces effe. Ma Franceſco Patrizio
huomo di maraviglioſo ſapere , e di non ordinario avvedimento così operando pur
con tutte diligêze diviſarene dallo Sca ligero , ritrovando alla per fine il
contrario , ne ſcrive: quñi mare ftaretplacidiffimum , nec itineris tantillum
navis confi ceret , nullo Spirante vento experiri libuit , vafe cattitering
ejufmodi, quale ipſe deſcribit , funi longiffimo alligato , quem nautæ
fcandalium vocant , & altero leviore funiculo operculo accommodato , ita ut
attractus illud aperire poſſet . Itaques manibus propriis utrumquefunem in mare
demifimus : vas cafu plumbo pilotico fenfim ad fundumpervenit altiffimum ,
ſcili DelSig. Lionardodi Capoa 593 fcilicet CXLVII.: quum fenfiterramtenere ,
minorem funem traxi , operculum referavi. Extraximus opertum mari ple. num ,
falfo , amaroque , baud majorefalfedine , vel minore quàmquod in ſuperficie
pofitum vafe alio guftabamuscompa rando . Ma finalmēte intorno a ciò n'ha
rimoſſa ogni dub biezza il chiariſſimo Boile , il qual dice , che non ſolo i
tuf fatori moderni inghileſi han fempremai aſſaggiata l'ac qua nel fondo del
mare ſalſa, non men, che quella diſopra ; anzi dipiù in cerci luoghi della zona
corrida ritrovato no una fiata nel fondo del mare pezzolinidiſale , e ſe ne
ſervirono a lor agio per condir le vivande i peſcatori. Nó diffimile altresì da
queſto dell'acqua ſalſa è quel, che Ari {totele apporta ne’libri delle ſue
metcore, intorno al vino ; affermando con franchezza grande, che i vapori del
vino ſi vengano a cambiare in acqua toſto che ſi riſtringano . Ne men groffa di
queſta è quell'altra ridevol balordag gine del noſtro natural
filoſofante,intorno al rame ; la qual parimente nelle ſue meteore volle, che ſi
leggeſſe;cioè, che'l ramenon ſi poſſa per coſa del inondo įn altro color
tignere. E quinci veggafi pure quanto male a lor huopo i filoſofi nan turali
non ſappian di Chimica. E che direm noi intorno a’mari , i quali dice
Ariſtotele eſſer molti , e molti , che non ſi congiungano inſieme, trat tone
ſolamente il mar roſſo; il qualſecondo il ſuo avviſe , p piccioliſſime
focinell'Oceano Atlático entrar ſi vede Nar ra ancora egli , e follemente
giudica i Beti, e la Dannoja naſcer da’monti Pirenei ; e nel Parapamiffo l.2
lor prima fő te avere il Battro , el Coaſpe , e l'Indo , e l’Araſle , cche da
queſto poi li venga eglia diramareil Tapai. Coſe tutte manifeſtamente falle , e
impoſſibili;concioſliecoſachè fap pia ben ciaſcuno tanto quãto di ciò
intendente , che'l Coal pe per la Perſia diſcorra , e di la dalla Perſia il
Battro allin Battriana Provincia dea nome , e l'Indo naſca nell'Indiwi perchè
non è da credere , che fiumi diſcorrenti in Provin cie cotanto infra fé lontane
, e rimoſſe , in un modelimo luogo tutti , e da una medeſiına fonte ſorgano ;
c'l Tanai ſa ben ciaſcuno , che naſca ne'inonti Rifci. Ma di più dice Ffff Ari
594 Ragionamento Ottavo 1 Ariſtotele , che nella Liguria un fiume grandiflimo ;
e non minor del Po s'inghiotta tutto , e fi divori dalla terra , e quindi
dinuovo poi rinaſcendo diſcorra altrove . Ma in corno al primo naſcimento
de'fiumitutti ,egli molto ſcioc camente parlando dice , che ciaſcun fi formi,
es’ingeneri negli altiſſimi monti dal vaporoſo aere per virtù del freddo a viva
forza riſtretto , e condenſo , e diſtillante continuo in acqua nelle naſcoſe
caverne , e nelle picciole buche della terra ; e quindi poi fa che prendano
perpetuo movimento con una cotal gravezza , la quale perrocce, e per burrati ,
eper lande, e pervalli faccendo l'acqua diſcorrere , eca dere La fa inquieta ,
inftabile, e vagante . Nel qual modo follemente filoſofando fa egli nafcer non
folamente piccioli fiumicelli , e fonti, e poveri rivi , ma no ne ferba anche i
più ſuperbi, e vaſti fiumi del mondo. La qual coſa quanto ſia ſciocca , e da
ridere , ben può comprenderlo chiunque ha favilfuzza d'intendiinento, fen za
ch’lo più ne dica . Eche direm noi di quella così ſmiſu . sata , e incredibile
altezza del monte Caucaſos Baja , ch'avanza inver quante novelle , Quante mai
differ favole , ecarote Stando alfuoco a filar le vecchiarelle. Eglimillantando
delle cime di quello dice , che fino alla terza parte della notte ſian dalfole
illuminate ; che fatta ne la ragione ſecondochène ſcrive il ſottiliſſimo
Peripate tico filofofante Giacomo Mazzoni , farebbe il monte dal tezza almen di
ſettant'otto miglia noſtre Italiane per linea perpendicolare ; c quì non può
non gridar eoli : papa in quos aculeos imprudens me conjeci! rident enim hoc
Ariſtotelis dictum Mathematici; putant enim eum pueriliter lapfum efle. Cæterum
ego dico eum ſequutum effe famam . La quale ſču fa del Mazzoni Io non lo ſe
maggiormente debba fcagio nare , o tacciare il noſtro veritiero , e
accortiſſimo Filoſofo. Ma d'altra parte Giuſeppe Blancani famoſifſimo Matema
tico , cercando a biftento di menomar cotanta altezza del Mazzoni, la riſtrigne
ſolamente a miglia cinquantadue ; qua DelSig.Lionardo di Capoa. 509 quia tamen
, ſoggiugne poi, adhuo omnem veritatem nimium exfuperat ; e biaſimandoſi forte
della ſcuſa del Mazzonifa piertiores judicent , dice , num recte philofophus,
cujus eſiree condita , &abditadocere, excufetur ,fedicatur eum popula . rem
famamfequutum effe. Ma fe falla così ſconciamente Ariſtotele in narrando con ſe
falſe per vere , non meno errar ſuole egli talora in rifiu . tar come mentite ,
e falſe quelle, che manifeftamente ſon vere . Così egli nega efſer il vero ciò
che cutto dà ſperimé €2 avvenire nelle contrade della Paleſtina, e propriamente
in quel miſerabil luogo , in cui già cadde Fiamma dal Cielo in dilatate faldea
E di natura vendicò t'offeſe Sovra le genti, in maloprar sì falde. Fu già terra
feconda,almopaeſe; Hor acque for bituminofe , e calde, E fteril lago, e quanto
ei volge, e gira, Compreſs'èl'aria , egrave il lezzo fpira. Di quel
fetidohumorgiammainon beve L'affaticato peregrina, e laſo, Non greggia, non
armento:e cofa greve , (Benchefia gravepur, qual ferro;of affo ,) Sornuota
quaſi abete,od orno leve: L'huom non s'attuffa mai, ne giugneal baſſo.
Cosìagevole egli è Ariſtotele a negare , e ad affermare a fuo talento tutto ciò
, ch'e' vuole , fenza aver riguardo niuno alla verità . E volle Ariſtotele
anche oſtinaramente contendere , e negare contro l'avviſo di molti valent'huo
mini, fotto la torrida Zona la terra eſſer abitabile. Ma che direm Noi della
Galaſſia , o vogliam dire cerchio di lat te , il quale fecondo Ariſtotele è un
incendio perpetuo bruciate nella region dell'aria per l'eſalazioni, che dal le
baſſe valli , e dagli alci monti vi manda continuo la cerra ; errore così
grande , che anche i più cari ſeguaci di lui ſe n'avvidero , e apertamente ne'l
ripigliarono ; in torno alla qual coſa , ſon veramente degne da notar quel le
parole d'Olimpiodoro avvedutiſſimo ſuo interpetre, colle Ffff 2 quali 1 596
Ragionamento Ottava quali egli comincia a chioſar quel luogo : il Reo ( dic'
egli, fervendoſi del volgar detto ) è di miglior condizione dell attore ;
concioffiecoſachè allegando tutti gli antichi filoſo fanti nel ciel la Galaffia
, ſolamente Ariſtotele portando falſa opinione, nell'aria ła pone ; perchè il
Campanella eb be a dire:hancfententiam nemo fequacum ſectatur , nifi ftul si
quidam :fra' quali non vergognoſli di porre il ſuo nome
CeſareCremonini:mathematica ,et rationis expertes;e Aver roe , il quale così a
capital tiene la reverenda autorità del ſuo caro Ariſtotele , che tranguggiar
volentieri fi fuole tutte ſuc bagatelle, e ſue bugie, quantunque groſſe,e fmi
ſurate elle fieno, pur ciò non potè a niun inodo inghiottire . Ma che direbbono
a’giorni noſtri il Cremonini , e gli altri oſtinati fuoi ſeguaci , fe mercè del
Teleſcopio guataſfero quelle tanto picciole ſtellucce , ch’ammucchiare inſieme
, e riſtrette laſsù formano la Galaſſia , edi quà ne fembrano per la lor
picciolezza una confufa liſta appena di mal di ſtinto ſplendore; il chefenza
conſiglio del Teleſcopio be conobbe il fottiliſſimo Democrito , allor che ,
come Plu tarco , e Macrobio teſtimoniano ,difſe eſfer la faſcia del latte non
altro,che moltitudine di ſtelle fiffe in quella parte tan to picciole,e non
vedute diſtintamente a noi per la lor pic ciolezza , non già perchè allumate
non fian dal ſole per lo tramezzamento della terra , come falſamyente ne vuol
dar a diveder Ariſtotele ch'abbia detto Democrito , per avval lare il buon nome
di quello, con accagionarlo d'un mani feftisſimo errore . Ma chi non fa quanto
egli fiafi apertaméte aggirato Aristotele intorno al luogo, e alla generazion
delle stelle comete , e quanto fanciulleſcamente e'ne diviſi ; e già n'è prie
troppo a ciaſcun manifefta la verità , avendone sì ben fa vellato il noſtro
Ipparco ( che tal meritamente dal Gaſſer di vien chiamato Ticone ) e
l'ingegnofisſimo Chepleri, e cotant'altri moderni Aſtronomi, e filoſofanti, i
quali n’hā così dimentito , e ricreduto Ariſtotele, chenulla più. E che direm
noi intorno all'incorruttibiltà,come dicono del Cie lo , intorno alla natura
del ſole , e dell'altre ſtelle ? E che direm Del Sig.Lionardo di Capaa 597
direm noi della favoloſa novella della sfera del fuoco? Ne. mi farò ora a voler
dir della Terra, la qual ne’libri del Cie lo avendo Ariſtotele poſta ritonda ,
pure ſpagato , dice ne’ libri delle meteore,ch'ella inverſo Settentrione ,
alquanto più rilevata , e alta filia . Nedi ciò anche contento , ne’li bri
medeſimi delle meteore , come ſe caduto gli foffe della memoria , ciò, che non
guari addietro n'avea ſcritto, portas opinione eſſer la terra , non già ritonda
,ma da due lati pia na a guiſa ditamburo ,o di cilindro , o dirottame di colom
na : ftando ella , ſon ſue parole , non altrimenti,che tamburo ; perciocchètale
è lafigura della terra : equantunque ſi paja ch'eifavelli della terra abitabile
, di queſta anche aveans favellato gli antichi filoſofi , i quali egli biaſima
travolgen do i lor ſentiméti;mache che ſia di ciò, falfo pariméte ſi è , la
terra abitabile efſer a guiſa di tamburo; ondeebbe a di re il Tallo , comechè
peripatetico e' fi foffe : Tal che nonſembra l'habitata terra Timpano più ,come
affermando inſegna Il gran Maeſtro di color ,chefanno. Ma delle contradizioni,
e mutamenti d'Ariſtotele ,i que. li quafi in ogni carta delle ſue opere
s’incontrano , lun gofarebbe ora a dire ; le quali così manifeſte , e così ſpeſ
fe ne'ſuoi libri ſono , chei inedeſimiſuoi parziali non oſan negarle . E
conciosſiecofachè molti famoſi ſcrittori s'ab biano preſo briga di
fcoprirgliele , tralaſcerò lo al preſen te di più divifarne . Solamente non vo
lafciar di trarne a noſtro concio , cheAriſtotele avvegnachè tutt'altro
inoſtrar volefle,filoſofar folea non meno incerto e dubbioſo , che il luo
maeſtro Platone , e Socrate ſi aveſſer già fatto ; e feco dochè più in concio
gli rendevali ſerviva delle opinioni al trui ; e quelle , e queſte , or
abbracciando , or rifiutan do a ſuo talento , non altrimenti che noi nelle
varie ſta gioni dell'anno de' noſtri veſtimenti facciamo . E certa mente lo
direi co'l dottisſimo Ramo,la filoſofia d'Ariſtotele da quelle vane ciance in
fuora , che dir ſi poſſono propia mente ſue , eſfer una confufa meſcolanza de
ſentimene ti degli antichi ſoventemente da lui non troppo bene capi 598
Ragionamento Ottavo 1 2 4 . 4 capiti , e malamente ſpiegati; ficome in più
luoghi delle ſue opere manifeſtamente fi fcorge. Collecta femel iftafunt, dite
l'accennato Ramo, de multis , magnis infinitorum authorum ; & operum
vigiliis ; recognita nufquam funt . E piaceſſe pureal Cielo , ch’a’tempi
noftridurati pur foſſero imalandati libri di quegli antichivalent'huomini,che
più agevolmente ſenza fallo ne ſarebbe creduta cotanta verità, E quinciſi pare
, con quanta ragione detto aveſſe l'iſtorico Timeo appo Suida , eſſer
Ariſtotele ditardo , ed ottuſo in tendimero: Tίμαι φησιν κατ ' Αριστοτέλες
,είναι αυτονευσχερή,θρα συν , πιοπιτή,αλ' ου σοφισών,όψιμαθή.μισον υπάρχοντας
το πολυήμητου ιαπιείον αποκεκλεικόG , και στις πασαν αυλήν , και σκηνήν
έμπισηδηκόα . Timeo diſse contr’Ariftotele , efser lui impronto , orgoglioſo ,
rintuzzato d'intendimēto,eda ciaſcuno odiato: il qual con ſue maladizionifi fe
ftrada in tutte le corti , e per ogni ſcena pro verbiava ; che che ſi dica il
Cauſabono: il qualpoco, o nul la inteſo di sì fatte faccende dice , in
favellando di Timeo , falfifima enim omniaquæcunq; dedivino viro epitimæus ifte
nugatuseft. E le inai ſidee dar alcun luogo alle conghiet ture , più balordo ,
e ſciocco eſſer veramente ſtaro di quel, chc Timco , ed Eliano ancora ne
raccontano e ſembra cer tamente Ariſtotele ;perciocchèegli ben vent'anni
conſumo nella feuola di Platone,e periſtudio,e ſudor , ch'e'vi logo raffe ,nó
potè mai avāzarne più che forſe ſi ſarebbe approfit tato il più
minutoícolaretto. E ciò maggiormente ſilaſcia credere dall'aver lui molto
ſcioccaméte apprefe alcune sé téze del ſuo maeſtro, e molto ſtorpiatele , e
malmenatelei. Ma di ciò forte altrove più agiatamente diremo . E ritor: nando
ora a ciò , che propoſto avevamo, cioè a rapportar come ſconciamente Ariſtotele
cerca talora di contraſtare , ed abbattere gli altrui veri ſentimenti:
maraviglioſo certa mente , e degno aſſai da notarſi e' miſembra qucl, che egli
dice del ragnolo : ed è,che avendo già detto in prima De mocrito , che le
ſottiliſſime fila , onde ilragnatelo con arti icioſo lavorio teſſer ſuole
maraviglioſamente le fuc tele , egli dentro le ſue viſcere le ingenerise per lo
fondo le trag ga per quella parte ch'è bello il tacere ;levofli incótanente
fuſo 3 4 DelSig.Lionardo di Capoa. 199 ر fuſo Ariſtotele , e opponendoli
orgogliolamente a un tan to huomo, diſſe , che Democrito in ciò manifeftamente
fal lava , e che le fila forminſi dal ragnatelo per tutte parti del ſuo corpo ,
a guiſa di corteccia , o di lanugine, chetut ta gli vadano coprendo la buccia ;
o non altrimenti che s? avventino le penne dell'Itrice : ου διμύανται δ '
αφιέναι οι αράχναι το αράχνιον , ευθύς γεννώμενον , ουδ' έσωθεν , ως αν
περιθωμα , καθάπερ φησί ΔημόκριτGάλ ’ από του σώματG- οίον φλοιόν, ή του βάλον
τοίς Dertiv,oi'or ai uspiges : cioè i ragnateli nati appena mādan fuq ri le
fila ,non già dalleparti dentro aguiſa di fecce d'anima li, come falfamente
immagina Democrito , madalleparti di fuori, aguiſa d'una ſcorza, opur di quegli
animali , che ſono gliano, Jaettano i peli, come è l'Iſtrice, Ma quì non ſi può
ſenza maraviglia coſiderare la traſcu raggine ,e lentezza de’poco curioſi
peripateticisi quali se zabadar puntoalla verità del fatto ,confarne pruova han
cosìvergognoſamente ſeguito il parere d’Ariſtotele, laſcia do daparte quello di
Democrico ;ilquale tutto il corſo del la ſua vita , che fu affai ben lungo, in
far eſperienze avea logorato ; e tanto più degni di biafimo ſi rendono , quanto
che l'impreſa non richiedeva cotanto fenno , e avvedimen to , o fatica per
venirne a capo : che ben ancora le feminel le delcontado, e imuratori, e gli
ſpazzacamini avveder ſe ne poſſuno , allor, che ne’lor piccioli abituri veggono
fa re il tombo agl'induſtriofi ragnuoli, per inteſſer le ragne alle moſche. Ma
fu egli certaméte cagioned'un sì folle errore l' aver eſli dato intera credenza
ad Ariſtotele.E nel vero , chi mai ſoſpettar avrebbe potuto , eſſere ſtato
Ariſtotele così fciocco , e ardimentoſo nel ſuo lcrivere , che manifeſtame te
aveffe voluto contraddire al divino Democrito ſenza aver lui in prima
ſottilmente conſiderata la biſogna, e ſpe rimentata per più d'una pruova
co’propi occhj . la ſua ragio ne ; maſſimamente,che a doverne far ſaggio non
gli era me ftieri inviar mefli ad Aleſsandro, e farli venir dalla Media, o
dall'Ircania, c dalle più rimoſſe contrade dell'Indie nuo ve, e non più
conoſciute belve ; che ben poteva egli nella camminata della ſua caſa propia
veder ne*cáconi i ragnuoli filare; Coo Ragionamento Ottaud ; filare;pchèvalſe
tátol'autorità d'Ariſtotele,che in coſa co tāto manifeſta ſe ne ſarebbe per
avvétura ancoroggi ſepol tala verità, avédo ad Ariſtotelecreduto l'Aldovrádi,e
cota. ti altri famoſi ſcrittori,ſe la ſperienza nõ aveſſe nõ ha guari moſtro
pienamente aver Democrito la ragione, peropera del curiofiflimo Giuſeppe
Blancani in prima, e poi di Tom maſo Moufeto : acceptomanu bacillo Araneum
quendam :dia ce il Blancani : ex iis , quicirculares telas , quas nonnulli ,
& quidem aptè labyrinthos appellant, ingenio utique mathe matico contexunt
,fic adii , ut Araneuspro arbitrio ſuper bar cillum liberè inambularet ; dum
ipſe interim curiofius illums obfervarem quanam videlicet ex parte filum foras
ederet : cum ecce tibiaraneus experienti mibi ultro favensfefe exba culo
demiſit, ita tamen ut ex filo fuoin aëre fufpenfus rema neret : cum primum
obferuo ipſum inverſum , hoc eſt capice deorſum , ventre ſurſum pendere ; ut
autem acutius cerne rem eum opacecuidam rei oppofui , ne pre nimia luce
tenuiffi mum aranei filum aciem oculorum effugeret ; quo facto cla riſfimè
videbam filum ſeceſſu Aranei prodire . Mamolti ſe coli prima del Blancani avea
ciò parimente ravviſato il ſa gaciſſimo Plinio ; mane a Plinio , ne al Blancani
volle pre ítar credenza il Vosſio padre : così poco acconcio egli eb be
l'intendimento a diviſar delle cole della natura . Ma poichè deʼragnateli
facciam parole,non tralaſcerò di conſi derare quanto dietro al partorire di
quegli il noſtro Ariſto tele vanamente anco s'aggiri , dicendo partorire i
ragnoli cotali vermicelli vivi , e non già le uova , come alcuni im maginano ;
ma quanto ciò ſia dalvero lontano , dicalo in miz vece il diligentisſimo Redi;
il quale narra, che per tut te diligenze, ch'egli ulate v’aveſſe , non avea mai
veder po tuto ne’ragnateli ſe non l'ovare, e dalle lor uova poi nalce . re i
piccioli ragnolini ; Ma non meno è da notare ilgravif fimo fallo d'Ariſtotele
intorno al Canclo in dicendo efferli ingannati coloro , tra'quali fu Erodoto ,
che diceano il Ca melo aver più di quattro ginocchjie pur chiaramente ſcor
geli, il Camelo, comc Erodoto dicea,aver ſei ginocchji e le cotāto intorno a
coinunali e ben conoſciuti aniinali ſcioc chinen DelSig.Lionardo di Capca. 661
) و : camente Ariftotele travede che dovrem noi credere di que's più rimoſſi
alle noſtre contrade , e meno uſati,de quali egli nátrâ cotante ſtrane , e
incredibili novelle , e più affai , che me diceffe mai fra Cipolla a
que’ſemplicicontadini da Cero taldo ? Narra egli del Lione Ariſtotele, che non
abbia mi dolle alcune nell'offa maggiori del ſuo corpo; ma che ſola mente in
alcune delle picciole, cioè delle gambe ne abbia, avvegnachè sì ſottili , e
poche quelle ſiano , che par,che af fatto eglinon ne aveſſe ; onde egli avviſa
poi naſcere l'in vincibil fortezza del Lione. Ma quanto ciò falfo fia , non
pure per Ateneo , che forte ne ’ ripiglia , ne ſi fa chiaro ;ma dopo lui ancora
più apertamente fu dimoſtrato dal chiarif fimo Borricchio ; il quale aperti due
gran lioni in Afnias , reggia di Danimarca ,vide egli avere in molte delle
loroof ſa copia grandiſſima di midollc; e prima del Borricchio fu ravviſato in
queſta noftra patria in un Lione del Signor D.Tiberio Carrafa , Principe di
Biſignano: il quale fu tro vato parimente pieno di midolle ; e quinci
apertamente fcorgeſi, quanto a torto ſiano accagionati, e biaſimati da’ critici
ſeguaci d'Ariſtotele il noſtro dotiſfimo Stazio ,paver lui poſto in bocca ad
Achillo que'verli nec ullis Vberius fatiaffe famem , sedſpiſſa Leonum Viſcera
ſemianimefque libens traxiffe medullas: et gran Lodovico Arioſto , quando fa
egli, che la maga Melilla affacciandoti nella forma d'Atlante , all'effeminato
Ruggicri così dica : Dimidolle già d'Orſi , e di Lioni Ti porſi.io dunque li
primi aiimenti; perciocchè dicono non aver midolle i Lioni ; il che an che
credendo ad Ariſtotele il Mazzoni , ricorre per difen der l'Arioſto , giuſta il
ſuo coſtumein quella ſua infelice di feſa di Dante, a ſottigliezze così vane ,
e puerili , ch' egli ſteſſo vien aſtretto a chiamarle altrove ſofiſtiche , e
cavillo fe : Ma non meno ſciocco è quell'altro crror d'Ariſtotele , diccndo
egli aver i Lioni così dure , e falde l'offa , che fre gandoſi inſieme,
agevolmente ſe ne tragga il fuoco ; non altri oli 12 ull Do le Gggg 602
Ragionamento Ottavo altrimenti , che avvenir loglia nella pictra focaja . Ma
ciò manifeſtamente fperimentoſli falſo in que' menzionatiLio ni d'Afnia , i
quali comechè fortis e gagliarde l'offa avelle ro , non però di meno per
diligenza , chevi fi adoperaffe , non ſe ne potè trar mai picciolisluna
ſcintilla di fuoco ;, fen zachèſe ciò pur foſſe vero ,non ne dovea però cavare
Aria ftotele per via d'argomento l'invincibil durezza di cotali offa ;
concioſliecofachè anco in fregandoſi due tron molto dure , e pieghevoli canne
d'India , o due molliflimc ferole , o altri simili legniaccender ſi foglia il
fuoco anzicorpi, che fian talmente duri,che in fregandoſi no li roinpano in
qual che parte, non poſſono accender in niuna maniera il fuoco . Dice oltre a
ciò Ariſtotele, eſfer l'olla del collo del Lione, comeanche quelle del Lupo non
rotte , e partite , ficome tutt'altri animali le hanno , e poi per opera
de’nodi con giunte ; ma tutte intere , e diſtefe in ſu lo ſchenale sì fat
taméte , che in niun modo ſi poffan piegare; ma in ciò, oltre a Giulio Ceſare
dellaScala ritrovollo in fallo ed apertame . te lo convinſe di bugiardo , il
Borricchio ; dicendo, per ve duta fermamente di que’Lioni,quorum colla
vertebris ſuis, & articulis pulcherrimè diſtincta erant . Finalmente
afferma Ariſtotele eller l'orina del Lione di ſconcio , e
ſpiacevolisſimo'odore; ondeavvien poi , dice egli, che i cani fiutar fogliono
gli alberi, perciocchè il Lio AC, come il cane appoggia una delle coſce al
pedal dell'al bero , quando e' vuole ſtallare ; c più appreffo ſoggiugne: e
lafcia il Lionegrave , e iníopportabil puzzo negli avan zi de cibi , ch'egli
divorar ſuole ; e ciò avvenir Ariſtore Je ſoggiugne dal peſſimofiato , che il
Lione fpira; percioc che , come e narra , le interiora oltremodo putono al Lio
ne . Coſa , la quale manifeſtamente da a divedere nõ aver mai Ariſtotele alcũ
Lione aperto , o teſtè occiſo ,veduto.Ma troppo lúgo ne diverrei, fe tutt'altre
novelle d'Ariſtotele in torno alLionerecarlo què voleſli; pchè tacerò acheciò,
che: Ariſtotele fognò del Camclo ; immaginado egli ſu'l dolfo di quello ungrá
gobbo ;non avvisādo, il Camelo no averlo maggiore deporci,e de'canize che
quella eminéza,la quale nel DelSig.Lionardo di Capoa. 603 nel Camelo ſi ſcorge
fia formata da'peli ; c ciò , che e' fogaz del Camaleõte,dicédo no averil
Camaleõte ſangue , ſe no ſe vicino al cuore; ed eſſerdi carne prive le
ſuemaſcello; e'l principio della coda. Ne addurrò per la medeſima ra gione i
ſuoi ragionamenti dietro al Coccodrillo alle Aqui le , e ad altri molti
animali, che manifeftamente per prud va ora falſiffimi eſſere fi ſcorgono ;e
tuttavia da'famoſi ſcrit tori de’tempi noftri ne fon notati; me ſolamente è
qucftas ventura del noſtro ſecolo ; imperocchè nc'traſandati tempi ancora
v’hebbe degli affennati, e diligenti ſcrittori , i quali de'ſuoi groſi, e
infiniti falli intorno alla ſtoria degli animali manifeſtamente Ariſtotele
dimentirono ; ed Afinio Pollione, quel famofiffimo, e ſaggio oratore rivale di
Mar co Tullio Cicerone , incontro a’lunghi volumi d'Ariſtotele ben diece libri
compoſe della natura degli animali ; il qual fe pur egli affatto non era ſenza
giudicio, e ſcimunito , ben è da credere , che con chiare, ſalde, e ragionevoli
fpcricn že n’aveſſe fgannati, e ricreduti de' grandisſimi crrori prefi in
quc'libri per Ariſtotcle : c più veritieramente narrata la natura, o le
factezze di corali animalida lui ben conoſciu ti ; ma la rubberia del tempo
netolle cotali fatiche. Ebé s'avvide ancheAteneo dell'infinite bugie narrate da
Ari ftotele; ond’ebbe a dire ; con qual cura , ö diligenza , potè mai
egligiugnere a fapere , che coſa fi facciano i peſci nel ma re , come dormano ,
e qual ſia il lor vitto ,o qual Proteo , o qual Nereo uſcito fuori del pelago
alla riva andò araggua . gliargliene . Come gli porè effer noto lo spazio della
vitae dell' Api, e delle Moſche ; ove mai potè vedere un' edere nata da corni
d'un cervio ; e dopo aver narrato queſte , e cent'altre novelluzze da ridere ,
e da tenere a bada la bruz zaglia deʼlettori , dette da Ariſtorele in fu la
ſtoria degli animali , riſtucco alla per fine di più annoverarne , trala fcio
1o, dic'egli , di narrar molte coſe,e multe,nelle quali ma nifeftamente lo
fpeziale , cioè Ariftotele fi vede avere ſconcia mente delirato . Ma quanto al
fatto della ſtoria degli ani mali , Io porto fermislima opinione, non effer
vero ciò che narran dilui alcuni , e che buccinavaſigià ( ficome riferiſce Gggg
2 Arc 604 Ragionamento Ottavo . Atenco) nella ſua patria Stagira; cioè ,
ch'egli avuto aveſſe Ariſtotele dalla liberalità del Magno Aleſſandro , per po
refla più acconciamente fornire ottocento talenti , che ſo condo la ragion del
dottisſimo Budeo giungono alla ſom ma di quattrocento ottantamila ſcudi
de’noftri tempi: e che per una sì glorioſa , e mirabil opera gli foſſer
deſtinati , co me narra Plinio :aliquot millia hominum in totius Afic,Gree
ciæque tractu parere juffa,omnium ,quos venatus,piſcatuſque slebant ,quibufque
vivaria , armenta , piſcine , aviaria in cura erant , ne quid ufquam gentium
ignoraretur ab ea quospercontando quinquaginta fermèvolumina de animali bus
condidit. E’n queſto parer ini conferma in prima la va rietà degli ſcrittori in
narrar queſto fatto ; imperocchè Elia no ſagaciffimo ſcrittore, e raro
nell'inveſtigar le greche an tichità , dice , che la ſomma de’danari, non già
da Alellar dro , ma da Filippo ad Ariſtotele foſſe ſtata donata . Co fazla
quale affatto inverifimil ſi pare ; conciosliecoſachè a Filippo tra per le
continue guerre , ch'e' fece in Grecia , e perle grandi impreſe , ch'e' diſegnava
contro la poderoſif kima Monarchia Perſiana , gli faceva meſtiere, anzi d'accu
mudar danari, che di ſpendergli,e ſcialacquargli in peſchie rejo vivaj , in
uccellami , in cacciagioni , o ſomiglianci co fe. Aleſſandro poi ,priina
d'incominciar la guerra contro Dario , ad altro certamente dovette badar , ch'a
ſomigliã ti ſcacciapenſieri ; fcozachè non avea sì gran dominio daw poter
ſeguire ciò,chc Plinio millanta ; manel tempo della guerra, oltrechè la cura
dell'armi era valevole a fraſtornar gli ogn'altra impreſa egli di più era allor
divenuto si nimi co d'Ariftotele , che per fargli onta, e diſpetto ,mnādò Am
baſciadori , e doni a Senocrate ſucceſſor di Platone , e fie ro emulo
d'Ariftotele . E dirò ancora , che ſe mai Ariſto tele ebbe parte ne’teſorid Aleffudro
, in tutto altro certa mente l'aveffe inveſtico , che in acquiſtar notizia , e
contez za delle coſe della natura . Neglimancò agio da farlozim perocchè egli
era , come ne da teſtimonianza Tineo :760578 γαςείμαργον, έψαρτυτήν , επ σάμα
φερόμενον εν πάσιν: cioè gram paraſito , e divorator delle più ghiotte vivande
, ne fi ritene va di DelSig. Lionardo di Capoa gos va difvögliarſi di qualunque
cibo. E in oltre non gli mann cò quel pizzicore , per cuii giovani male il loro
avere ſpé, dendo , le più fiate miſeramente ne capitano ; e tinto s'in veſchiò
nella pania , che per amor venne in furore, e matto ; e come narra Laerzio ,sì
fortemente innamoroſli della con cubina d'Ermia , che a leicosì immolò , come a
Cerere Eleuſina folean già fare gli Atenieſi ; e per tali cagionia tal ſegno di
miſeria pervenne, che alla fine riduſſeli vergo , gnoſamente a tradir la patria
a’Macedoni : poi tolſe a fare il foldato ,ove ne meno eſſendoviſi niente
avantaggiato, vode le far borrega di ſpeziale; e anche per civanzarſi nonver
gognavafi di vender quell'olio, ove in prima bagnandoſi avea depoſto le ſozzure
tutte del corpo ; e con fimili ſtiti. chezze s’avvisò di dar compenfo per
avventura agli ſcia facquamenti di quella prodigalità , con cui difperfe,e con
fumò tutto il paterno retaggio . Io adunque mi fo a cres dere , ch'egli non nai
vedefle notomie di morti , non ches di vivi animali ; e che folamente ne
ſcriveſſe per udito yes per ciò , che ne’libri degli antichi fconciaméte forſe
appre lo n'aveva , o immaginato . Perchèpoi così alla rimpazza ta confonde , é
meſcola il tutto , ragionando de' nervi , es delle vene , cheben'a lui fi
potrebbe adattare quel verſo di Orazio Delphinum ſylvis appingit,fluctibus
apram . Così cgli follemente immagina naſcer i nervi ,e le venej tutte dalcuore
; il qual dice ſolamente eſſer quello , onde il ſenſo , ei movimenti negli
animali fi facciano ; ne ad al tro fervire il cervello , fuor folamente , che
ad alleggiare, e temperare l'abbondevol caldo del cuore . E ſomiglianti altre
balordaggini , e fcipitezze narra : anzi maggiori affaiz in ſomma intorno alla
fabbrica , diſpoſizione , ed ufici del le parti del corpo umano tanti,e tanti
falli commiſe ,che ben potè dir Ateneo : coſe tali ſcriffe Ariftotele ,
parlando della ſtoria degli animali , 'che come dice il Comico , daglá
ufcempiati ,e pecoroni quaſi a fravaganza ,quaſi a miracoloſ gredoro. E ben fi
parc , che Galicno medeſimo foffeſi con lui portato modeftamente , anzi che no,
allor che diſſe po + 1 CO Aria 806 Ragionamento Ottavo 1 1 4 co Ariſtotele
conotcerti di notomia . E ben’a noftr'huopo di que' ſettanta libri, i quali,
ſecondochè Antigono ne ſcriva, Ariſtotele intorno agli animali compoſe ,
ſolamen te que’pochi ſe ne leggono , che il tempone laſciò ; per ciocchè
maggiori cagioni di fallare i ſuoi favorevoli avrebbono; fi enim ,dice
ſaggiamente il Borrichio,compen dii peccata numerari vix poffunt, illa operis
totius modo ex tarent , effent fortaſſis innumerabilia . E queſte adunque só ic
gran pruove dell'ingegno maraviglioſo del divino Ari ftotcle queſte le riuſcite
delle tante ſpeſe , del tanto aju to,ch'egli ebbedalla liberalità del
grand'Aleſſandro? que Ite le ripoſte notizie, ch'egli acquiſtò dalle tante
fatiches da lui durare ? Ma ſenza venir tinto buccinato , fenza tan ti
ſoccorſi, e ajuti, o quant'oltre, non dirò Democrito, no dirò Eraſiſtrato ,non
dirò Erofilo ,non dirò altri antichi, ma un folo Arveo ne'confini d'un Iſola
riſtrerto, o quant'oltre avanzoſli , sì chemeritevolmente , e ne ſtupiſce
l'aman ſa pere , e l'amira il preſente ſecolo , el celebrerà il futuro , Ma che
direi noi intorno all'altre coſe della natura , cu gencralınére in tutta la
filoſofia naturale ? Eglicosì ſciocco , e gocciolonc fu Ariſtotele , che
diffidandoſi di parteggiar lo in ogni ſuo fallo,iſuoi medefimi ſeguaci,talor
vergogno ſamente l'abbandonarono . E per nulla dir de' Greci ; o d' Avicenna ,
d’Algazele , e d'altri Arabi filoſofanti,qualno ftro buon peripatetico per Dio
fu così teſo, e oſtinato ,che talor da lui apertamente non fi partiſſe ? cper
tacer d'altri, ilBeato Alberto , lume della Criſtiana ſapienza , e della
venerabile Ordine de'Domenicani , avendo l'opere d'Ari ftotele ſpiegate , niuna
delle ſueopinioni approvar volle; anzi così proteftando i ſuoi ſentimenti alla
per fin conchiu de: in his nihil dixi ſecundum opinionem meam propriam , fed
juxta pofitiones peripateticorum ; & ideo illos laudet , velre prehendat,
non me.E quel gran maeſtro in divinità e in peri patetica filoſofia Benedetto
Pereira della Compagnia di Giesù , il quale in quel ſuo libro de rerum
naturaliums, principiis , dopoaver largamente conſiderati i poco fermi
argomenti, c fillogiſmi , con cui le coſe dubbic , e incertes . fievo Del
Sig.Lionarda diCapaa. 607 fievolinente egli tratta, cosi:della ſua natural
filoſofia dice: doctrinam rerum naturalium , quam nobis fcriptam reliquit
Ariſtoteles , fi quis velitbeneſentire , propriè loqui, nous poteft dici
abfolutè ,din totum ſcientia ; perciocchè riguar dando alle fondamenta di
quella, e ravviſandole ,che falſe, e che dubbie, e malamente con falde, c
naturali ragioni raf fermate, ficome il medeſimo Ariſtotele teſtimonia, dicendo
eſſer quelle ſolamente dialettiche : ragionevolmente poi e': ne tragge, e
conchiude alla fine: quum igitur phyſica Arifto telis fit falfa pars , pars
autem topica tantum probabilia .. contineat, non poteft dici abfolutè, & in
totum fcientia . Ma acciocchè perciaſcuno ſcorger (ipoffa , quanto inu tile ,
quanto vana, quáto priva d'ogni falda dottrina egli ſi fia la filofofia
d'Ariſtotele , conviene innanzi tratto da più alto principio imprender la cola
. Dico adunque , che per due ſtrade ayviar fi foleano coloro, che agognavano
alla ſublime altezza della natural filoſofia pervenire ; una , ches quantunque
falli , è nondimeno agevole , e piana, echiun que per quella prende il camino ,
non fida cura veruna di cſaminare, e riandare minutamente le coſe naturali, ma
sē . preinai fe ne ſta fu l'univerſalità de'termini , e de' vocaboli, quali a
ragionar di tutte apparenze della natura ſenza du rar molta fatica adattar ſi
poſſono ; e comechèſembri, che tutto dicano , che tutto ſpianino :impertanto ,
altro non ſo no veramente eglino,ſalvo che vanillime ciance,fra le qua li non
altrimenti che ſi faceffero un tempo , ſe'l ver dice l' Arioſto ,
que’franceſchi, e faraceni cavalieri nel palagio in cantato d'Atlute aggirar
tutto dì veggiamo confuſi gl'in cauti, e poco avveduti, fenza mai venir a capo
d'alcuna ve rità ; ma l'altra ſtrada, quanto più erta,ſtraripevole,e ardua,
altrettanto nel vero è più nobile , e più gloriofa . Queſtas calcar
generofamente li videro i diligenti inveſtigatori del le coſc , ei ſavj
interpetridella natura ; i quali diſcorrendo regolatamente , ed offervando con
diligenza , guatavano quaſi a ſpiluzzico le coſe naturali. Dopo queſti incomin
ciarono a poco a poco ne'tempi ſeguenti gli altri a traviac da queſto diritto
ſenticro , ed a tenere la falfa ſtrada ;o che ſe'l 608 Ragionamento Ottavo fe'l
faceſſero perdebolezza d'ingegno, o per non durar fiatica,o p vana ambizione di
farſi capi più tolto in quel cores rotto modo, che eſſer ſeguaci degli altri
nella vera, c legit tima maniera di filoſofare . E fu tanta certamente loro
ſchiera , e sì copioſa, che ben pochi ne rimaſero nell' arin go del buono
filoſofare ; di cui potrebbe ben dirdi Pochi fon , perchè rara è vera gloria :
i quali per quelche già da quelle ſcarle memorie , che noi rabbiamo comprender
fi poffa, furono Anafſagora,Empe docle , Leucippo , cd altri pochi, Che colle
dita annoverar fi ponno; perchè ragionevolmente ebbe a dire quel ſatirico :
Rari philofophi: numerus vix efttotidem ,quod Thebarum porta , vel divitis
oftia Nili. Ma ſopra tutti l'incomparabile Democrito adeguando il tutto col ſuo
vaftiliſimo ingegno (ini giova dirlo colle pa role di Petronio Arbitro ) etatem
inter experimenta con fumpfit ; e con principj veramente naturali, cioè a dir
ſenli bili ,così maraviglioſamente ragionò di ciaſcuna coświ ch’alla natura
appartener fi poffe , che a gran ragione nel vero Seneca dopo averlo detto
antiquorum omnium fubtilif fimum ,antiſtitem literarum.ſapientiæ caput: a
chiamar l'ebbe lingua della natura ; perchè non guari dopo venendo Pla tone, e
diffidandoſi di poterlo col ſuo ingegno ragguaglia re, per uggia , e per
invidia volle rabbioſamente dareallo fiamme tutte le divine opere di lui ; poſe
in non calere co tal vero , e lodevol modo diſpecular diritcamente le coſe
della natura, e con univerſali , c apparenti ragioni avvilup pò il cutto . La
qual maniera difiloſofare, concioffiecofa chè agevol foffe , fu poi ſeguita,e
abbracciata da ciaſcuno, rimanendo quaſi morta,e ſpenta la natural filoſofia ;
ſe non ſe dopo la morte d'Ariſtotele levoſſi ſuſo il ſaggio Epi curo, ecol ſuo
avvedutiſſimo ingegno ripreſe, e riſtorò la morta filoſofia , e la fece di
nuovo fiorir ne' ſuoi doctiſſimi orti , ove rinaſcendo viffe , e morio . Perchè
non ebbe il torto per avventura Dionigi d'Alicarnaſſo in chiamando il
filoſofofar di quei tempi un vano berlingare , e cinguettar dives Del
Sig.Lionardodi Capoa. 609 di vegliardi ozioſi , e ſcioperati , a ' giovani
ignoranți. E Cleante ancora faggiamente ebbe a dire , che gli antichi aveſſero
nelle coſe filoſofato ,ei moderni ſolamente in pa role . Qualdunquefia
maraviglia , ſe così mal concia , malmenata la filoſofia , non potea
vantaggiarli nella Grecia . Perchè ragionevolmente diſſe quell'Egeziaco San
cerdote nel Timeo, chei Greci eran ſempre giovaniſlimi,e fanciulli: emlwes del
muides is ' , gépur di enlew oux iso , certè ha bent, dice Franceſco Baccone ,
id quod puerorum eft , ut ad garriendum prompti fint; generare autem nonpoffint.
Così perduta , e ſpenta la buona filoſofia , poco a capi tal tenendoſi i libri
diquella , nc punto per huom riſerban doſi , o traſcrivendoſi, avvennc, che
infra breve ſpazio di tempo con comune ſcoſcio delle buone lettere, affatto fi
perderono ; rimanendo ſolamente que’libri de' yani çiarla tori, che al guaſto ,
e corrotto ſecolo erano in pregio ; ne? quali poteſe ben paſcerfi ,e nutricar
l'ambizioſa vanità de Greci. Ea tanta caduta della buona filoſofia s'aggiunſes
poi l'allagamento de'Barbari nell' Imperio Romano, nel quale andandone a ruba
ogni coſa, que'pochi libri , che pur v'erano rimaſi, fi perderonſi,; e come
dice il teſtè rap porcaco Bacconc , doctrina humana velut naufragium per . pefa
eft; & philofophia Ariftotelis , o Platonis tanquam , tabula ex materia
leviori , minus ſolida per fluctus tem porum fervatæ ſunt. I qualilibri dapoi
imbolati, lo non ſo come , dagli Arabi ſi tramandarono inſiemecolla ſerya, e
apparente filoſofia, come altra volta fu detto alle noſtre contrade ; e queſta
è quella filoſofia ,che infino a' dì noftri con tanta loda è ſtata ſempremai
ſeguita , e tuttavia nelle Icuole comunemente s'inſegna : e a cui dicevam , che
già poneſſe le prime fondamenta Platone; il quale avvegna chè ravviſaſle il
yero , e diritto modo difiloſofare: percioc chè difficil molto , e malagevole
gli ſembrava a ſeguirlo , lalciofſi talora anch'egli portare alla corrente de'
ſofiſmi Ma non però di meno non laſciò talvolta il vero modo di filoſofare ;
comeagevolmente egli ravviſar fi puote ne'ſuoi Dialoghi , e malimamente in
quello , ch'egli intitola il Ti Hhhh . . meo, 610 Ragionamento Ottavo meo , o
della natura . Perchè ben ſi pare , ch'egli ſaggia mente foſſeli attentato di
gir anche per quel medeſimo sé tiero , per cui già Democrito , e gli altri primipadri,
e ve rije ſovrani maeſtri della filoſofia avviatiſi erano ;ma come sébra ad
Ariſtotele, no ſegui egli troppo felicemente l'im preſo aringo, e di gran lunga
a Democrito addietro reſtoffi. Πλάτων μεν , fono parole d'Ariftotele, περί
γενέσεως έσκέψατο,28 φθοράς όπως υπάρχει τοϊς πάγμαστεκαι σερί γενέσεως ού
πάσης , αλλα της ή στοιχείων πώςδε σάρκες, ή όσα και η άλων και των τοιούτων ,
ουδεν·έτι , ουδε . περι αλοιώσεως, ουδε περί αυξήσεως, ένα τρόπον υπάρχει τους
πράγμα στν · όλο- δε παρα τα έπιπολής περί ουδενός ουδείς επίσησεν , έξω Δημα
reíte ;cioè Platone cöfiderò la fula generazione e'l corrõpimēta delle coſe;ne
già di tutte,ma degli elemêtifolamēte; trabaſcia doariguardare , come formifla
carne , el'offa, e gli altrifo miglianti corpi; ne demutamenti , o come
s'accreſcano,o pig giorino cotai corpi feceparola alcuna. Finalmëte nonfu niuno
, fe non ſe alla rimpazzata ,e lentaměte, che ragionaſſe mai de' mutamēti delle
coſe,da Democrito in fuora .Ecomechè que Ito riprédiméto fatto da Ariſtotele al
ſuo maeſtro egli sébrë all'intendentiſſimo Patrizio un manifeſto , e falfſſimo
appo ſtamento , e maladizione dell'invidia dilui; pur non ha tut to il corto
Ariſtotele in così fattamente ragionare ; imper ciocchè quantūque Platone in
molti luoghi delle ſue ope re baſtantemento favellato aveſſe della generazion
delle pictre , de'venti, delle gragnuole , de’nuvoli,del criſtallo , della neve
, della rugiada ,delvino, dell'olio , e d'altri fi ghi: e ſomigliantemente
filoſofato de ſapori, degli odoris e de'colori delle coſe , e detto altresì
de’mutamenti e degli accreſcimenti di quelle ; e quantunque anche ſpezial mé.
zione aveſſe fatta della carne , e dell’oſsa , ecome quelles s'ingenerino; pur
no così addētro innoltroſi ne'ſuoi ragio namenti,che toccato aveſse diſtintamente,
come con que? ſuoi quattro corpi fi doveſſono mai formar cotante coſe ;
perchèparve,ch'egliaveſse cominciato a filoſofar colmo do vero , che ſi
conveniva ; ma poifmagato a mezzo corſo foſſe ricoverato all'apparente . E
queſto è quel , che vuole dir di lui Ariſtotele, biafimatone a torto dal
Patrizio nella dife . DASig. Lionardo di Capoa OIT difeſa del ſuo Platone . Ma
fu egli anche Platone traſcu rato a ſpiegar comeſi doveſſero partire, o
accozzar que fuoi primi corpi , pereffer valevoli a produrre negli organi de'
noftriſentimenti gli odori , e i ſapori, e i colori delle coſe ; perchè
ragionevolmente ſoggiugne Ariſtotele , niun maeſtro in filoſofia , fuor
ſolamente Democrito , aver ad dentro ſpiato fino agli ultimi fondi i principj
delle coſe . E ciò agevolmente fi può comprendere dallemedeſime paro le di
Platone; il qual così nel ſuo Timeo dice: To dº osoīvowle φησιν ώδε γίώ
διατρήσας καθαρgν , και λείαν ανεφύρgσε, και έδευσε μυε λώ , και μετα τούτη άς
πύρ αυτο εν τίθησι μετ' εκείνο δε εις ύδωρ βάλει και πα Αιν δε εις σύρ,αύθις τι
εις ύδωρ"μεταφέρον δ ' ούτως πολάκις εις εκάτερονυπ ' se je Dowăsnutev
dzepyáo mo. L'offo vēne formato in queſta guiſa; minuzzădo in prima la terra
pura , é netta,meſcolalla , e inu midilla colle midolla ;quindila poſe nel
fuoco;quindiattuffolla nell'acqua;quindidinuovo la poſe nel fuoco;e
cosìriponendola molte frate or nel fuoco , or nell'acqua , sì, e tanto fece ,
che dell'acqua, e del fuocoquello alla per fin venne a ingene. rarfi . Or chi
domine , non direbbe con Ariſtotele , eſſer que. Ito filoſofare alla groſſa
colle fole parole , ſenza veder più in là , che la ſola buccia delle coſe
perciocchè ſe la terra , come vuol Platone , era pura , e ſchietta , non era ,
meſtier certamente di sbriciarla ; che ſe i cubi, de' quali, ſecondo lui, ella
è formata , così ammaſſati, e riſtretti ſta vano , che ſegnale alcun di
partiinento non avevano , già quelli veritieramente non eran mica da dir cubi ;
e ſeguen temcntc non era dadir terra quella , ma una cotal maſſa , che tritata ,
e minuzzata così ſe ne poteva formar terra , come acqua, comeanche qualunque
altra coſa del mondo, ſecondo le particelle ,in cui partir ſi poteva . Perchè
me ftier certamente non era d'accattare altronde fuoco , o ac qua per lavorar
quaſi in fucina , temperando l'oſſo,ſe tutto abbondevolmente in ſe aveva . E ſe
i cubi eran partiti , e affacciati nella lor debita figura , che coſa mai potea
cosi divili, e sbriciolati tenergli non il vuoto,che perlui coſta - tcinente ſi
niega ; non altra diſcorrente ſoſtanza , e irrego Hhla h 2 lar un 0121
Ragionamento Ottavo Jarmente figurata ; imperocchè ne diquattro foli corpiscos
meegli vuole verrebbono a comporſi le coſe cutte del mo . do ; ne la terra pura
farebbe, e da niun'altra coſa non tra meſtata . O forſe i già detti cubi poteva
il ſolo moto tener diviſi ? nia dovendo ciaſcun di loromuoverſi,ed eſſer d'ogni
banda ſceverato oltre molte altre inconvenienze , n'occor re queſta, che non
già un corpo ſaldo , ficomeè la terra : main diſcorrente verrebbero a comporre.
E lomigliāte anchea queſta maniera di filoſofare fu quel diviſamento del
medeſimo Placone intorno alla generazion . della carne , e de' nervi;ch'egli
narra nel medeſimo Dialo go del Timeo ; il qualccrtamente non è altro , che una
va ga , e ben compoſta diceria ; che con vane parole allettan do i ſemplici , e
poco intendenti delle coſe naturali , fa, ch egli faccia ritratto di gran
filoſofante Al vulgo ignaro, & a l'inferme menti. Perchè non haegli il
torto Ariftotele in dir ,che il ſuo mae ftro non trapalli più , che la prima
buccia delle coſe in filo fofando , e nons'immerga troppo ne'naſcondigli più
ſco noſciuti della natura . Di più , dice Ariftotele , e libera mente confeffa
, che ſciogliere i corpi fino alla lor ſuperfi cie , come fa Placone , ſia coſa
affatto ſconvenevole ; per ciocchè dalle ſuperficie non ſi poffono generar
qualità , altra cofa , ſe non folamente corpi faldi ; il chepuò ben far
Democrito co’fuoi acomi. E non molto dopo ſoggiugne : Democrito fembra aver
certamente ſpecolata con propia, e convenevol ragione la natura delle coſe . E
comechè in parte ingannaſſefi Ariſtotele in ciò dicendo ; perciocchè bé fi
ſpiega nelTimeo , come talora il caldo s'ingeneri ſenza ricorrere alla
ſuperficie : non però di meno ha egli per al tro non poca ragione in biaſimarne
il ſuo maeſtro, ſembraa do a ciaſcun ' ch’abbia ſenno , ſoverchio alfai , e
ſconvene vole quello ſcioglimento de corpiinfino alla ſuperficie . E noi , le
il tempo ce'l concedeffe, ne ragioneremmo per av, ventura più alfai , e forſe
altrove ne diremo ; ma non è al preſente da traſandar , che ſei quattro corpi
di Platone poſſono più ſottilmente ſtricolarli , e minuzzarſi in altre fi gure
1 1 Del Sig. LionardodiCapoa 013 1 ' 2 gure', come ſi pare,ch'egli in qualche
fuogo de'ſuoi ſcritti accennar voglia ; vano certamente , e foverchio è a dire
, che que'cotali corpicciuoli colle lor figure , e facce dean cominciamento
alle coſe tutte del mondo ; e non più tolto un ſolo corpo , il qual poi in
molti corpicciuoli di moka te , e varie figure partito foſſe . Ma fe pur
vogliams contendere , che ne ftritolar , ne partire in modo niu no que' corpi
li poſſano , lo .non fo come quattro cor pi ſolamente a formar tante , e tante
diverſe coſe , che noi ci veggiamo , baſtanti pur ſiano . Ne meno fo lo certa
mente comprendere , come poffan que'quattro corpi cial cun luogo affatto
ingombrare. Il che anche avvisò Ariſto tele; comechè egli troppo
fanciullefcamente in ciò fallaffe, portando opinione , che le piramidi foffer
valevoli a riem piere ciaſcuno ſpazio ; nel qual manifefto errore ſmuccian do
poi incorfero dietro a luituttiſuoi interpetri, e feguaci; e ne fur forte
biaſimati dal P. Giuſeppe Blancani , e prima di lui da Gio: Battiſta de'
Benedetti e dall'impareggiabil Geometra Franceſco Maurolico. Ma in cotanti fdruccioli,
e malagevolezze abbattendo fi l'avvedutisſimo Platone , riſtando in fu le
primeormes del ſuo ſpeculare,non ebbe ardimento d'innoltrarſi d'avā . taggio
ne'maraviglioſi ſegreti della natura;e quaſi nocchier rotto per tempeſta in
mare, che lentamente vada ridendo i più ſicuri lidi , non s'arriſchio
d'ingaggiarſimaggiormen te nell'aſprezze del filoſofare , e folo andò pian
piano, e có ritegno palpando le prime facce delle coſe . Ne ciò ba Stando a
renderlo ſicuro da' pericoli , non volendo ne ans che affermare alcuna ,
comechè leggeriffima cofa , feces quaſi in iſcena comparir perſonaggi a
favellar diverfaméter ciaſcú ſecodo il ſuo ſentiméto , delle coſe del mondo,e
for mò Dialoghi,e ragionamenti in nome altrui per ceſſare i m ordimenti delle
varie ſcuole della filoſofia . Ma lo ſcal trito , e fagace Ariſtotele all'
apparence filoſofia con ogni sforzo , e con tutto lo ſtudio del ſuo ingegno
riyol gendoſi , cercò artificioſamente la coſa naſcondere : e tanto operò , che
venne in grado di primo filoſofante del mon 614 Ragionamento Ottauo mondo
appreſſo il vulgo;ma qualeſi foffe il ſuoartificio lo brevemente vi dimoſtrerò
. Compofe egli quel libro cotão to pregiato da' ſuoiparziali, nel quale delle
ſole cores aſtratte impreſe a favellare : e ad eſemplo degli antichi, or di
Teologia, or di ſapienza , or diprima filoſofia altiera mente chiamollo ; i
quali titoli fur tutti poi da' ſuoi inter petri nel ſolo titolo della
Metafiſica cambiati . Intorno al qual libro ſarebbe molto da dire ;ma chi pur
n'è vago di qualche contezza , vegga Franceſco Patrizio, e MarioNi zolio , e
Pietro Ramo ilquale con l'uſata ſua libertà ,e di ligenza eſaminandolo ,
trovollo alla fine non eſſer altro , che la medeſima loica d'Ariſtotele , con
diverſe parole , e nuovo ordine travolta : e una ſconcia , emalcompoſta me
ſcolanza , e guazzabuglio di ſoli vocaboli; perchè manifc ftamente avvedutofene
Nicolò da Damaſco , il cui faggio intendimento iguale a quel di Teofraſto , o
d'Ariſtotele medeſimo fureputato , comechèegli de'parteggianti d'A riſtotele ,
c Peripatetico ſi foffe: pur giudicollo inucile af fatto alconoſcimento delle
coſe ; e de'medeſimi ſenti menti fu anche Plutarco . Ma che che di ciò ſia ,
immagi nò Ariſtotele aver baſtantemente con cotal libro dato a divedere ,
ch'egli aveſſe diſtintainente diviſato delle coſe univerſali, e ſtratte , per
non doverle poi meſcolar colle fi fiche , come avean fatto gli antichi,i quali
perciò ne furda lui gravemente biaſimati,e ripreſi: comechè a torto, fico mei
medeſimi ſuoi peripatetici confeſſano . Ma poco cer tamente in ciò approdogli
la ſua ſcalterita avvedutezza ; perciocchè non è huomo tanto quanto intendente
delle coſe del mondo,ch'abbattendoſi ne' libri della ſua natural filoſofia non
s'avviſi tantoſto a’primi foglieffer quella tutta apparente , e ideale , ne
ſerbare in fe coſa alcuna di ſaldo. Pur piacque oltremodo a no pochi sì fatto
modo di ſchera zar filoſofando, parendo egli vago aſsai , e ingegnoſoallas
ſembraglia de'giovani ; i quali s'avviſavano concotali va ni , e folli
diviſamenti, e millanterie già pienamente ſaper tutto , quando per avventura
non ſapevan nulla.E la ſcioc ca torma del popolo vi pur correva , maravigliando
ſom mamen Del Sig.LionardodiCapoa. 818 mamente di cotanti termini ſtratti , e
fantaſtichi, comes nuovi , e non ancor comprehi dagli ſcolari di baſſo inten
dimento , e da dover richieder più profonda , e ſottil dot trina , checoloro
non aveano ; Semper enimſtolidi magis admirantur, amantq ; Inverfis qua fub
verbis latitantia cernunt. E per maggiormente farci veder la luna, come ſuoldir
fi, nel pozzo, cominciò eglimalizioſamente a voler ragio nare di coſe naturali;
e in ogni ſuo capo imprende a dir có qualche menoma faldezza di vera filoſofia;
ma toſto ricor re agli uſati fofifmi,non iſpiegando mai nulla di vero ,ne manifeſtando
qual foffe la natura delle coſe, di cui egli fa vella ; ne come di nuovo
naſcano , o yengan meno , ne co me patiſcano, o operino nel mondo . Al che
riguardando infra gli altri Plutarco, comechè egli non fofse cotanto ſao gace,
pur delle vane ciace di lui avveduto; l'allogò di gran lunga dietro al divino
Democritose co-maggior ragione in vero di quella pla qualeAriſtotele al fuo
maeſtro Platone medeſimaméte Democrito átepofto avea. Ne in ciò cota to teneri
, .e parzionali d'Ariſtotele i moderni filoſofanti fono , che reſi talvolta
avveduri de'ſuoi trafandamentisan che i pià cari ſeguaci di lui, forte non
l'accagionino: e infra gli altri quell'avvedutisſimo fuo Chioſatore , il Padre
Ni colò Cabbei; il quale,comechè peripatetico di gran rino meanpur volle
apertamétemanifeſtarlo in chiosådo le me teore del ſuomaeſtro.Quia iſte
Philofophus ( dice ) maximè pollebat ingenio metaphyfico , edapprimè ei
arridebatphilofo pbariper metapbyficasabſtractiones : ubi adres phyſicas de
venitur , quia ad hos ingenio fuo nonferebatur, ingenii vires nonacuit ; ed in
un altro luogo : Ariſtoteles magismetaphy ficis obſervationibus affuetus , quam
phyficis obfervatur. E finalmente egli conchiude : fed fenties in rebusphyſicis
Ari Stotelem non potuiſje metamſapientiæ attingere. Enelvero chi ſarà maicolui
, che riſtucco forte , e faſtie dito delle ſue vane dicerie no'l biaſimi , e
rimproveri, rin venendo in lui più , e maggiori tacce affai', che non vi rava
viſa il Cabbei? Egli primieramente togliendo ad imitazio ne d'O 616 Ragionamento
Ottavo ned'Ocello Lucano(ſe pur egli è l'autore di quel libro ,che gli viene
attribuito ) e diPlatone, oſia di Timeo, a fabbri. car la grandiſſima maſſa
dell’Vniverſo tutta fantaſtica, tut ta metafiſica , e apparente , prele per
principi delle coſe sé. fibili , e vere , terminitutticonfuli, e generali , e
da' noftri sétiméti affatto rimoſſi;del che forteegli è da accagionare ;
mallimamente , ch'egli medeſimo avvisò pur una fiata , do ver delle coſe
ſenſibili effer ſenſibili parimente i principj ; e ciò cotanto egli giudicò
vero , che preſene ſconciamente a carminare gli antichifiloſofapti. Egli ſono i
principi , onde Ariſtocele vuole , che forma te le coſe tutte ſenſibili ſi
foſſero , così larghi, e lontani, che ben yi ſi poſſono agevolmente ricoverare
curci que'fiſici principi , che varic, e diverſe ſchiere de'filoſofanti,così an
tiche, comemoderne alle coſe naturali impongono . E ciò ben ne diedea conoſcere
il famoſo ChenelmoDigbinobi lillimo filoſofante del noſtro ſecolo , allor che
con lodevo le artificio volendo prender gli oſtinati ; e provani peripa terici,
fece ſembiante d'effer anch'cgli cocale . Il qual arti ficio dopo il Digbi ,
molci valenc'huomini d'uſare anche ſi Audiarono . Ma laſciando ciò al preſente
ſtare , non iſpie gando mai Ariſtotele ciò , che in fiſica ſia quello , a cuive
ramente poſſa adattarſi quella generale , e confuſa ſua difi zione della
materia , e della forma:nulla certamente ad in ſegnare e' viene . E nel vero ,
chemonta per Dio a ſapere, che ciò che di nuovo in queſto vaſto teatro del
mondo ap pariſce , e s'ingenera, e li forma, non era in prima tale, po tendo
eſservi ? ed ecco la gran maraviglia , naſcoſa in prima a tutt'altri antichi
filoſofanti, che egli con tante bel faggini millantando innalza , chiamandola
privazione; più ragionevolinente forſe da Platone detta occaſione, e non
principio delle coſe . Ma che direm noi degli altri due non men ridevoli
principi delle coſe , cioè a dir materia , e forma , ſopra le quali fondamenta
egli la generazion tutta dell'univerſo va fabbricando ? Poveri filoſofanti
antichi; voi per iftudio , e ſudori non ſapeſte trovar diviſamenti sì bclli ;
Ariſtotele ſolo ſeppela nateria delle coſe cſser po 1 tel tenza , overo in potenza a divenir tali coſe ,
e la forma alla per fineeſſer un cotal-atto , che dandoalla materia perfe zione
, la mandi avanti , e la faccia eſfer propiamente tale . E queſto è quel, che
con tanti riboboli , e aggiramenti , e lunghe dicerie eglide’principj delle
coſe ragiona . Ma per Dio , ſe non fi fa in che conſiſta la fiſica natura della
mate ria , cioè a dire iti cui cada cal potenza a divenir quefta , o
quell'altra coſa ., come potrà mai ſaperſi poi la fiſica natura della forma , e
ciò che abbia afarſi , acciocchè la materia imprender poffa o queſta , o quell'altra
diterminata coro per informarſi ? e ſe queſte pur non ſi fanno , comepotrā .
mai ſaperſi le qualità , l'opere , e le paſſioni delle coſe., come, e che, c
perchè l'operazioni ſortiſcano ? Se a giovane , il quale apparar voleſſe a
fabbricar glio riuoli ,dopo molte , e molte vaneciance e' diceffe per fine il
maeſtro : attendi figlio , e nota ben tutte mie parole , ch' Jo brievemente ora
intendo di manifeftarti il maraviglioſo modo da compor gli oriuoli : egli
primieramente convienu ſapere., che l'oriuolo fabbricaſ d'una cotal coſa , che
non è mica già oriuolo ; perchè ſe oriuolo ella già foſse , non potrebbe
divenir oriuolo ;ma agevolmente ella può venir oriuolo per.coſa acconcia a
farla co effetto coral divenire: certamente ,che udédo cotali novelle lo ſcolare,
e avveden doſi d'eſler uccellato , Goaffe direbbe, maeſtro voi dite bene; ina
quel che lo volea ſapere Io ,era qual coſa è quel 12 cotal materia , che voi
dite non eſser mica oriuolo, ina agevole a venir tale ; e quali ſono quelle
coſe , per le qua lidivien tale ; ma non ritraendone alla fin riſpoſta , fe pri
mieramente di faſso, o di legno ,o di ferro,od'altro l'oriuol fi debba comporre
; e poi con quai mezzi , e lavorj ſi fac ciz, ſchernito , ed ingannato il '
laſcerebbe colla ſua mala ventura . Or così appunto ſcherniſce , e beffil
Ariſtotcle . i luoi peripatetici. Ma Eudemo un de’più cari, e più famoſi
ſcolari d'Aristotele , ponendo in non cale l'autorità del maeſtro , çome in
altre coſe già fatto aveva , diſse la materia delle natura li coſe eſser vero ,
c propiamente corpo ; la qual ſentenzas fu poifermamenteabbracciata da quel
famoſo , e ſortii pe Iiii 018 Ragionamento Ottavo 1 ripatetico noſtro
ItalianoAndrea Ceſalpini.Ma comechè il Cefalpini in ciò moltoſi ſtudiaſſe , pur
non ritrovandolive Itigio alcuno dell'opere d'Eudemo, ove appiccar fi potef fe
, reſtò di farſi più avanti , e l'impreſa in ſu'l buono abbadono . Nemenopotè
ſeguirſi il diviſo d'Averroe intorno a cotal biſogna ; il qual diſſe doverſi
aſſegnare alla materia , comeaccidentile dimenſioniincerte, e indeterminate;
per chè non potendoſi a niun partito ſcufare ciò , che dice Ariſtotele intorno
alla materia ', ne men riparando in par te gli errori di lui , con iſtorcere ,
e piegar le fue parole in altri , e diverſi ſentimenti, ragionevolmente il
bialima , e'l proverbia il dottiſſimo greco Padre S. Baſilio Magno,dice do : ſe
la materia d'Ariſtotele eſsendo incorporea non è , ne: che, ne qualc , ne
quanto, ſarà certamente ella , come S .. Giuſtino parimente conchiudc,
unacoſa.finta : cioè a dire: una fantaſima, una chimera. Ma avviſando pure
Ariſtotele , che in sì fatta maniera fia. fofofandode primiprincipjdelle coſe;
perdeva affatto il no me di natural filoſofante, ricorre finalmente', ma troppo
tardi a coſe ſenſibili ; e pone egli i quattro volgari elemen ti , come ſecondi
principj decorpidiquaggiù; ma non ave do ſpiegata la fiſica natura della
materia, e della forma,on de fecondo lui compoſtivengono gli elementi, no può
ſpie gare ( come avea fatto in prima Empedoclc , Tinco;e Plizo tone,
componendogli dipicciolillimi corpicciuoli) natu ralmente procedendo , la vera
eſſenza diquelli ; perchè gli va diſegnando', e deſcrivendo colle lor qualità ;
maegli poi , come a natural filoſofo conveniva fare , le nature del le qualità
non infegna; anzinepure dar briga ſi vuole d'in veſtigarle ; ed appenadeſcrive
, rozzamente narrando al cunipochi loro effetti aperti , e manifeſtiad ognuno ;
ed'in quegli anche talora sì ſconciamente e'fallar ſuole', che nul fa più ;
ficomeallor , che francamente egli afferma, che'l freddo uniſca tutte le coſe
diqualunque genere elle ſi lie no ; e pur dovea egli avviſare , che'l freddo
ralora coniſce. mare il movimento all' acqua , chenon le facea calare a fondo ,
ſepara quelle coſe , che non convengono nella gra. vità, Del Sig.Lionardo.di
Capoa : 619 vità , e.che di diverſo genere ſono . Così parimente erra
Ariſtotele allor chedice , il caldo fceverar le coſe , che di diverſo genere
ſono,, da quelle , che convengono inſieme nel genere medeſiino ; imperocchè
uficio del fuoco ſia col fuo rapidiſſimomovimento di ſceverar l'unedall'altre,
cut te le coſe ,, che ſiano di qualunque genere , comechè talo ra ( il che
ingannòAriſtotele )ritrovandoſi rimoſſo il cal do , non vieri, che le coſe più
gravi calando più giù ſi ſepa rino dalle men gravi . Manon meno fallar {i vede
Ariſto tele allor che egli imprendendo a narrar la natura dell'us mido ,
definiſce contro a'ſuoimedeſiınidiviſamenti la ſpe zie colla definizione del
genere; dicendo : ma l'umido è quello , che dileggieri ricevendol'altrui
termini, non può in ſe ſteſso.contenerſi: uygóv dè , tè dóessevoixdin õp.com
evőeisov or. E no ha dubbio , che una coral definizione non avvegua al di
fcorrente , di cuiegli è ſpezie l'umido.; poichè il diſcorren te altro non
ſignifica , ſe non ſe quel.corpo, il quale diſcor re , s'inſinua , e penetra
agevolmente , compreſo cede's e non fa reſiſtenza ; perchè non eſſendo da ſe
terminato prende dileggieril'altrui termine . Ma l'umido , oltre a queſto
s'avviticchia in sì fatta guiſa a ' corpi ſaldi,che:ſi ré de ſenſibile ; laonde
altro.nonè , ſe non che una ſpecie di diſcorrente . E fe l'umido pure è tale ,
quale il ci.deſcrive Ariſtotele, certamente egli non dovrebbeſi poſcia dirſi
fec , .co.il fuoco.con Ariſtotele , maumido; anzi umidiflimo con Bernardino
Teleſio , ed Antonio Perſio converrebbe chia marſi . Ne vale a pro d'Ariſtotele
ciò che dice Giacomo Zabarella , l'umido convenire in qualche guiſa al fuoco ,
no già per ſe , eſſendo il fuoco ſecco per fe, ma per accidente : cioè ricevere
agevolméte il fuoco il termine altrui,non già per la ſiccità : non convenendo
il ciò fare a tutti i corpi fece chi : ma per la tenuità delle parti di quello
; anzi contra ſtando la ficcità del fuoco a quel corpo, che terminar lo yo
leſſe , avvien , ch'egli non riceva così agevolmente, come i corpi umidi far
fogliono , il termine altrui . Ma ſc noi il contrario ſperimentiamo di ciò ,
che dice il Zabarella , adattandoſi aſſai più dell'acqua , cdell'aere il Iiii
fuo ز 2 620) Ragionamento Ottavo fuoco a quel termine , che da altri corpi
preſcritto'gli vie ne : oltre ad ogn'altro elemento umido dovrà dirſi il fuoco;
che non per altro nel vero Ariſtotele, e i ſuoi ſeguaci affer inano cfler aſſai
più dell'acqua , e fominaméte umida l'aria , perchè ſe la ſomma umidità conviene
al fuoco , egli non aurà certamente parte niuna in quello la ſiccità ; laonde
ne anche per accidente il fuoco potrà ſecco mai dirſi. Enel vero la narrazione
del fecco da Ariſtotele rapportata,in cui egli in vece del ſecco par che
deſcriva il corpo ſaldo, in di cendo , il ſecco eſſer quello , che ſi contiene
agevolmente da ſe ſteffo , c malagevolmente prende l'altrui termine : Engordà ,
no evóerson pèr cireiw opw , duodessor dè , egli non può con venire in modo
veruno al fuoco . Or come adunque il Za barella oſa affermare , che'l fuoco fia
per ſe ſecco ? Oltre a ciò,ſe'l fuoco è per ſe tenue , ſarà anche per fe umido
i e ſe il tenue, per quel, che ne dica Ariſtotele ,è ſpecie dell'u mido , e’l
fuoco non ſolamente da per ſe è tenue , ma nella tenuità l'aria , non che gli
altri elementi,vince d'aſſai; con verrà ſenza fallo confeſſare giuſta la
dottrina d'Ariſtotele , per fe ,e vie più d'ogn'altro elemento eſſer umido il
fuoco . Ma vorrei faper quì da Giacomo Zabarella , e da Ar cangeloMercenario ,
che volle darſi ſpezialmente una si fatta briga: onde , e come potraſli
giugnere mai a ſaperes che'l fuoco fia ſecco forſe daglieffetti ? ma ond'è, che
il folc , per tacer d'altri, giuſta il ſentimento d'Ariſtotele non è altrimenti
caldo , comechè produca calore ? ſenzachè il fuoco, come afferma Ariſtotele
medeſimo,ſovente ingenc rar ſuole l'umidità ; come nel ghiaccio , ne'metalli ,
einu altre coſe molte ſcorger e' li puote; e ſe ogni qualunque corpo , o pure i
più di eſſi ,fi poſſono fondere in vetro , chi ardirà di dire , che'l fuoco non
ſia valevole a inge nerar l'umidità > E fe mai tutte le coſe , o la maggior
parte di eſſe in vetro per ſua opera fi cambiaffcro , non di rebbe ciaſcheduno
, che'l fuoco le rendeſſe umide primadi fermarle in vetro ? oltre a ciò allora
quando l'acqua, ſecon, do Ariſtotele immagina , vien dal fuoco cambiata in
aria, certamente quella maggior umidi à , per cui aria l'acqua divie Del
Sig.Lionardo di Capoa. 621 diviene, in lei s'ingenera dal fuoco . Ma forſe ſarà
ſecco il fuoco , perchè, come fcioccamente ſi da egli ad intendere un barbaro
autore, ſi ſente da noi ſecco ? Ma dal noſtro sé. ſo apertamente ſi ſcorge, che
il fuoco ha tutte le propietà agli umidicorpi da Ariſtotele attribuito. Ma
forſe per fi nirla argomentar fi potrà la ſiccità del fuoco dal ſuo calo re ;
ma eſſendo propio del calore , comc Ariſtotele dice , il rarificare ,
certamente da ciò umido più coſto , che fecco dovrebbe il fuoco argomentarfi.
Dice altri , Ariſtotele non l'umido , ma il diſcorrente aver definito ; e che fi
legge umido nelle fue opere , per colpa di coloro che dallaGreca nella Latina
favella trasla tarono i ſuoi libri ; poichè eſſendoſi valuto e’della parola
sygov nella menzionata definizione , che appo iGreci ora ſignificar vuole
qualſifia corpo difcorrére, or fi riſtrigne ad aſprinier ſolo quel , che tra
corpi diſcorrenti tien vigore do umidire, e chehumidum , vien detto da’latini .
Eglino non bene intendendo i ſentimenti d'Ariſtotele , immaginaro no aver fui
l'umido definito ;perchè foggiūgono poi: a torto anche vien accagionato
Ariftorele d'incoſtanza , e di co traddizione ; perchè d' talora dica ,Pacqua
eſfer più umida dell'aere, e talora affermi (il che una fiata ſembrò pazzia a
Galieno ) l'aria eſſer più umida dell'acqua. Ma quanto poco , anzi nulla rilievi
a pro d'Ariſtotete ciò , che fingono coſtoro , chiarainente ſi conofce ;
imperocchè Ariſtotele in coſa appartenente a' fondamenti della ſua filoſofia
non dovea ſervirfi di vocaboli ambigui, e dubbiofi; e ſe non v'erano i propj
nella fua lingua , il che appena mi ſi laſcia credere , che aveſſe potuto
avvenire , eſſendo ella così ric ca , e copiofa divoci , non gli avrebbon
mancati modi , e vie di chiaramente fpiegare ciò che cgli dovea dire. Ne li può
Ariftotele ſcufaredelle contraddizioni;impe rocchè , per tacer d'altro , dice
egli una volta , che la tera ra ſi trovi in tutti i miſti , perchè i
corpimiſti, fpezialmen te i più grandiper lo più nel luogo propio della terra
ſi tro vano; ma Pacqua, perchè fa ellameſticre a terminare i cor pi compofti,
effere lei ſola di que’ſemplici corpi , che ter mina 622 RagionamentoOttavo
minare dileggieri dale poſſonoyn rifugão ivendéggumasaza έκαςον είναι
μάλιστακαι και πλείστον έντων οικείων τόπω·ύδωρ δε δια το δείν μεν δελζεται το
σύνθε % και μόνον δε είναι των απλών ευόμισαν το ύδως. Dal le quali parole
chiaramente fi coglie., che o abbia Ariſtote . le definir voluto l'umido , o
pure il diſcorrente ; attribuen-. do egli all'acqua, come propia dote , e non
comunea verun altro elemento il potere agevolmēte da ſe terminare; il che
certaméte contro quel,ch'altre volte detto egli avea , viene a determinare
l'acqua ſola, eſcludendone l'aria , eller o umida , o diſcorrente , M ,a nella
ragione , che Ariftotele di ciò indi a poco rapporta , ſi vale ſenzafallo della
parola vypov a denotar l'umido ; e dice eſſer quello , il quale ha , forza
dicontenere , riſtrignere , e coaglutinare la terra ,la quale ſenza l'acqua
verrebbe a diſſiparl .; perchè eſſer :cgli .conchiude , l'acqua parimente
neceſſaria alla compoſizio. ne de'miſti , con queſte parole: én dè ry Tosningav
ávev Tš vggs μη δύναθα συμμένειν . άλα τούτ' είναι τοσυνέχον ή γαρ εξαιρεθείη -
λέως εξ αυτής το υγρόν διαπίστοι αν• Ovc fcοrgerfi puote, che alla terra ancora
convenga la definizione dell'umido data per Ariſtotele; nell'opinione del quale
ſi pare , che a niuno degli elementi convenga la definizione,ch'egli del ſecco
rapporta ; ma di ciò ad altri laſciando il diviſare , es Jaſciando ad altri
eziádio la briga di moſtrare, ch'Ariſtore le dagli effetti ſtelli,comechè pochi
ch'egli rapporta nelles incnzionate definizioni,potca agevolmente cogliere la
na tura di ciò ch'egli dice freddo , e umido : caldo , e ſecco : e così poi far
anco di que' , che chiama lor differenze; accen però ſolamente ch’Ariſtotele
alior che fa parole del tenue , in dicendo , che il tenue compoſto fia di
picciolo parti,per che ricampie το δε λεπον αναπληρικόν(λεπτομερές γαρ και το
μικρομε. pès avænangıxóv.)noſtra ſeguir l'opinione di Democrito e che nella
guiſa , che detto abbiamo,filoſofare, comechè rozza mente e ſi vede del tenue ;
il che dovea certamente c'fare, anche dell'altre qualità . Ma vediamo ora come
Ariſtotcle a ſpiegar infelicemen te imprenda la natura del movimento , in cui
non ha dub bio , che conllte cutta la nzural filoſofia . Primieramente cyli
cgligiúdica eſfer ilmovimento un cotal genere ,il qualej comprenda
l'alterazione, l'accreſcimento, la diminuzione, la generazione , e’Imovimento ,
che chiaman locale . In di diſegna, e definiſce ilmovimento nel primo, e nel
ſeco do capitolo della fiſica , in cotal guila : rov Suv áués.Övr. ÉVTE .
dexaci , ģTovorov , cioè endelechia di quella coſa , la quale è inpotenza , in
quanto ella è tale ; ed altrove : aivos, évtené.. geta toī XIVSTOU , xuvytor,
cioè , il movimento egli ſi è endelechia della coſa , la quale tien potenza a
muoverſi, in quanto ella tien la detta potenza . Orchi domine non comprende ſe
eſ ſer beffato , e uccellato da: Ariſtotele ?maſſimamente , che: egli medeſimo
inſegna dover eſſerela definizione più mani feſta , e più conoſciuta affiidella
coſa, che ſi definiſce;per chè diceGiovanniMagiro , famoſo peripatetico ,
eſſere cotal definizione biafimevole', e vizioſa : atque ob eam.cau-. fäm in
nonnullorum reprehenfiones incurrit . Ma. Simplicio nondimeno dice', effer
quella ſommamente artificioſa , e quaſi divina ; ſpiegandoli , emanifeſtandoſi
con eſlå in una certa maniera maravigliofamente la natura del movimen to .
MaCicerone , e Porfirio affermano ', effer quella voce ŁYTENÉXAtjun vago , e
artificioſo ritrovato d'Ariſforele , per uccellar le genti ; e nel vero di
cotal voce ſoven ti fiate ſervisſi Ariſtotele , non ſolamente per ifpiegare il
moviinento , ma l'anima ancora , e quella ſua nuova mtura: anzi ilmedeſimoIddio
( coſe ſenza fillo fra eſfo lo ro aſſai diverfe ) con talnomee' ſcioccamente
chiama. Per chè ben diffe l'avvedutisſimo Ramo : Entelechiæ fue Ariſtoteles
nimium conceſſit nimium indulſit. Ma ſu conceda fiad Ariſtotele così bel
diviſo, ne s'atté ti aſcun di privarlo della ſua endelechia ; e reſti a quellas
comedice motteggevolmente il medeſimo autore , inveſti to in dore il rcametutto
della filoſofia; e che più ? 'perdonili anche a lui ' , che contro le regole
della dialettica con voci equivocoſe , e oſcure le definizioni formar fi
poſſano :'ela vocc iv terémax",prendaſi pure nella definizion del moto
,non già per perfezione acquiſtata , e compita , mache tuttavia fi vadi
acquiſtando , comepar che e' voglia : o per me”di re, per 1 624 Ragionamento
Ottavo 1 re,per la ſtrada p la quale la perfezione s'acquiſti; la qua le ſtrada
certamente anch'ella in qualche modo è perfezio ne ; perchè meritevolmente è da
chiamar con nome di at to della coſa , comechè imperfetto ; la qual li è in
poten za a mandarſi all'atto perfetto , cioè a dir alla forma , in quanto alla
materia la coſa è in potenza,cioè a dire in qua to può ella effettualmente
imprenderla . Or dove eglino ſono , dove conſiſtono quelle tante , e sì ſtrane
maraviglie, millantate da Simplicio? Quid dignum tanto feretbic promiffor hiatu
? Parturient montes , naſcetur ridiculus mus . Apporta Ariſtotele per ifpiegar
maggiormente la coſa , l'eſemplo dei rame, il quale comechè poffa divenire
ſtatua , nondiincno quel movimento , col quale egli poi vienead acquiſtar la
perfezione , e la forma di {tatua, non appartic ne punto al rame , in quanto ,
ch'egli è rame , ina folame te in quanto egli può divenire , o eflere ftatua
xaaxos, dice egli,κίνησίς έσιν ου γαρ το αυτό το χαλκώείναι, και διωάμει τινί
κινητώ, έπει & αυτον ω απλώς , και κατα τον λόγον , ω αν και του χαλκού ,
και ganzes , ÉV TERÉNHO , xívyos, Mache montano alla filoſofia si fatri
ravvolgimentidiyaneparole , echiè per Dio , cheno ravviſi,e non ſappia,
appartener propriamente al muro, che può eſſer bianco , la ſtrada,o'l mezzo di
dover eſſer tale, in quanto cgli eſſer vi poſſa > Chi ciò mai ardà a negare
? Ma dell'atto , e della potenza , non ſolamente ſervir ſi voller Ariſtotele
per iſporre, e ſpiegare la nariua del movimento ; anzi in molte, emolte altre
opportunità egli sì fattamente gli ripete,che ragionevolmente infaſtidito
Bernardino Te. lelio ebbe a dire : Magnos mehercule Ariſtoteles, ut ingenuè
fatetur ipſe , actus potentiave diſtinctioni gratias debet ;cu jus nimirum upe
ex anguftiis quibuſvis evadere nibildefpe rat ; il che parimente venne avviſato
da Antonio Perfio . E nel vero Ariſtotele ſpelle volte ſi ſerve dell'atto , e
della potenza per rattoppare , e rabberciar le ſue Idruſcite does trine; e
certamente quelle duc voci il traggono da’più ma lagevoli ,e intralciati
laberinti della națural filoſofia. Ma ſe finalmente definir mai voleſs
Ariſtotele quel mo vimen DelSig. Lionardo di Capoa. 625 vimento , che chiaman
locale , certamente egli converreba be ricorrere alla general definizione del
moviméto, có giu gnervi d'avantaggio qualche diviſamēto proprio del moto locale
. La qual coſa : ſecondo lui,non ſarebbe molto ma lagevole a fornire ; comeeper
raffermar la ſua ingegnoſif lima definizione del movimento ne fa pruova
nell'altera zione , così definendola : l'alterazione , è atto di quella coſa ,
la quale ſi può alterare , in quanto ch'ella alterar fi puote : αλλοίωσης μεν
γαρ , και του αυλοιωτού ή αλοιωτών , εντελέχω . Adunque così ancora andrebbe,
ſecondo Ariſtotele,nelmo vimento del luogo la definizione : egli è il movimento
del luogo, endelechia , cioè atto della coſa , che ſi può lotal méte muovere,
in quáto ella ſi può localmente muovere; la qual definizione,ſe accóciaméte
ſpiegherebbe la natura del movimento locale , dicalo in mia vece il medeſimo
Ariſto tele , che in trattando del moto locale , a valer non ſe n'ebe be .
Matacer non fi dee certamente quì , che Pier Ramo avviſando non dovere effer il
genere d'una coſa , genere anche delle ſpecie di quella , perciocchè troppo
rimoſſo, e lontano le ſarebbe: preſe agio di gravemente punger Ari ftotele
collarori di lui medeſimo, così dicendo: Hic ende lechia rurſusnon imperfecta
,fed abfoluta exprimitur; &ta mrenfo genus effet motus, non
poſsetefseproximum genus cui libet motusfpeciei. Ma chi poi voleſſe eſaminare,
e riandare le altre definizioni d'Ariſtotele , rinverrebbe veriſſimo sé. za
fallo l'avviſo di Lodovico Vives ; il quale, comechè non fi vegga mai pago di
lodarlo , impertanto ebbe a dire: Ari Stoteles eſt in definiendo vafer ,
occultus adeo, ut pleraquefine idcircò in ejus philofophia incerta , da
perplexa , parum etiam vera ; dum magis curat quem in modum reprehenfionem ex
cludat , quàm ut afserat verum . E perciò funneanche da Attico , eda Temiſtio
alla ſeppia aſſomigliato . Ma tanto e tanto Ariſtotele dell'oſcurezzaſi
compiacque , e così ſo vente in iſcrivendo uſolla , ch’ebbe a dir di lui
ragionevol mente nel vero il P. Elizzaldi : Summa laus Ariſtotelis ob fcuritas
fuit . E quantunque Ammonio s'attenti di ſcuſa re Ariſtotele , dicendo
Ariſtotele eſsere ſtato oſcuro a bel Kkkk lo ſtu 626 Ragionamento Ottavo rezza
, lo ſtudio , non per altro , ſe non ſe per iſpaventar coll'oſcu ed eſcludere
dagliſtudi della filoſofia , e dalla lezio de'ſuoi libri gli huomini d'ottuſo ,
e baſſo intendimento ; il che ſi pare , che'l medeſimo Ariſtotele dir voleſle
in quel la lettera , fe pur fu ſua , e non da' ſuoi ſeguaci finta , ch'e gli
ſcritta l'aveſſe ad Aleſſandro , che da Aulo Gellio venne nella latina lingua
traslatata s'ngoja nixovs libros , quos edi tos quereris , non perinde, ut
arcana abfcondiros,neque editos ſcito effe , neque non editos ; quoniam iis
ſolis , qui nos au diunt , cognobiles erunt ; impertanto sì malamente venne
fatto ad Ariſtotele d'aſcădere la vera cagione del ſuo ſcri yere così
oſcuramente , che fu ravviſata da ognuno in gui ſa , che non poſſon far dimeno
i medeſimi peripatetici ta Jora di non confeſſarla apertamente; e per tacer di
Simplią cio , diTemiſtio , e d'altri molti: l'autor della cenſura de'libri
d'Ariſtotele dopo averlo ſtrabocchevolmente commenda to , alla fine purdice in
facendo parole delle ſue oſcurez ze : Accedebatad hæc ingenium viri te&tum
, & callidums, &metuens reprehenfionis , quod inhibebat eum ne
proferret interdum aperte , quæ fentiret ; inde tam multa per ejus ope ra
obſcura , & ambigua . Ma laſciando ciò ſtare alpreſente, nomeno che nella
definitione,egliſi ſcorge eſſer Ariſtotele infelice nella diviſione del
moto.Vuolegli,comeè detto ,ſei eſſere le ſpezie del moto : cioè generazione,
corruttura,al terazione,accreſcimento ,diminuimiento , e moto locale; ma a
chiunque bene , e ſottilmente la coſa ragguarda , niuna altra forte di
movimento ſi fu avanti nella natura , ſe non ſe locale ; e nel vero tutte le
ſpecie addotteperperAriſtotele, altro non ſono ,ſalvo che movimenti locali ; e
ſi pare ,che'l medeſimo Ariſtotele ciò anche confelli ; concioſliecoſachè dica
egli una volta , che'l moto locale ſia il primo de’moti, eche niuna delle p lui
mézionate ſpezie del moto ſi poſſa no ritrovar " inquemai diſcopagnate
dalmoto locale; ed uną altra fiata apertamente affermi, che il ſolo moto locale
ſia quello , che dir ſidebba propriamente moto . Divide Ari ſtotele
primieramente ilmoto locale in ſemplice, e miſto; ſemplice chiama egli quel
movimento , il quale è ſempre mai Del Sig .Lionardodi Capoa. 027 mai uniforme,e
fimile a ſe medeſimo. Il moto semplice è di due maniere, retto ,e circolare
;cöcioffiecoſache di due mas niere ſiano le grádezze séplicirerte pariméte,e
circolari; la qual ragione ,quáto frivola,quanro yana fazlaſciù a voi a
conſiderare , Il moto çircolare , il quale ſolamentegiuſta il ſuo avvilo, è
perfetto , e regolare ; vuole Ariſtotele eller quello , che fi få intorno
almezzo; ma il retto allo incon tro eſſer quello , che faffi in ſuſo , ed alla
in giù , Mataçé do , che avviſar dovea Ariſtotele que’movimenti , ch'egli
immagina farſi intorno al çētro della terra, non eſſer altra mente circolari '
, ma ellittici , follemente nel yero egli fi da ad intendere avermoto ſemplice
nell'univerſo , che retto non ſia; imperocchè qualunque corpo , cheſi muove
convien certamente , che ſe'n vada ad occupare il luogo a ſe più vicino ;
perchè ſarà mai ſempre ogni ſuo moto ret to , e formerà mai ſempre col muoverſi
linee rette ; laonde i moti obbliqui tutti,cácora que’che circolari ſi
chiamano, altro non ſono, che moltiſſimi, e poço men chę infinitimo vimenti
retri; i quali ad ogn' ora facendo angoli, a formar vengono moltiſlime, e poco
men , che infinite linee rette ; laonde niun moto del mondo farà circolare ;
imperciocchè niun moto, che in giro fi faccia mantener il corpo maiſemi pre
potrà dal centro ugualmente lontano ; il che richiede Ariſtotels nel inoto
circolare . E quinci ſcorgeragevolme. te li puorc , quanto dal ver ſi diparta
ciò che appreſo Ari ftorelc diviſa, poço faggiamente, confondendo i membri
della diviſione , dicendoil moto ſemplice eller di tre ma niere : l'una di
quello , che ſi fa intorno al mezzo , o lia centro : l'altra diquello , che ſi
fa dal mezzo ; e l'altra di quel, che ſi fa almezzo ; ma degna ſenza fallo è
d'aſcol tarſi con grandiſſime riſa la cagion ,che di sì fatta diviſio ne cgli
reca,françamëte affermando tre eſſer i ſemplici mos vimenti ; concioſliecofachè
abbiano i corpi tre dimenſioni, Quinci li coglie eller falſa , e vana del pari
la menzionata diviſione del moto d'Ariſtotele ; enon aver moto veruno
nell'univerſo , che compoſto eſſendo del retto , e del circo Jare, miſto con
Ariſtotele dir veramente ſi poſſa. K k k k Ma a è 2 028 Ragionamenta Ottavo Ma
trapaſſando a quella diviſione del moto , così cele bre ne’libri d'Ariſtotele ,
in naturale , e violento :veramen te in iſpiegare i membri di quella oltremodo
vario , ed in conſtante e ' li moſtra ; perciocchè una fiara dice , il moto
violento eſſer quello ch'altrõde vien comunicato ; il che ſe vero fofſe , vana
ſarebbe la fua diviſione; imperocchè ogni moto , giuſta Ariſtotele , altronde
procede; e un'altra vole ta poi, no badado a ciò che prima avea detto,egli
afferming comechè da altri cagionato effer poffa , trondimeno alcun movimento
eſſer naturale . Vltimamente Ariſtotele vuole , che quel moto djr ſi debba violento
, il quale venga cagio nato da eſterna cagione in un corpo , che il ripugni;
maſe il moto altro veramente egli non è , fe non cambiamento di luogo , e al
corpo non meno è natural queſto , che quell altro luogo : certamente al corpo
niun moto ſarà mai vio lento ; e ogni qualunquemoto , che nell'univerſo ſi
faccia , dovrà dirfi naturale . Ne la terra , o altro corpo dique'che chiamanli
gravi da ſe , comeinſieme col vulgo immagina Ariſtotele gripugna il ſalir in
alto , quantunque ſi paja a noi, che non veggiamo que' corpi , che la ſpingono
giù , e fan ch'ella ripugni il ſalire . Non ſembra finalmente conforme a quel
ſuo famofo detto , ch'ogni coſa , che ſi muove , per alrri ſi muova , la
diviſione,ch’Ariſtotele reca del movime to , in quel , che vien fatto da fe, e
propio chiamato , e in quel, che da altri faſli , e per accidenteè detto . Ma
una cotal diviſione mi fa ſovvenir , come ſconciamente fallò Ariſtotele nel
dire , che'l generante muova ancor quando è lontano ; anzi ancor quando più non
è ; e che le ſue intel ligenze muovano moralmente ; il che ancora di colui
che'l tutto muove empiaméte oſa egli affermare; che tanto egli è nel vero ,
quanto dire, che le intelligenze muovano non movendo le ſpere celeſti dalui
ſognate . Ma dovea Ariſto tele avviſare, chela maniera dell'operare del Sovrano
Mo narca dell’Vniverſo è molto lontana , e differéte da quella, che'l più acuto
umano intendimento poſſa vnquemai im-, maginare ;e comeegli già traſſe dal
nulla le corporee ſoftá ze colla fola volőtà , colla quale potè dar loro il
moro anzi gliele . DelSig. Lionardo diCapoa 629 gliele diede ſenza fargli
puntomeſtier di toccamento veru no ; e che Iddio ancora fa , che gli Angioli
parimentes. comeche inviſibili fpiriti,pofanomuovere, avvegnachè nă tocchino le
corporee ſoftanze ; e laſciando di riferire , che dican di ciò Guglielmo da
Parigi, l’Aureolo , e altrimae Ari in divinità , iquali non fi prendon briga
più che tanto di venir a' particolari : Io vado conghietturando, che: dar
poſſano il moviméto gli Angioli a ' corpi,in quella gui ſa per avventura ,
colla quale fuole l'anima ragionevolea allor che muove il ſuo corpo ; la quale
certamente altro nā fa allorche muove qualche membro , ſalvo che dar altra
determinazione per opera della volontà a que' rapidiffimi movimenti di
que’minutiſſimicorpicciuoli , che continuo dal fangue vengon per l'arterie
a'nervi compartiti. Argo mentali eſser vero ciò dall'oſservare , che ficome
ſcema , o creſce in cotalicorpicciuoli il movimento , così più o me no
all'anima di muovere le mébra del noſtro corpo vié per meſso ; non altriméti
forſe l'Angelo, comechè non ſia lor forma , come è l'anima del corpo ,
muoveicorpi determi nando altrimentii moti de'piccioliſſimi corpicciuoli,ch'en
tro lor fono , o pure que' dell'aria , o dell'etere , che gli penetra ,e gli
circonda; e'n quella guiſa , che'l vento soľ acqua muover logliono le piume, e
le frondi, faccian ancor cglino cambiar luogo a queſto , e a quel corpo ; ed
eſsen do il moto delle particelle , che l'etere compongono , rapi diſſimo:può
l’Angela determinandolo condurre in brevif fimo tempo da un luogo a un'altro
,comechè lontaniffimos icorpi . Ma laſciando queſta curioſa digreſſione a '
facri Teologi, e al noſtro Ariſtotele ritornando , lo dico ,che no men , che
s'aveſse fatto del moto , ſcioccamente falla in di viſando del luogo :
imperocchè egli dice eſsere il luogo quella immaginata ſuperficie delcorpo ,
ove la coſa allo gata ſia ; la quale opinione , comechè egli la toglieſse di
peſo comealcun giudica daPlatone, o da Archita,dal quale tolſe anche quella
fconcia diviſione dell'ente cotanto da Lorenzo della Valle , e da altri deriſa
, pure egli sì disfor mata la ci reca , che nel vero ſembra , che più toſto
egli ab . + bia 630 Ragionamento Ottavo bia ſecondarvoluto l'opinionedelvulgo ,
il quale non fa diſtinguere il vaſo dal luogo: che adombrar i ſentimenti di
que'valent'huomini; e sì ſciocca , c irragionevole parves una sì fatta opinione
a Filopono, per tacer d'altri Peripa tetici, che acerbamente ne ripigliò il
maeſtro ; e nel yero ſe'l luogo , comeragion perſuade , e Ariſtotele medelimo
inſegna , appartiene a qualſifia minima particella del corpo locato , dovrà
ſenza fallo il luogo aver parimente riſpetto a qualunquc minima particella del
corpo locato,e farli da quella ingombrare dimaniera ; che a tutto il corpo
locato corriſponda tutto il luogo , ea qualunque minima particel la del corpo
corriſponda ugual minimaparticella di luogó. Conie potrà mai dunque conſiſtere
la natura delluogo nels la ſuperficie più vicina del corpo contiguo , la quale a
cir condare , e ad abbracciar viene il corpo locato , ed è affat to fuora di
tutte le particelle di eſſo corpo; perchène ſegui rebbe , chemoyendoſi un
corpo, non ſi moverebbono tut te le parti di eſſo , per tacer d'altre ; e
d'altre ſconvenevo lezze a'peripatetici medefimimolto ben conoſciute . Ma per
nulla dir di ciò , che dice Ariſtotele del tempo , il qual ſe la mente noftra
non ſi deſfe brigadi partire, e di numerar il movimento ; in niun modo ſecondo
lui ci ſarebbe : chen ti,per Dio ſono i diviſamenci d'Ariſtotele, dietro allana
tura , e alla propietà del corpo? E laſciando ciò ad altri cô ſiderare ,
accennerò ſolo quanto egli vanamente s'aggiri in yolendo filoſofar , oltre alle
qualità menzionate , della ra rità , e della denfità prime, comedicç'una volta
ditutte ale tre qualità del corpo,Si fa egli follemente a credere , mora ſo da
leggeriſſime ragioni , poter un corpo rarificandoſi in grandire , e ſenza
giunta d'altro corpo ingombrare mag gior luogo , di quel che prima egli
ingombrava, e maggior di fe divenire;e allo incontro poi ſenza eſſer in nulla
ſcema 10 , e ſenza entrar l'une delle ſue particelle entro l'altre,po
tercondéſandoſiingombrar il corpo minore ſpazio di quel, che prima egli
ingombrava, e divenir minore di quel ches prima egliera , Machi potrà mai
ridire, come ſconciamē. te egli poi favelli della luce , come de' colori, come
de? ( 1 pori, DelSig. Lionardo di Capoa 631 pori , come degli odori,
comedell'altre ſenſibili qualità. : Ma non è mio intendimento di volervi quì ad
uno ad uno tutti i fallimenti d'Ariſtotele narrare; che ſe un tal filo pré
delli di ragionare , certamente non ne verrei mai a capo; c nel vero ov'egli
follemente non aggiroffi in filoſofando di que'corpi,ch'egli
chiamaſemplicide’miſti, edelle lor qua lità? E quanto ſpiacevoli in verità ad
udire ſon que’lunghi, e fuor di propoſito diviſamenti, ch'egli fa del Cielo ,
dell'a . nima , e delle ſue operazioni , dell' aere , de' venti , delle piove ,
de'fulmini , dellaneve, del tremuoto , dell'altera zione, dell'accreſcimento, della
diminuzione delmeſcola mento , della generazione, della corruttura, c d'altre
coſe naturali non iſpiegate certamente da lui naturalmente , fi come facea
meſtieri : chenti , ſono le diviſioni , chenti, gli argomenti, in che fu egli
sì infelice , che ne meno eb be ventura di poter le più vere propoſizioni
provare. Ma ſopratutto in Ariſtotele mi par da notare , ch'egli in tutte le ſue
opere ſi ſtudia colla ſua loica d'avviluppar mai ſem pre la verità , e di
crollare , e mandar a terra i buoni, e veri ſentimenti de' più
celebrifiloſofanti; perchè da Santo Am brogio venn'egli chiamato :ftudiofus
impugnāde veritatis ;ç molto avātidi lui per le medeſime ragioni
l'antichiſſimoPa dre Tertulliano avea detto la dialettica d'Ariſtotele:artificē
Aruendi , &deftruendi verfipellem in fcientiis coactam in co jecturis duram
, in argumentis operatoriam contentionum ', moleftam etiam fibi ipfiomnia
tractantem , ne quid omnino tractaverit . Ma non ſo come fuggito mi era dalla
memoria ciò che Io avea determinato di dirvi del bel diviſamento , ch ' Ari
ſtocele fa delmondo . Afferma egli il mondo di neceſſità eſſer perfetto ,
avendo egli larghezza , lunghezza, eſpel ſezza ;dalle quali dimenſioni in fuora
, altra grandezzaw , non v'abbia , dache queſte tre ſole ſon tutte le coſe; e
ove fiano due , allora non diciamo tutti,ma ambodue,& aggiu gnendo a tre ,
allora in prima diciam tutti ; il che effer di sì fatta maniera , la natura il
ci inſegni, ece l'additi: c.chę per tal cagione,ci ſoggiugne cotal numero
uſavali ne'ſacri ficj; nel che Ariſtotele fra tantiaggiramenti avviluppofli ,
non per altro , ſalvo che per iſpiegar alcuni ſencimenti de Pittagorici, da lui
malamente inteſi. Quindi apertamé te appare, quantograndefata ſi dia la
cracotanza di quel miſcredente Arabo Vano immaginator d'ombre, e di fole :
d'Averroe in dico , il quale privo affatto d'intendimento ärdì a dire eſſer
Ariſtotele la norma, el'idea a noi prepoſta dalla naturaper maraviglia di tutti
iſecoli , e per addicar ne l'ultimo sforzo , e l'intero compimento d'ogni umanaj
perfezione: e che egli venne a noi conceduto dall'eterna providenza per noſtro
ajuto ; nelle cuiopere non s'è potu to per lo travalicamento di quindici ſecoli
error alcuno ri trovare ; e in fine ch'a miracolo Natura il fece , e poi ruppe
la ſtampa ; anzi tanto s'avanzò oltre la follia d'Averroe, che diffe , fe ad
Ariftotele folo voler dare intera credenza infra tutti gli altri huomini del
mondo; e ne meno eccettuonne il fantili. mo Profeta Moisè , qualor difle aver
Moisè dette molte coſe , ma niuna provata; al che aggiugner volle, per tacer
d'altro , quell'altra beſtemmia ; che coloro , i quali affer mano Iddio
ritrovarſi per tutto , ſian fanciulli, e che di ſtruggano , e mandino a terra
l'ordine tntto delle cagioni naturali. MacomechèAverroe foſſe di sì ottuſo , e
ballo intendimento : impertanto valſe tanto la ſua autorità appo gli Arabi, che
vennero a gara da tutti abbracciare, e come verità infallibili credute furono
le dottrine d'Ariſtotele ; laõde cõvēnè aʼnoſtri Teologi, p.poter cõvincere i
ſeguaci di Macometto ,quella dottrina,che appo loro era in pregio, ed iſtima
apparare ; e introdurre nelle ſcuole la filoſofia di Ariſtotele , o pure quella
, che ſi contiene ne' libri , che ſi leggon ſotto il ſuo nome; căcioffiecoſachè
dietro a tal con venente gran piari fieno infra gli ſcrittori . E veramente
alcune di quelle non pajono d'Ariſtotele , come p teſtimo niāze di Tullio ,di
Laerzio, di Suida, e d'altri antichi ſcrit tori,e di Mario Nizolio , e di
Frāceſco Patrizi, e d'altri mo derni autori fi può affermare ; nondimeno però
nei , co une que me que', cheveggiamo concordevolmente in tutte quell opere ,
che portano in fronte il nome d'Ariſtotele, da libri neobanuárwv in fuori ,
l'iſteſſo modo di filoſofare : portiai moopinionceſfer tutte d'Ariſtotele, o
pure da qualche ſuo ſcolare ſcritte ſecondo i diviſamenti del maeſtro : Mala
ſciando ciò ſtare al preſente , chiaro da quel che ſi è fin'o ra detto fivede ,
non eſſere conſentimento comune degli huomini in eleggere Ariftotele per
primicro filoſofante ; perciocchè nel lungo travalicamento di cotanti anni,
dopo le prime voci del ſuo nome, forte vanamente infra gli Araa bi per
dappocagine, e ſciempiezza del loro intendimento , gli altri tutti corſero lor
dietro Qualcapra all'altra perſentiero alpeftro : non con fermo , e ragionevole
avviſo, perchè non eſſendo vi elezione d'animo faggio , e avveduto , è da dir
con Bac cone , coitio , non confenfus; e come dice il Ciampoli , copia comune ,
non già opinione comune. E nel vero ponendo in no cale l'originale, ad altro
non badarono le ſcuole, ſe non ſe a far copie continue di quelle ſconce ; e mat
fatte copie del lor primiero maeſtro Ariſtotele : cd a ciò anche fare i
ſemplici,e rozzi ſcolari coſtrignendo ;perchè non ſenza ca gione fu detto dc'
peripatetici da Lorenzo della Valle , il quale veramente fu ilprimo , che
liberò la filoſofia da quel cieco ,e miſero fervaggio,in cui miſerevolmére
giaceva fot topoſta :Pudet referre apud quofdam elle morem initiandi di
fcipulos, &jurejurando adigendi , nunquam ſe Ariſtoteli re pugnaturos :
genus hominum fuperftitiofum , atque vecors , defe ipfo malè meritum ; cum ſe
facultate fraudent indagă då veritatis ; quos fi reprehendere jure optimo
poſſumus, quod hanc ſibi legem impofuerunt , qua tandem infectatione caſti.
gare debemus, fi hanc legem in alios transferunt; ſenzachèno dee giudicarſi
opinion comune in filoſofia quella, che nella fchiera de volgari filoſofi ſoli
, avvegnachè innumerabi le, alligna; ma più dalla qualità degli avveduti
ragguarda tori delle coſe , che dalla copioſa ſembraglia del popolo è da
ſtimare ; perciocchè , come teſtimonia il Romino Ora tore , la filoſofia ,
dipochigiudicatori s'appaga , cabello L111 ftudio ſchifa la moltitudine a lei
ſoſpetta, e odioſa: eft phia lofophia paucis contenta judicibus , multitudinemque
conful ty fugiens, eique ipfi , & fufpe ta , & invifa ; eragionevol
mente in verità ; imperocchè, come ſaggiamente avviſa il Baccone : nihil multis
placet , nifi imaginationem feriat, auf intelleétum vulgarium rationum nodis
adftringat;perchè dir ſoleva Ariſtotele folamente in favellando la parte maggio
re , ma nel giudicar poi la minor parte doverfimai ſempre {eguire . Ma ciò ,
che de' Peripatetici abbiam noi ſin ora diviſato , deſli ſenza fallo anche dire
degli altri parteggian çi; de'quali tutti ebbe a dire quel valent'huomo ,
noneſſer credenza infra’filoſofi così ſtrana, e rimoſſa dalla ragione , che non
abbia ritrovati i ſuoi difenſori. E sì abbondevole fu nel vero la greca
filoſofia di sì fatte ſconce , e inveriſi mili opinioni , che non ſenza cagione
fu detto da Varrone nemo ægrotus quicquamfomniat Tam infandum , quod nonaliquis
dicat philofophus. ma prima potrei col Poetacotar nella diſerta piaggia l'are
nege nel mar turbato l'onde,che gire ad uno ad uno anno verando degli antichi
filoſofi i fallimenti; de quali più forſe ne ſarebbon conoſciuti , ſe a noi
foſſero pervenute tutt'altre opere di coloro , dicui Già lunga notte involve i
nomi, e l'opre. Maavendovi, come di ſopra avviſammo , infra' greci me. dici
alcunivalentiſſimi maeſtri, i quali ſi valſero dell'opi nioni di Zenone , e
d'Epicuro in filoſofando delle coſedel la medicina , nõ farà per avventura fuor
del noſtro propo fito il brievemente accennare i miei ſentimenti intorno al la
ſtoica, ed epicurea filoſofia . E per cominciar dalla ſtoi ca : grande
certamente ſi fu la follia di Zenonedella ſetta ſtoica primo maeſtro , e
fondatore , il quale avendo ben potuto fcorgere quanto ſi foffe oltre avanzato
ſopra tutti i greci filoſofantiDemocrito nella vera ſtrada del filoſofa re ,
volle nondimeno più coſto gir dietro alla traccia di co loro , che apertamente
avean da quella traviato ; e Com ? mechè men vaneggiante affai d'Ariſtotele
Zenon fi mo Atri in iſpiegar le coſe della natura , non però di meno egli Del
Sig.Lionardo di Capoa. 838 egli ancora nelle maggiori ſtrette fuolentrar nel
pecoreci cio , ſenza divifar nulla di ſaldo. Così in ragionando delo la mareria
la delcrive largaméte con termini (tratti e genes rali,come appūto diviſato in
prima n'avea Pittagora, e Pla . tone,e Ariſtotele; della qual coſa
ragionevolmēte ne fu egli force biaſimato da Seſto Empirico;
eavvegnapure,ch'egli cófesſaſſe eſſer vero corpo la materia, e chiamaſſe la
forma nõ cagione , ma parte delle coſe:nondimeno non iſpiegando appreſſo , che
coſa veramente la formalia , e in che conſi ſta la natura del corpo , e come
formar variamente fi poffa, e ne meno ſcendendo poialparticolar delle qualità,
mani feſtando , e dichiarando chente fia la lor natura , ecomes ingenerino : è
da dir, che neile medeſime ſconvenevolezze egli ancorcada, nelle quali già in
prima detto abbiamo eſ. ſer Platone , e Ariſtotele vergognoſamente caduci . Ma
non ſembra vero ciò che Cicerone , e altri fcrittori riferiſcono di Zenone ,
che egli aveſſe per efficiente cagio . ne conoſciuto il ſolo fuoco; imperocchè
egli coinpone le coſe de’quattro volgari elementi; e alle loro qualità attri
buiſce, o tutte , olamaggior parte dell'operazioni natura. li , comech'egli in
ciò poco felicemente s'adoperi, per nốt aver inveſtigato in prima , come
certamente conveniva, la propietà diquelli; e quinci avvien poi;che Zenone di
quel le , che ſeconde qualità chiamanſi, così confuſamente an che favelli,
comeſipuò vedere allor ch'egli dice , eſſer i colori le primediſpoſizioni della
materia . Dice ben egli Zenone , che ſon due i primi principi delle coſe : paſ
ſivo l'uno , cioè la materia , ſoſtanza ſecondo lui priva di qualità : Paltro
attivo , quale ingenera ogni coſa, e vienda lui col nome d'Iddio, e di natura
chiamato; e queſto vuol Zenone , ch'altro non fia , ſe nõ ſe un ſottiliffimo
fuoco do. tato di ragione , e di ſapienza , il quale per tutto diſcorra , il
tutto abbraccj,il tutto penetri ; e che dalle varie , c varie materie in cui
egli ſi trovi,varj,e varj nomi poſcia egli rice va.Ma quanto ciò ſia lõtano
dalla ragione, nofa certamen. te meſtieri, ch' lo duri fatica per darlovi a
divedere . E Lill 2 nel 636 Ragionamento Ottavo nel vero ſe mai Zenone
argomentato ſi foffe d'inveſtigar , comeché rozzamente la natura del fuoco ,non
avrebbe po tutomai concepirnella ſua mente così folle , e pazza opi nione ;
anzi ne men avrebbe egli detto eſſer l'anime noſtre, caldi, e ſottiliſſimi
fpiriti, tratti, come rapporta Seneca : ex illisfempiternis ignibus ,quæſidera
, acflellas vocamus, , veluti ſcintillas quafdam afrorum interris defiliiffe ,
atque alieno loco exiife . Concioffiecofachè il fuoco, il quale al cro non è ſe
non fe un'adunamento di piccioliffimi corpic ciuoli , o sferici, o
piramidali,non pofſa ne ſentire , ne in tendere, ne far niun'altra operazione ,
che l'anima far ſuo. le ; perchè non avrebbe poi anco detto Zenone l'anime ef
fer mortali, e quelle dappoco , e baffe , qualieſſere giudica l'animne degli
ſciocchi , e ignoranti Cbe viſſer fenza fama, e ſenza lodo col corpo infieme
attutarſi , emorire ; e quelle de’dotti fo lamente che , fon più vigoroſe,
dover durare ciaſcuna ſe condo il fuo potere , come fiaccole acceſe in
tenacemate ria fino all'ultimo ſcoſcio del mondo : fi ut fapientibus pla cet ,
dicea Tacito di Zenone , e degli ſtoici , non cam corpo re extinguuntur magnæ
animæ ; il qual luogo chioſando il dottiſſimo Lipfio : nota, dice, magnas
arimas;minutæ igitur, & fatuæ pereunt ,aut non diu manent . La quale
opinione motteggiando l'eloquentiſfimo Romano: Stoici, dice, uſu ram nobis
largiuntar tanquam cornicibus : dia manſuros ajūt animos , ſemper negant. E
quinci follemente temevano gli Stoici ilmorir ſommerfi neĪPacque ; imperocchè
ſtimava no , che l'aniine , come quelle , ch'eran di fuoco,veniſſero cſtinte
dall'acque . Ma cotal crcdenza ella mi ſembra , che molto più antica di Zenone
ſtata fi foſſe ; imperocchè non per altro certamente quel grand'Eroe , d'Aſia
ter rore , e'l fagace Vliſe , e'l fortiffimo Duca Trojano moſtra no aver
cotanto in orrore il morir affogati nell'acque : ingemit Æneas , dice Servio ,
non propter mortem , fed pro ptermortisgenus; grave eft enim fecundum Homerum
perire naufragio , quia anima eft ignea &, extingui videtur in ma ri
contrario elemento.Ma piacevole è nel vero a udire il di via DelSig. Lionardodi
Capoa 037 viſamento's ch'eglifa Zenone , intorno alla generazion del mondo ;
dice egli, che Iddio ſtava primieramente in ſe ſtel ſo raccolto , il che non ſo
lo, come poſſa dirſi mai del fuo € 0 ; e che indi poi la materia tutta in aria
prima, e l'aria ape preffo in acqua cambiafle ; e che ficomenel ventre della
femmina fi contiene il ſeme, così ſteſſe parimente nell'ae : qua una materia
abile a ingenerar tutte le coſe ; e che pri mieramente ingeneraſſe Iddio
diquella materia i quattro elementi , cioè il fuoco , l'acqua, l'aria, e la terra
; e poidi queſti,tuttii corpi miſti formati veniffero . Il fuoco ſecon do
Zenone è caldo , e l'acqua è liquida, l'aria è fredda, e la terra è arida ; ma
l'ordine col quale , c lic ſtelle , e gli altri ragguardevolicorpi
dell'univerſo s’ingeneraſſero; vie ne ſpiegato da Zenone in sì fatta guiſa .
Afferma egli, che nel ſupremo luogo foſſe collocato quelfuoco , il quale per la
gran fua: ſottigliezza vien detto ctere ; e che in lui pri micramente
naſceſfero le ſtelle fiſſe ; indi appreſſo l'ervanti, indi appreſſo l'aria.,
indi appreffo l'acqua ; e ultimamente la terra , la quale ſta in mezzo
collocata; mafolte ben fa rei Io a logorar il tempo nel racconto di queſte , e
altre sì fatte empiezze , che ci vuol dare ad intendere Zenone . Ma non meno
ſtoltamente erra Zenolie in ſecondando i fentimenti d'Omero', togliendo non
ſolo la libertà dell’o perare agli huomini; ına ſottoponendo alla violenza
delFa to il: mcdeſimo Iddio ; perchè cantò Lucano, per tacer Se neca ,
Fileinone , e Manilio : Sive parensrerum , quum primum informia regna ,
Materiamq; rudem flamma cedente recepit Tinxit in æternum caufsas, quæcunéta
coërcent; Se quoque Lege tenens , & fecula jufa ferentem Fatorum immoto
divifit limite mundum . E prima di Lucano , quel greco poeta, così traslatato da
Cicerone : Quod fore paratum eft ,id fummum exfuperat lovem ; perchè dicono non
poter nulla Iddio contro la violenza del Fato ; ne lui medeſimo poter
iftorcere; o piegar l'opere de gli eterni provvedimenti; laonde ſccodo i
ſentimenti di Ze none 638 Ragionamento Ottavo 1 nonediſse Seneca,o qualūquefi
ful'autor di quella tragedia Non illa Deovertiſe, licet Que nexa ſuis currunt
cauſſis . E a ciò ponendo mente Luciano , piacevolmente deriden do,come è fua
usāza, gli Stoici, fa ,che l'orgoglioſo Ciniſco ſeguace di Zenone,tratto da
cotali ſentiměti, temerariamć. te diſpregjGiove , e gli Dii tutti , non temendo
punto del le ſue folgori, ſe dal fato non gli erano deſtinate ; poichè gli
Diitutti, e Giovemedeſimo erano al fato ſoggetti; u che così gli Dii come gli
huomini erano ſervi delleParche; ne potere far coſa del mondogli Dii, per
menoma ,ch'ella ſi foſſe , che dalle Parche non foſſe in prima ordinata , e lun
gamente compoſta . Perchè altro gli Dii non effer, che mi niſtri , e
ſergentidelle Parche , o per mc' dire ſtrumenti di quelle , come la ſcure , e'l
trivello . E con queſte ſtoiche beſtemmie fa ch'egli ſi rida di Giove ; il
quale oleremodo fi vanta di quella famoſa catena delle coſe del modo appreſ ſo
Omero . Il medeſimo Stoico poi giudica appo lo fteſſo Luciano eſſer anzile
Parchemedeſime, che Giove da pre gare , ſe lc Parche per prieghi pur ſi
moveſſero ; poichè al le Parche , e non a Giove l'imperio tutto del mondo , c'1
primo reggimento de' fatiè da attribuire . Mano è da in tralaſciar,ch'avviſando
anche l'aſtutiſlimo Macometto ,per nulla dir di Lutero , e di Calvino , eſſer
corale opinione molto in concio a'ſuoi fatti , preſela , ed inſegnolla nel ſuo
Alcorano , acciocchè preſti maiſempre, e arditi i ſuoi po. poli , ponendo giù
ogni timor della morte, a magnanime,e pericoloſe impreſe prontamente
s’eſponeſſero; perchè a co tal credenza riguardando il Taffo , pole in bocca al
valo roſo Rede'Turchi , Solimano , Giriſ pur Fortuna O buona , orea , com'è
laſsù preſcritto. Ma non meno ſciocca èquell'altra credenza di Zenone intorno a
' peccati, ch'egli follemente vuole, che tutti ſiano uguali, e che ne più , ne
meno falli colui , che ſpogli cru delmente della vita il ſuo propio padre , di
colui , che allor , che ciò far non convenga ammazzi un bruto anima le . E . DeSig
. Lionardo di Capoa 639 te : Equell'altra intorùo al ſuo ſapiente;il
qual'eglivuole , chenon altrimenti, che ſe la filoſofia l'aveſſe dell'umana
natura poſto in bando ,no’l muova amore ,non ira,non odio, non timore , ne
qualúque altra più violéta paſſione . Senti menti in verità , per dirla
coll'Arioſto, Convenientia un huomfatto diſtucco ; ed Io per me non ſo come
s'aveſſe giammai potuto fognar - Zenone una sì fatta novella , ch'un huomopoffa
viver nel mondo libero , e Sciolto da tutte qualitati umane . Manon queſti
ſolamente ſono ,ma altri, e altri i falli che Zenone , e iſuoi Stoici prendono
, alla noſtra fede , ed alla natura ſteſſa ripugnanti; perchè non
pocomimaraviglio , come cotato preſſo alcuno ſiano commendate , e in pregio
tenute quelle memorie,chedi loro rimágono ; e ſpezialmé te l'opere di Seneca ;
imperciocchè non è punto , com 'egli follemente s'avviſano le genti , quell’
aſtuto Stoico , re ligioſo , e dabbene ; concioffiecoſâche , ſe ben fifamente
vi fibadi , in altro non s'argomentiSeneca ne'ſuoi libri, ch'a toglier dal
mondo ogni coſtuma dipietà , e direligione ; comechè faccia ſembiante nelle ſue
dottrine, di'rigorofilli mo Anacoreta , e poco men , che di perfettiſſimo
Criſtia no ; e a prima faccia appaja , qual farſi vedervolle anche il fuo
maeſtro Zenone , Virtutis verd cuſtos , rigidus que ſatelles. Ma ritornando a
Zenone , egliſi parve, che talora Ze. none fi foſſe avvicinato al ſegno in
filofofando delle coſe naturali ; come quando egli per iſpiegar la maniera ,
nella quale faſli la viſta , diſſe l'occhio valerſi della aria teſa , co med'un
baſtoneper conoſcer le coſe viſibili; del quale esé. plo fi valſe poi così a
propofito Renato delle Carte . Com nobbe ancora Zenone , comeche a durar non
viaveffe mols ta fatica ,, effer il ſole più grande della terra. Argomentò al.
tresì egli da' ſuoi effetti non eſser altro il ſole , ſe non le fuoco ; ma da
quelli certamente avviſar non ſi puote , come egli immagina' , eſser quel fuoco
, ond' è forma to il ſole ,ſincero , e puriſſimo. Ma non ha dubbio ,che Zeno
640 Ragionamento Ottavo . Zenone s'ingannò grandemente , immaginando participar
la luna aſsai più dell'altre erranti ſtelle , della natura della terra : per
eſserella più di eſso loro alla terra vicina ; im perciocchè non ha che far con
ciò punto la vicinanza, e nó v'ha ragion alcuna , la quale perſuader ci poſsa ,
che la lu na differiſca púto dagli altri pianeti; e oltre a ciò mal inten dendo
Zenone la ſentenza degli antichi filoſofi , i quali di cevano comunicarfra di
eſso loro inſieme p via di piccio liſſimi corpicciuoli dall'une all'altre
continuo mandati , le ſtelle erranti , e fiſse , e la terra : afferma , che le
ftelle , co me quelle , ch'animaliſono , dal mondodi quaggiù riceva no il loro
alimento ; e venir il ſole nutricato dal mare , la luña dall'acque dolci , e
l'altre Atelle dalla terra ; m2 perta cer d'altri difetti della filoſofia di
Zenone, in ciò ſopra tut to fu egli oltremodo manchevole , checoltivò molto più
di quel , che certamente a natural filofofo fi conveniva , gli ftudi della
Loica , onde conveme, che i ſeguacidilui , for ſe aſsai più di que'priini
peripatetici,nelle inutili fortigliez ze dialettiche intrigati , vennero
ragionevolmente da Ga lieno contenzioſi chiamati; e quinciavvenne, ch'eglino no
poterono gran fatto vantaggiarſi nello ſpecular le coſe della natura ; onde
ebbe a dire il medeſimo Galieno , che gli Stoici nelle inutili coſe erano alsai
eſercitati , ma rozzi poi allo incontro in quelle di momento,e poco eſperti ſi
dimo Atravano . Malaſciando Zenone , trapaſseremo a ragionar d'Epicuro ..
Primieramente per mio avviſo mai fi par certaméte, che convengano ad Epicuro
quelle ſtrabocchevoli lodi , che , da pallionati luoi ſeguaci , c ſpezialmente
da Lucrezio gli vengono attribuite icon dire jufra l'altre millanterie , ch'
Epicuro non huom mortale , ma Iddio ſi foſse;e ch'egli pri ma di tutt'altri
rinveniſse la vera ſapienza ; e chc Epicuro anche fi foſse Quel , che i termini
tolfe al vaſto mondo, Le fiammeggiantimura a terraſparſe, E'l vano immenfo col
penſier traſcorſe. Imperocchè , per tralaſciar ch’Epicuro altro in verità nõ
facer 1 Del Sig. Lionardodi Capoa. 041 faceffe , che traſcrivere le ſentenze di
Democrito : i falli menti del quale non maiegli diſcoverſe, non che rammen
daſſe : anzi ſe mai egli da’ſentiméti di Democrito ſi diparti , incorſe in
graviſfimi falli . E gliporrò opinione Epicuro , che da una infinita , ed
immenſa corporea ſoſtanza , qual ſecondo lui altro non è , ſe non ſe un
radunamento d'infiniti corpicciuoli di varie , ¢ varie grandezze , e figure , e
da uno ſpazio parimente im menfo, qual'egli vuoro d'ogni corpo eſſer crede ,fia
copoſte l'univerfose che fenza regolaméto d'intelligenza veruna, a caſo , ed a
ventura , dalmoto, dall'accozzaméto,e dall'or dinamento , ſolo di
que'corpicciuoline fian nati ,non ſola mente queſto , in cuinoiabitiamo , ma
più , e più mondi , Aggiunſe egli al diritto movimento de corpicciuoli ( che
apparò da Democrito) di ſuo altresi quell'altro moto pie gato,ed obbliquo,
acciocchè dalle varie maniere di quello poteſſero cotante coſe ingenerarſene :
e cocal movimento torto , eglidiffe naſcer dalla chinacura de' corpicciuoli ,
quali movendo per diritto , ed in altri corpiceiuoli incop pando ,
neceflariamente doveſſero in iftrigando piegarlize non men dell'altre coſe del
mondo empiamente eſtimò Epicuro eſſer compoſte le noſtre anime , come dice Lu
crezio Corporibus parvis, do levibus,atq; ratundis . Ma fe noi riguardiamo ,
non ſolaméte alla diverſità del le coſe del mondo , ma anche alla lor
vaghezzase perfezio ne, e come nulla non vi ſtia a bada , ma all'acconcio fine
venga mai ſempre convenevolmente dirizzata : non può in niun modo da ciaſcun
comprenderli , come a riſchio , per caſo , ſenza ſottiliffima macaria di gran
maeſtro debba effer formata ; e per non trarre argomenti dalle ſtelle , dad
ſole, dall'huomo e da altre ,e altre opere maggiori d'Iddio , mi contenterò
ſolo di far parole di alcuni piccioli animales ti , come ſono le moíche , le
zanzare , le formiche , l'Api, gli Acari , c altei afſai cotanto menomi, e
ſottili, ch’appe col microſcopio , tanto quanto , cavviſar li poſſono ; e pu re
fono in loro da ammirar, ſomipamente quelle picciolilli M in m in me par 642
Ragionamento Ottavo 1 me particelle , così ben compoſto , e formate , come
nella notomia degli huomini medeſimi, e d'altri animali più grā di fi veggono .
Sono que'corpicciuoli anch'eglino forniti de’lor membri; ne mancan lornella
teſta i piccioliſſimi oc chiolini, e negli occhi le palpebre, e le tuniche, e
tutto ciò, ch’ad occhio ben compoſto per rimirar fi conviene ; e nel capo è
anche loro il cervello , le glandole , le membrane ', ei ſottiliſſiminerbolini
; da' quali il poco ſugo nutritivo al rimanente del corpicciuolo ti dirama, e
comparte . E che dirò lo dello ſtomaco , delcuore , e d'altri fomiglianti me bricelli
? che dell'offa , e delle vene , e dell'arterie , e del facco latteo , e
de'vaſi acquoſi, e di cotante altre menomif fime particelle , chente , e quali
a ben fornito corpo ſi ri chieggiono ? e che delle loro piccioliſſime anime, le
quali anch'elle nel reggimento tutto del corpo dimorano , e ri fvegliano i
ſentimenti, e fá chc muovano i membriceili alle fue opazioni:e céto, emillaltri
maraviglioſi effetti in quel lo adoperano ?Ma ſopra tutto è da por menteal loro
indu ftrioro ingegno ; e per non dire al preſente dell'api, è da maravigliar
ſommamente dell'induſtre , e faticoſa formica, Che'l vitto onde fi pafca
alfreddo verno Ripon la ſtate , ebenchè lunge ancora Sian difagion moleſta i
giorni algenti, Neghittofa non ceffa ,e non s'allenta La negra turba ,, anzi ſe
freſsa avvezza Ne le fatiche , e per gli adufti campi Fervel'opra nonmen , che
l'ore,e'lgiorno , Fin ch’abbia ne fuoi ſpecchiil gran ripoſto . E avendo forſe
quella per pruova appreſo effer la ſementa , onde poſcia germoglian le piáte,
no altro, che le piáteme de lime dentro della buccia raccolte , e riſtrette ,
per ceſſar l'aſprezza del verno : come apertamente col microſcopio noiveggiamo
: avvedutamente per non farle ſorgere a più piacevol ftagione Ela con l'unghie
propie , incide, eſega I carifratti, e inumiditi al ſole Gli aſciuga, e ſecca ,
el bel tempo fereno Spias DelSig.Lionardo di Capoa. 643 Spiando già prevede i
lieti giorni. Talche quand'ella i grani a'raggi eſpone Pioggia nonſtilla da
lofcure nubi, Ediſerenità l'indicio è certo . Quinci ripor ne le ſuecelle
anguſte L'aſciutta meffe , e poi la ſerba , e parte Cuſtode , e diſpenziera.
E’ntenta a l'opre E nonfol mentre ilſoleaccende icampi, Ma le fatiche
ſuenotturne ancora Dal Ciel rimira la rotonda luna: E quelle più ſerene , e
calde nutti Tolte al dolce ripoſo , al queto ſonno Aggiugneal travagliar
continuo, e lungo . Ne è da traſandare ciò che delle formiche oervò Clea te .
Vide egli un giorno alquáte formichetrar dal lor for micajo il cadavero d'una
formica , e portarlo a un'altro vi cin formicajo ; e quivi giunte uſcirne;come
chiamate,alerc formiche , e andar loro incontro , e accontarſi quaſi ragio
nando di lor bifogne ; e indi a poco ritornarſene quelle ch? erano uſcite nella
lor buca, e di nuovo quindiriuſcire ,e ri trovar le foreſtiere ,come rientrate
foffero nella buca a re car l'imbaſciata di quelle alle lor compagne ; è
conſiglia teſi del cadavere della lor compagna foſfer poi ritornate a
patteggiarne la riſcoſſa : e ciò due , o tre fiate facendo , alla fine dopo
cotante aggirare , quaſi eſſendo di convegna de loro piaci, andaronoalla buca ,
e fi recarono loro un verme per taglia della morta fórmica, il qual prendendoli
quelle di fuora , e laſciando il patteggiato cadavere , n'andar via ; ed elle
raddoſsãdoſi il cadavere ritornarono nella lor tana, quaſi per dover quello
ſotterrare . Néminormaraviglia è ciò che Io un giorno fattomi per diporto ad
una fineſtra di mia cafi oſſervai. Era in quella una formica , la qual
ripoſtali in guato , non altrimenti , chei'ragnuoli ſi faccia no , preſe per lo
piede unamoſca , la qual forte dibatten dofi , e ſcooendoſi, indarno di fuggir
slargomentava ; ma pur la piccioliſſima formica non potendo portarſela, o uc
ciderlai, ſtrettamente fiffa la riteneva, fiache giuntavi a ca Mmmm 2 ſo un '
644 Ragionamento Ottavo :: ſo un'altra formica partiffi.di preſente , e ricornò
con alire formiche a condurli a forza la prcda dentro dal lor formi cajo . Ma
perchène G faccia maggiorméte manifeſto ,qua to ſtolta fia ', cd'irragionevole
la menzionata opinione d'E picuro ,e quanto fia grave l'ingiuria , che per
quella vien fatta all'autore dellanatura, egli ne fameâiere,che alqua to più di
ciò, che per avventura abbiſognerebbe in diſami narla c'intertegniamo. Dico
adunque , che una ſoſtanza fia quella , onde cotanti aſpetti , e sì diverſe
ſembianze di coſe n'appajono in queſto gran Teatro dell'univerſo , eſle re egli
ſtato parere , in cui non pur Democrico ed Epicu ro:mailmedeſimo Ariſtotele (
il qual più ,.chalari fa ve duta diportarne contrariaopinione,dicomun conſentimé
to convengono . E tanto par che coſtui voleſse dire colà : nell'ottavo libro
della metafiſica : ove feriſse eſsere una , medefima coſa l'ultima materia , e
laforma; e fimilmente non eſser differenci nelfubbietto la materiais e la
privazio . ne( del chc.a torto altrove egliavevaripigliato Platone ) e che ſolo
l'incelletto fra:cſso lor le diſtinguaje nel ſecondo della fiſica ; ſcrivendo ,
che la forma non maipoſsa dalla , materia fceverarfi , ſe non ſe in mente
noftra ,ficome a niū modo può fepararſi la ſchiacciatura dal naſo ;:e nel ſecon
do dell'anima: ove avvifa vano eſsere l'inveſtigar, ſe l'ani ma ſia altra cofa
dakcorpo diverſa ;ſicome non è da elami. nare , fe la figura , che imprende la
cera, fia da quella di itinaa . E finalıncnte il medeſimo par che confermis
quan do ſpeſso ſpeſso va affermando , la forma eſser quiddità della coſa; che a
ſua favella vuol dire la formaeſser perfe zione dellamateria,la qualiove capace
diperfezione,mām. deria s'appella :ovegià perfetta conſideriſi,forma:fi-dice.
Ne altriméti in verità creder poteva: chiin Dio, nelibertà, ne cnnipotenza
riconoſceva;ondepotuto aveſse dal niente criando le forme ( le quali
ſe-veramente altro foſser , che ka materia , folla creationepotrebbe dar loro
Peſsere, che che in contrario nedicano i peripatetici ) e afuo talento la
materia informarne. -Mache queſta ſoſtanza , di cui ragioniamo,altro,non ſia
che : Del Sig.Liarcardo do Capoa 45 che corpo inminutisme particelle di
grandezza , difigura; di fito , di moto , e d'ordine diverſe ,sbriciolaco', e
diviſo, fuinſegnamêto che da Fenicjappreſero i primi Greci filor fofanti
scomechè Democrico , più ch'altri, in primachia ramente diviſato l'aveſse .
Maqueſta ſentenza medefima ne fa vedere eſserci ne ceſsario un'infinita
onnipotenza , e ſapienza valevole a dir ſporre , e ordinare in tante guiſe , e
comunicare ivarſ mo vimenti alla già dettämateria . E ciò ben conobbe da pri ma
, per quel ch’lo ſappia , il fapientiflimo Greco Filolo . fante Talete Milefio
; e confeſsollo manifeftamente , di cendo appreſso Cicerone: Aquam efse initium
rerum :Derim autem eam mentem , quæ ex aqua cuneta fingerei . E da lui
l'appreſero poi Ippone, e Ippia ,.e cotant'altri antichi filo fofi , i quali
tutti concordevolmente giudicarono eſserci unamentc,o una fapienza infinitajlaqualpartédo
,e fceve rando queſta maſsa comune , e ordinandola, c movendola, doveſse
cambiarla in cotante guiſe , quali noiveggiamo.E cotalmente vollè anche il
grande Anafsagora , che dalla materia lua ſimilare , comedicono g.componcise
ciaſcunai coſa del mondo : comcchè a torto poinefoſse egliprover biato , e
biaſimato oltremodo da Ariſtotele , cola ove diſ ſe , ch’Anaſsagora d'un sè
fatto ritrovato ſi foſse voluto: ſcioccamente ſervire , per dar ragione
dell'apparenze nas turali : non altrimenti , che ſervir fi fogliono i tragici
Poc tidelle loro machine piſciorre i nodi più inviluppati del le favole ;
edelimedeſimo ſentimento di Talete furonoan che Platone , o Timeo'; ed è da
credere pure , che dal fon datore dell'Italiana filoſofia, Pittagora , e
damolt’altri fa * mofi , .e ſaggj filoſofanti ſtata foſse in prima inſegnata .
Ma però tutti i sì fatti filoſofanti ad un tratto ſtrabocchevol mente fallarono
in negando oftinatamente eſser cotal fox ftanza uſcita dalle mani onnipotenti
dell'Eterno Fattore, dicendo eſser quella ſempremaiſtata ererna . E forſe non
guari illoro errore fu avāzato da quel d'Epicuro ,o di De mocrito ;i quali ciò
checoloro alla mente operatrice afcrifo ſero , attribuirono al caſo ;
imperocchè la divina , ed eter 1 li e ne be 12 2 na on 646 Ragionamento Ottavo
1 na onnipotenza eltimarono deboliífimo artefice cheſol yao leſſe della già
eliftéte materia varie machinazioni formar ne ; e così attribuendole il poco :
ilmolto , anzi il tutto negaronle , com'è il poter criare dal niente ; perchè
dicono follemente, che'l ſovrano Facitore in fabbricando il mon do , tutta la
materia nell'opera conſumaſſe ; e quinci avve niſſe poi , che un ſolo e'ne
formafle . Ma ritornando ad Epicuro : non ci dee rucar maraviglia, s'egli sì
ſconciarné te dell'onnipotenzadel grande Iddio favellaffe ; imperoc chè egli
nonmeno ſciocco , che empio , immagino Iddio eſſer un'animale di ſembiante
umano , come quello , ch'è più bello di tutt'altri;ma nondimeno ſtimò noneſſer
Iddio corpo altrimenti , ina quafi corpo : ne aver Iddio ſangue , maquaſiſangue
: Dice Epicuro ,oltre a ciò , che gli Dii ſian vaghi , adorni, e riſplendenti,
e che le membra fieno umane; ma chenon abbian però uficio niuno ; e che l'al
bergo degli Diilia in quello ſpazio , che vuoto rimane in fra que’tanti , e
tantimondi per luifognati. Toglie affat to Epicuro empiainente poi la giuſtizia
,e la provedenza di vina; e afferma, che Iddio non cura punto di Noi, Nec bene
pro meritis capitur,nec tangitur.ira; i ! e riinettendo Epicuro il tutto nelle mani
della volubile , ei cieca fortuna ,con iſcioccaggine , e ſcempiezza eſtrema le
attribuiſce De la terra , e del Ciel lo ſcettro,e'l regno. Ma'laſciando di più
diviſar di queſte , e d'altre fimili em piczze d'Epicuro , ad ogn’un conoſciute
: Io non ſo per me. come difender mai fi poſſa di’kuoi ſeguaci ciò che Epicuro
dice de'ſuoi atoini, chenon poffin dividerſi'; imperocchè , quantunqué
menomiſfimi; oltre adogni umana credenzali concepiſcano , ben potranno
dividerſi da uno , o da più ato mi, ch'a guiſa di piramide acuti, meno di loro
piccioli fia no ; ne fa punto luogo il dire , che non avendo nell'atomo vuoto
alcuno , 110'l poſſan penetrare altri atomi, ne fender lo , ne dividerlo in
parti;concioſliecofachè:ben potrà quell atomo, chefendere , e partire ilvoglia
, con replicati colpi a poco a poco penetrarlo , e dividerlo , ma ſi può creder
1 1 1 1 imper DelSig.Lionardo di Capoa . 647 inipertanto , che ſia queſta una
quiſtione vana , e che o no mai ; o rariſſime fiate avvenir poffa , che
un'atomo per al tro ſi fenda , e ſi divida ; concioſſiecoſachè quantunque li
tenti di fare la diviſione di qualche atomo, che in corpo faldo ſi trovi, non
potendo'effer maiqueiľatomoaffatto có gli altri atomi avviticchiato , e
congiunto , ſicome a chiun quedirittamente ragguarda la cofa , egli è manifeſto
: gli riuſcirà aſſai più agevole in ricevendo i colpi cedere , e diſ giugnerſi
dagli altri atomi compagni , a fe vicini, che'l romperhi .S'argomenta eſſer
vero ciò che lo immagino ,dal vedere , che alcuni corpi faldiſfimi ſi ritrovano
, i quali per qualunque forza , che l'arte , o la natura viadoperi, non ſi
pofſon giammai in altri cambiare; il che altronde certamé te naſcer eglinon
puote, fe no ſe dall'eſſer que’corpicciuo li tutti, che gli compongono nella
figura , e'nella grandez Za non guari diſſimili infra effo loro , e dal non
venir que gli mai rotti , e in particelle diviſi . Ma non mi par , che lo
clebba logorar il tempo in rifiutar l'opinione del Vacuod Epicuro, apertamente
perognuno ifcorgendofi falfa ; co mechè valentiſſimi filoſofi cerchino pure
farla apparer vera ; poichè per tacer altri imbratti, concedendoſi ilva.
cuo,converrebbe , cheli toccaſſero , e non fi toccaſſero l'u nos e Paltro di
que'corpi,infra’quali fi fingeffe inframmeſ fo il vuoto . Oltre a queſto , fe
infiniti gli atomiſono , ſe condo Epicuro : faran ſenza fallo ripieni di corpi
tutti gli fpazj ;ne vi avrà ſpazio vuoto alcuno nell'univerſo ; in cui, comechè
iinmenfo egli il faccia : Io non veggio lo , come infiniti corpi , e ſpazio
vuoto infinito immaginar mai poteſ fe Epicuro . Ma non in ciò ſolamente fallar
ſi vede Epicuro : maal tri , e altri errori ancor egli commettc;infra i quali
mi par certamente degno oltremodo da ridere quel, ch'egli,non già per aver
troppo creduto a’ſeñfi , come Cartefio crede , maperfuafo da troppo fievoli
argomenti, afferma,poter ef ſere il ſole o tanto , o poco più , o poco meno
grande di quel , ch'a noi ſi faccia vedere; ne men certamente rideyo le ſi è
ciò , che Epicuro immagina della figura della terra , del -0 vo 1 i 648
Ragionamento Ottavo - del naſcimento , e aell'occaſo dellole , della luna, e
dell'al tre erranti , e fiſſe ſtelle:: degli Idoli, o ſian ſimulacri, che ci
s'appreſentan, ſecondo egli penſa , allorche noi veggia mo , e immaginiamo, le
coſe ;matroppo.tedioſo diverrei, s'ogni fallimento d'Epicuro voleffi lo quì
riferire : maſſi mamentequei , ne qualierrò egli inſiemecon gli altri filo
fofanti della Grecia; perchè ragionevolmente forſe dir di tutti fi potrebbe ciò
che d’Ariftotele , e di Platone dicea S. Giuſtino, con quelle parole : ſe
l'invenzione della veri sà , come d'accordo ciaſcua vuole , è ilfine della
filoſofia , Io non lo come coſtoro , i quali nonebber niuna-contezza della
verità, fi debban veramente chiamarfiloſofi.E ragio nevolmente ancora S. Clemente
d'Aleſſandria afferma che la greca filoſofia , a riſchio , e per ventura , come
alcuni vogliono , ſuole rinvenir la verità; e ſe pur talvolta la ritro
va:allora pur la prende lievemente , e alla sfuggita ,ſenza troppo
minutamenteconſiderarla ; e come altri poicredo no , crae ella ſua origine dal
Diavolo ; edopo altri biafimi, conchiude egli alla fine , efſer tutti rubaidi,e
huomini ſcel leratiſſimi coloro , i quali appo i Grecicol nome di filoſo fanti
ſi chiamavano . Ma certamente troppo a lungo , e più diquel ,che al fi 1o del
noſtro ragionamento forſe conveniva ſon traſcorſo a favellar dell'antiche
filoſofie ;ma non ſi dee impertanto pe rò inutile , e ſoverchio ciò reputare;
poichè un de' più ma lagevoli,e de'meno forſe conoſciuti impedimenti,ch’abbia
arreſtato il corſo della filoſofia , Ga ſtato quello dell'averſe fatto a
credere gli huomini, chei greci filoſofiaveſſero fco perto , e compreſo tutto
ciò , chenel vaſtiſlimo reame del la natura ſcoprire, ecomprender li yola per
intendimento umano ; ne per aloro certa.nente , che per una tal folle cre denza
egli è avvenuto,che quel tempo,checertaméte ſpé dercucco di dovea in inveſtigar
con eſperienze, e con ragio ni le coſe naturali , fi fia vanamente ſpeſoin
andar cercan do quali ſiano ſtati iveri ſentimenci, o di queſto ,o di quel to
zuore ; perchè dicea il Signor di Montagna: car les opin mions des bommes font
, recevesà la fuitte des creances an cien Del Sig. Lionardo di Capoa 649 outil
ciennes , par authoritè , &à credit, commeſi c'eſtoit religion Lloy.On
reçoit comme unjargon ce qui eneſtcommunement tenu :on reçoit cette veritè ,
avec tout for baſtiment , de ato telage d'arguments, odepreuves , comme un
corps ferme ; ſolide , qu'on n'esbranle plus , qu'on ne juge plus . Au
contraire, chacun à qui mieuxmieux , va plaſtrani , &con fortant cette
creance receuë , de tout ce que peut fa raiſon in qui eft un útilſoupple,
contournable, & accommodableà tous te figure. Ainf je remplit le monde ,
feconfit enfadeze ; den menfogne . Ce qui faict qu'on ne doubte de guere des
choſes, c'eſt que les comunes impreſſions onne les efl ayeja mais, on n ' en fondepoint
lepied , où gitlafaute, älafois bleſſe : on ne debat, que ſur les branches :
onne demande pas fi cela eſt vray , mais s'il a eſte cinſin ou ainfin entendu E
quinci derivar anche ſuole quella gran malagevolez za avviſata da Galieno , la
quale ſi ſperimenta da chiun que vuoi ritrarre i ciechi parteggianti dal torto
loro , e fal hace camino; e nel vero cotanto danno apportar fogliono le falſe
apprefe opinioni, che eziandio a coloro, che mene daci han ſcoverti , e
ravviſati gli autori di quelle,non per mettontalora , che fiyantaggin nella
buona filoſofia s co me apertamente ſcorger ſi puote in Pier Ramo , ed in al
tri molti si quali, quantunque aveſsero ben conoſciute le ſconvenevolezze della
filoſofia d'Ariſtotele , non poterono alla buona ſtrada giammai pervenire : ne
in cotonjuno for trarſi dalla maniera del filoſofare d'Ariſtotele;ę ciò perche,
çome avviſa Renato: opinionibus ejus jam imbuti fuerant in juventute, quia ea
fola infcholis docentur; adeoq; illis præoc cupatusfuit ipforum animus , ut ad
verorum principiorumid Hotitiam pervenire non potuerint . Anzi Ariſtotele
medeſimo , leggendo i volumidegli an tichi filoſofi , concepctie alcuno di
que'ſentimenti onde , inavvedutamente poi traſcorſe in cotanti crrori. Così
logo gendo egli in Ocello Lucano il melc cffer dolcc ,perché ca gioni in noi
ſentimenti di dolcezza , tratto anch'egli dall' altrui errore , !! c a ciò
punto badando, non dubitò di fer mamcareil medelino narrare , giudicando la
dolcezza,co Nnnn me rute 1 650 Ragionamento Ottavo me tutt'altre qualità
veramente nelle coſe , e non ne’ſenti menti confiftere . Che fe egliaveffe:
avvilato , il medeſimo cibo ſenza punto dimutamento ad un palato, dolce ,e foa
ve : a un'altro poi amaro , e diſpiacevole parere , come la colloquintida
amariſſima a noi,dolce oltremodo a’topi, e ſoave li fa ſentire : certamente
egli non così improvviſo avrebbe raffermata cofa non vera; e avrebbepur
dubitato, non forſe ne' cibi foſſer corali particelle , dital forma , e così
ordinate , e moſſe ,, che in diverſi palati, or di dol cezza , or d'amarezza
faceſſer ſeinbiante . Enella medeli, ma maniera cento, e mille altre
ſciocchiſſime opinionid'A. riſtotele potrei lo quì rapportare , le quali
appreſe egli da. gli antichi filoſofanti . Ne ciò è maraviglia ; perciocchè p
iſtudio , e fatica , che vi ſi logori' , non ſi poſſono così affac to
sbarbicare dalla mentei già allignati ſentimenti,e ban deggiargli affatto che
non ritornino talvolta, quando men ſi temano . Cosi avvien appunto ad una botte
, o altro va ſo guaſto putente di vin ravvolto', o -inagrito , la quale av
vegnachè forte fi’rada , eſilavi: non però dimeno non ſi puòella cotanto per
diligenza purgare', che non ne prenda anche il nuovo vin',che vi ſi pone, e
dibreve anch'egli non dia la volta , concioſliecoſachè quantunque bennetto , e
forbito fipaja ilvalo', pur ne'ſuoi pori minutiſſime particel te ancora ſi
naſcondono , le quali ſpiccatene da quelle del nuovo vino , o altro ſomigliante
liquore , che vi ſi pone , trameſtandofi loro , agevolmente vi nuotano per
entro , per opera della fermentazione poi creſcono",intanto , che infra
brieve ſpazio di tempo tutto il corrompono . Così avvenir ſuole nell'anima,la
quale priva , e ſpogliata affat to delle antiche notizic,da ſe medeliina in
filoſofído nuo ve notizie proccuri in luogo dell'antiche introdurre ; eri porre
; poichè le nuove ſpezialmente , ſea ciò ſpinte ſono da quelmovimento ,
chenello ſpeculare neceſſariamente ſi fa , eccitano , per qualche ſomiglianza ,
che è tra loro , alcuna dell'antiche, che a caſo rimaſta , ma celata viftia;
dalla quale poi sēzamolta malagevolezza infecte elle ne riman gono . Eco Del
Sig.Lionardodi Capoa : 651 E comechè ciò baſtantemente , per quel ch'Io micredaj
a ciaſcun lia manifeſto , pur d'avantaggio ne può eſſer chiar ro per ciò , che
nella memoria artificiale fortir ne ſuole Sogliono coloro , che all'arte
,veramente maraviglioſa del ricordarſi ſtudioſamente intédono,d'alcuniſpeziali
luoghi valerſi quali ſiá loro sépre ſenza fatica niuna nella memo ria, come
uſati, e domeſticiaffai , e oltre a ciò ſiano in qualche guiſa ſomiglianti, o
uguali alle coſe che ſi voglio no ricordare ; acciocchè quando poi fia
meſtieri, nel fuo proprio luogociaſcuna coſa appiccata, dipreſente rinven gano
; e le coſe già alla memoria preſenti,loro facciano ve nire avanti le lontane.
Delche certamente ne fa manifeſta pruovà ciò che ſovente noi ſperimentiamo; che
in ragio nando d'arca , o di forziere , che in noſtra caſa ſia , ne fov viene
tolto di libro, o di veſtimento ,o d'altra coſa ripoſtavi; eda divifamenti de
palagj,o delle terre , ſubito ne ſi rap preſentan coloro, ch’ividimorano, o che
da prima gli fab bricarono , o che un tempo ancor vi ſono dimorati: Cosi anche
un'amico né fa rimcmbrar d'altro amico: e anche de nimici di ciaſcuno , io
nominandolo ne ſovviene . Perchè al noſtro amorofo M.Franceſco Petrarca , il
ſolomovimé. to dell'aura , dolcemente faceva venire avanti madonna Laura ,
eltempo ch'e' da primamirandola ſe n'innamoro: L'aura ferens , che fra verdi
fronde Mormorando a ferir nel volto viemme Fammiriſouvenirquard'amor diemme Le
prime piaghe sì dolci je profonde; E'l bel viſo veder , ch'altri m'aſconde, Che
ſdeguo, o geloſia celato temme. Ma veggio , e per avventura con qualchevoftra
noja eſ . fermi troppo dilungato in ragionando, e affai più certamë te di quel,
cheaveva lo già propoſto di fare; non per tan to prima d'imporre a’miei
ragionamenti fine , mi convienu tirar la coſa un poco più avanti. Dico adunque
, che non giová punto ,cheſieno ben inteſi gli fcolariin filoſofia » in chimica
, in medicina , e in tutte altre coſe, che diſopra diviſammo al medico far
meltieri, ſe finiti i loro ſtudi egli Nnnn : 2 no per 052 Ragionamento Ottavo
ao per convenevole ſpazio di tempo non ufino qualche ſpedale, con por mente ivi
alle malattie , e alle maniere , che vengon tenute nel medicarle; e qual pro ,e
qual danno ricevan daʼmedicamentiglinfermi; ed egli è coſa nel vero queſta così
rilevante , che non ſi dovrebbe certamente co ventar mai fcolare , il quale con
fedi autentiche , e con te ſtimonj non provaſſe aver lui in ciò fare tutta la
ſua indu ftria, e diligenza adoperata. Sidovrebbe oltre a ciò prima di
conventarlo ftrettaméte eſaminar lo ſcolare per limae ftri delle ſcuole , a ciò
deſtinati, in tutte le coſe all'arte ap partenenti, e ſpezialmente nella
chimica ; la qual cotanto dicemmo effer a' medici neceſſaria , e di tanto
riſchio a co loro , chepienamente non la poſſeggono; e a ciò certamen te con
ogni rigore , ligati con facramenti , econ pene do vrebbono intendere
imaeſtri,oltrea queſto de coſtumian cora dello fcolare converrebbe , che
minutamente fi ricer caſſe , acciò per ogni capo s'eleggeſſero medici, quali
gli abbiam noi giuſta ogninoſtra pofſa al prefente diviſati; e sì forfe per
innanzi cefferebbono, quanto l'incertezza di co tal meſtiere comporta , i
fallimenti de'medici: e'l co mune in qualche parte ſe ne riſtorerebbe ; ne da
altro cer tamente naſce , ſe non fe dal non uſarhi queſte diligenze
nell'accademie, allor che vi ficonventáno gli ſcolari , che così fortemente
vengano elleno talora biaſimate :approba jiones,dice il Primeroſio , fapienterà
majoribus inftitutæ,ele gantes ſunt quidem , & neceffaria , fed deberent
diligentius obſervari . At jam omnia negliguntur , nam quibuslibet guantumvis
ſeiolis gradus exbibetur doctoratus unde ft, utex quibuſdam Academiisredeant
ductores parum da fti , nihil minus , quam apti ad medicinam , aut docendam ,
aut faciendam . Ne perciò giudico lo convenevole , come alcuni vogliono , che i
medici giovani, ſpezialmente que', che in Salerno furono conventati , fian di
nuovo daeſami nare ; imperciocchè baſtar dee quell'eſaminazione , allas quale
eſli foggiacquero prima d'eſser conventati , accioc chè fenz'altra pruova tare
del lor ſapere poſsano per innan zi liberamente medicare . Nealoriinenti volle
il Re Rug gieci Normanno , ove per legge comandò non poterſi il peri Del Sig.
Lionardo di Capoa 653 pericoloſo meſtier della medicina uſare ſenza ſpezial
lice za de' regjminiſtri a ciò deſtinati ; e l'Imperador Federi go pur
v'aggiunfo , chei medici del ragguirdevol Colle gio diSalerno doveſſero effer
teſtiinong, che colui , che aw medicare inprenda, da tanto ſia ; perciocchè
parlando de gli Impirici , folamente i conventati manifeſtamente ne ri
ferbarono ; ne vollono eſſere da eſaminar coloro , a’quali la cura d'efaninare
altrui era per lor commeſſa. Così An drea d'Iſernia ſpiegando que’capitoli dice
delle bollettes delle licenze : Doctor medicinæ practicabitfine literis , quia
fuitexaminatus , quando fuit doctoratus , &approbatus; for cut ibi diximus
de Advocatis.. E Matteo degli Afflitti. pa. rimente dice efferſi ciò mai fempre
oſſervato , che iconvé tati di Napoli, o di Salerno fenz'altra bolletta , per
tutto il noſtro Regno , poſlan liberamente andarmedicando :ne altrimenti effer
mai avvenuto : eft fciendum ,dice l’Afflitti, quod à tanto tempore , in cujus
contrarium memoria hominio non-exiſtit,nunquam fuit fervatum , quod magiftri
medicine approbati in Collegio medicorum Salerni, vel Neapolis ha beat quarere
literas Officialium Regis, vellicentiam à Rege , vel vicerege medieandi in
Regno. Perchè ſarebbe molto ſco cio il mādarſi ciò avanti ; e larebbe
certamente un togliere l'autorità a'noftri Collegj di più conventar perſona in
me dicina ; cioè a dire , di dar licenza di liberamente me dicare ; ſenzachè
non ſapreiIo certamente , quali medici farebbon da eſaminare ; perciocchè
egualmente i giovani , ei vecchi, anzi maggiormente nel vero i vecchj ne han
data cagione di farne richiedere a parlamento . Ma come potrebbon le ſecrete
eſaminazioni a buó fine giammai riu . fcire , fe per averle conoſciute ſcempie
', e manchevoli , i Principi, e le Comunità ne’loro reggimenti han,, per mio
avviſo le pubbliche eſaminazioniinſtituite . Sogliono re carſi per eſemplo
coloro , che queſta novella eſaminazione de’mediciintrodur vogliono , i legiſti
; i quali da non mol to tempo in qua ſogliono eſſer eſaminati, quantunque co
ventati :maben dovrebbono avvertire , che gli Avvocati non mai vollono
ſoggiacere atale eſaminamento : eleggen ; do an 654 Ragionamento Ottavo doanzi
d'abbadonare il meſtiere, quátūquel'eſaminazione aveſse a farſi da'ſupremi
miniſtri, e in alfai orrevol maniera; e fol rimaſe,che coloro ragionevolméte
nel vero vi foggia ceffero , a'quali , o alcun governo , o altro onore s’aggiu
gneſſc. Ne mégiudico Io ragionevole quel diviſo di dover eſa minarſi almeno i
noſtri medici in Chiinica ; da che la Chi mica cotanto neceſſaria alla medicina
eſfer narramıno;per ciocchè da cotali eſaminazioni grandi ſconcj certamen te al
noſtro comun ne feguirebbono , per molte , e mol te cagioni , le quali lo
taccio al preſente per eſſer ciò ba ftantemente, a ciaſcun manifeſto ; ſenzachè
i vecchj anco ra , anzi con maggior ragione , che i giovani , farebbon da eſaminare
; richiedendoſi.comunemente a ciaſcun medico la chimica , ed eſsendo aſſai
meglio i giovani , che i vecchi medici inteſi di quella. Ma de’volgari impirici
farebbe da prendere, ſe pur si potesse, strettiſſima cura, acciocchè per
lordappocaggine al cun nocimento al noſtro comune non ſiegua ; e comechè
intorno a coſtoro baſtantemente di ſopra la detto , pure fi dee por mente a ciò
ch'avviſa Galieno , allor ch'eglidice, che il curar qualunque, avvegnachè
leggeriſſimomale, d' altri non ſia , ſe non ſe ſolamente di coloro, i quali di
tutta la medicina pienamente fian inteſi; concioſliecorachè uns male foglia
ſovente con altro male eſſer congiunto ; e ſo glian talora , o per.cagion delle
medicine, o peraltro sì fat to accidente ſopragiugnere : cheda colui , ch'un
ſol medi camento ſappia , non ſi poſſa dar compenſo. Oltre a que fto , nel
conoſcerſi delle malattie , aſai ſovente glimpirici s'ingannano: togliendo in
cambio ſcioccamente una per al tra , e contrarj rimed, talora imponiendo ;
nella qual mala ventura , comedicemmo, cadono talora , anche i più ſcie ziati
medici per la dubbiezzade'ſegnali. Perchè ſarebbe certamente il migliore victar
a coteſti volgari Empirici il medicare;e miglior séza fallo ſarebbe ſtato il
provvedime to del Senato di Parigi, fe del tutto aveſſe agli Empirici il
medicar proibito , e non permeſſo loro il farlo lol coll'ap prova Del
Sig.Lionardo di Capoa 051 poter mc provagione,e licenza de’dotti medici;ed ebbe
il torto di la gnarſi di loro Anneo Roberto dicendo , che all’onta di tut te le
proibizioni eglino il capo alzaſſero ; imperciocchè no mai aſſolutaméte allo
incotro furon: proibiti,ſë ſotto condi. zion ſi permiſero,perchè
daʼmedicijnõoſtante il gran male , ch'ei fanno di leggieri ottengono la licenza
del dicarc. Ma tacer non fi dec ciò, che degl'impirici racconta Giacomo Silvio :
in montepeſſulano's clarifima, & antia quiſſima medicinæ academia , fi quis
borum nebulonum feme: dicummentiatur , mox raptus in afinumftrigofum , fiin
venitur fcabidum , ſublimistollitur , averfus, urbe tota cir.
cumducitur,Scommatisundique incefitur , conſpuitur,pulfa; tur, laceratur, fordibusomnis
generis conſpurcatur; ceu olim Sacra illa mafilienfium vittima :poftremo
expiata urbe ejici tur , illuc nunquam rediturus, niſi malo ſuomaximo. Magià baſtantemente
ſecondo noſtra possa avendo de medici ragionato, trapaſſeremo a diviſare al
preſente de gli Speziali ,i quali debbon lavorare i medicamenti; maffia mamente
chimici ; il quale fu il ſecondo capo , onde mofle il noſtro ragionamento.
Veggiam dunque brevemente , quali coſe, e quante abbiſognino a colui che voglia
van taggiarſi in sìnobilmeſtiere . Immagina il volgo, che age volitima faccenda
fia a ſaper fabbricare imedicaméti; per chè in man di perſone di poco ſapere ,
edipoca licva ado perar ſi rimira . Mio quanto di lungo certamente coſtoro
ingannati ci vivono! imperciocchè atal meſtier richiedonſi poco men , che tutte
altre códizioni,ch'a coloro ſon d'huo po ) che il rimanente tutto della
medicina apparar bene, e lodevolmente intendono; e ciò ſenza , che lo troppa
fati ca vi duri, agevolmente ſi può comprendere per coloro che alle biſogne
tutte d'una cotalarte fiſamente riguardano. Ma concioſliecolachè i guaſti, e
biaſimevoli coſtumi del ſe colo ciò non comportino ' , dovrebbe almen chi
deſidera una tanta impreſa leguire,oltre alla ſua natura, e a'genero fi, c
lodevolicoſtumi,eſſer mezzanamente, per tacer dell' Araba , almeno della latina
, c della greca lingua inteſo , per dover poi intendere i varj, e diverſi
ſcrittori, che nell' una, e nell'altra lingua materie a ciò appartenenti deſcri
vono. Appresso egliè dimeſtieri aver continuo tra le ma ni pronta , e
apparecchiata la conoſcenza , non folamente di que’vegetabili,o minerali, o
animali, che maneggiar fo vente coſtuma , ma di quelli ancora , che nelle ſtrane,
enon ordinarie compoſizioni de’medicamenti gli poteſſero tale ra dal medico
venirimpofte . Dovrebbe oltre a ciò eſler pienamente informato degli ſtrumenti
tutti, e ordigni dell' arte, e delle convenenze, e proporzioni ancora , che
alcu ni di quelli han co’ſemplici , de' quali egli nel ſuo lavorio ſervir li
dee . Ma ſopra tutto convien , che la propietà , e la natura del fuoco egli
perfettamente ſappia ; acciocchè poi comprender appieno ,e ravviſar poſſa
quelle alterazio ni , che indi le medicinali compoſizioni ricever fogliano ;
alla qual coſa certamente aggiugner non potrà colui, che non prenderà per guida,
e per iſcorta la Chimica ; ſenza la quale Io non veggio , come bene , e
lodevolmente per huố li poſſa un sì malagevole meſticre adoperare ; ſenzachè
migliore aſſai, e di maggior giovamento all'uman genere farebbe , ficome
altrove abbiam detro, ſe da ſoli medici i medicamenti li lavoraffero ;
perciocchè, quanto a me , lo non ſo a niyn modo comprendere , comemai
perfettamen te fabbricargli colui poſsa , il qual non abbia in prima le manicre
tutte del loro operare con gli occhj propi piena mente conoſciure. Perchè
dovrebbono finalmente gli ſpe ziali , oltre alle ſopradetre coſe , avere in
prima tanto qua to ſtudiato in medicina , ed in qualche ſpedale co ' pro pj
occhj all' operazioni de’medicamenti riguardato . E ſcorgendofi omai in tutte
botteghe di ſpeziali aver non poca quantità di chimici medicamenti, non ſi
dovrà più avanti dubitare, convenir lo ſpeziale almen per queſto ca po eſser
della Chimiea baftevolmente inteſo , e ſperto , In quanto alle Chimiche
medicine poi, comcchè per noi fia ſtato di ſopra baſtantemente raffermato , che
il fabbri. carle propiamente appartenga a medici; non però di meno da
cheimedici, o non vogliono per lor tracoranza , o non fanno , o non poſsono
invilupparvili,lo aſsai ben giudiche ici , Del Sig. Lionardodi Capoa. 057 rei ,
ch' a' ſoli speziali, e a tali , quali noi diviſamino ſe ne commetteſse
ſtrettamente la cura ; ne altra privata perſoni s'inframmetteſse di lavorarne
alcuna ; male compoſizioni de'più pericoloſi, e rilevanti medicamenti, o da
medici lo li, come dicemmo lavorar ſi dovrebbero , o almen dagli ſpeziali in
preſenza de'medici . Ne è da dir con alcuni, po terſi alle ſconvenevolezze
tutte ripararare colla ſola eſa minazione, che delle medicine chimiche fi'
faceſse allor che ſiviſitano , come dir ſi ſuole , le ſpezierie ; concioffie
coſachè vana ſenza dubbio , e inutile cotal eſaminazione riuſcircbhe: per non
poterſi mai , per ſogno niuno, lorvir tù , e lor forza baſtantemente avviſare .
Echi mai ne' bof foli delle botteghe , la bontà, e finezza del mercurio di vi
ta, dell'antimonio diaforetico, delbelzoardico minerale , e d'altri , e d'altri
sì fatti medicamenti d'odore , e di ſapore affatto privi,per pruova de’ſentimenti
avviſar mai ſapreb be , e l'eccellenza , e la perfezione ridirne, ſenza eſsey
irl prima cgli ſtato preſente al lor lavorio E tanto queſta ma iagevolezza
dell'indovinare i chimici medicamenti anche per li macſtri di quelli è grande ,
che cziandio de'più me nomi,e comunalinon ſi può nulla di certo fovétemente di
viſare; ſicome que'ſali, che fiffi diconſi ci danno apertamen te a divedere ;
imperocchè i fali fiſi , per nulla dire del fa pore , che in tutti il medeſinio
appare ,ne alle varie manie re , chcin criſtallizandofi, per valermi d'una
parola dell' arte , ſoglion figurarſi: ne a' varj colori ,de'quali veſtono il
precipitato colcotare , ne ad altro ſegnale può niuno macſtro , comęchè ſperto
, e ſaggio in chimica, certamente ravviſare, e ſicuramente de terminare di qual
pianta , di qual animale ſieno ; conciofficcofachè parecchj ſali di diverliſt
me piante fra eſſo loro ,prender ſogliano in criſtallizandoſi la medeſima
figura , e del color medeſimo veſtir anche ſo gliano il colcotare ; ma onde ciò
avvegna , non fa iuogo ora , che lo imprenda ad inveſtigare , eſſendo oltre
traſcor ſo tanto co’miei ragionamenti, che mi convien riſerbare , più d'una
coſa al nostro proposito appartenente, ad altra, Oooo più agiata opportunità ;
la quale ſe miverrà mai, come pero, diviferonne forſe pienamente, e di
vantaggio in uno ſpezial libro , il quale lo ora ſto intero a comporre. Alcesto Cilleneo (arcade). Lionardo di Capoa. Leonardo di
Capua. Keywords: Aristotele, filosofia, ragione debole, La Crusca,
comunicazione, platone. Incertezza, investigare, gl’investigante, vestigia
lustrat. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capua” – The Swimming-Pool Library.
Carabellese (Molfetta).
Filosofo. Grice: “I love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and the
sand,’ which reminds me of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic on
the sand and rocks, which I’m sure were common in Ostia, too, back in the day!
Carabellese speaks of a ‘semiotic scandal’ so it all connects with my
pragmatics of dialectics or conversation.” Studia a Napoli e Roma. Insegna a
Palermo e a Roma.A partire da una critica ferrata alla dottrina cartesiana (Le
obbiezioni al cartesianesimo; il metodo, l’idea, la dualita; Il circolo vizioso
in Cartesio) porta a compimento studi critici su diversi autori, tra i quali
spiccano Kant e Rosmini. Elabora la
dottrina dell'ontologismo critico, in cui l'essere non è mero oggetto della
coscienza ma è a essa intrinseco come fondamento irriducibile, cioè
essere-di-coscienza, che in ultima istanza altri non è che Dio (che, come già
asseriva Vico, "è" e non "esiste"). Difese l'oggettività essenziale dell'essere e
la filosofia, non come sapere specialistico trincerato, ma come operatrice per
l'umanità tutta così che la coscienza filosofica esplica quella teoria che nel
diversificarsi concreto della spiritualità risulta necessariamente implicita. E
allora lo sforzo della filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto
seppure la teoria si attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del
concreto. Insomma Carabellese difese la filosofia come ascesa
teoretico-razionale a realtà teologiche, o come sentiero che volge al
fondamento comune della vita politica e che alla politica rimane irriducibile. Altre
opere: Critica del concreto; Il problema della filosofia da Kant a Fichte; Il
problema teologico come filosofia; L'idealismo italiano; L'idea politica
d'Italia; Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico.
L'essere e la manifestazione. L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme.
L'essere. Filosofo della coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La
sabbia e la roccia: l'ontologia critica di Pantaleo Carabellese. Il problema
dell'io in Carabellese. Metafisica in Pantaleo Carabellese. Kant e Carabellese.
Dizionario Biografico degli Italiani. Autolimitazione
della metafisica critica? Momenti della recezione italiana di Fichte con
particolare riferimento all'ontologismo critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento
della vera scoperta di Kant , ed era all ' origine della moderna ... intesa
come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che
il Semerari chiama « lo scandalo ...seDalla filosofia intesa come « scoperta »
deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama
“lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo , a
prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo linguistico , " in G.
Semerari , La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty , Sens et non - sens , Paris
, Nagel , 1948 ; It . trans . by P. Caruso , Senso e non senso , Milan , Il
Saggiatore.
La ontologia di Carabellese, così, si prospetta come
una ontologia della coscienza assiologica e semantica, ossia come una critica
antinaturalistica e antipsiscologistica dei valori e dei significati
dell’essere»42. L’importanza del lavoro filosofico carabellesiano, secondo
Semerari, consiste nell’esigenza radicale di lavorare alle radici del
linguaggio filosofico, di andare al di là della storia già fatta, come scrive
Semerari citando Carabellese43, scendendo sino ai suoi presupposti: ciò
significa portandosi al grado zero della parola per reinventare il linguaggio
filosofico e le connessioni che in esso si sono stabilite lungo la sua storia,
a partire dalla cosa stessa, ossia dall’essere in cui la coscienza è già
implicata. Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo non si può trascurare la
convergenza con la ontologia critica di quella parte della filosofia
linguistica contemporanea per la quale, al limite tra fenomenologia,
esistenzialismo e analitica, porre la questione del linguaggio è portarsi al
grado zero della parola, al silenzio come radice di ogni possibilità
linguistica, fare giudice della critica del linguaggio, com’è stato
suggestivamente detto, la ‘coscienza silenziosa’. singolari di Coscienza si
costituiscono come soggetti pensanti in comunicazione tra loro. L’alterità dell’altro io
presuppone l’identità dell’io che lo esperisce come altro. Reciprocamente la
coscienza della propria identità egologica richiede il rapporto di alterità
come intrinseco all’essere stesso dell’io. L’alterità sempre afferma chi dice
io, il quale ciò dicendo, anche trascendentalmente si distingue, senza per
questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce di fronte a sé [...].
Con questo chi egli afferma una relazione reciproca con la quale attua l’egoità.
Soggettività ed egoità pura sono sempre pura alterità»19. L’alterità di ciascun
io è, come scrive Carabellese, «l’insondabile residuo di meità intraducibile in
esperienza dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità
ha nell’esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non
pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento
dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità»42. Alterità e
non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la compattezza non la
relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività molteplice. La relazione
è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente, implica necessariamente
l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea il Carabellese. Diversamente l’io
assoluto fichtiano, dilaga nella coscienza, identificandosi con essa, riducendo
l’oggettività a negazione; ma resta così l’io nella sua solitudine e, senza
l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io fichtiano, nell’interpretazione
del Carabellese, elimina gli altri io dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in
tal modo perde la meità, approdando all’Unico, che egli vede come una nuova
forma di eleatismo8. Il Carabellese sottolinea che se non è da percorrere
l’identificazione dell’io con la coscienza, tuttavia questo non conduce alla
cancellazione della meità; invece, pensare l’immediata appartenenza del me
all’essere di coscienza, non assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri.
Non l’annullamento del me costituisce la base per la relazione responsabile in
sede etica (Lévinas), ma proprio partendo dal me, per il Carabellese si giunge
agli altri come altri “di” me, esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli
altri “da” me. Il me esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori
di cui parla il Carabellese, in primo luogo non si identifica con il corpo, in
quanto quest’ultimo trova il suo limite nell’altro corpo e, più in generale
nell’altra cosa: «Io, come innegabile esigenza di coscienza non sono, o se
volete, non sono affatto corpo. pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono
uno esistente, e il mio corpo, che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può
trovar altra) nel limite, che il mio corpo trova negli altri corpi, e che io
non trovo, se non voglio cadere nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» Carabellese
rifiuta l’ipotesi materialistica, perché se l’io si identificasse con il corpo
non potrebbe affermare nemmeno la propria corporeità, ossia che il corpo è suo.
Nella concezione materialistica l’io si identifica con il corpo che diventa la
radice dell’opposizione con gli altri. Se si realizzasse questa identificazione
in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli
altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si porrebbe
contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione spiritualistica che
intende l’io come spirito finito, ha come esito la riduzione dell’io a corpo,
perché sostenere la limitatezza dello spirito implica sottoporlo al limite,
come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte ha evitato la riduzione
dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità identificando l’io con la
coscienza. Infatti nell’io empirico il me è sostanzialmente ridotto a corpo, a
non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se stesso. In Hegel, poi, ogni residuo
di meità è tolta nel Soggetto assoluto. L’io perciò è spirito infinito, ma da
questo non deriva per il Carabellese che venga eliminata la distinzione dell’io
dal tu nella coscienza, ossia che vengano tolti gli altri, con il rischio di
tornare a Fichte. Per il filosofo italiano «togliere il limite è affermare gli
altri», non annullarli; infatti, per giungere alla negazione dell’altro, o
degli altri, «bisogna prima ammettere – osserva il Carabellese – che gli altri,
in quanto tali, escludano l’uno di tale essere, e che l’uno esclude gli altri;
bisogna cioè cominciare proprio con l’opporre ad uno gli altri dall’uno,
ritenendoli diversi ed opposti a questo e cioè col presupporre che uno (io) sia
la coscienza, e gli altri no, e perciò siano non io, non coscienza. Cioè
bisogna cominciare col presupporre la empirica limitazione dei corpi, la quale
appunto, nella identificazione di me col corpo mio, fa ritenere me, col mio
corpo, coscienza e gli altri, che col loro corpo limitano il corpo mio, non
coscienza»11. Già ne Il problema teologico come filosofia il Carabellese
afferma, polemizzando con Fichte, che la molteplicità soggettiva non è
semplicemente empirica, ma pura, condizione trascendentale della “concretezza”;
la singolarità non è solitudine, ma relazione reciproca nel pensare, sentire,
agire l’Universale/Dio. L’io esistente, singolare, è uno, e come tale è
ciascuno, essenzialmente altro. «Il singolare è quell’uno, di cui si sa
l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno, unusquisque. Uno che non sia
ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente: «Io sono altro: solo così
“sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io, per il Carabellese non è
esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una identificazione
con l’oggetto realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema il Carabellese
sostiene l’“identità” dei soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze
la determinazione dell’omogeneità, senza però indicare come possano
differenziarsi i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio dell’annullamento
dell’alterità, pur se non voluto, è evidente; infatti per spiegare il darsi
della molteplicità soggettiva egli parla di alterazione, come moltiplicazione
infinita riferendola però non all’uno, al soggetto, ma all’Unico, ossia
all’essenza divina, al che. Tuttavia, se la moltiplicazionealterazione è
riferita dal Carabellese all’Unico, non all’uno: allora l’altro, è un altro
uno, ossia un altro soggetto, oppure un impossibile altro Unico? Ed essendo
l’Unico non soggettivo, come possono derivarne i soggetti? In realtà possiamo
muovere anche al Carabellese l’osservazione di involgersi in una sorta di
circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è la qualità infinita di cui
l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione, nello stesso tempo a Dio, in
quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti. L’uno di cui parla
il Carabellese è l’io che immediatamente si intuisce singolare, e che
altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia ciascuno, non è
uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di ricondurre e ridurre la
meità ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità e
l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per il
Carabellese invece proprio il recupero dell’altro consente la realizzazione di
sé. Ma, se si andasse più profondo in questo amor di me spirituale, che è, o
dovrebbe essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe,
si vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una positività a questa negazione
del “non tu”, se non voglio divenire un puro e semplice “non” devo considerare
me come uno tale che possa e debba riversare l’amor di me uno in altro uno, che
è uno come me, cioè devo riconoscere l’unità, che sono io, nell’alterità.
L’amor mio proprio, che non voglia essere soltanto amor del mio corpo, è
proprio amor dell’altro. L’amor proprio spirituale non mi costringe alla
assolutezza (unicità e incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla sua
alterità: l’amore è sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo»15.
La struttura dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in
altri. termini, l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura
coscienziale a dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di
ciascuno si afferma e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli
altri: «Io facendo dagli altri riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come
altro, non tolgo ma affermo la mia originalità»16. Per il Carabellese l’amor di
sé ha insita l’esigenza della relazione con l’altro; solamente chi concepisce
l’io come l’Unico chiuso in se stesso, privo di meità e di relazione, il solo,
parla di offesa dell’amor proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico
non è più nemmeno soggetto. Tuttavia i problemi restano: la relazione con
l’altro identico rischia di essere più un narcisistico rispecchiamento, che una
vera relazione, più una sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi
che il faticoso cammino del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza,
per cui sono infinitamente penetrativi e interi nella loro relazione,
l’identità è già data immediatamente: ma allora non si comprendono gli
erramenti, le lotte e gli scontri a livello empirico. L’altro per il Carabellese
è un altro me, non la negazione del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide
platonico e all’opposizione che Platone pone tra uno e altri. Per il
Carabellese, sulla base dell’essere di coscienza, tale opposizione non si dà;
alla domanda del Socrate platonico su quel che siano gli altri, quando io sia,
si può rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma altri uno, sono perciò
altri “me”. Il Carabellese individua la causa della “cacciata” degli altri
dalla coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta con
l’io: per tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri è
individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità”
pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né oggetto.
L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se nell’essenziale
relazione, di cui parla il Carabellese è apriori, non si identifica con il
singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e
limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e
illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra
il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra
“miglior coscienza” e “coscienza empirica”, per utilizzare in chiave euristica
espressioni del giovane Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della
coscienza, non facendo ancora riferimento alla volontà come principio
metafisico. Però proprio il pensare, da lui inteso in senso ampio come intendere,
sentire e volere che si esplicano nell’attività spirituale umana, esige il
livello della purezza coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza, per il
Carabellese l’assolutizzazione della. Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina
dell’idea, antologia a cura di E. Mirri, Armando, Roma. dimensione
spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe all’annullamento dell’attività
spirituale umana. Il Carabellese non intende semplicemente opporre la propria
concezione a quella fichtiana, ma intende condurne all’estremo le conseguenze,
ipotizzando una sorta di esperimento mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse
assoluto e si arrogasse il diritto di sopprimere il tu, riducendolo soltanto a
sua esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io, ma solo in quanto avrebbe soppresso
il tu e quindi anche l’esperienza, che egli ne ha: non ci sarebbero più i tu,
che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto io empirici: gli altri non
sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu (altri) ci sarei ancora io
(uno)?»18. In realtà, per il Carabellese c’è un'unica soluzione, che esclude la
fine tragica della disputa: «Non c’è dunque altra via d’uscita da esso, se non
quella che io non mi contenti di ricambiare la tuità, ma gli ricambi proprio la
meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un altro io, e perciò
mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce, gli contesto il
diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così egli sopprime se
stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come Io»19.
Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita, costituisce
l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o moltiplicazione, con
tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il possibile l’esito fichtiano.
Secondo il Carabellese si può dire che «sono l’identico io proprio perché siamo
due»: se fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo ad esperienza,
sarebbe eliminato anche quel consentire in cui consiste la stessa esperienza.
Non solo l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma in generale il
pensare, che è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21 l’Universale, Dio.
Quel cum non è un'aggiunta irrilevante, in quanto la dimensione
intersoggettiva, comunitaria, è essenziale a tutte le forma dell’attività
spirituale umana. «Ci sarà – afferma il Carabellese –, anzi c’è senza dubbio,
quella empirica alterità, nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un
insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa
intraducibilità, che è il limite che la meità ha nella esperienza, non prova
che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il
contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura
come schietta egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te,
persone viventi, non è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno
singolare; io, alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è
immesso nell’altro uno, Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in Pantaleo
Carabellese. Cfr. in proposito P. Carabellese, La coscienza. immissione, senza
della quale è assurdo non solo l’innegabile consentimento ma anche la
divergenza di noi nell’alterità nostra; consentimento, e divergenza, per i
quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti soggetti dell’Unico, che è
immanente a noi molti»22. La differenza fra le egoità si dà solo a livello
empirico, a livello trascendentale e metafisico i soggetti sono identici,
interi23 e, nello stesso tempo infinitamente penetrativi24. Pantaleo
Carbellese. Keywords: lo scandalo del significato, io/tu, Husserl,
intersoggetivita, razionalita strategica, razionalita comunicativa, complessita
intensionale, il significato, i significati, l’insieme, la comunita, il noi. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” – The Swimming-Pool Library.
Caracciolo (San Pietro di
Morubio). Filosofo. Grice: “I like Caracciolo – at Harvard, I joked on Schlipp,
and stated that Heidegger was then the greatest (grossest, in German) living
philosopher – as he then was, living --. Caracciolo has dedicated his life to
translate Heidegger’s ‘Dutch’ mannerism into the ‘volgare’: and now I have
concluded that Heidegger is perhaps the grossest dead philosopher – “in cammino
verso il linguaggio: il dire originario” –“.
Grice: “Note that Caracciolo’s ‘cammino’ translates Heidegger’s ‘weg’ –
my ‘way’ of words – but for Heidegger is ‘way to’ (weg zur) – as it should!”
cf. Speranza, “in cammino verso la conversazione” – versus “il cammino della
convresazione’ –“ Grice: “Note that in Italian, unlike German, you drop the
otiose ‘the’ of ‘way – “Nel cammino” is o-kay, but “in cammino” is the choice
by Caracciolo!” – cf. Aligheri, ‘nel cammino’ OF his life, towards heaven, or
paradise, that is.” Studia a Verona e Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con
il quale collaborò alla stesura dei Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno
dei più noti martiri della Resistenza e a lui Caracciolo dedica un saggio,
“Teresio Olivelli: biografia di un martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi,
Brescia, e Genova. La sua filosofia si sviluppa inizialmente all'interno della
tradizione crociana, ma poi acquisisce tratti più originali a contatto con
Jaspers, Löwith e Heidegger. In cammino verso il Linguaggio. Di particolare
interesse e importanza sono i suoi studi sul nichilismo a partire da Leopardi e
sulla dimensione religiosa dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure
mostrato una forte attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra
pensiero e musica. Altre opere: “L'estetica di Benedetto Croce nel suo
svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica e la religione di Croce (Arona);
Estetica (Brescia); Etica e trascendenza, Brescia); Arte e pensiero nelle loro
istanze metafisiche. I problemi della "Critica del giudizio",
Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona e il tempo, Arona; Saggi
filosofici, Genova); Studi jaspersiani, Milano); La religione come struttura e
come modo autonomo della coscienza, Milano); Arte e linguaggio, Milano); Religione
ed eticità, Napoli); Löwith, Napoli); Nichilismo, Napoli); Nichilismo ed etica,
Genova); Studi heideggeriani, Genova); Nulla religioso e imperativo
dell'eterno, Genova); Politica e autobiografia, Brescia); Leopardi e il
nichilismo, Milano); La virtù e il corso del mondo (Alessandria); L'assolutezza
del Cristianesimo e la storia delle religioni, Napoli); Filosofia della
religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania. Lo spirito della religione
antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza. Lo spazio della
trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo. Sentieri
del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino
verso il linguaggio. F.-W. von Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die
Sprache im Gedicht. Il linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg
Trakls Gedicht. Aus einem Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und
einem Fragenden. Das Wesen der Sprache. L’essenza del linguaggio. Das Wort. La
parola. Il verbo. Der Weg zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Essere e
tempo. La riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον λόγον ἔχον. Ermeneutica e
metodo storico-ermeneutico. Il ‘non’ come fondamento. Più in alto della realtà
sta la possibilità. La Kehre. L’essere: un problema che rimane problema.
Poesia. L'arte come messa in opera della verità. Hӧlderlin. Il tempo della
povertà. Il pensiero come Kehre. In cammino verso il silenzio. La differenza e
il fondamento. In cammino verso il linguaggio: il dire originario. In cammino
verso il linguaggio: il suono del silenzio. “Heidegger is the greatest
living philosopher”. Martin Heidegger In
cammino verso il linguaggio Curatore: A. Caracciolo Mursia Editore 2014 Pagine:
222 13 maggio 2015 Nel 1959 Heidegger scrisse In cammino verso il linguaggio.
Ci sono alcune cose interessanti e volevo proporvele questa sera. Innanzi tutto
l’esordio in cui è molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo parla, noi parliamo
nella veglia e nel sonno, parliamo sempre anche quando non proferiamo parola ma
ascoltiamo o leggiamo soltanto perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo ma
ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in un modo o nell’altro parliamo
ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non
nasce da un particolare atto di volontà, si dice che l’uomo è per natura
parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza della pianta e
dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo non si intende
affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità anche quella
del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo
quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla,
è la lezione di Wilhelm Von Humboldt, resta però da riflettere che cosa
significhi “l’Uomo”. Ora considera una poesia di Carl Kraus: Quando la neve
cade alla finestra a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è
pronta, la casa è tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta
per oscuri sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa
della terra, silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la
soglia, là risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita
piena di grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo”
colui che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che
cosa “chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che
“chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove
ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è
l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già detta,
in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce in ciò
che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di Lacan e
di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò che è
stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che grazie ad
esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e troppo spesso,
ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il passato del parlare.
// Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama” la prima strofa?
Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel senso di farsi
presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di cui parla
Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il
luogo 2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza
serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel
nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra
breve il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è
l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della
neve” (qui cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che
si oscura inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li
porta come mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali
alla terra, le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso
di sé cielo e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e
i divini” costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose
trattengono presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e
trattenere consiste l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e
terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi
lo chiamiamo “il mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro
essenza, queste nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel
mondo esse stanno e in questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro
durata, le cose in quanto sono e operano come tali portano a compimento il
mondo. Nel tedesco antico “portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i
termini “gebären” “generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la
loro essenza le cose sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse
generano il mondo. La prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro
di venire, tal dire chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo
stesso sospinge verso le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano,
per questo la prima strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama
i molti che come mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose
condizionano i mortali ciò a questo punto significa: le cose visitano di volta
in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla
nell’atto che dice alle cose di venire, la seconda strofa parla in modo diverso
dalla prima eccetera … qual è la questione qui? Importante perché ci sta dicendo
che c’è il mondo che è fatto di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”, il
mondo è ciò per cui le cose sono quelle che sono, adesso ve la dico in modo
molto più semplice e capirete subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è
l’Essere. In questa posizione sta dicendo che senza il mondo cioè senza
l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è preciso qui quando dice “la caduta
della neve” per esempio nel verso “porta gli uomini sotto il cielo che si
oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della campana della sera li porta
come mortali di fronte al divino” cioè queste parole costruiscono la scena
entro la quale la “cosa” può apparire, come se fosse, adesso preciseremo
meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di significante, adesso sto un po’
stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il significato, senza significante
non c’è significato e viceversa, il significato cioè ciò che questa “cosa”,
questa parola produce, se lui nomina il “suonare della campana” è chiaro che
questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca il divino, evoca la
religione, evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo una, ma potrebbero
essere sterminate ed è all’interno di questo che l’ente compare, Intervento:
come se le cose potessero apparire solo in questa scena che è il “mondo”…
Esattamente, però senza gli enti il mondo non c’è … Intervento: il mondo è la
totalità degli enti? Sì, esattamente, poi: Come il chiamare che nomina la cose
chiama presso e rimanda lontano, così il dire che nomina il “mondo” è invito a
questo a farsi vicino e al tempo stesso lontano. Cosa vuole dire che “chiama
presso e rimanda lontano” questo “chiamare”? le chiama le cose parlando, io
chiamo le cose quindi è come se me le avvicinassi ma mentre avvicino queste
cose, queste cose si allontanano anche, si allontanano perché di cosa sono
fatte? Intervento: c’è sempre quell’assenza di prima … Sì, queste parole sono
assenti, nel senso che non sono lì in quanto tali, sono lì sempre in quanto
riferite al mondo ecco: esso, il chiamare, affida il mondo alle cose e insieme
accoglie e custodisce le cose nello splendore del mondo, il mondo concede alle
cose la loro essenza. Quindi è questo mondo, questa scena, io adesso uso dei
termini che lui non usa ma solo per rendere le cose più semplici, è questo
“mondo” che dà alle cose la loro essenza, qui sembra essere ancora platonico,
questo mondo 3 potrebbe essere pensato come il mondo delle idee ed è
questo mondo delle idee che da alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose
d’altra parte fanno essere il mondo, il mondo consente le cose. Il parlare
delle prime due strofe parla nell’atto che sollecita le cose a venire verso il
mondo e il mondo verso le cose- tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa
il linguaggio: neppure però costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non
sono infatti realtà che stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano
vicendevolmente, compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in
questo si costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e
l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il
“fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde
il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a
pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e
adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure,
L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si
distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra
mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora
adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione
della “differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del
frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui
sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui
area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si
parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con
essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla
quale, e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità
della dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che
differenziando porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser
mondo, porta le cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un
verso l’altro. Il termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione
posta tra oggetti del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo
sono quelli che il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una
relazione oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero
presentativo venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è
comunque relazione tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento
negata e trascesa – cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa
che le cose emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga
come quello che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto
misura nella sua interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio
di mondo e cosa, la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta
generandola la misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel
nominare che chiama “cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la
dif-ferenza. – A questo punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato
necessariamente a Derrida, il quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger
ma tra breve sarà ancora più evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha
riletto con De Saussure dice: “Questo chiamare” ricordate prima ha detto del
chiamare: Questo chiamare è l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata
dalla quale soltanto ogni “chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale
pertanto ogni possibile “chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto
suono nella “quiete” (adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta, (ovviamente)
portando mondo e cose alla loro essenza, il fondare e comporre mondo e cose nel
modo dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il linguaggio, il suono
della quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi evento, l’essere del
linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della quiete non è nulla di
umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il termine “parlante”
significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. (lui
è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il linguaggio che parla, e
il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari degli altri, infatti
quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un abominio per
Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere oggetto
dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua portato a
se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere all’essenza del
linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene all’essenza del
linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete) si realizza in
quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si avvale del parlare
dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono della quiete”,
solo in quanto 4 gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete,
i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni. Il parlare
dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è fondamentale in Heidegger lo
ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è invito alle cose e al mondo
farsi presso muovendo dalla semplicità della differenza. La pura del parlare
mortale è la parola della poesia, l’autentica poesia non è mai un modo più
elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto il contrario, che cioè il
parlare quotidiano è una poesia dimenticata come logorata nella quale a stento
è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. Ecco la questione
che sta ponendo è esattamente quella che pone Derrida, questo suono, questo
suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia è ciò che costituisce la
condizione della parola che chiama, beh è ciò che Derrida ha elaborato come
“differance”, lui usa per indicare questo suono che non c’è, usa questo
esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si scrive così, però a
“difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi “differance” che in
francese è scorretto perché si scrive “difference”, però dice anche cambiando
la e con la a, il suono della parola in francese “differance” non cambia, è
esattamente lo stesso cioè questa e non si sente, che metta la e o metta la a,
è uguale, non si sente, cioè quella cosa che lui chiama la “differance” è
esattamente questo suono muto, che tuttavia è quella cosa che consente alla
parola di essere tale e cioè di, mettiamola così, lui, forse dovrei aggiungere
qualcosa, lui, Derrida muove a queste considerazioni partendo da De Saussure,
dal segno di De Saussure “significante/significato” e quindi ciò che dice è che
questa barra è quella che divide il significante dal significato ma è quella
che compone il segno, senza questa barra che distingue il significante dal
significato il segno non c’è, però questa barra si scrive, si mette il
trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel significante né
nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella cosa che non
compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia segno, cioè
perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono di cui parla
qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo “cosa e
mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno altro,
l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito
all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in
essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla
né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla,
per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa
invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto
precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio
non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra
altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan
quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato
Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto
del fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una
proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il
linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa
una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le
cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di
fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la
quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile
costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le
cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in
effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola
“costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella
cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad
Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste”
tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo
mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto
interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono
minimamente interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto
conto di queste asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino
verso il linguaggio” 5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del
linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice
che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non
esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che
mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo
molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in
quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice
denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola
come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un
aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa,
alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire
lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza
una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è
il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e
connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo
dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche
cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il
mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo
determina, non lo può determinare … Intervento: lo potrebbe determinare
l’esserci, “Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente
di volta in volta … Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare
che l’essere non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che,
così notava Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza
improbabile, è come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È
niente. Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere,
significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non
possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo
come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In
questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e
si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più
alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti,
l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la
“presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due
momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua
propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui
lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità,
sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa
differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza
tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono
tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il
significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica
qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa,
chiama anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il
quale mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla
semiotica, in fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati
in queste questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado
dicendo ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili,
perché quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio
è inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per
Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni
all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la
psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono
associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata.
Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto
spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi
Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può
accadere certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche
simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato”
sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si
può pensare la differenza in quanto tale, così come non può 6 neanche
dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice
Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi
la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: …
non avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune
cosa ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui
incomincia a parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto
“Essere e tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che
una riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al
linguaggio necessariamente (…) Il parlare inteso nella sua pienezza
significante trascende sempre la dimensione puramente fisico sensibile del
suono ovviamente il parlare non è soltanto il suono ma il linguaggio come
significato fattosi suono o segno scritto è qualcosa di essenzialmente
soprasensibile, qualcosa che perennemente oltrepassa il puramente sensibile, il
linguaggio così inteso è per sua costitutiva natura metafisico.) È la
metafisica che rappresenta, badate bene: si parla, si rappresenta, se si
rappresenta si compie un’operazione metafisica. Poi sul volere sapere: Il voler
sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non portano mai a un interrogare
pensante, nel volere sapere si cela già sempre la presunzione di un auto
coscienza che si appella a una ragione auto fondata e alla sua razionalità, il
volere sapere non vuole che si stia in ascolto di fronte a ciò che è degno di essere
pensato … Intervento: è una forma di controllo Esattamente, e poi c’è la
seconda parte di cui ci occuperemo nel prosieguo perché ciò che stiamo facendo
è straordinariamente vicino a ciò che qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha
dubbi sul fatto che l’uomo è quello che è, perché c’è il linguaggio, non ha
nessun dubbio lo pone proprio nelle prime pagine il che comporta ovviamente
delle implicazioni, perché se l’uomo non è se non nel linguaggio allora, dice
lui giustamente, occorre porsi in ascolto del linguaggio, che non significa
ascoltare quello che qualcuno dice, ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi
in ascolto della domanda che c’è nel linguaggio, nella chiamata che il
linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le cose e fra le cose, chiama anche
l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione perché ci sia questa chiamata.
Questa è una questione sempre presente in Heidegger, infatti è stato accusato
di “umanismo”, “accusato” tra virgolette, mentre lui si è sempre difeso da
questo, la sua non è una posizione esistenzialista, ha dovuto attraversare
l’esistenzialismo perché l’unico esistente è l’uomo, questo accendisigari per
Heidegger non esiste, c’è, ma non esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto
coloro che sono in condizioni di porre la domanda, questo aggeggio, questo
accendino non fa nessuna domanda. Per Heidegger l’uomo è il portatore in un
certo senso del linguaggio, forse non necessariamente l’unico, però a quanto ci
consta per il momento si, e questo, sempre per Heidegger, è fondamentale perché
l’uomo può trarre la verità, cioè la verità sull’essere e quindi il fatto che
l’essere non sia nient’altro che l’esserci dell’uomo in quanto progetto
ciascuna volta, solamente nel dialogo. Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un
dialogo dove le cose si interrogano, dove si mantiene aperta la domanda non la
chicchera, il parlare per il sentito dire, il sentito dire vuole dire anche
averlo letto da qualche parte, ma non averlo interrogato in modo autentico.
Interrogare in modo autentico e lasciarsi interrogare dalla cosa: una qualunque
cosa pone delle questioni, per esempio “che cos’è?” o quando mi trovo
all’interno di un progetto su come posso utilizzare quella certa cosa, pone
comunque sempre delle domande, l’uomo è sempre all’interno di questo domandare,
continuamente. Questo è il domandare autentico, quello che si lascia
interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che sta facendo, le cose che sta
incontrando, non da colui che invece si precipita a dare la risposta o come
dicevo prima ha la fretta di sapere tutto dimenticandosi della domanda. Nella
parte successiva ci saranno delle cose molto interessanti da dire. per esempio
sulla poesia che per lui è importante perché la poesia accenna, e in questo
accennare lascia che la parola chiami le cose, senza fermarle, senza bloccarle,
senza mortificarle ma le lascia essere, lasciar essere questo è sempre stato
fondamentale per Heidegger. 7 20 maggio 2015 Heidegger prosegue: La
ricerca scientifica e filosofica mira da qualche tempo (siamo nel ‘59) in modo sempre
più deciso a costruire ciò che viene chiamato “metalinguaggio” (qui ce l’ha con
i filosofi analitici) giustamente pertanto la filosofia scientifica che si
prefigge di costruire tale super linguaggio, intende se stessa come
metalinguistica. Metalinguistica suona come metafisica, non soltanto suona
“come” ma è, la metalinguistica è infatti la metafisica della totale
trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento interplanetario di
informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica e tecnica missilistica
sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia di Stefan George, il
titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo
estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna (Norna è la dea del
fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei
allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la
marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno giunsi colà dopo un
viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e al fine mi
annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso sfuggì alla mia
mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia:
“nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito di persone considera
non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio, questa “cosa” che gira
vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è mondo, e per molti essa era
ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della tecnica moderna, la quale
dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido il pensiero che sia la
parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le parole ma le azioni
contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario, lasciamo la fretta del
pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa è, e così come essa è,
in nome del suo nome? Certamente. /…/ Se l’affrettare nel senso del massimo
potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel cui spazio
temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere quello che
sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità cioè
esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato
all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica
ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se
la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno
sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il
suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo
dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma
sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose
perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che
se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla.
Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che
riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso infatti appunto
“nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das Wort
gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato diverso da
quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del discorso indiretto
che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che segue i due punti,
dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo “così io presi triste
la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non indica ciò cui si
rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve immettersi, indica il
comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola e cosa ora esperito,
(“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si esperisce la cosa, allora
c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il poeta ha preso la rinuncia
è la sua precedente opinione nei riguardi del rapporto fra cosa e parola,
rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola a lui fino a quel momento
consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto diverso, nel verso “Kein
ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe allora sul piano grammaticale
un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”, l’indicativo è “ist”) al posto
dell’indicativo “ist” bensì una forma dell’imperativo, un ordine cui il poeta
obbedisce per rispettarlo anche in futuro, nel verso “nessuna cosa “sia”
laddove la parola manca”, il “sia” significherebbe allora “non considerare
d’ora in poi una cosa come esistente dove la parola manca” (è un imperativo
categorico” e non so per quale via mi ha evocato le parole di Parmenide “sulla
via del non essere non ti ci incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con
quel “sia” inteso come 8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella
rinuncia per cui egli abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista,
anche quando la parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La
parola “Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica
dice “Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa”
“rinunciarvi”. Zeihen corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco
“sagan” (il sagen del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un
Entsagen, letteralmente un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al
suo precedente rapporto con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui
rifiuta qualcosa, già gli è stato destinata una chiamata alla quale egli non si
sottrae più. (nella sua rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa
ci sia anche senza la parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di
fronte a ciò che incontro, a pensare che questa cosa che incontro sia già lì
prima che io la dica, prima della parola, non che io la dica propriamente, però
aggiunge no, non è proprio così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato
destinato “una chiamata alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a
quella maniera, se non la parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che
solo la parola fa sì che la parola appaia e sia pertanto presente come quella
cosa che è, la rinuncia che il poeta apprende è della natura di quella compiuta
rinuncia alla quale soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è
propriamente già destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come
una chiamata alla parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione,
seguendo questa chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa,
questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola
dall’altra (qui c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la
parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in
modo che essa è una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte
del linguaggio (poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia
bisogno di portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre
commentando la poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole
che a quella fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo
quelle che convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua
fantasia, prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita
delle sue precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando
di George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già,
da e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto
consistesse poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e
rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è
parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è
per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione
portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui
meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la
poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del
poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge
però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora
gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno
riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i
poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e
anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni
e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo
gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e
questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure
sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale
dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale”
cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la
parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano
quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia
che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di
lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo
semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul
fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia
terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge
all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella
poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non
poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza del
9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale
l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a
un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di
lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto
proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la
delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività
si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”.
Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta
appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è
all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice
qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite
del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo
allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è
quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire
l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta
cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della
parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola
che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un
altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più
senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo
parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o
meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non
è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso
all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola
manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe
essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire
di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il
discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle
forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il
linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento
in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che
differenzia l’istinto dalla pulsione … Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a
possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della
parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che
si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale
organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda
primitiva, o comunque dai gruppi degli animali … Intervento: dal branco degli
animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei
così … Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una
domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve
esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già
non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza,
sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci deve
essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui, come
sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la parola
sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che si
fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita ancora la
frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra parola e
cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto
essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa (qualunque
essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del rapporto, il
complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io che porta
all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha
incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è
un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il
passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo,
il passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al
riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si
occupa in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle
scienze la via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός”
“attraverso il cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella
scienza moderna un puro strumento al servizio della scienza 10 anzi al
contrario è il metodo che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo
fatto è stato visto in tutta la sua portata per la prima volta da Nietzsche,
che così ne parla nelle annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus
degli inediti pubblicato postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà
di potenza”. La prima dice “ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la
vittoria della scienza ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”.
L’altra notazione incomincia con la proposizione “Le idee più importanti furono
trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” in realtà anche
Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza
e precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino.
Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel
metodo e vi resta sottoposto, la corsa folle, che oggi trascina le scienze
verso mete che esse stesse ignorano, ha la sua forza propulsiva nel
potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle
possibilità a questo intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il
tema rientra nel metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni,
mercoledì prossimo riprendiamo questo testo. 27 maggio 2015 Vi rileggo la
poesia di Stefan George perché la riprende si chiama “La parola”, Das Wort:
Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e
attesi fino a che la grigia Norna il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o
sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per
tutta la marca. Un giorno giunsi colà dopo viaggio felice con un gioiello ricco
e fine, ella cercò a lungo e alfine mi annunciò “qui nulla d’eguale dorme sul
fondo”. Al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro,
così io appresi triste la rinuncia “nessuna cosa è dove la parola manca”. C’è
da dire qui che la questione che sta ponendo questa poesia è interessante
perché di fatto sta chiedendo alla Norna di fornirgli, dicevamo l’altra volta,
la parola della parola, e cioè un qualche cosa che è fuori della parola e che
dovrebbe garantire l’essere della parola. Ovviamente cercare la parola fuori
dalla parola è un problema, tant’è che la Norna, saggia, dice “qui nulla
d’eguale dorme sul fondo” e allora lui ha appreso la rinuncia: non troverà mai
qualche cosa che da fuori della parola possa garantire la parola… Intervento:
sarebbe il significato del significato? Non esattamente, perché il significato
del significato è ancora un altro significato, quindi un altro termine, un
altro elemento linguistico, qui cerca invece proprio la garanzia, cioè il
qualche cosa che è fuori dal linguaggio e che dia alla parola la sua
consistenza. “Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra
parola e cosa, prospettandolo in modo che la parola stessa risulti il rapporto,
in quanto essa trae all’essere e mantiene nell’essere ogni cosa, qualunque essa
sia. // Infatti fra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale
rientra il rapporto tra cosa e parola e precisamente nella figura del rapporto
tra essere e dire, questo rapporto sorprende il pensiero in modo così subitaneo
e sconvolgente da dirsi in una sola parola, esso suona “λόγος”, ma ancora più
sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza
pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso in base a quel
rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta dicendo che il linguaggio non
“si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare il linguaggio, di uscire dal
linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio sapendo di che cosa si sta
parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il linguaggio ricusa, in
questo senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa realmente è, perché
appunto dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo rifiuto fa parte
dell’essenza del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio non solo si
trattiene così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma trattenendosi esso
in sé, con la sua origine nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel
quale comunemente ci muoviamo, per questo non possiamo nemmeno più dire che
l’essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza (come diceva prima) a
meno che la parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro
che cioè quel rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi, proprio esso, parla.
(In altri termini sta dicendo che il linguaggio non dice se 11 stesso, si
trattiene dal dire di se stesso nell’accezione che indicavo prima, e cioè come
se volesse parlare da fuori il linguaggio per dire che cos’è esattamente il
linguaggio, si trattiene dal fare questo. Heidegger dice che non possiamo
nemmeno più dire che l’“essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza”
come diceva prima e cioè che l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al
linguaggio è il linguaggio dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel
linguaggio che parla di ciò che è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio
non lo si intenda nelle due cose in modo differente e cioè nel secondo caso
intendendo che è proprio lui che parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò
che parla continuamente, il linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per
dirla con Heidegger, il “dire originario”, quel dire cioè che muove nel momento
in cui è qualcosa, qualcosa appare e questo dire lascia che ciò che appare
interroghi, ciò che si dice, a questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le
cose, a questo punto è lui, è soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse
qualcosa che è ancora più chiaro, dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola
manca”. Così suona la rinuncia del poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene
in evidenza il rapporto fra cosa e parola. (Il rapporto tra cosa e parola è
importante perché è ciò che la metafisica ha sempre cercato di stabilire con
certezza, lì c’è la parola e lì c’è la cosa, però è un problema come dicevamo
la volta scorsa, è la questione tipica della metafisica e cioè il problema del
“terzo uomo” come diceva già Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve
fare da tramite tra i due, il problema è che questo terzo elemento che deve
consentire il bloccarsi di questa relazione tra cosa e parola, anziché compiere
questo rinvia la cosa all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il
quarto, c’è il quinto c’è il sesto e così via all’infinito e quindi non
raggiungerà mai la cosa): Abbiamo anche detto che “cosa” (lui lo mette tra
virgolette) indica qui ogni possibile essente quale ne sia il modo d’essere.
(cioè qualunque cosa) Abbiamo detto ancora riguardo alla parola, che questa non
solo sta in rapporto con la cosa ma porta la cosa che di volta in volta nomina,
la cosa in quanto essente che è e tale, “è”(tra virgolette) in questo
reggendola, trattenendola, dandole per così dire il sostentamento a essere
cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la parola che fa essere ciò che
dice, nel momento in cui dice le cose è in quel momento che esistono, che sono
quello che sono. È questo che sta dicendo. Conseguentemente abbiamo detto che
la parola non si limita ad essere in rapporto con la cosa ma che la parola
stessa è ciò che porta e serba la cosa come cosa. (che è ancora di più che “la
parola stessa è la cosa”, perché la parola è ciò che porta e “mantiene” e fa
perdurare la cosa in quanto cosa, dice che la “parola in quanto ciò che porta e
serba è il rapporto stesso”. Qui badate bene che dice “è il rapporto stesso”
anzi l’ha già detto varie volte, come dire che questo rapporto tra parola e
cosa è la parola stessa, quindi non c’è più la parola e la cosa ma c’è una
relazione tra parola e cosa, nel senso che la parola rende la cosa quella che
è, e solo la parola può farlo, cioè il λόγος, e questo è la parola. Qui si
potrebbe anche fare un accenno alla questione della metafisica, così come
trascorre da Platone fino a Heidegger, non è altro che lo spostare una cosa
presente a una cosa che presente non è, e che deve dare il senso, il
significato a ciò che è presente, da qui tutte le distinzioni dalle più antiche
alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”, “immanente – trascendente”,
“significante – significato”, “enunciazione – enunciato”, l’ultimo in ordine di
tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico che tutta questa struttura è
metafisica, è metafisica sempre in questa accezione ovviamente, cioè ciò che
questo significato di “metafisica” che, come dicevo, trascorre da Platone fino
ad Heidegger, indica che ciascuna volta in cui qualche cosa deve la sua
esistenza, la sua essenza, il suo significato, a qualche cos’altro, questa è
una struttura metafisica. Che ha degli effetti ovviamente, perché comporta la
supposizione che una certa cosa sia quello che è in base a quell’altra, quindi
quell’altra dà alla prima il suo significato, lo ferma, lo blocca e che quindi
questo secondo elemento costituisca l’essenza, potremmo quasi dire, del primo,
bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe, dico “potrebbe”, consentire un
passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla metafisica. È da considerare che
invece ciò che dà il significato al primo elemento costituisca anche questo un
elemento che trae il proprio significato da altro, poi da altro, poi da altro
ancora e così via all’infinito, a questo punto non c’è la possibilità di
bloccare un significato 12 ovviamente, ma questo significato, come ci
dice la semiotica, non è altro che un rinvio continuo, infatti, a quella serie
di contrapposizioni potremmo anche aggiungere quella di Greimas, cioè i sememi
danno un senso ai semi nucleari ché da solo, di per sé, il sema nucleare non
significa niente. Ora è chiaro che è il linguaggio che è strutturato così, per
questo da tempo sto dicendo che la metafisica illustra il modo in cui il
linguaggio funziona, né più né meno, per cui non hanno neanche tutti i torti i
metafisici a dire che non c’è uscita dalla metafisica. Posta in questi termini
in effetti non c’è uscita dalla metafisica, e neanche attraverso la via
immaginata da Heidegger ovviamente): La “parola per la parola” non è dato
trovarla là dove il destino dona il linguaggio (cioè se c’è il linguaggio
allora la parola per la parola non c’è, una parola che dica la parola in modo
definitivo, l’ultima parola sulla parola, non c’è, non si trova perché c’è il
linguaggio, il linguaggio che nomina e fa essere, quindi non c’è), linguaggio
che nomina e fa essere per l’essente, non c’è la parola che dica l’essenza del
linguaggio, perché questa sia e come essente splenda e fiorisca la parola per
la parola un tesoro certamente ma un tesoro non conquistabile per la terra del
poeta, e per il pensiero? Può il pensiero? Quando il pensiero cerca di meditare
la parola poetica (cioè la parola autentica per Heidegger) questo si rivela: la
parola, il dire non ha essere. Il nostro modo corrente di concepire si ribella
quando gli si propone un pensiero così audace. Scritte o parlate ognuno pur
vede e sente delle parole, esse sono. Possono essere come cose, realtà
afferrabili dai nostri sensi, basta solo per far l’esempio più banale aprire un
dizionario è pieno di “cose” stampate, certamente puri vocaboli, non una sola
parola, poiché la parola grazie alla quale i vocaboli si fanno parola, un
dizionario non è in grado né di captarla né di custodirla, dove dobbiamo andare
a cercare la parola? dove il dire? Dall’esperienza poetica della parola ci
viene un cenno che può essere di grande aiuto: la parola non è cosa, nulla di
essente, invece noi abbiamo cognizione delle cose quando per esse c’è a
disposizione la parola allora la cosa è. Ma qual è la natura di questo “è”, “la
cosa è” ? e questo “è” è anch’esso una cosa sovrapposta a un’altra, messale su
come un cappuccio, noi non troviamo mai questo “è” come cosa sopra altra cosa,
per questo “è” la situazione è la stessa che per la parola, questo “è” non fa
parte delle cose che sono più di quanto non lo faccia la parola. (sta dicendo
che la parola non è, nel senso dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia
comunemente, e cioè come ente, qui allude al fatto che la parola non sia
determinabile, così come lo è per esempio un vocabolo, un lessema, quindi
intende con parola ovviamente un’altra cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo
dalla sonnolenza di un pensare frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in
ciò che l’esperienza del linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il
rapporto fra questo “è” che per sé non è, e la parola che si trova nella stessa
situazione che cioè non è nulla che sia, (qui sta cercando di complicare le
cose, adesso vediamo se) né l’“è” nella parola hanno l’essenza della cosa,
(l’abbiamo detto prima: non sono enti) l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la
parola al quale è affidato il compito di concedere via, via un “è”, (sta
dicendo che né questo è, quando diciamo che “la parola è qualcosa”, questo “è”
per lui costituisce un problema, diciamo “la parola è”, “è” cosa? infatti né
l’“è” né la parola in questa frase hanno l’essenza della cosa, cioè non hanno
l’Essere) né ha (soggetto l’Essere) il rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non
di meno, né l’“è”, né la parola e il dire di questa, possono venire cacciati
nel vuoto del niente (non sono niente, qualcosa pur sono) Che indica
l’esperienza poetica della parola quando il pensiero riflette su di essa? Essa
rimanda a quel degno d’essere pensato, pensare il quale si pone al pensiero
fino dai tempi più antichi e anche se in modo velato come suo proprio compito,
esso rimanda a quello di cui in tedesco può dirsi “es gibt senza che possa
dirsi “ist” cioè è, “gibt” “esso dà” “si offre”, di ciò di cui può dirsi “est
gibt” fa parte anche la parola (adesso incomincia a intravedersi che cosa
intende con quello che sta dicendo “la parola non è, propriamente, ma è ciò che
si dà, ciò che si offre”.)forse non solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in
modo tale che nella parola e nella sua essenza si cela quello che “gibt”
appunto “dà”, nella parola si cela quello che essa stessa da. Della parola
pensando con rigore non dovremmo mai dire “es ist” cioè “essa è” ma “es gibt”,
ciò non nel senso di quando si dice “es gibt Worte” “qualcosa dà la parola” ma
nel senso che la parola stessa dà, non è qualcosa che dà la parola ma è la
parola che dà, la parola: la datrice. Ma che dà la parola? 13 secondo
l’esperienza poetica e la tradizione più antica del pensiero la parola dà:
l’Essere (ecco perché prima diceva che la parola non è l’Essere, la parola dà
l’Essere) Ma se così stanno le cose allora in quel “es, das gibt” “esso, il
dare” noi dovremmo pensando cercare la parola come ciò stesso che dà e mai è
dato. La parola “es gibt” si trova in tedesco usata in molteplici modi, si dice
per esempio “es gibt an der sonningen Halde Erdbeeren” “ci sono fragole sul
pendio soleggiato”, “là ci sono le fragole”, nella nostra riflessione “es gibt”
è usato diversamente non “des gibt …” “si dà la parola” ma “es das Word gibt…”
cioè “essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war, soll Ich werden” questo
“es” può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là dove qualcosa era occorre
che io avvenga” è una delle traduzioni che sono state fatte di questa frase.
Così dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti al quale molti e a
ragione trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere pensato resta, si fa
anzi evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che noi indichiamo con
l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che propriamente è degno
di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la determinazione di
questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse il poeta li
conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la rinuncia
nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella parola che
dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che non ce l’ha)
il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma comportata
dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma sfugge in che
senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è trattenere ma qui
appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio della parola, il
gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte insignificanza
del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la parola non è
Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale incapacità di
dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a dirla, dice:)
no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si sottrae nel mistero
che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i versi introduttivi
al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone cioè un dire e in
forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che non è la parola
che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola come già aveva
fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione che indica
Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità tra
poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che
l’evento domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice
della sua essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre
raggiunto il segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo
solo se ha risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto
nel linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché
la presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa
dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo
si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché
la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione
dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica
nucleare, non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e
tempo (in tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre
esattamente gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in
grado di produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a
crollare l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché
non avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto
parla contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di
interpretare il cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”,
sennonché ciò che spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è
primariamente la passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad
essere quel che sono in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina
il pensiero moderno nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e
nella difficile situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia
dietro la quale si cela un passivo che non può essere sanato né da parte della
scienza, né da parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente
poi qual è questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere
ciò che stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco
l’ultimo capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande)
: (Ripete di nuovo il verso 14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la
parola manca) Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione
“Nessuna cosa è dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè
c’è una frattura, un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle
qualcosa, farle mancare qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo
quando c’è la parola per dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che
è la parola per avere tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della
parola per essere? 3) Che significa qui “essere”, dal momento che appare come
un dono conferito alla cosa dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò
che ha detto nel libro praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono
conferito alla cosa dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde
alle domande poi, perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di
Heidegger che sia antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti
per lui l’uomo è oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si
accorge che l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso
sull’Essere, cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che
parla, senza colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la
risposta “meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta
giunge notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita
nel sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio
come realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole
tenere per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi
sono parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume
così consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così
facendo esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i
“nomi” sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi,
perché “i nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo
modo e cioè che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma
anche che “i nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che
rappresentano parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole
che rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i
nomi) propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù
rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è
l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli
deve prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso
potremmo dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt
consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi
non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si
riferisce sempre alla poesia di Stefan George) sono come qualcosa che dorme,
che ha bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle
cose, nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che
poi viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a
quel momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano
la realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto
quella che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si
trova? (il gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello
deve sì restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No,
altro accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che
manca il nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della
parola, è quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente:
(cioè la parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo
prende e lo porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola
presenta improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa
sulla realtà, come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che
consiste nel dare un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta
dinnanzi, al contrario (qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce
la presenza cioè l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente,
quest’altro potere della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo
brusco e improvviso, al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca,
perciò il gioiello dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un tesoro
che poi il poeta non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si dilegua,
che cosa manca? Qui non siamo nella questione della “mancanza a essere”, siamo
al fatto che ciò che manca è quella parola che da fuori del linguaggio
finalmente dica che cos’è veramente la parola. Il nome che si dà alla parola è
un’altra parola, non è qualcosa che da fuori 15 dovrebbe garantire che
sia esattamente quella cosa. E qui insiste sul fatto che la parola fa sì che la
cosa sia, cosa tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra del poeta mai
giunge a possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la potenza e la
vita della parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della parola? il fatto
di fare essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola,
alla sua propria parola ma la parola, per l’essenza della parola, non viene
concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è questo che non viene
concesso, è questo che manca, in questo senso diceva. L’ultimo capitoletto “In
cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al testo. Ecco qui parla
dell’¡λήθεια: il testo di Aristotele evidenzia con un dire chiaro e sobrio
quella classica struttura in cui si cela l’essenza del linguaggio inteso come
parlare, le lettere indicano i suoni, i suoni indicano le affezioni dell’anima,
le affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima, il “mostrare” “das
Zeigen” è quello che costituisce e regge l’intera impalcatura, in modo vario,
velando e disvelando, esso il mostrare, porta qualcosa ad apparire, fa che ciò
che appare sia avvertito e ciò che viene avvertito sia considerato (cioè
esista) quando riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo
abbandonato il modo di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul
linguaggio. Non possiamo più andare alla ricerca di concetti generali come
“energia” “attività” “lavoro” “forza spirituale” “visione del mondo”,
espressione sotto i quali condurre il linguaggio come un caso particolare di
tale generalità. Anziché spiegare il linguaggio come questa o quest’altra cosa
fuggendone in tal modo lontano, il cammino verso il linguaggio vorrebbe fare
esperire il linguaggio come linguaggio, nell’essenza del linguaggio, il
linguaggio è sì compreso, ma afferrato per mezzo di altro da esso è il famoso
metalinguaggio (di cui diceva prima il metalinguaggio come metafisica) se
volgiamo invece l’attenzione unicamente al linguaggio come linguaggio, questo
pretende allora da noi che mettiamo finalmente in evidenza tutto quello che fa
parte del linguaggio in quanto linguaggio (è quello che ho cercato di fare in
questi anni intendendo che cosa fa funzionare il linguaggio) Nel parlare
rientrano i parlanti, ma il rapporto tra parlanti e parlare non è riducibile a
quello tra causa ed effetto (se no sarebbe come dire che qualcosa dà la parola,
mentre lui è stato preciso, “è la parola che dà”, ma cosa dà? Le cose,
l’Essere.) I parlanti trovano piuttosto nel parlare il loro essere presenti,
presenti a che? A ciò con cui parlano, presso cui dimorano in quanto realtà che
sempre già li riguarda, è quanto dire “gli altri, le cose, tutto ciò che fa che
queste siano cose, queste precise cose e quelli gli altri quei concreti altri”
(questo fa la parola, fa esistere tutte queste cose qui) A tutto questo ora in
un modo, ora in un altro già sempre è andato l’appello del parlare. // Ma come
sono pensati il parlare e il “parlato”, nel breve racconto che si è
precedentemente fatto del linguaggio? Essi si rivelano già come ciò per cui e
in cui qualcosa si fa parola, giunge a farsi evidente in quanto qualcosa è
detto. Dire e parlare non sono la stessa cosa, uno può parlare, parla senza
fine, e tutto quel parlare non dice nulla, un altro invece tace, non parla e
può col suo non parlare dire molto, ma che significa dire, “sagen” in tedesco?
Per esperire questo è necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già
costringe a pensare con la parola “sagen”. “Sagan” significa “mostrare” “far
che qualcosa appaia” “si veda” “si senta” // Ciò che fa essere il linguaggio
come linguaggio è il dire originario “die saghe” in quanto “mostrare” “die
Zeige”, il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno ma tutti
i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini
soltanto acquistano la possibilità di essere segni. (Ma non sta proprio in
questo mostrare, nel fatto che tutti i segni traggono origine da un mostrare
che si impianta la metafisica stessa, la sua stessa possibilità? Ma ne
riparleremo perché è una questione tutt’altro che semplice) // (siamo alla fine
volevo riprendere le tre domande che faceva prima, adesso possiamo rispondere a
ciò che si è domandato): Il dire originario è mostrare, in tutto ciò
(ricordate: il dire originario è mostrare. Questo è il dire originario per
Heidegger) in tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca come oggetto di
parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non detto è in attesa di
noi, non solo ma in quello stesso parlare, che noi veniamo mettendo in atto,
che è operante il mostrare sempre e comunque, in virtù di questo che ciò che è
presente appare, ciò che è assente dispare. Questo (è sempre il dire originario
il soggetto) dischiude ciò che è presente nel suo esser presente (che sembra
una ripetizione inutile “dischiude il suo essere presente nel suo essere
16 presente” ma il fatto che qualcosa sia presente per Heidegger non è così
automatico, occorre qualcosa che dischiuda, apra l’orizzonte entro il quale
qualche cosa può essere presente, non basta che sia presente perché che sia
presente da sé non significa niente se non c’è il linguaggio che fa essere
presente.) il dire originario domina compone in unità la libera distesa di
quella radura … da dove viene il mostrare? La domanda vuol sapere troppo e
troppo in fretta (non è che possiamo sapere tutto subito) gioverà accontentarsi
di osservare la natura e l’origine del moto presente nel mostrare, non è
necessaria qui una lunga ricerca è sufficiente l’intuizione repentina, non
obliabile e perciò sempre nuova, di ciò che, sì, è a noi familiare, ma che noi
tuttavia lungi dal riconoscere nel modo che ci conviene neppure cerchiamo di
conoscere, questa realtà sconosciuta e non di meno familiare da cui ogni
mostrare del dire originario trae il proprio moto, è per ogni essere presente
ed essere assente l’alba di quel mattino nel quale soltanto può trovare inizio
la vicenda del giorno e della notte. Alba che insieme l’ora prima e l’ora più
remota tale realtà appena ci è dato nominarla, essa è l’“ort” che non tollera
“Er-örterung”. Il tempo che non concede di essere raggiunto perché è luogo di
tutti i luoghi e di tutti gli spazi del gioco del tempo, noi la chiameremo con
una parola antica e diremo: ciò che muove nel mostrare del dire originario è lo
“Eignen”. Lo Eignen adduce ciò che è presente e assente in quello che gli è
proprio, cosicché emergendone la cosa presente e assente, si rivela nella sua
vera identità e resta se stessa. // Il linguaggio non si irrigidisce in se
stesso nel senso di un narcisismo di tutto dimentico tranne che di sé, come
sarebbe potuto apparire, (eventualmente) come dire originario il linguaggio è
il mostrare appropriante, che appunto prescinde da sé per dischiudere così per
mostrare la possibilità di rilevarsi nella figura che gli è propria, (cioè il
linguaggio consente alla cosa di mostrarsi e permette anche alla cosa di
mostrarsi per quello che è. Il linguaggio è questa possibilità delle cose di
essere quelle che sono. Ma non toglie alle cose il fatto che sono quelle che
sono.) Il linguaggio che parla dicendosi cura che il nostro parlare, ascoltare
il dire che non ha suono, corrisponda a quel che esso (linguaggio) viene
dicendo, in tal modo anche il silenzio che non di rado si pone a fondamento del
linguaggio, come sua scaturigine, è già un corrispondere (corrispondere alla
chiamata del dire, ovviamente, cioè del λόγος. La conclusione sarà a questo
punto la risposta a quelle tre domande.) Poiché noi uomini, per essere quelli
che siamo, restiamo immessi nel linguaggio, né mai possiamo uscirne e posarci a
un punto da cui ci sia dato circoscriverlo con lo sguardo, noi vediamo il
linguaggio sempre solo in quanto il linguaggio stesso già si è affissato su di
noi (appoggiato su di noi, fissato su di noi) ci ha appropriato a sé, il fatto
che del linguaggio ci è precluso il sapere, (perché per sapere sul linguaggio
bisognerebbe uscire dal linguaggio e tutte queste storie) il sapere inteso
secondo la concezione tradizionale fondata sull’idea che conoscere sia
rappresentare, non è certamente un difetto bensì il privilegio grazie al quale
siamo eletti e attratti in una sfera superiore, in quella in cui noi assunti a
portare a parole il linguaggio dimoriamo come immortali insomma siamo fortunati
ad essere parlanti. Allora le tre domande alle quali potete, a questo punto,
rispondere voi stessi: Che è la parola per avere tanto potere? È l’Essere è il
logos. Perché la parola ha tanto potere? Perché è ciò che in quanto Essere è
ciò che consente alle cose di apparire, ma che è la cosa per avere bisogno
della parola per essere? La parola ha bisogno della parola per essere la cosa,
e quindi è quella cosa che diventa cosa soltanto se la parola la fa essere
cosa. Terza domanda: che significa qui Essere dal momento che appare come un
dono conferito alla cosa dalla parola? che significa qui Essere? Λόγος,
nient’altro che λόγος e bell’è fatto. Ecco, io vi ho fatto considerare queste
cose perché non è tanto il fatto del contenuto delle affermazioni di Heidegger
quanto il modo in cui approccia la questione del linguaggio, in un modo che lui
direbbe “non presentativo” cioè non mostra, non dice che cos’è il linguaggio
come fa la linguistica, come fa la filosofia del linguaggio, come fa la
filosofia in generale approcciando il linguaggio come ente, perché sta qui la
differenza ontologica: ente/Essere. Il linguaggio è Essere non è ente. Sono
considerazioni interessanti che possono portare ad altre considerazioni,
possono aprire altre vie, per questo motivo vi ho letto alcune cose di questo
testo di Martin Heidegger. Alberto Caracciolo. Keywords: in
cammino verso il linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caracciolo” – The
Swimming-Pool Library.
Caramella (Genova). Filosofo.
Grice:”I like Caramella – like me, he is into the metaphysics of conversation!
And he reminds me that I should re-read Vico!” -- Grice: “I like Caramella; he prefaced Fichte’s
influential tract on ‘la filosofia della massoneria’ – but also wrote on more
orthodox subjects like Kant, Cartesio, Bergson, and most of them!” – Grice:
“Like me, he thought truth is found in conversation!” Ancora al liceo, comincia
a collaborare con Gobetti, il quale gli affida la trattazione della filosofia
su “Energie Nove”. Dopo un primo
contatto con PGobetti e La Rivoluzione liberale, su segnalazione di questi,
entra in collaborazione con Radice, da cui apprese le dottrine del
neo-idealismo di Croce e Gentile. Dopo la laurea, insegna a Genova. Per le sue
idee antifasciste fu arrestato e rinchiuso prima nelle carceri di Marassi a
Genova, e poi fu trasferito a San Vittore a Milano; fu scarcerato, ma venne
sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Ottenne, per intercessione di
Croce, l'incarico di filosofia a Messina. Vinse la cattedra a Catania. Prese
parte ai convegni organizzati dalla Scuola di mistica fascista Insegna a Palermo, ereditando la cattedra che
era stata di Gentile. Il suo allievo principale, che ne cura il lascito, è Armetta,
docente alla Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia. La sua vasta cultura, gli permise di vedere
la continuità della filosofia antica romana classica e e, nell'ambito della
filosofia italiana, l'unità delle opposte dialettiche nella legge vivente dello
spirito e nel dinamismo della natura e della storia. Apprezzato storico della
filosofia. La sua filosofia si può definire un neo-idealismo crociano e
gentiliano, ma reinterpretatto alla luce dello spiritualismo. La sua filosofia
supera lo storicismo e la dottrina crociana degli opposti e dei distinti, e si
esprime nell'interpretazione della pratica come eticità storica.. La religione
e la teosofia rappresentano la possibilità dello spirito attento da un lato
alla concretezza dell'uomo e dall'altro all'ineffabilità. Lo spirito, anziché
risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il
progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione dello
spirito ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferito una distinta
funzione teoretica. Altre opere: “Problemi
e sistemi della filosofia, Messina); “Religione, teosofia e filosofia”; “Logica
e Fisica” (Roma); “La filosofia di Plotino e il neoplatonismo” Catania);
Ideologia”; “Metafisica, filosofia dell'esperienza”; “Metalogica, filosofia
dell'esperienza” (Catania); “Autocritica, in: Filosofi italiani contemporanei,
M.F. Sciacca, Milano); “L'Enciclopedia di Hegel, Padova); “La filosofia dello
Stato nel Risorgimento, Napoli); “Introduzione a Kant, Palermo); “Conoscenza e
metafisica, Palermo); “La mia prospettiva etica, Palermo); “Carteggio con Croce.
Carteggio. La dialettica del vero e del certo nella "metafisica
vichiana" di Caramella, in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di
Caramella, Palermo. Ontologia storico-dialettica di Caramella.Lo spirito nella
filosofia di Caramella.Caramella. La verità in dialogo. Carteggio con Radice.Dizionario
biografico degli italiani. Il linguaggio come auto-analisi. 2 S. Caramella , La cultura ligure nell’alto Medioevo, in
II Comune di Genova, La recente V ita d i G io rd a n o Bruno, con
documenti e ined i t i 1, in cui Vincenzo Spampanato lia potuto finalmente
sintetizzare oltre vent’anni di ricerche bruniane, mi suggerisce l’opp o r tu n
ità di un breve eenno sul soggiorno del filosofo nella n o s tra regione, così
sulla base di quanto lo Spampanato ha messo novamente in luce come su quella
delle antiche notizie da lui rinfrescate. Cel resto l’unica seria esposizione dei
fatti che stiamo per narrare era, prima delle dotte pagine dello Spampanato,
nella biografia del Berti2: ma sommaria e imprecisa per molti rispetti. Arrivò
il Bruno in Genova poco prima della domenica delle Palme, nel 1576: anno in cui
la festa cadeva il 15 aprile? Cont raria m en te al parere del Berti, il quale
sostiene non essere capace di prova che il filosofo sia entrato nella nostra
città, dobb iam o infatti tener presente una scena del Candelaio dove tino dei
protagonisti giura, entrando in scena, sulla « benedetta coda dell’asino, che
adorano i Genoesi’3 », e il passo correlativo dello S p a c c io d e lla B e
stia trio n fa n te , che dice proprio così : « Ho visto io i religiosi di
Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda,
dicendo: non toccate, baciate: questa è la santa reliquia di quella benedetta
asina che fu fatta degna di p o rt ar il nostro Dio dal monte Oliveto a
Jerosolina. Adoratela, baciatela, -porgete limosina: Centum accipietis, et vita
aeternam p o s s id e b itis 4 ». I « religiosi di Castello» sono, è evidente,
i Domenicani di Santa Maria di Castello, dove uffiziavano fin dal secolo X V 5
: e la preziosa reliquia doveva certo esser mostrata 1 Messina, Principato,
1921-22. Vedi, per l’argomento di questa com unicazione, a pp. 269-273. 3
Torino, Paravia, 18691; 18892. 3 ed. Spampanato (Bari, Laterza), pag. 29. 4 ed.
Gentile (D ial. m orali di G. B., ivi, 1608), pp. 185-186. Q u e t if e t E c h
a r d , S c rip t. ord. praed., t. il, p. in. Società Ligure di Storia Patria -
biblioteca digitale - 2012 GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA 49 al p opolo
nella precisa circostanza della c o m m e m o r a z io n e del giorno in cui
Gesù discese trionfante su ll’asina a G e r u s a l e m m e 1. Il Bruno veniva
da Roma, um ile fu ggiasco. A v ev a avu to notizia che il processo istruttorio
p endente presso l’ in q u isiz io n e, per i sospetti di erodossia avanzati
contro di lui, n o n a n n u n ziava buon esito: e così, deposto l’ abito, si
diresse verso la valle Padana. Più tardi raccontò egli stesso, ai giu d ici di
V enezia, di essere andato subito a N oli. Ma è prob abile c h e la peste, da
cui quella plaga fu proprio in quel torno di rem po violentemente aiflitta, lo
abbia genericam ente con sigliato a v o lgersi verto la Liguria, contrada m eno
infetta, o non ancora raggiunta dal contagio, e a fermarsi alm eno qualche g io
r n o a G e nova. Le sarcastiche espressioni dello Spaccio ci fanno im m
aginare agevolmente il Bruno là sulla piazzetta della vetusta ch iesa romanica,
pieno l’animo non già di ammirazione estetica perla caratteristica facciata o
per gli ornamenti molteplici dell’ interno, eh’ è tutto un m usaico di con q
uiste orientali, - e tan to m e n o di interesse psicologico e religioso per la
folla affluente ed effluente dal tempio, - ma di cruccio e di sd eg n o : lui
da p o c o a ccostatosi alle nuove idee dei riformatori oltremontani, lui per
questo costretto a fuggire di patria e dall’ am ato co n v e n to napoletano di
San Domenico Maggiore, dove gli allievi p endevano dalla sua parola, dottamente
teologizzante. La peste arrivò presto, anzi subito, anche a G e n o v a ; a
Milano l’ ambasciatore veneto Ottaviano di Mazi ne aveva già n o tizia tre
giorni dapo il 15 aprile, il m ercoled ì s a n t o 2. E allora il Bruno, com e
ci attestano, questa volta, più veracem ente, le sue note dichiarazioni ai
giudici veneti, se ne a n d ò a N oli. Forse il ricordo dantesco, che per lui u
m anista p oteva con tar qualche cosa, e la simiglianza del nom e con quello
della sua Nola; forse la persistente libertà della piccola repubblica, e anche,
chissà, qualche lettera di raccomandazione, qualche c o n siglio di amico lo
spinsero in quel tranquillo rifugio, l’ u n ic o veramente tranquillo per lui
nella storia delie sue lunghe peregrinazioni. « Andai a Noli, territorio g e n
o e se , d ove m i intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la gram m atica
a’ putti ». « Io 1 P e r la s t o r i a d ella re liq u ia v. Im b r ia n i, N
a ta n a r II in P ropu gnatore, Vili, 1 (1875), p. 190-91. 3 M u tin e lli,
Storia arcana ed aneddotica d’Italia, vol. 1, lib. li, pp. 306-307, Società
Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - 2012 50 stetti in Noli....
circa quattro o cinque mesi, insegnando la grammatica a’ figliuoli e leggendo
la Sfera o certi gentiluomini...1 ». Lo Spam panato, per ragioni di coerenza
con ulteriori dati biografici, pensa che il soggiorno sia durato un po’ più di
quattro mesi; e cioè dalla fine d ’ aprile 1576 ai primi del 1577. C o m u n q
u e, le occupazioni del Nolano a Noli sono ben chiare: l’ esule cercava di trar
qualche mezzo di vita con lezioncine private. Ma anche « leggeva la Sfera a
certi gentiluomini »: la Sfera, cioè il famoso trattato di Giovanni da
Sacroboseo, professore alla Sorbona e monaco domenicano quasi contemporaneo di
Dante: che si soleva considerare come perfetta e sintetica esposizione di una
teoria fisico-geometrica fondamentale per l’astronomia tolemaica, (la teoria
delle sfere celesti), e che Γ insinuarsi dell’ ipotesi copernicana aveva, nella
seconda metà del Cinquecento, rimesso in gran voga2. Persino a Noli era d u n q
u e penetrato il novello interesse del secolo per i problemi astronomici ;
perfino a Noli alcuni giovani signori sentivano il b i s o g n o di stipendiare
un povero erudito piovuto di lontano perchè spiegasse loro il sistema del
mondo. E il Bruno cominciava di quia occuparsi direttamente di quelle indagini
che fur o n o oggetto delle polemiche da lui sostenute in Inghilterra e che
formano l’argomento della Cena delle Ceneri. Non possiamo n atu ralm e n te
sapere (a meno che venissero fuori i quaderni di q u e s t e sue legioni
liguri) s’ egli già a Noli professasse la dottrina copernicana, servendosi
della Sfera per criticare il sistema tolem aico: o invece, come il Galilei ne’
suoi corsi allo Studio di Padova, si limitasse all’illustrazione del classico
libretto. Un sacerdote napoletano, anzi padre Iazzarista, Raffaele de Martinis,
che p otè consultare gli atti del Santo Uffizio, asserisce nella sua biografia
del B ru no3 che a questi fu intentato in Vercelli un processo (che sarebbe il
quarto dopo i primi due di Napoli 1 D occ. veneti, vili, c. 8 r-v. (SPAMPANATO,
p. 6Ç8). 2 Vedi A. P e l l i z z a r i , Il quadrivio nel Rinascimento (Genova,
Perrella, 1924). 3 G . Bruno (Napoli, 1889), p. 12-13. Ma cfr. L. A mabile, in
A tti A cc. S cienze mor. e politiche di Napoli, vol. xxiv, pp. 468-469 n.; e s
p a m p a n a t o , op. cit.., p. 273 n. (e anche T occo in Arch. fiir Gesch. d
e r P h ilo s., IV, 1891, pp. 346-50; B onghi, ne La Cultura, Γ-15 ott. 1889,
pp. 585-86; G en til e , G. Bruno e il pensiero del Rinascimento, [Firenze,
Vallecchi 1920, pp. 63-64. Società Ligure di Storia Patria - biblioteca
digitale - 2012 GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA 51 e il terzo di Roma) «
dalla Inquisizione dello Repubblica g e n o vese»: ma dell’asserzione
importantissima (secondo la quale si potrebbe proprio pensare aver il Bruno
palesato ancora una volta la sua eterodossia nell’insegnamento di Noli) il De
Martinis non dà, e confessa di non aver potuto trovare, le prove. E la notizia
non pare affatto fondata, posto che manca ogni riferimento a questo processo
genovese nei posteriori documenti processuali di Venezia, e di Roma dove pur
dovrebbe trovarsi, posto che a Vercelli non ci consta che il Bruno facesse
soggiorno (nè quindi l’inquisizione genovese avrebbe avuto ragione alcuna di
perseguirvelo), ma solo vi passò nel 1577. « Eppoi me partii de là [da Noli] ed
andai prima a Savona, dove stetti circa quindeci giorni; e da Savona a Turino,
dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il P o 1
». Da Venezia, di lì a due mesi, a Padova; da Padova a Brescia, Bergamo,
Milano. Qui rivestì l’ abito, e poi per Buffalora, Novara, Vercelli, Chivasso,
Torino, Susa arrivò alla Novalesa, sotto il Cenisio. Un giorno ancora e fu in
Francia, oltre monti, lanciato per la gran carraia della Sua fortuna. T r o
verà onori, trionfi accademici, soddisfazioni di filosofo e di scrittore; ma la
queta pace di Noli, mai più. S antino C aramella 1 Docc. veti., c. 8La Logica
di Porto Reale. Con Prefazione del Prof. Santino ... Storia del pensiero e del
gusto letterario in Italia ad uso dei licei. La scuola di mistica fascista e la discoperta del
vero Vico L'azione combinata della storiografia al bianchetto e della credulità
strisciante fra le righe del conformismo teologico, ha fatto sparire la notizia
della sfida al neoidealismo, che fu lanciata dalle avanguardie cattoliche
inquadrate nella scuola milanese di mistica fascista. In tal modo la memoria
storica degli italiani è stata privata della nozione necessaria a contrastare
seriamente l'ideologia totalitaria e ad avviare gli studi filosofici su un
cammino di ricerca opposto a quello tracciato dall'intossicante influsso del
gramscismo. Un percorso, quella anticipato dalla scuola di mistica fascista,
che avrebbe messo capo ad un'evoluzione del Novecento - un'autentica
rivoluzione italiana - di segno contrario al coatto e calamitoso trasferimento
(narrato da Ruggero Zangrandi) degli intellettuali fascisti nel partito di
Palmiro Togliatti. L'accertata esistenza di una forte opposizione cattolica
alla filosofia di matrice hegeliana, comunque, fa crollare i due pilastri della
mistificazione comunista: la leggenda della complicità cattolica con
l'ideologia anticomunista prevalente in Germania - leggenda sintetizzata dal
calunnioso slogan «Pio XII papa di Hitler» - e la rappresentazione degli
intellettuali italiani nella figura di un coacervo nazifascista, redento in extremis
dalla longanimità del partito staliniano. La vicenda degli
oppositori italiani all'idealismo rivela, invece, l'autonomia, la straordinaria
vitalità e l'attitudine del pensiero cattolico ad entusiasmare ed orientare i
giovani studiosi, che avevano aderito al fascismo senza separarsi dalla radice
religiosa della patria italiana. Curiosamente, l'autorità del pensiero
cattolico si rafforzò nella prima fase della II guerra mondiale, quando la
Germania nazionalsocialista sembrava avviata a vincere la guerra. Dopo che il
governo italiano ebbe sottoscritto l'alleanza con la Germania, il dubbio si
era, infatti, diffuso fra i giovani, causando la divisione dell'area fascista
in due opposte scuole di pensiero: una corrente maggioritaria, intesa a metter
fine al dominio della cultura tedesca e perciò risoluta a percorrere la via
d'uscita indicata dalla tradizione cattolica, e una corrente minoritaria,
rimasta fedele ai princìpi dell'idealismo e perciò decisa a seguire le
avanguardie germaniche sulla via del fanatismo e dell'estremismo anticristiano.
Espressione del fermento in atto durante quegli anni cruciali è un magnifico
saggio di Nino Tripodi (1911 - 1988), giovane interprete delle novità
introdotte nella scuola milanese di mistica fascista dal cardinale Ildefonso
Schuster e dal fondatore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, il
francescano Agostino Gemelli (confronta «Il pensiero politico di Vico e la
dottrina del fascismo», Cedam, 1941). Tripodi, grazie ad una profonda
conoscenza della filosofia italiana tentò un audace confronto tra lo storicismo
cristiano di Giambattista Vico e la dottrina politica di Benito
Mussolini. L'affinità del fascismo e della scienza nuova,
nell'acuta analisi di Tripodi, non è causata dalle letture (Mussolini, infatti,
non cita mai Vico) ma dalla comune tendenza a riconoscere che «maestra non è la
mente di questo o quell'uomo che razionalmente pone un principio, ma la storia
delle attività di tutti gli uomini che si svolgono come debbono svolgersi
perché provvidenzialmente si compia la socialità che ad esse è intrinseca». La
scelta di Tripodi cade su Vico poiché «fu perenne nel suo spirito la
distinzione tra la sostanza divina e quella delle creature, tra l'essenza o
ragion di essere di Dio e quella delle cose create, come fu perenne ed
inequivocabile la inintelligibilità di Dio se ricercata nel mondo bruto della
natura anziché in quello della storia, nella quale la Provvidenza si manifesta,
chiamando gli uomini a collaboratori della divinità». Pubblicato nel 1941 e
presto rimosso dalla censura di sinistra e dall'indifferenza di destra, il
saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i risultati delle ricerche iniziate
da quegli studiosi cattolici (nel testo sono citati Emilio Chiocchetti, Giorgio
Del Vecchio, Francesco Amerio, Agostino Gemelli, Francesco Olgiati, Santino
Caramella, Francesco Orestano, Armando Carlini e Balbino Giuliano) che avevano
sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla filosofia tedesca,
confutando le tesi di Croce e di Gentile su Vico precursore dell'idealismo.
Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per quanto concerne
l'ontologia, «ha sempre creduto nella finitezza dell'umano, riconoscendo che
esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano non può scrivere che
una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di sfondare quella parete,
«hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il monismo soggettivista o le
dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli inequivocabili atteggiamenti
dualistici di essa». Di qui il ribaltamento della linea
neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di Vico quale orizzonte
filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli apparenti successi
della modernità: «La stessa barriera che Vico oppone, in nome della genuinità
del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo all'idealismo. Né
Gentile, né Croce, anche se il primo ha la camicia nera e cercò di darla al
secondo pongono gli estremi della nostra dottrina». Tripodi indica in Vico
l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo dominanti nell'età moderna:
«Vico non può essere idealista perché la sua filosofia impugna Cartesio e fa
impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine, costruite unicamente su di una
realtà interiore». La filosofia vichiana, inoltre, è apprezzata perché
rivendica la responsabilità dell'azione umana nei fatti della storia «che altre
indagini speculative avevano invece interpretato o come involuti in una
meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale definita dal pensiero
che l'aveva posta. … La coscienza delle proprie virtù creatrici della storia
non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa prima di esse sta al di
fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori perché affidata al caso
o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e rappresentata nella linea
tracciata dalla sua divina provvidenza». L'invito a separare il
destino dell'Italia fascista dalle chimere del razionalismo e dalle suggestioni
dell'attivismo prometeico e dell'amor fati, non poteva essere formulato con
maggiore chiarezza. Nelle penetranti tesi formulate da Tripodi è in qualche
modo anticipato lo schema della strategia culturale elaborata, nel dopoguerra,
dai pensatori dell'avanguardia cattolica (Giorgio Del Vecchio, Nicola
Petruzzellis, Michele Federico Sciacca, Augusto Del Noce, Francisco Elias de
Tejada, Rocco Montano, Francesco Grisi, Giovanni Torti) che nella filosofia di
Vico vedranno lo strumento adatto a contrastare e battere i poteri
dell'astrazione hegeliana trasferita, intanto, nella parodia inscenata dal
gramscismo. La posta in gioco era la corretta impostazione della dottrina del
diritto naturale, in ultima analisi la soluzione del problema riguardante il
rapporto tra la giustizia ideale e le cangianti leggi che i popoli producono
nel corso della loro storia. Dagli scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse
una indicazione che gli permise di risolvere il problema senza nulla concedere
alle dottrine storicistiche contemplanti un pensiero dell'assoluto che evolve
nel tempo: «esiste non una separazione ma una diversa gradazione d'intensità
etica tra giustizia e diritto. La prima è un diritto naturale soprastorico, che
è patrimonio universale e depositario del sommo vero. Il secondo è dato
dall'insieme delle norme che il mondo delle nazioni partitamente elabora nel
suo progressivo avvicinamento alla giustizia». Di qui l'indicazione di due
altri motivi del consenso fascista alla scienza nuova: il fermo rifiuto delle
astrazioni suggerite dal contrattualismo e la confutazione delle teorie
utilitaristiche, che ritengono l'interesse materiale unica molla delle azioni
umane. Nella definizione del comune fondamento della teoria dello
Stato, Tripodi sostiene, pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di
Mussolini la Provvidenza fa prevalere la solidarietà sull'istinto egoistico:
«la provvidenza ha il suo più alto attributo nel senso della socialità che
perennemente richiama agli uomini, facendo loro vincere il senso egoistico per
cui vorrebbero tutto l'utile per se e niuna parte per lo compagno». Tripodi
conclude il suo ragionamento affermando che «l'unitario ordine di idee nel
quale relativamente alla concezione dello Stato si muovono la dottrina vichiana
e quella fascista» è dimostrato dalla condivisione del fine soprannaturale:
«l'uomo trova nello Stato l'organizzazione storica che gli consente di
realizzare quei principi morali conferitigli dalla divinità e con ciò di
assolvere alla sua stessa funzione trascendente di uomo». E' evidente che
l'identificazione della dottrina fascista con la filosofia vichiana era, per
Tripodi, un mezzo usato al fine rafforzare la convinzione sulla necessità,
imposta dai dubbi destati dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere
con la cultura prevalente in Germania e di condurre all'approdo cattolico le
vere ragioni dell'ideologia fascista. E' però incontestabile che
le tesi di Tripodi erano un ottimo strumento per estinguere l'ipoteca che la
filosofia tedesca aveva acceso sulla cultura italiana. Non a caso, nel dopoguerra,
Tripodi occupò un posto di prima fila nel gruppo degli intellettuali dell'INSPE
(Giorgio Del Vecchio, Carlo Costamagna, Carmelo Ottaviano, Ernesto De Marzio,
Vanni Teodorani, Giovanni Volpe, Gino Sottochiesa, Giuseppe Tricoli, Primo
Siena, Dino Grammatico, Gaetano Rasi) l'istituto che progettava la
trasformazione del MSI di Arturo Michelini in avanguardia di una moderna e
rigorosa destra cattolica. L'attenzione prestata da Pio XII all'evoluzione del
MSI in conformità alle tesi di Tripodi, aprivano le porte del futuro alla
destra. Il congresso del MSI, che doveva tenersi a Genova nel luglio del 1960,
doveva, infatti, approvare in via definitiva la lungimirante linea culturale e
politica di Tripodi, mandando a vuoto i progetti dell'oligarchia favorevole all'apertura
a sinistra. Purtroppo la tollerata (dai democristiani) violenza della piazza
comunista impedì lo svolgimento di quel congresso, respingendo il MSI nel
sottosuolo dionisiaco del pensiero moderno e nelle magiche grotte del
tradizionalismo spurio. La lunga immersione nell'area dell'indigenza filosofica
impoverì a tal punto la cultura di destra che, quando la discesa in campo di
Berlusconi offrì un'altra occasione all'inserimento nella politica di governo,
la classe dirigente del MSI, ottusa dalla retorica almirantiana ed espropriata
dal pensiero neodestro, non seppe produrre altro che le esangui e rachitiche
tesi di Fiuggi. Nato a Genova il 22 giugno 1902 da Eleucadio e da
Francesca Delfò, segui gli studi classici nella città natale. Ancora liceale,
nel maggio del 1919, cominciò a collaborare a Energie nuove di P. Gobetti, con
il quale aveva preso contatto epistolare fin dal 17 dic. 1918, dicendosi
lettore entusiasta del periodico e seguace della dottrina filosofica crociana.
Il Gobetti, ormai orientato verso interessi più specificamente politici, affidò
al giovane C. la trattazione sulla rivista dei temi filosofici. Dal luglio
1921, su segnalazione del Gobetti, Giuseppe Lombardo Radice cominciò ad
accogliere i suoi scritti su L'Educazione nazionale. In linea con
l'orientamento pedagogico idealistico del Lombardo Radice, fin dall'inizio
degli anni Venti il C. prese le distanze dal positivismo pedagogico con un
contributo (Studi sul positivismo pedagogico, Firenze 1921), nato proprio da un
suggerimento del pedagogista siciliano che nel dicembre 1919 glielo aveva
proposto come tema di studio. È qui osteggiato un pensiero ispirato agli
schemi dell'evoluzionismo deterministico e del positivismo scientifico; in
particolare e avversato il meccanicismo naturalistico biologicoevolutivo
(Spencer e Ardigò), cui viene opposta la concezione umanistica dell'educazione
di un Angiulli, di un Siciliani, di un Gabelli. Un'idea di fondo anima le
critiche del C.: è inutile ogni speculazione teoretica che non sappia apportare
nuove indicazioni pedagogiche per il miglioramento delle condizioni di vita
umana, sociale e pratica. Nello stesso orizzonte critico degli Studi si
muovono Le scuole di Lenin (Firenze 1921), La pedagogia di Vincenzo Gioberti
(ibid. 1922) e la Guida bibliografica della pedagogia, specialmente italiana e
recente (ibid. 1923), che faceva seguito alla Bibliografia ragionata della
pedagogia (Milano 1921) scritta in collaborazione con il Lombardo Radice.
Nutrito di idee democratiche, che gli facevano ritenere inadeguato per
l'obiettivo della costruzione di una "nuova Italia" il vecchio quadro
politico postunitario, il C. si impegnò politicamente partecipando alla
costituzione a Genova di un gruppo democratico di sinistra, che aveva tra i
leader Arturo Codignola. Dal 1920 collaborò sia all'Arduo, sia al quotidiano
socialriformista Il Lavoro. In particolare, tipico dei gruppo di
pedagogisti che, in certo qual modo, si ponevano nell'ambito del pensiero
gentiliano (verso cui anche il C. veniva avvicinandosi sulla scia del Lombardo
Radice, sia pure su posizioni autonome), è il tema dell'educazione come
strumento di realizzazione di una coscienza democratico-nazionale. Da qui,
anche per l'influsso delle idee gobettiane, l'attenta considerazione di quanto
veniva fatto in quel campo in Unione Sovietica, all'indomani della rivoluzione
bolscevica. In Le scuole di Lenin l'ammirazione con cui il C. guardava al piano
scolastico educativo diretto da Lunačarskij era determinata in concreto dalla
considerazione che si trattava di una rivoluzione culturale unica nella storia
dell'umanitàl tesa all'elevazione delle classi inferiori per farle partecipare
alla guida della società; la critica più forte, propria della formazione
laico-democratica del C., stava nella denuncia del carattere dogmatico delle
idee del Lunačarskij, quando questi sosteneva che la sua scuola del lavoro non
era disgiungibile dal sistema sociale comunista e dal controllo politico del
partito (pp. 106- 110). Conseguita la laurea in filosofia nel 1923, nel
1924 il C. ottenne presso l'università di Genova la libera docenza in storia
della filosofia e vinse il concorso per le grandi sedi per la cattedra di
filosofia, pedagogia ed economia negli istituti magistrali, ottenendo come sede
Genova. Frattanto la collaborazione con il Gobetti, che più che un sodalizio
intellettuale aveva costituito un formativo comune impegno politico-sociale
all'insegna del programma di democrazia liberale, lo portò in breve tempo allo
scontro con il fascismo ormai trionfante. Dell'ottobre 1925 è la diffida dei
prefetto di Torino contro la Rivoluzione liberale (alla quale il C. collaborava
dal febbraio 1922) e i suoi redattori. La conferma di questo impegno politico e
intellettuale, il C. la offrì ulteriormente curando la pubblicazione postuma di
Risorgimento senza eroi (Torino 1926) del Gobetti e continuando a far uscire
IlBaretti fino al 1928, pur orientando la rivista sempre più verso temi
letterari e filosofici onde evitare scontri ancora più aspri con il regime. Nel
1926, grazie al Croce, che ormai era divenuto per lui - come per tanti altri
antifascisti - "maestro di libertà", assunse la direzione della
collana "Scrittori d'Italia" edita da Laterza. Nel maggio di
quell'anno fu costretto a rinunciare alla collaborazione all'Enciclopedia
Italiana, a cui era stato invitato dal Gentile, per gli atttacchi mossigli
dalla stampa di regime. Il dissenso dalla politica del fascismo ne
provoco l'arresto il 21 apr. 1928; rinchiuso prima nelle carceri. di Marassi a
Genova e quindi trasferito a S. Vittore a Milano, fu scarcerato il 6 luglio
dello stesso anno. Il 16 genn. 1929 venne sospeso dall'insegnamento e dalla
libera docenza. Le accuse - come si legge in una lettera al Croce del 5 febbr.
1929 (in Il Dialogo, 1980) - erano tra l'altro di aver collaborato "al
giornale socialistoide-democratico Il Lavoro" di Genova e di aver avuto
rapporti con l'associazione antifascista Giovane Italia, insomma di essere
"in una condizione di incompatibilità con le direttive generali del
governo". Scagionato anche grazie all'intervento del Croce, il C. fu
riammesso all'insegnamento il 9 aprile e la libera docenza gli fu restituita
con d. m. del 21 giugno 1929. Venne però destinato all'istituto magistrale di
Messina, dove prese servizio dal 16 settembre. Dall'ottobre di quell'anno
ottenne l'incarico di filosofia e storia della filosofia e di pedagogia presso
il magistero dell'università di Messina. Mantenne questi incarichi finché, nel
1933, vincitore di più concorsi, fu chiamato a coprire la cattedra di pedagogia
nell'università di Catania. Nel 1935 passò alla cattedra di filosofia teoretica
(che terrà fino al 1950), conseguendo nel 1936 l'ordinariato. Furono
questi anni di studio intenso. Pur nel crocianesimo di base, si intravvede in
Religione, teosofia, filosofia (Messina 1931) e in Senso comune. Teoria e
pratica (Bari 1933) lo sforzo di plasmare un proprio e originale impianto
teoretico. In dialogo con i principali pensatori dell'idealismo tedesco e
italiano, il C. si misura particolarmente con la crociana logica dei distinti.
L'indagine si muove sul terreno dell'attività teoretico-pratica dello Spirito.
Particolarmente Religione, teosofia, filosofia rappresenta questo tentativo
compiuto dal C. per una revisione del sistema idealistico: vi è fatta emergere
l'esigenza di un pensiero spirituale più attento da una parte alla concretezza
dell'uomo e dall'altra alla ineffabilità di Dio. Perseguendo tale assunto,
nella ricerca di un ordine della verità oltre la logica e la nozione di storia
del Croce, il C. ripercorre in Senso comune le tappe storiche del pensiero
occidentale, ricostruendo la genesi della dualità dello Spirito nella filosofia
greca e poi seguendola nel suo sviluppo e nel suo problematicizzarsi nel
pensiero moderno. La concezione della filosofia come educazione e storia, la
stretta connessione tra la filosofia e la sua storia pongono il C. medianamente
tra il Croce e il Gentile, e tuttavia nel senso di una sicura indipendenza dal
loro pensiero. La sua posizione teoretica può essere così schematizzata: la teoresi
è fondamentalmente caratterizzata dalla dialettica dei distinti, mentre la
prassi genera lo scontro tra gli opposti; la sintesi dei distinti non è un
tertium quid da essi distinto, ma consiste nella loro stessa inscindibile
relazione. La loro circolarità consente, come riaffermerà in Ideologia (Catania
1942), di guardare alla pratica come alla realizzazione della teoria, così che
si può parlare e di un finalismo teoretico della pratica e di un finalismo
pratico della teoria. All'approfondimento critico dei neoidealismo
italiano, il C. affianca l'approfondimento del rapporto tra ricerca filosofica
e fede religiosa. Egli mantiene costante il dialogo tra filosofia, scienza e
fede nelle trattazioni della piena maturità: Ideologia (Catania 1942), Metalogica:
filosofia dell'esperienza (ibid. 1945), Metafisica vichiana (Palermo 1961), in
cui è auspicata la possibilità della sopravvivenza del problema metafisico
nell'orizzonte di una metafisica rinnovata, Conoscenza e metafisica (ibid.
1966). In quest'ultima opera è affrontato il rapporto verità-conoscere,
con l'intento di delimitare i confini del sapere scientifico e di affermare
razionalmente la capacità di intelligere la realtà della rivelazione. Qui la
religione, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in
intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la
riduzione della religione ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferita
una distinta funzione teoretica. La piena adesione del C. allo spiritualismo
cristiano, dunque, fa si che sia elusa la riduzione della filosofia a
metodologia, senza dover rinunciare alla fondamentale esigenza di criticità, e
che l'interesse si concentri su quelle istanze spiritualistiche, invero in lui
presenti dagli anni giovanili sia come atteggiamento di vita - lo si evince
dalle Lettere dal carcere del 1928 - sia come ricerca originale di pensiero. In
tal senso, l'adesione allo spiritualismo cristiano va dunque letta più nella
prospettiva della continuità, dinamica e perciò trasformantesi e trasformante,
che in quella della svolta. Durante la sua lunga e proficua attività
accademica, il C. ricoprì numerose cariche, tra cui quella di preside della
facoltà di lettere e filosofia dell'università di Catania (1943-45); fu presidente
di sezione del British Council di Catania (1944-50) e presidente di sezione
della Società filosofica italiana a Catania (1947-50) e a Palermo (1951-72); fu
anche presidente di sezione dell'Associazione pedagogica italiana. A Palermo si
era stabilito definitivamente allorché venne chiamato prima alla cattedra di
pedagogia (1950-52) e poi a quella di filosofia teoretica (1952-72) presso la
facoltà di lettere e filosofia. Il C. morì a Palermo il 26 genn.
1972. Opere: Per un elenco completo si rinvia a Bibliografia degli
scritti di S. C., a cura di T. Caramella, in Miscellanea di studi filosofici in
memoria di S. C. (suppl. n. 7 degli Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti
di Palermo), Palermo 1974, pp. 371-414. Oltre alle opere citate ci limitiamo a ricordare
qui: E. Bergson, Milano 1925; Antologia vichiana, Messina 1930; Breve storia
della pedagogia, ibid. 1932; La filosofia di Plotino e il neoplatonismo,
Catania 1940; Autocritica, in Filosofi italiani contemporanei, a cura di M. F.
Sciacca, Milano 1946, pp. 225-233; L'Enciclopedia di Hegel, Padova 1947; La
filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli 1947; Introduzione a Kant,
Palermo 1956; La pedagogia tedesca in Italia, Roma 1964; Pedagogia. Saggio di
voci nuove, ibid. 1967. Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato,
Casellario politico centrale, b. 1061, fasc. 21865. Per l'epistolario del C.
contributi in: Lettere dal carcere di S. C., in Giornale di metafisica, XXX
(1975), pp. 26-38; Carteggio con Croce e Gobetti, in Il Dialogo, XVI (1980),
pp.63-I16; Carteggio Lombardo Radice-S. C., a cura di T. Caramella, Genova
1983. Vedi inoltre: M.F. Sciacca, Profilo di S. C., in Annali della facoltà di
magistero della università di Palermo, 1971-72, pp. 5-15; P. Di Vona, Religione
e filosofia nel pensiero giovanile di S. C., ibid., pp. 16-33; F. Conigliaro,
Verità e dialogo nel pensiero di S. C., in Il Dialogo, VIII (1972), pp. 56-65;
A. Guzzo, S. C., in Filosofia, XXIII (1972), pp. 165-167; M. F. Sciacca, Il
pensiero di S. C., in Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo,
XXXII (1971 -73), n. 2, pp. 11-24; A. Sofia, Il dialogo di S. C. con gli uomini
d'oggi, in Labor, XIV (1973), pp. 81-93; F. Cafaro, Commemoraz. di S. C., in
Nuova Riv. pedagogica, XXIII (1973), pp. 17-26; P. Piovani, La dialettica del
vero e del certo nella "metafisica vichiana" di S. C., in Miscellanea
di scritti filosofici in memoria di S. C., Palermo 1974, pp. 251 -262; M.
Ganci, S. C., ibid., pp. 361-366; M. A. Raschini, Commemoraz. del prof. S. C.,
in Giornale di metafisica, XXIX (1974), pp. 465-472; F. Brancato, S. C.: senso
fine e significato della storia, Trapani 1974; V. Mathieu, Filosofia
contemporanea, Firenze 1978, pp. 8-10; P. Prini, La ontologia
storico-dialettica di S. C., in Theorein, VIII (1979), pp. I-II; L. Pareyson,
Inizi e caratteri del pensiero di S. C., in Giornale di metafisica, n. s., I
(1979), pp. 305-330; M. Corselli, La vita dello spirito nella filosofia di S.
C., in Labor, XXI (1980), pp. 157163; M. A. Raschini, Storiografia e metafisica
nella interpretazione vichiana di S. C., in Filosofia oggi, V (1982), pp.
267-278; M. Corselli, La figura di S. C. nel periodo giovanile (1915-1921), in
Labor, XXV (1984), pp. 71-79; G. M. Sciacca, S. C. filosofo, pedagogista,
educatore, in Pegaso. Annali della facoltà di magistero della università di
Palermo. Santino
Caramella. Keywords: “la verita in dialogo”, soggetto, intersoggetivita, lo
spirito oggetivo, spiriti intersoggetivi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Caramella” – The Swimming-Pool Library.
Caramello (Torino). Grice: “I
love Caramello – he exemplifies all that I say about latitudinal and
longitudinal unities of philosophy – Aquinas is a ‘great,’ and Caramello has
dedicated his life to him!” Studia al prestigioso
liceo classico Gioberti di Torino, entra in seminario e nel 1926 riceve
l'ordinazione presbiteriale con una speciale dispensa papale dovuta alla
giovane età a cui aveva completato gli studi. Si laurea a Torino. Insegna a
Torino, e Chieri. Studia e cura Aquino. Praemittit
autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in
hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de
principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti
tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum
oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In
Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim
demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito
dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de
quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur. Si quis
autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae
fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc
dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una
quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum
consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem,
prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et
ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod
significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae
pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem.
Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo
syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro
priorum. Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis
partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia
de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes
enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat.
Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex
aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus
determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis
partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant
naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo
vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine
convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis,
significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et
alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.
His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad
principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae
sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum
(alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam
esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur,
posterius autem manifestabitur. Sed potest dubitari: cum enunciatio
dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem,
sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio
ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum
differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica
enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione,
ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse
ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi
confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo
Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enu nciationibus et
syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et
affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis. Si quis ulterius
quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est
quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut
patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam
non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis,
sicut res naturales ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo
enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior
negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio
enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit
a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione
praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis
accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici,
secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et
non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod
significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus,
sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio,
philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat
se dicturum, sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo
praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de vocibus
significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc
ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo,
determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum
vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa
primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum;
secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex
impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera. Est ergo
considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur
quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus
intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic
passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset
naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis
rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis
innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces
significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt
diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo
uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc,
sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris
animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant:
sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et
nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et
tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo
conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt
in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae. Sed quia
logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est
immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem
considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota,
non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici.
Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus:
quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce,
notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi
ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo
et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet vocum
significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea
quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis.
Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem
tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio
modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit
ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia
consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces
sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter, quae
longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet
suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest
quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam
naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quae
advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum
nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de
lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. Circa id autem quod dicit, earum
quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae
communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et
alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi
passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum,
et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus
significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones animae hic
intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes
significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse
quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet:
significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus.
Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde
Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia
hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam
Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere
quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus
res. Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles
nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed
manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae
operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia
intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali
passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum intellectum.
Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere
intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de anima. Utitur
autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae
passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem conceptum per
vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum refertur ad
conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam
impressionis vel passionis. Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur
etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad
manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus:
ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt
signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec
litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae
significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud
diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non
dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia
dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie,
secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in
prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et
ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur,
sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum
ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt
in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et
verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce.
Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam
praemissorum significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse
secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit
quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter
significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes.
Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem
apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras:
quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum
formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam
dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat
ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec
voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces
naturaliter significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae
naturaliter significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem
apud omnes. Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae
naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde
dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum,
idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae, idest signa;
comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum: voces
enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones), et res
etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae,
scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras
dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter;
passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res
non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in
sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces
passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio
institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In
passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas
res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Obiiciunt autem
quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas
significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas
sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae
passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones
animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius
conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non
intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod
componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest
essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices
intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem
apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud
aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem
simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde
dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et
ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad
primas conceptiones a vocibus primo significatas. Sed adhuc obiiciunt
aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio,
quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo,
qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert;
et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur,
se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est
quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per
comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces
sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum
animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.
Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum
consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum
similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum
negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem
significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam
significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo,
praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim
et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae
vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiae,
quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa
significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili,
sed etiam ex causa quam imitantur effectus. Est ergo considerandum quod,
sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in
III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem
invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine
vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia
voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad
hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum
significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam
autem cum vero et falso. Deinde cum dicit: circa compositionem etc.,
manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu;
secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi:
nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus
quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo
quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet
intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium
intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei
quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel
quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod
huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac
secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur
veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut
etiam traditur in III de anima. Sed circa hoc primo videtur esse dubium:
quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur
quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione.
Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea
quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno
modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt
similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum;
in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si
consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio,
ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc
quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad
rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio
quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens
coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando
sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per
hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum
coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum
significat rerum separationem. Ulterius autem videtur quod non solum in
compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res
dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam
quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio
intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate.
Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in
sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla
est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et
summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et
divisionem. Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas
in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio
modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in
eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente
vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem.
Quod quidem sic patet. Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum,
est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit
per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem
sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines.
Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno
quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad
intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum
quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem
naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut
posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in
hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent
simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur
tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum,
non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt
facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum
verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut
mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum.
Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis;
falsum vero, in quantum deficit a ratione artis. Et quia omnia etiam naturalia
comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est
ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam,
secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum.
Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam
formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat
quoddam divinum. Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam
mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra
animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra
animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus.
Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et
divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem
considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen
cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis
suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi
habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest
cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas
est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem
praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in
re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non
cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a
re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.
Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod
pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et
intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est
absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster
intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit
compositionem et divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur
ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum
circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu,
consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur
intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album
dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed
postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est
instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem
factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam
intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se
positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est
instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis:
quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita
compositio, licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem etc.,
inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex
hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus,
et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam
conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel
falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium
intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus,
quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel
secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed
secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem
utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo
statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit
verum vel falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine
significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus
significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum
huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti;
ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa
enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo
facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis,
scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale,
scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine,
quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat
actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod
consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen;
secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.;
tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non
homo vero non est nomen. Circa primum considerandum est quod definitio
ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil
rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid
aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat. Et ideo
quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per
quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus
ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima.
Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam
quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata,
sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo
factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex
praemissis concludit quod nomen est vox significativa. Sed cum vox sit
quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus
institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex
natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est
signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret
quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in
vas. Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex
parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae
artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut
concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni
subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant
quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum
autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi.
Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione
ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut
cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium
significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus,
convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus,
ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox
significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi
significantia ipsas formas artificiales in abstracto. Tertio, ponit secundam
differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam
a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus
significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum
animalium. Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per
quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies
vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt
considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic
potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest
considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod
primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et
passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum
tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen
et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum
secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo
verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen.
Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod
significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. Quinto,
ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa
separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis
secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis;
nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine
non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars
significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. Deinde cum dicit: in
nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo,
quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero
placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis;
tertia autem particula, scilicet sine temporeit , manifestabitur in
sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat
propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter
nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera.
Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina
composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus,
haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae
est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum
unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad
significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a
laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum
conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur
ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis
compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam
conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis
compositae. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc
differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se
habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus
pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum
apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet
significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus.
Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad
significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab
aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita
conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. Deinde
cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae
definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum
placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod
significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est
quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id
enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc
significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris
significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam
animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis
proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est
nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat
naturaliter. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam
opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant:
nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina
omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines
rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad
hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit;
quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit
naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus
significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex
diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est
autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium
non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus
leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum
est. Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis
ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem
vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim
nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam
determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod
dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat.
Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non
ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum
natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum
natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a
privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a
negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt.
Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari,
requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum
tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est
oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus
compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia
huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et
ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter
indeterminationem significationis, ut dictum est. Deinde cum dicit:
Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis
vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur
principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid
significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi
cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo
quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos
grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione
mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut
rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur. Deinde cum dicit:
ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus
ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis,
scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum
hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non
contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo:
quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis
significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus
verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet
Socratem. Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina,
inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed
dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero
significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod
praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil
determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum
instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic
determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo,
excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.;
tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se
dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem
verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et
cetera. Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non
ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea
intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem
tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine,
in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in
definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula
est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars
nihil extra significat. Sed cum hoc etiam positum sit in definitione
nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox
significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione
nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur
ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam
orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut
ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari.
Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua
perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur
verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen,
quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit
iterari. Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non
solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit:
et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia
scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed
verbum semper est ex parte praedicati. Sed hoc videtur habere instantiam
in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum
dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi,
quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in
vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina.
Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per
se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem.
Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto,
velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio,
ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est
egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per
verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse
processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et
significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae
significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba,
ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.
Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando
in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in
tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio
refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae
accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes,
quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum. Deinde cum dicit:
dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo,
quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc
quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et
semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars
extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis.
Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia
videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum
rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero
cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est
motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est
autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore
mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam,
quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non
convenit nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit
aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis
significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum
actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati,
nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est.
Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia
verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione
oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum
componitur subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de
subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod
essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut
accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant
actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper
significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto
vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet.
Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia
Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et
ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum,
quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata
verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad
compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam
significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum
quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione
compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive
accidentaliter. Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc.,
excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba
praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit
ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est
enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod
praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius
quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non
proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in
definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat
agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies
tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper
ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio
reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem
vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae
dictiones significant remotionem actionis vel passionis. Si quis autem
obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba;
dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto.
Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta
ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a
verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis
conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba
infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter
potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio
apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim
supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis
negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero
negativa in vi duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem curret
etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut
verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri
temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt
casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens
tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem
signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur
praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec
actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem,
quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae
consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta:
cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie
verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati
simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum
quid. Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter
casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum
dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens,
futurum autem quod erit praesens. Cum autem declinatio verbi varietur per
modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam
non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed
ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam
actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel
optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis.
Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque
sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit
convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et
cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a
quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive
sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi;
ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis,
quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est
quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem
impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est
quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant
agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem,
prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet
potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari.
Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per
hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non
significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et
cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in
quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces
significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est
quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum
quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum,
constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod
ille, qui audit, quiescit. Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio
perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se
dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere
velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum
est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui
dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam
operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit
audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius
prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam
operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel
nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem. Et
ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum
significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi.
Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa
verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet
ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum
neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde
multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis.
Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc
consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non
esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet
esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non
esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat
hoc totum, scilicet rem esse vel non esse. Et hoc consequenter probat per
id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum
quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum
nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non
significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius
esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit),
quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per
se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius
significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non
est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur
proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum
intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca
non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud
per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad
intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non
significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum
designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam
compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc
convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum
coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones
aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod
ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius
assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur
hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum
consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet
alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine
extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis,
non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit
ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis
considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non
esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod
dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime
videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic
videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico
est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut
significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed
ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter
significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde
talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem:
quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi,
nisi secundum quod innectit extrema compositionis. Si vero dicatur, nec
ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum
significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se
dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum
esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse,
potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc
excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non
potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis,
quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit
in ea esse verum, vel falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum est
consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex
consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum
actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et
ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter
significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus
substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare
quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus
illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem
secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex
consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus
determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia
enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae
est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc
tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam;
ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio
omnis et cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in
definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et
verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in
definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem
posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in
definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat
tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a
significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem
intellectum, oratio vero significat intellectum compositum. Secundo autem
ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid
significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non
significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus
partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid
separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et
alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed
solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una
quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum
simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi,
sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat:
pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et
verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem
mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum
vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem
non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Sed contra
hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis
convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut
affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et
ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et
posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius
speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo
quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio
simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel
potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in
communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi
simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut
affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes
aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune
orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione
orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod
pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius
sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum
affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet
quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit
dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars
orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret,
secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est
quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit
quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod
partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus
referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes
significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes
referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad
ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal:
quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut
lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal
mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo
omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius
pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde
ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae. Deinde
cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo,
manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi:
sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid
partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars
orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio,
quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in
potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel
negatio, scilicet si addatur ei verbum. Deinde cum dicit: sed non una
hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate
dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei
addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non
conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est
in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum
separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate
venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum
est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et
verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel
litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non
tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis,
quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico
rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut
una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per
se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus,
tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat
simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere
partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest
habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt
voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae
imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito,
partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem.
Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae
possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid,
scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem
significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo
modo, sicut supra dictum est. Deinde cum dicit: est autem oratio etc.,
excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius
partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc
utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta:
quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est
naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius
est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis
conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est
aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed
naturaliter. Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui
intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est
significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia
instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus
formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni
distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis
interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur
naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res
naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio
significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et
voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex
humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam
non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed
supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis,
sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem
corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur
ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo
ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis
non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis
enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars
haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de
diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi
adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio
et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit
enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc.,
in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est
enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem
enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio
ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit
quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem
relinquantur. Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit
instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum
rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo
fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae
est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt
operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in
alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit
ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa,
sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles
mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non
omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit:
sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio
enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.
Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus
veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur
in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro
praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa
est. Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc
definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus
imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non
faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non
exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur
praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam,
quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa,
interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen
vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis
significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum
provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est
vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum
autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia
ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel
falsum. Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso
veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum
conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per
enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent
aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia
diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo
quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad
respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad
exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio
imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur
oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per
expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non
significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed
quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur
verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de
rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur
verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam
vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et
optativa ad deprecativam. Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur
etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae
quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem
intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae
scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio
est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam
demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum
vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum
finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum
veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod
intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones
audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur
provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et
ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem
audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae,
ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout
consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit
enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit
divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et
cetera. Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio
duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam
est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt
extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum,
aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et
unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem
aliqualiter esse unam. Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio
sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior
est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi
dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex
parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est
simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam
negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat
compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem
eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est
divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte
etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae
significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.
Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest
affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde
negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est.
Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam
aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. Ex hoc autem
quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem
et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis
multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis
speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens
esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de
novem generibus accidentium. Sed dicendum quod unum dividentium aliquod
commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias
rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis
illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem
generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam
rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem
generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per
unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter
hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione
entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis,
quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam
rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem
enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua
verum vel falsum est. Deinde cum dicit: necesse est autem etc.,
manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod
enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat
secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel
negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit:
primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum;
secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.
Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet
constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est
praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in
enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc,
quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam
enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam
est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est,
quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid
huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio
enunciativa. Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex
nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod
tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa
invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine
nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur,
currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est
nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars
enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur
apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a
forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de
parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica
dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel
negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod
affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc
melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non
sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de
nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una
simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod
illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit
per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat
compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum
est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens
intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi:
quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem
propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est
definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis
definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii.
Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius
assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per
se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per
formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex
forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia.
Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut
scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae,
idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non
interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si
interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret
primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur
interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem
definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et
interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium
inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad
unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis
servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam,
homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod
absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam
importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et
est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad
materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum
simpliciter. Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad
manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod
dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis
secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa
primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod
ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et
verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis
unitatem manifestat per modos pluralitatis. Dicit ergo primo quod
enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel
una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est
intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant
et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione
proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis. Circa quod
considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis
refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas
voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine
et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est
etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed
tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale
mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae
quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione
est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen
multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia
plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est
pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in
praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta
si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures
enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam,
Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod
enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex,
sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur
quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio,
vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si
vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura
significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia
ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum;
ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit. Sed haec expositio
non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per
disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum
significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra
dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem
est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et
ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam
enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae
sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum,
sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda
una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura
nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa
significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc,
haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi
coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum
significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit
quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est,
quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem
aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est
sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen
haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius
est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat
quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis.
Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura
significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus
pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod
secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae
non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae
est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et
non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam
quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est
simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in
quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque
significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles
quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia
plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen
multa significans. Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit
ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est,
quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum
significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum
subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non
enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad
significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola
manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid
significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum
innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad
interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus,
magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut
cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum
nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante,
vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso
proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando
respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est
proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum
quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si
quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi
legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat,
manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum.
Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est
omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Deinde cum
dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum
rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno
significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis
est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit:
harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur
una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec
quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne
intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum
hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab
aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet
dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo,
enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur
in simplex et compositum. Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat
secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur
in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit
enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi;
et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex
enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad
affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc
intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt
divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in
praesenti. Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret
enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere
affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset
genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione
generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non
significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari
nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur
aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in
praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque.
Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem,
volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et
negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Sed contrarium apparet
ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere,
cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est
enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero
est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem
aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo
Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et
definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non
est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed
quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc
solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis;
melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox
significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio
enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione
enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum
eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione.
Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum
dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem
enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent
poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare
esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium
negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur
enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum
est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem
definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est
autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in
species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis,
hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et
negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel
falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo,
movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo
quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una
opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in
duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis
absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex
parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso;
secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et
sit hoc contradictio et cetera. Circa primum considerandum est quod ad
ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem
enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum
quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet
enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non
esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas
et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel
non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio
falsa. Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum
permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re
enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta
cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur
aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum
dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod
in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus
est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod
pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus
autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas
negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est,
scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam
cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit
affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum
dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit
negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non
est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc
quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel
non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit
vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est
albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens.
Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in
propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam
inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri
temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel
ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet
variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus,
idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu
praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est,
contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit
affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari
nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non
est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod
affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita
sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod
quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius
contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret
aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc
contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et
negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi:
dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur
negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur
contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur
intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni
affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem
opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio
est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem,
quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem
opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et
praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et
negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non
disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem
subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio.
Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum
nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen,
manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc
quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod
enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem
aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit
aequivocationem. Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc
quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et
negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod
affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor
considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est
contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede.
Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio
si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur,
ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit
diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio
si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non
pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si
dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec
omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest
determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates,
idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus
plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem
affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem,
consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et
negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit:
primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam
differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si
ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae
sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo,
dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum,
ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen
vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum
simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis
distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia,
quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo
quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus
praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed
de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est
universale, Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc
divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non
est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae
substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur
esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res
videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod
hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in
enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi
mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur
secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus
intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione
alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est
proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in
quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum
aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut
rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod
convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur
significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est
commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale,
quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est
communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute
secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum,
non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem,
puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem
Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel
de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem
intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de
anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit
autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei
quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid
accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus
remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol,
non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae
ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non
dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum
est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in
materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter
potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari
de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est
ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam
humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat
formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat
una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset
una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII
Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent
individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de
pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine.
Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non
divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est
quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari,
sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem
non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato
significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen
imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic
eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde
cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem
enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem
quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque
enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero
alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus:
quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est
autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam
universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per
se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum
esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter.
Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam
operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis,
sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus
attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae
sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic
considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod
attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet
natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo
est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum
quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus
creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo
extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum
attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur
universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem
ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad
essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum
dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur
ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid
quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari
autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in
apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno
solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est
animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat.
Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit
affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio
enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum
quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est
divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic
enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum.
Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae
quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam
praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis
enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem
enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia
significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur
secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo,
et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas
consequitur materiam. Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc.,
ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem
subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum
in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones
diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile
est et cetera. Circa primum considerandum est quod cum universale possit
considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis
singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum
est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam
dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod
aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab
omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant,
ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum
praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato,
qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas
determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali,
prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra
singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et
similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in
singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt
quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic
accepto. Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur
universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari
de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in
qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa
est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto
universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem
praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod
praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur
sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi
nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo
praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel
removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis
quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod
praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed
quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam
indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In
negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis;
ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur,
non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat,
in quantum excludit universalem affirmationem. Sic igitur tria sunt
genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem
est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur,
omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali
particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua
aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel
particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem
autem sunt negationes oppositae. De singulari autem quamvis aliquid
diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad
singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur;
et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid
praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est
homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. Si igitur tribus
praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis
ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis,
indefinitus et particularis. Sic igitur secundum has differentias
Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo,
secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum
differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum
universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando
autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero
quod et cetera. Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto
universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis,
quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae
enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus.
Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non
enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod
est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum
extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc
enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis
homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum
dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc
remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem,
quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis.
Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. Deinde cum
dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et
negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo,
manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.;
tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et
cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid
vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed
illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem
non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non
dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim
intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc
manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non
universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et
rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est
universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non
apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum
universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto;
et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo
dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat:
quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt
contrariae. Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse
contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a
diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad
contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi
enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus,
homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se
tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse
falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione
significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad
propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et
falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est
albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non
est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a
subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut
cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei
privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est
videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel
etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic
igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae
enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non
sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid
sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Sed nec hoc
videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate
rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur
hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in
indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur
subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter
(quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi
enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur.
Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta,
cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non
apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est
animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si
diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. Deinde cum
dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim
posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod
universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset
aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc
scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non
universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur
aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter.
Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi
videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in
enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis
enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod
universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum
habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando
universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad
aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem
determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare
convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim
dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et
similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid
album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum
praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc
praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei,
sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio
potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum
in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter
praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla
affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter
praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter
praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim,
secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso
continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non
potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si
praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo
esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis,
quod accipitur sub universali. Nec est instantia si dicatur quod haec est
vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non
praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si
diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae. Signum autem
universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur
ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte
praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse
veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est
vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in
quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales
enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae
habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae
aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per
hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit
intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus
determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes
ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando
universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex
oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo
tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi:
contrariae vero et cetera. Particularis vero affirmativa et particularis
negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur
circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale
particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate
pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid
affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et
negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et
negationis, secundum praemissa. Dicit ergo primo quod enunciatio, quae
universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei,
quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit
affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et
particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus,
non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi
particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus;
sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non
quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus
(quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est
universalis negativa), sunt contradictoriae. Cuius ratio est quia
contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem;
universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec
aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa
removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod
particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde
relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis
negativa, et particulari affirmativae universalis negativa. Deinde cum
dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et
dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae;
sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis
negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat
extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc
pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et
negativa se habent sicut medium inter contraria. Deinde cum dicit:
quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio
oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum
ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio,
quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem
in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa
et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae.
Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie
opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut,
non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est
albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus
homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam
album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et
nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum,
sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non
possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul
possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc.,
ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod
considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non
plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno
modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum
est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate
refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec
potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis
affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate
praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem
universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium
enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim
contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi
quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando
dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV
metaphysicorum. Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc.,
ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse
contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod
intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.;
tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem
subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio
et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi
propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare,
et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum
philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de
universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit
verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum
dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus,
et, homo non est probus. In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui
Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit
accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali
ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae;
materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est;
dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo
indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed
negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari
negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam
particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro
universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse
Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in
libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non
est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo
dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum
sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est
verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et
alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per
accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato
etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro
universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis
affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens;
ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem
in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id
quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa
esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo
indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior,
sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione
partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni
parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas
particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et
simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae
negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione
suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi
indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab
universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his,
quae per se de universalibus praedicantur. Deinde cum dicit: si enim
turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes
enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis
affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas,
quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata:
quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum
perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo,
idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro.
Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine
existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam
homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo
est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus;
ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et
eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem
oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur
ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius
quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in
successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est
albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit
albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus.
Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus.
Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem
circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse
inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur
idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet
dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut
ex praedictis manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos
oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi
una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni
affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio
vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit:
primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim
idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et
cetera. Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est
una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit
plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes
opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum
praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo
non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est
albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo
removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est
albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem
universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra
hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem
universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una
est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde
cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo,
per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex
hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est
eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud
idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud
subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter,
vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita
scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni
affirmationi opponitur una sola negatio. [80425] Expositio Peryermeneias,
lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat
propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates
est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria
negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio
opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non
opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est
albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando
subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic
affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non
omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit
exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum:
et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius
propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus,
idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est
universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus,
opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus.
[80426] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra
id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum
indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua
opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad
hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem
refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo,
quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de
eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid
affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur.
Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et
concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una
negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae,
aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de
subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est
etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large
contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in
his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare
autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia
scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul
esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et
ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est
vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt
contradictoria. Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit
quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum
est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua
aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter,
multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas
enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas
enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali,
cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per
multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et
cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum
significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale
universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale
particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et
exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo
est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet
non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine
autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum
sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola
multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis
propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia
praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se
divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. Deinde cum dicit: si
vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem
enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit;
secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil
enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his
et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex
quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non
fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa
continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen
animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad
invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad
excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis,
sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint
partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus.
Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem
enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum
aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit
tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam,
canis est nomen. Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod
dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et
equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio
una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali
ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur,
tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed
istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures
enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si
significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et
equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae
componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica
est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum
ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est
albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est
alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa;
alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum
rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et
multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non
invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum
dicitur, tunica est alba. Deinde cum dicit: quare nec in his etc.,
concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae
utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam,
quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam
philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo
dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod
poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter
inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo,
proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et
cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis
triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum
unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel
coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio
est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod
enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et
quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum
tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro;
et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est
enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu
verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi
sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi
quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur
secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit
subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum
dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se
repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in
materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio
modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter
se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit,
ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de
praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito,
necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa.
Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in
enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter
praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel
negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra
quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter
praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso
universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed
particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit
vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in
enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra
habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de
universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et
altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est.
Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito
vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam
similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel
universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes
affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et
praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario.
In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in
futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque
simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis. Sed in
singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus
necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in
quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse,
quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad
materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem
similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et
praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia
illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per
se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium
rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in
enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod
determinate una oppositarum sit vera et altera falsa. Deinde cum dicit:
nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo
facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa
esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris
non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo,
ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque
quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit
quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio
determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens
est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit:
quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco,
probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum
unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat
hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod
in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel
affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum
dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus
propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et
negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse
est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse
vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter
consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re.
Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod
album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare,
ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re
vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et
eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum
dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel
negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur
quod affirmans vel negans mentiatur. Est ergo processus huius rationis
talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et
futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans
determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit
esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera,
necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod
omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium
excluditur. Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a
casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis
se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam
vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod
causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum
contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam
eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae
contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive
in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad
utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata:
quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis
determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel
non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet
forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in
II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet
propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet,
licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad
utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad
alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non
erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa
hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate
sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et
sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet,
similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum
quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic
expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem,
quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum
determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto
contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per
consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est
in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori
parte. Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam
rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si
enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris,
sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo
modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de
aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album,
erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in
propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit
album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta
sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel
de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius
consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid
vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri,
ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti
vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod
non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et
quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri,
ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae
futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque
ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex
necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo
et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit
determinate dicere esse futurum. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est
aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in
seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est
futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem
contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex
ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate
potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet
inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc
determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest,
hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa
pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud;
unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod
sit futurum, sed quod sit vel non sit. Deinde cum dicit: at vero neque
quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris
utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est
verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non
est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit,
neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum
duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum
et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum
quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam
esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si
ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non
est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in
singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc
autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit
quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et
cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae
sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi;
ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia
inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit
ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia
sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut
in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed
omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo
inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari:
probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex
necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse.
Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter
aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt
superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non
operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea
intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis
finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis. Deinde cum
dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur
ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta
inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem
inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et
cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando
nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc
aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur,
alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio
determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit;
ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in
omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at
vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non
ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno
affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se
habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim
propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel
non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum,
sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod
nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante
quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat
veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere
diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse
sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic
se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat
per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum
esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale
mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod
ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea
quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt
praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt,
et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito
existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum. Deinde cum
dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse
impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et
multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum
in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et
cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta
sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae
agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel
non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo
conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim
sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec
punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et
retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo
philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum;
non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit
aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus,
quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu
moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod
supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic
etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex
necessitate eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc.,
ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus
naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse
et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod
non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est
album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album
permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit
etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est
in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et
non esse. Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit
propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est
quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte
agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile
est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra
probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem
contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam
exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque
possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter
concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in
potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed
eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem
quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in
pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit
vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus. Est autem
considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et
necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea
secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam
erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque
non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia.
Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum;
impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest
prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens.
Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium,
quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem
patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per
accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum,
sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii
melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud
necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile
autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum
est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se
habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc
est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia
Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et
contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi,
in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque
oppositorum. Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in
corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et
non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa
ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde
dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur,
non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae
activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit
determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex
necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo. Hoc igitur
quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus
naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam
dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione
causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa
autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit,
multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis;
et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed hanc rationem
solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum
assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud
quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie
non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse
musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse
musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter
etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum
poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius
effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis
lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Si autem
utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia
ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset
effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus)
reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam,
quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita,
necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad
ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad
bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa,
necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit
utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est. Obiiciunt
autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid
per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se.
Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum
accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens
alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est
per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod
per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens
non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum
proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V
methaphysicae dicitur. Quidam vero non attendentes differentiam effectuum
per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius
provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium
corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim
positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus
quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se
et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive
ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut
probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus
seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis
potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt
actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum.
Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis
subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a
sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et
voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus
sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non
inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas
concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum.
Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae
per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus
effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id
autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam
virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per
accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est
una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus
dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in
corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia
scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum
se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum,
cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter
agentem. Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab
intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se
non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo
format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per
accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem;
sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis
quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se
intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi
occurrant. Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo
aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem
providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui
stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri,
qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et
velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit
omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem
ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem
cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem
appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod
aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est
bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit
sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per
intellectum agens. Sed si providentia divina sit per se causa
omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex
necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest
eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit
evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non
potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.
Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et
operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum
tamen multo dissimiliter se habeant. Nam primo quidem ex parte
cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum
ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine
temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem
temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum
philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est
prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi
homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine
transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus,
in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et
ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos
praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis
extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus,
unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes,
non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius
intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia
igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens
(unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut
dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res
sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit
tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem
cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt,
sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter
in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per
coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut
quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in
potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad
utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia,
sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX
metaphysicae. Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce
aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis
decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia
quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in
seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in
solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed
omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore,
sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc
autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae
respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt
oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso
iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et
infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in
tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter.
Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas
divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam
profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis
possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur
necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem
proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit
causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit
causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum
conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis
omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit
ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate
humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine
necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit
deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem
divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed
quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic
philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur,
volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab
appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab
hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab
hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur
quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic
omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate
provenient. Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa
bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut
prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit;
sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est
conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet
quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes
conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit
intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius.
Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita
scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt
opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo
motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam
bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem
ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim
quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae
sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad
principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua
bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent
ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et
forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed
particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub
ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta,
comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde
moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas
non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus
signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte
consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In
his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in
III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae,
quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere.
Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis
rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et
circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab
enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res
sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas
circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare
quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas;
secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi:
et in contradictione eadem ratio est et cetera. Dicit ergo primo, quasi
ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet
omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet
quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse
est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium:
impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est
illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non
esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et
similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse
est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod
omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non
esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed
ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod
est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non
idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne
ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex
suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de
esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex
necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et
per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his,
quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum
determinate esset futurum. Deinde cum dicit: et in contradictione etc.,
ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem
ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in
suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit
necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita
etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem
oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum
sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc
principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde
impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non
esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute.
Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum
cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras;
similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad
necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit
futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.
Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit
qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se
habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo,
finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et
cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae
ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non
est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita
se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod
contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive
alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat
contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum
contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper
sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed
quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter
se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum
enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione
altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa
determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars
contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in
pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum
determinate sit vera vel falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est
etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod
non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet
veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt,
sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum
est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum
et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse.
Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro
determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de
enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt
autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae
praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina
et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in
enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius
enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima,
ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in
subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod
aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi:
his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa
oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici
enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem
considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit
unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis
infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid
accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem;
secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente
unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit:
primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum
vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de
enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex
parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium
adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam
distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem;
ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit
rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod
non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum
autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi
enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.;
tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. Resumit
ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet
affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est
proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo
aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum;
et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum
affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut
in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur
innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed
solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in
affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum
subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una,
de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod
subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. Deinde
cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum
est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non
homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum,
sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis
remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non
enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam
formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat
negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam
uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde
sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid,
idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est
unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne
aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non
significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. Deinde
cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod
duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex
nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et
hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid
significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi
ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et
negare, ut in primo habitum est. Deinde cum dicit: praeter verbum etc.,
ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum
est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest
enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur
loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni
infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum
constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per
se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut
addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem
potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum.
Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet
verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex
parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur
compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione
positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas
enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut
faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori
intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit
affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut
diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et
infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo
addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in
primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in
casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et
futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde
si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc
est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et
ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri
enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per
respectum ad praesens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen
finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex
differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem;
alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum
universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione
prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem
ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam
affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est.
Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter
ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non
universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus,
in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia
singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi
enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam
praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter
ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto
universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex
parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in
extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant
praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam
philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas
enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti
et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi
enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent;
ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit
de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de
enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et
cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum
triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de
enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum;
secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi:
similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen
infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa
primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium
enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem;
ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et
cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit
quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet
intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens
praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est
quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates
est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in
rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale
praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum
subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut
asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante
hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali
praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia
est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato
facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in
tres. Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando
est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur
oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus,
in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum
erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter
sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando
est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto
existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum
vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est
iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus.
Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum
est, quod est nota praedicationis. Deinde cum dicit: dico autem, ut est
iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum
dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam
tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen,
prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia
dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus
magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad
hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum. Deinde
cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo,
ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae
quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et
cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium
adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes,
consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium
adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum
dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum
ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad
affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum
correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae
vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a
diversis expositum est. Ad cuius evidentiam considerandum est quod
tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque
enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes,
una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est
iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum,
secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo
non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen
privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est
iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo sic
exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae,
quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem,
quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut
privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim
duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad
illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam,
scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non
iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum
consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est
iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus,
affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod
Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et
similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum
consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus,
ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec,
homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura.
Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato,
scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa
de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa.
In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo
duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et
negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt
de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto,
scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non
habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur,
duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed
hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes,
duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas
subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur
intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt
de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur.
Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur. Et ideo, ut Ammonius
dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor
propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad
affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et
negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes.
Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed
secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non
est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de
negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito
praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum
privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter
affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec
hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: haec igitur
quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur
ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum
dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo
praedicato, alium sensum accipit. [Ad cuius evidentiam considerandum est
quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo
totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec
enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere
potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est
iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non
est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex
negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod
sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum
iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non
habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim
est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non
iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut
etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam
ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo
quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa
infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et
de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non
iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus.
Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit
homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod
penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam
negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de
homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de
quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest
dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent
habitum iniustitiae. His igitur visis, facile est exponere praesentem
litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae
quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest
ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum
consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut
duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur
negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus),
ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus,
et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam
affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex
sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex
quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae
est etiam privativarum. Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae
relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime,
idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent
ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam
negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita:
ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed
affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet
quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae
se habent ad infinitas. Quamvis autem secundum hoc littera philosophi
subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam
littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas
respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo
habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu
infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est
expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur
similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas.
Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet
affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum
consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam
sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa
infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero,
scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut
scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur
negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut
infinitae. Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam
quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur
enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur
secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum
quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet
non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio
apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem
affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur
ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae
negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes.
Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per
quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum
est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata
figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex
opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus
scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non
iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel
negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor
enunciationes. Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes
disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis,
idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut
non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit.
Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte
subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito
subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati.
Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte
praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta
littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod
signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non
differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Pietro
Caramello. Keywords: peryermeneias Aquino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Caramello” – The Swimming-Pool Library.
Carando (Pettinengo).
Filosofo. Grice: “I like Carando; a typical Italian philosopher, got his
‘laurea,’ and attends literary salons! – There is a street named after him –
whereas at Oxford the most we have is a “Logic lane!” -- Ennio Carando (Pettinengo), filosofo. Studia
a Torino. Si avvicina all'anti-fascismo attraverso l'influenza di Juvalta (con
cui discusse la tesi di laurea) e di Martinetti. Collaborò alla Rivista di
filosofia di Martinetti, dove pubblicò un saggio su Spir. Insegna a Cuneo,
Modena, Savona, La Spezia. Sebbene fosse quasi completamente cieco dopo
l'armistizio si diede ad organizzare formazioni partigiane in Liguria e in
Piemonte (fu anche presidente del secondo CLN spezzino). Era ispettore del
Raggruppamento Divisioni Garibaldi nel Cuneese, quando fu catturato in seguito
ad una delazione. Sottoposto a torture
atroci, non tradì i compagni di lotta e fu trucidato con il fratello Ettore,
capitano di artiglieria a cavallo in servizio permanente effetivo e capo di
stato maggiore della I Divisione Garibaldi. Un filosofo socratico. La metafisica
civile di un filosofo socratico. Partigiano. Dopo
l'armistizio Ennio Carando, che insegnava a La Spezia presso il Liceo Classico
Costa, entrò attivamente nella lotta di liberazione organizzando formazioni
partigiane in Liguria e in Piemonte. A chi gli chiedeva di non avventurarsi in
quella decisione così pericolosa rispondeva fermamente: "Molti dei miei
allievi sono caduti: un giorno i loro genitori potrebbero rimproverarmi di non
aver avuto il loro stesso coraggio". Ennio Carando. Keywords:
filosofo socratico, Socrate, Alcibiade. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Carando” – The Swimming-Pool Library.
Carapelle (Napoli). Filosofo.
Grice: “I like Carcano; I cannot say he is an ultra-original philosopher, but I
may – My favourite is actually a tract on him, on ‘meta-philosophy,’ or rather
‘language and metaphilosophy,’ which is what I’m all about! How philosophers misuse
‘believe,’ say – but Carcano has also philosophised on issues that seem very
strange to Italians, like ‘logica e analisi,’ ‘semantica’ and ‘filosofia del
linguaggio’ – brilliantly!” Quarto Duca di Montaltino, Nobile dei Marchesi di
Carapelle. Noto per i suoi studi di fenomenologia, semantica, filosofia del
linguaggio e più in generale di filosofia analitica. Studia a Napoli, durante i
quali si formò alla scuola di Aliotta e si dedica allo studio delle scienze.
Studia a Napoli e Roma. Sulla scia teoretica del suo tutore volle approfondire
le problematiche poste dalla filosofia e riesaminare attentamente il linguaggio
in uso. La sua tesi centrale è che correnti come il pragmatismo, il
positivismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo e la psicoanalisi, fossero il
portato dell'esigenza teoretica di una maggiore chiarezza – la chiarezza non e
sufficiente -- delle varie questioni che emergevano da una crisi culturale,
vitale ed esistenziale. Al centro di tale crisi giganteggia la polemica fra
senza senso metafisico e senso anti-metafisica, soprattutto a causa del vigore
critico del positivismo logico, contro il quale a sua volta lui -- che ritiene
necessaria una sostanziale alleanza o quantomeno un aperto dialogo fra la
metafisica e la scienza -- pone diversi rilievi critici, principale dei quali è
quello di minare alla base l'unità dell'esperienza, alla Oakeshott -- che senza
una cornice o una struttura metafisica in cui inserirsi rimarrebbe
indefinitamente frammentata in percezioni fra loro irrelate. A questo
inconveniente si può rimediare temperando il positivismo con lo
sperimentalismo, ovvero accompagnando alla piena accettazione del metodo una
piena apertura all’esperienza così come “esperienza” è stata intesa, ad
esempio, nella fenomenologia intenzionalista intersoggetiva di Husserl. In
questo senso si può procedere a mantenere una costante tensione sui problemi
posti dalla filosofia, in opposizione a ogni dogma di sistema, e al contempo
non cadere nell'angoscia a cui conduce lo scetticismo radicale che tutto
rifiuta, compresa l'esperienza. Non si tratterebbe dunque per la filosofia di
definire verità immutabili ma di sincronizzarsi col ritmo del metodo basato
sull’esperienza fenomenologico, sussumendo i risultati sperimentali e
integrandoli nel continuum di una struttura metafisica mediante il ponte
dell'esperienza. Altre opere: “Filosofia e civiltà” (Perrella, Roma); Filosofia
(Soc. Ed. del Foro Italiano, Roma); Il problema filosofico. Fratelli Bocca,
Roma); La semantica, Fratelli Bocca, Roma – cf. Grice, “Semantics and
Metaphysics”) Metodologia filosofica, una rivoluzione filosofica minore.
Libreria scientifica editrice, Napoli 1958. Esistenza ed alienazione” (CEDAM,
Padova); Scienza unificata, Unita della scienza (Sansoni, Firenze); Analisi e
forma logica (CEDAM, Padova); Il concetto di informativita, CEDAM, Padova); La
filosofia linguistica, Bulzoni Editore, Roma. Dizionario biografico degli
italiani, Roma. Ben altrimenti articolato e puntuale
ci sembra l'intervento operato sulla fenomenologia da Paolo Filiasi Carcano di
Montaltino de Carapelle, quarto duca di Montaltino, ed allievo di Aliotta a Napoli
e pur fedele estensore delle sue teorie, sulle quali, per questo mo tivo, ci
siamo nell'ultima parte dilungati sorvolando sullo scarso ruolo t-he gioca in
esse l'opera di Husserl. L'iter formativo di Filiasi Carcano (1911-1977)
interseca situazioni ed esperienze riscontrabili, come ve dremo, anche in
altri giovani filosofi della stessa generazione. Di più, nel .suo caso, c'è una
singolare — e probabilmente indotta — analogia con la vicenda teoretica del
primo Husserl. In realtà, — scrive l'autore in un brano autobiografico del 1956
— io non posso dire di essere venuto alla filosofia in maniera diretta, per
un'intima voca zione alla speculazione o per un normale maturarsi dei miei
studi e della mia men talità giovanile, ma questa era soprattutto
caratterizzata da un'intensa passione pèrle scienze e da una viva disposizione
per la matematica54. Questo germinale orientamento, unito a una sensibilità
religiosa che non tarderà a manifestarsi, ebbe come primo e scontato effetto di
allontanare Filiasi Garcano dall'area neo-idealistica, il cui radicale
immanentismo, la esclusione dei concetti di peccato e di grazia e l'avversione
per ogni for- 53 Ibidem, p. 7. 54 P. Filiasi Carcano, 17 ruolo della
metodologia nel rinnovamento della filo sofia contemporanea, in AA.W., La
filosofia contemporanea in Italia. Invito al dialogo, Asti, Arethusa, 1958, p.
219. LA PRIMA ONDATA DI STUDI HUSSERLIANI NEGLI ANNI TRENTA 59 ma
di naturalismo, non potevano in alcun modo essere accettati 55. Di qui un
sentimento di estraneità e di insoddisfazione subito denunciati fin dai primi
scritti, l'intima perplessità e la difficoltà di orientarsi in una temperie
culturale già decisa e fissata nelle sue grandi linee da altri. E, d'altro
canto, un naturale rivolgersi al problema metodologico, come pre liminare
assunzione di consapevolezza circa i percorsi teoretici che con veniva seguire
per ottenere uno scopo valido, senza tuttavia ancora nul la presumere circa la
necessità di quei percorsi o la natura di questo sco po. In tal senso,
l'elaborazione di una qualsivoglia metodologia doveva prevedere come esito
programmatico, da un lato, una sorta di epochizza- zione delle grandi tematiche
metafisiche e della tradizionale formulazione dèi problemi, dall'altro lato, un
lungo e paziente lavoro di analisi, con fronto, chiarificazióne e comprensione
che consentisse di recuperare, di quelle tematiche e di quei problemi, il
contenuto più autentico. Ma più lo sguardo critico del giovane filòsofo andrà
maturando fino ad abbracciare nel suo complesso il controverso panorama
culturale del tempo, più quel programma iniziale perderà la sua connotazione
prope deutica per trasformarsi in compito destinale, in una ' fighi for
clarity* che assumeva i termini di un radicale esame di coscienza nei confronti
della filosofia. Scrive Filiasi Carcano: Confesserò che varie volte ho avuto ed
ho l'impressione di non aver abba stanza compreso, e per questo alla mia spontanea
insoddisfazione (al tempo stesso scientifica e religiosa) si mescola un senso
di incomprensione. Questo stato d'animo spiega bene il mio atteggiamento che
non è propriamente di critica (...), ma ha piut tosto il carattere di un
prescindere, di una sospensione del giudizio, di una messa in parentesi, in
attesa di una più matura riflessione 56. Al fondo dei dualismi e delle vuote
polemiche che, nella comunità filoso- fica italiana degli anni Trenta,
sembravano prevaricare sulle più urgenti esigenze scientifiche e di sviluppo,
Filiasi Carcano coglie i sintomi dì un conflitto epocale, di una inquietudine
psicologica e di un'incertezza morale che andranno a comporsi in una vera e
propria fenomenologia della crisi. ' Crisi della civiltà ', anzitutto, come
recita il titolo della sua opera prima 57, dove al desiderio di fuggire
l'alternativa del dogmatismo fa da 55 Per questi punti mi sono riferito a M. L.
Gavazzo, Paolo Filiasi Carcano,. «Filosofia oggi», X, 1, 1987, pp. 57-74. ; *
P; Filiasi Carcano, // ruolo della metodologia, ;cit., p. 220. 57 Cfr. P.
Filiasi Carcano, Crisi della civiltà e orientamenti della filosofia
60 .CAPITOLO TERZO contraltare l'eterno dissidio tra ragione e fede.
Crisi esistenziale, di con seguenza, dovuta al prevalere delle tendenze
scettiche e antimetafisiche su quelle spirituali e religiose. Crisi della
filosofia, infine, fondata sulla raggiunta consapevolezza del suo carattere
problematico, sull'incapacità di realizzare interamente la pienezza del suo
concetto. Come moto di reazione immediata occorreva allora, oltreché
circoscrivere le proprie pre tese conoscitive ponendosi su un piano
risolutamente pragmatico, assur gere ad una più compiuta presa di coscienza
storica e conciliare la filoso fia con una mentalità scientificamente educata.
Solo, cioè, il confronto con una seria problematica scientifica (la quale
Filiasi Carcano vedeva realizzata nell'ottica positivista dello sperimentalismo
aliottiano) avreb be potuto segnare per la filosofia l'avvento di una più
matura riflessione intorno alle proprie dinamiche interne e ai propri genuini
compiti critici. E a questo scopo parve a Filiasi Carcano, fin dai suoi studi
d'esor dio, singolarmente soccorrevole proprio l'opera di Edmund Husserl. Scri
ve Angiolo Maros Dell'Oro: A un certo punto si intromise Husserl. Filiasi
Carcano pensò, o sperò, che là fenomenologia sarebbe stata la ' scienza delle
scienze', capace di indicargli la via zu den Sachen selbsf, per dirla con le
parole del suo fondatore. Da allora è stata invece per lui l'enzima patologico
di una problematica acuta 58. Sùbito rifiutata, in realtà, come idealismo
metafisico, quale eira frettolo samente spacciata in certe grossolane versioni
del tempo (non esclusa, lo ^bbiamo visto, .quella del suo, maestro), la
fenomenologia viene aggredita alla radice dal giovane studioso, con una cura e
un rigore filologico — i quali pure riscontreremo in altri suoi coetanei —
giustificabili solo con l'urgenza di una richiesta culturale cui l'ambiente
nostrano non poteva evidentemente soddisfare. Non è un caso che Filiasi Carcano
insista, fin dal suo primo articolo dedicato ad Husserl, sul valore della
fenomeno logia, ad un tempo, emblematico, nel quadro d'insieme della filosofia
contemporanea, e liberatorio rispetto al giogo dei tradizionali dogmi
idealistici che i giovani, soprattutto in Italia, si sentivano gravare sulle
spalle ". contemporanea, pref. di A. Aliotta, Roma, Libreria Editrice
Francesco Perrella, 1939, pp. VIII-202. • s* Cff. Il pensiero scientifico ìtt
Italia '(1930-1960), Creiriòria, Màngiarotti Editore, 1963, p. 108. 39 Cfr. P.
Filiasi Cartario/ Da Carierò'ad H«w&f/, :« Ricerche filoSofìche », VI, 1;
1936; pp: 18*34. LA PRIMA ONDATA DI STUDI HUSSERLIANI NEGLI ANNI
TRENTA 61 In piena coscienza, — scriverà l'autore nel 1939 — se abbiamo voluto
scio gliere l'esperienza da una necessaria interpretazione idealistica, non è
stato per forzarla nuovamente nei quadri di una metafisica esistenziale, ma per
ridare ad essa, secondo lo schietto spirito della fenomenologia, tutta la sua
libertà 60. Tale schiettezza, corroborata da un carattere decisamente
antisistema tico e dal recupero di una vitale esigenza descrittiva, avrebbe
consentito lo schiudersi di un nuovo, vastissimo territorio di indagine,
sospeso tra constatazione positivistica e determinazione metafisica, ma capace,
al tem po stesso, di metter capo ad un positivismo di grado superiore e ad un
più autentico pensare metafisico. Si trattava, in sostanza, non tanto di
dedurre i caratteri di una nuova positività oppure di rifondare una me-
tafisica, quanto piuttosto di guadagnare un più saldo punto d'osserva zione
dal quale far spaziare sul multiverso esperienziale il proprio sguar do
fenomenologicamente addestrato. È in questo punto che la fenome nologia,
riabilitando l'intuizione in quanto fonte originaria di autorità
(Rechtsquelle), operando in base al principio dell'assenza di presupposti e
offrendo i quadri noetico-noematici per la sistemazione effettiva del suo
programma di ricerca, veniva ad innestarsi sul tronco dello sperimenta lismo
di stampo aliottiano, che Filiasi Carcano aveva assimilato a Napoli negli anni
del suo apprendistato filosofia). Il ritorno ' alle cose stesse * predetto
dalla fenomenologia non solo manteneva intatta la coscienza cri tica rimanendo
al di qua di ogni soglia metafisica, ma anche e più che mai serviva a ribadire
il carattere scientifico e descrittivo della filosofia. In un passo del 1941 si
possono scorrere, a modo di riscontro, i punti di un vero e proprio manifesto
sperimentalista: Descrivere la nostra esperienza nel mondo con l'aiuto della
critica più raffi nata; cercare di raccordarne i vari aspetti in sintesi
sempre più vaste e più com prensive, esprimenti, per cosi dire, gradi diversi
della nostra conoscenza del mon do; non perdere mai il senso profondo della
problematicità continuamente svol- gentesi dal corso stesso della nostra
riflessione; infine stare in guardia contro tutte le astrazioni che rischiano
di alterare e disperdere il ritmo spontaneo della vita: sono questi i principali
motivi dello sperimentalismo e (...) al tempo stesso, i modi mediante i quali
esso va incontro alle più attuali esigenze logiche e metodologiche del pensiero
contemporaneo61. D'altro canto, si diceva, non è neppure precluso a questo
program- *° P. Filiasi Carcano, Crisi della civiltà, cit., p. 138. 61 P.
Filiasi Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo, Roma, Perrella, 1941, p.
120. 62 ......... CAPITOLO TERZO ma un esito trascendente, e a
fenderlo possibile sarà ancora una volta, in virtù della sua cruciale natura
teoretica, proprio l'atteggiamento feno menologico. Scrive Filiasi Carcano: In
realtà, il dilemma tra una scienza che escluda l'intuizione e una intui zione
che escluda la scienza, non c'è che su di un piano realistico ma non su di un
piano fenomenologicamente ridotto: su questo piano scienza e intuizione tornano
ad accordarsi, accogliendo una pluralità di esperienze, tutte in un certo senso
le gittime e primitive, ma tutte viste in un particolare atteggiamento di
spirito che sospende ogni giudizio metafisico. È questo, com'io l'intendo, il
modo particola rissimo con cui la filosofia può tornare oggi ad occuparsi di
metafisica 62. Certo, nella prospettiva husserliana, il problema del
trascendens puro e semplice, che farà da sfondo a tutto il percorso speculativo
di Filiasi Carcano, sembrava rimanere ingiudicato o, almeno, intenzionalmente
rin viato in una sorta di ' al di là ' conoscitivo, Ma in ordine alla missione
spirituale che l'uomo deve poter esplicare nel mondo storico, il metodo
fenomenologico conserva tutta la sua efficacia. Esso —nota Filiasi Carcano
nelle ultime pagine del suo Antimetafisica e spe rimentalismo — certo
difficilmente può condurre a risultati, ma compie per lo meno analisi e
descrizioni interessanti, e tanto più notevoli in quanto tende a sollevare il
velo dell'abitudine per farci ritrovare le primitive intuizioni della vita
religiosa 63. Dato questo suo carattere peculiare e l'orizzonte significativo
nel quale viene assunta fin dal principio, la fenomenologia continuerà a va
lere per Filiasi Carcano come referente teoretico di prim'ordine, accom
pagnandolo, con la tensione e la profondità tipiche delle esperienze fon
damentali, in tutti i futuri sviluppi della sua speculazione. III.3. -
LASCUOLATORINESE. ANNIDALEPASTOREENORBERTOBOBBIO. La terza grande area di
interesse per il pensiero hussèrliano negli anni Trenta in Italia, fa capo
all'Università.di Torino e si costituisce prin cipalmente intorno all'attività
4i tre studiosi: il primo, già incontrato e che, in qualche modo, fa da ponte
fra questa e la neoscolastica mila nese è Carlo Mazzantini; il secondo è
Annibale Pastore —ne parleremo ora — che teneva nell'ateneo torinese la
cattedra di filosofia teoretica; 6- P, Filiasi Corcano,. Crisi .della civiltà,
.eit,,. p.., 184. ,: ; 63 P. Filiasi Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo,
cit., p. 153. Paolo Filiasi Carcano di Montaltino di Carapelle. Paolo
Filiasi Carcano. Paolo Carcano. Montaltino. Keywords: semantica, quarto duca di
montaltino, semantica ed esperienza, semantica e fenomenologia, filiasi
carcano, montaltino, carapelle. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carapelle” –
The Swimming-Pool Library.
Carbonara (Potenza).
Grice: “I like Carbonara; my favourite of his tracts are one on ‘del bello,’ –
another one on ‘dissegno per una filosofia critica dell’esperienza pura:
immediatezza e reflessione’ – but mostly his ‘esperienza e prassi,’ which fits
nicely with my functionalist method in philosophical psychology: there is input
(esperienza), but there is ‘prassi,’ the behavioural output --; I would prefer
this to the tract on the ‘filossofia critica’ since I’m not sure we need
‘reflexion’ to explain, say, communication – not at least in the way Carbonara
does use ‘reflessione,’ alla Husserl. Conseguito
il diploma liceale, si trasferì a Napoli, frequentando la facoltà di filosofia.
Ottenuta la laurea sotto Aliotta, collabora per “Logos”. Insegna a Campobasso, Nocera
Inferiore, Cagliari, Catania, e Napoli.
Con “Disegno d'una filosofia critica dell'esperienza pura”, rifacendosi
alla filosofia kantiana e riprendendo il discorso idealistico ne mette in
rilievo il tentativo fallito di Gentile di dare concretezza all’astratto.
Nell'attualismo, il ritorno all’atto, al fatto, si risolve infatti nell'atto
sempre uguale e sempre diverso del pensare, unica realtà e verità del pensiero
e della storia: «vera storia non è quella che si dispiega nel tempo, ma quella
che si raccoglie nell'eterno atto del pensare».. Il problema secondo
Carbonara anda esaminato riportandolo alla sua origine, cioè al problema del rapporto
tra esperienza e concetto, tra realtà e concetto così come era stato affrontato
dalla filosofia kantiana e che Gentile crede di risolvere stabilendo un rapporto
dialettico tra il concetto e il suo negativo all'interno del concetto stesso.
La soluzione invece era in nuce secondo Carbonara nella sintesi a priori
kantiana dove convivono forma (segnante) e contenuto (segnato) per cui la
coscienza è per un verso forma, contenitore (segnante) di un contenuto (segnato)
storico e per un altro *coincide* col suo contenuto (segnato) in quanto il
contenuto (segnato) non avrebbe realtà al di fuori della forma della coscienza
segnante. La successiva questione si pone considerando oltre il rapporto
del pensiero – il segnante -- con la materia quella collegata all'origine del
pensiero stesso. Ancora una volta Kant intravede la soluzione nella teoria
dell' “io penso” che però va ora intesa non come la struttura logico-metafisica
della realtà storica, ma come la sua struttura psicologica ma *trascendentale*
o "esistenziale", secondo una concezione della "filosofia
dell'esperienza pura" nel senso che l'esperienza coincide col divenire
della vita dello spirito e deve restare indifferente al problema, ch'è
propriamente di natura ontologica, circa la sua dipendenza o indipendenza da
una realtà diversa dal mio spirito. Il rapporto tra pensiero e materia porta
Carbonara ad indagare quello tra filosofia e scienza con “Scienza e filosofia”
in Galilei, in cui sostiene che mentre da un punto di vista filosofico non si
può andare oltre l'ambito dell'autocoscienza (il mio spirito – Il “I am hearing
a noise” di Grice) del cogito cartesiano, al contrario la scienza si basa sulla
necessità di fondarsi sul mondo esterno (nel spirito dell’altro – intersoggetivita).
Forse la soluzione di questa antinomia, sostiene Carbonara, va ricercata nell'insoddisfazione
dello stesso idealismo verso se stesso non potendo rinunciare a se stesso ma neppure
al suo opposto -- nec tecum nec sine te -- solus ipse. Si interessa anche
della filosofia rinascimentale a Firenze. Nota come in quel periodo si fosse
realizzata una fusione tra il cristianesimo e il neo-platonismo così come ad
esempio in Ficino prete cattolico che visse la sua fede come teologia razionale
dando una base filosofica, trascurando la stessa rivelazione, alla sua
spiritualità religiosa: In Ficino, il platonismo si congiunge al
cristianesimo non soltanto sul fondamento di una religiosità profonda da cui il
primo appare permeato, ma anche per una tradizione storica ininterrotta, per
cui l'antichissima saggezza, ripensata da Platone e dai neoplatonici, si
ritrova trasfigurata ma tuttavia persistente nei Padri della Chiesa e nei
dottori della Scolastica. Come apprendiamo dall'Epistolario di Ficino, la sapienza
e intesa come un dono divino e come mezzo per cui l'uomo può elevarsi fino a
Dio. Tale principio fu poi appreso da Pitagora, Eraclito, Platone, Aristotele,
i neoplatonici. Riemerse nella speculazione filosofica ispirata dalla
Rivelazione cristiana e si ritrovò quindi in Agostino. Lo stesso Cicerone
figura nella catena dei platonici romani. Riallacciandosi a quella
tradizione e meditando sui testi platonici, Ficino concepí il disegno, portato
a termine di ricostruire su fondamento platonico la teologia il platonismo vi è
considerato come il nucleo essenziale di una teologia razionale i cui princípi
coincidono con quelli della rivelazione. Tale coincidenza è il principale
argomento con cui si riesce a dimostrare l'eccellenza del cristianesimo
rispetto alle altre religioni positive. Del resto Ficino è disposto ad
ammettere che qualsiasi culto, purché esercitato con animo puro, reca onore e
gradimento a Dio. Altre opere: “L'individuo, i dividui, e la storia; Scienza e
filosofia in Galilei; Esperienza; Umanesimo e Rinascimento (Catania) Del Bello;
Introduzione alla Filosofia (Napoli; Materialismo storico e idealismo critico; Sviluppo
e problemi dell'estetica crociana; I presocratici; Esperienza ed umanesimo
(Napoli) La filosofia di Plotino; “Persona e libertà”; Ricerche di un'estetica
del contenuto”; Esperienza e prassi; Discorso empirico delle arti, Il
platonismo nel Rinascimento. Cleto Carbonara. Keywords: esperienza, dull title:
“l’empirismo come filosofia dell’esperienza”! – i periti conversazionale – esperienza
dell’altro, persona e persone – solipsism, anti-solipsismo – esperienza,
sperimento, esperire, perito, perizia, per, fare, fahren, --. altri, altro,
l’altro, l’altri. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carbonara” – The
Swimming-Pool Library.
Carbone (Mantova). Grice:
“I love Carbone; my favourite of his tracts are on the ‘unexpressible’ – a
contradictio in terminis – and on ‘the flesh and the voice’ – but the favourite-favourite are his tract on ‘il bello’ (‘eidos ed eidolon’)
and even more, his “La dialettica”. Si
laurea a Bologna con “Marxismo: i soggetti nella storia". Studia a Padova.
Insegna a Milano. Opere: Condannàti alla libertà, adattamento teatrale del
romanzo di Sartre L'età della ragione, che è stato messo in scena in quello stesso
anno. Fonda a Pisa con il sostegno del Leverhulme Trust un
Programma di ricerca sulla filosofia, concentrandolo
su alcune delle sue figure più importanti e sulle parole-chiave: l'essere, la
vita, il concetto». Dirige la collana f«L'occhio e lo spirito. Estetica,
fenomenologia, per Mimesis Edizioni. Si
concentra sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, indagandone il duplice ma
unitario significato estetico di riflessione filosofica sull'esperienza
percettiva e sull'esperienza artistica attraverso l'esame del parallelo
interesse manifestato da Merleau-Ponty per Cézanne e Proust. Tale indirizzo di
studi si è allargato dapprima a una più vasta considerazione della
fenomenologia e poi a quella del pensiero post-strutturalistico sviluppatosi in
Francia, pur mantenendosi imperniato sul parallelo interesse per la riflessione
filosofica sulla pittura e sulla letteratura moderne. Questo ampliamento ha
inoltre condotto gli studi ad affrontare tematiche di carattere gnoseologico e
ontologico, spingendolo anche a problematizzare il tradizionale rapporto tra la
filosofia e la "non filosofia". Tli orientamenti hanno trovato sbocco
in una riflessione sul peculiare statuto delle immagini nella nostra epoca,
sulle possibili implicazioni etico-politiche del rapporto con esse e sulla
dimensione ontologica dell'"essere in comune" (morire insieme,
dividualita, dividuo). che in tali implicazioni troverebbe espressione. Cura Merleau-Ponty
(Il visibile e l'invisibile; Linguaggio Storia Natura, La Natura, È possibile
oggi la filosofia? Saggi eretici sulla filosofia della storia) e Cassirer -- Eidos
ed eidolon, il bello. Influenzato prevalentemente
da Merleau-Ponty, di cui ha sviluppato in maniera teoreticamente personale
alcune nozioni. Tra queste, spicca il concetto di "idea sensibile",
intesa quale essenza che s'inaugura nel nostro incontro col sensibile e da
questo rimane inseparabile, sedimentandosi in una temporalità retroflessa --"tempo
mitico". Alla prima di queste nozioni è dedicato il dittico “Ai confini
dell'esprimibile” e “Una deformazione senza precedente: la idea sensibile Porta
a sintesi le implicazioni filosofiche delle nozioni sopra citate nel concetto
di "de-formazione senza precedenti", con cui egli intende
caratterizzare il peculiare statuto che a suo avviso la de-formazione assume
nell'arte, al fine di staccarsi dal principio imitativo della rappresentazione
e dunque dalla concezione del modello inteso quale “forma” preliminarmente
data. Alle nozioni sopra menzionate si è andata successivamente collegando
quella di "precessione reciproca" tra l’immaginario e il reale che
Carbone ha proposto di dar conto del prodursi della peculiare temporalità
retroflessa detta "tempo mitico". Cerca di sviluppare le implicazioni
etico-politiche della concezione della memoria legata all'idea di
"deformazione senza precedenti" nella sua riflessione sue venti di
cui ha sottolineato l'irriducibile carattere visivo indagandolo pertanto
mediante un approccio anzitutto estetico. Cerca le radici ontologiche di tali
implicazioni etico-politiche della filosofia, proponendo le nozioni di
"a-individuale" e di "dividuo" per sottolineare
l'intrinseco carattere re-lazionale (e dunque il divenire e la divisibilità) di
ogni identità. Altre opere: “Ai confini
dell'esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust, Milano,
Guerini e Associati); Il sensibile e l'eccedente. Mondo estetico, arte,
pensiero, Milano, Guerini e Associati); Di alcuni motivi in Marcel Proust,
Milano, Libreria Cortina); La carne e la voce. In dialogo tra estetica ed etica,
Milano, Mimesis); Essere morti insieme (Torino, Bollati Boringhieri). Sullo
schermo dell'estetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare, Milano,
Mimesis). Una deformazione senza precedenti. la idea sensibile, Macerata,
Quodlibet). Mauro Carbone. Keywords: “individuo e dividuo” eidos, il bello,
essere en comune, mit-sein, #DialetticaDegl’EntrambiDividui -- -- --. Merleau-Ponty
‘linguaggio’, individuus, dividuus, dividuo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Carbone” – The Swimming-Pool Library.
Carboni (Livorno).
Filosofo. Grice: “I love Carboni – my favourite of his tracts is ‘between the
image and the ‘parable’” – a semiotics of communication with sections on ‘the
tacit response,’ through the looking-glass’, ‘towards the hypertext,’ and
quoting extensively from some ‘conversational-implicature’ passages in
Aristotle’s metaphysics, ‘To ask ‘why is man man?’ is to ask nothing!” “For
some expressions, analogy suffices!” Insegna a Roma, Bari, Viterbo. Altre opere: L’angelo del fare. Melotti e la
ceramica (Skira) e Il colore nell’arte (Jaca).
Cura Dorfles, Brandi, Deleuze, Guattari, Adorno. Tra le recensioni dei
suoi saggi si segnalano: Giacomo Marramao, Gianni Vattimo (“L’Espresso”), Gillo
Dorfles (“Il Corriere della Sera”), Victor Stoichita (“il manifesto”). Al
Festival delle Letterature di Mantova hanno presentato i suoi saggi Sini e Didi-Huberman. Scrive su “Nòema” e “Images Re-vues” e sulla “Rivista di
Estetica”. “L’Impossibile Critico. Paradosso della
critica d’arte, Kappa); “Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Editori
Riuniti); “Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi);
“Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento,
Castelvecchi); “L’ornamentale. Tra arte e decorazione, Jaca); “L’occhio e la
pagina. Tra immagine e parola, Jaca); “Lo stato dell’arte. L’esperienza
estetica nell’era della tecnica, Laterza); “La mosca di Dreyer. L’opera della
contingenza nelle arti, Jaca); “Di più di tutto. Figure dell’eccesso,
Castelvecchi); “Analfabeatles. Filosofia di una passione elementare,
Castelvecchi); “Il genio è senza opera. Filosofie antiche e arti contemporanee”
Jaca); “Malevič. L'ultima icona. Arte, filosofia, teologia, Jaca). Drawing after the Antique at the British Museum,
1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State, Martin
Myrone Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art
Education and the Advent of the Liberal State Martin Myrone Abstract From 1808
the British Museum in London began regularly to open its newly established
Townley Gallery so that art students could draw from the ancient sculptures
housed there. This article documents and comments on this development in art
education, based on an analysis of the 165 individuals recorded in the
surviving register of attendance at the Museum, covering the period 1809–17.
The register is presented as a photographic record, with a transcription and
biographical directory. The accompanying essay situates the opening of the
Museum’s sculpture rooms to students within a farreaching set of historical
shifts. It argues that this new museum access contributed to the early
nineteenth-century emergence of a liberal state. But if the rhetoric
surrounding this development emphasized freedom and general public benefit in
the spirit of liberalization, the evidence suggests that this new level of
access actually served to further entrench the “middleclassification” of art
education at this historical juncture. Authors Martin Myrone is an art
historian and curator based in London, and is currently convenor of the British
Art Network based at the Paul Mellon Centre for Studies in British Art.
Acknowledgements The register of students admitted to the Townley Gallery was
originally consulted during my term as Paul Mellon Mid-Career Fellow in
2014–15. Thank you to Mark Hallett and Sarah Victoria Turner of the Mellon
Centre for their continuing support and guidance, to Baillie Card and Rose Bell
for their careful editorial work, Tom Scutt for crafting the digital presentation
of my research, the two anonymous readers for their valuable critical input,
and to Antony Griffiths, formerly of the British Museum, and Hugo Chapman,
Angela Roche, and Sheila O’Connell of the British Museum, for providing access
to the register and for their advice. I am especially indebted to Mark Pomeroy,
archivist, and his colleagues at the Royal Academy of Arts for the access
provided to materials there and for advice and suggestions. I would also like
to thank Viccy Coltman, Brad Feltham, Martin Hopkinson, Sarah Monks, Sarah
Moulden, Michael Phillips, Jacob Simon, Greg Sullivan, and Alison Wright. Cite
as Martin Myrone, "Drawing after the Antique at the British Museum,
1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State", British
Art Studies, Issue 5,
https://dx.doi.org/10.17658/issn.2058-5462/issue-05/mmyrone From the summer of
1808 the British Museum in London began regularly to open its newly established
galleries of Graeco-Roman sculpture for art students. The collection, made up
almost entirely of pieces previously owned by Charles Townley, had been
purchased for the nation in 1805 and installed in a new extension to the
Museum’s first home, Montagu House, which was built earlier in 1808. After some
protracted discussion with the Royal Academy, detailed below, the collection
was made available for its students in time for the royal opening of the
Townley Gallery on 3 June 1808. From January 1809, a written record was kept of
students admitted to draw from the antique. This volume survives in the library
of the Department of Prints and Drawings at the British Museum and identifies
one hundred and sixtyfive separate individuals admitted through to 1817. 1 The
register forms the focus of this essay and is presented here as a facsimile and
transcription, with an accompanying directory of student biographies (see
supplementary materials below). This may be taken as a straightforward
contribution to the literature on early nineteenth-century art education, and
the author hopes it may be useful as such. However, it also situates the
opening of the Museum’s sculpture rooms to students within a rather more
far-reaching set of historical shifts. Namely, it argues that this new form of
museum access was part of the early nineteenth-century emergence of a liberal
state that “actively governs through freedom (free ‘individuals’, markets,
societies, and so on, which are only ‘free’ because the state makes them so)”.
2 Access to the British Museum was “free” in that there were no charges or
fees. Meanwhile, the arrangement offered a degree of freedom to the students
themselves; they were expected to be largely self-selecting and
self-regulating. When the arrangement was exposed to public scrutiny, as a
result of questions asked in parliament in 1821, the freedom of access and the
service this did to the public good were emphasized. But, once closely
scrutinized, the evidence suggests that this manifestation of the freedoms
encouraged by the liberal state had a social disciplinary role (even if
disciplinary function can hardly be recognized as such), in serving to further
entrench the “middle-classification” of art at this historical juncture. 3 The
conjunction of art education and a grandiose notion such as the liberal state
may be unexpected, and rests on three key assertions. The first is that art
worlds are structured and in their structure have a homological relationship
with the larger social environment. 4 The initial part of this statement (that
art worlds are structured) may not be especially hard to swallow, given the
relatively formalized and hierarchical nature of the London art world during
the early nineteenth century, when cultural authority was vested in a small
number of institutions, and the practices associated with academic tradition in
principle still held sway. However, that the structure of the art world, in its
hierarchical dimension, may also be homologically related to the larger field
of power, so that social relationships are reproduced within this relatively
autonomous sphere, is more clearly contentious, and runs contrary to
commonplace beliefs and expectations about talent and luck in determining
personal fate in the modern age—artists’ fortunes most especially. In fact, in
the period under review here, the artist became an exemplary figure in the new
narratives of social mobility: the art world came to serve as a model of how
talent or sheer good fortune could override social origins and destinies. 5 The
second assertion is that the Royal Academy and British Museum were developing
new forms of state institution, underpinned by the conjoined principles of
freedom of access and public benefit. Such has been argued importantly by
Holger Hoock, and while I depart from his arguments in some key regards, his
insights into the status of these institutions and the role of forms of
public–private partnership in their formation are crucial. 6 The third
assertion (and this marks a departure from Hoock), is that the state is not a
stable, centralized entity, or site of power either “up above” or “below”
historical actors. Instead, it is taken to be the sum of actions and
dispositions ostensibly volunteered by these historical agents in all their
multitude and variety. The crucial point of reference here is the sustained
body of work on the liberal state by the historian Patrick Joyce, deploying the
work of Bruno Latour and Michel Foucault, among others, to yield a more
materialistic and decentralized understanding of the emergence and role of
state bodies. 7 The state, in this view, is composed of technologies,
disciplinary structures, habits of mind, and ways of doing things. The
mechanics of art education, insofar as this involves the movement through or
exclusion of individuals from identified places, the arrangement of their bodies
in relation to one another and to their model, the management of their
behaviour within those places, the very motion of their bodies, hands, and eyes
under the surveillance of their peers, teachers or other authorities, may be
considered as a form of biopolitics; the student who entered his or her name
into the British Museum’s register of admission was producing his or her
governmentality. 8 The argument here is emphatically historical and states that
this arrangement, while it may have precedents and may have been seminal,
belongs to an historical moment—the emergence of the liberal state. My case,
which can be sketched out only in outline in this context, is that the
emergence of the familiar institutional arrangements of the modern art world
between the 1770s and the 1830s (in the form of actual institutions and
regulatory structures or permissions, including annual exhibitions, centralized
art schools supported by the state directly and indirectly, emphasis on
quantifiable measures of access and engagement as the test of public value, and
so forth) represents in an exemplary way the illusory freedoms promoted by
liberalism, and renewed by present-day “neo- liberalism”, as addressed by
commentators from the prophetic Karl Polanyi through to the later work of
Foucault and Bourdieu on the state, and Luc Boltanski and Eve Chiapello, among
others. 9 The early nineteenth-century art world can be proposed as a
privileged focus of attention because it was still of a scale which can allow
for the kinds of data-based analysis which must underpin any sort of
sociological exploration, and because its individual membership can be
documented in fine detail in a manner which is simply not possible at an
earlier historical date. Paradoxically, despite its announced commitment to
non-intervention and personal freedom, the emerging liberal state generated
huge amounts of documentation about society and its individual members—tax
records, parochial and civil records, the national census from 1801—which
digitilization has made more readily available than ever before, allowing this
generation of artists to be documented as never previously. 10 The production
of artistic identities through these records is not unrelated to changes in
artistic identity itself over the same timeframe. One way of realizing this
might be to consider the period outlined above—c. 1770–1830s—not as a period
from the foundation of the Royal Academy (1769) to its removal to Trafalgar
Square, or even as the era of Romanticism, as much literary and cultural
history-writing would dictate, but as the era from Adam Smith’s Wealth of
Nations (1776) to the Reform Act (1832) and the Speenhamland system, a last
experiment in patrician social care before the Poor Law Amendment Act (1834),
taking in Thomas Malthus and David Ricardo. The challenge is thinking of these
two frameworks not in sequential or spatially differentiated ways, but as
simultaneous and identical. Within this emerging liberal state the figure of
the artist is attributed with a special degree and form of freedom, what has
conventionally been alluded to, in generally sociologically imprecise ways, as
a feature of “Romanticism”, slumping into “bohemianism” and a generic idea of
art student lifestyle. If this was a moment of unprecedented state investment
in the arts (from the Royal Academy through to the Schools of Design) and
government scrutiny (notably with the Select Committees), it simultaneously saw
the emergence of artistic identities expressing the values of personal freedom,
freedom from regulation, and even active opposition to the state. I propose
that art education, as it took shape in the emerging liberal state, might be
explored as a “liberogenic” phenomenon: among those “devices intended to
produce freedom which potentially risk producing exactly the opposite.” 11 As
such, it may have renewed pertinence for our own time, although this does not
entail seeing a “causal” relationship between the past and present, or a linear
genetic relationship between then and now. In fact, the purpose of this
commentary, and the larger project it arises from, 12 is rather to trouble our
relationship with that past. The intention is not, however, to point
unequivocally to the era under consideration as here entailing “the making of a
modern art world”, with the rise of art education and museums access
representing a stage towards democratization, as illuminated in stellar fashion
by the great Romantic artists (J. M. W. Turner—famously the son of a lowly
London barber—pre-eminently). I would want instead to take seriously Jacques
Rancière’s call for “a past that puts a radical requirement at the centre of
the present”, eschewing causality and “nostalgia” in favour of “challenging the
relationship of the present to that past”. 13 If giving attention to the “freedom”
of art education at the advent of the liberal state provides any insight at
all, it should do so by troubling rather than affirming our narratives of the
genesis of a modern art world. Access to the Townley Gallery The arrival at the
Museum of the Townley marbles, together with the development of the prints and
drawings collection and its installation in new, secure rooms in the same wing,
fundamentally changed the character of the institution. As Neil Chambers has
noted, having been primarily a repository of (often celebrated) curiosities of
many different forms, quite suddenly “The Museum was now a centre for art and
the study of sculpture.” 14 The shift was acknowledged internally at the Museum
by the creation in 1807 of a distinct Department of Antiquities, which also had
responsibility for the collection of prints and drawings. But while the
significance of the opening of the Townley Gallery in the history of the
British Museum is clear, the opening of the collection to students has barely
been noticed in the art-historical literature. The register has been overlooked
almost entirely, and the relevance of this development in student access may
not even be immediately obvious. 15 Figure 1. William Chambers, The Sculpture
Collection of Charles Townley in the dining room of his house in Park Street,
Westminster, 1794, watercolour, 39 x 54 cm. Collection of the British Museum.
Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Figure 2. Attributed
to Joseph Nollekens, The Discobolus, 1791–1805, drawing, 48 x 35 cm. Collection
of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum
Townley’s collection had already famously been on display for many years at his
private house in Park Street, London. William Chambers’ (or Chalmers’) drawing
of the Park Street display from 1794 includes a well-dressed young woman
drawing under the supervision or advice of a man, promoting the idea that the
collection was available for sufficiently genteel students of the art more
generally (fig. 1). In his recollections of the London art world, J. T. Smith
described “those rooms of Mr Townley’s house, in which that gentleman’s
liberality employed me when a boy, with many other students in the Royal
Academy, to make drawings for his portfolios”. 16 Smith’s former employer, the
sculptor Joseph Nollekens, has been identified among the more established
artists who were also engaged by Townley to draw from marbles in the collection
(fig. 2). As Viccy Coltman has noted, “The townhouse at 7 Park Street, Westminster
became an unofficial counterpoint to the English arts establishment that was
the Royal Academy: as an academy of ancient sculpture, much as Sir John Soane’s
London housemuseum in Lincoln’s Inn Fields would become an academy of
architecture in the early 19th century.” 17 Evidently, a number of the students
and artists admitted to draw from the Townley marbles once they were at the
British Museum knew them formerly at first hand from visiting 7 Park Street;
for instance, William Skelton, admitted to draw at the Museum in 1809, had
apparently already studied and engraved three busts from the collection for
inclusion in the design of Townley’s visiting card (fig. 3). Townley had hoped
for a separate gallery to be erected to house the collection, but his
executors, his brother Edward Townley Standish and uncle John Townley were
unable to agree a plan. 18 The sale of the collection to the Museum was a
compromise. With the erection of a new gallery space for the collection
underway, the Museum considered how special access might be given to artists.
That the question was posed at all should be an indication of how far the realm
of cultural consumption and production was being folded in to the emerging
liberal state at this juncture. At a meeting of the Trustees on 28 February
1807, a committee was set up to consider how the prints and drawings
collections might be used by artists, and to draw up “Regulations . . . for the
Admission of Strangers to view the Gallery of Antiquities either separately
from, or together with the rest of the Museum: And also for the Admission of
Artists”. 19 Figure 3. William Skelton, Charles Townley's visiting card,
1778–1848, etching, 65 x 96 cm. Collection of the British Museum. Digital image
courtesy of Trustees of the British Museum With the Gallery still under
construction, the Sub-Committee was not obliged to move quickly, and it proved
to be a protracted and unexpectedly fractious affair. 20 It was not until the
Museum’s general meeting of 13 February 1808, that the principal librarian,
Joseph Planta, reported “his opinion of the best time & mode of admission
of Strangers as well as artists, to the Gallery of Antiquities”, with the
request that Benjamin West, President of the Royal Academy, be asked to attend
a further meeting. 21 After delays, he did so on 10 March, after which the
Council drew up a set of regulations. 22 These went back to the Academy with
additions and changes, which were accepted by the Council who wrote to the
British Museum on the 10 May to that effect, noting that a General Meeting of
the Academy was to take place, “to prepare the final arrangement for his
Majesty’s approbation”. 23 Accordingly, at the British Museum, the
Sub-Committee’s reports and proposals were approved by the Standing Committee,
with “Resolutions founded on the above mentioned Reports” read at the General
Meeting of 14 May. 24 The resolutions, numbered so as to be inserted in the
existing regulations regarding admissions, were confirmed in the meeting of 21
May, over three months after what should have been a straightforward matter was
raised (see Appendix, below). 25 Clause number eight, concerning the payment of
Academicians charged with the supervision of students, evidently caused some
consternation within the Academy, as recorded in the diary of Joseph Farington.
26 The relative authority of the Council and General Assembly had been a
contentious matter in previous years, and the lengthy dispute over arrangements
with the Museum reflected lingering tensions. On 12 July 1808 the proposals
were read, and “After a long conversation it was Resolved to adjourn.” 27 The
subject was taken up on re-convening on 21 July, but without resolution. 28 At
yet another meeting, on 26 July 1808, the point about the Academy’s provision
of superintendents to monitor the students while at the British Museum was
referred back to Council. 29 We have to turn to Farington’s diary for a fuller
account. He noted that the Academy’s General Assembly had met on 12 July “for
the purpose of receiving a Law made by the Council ‘That permission having been
granted by the Trustees of the British Museum for Students to study from the
Antiques &c at the Museum, certain days are fixed upon for that purpose,
& that an Academician shall attend each day at the Museum & to be paid
2 guineas for each day’s attendance’ . . . Much discussion took place.” 30 At a
further meeting: “The Correspondence of the Council with the Sub Committee of
the British Museum was read from the beginning” and “much discussion” was had
about the supervision of the students, Farington making the point that: as the
studies of the British Museum shd. be considered those of completion and not to
learn the Elements of art the Academy shd. not recommend any student whose
abilities & conduct wd. not warrant it, that it should be considered the
last stage of study, when those admitted wd. not require constant inspection;
therefore daily attendance of a Member of the Academy wd. not be necessary. 31
The point of contest may have concerned the right of the Council to organize
things independent of the General Assembly of the Academicians, and a more
general question about economy (“Northcote proposed that the Academician who in
rotation shall attend at the British Museum, shd. have 3 guineas a day. West
thought one guinea sufficient”). 32 But Farington’s point is more revealing in
indicating the expectation that the selected students of the Academy were to be
largely self-regulating, and self-disciplining; they were to be granted freedom
because they had already internalized the discipline required by these
institutions. Figure 4. Front cover, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum The matter finally settled,
students were admitted to the Townley Gallery from at least the beginning of
1809: the first entries in the register book are dated 14 January 1809 (figs. 4
and 5 to 11). On that date four students were enrolled, although only one of
them was at the Royal Academy. That was Henry Monro, the son of Dr Thomas
Monro, Physician at Bedlam and an amateur and collector who ran the influential
“academy” at his home in Adelphi Terrace. The other students included two of
the daughters of Thomas Paytherus, a successful London apothecary, and a Ralph
Irvine of Great Howland Street, who seems quite certainly to have been Hugh
Irvine, the Scottish landscape painter and a member of the landowning Irvine
family of Drum, who gave that address in the exhibition catalogue of the
British Institution’s show in 1809. Another five students registered in
February and July. This included another recently registered Royal Academy
student, Henry Sass, whose name was entered into the Academy’s books in 1805,
recommended for study at the British Museum by the architect and RA John Soane,
and the artists William Skelton, Adam Buck, Samuel Drummond, and Maria
Singleton. The mix of amateur and professional artists, young and old, and
indeed the mix of male and female students (discussed below), continued
throughout the register. View this illustration online Figure 5. Page 1,
Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection
of the British Museum. Digital image courtesy of British Museum View this illustration
online Figure 6. Page 2, Register of Students Admitted to the Gallery of
Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy
of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 7. Page
3, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17.
Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the
British Museum View this illustration online Figure 8. Page 4, Register of
Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the
British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View
this illustration online Figure 9. Page 5, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online
Figure 10. Page 6, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques,
1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees
of the British Museum View this illustration online Figure 11. Page 7, Register
of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the
British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Eight
of the twelve students registered on 11 November were current Academy students;
this proportion of Academy students to others continues throughout the record.
But on the same day Planta noted to the standing committee that the Royal
Academicians not having availed themselves of the Regulations in favour of
their Pupils, & many applications having been made to him for leave to draw
in the Gallery of Antiquities, he therefore submitted to the consideration of
the Trustees, whether persons duly recommended might not be admitted in the
same manner as in the Reading Room. 33 The matter was referred on to the
general meeting. 34 On 9 December 1809 the new regulations were confirmed:
Students who apply for Admission to the Gallery are to specify their
descriptions & places of abode; and every one who applies, if not known to
any Trustee or Officer, will produce a recommendation from some person of known
& approved Character, particularly, if possible, from one of the Professors
in the Royal Academy. 35 On 10 February 1810 it was instructed “That the Regulation
respecting the mode of Admission of Students to the Gallery of Sculpture, as
made at the last General Meeting be printed & hung up in the Hall, & at
the entrance into the Gallery”. 36 The students admitted through 1810 were
predominantly students at the Royal Academy, but also included the emigré
natural history painter the Chevalier de Barde and Charles Muss, already
established as an enamel and glass painter. The same pattern was apparent in
subsequent years. Twenty-five students were registered in 1811 and again in
1812, before numbers dropped to twelve in 1813, eight in 1814, picking up with
nineteen in 1815, and dropping to nine in 1816. The Museum’s original
stipulation that no more than twenty Academy students be admitted each year did
not, it appears, create any undue constraints on the flow of admissions. Far
from having a monopoly over student admissions, as the Museum’s original
regulations had anticipated, the Royal Academy had apparently been distinctly
laissez-faire, doing little to try to push students forward to make up the
numbers. The galleries the students gained access to comprised a sequence of
rooms within the new wing added to accommodate the growing collection of
sculptural antiquities, notably the Egyptian material taken from the French at
Alexandria in 1801. The Egyptian antiquities dominated the galleries in terms
of sheer size, although the visual centrepiece, whether viewed from the
Egyptian hall or through the extended enfilade of rooms II–V where the Townley
marbles were displayed, was the Discobolus (fig. 12). 37 The intimate scale of
the galleries brought benefits, as German architect Karl Friedrich Schinkel
noted on his visit of 1826: “Gallery of antiquities in very small rooms, lit
from above, very restful and satisfying”. 38 But is also imposed a practical
limit on the numbers of students who could attend. This changed when, in 1817,
the Elgin marbles were put on display at Montagu House in spacious, if
warehouse-like, temporary rooms newly annexed to the Townley Gallery (fig. 13).
The spike of interest recorded in the register, with thirty-seven students
listed under the heading “1817”, must reflect this new opportunity. The
register terminates at this point, although the volume continued to be used to
record students and artists admitted to the prints and drawings room (upstairs
from the Townley Gallery) from 1815 through to the 1840s. 39 Figure 12.
Anonymous, View through the Egyptian Room, in the Townley Gallery at the
British Museum, 1820, watercolour, 36.1 x 44.3 cm. Collection of the British
Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Figure 13.
William Henry Prior, View in the old Elgin room at the British Museum, 1817,
watercolour, 38.8 x 48.1 cm. Collection of the British Museum. Digital image
courtesy of Trustees of the British Museum Some form of register must have been
maintained, but appears not to have survived, and evidence of student
attendance after 1817 is largely a matter of anecdotal record. 40 These later
records also, incidentally, point to the variety of student practice in the
galleries. While the Museum’s original stipulations made the presumption that
admitted artists would be drawing (“each student shall provide himself with a
Portfolio in which his Name is written, and with Paper as well as Chalk”),
students evidently worked in different media as well. James Ward referred
explicitly to “modelling” in the Museum in his diary entries of 1817; and
George Scharf’s watercolour of the interior of the Townley Gallery from 1827
(fig. 14) shows a student sitting on boxes at work at an easel, with what
appears to be a paintbrush in his right hand and a palette in his left. 41
Nonetheless, the Townley marbles had lost much of their allure. Jack Tupper, a
rather unsuccessful artist associated with the Pre-Raphaelite Brotherhood,
recalled his growing disillusion when studying at the British Museum in the
late 1830s: “So the glory of the Townley Gallery faded: the grandeur of ‘Rome’
passed.” 42 Figure 14. George Scharf, View of the Townley Gallery, 1827,
watercolour, 30.6 x 22 cm. Collection of the British Museum. Digital image
courtesy of Trustees of the British Museum The material record of student
activity in the Townley Gallery, in the form of images which seem definitely to
derive from this special access to the Museum, is extremely scarce. 43 Whatever
was produced in the Gallery was, after all, generally only for the purposes of
study, and was unlikely to be retained or valued after the artist’s death. John
Wood, a dedicated student at the Royal Academy from 1819, noted: “I am
surprised at the comparatively few drawings I made in the Antique School at the
Royal Academy, including my probationary one, not exceeding five, with an
outline from the group of the Laocoon.—In the British Museum I made a chalk
drawing from the statue of Libēra for Mr Sass”, that is, the Townley Venus,
apparently drawn by Wood as an exercise for the well-known drawing teacher
Henry Sass. 44 Student drawings after the antique must have been numerous, but
that does not mean they were preserved. J. M. W. Turner had apparently attended
the Plaster Academy over one hundred and thirty times up to the point he became
an ARA, in 1799. 45 Yet even with a figure of his stature, whose studio
contents were so completely preserved, and whose dedication to academic study
was so notable, we have only a handful of drawings which appear certainly to
derive from his time at the schools. 46 There are, doubtless, traces of study
in the Museum to be uncovered in finished works of the period. Charles Lock
Eastlake’s youthful figure of Brutus in his ambitious early work is evidently a
direct lift from the marble of Actaeon attacked by his own hounds in the
Townley collection; he had been admitted to draw from the antique in 1810
(figs. 15 and 16). But given the dissemination of classical prototypes (in
graphic form as well as in plaster) it would be hard to insist that it was only
access to the British Museum’s antiquities which made such allusion strictly
possible. Figure 15. Charles Lock Eastlake, Brutus Exhorting the Romans to
Revenge the Death of Lucretia, 1814, oil on canvas, 116.8 x 152.4 cm.
Collection of the Wiliamson Art Gallery & Museum. Digital image courtesy of
Wiliamson Art Gallery & Museum Figure 16. Anonymous, Marble figure of Actaeon
attacked by his hounds, Roman 2nd Century, marble, 0.99 metres high. Collection
of the British Museum (1805,0703.3). Digital image courtesy of Trustees of the
British Museum The Register of Students as Social Record Of arguably greater
interest than the question of the “influence” of access to the marbles on
artistic practice is the evidence the register provides about the social
profile of the students. This takes us to the heart of the question about the
relationship between art education and the state. This was, in fact, a question
raised at the time. The British Museum was in 1821 obliged to draw up a report
on student and public attendance of the Museum, prompted by Thomas Barrett
Lennard MP, who had entered a motion in the House of Commons seeking
reassurance that this publicly funded institution was not “merely an
establishment for the gratification of private favour or individual patronage”.
47 Lennard’s questions arose from a growing body of criticism directed against
the Museum, which turned on the question of whether, as a publicly funded body,
everyone could expect free access, or only a more specialist minority. As one
critic jibed in 1822, “If the British Museum is open only to the friends of the
librarians, & their friends’ friends, it ceases to be a public
institution.” 48 The report elicited by Lennard’s question provided a detailed
breakdown of admissions. With regard to providing access to draw from the
antique, the Museum indulged the impression that it not only fulfilled but
exceeded its commitment to admitting Royal Academy students: providing the
figures for the period 1809–17 (based, surely, on the register under
consideration here), the Museum’s report elaborated: The Statute for the
admission of Students in the Gallery of Sculptures being among those required
by the Order of the House of Commons, it may not be irrelevant to add, that the
number of students who were admitted to make drawings in the Townley Gallery,
from the year 1809 to the year 1817, amounted to an average of something more
than twenty. 49 Notably, this summary gives the clear impression that the
antiques were being opened to the students of the Royal Academy; such is, quite
reasonably, presumed by Derek Cash in his recent, careful commentary on
admission procedures at the Museum. 50 The report also pointed to recent
changes: In 1818, immediately subsequent to the opening of the Elgin Room, two
hundred and twenty-three students were admitted: in 1819, sixty-nine more were
admitted, and in 1820, sixty-three. It asserted that, now: Every student sent
by the keeper of the Royal Academy, upon the production of his academy ticket,
is admitted without further reference to make his drawings: and other persons
are occasionally admitted, on simply exhibiting the proofs of their
qualification. According to the present practice, each student has leave to
exhibit his finished drawing, from any article in the Gallery, for one week
after its completion. 51 Thus stated, the Museum appeared to be fulfilling its
public duty in providing free access to appropriately qualified students. The
bare figures might seem to indicate a steady rise in student interest, which
could be taken as a marker of quantitative success. In one of the earliest
historical accounts of the Museum, Edward Edwards implied that the statistical
record was evidence of how Planta had progressively extended access to the
Museum: “From the outset he administered the Reading Room itself with much
liberality . . . As respects the Department of Antiquities, the students admitted
to draw were in 1809 less than twenty; in 1818 two hundred and twenty-three
were admitted.” 52 At that level of abstraction the information appears beyond
dispute. What I test in the remainder of this essay is how these statements
stand up to the more individualized account of student activity represented in
the biographical record. That record does include the most assiduous students
of the Royal Academy of the time, who certainly did not need the kind of
“constant inspection” Farington worried about, the kind of student anticipated
by the Museum’s regulations. Among these we could count Henry Monro, Samuel F.
B. Morse and Charles Robert Leslie, William Brockedon, Henry Perronet Briggs,
William Etty and Henry Sass, the last two famously dedicated as students of the
Academy. 53 However, the full biographical survey of the register points to a
more complicated situation. Of the one hundred and sixty-five individuals named
in the register, it has proved possible to establish biographical profiles for
the majority: details are most lacking for about twenty-four of the attending
students, although in most of those cases we can conjecture at least some
biographical context. 54 Slightly less than half the total number of
individuals listed were recorded as students at the Academy at a date which
makes it reasonably likely that they were actively attending the schools when
they were admitted to the British Museum (eighty in all). 55 Around twenty more
established male artists attended, and several of these were formerly students
at the Royal Academy, including John Samuel Agar, John Flaxman, and James Ward.
Whether they were pursuing their private studies or undertaking more specific
professional tasks is not always clear. There are, certainly, a few cases where
the latter appears to be the case. When William Henry Hunt was admitted it was
explicitly for the purpose of preparing drawings for a publication; both
William Skelton and John Samuel Agar were probably admitted in connection with
his ongoing work engraving from sculptures at the Museum. It seems likely that
the “Students to Mr Meyer”, that is, the engraver and print publisher Henry
Meyer, were engaged on professional business, as was Thomas Welsh, recommended
by the publisher Thomas Woodfall. More striking, though, is the determined
presence in the register of artists who did not pursue the art professionally
or full-time, including the relatively well-documented Chevalier de Barde,
Arthur Champernowne, John Disney, Hugh Irvine (assuming he is the “Ralph Irvine”
who appears in the register), Robert Batty, Edward John Burrow, Edward Vernon
Utterson, and a number of others designated as “Esq”, so clearly from the
polite classes, even if their exact identities remain unclear. There are at
least fifteen male individuals who appear to come from backgrounds sufficiently
socially elevated or affluent enough to suggest they were taking an amateur
interest rather than pursuing serious studies. 56 Enough of these men are known
to have practised art to make it quite certain that they were not, at least
generally, being admitted to consult the collection without intending to draw,
and John Disney was admitted explicitly “to make a sketch of a Mausoleum”.
Notable, in this regard, are the large number of women admitted to study, most
of whom are or appear to be from polite backgrounds, including the Paytherus
sisters, Elizabeth Appleton, Louisa Champernowne, Miss Carmichael, Elizabeth
Batty, Miss Home, Lucy Adams, Jane Gurney, Maria Singleton, and Anne Seymour
Damer. 57 Some were established artists, or became so; others were pursuing art
as a polite accomplishment, or at least we can assume so given their family
circumstances; in other cases the situation is by no means clear-cut. All were
admitted without special comment or notice despite the issues of propriety
around the drawing of even the sculptured nude figure by female artists which
crops up in contemporary commentaries. 58 This may be all the more striking
given the relative paucity of women admitted as readers at the British Museum
library over the same period: only three out of the three hundred and
thirty-three admitted between 1770 and 1810, as surveyed by Derek Cash. 59 On
this evidence, the field of artistic study was, in the most literal terms,
relatively female compared even to the study of literature or history. This
points to an under-explored context for the inculcation of the students into
life as an artist: the “feminine” sphere of the home, and of siblings (whether
brothers or sisters) alongside parents. We have, surely, barely begun to
consider the family as the context in which artists are made as much as, if not
more than, the studio and academy. Nor is it straightforward to assume that
those individuals who had enrolled as Academy students also had expectations
about the professional pursuit of the art. Among the Academy students who
attended, a large proportion, including a majority of the most assiduous, were
from polite social backgrounds, with fathers in the professions, or who were
office-holders or from the landowning classes, including Henry Monro, John
Penwarne, Richard Cook, William Drury Shaw, Charles Lock Eastlake, Henry
Perronet Briggs, Alexander Huey, Thomas Cooley, Samuel F. B. Morse, Andrew
Geddes, John Zephaniah Bell, Thomas Christmas, John Owen Tudor, and Samuel
Hancock. Others were the sons of elite tradesmen, highly specialized craftsmen
or merchants, including William Brockedon, Seymour Kirkup, Charles Robert
Leslie, Gideon Manton, and John Zephaniah Bell. These were not, either, predestined
to be artists, by simply following in their father’s footsteps, but were opting
in to an artistic career, having had, usually, a decent education, and access
to material and social support. In many cases their brothers, who shared the
same upbringing, became doctors or lawyers, property-owners or merchants. A
number of individual students gave up the practice of the art—Thomas Christmas
became a landowner in Willisden; Richard Cook was able to retire, wealthy;
Seymour Kirkup languished in Rome dabbling in the arts; William Brockedon
became more engaged as an inventor and traveller; while others were never
really obliged to draw an income from their practice but pursued art as a
pastime. It remains the case that there was a high level of occupational inheritance;
perhaps thirty-eight of the students (23 percent) had fathers who were
architects, engravers or artists in painting or sculpture. Many were the sons
of established artists (including Rossi, Bone, Stothard, Ward, Dawe, Wyatt,
Bonomi, and the brothers Stephanoff); a few were part of “dynasties”
encompassing generations engaged in the arts (Wyatt, Wyon, Hakewill, Landseer).
Even then, there is the case of John Morton (noted confusingly as “John Martin”
in the register, although the address given provides for a firm
identification), who, although the son of an artist and a student at the Royal
Academy, exhibited personally as an “Honorary”, suggesting he was not
professionally engaged. That his brother became quite prominent as a physician
suggests that this was a quite emphatically middle-class family setting. There
are several points to derive from this information, even as lightly sketched as
it necessarily is here. Firstly, it is noteworthy that while female students
were a minority they were a definite presence; in this regard, the British
Museum was like other spaces of artistic study, notably the painting school at
the British Institution. 60 The observation is upheld by the contemporary
records of student attendance at the British Institution or of copyists at
Dulwich Picture Gallery, and should serve as a reminder that the Royal Academy
was exceptional among the spaces of art education in being so entirely male. 61
Secondly, it is striking how few came from humble backgrounds unconnected with
the art world; really, only a handful, which would include John Tannock (son of
a shoemaker in Scotland), William Etty (son of a baker in York), John Jackson
(son of a village tailor in Yorkshire), and William Henry Hunt (whose father
was a London tin-plate worker). The circumstances which led to their gaining
access to the London art world are, therefore, noteworthy, as a third and most
important point would be to emphasize how emphatically metropolitan, polite,
and middle-class was the British Museum as a site of artistic education. The
Townley Gallery on student days was a place where working artists, students,
amateurs, and patrons mingled. 62 While the Royal Academy is conventionally
seen as an engine of professionalization, it is striking that the social
affiliations of artists point to strong, arguably increasingly strong,
affiliations between amateurs and professionals—to the extent that our
terminology around this point needs to be reconsidered. Looking over the
biographical survey, the kind of social suffering or precariousness typically
associated with artists’ lives, perhaps especially during the era of
industrialization, is markedly absent. When it does appear—most strikingly with
the grim life-stories of the siblings Jabez and Sarah Newell—they are among the
minority of students from backgrounds neither closely connected with the art
world, nor comfortably middle-class or genteel. The examples of stellar social
ascent and achievement on the basis of talent alone are real; but they are the
exceptions rather than representative. The relative weight of personal and
Academic connection is exposed in the record of the provision of references for
students. Of the forty-three referees recorded between 1809 and 1816, less than
half (nineteen) were Academicians. One of those was Henry Fuseli, who as Keeper
of the Academy Schools through this period must have provided references as
part of his duties, and accordingly provided the second largest number of
recommendations (nineteen; all but one students at the RA). The lead in
providing references was taken by William Alexander, artist and keeper of
prints and drawings (twenty-two; mainly but not exclusively students). Overall,
officers and Trustees were most active in admitting students. Most only ever
provided a reference for one, or at most a handful, and the jibe about “friends
of the librarians, & their friends’ friends” contains some truth. But the
same point applies to the artists, most of whom only ever recommended one
student, often known personally to them already: David Wilkie recommended his
assistant, John Zephaniah Bell; George Dawe provided a reference for his own
son; Thomas Lawrence for his pupil William Etty; Thomas Phillips and John
Flaxman, the relatives of fellow Academicians; Thomas Stothard, the son of a
neighbour (Kempe). Geography, too, seems to have played a role, with referees
often coming from the same area as their favoured student: Francis Horner
recommended John Henning, whom he had known in their native Scotland; the
Scottish George Chalmers recommended James Tannock; Arthur Champernowne put
forward William Brockedon, his protégé, whom he had supported in moving from
Devon to the metropolis to pursue art; James Northcote recommended two fellow
West Countrymen; Benjamin West, notorious for giving special assistance to
visiting American students, two such (Leslie and Morse). If the admission
procedure could be interpreted as an opportunity for the Academy to assert a
corporate, professionalized identity, based purely on merit, we can nonetheless
detect underlying patterns of kinship, personal, social, and geographical
affiliation. Simply stated, even if study at the Museum was free and freely
available, any given student would still need to access a letter of reference
and the time to go to the Museum (as well as the material means to acquire the
portfolio, paper, and chalks anticipated by the Trustees). The opening hours
for students militated against anyone attending who had to use these daylight
hours for work, a point which was made quite often with reference to the
Reading Room through this period. 63 The most assiduous students needed the
time free to study at the British Museum, something that well-off students like
Eastlake, Brockedon, Briggs, and Monro had readily available to them. Their
peers at the Academy who were obliged to work during the day to make a living,
or who were serving apprenticeships, would simply not be able to make the hours
available at the Museum. 64 The ambitious painter Thomas Christmas was free to
attend the Museum, having dedicated himself to study after working as a clerk,
but his brother, Charles George Christmas, who held down a job in the Audit
Office, would have struggled; accounting for his studies at the Academy, he had
told Farington, “He shd. continue to do the business at the Auditors' Office,
Whitehall, which occupies Him from 10 oClock till 3 each day, as it will keep
His mind free from anxiety abt. His means of living and leave Him with a
feeling of independence.” 65 Given that the students were admitted to the
Townley Gallery from noon to 4 o’clock in the afternoon, and that the Trustees
continued to prohibit the use of artificial lights in the Museum, there was
scarcely any real possibility of Charles George Christmas attending, although
he also enjoyed the comforts of a middle-class home background (their father
was a Bank of England official). With the ascent of utilitarian criticism,
visitor levels were turned to anew as a measure of the institution’s fulfilment
or failure to fulfil its “national” purpose. On strictly statistical terms, the
Museum seemed to be successful at providing opportunities for art students.
Only under the closest scrutiny, with attention to the “micro-history” of
individual lives, does that illusion start to be tested. It is, though, at this
“micro” level that we can apprehend the characteristic paradox of an emerging
cultural modernity, one that is still with us. Yet the point, to follow
Rancière, is not to see the past ascent of a present situation, but to force
ourselves to feel uneasy with that sense of recognition and its tacit model of
history. The evidence is that free access to culture and the (circumscribed)
promotion of equality were combined with socially restrictive patterns of
preferment. 66 Study at the British Museum may have been free, and freely
available to properly qualified students of the Academy, but you needed to be
in the right place at the right time, to have the time available, and, indeed,
to know or at least be able to access the right people, to get in. This point
may seem unduly sociological or even tendentious, but overlooking it involves a
denial of the socially invested nature of time, specifically, of the scholastic
time (given over to study or contemplation or to creation) mythically removed
from the influence of social forces. 67 The acts of nomination which saw
certain men and women given special access to the Townley Gallery, acts so
seemingly trivial in themselves involving perhaps only an exchange of words and
a scribbled note, were microcosmic manifestations of social authority of the
most far-reaching kind. 68 When Robert Butt, the principal manager of the
bronze and porcelain department at Messrs Howell & James, Regent-street,
was examined by the Select Committee on Arts and Manufactures in 1835, he
noted: The process by which a knowledge of the arts of painting and sculpture
is now acquired is this: a young man receives tuition from a private master; he
draws from the antique at the British Museum for a certain time, and when he
shows that he has sufficient talent to qualify him for a student of the Royal
Academy he is admitted; but the expense of acquiring that preliminary knowledge
is considerable, and the young artist must also be maintained by his relatives
during the time that he is acquiring it. 69 The following year, in a further
parliamentary committee, this time dedicated to testing out the British
Museum’s claims to public status, James Crabb, “House Decorator” of Shoe Lane,
Fleet Street, was asked, “Did you ever obtain any assistance, by means of
casts, from the better specimens of sculpture in the Museum or elsewhere?”, to
which he replied, “I should derive assistance from them if I had the
opportunity, but I have not time.” 70 Considered sociologically, as the
personal experience of these men seems to have obliged them to do, time was
certainly of the essence. The prevalence of students with secure middle-class
backgrounds at the British Museum might, then, be taken as evidence of an early
phase in the “middle-classification” of art practice, the awkward but evocative
phrase used recently by Angela McRobbie in her eye-opening observations of
careers in the present-day creative industries. 71 Whatever emphasis may be put
on equality of access to educational opportunity, however rigorously fairminded
and anonymized the tests and measures involved in admission procedures, without
forms of positive support to counterbalance or actively adjust social
inequalities, those same inequalities will tend to be reproduced,
homologically, in the educational field. This is patently not a simple matter
of social and material advantage underpinning artistic enterprise in a wholly
predictable way; such would be a nonsense, in light of the many students who
did not enjoy such advantages. Instead, it is the very flexibility built into
the exclusionary processes of the emerging cultural field which is
significant—the possibility that talented students could get access, gain
reputation, achieve success, without being limited by their social origins. “Freeing”
art education allowed for the expression of personal preferences or
dispositions at an individual level, which at an aggregate level reproduced
larger power relations. Exposing that ultimately exclusionary process, which
may be marked only in small differences, in personal dispositions and
behaviours, in the personal choices and decisions which are neither truly
personal nor really pure as choices, is no small task. This essay, and the
biographical survey accompanying it, with its details of a multitude of student
lives otherwise scarcely recorded or recognized, is intended as a small
contribution to that larger project, with the excess of data presented here
perhaps imposing, in itself, new requirements on our understanding of the
history of art education. Appendix Regulations for the admission of students of
the Royal Academy to the Townley Gallery at the British Museum (May 1808): [7]
That the students of the Royal Academy be admitted into the Gallery of
Antiquities upon every Friday in the months of April, May, June, & July,
& every day in the months of August and September, from the hours of twelve
to four, except on Wednesdays and Saturdays the Students, not exceeding twenty
at a time, to be admitted by a Ticket from the President and Council of the
Royal Academy, signed by their Secretary. [8] The better to maintain decorum
among the Students, a person properly qualified shall be nominated by the Royal
Academy from their own body, who shall attend during the hours of study; the
name of such person to be signified in writing, from time to time, by the
Secretary of the Royal Academy to the Principal Librarian of the British
Museum. [9] That the members of the Royal Academy have access to the Gallery of
Antiquities at all admissible times, upon application to the Principal
Librarian or the Senior under Librarian in Residence [10] That on the Fridays
in April, May June & July one of the officers of the Department of
Antiquities do attend in the Gallery of Antiquities according to Rotation in
discharge of his ordinary Duty. [11] That in the months of August &
September some one of the several Officers of the Museum, then in Residence, do
(according to a Rotation to be agreed upon by themselves & confirmed by the
Principal Librarian) attend on the Gallery upon the Days for the admission of
Students. [12] That the attendants in the Department of Antiquities be always
present in the Gallery during the times when the Students are admitted. 72
Footnotes The original register is held in the Keeper’s Office, Department of
Prints and Drawings, British Museum. Patrick Joyce, “Speaking up for the State”
(2014), https://www.opendemocracy.net/ourkingdom/patrick-joyce/
speaking-up-for-state. These points are made in light of a larger research
project, which has given rise to the present study: a biographical survey of
all the students of paintings, sculpture, and engraving who were active at the
Royal Academy schools between its foundation in 1769 and 1830 together with a
monograph, provisionally titled The Talent of Success: The Royal Academy
Schools in the Age of Turner, Blake and Constable, c. 1770–1840 (forthcoming).
This fuller survey indicates several important shifts over these decades,
including a fundamantal shift in the proportion of students coming from family
backgrounds in the arts and design-oriented trades, in comparison with those
coming from professional and genteel backgrounds. It exposes, specifically, a
new group whose fathers were engaged as “officers”, in the civil service or
bureaucratic roles, who in turn had a disproportionate representation within
the developing art establishment (as Academicians, or as officials in other
cultural bodies). The term “art world”, as designating a space of
co-production, stems from Howard S. Becker, Art Worlds (1984), rev. edn
(Berkeley, CA: University of California Press, 2008). As deployed here, it is
closer in conception to the sociological “field” as detailed by Pierre Bourdieu
across a succession of influential works. Notable among these, for present
purposes because of its methodological statement about the homological analysis
of the world (field) of art in relation to the field of power, is The Rules of
Art, trans. Susan Emanuel (Cambridge: Polity Press, 1996), esp. 214–15. See,
notably, the chapter on “Workers in Art” in Samuel Smiles’s Self-Help, first
published 1859 with numerous further editions. On the self-motivated artist as
the model for all forms of work, see Angela McRobbie, Be Creative: Making a
Living in the New Culture Industries (Cambridge: Polity Press, 2016), esp.
70–76. Holger Hoock, The King’s Artists: The Royal Academy of Arts and the
Politics of British Culture, 1760–1840 (Oxford: Oxford University Press, 2003)
and Hoock, “The British State and the Anglo-French Wars Over Antiquities,
1798–1858”, Historical Journal 50, no. 1 (2007): 49–72. Patrick Joyce, The Rule
of Freedom: Liberalism and the Modern City (London: Verso, 2003) and Joyce, The
State of Freedom: A Social History of the British State Since 1800 (Cambridge:
Cambridge University Press, 2013); also his “What is the Social in Social
History?”, Past and Present 206, no. 1 (2010): 213–48. On this Foucauldian
framing of art education and creative production within liberalism, see
McRobbie, Be Creative, 71–76 and passim. Karl Polanyi, The Great
Transformation: The Political and Economic Origins of Our Time (1944; Boston,
MA: Beacon Press, 2002); Michel Foucault, The Birth of Biopolitics: Lectures at
the Collège de France, 1978–1979, ed. Michel Sennelert, trans. Graham Burchell
(Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2008); Luc Boltanski and Eve Chiapello, The
New Spirit of Capitalism, trans. Gregory Elliott (London and New York: Verso,
2007); Pierre Bourdieu, On the State: Lectures at the Collège de France,
1989–1992, ed. Patrick Champagne and others, trans. David Fernbach (Cambridge:
Polity Press, 2014). See Edward Higgs, Identifying the English: A History of
Personal Identification 1500 to the Present (London: Bloomsbury, 2011), 97–119.
Higgs’s account is, essentially, positive about the liberties and rights
secured by this rising documentation. The position taken here is more
determinedly Foucauldian. For the foundational role of statistics in
“liberalisation”, and the hidden affinities between the liberal and the
totalitarian, see Michael Foucault, “Society Must Be Defended”: Lectures at the
Collège de France, 1975–76, ed. Mauro Bertani and Alessandro Fontana, trans.
David Macey (London: Penguin, 2004). Foucault, Birth of Biopolitics, 69. A
biographical dictionary of Royal Academy students from 1769–1830. See note 3,
above. Jacques Rancière, The Method of Equality: Interviews with Laurent
Jeanpierre and Dork Zabunyan, trans. Julie Rose (Cambridge: Polity Press,
2016), 108. Neil Chambers, Joseph Banks and the British Museum: The World of
Collecting, 1770–1830 (London: Routledge, 2007), 107. The register is mentioned
in the notice of Seymour Kirkup in G. E. Bentley, Blake Records, 2nd edn (New
Haven, CT, and London: Yale University Press, 2004), 289n. Kirkup was an
unusually assiduous student at the Museum, admitted in 1809 and renewing his
ticket through to 1812. The reference in Bentley appears to be the only
published reference to the register. The admission of the Paytherus sisters to
draw at the Museum is noted by James Hamilton in his London Lights: The Minds
that Moved the City that Shook the World, 1805–51 (London: John Murray, 2007),
72, although with reference to the early Reading Room register (marked “1795”)
in the British Museum Central Archive, rather than the volume in Prints and
Drawings. See J. T. Smith, Nollekens and his Times, 2 vols., 2nd edn (London:
Henry Colburn, 1829), 1: 242. Viccy Coltman, Classical Sculpture and the
Culture of Collecting in Britain since 1760 (Oxford: Oxford University Press,
2009), 242–44. See B. F. Cook, The Townley Marbles (London: British Museum
Press, 1985) and Ian Jenkins, Archaeologists and Aesthetes in the Sculpture
Galleries of the British Museum, 1800–1939 (London: British Museum Press,
1992). Chambers, Joseph Banks, 107. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17
18 19 Derek Cash, “Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to
1836”, British Museum Occasional Papers 133 (2002), 68.
http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/
access_to_museum_culture.aspx. The British Museum, Central Archive,
C/1/5/1029–30. Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/50–52.
Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/59. The British Museum,
Central Archive, C/1/5/1034. The British Museum, Central Archive,
C/1/5/1043–144. Cf. “Chapter III: Concerning the Admission into the British
Museum”, in Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of
the Contents of the British Museum (London, 1808), 15–16. Joseph Farington, The
Diary of Joseph Farington, ed. Kenneth Garlick, Angus Macintyre, and others, 17
vols. (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 1978–98), 9: 3284.
Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/366, 370. Library of the
Royal Academy of Arts, London, GM/2/371. Library of the Royal Academy of Arts,
London, GM/2/372–73. Diary of Joseph Farington, 9: 3313. Diary of Joseph
Farington, 9: 3317. Diary of Joseph Farington, 9: 3284. The British Museum,
Central Archive, C/3/9/2426. The British Museum, Central Archive, C/3/9/2428.
The British Museum, Central Archive, C/1/5/1069. The British Museum, Central
Archive, C/1/5/1070. The arrangement of the galleries was first detailed in a
written description provided by Westmacott for Prince Hoare’s Academic Annals
(London, 1809) and in Taylor Combe’s A Description of the Ancient Marbles in
the British Museum, 3 vols. (London, 1812–17). See Cook, Townley Marbles,
59–61. Karl Friedrich Schinkel, “The English Journey”: Journal of a Visit to
France and Britain in 1826, ed. David Bindman and Gottfried Riemann (New Haven,
CT, and London, 1993), 74. The record of admissions to view prints and drawings
must have arisen from the new regulations issued by the Trustees in November
1814; see, Antony Griffiths, “The Department of Prints and Drawings during the
First Century of the British Museum”, The Burlington Magazine 136, 1097 (1994):
536. In March 1817 the student artist William Bewick wrote to his brother: “I
last Monday set my name down as a student in the British Museum.” See Thomas
Landseer, ed., Life and Letters of William Bewick (Artist), 2 vols. (London:
Hurst and Blackett, 1871), 1: 37. Edward Nygren, “James Ward, RA (1769–1859):
Papers and Patrons”, Walpole Society 75 (2013): 16. Jack Tupper, “Extracts from
the Diary of an Artist. No.V”, The Crayon, 12 December 1855, 368. An album of
drawings of the Townley Marbles in the British Museum (2010,5006.1877.1–40)
appears to have been collected by Townley himself, so dates to before the
installation of the marbles at the Museum. The drawings serve as records of the
objects rather than student exercises. The drawings by John Samuel Agar in the
Getty Research Institute are evidently preparatory for the prints published in
Specimens of Antient Sculpture. BL Add MS 37,163 f.106. This and other figures
in the Townley collection could also be found as casts in the Royal Academy’s
plaster schools, so even if Wood’s drawing, for example, could be traced, it
could not definitively be said to be made in the Townley Gallery. See Ann
Chumbley and Ian Warrell, Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary
Life, exh. cat. (London: Tate Gallery, 1989), 12–13. Eric Shanes, Young Mr
Turner: The First Forty Years, 1775–1815 (New Haven, CT, and London: Yale
University Press, 2016), 33–34. Hansard (House of Commons), 16 February 1821,
c.724 (online at http://hansard.millbanksystems.com/commons/
1821/feb/16/british-museum). See Cash, “Access to Museum Culture”, 197–225 for
a full account of public discussions around this date. Quoted in Cash, “Access
to Museum Culture”, 208. British Museum: Returns to two Orders of the
Honourable House of Commons, dated 16 th February 1821, House of Commons, 23
February 1821, 2. Cash “Access to Museum Culture”, 71. Quoted in The Literary
Chronicle, 17 March 1821, 168. Edward Edwards, Lives of the Founders of the
British Museum (London: Trübner and Co., 1870), 520. 20 21 22 23 24 25 26 27 28
29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52
Bibliography Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of
the Contents of the British Museum. London, 1808. Becker, Howard S. Art Worlds
(1984). Rev. edn. Berkeley, CA: University of California Press, 2008. Bentley,
G. E. Blake Records. 2nd edn. New Haven and London: Yale University Press,
2004. Boltanski, Luc, and Eve Chiapello. The New Spirit of Capitalism. Trans.
Gregory Elliott. London and New York: Verso, 2007. See Martin Myrone,
“Something too Academical: The Problem with Etty”, in William Etty: Art and
Controversy, ed. Sarah Burnage, Mark Hallett, and Laura Turner (London: Philip
Wilson, 2011), 47–59. The barest and most conjectural biographies include those
for William Carr of New Broad Street; W. W. Torrington; Edward Thomson; Richard
Moses; and Mr Lewer. Information is most notably lacking for the trio of Miss
Cowper, Miss Moula, and Mr Turner of Gower Street; William Hamilton of Stafford
Place; William Irving of Montague Street; Thomas Williams of Hatton Garden;
Daniel Jones; M. Hatley of Albermarle Street; Miss Edgar; Miss Carmichael of
Granville Street; Mr Atwood; Mr Higgins of Norfolk Street; George Pisey of
Castle Street; Charles White of George Street; Robert Walter Page of Wigmore
Street; Henry A. Matthew; Thomas Welsh; and John Hall. Students were entered as
“probationers” for a period of three months (which might be extended), and once
registered could attend the Schools for a period of ten years. Ralph Irvine;
Arthur Champernowne; the Chevalier de Barde; John Disney; John Campbell; Edward
Utterson; John Lambert; Robert Batty; Alexander Huey; Richard Thomson; Charles
Toplis; John Frederick Williams; Edward Burrows; William Carr; W. W.
Torrington. Jane Landseer; Janet Ross; Georgiana Ross; the two Misses
Paytherus; H. Edgar; Maria Singleton; Elizabeth Appleton; Louisa Champernowne;
Miss Carmichael; Elizabeth Batty; Frances Edwards; Eliza Kempe; Ann Damer; Miss
Cowper; Miss Moula; Miss Trotter; Miss Adams; Sarah Newell; Emma Kendrick; Jane
Gurney. Gentleman’s Magazine (1820) and A Trip to Paris in August and September
(1815), quoted by William T. Whitley in his Art in England, 1800–1820 (London:
Medici Society, 1928), 263, as evidence that “It was still thought improper for
women to study from such figures” as the Apollo Belvedere. Cash, “Access to
Museum Culture”, 113. As the American Samuel F. B. Morse (a student at the
Royal Academy and the British Museum) noted in 1811: “I was surprised on
entering the gallery of paintings at the British Institution, at seeing eight
or ten ladies as well as gentlemen, with their easels and palettes and oil colours,
employed in copying some of the pictures. You can see from this circumstance in
what estimation the art is held here, since ladies of distinction, without
hesitation or reserve, are willing to draw in public.” See Edward Lind Morse,
ed., Samuel F. B. Morse: His Letters and Journals, 2 vols. (Boston, MA:
Houghton Mifflin, 1914), 1: 45. Lists of students admitted to copy at the
British Institution appear in the Directors’ minutes, NAL RC V 12–14, and in
contemporary press reports. Individuals admitted to copy at Dulwich Picture
Gallery were routinely listed in the “Bourgeois Book of Regulations” from 1820;
photocopies and notes at Dulwich Picture Gallery, C1 and H3. This is expecially
clearly expressed in James Ward’s diary notes on his visits in 1817, meeting
there the artists William Skelton, Joseph Clover, Henry Fuseli, and William
Long, but also the gentlemen collectors and scholars William Lock, Edward
Utterson, and Francis Douce (Nygren, “James Ward”). See Cash, “Access to Museum
Culture”, 217 and passim. Although the timing of the Academy’s evening classes
might seem to be more accommodating, even this may have been challenging. The
master of Richard Westall, later a watercolour painter, “permitted him to draw
at the Royal Academy, in the evenings; but for that indulgence he worked a
corresponding number of hours in the morning”. Gentleman's Magazine, February
1837, 213. Diary of Joseph Farington, 4: 4783. On educational tests as linking
“macro” and “micro”, “both sectoral mechanisms or unique situations and
societal arrangements”, see Boltanski and Chiapello, New Spirit of Capitalism,
32. See Pierre Bourdieu, Pascalian Meditations, trans. Richard Nice (Stanford,
CA: Stanford University Press, 2000). “Acts of nomination, from the most
trivial acts of bureaucracy, like the issuing of an identity card, or a
sickness or disablement certification, to the most solemn, which consecrate
nobilities, lead, in a kind of infinite regress, to the realization of God on
earth, the State, which guarantees, in the last resort, the infinite series of
acts of authority certifying by delegation the validity of the certificates of
legitimate existence”, Bourdieu, Pascalian Meditations, 245. The potentially
trivial nature of the acts of nomination involved in gaining access to the
British Museum is highlighted in Joseph Planta’s own account of providing
recommendations (for the Reading Room) often only on the basis of casual
conversations. See Cash, “Access to Museum Culture”, 207. Report of the Select
Committee on Arts and Manufactures, House of Commons, 4 September 1835, 40.
Report of the Select Committee on the British Museum, quoted in Edward Edwards,
Remarks on the “Minutes of Evidence” Taken before the Select Committee on the
British Museum, 2nd edn (London [1839]), 14. McRobbie, Be Creative. The British
Museum, Central Archive, C/1/5/1043–144. 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65
66 67 68 69 70 71 72 Bourdieu, Pierre. On the State: Lectures at the Collège de
France, 1989–1992. Ed. Patrick Champagne and others. Trans. David Fernbach.
Cambridge: Polity Press, 2014. – – –. Pascalian Meditations. Trans. Richard
Nice. Stanford, CA: Stanford University Press, 2000. – – –. The Rules of Art.
Trans. Susan Emanuel. Cambridge: Polity Press, 1996. Cash, Derek. “Access to
Museum Culture: The British Museum from 1753 to 1836.” British Museum
Occasional Papers 133 (2002)
http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/
access_to_museum_culture.aspx Chambers, Neil. Joseph Banks and the British Museum:
The World of Collecting, 1770–1830. London: Routledge, 2007. Chumbley, Ann, and
Ian Warrell. Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary Life. London:
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1928. Massimo Carboni. Keywords: estetica, arte, icona, parola,
immagine, filosofia antica, il concetto dell’antico, l’antico – l’antico e il
moderno – drawing from the antique – antico – filosofia antica, arte antica,
statuaria antica, the lure of the antique – il gusto e l’antico --. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carboni” – The Swimming-Pool Library.
levi:
filosofo italiano - Italian philosopher of Jewish descent. Author of “Storia
della filosofia romana.”
giornale
critico della filosofia italiana.
Giovanni
d. “Positivismo italiano.”
cassiodoro: noble Italian
philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cassiodoro," per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia
casalegno,
paolo. Italian philosopher author of “H. P. Grice” in “Filosofia del
linguaggio.”
cattaneo: essential Italian philosopher. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Cattaneo," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Carchia (Torino). Grice:”I
once joked that if I’m introduce dto Mr. Poodle as ‘our man in eighteenth
century aesthetics, the implictum is that he ain’t good at it! Not with
Carchia: because (a) Carchia is a serious philosopher (b) he conceives
aesthetics alla Baumagarten, having to do with communication (“nome e immagine”, “interpretazione ed
emancipazione”) and with not just the aesthetis qua sensus – but its truth
value (“immagine e verita,” “l’intelligible estetico”) – a genius! On topc, my
favourite piece of his philosophising is on the torso del belvedere as
representing the ‘rhetoric of the sublime’!” Si laurea a Torino sotto Vattimo
con la dissertazione “Il Linguaggio”. Insegna a Viterbo e Roma. Studioso di
filosofia antica, traduttore. Opere: Orfismo e tragedia; Estetica ed erotica; Dall'apparenza
al mistero; La legittimazione dell'arte; Arte e bellezza; L'estetica antica, ecc. Si è anche occupato, di arte e comunicazione dei
popoli 'primitivi' e di artisti contemporanei quali Savinio, Sbarluzzi e Lanzardo.
La casa editrice Quodlibet raccoglie le sue opere postume. Rusce ad immaginare
la filosofla, a porla in immagini -- nel solco della filosofia italiana
dall'Umanesimo a Vico. Minima immoralia. Aforismi tralasciati nell'edizione
italiana (Einaudi, 1954), Milano: L'erba voglio); Comunità e comunicazione (Torino:
Rosemberg & Sellier); prefazione e cura di Henry Corbin, L'imâm nascosto,
Milano: Celuc, 1979; Milano: SE); Orfismo e tragedia. Il mito trasfigurato,
Milano: Celuc); Estetica e antropologia. Arte e comunicazione dei primitivi,
Torino : Rosemberg & Sellier); Erotica. Saggio sull'immaginazione, Milano:
Celuc) L'intelligibile (Napoli: Guida); Dall'apparenza al mistero. La nascita del
romanzo, Milano: Celuc); Il mito in pittura. La tradizione come critica,
Milano: Celuc); cura di Arnold Gehlen, Quadri d'epoca. Sociologia e estetica
della pittura moderna, Napoli: Guida) Retorica del sublime, Roma-Bari:
Laterza); Il bello (Bologna: Il Mulino); Interpretazione ed emancipazione. Torino:
Dipartimento di ermeneutica); introduzione a Karl Löwith, Scritti sul Giappone,
Soveria Mannelli: Rubbettino); “La favola dell'essere. Commento al Sofista”
(Macerata: Quodlibet); Estetica, Roma-Bari: Laterza); L'estetica antica, Roma-Bari: Laterza); L'amore
del pensiero, Macerata: Quodlibet); Nome e immagine (Benjamin, Roma: Bulzoni); Immagine
e verità. Studi sulla tradizione classica, Monica Ferrando, prefazione di
Sergio Givone, Roma: Edizioni di storia e letteratura, 2003 88-8498-112-3 Kant e la verità
dell'apparenza, Gianluca Garelli, Torino: Ananke, 2006 88-7325-151-X introduzione a Walter Friedrich
Otto, Il poeta e gli antichi dèi, Rovereto: Zandonai. L’immaginazione
come orizzonte nomade della conoscenza. Produttività e trascendentalità
dell’immaginazione nella critica del giudizio. L’immaginazione senza immagini.
La notte delle immagini, il ricordo, la memoria. L’immaginazione come
autotrasparire dell’apparenza rappresentativa. Naturalismo simbolico e
simbolica naturale. Angelologia. Alighieri: spiritus phantasticus e alta fantasia.
Gemellarità dell’immaginazione gnostica. L’immaginazione speculativa.
Simbolismo e imagismo. Il fantastico come ideologia. Il romantico.
L’immaginazione come dimora del padre. Demone e allegoria. La forza del nome.
Icona e coscienza sofianica. Mistica. Mimesi e metessi. La nuova accademia:
l’estetico. Paradigma, schema, immagine. Gianni Carchia. Keywords:
erotica, il bello, la comunicazione dei primitivi. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Carchia” – The Swimming-Pool Library.
Cardano (Pavia).
Filosofo. Grice: “I’m sure Cardano does not mean chance by aleae! It’s a Roman
notion, not an Arabic one!” Grice: “Cardano is a fascinating philosopher, but
then so is I [sic]!” Grice: “My faavourite philosophical topic by Cardano is
what he calls, well, his Italian translators call – recall that Italian
philosophy is written in the ‘learned’! – ‘gioco d’azzardo’, ludo alaea – which
is what conversation is – what is conversation is not a game of azzardo? But
Cardano also refutes all that Malcolm says about ‘dreaming,’ never mind Freud –
Italians are obsessed with a male sleeping: Rinaldo, Tasso, Botticelli
(“sleeping Mars”), not to mention the search for the Etruscan equivalent to
‘oneiron,’ the god – one of my most precious souvenirs is a little medal of Cardano:
not so much for his very Roman nose (charming as it is) but for the backside,
which represents Oneiron, indeed, aong the ladies!” Poliedrica figura del
Rinascimento. Riconosciuto come il fondatore della probabilità, coefficiente binomiale
e teorema binomial. A lui si deve anche la parziale invenzione dell’
implicatura e della serratura, della sospensione cardanicache permette il moto
libero, ad esempio, delle bussole nautiche ed è alla base del funzionamento del
giroscopioe della riscoperta del giunto cardanico. Animos scio esse
immortales, modum nescio. So che l'anima è immortale, ma non ho capito come
funzioni la cosa. Figlio del nobile Fazio, un giurista esperto nella matematica
tanto da essere consultato da da Vinci su alcuni problemi di geometria.
Fazio conobbe a Milano la vedova, madre di tre figli, Chiara Micheri (o de
Micheriis) di cui s'innamora iniziando con questa, che vive con la famiglia del
defunto marito, una relazione clandestina che porta al concepimento di un
quarto figlio. Per non essere coinvolto nello scandalo prega un suo amico di
Pavia, il patrizio Isidoro Resta, affinché assumesse Chiara come governante nella
sua casa. Prima che lei partorisse, i suoi tre figli morirono quasi
contemporaneamente di peste e lei tenta allora di abortire, senza riuscirci,
del nascituro che ebbe il nome di Gerolamo e che lasciò scritto nella sua
autobiografia. Dopo che mia madre tenta senza risultato dei preparati per
abortire, vengo alla luce a Pavia. Come morto, infatti, sono nato, anzi sono
stato strappato al suo grembo, con i capelli neri e ricciuti. Il bambino contrasse
la peste dalla sua balia, che ne morì, e fu allevato da altre nutrici. E
trasferito a Milano dal padre che anda ad abitare con lui solo quando ha solo sette
anni, età in cui prese ad accompagnare il padre nei suoi viaggi d'affari.
Essendo delicato di salute, si ammala gravemente. Solo dopo una lunga
convalescenza poté riprendere a viaggiare con il padre dedicandosi nel
frattempo agli studi di filosofia, nei quali ha modo di eccedere per le sue
doti quando puo iscriversi a Pavia e Mantova per studiare filosofia, contrariamente
ai desideri del padre che avrebbe preferito avviarlo agli studi giuridici.
Lasciata Milano in preda alla peste e sconvolta dalla guerra francese, si
trasfere a Padova e si laurea a Venezia. E oggetto dell'astio che molti tutori
hanno nei confronti di quello tutee geniale ma dal carattere scontroso e talora
offensive. Sono poco rispettoso e non ho peli sulla lingua, soprattutto mi
lascio trascinare dall'ira, al punto che poi mi dispiace e me ne vergogno. Riconosco
che tra i miei vizi ce n'è uno molto grande e tutto particolare: quello di non
riuscire a trattenermianzi ne gododal dire a chi mi ascolta ciò che gli risulta
sgradevole udire. Persevero in questo difetto coscientemente e volontariamente,
pur sapendo quanti nemici da solo mi abbia procurator. Nel frattempo a Milano e
morto il padre che ha regolarizzato la sua convivenza sposando la madre del
filosofo. Non potendo tornare a Milano per l'epidemia e la guerra, prese
dimora a Piove di Sacco. Esercita la sua professione a Gallarate. Ottenne
la cattedra per l'insegnamento della filosofia presso le scuole Piattine di
Milano, dove aveva insegnato anche il padre. La sua fama di esperto dottore si
accrebbe per aver risanato alcuni membri della famiglia Borromeo. Dovette
rifiutare alcuni incarichi di prestigio perché non retribuiti fino a quando e ammesso
nel Collegio dei medici di Milano. Accetta di ricoprire la cattedra di
filosofia a Pavia, rifiutando le offerte che gli venivano reiterate dal papa Paolo
III. Cura, con esiti positivi, l'arcivescovo di Edimburgo John Hamilton, malato
d'asma. Intuì probabilmente la natura allergica della malattia proibendo a
Hamilton di usare cuscini e materassi di piume. Per aumentare la sua fama volle
fare l'oroscopo all'arcivescovo e al re, e lesse nelle stelle un futuro radioso
per entrambi. Hamilton fu impiccato quasi subito dai riformatori. Il re muore
di tubercolosi. Rifiuta le prestigiose e ben retribuite offerte del re di
Francia e della regina di Scozia. Colpito da un doloroso avvenimento
riguardante il figlio Giovanni Battista, medico anche lui, che, nonostante gli
avvertimenti del padre, aveva voluto sposare una donna povera e di cattivi
costume. Per necessità economiche il figlio coabita dai parenti della moglie
avviando una convivenza caratterizzata dalla nascita successiva di tre figli e
da continui litigi dovuti anche alle infedeltà della moglie che egli decise di
uccidere, con la complicità di una serva, facendole mangiare una focaccia
avvelenata con l'arsenico. Arrestato subito per uxoricidio, il figlio confessa
il delitto e dopo un veloce processo, nonostante la difesa con tutti i mezzi
messa in atto dal padre, fu condannato alla decapitazione. Gerolamo, convinto
che la durezza della condanna fosse dovuta all'invidia dei suoi colleghi, per
sfuggire alle malevole voci che lo accusavano di intrattenere rapporti illeciti
con i suoi tutee, si trasfere a Bologna. Venne ulteriormente amareggiato dalla
condotta scapestrata del figlio Aldo che lo diffama per tutta la città e che
arriva a derubarlo così che il padre dovette denunciarlo alle autorità che
espulsero il figlio dal territorio bolognese. A questa disgrazia si aggiunse
inaspettata la notizia che si stava preparando contro di lui un'accusa di
eresia tanto che il cardinale Giovanni Morone gli consigliò di lasciare il
pubblico insegnamento della filosofia. Questa misura prudenziale non valse però
a salvare Gerolamo che fu arrestato per eresia assieme al suo tutee Rodolfo
Silvestri che non volle abbandonare il tutore. Non si conoscono le accuse
che gli erano rivolte dall'Inquisizione. Tuttavia si era distinto per una certa
imprudenza nei confronti della Chiesa, governata dal severo Papa Pio V, per
aver compilato un oroscopo di Gesù, la cui vita così sarebbe stata decisa dalle
stelle, scritto l'encomio di Nerone, persecutore dei cristiani, e soprattutto
per i suoi confidenziali rapporti con i circoli protestanti frequentati dal suo
tuteei, dal genero e dall'editore e tipografo dei suoi libri. Nonostante le
testimonianze a suo favore di quasi tutti i suoi tutee, Cardano fu messo in
carcere e poi agli arresti domiciliari sino a quando la Sacra Congregazione
tramite l'inquisitore di Bologna gli impose la professione dell'abiura prima in
forma grave (de vehementi) coram populo e successivamente in forma meno
infamante (coram congregationem). Si sottopose docilmente alla abiura
promettendo in una lettera a papa Pio V di non insegnare più pubblicamente
filosofia (la cattedra all'università gli era stata intanto tolta) e di non
pubblicare altre opere. Lasciata Bologna Cardano si trasfere, sotto la
diretta protezione di Pio V, a Roma dove fu ben accolto ma gli fu negata una
pensione che gli fu invece assegnata da Gregorio XIII che era stato suo tutee a
Bologna..E ammesso al Collegio romano. Si dedica alla composizione della sua
autobiografia De vita propria. Il punto focale della sua filosofia è il
concetto rinascimentale di “uomo universale" che dà alla sua ricerca della
verità un contenuto enciclopedico. Scrive più di duecento opere che solo in
parte furono pubblicate nel XVI secolo e che, altrettanto parzialmente, confluirono
nei dieci volumi della monumentale “Opera omnia” dove si trattano temi di
metafisica, omosessualita, mascolinita, il machio, il maschile, la medicina,
scienze naturali, matematica, astronomia, scienze occulte, tecnologia. Egli,
che si occupa anche della interpretazione dei sogni, della chiromanzia, della
numerologia, del paranormale rende difficile distinguere nella sua filosofia il
contenuti moderno del sapere dalle tradizioni metafisiche e magiche del
passato. Vuole arrivare a una sistemazione unitaria della molteplicità dei
saperi così che la nostra incerta conoscenza eviterebbe la confusione se
potesse discendere dall'uno ai molti. Ma questo obiettivo, di origine neo-platonica,
sfugge però all'uomo il quale allora è preferibile che occupi il suo intelletto
in quei campi dove riesce, quasi come un dio creatore o ‘genitore’ – o
ingegnero, a fare le cose. Questo avviene nell’aritmetica che si incarna
nell'esperienza in un rapporto astratto-concreto la cui definizione ancora non
è in grado di elaborare Dopo aver analizzato nel “De subtilitate” i
molteplici principi delle cose naturali e artificiali, si rivolge allo studio di
tutto l'universo e delle sue parti (De rerum varietate), che concepisce come
legate da sim-patia (attrazione) e anti-patia (repulsione) fra gli astri e
l'uomo) e connessioni che consentono al filosofo, che conosce il linguaggio
della natura e gli effetti degli influssi astrali sulla vita sessuale umana, di
compiere quei "miracoli naturali" che sono le magie, di elaborare
previsioni astrologiche e di stendere gli oroscopi delle religioni come quello
dedicato a Cristo. Il contributo in matematica Noto soprattutto per
i suoi contributi all'aritmetica, pubblica le soluzioni dell'equazione
cubica e dell'equazione quartica nella sua “Ars magna”. Parte della soluzione
dell'equazione cubica gli era stata comunicata da Tartaglia. Successivamente
questi sostenne che Cardano aveva giurato di non renderla pubblica e di rispettarla
come di sua origine. Si avvia così una disputa che dura un decennio. Cardano
sostenne di averne pubblicato il testo solo quando era venuto a sapere che il
Tartaglia avrebbe appreso la soluzione dalla voce dal bolognese Scipione del
Ferro. La soluzione di Tartaglia, pur essendo successiva a quella di Scipione
Dal Ferro (comunque mai pubblicata), risulta essere indipendente da questa. La soluzione
della equazione cubica è detta comunque di Cardano-Tartaglia. L'equazione
quartica venne invece risolta da Lodovico Ferrari, un tutee di Cardano. Nella
prefazione dell'“Ars Magna” vengono accreditati sia Tartaglia che Ferrari. Nei
suoi sviluppi delle soluzioni occasionalmente si serve del concetto di numero
complesso, ma senza riconoscerne l'importanza come invece saprà fare Bombelli. Nell'ambito
della scienza medica, l'esempio di Vesalio, che negli stessi anni aveva
contestato l'anatomia galenica, spinse Cardano a definire Galeno un cattivo
interprete di Ippocrate. Le sue critiche a Galeno erano comunque presentate
come parte integrante di un tentativo di recuperare una tradizione ancora più
antica e, si presumeva, più autentica. Fu il primo a descrivere la febbre
tifoide. Venne invitato in Scozia a curare l'Arcivescovo di Sant'Andrea che
soffe di asma probabilmente d'origine allergica. Seguendo i precetti di
Maimonide riusce a guarirlo utilizzando delle cure modernissime per l'epoca:
eliminare piume e polvere e mantenere una dieta controllata. Al ritorno dalla
Scozia si ferma a Londra, dove incontrò il re d'Inghilterra per il quale
redasse un oroscopo secondo il quale prospetta Edoardo VI una lunga vita
seppure turbata da alcune malattie. La sua fama di si diffuse in Inghilterra
tanto da interessare Shakespeare che nella "Tempesta" rappresenta un
personaggio molto simile a Cardano ed inoltre una prova della sua
perdurante popolarità può essere vista nel fatto che un’edizione del suo ‘De
Consolatione’ è proprio il libro che Amleto tiene in mano quando recita il suo
celeberrimo monologo ‘Essere o non essere’. De subtilitate e il libro che
Amleto tiene in mano all'inizio del secondo atto, quando Polonio gli domanda
cosa stia leggendo e lui risponde: "parole, parole, parole". Progetta
inoltre svariati meccanismi tra i quali: la serratura a combinazione; la
sospensione cardanica, consistente in tre anelli concentrici collegati da
snodi, in grado di ospitare una bussola o un giroscopio, garantendo la libertà
di movimento dello strumento; il giunto cardanico, dispositivo che consente di
trasmettere un moto rotatorio da un asse a un altro di diverso orientamento e
viene tuttora usato in milioni di veicoli. Ma pare fosse già conosciuto, anche
se porta il suo nome perché appare nella sua opera De Rerum Varietate in una illustrazione navale. L'invenzione di
questo tipo di giunto in realtà risale almeno al III secolo a.C., ad opera di
scienziati greci come Filone di Bisanzio, che nella sua opera Belopoiika lo descrive
chiaramente. Egli dette svariati contributi anche all'idrodinamica. Sostene
l'impossibilità del moto perpetuo, con l'eccezione dei corpi celesti. Pubblica
anche due opere enciclopediche di scienze naturali che contengono un'ampia
varietà di invenzioni, fatti ed enunciati afferenti all'occultismo e alla
superstizione: il De Subtilitate e successivamente il De Varietate. Introdusse
la griglia cardanica, un procedimento crittografico.A Cardano è attribuito
anche il gioco rompicapo descritto nel De subtilitate, ma probabilmente
risalente a un periodo più antico, chiamato Gli anelli di Cardano. Altre opere:
Della sua vita avventurosa e molto travagliata, rimane testimonianza nella sua
autobiografia. Ebbe spesso problemi di denaro e per cavarsela si dedicò ai giochi
d'azzardo per i quali ha una vera passione di cui si pente. Così ho dilapidato
contemporaneamente la mia reputazione, il mio tempo e il mio denaro. (zeugma –
segnato da ‘dilapidare’ – denaro, dilapidare il suo tempo, dilapidare la sua
reputazione. Pubblica un saggio sulle probabilità nel gioco, “De ludo aleae”
che contiene la prima trattazione sistematica della probabilità, insieme a una
sezione dedicata a metodi per barare efficacemente. Oltre alla produzione
dialettica, di carattere più strettamente filosofico sono invece il De
subtilitate e il De rerum varietate, ampie raccolte delle sue osservazioni
empiriche e delle sue speculazioni occultistiche. Della sua produzione
filosofica sterminata possono considerarsi come le opere più importanti: De
malo recentiorum medicorum usu libellus, Venezia, 1536 (medicina). Practica
arithmetice et mensurandi singularis, Milano. Artis magnae sive de regulis
algebraicis liber unus (conosciuta anche come Ars magna), Nuremberg. De
immortalitate. Opus novum de proportionibus. Contradicentium medicorum. De
subtilitate rerum, Norimberga, editore Johann Petreius (fenomeni naturali). De
libris propriis, De restitutione temporum et motuum coelestium; De duodecim
geniturarum -- commento astrologico a dodici nascite illustri. De rerum
varietate, Basilea, editore Heinrich Petri. Fenomeni naturali. De signo. De
causis, signis, ac locis Morborum. Bologna. Opus novum de proportionibus
numerorum, motuum, ponderum, sonorum, aliarumque rerum mensurandarum. Item de
aliza regula, Basilea (matematica). De vita propria. Proxeneta (politica).
Metoscopia libris tredecim, et octingentis faciei humanae eiconibus
complexa, Liber de ludo aleae, postumo (probabilità). Le sue opere vennero
raccolte e pubblicate a Lione in 10
volumi. L’Encomio di Nerone. A lui è dedicato il cratere lunare Cardano e
un asteroide. È intitolato a lui l'Istituto "G. Cardano" della sua città natale,
nel cui cortile interno è posta una scultura che rappresenta il giunto
cardanico, nonché infine l'omonimo collegio universitario pavese. La
blockchain "Cardano" (ADA) prende il suo nome, in quanto basata su un
approccio scientifico e matematico. Della mia vita. Somniorum synesiorum omnis
generis insomnia explicantes (Basilea). tti del Convegno, Castello Visconti di
San Vito, Somma Lombardo, Varese ed. Cardano); Università Bocconi. Equazione di
terzo grado" Il Rinascimento. Omeopatia
e allergie, Tecniche Nuove); Cardano, Edizioni Cardano, Il Prospero della
"Tempesta” somiglia tanto a Cardano
in Corriere. La tecnologia scientifica, in La rivoluzione dimenticata: il
pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli Editore); Il libro
della mia vita, Cerebro editore); Della mia vita, Alfonso Ingegno, Serra e Riva
editori, Milano). La formula segreta. Il duello matematico che infiammò
l'Italia del Rinascimento. ileae, per Ludouicum Lucium); “De propria vita”
(Milano, Sonzogno). Lugduni, sumptibus Ioannis Antonii Huguetan & Marci
Antonii Ravaud. Aforismi (Milano, Xenia). Palingenesi. Dizionario biografico
degli italiani. Il filosofo quantistico. L’avventure di Cardano, filosofo e
giocatore d'azzardo (Bollati Boringhieri, Torino Edizione); “La mia vita” (Milano,
Luni). Che sfortuna essere un genio. Indice delle Opera omnia Volume
1 Frontespizio Lettera
dedicatoria Praefatio Vita Cardani per Gabrielem
Naudaeum Testimonia Elenchus generalis Index
librorum tomi primi Previlege du roy 1.1De vita propria
Le redazioni del 1544, 1557 e 1562 (Archivio) 1.2De libris
propriis (Archivio) 1.3De Socratis studio (Archivio) 1.4Oratio ad I.
Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis (Archivio)
1.5Actio in Thessalicum medicum (Archivio) 1.6Neronis
encomium (Archivio) 1.7Podagrae encomium (Archivio) 1.8Mnemosynon (Archivio)
1.9De orthographia (Archivio) 1.10De ludo aleae (Archivio) 1.11De
uno (Archivio) 1.12Hyperchen (Archivio) 1.13Dialectica (Archivio)
1.14Contradictiones logicae (Archivio) 1.15Norma vitae consarcinata, sacra
vocata (Archivio) 1.16Proxeneta (Archivio) 1.17De praeceptis ad
filios (Archivio) 1.18De optimo vitae genere (Archivio) 1.19De
sapientia (Archivio) 1.20De summo bono (Archivio) 1.21De
consolatione (Archivio) 1.22Dialogus Hieronymi Cardani et Facii Cardani
ipsius patris (Archivio) 1.23Dialogus Antigorgias seu de recta
vivendi ratione (Archivio) 1.24Dialogus Tetim seu de humanis consiliis
(Archivio) 1.25Dialogus Guglielmus seu de morte (Archivio) 1.26De minimis
et propinquis (Archivio) 1.27Hymnus seu canticum ad Deum (Archivio) Indice
rerum Volume 2 Frontespizio Index librorum tomi 2.1De
utilitate ex adversis capienda (Archivio) 2.2De natura (Archivio) 2.3Theonoston
seu de tranquilitate (Archivio) 2.4Theonoston seu de vita producenda (Archivio)
2.5Theonoston seu de animi immortalitate (Archivio) 2.6Theonoston seu de
contemplatione (Archivio) 2.7Theonoston seu hyperboraeorum historia (Archivio)
2.8De immortalitate animorum (Archivio) 2.9De secretis (Archivio)
2.10De gemmis et coloribus (Archivio) 2.11De aqua (Archivio) 2.12De
vitali aqua seu de aethere (Archivio) 2.13De aceti natura (Archivio)
2.14Problemata (Archivio) 2.15Se la qualità può trapassare di subbietto in
subbietto (Archivio) 2.16Discorso del vacuo (Archivio) De
fulgure liber unus Indice rerum Volume
3 Frontespizio Index librorum tomi 3.1De rerum
varietate (Archivio) 3.2De subtilitate (Archivio) 3.3In calumniatorem
librorum de subtilitate (Archivio) Indice rerum Volume
4 Frontespizio Index librorum tomi 4.1 De numerorum
proprietatibus (Archivio) 4.2Practica arithmeticae (Archivio)
4.3Libellus qui dicitur, Computus minor (Archivio) 4.4Ars
magna (Archivio) 4.5Ars magna arithmeticae (Archivio) 4.6De
aliza regula (Archivio) 4.7Sermo de plus et minus (Archivio)
4.8Geometriae encomium (Archivio) 4.9Exaereton
mathematicorum (Archivio) 4.10De proportionibus (Archivio)
4.11Operatione della linea (Archivio) 4.12Della natura de principii et
regole musicali (Archivio) Volume
5 Frontespizio Index librorum tomi 5.1De restitutione
temporum et motuum coelestium (Archivio) 5.2De providentia ex anni
constitutione (Archivio) 5.3Aphorismorum astronomicorum segmenta
septem (Archivio) 5.4In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis (Archivio)
5.5De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus (Archivio)
5.6De iudiciis geniturarum (Archivio) 5.7De exemplis centum
geniturarum (Archivio) 5.8Geniturarum exempla (Archivio) 5. De
interrogationibus (Archivio) 5.10De revolutionibus (Archivio) 5.11De
supplemento almanach (Archivio) 5.12Somniorum synesiorum (Archivio)
5.13Astrologiae encomium (Archivio) Volume 6 Frontespizio Index
librorum tomi 6.1 Medicinae encomium (Archivio) 6.2De sanitate
tuenda (Archivio) 6.3Contradicentium medicorum (Archivio) Volume
7 Frontespizio Index librorum tomi 7.1De usu ciborum (Archivio)
7.2De causis, signis ac locis morborum (Archivio) 7.3De
urinis (Archivio) 7.4Ars curandi parva (Archivio) 7.5 De methodo
medendi (Archivio) 7.6De cina radice (Archivio) 7.7De sarza
parilia (Archivio) 7.8Disputationes per epistolas liber
unus (Archivio) 7.9De venenis (Archivio) 7.10In librum Hippocratis de
alimento commentaria (Archivio) Volume 8 Frontespizio Index
librorum tomi 8.1In librum Hippocratis de aere, aquis et locis
commentaria (Archivio) 8.2In septem aphorismorum Hippocratis commentaria (Archivio)
8.3In Hippocratis coi prognostica commentaria (Archivio) Volume
9 Frontespizio Index librorum tomi 9.1In librum
Hippocratis de septimestri partu commentaria (Archivio) 9.2Examen XXII.
aegrorum Hippocratis (Archivio) 9.3Consilia (Archivio) 9.4De
dentibus (Archivio) 9.5De rationali curandi ratione (Archivio) 9.6De
facultatibus medicamentorum (Archivio) 9.7De morbo regio (Archivio)
9.8De morbis articularibus (Archivio) 9.9Floridorum libri sive
commentarii in Principem Hasen (Avicenna) (Archivio) 9.10Vita
Ludovici Ferrarii (Archivio) 9.11Vita Andreae Alciati (Archivio)
Volume 10 Frontespizio Index librorum tomi 10.1De arcanis
aeternitatis (Archivio) 10.2Politices seu Moralium liber
unus (Archivio) 10.3Elementa Graeca (Archivio) 10.4De
inventione (Archivio) 10.5 De naturalibus viribus (Archivio) 10.6 De
musica (Archivio) 10.7Artis arithmeticae tractatus de
integris (Archivio) 10.8Expositio Anatomiae Mundini (Archivio) 10.9In
libros Hippocratis de victu in acutis commentaria (Archivio) 10.10In
libros epidemiorum Hippocratis commentaria (Archivio) 10.11De
epilepsia (Archivio) 10.12De apoplexia (Archivio) 10.13De
humanis civilibus successionibus (Paralipomena) (Archivio) 10.14De humana
perfectione (Paralipomena) (Archivio) 10.15Peri thaumason seu de
admirandis (Paralipomena) (Archivio) 10.16De dubiis naturalibus
(Paralipomena) (Archivio) 10.17De rebus factis raris et artificiis
(Paralipomena) (Archivio) 10.18De humana compositione naturalium
(Paralipomena) (Archivio) 10.19De mirabilibus morbis et symptomatibus
(Paralipomena) (Archivio) 10.20De astrorum et temporum ratione et
divisionibus (Paralipomena) (Archivio) 10.21De mathematicis quaesitis
(Paralipomena) (Archivio) 10.22Historiae lapidum, metallicorum et
metallorum (Paralipomena) (Archivio) 10.23Historiae animalium (Paralipomena) (Archivio)
10.24Historiae plantarum (Paralipomena) (Archivio) 10.25De anima
(Paralipomena) (Archivio) 10.26De dubiis ex historiis
(Paralipomena) (Archivio) 10.27De clarorum virorum vita et libris
(Paralipomena) (Archivio) 10.28De hominum antiquorum illustrium iudicio
(Paralipomena) (Archivio) 10.29De usu hominum et dignotione eorum, tum
cura et errore (Paralipomena) (Archivio) 10.30De sapiente
(Paralipomena) (Archivio) Indice rerum. De vita propria. De
libris propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive
Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum medicum. Neronis
encomium. Podagrae encomium. Mnemosynon. De orthographia. De ludo aleae. De
uno. Hyperchen. Dialectica. Contradictiones logicae. Norma vitae consarcinata,
sacra vocata. Proxeneta. De praeceptis ad filios. De optimo vitae genere. De
sapientia. De summo bono. De consolatione. Dialogus Hieronymi Cardani et Facii
Cardani ipsius patris. Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione.
Dialogus Tetim seu de humanis consiliis. Dialogus Guglielmus seu de morte. De
minimis et propinquis. Hymnus seu canticum ad Deum. De utilitate ex adversis
capienda. De natura. Theonoston seu de tranquilitate. Theonoston seu de vita
producenda. Theonoston seu de animi immortalitate. Theonoston seu de
contemplatione. Theonoston seu hyperboraeorum historia. De immortalitate
animorum. De secretis. De gemmis et coloribus. De aqua. De vitali aqua seu de
aethere. De aceti natura. Problemata. Se la qualità può trapassare di subbietto
in subbietto. Del vacuo. De fulgure. De rerum varietate. De subtilitate. In
calumniatorem librorum de subtilitate. De numerorum proprietatibus. Practica
arithmeticae. Libellus qui dicitur, Computus minor. Ars magna. Ars magna
arithmeticae. De aliza regula. Sermo de plus et minus. Geometriae encomium.
Exaereton mathematicorum. De proportionibus. Operatione della linea. Della
natura de principii et regole musicali. De restitutione temporum et motuum
coelestium. De providentia ex anni constitutione. Aphorismorum astronomicorum
segmenta septem. In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis. De septem erraticarum
stellarum qualitatibus atque viribus. De iudiciis geniturarum. De exemplis
centum geniturarum. Geniturarum exempla. De interrogationibus. De
revolutionibus. De supplemento almanach. Somniorum synesiorum. Astrologiae
encomium. Medicinae encomium. De sanitate tuenda. Contradicentium medicorum. De
usu ciborum. De causis, signis ac locis morborum. De urinis. Ars curandi parva.
De methodo medendi. De cina radice. De sarza parilia. Disputationes per
epistolas. De venenis. In librum Hippocratis de alimento commentaria. In librum
Hippocratis de aere, aquis et locis commentaria. In septem aphorismorum
Hippocratis commentaria. In Hippocratis coi prognostica commentaria. In librum
Hippocratis de septimestri partu commentaria. Examen XXII. aegrorum
Hippocratis. Consilia. De dentibus. De rationali curandi ratione. De
facultatibus medicamentorum. De morbo regio. De morbis articularibus.
Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen (Avicenna). Vita Ludovici
Ferrarii. Vita Andreae Alciati. De arcanis aeternitatis. Politices seu
Moralium. Elementa Graeca. De inventione. De naturalibus viribus. De musica.
Artis arithmeticae tractatus de integris. Expositio Anatomiae Mundini. In
libros Hippocratis de victu in acutis commentaria. In libros epidemiorum
Hippocratis commentaria. De epilepsia. De apoplexia. Paralipomena. De humanis
civilibus successionibus. De humana perfectione. Peri thaumason seu de
admirandis. De dubiis naturalibus. De rebus factis raris et artificiis. De
humana compositione naturalium. De mirabilibus morbis et symptomatibus. De
astrorum et temporum ratione et divisionibus. De mathematicis quaesitis.
Historiae lapidum, metallicorum et metallorum. Historiae animalium. Historiae
plantarum. De anima. De dubiis ex historiis. De clarorum virorum vita et
libris. De hominum antiquorum illustrium iudicio. De usu hominum et dignotione
eorum, tum cura et errore. De sapiente.Hieronymus Cardanus. Hieronimo Cardano. Gerolamo
Cardano. Keywords: masculinity, machio – maschile, Prospero, De signo, De
signis, de Casis, signis, ac locis Morborum, ten volumes of “Opera omnia”
analytic index – he wrote about almost everything – including logic,
dialettica, metafisica, psicologia, anima, fisionomia, same-sex, he criticised
Galenus for not realizing the distinction that at 14, a puer becomes an
adolescent – his oeuvre is being examined in masculinity studies – masculinity
Italian, Bolognese masculinity. He claimed that Bolognese males were ‘tasteful’
and underrated compared to Milaenese or Florentine males – he lived all over
the place – he had many tutees, whose names survive – he was possibly paranoid
– Silvestri was his best known tutee –analytic index of “Opera Omnia” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The
Swimming-Pool Library.
Cardano (Lumellogno).
Filosofo. lombardia -- Grice: “If William was called Ockham, I should be called
Harborne, and Petrus Lombardia!” -- Pietro Lombardo rappresentato in una miniatura a decorazione
di una littera notabilior di un manoscritto Pietro Lombardo o Pier Lombardo
(Lumellogno di Novara, 1100Parigi, 1160 circa) teologo e vescovo
italiano. Nacque a Novara o nei dintorni (a Lumellogno esiste una lapide
su di una casa che risorda il luogo della nascita) , all'inizio del XII secolo.
Ricevette la sua prima formazione teologica a Bologna, dove acquisì una
perfetta conoscenza del Decretum Gratiani. Dopo il 1136 si recò a Reims e poi a
Parigi, dove fino alla sua elevazione alla sede vescovile di questa città
(1159) insegnò teologia. Almeno una volta in questo periodo, tra il 1145 e il
1153, si recò alla corte pontificia, dove venne a conoscenza della traduzione
del De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno, compiuta da Burgundio Pisano per incarico
di Eugenio III. Quasi certamente nel 1147 fu uno dei teologi che nel sinodo
parigino presero posizione contro Gilberto Porretano. Dopo un breve
episcopato (1159-1160) morì il 21 o 22 luglio del 1160 (non del 1164). Il suo
epitaffio si conservò nella chiesa di Saint Marcel fino alla Rivoluzione
francese. Dante lo nomina in Paradiso, X, 106-108. Oltre ai commenti
all'opera di Paolo di Tarso e ai Salmi, la sua opera maggiore rimane il Liber
Sententiarum (Libro delle Sentenze), scritta fra il 1150 ed il 1152 e per la
quale ottenne l'appellativo di Magister Sententiarum. Sebbene il testo rientri
in un genere letterario tipico della teologia medievale, ossia l'esposizione
delle sentenze delle autorità di fede (i padri della chiesa ed i riferimenti
biblici) l'opera del Lombardo, per l'ampiezza delle fonti e la sua originalità,
diverrà il testo di riferimento per la didattica nelle facoltà di teologia e
l'elaborazione letteraria nello stesso campo fino alla fine del XVI secolo.
Egli infatti attinge ad una vasta letteratura in merito, adottando anche testi
che normalmente non erano contemplati in queste composizioni, come Il De fide
ortodoxa di Giovanni Damasceno. Con la sua opera il Lombardo tenta di
sistematizzare e armonizzare la disparità e le divergenze che la pluralità
delle auctoritates aveva generato, dando luogo ad un certo scompiglio
ermeneutico e dottrinale. Riprendendo la classica distinzione agostiniana tra
signa e res, Lombardo afferma che il motivo delle divergenze non appartiene
alla natura delle cose trattate, bensì alla metodologia esegetica. Il
testo si divide in quattro parti: la prima tratta di Dio, della sua
natura e dei suoi attributi; la seconda delle creazione degli angeli, del mondo
e dell'uomo sino al peccato originale; la terza dell'incarnazione cristica e
della promessa della Grazia; la quarta dei sacramenti. Anche lo sviluppo del
testo mantiene la distinzione tra res (le prime tre parti) e signa (l'ultima)
Lo stile del Lombardo snoda l'esposizione delle sentenze coll'eleganza dialettica
di tipo anselmiano mantenendosi aderente al rispetto delle varie auctoritates
anche riguardo o stile letterario col quale egli opera una volontaria
mimesi. Il testo venne criticato sin dalla sua prima uscita per via del
cosiddetto nichilismo cristologico. Lombardo descrive infatti l'incarnazione
nei termini di assumptus homo, ossia la persona divina del Cristo avrebbe
assunto una natura umana (accessoriamente). Ciò contrastava con la
determinazione di origine boeziana per la quale la natura cristologica traeva
la sua forma da un sinolo unico di divino ed umano. Note Per approfondimenti vedere: Nicola Abbagnano,
Storia della filosofia, II, pag.30 e
seg. Novara, Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale
l'Espresso, Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola
Abbagnano, Storia della filosofia I, II,
III, quarta edizione, Torino, Utet, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di
Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino,
Utet 1998) Nicola Abbagnano, Storia
della filosofia, II, pag. 37 e seg.
Novara, Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso,
Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia
della filosofia I, II, III, quarta
edizione, Torino, Utet, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza
edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Utet 1998) Marcia L. Colish, Peter Lombard, Leiden,
Brill, 1994 (due volumi). Pietro Lombardo. Atti del XLIII Convegno storico
internazionale : Todi, 8-10 ottobre 2006, Spoleto, Fondazione Centro italiano
di studi sull'alto Medioevo, 2007.
Minuscule 714il manoscritto del Nuovo Testamento e di
"Sententiae". Libri Quattuor Sententiarum Scolastica (filosofia)
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Pietro Lombardo Collabora a Wikiquote Citazionio su Pietro Lombardo Collabora a
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Lombardo Pietro Lombardo, su TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Pelster, Pietro Lombardo, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Pietro Lombardo, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Francesco
Siri, Pietro Lombardo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Pietro Lombardo / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra
versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione)
/ Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione), su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Pietro Lombardo, . su Pietro Lombardo, su Les Archives de
littérature du Moyen Âge. Pietro Lombardo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Sofia Vanni Rovighi, Pietro
Lombardo, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970.
Petrus Lombardus, Opera Omnia dal Migne Patrologia Latina con indici
analitici.Hugh Chisholm , Peter Lombard, in Enciclopedia Britannica, XI,
Cambridge University Press. Refs.: Luigi Speranza, “Philosophical
psychology in the commentaries of Pietro Lombardo and Grice,” per il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Lombardia Grice: “It is strange that he was called Piero da
Lombardia; it would be like ‘a lad from shropshire.’ ‘Lombardia,’ unlike
Ockham, ain’t a townbut a full regionIt’s different with ‘veneto,’ which is
toponymic and metonymic for Venice. But if Milano was the main ever settlement in
Lombardia this would be “Peter, the one from Milan.” Lombardo Pietro Lombardo
Lumellogno Cardano – Grice: “It’s only natural that he was Pietro Cardano –
after the city in Lombardy, Cardano – Plus, the implicature that he went by
“Peter of Lombardy” having been born in Piemonte, means that the locals never
saw him as one of their own!” -- Pietro
Cardano – la stirpe Cardano 1600 --. Familia patrizia di Novara. Pietro Cardano. Keywords: Cardano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The
Swimming-Pool Library.
Cardia (Roma). Filosofo. Grice: “Cardia is what I would call the Italian
Hart – with a tweak – Italy and religion is Cardia’s forte – recall that the
bishop of Rome has the roots in the ‘pontifex’ of old Rome, so he knows what
he’s talking about!” – Grice: “Like me, Cardia has philosophised, as what the
Italians call a professore di filosofia del diritto, on the ethical versus
legal implicatures of the very idea of a ‘right’ (diritto). We don’t have that
economy of vocabulary in Engish – calling Hart the professor of right would be
unnacepptable at Oxford!”. Si laurea a Roma. Clifton has chapel services and a
focus on Christianity. This is the Chapel: here, my son, Your father thought
the thoughts of youth, And heard the words that one by one The touch of Life
has turn'd to truth. Here in a day that is not far, You too may speak with
noble ghosts Of manhood and the vows of war You made before the Lord of Hosts.
The magnificent Chapel sits at the heart of Clifton both spiritually and
physically and has played an important part of life. Topped by a striking
copper-clad lantern and built from soft red and honey-coloured stone, the
Chapel provides Christian calm, and forms a powerful link between past and
present. It is a place where the community come to mark milestones and
celebrate successes, and for quiet contemplation or spiritual guidance.
Brass plates placed on the back of the staff stalls mark the names of all those
who have carved out a reputation. High on the walls are memorials of pupils of another
age who died by accident or disease serving the Empire. One bears the moving
epitaph ‘A good life hath but few days but a good name endureth forever.’
The Chapel was built to
a design by C. Hansom. It is a narrow aisleless building. It is the gift of the widow of W. J. Guthrie.
Hansom is given permission to quarry sufficient stone from the grounds of
Clifton for the purposes of the Chapel building". The Chapel building is
licensed by the Bishop of Gloucester and Bristol. Stato,
Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it)
settembre 2007 ISSN 1971- 8543 Nicola Colaianni (ordinario di Diritto
ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di
Bari) Quale laicità * Con questo libro Carlo Cardia si affaccia sul versante
polemistico della letteratura giuridica con la maestria affinata attraverso una
copiosa produzione saggistica e con la non comune versatilità che negli ultimi
anni lo ha portato ad occuparsi dei problemi di tutela non solo delle confessioni
religiose ma anche dei diritti umani. I bersagli della polemica sono indicati
nel sottotitolo: etica, multiculturalismo, islam, non in sé naturalmente ma in
quanto declinati in maniera rispettivamente relativistica, separatistica,
fondamentalistica. Capaci cioè di esaltare le identità oltre ogni limite e di
attentare, quindi, a quello “stato laico sociale” che, dopo secoli di storia
travagliata e i totalitarismi del secolo breve, a cavallo del nuovo millennio
ha trionfato un po’ dovunque in Europa e in tutto l’occidente. Questo carattere
ben si coglie secondo l’autore nella “rivincita dei concordati”. Un fenomeno
effettivamente impressionante, tanto più perché si inserisce in un trend
favorevole alle relazioni con le confessioni, da cui non prendono le distanze
neanche l’Unione europea, in base ad una dichiarazione allegata al trattato di
Amsterdam, e la Francia della Loi de séparation, secondo le proposte della
commissione governativa Machelon1 . Da esso Cardia deduce che lo stato è ormai
amico delle religioni, che contribuisce attivamente a sottrarre all’irrilevanza
degli affari privati e a reimmettere nel circuito pubblico, relegando
l’ostilità del laicismo ottocentesco nel museo della memoria. *
Recensione a C. CARDIA, Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo,
islam, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 202, destinata alla
pubblicazione sulla rivista “Laicità”, Torino, n. 3 del 2007. 1 Cfr. F.
MARGIOTTA BROGLIO, su Reset, n. 102/2007. Stato, Chiese e pluralismo confessionale
Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 2 Dal
quale non varranno a riesumarla le “guerricciole”, rinfocolate dal
“micro-massimalismo” di chi spera di “rivivere un po’ dell’epopea del passato”
e non si accorge che ormai lo stato italiano gli accordi li fa anche con
confessioni non cattoliche e, peraltro, non è l’unico ad integrare le scuole
private e confessionali nel sistema scolastico, ad assicurare l’insegnamento
religioso confessionale nelle scuole pubbliche, a finanziare lautamente la
chiesa cattolica ma anche le altre confessioni. L’agile sintesi
storico-politica, condotta nella prima metà del libro, consente a Cardia di
avallare questa laicità realistica, che ad altri2 è sembrata più propriamente
“praticistica”. A quella stregua l’autore tratta con sufficienza i rinnovati
contrasti tra stato e chiesa (che pure sono al centro delle preoccupazioni di
altri libri coevi3 ) tanto quanto con drammaticità le sfide suindicate. A
cominciare dal multiculturalismo, che in effetti nella versione spinta si
presenta sotto la forma di un comunitarismo senza coesione. Il “fascino
discreto” che in molti differenzialisti suscitano gli statuti personali, di
medioevale o ottomana memoria, è giustamente visto come una relativizzazione
della laicità: a vantaggio, in particolare, dell’islam. Ovviamente Cardia è
severo con la “partita giocata su due tavoli”: non si può invocare la laicità
contro i “simboli e la memoria del cristianesimo” e a favore di quelli
dell’islam, per cui “verrebbero estromessi i crocifissi, ma sarebbero ammessi
il velo e la preghiera degli islamici”. Ma i termini del paragone sono omogenei
solo apparentemente: il crocifisso fa problema per la laicità non se portato
addosso al corpo, se fa parte del libero abbigliamento dei cittadini (come il
velo o altri segni religiosi), ma in quanto esposto autoritativamente, cioè
imposto, negli spazi pubblici, scolastici, giudiziari. In effetti, è tutta la
seconda parte del libro a risentire di questa drammatizzazione impressa ai vari
scenari. Islam versus cristianesimo. Di là un sistema chiuso ad ogni
interpretazione evolutiva, un’identità fissa e immutabile, di qua una religione
tollerante, aperta all’interpretazione storico-critica dei testi sacri e alla
laicità, la quale in essa sarebbe addirittura “germinata”. La schematizzazione
diventa 2 Per esempio a P. BELLINI nel libro coevo Il diritto
d’essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità. 3 Come quelli di G.
ZAGREBELSKY, Lo stato e la chiesa, o di E. BIANCHI, La differenza cristiana, o
di G.E. RUSCONI, Non abusare di Dio. Stato, Chiese e pluralismo
confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN
1971- 8543 3 inevitabile. In realtà, l’involuzione della seconda metà del XX
secolo, a parte i fanatismi e i terrorismi, non è riuscita a spegnere le
numerose voci laiche dell’islam moderno4 né, a livello istituzionale, ad
annullare, pur frenandola, l’applicazione negli stati islamici di una legge non
religiosa, il kanun, “nel senso laico di ‘legge di stato’ (…) in
contrapposizione alla sharī ‘a” 5 . D’altro canto, bisogna riconoscere che
abbiamo tutti sovracaricato il detto evangelico “Quae sunt Caesaris Caesari,
quae sunt Dei Deo” di un significato improprio e anacronistico, in termini
appunto di laicità, che nessun biblista ha mai potuto avallare (vorrei
ricordare qui almeno Giuseppe Barbaglio, che ci ha lasciato pochi mesi fa: nel
suo La laicità del credente non cita mai il versetto di Matteo). Storicamente
poi, anche a voler retrodatare – seguendo Ernst-Wolfgang Böckenförde6 - alla
lotta delle investiture l’inizio del processo di secolarizzazione, non v’è
dubbio che per secoli la chiesa ha sostenuto la supremazia del potere
spirituale ratione peccati o salutis anche nella sfera mondana. E al giorno
d’oggi la più netta distinzione degli ordini formulata dal Concilio non sta
impedendo il tentativo di informare la legislazione italiana al magistero
ecclesiastico: è la chiesa dei no alla procreazione medica assistita (divieto
dell’eterologa, della diagnosi preimpianto dell’embrione), al testamento
biologico, visto come anticamera di pratiche eutanasiche, al riconoscimento
pubblico di unioni civili in qualsiasi forma (pacs, dico, cus, ecc.),
emblematicamente (a luglio alla Camera) al richiamo del principio di laicità
come fondamento di una legge sulla libertà di religione (che pur non tocca la
chiesa cattolica). Neanche Cardia indulge su questi punti. Il suo no è
altrettanto netto. In nome della laicità e contro il relativismo etico. Ma
poiché su quei punti, con varie sfumature, il pensiero laico (di non credenti e
agnostici ma anche di credenti) è per il sì, è evidente che ci si trova davanti
ad una diversa concezione della laicità. Tanto rispettabile nei suoi
riferimenti eteronomi, divini o naturali e perciò antichi o “ancestrali”,
quanto incapace di far capire - per dirla con Jürgen Habermas7 - “quale
ruolo e significato i fondamenti giuridici secolarizzati della costituzione
possono avere per una società 4 Cfr. l’antologia di P. BRANCA e
quelle più recenti di V. COLOMBO. 5 Così ne Il linguaggio politico
dell’Islam B. LEWIS, studioso fra i più citati nel libro. 6 Cfr. E.-W.
BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione. 7 Cfr. J. HABERMAS, Il futuro
della natura umana. Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica
(www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 4 postsecolare”, come la
nostra. In una democrazia necessariamente relativistica (se, al contrario,
fosse assolutistica non sarebbe democrazia, insegna Kelsen) la laicità alimenta
norme non di supremazia ma di compatibilità, espressive di una vocazione non
paternalistica, ma responsabilizzante, nei rapporti tra stato e cittadini:
visti non come meri educandi, da guidare nelle scelte etiche in base a valori
esterni, ma come persone responsabili delle loro scelte nella propria autonomia
e capaci di mediarle alla ricerca di quella “giusta”8 . Una laicità
pluralistica e perciò non espressiva di una sola cultura ma interculturale
(come dovrebbe porsi ormai tutto il diritto secondo Otfried Höffe9 ). Le cui
sfide, e il libro di Cardia stimola ad intraprendere questo percorso di
riflessione, non vengono da una parte sola. 8 In questo senso
rilegge il da mi factum, dabo tibi ius S. RODOTÀ, La vita e le regole. 9
Cfr. O. HÖFFE, Globalizzazione e diritto penale. LA LAICITA’ IN ITALIA (Carlo Cardia) (Convegno Giuristi cattolici,
9 dicembre 2006) Sommario. Premessa. 1. La laicità in Italia tra conflitto e
moderazione. 2. Laicismo, intransigenza cattolica, isolamento culturale. 3. Dai
Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo. 4. La crisi
della laicità. Laicità ed etica. 5. Cultura laica e questione islamica. 6.
Laicità e multiculturalismo. Ambiguità e prospettive. Premessa. E’ mia
intenzione soffermarmi sulle problematiche attuali della laicità in Italia,
anche perché sono diverse e complesse. Però, penso sia necessario dare spazio a
qualche riflessione storica che ci aiuti a comprendere meglio le questioni che
abbiamo di fronte nel tempo presente. Si tratta, più che di una analisi organica,
di spunti ricostruttivi utili a cogliere alcune costanti della nostra
tradizione. Ho avvertito questa esigenza perché l’esperienza italiana ha un
tratto caratteristico che non si rinviene altrove, avendo dato vita nello
spazio di poco più di un secolo a tre tipologie diverse di relazioni
ecclesiastiche: una laico-separatista, una di tipo concordatario
neo-confessionista, e quella costituzionale che poi si è evoluta nel quadro di
una Europa che ha finito per seguire il nostro modello. Infine, l’Italia sta
vivendo una vera crisi della laicità, in rapporto alla questione etica, e al
multiculturalismo, ed è entrata in quella globalizzazione dei rapporti tra
religione e società che riguarda l’Occidente nel suo complesso. Quindi,
l’esperienza italiana non è comprensibile all’interno di un solo orizzonte
storico-culturale, mentre l’analisi deve mantenere un respiro più ampio e saper
individuare delle linee trasversali di riflessione, dei fili conduttori che
chiariscano il percorso storico complessivo che si è compiuto. 1. La laicità in
Italia tra conflitto e moderazione Il primo filo conduttore che voglio
privilegiare è il rapporto che si è determinato tra conflitto e moderazione,
tra correnti estreme del pensiero laico, e di quello cattolico, e soluzioni storico-
2 normative che sono state adottate. La storiografia più accreditata ci ha
abituati a interpretare questo rapporto a tutto favore della conflittualità e a
discapito della moderazione. Ancora oggi il conflitto tra Stato e Chiesa è
considerato un tratto eminente della storia italiana, il punto focale che
illumina tutto il resto. Il processo di unificazione nazionale viene letto alla
luce del contrasto tra laici e cattolici, della fine del potere temporale,
della prevalenza della modernizzazione sul conservatorismo cattolico. Anche
l’epoca autoritaria che dà vita ai Patti Lateranensi è vista in chiave di
rivincita cattolica e di sconfitta laica, come un rovesciamento di fronte
rispetto all’epoca liberale. Questa interpretazione resta valida perché permette
di capire tante pagine della nostra storia nazionale, ma può essere integrata
con un’altra chiave di lettura che aiuti a vedere anche i chiaro-scuri, i toni
più morbidi, della storia italiana. Questa chiave di lettura è quella della
moderazione e dell’equilibrio che, pur nelle vicende aspre che conosciamo, ha
segnato la storia italiana. L’Italia è stata moderata ed equilibrata nel
separatismo, in parte nel sistema concordatario del 1929, in modo speciale
nella elaborazione della Costituzione. Quando parlo di moderazione non intendo
esaltare il carattere per così dire compromissorio generalmente riconosciuto
alla genti italiche. Mi riferisco ad un dato realmente presente nelle nostre
leggi, in ampi settori della cultura laica e di quella cattolica, che ci aiuta
a meglio comprendere la storia e l’evoluzione della laicità in Italia. La
moderazione del periodo separatista si manifesta in tanti modi, ma nell’insieme
consente all’Italia di operare un sottile, solido compromesso con l’anima
cattolica del paese su punti essenziali, ed evita l’affermazione di tendenze
francesizzanti che pure esistono in esponenti della classe dirigente liberale.
In Italia non si afferma mai l’idea della reformatio ecclesiae come obiettivo
proprio dello Stato. L’aspirazione ad una evoluzione della Chiesa è parte
integrante del pensiero laico e dei riformatori cattolici dell’Ottocento, ma da
noi non si trovano tracce significative di quel disegno (tipicamente
transalpino) che mira alla costituzione civile del clero, a stravolgere le strutture
ecclesiastiche, a creare una chiesa nazionale quieta e obbediente al potere
civile. La struttura della Chiesa, gli enti ecclesiastici mantenuti,
l’educazione e la disciplina del clero, non subiscono ingerenze o
stravolgimenti diretti a modificarne la natura. Nel dibattito sulle Facoltà di
teologia è il ministro Correnti che respinge le tentazioni giurisdizionaliste e
afferma che lo Stato non ha “né interesse, né volontà, né facoltà di creare
teologi”, che l’evoluzione della religione è compito della Chiesa, e la “Chiesa
troverà in sé stessa, e solo in se stessa può trovare, la volontà e la forza di
ravvicinarsi” alla modernità. L’unico intervento chirurgico è quello che
sopprime le corporazioni e le congregazioni religiose. Ma anche in questo
intervento, che storicamente si giustifica con la necessità di ridistribuire la
grande proprietà ecclesiastica, non mancano i segni di moderazione, se vogliamo
della dissimulazione. Come quando le comunità religiose si ricostituiscono
progressivamente al riparo delle c.d. frodi pie, che consentono l’utilizzazioni
di proprietà immobiliari messe a disposizione da veri prestanome. Comunque, a
nessuno in Italia è mai venuto in mente di adottare leggi draconiane come
quelle transalpine del 1901 e 1902, la prima che vieta alle congregazioni
religiose non riconosciute l’insegnamento, la seconda che prevede multa e
carcere per chi apra una scuola nella quale insegni anche un solo religioso. Ho
sfioato il problema della scuola, perché su questo terreno si opera il più
grande compromesso italiano, sul quale storici e giuristi si soffermano poco.
Alla laicizzazione della scuola italiana, con la Legge Casati del 1859, non
segue la cancellazione della presenza cattolica nel corpo scolastico pubblico.
Se l’insegnamento religioso viene escluso nelle scuole superiori, rimane però
in quelle elementari. La Legge Coppino del 1877 non dice nulla al 3
riguardo, e questo silenzio, con l’aiuto del Consiglio di Stato, consente di
mantenere l’insegnamento religioso che, ci dice Francesco Scaduto, viene
attivato da quasi tutti i Consigli comunali e seguito dalla totalità delle
famiglie italiane. Neanche si può dire che la questione passi sotto silenzio,
perché un Regolamento del 1908 conferma l’insegnamento religioso, e la Camera
respinge nello stesso anno una mozione di Bissolati che chiede di vietare ogni
presenza religiosa nelle scuole. Molto chiaramente Minghetti compara gli
inconvenienti di una scuola che preveda l’insegnamento religioso a quelli di
una scuola che lo esclude, e afferma che “i primi saranno sempre minori di
quelli di una scuola che dovrebbe essere popolare, ma che senza Dio ripugna
alla coscienza popolare e addiviene atta a soddisfare soltanto una piccola
minoranza”. Si può dire che è poco, invece è moltissimo, perché la scuola
elementare è l’unica vera scuola di massa dell’epoca. Per questa ragione
l’Italia separatista ha operato le grandi riforme della modernità ma ha saputo
mantenere un raccordo di fondo tra il sentire comune della popolazione e una
legislazione non aggressiva e non punitiva. E’ l’Italia laica e separatista che
affida ai maestri e alle maestrine della letteratura dell’Ottocento l’onere di
trasmettere elementari ma importanti valori religiosi e morali nelle nuove
generazioni. 2. Laicismo, intransigenza cattolica, isolamento culturale
L’elogio della moderazione non deve fare aggio sull’altro fattore endemico
dell’esperienza italiana, su quella arretratezza che, in modo diverso,
caratterizza alcuni settori della cultura laica, e della cultura cattolica, e
che provoca per lungo tempo un isolamento rispetto ad altre più avanzate
esperienze europee e alla cultura anglosassone, cioè rispetto al resto del
mondo. Mi riferisco alle correnti laiciste che animano la cultura politica,
danno vita al pensiero più autenticamente anticlericale, rendono la laicità
ostile alla religione. Ma anche all’arroccarsi di quell’intransigenza che frena
la capacità di iniziativa dei cattolici, li estranea a lungo dalla vita
politica del Paese. Nel conflitto, e nel corto circuito, tra intransigenza
cattolica e correnti laiciste sta la radice di una chiusura provinciale che in
Italia condiziona a lungo le relazioni ecclesiastiche. Il radicarsi di queste
tendenze immette nella cultura italiana semi che tornano a fiorire di tanto in
tanto. Il laicismo estremo produce cultura, mentalità, costume, e fa sì che
anche da noi come in Francia e in Spagna, laicità voglia dire tante cose
negative: estraniazione della religione dalla società e dalla dimensione
pubblica, ostilità alla scuola privata nonostante il liberalismo sia altrove il
difensore del pluralismo scolastico, riduzione della Chiesa ad un ambito
puramente cultuale. In Italia, come oltr’Alpe, il termine laico è contrapposto
a cattolico, e questa antitesi, sconosciuta nei paesi anglosassoni, diviene da
noi categoria del pensiero e del linguaggio. Quando faccio riferimento alle
tendenze laiciste mi riferisco sia all’anticlericalismo di matrice ottocentesca
che alle correnti culturali di grande dignità che da Spaventa a Bissolati
rivivono poi in Gaetano Salvemini e in Ernesto Rossi, e che di più aspirano ad
una Chiesa riformata, apparentemente tutta spirituale ma muta sul piano civile
e sociale. Queste correnti si ravvivano quando l’accordo del 1929 tra Chiesa e
fascismo di fatto umilia la laicità, provocando una frattura seria tra la
cultura laica ed un cattolicesimo al quale viene restituito un ruolo di primo
piano, ma con il sacrificio di altre idealità e di altri ruoli. Anche 4
l’intransigenza cattolica riaffiora più volte nella storia italiana, impedisce
a tratti di cogliere le trasformazioni della società, di discernere gli aspetti
positivi dalle spinte disgreganti, porta all’arroccamento su posizioni che
potrebbero essere evitate. La critica più autentica a questo corto circuito non
è diretta alle singole posizioni radicali che produce, quanto al fatto che da
lì è derivato un certo isolamento rispetto alla cultura anglosassone, rispetto
ad altre esperienze europee, come quelle dell’Olanda, del Belgio e della
Germania, dove già nell’Ottocento maturano equilibri più stabili tra religione
e società. Una conferma di questo provincialismo sta nell’incomunicabilità tra
esperienza italiana ed esperienza statunitense, alla quale pure molti laici si
richiamano, senza mai averla capita e forse conosciuta. Lo stesso Salvemini,
che pure conosceva la società americana, di quell’esperienza evoca sempre e
soltanto la parola separatismo, non i suoi contenuti, né la sua anima pregna di
rispetto e di amicizia verso la religione. Possiamo verificare questa lontananza
della cultura laica rispetto alle correnti del pensiero anglosassone su un
particolare problema, quello della scuola privata, nel quale il liberalismo
italiano si è discostato dai canoni del liberalismo classico per seguire un
indirizzo statalistico destinato a dominare a lungo. C’un dibattito di metà
Ottocento (oggi dimenticato ma molto importante all’epoca) nel quale Domenico
Berti critica quei liberali che per paura di monopolio combattono la libertà di
insegnamento, e afferma che questa trae il suo diritto dall’individuo medesimo,
dalla sua libertà, ed è da annoverarsi tra “gli altri diritti naturali”. E’
Bertando Spaventa che si oppone a Berti ed esplicita la vera ragione della
contrarietà alla scuola privata. La ragione sta nel fatto che “i paladini” del
libero insegnamento finiscono per portare acqua al mulino della “libertà del
papa”, perché in Italia dare via libera alle scuole private vuol dire favorire
la scuola cattolica. Quindi, con grande trasparenza si riconosce che il vero
liberalismo postula la libertà della scuola, ma in Italia questo liberalismo
non è praticabile perché se ne avvarrebbero i cattolici. Insomma, al
liberalismo si ricorre quando fa comodo, altrimenti lo si mette da parte. 3.
Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo In Italia,
però, si ritrova un altro elemento equilibratore che consente di attenuare le
asperità e finisce col favorire le soluzioni strategiche adottate in sede di
Costituente. Parlo di quella questione romana che nessun altro Paese conosce, e
che tocca all’Italia affrontare e risolvere in modo autonomo. Anche su questo
problema vorrei offrire uno spunto ricostruttivo diverso rispetto alla
storiografia prevalente. E’ vero che la questione romana ha costituito il punto
di maggiore attrito tra Stato e Chiesa, ed ha agito come coagulo
dell’intransigenza cattolica e come bersaglio dell’anticlericalismo. Tuttavia,
pur nei termini del conflitto che conosciamo, essa ha rappresentato anche un
elemento equilibratore nel periodo separatista, nel 1929 con la stipulazione
dei Patti Lateranensi, soprattutto all’atto della elaborazione della
Costituzione democratica. Quando parlo di elemento equilibratore intendo dire
che la presenza della Santa Sede ha fatto uscire il meglio di sé dalla classe
dirigente liberale nell’Ottocento, ha attenuato gli effetti che i Patti
Lateranensi hanno avuto sulla società italiana, ha favorito notevolmente il
lavoro che ha 5 portato alla formulazione del disegno costituzionale
complessivo dei rapporti tra Stato e Chiesa. Già nell’Ottocento, la classe
dirigente liberale conferma la propria lungimiranza con quella Legge delle
Guarentigie che, pur temporaneamente, risolve la più grande questione storica
europea, e, dovendo misurarsi con un evento che interessa i cattolici di tutto
il mondo, si rivela capace di ad attenuare, smussare, equilibrare le asperità
del separatismo. Anche nel 1929, quando il Concordato ferisce duramente la
laicità e la cultura laica italiana, la soluzione definitiva del questione
romana stempera il valore politico del patto con il fascismo. Non a caso il
giudizio delle forze politiche antifasciste sui Patti Lateranensi si presenta
come scisso in due: severo e aspro, anche da parte cattolica, nei confronti
dell’accordo politico tra Chiesa e fascismo e del Concordato, ma positivo e
accogliente nei confronti del Trattato del Laterano. Sin dall’inizio Benedetto
Croce approva la soluzione della questione romana, riservando le sue critiche
al Concordato. Ma anche Gaetano Salvemini, durissimo con il Concordato, riconosce
che la questione romana è ben risolta, anzi afferma che ciò che è stato fatto
nel 1929 avrebbero dovuto farlo i liberali nel 1871. Infine, i programmi
elaborati dai leader dell’antifascismo durante la guerra in vista della
ricostruzione del Paese, concordano nel non voler rimettere in discussione i
risultati del Trattato del Laterano. Credo si possa dire che, senza una
questione romana risolta in quel modo nel 1929, forse non avremmo avuto quel
tipo di rapporti con la Chiesa che l’Italia ha elaborato nel 1946-47 e che ha
saputo anticipare un modello oggi utilizzato in un numero considerevole di
Paesi europei. Nell’incontro tra le correnti del cattolicesimo democratico e la
maggioranza della cultura laica, l’Italia trova il modo di abbandonare un certo
provincialismo e riesce a parlare un linguaggio europeo, supera quel corto
circuito che l’aveva appesantita a lungo. Le scelte del costituente non sono
riconducibili al solo articolo 7, quanto alla maturazione di una laicità che è
destinata a fare scuola, a prefigurare un modello di Stato laico sociale che
diverrà prevalente nell’Europa che si unisce e conosce la fine dei
totalitarismi. Si tratta di una laicità complessa dove converge il meglio della
tradizione separatista (in materia di libertà religiosa), e dove il laicismo è
superato dal riconoscimento pieno della presenza e del ruolo sociale della
religione. Si abbatte il muro della incomunicabilità tra religione e società,
si conferma e si estende il metodo della contrattazione e dell’incontro, tra Stato
e Chiese; si supera l’ultimo tabù dell’Ottocento, per il quale nessun culto
dovrebbe essere finanziato dallo Stato perché lo impedirebbero le differenti
opinioni religiose dei cittadini. Sul finire del Novecento questo Stato laico
sociale trionfa un po’ dovunque. Non si contano più i concordati tra Santa Sede
e Stati in Europa, che sono oltre 20, come non si contano più intese, accordi,
convenzioni tra Stato e confessioni religiose, protestanti, ebraica, islamica,
e altro ancora. Ma è nel merito delle relazioni ecclesiastiche che il modello
italiano fa scuola in Europa. Dall’Atlantico alla Russia, ovunque troviamo una
laicità fondata su principi comuni: libertà religiosa, tutelata nel quadro dei
diritti umani, riconoscimento delle Chiese come entità impegnate in molteplici
attività, sostegno pubblico alle confessioni. Insomma, un mixer tra la
tradizione nordamericana di amicizia verso la religione, e la tradizione
europea di contrattazione e reciproca integrazione. Tanto solido è questo nuovo
orizzonte di laicità sociale che ormai in Europa si discute di riforma dei
rapporti tra Stato e Chiesa soltanto in Inghilterra e nei Paesi protestanti del
nord, dove ancora esistono Chiese ufficiali sottomesse e apparentate alle
dinastie regnanti. 6 4. La crisi della laicità. Laicità ed etica La
laicità, invece, torna di attualità e vive una crisi di cui non siamo ancora
pienamente consapevoli, su terreni nuovi e in editi, come quelli dell’etica e
del multiculturalismo. Si tratta di fenomeni molto diversi, perché nel primo
caso siamo di fronte ad un uso indebito, quasi una strumentalizzazione, del
concetto di laicità, nel secondo assistiamo ad un pericoloso arretramento dei
valori più intimi dello Stato laico. Non entro nel merito del rapporto tra
etica e diritto. Non è oggetto della mia relazione, non è possibile neanche
sfiorarlo nella sua complessità. La mia attenzione è più ristretta, riguarda il
rapporto che esisterebbe tra laicità ed etica nel momento in cui un ordinamento
è chiamato a pronunciarsi su questioni decisive per la collettività, come la
famiglia, l’ingegneria genetica, l’eutanasia, e via di seguito. Alcune
elaborazione teoriche danno per scontato che il pluralismo etico non è che un
altro aspetto del pluralismo religioso, e “come oggi ammettiamo e rispettiamo
le varie confessioni religiose (…), così dobbiamo riconoscere le varie moralità
che affiancano o sostituiscono la fede religiosa”. D’altra parte, si aggiunge,
come nella religione non si dà verità oggettiva, ma solo opinioni, così in
campo etico lo Stato deve accettare tutte le convinzioni e le scelte che si
contendono il campo. Questa similitudine tra religione ed etica è accattivante,
ma nasconde un’insidia dialettica. In primo luogo perché la neutralità dello
Stato riguarda le convinzioni religiose, la sfera più intima della spiritualità
e della coscienza, non i comportamenti delle persone, tanto meno quelli che
coinvolgono gli altri. In questa materia la legge non pretende mai di definire
qual è la verità, ma sceglie sulla base di valori che hanno una loro validità
nel tempo, nella struttura sociale nella quale si incarnano, e che possono dar
vita a equilibri diversi tra etica e diritto. In secondo luogo, si trascura il
fatto che una neutralità dello Stato estesa a tutte le scelte etiche porterebbe
alla paralisi del legislatore e allo svuotamento della funzione della legge.
L’ordinamento non si interesserebbe più della procreazione, dei doveri verso i
figli, non potrebbe più disciplinare il matrimonio, dovrebbe consentire tutto
in materia di bioetica. Uno Stato eticamente neutrale dovrebbe disporre il
“rompete le righe” e preoccuparsi solo di regolare il traffico delle attività
sociali. C’è, poi, un corollario di questa impostazione che viene utilizzato
frequentemente. Si tratta di quel ritornello che in Italia viene ripetuto
spesso, secondo il quale in queste materie lo Stato deve permettere, non
proibire. Infatti, se permette non obbliga nessuno, ma se proibisce impedisce a
qualcuno di realizzarsi. Lo Stato che liberalizza l’eutanasia non obbliga nessuno
a praticarla, ma consente a chi vuole di scegliere un’altra opzione. Se
permette la fecondazione eterologa, non la impone, ma se la nega erode spazi
all’autonomia individuale. Io credo che ci troviamo di fronte ad un uso
improprio della laicità, e ad un vero sillogismo. Se applicata coerentemente,
questa logica porterebbe a risultati che ben pochi si sentirebbero di
sostenere. Si legittimerebbe la pratica della clonazione umana, perché una
legge che la liberalizzasse non costringerebbe nessuno a clonare cellule e
individui, mentre un divieto impedirebbe ad alcuni di seguire i propri
convincimenti. Dovrebbe essere permesso di intervenire sul genoma per
determinare alcune caratteristiche del nascituro, come il sesso, o il colore
della pelle o degli occhi, perché in ogni caso non si obbligherebbe nessuno a
queste operazioni, mentre vietandole si diminuirebbe l’autonomia individuale.
Questa impostazione dovrebbe indurre l’Authority inglese a rispondere
positivamente al recente quesito del Kings College, se sia lecito produrre
ibridi di umanità e animalità. Infatti, consentendo questa 7 pratica non
si impone a nessun ricercatore di creare la chimera, ma proibendola si
violerebbe la libertà di quanti non hanno remore nel procedere su questa
strada. Molti sostenitori del relativismo si dichiarano contrari alla
clonazione, alla chimera e ad altre scelte estreme, ma spesso non sanno dire il
perché. E non sanno dirlo perché dovrebbero riconoscere che clonazione e
chimera possono essere escluse soltanto se si fa leva su valori antropologici
primari, meritevoli di trovare spazio nel mondo del diritto. Si dovrebbe allora
riconoscere che la laicità dello Stato non c’entra nulla quando la discussione
riguarda questi valori. E che nel gioco democratico della discussione, del
convincimento, si determineranno gli equilibri essenziali, modificabili nel
tempo, sui confini del diritto, sul rapporto tra autonomia e solidarietà. In
questa discussione vi è spazio per tutti, per le convinzioni religiose e per
quelle filosofiche, per l’apporto delle scienze e la mediazione della politica.
Ma se il confronto viene by-passato ricorrendo alla laicità per sbarrare la
strada a determinate scelte, vuol dire allora che c’è insicurezza in alcune
posizioni relativistiche, le quali non riescono ad elaborare valori
convincenti, e utilizzano impropriamente la laicità per dare alle proprie tesi
una forza che probabilmente non hanno. 5. Cultura laica e questione islamica
L’analisi si fa più complessa se affrontiamo il tema del multiculturalismo,
perché questo fenomeno costituisce una grande opportunità ma anche un grande
rischio. Una opportunità per la laicità, che può far risaltare il suo volto
accogliente e il suo carattere universale di fronte al mischiarsi delle
popolazioni, delle pagine della storia, e della geografia. Ma anche un rischio
se con il multiculturalismo si vogliono reintrodurre nelle nostre società
antiche intolleranze, o costumi e tradizioni che evocano un lontano passato. Le
prime risposte a questo evento sono deludenti, alcune preoccupanti, ma tutte
riflettono un disorientamento generale. Vi sono a volte reazioni di tipo
islamofobico che fanno d’ogni erba un fascio, alimentano paure e diffidenze,
che vogliono negare all’islam ciò che la laicità deve garantire a tutti. Mi
sembra, però, che siano prevalenti le reazioni opposte, perché la cultura laica
sta rispondendo con uno spaesamento che tradisce incertezza e insicurezza. Il
multiculturalismo sta facendo emergere una insicurezza dei valori della
laicità, della loro validità e tendenziale universalità. Anche quell’orgoglio
che ha dato forza allo Stato laico, che ha prodotto diritto e storia, sembra
vacillare di fronte a chi appare più estraneo ai principi di libertà ed
eguaglianza. Potrei citare una pluralità di fatti, ed eventi, che sembrano
slegati tra di loro ma sono uniti da un robusto filo conduttore. Ne indico
alcuni per far riflettere sul loro significato complessivo. Pochi si accorgono
che si sta creando un divario crescente tra l’atteggiamento nei confronti delle
Chiese tradizionali e quello che si manifesta di fronte a clamorose lesioni
della laicità per motivi di multiculturalismo. Le prime riflettono un’antica
suscettibilità, quasi la memoria del conflitto, le altre sono fatte di stupore
e di silenzi. Se una Chiesa lucra ancora oggi qualche favore giuridico, si
reagisce con veemenza perché la laicità dello Stato sarebbe in pericolo. Ma se
vengono lanciate fatwe di morte contro letterati, giornalisti o registi, per
offese all’Islam, si tratta di episodi che non riguardano lo Stato laico, non
costituiscono istigazione all’omicidio. Se una fatwa viene eseguita, l’omicidio
è di competenza della cronaca nera. 8 Se in un paese europeo si discute
su temi etici, le prese di posizione delle Chiese cristiane sono viste come
espressioni di un nuovo temporalismo. Ma se, in Europa o ai suoi confini,
avvengono omicidi di donne che rifiutano regole tribali, di derivazione
islamica o meno, oppure se il diritto di cambiare religione conduce ancora alla
morte o all’emarginazione sociale, si considerano questi eventi come frutto di
arretratezza, anziché un salto indietro nella storia della laicità. Nessun
grido, nessun manifesto, nessun convegno è dedicato loro. Uno strabismo
particolare colpisce la cultura laica quando è in gioco la questione femminile.
Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati strumenti per rendere
effettiva la parità tra uomini e donne, normativa e pratiche aliene che
discriminano le donne, o le umiliano, non suscitano ribellione o ripulsa. Un
tempo la cultura laica reagiva con forza, definendole oscurantiste e censorie,
alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione dei costumi, e di frenare
la licenziosità con cui veniva usata la figura femminile. Oggi tace, quasi si
nasconde, quando le donne vengono chiuse nel burqa, o si chiedono classi
separate nelle scuole, spiagge differenziate, reparti ospedalieri distinti, o
gli uomini rifiutano di essere subordinati sul lavoro a dirigenti donne, e via
di seguito. In diversi paesi occidentali, dall’Inghilterra al Canada, dalla
Germania al Belgio ai paesi del Nord Europa si moltiplicano le proposte di
introdurre la scharì’a, o suoi segmenti, senza che suscitino scandalo per la
ferita che porterebbero ai diritti umani fondamentali. Soltanto il 24 ottobre
corso, con grande ritardo, il Parlamento europeo, ha approvato una risoluzione
(peraltro molto positiva) sulla condizione delle donne, sulla illegalità della
poligamia, sulla lesione dei diritti fondamentali. Le reazioni islamiche al
discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sono ormai note, e non mi ci devo
soffermare. Ma nessuno ha notato un fatto che, in tema di laicità, ha
sovrastato tutti gli altri. Il silenzio che i più rigorosi laicisti hanno
mantenuto nel difendere la libertà di parola e di espressione contro minacce, violenze,
ricatti. Eppure, per decenni questi gruppi hanno ripetuto sino alla nausea il
pensiero di Voltaire per il quale, anche se non si condividono le idee di un
altro, si è però pronti a spendere la propria vita perché l’altro possa
esprimere quelle idee. Ma dopo Ratisbona, non si è spesa neanche una parola per
difendere il diritto del Papa, come di chiunque altro, ad esprimere le proprie
valutazione sul rapporto tra fede e violenza. A questi silenzi si aggiunge un
fenomeno culturale meno appariscente e più sotterraneo. Il cattolicesimo, e il
cristianesimo, sono stati per due secoli letteralmente vivisezionati per
criticare e sradicare tutto ciò che sapesse di temporalismo, di anti-modernità,
per spezzare la loro alleanza con il potere politico. Sull’intreccio tra altre
religioni e sistemi politici dittatoriali, oggi prevale l’afasia nella cultura
liberale, in quella marxista o anti-istituzionale. Sembra quasi che la critica
illuministica e storicistica che, pur con asprezze a faziosità, ha saputo fustigare,
in certa misura ha contribuito a rinnovare, le Chiese delle nostre società,
scelga il silenzio di fronte a ben più pesanti congiunzioni tra religione,
violenza, dispotismi più o meno teocratici. Tutto ciò apre degli interrogativi
sul futuro della laicità in Italia e in Europa; e li apre non su un punto o su
un altro, ma sulla spinta propulsiva che la laicità ha esercitato nel
realizzare lo Stato moderno. Da questi, e altri episodi, sta scaturendo una
sorta di assuefazione rassegnata di fronte alla mutazione genetica della
laicità come la conosciamo in Occidente, che può portare ad un esito
paradossale: ad una laicità occhiuta e diffidente verso le religioni
tradizionali e ad un multiculturalismo disarmato e senza valori verso altre
religioni e tradizioni. Sarebbe la fine della neutralità dello Stato.
9 6. Laicità e multiculturalismo in Italia. Ambiguità e prospettive Per
meglio capire i rischi di questa frattura tra laicità e multiculturalismo
torniamo per un attimo all’esperienza italiana. L’Italia, ancora una volta, si
è dimostrata più di altri Paesi equilibrata e accogliente, non condizionata da
pregiudizi etnici o religiosi. L’Italia non ha fatto la guerra al velo, e a
nessun simbolo religioso, forse perché di simboli confessionali ne conosce
tanti da tanto tempo, dalle cattedrali alle chiese, dai conventi ai battisteri,
alle fogge vestiarie di religiosi e religiose d’ogni genere. Quindi non
avvertiamo disagio per un modesto velo che peraltro può appellarsi alla libertà
di abbigliamento. L’Italia ha predisposto una vasta rete di accoglienza e
sostegno sociale per l’immigrazione; sta cercando in tanti modi di soddisfare
le esigenze di culto dei soggetti dell’immigrazione; prevede nei contratti di
lavoro spazi per pratiche religiose, diversità alimentari, tradizioni come
quello del ramadan. Ma questo che può essere considerato legittimamente un
nostro vanto, si sta trasformando lentamente in qualcosa d’altro. Si sta
trasformando nell’oscuramento di principi e valori essenziali, e nella
accettazione di una cultura della separatezza che può colpire la laicità. Parlo
della tendenza a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche, e più in
genere, tutta una simbologia e una tradizione di memorie del cristianesimo,
riprendendo concezioni laiciste superate. E’ di questi giorni la notizia che
nelle scuole, negli alberghi, in luoghi pubblici e privati diminuiscono i
presepi e gli alberi di natale per non urtare suscettibilità di persone
aderenti ad altri culti. Si realizza così quella che da tempo definisco una partita
giocata su due tavoli: quello della laicità che limita o cancella simboli e
presenze cristiane, e quello del multiculturalismo che legittima altri simboli
o presenze religiose. Sempre in Italia si manifestano i primi sintomi di un
cedimento multiculturale che mette a rischio i diritti fondamentali dei
cittadini, in primo luogo delle donne. Si accetta qua e là la presenza del
burqa, aumentano le voci favorevoli alla poligamia, si introducono in qualche
parte forme separate di vita collettiva, nelle scuole, nei luoghi pubblici, si
consente l’apertura di scuole islamiche fuori dei canoni previsti dalle nostre
leggi. Si tratta di primi sintomi, ma sono parecchi e di significato univoco, e
ci dicono che neanche noi siamo immuni dal rischio della perdita di senso della
laicità e dei suoi valori. Altra cosa sarebbe se della laicità si offrisse il
volto più maturo e accogliente, quello che sa distinguere tra quanto di
autenticamente religioso emerge da una tradizione, e quanto appartiene ad
arretratezza storica e culturale. Che sa rispettare e tutelare il patrimonio
spirituale di ciascuna religione ed etnia, ma sa criticare e respingere ciò che
collide con il sistema universale dei diritti umani, con la libertà religiosa,
con l’eguaglianza tra uomo e donna. Che sa, cioè, promuovere il meglio della
nostra e delle altrui tradizioni, ma si impegna a far arretrare il resto.
Sarebbe un’altra cosa, un’altra storia, e potremmo dedicarvi un altro
convegno. Carlo Cardia. Keywords: filosofia vs. teologia, italia
anti-papista, il filosofo italiano deve essere neutro in questione di
religione. Verdi – il papa – stati papali – repubblica italiana – liberta di
culto – giurisprudenza – religione dell’antica roma – il pontifice nella
religione romana antica – credenza religiosa – credenza naturale – credenza
super-naturale – il sovra-naturale – il naturale – l’idea di religione nella
antica Roma – il mito romano – la mitologia romana antica – il sacro – il
pagano – la filosofia della roma antica pagana – la critica dei antichi romani
al cristianesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardia” – The Swimming-Pool
Library.
Cardone
(Palmi).
Filosofo. Grice: “Cardone plays with a coinage, sobraumnao, in Dionigio e
Luciano – it triggers implicata: what’s wrong with ‘human’? One is reminded of
Pico (‘dignita dell’uomo’) and D’Annunzio – it is a problem of linguistic
botanising for Italian phiosophers, ‘altreuomo’ being rendered as a translation
of Emersen’s ‘plus man’ – and cf. Carlyle – D’Annunzio, who should have known
better, prefers ‘suPer,’ when we know that in the ‘volgare,’ the ‘p’ becomes
‘v’, so Cardone has it just right!” Si laurea a Roma. Membro de Partito
Socialista Unitario. Fonda "Ebe" e la rivista "Rivista".
Fonda “Ricerche filosofiche”. Fonda la Società Filosofica Calabrese. Aattività
deontologica per la realizzazione di un'etica sociale della Cultura, in difesa
e promozione della civiltà, onde onorarlo per le sue incessanti iniziative
anche in favore della fratellanza umana. Altre opere: Saggi di storia,
filosofia e diritto; Il relativismo gnoseologico” (Palmi, A.Genovesi &
figli ed); Reazione collettiva (Torino, Paravia & C); I filosofi calabresi
nella storia della filosofia, con appendice sui sociologi e gli psicologi,
Palmi, A.Genovesi & Figli ed., “La filosofia dello Stato” (Città di Castello,
Casa Editrice Il Solco); Filosofia della vita, Città di Castello, Casa Editrice
Il Solco); Umanismo (Messina); Cristianesimo, liberalismo e comunismo, Palmi,
G. Palermo ed); Il Divenire e l'Uomo, Palmi, Ricerche filosofiche, “Civiltà,
Palmi, G. Palermo ed); Vita di Gesù secondo il Vangelo incompiuto, Modena-Roma,
Guanda Editore); La filosofia di Gesù, Milano, Bocca ed); L'uomo nel cosmo.
Storia e prospettive, Palmi, Ricerche filosofiche ed); Bio critica, a cura
della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Bologna,
Mareggiani ed); Seguito alla Bio critica, a cura della sezione bibliografica
della Società Filosofica Calabrese, Cosenza, MIT); La vita come esperienza inutile,
Cosenza, Pellegrini); L'ozio la contemplazione il gioco la tecnica l'anarchismo,
Roma, Ricerche). Ricerche filosofiche, Torino, Edizioni di Filosofia). Il
Divenire” (Padova, Rebellato Editore). Si vis pacem para pacem, Montepulciano,
Editori Del Grifo, Ludi. Bologna, Soc.
Tip. Mareggiani ed); I confini dell'anima, Palmi, Ed. Del Fondaco di Cultura); La
banca della carità” (Milano, M. Gastaldi ed., 1962 Terapia del tramonto (Milano,
M. Gastaldi); Il figlio del dittatore” (Milano, M. Gastaldi); Canti del
Sant'Elia, Poggibonsi, Lalli); L'assenza e la mancanza: meditazioni quasi
poetiche, Cosenza, MIT). Dialogo sulla solitudine. divenir e vita. Filosofo-poeta.
Un inattuale nella sua attualita. Domenico Cardone.
Domenico Antonio Cardone. Keywords: “Ricerche filosofiche”; futilitarianism, inutilitarianism,
Grice, “The philosophy of life,” Grice, “Philosophy of life”, essere e divenire
– il sovraumano, Nietzsche, Bergson, D’Annunzio, sobra-uomo, super-uomo. Jesus
as a philosopher! -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardone” – The Swimming-Pool
Library.
Carifi (Pistoia).
Filosofo. Grice: “I would call Carifi a poet rather than a philosopher! He did
indeed philosophise ‘in difesa della filosofia,’ but that should read of ‘his’ ‘filosofia,’ which he
sees as an elaboration on death! My favourite are his ‘lezioni’ di filosofia
and his ‘ablativo assoluto,’ something English lacks, but ‘deo volente’
doesn’t!” -- Studia sotto Bigongiari,
tra i maggiori esponenti dell'ermetismo fiorentino, profondamente influenzato dalle voci liriche
di Rilke e Trakl, su cui si è esercitato anche come traduttore, oltre a essere
poeta, svolge l'attività di critico letterario e filosofico. Autore de “Il
segreto”. Al fianco degli studi filosofici, vi sono quelli di psicoanalisi a
Milano. Mentre nelle liriche si risente la dizione rilkiana e emerge il debito
verso Heidegger, nei componimenti successivi questi motivi vengono amalgamati a
nuove istanze della sensibilità. In particolare dopo la dura prova della
malattia, l'incidente, come lui chiama l'ictus da cui è stato colpito, i suoi
versi abbracciano una nuova forma di rarefazione dissolvente in cui l'essere,
attraversato dal dolore, cerca una via estrema di comunicazione per
ricongiungersi al mondo. Luoghi e figure dell'anima. Due sono i temi che
incardinano la sua poetica: la madre e il legame con la città natale, Pistoia,
che di quel rapporto affettivo è l'emanazione, entrambi raccolti
filosoficamente nel rimando all'infanzia, epoca originaria dei sensi, periodo
d'elezione per l'anima ma anche ingrato, di cui si fatica a cogliere l'essenza
se non a patto di una discesa spossante. Ora è l'attimo che attende, è
l'istante che prepara i tempi a un altro istante dove si deve attendere
l'infanzia, quella bastarda che era là, tragico volto dei bambini. La madre,
dolorosa musa, abbandonata dal marito quando il bambino aveva appena tre anni,
ha lungamente accompagnato e sorretto la voce del figlio. La sua scomparsa è
una perdita incolmabile nella vita e nel suo immaginario. La città rappresenta
un caldo grembo, dove tutto rimanda a quel legame dissolto ma anche alle tante
amicizie e perfino a quegli spiriti gentili di artisti e letterati che
continuano ad aggirarsi, figure di sogno, nelle strette strade del centro. Bigongiari
era di Pistoia. Era figlio del capostazione e abitava in Via del Vento, accanto
a Manzini. Nei miei viaggi onirici li vedo tutti e due, Bigongiari e Manzini,
camminare tra Via del Vento e Via Verdi, in silenzio perché parlano una lingua
muta, una lingua del deserto che solo i poeti e i mistici capiscono. Nei suoi
versi rivive di continuo la devozione spirituale per il luogo, la cui essenza
poetica sta nell'intreccio di memorie che lo abitano, un passato con cui si
misura in uno stato di incerta beatitudine tra sogno e veglia. Nasco
filosofo con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si
è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia
arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia
parla del cielo, delle foreste degli uomini, fa un salto verso la verità.
Abbandona il linguaggio su cui, bene o male, la filosofia regge e sceglie
un linguaggio pre-sentativo'', il linguaggio della presenza. La sua
ricerca è la risposta alle varie vicende dell’uomo. L’uomo colma e coglie sé
stesso attraverso il percorso del lume, l’apertura alla conoscenza. L’uomo mite
che miete la luce, capace di cuore della verità, che non rinuncia al pensiero
della responsabilità e della parola, è l’uomo Carifi. Non bisogna accostarsi a
lui con il timore di leggere un incomprensibile tomo di filosofia analitica
alla teoria dell’implicatura di Grice, sia pur condividendo con lui che non
esistono concetti semplici, né concetti già pronti, perché la filosofia analitica
di Grice è, Grice morto, in divenire, è in movimento. Un sottile ma preciso
filo conduttore che caratterizza la raccolta delle sue lunghe e silenziose
riflessioni è la pratica dell’intensità, destini che si rivelano fino in fondo.
Esercita il bello della profondità portandola, a tutti, sul piano conoscitivo
della conversazione. Le sue opere sono cammini culturali e spirituali dove
l’uomo ed il valore sono all’unisono un giro concentrico di piaceri. La
conversazione è un abisso che, in un’intima solidarietà, unisce il moto interiore
all’estetica dell’espressione, e la conversazione diviene il veicolo principale
dove il silenzio meditativo e contemplativo si colora di una dimensione inter-oggettiva. La
conoscenza dell'altro .L'uomo del pensiero: Roberto Edizione Polistampa, Firenze.
Poesia e filosofia convivono e si alternano nella sua vasta produzione, tra i
maggiori autori contemporanei. E conosciuto per i testi filosofici e per
l’intensa attività poetica, influenzata, a partire dagli anni Ottanta,
dall’amicizia con Bigongiari; ma anche per le traduzioni in italiano di Hesse,
Rousseau, Racine, Bataille, Trakl e Weil. La poesia è una stretta di mano su
«Naturart», rivista di cultura, Giorgio Tesi Editrice» Scopre il dolore con
la perdita della madre che diventa la sua ossessione poetica, descritta come un
pozzo in cui scendere. Le sue due antologie poetiche (Infanzia; Nel ferro dei
balocchi), pur seguendo percorsi diversi, si ergono entrambe su due abissi:
l'infanzia personale, ma al contempo quella di intere generazioni europee,
segnate da un legame indissolubile. Archivio Festival Letteratura, Palazzo
Ducale, Mantova. È una poesia in cui la forte componente autobiografica
trasfigura il vissuto, in quanto ciò che si racconta assume valore
paradigmatico: situazioni ed episodi emblematici in cui l’uomo incontra
l’assoluto. Incontro su «VIinforma», rivista culturale della Banca di credito
coooperativo di S. Pietro in Vincio» «La raccolta Madre, proprio perché
torna su un tema già fortemente praticato, consente di guardare al complessivo
percorso poetico di Carifi potendo distinguere in esso un momento di passaggio
e di mutamento, determinato prima dall’avvicinamento al buddismo, poi dalla
malattia. Giuseppe Grattacaso, Supplica alla madre su «Succedeoggi» Cultura
nell’informazione quotidiana» Opere Raccolte poetiche Simulacri (Forum/Quinta
Generazione, Forlì); Infanzia (Società di Poesia, Milano, rist. Raffaelli,
Rimini ); L'obbedienza (Crocetti, Milano); Occidente (Crocetti, Milano); Amore e
destino (Crocetti, Milano); Poesie (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta
Terme); Casa nell'ombra (Almanacco Mondadori, Milano); Il Figlio (Jaca Book,
Milano); Amore d'autunno (Guanda, Parma-Milano); Europa (Jaca Book, Milano); Il
gelo e la luce (Le Lettere, Firenze); La pietà e la memoria (Edizioni ETS,
Pisa); D'improvviso e altre poesie scelte (Via del Vento edizioni); Nel ferro
dei balocchi (Crocetti, Milano 2008); Tibet (Le Lettere, Firenze ); Madre (Le
Lettere, Firenze); Il Segreto (Le Lettere, Firenze ); Racconti Victor e la
bestia (Via del Vento edizioni, Pistoia); Lettera sugli angeli e altri racconti
(Via del Vento edizioni, Pistoia); Destini (Libreria dell'Orso editrice,
Pistoia); Saggi Il gesto di Callicle (Società di Poesia, Milano); Il segreto e
il dono (EGEA, Milano); Le parole del pensiero (Le Lettere, Firenze); Il male e
la luce (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); L'essere e l'abbandono
(Il Ramo d'Oro, Firenze); Nomi del Novecento (Le Lettere, Firenze); Nome di
donna (Raffaelli, Rimini ). Note Rainer
Maria Rilke, L'angelo e altre poesie, Via del Vento edizioni, 2008; Georg
Trakl, La notte e altre poesie, traduzione di Massimo Baldi e Roberto Carifi,
Postfazione di Roberto Carifi, Via del Vento edizioni. Tiene la rubrica mensile
"Per competenza" sulla rivista «Poesia». Per ulteriori notizie si
veda la sezione dedicata ai cenni biografici del poeta nel volume Roberto
Carifi, D'improvviso e altre poesie scelte, Via del Vento edizioni, Da Roberto
Carifi, Tibet, Le Lettere, . Da Pistoia
in parole. Passeggiate con gli scrittori in città e dintorni, Alba Andreini,
introduzione di Roberto Carifi, Edizioni ETS, .
M. Baudino, Nel mitico mondo di Carifi, «Gazzetta del Popolo»; C.
Viviani, Il mito e il nuovo inquilino, «Il Giorno», F. Ermini, Il mito per
relazionarsi al reale, «Il quotidiano dei lavoratori», G. Giudici, Il gesto di
Callicle, «L'Espresso»; A. Porta, Il gesto di Callicle, «Alfabeta», M.
Spinella, La microfisica del significante poetico, «Rinascita», nQui sento odor
di buoni versi, «Il Messaggero»; Infanzia, «Il piccolo Hans», Al fuoco di un
altro amore, Jaca Book, L'anima e la forma nel verso. «Avvenire»; P.F.Iacuzzi,
Il paradosso della poesia italiana. «Paradigma»; Utopisti e menestrelli,
«L'indice», R. Nostalgia del tragico, «Corriere del Ticino»; I Quaderni del Battello
Ebbro. Basso continuo del rumore bellico per litanie epiche sull'occidente, «Il
Manifesto». Il filo del tramonto e del rimpianto, «Il Giornale», La poesia, il
luogo del ritorno a casa, «La Nazione», La lingua continua a battere dove la
carità duole, «Il Mattino», Il buio mondo che ci avvolge, «Il Sole 24
ore», Il lato oscuro delle cose, «La Repubblica»; Sul vuoto appesi alla parola, «La Nazione», Amore
senza tempo, «Il Sole 24 ore», ; E per musa ispiratrice la nostalgia,
«Avvenire», Classici pensosi versi,
«Gazzetta di Parma», Amore per una donna e per il nulla, «Il Giorno», Gli amori
di Carifi, «La Nazione»; B. Manetti, Carifi il poeta errante, «La Repubblica»;
D. Attanasio, Amore e morte trascendenti segreti, «Il Manifesto», R. Copioli,
Carifi: il desiderio è mitico, «Avvenire», 14 maggio 1994; E. Grasso, L'amore
quando il lume si spegne, «L'Unità»; A. Donati, Intervista a Roberto Carifi,
«Il Giorno», Doni al confine del tempo, «Il Sole 24 ore»; L'angelo poetico
della solitudine, «Il Giorno», R. Figli innamorati del proprio destino,
«Avvenire»; Il male come provocazione estetica – estetica del male -- Chiaroscuro
con lampada e scialle, «Il Sole 24 ore»; Chi son? Sono un poeta, «Il Giornale»;
Il dolore nelle sillabe, «La Gazzetta di Parma»; Un angelo in esilio,
«Avvenimenti»; U. Piersanti, Il figlio, «Tutto Libri»; Bigongiari, Carifi:
parole e voce di Figlio, «La Nazione»; Quel contratto da verificare, «Il Sole
24 ore», Angeli sospesi tra essere e abbandono, «Avvenire», Un neoromantico
invoca il cuore, i sogni, l'addio, «Tutto Libri», Amore d'autunno, «L'Espresso», Morte di madre.
Quando la poesia "riversa la vita", «Il Giornale», L’elegia di uno
stile semplice, «Avvenire»; Quei legami vitali tra figlio e madre, «La Nazione»;
Tra infelicità e silenzio, «Il Sole 24 ore»; Un dolcissimo amore d'autunno, «Il
Giornale», L'estetica dell'amore, «Il Tirreno», Dalla parte del cuore, «Gazzetta
di Parma»; E. Coco, Rivista de Literatura. Un dialogo a distanza sull'alterità
del figlio, introduzione a R. Carifi e U. Buscioni, Figure dell'abbandono,
maschiettoemusolino, Siena; Il pathos del sublime: la poesia di Carifi, «Atelier»,
D. Fiesoli, Europa, «Il Tirreno», B. Garavelli, Addio alla madre, «Avvenire», G.
Colotti, Europa, «Il Manifesto»; La
religiosa tragicità di Carifi, «Poesia»; F. A. Scorrano, La conoscenza
dell'altro. L'uomo del pensiero. Edizione Polistampa, Firenze, S. Ramat,
Roberto Carifi nel nome della madre, «Il Giornale», Per la sezione bibliografica questa voce trae
informazioni dalla inglese. Piero Bigongiari Gianna Manzini Pistoia Via
del Vento edizioni //poesia.blog.rainews//09/blog Poesia Rai News L'UOMO DEL
PENSIERO. Saggio sulla poesia di Carifi Tre poesie su «Sagarana», su
sagarana.net. Una recensione di Infanzia, su margininversi.blogspot. Roberto
Carifi. Il sisma silenzioso del cuore articolo di Andrea Galgano su
«Clandestino». Roberto Carifi. Keywords: filosofia e poesia – l’implicatura del
poeta – l’implicatura di Blake – l’implicatura di Guglielmo Blake – rhyme or
reason – the invention of rhyme – l’invenzione della rima – empedocle: ragione
senza rima -- Heidegger, conversation, language, silence, being,
inter-subjectivity. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carifi” – The Swimming-Pool
Library.
Carle (Chiusa di Pesio).
Filosofo. Grice: “I like Carle – he is like Hart, only better – his Latin tract
on ‘exceptio’ is eaxactly what Hart means by defeasibility, only that Carle can
found it on Roman law – Like me, he likes the use of ‘principio,’ as when he
speaks of a ‘principle of responsibility,’ and his essays on what he calls
‘social philosophy’ is pretty akin to my concerns on cooperation as the epitome
of joint behaviour.” Insegna a Torino. Linceo. Esponente del positivismo. La dottrina giuridica del fallimento nel
diritto privato internazionale, Napoli, Stamperia della Regia Università); Prospetto
d'un insegnamento di filosofia del diritto. Parte generale, Torino, F.lli
Bocca); “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Studio
comparativo di filosofia giuridica” (Torino, F.lli Bocca); “Le origini del
diritto romano: ricostruzione storica dei concetti che stanno a base del diritto
pubblico e privato di Roma” (Torino, F.lli Bocca); La filosofia del diritto
nello stato moderno, Torino, Unione Tipografico-Editrice); Lezioni di filosofia
del diritto” (Torino). Dizionario biografico degli italiani. Positivismo: ius – fatto – non valore – l’implicatura
di Romolo e Remo. Naturalism – giusnaturalismo – forza – autorita – ius -- LE
ORIGINI DEL DIRITTO ROMANO RICOSTRUZIONE STORICA DEI CONCETTI CHE STANNO A BASE
DEL DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO DI ROMA. Fuit haec sapientia quondam Publica
privatis secernere , sacra profanis . HOR., poet Ars . LABOR NOR TORINO
FRATELLI BOCCA EDITORI LIBRAI DI S. M. IL RE D'ITALIA SUOQURSALI ROMA FIRENZE
Via del Corso , 216-217. Via Cerretapi, 8 DEPOSITI PALERMO NAPOLI CATANIA
Università, 12 Piazza Plebiscito , 2 S. Maria al Ros .°, 23 (N. Carosio ) (N.
Carosio )TORINO VINCENZO BONA, Tip . di S. M. Al Rettore Magnifico della
Università di Bologna, 16.11.54 TS home La nobile Università di Bologna ,
commemorando in questi giorni l'ottavo centenario dalla sua fondazione, ci
rammenta anche l'epoca, in cui essa iniziando gli studi sul diritto romano si
rese benemerita di tutto il mondo civile. Agli omaggi, che in questa occa sione
solenne convengono costi d'ogni paese, mi sia consentito di aggiungere quello
di un'opera ispirata al desiderio di mantenere viva nella gioventù studiosa
italiana la tradizione civile e politica di Roma. Di Lei Rettore Magnifico bord
Torino, Devot.mo ed obblimo G. C. 251303 سے PREFAZIONE Ritornato di proposito
allo studio del diritto romano, in seguito all'incarico affidatomi di
insegnarne la storia nella R.Università di Torino , parvemi di rileggere uno di
quei libri, la cui meditazione può riempiere tutta una vita , perché ad ogni
lettura e ad ogni età offrono campo ad osservazioni, che prima erano sfuggite .
Quegli studii di giurisprudenza comparata , che in questi ultimi anni si
vennero facendo sulle istituzioni primitive di quel periodo gentilizio, nel
quale debbono essere cercate le fondamenta , sovra cui furono poscia edificate
le città, mi parvero irradiare di nuova luce l'antichissimo diritto di Roma, e
aprire nuove vie per spiegare il processo , con cui ebbe ad essere iniziata la
formazione del medesimo. È strano infatti che, mentre il diritto romano, fra le
grandi elaborazioni del genere umano, è certamente quella , che ebbe ad essere
mag giormente studiata nei frammenti che a noi ne pervennero e nei suoi ultimi
risultati, continui pur sempre ad essere un grande mistero il processo , con
cui i Romani giunsero ad elevare un cosi grande edifizio, e il motivo per cui
essi e non altri riuscirono ad innalzarlo. La causa tuttavia di questa
singolarità deve es sere riposta in ciò, che per risolvere il problema delle
origini del diritto romano non può bastare lo studio staccato
dei frammenti , VI - nė l'esegesi applicata ai testi, ma conviene
ricomporre le epoche, raccogliere i rottami che ci pervennero di esse, colmarne
le la cune, riportarsi col pensiero alle condizioni economiche e sociali del
primitivo popolo romano, sforzarsi di rivivere in quel tempo e di pensare
in certo modo alla romana, tener conto delle parti colari attitudini
dell'ingegno romano, far procedere di pari passo la formazione della città e lo
svolgimento delle sue istitu zioni pubbliche e private: conviene insomma
ricostruire la vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale di Roma, e
cercare cosi di decifrare la pagina più splendida della vita del diritto nella
storia dell'umanità . Certo era naturale cosa , che uno stu dioso della Vita
del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale mal sapesse resistere alle
attrattive di un simile argomento, credendo con ciò, non di venir meno,madi
perseverare in quel l'ordine di studii, a cui si è dedicato con tutte le forze.
Miproposi pertanto di ricostruire il processo logico e storico, che governò la
formazione deldiritto romano, sopratutto nei suoi esordii, non coll'intento di
sostituirmi ai dottissimi nella materia, ma con quello più modesto di valermi
deimateriali che furono raccolti con tanta diligenza , sopratutto in Ger mania.
Miaccinsi poi all'arduo compito con un entusiasmo, che forse più non conviene
alla mia età ,ma che ebbe il van taggio di rendermi aggradevole la lunga fatica
, e che vorrei trasfondere nella gioventù studiosa , unitamente alla
convinzione profonda, che le grandielaborazioni dell'ingegno umano,mentre
cambiarono in maestri dell'umanità coloro, che giunsero a crearle, hanno anche
il pregio di confortare ed elevare il pensiero di coloro , che si travagliano
per comprendere il processo natu rale, che ne governd la formazione. Debbo
tuttavia una confessione al lettore benevolo : ed è che VII - il presente
lavoro , cominciato forse coll idea , non preconcetta ,ma latente, che il
diritto pubblico e privato di Roma fosse il frutto di una evoluzione
determinata dalle condizioni esteriori, in cui si trovò il popolo romano,
riusci invece a conclusioni alquanto diverse . I Romani, cosi nel formare la
propria città, come nel Pelaborare le proprie istituzioni pubbliche e private,
seguirono un processo, che chiamerei di selezione ; anziché essere dominati dai
fatti esteriori, cercarono invece di dominarli, e di sottomet terli alla logica
inesorabile del proprio diritto. Come le mura della loro città furono costruite
coi massi più solidi delle co struzioni gentilizie: cosi i concetti, che stanno
a base del loro diritto pubblico e privato, furono trascelti nel seno stesso
della organizzazione gentilizia ,ma trapiantati nella città ed isolati cosi
dall'ambiente, in cui si erano formati, si cambiarono in altrettante concezioni
logiche, che si vennero poi svolgendo ed accomodando alle esigenzedella vita
civile e politica . Anche questo fu un processo naturale; ma non è più il
processo, che governa la formazione degli strati geologici, che si sovrappon
gono gli uni agli altri e serbano l'impronta dei bassi fondi sovra cui si
vengono precipitando ,bensi il processo, che governa la formazione dei
cristalli, per cui gli elementi affini, depurati da ogni scoria, si vengono,
per dir cosi, ricercando ed attraendo e si dispongono costantemente secondo
quelle forme tipiche , che ne governano la formazione. Di quiconseguita, che
ildiritto romano non èuna produzione determinata esclusivamente dall'ambiente e
dalle condizioni esteriori; ma è già l'opera in parte consapevole dello spirito
vivo ed operoso di un popolo, il quale, valendosi di attitudini naturali, che
in questa parte si possono chiamare veramente meravigliose, riusci a secernere
e ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani , a modellarla in
concetti VIII tipici, a svolgere i medesimi in tutte le conseguenze, di cui po
tevano essere capaci, e a trasmettere cosi alle nazioni moderne un
capolavoro di arte giuridica , che nel proprio genere può essere paragonato ai
capolavori dell'arte greca . Questo è il risultato ultimo,a cui sono pervenuto
: per la prova del medesimo invito gli imparziali amici del vero a leggere
il libro, nel quale, malgrado la varietà immensa dei particolari, ho cercato di
riprodurre quella coerenza organica , che è la carat teristica dello
svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. Torino.
Roma e le istituzioni delle genti italiche anteriori all'epoca romana. La
fondazione della città e i varii stadii della sua formazione. 1. Le tradizioni
e le leggende , da cui appare circondata la fonda zione di Roma, presentano a
primo aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte Roma non
avrebbe avuto infanzia , ma sarebbe stata fondata di pianta da un avventuriero
di origine latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata , il
quale, dopo aver circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agli
esuli e ai rifugiati dalle comunpubbliche e private di Roma. Torino. Roma e le
istituzioni delle genti italiche anteriori all'epoca romana. La fondazione
della città e i varii stadii della sua formazione. 1. Le tradizioni e le
leggende , da cui appare circondata la fonda zione di Roma, presentano a primo
aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte Roma non avrebbe
avuto infanzia , ma sarebbe stata fondata di pianta da un avventuriero di
origine latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata , il quale,
dopo aver circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agli esuli e ai
rifugiati dalle comunanze vicine. Sarebbe il fondatore stesso che avrebbe dato
a Roma le sue istituzioni pubbliche e private , mentre il suo successore le
avrebbe data l'organizzazione del culto , finchè da ultimo Roma già ingrandita
, mediante l'incorporazione di popoli e di genti diverse , avrebbe ricevuto una
nuova organizzazione civile , politica e militare per opera di Servio Tullio ,
che si sarebbe così meritato il nome di secondo fondatore della città . Per tal
modo la forza dapprima, poi la religione e da ultimo la sapienza civile
hanno posto, le fondamenta dell'eterna città , e le sue istituzioni civili e
politiche appariscono come una creazione personale dei Re, fra i quali la
tradizione avrebbe perfino distribuito il compito . Il suo fondatore è Latino,
mentre invece è Sabino l'organizzatore del culto , e da ultimo è probabilmente
di origine etrusca quegli, che ne ha riformato compiutamente l'organizzazione
civile e politica e ha stabilito quelle istituzioni, che riceveranno poi il
proprio svolgimento durante l'epoca repubblicana. Da un altro lato invece la
stessa tradizione circonda la fonda zione di Roma di cerimonie religiose, di
carattere tradizionale, che suppongono una religione già compiutamente formata,
e fa apparire Roma nella storia con un nucleo di istituzioni pubbliche e
private , che dovranno poi svolgersi con un rigore pressochè geometrico, ma che
intanto suppongono una lunga elaborazione anteriore (1). 2. Di fronte a questa
apparente contraddizione, il maggior pro blema, che si presentava alla scienza
storica contemporanea, era quello di sostituire alla storia leggendaria delle
origini di Roma una storia viva ed organica di essa, ricercando le origini
delle istituzioni pri mitive con cui essa appare nella storia. In questa
ricostruzione la critica moderna dapprima si scosto per modo dalle tradizioni a
noi pervenute da scorgere in queste poco più di una serie di leg
gende;madovette poi riaccostarsi alle medesime, e finì per giungere a questo
risultato, che le istituzioni con cui Roma compare nella storia non possono
esser ritenute come l'opera esclusivamente personale dei Re, ma debbono essere
riguardate come il frutto di una lunga e lenta elaborazione già compiutasi in
un periodo anteriore di or ganizzazione sociale, che sarebbe il periodo
dell'organizzazione gen tilizia o patriarcale. Roma insomma, secondo i
risultati della critica moderna, avvalorati anche dagli studii comparativi
fatti sui popoli primitivi sopratutto di origine ariana , avrebbe continuata
quell'opera di formazione della convivenza civile e politica , che era già
stata iniziata dalle altre popolazioni italiche , le cui memorie risalgono ad
epoca anteriore a quella che è fissata per la fondazione di Roma. Quindi è
presso le genti latine ed italiche, che debbono essere cercate le origini delle
primitive istituzioni di Roma. 3. Secondo il computo più universalmente
adottato , Roma è stata fondata nell'anno 753 avanti l' êra volgare e sarebbe
com parsa fra popolazioni diverse, delle quali alcune in parte già erano uscite
dall'organizzazione gentilizia , e stavano avviandosi ad una vera e propria
organizzazione civile e politica . Senza entrare nella questione dei rapporti,
che possono correre fra ( 1) Per un riassunto esatto delle tradizioni intorno
alla storia primitiva di Roma fino all'anno 283 dalla sua fondazione,
accompagnato da una critica finissima per separare il nucleo primitivo della
tradizione dalle aggiunte che si fecero più tardi, è da vedersi il BONGHI,
Storia di Roma, vol. 1º. Per lo studio delle istituzioni poli tiche importa sopratutto
il libro terzo, che si occupa appunto della costituzione politica di Roma,
secondo CICERONE, Livio, Dionisio , da pag . 513 al fine. Milano, 1884. - 3 le
stirpi italiche e le stirpi elleniche e in quella della loro prove nienza
dall'Oriente ( 1), questo è certo che fra le stirpi italiche già erano
pervenute ad un certo svolgimento di civiltà e di potenza le stirpi Umbro -
Sabelliche, Latine ed Etrusche. Scavi di data recente (fatti nel 1874 e nel
1883) hanno dimostrato , che il sito occupato da Roma doveva già essere
popolato da un'epoca assai remota e del tutto preistorica. Sopratutto fu
scoperta sull'Esquilino una vasta necropoli, la cui esistenza dimostra che una
città etrusca di grande estensione ed importanza (Rasena ) sarebbe esistita
anche prima del periodo reale leggendario , e costituisce una prova molto
importante contro quella teoria che, attribuendo a Roma un'origine esclusiva
mente latina e sabina, tenderebbe ad escludere o quanto meno ad attenuare
l'influenza dell'elemento etrusco ( 2 ). (1) Tale provenienza delle stirpi
Italiche dalle razze Ariane e la conseguente loro , parentela colle Elleniche,
colle Germaniche, Celtiche e Slave, è oggidì universalmente ammessa, salvo che
si mantiene ancora sempre una grande oscurità circa l'origine della razza
Etrusca . Tra gli autori recenti ha recato un contributo alla dimostra zione di
tale provenienza il Leist, Graeco-italische Rechtsgeschichte. Jena , 1884 ,
sopratutto nella parte in cui dimostra l'identità di certi concetti primitivi
comuni agli Arii dell'India e alle genti Italiche ed Elleniche. È da vedersi la
parte, che si riferisce alle instituzioni sacrali, in cui discorre dei concetti
di rita , themis e ratio , pag . 175 e seguenti. Quest'origine comune è pure
ammessa dal BERNHÖFT, Staat und Recht der Römischen Königszeit. Stuttgart, 1882
, pag. 33 a 40. Per quello poi che riguarda il vario svolgimento, che le
istituzioni elaboratesi nell'Oriente dagli Arii primitivi ebbero a ricevere
presso gli Arii dell'India , della Persia, e poscia nell'Occi dente presso i
Greci, gli Italici ed i Germani, mi rimetto a quanto ho scritto nell'o pera :
La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Torino , 1880, i cui
primidue libri sono appunto dedicati a tale svolgimento. ( 2) Sono a vedersi in
proposito le notizie sugli scavi, che si pubblicano dall'Ac cademia dei Lincei.
Come riassunto degli studii topografici fatti intorno a Roma fino a questi
ultimi tempi mi sono valso dell'opera di HENRY MIDDLETON, Ancient Rome,
Edinburgh, 1885, il quale parla di questi nuovi scavi e dei resti
dell'antichissima Roma, a pag. 42 e seguenti. Fra gli autori che tendono a
scemare l'influenza del l'elemento Etrusco sopra Roma primitiva, abbiamo il
MOMMSEN , il LANGE, e fra i recenti il Pelham nella sua storia di Roma antica
pubblicata nel volume XX della Encyclopedia Britannica , ninth edition ,
Edinburgh, pag. 731, 1886 , vº Rome. Com batte questa opinione il Taddeinel suo
lavoro : Roma e i suoi Municipii. Firenze, 1886 , pag . 45 e seg . Senza
pretendere di risolvere la questione, è lecito osservare che mal si può
sostenere la niuna influenza su Roma primitiva di un popolo come l'Etrusco che
aveva già delle città in siti vicini, che conosceva quei riti con cui Roma fu
fondata, e che diede a Roma i tre ultimi re, quelli cioè, che rinnovarono più
profondamente non solo l'aspetto esteriore della città, ma anche la
costituzione politica della medesima. 4 Queste varie stirpi, che abitavano il
suolo italico , per quanto ora si ritengano tutte uscite dalla stirpe Aria, avevano
però dimen ticata la provenienza comuneed apparivano distinte fra di loro di
ori gine, di costumi e non avevano fra di loro comunanza di matri monii ; solo
erano ravvicinate da feste religiose e da certi luoghi di mercato, ove tacevano
i conflitti e si praticavano gli scambi ed i commerci. Quanto alla loro
organizzazione sociale, esse , secondo l'opinione del Mommsen , del Leist , del
Lange, si trovavano nel periodo di transizione dall'organizzazione gentilizia
di carattere patriarcale all'organizzazione politica della città e del
municipio . Però anche a questo riguardo si presentavano in stadii e gradazioni
diverse . 4. Le stirpi Umbro -Sabelliche appariscono con un
carattere pro fondamente religioso ; sono dedite ancora più alla pastorizia che
al l'agricoltura ; preferiscono per formarvi le proprie sedi i luoghi montani e
conservano ancora quel carattere di fiera indipendenza, che è proprio degli
abitanti della montagna. Esse non abitano ancora in vere e proprie città , ma
in villaggi aperti, che costituiscono al trettante comunanze rurali, e serbano
le traccie di una potente organizzazione gentilizia , di cui pud trovarsi un
notevole esempio nella gens Claudia . Queste stirpi anche più tardi
dimostrarono poca attitudine alla formazione di un vero e proprio Stato, come
lo provano le sorti dei bellicosi Sanniti, che sono appunto derivati dal ceppo
Umbro-Sabellico (1). 5. Trovansi invece già in condizione più progredita , per
quel che riguarda l'organizzazione sociale , le stirpi Latine. Il Lazio infatti
appare diviso in altrettante comunanze di villaggio aperte, che sono costituite
da una aggregazione di famiglie e di genti, le quali discen dono da un antenato
comune, di cui portano il nome e professano il culto gentilizio . Tali
aggregazioni di genti, che chiamansi tribù , abitano nei vici e nei pagi; ma,
riconoscendo la loro origine co mune, anzichè avere una esistenza del tutto
separata ed indipen dente, entrano già a far parte di un'aggregazione più
vasta, che costi ( 1) In ciò sono d'accordo il Mommsen , Histoire Romaine.
Trad. De Guerle. Paris, 1882, Tome 1er, pag . 140 e seg., ed anche il Lange,
Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier. Paris, 1885, Tome 1er,
pag. 13. Quest'ultimo attri buisce alle genti Sabine un carattere più conservatore
che non alle Latine. - 5 - tuisce poi il populus e la civitas. Questa
aggregazione più vasta non solo aveva comune la lingua , il costume e la
religione , ma eziandio le leggi, l'amministrazione della giustizia e la difesa
contro gli attacchi e le aggressioni esterne. Essa quindi abbisognava di un
centro comune, a cui potessero metter capo le diverse comunanze di villaggio ,
il quale centro comune era l'urbs, così chiamata dall'orbita sacra che la
circondava, nel cui recinto trovavasi l'arx o fortezza , a cui riparare nei
momenti di pericolo , il tempio della divinità patrona dell'intiera comunanza ,
il luogo ove si ammini strava giustizia , il sito per il mercato e per le
pubbliche riunioni. Questi stabilimenti pertanto, più che vere e proprie città
quali noile intendiamo, erano piuttosto inizii di città future, in quanto che
esse contenevano sopratutto quegli edifizii, che avevano pubblica desti
nazione. L'urbs era in certo modo il centro della vita pubblica per le diverse
comunanze di villaggio, come lo dimostrano anche le varie porte esistenti nel
muro di cinta, le quali porgevano modo di accedervi agli abitanti dei diversi
villaggi. Si aggiunge che le varie città latine, le quali, secondo la
tradizione, sarebbero state in numero di trenta , erano anche confederate fra
di loro e mettevano capo ad una capitale, che era Alba Longa (1 ). Cid dimostra
come le popolazioni latine già fossero abbastanza pro gredite nella loro
organizzazione sociale, poichè, pur continuando an cora a vivere nelle
comunanze di villaggio , erano pero già pervenute a concepire e in parte ad
attuare quella vita pubblica comune, che doveva poi svolgersi nella città e nel
municipio . 6. Vengono infine le stirpi Etrusche, la cui civiltà è ancora og .
gidi celata nel mistero , perchè le traccie di essa furono in certo modo
cancellate ed assorbite da Roma. Non può tuttavia esser dubbio, che esse già
erano in condizione di maggior progresso eco nomico e civile delle altre
popolazioni italiche, in quanto che posse devano vere e popolose città ,
conoscevano le arti e la moneta, e per essere dedite al commercio si trovavano
in comunicazione mag giore cogli altri popoli e sopratutto coiGreci. Anche
presso di queste era largamente svolto l'elemento religioso, come lo dimostra
la sa pienza loro attribuita nell'arte augurale e nella consultazione degli
auspizii, come pure la tradizione, che presso di essi esistessero libri, ( 1)
MOMMSEN , op. e loc. cit., pag. 44 e seg .; FUSTEL DE COULANGES, La cité an
tique, Paris, 1876 , pag. 274. 6 - che determinavano i riti con cui le città
dovevano essere fondate, e davano le regole secondo cui la loro popolazione
doveva essere ripartita in tribù ed in curie (1). Del resto anche l'antica
costituzione della città etrusca , secondo il Mommsen, si accostava nei suoi
tratti generali a quella della città latina, salvo che in essa il passaggio
dalla organizzazione patriar cale all'organizzazione muicipale già erasi spinto
più oltre , in quanto che le stirpi Etrusche, per essere sopratutto dedite alla
na vigazione eda nei suoi tratti generali a quella della città latina, salvo
che in essa il passaggio dalla organizzazione patriar cale all'organizzazione
muicipale già erasi spinto più oltre , in quanto che le stirpi Etrusche, per
essere sopratutto dedite alla na vigazione ed al commercio , erano state
naturalmente condotte a svolgere di preferenza le comunanze urbane, che non le
comunanze di carattere esclusivamente rurale . I capi Etruschi avevano il nome
di Lucumoni; la popolazione delle loro citt dividevasi in no bili ed in
plebei, come pure in tribù ed in curie , e se al disopra delle singole città
apparivano eziandio delle confederazioni, i vincoli pero che stringevano
insieme le varie città , che entravano a costituirle , non erano co si
intimi e stretti come quelli che esistevano fra le città della confederazione
latina. Esse infine pure presentano le traccie dell'organizzazione gentilizia ,
ma queste sono già alquanto più alterate per il maggior svolgimento a cui è
pervenuta la co munanza civile e politica (2). 7. È a questo punto dello
svolgimento dell'organizzazione sociale e della convivenza civile , che Roma
compare nella storia . Per quanto possano esservi dei dubbi sull'influenza, che
su di essa ab biano esercitato più tardi l'elemento latino e l'elemento etrusco
, questo è certo che il primo nucleo di essa ebbe ad essere costituito da un
gruppo di uomini armati di origine latina. Sono i Ra mnenses , guidati da
Romolo e usciti come colonia o per secessio da Alba Longa, che hanno fondato
quella Roma palatina, che, per la forma quadrangolare delle sue mura , di cui
sussistono ancora gli avanzi, suole essere indicata col nome di Roma quadrata
(3 ). (1) Festo, v° Rituales: « Rituales nominantur Etruscorum libri, in quibus
prae scriptum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur; qua
sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae , centuriae
distribuantur, exercitus consti. tuentur, ordinentur, caeteraque eius modi ad
bellum ac pacem pertinentia » . ( 2) MOMMSEN, op . e loc. cit., pag. 155. V. il
LANGE, op . cit., pag. 14 , ove cerca di distinguere il popolo dei Rasennae,
che sarebbero secondo lui i veri Etruschi, che egli ritiene di origine Aria ma
di provenienza settentrionale, dagli abitanti del Vicus Tuscus, che
apparterrebbero invece ai Tursci, da lui ritenuti di origine Umbra. (3) È
questa la Roma, il cui pomoerium è stato descritto da TACITO, Ann. XII, 24 .
Nulla vi ha di ripugnante nella tradizione, che questa mano di guerrieri,
stabilitasi colla forza in un sito chiuso e fortificato , siasi dapprima
trovata in lotta aperta colle altre comunanze , che erano stabilite in
prossimità del Palatino. Essa però ben presto esercitò una attrazione potente
sulle popolazioni vicine, e si trasformò in un centro per la vita pubblica di
una confederazione di varie comunanze di villaggio , che erano disperse in
quell'antico septimontium , che ci è descritto dal giureconsulto M. Antistio
Labeone, il quale avrebbe compreso il Palatino, il Fagutale, la Subura, il
Cermalo, l'Oppio, il Celio e il Cespio (1). Cosi pure dovette presto entrare
nella federa zione anche una comunanza di origine sabina, che era stabilita sul
Quirinale . Di qui la conseguenza, che le tradizioni antiche ed anche gli studi
recenti, fatti sulla topografia di Roma, condurrebbero a conchiudere che Roma
primitiva avrebbe attraversato nel periodo, che suole essere assegnato al regno
del suo fondatore , due stadii ben distinti nella propria formazione. Nel suo
primo comparire infatti Roma non è ancora che lo sta bilimento romuleo , il
quale, malgrado la denominazione che già assume di vera e propria città,
consiste nella sede fortificata di una tribù di origine latina , che è quella
dei Ramnenses , ancorchè intorno ad essa già si trovi in via di formazione una
plebe, il cui numero sarebbesi accresciuto, secondo la tradizione, mediante
l'asilo aperto ai rifugiati ed agli esuli delle comunanze vicine (2 ). Più
tardi invece questo nucleo agreste di guerrieri di origine latina entra
dapprima in ostilità e poscia viene in alleanza con comunanze già prima
stabilite sui colli vicini, e allora Roma diviene centro e capo di tale
federazione, e mutasi in una vera urbs, secondo il con È pur nota la questione
relativa al pomoerium , che alcuni vorrebbero collocare entro le mura
fondandosi su Livio, I, 44, mentre altri sostengono che fosse al di là delle
mura, come lo indicherebbe la stessa parola post-moerium . La questione fu di
recente trattata con grande corredo di erudizione dal CARLOWA, Romische
Rechtsgeschichte, Leipzig , 1885. Erster Band , § 8, pag . 59 e seg ., dove
sembra propendere per l'opi nione, che il pomoerium servisse di confine fra il
territorio dell'urbs e l'ager circo stante. Cf. MIDDLETON , op. cit., pag . 45
. (1) Il testo di LABEONE è riportato dall'HUSCHKE, Iurisprudentiae anti-
Iustinianeae quae supersunt. Ed. quarta , Lipsiae, 1879. LABEO, n ° 14, pag .
111. (2 ) Un accenno a questo concetto trovasi nel Lange, Histoire intérieure
de Rome, I, pag. 25 : tuttavia non pare che il medesimo consideri lo
stabilimento romuleo come una semplice tribù . 8 cetto latino, ossia nella sede
della vita pubblica di queste varie co munanze . Questi due stadii nella
formazione di Roma primitiva , di cui non si tiene sempre sufficiente conto ,
sono accennati da diversi autori e fra gli altri anche dal giureconsulto
Pomponio , secondo il quale Romolo non sarebbe proceduto alla divisione della
città in curie su bito dopo la fondazione di essa , ma vi sarebbe invece
addivenuto soltanto « aucta ad aliquem modum civitate » , cioè quando altre
comunanze già eransi incorporate o meglio federate con essa nel l'intento di
partecipare ad una vita pubblica comune (1) . 8. Gli elementi primitivi, che
secondo la tradizione sarebbero en trati a far parte della comunanza romana in
questo suo primo pe riodo di ingrandimento , sarebbero dalla stessa tradizione
ridotti a tre tribù, cioè alla tribù dei Ramnenses, che era quella dei fonda
tori, a quella dei Titienses, di origine Sabina, stabiliti sul Quirinale , i
quali sarebbero entrati nella comunanza mediante un foedus aequum , come lo
dimostra il fatto che i capi delle due tribù avreb bero regnato insieme e
poscia i loro successori si sarebbero alternati nel comando, e a quella infine
dei Luceres, coi quali sembra in vece sia seguito un foedus non aequum .
L'origine di questo ultimo elemento è incerta , ma dovette probabilmente essere
etrusca, quando si consideri, unitamente alla loro denominazione, l'esistenza
di un antichissimo Vicus Tuscus, la serie degli ultimi re che furono di origine
etrusca, e si tenga conto del fatto che le recenti scoperte dimostrano come le
genti etrusche già avessero da epoca ante riore fondato delle vere e proprie
città in prossimità del sito , ove Roma fu edificata , Cosi intesa la
formazione di Roma primitiva, si dovrebbe venire alla conclusione, che la
incorporazione delle tre tribù nella comu nanza romana avrebbe dovuto operarsi
fin dal periodo assegnato dalla tradizione al regno di Romolo (2); il che però
non toglie, ed ( 1) POMPONIUS, L. 2 Dig. ( 1, 2 ). (2) Credo doversi accogliere
questa opinione nell' intricatissima questione, perchè non si comprenderebbe la
divisione tripartita della città , che viene attribuita a Romolo, quando il
concorso delle tre tribù non si fosse effettuato durante il suo regno. Vero è,
che nella storia primitiva di Roma havvi un momento storico, in cui per
l'aggiunzione di nuovi elementi si raddoppia il numero dei membri dei collegi
sacer dotali e quello delle centurie dei cavalieri, ma il raddoppiamento si fa
sempre sulla 9 anzi spiega anche meglio come Roma, risultando di elementi
diversi fin dalla propria origine, abbia poi accolte nella comunanza nuove
genti di origine latina, come di origine sabina e di origine etrusca, ed abbia
in certo modo esercitata una specie di attrazione sopra queste varie stirpi
italiche, come lo dimostrano le tradizioni rela tive alla cooptazione delle
genti albane, quelle relative a Celes Vi benna e alla venuta di Tarquinio a
Roma colla sua gente, ed all'in corporazione, avvenuta negli inizii del periodo
repubblicano, della gente Claudia di origine sabina. 9. Intanto però il fatto ,
che Roma avrebbe preso le mosse da uno stabilimento romuleo di origine latina ,
fondato in guisa analoga a quella con cui si fondavano anche più tardi le
colonie e con una analoga ripartizione dal territorio occupato , spiega il
carattere che Roma ebbe poi sempre a ritenere di città eminentemente latina ,
in quanto che gli elementi, che si vennero aggiungendo al nucleo primitivo ,
dovettero entrare nei quadri propri dello stabilimento la tino. Ciò accadde per
mezzo di successive federazioni, una delle quali, quella coi Luceres, sarebbe
stata un foedus non aequum , in quanto che il nuovo elemento sarebbe entrato
nella comunanza in una condizione inferiore (1 ). Conviene quindi conchiudere,
che Roma primitiva, oltre all'essere di origine latina , fu anche foggiata sul
modello delle città latine , e che quindi, al pari dell'urbs delle popolazioni
del Lazio, diventò fin dapprincipio una città federale, che può essere
considerata come il centro della vita pubblica di varie comunanze di villaggio
. È però naturale, che questa tra sformazione, per cui Roma cessò di essere
esclusivamente la sede fortificata di una tribù per diventare centro e capo di
una confe derazione, abbia fatto sentire la necessità di fortificare anche il
Capitolino, e di munire di un vallum od agger l'Aventino, co struzioni queste,
che, secondo Dionisio, si sarebbero compiute dallo stesso Romolo, ma di cui non
rimasero più gli avanzi, che sono base di tre, il che indica che già
anteriormente dovevano esservi tre tribù , che con correvano alla formazione di
Roma. Cfr. Bloch , Les origines du Sénat Romain . Paris, 1883, pag. 13 e seg .,
e per l'opinione contraria Bouché-LECLERCQ , Manuel des institutions romaines.
Paris , 1886, pag. 5, nota 1. (1) Il principio « prior in tempore, potior in
iure è dai Romani applicato non solo in tema di diritto privato, ma anche in
tema di diritto pubblico. Questo con cetto è ancora espressansente enunciato
nella legge 74 , § 1, Cod. Theod . 12, 1 . « Anteriore tempore adscitos ipsa
aequum est antiquitate defendi » 10 - invece notevoli quanto alla primitiva
Roma quadrata . Vero è che questa narrazione di Dionisio fu posta in dubbio
dalla critica contemporanea ; ma egli è certo che in se stessa non ha nulla di
improbabile, in quanto che era ben naturale, essendosi estesa la co munanza
colla federazione di altre popolazioni vicine, che anche il caput ed il centro
di Roma fosse trasportato in un sito, a cui fosse più facile l'accesso dalle
varie comunanze , e che non fosse la di mora pressochè esclusiva di una delle
tribù confederate , come era della città palatina (1). Si comprende pertanto
come, sotto lo stesso Romolo o sotto i Re che lo seguirono, la fortezza della
città e il tempio della divinità patrona comune siansi fondati sul Capitolino e
come a poco a poco gli edifizii pubblici di Roma antica siansi venuti
concentrando fra il Palatino ed il Capitolino, in quel sito appunto in cui
ancora oggidi si ammirano le grandi reliquie degli edifizii pubblici di Roma
antica ; edifizii che al tempo dell'Impero già erano considerati come una
specie di museo, e come tali erano divenuti oggetto di venerazione e di culto ,
ed erano custoditi qual memoria di una vita politica, che ormai aveva cessato
di esistere . 10. A questo periodo però, che può dirsi di semplice
confederazione, ne succedette un altro , in cui cominciò ad effettuarsi una
vera e propria incorporazione delle varie comunanze di villaggio in una città ,
la quale, fortificata e chiusa in se stessa , apparisse paurosa e potente alle
popolazioni vicine. – Due cose si richiedevano per una simile trasformazione.
Conveniva anzitutto che alla distinzione delle tre tribù primitive, che
ricordava ancor sempre la loro ori gine diversa, si facessero sottentrare altre
distinzioni, le quali so stituissero al vincolo genealogico il vincolo
territoriale , e che gli elementi diversi, che erano entrati a far parte della
stessa comu nanza politica e militare , fossero anche stretti insieme, mediante
la coabitazione entro le medesime mura. Fu allora, che, secondo la vigorosa
espressione di Floro, cominciò a mescolarsi insieme il sangue di elementi
originariamente diversi, i quali finirono col tempo per costituire un unico
corpo ed un organismo coerente in tutte le sue parti (2 ). (1) Dion., II, 37. Cfr.
MIDDLETON , Ancient Rome, pag . 58 . (2) FLORUS, III, 18: « Quippe cum populus
Romanus Etruscos , Latinos, Sabi nosque miscuerit et unum ex omnibus sanguinem
ducat, corpus fecit ex membris et ex omnibus unus est » . - ll - Questi sono i
divisamenti, che, incominciando da Tarquinio Prisco , già cominciano a
delinearsi nella mente dei re. – È noto infatti che Tarquinio Prisco già
avrebbe tentato , secondo la tradizione, di aggiungere nuove tribù alle tre
primitive e di rompere così il mo dello primitivo, sovra cui Roma erasi venuta
formando. Il suo tentativo però trovò opposizione nell'augure sabino Atto
Navio, che qui evidentemente si fa interprete dello spirito conservatore del pa
triziato romano, e quindi l'opera di Tarquinio Prisco dovette li mitarsi a fare
entrare gli elementi sopraggiunti nei quadri delle tribù primitive. Gli è
perciò , che gli viene attribuito di aver raddop piato il nu mero delle
Vestali, di aver duplicato il numero delle cen turie degli equites ,
aggiungendo alle tre centurie dei Ramnenses, Titienses , Luceres primi le tre
dei Ramnenses, Titienses, Lu ceres secundi, e di avere infine anche raddoppiato
o quanto meno portato a trecento il numero dei senatori con aggiungere ai
patres maiorum gentium quelli minorum gentium (1). Così pure è ormai dimostrato
che i re anteriori a Servio Tullio già avevano iniziato dei lavori di cinta e
di fortificazione, che poi furono com presi nella cinta Serviana, e che la
grande opera di questa nuova cerchia di Roma già era incominciata sotto Tarquinio
Prisco . 11. L'una e l'altra opera fu poi continuata da Servio Tullio , che
forte dell'appoggio della plebe e di parte anche del popolo, sembra aver fatto
a meno anche dell'approvazione dei padri. Egli infatti, senza distruggere la
primitiva organizzazione di Roma, fondata ancora sulla discendenza, riusci a
creare, accanto alla medesima, una nuova organizzazione militare, politica e
tributaria , per cui la popolazione romana ricevette una nuova ripartizione in
classi ed in centurie, e il suo territorio venne ad essere diviso in tribù
locali. Così pure riusci a compiere quell'opera gigantesca della cinta , che fu
dal nome di lui chiamata Serviana , i cui avanzi formano ancora oggi la
meraviglia degli investigatori dell'antichità e dimo strano da soli la grandiosità
e l'unità del concepimento, malgrado che parecchi re avessero partecipato alla
costruzione di quelle mura e di quell'agger , che poi furono chiamati
Serviani; costruzione, che sarebbe pressochè incomprensibile se non fosse stata
compiuta col concorso di quelle plebs, ormai già fatta numerosa , che con
Servio (1) Cic. de Rep., 2, 20. V. LANGE, Op. cit. e loc. cit., pag . 81 e seg
. 12 Tullio sarebbe entrata a far parte del Populus Romanus Quiri tium ( 1). È
da questo momento che Roma appare chiusa e fortificata nelle proprie mura, già
splendida di edifizii, ricca eziandio di una popo lazione urbana, che può
ancora essere accresciuta senza che occorra di estenderne ilpomoerium . È da
quest'epoca parimenti, che Roma, forte del rigore del proprio diritto e della
propria disciplina dome stica e militare, si mette in lotta aperta con tutte le
tribù o genti, che non siano disposte ad accettarne la superiorità o l'alleanza
. Noi ci troviamo così di fronte alla Roma storica , conquistatrice e
legislatrice prima dell'Italia e poscia dell'universo, degna di essere studiata
nelle sue lotte intestine e nella sua unità compatta di fronte alle altre
genti. Tuttavia , anche dopo Servio Tullio, Roma non giunge mai a chiudere
nelle proprie mura tutta la sua popolazione , ma soltanto le quattro tribù
urbane, mentre è ben maggiore il numero delle tribù rustiche. e lo spazio dalle
medesime occupato . Per tal modo essa continua ancor sempre ad essere il centro
della vita pubblica , a cui mettono capo le popolazioni sparse nelle comunanze
di villaggio o pagi, che la circondano, ed è la sua persistenza in questo
processo già seguito in Roma primitiva e non mai abbando nato anche più tardi,
che spiega come Roma abbia potuto cambiarsi in una città , i cui cittadini
erano sparsi dapprima in tutto il Lazio , poi per tutta l'Italia , e da ultimo
per tutto il territorio dell'impero . 12. Se ho insistito alquanto lungamente
sopra questo concetto, gli è per dimostrare come non possa accettarsi
l'opinione che sull'auto rità del Mommsen e di altri fu pressochè
universalmente accolta e che a mio avviso rende del tutto incomprensibile la
storia primitiva di Roma, secondo cui questa sarebbe stata fin da principio
l'unione, la fusione, l'incorporazione di varie tribù e genti e dei territorii
dalle medesime occupati. Ciò è smentito dal processo seguito nella for mazione
delle città Latine, quale è descritto dallo stesso Mommsen , ed è in
contraddizione con tutta la storia primitiva di Roma. Roma nei proprii inizii
fu modellata sull'urbs dei popoli latini, e come tale non fu che la capitale di
una federazione e il centro della sua vita pubblica , mentre lasciò che le
genti e le famiglie con ( 1) V. in proposito l'articolo del BARATTIERI, Sulle
fortificazioni di Roma all'epoca dei re. Nuova Antologia . Gennaio 1887. - 13
tinuassero la propria vita domestica e patriarcale nelle comunanze di villaggio
, alle quali continud a lasciare i proprii territorii genti lizii. La sua
formazione pertanto non è dovuta ad un processodi aggregazione, ma ad un processo
di selezione, cosa che sarà più largamente dimostrata a suo tempo . Qui basterà
il notare che questo modo di spiegare la formazione di Roma primitiva conduce a
conseguenze molto diverse da quelle, ch e furono pressochè universalmente
adottate. Partendo infatti dall'idea di una semplice aggregazione si giunge a
trasportare le gentes fra le ripartizioni delle città, come ha fatto il
Niebhur; a so stenere col Mommsen che la primitiva proprietà di Roma fu una
proprietà collettiva come quella delle gentes , ciò che è smentito as
solutamente dal diritto primitivo di Roma, a dare collo stesso autore un
carattere assolutamente patriarcale alla primitiva costi tuzione di Roma, e ad
una quantità di altre illazioni, che rendono del tutto inesplicabile e
contradditoria la storia primitiva di quel po polo , che ha usato una maggior
logica nello svolgimento delle proprie istituzioni. Con questo sistema si
dovette necessariamente giungere a considerare la storia primitiva di Roma come
una serie di leg gende, che sarebbero state inventate da un popolo , che in
tutto il 1 resto si è dimostrato invece ben poco fantastico , nell'intento di
combinare l'umiltà delle proprie origini colla grandiosità dello svol gimento,
che ebbe a ricevere dappoi (1). (1) Parrà strano che nella mia pochezza venga a
combattere opinioni, le quali appariscono suffragate da un così gran cumulo di
erudizione e di studii. Nè io l'avrei fatto quando si trattasse di questo o di
quel documento storico, ma dalmo mento che trattasi di ricostruire in base alle
induzioni più probabili il processo, che Roma seguì nella propria formazione,
mi parve di doverlo fare, poichè sono appunto le opinioni inesatte dei grandi
scrittori, che pongono gli altri sopra una falsa via . È incredibile la
quantità di induzioni errate, che produsse nella storia di Roma la confusione
fatta dal Niebuur dell'organizzazione gentilizia coll'organizzazione politica
allorchè volle scorgere nelle dekódeS di Dionisio le gentes, e sostenne così
che queste fossero una divisione politica della città . Tutta la critica
storica tedesca si pose in questa via e tutti vollero scorgere nella città
un'aggregazione di gentes, il che rese del tutto inesplicabile la storia
primitiva di Roma. Mi basterà citare fra gli altri; il MOMMSEN, op. cit. e loc.
cit., pag. 77 , ove dice che le genti erano incorporate tali e quali nello
Stato con tutti i loro territorii e con tutte le famiglie, che contene vano e
che il gruppo della famiglia e della gens continuava a sussistere nello Stato »
; il LANGE, op. cit ., pag. 37 e seg ., ove con uno sforzo mirabile, ma
sfortunato, di sottigliezza, vuol trovare ad ogni costo i caratteri della
famiglia nello Stato romano; 14 - 13. Parmi invece un processo assai più logico
e che può condurre a risultati assai più verosimili quello, che ebbe già ad
esser iniziato dal Bonghi, di prendere Roma, quale essa si presenta nelle
tradizioni esa minate col sussidio della critica . Dal momento che Roma si è
veramente staccata da una popolazione latina , è naturale che essa sia stata
dapprima foggiata sul modello delle città latine, e che abbia continuata
tenacemente l'opera già da queste incominciata di organiz zare , accanto alla
vita patriarcale e gentilizia , quella vita pubblica, che dispiegasi appunto
nell'urbs e nella civitas. Roma si presenta nella storia memore di tutte le
tradizioni, che già si erano formate nel periodo anteriore dell'organizzazione
gentilizia , ed è con queste tradizioni, che si accinge ad organizzare un nuovo
aspetto di vita sociale, che è quello della vita pubblica e municipale. Essa
quindi non assorbe di un tratto nè le tribù nè le gentes, ma lascia che esse
continuino ad essere campo alla vita domestica e patriarcale ; solo richiama a
se lentamente e gradatamente tutti quegli ufficii di carattere pubblico, che prima
si compievano nel seno dell'orga nizzazione gentilizia , ed è in tale intento
che essa intraprende l'ela borazione del proprio diritto pubblico e privato .
Una volta poi che quest'opera è iniziata , Roma, con quella tenacità di
proposito , che è sopratutto propria del popolo romano , non si arresta
nell'opera sua sinchè non sia pervenuta non solo ad organizzare nel proprio
seno una vita pubblica e municipale,ma a cambiare il mondo allora conosciuto in
un complesso di città , di colonie, di provincie orga nizzate tutte a
somiglianza di se medesima, e gli abitanti dell'impero in cittadini di un'unica
città . La qual opera fu compiuta da Roma seguendo sempre quel medesimo
processo , a cui erasi attenuta nella sua primitiva formazione. 14. È per
questo motivo, che era impossibile comprendere le origini delle istituzioni
pubbliche e private di Roma senza tener dietro alla sua formazione esteriore,
quale può ricavarsi dagli studii topogra e il Sumner MainE, L'ancien droit,
trad . Courcelle Seneuil, pag. 121, dove, dopo aver detto che la gens era una
aggregazione di famiglie, e la tribù un ' aggregazione di gentes, finisce per
dire che la città non è essa stessa che « un'aggregazione di tribù e la
repubblica una collezione di persone legate per discendenza comune all'autore
di una famiglia primitiva » , il che certamente non può ammettersi. Del resto
la gravissima questione sarà trattata più a lungo nel lib. II, Cap. I, quando
si discor rerà della costituzione primitiva di Roma. 15 fici recentemente fatti
intorno all'antica Roma. Si potrebbe poi fa cilmente dimostrare, che questa
formazione progressiva, che risulta dall'estendersi della cerchia stessa di
Roma, viene anche ad essere provata dal formarsi progressivo della sua
religione, del suo senato , dell'ordine dei cavalieri, del suo esercito , dei
suoi collegi sacerdotali, ma cid risulta anche più chiaramente dalla formazione
delle sue isti tuzioni pubbliche e private, poichè ciascun popolo imprime
sopratutto il proprio carattere in quella parte dell'opera sua, in cui giunse
senz'alcun dubbio a maggiore grandezza (1 ). A ciò si aggiunge la
considerazione già stata fatta da un autore assai benemerito della
ricostruzione della storia primitiva di Roma, che è il Rubino, secondo il quale
le tradizioni, che a noi pervennero circa i primi tempi di Roma, debbono
distinguersi in due specie . Vi hanno quelle relative alla costituzione
primitiva di Roma ed agli istituti religiosi e giuridici , che sono collegati
con essa , e queste fino a prova contraria debbono essere ritenute per vere ;
perchè trattasi (1) Vi ha questo di particolare nella storia di Roma, che lo
svolgimento di essa , sotto qualsiasi aspetto sia considerato, presentasi
organico e coerente in tutte le sue parti. Ne derivò che tanto le
investigazioni pazienti e minute quanto le ricostru zioni ardite, che si
vennero succedendo, finirono per sussidiarsi a vicenda per l'intel ligenza di
Roma primitiva . Vi conferirono gli studiosi della topografia di Roma antica ,
della sua arte militare, della sua letteratura, della sua filosofia , dei suoi
mo. numenti, della sua costituzione politica e delle sue istituzioni
giuridiche. Che anzi la coerenza del suo svolgimento appare così meravigliosa ,
che vi sono autori che, se guendo soltanto il formarsi della sua religione e dei
suoi collegi sacerdotali, cerca rono di inferirne gli stadii della sua
formazione progressiva , come tentò di fare il Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de
l'ancienne Rome, Paris, 1871, e Manuel des institutions romaines, Paris , 1886
; altri, che tentarono di venire allo stesso risultato, seguendo lo svolgimento
di un istituto particolare, come sarebbe quello del Senato , come il WILLEMS,
Le sénat de la république romaine, Paris, 1878 , 2 vol. , come pure il Blocu,
Les origines du sénat romain, Paris, 1883, od anche quello dell'or dine dei
cavalieri, come tentò di fare il Belot, Histoire des chevaliers romains, Paris,
1866 , 2 vol. — Non può però esservi dubbio che penetrarono più profondamente
nella vita primitiva di Roma quelli sopratutto, che, come il Vico ed il
Niebuur, ne ricercarono la storia nelle lotte degli ordini, che entravano a
costituirla e nello svol gimento delle istituzioni giuridiche e politiche. Il
diritto è la grande occupazione di Roma, e quindi è quello che conserva meglio
le vestigia di un'epoca pre-romana. Esso formò il pensiero costante non solo
dei sacerdoti, dei patrizi, e dei giurecon sulti, ma ancora dei poeti, per modo
che fuvvi un autore, il quale raccogliendo, come egli dice, < ... disiecti
membra poetae » potè giungere a ricostruire in parte l'edifizio giuridico di
Roma, anche nei particolari minuti della sua procedura . Henriot, Maurs
juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome, Paris, 1865 , 3 vol. 16 d'un
argomento che aveva un carattere pressochè sacro per il po polo Romano, e in
cui concentrava tutta la propria vita , per guisa che esso continuò sempre a
svolgere con pertinacia e con co stanza quei concetti e quelle istituzioni, che
furono posti durante lo stesso periodo regio . Hanvi invece le tradizioni, che
si riferi scono a racconti di guerre e ad incidenti, che le avrebbero accom
pagnate, a vicende di uomini illustri, a quei particolari insomma che dånno
vita ed attrattiva alla storia romana, e queste rimasero per lungo tempo
affidate alla leggenda popolare e poterono cosi essere alterate sia dalla
vanità nazionale che dalla vanità delle grandi famiglie di Roma. Bene è vero ,
come osserva il Bonghi, che anche nella prima parte possono essersi introdotte
delle altera zioni, che furono causate dal partito diverso , a cui appartengono
gli scrittori (1), ma siccome trattasi di istituzioni, che ebbero un pro cesso
storico non mai interrotto , cosi egli è ben più facile di rista bilire la
verità , che non quando trattasi di semplici incidenti della storia di Roma,
che, non collegandosi così strettamente col resto, potevano dare argomento ad
altrettante leggende, che si arricchivano di nuovi particolari, a misura che si
veniva ripetendone la narrazione. Dopo aver cosi seguita la formazione
progressiva della comunanza romana vediamo ora gli elementi, che si trovano in
lotta nell'in terno della medesima. (1) È da vedersi al riguardo Bonghi, La
fede degli storici superstiti di Roma antica , capitolo desunto dalla 2a parte
del II volume, che anche ora non è pubbli cato, malgrado il desiderio che
l'illustre autore e gli Italiani tutti hanno di vedere pubblicata un'opera, che
egli solo è in condizione di compiere. Rirista storica italiana. Torino, 1886.
Fascicolo 1º, pag. 25 e seg . - 17 - CAPITOLO II. Il patriziato e la plebe in
Roma primitiva. 15. Una delle circostanze più accertate della condizione di
Roma primitiva si è , che nella popolazione della medesima cominciò fin dai
primordii a manifestarsi un dualismo potente, quello cioè fra il patriziato e
la plebe. La tradizione cercò di spiegare questo dualismo dicendo, che Romolo
avrebbe aperto un asilo , ove si potessero rifu giare coloro, che per qualunque
ragione avessero dovuto abbando nare la propria città . Ciò farebbe credere che
la distinzione fra il patriziato e la plebe fosse in certo modo nata con Roma,
quando non fosse certo , che cotale distinzione già esisteva in altre città , e
non vi fossero formole antiche , che accennassero al doppio elemento coi
vocaboli di populus et plebes (1). Sembra anzi che le stesse tribù primitive,
che entrarono nella costituzione della più antica comunanza romana, già
avessero con sè una propria plebe, indipendentemente da quella che si sarebbe
rifugiata nell'asilo aperto da Romolo, in quanto che, secondo il racconto di
Dionisio, uno dei primi provvedimenti di Romolo sarebbe stato quello di
affidare ai plebei la coltura dei campi, l'allevamento del bestiame e
l'esercizio delle arti manuali, e di collocarle sotto la clientela dei padri,
il che sarebbe anche con fermato da Cicerone come pure da un luogo di Festo ,
secondo cui i senatori sarebbero stati chiamati patres, in quanto che erano
incari cati di fare distribuzione di terre ad un ordine inferiore di persone
(tenuioribus) (2). ( 1) La distinzione fra il populus e la plebes trovasi
ancora in un documento im portantissimo, cioè nella lex latina tabulae
Bantinae, ove è ripetuta più volte la frase « quisque eorunt sciet hanc legem
populum plebemve iousisse » formola che ha certo grande importanza quando si
consideri che era tradizione romana quella di conservare le formole arcaiche
nel tenore delle proprie leggi. Quella formola dimo stra che populus e plebes
dovevano dapprima essere distinti e che, quando i due elementi si fusero
insieme nella comunanza , per qualche tempo ancora i due voca boli serbarono
rispettivamente la primitiva loro significazione. V. la lex latina tabulae
Bantinae nel Bruns, Fontes, pag. 51-53. Ed. 54. Friburgi, 1887. (2 ) Quanto al
testo di Dionisio, esso è riportato in greco e nella traduzione latina nel
Bruns, Fontes, pag. 3 e nota 2. Quanto a quello di Festo, vº Patres, è bene di
G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 2 18 - 16. Questo è certo che il
patriziato e la plebe, anche quando giungono a considerarsi come parti della
medesima comunanza e a far parte dello stesso popolo , il che è accaduto molto
tempo dopo l'epoca della fondazione, come si dimostrerà a suo tempo, continuano
sempre a costituire due ordini e pressochè due caste compiutamente distinte,
fra le quali non esiste ne identità di istituzioni, nè comu nanza di
tradizioni, nè il diritto di connubio . — Mentre il patriziato si presenta
colle tradizioni di un passato, le cui origini si perdono nel l'oscurità dei
tempi e debbono forse essere cercate nello stesso Oriente, e con una
organizzazione potente, le cui traccie si mantengono ancora durante il periodo
storico ; la plebe invece presentasi dapprima come una massa mobile, composta
di elementi eterogenei e diorigine probabilmente diversa ( 1). Essa ha
pochissima importanza negli inizii di Roma,ma viene sempre più crescendo in
numero e in potenza, anche perchè, a differenza del patriziato , può
continuamente acco gliere nel proprio seno nuovi elementi. Durante il periodo
regio la plebe non sembra ancora essere in condizione di affrontare la lotta
col patri ziato , ma cominciando dalla repubblica i conflitti si fanno
pressoché quotidiani, cosi in materia di diritto pubblico che di diritto
privato, e dalle discussioni, che seguono fra idue ordini, si può raccogliere
che le differenze essenziali, che servivano a distinguerli, erano
essenzialmente le seguenti. I patrizi anzitutto erano e si ritenevano i
fondatori della urbs e i soli membri della civitas, mentre la plebe era un
elemento , che trovavasi in condizione inferiore e che per la maggior parte era
sopravvenuto più tardi, nè poteva quindi, secondo le idee del patriziato ,
pretendere ad un pareggiamento completo . Quelli avevano un'organizzazione
potente, che era quella per gentes, la cui forza veniva ancora ad accrescersi
mediante l'istituto della qui riportarlo : a Patres senatores ideo appellati
sunt, quia agrorum partes attri buerant tenuioribus, ac si liberis propriis » .
V. Bruns, p. 351. Questi passi unita mente a quello di CICERONE, De rep., 2, 9
: « Romulus habuit plebem in clientelas principum descriptam » rispondono
abbastanza all'opinione di coloro, che come il LANGE, Histoire intérieure de
Rome, I, pag . 59 ed il Padelletti, Storia del dir . rom ., pag . 19 ,
sostengono, che l'origine della plebe sia posteriore alla fondazione della
città , ed abbia solo avuto origine « coll'ammissione di persone libere nella
cittadinanza e nel territorio dello Stato ,avvenuta per atto pubblico e
accompagnata dalla concessione in proprietà di terreni da coltivare » .
PADELLETTI, op . e loc. cit. (1) Cfr. MUIRHÉAD, Hist. Introd ., pag. 10 . 19 --
clientela ( 1). Il patriziato quindi poteva indicare la serie dei proprii
antenati e dimostrare che i medesimi eran sempre stati ingenui e che niuno di
essi erasi trovato in condizione servile. La plebe invece, se si deve credere alle
ragioni poste innanzi molto più tardi dagli oratori patrizii, allorchè
trattavasi nel 309 di Roma di respingere la legge Canuleia diretta a togliere
il divieto dei connubii fra i due ordini , non conosceva ancora la famiglia or
ganizzata in base al potere del padre ed al culto degli antenati, per cui le
unioni plebee non erano dai patrizii considerate come iustae nuptiae, nè
santificate dalla partecipazione al medesimo culto ; ma erano semplici
matrimonia , in cui il vincolo di parentela era determinato piuttosto dalla
cognazione materna, che dall'agnazione paterna. Di qui la conseguenza, che
ancora dopo la legge delle XII Tavole il patriziato non poteva comprendere una
comunanza di connubio fra esso e la plebe, come lo dimostrano le parole di
Livio relative al plebiscito Canuleio : rogationem promulgavit, qua con
taminari sanguinem suum patres confundique iura gentium rebantur (2). – Da
ultimo una differenza importantissima consisteva anche in questo , che solo il
patriziato possedeva gli auspicia , cosicchè tutti gli atti, che lo
riguardavano, assumevano un carattere solenne e religioso; mentre la plebe, pur
avendo una religione e feste ( 1) Gellio , Noc. Att., 10 , 20 chiama la plebe
quella parte della popolazione ro mana, nella quale « gentes patriciae non
insunt ». È poi noto che, secondo Livio, nelle discussioni fra patrizii e plebe
( X , 8 ) gli oratori di questa attribuivano ai primi di vantarsi di esser soli
ad avere le gentes con parole, che riassumono i titoli di superiorità del
patriziato: « semper ista audita sunt eadem : penes vos solos au spicia esse,
vos solos gentes habere, vos solos iustum imperium et auspicium domi
militiaeque ecc. » . Pare tuttavia che non possa affatto escludersi l'esistenza
di gentes plebeiae, le quali però costituivano una eccezione. La causa di
questo fatto può essere duplice ; —o queste gentes potevano derivare dalle
popolazionidelle città latine, che già avevano un'organizzazione simile a
quella delle genti patrizie, seb bene non fossero più state ammesse nel patriziato,
– o la formazione di queste gentes dovette accadere più tardi, quando una parte
della plebe, entrata a far parte della nobiltà, cercò essa pure di imitare
l'organizzazione gentilizia , il che cominciò ad es sere possibile dopo le
leggi Licinie Sestie, colle quali la plebe fu ammessa al con solato. Così
Cicerone ci attesta, che la famiglia dei Marcelli erasi staccata dall'antica
gente patrizia dei Claudii (De Orat., I, 176). Così pure egli ci parla di una
gens Minucia, che sarebbe stata plebea (In Verr., I, 45 ). Fra gli autori
recenti sull'ar gomento sono da vedersi il Voigt, XII Tafeln , Leipzig , 1883 ,
I, pag . 262 e seg . e il KARLOWA, Röm ., R. G., I, pag . 36 e 37. (2 ) Liv .,
Hist., IV , 1. - 20 popolari, non possedeva gli auspicia , nè aveva un proprio
culto gentilizio (sacra gentilicia ). Queste differenze erano tali, che sebbene
le circostanze conducessero col tempo i due ordini a far parte della stessa
comunanza, era pero naturale , che essi non potessero entrarvi alle stesse
condizioni. 17. Dalle differenze sovra enumerate questo intanto si può inferire
, che in Roma primitiva la superiorità , che si attribuiva il patriziato sulla
plebe, trova sopratutto la propria causa in ciò, che esso era già era più
progredito nell'organizzazione sociale , ed era prima uscito dallo stato di
confusione, di privata violenza e di promi scuità primitive, che esso riteneva
in parte essere ancora proprie della plebe. Esso sapeva indicare i proprii
antenati, aveva con servato gelosamente le proprie tradizioni, ed era già
pervenuto al l'organizzazione di un culto gentilizio. Di più erano le gentes,
che aggruppandosi insieme avevano dato origine alla tribù, come pure erano le
tribù, che, confederandosi insieme in conformità di certi riti e dopo aver
assunto solennemente gli auspicii, erano pervenute a fondare la città , in cui
provvedevano ai comuni interessi ed ob bed no ad una legge, espressione della
volontà comune (1 ). Bene è vero che, per accrescere la forza della loro città
del loro eser cito, era spediente di incorporare in essi anche le plebes cioè
le molti tudini, che naturalmente si venivano raccogliendo ove era fondata e
fortificata un'aggregazione di genti patrizie , ma chi tenga conto della umana
natura , che in questa parte non sembra ancora essersi modificata , non può
certo meravigliarsi se le genti patrizie abbiano applicato colla plebe la
massima : prior in tempore, potior in iure, e si siano cosi prevalse del
vantaggio , che loro somministrava una più antica esperienza delle cose civili
ed umane, per conservare a lungo una posizione privilegiata nella comunanza
civile . Piuttosto è da am mirarsi la tenacità e perseveranza di una plebe, la
quale, composta (1) Quinto all'origine ed al carattere del patriziato primitivo
di Roma, contiene delle buone ed acute osservazioni l'articolo del FREEMAN
nell'ultima edizione del l'Encyclopedia Britannica , pº Nobility , ove il
patriziato romano è posto a para gone cogli Eupatridi di Grecia, colla nobiltà
feudale, coi Pari Inghilterra ecc. È pure a vedersi il Duruy, Histoire des
Romains. Paris, 1870, I, pag . 10, ove parla del patriziato come di
un'istituzione propria delle società primitive e nota le analogie e le
differenze fra i patrizii di Roma e i bramani dell'India . Cfr. Muir HEAD, op.
cit., pag. 5-8 . - 21 dapprima di elementi eterogenei e priva di qualsiasi
organizzazione sociale, seppe col tempo in tutto e per tutto imitare
l'organizzazione propria del patriziato, creare genti plebee accanto alle genti
patrizie, contrapporre le tribù alle curie, i tribuni ai veri magistrati, e
che, appena potè ottenere il riconoscimento di un diritto , di quello cioè
della proprietà quiritaria , riusci a valersi delmedesimo come di stru mento e
di mezzo per ottenere a poco l'uguaglianza giuridica e po litica , e perfino
l'ammissione a quegli auspicia , a quei sacerdotia , e a quella scienza del
diritto , che solo molto tardi vennero ad es sere comunicati ai plebei ( 1).
18. Questo intanto può aversi per certo, che la formazione del patriziato e
della plebe costituisce in certo modo la questione fon damentale della storia
politica e giuridica di Roma. Vero è che accanto ai plebei trovansi pur anche i
servi ed i clienti, ma questi due elementi non hanno certo l'importanza della
plebe, che dovrà poi avere tanta parte nella storia di Roma, in quanto che i
servi entrano a far parte della famiglia ed i clienti rientrano anch'essi
nell'organizzazione gentilizia . Di più tanto gli uni comegli altri, al lorchè
riescono a svincolarsi dal padrone o dal patrono, entrano a far parte della plebe,
che è quella veramente , che sostiene e vince la lotta per il pareggiamento
giuridico e politico col patriziato . Quindi è che nè i clienti, né i servi
come tali riescono ad avere una piena personalità giuridica e civile; poichè i
primi scompariscono a poco a poco o si trasformano in semplici salutatores, ed
i secondi si man tengono bensì, ma non giungono mai, durante il predominio di
Roma, ad essere riconosciuti come capaci di diritto . La questione limitasi
pertanto al patriziato ed alla plebe , ed è quindi l'origine di questi due
elementi, che è il maggior problema, che offra la storia primitiva di Roma. Cið
non ostante, sinchè non siansi esaminate l'organizzazione del patriziato e la
composizione della plebe , non pud certo affrontarsi il problema della origine
delle due classi. – Basterà unicamente, per l'intelligenza di ciò che verrà
dopo, di osservare che le differenze, che esistevano fra di esse negli inizii
(1) Queste lotte per il pareggiamento sono largamente esposte dal LANGE, Hi
stoire intérieure de Rome, I, pag. 111 a 218. I risultati poi della lotta sono
riassunti nel dotto lavoro del GENTILE, Le elezioni e il broglio nella
repubblica romana, Milano, 1879, e sopratutto nel cap . I, Le assemblee
elettorali, p. 1-135 . 22 di Roma, la superiorità pressochè incontestata dei
patrizii e l'ossequio pressochè servile dei plebei nei primi tempi della città
dimostrano ab bastanza, che la loro distinzione non potè certamente essere
opera della legge, nè delle circostanze storiche speciali, in cui Roma ebbe a
tro varsi ; ma dovette essere il frutto di una lunga evoluzione storica , la
cui preparazione deve essere cercata in un periodo anteriore di orga nizzazione
sociale. Non può esservi dubbio, che l'origine di una di stinzione, così
altamente radicata nel costume e nelle abitudini delle due classi, deve essere
cercata in quei cataclismi, che dovettero avverarsi nell'urtarsi e nel
sovrapporsi delle stirpi italiche, di origine Aria, sovra altre stirpi, che già
abitavano il suolo , sovra cui esse si arrestarono nelle proprie migrazioni.
Essa è una distinzione, che deve certa mente rannodarsi ad una divisione ben
più antica , e le cui traccie si mantengono sempre nella storia dell'umanità ,
che è quella fra la classe dei conquistatori, dei vincitori, dei primi pervenuti
a sta bilirsi in un determinato suolo , e quella dei soggiogati, dei vinti, e
dei sopraggiunti più tardi a porre la propria sede in un suolo, che altri
aveano prima occupato e sovra cui i medesimi già si erano stabiliti e
fortificati. Egli è certo, che nel sopraggiungere delle stirpi italiche mi
granti dall'Oriente dovette certamente avverarsi un periodo di privata violenza
non dissimile da quello, che accadde più tardi allorchè le popo lazioni
germaniche invasero l'Impero Romano. Anche allora dovettero esservii vincitori
ed i vinti, e frammezzo a quella promiscuità di genti e a quella prevalenza
della forza , che ci ricordano ancora gli scrittori latini quando ci parlano di
connubia more foerarum e di viri duro ex robore nati, dovette sentirsi urgentissimo
il bisogno di una prote zione giuridica e di una forte organizzazione sociale
(1). Dovettero ( 1) Sono sopratutto i poeti latini, come interpreti delle
primitive tradizioni e leg gende, che alludono frequentemente a questo stato
primitivo , in cui dovettero tro varsi le genti italiche, ora descrivendo una
età dell'oro, che assegnano al regno di Saturno, che sembra corrispondere al
Savitar degli Arii, ed ora accennando eziandio a un periodo, in cui avrebbe
imperato la forza e la violenza. È veramente preziosa in proposito e riflette
mirabilmente la coscienza primitiva delle genti italiche la raccolta , che
l'Henriot ebbe a fare dei testi dei poeti latini, che possono avere qualche
attinenza col diritto, nella sua opera col titolo : Mæurs juridiques et
judiciaires de l'ancienne Rome d'après les poètes latins. Paris, 1865, 3 vol. I
testi, che ram mentano la presunta età dell'oro, si possono vedere nel tomo I,
pag. 5 a 7 e quelli relativi all'imperio della forza da pag . 32 a 38. È poi
notabile come tutti i poeti accennino al concetto di un diritto naturale,
preesistente alla formazione del civile consorzio, e tutti esprimano con grande
efficacia l'altissima importanza, che dovette avere per l'umanità l'origine
delle leggi. 23 allora succedere fra le popolazioni italiche dei cataclisminon
minori di quelli, che si attribuiscono al nostro suolo , e furono questi
cataclismi, che condussero necessariamente alla formazione di un aristocrazia
territoriale, militare e patriarcale ad un tempo, che era il solo ed unico
mezzo per uscire da uno stato di promiscuità e di violenza. Fu questa
aristocrazia , che comprese i padri nella famiglia , i pa troni nella gente e i
patrizi nella tribù, ed abbracciò cosi tutte quelle genti, le quali, memori
forse di istituzioni che eransi altrove elaborate, trapiantarono frammezzo al
disordine ed alla lotta la potente or ganizzazione gentilizia, che una volta
formata si chiuse in certo modo in se stessa e riguardo come di origine
inferiore tutti coloro che non appartenevano alla medesima. Fu questa
aristocrazia po tentemente organizzata per gentes, che costituì la classe
privilegiata e che meritava dapprima anche di essere considerata come tale ; ma
accanto alla medesima dovette naturalmente formarsi una classe subordinata , i
cui gradi corrispondono precisamente ai varii stadii dell'organizzazione
gentilizia, in quanto che comprende i servi nella famiglia , i clienti nella
gente , ed i plebei, che cominciano a compa rire colla tribù . Per tal modo
nelle popolazioni, che si vengono così organizzando, si disegnano per spontanea
e naturale formazione, due strati, che si corrispondono fra di loro , e mentre
in una lunga e lenta evoluzione, di cui non sopravisse alcun ricordo, salvo
nella lingua e negli og getti trovati nelle tombe, i padri della famiglia si
cambiano in pa troni nella gente e quindi in patrizi nella tribù, anche i
servimano messi dal padrone mutansi in clienti del patrono ed i clienti rimasti
senza patrono formano il primo nucleo della plebe . Padri, patroni e patrizi
sono i sedimenti successivi della classe dei vincitori, dei pro prietari delle
terre, dei primi organizzatori di una vita sociale; mentre i servi, i clienti
ed i plebei rappresentano i varii stadii, per cui passa la classe inferiore dei
vinti, e di quelli che, per avere una prote zione, si accalcano intorno allo
stabilimento delle casate patrizie. I primi possono indicare i proprii antenati
ed escludere qualsiasi origine servile; mentre i plebei, se giunsero col tempo
ed essere indi pendenti dal patriziato , appartennero probabilmente alla classe
dei servi e dei clienti, e non ebbero dapprima quelle giuste nozze, che ac
certavano la discendenza per la linea maschile. È in questo modo che il
patriziato venne formandosi l'alto concetto della propria su periorità e che
giunse fino a dire, se non a credere, che discendeva dagli dei (il che del
resto non era intieramente falso dal momento 24 - che avevano elevato a
divinità i proprii antenati) (1) ; mentre la plebe, memore forse della servitù
antica, trovasi dapprima in una abbie zione pressochè servile , da cui non
venne a liberarsi che quando ebbe ad essere rigenerata da un nucleo potente di
famiglie latine, che appartenevano alle città conquistate da Roma. Intanto perd
fra le due classi vi ha questa differenza , che la prima tende a tir
coscriversi, anche per la difficoltà di far entrare nuovi elementi in una
organizzazione così gerarchica , eome era l'organizzazione genti lizia, la
quale non poteva accogliere degli individui ma soltanto delle altre genti ;
mentre la plebe, appena viene ad affermare la propria esistenza, tende invece
ad incorporarsi nuovi elementi, senza vagliarne l'origine, per modo che essa
pud accogliere i vinti che non siano ridotti in ischiavitù , gli emigranti che
non siano ricevuti come clienti, e non solo può aggregare nel proprio seno
delle famiglie , ma anche individui, che essendosi disgiunti dal gruppo, a cui
erano uniti, abbisognino di protezione e di tutela . Intanto pero fra l'uno e
l'altro ordine , la grande differenza è questa , che nelle origini solo il
patriziato ha una vera posizione di diritto,mentre la plebe non ha dapprima
cheuna posizione di fatto . Il patriziato e il popolo da esso costituito è un
ordine ; mentre la plebe non è che una moltitudine , una folla non ancora or
ganizzata ; quello ha tradizioni militari , religiose , giuridiche , mentre
questa non ha dapprima che quelle costumanze e quegli usi, che possono formarsi
in una folla di provenienza diversa e di for mazione del tutto recente ; quello
ha una religione gentilizia, for matasi nel suo seno mediante il culto degli
antenati, mentre questa non ha che un complesso di credenze popolari, che
ancora abbiso gnano di ricevere una forma religiosa . Ben si comprende quindi,
che la distanza era grande e che doveva essere assai malagevole di raccogliere
i due elementi nella stessa comunanza, elaborando un diritto, che potesse
essere comune ad en trambi. Fermi cosi i caratteri generali dei due ordini,
importa di ricer care più particolarmente l'organizzazione già formata del patri
ziato , e quella ancora in via di formazione, che dovrà poi compren dere la
plebe. (1) Liv., X , 8. « En unquam fando audistis patricios primo esse factos,
non de caelo demissos, sed qui patrem ciere possunt, id est nihil ultra quam
ingenuos ! » . 25 – CAPITOLO III. Il patriziato e la sua organizzazione
gentilizia . sl. Sguardo generale all'organizzazione delle genti patrizie e ai
diversi gradi della medesima. 19. Non può esservi dubbio, che a costituire il
patriziato primitivo di Roma concorsero elementi diversi, usciti per la maggior
parte da quelle tre stirpi di popoli, che secondo la tradizione entrarono a for
mare la comunanza romana. Sonvi quindi genti di origine latina, e fra queste
sonovi quelle che figurano come più antiche, genti di origine sabina, ed
altre , in numero forse minore, di origine etrusca (1). L'origine
diversa poi facilmente persuade, che le loro istituzioni tradizionali dovevano
anche essere dissimili , e che quindi quella completa analogia di istituzioni,
che in esse apparisce più tardi, do vette essere l'effetto di una lenta
assimilazione , che vennesi ope rando gradatamente mediante la loro
partecipazione ad una stessa comunanza civile e politica (2 ). 20. Tuttavia,
malgrado le differenze che potevano esservi nelle sue tradizioni, il patriziato
romano, comunque fosse originariamente composto, presenta fin dalle origini
della città le traccie di un'or ganizzazione potente di carattere patriarcale,
che è l'organizzazione gentilizia . Non è qui il caso di cercare, se questa
organizzazione per genti sia stata una necessità storica per uscire da quello
stato di conflitto e di privata violenza , che dovette avverarsi all'epoca
delle migrazioni, e se sia stata invece una istituzione, che le stirpi migranti
già avevano elaborata altrove e che loro servi per sovrap porsi alle
popolazioni indigene, il ehe sembra essere più probabile ; ( 1) L'enumerazione
delle primitive genti patrizie col riassunto delle opinioni di. verse intorno
alla loro origine e alle molteplici dirainazioni, che partirono da cia scuna di
esse, può trovarsi nel Bonghi, Storia di Roma, vol. 1°, Appendice al lib. II,
pag . 472 a 512. (2) Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., in princ. Ivi l'autore cerca
perfino di determi nare la parte, che nel diritto privato dovrebbe attribuirsi
alle varie stirpi. 26 questo in ogni caso deve aversi per certo , che è in
virtù di questa organizzazione, che le primitive genti patrizie, per quanto
potessero essere diverse di numero e di potenza, appariscono perd foggiate sul
medesimo modello . Tale organizzazione tuttavia nel periodo storico già trovasi
in via di dissoluzione ; ed anche quello che ne rimane già presentasi alquanto
alterato nelle sue primitive fattezze per essersi confuso coll'elemento civile
e politico, dal quale è assai difficile sce verarlo . Ciò non ostante dalle
vestigia , che ne rimangono e che sono dovute sopratutto allo spirito
eminentemente conservatore del popolo romano, si può dedurre che
l'organizzazione gentilizia dovette nel patriziato romano presentarsi in
gradazioni diverse , tutte stretta mente connesse fra di loro. Esse sono : la
famiglia fondata sull'a gnazione, la gente accresciuta ed afforzata dalla
clientela , e da ultimo la tribú , in cui già compare nei proprii inizii la
distinzione fra il patriziato e la plebe (1). 21. Sarebbe certo cosa di grande
interesse il ricercare qui se nelle prime origini l'organizzazione gentilizia
abbia prese le mosse dalla famiglia, o dalla gente , o dalla tribù; ma ciò ci
recherebbe a quel l'epoca e a quel sito , in cui le stirpi Arie ponevano le
prime basi dell'organizzazione patriarcale, cominciando probabilmente dal più
piccolo e più naturale dei gruppi, che era la famiglia (2 ). Qui perd non sarà
inopportuno il mettere innanzi, almeno a titolo di con gettura, che dei varii
gradi dell'organizzazione gentilizia quello, che probabilmente servi per la
migrazione delle varie stirpi dall'Oriente all'Occidente, dovette essere il
gruppo della gens. Ciò è dimo (1) Questa stessa gradazione è accolta dal SUMNER
MAINE, Ancien droit, p. 121 , ma non è invece quella seguita dal Leist, Graeco-
Italische R. G., § 18 a 36 , il quale parmi non distingua sempre abbastanza due
cose affatto diverse fra loro, che sono l'organizzazione gentilizia e
l'organizzazione politica, considerando come altret tante divisioni del
populus, non solo le tribus e le curiae, ma anche le gentes. (2) Senza voler
quientrare in una questione, chemi trarrebbe troppo per le lunghe, non posso
però tralasciare di notare, che la così detta famiglia patriarcale non deve
ritenersi come la famiglia veramente primitiva, poichè essa è già una famiglia,
le cui fattezze vengono ad essere trasformate a causa del suo entrare a far
parte della organizzazione gentilizia. È nota in proposito la discussione,
anche oggi non defi nita , fra il SumnER MAINE, Early law and custom , London,
1883 , c. VII, pag . 192 a 232 da una parte, ed il MORGAN ed il Mac-Lennan
dall'altra , come pure la cri tica fatta, alla teoria patriarcale del SUMNER
Maine, dallo SPENCER , Principes de sociologie, II, pag. 317 a 348. 27 strato
dal fatto , che è dalla gente che il patrizio romano deriva quel nome, che esso
ha ricevuto dall'antenato comune e che deve trasmet tere poi ai proprii
discendenti, e che, anche nei tempi storici di Roma, allorchè accade qualche
nuova incorporazione nel patriziato mediante la cooptatio, questa non si
effettua nè per famiglie, nè per tribù, ma per genti (1). Mentre la famiglia è
il gruppo più ristretto ed unificato in tutte le sue parti e la tribù è già una
vera e propria comunanza di villaggio, in cui si preparano gli elementi
costitutivi della città , la gente invece è il gruppo intermedio , che då
giusta mente il suo nome e la propria impronta all'organizzazione genti lizia,
perchè di sua natura è un gruppo più elastico e pieghevole di tutti gli altri,
e che può meglio accomodarsi a qualsiasi evenienza in un periodo di migrazione.
La gens infatti è più forte e nume rosa della famiglia , perchè continua a
stringere insieme le famiglie, che per discendere da un comune antenato sono
anche unite tra di loro da un medesimo culto , e intanto è più compatta della
tribus, la quale essendo già l'aggregazione di più genti, che o sono di ori
gine diversa o hanno già dimenticata l'origine comune , può già fornire
argomento a dissidii fra i capi delle varie genti, che entrano a costituirla .
La gente poi è per sua natura tale, che ora può cam biarsi in una carovana in
migrazione, ora attendarsi e stabilirsi in un determinato sito, ed ora anche
raccogliersi a guisa di un ma nipolo di soldati, e tutto ciò senza che possa
mai sorgere questione di preminenza , perchè è la consuetudine, che designa chi
debba esserne il capo e perchè il vincolo della comune discendenza fa sì che
tutti i suoi membri ne subiscano volenterosi il comando. In tanto è nella
gente, che si vengono formando e distinguendo le famiglie, come pure sono le
genti che, aggregandosi intorno ad una preminente fra le altre, dånno origine
alla tribù , la quale è già più atta ad arrestarsi in un determinato sito e ad
essere così di avviamento alla convivenza civile e politica . I tre gruppi
tuttavia sono sedimenti di una spontanea e naturale formazione, che si ven gono
sovrapponendo l'uno all'altro per modo, che appariscono tutti foggiati sul
medesimo modello , che è quello del gruppo patriarcale , e si vengono
reciprocamente influenzando per guisa, che tutti appa riscono come strati
diversi di un'unica organizzazione. Di qui la (1) Cfr. Willems, Le droit public
romain , 56 édition. Paris, 1883, pp. 25 , 30 , 31 e 48 . 28 conseguenza , che
tutti questi gruppi, dal momento che difetta an cora una vera convivenza civile
e politica , compiono l'uffizio ad un tempo di convivenza domestica e di
convivenza civile , colla diffe renza tuttavia , che nella famiglia prevale
ancor sempre il vincolo del sangue, e nella tribù già si fa strada il vincolo
civile e politico , mentre la gente è quella, che ha il carattere più
schiettamente pa triarcale ( 1) 22. Cid premesso quanto ai caratteri generali
della organizzazione gentilizia, cerchiamo di ricostruirne le principali
fattezze, desumen dole dalle traccie che ancora ne rimangono nella storia
primitiva di Roma, nella quale vi ha questo di particolare che, anche quando
un'istituzione si dissolve, si sanno mantenere le forme esteriori della
medesima. In cid sarà bene incominciare dalla famiglia, come quella che ebbe ad
esser meglio conservata e intanto costituisce il gruppo più ristretto
dell'organizzazione gentilizia . $ 2 . La famiglia come parte
dell'organizzazione gentilizia . 23. Per quanto sia vero che la famiglia , quale
presentasi più tardi nel diritto quiritario , sia una istituzione comune così
al patriziato che alla plebe, sonvi tuttavia forti argomenti per credere che la
sua primitiva organizzazione fosse di origine patrizia . Fra gli altri
argomenti l'importantissimo è questo , che una moltitudine come la plebe, che
era di provenienza diversa e di formazione ancora del tutto recente, non poteva
possedere fin dai suoi inizii una organizzazione famigliare , che presuppone
una lunga serie di antenati e perciò una lunga elaborazione anteriore. Ciò del
resto è anche dimostrato da che nelle origini il vocabolo di patres indicava
sopratutto i capi delle famiglie patrizie, e perfino gli stessi senatori, che
certo usci ( 1) Quanto ai caratteri comuni al gruppo patriarcale degli Arii,
alla gens romana ed al révos dei greci ed alla letteratura copiosissima
sull'argomento , mi rimetto alla mia opera: La vita del diritto nei suoi
rapporti colla vita sociale. Torino , 1880. Lib . I, cap. I, ed all'opuscolo :
Genesi e svolgimento delle varie forme di con vivenza civile e politica .
Torino, 1878. Recarono un nuovo contributo allo studio comparativo delle
istituzioni primitive presso le genti di origine Aria , oltre le opere già
citate del Sumner Maine, il BERNHÖFT, Staat und Recht der röm . Königszeit,
Stuttgart, 1882 e il Leist, op. cit. 29 vano dal patriziato, al modo stesso che
il vocabolo di patricii in dicava i figli dei patres. Lo stesso provano
eziandio le nozze con farreate , certamente proprie del patriziato , che nelle
leggi attribuite a Romolo ed a Numa sembrano essere il solo modo con cui si po
tevano contrarre le giuste nozze (1 ). Si aggiunge infine il carattere
agnatizio della famiglia primitiva di Roma, il quale non è e non può essere un
carattere originario , ma è una conseguenza della stessa organizzazione
gentilizia , di cui la famiglia entrava a far parte. Dal momento infatti, che
in questo periodo non esisteva ancora una vera comunanza civile e politica ,
diveniva inevitabile che l'organizzazione gentilizia ne assumesse le funzioni e
le veci , e che perciò anche la famiglia, in quanto ne faceva parte, venisse a
ricevere un'organizzazione piuttosto fondata sul potere del padre, che non sul
vincolo del sangue . È questa la causa per cui la fa miglia primitiva Romana sembra
, almeno in apparenza, soffocare i naturali affetti del sangue, per guadagnare
in forza ed in potenza , unificandosi sotto la potestà del proprio capo. Una
volta poi che il fondamento della unione domestica si riponeva nella potestà
del padre, era una conseguenza logicamente inevitabile , che come il padre
prevaleva nella costituzione e nel governo della famiglia , cosi l'agnazione,
ossia la discendenza dal padre, per la linea maschile, dovesse prevalere nella
composizione diessa . È in questo senso , che la famiglia primitiva Romana
viene a costituire un organismo potente, che può essere considerato come il
primo anello e come ilnucleo più ristretto dell'organizzazione gentilizia .
Essa infatti ha una costi tuzione eminentemente monarchica, perchè tanto le
persone, che la costituiscono, quanto le cose , che ne formano il patrimonio ,
dipen dono esclusivamente dalla potestà del padre. 24. La famiglia patrizia poi
è un vero e proprio organismo, che può considerarsi in due momenti diversi.
Finchè infatti vive il padre, nel cui potere essa trovasi unificata , la
famiglia è un vero corpo vivente , che può andar soggetto a continui mutamenti,
in quanto che vi hanno persone che possono uscirne ed altre che pos sono
entrarvi. Quando poi il padre muore, quelli che un tempo erano soggetti alla
sua potestà possono ancora continuare a tenere (1) Dion ., 2 , 25 e 2, 63, il
cui testo è riportato dal Bruns, Fontes « Leges Re giae » , pag. 6 e 9 . 30
indiviso il patrimonio comune, assecondando un antico costume ro. mano, che si
esprimeva colle parole conservateci da Gellio « ercto non cito » le quali
significano in sostanza che non si dovesse pro cedere alla divisione immediata
del patrimonio (1). In tal caso si mantiene fra gli agnati un di soggetti alla
patria potestà una specie di società universale di tutti i beni, per cui sembra
in certo modo che si perpetui ancora l'esistenza della famiglia , e si ha così
quella famiglia in largo senso , di cui ci parlano ancora i classici
Giureconsulti, che la chiamavano « familia omnium agnatorum » . Questa indivi
sione dovette certamente essere frequente nei tempi primitivi e fu questa la
causa per cui, oltre la famiglia nel vero senso della pa rola , che comprende
tutti quelli che sono soggetti alla patria potestà, venne delineandosi una
famiglia più vasta , che è quella degli agnati, la quale sebbene abbia cessato
di essere unificata dalla potestà del padre, continua tuttavia ancora ad essere
unita insieme e a costituire un tutto ( consortium ), stante l'indivisione del
patrimonio . Ciò però non toglie che il concetto della famiglia agnatizia siasi
poscia cam biato e che si siano compresi col nome di agnati tutti coloro, che
(1 ) Mi fo lecito di mettere innanzi questa interpretazione delle parole
arcaiche « ercto non cito » e ciò in base a quello che ci attesta Servio , il
quale interpre tando questa espressione, dice appunto, che essa significa «
patrimonio vel hereditate non divisa » , Serv., in Aen ., VIII, 642 (Bruns,
Fontes, pag. 403). Queste parole furono poi applicate per indicare in genere la
« societas omnium bonorum » in virtù della quale , secondo l'attestazione di
Gellio : comnes simul in cohortem recepti erant, quod quisque familiae,
pecuniae habebat in medium dabat, et coibatur societas in separabilis, tamquam
illud fuit antiquum consortium , quod iure atque verbo romano appellatur cercto
non cito » . - Che poi queste parole siano in certo modo un'antica clausola
testamentaria , con cui il padre proibiva la divisione immediata appare da ciò,
che ercto deriva certamente da ercisco e cito è un avverbio che deriva da cieo
e significa « prontamente » . Vedi BRÉAL e Bailly, Dictionnaire étymologique
latin , Paris, 1886 , pº Ercisco e Cieo . Che poi veramente presso gli antichi
romani fosse consuetudine di mantenere, per quanto fosse possibile,
l'indivisione, appare dal seguente testo, che trovo citato dal KARLOWA, Röm .
R. G., pag. 93, ricavato dalle PETRI, Excep. legum romanarum , lib . I, cap .
19, De vendenda hereditate: « Consuetudo antiquorum esse solebat, ut frater de
rebus suis immobilibus non venderet nisi fratri, propinquus propinquo, nec
consors nisi consorti, si emere vellent » . È questo forse il motivo, per cui
presso i Romani un heredium potera conservarsi integro nella stessa famiglia
per parecchie generazioni, e un vicus poteva essere costituito per in tiero di
famiglie appartenenti alla stessa gens, senza mescolanza di elementi estranei.
Cid sarà meglio dimostrato nel seguente capitolo ove trattasi appunto prietà
nel periodo gentilizio > . della pro -- - - 31 erano stati sotto la patria
potestà della stessa persona, come quelli che avevano formato parte di una
medesima casa ed erano usciti dalla medesima gente (1) . 25. Tuttavia, per ben
comprendere il carattere della famiglia patrizia primitiva , vuolsi sempre aver
presente , che essa non è già un orga nismo isolato , ma è parte di un
organismo maggiore di cui costituisce il nucleo più ristretto . Diqui la
conseguenza che quel potere del padre , che giuridicamente considerato sembra
essere senza confini, trovasi nella realtà limitato sia dal tribunale domestico
, che circonda il capo di famiglia, sia dal consiglio dei padri, che trovasi
nella gente e nella tribù , per guisa che i temperamenti, chenon vi sarebbero
nella natura del potere paterno, si incontrano invece nel costume e
nell'organiz zazione gerarchica , di cui la famiglia entra a far parte . È per
questo motivo, che tutti gli atti, che toccano in qualche modo l'organizzazione
gentilizia, quali sarebbero l'adrogatio, che serve a perpetuarla quando manca una
prole diretta , il testamento , che modifica le regole con suetudinarie
relative alla successione, ed anche il matrimonio per confarreatio di uno dei
membri della famiglia, devono essere fatti coll' intervento , colla
testimonianza e perfino coll'approvazione dei capi di famiglia , che entrano a
formare la gente e la tribù ; il che ancora appare dalle formalità, che
accompagnarono questi atti nei primitempi di Roma. Intanto è incontrastabile,
che anche la successione legittima e la tutela assumono un carattere del tutto
gentilizio , in quanto che l'una e l'altra , sebbene non stabiliscano delle
differenze per causa del sesso o per causa di primogenitura , mirano però fino
all' evi denza a conservare il patrimonio e l'amministrazione di essa nella (
1) Leg. 195 , $ 2 e 196 , Dig ., De verb . signif. (50, 16 ): « Communi iure,
scrive Ulpiano, familiam dicimus omnium agnatorum , nam , etsi patre familias
mortuo, sin guli singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius potestate
fuerunt, recte eiusdem familiae appellabantur, quia ex eadem domo et gente
proditi sunt » . Qui viene ad essere evidente, che la giurisprudenza classica ,
che non poteva più favorire quella indivisione che era tanto accetta agli
antichi romani, conservò però sempre il concetto della famiglia degli agnati,
non più desumendolo dalla indivisione del patrimonio famigliare, ma dalla
circostanza che gli agnati erano un tempo dimorati nella stessa casa ed erano
stati sotto la patria potestà del medesimo capo. È da vedersi sull'agnazione l'articolo
del prof. SEMERARO , Enciclopedia giuridica italiana , vº Agnazione, vol. I,
parte 2*, pag . 720 . 32 linea agnatizia ; il che può scorgersi ancora nella
legislazione de cemvirale, la quale, come si vedrà a suo tempo, in questa parte
riusci a far prevalere pressochè intieramente il sistema di succes sione e di
tutela , che dovevano essere in vigore presso il patriziato durante il periodo
gentilizio . — Quanto al testamento , esso era certa mente conosciuto in questo
periodo, ma collo spirito che prevaleva nell'organizzazione gentilizia si può
affermare con certezza, che esso , dovendo essere fatto coll'approvazione del
consiglio degli anziani e nelle riunioni gentilizie della tribù, anzichè
servire qual mezzo per sottrarre l'eredità alla gente , dovette invece servire
per ritardare od impedire la soverchia divisione dei patrimoni (1). 26. Intanto
è pure da notarsi il carattere speciale, che assumeva la famiglia primitiva nel
periodo gentilizio , in quanto essa compren deva eziandio nella propria cerchia
un numero più o meno grande di servi, che in antico erano anche detti famuli,
dal vocabolo famel, che in lingua osca significa appunto servo ; dal quale,
secondo Festo , sarebbe anche derivato l'antico vocabolo famuletium , che
avrebbe significato servitium (2 ). È infatti per mezzo dei servi, a cui era (
1) Da quanto è esposto nel testo si può ricavare l'importantissima conseguenza,
che a suo tempo servirà a spiegare molte istituzioni del diritto romano
primitivo, che il concetto di comproprietà , in virtù del quale i figli durante
la vita del padre sono comproprietarii dell'heredium , e dopo la morte di esso
in certa guisa eredi di se stessi (heredes sui), come pure quello, in virtù di
cui è dal novero degli agnati, che si debbono ricavare i tutori delle femmine,
degli impuberi e dei furiosi, sono tutti concetti, la cui origine rimonta ed è
anzi un effetto della stessa organizzazione gentilizia , di cui la famiglia
entrava a far parte. Quanto al testamento fra le genti patrizie non doveva
certo essere applicazione del principio : a uti paterfamilias super familia
tutelave suae rei legassit, ita ius esto » , ma doveva mirare sopratutto
all'ercto non cito . Il testamento esisteva ,ma nell'intento di serbare il
patrimonio indiviso e di trasmetterlo tale di generazione in generazione.
L'importante concetto di questa comproprietà famigliare già trovasi nettamente
espresso in uno degli ultimi lavori del compianto Ernesto Dubois, alla cui
memoria mando qui un riverente saluto , nel suo ultimo diligentissimo lavoro
col titolo : La saisine héréditaire en droit ro main , Paris, 1880, da lui
pubblicato nella Nouvelle revue historique de droit fran çais et étranger, ove,
combattendo il Maynz ed altri autori, dimostra che gli eredi suoi erano
immediatamente investiti dell'eredità , senza che occorresse accettazione della
medesima e ciò appunto in base a questa comproprietà famigliare. Al concetto
del DuBois è solo da aggiungersi, che cið era un effetto dell'organizzazione
genti lizia prima esistente, idea , che egli già aveva in germe, come lo
dimostrano le pa role con cui egli conchiude il suo lavoro, ma che non ebbe più
campo di svolgere. (2) V. Festo, vº Famuli (Bruns, Fontes, pag. 338 ). 33
affidato il servizio rustico od urbano ( familia rustica , familia ur bana) che
la famiglia primitiva veniva ad essere organizzata per modo da bastare a
qualsiasi bisogno ed emergenza. Cio diede un carat tere speciale alla vita
economica dell'antichità e cooperò a dare alla famiglia antica il carattere di
un tutto organico e coerente in tutte le sue parti. La servitù ebbe per
effetto, come ben nota il Padelletti, di fare in guisa che i prodotti non
venissero a cambiare di possessore in tutto il corso del loro processo
produttivo, perchè i servi erano impie gati non soltanto nella produzione, ma
benanche nella trasformazione e nel trasporto dei prodotti. Per tal modo ogni
famiglia tendeva a supplire a tutti i suoi bisogni, e intanto ogni capo di
famiglia poteva apparire come possessore difondi, essere ricco di greggi ed
armenti, che costituivano in certo modo il primo capitale, e intanto attendere
eziandio al commercio dei proprii prodotti (1). Pud tuttavia affer marsi con
certezza, che durante il periodo gentilizio le genti patrizie fossero
sopratutto ricche di greggi ed armenti, come lo dimostra l'uso frequentissimo
di vocaboli anche di carattere giuridico de rivanti dall'industria pastorale (
quae ex pecoribus pendent), il che, secondo Festo e Varrone, deriva appunto da
cid, che presso imaggiori le ricchezze ed i patrimoni si componevano sopratutto
di greggi e di armenti ( 2 ) . e (1) PADELLETTI, Storia del dir. rom ., pag.
15. Sull'importanza della servitù nella famiglia primitiva è da vedersi il
PERNICE, M. Antistius Labeo , Halle, 1873, I, pag. 110 e seg., ove parla dei
rapporti degli schiavi colla casa di cui fanno parte, sopratutto il MARQUARDT,
Das Privatleben der Römer , Leipzig, 1879. Erster Theil, pag. 133 a 191. (2)
Fra questi vocaboli basti citare quello, che ebbe poi tanta parte nel vocabo
lario giuridico, di agere, che, secondo il BRÉAL, nel suo significato primitivo
suo nava « spingere, stimolare » , e si applicava sopratutto al gregge ; quello
di grex talvolta applicato al popolo ; quello di ovilia adoperato per
significare i recinti (septa ) ove il popolo era distribuito per dare il voto
nei comizii ; i vocaboli di abgregare, adgregare, congregare citati appunto da
Festo come vocaboli di origine pastorale ( Bruns, Fontes, pag. 331); quelli di
pecunia , di peculium , di peculatus, di ager compascuus, e molti altri i quali
spiegano come VARRONE ( Bruns, Fontes, p. 388 ) finisca per esclamare : «
Romanorum populum a pastoribus esse ortum , quis non dicit ? Mulcta etiam nunc,
ex vetere instituto, bubus et ovibus dicitur, et aes anti quissimum , quod est
flatum , pecore est notatum » . Si vedrà invece a suo tempo che mentre la
ricchezza del patriziato primitivo consisteva di preferenza in greggi, in
mandre ed armenti, che pascolavano nei compascua della tribù , e poscia
nell'ager pubblicus della città , la plebe invece fin dagli inizii diede
sopratutto opera all'agri coltura, concentrandosi nella coltura del proprio
heredium o mancipium . Questo G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 3 - 34
27. Del resto quello , che qui importava, era sopratutto di mettere in evidenza
il carattere gentilizio della famiglia ; poichè essa, fra le isti tuzioni
anteriori alla comunanza, è certamente quella che conservò più lungamente il
suo carattere primitivo . Quindi anche nel periodo storico si troveranno nel
patriziato romano quelle stesse formalità so lenni e quelle cerimonie religiose
, che dovevano accompagnare gli atti relativi alla famiglia durante il periodo
gentilizio . La sola differenza consisterà in questo, che all'approvazione dei
padri del gruppo gen tilizio nella comunanza civile e politica sottentrerå - o
la testimo nianza dei dieci Quiriti che rappresentavano le curie in cui divi
devasi la tribù e l'intervento dei Pontefici , siccome accade nelle
confarreatio, - o l'approvazione delle curie, coll'intervento pure dei
Pontefici, siccome accade nella adrogatio e nel testamento , che per il
patriziato verranno a compiersi davanti all'assemblea delle curie, cioè in
calatis comitiis (curiatis). Credo ad ogni modo, che anche questa breve
esposizione dei ca ratteri della famiglia del patriziato romano dimostri
abbastanza che essa non deve essere riguardata come una istituzione del tutto
pri mitiva, come alcuni vorrebbero considerarla (1 ), in quanto che la medesima
già erasi scostata in parte dalle sue primitive e naturali fattezze , a causa
della influenza, che ebbe ad esercitare su di essa l'organizzazione gentilizia
, di cui era entrata a far parte. Essa in sommanon è più la famiglia, quale
dovette uscire dagli istinti e dalle tendenze naturali del genere umano ; ma è
già una famiglia che in parte ha soffocato i naturali affetti onde fortificarsi
per la lotta per l'esistenza e per entrare in un'organizzazione, che funge da
associa zione domestica , religiosa,militare e politica ad un tempo. Ed è anche
questa la ragione, che la renderebbe a noi pressochè incomprensi bile, se non
fosse riportata nell'ambiente in cui ebbe a formarsi. svolgimento storico
pertanto conferinerebbe il risultato, a cui giunsero lo SPENCER ed altri
sociologi, secondo il quale sarebbe stato sopratutto il periodo della vita pa
storale, che avrebbe determinato la formazione e l'afforzamento di
quell'organizza zione gentilizia, che trovasi così profondamente radicata
presso il primitivo patri ziato romano ( V. SPENCER , Principes de sociologie,
Paris, 1879, II, pag. 338 e seg .). (1) Tale è ad esempio l'opinione del Sumner
Maine , che in questa parte fu com battuto dallo SPENCER , op. e loc . cit. -
35 - $ 3 . La gens e la sua importanza per il patriziato di Roma. 28. Se la
famiglia , quale comparisce più tardi nel diritto Quiri tario, riproduce pur
sempre i caratteri dell'antica famiglia patrizia, altrettanto invece non può
dirsi della gens, la quale perciò è assai più difficile a ricostruirsi nelle
sue primitive fattezze. Sebbene in fatti la gens mantengasi ancora lungamente
durante la comunanza civile e politica , viene tuttavia fin dalle origini della
convivenza civile e politica , ad essere sottoposta ad un processo di dissolu
zione, in quanto che una parte delle sue funzioni di un tempo , quelle cioè che
avevano un carattere politico o militare o legisla tivo , finiscono per essere
a poco a poco assorbite dalla città . A cid si aggiunge, che in questa parte la
grande autorità del Niebhur, sulla fede di un testo di Dionisio , a cui diede
una interpretazione che non può essere ammessa , pose gli investigatori della
storia primi tiva di Roma in un indirizzo erroneo, in quanto che condusse a cre
dere per lungo tempo, che la gens non fosse che una ripartizione politica della
città (1). Per tal modo l'organizzazione politica della (1) NIEBHUR , Histoire
romaine, trad . Golbery, Paris, 1830, Tome II , ove parla : des maisons
patriciennes et des curies e specialmente a pag. 19. Ivi l'illustre sto rico,
avendo trovato che Dionisio divideva in dekádec le curie , pensò che queste decurie
non potessero essere che le gentes e trasportò così l'organizzazione genti
lizia nella città, concetto , che d'allora in poi ha dominato le ricerche
contempo ranee intorno a Roma primitiva , per guisa che occorre pressochè
universalmente di trovare che la città di Roma si divideva in tribù , queste in
curie e queste ul time in gentes. Così, ad esempio, anche gli autori più
recenti, pur avendo modifi cato il concetto della gens con ritenerlo un
ampliamento naturale della famiglia, continuano pur sempre in questa
distinzione. Citerò fra gli altri il KARLOWA, Röm . R. G., I, § 2, il quale
continua ad essere intitolato : Das Volk und seine Glie derungen (tribus,
curiae, gentes), quasi che il popolo romano sia stato mairipartito in gentes ;
ed il Leist, Graeco- Italische R.G. che segue pure la stessa distinzione, $ 23,
pag. 144. Così pure il WILLEMS, Le droit public romain , Paris, 1883, pag. 36 ,
che continua ancor esso a dire, che le curie si suddividono in gentes . Questa
distin zione non fu mai accennata dagli antichi scrittori, i quali soltanto
ebbero a dire con Gellio, che i comiziä сuriati si raccoglievano ex generibus
hominum , il che significa solamente, che nella composizione delle curie si
teneva conto della discen denza, mentre invece nei comizii centuriati si badava
al censo e nei tributi alle lo calità. Il populus insomma è ricavato dalle
gentes,ma non fu mai diviso in gentes. 36 città venne ad essere confusa con
quella patriarcale della gente e i due elementi gentilizio e politico si
confusero per modo che per qualche tempo fu impossibile riuscire a sceverarli,
ed anche oggi si scorgono evidenti, anche in dottissimi scrittori, le
conseguenze di tale confusione. Allora soltanto le indagini furono rimesse in
una via , che poteva condurre a qualche risultato, allorchè gli studii , che si
vennero facendo sul gruppo patriarcale nell'Oriente, dimostrarono che
anteriormente alla città era lungamente durato un altro pe riodo di
organizzazione sociale , che riceveva appunto il suo carat tere fondamentale dalla
gens, la quale, formatasi nell'Oriente , era poi stata trasportata
nell'Occidente tanto dalle stirpi Elleniche, quanto dalle stirpi Italiche ( 1).
Fu quindi collo studiare il gruppo patriar cale nell'Oriente, ove per
circostanze storiche speciali erasi mante nuto stazionario ed immobile nelle
sue principali fattezze, che si cominciò a comprendere e a ricostruire nel suo
carattere primitivo quella gente, che in Grecia ed in Roma era stata in parte
trasfor mata colla creazione dell'urbs e della civitas. Questo lavoro di
ricostruzione poté per le genti italiche essere agevolato da ciò, che Quanto
alle dekádes di Dionisio , il MUELLER ebbe a dimostrare che esse sono invece
una divisione delle centurie degli equites, al modo stesso, che esse erano pure
una divisione del senato (MUELLER, Philologus, XXXIV , p. 96-104 , 1874). Si
può infatti comprendere che i senatori, che erano cento prima e trecento
dappoi, si dividessero in decurie, e che così pure si facesse delle tre
centurie primitive degli equites, ma non si può veramente capire come le curie,
divisione dei Quiriti, che erano uomini di arme, potessero suddividersi in
gentes, le quali , essendo un ampliamento della fa miglia , comprendevano
maschi e femmine,maggiori e minori di età e così di seguito. (1) Il merito di
aver richiamato l'attenzione sul gruppo patriarcale presso le stirpi Arie, è da
attribuirsi sopratutto al SumnER MAINE, L'ancien droit, chap. V. La so ciété
primitive et l'ancien droit, pag. 107 a 163. Tuttavia mi pare giustizia il far
notare, che il primo che abbia, se non provata , almeno intuita questa
organizzazione patriarcale delle genti primitive fu sopratutto il nostro Vico,
il quale per compro varla ebbe a citare quegli stessi versi di Omero, in cui
parlasi delle istituzioni pri mitive dei Ciclopi (V. 22, Scienza nuova, lib.
II, ediz. Ferrari, Milano, 1836. Opere, vol. V , p. 269 , ove parla
dell'economia poetica e dice che i Polifemi furono i primi padri di famiglia
del mondo), dai quali prende appunto le mosse il SUMNER Maine (pag . 118 );
versi del resto, che già erano stati citati da Platone nel dia logo delle
Leggi, quando voleva appunto dimostrare che il patriarcato era stata
l'organizzazione sociale primitiva non solo presso i Greci,ma anche presso i
Barbari. Plato , Leges, III, Ed. Didot, Paris, 1848. Del resto che
l'organizzazione gentilizia sia stata comune a tutti gli Arii e quindi anche
aiGreci e agli Italici è cosa, che oggidì non forma più argomento di
discussione. (Per maggiori particolari vedi Carle, La vita del diritto , lib .
I e II, e sopratutto a pag . 90 e seg .) i 37 esse più di tutte le altre stirpi
hanno saputo attribuire al gruppo gentilizio quei contorni precisi e
determinati, che solo si rinvengono presso quelle popolazioni, che svolgono le
proprie istituzioni sotto un aspetto essenzialmente giuridico . Di qui la
conseguenza, che, a parer mio , i veri caratteri dell'organizzazione per gentes
possono più facilmente essere trovati nelle poche reliquie delle primitive
genti del Lazio , che non nella stessa India, ove l'elemento religioso
preponderante fini per assorbire e soffocare ogni altro aspetto della vita
primitiva. 29. Intanto questo ormai si può affermare con certezza, che la
gente, anzichè essere una divisione artificiale della città , deve invece es
sere considerata come il perno, intorno a cui si esplica l'organizza zione
gentilizia . Essa è un naturale ampliamento della famiglia pa triarcale, in
quanto che non comprende più soltanto coloro, che dipendono dalla stessa patria
potestà , maabbraccia tutte le famiglie, che, memori dell'antenato comune, da
cui sono discese, non solo ne portano il nome, ma ne professano e perpetuano il
culto. Però oltre questo carattere, che la gens latina ha comune colle genti
Arie, essa ha eziandio un carattere suo peculiare, ancorchè comune forse alle
genti elleniche, il quale consiste in ciò che le gentes sono considerate come
proprie di quelle aggregazioni domestiche, che oltre all'avere uno stipite
comune, sono riuscite a mantenersi perennemente ingenue, immuni cioè da qualsiasi
rapporto di servitù e di clientela. Delle gradazioni del gruppo patriarcale, la
gens è quella che possiede elasticità maggiore, perchè talvolta può avere le
proporzioni soltanto di una famiglia, col qual vocabolo infatti è talora
indicata la stessa gens: (1) e talvolta invece può avere già dato origine a
tante pro (1) Il vocabolo ad esempio di familia è adoperato per significare la
gens nel se guente passo di Festo : « Familia antea in liberis hominibus
dicebatur, quorum dux et princeps generis vocabatur pater et materfamilias ;
unde familia nobilium Pompi liorum , Valeriorum , Corneliorum (Bruxs, Fontes,
pag . 338 ). Si possono vederne molti altri esempi nel Voigt, Die XII Tafeln ,
Leipzig, 1883, II, pag . 760. In ciò si ha una nuova prova che la familia e la
gens fanno parte della stessa organizzazione, per guisa che i due vocaboli si
scambiano fra di loro . Mentre è difficile trovare negli antichi scrittori il
vocabolo di familia per indicare il populus , loro pare invece di essere più
esatti, paragonandolo ad un grez e dividendolo al pari di questo in altrettanti
capita . Del resto sono abbastanza noti i significati molteplici, che ha il
vocabolo familia nel diritto primitivo di Roma, ove significa ora un complesso
di persone o 38 paggini diverse da prendere quasi le proporzioni di una grande
e numerosa tribù, come la tradizione ci narra essere accaduto della gens
Claudia , da cui sarebbe originata la tribù dei Claudienses, e della gens
Fabia, le cui proporzioni pervennero a tale che essa poté colle sole sue forze
affrontare , secondo la tradizione o leggenda che voglia chiamarsi, una impresa
militare , che in tristi circostanze ap pariva ardua alla intiera città. 30.
Non è dubbio tuttavia , che le popolazioni italiche e sopratutto quelle del
Lazio dovettero avere un criterio per scindere la gens propriamente detta dalla
familia in stretto senso e se fosse lecita una congettura avvalorata da una
quantità notevole di indizii, la stregua dovette essere la seguente. Non vi ha
dubbio che i caratteri distintivi della famiglia primitiva erano due, cioè la
patria potestà del suo capo e l'esistenza di un patrimonio , probabilmente
chiamato here dium , che apparteneva esclusivamente alla famiglia nella persona
del proprio capo . Di qui la conseguenza , che tutti i discendenti nella linea
maschile (comprese anche le femmine non ancora uscite dal gruppo per matrimonio
e quelle entrate in esso per la stessa causa ) che dipendevano da un solo capo
costituivano la famiglia in stretto senso ; ma questa poi continuava ancora a
mantenersi e a considerarsi tale, anche dopo la morte del padre, finchè il pa
trimonio indiviso di essa perpetuava in certo modo l'unità fami gliare . Che se
invece i fratelli, dipendenti un tempo dall'autorità di un solo padre, venivano
a dividersi il patrimonio famigliare e a rompere così anche quanto ai beni
l'unità primitiva , in allora venivano ad esservi altrettante famiglie , di cui
ciascuna aveva un proprio capo, ma che tutte facevano parte di una medesima
gens, perchè continuavano ad avere il medesimo nome e il culto comune per il
proprio antenato. La gens comincia pertanto quando cessa l'unità indivisa della
famiglia , e quindi nel periodo gentilizio quelli che erano agnati e che come
tali costituivano ancora la famiglia omnium agnatorum , finchè il loro
patrimonio era indiviso, costituivano già il primo grado della gentilità ,
allorchè questa divisione era seguita . È di qui che provenne la difficoltà,
ancora non superata , per distin di cose, ora un complesso di persone, ora
soltanto un complesso di cose (fa milia pecuniaque) – ed ora infine il
complesso dei servi (familia rustica ed urbana). Cfr. Voigt, Op. cit. II, pag.
8 e segg. - 39 guere gli agnati dai gentiles, perchè colla divisione del
patrimonio gli uni si potevano convertire negli altri e fu solo posteriormente
allorchè diventò più rara questa indivisione, che si chiamarono agnati tutti
coloro, che un tempo si erano trovati sotto la patria potestà della stessa
persona, ai quali si aggiunsero poi anche quelli, che lo sarebbero stati se il
comune capo non fosse premorto . Non è quindi il caso di dover supporre col
Muirhead , che l'ordine degli agnati, cosi nella successione che nella tutela
legittima, sia stata una creazione artificiale della legislazione decemvirale
per provvedere alla successione e alla tutela dei plebei, che mancavano di
genti. Gli artificii nelle epoche primitive sono meno frequenti che non si
creda, e non si possono supporre che quando ve ne siano prove dirette, quale è
quella, ad esempio , che abbiamo quanto alla fin zione di postliminio ed altre
analoghe . Per contro il gruppo degli agnati può benissimo essere attribuito ad
una formazione spontanea durante il periodo gentilizio, poichè era cosa
naturale , come notd più tardi il giureconsulto, che l'essere stati un tempo
sotto la patria potestà della stessa persona e l'aver partecipato al godimento
dello stesso patrimonio dovesse distinguere il gruppo degli agnati da quello
più remoto dei semplici gentiles, che solo avevano comune la discen denza da
uno stesso antenato , ma che non avevano mai dimorato nella stessa casa, nè
avevano mai formato parte della stessa famiglia. D'altronde sarebbe veramente
strano ed incomprensibile, che la le gislazione decemvirale avesse dovuto essa
creare il concetto degli agnati, mentre è appunto quest'agnazione, che sta a
base delle or ganizzazioni domestica e gentilizia, le quali certo già
esistevano pre cedentemente (1) . C ( 1) Che l'ordine degli agnati sia stata
una creazione della legislazione decemvi. rale, è uno dei concetti veramente
nuovi enunciati dall'illustre autore dell'Historical Introduction . Egli quindi
insiste più volte sul medesimo e dopo averlo accennato a pag. 43 nel testo e
nelle note 2 e 3 vi ritorna sopra a pag. 121 e 172 e note relative. Il solo suo
argomento però consiste nei due testi di Ulpiano da lui citati , ove il
giureconsulto mentre dice che : lege duodecim tabularum testamentariae
hereditates confirmantur » , usa invece, quanto alla successione legittima,
l'espressione che « legitimae hereditatis ius ex lege duodecim tabularum
descendit » , espressione che pure adopera altrove quanto alla tutela
legittima. È però evidente , che qui il giureconsulto non parla solo della
successione degli agnati, ma di tutta la succes sione legittima, e quindi anche
degli heredes sui, e dei gentiles, per guisa che, se stesse il ragionamento del
MUIRHEAD , converrebbe dire, che secondo il giureconsulto tutto il sistema
della successione legittima discende dalle XII tavole. E questo ve 40 31. La
gente intanto, dopo essere partita dal gruppo degli agnati, che avevano diviso
il patrimonio paterno, poteva poi prendere uno svol gimento grandissimo, in
quanto che essa poteva abbracciare tutte le diramazioni per la linea maschile ,
che si staccavano da ciascuno di questi agnati e non cessava mai di costituire
una sola aggregazione gentilizia , finchè tutte le famiglie continuassero ad
avere lo stesso nome e a professare il culto del medesimo antenato . Potevano
perd darsi dei casi, in cui la gente cosi pervenuta ad un numero stragrande di persone
venisse a ripartirsi essa stessa in diramazioni diverse; tuttavia anche allora
il nome primitivo della gens è sempre conservato , ma ciascuna delle
diramazioni prende un proprio agnomen o cognomen , che ne costituisce in certo
modo la caratteri stica , ed è seguendo la serie dei cognomina, che si possono
seguire le propaggini tutte della stessa pianta . Cosi accadde, ad esempio,
della gens Claudia , la quale già numerosissima conservava ancora una sola
denominazione, ma che più tardi venne assumendo una quantità di cognomina
diversi, che indicano in certo modo il punto , in cui sopra un unico ceppo
cominciarono ad apparire diramazioni diverse. Lo stesso è a dirsi della gens
Cornelia e di molte altre, il che serve, anche a spiegare come nel tempo in cui
anche quella parte della plebe, che già era pervenuta alla nobiltà cercava di
imitare l'antica or ganizzazione gentilizia , si veggano delle gentes plebeiae
staccarsi da un fusto patrizio. Ciò infatti deve probabilmente indicare un
antico vincolo di clientela , che stringeva l'antenato, da cui parti la forma
zione della gente plebea, ad un'antica gente patrizia . 32. Bastano queste
considerazioni per spiegare l'energia vitale, che ramente fu quello, che volle
dire il giureconsulto ; poichè furono appunto le XII tavole, che, nell'intento
di appoggiare l'organizzazione gentilizia, trasportarono di peso la successione
legittima esistente nelle tradizioni patrizie anche alla plebe, nel che può
vedersi uno dei motivi, per cui il cittadino romano, per sottrarsi ad un
sistema di successione, che era disadatto alla città e conduceva all'esclusione
di per sone care, credevasi quasi dimorire disonorato, se moriva senza
testamento. Fu quindi tutta la successione legittima e non soltanto l'ordine
degli agnati, che fu creazione dei decemviri, i quali la tolsero dipeso
dell'organizzazione gentilizia ; in cui già eranvi le distinzioni di heredes
sui, di agnati e di gentiles, come appare dal fatto, che tutta l'organizzazione
gentilizia è fondata sull'agnazione, il che è pure ammesso dal MUIRhead. Ciò
del resto sarà meglio comprovato quando si tornerà sul gravissimo argomento ,
discorrendo della successione legittima in base alle XII tavole. Quanto
all'agnazione e ai caratteri di essa è pure da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln
, II, pag. 15 e seg. - 4 ) - poteva avere un gruppo , che, ad una compattezza
pressochè uguale a quella della famiglia , accoppiava talvolta il numero e la
forza della tribù, sopratutto allorchè essa era capitanata da uomini di energia
tenace e di propositi costanti, come furono per parecchie genera zioni quelli,
che guidavano la gens Claudia o la gens Valeria , e come in essa potessero
anche perpetuarsi tradizioni diverse , ostili o favorevoli alla plebe dapprima
e poi al partito popolare. È questo carattere della gens, che spiega la
perennità di un numero origi nariamente piccolo di genti patrizie, malgrado una
quantità di influenze, che tendevano a dissolverle e a circoscriverne l'azione.
Così pure deve spiegarsi il fatto che, mentre le tribù primitive , di fronte
alla potenza assorbente della città , finirono per scompa rire fin dal periodo
regio con Servio Tullio , le genti invece per . durarono per parecchi secoli,
sostennero in poche una lotta lunga e pertinace con una plebe, il cui numero
veniva facendosi sempre maggiore, ed anche vinte continuarono sempre a dare un
contri buto larghissimo a quegli onori e a quelle magistrature, che per secoli
erano stati loro privilegio esclusivo, finchè da ultimo anche l'impero fini per
consolidarsi per un certo tempo nei discendenti di antiche genti patrizie, che
si erano imparentate fra di loro. Del resto questa potenza del gruppo
gentilizio fu anche sentita da quella parte della plebe, che mediante
l'ammessione agli onori fini per costituire una nuova nobiltà , come lo
dimostra il fatto , che essa per afforzarsi non trovò mezzo più efficace di
quello di ricorrere al ius imaginum e di imitare cosi una organizzazione, che
ormai trovavasi in decadenza . 33. Intanto i due caratteri fondamentali della
gens, quali si pos sono raccogliere dalle vestigia che ci rimangono delle
antiche genti italiche,malgrado le divergenze, che possono esistere nella
descrizione dei particolari minuti, si riducono essenzialmente ai seguenti,
cioè : 1 ° alla discendenza da un antenato comune, la quale rivelasi nel nome,
nel culto , e nel sepolcro comune; 2° ed alla ingenuità perenne dei membri, che
entrano a costituirla , per modo che essa deve essersi ser bata immune da
qualsiasi mescolanza con persone di origine servile. Il primo di questi
caratteri è quello che costituisce la forza, la compattezza e la perennità
dell'organizzazione gentilizia, ed il se condo, che il Pontefice Q. Muzio
Scevola volle si aggiungesse alla deffinizione dei gentiles serbataci da
Cicerone, è quello che spiega la superiorità delle genti patrizie di fronte
alla plebe . Esse ave - 42 vano attraversato un lungo periodo di lotta e di
privata violenza vincitrici sempre e non vinte mai, e quindi la loro gentilitas
era indizio, che esse appartenevano alla classe dei vincitori, il cui sangue
non erasi mai mescolato con quello dei vinti, dei servi e dei clienti, donde la
conseguenza eziandio , che il vocabolo patricii in sostanza non significava che
gli ingenui, il quale ultimo vocabolo allude ap punto alla niuna mescolanza del
loro sangue con quello servile. 34. Questi due caratteri sono dimostrati
anzitutto dalle varie diffini zioni della gens stateci trasmesse da Varrone, da
Festo, da Isidoro e da altri, le quali accennano tutte alla discendenza dei
gentili da un antenato comune, e da quella anche di Cicerone, il quale,
parlando di un nome comune (qui inter se codem nomine sunt) non esclude
certamente , ma conferma il carattere della comune discendenza e in tanto vi
aggiunge quello della ingenuità non interrotta dei gentiles. Questa del resto è
pur confermata da ciò , che la plebe stessa nelle sue discussioni coi patrizii
se non ammetteva la loro discendenza dagli Dei riconosceva però , che il
vocabolo patrizii nelle sue origini do veva significare ingenui (1). - Di qui
intanto si comprende come dapprima il patrizio e poscia tutti i cittadini
romani avessero tre appellazioni, di cui la prima (praenomen ) indicava
l'individuo, l'altra che era il vero nome (nomen) designava la gente , a cui
egli appar teneva in quanto la gente era in certo modo il gruppo che conte neva
le diverse famiglie , e la terza infine ( cognomen) designava la famiglia, in
quanto questa era una particolare diramazione, della gente (2 ). A queste
appellazioni si potevano poi anche aggiungere (1) Festus, vo Gentilis : «
Gentilis dicitur ex eodem genere natus, et is qui simili nomine appellatur » .
Bruns, Fontes, pag . 339; VARRO, De lingua latina, VIII, 4 : « Ut in hominibus
quaedam sunt agnationes ac gentilitates, sic in verbis ; ut enim ab Aemilio
homines horti Aemilii ac gentiles, sic ab Aemilio nomine declinatae gen
tilitates nominales » . Bruns, Fontes, pag. 389 ; Isiporus, IX , 2, 1 : « Gens
est mul. titudo ab uno principio orta , appellata propter generationes
familiarum , id est a gi gnendo uti natio a nascendo ». Bruns, pag. 409 ;
CICERO, Top. 6 : « Gentiles sunt qui inter se eodem nomine sunt. Qui ab
ingenuis oriundi sunt. Quorum maiorum nemo servitutem servivit. Qui capite non
sunt deminuti » . V. anche Liv., X , 8 . (2 ) Per ciò che si riferisce ai nomi
romani è da vedersi il MICHEL, Du droit de cité romaine, Paris, 1885 ; e
sopratutto la trattazione veramente magistrale del Mar QUARDT, Das Privatleben
der Römer, Erster Theil, p . 7 a 25. Ivi egli nota come vi fossero gruppi, che
non avevano cognomen , come gli Antonië, i Duilii, i Fla minii ecc., pag. 13 ,
not. 2. Quanto agli esempi citatinel testo a pag.40, è pare a ve. dersi il
Bonghi, Storia di Roma, I, Appendice sulle primitive genti patrizie, nella
parte, che si riferisce alla gens Claudia e Cornelia , pag. 490-91. 43 uno o
più soprannomi (agnomina), che servivano a contraddistin guere l'individuo
stesso o per essere egli stato adottato da altra fa miglia , o per impresa da
lui compiuta, o per indicare le suddistin zioni operatesi nella stessa famiglia
( 1). Può darsi che in antico potesse esservi anche qualche indicazione della
località abitata dalla gente, a cui apparteneva l'individuo, come lo dimostrano
i sopran nomiprimitividi Regillensis, Collatinus e simili (2 ). Di questo avreb
besi un indizio nel fatto, che allora quando il territorio di Roma fu veramente
distribuito in tribù locali, anche la indicazione della tribù comparve a
completare le denominazioni del cittadino romano, e precedette anzi il
soprannome suo particolare. Del resto questi caratteri particolari della gens
sono anche com provati dalla radice gen, comune alla gens latina e al révos dei
Greci, che significa generare e produrre; come pure da ciò , che i nomi
gentilizii sono nomi di persona piuttostochè di luoghi, e che i diritti
gentilizii, come il ius hereditatis, il ius curae, il ius sepul chri sono di
carattere eminentemente privato . Così è pure dei sacra gentilicia , i quali da
Festo sono annoverati fra i sacra privata , che sono a spese delle singole
genti, e contrapposti ai sacra pub blica, che si compiono invece a pubbliche
spese (3 ). Solo sembra far eccezione il ius decretorum ; ma oltrecchè questo
diritto sembra nel periodo storico esercitarsi di preferenza in cose d'ordine
privato , il medesimo pud facilmente essere spiegato quando si consideri, che
la gente aveva compiuto un tempo funzioni politiche, che non po terono
scomparire di un tratto anche colla formazione della città (4 ). (1) Tali sono
le appellazioni di Publius Cornelius Scipio Aemilianus, di Lucius Cornelius
Scipio Asiaticus, di Publius Cornelius Lentulus Spinther, ecc. V. Mar QUARDT,
op. cit., p . 15. (2 ) VARRO, De ling. lat., VIII, 82: « In hoc ipso analogia
non est, quod alii no mina habent ab oppidis, alii aut non habent, aut non , ut
debent, habent » . BRUNS, pag . 387. (3 ) FESTUS, p Publica : « Publica sacra ,
quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro montibus, pagis, curiis,
sacellis, et privata , quae pro singulis homi nibus, familiis, gentibus fiunt »
. Bruns, pag . 358 . (4 ) I casi ricordati dalla storia , in cui le gentes si
sarebbero valse del ius decre torum , sarebbero i seguenti: la gens Fabia vietò
ai suoi membri il celibato e la esposizione degli infanti (Dion. IX , 22 ) ; la
gens Manlia proscrisse il prenome di Marcus (Liv., VI, 20), e la gens Claudia
quello di Lucius (Svet., Lib. I), che ri chiamavano per esse tristi ricordi.
Più tardi però fu il Senato, che prese simili prov vedimenti, vietando il
prenome di Marcus agli Antonië (Plut., Cic., 19), e quello 44 35. È invece
assai più difficile l'argomentare quale potesse essere l'organizzazione interna
della gens da quelle poche traccie, che ne rimangono nel periodo storico . Non
si può anzitutto accertare, se la gens avesse sempre e costantemente un proprio
capo (princeps gentis) (1), o se il medesimo invece fosse eletto dal consiglio
dei padri o indicato dall'anzianità di nascita, solo allorchè trattavasi di
qualche impresa da compiere, come quando, ad esempio , Atto Clauso avrebbe
abbandonato Regillo per recarsi a Roma. Questo però è certo , che la gente
dovette avere un consiglio di anziani o di padri, che raccoglieva in sè la
somma dei poteri, e conservava e trasmetteva le tradizioni della gente . Era
nel suo seno , che si sceglievano gli ar bitri e gli amichevoli compositori delle
controversie, che potevano sorgere fra i varii capi di famiglia, che
appartenevano alla mede sima gente . Era questo consiglio parimenti, che
sull'ager gentilicius faceva degli assegni di terre ai clienti,
ed attribuiva gli heredia alle nuove famiglie che si formavano nel seno
della gente ; era ilmede simo ancora , che poteva richiedere il servizio
militare non solo dei suoi membri (gentiles), ma anche dei dipendenti da essa
(gentilicii ). Cosi pure era questo consiglio, che sovra intendeva alla pubblica
e privata condotta dei singoli capi di famiglia, preveniva e reprimeva gli
abusi dell'autorità domestica, ed impediva eziandio che i capi di famiglia ,
contro il buon costume della gente, disperdessero quei beni (bona paterna
avitaque) di cui in certo modo erano custodi nel l'interesse proprio e della
famiglia e che, potendo, dovevano trasmet . tere ai proprii eredi. Era la gente
infine che , in mancanza di prossimi agnati, era chiamata a succedere al capo
di famiglia morto senza eredi suoi, e che doveva perciò anche provvedere alla
tutela perpetua delle femmine e a quella dei figli, che fossero rimasti or di
Cnaeus ai Calpurnii Pisones ( Tac., Ann., III, 17). Partivano eziandio dalla
gens i provvedimenti, che riguardavano la sepoltura. È da vedersi in proposito
l'opera di Henri DANIEL LACOMBE, Le droit funéraire à Rome, Paris , 1886 , n .
114 , p. 97, dove dice che la gens conservò il suo sepolcro gentilizio, finchè
si mantenne la sua organizzazione e l'unione stretta fra i suoi membri, cioè
fin sotto l'impero. Fu al lora che incominciarono i sepolcri di famiglia od
ereditarii. Secondo quest'autore ($ 118 , pag. 99), mentre i liberti
partecipavano ai sacra gentilicia , e quindi proba bilmente anche al sepulchrum
gentilicium , essi invece erano esclusi del sepolcro della famiglia, al quale
avevano diritto soltanto gli agnati. (1 ) In proposito del princeps gentis o
magister gentis è da vedersi il Voigt , Die XII Tafeln , II, pag. 771 e seg .,
ove parla dei poteri al medesimo spettanti. - 45 - fani prima di essere
pervenuti alla pubertà , come pure doveva es sere essa , che facevasi vindice
delle offese , che fossero recate ad alcuno dei membri che entravano a
costituirla. Da ultimo fra i membri della gente esisteva l'obbligo della
reciproca assistenza, per cui dovevano essere alimentati se indigenti,
riscattati se prigionieri, sostenuti nelle loro controversie , e vendicati se
fossero stati uccisi od ingiuriati (1).Se a tutto ciò si aggiunga il vincolo
del nome, quello del culto, e quello del sepolcro, sarà facile il comprendere
come un gruppo così intimamente connesso , unito nel passato e nell'avvenire,
in vita e dopo la morte , nelle cose divine ed umane non potesse essere
facilmente distrutto dalle influenze contrarie che si vennero svolgendo nella
città (2 ). Esso continud, durante il periodo storico, ad avere una quantità di
istituzioni tutte sue proprie , come lo dimo strano i vocaboli di gentilis e di
gentilicius, l'esistenza anche nel periodo storico di un ager gentilicius,
quelli dei sacra gentilicia , del sepulchrum gentilicium , per modo che, anche
prima del for marsi della città, dovette svolgersi tutto un ius gentilicium ,
che governava appunto i rapporti fra le varie persone, che entravano a
costituire il gruppo gentilizio . Esso quindi non deve confondersi col ius
gentilitatis , che indica il complesso dei diritti spettanti ai gentiles, al
modo stesso che il ius civitatis indicherà poi i diritti spettanti al civis.
Così pure non può esservi dubbio , che il vocabolo di iura gentium , che poscia
ebbe a prendere un così largo svolgi mento, dovette nascere già in questo
periodo per indicare appunto i rapporti, che intercedevano fra le varie genti e
i capi delle mede sime ( 3 ) . (1) Quanto ai poteri della gens, tanto sui
gentiles quanto sui gentilicii, è a vedersi il Voigt, Die XII Tafeln , II , pag
. 774 . (2) La bibliografia copiosissima intorno alla gens può vedersi nel
BOUCHÉ-LECLERCQ , Institutions romaines, pag. 7 in nota , come pure nel
WILLEMS, Le droit public romain , pag. 36, nota 4 . ( 3) Fra gli autori
recenti, che tentarono la ricostruzione del ius gentilicium , sono a vedersi
sopratutto il KARLOWA, Römische R. G., pag . 35, il MUIRHEAD, Histor. Introd .,
pag. 5 a 8. Parmi tuttavia importante il distinguere il ius gentilicium , che
comprende anche i rapporti fra la classe superiore dei gentiles e quella dei
dipen denti da essi o gentilici , il ius gentilitatis che significa il
complesso dei diritti spettanti ai membri di una stessa gente (gentiles), e i
iura gentium , che governano i rapporti fra le varie gentes . - 46 $ 4. – Il
patronato e la clientela nell'organizzazione gentilizia . 36. Fra gli istituti
di questo ius gentilicium , quello che più me rita di essere preso in
considerazione è certo quello della clientela , essendo essa una delle cause
del numero e dell'importanza , a cui giun sero gli antichi gruppi gentilizii. I
clienti, durante il periodo storico , costituiscono una classe in feriore di
persone, che appare vincolata al patriziato da certe obbligazioni di carattere
ereditario, in contraccambio della protezione e difesa che esso gli accorda
(1). Le due persone, fra cui intercede questo vincolo ereditario , sono
indicate coi vocaboli di patrono e di cliente , il quale ultimo vocabolo ,
secondo l'opinione ora general mente adottata , deriva da cluere, che significa
audire nel senso di essere obbediente (2). Come tali , i clienti entrano a far
parte della gente, a cui appartiene il loro patrono, ma non assumono perciò la
quantità di gentiles ; ma quella soltanto di gentilicii e costituiscono cosi
nel gruppo gentilizio una classe di uomini, di condizione infe riore, che in
una posizione già alquanto migliorata corrisponde al l'ordine dei servi e dei
famuli in seno dell'organizzazione domestica . Essi non partecipano al ius
gentilitatis, ma sono sotto la tutela del ius gentilicium (3 ). 37. È lo
storico Dionisio quegli, che ci ha conservato l'enumera zione più
particolareggiata delle obbligazioni e dei diritti, che inter cedono fra il
patrono ed il cliente , attribuendo l'istituto della clien ( 1) Cfr. Willems,
Le droit public romain , pag . 26. Non potrei però convenire in ciò , che egli
considera i clienti come una classe speciale di cittadini di diritto inferiore
, perchè la clientela in ogni tempo fu sempre considerata come un rapporto di
diritto privato e non mai come un rapporto di diritto pubblico , che bastasse
ad attribuire da solo la qualità di cittadino. I clienti poterono poi avere
tale qualità quando ebbero degli assegni in terre dal proprio patrono ,
mediante cui poterono figurare nel censo, ma non si capisce veramente come
potessero essere considerati come cittadini e avere il diritto di suffragio
persone, le quali non potevano nep far valere direttamente le proprie ragioni
in giudizio, ma abbisognavano perciò del patrono. Questa è ancora sempre una
conseguenza della confusione fra l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione
politica . (2 ) V. BRÉAL, Dict. étym . lat., vo Clueo . (3 ) Cfr. MUIRHEAD ,
Encyclopedia Britannica, vº Patron and client, vol. XVIII. 1 47 tela allo stesso
Romolo ; ma egli è evidente , che anche la sua descri zione già altera alquanto
le primitive fattezze della clientela, stante lo sforzo fatto per trasportare
nella convivenza civile e politica un'istituzione, che era nata e si era svolta
nell'organizzazione gen tilizia . Secondo Dionisio , il cliente aveva delle
obbligazioni, nelle quali si può scorgere un carattere, che noi chiameremmo
semi feudale. Egli infatti deve al patrono riverenza e rispetto ; deve ac
compagnarlo alla guerra ; soccorrerlo pecuniariamente in certe occa sioni, come
nel caso di matrimonio delle proprie figlie, e di riscatto di sè e dei figli se
siano prigionieri, come pure deve concorrere con lui a sostenere le spese di
giustizia , ed anche quelle dei sacra gentilicia . Ciò tutto fa credere, che i
clienti ottenessero dai loro patroni delle terre a titolo di precario, dalla
cui coltura potevano ricavare dei proventi che loro appartenevano, e che le
terre loro assegnate facevano parte dell'ager gentilicius , proprietà
collettiva della gente ; il che non rende esatta ,ma spiega l'antica etimologia
as segnata al vocabolo di clientes, che si dicevano così chiamati « quasi
colentes » ,perché avrebbero coltivate le terre dei padri (1). Infine Dio nisio
parla perfino dell'obbligazione del cliente di non poter votare contro il
patrono, la quale dimostrerebbe come la clientela , adatta al gruppo
gentilizio, veniva ad essere un'istituzione ripugnante al carattere di una
comunanza civile e politica (2 ). Alla sua volta poi il patrono doveva al cliente
protezione e di fesa , e quindi era tenuto a provvederlo diciò , che fosse
necessario per il sostentamento di lui e della sua famiglia , il che facevasi
me diante concessione di terre, che il cliente coltivava per suo conto. Esso
doveva di più assisterlo nelle sue transazioni con altre persone,
rappresentarlo in giudizio , apprendergli il diritto (clienti promere iura ),
ottenergli risarcimento per le ingiurie patite, averlo in certo (1) È Servius,
In Aeneidem , 6 , 609 , che vuol derivare il vocabolo di clientes da quasi
colentes in quanto che scrive : « Si enim clientes quasi colentes sunt, pa
troni quasi patres, tantundem est clientem quantum filium fallere » . Bruns, op
. cit., pag. 403. Parmi tuttavia che, tenendo conto del contesto della frase di
Servio, qui il vocabolo quasi colentes non accenni tanto al coltivare le terre,
quanto piuttosto all'osservanza ed alla riverenza del cliente verso il patrono,
per guisa che anche l'e timologia di Servio confermerebbe quella oggidì
adottata . (2 ) Diox . 2 , 10. Questo passo di Dionisio, in cui egli riporta le
obligazioni rispet tive del patrono e del cliente, attribuendo in certo modo
l'origine della clientela a Romolo, è riportato in greco ed in latino dal
Bruns, Fontes, pag . 4 . 48 modo in considerazione di membro della gente,
ancorchè in con dizione inferiore, in quanto che nella gerarchia gentilizia il
cliente veniva bensì dopo gli agnati, ma era prima dei cognati e degli affini,
i quali appartenevano ad un altro gruppo ( 1). Questi obblighi poi scambievoli,
in mancanza di sanzione giuri dica, erano collocati sotto la protezione del fas
come lo dimostra la legislazione posteriore delle XII Tavole, la quale,
sanzionando un obbligazione certo preesistente, ebbe a stabilire « si patronus
clienti fraudem fecerit, sacer esto » , ed al pari di tutti gli altri rapporti
gentilizii avevano un carattere ereditario . Infine, siccome patrono e cliente
appartengono entrambi allo stesso gruppo gentilizio , ancorchè in posizione
diversa , cosi Dionisio va fino a dire, che essi non possono proseguirsi
reciprocamente in giudizio , condizione anche questa, che , consentanea al
carattere dell'organiz zazione gentilizia, ripugna invece a quello della
convivenza civile e politica , ove ognuno deve avere il mezzo di poter far valere
le proprie ragioni davanti ad un'autorità , che accorda a tutti la propria
protezione (2 ). 38. Basta questa breve esposizione per dimostrare, come la
clientela fosse un istituto nato e svolto nell'organizzazione gentilizia prima
esistente, che continuò ancora per qualche tempo a produrre i proprii effetti
nella città , ove tuttavia si trovò compiutamente disadatto , perchè ripugnava
a quell'uguaglianza di posizione giuridica , che deve esservi fra coloro , che
partecipano alla medesima cittadinanza. Essa quindi era destinata
necessariamente a scomparire o quanto meno a trasformarsi, in quanto che nella
città le persone, che tro vansi in condizione inferiore, possono essere
aggruppate nella plebe e fare a meno della protezione del patrono, essendovi un'altra
autorità che li tutela. Di qui la conseguenza , che la clientela potè ancora
mantenersi finchè i due ordini in lotta fra di loro si ( 1) MASURIUS SABINUS, «
In officiis apud maiores ita observatum est; primum tu telae, deinde hospiti,
deinde clienti, tum cognato , postea adfini » . HUSCHKE, Jurisp . ante-iust.
quae sup., pag. 124. Aulo Gellio invece accenna ad un'altra opinione, che dà la
preferenza al cliente sull'ospite. Noct. Att., V, 13. Che poi il cliente entri
in certo modo a far parte della famiglia è affermato da Festus, yº Patronus. «
Pa tronus a patre cur ab antiquis dictus sit , manifestum ; ut quia ut liberi ,
sic etiam clientes numerari inter domesticos quodammodo possunt > ; Bruns,
pag. 351. (2) Cfr. Karlowa, Römische R. G., I, pag . 39. 49 attennero ancora
strettamente alla propria organizzazione e rappre sentarono in certo modo due
elementi fra di loro contrapposti nella medesima città ; ma dopo il
pareggiamento invece dei due ordini, la clientela riusci solo più a mantenersi
di nome, anzichè di fatto ; senza più importare quegli obblighi di carattere
religioso ed ereditario , che ne conseguivano un tempo. I clientes si
scambiarono cosi in semplici aderenti, che accompagnavano il patrizio od anche
l'homo novus nella piazza e nel foro e ne costituivano in certo modo il corteo
, e diventarono anche semplici salutatores ; il che tuttavia non tolse , che il
vocabolo cliente sopravvivesse alla istituzione da esso indicata , e rimanesse
ad indicare il rapporto di colui che si affida al patrocinio legale di un'altra
persona, ricordando così uno dei primitivi uffici, che il patrono aveva
certamente avuto verso il proprio cliente. Tuttavia, anche dopo il
pareggiamento dei due ordini, allorchè la vera clientela già scompariva nei
rapporti fra i cittadini Romani, noi la vediamo sopravvivere nei rapporti dei
cit tadini Romani colle altre genti, in quanto che trovansi le traccie di un
ius applicationis, la cui origine rimonta alle tradizioni gen tilizie, col
quale un individuo, un municipio , un Re od un popolo straniero ricorrevano al
patronato di un cittadino Romano per far va lere o avanti al Senato o davanti
ai magistrati di Roma ragioni e diritti che essi non sarebbero stati in caso di
far riconoscere (1) . Così pure nell'interno della città , la clientela,
ancorchè scomparsa come istituzione giuridica , continua pur sempre ad
esercitare una grandissima influenza sopratutto nel periodo delle elezioni, nel
quale tutte le aderenze si mettono in movimento e quindi anche quelle che
ricordano uno stato di cose ormai scomparso . (1) Accenna al ius applicationis
CICERONE, De orat. 1, 39, ma sembra che già ai suoi tempi fosse assai oscuro il
carattere di questa istituzione. Sonvi però autori, che, come il MISPOULET,
vorrebbero scorgere nelmedesimo la forma contrattuale della clientela . Les
institutions politiques de Rome, Paris, 1882, I, pag. 22. In ogni caso
converrebbe pur sempre dire, che il ius applicationis poteva essere la forma,
che rivestiva il rapporto della clientela nell'epoca romana, ma non si potrebbe
affer mare altrettanto dell'epoca gentilizia . Le formole epigrafiche, da lui
citate in nota , si riferiscono alla così detta pubblica clientela, che era già
stata creata a somi glianza di quella prima esistente. Del resto punto non
ripugna, che anche la clien tela potesse assumere un carattere contrattuale e
che la formola di essa potesse anche essere analoga a quella ricostrutta dal
Voigt. « Te mihi patronum capio . At ego suscipio poichè noi troviamo qualcosa
di analogo anche nella deditio. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 4 50
39. Quanto alla clientela , fu sopratutto disputata ed ha veramente grande
importanza la questione intorno alla origine di essa . Si è sostenuto in
proposito che i clienti fossero i primi plebei stati ripartiti da Romolo sotto
il patronato dei patrizii; che essi fos sero i primi abitanti del Lazio ridotti
a vassalli; che fossero gli im migranti in Roma in seguito all'asilo aperto da
Romolo ; che essi infine fossero antichi servi manomessi, la quale opinione,
posta in nanzi dal Mommsen, si appoggerebbe sull'analogia, che corre fra gli
obblighi primitivi del cliente verso il patrono e quelli che ancora si
mantengono durante il periodo storico a carico dei liberti verso il patrono (1)
Di queste varie opinioni, quella che andrebbe a sorprendere la clientela nella
sua prima formazione e che sembra essere più con sentanea al carattere
dell'organizzazione gentilizia è l'opinione soste nuta dal Mommsen, per cui i
primi clienti della gente sarebbero stati i servi, i quali, manomessi dopo un
lungo e fedele servizio nel seno della famiglia , sarebbero diventati clienti
nel seno della gente, a cui apparteneva il proprio patrono. Ciò era non solo
naturale, ma indispensabile nell'organizzazione gentilizia in quanto che , se
cosi non fosse stato , i servi manomessi si sarebbero trovati abban donati a se
stessi e staccati da quel gruppo, al di fuori del quale non poteva esservi
protezione giuridica, finchè non fu costituita una vera autorità civile e
politica . Si aggiunge che l'organizzazione gentilizia è una formazione
naturale e spontanea , che cerca in ogni suo stadio di bastare a se stessa , e
tende così a ricavare dal proprio seno tutti i suoi successivi sviluppi. Viene
quindi ad essere na turale e serve anche a dare una certa elasticità ai varii
gruppi gentilizii e a permettere il passaggio da uno ad un altro la costu manza
per cui coloro, che erano stati famuli o servi nella famiglia, potessero essere
accolti come clienti o gentilicii nella gente . La clien tela in tal modo veniva
a costituire una condizione relativamente più elevata a cui poteva aspirare il
servo , e si comprende eziandio come la sua coabitazione in una famiglia
potesse da una parte disporre la gente a renderlo partecipe del culto e del
sepolcro gentilizio, mentre dall'altra la sua fedeltà ed obbedienza nella
qualità di servo era preparazione all'ossequio ed alla riverenza del cliente ,
(1) L'esposizione più particolareggiata delle varie opinioni, colla indicazione
degli autori, che ebbero a professarle , occorre nel .WILLEMS, Le droit public
Romain , pag. 28 ; e nel Borché-LECLERC, Instit. Rom ., pag. 9. - - 51 - 40. È
in questo senso che il concetto del Mommsen può essere accettato ; ma il
medesimo vuol essere reso compiuto col ritenere che qui dovette verificarsi un
processo , che è comune a tutte le isti tuzioni primitive, per cui, una volta
creata la configurazione giuri. dica della clientela per mezzo di elementi
usciti dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia , si poterono poi fare
entrare in essa tutti coloro, che essendosi per qualsiasi causa staccati da un
gruppo abbisognavano di collegarsi ad un altro e di mettersi sotto la pro
tezione o difesa di esso . Come quindi era stato naturale , che il servo
affrancato dal capo di famiglia diventasse cliente della gente a cui esso
apparteneva, così dovette pure essere naturale , che una volta creato il
rapporto religioso, giuridico ed ereditario della clientela fossero compresi
nella medesima anche gli immigranti, che si rifu giavano presso la gente,
vincolandosi mediante il ius applicationis ad uno dei membri di essa , che ne
diventava il patrono ; quelli, che per un diritto di guerra universalmente
riconosciuto fra le varie genti, essendo posti nella condizione di dediticii,
venivano ad esser privi di religione, di territorio, e di mezzi di sussistenza
; quelli, che erano soggiogati e vinti da una gente o tribù, che sopravveniva e
si imponeva nel sito da essi occupato; quelli che, fermata la propria sede
accanto ad uno stabilimento di casate patrizie, ne ottenevano con cessioni di
terra e riconoscevano così il patronato delle medesime; tutti quelli insomma,
che in un'epoca di lotta e di privata violenza cercavano protezione e difesa
presso la gente, e che questa, per affi nità di stirpe o per altro motivo, riteneva
di poter accogliere nella comunanza gentilizia , assegnando perd ai medesimi
una posizione subordinata (1). 41. Cid intanto dimostra come la clientela fosse
una istituzione indispensabile in questo periodo di organizzazione sociale ,
poichè serviva ad incorporare nel gruppo gentilizio persone, che altrimenti si
sarebbero trovate nell'isolamento e percid prive di diritto , e quindi, mentre
da una parte accresceva il numero e la forza delle genti, dall'altra procurava
al cliente una protezione giuridica, di cui sa rebbe stato altrimenti privato.
In questo senso non è certamente (1) Questa più larga estensione data
all'origine della clientela ,che, senza escludere l'opinione del MOMmsen, la
comprende , sembra essere giustificata dal seguente passo di Gellio, V , 13 : «
Clientes, qui in fidem patrociniumque nostrum sese dediderunt » . 52 destituita
di fondamento la potente intuizione del nostro Vico , il quale riteneva che la
clientela o come egli la chiama il famulato fosse un mezzo indispensabile per
giungere ai governi civili , in quanto che essa fu effettivamente il primo
mezzo,mediante il quale individui e famiglie di origine diversa poterono,
coll'accettare una posizione dipendente e subordinata, essere aggregate ad un
gruppo , a cui non appartenevano per nascita, senza tuttavia essere assorbiti
in tieramente nel gruppo stesso nella qualità di famuli e di servi (1) . Non
può quindi essere accolta l'opinione di coloro, che vorrebbero collocare il
cliente in una posizione intermedia fra il servo ed il plebeo, poichè sebbene
sia vero che l'uno poteva trasformarsi nel l'altro, tuttavia la clientela e la
plebe sono istituti, che compariscono in stadii diversi dell'organizzazione
sociale. Mentre la clientela appartiene ancora totalmente all'organizzazione
gentilizia , il com parire invece della plebe segna già l'iniziarsi della vita
civile e politica in seno della tribù , donde la conseguenza che la città for
mandosi soffocherà la clientela , mentre verrà invece a somministrare il
terreno, sovra cui la plebe potrà dispiegare la propria attività ed energia . $
5 . La tribus come il gruppo più ampio dell'organizzazione gentilizia . 42. Al
disopra della gens compare infine nella organizzazione delle genti Italiche
un'aggregazione più vasta , che è quella della tribú , come lo dimostra il
fatto , che, secondo la tradizione, sarebbe dal confederarsi delle tribù dei
Ramnenses, dei Titienses e dei Luceres, che sarebbe uscita la città di Roma,
allorchè essa cesso di essere il primitivo stabilimento romuleo. La tribù tuttavia,
delle istituzioni anteriori alla città, è certo la più difficile a ricostruirsi
nelle sue primitive fattezze. Siccome infatti essa, per le funzioni eser citate
, era tra le varie aggregazioni quella , che più si accostava alla città
propriamente detta , così è anche quella, che per la prima fu assorbita dalla
medesima, per modo che il nome stesso delle tre tribù primitive di Roma
sarebbesi forse perduto, se non l'avesse (1) Vico, Seconda scienza nuova , Lib.
II . Della famiglia dei famoli innanzi delle città , senza la quale non
potevano affatto nascere le città . Op. comp. Ed. Milano, 1836 , vol. V , pag.
296. 53 conservato la curiosità investigatrice di qualche antiquario, e non ne
fossero rimaste le vestigia nelle sei centurie degli equites (sex suffragia)
composte dei Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi (1). 43. Gli è
perciò che come fu assai difficile il discernere la gente dall'aggregazione più
ristretta dalla famiglia , cosi non è meno dif ficile il constatare in qual
modo alle genti venga a sovrapporsi la tribù e come, riunendosi le prime, venga
ad apparire la seconda . Di questo pero possiamo essere certi, che le tribù
primitive di Roma risultavano composte da una aggregazione di genti, le quali
si venivano raggruppando intorno al capo di una gente preva lente fra tutte le
altre, da cui desumevano il loro nome com plessivo, il quale percið era
ricavato dalla persona, che guidava la tribù, più che dal luogo, ove questa era
stabilita . Così, per arre starsi alle due tribù primitive, la cui origine è
meglio accertata , si può essere certi, che la tribù dei Ramnenses ricava il
proprio nome complessivo da Romolo e da Remo, che erano a capo di essa, se
condo la tradizione ; il che è pure di quella dei Titienses, il cui nome deriva
da Tito Tazio capo della tribù sabina, stabilita sul Quirinale ; nel che è
anche a notarsi, che il nome della tribù viene ad essere composto in guisa
diversa da quello della gens, per guisa che mentre parlasi di una gens Romilia
, Titia è Claudia , le tribù invece vengono ad essere dei Ramnes o Ramnenses,
dei Ti ties o Titienses, e dei Claudienses. (2 ). Di qui pud indursi, che la
(1) Non mancano negli autori delle trattazioni anche relativamente alla tribù ;
ma di regola essa suol essere considerata come una ripartizione della città ,
nè cer casi di ricostruire la tribù primitiva, che sola può porgere il mezzo di
comprendere la formazione della città . Tutti però concordano in riconoscere,
che altre sono le tribù primitive, fondate sul vincolo genealogico, ed altre quelle
posteriori introdotte da Servio Tallio , desunte invece dalle località , ove
erano stabilite. Cfr . CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag . 79 e seg .
(2) Non può certamente essere accettata l'etimologia di VARRONE, De ling . lat.
55 (Bruns, pag . 378 ), il quale vorrebbe in certa guisa far derivare il nome
delle tre tribù dalle tre parti dell'agro, che sarebbe stato fra esse
distribuito. « Ager Ro manus, primum divisus in partes tres, a quo tribus
appellatae Titiensium , Ramnium , Lucerum » . Infatti l'opinione di Varrone in
questa parte è contraddetta da Livio , da Servio , da Dionisio , che fanno
invece derivare il nome delle tre tribù non dalle località, ma dal nome dei
loro capi. È quindi evidente, che qui VARRONE confuse in certo modo le tribù
primitive con quelle di Servio Tullio, come lo dimostra il 54 tribù comincia a
delinearsi, allorchè viene ad avverarsi un'aggre gazione di gentes, le quali,
non essendo più strette dal vincolo della comune discendenza , si raggruppano
intorno al capo della stirpe pre valente fra di esse e mentre conservano in
particolare i proprii nomi gentilizii, assumono in comune un nome, che desumono
dal proprio capo. 44. Questa formazione novella viene poi ad essere determinata
ogni qualvolta un'impresa o spedizione qualsiasi può porgere oc casione a
questo aggregarsi delle gentes . Di qui la conseguenza che la tribú - o può
assumere un carattere pressochè militare, come accadde della tribù dei
Ramnenses, che sarebbesi formata fra le genti albane in occasione di una spedizione
di carattere militare, o può invece avere il carattere di una vera e propria
comunanza di villaggio , come era di quella dei Titienses già stabilita sul Qui
rinale . Tanto nell'uno quanto nell'altro caso essa assume immedia tamente un
carattere religioso, ponendosi sotto la protezione di una divinità, comune
patrona, perchè fra le genti primitive non si pud comprendere un'aggregazione
qualsiasi senza un vincolo religioso che la stringa insieme (1). Qui intanto
l'unificazione del gruppo diventa indispensabile , anche per l'intento che la
tribù si propone di con seguire, e quindi viene ad accentuarsi assai più che
nella gente la figura di un capo, che potrà prendere il nome di praetor o di
dic . fatto, che egli dopo continua con dire: « Ab hoc agro quatuor quoque
partes urbis tribus dictae ab locis , Suburana, Palatina, Esquilina, Collina,
etc. » . Del resto non pud neppure ammettersi, che occorresse una divisione
dell'agro fra le tre tribù, dal momento che ciascuna continuava ad avere il
proprio terrritorio , salvo che si trat tasse, non di una ripartizione di
territorio, ma di una divisione meramente ammi nistrativa , come dovette
appunto essere. (1) Secondo il Bouché-LECLERCQ, la cui competenza è
incontrastabile nella parte, che si riferisce alla religione di Roma per i suoi
studii sui Pontefici e sull'arte della divinazione, il culto delle tribù de'
Ramnenses sarebbe stato quello di Marte e Quirino ; quello della tribù dei
Titienses sarebbe stato quello di Quirino e di Giano e quello infine della tribù
de' Luceres sarebbe stato quello di Giove, sebbene queste varie divinità
sembrino talvolta confondersi fra di loro, il che accade quanto a Marte e a
Quirino, come pure diGiove e di Giano. Si può aggiungere, che della triplice
divinità rimasero ancora le traccie nei tre flaminimaggiori, che erano quelli
diMarte, di Qui rino e diGiove (Gaius I, 112). Di qui LECLERCQ ricaverebbe
indizi dei diversi stadii, che Roma ebbe a percorrere nella sua formazione
progressiva. Institutions Romaines, pag. 477 a 494 . 55 tator, se la tribù
trovasi avviata ad una spedizione ; di iudex in tempo di pace; di magister
pagi, se trattisi di una comunanza di villaggio già ferma in un determinato
sito ; dimeddix , come accadeva presso gli Osci, ed infine anche di rex ,
sebbene questo vocabolo , sembri comparire di preferenza quando trattisi del
capo di una città propriamente detta . Tuttavia questo capo suol essere nella
tribù ancora designato di preferenza dalla nascita , che non dall'elezione;
come lo dimostra il fatto , che i due duci della tribù dei Ramnenses sono
entrambi di stirpe regia e per essere gemelli debbono cono scere mediante gli
auspicii quale di essi sia chiamato a fondare la città , o meglio il primo
stabilimento romuleo sul Palatino. Quando invece da capo della tribù dei
Ramnenses, Romolo debba già trasfor marsi in reggitore della civitas, formatasi
mediante la confedera zione di varie tribù , in allora , secondo Dionisio, sarà
già necessaria l'approvazione dei padri e la creazione del popolo (1 ). Però
accanto al capo si mantiene ancor sempre un consiglio, che può continuarsi a
chiamare dei patres , perchè è effettivamente composto dei capi delle singole
genti, e a cui probabilmente già viene data la deno minazione di senatus.
Infine nella tribù già può avverarsi la riunione (comitium ) degli uomini, che
colle armi ( iuniores) o col consiglio (seniores) possono provvedere alla
comune difesa od al comune in teresse ; donde la conseguenza , che già nella
stessa tribù può ve nirsi iniziando il concetto eminentemente concreto ed
organico del populus, salvo che gli elementi per costituirlo si ricavano ancora
direttamente dalle varie genti (ex generibus hominum ), cosicchè la sua
classificazione continua ancora sempre ad avere un carattere prettamente
gentilizio . 45. Questa naturale formazione della tribù dimostra , come la me
desima corrisponda fra le genti Italiche a ciò che per l'Oriente suol essere
indicato col vocabolo di vîc o comunanza di villaggio , e fra iGreci col
vocabolo di dñuos (2). Essa costituisce in certo modo (1 ) Dion. II , 3. (2 )
V. HAUSSOULIER, La vie municipale en Attique. Pref., 3. Devo però far no tare
che, secondo l'autore, il dñuos dei Greci sarebbe già una vera associazione
civile e politica e corrisponderebbe alla curia e più soventi al pagus, sebbene
a mio avviso la curia ed il pagus siano due cose compiutamente diverse. La
curia infatti è una divisione politica delle città , mentre il pagus sarebbe la
località, in cui dimora la tribus. Crederei quindi più esatto che il dñuos
corrisponda a quest'ultima. 56 il più largo sviluppo, a cui pervenne
l'organizzazione patriarcale , perchè mentre il suo elemento costitutivo e il
modello, a cui si in forma, è pur sempre il gruppo gentilizio , da essa pero
già si vengono elaborando quegli elementi, che, trasportati nella comunanza
civile e politica , finiranno per dare origine ad un rapporto del tutto nuovo,
che è quello della civitas , il quale più non dispiegasi nel pagus come la
tribù , ma bensi nell'urbs. Ben si potrebbe osservare contro questo tentativo
di ricostruzione, che la tribù mal pud essere stata l'ultimo stadio
dell'organizzazione patriarcale, mentre essa ricompare poi come la prima
ripartizione della città ; ma anche ciò può essere facilmente spiegato quando
si consideri, che era dalla tribus, che si erano ricavati i primi ele menti, in
base a cui si costituiva la città , come lo dimostrano anche i vocaboli di
tribunus, tributum , tribunal, i quali tutti richiamano l'antica tribù, e
quindi era conforme al processo costantemente seguito nelle formazioni
Italiche, che l'edifizio novello della città si ripartisse nell'interno sul
modello degli elementi primitivi, che con correvano a costituirlo . D'altronde
è noto , che le tribù di Servio Tullio hanno un carattere di preferenza locale
e non già genealogico come le tribù primitive (1 ). 46. Intanto, senza volere
per ora trattare a fondo dell'origine della plebe, non sarà inopportuno
indicare, che è certamente colla formazione delle tribù , il cui nucleo è ancor
sempre composto di genti patrizie, che può essersi iniziata la formazione della
plebs, essendo naturale che attorno ad uno stabilimento di genti patrizie, che
già riconoscono un capo , si venisse formando una comunanza plebea, che
provvedesse al proprio sostentamento, o coltivando terre concesse dalle genti o
dal capo di esse, o esercitando i mestieri e le professioni diverse. Il bisogno
di questo nuovo elemento poteva essere sentito dalle stesse genti, per quanto
esse coi loro servi e coi loro clienti fossero organizzate in guisa da poter
bastare da sole a tutte le loro esigenze. Ciò è comprovato eziandio da quelle
Quanto al diverso svolgimento di questi varii elementi nell'India , nella
Persia , in Grecia e in Roma, vedi Carle, La vita del diritto nei suoi rapporti
colla vita so ciale. Lib . I e II, come pure : Genesi e sviluppo delle varie
forme di convivenza civile e politica , colle opere ivi citate. ( 1) La
distinzione è fatta nettamente da Dionisio (4 , 15), il quale chiama la tribù
primitiva qulai revikai e quelle di Servio Tullo qulai totikaí. - 57 antiche
formole , in cui parlasi di populus et plebes, dualismo il quale fa credere che
dovette esservi un tempo, in cui si chiamo populus l'assemblea politica e
militare ricavata dal seno delle genti, secondo il rito e l'ordine prescritto
dalle consuetudini e dalle tra dizioni, mentre invece si chiamd plebes dapprima
e poscia plebs (da pleo , riempire) quella moltitudine ragunaticcia , che dopo
essersi cominciata a formare con clienti rimasti senza patrono e che come tali
venivano ad essere esclusi dal gruppo gentilizio , potè poi una volta formata
accrescersi in guise varie e molteplici. Questo infatti risulta dalla storia
delle primitive istituzioni sociali , che il compito più difficile nella grande
povertà delle idee primitive è la forma zione di un nuovo gruppo ; ma quando
esso è formato e corrisponde alle esigenze dei tempi, viene ad essere un
potente richiamo per tutti gli elementi, che per questo o quel motivo si
vengono stac cando dall'organizzazione prima esistente , e che abbandonati a se
cercano un nucleo novello a cui possano aderire. § 6 . Sguardo sintetico ai
varii gruppi dell'organizzazione gentilizia . 47. Riassumendo questa lenta e
faticosa ricostruzione dell'orga nizzazione sociale delle genti Italiche
anteriore alla città , credo che la medesima abbia abbastanza dimostrato, come
l'organizzazione stessa siasi venuta svolgendo mediante un processo di naturale
e spontanea formazione, costituita in certo modo da altrettanti sedimenti, che
si vennero sovrapponendo l'uno all'altro, in modo pero che gli ele menti, che
formansi in ciascuno di essi, subiscono delle trasforma zioni allorchè passano
in quelli che vengono dopo. Infatti, anche lasciando in disparte la grave
questione della pro venienza delle genti Italiche , è molto probabile, che esse
già re cassero con sè l'organizzazione gentilizia, quantunque la medesima non
avesse forse assunto quelle determinazioni precise, che acquisto più tardi.
Furono i conflitti delle genti colle stirpi già stabilite sullo stesso suolo ,
le lotte fra vincitori e vinti, e quelle eziandio fra le stesse genti migranti,
che presto dimenticarono la discendenza comune, che produssero un irrigidirsi
dei varii gradi dell'organizza zione gentilizia e condussero alla formazione di
una potente ari. stocrazia territoriale, militare e religiosa ad un tempo, che
attrasse 58 anche i vinti nei quadri del proprio ordinamento , collocandoli
però in una posizione subordinata a quella dei vincitori. Ne consegui che la
famiglia , per rendersi atta a sostenere i con . flitti cogli altri gruppi, si
venne concentrando e raggruppando sotto il potere del proprio capo, il quale
sembra quasi perdere l'aureola di padre per assumere quella di sacerdote, di
giudice , di uomo di guerra e di fondatore di una schiatta destinata a perpetuarsi.
Intanto le per sone, cheda lui dipendono, si dividono in liberi o figli e in
servi o fa muli, due vocaboli che si contrappongono fra di loro ed indicano due
classi di uomini, che per molti secoli rimarranno distinte per contrassegnare
in certo modo la discendenza dei vincitori e quella dei vinti. Di qui quel
carattere eminentemente monarchico della costi tuzione della famiglia
gentilizia , che tenacemente conservato nella famiglia quiritaria fini per
attribuire alla medesima quella speciale impronta , che i giureconsulti romani
più non ravvisavano nelle istituzioni famigliari degli altri popoli. La gente
invece continua sempre a ritenere alquanto dell'ela sticità primitiva, nè
giunge ad una concentrazione uguale a quella della famiglia ; ma intanto, memore
del culto del proprio antenato , custode gelosa delle proprie tradizioni,
riunita e resa compatta dai comuni pericoli, accresciuta dai clienti, si cambia
anch'essa in una specie di corporazione potente, che continua ad essere il
perno del l'organizzazione gentilizia, e mentre da una parte tiene unite le
famiglie, dall'altra , aggruppandosi con altre genti, dà origine alla tribù .
Intanto però anche in essa continua quel dualismo, che già erasi rivelato nella
famiglia , salvo che i rapporti fra quelli, che un di furono i vincitori e
quelli che furono i vinti, rimettono al quanto della propria rigidezza , e
vengono cosi a trovarsi di fronte i gentiles ed i gentilicii, i cui rapporti.
prendono un carattere pres sochè giuridico nel patronato e nella clientela .
Così pure nella gente , accanto all'elemento monarchico della famiglia , già
viene a svolgersi un elemento, che potrebbe chiamarsi aristocratico , il quale
costituisce un consiglio degli anziani, che concentra in sè medesimo le
principali funzioni, che appartengono alla gente. Da ultimo nella tribu havvi
pur sempre un'aggregazione di genti, ma intanto fra le medesime già distinguesi
una gente , che predo mina su tutte le altre e viene così ad essere ritenuta
come di stirpe regia . Di qui la conseguenza , che in essa compare la figura di
un capo, che è il principe della gente, che predomina su tutte le altre,
conservasi il consiglio degli anziani, che già mutasi in senato , 59 perchè è
già composto dei capi di genti diverse , ma intanto aggiun gesi l'elemento
democratico o popolare , che componesi di tutti gli uomini, che, ricavati dalle
varie genti, possono valere come uomini di armi o come uomini di consiglio .
Cid però non toglie, che continui sempre il dualismo, che già esi steva negli
altri gruppi in quanto che accanto al popolo formasi la plebe, la quale trovasi
dapprima al di fuori della comunanza gentilizia e ha percid più un'esistenza di
fatto , che non un'esistenza di diritto . Essa è dapprima riguardata con
disprezzo dal patriziato, perchè esce dai quadri consacrati dalla religione e
dal diritto delle genti; ma cið non toglie, che passandosi dall'organizzazione
gentilizia alla città essa sia l'unico elemento, che possa sostenere la lotta
coll'antico ordine di cose . Per tal modo si avverò nel periodo gentilizio una
vera forma zione naturale delle varie condizioni di persone e dei varii
elementi, che entrarono più tardi a costituire la comunanza civile e politica.
Che anzi, mentre dura ancora il periodo gentilizio, già si vengono lentamente e
gradatamente elaborando quei concetti, che serviranno poi di base alla futura
città : Tantae molis erat romanam condere gentem . Non è già che questo
processo di naturale formazione sia proprio soltanto delle genti Italiche, in
quanto che le traccie di essa ap pariscono evidenti presso tutte le stirpi di
origine Aria ed anche presso quelle di origine Semitica e Camitica (1). Nessuna
però giunse a racchiudere i varii stadii di questa formazione in forme più
determinate e precise delle stirpi italiche, e furono esse parimenti che,
gettando nel crogiuolo i materiali tutti elaborati e conservati nel periodo
gentilizio, seppero ricavarne le basi e il fondamento del l'eterna città . (1)
Ciò è stato provato largamente dal SUMNER MAINE, L'ancien droit , pag. 107 a
163. È poi interessantissima a questo proposito la comparazione, che viene
facendo il Revillout fra l'organizzazione domestica dei Romani e quella che
vigeva presso gli Egiziani nella sua opera col titolo : Cours de droit égiptien
, Paris, 1884, della quale può considerarsi come un compimento, per ciò che si
riferisce alle forme di celebrazione del matrimonio, il lavoro del suo allievo
PATURET, La condition juri dique de la femme dans l'ancien Egipte, Paris, 1886.
- 60 CAPITOLO IV . La proprietà nel periodo gentilizio e gli istituti attinenti
alla medesima. S 1. – Dubbii circa l'origine della proprietà nella storia
primitiva di Roma. 48. Fra i problemi, che presenta la storia delle istituzioni
primitive di Roma, uno fra i più difficili per comune accordo degli autori è
certo quello, che si riferisce all'origine di quella forma di proprietà , che
suol essere indicata col nome di proprietà quiritaria, la quale in certo modo
venne ad essere il modello, sovra cui si foggið la proprietà presso la maggior
parte dei popoli civili. A questo proposito le tradizioni a noi pervenute
sembrano presen tare alcune contraddizioni a prima giunta inesplicabili. Da una
parte infatti, anche dopo la formazione della città , si rinvengono ancora le
traccie di una proprietà collettiva , conosciuta sotto il nome di ager
gentilicius e di ager compascuus,mentre dall'altra la proprietà qui ritaria si
presenta fin dai proprii inizi con un carattere cosi assoluto ed esclusivo, che
sembra perfino escludere la possibilità dell'esistenza anteriore di una
proprietà collettiva. A cið si aggiunge, che mentre da una parte la storia
primitiva di Roma ci dipinge il patriziato fin dai più antichi tempi in
condizionitali da concentrare nelle sue mani tutto il capitale (pecunia )
allora esistente, e come il proprietario pressochè esclusivo di una gran parte
del territorio , dall'altra la tradizione parla di una ripartizione fatta da
Romolo del territorio Romano e di un assegno da esso fatto di soli due iugeri
(bina iugera) ai capi di famiglia, che lo avevano seguito, il quale assegno
avrebbe co stituito il primo patrimonio (heredium ) del più antico patriziato ,
che era quello della tribù dei Ramnenses (1). (1) Ecco i principali passi di
antichi scrittori che si riferiscono all'argomento : VARRO, De re rustica, 10,
2 : « Bina iugera , quod a Romulo primum divisa viritim , quae heredem
sequerentur, heredium appellarunt» . Plinius, Hist. nat., 18, 2 , 7: « Bina
tunciugera populo romano satis erant, nullique maiorem modum attribuit
(Romulus) » . Lo stesso Plinio poi, 18 , 3, 10 scrive : « M. Curii nota dictio
est, perniciosum intel legi civem , cui septem iugera non essent satis . Haec
autem mensura plebi post ex ictos reges adsignata esto. Brons, Fontes, pag.
387. Se ne ricaverebbe pertanto - 61 49. Non è quindi meraviglia se le
congetture a questo proposito siansi avviate in direzioni compiutamente
diverse. Alcuni riten nero che la proprietà privata in Roma sia stata una
creazione dello Stato , ma contro questa opinione si è giustamente osservato ,
che l'idea di una sovranità territoriale fu affatto ignota ai Romani, per guisa
che un'imposta fondiaria qualsiasi sarebbe loro parsa un segno di soggezione
odioso tanto, che fino all'Impero Roma e l'Italia ne furono escluse ( 1). In
senso contrario si fa perd notare, che non può ammettersi che la proprietà in
Roma siasi potuta sottrarre a quella evoluzione storica , che sarebbesi
avverata presso tutti i popoli, in quanto che Roma avrebbe esordito con un
concetto della proprietà , che presso gli altri popoli non si rinviene che
quando essi sono pervenuti al termine della loro evoluzione. Ne deriva che,
lasciando in disparte le gradazioni diverse delle opi nioni intermedie, le
teorie estreme si potrebbero ridurre essenzial mente alle seguenti. Vi ha
l'opinione del Niebhur, del Mommsen , seguita anche da molti altri, fra cui
noterd il De Ruggero, secondo cui la proprietà in Roma, come presso gli altri
popoli, sarebbe prima esistita sotto forma collettiva e non sarebbesi cambiata
in proprietà esclusivamente privata ed individuale , che colla ammessione della
plebe alla cittadinanza e cogli assegni di terre fatti dallo Stato ai che ai
primi fondatori dello stabilimento romuleo l'assegno non fu che di due iugeri,
mentre poi più non parlasi di altri assegni fatti anche al patriziato. Per
contro gli as segni posteriori, incominciando da Numa, appariscono fatti ai
plebei ed anzi aipiù po veri della plebe. Solo fa eccezione Cicerone, il quale
direbbe che Numa avrebbe diviso fra i cittadini l'agro pubblico conquistato
sotto Romolo « agros divisit viritim viribus » « De rep. II, 14 » , ma in ciò è
contraddetto da Dionisio , il quale parla di una di stribuzione da Numa fatta
ai più poveri, II, 62. Quanto agl'assegni attribuiti ai re, che vennero dopo,
sono tutti fatti alla plebe, ed è dopo le leggi Licinie Sestie, che i medesimi
furono portati a sette iugeri. Ciò è attestato fra gli altri da Columella, De
re rustica , 1, 3, 10 , « Post reges exactos Liciniana illa septem iugera ,
quae plebi tribunus viritim diviserat,maiores quaestus antiquis retulere, quam
nunc nobis praebent amplissima vetereta » . Ho citato questi varii testi per
provare, che il solo assegno fatto ai primi padri o capi di famiglia fu quello
di due iugeri attribuito a Romolo, mentre gli altri sono fatti alla plebe; il
che dimostra che i padri dovettero continuare ad avere i loro agri gentilizii.
(1) V. PADELLETTI, Storia del diritto Romano, con annotazioni del prof.
Cogliolo , Firenze, 1886, pag. 214, ove si sforza , e a parer mio, inutilmente,
a dimostrare che il piccolo heredium di due iugeri poteva bastare ai bisogni
della famiglia , stante la coltura intensiva applicata al medesimo. - 62
singoli cittadini (1 ) ; e vi ha quella invece, sostenuta con ardore dal nostro
Padelletti, secondo cui sarebbe affatto esclusa questa origine collettiva dalla
proprietà, in quanto che l'istituto della medesima, quale si è svolto fin dai
più antichi tempi di Roma, per usare le sue stesse parole, avrebbe assunto un
carattere spiccatamente pri vato ed avrebbe segnato il grado più perfetto, a
cui sia pervenuto il regime della proprietà (2). 50. È poi degno di nota che
siccome oggidi la ricerca intorno all'origine delle proprietà assunse le
proporzioni di una questione economica e sociale, in quanto che ad essa si
rannodano teorie diverse intorno all'ordinamento delle proprietà , così la
ricerca delle sue origini presso un popolo , le cui istituzioni esercitarono
tanta influenza sopra tutti gli altri, ha assunto eziandio il carattere di un
problema economico e sociale . Sonvi infatti coloro che, come il Laveleye ed
altri autori più o meno apertamente favorevoli ad un ordinamento collettivo
della proprietà , vogliono trovare, anche presso ( 1) L'autore, che primo
approfondì i concetti dell'ager publicus e dell'ager pri vatus, è certamente il
Niedhur, Histoire romaine, III, pag. 175 a 222. Egli però sembra partire dal
preconcetto, che anteriormente a Roma non esistesse proprietà privata, e che
questa fosse stata costituita mediante gli assegni stati fatti alla plebe. La
sua opinione fu seguita dal Puchta , Corso delle Istituzioni. Trad.
Turchiarulo, $ 285 , dal MOMMSEN, Histoire romaine, I, chap. XII et XIII, pag .
189 e seg. Segue pare questa opinione il De-RUGGERO nei suoi dotti articoli
sull'ager publicus-privatus, e sulle agrariae leges, inserti nell'Enciclopedia
giuridica italiana , come pure nel suo precedente lavoro, La gens in Roma
avanti la formazione del comune. Napoli, 1872. (2 ) PADELLETTI, op . cit., pag
. 220. Nota 1°. La questione dell'origine collettiva della proprietà cominciò
dall'essere posta in campo dal Sumner Maine, L'ancien droit, chap. VIII,
Histoire de la propriété primitive, pag . 231 a 288. Essa poi fu allar gata dal
Laveleye del suo libro, La propriété et ses formes primitives, dove si oc cupa
della proprietà presso i Romani da pag . 177 a 193. Di recente poi la
discussione -surse di nuovo, a proposito della proprietà primitiva presso i
Germani, in occasione di una dissertazione letta dal FUSTEL DE COULANGES
all'Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi, in cui egli sostiene che
anche i primitivi Germani avrebbero conosciuta la proprietà famigliare e
privata. Alla discussione presero parte il GEFFROY, il Glasson, l'AucoC e il
Ravaisson, e ne uscì una specie di studio comparativo fra la proprietà e la
famiglia romana e la proprietà e la famiglia dei primitivi Germani. Compte
rendu de l'Académie des sciences morales et politiques, 1885, 1er vol., pag.
705 a 812 e 2me vol., pag. 1 a 66. L'opinione del FusTEL DE COULANGES, quanto
alla proprietà privata già conosciuta dai Germani, era stata già sostenuta in
modo anche più esclusivo dal Denman W. Ross, The early of Land-holding among
the Germans. Boston, 1883, pag. 40. 63 i Romani, le traccie di una proprietà
collettiva,mentre altri, soste . nitori invece della proprietà privata ed
individuale, cercano di avere per sè l'autorità di un grande popolo per
giustificare la forma di proprietà che è loro prediletta . Il vero si è che
tanto l'una come l'altra teoria solleva dei grandi dubbi. Da una parte infatti,
quando si riconosca presso i Romani solo una proprietà originaria mente
collettiva , viene ad essere inesplicabile come un popolo , che suole procedere
così gradatamente nella trasformazione delle proprie istituzioni giuridiche,
abbia potuto senza altro operare una rivolu zione così radicale nel concetto
della proprietà . Dall'altra , se si sostiene che la proprietà Romana fu
senz'altro una proprietà asso luta ed esclusiva , non è men vero che il popolo
Romano sembre rebbe appartarsi da tutta l'evoluzione della proprietà , quale
almeno sarebbe stata formolata da coloro , che si occuparono delle forme pri
mitive dalla medesima assunte. In questa condizione di cose non pud negarsi la
gravità e la im portanza del problema, e questo è certo che il medesimo non
potrà mai essere risolto , finché non si ricerchino le condizioni della pro
prietà presso le genti del Lazio, per mettersi cosi in caso di ap prezzare le
trasformazioni, che esse ebbero a subire nel passaggio dal periodo gentilizio
alla comunanza civile e politica . 51. Tuttavia, prima di inoltrarsi nella
ricerca, non sarà inopportuno di premunirsi contro alcune idee, che, sopratutto
in questi ultimi tempi, si vennero introducendo intorno alla legge di
evoluzione sto rica, che governa la proprietà. Il Laveleye, in una notevole opera
sua , ha cercato di stabilire sopra una grande quantità di fatti una legge
storica, secondo cui la proprietà avrebbe cominciato dall'e sistere sotto forma
collettiva e poi sarebbe venuta assumendo un ca rattere sempre più individuale,
lasciando così sottintendere, che l'u nico rimedio di ovviare a questa
individualizzazione soverchia della proprietà sarebbe quello di richiamare
l'istituzione ai propri inizii ( 1). (1) L'opera del LAVELEYE è quella già
citata col titolo: La propriété et ses formes primitives. Paris 1874, e la
legge storica ricordata nel testo è da lui formolata nello stesso primo
capitolo, pag. 4 ,il che giustifica alquanto la censura fattaglidal PADELLETTI
di essersi sforzato a dimostrare una tesi. Del resto le idee del LAVELEYE hanno
tro vato molti seguaci e possono anche essere accettate in certi confini, con
che non si voglia cambiare in una legge storica generale un fenomeno, che ebbe
solo a veri ficarsi in un periodo dell'umanità stessa, cioè nel periodo
gentilizio. Di più si potrebbe 64 Senza entrare ora nella discussione di questa
legge, devesi però notare, che ricerche di altri investigatori imparziali, fra
i quali lo Spencer, hanno già dimostrato , che una legge di questa natura non
pud essere ammessa, in quanto che presso popoli del tutto primitivi già si
trovano le traccie di una proprietà privata ed individuale (1 ). Quindi è che
l'unica legge storica , relativa all'evoluzione della pro prietà , che allo
stato attuale degli studi possa formolarsi, sarebbe che la proprietà , essendo
una istituzione eminentemente sociale, ebbe in tutti i tempi ad assumere tante
forme, quanti sono gli stadii per corsi dall'organizzazione sociale .
Sopratutto poi la storia delle isti tuzioni giuridiche presso i varii popoli
dimostra, che le sorti della proprietà si presentano strettamente connesse con
quelle della fa miglia , cosa del resto che può essere facilmente compresa
quando si consideri, che il primo bisogno della famiglia fu certamente quello
di assicurare il proprio sostentamento . Siccome perd la famiglia nel periodo,
che suole essere chiamato patriarcale , entra essa stessa a far parte di un
organizzazione maggiore, che è l'organizzazione gentilizia , cosi anche la
proprietà finisce per assumere tante con figurazioni diverse, quanti sono i
gradi di questa organizzazione sociale. Ciò può scorgersi anche presso quei
popoli, i quali sono recati come esempio da quelli, che sostengono che nelle
origini sa rebbe prevalso il regime collettivo della proprietà , quali
sarebbero le antiche comunanze dell'Oriente e anche dell'Occidente, il cui ter
sempre notare al LAVELEYE e con esso al SUMNER MAINE che, finchè non sia
provato che l'organizzazione patriarcale è l'organizzazione veramente
primitiva, non si potrà neppure sostenere che la forma di proprietà , che
trovasi durante l'organizzazione gentilizia , sia la forma veramente primitiva
. Quanto alla letteratura copiosa sull'argo mento, può vedersi il dotto lavoro
del VioLLET, Précis de l'histoire du droit français. Paris, 1886 , pag. 481 e
482. L'autore ritiene, che la proprietà privata e la collettiva possano essere
ugualmente antiche, ma che nella origine abbia avuta prevalenza la proprietà
collettiva, mentre la proprietà individuale sarebbe stata ristretta a qualche
cosa mobile di uso esclusivamente personale. Questa proprietà collettiva si
sarebbe poi venuta frazionando ed avrebbe assunto un carattere sempre più
individuale, in quanto che la proprietà famigliare e privata avrebbe prevalso
su quella più estesa della tribù. L'autore però non spiega , come ciò abbia
potuto accadere,mentre il pas saggio può invece essere seguìto presso i Greci
ed i Romani. VIOLLET, op . cit., pag . 71 e 72. (1) V. SPENCER , Principes de
sociologie, vol. III, Paris, 1883, pag . 717, ove egli parla « de la fausseté
de la croyance mise en avant par certains auteurs, à savoir que la propriété
individuelle était inconnue aux hommes primitifs » . - - 65 ritorio , secondo
consuetudini antichissime, suole essere ripartito in varie parti, di cui una
viene ad essere assegnata alle singole fa miglie ; l'altra è lasciata a prato
ed a pascolo, ove i singoli capi di famiglia possono pascolare un numero
determinato di capi di be stiame; e l'altra infine è considerata come proprietà
della intera comunanza, ancorchè sovra di essa continuino ancora ad esercitare
certi diritti i singoli comunisti (1). Or bene se la legge dell'evoluzione
storica della proprietà è contenuta in questi, che sono i suoi veri confini,
credo di poter af fermare in base ai fatti, che la storia della proprietà romana
non solo non costituisce un'eccezione alla medesima, ma è quella invece, che
conserva le traccie più evidenti di tale evoluzione. § 2. – La domus, il vicus
ed il pagus e i loro rapporti colle varie forme di proprietà . 52.Non è dubbio
anzitutto , che presso i Romani le sorti della pro prietà e quelle della
famiglia procedettero strettamente connesse fra di loro . Basterebbe a
dimostrarlo il fatto, che il Quirite, come si vedrà a suo tempo , entrò nella
comunanza civile e politica nella sua doppia qualità di capo di famiglia e di
proprietario sopratutto del suolo , e che nel diritto primitivo di Roma i
poteri del capo di famiglia sopra le persone e le cose si presentano così
strettamente uniti fra di loro , che un solo vocabolo , quello appunto di
familia , comprende le une e le altre (2). A ciò si aggiunge che è un prin
cipio, costantemente applicato dai Romani, quello per cui non può esi stere nè
alcuno stadio di organizzazione sociale , nè alcuna corpora zione anche di
carattere sacerdotale senza che le debba essere asse gnato un patrimonio , il
quale, indicato col vocabolo generico di ager, (1) V. LAVELEYE, op. cit., Chap
. II, V , VI, come pure il SUMNER Maine, Village Communities. London , 1872 ;
Early history of institutions. London , 1875. Early law and custom . London,
1883. (2 ) Questa è la significazione che il vocabolo « familia > riceve
nell'antico diritto, come lo dimostrano le espressioni familia habere , emere,
mancipio dare e simili. Che anzi essa talvolta significa direttamente la
proprietà, come può vedersi nella Lex latina tabulae Bantinae. Le varie
significazioni del vocabolo familia , coi testi che loro servono di appoggio,
possono vedersi nel Roby, Introduction to Justinian's Digest. Cambridge, 1884.
Notae ad Tit. « de usufructu » , pag. 48, vº Familiae. G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 5 - 66 può essere chiamato , secondo i casi, ager privatus,
gentilicius, compascuus, publicus, communis, peregrinus e simili (1). Ciò prova
fino all'evidenza , che il Romano primitivo, allorchè si presenta nella storia,
ha già il concetto profondamente radicato , che non possa quasi esservi la
famiglia senza una proprietà , che le serva di sede e le fornisca i mezzi di
sostentamento , e che questo con cetto fu da esso applicato a tutte le altre
corporazioni, le quali tutte furono primitivamente modellate sulla famiglia .
Non è quindi pos sibile il sostenere, che la proprietà privata o meglio
famigliare possa , presso i Romani, considerarsi come una creazione dello
Stato, ma conviene necessariamente ammettere che fosse conosciuta già prima, se
appena fondato lo Stato, il primo atto che esso compie , secondo la tradizione,
è quello di assegnare una proprietà ai singoli capi di famiglia. È questo il
motivo per cui anche qui, per comprendere l'istituto della proprietà quale
comparisce in Roma, conviene cer carne l'origine presso le genti, fra cui Roma
si è formata . Vero è che sono pochissime le vestigia veramente genuine, che ci
riman gano dello stato di cose, che esisteva anteriormente a Roma ; ma tuttavia
anche con pochi frammenti non è impossibile la ricostru zione di questa
condizione anteriore, quando si tenga conto del pro cesso costantemente seguito
dai Romani, anche nel periodo storico , che è quello di trasportare nel periodo
seguente i concetti e le istituzioni, che ebbero ad elaborarsi nel periodo
anteriore. 53. Intanto un primo sussidio può aversi in questo carattere del
l'organizzazione gentilizia , per cui essa, a misura che giunge a produrre un
nuovo gruppo, che si sovrappone e si intreccia al pre cedente , viene ad essere
naturalmente condotta a creare una sede esteriore, in cui il gruppo stesso
possa trovare il proprio svolgimento . Come più tardi la sede esteriore della
civitas è stata l'urbs (2 ) , così le sedi esteriori dei varii gruppi gentilizii
sembrano, presso le an tiche genti italiche, essere state indicate coi vocaboli
certo antichis simi di domus, di vicus e di pagus (3 ). (1) Cf. De-RUGGERO,
Enciclopedia giuridica italiana , vº Ager publicus-privatus. Vol. I, Parte II“,
pag. 604. ( 2) L'antichità di questi vocaboli è dimostrata dal fatto, che già
nel sanscrito si trovano i termini corrispondenti. Ciò può vedersi nel Pictet,
Origines Indo Européennes ; Paris, 1877, II, pag . 305 , come pure nel BRÉAL,
Dict. étym . lat. ai vocaboli indicati. (3) Non vi è dubbio , che tutti questi
vocaboli già esistevano anteriormente alla - 67 Domus è la sede del capo
famiglia coi proprii figli e coi proprii servi, sede, che può anche avere un
cortile ed essere circondata da un piccolo orto e forse anche da un piccolo
ager, che uniti colla casa costituiscono un tutto , che con un vocabolo non
meno antico poteva es sere chiamato heredium da herus, od anche mancipium ,
perchè di pendeva direttamente dalla manus del capo di famiglia, intesa come la
somma dei poteri al medesimospettanti, o infine anche familia , perchè
comprendeva tanto i liberi quanto i seroi (1 ). Non vi ha poi dubbio che è
dalla domus, che si staccherà più tardi il concetto di domi nium e si capisce
anche che di questo dominium , il quale potrà poi acquistare una larghissima
estensione, la parte più sacra, più preziosa, quella , da cui il capo di
famiglia si separerà più a malincuore e che egli vorrebbe perpetuare nella
famiglia , continuerà sempre ad essere riposta in quel nucleo primitivo, che
costituiva l'heredium , e che nel diritto quiritario prese poi il nome di
mancipium . 54. La riunione poi delle abitazioni di diverse famiglie ,
provviste di un cortile e cinte da uno spazio , a somiglianza diquelle che
Tacito ci descrive presso i primitiviGermani (2 ), viene a costituire il vicus,
il quale di regola nella organizzazione gentilizia suole comprendere le
abitazioni delle familiae, che dividono il medesimo culto e appar tengono alla
medesima gente . Il vicus quindi ha ancora un carattere del tutto patriarcale e
si comprendono cosi le circostanze attestateci da Festo : che i vici si
trovavano di preferenza presso quei popoli, che non avevano ancora delle città
, quali erano i Marsi ed iPeligni;che essi erano stabiliti fra i campi (in agris);
e che se essi già avevano un luogo di mercato , non avevano però sempre un
luogo, dove si am ministrasse giustizia, nè sempre nominavano un magister vici,
a somiglianza del magister pagi, che ogni anno si nominava invece nel pagus
(3). Cid dimostra , che se il vicus poteva svolgersi formazione della
comunanza, e quindi dalla loro esistenza si può argomentare che dovevano pur
conoscersi le istituzioni, che con essi erano indicate. (1) Quanto alle domus
familiaque è da vedersi il numero stragrande dei passi raccolti dal Voigt, Die
XII Tafeln , II, pag . 6 e 7 , nota 2 . (2 ) TACITUS , Germania, XVI. (3) Festo
, vº Vici, fa, quanto al vocabolo di vicus, ciò che suol fare per ognialtro
vocabolo, la cui significazione siasi venuta trasformando, indica cioè le significazioni
diverse, che ilmedesimo ebbe ad assumere. Egli quindi esamina il vicus, finchè
trovasi ancora fra i campi (in agris), ed è a proposito di questo primo vicus,
che egli dice « sed ex vicis partim habent rempubblicam , et ius dicitur,
partim nihil eorum et 68 talvolta in guisa da prendere le proporzioni ed avere
le esigenze del pagus, nei casi ordinarii però era la sede di una comunanza
puramente gentilizia. Era poi naturale, che come le singole fa miglie in esso
avevano il proprio heredium , cosi anche il vicus, sede della gente , fosse
circondato dal proprio ager gentilicius, sul quale si potevano anche fare gli
assegni ai clienti (1 ). 55. Viene ultimo il pagus, ove esiste un sito per il
mercato , ma che contemporaneamente può anche servire per amministrarvi
giustizia , sito, che probabilmente può già essere chiamato forum (2),almodo
stesso che in esso già trovasi il magister pagi, dal cui nome ebbe a derivarsi
senza alcun dubbio quel vocabolo di magistratus, che tamen ibi nundinae
aguntur, negotii gerendi causa » ; poi trova il vicus nel seno degli oppida , e
dice che comprende « id genus aedificiorum , quae continentia sunt his oppidis,
quae itineribus regionibusque distributa inter se distant, nominibusque
dissimilibus discriminis causa sunt distributa » . Tuttavia , anche nella città
, il vicus indica ancora qualche cosa di privato, cioè quei vicoli privati, che
dànno accesso esclusivo ad abitazioni contigue. V. Bruns, Fontes, pag. 375. (1)
L'interporsi di un elemento estraneo nel seno del vicus era poi naturalmente
impedito da quella antica consuetudine romana, per cui il fratello vendeva al
fra tello, il vicino al vicino, il consorte al consorte. V. sopra pag. 30, nota
1. Che poi esistesse veramente una proprietà spettante al vicus e destinata ad
uso comune degli abitanti di esso lo dimostrano certe iscrizioni, in cui il
vicus quale persona giuridica fa contratti di compra e di vendita, Corpus
inscrip. latin . I, 603; del resto anche il Digesto ammette il vicus a ricevere
donazionie legati. L. 73, 1 Dig. (30 , 1). È da vedersi, quanto ai vocaboli con
cui ebbe ad essere indicato il vicus nelle lingue Indo-Europee, il Pictet,
Origines Indo-Européennes, II, pag . 308. Quanto al con cetto del vicus e delle
vicinitas presso i Germani vedi il DENMAM W.Ross, Land holding among the
Germans. Boston , 1883 , pag. 46. (2) Il vocabolo di forum è uno di quelli, che
ci indica il processo col quale le genti latine, trovato una volta il vocabolo,
venivano trasportandolo a tutte quelle significazioni, che corrispondevano al
concetto ispiratore del medesimo. Noi sappiamo da Festo, che forum significd il
vestibolo di un sepolcro, ove convenivano i parenti per dare l'estremo saluto
al defunto. V. Bruns, Fontes, pag. 339; poi sappiamo da VARRONE, De lingua
latina , V , 145, che le genti latine « quo conferrent suas con troversias et
quae vendere vellent quo ferrent, forum appellarunt » ; infine l'abbre viatore
di VERRIO Flacco colla sua consueta diligenza ci dice che « Forum sex modis
intellegitur ; primo negotiationis locus ; alio, in quo iudicia fieri, cum
populo agi, contiones haberi solent; tertio cum is , qui provinciae praeest,
forum agere dicitur, cum civitates vocat et de controversiis earum cognoscit,
ecc .) Brons, loc. cit. Per tal modo il luogo di convegno per i parenti, che
piangono un defunto, viene col tempo a convertirsi nel sito , ove il magistrato
romano risolve le controversie fra le città ed i popoli. 69 servirà ad indicare
tutte le cariche della città . Nel pagus per tanto havvi già un accenno alla vita
civile, e quindi si può rite nere con certezza, che esso è già la riunione di
più vici e comprende il complesso delle abitazioni occorrenti per un'intera
tribù . Ciò del resto è dimostrato dal fatto , che le tribù rustiche di Servio
Tullio presero il nome di tanti pagi, che prima esistevano nella stessa
località . Così pure, nota il Lange , è dimostrato che il pagus Succusanus fu
sostituito dalla tribus Suburana, che è una delle quattro tribù urbane dello
stesso Servio, come pure vi sono iscri zioni, che parlano di un pagus
Aventiniensis e di un pagus lanicu lensis, nei quali nomi è anche degna di nota
la terminazione di essi, che è analoga a quella, con cui si indicano le
popolazioni, che com pongono le tribù (1). È poi anche naturale , che questo pagus
abbia pur esso un ager, certamente situato a maggiore distanza, perchè in
prossimità vi sono gli agri gentilicii, e che questo ager chiamisi compascuus,
e che comprenda talvolta eziandio , oltre il sito vera mente destinato per il
pascolo , anche delle siloae e dei saltus (2 ) . $ 3 . L'ager privatus,
gentilicius, compascuus. 56. Intanto da questa configurazione esteriore
dell'organizzazione gentilizia si può inferire che , almodo stesso che questa
venne forman dosi per una naturale sovrapposizione di varii gruppi, così anche
le varie forme di proprietà si vennero assidendo l'una sull'altra . L'ager (1)
LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 23. (2 ) Cfr . NIEBHUR, Histoire
Romaine, III, pag. 112. Del saltus è da vedersi la diffinizione di Elio GALLO conservatasi
da Festo , pº Saltus. I saltus potevano essere oggetto di proprietà collettiva
del pagus e della città , ed anche di proprietà privata . È poi degno di nota,
che il vocabolo saltus, allorchè già si venivano formando i lati fondi
permodoche, secondo Plinio , sei persone possedevanometà dell'Africa (Hist.
nat., XVIII, 7), finì per significare quegli immensi dominii, posseduti da
privati e soventi anche dall' Imperatore, sovra cui dimorava una popolazione,
di carattere pressochè colonico, che dipendeva più dall'arbitrio del possessore
o del suo procurator, che non dalle leggi dell'Impero. Riguardo ad uno di
questi saltus, situato appunto nell'Africa e chiamato Saltus BURANITANUS, si
scoperse di recente nel 1880 una importante iscri zione, che contiene una
petizione della popolazione del saltus all'Imperatore. Fondan dosi su di essa
l'ESMEIN , sostiene che in questi saltus abbia cominciato a formarsi
l'istituzione del colonato. — Mélanges d'histoire du droit et de critique.
Paris, 1886 , pag. 293 a 322. V. pure FUSTEL DE COULANGES, Le colonat romain .
Paris, 1885. - 70 si viene, per dir così, atteggiando in tante guise, quanti
sono i gruppi che si vengono sovrapponendo. Presentasi anzitutto la casa (domus
od anche tugurium , se nel con tado) colla sua corte, coll'orto e col
campicello attiguo, che appar tiene alla famiglia nella persona del suo capo, e
ne costituisce l'heredium , la familia , il mancipium (1); ma siccome ogni capo
di famiglia , oltre questa parte sostanziale del suo patrimonio, può anche
avere un capitale circolante, composto di greggi e di armenti e di altre cose
mobili, così è naturale , che accanto al concetto dell'here dium si formi
quello del peculium , accanto a quello della familia quello della pecunia e
accanto a quello del mancipium quello del nec mancipium ; distinzione, che
tornerà poi in acconcio per spiegare a suo tempo la famosa divisione del
diritto quiritario fra le resmancipii e le res nec mancipii( 2).Che veramente
questa forma di proprietà già preesistesse alla comunanza romana viene ad
essere provato da cid , che fin dal primo formarsi di questa occorrono i
concetti di herus, di heredium , di heres, il qual ultimo vocabolo ha pur la
stessa origine di herus e scrivesi talvolta anche semplicemente eres, per guisa
che anche questo vocabolo in antico significava , se non il vero proprietario,
al meno il comproprietario, come lo prova la testimonianza di Festo , secondo
la quale « heres apud antiquos pro domino ponebatur » . Non vi ha poi dubbio ,
che con questi vocaboli ha eziandio strettis sima attinenza il vocabolo di
herctum o erctum , che significa ripar tizione da erciscere, donde proviene la
denominazione certamente antica dell'actio familiae erciscundae. Tuttavia,
comegià si accennd, è un costume antichissimo quello indicatoci dall'« ercto
non cito » di Aulo Gellio, la cui significazione letterale è, a mio avviso,
quella di non venire ad una pronta divisione e che indica il più antico dei con
(1) Trovo confermata la descrizione sovra esposta dell' heredium dal dottissimo
lavoro, di recente pubblicato dal Voigt, così benemerito degli studii
sull'antica Roma, col titolo , Die römischen Privataltertümer und römische
Kulturgeschichte, estratto dall' Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft
, pubblicato dal Beck in Nördlingen , pag. 750 a 931. Quivi il Voigt, pag .
772, ritiene che l'heredium com . prenda l'hortus, l'ager , la cohors o chors,
il pomatum , più tardi detto anche pomarium , e di più la casa, detta anche
tugurium , che comprende il granarium , il foenilium , il palearium ecc. Ivi
poi si trova citata tatta la letteratura sull'argomento, compresa anche la
italiana , così spesso trascurata . (2 ) Anche il Voigt, op. cit., pag. 782,
sembra accostarsi alla significazione qui attribuita al dualismo di familia pecuniaque,
senza però accennare alla correlazione, che sembra esistere eziandio fra
heredium e peculium ,mancipium e nec mancipium , 71 sorzii e delle società ,
che è quella fra i fratelli e gli agnati, che lascia vano indivisa l'eredità ed
il patrimonio ( 1). Intanto la conseguenza viene ad essere questa , che i
vocaboli di mancipium e di manceps, quelli di familia e di pater familias
rimontano tutti al periodo gen tilizio, e segnano, insieme con herus ed
heredium , l'atteggiamento diverso sotto cui poteva essere considerata la
figura molteplice del capo di famiglia . Diquesti vocaboli però quello che
significava meglio il potere giuridico del capo di famiglia era quello
certamente di man ceps e di mancipium , ed è questa forse la causa , per cui il
vocabolo , che prevarrà più tardi neldiritto quiritario sarà quello di
mancipium , al quale solo più tardi sottentrerà quello di dominium ex iure Qui
ritium . 57. Non vi è poi dubbio, che all'heredium ed all’ager privatus si
sovrapponesse l'ager gentilicius, che era quello spazio, non com preso negli
heredia , che trovavasi nei dintorni e nelle circostanze del vicus e ritenevasi
come proprietà collettiva della intiera gente. Era su quest'ager gentilicius,
che potevansi fare degli assegni ai clienti, i quali però non avevano una vera
proprietà, ma ritenevano e godevano le terre loro assegnate a titolo di
semplice precario ( 2). Dell'esistenza diquesto ager gentilicius e del
modo di ripartirlo noi troviamo ancora un esempio durante il periodo storico ,
in occasione della venuta a Roma di Atto Clauso , e della sua gente. Questi
veniva di Regillo per porre la propria dimora nel territorio stesso di Roma,
senza che vi siano elementi nè per affermare nè per negare, che egli con ciò
avesse rinunziato all'agro gentilizio, che doveva certamente essere posseduto
colà da una gente che, come la Claudia all'epoca (1) Questa induzione, a cui
già ebbi occasione di accennare, parlando della familia omnium agnatorum ,
trova una conferma nel diligente lavoro del POISNEL , Les sociétés universelles
chez les Romains, specialmente in quella parte ove si occupa del pri mitivo
consortium , accennato da Aulo Gellio, il quale avveravasi tra fratelli ed
agnati, stante l'indivisione del patrimonio .(Nouvelle revue historique de
droit français et étranger, 1879 , I, pag. 443 a 462). È anche degna di nota
l'attinenza fra i vo caboli di consortium e di consors con quello di sors, che
dapprima indicava la quota di eredità spettante a ciascuno. V. BRÉAL, Dict.
étym . lat., vu Sors. Ciò è anche con fermato dall'antica espressione di
familia inercta nel significato di indivisa , ricordata da Paolo Diacono 118, 8
. Cfr. in proposito i passi citati dal Voigt, Die XII Ta feln , II, pag . 112,
nota 18 . ( 2) Festo, v° Patres. Tale è pure l'opinione dell'Esmein , Les baux
de cinq ans en droit romain . (Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886 , p.
222). - 72 della sua venuta a Roma, avrebbe, secondo la tradizione, compresi
ben cinque mila clienti. Questo è certo, che dal momento che egli abbandonava
la sua sede originaria e veniva accolto nel patriziato romano, mediante la
cooptatio , gli fu dato un tale spazio di ter reno oltre l'Aniene, che egli
potè assegnare due iugeri in godimento a tutti i suoi clienti, oltre al che gli
sarebbero ancora rimasti 25 iu geri per sè e la sua gente . Questo assegno di
territorio , mediante il quale fu la gente Claudia, chediede il nome a quella
tribù rustica, non impedi, secondo Dionisio, che fosse eziandio assegnato ad
Atto Clauso un sito nel circuito stesso di Roma, ove potesse abitare egli e la
sua famiglia (1). È facile il vedere, che qui occorrono i concetti tanto
dell'heredium , quanto dell’ager gentilicius, e si ha pur anche la prova , che
nell'organizzazione gentilizia era alla stessa gensod al con siglio di essa ,
che si apparteneva di fare il riparto fra le singole famiglie ed anche gli
assegni ai clienti. Di qui deriva la conseguenza , che, fra le varie forme
della proprietà nel periodo gentilizio, quella che predomina sopra tutte le
altre è la proprietà della gente, ossia l'ager gentilicius; perchè almodo
stesso che è nella gens, che si formano le famiglie , cosi è pure dall'ager
gentilicius, che si ricavano gli heredia . Cosi pure è anche probabile che, in
mancanza di eredi suoi,i quali possono in certo modo essere considerati quali
comproprietarii dell'heredium , e in difetto eziandio di agnati prossimi, che
mantengano ancora indiviso l'asse paterno, questi heredia tornino all’ager
gentilicius, cioè alla sorgente stessa , da cui essi furono staccati. 58. Da
ultimo sonvi eziandio molti indizii dell'esistenza di una proprietà , che
consideravasi come spettante alla intiera tribù , e che prendeva il nome di
ager compascuus, di compascua,di pascua, presso le genti del Lazio piuttosto
dedite alla pastorizia , e di communia o communalia nell'Etruria (2 ). Pud
darsianzi, che un ager compascuus potesse esservi già nello stesso vicus, come
lo dimostrerebbe la def finizione di Festo : compascuus ager relictus ad
pascendum com muniter vicinis ; ma in ogni caso non vi ha dubbio , che questo
com . pascuus ager certo esisteva nel pagus e già dava origine ad una ( 1)
Dion., V , 40. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 283, 84 . (2) L'esistenza
di questi compascua è dimostrata da diversi passi, sopratutto di agrimensori.
Basti il seguente di FRONTINO: « Est et pascuorum proprietas, pertinens ad
fundos, sed in commune, propter quod ea compascua communia appellantur, qui
busdam provinciis pro indiviso » . Bruns, Fontes, pag. 334 . 73 specie di
pubblico reddito (vectigal), consistente nel contributo, che dovevano dare gli
abitanti, che ivi pascolavano i proprii greggi ed armenti, contributo , che
all'epoca romana viene poi ad essere indicato col nome di scriptura (1). Una
prova dell'esistenza di questi pascua e di ciò, che essi costituirono forse le
prime sorgenti di reddito pub blico, può ricavarsi da un testo prezioso di
Plinio , il quale, dopo aver detto che pecunia a pecude appellatur , cosa del
resto che è attestata da tutti gli antiquarii, aggiunge questo particolare im
portantissimo : etiam nunc in tabulis censoriis PASCUA dicuntur omnia , ex
quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat (2 ); il che
vuol dire in sostanza , che i Romani, in questa parte conservatori come in
tutto il resto, finirono per indicare col vocabolo primitivo dei pascua, che
costituivano la proprietà collet tiva della tribù , tutta quella parte della
proprietà collettiva del po . pulus, ossia dell’ager publicus, da cui il popolo
stesso ricavava qualche reddito . Del resto l'esistenza di questo ager
compascuus sarebbe anche accennata in quel tradizionale riparto , che Romolo
avrebbe fatto fra i Ramnenses, quando aveva fondata la Roma Palatina, poiché
delle tre parti una sarebbe stata assegnata al Re ed al culto ; l'altra alle
singole famiglie e avrebbe costituito gli heredia ; e la terza sarebbe stata
appunto l'ager compascuus, che fu anche la prima forma di ager publicus, in cui
le genti patrizie, probabilmente de dite ancora in parte alla pastorizia,
potevano far pascolare i proprii greggi ed armenti (3 ). i 59. Credo che le
cose premesse dimostrino abbastanza : 1. Che, anche anteriormente alla
formazione della città , la proprietà già esi stesse in tante gradazioni,
quanti erano i gruppi, che entravano nella stessa organizzazione gentilizia , per
modo che vi era una proprietà privata o meglio famigliare , una proprietà
gentilizia , e una proprietà spettante alla comunanza della tribù ; 2º Che di
queste varie forme di proprietà , quella che predominava era la proprietà
gentilizia , perchè da essa uscivano e ad essa ritornavano gli heredia , come
poi erano anche i capi di famiglia delle varie genti, che avevano il godimento
dei compascua ; nel che può forse trovarsi l'origine pro (1) NIEBHUR , Histoire
romaine, III, pag . 212 ; Voigt, Die römis. Privataltert., pag. 787 ; LANGE,
Histoire intér. de Rome, pag . 150. (2) Plinio , Hist. nat., 18 , 3, 11. (3)
Dion., II, 7. Cfr. NIEBHUR, Hist. rom ., III, pag. 211. - 74 - babile di quel
fatto importantissimo nella storia di Roma, per cui le genti patrizie riputarono
per qualche tempo di avere da sole il diritto di occupare l'ager publicus, il
quale nella città non è che una tras formazione ed un ampliamento per mezzo
della conquista del primitivo ager compascuus (1); 3. Che queste varie formedi
proprietà nel periodo gentilizio si intrecciano insieme per modo, che si
vengono tempe rando e limitando scambievolmente per guisa, che il potere
giuridi camente illimitato del capo di famiglia sul proprio heredium nel co
stume gentilizio viene ad essere trattenuto da una quantità di tem peramenti,
che ne impediscono qualsiasi abuso per parte del capo di famiglia ; 4º Che
quindi anche quel potere, che più tardi fu affidato al pretore di interdire nel
iudicium de moribus quel padre di fa miglia che disperdesse i bona paterna
avitaque, dovette certamente rimontare alle consuetudini gentilizie e che
probabilmente appartenne al consiglio degli anziani della gens di frenare
queste dispersioni e prodigalità del capo di famiglia con un iudicium , che era
veramente de moribus e con una formola, che certo dovette essere analoga a
quella più tardi adoperata dal Pretore (2 ). S 4. – Di alcune questioni del
diritto primitivo attinenti alla proprietà gentilizia . 60. Le cose premesse
intanto ci mettono anche in condizione di poter risolvere in poche parole
alcune questioni grandemente agitate fra gli interpreti del diritto romano
primitivo . La prima di esse sta in vedere se gli antichi heredia , ossia quei
bina iugera, che Romolo avrebbe distribuito ai capi di famiglia e di cui Varrone
dice che erano così chiamati in quanto che heredem sequerentur, debbano o non
ritenersi inalienabili, e se i figli debbano considerarsi come com proprietarii
del patrimonio del padre. Senza occuparci per ora della trasformazione, che
subi l'heredium ossia la proprietà famigliare e (1) Questa esclusione dei
plebei dall'agro pubblico, almeno nei primi tempi della Repubblica , è
attestato da un testo di Nonio MARCELLO, riportato dagli Annali di qualche
autore più antico, « Quicumque propter plebitatem agro pubblico eiecti sunt ,,
Bruns, Fontes, pag. 391; il che è pur confermato da un passo di Sallustio ,
Hist. I, 9: « regibus exactos servili imperio patres plebem exercere, agro
pellere » . (2) Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., pag . 32, il quale accenna per
nota, che anche in Grecia vi era un' eguale sollecitudine per i beni aviti. 75
privata colla formazione della città , noi possiamo perd affermare con certezza
; lº che questo concetto dell'heredium esisteva già anterior mente ed erasi
naturalmente formato durante il periodo gentilizio; 2º che l'heredium doveva
potersi alienare dal capo di famiglia, perchè, se questa alienazione non fosse
stata possibile , non si comprenderebbe il concetto e l'esistenza di un
commercium , come pure non si compren derebbe l'esistenza certo antichissima di
un iudicium demoribus, di- a retto appunto ad impedire l'imprudente e prodiga
dispersione di questo patrimonio , che nel suo concetto informatore era
destinato ad essere trasmesso dai genitori nei figli e da questi ai nipoti ; 3º
che tuttavia questa alienazione, durante il periodo gentilizio , dovette essere
gover nata da solenni formalità e dovette forse anche compiersi colla ap
provazione o quanto meno colla testimonianza dei notabili del vil laggio ; 4º
che infine nella primitiva organizzazione gentilizia i figli si riputavano
comproprietarii sopratutto di quella parte del patri monio paterno che
costituiva l'heredium , il che sarebbe in certo modo indicato dal vocabolo
heres, che in antico avrebbe significato comproprietario , e che posteriormente
continuò a significare la mede sima cosa mediante l'espressione più completa di
heredes sui (1). 61. Insomma nel concetto primitivo il padre è come custode e
deten tore del patrimonio famigliare nell'interesse suo e della sua prole. È questo
probabilmente il motivo, per cui non dovette nei primitempi di Romaavere nulla
di ripugnante almodo dipensare e diagire del tempo quel concetto giuridico del
diritto quiritario primitivo , che ora a noi appare cosi ostico e pressochè
inesplicabile, per cui tutto ciò che ap. partiene od è acquistato dalla moglie,
dai figli, dai servi, finisce per essere considerato come di spettanza del
padre e tutto ciò, che essi stipulano od acquistano, deve in certo modo
ritenersi fatto per conto e nell'interesse del capo di famiglia . Questo
concetto infatti, mentre indica l'unificazione potente della famiglia romana
sotto l'aspetto giuridico, prova eziandio la comunione ed intimità di vita, che
do veva esistere nel costume della medesima ; comunione ed intimità di cui il
diritto non si occupa , perchè non doveva occuparsene, ma che sono largamente
attestate da tutti gli scrittori, che richia (1) Ciò è anche confermato dalla
nota proposizione di Gaio, II, 157: « Qui quidem heredes sui ideo appellantur,
quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quo dammodo domini
existimantur » . 76 mano la memoria della primitiva famiglia , governata dal
mos pa trius, ac disciplina (1). Ad ogni modo la conseguenza ultima della
nostra ricerca è questa, che, se gli heredia erano alienabili allorchè
l'individuo era ancora legato nei vincoli strettissimi dell'organizza zione
gentilizia , per maggior ragione dovettero esser tali, quando egli venne ad
essere libero cittadino di una libera città . 62. Intanto se si ammette che nell'organizzazione
della proprietà nel periodo gentilizio la forma prevalente è quella della
proprietà gentilizia, in quanto che essa da una parte origina la proprietà pri
vata e famigliare e dall'altra si estende al godimento della proprietà
collettiva della tribù, è facile il dedurne la conseguenza , che il sistema di
successione, allora introdotto dal costume e che fini col tempo per cambiarsi
in successione legittima, dovette proporsi essenzial mente per iscopo di
mantenere e perpetuare la proprietà nella gente con impedire che la medesima
potesse passare ad estranei. Si com prende pertanto , che in base al costume
gentilizio la proprietà vada ai figli , che ne sono comproprietarii, ed anche
agli agnati prossimi, finchè essi mantengono indiviso il patrimonio paterno, ma
appena questi manchino, dovranno succedere i gentiles e questi non indivi
dualmente, come alcuni credono, ma collettivamente in quanto cioè formano la
comunanza gentilizia . Ed il motivo è questo , che se la legge di una città pud
favorire il riparto immediato fra gli eredi, il co stume invece di una
comunanza gentilizia favorisce invece per quanto esso può l'ercto non cito ,
come dicevano gli antichi Romani, cioè l'indivisione e la comunione dei
patrimonii; perchè essa mira , non a favorire lo svolgimento dell'individualità
del capo di famiglia , ma a rendere compatto per quanto è possibile il gruppo,
in cui gli individui vengono ad essere pressochè assorbiti. Parimenti è certo
incontrastabile , che la successione, quale com pare nei primitivi tempi di
Roma e quale esisteva anteriormente , non ammetteva nè distinzioni di
primogenitura , nè distinzioni di sesso , quanto alle persone che erano
chiamate a succedere ; ma si può anche (1) Cic., Cato maior, 11, 37, parlando
di Appio Claudio il cieco scrive: « Quatuor robustos filios, quinque filias,
tantam domum , tantas clientelas Appius regebat et caecus et senex ... Tenebat
non modo auctoritatem , sed etiam imperium in suos ; metuebant servi,
verebantur liberi, carum omnes habebant; vigebat in illa domo mos patrius ac
disciplina o . - 77 - essere certi, che il costume dovette certamente dirigersi
costantemente , se non a favorire il primogenito, almeno ad impedire, che si
venisse alla divisione del patrimonio, ed anche ad evitare, che le femmine colla
libera disposizione della parte di sostanza , che loro apparteneva , potessero
compromettere gli interessi della gente . Ciò infatti viene ad essere
comprovato dalla tutela perpetua , a cui le donne erano soggette per parte
degli agnati ; tutela che aveva sopratutto lo scopo di sottrarre alle femmine
la libera disposizione delle proprie cose , e che col tempo diventò per modo
odiosa, che esse, aiutate dai giu reconsulti, trovarono modo di sottrarvisi
mediante quell'espediente giuridico , di carattere eminentemente romano, che è
la coemptio fiduciaria (1) 63. Quanto alle istituzioni dell'adrogatio e del
testamentum , non può esservi dubbio , che esse dovettero certamente esistere
nel costume antico dei maggiori, anche anteriormente alla formazione di Roma, in
quanto che esse sono istituzioni, che compariscono compiutamente formate , come
appare da ciò che le XII tavole , nei frammenti a noi pervenuti, non parlano
dell'adrogatio e quanto al testamento non fanno che confermare una istituzione
preesistente. Di più era ben naturale , che il concetto dell'una e dell'altro
dovessero presentarsi naturalmente a capi di famiglia , che da una parte erano
tutti in tesi al culto dell'antenato e dall'altra erano fissi nel pensiero di
perpetuarsi in una posterità , che continuasse il proprio culto genti lizio.
Istituzioni quindi, come l'adrogatio e come il testamento, erano acconcie e
indispensabili ad una organizzazione come la gentilizia , ma intanto cosi l'una
che l'altra non potevano nella medesima ser vire come mezzo per soddisfare ad
un affetto o ad una predilezione capricciosa , ma dovevano avere l'unico scopo
di provvedere alla per petuazione della famiglia e del suo culto (2 ). (1)
Questa coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu di una
persona che non diventa marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomet
tere da lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio,
I, 137. Fu questa coemptio, che fece dire a CICERONE, pro Murena, 12, 27, che i
tutori, anzichè essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo
per liberarle da ogni tutela . (2) Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag . 45 e 46.
Potrà sembrare poco logico, che io qui discorra , trattando della proprietà ,
anche dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della
famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a
fare in guisa che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui 78 64.
Questo carattere è incontrastabile per ciò , che si riferisce al l'antica adrogatio,
la quale era una istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di
perpetuare una famiglia ed un culto , che sarebbero andati perduti per difetto
di prole maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa
sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba
giudicare dalle for malità, che furono poscia seguite dal patriziato nella
comunanza ro mana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge,
l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie )
conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi
nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul
ceppo sterile di un'altra si operava fra le famiglie della stessa gente, poteva
forse bastare l'approvazione del consiglio della gente , ma se seguiva invece
fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, doveva
certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. 65. La cosa invece potrebbe
lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento , ma se
si considera , che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis
calatis, cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del
tutto analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne ,che lo
spirito infor matore del testamento in questo periodo gentilizio doveva essere
del tutto analogo a quello , che ispirava l'adrogatio . Il testamento per sua
natura è tale che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la
propriamorte, l'impero di una volontà arbitraria , così può anche es sere
ilmezzo per impedire, che si avveri fra gli eredi quella riparti zione e
quell'uguaglianza di parti, che può essere introdotta o dalla legge o dalla
consuetudine. Ora è certo , che la successione invalsa nel periodo gentilizio ,
secondo cui succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e infine la
gente collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare il
patrimoniu nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto di
vista gentilizio . L'uno di essi con sisteva nel diritto , che i figli avevano
di venire ad una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni uguali,
divisione che face i sacra , e in ciò ha un'attinenza anche col testamento. Di
più in questo periodo la proprietà e la famiglia sono ancora strettamente
connesse fra di loro, per modo che non può essere il caso di scindere affatto
le istituzioni che le riguardano . 79 vasi per stirpi e non per capi, e l'altro
era quello dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che faceva si, che ana
femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla famiglia una parte del
patrimonio uguale a quella di un maschio . Queste conseguenze, che sono per noi
da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi di famiglia , che miravano
sopratutto a conservare integro il patrimonio e a perpe tuarlo come tale nella
famiglia . Si può quindi essere certi, che i capi di famiglia, che si
ispiravano a questo concetto e che nel fare testamento dovevano anche avere
l'approvazione degli anziani, che pure avevano la stessa tendenza, non potevano
certamente servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla famiglia od
alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per impedire la pronta
ripartizione del patrimonio , usando le antiche parole « ercto non cito » – o
per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei
figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine, come quella ,
che doveva essere riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero
della famiglia perpetuantesi nella linea mone della famiglia e del suo culto (2
). (1) Questa coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu
di una persona che non diventa marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomet
tere da lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio,
I, 137. Fu questa coemptio, che fece dire a CICERONE, pro Murena, 12, 27, che i
tutori, anzichè essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo
per liberarle da ogni tutela . (2) Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag . 45 e 46.
Potrà sembrare poco logico, che io qui discorra , trattando della proprietà ,
anche dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della
famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a
fare in guisa che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui 78 64.
Questo carattere è incontrastabile per ciò , che si riferisce al l'antica
adrogatio, la quale era una istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per
intento di perpetuare una famiglia ed un culto , che sarebbero andati perduti
per difetto di prole maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in
questa sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si
debba giudicare dalle for malità, che furono poscia seguite dal patriziato
nella comunanza ro mana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una
legge, l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie
) conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri
chiedersi nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una
famiglia sul ceppo sterile di un'altra si operava fra le famiglie della stessa
gente, poteva forse bastare l'approvazione del consiglio della gente , ma se
seguiva invece fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa
tribù, doveva certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. 65. La cosa
invece potrebbe lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al
testamento , ma se si considera , che in so stanza anche il testamento patrizio
in comitiis calatis, cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con
formalità del tutto analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà
inferirne ,che lo spirito infor matore del testamento in questo periodo
gentilizio doveva essere del tutto analogo a quello , che ispirava l'adrogatio
. Il testamento per sua natura è tale che, come può essere un mezzo per far
valere, dopo la propriamorte, l'impero di una volontà arbitraria , così può
anche es sere ilmezzo per impedire, che si avveri fra gli eredi quella riparti
zione e quell'uguaglianza di parti, che può essere introdotta o dalla legge o
dalla consuetudine. Ora è certo , che la successione invalsa nel periodo
gentilizio , secondo cui succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e
infine la gente collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare
il patrimoniu nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto
di vista gentilizio . L'uno di essi con sisteva nel diritto , che i figli
avevano di venire ad una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni
uguali, divisione che face i sacra , e in ciò ha un'attinenza anche col
testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la famiglia sono ancora
strettamente connesse fra di loro, per modo che non può essere il caso di
scindere affatto le istituzioni che le riguardano . 79 vasi per stirpi e non
per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che
faceva si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla famiglia una
parte del patrimonio uguale a quella di un maschio . Queste conseguenze, che
sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi di famiglia , che
miravano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a perpe tuarlo come
tale nella famiglia . Si può quindi essere certi, che i capi di famiglia, che
si ispiravano a questo concetto e che nel fare testamento dovevano anche avere
l'approvazione degli anziani, che pure avevano la stessa tendenza, non potevano
certamente servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla famiglia od
alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per impedire la pronta
ripartizione del patrimonio , usando le antiche parole « ercto non cito » – o
per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei
figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine, come quella ,
che doveva essere riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero
della famiglia perpetuantesi nella linea maschile . Si può quindi conchiudere,
che per lo genti patrizie il testamento non dovette certamente essere un
mezzoper. disporre liberamente e a capriccio delle proprie cose, come fu poi il
testamento nel di ritto quiritario ; ma dovette servire alle medesime per
conseguire quello scopo , che anche oggi si propongono bene spesso i capi delle
famiglie, anche non patrizie ma solo ricche ed agiate, allorchè , dettando il
loro testamento , cercano d'accentrare la loro fortuna in una od in poche
persone, nell'intento di assicurare ciò che con linguaggio antico e moderno
suole essere chiamato il decoro e la dignità della famiglia . 66. Pervenuto a
questo punto, parmi di aver dimostrato in un modo, che avendo convinto me potrà
forse anche persuadere gli altri, che le genti patrizie , anche anteriormente
alla formazione della città , già conoscevano una proprietà privata ,
attribuita al capo di famiglia . Ciò perd non toglie, che quest'ultimo fosse
ben lontano dall'avere quella libera disposizione delle proprie cose per atto
tra vivi e per testamento , che trovasi invece riconosciuta senza alcun confine
nel diritto quiritario, e ciò perchè lo spirito dell'organizza zione gentilizia
si informava tutto all'intendimento di serbare in tegro il patrimonio alla
famiglia, ancora indivisa, degli agnati dap prima e in mancanza di essa alla
gente. Come dunque potrà essersi operata presso un popolo , di spirito 80 così
eminentemente conservatore, una trasformazione cosi radicale nel carattere
della proprietà da cambiare la medesima di proprietà gentilizia in quiritaria ,
allorchè esso passò dal periodo gentilizio alla convivenza civile e politica ?
Ecco il gravissimo problema, al quale non credo che siasi data ancora una
soddisfacente risposta , a causa del l'idea universalmente accolta
sull'autorità delNiebhur e del Mommsen , che lo Stato romano siasi formato
mediante la fusione e l'incorpo razione di varie genti e tribù. Secondo questi
autori infatti, lo Stato costituendosi avrebbe in certo modo incorporato in sè
la proprietà gentilizia , cambiandola cosi in territorio nazionale, e sarebbe
poi addivenuto al riparto di una parte di esso a favore dei singoli capi di
famiglia, ritenendo il restante come ager publicus. Fra gli au tori, che
trattarono largamente e di recente il gravissimo tema, mi limito a citare il
De-Ruggero, come quegli che riassume nettamente la opinione universalmente
seguita . Egli, dopo di aver premesso che prima della formazione dello Stato
esisteva soltanto la proprietà col lettiva o gentilizia, la quale apparteneva
alla gens e non alle sin gole famiglie , viene alla conclusione seguente : «
Fondatosi quindi « il comune e lo Stato con la unione di più genti, esso
sarebbe « divenuto , come la gente stessa nel periodo della sua autonomia, «
proprietario del territorio generale di tutte le genti romane, cioè * del
territorio nazionale. E come la gens lascia alle sue singole « famiglie la
coltivazione e l'uso di alcuni terreni ( fundi), rima « nendo gli altri
proprietà comune ; cosi anche lo Stato lascia ai privati una parte del
territorio come proprietà (adsignatio ro « mulea) e ritiene per sè un'altra
parte destinata a tutta la citta « dinanza (ager publicus) » ( 1). Di fronte ad
una teoria così recisa, conforme del resto alla opinione generalmente seguita ,
mi sia lecito osservare , che anzitutto non è provato , che prima della
formazione dello Stato non vi fosse che la proprietà gentilizia , e che la
gente non lasciasse alle famiglie, che la coltivazione e l'uso di alcuni ter
reni. I vocaboli certamente preesistenti di herus, heres, heredium , che senza
alcun dubbio si applicavano al capo di famiglia, provano invece che il concetto
di una proprietà privata già preesisteva fra (1) DE- RUGGERO, V° Ager
publicus-privatus, nella Enciclopedia giuridica italiana , vol. I, parte 2*,
pag. 604. Del resto queste sono le idee che l'autore aveva già sostenute
nell'opuscolo La gens avanti la formazione del comune romano, Napoli, 1872, e
che stanno pure a base del suo dotto ed interessante articolo sulle Agrariae
leges nella stessa Enciclopedia giuridica italiana . 81 le genti del Lazio ;
poichè se così non fosse stato non sarebbesi trovata la parola già preparata ed
acconcia per indicare gli assegni fatti ai capi di famiglia , e gli assegni si
sarebbero fatti alle genti, alle tribù e non ai singoli capi di famiglia , o
meglio a ciascun individuo, che seguiva Romolo nella sua intrapresa. Viha di
più , ed è che, tenendo conto del carattere delle genti latine, in cui l'idea
del mio e del tuo presentasi in ogni tempo cosi profondamente radicata , non
può essere probabile che le gentes e le tribù , che potevano essere ed erano in
effetto in condizioni disuguali quanto ai loro possedimenti, come continuarono
ancora ad esserlo dopo , si siano contentate dimettere tutto in comune,
malgrado la loro origine diversa , per starsi paghe ai bina iugera, assegnati
da Romolo. Si aggiunge, che se tutta la fortuna del pa triziato primitivo
Ramnense si riducesse soltanto ai due iugeri, non si saprebbe veramente
comprendere come la medesima potesse bastare per la famiglia coi servi e coi
clienti. Del resto non consta , che siavi veramente alcun autore antico , che
accenni a questa specie di societas omnium bonorum , per cui si sarebbero messi
in comune tutti gli agri gentilicii. Noi sappiamo soltanto, che Romolo , in
base ad un costumetradizionale fra le genti latine, che doveva già esistere
prima e che fu applicato anche più tardi in occasione dell'impianto di colonie,
divise il territorio da lui occupato in parte fra i proprii seguaci, mentre
un'altra parte ritenne per sè e per ilculto , ed un'altra riservò a titolo di
pascolo comune. Intanto perd le varie genti, che parteciparono alla fondazione
della città , dovettero continuare a te nere i proprii agri gentilicii, come lo
dimostra il fatto , che anche all'epoca di Servio Tullio le varie tribù
rustiche continuarono a prendere il nome da quelle genti patrizie , che
dovevano avere più larghi possessi nel territorio delle medesime. Vi ha di più
, ed è che la tradizione accenna a due testamenti, fatti durante il regno
stesso di Romolo , a favore del popolo Romano, coi quali questo avrebbe
ereditato dei campi presso Roma, ed anche quello stesso campo Marzio ,che
avrebbe poi costituito il primo nucleo dell'ager publicus; fatti e tradizioni
queste, che sarebbero del tutto incomprensibili, quando lo Stato romano nella
propria formazione fosse diventato il proprietario di tutti i territorii
gentilizii, e li avesse poi distribuiti ai singoli privati (1) . Inoltre se
Romolo , come dicesi, avesse imitato (1) I testamenti, a cui qui si accenna ,
sono quelli ricordati da Aulo Gellio, Noct. Attic., VII, 7, 4 , 6, e che egli
attribuisce l'ano ad Acca Laurenzia, la quale fino G. CARLE , Le origini del
diritto di Roma. 6 82 il sistema gentilizio, i capi di famiglia avrebbero dovuto
soltanto avere la coltivazione e l'uso dei fondi loro assegnati, mentre la pro
prietà avrebbe dovuto spettare alle genti; e ciò mentre noi sap piamo, che non
vi fu mai proprietà più assoluta, che la proprietà quiritaria fin dai proprii
inizii. Del resto convien dire, che l'opinione, di cui si tratta, è per sè una
conseguenza logica ed inesorabile del rite nere col Mommsen, che Roma primitiva
sia risultata dall'incorpora zione e fusione delle varie genti e tribù ; poichè
è naturale che con un tale sistema lo Stato avrebbe dovuto incorporare ogni
cosa nelle proprie mani e farne poi il riparto ai singoli capi di famiglia .
Solo sarebbe a spiegarsi come lo Stato, creando esso la proprietà fami gliare e
privata , l'avesse costituita senz'altro cosi illimitata , senza confini e
senza alcuna sua ingerenza , quale appare essere stata la proprietà quiritaria
. Tutte queste incoerenze invece scom pariscono quando si ritenga che il comune
romano, a somiglianza delle altre città latine, sul cui modello era costituito
, non assorbi nè le tribù, nè le genti, nè le famiglie, ma intese solo a
costituire fra di esse un centro di vita pubblica, e non distribui quindi ai
privati altre terre, salvo in parte quelle , che da esso furono conquistate sul
nemico. Quanto alla divisione dell'agro fra le tre tribù , a cui ac cenna
Varrone, la medesima non potè essere che una divisione pu ramente
amministrativa, con cui si riconobbe alle varie tribù la parte del territorio ,
che già loro apparteneva, prima che entrassero a far parte della stessa
comunanza. Di qui la conseguenza, che la proprietà quiritaria , ed anche la
famiglia, con cui essa appare stret tamente congiunta , non possono essere che
quella proprietà e quella famiglia , che già esistevano nell'anteriore
organizzazione gentilizia , salvo che le medesime, staccate dall'organizzazione
stessa , apparvero con un carattere di assolutezza, che prima era temperato
dall'am dall'epoca romulea avrebbe lasciato allo Stato certi campi siti presso
Roma, e da lei ereditati dal proprio marito ; e l'altro alla vestale Gaia
Taracia , che avrebbe lasciati al popolo romano tutti quei campi presso il
Tevere, che presero poscia il nome di Campus Martius, dove si radunarono più
tardi i comizi centuriati. Pongasi pure che i due racconti siano leggendarii;
ma essi certo hanno un fondo di vero ed indicano quanto meno, che'i cittadini
romani non hanno mai creduto che lo Stato fosse il proprietario di tutto il
territorio. I due testamenti sono anche citati dal De Rug GERO, V ° Ager
publicus privatus, nell'Enc. giur. it ., pag. 609 e 610. Devo però di chiarare
che questa divergenza di opinione nulla toglie alla stima che ho grandis sima
per l'autore, così benemerito per gli studi di diritto pubblico romano. 83
biente in cui si erano formate . La causa poi, per cui gli assegni di terre
furono fatti ai singoli capi di famiglia , o meglio ai singoli seguaci di
Romolo proviene da ciò che essi entrarono nella comu nanza non come membri
delle genti ma nella loro qualità di capi di famiglia , donde la conseguenza,
che di fronte alla nuova forma zione della convivenza civile e politica ,
mediante una federazione fra le varie tribù , più non si trovarono di fronte
che la proprietà del capo di famiglia (ager privatus) e la proprietà dell'ente
col lettivo (ager publicus). Continuano però ancora sempre a mantenersi nel
fatto gli agri gentilizii, i quali però sono naturalmente destinati a
scomparire, a misura che si dissolve l'organizzazione gentilizia, in quanto che
a costituire il populus primitivo non entrano già i membri delle genti, come
tali , ma soltanto i capi di famiglia in quanto sono ad un tempo proprietariidi
terre ; il qual carattere del populus viene ancora ad accentuarsi maggiormente
colla costituzione Serviana, in base a cui ognuno partecipa ai diritti ed agli
obblighi di cittadino (munera), in proporzione del censo . Del resto si dovrà
più tardi ritornare su questa questione fonda mentale della storia primitiva di
Roma, e allora si avrà la più ampia dimostrazione, che questo e non altro fu il
processo seguito nella for mazione della città , e per conseguenza anche nella
formazione della famiglia e della proprietà, quali comparvero nel diritto
quiritario . § 5. – Sguardo sintetico allo svolgimento delle varie forme di
proprietà nel diritto romano. 67. Per ora intanto , prendendo le mosse
dall'ordine logico dei fatti e delle idee, che si vennero svolgendo fin qui,
cercherò di riassu mere logicamente e sotto forma di ipotesi quello svolgimento
del l'istituto della proprietà , che più tardi apparirà comprovato nell'or dine
dei fatti. Pongasi che una mano di uomini forti ed avventurosi, apparte. nenti
a genti diverse ma tutte di stirpe latina (nomen latinum ), si raccolgano
intorno ad un duce di stirpe regia e sotto la sua guida abbandonino la loro
residenza gentilizia , per recarsi a fondare uno stabilimento fortificato sul
Palatino. Essi, lasciando per ora in disparte il rito religioso seguito nella
fondazione, cominciano dall'occupare il suolo necessario per erigervi il loro
stabilimento, e cercano anche di fortificarsi in esso , per essere in caso di
difendersi dalle popola 84 zioni vicine, le quali, per appartenere forse a
stirpi diverse, non pos sono vedere di buon occhio quest'ospite novello e
pericoloso . Quanto al suolo conquistato ed occupato , è naturale che si
cominci dal ripar tirlo , secondo le regole tradizionali seguite dai maggiori e
che con tinueranno ad essere applicate anche più tardi nel fondare nuove
colonie (1). Del suolo quindi sono fatte tre parti: una è assegnata al loro
capo, al culto , ai publici edifizi ; l'altra è divisa fra i singoli capi di
famiglia in altrettanti piccoli heredia di due iugeri, i quali po tranno essere
ritenuti sufficienti quando si consideri, che questi capi di famiglia
continuano ancor sempre ad avere i loro agri gentilizi nei dintorni, e solo
abbisognano di uno spazio per costruirvi le loro case , con un cortile ed un
orto ; e l'altra infine è lasciata a pascolo comune per i singoli capi di
famiglia , che possono immettervi i proprii greggi ed armenti, pagando un corrispettivo
(scriptura), che costi tuirà il primo reddito pubblico . — Fin qui però noi non
abbiamo an . cora, che la tribù dei Ramnenses e lo stabilimento romuleo da essa
fondato sul Palatino . 68. Pongasi ora, che, in seguito ad ostilità seguite con
altre comu nanze stanziate sui colli vicini, gli uomini atti alle armi e abili
per consiglio di queste varie tribù , rappresentati dal proprio capo, con
vengano sotto forma di foedera, di entrare nella loro qualità di capi di
famiglia e di proprietarii di terre a far parte della stessa comunanza civile e
politica. È naturale allora, che il centro e la ( 1) Cfr. De RUGGERO, V ° Ager
pub. priv ., op. cit ., pag. 603 e 604 , ove considera appunto questo riparto
attribuito a Romolo « come una istituzione fondamentale romana che,
conservatasi nei tempi posteriori, poteva naturalmente essere attribuita ,
nella ricostruzione che si faceva posteriormente della storia e del diritto
primitivo di Roma, anche al fondatore e al legislatore di questo » . Ciò lascia
credere che l'autore vegga in questo riparto, che pur è attestato da tanti
autori e che d'altronde non ha nulla d'improbabile, in quanto che lasciò anche
le sue traccie nella centuria in agris e nel centuriatus ager, ricordati da
Festo e da VARRONE, una invenzione di tempi poste riori. Non mipare che siavi
motivo per un dubbio di questa natura, solo che si spieghi la formazione di
Roma primitiva, come veramente è accaduta . Che poi il centuriatus ager e la
centuria in agris non comprendessero tutto il territorio romano, nè tutto
l'ager romanus conglobando in esso anche gli agri gentilizi, ma solo la parte
di esso , che era conquistata sul nemico, risulta oltre che dalla definizione
datane da VARRONE e da Festo, anche da un testo di Siculo Flacco, citato dallo
stesso DE RUGGERO, vº Ager pub. priv., pag . 604, nota 1 : « Antiqui agrum ex
hoste captum victori populo per bina iugera partiti sunt. Centenis hominibus
ducentena iugera dederunt» . Cfr. NIEBHUR, Histoire romaine, III, pag. 329. -
85 fortezza dell'urbs si trasportino in un sito , a cui possano avere facile
accesso gli abitanti delle varie comunanze, quale sarebbe il sito, che è fra il
Palatino ed il Capitolino, il quale verrà così ad essere la comune fortezza e
servirà per la costruzione dei pubblici edifizi e sacri. È perd a notarsi, che
per eseguire un simile accordo , siccomei capidi famiglia entrano come tali
nella comunanza e non quali membri delle genti e delle tribù, così non sarà
punto il caso , che si mettano in comune gli agri gentilizii e i pascoli delle
varie tribù. Quindi se le genti e le tribù erano prima ricche ed agiate e
possedevano larghi spazii di suolo, sopra cui disperdevano i proprii servi e
clienti, continueranno ad essere tali e a poterlo fare anche dopo. Ciò che
viene ad essere comune fra di esse è soltanto l'urbs, in quanto essa comprende
i pub blici edifizii, i templi consacrati alle divinità , che la proteggono,
non che l'arx o fortezza , che serve per assicurare la comune difesa . Intanto
, di fronte a questa nuova specie di comunanza, teatro ed organo della vita
civile, politica e militare, non esistono che capi di famiglia proprietarii di
terre e quindi le sole istituzioni, che abbiano un'im portanza giuridica ,
politica e militare negli inizii della città, sono la proprietà e la famiglia
unificate sotto il proprio capo . Pongasi ora, procedendo innanzi, che questa
mano di uomini forti raccolta in esercito entri in lotta con altre comunanze e
che, in virtù di un diritto delle genti universalmente riconosciuto, venga
soggiogan done le popolazioni e conquistandone il territorio; allora sarà na
turale, che questa comune conquista appartenga dapprima al popolo stesso e sia
cosi considerata come un ager publicus, che verrà con trapponendosi a
quell'ager privatus, che già prima apparteneva ai singoli capi di famiglia .
Questo infatti è il dualismo, che domina tutta la storia economica di Roma.
69.Però, a misura che si accrescono le conquiste, l'ager publicus pud anche
crescere permodo da sopravanzare ai pubblici bisogni e quindi si comprende, che
quelli, che cooperarono alla sua conquista, ne do mandino la ripartizione
almeno parziale. Dapprima tali assegni sul l'agro pubblico (adsignationes
viritanae) sono fatti ai più poveri, i quali sono per tal modo posti in
condizione di avere quella pro prietà , che è riputata necessaria per
partecipare alla comunanza ; ma poscia , di fronte all'incremento sempre
maggiore dell'ager pu . blicus, si comincia anche a disporne in guisa diversa.
Continua sempre ad esservi una parte dell'ager , che è distribuita fra i più
poveri della città e fra quelli, che partono per fondare una 86 colonia, e si
ha cosi l'ager adsignatus, che serve per somministrare ai cittadini poveri
quella proprietà , quel censo , quell'ager privatus censui censendo, che è
ritenuto necessario per far parte della vera cittadinanza. — Un'altra parte
invece sarà venduta ai pubblici incanti (ager quaestorius), o sarà data in
affitto, mediante il pagamento di un corrispettivo, detto scriptura (ager
vectigalis). Il primo di questi continuerà ad accrescere l'ager privatus, ma
non più quello della classe povera, ma di quella ricca ed agiata , che possiede
già il ca pitale per acquistarlo ; ed il secondo, quello cioè dato in affitto ,
finirà col tempo per dare origine a quelle lunghe locazioni, che quasi si
assomigliano a vere compre- vendite, dalle quali uscirà poi una nuova forma di
contratto, che è l'enfiteusi. Infine dell'ager pu blicus pud ancora rimanervene
una parte, la quale, o per essere sterile o scoscesa (propter asperitatem ac
sterilitatem ), non trovi compratori nè affittavoli, o che il consiglio dei
padri non abbia rite nuto opportuno di mettere in vendita (1). Questa parte
continua na turalmente ad appartenere all'ager publicus e ancorchè immensa
mente ampliata colle conquiste corrisponde in certa guisa ai pascua o compascua
, che esistevano nelle antiche tribù. Quindi si comprende come i padri delle
genti patrizie, memori ancora del diritto che ave vano di slargare nei pascua i
proprii greggi ed armenti (compascere), affermino il loro diritto di occupare
questa terra in certo modo abban donata e di spargere in essa le tormedei
clienti e dei servi ed anche dei liberi, che siano alla loro mercede. Sorge per
tal modo il concetto dell'ager occupatorius, il quale, non essendo stato
acquistato, non può certo essere oggetto di proprietà privata , ma costituisce
le cosi dette possessiones, le quali, dopo essere durate per qualche tempo,
acquistano un carattere pressochè giuridico e dånno occasione di ( 1) Tutto
questo processo ci è attestato dagli agrimensori romani, dei quali sap piamo,
che avevano grande autorità anche nelle provincie. L'autore, che primo mise in
evidenza l'importanza dei loro scritti , fu il NIEBHUR, che loro dedicò una
speciale dissertazione, che può vedersi nell' Histoire romaine, IV , pag. 442 a
474. Ora poi sta preparando un lavoro di lena sugli agrimensores i l prof.
Biagio Brugi. Quanto alle affermazioni, che sono contenute nel testo , sono
esse abbastanza giustificate da quegli estratti degli agrimensores, che sono
raccolti dal Bruns, Fontes, pag. 411 e 418 . Qui infatti io non mi proponeva di
entrare in particolari discussioni, ma bensì di mettere in evidenza il processo
, che i Romani ebbero ad applicare costantemente nella distribuzione di un
agro, che veniva crescendo colle loro conquiste. 87 svolgersi alla protezione
pretoria , la quale fa cosi entrare nelius honorarium l'istituto giuridico del
possesso (1) . 70. Intanto tutta questa parte dell'ager publicus, che è cosi
lasciata alla occupazione, viene ad essere come una sottrazione alle ripar
tizioni gratuite fra quelle classi inferiori, che non hanno mezzi e capitali
per tentare una occupazione, e che, anche avendoli, non sa rebbero dal Senato
autorizzati a farla , e quindi tra il patriziato antico , a cui si aggiunge col
tempo la nuova nobiltà plebea , e la plebe minuta viene ad esservi una
opposizione di interessi. Da una parte si ha interesse a provocare nuovi
riparti per impedire le occu pazioni e per limitare le occupazioni stesse , che
col tempo minac ciano di trasformarsi in latifondi; e dall'altra parte ogni
ripartizione, se riguarda terreni già occupati, appare in certa guisa come una
usurpazione di possessi lungamente durati, e se riguarda terreni solo
conquistati di recente, appare come una sottrazione a quel diritto di
occupazione, che il patriziato attribuisce a sè stesso . Di qui le lotte
intorno alle leggi agrarie, le trasformazioni del concetto ispiratore delle
medesime, e infine la insufficienza di esse per risolvere la grande questione
sociale dell'epoca , allorchè l'antico patriziato e la nuova nobiltà plebea si
strinsero insieme contro una plebe minuta, che già cominciava a cambiarsi in
una turba forensis , e che incapace di durare in lunghi e persistenti sforzi
già si era as suefatta a preferire alle conquiste legali gli spettacoli del
circo e le distribuzioni di frumento . (1) Con cid non intendo però di
ammettere l'opinione del Niebhur, del SAVIGNY e di altri, che farebbero nascere
il concetto della possessio coll'ager pubblicus. Io credo anzi, come dimostrerò
a suo tempo, che la possessio, come istituzione di fatto più che di diritto,
avesse origini ben più antiche, e che la medesima sia stata anzi il modo, con
cui i plebei occuparono le prime terre nei dintorni della città patrizia, il
che però non toglie che la prima tutela giuridica del possesso abbia anche
potuto cominciare colle possessiones nell'agro pubblico : cosicchè accade del
possesso, come di un grandissimo numero di altre istituzioni, che prima
cominciano ad esistere di fatto e solo più tardi entrano a far parte del
diritto civile di Roma. Che anzi, dacchè sono in quest'ordine di idee ,
aggiungerà ancora che il concetto dell'ager occupaticius già erasi formato
anche prima delle occupazioni del patriziato sull'ager publicus. Lo dimostra
Festo, vº Occupaticius, ove scrive: < occupaticius ager dicitur qui desertus
a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur ». (Bruns, Fontes, pag.
348, la qual deffinizione dimostra che anche fuori dell'ager publicus poteva
formarsi l'ager occupaticius, il quale perciò differisce dall'occupa torius. 88
71. Intanto è sempre da questo ager publicus, che ricavansi eziandio gli
assegni, che si sogliono fare alle colonie , alle città benemerite del popolo
romano, e infine alle stesse provincie. Trattandosi di colonie , questi
esemplari di stabilimenti che Roma crea a somiglianza di sè stessa , traendone
la popolazione dal proprio seno, si applica quel medesimo sistema, che si
applica per la popo lazione della città , il sistema cioè delle adsignationes
viritanae, fatte ad ogni capo di famiglia, ed hannosi così quegli agri, che gli
agrimen sori chiamano divisi et adsignati, i quali sono fuori di Roma una
imitazione di quegli assegni di piccoli heredia, che facevansi un tempo ai
cittadini poveri di Roma. Se trattisi invece di città benemerita , a cui il
senato e il popolo sovrano intendano di dare un segno di soddisfazione ed un
cor rispettivo ad un tempo per i servizii prestati, havvi l'ager mensura
comprehensus, il quale, essendo assegnato come proprietà collettiva ad una
città , non è determinato che nella sua generale misura. Infine se trattasi di
delimitare in modo almeno generico i confini del territorio di una popolazione
si ricorre alle indicazioni delle valli, dei fiumi, dei torrenti, delle grandi
strade, dell'acqua pen dente , a quelle indicazioni insomma, che in un periodo
ancora molto remoto serviranno poi ad indicare il territorio , che dalla natura
stessa sembra essere segnato ai singoli stati e alle nazioni, e si avrà così
quell'ager , che gli agrimensores chiamano arcifinius (1). Infine anche nelle
porzioni di agro pubblico , che sono vendute all'incanto o date in affitto
(ager quaestorius,ager vectigalis), pos sono esservidelle parti,che, per essere
scoscese o sterili, non possono trovare da sole nè compratori, nè affittavoli ,
e in allora questi siti si aggregano a quelli, che già furono venduti o a
quelli dati in af fitto « in modum compascuae » , il che significa che essi , a
somiglianza dei primitivi compascua, si ritengono appartenere per la proprietà
o per il godimento ai più vicini fra quelli, che hanno comprato od affittato
gli altri. Di qui la creazione di una specie di proprietà o dipossessione
privata , con pertinenze consistenti in pascoli accessorii, la cui proprietà e
il cui godimento possono dare occasione a ques tioni fra i giureconsulti per
vedere se , vendendosi od affittandosi il fondo principale senza parlare del
pascolo accessorio , anche questo debba ritenersi compreso nella vendita o
nell'affittamento , sul che (1) V. Frontinus, De agrorum qualitate et
condicionibus , lib. I, 1, 2 , 4 , 5 . BRUNS, Fontes, pag. 411. 89 i
giureconsulti risponderanno affermativamente, quando non consti dell'intenzione
contraria dei contraenti (1) . 72. Pongasi infine, e anche quest'ultima
supposizione è stata una realtà , che la piccola tribù del Palatino,mutatasi
poi nella città dei sette colli, divenga conquistatrice dell'universo allora
conosciuto, e quindi anche legislatrice del suo suolo; ma essa continuerà pur
sempre ad applicare, nel piccolo e nel grande, entro l'Italia e fuori di essa ,
nella proprietà e nel possesso , nel territorio italico e nel suolo pro
vinciale, quei concetti, che ebbe ad applicare nelle proprie origini, e che noi
abbiamo dimostrato essersi già preparati in un periodo anteriore alla
formazione stessa della città . Certo questi sono svolgimenti logici, che
precorrono la serie dei fatti, ancorchè siano fondati sopra di essi; ma non
sono inopportuni per mettere ordine in una materia , che le minute indagini
hanno tal volta resa intricatissima, e dånno anche un esempio sensibile del pro
cesso semplice, ma sempre logico e coerente , che Roma ebbe ad applicare non
solo nell'estendere il concetto della sua proprietà a tutto il territorio da
essa conquistato ,ma anche nell'estendere la sua cittadinanza e l'impero della
sua legislazione al mondo allora cono sciuto . Sono i grandi popoli che con
mezzi semplici e pressochè tipici applicati in proporzioni e in condizioni
diverse sanno conse guire i grandi effetti. È questo un esempio di quella
dialettica po tente e pressochè celata , che senza apparire negli scritti dei
giure consulti, i quali sembrano talvolta smarrirsi nei casi singoli e nelle
fattispecie , trovavasi tuttavia nei loro intelletti, ed era certo nella mente
del popolo da essi rappresentato . Più tardi non mancheranno le occasioni di
scorgere altre applicazioni di questo processo dialet tico , che, mentre non
appare allo sguardo, stringe però con una coerenza meravigliosa le parti più
disparate della giurisprudenza romana . (1) V. Higinus, 117. « In his igitur
agris quaedam loca , propter asperitatem aut sterilitatem , non invenerunt
emptores ; itaque in formis locorum talis adscriptio facta est in modum
compascuae ; quae pertinerent ad proximos quosque possessores, qui ad ea attingunt
finibus suis » . Bruns, pag. 414 . Frontinus poi, De controversiis agrorum ,
soggiunge: « Nam et per haereditates aut emptiones eius generis (pascuo rum )
controversiae fiunt, de quibus iure ordinario litigatur ». Bruns, pag. 415. È
da vedersi a proposito di tali controversie lo scritto del Brugi, Dei pascoli
acces sorii a più fondi alienati . Bologna, 1886 . 90 - CAPITOLO V. I concetti
fondamentali direttivi della vita pubblica e privata durante il periodo
gentilizio . § 1 . Sguardo generale all'argomento . 73. In una organizzazione
come quella che ho cercato di ricostruire, così nelle persone che entravano a
costituirla , che nei territorii che le servivano di sede, sarebbe affatto fuor
di luogo il ricercare delle norme direttive della vita pubblica e privata , che
potessero meritarsi il nome di leggi nella significazione, che noi sogliamo
attribuire a questo vocabolo. Ormai il lavoro di secoli ha strettamente legato
il vocabolo di legge e la significazione sua propria alla convivenza civile e
politica . Senza negare che un tempo l'uomo abbia ricavato l'idea di una legge
direttiva delle cose umane dalla contemplazione dell'ordine, che governa
l’universa natura, questo è certo che il vocabolo di legge, nella sua
significazione originariamente romana, che poi fu adottata da tutti gli
altripopoli, significa ormai« l'espressione di una volontà collettiva, che si
imponga alle singole volontà indi. viduali » . Esso quindi suppone la
distinzione fra l'ente collettivo ed i singoli, fra lo Stato organo ed interprete
della volontà comune eimembri che entrano a costituirlo . È quindi inutile
cercare delle leggi, nel senso proprio della parola, in un'organizzazione, in
cui lo stesso gruppo compie ad un tempo le funzioni domestiche e le funzioni
politiche, e nel quale pertanto non si può rinvenire la di stinzione fra il
tutto in sè e le parti, che entrano a costituirlo e neppure quella fra la vita
pubblica e la vita privata . 174. Siccome tuttavia qualsiasi stadio di
organizzazione sociale sup pone di necessità delle norme, che lo governino,
cosi noi possiamo indurre, che queste norme non dovettero mancare nel periodo
gen tilizio . Anzi si può anche aggiungere, che fra le varie forme di or
ganizzazione sociale quella , che tende più di qualsiasi altra a strin gere in certe
regole precise cosi i rapporti domestici, che quelli della vita esteriore, è
certo la comunanza gentilizia , la quale, essendo esclusivamente fondata sulla
eredità , finisce per trasmettere , di gene razione in generazione, non solo il
sangue degli antenati, non solo 91 il patrimonio e il territorio da essi
conquistato, ma anche il nucleo delle tradizioni dei maggiori. Si aggiunge, che
al modo stesso che le genti, fisse nell'esempio dei proprii antenati, finiscono
per mutarli in oggetto di culto , cosi anche le loro tradizioni tendono, non
per impostura di uomini ma per un naturale processo di cose umane, ad assumere
un carattere sacro e religioso, per cui qualsiasi atto anche meno importante
finisce per acquistare una significazione re ligiosa. È questa tendenza , cheha
condotto tutte le comunanze gen tilizie a diventare pressoché immobili e
stazionarie, e che avrebbe prodotto forse il medesimo effetto fra le genti
italiche, come lo pro dusse fra le genti indiane, che appartengono alla
medesima stirpe , quando fra esse non si fosse formato un nuovo focolare di
vita, che fu quello che brucid nel tempio di Vesta, cambiatasi in patrona della
città (1) . Che anzi non dubiterei di affermare, che quello stesso spirito
conservatore , che appare in Roma primitiva, sopratutto per parte del
patriziato , non è che una trasformazione di questa ten denza naturale delle
comunanze gentilizie a diventare immobili e stazionarie , quando sono pervenute
a quel maggiore sviluppo, che può comportare il principio informatore di esse .
Dal momento in fatti, che questa tendenza all'immobilità e a fare entrare ogni
ele mento in quadri precisi, determinati dal costume e consacrati dalla
religione, male può accomodarsi ad una città piena di vita , i cui elementi
nuovi più non possono ad un certo punto entrare nei quadri antichi, è ben
naturale, che la tendenza stessa riducasi a trapiantare nel nuovo terreno
quanto più si possa dell'antico ordine di cose ed a lottare per la
conservazione di esso , come chi è pro fondamente convinto di lottare per uno
scopo religioso e santo . È questo culto del passato, che contraddistingue le
genti italiche (1) È abbastanza noto come in quella guisa che la famiglia aveva
per centro il focolare, che le serviva anche di altare, così la città aveva pur
essa un pubblico focolare nel tempio di Vesta , la quale per tal modo di dea
del focolare domestico venne a cambiarsi in custode e patrona del focolare
della città. Questo invece è da essere notato, che le recenti scoperte intorno
al locus Vestae hanno dimostrato, come questo focolare si trovasse a piedi del
Palatino presso il Foro e fuori della Roma quadrata ; il che serve a provare
sempre più, che la vera città , di cui doveva essere centro il tempio di Vesta
, non era già lo stabilimento romuleo primitivo , ma bensì la città dei
Quiriti, che risultò dalla confederazione delle varie comunanze. In una casa
poi attigua altempio di Vesta dimorava, secondo la tradizione, il Re (domus
regia Numae), il quale, come custode della città, doveva pur trovarsi nel centro
di essa . Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag . 39. 92 dalle
elleniche. Mentre queste colla loro intelligenza acuta e pro fondamente
critica, appena ebbero analizzate le proprie tradizioni, rivestite anch'esse di
carattere religioso , le abbellirono e trasforma rono colla propria fantasia e
finirono per ridurle in frantumi, la credula e religiosa Italia invece colla
sua intelligenza più tarda, ma colla sua volontà più tenace le conservo a lungo
e potè cosi rica varne tutto il succo vitale, che contenevasi in esse (1). 75.
Questo intanto è certo , che appena noi possiamo arrestare lo sguardo, non
sulle gesta primitive delle genti italiche, che solo più tardi furono argomento
di storia , ma sul linguaggio di esse e sulle traccie della loro civiltà , che
sopratutto ci serbd il culto per i tra passati, noi riconosciamo immediatamente
, che tutte le loro tradizioni, le cui origini sono celate in un remotissimo e
misterioso passato , hanno già assunto un carattere sacro e religioso . Una
religione, per nulla immaginosa ed estetica come la ellenica, ma eminente mente
pratica ed applicata con cura minuta a tutte le emergenze della vita, ha già
consacrato le basi della organizzazione gentilizia , per modo che le genti
italiche, sempre occupate da divinità , che sovraintendono a ciascun atto della
vita, cercano con tutti i mezzi di riconoscere i segni della benevolenza o
malevolenza divina. Per gli atti della vita quotidiana questa volontà potrà
essere indicata anche dai piccoli incidenti della vita ;mentre per i fatti di
importanza mag giore per il gruppo, è la volontà del cielo, che deve essere
consul (1) Osserva giustamente il SUMNER Maine, L'ancien droit, pag. 72 « che
mentre l'intelligenza greca colla sua mobilità e la sua elasticità era incapace
di chiudersi nella stretta veste delle formole legali ; Roma invece possedette
una delle qualità più rare nel carattere delle nazioni, che è l'attitudine ad
applicare e a svolgere il diritto come tale, anche in condizioni non favorevoli
alla giustizia astratta, non scompagnata tale attitudine dal desiderio di
conformare il diritto ad un ideale sempre più elevato » . Del resto il primo,
che con occhio veramente acuto abbia scrutato le attitudini mentali diverse dei
Greci e dei Romani, è il nostro Vico, De uno et universo iuris principio et
fine uno. Proloquium . D'allora in poi il para gone non è più venuto meno. Lo
fanno gli storici, come il Mommsen, il LANGE ed altri; lo fanno parimenti gli
studiosi della giurisprudenza comparata, comeil MAINE, op. cit ., il Freeman,
Comparative politics, London , 1873, l'Hearn , Arian Household , London , 1879,
il IHERING, L'esprit du droit Romain . Per maggiori particolari in proposito
mirimetto al libro : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale,
. ove ho tentato di richiamare alle facoltà psicologiche prevalenti presso i
due popoli il diverso svolgimento, che i medesimi ebbero a dare alla religione,
al diritto, ed alle istituzioni sociali e politiche. Libro II, cap . I, pag .
85 e seg . - 93 tata . Di qui quella osservazione antichissima del volo degli
uccelli, che è d'origine latina, e l'altra dell'osservazione delle viscere
degli animali da sacrifizio , che è di origine etrusca, e quel concetto per noi
pressochè incomprensibile degli auspicia , che appartengono al magistrato e che
danno al suo potere una consacrazione religiosa e giuridica ad un tempo (1) . $
2 . Del carattere religioso inerente ai concetti primitivi del mos, del fas e
del jus. 76. Per attenersi tuttavia a quel complesso di norme, che riflet tono
la vita pubblica e privata, intesa questa distinzione in un senso che possa
applicarsi al periodo gentilizio , noi troviamo che anche in questa parte le
genti italiche mostrano fin da principio decisa tendenza a racchiudere le loro
tradizioni in forme certe e precise, e a designarle con vocaboli di
significazione determinata , la cui semplicità primitiva sembra indicarne
l'antichità remota. Questi vocaboli per le genti latine sono quelli dimos, di
fas e di jus, i quali tutti nelle origini sembrano presentarsi con una
significazione, che tiene del religioso e del sacro. Del mos infatti noi
abbiamo una definizione conservataci da Festo : mos est institutum patrium , id
est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum .
Qui è nota bile anzitutto la significazione larghissima, attribuita al
vocabolo, per cui tutte le patrie tradizioni sarebbero inchiuse nel medesimo,
come pure l'esplicazione che viene dopo, la quale , restringendo in appa renza
il contenuto del vocabolo , indica in sostanza che la parte ( 1) V.
BouchÊ-LECLERCQ, Histoire de la divination dans l'antiquité, IV, p . 180-183; e
lo stesso autore, Institutions romaines , pag . 533 a 540. Questo ricorrere
agli auspizii in ogni affare pubblico e privato è attestato da Servio, In Aen .
I, 346: « Romani nihil nisi captatis faciebant auguriis et praecipue nuptias »
, e da CICE RONE, De divin . I, 16 : « Nihil fere quondam maioris rei nisi
auspicato ne privato quidem gerebatur , quod etiam nunc nuptiarum auspices
declarant » . Per quello poi, che si riferisce agli auspicia , alle varie loro
specie , alla procedura so lenne, da cui erano accompagnati, ed alla
importantissima distinzione fra auspicia privata e publica, distinzione, che fu
anch'essa un effetto della formazione della città, non ho che a riferirmi alla
trattazione magistrale del Mommsen, Le droit pubblic romain . Trad. Girard ,
Paris, 1887 , pag. 86 a 135. 94 prevalente nelle istituzioni dei padri era
sopratutto quella, che si riferiva alla religione ed alle cerimonie di essa (
1). Questo carattere religioso non ha poi bisogno di essere provato quanto al
vocabolo di fas; poichè il fas delle genti italiche è para gonato dagli stessi
scrittori latini alla Oeuis dei Greci, e col tempo fu questo vocabolo di fas,
che, distinguendosi sempre più da ogni altro elemento estraneo , fini per
significare quelle norme di carat tere esclusivamente religioso , che si
riferiscono agli auspicia , al l'arte augurale ed alle cerimonie del culto ( 2
). Infine i più recenti investigatori del significato primitivo del jus, quali
il Leist, il Bréal, al quale aderisce anche il Muirhead, sareb bero diavviso ,
che il medesimo nelle proprie origini avesse eziandio una significazione
religiosa . Cosi il Bréal ritiene, che il ious antico dei latini, cambiatosi
poscia in ius, sia perfettamente conforme al iaus, che occorre nel sanscrito
più antico , vocabolo, la cui significazione è alquanto vaga ed incerta, ma che
egli ritiene essere quella di « volontà, potenza, protezione divina » (3).
Questa primitiva signifi (1) Festo, vo Mos. È poi notabile come lo stesso
Festo, confermando il carattere religioso , comune al mos ed al fas,
definisca il ritus dicendolo un « mos compro batus in administrandis
sacrificiis » . Bruns, Fontes, pag. 343. (2) Festo, v° Themin , scrive: «
Themin deam putabant esse, quae praeciperet ho minibus quid fas esset, eamque
id esse existimabant, quod et fas est ». Bruns, Fontes, pag . 372. Lo stesso
concetto ebbe ad esprimere il poeta Ausonio , Edyl. 12 : Prima deum Fas Quae
Themis est Graiis ..., Per altri passi è da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln ,
I, pag . 102. È poi degno di nota, che nelle formole antiche occorre sovente la
frase « secundum ius fasque » , la quale indica in certo modo il bisogno di
dare al diritto anche l'appoggio del fas. (3) II BRÉAL trattò la questione in
un suo articolo « Sur l'origine des mots dési gnant le droit et la loi en latin
» , pubblicato nella Nouvelle revue historique de droit Français et étranger,
1883 , pag. 603, la cui conclusione è la seguente : « Pour nous résumer, le
droit, qu'on a appelé la création la plus originale du génie « latin , et qui a
l'air de sortir tout d'une pièce de la tête des décemvirs, comme la « poésie
épique de la tête d'Homère, a ses origines dans le passé le plus lointain ; «
il est inséparable des premières idées religieuses de la race » . Questo è pure
il concetto del LEIST, Graec. Ital. R. G., pag . 175 a 211. Il MUIRHEAD, Hist.
Introd ., pag . 18 , segue l'opinione del Bréal. Parmi però, che questa
etimologia non debba fare abbandonare intieramente quella dalla radice
sanscrita < iu , che significa stringere, legare, unire, la quale
indicherebbe la funzione, che il diritto compie di vinculum societatis humanae.
Questo è certo , ad ogni modo, come nota il Bréal, che le parole mos, fas e ius
debbono essere considerate come caposti pite, e quindi, più che derivare da
altre, sono esse che diedero dei derivati, quali. 95 cazione del vocabolo
spiega poi come tanto i Greci quanto i Latini attribuissero un carattere
religioso e sacro al vóuoç ed alla lex , sebbene questi due vocaboli siano di
più recente formazione, e ri tenessero la legge come un dono degli dei; come
pure spiega quel sentimento , le cui traccie occorrono ancora in Roma, per cui
si ama meglio di lasciar cadere in dessuetudine il diritto costituito, che non
di abrogarlo espressamente . 77. Intanto questo carattere comune a questi
diversi vocaboli e ai concetti inchiusi neimedesimi, conduce ad inferire, che
dovette forse esservi tempo, in cui furono contenuti in qualche concetto più
vasto e comprensivo, del quale essidebbono perciò considerarsi come specifi
cazioni ed aspetti diversi. Questo concetto , secondo il Max Müller ed anche
secondo il Leist, sarebbe stato dagli antichi Arii significato col vocabolo di
rita , il quale esprime ora l'ordine che regge l'uni verso , col suo alternarsi
del giorno e della notte , ed ora l'ordine stesso della natura, in quanto
governa il generarsi, il crescere e il disparire degli esseri viventi (1). A
questo vocabolo di rita corrispon dono perfettamente i concetti del ritus, del
ratum e della ratio dei latini, ed anche quello , che essi indicano
coll'espressione di rerum natura , per guisa che anche il concetto di « ius
naturale » nel senso che ebbe ad essergli attribuito da Ulpiano di un « ius
quod natura omnia animalia docuit » potrebbe rannodarsi a questi primitivi con
cetti (2 ). Lo stesso Leist poi osserva, che al concetto fondamentale di rita o
di ratio la sapienza antichissima degli Arii associa altri con sarebbero quelli
di fari, iubere , iustitia, iudes , iurgium , iniuria e simili. Una trat
tazione poi di questo elemento etico e religioso dell'antico diritto,
sussidiata da una larghissima erudizione, occorre nel Voigt, Die XII Tafeln ,
I, cap . I, p. 97 a 125. ( 1) Leist, op . cit., pag . 187 . (2 ) Ciò
confermerebbe l'asserzione contenuta nelle Institut. Justin . II, 1, 12 , «
palam est autem vetustius esse ius naturale, quod cum ipso genere humano rerum
natura prodidit: civilia enim iura tunc esse caeperunt, quum et civitates
condi, et magistratus creari,et leges scribi caeperunt » . Questo è certo poi,
che a questo diritto naturale primitivo anteriore alle leggi accennano soventi
i poeti latini. Cfr. Henriot, Meurs jur. et judic. Vol. I, in princ. Conviene
quindi indurne che il concetto di un diritto naturale cominciò in certo modo ad
essere sentito dall'universale co scienza , e solo più tardi diventò anch'esso
argomento di una elaborazione filosofica , che si operò sopratutto in Grecia .
V. in proposito la classica opera del Voigt, Das ius naturale, bonum et aequum
et ius gentium der Römer, 4 vol., Leipzig , 1856-76 . - 96 - cetti, che sono
espressi coi vocaboli di orata , a cui corrisponde il fas e il ratum dei
latini, due vocaboli che sovente procedono uniti : di dhāma, che egli dice
analogo alla Oeuis greca e infine quello di svadhā, che corrisponderebbe
all'čnog od neos dei Greci e quindi anche al mos dei latini, mentre infine il
concetto di dharma già si accosterebbe, quanto alla sua significazione, al
vocabolo latino di lex , il quale sarebbe però sopravvenuto più tardi (1). 78.
Parmi tuttavia che la parentela ed analogia fra questi varii concetti possa
essere facilmente spiegata , quando si consideri che fra i latini il vocabolo
di ratum e quello più astratto di ratio , si asso ciano talvolta al fas, al ius
ed anche al mos. Si può quindi inferirne con fondamento, che il ratum , da cui
derivò poi ratio , significava l'ordine, che governa il corso delle cose divine
ed umane, mentre il fas, il mos ed il ius, che dapprincipio si presentano tutti
circondati da un'aureola religiosa , significherebbero i diversi aspetti, sotto
cui si manifesta questa forza o volontà operosa , che muove e regge l'u niverso
(2 ). Il fas quindisarebbe la stessa volontà divina, in quanto si estrinseca
nei fenomeni della natura, ed è interpretata da coloro che sanno conoscerne il
significato riposto. È quindi dal fas, che derivano i riti e le cerimonie del
culto, le quali sono appunto intese a rendere propizia agli uomini la volontà
divina, e che presso le genti italiche assumono anche esse il carattere
contrattuale del « do ut des » (3 ). Il mos significa la stessa volontà divina,
ma non più in ( 1) Leist, Op. cit. e loc. cit. (2) Questo scindersi dal
concetto primitivo appare nelle parole di Virgilio « Fas et iura sinunt» , che
Servio commenta con dire « id est divina humanaque iura per mittunt; nam ad
religionem fas, ad homines iura pertinent » . In Aen . I, 269 (Bruns, Fontes,
pag. 405). La parentela poi fra i vocaboli di ratum e di ratio è dimostrata dal
Leist con una quantità di passi da lui citati a pag. 199 dell'opera : Graec.
It. R. G. ( 3) Ciò appare da tutte le formole primitive, che si indirizzavano
agli dei di una città nemica , per ottenere che i medesimi abbandonassero la
città stessa . V. HUSCHKE, Iurisp . anteiust. quae supersunt, pag. 11. Nota in
proposito il Bouche-LECLERCQ, Institutions romaines, pag. 461, che il culto
romano era una procedura del tutto analoga a quella delle « legis actiones >
che i pontefici trasmisero poi più tardi ai giureconsulti. Che anzi per i
Romani il sacrifizio è una offerta fatta in uno scopo interessato e la
preghiera, che necessariamente l'accompagna, è una stipulazione, il cui effetto
è infallibile, se essa sia concepita nei termini sacramentali, fissati dal
costume (rite ). Ciò significa che è per tal modo immedesimata coi Romani
l'idea secondo la quale il diritto formasi mediante la convenzione e l'accordo,
che essi in ogni argomento scorgono una specie di contratto. - 97 quanto si
rivela con segni, la cui interpretazione è lasciata ai sacer doti; ma bensì in
quanto si palesa in quella tacita hominum conventio, che dà appunto origine al
costume ed alla consuetudine . Infine il ius è sempre questa stessa volontà
divina , ma in quanto viene ad essere interpretata e statuita espressamente
dagli uomini, che ap partengono alla comunanza , nell'intento di provvedere
alle esigenze della medesima. Per tal modo da un unico ceppo sonosi staccate
propaggini diverse ; ma siccome esse continuano ancora sempre ad essere in
comunicazione fra di loro , così è molto difficile il preci sare la
significazione di ciascuna , sopratutto nel periodo geatilizio , allorchè
vindice di questi varii aspetti della volontà divina era l'au torità
patriarcale del padre e del consiglio degli anziani. 79. È poi'degno di nota,
che questi varii concetti, negli inizii di Roma, si presentano come patrimonio
esclusivo delle genti patrizie come appare da ciò , che queste chiamano le
usanze plebee non già col vocabolo di mores, ma con quello di usus; ed anche da
ciò che la cognizione del fas e del ius fu per lungo tempo un privilegio del
patriziato ed una causa della sua superiorità sopra la plebe. In ciò può con
fondamento scorgersi una prova , che queste nozioni dovet tero elaborarsi in
altro suolo ed essere trapiantate da genti migranti dall'Oriente sul suolo
italico , ove hanno poiservito per l'educazione di stirpi, che si trovavano in
condizioni inferiori di civiltà . Sebbene qui non possa essere il caso di
cercare in quale ordine questi varii concetti siansi venuti formando, non è
tuttavia inoppor tuno di avvertire, che, nelle origini, il primo a prodursi,
almeno nell'ordine dei fatti, dovette probabilmente essere il mos, il quale,
dopo essersi formato pressochè inconsapevolmente nel seno delle co munanze
patriarcali, viene poi mutandosi in una tradizione, che si trasmette di
genitore in figlio e che col tempo assume un carattere sacro e religioso . È
poi nel seno di questo mos primitivo, che si opera una distinzione, in virtù
della quale una parte di esso riceve una sanzione religiosa, e l'altra una
sanzione giuridica , mentre una parte continua sempre ad avere un carattere
puramentemorale e costituisce ciò che le genti latine chiamano i boni mores.
Intanto egli è certo , che le genti italiche si presentano con questi varii
concetti, già com piutamente formati, e che fra essi ha già acquistata una
incontesta bile prevalenza quello del fas. Fu il fas, che primo ebbe a ricevere
vera elaborazione e a concretarsi in certe massime, riti e pratiche, che
tendono a diventare immutabili e ferme, come la vo G.CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 98 im lontà divina, di cui si ritengono essere l'espressione.
È poi sotto la . protezione del fas, che si vennero elaborando i concetti del
ius e e dei boni mores, al modo stesso che più tardi sarà sul modello del ius
pontificium , che verrà a formarsi il ius civile. Quasi si direbbe che,
mancando ancora un'autorità abbastanza salda per porsi alle passioni dell'uomo
in un periodo di lotta e di violenza , siasi sentita la necessità di porre
sotto la protezione divina anche quelle regole, che appariscono indispensabili
per il mantenimento della convivenza sociale . Intanto queste considerazioni
intorno ai concetti fondamentali, che costituiscono il substratum della sapienza
popolare delle genti ita liche, ci preparano la via a comprendere il processo
storico, secondo cui venne svolgendosi ciascuno di essi. $ 3. — Il fas e il mos
e la loro importanza nel periodo gentilizio . 80. Il vocabolo di fas esprime
per le genti italiche, ciò che i Greci, più fantastici ed immaginosi, giunsero
perfino a personificare nei concetti di Themis ,Nemesis , Adrasteia (1). Esso è
l'espressione della volontà divina, in quanto impone e regge l'ordine delle
cose divine ed umane, e vendica in modo irresistibile le violazioni, che l'uomo
rechi al medesimo colle proprie azioni. Nel fas pertanto non è solo compresa
una parte , che si riferisce ai riti e alle cerimonie del culto, ma una parte
eziandio , che contiene delle norme che ri guardano l'umana condotta. Che anzi,
siccome la riverenza per la divinità non è propria di questa o di quella gente,
ma è comune alle varie genti, cosi è anche sotto la protezione del fas, che si
trovano tutti quei rapporti fra le varie genti, senza di cui sarebbe stato
impossibile, che esse potessero entrare in comunicazione le une colle altre. È
quindi il fas, che determina i modi in cui debba es sere dichiarata una guerra,
e copre della sua protezione coloro, che sono inviati a trattare le alleanze e
le paci. È esso parimenti che dà un carattere sacro a quell'istituzione
dell'ospitalitá (hospi tium ), che ebbe un così largo sviluppo presso le genti
primitive , e che poi ricompare, come hospitium publicum , dopo la formazione (
1) Per una più larga prova di questa analogia, vedi CARLE, La vita del di
ritto, pag . 111 , cogli autori ivi citati. 99 della città, come pure è il fas
che consacra le obligazioni, che inter cedono fra il patrono ed il cliente . È
esso, che condanna le violenze dei figli verso i genitori, le nozze incestuose,
il falso giuramento e il venir meno ai voti fatti alla divinità , e alle
promesse, che sotto il suggello della fides siansi fatte anche ad uno
straniero. Esso in somma nei primordii sembra abbracciare i rapporti fra i
membri della famiglia , quelli fra le varie genti, e quelli infine fra le varie
tribù ; donde la conseguenza, che anche più tardi, allorchè si tratto di patti
fondamentali fra il patriziato e la plebe, questa per assicu rarne
l'adempimento non trovò altro mezzo , che di porre i medesimi sotto la
protezione di quel fas, che esercitava tanto impero fra le genti patrizie, come
lo dimostra il concetto ispiratore delle cosi dette leges sacratae (1). 81. Chi
poimanchi a questo complesso di norme, sopratutto allorchè lo faccia di proposito
(dolo sciens), mentre offende gli uomini reca pure offesa alla divinità , e
quindi deve espiare il proprio fallo ,me diante certi sacrifizii, le cui
traccie occorrono ad ogni istante nel ius pontificium e negli scritti dei più
antichi giureconsulti, che si erano formati sullo studio di esso ; i quali
sacrificii prendevano il nome di piacula, e dovevansi anche fare, allorchè
altri cadeva in fallo per semplice imprudenza (imprudens). Di qui si raccoglie,
che già dall'epoca più remota , a cui rimontino le tradizioni, trovasi la
distinzione, almeno fra le genti patrizie, fra colui che abbia compiuto un
delitto di proposito (dolo malo , dolo sciens, prudens), e quello invece, che
l'abbia compiuto solo per imprudenza (imprudens), nel che si avrebbe una prova,
che queste genti già erano pervenute a tale da analizzare l'atto umano e
scrutare perfino l'intenzione dell'agente, sebbene più tardi il diritto
quiritario abbia dovuto fare un passo in dietro , come quello che doveva
applicarsi a classi, che non erano tutte giunte allo stesso grado di sviluppo (
2). Che se il fallo sia tale ( 1) Sul carattere delle leges sacratae è da
vedersi la dissertazione del Lange, De sacrosanctae tribuniciae potestatis
natura, eiusque origine. Lipsiae, 1883. Sono poi diversissime le guise,
mediante cui le promesse, che non avevano ancora san zione giuridica , si
mettevano sotto la protezione del fas. Sopratutto a ciò serviva il giuramento,
la cui larghissima applicazione, nel periodo storico , appare dal dili gente
lavoro del Bertolini, Il giuramento nel diritto privato romano. Roma 1886, Cap.
II, pag. 43 a 78 . (2 ) Cid è dimostrato dal fatto , che la distinzione fra
l'omicidio commesso di pro posito e quello commesso per imprudenza già occorre
nelle leges regiae attribuite 100 da non potersi espiare in questa guisa , in
allora il reo viene assogget tato ad una specie di espiazione sacrale , la cui
forma tipica consiste nella capitis sacratio . Questa doveva essere pena
gravissima durante il periodo gentilizio, poichè il colpevole veniva con essa
ad essere sot toposto ad una specie di scomunica religiosa e domestica , che lo
stac cava dal gruppo gentilizio, di cui faceva parte, e lo poneva in certo modo
fuori delle leggi divine ed umane, per guisa che sebbene il sa crifizio della
sua vita non potesse essere accetto agli dei, esso poteva perd essere ucciso
impunemente da chicchesia . Di qui il carattere di espiazione sacrale , che
informa ancora tutto il diritto penale pri mitivo di Roma, durante il periodo
esclusivamente patrizio, come pure i vocaboli e i concetti di expiatio,
supplicium , di consecratio bonorum , di interdictio aqua et igni, i quali
confermano l'osser vazione del Voigt, secondo la quale le primitive genti
patrizie avrebbero ravvisato nei delitti più un'offesa alla divinità , che non
agli uomini, a differenza delle plebi, che risentivano di preferenza l'offesa e
il danno materiale ( 1) . Non potrei quindi ammettere l'opinione di coloro, i
quali, suppo nendo le genti italiche in una condizione del tutto primitiva e
come nella loro infanzia, mentre sotto un certo aspetto erano già nella loro
età matura , vogliono ad ogni costo trovare nel diritto penale pri mitivo di
esse le traccie della vendetta privata . Se cið intendasi nel senso che erano i
singoli capi di famiglia, che dovevano essere essi i vindici del proprio
diritto e proseguire le offese, che loro fos sero recate, in mancanza di
un'altra autorità che lo facesse per essi, ciò può essere facilmente ammesso .
Che se invece si intenda che nella stessa comunanza gentilizia dovessero
spesseggiare le rea zioni violente e le vendette, cio più non può conciliarsi
col rat tere patriarcale di una comunanza, ove tutto è già regolato dalla a
Numa. V. Bruns, Fontes, pag. 10. Tale distinzione poi incontrasi frequentemente
in ciò , che a noi pervenne degli scritti dei pontefici dei veteres
iurisconsulti. Che anzi pare, che, secondo il Pontefice Quinto Muzio Scevola ,
i fatti commessi contro il fas allora soltanto potessero espiarsi colla
piacularis hostia , quando fossero com piuti per imprudenza ; mentre non
ammettevano espiazione, quando fossero commessi di proposito. Ciò appare dal
seguente passo tolto da VARRONE, De ling . lat., 6 , 4 , § 30 : « Praetor, qui
diebus fastis tria verba fatus est, si imprudens fecit, piacu lari hostia piatur;
si prudens dixit, Quintus Mucius ambigebat eum expiari non posse » . Altri
esempi occorrono in Huschke, Iurisp. anteiust. quae sup ., pag. 15 . ( 1)
Voigt, XII Tafeln . I, pag. 484. 101 religione e dal costume. Non potrebbe
certo affermarsi che anche le genti italiche non abbiano attraversato uno
stadio, in cui dovette dominare la forza, la vendetta e la privata violenza ;
ma l'organiz zazione patriarcale e i vincoli strettissimi di essa erano già un
mezzo per uscire da tale condizione di cosa . Quindi, se si deve giu dicare dal
diritto primitivo di Roma patrizia , sarebbero così poche le traccie , che
rimangono in esso della privata vendetta , nel senso che suole attribuirsi a
questo vocabolo, da doverne inferire che nel pe riodo gentilizio la religione,
compenetratasi in ogni atto della vita , ne aveva già cacciata la vendetta ed
aveva esclusa perfino la com posizione a danaro , almeno nella cerchia delle
genti patrizie. Che se il padre di famiglia può incrudelire contro la moglie e
la figlia adultera e contro l'adultero (sorpresi in flagrante ), o contro il
ladro, egli lo fa più come giudice e come investito di un carattere
sacerdotale, che non come uomo, che si abbandoni all'impeto della collera e
della vendetta . La religione ha già incatenato le passioni dell'uomo, ed è
solo più fra la plebe, che ancora si trovano le traccie della privata vendetta
e della composizione a danaro , le quali poi ricompariscono in qualche parte
nella legislazione decemvirale , come quella che era comune ad entrambe le classi
(1). (1) Fra gli autori, che cercano di dare una larga parte alla privata
vendetta nel primitivo diritto Romano, havvi il MUIRHEAD , Hist.introd., pag.
52. Egli argomenta da ciò , che colui il quale commetteva un omicidio per
imprudenza doveva fare l'of ferta di un ariete agli agnati dell'ucciso ; da ciò
che il vendicare la morte di un congiunto ucciso era un dovere per i superstiti
per acquetare i mani di lui ; dal diritto del padre e del marito di uccidere la
figlia o la moglie sorprese in adulterio unitamente all'adultero; dal taglione,
le cui traccie ancora rimangono nella legisla zione decemvirale, e perfino dal
diritto del creditore di chiudere nel carcere privato il debitore, chemancasse
ai proprii impegni. Parmi tuttavia, che di questi fatti alcuni indichino invece
la preponderanza dell'elemento religioso, e gli altri siano concessioni, che il
diritto decemvirale fece al modo di pensare e di agire proprio della plebe,
presso la quale avevano ancora certamente una più larga parte la privata vendetta,
il taglione e la composizione a danaro. Cfr. Ihering, L'esprit du droit Romain
. Trad. Meulenaere. Paris, 1880, I, pag. 131 a 168, ove discorre della
giustizia privata e delle forme, con cui essa era esercitata . Finchè quindi si
dice, che sono i singoli capi di famiglia, che, in mancanza di una autorità
investita dal pubblico potere, perseguono essi stessi le ingiurie e le
violazioni di diritto, di cui furono vittima, si afferma una verità
indiscutibile; ma ciò non deve più confondersi coll'esercizio sregolato di una
privata vendetta, che non prende norma che dalla violenza della passione, dal
mo mento che la religione e la consuetudine già hanno determinato la procedura
solenne, a cui egli deve attenersi per ottenere soddisfazione dell'ingiuria o
del danno sofferto, e che l'organizzazione gentilizia aveva appunto per iscopo
di porre termine alla pri vata violenza fra coloro che appartenevano alla
medesima gente o tribù . 102 82. Accanto però a queste regole dell'umana
condotta , che già sono munite di sanzione religiosa , sonvene delle altre che,
appoggiate unicamente al costume, costituiscono, per cosi esprimerci, una
specie di morale primitiva . Esse vengono indicate col vocabolo di mos patrius,
di mores maiorum , di boni mores, e costituiscono un complesso di norme
direttive della pubblica e privata condotta , le cui traccio si trovano più
tardi ancora nel iudicium demoribus, at tribuito al Pretore , e sopratutto nel
regimen morum , affidato alla custodia dei censori. Anche questi mores maiorum
si sono venuti formando durante il periodo gentilizio , nella cerchia
sopratutto delle familia e delle gens, e sono quelli, a cui deve essere
attribuito l'obsequium e la reverentia verso gli ascendenti, la pudicitia delle
mogli e il mantenimento della fides , anche per quelle promesse, che non
fossero munite di sanzione giuridica e che fossero fatte anche ad uno straniero
(1) . Erano questi boni mores, che da una parte contenevano in certi confini il
potere delle varie autorità , le quali, giuridicamente considerate, apparivano
senza alcun confine ; e che dal l'altra colpivano colla sanzione efficace della
disistima generale della comunanza coloro , che mancavano a certi doveri, i
quali non erano muniti di sanzione giuridica . Così, ad esempio , furono i
bonimores, che ancora molto più tardi condussero l'opinione pubblica dei citta
dini Romani a condannare al disprezzo quei prigionieri di Annibale che,
lasciati liberi sotto la condizione del ritorno, credettero di libe rarsi dalla
promessa mediante lo stratagemma di ritornare imme diatamente nel campo e di
sostenere di aver così attenuta la loro (1) Questo concetto trovasi espresso da
Publio Siro , allorchè scrive : Etiam hosti est aequus, qui habet in consilio
fidem . Del resto sono diversissime le guise, con cui i poeti esprimono
l'efficacia moralmente obbligatoria delle promesse. È qui che compariscono i
concetti del pudor humani generis , del foedus, che talvolta significa anche il
patto e la convenzione privata, il concetto della casta fides, quello della
santità inerente alle parole, in quanto che .. immutabile sanctis Pondus inest
verbis; concetto che trovò poi la sua espressione giuridica nell' « uti lingua
nuncupassit, ita ius esto » . Così pure nell'Andria di Terenzio trovasi
elegantemente espresso il concetto, che l'obbligazione è un vincolo che la
volontà impone a se stessa colle parole : ..... coactus tua voluntate es; .....
concetto che trovò pur esso forma nell'assioma giuridico : « quae ab initio
sunt vo luntatis ; ex post facto fiunt necessitatis » . Per altri esempi può
vedersi l'HENRIOT, Meurs juridiques et judiciaires, I, pag. 439 , e III, in
princ. • . -- 103 promessa. Del resto è sempre questo concetto del buon
costume, che tornerà poi a penetrare, per opera della classica
giurisprudenza,nella compagine soverchiamente rigida del diritto civile romano,
come lo dimostrano le considerazioni di ordine morale, che talvolta occorrono
nei grandi giureconsulti, l'influenza che esercitò mai sempre l'existi matio
anche sulla capacità di diritto , e l'introduzione dell'infamia , della
ignominia, della levis nota, che danno in certo modo una configurazione
giuridica alle varie gradazioni della publica disistima, in cui sia incorsa una
determinata persona (1 ). Al qual proposito non sarà inopportuno di osservare,
che quella separazione fra l'ele mento esclusivamente giuridico ed il morale,
che tardò così lunga mente ad operarsi nella scienza, presentasi invece con una
meravi gliosa nettezza nel diritto primitivo di Roma, il quale, dopo essersi
separato dal fas e daiboni mores, continuò logicamente la propria via , e
assunse così quel carattere di rigidezza e di logica pressochè inumana, che
solo più tardi fu temperato nella classica giurispru denza, la quale di nuovo
richiamò in esso quell'alito morale , da cui almeno in apparenza erasi dapprima
compiutamente disgiunto (2). 83. Intanto , per ciò che si riferisce ai
bonimores, non è più la religione, che si incarica di punirne le violazioni, ma
sono i capi stessi dei diversi gruppi, che vegliano sovra quel retaggio del
buon costume, che loro ebbe ad essere trasmesso dagli antenati. Sono quindi il
padre nella famiglia, il consiglio degli anziani nella gente ed il magister
pagi nella tribù , che sovraintendono almantenimento di questa morale primitiva
; mentre è poi la disistima generale della comunanza, che condanna al disprezzo
e all'isolamento coloro, che abbiano esercitato professioni ignominiose , o
abbiano mancato alla fede promessa , o abusato del potere loro spettante , o
abbiano infine commessa alcuna di quelle azioni, che , senza senza essere
colpite (1) Cfr. Muirhead, Hist. Introd., pag . 31-34 . Basta leggere le
commedie di Plauto, e fra le altre specialmente il Trinummus, per scorgere la
significazione lar ghissima, che davasi al vocabolo di boni mores, e come fosse
altamente sentita l'im portanza di essi di fronte alle leggi e l'impotenza di
queste, quando quelli comin ciavano a venir meno . (2 ) Ciò verrà ad essere
largamente provato , allorchè si parlerà della formazione del ius Quiritium , e
si dimostrerà come il medesimo sia dovuto ad un ' astrazione potente, mediante
cui si riuscì ad isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini. 104
dalla sanzione religiosa o giuridica, incorrono però nella disappro vazione
generale . Se il modo in cui formasi questa generale opi nione e l'influenza ,
che essa esercita, male possono scorgersi ancora in una grande città, in cui
già scomparve ogni traccia della vita patriarcale, possono invece essere anche
oggidi facilmente compresi quando si arresti lo sguardo ad una comunanza di
villaggio, ove tutti si conoscono e debbono necessariamente essere in rapporto
fra di loro, ed ove le colpe dei padri pesano più duramente sulla riputa zione
dei figli. § 4. – Le origini del ius nel periodo gentilizio . 84. Se ora si vogliano
cercare le origini del ius nel periodo gentilizio , apparisce fino
all'evidenza, che fu soltanto , collocandosi in un posto intermedio , fra il
fas da una parte ed i boni mores dall'altra , che potè riuscire e farsi strada
quel ius, che doveva poi ricevere cosi largo sviluppo durante il periodo della
comunanza ci vile e politica . Sonvi in una comunanza certi modi di operare e
di agire, che, per essere costantemente ripetuti in modo uniforme, fini scono
per acquistare un carattere pressochè obbligatorio per tutti coloro, che
trovansi in una determinata condizione sociale, e danno cosi origine non più al
mos propriamente detto, ma a quella for mazione giuridica, che viene poi ad
essere indicata col vocabolo ef ficacissimo di consuetudo, il quale in certo
modo contiene in sè la propria deffinizione (1). Colui che manca a queste
regole non offende solo la divinità e non viola solamente il buon costume, ma
viene meno ad obbligazioni, che sono imposte dalla convivenza, cui appar tiene
e si sottrae cosi alle esigenze della vita sociale. Fra i fatti irreligiosi ed
immorali viene così formandosi una categoria di fatti umani, in cui appare
soltanto in seconda linea l'offesa alla religione ed alla morale, mentre viene
ad essere evidente sopratutto l'offesa (1 ) Servius, In Aen . 7.601: « VARRO
valt morem esse communem consensum omnium simul habitantium , qui inveteratus
consuetudinem facit » . Del resto questo passaggio del costume, che ha
carattere morale , in consuetudine, che ha carattere giuridico, è indicato anche
da molti passi dei classici giureconsulti, che possono trovarsi raccolti
nell'Heumann, Handlexicon zu den Quellen des römisches Rechts. Jena, 1879, Va
Mos e Consuetudo. - 105 alla comunanza , a cui altri appartiene e il danno che
vengono a soffrirne gli altri membri della comunanza (1 ) . Di qui la
conseguenza, che comincia già ad operarsi, nel seno delle comunanze anche
patriarcali, comeuna specie di selezione, per cui dal complesso dei precetti
religiosi e morali se ne vengono sceverando alcuni, che assumono il carattere
giuridico propriamente detto . Na turalmente questo lavoro di selezione non può
ancora spingersi molto oltre, fino a che trattasi di una comunanza, che adempie
a funzioni domestiche, religiose e civili ad un tempo; ma intanto già comincia
ad avvertirsi il carattere particolare di certi precetti, che appariscono più
rigidi di quelli puramente morali e religiosi, per ot tenere l'adempimento dei
quali non può più bastare una sanzione meramente religiosa , né la disistima
generale , ma vuolsi una specie di sanzione coattiva da parte della intiera
comunanza e dell'autorità che la governa. Al modo stesso , che già fra le genti
e le tribù si vengono gradatamente svolgendo quelle arces, quegli oppida, quei
conciliabula , quei fora , che sono il primo nucleo , intorno a cui verrà poi a
svolgersi l'urbs e la civitas; cosi, anche frammezzo ad una con vivenza , i cui
precetti hanno ancora sopratutto un carattere religioso e morale, già
cominciano a presentarsene alcuni, che assumono un carattere civile e politico
. Che anzi, per continuare nello stesso pa ragone, al modo stesso che la città,
limitata dapprima ad essere il rifugio degli abitanti dei villaggi, viene poi
ad essere il luogo, ove si amministra la giustizia e si tengono le riunioni, e
viene infine ad abbracciare nella sua cerchia anche le abitazioni private , e a
sot trarre all'organizzazione domestica e gentilizia tutte quelle funzioni di
carattere civile e politico, a cui essa prima adempiva; così anche (1) Questo
concetto , per cui chi manca al diritto offende non solo l'individuo , ma reca
un danno alla intiera comunanza , che ora noi diremmo danno sociale , è un con
cetto profondamente sentito dai Romani primitivi, il quale ebbe ad essere
variamente espresso dai poeti latini. Basti riportare dall'Henriot, op. cit .,
vol. III, pag. 10 e segg. questi versi di Pubblio Siro : Multis minatur, qui
uni facit iniuria : Tuti sunt omnes, ubi defenditur unus ; Omne ius supra omnem
iniuriam positum est ; e quello di Orazio : « nam tua res agitur, paries quum
proximus ardet » , come pure le frequenti scene di Plauto e di TERENZIO, in cui
una persona ingiuriata chiama gli altri testi in testimonio e chiede aiuto con
formole, che hanno una precisione giuridica : « Obsecro vos, populares, ferte
misero atque innocenti auxilium » , ovvero : Obsecro vestram fidem , subvenite
cives » . - 106 - questo primo nucleo di precetti giuridici, che negli inizii
abbisogna ancora dell'appoggio della religione e del costume e si modella sul
fas, viene col tempo accrescendosi sempre più , e richiamando a se una quantità
di precetti, i quali nell'organizzazione anteriore non avevano che un carattere
religioso e morale . Per tal guisa il ius viene in certo modo accrescendosi a
spese degli elementi, da cui si è staccato; quando poi sentesi forte abbastanza
per procedere per proprio conto , afferma senz'altro la propria indipendenza, e
assume, per opera sopratutto dei Romani, un processo tutto speciale nel proprio
svolgimento , che chiamasi appunto iuris ratio, mediante cui finisce per
qualche tempo per isolarsi anche troppo da quegli elementi, da cui ricavò il
suo primitivo nutrimento . Quel carat tere pertanto di rigidezza , che suole
condannarsi nel diritto primi tivo dei Quiriti, è la miglior prova della sua
potenza ed energia ; perchè indica come l'elemento giuridico ormai fosse giunto
a tale da potersi svolgere senza più tener conto delle considerazioni reli
giose e morali, al modo stesso che la città, teatro del suo svolgi mento, ormai
era pervenuta a tale da cercare ancor essa di spo gliarsi di ogni traccia della
influenza gentilizia e patriarcale. 85. Questo è poi degno di nota , che anche
quando il ius viene ad affermare la propria esistenza separata continua pur
sempre a svolgersi sotto due forme, che corrispondono alle due sorgenti da cui
esso ebbe a derivarsi. Havvi infatti la parte, in cui il diritto cerca in certo
modo di imitare la solennità del fas, ed è quella in cui esso viene ad essere
rivestito della forma di lex ; quando cioè il popolo, interrogato dal magistrato
, dà una forma solenne ed espressa alla propria volontà (iubet atque
constituit) , creando cosi il ius legibus introductum . Intanto si mantiene
sempre un altro aspetto del ius, in cui la volontà collettiva del popolo si
manifesta nella formazione lenta delle proprie consuetudini, che i Romani
conside ravano come il frutto di una tacita civium conventio ( ius moribus
constitutum ). Ad ognimodo però il ius, prenda esso il carattere di una regola
, che il popolo pone a sè stesso, o di una norma, che for misi tacitamente nel
costume, è pur sempre il frutto di un ac cordo espresso e tacito dei cittadini,
e deve essere considerato come l'espressione di una volontà comune, che si
sovrappone alla volontà dei singoli individui. Finchè esso è in via di formazione
può essere argomento di discussioni, le quali hanno luogo nelle riunioni meno
solenni del popolo, che chiamansi contiones ; ma allorchè la - -- 107 legge
viene ad essere posta e costituita con quei riti solenni, che accompagnano i
comizii, la vox populi viene ad essere considerata come vox dei, e debbono
ubbidirvi tutti coloro, che cooperarono a formarla , non eccettuati quelli che
erano di avviso contrario . Vi ha di più, ed è che accanto a questo dualismo se
ne delinea ben presto un altro , per cui distinguesi una parte del diritto ,
che si riferisce all'interesse generale della comunanza, e chiamasi ius
publicum ; e una parte invece, che si riferisce all'interesse parti colare
delle famiglie e delli individui, che entrano a costituirla , e chiamasi ius privatum
. Il primo si forma sulla piazza e nel foro, fra gli urti ed i conflitti delle
varie classi, lascia le sue traccie nella storia politica della città, e si
esplica mediante gli accordi e le transazioni, cheavvengono fra patriziato e
plebe; mentre l'altro viene elaborandosi pressochè tacitamente nella coscienza
generale del popolo, e trova i suoi interpreti nei pontefici dapprima e nei giu
reconsulti più tardi. Intanto però l'uno e l'altro sono in certa guisa
atteggiamenti diversi di un medesimo diritto, in quanto che il di ritto
pubblico è in certo modo il palladio , sotto la cui protezione può nascere e
svolgersi il diritto privato (1). 86. Insomma al modo stesso , che l'urbs fu il
frutto di una lenta formazione, mediante cui si vennero sceverando dalle
abitazioni pri vate gli edifizii aventi pubblica destinazione, e che il
formarsi della civitas e del populus si dovette al raccogliersi e al riunirsi
di tutti gli uomini (viri) che col braccio o col consiglio potevano provve dere
alla difesa ed all'interesse comune ; cosi anche la formazione del diritto
primitivo deve essere attribuita ad una specie di elabo razione, che venne
operandosi nella coscienza generale di un po polo, e all'attrito dei varii
elementi, che entravano a costituirlo , (1) È da vedersi, quanto alla
distinzione fra diritto pubblico e privato, il Savigny, Sistema del diritto
privato romano, vol. 1', $ IX , trad. Scialoia, pag . 48 e segg. Sopratutto
importa il notare, che il diritto pubblico e il privato, nel concetto romano,
sono due atteggiamenti diversi del medesimo diritto (duae positiones), e non
deve essere dimenticato il detto, che Bacone certo ricavò dallo spirito del
diritto romano, secondo cui « ius privatum sub tutela iuris publici latet », De
augm . scient., lib . VIII, proem . al trattato de iust. univ., afor. 3. Quanto
alle altre suddistinzioni, che presentansi nel campo del diritto, è da
consultarsi il Voigt, Die XI] Tafeln , I, pag . 115 a 124, come pure lo stesso
autore, Das ius naturale, gentium etc. Leipzig , III, A , pag. 347. 108
mediante cui da tutti gli elementi etici e religiosi, che già si erano formati
durante il periodo gentilizio , si vennero sceverando tutti quelli , che
potevano ritenersi indispensabili per il mantenimento della convivenza civile e
politica. La città insomma che, piccola dapprima e limitata a pochi edifizii,
si venne però sempre ingran dendo a spese delle comunanze di villaggio, che
erano entrate a costituirla , deve essere considerata come il crogiuolo , in
cui si get tarono indistintamente tutti gli elementi della vita patriarcale,
per sceverarne ed isolarne quella parte, che aveva un carattere essen zialmente
giuridico , politico e militare. Fu questa una specie di chimica scomposizione,
che un popolo mirabilmente atto a sceverare nel fatto umano tutto ciò, che in
esso si presenti di giuridico, e a concretarlo in forme tipiche e precise,
venne in certo modo com piendo a benefizio del genere umano. Espresse quindi
una grande verità il poeta coll'esclamare : Fuit sapientia quondam Publica privatis
secernere sacra profanis (1); poichè tale veramente fu il compito delle città
primitive e quello sopratutto di Roma. 87. Il nucleo di questi precetti, di
carattere esclusivamente giuri dico , fu dapprima assai scarso , e si ridusse a
quel poco che una città , ancora nei proprii esordii, poteva sottrarre ad
un'organizzazione come la gentilizia , che ancora aveva tutta la sua vitalità
ed energia . Poscia però col crescere della città , coll'estendersi delle sue
mura , col fondersi insieme degli elemeuti, che entravano a costituirla ,
coll'in corporarsi di nuovi elementi nel populus , quel ius, che prima aveva
solo una posizione subordinata , si cambiò invece in tutore e custode della
vita pubblica e privata , e fu riconosciuto come sovrano nel seno della comunanza
civile e politica. Fu allora che, consapevole della propria forza e
dell'ufficio , che gli era affidato , si riaccostò di nuovo a quell'elemento
religioso e sopratutto etico , da cui aveva dovuto disgiungersi, allorchè nel
periodo della propria formazione non riconosceva più altra guida, che una
logica esclusivamente giu ridica (iuris ratio ) . Di qui intanto deriva la
conseguenza, che Roma, pur ricevendo ( 1) HoR ., Ars poetica . 109 le proprie
istituzioni dal passato , ci fa però assistere alla formaz one lenta e graduata
di un diritto, che venne adattandosi alle esigenze della convivenza civile e
politica , e differenziandosi sotto molteplici aspetti. Questo diritto tuttavia
può essere logicamente spiegato in tutto il suo processo , ed anche nelle
distinzioni che comparvero in esso , in quanto che è stato veramente una
costruzione logica e coe rente in tutte le sue parti, che venne svolgendosi «
rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente » . 88. Che questo sia stato
veramente il processo , con cui si esplicó il diritto in Roma, risulterà poi
con tanta evidenza dallo svolgersi della comunanza romana, che per ora non
occorre altra dimostra zione. Bensi importa, ed è assai più difficile
determinare, quali siano i rapporti, che primi ebbero ad assumere un carattere
giuridico, e quali siano stati gli aspetti essenziali, sotto cui si presentó
questo primitivo diritto presso le antiche genti italiche. Finchè noi siamo
nelle mura domestiche e nel seno della fa miglia la religione comune, la
riverenza verso il proprio capo, il suo carattere patriarcale, il suo potere
pressochè senza confini, non che l'autorità moderatrice di quel consiglio o
consesso di parenti, da cui egli è circondato , creano un'organizzazione di
tale natura, che può bastare a qualsiasi emergenza, senza che occorra perciò di
ri correre al diritto propriamente detto . Che anzi, se il diritto cer casse di
penetrare nelle mura domestiche, la fiera indipendenza dei padri riguarderebbe
ciò come una violazione del proprio domicilio ed una usurpazione della propria
autorità , come lo dimostra ancora il padre dell'Orazio , uccisore della
sorella, allorchè osserva che se il proprio figlio non avesse a ragione uccisa
la sorella (iure caesam ) sa rebbe toccato a lui di provvedere (1). Se quindi la
moglie, i figli, gli schiavi manchino a quei doveri, che sono fissati dal
costume e con sacrati dalla religione, sarà il padre stesso , che sarà vindice
dei loro (1 ) Liv., Hist., I, 24. Di qui si può' raccogliere, come non possa
ammettersi l'o pinione di coloro , i quali vorrebbero senz'altro attribuire ai
re, come primimagistrati di Roma, la giurisdizione per giudicare di qualsiasi
misfatto. V. CLARK's, Early roman law , pag. 54 - 108. Deve invece ritenersi a
questo riguardo col MuiruEAD , Histor. Introd ., pag. 69 e seg., che la
giurisdizione criminale del re o magistrato venne gradatamente svolgendosi
frammezzo alla giurisdizione dei capi di famiglia , e a quella che apparteneva
alle singole genti, quanto ai delitti , che erano commessi da membri, che entravano
a costituirle. 110 falli , salvo che in certi casi di maggior gravità , come
quando trat tisi della moglie adultera , non stata sorpresa in flagrante, egli
dovrà circondarsi del tribunale domestico e pronunziare la condanna, dopo
averne sentito l'avviso . Allorchè poi l'azione, che recò danno altrui, sia
stata compiuta da un altro capo di famiglia, o da persona soggetta al potere
del medesimo, sarà fra i due capi di famiglia, che la questione dovrà essere
risolta , e se quest'ultimo non intenda di riparare il danno arrecato dal suo
dipendente, non avrà nulla di ripugnante al modo di pensare dell'epoca , che
egli consegni la per sona, che ha recato il danno, al capo di famiglia, che
ebbe a soffrirlo, mediante l'antichissimo istituto delle noxae deditio (1).
Cosi pure (1) È noto a questo proposito come nell'antico diritto, distinguasi
fra noxia e noxa, per cui mentre il vocabolo noxia in sè avrebbe significato il
danno, veniva anche dai poeti adoperato per significare la colpa , mentre il
vocabolo noxa si adope rava per significare il peccato, il delitto, ed anche la
pena di esso ; donde la espres sione di noxae deditio , la quale trovava poi
una larga applicazione, tanto nei rap porti fra i capi di famiglia , quanto
eziandio nei rapporti fra le varie genti e tribù, come si vedrà trattando del
ius pacis ac belli nel periodo gentilizio. V. Festo, vº Noxia (Bruns, Fontes,
pag. 346). Intanto dalla estesa comprensività del vo cabolo di noxa o di nocia
, nella sua significazione primitiva , parmi di poter infe rire con fondamento,
che nelle origini uno stesso vocabolo significò ad un tempo la colpa , che
cagionava il danno, e il danno, che derivava da essa , e che non dovette
esservi distinzione fra colpa e danno di carattere civile e colpa e danno di
carattere penale, come neppure dovette distinguersi fra colpa contrattuale ed
extra-contrat tuale od aquiliana. I concetti e i vocaboli sono sinteticamente
potenti nel diritto primitivo, sopratutto romano , ed è solo col tempo, che in
essi si osservano quegli atteggiamenti diversi, che costituiscono poi
altrettante configurazioni giuridiche di un unico concetto fondamentale. Un
altro carattere del diritto primitivo si è anche questo, che esso prende di
regola le mosse da un vocabolo di significazione mate riale, e poi gli
attribuisce una significazione sempre più estesa e perfino traslata . Abbiamo
un esempio di ciò nel vocabolo rupere, che nella sua significazione primi tiva
dovette certo significare il rompere materialmente un membro, od altra cosa ;
ma fu poscia recato ad una significazione traslata , attestataci da Festo , per
cuiru pere significa damnum dare, al modo stesso che rupitias e ruptiones
finiscono per significare ogni maniera di danno. È uno dei processi più
consueti nel diritto primi tivo di Roma, quello per cui una volta formato un
concetto od un vocabolo giuridico non si teme di estenderlo a tutte le
configurazioni affini. Come si estese il parrici dium ad ogni uccisione di un
uomo libero, il che si vedrà più sotto ; così il membrum rupere o la rupitias,
essendo stato il danno, che prima ebbe ad essere configurato giuridicamente,
passò poi ad indicare qualsiasi danno. Rimando in proposito al dot tissimo
lavoro del collega G. P. Cuironi, La colpa nel diritto civile odierno. Torino,
1887, 2 vol. Di quest'opera credo di poter dire, senza offendere la modestia
dell'a mico, che servirà a rimettere in onore fra noi quel mirabile magistero,
che ha fatto la - 1 - 111 gli è tenendo conto della posizione rispettiva , in
cui in questo pe riodo si trovano due capi di famiglia , che si può comprendere
il nascere e lo svolgersi di certe procedure, che più tardi appariscono strane
e pressochè incomprensibili. Tale è, per dare un esempio, quella del furtum
lance lincioque conceptum , in cui abbiamo un capo di famiglia, che ricercando
una cosa statagli derubata può ottenere di entrare nella casa del vicino , in
cui teme sia stata nascosta; ma cid a condizione di fare anzitutto una
libazione propiziatoria ai lari della casa , in cui egli si inoltra, il che è
dimostrato dal piatto, che egli tiene fra mano (lance), e intanto deve
stringersi la persona con un cingolo (lincio ), che gli impedisca di nascondere
qualsiasi oggetto. Sembra però, che questa perquisizione domiciliare dovesse
per un senso di pudicizia arrestarsi dinanzi al cubiculum della moglie, con che
però il capo di casa giurasse che nulla di deru bato vi era stato nascosto (1).
Del resto in questa primitiva condi grandezza della giurisprudenza romana,
secondo cui, una volta che si è formata una configurazione giuridica , la
medesima non deve più essere perduta di vista nelle in definite trasformazioni
e distinzioni, che pud subire nelle vicissitudini delle legisla zioni e della
giurisprudenza , ma deve sempre essere richiamata alle proprie origini e
seguita nella sua dialettica fondamentale . L'autore tratta dei concetti di
rupere, di rupitias, di culpa nel primo volume della 2a parte, cap . I, § 1°,
della lex Aquilia , pag. 6 e segg. (1) L'Esmein in un suo recente scritto col
titolo: La poursuite du vol et le serment purgatoire, trova le traccie di una
procedura analoga a quella, che seguivasi per il furtum lance lincioque
conceptum , anche presso il popolo di Israele nel fatto di Rachele, che avendo
sottratti gli idoli di Labano, li aveva poi nascosti sotto le coperte del
cammello , sovra cui essa si era seduta; come pure nel fatto narrato da
MACROBIO , Saturnalia , I, 1, cap. VI in fine, ove si narra di un Tremellio, a
cui sarebbesi imposto il soprannome di Scrofa , perchè avendo rubata una scrofa
uccisa, aveva poi fatto sedere sopra di essa la propria moglie, e aveva
giurato, in via di purgazione, che colà non eravi altra scrofa, fuori di
quella. Ciò dimostra come questa procedura primitiva siasi naturalmente formata
presso popoli diversi ; ma non potrei convenire nell'apprezzamento dell'autore,
per cui nelle epoche primitive non si guarderebbe che all'adempimento delle
forme esteriori della procedura; poichè nel fatto stesso citato da MACROBIO,
noi abbiamo l'opinione generale, che segna a dito colui, che ricorse a
quell'ignobile stratagemma, imponendogli il soprannome di Scrofa ( V. Esmein ,
Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886, pag. 233 et suiv.). L'autore poi, il
quale avvertì che il piatto , tenuto fra mani da colui, che ricercava la cosa
derubata nel furtum lance lincioque conceptum , ricorda in certo modo la liba
zione propiziatoria ai lari e ai penati, che dovevasi fare prima di metter
piede nella casa altrui, è il Leist, Graec. Ital. R. G., pag. 241. Sul furtum
lancie lincioque conceptum è da vedersi la dissertazione del Gulli, Del furtum
conceptum se condo la legge delle XII Tavole . Bologna, 1884. - 112 zione di
cose, mancando ancora un'autorità , che siasi fatta ella stessa investigatrice
e punitrice dei misfatti, si comprendeche sia il derubato che prosegue il ladro
, il marito offeso che tenga dietro all'adultero e sorpreso l'uccida, e si
richiederà ancora lungo tempo prima che in Roma l'autorità pubblica si
incarichi direttamente della punizione di questi e di altri misfatti ( 1). Che
se la riparazione non venga ad essere accordata all'offeso , sarà anche
naturale , che impegnisi una lotta fra le due famiglie , e che associandosi
alle medesime le genti, a cui esse appartengono, il duello privato mutisi
talvolta in un conflitto fra le due genti, ed anche in una guerra fra le tribù,
di cui esse entrano a far parte . 89. Cosi è pure dei rapporti interni fra i
diversi membri, che entrano a costituire la gente, quali sarebbero i rapporti
fra il patrono ed il cliente, ed anche i doveri della ospitalità , poichè essi
cadono sotto la protezione religiosa, e le violazioni di essi sono punite me
diante la pubblica disistima, e coll'intervento dell'autorità patriar cale e
del consiglio degli anziani, custodi e vindici delle tradizioni dei maggiori.
Siccome però nella gente già vengono ad esservi di versi capi di famiglia, che
hanno una propria familia , un proprio heredium , un proprio peculium ; cosi
comprendesi come nel vicus già possano sorgere delle controversie di carattere
giuridico fra i diversi padri: controversie che talvolta possono anche essere
rese più accanite dal vincolo stesso di parentela , che intercede fra le
famiglie che appartengono alla medesima gente. È tuttavia ancora sempre
verosimile, che l'interporsi di qualche anziano , che goda la fiducia comune
dei contendenti, possa indurli ad un amichevole com ponimento ; il che spiega
come nei vici siavi sempre un luogo per il mercato, in quanto che la
distinzione del mio e del tuo già rende possibile il commercium , manon vi si
rinvenga sempre il luogo per amministrare giustizia (2). Infatti il carattere
esclusivamente patriar cale dei rapporti, che intercedono fra i membri di essa
, rendono ( 1) Ciò accade sopratutto, quanto all' adulterio , che cominciò a
formare oggetto di un iudicium publicum solo colla legge Iulia , De adulteriis,
che fu una di quelle con cui Augusto cercò , ancorchè con poco frutto, di far
rivivere il buon costume. V. in proposito l'interessante articolo dell'Esmein ,
Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia , De adulteriis (Mélanges d'histoire
de droit, pag . 71). (2) Quanto al vicus e al difetto , che talora trovasi in
esso di un magistrato per amministrarvi giustizia, vedi sopra pag . 67. 113
ripugnante l'idea di una vera e propria lite, non solo fra patrono e cliente,
ma anche fra i padri o capi di famiglia , che discendono dal medesimo antenato
e hanno per mettersi d'accordo fra di loro l'autorità dei proprii anziani. 90.
Nella tribù invece, già si trovano di fronte capi di famiglia , che
appartengono a genti diverse e che più non discendono dal mede simo antenato ,
nè partecipano allo stesso culto gentilizio : quindi già viene ad imporsi il
bisogno di provvedere in qualche modo all'am ministrazione della giustizia, più
non essendovi un'autorità di ca rattere esclusivamente patriarcale , che possa
imporsi ai capi di famiglia, che sono di discendenza e d'origine diversa .
Dovette quindi probabilmente essere questa necessità di provve dere
all'amministrazione della giustizia , che suggerì l'idea di una autorità
chiamata a dirigere e ad amministrare il pagus (magister pagi), la cui
primitiva destinazione è ancora indicata dai nomi di iudex e di praetor, ed
anche da quello di tribunal (derivato cer tamente da tribus), che significava
dapprima il seggio, più elevato sovra cui collocavasi quegli che era chiamato
ad amministrare giu stizia, e indicava così anche esteriormente la posizione
cospicua , in cui egli trovavasi di fronte agli altrimembri della comunanza (
1). Queste controversie intanto non possono naturalmente sorgere che fra i
varii capi di famiglia, i quali, memori delle loro tradizioni, sono dapprima
troppo altamente compresi del proprio diritto , perchè sia necessario che
intervenga una legge a dichiarare quello che loro appartenga; ma hanno
piuttosto bisogno di essere contenuti nell'esercizio violento delle proprie
ragioni e di conoscere il processo , che debbono seguire per ottenere
giustizia, senza dover ricorrere alla privata violenza . È questo il motivo,
per cui presso tutti i popoli primitivi la prima forma che giunse ad assumere
il diritto fu quella dell'actio , che è il complesso degli atti e dei riti
solenni, che si debbono compiere per far valere il proprio diritto davanti al
magistrato : atti e riti solenni, che presso genti come le latine, le quali
imitano coi gesti e coi riti (1) La posizione elevata del tribunal, sovra cui
trovasi assiso il magistrato, perchè « sedendo quiescit animus, et sedendo ac
quiescendo fit animus prudens » trovasi soventi accennata dai poeti latini,
come indizio della dignità , a cui era assunto colui, che era chiamato ad
amministrare giustizia. V. Henriot, Mæurs juridiques et judi ciaires de
l'ancienne Rome, III, pag. 14 et suiv.). G. CARLE, Le origini del diritto di
Roma. 8 114 giudiziarii, ciò che un tempo dovette seguire nei fatti, finiranno
per contenere una storia simbolica dei varii stadii, per cuidovette pas sare
l'amministrazione della giustizia, prima di giungere ad essere accettata e
riconosciuta dallo spirito fiero ed indipendente dei primi capi di famiglia .
91. Che se si volesse spingere anche più oltre questa ricostru zione del
diritto primitivo, che ebbe a svolgersi nel seno della tribù, potrebbe
affermarsi con certezza , che le due prime figure di rei, contro cui la
giustizia umana abbia dovuto associare i proprii sforzi colla giustizia divina
e colla esecrazione della generale opinione , do vettero essere quella del
parricidas e del perduellis. Ivi infatti è sopratutto l'uccisione del padre di
famiglia , che per il carattere pa triarcale della comunanza viene ad essere considerato
come padre rimpetto a tutti i membri di essa, i quali talvolta continuano
ancora a chiamarsi col nome di fratelli (1), che è il grande misfatto contro le
leggi divine ed umane, il quale pudmettere in lotta le famiglie fra di loro ,
ed anche rimanere impunito , quando l'autorità comune non si mettesse in
movimento contro di esso. Nèripugna al carat tere della comunanza patriarcale,
che la punizione del parricida acquistasse in certo modo un carattere
tradizionale e fosse accom pagnata da certe pratiche, che possono anche avere
un significato simbolico , e che potrebbero anche essere state portate
dall'Oriente. Tali sono quelle, che più tardi ancora accompagnano la punizione
del parricida ; pratiche tradizionali, che anche oggi in parte sopravvi vono e
non possono dirsi compiutamente abbandonate anche presso le nazioni civili (2
). Così pure dovette essere un processo del tutto natu (1) Questa circostanza ,
che tutti i membri della comunanza patriarcale si chiamino fratelli, è
attestata dal Sumner MAINE quanto al villaggio Indiano: The early hi story of
institutions, pag. 238, e qualche cosa di analogo dovette accadere ancora nella
tribù italica , ove non vi ha dubbio, che i capi di famiglia erano generalmente
indicati col vocabolo di patres ; poichè di questo stato di cose rimasero
ancora le traccie in Roma primitiva . (2) È nota la punizione tradizionale
contro il parricida, ricordata ancora nella L. 9 , Dig. (48 , 9) Poena
parricidii more maiorum haec instituta est, ut parri cida , virgis sanguineis verberatus,
deinde culleo insuatur cum cane, gallo gallinaceo et vipera et simia ; deinde
in mare profundum culleus iactatur » . Qui il giurecon sulto lascia travedere,
che la pena del parricidio era stata conservata nel costume e trasmessa per via
tradizionale (more maiorum ). Essa pertanto dopo essersi man tenuta nel costume
più che nella legge, contro i parricidi in senso stretto, ebbe poi ad essere
sanzionata dalla lex POMPEIA, De parricidiis. 115 rale, che condusse l'opinione
generale di una comunanza patriarcale a ravvisare un nemico in colui, che
gettava la perturbazione nella comunanza stessa e si disponeva a tradirla coi
nemici di essa ; co sicchè non dubitarono di applicargli il nome stesso , che
davano al nemico , con cui erano in guerra, il qual nome era quello appunto di
perduellis. Cið intanto darebbe una spiegazione molto proba bile e naturale del
fatto, che fece meravigliare gli stessi Romani, per cui Romolo prima e Numa
dopo avrebbero chiamato col nome di par ricidas anche l'uccisore di un uomo
libero, non che di quello per cui le prime e sole autorità incaricate di
perseguire e punire i mi sfatti in Roma primitiva avrebbero assunto il nome di
quaestores par ricidii e di duumviri perduellionis. Anche qui la legislazione
della città avrebbe cominciato dal riconoscere come pubblici reati quelli, che
già avevano cominciato ad assumere questo carattere nello stesso periodo
gentilizio , e a questi sarebbe poi venuta aggiungendo man mano quelli la cui
repressione appariva necessaria ; madi ciò si avrà campo a discorrere
lungamente in luogo più opportuno (1). 92. Ma vi ha di più , ed è che nella
tribù , come noi abbiamo visto a suo tempo, già si incomincia la formazione di
due ordini diversi di persone, che sono i patrizi e i plebei, i quali ultimi più
non entrano nei quadri dell'organizzazione gentilizia , ma già cominciano ad es
sere indipendenti dal patriziato , sebbene ancora si trovino in con dizione
assai inferiore e non abbiano potuto ancora dimenticare la loro antica origine
servile. Di fronte a questa condizione parmi non sia temeraria la conget tura,
che mi permetto di avventurare, secondo cui, nel periodo della tribù e nel seno
del pagus, non dovette soltanto cominciarsi lo svol gimento dell'elemento
giuridico, ma questo diritto primitivo dovette assumere due forme essenziali ;
in quanto che altro dovette essere il diritto , che governava i rapporti fra i
padri, che appartenevano alla stessa comunanza gentilizia, ispirato all'idea
della loro parità ed uguaglianza di condizione; ed altro invece il diritto ,
che venne a svolgersi nei rapporti, che necessariamente dovettero stabilirsi
fra l'ordine superiore dei padri e quello inferiore della plebe , il quale non
potè a meno di ritenere qualche traccia della superiorità che (1) La questione
del parricidium e della perduellio sarà trattata nel lib. II, di scorrendo
delle leges regiae. 116 si attribuivano i primi e dell'inferiorità di
condizione, in cui sape vano di trovarsi i secondi. È solo col dare la debita
parte a queste due forme del diritto primitivo, le quali del resto trovano la
loro base nelle condizioni di fatto dei due ordini, che si possono spiegare
certe istituzioni pri mitive del diritto romano, quali sarebbero quelle del
mancipium , del nexum , della manus iniectio e simili; le quali, a mio avviso,
come dimostrerà a suo tempo, sono tutte forme giuridiche, che non trovarono
applicazione nei rapporti fra i padri e i loro discendenti patrizii, ma
soltanto nei rapporti fra i patrizii ed i plebei. Se si comprende infatti che
un plebeo, il quale non aveva dapprima altra garanzia da dare che quella della
propria persona, fosse co stretto a dare a mancipio sè stesso o la propria
figliuolanza, o ad obbligarsi con quella severità , che era propria del nexum
primitivo , e che il patrizio insoddisfatto potesse mettere la mano sopra di
lui e trascinarlo nel suo carcere privato , mediante la procedura della manus
iniectio ; questi modi di procedere non si possono invece comprendere fra due
capi di famiglia appartenenti alle genti pa trizie. Nè serve il dire, che
queste istituzioni passarono poi effet tivamente nel diritto quiritario ;
poichè anche questo fu l'opera dei patrizii, i quali, dettandolo, avevano
sopratutto per iscopo di gover nare e di reggere le plebi. Di più è un processo
del tutto romano quello per cui, quando si è creato un vocabolo o un concetto,
non si dubita di trapiantarlo in condizioni anche diverse da quella in cui ebbe
a formarsi ( 1 ). Sarà quindi opportuno tentare la ricostruzione dell'una e
dell'altra forma di questo primitivo diritto per trovare in esso la spiegazione
alcune singolarità del tutto peculiari al diritto quiritario . (1) Lo
svolgimento di questa teorica può vedersi in questo stesso libro Capo X , ove
si tratta appunto di alcuni primitivi concetti del diritto quiritario. . T 117
- CAPITOLO VI. Il diritto primitivo delle genti patrizie. $ 1. Di alcuni
caratteri generali del diritto primitivo delle genti patrizie. 93. I
giureconsulti classici col dire che il ius hominum causa constitutum est,
enunciarono una verità , che trova una piena con ferma nei fatti , quando
seguasi il processo , con cui il diritto primi tivo vennesi formando fra le
genti del Lazio . Credo di aver dimostrato , che finchè trattavasi di persone,
che appartenevano al medesimo gruppo, il fas, il mos e l'autorità pa triarcale,
stabiliti in seno delle varie aggregazioni, potevano bastare a qualsiasi
emergenza. Così invece non era, allorchè i capi di fa miglie, appartenenti ai
diversi gruppi, venivano a mettersi in rapporto fra di loro ; poichè in allora ,
mancando la comune discendenza e l'autorità patriarcale di un capo, conveniva
di necessità porre le reciproche obligazioni sotto l'impero di un comune
diritto. Di qui provennero alcuni caratteri importantissimidel diritto
primitivo, che possono spargere molta luce sulla formazione del diritto
quiritario , e dileguare una quantità di sottigliezze, che furono immaginate
per spiegare quel diritto , senza cercarne la causa nelle condizioni sociali,
che ne determinarono la formazione. 94. Il primo di tali caratteri sta in
questo, che i rapporti giuri dici, nel vero senso della parola , sorsero
dapprima fra i capi di gruppo , anzi che fra i singoli individui, che erano
assorbiti ed uni ficati nel medesimo. Di qui le solennità, che dovevano
necessaria mente accompagnarne gli atti, come quelli che non riguardavano gli
interessi particolari di questo o di quell'individuo ; ma si riferi vano
all'interesse dell'intiero gruppo da lui rappresentato , e così avevano, per
usare il linguaggio moderno, un'importanza pressochè internazionale. Non fu
pertanto amore di formalismo, che guido un popolo così eminentemente pratico,
come il romano, nella forma zione del proprio diritto ; ma questo , nei suoi
esordii apparve ingombro di formalità e d i finzioni, solo perchè , dopo
essere stato preparato in un periodo di organizzazione sociale, fu trapiantato
118 in un altro dallo spirito conservatore del popolo romano. Anzichè
archittettare formalità artificiose, i romani si valgono invece di quelle, che
si erano formate nella realtà dei fatti in un periodo anteriore, e con piccole
modificazioni, che sono rese necessarie dalle nuove esigenze, fanno entrare in
esse i rapporti, che si vengono svolgendo più tardi nella comunanza civile e
politica (1). Nel che se guono un processo, che non abbandonarono neppure più
tardi; quello cioè dinon creare giammai una forma novella, finchè quella già
prima (1) Il formalismo è certo uno dei caratteri più salienti del diritto
primitivo di Roma. Si comprende quindi, che gli autori contemporanei se ne siano
largamente occupati e fra gli altri il SUMNER Maine, L'ancien droit , Chap. II,
in cui si oc cupa delle finzioni legali, e sopratutto poi il JHERING , che ebbe
a dedicarvi buona parte del III volume della sua opera : L'esprit du droit
Romain , da pag. 109 fino al fine. La conclusione, a cui sarebbero venuti
questi autori, sarebbe,che questo forma lismo del diritto primitivo di Roma
debba essere attribuito alla predilezione del popolo romano per l'elemento
esteriore ; carattere, che Roma avrebbe comune con tutti i popoli primitivi, e
proveniente da ciò , che i medesimi riguardano più alla forma che alla
sostanza. Senza voler qui entrare in una discussione, che mitrarrebbe troppo in
lungo, mi limito unicamente ad osservare, che il formalismo non è un fenomeno,
che comparisca presso i popoli veramente primitivi;ma che esso compare
soltanto, al lorchè istituzioni formatesi in un'epoca si trasportano in
un'altra, in cui più non si comprenda la significazione delle medesime. Dei
popoli primitivi non si può dire , che essi siano amici della formalità ;
perchè essi cercano di esprimere ciò che sentono col gesto, cogli atti e colle
parole ad un tempo, e quindi hanno una mimica , la quale, anzichè essere
artificiosa ed architettata , tende ad essere l'espressione effettiva e reale
delle loro sensazioni ed emozioni. Quindi il formalismo, anzichè essere
l'indizio di un popolo primitivo, è invece l'effetto dello spirito
conservatore, che trasporta forme create in un periodo ad un altro, in cui esse
hanno perduto qualsiasi significazione . Tutte le forme, che si conservano come
tali, sono sopravvivenze di un'epoca trascorsa , che sono trapiantate in
un'altra , la quale più non le capisce, e quindi si limita ad osservarle
pressochè materialmente. Ciò accade nella religione, nella morale , nel di
ritto, e accadde certamente nel diritto di Roma, il quale, se diventò
formalista, fu perchè il patriziato romano volle conservare le vestigia del
passato e fare entrare nelle forme preparate nel periodo gentilizio i nuovi
rapporti , che erano creati dalla convivenza civile e politica. Non è quindi da
ammettersi, che la forma esteriore del diritto si elabori prima della sostanza
di esso ; nè che i popoli primitivi diano maggior importanza alla forma, che
alla sostanza. Forma e sostanza invece si presentano dapprima indissolubilmente
congiunte, ed è solo più tardi, allorchè si vorrebbero conservare le forme
antiche, e fare entrare nelle medesime una sostanza nuova , che si viene alla
conseguenza, per cui a forma dat esse rei. » Ciò che accade nel diritto,
avverasi eziandio nel linguaggio, il quale nella sua prima formazione adatta la
parola al concetto; il che non impedisce perd , che più tardi, trasportandosi
la stessa parola ad un altro concetto, si venga alle significazioni traslate ,
la cui origine può talvolta essere poi difficilmente compresa . 119 esistente
possa ancora bastare al bisogno. Del resto non può neppure dirsi, che negli
inizii di Roma questo diritto fosse veramente disac concio, dal momento che
allora soltanto si usciva da una condizione di cose , in cui il padre
rappresentava effettivamente quel complesso di persone e di cose , che
dipendevano da esso . Quindi era natu rale, che per qualche tempo il diritto
primitivo conservasse quel medesimo carattere, che aveva acquistato durante il
periodo genti lizio ; solo cominciò a diventare artificioso e disadatto alle
nuove condizioni sociali il diritto primitivo di Roma, quando al padre si venne
sostituendo il cittadino, e più ancora quando al cittadino si sostitui l'uomo
libero. Del resto non è poi difficile il ricostruirsi nel pensiero
un'organizzazione, in cui sia veramente il padre, che compia tutto ciò, che si
riferisce al gruppo da lui rappresentato , per guisa, che esso sia padre quanto
ai figli, padrone quanto ai servi, patrono quanto ai clienti, e rappresenti il
gruppo da lui governato , ogni qualvolta trattasi di entrare in rapporto con
altri gruppi. Di questo padre antico ci hanno conservato la imponente figura
non tanto gliscrittori di cose giuridiche, che lo irrigidiscono di troppo
perchè lo riguardano sotto l'aspetto esclusivamente giuridico ; ma gli altri
scrittori latini, allorchè ci dipingono, ad esempio, Appio Claudio, capo di una
grande famiglia , custode geloso dell'antico costume, il quale continua,
ancorchè vecchio e cieco, ad esercitare, venerato e temuto ad un tempo, la
propria autorità sui figli, sui servi, e sopra un nu mero grandissimo di
clienti ( 1). Del resto anche il diritto lascia di quando in quando travedere
quest'aureola patriarcale , che circonda il capo di famiglia , come lo
dimostrano le seguenti parole attribuite ad Ascanio : « Moris fuit,unumquemque
domesticam rationem sibi totius vitae suae per dies singulos scribere, quod
appareret quid quisque de reditibus suis, quid de arte, de foenore lucrove sepo
suisset, et quo die, et quid idem sumptus damnive fecisset.» (2 ). Tuttavia
anche questa descrizione tende già a dare all'autorità del padre un carattere
essenzialmente giuridico;mentre invece , riportan doci al periodo gentilizio ,
questa figura primitiva presentasi anche (1) Cic., Cato maior, II , 37. È poi
sopratutto nei poeti latini, e specialmente nei comici, come Plauto, che si può
facilmente scorgere la differenza fra la patria po destà, quale era
giuridicamente concepita é quale invece esisteva nel fatto. È da vedersi in
proposito l'Henriot, Moeurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome, tome
1er , pag. 347 a 356 . (2 ) V. Bruns, Fontes juris romani antiqui. Edit. V ,
Friburgi, 1887 , pag. 397 . 120 più imponente col suo carattere patriarcale e
religioso ad un tempo ; e quindi si può comprendere come l'acceptum ,
l'expensum , lo spon sum , lo stipulatum , l'actum , il iussum del capo di
famiglia si cam biassero in altrettanti atti solenni, che diventarono poi il
substratum di altrettante configurazioni giuridiche in un periodo posteriore
(1). 95. Un secondo carattere poi sta in questo , che il diritto primitivo
presentasi fra questi capi di famiglia appartenenti a genti e a tribù diverse ,
come il solo mezzo per stabilire e mantenere la pace fra i medesimi. Se infatti
il suo impero non fosse riconosciuto non avreb besi altro espediente , che
quello di ricorrere alla manuum consertio , la quale, allargandosi dalla
famiglia alle genti, e da queste alle tribů , manterrebbe le medesime in uno stato
di guerra permanente, i cui ran cori si verrebbero poi perpetuando di
generazione in generazione (2). (1) Accenno qui ad un concetto, che sarà svolto
più largamente altrove. Diregola si suol cercare nel diritto quiritario il
complesso di tutti gli atti e dei negozi giu ridici, che potevano essere
richiesti dalle condizioni sociali del popolo, fra cui esso vigeva. Esso invece
non comprese dapprima tutti i rapporti giuridici, che già esi stevano nel
costume e nella consuetudine ; ma cominciò dal comprendere quelli, che erano
resi più urgenti dalle esigenze della vita civile e politica. Fu in questo
modo, che esso comincia dall'essere un ius quiritium , che si aggira su
pochissimi concetti fondamentali, i quali si adattano a tutte le possibili
evenienze; poi trasformasi nel ius proprium civium romanorum ; quindi
assorbisce anche nella propria cerchia le istituzioni del ius gentium ; e da
ultimo giunge ad informarsi persino al iusnaturale; concetti questi che, se non
avevano ancora una configurazione scientifica, vivevano però già nella
coscienza generale del popolo romano, fin dal proprio esordire nella storia .
(2) Ciò mi conferma in una antica convinzione , che ho già avuto occasione di
esporre nell'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale.
Lib. I, Cap. I, pag . 38 e seg., la quale consiste in ritenere, che anche nelle
epoche pri mitive il diritto non confondesi colla forza ; ma compare invece
qual mezzo per reprimere la forza e la violenza . So che questa opinione ebbe
ad essere combattuta da egregi giovani, che si occuparono dell'argomento, e fra
gli altri dallo Zocco-Rosa, Preistoria del diritto. Milano 1885, pag. 31, e dal
Puglia , L'evoluzione storica e scientifica del diritto e della procedura
penale, pag. 42, nota ; ma i fatti mi in ducono a persistere nella medesima.
Non è già che io neghi, che siavi stato un periodo, in cui abbia predominata la
forza e la privata violenza : ma quando pre sentasi il diritto, esso non solo
non confondesi colla forza, ma si propone senz'altro di reprimerla,
obbligandola a seguire certi processi, che ne impediscono le esagera zioni e
gli eccessi. In questo senso aveva ragione il poeta di scrivere : Nam genus
humanum . Ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum Sponte sua cecidit sub
leges arctaque iura . Lucretius, De rerum natura, Lib . V , v . 1144-46. 121
Cid è anche dimostrato dal carattere del tutto particolare, che assu mono le
guerre in questo periodo, e che si mantiene ancora per qualche tempo nella
storia primitiva diRoma. Tali guerre infatti il più spesso prendono le mosse da
qualche controversia, di carattere pressochè famigliare, che viene poi
estendendosi mediante le aderenze e le pa rentele, e riduconsi in sostanza a
scambievoli scorrerie, che le varie tribù e genti vengono facendo nei rispettivi
loro territorii; scorrerie , che si sospendono mediante le induciae nella
cattiva stagione, e vengono poi ad essere riprese nell' anno seguente. Ciò fece
quasi credere, che queste genti primitive fossero in uno stato perpetuo di
guerra; il che non può essere ammesso , perchè è contraddetto dalle solennità
stesse, che accompagnano così le dichiarazioni di guerra, come la formazione
delle tregue, delle alleanze e delle paci, il che apparirà meglio a luogo più
opportuno. 96. Un ultimo carattere infine, sta in ciò, che la formazione del
primitivo diritto non si avvera dapprima nei rapporti interni dei sin goli
gruppi; ma piuttosto nei rapporti fra le famiglie, fra le genti, fra le tribù,
o almeno fra i loro capi, per guisa che i primi vocaboli di significazione
eminentemente giuridica contrappongono sempre l'uomo all'uomo, ed indicano dei
rapporti amichevoli od ostili, che vengono a svolgersi fra i diversi capi di
gruppo . Di qui la conse guenza in apparenza strana, ma certamente fondata sui
fatti, che la formazione di un diritto , che governava i rapporti fra le varie
genti, dovette precedere la formazione del diritto privato propria mente detto
: il che è dimostrato anche dalla considerazione, che negli antichi scrittori
si discorre dei iura gentium , prima ancora che si discorra del ius quiritium e
del ius civium romanorum . Infatti: i iura gentiun , i foedera, le sponsiones
fra i capi delle varie genti erano già rapporti, che si erano svolti
anteriormente alla formazione della comunanza romana, mentre il ius quiritium
dapprima e il ius civile più tardi nacquero e si svolsero colla stessa città di
Roma; il che appare eziandio dal processo delle cose sociali ed umane, che ci è
descritto dagli antichi poeti latini. Intanto fu sopratutto sui mercati, ove comparivano
i varii capi di famiglia , ed ove, oltre gli scambi, si potevano anche trattare
le alleanze e le paci, che cominciò la formazione di un vero e proprio diritto
; il quale, esplicandosi fra capi di famiglia, che appartenevano a genti
diverse, e che non erano ancora soggetti al medesimo diritto , dovette
necessariamente essere dapprima piuttosto un ius gentium , che non un diritto ,
che - 122 potesse chiamarsi ius civile. Questo anzi non potè formarsi altri
menti, che col trasportare fra i cittadinidella medesima città quelle forme,
che si erano prima elaborate nei rapporti contrattuali fra i capi delle varie
genti e famiglie ( 1). Si può quindi affermare, che anche quel diritto
primitivo di Roma, che appare nella storia con caratteri di maggior rozzezza e
violenza, non trovi sempre la pro pria origine nella forza, come molti
sostengono ; ma che in parte abbia avuto invece un'origine essenzialmente
contrattuale, come la città , in cui esso era chiamato a ricevere il suo
svolgimento . Il diritto , anziché doversi confondere colla forza, compare
invece, allorchè si comincia ad uscire da uno stato di privata violenza , e se
la forza continua ancora nei rapporti fra le varie tribù, gli è perchè esse non
riuscirono ancora a sottoporsi, mediante accordo, all'impero di un medesimo
diritto . Fu solamente più tardi, allorchè la città co minciò ad essere
abbastanza forte e potente, per imporsi ai singoli gruppi, che l'autorità
civile potè penetrare eziandio nelle mura do (1) Non mi dissimulo l'arditezza
di una idea, che conduce in sostanza a dire, che si formò dapprima il ius
gentium , che non lo stesso ius civile , e che il ius quiri tium fu un diritto,
formatosi dapprima fra le genti e i loro capi, e poscia trapiantato fra i
quiriti: ma questo processo è per tal modo confermato dai fatti e ne appari
ranno man mano prove così evidenti , che mi sembra impossibile il poterlo
negare. Del resto la ragione di esso trovasi in questo, che mentre la famiglia
poteva fare a meno del diritto nei suoi rapporti interni; questo invece era
indispensabile nei rapporti fra le varie famiglie e fra le varie genti. Che
anzi , dacchè sono nel do minio delle induzioni, aggiungerò ancora , che ai
iura gentium dovette precedere il senso di quei iura naturalia , quae natura
omnia animalia docuit ; per guisa che il diritto nel suo svolgimento di fatto
sarebbe prima uscito dalle tendenze spontanee dell'umana natura ; poi sarebbe
stato elaborato nei rapporti fra le varie genti; e solo più tardi sarebbe
comparso nell'interno della città . Esso insomma nei fatti seguì un processo
del tutto opposto a quello che seguì la scienza del diritto in Roma; la quale
cominciò invece dalle cautele del ius civile; poi venne ad abbracciare anche
l'equità del ius gentium ; e più tardi soltanto giunse ad innalzarsi
all'umanità del ius natu rale. Vi ha però questa differenza , che i iura
naturalia primitivi sono l'opera in consapevole degli istinti dell'umana natura
, e i primitivi iura gentium consistono in un complesso di pratiche fra le
varie genti, imposte dalle necessità di fatto ; mentre il ius gentium accolto
dal pretore e il ius naturale dei giureconsulti sono già nozioni astratte , a
cui essi pervennero, mediante la riflessione ed il ragiona mento, e forse
neppure da soli, quanto al ius naturale, ma col sussidio della filosofia greca
, più atta a svolgere questi concetti speculativi ed astratti. Mi rimetto,
quanto allo svolgimento del concetto di ius gentium e di ius naturale, a ciò
che ho scritto nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, pag
. 179 a 194 , lasciando a chi legge di notare le modificazioni, che qui sonovi
arrecate. 123 mestiche, e sostituirsi a poco a poco alle norme di carattere
esclusi vamente religioso e morale, imponendo un diritto , a cui tutti devono
inchinarsi, perchè è l'espressione della volontà collettiva e comune. $ 2 . Il
connubium e il commercium nel periodo gentilizio . 97. I caratteri del diritto
primitivo, che ho fin qui cercato di ricavare dall'esame dei fatti, appariscono
eziandio dai vocaboli più antichi, che presso le genti latine abbiano avuta una
portata ve ramente giuridica, quali sono quelli di connubium , di commercium e
di actio, e dalla significazione, che questi vocaboli ebbero ante riormente
alla formazione stessa della città . Infatti non può esservi dubbio , che tutti
questi concetti già avevano un contenuto preciso , allorchè comparve la
comunanza romana; ma essi non indicano ancora un complesso di diritti, che
appartenga a questa od a quella per sona, ma piuttosto dei rapporti, di
carattere pressochè contrattuale , che esistono fra le famiglie , le genti e le
tribù e i capi rispettivi delle medesime. La stessa actio , nel suo significato
giuridico, ha un'origine pressochè contrattuale, come lo dimostra il fatto, che
essa suppone il rimettersi di due persone ad un'autorità accettata da entrambi,
ed una reciproca scommessa fra i contendenti, con cui entrambi affermano di
essere nel buon diritto . Fu solo più tardi, che questi vocaboli, i quali
significavano primitivamente deirapporti, che inter cedevano fra le varie genti
e i loro capi, trapiantati fra i cittadini della medesima città vennero a
costituire altrettanti capi saldi, da cui si staccarono le forme essenziali,
sotto cui ebbe poi a svolgersi il diritto quiritario . È poi degno di nota, come
questi vocaboli, che primi acquista rono una significazione giuridica, abbiano
questo di particolare , che contrappongono l'uomo all'uomo, indicando per tal
modo come il diritto sia veramente nato colla società umana, e sia chiamato ad
essere il vinculum societatis humanae. Nel connubium infatti ab biamo una
persona, che esce da una famiglia per entrare in un'altra ; nel commercium
abbiamo una persona , che, obligando se stessa od alienando la sua proprietà ,
addiviene a quelle molteplici relazioni di affari e di negozii giuridici, di
cui si intesse la vita sociale sotto l'aspetto economico; nell'actio infine,
abbiamo parimente una persona che, ritenendosi lesa in questo o in quel diritto
da un'altra persona, 124 - lo afferma e lo fa valere di fronte alla medesima,
appigliandosi a quei mezzi, che possono conciliarsi colle esigenze della vita
sociale . Per tal modo il ius pone l'uomo di fronte all'altro uomo, e si può af
fermare con ragione che hominum causa constitutum est. Intanto ciascuno di
questi concetti è eminentemente sintetico e compren sivo per modo che ognuno
può servire come punto di partenza a tutto un complesso di diritti ; il che
apparirà ancora , allorchè Gaio, riassumendo l'elaborazione scientifica di
molti secoli, finirà per con chiudere, che : omne ius vel ad personas, vel ad
res, vel ad actiones pertinet (1). (1) Non ignoro come questa classificazione
sia stata di recente combattuta sopra tutto in Germania , e fra gli altri.
dallo stesso SAVIGNY, il grande iniziatore del movimento contemporaneo negli
studii storici intorno al diritto, il quale giunse fino a sostenere, che la
distinzione di Gaio non aveva nè valore storico, nè valore intrinseco . Traité
de droit Romain . Trad . Guexoux, Paris 1840 , I, pag. 387 a 404. Parmi
tuttavia, che chi consideri la correlazione perfetta, che vi ha fra la classifi
cazione teorica di Garo, e i concetti, da cui il diritto quiritario ebbe a
prendere le mosse, e tenga conto di quella dialettica potente, che stringe
insieme le varie parti della giurisprudenza romana, malgrado i quattordici
secoli, per cui durò l'ela borazione di essa , possa difficilmente ammettere,
che qui trattisi, come il SAVIGNY dice a pag. 390, dell'opinione individuale di
un giureconsulto, e che come tale sia priva di qualsiasi valore storico ed
intrinseco . Essa invece ha valore storico ed in trinseco ad un tempo, perchè
compenetra tutta la giurisprudenza romana ; in quanto che sarà facile il
dimostrare a suo tempo, che nel diritto civile romano tutta la parte relativa
ai diritti di famiglia e quindi alle persone non fu che uno svolgi mento del
concetto primitivo del connubium ; tutta quella relativa alle cose non fa che
una deduzione dal concetto di commercium ; e infine quella , che si riferisce
alle azioni, non fu che il frutto di un'elaborazione lenta e non mai interrotta
del concetto primitivo di actio. Cfr. al riguardo Carle , De exceptionibus in
iure Ro mano. Torino, 1873, pag . 13. L'autore , che pose meglio in evidenza la
correlazione fra connubium , commercium ed actio , fu il LANGE, Histoire
intérieure de Rome, I, pag. 13, in nota . Che anzi i giureconsulti proseguirono
lo svolgimento di queste forme essenziali del diritto, senza mai confondere lo
svolgimento dialettico dell'una con quello dell'altra; per modo che certe
singolarità del diritto romano solo si pos sono spiegare, in quanto che la
dialettica giuridica non consentiva di confondere due ordini diversi di idee.
Di più se fosse qui lecito di porre innanzi una conside razione, che potrà
parere troppo filosofica , non dubito di affermare, che nel con cetto romano la
distinzione seguita da Gaio esprime tre atteggiamenti diversi del diritto
compreso in tutta la sua larghezza, il quale appartiene alla persona, si spiega
sulle cose, e infine violato affermasi mediante l'azione. È da questa
concezione sintetica e potente del diritto in Roma, che procede la primitiva
indistinzione fra il diritto personale , il diritto reale e l'azione, che serve
a difenderli. 125 98. Fra questi concetti presentasi anzitutto quello di
connubium , che nella sua significazione primitiva indica la facoltà, che appar
tiene ad individui, i quali appartengono a genti diverse, di impa. rentarsi fra
di loro, mediante quelle nozze , che dalle genti sono rico nosciute come giuste
e legittime (1). Esso ha per effetto di mescolare le stirpi, e quindi si
comprende, che nell'alto concetto, che avevano le genti patrizie dei proprii an
tenati e del sangue, che correva nelle loro vene, questo dovesse essere un
rapporto, in cui tendevano piuttosto a restringersi, che non ad estendersi.
Solo le genti, che appartenevano al medesimo nomen, fosse questo il latino, il
sabino o l'etrusco, avevano fra di loro comunanza di connubii, il che è anche
provato dalla tradi zione, secondo cui, se i Ramnenses vollero avere il
connubium coi Titienses, dovettero ricorrere alla violenza ed alla forza ; il
che perd non tolse, che il mescolarsi del sangue delle due tribù sia stata la
causa del loro successivo affratellarsi per formare una medesima città . Furono
infatti le donne di origine sabina che (secondo una tradizione, la quale se non
è vera è certo ben trovata ) si interposero fra i mariti ed i fratelli e
riuscirono così ad affratellarli nella stessa città , dando perfino il loro
nome alle curie, in cui essa è ripar tita (2). Cosi pure si comprende, che
anche fra le genti, che ap partenevano allo stesso nomen e facevano anche parte
della stessa tribù , il connubium non potesse esistere fra i due elementi, di
cui (1) È questa la significazione primitiva , che si attribuisce al vocabolo,
allorchè parlasi di connubium fra le varie genti, o fra il patriziato e la
plebe. Fu solo nel diritto quiritario, che il ius connubië passò a significare
il diritto di addivenire alle iustae nuptiae , e venne così a dare origine a
tutti quei rapporti giuridici, che si riferiscono alla famiglia. È da esso
infatti, che deriva la manus, che fonda la fa miglia; la patria potestas, che
spiegasi, allorchè nascono dei figli ; e infine la stessa successione
legittima, la quale si avvera , allorchè , morendo il capo di famiglia , si
discioglie quel gruppo, e si riparte quel patrimonio, che in lui trovavansi
unificati. (2 ) Questa tradizione è riferita da Livio e da Dionisio : ma non
sembra essere confermata dai fatti, perchè alcuni dei nomi delle curie
primitive, che giunsero fino a noi, sembrano essere tolti più dai luoghi che
dalle persone . V. LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag . 48. Ad ogni modo
questa è una tradizione, che se non è vera , è certo ben trovata, in quanto che
dimostra l'importanza, che dovette avere un avvenimento che la rompeva col
passato , e rendeva possibile il connubium fra persone, che non appartenevano
al medesimo nomen , preso nel senso di stirpe e di schiatta. Fu questa prima
mescolanza del sangue latino col sabino, che rese possibile la potente
attrazione esercitata da Roma su tutte le stirpi italiche, il che è
riconosciuto da CICERONE, De Rep., II, 7. 126 l'uno in origine rappresentava la
classe dei vincitori e l'altro quella dei vinti. Non poteva quindi esservi
connubio, nè fra i liberi ed i servi, nè nè fra i patroni ed i clienti, e
neppure fra i patrizii ed i plebei. Queste varie gradazioni costituivano
pressochè due caste diverse, il cui sangue non doveva confondersi, come lo
dimostrano le lunghe lotte, che si dovettero sostenere anche più tardi per ac
comunare i matrimonii fra il patriziato e la plebe ( 1). Intanto pero questo
connubium , frammezzo a genti, che costitui vano per così dire altrettante
piccole potenze , riducevasi in realtà a staccare una donna da un gruppo, di
cui prima faceva parte , per trasportarla in un altro ; il che importava
eziandio un cam biamento nel culto gentilizio , perchè essa abbandonava quello
dei suoi padri per diventare partecipe di quello del marito. Di qui la
necessità per le giuste nozze di una cerimonia religiosa, come quella della
confarreatio, a cui assistevano i capi di famiglia della gente e delle tribù ,
a cui apparteneva lo sposo e la moglie , e che importava la comunione delle
cose divine ed umane (2 ). Di qui la conseguenza eziandio , che quanto era
dalla moglie recato con sè dovesse diventare ( 1) A chi chiedesse col
linguaggio ora adottato, se le genti italiche praticassero l'endogamia o
l'excogamia (V. SPENCER , Principes de sociologie, II, Chap. IV , pag. 225 a
250 ), si dovrebbe rispondere, che esse sotto un certo aspetto erano exogame,
perchè ritenevano nefarie le nozze fra persone strette da un certo vincolo di
paren tela, fra quelle persone cioè, fra cui esisteva, secondo l'antico
linguaggio , il ius osculi, ossia fino al sesto grado; mentre poi erano
endogame nel senso, che il patrizio per scegliere la propria compagna non
poteva uscire dalle genti, che appartenevano allo stesso nomen. Pare però, che
questa consuetndine tradizionale siasi modificata dagli stessi romani, i quali,
misti fin dalla origine, furono anche in seguito i più facili a me scolare il
proprio sangue con altre stirpi. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costitu
zionale di Roma. Torino, 1881, pag. 46 . (2) Parmi allo stato attuale degli
studii incontrastabile l'opinione, che considera la confarreatio , come
esclusivamente propria delle genti patrizie. Tra gli autori re centi seguono
tale opinione : l'EsMein nella sua dissertazione: La manus , la pater nité et
le divorce , pubblicata nei Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886 ; il
Glasson, Le mariage civil et le divorce, Paris, 1884, pag. 154 a 180 , e pare
anche il nostro Brininel suo bel lavoro sul Matrimonio e divorzio nel diritto
romano , Bologna , 1886, pag. 49. Del resto varii indizii di questa origine
patrizia della con farreatio si hanno nel carattere religioso della cerimonia,
nei dieci testimonii che ricordano le dieci curie delle tribù , e in ciò che le
leggi regie da Dionisio attribuite a Romolo ed a Numa, non ricordano che le
nozze confarreate . V. Bruns, Fontes, pag. 6 e 9. Per ciò che si riferisce alla
famiglia romana è fondamentale l'opera dello SCHUPFER, La famiglia nel diritto
romano. Padova, 1866 . 127 proprietà del marito, o di colui, sotto la cui
potestà trovavasi ancora il marito ; e che la medesima, per entrare nei quadri
del gruppo, a cui veniva ad aggregarsi, cadesse sotto la manus del capo di
famiglia , ed acquistasse la posizione migliore, che poteva esservi nella mede
sima, che era quella di figlia ( filiae loco). 99. Viene in seguito il
commercium , il quale in questo periodo non significa ancora quel complesso di
diritti, che scaturiscono dal dominio , ma ha il suo vero e proprio significato
di rapporti com merciali,che possono intervenire fra i capi di famiglia ,
appartenenti a genti diverse ( 1). Qui il rapporto è assai più superficiale, ed
è per sua natura tale , che può essere di reciproco vantaggio per i con
traenti. Il commercium pertanto prende un più largo sviluppo ; ed esiste non
solo fra il patriziato e la plebe, fra cui era reso in dispensabile dalla
coesistenza sul medesimo suolo , ma anche fra coloro, che appartengono a stirpi
diverse . Che anzi fra queste sonvi anche le stirpi, che, per avere attitudine
maggiore ai commerci, fan nosi in certo modo intermediarie dei medesimi fra le
varie genti e tribù; il quale ufficio fra le genti italiche sembra essersi
compiuto sopratutto per opera dell'elemento etrusco . Sono questi commerci, che
vengono ravvicinando le varie genti, e conducono gradatamente a cambiare certi
siti neutrali in luoghi di riunione ad epoche de terminate e fisse
(conciliabula , fora) (2 ). È poi un grande vantaggio (1) Anche qui la
significazione primitiva del vocabolo commercium appare da ciò, che Roma fin
dagli inizii trovasi circondata da popolazioni, con cui pratica il com mercium
. È solo per opera del diritto quiritario , che il concetto di commercium ,
applicato fra i cittadinidi una medesima città, dà origine al ius commercii,il
quale poi, sviscerato negli elementi , che entrano a costituirlo, viene a
scindersi; nel ius emendi ac vendendi , che in antico operavasi colla
mancipatio ; nel nexum , da cui deriverà la teoria delle obbligazioni; e infine
nella testamenti factio, che comprende la facoltà di fare e di ricevere per
testamento, e quella perfino di essere testimonio nel medesimo. Cfr . Lange,
Histoire intérieure de Rome, I, pag. 13. Per tal modo nello svolgimento
dialettico del diritto quiritario la successione legittima e la te stamentaria
vengono a spiegarsi in un diverso ordine di idee in quanto che la prima dipende
dal connubium (V. sopra pag. 125 , nota 1), e l'altra deriva dal commercium .
Questa forse è la vera ragione della massima: « Ius nostrum non patitur eumdem
in paganis testato et intestato decessisse , earumque rerum naturaliter inter
se pugna est. » Pomp., I, Dig. (50 , 17). È proprio infatti dei giureconsulti,
che essi una volta , che hanno separato due ordini di idee, non li confondano
più insieme, il che apparirà più chiaramente altrove. (2) Secondo il SUMNER
Maine, qualche cosa di analogo sarebbe anche accaduto fra 128 per una comunanza
incipiente, se la medesima sia posta in tal sito da richiamare alle proprie
fiere ed ai proprii mercati le popolazioni vicine ; vantaggio , che fu una
delle cause , per cui Roma, diventata ben presto un emporio per il commercio
delle popolazioni latine , potè esercitare sovra di esse un'attrazione ed
assimilazione potente ( 1). le antiche comunanze di villaggio dell'Oriente ;
fra le quali esistevano degli spazii di terreno neutrali, che servivano per
trattare le paci e per il mercato (Village Communities, pag . 188 e seg.).
Secondo l'autore, si avrebbe un indizio della primi tiva associazione del
commercio e della neutralità negli attributi di Mercurio, dio comune alle
stirpi di origine aria , che da una parte sarebbe il dio dei termini, il primo
dei messaggeri ed ambasciatori, e per ultimo anche il patrono del commercio ,
dei confini, e un poco anche dei furti e dei ladronecci. Intanto da questa
circostanza in apparenza di poco rilievo, per cui nel medesimo sito si facevano
gli scambii e si trattavano le alleanze e le paci fra le varie genti, derivò
questa importantissima conseguenza , che come in quest'epoca non si distingueva
il diritto privato dal pubblico, così non distinguevasi il diritto commerciale
, da quel diritto, che ora si chiame rebbe internazionale. L'uno e l'altro
erano compresi nel ius gentium , il che spiega come questo vocabolo talvolta
indichi soltanto dei rapporti fra cittadini e stranieri, e talvolta comprenda
anche i rapporti di carattere pubblico fra varii popoli. Non pud però esservi
dubbio , che il ius gentium , allorchè viene a penetrare nel diritto romano,
per opera del pretore, appare circoscritto ai rapporti privati fra cittadini e
stranieri , ed ha quindi un carattere essenzialmente commerciale. Ciò è molto
bene dimostrato dal Fusinato nel suo accurato lavoro : Dei Feziali e del
diritto feziale, pubblicato negli atti dell'Accademia dei Lincei. Memorie della
Classe di scienze mor. stor. filol., 1884 , Vol. XIII, pag. 451 a 590 ,
specialmente a pag . 465 ; del quale credo di poter dire, senza offendere la
modestia di un collega ed amico, che ha cominciato ad introdurre qualche
concetto direttivo in una materia , che certo ne aveva grande bisogno. È poi
noto, che la grande autorità sull'argomento è il Voigt, Das ius naturale, bonum
et equum , gentium , etc. Leipzig , 1856-76 ; Vol. 4 , dei quali il 2° si
occupa pressochè esclusivamente del ius gentium . Fra il modo di vedere di
questi autori e quello qui esposto corre però questa differenza, che essi ri
tengono il concetto ed anche la denominazione del ius gentium , come opera
riflessa dei giureconsulti ; mentre per me il ius gentium esisteva nel fatto e
nella parola anche anteriormente e solo più tardi riuscì a trovar posto anche
nel diritto civile di Roma. Sembra tuttavia che prima fossero adoperate le
espressioni di iura gentium , e di iura naturalia , mentre dopo i vocaboli
adottati sono quelli di ius gentium e di ius naturale, i quali indicano
l'unificazione, che vi si è operata . (1) I1 MOMMSEN, Histoire Romaine, I,
Chap. 4, diede tale importanza alla posi zione eminentemente commerciale di
Roma, da ritenere la popolazione primitiva di essa comededita al commercio e
Roma come una città commerciale. Il PADELLETTI ha combattuta tale opinione (Storia
del diritto romano, pag . 17) e parmi in verità che il fatto, per cui Roma
diventò l'emporio delle genti del Lazio, possa essere spie gato senza dire, che
essa fosse una città sopratutto commerciale ; poichè anche per una città
agricola e militare ad un tempo, come era Roma nei propri inizii, po teva
essere grandemente utile di essere in tal sito, da richiamare il commercio -
129 100. Fu sui mercati, dove convenivano persone appartenenti a co munanze
diverse, che dovettero formarsi quelle convenzioni più semplici, fondate
unicamente sul consenso dei contraenti, e fra le altre anche la compra e
vendita , che alcuni vorrebbero far nascere solo, quando Roma era già divenuta
una grande città . Solo deve avver tirsi, che questa compra e vendita
primitiva, avverandosi talvolta fra capi di famiglia, che appartenevano a
comunanze diverse , fra cui non esisteva forse comunione di diritto, non
dovette naturalmente ritenersi perfetta , se non era accompagnata dalla
tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, come ebbe a stabilire anche
più tardi la legislazione decemvirale. Fu qui parimenti, che dovette na scere e
svolgersi quella sponsio o stipulatio, la quale, allorchè poi ottenne di essere
riconosciuta dal diritto quiritario, venne ad essere il mezzo più semplice e
più acconcio per dar forma giuridica ad ogni maniera di convenzioni (1). Furono
eziandio queste fiere , che die delle popolazioni latine. Può darsi anzi, che
anche questa posizione eminentemente commerciale l'abbia resa meno esclusiva
nell'accogliere nuovi elementi. Del resto anche i Romani sentivano l'eccellenza
della posizione della loro città, e ce ne parla CICERONE, De Rep. II, 5 . (1)
Non può quindi , a parer mio, essere giustificata l'opinione di coloro , i
quali ritengono, che solo più tardi si fosse introdotta in Roma l’emptio
venditio, e che la sponsio e la stipulatio , che certo già esistevano nei
rapporti fra le varie genti, fossero state invece importate di Grecia , per ciò
che si riferisce alle convenzioni private. L'opinione erronea proviene dal
credere, che il diritto quiritario comprendesse dap prima tutto il diritto in
uso presso i romani; mentre invece esso fu una codifica zione e un adattamento
progressivo del diritto già esistente nelle consuetudini. Esso quindi comincid
dal comprendere solo quella parte di esso, che era confermata da una lex
publica , come lo dimostrano le antiche espressioni di agere per aes et libram
, di facere testamentum , nexum , mancipium secundum legem publicam . Quindi,
ac canto al ius quiritium , visse sempre in Roma un ius gentium , che, senza
aver rice vate le forme quiritarie, era però sempre adoperato e forse anche
applicato nelle controversie dai recuperatores, anche anteriormente
all'istituzione del praetor pere grinus. Ciò è provato dai poeti latini e
sopratutto da Plauto, che ne dànno come usuali e frequenti certe forme di
negozii e di atti, che non risultano ancor sempre penetrati nel diritto
quiritario. Ciò poi è indubitabile per la sponsio o stipulatio, atto romano per
eccellenza , dai romani applicato nei trattati pubblici e nelle con venzioni
private. Può darsi quindi, che le genti italiche l'avessero comune colle el
leniche, e che la espressione spondeo fosse anche comune ai due popoli; ma i
romani non ebbero certo bisogno di apprenderlo dai greci , nè aspettarono ad
adoperarlo solo verso la metà del V secolo , come sostengono fra gli altri il
MurueAD, Histor. Introd., pag . 227 e 228, e il Leist, Graeco- Italische Rechts
geschichte , p.465-470 . Solo può ammettersi, che, dopo aver vissuto lungamente
nell'uso e davanti ai recuperatores, la sponsio o stipulatio penetrò anche
nello stretto diritto civile e fu adottata come forma propria del medesimo. G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma. 9 130 dero più tardi occasione al
giureconsulto Manilio di concretare in poche parole delle formole acconcie per
concepire quelle vendite, che sono più frequenti per una popolazione agreste ;
delle quali formole alcune pervennero a noi e potrebbero trovare riscontro in
formole, ancora oggi usate nelle stesse occasioni, salvo che queste non hanno
più la sobrietà e precisione antica (1). È qui infine, che dovette prepararsi
la formazione di un ius gentium primitivo, che ha dapprima un carattere
commerciale , come il commercium da cui esso deriva, e che, accanto al diritto
proprio di ogni singola gente o tribù, era indispensa bile per le transazioni
commerciali fra i capi di famiglia , appartenenti a genti ed a tribù diverse.
Sia pure, che solo più tardi questo modesto ius gentium , formatosi sulle fiere
e suimercati, richiami l'attenzione del pretore, e gli dia animo per scostarsi
dalle formalità ormai divenute soverchie del ius proprium civium romanorum (2)
: cid però non toglie , che le origini di quelle lente formazioni, che si
verificano nella coscienza generale di un popolo, si debbano talvolta anche
cercare in un'epoca di gran lunga anteriore, come accade delle piccole
sorgenti, che solo appariscono degne di osservazione e di ricerca , quando si
scorge il corso maestoso del fiume, che ebbe a derivarsi da esse . $ 3 .
L'actio e la sua storia primitiva. 101. Da ultimo non può esservi dubbio che,
già nel periodo gen tilizio , dovette essersi formato il concetto dell'actio,
ma questa non significava ancora un mezzo accordato dalla legge o dal pretore,
per far valere in giudizio un proprio diritto , ma era , per dir cosi, il
diritto stesso , che mettevasi in azione, estrinsecandosi in quel complesso di
atti, che erano indispensabili per ottenere il proprio riconoscimento (3) . (1)
Il poco, che pervenne a noi delle formole Maniliane, trovasi riportato dall'Hu
SCHKE, Iurispr . anteiust. quae supersunt, pag. 5, ed è una prova
dell'attitudine dei veteres iurisconsulti a sceverare da un fatto tutto ciò,
che in esso eravi di giuridico, modellandolo in una formola tipica, che potrà
poi servire per tutti i casi dello stesso genere. (2 ) Cfr. sopra , pag . 128 ,
nota 1. (3 ) Accostasi a questo concetto dell'actio, nella sua significazione
primitiva , l'OR TOLAN, Histoire de la legislation romaine, XI Edit., Paris,
1880 , pag. 139, ove scrive, parlando dell'azione nel periodo decemvirale: «
Action, sous cette période, est une dénomination générale ; c'est une forme de
procéder, une procédure considérée 131 - È a questo punto, che si può trovare
la ragione, per cui il diritto primitivo di tutti i popoli e quindi anche il
romano si è sviluppato dapprima sotto forma di azione e di procedura , che non
come legge , che determini i diritti rispettivi dei cittadini. Finché il capo
di fa miglia è esso il sovrano nella propria casa , egli non ha bisogno, che la
legge venga a ricordargli quali siano i suoi diritti. Questo diritto egli porta
con sè e ha profondamente impresso nella sua coscienza: quindi, se il medesimo
venga ad essere violato, egli non può aspet tare che uno Stato, che quasi ancora
non esiste, si metta in moto per ottenere la riparazione dal torto, che ebbe ad
essergli arrecato . Come quindi è il capo di famiglia, che vendica l'adulterio
, che corre sui passi del ladro , che lo ha derubato, e ne perquisisce la casa,
mediante certi riti, che sono determinati dal costume e a cuiniuno oserebbe
ribellarsi, perchè sono sotto la protezione del fas: così è pur egli che,
quando si vede occupato un fondo, od usurpato uno schiavo, o sottratto un
figlio, si mette in movimento ed in azione e afferma in presenza ed a scienza
della intiera comunanza, che è suo quel fondo , quello schiavo, quel figlio .
Quindi è, che l'azione viene ad essere naturalmente la prima manifestazione del
diritto . Prima esso esisteva allo stato latente , ed ora si produce, si
afferma, perchè incontro una persona, che ebbe a violarlo . Quest'azione
tuttavia, non è an cora la legis actio ; perchè in compierla l'uomo offeso non
ispirasi ad una legge, che forse non esiste ancora, ma ispirasi al senso in
timo e profondo del proprio diritto. Tuttavia è in questo momento sopratutto ,
sotto la sferza dell'offesa e sotto l'impeto dell'indignazione, che il capo di
famiglia può anche trascendere nel far valere il proprio diritto, e ricorrere
anche alla violenza ed alla vendetta . Quindi è , che se per avventura verrà a
formarsi nel seno della comunanza qualche forma di procedura, la quale, mentre
da una parte rispetta la fiera indipendenza dell'uomo, consapevole del proprio
diritto , dal l'altra contenga il prorompere violento di colui, che ebbe ad
essere dans son ensemble, dans la série des actes et des paroles, qui doivent
la constituer. » Qui però l'autore parla già della legis actio ;ma se noi
andiamo più oltre nei tempi, allorchè essa non è ancora legis actio,ma
semplicemente actio, questa non è ancora un modo di procedere, ma è soltanto un
modo di agire, ed è anzi il diritto stesso in azione (Cfr. Carle , La vita del
diritto, pag. 40 ). È poi notabile, come per i latini il vocabolo agere indichi
un'azione continuata, che può scindersi in parti di verse ; mentre facere si
adopera di preferenza invece per indicare un'azione, la quale compiesi, per
così dire, in un unico contesto. 132 offeso nel proprio diritto , l'occasione
non dovrà certamente essere trascurata . Sarà quindi prima il mos, che comincia
coll'additare la via consuetudinaria , a cui debbe appigliarsi colui, che vuol
far valere il proprio diritto ; poi sarà il fas, che interverrà anch'esso e
dichiarera empio chi non segua quel determinato rito ; ed infine sarà anche il ius
, che verrà notando in certo modo i varii stadii, per cui passò quella
procedura , e obbligherà i contendenti a passare, almeno per forma (dicis
gratia ), per ciascuno di questi stadii. Sarà in tal modo, che all'actio
violenta, rozza, avida, appassionata dell'individuo sottentrerà la legis actio,
consacrata dalla legge, compassata e lenta , quasi per attutire le passioni
irrompenti dei contendenti; ma che intanto ricorderà ancora gli stadii
dell'anteriore violenza , quasi per ricordare che a quella dovrebbe farsi
ritorno, quando la legge non fosse rispettata. Non è quindi da approvarsi, a
mio avviso , l'opinione di coloro , i quali ritengono che il prevalere delle
norme procedurali nel primitivo diritto , e quindi anche nel romano, sia
prevenuto da ciò , che sarebbesi prima badato alla forma, che alla sostanza. La
ragione di questo fatto è molto più profonda e deve essere cercata nelle
origini stesse della convivenza civile e politica . La causa del fatto sta in
ciò , che l'opera della legge negli inizii fu sopratutto necessaria non tanto
per assicurare il diritto , quanto per reprimere le reazioni violente, a cui
abbandonavasi colui, il cui diritto era violato . In questa parte diritto
privato e diritto penale seguirono analoghe vicende. Al modo stesso , che le
leggi penali non mirarono dapprima tanto a punire i misfatti, quanto piuttosto
a porre dei confini alla privata vendetta , e resero cosi obligatoria quella
composizione a danaro, che dapprima dipendeva dall'accordo delle parti : cosi
anche le norme procedurali comparvero le prime, non tanto perchè i popoli
primitivi comprendessero più la forma che la sostanza ; ma perchè il primo e
più urgente bisogno di una società , in via di formazione, era quello di
impedire fra i consocii la manuum consertio, ossia l'esercizio violento delle
proprie ra gioni ( 1). (1) Per lo svolgimento parallelo della vendetta e della
pignorazione privata, è da vedersi: Del GIUDICE , La vendetta privata nel
diritto Longobardo, Milano, 1876 . Sembra poi attribuire la precedenza delle
norme di procedura , presso i popoli pri mitivi, alla prevalenza , che presso
di essi ha la forma sulla sostanza, lo stesso Sumner Maine, The early history
of institutions , Lect. IX , ove, discorrendo della forma primitiva dei rimedii
legali, scrive « che in uno stadio delle cose romane i - 133 102. Intanto non
vi ha forse nel vocabolario giuridico parola , che presenti al giureconsulto
filosofo e storico una più lunga storia di cose sociali ed umane, dei vocaboli
di agere e di actio , e che lo faccia rimontare più oltre nelle tenebre e nella
oscurità del passato . Nella loro significazione primitiva di « stimolare » e
di « spingere » , questi due vocaboli sembrano ancor richiamare gli antichi
abitatori del Lazio, che, pastori di greggi, prima di diventare reggitori di
popoli, spingevano al largo le proprie mandre e i proprii armenti (1). Me mori
e quasi alteri della propria origine, non dubitarono di applicare il medesimo
vocabolo a significare l'attività del magistrato, che si spiega in rapporto col
popolo (ius agendi cum populo ), ed anchequella di colui, che forte della
convinzione nel proprio diritto intraprende quella specie di conflitto e di
lotta , che dovette in quei primi tempi essere necessaria per ottenere il
riconoscimento delle proprie ragioni. Questo è certo, che fra capi di famiglia
dal carattere fiero ed in dipendente non dovette esser così facile il
conseguire, che essi si sottoponessero ad un'autorità per la decisione delle
loro controversie, e non è quindi meraviglia se l'avvenimento dovette loro
apparire così importante, che ritennero opportuno di conservare la memoria dei
diversi stadii, che hanno dovuto attraversare per giungervi. 103. Allorchè
sorgeva una controversia fra capi di famiglia , ap partenenti alla medesima
tribù , il modo più naturale di risolverla dovette certamente essere quello di
rimettersi ad uno o più arbitri ed amichevoli compositori, che dovevano essere
concordati fra le parti, come lo dimostra un antico costume, che gli scrittori
latini attribuiscono ai proprii maggiori (2 ). Era poi naturale, che queste
persone, chiamate a risolvere la controversia , dovessero essere scelte fra i
padri ed anziani del villaggio ; del che rimasero le traccie anche in Roma, ove
i iudices furono per secoli tratti dall'ordine dei padri diritti ed idoveri
sono piuttosto un'aggiunta della procedura , che non la procedura una mera
appendice aidiritti ed ai doveri. » (1) V. BRÉAL, Dict. étym . latin ., v°
Agere. (2 ) Cic., Pro Cluentio, 43: « Neminem voluerunt maiores nostri, non
modo de existimatione cuiusquam , sed ne pecuniaria quidem de re minima esse
iudicem , nisi qui inter adversarios convenisset » . Del resto, anche secondo
la legislazione decemvi rale, sembra che alla discussione della causa
precedesse un tentativo di componi menti, come lo dimostra il fram ., Rem , ubi
pacant, orato , tavola II, legge 14, se condo la ricostruzione del Voigt, Die
XII Tafeln , p . I, pag. 696. 134 o senatori, e solo dopo una lunga lotta, che
si avvero già sul finire della Repubblica fra il partito degli ottimati e
quello popolare, po terono anche essere scelti fra gli equites (1). 104. La
cosa però veniva a farsi più grave, allorchè i contendenti non si mettevano
d'accordo per un amichevole componimento. Non vi ha nulla di ripugnante, che
essi, compresi vivamente del proprio diritto , trovandosi sul fondo stesso o
davanti allo schiavo , oggetto della controversia, cominciassero dall'affermare
altamente il proprio diritto sul fondo o sullo schiavo. Che se niuno di essi
cedeva, lo studio della natura umana ci insegna anche ora , che non è punto
improbabile, che essi potessero addivenire a quella vis realis , a cui secondo
Gellio fu poi sostituita la vis festucaria , e che si effettuasse cosi fra di
essi una vera e propria lotta, che prese il nome dimanuum consertio (2 ). È
però consentaneo eziandio al costume patriarcale che, quando due persone sono
cosi in lotta fra di loro, possa anche in terporsi fra di esse una persona
autorevole, la quale goda la comune fiducia, e che loro imponga di separarsi
colle parole, che più tardi sa ranno pronunziate dal pretore nella procedura
quiritaria : « mittite ambo hominem » . Tace allora la lotta: i contendenti,
fatti umili dal l'autorità stessa di chi intervenne fra di loro e dallo stato
stesso di violenza , in cui furono sorpresi (3), chiamano entrambi a testimoni
la divinità , che la ragione è dalla parte loro, e per dare energia mag giore
alla propria affermazione aggiungono alla medesima una scom messa , la quale,
per essere accompagnata dall'affermazione giurata di rimettersi al giudizio
della persona intervenuta fra di essi, può prendere il nome di sacramentum . Si
ha cosi una successione di fatti, che conducono naturalmente la persona
autorevole, che si è in (1) La legge che trasportò dall'ordine dei senatori a quello
degli equites la ca pacità ad essere giudici fu la lex SEMPRONIA iudiciaria del
632 di Roma, proposta da C. Gracco, la quale dovette però dar luogo a gravi
lotte ed agitazioni, che sono fatte manifeste dalle leggi giudiziarie degli
anni, che vengono dopo. È da vedersi in proposito ORTOLAN, Histoire de la
législation Romaine, $ 283, pag. 228 e seg . (2) Aulo Gellio , Noct. attic.,
XX, 10 , $ 8 10 . (3) Questo sentimento veramente sociale ed umano del pudore,
che guadagna colui che si appigliò alla violenza , trovasi maravigliosamente
espresso da OVIDIO , Fasto rum III: « Et cum cive pudet conseruisse manus. » È
però a notarsi, che il poeta limita quel senso di pudore alle violenze fra i
cittadini: con quelli che non sono tali sarebbe tutt'altra cosa . - 135 -
terposta , ad essere giudice non tanto della ragione o del torto dei
contendenti, quanto piuttosto della scommessa intervenuta fra i me desimi;
sebbene però venga ad essere naturale conseguenza del suo giudizio, che debba
ritenersi aver ragione chi vincerà la scommessa e torto colui, che perderà la
medesima. Fin qui pertanto , non si ha che un processo di cose sociali ed
umane, di cui si potrebbero trovare le traccie anche ai nostri giorni, e che
dovette certo essere frequente, allorchè le contese erano so stenute dai capi
di gruppo, che non conoscevano altra autorità supe riore, salvo quella, che
avessero accettata di comune accordo. Pongasi ora, che questo processo di cose
si ripeta più e più volte frammezzo a genti, che, come le italiche, siano use a
modellare in formole ed in gesti solenni tutti gli atti tipici della loro vita
giuridica , e allora si potrà facilmente comprendere, come siasi venuta
formando quel l'actio sacramento , che costitui poi l'azione fondamentale di
tutto il diritto quiritario , e fu dai quiriti conservata con cura così gelosa,
che, già abolite le altre azioni delle leggi, l'actio sacramento continud
ancora a celebrarsi davanti al tribunale quiritario per eccellenza, che è il
tribunale dei centumviri. Non è quindi il caso di ridurre questa primitiva
azione ad una pantomina incomprensibile , nè di cam biare il popolo maestro al
mondo nel diritto in un architetto di for malità e di sottigliezze senza scopo
; ma è il caso piuttosto di leggervi la storia delle vicende, che ebbe a percorrere
l'amministrazione della giustizia , riportandola in quell'ambiente patriarcale,
nel quale soltanto si può riuscire a ricostruirla nelle sue primitive fattezze
(1). 105. Qui tuttavia non posso passare sotto silenzio l'opinione messa
innanzi da una grande autorità , quale è il Bekker, e che fu poi anche divisa
da molti altri autori, secondo cui dovrebbero ritenersi più an (1) È già da
qualche tempo, che rivelasi negli scrittori la tendenza a dare una spiegazione
naturale della formazione dell'actio sacramento . Se ne possono vedere degli
accenni nel Maynz, Cours de droit Romain , Bruxelles , 1876. Introduction, $
20, Vol. I , pagg. 59 e 60 ; nel SUMNER MAINE , Early history of institutions,
Lect. IX ; nel MUIRIEAD, Historical Introduction , pag. 191 e 192 ; nel
BUONAMICI, Storia della procedura romana. Pisa , 1866 , vol. I, in princ. Non
credo tuttavia che essa sia stata studiata nell'ambiente stesso, in cui ha
dovuto formarsi, nè che siasi dimostrato che essa debba riguardarsi come una
sopravvivenza di un'epoca anteriore. È però noto, che Omero nell'Iliade, Canto
XVIII, v. 690 a 705 , descrive, sopra uno dei compartimenti dello scudo di
Achille, una procedura del tutto analoga a quella dell'actio sacramento. 136
tiche della stessa actio sacramento, quelle altre forme di azioni, che sono
indicate col vocabolo di manus iniectio e di pignoris capio , in quanto che le
medesime ricorderebbero più direttamente l'uso della forza per far valere il
proprio diritto (1) . Lasciando per ora in disparte la pignoris capio , che ha
solo una importanza secondaria , per i pochi casi in cui fu ammessa , importa
anzitutto notare, che il vocabolo di manus iniectio può essere tolto in due
significazioni diverse, anche secondo la legislazione decem virale . Havvi
anzitutto la manus iniectio , a cui ricorre colui che, dopo aver invitato
inutilmente il debitore a seguirlo avanti al magi strato , gli pone addosso la
propria mano e lo trascina in ius, som ministrandogli però quei mezzi di
trasporto, che possano esser neces sari per lo stato dimalattia , in cui egli
si trovi (2 ). In questo senso però non havvi ancora una vera legis actio , ma
solo un mezzo per otte nere la comparizione del convenuto davanti al
magistrato. Invece la vera manus iniectio, in quanto costituisce una legis
actio , consiste nel potere, che appartiene al creditore di porre la sua mano
sopra il nexus, l'aeris confessus, ed il iudicatus per trascinarlo nel suo
carcere privato, e costringerlo così al pagamento del proprio debito od a
lavorare per lui finchè sia soddisfatto (3 ). ( 1) BEKKER, Die Actionen der
römisches Privatrechts, Berlin , 1874-75 , 2 vol. V. particolarmente vol. 1,
pag. 18-74 . Del resto un tale concetto è stato in parte enunziato anche dal
JHERING , L'esprit du droit romain , Trad. Maulenaere, Paris, 1880, salvo che
egli dà poi alla manus iniectio, come legis actio, una significazione del tutto
speciale. Vedi vol. I, § 14 , e vol. III, § 56. (2) A questa manus iniectio
accennasi nella prima legge delle XII Tavole : « Si in ius vocat, ito. Ni it,
antestamino : igitur em capito. Si calvitur pedemve struit, manum endo iacito.
, (3 ) Sonvi persino degli autori, i quali dubitano che la manus iniectio possa
es sere considerata come una vera legis actio , in quanto che essa non
richiederebbe l'intervento del magistrato e avrebbe solo luogo quando trattasi
di esecuzione. Fu questo il motivo, che indusse il JHERING , op. e loco cit., a
dare una significazione speciale alla manus iniectio. Quanto alla letteratura
sull'argomento e alle discus sioni, che di recente sorsero intorno alla
questione, se la manus iniectio debbe rite nersi come una vera legis actio , è
da vedersi il MUIRHEAD, Histor. Introd ., Sect. 36 , pag. 201 e seg. Parmi
tuttavia , che il dubbio non possa esistere, quando si tenga conto della
significazione larghissima, che ha il vocabolo di legis actio nell'antico
diritto; nel quale esso indicava in sostanza i diversi genera agendi in
conformità di una les publica , per modo da comprendere la stessa in iure
cessio , allorchè ser viva per effettuare una adozione, una emancipazione, una
manomissione, od un trasferimento di proprietà . V. quanto alla manus iniectio
il Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 616 . 137 Or bene la manus iniectio , cosi
intesa, non può certamente essere considerata , come di formazione anteriore
all'actio sacramento. Per verità mentre questa contiene la storia delle varie
peripezie, per cui passò lo stabilimento dell'umana giustizia, e quindi
richiama ancora un'epoca , in cui non eravi amministrazione di giustizia ; la
manus iniectio invece, quale appare nelle XII Tavole , suppone già stabilita
una amministrazione della giustizia , in quanto che essa è un modo di procedere
all'esecuzione contro colui, che o siasi ob bligato colla solennità del nexum ,
o abbia confessato il proprio de bito davanti al magistrato , o sia stato
condannato al pagamento . Nè serve il dire, che la manus iniectio primitiva,
essendo un mezzo per il privato esercizio delle proprie ragioni, dovette essere
applicata anche in altri casi ; mentre la legislazione decemvirale l'avrebbe
circoscritta ai casi da essa determinati, nell'intento di im pedirne gli abusi.
A ciò infatti si può facilmente rispondere, che se fra i capi di famiglia delle
genti patrizie si può comprendere una procedura solenne, come quella dell'
actio sacramento , in cui le due parti sono eguali fra di loro e finiscono per
accordarsi nell'accettazione di un giudice della loro scommessa, è invece
affatto ripugnante una procedura, come sarebbe quella della manus iniectio. Non
è un'eguale che può sottomettersi ad una procedura di questa specie, per quanto
egli possa essere profondamente convinto del proprio torto . Fra due eguali,
che siano in contesa, può compren dersi la manuum consertio , e in seguito
l'accettazione di un arbitro; ma non mai che uno obbedisca pecorilmente al
cenno dell'altro , e si lasci cosi stringere nei ferri e nelle catene del suo
carcere privato. 106. Con ciò tuttavia non voglio dire, che la manus iniectio
sia stata direttamente introdotta dalla legislazione decemvirale, e che non
esistesse anteriormente alla medesima. Ritengo anzi, che essa doveva già
esistere da lungo tempo : ma intanto a questo proposito mi fo lecito di
avventurare la congettura , che la manus iniectio dovette essere una speciale
forma di procedura , che non si adoperava già nei rapporti fra i capi di genti
patrizie, ma bensì unicamente nei rapporti, che intercedevano fra il creditore
patrizio ed il debitore plebeo . Si comprende infatti, comeun'aristocrazia
territoriale, come quella delle genti patrizie, potesse anche adoperare modi
simili di procedura verso una classe , che nei primi tempi non aveva ancora
dimenticato l'o rigine servile . Quindi è, che la manus iniectio deve essere
con 138 siderata comeuna delle istituzioni, che non appartiene al diritto , che
dovette formarsi nei rapporti fra i capidelle genti patrizie, ma bensi a
quello, che dovette formarsi nei rapporti fra la classe dominante e la classe
inferiore: il che spiega eziandio come la legislazione decemvirale l'abbia solo
ammessa contro i nexi, gli aeris confessi e i iudicati, e come la plebe abbia
lottato cosi lungamente per l'abolizione del nexum , il quale forse era ancora
un segno dell'antica sua sogge zione servile , come sarà dimostrato a suo
tempo. Per quello poi, che si riferisce all'esercizio privato delle proprie
ragioni, mi limito ad osservare, che esso nel dominio del diritto pri vato
corrisponde alla vendetta privata nel campo dei delitti e delle pene. Quindi,
come è esistita la vendetta privata anche fra le genti italiche, così dovette
anche esservi un tempo, in cui fra queste esi steva l'esercizio privato delle
proprie ragioni. Questo tuttavia può affermarsi con certezza , che l'intento
supremo dell'organizzazione gentilizia fu quello di impedire fra i membri di
esse cosi la pri vata vendetta , che l'esercizio privato e senza confini delle
proprie ragioni. Fu a questo scopo, che il fas, il ius e il mos riunirono i
proprii sforzi, e solo a forze riunite riuscirono a cacciare dalla co munanza
la privata violenza, che continud a dominare fra le per sone, che non
appartenevano alla medesima e quindi non avevano fra di loro comunanza di
diritto . Quindi non è più nell'organizza zione gentilizia, che deve cercarsi
l'esercizio privato delle proprie ragioni, dal momento che in essa tutto è
regolato dal mos e dal fas, e che il suo intento supremo fu quello dimettere
termine allo stato anteriore di privata violenza . Fin qui si considerarono
soltanto le norme direttive dai rapporti giuridici, che intercedono fra i capi
dei diversi gruppi, norme le quali finiranno per dare in parte origine a quel
diritto , che sarà poi chiamato ius quiritium dapprima e ius civium romanorum
più tardi; ora importa cercare invece , quali rapporti corressero fra i varii
gruppi collettivamente considerati, e quale sia stata l'origine del primitivo
ius pacis ac belli. - 139 CAPITOLO VII. La formazione di un ius pacis ac belli
durante il periodo gentilizio . $ 1. Sguardo generale ai rapporti fra le genti
primitive. 107. Anche i rapporti fra le varie genti, collettivamente
considerate, hanno nel periodo gentilizio un carattere esclusivamente
patriarcale , e appariscono modellati sui rapporti, che possono intercedere fra
i varii capi di famiglia . E a questo proposito parmi anzitutto opportuno di
rettificare un concetto, che ormai suole essere ripetuto come un dogma, mentre
in verità non merita di essere considerato come tale. Di regola suol dirsi, che
lo stato naturale delle antiche genti fosse lo stato di guerra . Esse invece
non erano nè in uno stato di pace, nè in uno stato di guerra; ma si
consideravano come indipendenti le une dalle altre e non avevano fra di loro
comunanza di diritto . Era quindi facile , che fra loro scoppiasse la guerra ,
ma questa non era però lo stato naturale di esse . Ciò sarebbe come dire, che
due per sone che non si conoscano e non abbiano fra di loro alcun rapporto
giuridico siano fra di loro in lotta . Potrà darsi che esse siano in reciproca
diffidenza , e che stiano in guardia : ma non percid pud dirsi che siano in
guerra effettiva fra di loro. Ci vorrà pur sempre qualche causa , od anche
semplicemente un pretesto, perchè l'una si arresti minacciosa contro dell'altra
(1) . (1) Sarebbe qui inutile citare tutti gli autori, che professano questa
opinione; mi basterà ricordare il LAURENT, Histoire du droit des gens, nei tre
primi volumi relativi all'Oriente, Grecia , Roma; il JHERING, L'esprit du droit
romain , I, il quale attribuirebbe a questo stato di guerra il concentrarsi
delle genti antiche nella città , a cui esse appartengono ; il che è certamente
vero, ma non proviene unicamente dalle guerre esteriori , ma anche da ciò, che,
creandosi una nuova forma di connivenza sociale, era naturale, che tutte le
forze ed energie vitali si concentrassero in essa. Anche il Fusinato sembra
dividere la stessa opinione nel suo lavoro : Dei Feziali e del di ritto feziale
, Roma, 1884, « Atti della R.Accademia dei Lincei » , Memorie, Classe scienze
mor. stor. filologiche , vol. XIII , Introd ., Cap. I , al quale io mi rimetto
quanto alla bibliografia completissima sul tema di questo capitolo. Egli
tuttavia già trova, che il popolo Romano sarebbe stato, fra le altre genti, il
meno esclusivo su questo punto, a differenza del PADELLETTI , Storia del
diritto romano, pag . 67, 140 108. Che questi fosse lo stato dei rapporti fra
le genti primitive è provato dalla distinzione, che nell'antico linguaggio già
viene fatta fra hostis e perduellis. Hostis chiamavasi quello straniero , con
cui non eravi rapporto di diritto , e contro il quale il popolo romano si riservava
piena ed intera la propria autorità giuridica e la propria libertà di azione ;
mentre perduellis, nella sua significazione arcaica , come lo indica lo stesso
vocabolo , era colui con cui era scoppiato il dissidio , e col quale , per
mancanza di un comune diritto , veniva ad essere necessità di appigliarsi alla
guerra . Fu solo più tardi, che il vocabolo di hostis assunse una
significazione più dura e significò effet tivamente il nemico. In allora le
significazioni accettate furono le seguenti: peregrinus chiamasi colui, col
quale non havvi nè ami cizia , nè ospitalità , nè alleanza ; hostis quegli, con
cuiRoma trovasi in guerra aperta ; perduellis infine colui, che nell'interno
dello Stato cerchi di recare perturbazione e conflitto, mettendosi in lotta coll'in
teresse della patria sua. Questa trasformazione si opera però lenta e note
relative , il quale attribuirebbe al popolo romano una esclusività maggiore
degli altri popoli,per trattarsi di un popolo agricoltore, conservatore e
guerresco ad un tempo . Per parte mia ritengo, che i Romani in questa parte si
governassero colle norme stesse delle altre genti italiche, come lo dimostra il
fatto che il primitivo ius foeciale è loro comune cogli altri popoli, da cui
sono circondati. Non posso però ammettere che essi, sopratutto nei primi tempi,
si ritenessero in stato naturale di guerra cogli altri popoli ; perchè in tal
caso tutte le formalità dell'antico ius foe ciale si convertirebbero in una
commedia inesplicabile e in contraddizione col prin cipio direttivo dei
rapporti fra le varie genti. Quanto agli argomenti, che sono messi in campo,
essi consistono in sostanza nella primitiva significazione di hostis e nel
passo di Pomponio, Leg. 5 , § 2 , Dig. (49, 15 ). Del vocabolo hostis, si
discorrerà più sotto, e quanto al passo di PomPONIO , egli, anzichè affermare
che gli stranieri fossero nemici, dice anzi espressamente che « si cum gente
aliqua neque amicitiam , neque hospitium , neque foedus amicitiae causa factum
habemus, hi hostes quidem non sunt » . Tuttavia siccome con questa gente non vi
ha comunione di diritto, così contro di « aeterna auctoritas esto » , donde la
conseguenza, che se le cose nostre cadono in loro mano, diventano loro proprie,
e così pure se le cose loro vadano in mano dei romani: certo la conseguenza è
grave , ma essa non è una conseguenza dello stato di guerra , ma bensì di ciò
che fra i due popoli non esiste comunanza di di ritto . Nè vorrei si dicesse,
che la questione sia soltanto di parole, poichè se la guerra fosse lo stato
naturale, non si saprebbe veramente come CICERONE abbia potuto scri vere: «
nullum bellum esse iustum , nisi quod aut rebus repetitis geratur, aut de
nuntiatum ante sit , et indictum » , De off , I , II , e De Rep., III , 23. Del
resto anche questa opinione è una conseguenza del ritenere, che le cerimonie
del diritto feziale fossero semplici formalità esteriori, il che certamente non
dovette essere, allorchè questa procedura fra le genti venne ad essere
introdotta. essa - 141 mente, e nella stessa legislazione decemvirale, che,
come tutte le leggi, tende a conservare i vocaboli nella loro significazione
arcaica , il vo cabolo di « hostis » , continua ancora sempre a significare
colui, col quale non esiste comunione di diritto , come lo dimostrano le espres
sioni ricordate da Cicerone di « status dies cum hoste » e l'altra « adversus
hostem aeterna auctoritas esto » . Del resto , che il vo cabolo hostis negli
esordii non suonasse nemico , nella significazione, che noi siamo soliti
attribuire a questo vocabolo , viene anche ad essere dimostrato dall'analogia
evidente , che corre fra i vocaboli di hostis e di hospes, il quale ultimo
sarebbe una sincope di hosti-pes, che significherebbe « o protettore dello
straniero o straniero ricevuto in protezione » ; donde anche i vocaboli di
hospitium e di hospitari(1). 109. Fermo questo concetto dei rapporti, che
intercedevano fra le genti, che non entravano a far parte della medesima
tribù e non avevano perciò comunione di diritto fra di loro, viene ad essere
facile il comprendere come qualsiasi rapporto giuridico fra di esse dovesse
derivare dalla convenzione e dal patto; per modo che anche il pri mitivo ius
pacis ac belli dovette avere un'origine contrattuale, analoga a quella , che
abbiamo riscontrato nei rapporti privati fra i diversi capi di famiglia .
Infatti al rapporto di carattere negativo, che intercede fra le varie genti,
per cui sono estranee le une alle altre, pud poi sottentrare il rapporto
positivo di pace o di guerra. Tanto l'uno come l'altro in dicano, che le genti
sono già uscite da quello stato di indifferenza reciproca, in cui si trovavano
fra di loro . Quindi perchè siavi lo stato di pace, già occorre che fra le
genti sia intervenuta una conven (1) V. BRÉAL, Dict. étym . lat., Paris. 1886,
vº Hospes e Hostis. Del resto questo trasformarsi dalla significazione di
hostis viene ad essere indicato con una mirabile chiarezza da CICERONE ,
allorchè scrive : « Hostis enim apud maiores nostros is di cebatur, quem nunc
peregrinum dicimus.....; quamquam id nomen durius iam effecit vetustas; a
peregrino enim recessit, et proprie in eo , qui contra arma ferret, re mansit »
. De off., I, 12. Ciò è poi confermato da VARRONE, De ling. lat., V , I (Bruns,
Fontes, p. 377). Intanto l'analogia , che vi ha fra hostis straniero, ed hospes,
che signi fica e lo straniero ricevuto in protezione » , come pure il fatto,
che nelle origini per duellis significava il nemico esterno ed interno ad un
tempo, costituiscono una nuova prova, che in quei primordii non distinguevasi
la guerra pubblica dalla privata, nè i dissidii interni delle guerre esterne.
Fu solo più tardi, nel seno della città e nei rap porti delle città fra di
loro, che potè operarsi questa distinzione, e in allora talvolta i reggitori
della città si appigliarono alle guerre esterne per sopire le lotte interne.
142 zione od un patto (come lo dimostra l'analogia fra il vocabolo di pax e
quello di pactum ) ; al modo stesso che, accid siano in istato di guerra,
occorre, che siavi una dichiarazione della medesima, tanto più se trattisi di
genti che, senza essere in rapporto giuridico fra di loro, riconoscano perd
l'impero del fas. Si può quindi affermare con certezza, che anche il ius pacis
ac belli già erasi formato anterior mente alla formazione della comunanza
romana , e che la medesima in questa parte non fece che attenersi a pratiche e
a riti, i quali, prepa ratisi in un periodo anteriore ed affidati alla custodia
di un collegio sacerdotale, furono poi applicati con qualchemodificazione ai
rapporti, che vennero a svolgersi più tardi fra i popoli e le città . Di qui in
tanto, derivd la conseguenza, che il diritto, che suol essere chiamato foeciale
, essendo stato trapiantato da uno in altro periodo di or ganizzazione sociale,
acquistò un carattere artificioso , che lo fece talvolta apparire come un
ostentazione puramente esteriore, diretta non a provare che le guerre si
facessero per una giusta causa , ma piuttosto a dissimulare l'ingiustizia
intrinseca della guerra. Non può tuttavia esservi dubbio, che essó, trasportato
nell'ambiente, in cui ebbe a formarsi, ha dovuto essere una procedura viva e
reale, la quale ebbe ad essere determinata dalle condizioni, in cui si trova .
vano le genti primitive. § 2 . - Il ius pacis , ossia l'amicitia , l'hospitium
, la societas nel periodo gentilizio. 110. Siccome nel periodo gentilizio i
rapporti di pace, che si ven gono a stabilire pressochè contrattualmente fra le
varie genti, si riducono in sostanza a rapporti fra i capi delle medesime; cosi
essi finiscono per modellarsi e per ricavare la propria denominazione dai
rapporti stessi, che possono intercedere fra i loro capi. In altri termini quei
vocaboli stessi, che indicano le gradazioni diverse, in cui pos sono trovarsi i
capi delle varie genti, sono pur quelli, che desi gnano il vincolo più o meno stretto
, in cui possono essere le varie genti o i varii popoli, fra cui intervenne una
convenzione dipace; cosicchè i vocaboli anche qui vengono a dimostrare, come in
quei primi tempi non esistesse la distinzione fra i rapporti pubblici dei varii
gruppi ed i rapporti privati fra i capi, da cui essi erano rap presentati. I
vocaboli, intanto , che indicano questi rapporti pubblici e privati ad un
tempo, sono quelli di amicitia , di hospitium societas. 143 111. Prima
presentasi l'amicitia , che indica quel rapporto contrat. tuale, che intercede
fra due genti diverse o meglio ancora fra i capi di esse, senza che il medesimo
imponga obbligo reciproco di difesa e di aiuto in tempo di guerra. La gente
amica è quella , a cui si potrà , in caso di bisogno, ricorrere per un favore e
con cui si intenda di intrattenere amichevole commercio . L'amicizia quindi
conduce già ad un riconoscimento del diritto della gente amica, e quindi se una
persona, od una cosa venga a cadere in mano di una gente amica , questa non
potrà appropriarsela ; il che sarebbesi potuto fare, allorchè non fosse
esistita fra di loro alcuna comunanza di diritto . Possono tuttavia esservi dei
casi, in cui i reciproci commerci, fra individui, che appartengono a tribù
diverse, porgano occasione al sorgere di controversie . Quindi fra i patti ,
che accompagnano i trattati di amicizia, dovette essere frequente quello, che
più tardi noi troviamo indicato col vocabolo di actio e specialmente con quello
di reciperatio ; il quale è certamente bene appropriato per significare il
rapporto , a cui intendeva di accennare, malgrado le difficoltà di in
terpretazione a cui esso diede luogo. È nota in proposito la definizione di
Elio Gallo : Reciperatio est, cum inter populum , reges, natio nesque et
civitates peregrinas lex convenit, quomodo per recipe ratores reddantur res
reciperenturque, resque privatas inter se persequantur. La sua interpretazione
non può dar luogo a dubbio , quando diasi al vocabolo di lex la sua
significazione primitiva di con venzione e di patto ; interpretazione, che del
resto è anche imposta dall'espressione di « lex convenit » . È evidente
infatti, che qui trat tasi di un patto intervenuto prima fra le tribù e più
tardi fra i popoli, le nazioni e le città, nell'intento di permettere ai membri
delle genti, delle tribù e delle città di far valere rispettivamente le proprie
ragioni presso la gente, tribù o città , con cui trovansi in rapporto di ami
cizia ; come pure è evidente la correlazione, che intercede fra questo vocabolo
e quello di rerum repetitio , che costituiva, come si vedrà fra poco, uno dei
preliminari, che precedevano la vera dichiarazione di guerra. Questo vocabolo è
poi meglio spiegato da quello di reci procare, il quale, secondo Festo ,
significa « ultro citroque poscere » cioè far valere rispettivamente le proprie
ragioni: vocabolo , che anche oggidi conserva l'antica sua significazione in
quei trattati fra gli stati e le nazioni, che chiamansi di reciprocità e
direciprocanza . Ciò infine spiega eziandio , come si chiamassero recuperatores
quei giudici od arbitri, che erano chiamati a risolvere le controversie degli
stranieri fra di loro e dei cittadini cogli stranieri. Infine si 144 viene
anche a darsi ragione, come in una città come Roma, che fu sempre un emporio di
tutte le genti, i recuperatores abbiano finito per essere una autorità
giudiziaria , pressochè permanente, la quale, mentre decideva le questioni con
stranieri, poteva anche essere chiamata a risolvere delle controversie fra i
cittadini, in quei casi sopratutto , in cui non si trattasse di applicare il
ius quiritium , ma piuttosto quei iura gentium , che fin dai primi tempi
dovettero almeno di fatto esistere accanto al medesimo. A proposito dei re
cuperatores, si è poi lungamente disputato se i medesimi fossero chiamati soltanto
a risolvere controversie di diritto privato, o se potessero essere chiamati
eziandio a risolvere controversie di carat tere pubblico fra i popoli e le
genti. La definizione di Elio Gallo sembra comprendere le une e le altre , in
quanto che essa accenna alla ricupera delle cose tolte da un popolo ad un altro
, e alla prose cuzione delle cose private. Se quindi fosse lecito avventurare
una congettura, misembrerebbe essere probabile, che in quell'epoca , in cui
ancora mal si distingueva la ragion pubblica dalla privata , i recu peratores,
che erano persone scelte fra le due genti amiche, potes sero essere arbitri
dell'uno ed un altro genere di controversie , perchè queste tenevano del
pubblico e del privato ad un tempo . Allorchè invece , al disopra delle genti,
venne a formarsi la città , e per tal modo cominciò a distinguersi la cosa
pubblica dalla privata , i re cuperatores ebbero circoscritta la propria
competenza alle contro versie di carattere privato . Fu in allora che i
recuperatores si man tennero per le controversie di indole privata, e che i
fetiales furono creati invece per le controversie, che insorgevano fra i varii
popoli; fu allora parimenti che la recuperatio fu ilmodo, con cui gli individui
res privatas inter se persequuntur, mentre la rerum repetitio di ventò un
preliminare della guerra; fu allora infine che i iura gentium si vennero
biforcando, e mentre da una parte il vocabolo di ius gen tium rimase ad
indicare un complesso di norme, che governava i rap porti diindole privata,
quello invece di ius foeciale o di ius belli ac pacis fu adoperato per indicare
i rapporti di carattere pubblico fra i popoli e le città . Anche qui insomma
non si fece che applicare un processo , le cui traccie sono evidenti in ogni
argomento, il quale consiste nel « publica privatis secernere, sacra profanis
Di qui derivò quell'incertezza di significazione, che questi vocaboli sem .
brano avere nelle proprie origini; incertezza, che non dovette recare imbarazzo
a coloro , che avevano operate queste distinzioni; ma che complica invece
grandemente l'opera di coloro che tentano - 145 - fondarsi sovra pochissime
vestigia di ricostrurre l'opera com - piuta (1). 112. Almodo stesso poi, che
nei rapporti fra i privati dopo l'amico viene l'ospite, il quale già viene
accolto nella casa e per qualche tempo entra in certo modo a far parte della
famiglia ; cosi nei rap porti fra le varie genti, al disopra dell'amicitia ,
viene a comparire l'hospitium . L'ospitalità , che diventa un ufficio di
cortesia presso le nazioni civili, è invece una vera necessità presso tutti i
popoli pri mitivi, i quali senza di essa si troverebbero isolati gli uni dagli
altri. Non è quindi meraviglia, se i doveri dell'ospitalità , oltre al fon
darsi sul costume, entrino eziandio sotto la protezione del fas , e se la
medesima, presso le genti primitive, tenda ad acquistare un ca rattere
ereditario . L'ospite entra in un certo senso a far parte della stessa
famiglia, come lo dimostra il fatto che gli antichi giurecon sulti disputavano
perfino, se gli ufficii verso l'ospite dovessero pre cedere o susseguire quelli
verso il cliente : nella quale questione, (1) V. quanto alla definizione della
recuperatio, HUSCHKE, Jurisp . ante-iust. quae sup., pag . 97 , n ° 13. Questa
congettura , che d'altronde è molto semplice, ha il van taggio di risolvere
parecchie controversie, che furono largamente trattate dal Voigt, Das ius
naturale, gentium , etc., II, e dal Fusinato , Dei Feziali e del diritto
feziale . Essa spiega anzitutto come un solo vocabolo, quello di ius gentium ,
possa presentarsi con un duplice significato (V. FusInATO, Op. cit., Introd . ,
Cap. I, § 1, pag. 463 , dove egli combatte in parte l'opinione del Voigt). Essa
spiega in secondo luogo, come la recuperatio, che più tardi trovasi solo
applicata alle controversie private, nell'antica sua definizione comprenda
invece anche quelle di carattere pub blico. Di qui una divergenza fra il
Fusinato da una parte, che vorrebbe negare ai recuperatores « ogni competenza
giudiziaria in interessi di pubblica natura » , Op. cit ., Cap. V , § 2º, e il
SelL ed il Rein da lui citati , che sostengono invece un'opinione diversa .
Credo poi chenon possa essere posta in dubbio l'analogia stret tissima fra
recuperatio e rerum repetitio , sebbene i due vocaboli abbiano ciascuno una
propria significazione, poichè recuperatio significa reciproca actio, mentre
rerum repetitio significa il tentativo, che un popolo fa per riavere ciò che
gli fu tolto, prima di appigliarsi alla guerra . Del resto questa stessa
analogia compare fra le noxae datio del diritto privato e le noxae deditio dei
cittadini colpevoli contro il diritto delle genti, di cui discorre lo stesso
Fusinato al Capo V , § 3º. Ciò significa pertanto, che noi ci troviamo di
fronte ad un processo logicamente applicato in tutte le di stinzioni, che si
vennero introducendo fra i rapporti pubblici e privati, e quindi la coerenza
stessa dei risultati, in varii argomenti ad un tempo, dimostra come sia fondata
la congettura di cui si tratta. Come poi i recuperatores fossero in Roma an’autorità
giudiziaria , pressochè permanente, appare da ciò , che essi non erano ignoti
alla stessa legislazione decemvirale, il cui impero era ristretto ai soli
cittadini. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 10 - 146 mentre vi era chi
collocava prima le persone affidate alla tutela del capo di famiglia, poi il
cliente, quindi l'ospite ; Masurio Sabino invece preponeva l'ospite al cliente.
Tutti però erano concordi nel ritenere, che l'ospite dovesse avere la
precedenza sui cognati e sugli affini. Non pud quindi essere temeraria la
congettura, che l'ospitalità e la clientela fossero nell'organizzazione
gentilizia due istituzioni, che avevano una correlazione fra di loro ; colla
differenza, che la ospi talità importava solo una difesa e protezione provvisoria,
mentre la clientela importava un rapporto di protezione permanente. Sotto
quest'aspetto pertanto , si poteva dire che il cliente veniva prima del
l'ospite; maquando invece si consideri che la clientela importa subor dinazione
e dipendenza , mentre l'ospitalità può alternarsi in guisa che l'ospitato di un
giorno sia l'ospite in un altro , ben si pud com prendere il motivo, per cui
Masurio Sabino concedesse sotto questo aspetto la precedenza all'ospite sopra
il cliente, in quanto che l'ospite e l'ospitato erano in rapporto di
uguaglianza fra di loro , il che non accadeva del patrono e del cliente ( 1).
113. Così il concetto dell'amicitia , che quello dell'hospitium , do vettero
nel periodo gentilizio avere un carattere pubblico e privato ad un tempo. Fu
solo posteriormente, quando dalle genti e dalle tribù uscirono le città, che
cosi l'amicitia come l'hospitium subirono quella distinzione , che si operò in
qualsiasi altro argomento, per cui si ebbero l'amicitia e l'hospitium pubblico
e privato. Che anzi nella transizione fuvvi un periodo, in cui la casa stessa
del re dap prima e del magistrato dappoi servì per accogliere gli ospiti del
popolo romano ; ma, a misura che si venne distinguendo l'ente collettivo dello
Stato dalla persona dei singoli cittadini, si dovet tero anche distinguere
l'amicizia e l'ospitalità in pubblica e in privata . Cosi fu un effetto della
pubblica amicizia , che il cittadino romano, quando era fatto prigioniero di
guerra , godesse senz'altro del diritto di postliminio , appena ponesse il
piede nel territorio di un re alleato od anche solo amico , poichè da quel
momento comin ciava ad essere « pubblico nomine tutus » (2). Parimenti
l'hospitium pubblicum , allorchè fu accordato non solo ad un individuo, ma alla
intiera popolazione di una città, venne a cambiarsi in certo modo nella ( 1) V.
sopra il passo di Masurio Sabino a pag. 48, nota 2 . ( 2) L. 19 , $ 3 Dig . (49
, 15 ) . 147 concessione della civitas sine suffragio : il che rende non desti
tuita di fondamento l'opinione di coloro , i quali, dietro l'autorità del
Niebhur, vogliono trovare nel concetto dell'hospitium pubblicum la primitiva
significazione, che, secondo Festo, sarebbe stata attri. buita al vocabolo di
municipium (1). 114. Infine al disopra dell'amicizia e dell'ospitalità ,
presentasi la societas. Qui non trattasi più di semplici officii di cortesia ,
ma di obbligazioni che già assumono un carattere giuridico; poichè la 80 cietas
fra le genti, al pari della societas fra i privati, è un acco munare le proprie
forze per il conseguimento di un intento comune, e per ripartire i vantaggi,
che si possono ricavare dall'opera insieme associata . I patti e le condizioni
di questa societas possono essere molto diversi; ma di regola essa importa
alleanza difensiva ed offen siva delle genti, fra cui interviene, e una
conseguente ripartizione del bottino. Di qui la conseguenza, che mentre
l'amicizia e l'ospita lità possono anche trovare origine nel fatto e nella
consuetudine ; la societas invece suppone una convenzione espressa fra le genti
ed i popoli, fra cui interviene: quindi con essa viene a sorgere il con cetto
del foedus, il quale ebbe larghissimo svolgimento e diede luogo ad
importantissime conseguenze nel periodo gentilizio . $ 3 . - N foedus e le sue
svariate applicazioni nel periodo gentilizio . 115. Per quanto sia dubbià
l'origine della parola, questo è certo , che l'essenza del foedus sta nella
fides, che stringe quelli che entrano in confederazione fra di loro, e che il
medesimo, nei rapporti fra le varie genti, compie quello stesso ufficio , a cui
adempie il contratto fra i singoli capi di famiglia . Infatti, sebbene di
regola sogliano ado perarsi come sinonimi i due vocaboli di societas e di
foedus , è pag . 104. (1) NIEBhur, Histoire romaine, III, pag. 79 e seg . Questa
opinione fu di recente sostenuta dal TADDEI, Roma e i suoi municipii , Firenze,
1886, 8 31, Senza negare che possa esservi esistito un qualche rapporto fra
l'hospitium pubblicum e il municipium , nella prima delle significazioni che è
attribuita a quest'ultimo vo cabolo da Festo , vº Municipium , vuolsi però
avere presente che l'hospitium è isti tuzione di origine gentilizia, mentre il
municipium suppone già esistente e svolta la convivenza civile e politica . 148
però facile l'avvertire, che i medesimi, sopratutto negli inizii, dovet. tero
avere significazione diversa . Mentre infatti la societas indica il rapporto,
in cui entrano le genti ed i popoli, il vocabolo di foedus invece significa di
preferenza l'accordo, la convenzione, con cui questo rapporto viene ad essere
stipulato . Che anzi, siccome fra le genti non si distinguono i rapporti di
carattere pubblico da quelli di carattere privato : cosi il vocabolo foedus si
presenta dapprima con una larghissima significazione, instesse convenzioni e
stipulazioni private e, sopratutto nei poeti, significa persino quelle
convenzioni tacite, che sembrano strin gere tutti i popoli, che si trovino in
analoghe condizioni di civiltà : convenzioni e rapporti, che sono appunto
indicati col vocabolo di foe dera generis humani, poichè il popolo che vi
venisse meno sem brerebbe in certo modo uscire dal novero dalle umane genti.
Tali erano fra gli antichi l'inviolabilità e l'immunità dei legati, senza la
quale sarebbe stata impossibile qualsiasi trattativa fra genti, che non avevano
fra di loro comunione di diritto ; tale era eziandio quel costume veramente
umano per cui, terminata la battaglia, ad divenivasi ad una breve tregua, acciò
i due eserciti potessero addi venire alla sepoltura dei morti. Di più , anche
nei rapporti fra le genti, il foedus non significava soltanto la confederazione
o l'al leanza; ma poteva significare qualsiasi accordo , che venisse a seguire
fra due popoli, sia per conchiudere la pace, sia per rimettere la decisione
della guerra ad un duello fra individui scelti negli eser citi che si trovavano
di fronte, ed anche quell'accordo, in base a cui si addiveniva alla deditio di
un popolo ad un altro e se ne fissa vano le condizioni. Il foedus insomma
indica il momento, in cui l'elemento contrattuale comincia a penetrare nei
rapporti fra le varie genti; ed è perciò , che, malgrado tutti i dubbii che
possano avere gli etimologi, non so trattenermi dall'esprimere la persuasione
profonda, che il vocabolo di ius foeciale, con cui si indicava il complesso
delle pratiche e delle trattative, che poterono seguire fra i varii popoli così
in pace, come in guerra, non può essere che una corruzione ed una sincope di
ius foederale (1) . (1) Gli etimologi non possono accertare che foedus origini
da fides, nè che foeciale derivi da foedus : ma questo è certo, che le parole
di fides , foedus, foeciale, come sembrano avere una parentela materiale, così
hanno una strettissima attinenza , quanto al concetto dalle medesime espresso,
ed è questo il motivo, per cui continuo a scri vere ius foeciale a vece di ius
fetiale. Quanto alla larghissima significazione pri 149 116. Intanto il foedus
è il rapporto fra le genti e le tribù , che suppone un maggiore progresso
nell'organizzazione sociale . Qui infatti non è più il caso di un semplice
ufficio di amicizia e di ospitalità ; ma trattasi già di un rapporto che assume
il carattere giuridico , in quanto che il foedus impone alle genti e alle
tribù, che vi addiven gono, delle vere e proprie obbligazioni giuridiche,
sebbene queste continuino ancora sempre ad essere sotto la protezione del fas.
Gli è perciò, che col foedus già comincia a comparire quell'istituto della
stipulazione giuridica , che le genti latine recarono non solo nelle con
venzioni private, ma eziandio nelle convenzioni di pubblica natura ;
stipulazione che, a mio avviso , dovette probabilmente essere prima adoperata
per i rapporti di carattere pubblico, che non per quelli di carattere privato .
Quanto alle formalità solenni, che accompagnavano il foedus, ritengo, che se più
tardi potè essere attribuita importanza sopratutto all'elemento esteriore, che
serviva per dargli il carattere di iustum , come lo dava al testamento, alle
nozze e a qualsiasi altro atto ; questo è però certo, che le cerimonie, che
accompagnavano la conclu sione del foedus nel periodo, in cui si vennero
formando, dovettero avere una reale ed effettiva significazione . Non doveva
quindi nel periodo gentilizio esservi un pater patratus, che addivenisse alla
formazione dell'alleanza : ma erano i padri o capi effettivi delle genti, che
da essi erano rappresentati, quelli che conchiudevano il patto. Così pure
dovette anche avere una efficace significazione l'obtestatio deorum , per cui
chiedevasi la divinità in testimonio del patto , che interveniva fra di essi, e
si poneva il trattato sotto la protezione del fas, chiamando la collera del
cielo contro colui, che venisse meno al patto intervenuto , e simboleggiando,
col ferire con un coltello di selce la vittima, il modo, con cui la divinità
avrebbe col pito il violatore del patto (1). mitiva di foedus, essa appare
sopratutto dall'uso che ne fanno i poeti latini, pei quali indica dapprima
qualsiasi patto fra gli individui e fra le genti; quindi anche qui abbiamo una
parola , che si riferì dapprima ai rapporti pubblici e privati ad un tempo;
argomento questo che gli uni non si distinguevano dagli altri. Questo
significato primitivo di foedus fu presentito dal nostro Vico, allorchè chiamò
le re ligioni, le sepolture ed i matrimonii i foedera generis humani. Il duplice
significato pubblico e privato di foedus occorre poi nel seguente passo di
Liv., Hist., I, 1: « Aenean apud Latinum fuisse in hospitio : ibi Latinum ,
apud penates deos, dome sticum pubblico adiunxisse foedus, filia Aeneae in
matrimonium data ». ( 1) Questo è provato anche da ciò , che nel primo caso
narratoci di un patto se 150 117. Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio,
che il concetto del foedus, vincolo religioso e giuridico ad un tempo fra le
varie genti e le tribù, ebbe certamente a precedere la formazione della
comunanza romana, e dovette anche prima ricevere applicazioni molteplici e
diverse, durante il periodo .gentilizio . Il foedus può essere anzitutto il
mezzo, con cui si pone termine allo stato di guerra fra diverse tribù, e
siccome al momento, in cui si addiviene al medesimo, le sorti delle armi
possono essere diverse per i contendenti, cosi è probabile, che già ,
anteriormente a Roma, dovesse esservi quella distinzione, di cui essa poi fece
così larga ap plicazione fra il foedus aequum ed il foedus non aequum . Eranvi
infatti dei casi, in cui il foedus, nella significazione di convenzione e di
trattato , serviva, come ricorda Gellio , per dettare la legge ai vinti; altri
in cui, senza opprimere affatto quello dei contendenti, per cui volgessero
sfavorevoli le sorti della guerra, il medesimo in una posizione di ossequio e
di subordinazione verso quello che stava per vincere, il che costituiva appunto
il foedus non aequum e dava origine ad una specie di clientela di un popolo
verso un'altro , che nell'epoca romana fu poi indicata coll'espressione « at
maiestatem Populi Romani coleret » ; altri infine, in cui, essendo incerte le
sorti della guerra , si poneva termine alla medesima con un aequum foedus e si
veniva, secondo i patti, alla reciproca restituzione dei prigionieri di guerra
e all'abbandono del territorio occupato (1). si poneva 118.Per quanto poi si
riferisce a quella distinzione fra foedus e spon sio, stata invocata qualche
volta dai Romani, sembra che la mede sima costituisca già un'applicazione,
eminentemente giuridica , trovata dallo stesso popolo romano e posteriore alla
formazione della città . È noto in proposito, che i Romani ritenevano per
foedus il trattato guìto secondo il ius foeciale , che è quello relativo al
combattimento degli Orazii e dei Curiazii, DIONISIO ci narra, che il medesimo
fu solennemente stipulato , e che due cittadini eletti a ciò, facendo le veci
di padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno d'essi. Dion ., III,
5. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 99. Ritengo poi verosimile l'opinione
del senatore Pantaleoni, ricordata dal Fusinato , Le droit in ternational de la
République Romaine, Bruxelles, 1885. Extrait de la Revue de droit
international, pag. 18 ; secondo cui il coltello di selce rimonterebbe all'età
della pietra, poichè questo studio di conservare anche materialmente l'antico è
ve ramente nel carattere romano. (1) Quanto alle varie specie di foedera fra le
città ed i re è da vedersi Livio , XXXIV, 17. Esempii poi di foedera non aequa
possono vedersi in Gellio , Noc .att., VI, 5 , e nello stesso Livio, XXX, 15 e
II, 25. 151 - stipulato coll'intervento del pater patratus e colle cerimonie
tutte del ius foeciale, mentre sponsio era la pace giurata soltanto dal
generale . Mentre il primo obbligava direttamente il popolo Romano, l'altra
invece , quando non fosse ratificata dal senato , obbligava solo a fare la
consegna del generale, che aveva giurato la pace. Ora è evidente, che questa
distinzione cosi ingegnosa e sottile presuppone già il passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Finchè trattasi
di tribù o di genti, è il pater o capo effettivo della tribù, che la guida
nelle sue imprese militari, e quindi è egli stesso, che tratta la pace
circondato da altri capi, ed adempie alle cerimonie tutte di carattere
religioso , che devono accompagnare la stipulazione del foedus. Non occorre
quindi ancora l'artificio del pater patratus, nè l'intervento dei feziali,
perchè esso possa obbligare direttamente il proprio popolo . Quando invece
trattasi di una città , tanto più se retta a repubblica , il generale non può
più dirsi che rap presenti il popolo e il senato , e quindi egli non può
addivenire che ad una semplice sponsio, la quale, per essere cambiata in un
vero trattato , abbisogna della ratifica del senato e dell'adempimento delle
cerimonie del diritto feziale. Intanto perd, siccome il generale è colpevole
per aver giurata una promessa, che non mantiene o per aver obligato il popolo
oltre i limiti del suo mandato ; cosi il senato , che non ra tifica il suo
operato , si appiglia alla noxae deditio del generale stesso. Intanto si
comprende, che altri popoli, come i Sanniti, al tempo della pace delle forche
caudine, i quali non erano ancora pervenuti ad un eguale sviluppo della loro
organizzazione civile e politica, stentassero a comprendere questa sottigliezza
giuridica dei Romani: poichè per essi il loro generale era anche il loro capo
ef fettivo , e quindi poteva obbligare direttamente il popolo da lui rap
presentato (1). (1) Non parmi quindi, che possa essere il caso di introdurre
qui la triplice distin zione, a cui accenna il Mommsen, Le droit public romain
, pag. 281, fra la semplice sponsio del capitano, il foedus foeciale e il
foedus del solo capitano; poichè è di chiarato abbastanza chiaramente da Livio
, che tanto il foedus che la sponsio , se siano fatte iniussu populi , non
possono obbligare il popolo Romano, Livio, IX , 4 , 5 , 8. Quindi la vera
distinzione viene ad essere questa : o la convenzione è opera del solo capitano,
iniussu populi ac senatus, che sono quelli che inviano i feziali, e in allora
abbiamo una semplice sponsio ; o invece vi ha il iussus populi ac senatus, che
inviano i feziali e abbiamo il vero foedus: donde la prova che la distinzione
dovette essere un effetto del passaggio dall'organizzazione gentilizia
all'organizza zione politica . Cfr. Fusinato, Dei Feziali e del diritto
feziale, Cap. IV, § 3º. 152 - 119. Non credo poi si possa ammettere col Mommsen
, che sulla forma del foedus abbia esercitata una visibile influenza la teoria
del contratto , in quanto che nel foedus sarebbesi adoperata per analogia la
forma della stipulazione, come quella che era considerata come il modo generale
e di diritto comune per contrarre le obbliga zioni. Ciò è del tutto impossibile
: perchè è certo che esistevano già il foedus e la sponsio nei rapporti fra i
varii popoli e che l'uno e l'altra già si stipulavano con quella forma
determinata, assai prima che i giureconsulti costruissero la teoria della
stipulazione e ne fa cessero applicazione alle convenzioni private . Del resto
la forma della stipulazione, adoperata dai Romani nei rapporti colla divinità ,
nella formazione della legge, nella conclusione dei trattati di pace, solo più
tardi sembra essere stata accolta nel diritto civile romano ed applicata alle
convenzioni private; per guisa che vi sono autori, che ritengono la
stipulazione nelle convenzioni private come di impor tazione greca . Il vero si
è, che nel diritto primitivo trovasi sempre un'analogia fra i rapporti di
diritto pubblico e quelli di diritto privato ; la quale deriva da ciò , che nel
periodo gentilizio tanto gli uni come gli altri sono rapporti tra capi di
gruppo, e quindi le stesse forme, che servono nei rapporti fra le varie genti,
possono poi anche servire nei rapporti contrattuali e privati. Sonvi però molte
pratiche comuni agli uni e agli altri e fra le altre havvi quella della sponsio
, che sembrano aver acquistato forma ed efficacia giuridica prima nei rapporti
fra le genti, che nei rapporti dicarattere privato. Del resto cid è anche
attestato da Gaio , che chiama sottigliezza il voler applicare la teoria della
stipulazione privata alla sponsio del generale romano ; poichè, se si venga
meno al patto, non ex stipulata agitur, sed iure belli res vindicatur ( 1). (1)
V. Mommsen, Le droit public romain , pag. 281, il quale , secondo la tradu
zione Gérard , di cui mi valgo, scrive : « En ce qui concerne la forme, le
principe du droit civil a fait employer ici par analogie les formes de la
stipulation , parce qu'elle était considérée comme le mode général et de droit
commun de contracter des obligations » . Parmi, con tutta la riverenza al
dottissimo autore, che questa proposizione non possa essere accolta , e che
sarebbe vera piuttosto la proposizione inversa . Infatti secondo il MUIRHEAD ,
Hist. Introd., pag . 227, e molti altri , la sponsio o stipulatio nelle
convenzioni private non sarebbe penetrata di Grecia in Roma, che verso la metà
del V secolo : epoca, in cui la teoria della sponsio e del foedus, nei rapporti
fra le città ed i popoli , aveva già ricevuto tutto il suo svi luppo. Quindi è
che pur non ainmettendo l'opinione del MTIRHEAD, in quanto che ritengo che la
sponsio fosse romana fino dalle origini e vivesse nel costume, anche - 153 120.
Un'altra applicazione del foedus era anche quella , per cui tribù e genti, che
potevano anche non essere in guerra fra di loro , stringevano fra di loro
un'alleanza, i cui patti potevano essere molto diversi, ma che il più spesso
costituiva una lega difensiva ed offensiva ad un tempo ; la cui idea tipica pud
essere ricavata dal foedus latinum , detto anche foedus Cassianum , il cui
tenore ebbe ad esserci conservato da Dionisio . È poi notabile , che queste
specie di alleanze fra tribù e popoli vicini, siccome per lo più dipendevano da
relazioni ed aderenze fra i capi di gruppo , cosi si venivano for mando e
disfacendo con grande facilità, per cui bene spesso l'alleato di oggi poteva
essere il nemico di domani. Il che tuttavia non toglie, che la forza e l'efficacia
del patto d'alleanza sia cosi profondamente sentita, che stipulavasi talvolta
che essa dovesse durare eterna ed im mortale, come lo erano i popoli, fra cui
interveniva. Ciò è dimostrato dall'energica espressione adoperata nel foedus
latinum , secondo la quale la pace e l'alleanza fra romani e latini doveva
durare : « dum coelum et terra eandem stationem obtinuerint » (1) . 121. Infine
un'altra importantissima applicazione del foedus nelle epoche primitive, è
quella , in virtù della quale più tribù , che possono anche essere di origine
diversa , societatem ineunt fra di loro, nel l'intento di formare una stessa
civitas e di partecipare così ad una vita pubblica comune. È stato questo il
foedus, che ha servito per la formazione dell'urbs e della civitas dei latini,
e che fu anche il tipo , sovra cui ebbe ad essere foggiata Roma primitiva; il
qual ca rattere è importantissimo, in quanto che induce ad affermare che Roma
nei suoi inizii ebbe un carattere federale e pressochè con trattuale . Dal
momento infatti, che fra le varie tribù mancava il vincolo della comune
discendenza , non poteva esservi che quello della fides, e quindi è nel foedus,
che deve essere cercata l'origine prima dientrare nel diritto, conviene pur
sempre riconoscere che la teoria della sponsio si svolse prima nei rapporti fra
le genti, che non nel diritto civile di Roma. Giu stamente quindi Gaio voleva
tener distinte le due cose: poichè, dalmomento che la sponsio nei trattati fra
i popoli erasi distinta da quella nelle convenzioni private, non era più il
caso di confonderle insieme(Gaius, Comm . III, 94). Da questa nasceva l'actio
ex stipulatu , mentre dalla violazione di quella nasceva la guerra. I due isti
tuti, che nella origine potevano essere uniti, ora seguono invece ciascuno la
propria via, come la recuperatio e la repetitio rerum , il ius gentium e il ius
belli ac pacis e simili, e più non debbono essere insieme confusi. ( 1) Dion.,
VI, 95. 154 della città . Se la tribù può ancora essere una formazione del
tutto naturale, perchè è l'effetto del primato , che una gente acquista sopra
le altre che la circondano ; la città invece suppone di necessità l'accordo
delle varie tribù , che entrano a costituirla , accordo, che riveste appunto la
forma di un foedus (1). § 4. — Dei mezzi per l'annessione e per il distacco
degli elementi , che partecipano alla stessa comunanza . 122. Intanto egli è
evidente, che allorquando le cose sono per venute a tale, che
nell'organizzazione gentilizia , in cui prima do minava esclusivamente il
vincolo di discendenza, già comincia a pe netrare l'elemento federale e
contrattuale , questo non può a meno di attribuire all'organizzazione stessa
una elasticità e pieghevolezza , che essa prima non poteva avere. Infatti egli
è sopratutto da questo punto , che nel seno della tribù e della città ,
costituita mediante la federazione di varie tribù, cominciano a comparire dei
mezzi, i quali o servono ad aggregare alla comunanza un nuovo elemento , o ser
vono invece a staccarne un elemento, che prima ne faceva parte per trasportarlo
altrove. Fu in questa guisa, che, già anterior mente alla formazione della
comunanza romana, si erano venuti svolgendo gli istituti della cooptatio, della
concessio civitatis sine suffragio , della secessio e della colonia ; la cui
nozione è indispen sabile per comprendere la storia primitiva di Roma. 123. In
virtù della cooptatio le genti, che già entrarono a far parte di una medesima
comunanza civile e politica, possono accoglierne delle altre a far parte della
medesima. Essa fu applicata più volte in Roma primitiva; come lo dimostra la
cooptazione delle genti Al bane, dopochè Alba fu , secondo la tradizione,
distrutta da Tullo Ostilio , e fu applicata eziandio alla gente sabina,
capitanata da Atto Clauso . ( 1) Questa origine federale delle città costituite
sul tipo latino pud servire a spiegare il fatto, per cui i Latini nella loro
qualità di socii coi Romani abbiano messa innanzi la pretesa , che Roma e il
Lazio dovessero dare origine ad una comu nione ed unità di governo ; per cui
dei consoli uno dovesse essere nominato dal Lazio e l'altro da Roma, e il
senato dovesse comporsi in parti eguali dai due popoli. Vedi Liv. VIII, 3, 4,
5. Cfr . WALTER, Storia del diritto di Roma, Trad . Bollati, Torino , 1851, I,
S 85 e seg ., pag . 108 ). 155 È poi questa istituzione, che ci dà la ragione
per cui, durante il periodo di Roma patrizia , la cittadinanza non era
conceduta ad in dividui, ma a genti collettivamente considerate, in quanto che
la cooptatio era per sua natura applicabile all'intiero gruppo gentilizio e non
ai singoli individui ( 1). Non pud poi esservi dubbio, che questa cooptatio,
per essere una istituzione eminentemente patrizia , doveva certainente essere
accom pagnata da cerimonie religiose ; perchè la gente , che era ammessa nella
tribù o alla città, diventava eziandio partecipe della religione di esse, ne
aveva comuni gli auspicia , ed il suo capo poteva anche conseguire un seggio
nel senato . Quasi si direbbe, che la cooptatio di una gente nella tribù o
città corrispondeva alla adrogatio per la famiglia . Quindi si comprende, come
al modo stesso che l'adrogatus, per essere disgiunto dalla gens, di cui faceva
parte, doveva prima addivenire alla detestatio sacrorum ; così anche il
gentile, per uscire dall'ordine delle genti patrizie e passare, ad esempio ,
nella plebe, il che chiamavasi transitio ad plebem , doveva pure appigliarsi ad
una specie di abdicatio o detestatio sacrorum ; alla quale dovette appunto
assoggettarsi Clodio , allorchè abbandono l'ordine patrizio e passò alla plebe
per poter essere nominato tri buno (2 ) È poi degno di nota, che questa
cooptatio ebbe pure ad essere applicata ai collegi sacerdotali, finchè i
medesimi furono esclusiva mente tratti dall'ordine patrizio , e fu solo più
tardi, allorchè anche la plebe fu ammessa ai sacerdozii pubblici del popolo
romano, che ad alcuni fra essi fu applicata l'elezione popolare, la quale anzi
fini per essere affidata ai comizi tributi. 124. Quando poi la città cesso di
essere esclusivamente patrizia , in allora noi vediamo svolgersi, qualmodo di
accrescere la popola zione, la concessione della civitas sine suffragio , in
virtù della quale gli abitanti di una città vicina, che venivano a prendere il
( 1) Dion ., III, 29 ; Liv ., 1, 30. Cfr. Willems, Le droit public romain ,
pag. 25 ; CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag. 34. (2) La necessità di
una specie diabdicatio, anche per uscire da una gens, è provata dal seguente
passo di Servio, In Aen . 2, 156 : « Consuetudo apud maiores fuit, ut qui in
familiam vel gentem transiret , prius se abdicaret ab ea , in qua fuerat, et
sic ab alia reciperetur ». Quanto alla transitio ad plebem , è da vedersi Cic.,
Brut., 16 , e Aulo Gellio, XV, 27 . 156 nome di municipes (a munere capiendo),
recandosi a Roma, erano ammessi a partecipare ai diritti e alle obbligazioni
del cittadino, esclusa però la partecipazione al godimento dei diritti
pubblici, che consistevano nel ius suffragii e nel ius honorum . Fu con questo
mezzo, che Roma incominciò a mettere le basi di quel sistema mu nicipale , per
mezzo del quale tutti gli abitanti prima delle città del Lazio e poi quelli
delle città italiche, finirono per essere considerati come cittadini di Roma,
che era la patria communis; il che però non impediva, che ogni città avesse una
propria amministrazione municipale. Questo carattere dei municipia , i quali in
sostanza erano città per sè esistenti, che venivano ad essere associate alle
sorti di Roma, fu espresso da Gellio con dire , che imunicipia , a differenza
delle colonie, veniunt extrinsecus in civitatem et radicibus suis nituntur. Ciò
però non tolse , che il concetto del municipium abbia subito poi delle
trasformazioni profonde, le quali sono indicate dalle significazioni diverse,
che Festo attribuisce a questo vocabolo ( ). i 125. A questi duemezzi, con cui
veniva accrescendosi il numero di coloro, che partecipavano alla stessa civitas
, se ne contrapponevano invece degli altri, che servivano piuttosto a
trasportare altrove una parte della popolazione, sia che ciò occorresse per il
vantaggio della stessa città , come accadeva nella colonia , sia che una parte
di essa si trovasse in condizioni incompatibili col rimanente, nel qual caso si
ricorreva alla secessio e all'expulsio. Non può esservi dubbio, che il sistema
delle colonie, che prese poi cosi largo sviluppo in Roma, esisteva già prima
nel costume delle genti italiche, ed era anzi loro comune colle genti
elleniche, sebbene il suo scopo potesse essere diverso. Ciò è dimostrato dal
fatto, che, secondo la tradizione, la tribù dei Ramnenses non dovette essere
dapprima, che una colonia di Alba Longa. Le colonie poi sono gruppi di
famiglie, le quali, collettivamente considerate, si staccano dalla madre patria
, colla approvazione di quelli che rimangono, la quale si manifesta nella lex
coloniae deducendae, e colla buona volontà di coloro che partono, i quali
debbono perciò farsi iscrivere nel numero dei coloni. Ciò ebbe ad essere
espresso da Servio con dire, che le (1) I principali passi degli autori,
relativi almunicipium e alla colonia , possono trovarsi raccolti nella
eruditissima opera del Rivier, Introdution historique au droit romain ,
Bruxelles, 1881, pag. 135 a 140 ; la quale contieneun numero grandissimodi
passi di autori e questi raccolti con molta sagacia. 157 colonie « ex consensu
pubblico, non ex secessione conditae sunt » . Di qui la conseguenza, che la
colonia porta con sé la religione, la lingua, le tradizioni della tribù o della
città , dalla quale si stacca e si organizza a somiglianza di essa, per guisa
che, secondo la efficace espressione di Gellio, le colonie sono quasi effigies
parvae, simula craque della madre patria, e sono quasi propaggini della città,
da cui sonosi staccate , comequelle , che continuano ancor sempre a mantenersi
in rapporti con essa (ex civitate quasi propagatae sunt) (1). Punto non ripugna
, che le colonie nelle loro origini siansi cosi chiamate a colendo ; in quanto
che può darsi benissimo, che esse fossero in certo modo delle spedizioni
agricole, che partivano da una tribù , sta bilita sopra un territorio , per
trasportarsi sopra un altro suolo , quando quello prima occupato più non
potesse bastare ai bisogni della intiera popolazione. Però anche in questa
parte, allorchè riuscì a delinearsi l'istituto della colonia , nulla impedi che
esso potesse essere rivolto ad intenti di diversissima natura, marittimi,
militari, commerciali, e che servisse anche a diminuire il numero soverchio
della plebe, quando essa , raccolta nella sola città, già cominciava a
cambiarsi in una factio forensis e a diventare pericolosa . 126. La secessio
invece sembra contrapporsi alla cooptatio, colla differenza che questo
vocabolo, in cui non havvi accenno ad alcun rito religioso , sembra aver
trovato origine piuttosto nei rapporti fra patriziato e plebe, che non in seno
all'ordine patrizio . Ad ogni modo la secessio , intesa in largo senso , ha
luogo allorchè un ele mento già ammesso nella comunanza , trovandosi
incompatibile colla medesima, se ne stacca volontariamente e recasi altrove a
porre la propria sede . Lasciando anche a parte i tentativi di secessio per
parte della plebe, i quali non ebbero mai un esito definitivo , può forse
scorgersi un esempio di secessio , ancorchè dissimulato dalle tradizioni, nel
fatto della gens Fabia, che abbandonava Roma coi suoi numerosi clienti per
stabilirsi alla Cremera, ove poi fini per essere distrutta dai Sanniti,
lasciando un solo superstite , che entrò di nuovo a far parte della
cittadinanza romana (2 ). (1) Servio, In Aen ., I, 12 ; Gellio , XVI, 13.
L'importanza delle colonie nel periodo gentilizio fu già messa in evidenza dal
Vico, Prima scienza nuova, Lib. II, Cap. 42. Intorno alle colonie ed alle varie
loro specie, è accurata la trattazione del WALTER, Storia del Dir . Rom ., Trad
. Bollati, $ 204-212. (2) Quanto alla tradizione circa la gens Fabia , vedi
Bonghi, Storia di Roma, I , pag. 418 . 158 Alla secessio , che è volontaria ,
si contrappone invece l'expulsio , quale fu quella , che ebbe ad avverarsi per
la gens Tarquinia ; espul sione, che per la intimità del vincolo , che stringe
insieme i membri di una medesima gente, dovette poi essere estesa a tutti
coloro che portavano quel nome, non escluso quel Tarquinio Collatino , marito a
Lucrezia , il cui oltraggio , secondo la tradizione, era stata occasione allo
scoppio di quella rivoluzione patrizia e plebea ad un tempo , che condusse alla
trasformazione del governo regio in repubblicano. Intanto questi varii
istituti, unitamente all'amicitia , all'hospitium , alla societas e al foedus,
che serviva a dar forma giuridica e so lenne a tutti i rapporti amichevoli fra
le varie genti e tribù, avendo in gran parte avuto origine nel periodo
gentilizio , dimostrano abba stanza come la città , la quale era uscita dalla
federazione e dall'ac cordo, potesse anche subire dei mutamenti, che si
operavano nella stessa guisa . Essa aveva mezzi diversi per accrescere o
scemare il numero di coloro, che partecipavano alla stessa comunanza. Finchè
infatti la città fu esclusivamente patrizia , potevano bastare la cuoptatio o
la expulsio, mediante cui una gente poteva essere ac colta o respinta
dall'ordine patrizio , e cosi entrare od uscire dalla partecipazione alla
stessa comunanza. Quando poi patriziato e plebe si fusero insieme ed entrarono
così a far parte dello stesso esercito e dei medesimicomizii, in allora si
svolgono la secessio da una parte e la concessio civitatis dall'altra , e
quest'ultima potè essere consen tita cum suffragio o sine suffragio . 127.
Infine havvi la colonia che, adoperata prima dalla tribù e poscia dalla città ,
serve a questa per trapiantare le sue propaggini altrove; mentre il municipium
viene a convertirsi in un mezzo,me diante cui popolazioni,che avevano altrove
la propria sede ed avevano anzi una propria amministrazione ed una propria
vita, vengono ad es sere ammesse a partecipare alla vita pubblica della città ,
senza però essere ammesse agli onori ed al suffragio. Sarà solo più tardi,
allorchè il sistema municipale sarà svolto in tutte le sue conseguenze, che le
città latine prima e le città italiche dappoi, pur serbando il diritto di
partecipare alla amministrazione della loro patria originaria , otter ranno
tuttavia la partecipazione alla piena cittadinanza di Roma, che comincierà cosi
ad essere considerata come la communis patria . Così viene preparandosi
l'organismo della città per guisa, che essa possa essere capo e centro di
qualsiasi vasto impero, e mentre le - 159 popolazioni, ammesse alla
cittadinanza romana, avranno ancor esse interesse al mantenimento della
grandezza romana, sarà però sempre in Roma, dove si decideranno le sorti del mondo
e si eleggeranno i magistrati chiamati a governarlo (1). Solo più ci resta a
vedere , se anche le varie forme, sotto cui ebbe a svolgersi il ius belli, già
aves sero avuto origine nello stesso periodo e come siansi venute formando. $ 5
. - Il ius belli durante il periodo gentilizio . 128. In proposito già si è
dimostrato , come non possa ammettersi il concetto, pressoché universalmente
accolto, che la guerra debba essere considerata come lo stato naturale delle
genti italiche . Esse invece si considerano come straniere le une alle altre e
non hanno fra di loro comunione di diritto . Quindi al modo stesso che
occorrono degli accordi, perché si trovino in condizione di amicizia e di pace;
cosi è necessario che intervenga qualche fatto speciale, che le faccia uscire
da questo stato di reciproca indifferenza, accið esse possano essere
considerate come in stato di guerra . Quanto alle cause , che possono far
scoppiare una guerra, esse sono determinate dalle condi zioni sociali, in cui
si trovano le tribù ed i popoli diversi. Appena uscite da uno stato nomade, in
cui dovette dominare la privata vio lenza, le genti si fissarono in territorii,
i cui confini non erano an cora ben determinati, e quindi dovettero essere
frequenti le questioni di confine e le reciproche usurpazioni di territorio. Di
più pud ac cadere, che una comunanza nella sua totalità (populus da populari) o
gli uomini singoli ,che appartengono alla medesima (homines Her munduli)
abbiano commesso devastazioni e saccheggi nel territorio della comunanza
vicina. Così pure può avvenire, che una contro versia insorta fra due famiglie,
appartenenti a tribù diverse, ingros sandosi mediante le parentele e le
aderenze dell'una e dell'altra , come avvenne appunto in occasione della
cacciata da Roma di Tarquinio e della sua gente, prenda le proporzioni di una
vera e propria guerra . Siccome poi le varie genti e tribù sono in questo pe (
1) A questo proposito però fu giustamente notato, che una delle cause della de.
cadenza di Roma fu l'impossibilità, in cui erano le popolazioni delle città
italiche di prendere parte effettiva alla vita politica di Roma,.in cui finiva
perciò per pre valere la turba forensis. Vedi a questo proposito GENTILE, Le
elezioni e il broglio nella Repubblica Romana. 160 riodo rappresentate dai
proprii capi; cosi punto non ripugna che le sorti della guerra siano anche
rimesse ad un combattimento singolare fra individui, col patto che l'esito
della guerra dipenda dalle sorti di un privato duello. Così pure, è nel
carattere del tempo che, quando si incontrano i due capi, essi vengano fra loro
ad un combattimento non dissimile da quello, che la tradizione attribuisce a
Giunio Bruto e ad Arunte, il più forte fra i figli di Tarquinio , e che la
moltitudine dei combattenti si arresti a contemplare la lotta fra i proprii
capi. Niuna maggior gloria potrà ottenersi, che quando uno dei capi potrà avere
le spoglie dell'altro, ed è a questo concetto certamente che rannodasi il
culto, che ancora trovasi così radicato in Roma, per cui le spoglie opime, che erano
quelle appunto che dal capo di una tribù erano state tolte a quello dell'altra
, erano appese nel tempio di Giove Capitolino, ed i fasti e gli annali
ricordavano le volte in cui rinnovavasi il memorabile fatto (1). 129. Per
quanto questimodi di pensare e diagire possano riuscire singolari per noi, che
siamo giunti a scorgere nella guerra un rap porto fra due Stati; questo è però
certo , che i medesimi trovano una naturale spiegazione nel fatto , che durante
il periodo gentilizio i rap porti fra le stesse tribù non riescono ancora a
distinguersi da quelli fra i capi, che le rappresentano. Diqui conseguita, che
il concetto della guerra fra i popoli ancora si confonde col duello fra i capi
che lo rappresentano; il che è dimostrato fino all'evidenza dall'origine co
mune dei vocaboli duellum e bellum , come appare dal vocabolo perduellis, che
mentre ancora accenna al duellante significa già il pubblico nemico (2 ). Ciò
spiega eziandio le traccie, che occor rono anche in Roma di duello giudiziario,
poichè in esso noi abbiamo quel mezzo , che serve per risolvere le controversie
fra i popoli appli (1) È ovvio osservare l'analogia ,che presentano le
primitive guerre di Roma con quelle, che Omero ci descrive nell'Iliade, ove
soventi gli eserciti si arrestano spetta tori delle gesta dei proprii capi.
Quanto alla spiegazione del culto per le spoglie opime parmi così naturale, che
mi meraviglio di non averla trovata negli autori, che da me furono letti. (2) A
questo proposito osserva il BRÉAL, Dict. étym . lat., vº Duo, che il cambia
mento di duellum in bellum è analogo a quello di duonus in bonus, di Duilius in
Bilius, di duis in bis, per guisa che come da duo derivd duellum , così da bis
potè derivare bellum . Del resto il vocabolo di duellum per bellum occorre ancora
sovente nei poeti latini e fra gli altri Plauto chiama i Romani « duellatores
optimi » . - 161 - cato a risolvere una controversia privata fra individui; il
che in so stanza costituisce il processo inverso di quello , in cui il duello
fra due individui viene ad essere adoperato qual mezzo per risolvere la guerra
fra due popoli, e dipende perciò dal medesimo ordine di idee, cioè dal
sostituirsi dei rapporti pubblici ai privati e viceversa . È nello stesso modo,
che possiamo riuscire a darsi ragione di quella analogia costante , che non può
a meno di essere notata fra le formalità, che accompagnano la dichiarazione di
guerra, e quelle , che accompagnano l'azione che il capo ili famiglia propone
in giudizio . 130. È solo infatti questo modo di riguardare le cose, fondato
sulla realtà dei fatti ed ispirato al modo di pensare degli uomini e dei tempi,
che può condurre a dare una spiegazione del tutto naturale di quella procedura
grandiosa e solenne, che accompagna appunto la dichiarazione di guerra . Per
quanto tale procedura, tras portata dallo spirito conservatore dei Romani in
un'epoca diversa da quella in cui erasi formata, possa apparire artificiosa e
siasi talvolta considerata come un complesso di formalità esteriori, archi
tettato per celare l'ingiustizia e la prepotenza di un grande popolo; questo è
però certo , che essa , ricondotta col pensiero all'ambiente in cui ebbe a
formarsi, viene ad essere l'immagine di modi di pen sare e di agire veri e
reali, che intanto poterono essere espressi in modo così vigoroso ed efficace,
in quanto furono a quell'epoca profondamente sentiti (1 ). 131. Questo intanto
è fuori di ogni dubbio , che i varii stadii del dramma corrispondono
mirabilmente alla realtà dei fatti, quali dovet tero svolgersi in un'epoca
patriarcale . Una popolazione vicina o uomini appartenenti alla medesima in
vasero il territorio della comunanza , saccheggiandone i raccolti ed (1) Le
formole grandiose del ius fociale ci furono conservate sopratutto da Livio, nel
libro primo delle sue storie , ove descrive il processo per la dichiarazione di
guerra al cap. 32; quello per la conclusione di un'alleanza al cap. 24 ; e
quello per la deditio al cap . 38. Come è notabile la solennità di esse , così
è degna di attenzione la coerenza che esiste fra queste varie procedure, le
quali perciò appari scono come lo svolgimento di un medesimo concetto. Quanto
alle divergenze circa la loro interpretazione e ai tentativi di ricostruzione
di formole, che a parer mio appariscono del tutto complete, mi rimetto
all'opera del FusinaTO, I Feziali ed il diritto feziale , Cap. 3 , 4 e 5 . G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma. 11 162 esportandone mandre ed armenti.
La comunanza ne è profonda mente commossa , e il capo di essa , che è pur
sempre il padre co mune di tutti, accompagnato da altri capi di famiglia ,
recasi in persona sul confine del territorio, che appartiene al popolo unde res
repetuntur; quivi, chiamando in testimonio le divinità patrone della sua
comunanza , quella che protegge il confine e il fas, protettore comune ditutte
le genti, espone l'ingiuria e il danno sofferto , e questo ripete a chiunque
incontri per la via , e da ultimo sulla piazza del villaggio, spergiurandosi di
dire il vero. Questa parte preliminare chiamasi clarigatio, da questo
dichiarare ad alta voce e ripetuta mente il torto sofferto, e repetitio rerum ,
dal chiedere la restituzione delmal tolto. Se le cose, che eglidomanda, sono
restituite , egli ritorna con esse, e cogli uomini, che hanno compiuto il
saccheggio, che gli sono consegnati, mediante la noxae deditio ; ma se egli non
ottiene soddisfazione, ha luogo l'obtestatio deorum , con cui chiede in testi
monio le divinità del suo popolo e tutti gli altri Dei, che il popolo , di cui
si tratta , è ingiusto e vienemeno al diritto ( populum illum iniustum esse ,
neque ius persolvere). Viene infine l'ultima parte della dichiarazione di
guerra, in cui il capo del popolo offeso , dopo essersi consultato coi suoi,
dichiara al popolo offensore la guerra, get tando entro i confini del suo
territorio un dardo intriso di sangue accompagnato dalle parole : « bellum
indico facioque » , e si ha così in un solo atto l'indictio belli e l'initium
pugnae. 132. È fuori di ogni dubbio, che questa procedura, eminentemente
patriarcale, dovette assumere alcun che di artificioso per essere adat tata ad
un popolo , come il romano: poichè il medesimo aveva una co stituzione politica
molto complicata, in base alla quale i feziali, che si erano recati per la
rerum repetitio , dovevano poi tornare per avere l'avviso dei padri, e forse
anche la deliberazione del popolo intorno alla guerra , che trattavasi di fare;
ma questo è certo, che anche così trasformata essa non perde le sue primitive
fattezze . Tolgasi il pater patratus, che, anche essendo una finzione, richiama
pur sempre l'im poneute figura del patriarca primitivo ; tolgansi i feziali,
che erano sacerdoti, i quali, al pari di ogni altro collegio sacerdotale del
popolo románo, avevano solo per compito di custodire le tradizioni, relative al
diritto di guerra e di pace , senza avere alcuna competenza intorno alla
giustizia intrinseca della causa, per cui si addiveniva alla guerra o
all'alleanza ; e non si potrà a meno di riconoscere, che tanto la repetitio
rerum , accompagnata dalla clarigatio, quanto l'obtestatio 163 deorum , quanto
infine l'indictio belli, sono altrettante procedure, che serbano il colore e il
carattere di un età patriarcale e richiamano scene vive e reali, che dovettero
seguire in quella primitiva condi zione di cose. Ciò però non toglie, che le
procedure del diritto fe ziale , al pari delle antiche procedure dell'actio
sacramento e simili, allorchè furono trapiantate nel seno di un organizzazione
sociale di altra indole e natura , affidate alla custodia di un collegio
sacerdotale , rese complicate dei varii congegni di una costituzione politica ,
che più non consentiva un perfetto adattamento delle medesime, assun sero di
necessità un carattere alquanto artificioso , e apparvero come forme, vuote di
contenuto e conservate solo per imitazione dell'an tico, da un popolo , che in
sostanza si era già spogliato di ogni ca rattere patriarcale , ed era venuto
nel proposito tenace di conquistare e di sottomettere le altre genti. Il
diritto feziale tuttavia rimane an cora sempre ad attestare, che in un'epoca
remotissima dovette già essere conosciuto un tentativo di amichevole
accomodamento nelle controversie, non solo fra i privati, ma anche fra le varie
genti. Era pero naturale , che questa sopravvivenza dell'epoca patriarcale
fosse destinata a scomparire, a misura che diventava più difficile di pene
trarne l'intima significazione. Tuttavia, anche in questa parte , appare sempre
lo spirito conservatore del popolo romano , che continuò a conservare e a
tenere in onore l'istituto dei feziali, anche allorchè il diritto , di cui essi
erano i depositarii ed i custodi, era andato compiutamente in disuso . 133.
Intanto non pud essere negata eziandio una certa analogia fra questa procedura
e quella , che abbiamo visto svolgersi nell'actio sacramento . Siccome però
queste procedure non sono invenzioni di pontefici e di giureconsulti, come
alcuni le avrebbero ritenute , ma sono forme tipiche di fatti , che un tempo
dovettero seguire nella realtà : cosi, per essere il processo effettivo
veramente diverso nel venire al duello od alla guerra fra due popoli, e nel
sorgere di una controversia fra due privati, ne derivò, che le due procedure
non poterono essere perfettamente conformi, comevorrebbe sostenere il Danz, ma
dovettero di necessità riuscire diverse. Nell'actio sa cramento noi abbiamo la
storia di una controversia fra due capi di famiglia , i quali, stando già per
venire alle mani, piuttosto che ab bandonarsi alla forza ed alla violenza,
accettano l'interposizione di una persona autorevole , scommettendo di essere
dalla parte della ragione e chiamando lui a giudice della scommessa. Fra due
genti 164 invece non può esservi altro giudice che la divinità, e quindi, dopo
aver reclamato il mal tolto, è questa, che chiamasi in testimonianza del
l'ingiustizia, che quel popolo ha commessa , e a nomedella medesima divinità
gli si dichiara la guerra « extremum remedium expedien darum litium » . Quello
è il processo , che si è seguito per strappare i contendenti alla privata
violenza e per indurli ad accettare l'au torità di un arbitro o di un giudice :
questo è il processo , che deve seguirsi prima di cedere alla triste necessità
della guerra (1). 134. Che poi vi fossero buone ragioni, perchè una procedura
solenne precedesse una dichiarazione di guerra , appare dalle dure conseguenze,
che il consenso delle genti aveva attribuito al diritto di guerra. Questa nel
periodo gentilizio era un vero duello fra due popoli, che non doveva cessare,
finchè uno non avesse portato nel proprio tempio le spoglie opime dell'altro .
Era guerra di uomini e guerra anche fra gli Dei dei due popoli, come lo provano
le for mole che ci furono conservate , con cui quel popolo , che faceva delle
stipulazioni e dei contratti « do utdes » anche cogli Dei, cercava di attirare
a se il favore delle divinità del popolo , con cui era in guerra (2). Una volta
poi, che questa era intrapresa ben potevasi dire, che la guerra diventava lo
stato naturale dei due popoli; perchè se si tol gono le tregue (induciae), o
per seppellire imorti o a causa della cattiva stagione, la guerra si continuava
finché non si veniva ad un trattato di pace, o non si avverasse la dedizione di
uno dei popoli in guerra . La deditio era per un popolo ciò , che per un
privato il darsi a (1) È mirabile lo sforzo di sottigliezza fatto dal dotto e
compianto Danz, prof. a Iena, per trovare una identità, che non esiste. I suoi
ragionamenti sono riportati dal Fusinato nell'opera più volte citata , Cap.
III, § 4. Intanto tutto questo sforzo di acutezza è ancor esso una conseguenza
dell'aver ritenuto il diritto primitivo di Roma, e quindi anche il diritto
feziale, come una costruzione essenzialmente formale e non basata sulla realtà
dei fatti. Se invece si ritenga, che tutto il diritto primitivo di Roma dovette
in altri tempi essere up complesso di reali ed effettive procedure, non si
potrà certo pretendere che l'actio sacramento e l'indictio belli, avendo com
piuto un ufficio diverso , potessero essere pienamente identiche fra di loro.
Quanto alle loro analogie esse sono facilmente spiegate, stante l'indistinzione
fra il diritto pubblico e privato,durante il periodo gentilizio. (2) Queste
formole ci furono conservate da MACROBIO, Saturn ., 3, 9 , $ 8 6 a 13 , il
quale dice di averle ricavate da un libro antichissimo di un certo Furio (cuius
dam Furii), che l'HUScake ritiene possa essere un A. Furio Anziate , scrittore
di diritto sacro e di annali in versi. Esse sono riportate dall' HUSCHKE,
Iurisp . an teiust. quae sup ., pag. 11. - 165 mancipio , cioè un perdere
famiglia, patria, territorio, religione, libertà e non avere altra speranza,
che quella della clemenza del vincitore. Erano le sue divinità , che l'avevano
abbandonato, e a lui non rimaneva, che di accettare rassegnato la propria
sorte, entrando in quella classe dei vinti, che formava un eterno dualismo con
quella dei vincitori (1). Che anzi i Romani applicavano anche a se stessi quel
medesimo diritto di guerra, e fu soltanto colla fin zione del diritto di
postliminio, che riuscirono ad attribuire effi cacia ad atti, che il cittadino
romano aveva compiuto, mentre era prigioniero di guerra , e a fare astrazione
dal tempo , che egli aveva trascorso in tale qualità presso il nemico . 135.
Sono queste dure conseguenze del diritto di guerra , che spiegano quanto
dovesse essere profondo il solco, che erasi venuto scavando fra la classe dei
vincitori e quella dei vinti, e come fra essi non potesse esservi, nè comunione
di matrimonii, nè di reli gione , salvo dopo una lunga convivenza nei quadri
dell'organizza zione gentilizia , in cui i vinti formarono la classe dei servi,
dei clienti e per ultimo quella dei plebei, mentre i vincitori costituirono
quella dei padri, dei patroni e dei patrizi. Intanto di tutto questo periodo,
in cui le genti italiche vennero elaborando la religione, il diritto , la
famiglia , le istituzioni, il co stume, non un solo nome proprio è
sopravvissuto : dei veri grandi uomini, dei veri fondatori di una convivenza
sociale non si conosce nè la patria , nè il nome, nè l'epoca precisa , in cui
siano vissuti; ma se la memoria degli uomini è perita, sopravvissero perd le
isti tuzioni e tutti i concetti fondamentali, che costituirono poi la base
della futura grandezza di questi popoli. Fin qui del patriziato e delle sue
istituzioni, di cui dovette essere lungo il discorso, perchè era lungo il suo
passato ; ora importa stu diare le condizioni della plebe , la quale se non ha
per sè il passato , dovrà perd avere una gran parte nell'avvenire della
città . (1) La formola della deditio ci fa conservata da Livio, I, 38. È
notabile : che in essa intervengono anche i Feziali ; che si domanda se il
popolo che fa la deditio è in sua potestate ( il che prova che un popolo , al
pari di una persona, poteva essere sotto la potestà di un altro); e che è
serbata affatto la forma contrattuale della stipu lazione: « Deditisne vos
populum Conlatinum , urbem , agros, aquam , terminos, de « lubra , utensilia,
divinaque humanaque omnia, in meam populique romani ditio « nem ? – Dedimus. At
ego recipio » . 166 CAPITOLO VIII. Le origini della plebe e la sua prima
organizzazione. 136. Le cose premesse intorno all'organizzazione ed alle
istituzioni proprie delle genti patrizie ci pongono finalmente in condizione di
prendere in esame la questione della origine della plebe e della sua posizione
giuridica di fronte al patriziato negli inizii della comu nanza romana. La
genesi di questo elemento, che, poco importante dapprima, fini per esercitare
tanta influenza sull'avvenire della città , è certo il più importante problema
della storia primitiva di Roma, e quindi si comprende che gli autori tutti
siansi travagliati intorno al medesimo ed abbiano anche proposto opinioni
compiutamente di verse (1). Sonovi alcuni, fra i quali il Lange, che vorrebbero
rannodare l'origine della plebe alla caduta di Alba e alla conquista di altre
città latine, la cui popolazione sotto Anco Marzio sarebbe stata tras portata a
Roma (2 ). Certo un tale avvenimento non potè a meno di avere grande importanza
per accrescere il numero ed assicurare l'avvenire della plebe romana; ma egli è
impossibile riconoscere in questo fatto l'origine primitiva della plebe,
dappoichè, secondo la tradizione, la medesima sarebbe già esistita all'epoca
della prima fondazione di Roma; cosicchèRomolo prima e Numa dappoi già avreb
bero preso dei provvedimenti per l'ordinamento di essa . (1) L'enumerazione
delle varie opinioni circa l'origine della plebe colla indicazione degli
autori, che le professano, può vedersi nel Willems, Le droit public romain ,
pag. 31, e nel Bouchè-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, pag. 11, né
3; come pure nell'opera , ancora in corso di pubblicazione , del prof. LANDO
LANDUCCI, col titolo : Storia del diritto romano dalle origini fino a
Giustiniano. Corso scola stico. Padova , 1886 , pag. 274 ; opera che,mentre nel
testo offre riassunti i risultati, a cui son pervenuti gli studii sulla storia
del diritto romano, nelle note porge no tizia agli studiosi della ricchissima
letteratura sull'argomento. (2) Il Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag.
56 e segg., tratta largamente la questione e considera la plebe primitiva di
Roma, come una moltitudine di pe regrini dediticii , il cui nucleo più
importante sarebbe uscito dalle città latine. A suo avviso, essa è dapprima
affatto estranea al popolo delle curie, la quale opinione è pure seguita dal
KarlowA, Römisches Rechtsgeschichte, I, § 9, pag. 62 e segg ., -- -- 167 Non
può parimenti ammettersi col Vico, che la plebe fosse origina riamente
costituita da clienti ammutinati contro l'ordine dei padri ( 1), in quanto che,
durante il periodo regio , la plebe non trovasi an cora in condizioni tali da
impegnare la lotta col patriziato ; lotta che, sebbene siasi forse iniziata al
tempo dei re, cominciò solo ad essere argomento di racconto e di storia col
periodo repubblicano. A ciò si aggiunge, che anche durante la lotta i clienti
ed i plebei appariscono in opposizione fra di loro , comeappare dai
richiamidella plebe contro la clientela , che costituiva la forza maggiore
dell'or dine patrizio. Tuttavia questo fatto, che condusse taluni a con
siderare la plebe e la clientela , come due termini inconciliabili ed opposti
fra di loro, non ha impedito, che più tardi sianvi state delle famiglie, che
originariamente erano in condizione di clienti, e che poi il quale considera
anzi la plebe comeuna popolazione residente fuori della cerchia della Roma
primitiva, e nota che il Celio , l’Appio e il Cispio , secondo una osservazione
stata fatta di recente , hanno un nome identico a quello proprio di genti
plebee . Anche il Voigt, Die XII Tafeln , I , pag. 258, viene alla conclusione che
i plebei non solo non partecipassero alle curie ; ma che essi costituissero una
corporazione distinta , la quale, dopo l'istituzione del tribunato della plebe,
si sarebbe organizzata nei comitia tributa . La corporazione esercitava sui
suoi membri un potere di coerci zione, ne quid ex publica lege corrumpent. Il
suo magistrato era il tribunus plebis ; al modo stesso che i suoi giudici non
sarebbero stati dapprima i centumviri, ma i decemviri , che sarebbero stati
tratti dalla plebe. È quindi questa l'opinione, che contrappone più apertamente
il populus e la plebes, e ci fa assistere alla lenta fu sione dei due elementi,
anche dopo che entrarono a formare parte della stessa comu. nanza. Questo è
certo, e cid apparirà meglio a suo tempo, che quella singolare isti tuzione del
tribunato della plebe , che non riesce mai ad inquadrarsi perfettamente nella
costituzione politica di Roma, dimostra abbastanza, che se colla legislazione
decemvirale i due ordini cominciarono ad essere governati da un comune diritto;
essi continuarono però ancora per lungo tempo a costituire due classi sociali
com piutamente distinte, e recarono un contributo molto diverso sia nello
svolgimento della costituzione politica , che in quello del diritto privato di
Roma. Cfr. al riguardo PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 19 , e la
nota del prof. Cogliolo, in cui pare che l'annotatore si scosti dall' opinione
certamente troppo recisa del Padel LETTI, il quale sostiene che patriziato e
plebe siano stati, fin dalle origini, ammessi a far parte della assemblea delle
curie. (1) Il luogo, in cui il V100 svolge più chiaramente questo suo concetto,
è nella prima Scienza nuova, lib. II , Cap. XXXII, dove scrive : « che le prime
repubbliche sorsero dagli ammutinamenti dei clienti, attediati sempre di
coltivare i campi per li signori, dai quali essendo fino all'anima malmenati,
gli si rivoltarono contro ; e dai clienti così uniti sorsero le prime plebi;
onde, per resister loro, furono i nobili dalla natura portati a stringersi in
ordini » : Di qui appare, che anche il Vico fa rimontare l'origine della plebe
ad epoca anteriore alla formazione della città. 168 recarono un contributo
potente alla plebe nella sua lotta col patri ziato ; donde si può argomentare,
che anche nella plebe primitiva possono essere entrati degli antichi clienti,
che per circostanze di varia natura erano stati prosciolti dal vincolo della
clientela . Cosi stando le cose , ha molto del verosimile l'opinione del
Mommsen, che in qualche parte si accosta a quella del Vico , secondo cui il
nucleo primitivo della comunanza plebea si sarebbe venuto formando per mezzo di
clienti, che di fatto si trovavano svincolati dal loro patrono per l'estinzione
della gente, da cui essi dipendevano (1). Se non che si presenta ovvia
l'osservazione, che quando questo fosse stato il solo mezzo per costituire la
plebe, la medesima diffi cilmente avrebbe potuto, fin dal periodo regio ,
prendere così grandi proporzioni da imporsi al patriziato e farsi accogliere
nella città . Quindi è, che l'opinione del Mommsen trova forse un opportuno
compimento nella teoria del Niebhur, il quale , tenuto conto del modo, in cui
le comunanze plebee si erano formate in condizioni sto riche analoghe a quelle
in cui trovavansi i primitivi stabilimenti delle genti patrizie, venne a
considerare come una legge storica costante, quella per cui accanto ad uno
stabilimento di casate pa trizie, chiuso e fortificato in sè stesso , formasi
naturalmente una specie di comunanza plebea ; la quale, senza partecipare
dapprima agli onori, ai suffragi, e ai matrimonii della città patrizia , pud
tut tavia giungere ad una certa indipendenza dalla medesima, mediante il
possesso e la coltura delle terre, e mediante l'esercizio dei mestieri e delle
professioni diverse (2 ). Tuttavia anche l'opinione del Niebhur ( 1) MOMMSEN ,
Histoire romaine, I, Chap. V , pag. 103 e segg. Questa opinione fu poiadottata
dal WILLEMS, Le Sénat de la République Romaine,Paris, 1878, pag. 15 . (2)
Ritengo che anche oggi il Niebhur sia l'autore, che è pervenuto a studiare con
vedute più larghe l'origine della plebe. Di regola esso è annoverato fra
coloro, i quali ritengono che la plebe sia stata composta delle popolazioni
vicine a Roma, state dalle medesima sottomessa . Tale è, ad esempio,
l'opinione, che gli è attribuita dal WILLEMS dal Bouchè-LECLERCQ, op. e loc.
cit. La lettura invece del capitolo intitolato : « La commune et les tribus
plébéiennes » della Histoire romaine, tome II, pag. 135 a 174 , mi ha convinto
che il NIEBHUR si è fatta una idea più larga della questione. Le conquiste,
secondo lui, hanno bensì contribuito ad accrescere e a trasformare la plebe
romana, sopratutto coll'incorporazione delle popolazioni latine; ma intanto
essa già preesisteva nelle stesse tribù primitive, costituiva una specie di
vera comunanza separata e distinta dal patriziato, composta mediante
l'ammessione di cives sine suffragio, e di clienti rimasti senza patrono (op. e
loc. cit ., pag . 149). Tuttavia misia pur lecito di constatare, che l'autore,
il quale ha meglio compreso quel carattere 169 lascia ancor sempre senza
spiegazione quello stato di inferiorità e di abbiezione , pressochè servile, in
cui una parte almeno della plebe trovasi di fronte al patriziato negli inizii
di Roma; cose tutte, che non si comprenderebbero quando si trattasse di
possessori e di cul tori di terre, che fossero stati sempre indipendenti dal
patriziato . 137. Tutte queste considerazioni mi confermano nell'opinione già
altrove manifestata , che il fenomeno della formazione primitiva della plebe
debba cercarsi nella sovrapposizione delle genti italiche di origine aria sovra
altre razze già preesistenti. In quel periodo di privata violenza, che non
dovette essere dissimile da quello, che ebbe poi ad avverarsi, allorchè le
razze germaniche invasero l'Impero, gli elementi in urto ed in lotta fra di
loro dovettero dividersi in due classi, cioè, in quella dei vincitori e in
quella dei vinti ; in quella di coloro, che erano tenuti compatti dalla potente
organizzazione genti lizia , e in quella di coloro, che non erano ancora cosi
progrediti nella loro organizzazione domestica e sociale. Quelli costituirono
la classe dominante dei padri, dei patroni, dei patrizii e si vennero sempre
più fortificando nella loro ferrea organizzazione gentilizia , e tentarono di
fare entrare nei quadri della medesima anche la classe dei vinti, ponendola
nella condizione subordinata di servi e di clienti. È in quest'epoca di lotta e
di conflitto , che è mestieri di cercare l'o rigine prima di quella distinzione
di classi, che si trova agli inizii della comunanza romana; al modo stesso ,
che è nell'epoca feudale , che deve essere cercata l'origine di quelle
distinzioni di classi, le cui traccie simantennero a lungo dappoi, e la cui
lotta diede eziandio origine al movimento democratico odierno. Per trovare
quindi la prima origine della distinzione converrebbe poter scomporre le po
polazioni italiche primitive, conoscere le stirpi diverse da cui esse
provennero, e determinare la posizione, in cui i vinti ebbero a tro varsi di
fronte alla potente organizzazione dei vincitori ; problemi tutti, per la cui
risoluzione ci mancano per ora gli elementi necessarii. particolare della città
antica, per cui essa suppone il concorso di due elementi, di cui l'ano
superiore e l'altro inferiore, le cui lotte danno vita e movimento alla città,
è certamente il nostro Vico . La città patrizia non è ancora che un ordine e
una cor porazione di padri; mentre è la città patrizio-plebea , che ci porge lo
spettacolo della lotta tra quelli, che intendono sopratutto a conservare
l'antico ordine di cose , e quelli che abbisognano di innovare per migliorare
la condizione presente. 170 138. Forse tali indagini potrebbero anche condurre
al risultato , che fra le varie comunanze di villaggio ve ne erano di quelle
dedite alle armi ed organizzate per genti e che come tali appartenevano al
patriziato e costituivano una specie di aristocrazia territoriale;mentre poi ve
ne erano delle altre, prive di tradizioni, dedite soltanto al lavoro dei campi
e all'esercizio delle professioni e dei mestieri di versi (quale sembra essere
stato ad esempio il vicus Tuscus), che costituivano delle comunanze plebee .
Quest' ultime naturalmente dovevano trovarsi in una specie di dipendenza e
pressochè di vas sallaggio , rimpetto alle prime; il che potrebbe spiegare in
certi con fini quei forcti ac sanates, di cui ci parla Festo , che comprende
vano le popolazioni superiori ed inferiori a Roma e trovavansi in dipendenza
rimpetto alla medesima, la quale tuttavia già accomunava ad essi una parte del
proprio diritto , cioè il ius nexi manci piique ( 1). Tuttavia , se ciò può
esser vero delle plebi rurali, questo si può affermare con certezza , che
certamente un buon dato della plebe primitiva e sopratutto della plebe urbana
di Roma ebbe ad uscire dalla classe, che trovavasi in condizione inferiore
nell'orga nizzazione gentilizia . Cid soltanto può spiegare la superiorità
incon trastata del patriziato e l'abbiezione pressochè servile di una parte
della plebe, che tradisce ancora quel sentimento di rispetto e di paura, che ha
il servo affrancato per il suo antico padrone (2 ). (1) La questione intorno
alla condizione dei forcti ac sanates è una delle più difficili, che presenti
la storia primitiva di Roma, per la povertà ed anche la muti lazione dei passi
degli autori, che vi si riferiscono (V. Festo , vº Sanates , quale è riportato
nel Bruns, Fontes, pag . 364, nella Va edizione, pubblicatasi in quest'anno dal
Mommsen). Io credo tuttavia , che la medesima, dandoci un concetto del tratta
mento giuridico , che i Romani usavano colle popolazioni circostanti a Roma,
possa porgerci dei dati preziosi per argomentare quale fosse la condizione
della plebe, du rante il periodo esclusivamente patrizio. Rimetto quindi
l'esame della questione al Capitolo I di questo stesso libro. (2) Ecco quindi
la conclusione, a cui parmi di poter venire. Nella plebe primitiva di Roma
voglionsi distinguere due correnti: una uscita dalla stessa organizzazione
gentilizia forma il primo nucleo di una popolazione , che ha sede contigua allo
stabili mento patrizio, ma non è più compresa nei quadri del medesimo; l'altra
invece, per conquiste o per immigrazione, viene ad incorporarsi in questo
nucleo primitivo, e l'accresce per modo da richiamare l'attenzione sopra di
esso . Questi due elementi appariscono accennati dalla tradizione stessa
intorno alla plebe primitiva, poichè altra è la plebe, che già appartiene alle
varie tribù, e che viene ancora ad essere col locata sotto la clientela dei
padri , ed altra è la plebe, che la tradizione dice rac -- - 171 - 139. La
formazione poi di questa plebe dovette cominciare, allorchè i vincoli
dell'organizzazione gentilizia già cominciavano a rallentarsi. Ciò accadde
quando alla gente , che era ancora stretta insieme dal vincolo della
discendenza, cominciò a sovrapporsi la tribù; la quale comprendendo elementi,
che potevano essere di origine diversa, fini per non riuscire sempre a chiudere
nei suoi quadri, consacrati dalla religione, tutti gli elementi, che si
venivano affollando intorno alla medesima. Cominciò cosi a formarsi al di fuori
dell'organizza zione gentilizia , che era l'unica riconosciuta dalle genti
patrizie , una moltitudine ed una folla, il cui primo nucleo può essere uscito
dal seno stesso della medesima, ed essere anche costituito da clienti rimasti
senza patrono ; al modo stesso, che le comunanze popolari del medio Evo erano
in parte costituite da famiglie , che un tempo erano vassalle del feudatario .
Siccome però nell'epoche primitive ciò che è più difficile è il creare
l'elemento novello , mentre il mede simo, una volta formato, può poi
accrescersi in varie guise ed acco . gliere tutti coloro, che , per questa o
quella considerazione, si trovano spostati nell'anteriore organizzazione: cosi
questo primo nucleo , dopo essersi staccato dalla stessa organizzazione
gentilizia , venne richia mando e quasi attraendo a sè rifugiati di altre
comunanze ; servi fuggitivi; immigranti, che non amavano di porsi sotto la
protezione del patriziato , o che, per motivi religiosi o di altra natura, non
erano ammessi alla medesima; popolazioni di vinti, che perdevano territorio ,
religione e famiglia ; abitatori di vici, che si erano dati all'esercizio dei
mestieri e delle professioni diverse ; cultori di terre, che di fatto si erano
stabiliti sul territorio situato nelle circostanze dello stabilimento patrizio
; popolazioni stabilite superiormente od inferiormente a Roma, a cui per
necessità di commercio si dovette dapprima accordare quel ius nexi mancipiique,
di cui parlano le dodici Tavole, quanto ai forcti ac sanates. Ciò spiegherebbe
anche come queste popolazioni, il cui nome era diventato inesplicabile per gli
stessi antiquarii romani, abbiano col tempo perduta la loro an tica
denominazione, in quanto che, a misura che estendevasi la do minazione romana,
tutte queste popolazioni vennero ad essere com prese nella plebe, e non fu cosi
più il caso di attribuire ad esse una colta mediante l'asilo offerto da Romolo.
È parlando di questo asilo, che Livio, I, 8 , ebbe a scrivere : « E. (asylo) ex
finitimis populis, turba omnis , sine discrimine liber seu servus esset, avida
novarum rerum , perfugit ; idque ad caeptam magnitu dinem roboris fuit » . 172
speciale posizione giuridica. Per tal guisa il nucleo primitivo si venne
ingrossando, e quando le genti patrizie volgero lo sguardo at torno a sè videro
in esso una plebs, che nel significato primitivo suona moltitudine o folla. Il
nome pertanto , che le fu dato , corrisponde alla impressione, che questa folla
deve aver fatto sopra una classe di uomini, che non conosceva altra
organizzazione fuorchè la gentilizia . Le genti infatti non potevano scorgere
in essa dapprima, che ceti di uomini riuniti in una guisa , che per esse non
aveva quel carattere religioso e sacro , che avevano tutte le loro istituzioni.
Non potevano infatti chiamarla un populus, perchè non era nè divisa in curie ,
nè aveva consiglio di anziani, nè aveva un magistrato , che la diri gesse , nè
era insomma un « coetus hominum iuris consensu et uti. litatis comunione
sociatus » , e quindi la chiamarono plebes. Di qui il dualismo fra populus et
plebes, che trovasi in alcune formule arcaiche ; dualismo, che per essere
l'effetto di cause naturali viene a presentarsi non solo in Roma, ma in tutte
le comunanze delle genti italiche. Di queste tuttavia , se ne hanno di quelle,
in cui quest'elemento è tenuto in umile stato , come sarebbero le città
etrusche, ed altre invece, in cui esso già ottiene qualche concessione, quali
sarebbero appunto le città latine. Il primo senso del patriziato per
quest'elemento novello , che prendeva ad esistere fuori dei quadri della
propria gerarchia , dovette essere di un disprezzo non dissimile da quello, che
più tardi i patrizii manifestarono per quei concilia plebis, che pur dovevano
trasformarsi nei comizii tributi ; ma al lorchè il numero di questa plebe venne
facendosi sempre più grande, si comprende come questo elemento dovesse di
necessità essere te nuto in conto, sopratutto in una comunanza di carattere
belligero, quale era la romana . 140. Narra infatti la tradizione, per bocca almeno
di Dionisio e di Cicerone, che il fondatore della città avrebbe collocata la
plebe nella clientela del patriziato , e incaricato i padri di farle assegnidi
terre, a titolo di precario , non dissimili da quelli, che essi facevano ai
clienti. In verità per una città eminentemente patrizia , come era Roma
primitiva, il miglior modo per organizzare la folla , che aveva seguito
l'esercito del fondatore o che erasi accalcata intorno allo stabilimento da
essa fondato , era quello di farla entrare nella ge rarchia dell'organizzazione
gentilizia. Fin qui pertanto la plebe non è ancora veramente tale , ma è
costretta ancora nei quadri della clientela. Pero a misura che la fortuna
nascente di Roma od 173 anche l'apertura stessa di un asilo ai rifugiati e agli
esuli dalle altre città (questo vetus urbis condentium consilium , che non è
poi cosi improbabile, come ebbe a farlo la critica storica ) cominciarono a
richia mare nei dintorni della città una quantità di individui e di capi di
famiglia di provenienza diversa ; anche la clientela venne ad essere
insufficiente per comprendere nei proprii ranghi questa folla di uo mini, di
cui una parte potè forse essere di origine ellenica ed etrusca, ed avere
tradizioni e credenze diverse da quelle dai fondatori della città . Era stata
la lunga coabitazione come servi e famuli nella famiglia , che nell'anteriore
organizzazione gentilizia aveva servito a preparare la clientela delle genti
patrizie . Questa preparazione invece mancava nel nuovo elemento , che
accorreva nei dintorni di Roma; per tal modo l'antica istituzione religiosa ed
ereditaria della clientela venne ad essere inadeguata e disacconcia al bisogno
ed inetta a dare un'organizzazione al nuovo elemento . Quasi si direbbe che ,
collo svolgersi della città , l'antica forma, sovra cui si era modellata
l'anteriore organizzazione sociale, che colla tribù già erasi alquanto
sgretolata , venne a rompersi affatto . Quindi mentre tutto prima era compreso
nella gerarchia gentilizia , colla città in vece comincia a farsi palese e a
colpire lo sguardo questo ele mento novello , che guadagna e richiama a sè
tutto ciò , che sfugge all'antica organizzazione. Dapprima il fatto dovette
colpire l'ordine stesso dei padri, e loro parve strano di dover riconoscere,
che l'or ganizzazione gentilizia più non potesse bastare ad ogni emergenza. Ma
col tempo fu necessità arrendersi all' evidenza, e l'elemento nuovo non poteva
essere trascurato per una comunanza come la Romana di carattere eminentemente
belligero , e che abbisognava perciò di un contingente sempre nuovo per
riempire le file del proprio esercito . Sopratutto il nuovo elemento doveva
apparire im portante per il re, il quale da una parte poteva trovare in esso un
sussidio potente per la formazione dell'esercito, e dall'altra, as sumendo la
qualità di patrono non dei singoli plebei, ma dell'in tiera classe , poteva
anche trovare in essa un appoggio per bilanciare la soverchia influenza dei
padri. Questi infatti, memori, che il re era il loro eletto ed il
rappresentante , a cui avevano affidato i proprii auspicia , lo volevano
naturalmente ligio ai proprii interessi e mira vano a valersi di esso per
trasportare anche nella città l'organiz zazione per genti e per tribù , per
quanto la medesima male si accon ciasse alla nuova condizione. 174 - 141. Gli è
questo il motivo, per cui noi vediamo, secondo la tra dizione, prendersi dai
re, che vengono dopo, una serie di provve dimenti nell'intento di organizzare
la plebe. Mentre Romolo , dopo avere, secondo Dionisio, affidato alla plebe la
coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, si limita a porla sotto
la clientela dei padri, e si vale cosi di un istituto vecchio per comprendere
un ele mento nuovo (1), Numa invece già prende quanto alla plebe due
importantissimi provvedimenti. Il primo è quello di distribuire direttamente ai
più poveri, che sono appunto quei tenuiores, di cui parla Festo, e che
appartengono alla plebe, l'ager conquistato da Romolo, e che era venuto ad ac
crescere l'ager publicus ; il quale provvedimento produsse l'effetto , che la
plebe da questo momento, almeno in parte, cesso di essere sotto il patronato
dei patres. Però siccome i cambiamenti sono e devono essere lenti; cosi al
patronato dei patres sembra sottentrare una specie di patronato del re, il
quale fa alla plebe quegli assegni di terre, che dapprima erano affidati ai
patres (2). Forse può darsi che dapprima questi assegni di terre, fatti dal re
alla plebe sull'ager publicus, fossero soltanto a titolo di semplice precario,
come quelli che erano fatti dai patres ai clienti sull'ager gentilicius ; ma in
tanto è già un passo importante per la plebe quello di non dipen dere più
direttamente dai capi delle genti, ma di essere sotto il patronato o almeno
sotto la protezione diretta del re, custode e ma gistrato della città . L'altro
provvedimento, ricordato da Plutarco , e che egli dice essere stato altamente
lodato, fu quello per cui Numa avrebbe di (1) Dion., 2 , 9 : « Romulus postquam
potiores ab inferioribus secrevit ;mox legem tulit et quid utrisque faciendum
esset disposuit : patricii sacerdotiis et magistra tibus fungerentur et
iudicarent, plebeiï vero agros colerent et pecus alerent etmer. cenarias artes
exercerent » (Bruns, Fontes, pag. 3 ). (2 ) Quanto a questa ripartizione fatta
da Numa, vi ha divergenza fra CICERONE, De rep ., II, 14, secondo cui la
ripartizione si sarebbe fatta viritim ai cittadini in genere, mentre DIONISIO
vuole che siasi fatta ai più poveri , II , 62. Cfr. Bongur, Storia di Roma, I,
pag. 85. - Per quello che si riferisce al patronato del re sopra la plebe,
ritengo col KARLowa, che ilmedesimo non possa essere preso nella signifi
cazione giuridica attribuita al vocabolo (Röm . R. G., I , pag . 63 ). Ciò
tuttavia pon toglie , che la plebe, dopo essersi resa indipendente dal
patriziato, abbia trovato nel re il suo protettore naturale, e siccome tale
protezione non si comprendeva al lora che sotto la figura di clientela, così
gli autori considerarono il re come patrono o la plebe come sua cliente . - 175
- stribuito quella parte della plebe, che era dedita alle arti manuali e
all'esercizio delle professioni diverse, in corporazioni di arti e mestieri
(collegia ), che furono nove: quella cioè dei suonatori di flauto, degli
orefici, dei muratori, dei tintori, dei calzolai, dei cuoiai, dei fabbri, dei
vasai e l'ultima di tutte le altre professioni, dando alle medesime proprie
riunioni e i proprii riti. Vero è, che questo provve dimento ebbe ad essere
posto in dubbio dalla critica e fra gli altri dal Mommsen , e che probabilmente
i collegi, la cui formazione si attribuisce a Numa, potevano già esistere
precedentemente, sopra tutto nel vicus Tuscus, la cui popolazione fu una delle
prime ad essere compresa nella plebe romana : ma non è punto improbabile che,
come erasi cercato di provvedere alla plebe dedita alla coltura delle terre ,
cosi si cercasse di dare un'organizzazione alla plebe dedita agli esercizi
delle arti e professioni diverse , o di consacrare almeno l'organizzazione, che
già esisteva precedentemente o che tro vavasi in via di formazione ( 1). Non è
quindi il caso di respingere la tradizione, dal momento che non vi ha nulla di
meglio da sosti tuirvi ; almodo stesso che è meglio accettare anche le figure
alquanto leggendarie dei re , piuttosto che sostituirvi qualche cosa, che non
ha neppur più della leggenda, la quale è pur sempre intessuta sopra un fondo di
vero. 142. Intanto questo si può affermare con certezza, che fin dagli inizii
di Roma cominciò ad apparire un dualismo nella plebe ro mana, che, accennato
fin dall'epoca di Romolo con affidare alla plebe la coltura delle terre e
l'esercizio delle arti manuali, già comincia a delinearsi con Numa, il quale ad
una parte della plebe fa assegni di terre e l'altra distribuisce per arti e
mestieri, e che più tardi finisce per accentuarsi molto più recisamente. Havvi
infatti in Roma, fin dai proprii esordii, una plebe rurale, composta di piccoli
possidenti , ed (1) PLUTARCO, Numa, 17 : « De ceteris eius institutis maximam
admirationem « habet plebis per artificia distributio ; haec vero fuit: tibicinum
, aurificum , fabrorum « tignuariorum , tinctorum , sutorum , coriariorum ,
fabrorum aerariorum , figulorum ; « reliquas artes in unum cöegit , unumque ex
iis omnibus fecit corpus ; consortia et < concilia et sacra cuique generi
tribuens convenientia » (V. BRUNS, Fontes, pag. 11 ). L'autore , che sembrava
porre in dubbio questa distribuzione della plebe in arti e mestieri, sarebbe lo
stesso MOMMSEN , De collegiis ac sodaliciis ; Liliae, 1843, citato dal MUIRHEAD
, Histor. Introd., pag. 11 ; ma pare che nella Storia Romana accetti la
ripartizione stessa come una verità di fatto. - 176 - una plebe, composta di
artieri, commercianti, esercenti le arti e le professioni diverse . L'ideale
della prima è quello sopratutto di mu tare le sue possessioni di terre in una
proprietà indipendente, che la ponga in condizione di provvedere al
sostentamento di sè e della propria famiglia ; quello insomma di avere
quell'heredium o man cipium , che pur appartiene al capo della famiglia
patrizia . A questa plebe, che non abita nelle mura di Roma, ma nelle
circostanze di essa , dovette probabilmente dalla città patrizia essere
riconosciuto quel diritto , che più tardi da Roma fu pure riconosciuto alle
popo lazioni vicine, che sono indicate col nome di forcti ac sanates , cioè il
ius nexi mancipiique. Cid pud essere argomentato da cid, che Roma di regola
suole seguire gli stessi processi in condizioni anaa loghe e quindi è
probabile, che questa plebe, che risiedeva fuori della città, e costituiva in
certo modo una popolazione circostante alla medesima, fosse trattata nel modo
stesso , in cui da essa furono poi trattate le altre popolazioni vicine.
L'altra parte della plebe invece, mancando di altra organizzazione , cerca di
rafforzarsi, come farà più tardi anche la popolazione commerciante dei comuni
del Medio Evo, mediante le corporazioni di arti e di mestieri. Quelli, che
apparten gono alla plebe rurale, convengono in Roma i giorni di mercato per
vendervi i loro prodotti, e per conoscere anche i provvedimenti, che siano
presi nell'interesse comune ; mentre gli altri, che apparten gono alla classe
dei piccoli commercianti ed artieri, formano fin d'allora il primo nucleo di
quella plebe urbana, nel seno della quale si formerà più tardi quella forensis
factio, che già comincia ad apparire sotto la censura di Appio Claudio, e getta
il discredito sulle tribù urbane. 143. Già erasi così delineata la distinzione
fra plebe rurale ed urbana, quando sopraggiunse un avvenimento, il quale diede
una grande compattezza all'organizzazione della plebe romana, e mentre ne
accrebbe il numero e la potenza , le diede anche un nuovo indi rizzo e ne
assicurò l'avvenire. Questo avvenimento fu l'aggregarsi alla plebe romana della
parte più povera della popolazione di Alba, la cui distruzione è attribuita a
Tullo Ostilio, e quella del trasporto od anche, come pare più probabile, della
riunione alla plebe di Roma per opera di Anco Marzio, della popolazione di
varie città latine da lui conquistate. Questo nuovo contributo venne ad
accrescere la forte plebe rurale, vivamente affezionata al fondo da essa
coltivato, e disposta a porre la vita per la difesa di esso, e fece entrare
nella - 177 plebe un elemento , la cui origine era analoga a quella del
patriziato , e che aveva già un'organizzazione domestica, non dissimile da
quella del medesimo. Fu il rifiuto del corpo chiuso del patriziato primitivo di
Roma di ricevere nel proprio seno queste famiglie delle città la tine, che
assicurò l'avvenire della plebe romana, incorporando in essa un elemento , che
portò nella lotta per il pareggiamento giuri dico e politico una tenacità e
perseveranza, non dissimili da quelle, che contraddistinguono il patriziato
romano. Di qui la conseguenza, che come era stata latina l'organizzazione del
patriziato romano, poichè gli elementi sopraggiunti erano entrati nei quadri
della città latina ; così fu sopratutto latina la massa più forte della plebe
ro mana, quella massa, di cui una buona parte entro più tardi a costi tuire la
nuova nobiltà. Senza questo elemento la plebe primitiva, di origine diversa e
che in parte era forse di origine servile, avrebbe molto probabilmente
continuato lungamente a mantenersi tale ;mentre questo innesto di famiglie
latine, che nel loro paese nativo tenevano già un certo grado, per cui loro
dovette riuscire grave di vedersi respinte dai quadri dell'ordine patrizio,
portò forza , organizzazione , tenacità nella plebe e ne assicurò l'avvenire,
fino a che questo ele mento vigoroso e vitale non fini per uscire dalla plebe
stessa, che aveva resa potente , e aggregandosi alla nobiltà abbandonò la plebe
minuta agli spettacoli del circo e alle distribuzioni di frumento . 144. Per
comprendere però un avvenimento di questa natura , importa farsi un'idea chiara
della lotta, che vi era fra Alba da una parte e Roma dall'altra . Erano
entrambe due città latine, cioè due centri di vita pubblica fra varie comunanze
di villaggio , ed erano troppo vicine per poter coesistere. L'una o l'altra
doveva cedere, e la conseguenza era per la soccombente di dover scompa rire
come città e come urbs, per modo che le comunanze, che mettevano capo ad essa,
dovessero invece fare capo a quella , che riusciva vittoriosa . Il patto quindi
che, secondo la tradizione, ebbe ad essere suggellato fra i capi dei due
popoli, con tutte le cerimonie del diritto feziale, era che, trattandosi di
popoli fratelli, si dovessero rimettere al combattimento di tre per parte le
sorti della guerra (1) . (1) Questo intento della guerra Albana è messo in
evidenza dalle parole, che Livio, I, 27, attribuisce a Tullo Ostilio nella
concione tenuta avanti ai due popoli prima di condannare allo squartamento
Metto Fuffezio : « Quod bonum , faustum G. CARLE, Le origini del diritto di
Roma. 12 178 La lotta quindi leggendaria fra Orazii e Curiazii era lotta di pre
dominio fra le due città, la cui parentela era ricordata e riconosciuta , ed
era una specie di giudizio di Dio per sapere quale dovesse preva lere : senza
che occorra di sforzarsi col Lange a volere che il numero dei tre corrisponda
alle tre tribù, e che il nome di Curiazi provenga dalle curie (1). Conseguenza
dell'esito del duello fu , che la città soccombente perdette la propria
esistenza separata e fu distrutta come urbs, e quindi le genti patrizie albane
furono aggregate al patriziato romano, a cui si aggiunsero cosi i Tullii, i
Servilii, i Quinzii, iGe ganei, i Curiazii, i Clelii, le cui genti pero, per
essere sopraggiunte più tardi, furono poi collocate dallo stesso Tullo Ostilio
o da Tar quinio Prisco nel novero delle gentes minores . Tutta la popolazione
invece, che, nelle condizioni, in cui allora si trovava, non poteva entrare nel
patriziato entro in massa nei ranghi della plebe, e una parte di essa , cioè la
più povera, ebbe anche degli assegni di terre. Cid pure accadde, quando Anco
Marzio vinse altre comunanze latine , e ne aggregò la popolazione alla plebe
romana; il che fu dalla tradi zione espresso con dire, che Anco Marzio aveva
trasportata a Roma la popolazione di quattro città latine (2 ). 145. È a questo
punto pertanto , che la plebe acquista in Roma una vera importanza, e che viene
ad essere indispensabile di trovare un modo per farla entrare, ancorchè a
condizioni disuguali, nella cittadi nanza romana; tentativo cominciato con
Tarquinio Prisco , e condotto a compimento da Servio Tullio (3). Mentre Tarquinio
Prisco non riesce felixque sit populo romano ac mihi,vobisque, Albani; populum
omnem Albanum Romam traducere in animo est; civitatem dare plebi; primores in
patres legere : unam urbem , unam rempublicam facere » . (1) Lange, Histoire
intérieure de Rome, I, pag . 35. (2) Questi fatti attestati dalla tradizione e
da tutti gli storici rendono a parer mio non accoglibile l'opinione sostenuta
con molta erudizione dal PANTALEONI nella sua Storia civile e costituzionale di
Roma, lib . I, cap. 6 , pag. 97 a 113, Torino, 1881, secondo cui il partiziato
romano sarebbe stato Sabellico , mentre la plebe sarebbe stata Latina. Questi
fatti invece dimostrano, che la popolazione delle città latine era essa pure
divisa in patriziato ed in plebe, cosicchè quel dualismo che presentasi in Roma
già preesisteva nel Lazio . Del resto l'ipotesi del dotto au tore sarà poi
presa in esame quando si tratterà della legislazione regia , Lib. II, cap . IV,
discorrendo del contributo recato dalle varie stirpi italiche alle istituzioni
giuridiche di Roma. (3) L'importanza grandissima per l'avvenire della plebe
romana di quest' innesto 179 che a conglobare i rappresentanti di queste varie
genti nei sacer dozii, nel senato e nell'ordine dei cavalieri , raddoppiandone
il numero, e continua a lasciare la plebe nella condizione, in cui prima si
trovava ; Servio Tullio invece inizia una organizzazione novella, che può
comprendere così nelle file dell'esercito, che nelle riunioni dei comizii
quella plebe, che è già pervenuta a tale po sizione economica e sociale, da
interessarla alla cosa pubblica . È da questo punto parimenti, che la plebe
rustica di Roma comincia ad essere più apprezzata che la plebe urbana, e che
principia ad avverarsi fra i due ordini la possibilità della formazione di un
diritto comune ai medesimi. Il motivo di questo ravvicinamento deve anche
essere riposto nel fatto , che le istituzioni del patriziato e quelle del nuovo
elemento , aggiuntosi alla plebe, non erano a grande distanza fra di loro ;
poichè l'uno e l'altro avevano la medesima organizza zione domestica , ed oltre
a ciò fra queste famiglie latine ve ne erano di quelle che un patriziato , meno
esclusivo e geloso dei suoi privilegi, avrebbe potuto accogliere nel proprio
seno (1). Ferma quest'origine della plebe e questa primitiva organizzazione
della medesima, veniamo a ricercare quali fossero le istituzioni giu ridiche,
che essa poteva possedere all'epoca, in cui entrò a far parte della comunanza
romana. di forti popolazioni latine sulla plebe primitiva , in parte di origine
servile , è un fatto riconosciuto da tutti gli storici. Cominciò a notarlo il
NIEBHUR, e dopo di lui il Mommsen, il Lange e molti altri. (1) Nota molto
accortamente a questo proposito il Gentile , Le elezioni e il bro glio , pag .
142, che « quella nobiltà, che poscia fu chiamata nuova e che in gran parte
esce di ceppo latino, non era tanto nuova , quanto sembra alla prima; perchè
discendeva dalle vecchie aristocrazie di comunità italiche, venute ad
aggregarsi allo stato romano, e che avevano aspirato agli onori in quella
cittadinanza , a cui più o meno recentemente erano ascritte ». Di qui la
conseguenza , a cui egli allude a pag. 150, che « la costituzione romana ,
eminentemente democratica nei principii, colla piena sovranità popolare nel nome,
lasciava il reggimento della cosa pubblica , immobile nella mano di pochi » . -
180 CAPITOLO IX . La posizione giuridica della plebe di fronte al patriziato .
146. Se posta questa origine della plebe e questa primitiva or ganizzazione
della medesima, si domandasse ora in che consistesse la plebe all'epoca, in cui
essa appare nella storia di Roma, sarebbe necessità di rispondere con una
deffinizione di carattere negativo . La plebe infatti è negli esordii di Roma
tutto quel nucleo di indi. vidui e di famiglie di origine diversa, che di fatto
trovasi stabilita nel territorio romano, nei dintorni della città patrizia ; ma
che intanto è priva ancora di qualsiasi posizione giuridica, perchè non entra a
far parte dell'organizzazione gentilizia . Essa è, come dice Gellio, quella
parte di popolazione, che è stabilita di fatto sul suolo romano, ma in cui «
gentes patriciae non insunt » (1); o meglio an cora quella parte di tale
popolazione, che, non essendo compresa nei quadri della organizzazione
gentilizia, non può dapprima entrare nelle curie e negli ordini della città
patrizia . Al modo stesso , che più tardi si chiamerà peregrinus chiunque non
sia cittadino di Roma, o non sia in guerra con essa, e per passare anche ad un
altro ordine di idee si chiameranno con Gaio nec mancipii tutte quelle cose,
che non appartengono alla cerchia prima formatasi della res mancipii, e anche
più tardi si diranno in bonis tutte quelle cose, che appar tengono ad una
persona senza appartenerle ex iure quiritium ; cosi alla domanda in che
consista la primitiva plebe di Roma si pud solo rispondere , che essa è
quell'elemento, che esiste accanto al po pulus, ma che non entra nei quadri di
esso , consacrati dalla reli gione; quell'elemento, che esiste di fatto sul
territorio della città patrizia, ma che non è compreso nell'organizzazione
giuridica e politica di essa . Ora e sempre sarà questo il punto di vista , a
cui si colloca il popolo romano, il quale ferma il suo sguardo sopra di sè,
sopra il suo culto , sopra la sua religione, sopra la sua urbs, la sua civitas,
sopra il suo diritto , e in base al medesimo classifica e dispone tutto il
rimanente dell'universo , secondo la posizione, che esso tiene riguardo a sè e
alle proprie istituzioni. Questo modo di (1) GELL., Noct. att., X , 21, 5 . -
181 - procedere del resto non sembra esser proprio soltanto dei Romani, che
chiamano tutti gli altri popoli hostes o peregrini; ma anche dei Greci, che
hanno una sola qualificazione per tutti gli altri, che è quella di Barbari;
anche dei cristiani del Medio Evo, che chia mano tutti gli altri col nome di
infedeli; ed in genere sembra es sere proprio di tutte le stirpi Ariane, anche
nell'Oriente, le quali cre . dono di avere il diritto di sovrapporsi a tutte le
altre. Che anzi questo modo di procedere può anche ritenersi comune a tutto il
genere umano, sopratutto nelle epoche primitive, in cui ogni popolo , chiuso in
sè stesso, mal conoscendo il rimanente, giudica ed ap prezza ogni cosa ,
facendo sè il centro dell'universo (1). È sempre applicando questa logica
superba, ma ad un tempo ingenua e del tutto conforme alla natura dell'uomo, che
il popolo formato dalle genti patrizie, chiamò plebe tutto ciò , che non era
compreso nei suoi ordini, cioè nelle sue genti e nelle sue curie, e che poscia
il populus romanus quiritium , dopo che già comprende va la plebe , vide una
folla e moltitudine di peregrini e di hostes in tutti quelli , che non erano
compresi nei quadri della città romana. Di qui con seguita , che la definizione
di quell'elemento, che è il solo ad essere tenuto in conto , implica eziandio
la deffinizione negativa di quello , che ne costituisce il contrapposto . 147.
Se quindi è solo il populus delle gentes, che possiede un diritto , ne verrà
comeconseguenza , che la plebe non può negli inizii avere rimpetto ad esso che
una posizione di fatto, e continuerà ad esser sempre in questa condizione,
finchè il populus non le verrà facendo qualche concessione, o la plebe stessa
troverà modo di ac costarsi all'organizzazione del populus, e di penetrare ,
sotto questo o quell'aspetto , nei suoi ordini e nei suoi quadri, consacrati
dalla religione e tutelati dal diritto . La plebe insomma è un elemento, che ha
una posizione di fatto , e che si viene avviando alla conquista di una
posizione di diritto . Essa è nella stessa posizione, in cui saranno poi i
Latini e gli Italici, allorchè formeranno già il grosso dell'e sercito romano,
e intanto non saranno ancora ammessi alla cittadi. (1) Fo qui applicazione di
un concetto del Vico, il quale certo vide molto addentro alla natura dell'uomo
primitivo. Tale concetto costituisce anzi la prima degnità della sua Seconda
scienza nuova, secondo cui: « L'uomo per l'indefinita natura della mente umana,
ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sè regola dell'universo » . Solo
è a notarsi, che i Romani ciò non facevano per ignoranza ,ma perchè veramente
attri buivano a se stessi una superiorità sugli altri. 182 nanza romana :
mentre questi ricorreranno in tale intento alla guerra sociale, la plebe
ricorrerà invece alle lotte civili, finchè non avrà ottenuto il pareggiamento
civile e politico . Qui, comenel resto , il processo della logica romana è
sempre il medesimo; incomincia da tanti cerchi, che si vengono formando
nell'interno della città , e che poi si vengono sempre più allargando, finchè
non giungono a comprendere tutto l'universo conquistato dalla eterna città .
148. Ciò premesso si può comprendere, quale potesse essere lo stato delle
istituzioni giuridiche presso la plebe primitiva di Roma. Esse erano
istituzioni, che avevano un'esistenza di fatto : ma a cui il patriziato non
annetteva effetti e conseguenze giuridiche. Tuttavia , anche considerate sotto
questo aspetto , le istituzioni plebee non po tevano certo avere fra di loro un
' analogia , che possa paragonarsi con quella , che esisteva fra le istituzioni
delle genti patrizie, la quale erasi fatta più intima, stante la loro
partecipazione alla stessa co munanza civile e politica . Anzitutto si
cercherebbero indarno presso la plebe quei concetti fondamentali, che abbiamo
trovato cosi nettamente delineati presso le genti patrizie coi vocaboli di fas,
di mos e di ius. Alla plebe invece non si applica dal patriziato che il
vocabolo di usus, che riceve però presso di essa una larghissima applicazione.
Per verità è coll'usus, che si vengono a rivelare esteriormente le unioni ma
trimoniali della plebe, le quali non importano comunione delle cose divine ed
umane. Parimenti è col mezzo dell'usus, che nelle consuetudini plebee potè
avverarsi l'appropriazionedelle cose esterne. Non essendovi presso di essa
quelle forme, che a giudizio del patriziato sono indispensabili per l'acquisto
ed il trasferimento dei beni; così è solo, mediante l'usus, che appartenga ad
una persona, a scienza e pazienza di tutti gli altri, che viene a manifestarsi
non tanto la pro prietà , quanto la possessio , che dapprima tiene luogo di
essa . In fine sarà eziandio , mediante l'usus, che, allorquando verrà a morire
un capo di famiglia plebea , i suoi figli prima, e in sua mancanza i suoi
congiunti ed anche i suoi vicini verranno a mettersi a possesso dei beni da
esso lasciati; e avrà così origine quella singolare istitu zione dell'usucapio
pro herede, che il buon Gaio trovava disonesta ed immorale, perchè non era
coerente al principio dell'agnazione posto a fondamento della successione
quiritaria (1). Tutto ciò insomma, (1) GAIO , Comm ., II, 53, 54. 183 in cui
predomina l'usus auctoritas (per usare l'efficacissimo voca bolo adoperato
dalla legislazione decemvirale), piuttosto che il ius propriamente detto, tutto
ciò che si fonda di preferenza sul fatto che sul diritto , è da ritenersi di
origine plebea , e solo più tardi entrò a far parte del diritto quiritario
sotto il nome di usucapio, di usureceptio, di possessio e simili. Cid spiega
anche il motivo, per cui , allorchè la legislazione decemvirale attribuì
carattere giuridico a queste istituzioni, essa abbia dovuto imporvi delle limi
tazioni e prescrivere delle condizioni, alle quali poi si aggiunsero quelle
richieste più tardi dalla giurisprudenza , perchè siavi usu capione, e perchè
il possesso possa ottenere protezione giuridica . Ciò del resto era una
conseguenza delle condizioni reali, in cui trovavasi la comunanza plebea;
poichè se in un patriziato, dalle an tiche tradizioni, tutto era preveduto e regolato
con norme e regole fisse, le quali se non avevano sempre un carattere giuridico
, avevano almeno un carattere religioso e morale ; in una comunanza invece,
composta di individui e di famiglie di origine diversa , priva di tra dizioni e
di recente formazione, i rapporti fra i singoli individui non potevano essere
governati, che dall'usus (1). (1) Credo non occorra qui di richiamare
l'attenzione sulla grandissima importanza, che ha questa induzione per spiegare
l'origine dimolte istituzioni primitive di Roma, e sopratutto quell'usucapione,
che appare introdotta dalla legislazione decemvirale. Colla medesima viene ad
apparire l'unità di concetto, a cui si informarono idecem viri, allorchè
introdussero contemporaneamente l'usus auctoritas per l'acquisto della manus,
per l'acquisto della proprietà immobile e mobile, e per l'acquisto anche del
l'eredità. L'usucapio infatti era l'unico mezzo per mutare al più presto la
posizione di fatto, in cui trovavasi la plebe, in una posizione di diritto. Ciò
spiega eziandio come la primitiva possessio non dovesse richiedere nè giusto
titolo, nè buona fede, e come sia stata necessaria una lunga elaborazione ,
perchè potesse uscirne la teorica del possesso e quella a un tempo
dell'usucapione, le quali hanno fra di loro strettissima attinenza . Così pure
si spiegano le definizioni di Ulpiano e di Modestino, secondo cui : <
Usucapio est dominii adeptio per continuationem possessionis anni vel biennii »
, senza che richiedasi altra condizione. Lo stesso è a dirsi degli sforzi dei
decemviri per trattenere l'istituzione da essi accolta in limiti tali , che non
la rendessero pe ricolosa per la convivenza sociale, escludendola per le cose
rubate, e consentendo alla moglie , che coabitava colmarito, di interrompere
l'usucapione della manus, mediante il singolare istituto del trinoctium .
Intendo però di riconoscere, che un avviamento a questa spiegazione già può
ravvisarsi nel MUIRHEAD , Histor. Introd., pag. 48 e 179, nella sua ingegnosa
congettura intorno all'origine della usucapio pro haerede, e nell' Esmein nel
suo recente articolo sull' « Histoire de l'usucapion » che si trova nei suoi
Mélanges d'Histoire de droit, Paris, 1886, pag. 171 a 217. Solo credo di 184
149. Parimenti, è sempre sotto l'influenza di queste speciali con dizioni, in
cui trovasi la plebe, che i suoi commercii non possono essere governati da
forme solenni, simili a quelle che si erano for mate fra i padri delle famiglie
patrizie; ma dovettero svolgersi con forme semplici, quali erano suggerite dai
bisogni di una comunanza, in seno a cui non era ancora organizzata una vera
propria pro tezione giuridica . Fu quindi certamente nei rapporti della comune
plebea , che dovette anche svolgersi l'emptio-venditio , accompagnata dalla
tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, e questo fu forse anche il
motivo, per cui presso gli antichi, secondo Festo , emere pro accipere
ponebatur, in quanto che emere era vera mente prendere la cosa comperata (1).
Fu in essa parimenti, che dovette aver origine quel singolare istituto della
fiducia , il quale serve qual mezzo per accordare una efficace garanzia al
proprio creditore, lasciando a sua mano la cosa , che deve servirgli di malle
veria (2 ). Fu parimenti in essa , che dovette svolgersi quel modo aver
allargato il concetto riunendo istituzioni, che potevano apparire disparate , e
dimostrando, che l'opera dei decemviri fu in questa parte indirizzata a dare
carat tere giuridico ad istituzioni, che avevano solo un'esistenza di fatto
presso la comu nanza plebea. (1) Sarebbe infatti pressochè incomprensibile, che
un popolo nelle condizioni eco nomiche, in cui trovavasi allora il Romano, e
del quale una parte aveva già attra versato, e non inutilmente, tutto un
periodo di organizzazione sociale, potesse igno rare contratti , come l'emptio
venditio, la locatio conductio , e simili. Essi dovevano certamente esistere,
quand'anche non fossero per avventura penetrati nel diritto qui ritario. Cfr.
MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 49 ; COGLIOLO , Prefazione, pag. XI, alla
traduzione del GOODWIN , Le XII Tavole , eseguita dal Gaddi, Città di Ca
stello, 1887. È poi noto, che la disposizione della legge decemvirale, per cui
la ven dita non è perfetta, che col pagamento del prezzo, è anche coinune alla
Grecia ; il che dimostra , che dovette essere determinata da comuni necessità ,
in quanto che la vendita seguiva talora fra persone, che appartenevano a genti
e a comunanze diverse, e non sarebbe stato facile riavere la cosa, quando non
ne fosse stato pagato il prezzo. (2 ) Anche l'istituto della fiducia è uno dei
più antichi e dovette nascere nella comunanza plebea , perchè fuorusciti ed
immigranti senza posizione giuridica non potevano ricorrere che a quella . Si
spiega pertanto il largo uso , che se ne fece nel diritto primitivo di Roma, in
quanto che vi si ricorre nel testamento, per la nomina di un tutore, per la
concessione di un pegno e forse in molti altri casi ancora, che dovettero
verificarsi pel costume e non penetrarono nel diritto quiritario propria mente
detto. Ciò è dimostrato dalla frequenza, con cui nei poeti latini e sopratutto
nei comici occorre il caso, in cui una persona, allontanandosi, affida il
patrimonio e la figliuolanza (mandat familiam pecuniamque suam ) ad una persona
di sua confi denza . Questo costume è anzi il perno, intorno a cui si aggira il
Trinummus di PLAUTO . 185 - semplicissimo di fare testamento , che ci venne più
tardi ancora de scritto da Gaio nelle sue forme primitive ed arcaiche, e che
dovea servire più tardi come base al testamento quiritario per aes et li bram ,
per cui il plebeo , che muore senza figliuolanza , affida ad un amico il suo
patrimonio e le sue sostanze, indicandogli la maniera in cui dovrà poi
distribuirli, quando egli sarà morto . Del resto è questo il modo che ancora
oggidi torna opportuno all'emigrante , che, trovandosi in pericolo di vita ed
essendo lontano dalla patria e dalla famiglia, affida ad un amico , che avrà la
fortuna di tornare in patria, tutto ciò, che egli ha potuto risparmiare ,
perchè lo riporti a coloro, che gli sono cari. Che anzi, dacchè siamo nella
ricostruzione di quest'ordine di idee, parmi che a questo modo pri mitivo di
fare testamento si rannodi senz'alcun dubbio quella istitu zione del
fedecommesso , che, mantenutasi per certo nel costume, senza poter penetrare
nella cerchia rigida del diritto civile romano , fini tuttavia per trionfare
negli inizii dell'Impero e trionfo , perchè popu lare erat (1) . Quel
testamento quindi, che per un capo di famiglia patrizia doveva essere fatto
coll'approvazione dell'assemblea della tribù dapprima, e poi davanti ai comizii
della città e serviva sopra tutto a perpetuare l'heredium nelle famiglie , e ad
impedire che il patrimonio uscisse dalla gente ; per i membri invece della
comunanza plebea non poteva essere che un atto di fiducia , un rimettersi, (1)
Il testamento primitivo, a cui accennanoGaio, Comm. II, 102 , ed anche Gellio ,
XV, 27, 3, è una specie di mancipatio cum fiducia, in virtù della quale una
persona « si subita morte arguebatur, amico familiam suam , id est patrimonium
suum ,mancipio dabat, eumque rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet
» . Ciò indica che la prima forma, sotto cui comparve il vero testamento,
quello che poi si svolse nel testa mento per aes et libram , fu il
fedecommesso,malgrado tutte le difficoltà che il mede simo incontrò poi per
passare dal costume nel diritto civile romano. È poi degno di nota, che i
Romani più tardiritennero di aver ricevuto dai peregrini questa istituzione del
fedecommesso , che certo già esisteva nella primitiva comunanza plebea. Gaio in
fatti, Comm . II, 285, scrive : « ut ecce peregrini poterant fidem commissam
facere et ferre : haec fuit origo fideicommissorum » ; il che mi conferma
nell'induzione, che il primitivo diritto plebeo , di fronte al diritto già
elaborato delle genti patrizie, dovette compiere quello stesso ufficio, che più
tardi il diritto delle genti verrà a compiere di fronte al diritto civile di
Roma. Che il fedecommesso poi, ancorchè non accolto nel diritto quiritario,
abbia sempre continuato a mantenersi nel costume, è provato ad evidenza dai
comici latini. Fra gli altri esempi basti il seguente tolto dall'Andria di
TERENZIO , I, 5 : « Bona nostra tibi permitto et tuae mando fidei » . È da
vedersi in proposito l’Henriot, Mours jurid . et judic., I, pag. 411 e segg .
186 che altri faceva ad un amico o ad congiunto , acciò egli distribuisse le
sue cose per il tempo, in cui avrebbe cessato di vivere. 150. Lo stesso infine
è a dirsi dei modi di procedere contro il debitore in questo primitivo diritto
plebeo . Sarebbe inutile cercarvi la forma solenne dell'actio sacramento , che
era nata e si era svolta fra capi di famiglia , che sentivano la loro
superiorità ed indipen denza ; ma è più facile che trovisi fra la plebe l'uso
della manus iniectio , ed anche quello della pignoris capio, istituzioni che sa
rebbero incomprensibili fra capi di famiglie patrizie , ove sono già penetrati
il fas ed il ius, ed hanno escluso, almeno nei rapporti fra i capi famiglia ,
l'uso di farsi ragione colla forza e l'esercizio della pignorazione privata
(1). Così pure è naturale, perchè conforme alle condizioni della plebe, che in
essa ancora si rinvengano le traccie della privata vendetta, del taglione, come
pena di colui che ha recato un danno, della composizione a danaro per un furto sofferto,
e perfino anche per un adulterio ;perchè queste sono tutte istituzioni, che
sono consentanee col modo di agire e di pensare di una comunanza plebea, mentre
ri pugnerebbero all'organizzazione gerarchica e di carattere religioso , che
era così fermamente stabilita presso il patriziato ( 2). La plebe (1) L'origine
plebea dell'actio sacramento è esclusa dal carattere religioso inerente alla
medesima ed anche dalla circostanza, che noi la troviamo comune alle genti
italiche ed elleniche, come lo dimostra la descrizione, che ne troviamo in
OMERO , Iliade, Canto XVIII, ove descrive lo scudo di Achille, il che può
indurre a credere, che essa fosse già importata dall'Oriente. Quanto alla manus
iniectio , essa poteva esistere fra la plebe, come esercizio privato delle
proprie ragioni; ma non poteva avere la significazione giuridica , che vi
attribuì il patriziato. In questo senso ritengo, che la manus iniectio fosse
una procedura usata dai padri contro i debitori plebei, il che cercherò di
provare nel capitolo seguente. ( 2) Questa varia concezione del delitto presso
ceti di persone, che erano in con dizioni sociali compiutamente diverse , può
essere facilmente compresa . Il patrizio sente di far parte di una corporazione
religiosa e civile ad un tempo, e quindi può scorgere nel delitto un'offesa al
costume dei maggiori, una violazione del fas, ed un danno alla comunanza: non
così il plebeo, che è ancora soltanto un individuo, o un capo di famiglia,
pressochè isolato in una comunanza in via di formazione. È quindi naturale, che
egli nel delitto senta sopratutto il danno materiale che gliene deriva , che
consideri la noxa (colpa ) come una noxia (danno) : che quindi reagisca contro
quel danno; ricorra al taglione; venga alla composizione a danaro; e così
riverberi in modo più schietto l'impressione, che dovette fare il delitto nelle
epoche primitive. Quegli vede già ogni cosa attraverso al gruppo di cui fa
parte, e quindi comincia 187 primitiva nel delitto sente sopratutto il danno e
reagisce contro di esso ; mentre il patriziato già vi scorge un peccato contro
la divinità e già comincia a ravvisarvi un danno, che colpisce l'intiera comu
nanza . Tutte le istituzioni insomma, che non presuppongono una lunga
preparazione anteriore , che non hanno una storia nel passato , ma che trovano
direttamente la propria radice nelle tendenze naturali dell'uomo e nei bisogni
immediati di una comunanza, che è soltanto in via di formazione, e in cui entra
ad ogni istante un nuovo ele mento , che si viene aggregando, debbono essere ritenute
di origine plebea . Non chiedansi alla plebe nè i iura gentium colle cerimonie
solenni, da cui sono circondati, né le procedure, che contengono una storia del
passato, nè gli auspicia , che ad ogni atto pubblico e pri vato imprimono un
carattere religioso ;ma solo chiedasi ad essa il senso di quel ius naturale,
quod natura omnia animalia docuit. Sarà anzi questo connubio di un elemento
onusto di tradizioni con un altro vergine di esse , che potrà rendere possibile
la formazione di un di ritto , che finirà per dar forma giuridica a tutta
l'immensa suppel lettile dei rapporti derivanti dalla civil convivenza. Come
quindi esistevano , fin dagli inizii di Roma le traccie del ius gentium ; cosi
vi erano anche quelle del ius naturale, non come idea filosofica, pre sente
alla mente di un giureconsulto, ma come un complesso di forze e di energie
inerenti all'umana natura, che spingevano una comu nanza in via di formazione a
provvedere a tutti i bisogni e a tutte le esigenze , che si venivano
presentando. Per talmodo ciò che più tardi verrà ad essere nozione astratta ,
negli inizii è forza ed energia , che spinge, come direbbe il Vico , l'uomo ad
celebrandam suam so cialem naturam . Basta questo per dimostrare, come anche
negli usi della plebe potesse esistere un materiale greggio , che potè a poco a
poco ricevere forma giuridica nel diritto quiritario. Per tal modo certe
istituzioni, che compariscono solo più tardi, poterono già esi stere , come
usi, da un'epoca ben più antica . Cid serve intanto a spiegare come nel diritto
quiritario non trovisi dapprima una quan tità di atti e di negozii, senza cui
sarebbe stato impossibile ogni com già a scorgere nel delitto un'offesa
collettiva ; mentre questi non sente ancora che il danno privato, che possa
derivargliene. È questa la ragione, per cui i delitti nel diritto quiritario si
presentano dapprima col carattere di offese private, e solo a poco a poco si
convertono in delitti pubblici. Cfr. Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 434. 188
mercio per un popolo , le cui istituzioni giuridiche e politiche già dimostrano
assai progredito . Qui intanto , per non spingere questa ricostruzione a
particolari troppo minuti, arresterò l'attenzione alle due istituzioni
fondamentali del diritto privato , che sono la famiglia e la proprietà . 151.
Se noi consideriamo la plebe riguardo all'organizzazione della famiglia , quale
è giudicata dai patrizii, noi troviamo che essa non ha le iustae nuptiae,madei
semplici matrimonia , quasi ad in dicare che i plebei potevano bensi indicare
le loro madri, ma non potevano indicare con certezza i loro padri. Al qual
proposito si deve ammettere col Muirhead, che, trattandosi di persone, alcune
delle quali erano di origine servile, potesse anche esistere una certa qual
rilassatezza nelle unioni matrimoniali dell'infima plebe. Non sembra tuttavia ,
che la congettura possa spingersi fino al punto , a cui la spinge il Bachofen,
secondo il quale, fra gli elementi che entra vano a costituire la plebe,
avrebbero dovuto esservene di quelli (e sarebbero quelli di origine etrusca ,
abitanti nel vicus Tuscus) i quali avrebbero solo conosciuta la parentela dal
lato delle femmine, e si sarebbero cosi trovati nella condizione del
matriarcato (1 ). Senza affermare, nè negare il fatto, perchè mancano gli
elementi per decidere, credo pero didovere osservare che, quando questo fosse
stato , ne sarebbero rimaste maggiori traccie ed indizii. Il vocabolo dima
trimonia per sè significa soltanto, che la plebe riconosceva la pa rentela dal
lato di madre, ossia la cognazione, mentre l'organizza zione della famiglia
patrizia fondavasi esclusivamente sul vincolo dell'agnazione. Quindi quello
solo , che noi possiamo affermare con certezza, si è che nella plebe primitiva
quanto che serve talora ad indicare leesisteva una famiglia, costi tuita sulle
sue basi naturali, cioè fondata sulla cognazione e sulla affinità . Ed è anche
facile trovare la ragione di questo fatto , la quale consiste in questo, che la
famiglia plebea, appunto perchè non era ancora entrata a far parte
dell'organizzazione gentilizia , cosi non aveva ancora potuto subire
quell'artificiale ordinamento , che veniva ad essere necessario per una
famiglia, che doveva servire di convivenza domestica e politica ad un tempo.
Era quindi naturale , che la plebe , non avendo l'organizzazione gentilizia
fondata sull'a (1) Cfr. Muirhead, Histor. Introd ., pag. 34 e 35 ; e il
Bachofen, Das Mutterrecht Stuttgart, 1861, pag. 92. 189 gnazione, cercasse modo
di rafforzarsi mediante vincoli più natu rali e più facili a comprendersi,
quali sono appunto quelli della co gnazione e dell'affinità . Non è quindi il
caso di contrapporre alla famiglia patriarcale una famiglia matriarcale ; ma
solo di dire, che la plebe, non avendo la famiglia fondata sull'agnazione,
aveva in vece quella fondata sulla cognazione, in quanto che quella potrà aver
valore per le genti dalle antiche tradizioni, mentre questa pud essere capita e
sentita da chicchessia . 152. Qui però si potrebbe opporre che, così essendo ,
male si com prende come nel diritto quiritario a vece della famiglia , fondata
sul vincolo del sangue, che certo dal nostro punto di vista avrebbe do vuto
essere preferita , abbia invece avuta prevalenza la famiglia, fon data
sull’agnazione, e come solo più tardi la cognazione sia riuscita a correggere
almeno in parte la famiglia primitiva romana. Cid tuttavia può essere
facilmente compreso, quando si consideri, che la città , in cui trattavasi di
entrare, era stata fondata dai patrizii; che questi erano i forti ed i ricchi,
mentre i plebei erano, almeno negli esordii, i deboli ed i poveri ; che quelli
avevano una posizione di diritto , e che questi erano solo tollerati per la
loro posizione di fatto. Era quindi naturale, necessario , che la plebe,
sopratutto quando fu for temente compenetrata dall'elemento latino, la cui
organizzazione domestica era analoga a quella delle genti patrizie, si
sforzasse di imitare anche in questa parte il patriziato, e che anzi col tempo
le famiglie plebee, che erano pervenute al ius imaginum , si sforzassero di imi
tare perfino l'organizzazione per gentes in un'epoca , in cui essa åveva già
certamente perduto della propria importanza. 153. Del resto è incontrastabile,
che di questo fondamento cognatizio della famiglia plebea rimasero delle
traccie nella legislazione pri mitiva di Roma, sopratutto in quelle istituzioni
domestiche, che dovettero probabilmente essere di origine plebea . Così, ad
esempio, è notabile che la legislazione decemvirale, mentre assegna la suc
cessione legittima e la tutela legittima agli agnati, lascia invece al gruppo
dei cognati e degli affini (cognati et adfines ) il diritto ed il dovere di
proseguire e porre in accusa l'uccisore di un parente , quello di appellare da
una sentenza capitale pronunziata contro un congiunto : disposizioni, che
possono considerarsi come sopravvivenze 190 e quasi accenni di vendetta privata
, la quale, come si è visto sopra, sussisteva sopratutto in seno alla plebe (1)
. Insomma la conclusione ultima sarebbe questa , che Roma, fin dai suoi
esordii, non ignorò la famiglia fondata sulla cognazione e la possedette anzi
sotto la umile apparenza di un'istituzione plebea ; che tuttavia questa
famiglia naturale, nel periodo di formazione del di ritto civile di Roma, fu in
certo modo soverchiata dalla famiglia agnatizia, propria del patriziato ; e
solo riusci di nuovo più tardi, comemolte altre istituzioni, a rientrare in
modo indiretto nella cer chia del diritto romano, sotto la protezione del
pretore e del diritto delle genti. Nè questa è conseguenza di poca importanza ,
perchè colla famiglia si connette tutto il sistema della successione e della
tutela legittima, le quali perciò penetrarono eziandio coll'organizza zione
gentilizia della famiglia nel diritto quiritario . Cid intanto spiega eziandio,
come in via di reazione nello stesso diritto quiritario abbia preso così largo
svolgimento l'istituzione del testamento , perchè questo era il solo mezzo per
sottrarsi alle conseguenze di un sistema di successione legittima, ispirato
ancora al concetto di serbare in tegro il patrimonio nelle gentes; sistema, che
una piccola minoranza di genti patrizie era riuscita ad imporre ad un numero
assai mag giore di famiglie , e che col tempo , col dissolversi della organizza
zione gentilizia, fini per divenire grave allo stesso patriziato . 154. Per quello
poi, che si riferisce alle condizioni economiche della plebe, è assai probabile
che la medesima, prima di giungere ad una vera proprietà di diritto, abbia
cominciato dall'occupare di fatto quella parte di suolo, sovra cui i plebei
venivano a stabilirsi nelle vicinanze di Roma insieme colla propria famiglia .
Dapprima queste possessioni figuravano, od erano in effetto assegni loro fatti
o dai padri o dal re come loro patroni, od erano anche terreni incolti , sovra
cui si arrestava la famiglia plebea, per fondarvi il proprio tugurium e
dissodarvi attorno un piccolo ager. Questo stato primitivo di cose può essere
indotto da alcuni passi di Festo, che si riferiscono a questi primitivi
possessi ed all'occu pazione di agri, che, per mancanza di coltivatori, fossero
stati ab bandonati. Egli infatti scrive: Possessiones appellantur agri late
patentes, publici privatique , quia non mancipatione sed usu ( 1) Cfr.
MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 35 . - ! - 191 tenebantur, et ut quisque
occupaverat, colebat (1). Qui infatti è evidente, che non si parla solo di
possessioni nell'agro pubblico , ma anche di possessioni di carattere privato ,
e furono queste , che do vettero appunto essere le prime possessioni della
plebe. Ciò è pure confermato dallo stesso Festo, ove scrive : occupaticius ager
di citur, qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur (
2), indicando cosi l'esistenza di una consuetudine, per cui, se l'agro era
abbandonato dai suoi cultori, ne sottentravano degli altri. Del resto che le possessioni
dovessero acquistarsi in questo modo, in seno alle comunanze plebee , lo
dimostra l'importanza , che presso di esse acquistò l'usus auctoritas. Tale
importanza appare dal fatto, che secondo le leggi decemvirali bastava il
possesso di un anno per l'acquisto delle cose mobili e quello di due anni per
quello delle immobili ; disposizione questa, che dovette uscire dagli usi
proprii della plebe. Mentre infatti, presso le genti patrizie, tutto era
governato dal mos e dal fas; in una comunanza plebea, che era soltanto nella
propria formazione, non poteva esservi altra autorità , che quella dell'usus, e
doveva apparire proprietario quegli, che in effetto usucapiva la cosa od il
fondo, del quale si trattava. La pro prietà non poteva ancora in questa condizione
di cose distinguersi affatto dal possesso , e quindi si comprende che il
giureconsulto più tardi ancora dicesse: dominium rerum ex naturali possessione
cae pisse , Nerva filius ait ; eiusque rei vestigium remanere de his , quae
terra , mari, coeloque capiuntur ; nam haec protinus eorum fiunt, qui primi
possessionem eorum apprehenderint (3). Si com prende parimenti, comein una
comunanza di questa natura, che dap principio era costituita da una massa
mobile ed eterogenea, dovesse ri. tenersi sufficiente il breve termine di un
anno per l'usucapione delle cose mobili, e di due anni per l'usucapione di
quelle immobili ; e cið nell'intento di poter trasformare con celerità lo stato
di fatto in stato di diritto, il possesso in proprietà. Se in una comunanza già
formata importa di allungare il termine dell'usucapione, acciò essa non serva
come mezzo per usurpare il diritto esistente; in una co (1) V. Festo, v°
Possessiones ( Bruns, Fontes, pag. 354): la qual definizione è ri portata tal
quale anche da Isidoro (BRUNs, pag. 411). (2 ) V. Festo , Occupaticius. Di qui
già il RUDDORF ebbe ad indurre che l'ager occupatorius non doveva confondersi
coll'ager occupaticius (Bruns , Fontes, pag. 348, nota 6). Vedi per l'opinione
contraria Karlowa, Röm . R. G., I, pag. 95 . (3 ) Paulus, L. 1, § 1, Dig . (41,
2 ). 192 munanza invece, la quale sia in via di formazione e attragga in sé
nuovi elementi, importa di abbreviare il termine di tale usuca pione, acciò lo
stato di fatto mutisi al più presto in uno stato di diritto . Con tale sistema
una famiglia plebea, quando fermava il piede sopra un suolo incolto od
abbandonato ( possessio, da pedum quasi positio) aveva appena tempo a metterlo
in coltivazione, che già ne diventava proprietaria ex iure quiritium , e
intanto , appena un posto rimaneva vacante, veniva ad esservi quello, che lo
occu pava, e dopo breve tempo era considerato ancor esso come legittimo
proprietario . Certo non poteva esservi un migliore sistema per po polare
immediatamente il territorio circostante a Roma, e per popo larlo di famiglie
che, affezionandosi al suolo, finissero per prendere interesse alla grandezza e
all'avvenire di quella città patrizia, sotto la cui protezione e tutela la
plebe aveva potuto diventare anch'essa proprietaria del suolo (1 ). Ciò però
non dovette accadere di un tratto; ma solo a misura che i commerci fra Roma
patrizia e la popola zione circostante conducevano alla formazione di un comune
diritto . 155. Fu quindi solo col tempo, che queste possessioni, tollerate dai
padri, od anche dai medesimi o dal re assegnate ai plebei a titolo di precario,
poterono cambiarsi in una specie di proprietà di fatto più che di diritto,
sovra cui essi vivevano colla propria famiglia . Intanto questo piccolo podere
coi frutti, che se ne potevano ricavare e che portavansi al mercato , porgeva
anche alla plebe occasione di entrare in commercio col patriziato. Si comprende
quindi, che quando le cose furono a tal punto , che i re sentirono la conve
nienza di aggregare la plebe alla cittadinanza romana , anche per afforzare
l'esercito della città patrizia , dovesse sorgere naturalmente l'idea , attuata
poi da Servio Tullio , di ammetterli alla comunanza, in quanto erano capi di
famiglia , e avevano uno spazio di terra, sovra cui potevano vivere colla
propria famiglia . Siccome poi la plebe non conosceva altra proprietà , che la
privata , o meglio quella , che ap (1) Trovo in Gellio, Noc. Att., XVI, 11 un
passo, che dimostra come i Romani comprendessero l'importanza, che aveva la
proprietà per interessare la plebe alle sorti della Repubblica : « Sed quoniam
res pecuniaque familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam
videbatur, amorisque in patriam , fides quaedam in ea, firmamentumque erat » .
Fu questo , aggiunge Gellio, il motivo, per cui i prole tarii, e i capite
censi, solo tardi e quando non se ne potè fare a meno, furono chia inati a far
parte dell'esercito. 193 partiene al capo di famiglia , non aveva agro
gentilizio , e non doveva neppure dapprima essere ammessa ad immettere i
proprii greggi nell'ager compascuus della tribù, al modo stesso che più tardi
non fu ammessa all'occupazione dell'ager publicus, la quale occupazione
dapprima ritenevasi come un privilegio dell'ordine pa trizio ; cosi ne derivò
la conseguenza , che l'unica proprietà , che poteva essere riguardata come
posta a base della comunanza patrizio-plebea, perchè era la sola, che fosse
comune ai due or dini, era la proprietà privata . Cid può servire a spiegare il
fatto , che da Servio Tullio in poi quasi più non si discorre degli agri
gentilicii, che pur continuavano sempre ad appartenere alle genti: ma solo più
dell'ager privatus, delmancipium , dei praedia censui censendo, e dell'ager
publicus . Questi sono l'unica proprietà della plebe ; mentre l'occupazione
dell'agro pubblico è una gran sor gente della ricchezza del patriziato . Quindi
si comprende l'affetto tenace, con cui la plebe si attacca alla propria terra,
il suo sotto porsi al duro vincolo del nexum , piuttosto che alienarla, e la
lotta , che essa sostiene per ottenere quelle ripartizioni dell'ager publicus,
che le porgevano mezzo di entrare nella vera cittadinanza di Roma. Intanto
siccome questa proprietà e il commercio , che derivava da essa , erano gli
unici diritti, che la plebe avesse comuni col patri ziato : così viene eziandio
a spiegarsi, come gli atti tutti del primitivo diritto quiritario assumano un
carattere essenzialmente mercantile , e siano tutti fatti entrare forzatamente
sotto le figure del nexum e del mancipium , come meglio apparirà più tardi.
156. Dalle cose premesse si può raccogliere la conclusione se guente , quanto
ai rapporti, che intercedono fra il patriziato e la plebe negli esordii della
comunanza romana. Per quanto debba ri tenersi, che il primo nucleo della plebe
siasi costituito mediante ele menti,che si vennero staccando dalla stessa
organizzazione gentilizia, perchè più non potevano essere compresi nei quadri
della medesima; tuttavia la plebe, avendo richiamati a sè tutti coloro , che si
trovarono spostati nell'anteriore organizzazione, crebbe per modo in numero ed
importanza da costituire di fronte alla città patrizia una vera e propria
comunanza plebea , che doveva di necessità essere presa in considerazione.
Siccome tuttavia la plebe è fuori di quella organiz zazione, che è l'unica
riconosciuta dal patriziato ; così essa viene dapprima ad essere lasciata a se
stessa ed è considerata come una moltitudine ed una folla , la quale ha bensì
una esistenza G. CARLE , Le origini del diritto di Roma. 13 194 di fatto, ma
che è priva di qualsiasi posizione giuridica di fronte al patriziato . Di qui
il dualismo fra i due ordini, che, nato già nella tribù , viene a costituire il
gran dramma della comunanza civile e politica . In questa infatti son chiamati
a convivere due elementi: di cui uno ha una posizione di diritto , ha la città
, ha gli auspicii, le magistrature, gli onori; mentre l'altro non ha che una
posizione di fatto , più tollerata che riconosciuta, e non può fare as
segnamento , che su quello spazio di terra, sovra cui si è stabilito colle proprie
famiglie, ed è solo poggiandosisopra di esso , che potrà entrare a fare parte
della comunanza. Per quello poi, che si riferisce alle loro istituzioni
religiose, giu ridiche e politiche, non corre una minore differenza fra i due
or dini. Mentre il patriziato è nei vincoli delle tradizioni e del culto dei
suoi antenati, dei concetti, che forse ha recati dallo stesso Oriente, e
trovasi fra le strette dell'organizzazione gentilizia , che dopo aver fatta la
sua forza, comincia ora ad impedirne il naturale sviluppo e a cambiarlo in
un'aristocrazia chiusa in se stessa ; la plebe invece ha l'inconveniente, ma al
tempo stesso il vantaggio di en trare nella vita politica , senza la memoria
dei maggiori ed il culto di essi, senza essere vincolata dalle proprie tradizioni,
e trovasi cosi in condizione di ubbidire al proprio interesse, alle proprie esi
genze, ai bisogni e alle necessità della nuova organizzazione so ciale. A ciò
si aggiunge, secondo la profonda osservazione del Kar lowa, che nell'uomo della
plebe per la prima volta compare la nozione per cui l'uomo libero, sciolto da
ogni vincolo sociale e gen tilizio , deve essere riguardato come persona, ossia
come capace di diritto e di obbligazioni; per guisa che anche il maggior
concetto , a cui abbia saputo elevarsi il diritto romano, che è quello di rico
noscere l'uomo libero come capace di diritto, ebbe in parte a svol gersi sotto
l'influenza dell'elemento plebeo (1). 157. Per tal modo Roma si trovò di fronte
al problema di far convivere nelle stesse mura, e di sottoporre all'impero
delmedesimo (1) KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag . 64. L'autore, che
ebbe giusta mente a notare che il più alto concetto, a cui giunse il diritto
privato di Roma, è quello che l'uomo libero , come tale, sia capace di diritto,
è il compianto Bruns, Geschichte und Quellen des römisches Recht's, $ 3, in
HoltZENDORFF's, Encyclo pädie , I, pag. 105, 4.ed . — È da vedersi in proposito
il Brugi, Le cause intrinseche della universalità del dir. rom ., Prol.,
Palermo, 1886 . 195 diritto due ordini, di cui uno era ricco di tradizioni e
stretto nei vincoli del passato , mentre l'altro , per le speciali sue
condizioni di fatto , non aveva per sè che il presente e sopratutto l'avvenire.
Il problema per la plebe era quello di mutare la sua posizione di fatto in una
posizione di diritto , e per il patriziato quello di dare alla plebe un diritto
e di farla entrare nei quadri della sua città , senza comunicarle che
gradatamente quel fascio di tradizioni reli giose , giuridiche e morali, di cui
esso era gelosissimo conservatore. Certo il problema era di difficile
risoluzione, ma la logica giuri dica di Roma seppe risolverlo in un modo, che
può veramente dirsi meraviglioso . La conseguenza venne ad essere questa, che
il di ritto, che venne formandosi in Roma, si presenta antico sotto un aspetto
e nuovo sotto un altro. È antico nei concetti, nelle forme, nei vocaboli
stessi, che già tutti esistevano precedentemente ed erano stati elaborati dal
patriziato nel periodo dell'organizzazione genti lizia ; ma è nuovo in quanto
che nelle forme antiche penetra uno spirito nuovo e si fa entrare tutta una
nuova vita civile e poli tica , che più non poteva essere contenuta nei quadri
dell'organiz zazione gentilizia . Nella formazione di questo diritto tutto ciò
che è di forme solenni, di concetti già elaborati, di istituzioni aventi carat
tere religioso e morale, viene ad essere di origine patrizia ; mentre tutto ciò
, che trova origine nel semplice usus, nella semplice pos sessio, nel fatto più
che nel diritto , e non è avvolto ancora in forme solenni e tradizionali, deve
ritenersi piuttosto di origine plebea . La distanza stessa poi, a cui
trovavansi i due elementi, che dovevano entrare a far parte della medesima
città, obbliga il diritto quiritario a prendere le mosse nella propria
formazione dai concetti elemen tari della proprietà e della famiglia , che
erano i soli, che fossero comuni ai due ordini, per venire poi all'elaborazione
lenta e graduata di tutti gli altri istituti giuridici. Per tal modo nella formazione
del diritto pubblico e privato di Roma noi abbiamo un nucleo co piosissimo di
tradizioni, di concetti e di vocaboli, già preparati in un periodo anteriore,
che viene in certo modo a fondersi nel cro giuolo della comunanza civile e
politica , per guisa che, precipitando e cristallizzando lentamente e
gradatamente, finisce per dare origine ad un diritto, del quale si può dire con
ragione, che si è formato rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente .
Solo resta a spiegare , come in questa condizione di cose siasi de. terminata
la prima formazione del diritto quiritario nello stretto senso , che suol
essere attribuito a questo vocabolo. 196 CAPITOLO X. Le prime origini del Jus
Quiritium nei rapporti fra patriziato e plebe. 158. Non può certamente negarsi,
anche da uno schietto ammi ratore della logica, che ha governata la formazione
e lo svolgimento del diritto privato di Roma, che esso nei proprii esordii
presentasi con un carattere di rozzezza e di violenza , che desta
un'impressione sfavorevole e pressochè di ripugnanza, e spiega anche
l'affermazione di coloro, che ebbero a considerarlo , come l'opera esclusiva
della forza . Tale impressione è prodotta specialmente da certi vocaboli e
concetti, che occorrono nel primitivo jus quiritium : vocaboli, che portano con
sè l'impronta della forza e della violenza. Fra questi vocaboli non deve essere
annoverato quello di manus, che nel di ritto quiritario significò il potere
spettante al capo di famiglia sulle persone e sulle cose, che da esso
dipendono, in quanto che questo vocabolo se da una parte indica la forza e la
potenza , che si impone; dall'altra può anche significare la protezione e la
difesa, che la manus accorda a tutti coloro , che da essa dipendono. Si
aggiunge, che questo vocabolo di manus o qualche altro , che corrisponda al me
desimo, sembra essere stato adoperato nella stessa significazione dalle altre
stirpi di origine ariana (1). Sonvi invece nel primitivo ius quiritium altri
vocaboli, come quelli di mancipium , di nexum , di manus iniectio , che non
solo si ispirano al concetto della forza , (1) È abbastanza noto in proposito
che alla manus del capo di famiglia romano corrisponde anche nella sua
significazione materiale il mund ed il mundium del capo di famiglia germanico ;
il che però non toglie che i due istituti abbiano rice vuto un diverso
svolgimento presso i due popoli, sopratutto per ciò che si riferisce al potere
del padre sui figli . V. in proposito : VIOLLET, Histoire du droit français,
Paris, 1886, pag . 412, cogli autori citati a pag. 447. Del resto fra il
primitivo diritto romano e il primitivo diritto germanico vi hanno ben altre
istituzioni, che si corrispondono, e fra le altre potrebbesi forse fare un
interessante raffronto fra il ius applicationis dei Romani, e il comitatus e la
commendatio presso i popoli Germanici. 197 ma, applicandosi anche alle persone,
sembrano recare con sè l'idea di soggezione e di dipendenza di una persona da
un'altra. È quindi assai difficile a spiegarsi, come mai dal mos e dal fas
delle genti patrizie, e dall'usus, che veniva formandosi nel seno della plebe,
abbiano potuto scaturire concetti di questa natura , a cui manca non solo
quell’aureola religiosa , da cui sono circondate le istituzioni gentilizie, ma
perfino quel carattere di fiera indipendenza, che con traddistingue le
istituzioni primitive dei popoli italici. 159. Ritengo tuttavia , che questa
apparente contraddizione fra questi concetti del primitivo ius quiritium e gli
elementi, che avreb bero contribuito alla sua formazione, possa essere spiegata,
quando si ammetta la congettura, a cui ho accennato più sopra parlando
dell'actio sacramento e della manus iniectio , e sulla quale importa qui di
insistere più lungamente. La congettura sta in questo, che nelle istituzioni
del diritto quiritario vene hanno alcune, che si erano formate nei rapporti fra
i capi delle famiglie patrizie, e perciò nel seno stesso delle genti e delle
tribù; ma ve ne hanno eziandio delle altre, le quali dovettero invece formarsi
ed assumere un contenuto preciso nelle lotte e nei conflitti fra la classe dei
vincitori e quella dei vinti. Il ius quiritium primitivo non governo solo
rapporti fra capi di famiglia uguali fra di loro e appartenenti alla stessa
tribù ; ma dovette eziandio reggere i rapporti fra le genti organizzate nella
tribù e la moltitudine e la folla, per la maggior parte di origine servile, che
ancora circondava i primitivi stabilimenti patrizii. Quindi se era naturale,
che la prima parte del ius quiritium portasse le traccie della fiera
indipendenza di quei capi di famiglia, dei quali nemo servitutem servivit ; la
seconda invece doveva portare quelle della soggezione, a cui era ridotta la
classe inferiore. Non può cer . tamente presumersi, che questi due ordini di
persone potessero en trare in rapporti giuridici fra di loro , sopra un piede
di assoluta eguaglianza . Quindi mi sembra naturale, che il primitivo ius qui
ritium , a somiglianza del diritto feudale, che ebbe poi a formarsi in una
condizione di cose non dissimile da questa , debba in qualche parte portare le
traccie della superiorità, che si attribuivano i vincitori, i conquistatori, i
primi organizzatori di una convivenza sociale, e dell'abbiezione invece, a cui
erano ridotti i vinti, i con quistati e quelli, che, non essendo ancora
pervenuti ad una organize zazione sociale, abbisognavano perciò di protezione e
di difesa . 198 160. Questo è certo che anche più tardi noi troviamo una disu
guaglianza di condizione giuridica fra Roma e le popolazioni, da cui essa è
circondata ; come lo dimostra ancora l'accenno, che più tardi è fatto dalla
legislazione decemvirale dei forcti ac sanates, ai quali, secondo Festo ,
sarebbe stato accordato unicamente il ius nesi man cipiique. Da questo
peculiare rapporto giuridico , che intercede fra Roma e le popolazioni circostanti,
mi sembra di poter dedurre con fondamento, che quel nexum e quel mancipium ,
che poscia vennero a significare dei rapporti privati fra i cittadini, abbiano
potuto un tempo indicare dei rapporti, che correvano fra le genti patrizie e le
popolazioni di diritto inferiore e pressochè vassalle , che abitavano nel
territorio circostante a Roma. Che anzi qui mi pare opportuno di dare
svolgimento ad un concetto , che fino ad ora potè solo essere accennato, ma non
svolto . Il medesimo consiste in ritenere , che la condizione primitiva della
plebe, di fronte alla città patrizia , dovette essere analoga a quella , in cui
ci vengono descritti posteriormente i forcti ac sanates, in base alla
legislazione decem virale . È un magistero eminentemente romano quello di
seguire sempre il medesimo processo, allorchè si avverano le stesse condizioni
di fatto. Ora non è dubbio, che la plebe in Roma primitiva era costituita da
popolazioni circostanti, superiori ed inferiori a Roma, in condi zioni quasi
del tutto simili a quelle, in cui Festo ci descrive essersi poscia trovati i
forcti ac sanates . È quindi naturale e del tutto pro babile, che Roma abbia
fatto dapprincipio alle popolazioni, che lo erano più vicine, e che
costituivano così la prima plebe, la posizione stessa, che fece poi ai forcti
ac sanates ; che cioè abbia loro rico nosciuto dapprima il ius nexi
mancipiique, il diritto cioè di obbli garsi, di acquistare e di trasferire la
proprietà nei modi riconosciuti dal suo stesso diritto . Ciò era necessità ,
perchè fossero possibili i commercii fra patriziato e plebe ; e intanto spiega
eziandio , come i primi concetti, che compariscano nel diritto quiritario,
comune ai due ordini, siano appunto quelli del nexum e delmancipium , i quali
perciò , al pari di quello del commercium , al quale corrispondono, si svolsero
dapprima fra popolazioni diverse, e poi furono portati nei rap porti interni
fra i membri di una stessa città. Roma patrizia insomma avrebbe in questa parte
usato il più semplice dei processi. Dapprima avrebbe considerata la plebe come
una popolazione circostante alla città , con cui non poteva a meno di essere in
commercio, e perciò avrebbe accordato alla medesima quel ius nexi mancipiique,
che anche più tardi continuò ad accordare ai forcti ac sanates. Quando 199 -
poi la plebe fu anch'essa incorporata nella città, e coll'ampliamento delle
mura serviane una parte delle abitazioni dei plebei si trovò entro il recinto
dell'urbs, quel diritto , che prima governava i rap porti, che intercedevano
fra due popolazioni distinte, continud natu ralmente a governare i rapporti dei
due ordini, in quanto essi fa cevano parte della stessa comunanza; quello , che
era dapprima un diritto esterno, divento diritto interno, e fu il punto di
partenza dello svolgimento del ius quiritium . Certo questa non è che una
congettura fondata sul processo solitamente seguito dai Romani; ma fornisce una
spiegazione così naturale delle cose, e così conforme al metodo romano, che non
mi sembra temerità di aggiungerla alle altre, che già si escogitarono al
riguardo. Intanto , come ho già altrove avvertito (1), viene eziandio a
comprendersi il motivo, per cui questa speciale posizione giuridica dei forcti
ac sanates, poscia sia scomparsa per guisa da non sapersi più comprendere il
signifi cato della medesima, poichè col tempo anch'essi entrarono a far parte
della plebe romana, e quindi mancò ogni ragione per serbare loro questa
peculiare condizione giuridica. & neaco (1) V. sopra Cap. VIII, n . 138-39,
pag. 170-171. Il solo passo, che a noi pervenne intorno ai forcti ac sanates, è
di Festo , ed il medesimo è ancora in tale stato, che fu assaidifficile la
ricostruzione di esso. L'OFFMANN, Das Gesetz d . XII Tafeln von den Forcten und
Sanaten . Vienna, 1866, ritiene che il passo delle XII Tavole , a cui Festo
accenna , vº Sanates (Bruns, Fontes, pag . 664), fosse così concepito :
mancipatoque ac forcti sanatique idem iuris esto » . Questa lezione stata
adottata dal LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag . 171, fu respinta dal
MOMMSEN, sulla conside razione che qui trattavasi di determinare la condizione
dei forcti ac sanates in sè considerati, e non di metterli a comparazione coi
nexi ac mancipati, dei quali non si saprebbe poi dire , quale potesse essere la
speciale posizione giuridica . Il Voigt, Die XII Tafeln, I,pag. 273 e 733 ,
Tab. XI,6 , ricostruirebbe invece la legge in questa guisa : e nexum
mancipiumque, idem quod Quiritium , forcti sanatisque supra infra que urbem
esto »; ma non pare che sia nell' indole della legge decemvirale di en trare in
particolari così minuti. Parmi quindi di adottare piuttosto il testo della
legge, quale sarebbe accettato dal MOMMSEN ; ~ Nexi mancipiique forcti
sanatesque idem iuris esto » ; il che significherebbe in sostanza ciò, che pure
dice il Voigt, che cioè i forcti ac sanates possono obbligarsi e trasferire il
proprio mancipium nel modo riconosciuto dal diritto quiritario, cosicchè
verrebbe ad essere probabile, che la loro posizione fosse precisamente quella
della plebs, allorchè era già ammessa in questi confini al commercium ,ma non
aveva ancora il connubium . Quanto alle varie lezioni proposte è da vedersi il
Mommsen nella nota al Bruns , Fontes , pag. 365 ; ed anche il MUIRHEAD, Histor.
Introd ., pag. 111, nota 12, ove proporrebbe la se guente ricostruzione: « nexum
mancipiumque forcti sanatisque idem esto » ; pure avrebbe la medesima
significazione. Non conosco però che altri abbia cercato di . la quale 200 161.
Del resto , checchè si possa dire di questa induzione, questo deve certo essere
ammesso, che il ius quiritium , il quale, sebbene comparisca con Roma, pud
tuttavia avere le sue radici, in epoca di gran lunga anteriore, almeno in parte
si formò in un periodo di lotta e di violenza fra gruppi e ceti di persone, che
si trovavano in condi zione affatto diversa , in quanto che alcuni di tali
gruppi e ceti già erano pervenuti alla formazione di consorzii civili ed umani:
mentre gli altri ancora vivevano in uno stato di promiscuità e confusione, che
le genti patrizie riputavano nefario. Non può quindi essere mera viglia , se
alcuni dei resti, che giunsero fino a noi, portino ancora i segnidelle lotte e
dei conflitti, che vi furono fra vincitori e vinti, non che della soggezione e
della dipendenza , in cui erano le classi inferiori. Al modo stesso , che i
ruderi delle costruzioni primitive di mostrano, colla rozzezza e coll'enormità
delle loro proporzioni, quali edifizii in quell'epoca fossero necessarii per
ripararsi contro i cataclismi del suolo : così i resti, che ancora ci rimangono
del primitivo ius qui ritium , in questi vocaboli, che sono sopravvissuti ai
tempi, in cui si sono formati, dimostrano quali specie di vincoli si potessero
richiedere per richiamare da una condizione pressochè nefaria , per usare l’es
pressione del Vico , le moltitudini e le folle ad celebrandam suam socialem
naturam . Gli uomini in questa epoca dovettero sentire l'impotenza loro di
fronte ai terrori della sconvolta natura, ai pe ricoli delle fiere, e agli
scontri continui con genti di origine stra niera, e quindi non poterono
preoccuparsi tanto della loro libertà , quanto sentire il bisogno di ripararsi
sotto la protezione di quelle genti, che prime erano riuscite ad organizzarsi e
a fortificarsi sotto il potere dei loro capi. Cid spiega come l'antico vocabolo
di « iobi lare » abbia potuto significare il gridare salvezza per l'aperta
campagna e come i deboli fossero nella necessità di fare appello alla fede ed
alla protezione dei forti, e disposti ad accettare la posizione portata dal
mancipium e dal nexum , pur di averne la protezione e la difesa. Non era perciò
un diritto mite ed umano e pieno di grada zioni delicate e sottili , che poteva
nascere in questi inizii dell'organiz zazione sociale, sopratutto nei rapporti
fra classi, di cui una era su periore e l'altra inferiore ; ma bensi un diritto
rozzo e violento , che risentisse in certo modo della lotta , da cui esso
usciva, e che da una inferire da questa disposizione la condizione giuridica
primitiva , in cui si trovò la plebe di fronte alla città patrizia. - 201 parte
avesse l'impronta della superiorità dei vincitori e dei forti e dall'altra
dell'abbiezione, a cui erano ridotti i vinti ed i deboli (1). 162. Si comprende
quindi come in questo periodo , la manus, armata di lancia , pronta da una
parte ad atterrare il nemico, a seguirlo fuggi tivo e a farlo prigioniero di
guerra , e dall'altra disposta a difendere tutti i proprii dipendenti, potesse
presentarsi come l'espressione più , naturale e più energica ad un tempo per
significare il potere giu . ridico, che spetta al capo di una famiglia sopra
tutte le persone, che da lui dipendono, e per significare eziandio l'unità
della famiglia nei rapporti esteriori. Genti come le italiche, le quali,
secondo l'at testazione di Servio, avevano nella loro ingenua personificazione
di tutte le energie proprie dell'uomo dedicato ad un nume le varie parti del
corpo, cioè l'orecchia alla memoria, la fronte all'ingegno , la destra alla
fede, le ginocchia alla pietà e alla misericordia, perchè abbracciano le
ginocchia coloro che implorano , non avevano che ad applicare il medesimo
processo per dedicare la manus ad espri mere il potere unificatore della
famiglia (2). Non era forse la manus che atterrava il nemico e lo faceva
prigioniero di guerra e che intanto proteggeva moglie , figli, clienti e servi?
Non era essa , che riuniva e stringeva la famiglia nella sua compagine interna,
e che serviva a renderla forte e compatta contro le aggressioni esterne ?
Intanto però è evidente, che la manus, intesa in questo significato , poteva
solo spettare a quei capi di famiglia, che avevano serbata intatta la loro
autorità di diritto, perchè non erano mai stati sotto ( 1) Buona parte di
questi concetti trovasi accennata qua e là dal Vico ; na è avvolta in una forma
fantastica , proveniente dall'idea preconcetta di voler conside rare i Romani
come i rappresentanti di quell' epoca eroica , che, secondo le sue teorie,
avrebbe susseguito quei tempi,che egli chiama divini, e preceduto quelli, che
egli chiama umani; idea , che finì per condurlo a considerare come una leggenda
tutta la storia primitiva di Roma, fino alla prima guerra Cartaginese. Ciò però
non impedisce che le sue divinazioni, anche non essendo vere, se applicate a
Roma sto rica, possano contenere del vero, se riportate all'epoca veramente
patriarcale ed eroica, che avrebbe preceduta la fondazione di Roma. In
proposito è da vedersi il MORIANI, La filosofia del diritto nel pensiero dei
Giureconsulti romani, Firenze, 1856 , pag. 14 e segg., ove parla dell'origine
del diritto e dell'etimologia del vocabolo ius. (2) Servius, In Aen., 3, 607 :
« Phisici dicunt esse consecratas singulis numinibus singulas corporis partes :
ut aurem Memoriae, frontem Genio, dexteram Fidei, genda Misericordiae , unde
haec tangunt rogantes. Iure pontificali , si quis flamini genua fuisset amplexus,
eum verberari non licebat » . 202 posti a servitù, e primi erano pervenuti a
fondare una vera organiz zazione sociale. Il concetto quindi di manus, in
quanto è l'unificatore della famiglia e dà alla medesima la compattezza
necessaria per re spingere ogni aggressione , dovette prima formarsi nei
rapporti fra le famiglie, le genti e le classi diverse, che non nei rapporti
interni della famiglia ; perchè la causa , che determino questo irrigidirsi
della famiglia , non fu interiore alla medesima, ma bensì esterna , ossia la
necessità di provvedere alla lotta per l'esistenza . Dal momento per tanto, che
il concetto di manus ha un'origine, che potrebbe chia marsi pressochè esteriore
ed internazionale, ne consegue eziandio, che nel conflitto delle genti il concetto
della manus, in quanto indica un potere, che non ebbe giammai a soccombere
sotto la schiavitù, non potè essere applicato che ai capi delle famiglie
patrizie, e non già alla folla e alla moltitudine, di cui erano circondati gli
stabili menti dei padri. Si comprende pertanto, come nel diritto quiritario
primitivo continuamente comparisca la manus, la quale è quella , che lotta
nella manuum consertio ; che rivendica nella vindicatio ; che trascina il
debitore nella manus iniectio ; che distendendosi lascia in libertà lo schiavo
(manu emittit) ; che obbliga la propria fede nella dextrarum iunctio; e da
ultimo è anche quella, che afferrando il vinto, lo trasmuta in mancipium . Essa
quindi non ha soltanto una significazione relativa alla costituzione interna
della famiglia, ma dap prima ha sopratutto una significazione, quanto ai
rapporti esteriori in cui la famiglia può trovarsi, essendo la manus, che la
rende unita e compatta nel respingere ogni aggressione. Sarà solo più tardi,
che essa verrà a significare il complesso dei poteri giuridici, che ap
partengono ai quiriti, in quanto essi costituiscono una specie di ari stocrazia
fra la moltitudine e la folla , da cui sono circondati. Però almodo stesso ,
che la manus in questa significazione è già il frutto di una specie di
astrazione, cosi deve pur dirsi del concetto del qui rite . Senza entrare
nell'etimologia della parola e senza discutere se la medesima venga da quiris
lancia, o da curia , come vorrebbe il Lange; questo è certo che in ogni caso il
vocabolo di quiriti non significa i membri delle genti patrizie individualmente
considerati; ma li indica in quanto appartengono ad uno stesso populus, che ora
ra dunasi nelle curie , ed ora costituisce un esercito . Come tali i qui riti
trovansi in una posizione privilegiata e quindi sono essi sol tanto, a cui
appartiene la manus, come simbolo del diritto quiritario; sono essi soli, che
abbiano le iustae nuptiae ; che sappiano consul 203 tare gli Dei cogli auspizii
; e che partecipino direttamente al bene fizio delle istituzioni proprie della
città (1) . 163. Malgrado di ciò è improbabile, che nel periodo anteriore alla
fondazione della città , e in quello della città esclusivamente patrizia non
intercedano dei rapporti fra la classe dominante e quelle inferiori, da cui
essa è circondata . Sarebbe tuttavia a meravigliarsi, se in questi rapporti
essi si trattassero alla pari, e se le istituzioni, che dovettero nascere in
questa condizione di cose, non portassero le traccie della disuguaglianza di
condizione, in cui si trovavano le due classi . Il plebeo , che non ha una
posizione giuridica , e che quindi non può offrire garanzia di sorta al
patrizio , quando voglia entrare in rapporto con esso , non può avere altro
mezzo che quello di darsi a mancipio o divincolarsi col nexum , per guisa che,
se esso non paghi, possa essere ridotto alla condizione di mancipio ,
assoggettandosi cosi alla manus iniectio. Di qui la conseguenza , che i
durissimi concetti del mancipium , del nexum , della manus iniectio, prima di
diventare istituti proprii del diritto quiritario , in cui presero poi una
significazione speciale, dovettero significare dei rapporti, che si stabilirono
fra patriziato e plebe, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza
; il che spiega appunto quel carat tere di soggezione e di dipendenza di una
persona ad un'altra, che è loro inerente . Che anzi, siccome le origini di
certi concetti primitivi debbono talora cercarsi in un periodo anteriore a
quello , in cui essi appari scono e cominciano a prendere una forma determinata
e precisa , cosi anche questa significazione dei vocaboli di mancipium , di
nexum , di manus iniectio non è ancora quella assolutamente pri mitiva ; ma
conviene cercarne le origini nelle lotte, che dovettero esistere in epoca più
remota fra i vincitori ed i vinti, fra i con quistatori ed i conquistati. In
questa indagine non può esservi altra luce fuori di quella, che viene dalla
significazione diversa, che as sunsero i vocaboli, di cui si tratta . 164.
Nella povertà del linguaggio giuridico primitivo il vocabolo mancipium ebbe ad
assumere significazioni molto diverse , che però riduconsi a due essenziali ; a
quelle cioè per cui significa : - o ciò (1) LANGE, Hist. inter. de Rome, I,
pag. 29. 204 che è soggetto al potere del capo di famiglia – o il modo per
trasfe rirlo di una ad altra persona. Nel primo significato mancipium in dica
anzitutto il prigioniero di guerra, stato ridotto in schiavitù ; poi indica
eziandio tutto cid , che può essere preso e assogettato colla manus : quidquid manu
capi subdique potest,uthomo, equus, ovis ; infine indica eziandio, allorchè il
diritto quiritario è già formato, il complesso delle persone e delle cose, che
dipendono dalla manus del capo di famiglia. Questa serie di significazioni, che
si vengono sempre più estendendo, contengono in compendio la storia
dell'istituzione. Non può esservi dubbio, che il primo mancipium dovette essere
lo schiavo ed il vocabolo era anche acconcio ad esprimerlo , in quanto che
questo era stato veramente manu captum e poi ridotto in schia vitù ; poscia
l'analogia lo fece estendere eziandio alle cose e persone, che erano
assoggettate in modo analogo al potere della persona, quali erano i cavalli e i
buoi, allorchè domati cominciavano a dipendere dalla mano dell'uomo; infine, quando
la manus prese la significazione traslata , per cui essa designa il potere del
capo di famiglia , tanto le persone, che le cose soggette al medesimo, poterono
essere indi cate col vocabolo di mancipium . Giunge però tempo, in cui questo
vocabolo sembra per la sua stessa origine essere disadatto a signi ficare tanto
le persone, che le cose soggette al capo di famiglia, ed in allora esso
scompare in questa significazione, ma continua ancora sempre a mantenersi nella
sua significazione primitiva, che era la vera ; come lo dimostrano le
disposizionidell'editto degli edili curuli col titolo de mancipiis vendundis,
ove il vocabolo continua sempre a significare lo schiavo ( 1 ). (1 ) Quanto al
tenore dell'Editto curule vedi Bruns, Fontes , pag. 214. Non potrei ciò stante
ammettere la significazione, che il MUIRHEAD ebbe di recente a proporre per i
vocaboli di mancipium e di mancipatio , colla quale egli direbbe , che
mancipium significa eziandio il potere, ossia la padronanza del manceps, e che
perciò debba ritenersi come sinonimo di manus; donde egli deriva, che mancipare
non deriverebbe da manu capere, ma piuttosto da manum capere (Histor . Introd
., pag.61). Oltrecchè questa etimologia non servirebbe veramente a spiegar
meglio la significazione primitiva del vocabolo ; parmi eziandio che
contraddica all'uso, che i giureconsulti fecero di questo vocabolo, attribuendo
costantemente al medesimo una significazione passiva , la quale indica
piuttosto la soggezione di una persona o di una cosa , che non il potere che
appartiene sulla persona o cosa soggetta. Noi ve diamo infatti, che mentre
occorrono talvolta le espressioni di habere manum , habere potestatem , habere
dominium , i giureconsulti invece non direbbero mai habere man cipium nel senso
di significare un potere, che spetti ad una persona,al modo stesso - 205 Se non
che il vocabolo mancipium non significa soltanto ciò , che è soggetto al capo
di famiglia , ma indica eziandio il trasferimento , di cui possono essere
oggetto le cose , che entrano a costituirlo . Ciò è dimostrato dall'espressione
vigorosa della legislazione decemvirale, nella quale si dice facere mancipium ,
facere nexum , al modo stesso, che direbbesi facere testamentum . Or bene non
vi ha dubbio , che anche il facere mancipium deve avere subito delle trasforma
zioni profonde nel proprio significato . Facere mancipium infatti dovette negli
inizii indicare il darsi o il prendere a mancipio, la dedizione del vinto o la
presa del vincitore, per cui quello viene in tutto ad essere a disposizione di
questo. Ciò è dimostrato da questo che i servi, che erano chiamati mancipia ex
eo , quod ab hostibus manu capiuntur, sono anche chiamati servi dediticii, in
quanto che essi provenivano da una specie di resa o di dedizione del vinto al
vin citore (1). Cid però non tolse , che il concetto del facere mancipium si
applicasse eziandio a persone libere, che potevano dare se stesse a mancipio ,
od anche a persone, che dipendevano da esse , come accadeva nella noxae deditio
. Che anzi è molto probabile , che nel periodo, in cui i plebei non erano
ammessi a far parte della citta dinanza, il solo mezzo, che essi avessero per
trovare protezione e difesa, fosse quello di darsi a mancipio . Infine,
allorchè il mancipium prese quella significazione, eminentemente giuridica, per
cui significa il complesso delle persone e delle cose, soggette al capo di
famiglia , anche il facere mancipium ricevette una larghissima applicazione,
per modo che la mancipatio verrà ad essere come il perno, sovra cui si
modellano tutti gli atti, che modificano in qualche modo il potere del capo di
famiglia (2 ). che non adoperano mai il vocabolo di nexus per indicare il
creditore, ma sempre per designare il debitore. Convien quindi dire, che
mancipium significò sempre la cosa soggetta o la trasmissione della medesima,
ed è anche questo il significato , che ha sempre conservato dipoi, allorquando
accade ancora di usare il vocabolo di mancipio. A ciò si può anche aggiungere,
che il vocabolo di capio nella sua significazione giuridica suole sempre essere
accompagnato dall'ablativo, come accade nell'usucapio , nell'usureceptio e
simili. (1) A questo proposito è notabile il seguente passo di Festo, Vº Quot.:
Quot servi tot hostes in proverbio est, de quo Sinnius Capito existimat esse
dictum initio quot hostes tot servi» quod tot captivi fere ad servitutem
adducebantur » , BRUNS, Fontes, pag. 359. (2) Per la larghissima esplicazione
della mancipatio nel diritto quiritario è da vedersi il Longo, La mancipatio,
parte 14, Firenze, 1886. 206 165. Passando ora alla manus iniectio , noi
riscontriamo nella medesima un processo del tutto analogo. Non può esservi
dubbio che essa dovette essere dapprima il modo effettivo , con cui il vinci
tore afferrava il vinto , in base al diritto di guerra e lo riduceva in schiavitù
. Il suo concetto quindi nacque anch'esso nella lotta e nella violenza ; ma
poscia dai rapporti fra vincitori e vinti fu tra sportato anche fra le persone,
che appartenevano alla stessa co munanza e significò l'esercizio privato delle
proprie ragioni, come lo dimostra la seguente deffinizione di Servio : manus
iniectio di citur, quotiens, nulla iudicis auctoritate expectata , rem nobis de
bitam vindicamus. Pare però, che quest'esercizio privato delle proprie ragioni,
che non si può conciliare coll'esistenza della pubblica autorità , non fosse
riconosciuto dal diritto quiritario, che in alcuni casi soltanto . Infatti nel
diritto quiritario noi troviamo la manus iniectio in due significazioni. Essa è
il modo per trascinare avanti al magistrato colui che invitato a venirvi siasi
rifiutato ; ma in ciò non havvi ancora un esercizio privato delle proprie
ragioni, bensì un mezzo per ottenere la presenza del convenuto avanti al
magistrato . La manus iniectio poi, nella legislazione decemvirale, è anche un
mezzo di esecuzione contro il proprio debitore ; ma in questo senso è solo
ammessa in alcuni casi, cioè : contro coloro che o abbiano confes sato il
proprio debito (aeris confessi) ; contro coloro che siano stati condannati
(iudicati); o infine contro coloro, che si siano ob bligati mediante il nexum
(nexi). Ora di queste varie applicazioni del diritto di esecuzione privata
contro il debitore, quella, che ri guarda gli aeris confessi ed i iudicati,
suppone già un intervento dell'autorità giudiziaria ; mentre quella, che
riguarda il nexum , ri monta certamente ad epoca anteriore alla formazione
della comu nanza , il che fa credere che la manus iniectio nelle proprie
origini abbia avuto una stretta attinenza col nexum (1). Cid miporge quindi
occasione di discorrere brevemente di esso e di dimostrare, che anche
l'istituto del nexum è una di quelle istituzioni primitive, che trovo solo
applicazione nei rapporti fra il patriziato e la plebe, e che poi entró a far
parte del diritto quiritario. 166. Il nexum è certo uno degli istituti, che
diffonde una triste aureola sul diritto primitivo di Roma. La sua origine è
ignota ; ma (1) V.sopra , Cap. VI, § 3, n . 105-6, pag. 135 e seg . - 207 si
può affermare con certezza , che essa rimonta ad epoca anteriore alla
formazione della comunanza romana: poichè la tradizione già attribuisce a
Servio Tullio dei provvedimenti diretti a limitare gli effetti, che derivavano
da esso . Lo stesso è a dirsi della legislazione decemvirale, che lo suppone
già esistente e si limita a trattenere in certi confini i maltrattamenti contro
il debitore. Fu poi notato a ragione dal Niebhur, che il nexum con tutti i
tristi suoi effetti apparisce soltanto nei rapporti fra il patriziato e la
plebe; per guisa che la sua abolizione si riduce ad una specie di questione
sociale fra le due classi; come è anche dimostrato da ciò , che Livio consi
derd l'abolizione di esso come una vittoria della plebe sopra il pa triziato .
Vero è, che questo fatto può anche essere spiegato con dire che solo il
patriziato era in condizione di fare degli imprestiti alla plebe , e che perciò
esso solo aveva interesse al mantenimento di questo « ingens vinculum fidei » ;
ma parmiche il carattere vero di questa istituzione possa essere più facilmente
spiegato , quando si cer chino le cause , che vi hanno dato origine. Il nexum
dovette essere un modo di obbligarsi di colui, che , non avendo altre garanzie
da offrire al proprio creditore, obbligava direttamente la propria persona. Ora
è questa appunto la condizione, in cui si trovò il plebeo di fronte al patrizio
, anteriormente alla formazionedella comunanza romana, allorchè, sprovvisto di
qualsiasi diritto , non aveva altro mezzo , per trovare protezione o credito ,
che o di dare a mancipio se o la fa miglia , o di vincolarsi col nexum . Quello
era una specie di dedizione di se stesso e questa era una specie di ipoteca,
che egli consentiva sulla propria persona . Siccome poi, come si vedrà a suo
tempo e come del resto fu già ritenuto dal Niebuhr, il nexum non obbligava che
la persona, e non attribuiva qualsiasi diritto sui beni di esso ; cosi in parte
si comprende che il diritto del creditore sul debitore , sia stato spinto a
quelle estreme esagerazioni, che a noi riescono pressochè inesplicabili ( 1).
167. Quanto al vocabolo poi non può esservi dubbio , che esso ebbe ad assumere
significazioni molto diverse. ( 1) Liv. VIII, 28 , in princ.: « Eo anno plebi
romanae velut aliud initium liber tatis factum est, quod necti desierunt » ; e
più sotto : « victum eo die ingens vin culum fidei. Cfr. Niebhur, Hist. Rom .,
III, pag. 375. Della portata e degli effetti del nexum , come pure del
mancipium , si discorrerà più sotto; poichè qui importava solo di cercare
l'origine dei vocaboli e dei concetti coi medesimi significati. 208 Anche qui è
probabile , che il nexum nella sua primitiva signifi cazione indicasse
veramente i vincoli, a cui sottoponevasi lo schiavo fuggitivo ; ma che poscia
dalla significazione letterale siasi fatto pas saggio alla significazione
giuridica . Tuttavia rimangono ancor sempre le traccie delle due
significazioni, in quanto che gli storici chiamano col vocabolo di nexi, ora
quelli che si trovano già condotti nel car cere privato del debitore, ed ora
invece i debitori, che si sono ob bligati colle forme solenni del nexum . Del resto
anche questo vo cabolo, al pari di quello dimancipium , significa non solo il
vincolo fisico o giuridico, a cui altri si sottopone, ma eziandio l'atto con
cui egli contrae il vincolo stesso (nexum facere). La conclusione intanto viene
ad essere cotesta, che tutti questi istituti più rozzi, che appariscono nel
primitivo ius quiritium , dovet tero aver avuto origine nei rapporti fra i
vincitori e i vinti, i quali trasformati in varia guisa furono poi estesi anche
ai rapporti fra il patriziato e la plebe. Sarebbe insomma anche qui accaduto
cið, che pure accadde delle altre istituzioni del diritto quiritario , che esse
si svolsero dapprima fra le varie genti o almeno fra i diversi capi di gruppo e
furono poiapplicate nei rapporti dei quiriti fra di loro . Al modo istesso ,
che i concetti di connubium , di commercium e dell'actio sacramento si
spiegarono dapprima fra le varie genti ed i loro capi, e solo più tardi si
svilupparono nel diritto quiritario ; così i concetti del mancipium , del nexum
, e della manus iniectio , dopo essersi formati fra la classe dei vincitori e
quella dei vinti, ed essersi poi applicati ai rapporti fra il patriziato e la
plebe, si tra sformarono in istituzioni proprie del diritto quiritario . Di qui
il carattere di rozzezza, di violenza, inerente ai medesimi, che rese
necessaria la loro trasformazione ed anche il cambiamento dei vo caboli, con
cui furono indicati, a misura, che vennero sempre più pareggiandosi le due
classi, dopo che entrarono a far parte della stessa comunanza civile e
politica. 168. Che se, riassumendo, si volesse ora dare uno sguardo sinte tico
a quelle istituzioni esistenti fra le genti italiche, anteriormente alla
fondazione della città , che si vennero ricostruendo a poco a poco , noi
possiamo scorgere fin d'ora, che già si erano poste le basi fondamentali del
diritto pubblico, privato ed internazionale, che ebbe poi a svolgersi in Roma.
Quanto al diritto pubblico infatti, già erasi elaborato il concetto del potere
monarchico, di cui avevasi il modello nel capo di famiglia ; - 209 quello di un
elemento aristocratico , che era rappresentato dal con siglio degli anziani,
proprio della gente; e quello infine di un ele mento popolare e democratico, il
quale già aveva cominciato a svolgersi nelle tribù e a presentare quel dualismo
fra patriziato e plebe, che doveva poi ricevere nella città tutto lo
svolgimento , di cui poteva essere capace. Furono questi elementi che,
accomodati alle esigenze della vita civile e politica, servirono di base alla
co stituzione primitiva di Roma e condussero naturalmente allo svolgi mento dei
poteri, che furono attribuiti al re , al senato ed al popolo. 169. Così pure
quanto al diritto privato, già erano in pronto gli elementi diversi, i
quali,amalgamandosi insieme, dovevano porre le basi del diritto civile di Roma.
Eravi infatti un diritto proprio delle genti patrizie, che, appoggiandosi da
una parte sull'elemento religioso del fas e dall'altra sopra l'elemento morale
del mos, già aveva dato origine ai concetti fondamentali del connubium , del
commercium e dell'actio sacramento , ed aveva elaborato tutte quelle forme
tradizionali e solenni, in cui si fecero entrare a poco a poco i nuovi rapporti
giu ridici, ai quali diede occasione il formarsi e lo svolgersi della convi
venza civile e politica . Esisteva parimenti, ancorchè solo in via di
formazione, un diritto proprio della comunanza plebea , fondato so pratutto
sull'usus auctoritas, il quale, per essere più semplice nella sua forma, più
alieno dalle solennità , più libero da ogni influenza del passato poteva meglio
adattarsi alle esigenze della vita civile e po litica . Da ultimo già
cominciava ad elaborarsi un diritto , che non poteva dirsi proprio, nè del
patriziato, nè della plebe, mache ten deva a racchiudere in forme rozze e
primitive i rapporti, che inter cedevano fra di essi. Questo diritto era tutto
uscito dal concetto fondamentale della manus, in quanto esprime il potere del
capo di famiglia patrizio , ed aveva dato origine ai concetti del mancipium ,
del nexum e della manus iniectio, i quali, debitamente trasformati, si dovranno
poi convertire in altrettanti concetti fondamentali del diritto quiritario . È
quest'ultimo elemento, che attribuisce al ius qui ritium quel carattere di
rozzezza e di forza, che lo contraddistingue. Tuttavia fu esso che, isolando
l'elemento giuridico dall'elemento re ligioso e dal morale, con cui prima
trovavasi confuso , viene a for mare il primo nucleo di quel ius quiritium il
quale , assimilando col tempo istituzioni patrizie e costumanze plebee , finirà
per conver tirsi in un ius civile, che poteva convenire alle due classi, che
erano chiamate a far parte della stessa comunanza civile e politica . G. CARLE,
Le origini del diritto di Roma. 14 210 170. De ultimo, anche per quello che si
riferisce a quei rapporti, che con vocabolo moderno si potrebbero chiamare
internazionali, già erausi poste le basi di un ius belli ac pacis, e si erano
elabo rati i concetti dell'amicitia, dell'hospitium ,della societas, e del più
importante fra tutti , che era quello del foedus, il quale poi doveva
somministrare il mezzo per far partecipare più tribù alla stessa vita politica
, militare e giuridica, e per dare cosi origine alla città . Questa parimenti,
traendo profitto dagli istituti della cooptatio, della co lonia , della concessio
civitatis sine suffragio , del municipium , pos sedeva anche i mezzi per
accrescere la sua popolazione e per esten dere il proprio impero . I materiali
quindi erano in pronto : solo rimane a vedersi il pro cesso , col quale Roma,
gittandoli tutti nello stesso crogiuolo, abbia saputo scegliere ciò , che in
essi eravi di vigoroso e di vitale , e sia così riuscita a ricavarne lentamente
e gradatamente la propria co stituzione politica, e quel diritto privato, il
quale svolgendosi sempre sul medesimo modello e sempre arricchendosi di nuovi
elementi, finirà per diventare tale da poter essere accettato da tutte le
genti. Intanto una delle cause, che condurrà a questo risultato , sarà la
distanza stessa , a cui trovansi i due ordini, che debbono insieme con tribuire
alla formazione della città . Sarà tale distanza infatti, che forzerá la
costituzione di Roma a percorrere tutte le gradazioni, di cui possa essere
capace, e che obbligherà il diritto privato di Roma a riconoscere la capacità
di diritto ad ogni uomo, purchè libero . Per tal guisa tutte le gradazioni del
senso giuridico , dalle più semplici e naturali alle più sottili e raffinate,
cadranno sotto l'elabo razione dei giureconsulti, e l'universalità del diritto
romano dovrà sopratutto essere attribuita a ciò, che esso è la più completa e
pre cisa espressione di un complesso di sentimenti eminentemente sociali ed
umani, che nacquero e si svolsero insieme colla convivenza ci vile e politica.
- 1 LIBRO II. Roma e le sue istituzioni nel periodo esclusivamente patrizio
("). CAPITOLO I. Genesi e carattere della città primitiva. 171. Nella
storia non vi ha forse avvenimento , il quale abbia eser citata maggiore
influenza sulle sorti dell'umanità che il passaggio dall'organizzazione
gentilizia alla comunanza civile e politica . Sotto quest'aspetto non sarà mai
abbastanza approfondita la storia pri mitiva di Roma, perchè non vi ha
certamente altro popolo , che abbia più vivamente sentito, e quindi più
profondamente scolpito nelle proprie istituzioni questa importantissima
trasformazione, che (* ) Pervenuto a questo punto della trattazione, trovomidi
fronte ad una lettera tura così copiosa , che mi sarebbe impossibile di poter
indicare la bibliografia , che può riferirsi ad ogni singolo argomento. Siccome
quindi l'intento del libro è quello unicamente di tentare una ricostruzione
delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma primitiva ; così mi limitero
ad indicare in nota gli autori, di cui prendo in esame le opinioni, e i passi
di antichi scrittori, sui quali si fonda l'opinione da me sostenuta, e non mi
fard anche scrupolo di citare una traduzione, quando non tenga l'originale,
sopratutto di autori tedeschi. Quanto alla bibliografia , essa potrà essere
facilmente trovata nei recenti trattati di storia del diritto romano, o di
introduzione storica allo studio del diritto romano, quali sono in Francia
quelli dell' ORTOLAN, del Bouché -LECLERCQ, del Maynz, del MISPOULET, del
Roblou et Delaunay, del MORLot, ecc.; nel Belgio quelli del Maynz, del Rivier,
del WILLEMS, ecc.; in Ger mania quelli del Bruns, del BARON, del KARLOWA, del
Voigt, dell'HERZOG , ecc.; in Inghilterra quelli del MUIR EAD e del Roby; e
nella nostra Italia quelli del PA DELLETTI-Cogliolo, e del LANDUCCI, ecc.;
trattati, che ho citato già , o che mi occor rerà di citare in seguito. Mi
perdoni il lettore: ma la sola bibliografia, fatta un po ' a dovere , mi
avrebbe assorbito il volume. 212 accadde nell'organizzazione sociale . A ciò si
aggiunge , che lo spirito conservatore del popolo Romano ha fatto si , che esso
, modellando e svolgendo la città primitiva, abbia sempre conservato le traccie
delle istituzioni preesistenti, e dei periodi diversi, per cui passò la nuova
formazione. Di qui la conseguenza , che quando si riesca a penetrare il
processo logico , stato seguito dai Romani nella fondazione della loro città,
si potranno determinare con rigore geometrico non solo l'orientamento materiale
di essa, e il modo , con cui furono costrutte le sue mura ; ma eziandio la
serie di quei concetti fondamentali, che , preparati in un periodo anteriore,
ricevettero poi nella città tutto lo sviluppo, di cui potevano essere capaci.
Già si è veduto , come nella organizzazione gentilizia siasi svolta la famiglia
colla sua distinzione fra i padroni ed i servi, la gente con quella fra patroni
e clienti, e infine la tribù con quella fra patrizii e plebei. È da questo
punto dell'evoluzione sociale e da questo dualismo costante, che incomincia la
formazione della città . Trattasi pertanto di vedere in qual modo, con questi elementi,
che si erano naturalmente formati e sovrapposti gli uni agli altri, abbia
potuto essere iniziata la convivenza civile e politica. Fu questa una
continuazione del medesimo processo formativo dell'organizzazione gentilizia ,
o fu invece il risultato di qualche nuova energia o forza operosa , che si
introdusse nell'organizzazione sociale ? 172. Le teorie, che furono escogitate
in proposito dagli studiosi della storia primitiva di Roma, sono molte in
numero e diverse nei risultati a cui giunsero ; quindi per noi sarà necessità
di arrestarsi alle principali. Per il Mommsen, il Sumner Maine, e per la
maggior parte degli autori moderni, la città primitiva avrebbe nei proprii
esordii un ca rattere eminentemente patriarcale, e non sarebbe in certo modo,
che un ulteriore svolgimento della stessa organizzazione gentilizia ; essa
sarebbe un edifizio, le cui proporzioni si sono fatte più grandi, ma che è
foggiato sempre sul medesimo modello . A quel modo, che la famiglia ingrandita,
dando origine a diramazioni diverse, avrebbe costituita la gente , e che le
genti, riunendosi insieme, avrebbero dato origine alle tribù ; cosi
l'aggregazione delle tribù in un numero determinato, che sembra essere diverso
secondo i varii popoli, avrebbe dato origine alla civitas. Afferma pertanto il
Mommsen, che la famiglia e la gente non solo avrebbero somministrati gli
elementi, da cui fu costituita , ma anche il modello, sovra cui sarebbesi fog
--- - - 213 giata la comunanza civile e politica . Il re della città sarebbesi
mo dellato sul capo di famiglia, e avrebbe i poteri patriarcali al mede simo
spettanti; il senato non sarebbe che un consiglio di anziani, come lo prova il
nome di patres, dato per tanto tempo ancora ai senatori, e compierebbe nella
città quella medesima funzione, che il tribunale domestico compieva nella
famiglia , e il consiglio degli anziani nella gente e nella tribù ; il populus
non sarebbe che la riu nione delle gentes , per guisa che sarebbe cittadino
ogni individuo , che appartenga ad una di tali gentes ; e da ultimo il
territorio ro mano comprenderebbe i territorii riuniti, che appartenevano alle
varie gentes, le quali pertanto sarebbero incorporate nello Stato nella
condizione stessa, in cui prima si trovavano , e con tutte le fa miglie , che
entravano a costituirle ( 1). Tale a un dipresso sarebbe eziandio la teoria del
Sumner Maine, il quale si limita a dire , che come la tribù era stata una
riunione di gentes, cosi la città era dovuta all'incorporazione di varie tribù
(2). Il Lange invece, mentre si studia in tutti i modi per dimostrare, che lo
Stato e il suo ordi namento è fondato sulla famiglia , e che il diritto
pubblico di Roma sarebbe in certo modo uscito dal seno del diritto privato, e
sareb besi modellato sul medesimo, viene poi a riconoscere, che la città
primitiva è già fondata sopra una specie di contratto , il quale avrebbe
modificato i poteri patriarcali del re, e al principio dell'e redità avrebbe
fatto sottentrare quello dell'elezione (3 ). Il Jhering invece scorge nella
costituzione primitiva di Roma un carattere essenzialmente militare. Per lui il
re sarebbe un condottiero, un capitano , e il suo potere sarebbe, in sostanza,
un militare im perium , destinato sopratutto a mantenere la disciplina
nell'esercito , e percid accompagnato dal ius gladii ; la curia da conviria sa
rebbe una riunione di uomini armati, che si chiamano quiriti da quiris, asta ,
che è il contrassegno del potere aimedesimi spettante ; il populus romanus
quiritium sarebbe l'assemblea complessiva dei guerrieri, portatori di lancia ;
e infine le gentes stesse , in cui egli ritiene ancora che si dividano le
curiae, sarebbero gruppi naturali, basati bensì sulla discendenza , ma già
raffazzonati secondo le esi ( 1) Mommsen, Histoire Romaine. Trad . DeGuerle.
Paris, 1882, I, pag. 77 et suiv . (2 ) SUMNER MAINE, L'ancien droit. Trad .
Courcelle Seneuil. Paris, 1874, pag . 121. (3) Lange, Histoire intérieure de
Rome. Trad . Berthelot et Didier, Paris, 1885 , pag . 37 . 214 - genze di un
esercito ; donde quel numero fisso di trenta curiae , in cui sarebbe ripartito
il popolo primitivo di Roma, le quali poi sareb bero suddivise in trecento
gentes (1). A queste vuolsi eziandio aggiungere la teoria , così splendidamente
esposta dal Fustel de Coulanges, secondo la quale quella religione, che avrebbe
fondata la famiglia e la proprietà , la gente e la tribù, sarebbe pur quella ,
che avrebbe fondata e cementata la primitiva città. La civitas pertanto sarebbe
per lui l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù ;
mentre l'urbs sarebbe il luogo di riunione, il domicilio, e sopratutto il
santuario di questa associa zione, nella quale ogni istituzione assumerebbe un
carattere essen zialmente religioso ( 2 ). 173. Non è a dubitarsi, che queste
varie opinioni contengano tutte alcun che di vero, e che ognuna possa invocare
delle analogie e degli argomenti, che le servano di appoggio ; ma intanto
ciascuna di esse , collocandosi ad un punto di vista esclusivo, mal pud
riuscire a spie gare in modo coerente la natura cosi varia e complessa della
costi tuzione primitiva di Roma: il cui concetto sembra sbocciare da una
sintesi potente , la quale non può altrimenti essere ricostruita , che
riportandoci nell'ambiente stesso , in cui essa ebbe a formarsi . È questo il
motivo, per cui è impossibile spiegare quel carattere di unità e di varietà ad
un tempo, con cui Roma compare nella storia , senza seguire la lenta e
progressiva formazione della città, e tener conto delle necessità reali ed
effettive , a cui le genti primitive cer carono di soddisfare, creando la
comunanza civile e politica . Or bene io non dubito di affermare che,
collocandosi a questo punto di vista , apparisce fino all'evidenza, che la
città per le po polazioni latine non può essere considerata come una
continuazione del processo formativo dell'organizzazione gentilizia prima
esistente ; ma inizia un nuovo ordine di cose sociali, e segue un indirizzo (
1) V. IHERING , L'esprit du droit romain . Trad. Maulenaere. Paris, 1880, I, $
20, pag . 246 e segg.; dove mette molto bene in evidenza il carattere militare
della primitiva costituzione romana, e l'influenza che esso esercitò anche
sullo svolgersi del suo diritto; alla quale opinione in parte anche si accosta
lo SchweGLER , Rö mische Geschichte, I, pag . 523. ( 2) FUSTEL DE COULANGES, La
cité antique. Paris, 1876. Liv . III, Chap. IV , p . 155. È però a notarsi, che
l'autore è a un tempo fra quelli, che a ragione insistono sul carattere
confederativo della città primitiva . Cfr. pag. 147. 215 . compiutamente
diverso, il quale doveva logicamente condurre alla dissoluzione
dell'organizzazione sociale preesistente. Per verità si è veduto più sopra,
come le popolazioni latine, che avevano preceduta la fondazione di Roma, già
fossero pervenute ai concetti dell'urbs, del populus, della civitas. Che anzi
tali concetti, per le popolazioni del Lazio, erano già stati il frutto di una
lunga evoluzione. Esse avevano cominciato dal costruire dei siti fortificati
(arces, oppida ), in cui le comunanze rurali potessero cercare rifugio nei
momenti di pericolo , e in cui potessero ricoverarsi coi proprii greggi e coi
proprii armenti in un'epoca , in cui erano quotidiane le scorrerie e le
depredazioni nei rispettivi territorii delle varie co munanze. Il primo bisogno
pertanto , a cui le genti del Lazio ave vano cercato di soddisfare, era stato
quello di provvedere alla co mune difesa . Poscia, siccome la sicurezza è
condizione, che favorisce gli scambi ed i commerci, così fu naturale, che,
accanto a questi luoghi fortificati, si siano formati dei siti ( fora ), a cui
le genti convenivano per scopo di commercio , e dove, occorrendo, si tratta
vano anche le alleanze e le paci. Col tempo infine questa mede sima località
apparve anche sede opportuna così per l'amministra zione della giustizia, che
per la trattazione di quegli affari, che riguardassero l'interesse delle varie
comunanze (conciliabula ) (1). Per genti poi, in cui era vivo il sentimento
della religione, era naturale, che questa comune fortezza e questo luogo di
convegno (comitium ) fossero posti sotto la protezione di una divinità , non
propria di questa o di quella gente, ma comune alle varie genti ; e fu anche in
questa guisa, che le menti giunsero a concepire una reli gione collettiva al di
sopra di quella propria delle singole famiglie e genti. 174. Per tal modo il
concetto della città non sboccið di un tratto , ma ebbe ad essere provato e
riprovato in varie guise sotto forma di arces , di oppida , di fora, di
conciliabula , di comitia , e infine di urbes; e fu soltanto, allorchè questa
lenta costruzione ebbe ad essere compiuta, che i riti, secondo cui le città
dovevano essere fon date e la loro popolazione doveva essere ripartita ,
assunsero un (1) Questa idea , che è fondamentale nella presente trattazione,
ebbe ad essere accennata e dimostrata più sopra, nei suoi varii aspetti, nel
lib . I, ai numeri 5, 14 , 66 , 99 . - 216 - carattere sacro e religioso , per
modo che ogni fondazione di città ebbe ad essere accompagnata da cerimonie
religiose . L'urbs venne così ad essere il frutto di una lunga evoluzione, che
già erasi inco minciata in seno alla stessa organizzazione gentilizia . Essa
per tanto, fin dai suoi primordii, non si presenta sotto l'aspetto di una
aggregazione di gruppi gentilizii, come vorrebbero il Mommsen e gli autori
sopra citati; ma piuttosto come il frutto di una specie di selezione, per cui
dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia , si viene sceverando ed
isolando tutto ciò , che si riferisce alla vita pub blica . Quindi la città
primitiva viene ad apparire come un centro e un focolare di vita pubblica , fra
varie comunanze di villaggio, la cui vita domestica e patriarcale continua a
svolgersi nei vici e nei pagi. Di qui la conseguenza, che se essa sia
materialmente consi derata, cioè come urbs, non si presenta, nelle proprie
origini, come la riunione delle abitazioni private; mapiuttosto come la
riunione in una orbita sacra degli edifizi, aventi pubblica destinazione, come
la fortezza, il santuario comune, la dimora del re (custos urbis ) e dei
sacerdoti (sacerdotes populi), il luogo ( forum ) ove si tiene il mercato e si
am ministra la giustizia , il sito ove si tengono le riunioni (comitia ) per
deliberazioni di pubblico interesse ; donde la curia , il qual vocabolo designa
tanto il luogo di riunione, quanto il complesso delle persone che vi si
riuniscono . Che se poi la città primitiva sia riguardata negli ele menti, che
entrano a costituirla , essa non è più l'organizzazione delle gentes o delle
tribù , nelle quali si comprendevano anche le donne, i vecchi ed i fanciulli; ma
è solo il complesso di quegli uomini, ricavati dalle gentes e dalle tribù , che
possano aver partecipazione attiva alla vita pubblica ; di quegli uomini cioè,
che possano difendere la cosa pubblica come soldati (iuniores), o che col
proprio consiglio possano giovare alla medesima nelle deliberazioni, che la
riguardano (se niores). L'urbs insomma è il risultato di una selezione, in
virtù della quale si raccolgono in uno stesso sito tutti gli edifizi, che hanno
pubblica destinazione; il populus è una selezione, per cui fra i membri delle
gentes si organizzano, in esercito ed in comizii ad un tempo , coloro, che
siano in età e in condizione di provvedere alla difesa ed all'interesse comune;
la civitas infine, è quel rapporto speciale, che intercede fra le persone, che
compongono il populus, in quanto esse appartengono alla medesima cittadinanza ,
e parteci pano alla stessa vita politica e militare . 175. La città latina
pertanto , e quindi anche Roma, che è un 217 esemplare tipico della medesima,
anzichè essere un'aggregazione di gentes e di tribus, corrisponde invece a un
nuovo aspetto di vita sociale: cioè al nascere ed allo svolgersi di una comune
vita poli tica , frammezzo a popolazioni rurali, che continuano ancora a svol
gere la loro vita domestica nelle comunanze patriarcali. Allorchè essa compare
, quella organizzazione gentilizia, che aveva prima com piuto le funzioni di
associazione domestica e politica ad un tempo, si viene biforcando : mentre la
vita privata continua a spiegarsi nelle pareti domestiche, ed in gruppi
concentrati sotto l'autorità del capo di famiglia , la vita politica invece
prende a svolgersi nella piazza e nel foro, e dà cosi origine a quelle
discussioni e a quelle lotte, che costituiscono la vita e il movimento della
città. Di qui la conseguenza, che la città , dopo aver ricavato gli elementi,
che entrano a costituirla , dalle comunanze che la circondano, finisce per
preparare la via alla estinzione dell'organizzazione gentilizia , e sopratutto
di quelle gradazioni di essa , che prima compievano eziandio una funzione
politica , quali sarebbero la gente, la tribù e la clientela . Le istituzioni
invece, che colla sua formazione vengono ad affermarsi e a costituire le due
basi dell'organizzazione sociale , sono i due elementi estremi, cioè: la
famiglia da una parte, la quale finisce per richiamare a sè medesima tutto
quello, che si riferisce alla vita domestica ; e la città dall'altra , poichè
essa , essendo la meta e l'aspirazione comune, tende ad attirare nella propria
cerchia tutte le energie naturali e sociali, che possono conferire a darle
forza e con sistenza . Di qui la conseguenza, che le due figure preponderanti,
negli inizii della città , vengono ad essere il pater familias, il quale è il
solo, che abbia piena capacità di diritto, ed il populus, il quale richiama a
sè tutti gli elementi vigorosi e vitali, che esistono nelle comunanze, che
colla propria federazione hanno dato origine alla città. Siccome perd l'opera
si viene compiendo gradatamente; cosi sarà necessario un lungo svolgimento ,
prima che la città si possa affatto spogliare di quelle forme, che essa ricava
ancora dall'orga nizzazione gentilizia , e prima che la famiglia possa perdere
quel carattere pressochè civile e politico , che essa aveva assunto durante il
periodo gentilizio . 176. Si può quindi conchiudere, che il processo formativo
della organizzazione gentilizia e quello della città si avverano in guisa com
piutamente diversa , e sono avviati in senso pressochè contrario ed opposto. -
218 Mentre il processo formativo dell'organizzazione gentilizia , in tutte le
sue gradazioni, consiste in una stratificazione di gruppi natu rali, che si
sovrappongono gli uni agli altri, e intanto continuano sempre ad essere
foggiati sul medesimo modello , che è quello della famiglia patriarcale; la
città invece non deve più la sua esistenza ad un processo di aggregazione , ma
ad un processo, che potrebbe chiamarsi diselezione. Essa non comprende più
tutta la vita sociale , come la tribù; ma tende invece ad isolare l'elemento
giuridico , po litico e militare dagli altri aspetti di vita sociale, che si
spiegavano strettamente uniti, e pressochè confusi gli uni cogli altri
nell'orga nizzazione patriarcale . Di qui derivano alcune importantissime
conseguenze. – Mentre l'organizzazione gentilizia , per quanto abbia già in sè
qualche cosa di artificiale, in quanto che in essa la famiglia deve anche
compiere funzioni politiche, può tuttavia ancora considerarsi come una pro
duzione naturale , come quella che è composta di gruppi uniformi, che si
sovrappongono gli uni agli altri, e il cui vincolo, vero o supposto, è pur
sempre quello della discendenza da un antenato comune; la città invece viene
già ad essere il frutto dell'accordo, del contratto , della federazione insomma
di varii elementi, che si associano per costituirsi un centro comune di vita
politica, e per provvedere così alla comune utilità ed alla comune difesa.
Mentre l'organizzazione gentilizia , comprendendo persone, che si suppongono
derivare da un medesimo antenato , tende a mantenere una proprietà comune e
collettiva; la città invece, uscendo dalla federazione e dall'accordo, tende ad
assicurare ai singoli capi di famiglia le possessioni e le terre, che loro
appartengono, solo se parandone quel complesso di beni e di interessi, che
riguarda l'uni versalità dei cittadini, il quale costituisce così un patrimonio
co mune, che col tempo sarà indicato col vocabolo di res publica. Mentre infine
il principio informatore dell'organizzazione gentilizia consiste nell'eredità e
nella discendenza , per guisa che in essa tutto tende ad acquistare un
carattere ereditario; il principio in vece informatore della comunanza civile e
politica , appena essa compare , viene ad essere quello della capacità e
dell'elezione. 177. Tutto questo svolgimento della città primitiva, che solo
erasi iniziato presso le popolazioni latine, potè spingersi con Roma a tutte le
conseguenze, di cui poteva essere capace. Allorchè essa compare, il periodo di
incubazione della città può 219 . già ritenersi compiuto , e quindi le
cerimonie, che ne accompagnano la fondazione, già hanno assunto un carattere
sacro e religioso . È cogli auspizii, che incomincia la fondazione di Roma, per
conoscere a quale dei due fratelli debba essere affidata la fondazione e il reg
gimento della città . Tuttavia la Roma Palatina , finchè è contenuta. nei
limiti dello stabilimento romuleo, non pud ancora chiamarsi una vera e propria
città ; ma è piuttosto lo stabilimento fortificato di una aggregazione di
genti, dedita di preferenza alle armi, che è la tribù dei Ramnenses. Tutto è
ancora patriarcale nella medesima; il suo re, che è il sacerdote, il capitano,
e che non è ancora eletto, ma è designato dalla propria nascita e dagli
auspizii ; i suoi anziani, i quali non sono che i padri delle genti, che
entrano a costituire la tribù ; e infine anche il suo populus, che è composto
ancora di persone, che si ritengono unite dal vincolo della comune discendenza
, come lo dimostra la loro stessa denominazione di Ramnenses, derivata dal nome
del proprio capo. Non è quindi appena stabilitosi sul Palatino, che Romolo,
secondo la tradizione, procede alla costituzione politica della città . Secondo
Livio, ciò accade soltanto dopo la guerra coi Sabini, e secondo Ci cerone
aspettasi perfino la morte di Tito Tazio, capo dei medesimi(1 ). È da questo
momento, che la città assume un carattere federale e pressochè contrattuale. Le
singole tribù infatti continuano a risie dere ciascuna sopra il proprio colle,
e ad avere delle proprie forti ficazioni; ma è il Capitolium , che mutasi nella
fortezza delle varie comunanze, come pure gli edifizii pubblici si vengono
raccogliendo nel sito , che trovasi fra il Palatino ed il Capitolino. È quivi
che è collocato il locus Vestae, la domus regia Numae, le novae cu riae, da non
confondersi colle curiae veteres (2 ), il cui sito era sul Palatino, edifizii
tutti, che, secondo il rito , dovevano trovarsi nel cuore stesso della città .
Non consta quindi che le tribù confederate abbiano abbandonate le proprie
possessioni e le proprie terre; ma ciò, che esse ebbero comune fu soltanto la
città ed il governo di essa, come lo dimostra il fatto , che secondo la
tradizione vi sarebbe stato un breve periodo di tempo, in cui Romolo e Tazio
avrebbero ( 2) (1) Livio, I, 13; Cic., de Rep. II, 8. Cfr. più sopra, i numeri
85, 86 . « Novae curiae (scrive Festo) proxime compitum Fabricium aedificatae
sunt, quod parum amplae erant veteres a Romulo factae » . Tuttavia vi restarono
an cora sette curie, che continuarono a compiere i loro sacra nel sito antico (Bruns,
Fontes, pag . 346 ). 220 regnato contemporaneamente: il che significa , che
ciascuno di essi avrebbe conservato la qualità di capo della propria tribù. Non
è quindi meraviglia , se la città primitiva presenti ancora per qualche tempo
le traccie dell'organizzazione gentilizia, perchè il trapasso dalla semplice
tribù ad una vera e propria città si operò solo gra datamente . Intanto però la
trasformazione viene ad essere iniziata e proseguita senz'interruzione fin da
quel momento, in cui al vin . colo della discendenza si sostituisce quello
della federazione e del l'accordo, e alla trasmessione ereditaria sottentra il
principio del l'elezione. 178. A ciò si aggiunge, che Roma, fin dai proprii
esordii, si trovo in una condizione diversa da quella delle altre città latine
, da cui trovavasi circondata . Essa infatti non costitui soltanto un centro di
vita pubblica, frammezzo a varie comunanze rurali; ma diventò ben presto un
centro di vita urbana, contrapposta alla vita rustica dei campi. I suoi primi
fondatori, pur conservando i proprii agri genti lizii, avevano ottenuto nel
recinto stesso della città uno spazio di terra, ove avevano potuto costruirsi
una casa , circondata da un orto . Per tal guisa in Roma non eravi soltanto
l'elemento, che conveniva nei giorni di festa, o di pubbliche riunioni, o per
causa di fiera e di mercato; ma eravi una parte eziandio , e questa era quella
dell'antico patriziato, che, pur conservando la propria dimora gentilizia ,
aveva posta sede permanente dentro la città , o in prossimità di essa. Fu in
questa guisa , che Roma diventò ben presto , secondo l'espressione del Mommsen,
l'emporio del Lazio, e che, dopo aver cominciato , al pari delle altre città
latine, dall'essere un centro di vita pub blica fra diverse comunanze , cambiossi
ben presto eziandio in un centro urbano , la cui vita si contrappose a quella
dei campi, e venne cosi accrescendosi costantemente, mediante quell'attrazione,
che i centri urbani esercitano anche oggi sulle popolazioni, da cui tro vansi
circondati. È questo che spiega come, durante lo stesso periodo regio , Roma da
sola già potesse conchiudere un foedus aequum con tutta la confederazione
latina, e come l'intento costante dei re sia stato quello di estenderne la
cerchia per guisa da comprendere in essa anche le abitazioni private dei
cittadini. Intanto agli altri dua lismi, che presenta Roma fin dai proprii
inizii, debbe anche aggiun gersi quello, per cuidistinguesi la vita urbana
dalla vita rustica; come lo dimostra il fatto che il patriziato romano ha
serbata sempre la consuetudine di passare un periodo di tempo fra le mura della
città , 221 e un altro invece alla campagna (ruri), frammezzo alle proprie pos
sessioni gentilizie : consuetudine, che anche oggi può dirsi mantenuta dal
patriziato romano. 179. Di qui la conseguenza , che Roma, in una lunga e lenta
evoluzione, poté compiere in ogni sua parte quello svolgimento , che solo erasi
iniziato presso le altre popolazioni latine . Essa riusci a sceverare la vita
pubblica dalla privata , l'elemento sacro dal pro fano, la vita urbana dalla
vita rustica , la vita militare dalla vita civile; ed effigid questi
atteggiamenti diversi della vita sociale ed umana con un linguaggio così
efficace e scultorio, che nessun'altra città può in questa parte competere con
essa . Di queste varie distin zioni, quella , che cominciò ad effettuarsi fin
dal periodo di Roma esclusivamente patrizia, fu la distinzione fra la vita
pubblica e la vita privata; mentre la distinzione fra l'elemento sacro ed il
profano cominciò solo ad operarsi, allorchè la plebe, che non era partecipe del
culto gentilizio , fu anche ammessa a far parte della cittadinanza romana; e da
ultimo la distinzione fra la popolazione rustica ed urbana, solo prese a farsi
evidente, allorchè la città si accorse di essere in parte dominata dalla turba
forense . Infine il dualismo fra la vita militare e la vita civile è anche uno
di quelli, che appariscono costantemente nella storia di Roma, e che rimontano
fino agli inizii di essa . Il suo populus è un'assem blea ed un esercito ad un
tempo ; il suo magistrato ha l'imperium domi, militiaeque; i suoi cittadini
hanno un periodo di età , in cui partecipano al servizio attivo, e un altro, in
cui entrano a formare l'esercito di riserva ; gli atti stessi più importanti della
vita , quale sarebbe, ad esempio , il testamento , possono farsi in guisa
diversa , secondo che trattisi di cittadini in tempo di pace , o di soldati in
procinto di venire a battaglia ; la quale distinzione poi mantiensi co stante
per modo, che anche con Giustiniano il testamento pud distin guersi in comune
ed in militare. Per tal modo il cittadino di Roma è uomo di toga e di spada ad
un tempo , e si acconcia alle esigenze della pace e a quelle della guerra
(rerum dominos, gentemque togatam ). 180. Sopratutto qui importa di mettere in
evidenza quel dua lismo, che colla formazione della città venne ad introdursi
fra la vita pubblica e la privata ; in quanto che fu questo il grande intento ,
a cui si ispirò Roma primitiva, e a cui accennano costantemente i 222 poeti
latini, i quali non trovano espressione più efficace per indicare la corruzione
del costume, e il perdersi delle buone tradizioni, che l'accennare alla
confusione della cosa pubblica colla privata ( 1). È questo il dualismo
veramente fondamentale , che, una volta in trodotto, finisce per riverberarsi,
con un processo logico non mai in terrotto, in una quantità di altri dualismi,
che compariscono costan temente nelle stesse circortanze sociali, e che
potrebbero essere paragonati ad una voce, che con gradazioni diverse viene ad
es sere ripercossa e ripetuta dall'eco. 181. Per verità è ovvio il considerare,
come in seguito alla forma zione della città, accanto alla gentilitas, che era
il rapporto, che stringeva i varii membri dell'organizzazione gentilizia, si
svolga la civitas, la quale è il rapporto , che unisce coloro, che appartengono
alla stessa comunanza militare e politica. Quindi è, che alla distin zione fra
liberi e servi, fra gentiles e gentilicii, viene ad aggiun gersi e ad
acquistare un'importanza sempre maggiore quella fra cives e peregrini. Cosi
pure, accanto ai genera hominum , che sono sparsi nei pagi e nei vici, e che
comprendono senza distinzione tutti coloro, che si suppongono discendere da un
medesimo antenato, si svolge il concetto del populus, che dapprima non
comprende ogni ordine di persone, ma solo il complesso degli uomini validi ed
ar mati, che col braccio e col consiglio possono partecipare alla difesa ed al
governo della cosa pubblica . Procedendo ancora innanzi, accanto al concetto
della res fami liaris, che comprende il complesso degli interessi privati di
una de terminata persona, si esplica il concetto della res publica , il quale,
per essere più astratto, compare più tardi, che non quello del popu lus; ma
finisce anch'esso per esprimere con potenza ed efficacia il complesso degli
interessi comuni alla intiera città , ed a tutto il popolo (res populi).
Intanto così la res familiaris, come la res pu blica debbono avere un'autorità
che le governi, e mentre questa per la famiglia sarà indicata col vocabolo di
manus, nella sua signi ficazione più larga, per la repubblica invece sarà
indicata col vo cabolo di publica potestas. Che anzi i due poteri sono cosi
distinti ( 1) Per dimostrare l'importanza , che nel concetto romano ha la
distinzione fra il pubblico e il privato , basti citare il Trinummus di Plauto
, questa commedia, così profondamente morale, in cui, ogni qualvolta occorre
una censura contro i corrotti costumi, si lamenta sempre questo mescersi del
pubblico col privato . 223 fra di loro, che la subordinazione più estesa nel
seno della famiglia non toglie, che altri possa esercitare tutti i suoi diritti
come cit tadino, e partecipare come tale agli onori ed alle magistrature. La
distinzione poi, che è nella natura dei rapporti, viene natu ralmente a
riflettersi eziandio nel diritto , che è chiamato a gover narli. Di qui la
distinzione che, iniziata fin dalla formazione della città , viene col tempo
facendosi sempre più netta e precisa fra il diritto pubblico ed il diritto privato;
il quale ultimo, secondo il con cetto romano, non deve già essere soffocato ed
assorbito dal diritto pubblico , ma trovasi invece collocato sotto la tutela e
la protezione di esso . Non può quindi essere ammesso il concetto del Lange,
che in parte è anche quello del Mommsen, secondo cui il diritto pubblico
verrebbe in certo modo a modellarsi sul diritto privato : poichè il processo
che si segui in Roma si avverd invece in senso contrario ed opposto. Non fu il
diritto pubblico, che si modello sopra il pri vato; ma fu il diritto privato,
che venne svolgendosi in quella guisa e in quei confini, che erano consentiti
dalla costituzione politica della città . Quindi è che il diritto privato di
Roma non si formo di un tratto, ma venne svolgendosi gradatamente, a misura che
le esigenze della vita civile fecero sentire il bisogno del suo ricono scimento
. Ciò ci è dimostrato dal fatto , che fin dalle origini di Roma noi possiamo
trovare poste le basi di tutto il diritto pubblico di Roma, mentre la vera
elaborazione del diritto civile romano, co mune alle due classi del patriziato
e della plebe, incomincia solo più tardi. Prima si fondò la città , e poi si
pensò alla formazione del suo diritto, ed è anche questo uno dei motivi, per
cui il diritto di Roma potè riuscire tipico ed esemplare per tutti i popoli.
Intanto, in prosecuzione del medesimo processo, anche la legge , che è
l'espressione delle volontà riunite e concordi, viene a distin guersi in les
privata ed in lex publica (1), di cui quella esprime l'accordo di due o più
contraenti, mentre la lex publica invece è l'espressione della volontà
collettiva del popolo, che si impone alla volontà dei singoli individui. Anche
i sacra vengono a subire la medesima distinzione; la quale pure si verifica per
cid, che si rife (1) La distinzione fra la lex publica e la lex privata è
accennata più volte da Garo in formole, che da lai ci furono conservate. Comm .
I, 3 ; II , 104 ; III, 174. Una delle modificazioni state introdotte dal
MOMMSEN nell'ultima edizione, Friburgi, 1887, da lui curata del Bruns, Fontes
iuris romani antiqui, fu quella di intito larne il capo terzo : Leges publicae
populi romani post XII Tabulas latae. 224 - risce agli auspicia (1). Lo stesso
infine deve dirsi dei crimina, i quali, a misura che si vengono delineando,
sono pure richiamati alla distinzione fondamentale di publica e di privata ,
secondo che il danno, che ne deriva , e quindi la prosecuzione di essi appar
tenga ai singoli individui, oppure colpisca ed interessi l'intiera co munanza ;
distinzione, che riflettesi eziandio nei iudicia , i quali fin da Servio Tullio
cominciano a dividersi in iudicia publica e pri vata . A queste si potrebbero
aggiungere ancora molte altre distin zioni, che son tutte il riverbero di un
medesimo concetto, che una volta accettato percorre l'intiera vita sociale e
lascia dapertutto le traccie del suo passaggio . È in questo senso , che le
proprietà si distinguono in due categorie, indicate coi vocaboli di ager pri
vatus e di ager publicus ; che i rapporti stessi, che possono correre fra
cittadini e stranieri, subiscono la stessa distinzione, cosicchè la societas,
l'amicitia , l'hospitium , il foedus si distinguono anche essi in pubblici e in
privati . Non è quindi meraviglia, se parlisi eziandio di costume pubblico e privato,
di virtù pubbliche e private , e se la distinzione si inoltri nei particolari
più minuti della vita , co sicchè anche i servi stessi si distinguono in
publici e privati, e chiamasi publicus l'equus, che è somministrato dallo Stato
agli equites, che vengono così ad essere denominati equo publico . 182.
Conviene quindi ammettere, che la distinzione dovesse es sere profondamente
sentita , se essa lasciò le proprie traccie in qual siasi argomento . Non
occorre poi di notare, che l'esplicazione dia lettica dei due concetti, che qui
si compendia in pochi tratti, dovette naturalmente essere il frutto di una
lunga evoluzione ; ma se questa potè accadere colla fondazione della città ,
mentre prima non erasi avverata , la causa di un tal fatto deve trovarsi in ciò
, che la città non si propose di agglomerare genti e famiglie, ma intese fin
dapprincipio a sceverare la vita pubblica dalla privata . Che se si volesse
spingere più oltre lo sguardo sarebbe anche facile il dimostrare, che la
formazione della città cooperò eziandio allo svol gersi di sentimenti e di
affetti, che prima non riuscivano a sceverarsi (1) Quanto alla distinzione dei
sacra publica ac privata , è da vedersi Festo , vu Publica sacra ( Bruns,
Fontes pag. 358), stato già citato a pag. 43, nota nº 3 . Quanto alla
distinzione poi fra gli auspicia publica e gli auspicia privata , è da vedersi
Mommsen, Le droit pubblic romain . Trad . Girard . Paris, 1887, I, pag. 101,
cogli autori ivi citati in nota . 225 dagli affetti domestici e patriarcali. Fu
infatti la città , che, accanto agli affetti di famiglia ed al culto per gli
antenati, suscitò l'affetto per la propria terra , e il culto per coloro, che
si sacrificavano per essa , e quell'illimitato amore di patria, che informa
tutta la storia e tutta la letteratura di Roma, e che fece esclamare al
cittadino ro mano: dulce et decorum est pro patria mori. Fu essa parimenti, che
accanto al culto per i mores maiorum riusci a svolgere il concetto di una
legge, espressione della volontà comune, che doveva a tutti essere nota , e
costituire in certo modo la base e il fonda mento della comunanza civile . Fu
essa ancora , che, accanto alle tradizioni, che si serbavano gelosamente nelle
famiglie e nelle genti e si trasmettevano di generazione in generazione , diede
origine a quella narrazione dei fasti e degli avvenimenti notevoli per la città
, da cui doveva poi uscire la storia ; al modo stesso che, accanto al comando
del padre ed alla persuasione degli anziani, fece svolgere l'arte oratoria e
l'eloquenza, le quali più non si impongono per l'au reola religiosa, da cui
sono circondate, ma commuovono e trasci nano la moltitudine e la folla , a cui
si indirizzano . Fu essa infine, che, accanto alla narrazione delle gesta degli
eroi e dei principi, cantate nelle epopee primitive, rese possibile la storia
militare e po litica della città e del popolo, e pose anche in evidenza l'impor
tanza politica di quell'elemento, che chiamavasi plebe (1 ). 183. Dopo cið
parmi di poter conchiudere, che non può essere accolta l'opinione di coloro,
che considerano Roma primitiva come uno Stato patriarcale. « Lo Stato romano,
noi diremo con un re. cente autore, che è il Pelham , appartiene, quanto alla
sua struttura, ad uno stadio già molto più inoltrato dello sviluppo della
convivenza sociale e suppone innanzi a sè una lunga preparazione storica .
Certo esso conserva ancora le traccie di un più antico e più pri mitivo ordine
di cose; ma queste sono traccie di un periodo ormai trascorso , le quali
tendono sempre più a scomparire » (2). La supre (1) Per una più larga
trattazione dei mutamenti, che recò nella vita sociale il surrogarsi della
città all'organizzazione patriarcale, mi rimetto all'opera : La vita del
diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880 , nº. 34, pag. 94 e segg.,
e alla dissertazione : Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile
e po litica . Torino, 1878 . (2 ) Pelham , vº Rome (ancient), nell'Encyclopedia
Britannica , ninth edition . Edinburgh, 1886 , vol. XX, pag. 731. G. CARLE, Le
origini del diritto di Roma. 15 - 226 - mazia dello Stato è ormai stabilita
sopra ciascuno dei gruppi, dalla cui confederazione esso è uscito, e ciascuno
di questi gruppi più non si mantiene, che come una corporazione di carattere
esclusivamente privato . In questa parte pertanto « lo Stato Romano, come ben
nota il Gentile , lascia a grande distanza la monarchia delle popolazioni
Orientali, ed anche quella delle primitive società greche, la quale è ancora
stretta da intimo vincolo colla divinità , da cui ritiensi pro cedere, e che
trasmettesi per eredità nei discendenti per sangue, e signoreggia con assoluta
potestà il populus od il demos, il quale è solo convocato ad udire le decisioni
sovrane e non mai a deliberare. Il principio invece della sovranità popolare ed
il diritto a partecipare all'amministrazione della cosa pubblica con un voto
direttamente esercitato , e il diritto anche di voto nell'elezione dei
reggitori dello Stato è fin dalle prime origini inerente alla cittadinanza
romana » (1). Il Re, fin dagli esordii della città, è la suprema magistratura
dello Stato , e questo è l'opera del volontario accordo dei cittadini e dei
capi di famiglia, che concorsero alla sua formazione, i quali , nella propria
elezione, più non badano esclusivamente alla nascita ed alla stirpe, ma
cominciano a riguardare al valore ed alla sapienza dei proprii reggitori. Sarà
collocandosi a questo punto di vista , che non segue questo o quell'elemento
esclusivo, ma cerca di riguardarli tutti ad un tempo nel loro progressivo
sviluppo, che potrà riuscire più facile di com prendere i primitivi elementi
dello Stato romano, ed il carattere dei poteri, che lo governano. (1) GENTILE,
Le elezioni e il broglio nella repubblica romana , Milano, 1879, pag . 2 e 3.
227 CAPITOLO II. Gli elementi costitutivi del primitivo Stato Romano. § 1. –
Cause del rapido svolgimento di Roma e della sua primitiva costituzione. 184.
Le cose premesse hanno abbastanza dimostrato , come nella formazione primitiva
dell'organizzazione sociale domini una legge di evoluzione, non dissimile da
quella , che governa le formazioni naturali. Le traccie di essa apparirono
evidenti, allorchè fra i gruppi gentilizii si veniva lentamente preparando e
quasi sperimentando in varie guise la convivenza civile e politica . Tuttavia
questo concetto deve essere completato con osservare, che nella storia delle
cose sociali ed umane, ogni qualvolta sono preparati gli elementi di una
formazione novella , e questa trovi un terreno acconcio al proprio sviluppo,
gli elementi, di cui si tratta , sembrano richiamarsi l'un l'altro, attirarsi
scambievolmente, riunirsi per guisa , che la nuova formazione sboccia tanto più
rigogliosa e potente, quanto è più matura la preparazione di essa. Per tal modo
ad una lenta incuba zione può anche succedere una pronta e rapida formazione:
il che talvolta accade ancora a ' nostri tempi, e accadde senz'alcun dubbio
nella storia primitiva di Roma, allorchè la nuova città , dopo essere stata
lungamente preparata , presentasi nella storia pressochè con sapevole della propria
destinazione. Tutte le incertezze sembrano essere scomparse, e quasi si
potrebbe dire con ragione, che la co stituzione primitiva di Roma, al pari di
Minerva, sembra uscire compiutamente armata dal cervello di Giove. Se infatti
si possono ancora scorgere delle incertezze, in quanto riguarda la formazione
di una religione, comune alle varie tribù, perchè questo non è lo scopo
essenziale, a cui Roma intende ; la costituzione politica di Roma invece sembra
in certo modo essere il frutto di una intuizione po tente, tanta è l'armonia
dell'edifizio , tanta l'efficacia e l'acconcezza dei vocaboli, con cui si
esprimono le singole istituzioni, tanto è il sentimento, che ciascun organo del
nuovo Stato ha di sè medesimo. e del contributo, che deve recare all'opera comune.
Noi ci troviamo 228 di fronte ad un popolo , che con uno sforzo collettivo
giunge a mo dellare ne' fatti un edificio, al quale a stento potrebbe riuscire
un pensatore, che raccolto nelle proprie meditazioni cercasse di isolare da una
quantità di materiali, posti a sua disposizione, tutto ciò , che si riferisce
alla vita politica , giuridica e militare. Tutte le energie naturali e sociali
sembrano concentrarsi in un'opera sola , e ben può dirsi con Ennio e con
Cicerone, che fin dai propri esordii : Moribus antiquis res stat romana
virisque. Secondo la tradizione, bastó un solo regno per porre le basi di una
costituzione , che richiese poi parecchi secoli per svolgersi in tutte le sue
parti (1): nè la tradizione pud essere così facilmente respinta, come vorrebbe
la critica moderna, in quanto che noi difficilmente possiamo comprendere
l'entusiasmo potente, da cui poterono essere stimolati re, senato , sacerdozii
e popolo, allorchè erano intesi tutti all'attuazione di un grande concetto .
185. L'urbs, dopo la federazione delle varie tribù , viene ad essere collocata
in un sito , a cui hanno facile accesso le diverse comunanze e trovasi così in
tale posizione da potersi cambiare nel l'emporio del Lazio. Essa per la prima,
fra le comunanze italiche, da cui trovasi circondata , l'ha rotta colle
tradizioni, e si è formata mediante il connubio di genti, che appartengono a
stirpi e a nomi diversi. I padri, che si riunirono per costituirla, hanno
parentele ed aderenze nei territori contigui, e probabilmente continuano a
tenervi delle possessioni, e possono così esercitare un'attrazione potente
sulle popolazioni vicine, a qualunque stirpe esse appartengono. Se a tutto ciò
si aggiunge la fortuna della nascente città , la fortezza della sua posizione e
delle sue mura, il carattere tenace e perseverante de' suoi cittadini, che
tutto aspettano dall'avvenire di essa , potrà lasciarci ammirati, ma non
increduli il suo rapido incremento . Anche lasciando in disparte il
provvedimento, che viene attribuito a Ro molo , di aver aperto un asilo ai
rifugiati delle altre città , era na turale, che essa dovesse cambiarsi in un
asilo per tutti coloro, che « Vi. (1) Cic., de Rep ., V, 1. È lo stesso
CICERONE, che insiste più volte sul rapido svolgimento di Roma all'epoca
romulea , e fa dire fra le altre cose a Scipione: detisque igitur, unius viri
consilio non solum ortum novum populum , neque ut in cunabulis vagientem
relictum , sed adultum iam pene et puberem ? » (De rep., II, 11). Lo stesso
pure appare dal racconto di Livio e di Dionisio. 229 si trovassero spostati
nella propria terra o nella propria organiz zazione gentilizia . Il grande
scopo dei fondatori era quello di fon dere insieme questi elementi diversi e di
unificare così la città , tanto nelle mura, che la circondano, quanto nei
concetti giuridici politici e militari, che servono a stringerne insieme le
parti diverse. 186. La cerchia delle mura e la sua compagine interna sembrano
cosi procedere di pari passo . I suoi fondatori già hanno una lunga esperienza
di cose civili e non ignorano anche i riti religiosi, da cui deve essere
accompagnata la fondazione di una città . Cominciasi pertanto dagli auspizi,
per conoscere « quod bonum , felix , faustum , fortunatumque siet populo
Romano» , e per tal modo anche la re ligione viene ad essere posta a base della
nuova formazione. Quanto alla sua costituzione interna, tutto sembra essere
preparato ed ac concio . I concetti politici di Roma primitiva, nella loro
sintesi po tente , possono essere paragonati a quei massi rozzamente modellati,
che sovrapposti gli uniagli altri formano la cerchia delle sue mura, e che per
il proprio peso e la propria quadratura non abbisognano di essere cementati gli
uni con gli altri. Essi non escono da una costituzione scritta : ma erompono
dalla stessa realtà dei fatti, e sono altrettante costruzioni logiche e
coerenti in tutte le loro parti, le quali, una volta accolte nella
costituzione, potranno essere svolte con rigore dialettico , fino a che non
abbiano ricevuto tutto lo svi luppo , di cui possono essere capaci. Le forme
esteriori delle istituzioni politiche di Roma sono bensì ricavate da
istituzioni analoghe, esi stenti nell'organizzazione anteriore , ma il
contenuto di esse viene ad essere determinato dalle esigenze della nuova città.
Quanto all'in tento, che la città si propone, esso è universalmente sentito , e
quindi non è meraviglia , se la nuova città proceda verso il proprio scopo con
l'ordine, con cui si dispiegherebbe un esercito , e se dei suoi fondatori possa
dirsi col poeta : cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc, nec
lucidus ordo (1). Per tal modo il concetto della città presentasi determinato
in tutte le sue parti, e si esplica con un rigore geometrico , che rende pos
sibile di rifare i diversi stadii, che ha dovuto percorrere. (1 ) ORAZIO, Ars
poetica. 230 187. La città è un edifizio nuovo, costruito con elementi tolti
dall'organizzazione gentilizia preesistente , i quali però, mirando ad un
intento novello , ricevono uno svolgimento compiutamente diverso . L'urbs è una
selezione dalle comunanze di villaggio circostanti, per cui tutti gli edifizii,
che hanno pubblica destinazione, sono con centrati in un medesimo sito; il
populus non è tutta la popolazione delle comunanze, ma il complesso dei viri,
che col braccio e col consiglio possono cooperare all'interesse comune; la
civitas non è più un vincolo di sangue, ma è determinata dalla partecipazione
alla medesima vita pubblica sotto l'aspetto politico e militare ad un tempo ;
il munus non è il complesso delle obbligazioni, che incom bono all'uomo come
tale, ma il complesso dei diritti e delle obbli gazioni, che derivano
dall'ubbidire al medesimo diritto e dal par tecipare alla stessa comunanza
civile e politica (1); la res publica non è la somma degli interessi de'
singoli cittadini,ma il complesso degli interessi, che riguarda l'universalità
dei cittadini, considerata come un tutto organico e coerente ; infine la lex
publica è il com plesso dei patti ed accordi votati nei comisii, in base ai
quali si conviene di partecipare alla stessa vita pubblica , e quindi per la
formazione di essa debbono concorrere tutti gli elementi costitutivi della
città . 188. Intanto perd nella formazione della città non può aversi altro
punto di partenza, che quello delle istituzioni preesistenti, per guisa che il
nuovo edificio richiama pur sempre l'antico, ma intanto la sua base è mutata ;
poichè mentre quello si reggeva sull'eredità e sulla discendenza, questo invece
si fonda sulla capacità e sull'ele zione ; mentre quello si fondava sul vincolo
del sangue, questo invece pone la sua base salda sopra un determinato
territorio, nel quale si fortifica e si chiude; mentre in quello ogni cosa
veniva ad essere determinata dall'età e dalla posizione naturale, che altri
tiene nella famiglia e nella gente, in questo invece le funzioni degli (1) «
Munus (scrive Festo, quale è restituito dal Mommsen nell'ultima ediz. del
Bruns, Fontes, pag. 344 e 3-15 ) dicitur administratio reipublicae, magistratus
alicuius, aut curae, imperiive, quae multitudinis universae consensu , atque
legitimis in unum convenientis populi comitiis, alicui mandatur per suffragia ,
ut capere eum eamque oporteat, et statim , certove ex tempore, certum usque ad
tempus administrare » , Qui però il vocabolo munus è preso in una significazione
più ristretta , che non quella che lo stesso autore vi attribuisce, quando
discorre del municipium . - 231 individui vengono ad essere determinate dalla
cooperazione, che possono recare alla città . Giovani debbono esserne i
soldati; anziani debbono esserne i consiglieri. — Solo potrebbe trarre in
inganno quel l'aureola religiosa , che sembra ancora circondare la formazione
della città ; maanche questa religione non deve più confondersi con quella
preesistente ; essa non è nè il fondamento , nè l'intento supremo, a cui la
città intende, come sembra sostenere il Fustel de Coulanges ( 1); ma è soltanto
una consacrazione dello scopo , che viene a proporsi la nuova comunanza,
politica e militare ad un tempo, e quindi anche la sua religione, i suoi
sacerdozii, i suoi auspizii hanno un carattere pubblico, e come tali si
contrappongono alla religione, ai sacerdozii, e agli auspicii delle singole
genti. $ 2 . Il populus e le sue ripartizioni (tribus, curiae, decuriae) . 189.
Anche le divisioni, che compariscono nella città, a prima giunta appariscono
come un riverbero di quelle , che esistevano nel periodo precedente e quanto
alla loro conformazione esteriore, sono veramente tali ; ma se si riguardano
più da vicino, si presentano con un contenuto, che già comincia ad essere
diverso e che tende a diventarlo sempre più . Così è certamente vero, che la
città viene ad essere divisa in tribu ; ma è evidente , che questa divisione in
tribů, trasportata nell'interno di una stessa comunanza , non può più
considerarsi come una distinzione del populus, ma tende di necessità a cam
biarsi in una ripartizione del suo territorio . Le tre tribù primitive,
ancorchè serbino per qualche tempo la denominazione antica , ten dono
necessariamente a trasformarsi in altrettante divisioni territo riali ; poichè
col mescolarsi degli elementi riuniti in una stessa co munanza, la distinzione
delle stirpi primitive finisce per non più corrispondere alla realtà dei fatti.
Come si potrà ancora parlare di una tribù di Ramnenses, di Titienses e di Luceres,
quando, per la comunanza di connubio e di diritto, le varie genti si vengono me
scolando insieme e nulla pud impedire, che le persone di una stirpe possano
anche trasportare la propria sede nel territorio dell'altra ? Si (1 ) FUSTEL DE
COUlanges, La cité antique, liv. III, chap. 5 , 6 , 7. 232 comprende pertanto,
che fin dapprincipio i re tentassero di togliere di mezzo questa distinzione,
che solo ebbe a mantenersi ancora per qualche tempo in conseguenza di quello
spirito conservatore, che dimostrasi tenace sopratutto fra le genti di stirpe
Sabina, alle quali appunto apparteneva l'augure Atto Nevio . La sua opposizione
tut tavia non mutasi che in una dilazione, e la soppressione delle an tiche
tribù , se non di diritto , verrà ad essere operata di fatto da Servio Tullio,
che alla tribù fondata sulla discendenza sostituirà la tribù di carattere
territoriale , e sarà cosi conservato il nome antico per indicare una
istituzione compiutamente nuova. In questo modo infatti si sostituisce il
vincolo territoriale , a quello della discendenza, che prima era il solo ad
essere riconosciuto ( 1). 190. La distinzione invece, che è veramente
fondamentale per il populus, è quella per cui il medesimo viene ad essere
ripartito in curiae. Un tempo si è dubitato circa il carattere originario delle
curiae , e sull'autorità del Niebhur si è soventi sostenuto , che esse non
fossero , che aggregazioni di gentes, e che si ripartissero anzi in gentes (2
). Ora però comincia ad essere universalmente ammesso , che la curia può essere
una istituzione, la cui origine è forse an teriore alla comunanza romana, e che
poteva già essere conosciuta alle genti latine ed etrusche; ma che essa deve ad
ognimodo essere considerata come la base di tutte le divisioni politiche e
militari della città, finchè questa si mantenne esclusivamente patrizia . Essa
, al pari del populus, di cui è una suddivisione, costituisce una cor porazione
religiosa, politica e militare ad un tempo ; ha un proprio capo (curio); un
proprio sacerdote (flamen curialis ); un proprio culto , che fa parte dei sacra
publica ; un proprio santuario ( sacel um ); e tutte insieme riunite hanno
proprie assemblee, che pren dono il nome di comitia curiata . L'esattezza
stessa del loro nu mero già dimostra come questa divisione abbia un carattere
del tutto artificiale , e miri a uno scopo preordinato , che è quello di dare
(1) Del resto anche VARRONE, De ling . lat., IX, 9, parla della divisione
primitiva in tribù , come di una divisione piuttosto dell'ager che del populus.
Cfr. Karlowa, Röm . R. G., I, pag. 31, il quale anzi nota che la distinzione in
tribus, secondo Livio I, 13, si applicherebbe di preferenza agli equites . (2)
Niebhur , Histoire Romaine. Trad . Golbery. Paris, 1830 , II, pag. 19. Vedi in
proposito ciò, che si è detto parlando delle gentes nel lib . I, cap . III, al
nº. 28 e seg. e nelle note relative. 233 - ai quiriti, posti sotto la
protezione della religione, un ordinamento politico e militare ad un tempo, per
modo che essi sotto un aspetto possano costituire un'assemblea di quiriti, e
sotto un altro un eser cito di Romani. Quello viene ad essere il loro nome nei
rapporti interni (domi), e questo è quello, con cui sono designati nei rapporti
esterni ( foris, militiae). Nulla vieta, che imembri di una medesima curia siano
anche stretti da vincoli gentilizi fra di loro , e che essi, come attesta Aulo
Gellio , siano anche tratti ex generibus homi num (1) ; ma le curie sono già
composte di uomini scelti, di viri, diguerrieri armati di lancia (quiris), di
persone comprese in certi limiti di età , e quindi non possono più avere colle
gentes altro rapporto , salvo quello che da esse ricavasi il contingente, che
entra a costituirle . È quindi incomprensibile , che le curiae possano
ripartirsi in gentes, le quali comprendono indistintamente tutti coloro, che
derivano dal medesimo antenato, senza riguardo nè all'età , né al sesso . Solo
può dirsi, che i membri della curia possono essere considerati sotto un doppio
aspetto : o in rapporto colle famiglie , colle genti, colle tribù , da cui
ebbero a staccarsi, e sotto quest'aspetto essi continuano ad essere dei
gentiles ; o rimpetto al populus ed alla civitas, di cui entrano a far parte ,
e sotto questo aspetto sono dei viri, dei quirites, degli uomini di arme e di
consiglio , che non debbono avere altro pensiero , che quello della res publica
. 191. Quanto alla suddivisione in decuriae, che è solo accennata da Dionisio ,
essa non può certamente essere confusa colla riparti zione in gentes, come
avrebbe voluto il Niebhur ; ma può essere facilmente compresa, quando si
ritenga, che dalle curie usciva poi quel contingente, scelto e nominato dal re,
che doveva poi entrare a costituire le centurie dei cavalieri e le decurie dei
senatori. I (1) Aulo Gellio, Noctes Atticae, lib. XV, 27, ci conservò in
succinto tutta una teoria intorno ai comizii, che egli dice di aver ricavata
dal libro di Laelius Foelix , ad Quintum Mucium , e sarebbero parole testuali
di quest'ultimo le seguenti : « cum ex generibus hominum suffragium feratur,
curiata comitia ; cum ex censu et aetate, centuriata ; cum ex regionibus et
locis , tributa » . Fu anche fondandosi su questo passo, che si è sostenuto per
lungo tempo, che le curiae si dividessero in gentes ; ma parmi evidente, che,
anche ammettendo che genus in questo caso suoni gens, il medesimo non potrà mai
condurre ad altro risultato salvo a quello, che il contingente delle curie era
ricavato dalle genti e in base alla discendenza , mentre quello delle cen turie
era ripartito in base al censo , e quello dei comizii tributi in base alle
località o alle tribù , a cui erano ascritti i cittadini. 234 senatori (
patres) ed i cavalieri (celeres , equites) nella città primi tiva appariscono
come due corpi scelti nel seno stesso delle curie , e corrispondono in certo
modo alla divisione dei iuniores e dei se niores. I primi sono l'elemento
giovine, splendido nell'armi, che costituisce il corteggio del re e l'ornamento
della città (civitatis or namentum ), sotto il comando di un tribunus celerum ,
o di un magister equitum ; mentre il senato , nella concezione estetica ed
armonica della città primitiva , rappresenta l'elemento più maturo negli anni,
più saggio nel consiglio , e costituisce veramente il con siglio, da cui il re
è circondato (regium consilium ). Non vi ha poi dubbio, che l'uno o l'altro
elemento viene ad essere ricavato dal seno delle curie, e quindi è assai
probabile, che, nell'ordinamento simmetrico della città primitiva, ogni curia
potesse anche sommini strare un numero eguale di cavalieri e di senatori,
numero che dovette appunto essere quello di dieci per ogni curia ; donde il con
cetto , che anche le curiae si dividessero in decuriae. Del resto non avrebbe
nulla di ripugnante, che questa suddivisione esistesse vera mente nel seno
delle curie : mentre sarebbe in ogni caso incom prensibile, che le curie si
potessero suddividere in gentes (1 ). 192. Conchiudendo si può dire: che la
ripartizione in tribù , qualunque potesse esserne la significazione primitiva,
tende a cam biarsi in una divisione territoriale, ossia in una ripartizione del
l'ager; che il populus, ricavato per selezione dalle genti e dalle tribù,
dividesi in curiae, che sono corporazioni religiose, politiche e militari ad un
tempo, i cui quadri sono regolari, come quelli diun esercito , cosicchè riunite
possono costituire sotto un certo aspetto un esercito e sotto un altro aspetto
un'assemblea politica, e sotto altro assumono eziandio un carattere sacerdotale
, che fu quello (1) Che le decuriae non debbano confondersi colle gentes, ma
debbano invece ri cercarsi piuttosto negli equites e senz'alcun dubbio anche
fra i patres del senato, è provato anzitutto da ciò , che il senato fin dai
primi tempi si divideva senz'alcun dubbio in decuriae, il che dovette pure
essere degli equites, il cui corpo , secondo OVIDIO , Fast., III, 130
dividevasi appunto in dieci squadroni o turme, così chia mate « quasi turimae,
quod ter deni equites, ex tribus tribubus Titiensium , Ramnium , Lucerum
fiebant » ( V. Festo , vº Turmam ). Del resto la divisione del senato in de curiae
fu ancora mantenuta nelle coloniae e nei municipia , dei quali si sa , che
erano organizzati sul modello stesso della metropoli. Cfr. in proposito Belot,
His toire des chevaliers romains, I, pag. 151, 152 ; e il Bloy, Les origines du
Sénat romain . Paris , 1883, pag . 102-105 . 235 - che serbarono più a lungo,
allorchè già avevano perduto le altre funzioni politiche e militari ; che da
ultimo il corpo scelto degli equites e dei patres dividesi in decuriae. Questo
è certo ad ogni modo, che nel populus non deve più essere cercata la riparti
zione in gentes, delle quali solo si può dire ciò , che Cicerone disse più
tardi della famiglia , che esse cioè erano il seminarium reipublicae, perchè da
esse ricavavasi il contingente, che entrava a costituire le curie . § 3. — Il
pubblico potere e gli aspetti essenziali del medesimo (regis imperium , patrum
auctoritas, populipotestas). 193. Intanto questo esame del populus e della sua
composizione può facilmente condurci a spiegare in qual modo abbia potuto sboc
ciare nel seno del medesimo il concetto del pubblico potere , ed in quali forme
esso siasi venuto manifestando. I vocaboli sono qui una guida incerta , poichè
il potere in genere viene ad essere indicato , ora col vocabolo di potestas, ed
ora con quello di imperium ; ma l'in certezza, che è nei vocaboli, può essere
tolta di mezzo, se si riesca a ricostruire il processo logico , che in questa
parte seguirono i Romani. Anche a questo riguardo esistevano degli elementi ,
che già erano preparati nell'organizzazione preesistente. Per unificare la
città , presentavasi acconcia la figura del padre; per consultarsi nei momenti
più difficili , eravi il consiglio degli anziani; e in fine per deliberare
intorno alle cose, che riguardavano il comune interesse, già si conosceva
l'assemblea della tribù . Erano così in pronto l'elemento monarchico,
l'aristocratico e il democratico ; nė ai fondatori della città patrizia poteva
ripugnare, che queste con figurazioni dell'organizzazione gentilizia fossero
trasportate nella nuova comunanza. L'imitazione dell'antico avrebbe conciliato
rive renze alle istituzioni novelle, e quindi tutte queste estrinsecazioni del
potere, preesistenti nell'organizzazione anteriore, ricompariscono nella città
; ma intanto il concetto ispiratore viene ad essere com piutamente diverso . Il
re infatti non è più tale per nascita , ma è creato dall'elezione ; il che deve
pur dirsi del senato , e fino anche dei comizii del popolo, i quali non sono
una moltitudine, ne una folla , in qualsiasi modo congregata, ma costituiscono
un esercito di uomini di arme, ed un'assemblea , debitamente organizzata , di
uomini di senno e di consiglio . Il re, il senato ed il popolo, adu 236 nato
nei comizii, vengono così ad essere i tre organi essenziali, in cui si
estrinseca il pubblico potere nella costituzione primitiva di Roma. 194. Quanto
al vocabolo adoperato per significare questo supremo potere, la cosa è dubbia,
poichè occorrono in significazione generica ora quello di potestas, ed ora
quello di imperium . Dei due vocaboli tuttavia quello , che a mio avviso appare
più largo e comprensivo, è certamente il vocabolo di potestas, il quale , per
la propria ge neralità , può facilmente adattarsi ad indicare qualsiasi
gradazione del pubblico potere. Esso quindi si applica talora per significare
il potere del magistrato (potestas regia , consularis, censoria ); quello del
popolo (populi potestas) e talvolta eziandio quello del senato , al modo stesso
che può anche adoperarsi per significare il potere domestico e privato .
Potestas insomma, nella sua significa zione più larga, indica il potere,
riguardato in tutte le sue mol teplici manifestazioni; il che però non toglie ,
che, contrapponen dosi talvolta lo stesso vocabolo a quello di imperium , possa
anche assumere una significazione più circoscritta (1). L'espressione quindi (
1) Questa incertezza di significazione fra potestas ed imperium è notata, fra
gli altri, dal KARLOWA, Röm . R. G., I, pag. 84, il quale trova eziandio, che
il voca bolo di potestas ha una significazione più generica. Così pure la pensa
il MOMMSEN , secondo il quale il vocabolo di potestas esprime l'idea più larga
, e quello di impe rium la più ristretta ; sebbene ciò non tolga, che nel
linguaggio corrente il vocabolo di imperium siasi poscia riservato alle magistrature
maggiori,mentre si adoperò quello di potestas per i magistrati, che non avevano
imperium . Ciò risulta dal passo di Festo ivi citato : « Cum imperio dicebatur
apud antiquos, cui nominatim a populo dabatur imperium ; cum potestate est,
dicebatur de eo , qui negotio alicui praeficiebatur » . Le droit public romain
, I, pag. 24. Lo stesso autore poi osserva , che quel vocabolo di imperium ,
che in un senso tecnico indicava in genere il potere del magistrato, in un
senso ugualmente tecnico e più frequente indicava il comando militare. Op.
cit., I, pag. 135. Parmi tuttavia, che queste apparenti incoerenze nella
significazione di questi vocaboli vengano a dileguarsi, quando si ritenga, che
il vocabolo di potestas indicava il potere pubblico in genere, mentre quello di
imperium usavasi di prefe renza per il potere del magistrato, e più
specialmente ancora per l'imperium militiae. Anche nell'indicazione del potere
privato del capo di famiglia accadde alcun che di analogo . Questo potere
infatti in origine era indicato col vocabolo generico dimanus o di potestas ;
ma ciò non tolse, che questi vocaboli abbiano poi designato i singoli aspetti
di questo potere, cioè la manus il potere del marito sulla moglie, e la po
testas quello del padre sui figli. Ciò significa , che i vocaboli presentansi
dapprima con una significazione più larga, che corrisponde al vigore sintetico
di quei concetti primitivi, di cui sono l'espressione ; ma quando poi questi
concetti si vengono diffe renziando nei varii loro aspetti, il vocabolo
primitivo suol sempre essere mantenuto per significare in modo più specifico
uno di tali aspetti. 237 - più generale del potere viene ad essere quella di
publica potestas; ma siccome poi esso può atteggiarsi sotto aspetti diversi ,
così ben presto nella indeterminazione primitiva , compariscono i vocaboli, che
esprimono gli atteggiamenti diversi, che il medesimo viene ad assumere. Tali
sono i vocaboli di imperium , che applicasi di prefe renza al potere del
magistrato ; quello di auctoritas, che sopratutto si accomoda al senato; e
quello infine di potestas, che, applicato al popolo , indica il potere di esso
, in quanto iubet atque constituit (1), Tutti questi concetti sono ancora vaghi
ed indeterminati: ma intanto sono concepiti in una sintesi potente , che
renderà possibile a cia scuno di ricevere uno svolgimento pressochè indefinito
. 195. Ciò può scorgersi anzitutto quanto al concetto di imperium , che indica
di preferenza il potere del magistrato. Il medesimo, nel concetto romano, non
esce dalla nascita , nè dalla investitura divina; ma esce dall'accordo delle
volontà, che concentrano ed unificano in esso il potere, che prima era disperso
fra i singoli capi di fa miglia , alla cui potestà trovasi talvolta applicato
il vocabolo stesso di imperium . Per esprimere un tal concetto non poteva
esservi im magine più efficace, che quella di raccogliere e di riunire quelle
aste, che sono l'emblema del potere spettante ai singoli quiriti (2 ). (1) Che
il potere del re e degli altri magistrati maggiori, che a lui sottentrarono più
tardi, sia di regola indicato col vocabolo di imperium , è cosa che appare da
tutti gli antichi scrittori. È poi sopratutto CICERONE, che accenna a queste
varie distin zioni, allorchè afferma che « potestas in populo, auctoritas in
senatu est » . De le gibus III, 12, § 28 ; distinzioni, che egli fa rimontare
fino agli inizii di Roma, in quanto che, parlando di Romolo, scrive : « vidit
singulari imperio et potestate regia tum melius gubernari et regi civitates,
esset optimi cuiusque ad illam vim do minationis adiuncta auctoritas » , nel
qual passo il potere regio viene efficacemente chiamato vim dominationis,
mentre quello del senato è indicato con quello di au ctoritas. De rep ., JI, 8
. (2) Magistratus, scrive a questo proposito il Mommsen, è l'individuo
investito di una magistratura politica regolare, in quanto essa emana
dall'elezione del popolo ( Le droit public romain, I, pag. 8 ) ; e aggiunge poi
a pag. 10 , che il magistrato , quanto alle forme esteriori, è appunto colui,
che ha diritto di portare i fasci dentro la città . Ora se il magistrato è
l'eletto del popolo, e se i fasci, che simboleggiano i poteri riuniti dei
quiriti, sono l'emblema del suo potere, non so veramente com prendere, come
siasi potuto sostenere, in parte dallo stesso Mommsen , che il re non riceva il
proprio potere dal popolo : tanto più , che gli scrittori antichi parlando del
popolo usano le espressioni di imperium dare, magistratum creare, iubere, sibi
ad scire e simili. 238 Per tal guisa , dal fascio delle armi usci il fascio dei
littori, e si frapposero in esso anche le scuri, che simboleggiano quel ius
vitae et necis, il quale apparteneva al capo di famiglia , e non poteva perciò
essere negato al capo della città . È tuttavia degno di nota, che questo
imperium , formatosi mediante la riunione dei poteri spettanti a ciascuno ,
appena costituito apparisce pauroso per coloro stessi, che ebbero a conferirlo,
in quanto che le sue stesse insegne esteriori ( fasces) indicano, come al
disopra del potere dei singoli siasi formato un potere collettivo, a cui tutti
debbono inchinarsi. È questa la causa, per cui, davanti ai fasci dei littori,
si apre la molti tudine e la folla per lasciare il passo a quel magistrato, il
quale , mentre è il frutto dell'elezione di tutti, viene ad essere imponente e
pauroso per ciascuno ; e che se il magistrato ordini al littore « col liga
manus » , il cittadino non osa sottrarsi al comando. 196. Intanto in questa
prima concezione del potere del magi strato , non si potrebbe certamente
aspettare, che siano determinati i confini, in cui il medesimo debba essere
contenuto. La necessità di un elemento unificatore è universalmente sentita ,
trattandosi di una città , che fin dalle proprie origini era il frutto della
con federazione di elementi eterogenei e diversi ; né si può aspettare, che un
popolo , il quale non pose dapprima alcun limite al potere giuridico del capo
di famiglia , possa cercare di mettere dei confini alpubblico potere del
magistrato. Il medesimo percid compare senza limitazione di sorta ; è potere
religioso, militare, politico e civile ad un tempo ; ed è concepito in una
sintesi cosi potente, che, secondo il Mommsen , per ricostruire il potere
primitivo del re, con viene in certo modo ricomporre quei poteri, che si
vennero poi di stribuendo fra tutte le magistrature più elevate di Roma, quali
sono il console , il pretore, il dittatore ed il censore ( 1). Fu solo
l'esperienza, che venne dopo, che fece conoscere come del potere possa abusare
anche un eletto dal popolo, e in allora si assiste ad una singolare
scomposizione del potere primitivo del re, per cui ogni sua particolare
funzione finisce per dare origine ad una ma gistratura speciale . Tuttavia ,
anche allora, cercherebbesi indarno una circoscrizione netta di qualsiasi
potere, cosicchè il magistrato ro mano, che può talvolta essere reso impotente
per un atto di minima ( 1) Mommsen, Op. cit., pag . 5 e 6 . 239 importanza,
viene ad avere un potere pressochè senza confini, al lorchè trovasi appoggiato
e sorretto dalla pubblica opinione. 197. Lo stesso è a dirsi della patrum
auctoritas. Anche qui occorre un vocabolo, che come quello di potestas ,
presentasi con significazione alquanto vaga ed indeterminata , e che trovasi
applicato eziandio, cosi in tema di diritto pubblico che di diritto privato .
Chi ben riguardi tuttavia non potrà a meno di notare, che il vocabolo
auctoritas, nella varietà delle significazioni, che sogliono essergli
attribuite, significa costantemente l'appoggio, l'approvazione, la ga ranzia ,
che si arreca o si assume per un determinato atto . Tale è la significazione
fondamentale di questo vocabolo, sia quando parlasi di iuris auctoritas, di
usus auctoritas, sia anche quando è questione di tutoris auctoritas, o del
venditore, il quale, dovendo garentire l'evizione al compratore, auctor fit
dirimpetto al medesimo. Or bene anche questa è la significazione del vocabolo
di patrum auctoritas. Da una parte havvi il re, che agisce ed esercita
l'imperium , dal. l'altra il popolo, il quale iubet atque constituit ; mentre
il senato trovasi nel mezzo, e cosi da una parte dà i suoi consilia almagi
strato, dall'altra auctor fit , cioè accorda la propria approvazione alle
deliberazioni del popolo (1). Esso componesi di persone, alle quali, per la
loro età e per il loro grado, si appartiene non tanto l'agere, quanto il
consulere, e quindi, senza avere propria iniziativa, completa in certo modo
l'opera dell'uno e dell'altro ; poichè per mezzo del senato le misure prese dal
re vengono ad avere l'autorità e l'appoggio del suo consiglio , e le delibera
zioni del popolo ricevono consistenza ed autorità , mediante la sua
approvazione . Finchè dura il periodo regio, il concetto si man tiene ancora
vago ed indeterminato ; ma durante il periodo repub blicano quest'autorità ,
essenzialmente consultiva , riceverà una lar ghissima esplicazione, e finirà
per penetrare in qualsiasi argomento; e quindi può affermarsi a ragione, che la
grandezza di Roma non fu (1 ) L'ufficio consultivo, che il senato compie
rispetto al re, è bellamente espresso da CICERONE, allorchè dice di Romolo : «
Itaque hoc consilio et quasi senatu fultus » . De rep., II, 8. Quanto poi
all'auctoritas, che il senato esercita rimpetto al populus, essa non può
certamente pareggiarsi coll' auctoritas tutoris dirimpetto al pupillo , perchè
non trattasi qui di integrare una personalità incompleta; ma bensì di recare il
sussidio e l'autorità, che viene dall'età e dall'esperienza , ai provvedimenti,
che ri guardano il pubblico interesse. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., I, pag . 47 .
240 solo opera della fortezza del suo popolo , nè dell'energia del suo ma
gistrato, ma benanco della sapienza del suo senato. Per i Romani ebbe
importanza l'agere e il iubere; ma l'uno e l'altro dovettero essere temperati
dal consulere. 198. Intanto, dacchè sono in quest'argomento, importa qui di
accen nare alla questione tanto controversa , fra gli autori, circa la signifi
cazione da attribuirsi al vocabolo di patrum auctoritas : col qual vocabolo
alcuni intendono l'approvazione del senato ; altri invece l'approvazione, che,
durante i primi secoli della repubblica, i pa trizii delle curie dovevano dare
alle deliberazioni prese negli altri comizi; mentre altri infine ritengono, che
con esso intendasi l'ap provazione dei senatori esclusivamente patrizii (1 ).
Sembra a me, che la questione possa essere risolta in modo assai più naturale e
più verosimile, quando si abbia presente che, in una lunga evoluzione storica ,
quale è quella della costituzione politica di Roma, una stessa espressione può
in varii periodi di tempo anche assumere significazioni compiutamente diverse .
Durante il periodo regio , il vocabolo di patrum auctoritas significò
senz'alcun dubbio l'approvazione del senato; perchè nella città esclusivamente
patrizia erano chiamati col nome di patres i senatori, mentre gli altri capi di
famiglia costituivano il populus e l'assemblea delle curie . Più tardi invece,
allorchè, accanto ai comizii curiati, si vennero for mando anche i comizii
centuriati, ed anche i comizii tributi, il vo cabolo di patres o patricii potè
naturalmente comprendere tutto l'ordine patrizio, il quale costituiva veramente
l'ordine dei patres e dei patricii di fronte al rimanente del popolo , ed aveva
ancora una propria assemblea, che era quella appunto delle curie. Di qui (1)
Questa è una delle questioni più controverse, che presenti la storia politica
di Roma, e credo veramente, che la causa del dissenso provenga dalla
supposizione, che un medesimo vocabolo in una lunga evoluzione storica debba
sempre avere una medesima significazione. Le opinioni diverse sostenute dagli
autori possono vedersi riassunte dal WILLEMS, Le droit public romain , 5me éd
., Paris 1883 , pag . 208 e dal Bouché-LECLERCQ , Manuel des institutions
romaines, Paris 1886, pag. 16 , nota 1. Di recente la questione ebbe ad essere
trattata con grande chiarezza ed eradizione dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum
nell'antica Roma nelle sue diverse forme (Rivista di filologia , 1884, pag .
297 a 395. Così pure ebbe nuovamente a trattarla il KARLOWA, op . cit ., pag.
42 a 48; il quale finisce per associarsi all'opinione già soste nuta dal
Rubino, che l'auctoritas patrum debba ritenersi per l'approvazione dei se
natori patrizii. 241 la conseguenza , che d'allora in poi, per indicare
l'approvazione del senato si usd di preferenza il vocabolo di senatus
auctoritas, in quanto , che il senato aveva già cessato di essere composto
esclusi vamente di veri patres, e cominciava a raccogliersi fra gli equites e
più tardi fra i magistrati uscenti di uffizio (patres et conscripti); mentre il
vocabolo di patrum auctoritas potè servire acconciamente per indicare la
ratifica, che i comizii curiati, composti ancora dell'ele mento patrizio ,
dovevano dare alle leggi ed alle altre deliberazioni, che fossero state votate
nelle altre riunioni comiziali; il che è dimo strato da ciò , che si usano
promiscuamente le espressioni « patres o patricii auctores fiunt » . Siccome
però in questo periodo, il senato è ancora essenzialmente l'organo del
patriziato, così si comprende come posteriormente, allorchè la necessità della
patrum auctoritas era stata abolita , l'espressione siasi talvolta adoperata
per significare l'una o l'altra approvazione ( 1). ( 1) Nella gravissima
questione, che è tuttora aperta , gli unici argomenti, vera mente saldi, di cui
possiamo valerci, sono i seguenti: 1° Che l' auctoritas patrum , durante il
periodo regio esclusivamente patrizio, non potè significare che l'approva zione
del senato, come risulta dal racconto di Livio , relativo all'elezione di Numa,
ove i patres, qui auctores fiunt, non possono essere che i senatori. Hist. I,
17 , ed anche da Cicerone, il quale, comesopra si è visto, attribuisce
l'auctoritas al senatus ; 2° Che colla Repubblica il senato continuò senz'alcun
dubbio ad approvare le deli berazioni curiate e centuriate, ed anche tribute,
in quanto che parlasi più volte di senatus auctoritas, come risulta da Livio,
XXXII, 6 ; IV , 46, ove i colleghi di Sestio di chiarano : nullum plebiscitum
nisi ex auctoritate senatus passuros se perferri ; 3º Che oltre a questa
approvazione del senato si parla sovente di patres o di patricii auctores
sopratutto da Livio , ogni qualvolta trattasi di proposta di un interrex , o di
qualche provvedimento voluto dalla plebe. Hist. III, 40 , 55 , 59; IV , 7, 17,
42 , 43 ecc. Ora quest'ultime parole non possono più riferirsi al senato, e
quindi l'unica conclusione probabile viene ad essere, che, siccome l'assemblea
delle curie, composta di patricii, era in certo modo stata esclusa dalla
formazione delle leggi, la quale era passata invece ai comizii centuriati, che
erano la vera riunione del populus, così essa , accid ritenesse sempre una
parte nella formazione delle leggi, è stata chiamata a dare la patrum o
patriciorum auctoritas, che venne così ad essere distinta dalla senatus au
ctoritas. Cid fu una conseguenza della modificazione introdottasi nella
costituzione colla introduzione dei comizii centuriati, e del principio
ispiratore della costituzione primitiva , secondo cui, per la formazionedella
legge, richiedevasi il concorso di tutti gli organi politici dello stato . Ciò
che è accaduto dell'auctoritas patrum , si è pure verificato della lex curiata
de imperio, ed anche della proposta dell' interrex , che pure appartengono
all'assemblea esclusivamente patrizia , quale fu per qualche tempo ancora quella
delle curie; mentre il Senato, avendo anch'esso accolto in parte l'ele mento
plebeo, aveva seguito lo svolgersi della costituzione , e aveva così cessato di
G. CARLE , Le origini del diritto di Roma. 16 - 212 199. Viene infine la
potestas populi, e a questo riguardo io non dubito di affermare, che essa nel
concetto della costituzione pri mitiva di Roma, debbe essere considerata come
la sorgente di ogni altro potere . Alcuni autori trovano ripugnante, che Roma
sia sen z'altro pervenuta al concetto della sovranità popolare, e quindi
cercano di dare, come fondamento all'imperium del magistrato, il concetto degli
auspicia , che essi considerano come una specie di investitura divina (1 ).
Parmi invece, che la genesi dello Stato romano essere esclusivamente patrizio.
Insomma, coll'accoglimento della plebe nel populus quiritium , il vero potere
legislativo viene a portarsi nei comizii centuriati; ma in tanto l'assemblea
delle curie conserva l'auctoritas patrum , la lex curiata de imperio, e la
proposta dell'interrex. Certo è una congettura anche questa , ma mentre essa
non contraddice ai passi degli antichi autori, corrisponde allo spirito della
costitu zione primitiva , in cui ogni organo politico deve aver parte nella
formazione delle leggi e nell'elezione del magistrato, ed al sistema romano,
che, pur introducendo un nuovo organo politico, suole ancora mantenere per
riverenza e per culto quelli, che esistevano precedentemente. Il vero intanto
si è, che queste varie funzioni dell'as semblea delle curie non avevano più una
vera ed effettiva influenza, poichè la lex curiata de imperio divenne una
semplice formalità, la proposta dell'interrex era una reliquia del principio,
che auspicia ad patres redeunt, e la patrum auctoritas soleva solo essere
negata, quando trattavasi di opposizione d'interessi fra patriziato e plebe.
Dovrò ritornare sull'argomento nel Capitolo III, al § 1° e 2°, discorrendo
dello svol gimento storico del concetto di lex , e di quello dell'interregnum .
Del resto delle opinioni poste innanzi dagli autori quella, che parmi la meno
probabile, è quella adottata dal KARLOWA, op . cit., pag. 42 a 48, che intende
per patrum auctoritas l'approvazione dei soli senatori patrizii, perchè essa
non si concilia coll'espressione dei patricii auctores fiunt, patricü coeunt,
interregem produnt e simili, e perchè crea una divisione nel senato, che è
incompatibile col carattere di unità coerente, che ebbe sempre questo corpo.
Mentre l'assemblea delle curie diventava una soprav vivenza dell'antica'
costituzione, il senato invece si mantenne sempre vigoroso e vi tale, e subì
modificazioni analoghe a quelle del populus, senza mai portare le traccie di
dissidii che fossero nel suo seno , poichè la nobiltà plebea , che entrava in
esso, aveva già le stesse tendenze dell'antico patriziato. Che poi il vocabolo
di patres, in questo periodo, fosse venuto a significare in genere l'ordine
patrizio, è dimostrato in modo incontrastabile da quella disposizione della
legge decemvirale: « connubium patribus cum plebe ne esto » , dove il vocabolo
patres non comprende certo soltanto i senatori, ma tutti i patrizü ; come pure
dal fatto, che gli storici parlano soventi dei iuniores patrum , la cui
intransigenza è condannata dal senato. (1) Parmi, che questa proposizione sia
abbastanza provata dalle espressioni ado. perate dagli autori per significare
il potere del popolo. CICERONE, ad esempio, parla di questo potere, dicendo che
il populus regem sibi adscivit, creavit, iussit, constituit ; espressioni, che
indicano abbastanza, che la potestà suprema, a suo avviso, risiedeva presso il
popolo. Lo stesso è da lui confermato , allorchè nel discorso de lege agraria 2
, 7, 17 dice: « omnes potestates, imperia , curationes ab universo populo
romano 243 dovesse logicamente condurre al risultato di riporre la sorgente del
pubblico potere nella sovranità popolare, circondandola però di quel l'aureola
religiosa, che occorre in tutte le primitive istituzioni di Roma. Lo Stato
romano esce dalla confederazione e dal contratto , e quindi al modo stesso ,
che la patria riceve la sua denominazione dai patres; così il potere pubblico
si forma mediante la riunione del potere, che appartiene ai singoli quiriti, e
che è rappresentato dalla lancia , di cui essi sono armati. Quanto agli
auspicia , che appar tengono al magistrato, essi non mirano, che a dare una
consacra zione religiosa al potere stesso, e a metterlo in condizione di sapere
giudicare, se questo o quel provvedimento , da prendersi nel pubblico
interesse, possa essere o non accetto agli dei. Che anzi gli auspicia publica
del magistrato debbono considerarsi essi stessi come una trasmessione, che i
padri fanno al magistrato di quegli auspicia , che appartengono a ciascuno di
essi. Cid è dimostrato dal fatto che, du rante l'interregno , gli auspicia ritornano
ai padri (ad patres re deunt auspicia ); il che significa, che in origine
dovevano appartenere ai padri stessi, i quali, nell'interesse delle loro genti
e famiglie , as sumevano quegli auspicii, che il magistrato romano doveva
invece consultare , quando si trattasse di qualche deliberazione importante per
il popolo stesso . Tuttavia se ai patres tornano gli auspicia , è però sempre
al populus, che spetta di creare il magistrato , che debba succedere
nell'imperium , come lo dimostra la tradizione, per venuta fino a noi, della
elezione diNuma. Si aggiunge, che è solo dopo il conferimento dell'imperium ,
fatto mediante la lex curiata de imperio, che il re dapprima e le magistrature,
che gli sottentrarono più tardi, possono entrare nell'adempimento del proprio
uffizio. Ri tengo pertanto, che a questo proposito non possa essere accolta
l'opi nione del Mommsen, la quale riesce pure inammessibile per il Kar
proficisci convenit ». Lo stesso è indicato da Festo, allorchè parlando del
magi stratus cum imperio, dice, che esso è quello al quale « a populo dabatur
imperium » . Malgrado di ciò convien dire, che l'opinione contraria, come si
vedrà in seguito, ha la prevalenza presso gli autori anche recenti, che si
occuparono dell'argomento. Si accostano però al concetto da me sostenuto il
Mainz, Introd . au cours de droit romain . Bruxelles, 1876 , nº. 6 , pag . 33,
ed il GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, il quale fino
dapprincipio afferma molto chiaramente e giusta mente, a parer mio , che « i
pastori della leggenda riconoscono Romolo per capo supremo; ma, pur
conferendogli la somma autorità , riguardano ancor sempre se stessi quali
depositarii, e quasi natural sorgente della sovranità » . 244 - lowa, secondo
la quale la lex curiata de imperio non conferirebbe l'impero , ma soltanto
vincolerebbe il popolo verso il re (1). Se cosi fosse infatti, il magistrato
dovrebbe poter esercitare il proprio ufficio , anche prima di aver ricevuto
questa specie di giuramento di fedeltà , che servirebbe ad obbligare il popolo
, ma nulla aggiungerebbe al suo potere. Il vero invece si è , che anche in
questa appare il carattere eminentemente contrattuale della costituzione
primitiva di Roma, per cui anche il conferimento del potere supremo si opera
colla forma propria della stipulazione, in quanto che havvi il magistrato , che
prima di entrare in ufficio rogat imperium , ed havvi il popolo, che con una
legge glie lo conferisce: e intanto l'uno e l'altro co noscono i diritti e le
obbligazioni, che una legge di questa natura può loro conferire. Una prova poi
di questo riconoscimento della sovranità popolare l'abbiamo per parte del
patriziato , in quel fatto di Valerio Pubblicola , che in tempo di pace e
dentro la città ordinava ai littori di abbassare i fasci, e di togliere
daimedesimi le scuri, come pure nel fatto , che gli imperatori, quando già si
erano fatti onnipotenti, sentirono il bisogno, per rispettare un tradizionale
concetto , di essere investiti dell'imperium dal popolo. 200. Intanto però il
concetto , che il potere supremo risiedesse nel popolo , non poteva in nessun
modo affievolire l'imperium : poichè al modo stesso che il popolo doveva
ubbidire alle leggi, che si erano (1 ) Che il magistrato non possa entrare in
ufficio , e tanto meno esercitare l'im perium , prima della lex curiata de
imperio, è provato da due passi di CICERONE, nei quali si dice : « consuli, si
legem curiatam non habet, rem militarem attingere non licet » (De lege agraria,
II, 12, 30 ) e più genericamente ancora : « sine lege cu riata nihil agi per
decemviros posse » ( Ibidem , II, 11, 28). Dal momento quindi, che il concetto
dell'imperium dei consoli è in tutto identico a quello del regis im perium ,
non si comprende come il Mommsen , Staatsrecht, I, 588 s. possa ridurre la lex
curiata ad un semplice giuramento di fedeltà, che vincola i soli sudditi, e
meno an cora , che il Karlowa, op. cit., I, pag. 52 e 82 possa sostenere, che
la lex curiata de imperio non sarebbe entrata in azione, che colla costituzione
Serviana, ossia colla in troduzione dei comizii centuriati, i quali avrebbero
conferita la potestas, mentre i comizii curiati avrebbero poi conferito
l'imperium . Ciò è contraddetto ripetutamente da CICERONE, de Rep . II, 10, 17,
18 , 20, che parla appunto della lex curiata de imperio a proposito dei primi
re. Non solo deve negarsi , che questa lex entrò in azione solo colla
costituzione Serviana ; ma deve dirsi piuttosto, che essa da quel momento perde
della propria importanza e riducesi ad una semplice sopravvi venza dell'antico
ordine di cose, in cui erano i patres, che investivano il re del. l'imperium ,
e a cui ritornavano gli auspicia . - 245 da lui votate nei comizi, così esso
doveva eziandio inchinarsi al potere, che aveva conferito al magistrato per
mezzo di una pro pria legge. Che anzi questo potere riusciva tanto più efficace
ed imponente, in quanto si fondava sopra una volontà collettiva , che ve niva a
sovrapporsi alla volontà dei singoli. Ed è anche questo il mo tivo , per cui il
potere del magistrato romano veniva in certo modo ad essere senza confini,
finchè aveva l'appoggio della pubblica opinione . Fermo cosi il concetto della
costituzione primitiva di Roma, quale esce dalla logica delle istituzioni
(logica , che nel fatto dovette anche essere più rigorosa e coerente di quella,
che a noi possa esser riu scito di ricostruire ), riescirà più facile di
ricomporre insieme i cenni, che gli autori ci conservarono di questa primitiva
costituzione e di comprendere il vero ed intimo significato della
medesima. § 4 . Il re ed il regis imperium . 201. Dei concetti politici
del periodo regio, quello che presentasi modellato in modo più vigoroso e
potente è certamente il potere del rex . Tutti i poteri infatti, che nel
periodo anteriore, presso le genti latine, erano indicati coi vocaboli di
magister populi, di magister pagi, di dictator , di praetor , di iudex
appariscono fusi e concentrati nella concezione sintetica del regis imperium .
Per tal modo il con cetto del rex da una parte inchiude la sintesi di tutte le
manifestazioni del potere , che eransi avverate nel periodo gentilizio , e
dall'altra è il punto di partenza,da cui prendono le mosse tutti i poteri, che,
durante il periodo repubblicano , saranno poi affidati alle diverse
magistrature maggiori. Il rex nel concetto romano è l'unificazione potente del
populus; accoglie in sè la somma dei poteri, che possono essere necessarii
nell'interesse della cosa pubblica ; nė vi ha costituzione scritta , che gli
prescriva alcun limite nell'esercizio dei medesimi. Cid però non toglie, che questi
limiti esistano di fatto nel costume pubblico e privato; nel bisogno
incessante, che il re ha dell'appoggio della pubblica opinione; ed anche negli
imbarazzi, che gli possono creare i padri, ogni qualvolta egli volesse spingere
troppo oltre la propria azione. Capo del populus, egli è custode eziandio della
città spiega la vita pubblica (custos urbis), e deve avere la propria casa nel
cuore stesso della città , accanto al sito , ove deve bru 246 ciare perenne il
focolare della vita pubblica , che si conserva nel tempio di Vesta . Che se,
per provvedere al pubblico interesse , debba abbandonare la città , dovrà
lasciare nella medesima un proprio delegato , che prenderà il nome di
praefectus urbis. È quindi anche il re , che provvede al lustro esteriore della
città , che progetta e costruisce quelle opere grandiose, che già rimon tano
all'epoca regia , e che non furono le meno durature fra quelle costruite
nell'eterna città . È nella successione dei re parimenti, che può scorgersi una
continuità nel grandioso intento di ampliarne le mura e le fortificazioni;
lavori tutti, le cui reliquie dimostrano abbastanza, come trattisi di un
concepimento, che già presentatosi ai primi re , ebbe poi ad essere continuato
da quelli, che vi suc cedettero, non eccettuato quello , che aspird alla
tirannide . 202. Cid quanto alla custodia materiale dell'urbs. Che se si con
sidera dirimpetto al populus, il re, condottiero di un popolo , che è ripartito
in curie, le quali hanno un carattere religioso, militare e politico ad un tempo,
riunisce in sè tutti questi caratteri. Finché dura il periodo regio, il
magistrato non è solo il capo dell'esercito (impe rator) od il magister populi,
o il giudice cosi in tempo di pace che in tempo di guerra, ma è anche il sommo
sacerdote del popolo romano. Esso è augure sommo, e tale appare Romolo stesso ;
è pontefice massimo, come lo dimostra il fatto, che questa ' magistratura sacer
dotale del popolo romano compare soltanto colla repubblica , allorchè sentivasi
già il bisogno di limitare in qualche modo il sovrano po tere, disgiungendone
la parte che si riferiva alla religione, la quale ebbe ad essere ripartita fra
il pontifex maximus ed il rex sa crorum ; e fino a un certo punto esso è ancora
il pater patratus del popolo romano, come lo dimostra il fatto, che nelle
descrizioni dei più antichi trattati sono i capi dei due popoli, che vengono
alla stipu lazione del foedus e al compimento solenne delle cerimonie del ius
foederale o foeciale, mentre gli eserciti si limitano a salutarsi re
ciprocamente, e così approvano tacimente l'opera dei proprii capi (1). Verò è ,
che già fin dal periodo regio noi troviamo l'istituzione dei collegii
sacerdotali, ma questa creazione è opera del re stesso , nè essi hanno, anche
nella città patrizia, alcuna partecipazione diretta all'e (1) Ciò appare dal
seguente passo di Livio, I, 1, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri :
« inde foedus ictum inter duces, inter exercitus salutationem factam » . - -
247 sercizio del pubblico potere; ma sono soltanto, come si dimostrerà a suo
tempo, depositarii e custodi delle tradizioni giuridiche, politiche ,
internazionali delle genti e delle tribù , da cui essi sono tolti, e aiu tano
così il re nella opera di unificazione legislativa , che dovette essere urgente
cosa e difficile negli inizii di Roma, per trattarsi di città , che risultava
dalle confederazioni di genti, che appartenevano a stirpi diverse (1). Vero è
parimenti, che durante il periodo regio già appariscono altre cariche, quali
sono quelle del tribunus celerum , dei quaestores parricidii, e deiduumviri
perduellionis ; ma anche questi non sono che ufficiali dipendenti dal re, e da
lui nominati . Di qui la conseguenza, che è solo il re o qualche suo delegato ,
che può essere preceduto dai fasci dei littori e dalle scuri, simbolo del
pubblico potere. È esso parimenti, che solo può convocare il popolo e il senato
, salvo che egli deleghi questo potere al tribunus celerum o al praefectus
urbis (2) . È quindi vero , che colla creazione del regis imperium si rias
sumono in una sintesi potente tutte le manifestazioni del magi stratus nel
periodo gentilizio, e si inizia lo svolgimento di tutti i poteri, che possono
convenire ad una comunanza civile e politica. Nel rex insomma, per usare una
espressione dello Spencer, termina l'integrazione del potere preparatasi nel
periodo gentilizio , e da esso incomincia quella differenziazione del potere
pubblico , che dovrà poi operarsi nella città . 203. Per quello poi, che si
riferisce ai poteri che sono inchiusi nell'imperium regis , indarno si
cercherebbero quelle decise ripar tizioni, che compariranno più tardi.
L'imperium regis è una con cezione logica , più che l'opera di una costituzione
scritta, e quindi egli può compiere tutto ciò , che può essere indicato coi
vocaboli di agere, di ius dicere, di rogare, di imperare. Egli deve pren dere
norma più dalla funzione, che è chiamato a compiere nella città , che non da
una precisa e particolareggiata determinazione del ( 1) Quanto al compito dei
collegi sacerdotali in Roma primitiva , mi rimetto a quanto avrò a dirne in
questo stesso libro, capitolo IV , § 2º. (2) Secondo il LANGE, Histoire
intérieure de Rome, pag . 115, sarebbe, valendosi di questo potere, che Giunio
Bruto , come tribunus celerum o Spurio Lucrezio Trici pitino , quale praefectus
urbis, avrebbero convocato il popolo, dopo la cacciata dei Tarquinii:
quantunque sia probabile, che in circostanze del tutto eccezionali non siasi
forse pensato all'adempimento di tutte le formalità. 248 proprio uffizio.
Tuttavia già fin da quest'epoca nel potere regio si possono distinguere
atteggiamenti diversi , che cominciano a diffe renziarsi mediante i vocaboli di
auspicia, di imperium domi, e di imperium militiae . A lui quindi si appartiene
di assumere gli au spicii , allorchè trattasi di qualche deliberazione, che si
riferisca al pubblico interesse , cosicchè, già fin da questo periodo, gli
auspicia publica si vengono a distinguere dagli auspicia privata . Nell' as
sumere tali auspicii potrà valersi dell'opera degli auguri , ma a questi solo si
appartiene la custodia dei riti e il compimento delle cerimonie tradizionali;
mentre è al re stesso, che si appartiene di giudicare se essi siano favorevoli
o non lo siano (1). Così pure ha l'imperium domimilitiaeque, col quale
incomincia una distinzione, le cui traccie si perpetuano per tutta la storia
politica e militare di Roma. Per verità , se i Romani credettero di porre dei
confini al l'imperium nei confini della città , e vollero che i consoli,
entrando nella medesima , facessero togliere le scuri dai fasci , e facessero
abbassare anche questi , allorchè concionavano il popolo, compresero però la
necessità, che le scuri fossero rimesse nei fasci, e che la provocatio ad
populum fosse tolta di mezzo , allorchè si trattava di mantenere la disciplina
dell'esercito ; quasi si potrebbe dire, che a Roma il re o il magistrato rogat
in tempo di pace, e imperat in tempo di guerra . In virtù dell'imperium
militiae, egli fa la leva (delectus) ed è capitano supremo in tempo di guerra
(2 ): nè può ammettersi l'opi nione, secondo cui il re sarebbe il duce della
fanteria , mentre il tribunus celerum sarebbe quello della cavalleria, in
quanto che quest'ultimo non è che un ufficiale da lui stesso nominato, e
quindi, sebbene guidi il proprio drappello, che forma il corteggio militare del
re, deve però sempre dipendere dagli ordini del capo supremo. In virtù poi
dell'imperium domi, il re convoca i comizi : ra duna il senato ; amministra
giustizia , non nella propria casa, ma all'aperto , in cospetto della
cittadinanza ; propone le leggi; e (1) Cfr. Mommsen, Le droit public romain , I
pag. 119, ove discorre della proce dura seguìta nel prendere gli auspicia , e
del compito affidato agli auguri. (2 ) Sulla distinzione fra l'imperium domi e
l'imperium militiae è da vedersi la trattazione magistrale del Mommsen, op. cit
., I, pag. 68 e 69 e sui poteri compresi nell'imperium militiae, ivi, pag . 135
e 157. Non occorre però di notare, che tutti questi poteri nell' epoca regia
sono, per dir così, allo stato embrionale, e solo più tardi ricevono tutto lo
sviluppo, di cui possono essere capaci. 249 infine nomina i cavalieri e i
senatori. Al qual proposito mi fo lecita la congettura, già accennata più
sopra, che nella costituzione primitiva di Roma i senatori ed i cavalieri , i
quali finirono poi per mutarsi in due classi o ordini sociali, indicati coi
vocaboli di ordo senatorius e di ordo equestris, furono due corpi scelti , in
base a un numero determinato , dall'assemblea delle curie . I primi scelti fra
i giovani, splendidi nella propria armatura, formano la corte militare del re;
mentre i secondi, scelti fra gli anziani, ne costitui scono il consiglio ;
donde la naturale distinzione, in cui vennero ad essere posti l'uno e l'altro
ordine, e le lotte perfino di prevalenza, che poterono esservi fra i medesimi,
allorchè l'uno e l'altro già eransi profondamente trasformati. Un indizio di
cið l'abbiamo in questo , che negli inizii di Roma sembra esservi una
correlazione fra il numero degli equites e quello dei patres , col numero delle
curie ; correlazione , che non tardd a scomparire, in quanto che il numero
degli equites si accrebbe coll'aumentare delle legioni, mentre il numero dei
patres si arrestò a trecento, fino agli ultimi anni della Repubblica. Di più il
senato costituisce un organo politico dello Stato, il che non può dirsi degli
equites , i quali hanno solo il pri vilegio di essere i primi chiamati a dare
il proprio voto (sex suf fragia ) nei comizii centuriati, al modo stesso, che
anche più tardi hanno, al pari dei senatori, un posto distinto nel circo per
assi stere ai pubblici spettacoli ( 1). 204. Questo è certo ad ognimodo, che
nella costituzione primitiva di Roma il re appare come l'elemento più operoso
ed intraprendente, per modo che la tradizione finisce per attribuire tutto
all'opera personale del re. Egli impone tasse , distribuisce terre , costruisce
(1) Parmi di scorgere un accenno all'idea qui svolta nel PANTALEONI, Storia ci
vile e costituzionale di Roma, I, nel IV ed ultimo appendice, ove discorre
dell'isti tuzione dei cavalieri a Roma e dell'ordine equestre, pag. 672 e segg.
È poi Livio , I, 35, che parla dei « loca divisa patribus equitibusque » nel
circo; altra prova questa, che essi formavano fin dagli inizii due ordini
distinti dal resto del popolo delle curie. È poi degna di considerazione l'idea
dello stesso Pantaleoni, secondo cui gli equites costituiscono non solo un
militaris ordo, ma anche un ordo civilis, in quanto che ciò serve a spiegare,
come essi abbiano poi potuto trasformarsi nel l'ordo equestris. Del resto
questo carattere militare e civile ad un tempo è inerente a tutto il popolo
delle curie, e a tutte le istituzioni primitive di Roma, eccettuato il senato ;
sebbene siavi chi attribuisce anche al senato un'origine militare. LATTES,
Della composizione del senato (Mem . Istituto Lombardo, 1870 ). 250 - edifizii
. Può darsi, che la tradizione colla sua tendenza a semplifi care e a
sintetizzare i processi seguiti, e a concentrare in un solo l'opera dei molti,
abbia in questa parte esagerata l'opera personale del re ; ma ad ogni modo,
quando si consideri che il primo periodo di Roma fu essenzialmente un periodo
di unificazione dei varii ele menti, che concorrevano alla formazione della
città , si dovrà sempre riconoscere, che la parte più operosa nel compito
comune doveva appartenere a quell'elemento , che era chiamata ad unificarle .
Allorchè trattasi della formazione di una città ( e si potrebbe anche dire di
uno Stato e di una nazione), importa sopratutto l'agere; soltanto si potrà fare
una parte maggiore al consulere, allorchè si tratterà di provvedere
all'amministrazione interna, o a quella delle provincie; sarà infine soltanto ,
allorchè saranno ferme le basi della grandezza dello Stato , che potranno
svolgersi largamente il iubere e il constituere. Cid intanto prova ad evidenza
che il potere del re in Roma pri mitiva aveva già assunto un carattere
essenzialmente politico e mi litare, come quello , che conteneva in germe tutti
quei poteri essen zialmente politici, che furono poscia affidati a magistrature
diverse . Nelle forme esteriori può ancora assomigliarsi ad un padre : ma nella
sostanza è già un principe, ossia il primo del popolo ( prin ceps), è il duce
dell'esercito , e il magistrato della città . § 5. — Il Senato e la patrum
auctoritas. 205. On carattere analogo può riscontrarsi eziandio nel senato ,
quale appare nella costituzione primitiva di Roma. Può darsi benis simo, che il
nome stesso di senatus sia una sopravvivenza dell'or ganizzazione gentilizia ,
come lo è certamente quello di patres , che fu dato ai senatori, e che essi
conservarono anche più tardi, allorchè certamente avevano cessato di esser
tali. Può darsi eziandio , che il primo concetto del senatus potesse essere
suggerito da quel consi glio domestico, che temperava talvolta il potere del
primitivo capo di famiglia, od anche dal consiglio degli anziani, che
provvedeva all'interesse comune della gente . Questo ad ogni modo è fuori di
ogni dubbio, che il senato romano assume fin dai proprii inizii un ca rattere
eminentemente politico, e che presentasi come l'applicazione di un concetto ,
che i Romani avevano profondamente radicato, il quale consisteva in ciò , che
tanto il regis imperium , quanto il iussus po 251 - puli abbisognassero di un
ritegno in quell'autorità , che viene ad essere attribuita dall'esperienza e
dall’età (1). Di qui conseguita , che la patrum auctoritas, allorchè
comparenella costituzione primitiva di Roma, non è un'autorità , i cui limiti
siano stabiliti e determinati; ma è anch'essa una costruzione logica , che potrà
col tempo rice vere tutto quello svolgimento, di cui può essere capace il
concetto ispiratore della medesima. Di essa, come dell'imperium regis, non
potrebbe dirsi quale sia l'influenza , che verrà ad esercitare sulle sorti di
Roma; solo si conosce la funzione che , in base al proprio concetto
informatore, è chiamata ad esercitare nella costituzione politica della città .
Saranno poi gli eventi, che additeranno al senatus la via che dovrà seguire, i
limiti in cui dovrà contenersi, e i casi eziandio , in cui dovrà forzare il
proprio ufficio e spingerlo perfino oltre i confini, in cui la logica
dell'istituzione dovrebbe contenerlo . 206. Siccome perd la funzione del
consulere, per essere una fun zione intermedia , ha per sua natura una
indeterminatezza molto maggiore, che non quella dell'agere e del iubere ; così
ne viene, che i poteri del senato presentano negli inizii ed anche nello svolgi
mento posteriore un carattere vago ed indeterminato , che dipenderà
dall'influenza effettiva e reale , che i membri, che lo compongono, saranno in
condizione di esercitare sull'andamento della cosa pubblica . Possono esservi
dei consigli che, per le persone da cui vengono, si cambiano in ordini ed in
comandi, per quanto siano accompagnati dalla formola « si eis videbitur » ; al
modo stesso , che possono esservi dei responsi e degli avvisi, che, per
l'autorità della persona, da cui partono, possono anche valere come sentenza ,
contro cui non sia consentito di appellare . Queste esplicazioni sono frequenti
nella lo gica romana, e sono esse, che possono spiegare in qual modo il se nato
, pressochè lasciato in disparte dallo spirito intraprendente dei re, che
dovevano preferire l'appoggio dell'elemento popolare e quello anche della plebe
, abbia potuto , senza romperla affatto col concetto ispiratore della propria
istituzione, cambiarsi colla Repubblica nel l'organo più potente della
costituzione politica di Roma, per guisa da attribuire ai proprii avvisi
(consulta ) l'autorità di vere leggi ; (1) Parmi di trovar espresso questo
concetto , a proposito di Romolo, in CICERONE, de Rep. II , 8 . 252 mentre
invece coll'Impero viene ad essere ridotto a concedere la propria autorità ai
decreti di un principe , al cui arbitrio non era più in caso di poter
resistere. 207. Del resto questo carattere non è proprio solo del senato, ma di
tutti gli organi della costituzione politica di Roma, nella quale, ad esempio ,
occorre un magistrato, come quello del censore, che in caricato dapprima di una
funzione, che sembrava non adatta alla di gnità di un console, quale si era
quella della compilazione del censo , cambiasi poi in censore del pubblico e
del privato costume, in elet tore supremo del senato, e per la dignità finisce
in certo modo per essere considerato come superiore allo stesso console. Nè
altrimenti accade anche delle magistrature plebee, e sopratutto dei tribuni
della plebe, i quali negli inizii non hanno che il ius auxilii, e non mirano
che a difendere i debitori dai maltrattamenti dei creditori, e i plebei dai
maltrattamenti del console ; ma poi da ausiliatori si mutano in organizzatori
della plebe, in accusatori del patriziato , e nell'organo certamente più
efficace del pareggiamento giuridico e politico della plebe ; finchè da ultimo
il potere tribunizio , che continua pur sempre ad essere circondato dal favor
popolare , mutasi ancor esso nella base più salda, sovra cui poggi ildispotismo
imperiale. È quindi sopratutto in Roma, che qualsiasi aspetto del potere
sovrano tanto vale quanta è la tempra della persona, che trovasi investito di
esso , e quanto è l'appoggio , che esso trova nella pubblica opinione, con
quest'unica limitazione, che esso deve trattenersi nei limiti del concetto, a
cui si informa dai proprii inizii. Questo concetto da una significazione
materiale potrà passare ad una significazione morale e politica, sic come
accadde del censore, che da compilatore del cengo si cambiò in censore del
costume, dalla difesa potrà anche passare all'accusa , in uno scopo di difesa ,
siccome fecero i tribuni della plebe;ma intanto nel proprio sviluppo sarà
costantemente percorso da una logica interna, a cui i Romani seppero mantenersi
fedeli, non solo nelle istituzioni giuridiche, ma anche in quelle politiche.
Questo carattere perd so pratutto si appalesa nell'istituzione del senato . Potere
consultivo nelle proprie origini trovò opposizione nel partito popolare,
allorchè cerco di cambiare i proprii senatusconsulti in leggi ; ma anche in
quei senatusconsulti, che ebbero autorità di vere leggi, esso si propose
costantemente di esercitare sulla comunanza un ' autorità di carat tere
consultivo e pressochè di protezione e di tutela: come lo pro 253 vano il
senatusconsulto intorno ai Baccanali, ed i senatusconsulti Macedoniano e
Velleiano. Intanto per tornare all'argomento , questo è certo che tutti gli
autori sono concordi nel descrivere il senato come elettivo fin dagli inizii di
Roma. Festo anzi ci attesta , che la nomina attribuita al re era più libera di
quella , che più tardi appartenne al censore, in quanto che l'essere lasciati
in disparte dal re (praeteriti sena tores) non era riputato ignominia ; il che
fu invece di quei ma gistrati, uscenti d'uffizio, che, avendo le condizioni per
entrare nel senato , non vi fossero chiamati dal censore, o fossero rimossi dal
medesimo, se già ne facevano parte ( 1). 208. L'incertezza invece è grande,
quanto alle funzioni, che da esso furono effettivamente esercitate; il che
provenne probabilmente da ciò, che, trattandosi di un potere di carattere vago
ed indeterminato , gli autori, e fra gli altri Dionisio , non potendo
attribuirgli dei poteri determinati da una costituzione scritta , dovettero
sforzarsi ad asse gnargli quei poteri, che sembravano convenire alla funzione,
che esso era chiamato ad esercitare. Questo è certo ad ogni modo, che le sue
funzioni, anche durante il periodo regio , furono essenzialmente con sultive.
Esse anzi sembrano ancora tenere del patriarcale, come quando i senatori son
chiamati a fare ripartizioni di terre fra le popolazioni di classe inferiore ,
e quando ad essi viene affidata , almeno secondo Dionisio , la punizione dei
delitti meno importanti, mentre il re sarebbesi riservata la giurisdizione sui
più gravi (2). Non può invece ammettersi, perchè ripugna al carattere
dell'istituzione, che il re, dopo aver chiesto l'avviso del senato , fosse
obbligato ad attenervisi: inquantochè, se questo fosse stato il carattere degli
avvisi dati al re , che da solo aveva per tutta la vita quei poteri, che poscia
furono non solo suddivisi fra magistrati diversi, ma anche attenuati e limitati
quanto alla propria durata , per maggior ragione i senatusconsulti avrebbero
conservato e spinto anche più oltre questo carattere, allor chè, durante il
periodo repubblicano, il senato venne ad essere pres sochè onnipotente. Sembra
invece, per quello che risulta dagli avveni menti,cheil senato, durante il
periodo regio , non abbia potuto esercitare tutta quella influenza , che spiego
più tardi; cosicchè, quando volle (1 ) Festo , V ° Praeteriti senatores ( Bruns
, Fontes, pag. 355). (2 ) Dion. 2 , 12 , 14 , il cui testo è riportato in greco
ed in latino dal Bruns, Fontes, pag. 4 e 5 . 254 - contrastare alla
intraprendente operosità del re ed alle innovazioni dal medesimo tentate,
dovette ricorrere all'intermezzo degli auguri e dei sacerdoti, come lo dimostra
la tradizione relativa all'augure sabino Atto Nevio, all'epoca di Tarquinio
Prisco. Il suo potere con sultivo trovavasi inefficace di fronte ad un re a
vita , che aveva per sè l'appoggio del popolo non solo,ma anche della plebe ,
la quale già cominciava ad esercitare un'influenza, se non di diritto , almeno
di fatto . Quindi fu solo colla cacciata dei re, che il senato , consesso
permanente fra magistrati, che mutavano ogni anno, e che usciti dalla
magistratura entravano a farne parte , divenuto così custode della politica
tradizionale diRoma, sopratutto nei rapporti esteriori, potè dare al concetto
ispiratore dell'istituzione tutta la portata logica , di cui poteva essere
capace, e forse spingerla anche oltre i confini, che dalla logica erano
consentiti. 209. Sopratutto sono gravi i dubbii e le incertezze intorno alla
composizione ed al numero dei senatori, durante il periodo esclusi vamente
patrizio ; al qual riguardo parmi impossibile di ricomporre e coordinare i
pochi e non concordanti accenni, che pervennero fino a noi, senza ricostrurre
il processo logico , che segui la politica dei re nel formare e nell'accrescere
il senato primitivo di Roma. In proposito tutti gli autori sembrano essere
concordi nell'atte stare, che Roma, nella sua primitiva formazione, non fece
che imi tare, quanto al senato, l'organizzazione delle altre città latine;
quindi il suo senato appare dapprima limitato al numero di cento , che sembra
appunto essere il numero adottato per le altre città latine , e per gli stessi
municipii, che ebbero poi ad essere organizzati sul modello ro mano ( 1).
Tuttavia la politica di Roma, che nel periodo regio non pensa ancora a
chiudersi in sè stessa ,mapiuttosto ad aggregarsi nuovi ele menti, condusse in
questa parte a modificare il modello latino. Al lorchè trattavasi di associare
nuove popolazioni alle sorti di Roma, il processo a seguirsi non poteva offrire
difficoltà , finchè trattavasi soltanto di famiglie o di individui , che
appartenessero alla plebe . Questa non era ancora organizzata o almeno lo era
in guisa tale , che poteva accogliere , senza difficoltà , qualsiasi nuovo
elemento . Di più (1) Liv. I, 8 ; Dion., II, 12 ; Cic ., De Rep ., II, 12. Che
il senato o meglio l'ordo decurionum delle colonie e dei municipii si
componesse solitamente di cento, appare da ciò , che essi talvolta erano
perfino chiamati centumviri. Cfr . Willems, Le droit public romain , pag. 535 .
255 l'Aventino, che sembra essere il colle, sovra cui accentrasi di prefo renza
la comunanza plebea, è ancora spopolato, e fu anche più tardi lasciato fuori
della cinta Serviana, in modo da poter offrire territorio e spazio, ove le
nuove famiglie si possano stabilire . Tutto al più oc correrà di far loro
concessioni di terre, che sotto la tutela del ius mancipii porgano loro un
mezzo sicuro di provvedere al proprio sostentamento . Cosi invece non accade,
allorchè trattasi di famiglie , che già abbiano ottenuta posizione elevata
nella comunanza, a cui esse appartengono, e tanto più se trattasi di quelle,
che,mediante l'orga nizzazione gentilizia e le numerose clientele , siano in
condizione tale da offrire un contingente poderoso alla crescente popolazione
romana. Allora anche Roma deve venire a patti, in quanto che genti nume rose e
potenti difficilmente si disporrebbero ad abbandonare la pro pria sede
gentilizia, quando non fossero accolte nell'ordine patrizio , mediante la
cooptatio , e quando non potessero ottenere, che i loro capi entrassero nel
senato, e i gentili, che entrano a costituirle , non fossero ammessi a far
parte delle curie . Quanto a quest'ul time, non occorre dimutare l'ordinamento
primitivo della costituzione romana, nè di aumentarne il numero, poichè, non
essendo determinato il numero dei componenti ciascuna curia , le curie
costituiscono dei quadri, che possono anche accogliere gli elementi, che si
vengono aggiungendo. Cosi non è invece del senato ; la consuetudine latina
vorrebbe che il medesimo fosse limitato al numero di cento , e tale esso fu
veramente nelle origini, secondo la tradizione, e lo fu anche più tardi nei
municipii e nelle colonie : ma, una volta completato questo numero, sarebbe
stato necessario arrestarsi, salvo di appigliarsi al partito di aggiungere un
determinato numero disenatori, ogniqual volta si avverasse in una sola volta
una considerevole aggregazione di genti patrizie . Tuttavia non è nel costume
dei romani di abbandonare senz'altro il numero prefisso , poichè tutto ciò, che
viene daimaggiori, è sacro per essi. Quindi, siccome Roma risulta in certo modo
dalla confederazione di un triplice elemento : così il senato potè essere
portato fino a trecento, il qual numero aveva anche il vantaggio di essere in
esatta correlazione con quello delle curie, e di non contrastare cosi colla
composizione simmetrica della città . 210. Come e quando siasi fatta
quest'aggiunta , non è bene atte stato . Alcuni, ritenendo che Roma avesse
successivamente incorpo rato nelle sue curie le tre tribù primitive, direbbero
, che i primi cento senatori furono tolti dalle tribù dei Ramnenses, gli altri,
che 256 vengono dopo, dai Titienses , e gli altri infine dai Luceres : la cui
aggregazione sarebbe accaduta sotto Tarquinio Prisco , al quale ap punto si
attribuisce di aver portato a trecento il numero dei sena tori (1). Questa
spiegazione sarebbe abbastanza verosimile , allorchè non fosse contraddetta
dalla tradizione , che fa rimontare fino al regno di Romolo la federazione
delle tre primitive tribù. Di più se veramente quest'aumento si fosse fatto ,
allorchè una nuova tribù veniva aggregata , non si comprenderebbe come potesse
parlarsi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi; la quale distin
zione appare essere stata introdotta nelle centurie dei cavalieri, il cui
aumento sembra, quanto alle epoche, in cui è seguito, corrispondere all'aumento
nel numero dei senatori. Di qui deriva la conseguenza , che la spiegazione più
verosimile del processo , che è stato seguito in questo argomento, sia quella
stessa , che ci viene additata dalla tradi zione. Le tre piccole tribù, che
costituirono Roma primitiva , non potevano essere tali da offrire il numero di
trecento senatori, e Livio ci dice appunto , che il numero del senato primitivo
fu di cento , per chè Romolo non ne trovò un numero maggiore che fosse degno di
sedere nel senato (2). Ma intanto, dopo la primitiva costituzione romulea, che
sarebbesi avverata in seguito alla federazione delle tribù dei Titienses, sono
due sopratutto gli avvenimenti, che, du rante il periodo della città
esclusivamente patrizia , contribuirono ad un forte aumento del patriziato
romano. 211. Il primo di questi avvenimenti consiste nella sconfitta di Alba,
in seguito al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, il quale, come ho già
notato altrove, più che una vera e propria scon fitta , deve piuttosto essere
considerato comeuna specie diduello giu diziario , a cui si rimisero i due
popoli fratelli per sapere quale delle due città dovesse essere centro della
vita pubblica per le po polazioni, che ne dipendevano (3). In quella
circostanza infatti la (1) Tale è l'opinione sostenuta dal WILLEMS, Le Sénat de
la république romaine, Paris, 1878 , I, pag. 21 e segg.; dal Bloch, Les
origines du Sénat romain , Paris, 1883, pag. 43 e 55 ; i quali pure accennano
alle diverse opinioni professate in proposito. (2) Liv., I, 8. È però a
notarsi, che Livio farebbe rimontare la composizione del senato per opera di
Romolo, ad un'epoca anteriore all'aggregazione coi Sabini, mentre parla invece
della formazione delle trenta curie, come avvenuta posteriormente. In ciò è
però contraddetto da CICERONE, che accenna alla formazione del senato, dopo la
federazione coi Sabini. De Rep., II, 8 . (3 ) V. sopra , lib . I, Cap. VIII, nº
144. 257 tradizione narra , che la parte povera della popolazione latina entrò
a far parte della plebe, ed ottenne delle concessioni di terre. Quanto alle
genti patrizie, noi sappiamo, che uno dei patti era quello, che esse dovessero
venir accolte nel patriziato romano, e noi sappiamo in effetto , che così
accadde. Ora l'effetto naturale di questa coo ptatio era , che i capi di queste
genti dovessero essere ammessi nel senato , il che non avrebbe potuto essere
fatto , senza aumentare il numero dei senatori. Se quindi ci mancassero anche
le testimo nianze di un tale aumento in questa occasione, non sarebbe invero
simile il supporlo ; sonvi invece degli storici, i quali, senza accennare
espressamente alle proporzioni di tale aumento , attestano però che esso
dovette aver luogo . Così, ad esempio, Livio attribuisce a Tullo Ostilio di
aver duplicato il numero dei cittadini; di aver accolto nei patres i principali
cittadini d'Alba ; di aver costrutto in quell'occa sione la curia Ostilia ; e
di aver aggiunto dieci torme di cavalieri, acciò a ciascun ordine si recasse un
contributo dal nuovo popolo . Così pure Dionisio parla di un aumento fatto nel patriziato
e nel senato all'epoca di Tullo , in occasione della distruzione di Alba, seb
bene poi non accenni le proporzioni dell'aumento (1). Il numero tut tavia si
può argomentare da ciò, che entrambi affermano più tardi, che Tarquinio Prisco
elesse altri cento senatori, e ne portò così il numero a trecento , il qual
numero non avrebbe potuto essere raggiunto, se nel frattempo e precisamente
all'epoca di Tullo Ostilio non si fossero aggiunti gli altri cento (2). Alcuni,
e fra gli altri il Pantaleoni, vor rebbero , che il secondo centinaio si fosse
aggiunto coll'aggregarsi della tribù Tiziense ; ma ciò non può essere ammesso ,
in quanto che l'ordinamento politico della città , per opera di Romolo , era
già se guito dopo l'aggregazione di questa tribù , come lo dimostra la tra
dizione, che le trenta curie avrebbero perfino ricevuto il loro nome dalle
donne sabine ; inoltre , cid ammettendo, rimarrebbe inesplicato quell'aumento,
che certo ebbe a verificarsi sotto Tullo Ostilio (3 ). 212. Quanto all'ultimo
aumento , la tradizione e concorde nell'attri ( 1) LIV., I, 30 ; Dion., III,
29. ( 2) Liv., I, 35 dice di Tarquinio Prisco « centum in patres legit » ; e
Dion., III, 62: « Et tunc primum populus tercentos senatores habuit, qui
ducentos tantum ad eam usque diem fuerant » . ( 3) PANTALEONI, Storia civile e
costituzionale di Roma. Appendice III, pag . 645 a 672. G. CARLE, Le origini
dil diritto di Roma. 17 258 buirlo a Tarquinio Prisco; ma vi ha divergenza nel
modo, in cui sa rebbesi operato . Cicerone dice, che egli avrebbe duplicato il
numero dei senatori, e portatolo cosi a trecento, il che farebbe supporre, che
anteriormente fossero soli cento cinquanta , il qual numero non può essere
ammesso, perchè non risponde ai numeri comunemente seguiti dai Romani, e dai quali
non solevano scostarsi. Resta quindi la testi monianza concorde di Dionisio e
di Livio, che l'aumento da lui fatto sia stato di cento senatori. Questi nuovi
senatori, alcuni vogliono che fos sero delle genti Albane : ma è ovvio
l'osservare, che non può essere probabile, che genti, entrate nella comunanza
fin dall'epoca di Tullo Ostilio , siano rimaste tutto questo tempo senza
rappresentanti nel se nato . Altri invece, come il Pantaleoni, sostengono che i
nuovi senatori aggiunti fossero tratti dalla tribù dei Luceres, i quali, a suo
avviso , deriverebbero il proprio nome da Lucer , che in Etrusco corrisponde
rebbe a Lucius (1) ; ma contro quest'opinione vi ha sempre la consi derazione,
che se questi entravano per la prima volta nella comunanza romana, non poteva
esservi motivo, perchè le nuove centurie di equi tes , ricarate da essi, si
chiamassero Luceres posteriores o secundi. Ciò indica , che dovevano esservi i
Luceres primi, i quali erano en trati prima nella comunanza ; il qual fatto
potrebbe forse essere spie gato colla tradizione, serbataci da Varrone, secondo
cui Romolo in guerra coi Sabini avrebbe avuto soccorso dai Lucumoni Etruschi,
uno dei quali (forse Celes Vibenna, che dette nome al Celio, già compreso
nell'antico Septimontium ) avrebbe anche preso parte alla confede razione, che
segui allora fra i due popoli, sebbene le sue genti siano state forse collocate
in condizione inferiore (2). Bensi è probabile, che le genti, da cui si
trassero i nuovi senatori, potessero essere altre genti, pure di origine
Etrusca , come i Luceres primi, le quali fossero venute a Roma al seguito di
Tarquinio e della sua gente: il che spiega molto meglio , che non la leggenda
di Tanaquilla , comemaiTarquinio , appena giunto a Roma, abbia potuto avere un
seguito e un appoggio così forte nella popolazione romana, da aspirare e da
ottenere colle ( 1) PANTALEONI, op. cit., pag . 660. (2 ) L'opinione di VARRONE
a questo proposito è ricordata da SERvio , in Aen ., V , ove scrive: « nam
constat tres fuisse partes populi Romani. Varro tamen dicit, Romulum dimicantem
contra Titum Tatium , a Lucumonibus, id est Tuscis, auxilia postulasse; unde
quidam venit cum exercitu ; cui, recepto iam Tatio, pars urbis data est » . Del
resto anche Livio , I, 13, fa rimontare a Romolo l'aggregazione dei Lu ceres
primi, solo mettendo in dubbio la loro origine. 259 forme tradizionali la
dignità regia . Egli tuttavia non potè passar sopra almetodo essenzialmente
romano, che è quello di porre come primi quelli , che veramente sono tali, e
quindi dovette collocare i nuovi senatori nel novero dei patres minorum gentium
; quest'appellazione tuttavia non sembra tanto indicare la minor dignità delle
medesime, quanto il loro essere entrati più tardi a far parte della comunanza .
È questo il motivo, per cui dovevano essere chiamati gli ultimi a dare il
proprio avviso ; al modo stesso , che anche più tardi nei co mizii centuriati
erano chiamati primi a dare il loro suffragio i se niores, ossia i maiores natu
, e soltanto dopo venivano i iuniores, che erano i minores natu . Cid dimostra,
che, trattandosi di un processo costantemente seguito, non può ricavarsene
indizio di minor dignità di questi senatori, ma solo della costanza romana in
appli care il principio : « prior in tempore, potior in iure » . 213. Le genti
insomma, che, a nostro avviso , si vennero ag giungendo , escono da quelle
stirpi, a cui appartenevano le tribù, la cui confederazione primitiva aveva
dato origine alla città dei quiriti, e per tal modo si spiega come esse abbiano
potuto esservi attirate dalle aderenze e parentele , che già potevano avere in
Roma, e come, offrendosi ad entrare nella nuova città, abbiano po tuto esservi
accolte. A misura però, che esse erano conglobate, do vevano pure avere una
rappresentanza nel senato, e così il numero di questo venne ad essere portato a
trecento ; il quale , essendo in correlazione con quello delle curie , non ebbe
ad essere più superato fino all'epoca dei dittatori, che prepararono l'Impero.
D'altronde le occasioni di aumento vennero mancando dappoi: perché quando la
città patrizia ha riempiuto il vuoto dei suoi quadri, essa comincia a
rinchiudersi in sè stessa , e a vece di farsi grande, mediante le federazioni e
le cooptazioni, si propone invece di affermare la pro pria superiorità sugli
altri popoli, e di associare la comunanza ple bea, di cui trovasi circondata ,
all'avvenire della sua città . Bene è vero , che si verifica ancora più tardi
la cooptazione della gente Claudia : ma essa avverasi, quando erano troppi i
vuoti nel senato , perchè bisognasse aumentarne il numero , e poi trattavasi di
una gente soltanto , la quale, per quanto numerosa , non poteva occupare tanti
seggi nel senato, da richiedere un aumento nel numero. La spiegazione, che mi
son fatto lecito di proporre, quanto ai suc cessivi incrementi nel numero dei
senatori, parmi, fra le moltissime che si posero innanzi , che si concilii più
facilmente colla tradi 260 zione e col processo eminentemente romano di far
procedere di pari passo gli aumenti, chesi introducono nel senato, con quelli
dell'or dine dei cavalieri e di tutti gli ordini della popolazione; non poten
dosi negare, che nel concetto primitivo della città tutte le parti di essa
debbono essere simmetriche, proporzionate e coerenti fra di loro . La medesima
intanto ci prepara anche la via a risolvere la questione, intorno alla
composizione del senato nel periodo regio. 214. Gli storici, al modo stesso che
parlano talvolta dei comizii curiati, come se essi abbracciassero l'intiero
popolo , il quale all'e poca, in cui essi scrivevano, comprendeva anche la
plebe, così sem brano talvolta accennare a nomine, che i re avrebbero fatte di
se natori, che non sarebbero stati tolti dalle genti patrizie ; e cid fra gli
altri attribuiscono allo stesso Tarquinio Prisco. Un tale fatto sembra anzitutto
essere smentito dalla circostanza, che anche questi nuovi senatori sono
chiamati patres minorum gentium , denomina zione, che poteva solo accomodarsi
all'ordine patrizio, il quale consi derava come un suo privilegio la gentilità
. A ciò si aggiunge, che in quest'epoca la distanza era ancora troppo grande
fra i due ordini, perchè deimembridella plebe potessero essere ammessi
nell'ordine più elevato della cittadinanza romana, tanto più se i plebei, come
dimo strerò a suo tempo, non erano ancora ammessi a far parte delle curie .
Ritengo quindi in proposito , che l'opinione più probabile e più conforme al
processo solitamente seguito nello svolgimento politico di Roma, ove i
cambiamenti, più che da arbitrio di uomini, sogliono derivare dal processo
naturale delle cose, sia quella , che l'ammessione della plebe al senato
dovette essere una naturale conseguenza del l'ammessione di essa a far parte
del populus delle classi e delle centurie ; poichè, modificandosi la
composizione di uno degli organi essenziali della costituzione, che erano i
comizii, anche il senato dovette subire un'analoga trasformazione (1 ). Più
tardi poi, allorchè (1 ) Il WILLEMS, nella sua opera : Le Sénat de la
République romaine, I, 19, 28 e poi anche nel Droit public romain , pag . 46, sostiene
invece che i plebei non sareb bero stati ammessi nel senato, che a misura che
furono ammessi alle magistrature ed agli onori. Tale opinione trovasi in
contraddizione col fatto, che gli storici attri buiscono a Giunio Bruto od a P.
Valerio di aver colmato i vuoti lasciati nel senato da Tarquinio il Superbo,
mediante persone tolte dalla plebe più ricca ed agiata (ex primoribus equestris
gradus); la qual tradizione ha nulla di ripugnante, perchè il cambiamento nella
composizione del popolo richiedeva una modificazione correlativa - - 261 - i
senatori cessarono in realtà di essere nominati esclusivamente fra i patres
delle antiche gentes , ma furono scelti fra i magistrati, uscenti di ufficio :
ne consegui per una naturale evoluzione di cose, che anche i plebei, che un
tempo non avrebbero potuto esservi am messi per nascita , poterono esservi
ammessi per la dignità, che avevano coperto . Probabilmente fu poi in questo
secondo periodo, e in conse guenza di questa trasformazione, per cui la dignità
e gli onori con seguiti cominciano a tener luogo della nascita, che i capi
delle grandi famiglie plebee, che erano già pervenute al ius imaginum , e ave
vano così imitata l'organizzazione gentilizia, poterono perfino entrare a far
parte delle curie ; le quali, se avevano perduta ogni loro im portanza
politica, continuavano però sempre ad avere una impor tanza grande sotto
l'aspetto religioso e sacerdotale, sopratutto per coloro, che già eguali in
influenza e in ricchezza al patriziato pri mitivo, potevano desiderare di
apparire loro eguali , anche nella no biltà di origine. § 6. – I comizii
curiati e la populi potestas. 215. Anche i comizii curiati, che furono l'unica
assemblea del popolo romano, finchè durò la città esclusivamente patrizia ,
appa riscono vigorosamente tratteggiati nella costituzione primitiva di Roma.
Per quanto i medesimi abbiano poscia perduto della propria importanza e siansi
ridotti ad un'assemblea di carattere gentilizio e sacerdotale , che può quasi
considerarsi come una sopravvivenza dell'antico ordine di cose ; ciò però non
toglie, che essi siano stati il modello, sovra cui più tardi si vennero
foggiando tutte le altre assemblee del popolo romano. Fu quindi solo più tardi,
allorchè si videro privati di ogni importanza politica e militare, che essi si
circo scrissero a funzioni meramente gentilizie e sacerdotali: manel loro
comparire essi hanno un carattere religioso , militare e politico ad anche nel
senato; ed anche perchè in tal modo il patriziato sottraeva alla plebe i capi
delle più potenti ed agiate famiglie. La questione della composizione del
senato all'epoca regia fu dottamente trattata dal Lattes nelle Memorie
dell'Istituto Lom bardo di scienze e lettere, vol. XI, Milano, 1870, il quale
inclina a credere che il numero primitivo fosse quello di 300 , come quello,
che corrispondeva già al numero delle 30 curie. È poi degno di nota , che egli
attribuirebbe anche al senato primitivo un carattere militare. 262 un tempo (
1). Essi, nella costituzione politica della città , corrispondono all'assemblea
patriarcale della tribù, che accorre al cenno del proprio capo , per accordarsi
con esso intorno alle cose , che possono interes sare la comunanza . In questo
però le curie già differiscono da quella , che non comprendono tutta la
popolazione delle varie tribù, ma solo la parte eletta della medesima, ossia
coloro, che col braccio o col consiglio possono giovare alla cosa pubblica.
Esse quindi hanno per iscopo di far partecipare, sopra un piede di uguaglianza
, alla vita pubblica le varie tribù , la cui confederazione è concorsa a
formare le città (2 ). 216. I membri delle curie, come tali, chiamansi
quirites, e sono noti i dubbii intorno all'origine di questa denominazione.
Sonvi coloro, che fanno discendere il vocabolo da quiris, asta , che sa rebbe
stata l'arma del quirite, il simbolo del potere al medesimo spettante ; nè
l'etimologia può dirsi inverosimile , quando si consideri, che nei carmi
saliari il popolo ramnense è chiamato populus pi lumnus, ossia il popolo del
pilo, e viene così ad essere qualificato anch'esso dall'arma, che lo
contraddistingue (3). Altri invece, fra i (1) Il carattere non solo politico,
ma anche essenzialmente militare dei comitia curiata , è stato posto in
evidenza sopratutto dal IHERING , L'esprit du droit romain , $ 20. Esso è poi
provato dal seguente passo di Livo, V , 32 : « comitia curiata , qui rem
militarem continent » , e da un altro di Cicerone, De lege agraria , II, 12,
30, ove è detto, che il console, finchè non abbia ottenuta la legge curiata ,
non può as sumere il comando militare (rem militarem attingere non licet). È
però notabile, che il carattere militare di quest'assemblea, che dapprima fu il
più accentuato, come lo indica il nome stesso di quirites, e l'asta di cui
erano armati, fu anche il primo ad essere perduto coll' introduzione dei
comizii centuriati, che assunsero di preferenza questo carattere militare :
poscia i comizii curiati vennero perdendo anche il carattere politico, allorchè
la lex curiata de imperio fu ridotta ad una semplice formalità e la patrum
auctoritas fu tolta di mezzo dalla lex Hortensia o dalla lex Moenia . Il carat
tere invece, che sopravvisse più a lungo nelle curie, fu il carattere religioso
e sacer dotale, in quanto che fu in esse, che si mantennero gli auspicia , come
lo dimostra la nomina dell'interrex , la quale viene ad essere loro affidata ,
in quanto i patres o pa tricii delle curie sono i soli depositarii dei
primitivi auspicia , e sono le curie, che presiedute dal pontefice, continuano
ad avere la custodia dei culti gentilizii e fa migliari. Ciò spiega, come anche
nell'età moderna, il vocabolo curia sia sopravissuto con una significazione
pressochè sacerdotale. (2) Cfr. il Bouché-LECLERCQ, Manueldes institutions
romaines, Paris, 1886 , pag. 6 e 7 , e il BourgeaUD , Le plébiscite en Grèce et
en Rome, Paris, 1887, pag . 39. ( 3) Cfr. PANTALEONI, Storia civile e
costituzionale di Roma. Appendice II, pag . 617. 263 quali, il Niebhur,
vogliono che fossero così chiamati da Curium o da Quirium , città sabina, e che
avessero ricevuto un tal nome, allorchè ai Ramnenses si unirono per
confederazione i Titienses (populus romanus et quiritium ) (1); la quale
opinione non pare si possa ac cogliere per il modo diverso , con cui sarebbero
indicati idue popoli insieme uniti, ed anche perchè il vocabolo di quirites,
più che l'origine, sembra indicare l'ufficio , il compito , a cui essi sono
chia mati di fronte alla città , poichè il nome loro nei rapporti esteriori
continua sempre ad essere quello di Romani. Altri infine, come il Lange, fanno
provenire il vocabolo da ciò , che essi facevano parte delle curiae, cosicchè
quiriti significherebbe per essi gli uomini delle curie (2). È perd facile il
vedere, che il vocabolo quirite, derivi da quiris o da curia , esprime pur
sempre il medesimo concetto , poichè è la lancia , che è il simbolo del potere
di chi appartiene alle curie, e sono i portatori di lancia , che sono i membri
delle curie . I quiriti quindi in ogni caso son chiamati tali , in quanto hanno
partecipazione effettiva al governo della cosa pubblica , mentre nei rapporti
esterni continuano ad essere Romani; cosicchè anche questa distinzione sembra
corrispondere, sotto un certo aspetto , a quella indicata coi vocaboli domi,
militiaeque. 217. I comisii poi sono la riunione solenne dei quiriti, allorchè
sono chiamati ad esercitare il loro sovrano potere. Finchè trattasi di semplici
notificazioni, che il re o i suoi delegati debbono fare al popolo, o di
discussioni intorno a qualche proposta di legge ba stano le semplici contiones.
In queste possono anche sentirsi gli oratori in pro e in contro ; intervenire i
patres , quali moderatori del populus ; e tenersi anche orazioni (conciones),
le quali, senza essere precisamente quelle da Dionisio e Livio attribuite ai
personaggi della loro storia , dovettero però essere ispirate alle circostanze
, in ( 1) NIEBAUR , Histoire romaine, I, 407. Questa opinione fu poi seguita
dal WALTER e da molti altri autori. Nella inedesima però vi ha questo di vero ,
che il vocabolo di Quirites fu assunto dopo la confederazione coi Sabini, il
che ci è attestato espres samente da Festo. Vº Quirites : « Quirites autem ,
dicti post foedus a Romulo et Tatio percussum , comunionem et societatem populi
factam indicant » . ( 2) LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 29. Inering
, L'esprit du droit ro main , 1, $ 20, pag . 20. Secondo il Lange, il vocabolo
quirites non è però da con fondersi con quello di curialis; poichè quelli sono
gli uoniini delle curie in genere, mentre questo è colui, che appartiene ad una
determinata curia . 264 cui venivano pronunziate. Allorchè invece sono
convocati i comizii, tutti questi preliminari già sono compiuti, e il popolo,
ordinato a guisa di un esercito, si avvia unito al luogo della riunione, donde
il vocabolo di comitium (1 ). Quasi si direbbe, che nelle pubbliche de
liberazioni il popolo romano primitivo osservi un processo analogo a quello da
lui seguito nelle sue transazioni private. Finché trattasi di mettersi di
accordo, è lecito discutere e può anche adoperarsi quel dolus bonus, che mira a
porre sotto l'aspetto più favorevole la transazione proposta ; ma allorchè il
periodo delle trattative è finito , più non occorre che una interrogazione ed
una risposta , so lenni, ed allora : « quod lingua nuncupassit, ita ius esto »
. È in questo senso soltanto , che deve essere inteso, ciò che attestano gli
storici, che nei comizii, il popolo non poteva nè discutere, nè di videre o
modificare le proposte fattegli, ma solo accettare o respin gere il candidato
propostogli o la legge, oppure condannare od as solvere. Già nelle adunanze
anteriori erano seguite le discussioni, e queste ripetute nei comizii avrebbero
impedito quella solennità e quel silenzio , che ritenevansi indispensabili
nelle deliberazioni, che ri guardavano l'interesse pubblico, e che avevano per
i Romani primitivi alcunché di religioso e di sacro ( 2 ). 218. I comizii
pertanto erano preceduti dagli auspizii, per cono scere se la volontà divina si
palesasse favorevole , o non alla delibera zione, che si stava per prendere ;
si radunavano in un luogo con sacrato, che chiamavasi templum ; e si tenevano
in certi giorni, che i riti ritenevano adatti alle pubbliche deliberazioni, i
quali perciò chiamavansi dies comitiales. (1) Quanto alla distinzione fra
comitium e contio , vedi il KARLOWA, Röm . R. G. I, pag. 49. È però a notarsi,
che anche la contio non è una riunione qualsiasi del popolo, ma suppone
anch'essa una convocazione del magistrato, il che appare dal seguente passo di
Paolo Diacono : « Contio significat conventum ; non tamen alium , quam eum ,
qui a magistratu vel a sacerdote publico per praeconem convocatur » . Ciò pur
conferma Liv., 39, 15 . (2 ) Combatto qui l'opinione universalmente seguìta
dagli autori, specialmente ger manici (v . fra i recenti Karlowa, Röm . R.G.,
pag . 52), che riduce i c omizii ad una funzione puramente passiva nella
formazione delle leggi, in quanto che la medesima, a mio avviso, altera il
carattere del populus primitivo ; il quale, composto di capi di famiglia e di
persone esperte negli auspicii e ricchedi tradizioni, poteva benissimo anche
prender parte viva alla discussione delle leggi, come dimostrerò più larga
mente nel capitolo III, § 2º, discorrendo della lex, e nel capitolo IV, § 1º,
parlando delle leges regiae. - 265 Il modo poi, in cui doveva essere proposta
la deliberazione, di mostra fino all'evidenza, come il magistrato fosse
consapevole del potere, che apparteneva al popolo, e come questo conoscesse
l'impor tanza del proprio uffizio . Da una parte eravi il re o magistrato, che,
dopo aver premessa la formola : quod bonum felis , etc., invitava il popolo
(rogabat) ad esprimere il proprio volere (iussus populi ) sulla proposta
fattagli colla formola : velitis, iubeatis, quirites ; e dall'altra vi erano i
membri delle curie , che rispondevano affermando (uti rogas), o negando
(antiquo). Quanto al processo, che seguivasi nella votazione, già appare nelle
assemblee curiate quel sistema, che ebbe poi ad essere mantenuto negli altri
comizii. I singoli quiriti votano viritim nella propria curia, e in questa
prevale il voto della maggioranza, ma intanto la decisione definitiva dipende
dal voto complessivo delle curie ; nel che abbiamo un indizio del vincolo
potente, che stringeva l'indi viduo alla corporazione, di cui faceva parte, in
quanto che non era il voto degli individui, che prevaleva , ma quello dei
gruppi, a cui appartenevano. Cid da una parte è un concetto trapiantato dalla
stessa organizzazione gentilizia , in cui non si può comprendere l'in dividuo,
che aggregandolo ad un gruppo ; ma dall'altra dovette anche condurre alla
disciplina del voto . I membri delle curie non atomi vaganti, ma parti vive di
un organismo, senza del quale sa rebbero ridotti all'impotenza ; disciplina
questa , che ebbe pure ad essere mantenuta più tardinei comizii centuriati, ed
anche nei tri buti, salvo che alla curia si sostituirono la centuria , e la
tribů . Intanto anche nella votazione appare il carattere religioso e per fino
superstizioso del romano primitivo, che da qualsiasi avvenimento suole trarre
un pronostico, in quanto che il voto della prima curia si ritiene come un
augurio (omen ) ; donde la denominazione di curia principium , che viene ad
essere imitata anche negli altri comizii, e che è conservata nell'intitolazione
stessa delle delibera zioni comiziali . sono 219. Sopratutto poi importa
determinare, quali fossero le funzioni affidate ai comizii curiati ; il che
riesce assai difficile, in quanto che anche il potere dell'assemblea popolare
presentasi dapprima piuttosto abbozzato, che non compiutamente formato .
Secondo Dio nisio , il quale talora si sforza a precisare i contornidelle
istituzioni primitive di Roma, sarebbe già l'assemblea delle curie, che, me
diante una lex de bello indicendo, avrebbe deciso della pace o della 266 guerra
; sarebbe essa , che conferirebbe la cittadinanza non ad indi vidui, ma ad
intiere popolazioni o gentes , mediante la cooptatio ; sarebbe essa parimenti,
che voterebbe le leggi, e nominerebbe il magistrato supremo (1). Che se invece
si tiene conto dei fatti, dei quali ci pervenne notizia , ben poche sarebbero
state le occasioni, in cui l'assemblea delle curie avrebbe esercitato queste
funzioni. Cid vuol dire, che anche il potere dei comizii curiati non dovette
dap prima essere determinato da una costituzione scritta ; ma deve ri guardarsi
come un potere in via di formazione, che poi si svolgerà, a seconda delle
occasioni e degli avvenimenti, mantenendosi perd sempre fedele al proprio
concetto informatore. Esso tuttavia, come si vedrà più sotto (2 ), già contiene
in germe tutti quei poteri, che l'assemblea del popolo acquisterà colle altre
forme di comizii. È esso infatti, che nomina il Re e si ha così il germe del
potere elettorale ; è esso che, secondo la tradizione, sanziona le leges re
giae, e si ha così l'inizio del suo potere legislativo ; è esso infine, che già
avrebbe avuto l'occasione di esercitare una specie di giu risdizione criminale,
come lo dimostra la provocatio ad populum , che si fa rimontare all'epoca dei
primi re, e si sarebbe dispiegata , secondo la tradizione, nel fatto
dell'Orazio , uccisore della propria sorella . 220. Sopratutto poi è notabile
nei comizii coriati uno speciale ca rattere, che, a parer mio, è la prova più
evidente del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e
politica, e che non parmi siasi tenuto in conto sufficiente dagli autori.
Questo ca rattere consiste nella doppia competenza della assemblea delle curie
; la quale , sotto un certo aspetto , è ancora sempre una riunione di ca
rattere gentilizio, e coll'intervento dei pontefici provvede alla con
servazione delle genti e delle famiglie , e del loro culto , e sotto un altro
aspetto è una riunione di carattere eminentemente politico. Quasi si direbbe,
che il quirite, al pari di Giano, protettore della città , deve avere lo sguardo
rivolto in due opposte direzioni: da una parte egli è ancora un rappresentante
della gente e della tribù , ( 1) DION ., 2, 14 , scrive in proposito : « populo
vero haec tria concessit,magistratus creare, leges sancire, et de bello
decernere, quando rex rogationem ad eum tulisset » . (2) Rimando la prova di
ciò al capitolo seguente, ove si considera la costituzione primitiva di Roma
nelle sue principali funzioni. 267 da cui discende, e come tale è ancora
strettamente vincolato al l'organizzazione gentilizia , e deve curare che il
culto di essa non venga ad interrompersi, e che il suo patrimonio non sia
disperso ; dall'altra invece è membro del populus, e come tale deve obbe dire
ai cenni del magistrato, e deve aver presente sopratutto il pubblico interesse,
in quanto che « salus populi suprema lex esto » . Questa doppia qualità del
quirite si appalesa nell'indole diversa delle riunioni, di cui esso è chiamato
a far parte. Accanto ai veri comizii, convocati dal magistrato, per mezzo dei
littori, e in cui si votano le cose attinenti al pubblico interesse , sonvi i
comitia ca lata , convocati dal pontifex maximus, per mezzo dei suoi calatores,
nei quali si compiono quegli atti, che possono toccare in qualche modo
l'organizzazione gentilizia . Nei primi si votano le leggi; si deliberano le
guerre e le paci; si nomina il magistrato ; si assolvono o condannano coloro ,
che appellarono al popolo . Nei secondi invece, che rivestono di preferenza un
carattere religioso , i quiriti si ra dunano, in quanto hanno un culto, a cui
debbono provvedere. È quindi in essi, che compiesi l'inauguratio regis, ed
anche quella dei flamines ; come pure è in essi, che si compiono quegli atti,
che possono alterare in qualche modo l'organizzazione gentilizia , e com
promettere l'avvenire del culto. È perciò in questa specie di co mizii, che
deve essere approvata l'adrogatio di una persona sui iuris, come quella che ha
per effetto di fare entrare un capo di famiglia sotto la podestà di un altro;
il che significa sopprimere una famiglia e il suo culto , per continuare invece
un'altra famiglia e il culto della medesima. È in essi parimenti, che ha luogo
la detestatio sacrorum , che è la rinuncia al proprio culto gentilizio , per
causa di adrogatio o di transitio ad plebem ; come pure è ivi, che segue la
cooptatio di una gens nell'ordine patrizio : cooptativ, che si opera per
l'intiero gruppo, e non per i singoli individui, che entrano a costituirla . È
in essi infine, che deve seguire quel testamen tum , che vien detto appunto in
calatis comitiis ; il quale , secondo il concetto delle genti patrizie,
costituiva materia di diritto pubblico, come quello , che alterava le norme
relative alla successione genti lizia , e quelle riferentisi alla trasmessione
dei sacra . Cid è provato dal fatto , attestatoci da Cicerone, che il ius
pontificium , nell'intento d'impedire l'interruzione dei sacra, fini per porre
i medesimi a ca rico di coloro, che avevano gli utili dell'eredità ; donde
l'espressione popolare , che occorre soventi nei comici latini, di haereditas
sine - 268 sacris , per significare un vantaggio conseguito senza i pesi
inerenti al medesimo (1). 221. Intanto questo speciale punto di vista , sotto
cui debbono , a parer mio, essere considerati i comitia calata , ci spiega quel
carattere singolare e pressochè contraddittorio del diritto primitivo di Roma,
il quale, mentre da una parte dà al quirite il più illi mitato arbitrio di
disporre delle proprie cose per testamento ; dal l'altra vuole, che i
testamenti, le adrogationes e simili atti, che pur riguardano interessi
privati, siano compiuti in cospetto dell'intiero popolo , e li ritiene come
relativi ad argomenti di diritto pubblico . Gli autori vollero spiegare la cosa
con dire, che in Roma primitiva tutti questi atti costituivano altrettante
leges publicae, e che, come tali, dovevano essere fatti in cospetto e
coll'approvazione del po polo . Riterrei invece, che in questa istituzione dei
comitia calata si debba ravvisare, se mi si consenta l'espressione, il rudere
meglio conservato, che dall'organizzazione gentilizia sia stato trasportato
nella costituzione primitiva di Roma. Si è veduto a suo tempo, che il grande
intento dell'organizzazione gentilizia era quello di perpe tuare le famiglie e
il loro culto , e di impedire la dispersione dei patrimoni; donde la
conseguenza , che il testamentum e l'adrogatio dovevano farsi coll'approvazione
dell'assemblea della gente o della tribù (2 ). Or bene così continuò ancora ad
essere, finchè la città fu esclusivamente patrizia : quindi questi atti continuarono
ad essere fatti coll'approvazione delle curie, e di quei collegi sacerdotali,
che erano incaricati di serbare integri non solo i sacra publica , ma ancora i
sacra privata . Quindi conviene ammettere, che le curie non prestassero
soltanto la loro testimonianza a questi atti, ma fossero chiamate a darvi la
loro approvazione, dopo aver sentito l'avviso dei pontefici; il che viene ad
essere provato dalla formola , conserva taci da Aulo Gellio, relativamente
all'adrogatio (3 ). Una volta poi, (1) La teoria dei comitia calata ci fu
conservata sopratutto da Aulo Gellio , Noc. Att.. XV, 28 e 3, il quale dice di
averla ricavata da un'opera di Laelius Felix. Quanto alla ripartizione dei
sacra , in proporzione della sostanza ricevuta dagli eredi, è attestata da CICERONE,
De legibus, II, 19, SS 47, 49. ( 2) Vedi libro I, cap. IV , $ 4 , nº. 61 a 65.
(3 ) Aulo Gellio , Noc. Att., V , 19. Ivi si dice che a adrogatio per
rogationem populi fit » , ed è riportata la formola , che è quella della vera e
propria legge, in quanto che comincia colle parole velitis , iubeatis, quirites
» e termina coll'espres. sione « Haec ita, uti dixi, ita vos, quirites, rogo »
. 269 che una istituzione di questa natura sia penetrata nella primitiva
costituzione romana, noi oramai conosciamo abbastanza il tempera mento del
popolo romano per poter affermare, che esso non l'abban donerà così presto . Si
comprende pertanto, che quando si introdussero i comizii centuriati, anche
questi, secondo la testimonianza di Gellio, abbiano avuti i proprii comizii
calati, salvo che nei medesimiil po polo, radunato due volte all'anno, più non
dovette approvare il te stamento , ma solo prestare la propria testimonianza .
Ciò è dimostrato dal fatto , che il testamento in calatis comitiis potè poi
essere surro gato da quello per aes et libram , in cui i quiriti sono chiamati
non per approvare, ma solo per testimoniare (testimonium mihi perhi bitote).
Intanto però , anche quando l'adrogatio e il testamentum furono atti di
carattere intieramente privato, rimane però sempre la traccia dell'antico stato
di cose nel concetto , ricordatoci da Papiniano, secondo cui la testamenti
factio pubblici iuris est (1). A questo riguardo poi, è ancora degno di nota ,
che quando l'as semblea delle curie fini per perdere ogni importanza politica e
mi litare, e si ridusse ad essere una riunione di trenta littori, presie duta
dai pontefici, serbò però ancora sempre e forse esagero perfino questa
competenza , per ciò che si riferisce agli atti, che riguardano
l'organizzazione gentilizia , e sopratutto , quanto all'adrogatio. Questa fu
praticata ancora, davanti alle curie, dagli imperatori Augusto e Claudio , i
quali, non avendo dimenticata la loro antica origine dalle genti patrizie,
seguirono le forme tradizionali nella arrogazione di Tiberio e di Nerone. Cosi
le primitive istituzioni vengono anche esse perdendosi a poco a poco in Roma,ma
ne rimane ancora sempre un'eco lontana. Resterebbe qui ad esaminarsi la
questione fondamentale se la plebe sia stata ammessa a far parte della assemblea
delle curie ; ma ( 1) Papin., L. 4 , Dig. (28, 1). La conclusione sarebbe
questa , che il carattere di lex del testamento primitivo è una reliquia
dell'antica organizzazione gentilizia . Tale carattere poi in parte avrebbe
cominciato a dileguarsi, allorchè accanto ai comizië curiati calati, si
introdussero anche i comiziï centuriati calati, la cui esistenza ci.è attestata
da Aulo Gellio, XV, 27, 2, e che probabilmente dovettero essere quelli, i
quali, secondo Gaio , Comm ., II, 101, si radunavano due volte l'anno,acciò in
essi po tessero farsi i testamenti. Il fatto stesso della loro riunione
periodica dimostra , che molti testamenti si potevano presentare ad un tempo, e
che perciò in essi il popolo doveva limitarsi a prestare la propria
testimonianza . Fu questo il motivo , per cui il testamento in calatis comitiis
potè poi essere sostituito dal testamento per aes et libram , ove i quiriti si
riducono ad essere dei classici testes. Gaio, Comm ., II, 103. 270 credo
opportuno rimandarne l'esame ad un capitolo speciale, in cui cercherò di
determinare la posizione dei clienti e della plebe, cosi sotto l'aspetto del
diritto pubblico , che sotto quello del diritto pri vato ; premettendo però fin
d'ora , che seguo l'opinione, secondo cui la plebe non potè, durante il periodo
regio e nei primisecoli della Repubblica, essere ammessa all'assemblea delle
curie (1 ). $ 7 . Sguardo sintetico allo svolgimento storico dei comizi in
Roma. 222. Le cose premesse sarebbero sufficienti per formarsi un con cetto del
carattere speciale della primitiva assemblea curiata : ma intanto per scoprire
certe relazioni, che difficilmente potrebbero es sere afferrate , quando non
fossero sorprese alle origini, ed anche per rendere intelligibili gli
svolgimenti, che verranno dopo, e dimo strarne la continuità , ritengo
opportuno, a costo anche di precor rere gli avvenimenti, di dare uno sguardo
sintetico allo svolgimento che ebbero i comizii in Roma. Roma antica, simile in
cið alla moderna Inghilterra, ci presenta bene spesso l'esempio di congegni
della costituzione politica ed am ministrativa, la cui creazione rimonta ad
epoche compiutamente di verse , ma che intanto funzionano contemporaneamente.
Ciò è vero sopratutto per quello , che si riferisce ai comizii. Roma patrizia ,
e forse anche Roma, durante tutto il periodo regio , non conosce altra
assemblea del popolo , che quella delle curie. Essa è un'assemblea, di
carattere religioso e sacerdotale, politico e militare ad un tempo: è la
riunione del primo populus romanus quiritium , di quello cioè, che era
ristretto al populus, che usciva esclusivamente dalle genti patrizie. In base
alla costituzione Serviana, che ammette la plebe a far parte delle classi e
centurie, sulla base del censo, intro ducesi un' altra assemblea del populus
romanus quiritium , già inteso in senso più largo , che è la centuriata .
Anch'essa è mo dellata sulla prima, e secondo Gellio, imita perfino i comizii
calati, come pure è anche preceduta dagli auspicii;ma intanto, accogliendo già
un elemento , che non partecipava al culto gentilizio , che era quello della
plebe, perde ogni carattere religioso e sacerdotale, e ( 1) La questione qui
accennata sarà presa in esame in questo stesso libro , cap. V. 271 assume un
carattere essenzialmente militare, e poscia anche poli tico . Da questo momento
l'assemblea per curie più non può rap presentare l'intiero populus, perchè una
parte di questo, cioè la plebe, non entra a farne parte. L'assemblea curiata
quindi diventa , dirimpetto alla centuriata , un' assemblea di patres , perchè
com prende coloro , che discendono sempre dalle antiche genti patrizie. La vera
rappresentanza dell'intiero populus (comitiatus maximus) viene quindi ad essere
l'assemblea per centurie ; perchè essa soltanto comprende tutto il popolo,
organizzato sulla base del censo. Siccome però i patres o patricii, cioè i
discendenti delle antiche genti pa trizie , continuano ancora sempre a formare
un nucleo separato del populus, cosi essi sono ancora chiamati a dare alle
deliberazioni dei comizii centuriati la patrum auctoritas, la quale viene, come
sopra si è veduto , a distinguersi dalla senatus auctoritas. Così pure l'antico
populus, composto appunto dai patres, continua ancora sempre a con ferire
l'imperium colla lex curiata de imperio , sebbene l'una e l'altra funzione
tendano naturalmente a perdere della loro im portanza , e l'assemblea curiata
si limiti sempre più a funzioni di carattere puramente gentilizio e sacerdotale
(1). 223. Fin qui lo svolgimento della costituzione primitiva procede ancora
regolarmente : ma la cosa si fa più malagevole, quando, fra i congegni della
costituzione politica di Roma, compare un nuovo elemento , che è quello delle
assemblee proprie della plebe (concilia plebis). La plebs forma già parte del
populus e partecipa alla civitas; ma la sua civitas è ancora minuto iure, in
quanto che essa non ha ancora nè il ius connubii col patriziato, nè il ius
honorum . È quindi naturale in essa l'aspirazione al pareggiamento, e sorge una
opposizione di interessi fra il patriziato e la plebe. Quest'ultima, che,
uguale sotto un aspetto, aspira a diventarlo anche sotto gli altri, viene
naturalmente a costituire sotto un certo riguardo una fazione nello Stato ,
poichè i suoi interessi si contrappongono a quelli del patriziato, il quale
continua ad essere il vero reggitore dello Stato, essendo il solo ammesso alle
magistrature e agli onori. La plebe però ha già un proprio magistrato, sotto
cui si organizza , che è il tribuno della plebe, il quale, in base alla
costituzione, può (1) È da vedersi, quanto all'auctoritas patrum , questo
stesso capitolo, § 3º, n° 198 , pag. 240 e seg . colle note relative . 272
convocarla per prendere deliberazioni nel proprio interesse. Sorge cosi
spontaneamente l'istituto dei concilia plebis, i quali dapprima hanno più
un'esistenza di fatto , che non di diritto : ma che intanto , fatti forti dal
numero e dalla intraprendenza dei tribuni, tendono naturalmente a prendere dei
provvedimenti, che mirano a prepa rare l'uguaglianza giuridica e politica fra
la plebe e il patriziato . Essi perciò mettono in accusa patrizii avversi alla
plebe e gli stessi consoli, allorchè escono di ufficio . Proibirli è
impossibile, perchè è principio riconosciuto dalle XII Tavole , che ogni
sodalizio, che abbia un capo (magister ), possa dettarsi una propria legge, e
perchè in ogni caso sarebbe impossibile vietare le riunioni di un elemento, che
ha per sè il numero e la forza , e che, ricorrendo ad una secessio , potrebbe
mettere a repentaglio l'avvenire della città ( 1). L'unico partito pertanto ,
che rimanga al patriziato ed al senato, che lo rap presenta , è quello di
riconoscere queste riunioni e di farle entrare , per quanto sia possibile , nei
quadri legali della costituzione politica di Roma, trasformando a poco a poco i
concilia plebis in comitia tributa : in comizii, cioè, che comprendano eziandio
tutto il popolo, ma non più in base al censo , come l'assemblea delle centurie,
ma in base alle tribù locali, in cui è raccolta tutta la cittadinanza ro mana.
È questa la trasformazione, che incomincia col tribuno Pu blilio Volerone, il
quale , nel 283 U. C., dopo lunghe lotte , ottiene che la plebe possa nominarsi
i suoi tribuni nei proprii comizii ; ma con ciò questi non possono ancora
prendere che provvedimenti riguar danti la sola plebe, e che possono soltanto
essere obbligatorii per essa . Quindi incomincia da parte di questa uno sforzo
inteso a pareggiare i comizi tributi agli altri comizii, e a fare si che i
plebisciti obbli ghino anche il patriziato , il che si opera per mezzo delle
leggi Va leria -Orazia, Publilia e Ortensia ; le quali, sebbene, per il poco
che a noi ne pervenne, mirino tutte allo scopo di rendere obbligatorii i
plebisciti per tutto il popolo, segnano però , come si vedrà più sotto, pag.
728, (1) La proibizione dei concilia plebis sarebbe stata contraria a quelle
disposizioni della legge decemvirale, secondo cui « Sodalibus potestas esto ,
pacionem , quam volent, sibi ferre, dum ne quid ex publica lege corrumpant. V.
Voigt, die Tafeln , I, che attribuisce tal legge alla Tavola VIII, n . 12.
Qualcosa di analogo ci è pure accennato da Livio , 39, 15 : « ubicumque
multitudo esset, ibi et legitimum rectorem multitudinis , censebant maiores
debere esse » ; ed è questo forse il motivo , per cui i concilia plebis
cominciano a diventare potenti, quando la plebs ha trovato un proprio rector o
magister nel tribunus plebis. - 273 discorrendo del concetto romano di lex , i
varii stadii, per cui passò la risoluzione del gravissimo problema (1) . 224.
Giungesi cosi ad un periodo della costituzione politica di Roma, in cui nei
quadri di essa trovansi tre specie di comizii. I primi e i più antichi sono i
comizii curiati,ma essi vengono ad essere sempre più ridotti a funzioni
puramente gentilizie e sacerdotali, e anzichè essere in effetto ancora le riunioni
delle curie , si riducono ad essere la riunione dei trenta littori, che le
rappresentano, e diven tano così una sopravvivenza dell'antico ordine di cose.
Accanto ad essi sonvi i comizii centuriati, che sono sempre la vera assemblea
del popolo romano, e continuano a conservare in qualche parte il pri mitivo
carattere militare: ma anch'essi si fanno più democratici, come lo dimostrano
le riforme, che sappiamo essere state introdotte , senza saperne precisare il
come ed il quando, e debbono dividere in parte le proprie funzioni colla nuova
assemblea tributa , più fa cile a convocarsi e più intraprendente nella propria
iniziativa. Certo si richiedeva il genio pratico dei Romani per far procedere
di pari passo assemblee, che rappresentavano un principio diverso , cioè la
nascita, il censo, ed il numero. Dapprima ciascuna di queste istituzioni potè
serbare intatto il proprio carattere primitivo ; ma poscia la fusione sempre
maggiore dei due ordini condusse al ri sultato, che poterono esservi plebei di
grandi famiglie, che furono accolti nelle curie, e che vi ottennero anche la
dignità sacerdotale di curio maximus ; al modo stesso , che i pochi discendenti
delle an tiche genti patrizie poterono anche intervenire ai comizi tributi, i
quali ricevettero cosi anche la consacrazione religiosa , e poterono essere
presieduti da magistrati, che un tempo erano esclusivamente patrizii. Quando le
cose pervennero a questo punto, il vero populus trovasi raccolto nei comizii
centuriati, e nei comizii tributi. Quelli sono organizzati in base al censo, e
questi in base alle tribù lo cali, a cui i cittadini trovansi ascritti ; quelli
serbano ancora un carattere specialmente militare e radunansi al campo Marzio,
fuori delle mura Serviane, e questi invece hanno un carattere civile e (1)
Rimetto la discussione gravissima relativa a queste tre leggi al capitolo se
guente § 2º, n ° 232 e seg . dove si discorre del concetto romano di lex .
Quanto alla proposta di Publilio Volerone e alla portata della medesima è da
vedersi il Bonghi, Storia di Roma, pag. 439 a 451, come pure a pag . 593, ove
parla dell'elezione dei tribuni nei comizii tributi. G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 18 274 radunansi nel fôro, cosicchè il vero movimento della
costituzione politica di Roma ondeggia fra l'una e l'altra assemblea. Tuttavia
, a ricordare l'antico dualismo, sopravvivono ancora sempre i comizii curiati
ridotti ad essere la riunione di trenta littori, presieduti dal pontefice, e
circoscritti a funzioni di carattere essenzialmente reli gioso , e i concilia
plebis, che ricordano ancora quel tempo, in cui la plebe costituiva un dualismo
col patriziato , e nei quali continuano a nominarsi le magistrature
esclusivamente plebee (1). Intanto è ancora degno di nota , che la
trasformazione, che si opera nei comisii tri buti, accade anche nei tribuni
della plebe, i quali, sebbene debbano sempre essere trattidalla plebe ,
diventano però a poco a poco magi strati urbanidel popolo romano; comepure
accade nei plebisciti, i quali a poco a poco vengono ad essere pareggiati alle
leggi propriamente dette, il che sarà meglio dimostrato nel capitolo seguente .
Questo è il solito processo , seguito dai Romani, nello svolgimento delle
proprie istituzioni, ed è la logica che lo governa, che per mette di poterlo
ricostruire, malgrado le lacune, che possono esservi nel racconto storico , che
a noi pervenne. Questa logica è, per così esprimersi, intensiva ed estensiva ad
un tempo , e quindi si può es sere certi, che se un concetto entri nella
compagine romana non scomparirà , se prima non siasi ricavato da esso in
profondità ed estensione tutto ciò , che contenga di vigoroso e di vitale.
Studiata cosi la costituzione primitiva di Roma negli organi, che entrano a
costituirla , importa ora di considerarla nell'esercizio delle sue principali
funzioni. (1) È questo, a parer mio, il solo modo per risolvere la questione
così contro versa relativa alle analogie ed alle differenze, che possono
intercedere fra i comitia tributa ed i concilia plebis. È noto in proposito,
come il Niebhur non ammettesse che un'unica assemblea tributa (Histoire romaine
, III, 283), la quale, esclusivamente plebea dapprima (concilium plebis),
avrebbe più tardi compreso anche il patriziato, e sarebbesi così cambiata in
comitium tributum . Il Mommsen invece (Römische For schungen , Berlin , 1864,
I, 151 a 155) sostenne, dai decemviri in poi, l'esistenza di due assemblee
tribute : l’una patrizio-plebea (comitia tributa ); l'altra esclusivamente
plebea (concilium plebis). Ritengo che quest'ultima opinione possa essere
accolta , ma limitando le funzioni dei concilia plebis a cose di interesse
esclusivamente plebeo , quali erano la nomina dei tribuni e degli edili plebei,
mentre il vero potere legisla tivo , elettorale e giudiziario appartiene ai
comitia tributa , i quali soli possono con siderarsi come un vero organo della
costituzione romana. Cfr. BOURGEAUD, Le plébi scite dans l'antiquité, Paris ,
1887, pag. 57 a 76 ; Karlowa , Röm . R. G., pag. 118 ; MORLot, Précis des
instit. polit. de Rome. Paris, 1886 , pag. 80 e segg. 275 CAPITOLO III. La
primitiva costituzione di Roma nelle sue principali funzioni. $ 1. - Carattere
generale della medesima . e 225. La costituzione primitiva di Roma, finchè si
mantenne esclusivamente patrizia , si presenta con un carattere di unità e di
coerenza, che indarno si cercherebbe più tardi nelle istituzioni po litiche di
Roma. Vero è che la plebe, entrando a far parte della comunanza politica , recò
nella medesima il movimento e la vita , rese possibile per Roma un avvenire,
che non avrebbe mai conse guito la città esclusivamente patrizia , la quale da
sola tendeva più a chiudersi in se stessa, che ad estendersi; ma è vero
eziandio , che colla plebe penetrò il dualismo in ogni aspetto della
costituzione primitiva di Roma. Dirimpetto ai comizii disciplinati del popolo
rac colto nelle curie , si svolsero i concilii talvolta tumultuosi della plebe;
ai magistrati del popolo si contrapposero quelli della plebe; ed alle leggi
votate nella solennità e nel silenzio dalle curie si so vrapposero i plebisciti.
Fu in tal guisa, che la costituzione primitiva di Roma venne in certo modo ad
essere forzata a spingersi oltre il concetto ispiratore della medesima, e fini
per assumere un ca rattere del tutto peculiare, in quanto che dovette stringere
insieme due popoli, che politicamente erano associati, ma che non erano
intimamente uniti fra di loro , di cui uno pretendeva di avere per sè la
priorità ed il diritto , mentre l'altro aveva per sè il numero e la forza . Nè
conseguita che, per comprendere lo spirito della primitiva costituzione di
Roma, conviene in certo modo isolarla dagli elementi, che sopravvennero coll'
ammessione della plebe alla cittadinanza , e quando ciò si faccia non si può a
meno di rima nere ammirati di fronte all'unità ed alla coerenza, che presenta
la costituzione esclusivamente patrizia . Essa è un vero organismo, che
componesi di varie parti, delle quali ciascunaè chiamata ad adempiere la
propria funzione : ma che tutte intanto si suppongono e si completano a
vicenda. La potestas in largo senso si ritiene bensi appartenere al popolo , ma
questo non potrebbe esercitarla , se 276 non fosse posto in azione
dall'imperium del magistrato ; e intanto fra di loro si interpone l'auctoritas
del senato, il quale da una parte modera col suo consiglio il regis imperium ,
e dall'altra da la consistenza e l'appoggio della propria autorità ai iussa
populi. 226. Questa coerenza poi appare anche più evidente, allorchè i congegni
della costituzione siano considerati nel loro movimento ; poichè mentre ciascun
aspetto del pubblico potere non ha altra norma e altro confine, che il proprio
concetto ispiratore, niuno di essi però può compromettere l'interesse comune,
senza che vi concorrano tutti gli altri. Questo carattere della costituzione
politica di Roma ha fatto dire a Polibio , che essa appariva mo narchica,
aristocratica e democratica ad un tempo, secondo che altri la considerava
rimpetto a questo o a quell'aspetto del pubblico potere ( 1) ; ma se altri poi
la consideri in movimento ed in azione, essa si presenta con tutti questi
caratteri ad un tempo . L'imperium regis, la senatus auctoritas, la populi
potestas sono altrettante concezioni logiche , destinate col tempo a ricevere
tutto lo sviluppo , di cui possono essere capaci; ma intanto son disposte per
modo, che si contengono e si limitano a vicenda, non già perchè esista fra di
essi una ripartizione o circoscrizione di poteri, ma perchè nessuno di questi
elementi puo compromettere la pubblica salute senza la cooperazione di tutti
gli altri. Onnipotente ciascuno coll'appoggio degli altri, viene ad essere
impotente, quando trovi opposizione o contrasto in alcuno fra essi ; donde
l'importanza, che ebbe nella costituzione romana l'istituto dell'intercessio ,
la quale viene atteg giandosi in guise molteplici e diverse , in quanto che
tale intercessio , o può esercitarsi a nome della religione, o frapponendo la
par ma iorve potestas, o contrapponendo anche quelli, che esercitano la
medesima magistratura (2 ). Questo è, a parer mio, il carattere fon (1) Polibio,
Histor., lib . VI. (2) È mirabile il partito, che Roma seppe trarre dal
concetto dell'intercessio nello svolgimento storico della sua costituzione,
come appare dalla magistrale trattazione dell'argomento nel Mommsen, Le droit
public romain , pag. 230 a 329. Non potrei tuttavia accettare la sua
affermazione recisa, che l'intercessio non esistesse nel periodo regio. Certo
essa non ebbe occasione di svolgersi, perchè i tre elementi od organi della
costituzione erano potentemente unificati; ma intanto la cost ituzione
primitiva inchiudeva già allo stato latente il germe di tutta la teoria
dell'intercessio, in quanto che in essa niun provvedimento, che possa
compromettere il pubblico interesse, pud 277 damentale della costituzione
primitiva di Roma, per cui essa ora apparisce conservatrice fino allo scrupolo
, ed ora invece diventa operosa ed intraprendente fino all'audacia , secondo
che essa abbia o non l'appoggio dell'opinione generale . 227. Intanto quando
trattasi della res publica , ossia di cosa, che possa interessare l'intiera
comunanza, tutti questi elementi sono chia mati ad arrecare il proprio
contributo. È infatti almagistrato (rex , interrex , tribunus celerum ,
praefectus urbis) che si appartiene l'agere, quando trattasi di convocare il
popolo o il senato ; il ro gare, quando importa di ottenere l'approvazione di
qualche proposta ; l'imperare, allorchè nei pericoli di una guerra il suo
imperium si spinge fino alla maggiore estensione, di cui possa essere capace .
E invece al senato , che si appartiene il consulere, quando trattasi di dare il
proprio avviso al magistrato , o di richiamare l'attenzione di lui su qualche
imminente pericolo , « ne res publica detrimenti capiat » ; e l'auctor fieri,
se è questione invece di appoggiare le de liberazioni del popolo. È infine al
popolo, che spetta il iubere e lo statuere, quando trattasi di una lex , sotto
la qual forma si manifesta di regola la volontà collettiva del quando
trattasi della elezione dei magistrati. Intanto però, siccome queste gradazioni
dell'azione collettiva debbono tutte concorrere in sieme per costituire un atto
compiuto , cosi niun elemento pud da solo prendere un provvedimento, che possa
compromettere l'interesse comune (1 ). Ciò sopratutto appare nel compimento di
quegli atti, che, per propria natura , interessano l'intiera comunanza, quali
sarebbero: la formazione di una legge, l'elezione del magistrato , e
l'amministra zione della giustizia ; dai quali poi discendono le tre
manifestazioni essere preso senza il concorso di tutti. L'intercessio nel
periodo repubblicano non fu che uno svolgimento di questo concetto, e toccò il
suo massimo sviluppo per opera dei tribuni, stante il carattere negativo del
potere spettante aimedesimi. È poi notabile, come essa si applichi al decretum
, alla rogatio , ed al senatus consultum , il quale, se colpito
dall'intercessio , non può più essere posto in esecuzione: ma tuttavia deve
essere perscriptum , perchè è sempre una espressione dell'auctoritas senatus,
col quale vocabolo viene appunto ad essere indicato. Cfr. MOMMSEN, op . cit.,
(1) Ho già insistito su questo concetto, che può essere considerato comela
chiave di volta della primitiva costituzione di Roma, in una prolusione al
corso di Storia del diritto romanu col titolo : L'evoluzione storica del diritto
pubblico e privato di Roma, Torino , 1886 , pag. 13 . pag. 317. 278 del potere
sovrano nella città antica , che sono il potere legislativo, il potere
elettorale, ed il potere giudiziario. È quindi sopratutto a proposito di questi
atti , che vuolsi cercare in qual modo entri in movimento ed in azione la
primitiva costituzione di Roma, dando al tempo stesso un popolo, o ilo sguardo
allo svolgimento storico , che dovrà poi ricevere ciascuno di questi poteri. $
2 . Il concetto romano di lex nei suoi rapporti colla patrum auctoritas e col
plebiscitum . 228. Nel considerare il concetto primitivo della lex in Roma si
riman magistratum creare,e anzitutto colpiti dalla larghissima significazione,
colla quale si presenta questo vocabolo . Esso significa dapprima qualsiasi ac
cordo di più individui in una stessa volontà , e viene così, fin dagli esordii,
a distinguersi in lex privata , che significa una convenzione od una norma, che
altri si impone relativamente ad interessi privati (lex contractus, lex
mancipii, lex testamenti), ed in les publica , che significa la volontà
collettiva e comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui.
Quando poi il concetto di lex privata viene ad essere assorbito da quello di
convenzione o di contratto , quello di lex publica continua ancora ad avere una
estesissima si gnificazione; poichè esso comprende in certo modo qualsiasi
delibera zione solenne del popolo . Parlasi infatti di una lex belli indicendi,
foederis ineundi, coloniae deducendae , agri adsignandi e simili ; e fino a un
certo punto la nomina stessa del magistrato , o almeno il conferimento
dell'imperium , spettante al medesimo, viene ad essere argomento di una legge.
Gli è solo più tardi, che il vocabolo di legge viene a significare un generale
iussum populi, che si rife risce alla generalità dei cittadini, e si distingue
così da qualsiasi de liberazione , relativa ad una persona o ad un fatto
particolare (1). Ciò ( 1) Insomma il concetto dominante è sempre quello, che la
lex è il risultato di un accordo. Quindi la lex publica, essendo il risultato
dell'accordo di tutti gli organi dello Stato , viene ad essere una communis
reipublicae sponsio, e deve da tutti essere rispettata ; donde la conseguenza ,
che il ius publicum privatorum pactis mutari non potest. La lex privata invece
è l'accordo di due o più individui in tema di loro interessi privati: non è
quindi la legge pubblica, che deve occuparsene, secondo il principio della
stessa legge decemvirale, privilegia ne inroganto: donde conseguita, che la
legge cambiasi a poco a poco in un generale iussum . È in questa guisa , che
279 vuol dire, che anche la nozione di lex subisce in Roma una lunga evoluzione
: ma intanto il concetto, che la pervade in ogni tempo, è quello di un accordo
di più volontà in un medesimo intento . Tale significazione sembra pure essere
indicata dall'etimologia del vocabolo di lex a legendo od a colligendo , la
quale perciò non indica tanto la forma scritta , assunta dalla legge, come
vorrebbe il Bréal, quanto piuttosto il collegarsi delle volontà in un medesimo
intento (1 ). 229. Un altro carattere della lex , secondo il primitivo concetto
romano, si è quello di un'aureola religiosa, che la circonda, come lo
dimostrano le cerimonie solenni, da cui son precedute le deliberazioni comiziali,
e la reverenza e il culto , di cui la legge viene ad essere l'oggetto in Roma
primitiva, dopo che essa fu solennemente votata dal popolo . Di qui alcuni
autori ebbero a ricavare la conseguenza , che la forza obbligatoria della
legge, anche per Roma, non deri vasse tanto dal suffragio del popolo, quanto
piuttosto da questo carat tere religioso, da cui essa appare circondata. Se con
ciò si vuol dire , che la legge solennemente votata dal popolo, dopo aver
assunto gli auspicii, doveva in certo modo considerarsi come una interpreta
zione della stessa volontà divina, questo concetto pud essere facil mente
ammesso, essendo il medesimo una conseguenza di ciò, che il ius, come si è
dimostrato a suo tempo, aveva nei suoi primordii un carattere religioso , e
impotente a sostenersi da solo cercava di mettersi sotto la protezione del fas.
Ma se con ciò si intende in la legge e il contratto, uniti nell'origine, più
tardi si vennero separando, e quasi si contrapposero fra di loro , lasciando
perd sempre una traccia nel concetto, che « il contratto costituisce legge per
i contraenti » . ( 1) L'etimologia di lex a legendo nel senso di « leggere ,
suole appoggiarsi al testo di Varrone, De ling. lat., VI, 66 : leges, quae
lectae et ad populum latae, quas ob servet; ma egli è evidente, che qui
Varrone, non sempre felice nelle sue etimologie , non ha punto l'intenzione di
proporne una. Se quindi è vero, come del resto insegna lo stesso BRÉAL, Dict.
étym . latin , vº lego , che il vocabolo di legere ebbe anche la antica
significazione di raccogliere, di scegliere, di riunire, parmi sia molto più
acconcio di dare questa etimologia al vocabolo di lex . Così si potrà anche
compren dere la lex privata , la quale certo non pud essere derivata da ciò ,
che i contratti fossero scritti; ma da cid , che le volontà si accordavano e si
riunivano. Cfr. BRÉAL et BAILLY, Dict. étym ., vº lex . Un passo , in cui il
vocabolo « legere » prende questa an tica e larga significazione, è il seguente
di Virgilio : Iura , magistratusque legunt, sanctumque senatum . (Aen ., I, v.
431). - 280 vece , che la sua efficacia obbligatoria provenga direttamente
dalla volontà divina, se questo può forse ancora ammettersi per il vóuos de'
Greci, più non può ritenersi vero per la lex romana ( 1). Questa non potrà essere
votata senza che prima si assumano gli auspicii ; ma intanto, fin dal periodo
esclusivamente patrizio, essa è già l'espres sione della volontà collettiva del
popolo, come lo dimostra il fatto , che assume la forma di una vera e propria
stipulazione fra il ma gistrato che propone (rogat), e il popolo che vota
(iubet atque con stituit) ; come pure il concorso nella formazione di essa di
tutti gli organi della costituzione politica di Roma, per cui essa, fin dagli
esordii della città , deve essere considerata come una « communis rei publicae
sponsio » . Essa sarà ancora riguardata come una volontà divina ; ma il popolo
già si attribuisce facoltà d'interpretare questa volontà, ogni qualvolta
trattisi, non di cosa relativa al culto, ma di provvedimenti, che riguardano
l'interesse generale della comu nanza. Anche la definizione dei Giureconsulti
classici : « lex est, quod populus, senatorio magistratu rogante , iubet atque
con stituit » , può già essere applicata alla legge, durante il periodo regio ;
salvo che in questa definizione più non compare l'elemento della patrum
auctoritas, che nella città patrizia era ancor ritenuto indispensabile, e che
era poi stato tolto di mezzo dalla legge Ortensia . Vero è , che più tardi il
patriziato cercò di dare sopratutto prevalenza all'elemento religioso, che
accompagnava la legge; ma ciò accade unicamente, allorchè l'assemblea patrizia
delle curie perdette ogni importanza politica ; poichè in allora la religione e
gli auspicii diven tano pressochè il solo titolo di superiorità del patriziato
sopra la plebe, e fu naturale che si cercasse di accrescerne la importanza .
230. Intanto questo carattere, eminentemente contrattuale della legge, che
corrisponde all'origine federale della città , ed anche la necessità , secondo
il concetto primitivo delle genti patrizie, che, a formare la legge, dovessero
concorrere tutti gli organi dello Stato, servono a spiegare naturalmente certe
singolarità del diritto primitivo ( 1) V. in senso contrario il FUSTEL DE
COULANGES, La cité antique, liv. III, chap . XI, pag. 221 e segg., e fra i
recentiilBourgeaud, Leplébiscite dans l'antiquité, Paris , 1887, pag . 91 e
segg . Quest'ultimo nega il carattere contrattuale alla legge, anche per la
considerazione, che essa non potrebbe obbligare quelli, che non vi hanno
consentito ; ma egli è evidente, che l'accordo in una pubblica votazione non
può aversi, che dando prevalenza al maggior numero. 281 di Roma, che ebbero a
verificarsi, allorchè la plebe entrò a far parte della comunanza politica .
Allora infatti venne ad essere necessità, che il potere legislativo si portasse
ai comizii centuriati, in quanto che questi soltanto erano l'assemblea plenaria
del populus romanus (comitiatus maximus). Siccome però, accanto ai comizii
centuriati, si manteneva pur sempre l'assemblea curiata dei patres o dei
patricii: così, per ubbidire al principio che tutti gli organi politici dello
Stato dovevano concorrere alla formazione della legge, fu necessario che vi
contribuisse eziandio l'assemblea dei patres ; donde la conseguenza , che la
legge centuriata dovette dapprima essere proposta dal magistrato , votata dal
popolo , e poscia ancora approvata non solo dal senato , ma anche
dall'assemblea delle curie. Di qui dovette provenire la distinzione della
patrum o patriciorum auctoritas dalla senatus auctoritas, ancorchè le due
approvazioni si riducessero in sostanza ad una medesima cosa , perchè in questo
periodo il senato può riguardarsi sopratutto come l'organo del patriziato ; il
che spiega appunto la confusione, che gli storici vengono facendo fra l'una e
l'altra auctoritas, in un'epoca , in cui erano già scomparse e l'una e l'altra
( 1). 231. Se non che il mantenersi fedeli a questo principio diventò assai più
difficile , allorchè alle altre fonti legislative venne ad ag giungersi
eziandio il plebiscitum , che costituiva in certo modo una lex inauspicata .
Questo dapprima non può obbligare tutto il popolo , perchè è l'opera soltanto
di una parte di esso ; e quindi, al pari dei concilia plebis, in cui viene ad
essere votato, ha più un'esistenza di fatto, che non di diritto. Intanto però
la plebe ha per sè il nu mero e la forza, e valendosi di essi cerca talora di
forzare la mano al senato . In questa condizione di cose viene ad essere
nell'interesse stesso del patriziato di fare rientrare nell'ordine legale tanto
i concilia plebis, trasformandoli in comitia tributa , allorchè trattisi di
provvedimenti, che possano interessare tutto il populus, quanto eziandio di
riconoscere l'autorità dei plebisciti, con che essi subi scano le condizioni
richieste per obbligare tutto il popolo . È in questa occasione, che nella
storia politica di Roma compa riscono successivamente tre leggi ad epoca
diversa, il cui contenuto , conservatoci dagli scrittori, sembra essere
identico (ut plebiscita ( 1) V. sopra capitolo II, § 3 , n ° 198, pag . 240 e
segg. e le note relative. 282 omnem populum tenerent) ; ma che intanto sembrano
indicare tre successivi stadii di una importantissima trasformazione. La
difficoltà di conciliarle, che formò oggetto di lunghe discussioni e che anche
oggi suole essere considerata come una delle più gravi questioni, che presenti
la storia politica di Roma (1), pud, a parer mio , essere supe rata , quando
abbiasi presente il concetto della primitiva costituzione di Roma, secondo cui
qualsiasi vera legge suppone il concorso di tutti gli organi politici dello
Stato . 232. Occorre anzitutto la legge Valeria Orazia , dell'anno 304 di Roma;
la quale è la prima a dichiarare, che i plebisciti obblighino tutto il popolo
(ut quod tributim plebs iussisset omnem populum te neret) (2 ); ma ancorchè la
legge nol dica , questo è certo che, secondo il concetto informatore della
costituzione politica di Roma, ciò poteva solo accadere , allorchè i
provvedimenti, che erano di iniziativa della plebe, avessero subite tutte le
prove, a cui erano sottoposte le stesse ( 1) Così si esprime il Soltau, die
Gültigkeit der Plebiscite, Berlin , 1888 , pag . 107. La bibliografia sulla
questione pud vedersi nel BOURGEAUD, Le plébiscite dans l'anti quité, Paris,
1887, pag. 121, il quale sosterrebbe, che il plebiscito sia stato in ogni tempo
una deliberazione presa dalla sola plebe, esclusi i patrizii. Non potrei divi
dere tale opinione, poichè vi fu un tempo , in cui la differenza fra plebiscito
e legge si ridusse unicamente alla persona diversa , che ne prendeva
l'iniziativa , secondo che essa fosse un tribuno, od un altro magistrato . Vero
è che il vocabolo di plebs signi fica il populus, esclusi i senatori ed i
patrizii;ma il motivo , per cui i patrizii non si tenevano legati dai
plebisciti non consisteva già in ciò, che essi non potessero inter venire ai
comizii tributi, essendo anch'essi iscritti alle tribù, ma in ciò, che essi
soste nevano « plebiscitis se non teneri, quia sine auctoritate eorum facta essent
» ,Gaio, Comm. I, 3. Tolta poi la necessità della patrum vel patriciorum
auctoritas, i plebisciti divennero obbligatorii per tutto il popolo, e anche i
patrizii poterono certo intervenire ai comizii tributi. Difatti dopo la legge
Ortensia le due espressioni di leo e di plebi scitum diventano fra di loro
equipollenti, e occorrono perfino le espressioni populum plebemve iussisse,
come nella lex tabulae Bantinae (Bruns, Fontes, pag. 51). (2) Secondo il
Mommsen, è da questa legge, che parte l'istituzione dei comizii curiati , e
quindi egli riterrebbe, che nei termini conservatici da Livio , III, 55, come
proprii della legge Valeria Orazia, si dovrebbe sostituire il vocabolo di
populus a quello ivi adoperato di plebs, e leggere quindi: quod tributim
populus iussisset, omnem populum teneret (Römische Forschungen , I, pag . 164-5
). Non parmi, che questa opinione possa essere accolta , sia perchè tutti i
giuristi fanno partire il pareggiamento del plebiscitum colla lex dalla legge
Ortensia, e non dalla legge Valeria Orazia, ed anche perchè poste riormente la
denominazione di lex o di plebiscitum non sembra più dipendere dalla
composizione dei comizii, ma piuttosto dal magistrato, da cui sono convocati,
il quale come dava il suo nome alla legge, così poteva anche attribuirvi il
carattere di lex o di plebiscitum : tanto più che la sua efficacia veniva ad
essere uguale . 283 - leggicenturiate. Questa legge pertanto significo
solamente, che anche i tribuni della plebe potevano prendere l'iniziativa di un
provvedi mento , che potesse obbligare tutto il popolo ; ma che il medesimo,
per avere un tale effetto, doveva poi essere approvato dal Senato, ed ottenere
anche la patrum auctoritas, come lo dimostrano gli sforzi, che in questo
periodo si fanno dai tribuni per ottenere l'ap provazione del senato a
plebisciti , come quelli di Canuleio, di Icilio e altri ancora . Quasi si
direbbe, che questo è il periodo delle seces sioni, a cui ricorre appunto la
plebe, quando non può ottenere dal senato l'approvazione di un provvedimento da
essa desiderato . Suc cede quindi una seconda legge, che è la legge Publilia
del 415 di Roma, la quale, mentre in un capo statuisce, che la patrum
auctoritas doveva precedere le leggi centuriate , ripete in un altro
l'ingiunzione già fatta che « plebiscita omnes quirites tene rent (1). È però
evidente, che la portata di questa legge verrà ad essere diversa , perchè in
virtù di essa i plebisciti, al pari delle leggi centuriate, non dovevano più
essere susseguiti, ma preceduti dalla patrum auctoritas, che comprende
probabilmente anche la senatus auctoritas. Noi abbiamo quindi un secondo
periodo, in cui tutte le proposte di provvedimenti, per parte dei tribuni della
plebe , sogliono esser precedute da trattative ed accordi fra il senato e i
tribuni della plebe, per guisa che il senato si vale talvolta di questi per
ottenere , che essi prendano la iniziativa di una determinata proposta (2 )
233. Da ultimo infine apparve, che anche questa previa approva (1) È lo stesso
Livio, che ci conservò i termini di questa legge, VIII, 12. (2 ) Secondo il
WILLEMS, Le Sénat, II, chap. I, l'espressione di patrum auctoritas sarebbe
equipollente a quella di senatus auctoritas . Tale opinione è divisa dal Bour
GEAUD, op. cit ., pag. 135, ed è combattuta invece dal Soltau, die Gültigkeit
der Ple. biscite, pag . 135, come pure dal Pantaleoni nella 3a parte della sua
dissertazione : Dell'auctoritas patrum nell'antica Roma (< Rivista di
Filologia » , Torino, 1884 , pag. 350 a 395). Di fronte ad una quantità di
passi di scrittori antichi, citati da quest'ultimo, in cui si usano le
espressioni di patricii auctores, mentre altre volte si parla invece della
senatus auctoritas, fra cui è notabile il passo di Livio , III, 63, parmiche
l'opinione del WILLEMS non possa essere accolta . Ritengo tuttavia, che gli
storici, mossi forse dall'identico interesse, che potevano spingere le curie
dei patrizii e il senato a fare opposizione ad un provvedimento di iniziativa
della plebe, possano talvolta aver comprese le due cose col vocabolo alquanto incerto
di patrum aucto ritas. V. in proposito ciò , che si è detto nel capitolo
precedente 83, n ° 198, pag . 240 e note relative. 284 zione dei padri, senza
sempre riuscire nell'intento , finiva per essere causa di dissidii e di
secessioni. Fu quindi, in seguito ad una di queste secessioni, che sulla
proposta del dittatore Ortensio , uscito dalla no biltà di origine plebea,
sopravviene una legge Ortensia, nel 467 della città, che ripete pur sempre la
stessa formola ; ma intanto toglie di mezzo la necessità della previa
approvazione dei padri e produce, se condo Pomponio, l'effetto, che « inter
plebiscita et legem species con stituendi interessent, potestas autem eadem
esset ( 1) » . Fu neces saria una secessione e ci volle un dittatore per
vincere questa legge ; ma ve ne era ben donde, poichè, a mio avviso , non vi ha
forse nella storia della costituzione primitiva di Roma una rivoluzione più ra
dicale di questa . Con essa infatti l'antico concetto di lex , quale era stato
concepito da Roma patrizia, viene ad essere sovvertito ; in quanto che potrà
esservi una legge, alla cui formazione non coope rino tutti gli organi politici
dello Stato ; poichè d'allora in poi anche un solo elemento , la plebe, può
dettare leggi, che sono obbligatorie per tutto il popolo . Strappo più grave
non poteva essere arrecato alla costituzione patrizia : ma tentasi ancora di
rimarginarlo nel senso , che fu da questo tempo probabilmente , che la nobiltà
plebea co minciò a penetrare nelle curie , e che il patriziato antico si valse
* della sua iscrizione alle tribù per intervenire anche ai comizii tri buti, i
quali poterono anche esser presieduti da magistrati patrizii, e furono anche
essi preceduti dagli auspizii. Per tal modo i concilii un tempo della plebe
diventarono anch'essi comizii del popolo, e solo cambiò il criterio, che doveva
essere di base alla riunione, in quanto che i comisii centuriati si adunavano
in base al censo, e i comisii tributi in base alle tribù . Da questo momento il
senato trovossi (1) Che il pareggiamento fra la lex e il plebiscitum parta
veramente dalla legge Ortensia, la quale deve aver tolta dimezzo la patrum
auctoritas, risulta dai seguenti passi di scrittori e giureconsulti, che erano
meglio in caso di apprezzare il valore tecnico delle parole. Pomponio L. 2 , 8,
Dig. ( 1, 2 ), oltre l'espressione già riportata nel testo, scrive : « pro
legibus placuit et ea plebiscita observari » , e aggiunge al $ 12 : «
plebiscitum , quod sine auctoritate patrum est constitutum » , con che accen
nerebbe all'abolizione della patrum auctoritas per i plebisciti. Così pure Gaio
, Comm ., I, 3 : « lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita omnem
populum tene rent, itaque eo modo legibus exaequata sunt; Giustin ., Instit.,
I, 2 : « sed et plebi scita , lege Hortensia lata, non minus valere, quam
leges, coeperunt » . Lo stesso confermano Aulo Gellio , Noc. Att., X , 20 e XV,
27 ; come pure Plinio, Hist. nat., XVI, 15 , 10. — Cfr. ORTOLAN , Histoire de
la législation romaine, pag. 161, n . 178 et suiv. e il Madvig , L'État romain
, trad. Morel, Paris, 1882, I, pag. 260. 285 costretto ad invitare
frequentemente i tribuni a presentare dei pro getti di riforme o di misure
amministrative alla plebe (agebat cum tribunis, ut ferrent ad plebem ), e
quindi il tribunato viene a for mare l'elemento riformatore , ed attivo
nell'organizzazione dello Stato . Che anzi i comizii tributi possono anche
essere presieduti da magi strati patrizii, trattandosi di leges praetoriae , o
di elezioni dimagi strati minori. Accanto ai medesimi, si mantengono perd
ancora i concilia plebis : ma si limitano a provvedimenti, che riguardano la
sola plebe, e alla nomina di magistrati esclusivamente plebei. 234. Intanto
però eravi sempre l'organo politico più potente in questo periodo, che era il
senato, il quale veniva ad essere lasciato in disparte nella formazione della
legge, in quanto che non era più richiesta la sua approvazione. È in allora che
il senato, non avendo più in questo argomento una parte proporzionata alla
effettiva sua influenza, non potendo sempre bastargli di far dichiarare gli au
spicia vitiata e di rifiutare l'esecuzione dichiarando « ea lege non videri
populum teneri » viene ad essere condotto a forzare la propria funzione
consultiva. È quindi da quell'epoca, che cominciano a compa rire dei
senatusconsulti con autorità di leggi (1 ). Indarno i seguaci del partito
popolare protestano contro questa violazione della logica inerente
all'istituzione del senato , poichè questo ha influenza suffi ciente per far
valere la propria pretesa . Si capisce quindi come più tardi i giureconsulti
finiscano per esclamare « non ambigitur senatum ius facere posse » ; indicando
così colla stessa loro affermazione, che il dubbio era veramente esistito (2 ).
Siccome però le trasgressioni alla logica di una costituzione non si fanno
impunemente : cosi in questa stessa epoca, anche gli editti dei magistrati e
sopratutto quelli del pretore ,avendo l'appoggio dalla pubblica opinione,
finiscono ancor essi per costituire un ius non scriptum , che viene poi a
conver tirsi in un ius scriptum e in una copiosa fonte legislativa. A questo
punto lo Stato romano è ormai un organismo troppo (1) Cfr. Madvig, L'État
romain , I, 260; WILLEMS, Le Sénat, II, chap . III. Però è sopratutto il
PUCATA, che hamesso in evidenza l'importante rivoluzione introdotta della legge
Ortensia (Cursus der Institutionen, I, $ 75 ). Solo mi pare di dover ag
giungere, che la rivoluzione stessa sta nell'aver cambiato il primitivo
concetto di lex , e di aver così iniziato l'esercizio di una specie di potere
legislativo per parte dei singoli organi politici dello Stato . (2 ) ULP., L.
8, Dig . (1, 3 ). 286 grande , perché possa mantenersi ancora il rigoroso
principio del l'antica costituzione patrizia, che a formare le leggi debbono
con correre tutti gli elementi costitutivi dello Stato ; conviene di ne cessità
lasciare, che ciascuno di questi elementi possa dal suo canto prendere
l'iniziativa . È per questo motivo, che i comizii tributi di ventano la
sorgente legislativa più copiosa , durante gli ultimi secoli della repubblica,
e che i pretori, di magistrati preposti all'ammini strazione della giustizia ,
si mutano in certo modo in legislatori (ius honorarium ): al modo stesso che
più tardi anche i giureconsulti sa ranno autorizzati a dare dei responsi, che
avranno autorità di leggi (responsa prudentum ). Tuttavia siccome tụtti questi
fattori con tinuano pur sempre a procedere sulle traccie antiche ; così
l'edificio non solo potrà mantenersi saldo, ma per qualche tempo si innal zerà
tanto più rapido e grandioso , quanti più sono gli artefici, che cooperano alla
costruzione. Sarà invece quando mancherà il senso del pubblico bene, e quando
scomparirà la distinzione antica fra l'interesse pubblico e il privato , che,
per salvare un edifizio, il quale tende a scompaginarsi, sarà necessario di
rimettere ogni cosa nelle mani di un solo , la cui volontà, in base ad una
apparente investi tura del popolo , legis habet vigorem (1) . Questo sguardo
allo svolgimento storico del concetto di legge, pro lungato oltre i confini,
che misarebbero prefissi, deve essermi per donato ; perchè era soltanto
sorprendendo il concetto alle origini, che poteva comprendersene l'incerto ed
irregolare sviluppo, come lo dimostrano le divergenze di opinioni, che ancora
oggi dominano l'ar gomento . (1) Ulp., L. 1, Dig . ( 1, 4 ) « Quod principi
placuit, legis habet vigorem ; utpote quum lege regia , quae de imperio eius
lata est, populus ei et in eum omne suum imperium ac potestatem conferat ». Per
tal modo la lex , che era un tempo il frutto dell'accordo di tutti gli organi
politici, diventa ormai l'opera di un solo ; ma intanto si mantiene sempre il
concetto, che la sorgente di ogni potere sia il popolo ; altra conferma
dell'opinione, fin qui sostenuta, relativamente alla populi potestas. Questo
svolgimento storico della legge in Roma sembra essere compendiato da POMPONIO ,
allorchè, dopo aver discorso delle lotte fra la plebe, il patriziato ed il
senato, con chiude dicendo : « Ita in civitate nostra aut iure, id est lege,
constituitur, aut est proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentum
interpretatione consistit ; aut sunt legis actiones, quae continent formam
agendi; aut plebiscitum , quod sine auctoritate patrum est constitutum ; aut
est magistratuum edictum , unde ius hono rarium nascitur; aut senatus consultum
, quod solum senatu constituente inducitur sine lege; aut est principalis
constitutio, id est, ut quod ipse princeps constituit, pro lege servetur » , L.
2 , 12, Dig . (1 , 2). 287 $ 3.- L'elezione del rex , l'interregnum , e la lex
curiata de imperio. 235. Per quello che si riferisce al magistrato supremo del
popolo romano, il concetto, a cui si informa la primitiva costituzione pa
trizia , consiste nel ritenere che, come è immortale il popolo, cosi non
debbano mai essere interrotti nè gli auspicia , nè l'imperium , indispensabili
entrambi per la prosperità della repubblica. È questo concetto, che spiega,
come, morto il re , auspicia ad patres re deant; è questo parimenti, che
condurrà più tardi a fissare il co stume per cui i magistrati annui succeduti
al re, debbono, prima di uscire di ufficio e finchè ritengono ancora gli
auspicia , proporre il proprio successore; è questo infine , che può
somministrare il mezzo per comprendere quella singolare istituzione
dell'interregnum , non che la procedura solenne per l'elezione del re, che,
introdotte fin dagli inizii di Roma, si perpetuano ancora col medesimo nome e
colle stesse formalità sotto la repubblica, allorchè i re sono aboliti, e che
in questi ultimitempi ebbero ad essere argomento di tante e cosi erudite
elucubrazioni. 236. Un recente autore , il Bouchè Leclercq , ebbe a scorgere
nel l'interregnum e nella procedura per l'elezione del re , « un capo lavoro di
casuistica , in cui appare lo spirito sottile e formalista degli antichi romani
» (1). Ciò darebbe a credere, che le due pro cedure siano una creazione
architettata dai pontefici, i quali in que st'argomento avrebbero dato prova
del loro acume teologico e giuridico . Parmi invece assai più semplice e più
verosimile il ri tenere, che i romani, in questo , come in altri casi, non si
compiac ciano nella creazione di formalità , come tali, ma intendano piuttosto
a conservare le tradizioni del passato. Le formalità infatti , che accompagnano
l'interregno e la elezione del re, non dimostrano l'investitura divina del re,
come alcuni vorrebbero : ma provano sol tanto , che i romani avevano altissimo
il concetto della continuità ideale dello Stato, alla guisa stessa , che prima
avevano avuto quello della perennità della famiglia e della gente. Esse provano
parimenti, (1) Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris, 1886,
pag . 15 . 288 che, secondo il concetto primitivo della costituzione romana, al
l'elezione del magistrato , per trattarsi dell'atto forse più importante per la
comunanza , dovevano prendere parte tutti gli elementi costi tutivi dello Stato
. Ciò stante , anche in quest'elezione riscontrasi quel carattere contrattuale,
che abbiamo trovato nella legge, in quanto che il re, già nominato e
consacrato, deve ancora sottoporre all'assemblea della curia la lex curiata de
imperio, e solo dopo la medesima può compiere gli uffici a lui affidati, come
capo civile e militare della comunanza. Infine queste formalità possono anche
considerarsi come un indizio , che in un anteriore periodo di orga nizzazione
sociale gli auspicia risiedevano nei patres, ai quali perciò dovevano
ritornare, allorchè il re veniva a mancare . 237. Per conchiudere, questa
istituzione dell' interregnum , ar gomento di tante discussioni, deve essere
considerata anche essa come un naturale processo , che dovette spontaneamente
formarsi in una comunanza primitiva , uscita allora dal seno
dell'organizzazione gentilizia : processo , che è perd rivestito di quel
carattere religioso e solenne, che i romani attribuivano ad ogni loro atto, e
sopratutto a quelli, che riguardavano il pubblico interesse. In una comunanza
infatti di carattere gentilizio , formatasi mediante una confederazione,
riverente verso l'età e memore delle tradizioni del passato , era na turale,
che, mancando il capo comune, il suo potere religioso , civile e militare
dovesse passare al padre più anziano della più antica decuria del senato , e da
questa trasmettersi successivamente ai principes delle altre decurie, che
venivano dopo , in base all'an zianità , accið non venisse ad essere offeso il
senso geloso , che i capi di famiglia avevano della propria uguaglianza , e non
potesse neppur nascere il timore, che uno di essi « regni occupandi consilium
iniret » . Era naturale parimenti, che la proposta del successore dovesse
partire da uno dei padri, ed anzi dal più anziano fra essi, sebbene sia pur
consentaneo all'indole di questa comunanza, che la sua proposta potesse essere
anche comunicata agli altri padri, e che fosse anche sentito in famigliari
concioni l'avviso del popolo, ancora composto esclusivamente di membri delle
genti patrizie . Maturata così la proposta , è l'interrè , che deve farla ; le
curie, che debbono approvarla ; la presa degli auspicii, che deve inaugurarla ;
e infine fra l'eletto e la comunanza deve intervenire quella specie di con
venzione e di accordo , che avverasi mediante la lex curiata de imperio; la
quale, sotto un aspetto, costituisce l'investitura del ma 289 gistrato per
parte del popolo , e dall'altro vincola quest'ultimo alla obbedienza verso di
quello. Infine questo processo naturale di cose viene come al solito gittato e
fuso in certe forme solenni, che si trasmettono ad epoche, le quali mal sanno
apprezzare i motivi, che le fecero adottare; cosicchè viene ad apparire
artificiosa ed architettata in modo casuistico e sottile quella procedura, che
dovette un tempo essere la naturale conseguenza del modo di pensare e di agire
di coloro , che concorrevano alla formazione di essa . 238. Ad ogni modo il
caso , di cui ci fu serbata memoria parti colareggiata, e in cui appare in
tut a la sua solennità questa pro cedura solenne, è la elezione di Numa,
il quale fra i re primitivi si presenta ancora con un carattere pressochè
patriarcale. Sparito Romolo e collocato fra gli dei col nome di Quirino, gli
auspicia e l'imperium erano passati ai capi delle decurie del senato, che se ne
trasmettevano di cinque in cinque giorni le insegne (decem imperitabant, unus
cum insignibus imperii et lictoribus erat). I padri, che non parevano troppo
soddisfatti del regis imperium , agitano il partito se non fosse il caso di non
più nominare il re : ma di lasciare, che il potere si venga cosi avvicendando,
senza che alcuno possa essere re per tutta la vita . Il partito non prevale fra
il popolo , il quale non ama di avere cento capi, a vece di un solo , e quindi
a re si sceglie Numa di stirpe sabina . È l'interrè, che è chiamato a proporlo
(rogat), ed è il popolo che è chiamato a crearlo, mentre sono i padri, che
approvano l'elezione (quirites, regem create : deinde, si dignum crearitis,
patres auctores fient). Segue poscia l'inauguratio , che è descritta in modo
particolare da Livio ; e viene ultima la proposta della lex curiata de imperio
, la quale, non ri cordata da Livio , è invece ricordata e ripetuta da Cicerone
ad ogni elezione di re , quasi ad indicare l'importanza, che la medesima doveva
avere. Ci attesta poi Livio , che questta procedura, che egli descrive come
introdotta per quel caso determinato, ma che Dionisio farebbe già rimontare
allo stesso Romolo , non è stata abbandonata più tardi: « hodieque in legibus
magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta » , cioè esclusa la
violenza , a cui dovette dal popolo ricorrersi in quel caso, accid i patres
procedessero alla proposta del nuovo re ( 1) (1) Livio , I, XVII; Cic . De
Rep., II, 13, 17, 18 , 20 ; Dion ., II, 57 ; PLUTARCO , Numa, 2. Di fronte a
queste testimonianze concordi, non può esservi dubbio, che du G. Carle , Le
origini del diritto di Roma. 19 290 239. Il concetto informatore dell'elezione
del magistrato non po trebbe qui essere più chiaro ; essa deve essere l'opera
di tutti gli organi dello Stato , ed assume un carattere pressochè contrattuale
fra magistrato e popolo, al pari di qualsiasi altra legge. Cacciati i re, il
concetto si mantiene, poichè anche con magistrati annui la con tinuità degli
auspicia e dell'imperium non deve essere interrotta ; quindi è l'antecessore ,
che è chiamato a proporre il successore, e se egli per qualche motivo non possa
farlo, si ricorre alla nomina di un interré, anche quando i re già sono
aboliti. Tuttavia, anche in questa parte , l'accoglimento della plebe nel
populus delle classi e delle centurie produce una modificazione nella primitiva
costituzione ; modificazione, che in questi tempi diede argomento a gravissime
discussioni, e che, in coerenza alle cose sovra esposte, pud a mio avviso
essere spiegata nel modo seguente. Non può esservi dubbio che, durante il
periodo regio , l'interres era uno dei patres del senato , ai quali redibant
auspicia . Colla repubblica invece, al modo stesso che nel populus delle classi
e delle centurie fu compresa anche la plebe, così anche il senato venne ad
essere non più composto esclusivamente di patrizii, ma anche di nobili plebei;
del che alcuni scorgono un indizio nella de nominazione data ai senatori di
patres et conscripti. Comunque stia la cosa , questo è certo , che il senato,
divenuto patrizio -plebeo , non poteva più rappresentare gli antichi patres o
patricii, che erano stati i fondatori della città , e ai quali redibant
auspicia . Erano le curiae invece, le quali continuarono ancora per lungo tempo
ad essere esclusivamente patrizie, e di cui potevano fare parte anche i
senatori di origine patrizia, che di fronte al rimanente del popolo rappresentavano
l'antico ordine dei patres o dei patricii, e alle quali perciò dovevano
ritornare gli auspicia . Di qui la conseguenza, che furono i patricii, o in
altri termini le curiae, a cui venne a devolversi la proposta dell'interrex ,
come lo dimostrano le espres sioni « patricii coeunt ad interregem prodendum »
, « patricii rante il periodo regio l'interrea era tolto , secondo certe regole
tradizionali, dal se nato, e che dallo stesso senato partiva la patrum
auctoritas. Anche quanto alla lex curiata de imperio, ancorchè solo ricordata
da CICERONE, di fronte alla sua atte stazione ripetuta, manca ogni motivo di
ragionevole dabbio. Non potrei quindi, come sopra già si è accennato, nº 199,
pag. 244 , in nota , consentire col Karlowa, Röm . R.G., pag. 52 e 82 e segg.,
il quale ritiene che la lex curiata de imperio sia entrata in azione soltanto
colla costituzione di Servio Tullio . 291 interregem produnt» e simili, e ciò
perchè l'interrex , facendo in certa guisa ancora rivivere la figura del rex
primitivo, ed essendo depositario e custode degli auspicia , durante il periodo
della va canza del magistrato, non poteva esser nominato che da patrizii e fra
i patrizii, come espressamente ci attesta Cicerone allorchè af ferma: « cum
interrex nullus sit, quod et ipsum patricium et a patriciis prodi necesse est »
(1). Come sia accaduto questo cambiamento , se cioè per legge o per il logico
sviluppo delle isti tuzioni, il che è più probabile, non si può affermare con
certezza; ma certo dovette essere questo il processo logico , che governo tale
modificazione. In questo modo infatti si vengono a rannodare insieme tre
istituzioni, che furono argomento di lunghe discussioni, e di cui tutti
riconoscono la strettissima attinenza , che sono la patru patriciorum auctoritas
per le leggi, la lex curiata de imperio per la elezione dei magistrati, e la
proposta dell'interrex , accið l'im perium e gli auspicia non siano interrotti,
durante la vacanza del magistrato . Tutte queste istituzioni non sono che
conseguenze ed ap plicazioni dell'antico principio, che « auspicia penes patres
sunt» ; dal qual concetto conseguiva, che nè una legge, nè un magistrato , nè
un interrex potevano ritenersi bene auspicati per lo Stato , senza l'intervento
dell'ordine patrizio , il quale, di fronte al nuovo popolo , corrispondeva ai
patres del periodo regio. In questo senso viene ad essere spiegato quanto ci
afferma Cicerone che « curiata comitia , tantum auspiciorum causa , remanserunt
» , come pure si com prende, che col tempo i medesimi si siano ridotti ad una
imitazione od adombramento dell'antico per mezzo dei trenta littori, che rap
presentavano le trenta curie (ad speciem atque ad usurpationem vetustatis per
XXX lictores) (2 ). Intanto però , anche coll' introduzione dei comizii
centuriati, la nomina dei veri magistrati cum imperio continua ancora sempre ad
essere l'opera di tutti gli organi politici dello Stato, in quanto che vi ha
sempre il magistrato o interrè, che lo propone (rogat) ; il popolo delle classi
o centurie, che lo elegge (creat) ; il senato , che continua a dare la propria
auctoritas alla elezione (auctor fit) ; e da ultimo l'assemblea delle curie,
che lo investe degli auspicia e dell'imperium mediante la lex curiata de
imperio, per modo (1 ) CICERO, Pro domo sua, 14 . ( 2) CICERO, De lege agraria
, II, 11, 27 e 28 . 292 che il magistrato non può entrare in ufficio, e
compiere sopratutto atti di carattere militare, prima di aver ottenuta la legge
stessa (1). 240. Se non che anchequi lo svolgimento armonico e coerente della
primitiva costituzione romana comincia a dar luogo ad un dualismo, allorehè
compariscono i magistrati plebei, e sopratutto il tribunato della plebe, il
quale, pur essendo la magistratura urbana più operosa del periodo repubblicano
, non riesce però mai ad inquadrarsi per fettamente nella costituzione politica
di Roma. Dapprima infatti i tribuni della plebe non sono ancora veri
magistrati, ma piuttosto ausiliatori della plebe, e non si pud neppure
affermare con certezza dove fossero nominati, in quanto che gli storici parlano
di una no mina fatta dalla plebe per curie, di cui non si comprende il signifi
(1) Ho cercato qui di riunire e di risolvere, mediante i concetti informatori
della primitiva costituzione di Roma, e dei cambiamenti, che in essa si vennero
operando, alcune questioni, che furono oggetto di gravi e lunghe discussioni.
La patrum au ctoritas, la lex curiata de imperio, la proposta dell'interrex
furono spiegate in varia guisa. Havvi l'opinione del Niebhur , seguìta anche
dal Becker , Röm . Alterth ., vol. II, pag. 314-332, che pareggia fra di loro
la patrum auctoritas e la lex curiata de imperio, e quindiattribuisce l'una e
l'altra alle curie fin dal periodo regio ; vi ha quella del WILLEMS, Le droit
public romain , pag. 208 a 212, che invece attribuisce al vocabolo di patrum
auctoritas la significazione costante di senatus auctoritas, affi dando al
senato anche la proposta dell' interrex ; sonvi il Rubino , e fra i recenti il
Karlowa, Röm . R.G., I, p . 44 e seg., i quali sotto le espressioni di patrum aucto
ritas e di patricii interregem produnt scorgono i senatori patrizii, e quindi
affidano ad essi così la patrum auctoritas, come la proposta dell'interrex . Vi
banno infine quelli, i quali sostengono, che la primitiva costituzione dovette
certo subire qualche modi ficazione, allorchè la formazione delle leggi e la
elezione dei magistrati dal popolodelle curie passò al popolo delle classi e
delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo ; poichè in allora
tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia , dovettero di necessità
passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamedelle curie passò al
popolo delle classi e delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo
; poichè in allora tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia ,
dovettero di necessità passare alle curie, che erano il solo corpo
esclusivamente pa trizio. Tale è l'opinione sostenuta con molta dottrina dal
PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Romu (Rivista di Filologia ,
Torino, 1884, pag . 297 a 395). Se guendo un processo diverso, sono riuscito ad
una conclusione analoga a quella soste nuta dal Pantaleoni, e intanto ho
cercato di richiamare ad un unico concetto i varii aspetti, sotto cui
presentasi la questione. Ritengo poi, che tanto il pareggiamento della patrum
auctoritas e della lex curiata de imperio (BECKER), quanto quello della patrum
auctoritas e della senatus auctoritas (WILLEMS), quanto infine il con cetto di
un senato patrizio, diviso dal plebeo, che darebbe l'auctoritas e proporrebbe
l'interrex (KARLOWA), per quanto sostenute con ingegno e con erudizione, siano
in contrasto coi passi degli antichiautori, e collo svolgimento storico della
costituzione romana . 293 cato (1 ). Più tardi nel 283 U. C. da Publilio
Volerone si ottiene, che la plebe possa nominare i suoi tribuni nei proprii
concilii, i quali cosi vengono ad essere legalmente riconosciuti. Come quindi
con tinua ad esservi sempre un magistrato esclusivamente patrio, il qualedeve
essere nominato dai patrizii delle curie, che è l'interrex ; così vengono ad
esservi deimagistrati, esclusivamente plebei, quali sono appunto i tribuni e
gli edili della plebe, che debbono esser sempre nominati nei concilia plebis.
Per quello poi, che si rife risce ai magistrati veri del popolo romano, e comuni
ai due ordini, si viene ad operare una specie di divisione del potere
elettorale fra i comizii centuriati, che continuano sempre a nominare i magi
strati maggiori, ei comizii tributi, che finiscono per attirare a sè la nomina
dei magistrati minori ; di quei magistrati cioè, che un tempo erano nominati
direttamente dal magistrato maggiore. Per talmodo anche qui sonvi i poteri, in
cui i due ordini si confondono e si ripartono gli uffizii, ma rimangono ancor
sempre le traccie del l'opposizione , che un tempo esisteva fra patriziato e
plebe (2 ). Infine è ancora degno di nota in quest'argomento il processo, che i
romani seguirono nella creazione dei pro-magistrati nelle pro vincie, secondo
cui i magistrati di Roma, allorchè avevano terminato il proprio ufficio nella
città, diventavano pro-magistrati nelle pro vincie . Per noi la cosa può
sembrare singolare : ma pei romani era un processo regolare e costante , in
quanto che essi, al modo stesso che avevano prese le istituzioni gentilizie e
le avevano tra piantate nella città , così presero i magistrati di Roma, e li
tras portarono nelle provincie , prorogandone l'imperio e chiamandoli
pro-magistrati, poichè i veri magistrati dovevano essere quelli di (1) È
Dionisio, IX , 41, il quale dice, che i tribuni furono dapprima eletti nelle
curie, ma in verità non si riesce a comprendere come i difensori della plebe
potes sero essere eletti coll'intervento del patriziato ; salvo che con ciò si
voglia dire, che la plebe, per la nomina dei suoi primi tribuni, siasi raccolta
nel luogo stesso, ove si riunivano le curiae. La proposta di Volerone ebbe poi
grandissima importanza in quanto che è con essa, che incomincia il
riconoscimento legale dei concilia plebis. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, pag .
593 e segg . Non parmi tuttavia, che si possa far rimontare a quest'epoca
l'esistenza dei comitia tributa , poichè i tribuni della plebe, anche più
tardi, furono sempre nominati nei concilia plebis. (2) Questa è una prova , che
in questo periodo della costituzione politica di Roma i veri comizii del popolo
romano erano i comiziï centuriati e i comizii tributi ; mentre i comizii
curiati erano solo più conservati auspiciorum causa, ed i concilia plebis per
provvedimenti di interesse esclusivo alla plebe. 294 Roma (1 ). Veniamo ora
all'esercizio del potere giudiziario nel periodo regio . § 4. –
L'amministrazione della giustizia , la distinzione fra ius e iudicium , e la
provocatio ad populum nel periodo regio . 241. Per quello che si attiene
all'amministrazione della giustizia durante il periodo regio, la questione
fondamentale , intorno a cui vi ha grande divergenza fra gli autori, è quella
che sta in vedere se l'esercizio della giurisdizione, cosi civile come penale,
apparte nesse esclusivamente al re, oppure vi avessero anche partecipazione il
senato ed il popolo . Questo è però fuori di ogni dubbio, che in questo periodo
si cercherebbe indarno una delimitazione precisa fra la giurisdizione civile e
la criminale , sebbeue già sianvi dei reati, che sono pubblicamente proseguiti,
come si vedrà più tardi, discor. rendo del parricidium e della perduellio , e
delle autorità incari cate della prosecuzione e punizione di essi (quaestores
parricidii e duumviri perduellionis ) ( 2). Senza pretendere di volere
risolvere le gravissime questioni, che si agitano in proposito , mi limito
unicamente ad osservare , che anche in questa parte la costituzione primitiva
di Roma contiene il germe di tutte quelle istituzioni, che son chiamate a
determinare lo svolgimento ulteriore del potere giudiziario in Roma. Queste
isti tuzioni primordiali, che gli antichi fanno già rimontare al periodo regio
, sono: la potestà di giudicare, che appartiene al re ; la distin zione fra il
ius e il iudicium , per cui, accanto al magistrato qui ius dicit, già
compariscono i iudices , gli arbitri, i recuperatores in materia civile, ed i
duumviri, ed i quaestores in materia crimi nale ; e da ultimo l'istituto della
provocatio, che col tempo sarà quello , che finirà per trasportare la
giurisdizione penale dal magi strato ai comizii. Questi istituti sono in certo
modo altrettanti abbozzi, che svolgendosi a poco a poco finiranno per
determinare l'evoluzione del potere giudiziario, durante il periodo
repubblicano. 242. Che la potestà del ius dicere sia compresa nella concezione
(1) Non occorre di notare, che qui si parla dei pro-magistrati, che dopo essere
stati consoli o pretori in Roma, diventavano proconsoli o propretori nelle
provincie . Cfr. in proposito MOMMSEN, Le droit public romain , I, pag. 11 e
segg. (2 ) Cfr. Muirhead, Histor . introd ., Sect. 15 , pag. 59 . 295 -
sintetica del regis imperium , sebbene non esista ancora la sepa razione recisa
fra la iurisdictio e l'imperium , è cosa a parer mio chenon può essere posta in
dubbio . Non può quindi essere accolta l'opinione del Maynz, che quasi vorrebbe
fin dal periodo regio attribuire la giurisdizione criminale al popolo (1 ).
Tuttavia in pro posito occorre di rettificare un concetto , che sembra essere
general mente adottato , secondo cui si vorrebbe in certo modo riconoscere nel
re il potere di giudicare di qualsiasi controversia e di qualsiasi misfatto .
Questo concetto ripugna col processo seguito nella forma zione della città , e
dell'imperium regis. Almodo stesso , che la ci vitas non assorbi tutta la vita
delle genti e delle famiglie , ma è dovuta ad una specie di selezione, che si
viene operando di quelle funzioni civili, politiche e militari, che prima erano
esercitate dalle singole comunanze patriarcali ; così anche il potere regio
venne for mandosi, mediante lente e graduate sottrazioni, che si vennero ope
rando da quei poteri, che prima appartenevano ai capi di famiglia e delle
genti. Di qui la conseguenza , che negli esordii dovette per lungo tempo
mantenersi vigorosa, accanto al potere del re, la giu risdizione propria dei capi
di famiglia e delle genti, e che per lungo tempo ancora i capi di famiglia
curarono essi la prosecuzione delle proprie offese e continuarono ad essere i
vindici della disciplina, che doveva essere mantenuta nelle famiglie ; come lo
dimostra il fatto stesso dell'Orazio, quale ci viene narrato da Livio . Tut
tavia in questa progressiva formazione del potere del magistrato fu la stessa
realtà dei fatti e l'intento della comunanza civile e po litica , che
somministrò il concetto direttivo, che ebbe a determi narla . Questo concetto
consiste in cid , che il re primitivo non si impone ai membri delle genti e
delle famiglie come tali, ma bensi ai medesimi , in quanto sono quiriti , cioè
in quanto partecipano alla stessa convivenza civile e politica . Quindi il re
dapprima non è il custode dell'ordine delle famiglie, nè il vindice delle
offese tutte, che possono patire i membri di esse ; ma è il custos urbis , ed è
incaricato sopratutto di provvedere al mantenimento di quelle leges publicae,
che sono in certo modo la base della confederazione ci vile e politica , a cui
addivennero le varie comunanze . Nel resto continuano ad essere competenti i
singoli padri e capi di famiglia , (1) V. Maynz, Introd. au cours de droit
romain , n. 20, pag. 60, ove sostiene, che anche in tema di giurisdizione
criminale la sovranità appartenesse alla nazione. 296 ed anche i capi di tutti
gli altri sodalizii di carattere religioso o civile (magistri): i quali,
secondo il concetto primitivo, hanno giuris dizione sui membri tutti del sodalizio
, come lo dimostra , fra le altre, la giurisdizione del pontefice sui
sacerdozii, che da esso dipendono (1 ). Sarà quindi solo più tardi, ed a misura
che nella cerchia delle mura cittadine saranno anche comprese le abitazioni
private , che la giu risdizione del magistrato perderà questo suo carattere, e
si potrà esten dere anche a fatti, che, quantunque compiuti fra le pareti
domestiche e da persone dipendenti dall'autorità del capo di famiglia ,
potranno tuttavia produrre una pubblica perturbazione. 243. Di questo carattere
speciale della giurisdizione, spettante al magistrato primitivo di Roma,
abbiamo una prova eloquente in quella distinzione fondamentale per l'antica
amministrazione della giustizia , così civile come penale, fra il ius ed il iudicium
. Sono note le discussioni, che seguirono in proposito , e non mancarono anche
coloro , che attribuirono la divisione stessa alla separazione, che l'ingegno
sottile dei romani avrebbe tentato di fare, fin d'allora , fra il diritto ed il
fatto : cosicchè il magistrato avrebbe decisa la que stione di diritto , mentre
il giudice avrebbe poi applicato il diritto al fatto . Una simile distinzione
non si cercò mai dai Romani, perché essi professarono sempre, che ex facto
oritur ius ;ma furono invece i fatti stessi e le condizioni reali, fra cui
vennesi formando la città , che condussero naturalmente a questa distinzione (2
). Pongasi infatti un centro di vita pubblica, che stia formandosi fra varie
comunanze patriarcali. L'effetto , che dovrà risultare da questo stato di cose,
sarà quello di produrre , fra le giurisdizioni, che con tinuano ad appartenere
ai capi delle famiglie e delle genti, una giurisdizione di carattere pubblico,
che appartenga al capo ed al (1) Cfr. Maynz , op. cit., n. 20, pag . 60, e MOMMSEN,
Le droit public romain , I, pag. 187 : « Magistri (scrive Festo, po
magisterare), non solum doctores artium , sed etiam pagoram , societatum ,
vicorum , collegiorum , equitum dicuntur, unde et magi stratus (Bruns, Fontes,
pag. 341). È da vedersi a questo proposito quanto ebbi ad esporre nel lib. I,
Capo V , n ° 88 , pag. 109 e nota relativa . ( 2 ) Fra gli autori, che in
questa distinzione videro in certo modo una separazione fra il diritto ed il
fatto havvi il Bonjean, Traité des actions chez les Romains, Paris, 1845 , vol.
I, § 29. Cfr. Carle, De exceptionibus in iure romano, 1873, pag. 11. Di tale
distinzione tratta il BuonAMICI, Storia della procedura civile romana, Pisa,
1866, I, $ 5 . 297 custode della città . Di qui la conseguenza, che la questione
pre liminare, che questo magistrato sarà chiamato a risolvere, ogni qual volta
gli sia sottoposta un'accusa od una controversia , consisterà nel decidere , se
il fatto , del quale si tratta, sia uno di quelli, che debbono essere lasciati
alla giurisdizione domestica, od invece attribuiti alla giurisdizione di
carattere pubblico , che a lui appartiene; come pure dovrà cercare, se al fatto
, del quale si tratta, siavi qualche lex pu blica , che debba essere applicata
. Se quindi, ad esempio, l'Ora zio avrà uccisa la sorella , e sarà trascinato
innanzi al re in ius, la questione, che questi è chiamato a decidere, sta in
vedere, se il fatto in questione debba essere lasciato alla giurisdizione del
padre, che afferma che la sua figlia è stata iure caesam , o se trattisi invece
di tal fatto, alla cui repressione provveda una lex publica . Ed è questa
appunto la questione, che risolve Tullo Ostilio , il quale, secondo Livio : «
concilio populi advocato : duumviros, inquit, qui Horatio perduellionem
iudicent, secundum legem fació » ( 1). Che se in vece di un misfatto si fosse
trattato di una controversia di carattere civile, la questione a risolversi
sarà pur sempre quella di vedere , se trattisi di un caso contemplato da una
legge pubblica , e se perciò si dovrà accordare diritto di agire secondo la
legge . Solo allora il magistrato gli dirà di agire secundum legem publicam :
oppure più tardi, allorchè vi sarà una speciale magistratura per
l'amministrazione della giustizia , questa pubblicherà nel proprio editto quali
siano i casi particolari , in cui actionem dabit. Non è perciò da ammettersi il
concetto per tanto tempo ricevuto , che, secondo il diritto civile romano, vi
fossero dei diritti, che erano senz'azione ; ma soltanto si deve dire , che il
diritto in Roma si venne lentamente e gradatamente formando, e che toccava al
ma gistrato di esaminare e di risolvere la questione , se in quel caso
determinato dovesse , o non , essere accordata l'azione. Spettava quindi al
magistrato ( in iure) di decidere in ogni caso particolare, se il caso stesso
fosse stato tale da richiedere, in base alle leggi, l'intervento e l'appoggio
del pubblico potere : ma, una volta decisa affermativamente una tale questione,
il magistrato aveva compiuto (1 ) Liv., I, 26. Dalle espressioni, che Livio
attribuisce a Tullo Ostilio , si ricava , che la questione, che egli si propose
di risolvere, consisteva nel decidere, se vi era una legge, e quale fosse la
legge, che colpiva il delitto del quale si trattava. Cfr. PANTALEONI, Storia
civile e costituzionale di Roma, I, pag. 317. 298 il proprio ufficio , e quindi
poteva rimettere il giudizio o ai quae stores parricidii , o ai duumviri
perduellionis, se trattavasi di ac cusa penale , od anche ad un iudex e perfino
ai recuperatores , se trattavasi di una controversia civile, intorno a cui le
parti non si fossero poste d'accordo innanzi al magistrato . Questo è certo ,
che già nel periodo regio vi furono queste varie maniere di giudici ; ed è anzi
probabile , che già esistessero i iudices selecti, il cui albo do veva
probabilmente ricavarsi dal novero dei padri o senatori ; come lo dimostra la
testimonianza di Dionisio , ed anche il fatto, che fu così anche dopo , e che
in una comunanza, che aveva ancora del patriarcale, era ovvio , che i padri
fossero i naturali giudici delle controversie. È certo parimenti, che quando
trattavasi di delitti ca pitali, il re doveva essere circondato da un consilium
; come ap pare dal fatto , che, secondo Livio, a Tarquinio il Superbo fu mossa
l'accusa che « cognitiones capitalium rerum sine consiliis per se ipsum
exercebat » . Era poi naturale, che anche questo consilium fosse tratto
dall'albo dei patres o senatori, e per tal modo abbiamo anche qui un ricordo
del re patriarcale, che, circondato dagli an ziani, amministra la rozza
patriarcale giustizia (1). Per quello poi, che si riferisce all'intervento
dell'elemento popo lare nell'amministrazione della giustizia civile , sembra
che il mede simo debb a attribuirsi soltanto all'epoca serviana , alla
quale puo con molta verisimiglianza farsi rimontare l'istituzione del Tribunale
dei centumuiri, come si vedrà a suo tempo . 244. Intanto è sempre dal modo, in
cui la città si venne formando, e dall'essere essa l'organo e il centroella
vita pubblica, che ven gono ad essere determinati i caratteri della procedura,
che dovette essere seguita negli esordiidella città , così nei giudizii civili
come nei giudizii penali. È infatti nel foro, ossia nella piazza , che deve
essere amministrata giustizia , come lo dimostra il fatto, che una delle ac
cuse, mossa contro Tarquinio il Superbo, fu quella appunto di essere venuto
meno al tradizionale costume, amministrando giustizia nell'in terno della
propria casa (2 ). Così pure si comprende come questa (1) Il testo è citato da
Livio, I, 49. Abbiamo poi Dionisio, II , 14, che dice parlando del re: « de
gravioribus delictis ipse cognosceret ; leviora senatoribus committeret ; donde
si può inferire, che anche il consilium regis dovesse, trattandosi di delitti
ca pitali, ricavarsi dal senato. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., pag. 54 . (2 )
Liv., I, 49. 299 procedura dovesse essere orale, ed ispirarsi al concetto di
una assoluta parità di condizione fra i contendenti, come quella che doveva imi
tare, cosi nei giudizii civili come nei penali, quella specie di lotta e di
certame, che un tempo dovette seguire fra i contendenti. Se si trat terà di un
misfatto , sarà il cittadino che accuserà il cittadino e cer cherà egli stesso
le prove, sovra cui si appoggia la propria accusa , e se si tratterà invece
diazione civile, sarà seguita la procedura solenne dell'actio sacramento, od
anche quella della iudicis postulatio. Di queste si è veduto come la prima già
si era formata nella stessa tribù patriarcale : mentre un tempo essa era il
modo di pro cedere del capo di famiglia contro il capo di famiglia nel seno
della tribù , venne poi ad essere trapiantata nella città, unitamente alle
formalità , che ricordano l'antica procedura patriarcale, e cominciò cosi ad
usarsi dal quirite contro ' il quirite (1 ). La seconda poi, ossia la iudicis
postulatio, fu l'effetto necessario di quella separazione del ius dal iudicium
, che, come si è dimostrato più sopra, era una con seguenza del formarsi di una
giurisdizione pubblica , accanto alle giurisdizioni di carattere domestico e
patriarcale, in quanto che, toc cando al magistrato di risolvere la questione
se in quel caso dovesse o non ammettersi un cittadino ad agire secundum legem
publicam , conveniva di necessità ricorrere a lui, accid delegasse un iudex o
un arbiter per la risoluzione della controversia ; donde l'antica de
nominazione della iudicis arbitrive postulatio (2 ). Questa conget tura ha la
sua base in ciò , che all'epoca decemvirale già si trovano stabilite queste due
maniere di procedura , senza che si possa deter minare, quando le medesime
siano state introdotte. Cotali procedure tuttavia, passando dai rapporti fra
capi di famiglia , pressochè indi pendenti e sovrani, ai rapporti fra i
cittadini di una medesima città , hanno già cessato di essere semplici
actiones, e sono diventate legis actiones , in quanto che sono altrettanti modi
riconosciuti dalla legge pubblica per far valere in giudizio le proprie
ragioni. 245. Soltanto più ci resta a discorrere di una istituzione, che era (
1) Quanto all'origine gentilizia e alla naturale formazione dell'actio
sacramento vedasi sopra lib . I, n . 104 . (2 ) La iudicis arbitrive postulatio
è ricordata da Gaio, come una delle più antiche legis actiones, Comm . IV , §
12 , sebbene poi il manoscritto di Verona sia stato il. leggibile nella parte,
che vi si riferisce. V. quanto alla medesima il Murhead, Hist. introd., Sect.
35, pag. 197 , e il BuonamiCI, Storia della procedura civile romana. I, Cap.
VII, pag. 43 a 57. 300 poi chiamata a ricevere una larga applicazione, durante
il periodo repubblicano, e che è indicata colla denominazione di provocatio ad
populum . Si dubita dagli scrittori, se questa istituzione già potesse esistere
fin dal periodo regio, ed alcuni lo negano, perchè ritengono, che in questo
periodo le funzioni del popolo si riducessero esclusivamente a quelle, che il
re credeva di dovergli affidare. Per parte nostra , di fronte alla
testimonianza di Cicerone, che, augure egli stesso, ebbe a dire , che della
provocatio ad populum parlavano i libri pontificii e gli augurali, il dubbio
non dovrebbe più presentarsi (1 ). Quanto alle considerazioni desunte dagli
stretti confini della populi potestas, durante il periodo regio , ed anche
dalla narrazione di Livio, che nel caso dell'Orazio parla di una provocatio ad
populum , accordata da Tullo « clemente legis interprete » , parmi che esse non
possano condurre ad escludere un diritto di provocatio ad populum , che in
effetto sarebbe stato invocato e fu fatto valere dallo stesso Orazio. Pud
darsi, che in quel caso particolare potessero esservi dei motivi per dubitare,
se dovesse o non essere ammessa. Ma se l'Orazio vi ricorre, egli lo fa in base
ad una consuetudine, le cui origini dovevano rimon tare ad un'epoca anteriore .
Si aggiunge , come appare dalle cose premesse , che la costituzione primitiva
di Roma dovette essere più liberale negli inizii, quando vi era un populus,
tutto composto di padri uguali fra di loro e consapevoli del proprio diritto ,
che non posteriormente , allorchè il populus cominciò ad essere composto di due
classi disuguali fra di loro, cioè del patriziato, che era il populus primitivo
, e della plebe ; di una classe dirigente e di una classe , che trovavasi in
posizione inferiore. In base ad una tale costituzione primitiva , secondo cui
la populi potestas era la sorgente di tutti i pubblici poteri ed anche del
regis imperium , veniva ad essere naturale e logico , che se il ius dicere
apparteneva al re , il con dannato dovesse poter ricorrere in appello al potere
supremo che era il popolo, mediante la provocatio . Per verità di questo
diritto alla provocatio fa cenno la stessa lex horrendi criminis, i cui termini
ci furono conservati da Livio « duumviri perduellionem iudicent : si a
duumviris provocarit, provocatione certato » . Era poi naturale, che questa
provocatio, al pari dell'azione e del giudizio , venisse a canıbiarsi in quella
specie di certame o di combattimento (1) Cic ., De Rep., II, 35 : «
Provocationem etiam a regibus fuisse, declarant pon tificii libri, significant
nostri etiam augurales » , 301 legale , che viene appunto ad essere descritto
da Livio , a proposito del giudizio dell'Orazio , in quanto che ogni procedura
patriarcale prende naturalmente questo carattere. I duumviri, che avevano
pronunziata la condanna, dovevano essi sostenere l'accusa davanti all'assemblea
del populus. Eravi cosi una specie di certamen fra essi e l'accusato, che
simboleggiava quel combattimento vivo e reale, che un tempo aveva dovuto
effettivamente seguire. Che anzi, già fin d'al lora, il populus, trattandosi di
reato di carattere politico , quale era la perduellio , poteva anche passare
sopra alla questione puramente giuridica , per giudicare invece ex animi
sententia , e assolvere, come avrebbe fatto nel caso speciale dell'Orazio,
«admirationemagis virtutis, quam iure causae » (1). Vero è, che posteriormente
nel primo anno della repubblica tro viamo una legge Valeria Orazia de
provocatione, che riconobbe solennemente al popolo questo suo diritto , il
quale fu anzi conside rato come il palladio della libertà del cittadino romano
(unicum praesidium libertatis) ; ma allora le circostanze erano cambiate ,
perchè il populus non comprendeva solo più i patres e i patricii, ma anche la
plebs , e quindi volevasi una legge, che accomunasse e consacrasse una
istituzione, forse solo consuetudinaria , a tutto il nuovo populus quiritium ,
comprendendo in esso anche la plebe (2). 246. Intanto è evidente la influenza,
che questa istituzione della provocatio ad populum , solennemente consacrata ,
doveva esercitare sul futuro svolgimento della giurisdizione criminale , in
quanto che essa doveva condurre al risultato di trattenere il magistrato dal
pronunziare una condanna, da cui poteva esservi appello al popolo, e
trasportare cosi in definitiva la giurisdizione criminale dal magistrato al popolo
. Tuttavia anche qui lo svolgimento regolare e graduato ebbe ad essere per
qualche tempo interrotto , allorchè i tribuni della plebe presero a portare
accuse contro i patrizii avversi alla plebe, e contro i consoli uscenti di
ufficio davanti ai concilia plebis. Fu ( 1) Liv ., I, 26 . (2) Non potrei
quindi ammettere l'opinione del KarlowA, Röm . R. G., pag. 53 e segg., il
quale, argomentando da ciò, che le leggi Valeriae Horatiae avrebbero introdotta
la provocatio ad populum , vorrebbe inferirne, che questa sotto i re non
esistesse che per la perduellio. CICERONE parla di provocatio in genere, e
quindi non vi ha motivo di restringerla, ma vuolsi ammetterla in genere per i
reati a quella epoca puniti di pena capitale, cioè tanto per la perduellio,
quanto per il parricidium . 302 allora , che la legislazione decemvirale ebbe a
stabilire il principio che soltanto i comizii centuriati potessero pronunziare
una condanna capitale (1 ). Ciò però non impedisce, che i tribuni della plebe
conti nuino ancora ad eserc itare il proprio diritto di accusa ,
sopratutto per i delitti di carattere politico, e per quelli che sono puniti di
sole pene pecuniarie. Di qui deriva la conseguenza, che anche quanto alla
giurisdizione criminale viene a ripartirsi il compito fra i comizii centuriati,
che giudicano dei delitti capitali , e dd i comizii tributi, che giudicano dei
delitti, che debbono essere puniti con pene pecuniarie, finchè l'incremento
della città ed anche dei delitti perseguiti per legge non renderà necessario di
ricorrere alla istituzione delle quaestiones perpetuae, ossia di tribunali
speciali per giudicare delle diverse categorie di delitti (2 ). Parmi con ciò
di aver abbastanza dimostrato non solo l'unità e la coerenza della primitiva
costituzione patrizia ; ma di aver provato eziandio , come essa debba essere
considerata come il modello e l'esem plare , sovra cui si foggiò tuttoil
posteriore svolgimento delle istituzioni politiche diRoma. Essa fu tale
dameritarsi il grande elogio diCicerone, allorchè scriveva , che la
costituzione politica di Roma formatasi « non unius ingenio, sed multorum , nec
una hominis vita , sed aliquot saeculis et aetatibus » , era tuttavia riuscita
superiore in eccellenza alle costituzioni greche, che erano l'opera meditata
dei filosofi e dei sapienti. L'opera collettiva di un popolo, proseguita con
logica tenace e coerente, e accomodata ai tempi, riusciva per talmodo superiore
all'opera individuale dei più grandi ingegni del l'umanità : nam , dice lo
stesso Cicerone, facendo intervenire Sci pione, neque ullum ingenium tantum
exstitisse dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam aliquando fuisset ;
neque cuncta in genia , conlata in unum , tantum posse uno tempore providere ,
ut omnia complecterentur, sine rerum usu ac vetustate ( 3). Veniamo ora alle
leges regiae. ( 1) Cic ., De leg . 3 , 4 : « De capite civis nisi per maximum
comitiatum ne fe runto » , disposizione questa , attribuita alla
legislazionedecemvirale, la quale mirava con ciò ad impedire, che le cause
capitali contro i patrizii e contro i consoli fossero dai tribuni della plebe
recate innanzi ai concilia plebis. ( 2 ) Cfr. Esmein , Le délit d'adultère à
Rome e la loi Iulia , de adulteriis, nei Mélanges d'histoire du droit, Paris ,
1886, pag . 71 et suiv. (3 ) Cic., De Rep ., II , 1. -- 303 - CAPITOLO IV . La
legislazione regia durante il periodo esclusivamente patrizio . $ 1. - Del
contributo delle varie stirpi italiche alla primitiva legislazione di Roma.
247. Dal momento che a costituire la città patrizia concorsero comunanze, le quali
erano di origine diversa , era naturale , che, anche esistendo una certa
analogia fra le loro istituzioni, non potesse perd esservi una identità
perfetta fra le medesime. È quindi evidente , che col partecipare di diverse
stirpi alla medesima città dovette ope rarsi fra di loro una assimilazione
lenta e graduata delle loro isti tuzioni giuridiche. Che anzi, a questo
proposito , un recente autore, a cui deve assai la ricostruzione del diritto
primitivo di Roma, il Muirhead, andrebbe fino a dire, che le varie stirpi, come
recarono un diverso contributo alla costituzione politica di Roma, cosi deb
bono pure aver portato un contributo diverso alla formazione del diritto
privato di Roma; contributo, che egli cercherebbe di riassu mere nei seguenti
termini: « La patria potestas spinta fino al ius vitae et necis sulla
figliuolanza ; la manus ed il potere del marito sulla moglie ; il concetto per
cui « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio
, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non
paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò
insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi « maxime sua esse
credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi
tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre
anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto , che
la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent »
(Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che
non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto
ciò insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi « maxime sua
esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del
credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se
occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal
concetto , che la forza generi il diritto , sarebbe dovuto all'influenza
latina : « Le cerimonie religiose invece, che accom pagnano il matrimonio , il
riconoscimento della moglie, quale padrona della casa e partecipe delle cure
religiose e domestiche; il consiglio di famiglia dei congiunti, cosi paterni
che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica
giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire
l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e
dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda
il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del
l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non
privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni,
che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la
pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e
di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii necessarii per il riposo delle loro anime, sarebbero
evidentemente uscite da un diverso ordine di idee, e sarebbero perciò a
ritenersi di provenienza sabina. - « Quanto all'influenza etrusca non si
sarebbe sentita che ad una data più recente ;ma dovrebbe probabilmente essere
attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os
servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti
transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certam ma dovrebbe
probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che
deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più
impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certamma
dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto
riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole
solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1).
Non può certamente negarsi , che la ricostruzione dell'in signe giureconsulto
appare come una verosimile congettura , quale del resto è annunciata dallo
stesso autore. Alla sua mente acutanon poteva sfuggire la stretta attinenza,
che dovette esservi fra il diritto pubblico e il privato nello svolgimento delle
primitive istitu zioni : e ciò lo condusse a questa ripartizione di parti, che
pure si appoggia al carattere e alle opere, che la tradizione attribuisce ai
re, che provengono dalle varie stirpi. Tuttavia , con tutta la reverenza
all'opinione di un insigne , crederei che questa ricostruzione del diritto
primitivo di Roma non possa essere accettata , neppure come ipotesi e
congettura , perchè è in contraddizione col modo, in cui Roma e il suo diritto
si vennero formando, e colle tradizioni, che a noi pervennero . 248. Non credo
anzitutto , che la costituzione, anche politica di Roma, possa considerarsi in
certo modo come una composizione di elementi diversi recati da questa o da
quella stirpe . In proposito ho cercato di dimostrare che l'ossatura della città
primitiva fu essen zialmente latina, e che, al pari delle altre città latine,
Roma usci da un foedus, ossia dall'accordo di varie tribù per partecipare ad
una stessa comunanza civile e politica. Quindi è che gli elementi, che
sopravvennero, entrarono tutti nei quadri della città latina , la quale fu anzi
concepita sopra un'unità cosi organica e coerente , che non può essere
riguardata, come il frutto del contemperamento di ele menti diversi (2 ). Re,
senato e popolo esistono fin dagli esordii di Roma, e a misura che nuovi
elementi si aggiungono, il re potrà sce ( 1) MUIRHEAD, Historical introduction
to the private law of Rome, Edinburgh. 1886 , pag. 4 . (2 ) In questa parte
divido perfettamente l'idea del MOMMSEN, che condanna l'opi nione di coloro «
che han voluto trasformare il popolo, che ha dimostrato nella sua lingua, nella
sua politica e nella sua religione uno sviluppo così semplice e naturale, in
uno amalgamarsi confuso di orde etrusche, sabine, elleniche e perfino
pelasgiche » . A suo avviso sono i Ramnenses, di origine latina, che non solo
fondarono e diedero il proprio nome alle città , ma che posero eziandio quelle
linee primitive, in cui entra rono poi tutte le istituzioni, che furono
assimilate più tardi » Histoire Romaine, I, liv. I, Chap. 4 , pag. 54. Questa
opinione, fra gli autori recenti, è pur sostenuta dal Pelham , Encyclopedia
Britannica , XX , vº Rome (ancient), ove rinviene in Roma tutti i caratteri di
una città latina. 305 gliersi da un'altra stirpe, il numero dei senatori e dei
cavalieri potrà essere aumentato, e potranno anche accrescersi i coll egi
sacerdotali, ma l'ossatura primitiva sarà sempre conservata. Vero è che un re
sabino, cioè Numa, secondo la tradizione, fu organizzatore del culto e del
collegio dei pontefici, ma auspicii e cerimonie religiose ed au gurali sono già
attribuite allo stesso Romolo ; nè tutto ciò , che si riferisce
all'organizzazione domestica, può ritenersi di origine sabina, dal momento che
già una legge, attribuita a Romolo, riguarda il matrimonio per confarreationem
(1). Lo stesso è a dirsi del tribunale domestico e della tendenza delle
famiglie a perpetuarsi, che il Mui rhead vorrebbe pur ritenere di origine
sabina, mentre ne troviamo le traccie in tutti i popoli di origine Aria, e in
tutti quelli parimenti, che hanno attraversato lo stadio dell'organizzazione
patriarcale (2) . Cid pure deve dirsi del cerimoniale esteriore e dell'uso di
parole so lenni nei contratti e negli atti, che il Muirhead attribuirebbe alla
in fluenza etrusca, poichè, se stiamo alla tradizione , questo cerimoniale
esteriore rimonta alla fondazione stessa della città , e quindi sarebbe
anteriore all'epoca , in cui, secondo il Muirhead , si sarebbe comin ciata a
sentire l'influenza etrusca. Si aggiunge, che le solennità di parole, di atti e
di gesti non sono anch'esse un privilegio di questa o di quella stirpe ; ma
sono comuni a tutti i popoli, che attraver sarono l'organizzazione gentilizia,
e trovano anzi, come si è dimo strato , una causa naturale in ciò , che in
questa condizione di cose , gli atti ed i contratti, seguendo in certo modo,
non fra individui, ma fra capi di gruppo, acquistano una solennità , che ora
direbbesi internazionale, la quale si conserva poi eziandio negli inizii della
co munanza civile e politica . Infine non pud neppure affermarsi, che quella
serie di istituzioni, che mette capo al concetto , che il diritto scaturisce
dalla forza , debba considerarsi come di provenienza latina, in quanto che
questo concetto deriva piuttosto dall'attitudine emi nentemente guerriera, che
prende il populus romanus quiritium ( 1) Dion. II, 25 (BRUNS , Fontes , pag. 6
). (2) Che questo sia un carattere comune a tutti i popoli , che trovansi
nell'orga nizzazione patriarcale, o che escono dalla medesima, è stato
dimostrato dal SUMNER MAINe , nelle varie opere sue , e di recente dal Leist ,
Graeco-italische Rechtsge schichte. Jena, 1885. Io stesso credo di averne data
la prova nell'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale
, lib. I e II , seguendo le migrazioni delle genti Arie, e dimostrando come
esse abbiano trapiantato nell'Occidente quelle istituzioni, che avevano
preparato nell'Oriente. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 20 306 nelle
sue origini, attitudine che è comune a tutte le stirpi, che lo costituiscono ;
come lo dimostra il fatto, che vi hanno genti di origine sabina (come, ad es.,
la Claudia ), ed altre di origine etrusca (come la Tarquinia), le quali
appariscono non meno amiche della forza , e fino anche della prepotenza,
di quelle di origine veramente latina, alle quali appartengono di regola le
genti, che come la Valeria, appariscono nelle tradizioni più favorevoli alla
plebe, e più disposte ad equi e a miti consigli. 249. Del resto non è un esame
delle singole affermazioni del Muirhead , che io qui intendo di fare ; ma
piuttosto dalle cose pre messe intendo inferire , che, trattandosi di genti,
che probabilmente erano tutte di origine Aria, e si trovavano pressochè nel
medesimo stadio di organizzazione sociale , le istituzioni fondamentali del di
ritto privato , salvo le divergenze nei particolari minuti, dovevano essere
essenzialmente comuni alle varie stirpi. Tutte avevano isti tuzioni, in cui
prevaleva il carattere religioso ; tutte compievano i loro atti con solennità e
cerimonie esteriori, che richiamavano un precedente periodo di organizzazione
sociale ; e tutte possedevano l'organizzazione patriarcale della famiglia , e
gli istituti della gente, della clientela e della tribù. Cið tutto si può
affermare con certezza , dal momento, che questi caratteri sono comuni al
diritto primitivo, quale ebbe a modellarsi nell'Oriente, durante il periodo,
chepotrebbe chiamarsi della comunanza del villaggio . La stirpe tuttavia , che
diede il primo modello, in cui furono poi fuse le istituzioni analoghe, che
erano già possedute dalle varie genti , fu anche, quanto al diritto privato ,
la stirpe latina, la quale appare come fondatrice della città ; il che punto
non tolse , che, stante il comporsi dei varii elementi, si allargasse poi il
concetto della divinità , patrona comune della città , e si ammettessero man
mano anche istituzioniproprie di altre stirpi, ma sempre foggiandole, come Roma
fece anche più tardi, sul l'impronta latina. Che anzi credo perfino di dover
affermare , che quella potenza di assimilazione, che contraddistingue Roma,
appena compare, deve sopratutto ritenersi propria alla stirpe latina, da cui
Roma ebbe la sua prima origine. Per verità , anche prima della fondazione di
Roma, le popolazioni latine erano quelle , che avevano già mag giormente svolto
il concetto di federazione, e che perciò si di mostravano anche meno esclusive
, e perfino anche più favorevoli alle plebi, e più disposte a ricevere altri
elementi nel proprio seno, - 307 e ad apprendere in conseguenza anche dalle
istituzioni degli altri popoli . Ciò è tanto vero , che nella storia primitiva
di Roma l'ele mento etrusco fu dapprima tenuto in più basso stato , e più
tardi, quando diventò potente ed aspird alla tirannide, ne fu cacciato ed
espulso ; l'elemento sabino fu quello , che , essendo ancora più tena cemente
vincolato nell'organizzazione gentilizia , si dimostrò il più esclusivo e il
meno favorevole alle plebi; mentre invece l'elemento latino fu quello che, dopo
essere stato il primo a modellare la città , entrò anche dopo in copia maggiore
a riempire tanto i quadri della città patrizia, quanto le file di quella plebe
operosa e battagliera , che ebbe tanta parte nella grandezza di Roma. Una prova
di ciò pud ravvisarsi nel fatto, che Roma, elevandosi gigante fra le altre co munanze
italiche , combattè ad oltranza cogli Etruschi, coi Sabellici e coi Sanniti, e
non si arrestd finchè ebbe quasi cancellata ogni traccia di loro civiltà ;
mentre quanto ad Alba , la considerò come sua madre patria , e anzichè
estinguerla e soffocarla , dopo averla vinta , pre feri di accoglierne il
patriziato e la plebe, e di essere erede della medesima , continuando quel
processo nell'organizzazione sociale , che da essa erasi iniziato . Fra Roma da
una parte e l'Etruria e la Sabina dall'altra , vi fu pressochè una guerra di
sterminio , sopratutto fra le due prime , mentre fra Roma e il Lazio vi fu
soltanto una lotta di precedenza ; perchè due città foggiate sullo stesso
modello , come Roma ed Alba , non potevano coesistere l'una in prossimità
dell'altra ( 1). (1 ) La questione dell'origine di Roma e dell'organizzazione,
da cui essa prese le mosse, forma tuttora argomento di discussioni fra gli
eruditi. Fra gli altri il PAN TALEONI, Storia civ . e costituz. di Roma, I, nei
primiquattro capitoli, e nella 1a appen dice aggiunta in fondo del volume,
avrebbe sostenuta l'origine sabellica di Roma e di quella organizzazione
patriarcale, di cui essa ritiene ancora le traccie, cosicchè per esso anche i
Ramnenses sarebbero Sabellici, mentre la plebe sarebbe da lui ritenuta di ori
gine latina, poichè, a suo avviso, le popolazioni latine già erano maggiormente
use alla vita della città. Credo di aver abbastanza dimostrato, che Roma
primitiva si formò sul modello latino, e che nelle stesse città latine già
eravi la distinzione fra patriziato e plebe, e quindi non sembrami che la
dottrina certo grande dell'autore possa far preva lere un'opinione,che
contraddice a tutte le testimonianze degli storici e alle tradizioni stesse del
popolo romano circa le proprie origini. Di recente poi il Casati in una nota
letta alla Académie des inscriptions et de belles lettres di Parigi,
nell'ottobre del 1886, sostenne che la gens fosse di origine Etrusca . Anche
questi nuovi studii mi confermano nella conclusione : che l'organizzazione gentilizia
sia stata un tempo comune a queste varie stirpi, e che, all'epoca della
formazione di Roma , la stirpe - 308 250. Del resto la causa di questa
divergenza col Muirhead ed il motivo, per cui ritenni di dover qui combattere
la sua teoria , devono essere cercati in un'altra divergenza ben più grave, che
sta nel modo diverso di comprendere e di spiegare la primitiva formazione di
Roma. Per il Muirhead (ancorchè, a mio avviso , egli sia fra gli autori re
centi uno di quelli, che ha posto meglio in vista il contributo diverso recato
alla formazione del diritto Romano , dal patriziato e dalla plebe), la città di
Roma continua ancor sempre ad essere il frutto dell'unione di genti
appartenenti alle stirpi latina, sabina ed etrusca , ed è ancora questo il concetto
, che egli pone a fondamento della sua ricostruzione del diritto primitivo di
Roma. Era naturale quindi che, fondendosi ed incorporandosi le varie stirpi,
ciascuna dovesse recare il proprio contributo , anche alla formazione di un
comune diritto , e che egli cercasse di discernere in questa composizione la
parte , che a ciascuna stirpe dovesse essere attribuita. Ben è vero , che
alcune volte egli si trova imbarazzato del fatto , che il diritto quiritario
primitivo si presenta del tutto insufficiente a governare tutti i rapporti di
una comunanza anche primitiva , e lascia senza norma una quantità di relazioni,
che dovevano già certamente esi stere: ma intanto il punto suo di partenza gli
impedisce pur sempre di spiegare come ciò abbia potutoaccadere (1). Che se
invece si ammetta , come ho cercato di dimostrare , che Roma è una città
formata sul modello della città latina, e che essa, uscita dalla federazione e
dall'accordo , costituisce dapprima un centro di vita pubblica, frammezzo a
varie comunanze di villaggio, in allora Sabellica non avesse ancora superata
tale organizzazione, ma le avesse dato il mag. giore svolgimento, di cui era
capace, come lo dimostrano le genti Claudia e Fabia : che la stirpe Latina
fosse invece già p ervenuta al concetto della città federale ; e che da
ultimo l'Etrusca fosse già pervenuta alla città , che potrebbe chiamarsi
corpora tiva . Roma partì dal tipo latino e quindisi costitui fin dapprincipio
in un centro di federazione : poi sotto l'influenza etrusca diventò anche una
città unificata ; ma serbò tuttavia anche in seguito il carattere latino, per
guisa che cambiossi in certo modo in un centro di vita pnbblica del mondo
allora conosciuto. (1) Tale difficoltà occorre al MUIRHEAD , per esempio,
allorchè a pag . 50 parla del. l'opinione di coloro , che sostengono che Roma
non conoscesse dapprima che la pro prietà degli immobili, ed anche a pag. 54,
ove, parlando dei delitti e delle pene, trova non parlarsi di delitti, che non
potevanomancare anche in una città primitiva. Questi fatti invece sono
facilmente spiegati, se si ammette la formazione progressiva e gra duata, così
della città , come del suo diritto civile e criminale, non che della giuri
sdizione spettante ai suoi magistrati. 309 sarà facile il comprendere come, nella
formazione del suo diritto pub blico e privato, Roma, dopo aver preso lemosse
da quelle istituzioni di origine latina, che potevano già confarsi colla
comunanza civile e politica , sia poi venuta lentamente assimilando tutte le
istituzioni, che già si erano formate nel periodo gentilizio, anche presso le
altre stirpi, quando le medesime potessero conciliarsi coll'impronta primi.
tiva , che essa aveva data al suo diritto . Questo è stato certo il me todo,
che Roma seguì anche più tardi nella trasformazione del suo diritto privato ;
nè, conoscendo ormai per prova la sua costanza nei processi seguiti, possiamo
averemotivo di dubitare, che essa abbia dovuto esordire nella stessa guisa . §
2 . Della esistenza di vere e proprie leggi (leges rogatae) durante il periodo
regio. 251. Intanto questo modo di considerare la formazione di Roma e del suo
diritto mi conduce ad apprezzare la legislazione primitiva di Roma in guisa
diversa da quella, che suole essere generalmente adot tata dalla critica, e ad
accostarsi invece a quella , che, ci verrebbe ad essere indicata dalla
tradizione. Mentre la critica infatti , dopo aver resi leggendari i re, nega
pressochè ogni fede alla legislazione, che suol essere indicata col nome di
regia , e la riduce esclusiva mente ad essere opera dei collegi sacerdotali, o
a semplice raccolta di consuetudini e di tradizioni anteriori, la tradizione
invece ci dipinge il periodo regio, anteriore anche a Servio Tullio, come un
periodo di grande attività legislatrice. Or bene, a mio avviso, si deve andare
a rilento nel respingere in questa parte il racconto della tradizione. Se la
città latina in genere, e Roma sopra tutte le altre, fu dapprima un organo di
vita pubblica fra comunanze , in cui continuavasi la vita domestica e
patriarcale, viene ad essere evidente, che come la città fu il frutto di una
specie di selezione, cosi dovette pur essere del diritto, che governo i primi
rapporti fra i membri della mede sima. Le esigenze della vita civile e politica
sono diverse da quelle di una vita di carattere patriarcale : quindi se questa
poteva som ministrare i concetti religiosi, morali ed anche giuridici, già
prima elaborati, questi però non potevano essere trasportati tali e quali, ma
dovevano subire un lavoro di scelta e di coordinamento , ed è questo appunto ,
che dovette compiersi durante il periodo regio . Ne ripugna il credere, che ciò
siasi potuto fare, dal momento, che si è 310 abbastanza dimostrato , come le
genti, che fondavano la città , erano lungi dall'essere del tutto primitive, ma
avevano una suppellettile copiosa di concetti e di tradizioni, che già si erano
prima formati. Esse non erano più nello stadio della primitiva formazione del
di ritto : ma erano già in quello della elaborazione e dell'adattamento di un
diritto già formato alle esigenze della vita cittadina. Ammet tasi, che in
parte siano leggendarie le figure dei primi re; ma questo è certo che,
leggendarii o no, essi dovettero sottostare alla neces sità di quella
convivenza, di cui erano i capi, e quindi dare opera vigorosa a quella
selezione ed unificazione legislativa , che era il più urgente bisogno per una
città , che risultava di elementi diversi. Conviene aver presente, che la città
in genere e sopratutto Roma, (che fra le genti italiche fu forse la prima ad
iniziare il processo di accogliere persone di discendenza diversa a partecipare
alla stessa vita pubblica ), si presentava come una istituzione novella,
destinata ad un grande avvenire. Era mediante la città , che l'uomo o meglio il
capo di famiglia cominciava ad essere qualche cosa, anche fuori della propria
famiglia o gente , e quindi non è punto a maravigliare, se un senso pubblico
energico e potente abbia potuto penetrare re , senato , sacerdoti e popolo.
Quelsenso di devozione e di abnegazione, di cui diedero prova più tardi le
grandi famiglie plebee , allorchè giunsero finalmente ad essere ammesse come
eguali nella città , do vette dapprima essere provato dagli uomini, usciti
dalle genti patrizie, allorchè sentirono di costituire un populus , malgrado la
loro ori gine diversa : e quindi non è punto probabile , che essi abbiano
dovuto mantenersi del tutto estranei alla elaborazione di quel diritto , che
doveva governarli, e che tutto lasciassero ai collegi sacerdotali ed al re loro
capo. Se essi eleggevano il re e per tale elezione si ra dunavano nei comizii,
non si comprende veramente come essi abbiano potuto essere affatto esclusi
dall'opera legislativa , che era una con seguenza inevitabile della formazione
della città (1). (1) L'opinione, qui combattuta, posta innanzi dal DIRKSEN ,
Die Quellen des röm misches Rechts, Leipzig, 1823, pag. 234 e segg ., in
un'epoca , in cui tutta la storia primitiva di Roma erasi convertita in una
specie di leggenda, trova ancora oggidi molti seguaci. Basti annoverare, tra i
recenti, il PANTALEONI, op . cit ., pag. 309 ; il KARLOWA, Röm . R. G., pag.
52,ed anche il Murrhead, Hist. Introd., pag . 20. L'ar gomento da questi due
ultimi invocato consiste sopratutto nella nota espressione di Livio : « vocata
ad concilium multitudine, quae coalescere in populi unius corpus, nulla re ,
praeterquam legibus, poterat , iura dedit » . Essi argomentano dal iura 311
252. A ciò si aggiunge che in una piccola comunanza , formata da persone, che
poco prima ancora vivevano patriarcalmente, do vette essere frequente e
quotidiano il contatto fra elementi, che ora a noi appariscono grandiosi per
l'età remota e per il grande avve nire, che ebbero di poi. È quindi assai
probabile, che i rapporti fra re, padri , pontefici , auguri e popolo fossero
continui , e che perciò potesse anche formarsi una specie di pubblica opinione
in torno a ciò , che potesse esservi di comune interesse per una città, che era
uscita dalla volontà comune, e che era la creazione di tutti. Senza voler
sostenere che le concioni, da Livio e Dionisio attribuite ai personaggi della
loro storia , siano state veramente quelle, non è però inverosimile, che
concioni siansi veramente fatte , e che in tutti i casi, in cui trattavasi di
qualche pubblico interesse, potesse vera mente accadere, che i padri
intervenissero fra il popolo ed anche fra la plebe, e interponessero nei
rapporti quotidiani un'autorità di persuasione, non dissimile da quella, che
entrò a far parte sostan ziale della costituzione primitiva di Roma, sotto il
nome appunto di patrum auctoritas. Se il rispetto, che quegli uomini avevano
per l'età , e la loro disciplina domestica spiegano la solennità , con cui essi
votavano nei comizii , e il loro limitarsi a rispondere, appro vando o negando
; non possono però escludere, che quelle discussioni, che erano inopportune al
momento della votazione, potessero anche essere indispensabili e frequenti in
seno ad un popolo , che senti con tanta energia la vita pubblica , e
l'influenza della medesima. Il popolo romano, fin dalle proprie origini, non fu
un popolo nè di asceti, nè di anacoreti, che seguissero una regola conventuale
: ma fu un popolo, i cui membri appresero ben presto a dire la verità nella
vita pub blica , quantunque i suoi membri continuassero ad essere ligii ed
ossequenti all'autorità del padre nella vita domestica. dedit, adoperato invece
di iura tulit; ma è facile il notare, che le espressioni di iura dare et
accipere sono talvolta sinonime di quelle di iura ferre , come lo dimostra fra
gli altri Aulo GELLIO , XV, 28, 4, che deffinisce i plebiscita « quae ,
tribunis plebis ferentibus, accepta sunt» . Si aggiunge che Livio in quello
stesso passo insiste sulla necessità di vere leggi per incorporare elementi
eterogenei e diversi, e usa quel vo cabolo di legge, che pei Romani significò
sempre un provvedimento proposto dal magistrato e accettato dal popolo. Ad ogni
modo questa proposizione si riferisce an cora all'epoca anteriore alla
confederazione coi Sabini, e quindi, trattandosi ancora del capo patriarcale di
una tribu militare , si comprende che egli potesse iura dare ; mentre si
dovettero richiedere vere leges rogatae, allorchè le varie tribù entrarono a
partecipare alla medesima città. 312 253. La loro caratteristica prevalente non
è nè la religiosità, né l'indole guerriera , ma piuttosto quell'equilibrio e
contemperamento di facoltà umane, in cui consiste il senso giuridico e politico
. La qualità , che prepondera in essi fra le facoltà affettive, è la volontà
pertinace , costante , e fra le facoltà intellettuali è una logica, che analizza
con un acume senza pari i varii elementi dell'atto umano, e che quando ha
afferrato un concetto non lo abbandona, finchè non abbia dato tutto cid, che da
esso può ricavarsi ; due qualità queste, l'una pratica e l'altra teorica , che
si corrispondono perfettamente fra di loro, e che spiegano come la storia
giuridica e politica di Roma si riduca all'applicazione costante delmedesimo
processo, che inizia tosi con essa, non fu più abbandonato fino alla completa
formazione del diritto pubblico e privato di Roma. Di qui la conseguenza , che
tanto nella politica , quanto nel diritto ,Romanon procedette maiper semplice
agglomerazione ed incorporazione, ma per selezione, cosicchè apprese da tutte
le genti, ma accettò solo queimateriali, che potevano entrare nei quadri del
proprio edificio . Roma nella storia dell'umanità rap presenta , per cosi
esprimersi , un crogiuolo, in cui sono gettate tutte le istituzioni anteriori
del periodo gentilizio , e quelle che fu rono poi da essa rinvenute presso gli
altri popoli conquistati, nel l'intento di isolare dagli altri elementi della
vita sociale l'elemento giuridico e politico , e questa selezione e questo
isolamento essa cominciò ad operare fin dai proprii esordii. 254. Credo quindi
che per comprendere Roma primitiva convenga guardarsi dall'esagerare quella,
che suole essere chiamata, la reli giosità del popolo romano. Non è già che
possa negarsi ai Romani un sentimento profondamente religioso ; ma essi non si
trovano punto sotto il dominio di quel terrore superstizioso della divinità ,
che soffoca l'operosità umana; ma scorgono in essa una potenza, la quale
invocata e resa benevola con determinati riti , doveva condurre il popolo
romano ad insperata grandezza . Si aggiunge, che questa carattere religioso ,
finchè Roma fu esclusivamente patrizia , era co mune a tutti i membri del
populus, i quali tuttiavevano un culto da perpetuare e tradizioni da
conservare. Non era quindi possibile fra essi la formazione di una classe
esclusivamente sacerdotale, che con ducesse al risultato , a cui si giunse in
Oriente , di fare preponderare per modo l'elemento religioso da soffocare
affatto l'elemento politico e il giuridico (1 ). (1) Quanto alla differenza,
sotto il punto di vista religioso, fra le razze Arie del 313 A questo proposito
pertanto è opportuno di tener distinti eziandio due periodi in Roma primitiva:
quello cioè di Roma esclusivamente patrizia , in cui ci troviamo di fronte ad
un popolo, i cui membri, uscendo dalle genti patrizie, conoscono tutti i riti,
gli auspizii e le cerimonie religiose, e se ne servono nell'interesse comune; e
quello invece, in cui fu ammessa anche la plebe alla cittadinanza . In questo
secondo periodo infatti il populus viene a comprendere due classi : l'una, poco
numerosa, ricca di tradizioni, dotta nelle cose reli giose, esperta nelle
civili e politiche ; e l'altra, che ha per sè il nu mero e la forza , ma che è
nuova alla vita civile, priva di tradizioni, e si trova nella necessità di
ricevere modellato e formato il proprio diritto dall'ordine patrizio. È solo in
questo secondo periodo, che la conoscenza degli auspicia e delius viene a
cambiarsi in un ti tolo e in un mezzo di superiorità per il patriziato , il
quale se ne vale per tenere in rispetto e in riverenza le masse . È solo allora
che il diritto, le cui origini erano già celate nell'oscurità dei tempi, e le
cui formalità erano già divenute inesplicabili per la generalità dei cittadini,
viene ad essere chiuso negli archivii dei pontefici, che sono in certo modo
incaricati della custodia e della elaborazione di esso ; mentre quest'arcano e
questa segretezza non poterono certo esi stere negli esordii della città ,
allorchè la conoscenza del diritto e degli auspizii era ancora comune a tutti i
capi di famiglia (1). Cid mi induce a credere, che la parte da attribuirsi al
populus, nella formazione del diritto primitivo di Roma, sia maggiore di quella
, che suole generalmente essergli assegnata ; ma per riuscire in qualche modo a
determinarla , importa ricercare anzitutto la funzione, a cui furono chiamati i
collegii sacerdotali in Roma primitiva, quanto alla formazione del diritto .
l'India e quelle trasportatesi nell'Occidente, mirimetto ai concetti svolti
nell'opera : « La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale » ,
pag. 92 , n ° 33, e agli autori, che ivi sono citati. (1) Vedasi a questo
proposito il MACHIAVELLI, Discorsi sulle deche di Tito Livio, Libro I, Cap. XI,
XII, XIII e XIV, e il MONTESQUIEU, Dissertation sur la politique des Romains
dans la religion . 314 $ 3. – I collegii sacerdotali in Roma e la loro
influenza sulla formazione del diritto primitivo . 255. La caratteristica di
Roma è una mirabile coerenza nel pro cesso, che essa ebbe a seguire nei diversi
aspetti della propria for mazione. Si può quindi essere certi che come la città
fu il frutto di una selezione della cosa pubblica dalla privata , cosi anche la
re ligione pubblica di Roma non potè essere il frutto dell'agglomera zione dei
culti e delle credenze proprie delle varie genti ; ma fu an ch'essa il
risultato di una selezione, per cui, mentre le singole genti e tribù
continuarono nel proprio culto gentilizio, vennesi formando nella città un
culto pubblico , il quale alla sua volta assunse poi una doppia forma, quella
cioè di culto pubblico ed ufficiale (sacra pu blica ), e di culto popolare
(sacra popularia ). Ciò è dimostrato dal fatto , che fra la quantità degli Dei
riconosciuti dai Romani, quelli al cui culto intendono i flamini maggiori sono
Marte, Quirino e Giove, di cui il primo, secondo la tradizione, è il padre del
fondatore, l'altro il fondatore stesso della città , e l'ultimo infine sembra
talvolta con fondersi coll'antica divinità italica di Giano, rivestita alla
Greca (1). 256. Intanto una pubblica religione richiedeva pure un pubblico
sacerdozio . Questo concentrasi dapprima nello stesso re , il quale è augure
sommo e pontefice massimo ; ma poscia il re stesso , pur conservando gli
auspicia del magistrato supremo, costituisce intorno a sè dei collegii
sacerdotali , i quali hanno un carattere del tutto peculiare, in quanto che
essi non hanno un compito esclusivamente religioso ,ma anche una vera
importanza civile e politica . Cotali sono sopratutto gli auguri, i feziali e i
pontefici, i quali,mentre hanno un carattere sacerdotale, che dà un'aureola
religiosa al loro ufficio , compiono ad un tempo una funzione importantissima
per le genti patrizie, che è quella di essere i custodi e gli interpreti delle
tra ( 1) La triade di Giove, Marte e Quirino si fa dalla tradizione rimontare a
Numa, il quale avrebbe già istituiti i tre flamini maggiori, dando però la
prevalenza al fila mine di Giove (Liv., I, 20). Fu più tardi però, che la
religione si rivestà alla Greca e ciò sopratutto sotto l'influenza etrusca ,
ossia sotto gli ultimi tre re, in quanto che fu allora che venne costituendosi
la triade Capitolina di Giove, Minerva e Giunone. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Manuel
des instit. romaines, pag. 456 a 562. 315 dizioni,non solo religiose, ma anche
giuridiche e politiche, e sopra tutto di quella parte di esse, che era indicata
col vocabolo di fas, ed era considerata come l'espressione della volontà
divina. Quelle tradizioni , che in Grecia furono lasciate ai poeti , i quali in
antico avevano ancor essi un carattere sacerdotale , in Roma invece sono
affidate a collegi sacerdotali , i cui membri sono scelti nel novero stesso dei
padri, memori dei riti e degli auspicii religiosi, i quali, malgrado il loro
carattere sacerdotale, continuano pur sempre a prendere parte alla vita civile
e politica , e sono i custodi fedeli del patrimonio tradizionale delle genti
patrizie. Cid spiega come le varie tribù primitive , a quella guisa che erano
concorse in parti eguali sotto l'aspetto politico e militare , così sembrano
pure avere na propria rappresentanza nei varii collegii sacerdotali, come lo
dimostrano il numero di tre, poscia di sei, e quindi di nove auguri e
pontefici, ed anche il numero di venti, che sembra essere stato quello dei
feziali. Intanto se un posto facevasi vacante , il vuoto veniva a riempirsi con
quella stessa cooptatio , mediante cui una nuova gente doveva essere accolta
nell'ordine patrizio . Cosi es sendo composti i collegii sacerdotali , essi
erano in condizione di contemperare e coordinare le tradizioni proprie delle
varie tribù, che erano concorse alla formazione della città ; e potevano col re
, che era il loro capo , contribuire potentemente all'unificazione e al
coordinamento legislativo . Quindi è che il culto, di cui essi sono i
sacerdoti, non è un culto speciale di questa o di quella tribù , ma un culto
ufficiale del popolo romano, come lo dimostrano le appel lazioni di augures
publici populi romani quiritium , di fetiales populi romani, non che la
qualificazione data ai pontifices di sacerdotes publici populi romani. Per
quello poi, che si riferisce alle tradizioni, della cui custodia essi sono
incaricati, senza voler pretendere, che in cið potesse esservi uno scopo
preordinato, questo è però certo, che si effettud fra essi una ripartizione, la
quale corri sponde ai varii aspetti, sotto cui il diritto può essere considerato
(1) . (1) Non ho creduto qui di dovermi occapare specialmente dei quindecim
viri sa cris faciundis, poichè questo collegio, iniziato da Tarquinio Prisco
colla nomina di due sacerdoti per la custodia dei libri sibillini, si cambid
col tempo nel custode dei culti, che erano di provenienza straniera . Esso
quindi non esercitò alcuna diretta influenza sul diritto specialmente privato ;
sebbene sia una prova evidente del con tinuo studio dei Romani per assimilarsi
le istituzioni anche religiose degli altri po poli. È a vedersi, quanto al
medesimo, il Bouché- LECLERCQ, op. cit .,pag . 555 a 560, e il Villems, Le
droit public romain, pag. 323-24 . 316 257. Vengono primi gli auguri, i quali,
secondo la tradizione, sem brano costituire il più antico di questi collegii,
in quanto che Roma stessa sarebbe stata fondata coll'osservanza delle cerimonie
prescritte dall'arte augurale. Essi sono i custodi dei riti, che debbono prece
dere e accompagnare tutte le deliberazioni, che possono riferirsi al pubblico
interesse, e costituiscono cosi nella religione pubblica della città una
imitazione degli stessi augurii privati : come lo dimostra l'at testazione di
Cicerone, che l'abitudine di consultare la volontà divina era universale, e che
i capi delle famiglie e delle genti non tenevano meno dello Stato ai loro
auspizii privati (1). È indubitabile, che essi ebbero dei libri augurales , in
cui serbavano le proprie tradizioni e la propria giurisprudenza , e senza voler
penetrare nei concetti, a cui poteva ispirarsi l'arte loro , egli è certo, che
essa fu una crea zione originale, propria sopratutto alle stirpi latina e
sabellica , che dimostra lo spirito religioso e giuridico ad un tempo del
primitivo popolo romano. È al collegio degli auguri, che devesi la teoria sot.
tile e complicata degli auspicii, che dovevano essere osservati, la distinzione
fra quelli, che potevano essere favorevoli o sfavorevoli, e la precedenza che
certi segni dovevano avere sopra altri. È ad essi parimenti, che devesi
l'orientamento del templum , ossia la delimi tazione di un sito senza ostacoli
e in cui potesse spaziare la vista , per modo che gli auspizii potessero essere
osservati; delimitazione, che do vette probabilmente anche esercitare influenza
sulla scelta e sull'o rientamento dei luoghi, in cui le città dovevano essere
edificate (2 ). 258. È però notabile, che se gli auguri sono incaricati
dell'osser vanza dei riti e della custodia delle tradizioni e decisioni
augurali, è pur sempre il magistrato, che è investito dei publica auspicia , il
quale deve giudicare se i medesimi siano o non favorevoli, e può così eser
citare una influenza decisiva sulle deliberazioni relative al pubblico
interesse ( 3).Era poinaturale , che gliauguri, i quali, nella città esclu (1 )
Ciò è attestato da Cicer ., De div., I, 16 , 28. — Cfr. MOMMSEN , Le droit
public romain , I, pag. 100 e 101. (2 ) Il vocabolo di arte augurale prendesi
talvolta in senso così largo, da com . prendere non solo l'avium inspectio
(donde l'auspicium ),ma eziandio l'ispezione delle viscere degli animali, donde
l'aruspicium . Questo però è da avere presente, che l'ar spicium era di origine
latina, mentre l'aruspicium era di origine etrusca. È da ve dersi in proposito
il PANTALEONI, Storia civ . e cost., appendice III , relativa ai Luceres. (3 )
Cfr. MOMMSEN, Op. cit., I, pag . 119 . 317 sivamente patrizia, erano i custodi
di riti e di tradizioni, che erano noti a tutto il populus, posteriormente ,
allorchè nel populus entro anche la plebe, finissero per acquistare una grande
autorità nelle lotte fra patriziato e plebe, e per recare al primo un
potentissimo sussidio mediante riti, la cui significazione era ormai divenuta
inesplicabile, anche per persone che uscivano dalle stesse genti patrizie . La
loro po tenza ed autorità ci è sopratutto attestata da Cicerone, il quale
scrive: « maximum autem et praestantissimum in re publica ius est au gurum cum
auctoritate coniunctum » , e lo prova dicendo, che essi potevano disciogliere i
comizii, rimandarli ad altro giorno, dichiararli viziati, anche dopo che eransi
tenuti, mentre intanto niuna delibera zione di pubblico carattere poteva essere
presa senza il loro inter vento (1). Però questa loro apparente onnipotenza, di
fronte allo Stato, scompare, quando si consideri, che il giudizio relativo agli
auspizii favorevoli o non appartiene al magistrato, e che gli auguri emettono
il loro avviso sulla osservanza del rito , con cui siansi tenuti i co mizi,
solamente quando siano interrogati dal senato o richiesti dal magistrato stesso
. 259. Quanto al collegio dei feziali, esso è il custode e il deposi tario del
ius foeciale ; ma non è certo il creatore del medesimo, come lo dimostra il
fatto , che questo erasi già formato durante il periodo gentilizio , ed era
comune ad altri popoli, pure di origine la tina e sabellica (2 ). L'istituzione
del collegio è dagli antichi attribuita ora a Tullo Ostilio , ed ora ad Anco
Marzio, ma tutti fanno rimon tare il ius foeciale ad epoca anteriore, poiché
Tullo Ostilio vi sa rebbe ricorso, anche prima che il collegio fosse da lui
istituito. Narra. infatti la tradizione, che il fatto di rimettere le sorti
della guerra fra Roma ed Alba ad un singolare combattimento fu solennemente sti
pulato coi riti proprii del ius foeciale. « I due cittadini eletti a cid, cosi
riferisce il Bonghi la tradizione, facendo le veci dei padri dei due popoli, lo
sancirono a nome di ciascuno di essi. L'uno e l'altro giurarono, invocando
Giove, che l'uno e l'altro popolo l'a vrebbe osservato . Quello dei due popoli,
che primo vi fosse ve (1) Cic., De legibus, II, 12. (2 ) Il processo di
naturale formazione , durante il periodo gentilizio, di quel ius belli ac pacis
, che costituì poi il ius foeciale dei Romani, fu esposto nel Lib. I, Cap. VII,
pag. 139 a 166 . 318 nuto meno, Giove lo ferisse, come l'uno e l'altro ferivano
il porco , che sacrificavano ; anzi con tanta più forza , quanto era la forza
di lui » ( 1) . Ciò significa che il collegio dei feziali non è stato mai il
giudice della giustizia intrinseca della guerra o della opportunità della pace
; l'una e l'altra son trattate dal senato e sono deliberate dal popolo ; mentre
i feziali sono incaricati dell'osservanza dei riti o custodiscono le tradizioni
relative al ius pacis ac belli. Anche essi sono messi in azione dagli organi
del potere civile e politico , e potranno talora essere chiamati a decidere
delle questioni, ma queste non si riferiscono alla giustizia intrinseca , nè
almerito delle cause di guerra , ma sono di preferenzaquestioni di rito e di
procedura (2). I feziali sono in numero di venti ; riempiono i posti vacanti,
mediante la cooptatio ; non hanno un capo permanente, ma scelgono caso per un
pater patratus nel proprio seno ; il che è un altro indizio come veramente il
pater patratus fosse un cittadino eletto a fare le veci del popolo, e che ricordasse
così l'antico patriarca della gente e della tribù. Il ius foeciale pertanto è
in ogni sua parte una sopravvivenza del periodo gentilizio ; indica lo stadio
più pro gredito , a cui erano pervenuti i rapporti anteriori fra le genti e le
tribù ; dimostra come già allora vi fossero degli esperimenti di amichevole
componimento , prima di addivenire alla guerra ; ed è una prova di più, che i
fondatori della città non erano popolazioni primitive nello stretto senso della
parola , ma avevano anche in questa parte un tesoro di antiche tradizioni, le
quali, serbate dallo spi rito conservatore dei Romani, furono mantenute fino a
che non di ventarono pienamente disadatte e incompatibili colla convivenza
civile e politica (3 ). 260. È poi probabile , e l'ho dimostrato a suo tempo,
che la distinzione fra foedus e sponsio fu una conseguenza del passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla costituzione politica della città , il (1)
Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 79 . (2) Tale è pure l'opinione sostenuta dal
FusiNATO , Dei Feziali e del diritto fe. ziale, Cap. III. (3 ) Il numero dei
venti feziali, che non corrisponde a quello degli auguri e dei pontefici, può
forse essere un indizio, che il diritto feziale , comune ancora ai Latini e ai
Sabini, che erano più vicini ancora all'organizzazione gentilizia, non
apparteneva invece agli Etruschi, che, più avanzati nella vita cittadina , già
si erano maggior mente discostati da pratiche di carattere eminentemente
patriarcale. - - 319 – che rendeva tale distinzione incomprensibile per popoli,
che non erano ancora pervenuti a questo punto di svolgimento (1). Così pure è
un effetto di tale passaggio la distinzione netta, che viene operandosi fra
l'amicitia , l'hospitium ,i quali si dividono in pubblici e in privati; ancorchè
sia facile di scorgere, che nel primo periodo le amicizie sono ancora curate
specialmente dallo stesso re; il qual sistema fu seguito sopratutto dalla
politica dei Tarquinii , che intrattenevano relazioni coi capi delle comunanze
vicine, e macchinavano proba bilmente un cambiamento nella forma di governo,
che doveva es sere generale (2 ). Era poi una conseguenza logica della politica
seguita da Roma nella propria formazione, che essa in questo primo periodo non
si chiudesse ancora in se medesima, ma venisse in certo modo at traendo a sè le
popolazioni vicine. Roma continua in questa parte la politica dell'asilo, dalla
tradizione attribuita a Romolo , e in ciò presenta un carattere del tutto
opposto alla formazione delle città greche, e a quella della stessa Atene.
Giovano a questo intento l'isti tuto dell'hospitium publicum , la concessione
della civitas sine suf fragio, l'istituzione del municipium , singolare
istituzione, per cui altri, pur restando nella propria terra , e partecipando
alle cose amministrative di essa, pud tuttavia prendere parte viva alla gran
dezza della patria communis, e recarsi a darvi il prorio voto, allorchè
trattisi di quelle deliberazioni, che possono interessare direttamente anche
gli abitanti dei municipia. È poi notabile il profitto, che Roma seppe ricavare
dall'istituzione , graduando e differenziando le con cessionida essa fatte ai
municipii, e svolgendone il concetto in guisa da cominciare colla concessione
di una civitas sine suffragio per giungere sino alla concessione di una
cittadinanza compiuta, il che pure a dirsi dell'istituto della colonia (3 ).
Intanto però anche qui è ( 1) V., quanto al foedus e alla sponsio, il Lib . I,
Cap. VII, nº 118 . ( 2) Cid è attestato da Livio, I, 49, allorchè scrive di
Tarquinio il Superbo : « La tinorum maxime sibi gentem conciliabat , ui
peregrinis quoque opibus tutior inter cives esset ; neque hospitia modo cum
primoribus eorum , sed adfinitates quoque iungebat » . (3) Inteso in questa
guisa, il sistema municipale per Roma non è che l'applica zione del sistema
stesso , che essa aveva seguito nella propria formazione, quello cioè di
interessare alle sorti della patria comune tutti i popoli, che da essa
dipendevano, facendo sempre più larghe concessioni a quelli, che le erano più
vicini, e di cui quindi poteva avere maggiore bisogno. V. sopra , Lib . I, Cap.
VII, nº 127. 320 appare, che la politica estera di Roma non appartiene punto ad
un collegio di sacerdoti,ma che nel periodo regio appartenne al re, e nel
repubblicano al senato, il quale , essendo un consesso permanente ed
accogliendo nel proprio se noi magistrati uscenti di ufficio , poteva mantenere
quella continuità tradizionale non interrotta, di cui porge un mirabile esempio
la storia politica di Roma. Infine si comprende eziandio , come il collegio dei
feziali, custode di tradizioni, che si riferivano ai rapporti colle altre
genti, non abbia avuta l'influenza effettiva , che appartenne agli auguri e ai
pontefici, perchè il nucleo delle tradizionida esso serbate non poteva trovare
applicazione nelle lotte fra patriziato e plebe. Tuttavia allorchè i due ordini
erano ancora distinti, vi furono patti fra essi, stipulati coi riti del diritto
feziale, e accompagnati, a richiesta della plebe, dalla capitis sacratio di
colui, che li avesse violati (leges sacratae) (1) . 261.Non vi ha poi dubbio,
che il collegio sacerdotale più importante nell'organizzazionedella città
patrizia è, senza alcun contrasto , quello dei pontefici. È questo collegio che
riverbera nel proprio seno le istituzioni primitive di Roma. Esso infatti, a
differenza degli altri collegi, ha una costituzione monarchica, ed ancorchè
composto di più membri, è presieduto nel periodo regio dal re , e poscia dal
pontifex maximus, il quale raffigura il capo religioso del popolo romano, in
quanto costituisce una famiglia religiosa . Cid appare da questo , che il
pontefice massimo, durante la repubblica , e quindi anche il re ,nel periodo
anteriore, ha una vera patria potestà sui sa cerdoti e sulle vestali, che da
esso dipendono, le quali ultime sono da lui captae in quella stessa guisa, in
cui lo sarebbe una figlia dal proprio padre o marito ( 2). Il collegio dei
pontefici poi, al pari del popolo dei quiriti, di cui esso ha la direzione
religiosa , ha un potere, che spiegasi in doppia direzione. Da una parte esso
costituisce il vero sacerdozio del po polo romano, e quindi prima il re e
poscia il pontifex maximus, da cui dipende lo stesso rex sacrorum , compiono i
sacrifizii proprii della religione pubblica ed ufficiale del popolo romano. Da
un altro ( 1) Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 134, e la sua
dissertazione : De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura. Lipsiae, 1883.
(2) Cfr. Bouché-LECLERCQ , Les Pontifes de l'ancienne Rome. Paris, 1871 ; Ma
nuel des Instit. romaines, pag . 510 a 533 . 321 - canto invece il collegio dei
ponteficideve eziandio curare, che i culti delle genti e delle famiglie non
siano interrotti (sacra privata ): e sotto quest'aspetto raduna le curie in
quanto costituiscono una religiosa famiglia nei comitia calata , per mezzo dei
proprii cala tores . Quindi è pure col suo intervento , che compiesi la
cerimonia solenne della confarreatio, la quale dà origine alle iustae nuptiae
delle genti patrizie, e consiste in una cerimonia religiosa, che si compie avanti
ai pontefici coll'intervento di dieci testimonii , che rappresentano le dieci
curie delle tribù, a cui appartiene quegli, che addiviene alle medesime. È esso
parimenti, che presiede a quei co mitia calata delle curie, in cui i membri del
popolo primitivo addiven gono all'adrogatio e al testamentum , i quali ,
durante il periodo della città patrizia , dovettero ottenere un ' approvazione
analoga a quella , a cui erano sottoposte le leggi, come lo dimostra la formola
conservataci da Aulo Gellio , relativa all'adrogatio , la quale senza dubbio
doveva essere analoga a quella del testamentum . Per verità ho già cercato di
dimostrare a suo tempo come per le genti patrizie tanto l'uno che l'altro atto
dovevano subire la pubblica approvazione, in quanto che i medesimi potevano
alterare quell'organizzazione gentilizia, che aveva costituita la forza e la
superiorità del patriziato , e che in Roma primitiva volevasi conservare ad
ogni costo . Intanto ne veniva, che i Pontefici sotto quest'aspetto potevano
anche eser citare un'influenza sulla successione per quella parte, che si rife
risce alla trasmissione dell'obbligazione relativa ai sacra . 262. Tuttavia
l'importanza maggiore del collegio dei pontefici provenne sopratutto da che
questo collegio ebbe l'altissimo ufficio di serbare le tradizioni relative al
mos, al fas ed al ius, e proba bilmente dovette anche compiere quella prima
elaborazione, me diante cui il diritto , che, erasi formato fra le genti e i
loro capi, potè poi essere applicato fra i quiriti, ossia fra i membri che par
tecipavano alla medesima comunanza civile e politica (1). Essi dovet ( 1)
Questa funzione, essenzialmente conservatrice degli antichi riti e tradizioni,
che sarebbe stata affidata ai pontefici, parmi provata dal seguente passo di
Livio , I, 20 : « Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis
scitis subiecit: ne quid divini iuris, negligendo patrios ritus, peregrinosque
adsciscendo, turbaretur » . Per quello poi, che si riferisce all'adrogatio ed
al testamentum , è da vedersi ciò, che si disse per l'epoca gentilizia nel Lib.
I, Cap. IV, n ° 65, e per il periodo dei primi re in questo stesso libro, Cap.
II, nº. 220. G. Caeli, Le origini del diritto di Roma . 21 322 tero essere in
questo periodo i trasformatori dei iura gentium nel pri mitivo ius quiritium ,
e furono in condizione di poterlo fare, come quelli, che erano probabilmente
ricavati dalle varie tribù , ed erano cosi in condizione di coordinare e di
richiamare ad unità le istitu zioni, che in qualche particolare potevano essere
diverse . Durante il periodo regio non può quindi essere dubbio, che il
collegio dei pontefici, presieduto appunto dal re , dovette essere un
cooperatore potente di quell'unificazione legislativa , di cui sentivasi
urgente bi. sogno, e dovette anche essere il custode e depositario della
primitiva legislazione, come lo dimostra la tradizione con attribuire a un pon
tefice Papirio la prima collezione della medesima (ius Papirianum ). Ad ogni
modo era naturale, trattandosi della legislazione di un popolo , i cui
componenti prima quasi non conoscevano altra autorità , che quella del fas, che
anche questo primitivo diritto dovesse essere ri vestito di quell'aureola
religiosa, che è propria di tutte le istituzioni, durante il periodo gentilizio
. Intanto però in questo periodo i pontefici, uscendo ancor essi dal novero
delle genti, non avrebbero potuto attri buire al diritto quel carattere di
segretezza e di arcano, che potè as sumere più tardi, in quanto che le
tradizioni, di cui essi erano i custodi, vivevano ancora fra i capi di
famiglia, da cui era costituito il populus primitivo, distribuito per curiae,
corporazioni religiose e politiche ad un tempo. 263. Era invece naturale, che
col passare dal periodo regio ad una repubblica, il cui populus non era più
composto di uomini, ri cavati esclusivamente dalle genti di origine patrizia ,
le funzioni del collegio dei pontefici dovessero subire una trasformazione
profonda. Essi sono sempre i sacerdoti del popolo Romano : ma intanto non
escono che da una parte di questo populus, e sono anzi i depositari e i custodi
delle tradizioni proprie di questa parte eletta del populus, la quale continua
da sola ad avere gli auspicia e ad essere la reggi trice della città . Si
aggiunge, che il potere religioso del pontifex ma ximus, che prima apparteneva
al re , viene poscia attribuito ad una specie di magistratura sacerdotale, la
quale finisce per dar sempre più al diritto un'aureola religiosa ; sebbene sia
vero che questa se parazione del potere civile dal religioso cooperò a
preparare la distin zione del ius sacrum dal ius civile . Intanto però , cosi
l'uno come l'altro sono conservati dapprima negli archivii dei pontefici (in
pene tralibus pontificum ), sopratutto in quel periodo, che corre fra la cac
ciata dei re e la legislazione decemvirale , durante il quale sono i - 323 -
pontefici, che compiono quell'elaborazione giuridica , che sarebbe stata
impossibile permagistrati annui, i quali ad un tempo erano chiamati a cure
compiutamente diverse . Sipud quindi affermare con certezza, che i primi
elaboratori di un ius, comune al patriziato ed alla plebe, fu rono i pontefici
; cosa del resto, che è concordemente attestata da Pomponio , da Valerio
Massimo, da Cicerone e da altri, e che era una naturale conseguenza dello stato
delle cose e dei rapporti, che in tercedevano fra i due ordini, allora in lotta
fra di loro (1). Di qui la conseguenza , che la divulgazione del diritto venne
in certa guisa a procedere di pari passo col pareggiamento politico delle due
classi ; ma intanto la prima scuola dei giureconsulti fu certamente il ius
pontificium ; nè è a credersi, che tutta l'opera loro potesse solo ri ferirsi
al diritto sacro ; poichè i pontefici di Roma, come si è ve duto , essendo una
magistratura sacerdotale , erano i veri rappresen tanti delle genti patrizie,
la cui religiosità non escludeva il senso giuridico e politico, e neppure lo
spirito militare. Intanto ne de rivava eziandio, che, per essere resi partecipi
di questa scienza del diritto , conveniva anche ottenere l'ammessione nel
collegio dei pontefici, i cui libri e commentarii contenevano un tesoro di con
cetti, molti dei quali passarono certamente nei primi giureconsulti, che furono
essi stessi pontefici massimi(2 ). Vero è, che i frammenti, che a noi
pervennero del diritto pontificale , sembrano riferirsi esclu sivamente a
prescrizioni di diritto sacro ; ma ciò proviene da che la parte relativa al ius
civile passò nei giureconsulti, ed entrò nel l'organismo vivo della
giurisprudenza , mentre quella , che aveva un carattere sacro, fini per ridursi
a concetti, che poscia più non furono compresi, e venne cosi ad essere
argomento di curiosità per gli ar cheologi e per i grammatici. Un'altra causa
di questo fatto deve pur ( 1) Questa influenza dei Pontefici sul diritto,
sopratutto nei primi periodi della Repubblica , è attestata da VALERIO Massimo,
II, 5 ; Livio, IX , 46; Cic ., pro Mu rena, 11 ; De legibus, II , 8 , 9 ; De
oratore, III, 33. I passi relativi sono raccolti dal Rivier , Introd . histor.,
pag. 121 e segg. (2 ) Basta perciò il considerare, che i primi giureconsulti,
di cui sia a noi perve nuto il nome, come Papirio (donde il ius Papirianum ),
Appio Claudio (il cui segretario Gneo Flavio avrebbe propalato il ius Flavianum
) e Tiberio Coruncanio, che appare come il primo giureconsulto di origine
plebea , furono pontefici massimi, o quanto meno aggregati al collegio dei
pontefici. Quelli poi, che più non erano tali, presero pur sempre le mosse dal
ius pontificium , come appare ad evidenza dalle reliquie degli antichi giureconsulti
raccolte dall ' HUSCHKE, Jurisp . anteiustin . quae supersunt. Lipsiae, 1879.
324 - riporsi in questo , che a misura che la scienza del diritto venne a
concentrarsi nelle mani dei giureconsulti e del pretore, il diritto pon
tificale venne naturalmente restringendosi al ius sacrum , e fu in questa guisa
che alla separazione , che già erasi operata nella città patrizia fra il
pubblico ed il privato , venne poscia aggiungendosi la distinzione fra il
diritto sacro e il diritto civile strettamente inteso. Intanto perd vuolsi
avere per fermo, che questo ritirarsi del diritto negli archivi dei pontefici,
durante il primo periodo della repubblica , venne ad essere l'effetto
dell'ammessione nel populus di un nuovo ele mento, che non possedeva queste
tradizioni giuridiche, e che sotto questo aspetto doveva dipendere da un'altra
classe : il qual concetto ci conduce a combattere l'opinione, pressochè
universalmente accolta , circa quella legislazione , che suol essere compresa
col vocabolo di « leges regiae » . § 4 . Delle leges regiae e della fede da
attribuirsi alle medesime. 264. È abbastanza noto come qualsiasi demolizione ne
provochi un'altra ; tanto più se trattisi di un edifizio armonico e coerente.
Ciò videsi sopratutto della storia primitiva di Roma. Dopo aver resi leg
gendarii i re, per guisa che si riuscì a fare la storia, senza pur nominarli ;
anche la legislazione, che era aimedesimi attribuita dalla tradizione, dovette
essere considerata come una invenzione di tempi posteriori. Parve che un popolo
, il quale era solo chiamato ad ap provare o a respingere le proposte fattegli,
non potesse avere una parte effettiva nella formazione di leggi, di cui alcune
avevano un carattere essenzialmente religioso, e che la collezione di leggi
regie, accennate dagli scrittori, e attribuite ad un pontefice Papirio, dell'e
poca regia, dovesse ritenersi come opera di tempi posteriori (1). (1) Questa
opinione, che prevalse col DIRKSEN : Die Quellen des römisches Rechts ,
Leipzig, 1823, trovò uno strenuo oppositorenel Voigt: Über die leges regiae.
Leipzig, 1876, la cui opera è divisa in due parti, nella prima delle quali egli
investiga la sostanza e il contenuto delle leges regiae , mentre nella seconda
si occupa dell'au tenticità e delle fonti delle medesime. Secondo il FERRINI,
Storia delle fonti del diritto romano. Milano, 1885, pag. 3, nota 2 ,
l'opinione del Voigt, se in qualche parte deve temperare le esagerazioni della
scuola del NIEBHUR , dall'altra per ade rire troppo alla tradizione, non potrà
forse piacere a molti. Cid si capisce, trattan . dosi di persone educate a
tutt'altra scuola ; ma intanto abbiamo un altro contri buto allo studio
veramente positivo della storia primitiva di Roma. 325 Sembrami che in questa
parte la critica siasi spinta troppo oltre, in quanto che il processo seguito
da Romanella propria formazione ac cadde invece in guisa tale, che se una
legislazione regia non fosse ram mentata dagli scrittori, dovrebbe essere pur
supposta, perchè era una necessità dei tempi. Il populus primitivo di Roma era
composto di persone appartenenti a genti patrizie , memori delle antiche tradi.
zioni, e quindi non è punto ripugnante, che il medesimo, alla guisa stessa che
eleggeva il re e conferiva l' imperium con una lex cu riata de imperio, cosi
fosse pur chiamato a dare approvazione alle leggi, che rappresentavano i patti
e gli accordi, in base a cui le varie tribù entravano a formar parte della
stessa comunanza civile e politica. Ciò non potè accadere , come narra
Pomponio, finchè Romolo fu solo capo della tribù Ramnense, stabilita nella Roma
pa latina ; ma dovette divenire indispensabile, allorchè la città , la no mina
del suo re , la sua religione, il suo diritto cominciarono ad essere il frutto
della confederazione e degl'accordi seguiti fra diverse comunanze. La stessa
varietà degli elementi, che concorrevano a costituirle, rendeva opportuno,
quanto ai provvedimenti, che riguar. davano il comune interesse , di adottare
la forma della legge, la quale, elaborata e coordinata dal collegio dei
pontefici, proposta dal re, appoggiata dai padri del senato , approvata dalle
curie , poteva veramente ritenersi come l'espressione della volontà comune. In
questa parte ha tutte le ragioni Livio , allorchè ci dice , che il popolo
romano era cosi composto , che « nulla re , nisi legibus, in unius populi
corpus coalescere potuisset » . Era solo a questa condizione, che capi di tribù
e di genti, fino allora indipendenti e sovrani, potevano sottoporsi all'impero
di uno stesso magistrato e di un medesimo diritto. Lo stesso carattere
religioso della le gislazione regia non può costituire un argomento in
contrario ; perchè il primitivo populus diRoma era composto di persone esperte
anche nei riti e nelle cerimonie religiose , che ciascun capo di fa miglia
compieva nel seno della propria famiglia . Del resto a voler anche ammettere,
che quella parte della legislazione regia , la quale ha un carattere
esclusivamente sacro, potesse , fin da quella prima epoca, essere lasciata
intieramente alla elaborazione del collegio dei pontefici ; egli è però certo,
che l'altra parte invece, la quale ha un carattere civile, giuridico e politico
ad un tempo, dovette essere il frutto del concorso dei varii organi della
costituzione primitiva di Roma, e deve perciò aver presa la forma di vere e
proprie leges rogatae. Certo possono darsi dei casi, in cui questa procedura
regolare 326 non sarà stata effettivamente adempiuta in tutte le sue parti, al
modo stesso , che , secondo gli storici, non fu sempre osservata in ogni sua
parte la procedura relativa alla nomina dei re : ma in man canza di prove in
contrario, di fronte all'attestazione concorde degli autori, che non avevano
alcun motivo di alterare le cose , e cono scendo il carattere del popolo,
osservatore costante della legalità e facile a commuoversi, quando questa non
fosse osservata, non si può essere in diritto di negare l'esistenza di vere e
proprie leggi, anche in questo periodo, in quella parte, che si riferisce a
cose di pubblico e di privato interesse (1). 265. Pur ammettendo che in questa
primitiva condizione di cose , la maggior parte dei rapporti giuridici abbia
continuato ad essere lasciata all'impero della consuetudine e del costume,
dovevano perd anche esservi quelle parti, in cui le divergenze, esistenti fra
le varie comunanze, presupponevano una unificazione ed un coordina mento , che
doveva di necessità operarsi, mediante quelle leges, che a ragione si
chiamavano publicae, perchè erano la base della comune convivenza civile e
politica . Che anzi dovettero esser queste leges, che costituirono il nueleo
primitivo di quel ius quiritium , che cominciava a sceverarsi dal fas e dai
bonimores. Siccome perd questo ius venne formandosi « rebus ipsis dictan tibus
et necessitate exigente » ; cosi esso non potè formarsi di un tratto , nè
essere fin dapprincipio un organismo coerente, che provvedesse a tutti i
rapporti; ma dovette lasciare la maggior parte di questi rap porti alla
consuetudine, limitando l'opera sua a concretare quei prov vedimenti, la cui
necessità facevasi urgente e palese, a misura che la convivenza civile venivasi
svolgendo. Niun dubbio parimenti, che anche i concetti e sopratutto le forme di
questa primitiva legislazione dovessero essere tolti dal periodo anteriore : ma
il fatto stesso , per cui essi erano trapiantati in terreno diverso , dovette
far sì, che essi mutassero carattere . 266. Se intanto potesse
essere lecito anche solo tentare di rico struire il processo , con cui dovette
formarsi il primo nucleo delle istituzioni e dei concetti quiritarii, in base
alla formazione progres siva della città , crederei di poter rich iamarlo
alle seguenti leggi fondamentali : ( 1) Liv., I, 8 . - 327 l• Un primo effetto
di questa grande trasformazione, per cui i capi e membri delle varie genti
venivano ad essere cittadini della medesima città , dovette esser quello di far
trasportare nella città e nei rapporti fra i quiriti quelle istituzioni e quei
concetti giuridici, che si erano formati nei rapporti fra le varie genti e
specialmente fra i capi delle medesime. Tutti i concetti pertanto, che apparte
nevano ai iura gentium , diventarono proprii del ius quiritium ; cosicchè il
commercium , il connubium , l'actio, da rapporti fra le varie genti e i loro
capi, diventarono rapporti fra i quiriti ; donde la spiegazione di quelle
solennità di carattere gentilizio, che ancora si mantengono nel diritto
primitivo diRoma. Processo più naturale di questo non sarebbesi potuto seguire
, poichè colla formazione della città i capi di famiglia e delle genti, che
prima erano indi pendenti, vennero a cambiarsi in quiriti, e quindi il loro
diritto di internazionale ed esterno, quale era prima, doveva cambiarsi in di
ritto quiritario ed interno. 2º Una seconda conseguenza poi dovette essere
eziandio che questi concetti, così trapiantati dai rapporti fra le genti, nei
rapporti fra i quiriti o membri della stessa civitas, i quali prima avevano
solo avuto uno svolgimento estensivo, poterono ricevere uno svolgimento inten
sido , e cambiarsi in altrettante propaggini, da cui scaturirono le varie forme
del ius quiritium . Dal connubium potè uscire il ius connubii con tutte le
conseguenze delle iustae nuptiae, che consistono nella manus, nella potestas,
nel mancipium , nella successione e nella tutela legittima: le quali
naturalmente non poterono in questo periodo ispi rarsi, che ai concetti
dell'organizzazione gentilizia. Il commercium parimenti si esplico nel ius
commercii, con tutte le sue varie gra dazioni del comprare e del vendere
(mancipium ), dell'obbligarsi (nexum ) e del poter ricevere o disporre per
testamento (testamenti factio). Così pure l'actio sacramento , che era una
procedura fra i capi di famiglia indipendenti, nel seno delle tribù , potè
conver tirsi in una procedura fra quiriti , e siccome eravi un magistrato , a
cui si apparteneva di pronunziare circa il ius, che si manteneva distinto
dall'iudicium , così fu naturale, che accanto all'actio sacra mento si
svolgesse eziandio la iudicis postulatio (1). 3º Infine una terza conseguenza
di questa trasformazione dovette (1) È da vedersi in proposito quanto si disse
nel capitolo precedente nº. 244, pag. 298 e segg. 328 consistere in ciò , che
le istituzioni, cosi trapiantate nella città, es sendo staccate dall'ambiente ,
in cui si erano formate, si trovarono libere dai vincoli , in cui prima erano
trattenute , e poterono cosi ricevere tutto lo svolgimento , a cui le portava
il proprio concetto informatore. Ciascuna di esse si ridusse in certo modo ad
essere una concezione astratta ; e potè così essere sottoposta a quegli
speciali processi e a quelle analisi, che sono proprii della logica giuridica
(iuris ratio ). Per tal guisa venne ad essere un'astrazione il quirite, perchè
esso non è più tutto l'uomo, ma è l'uomo considerato sotto l'aspetto speciale
dei diritti e delle obbligazioni, che gli incombono come cit tadino ; fu un '
astrazione il potere giuridico (manus) attribuito al medesimo, in quanto che
esso è concepito senza le limitazioni esi stenti nel costume. Di qui la
conseguenza, che egli come capo di famiglia ( pater familias) giuridicamente la
riassume in sè stesso, e ha il ius vitae et necis sulla moglie , sui figli,
sugli schiavi; come proprietario può disporre in qualsiasi guisa delle proprie
cose ; come creditore può appropriarsi e perfino dividere il corpo del debitore
. Per tal guisa tutto il diritto primitivo di Roma è già il frutto di
un'astrazione, cioè di una specie di isolamento dell'elemento giuridico dagli
altri elementi della vita sociale, per cui ogni istituzione può ricevere quello
svolgimento logico e dialettico, che costituisce la ca ratteristica del diritto
romano, e ne costituisce la superiorità sopra tutte le altre legislazioni. Il
diritto romano infatti, fin dai proprii esordii, è uscito bensi dalla realtà
dei fatti, ma fece ben presto astrazione da essi e diede uno svolgimento logico
alle proprie istitu zioni, le quali perciò diventarono istituzioni tipiche , e
poterono essere portate dapertutto , perchè la logica è di tutti i popoli e di
tutti i tempi. Fu mediante questo processo ; che i Romani poterono essere per
il diritto ciò , che i Greci furono per l'arte, e questo segreto essi già lo
possedevano fin dalla prima formazione della propria città , e continuarono
sempre ad applicarlo, senza curarsi di darne nelle opere loro una spiegazione,
che sarebbe stata inutile, perchè trattasi di un genio originario e nativo, che
può essere intuito , ma non insegnato . Tutte queste conseguenze del nuovo
stato di cose poterono rica - varsi senza bisogno di apposita legislazione ,
per opera di una logica istintiva e naturale , sentita universalmente da un
popolo, che mi rava diritto al proprio scopo , e che, poste le premesse, sapeva
deri varne le conseguenze . 329 267. Intanto però eranvi altri argomenti,
intorno a cui potevano esistervi divergenze nelle istituzioni particolari delle
varie tribù, ed in questi argomenti appunto, secondo la tradizione, verrebbero
ad ap parire le traccie di una legislazione regia, la quale potrà forse non
esserci pervenuta nelle sue fattezze genuine : ma che intanto non merita punto
di essere senz'altro respinta, come una creazione di tempi posteriori ( 1).
Essa porta in sè un'impronta efficace di verità , in quanto che si presenta con
un carattere del tutto consentaneo ad un populus, che esce dall'organizzazione
gentilizia , e le cui isti tuzioni sono ancora tutte circondate di un ' aureola
religiosa ; del che sarà assai facile persuadersi, ricostruendo e componendo
insieme i rottami, che ci pervennero di questa legislazione, per la parte, che
si riferisce al diritto privato e al diritto penale primitivo di Roma. § 5 . –
La famiglia e la proprietà secondo la leges regiae. 268. Quanto al diritto
privato l'istituzione, che presentasi più ri gorosamente delineata nelle
reliquie delle leges regiae, è l'orga nizzazione della famiglia . È evidente,
che essa riducesi in sostanza ad un rudere della stessa organizzazione
gentilizia , che viene ad essere portato nel seno della città . Ma intanto
separata dall'orga nizzazione gentilizia , in cui erasi formata , e dalla quale
era tempe rata in qualche parte, presentasi con linee così rigide e precise ,
da riuscire a noi pressochè incomprensibile, se non riportisi nell'ambiente, in
cui dovette formarsi . Dei varii modi, in cui questa famiglia potrà essere
fondata, le leggi regie non ne ricordano che un solo , e questo è la cerimonia
re ligiosa della confarreatio, la quale già conosciuta probabilmente alle genti
delle varie tribù può benissimo essere stata adottatta come la forma solenne e
riconosciuta per il matrimonio quiritario. Dio nisio infatti dice , che Romolo
avrebbe condotto all'onestà le donne con un'unica legge, con cui avrebbe
stabilito : « uxorem , quae nuptiis (1) La vera causa di questa critica , che
tutto nega, relativamente alla storia pri mitiva di Roma, sta nel presupposto,
che il popolo fondatore della città fosse un popolo del tutto primitivo. Ho
cercato di dimostrare il contrario, e quindi non trovo nulla di improbabile,
che un popolo, che si presenta con una quantità di tradizioni e di concetti già
elaborati, fosse in condizione tale da prendere una parte effettiva , anche
nella formazione delle leggi. 330 sacratis (confarreatione ) in manum mariti
convenisset, commu nionem cum eo habere omnium bonorum ac sacrorum » . Noi ab
biamo qui il matrimonio primitivo , esclusivamente patrizio , accom pagnato da
una cerimonia religiosa ; esso compiesi coll'intervento dei pontefici e colla
testimonianza di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie, in cui è
ripartita ciascuna tribù primitiva ; produce la comunione delle cose divine ed
umane; e intanto riduce in certo modo la moglie in posizione di figlia,
rimpetto al marito ; il che però non toglie, che essa gli sia compagna nel
culto domestico . È al marito , che appartiene la giurisdizione sulla moglie
pei delitti, che essa compie ; anzi due fra essi, l'adulterio ed il bere vino
(per causa che proba bilmente può riferirsi a qualche rito religioso ) possono
essere puniti di morte : ma egli deve perciò essere circondato dal tribunale
dome stico , il quale è ancora una istituzione eminentemente gentilizia (1). Il
vincolo matrimoniale , stretto coll'intervento della religione, è per per sua
natura indissolubile , in quanto che non potrebbe compren dersi, che una
moglie, che è figlia al marito, possa far divorzio da esso . Di qui una legge,
che Dionisio chiama dura , la quale nega alla moglie difar divorzio dal marito
;ma intanto questi può ripudiarla ,ma solo per cause determinate, quali
sarebbero il venefizio commesso a danno della prole , la sottrazione delle
chiavi e l'adulterio . Che se il marito abbandoni la moglie per altre cause,
dei suoi beni si faranno due parti, di cui una andrà alla moglie, l'altra sarà
sacra a Cerere : che se egli la venda, dovrà essere immolato agli dei infernali
(2 ). Qui pertanto il potere del marito sulla moglie ha ancora tutti i
caratteri del periodo gentilizio ; ma le cerimonie religiose, che forse
potevano essere diverse presso le varie tribù, già vengono ad essere unificate
e son tutte ridotte alla confarreatio ; son fissati i casi per il ripudio ; e
sono anche posti certi confini ai poteri del marito sulla (1) Le disposizioni
attribuite alle leges regiae, che sono qui riprodotte, ci furono conservate da
Dionisio , II, 25; il loro testo può vedersi nel Bruns, Fontes, pag . 6 . (2)
Questa legge, attribuita a Romolo relativamente al ripudium , è ricordata da
PLUTARCO, Romulus, 22. Gli autori, che studiarono di recente l'argomento, già
co minciano ad ammettere la probabilità, che nell'antico matrimonio per
confarreatio nem non potesse essere consentito il divortium , nel senso vero
della parola ; il quale dovette avere origine dal divertere della moglie dalla
casa del marito nel matri monio sine manu , e poi si concretò in una
istituzione giuridica , che si estese allo stesso matrimonio cum manu. Cfr.
Esmein, La manus, la paternité et le divorce, nei Mélanges d'histoire du droit,
pag . 3 a 37. 331 moglie. A queste leggi se ne aggiunge una di Numa, che assume
un carattere più sacro , la quale è cosi concepita : « paelex aram Iunonis ne
tangito ; si tanget, Iunoni, crinibus demissis, agnum foeminam caedito » : la
qual legge (se si accetta la significazione attribuita al vocabolo di paelex da
Festo , secondo cui suonerebbe la donna « quae uxorem habenti nubebat » ),
significherebbe, che il matrimonio doveva essere monogamo, e che altra donna
non poteva entrare nella casa , ed accostarsi all'altare di Giunone,
protettrice appunto delle giuste nozze ; in caso contrario doveva sacrificarsi
una piacularis hostia (agnum foeminam caedito) (1). 269. Lo stesso è a dirsi
della patria potestas, la quale, secondo una legge attribuita a Romolo, duráva
tutta la vita e importava il potere di vita e di morte sul figlio , e la
facoltà di venderlo fino a tre volte per trarne profitto ; alla qual legge se
ne aggiunge un'altra di Numa, secondo cui il padre , che abbia consentito alle
nozze confar reate del figlio, le quali importano la comunione delle cose
divine ed umane, più non è in facoltà di venderlo . Devono poi i padri educare
tutta la prole maschile e le figlie primogenite, e non possono mettere a morte
niun feto minore di tre anni, se non sia mostruoso o mutilato , nel qual caso
deve prima essere mostrato ai vicini, e questi deb bono approvare il suo
operato ; disposizione questa , che richiama ancora le consuetudini proprie
della vita patriarcale del vicus e del pagus, ove i vicini mutansi talvolta in
giudici ed in consi glieri (2). Alle leggi relative a quest'ordine di idee può
eziandio ri chiamarsi quella , attribuita a Numa, secondo cui se una donna
fosse morta in istato di gravidanza, non doveva essere seppellita, se prima non
se fosse estratto il feto : alla quale disposizione il Voigt rannode rebbe, con
molta verisomiglianza , quel passo di lex regia , conserva toci da Paolo
Diacono, secondo cui: Si quisquam aliuta (aliter ) faxit, lovi sacer esto (3).
(1) Festo, v ° Paelices ( Bruns, Fontes, pag. 350). Tutti i passi relativi
possono vedersi raccolti dal Voigt, über die leges regiae. Leipzig , 1876 , §
2º, pag . 8. (2 ) Tutte queste leggi regie, relative alla patria potestà , sono
ricordate da Dio NISIO, II, 26, 27: II, 15 ; II , 27. Quella attribuita a Numa
è pur ricordata da Plu TARCO, Numa, 17. Il testo delle medesime trovasi nel
Bruns, Fontes, pag. 7 e 9. (3) A questa legge accenna il giureconsulto MARCELLO
, L. 2, Dig. (11, 8) : mentre l'altra parte sarebbe ricavata da Festo, pº
aliuta . Il Voigt ritiene doversi combinare i due frammenti in una sola legge,
Über die leges regiae, 8 13, pag. 75 . 332 Iatanto però tutto quest'ordinamento
religioso e politico della fa miglia primitiva è ancora sempre sotto la
protezione del fas , in quanto che i figli, i quali maltrattino i genitori, e
la nuora , che venga a cattivi trattamenti verso la suocera , mettendo cosi in
non cale il rispetto dovuto all'età , incorrono nella capitis sacratio ; la
quale è pure la pena, in cui incorre il patrono , che faccia frode al proprio
cliente, e ogni altro, che venga meno alle disposizioni re lative
all'ordinamento della famiglia (1) . 270. Per quello poi, che si riferisce alla
proprietà , nulla ci fu con servato circa il carattere intimo della medesima ;
ma dalle disposi zioni, che Dionisio attribuisce a Romolo relativamente alla
clientela , e dall'incarico, che secondo Festo sarebbesi da Romolo affidato ai
patres o senatori, di fare assegni di terre agli uomini di bassa condizione
(tenuioribus), è lecito di inferire, che la proprietà con tinua in parte ad
avere un carattere gentilizio , e che in questo periodo ancora si mantengono
quelle proprietà o possessioni collet tive, sulle quali si possono fare degli
assegni ai clienti (2). Tuttavia nell'interno della città vediamo già comparire
netta e decisa l' isti tuzione della proprietà privata . In virtù di una legge
attribuita a Numa, quel dio Termine, che un tempo separava i confini fra i ter
ritori delle varie genti e delle varie tribù , viene a ripartire e a consacrare
la proprietà fra i quiriti, i quali hanno già una proprietà individuale e
privata, rappresentata dal proprio heredium . Per tal modo la terminazione, che
prima esisteva fra i territorii gentilizii, come lo dimostra l'accenno, che si
fa nel ius foeciale alle divinità patrone dei confin ., viene a cambiarsi
anch'essa in una istituzione quiritaria , e si introduce così la terminazione
fra le proprietà private . Tutti quindi son tenuti a porre dei termini al
proprio campo, e questi sono consacrati a Giove Termine ; colui, pertanto che
li ri. muova o li trasporti da un sito all'altro , sarà soggetto alla capitis
sacratio (3 ) . ( 1) Così,ad esempio, secondo il Mommsen in Bruns, Fontes, pag.
7 , nota 6 , una legge, attribuita a Tullo Ostilio, sarebbe così concepita <
si parentem puer verberit, ast olle (ille) plorasset, puer divis parentum ,
sacer estod ; si nurus, sacra divis pa rentum estod . » Per i divi parentum si
intendono poi i diï manes, Cfr. Voigt, Op. cit., § 7 , pag. 41. (2) Dion., II ,
9 ; Cic., De rep., II, 9; Festo, vº Patres (Bruns, pag. 372). (3) Dion., II, 74
; Festo, pº Termino. Cfr. Voiat, Op. cit., $ 9, pag . 48. 333 Certo queste son
tutte disposizioni di legge, che consacrano isti tuzioni, che vivevano nella
consuetudine e nelle tradizioni; ma punto non ripugna , che, trattandosi di
genti, le cui istituzioni nei partico lari potevano essere diverse , le
medesime abbiano anche potuto fare argomento di disposizioni legislative ,
elaborate dai pontefici , pro poste dal re, appoggiate dal senato , ed
approvate dalle curie . Quanto alla sanzione religiosa, che accompagna ciascuna
legge, essa si spiega facilmente , se si tiene conto del carattere religioso
del popolo delle curiae , il quale esce allora allora dall'organizzazione
gentilizia, in cui tutte le istituzioni erano rivestite di un ' aureola
religiosa e sacra . Solo ci resta a vedere quali siano le traccie , che ci
pervennero della legislazione penale primitiva di Roma patrizia , alla quale
occorre una trattazione speciale per il peculiare svolgimento, che ebbe a ri
cevere, e per le molte discussioni, a cui diede occasione. § 6. – Le origini
della legislazione criminale in Roma e specialmente del parricidium e della
perduellio. 271. Per quanto la legislazione criminale primitiva di Roma sia
quella parte del suo diritto , dicui giunsero a noi più scarse reliquie,
tuttavia anche queste poche sono tali, che ricomposte possono ad ditarci, come
anche in essa siasi effettuato un lento e graduato pas saggio
dall'organizzazione gentilizia alla convivenza civile e politica . Anche
il delitto nel periodo regio ritiene ancora quel carattere, che aveva assunto
presso le genti patrizie; esso è un'offesa contro gli uomini e contro
l'aggregazione gentilizia, a cui essi appartengono, ma è poi sopratutto
un'offesa contro la divinità . Chi l'abbia com messo di proposito (dolo
sciens), di regola è punito colla capitis sacratio ed anche colla consecratio
bonorum ; mentre se altri l'abbia compiuto per imprudenza (imprudens) egli e la
famiglia di lui sono tenuti ad offerire una piacularis hostia alla famiglia
dell'of feso (1). Ciò vuol dire , che il concetto gentilizio del delitto e
della ( 1) La più notabile distinzione fra il reato doloso e colposo, che
occorra nella legislazione regia , è quella che si desume dalle due leggi
attribuite a Numa, rela tive all'omicidio volontario (parricidium ), e quella
relativa all'omicidio involontario, che è ricordata da Servio nei seguenti
termini: « In Numae legibus cautum est, 334 pena viene ad essere trapiantato di
peso nel seno della città . Sono tuttavia ancora in piccol numero i misfatti, a
cui accennano le leges regiae ; in quanto che non parlasi nè del furto ,nè
dell'ingiuria, nè di quegli altri misfatti, che sono più tardi minutamente
preveduti dalle XII Tavole. Ciò non significa certamente , che questi misfatti
fossero ignoti, nè che i medesimi fossero impuniti : ma soltanto, che le leges
publicae (quelle almeno che giunsero fino a noi) non avevano ancora richiamato
alla pubblica giurisdizione la repressione di essi ; ma avevano continuato a
lasciarli alla prosecuzione dell'offeso , che doveva perciò seguire le pratiche
tradizionali, formatesi nelle tribù , le quali già avevano ricevuta una
consacrazione religiosa ( 1). 272. Tuttavia fra i fatti criminosi, accennati
nelle leges regiae , già può introdursi una distinzione ; sonovi dei delitti,
che possono essere ritenuti contro l'ordine delle famiglie , comprendendo anche
fra questi quello contro la proprietà , consistente nella rimozione dei
termini; altri , che sono contro la religione , quale sarebbe l'incesto della
Vestale e l'abbandono dei sacra '; e altri infine, che già possono ricevere il
nomedi crimina publica , in quanto che, fin dagli inizii della città , sonovi
autorità incaricate dalla pubblica pro secuzione di essi. Quanto ai primi
mantiensi ancora nella propria integrità l'auto rità e la giurisdizione del
capo di famiglia, il quale in certi casi è tenuto a circondarsi del tribunale
domestico ; come pure sono san cite contro di essi pene di carattere sacro e
religioso , comela capitis sacratio e la consecratio bonorum . Quanto ai reati
contro la religione, appare invece la giurisdizione dei pontefici ;
giurisdizione, che alcuni autori, fondandosi sul carattere sa crale del delitto
e della pena in questo periodo , avrebbero creduto, che dovesse essere prima
estesa in più larghi confini. Il carattere, che ab biamo trovato nella
istituzione del collegio dei pontefici, per cui esso appare come depositario e
custode delle tradizioni gentilizie, ci impe disce di seguire una tale
opinione, in quanto che il carattere sacrale del delitto e della pena in questo
periodo non è creazione dei pon ut si quis imprudens occidisset hominem , pro
capite occisi, agnatis eius in contione offerret arietem » . Bruns, Fontes,
pag. 10. Cfr., per ciò che si riferisce all'omicidio involontario, il Voigt,
Op. cit., § 11, pag. 64 a 72. (1) Cfr. MUIRIEAD , Histor. Introd., pag . 54 a
55 . 335 - tefici, ma è un carattere proprio di tutte le istituzioni
gentilizie, che si mantiene ancora nel la città esclusivamente patrizia.
Del resto la sola giurisdizione criminale, che gli antichi scrittori
attribuiscono ai pontefici, è quella relativa alle Vestali, la quale per giunta
sembra essere una conseguenza della patria potestà , di cui essi sono rive
stiti riguardo alle medesime. Sono quindi i pontefici, che secondo una legge,
che la tradizione attribuisce a Tullo Ostilio, giudicano dell'in costo delle
Vestali, il quale è considerato come un delitto , che da una parte contamina i
sacra publica, e dall'altra provoca la ven detta di Vesta sopra il popolo.
Quindi da una parte sacrificavansi alla dea la Vestale , nei tempi più antichi
col gettarla nel fiume e più tardi seppellendola viva, e l'amante,
flagellandolo fino alla morte , e dall'altra si facevano sacrifizii di
purificazione per la città . Da questo caso in fuori non trovasi traccia di
giurisdizione criminale più ampia, che sia mai spettata ai pontefici ; nè vi ha
motivo di credere, che po tesse essere più estesa, dal momento che presso i
romani pareva già enorme questo potere accordato a una magistratura sacerdotale
( 1). 273. A noi però importa sopratutto di cercare come siasi venuto svolgendo
il concetto del pubblico delitto ; perchè è con esso , che incomincia
l'esercizio del magistero punitivo, per parte dell'autorità sociale . Già ho
accennato altrove, che la giurisdizione del magistrato in Roma quanto ai
misfatti non presentasi svolta fin dai propri inizii ; ma viene invece
estendendosi, a misura che la potestà pubblica si viene rafforzando di fronte
alla giurisdizione domestica del capo di famiglia . Qualche cosa di analogo
accade eziandio nello svolgersi della nozione del pubblico delitto. I due primi
misfatti, perseguiti dalla pubblica autorità , compariscono coi nomi di parricidium
e di perduellio ; e per perseguirli fin dal periodo regio sarebbero istituiti
due speciali magistrati, coi nomi di questores parricidii e di duum viri
perduellionis ; fra i quali intercede perd questa differenza, che mentre i
primiappariscono quali magistrati permanenti, i secondi invece sembrano essere
nominati, caso per caso (2 ). (1) Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain , I,
pag. 187 . (2 ) Ciò è dimostrato dal racconto di Livio, I, 26 , relativo al
fatto dell'Orazio, in cui i duumviri perduellionis son nominati per quel caso
dal re , mentre dei quae stores parricidii abbiamo una definizione di Festo, pº
Quaestores, che parla di essi, come di autorità permanenti, create « ut de
delictis capitalibus quaererent » . 336 Son pochi i passi, che si riferiscono
all'uno e all'altro misfatto , donde la conseguenza, che non solo gli autori
moderni, ma anche gli storici antichi attribuiscono significazione diversa ai
due vocaboli. È noto infatti, che mentre Dionisio e Festo ritengono colpevole
di parricidium l'Orazio, uccisore della propria sorella , Tito Livio parla
invece di perduellio (1). In questa condizione di cose occorre ripren dere in
esami e passi di antichi autori, che sono a noi pervenuti ; esa minare le
opinioni principali emesse dagli autori in una questione, che ha una
copiosissima letteratura ; e poi cercare di ricomporre i testi che si
riferiscono all'argomento per ricavarne il processo logico e storico , che
dovette essere seguito nella configurazione di questi primitivi misfatti. 274.
Quanto al parricidium , i pochi passi a noi pervenuti indicano in sostanza una
certa quale meraviglia, per parte degli au tori, che Romolo, mentre aveva
lasciato senza pena e neppur rite nuto possibile il parricidium , nello stretto
senso della parola, avesse poi chiamato ogni omicidio col vocabolo di
parricidium , il che sa rebbesi pur fatto da Numa, al quale si attribuisce una
legge, secondo cui: « si quis hominem liberum ,dolo sciens,morti duit ,
parricidas esto » . Quanto poi alla perduellio si sa con certezza, che questo
vocabolo deriva certamente da perduellis, che in antico significava il nemico,
con cui erasi in guerra, e che il medesimo comprendeva, tanto il tradimento
verso la patria, mediante pratiche tenute col ne mico esterno di essa ,
tradimento, che suole essere indicato special mente col vocabolo di proditio ;
quanto eziandio le perturbazioni ed i sovvertimenti contro la cosa pubblica ,
tentati all'interno, per i quali era specialmente adoperato il vocabolo di
perduellio. Circa quest'ultima però abbiamo una descrizione abbastanza completa
di un primitivo processo per causa di perduellio in Tito Livio , il quale in
questa parte, come ben nota il Bonghi, « sembra dare al proprio racconto un
colorito particolare e diverso dal rimanente, in quanto che cerca di mostrarsi
espositore preciso delle forme antiche e solenni, con cui sarebbe seguito
questo primitivo giu dizio » ( 2 ). Furono questa scarsità di passi e questa
incertezza negli antichi au tori, che provocarono molte indagini per spiegare
il fatto, per cui negli (1) Dion ., III, 22; Festo, vº Sororium tigillum ;
Livio , I, 26. ( 2) Liv., 1, 26 ; Bongai, Storia di Roma, I, pag. 102 e pag.
129 e segg . 337 inizii col vocabolo ili parricidium sarebbesi indicato ogni
omicidio , ed anche le cause, per cui gli antichi autori in un medesimo fatto
poterono ora ravvisare il carattere di parricidium , ed ora quello di
perduellio (1). Fra le molte congetture fattesi in proposito sono degne di nota
sopratutto le seguenti : quella messa prima innanzi del Gebauer, ed ora anche
seguita dal Voigt, e pressochè dalla universalità degli au tori tedeschi,
secondo la quale a vece di leggere parricidium si dovrebbe leggere paricidium ,
cosicchè il vocabolo verrebbe a signi ficare l'uccisione di un pari o di un
eguale (2 ) ; quella messa in nanzi dal Rubino e dal Rein, secondo cui il
vocabolo parricidium significherebbe fin dagli inizii l'uccisione di un
congiunto, ossia un parentis excidium (3 ); quella sostenuta con molta dottrina
dal Brüner e poi seguita damolti altri, in base a cui parricidium avrebbe
dapprima da molti altri significato soltanto l'uccisione di un pater delle
genti patrizie, e sarebbe poi stato esteso a designare l'uccisione di qualsiasi
uomo libero (4 ) ; e da ultimo quella sostenuta , fra gli altri ,dalWalter e
dal Maynz, secondo cui idue termini di parricidium (1) La questione non è
recente, ma fu già trattata dagli antichi criminalisti, e fra gli altri dal
Sigoxio, De iudiciis, Cap. XXX, dal Mattei, dall'UBERO e da altri, che possono
vedersi citati dal CARRARA, Programma di diritto criminale , Parte speciale,
vol. I, pag. 137 , $ 1138 . (2 ) Il primo, che sostenne « paricidam esse, qui
parem occidit fu il GEBAUER, Dissertationes academicae , vol. I, pag. 64, § XI,
il quale si fondava sul detto di Ulpiano, che giunse veramente molto più tardi,
« omnes homines esse aequales. » L'opinione era nuova , e fu accolta come
osserva il CARRARA, op. e loc. cit., pressochè universalmente in Germania . Di
recente poi il Voigt aggiunse a questa opinione anche il peso della sua
autorità : Über die leges regiae, pag. 11 a 64, e sopratutto a pag .57, nota
130. L'opinione stessa fu seguita fra noi anche dall'ARABIA , Princ. di diritto
penale , III , pag. 258. Quanto al CARRARA, egli sostiene, che in questo caso
l'espressione « paricidas esto » significasse « capital esto » , cioè
condannabile a morte ; ma tale opinione non trovò seguito (Op. cit., § 1139).
(3) Tale fu l'opinione messa innanzi dal Rubino: Untersuchungen über römische
Verfassung und Geschichte. Casellae, 1839, pag. 433-466 ; e dal Rein, Das Crimi
nalrecht der Römer. Lipsiae, 1844, pag. 401 e segg. (4 ) L'autore, che a mio
avviso sostenne con grande erudizione, e con un senso vero di romanità,
quest'opinione è il BRÜNER in una dissertazione col titolo « De parricidii
crimine et quaestoribux parricidii » , letta il 2 marzo 1857 e riportata negli
Acta societatis scientiarum Fennicae, Helsingforsiae, 1858, pag. 519 a 569.
Quest'o pinione è anche seguìta dal GORRIUS, in una dissertazione di laurea : «
De parricidii notione apud antiquissimos romanos », Bonnae, 1869, notevole per
la rassegna, che fa delle opinioni professate daglialtri autori. G. CARLE, Le
origini del diritto di Roma . 22 338 e di perduellio sarebbero fra loro
pareggiati, e significherebbero qualsiasi delitto , che per sua natura sia tale
da chiamare la pub blica vendetta , e da eccitare una ripulsione universale (
1). 275. Or bene con tutta la riverenza , che deve certo aversi per un autore
cosi benemerito degli studii sul diritto primitivo , quale è il Voigt, non
ritengo, che possa adottarsi l'opinione da lui seguita , secondo cui
parricidium significherebbe il paris excidium . Anzi. tutto è malagevole di
trovare negli esordii di Roma l'idea di questa parità e di questa uguaglianza
giuridica , in quanto che, se si tol gano i capi di famiglia, non vi sono altre
persone, che abbiano un'assoluta parità di diritto. Vi ha di più , ed è che,
mettendo il concetto della parità a fondamento della figura criminosa del pa
ricidium , ne verrebbe come conseguenza, che allora soltanto vi sa rebbe
paricidium , quando un pari uccidesse un altro pari, cioè quando cosi
l'uccisore che l'ucciso fossero in condizioni uguali fra di loro ; il che certo
non può richiedersi. Infine male si comprende, come questa figura primitiva di
reato si venga foggiando sopra un con cetto puramente astratto, come è quello
della uguaglianza , mentre vediamo, che tutte le altre distinzioni di reati, ed
anche le confi gurazioni giuridiche di altra natura, che compariscono
nell'antico diritto , vengono piuttosto ad essere determinate da circostanze
este riori di fatto , come accade dal furtum manifestum , nec manife stum ,
conceptum , ed oblatum , ed anche della distinzione della res mancipii e nec
mancipii, come pure delle mancipationes, vindi cationes, e simili. Cið anche
per il motivo, che nel linguaggio pri mitivo si passa di preferenza da una
significazione fisica ad una mo rale , o da una concreta ad un astratta , di
quello che non accada il contrario . Quanto al fatto , che il vocabolo parricidium
e parricidas in certi antichi codici trovisi scritto paricidium e paricidas,
non può avere importanza, quando si consideri, che nelle leggi arcaiche
trovansi soventi le lettere semplici, a vece delle doppie, come lo di mostra
l'antico Senatusconsulto de bacchanalibus » in cui occor rono le parole esent,
velent, bacanal per essent, vellent, baccanal ; quest'argomento del resto è
anche distrutto da ciò , che son vi pure (1) Questa opinione enunziata prima
dal WALTER , Storia del diritto romano . Trad . BOLLATI, 8 766 , vol. II, pag.
450, fu di recente anche sostenuta dal Maynz , Introd ., $ 18, 1, pag. 55. Essa
però fu vigorosamente confutata dal Koestlin : Die perduellio unter der
römischen Königen . Tubing, 1841, pag. 10-14 . 339 dei codici, in cui occorrono
le parole patricidium e patricidas, le quali attestano cosi anche la materiale
derivazione dei due vocaboli da patris excidium . Vero è, che anche, fra gli
antichi autori, se ne trovano di quelli, che sembrano accennare a questa
origine del vocabolo ; ma non è punto improbabile, che, allorquando la figura
del parricidium aveva già presa altra significazione nella lex Pom peia de
parricidiis , siasi anche allora cercato di spiegare nello stesso modo, cioè
col ricorrere all'analogia delle parole, il vocabolo primitivo, con cui erasi
indicato l'homicidium (1). 276. Non può del pari ammettersi, che il vocabolo
parricidium abbia significato dapprima un parentis excidium , ossia l'uccisione
di un congiunto in certi limiti di parentela , e che poscia siasi esteso a
significare l'uccisione di qualsiasi concittadino , anche per quella specie di
parentela , che viene ad esservi fra i cittadini di una me desima città. Per
verità , quando così fosse, il vocabolo di parrici dium avrebbe avuto fin
dapprincipio una significazione, che non cor risponde alla parola , in quanto
che , come nota il Voigt stesso, nella precisione primitiva del linguaggio, per
indicare l'uccisione di un congiunto, si sarebbe adoperata piuttosto
l'espressione di parentici dium , che non quella di parricidium , in cui
compare evidente l'idea dell'uccisione di un padre ( 2 ). Lo stesso è a dirsi
dell'opinione, secondo cui parricidium avrebbe, nelle origini della città,
significato l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e solo più tardi sarebbesi
estesa all'uccisione di ogni uomo libero. Questa opinione, sostenuta con logica
ed erudizione dal Brüner, sarebbe di tutte la più probabile, e quella che
meglio spiega i passi a noi pervenuti, quando non contrastasse colla testi
monianza di Plutarco : singulare est, quod Romulus, cum nullam in parricidas
statuerit poenam , omne homicidium appellavit parricidium . Qui infatti si
direbbe, che Romolo fin dagli inizii (1) Lo scrittore latino, che sembra far
derivare l'antico parricidium dalla parità fra uccisore ed ucciso, sarebbe
ISIDORO, De orig ., X , 225, il quale scrisse : « parri cidium et homicidium ,
quocumque modo intelligi possunt, cum sint homines homi. nibus pares » ; ma qui
è evidente, che l'autore non cerca di dare la vera origine del vocabolo, ma
solo di dare una spiegazione, che poteva apparire probabile all'epoca sua . Del
resto quest'opinione fu già combattuta dall'OSENBRUEGGEN, Das altrömische
parricidium . Kiel, 1841, pag. 59. (2) Cfr. Voigt. Op. cit ., § 10, pag. 57,
nota 130, in fine. 340 - della città avrebbe chiamato parricidium ogni omicidio
, e che quindi non vi sarebbe stato periodo di tempo, in cui, dopo la for
mazione della città , la parola fosse stata ristretta a significare l'uccisione
di un padre delle genti patrizie (1). 277. Resta ancora l'opinione sostenuta
fra gli altri dal Walter e dal Maynz, secondo cui parricidium e perduellio
sarebbero due espres sioni, usate promiscuamente, ad indicare i più gravi
misfatti, che si potessero commettere nella comunanza. Vero è , che soventi nel
lin guaggio primitivo presentansi di questi vocaboli sintetici, e comprensivi,
che più tardi vengono in certo modo suddividendosi in guisa da espri mere solo
più uno degli atteggiamenti, sotto cui presentasi il concetto primitivo ; ma
qui la cosa non ha potuto accadere, poichè i due concetti si svolgono in certo
modo paralleli l'uno all'altro , ei due crimini sono perseguiti da ufficiali
diversi. Se si guarda poi all'ori gine dei due vocaboli, anche questa viene ad
essere completamente diversa ; poichè, per formare la figura del parricidium ,
si riguarda alla persona dell'offeso , mentre, per formare invece quella della
per duellio , si parte invece da quella dell'offensore, ossia dal vocabolo di
perduellis, che nelle origini significava nemico . Nel parricidium si ha
un'offesa contro un privato, che è sottratta alla privata per secuzione, ed
attribuita alla pubblica autorità ; mentre nella per duellio compare già
personificata la stessa comunanza collettiva , la quale, trovando nel proprio
seno chi cerca di comprometterne la sicu . rezza, scorge in esso una
somiglianza coi nemici esterni della città , e perciò lo qualifica col nome
stesso, che darebbe al nemico , con cui trovisi in aperta ostilità . 278.
Ritengo invece, che anche queste due figure di crimini, che compariscono in
Roma primitiva , possano essere spiegate in modo assai più verosimile, quando
si tenga conto , che la città risulto dalla confederazione delle tribù , e che
percid, colla sua formazione, i con cetti, che già esistevano nelle tribù ,
vennero a trapiantarsi nella città , colla differenza, che quei concetti, che
prima erano intergen tilizii , per cosi esprimersi , diventarono invece
concetti interqui ritarii, e ricevettero cosi una significazione diversa , per
il diverso punto di vista, sotto cui vennero ad essere considerati. Cid è
provato ( 1) PLUTARCO, Romulus, 22. - - - 341 - da questo che, appena Roma è
fondata, già presentansi formati così il concetto del parricidium , che quello
della perduellio ; poichè il primo è già attribuito a Romolo, e l'altro a Tullo
Ostilio, ma durante il regno di questo già esiste formata la lex horrendi
criminis, rela tiva alla perduellio. Ciò significa , che queste due figure di
reati eransi già delineate nella stessa organizzazione gentilizia , e che il
parricidium significava l'uccisione di un padre, ossia del capo di una famiglia
o di una gente : la quale uccisione costituiva l'unico misfatto , che non
dipendesse dalla giurisdizione domestica , e che dovette per il primo essere
punito, perchè era origine diguerre private nelseno stesso della tribù e di
guerra fra le genti ; e che la perduellio significava la nemicizia e l'ostilità
fra gente e gente (1). Fu quindi naturale dal momento, che i capi di famiglia
entrarono per confederazione nella medesima città, che il vocabolo parricidium
si trovasse natural mente portato a significare l'uccisione di chiunque
partecipasso alla comunanza , tanto più che i partecipi di essa dapprima erano
veri padri, e che la perduellio , mentre prima significava le ostilità fra le
genti, venisse ad indicare l'ostilità, che sorgeva nel seno stesso della città,
poichè i capi delle varie genti e famiglie ne erano di ventati i cittadini.
Allorchè poi fra i cittadininon furonvi solo più i capi di famiglia , ma anche
altri uomini liberi fu naturale e lo gico, che l'uccisione volontaria di
qualsiasi uomo libero rientrasse nella figura primitiva del parricidas. Viene
cosi ad essere natural mente spiegato ciò , che ci attesta Plutarco: che Romolo
, senza indurre pene contro i parricidiin senso stretto, abbia tuttavia chia
mato ogni omicidio parricidium : in quanto che quello, che era parri cidio nei
rapporti fra le varie famiglie e genti, venne ad essere uccisione di un
quirite, allorchè questi padri furono cittadini della medesima città ; al modo
stesso , che il perduellis fra le varie genti venne ad essere il nemico
dell'intiera comunanza, nel seno della città . Solo potrebbe notarsi, che non
si deve ammettere una siffatta trasposizione di vocabolo da una significazione
ad un'altra : ma è facile il rispondere, che la trasposizione dapprima fu
pressochè in sensibile, perchè i primi quiriti erano veramente padri, e che
simili trasposizioni sono frequentissime presso i Romani, i quali, ogni qual
volta hanno formata una figura giuridica, non temono di traspor tarla da un
caso ad un altro ; come lo dimostra il ius Latii, che (1) V. Festo, vº Hostis
(Bruns, Fontes, pag. 340). 342 trovato pei latini fu poi dai Romani applicato a
popoli ed a genti, che non avevano più nulla a fare con essi. Era poi naturale,
che quell'estendersi, che aveva luogo nella significazione del parricidium , a
misura che la figura del cittadino e quella dell'uomo libero si ve nivano
sostituendo a quella del padre, dovesse pure avverarsi quanto ai quaestores
parricidii, il cui compito si viene così allargando, finchè più tardi il
vocabolo apparisce disadatto , ed in allora sembra siansi sostituiti ai
medesimi i tres viri capitales (1). 279. Intanto però nulla potè impedire, che,
accanto alparricidium pubblicamente perseguito e che mutasi a poco a poco in
homicidium , potesse ancora sussistere la configurazione tradizionale del
massimo dei misfatti, che consiste nell'uccisione di un genitore, operata per
mano di un figlio o di una figlia . La sua stessa enormità ed infre quenza
spiega come negli esordii Romolo, al pari di Solone, non l'abbia contemplato :
ma intanto , se per avventura accadeva, veniva ad essere punito con pene
tradizionali, che cogli accessorii stessi, da cui erano accompagnate, cercavano
di simboleggiare l'enormezza del delitto . Fu soltanto allorchè questo triste
misfatto diventò ab bastanza frequente per la corruzione dei costumi, che la
punizione di esso, prima conservata nella tradizione e nel costume,
penetro anche nella legge, che dovette anche punire il parricidium in senso
stretto , dandogli tuttavia una significazione più larga, comprenden dovi cioè
qualsiasi uccisione di un parente o di un congiunto in certi confini di
parentela , e a tal uopo far rivivere l'antica pena tradizionale . Fu allora ,
che il vocabolo di parricidium abban donò il semplice omicidio per venire ad
indicare l'uccisione di un parente e di un congiunto , il che appunto si fece
colla legge Pom (1) Questa trasformazione non è ammessa dal BRÜNER, Dissert.
cit., 8 7. Parmi tuttavia , che essa fosse una naturale conseguenza
dell'estendersi della competenza dei quaestores parricidië , e del processo
seguito dai Romani nello svolgimento delle proprie istituzioni. Essa poi
sembrami anche una conseguenza della diffinizione da taci da Festo: «
quaestores parricidii, appellantur, qui solebant creari causa rerum capitalium
quaerendarum » . Non sarebbe poi qui il caso di entrare nella questione, se i
quaestores parricidii del periodo regio, ed i questores aerarii della
Repubblica possano avere la medesima origine : ma ritengo, che questa identità
di origine non abbia nulla di improbabile, allorchè si tenga conto della
primitiva indistinzione delle funzioni, che erano talora affidate allo stesso
magistrato. Cfr . al riguardo il Villems, Le droit public romain , pag. 303,
nota 3. - 343 peia de parricidiis. Tuttavia , per il vocabolo di parricidium ,
alla significazione più ristretta , che esso viene ad assumere, sopravvive
ancora un'altra significazione, non compiutamente giuridica , ma piut tosto
oratoria , per cui parricidas viene ad essere chiamato il tradi tore della
patria , l'oltraggiatore dei templi, quegli insomma, che col proprio delitto
abbia violato uno di quei doveri, che hanno un ca rattere sacro per l'umanità (
1). 280. Solo più resta a spiegare il fatto , per cui un medesimo de litto,
quello cioè dell'Orazio, uccisore della propria sorella , abbia po tuto essere
qualificato come perduellio da Livio, e invece sia riguar dato qual parricidium
da Festo e da Dionisio. A questo propo sito è certo , che il fatto dell'Orazio,
quale ci è narrato dalla tradi zione, presentava un carattere molto dubbioso .
Da una parte eravi per certo l'uccisione di una persona libera , e quindi
occorrevano gli estremi della legge attribuita a Numa ; ma dall'altra
l'uccisione era stata commessa , allorchè il popolo seguiva in massa l'Orazio
vinci tore, e l'uccisione, sempre secondo la tradizione, sarebbe stata da lui
inflitta , come pena contro coloro , che piangevano la morte di un nemico della
patria . L'Orazio in certo modo, fra gli applausi della vittoria, aveva
usurpato un ufficio, che al re, ed al popolo sarebbe spettato, e in quel
momento aveva operato, come un perduellis , come una persona , che si era posta
al disopra delle patrie leggi. È questo il motivo, per cui il popolo, che
plaude il vincitore, trascina tuttavia il ribelle davanti al re, ed è questi,
che, in base a quella distin zione fondamentale della primitiva procedura nel
ius e nel iudicium , viene ad essere chiamato a giudicare di qual misfatto si
tratti. In darno il padre dell'Orazio cerca di richiamare a sè la giurisdizione
per trattarsi di un misfatto , che erasi compiuto da un suo figlio contro una
sua figlia ; qui il re ravvisa prevalere il carattere pubblico del misfatto, e
quindi ritiene trattarsi di perduellio e conchiude : « duum viros, qui Horatio
perduellionem iudicent, secundum legem facio » . Dura era la legge relativa al
perduelle , in quanto che, se condo i termini di essa, il condannato doveva
avere avvolto il capo , essere sospeso arbori infelici, e poi essere ucciso a
colpi di verghe, (1) Cfr. BRÜNER , Dissert. cit., $ 526. È poi CICERONE, che
parla di parricidium patriae, civium , e scrive : « sacrum , sacrove
commendatum , qui clepserit rapsitve parricida esto » . Cfr. CARRARA,Op. cit .,
§ 1139. 344 « intra pomoerium vel extra pomoerium » . Il tenore della legge era
quindi tale, che i duumviri dovettero condannarlo, e uno di essi già ordinava
al littore « colliga manus» quando l'Orazio propone appello al popolo , il
quale l'assolve in memoria del fatto compiuto , e sotto l'e sortazione del
padre stesso, che viene esclamando fra la folla , che la propria figlia era
stata iure caesam . Tuttavia l'Orazio , anche assolto , fu costretto a passare
sotto il giogo , donde l'erezione del tigillum sororium , e la sua gente,
secondo Dionisio, dovette anche offrire una piacularis hostia in base alla
legge di Numa, che prevedeva il caso di un omicidio commesso per imprudenza .
Anche in ciò abbiamo un indizio del dubbio , che si era presentato intorno al
carattere del misfatto, poichè il passare sotto il giogo era certo la pena, a
cui era sottoposto il nemico vinto , e il sacrifizio dell'ariete era imposto
alla gente per causa dell'omicidio involontario ( 1). 281. Tuttavia , a mio
avviso , la ragione che rende più verosimile la spiegazione premessa intorno
alle origini del diritto criminale in Roma, sta sopratutto in ciò, che in
questa parte sarebbesi seguito quel medesimo processo , che abbiamo potuto
constatare in tutto il rimanente. I concetti già elaborati nella tribù sono
trapiantati dalla città, al modo stesso che più tardi dalla città saranno
portati ed estesi a tutto il mondo conquistato , e per tal modo di concetti
intergentilizii, diventano concetti quiritarii, al modo stesso che più tardi i
concetti quiritarii, ricevendo un nuovo contenuto , di venteranno poi di nuovo
universali e comuni a tutte le genti. (1) A questo proposito tolgo dal Bongai,
Storia di Roma. I, pag. 132, nota 1, una citazione dello SCHOEMANN, che sembra
confermare l'opinione qui sostenuta : « Horatium , quum supplicium de sorore
indemnata sumpsisset , eaque caede et ius regis ac populi imminuisset, visum
esse adversus ipsam rempublicam adeo deliquisse, ut perduellionis, non modo
parricidii, teneretur » . Osserverò poi per mio conto la singolarità del fatto,
per cui il perduelle, considerato come nemico interno, viene ad essere
assoggettato alla pena stessa del nemico esterno, cioè fatto passare sotto il
giogo, quasi in segno di sottomissione forzata alle leggidella patria ; altra
prova , che non solo si tolse dall'ostilità esterna la figura della perduellio
, ma in parte anche la pena, con cui essa era punita . Insomma perduellis
significava il nemico nei rap porti fra le varie genti; ma quando i membri
delle genti diventarono cittadini della stessa comunanza , diventò il nemico
interno della medesima, e il nemico esterno si chiamò hostis . 345 Intanto
anche in questa parte il parricidium e la perduellio sono due nozioni, il cui
contenuto non è ancora ben determinato , ma al pari di tutti i primitivi
concetti quiritarii appariscono come due co struzioni logiche, che si verranno
svolgendo col tempo. Di qui con seguita , che il parricidium finirà per
allargarsi per modo da com prendere tutte le offese contro il libero cittadino,
che giungono a produrre la morte di lui: mentre la perduellio finirà per
compren dere tutti i reati contro lo Stato , e quando questo si concentrerà
nella persona dell'imperatore si cambierà nel crimen lesae maie statis. È
quindi fino da quest'epoca , che comincia ad apparire la di stinzione fra il
reato comune e il reato politico ; ed è fin d'allora , che si sente
l'opportunità di lasciare una parte al popolo nel giu dizio dei reati politici
propriamente detti. L'uno e l'altro nel loro comparire sono come la sintesi dei
reati pubblici, dopo i quali verranno poi anche ad essere repressi i delitti
privati: la qual distin zione, iniziata da Servio Tullio , diventerà poi
fondamentale nella legislazione decemvirale . Intanto le cose premesse bastano
per dimostrare in qual modo siasi effettuata la formazione di una giurisdizione
e di un diritto criminale in Roma primitiva. La giurisdizione criminale fu il
risul tato di una sottrazione lenta e graduata , che l'autorità pubblica venne
facendo alla giurisdizione domestica e patriarcale; e i primi pubblici delitti
furono due figure di misfatti, che già preesistevano nell'organizzazione
gentilizia , le quali, sebbene continuino ad essere indicate cogli stessi
vocaboli, assumono però una significazione di versa . Di più anche nella
primitiva concezione del delitto in Roma occorre quella potenza sintetica, che
già abbiamo riscontrata nei concetti fondamentali della costituzione politica,
e che apparirà anche più evidente nei concetti primitivi del diritto quiritario.
Ciò indica che tanto il diritto pubblico e privato che il diritto penale,
allorchè appariscono in Roma, sono già il frutto di una potente selezione ed
elaborazione, fatta sui materiali somministrati dall'anteriore orga uizzazione
gentilizia . I concetti del diritto primitivo di Roma sono altrettante sintesi
potenti, in cui i fondatori della città cercano di scegliere e di con densare
ciò , che hanno appreso nel periodo precedente. Ora più non ci resta che ad
esaminare le condizioni della plebe cosi in tema di diritto pubblico , che di
diritto privato . - 346 CAPITOLO V. La condizione dei clienti e della plebe in
Roma prima della costituzione Serviana. 282. Le cose premesse dimostrano ad
evidenza, che tutta la primitiva costituzione politica di Roma, e quella
legislazione, che dalla tradizione è attribuita ai primi cinque re, debbono
ritenersi di origine esclusivamente patrizia , in quanto che si riducono in so
stanza a concetti già elaborati nel periodo gentilizio, i quali, trapian tati
nella città, vengono a ricevere un nuovo atteggiamento , ed a prendere una
nuova significazione nella medesima. Solo più rimane a determinarsi quale
potesse essere in questo periodo la condizione giuridica delle classi
inferiori, al qual pro posito importa di tenere assolutamente distinti i
clienti dalla plebe propriamente detta. 283. Per quello, che si riferisce ai
clienti , la loro posizione giu ridica , in questo primitivo stadio della città
, non viene ancora ad essere modificata , in quanto che essi continuano sempre ad
apparte nere più alla gente , che alla città : perciò essi, per quanto si può
ricavare da quella enumerazione dei diritti e degli obblighi fra patrono e
cliente, che ci fu trasmessa da Dionisio , continuano ad avere gli stessi
diritti e le medesime obbligazioni, che loro appar tenevano, durante il periodo
gentilizio (1). Essi quindi non hanno ancora una vera proprietà , ma continuano
a ricevere dalle genti degli assegni a titolo di precario sugli agri gentilizii
; ne pos sono parimenti far valere direttamente le proprie ragioni davanti al
magistrato della città , ma perciò debbono valersi della protezione e degli
uffici del patrono. Per maggior ragione non può ammettersi, che in questo primo
stadio essi possano intervenire nell'assemblea delle curie, comesostiene un
gran numero di autori (2 ). Le curie sono ( 1) Dion., II, 10. Cfr. quanto si
espose intorno alla clientela, nel Lib . I, Cap. III , § 3º, pag . 46 a 52. (2)
Tale è l'opinione del Willems, Le droit public romain , pag. 46 e seg . e del
PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 48 e seg ., nota 2. Il prof.
COGLIOLO nella sua nota nº d, pag. 50, non approva intieramente l'opinione del
Padelletti. 347 il sito di riunione pei quirites, per i gentiles, per i viri,
il cui potere è simboleggiato dalla lancia, e non possono in nessun modo essere
state aperte a quelli, che nell'organizzazione gentilizia trovinsi in
condizione subordinata , anche per il semplice motivo , che, quando così fosse
stato , il numero dei clienti, i quali avrebbero pur essi avuta parità di voto
, avrebbe di gran lunga soverchiato quello dei patroni. Pud darsi che in
occasione di guerra anche i gentilicii seguano il loro patrono, ma i medesimi
dipendono ancora più dal cenno di esso , di quello che dipendano direttamente
dallo Stato . Sarebbe in fatti strano ed incomprensibile, che quelli, che non
possono ancora stare in giudizio, potessero concorrere direttamente alla
elezione del re ed alla votazione delle leggi, e giudicare di coloro, che
abbiano interposto appello al popolo. Sarà soltanto la costituzione Serviana,
che, ponendo il censo a base della partecipazione ai ca richi civili e
militari, obbligherà i padri delle genti a fare conces sioni di terre in
proprietà ai propri clienti, per avere cosi un ap poggio nelle votazioni dei comizii
centuriati, ed è da quest'epoca che cominciano a sentirsi le lagnanze dei
plebei, perchè i padri appoggiati dai loro clienti riescono a dominare le
votazioni nei co mizii centuriati (1). In questo senso la costituzione Serviana
fu quella , che diede il gran colpo alla clientela, e con essa alla
organizzazione gentilizia, perchè da quel momento anche i padri furono tenuti a
fare concessioni di terre in proprietà ai proprii clienti, i quali acqui
starono così una indipendenza economica dai patroni, che fu anche il principio
della loro indipendenza politica ; donde la conseguenza chemolti fra essi sono
poi venuti ad allargare anche le file della plebe e ad appoggiare le
pretensioni di essa . 284. Intanto peró la questione, la cui risoluzione è
assolutamente indispensabile per comprendere la storia politica e giuridica di
Roma primitiva , è quella relativa alla condizione giuridica della plebe sotto
i primi re, così sotto l'aspetto del diritto pubblico , che sotto quello del
diritto privato . Il grande avvenire della plebe romana rese per gli storici di
Roma assai difficile il comprendere, come quell'elemento, che ai tempi ( 1) Che
le lagnanze dei plebei contro i clienti, per la preponderanza, che essi re
cavano al patriziato, si riferiscano ai comizii centuriati , appare dal
seguente passo di Livo, II, 64: « irata plebs inesse consularibus comitiis
noluit ; per patres, clien tesque patrum consules creati sunt Titus Quintius et
P. Servilius » . 348 - loro era ormai divenuto il dominatore della piazza e del
foro, po tesse, nelle origini, essere affatto escluso dal suffragio. Ond'è
che essi, trovando ai loro tempi la plebe ammessa in parte agli stessi comizii
curiati, e compresa nel populus, e una parte di essa anche pervenuta alla
nobiltà potevano difficilmente riuscire colla mente loro a ricostruire quella
primitiva distinzione fra populus e plebes, che ormai era scomparsa . Essi
quindi parlarono nel loro racconto deglian tichi comizii curiati, come se essi
avessero compreso tutto il populus, quale allora era costituito , cioè
inchiudendovi anche la plebs. Tuttavia , malgrado quest'attestazione concorde,
dubitarono i critici moderni, e quelli sopratutto, che al pari del Vico e del
Niebhur, ave vano penetrato più profondamente l'indole e il carattere primitivo
della città patrizia . La loro opinione trovò favorevole accoglimento ; ma in
questi ultimi tempi, essendosi dal Mommsen trovato , che vi fu un tempo, in cui
dei plebei furono elevati alla dignità di curiones maximi, sorse nuovamente il
dubbio , che la plebe abbia potuto essere am messa anche alle curie . Che anzi,
siccome mancava notizia di una legge, che avesse proclamata quest'ammessione,
vi furono anche degli autori, i quali, come il Paddelletti, giunsero a
sostenere, che questa ammessione dovesse risalire fino agli inizii della città
. Conviene però aggiungere, che gli autori, i quali direcente investigarono
sulle fonti le origini della città , come il Voigt, il Karlowa, il Bernöft, il
Pantaleoni, il Muirhead, il Gentile, ritornarono di nuovo al concetto di una
città esclusivamente patrizia , ed alla esclusione della plebe primitiva dal
far parte dell'assemblea delle curie ( 1). 285. Non è qui il caso di entrare in
discussioni erudite sull'argo ( 1) L'opinione sostenuta dal PADELLETTI è anche
seguita dal WILLEMS, Op. cit., pag. 47 e segg .; dal LANDUCCI, Storia del
diritto romano, pag. 357 , nota nº 2 ; dal Peluam, Encyclop. Britann ., vol.
XX, pº Rome (ancient), i quali però non entrano nella discussione degli
argomenti in pro e in contro. Quanto al PADELLETTI debbo far notare , che se la
sua autorità è grande quanto al periodo storico, non può dirsi altrettanto
quanto al periodo delle origini, e ciò perchè l'autore, fin dagli inizii
dell'opera , col suo solito fare reciso ed alieno dalle dubbiezze, afferma e
che lo studio delle origini può essere interessantissimo ed utile al mitologo
ed allo storico, ma è molto sterile per il giurisprudente » (pag. 4 ). Ciò
spiega come l'autore, essendosi accinto all'opera sua con un tale concetto
dello studio delle origini , sia caduto in gravi equivoci, ogniqualvolta toccò
quell'argomento , come può scorgersi quanto alle origini della famiglia , della
proprietà, dei delitti e delle pene, ed al sistema delle azioni. Nell'o pera
sua il diritto romano compare bello e formato, senza che si sappia , donde pro
ceda . Ciò comprese il suo annotatore Cogliolo , che intese a supplirvi colle
proprie note. 349 mento ; mibasterà il dire, che se si tenga conto del processo
, che do minò la formazione della comunanza romana, è del tutto improbabile ,
che la plebs abbia potuto essere ammessa , fin dagli inizii , alla civitas e
quindi anche alle curiae, le quali erano una ripartizione della me desima. I
cambiamenti sono troppo lenti nelle organizzazioni primitive , perchè un
elemento, che trovavasi in una condizione del tutto infe riore, potesse di un
tratto, e fin dal tempo, in cui era ancora debole e privo di qualsiasi
organizzazione, essere ammesso a far parte di una nuova consociazione, sovra un
piede di uguaglianza , in guisa da entrare a far parte della civitas e della
curiae, le quali, oltre al l'essere corporazioni politiche , erano anche
corporazioni strette dal vincolo di una religione , chenon era ancora
accomunata alla plebe . È affatto improbabile, che quel gentile o patrizio, che
è sopratutto altero di poter indicare i suoi antenati, senza che alcuno fra
essi fosse mai stato servo nè cliente , potesse diun tratto accettare un voto
del tutto eguale con un plebeo , che poteva forse essere stato prima suo
cliente o suo servo, e che ad ognimodo era di un'origine diversa dalla sua, e
non poteva indicare i propri antenati. Ciò ripugna al modo di pen sare delle
genti primitive, che non conoscendo altro vincolo , che quello del sangue,
dånno sopratutto importanza alle discendenza ed alla nascita. Sarebbe strano,
che quei patrizii, i quali, allorchè più tardi accoglievano nuove genti, le
collocavano fra le gentes mi nores, potessero concepire un pareggiamento
completo del loro ordine colla moltitudine o folla , da cui si trovavano circondati.
Questa pa rità , secondo il modo di pensare dell'epoca, nè poteva essere am
messa dal patriziato , nè poteva essere chiesta dalla plebe, la quale trovavasi
ancora in condizione troppo umile per potervi aspirare; nè è a credersi, che il
patriziato primitivo , fondatore della città , volesse per generosità accordare
spontaneamente cid , che era ancora in condizione di negare, e che non
concesse, che quando vi fu compiutamente forzato. Ciò è tanto più improbabile ,
in quanto che la curia , come abbiamo dimostrato a suo tempo, era chiamata
eziandio a deliberare sopra una quantità di affari, che si riferivano
direttamente all'organizzazione domestica e gentilizia loro esclusivamente
propria ; poichè il quirite in questo periodo da una parte guarda ancora alla
gente , da cui esce, e dall'altra alla città , di cui entra a far parte.
286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche
stati ammessi alle curie , esso può essere facilmente spie gato . La lunga
convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi
; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato ; e non
mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per
importanza politica , eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a
fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie . Quindi al modo
stesso , che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei
comisii tributi ; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli
onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potcui esce, e dall'altra alla
città , di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei,
almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie , esso può essere
facilmente spie gato . La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso
esercito ravvicinò i due elementi ; anche i plebei vennero imitando l'or
ganizzazione del patriziato ; e non mancarono anche le famiglie, che, pur
essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica , eco nomica e per
servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie,
originariamente patrizie . Quindi al modo stesso , che più tardi anche i
patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi ; cosi non è
meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai
sacerdozii, abbia potuto essere am messa anche alle curie, la cui importanza
non era più che religiosa. Un tal fatto venne certo ad essere possibile più
tardi ; ma l'ammet terlo fin dagli inizii , è uno sconvolgere ed invertire
ilmodo di pensare dell'epoca e l'ordine degli avvenimenti. Sarebbe infatti
un fare co minciare l'unione del patriziato e della plebe dal partecipare ad
una stessa corporazione religiosa ; mentre i fatti dimostrano, che questa fu
l'ultima parte delle loro tradizioni, che si decisero ad accomunare alla plebe.
Se quindi la plebe riuscì a penetrare nella civitas ciò non dovette essere
mediante le curiae, che avevano ancora un ca rattere religioso , ed erano
formate ex hominum generibus; ma bensi per mezzo delle classi e delle centurie
, che avevano piuttosto un carattere militare, e si fondavano sulla proprietà e
sul censo . Le cause , che cooperarono più tardi a ravvicinare i due ordini,
furono sopratutto i comuni pericoli, che obbligarono la città patrizia ad
arruolare nell'esercito i plebei, al modo stesso che dovette arruolare più
tardi anche i liberti ; come pure vi cooperarono la proprietà, che fu pure
acquistata dalla plebe ed i conseguenti commerci, che ne deri varono fra essa e
il patriziato ; ed è forse questo il motivo, per cui la costituzione Serviana
assunse dapprima un carattere militare ed eco nomico ad un tempo. Quanto al
fatto allegato dai sostenitori del l'opinione contraria , che il vocabolo
populus romanus quiritium abbia più tardi compresa eziandio la plebe, esso può
essere facilmente spiegato , in quanto non è questo il solo caso, in cui i
Romani, man tenendo la parola, ne mutassero il significato . Del resto il
vocabolo populus per Roma era una concezione e forma logica, al pari di tutte
le altre concezioni giuridiche e politiche ; esso comprendeva l'uni versalità
dei cittadini, e quindi, come era naturale, che non com prendesse la plebe ,
finchè questa non faceva parte della città , cosi doveva comprenderla ,
allorchè essa , in base al censo, entrò a far parte delle classi e delle
centurie Serviane. 351 287. Ferma così la risoluzione delmaggior problema della
storia primitiva di Roma, solo resta a ricercare brevemente, quale potesse in
questo periodo essere la posizione della plebe in tema di diritto privato ; il
qual compito ci è reso facile da ciò, che si venne fin qui ragionando. È noto,
come il ius quiritium , allorchè giunse al suo completo sviluppo , mentre in
tema di diritto pubblico comprendeva il ius suf fragii e il ius honorum , che
entrambi, a nostro avviso , furono dapprima negati alla plebe, in tema invece
di diritto privato si rias sumeva nel ius connubii e nel ius commercii . Quanto
al primo di questi diritti, abbiamo troppi argomenti nella storia per affermare
con certezza , che solo più tardi i plebei furono ammessi al ius connubii col
patriziato ; il che però non significa , che essi non potessero contrarre fra
loro delle unionimatrimoniali, ma soltanto che queste unioni non potevano, di
fronte al patriziato , produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione
quindi, che suol essere comunemente accolta , è quella secondo cui la plebe
sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii ( 1). Così avrei
ritenuto ancioni non potevano, di fronte al patriziato , produrre gli effetti
della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta ,
è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo
ius commercii ( 1). Così avrei ritenuto anch'io nell'inizio di questo studio, e
può darsi che nel corso del libro cid apparisca in qualche parte ; ma ora il
processo logico , che domind la formazione del diritto romano, in mancanza di
ogni informazione diretta , mi conduce ad affermare, che non dovette essere il
ius commercii, che la città patrizia riconobbe alla plebe circostante, ma bensì
il ius neximancipiique, il quale, come si è veduto più sopra , è quello stesso
diritto , che Roma, dopo es sersi incorporata la primitiva plebe, ebbe ad
accordare alle altre popolazioni circostanti, che vengono sotto il nome di
forcti ac sa crates. Anche il concetto di commercium , nella larga
significazione che ebbe pei Romani, in guisa da comprendere il diritto di
comprare e di vendere, di obbligarsi e di fare testamento ex iure quiritium ,
suppone una certa parità di condizione fra le persone, fra cui in tercede.
Siccome quindi le genti patrizie erano per modo organizzate da provedere
compiutamente ai loro bisogni : così non poteva dap prima essere il caso , che
riconoscessero ad una classe inferiore un ius commercii, sopra un piede di
eguaglianza, ma loro dovettero riconoscere soltanto il diritto del mancipium ,
ossia quello di avere una proprietà , che poteva essere alienata, e il ius
nexi, ossia il di (1) Tale è, ad esempio, l'opinione del LANGE , Histoir.
intér. de Rome, I, pag . 61. 352 ritto di potersi obbligare, mediante il nexum
. Le conseguenze pra: tiche nella sostanza potevano essere le stesse ; ma
intanto la supe riorità delle genti e il vassallaggio della plebe venivano ad
essere riconosciute . Ed è questo il motivo, che allorquando la plebe fu
ammessa nella città , il nexum ed il mancipium , come accadde anche in tutto il
resto , cessarono di significare dei rapporti fra le genti patrizie e la plebe,
che le circondava , per diventare rapporti interni, e costituirono cosi i primi
concetti quiritarii, comuni alle due classi. Più tardi però, anche questi
vocaboli, che ricordavano una disugua glianza di condizione fra le due classi,
apparvero disadatti, e nella successiva elaborazione del diritto quiritario
furono sostituiti da altri (1) . Non può dirsi pertanto , che in questo periodo
siasi già cominciata l'elaborazione di un vero ius civile , ispirato ad un
concetto di ugua glianza fra patriziato e plebe, ma continua sempre ad esistere
un diritto proprio delle genti patrizie , che parteciparono alla formazione
della città, e che costituisce il primitivo ius quiritium ; ed un di ritto che
governa i rapporti fra la città patrizia e la plebe, che la circonda , il quale
si risente ancora delle condizioni disuguali, in cui essi si trovano. È questo
il motivo, per cui la plebe nelle proprie tradizioni fece sempre rimontare la
sua esistenza giuridica alla costi tuzione Serviana; colla quale lo sviluppo
del diritto pubblico e privato di Roma prende un indirizzo del tutto peculiare
, che influi potente mente su tutto lo svolgimento , che ebbe ad avverarsi più
tardi, e merita perciò di essere particolarmente e profondamente studiato . (
1) Non mi trattengo più a lungo su questo punto, perchè ho già dovuto accen
narvi nel Lib . I, Cap. X , nº 160 , pag. 193 e seg., e perchè la prova delle
cose qui enunziate apparirà anche più evidente , quando si tratterà della
costituzione Ser viana e della sua influenza sul diritto privato di Roma. LIBRO
III. Il diritto pubblico e privato di Roma dalla riforma Serviana alle XII
Tavole. CAPITOLO I. La costituzione di Servio Tullio . § 1. – Cenno degli
avvenimenti che la prepararono. 288. Colla venuta dei Tarquinii a Roma, si
inizia nella medesima una trasformazione profonda, la quale potè in parte
essere travisata dalle tradizioni e dalle leggende, ed anche dissimulata
dall'amor patrio degli storici latini, ma i cui principali tratti si possono di
scernere nelle serie degli avvenimenti e dei fatti, di cui ci fu con servata
memoria . Fino a quell'epoca, delle varie stirpi, che erano concorse a co
stituire la città , avevano sempre avuta una incontrastabile prevalenza le
latine e le sabine, fra le quali erasi venuto alternando il ma gistrato supremo
; mentre i Luceres non avevano somministrato alcun re , nè forse avevano avuto
nella formazione dei primitivi sacerdozii. Or bene, regnando Anco Marzio, di
origine latina, la gente Tarquinia , di origine etrusca, ricca di capitali e
numerosa per clientele, viene a porre la propria sede in Roma, per conseguirvi
quello stato, che le era conteso nel luogo nativo (Tarquinia ). Il capo di essa
è uomo abile ed intraprendente, e dopo aver consi gliato in vita Anco Marzio ,
ne guadagna per modo la fiducia , da diventare dopo la sua morte tutore dei
figli di lui, o ottiene in breve colle sue ricchezze e collo splendore della
propria vita tale un seguito, da essere assunto al trono , mediante il
suffragio del G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 23 354 popolo e
coll'autorità dei padri : « eum , scrive Livio , ingenti con sensu populus
romanus regnare iussit » (1). Nè sembra essere il caso di supporre col
dottissimo OldofredoMüller, che questa immigrazione di genti etrusche
corrisponda alla supre mazia , che la città di Tarquinia avrebbe conquistata su
Roma, su premazia, che gli storici latini avrebbero cercato di dissimulare (2
): poichè le nuove genti appariscono in concordia con tutti gli ordini della
città , e il capo di esse , chiamato con tutte le formalità al trono, raccoglie
in effetto tutte le sue cure sulla patria novella, e l'arricchisce di pubblici
edifizii, che allo splendore delle costruzioni greche ed etrusche sembrano
associare quel carattere di grandiosità e di forza , che è proprio delle costruzioni
latine. Sembra quindi più verosimile, che alcune fra le città etrusche in
quell'epoca fossero pervenute a quel periodo di crisi, che occorre eziandio
nelle città greche , durante il quale, sorgendo lotta di superiorità e di predo
minio fra i capi delle grandi famiglie , vengono ad esservene di quelle, che
sono forzate a cercare altrove miglior sorte e fortuna. Per un tale intento
offerivasi opportuna la città di Roma, la quale in quel periodo di tempo era
ancora disposta ad accogliere nuove genti nei proprii quadri, e mentre da una
parte , per la fortezza già sperimentata dei proprii abitanti, poteva aspirare
ad un grande avvenire, dall'altra aveva ancora molto ad apprendere, sia quanto
allo splendore dei pubblici edifizii , sia quanto all'ordinamento mi litare e
civile. Di più essa già conteneva nel proprio seno delle genti di origine
etrusca , cosicchè la nuova immigrazione poteva avervi parentele ed aderenze,
che spiegano l'appoggio e il seguito , che vi trovarono in breve la gente
Tarquinia e il proprio capo (3). 289. Questo è certo ad ogni modo, che in Roma
si manifestano ben tosto i segni di una trasformazione potente. - Infatti,
secondo la tradizione, la sua popolazione viene ad essere come raddoppiata , ed
il nuovo elemento sembra dare alla città un indirizzo mercantile , come lo
dimostra il fatto, che dopo la dominazione dei Tarquinii ( 1) Liv., 1, 34 ;
Dion., IV , 2 . (2 ) Müller O., Die Etrusker. Cfr . PANTALEONI, Storia civile e
costituz .di Roma, pag . 134, ove si impugna appunto l'opinione del Müller. (3)
L'opinione qui accettata è conforme a quella, che ho cercato didimostrare più
sopra , relativamente agli aumenti nel numero dei senatori. Lib . II, cap. II,
§ 5 , nn. 212 e 213, pag. 258 e segg . 355 Roma è già in condizione di
conchiudere, anche come rappresen tante del Lazio , un trattato di navigazione
con Cartagine (1). Mentre poi fino a quell'epoca Roma aveva ancor sempre conser
vato il suo carattere primitivo di federazione fra diverse comunanze, con
Tarquinio invece sembra iniziarsi il periodo, che potrebbe chia marsi di
incorporazione. Narra infatti Livio, che Tarquinio avrebbe distribuito spazi
intorno al foro , accið i privati vi potessero costruire le proprie abitazioni,
e che in lui era già sorto il pensiero di cin gere la città di mura, adottando
così il tipo delle città etrusche, le quali, essendo dedite ai commerci,
solevano chiudersi e fortificarsi nelle proprie mura ( 2 ). A compir l'opera
sarebbesi richiesto, che i quadri della città pri mitiva fossero modificati, e
che alle divisioni di carattere gentilizio se ne sostituissero altre di
carattere territoriale e locale . Cid secondo la tradizione avrebbe pur tentato
Tarquinio, quando non si fosse op posto il patriziato per mezzo dell'augure
sabino Atto Nevio , osser vando che la primitiva città erasi fondata mediante
gli auspicii, e che perciò i quadri di essa consacrati dalla religione dovevano
essere mantenuti (3). Non vi fu quindi altro mezzo che di fare entrare il nuovo
elemento nei quadri antichi, il che Tarquinio avrebbe cercato di conseguire :
lº aggiungendo alle centurie dei cavalieri, altre centurie, che serbarono il
nome antico, ma presero la deno minazione di Ramnenses, Titienses , e Luceres
secundi; 2º ac crescendo il senato di cento nuovi senatori, che si chiamarono patres
minorum gentium ; 3º raddoppiando il numero dei pontefici e degli auguri, e
destinando anche alla custodia ed alla interpretazione dei libri sibillini i
duoviri sacris faciundis , i quali, portati poscia a dieci e più tardi a
quindici, finirono per cambiarsi in un collegio sacerdotale , che
sovraintendeva și culti di provenienza straniera (4 ). (1) La memoria di questo
trattato di navigazione, conchiuso nel primo anno della Repubblica , ci fu
serbata da POLIBIO, III, 22, 24 , il quale l'avrebbe tradotto da un latino
arcaico, che ai suoi tempi era già diventato difficile a comprendersi. (2) Liv
., I, 35, 36, 38. Egli anzi attribuisce a Tarquinio di aver già intrapresa la
cinta , che prese poi il nome di Serviana. (3 ) Liv ., I, 36 ; Dion., III, 70,
72. (4 ) Dron ., III, 67; IV , 62. L'istituzione dei duoviri sacris faciundis
ora è attri buita a Tarquinio Prisco ed ora a Tarquinio il Superbo. Quanto allo
svolgimento storico di questo collegio sacerdotale è da vedersi il
Bouché-LECLERCQ, Histoire de la divination , Paris, 1882, IV , pagg. 286-317,
come pure il Manuel des institu tions romaines, Paris, 1886 , pag. 545 e segg .
356 Intanto anche la religione subì l'influenza del nuovo elemento , ma in
proposito fu giustamente osservato , che la religione, importata da questa
immigrazione etrusca, non ha quel carattere misterioso ed arcano, che vuole
essere attribuito ai riti etruschi, ma si risente invece dell'influenza greca,
come lo prova la triade capitolina di Giove, Minerva e Giunone (1) ; il che
sembrerebbe confermare, che i Tarquinii, pur venendo da una città etrusca ,
potessero remotamente provenire da una città greca, che secondo la tradizione
sarebbe stata Corinto ( 2 ). Della plebe quasi non si occupa la tradizione; ma
si può affer mare con certezza che come le immigrazioni latine avevano ac
cresciuta la plebe rurale, dedita alla coltura delle terre, così quella etrusca
dovette trascinare con sè un grande numero di artieri, di commercianti, di
uomini esperti nell'arte della costruzione, che con corse ad accrescere la
plebe urbana (3). Intanto si accrebbero i mo tivi di ravvicinamento fra
patriziato e plebe, poichè la plebe del con tado era divenuta un elemento
indispensabile per rafforzare l'esercito , e la cooperazione della plebe urbana
era anch'essa necessaria per compiere quelle opere pubbliche grandiose, che
sono la caratteri stica di questo periodo della storia di Roma, e che erano
natural mente richieste dall'ingrandirsi della città e dal nuovo indirizzo
preso dalla medesima. 290. Le cose quindi erano venute a tale, che
coll'ampliarsi della città , anche i quadri del populus dovevano essere
allargati in guisa da potervi comprendere quella parte della plebe, che ormai
per venuta a qualche agiatezza, ed affezionata al suolo da esso col tivato ,
poteva avere interesse all'incremento e alla difesa della città . Fu questa
l'opera, che la tradizione ha attribuito a Servio Tullio ; altro re , che
appare come trasfigurato dalla leggenda, la quale probabilmente ha finito anche
qui per attribuire all'opera di un solo ciò che ha dovuto essere l'effetto del
concorso di varii elementi, e delle nuove energie e forze operose, che vennero
a ( 1) Questa osservazione è del PANTALEONI, op. cit., p . 149 . (2) È noto
che, secondo Livio I, 34, Tarquinio Prisco, pur provenendo diretta mente da
Tarquinia , sarebbe tuttavia figlio di un Demarato Corinzio . (3 ) Quanto
all'incremento della plebe sotto il regno del primo Tarquinio, è da ve dersi
Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung . Leipzig, 1884,
I, pag. 32 e segg . 357 scaturire dal nuovo stato di cose e dal nuovo
indirizzo, che veniva prendendo la città di Roma. È dubbia la origine di Servio
Tullio : mentre la tradizione latina , unitamente al carattere della sua
riforma, che appare più una evoluzione che una rivoluzione, lo la scierebbero
credere di origine latina , una tradizione invece, che vigeva presso gli
Etruschi, e che ci fu conservata dall'imperatore Claudio nel preambolo ad un
senatusconsulto, lo direbbe di origine etrusca , e gli attribuirebbe il nome di
Mastarna (1). Tutta l'antichità ad ognimodo è concorde nel riconoscere l'impor
tanza della sua costituzione, poichè è certo che, debbasi ciò attribuire alla
sapienza del principe autore di essa , o alla tenacità del popolo che ebbe a
svolgerla , essa corrisponde a un graduato sviluppo e segna comeun nuovo stadio
nella formazione della città . Essa chiude il pe riodo esclusivamente patrizio
, in cui domina ancora la discendenza e la nascita, ed inizia quello patrizio
-plebeo , in cui i due ordini, dopo essere entrati a far parte del medesimo
popolo, sulla base del censo , finiscono per avviarsi fra le lotte ed i
dissidii al pareggia mento giuridico e politico . Può darsi, che anche altre
città abbiano avuta una costituzione analoga , come, ad esempio, Atene per
opera di Solone (2 ); ma non ve ne ha certamente un'altra , che per la tenacità
e la perseveranza degli ordini, che si trovarono di fronte, abbia saputo
ricavarne un più sicuro e graduato sviluppo . Ben è vero, che anche per Roma vi
fu un periodo, in cui l'evo luzione è stata interrotta da un tentativo di
tirannide ; ma nel resi stervi tutti gli ordini furono concordi, e il rimedio
fu estremo, quello cioè di cacciare dalla città l'elemento, che ne aveva poste
a repen (1) L'oratio, che precede il senatusconsulto Claudiano dell'anno 48
dell'êra vol gare de iure honorum Gallis dando può vedersi nel Bkuns, Fontes,
ed . V , p. 177. Ivi l'erudito imperatore, volendo accogliere nel senato anche
dei Galli, fa la storia degli elementi, che Roma avrebbe assorbito nei suoi
varii stadii, e trova così occa sione di accennare alle due tradizioni relative
a Servio Tullio, di cui una lo farebbe nascere da una prigioniera di nome
Ocresia, mentre l'altra lo direbbe di origine etrusca . Le diverse opinioni degli
eruditi sulla fede, che merita il racconto di Claudio, e la conferma indiretta,
che esso avrebbe ricevuto da alcune recenti scoperte archeologiche, sono
riportate dal Bonghs, Storia di Roma, I, pag . 201, nota 14. (2) Quanto alle
analogie fra la costituzione di Solone e quella Serviana e fra le condizioni
storiche, che poterono determinare l'una e l'altra, è sempre a consultarsi il
GROTE , Histoire de la Grèce. Trad. De Sadous, Paris, 1865, tome IV , chap.
4me, pag. 137 a 216 , come pure l'appendice allo stesso capitolo, in cui
discorre della con dizione dei nexi e degli addicti in Roma antica . - 358 al
taglio le libere istituzioni, malgrado le difficoltà gravissime, in cui venne
allora a trovarsi la città . L'interruzione però non impedì che, superata la
crisi, lo svolgimento storico fosse ripreso punto stesso , a cui erasi
arrestato, cosicchè lo spirito della costituzione serviana pervade non solo
l'elaborazione del diritto pubblico , ma ancora quella del privato . Fu il non
averne tenuto conto sufficiente che, a mio avviso , ha impedito di dare una
spiegazione plausibile dei più singolari caratteri del diritto primitivo di
Roma. § 2. – Il concetto ispiratore della riforma Serviana eimezzi che
servirono ad attuarla . 291. Fu abbastanza dimostrato , che la formazione della
città pri mitiva non è un'opera di semplice agglomerazione, che piglia i ma
teriali quali si presentano e li amalgama confusamente insieme; ma un'opera di
selezione, che solo li accetta in quanto entrano nel suo ordinamento simmetrico
e coerente ; donde la conseguenza, che se un mutamento si introduce in una
parte essenziale di essa, questo deve pur riflettersi e riverberarsi nelle
altre parti. Ciò apparve nella città patrizia , e appare ugualmente nella
costituzione serviana. Il problema era quello di unire due popolazioni, che si
trovavano, come si è veduto , in condizioni sociali compiutamente diverse, e di
farle entrare a far parte della stessa comunanza civile , politica e militare.
Il fonderle insieme era per il momento impossibile, perchè la distanza fra di
loro . era ancora troppo grande, e certi istituti, come la religione e i
connubii, erano ancora troppo gelosamente custoditi per poter essere
accomunati. Le sole istituzioni, comuni ai due ordini, erano la proprietà e la
famiglia , e il solo inte resse , che li aveva condotti ad avvicinarsi, era
quello di prov vedere insieme alla difesa di sè e delle proprie terre. Queste
sol tanto potevano essere le basi della loro partecipazione alla medesima città
: quindi è che la costituzione serviana, sebbene allarghi le file del populus,
comprendendovi un elemento , che era escluso dalla città patrizia , finisce
però per dare una base più ristretta alla par tecipazione dei due ordini alla
stessa comunanza civile e politica . Mentre il popolo delle curie aveva comune
l'elemento religioso , l'organizzazione gentilizia , e il culto per le antiche
tradizioni; il popolo invece, che esce dalla costituzione di Servio , viene ad
essere composto di capi di famiglia e di proprietari di terre, che entrano 359
a far parte del medesimo esercito , e più tardi anche della medesima assemblea
, in base alla sola considerazione del censo , e nell'intento esclusivo di
provvedere alla difesa di quegli interessi, che loro potevano essere comuni. La
nuova comunanza pud in certo modo essere paragonata ad una società , in cui
ciascuno viene ad aver diritti ed obbligazioni proporzionate al proprio censo ,
il quale viene così ad essere considerato come una garanzia dell'interesse ,
che altri può avere all'avvenire e alla grandezza della città (1). Il nuovo
popolo pertanto non ha nulla a fare colle curie dei patrizii , ai quali
continuano ad essere riservati gli auspizii, i sacerdozii, le magistrature e
gli onori; ma viene ad assumere negli inizii una organizzazione di carattere
essenzialmente militare, in cui la parte cipazione ai diritti e alle
obbligazioni della cittadinanza sotto l'aspetto militare, politico e tributario
viene ad essere determinata esclusiva mente dal censo . In apparenza quindi
l'organizzazione per curie delle genti patrizie è lasciata integra ed intatta ;
ma intanto a lato della medesima sorge un nucleo novello , che per essere più
numeroso e più forte finirà per richiamare in sè ogni energia civile, politica
e militare, lasciando col tempo alle curie la sola custodia delle tradi zioni e
dei culti gentilizii. 292. È questo il motivo , per cui la costituzione
serviana potè essere apprezzata in guisa compiutamente diversa , anche dagli an
tichi scrittori, i quali la descrivono, ora come favorevole al patri ziato o
almeno alle classi più elevate, ed ora invece come favorevole alla plebe ( 2).
Essa era tale, che da una parte doveva essere accetta al patriziato, il quale ,
mentre riteneva ciò , che era esclusivamente suo proprio , trovava poi più
forte il proprio esercito, più ricco il proprio erario, più ampia la città , di
cui continuava ad avere le magistrature e gli onori; dall'altra doveva anche
essere gradita alla plebe, perchè essa , ancorchè sulla base esclusiva del
censo , veniva (1) Che questo fosse il concetto informatore della costituzione
serviana appare da Aulo Gellio , XVI, cap . 10, n ° 11, il quale dice
espressamente che « res pecuniaque « familiaris obsidis vicem pignorisque esse
apud rempublicam videbatur, amorisque « in patriam fides quaedam in ea ,
firmamentumque erat » . Il paragone poi della comunanza quiritaria , in base
alla costituzione serviana, ad una società di azionisti già occorre nel
NIEBHUR, Histoire romaine, II, p . 193. (2 ) Il diverso apprezzamento ,che gli
antichi fecero della riforma serviana, apparisce da Cic., De rep ., II, 22 ;
Liv., 1, 42, 43; Dion ., IV, 20. Cfr. in proposito il Bonghi, op. cit., I, pag.
548 e segg. 360 ad acquistare una posizione giuridica, che prima non aveva, ed
è abbastanza noto , che quando trattasi di un'aggregazione sociale , il passo
più difficile è quello di potervi penetrare, poichè dopo la forza stessa delle
cose condurrà ad avervi una posizione adeguata al pro prio valore. Questo è
certo , per quanto appare dalla tradizione, che i due ordini sembrano essere
concordi nell'accettare la costituzione di Servio Tullio, per guisa che ad
opera compiuta gli riconoscono re golarmente quel potere, che prima aveva
esercitato più di fatto , che non di diritto ; tantoque consensu , quanto haud
quisquam alius ante, rex est declaratus (1). Intanto la nuova costituzione
appare informata anche essa ad un unico concetto, che è quello di dare a
ciascuno nella città una parte proporzionata all'interesse, che egli può avere
per l'incremento della medesima : interesse, che si ritiene dover essere
misurato dal censo . Quest' unico concetto poi viene incarnandosi nel fatto con
mezzi e con istituzioni diverse, fra i quali sono sopratutto importanti e degni
di nota l'ampliamento delle mura, la ripartizione del territorio in tribù o
regioni locali, l'istituzione del censo e l'organizzazione del nuovo popolo in
classi ed in centurie ; istituti questi, che abbozzati negli inizii da mano
maestra , dovranno poi ricevere dalla logica tenace del popolo romano tutto lo
sviluppo, di cui possono essere capaci. 293. Coll’ampliamento delle mura la
città, che prima riducevasi ad un complesso di edifizii , aventi pubblica
destinazione e riuniti in un piccolo spazio , a cui mettevano capo le varie
comunanze, viene a comprendere nella propria cerchia buona parte di tali
comunanze , le loro rispettive fortezze, ed una quantità grande di abitazioni
pri vate . Cresce così il nucleo della popolazione urbana di fronte a quella
del contado ; il contatto fra il patriziato e la plebe diviene più intimo e
frequente , e la vita della città concorre così a dissol vere quell'ordinamento
per genti e per clientele, che forse sarebbesi mantenuto stazionario o almeno
più duraturo in seno alle comunanze di villaggio . La città intanto , chiusa e
fortificata nelle proprie mura , difesa da un esercito, il cui contingente
viene ad essere più volte moltiplicato, abitata da un popolo pressochè
militarmente organizzato , assume anch'essa un carattere più decisamente
militare e apparisce ( 1) Liv ., I, 46 . 361 paurosa ed imponente alle
popolazioni vicine (1). Così pure è da questo momento , che la vita fra le
stesse mura conduce a mescolare e a confondere il sangue delle varie stirpi,
fino a che per mezzo di re ciproci adattamenti finiranno tutte per concorrere a
formare un or ganismo unico e coerente (2). Quasi poi si direbbe, che i
fondatori della nuova città abbiano una certa consapevolezza dell'avvenire di
essa ; poichè il nuovo circuito comprende non solo il Palatino, il Capitolino,
il Quirinale, il Celio , il Gianicolo , ma anche l'Esquilino e il Viminale ,
alcuni fra i quali sono ancora spopolati (3 ); cosicchè il pomoerium della
città non dovette più essere ampliato, durante il periodo repubblicano,
malgrado gli incrementi, che si verificarono nella popolazione. A questo
riguardo vuolsi però osservare , che sebbene la città dal tipo latino sembri
far passaggio al tipo etrusco, tuttavia essa au menta bensi il suo nucleo
centrale , ma serba ancor sempre i ca ratteri primitivi della città latina.
Infatti non tutta la sua popola zione viene ad essere accolta nelle sue mura,
ma buona parte di essa continua ad essere dispersa per le campagne e fuori
delle mura ; cosicchè la città continua sempre ad essere un centro di vita pub
blica per popolazioni, che possono avere altrove la propria resi denza. Cosi
pure in tutta questa trasformazione punto non parlasi di nuove ripartizioni di
terre, se si eccettuano i soliti assegni, che per consuetudine invalsa i re
sogliono fare alla plebe ; il che si gnifica che le famiglie, le genti e le
tribù dovettero continuare a ritenere le proprie terre ( 4 ). 294. Intanto è
evidente, che in una città cosi concepita diveniva necessario , che all'antica
distinzione fondata sull'origine e sulla discen (1 ) L'intento eminentemente
militare della cinta serviana è dimostrato anche dal fatto, che gli
intelligenti delle cose militari ritengono che dall'orientamento di essa si
possa perfino argomentare alla situazione delle porte in essa esistenti. V.
BARAT TIERI, Sulle fortificazioni di Roma antica, « Nuova Antologia » , 1887,
fascic. 10. (2 ) Questo concetto trovasi efficacemente espresso da Floro nel
passo citato al lib . I, cap. I, nº 10 , pag. 10, nota 1. (3) MIDDLETON,
Ancient Rome, pag. 59 e segg . « L'ampliamento delle mura, scrive NIEBIUR, fu
il pensiero di un genio, che confidava nella eternità e negli alti destini
della città , e che aperse la via ai suoi futuri progressi o . Op. cit., II,
123. (4 ) Questi assegni fatti da Servio Tullio alla plebe sono attestati da
Livio, I, 46, più chiaramente ancora da Dionisio , IV , 9, allorchè scrive: «
agrum publicum di « visit civibus romanis , qui ob rei domesticae difficultates
aliis, mercedis causa , ser viebant » . e 362 denza si aggiungesse una nuova
ripartizione di carattere locale e ter ritoriale, la quale potesse anche essere
di base per constatare la po polazione, che vi avesse la propria residenza , e
per fissare il tributo , a cui dovesse essere soggetta (tributum ex censu ).
Cid si ottenne col ri partire il territorio in tribù o regioni locali, le quali
si suddivisero poi in rustiche ed urbane. Le urbane sono quattro e prendono
senz'altro il nome dalle località, e chiamansi così Suburana, Esquilina ,
Collina e Palatina : mentre le rustiche continuano per la maggior parte a
prendere il nome dalle genti patrizie , quali sarebbero l'Emilia , la Cornelia
, la Fabia, la Galeria , l'Orazia , la Menenia , Papiria, Pollia , Sergia,
Romilia , Voturia , Voltinia , ed altre ; solo eccettuata la tribù Crustumina,
che sarebbe stata la prima ad essere denominata dalla località . Cid indica che
nel contado continud la prevalenza delle genti, che vi tenevano le loro
possessioni. Il numero origi nario delle tribù rustiche non è ben noto , ed
anzi, secondo alcuni storici, fra i quali Livio , le tribù rustiche comparirebbero
solo più tardi. Questo è certo pero , che la ripartizione, anche del ter
ritorio rustico, era una conseguenza del concetto informatore della
costituzione serviana, e che il numero delle tribù, dopo le guerre a cui diede
occasione la cacciata dei Tarquinii, e forse per la diminuzione del territorio
, che ne fu la conseguenza, appare ri dotto a quello di venti. La
cooptazione della gente Claudia porto le tribù a vent'una, e da quel punto la
storia ricorda tutte le date, in cui la conquista di un nuovo territorio
conduce alla for mazione di nuove tribù , fino al numero di trentacinque, che
poi si mantenne immutabile (1). Non è già con ciò , che Roma non abbia fatte
nuove concessioni di cittadinanza, ma i nuovi cittadini si fecero rientrare
nelle antiche tribù, le quali, dopo aver avuto una base locale , si mutarono
cosi in altrettanti quadri, a cui poterono essere ( 1) Mentre Livio, I, 43
attribuisce a Servio Tullio soltanto la ripartizione della città nelle quattro
tribù urbane, Dionisio , IV, 15 , invocando la testimonianza di Fabio , gli
attribuisce eziandio la divisione dell'agro in 26 tribù, cosicchè il numero
complessivo delle tribù sarebbe stato di 30. Di qui la difficoltà di spiegare
comemai queste tribù negli inizii della Repubblica fossero ridotte al numero di
20 soltanto . Anche oggidi la spiegazione più probabile sembra essere quella
data dal Niebhur, secondo cui l'ager romanus avrebbe sofferto la diminuzione di
varii pagi o tribus, in seguito alla guerra cogli Etruschi guidati da Porsena .
Op. cit., II, 154. Quanto all'epoca , in cui si vennero aggiungendo le altre
tribù fino al numero, che poi si mantenne, di 35, sono a vedersi il Willems, Le
droit public romain , pag. 34 e segg. e il Morlot, Institutions politiques de
Rome, Paris, 1886 , p . 71 e segg . 363 ascritti tutti i cittadini romani,
senza tener conto della effettiva residenza dei medesimi ( 1). 295. Sopratutto
poi il concetto informatore di tutta la costitu zione serviana fu l'istituzione
del censo ; poichè è in proporzione del censo , che vengono ad essere
determinati i diritti e gli obblighi dei cittadini. Vuolsi però aver presente ,
che nel censo di Servio Tullio non intervengono tutti gli individui, ma solo i
capi di fa miglia , quelli cioè , che per non essere soggetti a potestà altrui
possono giuridicamente essere considerati come padri di famiglia , ancorchè in
realtà non siano tali. La dichiarazione poi del capo di famiglia deve essere
duplice , cioè comprendere tanto le persone quanto le cose , che da lui
dipendono ; donde provenne la conse guenza, che in questo periodo le persone e
le cose, dipendenti dalla stessa potestà , si presentarono come un tutto
indistinto , che suol essere indicato coi vocaboli di familia o di mancipium .
Il padre di famiglia pertanto, o meglio colui, il quale, per non essere sog
getto a potestà altrui, ha diritto di contare per uno nel censo , deve
dichiarare anzitutto , ex animi sententia , il suo stato civile, cioè il suo
nome, il prenome, il nome del padre o del patrono , la tribù a cui trovasi
ascritto , l'età , il nome della moglie , il nome e l'età dei figli. Esso deve
dichiarare eziandio il patrimonio , che a lui ap partiene in proprio ; non
quello cioè, che appartenga alla sua gente , ma quello che è collocato in suo
capo , che gli appartiene ex iure quiritium , che fa parte del suo mancipium ,
il quale in significa zione più ristretta comprende appunto il complesso dei
beni, che deb (1) È solo in questo modo, che a parer mio si può risolvere
la questione tanto agitata fra gli autori se le tribù di Servio fossero
divisioni di territorio , oppure di visioni di persone. Non parmi poi che possa
ammettersi l'opinione del NIEBHUR, secondo cui le tribù dapprima non avrebbero
compreso che i plebei, e solo dopo il decemvirato avrebbero compreso anche i
patrizii (Op. cit., IV , 16 ); poichè il loro stesso nome derivato da quello di
genti patrizie ed anche lo scopo della ripartizione del territorio in tribù o
sezioni dimostrano ad evidenza il contrario. Che anzi, in base alla narrazione
di Dionisio , IV , 15 , il re Servio non solo avrebbe diviso il ter ritorio in
tribù , ma nei siti montani avrebbe costrutto dei pagi, che dovevano ser vire
come luogo di rifugio, e avrebbe obbligato tutti quanti gli abitatori (omnes
romanos) a consegnarsi nel censo « addito et urbis tribu et agri pago, ubi
singuli habitarent » ; il che fa credere, che le tribù rustiche serviane
fossero un rimaneggia mento dei pagi, che già prima esistevano nel territorio
circostante a Roma. Cfr . il Morlot, op. cit., pag . 57 e seg ., ove espone le
varie opinioni degli autori intorno al carattere locale o personale delle
tribù. 364 bono essere valutati nel censo . Sarà poi in base a questo censo ,
che sarà designata la classe del popolo, a cui deve appartenere, tanto per sè
che per i figli, che abbiano raggiunta l'età di diciasette anni, e verranno
cosi ad essere determinati i suoi diritti e le sue obbliga zioni sotto
l'aspetto politico , militare e tributario ad un tempo (1 ). 296. Basta questa
semplice indicazione per comprendere l'im mensa importanza, che dovette,
sopratutto negli esordii, esercitare una istituzione di questa natura sopra il
popolo forse più tenace che presenti la storia in quella che il Jhering
chiamerebbe la lotta per il diritto . Per la città serviana la formazione del
censo ha quella stessa importanza, che ha per una società di carattere
mercantile la determinazione del contributo , che altri deve arrecare alla for
mazione del capitale sociale, il quale contributo dovrà poi servire di base per
la ripartizione dei profitti e delle perdite. Essa costrinse a considerare ogni
individuo come un caput, il quale tanto vale quanto è il numero dei figli e
l'ammontare delle sostanze, in base a cui egli contribuisce alla comunanza . In
essa l'uomo non è solo contato, ma in certo modo è anche pesato , e viene ad
essere isolato da ogni altro suo rapporto, per essere considerato
esclusivamente sotto il punto di vista delle persone e delle sostanze, che in
lui vengono ad unificarsi. Vi ha di più, ed è che la proprietà, che conta nel censo
serviano , non è la proprietà gentilizia , che apparteneva al solo pa triziato
, ma è la proprietà famigliare e privata , che era la sola , che fosse comune
al patriziato ed alla plebe. Di qui la conseguenza , che tutte le altre forme
di proprietà vengono di un tratto ad essere lasciate in disparte, cosicchè se
le genti patrizie vorranno 284 ' e seg (1) Quanto alle operazioni relative al
censo cfr. WILLEMS, op. cit., pag. Per me è sopratutto notabile la circostanza
, che il capo di famiglia doveva denun ziare persone e cose , che da lui
dipendevano, poichè essa serve a spiegare come i due vocaboli di familia e di
mancipium potessero talvolta scambiarsi fra di loro, e as sumessero una
significazione così larga da comprendere le persone le cose ad un tempo . Cid
non accadeva già , perchè si confondessero persone e cose, ma perchè le une e
le altre apparivano nel censo come dipendenti dalla stessa persona . Tale
doppia consegna è attestata espressamente da Dion.,. IV , 15 , verso il fine.
Parmi che in questo modo si possano conciliare le due opinioni contrarie del
MARQUARDT, Das privat leben der Römer, pag . 2 e quella del Voigt, Die XII
Tafeln, II, pagg. 6 e 83-84, quanto alla significazione primitiva dei vocaboli
manus, di mancipium e di familia. Cfr. in proposito il Longo, La mancipatio,
Firenze, 1887, pag. 5, nota 8 , ed il BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma
1888, pag. 100 , nota 1. 365 avere nelle classi l'appoggio dei proprii clienti,
dovranno dividere fra essi i proprii agri gentilizii, e fare a ciascuno
un'assegno di terra in proprietà quiritaria , che valga a farli ammettere in
una delle classi. Da questo momento viene solo più ad essere questione di
mancipium o di nec mancipium , perchè è solo il primo, che conta nel censo di
Servio Tullio , e se il medesimo non giunga ad una certa misura , altri non
potrà essere censito , che per il proprio capo (capite census ), o verrà ad
essere confinato nei proletarii, senza poter far parte delle classi e delle
centurie, in cui si raccoglie l'eletta del popolo romano, ossia coloro
(adsidui, locupletes) i quali avendo una terra di loro proprietà esclusiva, si
possono ritenere aver interesse alla difesa della patria comune. Si comprende
quindi l'affezione tenace, con cui il plebeo, ammesso a questa condizione nella
città , si attacca al proprio tugurio e al campicello, che lo circonda, perchè
è questo , che gli assicura una posizione giuridica , militare, economica per
sè e per i proprii figli , quando siano perve nuti ai diciasette anni; il che
spiega eziandio come il plebeo ami meglio di vincolare se stesso e la propria
figliuolanza col nexum , che di privarsi della sua piccola terra. 297. Noi
stentiamo naturalmente a ricostruire col pensiero tutte le conseguenze, che una
istituzione di questa natura può avere pro dotto sovra un popolo, come il
romano, in un momento storico , in cui la grande opera, a cui si intendeva, era
la formazione della ' città . Quando si pensi tuttavia , che trattavasi di un
popolo, il quale una volta ammesso un principio sapeva trarne tutte le
conseguenze di cui poteva essere capace, che possedeva una mirabile potenza,
che chiamerei di astrazione giuridica, la quale consiste nell'isolare l'ele
mento giuridico da tutti gli altri con cui trovasi intrecciato , e che questo
popolo fu costretto per secoli a misurare la propria posizione politica,
militare e tributaria attraverso il crogiuolo del censo , si pud in qualche
modo giungere a comprendere il punto di vista rigido ed esclusivo , a cui esso
fu costretto di collocarsi e le con seguenze , che possono esserne derivate
nella elaborazione del suo diritto . Ciò spiega intanto l'importanza immensa ,
che si diede per tutto il periodo dalla repubblica alla istituzione del censo ;
le cerimonie religiose, da cui esso era preceduto ed accompagnato ; le cure,
che pose nel medesimo lo stesso Servio , il quale, secondo la tradizione , ebbe
a farlo per ben quattro volte; le pene gravissime, cioè la vendita al di là del
Tevere, da lui stabilite contro coloro, 366 che non si fossero fatti iscrivere
nel censo (incensi) ; l'opportunità , che si senti più tardi di creare talvolta
un dittatore per la sola for mazione del censo , e di affidare poscia la
formazione del censo ad una speciale magistratura (censura), a cui potevano
esservene delle altre superiori in imperio , manessuna che fosse superiore in
dignità . Ciò spiega infine la singolare evoluzione, che venne ad avere in Roma
il concetto del censo, il quale negli inizii comincia dall'essere una
valutazione, che potrebbe chiamarsi puramente economica dei singoli capi di
famiglia , e poi finisce per cambiarsi in una specie di valutazione politica e
morale di tutti i cittadini. Cid infatti è comprovato dalla trasformazione, che
accade nel censore, che isti tuito dapprima per la materiale formazione del censo
, reputata in degna delle cure dei consoli, finisce per acquistare tale un
potere, da eleggere senatori, fare la ricognizione dei cavalieri, imprimere
note di ignominia su chi venga meno al pubblico o al privato co stume, prendere
le persone da una classe per confinarle in un altra, e trasportare a suo
beneplacito tutta una classe di popola zione dalle tribù rustiche alle urbane o
viceversa , e ad essere cosi l'arbitro sovrano della cooperazione effettiva ,
che i varii individui e le varie classi recano al benessere delle città . 298.
Infine è anche il censo , che serve di base alla classificazione del populus
nelle classi e nelle centurie. Non è già , come alcuni credettero , che coloro,
i quali non avevano un certo censo, non fossero contati ed iscritti a questa o
a quella tribù ; ina essi vi erano iscritti solo nel capo (capite censi),
oppure nella classe dei proletarii, la quale secondo Aulo Gellio , « honestior
aliquanto et re et nomine quam capite censorum fuit » . Gli uni e gli altri non
facevano di regola parte dell'esercito , perché né la repubblica avrebbe avuto
garanzia dell'interesse , che essi avevano a combattere per essa , nè essi
avrebbero avuti i mezzi per far fronte alle spese per il proprio equipaggio .
Quelli invece, che giungevano ad un certo censo appartenevano agli adsidui, per
l'assiduità appunto a compiere il loro ufficio civile e politico (munus), sia
pagando le imposte (ab asse dando), sia ubbidendo alla leva , sia per la sede
fissa , ove po tevano essere cercati e dove avevano i loro possessi
(locupletes) ( 1). (1) Il criterio , che servì a distinguere i varii ordini di
persone indicati coi voca boli di capite censi, proletarii, adsilui e
locupletes, si può ricavare sopratutto da Aulo GELLIO, XVI, 10. È pure lo
stesso Gellio, il quale ci attesta che la proprietà 367 I vocaboli di classi e
di centurie , ed anche il luogo, ove si riu nirono i comizii centuriati (Campo
Marzio ), il modo di convocazione di essi (per cornicinem ), e il vessillo
rosso inalberato sul Gianicolo o in arce durante le riunioni di questi comizii,
rendono verosimile il concetto stato svolto sopratutto dal Mommsen , che questa
riparti zione siasi presentata dapprima con un carattere principalmente
militare. Cið poteva anche essere opportuno per ovviare a quella opposizione
del patriziato e degli auguri, che aveva incontrato l'an tecessore di Servio ;
e sembra anche corrispondere all'intento , che si propone la comunanza serviana
, che è quella di provvedere so pratutto alla comune difesa . Egli è però
certo, che se la costituzione per classi e per centurie è negli inizii
organizzata per guisa da presentare l'aspetto di un esercito, essa è però in
condizioni tali da cambiarsi facilmente nell'assemblea di un popolo; perchè i
suoi quadri possono essere allargati in guisa da non comprendere solo un
esercito , ma tutta la popolazione di una città ( 1). 299. Ad ogni modo nel
loro primo presentarsi le classi e le centurie di Servio costituiscono un vero
esercito , di cui venne ad allargarsi la base , in quanto che nella sua composizione
più non si ha riguardo all'origine ed alla discendenza , ma unicamente al censo
. Nelle sue file possono essere compresi tutti i liberi abitanti del ter
ritorio di Roma, distribuito per quartieri o regioni, senza riguar tenuta in
conto nel censo era quella famigliare e privata, poichè egli parla di res,
pecuniaque familiaris, e dice che i proletarii si arrolavano nell'esercito solo
in caso di necessità , e che i capite censi vi furono solo arrolati da Mario
nella guerra contro i Cimbri o in quella contro 'Giugurta. Tutte queste
distinzioni poi fondate sul censo spiegano le espressioni di Livio, I, 42, che
dice il censo « rem saluberrimam tanto futuro imperio , e chiama Servio a
conditorem omnis in civitatem discriminis ordinumque, quibus inter gradus
dignitatis fortunaeque aliquid interlacet » . (1) Pur ammettendo col Mommsen,
Hist. rom ., I, cap. VI, e col Peluam , v° Rome, « Encych . Britann.., XX ,
pag. 731 che lo ha seguito, che l'ordinamento per classi e centurie, tanto più
se posto a raffronto con quello delle curie, avesse un carattere eminentemente
militare, non parmituttavia, che anche nei suoi inizii si possa escludere
affatto la sua attitudine alle funzioni civili. Ciò ripugna al carattere delle
istitu zioni primitive, le quali di regola hanno del civile e del militare ad
un tempo, ed alla circostanza, che mal si saprebbe comprendere comemaiuna base,
come quella del censo, non dovesse servire ad altro, che ad indicare il modo
con cui le varie classi aves sero ad equipaggiarsi. Del resto questo carattere
esclusivamente militare mal potrebbe conciliarsi con ciò che scrive Livio, I,
42: «tum classes centuriasque, et hunc ordinem ex censu descripsit, vel paci
decorum , vel bello » . 368 dare se essi entrino o non nelle antiche divisioni,
e senza più tenere conto delle formalità e delle cerimonie religiose proprie
delle riunioni esclusivamente patrizie. La sua unità è la centuria , che
nominalmente dovrebbe comprendere cento uomini; le centurie poi vengono ad
essere aggruppate in classi, che sono in numero di cinque, e che alcuni
vorrebbero collocate nell'ordine stesso della falange. Le centurie, che vengono
prime, sono composte dei più ricchi cittadini, che possono procacciarsi un
completo equipaggio indispen sabile per coloro, che primi debbono sostenere
l'urto del nemico . Esse in numero di 80 costituiscono la prima classe . Dopo
vengono le centurie della seconda e terza classe , in numero di 20 per ogni
classe , le quali sono già meno completamente armate, ma costituiscono con
quelle della prima classe la fanteria pesante. Ultime vengono le centurie della
quarta e della quinta classe, di cui quella composta di 30 e questa di 20
centurie , reclutate fra i cittadini meno ab bienti, e che serviranno come
fanteria leggiera. L'intiero corpo degli uomini liberi è poi diviso in due
parti eguali, cioè in un numero eguale di centurie di seniores (da 47 ai 60
anni), che costituivano l'esercito di riserva, ed un uguale numero di centurie
di iuniores (dai 17 ai 46 anni) per il servizio attivo . Ciascuno di questi
corpi viene cosi ad essere composto di 85 centurie (8500 uomini) ossia di
due legioni di circa 4200 per ciascuna, che costituiva appunto la forza normale
della legione consolare durante la repubblica. In sieme colle legioni, ma non
inchiuse con esse, vi erano 2 centurie di fabbri e di legnaiuoli ( fabri,
tignuarii) e 2 di suonatori di tromba e di corno (tibicines et cornicines ),
circa le quali non vi è accordo quanto alle classi a cui erano assegnate . Per
quello poi che si riferisce al censo richiesto per ciascuna classe , il
medesimo ci pervenne calcolato in assi, ma è probabile che nelle origini
dovesse essere valutato in iugeri (1) . (1) È abbastanza noto, che il censo per
la prima classe era di 100 mila assi, per la seconda di 75 mila, per la terza
di 50 mila, e per la quinta classe di 11,000 secondo Livio e di 12,500 secondo
Dionisio ; ma il difficile sta in determinare, se negli inizii la fortuna dei
cittadini non fosse piuttosto valutata in iugera , e in de terminare qual fosse
il valore dell'asse. Il MOMMSEN afferma come fuori di ogni dubbio , che
l'iscrizione alle varie classi era dapprima determinata dal possesso delle
terre , argomentando anche dalle denominazioni di adsidui e locupletes. Hist.
rom ., chap. VI. Di recente poi il Karlowa ha pur seguìta la stessa opinione e
ha rite nuto che il iugerum debba ritenersi rispondere a cinque mila assi,
cosicchè il patri monio della prima classe corrisponderebbe a 20 iugeri, quello
della seconda a 15 , 369 Intanto però in questa organizzazione militare del
populus con tinuano a tenere un posto distinto le centurie degli equites . Di
queste 6 ritengono ancora i vecchi nomi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi
et secundi, e sono ancora composte esclusivamente di patrizii. Esse quindi
stanno a parte, son determinate dalla na scita , e costituiscono i sex
suffragia ; poichè è da esse che si trae a sorte la centuria principium ,
quella cioè, che sarà chiamata a votare per la prima nei comizii centuriati. Ad
esse poi furono ag giunte da Servio altre 12 centurie, le quali sono reclutate
dai più ricchi ordini di cittadini, sia patrizii che plebei (1 ). Da questi
brevi cenni appare che , pur ammettendo il carattere essenzialmente militare di
questa organizzazione, basterà però sop primere nella centuria il limite di
100, per togliere alla medesima tutta la sua rigidezza militare, e per fare
entrare nei suoi quadri tutta la popolazione della città ; trapasso , che non
offrirà gravi diffi coltà quando si consideri la facilità, che è propria delle
organizzazioni primitive di passare dalle funzioni militari alle civili, e il
nessun scrupolo , che si fecero i Romani di mantenere costantemente il vo
cabolo antico, facendo anche entrare in esso un contenuto diverso da quello ,
che sarebbe indicato dal medesimo. Queste sono le istituzioni fondamentali di
Servio ; ora importa di vedere lo svolgimento storico , che esse ebbero a
ricevere e la con seguente influenza che esercitarono sul diritto pubblico e
privato di Roma. quello della terza a 10, della quarta a 5 iugeri , e quello
della quinta a 2 iugeri incirca , ritenendo con Livio, che il censo della
medesima ammontasse a soli 11,000 assi. Röm . R.G., I, pag . 69-70 . Sono a
vedersi, quanto al valore dell'asse, il WILLEMS, op . cit., pag . 58 e segg.,
dove son riassunte le diverse opinioni al riguardo , e il Voigt, Die XII Tafeln
, I, pag. 16 a 23. (1) Quanto agli equites e ai loro rapporti coi primitivi
celeres, richiamo volentieri i due recenti lavori del BERTOLINI, I celeres e i7
tribunus celerum , Roma, 1888, e del TAMAssia, I Celeres, Bologna , 1888. - Par
ammettendo col primo che gli equites non siano che uno svolgimento dei
primitiviceleres (p. 31) e col secondo che i celeres possano anche essere un
ricordo di qualche istituzione, che occorre presso tutti i popoli di origine
Aria (p. 19), continuo però a ritenere, che nell'ordinamento simmetrico della
primitiva città patrizia vi fosse una rispondenza fra i celeres, che
costituivano la corte militare del Re primitivo e il senato, che ne costituiva
il consiglio, donde quella correlazione, che per qualche tempo si mantenne fra
gli aumenti nel senato e quello degli equites , e la distinzione così del
senato come degli equites in decuriae. V. sopra, nº 191, pag . 233 e 234 . G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma. 24 - 370 - CAPITOLO II. Influenza della
costituzione Serviana sul diritto pubblico di Roma. 300. L'influenza della
costituzione Serviana sullo svolgimento, che ebbero le istituzioni politiche di
Roma, durante l'epoca repubbli cana, non può essere posta in dubbio , e non
mancano i lavori ché la posero in evidenza (1). Ne ebbero consapevolezza anche
i Romani, come lo provano le tradizioni, che attribuirono a Servio Tullio di
aver voluto abdicare per istituire due consoli annui, e che fanno ricorrere i
due primi consoli della repubblica ai commentarii di Servio Tullio, per
ricavarne le norme secondo cui dovevano adu narsi i comizii per centurie (2).
Le due tradizioni possono anche essere non vere : ma dimostrano ad ogni modo in
coloro, che le trovarono e le custodirono, la persuasione, che la costituzione
repubblicana metteva capo alle istituzioni serviane , e che, appena superato il
peri colo della tirannide, si dovette riprenderne lo svolgimento al punto
stesso , a cui era stato interrotto . Ad ogni modo se si tenga dietro alla
evoluzione storica , quale si rivela negli avvenimenti , si può affermare con
certezza , che le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo
repubblicano implicano uno svolgimento continuo e non mai interrotto dei
concetti informatori della costituzione patrizia , combinati perd e modificati
dalle istituzioni fondamentali della co stituzione serviana . 301. Fra queste
modificazioni è fondamentale e determina tutte le altre trasformazioni, che
derivarono dalla costituzione serviana, quella , in virtù della quale venne a
mutarsi nella sua stessa base il concetto del populus romanus quiritium .
Questa espressione (1) NIEBHUR , Histoire romaine, II, pag . 91 a 255; Huscke,
Die Verfassung der Königs Servius Tullius, Heidelberg, 1838; Maury, Des
événements qui portèrent Servius Tullius au trône. « Mém . de l'Acad. des
Inscript. et belles lettres » , année 1866, vol. 25, pag . 107 a 223: Herzog ,
Geschichte und System der römischen Staats verfassung, Leipzig , 1884 , I, § 5
, pag. 37 a 48 ; KarlowA, Röm . Rechtsgeschichte, I, SS 11, 12 , 13, pag. 64 a
85. (2 ) Liv., Hist., I, 48; I, 60. È però a notarsi, che queste tradizioni non
sono con fermate da Dionisio. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag . 242. - 371
infatti, che un tempo aveva indicato esclusivamente il popolo delle curie ,
venne secondo il metodo romano ad essere trasportata al popolo delle classi e
delle centurie, come lo dimostrano la denomi nazione di quirites , che d'allora
in poi è applicata appunto a tutti i membri del popolo delle centurie, non che
ai testimonii ricavati dal medesimo per gli atti di carattere quiritario
(classici testes ), ed è anche adoperata nelle formole di convocazione dei
comizii centuriati, stateci conservate da Varrone (1). Quanto ai membri delle
curie pri mitive essi, in quanto entrano nelle classi e nelle centurie, sono
anche compresinel vocabolo generico di quirites, ma in quanto hanno delle
proprie assemblee, in quanto ritengono per sè le magistrature, gli onori, gli
auspizii, i sacerdozii, in quanto insomma formano ancora un nucleo separato del
populus romanus quiritium , prendono il nome di patres o di patricii, come già
si è veduto discorrendo della patrum au ctoritas, della lex curiata de imperio
e dell'interrex (2 ). Mentre quindi prima i termini non erano che due, quelli
cioè di populus e di plebes ; dopo Servio i termini vengono ad essere tre, cioè
quello di patres o patricii, che indicano i primitivi fondatori della città , i
ritentori degli auspicia e dell'imperium ; quello di plebes, che designa l'elemento
, stato di recente ammesso nella medesima ; e quello infine di populus, che
comprende l'uno e l'altro elemento, sopratutto in quanto entra a far parte
delle classi e delle cen turie (3 ). In questo senso vuolsi ammettere col
Mommsen , che uno dei significati di populus sia stato quello di leva
plebeo-patrizia ; ma certo non può dirsi, che questa sia stata la
significazione primi tiva del vocabolo ; poichè nulla vi è di ripugnante al
processo ro mano , che la stessa parola abbia indicato prima la riunione degli
(1) Le formole di convocazione delle classi, conservateci da VARRONE, De ling .
lat., VI, 86 a 95 , sono riportate dal Bruns, Fontes, pag. 383 e segg. I
classici testes sono poi ricordati da Festo, pº classici, come testimoni
adoperati nei testa menti; ma è probabile che questo nome si estendesse a tutti
i testimonii dell'atto per aes et libram , di cui il testamento non era che
un'applicazione, come si vedrà a suo tempo al cap. IV , § 4 di questo libro.
(2) V. sopra, lib . II, nº 198 , pag. 240 e seg. e le note relative . (3) È
questo appunto il concetto di populus, quale appare più tardi anche nei
grammatici e nei giureconsulti. Aulo Gellio infatti, Noct. Att., X , 20,
attribuisce al giureconsulto Ateio Capitone di aver distinto il popolo dalla
plebe, « quoniam « in populo omnis pars civitatis , omnesque eius ordines
contineantur: plebes vera, ea < dicitur, in qua gentes civium patriciae non
insunt » , il qual concetto poi ricompare in GaJo, Comm ., I, 3 e ancora nelle
stesse Institut. di GIUSTINIANO, I, 2 . 372 uomini validi ed armati della tribù
gentilizia, poi il populus confe derato della città patrizia , e da ultimo il
popolo patrizio - plebeo della città serviana ( 1) . Questo populus intanto
perde in gran parte quel carattere reli gioso e patriarcale del popolo delle
curie, e assume invece il ca rattere, che è proprio di coloro, che entrano a
costituirlo ; viene cioè ad essere un popolo di capi di famiglia e di
proprietarii di terre , che da una parte sono uomini di arme e dall'altra sono
de diti alla coltura delle terre, e i quali si considerano come isolati da
tutti quei rapporti gentilizii, in cui possono trovarsi vincolati. I quiriti
dell'epoca serviana vengono ad essere considerati come indivi dualità
indipendenti e sovrane; hanno l'asta come simbolo del pro prio diritto ;
ritengono come proprie le cose sopratutto che riescono a togliere al nemico, ed
il loro potere appare senza confine cosi rispetto alle persone, che alle cose ,
che da essi dipendono ; donde le caratteristiche peculiari del ius quiritium ,
che viene formandosi in questo periodo, come cercherò di dimostrare a suo tempo
(2). 302. Modificato così il concetto del populus, cioè l'elemento es senziale
della costituzione primitiva, da cui escono tutti gli altri, era naturale , che
anche questi dovessero lentamente e gradatamente trasformarsi in correlazione
col medesimo. E così accade appunto del senato , il quale accompagnando lo
svolgimento lento e graduato della costituzione romana, comincia ad accogliere
fin dagli inizii della repubblica i principali dell'ordine equestre , i quali
per tal modo vengono ad essere conscripti coi patres , donde la formola patres
et conscripti , finchè più tardi esso viene a ricevere tutto l'elemento , che
siasi reso benemerito della repubblica, sostenendone degnamente le magistrature
e gli uffizii, o che abbia così quell'età e quell'esperienza, che valgono ad
assicurare la repubblica della au torità del suo consiglio (3 ). Cosi invece
non accadde del magistrato , poichè questo continud (1 ) MOMMSEN, Rötnische
Forschungen , I, pag . 168. (2 ) V. il cap. seg. in cui si discorre
dell'influenza della costituzione serviana sul diritto privato. (3 ) Le
trasformazioni introdotte nella composizione del Senato in base alla les Ovinia
che deferì ai censori la senatus lectio sono brevemente riassunte dal Lan
DUCCI, nel suo scritto sui Senatori Pedarië, Padova 1888, pagg. 7-8 , colle
note re lative. - 373 ancora per qualche tempo ad essere ricavato
esclusivamente dalla classe dei patrizii; donde la conseguenza, che è
sopratutto contro l'imperio dei consoli, che spiegansi le prime sedizioni della
plebe, le quali più non si arrestano fino a che la plebe non abbia ottenuta ,
anche nelle magistrature e nei sacerdozii, quella parte, che già aveva
conseguita negli altri aspetti della costituzione politica. Cið era na turale,
perchè non vi sarebbe stata coerenza in un organismo, in cui il popolo e il
senato già potevano essere tolti dai due ordini, che concorrevano a formarlo ;
mentre il magistrato poteva essere scelto in un ordine soltanto e quindi veniva
ad apparire piuttosto come un custode dei privilegii del patriziato, che come
un rappresentante imparziale del popolo . Di qui la conseguenza , che anche le
lotte, che vennero ad esservi fra patriziato e plebe, possono in gran parte
ritenersi determinate dalla costituzione serviana, come meglio sarà dimostrato
a suo tempo (1 ). 303. Mentre si avverano queste modificazioni negli organi
essen ziali della costituzione politica , e quindi si trasformano a poco a poco
le loro principali funzioni, che, come si è veduto , consistono nella
formazione delle leggi, nella elezione del magistrato e nella amministrazione
della giustizia , tutte le istituzioni serviane, che negli inizii erano
soltanto abbozzate, vengono prendendo tutto quello svol gimento , di cui
potevano essere capaci. Cid appare quanto al censo, il quale , come già si è
accennato, incomincia dal presentarsi come una valutazione economica dei cit
tadini, e poi cambiasi a poco a poco in una valutazione politica e morale dei
medesimi. Il punto di partenza viene ad essere quello di dare a ciascun
cittadino una parte di diritti e di obblighi, che sia proporzionata al suo
censo , mentre lo svolgimento posteriore conduce a dare ai singoli individui e
ai varii elementi del popolo una parte, che vorrebbe essere proporzionata alla
cooperazione, che essi recano al pubblico bene. Abbiamo quindi i magistrati
uscenti di ufficio, che somministrano il contingente per la formazione del
senato e poscia dell'ordo senatorius ; abbiamo gli equites , che perdono il
carat tere essenzialmente militare, che avevano nelle proprie origini, e
finiscono per formare un ordine distinto di cittadini, che chiamasi ordo
equestris , e costituiscono una specie di aristocrazia del censo , ( 1) V. il
cap . IV del presente libro, in cui si tratta appunto delle lotte fra il
patriziato e la plebe. 374 da cui esce poi la nuova nobiltà , la quale, dopo
aver lottato coll'an tica , finisce per confondersi con essa (1). Di qui la
conseguenza, che col tempo quel populus, che erasi formato, mediante la
riunione del patriziato e della plebe, finirà un'altra volta per subire un
nuovo dualismo, che è quello del partito popolare e del partito degli otti
mati. Queste però sono conseguenze remote dell'ordinamento ser viaño, fondato
sul censo, mentre è assai più facile tener dietro alle trasformazioni, che
subirono le centurie e le tribù introdotte col medesimo. 304. Le centurie
infatti, allorchè perdettero il loro carattere es senzialmente militare,
finirono per cambiarsi in altrettanti quadri, in cui potè essere compreso tutto
il popolo romano, che avesse rag . giunto certi limiti nel censo , il quale,
fissato dapprima in iugeri di terra, sembra essersi più tardi calcolato in una
somma di denaro. Si formarono così quei comisii centuriati, che ebbero tanta
impor tanza sopratutto nei primi secoli della repubblica, e che furono per
certo una delle assemblee meglio organizzate , che offra la storia politica dei
popoli civili. È tuttavia notabile, che anche in questa parte si conserva
sempre mai l'antico modello, per guisa che i con cetti informatori
dell'assemblea delle centurie sembrano essere tolti e trasportati da quella più
antica delle curie . Anch'essi quindideb bono essere preceduti da cerimonie
religiose, ed il magistrato , che li convoca in giorni prestabiliti (dies
comitiales), essendo investito degli auspicia , debbe prima investigare se gli
dei si dimostrino fa vorevoli alle deliberazioni, che debbono essere prese dai
comizii. Anche la precedenza nella votazione deve seguire l'antico costume, e
quindi precedono le sei centurie di cavalieri, le uniche cioè che rappresentino
ancora il patriziato primitivo, fondatore della città ; quindi è fra esse, che
chiamansi i sex suffragia , che viene tratta a sorte quella che dovrà essere la
centuria principium , il cui voto continua ad essere considerato come un
augurio (omen). Dopo aver così attribuita la debita parte alla nascita e ai
primi fondatori della città , viene il riguardo all'età , in quanto che i
seniores (dai 47 ai 60 anni) hanno in ogni classe un numero di centurie eguale
a quello dei iuniores (dai 17 ai 46 ), malgrado il numero certo maggiore di
questi ultimi, e le loro centurie negli inizii erano probabilmente le (1)
Queste trasformazioni sono accuratamente seguìte dal Madvig, L'État romain ,
trad. Morel, Paris 1882 , tome 1er, pag . 135 e segg. 375 prime chiamate a dare
il proprio voto . Viene poscia la considera zione del censo , in quanto che le
centurie, che votano per le prime sono, dopo le diciotto centurie degli
equites, quelle della prima classe e queste sono in numero tale, che se siano
concordi, possono da sole avere la maggioranza , senza che più occorra di
passare alla chia mata delle altre classi (1). Intanto perd nel seno di ogni
centuria ogni individuo ha il proprio voto, e tutti contano egualmente ; ma,
come già accadeva nelle assemblee curiate , l'esito definitivo dipende dalla
maggioranza delle centurie . Qui parimenti si presentano le distinzioni fra
comitia e contiones ; come pure dovette introdursi eziandio la distinzione fra
comizii propriamente detti e i comizii calati, in cui si compievano pei quiriti
i testamenti e le arroga sioni, ma questi non sembrano essere durati lungamente
, perchè erano una semplice imitazione dell'antico , senza che avessero lo
scopo dei comizii calati delle curie, che era quello di mantenere salda ed
integra anche nella città la primitiva organizzazione delle genti patrizie (2).
Così pure sopra i nuovi comizii, i padri, antichi fondatori della città ,
continuano ad esercitare una specie di prote zione e di tutela, sotto il nome
di patrum auctoritas, dalla quale i comizii centuriati riescono ad emanciparsi
soltanto molto più tardi (3 ). 305. Nella realtà però questa imitazione
dell'antico non impe disce che tutte le principali funzioni vengano a
concentrarsi nei co mizii centuriati. Sono essi infatti che votano le leggi
fondamentali dello stato , come le leggi Valerie-Orazie , la legislazione
decemvirale, le leggi Licinie Sestie, e da ultimo la legge Ortensia ; sono essi
parimenti, che nominano i magistrati maggiori, come i consoli, i pretori, i
censori, quei magistrati insomma, il cui potere può essere considerato come una
suddivisione di quell'imperium , che trovavasi un tempo con centrato nel re. Da
ultimo fu davanti alle centurie, che dovette essere interposta quella
provocatio ad populum , che un tempo pro ponevasi dinanzi al popolo delle curie
; il che spiega comeun ma (1) Sono queste gradazioni e distinzioni che fecero
dire a CICERONE , De leg., III, 19 , 44 : < descriptus enim populus censu ,
ordinibus, aetatibus plus adhibet ad suf « fragium consilii, quam populus fuse
in tribus convocatus » ; concetto che ripete con altre parole nel De rep., II,
22 . (2) L'esistenza di comizii calati, proprii delle centurie , è attestata
espressamente da Aulo Gellio, XV, 27, 1. ( 3) V. quanto alla patrum auctoritas
ciò che si è detto al nº 198, pag. 240 e segg. 376 gistrato annuo, come il
console, abbia finito per rinunziare a poco a poco a pronunziare condanne, da
cui poteva esservi appellazione al popolo , il quale venne cosi ad essere
direttamente investito della giurisdizione criminale ( 1) . Intanto si
comprende eziandio come la lotta fra i due ordini, finchè non furono ancora del
tutto pareggiati, abbia dovuto concentrarsi so pratutto nei comizii centuriati,
e come quindi il patriziato per assi curarsi una prevalenza nel seno delle
centurie, abbia dovuto dividere i proprii agri gentilizii fra i clienti, acciò
i medesimi potessero essere collocati nelle classi e possibilmente nella prima
di esse, la quale aveva una prevalenza sopra tutte le altre. Per talmodo la
disorganizzazione delle genti, che erasi già iniziata colla costituzione di
Servio , con tinud necessariamente collo svolgersi delle istituzioni da lui
intro dotte ; poichè quei clienti , che sotto l'impressione immediata del
benefizio ricevuto stavano ancora agli ordini dell'antico patrono, se ne
emanciparono ben presto , allorchè il censo loro assicurò una indipendenza ,
mediante cui poterono talvolta aggregarsi alla stessa plebe. Conviene tuttavia
riconoscere, che la plebe negli inizii del l'organizzazione per centurie male
poteva riuscire nella lotta contro un patriziato reso forte e numeroso mediante
l'appoggio dei proprii clienti. Di qui la conseguenza, che la plebe resa impotente
alla lotta nei comizii per centurie, dovette appigliarsi a riunioni che non
avessero più la loro base nel censo , ma bensì nel luogo di residenza e nel
numero. A tal uopo la plebe, guidata ed organizzata dai proprii tribuni, seppe
trarre profitto di un'altra istituzione ser viana , che è quella della tribù
locale, ricavando da essa uno svolgi mento , che probabilmente non doveva
essere nella intenzione di quegli, che l'aveva istituita . 306. La tribù nella
costituzione serviana non era che una ripar tizione locale , fatta in uno scopo
essenzialmente amministrativo, cioè per fare il censo , per fare la leva
militare e per ripartire i tributi. Essa però aveva il vantaggio su tutte le
altre ripartizioni, che mentre le curie non comprendevano dapprima che i
patrizii, e le centurie e le classi non accoglievano che i locupletes od
adsidui, le tribù invece comprendevano anche i proletari, i capite censi, gli
aerarii ; quindi in essa esisteva un germeessenzialmente democratico, (1) Cfr.
ciò che si è detto più sopra intorno alla provocatio ad populum nel pe riodo
regio, n ° 245 e 246 , pag. 299 e segg. 377 che non poteva mancare di svolgersi
col tempo. Era infatti naturale, che i tribuni della plebe, per radunare la
medesima, non potessero indirizzarle il proprio appello, che per tribù
(tributim ), e che quindi si facessero già in questa guisa quelle prime
riunioni, che appellavansi concilia plebis. Intanto le tribù, che avevano
dapprima un carattere essenzialmente locale e comprendevano realmente le
persone, che dimoravano in quel determinato quartiere, si cambiarono in effetto
in altrettanti quadri, in cui poterono essere compresi tutti i cittadini
romani, senza tener conto del sito effettivo , in cuiavessero la propria
residenza. Si avverò anche in questo , ciò che è accaduto in molte altre
istituzioni di Roma, che cominciano dall'avere una base reale nei fatti, ma col
tempo si cambiano in concezioni teoriche ed astratte, e in forme tipiche, in
cui può farsi entrare un contenuto, che nella realtà loro non potrebbe
appartenere . Per tal guisa la ripartizione delle tribù diventò la più
comprensiva di tutte; cesso quasi di essere locale per diventare personale ; la
indicazione della tribù entrò a far parte della denominazione stessa del
cittadino romano, e fu in tal modo, che essa potè riuscire di base alla più
democratica delle riunioni, che siasi conosciuta in Roma, che fu quella appunto
dei comizii tributi. Questi non hanno più il carattere militare dei co mizii
centuriati, ma hanno un'impronta essenzialmente cittadinesca ; si tengono
perciò nel foro e nei primitempi si riuniscono nei giorni di mercato, in cui la
plebe del contado ha occasione di convenire nella città (1 ). 307. Tuttavia
anche i comizii per tribù, allorchè entrarono nei quadri regolari della costituzione
politica , finirono per modellarsi sulle assemblee precedenti. Essi infatti ,
quando sono giunti al pieno loro sviluppo, sono anche preceduti dagli auspizii,
quando siano convocati da un magistrato , a cui questi appartengano, e sono
convocati solennemente dal medesimo, per mezzo degli araldi, in giorni, che non
saranno più chiamati comitiales, ma che debbono però essere nel novero dei dies
fasti. È analoga parimenti la pro cedura per la votazione, salvo che il voto si
dà per tribù, la prima delle quali viene ad essere tratta a sorte, e prende
anche il (1) È degno di nota a questo proposito il {passo diMACROBIO,
Saturnales , I, 16, $ 34, in cui, riferendosi ad uno scritto del giureconsulto
P. Rutilio Rufo , parla dei giorni dimercato, in cui « rustici, intermisso
rure, ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent » . Husche, Jurisp .
antijustin ., pag. 11. 378 nome di tribus principium . Nel seno poi di ogni
tribù il voto è dato viritim , e l'esito definitivo viene ad essere determinato
dalla maggioranza delle tribù . Questi comizii hanno però il vantaggio della
più facile convocazione , in quanto che possono essere convocati da magistrati
patrizii e da magistrati plebei, come i tribuni, al modo stesso che i
provvedimenti, che essi prendono, possono essere o vere leggi o semplici
plebisciti , secondo l'autorità che li propone (1) ; il che spiega come i
comizii tributi si siano gradatamente cambiati nell'organo legislativo più
operoso nell'ultimo periodo della repub blica . Mentre essi infatti richiamano
a sè la sola elezione dei magi strati minori, e la giurisdizione per i reati
punibili con sole pene (1) Per lo svolgimento pressochè parallelo dei comizii
centuriati e dei comizii tri buti mi rimetto a ciò che ho scritto più sopra al
n ° 224 , pag. 273 e segg. e per il pareggiamento che venne facendosi fra le
leggi ed i plebisciti ai numeri 231, 232 e 233, pag. 281 e seg . Solo mi limito
ad aggiungere che negli ultimi tempi dagli stessi comizii tributi potevano
emanare vere leggi, allorchè erano convocati da veri magistrati, come consoli e
pretori, oppure plebisciti , allorchè erano convocati da tri buni della plebe.
Trovo una prova di ciò paragonando le intestazioni di due leggi riportate dal
Bruns. L'una è la lex agraria del 643 dalla fondazione di Roma, la cui
intestazione è così concepita : « tribuni plebei plebem ioure rogarunt,
plebesque ioure scivit » , sebbene in tale occasione abbiano preso parte alla
votazione anche i patrizii come lo dimostra il fatto, che ivi si aggiunge : «
Tribus principium fuit , pro tribu Q. Fabius, Q. filius, primus scivit » , il
quale Fabio dovette probabilmente essere un patrizio della gens Fabia (Bruns,
Fontes, pag., 72). L'altra legge invece è la les Quinctia, de aqueductibus,
dell'anno 745 di Roma, che è così intestata : « T. Quinctius Crispinus populum
iure rogavit, populusque iure scivit, in foro pro rostris Aedis divi Iulii
pridie K. Iulias. Tribus Sergia principium fuit ; pro tribut Sex ... L. F.
Virro primus scivit » . Bruns, Fontes, pag. 112. — Diqui infatti appare ad
evidenza, che quando la convocazione parte dal tribuno della plebe parlasi di
plebes e di plebiscitum , ancorchè la riunione comprenda anche i patrizii :
mentre quando trat tasi di convocazione fatta dal console esso chiama ai
comizii tributi il populus e il provvedimento emanato viene così ad essere un
populiscitum , ossia una lex nel senso primitivo dato a questo vocabolo. La
cosa è pur confermata da quella parte, che ci pervenne della intestazione alla
lex Antonia, de Tarmessibus, dell'anno 683 di Roma, in cui la riunione dei
comizii tributi, essendo provocata dai tribuni della plebe, ancorchè in base ad
un parere dato dal senato (de senatus sententia) parlasi perciò di convocazione
della plebes e quindi di plebiscitum (Bruns, Fontes, p. 91). In questo periodo
quindi tanto le leges quanto i plebiscita emanano da comizii tributi e la loro
differenza deriva dall'essere l'iniziativa presa da un vero magistrato
(console, pretore) che convoca il popolo, o da un tribuno della plebe, che
convoca invece la plebe, sebbene anche in queste ultime riunioni intervengano
anche i patrizii. Viene così ad essere vero ciò che dice Pomponio , che « inter
plebiscita et leges species constituendi interesset, potestas autem eadem esset
» . L. 2, 8 , Dig . 1, 21. - - - 379 pecuniarie, finiscono invece per assorbire
tutto il potere legislativo . È a notarsi tuttavia , che mentre la legislazione
dei comizii centu riati aveva avuto un carattere specialmente politico e
costituzionale, perchè è con essa che si vennero pareggiando gli ordini, quella
in vece , che usci dai comizii tributi, ha un carattere eminentemente sociale,
e in parte già si riferisce ad argomenti di diritto privato (1). 308. Si può
quindi conchiudere, che la costituzione serviana per vade le istituzioni politiche
di Roma per tutto il periodo repubblicano. I concetti della medesima cominciano
dall'avere una base nella realtà , ma finiscono per cambiarsi in altrettante
costruzioni logiche, a cui si dà tutto lo sviluppo, di cui possono essere
capaci. In questa guisa il censo di economico divien morale , le centurie di
militari si con vertono in politiche, le tribù di ripartizioni locali mutansi
in quadri, in cui tutta la cittadinanza può essere compresa , per quanto la me
desima dimori eziandio fuori della città . Per tal modo la costitu zione di
Servio Tullio , al pari delle mura che ne portano il nome, poté bastare a tutti
gli incrementi e a tutte le trasformazioni, che Roma ebbe a subire per parecchi
secoli, e per tutto quel tempo, in cui essa tenne ancora in pregio le antiche
virtù ed istituzioni. Vero è , che le forme esteriori sembrano sempre essere
foggiate su quelle, che erano prima adoperate ; ma conviene dire che « spiritus
intus alit » , e che questo nuovo alito spira per modo entro le forme an tiche,
da far loro capire un contenuto ben diverso dal primitivo, e da spezzarle
anche, quando siano diventate disadatte, nel qual caso però se ne foggiano
delle nuove, ma sempre sul modello delle an tiche. Questo è il magistero, che
Roma seguì costantemente nello svol gimento delle proprie istituzioni
politiche. Un analogo processo ap pare anche più evidente nella elaborazione
più lenta e graduata , che ebbe a ricevere il diritto privato di Roma , sovra
il quale la costituzione serviana ha certamente esercitata una influenza di
gran lunga maggiore di quella che soglia essergli attribuita, come spero di
poter dimostrare nel seguente capitolo. ( 1) Quanto alla legislazione comiziale
e ai caratteridella medesima, cfr. FERRINI, Storia delle fonti del diritto
romano, Milano, 1885, pag. 9-16 . 380 CAPITOLO III. La costituzione serviana e
la sua influenza sull'elaborazione del ius Quiritium . 309. Se fu agevole il
mettere in rilievo gli effetti della costitu zione serviana sul diritto
pubblico di Roma, non può dirsi altrettanto della influenza tacita , ma non
meno importante , che essa esercito sulla elaborazione del diritto privato . A
questo proposito poco o nulla ci dicono gli storici, come quelli che
naturalmente si arrestarono alle mutazioni più appariscenti, che si erano
avverate nelle istituzioni politiche. Solo Dionisio si limita a dire di Servio
, che egli pubblico ben cinquanta leggi sui delitti e sui contratti ; che egli
distinse i giudizii pubblici dai privati ; e che prese anche dei provvedimenti
a favore dei debitori, senza però ricordare il contenuto preciso dei medesimi
(1). La probabilità ed anche la necessità di una legislazione all'epoca
serviana non può certo essere negata, non potendo essersi avverata una
trasformazione cosi profonda nell'organizzazione civile e politica, senza che
si riflettesse eziandio nel diritto privato . Tut tavia è certo , che le
mutazioni nel diritto privato non dovettero tanto operarsi per mezzo di leggi,
quanto piuttosto mediante quella tacita elaborazione di un diritto comune alle due
classi, che era la naturale conseguenza dei nuovi rapporti , in cui esse
venivano a trovarsi. È quindi negli scritti dei giureconsulti, che si devono
cer care le reliquie delle istituzioni scomparse, e in essi sono sopratutto a
cercarsi quelle distinzioni, quei concetti, quegli atti simbolici, che
sopravvissero ancora in epoche, in cui più non se ne comprendeva il significato
, e che possono in qualche modo rannodarsi al concetto informatore della
costituzione serviana. Sono le hastae, le vindictae, i procedimenti simbolici,
gli atti per aes et libram , i concetti primi tivi del caput, della manus, del
mancipium , la distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, tutti
quei concetti insomma, (1) Dron., IV, 10, 13, 25. Quanto ai debitori Dionisio,
IV , 9 , 11, attribuisce a Servio di aver perfino pagato del proprio i
creditori, e di aver voluto che i beni e non la persona del debitore fossero
vincolati al creditore; ma ciò forse non è che un effetto di quella tendenza ,
che fa riportare a Servio tutti i provvedimenti, che potevano apparire
favorevoli alla classe servile ed alla plebe. 381 di cui ignorasi la vera
origine e che sono sopravvivenze di un'e poca anteriore, che possono servire
come materiali per la ricostru zione del primitivo diritto . Gli è soltanto col
ricomporre insieme tutti questi rottami, che spargono talvolta dei vivi sprazzi
di luce , quando siansi collocati nel sito , ove debbono trovarsi, e coll'avere
presente il carattere del popolo , le sue istituzioni politiche , il suo metodo
di serbare i vocaboli , cambiandone anche il contenuto , ed il criterio
informatore della riforma serviana, che si pud riuscire a ricostituire il
diritto privato, che dovette iniziarsi in questo periodo, se non nei
particolari minuti, almeno nelle sue linee generali e nella logica
fondamentale, da cui dovette essere percorso . 310. Fu questo paziente lavoro
di ricomposizione, che mi mette in condizione di porre innanzi a questo
proposito una congettura , la quale a prima giunta potrà apparire ardita, ma che
risulterà sempre meglio comprovata, a misura che , procedendo innanzi, tutte le
reli quie, che ci pervennero, dell'antico diritto , finiranno per prendere
senza sforzo quel posto, che loro compete, e ci porgeranno cosi una spiegazione
naturale, logica e verosimile dei caratteri primitivi del medesimo. La
congettura sta nell'affermare, che almodo stesso che con Servio Tullio si
posero le basi della Roma storica, e si formd quel populus romanus quiritium ,
che riempi poi la storia del racconto delle proprie gesta, così fu eziandio da
quel punto, che dovette iniziarsi la vera e propria elaborazione di quel ius
quiritium , che fu ilnucleo primitivo di tutto il diritto privato di Roma, e
che quest'ultimo, malgrado il posteriore suo svolgimento , non perdette più mai
quella speciale impronta, che ebbe ad assumere sotto l'influenza della costi
tuzione serviana . Non si vuole già dire con ciò, che prima non vi fossero i
quirites ed un ius quiritium ; ma quelli non comprendevano che i membri delle
curie, e questo indicava il complesso delle istituzioni di carattere gen
tilizio , che erano proprie del popolo delle curie , e che perciò avevano
ancora un carattere pressochè feudale e patriarcale (1). Con Servio (1) Cid
parmi abbastanza dimostrato dall'analisi, che ho fatta della legislazione
attribuita ai Re nel periodo della città esclusivamente patrizia, dalla quale
risulta che la famiglia , la proprietà , il delitto e le pede continuavano
ancora in parte a conservare quei caratteri, che avevano nel periodo gentilizio.
V. sopra lib. II, cap. IV, 88 5 e 6, pag . 329 e segg. 382 Tullio invece
incomincia l'elaborazione di un diritto comune ai due ordini, e siccome i
medesimi, riuniti nelle classi e nelle centurie , prendono il nome di quirites
, così incomincia la formazione di un vero e proprio ius quiritium , in cui i
vocaboli e le forme proprie del diritto formatosi nei rapporti fra le genti
patrizie e la popo lazione di condizione inferiore , da cui esse erano
circondate , ven gono a ricevere una nuova significazione, e ad essere
applicati ai rapporti , che erano l'effetto della nuova condizione di cose . Si
conservano pertanto ancora i vocaboli di manus per indicare nel loro complesso
i poteri, che appartengono al quirite, quale capo di famiglia e come
proprietario di terre ; quello di nexum per indicare l'obbligazione di
carattere quiritario ; quello di mancipium per in dicare il complesso delle
cose e delle persone, che dipendono dal quirite: ma intanto questi vocaboli ,
che dapprima designavano il diritto proprio della classe superiore di fronte
alle popolazioni vas salle, da cui era circondata , vengono a significare i
concetti pri mordiali del vero ius quiritium , comune alle due classi, e si
mutano in altrettante concezioni logiche ed astratte, in cui può farsi entrare
un nuovo contenuto. A quel modo insomma che colla formazione della città
patrizia quei concetti di connubium , di commercium e di actio , che prima si
erano spiegati nei rapporti fra le varie genti, vennero invece a governare dei
rapporti fra quiriti, e cambiandosi così in concetti quiritarii furono il punto
di partenza di altret tante istituzioni proprie dei quiriti (ex iure quiritium
) (1) ; così quel ius nexi mancipiique, che prima governava i rapporti fra i
padri della gente patrizia e la plebe circostante, per l'accoglimento di
quest'ultima nel populus romanus quiritium , venne a cam biarsi eziandio in una
istituzione di carattere quiritario . Fu in questa guisa, che accanto a quella
parte del diritto quiritario, che si ispira ad un'assoluta uguaglianza fra i
capi di famiglia, fra i quali intercede, se ne presenta un'altra , che tradisce
l'inferiorità di con dizione di una delle classi, che entró a costituire il
populus, alla qual parte appartengono appunto i concetti del nexum , del manci
pium , della manus iniectio (2). 311. Si aggiunge che il contenuto di questi
concetti viene anche (1) Questo è ciò che ho cercato di dimostrare più sopra al
nº 266, p. 326 e segg . (2 ) Cfr. a questo proposito ciò , che si è detto
intorno alla condizione giuridica della plebe, anteriormente alla sua
ammessione nella città, al n ° 287, pag. 351 e seg. 383 a risentirsi delle
circostanze sociali , in cui essi vennero a consolidarsi. Siccome quindi il
concetto ispiratore di tutta la riforma ser viana consisteva nel censo, quale
misura e stregua dei diritti, che appartengono ai quiriti, cosi il censo venne
in certo modo ad essere un crogiuolo , che servi ad isolare l'elemento
giuridico e politico di questi varii istituti dagli elementi di carattere
diverso con cui trovasi confuso . Il diritto perdette cosi alquanto del suo
carat tere religioso e venne invece ad esseremodellato in modo rozzo o
sintetico sul concetto del mio e del tuo ; esso inoltre assunse un'im pronta di
rigidezza pressochè militare , quale poteva convenire ad un popolo , che
presentavasi nell'atteggiamento di un esercito, i cui membri riguardavano
l'asta come simbolo del proprio diritto , e « ma xime sua esse credebant, quae
ab hostibus caepissent » . Il censo viene in certo modo a misurare il
contributo , che ciascuno reca in questa specie di società , e quindi, mentre
esso è la stregua per giudicare dell'interesse, che ciascuno ha nella medesima,
serve anche per determinare la parte, per cui ciascuno deve contribuire alla co
mune difesa. Il popolo romano venne così a compiere collettivamente quel
lavoro, che dovrebbe fare anche oggi il giureconsulto per con siderare le
persone sotto il punto di vista esclusivamente giuridico , facendo astrazione
da tutti gli altri aspetti, sotto cui esse potreb bero essere considerate . Per
tal modo il quirite , come tale, non è più nè patrizio nè plebeo , ma viene ad
essere isolato da tutti i suoi rapporti gentilizii ; si considera come un caput
; conta come uno nel censo , e compare nel medesimo, in quanto unifica in sè le
per sone e le cose, che da esso dipendono . Di qui l'immedesimarsi dei diritti
di famiglia e di proprietà , che è il carattere più saliente del primitivo ius
quiritium , e la significazione comprensiva e sintetica dei vocaboli in esso
adoperati, che lo indicano ad un tempo come capo di famiglia e quale
proprietario di terre, ed hanno in certo modo l'apparenza di altrettante
rubriche , che esprimono disgiuntamente i varii atteggiamenti sotto cui il
quirite può essere considerato (1). ( 1) Ritengo che questo sia il solo modo
per spiegare in modo plausibile quel ca rattere peculiare al diritto primitivo
di Roma, per cui persone e cose, proprietà e famiglia sembrano confondersi ed
immedesimarsi insieme. Non è sostenibile infatti, che i Romani a quest'epoca confondessero
il diritto del marito sulla moglie e del padre sui figli con quello del
proprietario sopra una cosa ; ma siccome persone e cose figuravano nel censo,
come dipendenti dal medesimo caput, così esse al punto di vista giuridico
comparvero dapprima come se entrassero a far parte del medesimo mancipium o
della stessa familia . 384 - 312. Sarebbe naturalmente difficile trovare un
autore, che accenni a questa tacita elaborazione , ma la medesima risulta da
diverse circostanze , le quali insieme riunite provano che tale ha dovuto
essere il processo logico, che domino la formazione del ius quiri tium
all'epoca serviana. Così, ad esempio, noi sappiamo dal Momm sen , che una delle
significazioni più certe dell'espressione « populus romanus quiritium » è stata
quella di indicare la « leva patrizio plebea » , leva che ha cominciato appunto
ad effettuarsi in quest'e poca (1). Noi sappiamo parimenti, che da quest'epoca
cominciarono ad essere lasciate in disparte le espressioni di iura gentium , di
iura gentilitatis, di ius gentilicium , che dovevano essere ancora frequenti
durante l'epoca patrizia, e che presero invece il sopravvento le espressioni di
ius quiritium , e di potestà spettante al cittadino ro mano ex iure quiritium .
Cosi pure non vi ha dubbio , che le altre forme di proprietà non vengono più
tenute in calcolo, ma si tien conto invece del solo mancipium , che vedremo a
suo tempo essere stata il primo nucleo della proprietà ex iure quiritium ,
quello cioè che doveva essere valutata nel censo per commisurarvi la posizione
del cittadino (2). Intanto la espressione di quirites entra nell'uso co mune :
come serve per le formole di convocazione delle classi e delle centurie, così
serve per indicare i testimonii, che si adoperano negli atti di carattere quiritario
(classici testes). È da questo punto pa rimenti, che l'asta viene ad essere
l'emblema del diritto quiritario , che il populus assunse un carattere
essenzialmente militare, nè può ritenersi inverosimile la congettura, che a
quest'epoca rimonti il centumvirale iudicium , tribunale essenzialmente
quiritario, la cui competenza era appunto indicata dall'asta , che si infiggeva
davanti al medesimo ( 3). Infine fu certamente una conseguenza di questo (1)
MOMMSEN, Röm . Forschungen , I, pag. 168. (2) Quanto allo svolgimento del
concetto di mancipium , e alla conseguente distin zione delle res mancipii e
nec mancipii mi rimetto al seguente lib. IV , cap. II, S $ 1°, 4º, 5º. (3)
L'origine del centumvirale iudicium è una delle questioni più controverse nella
storia del diritto primitivo di Roma, nè io pretendo qui di risolverla . Per
ora mi limito a notare, che per me ha molta significazione quel passo di Gajo :
« festuca « autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii ,
quod maxime sua « esse credebant, quae ab hostibus caepissent ; unde in
centumviralibus iudiciüs hasta « praeponitur » . Parmi infatti di scorgervi un
nesso, se non storico , almeno logico, fra l'epoca in cui il quirite appare
come un uomo di guerra, armato di asta,disposto a chiamar suo ciò , che
conquisterà sul nemico, e l'istituzione del centumvirale iudi 385 speciale
punto di vista , sotto cui i quiriti vennero ad essere con siderati, che fra i
diversi negozii giuridici, che potevano essere in uso , venne facendosi la
scelta di quelli, che si riferissero direttamente al diritto quiritario . Di
qui le espressioni di legis actiones, di actus legitimi, di iudicia imperio
continentia , di negozii , che si com pievano secundum legem publicam ,
espressioni tutte , che noi tro viamo anche più tardi, ma la cui origine
dovette rimontare a quel momento storico , in cui il diritto quiritario
cominciò a consolidarsi, come diritto comune al patriziato ed alla plebe. Che
anzi fu anche in quest'occasione, che dovette modellarsi quell'atto quiritario
per eccellenza, che è l'atto per aes et libram , il quale serve in certo modo
per attribuire autenticità a tutti gli atti, che possono modifi care in qualche
modo la posizione giuridica del cittadino nella comunanza quiritaria . 313. Per
verità basta porre l'istituzione del censo, come base di partecipazione alla
vita giuridica, e politica e militare di una comu nanza, per comprendere come
per l'attuazione di un tale concetto fosse indispensabile : lº di determinare
quali fossero le persone, che dovevano contare nel censo (caput); 2° di isolare
la parte del pa trimonio , che è tenuta in calcolo nel censo (mancipium ) da
tutte le altre (nec mancipium ) ; 3º di determinare le forme pubbliche cium .
Ora se vi ha epoca in cui il quirite assuma decisamente questo carattere di
uomo di guerra , questa è certamente l'epoca serviana ; e quindi è a
quest'epoca che deve rimontare il concetto informatore dell'hasta , della
festuca, dell'actio sacra mento, in cui questa si adopera, e del centumvirale
iudicium , che deve essere appunto preceduto dall'actio sacramento, e avanti
cui trovasi infissa l'asta simbolo del giusto dominio. La grave questione fu di
recente presa in esame dal MUIRHEAD, Histor . Introd ., pag. 74, il quale
sembra rannodarsi all'opinione del Niebhur, II, pag. 168, seguita poi dal
KELLER e da molti altri, che riporta all'epoca serviana l'istituzione dei
centumviri. Questa opinione invece è ora vigorosamente combattuta dal WLASSAK ,
Römische Processgessetze, Leipzig, 1888, pag . 131 a 139, il quale verrebbe
alla conclusione, che l'istituzione dei centumviri non abbia preceduto di molto
la lex Ae butia, la quale secondo lui deve essere assegnata al principio del
sesto secolo di Roma. Se con ciò egli intende di sostenere, che non abbiamo una
prova diretta , che l'esistenza dei centumviri rimonti ad epoca anteriore, egli
è certamente nel vero ; ma ciò non basta per escludere, che l'istituzione
potesse già esistere prima, senza che a noi ne sia pervenuta notizia . È poi
incontrastabile, che essa porta in sè un carattere di antichità remota , e che
i simboli, da cui è circondata e la procedura da cui è proceduta, ci riportano
a quella concezione essenzialmente militare del popolo romano, che rimonta
appunto all'epoca serviana . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 25 386 -
e solenni, mediante cui questa proprietà potesse essere trasmessa, e che
servissero ad attestare qualsiasi modificazione potesse soprav venire nella
condizione giuridica del caput (atto per aes et libram ); 4º di richiedere, che
questi atti, i quali influissero sulla posizione del quirite, fossero compiuti
coll'intervento di un pubblico ufficiale (libri pens) e colla testimonianza di
persone, che appartengano alla stessa comunanza (classici testes); 5 ° E infine
di introdurre eziandio una procedura , che debba essere di preferenza seguita
nelle controversie di diritto quiritario (actio sacramento ), ed anche un
tribunale per manente, composto esso pure di persone tolte dalle classi e dalle
centurie, per risolvere le questioni relative al diritto stesso (cen tumvirale
iudicium ) . Non può certamente sostenersi, che tutte queste istituzioni, che
poi si incontrano effettivamente nell'antico diritto romano, possano tutte
rimontare alla stessa costituzione serviana ; ma si può almeno affermare con
certezza, che esse erano una conseguenza logica del concetto informatore della
medesima. Spiegasi in questo modo come mainel diritto di Roma trovinsi sen
z'altro costituita e formata una quantità di istituzioni, in cui si ac centua
il carattere quiritario , e come queste acquistino un carattere prevalente e
preponderante, mentre le istituzioni di carattere genti lizio sembrano per il
momento essere lasciate in disparte. Spiegasi parimenti come il mancipium siasi
distinto dal nec mancipium ; come l'espressione pressochè militare di mancipium
sia sottentrata a quella gentilizia di heredium ; come diversi siano i modi per
la trasmissione delle res mancipii, e di quelle che non sono tali ; come i
diritti del quirite compariscano in certo modo come illimitati e senza confine,
poichè egli, essendo isolato dall'ambiente, in cui prima si trovava, viene ad
essere riguardato come un'individualità sovrana ed indipendente. Intanto si
comprende eziandio come pochi siano i concetti e le istituzioni del diritto
quiritario , e come esso non governi dapprima tutti i rapporti giuridici, anche
fra i cittadini ro mani; poichè intorno ad esso perdurano sempre le istituzioni
gentilizie del patriziato ed anche le consuetudini della plebe. Questo ius
quiri tium insomma rappresenta quella parte di quel ricco materiale giu ridico
, che era posseduto dalle genti patrizie, fluttuante sotto forma
consuetudinaria, che primo riusci a precipitarsi ed a cristallizzarsi, e a
diventare comune al patriziato ed alla plebe, in quanto facevano parte del
populus romanus quiritium . Siccome poi esso venne a consolidarsi fra due
classi , che prima erano in condizioni compiuta 387 > mente diverse, così in
questo periodo della sua formazione dovette maggiormente irrigidirsi e prendere
le mosse da certi concetti, come quelli del nexum , del mancipium , della manus
iniectio , che eransi prima formati nei rapporti della classe superiore con
quella inferiore. 314. Le cause intanto, che a parer mio possono aver
determinata questa singolare formazione del ius quiritium , che doveva poi eser
citare tanta influenza sull'avvenire della giurisprudenza romana, debbono
essere cercate nel carattere peculiare della costituzione serviana, e nello
svolgimento che seppe dare alla medesima il genio eminentemente giuridico del
popolo romano. Prima fra esse è la costituzione serviana , in virtù della quale
all'organizzazione essenzialmente patrizia di Roma primitiva sottentra
un'organizzazione novella , in cui entrano cosi i patrizii come i plebei nella
doppia qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre . Siccome infatti
la famiglia e la proprietà privata erano l'uniche istituzioni, che erano comuni
alle due classi, così esse solo potevano essere di base alla partecipazione
nella stessa comunanza . Quindi un primo effetto logico ed inevitabile di
questa speciale condi zione, in cui si trovò collocato il popolo dei quiriti,
venne ad es sere questo , che al punto di vista giuridico si fece astrazione da
quelle istituzioni intermedie , che si frapponevano fra la famiglia ed il
popolo , quali erano le genti e le tribù primitive. Sia pure che queste
istituzioni continuino ad esistere nel patriziato ; ma in tanto l'elemento
gentilizio viene ad essere escluso dal ius quiritium nello stretto senso della
parola , in quanto che di fronte al censo più non vi sono che capi di famiglia,
riguardati come liberi disposi tori delle proprie cose . Quasi si direbbe, che
la vita giuridica si ri tira dalle istituzioni intermedie, e viene invece a
riunirsi più potente e concentrata nelle due istituzioni estreme, le quali
vengono cosi ad irrigidirsi, come il diritto da esse rappresentato, per guisa
che la famiglia e il suo patrimonio si cambia nel mancipium del proprio capo,
ed il populus assume un carattere essenzialmente militare . Quella distinzione
pertanto fra res publica e res familiaris, che già aveva cominciato a
delinearsi fin dapprincipio , ora viene ad accentuarsi in modo più vigoroso e
potente; poichè tutti i gruppi intermedii vengono in certa guisa ad essere
soppressi al punto di vista della costituzione serviana. Parimenti siccome
l'intento di questo associarsi di elementi, fra cui intercedevano così gravi
differenze , era quello della comune difesa , e forse anche quello dell'offesa
e della conquista dei terri 388 torii vicini, così il nuovo popolo non poteva a
meno di assumere un carattere essenzialmente militare, che doveva riflettersi
eziandio nel suo diritto privato. Infine tutto ciò che riferivasi al connu bium
, al culto gentilizio , agli auspizii, continuava anche dopo la costituzione
serviana ad essere esclusivamente proprio del patriziato : quindi i soli atti,
che potessero essere comuni ai due ordini, dove vano essere atti di carattere
mercantile , quale era appunto l'atto per aes et libram , il quale viene così a
ricevere molteplici e sva riate applicazioni, e ad essere la forma
fondamentale, intorno a cui si aggirano tutti i negozii di carattere quiritario
. A queste considerazioni deve aggiungersi quella del genio emi nentemente
giuridico del popolo romano, il quale nella elaborazione del proprio diritto
seppe spingere fino alle sue ultime conseguenze lo speciale punto di vista , a
cui si era collocata la costituzione serviana. Questo è certo , che per
l'elaborazione giuridica presen tavasi mirabilmente atto questo considerare i
capi di famiglia come altrettanti capita , ed il complesso dei loro diritti
come un manci pium , ossia come una questione di mio e di tuo. Era soltanto in
questa guisa , che ai rapporti fra i diversi membri della comunanza poteva
essere applicata quella iuris ratio , elaborazione propria del genio romano,
mediante cui l'elemento giuridico viene ad isolarsi da tutti gli elementi
affini. Fu questo il processo , mediante cui il diritto potè essere sottoposto
a quella logica astratta , per cui le per sone perdono in certa guisa ogni
personalità concreta e diventano dei capita ; le fattispecie si riducono ad una
selezione di tutto cid che possa esservi di strettamente giuridico nei fatti
umani; e le isti tuzioni giuridiche appariscono come altrettante costruzioni
geome triche, i cui elementi possono essere scomposti, e ricevere cosi un
proprio svolgimento. Il momento appunto, in cui questa logica si presenta più
rigida , più esclusiva , fu certamente l'epoca serviana , perchè in essa i
membri della comunanza non potevano considerarsi, che sotto l'aspetto del mio e
del tuo, e quindi dovevasi in ogni argomento procedere numero, pondere
acmensura e attribuire ad ogni diritto le forme accentuate e prominenti del
diritto di proprietà. 315. Si potrà forse osservare, che questa specie di
astrazione giu ridica mal si può comprendere in un popolo primitivo , quale sa
rebbe il Romano. È però facile il rispondere, che una parte di esso non poteva
chiamarsi del tutto primitiva, dal momento che aveva attraversato tutto un
lungo periodo di organizzazione sociale, ed aveva 389 fatto tesoro delle
tradizioni del medesimo. Ma vi ha di più , ed è che senza un'astrazione di
questo genere era impossibile la formazione di una comunanza, come quella dei
quiriti. Questi sono certamente uomini reali, ma in quanto entrano nella
comunanza sono riguardati soltanto come capi di famiglia e come proprietarii di
terre. Il quirite pertanto è esso stesso un'astrazione, come sono astrazioni e
costruzioni logiche tutti i diritti, che al medesimo appartengono. Ciò fa sì,
che ad esso può applicarsi quella logica geometrica e precisa , che nel suo
genere non è meno meravigliosa di quella, che i Greci applica rono ai concetti
del vero, del bello e del buono. I Romani procedono bensì in base alla realtà ,
ma hanno anch'essi una potenza specula tiva e di astrazione, per cui isolano
l'elemento giuridico dagli elementi affini, e per tal modo riescono a costruire
un edifizio logico e dia lettico in tutte le sue parti , le cui linee son
dissimulate nelle parti colari fattispecie, ma che certo esiste nella mente dei
giureconsulti. È l'ignorare questa dialettica latente , che ci rende così
difficile il ricom porre le dottrine dei giureconsulti classici, e a questo
proposito sono altamente persuaso , che questa dialettica non può essere
sorpresa che alle origini del diritto quiritario . Posteriormente infatti il
numero infinito dei particolari colla sua stessa varietà e ricchezza rende im
possibile di comprendere l'ossatura primitiva dell'edifizio , mentre la sintesi
primitiva del diritto quiritario , le cause che ne determina rono la
formazione, e la logica, che ebbe a governarla , possono facil mente
somministrarci la chiave per comprenderne il successivo svi luppo . Lo studio
di questa struttura primitiva del diritto quiritario, sarà argomento del
seguente libro, e conclusione del presente lavoro . Per ora intanto , onde non
essere costretto ad interrompere la esposizione della struttura organica del
jus quiritium col racconto degli avvenimenti storici, che contribuirono alla
formazione di esso , credo opportuno di porre termine al presente libro con un
capitolo, in cui cercherò di riassumere quella lotta per il diritto fra il pa
triziato e la plebe, che segui nel periodo, che intercede fra la co stituzione
serviana e la legislazione decemvirale . 390 CAPITOLO IV . Il patriziato e la
plebe nel periodo dalla costituzione serviana alle XII Tavole . 316. Le
divergenze fra gli autori nell'apprezzare gli effetti della costituzione
serviana, non impediscono , che tutti siano concordi nel riconoscere, che essa
costitui il primo passo al pareggiamento dei due ordini. Con essa infatti la
plebe venne ad avere un terreno giuridico e legale , sovra cui potè misurarsi
col patriziato , ed una assemblea , in cui potè impegnare la lotta . Da quel
momento perciò potè manifestarsi quella legge, che secondo Aristotele determina
tutte le rivoluzioni politiche e sociali, secondo cui gli eguali sotto un
aspetto , tendono anche a diventarlo sotto tutti gli altri aspetti. Come
potevano gli eguali nell'esercito , nei comizii centuriati, nei tributi,
continuare ad essere disuguali nei connubii, nelle magistra ture, nei
sacerdozii, e nel diritto (1 ) ? Finchè durd il regno di Servio Tullo , la
lotta non ebbe occasione di spiegarsi, perchè, secondo la tradizione, lo stesso
Servio si appiglid a tutti i mezzi per favorire quel pareggiamento, che era
nello spi rito della costituzione da lui introdotta . Egli quindi rinnovo a più
riprese il censo ; introdusse nuove leggi relative ai contratti ed ai debiti;
concesse la cittadinanza ai servi manomessi, comprenden doli anche nel censo ;
distinse i giudizii pubblici e privati ; institui giudici privati per la
decisione delle controversie di minore impor tanza , e probabilmente eziandio
la Corte dei centumviri per stioni di diritto quiritario nello stretto senso
della parola , e cerco eziandio di migliorare la condizione dei creditori ( 2).
Fu in tal le que (1) ARISTOTELES, Politica , ed . Bekker. Lib . V , pagg. 1301
e 1302. Questo con cetto trovasi mirabilmente espresso da CICERONE , De rep .,
I, 49, allorchè scrive: « quo iure societas civium teneri potest, cum par non
sit conditio civium ? Iura « paria esse debent eorum inter se, qui sunt cives
in eadem republica » . Di qui egli sembra dedurre, che se fosse continuata la
dominazione esclusiva dei padri, la città non avrebbe mai potuto avere uno
stabile assetto ; « itaque cum patres rerum poti rentur, nunquam constitisse
civitatis statum putant » . (2 ) Questi sono i provvedimenti attribuiti a
Servio Tullio sopratutto da Dionisio, il cui racconto in questa parte ebbe ad
essere accettato dal Niebhur, dal Lange e da altri nella loro ricostruzione
della storia primitiva di Roma. È tuttavia da notarsi che Dionisio non parla
punto dei centumviri, ma solo dei iudices privati. V. Dion ., IV, 22, 4 , 10 ,
13. 391 modo che mentre egli si cattivo l'affetto e la riconoscenza delle
plebi, che continuarono sempre a venerarne la memoria e a con siderarlo come
l'iniziatore di tutte le riforme ad esse favorevoli, si procurò invece una
sorda opposizione nel patriziato, come lo dimostra il fatto , che egli avrebbe
dovuto confinarlo ad abitare nel vicus patricius ( 1). Dopo Servio così il
patriziato che la plebe si trovarono di fronte ad un pericolo comune , che fu
il tentativo di tirannide di Tar quinio il Superbo, il quale avrebbe tolto di
mezzo le leggi ser viane, e mentre da una parte cercò di occupare la plebe con
la vori edilizii, si studið dall'altra di comprimere il patriziato , non
curandosi di convocare il senato , nè di riempirne i seggi, che re stavano
vacanti ( 2). – Ne consegui una sosta nello svolgimento dei concetti ispiratori
della costituzione serviana : sosta forse più appa rente, che reale, poichè se
il governo di un tiranno comprime la libertà di tutti, può sotto un certo
aspetto esser favorevole allo svolgersi dell'uguaglianza fra le varie classi,
rendendo tutti eguali di fronte al dispotismo di un solo . Il tentativo ad ogni
modo non potè riuscire, e quando i due or dini dimenticarono le loro gare di
fronte al nemico comune, venne ad essere naturale , che l'evoluzione si
ripigliasse , ritornando a quelle istituzioni serviane, che per il momento
erano ancora le sole, che potessero essere di base ad un accordo del patriziato
e della plebe. 317. Narra infatti Livio, che i primi consoli furono nominati in
base ai commentarii di Servio Tullo , e Dionisio aggiunge, che essi avrebbero
richiamate in vigore le leggi di Servio sui contratti, abrogate da Tarquinio ed
accette alla plebe, riattivata l'istituzione del censo, e ristaurati i comizii
per l'elezione dei magistrati e per le deliberazioni popolari (3). Tutti gli
autori poi, che ricordano il passaggio dal governo regio al repubblicano, sono
concordi in rico noscere, che il cambiamento essenziale si ridusse a sostituire
al re, magistrato unico ed a vita , il consolato, magistrato duplice ed (1) «
Patricius vicus, scrive Festo , dictus eo, quod ibi patricii habitaverunt, iu a
bente Servio Tullio, ut, si quid molirentur adversus ipsum , ex locis
superioribus opprimerentur » . Bruns, Fontes, ed. V , pag. 351. (2) Dion., IV,
25 ; Liv ., I, 49. Cfr . Bonghi, Storia di Roma, I, pag . 209, ove riassume le
tradizioni diverse a noi pervenute intorno a Tarquinio il Superbo. (3 ) Liv.,
I, 60 ; Dion., V , 2. 392 annuo (1). Il potere pertanto dei consoli fu una
continuazione del potere regio , colla sola differenza che il potere religioso
si venne già in parte separando dal civile , in quanto che i poteri, che appar
tenevano al re qual sommo sacerdote del popolo romano, furono per imitazione
dell'antico affidati a un rex sacrorum , o rex sa crificulus, ma in realtà si
vennero concentrando nel pontifex maximus, chiamato a presiedere il collegio
dei fpontefici (2 ). Da cid in fuori il potere sovrano non è dapprima ripartito
fra i due consoli, ma persiste intero in ciascuno di essi, salvo la reciproca
intercessione, che l'uno può opporre agli atti compiuti dall'altro . Che anzi,
ad impedire che la continuità dell'imperium possa essere interrotta col passare
da un console ad un altro , tocca al magi strato che esce di proporre ai
comizii il proprio successore , e nel caso in cui egli non lo faccia, si
continua sempre a provvedere coll'istituzione dell'interregnum , conservando il
concetto ed il vo cabolo , che erano già in vigore durante il periodo regio (3
). È poi solo in seguito alle lotte fra patriziato e plebe, e in causa anche
dell'accrescersi della dominazione romana, che quell'unico potere (imperium )
che accentravasi dapprima nel re e poscia nei consoli, si viene lentamente e gradatamente
suddividendo fra le mol. teplici magistrature del periodo repubblicano ; per
guisa che le ma gistrature maggiori (consoli, pretori, censori) si dividono in
certo modo le funzioni, che un tempo erano comprese nell'imperium regis, (1)
Questo concetto, che nel passaggio alla repubblica non siasi sostanzialmente
mutato il carattere del potere spettante al magistrato, occorre in Dion ., IV,
72-75; in CiceR., De rep ., II, 30 e in Livio, II, 1, 17. V. il raffronto che
ne fa il Bongai, op. cit., pagg. 562-69. (2 ) Che la dignità del pontifex
maximus dati soltanto dalla repubblica , mentre prima era il re stesso, che era
il sommo sacerdote del popolo romano, è cosa da tutti ammessa. V. fra gli
altri, Bouché-LECLERQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, p . 8 e 9 ; e il
Willems, Le droit public romain , pag. 51 e pag. 318. A parer mio la causa
storica del fatto sta in questo, che colla costituzione serviana il populus ro
manus quiritium , comprendendo anche la plebe, perdette in parte quel carattere
re ligioso , che aveva finchè era ristretto alle genti patrizie, e quindi il
magistrato del popolo romano assume un carattere essenzialmente civile e
militare, mentre i pon tefici, pur rappresentando il popolo come famiglia
religiosa , continuarono ad essere i custodi delle tradizioni religiose e
giuridiche di quel patriziato, da cui erano tolti. (3 ) V. quanto all' interrex
e alla nomina di esso per parte dei patres o patricii ciò che si è detto ai
numeri 237-39, pag. 288 e segg., ove ho cercato di dimostrare che la nomina
dell'interrex , la patrum auctoritas e la lex curiata debbono riguar darsi come
sopravvivenze della costituzione esclusivamente patrizia . 393 mentre le
magistrature minori (questori, edili) sono uno svolgimento di quegli ufficiali
subalterni, che dapprima erano nominati dal re e dal console, e che finiscono
col tempo per essere anche essi nomi nati direttamente dal popolo ( 1). È in
questo modo che si spiega come mai siasi potuto avverare una trasformazione
cosi grande nella forma di governo, senza che si alterassero le basi
fondamentali della costi tuzione primitiva di Roma. 318. Intanto finchè
durarono i pericoli esterni delle guerre susci tate dagli esuli Tarquinii, si
mantenne fra i due ordini un' appa rente concordia (2), come lo dimostra il fatto,
che i consoli sogliono essere tolti da famiglie ritenute di tendenze favorevoli
alla plebe, e che sono i consoli stessi, che propongono di togliere le scuri
dai fasci, allorchè rientrano nelle città , e consacrano con leggi spe ciali il
ius provocationis ad populum (3). Ma appena colla morte di Tarquinio si
attutiscono i pericoli esterni, si accentuano invece i dissidii interni, ed è
allora che si inizia una lotta , che direbbesi un modello nel suo genere, tanta
è la tenacità del patriziato nel conservare i suoi privilegii e la perseveranza
della plebe nell'ap profittarsi di tutte le opportunità per ottenere
concessioni novelle . Egli è durante questa lotta, che già si pud scorgere come
nella massa plebea venga distinguendosi la plebe ricca ed agiata , la quale
essendo pari in ricchezze aspira alla comunanza dei connubii e degli (1) La
specializzazione dell'imperium del magistrato è uno dei processi più degni di
nota, che presenti lo svolgimento delle istituzioni repubblicane, poichè
l'imperium regis, al pari del potere giuridico del capo di famiglia , parte da
un'unità e sintesi potente , a cui succede durante la repubblica una
differenzazione, la quale ,mentre è determinata dall'incremento della città e
dalle lotte fra patriziato e plebe, obbe. disce però sempre alla logica
fondamentale del concetto primitivo di imperium . Cfr. MOMMSEN, Le droit public
romain, I, pag. 5 ; Herzog , Op. cit., I, § 32, pag. 580 e segg ., e ciò che si
disse in proposito al nn . 201-204 , pag. 245 e segg. (2) La diversità di trattamento,
usata dal patriziato alla plebe, nell'epoca che seguì immediatamente la
cacciata dei re e in quella posteriore alla morte di Tarquinio il Superbo è
accennata da Liv ., II , 21, 6 e da Sallustio , Hist. fragm ., I, 9. Nota però
giustamente il Bonghi, che i dissidii esistevano già prima, e che quindi venne
soltanto meno l'indulgenza , che prima era adoperata. Op. cit., pag. 302. (3)
La provocatio ad populum , che Livio chiama « unicum libertatis praesidium ebbe
ad essere consacrata negli inizii della repubblica colla lex Valeria , proposta
dal console Valerio Pubblicola. La provocatio doveva già preesistere nel
periodo regio, ma fu necessaria una espressa consacrazione di essa per il nuovo
elemento, che era entrato a far parte del populus. Cfr. ciò che si disse al n °
245 , pag . 300 e 301 . >> 394 onori, e la plebe povera e minuta , che
sopratutto teme il carcere privato dei creditori patrizii , e aspira a quella
ripartizione dell'ager pubblicus, mediante cui può entrare a fare parte della vera
ed ef fettiva cittadinanza , accolta nelle classi e nelle centurie (1). Di qui
i caratteri peculiari di questa lotta , che ha del pubblico e del pri vato ad
un tempo , cosicchè una sommossa provocata dalla legge inumana sulla condizione
dei debitori, può condurre alla istituzione del tribunato della plebe, al modo
stesso che una mozione per restringere l'arbitrio del magistrato , finisce per
riuscire ad una proposta di generale codificazione. Cosi pure è un carattere di
questo conflitto , che le proposte dei tribuni sogliono comprendere più
provvedimenti ad un tempo , anche di natura diversa , e cid perchè essi mirano
a tenere unite la plebe ricca ed agiata e quella povera e minuta (2 ). Di più
anche in questa lotta si mantiene quel carattere pressochè contrattuale , che
ha governato la formazione della città ; poichè i due ceti vengono fra di loro
a transazioni e ad accordi, stipulano dei foedera , e cercano persino di dare
aime desimi quella consacrazione religiosa , che è propria dei trattati fra i
popolidiversi (leges sacratae) (3). Così pure la plebe, quando trova
incomportabile la propria coesistenza nella città , minaccia di abban donare la
comunanza e di fermare altrove la propria sede, o quanto meno si ricusa alla
leva, che è il primo obbligo e diritto del citta dino. Dappertutto infine si
palesa il carattere essenzialmente pra tico del popolo romano, in quanto che il
conflitto non appare do minato da questo o da quel concetto teorico, ma sembra
essere determinato dalle opportunità ed occasioni, che si presentano nella
realtà dei fatti. La questione infatti che si agita viene nella so stanza ad
essere una sola , cioè quella del pareggiamento giuridico e politico dei due
ordini ; ma essa prende occasione ora dai mal trattamenti inflitti ai debitori,
ora dall'arbitrio del magistrato , ora (1) Questa distinzione della plebe in
due parti è acutamente notata da leinio GENTILE, Le elezioni e il broglio nella
Rep. Rom ., pag . 24 . (2) Di qui l'espressione di lex satura o per saturam ,
la quale secondo Festo si gnificherebbe a lex multis aliis legibus confecta » .
Siccome però essa cambiavasi in un mezzo per ottenere favore a provvedimenti,
che altrimenti non sarebbero stati approvati, accoppiandoli con altri che erano
popolari, così si cercd diporvi riparo colla lex Cecilia Didia del 655 di Roma.
Cic., De domo, 20, 53. Festo , vº Satura . Cfr. WILLEMS, op. cit., pag . 184.
(3 ) V. quanto alle leges sacratae la dissertazione del LANGE, De sacrosancta
tri buniciæ potestatis natura eiusque origine. Leipzig , 1883 . 395 dalla
ripartizione dell'agro pubblico, ora dall'incertezza del diritto , ed ora
infine dal divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, e dall'
esclusione di quest'ultima dalle magistrature e dai sacer dozii (1). Per tal
modo quella plebe , che memore dapprima della condizione pressochè servile da
cui era uscita , si contenta di chie . dere l'istituzione di un magistrato, il
quale non abbia altra potestá che quella di venirle di aiuto, finisce col
tempo, guidata ed orga nizzata da questo istesso magistrato, per ottenere non
solo il pareg giamento giuridico e politico , ma per far entrare nei quadri
della costituzione politica di Roma i suoi magistrati (tribuni della plebe), i
suoi plebisciti, ed i suoi comizii tributi (2 ). 319. Qui però non può essere
il caso di tener dietro alle vicis. situdini diverse dei varii aspetti della
questione politica e sociale, che si agito fra il patriziato e la plebe , ma
piuttosto di cercare quali fossero le condizioni rispettive dei due ordini per
ciò che si riferisce al diritto privato . È questo certamente il maggior
problema che presenti questo pe riodo di transizione, poichè se la storia ha
serbato qualche traccia delle lotte politiche fra il patriziato e la plebe, noi
sappiamo quasi nulla di quello che accadde fra di loro nell'attrito dei
quotidiani in teressi. Si aggiunge che le testimonianze, che ci pervennero in
proposito , sono del tutto contradditorie . Mentre infatti Dionisio attesta che
si rimisero in vigore le leggi intorno ai contratti attri buite a Servio
Tullio, Pomponio invece dice senz'altro, che tutte le leggi promulgate dai re
furono abolite con una legge tribunizia , e che tutto fu lasciato alla
consuetudine come era prima ( 3). Non vi è quindi altro modo di uscire dalla
difficoltà , che di argomentare lo stato del diritto privato dalle condizioni
rispettive, in cui si tro vavano le due classi . (1) Un riassunto chiaro ed
ordinato degli aspetti essenziali, sotto cui ebbe a svol gersi la lotta , fra
patriziato e plebe, nelle parti attinenti al diritto, occorre nel Mui RHEAD,
Histor. Introd ., part. II, sect. 17, pag . 83-88. Per un racconto più partico
lareggiato cfr. il Lange, Histoire intérieure de Rome, livre II, pag. 111 a
217. (2 ) Già ebbi occasione di riassumere questo singolare svolgimento della
costitu zione politica di Roma a proposito dei comizië tributi ai numeri
233-34, p . 271 e segg .; dei plebisciti ai numeri 231-32-33, pag. 281 e seg .;
e dei tribuni della plebe n ° 249, pag . 292 e seg. (3 ) Dion., V, 2 ; Pomp.,
Leg. 2, § 3 ( Dig. I, 2). Secondo quest'ultimo l'incertezza del diritto sarebbe
durata circa vent'anni; ma è facile il notare, che se essa perdurò fino alle
XII Tavole, l'intervallo dovette essere di circa sessant'anni. 396 Ora è certo
anzitutto , che in questo periodo quell'attrito delle classi, che appare nel
campo politico , dovette avverarsi eziandio nel dominio strettamente giuridico.
Anche qui dovettero trovarsi di fronte le tradizioni patrizie e le consuetudini
plebee, coll' avver tenza perd che la magistratura esclusivamente patrizia fini
per dare una prevalenza alle prime sulle seconde; cosicchè è probabile, che
sopratutto la plebe ricca ed agiata, malgrado il divieto dei connubii, cercasse
già in qualche modo di imitare l'organizzazione della fa miglia patrizia . Di
più siccome eravi fra il patriziato e la plebe co munanza di commercio, ma non
ancora quella di connubio, cosi si dovette continuare quell'elaborazione di un
jus quiritium , comune alle due classi, che già erasi iniziata colla
costituzione serviana, ed il medesimo dovette continuare a modellarsi sotto
quelle forme di carattere mercantile , che allora si erano introdotte,
ricorrendo sopratutto all'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza,
ossia dell'atto per aes et libram . Che anzi, quando si voglia ammettere con
alcuni autori, che il tribunale de' centumviri, composto dap prima di quiriti
tolti dalle varie classi e poscia dalle varie tribù , rimonti all'epoca di
Servio Tullio, converrebbe, inferirne che questo Tribunale, in quell'epoca
probabilmente presieduto da un ponte fice, dovette cooperare efficacemente alla
formazione del jus qui ritium , come quello che anche più tardi appare chiamato
a ri solvere questioni di diritto strettamente quiritario (1). Nella sua opera
tuttavia la corte dei centumviri dovette più tardi anche es sere aiutata dai
decemviri stlitibus iudicandis, i quali pur sareb bero stati istituiti a poca
distanza dalla legislazione decemvirale, e dichiarati inviolabili, al pari dei
tribuni e degli edili della plebe, sarebbero stati chiamati a decidere le
questioni di stato (2 ). Infine è ( 1) Quanto all'istituzione dei centumviri e
alle varie opinioni intorno all'epoca, a cui rimonta vedi il capitolo
precedente , nº 312, pag . 384, nota 3 . (2) È del tutto incerta anche
l'origine dei decemviri stlitibus iudicandis, in quanto che l'unico accenno ai
medesimi sarebbe quello, che occorre in Livio , III, 55, il quale parla di
iudices decemviri, stati dichiarati inviolabili al pari dei tribuni e degli
edili della plebe colla legge Valeria Horatia del 305 di Roma. Di recente poi
il WLASSAK , Römische Processgesetze, Leipzig, 1888 , pag. 139 a 151, sostiene
che i decemviri stlitibus iudicandis non debbono confondersi coi iudices
decemviri di Livio ma sono di istituzione posteriore. Noi però sappiamo di
essi, che giudicavano delle questioni di libertà e distato . Cic ., pro Caec.,
33. V. per l'opinione comunemente ricevuta Keller , Il processo civile romano (
Traduz. Filomusi, Napoli 1872, pag. 17), il quale anzi li farebbe rimontare
sino a Servio Tullio , come giudici per le cause 397 pur probabile , che gli
edili della plebe, come ufficiali dipendenti dai tribuni, fossero fin d'allora
chiamati a risolvere quelle quistioni fra i plebei, che sorgevano sui mercati e
sulle fiere , e che comin ciassero cosi a dare forma e carattere giuridico alle
costumanze della plebe. In ogni caso è incontrastabile, che in questo periodo
il console, pressochè assorbito dalle cure militari, dovette, per quello che si
riferisce alla elaborazione del diritto e all'amministrazione della giustizia ,
lasciare una larga parte alla influenza del collegio dei pontefici. Questo
collegio infatti, che abbiamo visto, fin dal l'epoca di Numa, essere chiamato
alla custodia delle tradizioni re ligiose e giuridiche, aveva serbato il proprio
ufficio anche dopo la cacciata dei re, e aveva anzi acquistata una indipendenza
maggiore, in quanto che era presieduto non più dal re, ma da un pontifex
maximus, in cui si unificavano i poteri al medesimo spettanti. Si comprende
pertanto la testimonianza pressochè unanime degli scrittori, che ci descrivono
il diritto primitivo di Roma, sopratutto negli inizii della Repubblica , come
riposto negli archivii de' ponte fici, e parlano di questi ultimi come dei
primimaestri in giurispru denza, e del ius pontificium , come di una scuola a
cui venne poi formandosi il ius civile ( 1). Intanto è naturale, che i
pontefici, come depositarii delle antiche tradizioni, avessero sopratutto per
iscopo di applicare le forme antiche ai rapporti giuridici, che venivano sor gendo
collo svolgersi della convivenza civile, e che in questo senso venissero
continuando quella elaborazione di un ius quiritium , che erasi iniziata dal
tempo, in cui la plebe era entrata a far parte della cittadinanza romana. 320.
Insomma la conclusione ultima viene ad essere questa , che in questo periodo
dovette avverarsi un continuo attrito fra le isti tuzioni patrizie e le
costumanze plebee, e che perciò dovette essere grandissima l'incertezza intorno
a quel diritto , che doveva essere applicato nei rapporti fra il patriziato e
la plebe. Ne conseguiva che private, il che non sembra da ammettersi, perchè il
giudice di queste cause dovette essere piuttosto il iudex unus tratto dai
iudices selecti. (1) Per l'influenza dei pontefici sul diritto civile vedi
sopra i numeri 262 e 263, pag. 321 e seg . colle note relative. Si occupò molto
largamente di questo argomento il KARLOWA, Röm . R. G., 1, $ 43, pag. 219
e seg. Trovasi poi un esattissimo elenco dei libri, annali e commentarii dei
pontefici nel TEUFFELS, Geschichte der röm . Literatur , Leipzig , 1882, SS
70-76, pag. 114 a 119 . 398 il console , chiamato ad amministrare la giustizia,
finiva per non avere alcun confine al proprio arbitrio , il che doveva essere
grave alla plebe, anche per trattarsi di magistrato, il quale per essere tratto
esclusivamente dall'ordine patrizio , poteva ritenersi favorevole a
quest'ultimo. Si comprende cid stante come Terentillo Arsa, nel 292,
cominciasse dal chiedere che fosse eletta una commissione, che determinasse per
iscritto quale fosse la giurisdizione dei consoli, acciò fosse posto un confine
all' arbitraria ed oppressiva ammini strazione di ciò , che essi chiamavano col
nome di diritto e di legge ( 1). Fu solo nell'anno dopo , che d'accordo coi
colleghi, per togliere alla sua proposta il carattere di odiosità contro il
potere dei consoli, egli chiese che la legge , così pubblica come privata,
dovesse essere codificata , e che cosi ogni incertezza venisse per quanto si
poteva ad essere rimossa . L'importanza della questione viene ad essere provata
dalla lotta di dieci anni, che ebbe ad essere sostenuta in torno alla medesima;
poichè solo nel 303 di Roma si ebbe completa la legislazione decemvirale . Qui
non può essere il caso di entrare nell'esame minuto della medesima, nè di
parlare dei tentativi di rico struzione, che se ne vennero facendo anche in
questi ultimi tempi ( 2) : mi basterà invece dir qualche cosa intorno al
carattere generale di questo codice, da cui doveva prendere le mosse tutto lo
svolgimento posteriore del diritto civile di Roma. A mio avviso la legge
decemvirale e la legge Canuleia , che la segui a poca distanza (309 di Roma) ed
aboli il divieto de' con nubii fra il patriziato e la plebe, debbono essere
considerate, quanto al diritto privato di Roma, come l'avvenimento che chiude
il periodo delle origini ed apre quello dello svolgimento storico della giuris
prudenza romana. Colle leggi delle XII tavole si chiude in certo modo il
periodo del ius non scriptum , di quel diritto cioè, che viveva più nelle consuetudini
che nelle leggi, ed incomincia il pe riodo del ius scriptum , poichè da quel
momento anche l'interpre tazione cominciò ad avere la sua base nella
codificazione (3 ). Con (1) Liv., III, 9. Cfr. MuirŅEAD, op. cit., pag. 87 e
88. (2 ) V. Ferrini, Storia delle fonti del diritto romano, pag. 5 a 9. È poi
noto, che i grandi tentativi di ricostruzione delle XII Tavole si riducono a
quelli di Jacopo Gottofredo , del Dirksen e a quello recentissimo del Voigt,
già più volte citato. (3) Non voglio dire con ciò, che prima non esistessero
delle leggi scritte : ho anzi dimostrato che dovettero esservene fin dal
periodo regio. Tuttavia è solo colle XII Tavole, che si introdusse tutto un
sistema di legislazione scritta, il quale potè servire 399 esso parimenti termina
il periodo del ius non aequum , ossia di un diritto disuguale fra patriziato e
plebe, e comincia il periodo del ius aequum , ossia la formazione di un diritto
eguale per l'uno e per l'altro ceto , il che gli autori esprimono con dire, che
le leggi delle XII Tavole erano intese ad aequandum ius e ad aequandam
libertatem (1). Con esso infine termina il periodo della indistinzione del fas
e del ius, al modo stesso che già si possono scorgere i principii del diverso
indirizzo , in cui si pongono il diritto pubblico e il diritto privato ; dei
quali il primo continua a svolgersi nelle lotte della piazza e del foro, mentre
il secondo comincia ad apparire come il frutto della tacita elaborazione prima
dei pontefici e poscia dei giureconsulti. 321. Non vi ha poi dubbio che anche
la legislazione decemvirale deve essere considerata come un compromesso fra i
due ordini e in certo modo come una specie di patto fondamentale della loro coe
sistenza nella medesima città (2 ) . Di qui la conseguenza, che le XII Tavole nè
comprendono un sistema compiuto di legislazione pubblica e privata , nè
rinnovano tutte le disposizioni che già erano contenute nelle leggi regie: ma
sembrano il più spesso limitarsi ad introdurre sotto forma imperativa quei
provvedimenti, che potevano essere stati oggetto di discussione e di lotta , il
che è sopratutto evidente quanto alle disposizioni, che si riferiscono al
diritto pub come punto di partenza alla iuris interpretatio ed alla disputatio
fori, di cui parla Pomponio , L. 2, § 5 , dig . 1-2. Quanto ai caratteri
particolari di questa interpre tatio dei veteres iures conditores, vedi JHERING
, Esprit du droit romain , III, pag. 142 e segg . (1) LIVIO (III, 24 ) fa dire
ai decemviri « se quantum decem hominum ingeniis provideri potuerit, omnibus,
summis infimisque iura aequasse » . Di quianche l'espres sione, che occorre in
Livio ed in Tacito, che le leggi delle XII Tavole fossero il fons omnis aequi
iuris , ed anche il finis aequi iuris, perchè esse, a differenza di altre
leggi, non furono il frutto di una sorpresa , ma di una vera transazione ed
accordo fra i due ordini. Vedi i passi relativi nel RIVIER , Introd . Histor.,
Bruxelles, 1881, pag. 163 a 167, come pure nel Voigt, Die XII Tafeln , I, pag.
7 e note relative. (2) Questa specie di compromesso appare dalle parole che
Livio , III, 31 attribuisce ai tribuni della plebe : « finem tamen certaminum
facerent. Si plebeiae leges displi « cerent, at illi communiter legum latores
et ex plebe et ex patriciis, qui utrisque « utilia forent, quaeque aequandae
libertatis essent, sinerent creari » . Di qui rica vasi anche un argomento per
inferire, che la legislazione decemvirale suppone già una specie di fusione del
diritto delle genti patrizie con quello della plebe, il che sarà meglio
dimostrato più oltre. 400 blico , e per quelle che riguardano l'usura e il
trattamento che il creditore può usare contro il debitore ( 1). Cid spiega
anche in parte la sobrietà e la concisione della legislazione decemvirale , la
quale , senz'entrare nella descrizione degli istituti ed in disposizioniminute,
si limita a porre dei concetti sintetici e comprensivi, pressochè enunziati in
forma assiomatica , lasciando poi alla interpretazione di ricavare da essi
tutte le conseguenze , di cui potevano essere ca paci (2). Di qui derivano
eziandio la venerazione e la riverenza , in cui fu tenuto sempre questo codice
primitivo del popolo romano ; la differenza che i Romani ravvisarono sempre fra
queste leggi fonda mentali, e quelle che si vennero gradatamente aggiungendo
alle medesime; ed il fatto incontrastabile, che la legislazione decemvirale,
malgrado la pochezza dei proprii dettati , ha finito per essere il punto di
partenza di un sistema intiero di legislazione. Tuttavia il carattere più
saliente e più importante per la storia del diritto primitivo di Roma, che a
mio giudizio vuolsi ravvisare nella legislazione decemvirale , consiste in
questo , che siccome le XII Tavole furono il primo codice comune ai due ordini,
cosi fra tutti i documenti dell'antico diritto , esse portano le traccie più
evi denti dell'origine diversa delle istituzioni, che entrarono a costituire il
sistema del primitivo diritto romano . In esse infatti noi troviamo da una
parte trasportate di peso certe istituzionidelle genti patrizie , il che si
avverò sopratutto quanto all'organizzazione della famiglia e alla successione e
tutela legittima degli eredi suoi, degli agnati e dei gentili, istituzioni che
i giureconsulti ci dicono appunto essere state introdotte dalla legislazione
decemvirale (3 ). In esse parimente ( 1) Così, ad esempio, la legge secondo cui
a de capite civis nisi maximo comi tiatu ne ferunto » mira certamente ad
impedire, che le accuse capitali potessero re carsi innanzi ai concilia plebis,
come i tribuni della plebe avevano più volte tentato di fare, come lo dimostra
, fra gli altri, il processo contro C. Marcio Coriolano. Uno scopo analogo
dovette pure avere la legge: privilegia ne inroganto. Cic ., de leg ., 19, 44 .
(2) Nota a ragione il Bruns, che nelle XII Tavole già si appalesa il genio giu
ridico di Roma, sia perchè esse già comprendono ogni parte del diritto, e sia
anche per il carattere obbiettivo e pratico delle singole disposizioni. Vedi
HOLTZENDORF's, Rechts Encyclopedie, I, 117. A parer mio esse dimostrano
eziandio, che l'elabora zione giuridica era già pervenuta molto innanzi, in
quanto che già si dànno come formati i concetti del nexum , del mancipium , del
testamentum , senza che occorra di indicarne il contenuto . (3) Se prestiamo
fede ai giureconsulti sarebbero state introdotte direttamente dalla
legislazione decemvirale le successioni e le tutele legittime e le legis
actiones, le quali sarebbero state composte dai pontefici sui termini stessi
delle XII Tavole. 401 è evidente lo sforzo dei decemviri di porgere alla plebe
un mezzo per uscire dalla posizione di fatto in cui si trovava , e procurarsi
invece una posizione di diritto ; come lo dimostra fra le altre cose la parte
assai larga fatta all'usus auctoritas, che compare qual mezzo per contrarre le
giuste nozze, per acquistare le cose mobili ed immobili, e qual modo di
acquisto della stessa eredità (1). Infine nella legislazione decemvirale si
rinviene eziandio una parte dovuta all'elaborazione di quel rigido ius
quiritium , che ebbe a formarsi sotto l'influenza del censo e delle altre
istituzioni serviane, i cui concetti fondamentali sono quelli del nexum , del
mancipium , del testamentum , dell'atto per aes et libram , nei quali tutti il
quirite appare con un potere senza confini, cosicchè la sua parola viene in
certo modo a convertirsi in legge : « uti lingua nuncupassit ita ius esto » ( 2
) . 322. Questi varii elementi di origine diversa , che insieme ad alcune
disposizioni particolari imitate dalle legislazioni greche (3) (1) Lo stesso è
pure a dirsi del riconoscimento della fiducia, la quale non avendo forma
giuridica dovette probabilmente nascere nelle consuetudini della plebe. Vedi in
proposito ciò che si disse quanto al contributo della plebe nella formazione
del di ritto romano ai numeri 148 a 157, pag. 182 e segg ., e sopratutto a pag.
184. Si ritornerà poi sull'argomento nel libro seg ., cap . IV , § 3, trattando
della mancipatio cum fiducia . ( 2) V. cap. precedente, relativo all'influenza
della costituzione serviana sulla for mazione del ius quiritium . ( 3) V.
Lattes, L'ambasciata dei Romani per le XII Tavole . Milano, 1884. Non può qui
essere il caso di trattare a fondo la questione della ambasciata in viata in
Grecia e ne quella dell'influenza greca sulle XII Tavole, questione che pud
aver bisogno di un nuovo stadio dopo la scoperta delle leggi di Gortyna: ma
credo che il seguente libro proverà fino all'evidenza , che le basi
fondamentali del primitivo ius quiritium sono desunte dalle istituzioni già
esistenti fra le genti italiche, e che furono eminentemente ed esclusivamente
romani così il modo in cui furono foggiati gli istituti giuridici, come il
processo logico e storico ad un tempo, con cui furono svolti. L'analogia
pertanto di certi istituti può anche essere prove nuta o dalla comune origine
ariana , o dalle condizioni analoghe, in cui si trova rono le genti italiche e
le elleniche nel passaggio dall'organizzazione per genti alla vita cittadina ;
mentre l'imitazione diretta si limita a disposizioni di poca impor tanza, la
cui origine ellenica è sempre di buon animo accennata dagli autori la tini, che
non disconobbero mai la sapienza dei Greci, pur affermando la propria
superiorità in tema di diritto. Cfr . Voigt, XII Tafeln , I, pag. 10 a 16, dove
pare si trovano raccolti i passi degli antichi autori, che si riferiscono
all'argomento . Quanto all'influenza greca sulla giurisprudenza romana in
genere mi rimetto a ciò che ho scritto nella Vita del diritto , pag. 179 a 194
. 1. CARLE , Le origini del diritto di Roma , 26 402 formarono il substratum
della legislazione decemvirale, finiscono dopo di essa per svolgersi
contemporaneamente e quindi con essa può dirsi aver termine il ius quiritium
propriamente detto, e cominciare. invece l'elaborazione di un ius proprium
civium romanorum , in cui continuarono però a perdurare le primitive
istituzioni del ius quiritium . Ciò ci è dimostrato dall'attestazione di
Pomponio , se condo cui tutto quel diritto , che venne a formarsi sulla
legislazione decemvirale , mediante la iuris interpretatio , la disputatio
fori, e la formazione delle legis actiones, venne appunto ad essere indi cato
col vocabolo di ius civile (1). Anche qui pertanto si fa ma nifesto quel
singolare magistero, che si rivela poi in tutta la forma zione della
giurisprudenza romana, per cui, accanto al diritto già formato e consolidato ,
havvene una parte , che continua sempre ad essere in via di formazione. Per
talmodo accanto al ius quiritium , iniziatosi sopratutto colla costituzione
serviana, venne formandosi il ius civile, i cui esordii partono dalla
legislazione decemvirale ; poi accanto a questo si esplicò il ius honorarium ,
elaboratosi sopratutto sull'editto del Pretore; infine molto più tardi ancora,
secondo qualche autore, accanto al ius ordinarium viene formandosi il cosi
detto ius extraordinarium (2 ) . Parmi quindi giusto il ritenere, che colla
legislazione decemvirale si chiude il periodo delle origini propriamente dette,
in cui le varie istituzioni trovansi ancora allo stato embrionale , e comincia
il vero svolgimento storico del diritto romano, in cui le varie parti del di
ritto pubblico e privato , già procedendo separate le une dalle altre, debbono
anche essere studiate separatamente nel proprio sviluppo . È a questo punto
pertanto , che può essere opportuno un tentativo di ricostruzione di quel primitivo
ius quiritium , che a mio giudizio costituisce l'ossatura primitiva di tutta la
giurisprudenza romana, e può darci il segreto di quella dialettica potente, che
strinse insieme le varie parti della medesima. Spero che la bellezza e l'im
portanza grandissima del tema, e la luce, che può derivarne per la spiegazione
del diritto primitivo di Roma, il quale, quanto alle proprie origini, non ha
cessato ancora di essere un grandemistero, valgano a farmi perdonare l'audacia
del tentativo . ( 1) KUNTZE, Ius extraordinarium der römischen Kaiserzeit.
Leipzig , 1886 . (2 ) POMP., Leg . 2 , SS 5 e 6 , Dig. ( 1-2). LIBRO IV .
Ricostruzione del primitivo ius quiritium (*). CAPITOLO I. La struttura
organica del ius quiritium ed il concetto del quirite. 323. E opinione pressochè
universalmente adottata , che il primitivo diritto di Roma porti in sè le
traccie della violenza e della forza, e debba essere considerato in ogni sua
parte come il frutto di una evo luzione lenta e graduata , determinata
esclusivamente dalle condizioni economiche e sociali, in cui trovossi il
primitivo popolo romano. Lo studio invece della genesi e della formazione del
ius quiritium , nel momento in cui per opera della costituzione serviana
comincio ad essere comune alle due classi , mi conduce a conclusioni alquanto
diverse. Questo ius quiritium , se nei vocaboli può ancora portare le traccie
di un periodo anteriore di violenza, nella sostanza invece è già il risultato
di una selezione e di un'astrazione potente, intesa da una parte a trascegliere
dal periodo gentilizio quelle istituzioni, (*) Ancorchè l'intento di questo
libro IV sia di isolare in certo modo quella parte del diritto privato di Roma,
che prima riuscì a consolidarsi sotto il nome di ius quiritium , e a costituire
così il nucleo centrale di quella elaborazione giuri dica, che doveva poi
durare per 14 secoli, mi riservo tuttavia anche qui la libertà di seguire
talvolta lo svolgimento logico e storico dei varii istituti giuridici, anche
oltre gli stretti confini del ius quiritium . Il motivo è questo, che anche
nella clas sica giurisprudenza occorrono certe singolarità, le quali, a parer
mio, non potranno mai essere spiegate, quando non siano sorprese alle origini.
Siccome infatti la carat teristica del tutto peculiare del diritto romano consiste
nell'essere il frutto di una elaborazione, che malgrado la sua lunga durata non
abbandono mai intieramente quei metodi e processi, con cui era stata iniziata ;
così in esso accade ben soventi, che negli ultimi sviluppi occorrano certe
apparenti singolarità ed anomalie, le quali non sono che una conseguenza logica
di fatti , che si avverarono nel principio della formazione, e dell'indirizzo
con cui questa ebbe ad essere iniziata . 404 - che potevano accomodarsi alla
vita della città, e dall'altra a sce verare l'elemento giuridico da tutti gli
altri punti di vista , sotto cui i fatti sociali ed umani possono essere
considerati. Il suo linguaggio rozzo ma efficace ; i suoi concetti sintetici e
comprensivi; le solennità tipiche , in cui esso si manifesta ; la disinvoltura
con cui si maneg giano tali solennità e si trasportano da uno ad un altro
negozio giuridico ; la coerenza organica delle sue varie parti sono già la ma
nifestazione di una potente logica giuridica , di cui appare investito il
popolo romano fin dai proprii esordii, mediante cui esso riesce a sceverare
dalle proprie tradizioni del passato e dalle condizioni so ciali, in cui si
trova, tutto ciò che in esse havvi di strettamente e di esclusivamente
giuridico, modellandolo in altrettante costruzioni tipiche, che concentrano in
sè l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani. Lo stesso nostro linguaggio
sembra essere inadeguato ad esprimere una selezione di questo genere, cosicchè
ad ogni istante viene ad essere necessario di ricorrere a vocaboli tolti dalle
scienze fisiche , chimiche e naturali, perché è soltanto nelle naturali forma
zioni che possono essere sorprese delle sintesi e delle analisi, ana loghe a
quelle, che occorrono nel primitivo diritto di Roma. In esso dispiegasi una
logica giuridica cosi rigida, cosi geometrica, precisa e coerente, che anche un
giureconsulto , preparato da una lunga edu cazione giuridica , stenterebbe a
giungervi, e la quale può soltanto essere spiegata con dire che ci troviamo di
fronte a un popolo, giu rista per eccellenza, il quale , guidato dalle proprie
attitudini natu rali, esordisce con un capolavoro di arte giuridica , che può
essere considerato come un pegno della perfezione, a cui esso giungerà più
tardi nel suo lavoro legislativo. 324. Il diritto quiritario infatti toglie
dalla realtà il linguaggio ed i concetti primitivi , di cui esso si vale ; ma
intanto li isola e li scevera per modo da ogni elemento affine, che i primitivi
concetti giuridici del popolo romano, al pari dei suoi concetti politici, si
pre sentano come altrettante concezioni logiche, e costruzionigeometriche, che
possono poi essere sottoposte a quella logica astratta , che fu del tutto
propria dei giureconsulti romani. Che anzi la logica giuridica dei
giureconsulti romani non si ma nifestò forse mai in modo più vigoroso e
potente, che nel modellare il concetto stesso del quirite e i varii
atteggiamenti , sotto cui il medesimo può essere considerato. Io non dubito
infatti di affermare, che il concetto stesso del quirite , in quanto si considera
come il 405 caput, da cui erompono le varie manifestazioni giuridiche , deve
per sè essere considerato come una concezione giuridica nel senso vero della
parola . Il quirite infatti non è l'uomo quale in effetto esiste, ma è l'uomo
isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere consi derato sotto
l'aspetto esclusivo di capo di famiglia e di proprietario di terre. È come tale
soltanto , che egli conta nel censo serviano , ed è come tale eziandio, che
esso si presenta nel primitivo ius quiritium . Esso inoltre è anche
un'astrazione sotto un altro aspetto , in quanto che la logica giuridica lo
isola da tutti i vincoli religiosi e morali, a cui nel fatto possa essere
sottoposto , e lo concepisce come fornito di un potere illimitato e senza confini.
Essa lo considera come un pater familias, ancorchè in effetto non abbia
figliuolanza , e in quanto è tale , gli attribuisce i poteri più illimitati.
Egli infatti quale capofa miglia ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui
figli, sui servi; come proprietario pud usare ed abusare delle proprie cose ;
come credi tore può anche appropriarsi il proprio debitore, venderlo al di là
del Tevere e dividerne il corpo , se concorra con altri creditori ; come
testatore pud disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose per il tempo per
cui avrà cessato di vivere. Col tempo questa potestà giuridica illimitata potrà
apparire eccessiva, in quanto che si verrà a riconoscere che il quirite potrà
anche abusare di essa , come il magistrato del proprio imperium , ed in allora
si cercherà di porre dei limiti al suo potere come padre, come proprietario,
come credi tore, come testatore , come padrone ; ma nel suo erompere primitivo
l'uomo, a cui appartiene l'optimum ius quiritium , è una indivi dualità
completa, che sotto l'aspetto giuridico non subisce limitazione di sorta . 325.
Il quirite poi, in base al censo serviano, riunisce due carat teri: quello cioè
di capo di famiglia e di proprietario di terre, e i medesimi si compenetrano
per modo, che i due concetti si vengono immedesimando l'uno nell'altro ,
cosicchè, quale padre di famiglia , esso apparisce come un proprietario , e per
essere proprietario deve essere un capo famiglia ; donde consegue, che anche i
due vocaboli di familia e di mancipium possono sostituirsi l'uno all'altro (1).
( 1) V. in proposito il Voigt, Die XII Tafeln , II, pag. 10 e 11, note 5 e 6 ,
ove son citati varii passi da cui risulta , che la familia in personas et in
res deducitur. Leg. 195, Dig. (50, 15 ). Cid pure accade del mancipium , il
quale talvolta è preso in significazione così larga da comprendere non solo le
cose, ma anche le persone 406 Nel censo infatti non comparisce che il caput, in
quanto unifica in sè medesimo persone e cose, e in quanto egli è libero ,
cittadino, in dipendente nel seno della famiglia . Esso conta per uno, ma
intanto rappresenta molte persone ad un tempo : cosicchè anche la proprietà ,
che trovasi posta in suo capo, mentre nel costume appartiene alla famiglia ,
sotto il punto di vista giuridico viene invece ad essere considerata come una
proprietà esclusivamente propria del capo di famiglia. Quasi si direbbe che
l'imperium del quirite nella propria casa viene ad essere foggiato sulmodello
stesso del regis imperium per quello che si riferisce alla città . Esso ha
impero sulle cose e sulle persone, al modo stesso che il magistrato ha
l'imperium domimi litiaeque, e l'una ed anche l'altra podestà , sotto il punto
di vista giuridico e politico , non hanno confine, sebbene nella realtà siano
contenute in stretti vincoli dal costume pubblico o privato . Di qui la
conseguenza, che mentre questo è il momento storico , in cui ap parisce più
senza confini il potere del padrone sugli schiavi , quello del marito sulla
moglie , quello del padre sui figli, noi intanto ab biamo tutti gli argomenti
per credere, che fu appunto questo il tempo, in cui fu migliore la condizione
degli schiavi, volontariamente accettata la subordinazione dei figli e della
moglie, e quello in cuiil potere del padre, cosi esorbitante nella sua
configurazione giuridica, nella realtà non ebbe a dar luogo a gravi abusi. Fu
sopratutto in questo primo periodo, che i figli dei servi erano allevati con
quelli del padrone; che le mogli, mentre giuridicamente potevano essere
ripudiate , nel fatto non conoscevano il divorzio ; che i figli prova vano la
severità del padre, non tanto nelle pareti domestiche, quanto piuttosto,
allorchè egli investito del pubblico potere giungeva a soffo care gli affetti
del sangue per far rispettare l'imperium , di cuitro vavasi insignito (1). dipendentidal
capo di famiglia, come lo dimostra l'espressione conservataci da Gellio ,
secondo cui la mater familias è in manu mancipioque mariti. XVIII, 6, 9. Ciò
però non toglie , che il vocabolo familia significasse di preferenza il
complesso delle per sone, e quello di mancipium il complesso delle cose, che
erano soggette al potere del capo di famiglia. Cid apparirà meglio in questo
stesso capitolo, $ 4, in cui si discorrerà appunto del mancipium , e delle sue
varie significazioni. ( 1) La causa di questo contrasto tra l'ordinamento
giuridico della famiglia e le condizioni reali della medesima sarà meglio posta
in evidenza al cap . 1, § 1°, ove si discorre del ius connubii. Quanto alla
figura del padre di famiglia patriarcale durante il periodo gentilizio, vedi
sopra il nº 94 , pag. 119 . 407 326. Se non che è ovvio il chiedersi, in qual
modo siasi potuto modellare in modo così vigoroso ed efficace la figura del
quirite . Io non dubito di rispondere che questa concezione dell'uomo sotto
l'aspetto esclusivamente giuridico , se per una parte fu determinata dalle
condizioni economiche e sociali, dall'altra fu anche l'effetto di una potente
astrazione giuridica , compiuta da un popolo con un pro cesso mentale non
diverso da quello , che seguirebbe un giureconsulto moderno. Gli elementi
preesistevano nella organizzazione gentilizia e consistevano nella figura del
capo di famiglia, e nel concetto della proprietà , che a lui apparteneva.
Mediante un lavoro di astrazione, che è famigliare al giureconsulto, i due concetti
di capofamiglia e di proprietario furono staccati dall'ambiente, in cui si
erano for mati, furono isolati da tutti gli altri rapporti di carattere
gentilizio, riguardati attraverso il crogiuolo del censo , in cui persone e
cose dipendevano da un solo caput, e ne eruppe cosi questa figura tipica del
quirite , che è soldato ed agricoltore , capo di famiglia e proprietario ,
individuo e capo gruppo , il quale sotto un aspetto è una realtà e sotto un
altro è già una astrazione o concezione giuridica. Lo stesso è a dirsi delle
due istituzioni fondamentali della famiglia e delle proprietà, quali vengono a
presentarsi nel ius quiritium la cui formazione fu determinata dalla
costituzione serviana, An ch'esse sono tratte dalla realtà , e sono due ruderi
dell'organizzazione gentilizia , nel senso vero e proprio della parola , salvo
che, traspor tate nel seno delle città e cosi isolate dall'ambiente, che le
circon dava, fanno su chi le considera un effetto analogo a quello di quei
ruderi delle mura serviane, che circondate da un' aiuola si incon trano nella
Via Nazionale di Roma moderna. Di qui la conseguenza, che anche la proprietà e
la famiglia debbono essere considerate come due costruzioni giuridiche, in
quanto che esse non sono la pro prietà e la famiglia , quali effettivamente
esistevano, ma sono il frutto di un'elaborazione giuridica, per cui l'una e
l'altra sono iso late da quegli elementi, sopratutto religiosi e morali, che
nella realtà ne moderavano la rigidezza. Siccome infatti il quirite, come tale,
non è più nè il gentile, nè il cliente, né il patrizio, nè il plebeo , ma è un
capo famiglia , considerato come padrone assoluto delle cose e delle persone,
che da lui dipendono ; cosi l'aureola del buon co stume , del consiglio
domestico , del consiglio degli anziani, delle tradizioni del villaggio , della
religione, di cui il padre antico era il sacerdote , viene a scomparire
pressochè intieramente nel diritto 408 quiritario. In questo più non scorgesi,
giuridicamente parlando, che un caput, che è proprietario e padre ad un tempo,
e il cui potere (manus) sulle persone e sulle cose, che ne dipendono (mancipium
o familia ), apparisce senza confini, rendendo cosi possibile l'applicazione di
una logica, il cui processo sarebbe stato ad ogni istante interrotto , se si
fosse dovuto tener conto degli altri vincoli e rapporti, in cui il quirite
effettivamente si trovava. 327. Lo stesso deve pur dirsi di quel carattere,
cosi saliente nel di ritto primitivo di Roma, per cui i poteri sulle persone e
sulle cose vengono ad immedesimarsi l'uno nell'altro, e possono quindi essere
in dicati coimedesimivocaboli, rivendicati nella stessa guisa , e trasmessi col
medesimo atto . Anche ciò non deve ritenersi come indizio , che per i Romani la
potestà del padre si confondesse colla proprietà : ma è unicamente il frutto di
una elaborazione giuridica, in quanto che questi due poteri, dovendo passare
per il crogiuolo del censo , venivano in sostanza a ridursi tutti al concetto
del mio e del tuo . Ed a questo riguardo credo di non esagerare dicendo, che fu
una grande ventura per il diritto romano , che il medesimo fosse cosi costretto
a modellare ogni diritto sopra quello di proprietà , in quanto che non eravi
certamente altro concetto , che potesse meglio acco modarsi a tutte le
applicazioni della logica giuridica. Se questa infatti avesse dovuto applicarsi
alle persone, si sarebbe ad ogni istante inceppata in considerazioni di umanità
, mentre spiegandosi in certa guisa di fronte alle cose potė spingersi a tutte
le deduzioni, di cui poteva essere capace , e per tal modo il diritto potè appa
rire in certi casi inumano e crudele , ma la costruzione giuridica venne ad
essere più logica e più coerente . Cosi deve pure attribuirsi ad una
elaborazione giuridica, resa ne cessaria dalle condizioni, sotto cui patriziato
e plebe entravano a far parte della comunanza, quel concetto , per cui quella
proprietà, che nel costume ritenevasi appartenere alla famiglia ,
giuridicamente in vece venne ad essere considerata come spettante ad un
individuo , che poteva disporne in qualsiasi guisa. Questo infatti era il solo
modo di combinare il concetto della proprietà famigliare , che era proprio del
patriziato, con quello della proprietà privata ed individuale, che era la sola,
che fosse conosciuta dalla plebe. Fondendosi insieme, le due formedi proprietà
diedero origine a quella singolare istituzione della proprietà quiritaria , che
nel costume si ritiene della famiglia , e in diritto si considera come
esclusivamente propria del padre, per 409 cui tutto ciò , che acquistano gli
altri membri della famiglia , a lui solo appartiene ( 1). 328. Fermo cosi nelle
sue linee generali il concetto fondamentale del quirite , quale ebbe ad uscire
dal crogiuolo del censo istituito da Servio Tullio, viene ad essere facile il
comprendere come i varii atteggiamenti, sotto cui esso può essere considerato ,
abbiano potuto essere scomposti ed analizzati, e abbiano così data origine ad
al trettante concezioni giuridiche foggiate sullo stesso modello . Il quirite
infatti costituisce in certo modo la configurazione giu ridica dell'umana
persona, quale allora poteva essere concepita , e come tale può essere
considerato : – o in quanto sta , ossia nella posizione giuridica (status), che
egli tiene nella comunanza quiri tiana: - o in quanto egli si muove ed agisce,
ossia in quanto egli entra in rapporti con altri quiriti. In quanto sta , ossia
in quanto egli tiene uno status, questo può essere scomposto nei suoi varii
elementi, e quindi il quirite viene ad avere un caput, che comprende tutta la
sua capacità giuridica come quirite ; una manus, che inchiude il complesso dei
poteri, che gli appartengono ex iure quiritium ; un mancipium , il quale
implica parimenti nella sua significazione primitiva così le persone, che le
cose, che da lui dipendono per diritto quiritario . È poi degno di nota , che
tutti questi vocaboli, in cui viene ad essere racchiusa l'individualità
giuridica del quirite, hanno una significazione mate riale e giuridica ,
concreta ed astratta ad un tempo . Cosi, ad esempio , il vocabolo caput, mentre
da una parte indica la parte più nobile ed importante del corpo, dall'altra
designa la capacità giuridica poten ziale del quirite che è come la sorgente di
tutti i diritti spettanti al medesimo; quello dimanus,mentre esprime l'organo mediante
cui si esplica la forza e l'energia fisica dell'uomo, è ad un tempo il sim bolo
efficacissimo dell'attività giuridica che si viene estrinsecando in certi
determinati poteri ; e quello infine di mancipium da ma nucaptum , mentre da
una parte significa una cosa, che per essere materialmente afferrata dalla
manus, non può sfuggire alla mede sima, dall'altra indica eziandio lo stato di
sottomissione giuridica , in cui vengono a trovarsi le persone e le cose che da
essa dipendono. (1) Questo carattere speciale della proprietà quiritaria e il
modo in cui essa potè formarsi saranno meglio spiegati nel cap. seg ., $ 6 ,
ove si discorre dell'origine del dominium ex iure quiritium . 410 Questi varii
elementi poi, intrecciandosi fra di loro, costituiscono un tutto organico e
coerente ; poichè, tanto nel significato mate riale quanto nel giuridico , la
manus viene in certo modo ad esser e il termine di mezzo fra il caput che la
dirige e il mancipium che dipende dalla medesima. In quanto invece si muove ed
agisce, il quirite viene a contatto coi proprii simili, e quindi le sue
estrinsecazioni giuridiche possono essere richiamate: al connubium , da
cuideriva , si può dire, tutto il diritto , che si riferisce alle persone; al
commercium , in cui si com pendiano tutte le manifestazioni giuridiche, che si
riferiscono alle cose ; all'actio, da cui scaturisce tutto quel complesso di
proce dure, con cui egli pud far valere qualsiasi suo diritto : vocaboli anche
questi, che hanno pure una significazione materiale e giuridica ad un tempo.
Tutti questi elementi poi, mentre concorrono a costituire l'organismo del
tutto, sono percorsi da un proprio concetto informa tore, che si viene
logicamente svolgendo, e che dà cosi origine a quella dialettica latente della
giurisprudenza romana, colla quale sol tanto si possono spiegare certe
peculiarità del diritto romano. Intanto è da notarsi, che tutto questo bagaglio
del diritto quiri tario è tolto in sostanza dal periodo gentilizio , perchè già
in esso eransi formati i concetti del caput per indicare il capo del gruppo
famigliare o gentilizio , della manus per indicare il complesso dei suoi
poteri, e del mancipium per indicare le cose e le persone che gli erano
soggette ; come pure in esso , già si erano preparati i concetti di connubium ,
di commercium e di actio . Vi ha però questa differenza, che mentre questi un
tempo indicavano dei rap porti, che intercedevano fra i membri delle varie
genti, ora indi cano invece la posizione speciale, che il quirite prende nella
co munanza quiritaria , ed i varii aspetti sotto cui dispiegasi l'attività
giuridica del quirite nei suoi rapporti cogli altri quiriti (1). Quindi è, che
mentre questi concetti un tempo avevano una significazione , che era
determinata dall'ambiente, in cui si erano formati; ora invece, essendo
staccati dall'ambiente stesso , si cambiano in altrettante forme e concezioni
logiche, e come tali diventano capaci di uno svolgi mento logico e storico
compiutamente diverso, la cui ricostruzione formerà oggetto dei capitoli
seguenti. (1) Il naturale processo , in base a cui venne formandosi un diritto
fra le varie genti, fu spiegato più sopra ai nn. 94 e seg ., pag. 117, e quello
per cui i concetti intergentilizii così formati si cambiarono in concetti
quiritarii trovasi descritto al n ° 266 , pag. 326 e seg. - 411 CAPITOLO II. Il
quirite nel suo status. § 1. – Il censo serviano e la genesi dei concetti di
caput, manus , mancipium . 329. Anche oggidi il più arduo problema, che
presentino le ori gini del ius quiritium , consiste nello spiegare come mai il
mede simo si trovasse di un tratto isolato da quell'ambiente religioso e
gentilizio , in cui erasi formato , e come esso abbia potuto prendere le mosse
da concetti così sintetici e comprensivi, quali sono quelli di caput, manus ,
mancipium . Come mai potè accadere, che quel ius, che presso le genti patrizie
era ancora soverchiato dal fas ed ed avviluppato nel mos ( 1), sia pervenuto
pressochè di un tratto ad affermare la propria esistenza e a ricevere uno
svolgimento lo gico e storico del tutto distinto da quello della religione e
della mo rale ? In qual modo parimenti potè accadere, che un diritto, il quale,
secondo l'attestazione dei giureconsulti, ebbe a formarsi « necessi tate
exigente et rebus ipsis dictantibus » , siasi iniziato con sintesi potenti, che
inchiudono in germe tutti i suoi ulteriori svolgimenti ? Son note in proposito
le divergenze degli autori e le congetture innumerabili, che furono poste
innanzi, ed è certo assai difficile di giungere ad una risoluzione, che possa
rispondere a tutte le ob biezioni. Persuaso tuttavia, che per comprendere le
istituzioni di un popolo , sia sopratutto indispensabile di spogliarsi delle
idee del tempo , per trasportarsi nell'ambiente e nel pensiero del popolo , fra
cui quelle istituzioni giunsero a formarsi, io ritengo che il solo modo per
giungere a comprendere questa singolare formazione del ius quiritium e la
significazione dei concetti da cui esso parte, sia quello di ricostrurre in
base alle condizioni economiche e sociali , in cui si trovavano il patriziato e
la plebe, quella comunanza quiritaria , (1) Il carattere eminentemente
religioso del diritto primitivo delle genti patrizie fu dimostrato più sopra,
lib . I, cap. V , pag. 90 a 104, discorrendo dei rapporti fra il mos, il fas e
il ius. Il medesimo poi si mantenne ancora durante il periodo della città
esclusivamente patrizia, come lo dimostra l'analisi delle leges regiae fatta ai
nn. 268 a 270 , pag. 329 e segg. 412 la cui formazione ebbe ad essere
determinata dalla costituzione e dal censo di Servio Tullio . 330. Credo di
avere dimostrato a suo tempo come il patriziato e la plebe, anteriormente
all'epoca serviana, non avessero comuni nè la religione, né i costumi, nè
l'organizzazione gentilizia , nè i connubii, che sono il fondamento dell'organizzazione
domestica. I soli diritti, che la città patrizia avesse accordati alle plebi
circo stanti, non devono neppure essere indicati col nome di ius com mercii ,
ma bensi con quello di ius nesi mancipiique ; il quale consisteva nel diritto
dei plebei di potersi obbligare vincolando la propria persona, e di poter
disporre di quelle possessioni, che essi tenevano nel territorio romano (1). È
quindi evidente che, se era possibile una comunanza fra i due ordini, questa
nelle origini non poteva avere nè un carattere religioso e neppure un carattere
mo rale, ma poteva solo avere un carattere esclusivamente economico , giuridico
e militare. Ne consegui pertanto, che per formare questa comunanza venne ad
essere necessario di sceverare affatto il ius, nel senso stretto e rigido della
parola , dal fas e dal mos, con cui prima trovavasi implicato nelle istituzioni
delle genti patrizie . Questa selezione erasi già in parte iniziata col
formarsi della città esclusivamente patrizia, poichè già fin d'allora erasi
venuta distin guendo la vita pubblica dalla privata ed erasi già in parte affie
volita l'organizzazione gentilizia (2) ; ma la medesima dovette spin gersi ben
più oltre coll'accoglimento nel populus di un elemento , a cui non erasi
riconosciuto che il ius neximancipiique. Di qui la rigidezza singolare, che
ebbe ad assumere il ius quiritium , allorchè cominciò ad essere comune al
patriziato ed alla plebe ; poichè da quel momento esso venne ad essere
sottratto a quell'au reola religiosa e patriarcale , che dominava il periodo
gentilizio , e fu sottoposto all'impero di una logica del tutto sua propria .
Se non che , anche in tema di diritto, nel senso stretto della pa rola , non
tutte le istituzioni potevano servire di base alla comu (1 ) V., quanto alla
condizione della plebe, il lib . I, cap. IX , pag. 180 a 196, e quanto al ius
nexi mancipiique, spettante alla medesima, il nº 160 , pag. 198 e 199 , come
pure il nº 287, pag. 351 e 352. (2) Che anche il diritto della città patrizia
supponesse una specie di selezione fra le istituzioni delle varie genti,
operatasi per opera dei collegi sacerdotali e sotto forma di legislazione regia
, fu dimostrato nel libro II, cap. IV , SS 1º , 2º e 3º, pag. 303 a 333. - 413
nanza quiritaria, ma soltanto quelle che in effetto erano comuni ai due ordini,
o che erano tali da rendere possibile un ravvicina mento fra di loro . Quindi
anche in fatto di diritto convenne fare astrazione da tutti quei rapporti, che
per il momento non potevano essere comuni, per fissare lo sguardo su quei
rapporti e su quegli interessi, in base a cui essi potevano partecipare alla
stessa comu nanza. Siccome quindi l'interesse, che avevano il patriziato e la
plebe ad entrare in una stessa comunanza, era sopratutto l'interesse della
comune difesa , così la comunanza quiritaria assunse in que st'epoca un
carattere più esclusivamente militare , che prima non avesse . Siccome
parimenti gli unici rapporti, per cui poteva avve. rarsi un ravvicinamento fra
di loro, erano quelli relativi alla fa miglia unificata sotto il proprio capo,
e alla proprietà spettante alla famiglia stessa, così il ius quiritium comune
ai due ordini cominciò a consolidarsi nella parte relativa alle due istituzioni
fondamentali della proprietà e della famiglia . 331. Di cid è facile persuadersi
quando si considerino le condi zioni rispettive dei due ordini, che dovevano
partecipare alla stessa comunanza . Da una parte eran vi i membri delle gentes
patriciae , i quali ancorchè fossero i fondatori della città , continuavano
però sempre ad essere organizzati per gruppi, sovrapponentisi gli uni agli
altri (famiglie , genti, e tribù gentilizie), come lo dimostra il fatto, che il
popolo primitivo era diviso per curiae , le quali erano appunto for mate ex
hominum generibus. Il patriziato pertanto non aveva in certo modo il concetto
della individualità nello stretto senso della parola, ma solo il concetto dei
diversi gruppi e dei capi che rap presentavano imedesimi. Di questi gruppi poi
ilmeno esteso e il più strettamente unificato era quello della famiglia ,
fondata sulla agna zione, e riunita sotto la potestà del padre . - Dall'altra
parte in vece eravi la plebe, la quale, essendo una moltitudine di individui
rimasti liberi dalla clientela , o immigrati da altre città , o traspor tati da
popolazioni conquistate, componevasi invece di individui anche isolati o tutto
al più di famiglie , le quali non erano più strette insieme dal vincolo di
agnazione, ma piuttosto da quello più naturale dell'affinità e della cognazione
(1 ). (1) V.,quanto all'organizzazione gentilizia del patriziato, il lib . I,
cap. IV , e quanto alle condizioni della plebe, il lib . I, cap. IX. 414 Queste
differenze poi, che esistevano fra di loro quanto alla loro organizzazione, si
riflettevano eziandio nelle loro condizioni econo miche. Da una parte infatti
continuava a prevalere presso le gentes patriciae la proprietà collettiva
dell'ager gentilicius o dell'ager compascuus, il che però non impediva che esse
già conoscessero una specie di proprietà famigliare e privata , la quale era designata
col vocabolo di heredium . Questo consisteva nell'assegno, che le varie gentes
facevano sull'ager gentilicius ad ogni gentile, che passando a matrimonio
veniva a fondare una nuova famiglia , ed era a somi glianza di esso, che
secondo la tradizione anche Romolo aveva fatto a ciascuno dei suoi seguaci un
assegno, il quale pur riteneva il nome di heredium . Il medesimo quindi
costituiva in certo modo il patrimonio famigliare, e come tale non poteva
essere alienato senza il consenso degli altri capi di famiglia , ma doveva
invece trasmettersi dai genitori ai figli, e mantenersi per quanto si poteva
indiviso (ercto non cito ); ma intanto , essendo già intestato al capo di
famiglia , cominciava ad avvicinarsi alla proprietà individuale e privata .
Dall'altra invece la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia , non poteva
neppure avere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius e dell'ager
compascuus. Di qui conseguiva, che i plebei nel fatto si trovavano stabiliti
sopra certi spazi di suolo, che essi avevano occupato sul territorio romano, o
di cui avevano ottenuto il godimento da qualche gens patricia , o che loro
erano stati as segnati dal re sullo stesso ager publicus. È quindi evidente,
che questi stanziamenti della plebe, essendo una applicazione del ius mancipii
alla medesima accordato , più non potevano essere chia mati col vocabolo di
heredia, poichè questo conteneva ancora l'idea di un patrimonio avito da
trasmettersi agli eredi, ma potevano in vece più acconciamente indicarsi col
vocabolo dimancipia, poichè essi erano state effettivamente manucapti, e perchè
fino a quel punto costituivano piuttosto semplici possessi, che non vere
proprietà al punto di vista gentilizio (1). 332. In questa diversità di
condizioni egli è evidente, che il (1) Quanto al concetto dell'heredium , come
forma della proprietà famigliare nel periodo gentilizio , vedi il nº 56 , pag.
70 ; ma devo aggiungere, che dettando quelle pagine non aveva ancora ravvisata
la differenza esistente fra l'heredium ed il man cipium , nè aveva cercato di
spiegare come perchè all'heredium del periodo genti lizio fosse sottentrato nel
ius quiritium il concetto di mancipium . - 415 censo , dovendo comprendere i
due ordini, non poteva tener conto che degli elementi, che erano loro comuni. Se
il censo quindi avesse dovuto farsi di soli patrizii, si sarebbe dovuto
indicare la famiglia, la gente e la tribù gentilizia a cui ap partenevano, e
avrebbesi così avuto un censo fondato sulla discen denza, come quello sovra cui
dovevano probabilmente essersi for mate le curiae. Se esso invece avesse dovuto
comprendere i soli plebei, si sarebbe dovuto procedere per capita ; poichè fra
essi ve ne erano anche di quelli, che solo avevano il loro caput, e che non
avrebbero potuto indicare la loro vera discendenza. Siccome invece il censo,
come base della nuova comunanza quiritaria, do veva comprendere gli uni e gli
altri ; cosi la soluzione fu la più naturale di tutte , quella cioè di dare al
censo non più una base genealogica (ex hominum generibus), che avrebbe potuto
compren dere solo i patrizii ed alcune famiglie plebee, ma bensì una base
territoriale e locale (ex regionibus et locis) (1), che poteva com prendere gli
uni e gli altri, e di censire gli abitanti, non per genti e neppure per
famiglie, ma per capita , attribuendo perd al voca bolo di caput la doppia
significazione di individuo e di capo di quel gruppo famigliare , che era
appunto il solo, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Così pure se si
fosse trattato di censire le proprietà patrizie , si sarebbe dovuto prendere
come base la proprietà collettiva della gens (ager gentilicius), nella quale
sarebbero anche rientrati gli heredia delle singole famiglie ; ma volendosi
anche censire i possessi e gli stanziamenti della plebe , convenne di necessità
prendere a base del censimento quella sola forma di proprietà e di possesso,
che apparteneva ai patrizii sotto il nome di heredium , e ai plebei sotto
quello di mancipium . Tuttavia questa proprietà individuale e famigliare ad un
tempo, che era comune ad entrambi gli ordini, non potè più essere indicata
acconciamente col vocabolo di here dium , il quale era pur sempre una
istituzione di origine gentilizia, ma potè esserlo più acconciamente con quello
di mancipium , il quale , oltre al rispondere perfettamente ai concetti di
caput e di inanus, aveva anche il vantaggio di significare al tempo stesso la
proprietà e il possesso , e di esprimere con potente efficacia quel carattere
di proprietà esclusiva ed individuale , che veniva ad assu ( 1) Gellio , XV, 28,
4 . 416 mere quel patrimonio , che nel censo era intestato ad una deter minata
persona. La conseguenza intanto fu questa , che nella comunanza quiritaria ,
formatasi in base alla costituzione ed al censo serviano, mentre il patrizio fu
isolato in certo modo dall'ambiente gentilizio , in cui esso prima si trovava,
il plebeo ottenne invece il riconoscimento ufficiale del possesso, sovra cui
esso era stabilito. L'uno e l'altro comparvero nel censo come quiriti, ossia
come capi di famiglia e come proprietarii di terra ; ebbero un complesso di
diritti comuni, che prese appunto il nome di ius quiritium . Così pure la
comunanza quiritaria , avendo una base economica , venne a considerare ogni
cosa sotto l'aspetto del mio e del tuo, e assunse eziandio una impronta emi
nentemente militare, che spiega quel carattere di forza e di vio lenza che è
inerente al ius quiritium e si rivela nei vocaboli e nei simboli da esso
adoperati. 333. Pongasi ora, che trattisi di comprendere in certe rubriche ,
che si adattino per la formazione del censo , l'individualità giuridica di
questo quirite, e anche oggidi sarebbe forse difficile di sovrap porre a queste
varie rubriche vocaboli più sintetici e compren sivi e al tempo stesso più
esatti e precisi di quelli di caput, manus, mancipium . Nella categoria del
caput verrà il nome del cittadino, libero e sui iuris, come individuo e come
capo di famiglia , e vi saranno le indicazioni del suo nome, della sua età ,
della tribù locale a cui appartiene , la cui indicazione finirà anzi per formar
parte delle denominazioni ufficiali del cittadino romano (1). Nella seconda
rubrica invece saranno indicati i poteri, che a lui ap partengono sulle
persone, che entrano a costituire il gruppo , di cui egli è capo , sulle
persone cioè , che siano in manu , in potestate, in mancipio, e siccome questa
enumerazione dovrà naturalmente par tire dalla moglie, che trovasi sotto la
manus, così può spiegarsi come tutti questi poteri vengano sotto la
intitolazione generica di manus. Nella terza categoria infine comparirà il
mancipium , ossia il complesso delle persone e delle cose , che costituivano il
vero patri monio del quirite , in quanto egli era un capo di famiglia indipen
dente e sovrano. (1) Che il nome della tribù, a cui il cittadino apparteneva,
entrasse nelle deno minazioni ufficiali del medesimo, appare da una quantità
grandissima di iscrizioni. V. in proposito il MICHEL, Du droit de cité romaine,
Paris, 1885. 417 Questo mancipium pertanto non potrà più comprendere nè l'ager
gentilicius, come quello che non appartiene al capo di famiglia, ma alla gente
; né le mandrie e gli armenti, che pascolano in questo ager gentilicius; né
eziandio le possessiones , che si possano avere nell'ager publicus; nè la
pecunia circolante , il cui ammontare pud essere variabile e non si presta ad
una constatazione esatta e pre cisa, quale è quella richiesta per un censo ; ma
dovrà invece com prendere soltanto quella proprietà , che costituisse in certo
modo il patrimonio normale, costante, e pressochè tipico di un capo di fa
miglia agricola , nelle condizioni economiche e sociali in cui trova vasi
allora il popolo romano. Egli è probabile infatti, per chi tenga conto della
tendenza delle genti italiche a modellare i loro istituti sul medesimo tipo ,
che quel mancipium , che doveva figurare nel censo , quale patrimonio asso luto
ed esclusivo del quirite, tendesse nella generalità dei casi ad essere
configurato nella istessa guisa . Per verità se trattavasi dell'heredium ossia
dell'assegno fatto ad un capo di famiglia di gente patrizia , il medesimo
probabilmente doveva consistere in uno spazio dell'ager gentilicius, che
potesse bastare all'abitazione e al sostentamento di lui e della sua famiglia ;
ed è certo a somiglianza di questi primitivi assegni, che, salve le proporzioni
, dovettero es sere configurati gli assegni, che le genti facevano ai clienti,
e quelli parimenti che i re facevano alla plebe. Di qui consegui na turalmente
che, facendo astrazione dalla quantità maggiore o mi nore di iugera , o
dall'ampiezza maggiore o minore della domus in città o del tugurium nel
contado, dovette formarsi una configura zione tipica del podere del quirite.
Che anzi non è punto impro babile , che nella formazione del censo , dovendosi
ridurre a categorie generali le cose essenziali, che entravano a costituire
questo man cipium , anche queste fossero raccolte sotto certe denominazioni ti
piche, quali sarebbero quelle di praedia , di praediorum instru menta (servi,
quadrupedes quae dorso collove domantur), di praediorum servitutes (iter, via,
actus, aquaeductus); le quali po terono assai naturalmente essere indicate col
vocabolo complessivo di res mancipii, come quelle che effettivamente entravano
a costi tuire il mancipium (1). (1) Mi limito qui ad accennare in genere come
possa esser nato e siasi svolto l'importantissimo concetto del mancipium ,
perchè le molteplici questioni al riguardo saranno prese più opportunamente in
esame in questo stesso capitolo , § 4º, ove si G. Carle, Le origini del diritto
di Roma . 27 - 418 334. Intanto una conseguenza necessaria di questa specie di
se lezione del patrimonio , che apparteneva ad ogni singolo capo di fa miglia ,
veniva ad essere questa , che le res mancipii , come quelle che servivano a
determinare la posizione di esso nella comunanza quiritaria , costituissero
come una specie di proprietà privilegiata , che doveva ritenersi appartenere in
modo assoluto ed esclusivo al quirite, a cui trovavasi intestata. Si vengono
così a comprendere le espressioni più antiche di mancipium facere , mancipio
dare, mancipio accipere, le quali dapprima dovettero significare la costi
tuzione di una cosa nel mancipium , e poi anche l'acquistare e il trasmettere
una cosa , che fa parte del mancipium ; finchè la fre quenza di questi atti non
condusse a creare un vocabolo apposito, che è quello di mancipare , da cui
derivò appunto quello della mancipatio, la quale venne cosi ad essere il modo
proprio ed esclu sivo per l'alienazione delle res mancipii (1 ). Non conseguiva
tuttavia da cid , che non esistessero altri beni, di cui il cittadino avesse
l'effettivo godimento : ma questi non con tavano nel determinare la sua
posizione di quirite , non entravano a costituire il suo contributo alla
comunanza quiritaria , e come tali non erano dapprima oggetto di proprietà
assoluta ed esclusiva, nelvero senso della parola : essi formavano piuttosto
oggetto di uso e di godimento, ed erano compresi genericamente in una categoria
ne gativa, che più tardi fu denominata delle res nec mancipii, le quali perciò
potevano essere alienate collasemplice traditio . Può dirsi pertanto , che il
mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del
cittadino romano , fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non
proprietà nel senso vero della parola e al p semplice traditio . Può dirsi
pertanto , che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente
constatata del cittadino romano , fuori della quale poteva esservi uso o
godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al punto di vista
quiritario . È poi questa se parazione, che a causa del censo si venne operando
fra l'intesta zione ufficiale della proprietà di una cosa, e l'effettivo
godimento di essa, che ci spiega come negli antichi autori si contrappongano
tratterà ex professo del mancipium e della distinzione delle res mancipii e nec
mancipii. L'idea che la distinzione delle res mancipië e nec mancipii dovesse
avere qualche attinenza col censo Serviano ebbe già ad essere enunciata dal
PUTTENDORF, dal LANGE, dalWANGERON, dal Kuntze, ed è anche seguìta presso di
noi dal SERAFINI, Istituz., Firenze, 1881, § 21. Vedi lo Squitti, Resmancipi e
nec mancipi, Napoli, 1885, pag. 51, gli autori ivi citati, e gli argomenti che
egli adduce contro questa opinione, quale ebbe ad essere fino ad ora formulata
. ( 1) Cfr. BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 90 . 9 419
talvolta i concetti dimancipium e quelli di usus fructus (1), e come più tardi
abbia potuto accadere, che una persona avesse sopra una cosa il nudum ius
quiritium , mentre un'altra invece ne aveva l'ef fettivo godimento (in bonis ).
È poi facile a comprendere come questa posizione privilegiata, in cui venne ad
essere collocato il mancipium , abbia anche cooperato efficacemente a
dissolvere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius , e con essa a
dissolvere eziandio l'organizzazione gentilizia , la quale venne in certo modo
ad essere senza base , allorchè manco del suo fondamento economico. Ogni gens
patricia infatti, se volle avere una quantità di suffragii anche nelle
centurie, ove fini per concentrarsi la somma del pubblico potere, dovette
affrettarsi a fare degli assegni di terra ai proprii membri non solo , ma anche
ai proprii clienti e per tal modo gli agri gentilicii vennero spartendosi, ed
all '« ercto non cito » , che indicava l'indivisione del patrimonio famigliare
nel periodo gentilizio , sottentrò il principio già riconosciuto dalle XII
Tavole , secondo cui altri non può essere costretto a rimanere in comunione suo
malgrado: « si erctum ciet , arbitros tres dato » (2 ). 335. Così spiegato il
censo serviano, viene a conseguirne che se vogliasi conoscere la vera posizione
del quirite , non come uomo, ma come membro della comunanza quiritaria , sarà
nelle tabulae censoriae, che a lui si riferiscono, che dovrà essere cercato il
suo vero status. Quindi se trattisi di un cittadino, libero e sui iuris, ma
senza potestà famigliare e senza patrimonio, egli sarà bensi un caput, ma, non
avendo che quello , sarà un capite census, e sarà (1) Questo contrapposto
occorre più volte nelle epistole di CICERONE, e fra le altre volte in una
lettera ad Curium , VII, 30, 2 ove scrive : « Cuius (Attici) quando « proprium
te esse scribis mancipio et nexo, meum autem usu et fructu , contentus « isto
sum . Id enim est cuiusque proprium , quo quisque fruitur atque utitur » ; il
che significava in sostanza, che egli preferiva al dominio ufficiale su Curio
(man. cipium et nexum ), che spettava ad Attico, il godimento effettivo (usus
et fructus ) della sua conversazione. Altre volte però questo contrapposto ha
una significazione diversa , come nel bel verso di LUCR., III, 969 : « vita
mancipio nulli datur, omnibus usu » , ove mancipium si contrappone ad usus, in
quanto significa una cosa , che ci appartiene a discrezione, in guisa da
poterne usare ed abusare, ed indica così il potere illimitato ed esclusivo, che
competeva sulmancipium . Cfr. BONFANTE , op. cit., pag. 92, nota 2, e pag . 96,
nº 2 , e gli altri passi ivi citati. (2 ) Secondo la ricostruzione del Voigt,
op. cit., I, pag. 712, tale sarebbe stato il tenore della legge 16 , della
tavola V. 420 solo molto tardi, che la repubblica si contenterà di accettarlo
nella formazione del proprio esercito . Che se egli, pur non avendo il
patrimonio richiesto per entrare nelle classi e centurie , abbia tut tavia
qualche sostanza ( 1500 assi) ed una prole , che può crescere a benefizio della
repubblica e che può interessarlo per essa, egli figu rerà nel censo colla
prole stessa e colla manus, che gli appartiene sulla medesima, e sarà cosi
nella classe dei proletarii, la quale è già in condizione meno umile, poichè in
condizioni difficili potrà far parte, se non del vero esercito , almeno di una
specie di milizia raccogli ticcia (militia tumultuaria ), che sarà armata a
spese della repub blica (1). Infine se anche per ciò, che si riferisce al
mancipium , egli giunga a quella misura, che è necessaria per essere ammesso
nelle classi e nelle centurie, egli verrà ad essere adsiduus o locuples, e
secondo il valore maggiore o minore del suo mancipium potrà essere collocato in
una delle cinque classi, che formano il vero po pulus romanus quiritium .
Queste diverse categorie verranno poi ad essere così distinte fra di loro, che
ancora nelle XII Tavole per un adsiduus convenuto in giudizio per un debito ,
dovrà rispon dere un altro adsiduus, mentre per il proletario potrà rispondere
chicchessia: « adsiduo vindex adsiduus esto ; proletario, iam civi, quis volet
vindex esto » ; ed è solo più tardi che, secondo l'atte stazione di Gellio , «
proletarii et adsidui evanuerunt, omnisque illa XII Tabularum antiquitas
consopita est » ( 2). Tutto ciò intanto spiega come dalle stesse tavole
censuarie si po tesse desumere lo status generalis del quirite sia come
individuo , che come capo di famiglia e proprietario . Siccome tuttavia, accanto
alle qualificazioni generali del capo gruppo , trovavansi pure nel censo le
qualificazioni speciali di pater familias, mater familias, di liberi, di servi,
di sui iuris , di alieni iuris, così anche queste varie gradazioni dello stato
giuridico, senza essere create dal censo , furono tuttavia nel medesimo
delineate , e per tal modo esso cooperd eziandio a svolgere e a precisare,
accanto al concetto generale del quirite come tale, anche il concetto degli
stati speciali, che una persona rappresentava nel gruppo a cui apparteneva. (
1) Questa condizione dei capite censi e dei proletarii, riguardo al servizio
mili tare, ci è attestata espressamente da GELLIO, XVI, 10 , $$ 10 a 15. Egli
poi, citando un passo di Sallustio, direbbe che i capite censi non furono arruolati,
che da C. Mario nella guerra contro i Cimbri, o in quella contro Giugurta . ( 2
) Gellio , XI, 6 , 10, 8 . - 421 336. Che se alle cose premesse si aggiunga,
che il censo all'epoca serviana fu il documento ufficiale dello stato del
cittadino, il quale serviva a determinare la sua posizione come contribuente,
come cit tadino e come soldato ad un tempo, per guisa che la sola iscrizione
nel censo poteva valere per la manomissione di un servo, sarà fa cile il
comprendere come esso abbia potuto in parte conferire a determinare il
linguaggio sintetico ed astratto, da cui prese le mosse il ius quiritium , ed
il processo con cui esso vennesi elaborando. Esso infatti fu uno dei mezzi più
potenti, mediante cui l'individualità giuridica del cittadino fu isolata da
tutti gli elementi estranei al diritto, ed il quirite fu sottratto all'ambiente
gentilizio in cui prima si trovava , ed obbligato a fermare il suo sguardo
sovra quei rapporti che comparivano nel censo . Esso parimenti fu una delle
cause per cui il ius. quiritium , che venne elaborandosi su questa trama pri
mitiva, perdette di un tratto quell'aureola religiosa , che circondava le
istituzioni delle genti patrizie, e potè essere svolto con una rigi dezza e con
una logica astratta , che sarebbero certo incomprensi bili, quando non si
conoscesse la causa , da cui poterono essere de terminate. Con ciò non intendo
già affermare , che i concetti, da cui prese le mosse il ius quiritium , siano
stati creati dal censo , poichè ho dimostrato invece che essi già preesistevano
; ma solo di provare , che il censo servi a dare loro una configurazione esatta
e precisa ; a separarli nettamente gli uni dagli altri ; a fare in guisa che
ciascuno avesse un'esistenza propria e distinta, an corchè fra tutti
concorressero a costituire una sola individualità giuridica . Fu in questo modo
, che al punto di vista quiritario ogni gruppo apparve in certo modo unificato
sotto il proprio capo ; che tanto il diritto sulle persone che quello sulle
cose nel l'elaborazione giuridica si ridusse ad una questione di mio e di tuo;
che ciascun gruppo, essendo per dir cosi racchiuso in una cate goria
determinata , ebbe un'esistenza cosi distinta da tutti gli altri gruppi, che i
membri dell'uno non potevano promettere nè stipu lare per quelli dell'altro ;
che infine anche le varie membra del quirite si vennero come dislogando le une
dalle altre , e poterono ricevere ciascuno un proprio sviluppo, dando così
occasione a quel l'automatismo di concetti e di istituti, che è uno dei
caratteri più salienti del diritto romano. Intanto questo sguardo generale ai
caratteri peculiari della co munanza quiritaria , quale si formò nell'epoca
serviana , e al censo che servi di base alla medesima, ci preparerà la via per
ricostruire 422 la storia primitiva dei concetti fondamentali di questa, che
può a ragione chiamarsi la parte statica del ius quiritium , in quanto fu in
parte determinata da una delle prime applicazioni della sta tistica per la
constatazione del numero, della forza e della ricchezza di un popolo (1). § 2.
– Il concetto del caput e la teoria della capitis diminutio. 337. Chi volesse
cercare le prime origini del concetto di caput, dovrebbe forse riportarsi col
pensiero a quell'epoca, in cui i fonda tori della città contavano dai capi i
proprii greggi ed armenti ; nè sarebbe a farne le meraviglie dalmomento, che
essi non dubitavano di chiamare ovilia quei recinti, in cui raccoglievansi le
centurie e le classi per dare il proprio voto nei comizii. Parmi tuttavia più
verosimile, che il vocabolo di caput dovesse, nel periodo gentilizio anteriore
alla formazione della città , avere quella significazione, che tuttora conserva
presso le popolazioni, che si trovano nelle stesse condizioni sociali, per cui
esso indica un capo di gruppo, quella per sona cioè, che avendo preminenza su
tutti quelli, che da essa di pendono e che la circondano, pud essere
considerata come il rap presentante, in cui si unifica il gruppo stesso .
Questo vocabolo poi, trapiantato nel censo serviano, viene ad indicare colui,
che conta per uno nel censo , e conserva cosi un'analogia colla significazione
anteriore, in quanto che il medesimo, pur essendo un individuo, unifica però in
sè stesso le persone e le cose che ne dipendono . Se per tanto altri non abbia
che il proprio caput e manchidi una sostanza valutabile nel censo stesso ,
verrà ad essere un capite census ; se invece abbia solo una sostanza, che
giunga ai 1500 assi e conti so . pratutto per la prole, che potrà produrre per
la repubblica, sarà un proletarius ; se infine abbia una sede fissa , e
sostanze sufficienti per (1) A scanso di ogni malinteso, devo qui dichiarare
che il concetto, che qui ap pare come direttivo nella ricostruzione della parte
statica del ius quiritium , non fu un presupposto, dal quale io sia partito, ma
fu il risultato ultimo, a cui mi con dussero pazienti e minute elucubrazioni
intorno ai singolari caratteri con cui esso si presenta. Questo paragrafo
pertanto fu l'ultimo ad essere scritto, ma ho creduto di premetterlo; perchè
esso, a mio avviso, agevola al lettore la comprensione di ciò che verrà dopo.
Ciò valga anche a farmi perdonare, se per avventura occorra qualche ine
vitabile ripetizione. 423 collocarlo nelle classi e per assicurare la città
della assiduità di lui a compiere le proprie obbligazioni di cittadino e di
soldato ad un tempo, verrà ad essere chiamato adsiduus o locuples ( 1). In ogni
caso, per avere integro il proprio caput e per poter contare per uno nel censo
, conviene essere libero, cittadino, e sui iuris nel seno della famiglia ; come
lo dimostra il fatto , che se altri abbia un figlio , che per aver raggiunta
l'età di 17 anni debba già entrare nelle classi e nelle centurie, non sarà esso
che conterà per uno, ma sarà invece il padre, che verrà ad essere un duicensus,
in quanto che egli viene ad essere censito con un'altra persona , cioè col
proprio figlio : « duicensus dicebatur cum altero id est cum filio, census » (2
). 338. È quindi facile il comprendere comefosse facile il passaggio dalla
significazione materiale del caput alla significazione giuridica di esso,
chiamando col vocabolo di caput il complesso delle condi zioni richieste per
figurare nel censo , ossia lo stato generale della persona. In tal modo il
vocabolo di caput cessa di indicare questo o quell'individuo in particolare, per
trasformarsi in una concezione logica ed astratta (persona ), la quale ,
ancorchè ricavata dalla realtà , può servire ad indicare il complesso delle
condizioni richieste, accid altri possa avere la capacità giuridica quiritaria
. Una volta poi, che il caput venne cosi ad essere cambiato in una concezione
astratta , il medesimo potè essere assoggettato ad una specie di analisi o di
scomposizione dei varii elementi, che entravano a costituirlo . Tali elementi
erano la libertas, la civitas e la qualità di sui iuris nel seno della famiglia
(3). Di qui la teoria della capitis diminutio , che non si ricavò
esclusivamente dai fatti, ma si svolse sulla concezione logica del caput; come
lo dimostra il fatto, che anche l'emancipato, anche l'arrogato , sebbene in sostanza
vengano talvolta a migliorare (1) Quanto all'etimologia di questi vocaboli vedi
il $ prec., nº 335. (2 ) V. Festo , vº duicensus ; Bruns, Fontes, pag. 337. (3)
V. quanto al concetto di caput, Herzog , Gesch . und Syst., I, pag. 997; il
KRÜGER, Geschichte der capitis diminutio, Breslau, 1887, $ 5 “, pag. 49 a 67,
ove prende in esame il concetto di caput nei diversi autori moderni, sopratutto
germa nici. Egli poi sembra ritenere, che il concetto di caput siasi venuto
formando gra datamente. Ritengo invece, che il diritto romano anche in questo
prorompa da una sintesi potente, a cui solo più tardi sottentrò quell'analisi,
che diede poi origine alla teoria della capitis diminutio. Il caput quindi
dapprima appartenne solo all'uomo libero, cittadino, e sui iuris; e fu solo più
tardi, che anche il figlio di famiglia si considerò avere un caput. 424 la
propria posizione, finiscono tuttavia per subire una capitis dimi nutio (1 ).
Che anzi questa logica giuridica dovrà anche applicarsi al cittadino , che sia
fatto prigioniero di guerra, e piuttosto che venir meno alla medesima si
cercherà di supplirvi colla finzione di postliminio (2 ) Intanto sono tre gli
elementi del caput, e questi vengono l'uno dopo l'altro in base alla loro
importanza. Quindi la perdita della libertas costituisce la maxima capitis
diminutio , la perdita della civitas la media, e la mutazione di stato nel seno
della famiglia la minima. Ciascuno poi di questi elementi dà origine ad una di
stinzione che vi corrisponde ; donde le distinzioni fra liberi e servi, fra
cives e peregrini, fra persone sui iuris e le persone alieni ( 1) Gaio , Comm.,
I, 160-64. Secondo il Krüger , op. cit., pag . 5 a 21, ed altri autori
germanici da lui citati, la teoria della capitis diminutio avrebbe avuto uno
svolgimento storico, nel senso che la prima a delinearsi sarebbe stata la mi
nima capitis diminutio, sul cui modello si sarebbe poi foggiata la magna
capitis diminutio , che fu poi divisa in maxima e media capitis diminutio.
Ritengo anch'io, che questa istituzione dovette avere uno svolgimento
storico,ma nel senso che come fu sintetico il concetto primitivo di caput, così
la primitiva capitis diminutio dovette comprendere qualsiasi avvenimento, per
cui altri cessasse di tare come un caput. Quindi la perdita della libertà,
quella della cittadinanza e l'adrogatio per cui altri cessava di essere sui
iuris, dovettero costituire la capitis diminutio, che venne poi distinguendosi
nelle sue varie specie. Sarà poi sempre un problema il determinare come mai
l'emancipatio potesse costituire una capitis diminutio, e si comprende come il
Savigny , Traité de droit romain , trad . Guenoux, II, pag. 66, quasi voglia
esclu derla dalla vera capitis diminutio ; ma questa singolarità potrà essere
capita quando si ritenga, che nel censo primitivo ogni famiglia sotto il suo
capo costituiva un gruppo, e quindi anche l'emancipazione, facendo uscire
quell' individuo dal gruppo, costituiva, come dice Gajo, una « prioris status
permutatio » , la quale era anche compresa nella significazione larga di
capitis diminutio . Del resto l'emancipatio sotto un certo aspetto produceva
anche un deterioramento nello status dell' emancipato, poichè nel diritto
primitivo questi perdeva ogni diritto di successione di fronte al gruppo, da
cui esso era uscito. Intanto ciò serve eziandio a spiegare quella singolarità
del diritto romano, in virtù di cui la capitis diminutio fa perdere soltanto i
diritti fondati sull'agnazione, e non quelli provenienti dalla cognazione,
poichè quella teoria fu una creazione del ius quiritium e del ius civile, e
come tale non poteva produrre effetti, che al punto di vista del diritto civile
, per la ragione appunto detta da Gajo , Comm ., I, 158 : « civilis ratio
civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest » ; distinzione
questa , che nell'epoche primitive non poteva esservi, ma cominciò a formarsi
quando comparve il dualismo fra il ius civile ed il ius gentium , a cui
sottentrò più tardi il ius naturale. (2) È nota in proposito la finzione della
legge Cornelia de iure postliminii. Cfr. Voigt, XII Tafeln , I, pag . 299 e
300. 425 - iuris , le quali vengono ad essere fondamentali e servono di punto
di partenza anche ai giureconsulti classici, come lo dimostrano le Isti tuzioni
di Gaio . Che anzi, una volta adottato questo metodo , si po terono anche
attuare delle posizioni giuridiche intermedie, come quella che è rappresentata
dal ius latii , e queste si poterono applicare tanto ai popoli, ai quali non si
voleva accordare il completo ius quiritium , quanto eziandio ai servi
affrancati, i quali, invece di es sere posti senz'altro nella condizione degli
altri cives , erano invece collocati nella condizione di latini iuniani ( 1) .
Certo tutta questa teoria non potè svilupparsi di un tratto ; ma intanto è con
Servio , che si pose il vocabolo ed il concetto infor matore della medesima, e
si iniziò così quel processo logico , che de terminò poi l'elaborazione
progressiva. Questa poi si spinse fino tale da distinguere fra lo stato
generale della persona e le condizioni speciali, in cui essa può trovarsi;
donde ne provennero le determina zioni giuridiche speciali del pater familias ,
del filius familias , della mater familias, che distinguesi dall'uxor. Che anzi
ciascuno di questi stati speciali venne eziandio a convertirsi in una conce
zione astratta, per modo che una persona poteva essere padre senza aver figli ,
essere tenuto come figlio , ancorchè effettivamente fosse padre, essere
riguardata come figlia, ancorchè in effetto fosse moglie, poichè tutto
dipendeva dal punto di vista giuridico , sotto cui la per sona veniva ad essere
considerata (2 ). ( 1) Per tal modo mentre prima non eravi che una specie di
libertas se ne ven nero creando varie gradazioni, cioè quella dei libertini,
che erano cives romani, quella dei latini, e quella infine dei dediticii; altra
prova questa , che il concetto pri mitivo è sempre sintetico , mentre le
suddistinzioni compariscono più tardi. V. GAJO , Comm ., I, 10 . ( 2 ) Ciò è
detto espressamente da ULPIANO, Leg., 195 , § 2 , dig . (50 , 16) ove dice del
pater familias: « recteque hoc nomine appellatur , quamvis filium non habeat;
non enim solam personam eius, sed et ius demonstramus » ; il che vuol dire, che
nel qualificarlo come tale, il giureconsulto si poneva al punto di vista
giuridico. Era poi nello stesso modo, che la moglie in manu si riteneva figlia
del marito, e simili. Ciò mi indurrebbe alquanto a modificare la teoria
accettata intorno alla fictiones nell'antico diritto. Tali fictiones dal SUMNER
-MAINE, Ancien droit, pag . 25 e dal Juering , Ésprit de droit romain , IV, p.
295, sono in certo modo ritenute come alterazioni della realtà dei fatti, a cui
si ricorre per modificare il diritto già esi stente. Se ciò è vero delle
finzioni, che poifurono introdotte dal diritto pretorio, non può dirsi delle
fictiones del primitivo ius quiritium . Queste, come lo dice la stessa
etimologia da fingere nel senso di foggiare, modellare, fanno parte dell' ars
iura condendi, e sono un mezzo per completare una costruzione giuridica. 426
339. Quando poi venne ad essere cosi svolta la concezione giu ridica del caput,
era naturale che la medesima potesse essere con siderata indipendentemente da
colui, al quale essa si riferiva , e che fosse così riguardata come una specie
di persona e quasi ma schera giuridica , che poteva essere anche sovrapposta
non solo ad uomini realmente esistenti, ma eziandio a quegli enti giuridici, i
quali « etiam sine ullo corpore iuris intellectum habent » : donde la co
struzione delle persone giuridiche ( 1). Che anzi si va anche più oltre e per
quell'immedesimarsi che è proprio di quest'epoca fra i diritti delle persone e
quelli sulle cose, anche la proprietà quiritaria può essere considerata , o in
quanto è perfetta e senza limitazione (er optimo iure quiritium ), o in quanto
può subire delle diminuzioni, le quali verranno ad essere designate col
vocabolo di servitutes, perchè anch'esse, al pari della servitù riguardo alle
persone, scemano e di minuiscono quella perfetta posizione giuridica , in cui
trovasi la proprietà del fondo, allorchè non abbia subito limitazione di sorta
(2 ). Si comprende infine come spinta fino a questo punto l'elabora zione del
concetto del caput, la medesima sia una costruzione giu ridica , che può anche
stare da sè e svolgersi per conto proprio , secondo che esige la logica
informatrice dei varii elementi, che en trano a costituirla. Che anzi questo
caput e lo stato giuridico , che ne dipende , potrà anche essere trasportato da
una ad un'altra per sona. Quindi è facile a spiegarsi come il caput dapprima non
ap partenesse che al capo di famiglia , e poi fosse attribuito ad ogni
cittadino, e per ultimo all'uomo libero ; nel qual trapasso la logica giuridica
non fa che rinunziare successivamente ad uno dei tre ele menti, che
costituivano il primitivo stato generale della persona. Essa comincia quindi a
rinunziare alla qualità di sui iuris , e viene (1) Tale essendo il processo
seguito dalla giurisprudenza romana nella formazione del concetto di persona ,
la famosa questione intorno all'esistenza della persona giu ridica in diritto
romano può essere risolta nel senso che essa deve ritenersi come una fictio
iuris , attribuendo però a questo vocabolo la significazione sopra accennata di
una costruzione giuridica modellata su quella della persona fisica , ma limitata
solo a quella categoria dei diritti della persona fisica , che poteva avere una
base nella realtà ; donde la conseguenza, che queste persone hanno il diritto
ai beni, ma non possono avere i diritti di famiglia. Cfr. Savigny, Traité de
droit romain , II, pag. 234 e segg. (2) Questo svolgimento pressochè parallelo
del concetto della persona e della pro prietà libera da qualsiasi vincolo sarà
posto in maggior luce in questo stesso capi tolo , § 5 , discorrendo del
dominium ec iure quiritium . 427 ad essere capace di diritto ogni cittadino,
ancorchè non sia capo di famiglia ; poi rinunzia indirettamente a quella di
civis, in quanto che la civitas finisce per essere estesa a tutti i sudditi
dell'impero, e viene ad essere persona ogni uomo libero ; ma la logica romana
non potè ancora fare a meno della libertas per accordare il caput, e quindi
solo l'uomo libero fu dalla medesima considerato come capace di diritti e di
obbligazioni. Nè è il caso di fargliene colpa, perchè la logica romana si
basava sui fatti, e la schiavitù , finchè durò il Romano Impero , fu una
istituzione comune a tutte le genti ( 1). Cid perd non tolse, che il concetto
del caput o della persona, quale era stato elaborato dai Romani, potesse più
tardi essere trasportato anche all'uomo come tale, perchè esso era una
costruzione logica , la quale, foggiata dapprima sulla realtà dei fatti, erasi
poi staccata da essi, e poteva così ricevere delle nuove applicazioni. S 3 . Il
concetto di manus e le sue principali distinzioni. 340. Può darsi benissimo, che
l'antichissimo vocabolo dimanus significasse un tempo la forza effettiva
dell'uomo, in quanto sottopone a sè stesso uomini e cose , ossia la forza del
vincitore, che si impone al vinto , o il potere dell'uomo, che doma e
addomestica gli animali. È tuttavia più probabile, che questo vocabolo nel
periodo gentilizio significasse già il potere effettivo, di cui ciascun capo
poteva disporre , nei conflitti e nelle lotte coi capi delle altre famiglie e
genti, della qual primitiva significazione potrebbero ancora trovarsi le
traccie nel nostro vocabolo di masnada. La manus invece nelius qui ritium viene
già a cambiarsi anch'essa in una concezione giuridica ed astratta , che
comprende il complesso dei poteri, che appartengono ad una persona nella sua
qualità di quirite. Come il vocabolo di caput indica per cosi esprimersi la
capacità potenziale del quirite : cosi l'estrinsecazione effettiva di questa
potenza sulle persone e cose ( 1) Il Bruns, Geschichte und Quellen des röm .
Rechts ( in HOLTZEND., Encyclop ., I, pag . 105 ), ebbe a dire con ragione, che
il più alto concepimento del diritto ro mano consiste nell'avere riconosciuto
in ogni uomo libero la capacità astratta didiritto. Cid è vero ; ma vuolsi
aggiungere, che il diritto romano vi pervenne a gradi, e ri conobbe questa
piena capacità prima al capo famiglia , poi al civis, e da ultimo all'uomo
libero. Cfr. BRUGI, Le cause intrinseche della universalità del diritto ro
mano, Prolus., Palermo, 1886, pag. 8. 428 che ne dipendono viene ad essere
designata col vocabolo di manus (1) . È questo il motivo, per cui la manus
viene a comparire in tutte le manifestazioni, che si riferiscono al diritto
quiritario. Se essa afferra qualche cosa nell'intento di acquistarvi sopra la
proprietà ex iure quiritium viene ad aversi la manu capio ; se essa riven dica
qualche cosa che spetta al quirite da altri che lo possegga, abbiamo la
vindicatio e la manuum consertio : se essa lascia uscire qualche cosa dal
proprio potere quiritario , abbiamo la manumissio e la emancipatio ; se essa
infine afferra il debitore condannato per trascinarlo nel carcere privato
abbiamo la manus iniectio . Questa manus simbolica non è però sempre inerme, ma
talvolta compare munita della lancia od asta quiritaria , che trovasi
simboleggiata nella vindicta , la quale serve come modo tipico per la manomis
sione dei servi; nella festuca, il cui uso si mantiene nell’actio sa cramento;
nell'hasta , sotto cui si mette all'incanto il bottino fatto in guerra, e che
si infigge dinanzi al centumvirale iudicium . Questo potere giuridico ,
sintetico e comprensivo, subisce poi anche l'influenza del censo serviano, e
quindi viene negli inizii ad essere modellato sul concetto del mio e del tuo,
per modo che così il potere sulla moglie, che quello sui figli , che quello sui
servi e sulle persone quae sunt in causa mancipii appariscono foggiati sul
modello della proprietà , sebbene non sia lecito dubitare, che essi nel costume
pre (1 ) La generalità degli scrittori è oggi concorde nell'ammettere, che dei
varii vo caboli per significare il potere giuridico spettante al quirite il più
antico sia quello di manus. Tale è l'opinione del Sumner Maine, del Voigt, del
PADELLETTI, ed essa trova anche un fondamento nell'analogia fra la manus dei
Romani e il mundium dei Germani. La questione sta piuttosto in vedere se il
vocabolo dimanus comprenda solo i poteri sulle persone, compresi anche i servi,
oppure anche il potere sulle cose . Egli è certo a questo riguardo , che i
giureconsulti classici dànno al vocabolo di manus il significato di potere
sulle persone e considerano questo vocabolo come un sinonimo di potestas.
Tuttavia io riterrei probabile, che il vocabolo dimanus in una signifi cazione
del tutto primitiva potesse anche comprendere il potere sulle cose, e ciò per
il semplice motivo, che altrimenti nel diritto antico non vi sarebbe stato
vocabolo per significare la proprietà e il dominio. È vero che alcuni dicono,
che questo voca bolo primitivo sarebbe quello dimancipium : ma miriservo di
dimostrare a suo tempo, che questo vocabolo significò piuttosto le cose
soggette al potere , che non il potere una spettante sulle medesime. In ogni
caso, se al vocabolo di mancipium si vuol dare etimologia è necessità di darvi
quella di manu-captum , e in tal caso la manus comparirebbe ugualmente per
significare l'assoggettamento di una cosa al potere della persona . Cfr. Voigt
, XII Tafeln , II, $ 79; BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, pag. 100 , nota
1 ; Longo, La mancipatio, Firenze , 1887, pag. 3 , nota 4. 429 sentavano delle
differenze e dei temperamenti. Così pure , sotto il punto di vista giuridico,
nulla hanno di proprio nè la moglie , nè i figli, né i servi , e tutto ciò che
essi acquistano va al marito, al padre, al padrone, perchè è lui il vero
quirite e quegli che conta nel censo . Sarà poi una conseguenza di questa
logica giuridica, che se il dipendente rechi un danno, il capo di famiglia
potrà addive nire alla noxae datio ; che se alcuno si ribellerà al suo potere ,
gli spetterà un ius coercendi, che potrà giungere fino al ius vitae ac necis ;
e se alcuna delle persone , che da esso dipendono, verrà ad essergli sottratta
, egli potrà proporre percid quella stessa actio furti od actio exhibendi, che
potrebbe da lui essere proposta per una cosa, di cui sia stato derubato . 341.
Dalmomento poi che la manus costituisce così una concezione giuridica, si
comprende che anche ad essa siasi applicata quella scom posizione, che ebbe già
a dispiegarsi quanto al caput. Si spiegano così le iniziali conservateci da
Valerio Probo, secondo cui il potere giuridico del quirite verrebbe a
suddividersi nella manus, che resta a significare il potere del marito sulla
moglie , nella potestas, che significa il potere del padre sui figli, e nel
mancipium , che qui sembra indicare il potere sulle persone quae sunt in
mancipii causa . Quest'ultimo vocabolo tuttavia , più che un aspetto del potere
quiri tario, sembra indicare piuttosto il complesso delle persone e delle cose,
che dipendono dal potere spettante al quirite ; come lo dimostra la circostanza
, che il medesimo dai giureconsulti non è mai adoperato con significazione
attiva, ma sempre con significazione passiva (1). (1) Basta per ciò osservare,
chementre nei giureconsulti si incontrano le espressioni habere manum ,
potestatem , dominium , non occorre però mai l'espressione habere mancipium ,
ma sempre quella habere in mancipio: poichè quest'espressione di man cipium ,
derivando da manu-captum , significa bensì la cosa soggetta, ma non può si
gnificare il potere sulla medesima. Io ritengo, che questa inesatta
significazione data al vocabolo mancipium sia stata una causa dei gravi dubbii
ed incertezze nell' ar gomento. Così, ad esempio, non potrei accettare
l'opinione, che mancipium sia stato il primo vocabolo con cui si indicò il
dominium ex iure quiritium ; ciò sarebbe come dire che i vocaboli di praedium ,
fundus significassero il diritto di proprietà, mentre invece indicano la cosa ,
che ne forma l'oggetto . L'unico passo, che suol essere citato per far
significare a mancipium un potere, è quello di GELLIO, XVIII, 6 , 9, ove si
parla della mater familias in manu , mancipioque mariti, ma anche questo
dimostra , che anche la moglie era talora considerata come in mancipio, e
conferma così la significazione passiva del vocabolo. Se dovette quindi esservi
un vocabolo primitivo, che potè indicare il potere del proprietario , esso fu
quello di manus, che ha in 430 Una volta poi, che i poteri, un tempo inchiusi
nel vocabolo generico di manus, sono cosi separati l'uno dall'altro, essi
possono essere ca paci di una propria elaborazione e venirsi cosi
differenziando fra di loro secondo il diverso concetto a cui si ispirano, per
modo che cia scuno di essi finirà per ricevere un diverso svolgimento logico e
storico ad un tempo, e per essere sottoposto a quelle limitazioni, che verranno
ad apparire necessarie nella realtà dei fatti. Negli esordii invece della
formazione del ius quiritium non presentasi ancora il dubbio , che il quirite
possa in qualche modo abusare della propria manus, e quindi tutti i poteri, che
a lui appartengono, giuridicamente considerati, vengono ad apparire senza alcun
limite e confine. Che anzi le persone a lai soggette , sotto il punto di vista
giuridico acquistano ed operano non per sè,ma per le per sone, di cui trovansi
in manu, in potestate , in mancipio. Di qui la conseguenza, che mentre le
persone sottoposte al potere del capo di famiglia possono rappresentarlo,
questa rappresentazione invece non può essere cosi facilmente ammessa ,
allorchè trattasi di altre persone, come lo dimostra il principio prevalente
nell'antico di ritto, secondo cui una persona non può promettere nè stipulare
per un'altra (1). § 4. – Il concetto del mancipium e la distinzione delle res
mancipii e necmancipii. 342. Che se la manus viene poi ad essere considerata ,
in quanto abbia assoggettate al suo potere le persone e le cose che da essa
dipen dono, formasi il concetto del mancipium . Mentre i concetti di caput e di
manus indicano un'energia che si esplica, il vocabolo invece di mancipium
indica piuttosto lo stato di soggezione, in cui si trovano sè l'idea della
forza e dell'energia , ma non mai quello di mancipium , che allora e sempre
significò soltanto la soggezione. Del resto gli stessi giureconsulti ci
attestano , che in antico non eravi un vocabolo speciale per significare il
dominio, ma dicevasi soltanto meum , tuum . (1) Di qui credo di poter indurre,
che anche quel principio del diritto primitivo , secondo cui altri non può
essere rappresentato, che dalle persone che da lui dipen dono e niuno può
promettere e stipulare per altri, sia una conseguenza del modo, in cui si
iniziò la formazione del ius quiritium ; in quanto che nell'esercito e nei
comizii ciascuno doveva rispondere per sè e non poteva farsi rappresentare da
altri. r 431 le persone e le cose che dipendono da essa , e presentasi con una
signi ficazione eminentemente passiva . Non vi ha quindi nulla di ripu gnante,
che esso nelle origini significasse il manu -captum ; e designasse specialmente
il vinto che, fatto prigioniero di guerra , veniva ad es sere soggetto alla
potestà del vincitore . Questo è certo ad ogni modo, che nel ius quiritium il
vocabolo dimancipium , al pari di quello di caput e di manus, ha già assunta
una significazione eminentemente giuridica, per cui comprende quel complesso di
persone e di cose, che dipendono esclusivamente dal capo di famiglia, e che a
lui apparten gono ex iure quiritium , e che nel censo compariscono in certo
modo comeposte in suo capo (1). È quindi sopratutto coll'entrare a far parte
delmancipium , che i diritti spettanti al capo di famiglia ed al pro prietario
ex iure quiritium assumono quel carattere così esclusivo ed individuale, che è
del tutto proprio del diritto primitivo di Roma. Con esso infatti il quirite
viene ad essere staccato dall'ambiente gen tilizio , di cui fa parte , a
compare nel censo con un complesso di persone e di cose, che dipendono da lui
in modo assoluto . È quindi in virtù di quest'astrazione, che viene a formarsi
il concetto di una potestà senza confini e di una proprietà assoluta ed
esclusiva spet tante al capo di famiglia (2 ). Anche nel mancipium , come negli
altri (1) Quasi tutti gli autori son concordi in ritenere, che il mancipium
abbia avuta una significazione così larga da comprendere così le persone,
quanto le cose, in quanto son soggette al potere del capo di famiglia . Solo
combatte quest'opinione il MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, pag . 2.
Ritengo che debba essere seguita la prima opinione, la quale per me ha un
appoggio incontrastabile in ciò , che le formole serbateci da Aulo Gellio e
VALERIO Probo accennano a persone, che sono in manu, potestate, mancipio ; la
qual formola troviamo poi adoperata nelle leggi più antiche che a noi
pervennero, come nella lex Cincia de donationibus, del 550 di Roma (Bruns,
Fontes, pag . 45) e nella lex Acilia repetundarum , del 631 di Roma (pag . 57).
Ciò vuol dire, che anche le persone sotto un certo aspetto si considera vano
come comprese nel mancipium del capo famiglia , il che poi spiega come ad esse
potesse anche applicarsi la mancipatio , l'emancipatio e simili. Ciò però non
toglie, che le significazioni tecniche del vocabolo mancipium fossero quelle
specialmente di significare il servo, come lo prova l'editto curule de
mancipiis vendundis (Bruns, pag. 214 ), o quel complesso di beni, che doveva
essere consegnato nel censo. Quanto alle altre significazioni dimancipium , è
da vedersi il BONFANTE, op. cit., pag. 79 a 105 , col quale tuttavia non
concordo in questo , che egli attribuisce al mancipium anche la significazione
di una potestà sulla cosa (pag. 100 ), e sembra ritenere, che il mancipium non
comprenda mai le persone (pag. 101, in nota). (2) Come il mancipium ,
fondendosi in certo modo coll'heredium , sia venuto a de signare le cose
comprese nel dominio assoluto ed esclusivo del cittadino romano è stato
dimostrato più sopra al nº 331, pag . 414 . 432 concetti fin qui presi in
esame, trovansi dapprima confuse le persone e le cose, che dipendono dalla
stessa persona ; ma poi anche qui viene operandosi una specie di
differenziazione, per cui il vocabolo mancipium finisce per indicare il
complesso dei beni, e quello di familia il complesso delle persone , che
dipendono dal medesimo capo . Siccome però nel mancipium non si comprende tutto
il pa trimonio del quirite, ma solo quella parte di esso , che è portata nel
censo e che serve come stregua per determinare la classe , di cui entra a far
parte ; così ne deriva che il censo serviano deve eziandio essere considerato
come il momento storico , in cui cominciò ad accen tuarsi quella distinzione
fra il mancipium e il nec mancipium , che diede poi origine a quella
importantissima distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, che deve
formare oggetto di par ticolare esame per le molte discussioni, a cui diede
argomento . 343. La distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, è a
mio giudizio , un rottame del diritto primitivo, che indecifrabile da solo ,
può cambiarsi in un documento prezioso , quando si riesca a ricomporlo
nell'ambiente in cui ebbe a formarsi (1). L'antichità del concetto , a cui si
ispira la distinzione, è dimostrata dal fatto , che i giureconsulti ebbero ad
accettare la medesima come già esi stente nel fatto, senza pur cercare di darsi
la vera ragione di essa (2 ). La circostanza poi, che questa distinzione ebbe a
perdurare per se coli, dimostra che essa non può considerarsi come una semplice
biz zarria giuridica, ma deve invece rannodarsi a qualche concetto fon
damentale dell'antico diritto , che i giureconsulti classici credettero di
dovere accettare e rispettare. Ció del resto può in certi confini anche
argomentarsi dal modo singolare , in cui è concepita questa distinzione; in
quanto che essa è evidentemente fatta nell'intento (1) L'importanza della
questione per lo studio del diritto primitivo di Roma fu in questi ultimi tempi
assai sentita in Italia , come lo dimostrano i lavori già ci tati dello Squitti
e del BONFANTE sulle res mancipi e nec mancipi e quello del Longo sulla
mancipatio. Ritengo tutta via , che questa sia una di quelle questioni, che
prima debbono essere studiate nei particolari , ma difficilmente possono poi es
sere comprese e spiegate, se non siano coordinate colle altre istituzioni del
diritto primitivo , con cui concorrevano a costituire un tutto organico e
coerente. (2 ) Non può certamente ritenersi definitiva la ragione data da Gavo
, Comm ., II, 22, che le res mancipii siano così dette perchè suscettive di
mancipatio ; poichè si potrebbe sempre chiedere la ragione, per cui le sole res
mancipii furono ritenute suscettive della mancipatio . 433 di mettere in una
posizione speciale e privilegiata le res mancipii, che costituiscono la parte
positiva della distinzione, mentre l'altra parte della distinzione ha un
carattere puramente negativo , cioè comprende tutte quelle cose , che non
appartengono alla prima ca tegoria . Da questo carattere infatti è lecito
indurre, che nello svol gimento storico dovette precedere la formazione delle
res mancipii, ossia di un complesso di cose , che erano comprese nel mancipium
, e che solo più tardi quelle, che non erano comprese nelmedesimo, vennero ad
essere chiamate res nec mancipii, quasi per contrap porle alla categoria già
formata dalle res mancipii. Queste considerazioni aggiunte a quella pur
importante, che dopo l'ultima lettura del manoscritto di Gaio da lui fatta , lo
Studemund avrebbe adottata la lezione di res mancipii e res nec mancipii a vece
di quella di res mancipi e nec mancipi, che prima era ge neralmente adottata,
mi inducono a ritenere che il caposaldo, a cui deve rannodarsi questa antica
distinzione, sia l'antichissimo concetto del mancipium , le cui origini
rimontano quanto meno alla costitu zione ed al censo di Servio Tullo (1). 344.
Per poter poi spiegare come nell'antico diritto possa essersi cominciato a
distinguere il mancipium dal nec mancipium , non sarà inopportuno il notare,
che fin dai tempi più antichi noi troviamo degli accenni ad una specie di
distinzione, che erasi fatta nel pa trimonio spettante al capo di famiglia. Noi
troviamo infatti una specie di dualismo nei vocaboli di heredium e di peculium
, e in quelli eziandio di familia pecuniaque, i quali appariscono in certo modo
contrapposti fra di loro . Per verità mentre i vocaboli di he ( 1) Del resto la
questione della i doppia o semplice nel vocabolo mancipi o man cipii non ba
grande importanza dal momento, che nel latino primitivo solevasi usare l'i
semplice a vece della doppia ii. Che anzi sonvi autori, i quali continuano a
seguire l'antica scritturazione, appunto perchè veggono in essa un indizio ed
una prova dell'antichità della distinzione, sebbene ammettano la parentela
delle res man cipiä сol primitivo mancipium . Così il BONFANTE, op. cit., pag.
21. Per parte mia , siccome mi propongo di fare la storia del concetto ,
anzichè della parola, così trovo più conveniente di adottare quella
scritturazione, la quale, esprimendo materialmente l'attinenza fra il mancipium
e le res mancipii, impedisce di dare a questa distin zione una significazione
diversa da quella , che veramente ha. La grafia mancipi sarà forse la più
genuina e la più antica; ma essa condusse alla distinzione fra cose man
cipabili e non mancipabili, e a cercare l'origine della distinzione in cose,
che non avevano a fare con essa , il che appunto deve essere evitato. G. CARLw,
Le origini del diritto di Roma. 28 434 redium e di familia indicano di
preferenza quella parte del patri monio, che nel proprio concetto informatore è
destinata a passare negli eredi, i concetti invece di peculium e di pecunia
sembrano designare di preferenza quella parte di patrimonio, che per sua na
tura è destinata allo scambio , alla circolazione ed al soddisfacimento dei
quotidiani bisogni. Di quisi può inferire, che una distinzione come questa, che
compare indicata con vocaboli diversi, e che si mantiene con una certa costanza
, dovette trovare la propria ragione d'essere nelle condizioni economiche e
sociali, in cui allora trovavasi il popolo romano, e che perciò la spiegazione
di essa debba ricercarsi nell'e poca , in cui vennesi formando il primitivo ius
quiritium (1). Parmipoi a questo proposito , che anche oggi, fermando lo
sguardo sopra una comunanza di carattere rurale, si possa trovare qualche
vestigio di condizioni sociali ed economiche analoghe a quelle, che
determinarono questa distinzione nell'antico diritto di Roma. Anche oggi nelle
comunanze agricole la famiglia rurale appare in certo modo unificata nella
persona del suo capo, e sotto l'aspetto econo mico costituisce come un gruppo
di persone e di cose , in cui si comprende il capofamiglia, la moglie , i
figli, il bestiame, la terra coltivata , e la cui importanza può essere
maggiore o minore, secondo la quantità di terra da esso posseduta, e il numero
di braccia , di cui può disporre per la coltura della medesima. È poi facile
l'osser vare come in questo patrimonio , che si intitola al padre , ma che nel
costume si considera come proprietà comune del gruppo , for misi naturalmente
una distinzione congenere a quelle , le cui traccie pur compariscono fra gli
antichi romani. Nel patrimonio infatti di una famiglia agricola havvi anzitutto
una parte fissa , sostanziale , che comprende tutti quei beni, senza di cui
l'azienda agricola non potrebbe percorrere il suo corso regolare . Essa
costituisce, per cosi esprimersi, il capitale fisso della famiglia agricola ;
quella parte cioè della sua sostanza, che sebbene di diritto appartenga al
padre, nel costume si ritiene invece come proprietà comune; quella che è dal
padre custodita con speciale affetto, e di cui si spoglia a malincuore,
ritenendosi come obbligato a trasmetterla intatta alla propria figliuo lanza .
Se egli quindi alieni una parte della medesima, la comunanza rurale non può a
meno di esserne informata e il suo credito vacilla . Quindi piuttosto di
alienare questa parte fissa e trasmessibile dal ( 1) Già si accenno a questa
correlazione, senza tuttavia cercare di spiegarla, al nº 56 , pag. 70 . 435
proprio patrimonio, il capo di famiglia suole anche oggidi, come già un tempo
la plebe romana, appigliarsi al partito di contrarre dei debiti, o di ricorrere
a quella vendita con patto di riscatto , che nei nostri villaggi si cambiò
nella forma più perfida ed ingannatrice sotto cui si nasconde quell'usura , che
chiamasi palliata . Accanto poi a questa parte fissa del patrimonio havvi
eziandio la parte, che costituisce in certo modo il capitale circolante della
fa miglia rurale. In essa si comprendono i raccolti dell'annata , le somme di
danaro che si tengono alla mano, il bestiame minuto , che ogni anno si compra e
si vende, e gli altri beni e valori, coi quali il capo famiglia può fare maggiormente
a fidanza, perchè la copia o la scarsità di essi potrà rendere più o meno
agiata la famiglia , senza però mettere a repentaglio l'esistenza della
medesima. È naturale che una distinzione di questa natura abbia dapprima
alcunché di vago e di indeterminato , in quanto che possono esservi delle cose,
di cui può dubitarsi se debbano essere collocate in questa od in quella parte
del patrimonio . Se tuttavia in determinate con dizioni economiche avvenga un
avvenimento di carattere ammini strativo , che costringa in certo modo a
distinguere le due parti del patrimonio, quale , sarebbe ad esempio , la
formazione di un censo o di un catasto per fissarvi sopra una imposta , la
conseguenza im mediata di questo fatto sarà , che quella distinzione, che stava
for mandosi , perderà il suo carattere vago ed indeterminato e finirà per
assumere un significato preciso , il quale , mentre corrisponde allo stato
reale delle cose in quel determinato momento, potrà in vece riuscire
inesplicabile più tardi, allorchè siansi trasformate le condizioni economiche
del popolo , di cui si tratta . 345. Or bene un avvenimento di questa natura
ebbe appunto ad avverarsi nella primitiva vita economica e giuridica di Roma.
Esso fu il censo di Servio Tullio , il quale , essendo stato posto a base di
una nuova composizione del populus romanus quiritium , non potè a meno di
lasciare anche delle traccie nello svolgimento posteriore del diritto romano.
Si sa infatti, che questo censo comprese non solo le persone, ma anche le
sostanze, e che esso sopravvenne dopo che Servio e i re suoi antecessori
avevano fatto alla plebe degli assegni di terre, che per essere tutti della
stessa natura dovevano aver rice vuta una analoga configurazione. Questi
assegni erano stati senza alcun dubbio fatti a somiglianza di quegli heredia ,
che la gens an tica faceva ai suoi membri, allorché i medesimi fondavano una fa
436 miglia , colla differenza che mentre gli heredia del patriziato erano
ricavati dall'ager gentilicius, quelli invece , che si facevano alla plebe, erano
fatti direttamente dallo Stato sul suo ager publicus , mediante le così dette
adsignationes viritanae. Senza cercare qui se tali assegni fossero di due, di
cinque od anche di sette iugeri, questo è certo che essi costituivano una
specie di piccolo podere, che com ponevasi di una abitazione rurale (tugurium
), di un orto e di un campo attiguo, naturalmente fornito di quelle servitù
rurali di pas saggio e di acquedotto , che erano del tutto indispensabili per
la sua coltivazione. Esso quindi veniva in certo modo a costituire la pro
prietà tipica del quirite, la quale, dipendendo direttamente dalla sua manus,
poteva opportunamente ricevere il nome dimancipium . Che anzi è anche probabile
, che questo podere prendesse il nome dal suo primitivo proprietario, come lo
dimostra il fatto , che i poderi romani ancora più tardi conservano il nome
derivato da quello del primitivo proprietario , che si considera in certo modo
come il fon datore del podere, e lo trasmettono successivamente ai proprietarii
che vengono dopo (1). Era quindi questo mancipium , che doveva essere
consegnato e valutato nel censo , e che costituiva la base, sovra cui si
determinavano i diritti e le obbligazioni del quirite ; le altre cose invece
non gli erano tenute in conto , o perchè non appartenevano al quirite come tale
, ma piuttosto alla gente , di cui esso faceva parte, o perchè costituivano una
specie di capitale cir colante , di cui non potevasi fissare l'ammontare in
questo od in quel determinato momento. Di qui conseguiva, che questo mancipium
(1) Questa induzione mi fu suggerita da due notevoli articoli del FUSTEL DE
COULANGES, pubblicati sulla « Revue des deux mondes » del 1886 col titolo Le
domaine rural chez les Romains, tomo 3º dell'annata , pag. 318 a 348 e pag. 835
a 869. II FUSTEL DE COULANGES non si occupa veramente delle origini del podere
ru rale in Roma, stante le incertezze che ancor durano sull'argomento, ma parla
piut tosto dei poderi rurali sul finire della Repubblica e durante l'Impero,
allorchè i medesimi per le loro proporzioni certo non avevano più che fare col
primitivo man cipium . Egli nota tuttavia, che i poderi anche in quest'epoca
avevano una denomi nazione ricavata dal nome non del proprietario attuale ma
del proprietario primitivo del podere, e chiamavansi così fundus Manlianus,
Terentianus, Gallianus, Sempro nianus e simili, il che finiva per dare una
personalità al fondo, determinata da colui, che prima l'aveva occupato e posto
in coltivazione. Ora non è certo impro babile, che questa singolarità nel podere
romano sia stata determinata dal fatto, che nella tabula censoria del quirite ,
al disotto del nome del caput, era anche descritto il podere a lui spettante,
il quale veniva così ad assumere un nome, che i Romani trasmisero poi con
quella costanza, che abbiamo riscontrato in molti altri esempi. 437 veniva in
certo modo a costituire il vero e proprio patrimonio del quirite , cometale:
quello cioè che era posto direttamente in suo capo, che in certo modo ne
prendeva il nome, e di cui egli poteva disporre senza limitazione di sorta ,
purchè lo facesse nei modi solenni, che erano riconosciuti dalla comunanza
quiritaria. Anche gli altri beni potevano essere buoni e desiderabili per il
quirite; ma quelli, che entravano nel mancipium , avevano per esso una importanza
del tutto peculiare, la quale spiega come i plebei preferissero alla loro
alienazione l'imprigionamento nelle carceri del creditore, con tutti i mali
trattamenti, che potevano conseguirne. 346. Questa spiegazione del modo, in cui
si formò ilmancipium , trova poi la sua conferma nella enumerazione, che i
giureconsulti Gaio ed Ulpiano ebbero a conservarci delle res mancipii (1) .
Questa enumerazione infatti serba evidentemente il carattere di una antichità
remota , e richiama il pensiero agli assegni rurali aventi una configurazione
tipica e determinata, che dovevano essere fatti sull'ager gentilicius ai
gentili e ai clienti che entravano a co stituire la gens, e dai re ai plebei
sull’ager publicus. Per verità le res mancipii, sebbene siano annoverate come cose
singole, co stituiscono però ad evidenza un tutto , che corrisponde alle condi
zioni economiche del tempo , ed ai bisogni di una famiglia agricola , la quale
debba, per dir cosi, bastare a se stessa. Ciò è dimostrato anche dalla
circostanza, che il podere, che forma il nucleo centrale del mancipium , non è
già un campo nudo di qualsiasi attrezzo , ma è un praedium instructum
considerato cioè cogli istrumenti e colle servitù , che sono necessarie per la
sua coltivazione (2). Una casa in città , un tugurio in campagna, circondato da
un piccolo podere, coi servi, cogli animali, e colle servitù indispensabili per
la coltura del medesimo, dovettero in quell'epoca costituire come la proprietà
tipica del quirite ; quella proprietà cioè , che lo rendeva adsiduus, perchè ne
accertava la residenza , e locuples, perchè assicurava il sostentamento suo e
della famiglia. Essa era la prima porzione di (1) Gajo , I, 120 ; II, 14-17 ;
Ulp., Fragm ., XIX , 1. (2 ) Anche questo concetto del fundus instructus
sopravvive a lungo presso i Ro mani, come appare dal Fustel De Coulanges, op .
cit ., pag. 340 , che lo trova in pieno vigore durante l'impero. Che anzi i
giureconsulti al solito formano una con cezione giuridica dello stesso e
instrumentum fundi » , ossia di quel complesso di ar nesi, di bestiame e di
servi , che può essere necessario per la coltura del fondo. 438 terra, che
sottraevasi in certo modo dalla proprietà collettiva della gente (ager
gentilicius), o da quella dello stato (ager publicus), per costituire la vera
proprietà esclusiva ed individuale. Or bene è appunto un gruppo analogo di
cose, che può raccogliersi . dall'enumerazione conservataci da Gaio e da
Ulpiano delle res man cipii. L'uno e l'altro infatti son concordi
nell'attestare, che queste comprendevano ; lº i praedia , così rustici
comeurbani, purchè situati nell'ager romanus od anche nel suolo italico , il
quale mediante la concessione del ius italicum , poteva anche essere oggetto
del do minium ex iure quiritium ; 2° le servitù rustiche , che sono il naturale
compimento di un podere rurale, quali le servitutes viae, itineris, actus,
aquaeductus; 3° i servi, in quell'epoca strumento indispensabile per la coltura
; 4º e infine i quadrupedes, quae dorso collove domantur , veluti boves , equi,
muli et asini. Invece le altre cose tutte , che esorbitano da questa cerchia ,
comprendendovi la stessa pecunia , le pecore, i buoi ed i cavalli non domati,
sono indicate senz'altro colla espressione di res nec mancipii. 347. Di fronte
a questa enumerazione dei giureconsulti si osservo , che riesce difficile a
comprendersi come nelmancipium , quale pro prietà tipica del cittadino, non si
comprendessero nè le pecore, nè le mandre dei cavalli e dei buoi non domati, né
i greggi ed ar menti, cose tutte, che certamente costituirono la parte più
notevole della ricchezza dei primitivi romani. È perd anche ovvio il
rispondere, che il criterio della riforma serviana non fondavasi sulla
ricchezza, quale che essa fosse, ma piuttosto sulla proprietà stabile , esente
da qualsiasi vincolo . Era solo questa forma di proprietà , che poteva ren dere
i quiriti adsidui e locupletes , e servire così di garanzia alla co munanza
dell'interesse, che essi avevano alla comune difesa . Non fu quindi la pecunia
, che ebbe ad essere tenuta in conto , perchè questa , anche consistendo in
greggi ed in armenti , poteva sempre essere trasportata altrove. Si aggiunga
che le mandre, i greggi, e gli ar menti dovevano dapprima non appartenere ai
singoli capi di famiglia , macostituire invece la ricchezza delle genti
collettivamente conside rate; poichè per il loro pascolo non poteva certo
bastare, nè sarebbe stato atto il piccolo podere quiritario , ma occorrevano
dei grandi e vasti spazi, che solo potevano trovarsi negli agri gentilicii, o
nell'ager compascuus della tribus primitiva, o nell'ager publicus, proprietà
dello Stato. Quanto ai capi di piccolo bestiame, che po tevano anche
appartenere al proprietario di un piccolo podere, 439 tenuto ex iure quiritium
, essi costituivano quel capitale circolante, che formava argomento degli
scambii e delle negoziazioni quoti diane, e che perciò non offriva una base
salda per essere valutato nel censo . 348. Parmi cið stante di poter
conchiudere, che il primitivo man cipium consistette in quel complesso di cose,
che costituiva in certo modo la proprietà tipica del quirite , come capo di una
famiglia agricola , all'epoca in cui ebbe ad essere introdotta l'istituzione
del censo. La selezione di questo mancipium dal resto delle cose, il cui
godimento apparteneva ai primitivi romani, erasi preparata len tamente nelle
condizioni economiche e sociali ed ebbe poi ad essere determinata in modo
esatto e preciso dal censo serviano , il quale per tal modo potè perfino
influire nel determinare le varie categorie delle res mancipii (1). È infatti
questo mancipium , che nel censo appare intestato ad ogni singolo quirite , e
che costituisce il primo nucleo di quella proprietà ex iure quiritium , che
ebbe poi a svol gersi coi caratteri di assoluta , di esclusiva e di
irrevocabile . Sia (1) Infatti non è punto improbabile, che la distinzione
stessa delle res mancipii abbia potuto essere determinata dalle rubriche
diverse, in cuidividevasi il mancipium , come già ebbi ad accennare al n ° 332
(in fine). Intanto colla soluzione indicata nel testo credo di aver fatto
procedere di pari passo i due aspetti, sotto cui fu discussa l'origine delle
res mancipië e nec mancipii. Nota giustamente il Bon FANTE, op. cit., pag. 35 ,
che le teorie diverse, da lui esposte, si possono dividere in razionali e
storiche, secondo che cercano di spiegare razionalmente quella distinzione,
oppure di rannodarla ad un fatto storico . I due punti di vista, a parer mio,
deb bono esser fatti procedere di pari passo ; poichè la distinzione non
sarebbesi intro dotta presso un popolo pratico e logico come il romano, se non
avesse avuto una ragione di essere nelle condizioni economiche e sociali del
tempo , ed essa non sareb besi poi perpetuata con tanta tenacità, se non vi
fosse stato un avvenimento storico importantissimo, come il censo, il quale,
per essersi in certo modo immedesimato colla vita e col modo di pensare del
popolo, mantenne allo stato fossile la distinzione, di cui si trattava , anche
allorchè non aveva più ragione d'essere. Che anzi in questo modo vengono
perfino ad offrire alcunchè di vero anche le opinioni, che vogliono rannodare
il concetto di mancipium alla bellica occupatio ; poichè questo carattere
militare, inerente anche almancipium , è una conseguenza di quell'impronta
militare, che sopratutto in quell'epoca assume il populus romanus quiritium ;
impronta, che rimane inerente a tutti i concetti e alle istituzioni che ebbero
origine in quell'occa sione. Tuttavia , siccome trattasi qui di ricostrurre e
non di far l'esame critico delle varie opinioni, mi rimetto per l'analisi di
queste opinioni, delle quali alcune hanno perfino del singolare, allo Squirti,
pag. 38 a 68 , al BONFANTE, pag. 35 e 75 e agli altri autori, che di recente
esaminarono la vecchia controversia . 440 pure, che più tardi, per l'accrescersi
della fortuna dei cittadini ro mani, siansi aggiunte molte cose , che avrebbero
pur dovuto essere tenute in conto per valutare il patrimonio del quirite ; ma
in questa parte , come nel resto , i giureconsulti, allorchè trovarono foggiata
questa configurazione giuridica , si guardarono dall'alterarne in qual siasi
modo le primitive fattezze. Di qui ne venne, che il concetto del mancipium ,
come molti altri concetti del primitivo diritto, dopo avere un tempo
corrisposto alla realtà dei fatti e aver così com preso quelle cose, che
effettivamente costituirono la prima proprietà esclusiva del quirite, fini in
certo modo per fossilizzarsi e cambiarsi in una categoria giuridica, in cui si
compresero tutte quelle cose, che un tempo dovevan essere consegnate nel censo.
Il mancipium si mantenne cosi come un rudere dell'antichità primitiva di Roma,
che malgrado l'incremento delle cose romane rimase ad attestare le condizioni
economiche dei quiriti, nel tempo in cui Servio Tullio pose il censo come base
di partecipazione alla comunanza quiritaria. Ciò tuttavia non impedi, che il
potere rurale presso i Romani, salvo le più grandi proporzioni, abbia ancora
sempre conservati i tratti del primitivo mancipium , in quanto che esso
continud pur sempre a costituire un tutto organico, ad avere un proprio nome,
che è quello del primitivo proprietario, e ad essere considerato come fornito
delle servitù e del bestiame necessario per la coltivazione di esso (instru
mentum fundi). Le cose romane di piccole si fanno grandi, ma continuano sempre
ad essere foggiate sul primitivo modello (1). 349. Nè può essere difficile lo
spiegarsi come il concetto del man cipium siasi cosi conservato allo stato
fossile, malgrado l'ingrandirsi delle cose romane, quando si tenga conto dello
spirito conservatore della giurisprudenza romana, e della circostanza, che i
giureconsulti (1) La miglior prova di ciò può aversi dagli articoli citati del
FUSTEL DE COULANGES, sur le domaine rural chez les Romains. Da questi infatti
si scorge che i Romani portarono il loro concetto del podere anche nelle
provincie conquistate, e che le varie parti di esso ingrandendosi vennero ad
avere talora una esistenza propria e distinta: cosicchè si ebbe il podere
coltivato per mezzo di schiavi, quello fatto valere per mezzo di affittavoli,
quello lasciato alla coltura dei servi e dei liberti, e quello più tardi
coltivato da coloni; ma intanto le fattezze primitive non scomparvero più . Per
tal modo anche il podere romano, come tutte le altre istituzioni di quel
popolo, è un organismo, che si svolge e si differenzia nelle sue varie parti,
ma conserva sempre quei caratteri, che già si potevano ravvisare nell'embrione,
da cui è partito ; em brione, che, secondo il mio avviso, consisterebbe appunto
nel primitivo mancipium . 441 in questa parte trovarono già chiusa e formata la
cerchia delle res mancipii, nè ebbero motivo di estenderla o modificarla in
un'epoca, in cui già cominciavano a ritenersi gravi e inopportune le forma lità
dell'antico diritto . Di qui la conseguenza, che i giureconsulti in tutti i
responsi, che si riferiscono alle res mancipii, mantennero inviolata l'antica
misura, e solo ammisero qualche allargamento , che corrispondeva al concetto
informatore del primitivo mancipium , e che era necessario per rendere applicabile
il concetto stesso (1). Così noi troviamo, ad esempio , che i giureconsulti
interrogati, se i camelli ed elefanti potessero essere compresi nelle res man
cipii, risposero negativamente, sia perchè questi animali non erano conosciuti,
quando si fissd il concetto del mancipium , o meglio ancora, perchè essi non si
sarebbero potuti riguardare come una pertinenza di quel podere tipico , che
costituiva il mancipium (2 ). Indarno parimenti si fece notare, che le servitù
urbane avevano la medesima natura delle rustiche ; esse malgrado di ciò furono
sempre ritenute come res nec mancipii, non tanto perchè non fossero co nosciute
a quell'epoca, quanto piuttosto perchè non formavano parte integrante del
podere stesso (3). Quando poi si chiese, se i cavalli e i buoi non domati
potessero essere ritenuti come res mancipii, l'opinione prevalente fu che non
fossero tali, probabilmente perchè essi, finchè non erano domati, non potevano
essere strumento indi ( 1) Parmi perciò da seguirsi,ma con una certa
discrezione, l'opinione che l'enumera zione delle res mancipii debba ritenersi
tassativa, come quella che in parte fu determi nata da un avvenimento che
doveva dargli un carattere esatto e preciso. Ciò però non toglie, che nel
concetto comune anche altre cose potessero essere considerate come res
mancipii, quali erano, ad esempio, le pietre preziose di Lollia Paolina, di cui
ci parla Plinio il Vecchio (Hist. nat. 9, 35, 124 ). Ciò tanto più perchè
posteriormente il concetto di mancipium , che erasi sovrapposto a quello di heredium
, tornò a riacco starsi almedesimo, e nell'uso non giuridico significò talora i
bona paterna avitaque , e specialmente quelli, che nel costume solevano
trasmettersi digenerazione in genera zione, quali erano appunto le pietre
preziose , che costituivano in certo modo un avitum mancipium . In ciò seguo
l'opinione, che il Bonghi ebbe a manifestare nella recensione del lavoro dello
SQuitti nella Cultura , anno 1886 , 1-15 agosto. Cfr. BONFANTE, op . cit., p .
93 . (2) GAJO , Comm ., II, 16 ; ULP., Fragm ., XIX , 1. ( 3 ) GAJO , II, 17 ;
ULPIANO, loc . cit. Che anzi fra le servitù rustiche sono res mancipii quelle
soltanto, che hanno una maggior importanza per un podere ru stico, e che
formano parte integrante del medesimo, cioè l'iter, actus, via , aquae ductus,
e non le altre, come quelle del ius pascendi, calcis coquendae e simili , le
quali, essendo particolarità di certi speciali poderi, non potevano dapprima
essere tenute in conto . -.442 spensabile per la coltura del fondo, che
costituiva il primitivo man cipium (1). Cid intanto può eziandio servire a
spiegare come Varrone parli di formole relative alla vendita di animali da tiro
, e da soma ed anche di servi, accennando alla semplice traditio e non alla
mancipatio ; poichè questa doveva solo ritenersi necessaria , allorchè gli
animali e i servi, di cui si trattava, dovessero considerarsi come instrumenta
fundi (2). Siccome invece le res mancipii, ancorchè singolarmente enumerate ,
costituiscono però un tutto (cioè il man cipium ), così i giureconsulti
rispondono, che alle medesime conside rate come un tutto può essere applicato
quello stesso mezzo di alienazione, che è proprio delle singole res mancipii;
donde la pos sibilità della mancipatio familiae e del testamentum per aes et
libram , di cui si parlerà a suo tempo (3 ). (1 ) La controversia in proposito
fra i Proculeiani, che escludevano dalle res man cipii questi animali finchè
non fossero giunti a tale età da essere domati, e i Sabi niani, che invece li
ammettevano fra le res mancipii, appena fossero nati, è accen nata da GAJO, II,
15, comemolto dubbiosa anche per lui, che era Sabiniano. In ogni caso la stessa
esistenza di una simile controversia , ed anche il fatto, che erano res man
cipii solo i quadrupedes, quae dorso collove domantur, dimostra abbastanza che
la determinazione delle res mancipii aveva stretta attinenza colla coltivazione
del fondo. (2) Le formole conservateci da VARRONE intorno all'emptio venditio
dei cavalli e dei buoi anche domati (V. Bruns, Fontes, p . 388) condussero il
Voigt a ritenere che i cavalli ed i buoi fossero introdotti solo dopo Varrone
nel novero delle res man cipië (Ius nat., Leipzig, 1875, IV , pag. 561).
Veramente non si saprebbe ilmotivo di questa nuova introduzione in una
distinzione, che oramai appariva antiquata ; ma ad ogni modo la cosa a mio
avviso è facile a spiegarsi, quando si ritenga che la qualità di res mancipiä
era dapprima attribuita dall'essere questa cosa un « instru mentumt fundi» .
Quindi non sempre era necessaria la mancipatio per questi animali, come non
sempre era necessaria per i servi, come lo attesta lo stesso Varrone. Non credo
poi che possa essere il caso di supporre degli errori nella esposizione di Var
rone, come vorrebbe il Bonfante, op . cit., pag . 111 , non potendosi supporre
un er rore di questo genere sopra formole, che vivevano nelle consuetudini ed
erano ela. borate dagli stessi giureconsulti. (3) È tuttavia degno di nota, che
mentre il mancipium o la familia , intesi nel senso di patrimonio, sono per sè
suscettivi di mancipatio, l'hereditas invece è consi derata come una res nec
mancipië, e come tale è suscettiva di in iure cessio, ma non di mancipatio
(Gajo, Comm., II , 14, 17, 34). La ragione, a parer mio, è questa, che la
familia o il mancipium , finchè dipendono dal pater familias, costituiscono
un'entità concreta : mentre l'eredità , riguardo a colui che vi ha diritto ,
costituisce già una cosa incorporale, una res, quae etiam sine ullo corpore
iuris intellectum habet, e quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto però
non parmiaccettabile l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit., pag.
12, che la distinzione delle res man cipië e nec mancipii sia solo applicabile
alle res singulares, poichè non è certamente una res singularis nè il mancipium
, nè la familia . 443 350. Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle
cose con dusse in qualche parte ad allargare i confini del primitivo manci pium
. Così, ad esempio, non può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium
dovevano solo essere compresi i praedia , che fossero si tuati nel primitivo
ager romanus, mentre più tardi furono compresi eziandio quelli situati nel
restante suolo italico , quando anche questo venne ad essere suscettivo di
proprietà quiritaria. Così pure è pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima
compresi solo i servi addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i
servi della città potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in
genere furono compresi fra le res mancipii (1). Non potrei invece ammettere col
Puctha , che fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere ,
che fossero in potestate , in manu , o in causa mancipii(2); poichè, come sopra
si è notato , qui il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più
ristretta e si ri ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal
capo di famiglia , le quali persone si dicono « alieni iuris , quae in manu,
potestate,mancipio sunt » , ma non sono mai chiamate res mancipii. Vero è, che
anche alle persone si applica la mancipatio , ma cid provenne, come si vedrà
più tardi, da cid che la mancipatio è una applicazione dell'atto quiritario per
eccellenza , che è l'atto per aes et libram , e quindi compare ogniqualvolta
trattisi di acquistare o trasmettere la manus, intesa nel senso di potestà giuridica
quiritaria. 351. Intanto questa storia primitiva del mancipium ci pone eziandio
in caso di risolvere la questione tanto agitata fra gli autori relativa alla
precedenza fra la mancipatio e la distinzione fra la res mancipii e nec
mancipii. hi seguisse alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece denza
alla mancipatio, in quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si
chiamerebbero tali appunto , perchè si trasferiscono me diante la mancipatio ;
ma rimarrebbe ancor sempre a cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne
ad essere il mezzo proprio per l'alienazione di questa speciale categoria di
cose . La cosa invece viene ad essere facilmente spiegata quando si ri ( 1) Ho
già notato più sopra come le formole di VARRONE dimostrino che un servo ,
allorchè non era un instrumentum fundi, poteva anche essere alienato colla sem
plice traditio . (2 ) Puchta, Inst., § 238. Cfr. SQUITTI, op . cit., pag. 15 .
444 tenga, che primo a formarsi dovette essere il concetto delmancipium , il
concetto cioè di una proprietà tipica del quirite , che compren deva uno spazio
di terra e quelle pertinenze di esso , che riputa vansi il patrimonio
indispensabile del capo di una famiglia agricola . La formazione di questo
mancipium , che già aveva una base nelle condizioni economiche e sociali dei
primitivi romani, venne in certo modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto
l'influenza della costitu zione serviana. Da quel momento l'importanza non solo
economica, ma anche politica del mancipium , pose le cose , che erano comprese
nel medesimo, in una posizione privilegiata di fronte a tutte le altre cose ,
che potevano spettare al cittadino romano, e trasformò così il mancipium in una
proprietà essenzialmente quiritaria , perchè apparteneva al quirite come tale.
Era quindi naturale, che all’alie nazione del mancipium e delle cose comprese
nel medesimo si estendesse l'atto quiritario per eccellenza , che era l'atto
per aes et libram , mentre per l'alienazione delle altre cose potè bastaré
anche la semplice traditio accompagnata dal pagamento del prezzo. Per quello
poi, che si riferisce alla distinzione fra le res mancipii e quelle nec
mancipii, parmi evidente che essa fu l'ultima ad es . sere introdotta, e non ho
difficoltà di ritenere, che essa possa anche essere stata formolata più tardi
dai giureconsulti , quando i mede simi già sentivano il bisogno di ridurre ad
ordine sistematico le distinzioni molteplici, che eransi introdotte nel diritto
. Il censo in fatti per sè poteva condurre alla determinazione delle res
mancipii, ed anche alla divisione delle medesime in varie categorie ; ma esso
non poteva determinare che indirettamente la formazione delle res nec mancipii.
È quindi probabile, che i giureconsulti trovando più tardi questo nucleo di
cose (mancipium ), per la cui alienazione era richiesta la mancipatio, abbiano
formato di queste cose una cate goria speciale (res mancipii), la cui
caratteristica consisteva ap punto nel modo di alienazione (mancipatio), mentre
tutte le altre furono lasciate nella categoria negativa dalle res nec mancipii
(1). ( 1) Non parmi tuttavia accoglibile l'opinione del Voigt, secondo cui la
distinzione sarebbe nata fra il 585 e il 650 di Roma. Essa invece dovette già
essere formata all'epoca delle XII Tavole, in cui accanto alla mancipatio , riservata
alle res man cipii, era già comparsa l'in iure cessio, che era applicabile
eziandio alle res nec man cipii: il che sarebbe anche provato da ciò, che le
stesse XII Tavole già ponevano le res mancipii nella condizione speciale di non
potere essere usucapite, allorchè fos sero state vendute da una donna senza
approvazione del tutore. È evidente infatti 445 Essi insomma fecero qui una
distinzione analoga a quella , che si introdurrà più tardi, fra le cose, che
appartengono ad una persona ex iure quiritium , e quelle invece che le
appartengono solo in bonis ; poichè le prime costituiscono una cerchia chiusa e
circo scritta, quanto alle cose, che possono essere l'oggetto , quanto ai modi
di acquisto , e alle persone cui appartengono, mentre quelle in bonis comprendono
tutte le altre . $ 6 . La storia primitiva della proprietà ex iure quiritium .
352. L'analogia , che ho sopra notata fra la distinzione delman cipium e del
nec mancipium e quella presentatasi più tardi fra il dominium ex iure quiritium
e quello in bonis, mi fa tornare un'altra volta sul grave problema dell'origine
e dello svolgimento storico della proprietà ex iure quiritium . Fino ad ora si
è sola mente dimostrato , come già nel periodo gentilizio vi fosse una forma di
proprietà , che intestavasi al capo di famiglia, e che pren deva il nome di
heredium . Questa tuttavia non costituiva ancora una proprietà assolutamente
individuale ed esclusiva, perchè il capo di famiglia trovavasi in proposito
ancora sotto la dipendenza della gens, a cui apparteneva. Accanto a questi
heredia dei patricii si erano poi venuti formando gli stanziamenti e i possessi
dei plebei, che probabilmente chiamavansi mancipia . Quando poi patriziato e
plebe entrarono a far parte dello stesso populus romanus qui ritium , in base
alla considerazione del censo, la sola proprietà , che era loro comune era
quella che spettava al capo di famiglia, e perciò fu questa , che comparve nel
censo intestata ad ogni quirite sui iuris, sotto il vocabolo di mancipium e coi
caratteri di una proprietà assolutamente individuale. Il vocabolo mancipium
tuttavia non significd per sè il dominium ex iure quiritium , ma piuttosto quel
complesso organico di cose, che per il primo formo oggetto del medesimo ; come
lo dimostra la circostanza , che in questo periodo, secondo l'attestazione dei
giureconsulti, si ricorse per indicare il che questa condizione speciale delle
res mancipii, accennata da Gajo, I, 192, e da Ul PIANO, Fragm ., XI, 27, doveva
fin d'allora condurre alla distinzione di cui si tratta . Per un più lungo
esame dell'opinione del Voigt, vedi Squitti, op . cit., pag . 73 e seg ., e
BONFANTE , op . cit., pag. 115 e seg . 146 dominio quiritario all'espressione
meam esse : « aio hanc rem iure quiritium » . Ferma cosi la spiegazione del
modo in cui sarebbesi formato il primo nucleo del dominium ex iure quiritium ,
resta ora a ve dere come il suo concetto siasi venuto allargando, e quali siano
i varii stadii, che attraverso questa proprietà ex iure quiritium , la quale
doveva poi divenire il modello di ogni proprietà esclusiva mente privata ed
individuale. 353. A questo riguardo i ricercatori dell'antico diritto si
arrestano sorpresi di fronte a questo fatto singolare, che il solo mancipium
nei primi tempi sembra aver formato oggetto della proprietà ex iure qui ritium
. L'Ortolan, ad esempio , trova assurdo che il quirite non avesse la proprietà
delle cose incorporali, se si eccettuano certe servitù rustiche, nè la
proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i servi e le bestie da tiro e da
soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in qualmodo quei quiriti, che
avevano divisi i loro fondi, fossero poi indifferenti alla distinzione del mio
e del tuo per molte altre cose; il che lo induce a combattere la proposizione
di Gaio, secondo cui il popolo Romano non conosceva un tempo, che la sola
proprietà ex iure quiritium : « aut enim ex iure quiritium unusquisque do minus
erat , aut non intellegebatur dominus » (1). È certo che la cosa riesce assai
strana, quando si voglia ritenere che, al difuori della proprietà ex iure
quiritium , non vi fosse pei romani primitivi altra forma di proprietà o di
possesso ; ma la cosa pud invece essere spiegata quando si abbia presente il
modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e le istituzioni, che
entrarono a costituirlo . Già ho cercato di dimostrare comeil ius quiritium non
comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso ,
che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e che di vento cosi comune ai
due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far parte della stessa comunanza
quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono ancor sempre a seguire le
proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che quella parte di diritto ,
che essendo stata accettata come base della comunanza quiritaria prese il nome
spe ciale di ius quiritium . Questo pertanto non governd dapprima tutti i
rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano fra loro nelle ( 1)
Ortolan, Histoire de la législation romaine, Paris, 1880, p. 606. MUIRHEAD,
Histor. Introd ., pag. 40. . 447 loro qualità di quiriti, e fu solo col tempo e
a misura che facevasi più intima la convivenza dei quiriti, che esso venne
arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi istituti, modellando nuovi
negozii richiesti dalle esigenze della vita civile in una grande e popolosa
città , e si cambiò così nel ius proprium civium romanorum (1). 354. Or bene
ciò che accadde nella formazione del ius quiritium si avverò eziandio
nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a costituirlo, e
quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium . Questa non comprende
dapprima tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma comprende
solo quella parte di essa , che loro appartiene nella loro qualità di quiriti.
Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il mancipium ,
che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a cui si
determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la primitiva
proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il mancipium , e
fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per eccellenza, cioè l'atto
per aes et libram , e quella pro cedura quiritaria dell'actio sacramento , in
cui i contendenti affer mavano: « hanc rem suam esse ex iure quiritium » .
Questa infatti era l'unica proprietà , che poteva essere tenuta in conto al
punto di vista quiritario e che doveva perciò avere la tutela del diritto qui
ritario . Quindi era giusto il dire, che altri « aut erat dominus ex iure
quiritium , aut non intellegebatur dominus » : il che non vuol già dire , che
non si potesse avere il possesso od il godimento di altri beni, ma soltanto che
le altre forme di proprietà non potevano es sere tenute in calcolo al punto di
vista quiritario . Quindi al modo stesso, che il ius quiritium fu il frutto
della selezione di certi con cetti e forme solenni, che furono adottate dalla
comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure quiritium fu anche essa
determinata da una specie di selezione. Il suo primo nucleo consistette nel man
cipium , il quale costitui in certo modo la proprietà tipica del qui rite , ma
più tardi i suoi limiti apparvero troppo circoscritti, e perciò alla cerchia
troppo ristretta del mancipium si venne sostituendo un concetto più esteso del dominium
ex iure quiritium . Questo infatti (1) Questo carattere particolare del ius
quiritium , per cui esso non è tutto il di ritto primitivo di Roma, ma solo
quella parte di esso, che vennesi consolidando al lorchè patriziato e plebe
entrarono a formar parte della stessa comunanza quiritaria . fu dimostrato
sopratutto nel lib. III, cap. 3º. 448 viene già ad essere più esteso : lº
quanto alle persone a cui compete, che non sono più i soli capi di famiglia ,
ma tutti i cittadini ro mani ed anche i latini cui sia accordato il ius
quiritium ; 2° quanto ai modi, con cui si acquista , che non si riducono più
alla sola man cipatio, ma comprendono anche la in iure cessio e la usucapio (1
); e quanto alle cose, che possono essere l'oggetto, che non sono più le sole res
mancipii, ma tutte le cose in commercio , eccetto il solum provinciale.
Tuttavia egli è evidente, che anche in questo secondo stadio la proprietà ex
iure quiritium costituisce ancora sempre una proprietà privilegiata , quanto
alle persone , alle cose , ai modi di acquisto ; cosicchè ogni qualvolta manchi
una di queste condizioni la cosa ap partiene solo in bonis, ed è solo col tempo
e per effetto della pro tezione pretoria , che viene a poco a poco delineandosi
una proprietà in bonis, accanto alla proprietà per eccellenza, che era quella
ex iure quiritium . Qui pertanto appare evidente quella legge di for mazione
del diritto romano, per cui accanto alla parte di esso già formata ne compare
un'altra, che trovasi in via di formazione e che cercasi a poco a poco di fare
entrare nelle forme di quella , che prima riuscì a consolidarsi. Mentre questo
dualismo nel primitivo ius quiritium è rappresentato dal mancipium e dal nec
mancipium , il medesimo invece nel ius proprium civium romanorum viene ad
essere rappresentato dalla proprietà ex iure quiritium e da quella in bonis ;
ma intanto la seconda distinzione, pur abbracciando una cerchia più vasta,
continua ancora sempre ad essere foggiata sulla prima. 355. Queste
considerazioni mi conducono a ritenere, che anche il dominium ex iure quiritium
, dopo esser stato modellato sulla realtà dei fatti, abbia finito per
convertirsi in una costruzione giuridica non dissimile da quella , che abbiamo
ravvisata nei concetti di caput, di manus e di mancipium . Esso è una forma di
proprietà , che cor risponde al concetto del quirite, e quindi al modo stesso ,
che questi nella sua configurazione giuridica era una individualità integra e
perfetta , concepita sotto l'aspetto esclusivamente giuridico , ed (1) Non è
qui il caso di parlare nè dell'adiudicatio, nè della lex , e dell'adsignatio
viritana , che potevano anche attribuire il dominium ex iure quiritium ; poichè
lo stesso Gajo , Comm ., II, 65 , parla soltanto della mancipatio, della in
iure cessio e dell'usucapio , come costituenti un ius proprium civium romanorum
. 449 isolata da tutti gli altri suoi rapporti , cosi anche la sua proprietà
ebbe ad essere concepita come assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo
modo ad imagine della persona, a cui doveva appartenere. Una prova di ciò
l'abbiamo in questo , che allo svolgimento del dominium ex iure quiritium si
applicò una logica del tutto ana loga a quella, che erasi applicata allo
svolgimento del concetto di caput; cosicchè, per determinare i varii
atteggiamenti del dominio , furono adoperati dei criteri analoghi a quelli, che
servirono a de terminare lo stato del quirite. Così , ad esempio , al modo
istesso , che si ha l'optimum ius quiritium allorchè la capacità del quirite
non soffre alcuna limitazione; cosi havvi il dominium optimum maximum , quando
il dominium non è soggetto ad alcuna limita zione. Al modo stesso parimenti,
che vi ha una diminutio capitis, cosi havvi eziandio una diminutio dominii , la
quale è perfino in dicata collo stesso vocabolo di servitus, con cui pure si
indica la maxima capitis diminutio. Che anzi a quella guisa, che l'intiero
caput non appartiene a tutti gli uomini, cosi non tutte le cose sono suscettive
del dominium .ex iure quiritium ; il qual concetto spin gesi a tal punto, che
può ravvisarsi una specie di correlazione fra la concessione della civitas agli
abitanti, e la concessione al suolo da essi abitato di quel ius privilegiato ,
che lo rende suscettivo di dominio quiritario . Cosi mentre il solum italicum
ottenne questa speciale condizione, sotto il nome di ius italicum , il solum
provin ciale invece non potè mai essere oggetto di vera proprietà , se non
quando scomparve con Giustiniano la distinzione fra la proprietà ex iure
quiritium e la proprietà in bonis (1) . Vi ha di più ancora, ed è che le
trasformazioni storiche, che ac cadono nel concetto di caput, camminano di pari
passo con quelle del dominium ex iure quiritium . Così, ad esempio , finchè il
vero caput non appartenne che al capo di famiglia , anche questi fu il solo
capace di proprietà ex iure quiritium . Quando poi la capacità di diritto dal
capo di famiglia passò ad ogni cittadino romano ) (1) In questa guisa si
spiega, come i Romani procedessero nell'accordare ad un determinato territorio
l'attitudine ad essere oggetto di proprietà quiritaria nel modo stesso, in cui
procedevano nell'estendere la cittadinanza romana ai popoli conquistati. Di qui
l'analogia fra la formazione del ius latiï e quella del ius italicum : di cui
quello si riferisce alle persone, questo invece si riferisce al suolo (Cfr.
Baudouin, Étude sur le ius italicum , nella « Nouvelle revue historique de
droit français et étranger » , annate 1881 e 1882). G. CARLI, Le origini del
diritto di Roma. 29 450 bastò essere tale, per essere capace di proprietà ex
iure quiritium . Quando infine la capacità giuridica appartenne ad ogni uomo li
bero , perchè tutti gli abitanti dell'impero ottennero la cittadinanza, bastò
essere uomo libero per essere capace di quella proprietà , che un tempo era
stata privilegio dei soli quiriti. La qual trasforma zione avverasi anche,
quanto alle cose che ne formano l'oggetto , le quali cominciarono dall'essere
quelle soltanto, che figuravanonel censo intestate al capo di famiglia (res
mancipii), e finirono per compren dere tutte quelle, che potevano essere in
commercio . Il che deve pur dirsideimodi diacquisto , i quali dapprima furono
probabilmente circo scritti alla sola mancipatio, mentre dopo compresero l'in
iure cessio e l'usucapio, e finirono col tempo per comprendere anche quei modi
di acquisto , che dapprima erano proprii soltanto del diritto delle genti ;
donde la distinzione della classica giurisprudenza fra i modi di acquisto del
dominio , civili e naturali, originarii e derivativi (1 ). 356. Era poi
naturale, che alla proprietà cosi intesa i giurecon sulti abbiano finito per
applicare quella stessa analisi, che già ab biamo riscontrato nel caput. Essi
contrapposero il quirite alla cosa che gli apparteneva : gli fecero afferrare
materialmente la cosa ed affermare la sua proprietà sulla medesima dicendo, che
la cosa era sua ex iure quiritium : immedesimarono in certo modo la persona
colla cosa alla medesima spettante, e le attribuirono così un di ritto
illimitato di usarne, goderne, e di disporne , anche abusando di essa . In
questo diritto del proprietario , che non ha confine, deve quindi ravvisarsi
una costruzione giuridica, non dissimile da tante altre, che occorrono nel
diritto romano : poichè in effetto l'abuso della proprietà era poi frenato dal
costume, e sopratutto dal iudicium de moribus, il quale , dopo essere stato una
istituzione gentilizia , fu di nuovo ristabilito dalle XII Tavole, e fu
affidato al pretore (2 ). Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi nella
proprietà (1) Non può ammettersi, come vorrebbero taluni, che nelle origini del
diritto ro mano non esistessero modi naturali di acquisto, il che sarebbe
contraddetto dall'an tichità della traditio, quanto alle res nec mancipii: ma
soltanto che i modi naturali, pur esistendo da epoca forse più antica , furono
solo più tardi incorporati nella com pagine del diritto romano, il quale
assimilava solamente ciò, che in qualche modo poteva entrare nelle forme
prestabilite. (2 ) L'origine gentilizia del iudicium de moribus fu dimostrata
al n° 59, p . 74. Del resto tale origine gentilizia è comprovata dalla
intitolazione stessa di questo iw dicium demoribus, la quale sembra richiamare
qualche antica norma consuetudi 451 fini per ricevere una propria
denominazione, e staccato dal ceppo , sovra cui aveva radice, fini per dare
origine alle varie configura zioni dei diritti reali , comprendendovi anche il
ius possessionis, ciascuno dei quali potė ricevere un vero e proprio sviluppo,
pur sempre ritenendo l'impronta reale, che eragli provenuta dalla pro prietà ,
di cui costituiva un frazionamento. Fu anzi in questa occa sione, che sembra
essere venuto in uso il vocabolo di proprietas, il quale in origine appare
adoperato, quando si tratta di contrapporre la proprietà ai diritti reali, che
erano inchiusi nella medesima (1). 357. Questa ricostruzione intanto del
dominium ex iure quiri. tium mi porge occasione di fare un brevissimo cenno dei
rapporti, che nel diritto romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A
questo proposito il diritto romano presenta questa singolarità , chementre il
giureconsulto Paolo, fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come
fuori di ogni dubbio, che il dominio dovette cominciare dalla materiale
appropriazione delle cose (dominium rerum ex naturali possessione coepisse)
(2); noi troviamo invece , che nello svolgimento storico presentasi dapprima
integro e com piuto il concetto del dominium ex iure quiritium , ed è solo
molto più tardi, che il possesso viene ad essere considerato come una isti
tuzione giuridica , protetta cogli interdetti possessori. Di fronte a questo
stato di cose sarebbe fuor di luogo il sostenere, che i Romani non
distinguessero dapprima fra la materiale detenzione di una cosa, e la
padronanza giuridica sovra di essa ; ciò sarebbe smentito dal fatto , che essi
fin dai primi tempi ebbero il concetto dell'usus e dell'usus auctoritas , ed
anche dalla circostanza, che ai plebei, stanziati sul territorio romano, non si
riconobbe dapprima una vera naria, ed anche dalla circostanza , che le XII
Tavole, affidando al pretore questo po tere, che un tempo apparteneva alla
gens, richiamarono di nuovo in vita il primitivo concetto dell'heredium , che
era venuto meno nello stretto ius quiritium , e ristabili rono contro il
prodigo interdetto la cura degli agnati e dei geniili, la quale è certo una
reliquia dell'organizzazione gentilizia . Il testo infatti, secondo la
ricostruzione del Voigt, Tav. VI, 10 , sarebbe il seguente : « Qui sibi
heredium nequitia sua disperdit, liberosque suos ad egestatem perducit, ea re
commercioque praetor interdicito. In adgnatum gentiliumque curatione esto » . (
1) Che il vocabolo di proprietas abbia cominciato ad adoperarsi, allorchè si
trat tava di contrapporre la proprietà in sè ai diritti frazionarii inchiusi
nella medesima, può argomentarsi , fra gli altri passi, da quello di GAJO, II,
30, ove la proprietas si contrappone appunto all'ususfructus. (2 ) L. 1, § 1 ,
Dig . (41, 2 ). 452 proprietà , ma una specie di possesso a titolo di precario
, che non aveva ancora carattere giuridico (1). La causa invece del fatto deve
riporsi in ciò , che anche in questa parte il ius quiritium , essendo già stato
il frutto di una vera elaborazione giuridica, prese senz'altro le mosse dal
concetto più vasto e comprensivo, a cui si potesse giungere in tema di
proprietà . Il concetto infatti del do minium ex iure quiritium ebbe dapprima
ad essere modellato sul mancipium , il quale , implicando la sottomissione
illimitata di una cosa ad una persona, inchiudeva in una sintesi potente tutti
i po teri, che ad una persona possono appartenere sopra una cosa. Il diritto
infatti , che al quirite spetta sul proprio mancipium , nella sua sintesi
vigorosa, implica la detenzione materiale e la proprietà della cosa : è un
fatto ed è un diritto ; è una proprietà originaria , ma intanto comprende eziandio
la proprietà derivata ; esso anzi de signa perfino una proprietà , che ha
dell'individuale e del famigliare ad un tempo. Fu soltanto più tardi, che anche
in questo concetto venne penetrando l'analisi , la quale cominciò dal
distinguere la materiale detenzione di una cosa (naturalis possessio), la quale
è un puro e semplice fatto (res facti), dalla padronanza giuridica sovra di
essa (dominium ex iure quiritium ), la quale costituisce invece un vero e
proprio diritto (res iuris). Col tempo però, siccome fra questi due termini
estremiverranno ad esservi delle possessiones, che per speciali considerazioni
potranno anche apparire meritevoli diprotezione giuridica, cosi si verrà a poco
a poco modellando dal pretore il concetto di una civilis possessio. Questa tuttavia
non apparirà più unicamente come una res facti , ma in parte eziandio come una
res iuris ; non supporrà unicamente la materiale deten zione della cosa
(corpus), ma anche l'intenzione di tenere la cosa per sè (animus rem sibi
habendi). Questo possesso verrà cosi a pren dere un posto di mezzo fra la
semplice detenzione materiale di una cosa, e la proprietà della medesima (2 ) ;
quindi, per la protezione di esso , il pretore , non trovandosi di fronte ad un
diritto compiutamente formato, non potrà ius dicere nel vero senso della parola
, ma sol tanto interdicere , cioè proibire che venga turbato lo stato di fatto
, del quale si tratta (vim fieri veto ), donde la denominazione degli inter .
(1) Vedi, quanto alle primitive possessioni della plebe nel territorio romano,
il nº 154 , pag. 190 e segg . (2) V. in proposito Savigny, Dela possession ,
Trad. Staedtler, sulla 74 ed . tedesca, Bruxelles 1879, § 5º, pag. 20 a 25 .
453 dicta , con cui si protegge il possesso . Siccome poi questo possesso , du
rando un determinato spazio di tempo, già poteva, in base all'usuca
pione,trasformarsi in un vero diritto; cosi il possesso , oltre al costituire
per se stesso una istituzione giuridica , protetta mediante gli inter detti,
costituisce pure un mezzo , mediante cui il fatto della deten zione e del
godimento di una cosa (usus) può trasformarsi nel di ritto di proprietà
(auctoritas) (1). È tuttavia a notarsi, che siccome tanto il dominium ex iure
quiritium , quanto la semplice possessio debbono ritenersi come una scomposizione
del diritto, che al quirite spettava sul primitivo mancipium , il quale aveva
del materiale e del giuridico ad un tempo ; così tanto il dominium , che la pos
sessio, presso i romani, non poterono mai intieramente spogliarsi di un certo
carattere di materialità . Cid è dimostrato dalla circostanza, che da una parte
il dominium fini per essere circoscritto alle cose corporali e dovette sempre
essere trasferito col mezzo della tra dizione, e dall'altra il possesso non
potè parimenti estendersi, che alle cose corporali e ad alcuni dei diritti
reali competenti sulle me desime (quasi possessio ) (2). In questo modo possono
facilmente spiegarsi le incertezze dei giureconsulti , i quali ora considerano
il possesso come una res facti, ed ora come una res iuris, ora scorgono in esso
l'estrinsecazione del diritto di proprietà , ed ora dicono invece , che il
possesso ha nulla di comune con essa; poichè il medesimo, essendo una istitu
zione intermedia fra il fatto ed il diritto , fra la detenzione e la proprietà,
poteva presentarsi or sotto l'uno or sotto l'altro aspetto, secondo lo speciale
punto di vista , sotto cui era considerato (3 ). Si comprende parimenti, che
sebbene ogni dominio abbia dovuto (1) A parer mio è importante nello
svolgimento storico del diritto romano di tener distinti i due istituti del
possesso ad usucapionem , e del possesso ad inter dicta . Il primo prese le
mosse del concetto dell'usus e perciò potò essere applicato così alle res
mancipië che alle nec mancipii, così alle cose corporali, che alle incor
porali; mentre il secondo fu il frutto dell'analisi del mancipium , e ritenne
quindi sempre qualche cosa della materialità inerente a quest'ultimo. L'uno
mette capo alla legislazione decemvirale, mentre l'altro ricevette la propria
configurazione giu ridica dal diritto pretorio . (2 ) Cfr. Savigny, op. cit., §
12 , pag . 170-177. (3 ) V. i passi in proposito citati dal Savigny, op . cit
., § 5 , pag. 21 e segg ., nelle note. Sono poi noti i passi di Ulp., 12 , § 1,
Dig . (41, 2) nihil commune habet proprietas cum possessione» , ed altri
analoghi, L. 1, $ 2 , Dig . (43, 17). Cfr. JHERING , Fondement des interdits
possessoires, Trad . Maulenaere, Paris 1882, pag . 42. - 151 prendere le mosse
dalla materiale appropriazione di una cosa , il concetto del possesso sia
tuttavia di formazione posteriore, e non abbia ricevuto una propria
configurazione giuridica, che per opera del pretore, allorchè il medesimo
cominciò ad accordare la prote zione giuridica a quelle possessiones nell'ager
publicus, che per la propria durata già cominciavano ad assumere il carattere
di un vero A proprio diritto ( 1) . Per quello poi, che si riferisce alla
questione tanto agitata del fon damento razionale della protezione giuridica
accordata al possesso, essa , come al solito , non ebbe ad essere trattata di
proposito dai giu reconsulti ; ma si può indurre dallo svolgimento storico di
esso , che tale fondamento deve riporsi sul principio, sovra cui poggia tutto
il diritto romano, secondo cui « ex facto oritur ius » , in quanto che ogni
fatto , che riunisca in sè certe condizioni di durata e di buona fede, contiene
in sé i germi di un diritto e come tale può già meri tare la protezione
giuridica e servire ad un tempo di base all'usu capione (2 ). (1) Tale sarebbe
l'opinione del Niebaur , Histoire romaine, III, 191 e segg.; e del Savigny, op.
cit., § 12 a , pag . 177-185. Essa parmi in ogni caso più verosimile di quella
sostenuta dal Pochta , Istit., § 225, secondo cui l'idea del possesso sarebbe
provenuta dalla concessione del possesso interinale, che si accordava ad uno
dei contendenti nella procedura di vindicazione coll' actio sacramento ; poichè
questo possesso interinale non ha punto che fare col possesso, in quanto ha una
protezione giuridica tutta sua propria, che consiste negli interdetti. Comunque
stia la cosa , sembra che l'interdetto più antico sia quello uti possidetis ,
destinato appunto ad impedire il turbamento di uno stato di fatto. Intanto
viene ad essere evidente, che in base all'opinione qui sostenuta, se si voglia
collocare il possesso nella solita di stinzione dei diritti in personali e
reali, esso dovrà certo esser collocato tra i diritti reali. Cfr. il SavIGNY,
op . cit., $ 6 , p. 42, il quale sostiene un'opinione in parte diversa . (2 )
Senza voler qui prendere in esame le molte teorie , che furono escogitate in
proposito, solo mi limiterò ad osservare, che la questione ebbe ad essere
profonda mente discussa in due opere, che vennero ad un risultato compiutamente
diverso ; di cui una è quella del JHERING , Ueber den Grund des Besitzschutzes,
Jena 1869, di cui abbiamo la trad. franc. del Maulenaere, sopra citata , e
l'altra è quella del Bruns, Die Besitzklagen des röm . und heutigen Rechts,
Weimar 1874, il cui con cetto fu adottato e largamente esposto dal PADELLETTI ,
Archivio giuridico, XV, pag . 3 e segg . Secondo il primo, la protezione
accordata al possesso fondasi su ciò , che il possesso è una estrinsecazione
della stessa proprietà , e quindi senza tale pro tezioneanche la proprietà non
sarebbe sufficientemente difesa. Secondo l'altro invece, il posseso è tutelato
unicamente per se stesso, in base al concetto, enunciato nella L. 2, Dig . (43
, 17): qualiscumque possessor, hoc ipso quod possessor est , plus iuris habet,
quam qui non possidet » . Parmi che, assegnando a questa protezione il
fondamento razionale indicato nel testo, cioè il principio : « ex facto oritur
ius » , si 455 358. Di fronte a questo svolgimento storico e logico ad un
tempo, parminon possa essere difficile la risposta a coloro, i quali chiedono
comemai una istituzione, come quella della proprietà ex iure quiri. tium , dopo
essere stata esclusivamente propria dei romani, abbia finito per diventare
istituzione universale, e per essere adottata anche da quei popoli, i quali non
subirono l'influenza diretta della dominazione romana. La causa vera del fatto
sta in questo , che la proprietà quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e
aver prese le mosse da quel nucleo di cose, che anche nell'organizzazione
gentilizia era assegnato ai singoli capi di famiglia , fini per essere isolata
dall'ambiente , in cui si era formata , e si cambiò così in una costruzione
logica e coerente . Fu in questa guisa, che la medesima, essendo ridotta, per
dir cosi, ad un capolavoro di costruzione giuridica, potè cessare di essere
l'istitu zione di un popolo, per diventare quella del mondo. Vero è, che tutti
i popoli ebbero i loro istituti giuridici, e quindi anche questa o quella forma
di proprietà , ma non tutti riescirono ad isolare tali istituti e sopratutto la
proprietà dall'ambiente storico , in cui si erano for mati ; solo i romani
ebbero la potenza di sceverarli da ogni elemento affine, di sottoporli ad
un'elaborazione non interrotta , che duro pa recchi secoli, e riuscirono cosi a
ridurre allo stato di purezza quella , che potrebbe chiamarsi l'obbiettività
giuridica dei singoli istituti . Le loro analisi, le loro fattispecie , le loro
costruzioni giuridiche non potranno sempre essere applicabili, ma saranno
sempre elaborazioni tipiche nel loro genere, come lo sono in un genere diverso
i capo lavori dell'arte greca ; ed è questo il motivo dell'eternità e dell'uni
versalità del diritto romano. Questa elaborazione poi fu dai romani compiuta
sopratutto quanto al concetto della privata proprietà . In questo senso si pud
dire col Sumner Maine (1) che essi furono i crea tori della proprietà privata
ed individuale ;ma è sopratutto notabile abbia il vantaggio di far contribuire
alla giustificazione della protezione giuridica accordata al possesso e l'una e
l'altra teorica , e quello di dare contemporaneamente una base, così al
possesso ad interdicta , come al possesso ad usucapionem . Secondo il Puglia ,
Studii di storia del diritto romano, Messina 1886 , pag. 72: « l'interdetto pos
sessorio sarebbe comparso come un mezzo particolare per risolvere una
controversia , per la quale non potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio
» ; ma è ovvio il notare che in questa guisa si potrà forse spiegare
l'introduzione degli interdetti, ma non maiil fondamento della protezione giuridica
accordata al possesso. Cfr . PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom ., pag .
529 e segg., ove trovasi citata in nota la bi bliografia più recente
sull'argomento . ( 1) SUMNER-MAINE, L'ancien droit, trad . Courcelles Seneuil,
Paris, 1874, p . 244 . 456 il modo e il perchè essi ed non altri riuscirono in
tale creazione. Essi infatti vi pervennero svolgendo prima il concetto della
pro prietà individuale, assoluta ed esclusiva, riguardo a quel nucleo di cose,
che era compreso nel primitivo mancipium , con cui ogni sin golo quirite
compariva nel censo, e poi trasportarono successiva mente il concetto logico,
che essi si erano formati di questa pro prietà ex iure quiritium , a tutte le
cose corporali, che potevano essere oggetto di commercio . Per tal modo la
proprietà quiritaria si staccò da una organizzazione gentilizia e patriarcale ,
non dissi mile da quella , da cui usci la proprietà privata dei Germani e degli
Inglesi nell'evo moderno ; ma a differenza di questa , quella fu ben presto
isolata dall'ambiente , in cui erasi formata, e si cambid cosi in una proprietà
tipica , strettamente individuale, che potè con certi temperamenti essere
adottata da tutti i popoli. Appendice. Senza voler qui fare comparazioni, che
miporterebbero fuori del tema, non so tuttavia trattenermi dall'accennare ad
alcune singolari analogie fra lo svolgi mento della proprietà privata in Roma e
presso i popoli Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a pag . 62, nota 2,
la discussione seguita nell'Accademia Francese, a pro posito della proprietà
presso gli antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa discussione porse
argomento ad una nota del prof. Del Giudice, stata letta all'Isti tuto
Lombardo, nelle adunanze del 4 e 18 marzo 1886 , in cui egli fa un accura
tissimo raffronto fra la descrizione di Cesare e quella di Tacito circa le
condizioni dei primitivi Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini le
mutazioni, che si erano avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150
anni, che separano i due autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a
ciò, che i possessi erano diventati più stabili, e che dalla proprietà
collettiva del villaggio già erasi venuta distin guendo la proprietà della
famiglia. Pervenuti così a questo punto della evoluzione della proprietà presso
i Germani, analogo a quello, a cui erano pervenute le genti italiche, allorchè
fondarono la città di Roma, noi troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER
sull'Allodio nei secoli Barbarici, Torino, 1886 , la descrizione degli
ulteriori stadii , per cui passò l'evoluzione stessa . Noi cominciamo anzitutto
dal trovarci di fronte a certi vocaboli e concetti, che ci richiamano le
condizioni primi tive delle genti italiche. Cotali sono i communalia , i
vicinalia , i vicanalia (SCHUPFER, pag . 26 ) i quali, senz'aver più la
configurazione tipica dell'ager compascuus delle tribù italiche, richiamano
però il medesimo. Così anche tra i Germani trovasi una forma di proprietà, che,
senza essere del tutto individuale, già si accosta alla medesima, ed è notevole,
che essa, così fra le genti italiche, come fra i Germani, è indicata con un
vocabolo, che richiama l'eredità , il passaggio cioè di un patrimonio dai
genitori nei figli. Questo vocabolo presso i Romani, era quello di heredium , e
presso i Germani è quello di alodium ; il quale eziandio , secondo il Waitz e
lo Schupfer, cominciò dapprima dall'indicare l'eredità , e passò poscia ad
indicare il patrimonio avito. SCHUPFER , Op. cit., pag . 11 e 12. Or bene,
presso l'uno e l'altro popolo, è questo heredium o alodium , che finisce per
costituire il primo nucleo della proprietà esclusivamente privata . — È
notabile anzi, che, nel periodo della tras 457 formazione, nè i Romani, nè i
Germani hanno un vocabolo specifico per indicare la proprietà : poichè mentre i
primi esprimono la proprietà coi concetti di meum e di tuum , di heredium , di
praedium , di mancipium , i Germani invece la indicano coi vocaboli di Land,
Erbe, Eigen , Allod , Sundern (pag. 14 ). Così pure anche presso i Germani
occorrono quei consortia, che presso le genti italiche erano indicati coi
vocaboli di « ercto non cito » . Questi consortia parimenti esistono sopratutto
fra fra telli, e talora anche fra zii e nipoti, che continuano spontaneamente
nella comunione (SCHUPFER , pag. 52), e richiamano così la familia omnium
agnatorum . — Infine la vera proprietà privata formasi presso i due popoli
nella stessa guisa. Al modo stesso, che la prima proprietà privata in Roma fu
un assegno sull'ager gentilicius o sull'ager publicus, così anche la proprietà privata
, presso i popoli germanici, seguendo sempre la guida sicura del prof.
Schupfer, fu anche essa una sors, un lotto , un assegno ( pag . 63); accanto al
quale però si svolge eziandio il concetto dell'adquisitum la bore suo (pag .
60), il quale, salvo il linguaggio, non presenta poi grande differenza dal
manucaptum dei latini. È poi anche degno di nota, che questo nucleo cen trale
della proprietà privata presso i Germani, al pari che presso gli antichi Ro
mani, è costituito da un podere o da una abitazione rustica, a cui trovasi
annessa una certa quantità di terra , che in massima avrebbe dovuto essere
invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è indicato coi nomi dimansus, di hoba ,
di sedimen , i quali proba bilmente portano eziandio con sè quella idea di residenza
, che era indicata anche dai vocaboli di mancipium e di dominium . Che anzi,
come già notava lo Schupfer , p . 78, anche l'uomo libero longobardo, che si
chiama arimanno, indica la sua libera pro prietà col vocabolo di arimanna, al
modo stesso che il quirite addimandava la sua proprietà esclusiva « dominium ex
iure quiritium » . Infine questa proprietà si acquista , si trasmette e si
rivendica con modi, che ricordano l'usucapio, la manci. patio e l'actio
sacramento dei Romani (SCHUPFER, Op. cit., pag. 122, 138 e 160 ). Intanto però,
accanto alle analogie, che dimostrano la costanza delle leggi che go vernano
l'evoluzione della proprietà , sonvi anche le differenze , che sono determinate
dal diverso temperamento dei popoli. Mentre infatti il popolo romano, giunto
una volta al concetto della proprietà individuale, ne fa una costruzione
tipica, che estende a poco a poco a tutte le cose, che sono in commercio, e che
svolge in tutte le sue conseguenze logiche, i popoli germanici invece non
giungono a questa concezione tipica ; quindi mentre la proprietà romana è una
sola, la proprietà germanica, come ben nota lo ScuuPFER, non potrà mai
richiamarsi a un solo tipo (pag. 75). Di più mentre i Romani, una volta
raggiunta la proprietà quiritaria, la disgiunsero affatto dall'ambiente
gentilizio , e si concentrarono esclusivamente nello svolgimento di essa,
pressochè lasciando in disparte la proprietà collettiva prima esistente, i
popoli ger manici invece, compresi anche gli Anglo-Sassoni, non giunsero mai a
districare com piutamente la proprietà privata dall' involucro feudale da cui
era uscita , o se lo fecero vi giunsero solo per imitazione della proprietà,
quale era stata modellata dai Romani, nè spinsero mai la logica della
istituzione a conseguenze così estreme, come i Romani (pag. 82). Ciò è vero
sopratutto della proprietà inglese, la quale, uscita dall'organizzazione
feudale, continua sempre a serbarne le traccie in quella serie di gradazioni e
di distinzioni, che ancor oggi la contraddistinguono. Vedi, quanto alla
proprietà inglese, il Williams, Principii del diritto di proprietà reale, trad
. Ca negallo, Firenze, 1873 e il POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh, 1884 . -
458 CAPITOLO III. Il ius quiritium ed i concetti di commercium , connubium ,
actio . 359. Fin qui ho cercato di ricomporre il quirite negli elementi
essenziali del suo status, e di seguire le trasformazioni, che si vennero
introducendo man mano in ciascuno di questi elementi. Ricostruendo cosi il
primitivo diritto , fummo condotti ad una con figurazione giuridica del
quirite, la quale , ancorchè rigida e com passata, si presenta però organica e
coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte più difficile di questa
ricostruzione, quella cioè di cercare, come mai una figura cosi automatica potesse
entrare in rapporti con altre individualità foggiate sullo stesso modello , e
dare cosi origine a quella infinita varietà di negozii, in cui il quirite pud
essere chiamato a svolgere la propria attività giuridica . Non è quindi
meraviglia, se qui sopratutto apparisca sorprendente il magi stero dei veteres
iuris conditores, in quanto che non trattavasi solo più di notomizzare e di
scomporre lo status del quirite , ma di mettere il medesimo in movimento ed in
azione, valendosi di pochissimi mezzi per dar forma giuridica alla varietà
grandissima dei negozii, che si venivano moltiplicando col formarsi e collo
svol gersi della convivenza cittadina. Anche qui la supposizione più ovvia
intorno al magistero seguito dai modellatori del primitivo diritto , sarebbe che
essi, da uomini pratici quali erano, fossero venuti introducendo le
istituzioni, a mi sura che se ne presentava il bisogno, e che perciò il diritto
privato di Roma, almeno in questa parte, debba essere considerato come il
frutto di una evoluzione lenta e graduata , determinata sopratutto dalle
condizioni economiche e sociali del popolo romano (1). Lo studio invece delle
vestigia , che a noi pervennero dell'antico ius quiritium , mi hanno
profondamente convinto , che il medesimo, anche in questa parte , che potrebbe
chiamarsi la dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di una specie
di elaborazione e selezione potente , (1) Tale sarebbe l'idea, forse alquanto
preconcetta, a cui sembra ispirarsi l'opera del Puglia col titolo : Studii di
storia di diritto romano, secondo i risultati della filosofia scientifica ,
Messina, 1886 . 459 che venne operandosi su materiali giuridici preesistenti ,
la quale ebbe ad essere guidata da una logica e da una tecnica giuridica , non
dissimile da quella, che abbiamo riscontrata nella parte statica del diritto
quiritario . Vi ha tuttavia questa differenza, che mentre le basi fondamentali
dello status del quirite furono fissate , pressochè contemporaneamente,
dall'avvenimento importantissimo del censo ser viano ; lo svolgimento invece
della parte del diritto quiritario , che si riferisce al negozio giuridico , fu
l'effetto di una elaborazione più lenta e graduata , la quale si operd man
mano, che veniva accomu nandosi il diritto fra il patriziato e la plebe , e che
le loro rispettive istituzioni si fondevano insieme nell'attrito della vita
cittadina. 360. Che questo sia stato il processo , con cui si formò eziandio la
parte dinamica del ius quiritium , risulta da una quantità gran dissima di
indizii, fra cui basterà qui di ricordare i più importanti. È indubitabile
anzitutto che, anche nella parte relativa al negozio giuridico , il ius
quiritium non prende le mosse da questo o da quel fatto particolare, ma parte
invece senz'altro da concetti sin tetici e comprensivi, quali sarebbero quelli
del commercium , del connubium e dell'actio , i quali tutti hanno una
larghissima signi ficazione, e sembrano già preesistere nel periodo gentilizio
, anteriore alla fondazione della città . Cosi pure è certo, che il primitivo
ius quiritium non viene già creando le forme giuridiche, a misura che si
vengono svolgendo i nuovi rapporti giuridici , ma compare invece con certe
forme tipiche, efficacemente modellate, nelle quali cerca poi di fare entrare,
anche forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici, a cui dà argomento la
convivenza civile e politica . È in questa guisa, che un solo atto , quale sarà
, ad esempio, l'atto per aes et libram , finirà per servire alle applicazioni
più disparate. Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il ius quiritium ,
nelle diverse serie di rapporti giuridici da esso governati, presentasi
dapprima con istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il nucleo
centrale , intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che hanno
qualche affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha dubbio ,
che il ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio , che è il
matrimonio cum manu ; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes
et libram ; come pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio
sacramento . Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto
quiritario non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano ; - 460
- ma si viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si
adottano quelli, che possano convenire al concetto fondamentale , che è quello
del quirite . È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di
questa parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi
della sua naturale formazione, cominciando dal cercare : lº quali siano i
concetti fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del
ius quiritium ; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che
essi subiscono en trando nel diritto quiritario ; 3º l'ordine progressivo , con
cui questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora
zione del ius quiritium . 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende
le mosse la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli
del connubium , del commercium , dell'actio . Cid pud inferirsi anzitutto dalla
circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo
gentilizio, nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era
naturale , che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria , li
applicassero eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite
, pur essendo un individuo , continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò
si aggiunge, che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione
tipica del quirite , quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla
costituzione serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di
capo di famiglia e di proprietario di terra , i quali due caratteri, nella
sintesi primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo
dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium . Era quindi
naturale , che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si
riducevano alla famiglia ed alla proprietà , così le varie manifestazioni
dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del
connubium , da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a
quella del com mercium , in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge
occasione la circolazione e lo scambio della proprietà . — Le une e le altre ma
nifestazioni poi trovavano la propria difesa nell'actio , che serviva a
tutelare il quirite sotto l'uno e sotto l'altro aspetto , non essendovi ancora
la distinzione fra i diritti reali e personali. Questi concetti pertanto ,
trasportati nel ius quiritium , si cambiarono, per così dire , in altrettanti
capisaldi, da cui si vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud esplicarsi
l'attività giuridica del quirite ; co 461 sicchè anche più tardi, per mettere
ordine nello svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio dovette di
necessità ricorrere ad una distinzione, che richiama quella antichissima del
connubium , del commercium e dell'actio (1). Tutto il diritto infatti, che si
ri ferisce alle persone, considerate sotto il punto di vista esclusiva mente
privato , sembra metter capo al concetto del connubium ; quello invece, che si
riferisce alle cose, non è che uno svolgimento del commercium ; e quello
infine, che riguarda le azioni, non è che una derivazione da quella legis actio
, che costituì la procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del resto sono gli
stessi giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti pubblici dai
privati, finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti fondamentali del
con nubium e del commercium , somministrandoci così, almeno questa volta , una
chiave di quella dialettica fondamentale, che stringe ed unifica il molteplice
svolgimento della giurisprudenza romana (2). 362. Per quello poi, che si
riferisce alla provenienza di questi concetti direttivi di questa parte del ius
quiritium , non può esservi dubbio , che essa deve essere cercata nel periodo
gentilizio , il che credo di avere largamente dimostrato a suo tempo ( 3).
Vuolsi perd aggiungere, che questi concetti, i quali prima avevano governato
dei rapporti fra i capi di famiglia e delle genti, allorchè furono tras portati
nei rapporti fra quiriti, si trasformarono in altrettante basi del diritto
spettante ai quiriti , cosicchè dal connubium derivd il ius connubii ex iure
quiritium ; dal commercium il ius commercii pure ex iure quiritium ; e infine
dall’actio il sistema delle legis actiones , che è parimenti proprio della
comunanza quiritaria . Questi concetti pertanto cessarono di avere uno
svolgimento pura mente estensivo , come era accaduto nei rapporti fra le
famiglie e le genti, ma ricevettero eziandio uno svolgimento intensivo;
cosicchè (1) Intendo qui parlare della nota distinzione di Gaio, Comm ., I, 8 :
« Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet, vel ad res, vel ad
actiones » . Quanto alle obbiezioni che si fecero, sopratutto dal Savigny, al
valore di questa distinzione, vedi quanto si è detto al n ° 97, pag. 124, nota
1. (2) È sopratutto Ulpiano, checerca di abbracciare nei due larghissimi
concetti di connubium e di commercium tutto l'esplicarsi dell'attività
giuridica del qui rite. V. Ulp., Fragm ., V , 3, quanto al connubium , e XIX ,
5 quanto al commercium . Quanto all'uno e all'altro concetto cfr . il Voigt,
XII Tafeln , I, pag . 244 e. 274 , coi passi ivi citati, ed il MUIRHEAD,
Histor. Introd., pag. 108 e 109. (3 ) V. sopra lib . I, cap . VI, SS 2 e 3, pag
. 123 a 138. 402 ciascuno di essi venne ad essere una propaggine di quel
diritto pri vilegiato, cui i Romani diedero dapprima il nomedi ius quiritium ,
e che più tardi chiamarono ius proprium civium romanorum . Cosi, ad esempio ,
il connubium nel periodo gentilicio , era il di ritto di imparentarsi fra di loro,
che esisteva fra i membri delle genti, che appartenevano al medesimo nomen .
Trasportato invece nella comunanza quiritaria, esso venne a trasformarsi nel
ius con nubii ex iure quiritium . Secondo Ulpiano infatti « connubium est
uxoris iure ducendae facultas » , ossia il diritto di addive nire alle giuste
nozze riconosciute dal ius quiritium , e di godere cosi di tutti i diritti ,
che in base al medesimo derivavano da queste giuste nozze , cioè : della manus
sulla moglie , fino a che il matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico
del cittadino romano ; della patria potestas sui figli, che anche più tardi i
giureconsulti consideravano come istituzione peculiare al popolo romano. Che
anzi, siccome anche l'istituto dell'arrogazione e dell'adozione, come pure
quello della successione e della tutela le gittima nel diritto romano avevano
stretta attinenza coll'organiz zazione domestica e col principio
dell'agnazione, che stava a fonda mento della medesima, cosi anche queste
istituzioni apparvero nel primitivo ius quiritium , come una dipendenza del
connubium , considerato come un ius proprium civium romanorum . 363. Lo stesso
è pure a dirsi del commercium . Il medesimo, nei rapporti fra le genti, era il
diritto di addivenire ai reciproci scambii « emendi vendendique invicem
potestas » ; ma allorchè invece venne ad essere trapiantato fra i quiriti, i
quali come tali avevano una proprietà speciale e privilegiata, che era la
proprietà ex iure quiritium , esso venne a cambiarsi nel ius commercii ex iure
qui ritium , ossia nel diritto di addivenire a tutti quei negozii giuridici, di
carattere mercantile, che erano stati adottati come proprii dalla comunanza dei
quiriti. Questi negozii poi nel primitivo ius qui ritium e ancora nella
legislazione decemvirale, si presentano sotto tre forme fondamentali, che sono:
lº il facere nexum , che è il diritto di potersi obbligare nella forma e cogli
effetti riconosciuti dal diritto quiritario ; 2° il facere mancipium , che è il
diritto di acquistare e trasmettere la prima proprietà quiritaria , consistente
appunto nel mancipium , colle forme riconosciute dal diritto quiritario ; 3º e
in fine il facere testamentum , che è il diritto di acquistare o di tras
mettere un'eredità , mediante il testamento riconosciuto dal diritto 463 quiritario
, donde il vocabolo di testamenti factio (1). Che anzi l'unità primordiale di
questi varii negozii, in cui si estrinseca il ius commercii ex iure quiritium ,
viene ad essere messa in evi denza anche da ciò, che tutti questi negozii
finiscono per compiersi con una sola forma tipica , che è quella dell'atto per
aes et libram , e tutti appariscono foggiati sullo stesso modello . Basta
perciò considerare, che il nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del
giuridico ad un tempo, il mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e
la proprietà, e infine il testamentum , sotto un aspetto ha tutte le apparenze
di un negozio tra vivi, e sotto un altro è già un atto per causa di morte, e
non produce i suoi effetti, che per il tempo in cui il testatore avrà cessato
di vivere. Così pure l'unità di origine di questi varii negozii e il loro
diramarsi dal concetto , che il proprietario ex iure quiritium deve poter
liberamente disporre delle proprie cose , viene anche ad essere dimostrata
dalla circostanza , che di fronte a tutti questi atti la legislazione
decemvirale proclama il principio : « uti lingua nuncupassit » , o quello
analogo : « uti legassit, ita ius esto » . 364. Da ultimo accade eziandio una
trasformazione analoga nel concetto dell'actio. Questa nel periodo gentilizio
era la procedura solenne, consacrata dal costume, a cui doveva attenersi il
capo di famiglia , il cui diritto fosse disconosciuto e violato , e la medesima
poteva anche dar luogo ad una effettiva violenza fra i contendenti, quando essi
non avessero potuto venire ad un amichevole compo nimento ( 2 ). Allorchè
invece l'actio compare nel ius quiritium , essa imita bensì ancora la procedura
anteriore allo stabilimento della ci vile giustizia , ma intanto già si compie
in iure , cioè davanti al magistrato riconosciuto come capo e custode della
città . Di più questa actio non può più seguire arbitrariamente questa o quella
pratica, introdottasi nel costume, ma deve invece essere accomodata alla legge,
ed ai termini di essa . Essa cessa perciò di essere ,un'actio qualsiasi, ma
diventa una legis actio , e viene così a cam (1) Fra gli autori, che dànno
questa larga significazione così al connubium , che al commercium , accennerò
il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 13 , in nota , il quale pur
riconosce, che questi concetti dovettero prima aver origine nei rapporti fra le
varie genti. (2 ) Quanto alle origini dell'actio nel periodo gentilizio e ai
caratteri della mede sima, vedi sopra lib . I, cap . VI, § 3 , pag. 130 a 138.
464 biarsi nel diritto di far valere le proprie ragioni davanti al ma gistrato
, nella forma che è riconosciuta dal diritto quiritario . Quindi è, che anche
la procedura quiritaria sembra prendere le mosse da un'azione tipica , che è
l'actio sacramento, la quale può anche essa essere considerata come il nucleo
centrale, da cui si verrà poi derivando non solo tutto il sistema delle legis
actiones, ma in parte eziandio il sistema delle formulae. È poi quest'origine
gentilizia dei concetti fondamentali del diritto quiritario, che spiega
eziandio , senza bisogno di ricorrere a quello spirito formalista del popolo
romano, che fu ormai abbastanza sfrut tato , le cerimonie solenni, che
accompagnano gli atti di carattere quiritario : poichè anche queste solennità
dovevano un tempo accom pagnare gli atti, che intervenivano fra i capi delle
famiglie e delle genti, in quanto rappresentavano il proprio gruppo, e avevano
cosi una importanza, che spiega le formalità , da cui erano circondati (1).
365. Resta ora a determinarsi l'ordine progressivo, con cui si vennero
consolidando questi varii aspetti del primitivo ius quiritium . Anche qui ci
mancano le testimonianze dirette , perchè i veteres iuris conditores, secondo
la testimonianza di Cicerone, non amavano divulgare il segreto dell'arte loro
(2) ; ma abbiamo tuttavia una quantità di fatti, che possono servirci di guida.
Così noi sappiamo anzitutto, che la prima parte del diritto , che ebbe ad
essere comune al patriziato ed alla plebe, fu certamente quella relativa al
commercium , e quindi viene ad esser naturale , che l'elaborazione di un ius
quiritium , comune ai due ordini, inco minciasse da quegli atti, che si
riferiscono al commercium . Questa circostanza verrebbe poi ad essere eziandio
confermata dal fatto , che la parte di antichissima legislazione civile, che
sarebbe da Dionisio attribuita a Servio Tullio, si riferirebbe appunto ai con
tratti, la cui azione dispiegasi appunto nella parte relativa al com (1)
Tralascio qui ogni maggior spiegazione intorno alle origini del formalismo
romano, perchè ebbi già ad occuparmene al n ° 94 , pag . 117 e segg. e
sopratutto nella nota 1a a pag . 118, ove si presero in esame le opinioni, in
proposito emesse, dal Sumner-Maine e dal Jhering . ( 2) Cic., De Orat., I, 42,
lagnandosi delle difficoltà , che ai suoi tempi ancora accompagnavano lo studio
del diritto, dice espressamente, che una delle cause di queste difficoltà deve
essere riposta nella circostanza che « veteres illi, qui buic scientiae
praefuerunt, obtinendae atque augendae potentiae suae caussa , pervulgari artem
suam noluerunt » . 465 mercium . Cosi pure abbiamo un'altra conferma di questo
fatto nella circostanza , che, all'epoca della legislazione decemvirale, già si
presentano come compiutamente formati i tre negozii giuridici attinenti al ius
commercii, cioè il nexum , il mancipium ed il testa mentum ; cosicchè in questa
parte viene ad essere evidente , che le leggi delle XII Tavole non fecero che
confermare uno stato di cose già preesistente, e si limitarono a dire, che in
questa specie di negozii, la volontà del quirite doveva essere sovrana, per
modo che la sua parola costituisse legge (1). Infine un argomento indiretto di
questa precedenza l'abbiamo anche in questo , che la forma dell'atto
commerciale per eccellenza, che è l'atto per aes et libram , ebbe più tardi ad
essere applicata eziandio in atti relativi al ius con nubii, come nella
coemptio, nell'adoptio e simili : il che significa , che l'atto per aes et
libram già doveva essersi formato prima, che si addivenisse alla concessione
dei connubii fra patriziato e plebe, la quale segui solo più tardi. Mi pare ciò
stante di poter conchiudere, che la parte del ius quiritium , relativa al
commercium , fu la prima ad elaborarsi ed a consolidarsi, e che deve
attribuirsi a questo motivo, se lo svolgi mento posteriore del diritto romano
appare costantemente modellato sul concetto del mio e del tuo. È questo il
concetto espresso da Ulpiano , allorchè scrive : omne ius consistit aut in
acquirendo , aut in conservando, aut in minuendo ; aut enim hoc agitur, quem
admodum quis rem vel ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut quomodo
amittat (2); ma la causa storica, che determinò questo carattere peculiare del
diritto romano, deve essere riposta nel fatto , che la parte del ius quiritium
, relativa al commercium , fu la prima a consolidarsi, e costitui in certo modo
il nucleo centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che si
aggiunsero più tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta
. Quando si tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al
connubium , si trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà , e
quindi anche il diritto del marito , del padre , del padrone furono model (1)
Cid non può lasciar dubbio quanto al nexum ed al mancipium , che già si
presentano nelle XII Tavole come istituzioni compiutamente svolte, ed è
confermato eziandio, quanto al testamentum , da ULPIANO, il quale dice
espressamente, che le suc cessioni testamentarie e i tutori nominati per
testamento furono confermati dalle XII Tavole. Fragm ., XI, 14 . ( 2) Ulp., L.
41, Dig . (1-4 ). G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 30 - 466 lati su
quello di proprietà . Cosi pure quando si tratto di model lare le azioni, tutto
si ridusse ad una questione di mio o di tuo , si trattasse di rivendicare una
cosa qualsiasi, oppure la moglie od un figlio . Quindi è che la rigidezza, che
a questo riguardo presenta il primitivo ius quiritium , non proviene già da una
confusione, che si facesse fra i diritti di famiglia ed i diritti di proprietà
, ma bensi da ciò , che essendosi nel ius quiritium modellato prima il diritto
di proprietà , anche le elaborazioni posteriori ne conservarono l'im pronta .
Ciò è anche provato dal fatto , che nelle fonti l'espressione di ius quiritium
è sopratutto adoperata relativamente alla proprietà ed al commercio ; cosa del
resto , che è facile a comprendersi, quando si consideri, che la comunanza
quiritaria all'epoca serviana si formo appunto in base alla proprietà ed al
censo . 366. Noi possiamo invece affermare con certezza , che fu solo assai più
tardi, che il ius connubii entrò a formar parte di quella singolare costruzione
giuridica, che porta il nome prima di ius qui ritium e poscia quello di ius
proprium civium romanorum ; poichè fu soltanto colla legge Canuleia , che si
riusci ad abolire il divieto del connubio dei patrizii colla plebe . Malgrado
di ciò, si può essere certi, che, anche prima di quest'epoca , la parte più
ricca ed agiata della plebe già aveva cercato di accostarsi alla organizzazione
della famiglia patrizia . Ciò è abbastanza dimostrato dal fatto, che i de
cemviri considerarono la famiglia fondata sull'agnazione, come la famiglia
propria dei quiriti , e cercarono anzi di fornire alla plebe un mezzo
semplicissimo per addivenire al matrimonio cum manu, mezzo che consiste nella
coabitazione di un anno, non interrotta per tre notti di seguito . Allorchè poi
colla legge Canuleia furono leciti i connubii fra il patriziato e la plebe, era
naturale, che l'atto quiritario per eccellenza venisse ad essere applicato
anche in que st'argomento. Probabilmente dovette essere allora , che fra le
forme del matrimonio cum manu, di cui una era la confarreatio, propria del
patriziato , e l'altra l'usus, propria della plebe , venne svolgendosi. la forma
del matrimonio, che può ritenersi come quiritaria per ec cellenza, cioè quella
per coemptionem . Intanto questo trapianto del l'organizzazione domestica,
propria del patriziato, nel ius quiritium , comune ai due ordini, fece si che
la famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente sulla patria potestà e
sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la tutela legittima fossero
deferite , in base alla legislazione decemvirale, agli eredi suoi, agli agnati
e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in questa parte, che l'organiz
zazione gentilizia del patriziato riusci a penetrare nel diritto quiri tario ;
donde la conseguenza, che il ius connubii e la conseguente organizzazione della
famiglia finiscono per essere la parte dell'an tico diritto, in cui rivelasi
più tenace e persistente lo spirito conser vatore dell'antico patriziato romano
(1 ). 367. La parte infine del diritto primitivo , che ultima sarebbe entrata
nella compagine del ius quiritium , deve ritenersi essere quella , che si
riferisce alle legis actiones. Non è già, che anche in questa parte non vi
fossero dei materiali preesistenti : ma, secondo l'attestazione concorde degli
stessi giureconsulti, fu soltanto poste riormente alla legislazione decemvirale
è in base alle parole stesse della medesima, che sarebbe stato modellato il
sistema delle legis actiones. Che anzi si può affermare con certezza , che
questa parte del primitivo diritto di Roma fu certamente dovuta alla
elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi delle tradizioni patrizie ,
spie garono sopratutto in questa parte la loro tecnica giuridica , e cer
tamente seguirono quel processo di costruzione logica, che erasi già adottato
nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi essi, che introdussero,
quale azione tipica del diritto quiritario , l'actio sacramento , la quale può
essere considerata come il germe di tutto lo svolgimento posteriore della
procedura quiritaria : come pure furono essi, che si fecero gli iniziatori di
quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla varietà infinita delle
fattispecie , che si potevano presentare, la quale giunse poi a tanta
eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non ignoro che
l'opinione qui professata , secondo cui le legis actiones sarebbero state le ultime
a penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius proprium civium
romanorum , sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi giureconsulti,
sembra ( 1) Le affermazioni, che qui sono semplicemente enunciate, verranno poi
ad essere meglio comprovate nel capo V , ove trattasi diproposito del ius
connubii. È notabile, quanto al connubium , che l'espressione ad perata nelle
fonti non è più quella di ius quiritium , la quale sopratutto si adopera in
tema di proprietà, ma è già quella di ius proprium civium romanorum . La causa
di questo cambiamento sta in ciò che il connubium venne ad essere comune dopo
le XII Tavole, cioè quando al concetto più circoscritto del ius quiritium già
cominciava a sovrapporsi il concetto più largo di un ius civile, ossia di un
ius proprium civium romanorum . 168 contraddire alla opinione oggidi molto
seguita , secondo cui le actiones avrebbero avuta la precedenza su tutte le
altre parti del diritto quiritario ( 1). Credo quindi opportuno di avvertire,
che io pure ammetto , che in quella evoluzione lenta dei concetti giuridici,
che ebbe ad avverarsi nel periodo gentilizio , il concetto che prima venne a
svolgersi, fu certamente quello di actio (2 ): ma così invece più non accadde
nell'elaborazione del ius quiritium . Questo infatti è già una costruzione
organica e coerente, che prese le mosse dal concetto del quirite, come
individualità giuridica integra e perfetta , e che in base al medesimo cominciò
dapprima dal modellare la pro prietà , a lui spettante; poscia gli attribui il
connubio ; da ultimo provvide anche alle azioni, che potevano tutelarlo nei
suoi diritti di proprietà e famiglia : donde la conseguenza , che il ius
quiritium , essendo già un'opera riflessa , accolse talvolta più tardi
istituzioni, che nella realtà dovettero svolgersi per le prime (3 ). Intanto
questo sguardo complessivo alla progressiva formazione del ius quiritium ha '
per noi una grandissima importanza , in quanto che mantenendo nella
ricostruzione l'ordine stesso , che ebbe ad essere seguito nella naturale
formazione del ius quiritium , si potrà giungere a spiegare certi caratteri
peculiari del diritto pri mitivo di Roma, che altrimenti riuscirebbero
incomprensibili. La materia intanto verrà ad essere naturalmente ripartita in
tre capi toli , di cui il primo si occuperà del ius commercii, l'altro del ius
connubii, e l'ultimo delle legis actiones. (1) Fra gli altri sembra attribuire
questa precedenza all'actio sulle altre parti del diritto civile romano il
Cogliolo, Saggi sopra l'evoluzione del diritto privato, Torino , 1885, pag. 105
e segg . (2 ) Ho cercato altrove di spiegare questo carattere delle società
primitive, che al punto di vista attuale pud apparire alquanto singolare nella
Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880 , pag . 40
. (3 ) Per una più larga discussione intorno al modo, in cui si formarono le
legis actiones, mi rimetto al cap . VI ed ultimo, § 1º, ove trattasi appunto di
quest'ar gomento. - 469 CAPITOLO IV . Il ius commercii nel diritto quiritario .
$ 1. Il commercium e l'atto per aes et libram . 368. Se havvi parte del ius
quiritium , che sia modellata in per fetta correlazione con quella
individualità giuridica , integra e com piuta, che era il quirite, è quella
certamente, che si riferisce al ius commercii. In questa parte la volontà del
quirite apparisce indi pendente e sovrana; la sua parola costituisce una vera
legge;" e non trovasi imposto altro limite e confine al suo potere, salvo
quello , che deriva dalla osservanza delle forme solenni, che sono ricono
sciute ed adottate dal diritto quiritario . Il quirite infatti , quale pro
prietario, può disporre delle sue cose fino ad abusarne, e può alienarle nel
modo solenne proprio dei quiriti ( facere mancipium ) ; quale debitore può
obbligare se stesso fino a vincolare la libertà della propria persona ( facere
nexum ) per il caso in cui non soddisfi il suo debito, e come creditore può
appropriarsi perfino la persona ed il corpo del debitore; come testatore infine
può disporre in qual siasi modo del suo patrimonio , dimenticando anche di
avere de' figli . Si può quindi affermare, che i tre atti fondamentali, in cui
si esplica il ius commercii ex iure quiritium , sono tutti governati dal con
cetto, che la volontà del quirite non deve aver limite o confine: concetto ,
che, quanto al nexum ed al mancipium , viene enun ciato con dire « uti lingua
nuncupassit, ita ius esto » , e quanto al testamento, colle parole : « uti
pater familias super familia tute lave suae rei, legassit, ita ius esto ( 1) »
. E questa la parte , in cui « uti (1) Mentre nella ricostruzione del Dirksen ,
seguita dal Bruns, Fontes, pag. 22 e 2.3, la disposizione : « Cum nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit , ita ius esto » sarebbe la legge 1º della
Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt invece, essa viene ad essere la
1° della Tavola V. Così pure la disposizione legassit super pecunia tutelave
suae rei, ita ius esto » , che nella ricostruzione del Dirksen è la terza della
Tavola V, in quella del Voigt viene ad essere la prima della Tavola IV. Ciò
dimostra quanto sia grande, anche oggi, l'incertezza intorno all'ordine dei
frammenti delle XII Tavole . - 470 domina sovrana la nuncupatio, e quindi si
comprende come tanto nelle obbligazioni, quanto nei trasferimenti del dominio,
quanto nei testamenti abbia avuto cosi larga parte lo studio delle espressioni
adoperate. Queste espressioni infatti nel concetto primitivo costitui vano
delle vere leggi, come lo dimostrano ancora le espressioni ado perate di lex
mancipii, di lex testamenti, di lex fiduciae e simili, colle quali si
comprendevano le varie clausole, che potevano essere apposte ad un
trasferimento del dominio , o ad un testamento (1 ). L'unità poi, che domina
tutta questa parte del primitivo ius qui ritium , viene anche ad essere provata
dal fatto , che un medesimo atto tipico , che può chiamarsi l'atto quiritario
per eccellenza, fini per servire quale mezzo per compiere tutti questi negozii
giuridici. 369. L'opinione, ora generalmente seguita , intorno all'atto tipico del
diritto quiritario , sembra ritenere, che tale atto debba essere riposto nella
mancipatio, argomentando dalla larga applicazione, che questa ebbe a ricevere,
ogni qualvolta trattavasi di trasferire la manus, intesa nel senso di potestà
giuridica sopra una cosa o sopra una persona (2 ). Parmi invece , che le poche
vestigia , che a noi pervennero dall'antico diritto , conducano a ritenere, che
la forma (1 ) Il vocabolo di lex , come significò la clausola di un contratto o
di un testa mento, così indicò eziandio le condizioni pubblicamente prescritte
per i luoghidesti nati ad uso pubblico o comune. Vedi Bruns, Fontes, Pars II,
Negotia , Caput I, pag. 240. Quanto agli altri significati del vocabolo di lex
, nel primitivo diritto ro mano, vedi sopra nº 228 , pag. 278. ( 2) Tra gli
autori recenti, che cercarono di ricostruire il primitivo diritto romano,
poggiandosi sul concetto di manus, in quanto comprende i poteri sulle cose e
sulle persone, e sulla mancipatio, quale mezzo generale per il trasferimento
delle manus, deve essere ricordato il Voigt, XII Tafeln , II, pag. 83 a 345.
Anche il lavoro del dott. Longo, La mancipatio, Firenze , 1887, è un tentativo
in questo senso . Questi verrebbe alla conclusione, che la mancipatio, quale a
noi pervenne, sarebbe una reliquia di un atto più antico e più solenne, il
quale in origine avrebbe dovuto compiersi in calatis comitiis , e che sarebbesi
applicato ad ogni acquisto e trasferi mento della inanus. Di quest'atto
primitivo egli troverebbe le traccie nel testamen tum e nell'adrogatio in
calatis comitiis. Quest'opinione, a parer mio, non può am mettersi; perchè la
mancipatio comparve relativamente tardi, e si riduce in sostanza ad una
semplice applicazione dell'atto per aes at libram . Quanto agli atti di diritto
privato , in cui abbiamo ancora l'intervento del populus, essi non indicano
già, che tutti gli atti relativi alla manus richiedessero un tempo l'assistenza
del popolo; ma debbono considerarsi come una sopravvivenza dell'organizzazione
gentilizia nel pe riodo della città; come ho cercato appunto didimostrare ai
nn. 220 e 221, pag . 256 e segg ., discorrendo dei calata comitia , e degli
atti che compievansi in essi. 471 tipica del negozio quiritario , debba essere
riposto nell'atto per aes et libram ; cosicché la nexi datio , la nexi
liberatio, la man cipatio, la testamenti factio debbono essere riguardate come
altret tante applicazioni di quest'atto primordiale. Cid può essere dedotto
anzitutto dal concetto fondamentale del primitivo ius quiritium , in cui tutto
si riduceva ad una questione di mio e di tuo; donde la conseguenza, che ogni
atto relativo al commercium si riduceva in sostanza a fare in modo , che una
cosa di nostra diventasse altrui (quod de meo tuum fit) mediante un
corrispettivo, che può consistere o nel prezzo , o nell'obbligazione solenne
assunta dal de bitore, o nel corrispettivo di quella finta mancipatio familiae,
in cui facevasi consistere lo stesso testamento : trapasso , che trova vasi
mirabilmente espresso, mediante l'atto per aes et libram . Ed è questo concetto
appunto, che risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi
giureconsulti. Questi passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era
un'applicazione dell'atto per aes et libram , e dapprima quasi confondevasi con
esso, poichè era definito : « omne quod geritur per aes et libram » . Lo stesso
è a dirsi del facere mancipium , in quanto che una parte essenziale della
mancipatio, quale è descritta da Gaio , consiste senz'alcun dubbio eziandio nel
l'atto per aes et libram ; il che è pur dimostrato dalla denomina zione stessa
del testamento per aes et libram , il quale si introdusse più tardi, e non fu
che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram . Si aggiunga, che
questi passi degli antichi giureconsulti indicano una incertezza intorno alla
significazione primitiva del nexum e del mancipium . Vi sono infatti dei
giureconsulti, che nel nexum comprendono anche il mancipium , mentre altri già
distinguono fra l'uno e l'altro , osservando che dal nexum deriva un
obbligazione, mentre col mancipium si opera la traslazione della proprietà .
Questa incertezza appare eziandio quanto al testamento per aes et libram , il
quale sotto un aspetto appare come una vera vendita o mancipatio familiae, come
lo dimostra l'intervento del familiae venditor e del familiae emptor ; mentre
sotto un altro aspetto non è più una vendita nel vero senso della parola , ma è
già un vero atto per causa di morte, poichè il familiae emtor riceve solo in
deposito e in custodia il patrimonio del te statore, accið egli possa
liberamente disporne « secundum legem publicam » per il tempo in cui avrà
cessato di vivere (1). ( 1) Non sarà inutile riportare qui alcuni dei passi di
antichi giureconsulti, che 472 Di qui pertanto si può ricavare, che nella
sintesi primitiva del diritto quiritario tutto ciò, che riferivasi al
commercium , compievasi per aes et libram , col quale atto esprimevasi lo
scambio ed il tra passo , e che solo col tempo in questa sintesi primitiva si
vennero differenziando il nexum , il mancipium , il testamentum ; i quali col
tempo procedettero ciascuno per la propria via , ed informati ad un proprio
concetto finirono per dare origine a tre istituzioni fonda mentali. Col tempo
infatti dal nexum scaturi la teoria delle obbli gazioni, dal mancipium derivò quella
dell'alienazione e trasmissione del dominio e dei diritti reali inchiusi nel
medesimo, e dal testa mentum si derivò tutta la teoria della libera
disposizione delle proprie cose per causa di morte , la quale non potè mai
confondersi ed imparentarsi colla successione legittima, poichè questa nel ius
quiritium ebbe un'origine compiutamente diversa, come sarà di mostrato a suo
tempo (1 ). È poi notabile, che il primitivo ius quiri tium , nella sua sintesi
potente, ebbe a ravvisare uno scambio , ed una trasmissione con corrispettivo ,
tanto nel contratto , in quanto è fonte di obbligazioni, quanto nel
trasferimento delle proprietà, quanto eziandio nel testamento , mediante cui
l'erede viene in certo modo a dimostrano come il nexum , il mancipium e il testamentum
facere non fossero, che altrettante applicazioni dell'atto per aes et libram .
« Nexum Manilius scribit omne, quod per aes et libram geritur, in quo sint
mancipia » . Varro, De ling. lat., 7, 5 , § 105 (AUSCHKE, Iurispr. antiiustin
., pag. 6 ); « Nexum , est ut ait Aelius Gallus, quodcumque per aes et libram
geritur , idque necti dicitur ; quo in genere sunt haec: testamenti factio,
nexi datio, nexi liberatio » (Hoschke, Op. cit., pag. 96 ). Accanto a questa
significazione larghissima, in cui il vocabolo di nexum comprende ancora « omne
quod geritur per aes et libram » , sonvi poi altri passi, che già attribuiscono
al nexum una significazione più circoscritta. Così, ad esempio : « Nexum ,
Mucius scribit, quae per aes et libram fiunt, ut obligentur, praeter quae
mancipio dentur » , la quale opinione sarebbe prevalsa secondo VARRONE, De
ling. lat., VII , 105 , il quale aggiunge : « hoc verius esse ipsum verbum
ostendit,de quo quaerit, nam id est quod obligatur per libram , neque suum fit,
inde nexum dictum » (Bruns, Fontes , pag. 386). Quest'ultima definizione
sarebbe pur confermata da Festo, vº Nexum : « Nexum aes apud antiquos dicebatur
pecunia, quae per nexum obligatur » (Bruns, Fontes, pag. 346). Sonvi poi
eziandio dei passi, in cui la mancipatio sarebbe indi cata perfino colla
espressione di traditio alteri nexu , quale sarebbe il seguente di Cic., Top.,
5 , 28 : « Abalienatio est eius rei, quae mancipii est, aut traditio alteri
nexu , aut in iure cessio » . Per altri passi vedi il Voigt, XII Tafeln , I,
pag. 197, nota 7 , e II, 482 e segg . (1) La successione legittima non prende
le mosse dal commercium , ma dal con nubium , come sarà dimostrato nel seguente
cap. V , $ 5 . - 473 continuare la personalità giuridica del proprio autore, e
viene perciò ad essere obbligato alla continuazione dei sacra . Di qui la
conseguenza , che, per ricostruire in questa parte il ius quiritium , vuolsi
ricomporre anzitutto il primitivo atto per aes et libram , cercare l'epoca in
cui esso penetrò nel ius quiritium , e se guire da ultimo le progressive
applicazioni, che se ne vennero facendo. 370. Più volte ebbe ad essere notato ,
che nel diritto romano oc corrono le traccie di un processo , che ha del
matematico , e che taluni vollero attribuire alla influenza di Pitagora , la
cui filosofia, teorica e pratica ad un tempo, poggiava appunto sul numero, come
espres sione dell'ordine e dell'armonia (1). Senza entrare in una simile di
scussione, questo è certo , che non si può a meno di ravvisare questo carattere
di matematica precisione ed esattezza in quel negozio, es senzialmente proprio
dei quiriti, che compare sotto la forma del l'atto per aes et libram ; poichè
in esso noi vediamo comparire la persona di un pubblico pesatore , che tiene la
bilancia quasi per de terminare ciò che altri då, e ciò che deve essere
ricevuto in con traccambio. Può darsi benissimo, che quest'atto per aes et
libram abbia avuto origine dalla necessità , in cui i contraenti erano di
pesare l'aes rude, allorchè non erasi ancora introdotto l'aes signa tum : ma
intanto si stenta a credere, che i veteres iuris conditores, allorchè
introdussero come tipico quest'atto nel ius quiritium , e ne prolungarono la
vita ben oltre l'epoca , in cui era veramente neces saria la bilancia , non
abbiano ravvisato nel medesimo come una espressione ed un simbolo della
esattezza e della precisione, che deveaccompagnare il negozio giuridico , e
della uguaglianza, che deve mantenersi fra la cosa ed il prezzo, fra quello che
si dà e ciò che si riceve in contraccambio . Questo è certo , che difficilmente
sareb besi potuto rinvenire un atto, che potesse meglio simboleggiare quella
giustizia , che Aristotele chiamò poi commutativa, e che era quella appunto ,
che doveva sovraintendere a quegli scambii, che i Romani inchiudevano col vocabolo
di commercium (2 ). Ad ogni modo l'esistenza presso i Romani di un atto
quiritario « quod geritur per aes et libram » da applicarsi in tutti gli
scambii, in tutti i trapassi, in tutte le contrattazioni, che potessero interve
( 1) V. ZELLER , La philosophie des Grecs, trad . Boutroux, I, Paris, 1877, p.
486 e sopratutto la nota 8 , pag . 401. (2 ) Cfr. Carle, La vita del diritto,
pag. 132. - 474 nire fra i quiriti, tanto negli atti tra vivi, quanto eziandio
negli atti per causa di morte, non pud essere posta in dubbio (1). Vero è , che
il medesimo non ci pervenne nelle sue fattezze genuine, ma soltanto nelle
applicazioni diverse, che se ne fecero; ma il fatto stesso che l'atto per aes
et libram compare nelle obbligazioni, nei trasferimenti e nei testamenti
dimostra, che esso in certo modo fra i quiriti compieva quella funzione, che
presso di noi ha compiuto , sopratutto in altri tempi, quello che chiamasi
l'atto pubblico ed autentico, il quale , al pari dell'antico atto per aes et
libram , con tinua in certi confini ancora oggi ad avere la forza e l'efficacia
del titolo esecutivo , salvo che esso sia impugnato di falso (2). Dal momento ,
che erasi venuto formando per la comunanza dei quiriti una forma particolare di
diritto , che prese il nome di ius quiritium , era naturale che si modellasse
eziandio un atto tipico, che potesse ser vire nei negozii essenzialmente
quiritarii. Esso doveva essere pub blico, come tutti gli atti, che si
compievano fra i quiriti ; doveva es sere fatto colla testimonianza dei quiriti
stessi, in quanto che poteva mutare in qualche modo la posizione rispettiva
degli uni verso degli altri nella comunanza quiritaria , donde l'intervento nel
medesimo dei classici testes , corrispondano o non i medesimi alle cinque
classi serviane ; doveva esser fatto coll'intervento di un pubblico ufficiale ,
che era il libripens, il quale poteva anche essere inca ricato di denunziare
agli uffizii del censo le mutazioni, che ne derivavano alla condizione dei
quiriti; alle quali solennità negli antichi tempi aggiungevasi eziandio la
presenza di un antestator , incaricato in certo modo di richiamare l'attenzione
delle parti e dei testimoni sulla importanza dell'atto (3). Il medesimo poi,
per quanto si può inferire dalle applicazioni ( 1) Tra gli autori, che sembrano
accostarsi all'idea, che l'atto per aes et libram costituisca nell'antico
diritto la forma solenne per tutti i negozi relativi al com mercium , parmi di
poter annoverare l'HÖLDER , Istituzioni di diritto romano, $ 28 , trad.
Caporali. Torino, 1887, pag . 82. (2 ) Cod . civ. it ., art. 1317. (3) Questi
varii caratteri del primitivo atto per aes et libram si possono facil mente
ricostruire, ricomponendo insieme la descrizione, che sopratutto Gajo ed Ul
PIANO ci serbarono, dei varii negozii, che compievansi per aes et libram ,
quali la nexi datio, la nexi liberatio, la mancipatio, ed il testamentum per
aes et libram , dei quali avremo poi a discorrere partitamente. Quanto all'
antestator o antestatus vedi il Longo, La mancipatio, pag. 74 e segg . 475
diverse, che ne furono fatte, ebbe ad essere costituito di due parti, cioè : lº
dell'atto per aes et libram , il quale , mentre dava al negozio il carattere di
pubblicità e di autenticità , poteva eziandio essere un ricordo effettivo di
un'epoca, in cui l'aes rude serviva di istrumento per gli scambii e doveva
perciò essere pesato colla bilancia ; 2º della nuncupatio, che era un complesso
di parole solenni, accomodate alla natura dell'atto , le quali esprimevano con
preci sione ed esattezza il negozio giuridico , che veniva operandosi fra i
contraenti. Mentre la prima parte era un ricordo del passato e conservavasi «
dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » ; la seconda parte invece
serviva a dargli duttilità e pieghevolezza, e a rendere possibili le
applicazioni diverse, che si fecero dell'atto per aes et libram , non solo ai
negozii giuridici propriamente detti, ma anche agli atti relativi
all'ordinamento della famiglia (1). 371. Quanto al tempo, in cui l'atto per aes
et libram può essere stato introdotto nel ius quiritium , esso non può e non
potrà forse mai essere determinato con certezza , anche per il motivo che il
medesimo può essere stato il frutto di una formazione lenta e gra duata. Egli è
probabile tuttavia, che l'epoca, in cui esso cominciò a formarsi, dovette
essere quella stessa , in cui prese ad elaborarsi un ius quiritium , comune al
patriziato ed alla plebe, e quindi le sue origini possono con probabilità
essere riportate all'epoca della costi tuzione serviana. Fu allora, che mediante
l'istituzione del censo co minciò a delinearsi una proprietà ex iure quiritium
, la quale con sisteva nel mancipium ; quindi è probabile, che anche allora
siasi sentito il bisogno di una forma tipica per compiere i negozii quiri
tarii. Questo è certo, che alcuni tratti dell'atto per aes et libram richiamano
l' epoca serviana. Cosi, ad esempio , noi sappiamo, che probabilmente in
quell'epoca dovette avverarsi una trasformazione nel sistema monetario , poichè
presso i primitivi romani il più an tico strumento di scambio non consistette
nel rame, ma nei capi di ( 1) L'esistenza di questo duplice elemento nel
primitivo atto per aes et libram è già accennato dalla disposizione delle XII
Tavole: « qui nexum faciet , mancipium que, uti lingua nuncupassit, ita ius
esto », e appare poi dall'analisi di tutti i ne gozii, che si compiono per aes
et libram , descrittici sopratutto da Gajo , Comm ., II, 104-5 e da Ulp., Fragm
., XX, 9 . - 476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e nei buoi, come lo
dimostra la designazione delle multe, che anche più tardi si continuò a fare in
questa guisa . Che se per avventura si volesse ritenere, come fino a un certo
punto è probabile, che l'atto per aes et libram fosse stato anche adottato per
simboleggiare lo scambio, il trapasso , anche questo linguaggio simbolico
corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che ricorre ai simboli
dell'hasta , della vindicta , e simili. Cosi pure noi sappiamo, chei testimonii
dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed è anzi probabile, che
fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra la denominazione di
classici testes : la quale , sebbene sia solo menzionata per i testimonii nel
testamento , può ra gionevolmente essere estesa alle altre applicazioni
dell'atto per aes et libram ( 1). Infine anche l'intervento di un pubblico
ufficiale in quest'atto sembra essere stato determinato dalla necessità , in
cui si era di conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella posizione ri
spettiva dei quiriti. Comunque sia , è però sempre probabile, che anche nella
formazione di quest'atto siasi seguito il processo, che suole es sere adoperato
dai Romani, quello cioè di servirsi di qualche forma già preesistente,
attribuendovi il carattere quiritario , e cambiandola cosi in una forma tipica,
che potrà poi essere capace di applicazioni diverse. Nulla ripugna pertanto ,
che l'atto per aes et libram sia stato veramente una realtà nell'epoca, in cui
l'aes rude, non potendo essere numerato, doveva invece essere pesato ; ma
questo è certo , che quando quest'atto compare nel ius quiritium , esso viene
già ( 1) Festo, vº « Classici testes dicebantur, qui signandis testamentis
adhibebantur » . La questione se questi classici testes dovessero ritenersi
come rappresentanti delle cinque classi, in quanto che essi non potevano essere
meno di cinque, fu trattata di recente dal Longo, La mancipatio , pag. 83 e
segg ., il quale sosterrebbe che i clas sici testes non hanno che fare colla
rappresentanza delle classi. Se con cið egli in tende di dire , che i testimoni
non avevano nessun incarico di rappresentare le cinque classi serviane, ciò può
facilmente essere consentito, poichè, secondo la testimonianza di GaJo, Comm .,
II, 25, questi testi solevano essere amici dei contraenti e potevano perciò
essere presi anche dalla stessa classe : ma intanto non vi ha motivo per ne
gare, che essi fossero chiamati classici, appunto perchè dapprima dovevano
essere presi dalle classi, ossia dagli adsidui e locupletes. Era infatti nello
spirito della costituzione serviana, che nell'atto per aes et libram , con cui
si attuavano le muta zioni di proprietà quiritaria, dovessero intervenire dei
testimonii tolti dalle classi al modo stesso , che ancora in base alle XII
Tavole era stabilito : « adsiduo adsiduus vindex esto » . Tale sembra pur
essere l'opinione del MUIRHEAD, Histor. introd., pag.59 , il quale trova anzi
non improbabile, che i non minus quam quinque testes rappresentassero le cinque
classi. 477 ad essere cambiato in un atto tipico , che poteva essere suscettivo
di molteplici applicazioni. Si comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della
mancipatio, come di una imaginaria venditio , senza neppur far cenno di
un'epoca , in cui essa poteva costituire una vendita effettiva e reale (1 ).
372. Per quello poi che si riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per
aes et libram sarebbe stato applicato ai principali negozii giuridici
deldiritto quiritario , è opinione generalmente ammessa , che esso siasi prima
applicato alla mancipatio, poscia al nexum , e più tardi al testamentum per aes
et libram (2). Mentre non pud esservi alcun dubbio circa l'applicazione più
tarda dell'atto per aes et li bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed
Ulpiano attestano , che questa forma di testamento ebbe ad essere introdotta posterior
mente a quella in calatis comitiis (3), ritengo invece, che sianvi dei forti
indizii per credere , che l'applicazione dell'atto per aes et libram al nexum
debba essere considerata come la più antica . Un argomento di ciò l'abbiamo
anzitutto nel fatto , che nell'antico ius quiritium il diritto sembra spiegarsi
prima contro la persona del debitore, che non contro i beni del medesimo, ed è
solo assai tardi e sotto l'influenza del diritto pretorio, che si giunge a rite
nere vincolati i beni, anzichè il corpo e la persona del debitore. Di più il
facere mancipium suppone già un'epoca , in cui anche la plebe era pervenuta
alla proprietà , mentre il facere nexum ci ri porta ad un'epoca più antica, in
cui la plebe, nei suoi rapporti col patriziato, non potendo offrire alcuna
garanzia reale, non poteva ob bligarsi altrimenti, che vincolando la propria
persona. A ciò si ag giunge, che l'atto per aes et libram pud essere stata una
realtà relativamente al nexum , poichè in un'epoca , in cui l'aes rude serviva
come strumento di scambio , era una necessità il pesare la somma, che era data
ad imprestito ; mentre invece l'applicazione (1) Egli è evidente che i
giureconsulti considerarono sempre l'atto per aes et libram come una forma
riconosciuta dalla legge (secundum legem publicam ) per compiere i negozii di
carattere quiritario ; di qui le loro espressioni di imaginaria venditio, e di
imaginaria mancipatio, e la disinvoltura con cuinon hanno difficoltà di
applicarle a negozii, che più non hanno carattere mercantile, come sarebbe, ad
esempio, il matrimonio per coemptionem . (2) Tale sembra, ad esempio, essere
l'opinione del Voigt, XII Tafeln , II, § 84, pag . 125 ; del MUIRHEAD, Op. cit
., pag. (3 ) GAJO , Comm ., II, 102 ; ULP., Fragm ., XX, 2 . 58 e segg . 478
dell'atto per aes et libram , non solo per eseguire il pagamento del prezzo ,
ma anche per operare il trasferimento della proprietà di una cosa , è già ad
evidenza un espediente giuridico, e merita il nome da tole da Gaio di «
imaginaria venditio » . Si comprende pertanto, come gli antichi giureconsulti
comprendano talvolta il facere mancipium nel concetto più antico del nexum
chiamando con questo nome « omne quod geritur per aes et libram » , mentre non
consta che essi facciano mai rientrare il nexum nel concetto del facere
mancipium (1). Infine si può anche aggiungere, che nei passi antichi parlasi di
un ius nexi mancipiique, e che le stesse XII Tavole fanno precedere il nexum
nel famoso testo : « cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita
ius esto » : argomento questo, chemalgrado la sua tenuità apparente non deve
trascurarsi del tutto , quando si consideri l'esattezza e la precisione, anche
cronologica, che i ro mani, sopratutto nei tempi più antichi, recavano nel
proprio lin guaggio legislativo, facendo di solito precedere il concetto , che
prima erasi formato a quello , la cui formazione era posteriore. Che se po
steriormente la mancipatio fini per prendere un posto più impor tante, ciò
proviene da una causa storica , dal fatto cioè, che la parte del diritto
primitivo relativa al nexum fu la prima ad essere abolita , il che accadde per
mezzo della lex Paetelia , nel 428 dalla fondazione di Roma; donde la
conseguenza , che il nexum cadde pressochè in dimenticanza , mentre la
mancipatio apparve come l'atto quiritario per eccellenza presso i classici
giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che presso i giureconsulti più
antichi dovette essere as solutamente il contrario ; perchè noi sappiamo che
Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il mancipium , e che Elio
Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio; cosicchè tutto ciò , che
compievasi per aes et libram , necti dicebatur, e quindi nel nexum veniva ad
essere compreso « omne quod geritur per aes et libram » . La distinzione invece
fra il nexum ed il mancipium compare in Quinto Muzio Scevola, il quale dice
bensi che il nexum è ancor sempre « quod per aes et libram fit » , ma non più
nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì in quello di obbli garla
soltanto ; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad essere seguita , e fu
allora che si chiamò nexum , « quod obligatur per libram , neque suum fit» . Si
pud quindi conchiudere, che il vocabolo di nexum ebbe dapprimauna
significazione più larga, per cui tutto (1) V. in proposito i passi di antichi
giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota 1. -- 479 ciò che compievasi «
per aes et libram , necti dicebatur » , mentre più tardi fini per significare
l'obbligazione assunta per aes et libram ; trasformazioni di significato, che occorrono
frequenti nel diritto ro mano, come lo dimostrano i vocaboli di imperium , di
manus e di mancipium , i quali tutti, mentre hanno una significazione più larga
, finiscono per assumere un significato specifico più circoscritto . A queste
considerazioni, fondate sui testi, se ne aggiunge un'altra , per me più
importante di tutte, ed è che nella formazione del diritto quiritario , che
poggia tutto sul concetto fondamentale del quirite, il diritto, quale vinculum
societatis humanae, dovette presentarsi dap prima come un nexum , ossia , come
un vincolo , che intercede fra due quiriti . Ciò è dimostrato dal fatto , che
la procedura primitiva è azione di una persona contro di un'altra, e che la
esecuzione pri mitiva va direttamente contro la persona del debitore, e si mani
festa quale manus iniectio contro il medesimo (1 ). Quest'indagine intanto è
per noi importante anche nel senso, che ci induce a discorrere prima del nexum
, poscia della mancipatio , e da ultimo del testamentum per aes et libram . $ 2
. Il nexum e la storia primitiva della obbligazione quiritaria . 373. L'origine
diquell'obbligazione quiritaria di strettissimo diritto , che contraevasi
mediante il nexum , deve essere cercata in quel (1) Non parmi pertanto , che
possa essere accettata la teoria ingegnosa, ma non fondata sui fatti, del
SumnER-MAINE , L'ancien droit, p. 305 e seg., secondo la quale il nexum avrebbe
prima significato il trasferimento della proprietà , e sarebbe poscia venuto a
significare l'obbligazione del venditore, che non avesse pagato il prezzo . Cid
è assolutamente contrario al concetto romano, secondo cui la consegna della
cosa e il pagamento del prezzo seguivano contemporaneamente nella mancipatio.
Si può anzi dire che il processo seguito dal diritto romano fu compiutamente
inverso. Il primo rapporto, che potè esservi fra il patriziato e la plebe, fu
quello del nexum , ossia quella rigida obbligazione, per cui il mancato
pagamento dava luogo alla manus iniectio contro la persona ; mentre solo più
tardi l'atto per aes et libram potè servire per il trasferimento della
proprietà. Queste considerazioni mi impedi scono eziandio di aderire allo
svolgimento storico, che sarebbe proposto dal CoglioLO nelle note al
PadELLETTI, Storia del dir . rom ., pag. 250 , dove, premesso che il con cetto
del diritto reale dovette precedere quello del diritto personale, farebbe anche
precedere la formazione della mancipatio a quella del nexum . Cfr. Puglia,
Studii di storia del dir. priv., pag. 73 e segg . 480 l'epoca, in cui la plebe,
priva ancora di una vera posizione di diritto di fronte al patriziato, non
poteva trovar credito presso ilmedesimo che vincolando la propria persona. In
virtù del nexum il debitore plebeo , che non pagava a scadenza, poteva essere
sottoposto alla manus iniectio , ed essere tradotto nel carcere privato del
creditore patrizio ( 1). Coll'ammessione dei plebei alla comunanza quiritaria ,
il nexum , questa obbligazione rozza è primitiva , che era surta nei rapporti
fra la classe superiore e la classe inferiore, venne ancor essa a con vertirsi
nella forma tipica della obbligazione quiritaria , ma dovette perciò
sottomettersi a tutte le solennità dell'atto quiritario . Essa quindi dovette
essere contratta colle formalità dell'atto per aes et libram , colla assistenza
cioè di non meno di cinque testes cives romani, e coll'intervento del libripens
e dell'antestator (2). La formola precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci
giunse invece, conservataci da Gaio , quella della nexi liberatio , la quale,
essendone naturalmente il contrapposto , pud servirci per determinare, se non
la formola precisa, almeno gli elementi essenziali, che dove vano concorrere
nella nezi datio , per usare una espressione, che occorre nel giureconsulto
Elio Gallo (3 ). Da questa formola si può in durre che a costituire il nexum
dovettero concorrere due parti, cioè : (1) Senza pretendere qui di citare la
ricchissima letteratura sul nexum , ricorderò soltanto l'Huschke , Ueber das
nexum , Leipzig , 1846 ; GIRAUD, Des nexi, ou de la condition des débiteurs
chez les Romains, Paris 1847; Voigt, XII Tafeln, I, $$ 63-65; MUIRHEAD, Histor.
Introd ., 152 a 163. Le opinioni degli autori tuttavia sugli effetti del nexum
primitivo sono ancora molto discordi. Secondo la dottrina più seguita , il
nexum dava origine ad un'obbligazione di strettissimo diritto, la quale, non
soddisfatta , autorizzava senz'altro alla manus iniectio. Di recente invece il
Voigt sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum non avrebbe alcun
effetto speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal Cogliolo, nelle note
al PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 329. Per mio conto seguo la
prima opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum , che ho cercato di
spiegare più sopra ai nu meri 166-67, pag. 206 a 208, e sulla considerazione,
che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla plebe per ottenere
l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il medesimo avesse
prodotto i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo della
stipulatio. (2 ) Questa necessità dell'atto per aes et libram , per contrarre
il nexum , probabil mente fu quel provvedimento favorevole ai debitori, che da
Dionisio è attribuito a Servio Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag. 67 . (3 )
La formola della nexi liberatio conservataci da Gajo, Comm ., III, 174 , sa
rebbe la seguente : « Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum , me eo nomine
a te « solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam
postremamque 481 1° l'atto per aes et libram , non minus quam quinque testes,
cives romani, il libripens e forse eziandio l'antestator ; 2° e la nuncu patio,
che non si sa bene se dovesse essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi
i contraenti. Essa però probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una
pronunziata dal nexum accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una
specie di damnatio . Il primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro
rispondeva damnas sum , il che implicava una specie di condanna , che il
debitore pronunziava contro se stesso , al pagamento della somma (1 ). Di qui
la conseguenza, che se il medesimo non pagava si poteva proce dere contro di
lui, come se il medesimo fosse damnatus al paga mento , e perciò poteva essere
soggetto alla manus iniectio , senza che fosse richiesta una speciale condanna
del magistrato . I dubbii più gravi, che si riferiscono al nexum , sono quelli
re lativi alla natura dell'obbligazione contratta col nexum , ed agli effetti,
che derivavano da essa in base al diritto primitivo, le cui vestigia
appariscono ancora nella legislazione decemvirale . 374. Per quello che
riguarda la natura della obbligazione con tratta col nexum , alcuni antichi
scrittori, non giuristi, descrivendo la trista condizione dei debitori,
tradotti nel carcere privato del loro & expendo secundum legem publicam » .
Essa è per noi molto preziosa : 1° perchè ci dice anzitutto, che il nexum per
aes et libram importava una damnatio per parte del debitore, il che fa credere
che rendesse contro di lui applicabile senz'altro la manus iniectio, che Gaio ci
dice appunto essere ammessa contro i damnati, e contro i iudicati; 2° perchè
essa è un argomento per ritenere, che le obbligazioni contratte per aes
etlibram dovevano essere risolte con un atto della medesima natura ; 3. perchè
infine ci attesta , che l'atto per aes et libram era una forma di liberatio
secundum legem publicam , e come tale non si applicava soltanto nei casi di
obbligazioni con tratte col nexum , ma anche quando trattavasi del pagamento di
una somma ex causa iudicati, o del pagamento di un legato per damnationem . Ciò
conferma sempre più la congettura posta innanzi, che l'atto per aes et libram
era in certo modo la forma quiritaria del negozio giuridico, donde le sue
molteplici applicazioni, allorchè si tratta di negozii ex iure quiritium . (1)
La nuncupatio del nexum secondo il Voigt, XII Tafeln, pag. 483, si com porrebbe
bensì di due parti; ma egli, ricostruendone la formola, respingerebbe l'e
spressione damnas esto e damnas sum , in conformità appunto della sua teoria ,
se condo cui il nexum non avrebbe dato origine ad un'obbligazione di carattere
spe ciale. Parmi che quest'ultima parte della sua ricostruzione non possa
accettarsi ; poichè, così essendo, la formola della nesi datio non
corrisponderebbe a quella della nexi liberatio, conservataci da Gaio, la quale
è certo ciò , che noi abbiamo di più testuale in proposito. G. Carle, Le
origini del diritto di Roma. 31 482 creditore, ebbero a dire, che essi, dopo
essere stati spogliati dei beni, avevano poi dovuto rinunziare alla propria
libertà (1). Ciò fece ri tenere talvolta , che il nexum attribuisse il diritto
di procedere non solo contro la persona, ma anche contro i beni del debitore.
Questo concetto sembra ripugnare a quel carattere del primitivo ius qui ritium
, secondo cui il medesimo, allorchè giungeva a separare due istituti, quali
sarebbero quelli del nexum e del mancipium , lasciava poi che ciascuno
procedesse per la propria via , informato ad una propria logica, senza che
l'uno più non si confondesse coll'altro . Ora pur riconoscendo che il vocabolo
di nexum , nella sua significazione primitiva , designasse in genere il vincolo
giuridico , che intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse anche
estendersi ai beni del debitore, questo è certo che non dovette più essere cosi,
allorchè si operò la distinzione fra il nexum ed il mancipium , e i due con
cetti cominciarono ad avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi sappiamo,
che questa distinzione del nexum dal mancipium già erasi operata anteriormente
all'epoca decemvirale , e che da quel momento il quirite come tale ebbe due
mezzi per provvedere alle proprie necessità ; quello cioè di alienare il
proprio mancipium , o quello di vincolarsi col nexum . Con quello egli poteva
trasferire i beni e con questo vincolare la sua persona; ma gli effetti
dell'uno non potevano più confondersi coll'altro . Fu in seguito a questa di
stinzione, che anche più tardi la giurisprudenza romana ebbe a ri tenere, che
le obbligazioni ed i contratti, che derivarono dal nexum , non possono mai riuscire
al trasferimento della proprietà , il quale con tinuò sempre ad operarsi per
mezzo della usucapione e della tradi zione, che erano sottentrate
all'anticamancipatio . Parmi pertanto in questa parte di dovere seguire
l'opinione, adottata, fra gli altri, anche dall'Hölder , secondo cui il nexum
costituisce in certo modo il con trapposto della mancipatio nel senso, che
quello è la sottomissione della persona del debitore alla potestà del creditore
per il caso di non seguito pagamento, mentre la mancipatio costituisce invece
(1) Così, ad esempio Livio , II, 23, attribuisce queste parole a quel nexus,
che avrebbe provocata la prima rivolta della plebe per causa della legge sui
debiti: e se « aes alienum fecisse; id cumulatum usuris primo se agro paterno
avitoque exuisse, a deinde fortunis aliis ; postremo, velut tabes, pervenisse
ad corpus » . È tuttavia evidente, che quinon si dice punto, che il creditore,
in base al nexum , potesse pro cedere sai beni del debitore, ma solo che
quest'ultimo aveva dovuto prima spogliarsi del suo patrimonio avito, e poi
anche vincolare la sua persona al proprio creditore. 483 il trasferimento di
una cosa in potestà altrui. Questa è pure l'opi nione, che fu seguita
recentemente dall'Esmein e dal Cuq, i quali ritengono , che la primitiva
obbligazione quiritaria , la cui forma tipica fu il nexum , costituisse
dapprima un legame del tutto personale e fosse perfino intrasmessibile da una
persona ad un'altra (1). Ho insistito sopra questo carattere esclusivamente
personale del nexum primitivo ; perchè il medesimo, se nori a giustificare, può
condurci in qualche modo a spiegare le conseguenze estreme, a cui nel diritto
primitivo di Roma potè giungere il diritto del creditore contro il proprio
debitore. Parmi tuttavia, che sarà più opportuno discorrere di tali conseguenze
, allorchè si tratterà della manus iniectio, ossia della procedura di
esecuzione contro il debitore; poichè l'inumanità di questa primitiva procedura
non spiegasi soltanto contro i nexi, ma anche contro i iudicati ed i damnati (2
). 375. È certo ad ogni modo, che il nexum , fra le istituzioni qui ritarie,
era quella, che ripugnava maggiormente a quell'uguaglianza, che avrebbe dovuto
esistere fra i membri di una stessa comunanza. Esso portava ancora le traccie
della soggezione, pressochè servile , a cui un tempo era ridotta la plebe ;
poichè anche nel periodo sto rico sono sempre i plebei, che appariscono
sottoposti al rigore del nexum , mentre il patrizio , anche oberato di debiti,
poteva trovar sussidio presso la propria gente. Ne derivò che, durante le lotte
fra i due ordini, il nexum si cambið talora in un'arma del patri ziato per
assicurare la sua superiorità sopra la plebe , e fu in tal modo che una
istituzione di diritto privato si cambiò in un fomite di dissensioni civili. La
questione della condizione dei debitori sembra già rimontare all'epoca di
Sergio Tullio, il quale, se non pagd del proprio i creditori , come vorrebbe la
tradizione, certo impose la solennità dell'atto per aes et libram per potersi
obligare col nexum . Sotto la Repubblica poi, è a causa della legge sui debiti,
che i plebei si rifiutano prima alla leva , poi abbandonano la città e si
ritirano (1) HÖLDER, Istituz., trad . Caporali, pag. 225 e segg . Cfr .
eziandio l' Esmein , L'intrasmissibilité première des créances et des dettes,
nella « Nouvelle Revue histo rique » , 1887, pag. 48, nel quale scritto egli
cerca di corroborare la stessa tesi già enunciata dal CuQ, Recherches
historiques sur le testament per aes et libram pubblicato nella stessa « Nouvelle
Revue », 1886, pag. 536. (2) La questione qui accennata del trattamento contro
i debitori sarà trattata nel capitolo VI, § 3º, parlando della procedura
esecutiva, mediante la manus iniectio. 484 sul monte Sacro, da cui non
ritornano , che dopo aver ottenuto la istituzione del tribunato della plebe.
Anche la stessa legislazione decemvirale porta le traccie di questa contesa ;
come lo dimostrano le disposizioni minute, a cui essa discende nella parte, che
si rife risce al trattamento del debitore, ridotto in potestà del creditore.
Malgrado di ciò , le dissensioni continuano fino alla legge Petelia del 428 di
Roma, la quale non abolisce il nexum , e neppure dà diritto al creditore di
procedere contro i beni del debitore, anzichè contro la sua persona, come
vorrebbe Livio, ma toglie al creditore il diritto di poter procedere
immediatamente alla manus iniectio contro il debitore, senza che neppure
occorresse l'intervento del magistrato ( ). Continuò quindi ancora a sussistere
l'atto per aes et libram , qual mezzo di sottomettersi al nexum , come lo
dimostra la sopravvivenza delle nesi liberatio , che è ancora ricordata da Gaio
; ma intanto il nexum , sprovvisto di quegli effetti immediati contro la
persona, che costituivano l'odiosità e la forza di questo ingens vinculum
fidei, non ebbe più ragione di sussistere, e venne ad essere sosti tuito da
altri modi di obbligarsi, che forse preesistevano nel costume, ma non erano
ancora stati accolti nella cerchia circoscritta del primitivo ius quiritium .
376. Accade qui , in tema di obbligazioni, una trasformazione analoga a quella
, che abbiamo veduto essersi avverata in tema di proprietà, quanto al concetto
del mancipium . Al modo stesso che (1) Le espressioni di Livio , VIII, 28, sono
le seguenti: « iussique consules ferre ad « populum , ne quis, nisi qui noxam
meruisset, donec poenam lueret, in compedibus < aut in nervo teneretur ;
poecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium « esset. Ita nexi
soluti, cautumque in posterum , ne necterentur ». Di qui alcuni autori
avrebbero argomentato, che da quel momento fosse stata abolita la procedura
contro la persona dei debitori, e introdotta invece quella contro i beni. Cid
sarebbe smentito espressamente dalla storia giuridica di Roma, dove la vera
procedura fu sempre contro la persona , mentre quella contro i beni fu solo
introdotta dal pretore Rutilio nel 647 di Roma, e la stessa cessio bonorum ,
introdotta dalla legge Giulia , fu ancora considerata come un beneficio fatto
al debitore. Le parole quindi di Livio debbono essere intese nel senso, che
d'allora in poi il nexum non bastò più per sè ad autorizzare il creditore a
tradurre il debitore nel suo carcere privato, e che in tal modo l'obbligazione,
contratta con questo mezzo, non ebbe più lo speciale effetto di autorizzare
senz'altro la manus iniectio ; ma produsse solo gli effetti, che sareb bero
derivati da un 'obbligazione assunta mediante la semplice stipulatio. Questa fu
probabilmente la causa, per cui il nexum andò gradatamente in disuso, e
sottentra rono al medesimo la mutui datio e la stipulatio , come sarà
dimostrato più sotto. 485 al mancipium , quale unica forma della primitiva
proprietà quiri taria, sottentrò il concetto più largo del dominium ex iure qui
ritium ; così al nexum , forma primitiva dell'obbligazione quiritaria ,
sottentrò il concetto più esteso dell'obligatio propria civium roma norum , al
vincolo materiale, che stringeva il debitore al creditore sottentrò il vincolo
giuridico (vinculum iuris); ma intanto i voca boli di obligatio, di solutio, di
liberatio e simili rimasero ancor sempre a ricordare la rozzezza dell'antico
concetto, che scorgeva nell' obbligazione un vincolo pressochè materiale , e
nel pagamento ravvisava lo scioglimento di questo vincolo (solutio ). Così pure
al modo stesso , che col sostituirsi al mancipium un concetto più largo del
dominium ex iure quiritium , si vennero accogliendo nuovi modi di acquistare e
trasmettere questo dominio ; cosi, allorchè al concetto del nexum sottentrò
quello dell'obligatio , si vennero accogliendo nel ius proprium civium
romanorum nuovi modi di obbligarsi. Il nexum , mentre costituiva ed esprimeva
efficacemente un vincolo materiale e giuridico ad un tempo, aveva eziandio
questo carattere speciale, che esso teneva in certo modo del reale e del verbale,
in quanto che componevasidi dueparti, cioè: dell'atto per aes et libram ,
mediante cui avveravasi il trapasso dal mio al tuo e si operava la consegna
immediata della cosa ( tuum de meo fit ): e della nuncupatio , mediante cui fra
creditore e debitore si conveniva la condanna ed il pagamento. Queste due
parti, collo scomporsi del nexum vennero in certo modo ad acquistare libertà di
movimento , e si operò la distinzione fra l'obligatio quae re contrahitur, e
quella che con trahitur verbis , a cui venne più tardi ad aggiungersi eziandio
l'obligatio quae contrahitur litteris, ossia l'expensilatio. Per tal modo alla
sintesi potente del nexum , che era il modo primitivo di obbligarsi ex iure
quiritium , sottentrarono varii modi di obbli garsi, che costituirono un ius
proprium civium romanorum , quali sono la mutui datio , la sponsio o stipulatio
, e la acceptilatio : ciascuno dei quali viene ad essere il germe di quei varii
contratti formali, che si vengono poi svolgendo nel diritto civile romano,
sotto il nome di contratti reali, verbali e letterali. 377. È evidente
anzitutto l'analogia col nexum della mutui datio . Questa infatti continua a
produrre un'obligatio stricti iuris ; si ap plica dapprima alla credita pecunia
, e poi si estende a tutte le cose quae numero , pondere ac mensura constant: e
la sua effi 486 cacia obbligatoria consiste nella numeratio pecuniae , oppure
con segna della cosa (datio rei ). Non può poi esservi dubbio, che il mutuo fu
il modello, sopra cui si foggiarono poi gli altri contratti reali del comodato
, del deposito , del pegno (1) . Tuttavia il modo di obbligarsi, che prende un
più largo sviluppo collo scomparire del nexum , è sopratutto la sponsio o
stipulatio . Questa , sotto un certo aspetto, corrisponde a quella nuncupatio ,
che già preesisteva nel nexum , salvo che essa, liberata di quella forma rigida
della damnatio , che era propria del nexum , venne a trasfor marsi in una
semplice sponsio o stipulatio, in cui l'obbligazione viene ad essere assunta
per mezzo di una interrogazione e di una risposta , congrue e solenni, le
quali, per la propria elasticità e pieghevolezza, possono essere veste acconcia
per esprimere la varietà infinita delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il
cittadino romano. Qualunque possa essere stata l'origine della stipulatio, è
sopratutto nello svol gimento di essa , che si palesa il genio giuridico dei
giureconsulti romani, i quali non credettero indegno del loro ufficio
l'attendere a concretare le formole, con cui doveva essere concepita la stipula
zione nei varii negozii giuridici (2 ). Anche la stipulatio divenne (1) Per ciò
che si riferisce alla mutui datio, è nota la censura, che di regola suol farsi
alla etimologia di mutuum data dai giureconsulti, secondo cui questo vocabolo
deriverebbe da « quod de meo tuum fit » . Per conto mio, non come etimologo, ma
come giurista , ritengo invece assai probabile questa etimologia , tenuto conto
di ciò, che nelle formole primitive occorrono ad ogni istante le parole di meum
e di tuum , e che l'essenza del mutuum consiste veramente nel far sì, che un
oggetto ex meo tuum fit. Queste etimologie, che direi ragionate, diventano
tanto più probabili, quando si ri tenga, che il diritto romano fin dai primi
tempi fu il frutto di una vera elaborazione , la quale può benissimo avere
adattata la parola al concetto, che intendeva di signi ficare. Lo stesso direi
delle etimologie di testamentum da mentis testatio , di manci pium da
manucaptum , e di altre analoghe; sebbene ve ne siano di molte, le quali, per
essere composte post factum , sono evidentemente foggiate per far dire alla
parola cid , che è nella mente del giureconsulto nell'epoca, in cui egli
analizza il significato della parola. Intanto il fatto stesso, che i
giureconsulti cercano sempre di dare alla parola un senso, che corrisponda alla
cosa significata, dimostra, che essi dovevano procedere in tal guisa, allorchè
il comparire di qualche nuovo negozio li costringeva a foggiare qualche nuovo
vocabolo . In cid abbiamo anche una delle ragioni, per cui il linguaggio giuridico
di Roma potè diventare pressochè universale, come le sue leggi. (2 ) Sono molte
le opinioni intorno all'origine della sponsio o stipulatio nel di ritto romano.
Alcuni la ritengono come la parte verbale del nexum , allorchè andò in disuso
l'atto per aes et libram nel contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal
vocabolo sponsio , la ritengono come una specie di promessa giurata, che
facevasi davanti all'antichissima ara di Ercole ; altri infine la ritengono di
origine greca , donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe,
ad es., l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi ; ma il suo carattere
non è più artificioso , come quello dell'atto per aes et libram , nè così
rigido come quello della damnatio , propria del nexum , ma sembra essere
desunto dalla natura stessa delle cose . La parola infatti è riguardata come il
vero mezzo di obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso
, viene colla stipulatio ad essere conchiuso , in guisa da escludere qualsiasi dubbiezza
sulla volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un beneficio
a suo favore, di interrogare il promettente : « centum dare spondes ? » , e
tocca a colui che promette di rispondergli congruamente: « spondeo » per modo
che non possa esservi dubbio circa l'incontrarsi delle due volontà (1 ). Viene
poscia nel costume una dextrarum iunctio , poichè, fra le genti primitive, la
destra è l'emblema della fede, in base a cui si conclude il negozio . Forse in
antico potè eziandio aggiungersi la solennità del giuramento , come lo
indicherebbe la significazione in parte religiosa, del vocabolo di sponsio ; ma
questa , quando è accolta nel diritto civile romano, sembra già aver perduto
questo carattere primitivo. Anche qui pertanto vi ha una forma tipica di
obbligazione, ma essa non è più quella del nexum , propria del ius quiritium ,
e modellata probabilmente dal ius pontificium , nell'intento di serbare le
tradizioni del passato ; bensì è già quella del ius proprium civium romanorum ,
come lo dimostra il fatto , che anche quando i romani consentirono la
stipulatio ai peregrini, riservarono sempre per sè la espressione primitiva : «
spondes? spon deo » , la quale sembra ancora richiamare quel carattere
religioso , che doveva accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio
. Questo è certo ad ogni modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist,
Graeco-ital. Rechtsgeschichte, pag . 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op.
cit., pag. 228. Per me trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi
stere un modo di obbligarsi così naturale e semplice, come è quello
rappresentato dalla stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di
correlativo, anche fra i popoli germanici (SCHUPPER, L'allodio , pag. 47) ; ma
non posso in verità persuadermi, che i Romani dovessero apprenderlo dalla
Grecia , dal momento , che senz'alcun dubbio già lo conoscevano nei rapporti
fra le varie genti. Essa quindi deve essere ritenuta come una di quelle
istituzioni, che vivevano nelle costumanze, e che solo più tardi riuscirono ad
entrare nella cerchia rigida del ius quiritium , il che probabilmente dovette
accadere , quando cominciò ad andare in disuso il nexum . ( 1) Questo carattere
speciale della stipulatio, per cui essa costituisce il modo più semplice ed
acconcio per conchiudere le trattative di un negozio , in quanto che l'in
terrogante viene ad essere colui che stipula , e il rispondente colui che
promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 311.
488 contrastati sul nexum . Essa è duttile, pieghevole , come la parola umana,
e può cosi accomodarsi a qualsiasi uso ; è un materiale, che si adatta ad ogni
specie di costruzione; è il modo più spiccio e più logico per conchiudere
qualsiasi trattativa ; può servire per un'obbligazione principale ed anche per
un'obbligazione accessoria ; sebbene unilaterale per propria natura , si può,
raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una convenzione bilaterale .
Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio è sopratutto atta ad esprimere
i negozii stricti iuris . Ma essa, coll'aggiunta di una clau sola
semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi ai negozii di
buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i giureconsulti
romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei contratti, in cui
la giurisprudenza romana spiego una duttilità e pieghevolezza, tanto più
mirabili, in quanto che non scompagnansi giammai dall'esattezza e dalla
precisione. 378. Sembra invece essere alquanto più tardi, che vennero ad essere
accolti nella compagine del diritto civile di Roma, quegli altri modi di
obbligarsi, che diedero poi origine ai contratti letterali. Anche a questo
riguardo non può esservi dubbio , che il diritto civile di Roma non creò di
pianta le proprie istituzioni; ma si contento, per dir cosi, di accogliere
sotto la sua tutela e di modellare, in base alla propria logica giuridica, le
istituzioni, che già esistevano nel l'uso e nel costume. Così dovette accadere
senz'alcun dubbio dell'expensilatio, la quale, ancorchè entrata tardi nel
diritto civile di Roma, ci richiama in certo modo la figura del primitivo capo
di famiglia , il quale dir: gendo una vasta azienda e avendo sotto la sua
dipendenza un nu mero grande di persone, deve tenere il conto quotidiano del
dare e dell'avere . Ciò che egli scrive nel proprio libro doveva certo far fede
dirimpetto ai suoi dipendenti. Questo sistema pero , che era il più ovvio nelle
consuetudini patriarcali, presentava invece dei pe ricoli nel diritto , come
quello , che fondavasi esclusivamente sulla buona fede. Fu questo il motivo,
per cui esso penetrò più tardi nel diritto civile di Roma, il quale cerco poi
di ovviare al pericolo inerente al medesimo, aggiungendo al nomen
transcripticium una ricognizione scritta del debito , che doveva restare a mani
del cre ditore (cautio , chirographum ); al qual proposito viene ad essere
probabile, che l'istituzione originariamente italica della expensilatio siasi
imparentata con un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di
origine probabilmente g : eca , donde la cautio chirographaria , che pervenne
fino a noi (1 ). 379. Queste tre categorie di contratti, che sogliono talvolta
es sere indicati col vocabolo di formali, dovettero certamente essere i primi
ad entrare nella compagine del diritto civile romano. Esso invece, che stentava
a comprendere il consenso senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo,
sembra che solo più tardi e pro babilmente già sotto l'influenza del ius
honorarium , sia pervenuto ad adottare e ad attribuire efficacia giuridica
all'emptio venditio, e agli altri contratti, che a somiglianza di essa si
perfezionano col solo consenso. Ormai non può esservi dubbio, che anche
l'emptio venditio già esisteva nel primitivo diritto , poichè la legislazione
decemvirale disponeva, che la medesima, per essere perfetta , doveva essere
accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo. Cosi
stando le cose, è però evidente, che l'emptio venditio come mezzo per
trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma doveva essere accompagnata
dalla mancipatio o dalla traditio . Di qui ne venne, che essa , come contratto
stante per sè , comparve solo più tardi nel diritto civile di Roma, il quale
non ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che valgono a trasferire il
dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano a dare, facere,
praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti consensuali, cioè
della locatio conductio, del mandatum e della societas, che furono fog giati
sul modello della compra e vendita (2 ). 380. Intanto si comprende, che la
giurisprudenza romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le
mosse da una unica forma di obbligazione quiritaria , che era quella assunta
col nexum , allorchè pervenne a così grande ricchezza di sviluppo , abbia
cominciato a sentire il bisogno di richiamare a certe classi i genera
obligationum , quae ex contractu nascuntur; ma intanto essa si trovò già di
fronte ad una suppellettile così copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai
contratti fu costretta a creare la figura dei quasi- con (1) Cfr. per ciò che
si riferisce all'expensilatio ed all'abitudine del capo di fami glia romano di
tenere il Codex accepti et expensi, vedi il PADELLETTI, Storia del diritto
romano, cap. XXI, pag. 249 e segg. Quanto all'acceptilatio vedi SCHUPFER ,
nella « Enciclopedia giuridica italiana » , vol. I, pag. 175 a 180 , vº
acceptilatio. (2) Quanto alle origini di uno di questi contratti consensuali,
cioè della societas, vedi l'articolo del Ferrini nell'a Archivio giuridico »
diretto dal Serafini, anno 1887. 490 tratti ; accanto ai contratti nominati
dovette porre quelli non no minati ; accanto ai veri e proprii contratti, i
patti, che non pro ducono azione, ma una semplice eccezione ; e da ultimo
accanto ai contratti, che avevano avuto origine nel diritto civile, quelli che
avevano avuto origine nel diritto delle genti. Anche qui pertanto è facile lo
scorgere come, prima nel ius quiritium e poscia nel ius civile, presentisi
costantemente una parte già formata e consoli data , e un'altra , che si viene
foggiando e consolidando sựl modello somministrato dalle formazioni anteriori,
senza che mai si abbandoni il concetto fondamentale della primitiva
obbligazione, da cui il ius quiritium aveva preso le mosse. Ciò tanto è vero,
che, anche nel conchiudersi dello svolgimento storico del diritto delle
obbligazioni, si riscontra ancora quel con cetto , a cui si informava
l'istituzione primitiva del nexum , con cetto , che viene ad essere enunziato
da Paolo con dire « obligationum « substantia non in eo consistit , ut aliquod
corpus, nostrum , aut « servitutem , nostram faciat, sed ut alium nobis
obstringat ad « dandum aliquid , vel faciendum , vel praestandum » (1). Si
viene cosi a mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni e
quella del trasferimento della proprietà , non meno radicale e pro fonda, di
quella, che negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere
nexum e quello del facere mancipium . È questo il motivo, per cui la genesi dei
modi, coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la
proprietà e i diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro
istituto del diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio . $ 3. –
La mancipatio e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire
ildominio quiritario . 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio
la forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece,
che prese più tardi il nome di mancipatio , deve considerarsi come la forma
primordiale , che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della
proprietà ex iure quiritium (2). Tanto la nexi datio, ( 1) Paolo, Leg . 3 , Dig
. (44 , 7). ( 2) Anche sulla mancipatio abbiamo una ricchissima letteratura .
Tra i recenti mi limiterò a ricordare il Leist, Mancipatio und Eigenthums
Tradition , Iena, 1865; il MuirHead, Hist. Introd., sect. 30 , pag . 131 a 149
; il Voigt, XIl Tafeln , II, SS 84 491 quanto la mancipatio, debbono poi essere
considerate come due ap plicazioni dell'atto quiritario per eccellenza, che era
l'atto per aes et libram , come lo dimostra il fatto , che i più antichi
giureconsulti comprendono l'una e l'altra nella categoria di quegli atti, che
si compiono per aes et libram (1). Esse vengono soltanto a differire fra di
loro nella nuncupatio, ossia in quelle parole solenni, che dovevano
accompagnare l'atto per aes et libram , e che potevano attribuire al medesimo
una significazione diversa . Mentre la nun cupatio nel nexum doveva consistere
in una specie di condanna convenzionale del debitore al pagamento della somma
da lui tolta in imprestito ; la nuncupatio invece nella mancipatio, quale ebbe
ad esserci conservata da Gaio , consiste nella affermazione solenne del
mancipio accipiens , che la cosa gli appartiene ex iure qui ritium , per averla
egli acquistata con tutte le solennità richieste dal diritto quiritario (hunc
ego hominem ex iure quiritium meum esse aio , isque mihi emptus est hoc aere
aeneaque libra ). Gaio poi non ci dice , se a questa affermazione solenne del
mancipio ac cipiens corrispondesse una congrua risposta del mancipio dans; ma
ad ogni modo egli è certo , che questi, essendo presente all'atto , e ricevendo
quell'aes rude, con cui si percuoteva la bilancia, a titolo di prezzo ,
riconosceva con cið la verità dell'affermazione dell'acqui rente (2). È poi
anche degno di nota nella mancipatio, che sebbene a 88 ; il Longo, La
mancipatio , Firenze, 1887. Sembra essere opinione comune a questi autori, che
nell'antico linguaggio in luogo di mancipatio si dicesse mancipium ; donde la
conseguenza, che la espressione facere mancipium sarebbe pressochè un sinonimo
di facere mancipationem . Noi abbiamo veduto invece, che il vocabolo man cipium
ebbe, fra le altre significazioni, anche quella di indicare il primitivo patri.
monio del quirite ; quello cioè, che doveva da lui essere consegnato nel censo.
Quindi per noi le antiche espressioni di facere mancipium , mancipio dare,
mancipio acci pere dovettero significare il ricevere una cosa nel proprio
mancipium , o il trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai vocaboli di
mancipare e di mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso frequente di
queste espressioni costrinse a foggiare una parola, che esprimesse più
brevemente il concetto . Di qui la conseguenza , che il vocabolo di mancipatio
non deriva direttamente da manu capere, ma piuttosto da mancipium facere,
mancipio dare e simili. Cfr. BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888,
pag. 90 e 91. (1) « Nexum Manilius scribit omne quod geritur per aes et libram
, in quo sine mancipia » . VARRO, De ling. lat., VII, 105. Vedi gli altri passi
citati nel § 1° di questo capitolo, nº 369, pag. 471, nota 1. (2 ) Gaio
descrive la mancipatio e le formalità, da cui era accompagnata , nei Comm ., I,
SS 119 a 123 . 492 la medesima in effetto servisse per il trasferimento della
proprietà quiritaria , aveva perd eziandio tutti i caratteri di un acquisto ori
ginario, come lo dimostra il fatto , che era l'acquirente , il quale doveva per
il primo affermare la sua proprietà sulla cosa ed affer rare materialmente la
cosa stessa ; donde anche la conseguenza, che la mancipatio richiedeva la
presenza delle cose mobili, e per gli immobili era stata la sola necessità ,
che aveva condotto all'uso, accen nato da Gaio , secondo cui « immobilia in
absentia solent manci. pari » (1). 382. La circostanza intanto, che la
mancipatio ebbe dapprima ad essere indicata coll'espressione di facere
mancipium , costituisce un forte indizio, che la mancipatio sia comparsa nel
diritto quiri tario, in quell'epoca stessa , in cui si formd il concetto del
manci pium , e che essa sia stata introdotta quale mezzo peculiare per la
formazione e per il trasferimento del mancipium , in quanto il me desimo
costituiva il primo nucleo della proprietà quiritaria , quella parte cioè del
patrimonio, che doveva essere consegnata e valutata nel censo. Fu l'importanza
economica e politica , dal censo attribuita al mancipium , che rese necessario
un atto solenne per la trasmis sione delle res mancipii contenute nel medesimo.
Quindi l'origine della mancipatio deve rimontare probabilmente alla
costituzione serviana, e l'introduzione di essa avere una stretta attinenza col
concetto del mancipium ; il che è comprovato dal fatto, che anche i classici
giureconsulti, memori dell'origine di essa , continuarono sempre a considerare
la mancipatio , come un modo di alienazione del tutto proprio delle res
mancipii, e sostennero perfino , che queste fossero cosi chiamate, perchè erano
suscettive della mancipatio (2). (1) Gaio , Comm ., I, 119. Sono da vedersi ,
quanto alla necessità di adprehendere manu la cosa acquistata , se mobile, i
passi citati dal Voigt, op. cit., II, pag. 133, nota 10. Intanto nella
necessità di questa materiale apprensione della cosa parmidi scorgere un'altra
prova, che il concetto del primitivo mancipium implicava in certo modo la
detenzione materiale e la proprietà delle cose, che ne formavano oggetto, al
modo stesso che il nexum indicava ad un tempo il vincolo fisico e il vincolo
giuri dico, a cui era sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende probabile
l'etimologia di mancipium da manucaptum , come lo provano i passi citati dallo
stesso Voigt, op. e loc. cit., pag. 134 , nota 12. (2 ) Cfr., quanto alle
origini della mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., pag. Sono poi Gaio, I, 120 e
Ulpiano , Fragm ., XIX, 3 , i quali attestano che la manci patio era
esclusivamente propria delle res mancipii. « Mancipatio, scrive quest'ultimo,
propria species alienationis est rerum mancipü » . Ciò però non impedì, che,
trattan 57 e segg . 493 - Siccome però fin da quest'epoca, accanto alle cose,
che costituivano il nucleo del mancipium , vi erano quelle, che non erano
comprese nel medesimo, e a cui perciò non potevasi applicare il facere man cipium
, così ne venne che accanto alla mancipatio dovette già essere in vigore la
semplice traditio , la quale, accompagnata dal pagamento del prezzo , poté
servire per il trasferimento delle cose, che non erano comprese nel mancipium .
Mentre quindi la man cipatio veniva ad essere una costruzione giuridica , la
cui forma zione fu determinata dal formarsi del mancipium , la traditio in vece
era il mezzo naturale ed ovvio per il trasferimento di quelle cose, che erano
nec mancipii, e che perciò in questo primo periodo non formavano oggetto di
vera proprietà ex iure quiritium (1). 383. Questo stato di cose venne poi a
subire una modificazione profonda, sotto l'influenza della legislazione
decemvirale. Infatti è colla medesima, che al concetto del mancipium , il quale
restringeva di troppo il novero delle cose , che potevano essere oggetto di pro
prietà quiritaria , cominciò già a sovrapporsi un concetto più esteso del
dominium ex iure quiritium . Da questo momento infatti le res mancipii
continuano ancor sempre a costituire il nucleo più importante delle cose, che
possono essere oggetto di proprietà qui ritaria , ma questa già può estendersi
ad altre cose, che non erano comprese nel primitivo mancipium . Di qui ne
derivo , che mentre le XII Tavole serbarono la mancipatio, quale mezzo
esclusivamente proprio per la trasmissione delle res mancipii, esse perd
introdus sero o confermarono due altri mezzi, per l'acquisto e la trasmis sione
del dominium ex iure quiritium , di cui uno è l'in iure cessio, la quale,
essendo compiuta davanti almagistrato, potè anche dosi di cose, le quali si
ritenevano di grande prezzo e perciò si trasmettevano in fami glia , quali
erano ad esempio le pietre preziose, si potesse nella consuetudine appli carvi
anche la mancipatio. V. quanto si è detto a pag . 441, nota 1. (1) Ciò è
dimostrato da ULP., Fragm ., XIX, 3, e 7 ; il quale, dopo aver premesso che la
mancipatio era propria delle res mancipii, soggiunge poi: « traditio aeque
propria est alienatio rerum nec mancipii » ; nei quali passi è evidente, che la
man cipatio e la traditio si contrappongono fra di loro, come il mancipium ed
il nec mancipium . Quello cade sotto il diritto civile , e perciò deve essere
alienato colle forme del diritto civile, il che pure si accenna da Festo, tº
censui, allorchè scrive: « censui censendo agri proprie appellantur, qui et emi
et venire iure civili pos sunt » (Bruns, Fontes, pag. 334). Che il contrapposto
fra mancipatio e traditio sia stato poi la prima origine della distinzione fra
i modi civili e naturali di acqui stare e di trasmettere il dominio appare ad
evidenza da Gaio , Comm ., II, 65 . 494 essere estesa alle res mancipii, e
l'altro è l'usus auctoritas, più tardi denominata usucapio , mediante cui l'uso
ed il possesso di una cosa , durato per un certo tempo, potė attribuire la
proprietà quiritaria della medesima. Colla legislazione decemvirale pertanto
vengono ad essere tre i principali mezzi, con cui può essere acqui stata e
trasmessa la proprietà quiritaria , e che costituiscono perciò un diritto esclusivamente
proprio dei cittadini romani. 384. Di questi mezzi il più importante è sempre
la mancipatio , la quale è il vero modo ex iure quiritium per l'acquisto ed il
tras ferimento del dominio , ma la medesima, essendo nata col mancipium ,
continua sempre ad essere un mezzo di alienazione proprio delle res mancipii.
Vero è, che in questi ultimi tempi si è dubitato , se la mancipatio non siasi
più tardi applicata anche a quelle res nec mancipii, che potevano essere
oggetto di proprietà quiritaria : ma questa opinione non sembra potersi
accogliere, di fronte alle afferma zioni precise di Gaio e di Ulpiano, i quali
parlano sempre della manci. patio, come propria delle res mancipii (1). Ciò
tuttavia non impedi, che colla legislazione decemvirale la mancipatio abbia
acquistata una elasticità e pieghevolezza , che prima non aveva, il che spiega
come essa sia durata così lungo tempo , quale mezzo di trasferimento della
proprietà, ed abbia in questa parte esercitata una influenza analoga a quella
esercitata dalla stipulatio in materia di obbligazioni. Sembra infatti, che il
facere mancipium , negli inizii, fosse uno di quei ne gozii di strettissimo
diritto , che producevano l'immediata traslazione della proprietà , e non
ammettevano perciò nè termine, nè condi zioni. Le XII Tavole invece
introdussero il principio : « qui manci pium faciet, uti lingua nuncupassit,
ita ius esto » , e diedero così libertà ai contraenti di aggiungere al
primitivo mancipium , sotto la forma di una nuncupatio, che faceva parte
integrante del negozio, tutte le clausole e condizioni, che potessero convenire
ai contraenti. Fu in questo modo, che l'antica mancipatio potè accomodarsi alla
varietà dei casi e delle esigenze , e che si vennero così formolando, per opera
degli stessi pontefici e giureconsulti, quelle clausole diverse , che sogliono
essere indicate col vocabolo di leges mancipii. Colle medesime infatti il
mancipio dans , pur alienando la cosa , potè riservarsi l'usufrutto della
medesima, potè alienarla con patto di ( 1) GA10, I, 120, Ulp., Fragm ., XIX ,
3. Vedi tuttavia ciò che in proposito si disse a pag. 441, nota 1. 495 -
riscatto , poté restringere la propria garanzia per l'evizione, ed anche
limitare l'uso della cosa venduta per parte dell'acquirente. Era pero naturale
, che, per aggiungere alla mancipatio tutte queste clausole , più non poteva
bastare la semplice affermazione del man cipio accipiens, che la cosa era sua
ex iure quiritium ; maoccor reva eziandio, che il mancipio dans, con una
congrua risposta , apponesse quelle clausole e condizioni, che potessero essere
del caso , le quali, entrando a far parte integrante della stessa mancipatio ,
dovevano fra i contraenti avere la forza di vere leggi (1) . 385. Sopratutto ,
fra queste leges mancipii, viene ad essere impor tantissima quella, che suol
essere indicata col vocabolo di lex fidu ciae , od anche semplicemente con
quello di fiducia (2). Questa pro babilmente doveva essere nata nelle
consuetudini della plebe, la quale, non possedendo le vere forme giuridiche,
doveva di necessità nelle proprie convenzioni lasciare una larga parte alla
scambievole fiducia (3 ). Anche questa fiducia colla legislazione decemvirale
pe netrò nel ius quiritium , dove, combinandosi col rigoroso atto della
mancipatio, diede origine a quella singolare istituzione della man cipatio cum
fiducia , che doveva poi acquistare un così largo ( 1) Si può veder raccolta
nel Voigt, op . cit., II, $ 85, pag. 146 a 166, una varietà grandissima di
queste clausole o leges mancipii, raccolte da passi di antichi autori. Nel
Bruns parimenti, Fontes, pag. 251 a 256, sono riportati parecchi moduli di
mancipationes, che pervennero fino a noi. ( 2) Quanto alla mancipatio cum
fiducia è a vedersi il Voigt, $ 86 , pag. 166 a 187, ove sono raccolte le
formole, che vi si riferiscono. È poi degno di nota quel modulo di mancipatio
fiduciae causa , che si fa risalire al primo o secondo secolo dell' êra
cristiana , riportato dal Bruns, Fontes, pag. 251. ( 3) Le ragioni, per cui le
origini della fiducia devono cercarsi nelle costumanze della plebe, furono già
esposte al n ° 149 , pag. 184. Di recente un giovine e dotto autore, l’Ascoli,
ebbe in proposito a scrivere, che la fiducia, come forma di pegno, non dovette
essere il prodotto spontaneo delle pratiche necessità del commercio, ma una
creazione artificiale , e che l'ipoteca nel suo concetto astratto è più
semplice della fiducia (Le origini dell'ipoteca e l'interdetto Salviano,
Livorno, 1887, pag. 1). Io credo, che se l'autore si riporti col pensiero ad
una plebe ragunaticcia , in parte immigrata e priva ancora di una vera
posizione di diritto, di fronte ai patrizii, fon datori della città,
comprenderà facilmente come i membri di essa, per trovar cre dito presso coloro
, che già vi si trovavano stabiliti, non avessero mezzo più acconcio , che
quello di alienare a questi cum fiducia le cose, che loro dovevano servire di
pegno. L'ipoteca invece avrebbe già supposto una comunanza di diritto, che
ancora non esisteva, e un'analisi del diritto di proprietà , che mal si poteva
conciliare colle condizioni di un popolo primitivo. 496 svolgimento nel diritto
civile di Roma. Con essa , accanto all'ele mento strettamente giuridico,
cominciò a penetrare anche la consi derazione della buona fede, in quanto che
non si bado più in modo esclusivo alla osservanza delle forme esteriori del
negozio giuridico, ma cominciò anche a tenersi qualche conto dell' intenzione
vera ed effettiva dei contraenti. Che anzi questo elemento fiduciario fu
introdotto nella formola stessa della mancipatio , cosicchè il man cipio
accipiens non affermò più , la sua proprietà assoluta sulla cosa a lui
alienata, ma disse invece : « hunc ego hominem fidei fi duciae causa ex iure
quiritium meum esse aio » ; colla qual formola già si lasciava intendere, che,
sebbene egli avesse acquistata la proprietà quiritaria, questa perd era stata
affidata al suo onore per l'adempimento di qualche incarico di fiducia ( 1).
Questa fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi o con un amico o con un
creditore. Essa accadeva, ad esempio , con un amico nella manci patio familiae
cum fiducia , che fu una delle forme più antiche di testamento , mediante cui
si mancipava il proprio patrimonio ad un amico ( familiae emptor),
coll'incarico di disporne nella guisa statagli indicata per il tempo, in cui
altri avesse cessato di vivere. La fiducia seguiva invece con un creditore,
allorchè a lui si mancipava la cosa , che si voleva lasciargli a titolo di
pegno (2 ). È probabile che dap prima questa clausola fiduciaria non avesse
efficacia giuridica , ma col tempo essa venne acquistandola. Per tal modo la
mancipatio cum fiducia venne cambiandosi in un espediente giuridico , mediante
cui la mancipatio non serviva più unicamente al trasferimento della proprietà ;
ma serviva eziandio per costituire comodati, donazioni mortis causa, doti, e
riceveva cosi applicazioni diverse, anche nei rapporti famigliari, nei quali
essa si svolse , come vedremo a suo tempo, sotto la forma di coemptio
fiduciaria (3). 386. Fu questo il magistero, mediante cui la mancipatio fu dal
diritto civile di Roma adattata alle varie contingenze di fatto ; ma (1) Cfr.
il MUIRHEAD, op . cit., pag. 140 e seg . e il Voigt, op. cit., II , pag . 172.
(2) È notevole in proposito il passo di ISIDORO, Orig., 5, 22, 23 , 24 ,
riportato dal Bruns, Fontes , pag. 406 , in cui egli istituisce, sulle vestigia
di qualche antico au tore, una specie di raffronto fra il pignus, la fiducia e
l'hypotheca . Della fiducia egli scrive : « fiducia est, cum res aliqua ,
sumendae mutuae pecuniae gratia, vel man cipatur vel in iure ceditur » . (3)
Quanto alle svariate applicazioni della fiducia V. Ascoli, op. cit., pag. 3 e
seg . 497 siccome la sua applicazione era pur sempre circoscritta alle res
mancipii, cosi, accanto alla medesima, si introdussero o si confer marono dalla
legislazione decemvirale due altri modi di acquistare e di trasmettere la
proprietà, di indole e di origine compiutamente diversa , ancorchè entrambi
costituiscano un ius proprium civium romanorum . Essi sono l'in iure cessio e
l'usucapio . È ovvio scorgere l'opposizione, che esiste fra questi due mezzi di
acquisto della proprietà ' quiritaria . Mentre l'in iure cessio viene talvolta
nelle fonti ad essere indicata col vocabolo di legis actio , perchè essa , al
pari delle legis actiones, si compie in iure, cioè da vanti al magistrato, ed è
in certo modo una rei vindicatio non con traddetta . (1) ; l'usucapio invece
nelle dodici tavole viene ad essere indicata col vocabolo di usus auctoritas.
Mentre la prima consiste in una finta rivendicazione, fatta dal compratore o
dal cessionario , non contrastata dal venditore o dal cedente della cosa , che
forma oggetto di negozio , la quale si compie davanti almagistrato , e a cui
sussegue l'aggiudicazione del medesimo ; la seconda invece fondasi
esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per due
anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi altra
cosa , finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a possederla .
Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere, eminentemente
legale e giuridico , in quanto che essa compiesi coll'intervento del magistrato
;, nella usucapio in vece abbiamo un fatto , che trasformasi in diritto , ossia
l'uso od il possesso , che trasformansi nella proprietà ex iure quiritium ,
quando abbiano durato per un certo spazio di tempo . Queste considerazioni mi
inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo di acquisto ,
ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie , presso le quali tutto già
facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato , l'usus
auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale , avendo
dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto , dovette
cono scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella significa zione
, che vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di questi due modi di
acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa (1) È lo stesso Gaio,
Comm., II, 24, che, dopo aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis
actio vocatur » . A questa descrizione di Gaio poi corrisponde quella
brevissima di Ulp., Fragm ., XIX , 10 « In iure cedit dominus ; vindicat is ,
cui ceditur; addicit Praetor » . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma . 32
498 taria fu in certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due
ordini; poichè da una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al
magistrato , il quale era ricavato dall'ordine patrizio , e dall'altra il
patriziato cominciava a riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus
auctoritas, sulla quale 'soltanto fondavansi i di ritti della plebe (1). (1)
Qui cade in acconcio di arrestarci alquanto alla significazione da attribuirsi
alla espressione « usus auctoritas » , che occorre nelle XII Tavole. La legge
relativa dal DIRKSEN collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu riportata colle
parole stesse di CICERONE, Top ., 4 : « usus auctoritas fundi biennium est ;
ceterarum rerum omnium annuus est usus » . Essa invece dal Voigt, op. cit., I,
pag. 110, sarebbe collocata al n . 6 , della Tavola V , e sarebbe così
concepita : « usus, auctoritas biennium , cetera rum rerum annuus esto » . Di
qui molte discussioni fra gli studiosi relativamente ai rapporti fra i due
termini usus ed auctoritas, al qual proposito l'opinione pre valente sembra
essere, che il vocabolo di usus si riferisca all'usucapione e quello di
auctoritas alla garanzia del titolo , che incombe al venditore in una
mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire, che tanto l'usus quanto
l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno, secondo le cose di cui si
tratta . Tale opinione sarebbe stata prima enunciata dal SALMASIO, De usuris,
cap. 8 , pag. 215 ; Lugd., Bat. 1638 , e troverebbe seguito ancora oggidì,
presso il Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus dall'auctoritas con
una virgola . A mio avviso invece sembra alquanto fuor di luogo, che si venga a
discorrere di garanzia dall'evizione colà , ove tutti gli antichi autori non ci
parlano che dell'usucapione. Parmi poi evidente, che l'espressione effi
cacissima di « usus auctoritas » non possa essere che il contrapposto
dell'altra espres sione « iuris auctoritas » , e che quindi la significazione
naturale della medesima consista in dire, che l'uso varrà come titolo, e il
possesso equivarrà a proprietà , allorchè essi siano durati un biennio pei
fondi, e un anno per tutte le altre cose. Il solo vocabolo di usus, analogo a
quello di possessio , non avrebbe potuto da solo indicare l'usucapione, e fu
perciò , che dovette dirsi usus auctoritas, la quale espressione appunto
occorre in Cic., Top ., 4. Sia pure che lo stesso Co., pro Caec., 19 , sembri
separare le due cose, allorchè scrive: « lex usum et auctoritatem fundi iubet
esse biennium » ; ma è facile il vedere, che la dizione qui è già alterata dall'uso
dell'infinito, e che le due parole indicano pur sempre una cosa sola , cioè
l'autorità od il diritto sul fondo provenienti dall'uso . Ogni dubbio poi viene
ad essere tolto dal passo di Boezio , in Cic., Top ., loc. cit ., nel quale
trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la iuris auctoritas. Egli
infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive : « Plurima « rum autem rerum
usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit usus, « id firma iuris
auctoritate possideat, velut rem mobilem ; fundi vero usucapio « biennii
temporis spatio continetur. Ait Cicero : ut, quoniam ususauctoritas fundi «
biennium est, sit etiam aedium . Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio «
fieri sentit » (Bruns, Fontes, pag . 400). Che se altrove la legge dice a
adversus hostes aeterna auctoritas esto » , gli è perchè ivi parlasi tanto
della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non occorreva specificare il
concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da solo significa la iuris
auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due istituti tuttavia esercito
certamente una maggiore influenza sullo svolgimento del diritto romano
l'usucapio , che non l'in iure cessio . Di questa infatti dice Gaio , che la
medesima, quanto alle res man cipii, non poteva competere colla mancipatio,
poichè era naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi contraenti,
coll'inter vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori presso il
magistrato (1). Di qui ne venne che , sebbene l'in iure cessio po tesse anche
applicarsi alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al
trasferimento di quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive
di mancipatio . Così, ad esempio , Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio
si poteva fare la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec
mancipii, la cessione della eredità , che consideravasi come una cosa
incorporale, come pure la costituzione dell'usufrutto . Quanto a quest'ultimo
tuttavia , egli os serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la
mancipatio, al lorchè altri, mancipando la cosa , riservava per sè l'usufrutto
della medesima, apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva
conservare la proprietà , non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che
mediante la in iure cessio (2). L'usucapio invece deve essere considerata come
una delle istitu zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del
diritto . Essa in certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare
da una posizione di fatto ad una posizione di diritto , per cambiare cioè la
semplice usus auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa , che determinò
la formazione della teoria del possesso , accanto a quella della proprietà , e
che condusse la giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il
possesso può trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto
all'usucapio del diritto qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero
più volte ad accennare a questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre
solo avuto occasione di parlare della durata dell'usucapio , e non mai della
durata dell'obbligo di garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la
ricostruzione più probabile sia la seguente: « usus auctoritas fundi biennium ,
ceterarum rerum annus esto » ; la quale concorda anche di più colle regole
grammaticali. ( 1) Scrive infatti Garo , Comm ., II, 25 , discorrendo della
iure cessio per le res mancipii : « Plerumque tamen et fere semper
mancipationibus utimur; quod enim ipsi per nos, praesentibus amicis, agere
possumus, hoc non est necesse cum maiore difficultate apud Praetorem aut
Praesidem provinciae agere » . (2) GAIO, II, 33 ; Ulp., Fragm ., XIX, 11 e 12 .
500 ritario, che essa, a differenza della prescrizione, che ebbe ad essere
introdotta molto più tardi, non presentasi ancora come un mezzo di estinzione
dei diritti, ma ha sopratutto il carattere di un mezzo di acquisto, come lo
indica il vocabolo stesso di usucapio . Cid pure è confermato dal motivo, che
si assegna come fondamento all'usucapio , il quale non consiste nell'intento di
punire coloro, che trascurassero di esercitare il proprio diritto , ma bensi in
quello di evitare l'in certezza dei dominii : « ne rerum dominia diutius in
incerto essent » . 388. Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio
fu effettivamente adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni
della plebe potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il
carattere quiritario , cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in
breve in veri proprietarii ex iure quiritium . Quest'effetto era già stato
ottenuto in grande col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto
tutti i mancipia , proprii della plebe , in altrettante proprietà ex iure
quiritium , facendoli consegnare nel censo ; ed il medesimo processo venne ad
essere reso continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas , la
quale in breve spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di
un vero e proprio diritto . Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto
diverse di questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per
acquistare la pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche
qual mezzo per far acquistare al marito la manus sulla propria moglie , e quale
mezzo infine per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria
di un'eredità , come accade nell'usucapio pro herede (1 ). Così pure dapprima
non si richiedono condizioni di sorta , perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma
basta il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente , che i
giurisprudenti fis (1) Il concetto qui accennato fu già più largamente svolto
al nº 154, p . 190 e seg., ove ho dimostrato che l'attribuire carattere
giuridico ai possessi della plebe nel ter . ritorio romano era il miglior mezzo
per interessarla all'avvenire e alla grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD,
op. cit., pag. 48, e l'Es sin , Histoire de l' usucapion nei « Mélanges
d'histoire du droit » , Paris, 1886, pag. 171 a 217. Dal momento poi, che l'usus
auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare una posizione di fatto in
una posizione di diritto, si comprende come essi non abbiano avuto diffi coltà
di applicarla all'acquisto della proprietà, all'acquisto della manus, ed anche
all'acquisto dell'eredità (usucapio pro herede). 501 sano le condizioni, che
debbono concorrere in tale possesso , perchè possa dar luogo all'usucapione
(1). Tuttavia fin da principio la legge decemvirale già comincia ad escludere
certe cose dall'usucapione, come le cose furtive, le res mancipii appartenenti
alla donna, quando siano state vendute e consegnate senza il consenso del
tutore (sine tutoris auctoritate) (2 ), mentre è solo più tardi, che la
giurisprudenza venne a richiedere la buona fede nell'acquirente. Per tal modo
un mezzo, che dapprima servi per mutare una posizione di fatto in una posizione
di diritto , fini col tempo per convertirsi eziandio in un rimedio contro il
difetto inerente al titolo di acquisto , proveniente o da irregolarità
dell'atto di trasferimento o da incapacità dell'ac quirente (3 ). L'usucapione
poi, per sua natura, può già applicarsi cosi alle res mancipii , che alle res
nec mancipii , ma non pud tuttavia applicarsi al suolo provinciale, come
quello, che non poteva essere oggetto di proprietà quiritaria (4 ). Tuttavia
anche qui co mincia a svolgersi una istituzione del diritto delle genti , che è
quella della prescrizione, la quale, salvo la durata maggiore, ha un carattere
analogo a quello della usucapio nel diritto civile : come lo dimostra il fatto
, che le due istituzioni finiscono col tempo per fondersi insieme, e dar cosi
origine alla praescriptio longi temporis giustinianea (5 ). ( 1) Questo
carattere dell'usucapio primitiva è già accennato dall'Esmein , op. cit., pag.
177, e può inferirsi dalla definizione di Ulpiano, Fragm ., XIX , 8 : «
Usucapio « est dominii adeptio per continuationem possessionis anni, vel
biennii » ; nella quale non occorre ancora quel carattere della iusta possessio
, che compare invece nelle altre definizioni, e fra le altre in quella di
Boezio riportata dal Bruns, Fontes, pag . 400. Quanto ai rapporti fra il
possesso, di cui qui si parla , che sarebbe il pos sesso ad usucapionem , ed il
possesso ad interdicta, che costituisce un istituto, avente un proprio scopo ,
e distinto da quello della proprietà, vedi ciò che si disse più sopra al n .
357, pag. 452, nota 1. A parer mio dovette forınarsi prima il concetto del pos
sesso ad usucapionem , e più tardi soltanto quello del possesso ad interdicta.
(2 ) Questa condizione speciale delle res mancipii, spettanti alle femmine ed
ai pupilli, la quale ha evidentemente lo scopo di impedire l'alienazione
delmancipium per conservarlo nella linea agnatizia , è attestata in modo
concorde da Gaio, Comm ., I, 47, 192 e II, 80, e da ULP., Fragm ., XI, 27 . (3)
È naturale infatti, che l'usucapione in una società , che si forma, sia un modo
di acquisto , e che in una società invece, che si è formatn , si converta in un
mezzo di difesa ; e richieda così un tempo maggiore per servire quale mezzo di
acquisto. Le società giovani pensano sopratutto all'acquisto ; mentre le
società adulte e già for mate pensano sopratutto a conservare l'acquistato. (4
) GAIO, Comm ., II, 46 : « item provincialia praedia usucapionem non recipiunt
» . (5 ) Mainz, Cours de droit romain , I, SS 111 e 112 , pag. 745 e segg. 502
389. Intanto ,mentre accade questo svolgimento nei modi di trasfe rimento della
proprietà ex iure quiritium , accanto alla medesima viene lentamente
consolidandosi un'altra forma di proprietà , che prende il nome di proprietà in
bonis . Questa dapprima non è che una proprietà di fatto , ma col tempo ottiene
anch'essa in via indi retta e per opera del pretore una protezione di diritto,
e viene così a costituire un vero dualismo nel concetto di proprietà , il che
ebbe ad esprimere Gaio con dire: « postea divisionem accepit dominium , ut
alius possit esse ex iure quiritium dominus, alius in bonis habere (1) » . Il
primo nucleo di questa nuova forma di proprietà ebbe ad essere costituito dalle
res mancipii, allorchè le medesime erano trasmesse colla semplice traditio ; ma
poscia essa fini per comprendere tutte le altre cose, che per qualsiasi causa
non fossero oggetto della proprietà ex iure quiritium . Che anzi il dualismo
andò fino a tale per l'esistenza contemporanea del ius civile e del ius
honorarium , che di una stessa cosa potè accadere, che altri fosse il
proprietario ex iure quiritium , mentre un altro la teneva in bonis; il che
voleva dire in sostanza, che l'uno ne aveva la pro prietà ufficiale, mentre
l'altro ne aveva l'effettivo godimento . È tut tavia notabile , che prima della
fusione delle due proprietà , quella in bonis già cominciava in certe cose ad
avere la prevalenza ; come lo dimostra il fatto , che se un servo appartenesse ad
una persona ex iure quiritium , e fosse stato in bonis di un altro, gli
acquisti, che egli faceva, andavano a profitto di colui, del quale era in bonis
(2 ). Diqui una lotta fra le due forme di proprietà , che diede occasione allo
svolgersi dei modi naturali di acquisto , accanto a quelli ricono sciuti dal
diritto civile ; lotta , che Gaio ebbe a riassumere scrivendo : « Ergo ex his,
quae dicimus, apparet, quaedam naturali iure alie nari, qualia sunt ea , quae
traditione alienantur ; quaedam civili, nam mancipationis et in iure cessionis
et usucapionis ius pro prium est civium romanorum » ( 3). Così è pure questa
lotta, che porge occasione allo svolgersi della publiciana in rem actio (4 ),
ac canto alla rei vindicatio, della prescrizione accanto all'usucapione, ( 1)
Gaio , Comm ., II, 40. ( 2) Gaio, II, 88 e UlP., Fragm ., XIX , 20. (3) Id.,
II, 65. Di qui infatti Gaio prende occasione di discorrere deimodi natu rali di
acquisto . (4) Quanto all'actio in rem pubbliciana è da vedersi APPLETON, De
l'action pub blicienne nella « Nouvelle Revuehistorique » , 1885, pag. 481-526
, e 1886, pag. 276-342. - - 503 fino a che le due proprietà finiscono per
essere pareggiate fra di loro , ed allora si consegue l'effetto, che quelle
caratteristiche della pro prietà quiritaria , che si erano prima applicate a
quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese nel mancipium , poi si erano
estese a tutte le cose, che erano oggetto delle proprietà ex iure quiritium ,
finiscono per essere estese a tutte le cose, che, per essere in com mercio,
possono essere oggetto di proprietà privata . È solo allora che Giustiniano,
forse non troppo consapevole dell'ufficio , che un tempo avevano compiuto le
distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la proprietà ex iure
quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab irato queste
distinzioni, le quali a suo giu dizio « nihil ab eniymate discrepant» e dànno
solo più origine ad inutili ambiguità ed incertezze (1) . 390. Infine anche qui
deve essere notato , che tutta questa teoria del trasferimento della proprietà
non potè mai trovare applicazione in tema di obbligazioni. Almodo stesso , che
più tardi la giurisprudenza romana continua ad affermare che « traditionibus et
usucapionibus dominia rerum , non nudis pactis, transferuntur » (2); così essa
pur continua a professare, che i modi, i quali servono a trasferire la pro
prietà, non possono invece servire per trasferire un'obbligazione da una
persona ad un'altra . Scrive infatti Gaio, dopo aver discorso della mancipatio
e della in iure cessio, quali modi di trasferimento della proprietà: «
obligationes, quoquo modo contractae, nihil eorum recipiunt; nam quod mihi ab
aliquo debetur, id si velim tibi de beri, nullo eorum modo, quibus res
corporales ad alium transfe runtur, id efficere possum ; sed opus est, ut,
iubente me, tu ab eo stipuleris » (3 ). Quindi le obbligazioni, che si
contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla
stipulatio, e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio, che
sono circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per tal
modo quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius
quiritium , fra il facere mancipium ed il facere nexum , si mantenne per tutto
lo svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra
prova della dialettica co (1) Giustin., Cod ., VII, 25 : de nudo iure quiritium
tollendo; e VII, 31, $ 4 : de usucapione transformanda et de sublata
differentia rerum mancipii et nec mancipii (2 ) L.20, Cod ., II , 3 (Dioclet.
et Maxim .). (3 ) Gaio , Comm ., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti
romani tengono dietro ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella
prima elaborazione del ius quiritium . Ciascun concetto di questo è come un
nucleo, che viene attraendo tutto ciò , che può esservi di affine, ma il
medesimo non si confonde mai coi concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud
at trarre materie, che siano partite da un concetto primordiale diverso . Chi
poi volesse trovare la ragione intima, per cui nel diritto civile romano il
semplice contratto può soltanto essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai
bastare da solo al trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente
ricercarla nel concetto in parte materiale, che il primitivo diritto erasi
formato prima del manci pium e poscia anche del dominium ex iure quiritium ;
avrebbe infatti ripugnato alla logica giuridica, che un dominio, il quale aveva
in se qualche cosa di corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato
da qualche fatto esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione
dell'acquirente . Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai
anche un atto di questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto
per aes et libram . $ 4 . La testamenti factio e la storia primitiva del
testamento quiritario . 391. Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium
, il testa mento è certamente quello , di cui ci pervennero in maggior quantità
i dati per ricostruirne la storia primitiva , e per seguire le trasfor mazioni,
che ebbe a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non
può dubitarsi anzitutto , che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca
anteriore alla fondazione della città , perchè noi sappiamo con certezza, che
esso fin dagli inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti,
che, al pari dell'adrogatio , della detestatio sacrorum e simili, dovevano
essere compiuti coll'inter vento dei pontefici, davanti al popolo delle curie ,
riunito nei comizii calati. Ciò dimostra, che esso già preesisteva presso le
genti patrizie, che concorsero alla fondazione delle città , le quali dovettero
ser virsene, comedi un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto . Si è
veduto infatti, che nella organizzazione delle genti italiche la famiglia ,
ancorchè entrasse a far parte di un organismo maggiore, cioè della gente e
della tribù, aveva però già una propria esistenza, 505 un proprio culto , e un
proprio patrimonio (heredium ). Era quindi naturale , che essa tendesse a
perpetuarsi, e che perciò il capo di famiglia riguardasse. come una grande
sventura la mancanza di un erede , che continuasse in certo modo la sua
personalità , e che adem piesse all'obligo del sacrifizio domestico . Fu quindi
per supplire alla mancanza di un erede naturale, che noi troviamo essere in uso
presso le genti italiche l'adrogatio ed il testamentum : due istitu zioni, le
quali , ancorchè in guisa diversa , mirano in sostanza al medesimo intento ,
cioè alla perpetuazione della famiglia e del suo culto . Intanto però , siccome
l'una e l'altra istituzione toccavano da vicino l'organizzazione gentilizia ,
cosi egli è certo , che nel periodo gentilizio l'adrogatio e il testamentum non
poterono compiersi dal capo di famiglia , di sua privata autorità , ma
dovettero invece essere compiuti colla approvazione degli altri capi di
famiglia , che appar tenevano alla medesima gente o tribù (1). 392. Allorchè
poi le due istituzioni vennero ad essere trapiantate nella città patrizia, esse
conservarono dapprima il medesimo carat tere, e perciò apparirono come due
negozi, i quali, avendo un carat tere pubblico, non potevano operarsi di
privata autorità, ma dovevano essere compiuti nei comizii calati delle curie,
convocati dai ponte fici. Che anzi, se abbiamo da argomentare dalla formola
dell'adro gatio, che ci fu conservata da Gellio , conviene inferirne , che
anche il testamento , in questo periodo, dovette assumnere il carattere di una
vera e propria legge (2 ). Intanto però egli è evidente, che questo testamento
nei comizii calati delle curie dovette essere esclusivamente proprio delle
genti patrizie , e che il medesimo non ebbe certamente lo scopo di porgere al
testatore un mezzo di disporre a capriccio delle proprie sostanze; ( 1) Ho già
toccato dell'attinenza strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il
testamentum nel periodo gentilizio al nº 63-65, pag. 77 e segg . Cfr. in
proposito il SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag . 184 e il CoQ, Recherches sur le
testament per aes et libram nella « Nouvelle Revue historique » , 1886 , pag.
536. Qui solo ag. giungerò, che questa attinenza appare anche meglio nel
diritto greco, e sopratutto nell'ateniese , nel quale il primitivo testamento
compare sotto la forma dell'adozione. Cfr. il Jannet, Les institutions sociales
a Sparta . Paris, 1880 , pag. 96 e segg . ; e il Cocotti, La famiglia nel
diritto attico . Torino, 1886, pag . 69. (2) Questo carattere pressochè
pubblico dell'adrogatio e del testamentum in Roma non è mai intieramente
scomparso, come lo prova il detto di PAPINIANO , L. 4 , Dig . (28-1) :
testamenti factio iuris publici est. Cfr . quanto ho scritto a n ° 221, pag.
268 e seg . 506 - ma lo scopo invece di perpetuare la famiglia ed il suo culto
, e di impedire la divisione immediata del patrimonio, come lo dimostra
l'antica espressione romana « ercto non cito » ; la quale ha tutti i caratteri
di una primitiva clausola testamentaria . Quanto alla plebe , non avendo essa
la organizzazione gentilizia , non poteva certamente possedere un simile testamento
; quindi è probabile, che il capo di famiglia plebeo , quando rimaneva senza
figliuolanza diretta , non avesse altro mezzo di disporre delle proprie cose ,
che quello di ri correre all'istituto della fiducia , affidando il suo
patrimonio ad un amico, che ne disponesse nel modo da lui indicato ; modo
questo di far testamento , che era una conseguenza naturale delle condizioni
economiche e giuridiche, in cui trovavasi la plebe, e che Gaio ci indicherebbe
come affatto primitivo, ed anteriore ancora a quella forma di testamento, che a
noi pervenne sotto la denominazione di testamento per aes et libram (1 ). Di
qui la conseguenza, che fin dagli esordii di Roma dovettero tro varsi di fronte
due forme di testamento ; un testamento cioè, di origine patrizia , fatto colla
formalità di una vera e propria legge, nei comizii calati delle curie ,
coll'intervento dei pontefici, diretto a perpetuare la famiglia ed il suo culto
e ad impedire la disper sione dei patrimonii; e l'altro , di origine plebea ,
che compievasi colle forme stesse di quel fedecommesso , che penetrò solo più
tardi nel diritto civile romano, il quale non era che una applicazione della
fiducia , e aveva l'unico scopo di porgere un mezzo al capo di famiglia per
disporre delle proprie cose per il tempo , in cui egli avrebbe cessato di
vivere. 393. Fu soltanto allorchè la plebe entro eziandio a far parte del
populus, che potè svolgersi una forma di testamento , comune ai due ordini, ed
è sopratutto a questo punto, che l'esposizione di Gaio ci può venire in
sussidio per ricostruire la storia primitiva del testa mento civile romano (2
). Gaio ci parla di due forme primitive di testamento , cioè: di un testamento
, che compievasi in calatis comitiis, i quali si sarebbero radunati due volte
all'anno per la confezione dei testamenti; e del (1) Gaio, Comm ., II, 107.
Vedi a proposito di questo primitivo testamento della plebe, che era una
applicazione della fiducia e corrispondeva in certo modo a quel fedecommesso,
che fu accolto più tardi nel diritto romano, cid che ho scritto a n ° 149, pag.
184 e seg . Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 45 e seg. e p . 166 . ( 2 )
GAIO , II, 101 a 108 . 507 testamento in procinctu , che facevasi invece
davanti all'esercito già preparato alla battaglia. Egli anzi sembra compiacersi
nel notare, che queste due forme di testamento corrispondevano a quel carat
tere civile e militare ad un tempo, che era proprio del popolo ro mano: «
alterum itaque in pace et in otio faciebant, alterum in praelium exituri » (
1); ma intanto non dice , se i comizii calati, a cui egli accenna, fossero i
comizii delle curie o quelli delle centurie . Sembra tuttavia ovvio l'osservare
, che Gaio qui discorre già delle due forme di testamento , comuni cosi al
patriziato che alla plebe, allorché i medesimi già erano entrati a far parte
dello stesso populus, e che perciò la sua distinzione non si deve riferire al
popolo primitivo delle curie , ma bensì al popolo plebeo-patrizio delle
centurie; del quale sopratutto si poteva dire a ragione, che mentre in pace co
stituiva i comizii, in guerra invece costituiva un esercito . Di qui la
conseguenza, che il testamento in calatis comitiis, di cui discorre Gaio , non
è più il testamento proprio delle genti patrizie , che fa cevasi nei comizii
calati delle curie, coll'intervento dei pontefici: ma bensi un testamento , già
comune al patriziato ed alla plebe, che fa cevasi in quei comizii calati, che
noi sappiamo da Aulo Gellio essere stati eziandio proprii delle centurie (2 ).
Furono probabilmente questi comizii calati delle centurie , che dovevano
radunarsi due volte l'anno per la confezione dei testamenti: mentre i comizii
calati delle curie potevano convocarsi dai pontefici, ogni qualvolta ne
occorresse il bi sogno. Siccome poi in questo tempo il quirite, come tale,
appare già prosciolto dai vincoli dell'organizzazione gentilizia, ed è già
libero dispositore delle proprie cose, anche per atto di morte , come ebbe a
dichiararlo espressamente la legge decemvirale ; così si può in durne, che il
popolo delle centurie, in questa fase del testamento quiritario , più non
intervenisse per approvare il medesimo con una legge, ma soltanto per prestare
la propria testimonianza , secondo la ( 1) GAIO , II, 101. (2 ) Gellio, XV, 27
, 1 e 2, parlando dei co:nitia calata , scrive : « eorum alia esse « curiata ,
alia centuriata. Curiata per lictorem curiatim calari, id est convocari ; «
centuriata per cornicinem ». Egli dice poi, che in questi comizii si facevano i
testa menti, il che fa supporre che si facessero tanto nei comizii calati
curiati, che nei centuriati. Lo stesso autore V , 19, 6 , parla un'altra '
volta dei comizii calati, a pro posito dell'adrogatio, ma qui sembra alludere
soltanto ai comizii calati curiati. Sembra infatti che l'adrogatio, a
differenza del testamento, abbia continuato sempre a farsi davanti alle curie ,
salvo che la medesima finì per compiersi davanti ai trenta littori, che la
rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12. Cfr . Cuq, art. cit., p . 539 . 508
formola , che poi ricompare più tardi nel testamento per aes et libram : « et
vos , quirites, testimonium mihi perhibitote » . Cid è confermato eziandio
dalla considerazione, che questi comizii calati non si sarebbero radunati che
due volte l'anno per la confezione dei testamenti, il che avrebbe reso pressochè
impossibile , che ognuno dei testamenti presentati nei medesimi avesse potuto
essere approvato con tutte quelle formalità di una vera e propria legge , che
erano richieste nei comizii calati delle curie primitive . 394. Di qui deriva,
che se questo testamento nei comizii calati delle centurie imitava ancora nella
forma esteriore il testamento pa trizio, che facevasi nei comizii calati delle
curie , nella sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè nel medesimo
questo intervento di tutto il popolo convertivasi in una semplice formalità ,
in quanto che il popolo non era più chiamato ad approvare il testamento ,ma sol
tanto ad assistere al medesimo cometestimonio . Si comprende pertanto , che la
consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo più semplice di
fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio familiae cum fiducia
, che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci descrive essersi introdotta
posteriormente al testamento in calatis comitiis (1). Questo testamento non era
in sostanza, che il testamento primitivo di origine plebea , salvo che esso era
già sottoposto alla forma quiritaria dell'atto per aes et libram , e ac
compagnato dalla fiducia . Era quindi un testamento , che era facile a
celebrarsi, ma che , al pari della fiducia iure pignoris , aveva dapprima
l'inconveniente di rimettere ogni cosa alla buona fede del familiae emptor, il
quale poteva anche abusare della fiducia , che il testatore aveva in lui
riposta . Fu allora, che i veteres iuris conditores sentirono la necessità,
come dice Gaio , di ordinare altrimenti il testamento per aes et libram , e
modellarono così quella forma di testamento , che penetrd con questa
denominazione nel ius quiritium o meglio nel ius pro prium civium romanorum , e
che fu poi argomento di uno svolgi mento storico non interrotto fino a
Giustiniano. Questo testamento (1) Fra gli autori, che distinguono la primitiva
mancipatio familiae cum fiducia, che ha quasi del fedecommesso, dal posteriore
testamento per aes et libram , quale è descritto da Gaio , II, 102, è da
vedersi il MuIRHEAD, op . cit., pag. 66 e 167, e sopratutto il Cuq, Op. e loc.
cit., pag. 534 e segg., il quale, dopo aver discorso prima della familiae
mancipatio, passa a trattare separatamente del testamento per aes et libram .
509 pertanto compare nel ius quiritium molto più tardi, che non il nerum ed il
mancipium , e viene ad essere una artificiosa applica zione dell'atto per aes
et libram , nell'intento di porgere al quirite un mezzo per disporre del suo
patrimonio per il tempo , in cui avrà cessato di vivere. 395. Questo testamento
, secondo la definizione di Gaio e di Ul. piano, componevasi di due parti, cioè
della mancipatio familiae e della nuncupatio. La prima consiste in un atto per
aes et libram , compiuto, come al solito, davanti a non meno di cinque
testimoni, cittadini romani, ed al libripens, in cui si addiviene ad una « ima.
ginaria venditio » delle sostanze del testatore ( familiae). È però a notarsi,
che,mentre nella primitiva mancipatio familiae il negozio seguiva
effettivamente fra il testatore e l'erede, di cui quello era il familiae
venditor e questo il familiae emptor ; nel testamento invece per aes et libram
, quale appare modellato in questo secondo stadio , il familiae emptor non è
più il vero erede, ma è piuttosto un depositario e custode del patrimonio,
accid il testatore possa disporne « secundum legem publicam » (1 ). Cið appare
dalla circostanza , che il familiae emptor, dopo aver finto di comprare il
patrimonio e di pagarne il prezzo, se ne dichiara perd semplice depositario ,
ricorrendo alla formola seguente : « familia pecuniaque tua endo mandatelam ,
custodelamque meam , quo tu iure testamentum facere possis secundum legem
publicam , hoc aere esto mihi empta » (2). ( 1) Trovo alquanto singolare la
interpretazione che il Cuq, art. cit., pag . 565, verrebbe a dare a queste
parole: « secundum legem publicam ». Egli ritiene, che tutte le parole del
testamento dovessero aversi come confermate da quella lex publica , che era
andata in disuso ; mentre invece è evidente, che le parole della formola : «
quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam » , mirano
evidentemente a porre il familiae venditor in condizione di poter fare il
testamento approvato e riconosciuto dalla legge pubblica . Una prova di cið
l'abbiamo nella circo stanza, che questa stessa espressione « secundum legem
publicam » , compare eziandio nella formola della nexi liberatio, in cui si
dice : « hanc tibi libram primam postre mamque tibi expendo secundum legem publicam
» (Gaio, III, 174 ), ove la medesima non può certo avere la significazione, che
vorrebbe attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea interpretazione sta in
ciò, che il Cuq considera il testamento per aes et libram , come una
modificazione di quello in calatis comitiis, mentre esso ha un'origine affatto
diversa, come ho cercato di dimostrare nel testo . (2) GAIO, Comm ., II, 104.
Ho ricavato questa formola dall'ultima edizione curata dal MOMMSEN,
sull'Apographum Studemundianum , novis curis auctum , Berolini, 1884; la quale
presenta qualche notevole differenza dalle anteriori edizioni fatte dal Dubois,
dall'HUSCHKE e dal MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che una
imaginaria venditio , della quale Gaio dice espressamente, che viene compiuta soltanto
« dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » . La sostanza invece di
questa forma di testamento consiste nella nuncupatio solenne, nella quale il
testatore , in presenza dei testimoni, istituisce il proprio erede, il quale
viene cosi già a distinguersi dal familiae emptor, ed indica eziandio i legati,
che saranno poi a carico dell'erede. Questa nuncupatio dapprima dovette essere
compiutamente orale ; ma poscia potè essere fatta in doppia guisa , in quanto
che il testa tore – o dichiarava espressamente la sua volontà davanti ai testi
moni, - o presentava invece ai medesimi le sue tavole testamen tarie ,
dichiarando solennemente , che queste contenevano la sua ultima volontà : «
haec ita , ut in his tabulis cerisve scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor
: itaque, vos, quirites, testimo nium mihiperhibitote » (1). Di qui prorenne,
che già collo stesso testamento per aes et libram comincid a delinearsi la
distinzione, che acquistò più tardi grandissima importanza fra il testamento
nun cupativo e il testamento scritto . 396. Basta questa semplice descrizione
per dimostrare, che il testa mento per aes et libram è già informato ad un
concetto ben diverso da quello, a cui si ispirava il primitivo testamento delle
genti patrizie. Mentre infatti il testamento primitivo in calatis comitiis
mirava a perpetuare il culto domestico e ad impedire la dispersione dei patri
monii: quello invece per aes et libram tendeva senz'altro a sommi nistrare al
quirite un mezzo per disporre liberamente delle proprie cose. Ciò è dimostrato
dalla circostanza indicataci da Cicerone, che questo testamento deve
considerarsi come un'applicazione della di. sposizione delle XII Tavole : qui
nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto ; ed è pur
confermato dagli antichi giureconsulti, i quali parlano di questo testamento,
come di una va rietà ed applicazione del nexum , o meglio dell'atto per aes et
libram (2 ). Così pure, mentre nel testamento primitivo si richiedeva ( 1) Gaio
, loc. cit. e Ulp., Fragm ., XX, 2 a 10. Quest'ultimo sopratutto distingue
nettamente le due parti, di cui componesi il testamento per aes et libram ,
allorchè scrive al $ 9 : « In testamento, quod per aes et libram fit, duae res
aguntur, fa miliae mancipatio et nuncupatio testamenti » ; e dopo viene
senz'altro a parlare della nuncupatio, come di quella , che veramente importa .
(2 ) Cic., De Orat., I, 57, § 245. La stessa esposizione di Gaio, II, 102 e
103, dimostra, che il testamento per aes et libram ebbe origine diversa da
quello in - 511 . l'intervento dei pontefici, perchè in esso trattavasi di
provvedere al mantenimento del culto ; il testamento invece per aes et libram
viene ad essere considerato come una esplicazione del ius commercii, ossia
della facoltà del quirite di disporre liberamente delle proprie cose, e quindi
si attua mediante un atto di carattere esclusivamente mercantile , quale era
l'atto per aes et libram , lasciando poi al ius pontificium di provvedere,
quanto all'adempimento dei sacra (1). Mentre infine nel testamento primitivo la
volontà del testatore era sottoposta all'approvazione del popolo ; nel
testamento invece per aes et libram , la volontà del quirite appare
indipendente e sovrana, e non è soggetta a qualsiasi limitazione. Dopo ciò
credo di poter conchiudere con fondamento , che anche il testamento per aes et
libram , quale compare nel ius quiritium , deve già essere considerato come il
frutto di una vera e propria elaborazione giuridica, e comeuna conseguenza
logica di quel potere illimitato e senza confine, che appartiene al quirite di
disporre delle proprie cose, non solo per atto tra vivi , ma anche per causa di
morte . Non potrei quindi ammettere col Sumner Maine, che questa forma di
testamento importasse dapprima uno spoglio immediato ed irrevocabile del testatore
a favore del proprio erede : tanto più , che questa congettura è in diretta
opposizione con tutte le notizie, che a noi pervennero del testamento romano ,
il quale appare essere stato fin dapprincipio una attestazione solenne « de eo
quod quis post mortem tuam fieri vult » (2 ). calatis comitiis, poichè egli non
dice già , che il medesimo sia stato surrogato a quello in calatis comitiis, ma
dice invece : « accessit deinde tertium genus testamenti » . (1) Cic ., De
leg., II , 19 , 47. Cfr. in proposito il Cuq, art. cit., pag . 555 , il quale
pure osserva, che la mancipatio familiae, e quindi anche il testamento per aes
et libram più non aveva carattere religioso, pag. 553, nota 2 . (2) È noto come
il SUMNER Maine, Ancien droit, pag. 191, abbia coll'autorità del suo nome resa
accetta a molti l'opinione, che il testamento per aes et libram fosse di
origine plebea , e che esso importasse negli inizii una spogliazione immediata
ed irre vocabile del testatore a favore dei proprii eredi. Tale opinione non può
essere ac colta ; poichè il testamento per aes et libram , anzichè essere
proprio della plebe, fu invece una creazione del ius quiritium , e quindi, al
pari di ogni altro negozio qui ritario, rivestà la forma dell'atto per aes et
libram . Il motivo poi, per cui esso ri vestì la forma di una mancipatio non
sta in ciò, che esso siasi veramente riguar dato come una vendita immediata, ma
bensì nella circostanza, che esso imponeva all'erede una quantità di
obbligazioni, e fra le altre anche quella di provvedere alla continuazione dei
sacra e al pagamento dei legati. A questo motivo si aggiunge una causa storica
, ed è che il testamento per aes et libram era un rimaneggia mento della
primitiva mancipatio familiae cum fiducia, la quale, essendo un atto di carattere
puramente fiduciario , figurava come un vero atto fra vivi. 512 397. Una volta
poi che questo testamento entrò a far parte del diritto quiritario , esso ebbe
a ricevere uno svolgimento storico e Ingico ad un tempo, non dissimile da
quello delle altre istituzioni quiritarie , senza che mai si perdessero i
caratteri essenziali, con cui era penetrato nel diritto civile di Roma. Così,
ad esempio , il testamento era stato accolto nel diritto quiri tario sotto
l'apparenza di un negozio, che seguiva fra il testatore, qual familiae
venditor, e l'erede, quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca di
Giustiniano esso conserva questo carattere, come lo provano l'unità di contesto
, che è richiesta nel testamento , e la disposizione per cui quelli, che
dipendono dall'erede, non possono servire di testimoni nel medesimo ( 1). Cosi
pure il testamento, nel suo concetto primitivo , aveva per iscopo di perpetuare
nell'erede la personalità del testatore, donde la conseguenza, che
l'istituzione dell'erede venne ad essere considerata quale « caput et fundamen
tum testamenti» ; il qual concetto continua pure a mantenersi fino alla più
tarda giurisprudenza . Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era
stato un negozio di carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la
parola del testatore costituiva legge , e noi troviamo, che in tutto il suo
svolgimento posteriore esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui
giunge fino agli ultimi confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso
; come lo provano le espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi
l'istituzione di erede, la diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione,
e simili. Sopratutto poi questo carattere nuncupativo del testamento si fece
palese nel tema dei legati, in quanto che nel diritto civile di Roma le varie
specie di legato vennero ad essere determinate dalle diverse espressioni,
adoperate dal testatore (2 ). Infine anche quel principio , secondo cui la
volontà del testatore costituiva legge, continud a mantenersi anche più tardi;
dapprima infatti si cercò con mezzi in diretti, quali sarebbero l'obbligo della
diseredazione e la querela di (1) Questo carattere del primitivo testamento per
aes et libram , per cui esso si presenta come un negozio fra il familiae emptor
ed il familiae venditor, è chiara . mente attestato da Gaio , Comm ., II, 105 a
107 e da Ulp., Fragm ., XX, 3 a 6 . Questo carattere poi non si perdette mai
completamente, ed è ancora ricordato da GIUSTINIANO , Instit., II, 10, $ 10.
(2) È nota la distinzione fra i legati per vindicationem , per damnationem ,
sinendi modo, e per praeceptionem : in essi la volontà del testatore appare
come una vera legge, e viene ad essere analizzata e studiata come la parola
stessa del legislatore. V. Gaio, II, 192 e 222; Ulp., Fragm ., XXIV. 513
inofficioso testamento, di impedire che il testatore potesse abusare della
libertà , a lui consentita dal primitivo diritto , e fu solo con Giustiniano
che si introdusse una limitazione diretta all'arbitrio del testatore, attribuendo
a certe persone il diritto ad una porzione legittima (1). 398. Intanto, anche
nella materia testamentaria , è facile scorgere come accanto al diritto già
formato siavi sempre una parte , che continua ad essere in via di formazione.
Quindi anche qui, accanto al testamento civile, si esplica un te stamento
pretorio ; ma anche questo appare modellato a somiglianza del primo. Per verità
nel testamento pretorio più non comparisce l'atto per aes et libram , ma
debbono però intervenire due nuovi testimoni, i quali si ritengono
corrispondere al libripens ed al fa miliae emptor: donde la necessità di sette
testimoni, che dånno au tenticità al testamento, apponendovi col testatore il
proprio sigillo . Allorchè poi il testamento pretorio è riuscito anch'esso ad
avere una efficacia giuridica, sopravvengono anche in questa parte le co
stituzioni imperiali, le quali tendono a fondere insieme le due forme di
testamento, finchè si giunge al testamento giustinianeo, il quale è ancor esso
un coordinamento delle forme anteriori. Esso infatti , secondo l'attestazione
di Giustiniano, viene ad essere costituito da un triplice elemento, cioè:
dall'unità di contesto e dalla presenza dei testimoni, che proviene dal diritto
civile : dal numero di sette testimoni e dall'apposizione del loro sigillo ,
che è di origine pre toria : e infine dalla sottoscrizione del testatore e dei
testimonii, che deriva dalle costituzioni imperiali. Ciò però non toglie , che
anche Giustiniano , per imitazione dell'antico , continui a ritenere il testa
mento come un negozio che interviene fra il testatore e l'erede, nel che
abbiamo una prova della logica tenace, che è propria della giu risprudenza
romana, e del metodo da essa costantemente seguito di venire coordinando nel
medesimo istituto gli elementi, che si ven nero successivamente formando (2 ).
(1) L'istituzione della legittima ebbe presso i Romani una lunga preparazione
prima nello stesso diritto civile , poi nel diritto onorario, la quale non
terminò che collo stesso Giustiniano. A mio avviso, il motivo degli espedienti,
a cui si appiglid il diritto , prima di venire alla fissazione di una
legittima, deve appunto essere riposto in cid, che non volevasi porre una
limitazione diretta alla volontà del testatore. Quanto alla storia della
legittima, è a consultarsi il Boissonade, De la réserve héréditaire. Chap. IV,
Paris , 1888, pag. 61–160. (2 ) Justin ., Instit., II, 10, $ S 3 e 10 . G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma . 33 - 514 399. A compimento di questa
materia non saranno inopportune le seguenti osservazioni intorno allo
svolgimento storico del testamento : 1 ° Il testamento in Roma è un atto , in
cui il quirite si presenta col suo doppio carattere di uomo di pace e di guerra
ad un tempo, come lo dimostra il dualismo fra il testamento civile ed il
testamento militare, il quale, dopo essere cominciato colla distinzione fra il
te stamento in calatis comitiis ed in procinctu , non solo si mantiene, ma si
viene accentuando sempre più fino all'epoca diGiustiniano ; 2 ° Nella storia
del testamento romano si presenta questo fatto singolare, che si vede
ricomparire più tardi sotto nome di fidecom messo, una forma di testamento
analoga a quel testamento fiduciario , che era stato il testamento primitivo in
uso presso la plebe. Cid significa, che, accanto al testamento quiritario ,
dovette mantenersi nelle consuetudini la primitiva forma di testamento , la
quale non riesci ad ottenere il proprio riconoscimento , che all'epoca di Au
gusto. Questi poi, accordando efficacia al fidecommesso, fini per ce dere alla
forza della pubblica opinione , e alla nécessità di ovviare agli abusi, a cui
dava luogo l'inefficacia giuridica di un testamento , in cui tutto dipendeva
dalla buona fede di colui, a cui erasi affi dato il testatore (1). Noi abbiamo
così una prova, che alcune delle istituzioni, che penetrarono più tardi nel
diritto quiritario, come proprie del diritto delle genti, già preesistevano
nella comunanza plebea, salvo che non erano riuscite a penetrare in quella
rigida selezione, mediante cui erasi formato il primitivo ius quiritium . Un
altro carattere di questo svolgimento storico consisterebbe in cid , che nel
diritto civile romano non riescirono mai a mescolarsi insieme la successione
testamentaria e la successione legittima ; ma questa singolarità potrà essere
più facilmente spiegata nel capitolo seguente, dopo aver discorso di quel ius
connubii, di cui era una conseguenza la successione legittima, stata accolta
dal diritto civile romano (2 ). (1) Che il fedecommesso sia sempre vissuto, se
non nel diritto, almeno nelle con suetudini del popolo romano, lo dimostra il
fatto, che Augusto si indusse a dargli efficacia giuridica per l'abuso , che
taluni avevano fatto della fiducia in essi riposta . Appena accolto poi il
fedecommesso apparve così popolare e trovò così favorevole ac coglienza, che si
dovette ben presto istituire un pretore apposito ( praetor fideicom missarius).
V. Justin ., Instit., II, 23 , ss 1 e 2. (2 ) Rimando l'indagine intorno alle
cagioni storiche della massima « nemo pro parte testatus pro parte intestatus
decedere potest , al seguente capitolo V , $ 5 ; perchè la questione non
potrebbe essere risolta senza aver prima cercato i rapporti, in cui stavano
presso i romani la successione testamentaria e la legittima. 515 CAPITOLO V. Il
ius connubii nel primitivo ius quiritium e l'ordinamento giuridico della
famiglia romana . $ 1. - Sguardo generale all'argomento . 400. Più volte fu
osservato dagli autori, che la famiglia romana nella realtà dei fatti si
presenta con caratteri molto diversi da quelli, che si potrebbero argomentare
dall'ordinamento giuridico di essa . Mentre, sotto il punto di vista giuridico,
la famiglia costituisce come un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio
capo, nel quale si vengono ad unificare le persone e le cose, che entrano a
costituirla ; nella realtà invece essa då origine ad una comunione di tutte le
utilità domestiche, in cui trovano campo a svolgersi la pietà , l'os sequio e
la reciproca confidenza. Mentre, giuridicamente parlando, havvi un unico
padrone nella casa : « pater familias in domu do minium habet » ; nella realtà
invece anche la moglie e i figli ap pariscono comproprietarii del patrimonio
paterno : « vivo quoque parente , quodammodo condomini existimantur » . Mentre
infine, in base al diritto, il padre ha perfino il ius vitae ac necis sulle
persone tutte, che da lui dipendono, nel costume invece la famiglia è
sopratutto governata dal sentimento profondo dei doveri famigliari, dalla
religione, dalla morale e dal civile costume (1 ). Di fronte ad una opposizione
di questa natura fra la famiglia quale appare nel diritto , e quale si presenta
nel fatto, non è certo (1) Ho già accennato a questo contrasto , fra la
configurazione giuridica della fa miglia e la realtà dei fatti, al nº 94, pag.
119. Del resto gli autori sembrano essere concordi in rilevare questa speciale
caratteristica della famiglia romana. Basterà citare fra gli altri il Savigny,
Sistema del diritto romano attuale, I, &$ 54 e 55 ; il JHERING , L'esprit
du droit romain , trad . Meulenaere, tomo II, SS 36 e 37 , e specialmente da
pag. 190 a 214 ; il Gide , Étude sur la condition privée de la femme, 2a ed.,
par Esmein, Paris 1885 , cap . IV e V ; il Voigt, XII Tafeln , II, $ 92, pag.
241 a 256 ; il MUIRHEAD, Histor, introd ., pag. 24 a 34 ; il Brixi, Matrimonio
e di vorzio , Bologna, 1886 , parte 1“, passim , e specialmente ai SS 21 e 22 ,
pag . 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano della famiglia romana in
genere, ricorderò lo SCHUPPER , La famiglia secondo il diritto romano , vol.
1°, Padova 1876 ; e il CE NERI, Lezioni su temi del ius familiae, Bologna,
1881. ; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano trasmesso nel proprio
diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti ; ma piut tosto deve
credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di ritto, abbiano cercato
di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini, con cui trovavasi
intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione giuridica , che fini per
attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben maggiore di quella , che
esisteva real mente nel costume. Quindi il vero problema, che presentasi al ri
guardo, sta nel ricostruire il processo storico e logico ad un tempo, che può
aver condotto i romani ad accogliere un ordinamento giu ridico della famiglia,
il quale, a giudizio degli stessi giureconsulti, si differenziava grandemente
da quello di tutti gli altri popoli. 401. A questo proposito vuolsi anzitutto
premettere, che l'ordi namento famigliare dovette certamente essere la parte
del diritto primitivo , in cui trovavansi a maggior distanza le istituzioni già
elaborate , proprie delle genti patrizie , e le istituzioni appena ab bozzate ,
proprie della plebe. Ciò è provato da quel divieto dei connubii fra il
patriziato e la plebe, che si protrasse fin dopo la legislazione decemvirale ;
dalle lotte accanite, a cui diede origine l'abolizione di questo divieto per
opera della legge Canuleia ; ed anche dal disprezzo ostentato dai patrizii per
le unioni della plebe, come pure dal culto di una pudicizia propria delle
matrone patrizie, a cui si contrappose più tardi una pudicizia plebea. Così
stando le cose , era anche naturale, che in questa parte le istituzioni dei due
ordini dovessero riuscire più difficilmente a fondersi e a mescolarsi fra di
loro. Da una parte eravi la famiglia patriarcale delle genti patrizie, la quale
, unificata sotto la patria potestà del padre, e stretta insieme dal vincolo
dell'agnazione, era sopratutto intesa a perpetuare la stirpe ed il suo culto,
costituiva una vera corporazione religiosa , e conduceva alla comunione delle
cose divine ed umane ; mentre dall'altra eravi la famiglia della plebe, la
quale, costituita dall'unione consensuale di un uomo e di una donna , fatta
palese dalla loro coabitazione, unita dai vincoli della affinità e della
cognazione, aveva piuttosto per iscopo la procreazione della prole, e di soppor
tare insieme i pesi del matrimonio (1) . (1) Quanto all'organizzazione
domestica delle genti patrizie, vedi libro I, cap. 3', § 2º , pag. 28 a 34 ;
quanto a quella della plebe, lo stesso lib . I, cap . 9 , pagina 188 e segg. -
517 Dei due ordinamenti però, il più forte , il più elaborato , il più coerente
in tutte le sue parti , era certamente quello delle genti patrizie ; quindi non
è meraviglia, se essé in questa parte siansi ri fiutate a qualsiasi transazione
ed accordo, e siano così riuscite a dare un'assoluta prevalenza alle proprie
istituzioni domestiche. La plebe quindi, quanto all'ordinamento della famiglia,
dovette cercare in qualche modo di imitare l'organizzazione delle famiglie
patrizie; il che dovette riuscire più agevole, allorchè la plebe primitiva
venne ad essere accresciuta da un largo contingente di famiglie di origine
latina, la cui organizzazione doveva già essere analoga a quella propria delle
genti patrizie . 402. Ne consegui pertanto , che l'ordinamento domestico ,
adottato dalla comunanza quiritaria , fu quello della famiglia patriarcale
propria delle genti patrizie , e che anche in questa parte i veteres iuris
conditores seguirono quel medesimo processo, a cui si erano attenuti nelle
altre parti del diritto quiritario. Essi cioè trapianta rono nella città
quell'organizzazione domestica , che già preesisteva nel periodo gentilizio ;
la isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale , in cui erasi formata , il
quale serviva a temperarne la rigi dezza ; la riguardarono come organizzazione
tipica della famiglia quiritaria e presero a svolgerla logicamente in tutte le
sue parti. Siccome pertanto i concetti informatori della famiglia , nel periodo
gentilizio, si riducevano essenzialmente all'unificazione potente della
famiglia nella persona del proprio capo, ed alla tendenza della me desima a
perpetuarsi e a conservare il proprio patrimonio ; cosi questi concetti vennero
in certo modo a costituire il capo saldo, da cui prese le mosse l'elaborazione
del diritto quiritario, e spinti a tutte le conseguenze , di cui potevano
essere capaci, condussero logi camente a quell'ordinamento della famiglia , che
ci fu trasmesso dal diritto civile romano. Fu in questa guisa , che ogni
famiglia , nel diritto primitivo di Roma, fini per costituire un gruppo di
persone e di cose, ordinato sotto il potere del proprio capo , e disgiunto per
modo da ogni altro gruppo, che una persona, uscendo da una famiglia , per
entrare in un'altra , cessava di avere qualsiasi rapporto giuridico colla
prima. Così pure la forma tipica del matrimonio quiritario dovette essere
dapprima il solo matrimonio cum manu ; perchè solo la conventio in manu,
collocando la moglie in posizione di figlia , poteva con durre alla
unificazione della famiglia nella persona del proprio capo. 518 Accolta poi
questa unificazione giuridica della famiglia nella per sona del padre, ne
derivava eziandio che il vincolo , il quale univa imembri della famiglia , non
poteva più essere quello della cogna zione,ma doveva essere quello
dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel potere spettante al
capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della preponderanza
dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia . Se poi tutti i
membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico ,
appariscono unificati nel proprio capo , viene pure a conseguirne logicamente ,
che tutto quello , che essi facciano od acquistino, debba in diritto ritenersi
fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio, come, nel
diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il padre, ed i
servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece ammessa,
quando trattasi di persone , che appartengano ad un gruppo diverso . Così pure
sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della famiglia,
che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio , venga ad uscire da un
gruppo per entrare in un altro , sotto il punto di vista giuri dico , cessi di
esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia , in cui entra ,
quel posto , che le sarebbe spettato , quando fosse nata nel medesimo (1 ).
403. È poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica della famiglia
quiritaria , la cui elaborazione già erasi cominciata nella città
esclusivamente patrizia , ebbe occasione di svolgersi, anche più rigidamente ,
mediante l'istituzione del censo serviano. Con questo infatti la famiglia venne
ad essere staccata affatto da quel l'ambiente patriarcale, che in parte aveva
ancora potuto mantenersi nel periodo della città patrizia, in quanto che ogni
cittadino venne ad essere censito, come capo di famiglia, e dovette come tale
denun ziare le persone e le cose, che da lui dipendevano, e ne costituivano in
certo modo il mancipium . Fu quindi sopratutto sotto l'influenza del censo
serviano , che i diritti del padre sulla moglie, sui figli , sui servi vennero
in certo modo ad essere modellati sul concetto rozzo, ma preciso del mio e del
tuo, il quale aveva anche il vantaggio di essere, più di qualsiasi altro ,
suscettivo di una vera e propria ela (1) Il concetto di quest'unità potente
della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei primitivi romani. Si
può averne una prova nei passi di antichi autori, citati dal Voigt, Op. cit.,
II, $ 72, pag. 6 e segg ., a proposito della domus fami liaque, considerata
come un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. -- -- 519 berazione
giuridica. L'epoca serviana pertanto dovette essere il mo mento storico , in
cui la famiglia quiritaria cominciò ad essere mo dellata esclusivamente sul
concetto di proprietà , cosicchè le forme dei negozii, proprie del commercium ,
poterono essere applicate eziandio per acquistare i diritti derivanti dal
connubium . Per tal modo la logica del diritto quiritario potè essere applicata
in tutto il suo rigore anche all'ordinamento giuridico della famiglia , e venne
così ad uscirne quella struttura giuridica della medesima, in cui tutto sembra
ridursi ad una questione di mio e di tuo (1 ). Quando poi si promulgò la
legislazione decemvirale, questa con tinud l'opera già iniziata di estendere
anche alla plebe l'ordina mento giuridico della famiglia patriarcale . Essa
infatti riconobbe la coabitazione, non interrotta per un anno, come un mezzo,
che poteva servire alla plebe per attribuire alle proprie unioni il carattere
qui ritario, e rese comune eziandio alla plebe quel sistema di succes sione
legittima, che era proprio dell'organizzazione gentilizia. Infine allorchè la
legge Canuleia tolse il divieto del connubio fra i due or dini, tutto
l'ordinamento giuridico della famiglia patriarcale venne ad essere accolto nel
ius proprium civium romanorum , salve al cune poche modificazioni, che erano imposte
dalle condizioni, in cui si trovavano le infime classi della plebe (2). Fu da
questo momento, che la famiglia quiritaria venne a costi tuire una costruzione
giuridica , organica e coerente in tutte le sue parti, i cui caratteri non
potrebbero essere compresi, quando si di menticasse , che la medesima è un
rudere dell'organizzazione genti lizia, trapiantato nella città , e svolto
logicamente in tutte le con seguenze, di cui poteva essere capace. È certo che
un processo di questa natura doveva finire per at tribuire alla famiglia
quiritaria un carattere rigido e pressochè inumano, perchè escludeva
dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di sentimento e di affetto ; ma
il medesimo ebbe anche il (1) Come il censo serviano abbia contribuito ad isolare
la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a far considerare ciascuna famiglia ,
come un gruppo separato e distinto da tutte le altre , fu dimostrato nel libro
III , cap. 3 °, e in questo stesso libro, cap. 1 ° e 2°, § 1º. (2) Così, ad
esempio, la legge decemvirale, pur cercando di estendere anche alla plebe il
matrimonio cum manu , fu tuttavia nella necessità di aprire l'adito fin
d'allora al matrimonio sine manu , accordando alla donna di sottrarsi al
vincolo della manus, mediante l'usurpatio trinoctii, ossia l'interruzione della
coabitazione per tre notti di seguito . 520 vantaggio di isolare ciò , che
havvi di giuridico nella famiglia , da ogni elemento estraneo , e di sottoporre
così all'elaborazione giari dica una istituzione, in cui le considerazioni religiose
e morali avrebbero ad ogni istante impedito l'applicazionedella logica propria
del diritto (iuris ratio ). Si aggiunga, che questa apparenza , pressochè
inumana, non produsse in realtà alcun inconveniente , poichè essa punto non
impedi, che il costume temperasse il rigore della costru zione giuridica ; che
il iudicium de moribus, dalle XII Tavole affi dato al pretore, impedisse al
padre la dilapidazione del patrimonio famigliare ; che il censore, vindice
della morale, punisse in effetto il padre, che abusasse de' proprii poteri; e
che infine il diritto stesso intervenisse a moderare i poteri spettanti al capo
di famiglia, al lorchè, per il corrompersi dei costumi, cominciò a sentirsi il
pericolo, che egli potesse abusare dei medesimi. 404. Intanto una importante
conseguenza di questo svolgimento storico fu anche questa , che, siccome
nell'organizzazione gentilizia tutto l'ordinamento famigliare metteva capo al
concetto del con nubium , cosi anche tutto l'ordinamento giuridico della
famiglia qui ritaria sembra essere derivato da quest'unico concetto . Quel
connubium infatti , che nei rapporti fra le varie genti aveva significato
quella facoltà di imparentarsi , che di regola era circo scritta ai membri
delle genti, che appartenevano allo stesso nomen , trasportato nel diritto
quiritario , venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium , ossia
nel diritto di addivenire alle iustae nuptiae, riconosciute dai quiriti, e di
dare così origine ad una fa miglia , organizzata ex iure quiritium , con tutte
le conseguenze, che potevano derivarne (1). Quindi è, che anche la famiglia ex
iure (1) Io parlo ancora qui di una famiglia ex iure quiritium : ma, a scanso
di equi voci, devo far notare, che siccome l'organizzazione della famiglia
romana non venne ad essere comune ai due ordini del patriziato e della plebe,
che dopo la legislazione decemvirale e la legge Canaleia, così l'espressione,
solitamente adoperata da Gaio e da Ulpiano relativamente al ius familiae, non è
più quella di ius quiritium ,ma bensì quella di ius proprium civium romanorum ;
poichè in quell'epoca il concetto del quirite già si era allargato in quello
del civis romanus, e per conseguenza il ius quiritium si era in certo modo
travasato nel ius proprium civium romanorum . Di qui consegue che mentre, per
quello che si riferisce al ius commercü , i giurecon sulti parlano, ancora
sempre del ius quiritium (Gaio , II , 40), trattandosi invece della manus (Id
., I, 108 ) e della patria potestas (ID., I, 55 ), parlano invece di un ius
proprium civium romanorum . 521 – quiritium , al pari del dominium ex iure
quiritium , venne a costituire una famiglia privilegiata, che può giustamente
chiamarsi propria civium romanorum , in quanto essa ha certi caratteri, che la
contraddistinguono da ogni altra : quali sono la manus delmarito sulla moglie,
la patria potestas del padre sui figli, l'agnazione, che stringe i varii membri
di essa e che viene a costituire il fonda mento della tutela e della
successione legittima. Del resto il concetto , che tutti i diritti di famiglia
discendono in sostanza dal connubium , ha eziandio un fondamento nella realtà ;
perchè è col connubio che viene a costituirsi una nuova famiglia , la quale poi
si esplica nella figliuolanza : il qual concetto, trovasi mi rabilmente espresso
da Cicerone , allorchè scrive : « prima societas in coniugio, proxima in
liberis ; deinde una domus, communia omnia » (1). Diqui derivò la conseguenza ,
che la famiglia quiritaria, pur essendo il frutto di una lunga e lenta
elaborazione giuridica , fini in sostanza per modellarsi sulla realtà dei
fatti, e per cogliere, per cosi esprimerci , l'essenza giuridica di essi. Essa
quindi costi tuisce un tutto organico e coerente in tutte le sue parti, il cui
svol. gimento può appunto essere studiato, nei tre momenti essenziali, per cui
passa l'organismo famigliare, cioè : lº nella sua origine, ossia nella iustae
nuptiae e negli effetti giuridici che derivano da esse ; 2 ° nel suo
svolgimento , ossia nei rapporti fra il capo di fami glia e le persone che ne
dipendono ; 3º e da ultimo nel suo disciogliersi per la morte del proprio capo
, scioglimento che dà occasione alla successione ed alla tutela legittima,
fondate sul vincolo dell’agnazione. 405. Siccome poi in questa parte il diritto
delle genti patrizie riuscì a penetrare, pressochè intatto nel diritto civile
romano, e ad imporre a tutti i cittadini una organizzazione domestica , che era
propria soltanto di una minoranza , e che per giunta era una so pravvivenza di
un periodo anteriore di convivenza sociale ; cosi, in tema di diritto
famigliare, venne a farsi manifesto,meglio che altrove, il conflitto fra le
istituzioni, che riuscirono a penetrare nel diritto quiritario , e quelle
invece, che continuarono a vivere nel costume. Questo conflitto , che può
scorgersi in ogni parte del diritto fami gliare, è sopratutto evidente nella
lotta fra il matrimonio cum manu ( 1) Cic., De officiis, I, 17, 54. 522 e
quello sine manu ; in quella fra l'agnazione e la cognazione ; e in quella fra
la successione e tutela legittima e la successione e tutela testamentaria ; e
più tardi anche nella lotta fra l'hereditas e la bonorum possessio . Sono
queste lotte , che danno interesse allo svolgimento storico delle istituzioni
famigliari, spiegano le modifica zioni lente e graduate che si introdussero
nelle medesime, e dimo strano come anche in questa parte, alla parte del
diritto già formato e consolidato , se ne contrapponga costantemente un'altra ,
che tro vasi in via di formazione, e che tenta di temperare il rigore delle
primitive istituzioni quiritarie . § 2. – Le iustae nuptiae e la storia
primitiva del matrimonio quiritario. 406. Anche nella parte, che si riferisce
al matrimonio romano, gli ultimi studii conducono al risultato , che il
medesimo, al pari della proprietà e del negozio giuridico , dovette
incominciare da un concetto tipico , che è quello del matrimonio cum manu . Non
è già che in Roma primitiva non potessero esistere altre forme più umili di
matrimonio, sopratutto nelle costumanze della plebe; ma il ius quiritium non si
curò dapprima delle medesime, e non riconobbe gli effetti quiritarii, che al
matrimonio cum manu ( 1). Che anzi vi sono forti indizii per supporre, che
l'unica forma solenne, per contrarre il matrimonio quiritario , stata
riconosciuta finchè duro la città esclusivamente patrizia , fu quella
accompagnata dalla cerimonia re ligiosa della confarreatio , la quale importava
fra i coniugi la comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in parte (1)
Questa è la conseguenza , a cui giunse fra gli altri l'Esmein, nel suo scritto
: La manus, la paternité et le divorce dans l'ancien droit romain , nei «
Mélanges d'histoire du droit » , Paris 1886 , pag . 6. Una prova poi di
quest'antico diritto l'abbiamo in questo, che la moglie, in questo primo
periodo, chiamavasi materfami lias, e tale nell'antico diritto era soltanto la
moglie , quae in manu 'convenerat. Sono testuali in proposito le affermazioni
di CICERONE , Top . 3 , il quale scrive : « genus est enim wor ; eius duae
formae : una matrumfamilias, earum quae in manum convenerunt, altera earum ,
quae tantummodo uxores habentur » . La cosa poi è confermata da Gellio, XVIII,
6 , 9 , ove dice : « matremfamilias appellatam eam solam , quae in maritimanu
mancipioque erat » , e da Nonio MARCELLO nel passo riportato dal BRUNS, Fontes
, pag. 390. Sopratutto è degno di nota , che l'espres sione di materfamilias è
pur quella adoperata nella formola dell'adrogatio, conser vataci dallo stesso
Gellio , V , 19, 9. Cfr. in proposito KARLOWA, Formen den rö mischen Ehe und
manus, pag . 71, e il Brini, Op. cit., pag . 37. 523 comprovato dalla
circostanza , che le leggi regie, ogniqualvolta ac cennano al matrimonio , si
riferiscono in modo espresso al matri monio per confarreationem . Così, per
esempio , Dionisio attribuisce a Romolo di aver richiamato alla pudicizia le
donne romane, rico noscendo questa sola forma di matrimonio , e parla anche di
una legge attribuita a Numa, con cui sarebbesi stabilito , che il figlio, il
quale fosse addivenuto alle nozze confarreate col consenso del ge nitore, non
potesse più essere venduto dal medesimo ( 1). Tutto ciò significa, che le genti
patrizie , fondatrici della città , presero senz'altro le mosse da una forma di
matrimonio, che pree • sisteva nel periodo gentilizio , e che il loro matrimonio
continud nella città a celebrarsi con una certa solennità religiosa e
patriarcale ; come lo dimostrano l'intervento del pontefice e del flamine di
Giove, la cerimonia simbolica per cui i coniugi gustano insieme il pane di
farro , ed anche la presenza dei dieci testimonii, in cui si vollero ravvisare
i rappresentanti delle curie , in cui dividevasi la tribù, a cui appartenevano
gli sposi. Non pud poi esservi dubbio intorno al l'altissimo concetto, che
queste genti patrizie avevano del matrimonio, il quale, oltre all'essere
strettamente monogamo, importava l'unione perpetua de' coniugi, e la comunione
fra essi delle cose divine ed umane (divini et humani iuris comunicatio). Che
anzi, a questo proposito , sembra pure essere probabile , che questa forma
primitiva di matrimonio non potesse dapprima dar luogo al divortium , ma
soltanto al repudium , il quale doveva essere accompagnato dalla cerimonia
religiosa della diffarreatio, e poteva solo aver luogo nei casi, che erano
determinati dal costume e dalla legge (2). Cosi pure è a questo primitivo
concetto del matrimonio presso le genti pa trizie, che deve rannodarsi quel
disprezzo per la donna che passi a seconde nozze, di cui trovansi ancora le
traccie nel diritto poste riore di Roma (3 ). Ad ogni modo egli è certo, che
questa forma di matrimonio , in (1) Dion ., II, 25 e 27. V. sopra lib. II, nº
268 , pag . 329 e seg . ( 2) Cid sarebbe attestato da PLUTARCO, nella Vita di
Romolo, 22, in un passo, che è riportato dal Bruns, Fontes, pag. 6. Una prova
poi, che il matrimonio per confar reationem doveva durare tutta la vita, si
rinvien lle attestazioni di Gellio , X , 15 , 23, e di Festo , vº Flammeo,
dalle quali risulta , che alla moglie del flamine di Giove, le cui nuptiae
farreatae erano un ricordo del matrimonio primitivo, non era consentito il
divorzio . Cfr. Esmein , Op. cit., pag. 17. (3) È a consultarsi in proposito il
dotto lavoro del DELVECCHIO, Le seconde noeze del coniuge superstite , Firenze
1885 , pag. 12 a 15 . 524 cui apparisce quel carattere eminentemente religioso
, che è proprio delle genti patrizie, non poteva appartenere alla plebe. Per
questa il matrimonio dovette avere più un'esistenza di fatto, che una con.
sacrazione di diritto , e consistere in una unione fondata sul reci proco
consenso , fatta manifesta mediante la coabitazione dei coniugi, piuttosto che
con cerimonie di carattere giuridico e religioso ad un tempo . 407. Era
frammezzo a queste due istituzioni, di carattere compiu tamente diverso , di
cui una era forse importata dall'antico Oriente , mentre l'altra si ispirava
alle tendenze spontanee dell'umana natura , che dovette formarsi un diritto
comune alle due classi. Questo fu il problema, che dovette risolvere la
legislazione decemvirale , e la cui difficoltà era tanto più grande, in quanto
è probabile, che le classi più infime della plebe stentassero a comprendere un
matri monio , come quello cum manu, che costituiva la moglie in condi zione di
figlia del proprio marito. Questo potere del marito, il quale , corretto dal
patriarcale costume, conduceva all'unificazione della fa miglia patrizia,
poteva invece cambiarsi in un dispotismo pericoloso , allorchè fosse esteso a
classi sociali, che non vi fossero preparate da una lunga educazione civile . È
questa speciale condizione di cose, che spiega i singolari tem peramenti, che a
questo proposito furono adottati dalla legislazione decemvirale. In questa
infatti i decemviri, mentre da una parte si studiano di fornire alla plebe un
facile mezzo per addivenire allo acquisto della manus, e di dar cosi carattere
giuridico al proprio matrimonio , collo stabilire che basti perciò la
coabitazione di un anno (usus), dall'altra si trovano nella necessità di aprire
l'adito ad un matrimonio sine manu , accordando alla donna il mezzo di
sottrarsi alla manus, coll'interrompere la coabitazione per tre notti di
seguito (trinoctium ) (1). 408. Colla legislazione decemvirale non sembra
essersi andato più oltre nella elaborazione di un diritto comune ai due ordini;
poiché (1) In base all'attestazione di Gaio, I, 111, l'usus, qual mezzo di
acquisto della manus, non fu che un'applicazione della teoria dell'usucapione:
la donna poi , che avesse voluto sottrarvisi , doveva ogni anno interrompere la
coabitazione per tre notti di seguito. Questa parte della legge sarebbe dal
Voigt, XII Tafeln , I, pag. 708, assegnata al n° 1', tav. IV , e ricostrutta
nei seguenti termini: « si qua nollet in manu mariti convenire , quotannis
trinoctio usum interficito » . - 525 sussisteva ancora il divieto dei connubii
fra il patriziato e la plebe . Quando invece il divieto fu tolto dalla legge
Canuleia , si dovette sentire la necessità di introdurre un modo essenzialmente
quiritario per l'acquisto della manus, che poteva essere comune al patriziato
ed alla plebe. Fu allora, che si ebbe ricorso a quell'atto per aes et libram ,
che era la forma solenne propria del negozio quiritario , e si diede cosi
origine alla coemptio , quale modo di acquistare la manus (1). Non potrei
quindi ammettere l'opinione, che considera la coemptio, come la forma essenzialmente
plebea del matrimonio cum manu , e neppur quella , che ravvisa nella medesima
una compra della moglie per parte del marito . La coemptio in Roma non fu che
un'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza , che era l'atto per aes et
libram , e venne cosi ad essere un espediente giuridico per esprimere
l'acquisto di quel potere del marito sulla moglie, che nel ius quiritium era
indicato col vocabolo generico di manus (2 ). ( 1) La questione della
precedenza dei varii modi riconosciuti dal diritto romano per l'acquisto della
manus fu assai discussa in questi ultimi tempi. Secondo il Mac LENNAN,
Primitive marriage, 2me édit., 1876, pag. 71,avrebbe preceduto l'usus, poscia
sarebbesi introdotta la coemptio, e da ultimo sarebbe venuta la confarreatio .
Anche secondo il BERNHÖFT , Staat und Recht der römischen Konigszeit , 1882,
pag. 187, l'usus sarebbe più antico della coemptio : mentre invece
quest'ultima, secondo il Karlowa , Formen der römischen Ehe und manus, pag. 59,
avrebbe avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la questione conviene bene
intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di contrarre il matrimonio presso
le primitive genti italiche, e in allora non ripugna, che anche presso le
medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia comprata ; o si vuol invece
determinare l'ordine, in cui queste varie forme penetrarono nel diritto romano,
e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del primitivo diritto romano
possano ancora richiamare uno stato ante riore di cose, si può però affermare
con certezza, che le varie forme di matrimonio, adottate dal diritto romano,
sono già il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica. Quanto
all'ordine cronologico , con cui queste varie forme furono accolte, esso non
potè essere che il seguente , cioè dapprima fa accolta nel ius proprium civium
romanorum la confarreatio dei patres o patricii ; poscia fu riconosciuto l'usus
di un anno per dar carattere giuridico alle unioni della plebe ; da ultimo,
quando si comunicarono i connubii, comparve anche la coemptio, la quale fu
comune ai due ordini, e come tale finì per avere la prevalenza su tutti gli
altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN , Op. cit ., pag. 8 e 9 . (2)
Non posso quindi accogliere l'opinione sostenuta da molti autori , che la coemptio
fosse di origine plebea , e che essa implicasse la compra della moglie per
parte del marito . Cfr. SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano, I, pag. 94 ;
Voigt, XII, Tafeln , II , $ 159; BRINI, Matrimonio e divorzio , pag . 50 e segg
. La coemptio non fu invece, che una nuova applicazione dell'atto per aes et
libram , e perciò deve ritenersi come una creazione del diritto quiritario,
nell'intento di attri 526 Essa quindi, al pari di ogni atto quiritario,
componevasi di due parti, cioè : lº dell'atto per aes et libram , compiuto
colle solite formalità ed inteso ad esprimere l'acquisto della manus per parte
del marito ; 20 e della nuncupatio solenne , le cui parole non ci sono perve
nute , ma la cui sostanza , secondo Servio e Boezio , consisteva in una
reciproca interrogazione, con cui lo sposo interrogava la sposa se volesse
assumere a suo riguardo la qualità di madre di famiglia , e questa interrogava
lo sposo se volesse assumere quella di padre di famiglia. Ciò intanto ci
spiega, come la coemptio , sotto un aspetto, abbia potuto essere descritta da
Gaio come una compra fittizia della moglie per parte del marito , e sotto un
altro invece colla sua stessa denominazione sembri indicare il reciproco
consenso degli sposi nel riconoscersi rispettivamente la qualità di padre e di
madre di famiglia (invicem se coemebant) ( 1). È poi probabile, che, come il
vocabolo di coemptio è certamente modellato su quello di confarreatio , cosi
anche le parole solenni, che accompagnavano la coemptio , fossero una imitazione
di quelle, che erano adoperate nella confarreatio, esclusi però i riti
religiosi, che accompagnavano quest'ultima. 409. Questo svolgimento storico
deimodi, riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre il matrimonio cum
manu, lascia abbastanza buire la manus al marito , e di attribuire carattere
giuridico al matrimonio romano. In esso quindi è già scomparsa qualsiasi idea
di vendita della figlia , sebbene non sia improbabile, che il vocabolo possa
ancora ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie fosse effettivamente
comprata. Cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pag. 65 , e sopratutto l'appendice sulla
coemptio in fine al volume, nota B , pag. 441. (1) Che l'essenza della coemptio
fosse per dir così simboleggiata in un reciproco acquisto, che facevano i due
sposi, non è solo comprovato dal vocabolo, ma è atte stato da Servio , in Aen
., IV , 103 (Bruns, pag.402), allorchè dice : « Mulier atque vir inter se quasi
coemptionem faciunt; da Nonio MARCELLO, vº nubentes (Bruns, pag. 370); da
Isidoro, Orig., $ 24 , 26 (Bruns, pag. 407); e sopratutto da Boazio nei
commenti alla Top. di Cic., dove, appoggiandosi all'autorità di Ulpiano, dice
che il marito e la moglie « sese in coemendo invicem interrogabant » (BRUNS,
pag. 399). Solo farebbe eccezione Gaio, I, 113, il quale dice, che nell'atto
per aes et libram « is emit mulierem , cuius in manum convenit » ; ma la cosa
si comprende, quando si tenga conto che la coemptio componevasi di due parti ,
e quindi se nel l'atto per aes et libram doveva certo figurare come compratore
il marito, che acqui stava la manus, nulla impedisce, che nella nuncupatio gli
sposi apparissero uguali, e reciprocamente si interrogassero se volessero
assumere rispettivamente fra di loro la qualità di pater e di materfamilias, V.
in senso contrario BRINI, Op. cit ., pag. 51 e segg. 527 scorgere il contributo
diverso , che vi arrecarono il patriziato e la plebe. Non vi ha dubbio
anzitutto, che la confarreatio dovette essere di origine patrizia , come lo
dimostrano il suo carattere eminente mente religioso , e l'origine di essa ,
che rimonta ad un'epoca ante riore all'ammessione della plebe alla cittadinanza
romana. Che anzi, egli è probabile, che, anche dopo, la confarreatio abbia
continuato ad essere usata di preferenza dalle genti originariamente patrizie,
come lo dimostra il fatto , che essa continud a sussistere anche sotto gli
imperatori, sopratutto per considerazioni di carattere religioso . Noi sappiamo
infatti, che i figli nati da tale matrimonio conserva rono più tardi certi
privilegii religiosi, che convengono assai bene ai discendenti dell'antico
patriziato. Essi soli infatti erano ammessi a certi sacerdozii; soli potevano
figurare in certe cerimonie reli giose, ed erano anche indicati coi nomi
speciali di patrimi e di matrimi. Così pure il matrimonio per confarreationem
era il solo, a cui potessero addivenire i flamini di Giove , di Marte e di Qui
rino , i quali negli inizii dovevano appartenere all'ordine patrizio ( 1). Per
contro può affermarsi con una certa probabilità , che l'usus, ossia la
coabitazione non interrotta per un anno, qual mezzo per fare acquistare la
manus, non potè essere che un mezzo per tras formare i matrimonii di fatto,
proprii della plebe , in matrimonii di diritto, che come tali erano produttivi
della manus. Ciò spiega come l'usus , quanto aimatrimonii, abbia potuto
produrre lo stesso effetto dell'usucapio , quanto all'acquisto della proprietà
ex iure quiritium , e come i decemviri abbiano applicato la stessa regola in
argomenti, che pur erano cosi compiutamente diversi (2 ). Da ultimo la coemptio
vuol essere considerata come il modo di contrarre il matrimonio cum manu ,
essenzialmente proprio dei quiriti, e come tale dovette essere introdotto ,
quando già erano permessi i connubii fra patrizii e plebei, cosicchè essa , fin
dalle sue origini, dovette essere comune agli uni ed agli altri. Noi troviamo
(1) Gaio, I, 112. Nel passo già citato di Boezio, in cui egli parla delle varie
forme di matrimonio, fondandosi sull'autorità di Ulpiano (Bruns, pag. 399), si
dice espressamente che « confarreatio solis pontificibus conveniebat » . Cfr.
Esmein, Op. cit., pag . 7, nota 1. (2) La ragione fu questa, che tanto
l'usucapio, applicata alle cose, quanto l'usus, qual mezzo per acquistare la
manus, si proposero il medesimo'intento, quello cioè di cambiare una posizione
di fatto in una posizione di diritto. 528 infatti, che la coemptio viene ad
essere la forma dimatrimonio , che incontra maggior favore presso le varie
classi dei cittadini; cosicchè, nei rapporti di famiglia , essa sembra compiere
quella funzione stessa, che compie la mancipatio nel trasferimento della
proprietà quiritaria . Quindi al modo stesso , che accanto alla mancipatio
effettiva abbiamo visto svolgersi la mancipatio cum fiducia , così accanto alla
coemptio effettiva, che sottoponeva la moglie alla manus del marito, vediamo
pure svolgersi quel singolare istituto della coemptio fiduciaria, la quale
serve come espediente per sottrarre la donna alla tutela degli agnati, e per
metterla in condizione di poter fare testamento (1). Intanto perd la coemptio
dovette avere per effetto di attribuire un carattere essenzialmente civile
almatrimonio, che nella confar reatio aveva un carattere eminentemente
religioso. Quindi viene ad essere probabile , che colla introduzione di essa
anche il matrimonio cum manu abbia cominciato ad essere suscettivo del
divorzio, il che non sarebbe consentaneo col carattere religioso della
confarreatio . Nella coemptio infatti la manus viene ad essere l'effetto di un
con tratto, e perciò può essere risolta nel modo stesso , in cui ebbe ad essere
acquistata, cioè mediante la remancipatio (2 ). 410. Intanto il carattere e
l'origine diversa dei varii modi per contrarre il matrimonio cum manu , pud
anche spiegare le sorti ( 1) GAIO, I, 114 a 116 . (2) GAIO , I, 115 e 137. Se
siammette che il matrimonio primitivo per confarreatio nem non consentisse il
divorzio, è un grave problema quello di spiegare, come il mede simo abbia
potuto essere introdotto anche nel matrimonio cum manu , e persino essere
esteso al matrimonio per confarreationem , il quale doveva però ancor sempre
essere accompagnato dalla diffarreatio. V. Festus, pº diffarreatio ; Bruns,
pag. 336. Alcuni ritengono, che il divortium abbia cominciato a svolgersi nel
matrimonio sine manu , e poi da questo siasi anche esteso a quello cum manu (
Cfr. Esmein , Op. cit., pag. 23 e segg.); ma non parmi probabile un'imitazione
di questa natura . Piuttosto il cambiamento venne a farsi, allorchè, accanto al
matrimonio religioso per confar reationem , venne a svolgersi il matrimonio
civile per coemptionem . Fa in quella occasione, che al rito religioso
sottentrò l'idea del contratto, la quale rese applica bile il divortium , anche
al matrimonio cum manu. L'applicabilità poi di questo divortium anche al
matrimonio cum manu, e precisamente a quello contratto per coemptionem , parmi
che non possa essere posta in dubbio di fronte al passo di Gaio, . I, 137, ove,
paragonando la moglie ad una figlia di famiglia , dopo aver detto che la figlia
non può costringere il padre ad emanciparla, aggiunge quanto alla moglie : «
haec autem (virum ), repudio misso, proinde compellere potest , atque si ei nun
quam nupta fuisset » . 529 diyerse , che ciascuno di essi ebbe nell'ulteriore
svolgimento del diritto civile romano . Noi sappiamo infatti, che l'usus, fra i
modi di acquistare la manus, fu il primo a scomparire , poichè secondo Gaio «
hoc ius partim legibus sublatum est, partim ipsa desuetudine obliteratum est» (
1). Esso infatti era stato un espediente per dar carattere quiritario ai
matrimonii della plebe , che prima non l'avevano, e quindi si com prende che le
leggi e il costume tendessero ad abolirlo, allorchè, mediante la coemptio,
anche la plebe venne ad avere un mezzo di retto per acquistare la manus. La
confarreatio invece, colla introduzione della coemptio, venne ad essere più
circoscritta nel proprio uso, ma intanto fu quella, che ebbe a perdurare più
lungamente ; provenisse ciò dalla tenacità con servatrice, che era propria
delle genti patrizie, o da considerazioni di carattere religioso . Questo è
certo , che Gaio parla della confar reatio , come di cerimonia che era in uso
ancora ai suoi tempi; poichè i flamini maggiori e il rex sacrorum dovevano
esser nati da nozze confarreate, e non potevano contrarre altrimenti il proprio
matrimonio . Noi sappiamo tuttavia da Tacito , che il mantenere questa antica
tradizione ebbe talvolta a dar luogo a difficoltà, per trovare le persone, che
potessero essere elevate alla dignità di fla mini, il che sarebbe appunto
accaduto al tempo di Tiberio , e che le matrone ottennero in quell'occasione
dal senato , che il matri monio per confarreationem non dovesse più produrre
gli effetti di un tempo , sopratutto quanto ai diritti del marito sui beni
della moglie (2 ) Infine la coemptio diventò senz'alcun dubbio il modo più
frequente per contrarre il matrimonio cum manu , e non scomparve che cessare di
questa forma di matrimonio ; cessazione, che venne ope randosi verso il finire
dell'epoca repubblicana, più nel costume che per opera di legge , stante la
prevalenza sempre maggiore, che venne acquistando il matrimonio sine manu (3 )
. ( 1) Gaio , I, 111. (2 ) GAIO , I, 36 ; Tacito, Ann. IV , 6 . (3 ) La
laudatio Thuriae scritta dal marito, Q. Lucrezio Vespillone , console nel 735
di Roma, riportata dal BRUNS , pag. 303 e seg., dimostra che verso il finire
della Repubblica il matrimonio sine manu già cominciava a praticarsi anche
nelle grandi famiglie. Tuttavia il fare un elogio speciale di Turia per aver
fatto a meno della conventio in manu , a differenza della sua sorella, e per
avere, malgrado di ciò , lasciato il suo patrimonio all'amministrazione del
marito , dimostra che un fatto G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 34 530
411. Un autore recente, il Bernhöft, ebbe a considerare l'esten dersi e il
prevalere del matrimonio sine manu , come un segno di decadenza del primitivo
costume di Roma (1 ). A me parrebbe invece , che questa importantissima
trasformazione dell'ordinamento giuridico della famiglia romana , debba essere
considerata come una conse guenza necessaria dello svolgimento della vita
cittadina, che veniva a poco a poco cancellando le vestigia dell'anteriore
organizzazione patriarcale. È ovvio infatti lo scorgere, che la manus, mentre
era una istituzione confacente all'organizzazione gentilizia , perchè da una
parte serviva ad unificare la famiglia, e dall'altra era temperata dal
patriarcale costume, trapiantata invece nella città , ove le famiglie vivevano
isolate le une dalle altre, poteva essere sorgente di gravi pericoli, sopratutto
nelle infime classi della plebe , poichè lasciava la moglie priva di qualsiasi
difesa , contro il potere dispotico del proprio marito . Fu questo il motivo,
per cui i decemviri, i quali pur miravano, come si è veduto , ad estendere a
tutte le classi dei cittadini l'or . ganizzazione patriarcale della famiglia
patrizia , si trovarono tuttavia nella necessità di lasciar l'adito aperto ad
un matrimonio sine manu, dando alle donne il singolare diritto di interrompere
l'usus, collo assentarsi dalla casa maritale per tre notti di seguito . Fu poi
una conseguenza di questo provvedimento, che in ogni tempo in Roma, accanto al
vero matrimonio ex iure quiritium , venne ad esistere di fatto un matrimonio
sine manu, che non producera le conse guenze rigide del matrimonio cum manu .
Il diritto civile non si preoccupo dapprima di questa forma più umile di
matrimonio, e quindi esso si limitò a svolgersi come un matrimonio di fatto ,
di fronte al vero matrimonio ex iure quiritium , che era il matri monio cum
manu. Giunse però un tempo, in cui lo svolgersi della vita cittadina finì per
rendere grave il vincolo della manus, anche per le donne, che appartenevano
alle classi sociali più elevate, e fu in allora che il matrimonio sine manu
cominciò ad entrare nella pratica comune, e dovette essere preso in
considerazione anche dal diritto proprio dei quiriti. Tutto ciò però accadde
lentamente e gra datamente, per modo che lo svolgimento del matrimonio sinemanu
, simile costituiva ancora a quei tempi una eccezione degna di nota nelle
famiglie di condizione elevata . Cfr. De-Rossi, L'elogio funebre di Turia ,
negli « Studii e do cumenti di storia e diritto » . Roma, 1880 , pag. 17 . (1)
BERNHöft, Op. cit., pag. 179. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, pag. 703. -- - -- -
531 - di fronte a quello cum manu , presenta una singolare analogia collo
svolgersi della proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex iure quiritium
. Quindi al modo stesso, che la proprietà in bonis :i venne a poco a poco
modellando su quella ex iure quiritium , così anche il matrimonio sine manu
venne delineandosi lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo che
esso fini per assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico , che
ispirava il primitivo matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio
cum manu . Quindi è, che nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80
lennità dirette all'acquisto della manus, ma si mantiene la neces sità della
deductio della sposa in domum mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la
casa del padre per entrare in quella del marito, la quale continua sempre a
considerarsi come il domicilium matrimonii. Così pure anche nel matrimonio
sinemanu si trasfonde il concetto altissimo del matrimonio cum manu , come lo
dimostrano la maritalis affectio , e la perpetua vitae consuetudo , di cui
parlano i giureconsulti classici nella definizione del matrimonio, al lorchè
era già scomparsa la manus (1). 412. Cid pero non impedisce, che dalla
sostituzione delmatrimonio sine manu a quello cum manu, siano derivati degli importantissimi
effetti nell'ordinamento giuridico della famiglia romana, che possono essere
cosi riassunti : lº Accanto al concetto della materfamilias, che era in certo
modo assorbita nella personalità del capo di famiglia, viene a deli nearsi la
figura dell'uxor, la quale, senza essere uguale al marito (vir ), comincia però
già ad avere una propria personalità giuridica , distinta da quella del marito
; 2 ° La pratica del divorzio viene ad essere più facile , poichè, più non
essendovi l'acquisto della manus, più non si dovette richie (1) Credo che
questa analogia fra il processo seguito dai Romani nello svolgere il diritto di
famiglia e quello di proprietà non apparirà come puramente fantastica , quando
si tenga conto della correlazione evidente fra il concetto dei matrimonii cum
manu e sine manu coi concetti del mancipium e del nec mancipium , e più tardi
con quelli del dominium ex iure quiritium e di quello in bonis; fra la fun
zione, che compie la mancipatio, in tema di proprietà, e quella che compie la coemptio,
in tema dimatrimonio ; tra la mancipatio cum fiducia e la coemptio fidu ciae
causa ; e infine la correlazione anche più singolare fra l'usus auctoritas,
appli cato all'acquisto dei fondi, e l'usus, applicato all'acquisto della manus
sulla moglie . 532 - dere per il divorzio, nè la diffarreatio , nè la
remancipatio , ma poté bastare il reciproco consenso del marito e della moglie
; 3° Sopratutto poi ebbe ad avverarsi un grave cambiamento nella posizione
economica della moglie di fronte al marito. Senza affermare infatti, che
l'istituto della dote sia veramente sorto col matrimonio sine manu , questo è
certo, che la dote, qual concorso della moglie a sostenere i pesi del
matrimonio , non potè svolgersi che col matrimonio sine manu ; poichè un simile
concorso non avrebbe potuto avverarsi di fronte a quell'unificazione potente ,
che veniva ad essere l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la
dote, anche col matrimonio sine manu , abbia cominciato dal di ventare
proprietà del marito , e siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o
i suoi eredi fossero tenuti a restituirla (1). Non potrei invece ammettere, che
il matrimonio sine manu debba considerarsi come una causa della decadenza della
corruzione del costume romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine
manu, quale ebbe ad esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale
più elevato dello stesso matrimonio cum manu . In questo infatti l'unità della
famiglia veniva ad essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la
comunione delle cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero
accordo e della con fidenza reciproca (2). Non fu quindi il matrimonio sine
manu, che O per (1 ) Sonovi autori, che vorrebbero rannodare l'origine
dell'istituto della dote al matrimonio sine manu , V. fra gli altri PADELLETTI,
Op. cit., pagg. 172-73, e il Cogliolo , Saggi di evoluzione, pag. 33. A questo
proposito conviene intenderci. O per dote si intende cid che la moglie o il
padre di lei consegna al marito in occa sione del matrimonio , e la dote in
questo senso dovette rimontare anche all'epoca del matrimonio cum manu , come
lo dimostra l'esistenza di un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae
dotis. Cfr. Voigt, XII Tafeln , II , pag . 486 . dote si intende invece l'istituto
già svolto, per modo che essa venga ad apparire come il concorso della moglie a
sostenere i pesi del matrimonio ed attribuisca alla moglie una personalità
distinta da quella del marito, e questa non potè svolgersi col ma trimonio sine
manu, perchè in quello cum manu lo svolgimento dell'istituto era impedito
dall'unificazione potente della famiglia e del suo patrimonio nella persona del
proprio capo. Intanto ciò spiega la necessità di apposite stipulazioni, per la
resti tuzione della dote, intorno alle quali è da vedersi GELLIO, IV , 3 , il
quale dice, che la opportunità di esse avrebbe cominciato a sentirsi dopo il
divorzio di Spurio Carvilio Ruga , seguito nel 523 dalla fondazione di Roma. (2
) Cfr. in proposito quanto scrive il Labbé nell'articolo intitolato : Du
mariage romain et de la manus, nella « Nouvelle Revue historique » , 1887, pag.
1 a 20 specialmente pag. 17 e segg. 533 corruppe il costume, ma fu piuttosto il
costume che abbassò l'altis . simo concetto del matrimonio . $ 3. — Il pater familias
e i poteri al medesimo spettanti. 413. Fermo il concetto, che in Roma primitiva
la famiglia , sotto il punto di vista giuridico , costituisce un tutto
organico, separato da ogni altro ed ordinato sotto il potere del proprio capo,
sarà facile il comprendere come la logica quiritaria non scorgesse nella mede
sima che un capo , il quale comanda, ed un complesso di persone, le quali
debbono obbedire. Da una parte havvi il pater familias, che è l'unica
personalità giuridica riconosciuta dal primitivo ius qui ritium : dall'altra
sonvi le persone, che dipendono da esso , cioè la moglie , i figli ed i servi,
che in antico dovettero tutte essere sot toposte alla medesima manus, e furono
perfino indicate col vocabolo generico e comprensivo di familia od anche dimancipium
. Il padre è quegli, che è padrone nella casa , che figura nel censo colle
persone e cose che da lui dipendono, che risponde di tutti i suoi dipendenti di
fronte alla comunanza quiritaria ; perciò i diritti, che a lui spet tano sulle
persone componenti la famiglia , sono modellati in tutto e per tutto su quelli,
che a lui appartengono sul patrimonio della medesima. Ciò tuttavia non deve
essere considerato come un indizio , che i romani confondessero il potere sulle
persone col potere sulle cose ; ma soltanto che essi, nel modellare la
costruzione giuridica della famiglia , si collocarono al punto di vista del mio
e del tuo, e una volta accolto il medesimo lo spinsero a tutte le conseguenze,
di cui poteva essere capace. Intanto se nella concezione primitiva era unico il
potere spettante al capo di famiglia sulla moglie, sui figli e sui servi, viene
pure ad essere probabile , che questo potere sia stato indicato con un unico
vocabolo , il quale con tutta verosimiglianza dovette essere quello di manus,
la quale designava in genere la potestà giuridica spet tante al quirite (1). Fu
poi nell'elaborazione ulteriore, che in questo (1) L'autore, che ha recato
incontestabilmente il maggior numero di prove per dimostrare, che il vocabolo
di manus indicò in genere la potestà giuridica, spettante al capo di famiglia,
è certamente il Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80. Cid però non toglie che il
vocabolo di manus, pur indicando in senso largo la potestà spettante anche
sulle cose, designasse in modo più specifico il potere sulle persone , e fosse
così pres sochè un sinonimo di potestas. 534 concetto sintetico e comprensivo
cominciò ad apparire una prima distinzione, per cui mentre il vocabolo di
manus, pur conservando in qualche caso la sua significazione generica, fini per
indicare più specialmente il potere del marito sulla moglie , quello invece di
po testas indico di preferenza il potere del padre sui figli e sui servi, e
venne cosi a distinguersi in patria ed in dominica potestas. Quanto al vocabolo
mancipium , esso non scomparve, ma fini per restringersi ad indicare il
complesso delle cose spettanti al capo di famiglia , e qualche volta servi ad
indicare il complesso dei servi. Infine , siccome anche le persone libere
potevano essere date a mancipio , ed essere poste così transitoriamente in
condizione di servitù ; cosi dovette pure aggiungersi la categoria giuridica
delle persone « quae in mancipii causa sunt » e che come tali « servo rum loco
habentur » ( 1). 414. Allorchè poi questi aspetti diversi di un unico potere si
furono differenziati gli uni dagli altri , ciascuno potè obbedire al proprio
concetto ispiratore, e ricevere cosi uno svolgimento storico compiutamente
diverso . Di questi poteri, quello , che per il primo ebbe a sostenere un rude
conflitto colle esigenze della vita cittadina, fu la manus, ossia il potere del
marito sulla moglie. Sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale, la manus
appariva disadatta nella città , ove non era più temperata dal patriarcale
costume, e convertivasi in un potere dispotico del marito sulla moglie. Se a
ciò si aggiunga, che le donne, le quali avevano da sottomettersi alla manus,
dovevano prima consentirvi, e avevano per giunta la protezione dei proprii
genitori, sarà facile il comprendere come la conventio in manu , dopo essere
stata la regola , sia divenuta l'eccezione, finchè fini per cadere com
piutamente in disuso . Con ciò non deve già intendersi, che il marito perdesse
ogni autorità sulla propria moglie, ma solo che la moglie non fu più assorbita
nella personalità del capo di famiglia , ma (1) Secondo Gaio, I , 52 e 55 , il
vocabolo di potestas comprenderebbe tanto il potere sui servi, quanto quello
sui figli; quello di manus, invece il potere del ma rito sulla moglie (I, 109).
Quando esso viene poi a parlare delle personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e
segg., comincia dal premettere, che anche i figli e la moglie mancipari possunt
nel modo stesso, in cui lo possono i servi: il che dimostre rebbe, che il
vocabolo di mancipium ,nella sua significazione più larga, comprendeva eziandio
tutte le persone soggette alla potestà del padre. Quanto alle persone , quae in
causa mancipii sunt, vedi lo stesso Gaio, I, 138 e segg. 535 acquistò una certa
indipendenza dal proprio marito, sopratutto sotto l'aspetto economico (1) .
415. Così invece non accadde della patria potestas . Questa non ha più bisogno
di essere volontariamente accettata , come la manus, ma deve invece essere
necessariamente subita , e sotto un certo aspetto può anche apparire come una
conseguenza del fatto della nascita . Mancò quindi il principale motivo, che
contribuì alla abo lizione della manus del marito sulla moglie : donde la
conseguenza , che la patria potestà potè più a lungo conservare nel diritto
romano le sue fattezze primitive, e fu quindi un'istituzione, in cui la logica
quiritaria ebbe campo a spiegarsi in tutto il suo rigore. Il padre dal punto di
vista giuridico si appropria tutti gli acquisti, che siano fatti dai figli; pud
vendere ed anche uccidere i proprii figli ; può rivendicarli, se gli siano
sottratti ; può dargli a mancipio , se abbiano recato un danno, che egli non
voglia risarcire . È però a notarsi, che anche in questa parte la costruzione
giuridica non risponde sempre alla realtà dei fatti; poichè in sostanza i figli
si ritengono compro prietarii del padre, nè mostrano di lagnarsi di un potere,
a cui il costume reca gli opportuni temperamenti, e che loro non impedisce di
aspirare e di giungere agli onori e alle magistrature della città (2). Anche
qui fu il corrompersi dei costumi, che fece sentire il peri colo di un potere
illimitato e senza confine, e fu allora, che il di ritto civile romano , pur
serbando integro il concetto della patria potestà , venne attribuendo forma e
carattere giuridico a quei tem peramenti della medesima, che prima esistevano
soltanto nel costume. Fu in questa guisa , che il diritto romano, senza
derogare alla supe riorità del padre, fini per riconoscere una certa
personalità giuridica anche al figlio, il quale venne così ad avere un proprio
caput, e un proprio status nel seno della famiglia , ed introdusse eziandio dei
temperamenti, sia quanto alla durata , che quanto agli effetti della patria
potestà . 418. Noi troviamo infatti, che, mentre la patria potestà continud a
durare per tutta la vita , venne formandosi l'istituto dell'emancipa zione, in
cui si assiste ad una singolare trasformazione, per cui il potere, che al padre
appartiene, di vendere il proprio figlio , viene a (1) V. in proposito il
precedente $ nella parte relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di
quello sine manu , nn. 411 e 412 , pag . 530 e segg . (2 ) Cfr. Voigt, Op.
cit., II, SS 93 e 94 . 536 convertirsi in un espediente per liberarlo dalla
patria potestà . Anche qui abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia
dell'atto per aes et libram , salvo che, in base alla letterale interpretazione
delle XII Tavole, per l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man
cipazioni, mentre, trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice
mancipatio (1). Ed è notabile eziandio , che questa emancipazione, pur
attribuendo al figlio una libertà ed indipendenza , che prima non aveva,
continua pur sempre ad essere considerata come una capitis diminutio ; poichè
sotto il punto di vista giuridico, l'emancipato cessa di appartenere a quel
gruppo famigliare, da cui esce mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere
quello status, che a lui ap parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il
rigore del diritto primitivo si spinge fino al punto da escludere l'emancipato
dalla successione per legge alla morte del padre, e toccherà poi al diritto
pretorio il cercare con mezzi indiretti di ovviare a queste conse guenze, le
quali, pur essendo conformi alla logica giuridica, ripu gnano però ai naturali
sentimenti ed affetti (2 ). Cosi pure, mentre si mantiene sempre il concetto
primitivo, che tutti gli acquisti del figlio debbono sotto l'aspetto giuridico
essere at tribuiti al padre , si viene a poco a poco attribuendo carattere giu
ridico all'istituzione dei peculii. Non può infatti esservi dubbio , che i
peculii già dovevano preesistere nel costume, almeno sotto la forma di peculium
profecticium , che era quel piccolo patrimonio, di cui il ( 1) Gaio , I, 135.
Si è molto disputato circa la ragione probabile delle tre man cipazioni, che
sono richieste per l'emancipazione del figlio . Alcuni vogliono scorgere in ciò
un indizio del più forte vincolo , con cui il figlio intendevasi congiunto al
proprio padre. PADELLETTI, Op. cit., pag . 86. A parer mio, sembra invece molto
più probabile, che questa triplice mancipazione richiesta per i figli sia
stata, come dice Gaio, I, 132, una conseguenza della letterale interpretazione
data alla legge delle XII Tavole, secondo cui « si pater ter filium venum duit,
filius a patre liber esto » . Per tal modo una disposizione, che era
evidentemente introdotta per impedire al padre di abusare della persona del suo
figlio,dandolo a mancipio più di tre volte, si cambiò in un mezzo per
emanciparlo. Negli altri casi invece, a cui non estendevasi la lettera di
questa disposizione, per trattarsi o di una figlia o di un nipote, potè bastare
una semplice mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le singolarità di
questo genere si possono facilmente spiegare, quando si tenga conto della lette
rale osservanza della legge, che era un carattere della primitiva iuris
interpretatio . Questa interpretazione del resto trova un appoggio in Dionisio
, II, 27. (2) Vedi quanto all'emancipatio, in quanto costituisce una capitis
diminutio, ciò che si disse al nº 338, pag . 424, nota 4. Aggiungerò tuttavia
agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit ., II, $ 73, presso il quale occorre
una raccolta completa dei passi relativi all'argomento, pag. 27 e 28 , note 12,
13 , 14 . 537 padre concedeva una separata amministrazione al figlio ;ma ciò punto
non impedi, che essi, solo assai tardi e gradatamente,abbiano ottenuto il loro
riconoscimento giuridico. Ed è notabile eziandio l'ordine e il processo, con
cui vennesi operando tale riconoscimento , poichè si comincið dall' attribuire
al figlio i guadagni, che egli avesse fatti servendo nella milizia (peculium
castrense ); poi si assomigliarono ai lucri, da lui fatti in guerra , quelli
fatti nell'esercizio delle pro fessioni liberali ( peculium quasi castrense);
da ultimo si presero in considerazione tutti quegli acquisti, che a lui fossero
provenuti dagli ascendenti materni o in qualsiasi altra guisa (bona adventicia
). Intanto, mentre si modellavano così le varie specie di peculii, si
introduceva ad un tempo una sapiente ed acconcia graduazione per determinare a
queste proposito i diritti , che appartenevano al padre ed al figlio (1 ).
Questi temperamenti tuttavia non tolgono, che la patria potestà continuasse
sempre ad essere il rudere meglio conservato dell'an tica organizzazione della
famiglia patriarcale, e quindi non è me raviglia se ad operá compiuta gli
stessi giureconsulti fossero colpiti dal carattere particolare della patria
potestà del cittadino romano, di fronte alle istituzioni degli altri popoli.
417. L'importanza di questa unificazione della famiglia sotto la patria potestà
del padre viene a farsi anche più evidente, quando trattasi di quelle
istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in qualche modo al difetto di
figliuolanza. Esse sono l'adrogatio , con cui si viene a sottoporre alla patria
potestà una persona sui iuris, e la semplice adoptio , con cui un figlio ancora
sottoposto alla patria potestà di una persona, viene ad essere costituito sotto
la patria potestà di un altra. Le origini dell'una e dell'altra rimontano senza
alcun dubbio all'organizzazione della famiglia patriarcale, nella quale ( 1)
L'antichità del peculium è dimostrata dalla stessa etimologia della parola (a
pecudibus). Del resto è facile a comprendersi, che lo stesso accentramento
della famiglia nel proprio capo rendeva indispensabile la concessione di un
certo peculio, così ai figli che ai servi. Anche qui pertanto il ius civile non
creò già l'istituzione ; ma la raccolse dalle costumanze, e diede alla medesima
configurazione giuridica . Quanto all'ordine, con cui furono accolte le diverse
forme di peculia , cfr. MUIRHEAD , Op. cit., pagg. 344 e 347; il PADELLETTI ,
Storia del dir. rom ., ediz . Cogliolo, pag. 187, nota 4 ; il SERAFINI,
Istituzioni di diritto romano, $ 169. Sono poi degne di nota , quanto
all'istituzione dei peculii, le osservazioni del SumnER MAINE , L'ancien droit,
pag. 134. 538 si proponevano l'intento importantissimo di perpetuare la
famiglia ed il suo culto . Quella perd fra esse, che produceva più gravi ef
fetti, al punto di vista gentilizio, era certamente l'adrogatio , come quella
che sopprimeva in certo modo una famiglia ed il suo culto , per rendere
possibile la perpetuazione di un'altra (1). Essa quindi, nella comunanza
gentilizia , dovette probabilmente essere compiuta coll'approvazione dei capi
di famiglia , o degli anziani del villaggio ; donde la conseguenza , che quando
fu poi trasportata nella città , essa fu uno di quegli atti solenni, che, al
pari del testamento , dovevano es sere compiuti in calatis comitiis ,
coll'intervento dei pontefici, i quali dovevano vegliare al mantenimento dei
culti pubblici e privati, e colle forme di una vera e propria legge. L'adoptio
invece, riferen dosi a persona, che era ancora soggetta alla patria potestà ,
suppo neva da una parte la rinunzia del padre al proprio potere, il che
facevasi col mezzo della mancipatio , applicando al solito l'atto per aes et
libram , e dall'altra la sottomissione del figlio alla patria po testà
dell'adottante, il che compievasi davanti al magistrato , me diante quella
finta rivendicazione ed aggiudicazione, che costituiva l'in iure cessio . 418.
Intanto qui viene ad essere evidente, che, siccome trattavasi di istituzioni di
origine esclusivamente patrizia , perchè era sopratutto nella famiglia
patrizia, che era viva ed efficace l'aspirazione a per petuare se stessa ed il
proprio culto, cosi lo svolgimento storico di queste istituzioninon ritiene le
traccie di un contributo diretto , che possa avervi recato la plebe. Le forme
infatti , che le accompagnano, o sono di origine patrizia, come quella relativa
all'adrogatio, o sono invece una elaborazione giuridica del diritto quiritario,
comequelle che circondano l'adoptio, senza che trovinsi le traccie di un modo
di adozione, che possa essere di origine plebea. Ciò però non tolse, che anche
l'arrogazione e l'adozione abbiano finito per diventare una istituzione comune
a tutti gli ordini sociali ; ma intanto a misura che ciò accade, esse perdono
sempre più il loro carattere gentilizio , finchè finiscono per informarsi ad un
con cetto ispiratore compiutamente diverso. Esse infatti col tempo ces (1)
Questo effetto dell'adrogatio è efficacemente espresso da PAPIN., Leg . 11, § 2
, Dig . (37-11): « dando se in arrogando testator cum capite fortunas quoque
suas in familiam et domum alienam transfert » . Quanto alle origini
dell'adrogatio nel pe riodo gentilizio, vedi lib. I, n° 25 , pag. 31. Le
differenze poi fra l'adrogatio e l'a doptio sono sopratutto poste in evidenza
da Gellio , V , 19. 539 sano dall'essere un mezzo per perpetuare la famiglia ed
il suo culto ; ma si limitano allo scopo di procurare le gioie della
figliuolanza a coloro che siano privi della medesima, per guisa che in contrad
dizione col diritto primitivo, anche le donne poterono adottare ed essere
adottate. Così pure queste istituzioni, che negli inizii stacca vano affatto
una persona dalla sua famiglia, per trasportarla in un'altra, finirono per
modificarsi in guisa da contemperare i diritti della famiglia naturale con
quelli della famiglia adottiva (1). 419. Rimane ora a dire brevemente del
potere del padre di fa miglia sui servi. Anche qui non pud esservi dubbio, che
la servitù rimonta al periodo gentilizio , e che essa non dovette essere
propria delle genti italiche, ma comune a tutte le genti; come lo dimostra il
fatto , che i Romani non riguardarono mai la servitù come istitu zione loro
propria , ma comeuna istituzione del diritto delle genti (2 ). La medesima
sotto un certo aspetto era un compimento necessario della famiglia patriarcale:
perchè senza di essa questa non avrebbe potuto costituire un gruppo , che
potesse bastare a se stesso . È quindi naturale, che quando il capo di famiglia
entrò a parte cipare alla comunanza quiritaria , esso comparisse nella medesima
non solo colla moglie e colla figliuolanza , ma anche coi servi, i quali
vennero ad essere compresi nel suo mancipium , e costituirono così una parte
integrante della famiglia romana (3 ). Per tal modo i servi diventarono in Roma
gli strumenti intelligenti del cittadino romano, il quale potè valersi di essi
per esercitare qualsiasi ne gozio o commercio , senza derogare alla sua dignità
, ed anche per evitare ai proprii figli l'ignominia di una eredità passiva ,
chia mandoli anche loro malgrado a succedergli, in qualità di heredes
necessarii (4). Si comprende quindi, che al punto di vista giuri dico i servi
fossero considerati come cose, anzichè come persone, e che il potere del
padrone sopra di essi apparisse illimitato e senza confine. Tuttavia , anche
qui la famigliarità dei rapporti fra il pa drone ed i servi, l'intimità di vita
, che eravi talora tra i figliuoli (1) Quanto all'ultimo stadio del diritto
civile romano nello svolgimento dell'ado zione, vedi Justin., Instit. II, XI.
(2 ) Fra gli altri Gaio, I , 52 , dichiara espressamente, che la potestas sui
servi iuris gentium est. (3 ) Come i servi costituissero una parte integrante
della famiglia risulta ad evi. denza dai passi raccolti dal Voigt, XII Tafeln ,
II, pag . 12 e segg., e note relative. (4 ) GAIO, II, 152 ; ULP., Fragm . XXII,
11 e 24. 540 - dell'uno e quelli degli altri, l'abnegazione frequente dei servi
per il loro padrone, e la necessità stessa, in cui fu la legge di porre dei
limiti alla facoltà di manomettere i proprii servi, sono circo stanze che
dimostrano, come anche la condizione effettiva dei servi, sopratutto nei primi
tempi di Roma, non corrisponda in ogni parte alla severità, con cui essa ebbe
ad essere governata sotto l'aspetto giuridico (1). 420. In ogni caso è cosa
fuori di ogni dubbio, che la condizione dei servi ebbe a subire ancor essa una
trasformazione profonda nel pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla
città propriamente detta . Giuridicamente parlando , il potere del padrone
appare forse più rigido nella città, che non nel periodo gentilizio ; ma in
essa il servo ha il vantaggio di poter essere fatto libero , e di essere così
elevato alla dignità di cittadino. Mentre dapprima il servo manomesso do veva,
per la stessa necessità delle cose , cercare protezione e tutela nel gruppo, a
cui apparteneva, e quindi col cessare di esser servo doveva trasformarsi in
cliente : nella città invece, sopratutto dopo Servio Tullio , a cui si
attribuisce di aver attribuita la cittadinanza ai servi affrancati, il servo
manomesso venne ad essere sotto la protezione della pubblica autorità , e potè
colla libertà acquistare anche la cittadinanza. Colla manomissione pertanto
viene a verifi carsi la più profonda trasformazione nello stato giuridico , di
cui ci porga esempio il diritto civile romano. Con essa il servo , che era
considerato come una cosa, viene a trasformarsi in una persona, e colui, che
non aveva nė libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella famiglia , viene ad
acquistare tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le traccie dell'antico
stato di cose nella istituzione del patronato , la quale deve perciò essere
considerata come una soprav vivenza dell'organizzazione gentilizia. Malgrado di
ciò , questa impor tantissima trasformazione nello stato di una persona viene
dapprima ad essere rimessa intieramente all'arbitrio del quirite, il quale può
manomettere i proprii servi vindicta , censu , testamento , ed ha cosi potestà
di accrescere indefinitamente il numero dei cittadini romani. (1) Nota
giustamente l'HÖLDER , Istituz., $ 42, pag. 117, che il servo, ancorchè sia
considerato come una cosa , non perde però la sua qualità d'uomo, poichè gli si
ri conoscono le facoltà , che lo distinguevano come uomo, prima dell'altrui
dominio. È questo il motivo , per cui il potere sullo schiavo chiamavasi
potestas, e gli atti acqui. sitivi da lui compiuti erano stati validi, come se
fossero stati compiuti dal suo padrone. 541 Anche qui fu solo più tardi, che
l'esercizio illimitato di questa po testà privata sembrò essere in conflitto
colle esigenze del pubblico interesse , e allora, mentre da una parte si cercd
di assicurare i di ritti del patrono sull'eredità dei liberti, dall'altra si
cerco di met tere dei confini alla manomissione dei servi, il che si ottenne in
parte coll'introdurre gradazioni diverse nella libertà , che era accor data ai
servi (1). Fu in questa guisa , che al concetto di un'unica libertà i
giureconsulti, interpretando le leggi Aelia Sentia e Junia Norbana,
sostituirono le categorie diverse dei latini, dei latini iu niani, e dei
dediticii, la cui libertà può essere migliore o peggiore , secondo che essa
lasci più facile l'adito alla cittadinanza romana : « pessima itaque, conchiude
Gaio , eorum libertas est, qui dediti ciorum numero sunt, nam ulla lege, aut
senatus consulto , aut con stitutione principali aditus illis ad civitatem
romanam datur » (2 ). 421. Da ultimo anche le persone libere, quae in causa
mancipii erant,dovettero pur esse avere un posto in questa costruzione
giuridica della famiglia romana, il che si ottenne collocandole nella posizione
di servi (servorum loco habentur), per tutto quel tempo per cui erano date a
mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi hanno cura di notare, che la
concezione giuridica non deve in questa parte essere confusa colla realtà, come
lo prova questa notevole proposizione di Gaio: « admonendi sumus, adversus eos,
quos in mancipio ha bemus, nihil nobis contumeliose facere licere ; alioquin
iniuria rum actione tenebimur: ac ne diu quidem in eo iure detinentur homines ,
sed plerumque hoc fit dicis gratia, uno mo mento, nisi scilicet ex noxali causa
mancipentur » (3 ). Con ciò parmi di aver abbastanza dimostrato, che la
rigidezza, con cui fu modellata nel diritto civile di Roma la potestà spettante
al capo di famiglia , trova la sua causa in ciò , che i Romani, anche in ( 1) È
notabile a questo riguardo, che il più antico diritto di Roma, come lasciava al
cittadino piena libertà dimanomettere i propri servi, così, in omaggio sempre
alla libertà del testatore,non aveva tutelato in nessun modo le ragioni del
patrono contro il testamento del liberto . Ciò viene attestato da Gaio, III, 40
, 41 , il quale, dopo aver detto, che « olim licebat liberto patronum suum
impune in testamento prae terire » aggiunge poi che il diritto pretorio e
poscia la legge Papia Poppea avevano cercato di riparare a questa iuris
iniquitas. (2 ) Gaio , 1 , 26 ; Ulp., Fragm ., I, 5 . (3 ) Gaio , I, 141. 542
questa parte , trasportarono nella città il potere del capo di famiglia
patriarcale; lo isolarono dall'ambiente, in cui erasi formato e da ogni
elemento estraneo al diritto ; e riuscirono così a dare una configu razione
prettamente giuridica , ad un potere, che in realtà conti nuava poi a trovare
molti temperamenti nel costume e nella morale. Questi caratteri della famiglia
romana trovano poi una conferma nel modo, in cui era governata la successione
legittima, nel primi tivo diritto di Roma. § 4. – La successione e la tutela
legittima nel primitivo ius quiritium . 422. L'ordinamento giuridico della
famiglia primitiva in Roma presenta eziandio questa singolarità, che mentre, vivo
il padre, tutto sembra unificarsi in lui, mancando invece il medesimo, senza
aver disposto delle proprie cose per testamento (si intestato moritur),
ricompare una specie di comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono
dalla sua patria potestà . Queste persone infatti son chia mate a succedergli
come heredes sui; non possono respingerne la eredità (heredes sui et
necessarii) ; che anzi, senza bisogno di una vera e propria accettazione,
sembrano essere direttamente investite dalla legge stessa di quel patrimonio
famigliare, di cui già prima apparivano comproprietarie : « sui quidem heredes,
dice Gaio , ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque
parente quodammodo domini existimantur » (1). Molti autori combatterono il
concetto di questa comproprietà fa migliare, dicendola in contraddizione colla
unificazione potente della famiglia romana nella persona del proprio capo (2).
A nostro avviso invece questa specie di comproprietà , che i giureconsulti
pongono a fondamento della successione degli heredes sui, può essere facil
mente spiegata e conciliata coll'unità potente della famiglia romana, ( 1) GAIO
, II, 157. (2 ) Fra gli autori, che combattono questa comproprietà famigliare,
mi limiterò a citare il PADELLETTI, Op. cit., pag . 201, e il Cogliolo, Saggi
di evoluzione nel di ritto privato, pag. 108 e segg.; il quale, a pag. 111, in
nota, fa pure un elenco degli autori, che tengono per l'una o per l'altra
opinione. Fra quelli, che ammettono questa comproprietà famigliare, vuolsi
aggiungere il DUBOIS, La saisine héréditaire en droit romain , Paris, 1880,
pag. 63 , e il CARPENTIER, Essai sur l'origine et l'étendue de la règle : nemo
pro parte testatus, pro parte intestatus decedere potest, nella « Nouvelle
Revue historique » , 1886, pag. 457 e segg . 513 quando si ritenga che la
famiglia quiritaria non è in sostanza, che la stessa famiglia patriarcale,
trasportata nella città , ed isolata dal l'ambiente gentilizio, in cui erasi
formata . La famiglia patriarcale infatti riuniva appunto due caratteri,
pressochè opposti fra di loro ; quello cioè di apparire da una parte unificata
nella persona del padre , il che la rendeva unita e compatta per la lotta , che
doveva sostenere cogli altri gruppi, da cui era circondata ; e quello di sup
porre dall'altra un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche, il che
produceva un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a costituirla .
In questo senso potevasi dire di essa con Cicerone : « una domus, communia
omnia » . Questa solidarietà e compro prietà fra i membri del medesimo gruppo
famigliare viene ad essere dimostrata dai seguenti indizii : che il primitivo
heredium era di sua natura trasmessibile di padre in figlio ; che il padre
trovava un ostacolo alla dilapidazione del patrimonio famigliare, nel iudicium
de moribus per parte del consiglio degli anziani della gens ; che il padre
infine non poteva disporre delle proprie cose per testamento , nè scegliersi un
figlio adottivo senza l'approvazione degli altri capi di famiglia , che
appartenevano alla sua gente o tribù (1). Vero è , che tutti questi
temperamenti del potere patriarcale del capo di famiglia sembrano scomparire,
quando, col formarsi della città, la famiglia venne ad essere staccata dal
gruppo patriarcale, di cui entrava a far parte , e il capo di essa apparve così
investito di un potere illimitato e senza confini; ma ciò deve essere
considerato come un effetto di quella elaborazione giuridica , che tendeva ad
uni ficare la famiglia nella persona del proprio capo. Era quindinatu rale,
che, quando questa unificazione non era più possibile per la mancanza del capo,
risorgesse la primitiva comproprietà famigliare fra le persone libere, che
appartenevano allo stesso gruppo . Che anzi la stessa unificazione potente del
gruppo nel proprio capo do veva determinare una specie di comunione fra i
membri del gruppo, e condurre così alla conseguenza giuridica, che in questo
caso non si avverasse una vera successione, ma il dominio del padre conti
nuasse in certo modo nella persona dei figli ; conseguenza, che ebbe ad essere
mirabilmente espressa dal giureconsulto Paolo : in suis heredibus evidentius
apparet continuationem dominii eo rem per ducere, ut nulla videatur hereditas
fuisse , quasi olim hi domini ( 1) Ho cercato di dimostrare questi caratteri
della proprietà famigliare nel pe riodo gentilizio nel lib . I, cap . 4, § 3º,
sopratutto pag. 70 e segg . 544 essent, qui, vivo etiam patre, quodammodo
domini existimantur . Itaque post mortem patris non hereditatem percipere
videntur , sed magis liberam bonorum administrationem consequuntur (1) . Fu in
questa guisa, che la famiglia primitiva potè perpetuarsi nelle generazioni, e
cambiarsi in un organismo immortale e perpetuo, poichè i figli apparivano come
i continuatori della personalità del padre, e al modo stesso, che dovevano
perpetuare il culto domestico, così dovevano raccoglierne, anche loro malgrado,
l'eredità . 423. Nè si può ammettere, che questa specie di comproprietà , a cui
accennano i giureconsulti , sia un concetto penetrato più tardi nella classica
giurisprudenza , per spiegare il passaggio del patrimonio famigliare dal padre
nei figli (2 ): poichè questo intimo rapporto fra l'hereditas ed i sacra, è
certo un concetto, che rimonta all'an tichissimo diritto , come pure è a
questo, che deve farsi risalire quella posizione del tutto speciale , che gli
heredes sui assumono di fronte agli altri ordini di eredi. Questa distinzione
infatti già doveva esistere nella universale coscienza , all'epoca della
legislazione decem virale. In questa infatti non si fa menzione espressa della
succes sione dell'heres suus, ma solo vi si accenna come a cosa , che na
turalmente accade, e che quasi non abbisogna di speciale menzione ; mentre è
solo per il caso , in cui non siavi un heres suus, che le XII Tavole
determinano l'ordine della successione per legge , chia mando alla medesima
prima l’agnatus proximus, e in mancanza del medesimo i gentiles: « si intestato
moritur , cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto ; si
adgnatus nec escit, gentiles familiam habento » (3). Che anzi a questo
proposito parmi di poter con fondamento inol trare la congettura , che in
occasione della legislazione decemvirale le genti patrizie cercarono di
trasportare nel ius proprium civium ( 1) PAOLO, Leg . 11, Dig. X (28-2). V. nel
CARPENTIER , Op. e loc. cit., una rac colta di testi che confermano questa
comproprietà famigliare. (2) Tale sarebbe l'opinione del PADELLETTI, Op. cit.,
pag. 201 . (3 ) Queste due disposizioni delle XII Tavole, secondo il Voigt, Op.
cit., I, pag. 704, sarebbero la 2a e la 3a legge della Tav. IV. A questo
proposito poi il Voigt, Op. cit., II, pag. 387, sembra ritenere, che esistesse
una comproprietà di fatto, ma non di diritto . Convien però ammettere, che tale
comproprietà producesse, dopo la morte del padre, delle vere conseguenze di
diritto, dal momento che faceva considerare gli heredes sui, come continuatori
della personalità del padre , e li metteva anzi nella impossibilità di
rinunziarvi. Vedi Gaio , I, 157. - 545 romanorum , e di rendere così comune a
tutte le classi quel sistema di successione ab intestato , che doveva già
esistere nel loro costume durante il periodo gentilizio . Noi sappiamo infatti
dagli stessi giu reconsulti , che colle XII Tavole soltanto ebbe ad essere
introdotto il sistema di successione legittima, e ne abbiamo anche una prova
nella circostanza , che fu perfino introdotto un ordine di eredi le gittimi,
che era quello dei gentiles, il quale non poteva certo appar tenere alla plebe,
dal momento che questa non possedeva le gentes. Per tal modo il patriziato, che
già aveva trasportata nella comu nanza quiritaria la propria organizzazione
domestica, riusci eziandio a farvi penetrare il proprio sistema di successione.
Di qui la con seguenza, che anche il sistema successorio dei romani deve essere
considerato come una sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale della
famiglia patrizia ; come lo dimostra la circostanza , che esso fondasi
esclusivamente sull'agnazione, non tiene alcun conto della cognazione, e si
propone come scopo esclusivo di perpetuare il pa trimonio nella famiglia
agnatizia , e di farlo ritornare alla gente, al lorchè siasi estinta la
famiglia (1) . Per tal modo, in base alla legislazione decemvirale, noi veniamo
a trovarci di fronte a tre ordini di eredi, che sono : lº gli heredes sui, nei
quali si comprendono la moglie, i figli cosi maschi come femmine e gli altri
discendenti nella linea maschile , tutte le per sone insomma, che erano
soggette alla patria potestà del capo di famiglia ; 2 ° gli agnati, cioè tutti
coloro, che discendono per la linea maschile da un comune autore, alla cui
potestà sarebbero stati sog getti, quando non fosse premorto ; 3º e da ultimo i
gentiles, ossia tutti coloro , i quali, più non essendo compresi nella familia
omnium agnatorum , hanno però comune la discendenza da un medesimo ( 1) Che la
successione e la tutela legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole,
mentre queste non avrebbero fatto altro , che confermare le successioni testa
mentarie, è cosa a più riprese affermata da ULPIANO, Fragm . XI, 3 , e XXVII, 5
. Di qui ilMuirhead avrebbe perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di
pianta l'ordine degli agnati, come tutori e successori legittimi (Op. cit.,
pag. 122 e 172 ). Ho già dimostrato più sopra , pag. 39, nota 1", che
questa opinione non può essere accettata, perchè l'ordine degli agnati già
esisteva nell'organizzazione gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a
fondamento della medesima; ma intanto questa sua opinione può essere accolta ,
quando sia intesa nel senso, che i decemviri colle XII Tavole estesero anche
alla plebe quel sistema di successione legittima , che le consuetudini avevano
già svolta presso le genti patrizie. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma.
35 546 antenato, e come tali hanno ancora ilmedesimo nome e appartengono alla
stessa gente. 424. È poi degno di nota il modo diverso, con cui questi varii
ordini di eredi sono chiamati a succedere . Finchè trattavasi di heredes sui,
essi, essendo soggetti alla patria potestà della stessa persona, e come tali
appartenendo almedesimo gruppo, venivano in certo modo ad essere eredi di se
stessi; esclu devano gli emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi
entrate in un'altra famiglia , tutti coloro insomma, che erano già usciti dal
gruppo; non abbisognavano di vera accettazione dell'eredità , ma suc cedevano
anche loro malgrado (heredes sui et necessarii) : non potevano essere spogliati
dell'eredità mediante l'usucapio pro he rede ; infine succedevano per stirpe ,
ossia per rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva
i figli rappresen tano il padre (1). Quando trattavasi invece di agnati , il
patrimonio doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro : quindi la
legge, per impedirne la suddivisione soverchia , si limitava a devolverlo allo
agnatus proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere
considerato come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non
appartiene al gruppo famigliare nello stretto senso della parola . Egli quindi
ha già facoltà di accettare o di respingere l'eredità , e può vedersi usucapita
l'eredità da altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse
poi l'opinione, che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla
successione per stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano
è solo nei limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i
rappresentanti dei loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti
gli altri agnati, e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità ,
questa viene ad essere devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles (2 ). (1 )
Gaio, III, 1 a 8 ; Ulp., Fragm ., XXIV, 1 a 3 . (2) GAIB, III , 9 a 15 , Ulp.,
Fragm ., XXIV , 1. L'enumerazione , che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati,
confermano il concetto, che ho svolto nel lib . I, pag. 38 e 39, secondo cui la
cerchia degli agnati sarebbe stata determinata da quella in divisione di
patrimonio, che, morto il padre, mantenevasi fra i fratelli e i loro di
scendenti per la linea maschile. Questo gruppo continuava in certo modo l'unità
indivisa della famiglia, e costituiva quella famiglia più grande, che fu
chiamata 547 Qui però l'espressione della legge cambia, in quanto che essa dice
senz'altro: « si agnatus proximus nec escit, gentiles familiam habento » ; il
che fa ritenere, che i gentili non fossero chiamati a succedere come individui,
ma in quanto costituivano l'ente collet tivo della gens, cosicchè l'eredità
sarebbe in certo modo ritornata alla gente considerata nella propria
universalità , e sarebbe così ve nuta a ricadere in quell'ager gentilicius, da
cui si erano staccati i primitivi heredia delle singole famiglie. Era
sopratutto in questa parte, che erasi cercato di mantenere viva nella città
l'antica orga nizzazione gentilizia : ma l'istituzione non potè mantenersi a
lungo come lo dimostra Gaio, il quale parla di questo ius gentilicium , come di
cosa andata da lungo tempo in disuso (1) . Non ha poi bisogno di essere
dimostrato, che questo sistema di successione per legge, desunto dall'antica
organizzazione gentilizia , trovava il proprio compimento nella disposizione,
per cui la succes sione del cliente o del liberto , che fosse morto senza
testamento o senza eredi suoi, veniva dalla legge ad essere devoluta al patrono,
od ai figli di lui, od infine alla gente del patrono: « si cliens in testato
moritur , cui suus heres nec escit, pecunia ex eius fa milia in patroni
familiam redito » (2). omnium agnatorum . Quando poi venne meno quest'
indivisione del patrimonio, si chiamarono agnati tutti coloro, che sarebbero
stati soggetti alla patria potestà, quando il padre non fosse premorto . Fra
essi ULPIANO, loc. cit., comprende anzitutto quelli, che egli chiama i
consanguinei , « id est fratres et sorores ex eodem patre » ; poscia , quando
questi manchino, gli altri agnati prossimi « id est cognatos virilis sexus, per
mares discendentes, eiusdem familiae , (1) Gaio , III, 17 ; UlP ., Fragm .,
XXIV, 1. Noi abbiamo tuttavia CICERONE, De orat., I, il quale accenna ad una
causa di eredità , dibattutasi davanti ai Centum viri fra i Claudii patrizii ed
i Marcelli discendenti da un loro liberto , in cui dice che gli oratori delle
parti dovettero occuparsi « de toto stirpis ac gentilitatis iure » . Sembra
tuttavia, che anche all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le cause di
questo genere . (2 ) Ulp., L. 195, § 1, Dig . (50, 16). Nella ricostruzione del
Voigt, I, pag. 705 , questa legge sarebbe la 4a della Tavola IV. Vedi ciò che
dice lo stesso Voigt, II, pag . 392 e 393, quanto alla successione del patrono
al liberto. Anche quanto alla successione del liberto si manifesta una specie
di antagonismo fra la successione testamentaria e la legittima ; poichè,mentre
nella prima il liberto poteva nei primi tempi (V. Gaio, III, 40-41) dimenticare
impunemente il suo patrono , la seconda invece, introdotta eziandio dalle XII
Tavole, tendeva a richiamare il patrimonio del liberto alla famiglia del
patrono, quando il primo fosse morto senza eredi suoi. 548 425. Per contro è
assai degno di nota , che, unitamente al sistema della successione legittima,
dalla legislazione decemvirale fu eziandio introdotto il sistema della tutela
legittima. Di cid abbiamo l'espressa attestazione dei giureconsulti ( 1): ma la
prova più convincente vuolsi riporre nella circostanza, che il sistema della
tutela legittima, quale ebbe ad essere regolato dalle XII Tavole, é coordinato
con quello della successione legittima, ed obbedisce al medesimo concetto ispi
ratore. Per giustificare la cosa i giureconsulti più tardi misero in nanzi la
considerazione, che l'onere della tutela doveva cadere su coloro , che avevano
il vantaggio della successione : « ubi emolu mentum successionis, ibi onus
tutelae » ; ma la causa storica deveessere cercata nel fatto, che tanto la tutela
, che la successione le gittima si informano ancora ai concetti
dell'organizzazione genti lizia , da cui furono desunte , e come tali mirano a
conservare il patrimonio prima alla famiglia agnatizia e pos cia alla
gente. Viene così a comprendersi, come nel sistema primitivo la tutela degli im
puberi ed anche la cura dei prodighi e dei furiosi , fosse affidata agli agnati
ed ai gentili ; come le donne, anche perfectae aetatis , cadessero sotto la
tutela degli agnati; come infine le res mancipii, spettanti alle medesime e ai
pupilli, non potessero essere usucapite , quando non si fossero alienate col
consenso del tutore. Così pure viene a spiegarsi quel singolare carattere della
tutela primitiva del l'impubere , la quale mira piuttosto alla conservazione
del patrimonio, che non alla educazione della persona , la cui cura soleva
essere lasciata alla madre ed agli altri congiunti, i quali si ispiravano di
preferenza all'affetto del sangue, che all'interesse gentilizio di ser bare
integro il patrimonio famigliare (2) . i 426. Chi tuttavia riguardi al
posteriore svolgimento del diritto civile romano, può facilmente inferirne, che
tanto il sistema della successione, quanto quello della tutela legittima, non
trovarono mai favorevole svolgimento nella opinione comune della cittadinanza
ro mana. Conformi al modo di pensare di quella minoranza patrizia , che si
atteneva strettamente alle tradizioni gentilizie , esse invece ripugnavano al
modo di sentire delle altre classi, i cui rapporti di ( 1) Ulp., Fragm ., XI, 3
. (2) È da vedersi, quanto alla tutela legittima e ai suoi caratteri peculiari,
il Pa DELLETTI, Op. cit ., pag . 188 e le note relative. 549 famiglia si
ispiravano di preferenza al vincolo naturale del sangue e della cognazione. A
misura poi, che le traccie dell'organizzazione gentilizia si venivano
dissolvendo sotto l'influenza della vita citta dina, questo sistema di
successione e di tutela apparve disadatto a quei magistrati stessi, che
dovevano applicarlo . È questo il motivo, per cui Gaio a questo proposito non
parla solo di sottigliezze del l'antico diritto , ma di vere iuris iniquitates
; alle quali cercò poi di riparare il diritto pretorio , introducendo, accanto
alla successione legittima, una successione pretoria , e creando , accanto ai
tutores legitimi, i tutores Atiliani o dativi. Fu pur questo il motivo, per cui
i giureconsulti mal potevano spiegarsi la tutela perpetua , a cui le donne
erano sottoposte nell'antico diritto , e vennero creando essi stessi degli
espedienti giuridici , quale fu quello veramente ca ratteristico della coemptio
cum fiducia , per liberarle da una tutela , le cui ragioni dovevano forse
essere cercate in un periodo anteriore di organizzazione sociale ( 1). In ogni
caso poi una prova di questa generale condanna del si stema di successione e di
tutela legittima può scorgersi eziandio nel largo sviluppo che presero in Roma
la successione e la tutela testamentaria , e nell'antagonismo che sembra
esistervi fra le due maniere di successione. $ 5. – Rapporti fra la successione
legittima e la testamentaria nel diritto primitivo di Roma. 427. È noto che in
Roma la successione legittima e la testamen taria non poterono mai fondersi
insieme, e si mantennero anzi in una specie di antagonismo fra di loro . Ciò è
dichiarato espressa mente dal giureconsulto, che scorge nelle due istituzioni
un natu (1) Fra i giureconsulti, che non sanno darsi ragione della tutela
perpetua , a cui le donne erano sottoposte, abbiamo Gaio, I, 190. È tuttavia a
notarsi, che egli, più sotto, I, 192, finisce per indicare la vera ragione, per
cui anche le donne erano sot toposte alla tutela dei loro agnati; la quale
consiste in ciò , che siccome gli agnati erano chiamati a succedere alle donne,
che morissero ab intestato , così essi avevano interesse a che esse, senza il
loro consenso , non potessero fare testamento, nè alienare le cose più
preziose, che entravano a costituire il patrimonio. Per tal modo la tutela
degli agnati ebbe lo scopo stesso della loro successione legittima , quello
cioè di conservare il patrimonio nella famiglia agnatizia ; il qual concetto è
per certo uno di quelli, le cui origini debbono essere cercate nel periodo
gentilizio. 550 rale conflitto ; è confermato dalla massima : nemo paganus
partim testatus, partim intestatus decedere potest ; ed è provato eziandio da
quella specie di ripugnanza , che avevano i Romani a morire senza testamento :
ripugnanza , che si spinse fino a tale da ritenere pressochè disonorato chi
morisse senza testamento. Il fatto può quindi essere affermato con certezza ;
ma è tanto più ardua la spie gazione di esso , come lo dimostra la varietà
grandissima di opinioni e di congetture , che furono emesse in proposito (1 ).
Credo tuttavia , che anche in questa parte possa condurci a qualche
conclusione, forse nuova, lo studio delle origini del ius quiritium . Questo
studio infatti ci pone in grado di affermare, che la succes sione legittima ed
il testamento hanno avuto una origine e uno svolgimento compiutamente diversi
nel primitivo ius quiritium . Mentre la successione e la tutela legittima , le
quali soltanto colle XII Tavole entrarono a far parte del diritto comune , sono
istitu zioni di origine prettamente gentilizia , ispirate al concetto di ser (
1) L'origine storica della massima « nemo paganus, ecc. » è una questione, che
è lungi dall'essere risolta , malgrado la ricchissima letteratura , di cui fu
argomento . Fra autori, che la esaminarono di recente , citero soltanto il
RUGGERI, nei Do cumenti di storia e di diritto , 1880, pag. 147 a 168, e 1881,
pag. 31 a 51; il CARPENTIER, nella Nouvelle Revue historique, 1886 , pag . 449
a 474 ; il Padel LETTI, La istituzione di erede ex re certa (« Archivio
giuridico » , vol. IV ). Anche l'ESMEIN , La manus, la paternité , ecc., pag .
4 , nota 10. accenno di passaggio ad una spiegazione di questa massima ,
dicendo che la medesima proveniva da che il patrimonio si trasmetteva come
l'accessorio di un culto, e che siccome di un culto non si poteva disporre per
una parte soltanto, così non si poteva neppure lasciare un'eredità parte per testamento
e parte per legge. Parmi che questa non possa an cora essere la risoluzione
definitiva : poichè se un culto poteva dividersi fra più eredi legittimi, non
vi può essere ragione , per cui non si potesse anche dividere fra eredi
legittimi e testamentarii. Il CARPENTIER poi, nel suo dotto lavoro sopra citato
, verrebbe alla conseguenza , che questa massima fosse una conseguenza logica
del concetto romano, per cui tanto la successione legittima, quanto la
testamentaria , do vevano comprendere l'intiero patrimonio ; ma anche qui si
potrebbe sempre dire, che quest'universum ius, come poteva dividersi fra gli
eredi per legge e testamentarii ; così avrebbe potuto dividersi eziandio fra
gli uni e gli altri. Secondo il RUGGIERI, Op. cit., il motivo della massima
starebbe in ciò , che anche il testamento dapprima era una vera lex , e quindi
doveva prevalere o la lex publica o la lex testamenti,ma non potevano
concorrere insieme; ma egli è evidente , che questa ragione, se po trebbe
valere per il testamentum in calatis comitiis , non può certo applicarsi al
testamentum per aes et libram , che non ha più il carattere di una legge. Fu
questo il motivo, per cui ho creduto didover cercare la causa prima di questa
mas sima nella stessa dialettica fondamentale, a cui si informa il diritto
primitivo di Roma. 551 - bare il patrimonio alla famiglia agnatizia ed alla
gente ; il testamento invece, che prevalse nel ius quiritium , non è più il
testamento delle genti patrizie , ma è già un'applicazione dell'atto quiritario
per ec cellenza, ossia dell'atto per aes et libram , che si ispira al prin cipo
: uti legassit, ita ius esto. In quella prevale ancora lo spirito conservatore
dell'antico gruppo patriarcale : mentre in questo già campeggia la fiera
individualità del quirite, la cui volontà solenne mente manifestata deve essere
legge, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere ( 1). A cið si
aggiunge, che la successione legittima e la testamentaria , nella struttura
organica del ius quiritium , muovono da un con cetto fondamentale compiutamente
diverso . Mentre infatti la suc cessione legittima prende le mosse dal ius
connubii , ed è quindi una conseguenza dell'organizzazione giuridica della
famiglia romana, il testamento invece, che prevalse nel diritto quiritario, fu
un'ap plicazione del principio : « qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua
nuncupassit, ita ius esto » ; come tale, esso prese le mosse dal ius commercii,
e fu considerato come un mezzo di disporre libe ramente delle proprie cose (2
). Fu sopratutto questa circostanza del l'essere le due istituzioni partite
nella loro elaborazione giuridica da un concetto fondamentale diverso , che
impedì alle medesime di con fondersi e di compenetrarsi insieme; poichè è un
carattere della dialet tica quiritaria , che gli istituti giuridici, una volta
separati, obbediscano ciascuno al proprio concetto ispiratore, nè sogliano mai
confondersi con un altro, che si informi ad un concetto compiutamente diverso .
Tale sembra appunto essere la significazione della celebre regola del
giureconsulto Paolo : « ius nostrum non patitur eundem in paganis et testato et
intestato decessisse , earumque rerum natu raliter inter se pugna est, testatus
et intestatus » (3 ). Per verità (1) Quanto al carattere diverso di queste due
successioni vedi il cap . III , § 4 , in cui si discorre della successione
testamentaria , ed il $ precedente relativo alla successione legittima. (2)
Questo carattere speciale del testamento per aes et libram è attestato ,
ancorchè solo di passaggio , da Cic., De orat., I, 57 , § 245 ; ma è poi
dimostrato all'evidenza da ciò, che questo testamento ebbe ad essere ritenuto
come un negozio, che compie vasi fra testatore ed erede, e in cui la volontà
del testatore dominava sovrana . (3) Paolo, Leg. 7, Dig. (50-17). Secondo il
PadELLETTI, Storia del dir . rom ., pag. 201, questa massima sarebbe invece una
conseguenza della superiorità esclusiva della successione testamentaria sulla
legittima; ma questo non è ancora un motivo adeguato per impedire che le due
eredità si confondessero fra di loro. 552 sarebbe stato illogico, che quel
diritto , il quale in tutto il suo svi luppo tenne sempre mai distinte fra di
loro le obbligazioni e i trasferimenti di proprietà, di cui quelle erano
partite dal concetto primitivo del nexum e questi da quello del mancipium ,
avesse pui consentito , che concorressero insieme due istituzioni, le quali
muove vano da concetti fondamentali anche più distanti fra di loro . Questo
quindi fu uno dei casi in cui la logica quiritaria non volle piegarsi alle nuove
esigenze, e si limitò ad introdurre una eccezione a fa vore del testamento dei
soldati. 428. Qui intanto cade in acconcio di esaminare brevemente un'altra
gravissima questione, quella cioè della precedenza, che nel diritto primitivo
di Roma abbia avuto la successione legittima o la successione testamentaria .
Sull'autorità del Sumner Maine, suole essere generalmente seguita l'opinione,
che nella evoluzione storica del diritto romano dovette precedere la
successione ab intestato, poichè la possibilità del testa mento, anche nel
diritto romano, avrebbe cominciato dall'essere am messa soltanto in quei casi,
in cui non vi fosse figliuolanza, e poi sarebbe stata estesa anche agli altri
casi ( 1). Mentre ritengo , che questa opinione possa essere conforme al vero,
per quanto si rife risce al periodo gentilizio , nel quale il testamento non
dovette essere , che un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto, per
il caso in cui non vi fossero dei figli, crederei invece , che essa non sia con
forme all'evoluzione storica , che ebbe ad avverarsi nel ius quiritium . Sonvi
infatti degli indizii, che ci inducono ad affermare, che nel ius quiritium
penetrd dapprima il testamento, mentre la successione legittima vi fu solo
introdotta più tardi, e che il testamento ebbe fin dal principio una prevalenza
incontrastata sulla successione le gittima. È noto infatti, che Ulpiano dice
espressamente, che la suc cessione legittima fu introdotta dalle XII Tavole ,
mentre queste invece avrebbero confermata la successione testamentaria ; il che
indica appunto , che il testamento era già comune ai due ordini, e aveva già
subito l'elaborazione del ius quiritium , mentre la suc cessione legittima non
sarebbe penetrata nel diritto comune, che colla legislazione decemvirale .
Anteriormente a quest'epoca la suc cessione legittima, per ciò che si riferisce
agli agnati ed ai gentili, (1) SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 186 . 553
doveva probabilmente essere esclusivamente propria delle genti pa trizie, le
cui consuetudini in quest'argomento erano certo diverse dalle semplici
costumanze della plebe ( 1). Appare poi fino all'evidenza dalle espressioni
stesse delle XII Tavole , che la successione testamentaria ha una prevalenza
indiscutibile sulla successione legittima, in quanto che quest'ultima non può
verificarsi, che quando manchi il testa mento (si intestato moritur); il qual
concetto perdurò poi per tutto lo svolgimento storico del diritto civile romano
(2 ). In cid abbiamo un'altra prova, che il ius quiritium non deve essere
considerato unicamente , come il frutto di un'evoluzione lenta e graduata delle
istituzioni giuridiche, a misura che ne occorra il bisogno, ma piuttosto come
il frutto di una selezione su materiali giuridici preesistenti. In esso infatti
istituzioni più antiche penetra rono talvolta più tardi di altre, la cui
formazione nella realtà dei fatti doveva essere più recente. Così, ad esempio,
la successione le gittima, che fu certo la prima a svolgersi nell'ordine dei
fatti, fu l'ul tima a penetrare nel ius quiritium , mentre il testamento, che
era stato ultimo a comparire , fu il primo ad esservi accolto , come quello che
meglio rispondeva a quella potente individualità giuridica , che era il
quirite. — Cid apparirà anche più evidente trattando del si stema delle
actiones, le quali, mentre furono le prime a formarsi nell'ordine dei fatti,
furono invece le ultime ad essere elaborate nel primitivo ius quiritium . (1 )
ULP., Fragm ., XI, 3; XXVII, 5 ; L. 130, Dig. (50-16 ). (2) La prevalenza della
successione testamentaria sulla legittima nel diritto civile romano è provata
da una quantità grande di passi di giureconsulti, fra i quali mi limito a
citaro i seguenti: « quamdiu possit valere testamentum , tamdiu legitimus non
admittitur » (Paolo, L. 89, dig. 50, 17) ; « quamdiu potest ex testamento adiri
hereditas, ab intestato non defertur » (Ulp., L. 39, dig. 29, 2). 554 CAPITOLO
VI. Le legis actiones e la storia primitiva della procedura civile romana. $
1.- Le origini della procedura ex iure quiritium . 429. Quella tecnica giuridica
, di cui già si riscontrarono le traccie nelle varie parti del ius quiritium ,
appare anche più rigida e se vera nella parte, che si riferisce alla procedura
delle legis actiones. È qui sopratutto, ove l'elemento giuridico del fatto
umano compare del tutto isolato e disgiunto da ogni elemento estraneo , e ove
l'ela borazione giuridica dell'antico diritto ebbe a spingersi a tal punto di
tecnicismo da rendere difficile alle nostre menti il comprenderne i concetti
direttivi, e la logica inesorabile, a cui obbedi nella pro pria formazione.
Alla difficoltà intrinseca dell'argomento si aggiun sero poi altre cause , che
contribuirono a mantenere in questa parte una quantità di dubbii e di
incertezze, la quale non potè del tutto essere dileguata dalla scoperta delle
istituzioni di Gaio , dalla ricchissima letteratura, che in seguito alla
medesima ebbe a svolgersi sull'argomento (1). È noto infatti, in base alle
attestazioni concordi degli antichi au tori, che la parte dell'antico diritto ,
relativa alla procedura delle legis actiones , ebbe ad essere custodita ed
elaborata dal collegio dei pontefici, anche dopo le XII Tavole, e continuò cosi
ancora a co e (1) Anche qui non mi propongo di dare una bibliografia completa :
ma piuttosto di indicare le opere, di cui ho potuto giovarmi per il punto
speciale di vista , a cui mi collocai in questo lavoro. Fra esse citerò lo
ZIMMERN , Traité des actions, trail . Etienne, Paris 1843; BONJEAN, Traité des
actions chez les Romains, Paris 1845; il KELLER, Il processo civile romano e le
azioni, trad. Filomusi-Guelfi, Napoli 1872; BETHMANN-HOLLWEGG , Der röm .
Civilprocess in seiner geschichtl. Entwichelung, 3 vol., Bonn 1864-66, e
sopratutto il primo, che tratta delle legis actiones ; BEKKER, Die Aktionen d .
röm . Privatrechts, 2 vol., e sopratutto il vol. I, pag . 18-74 ; KAR LOWA ,
Der röm . Civilprocess zur Zeit d. Legisactionen , Berlin 1872 ; BUONAMICI, La
storia della procedura civile romana, Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da pag .
15 a 86 ; JHERING , L'esprit du droit romain , tome 36, pag. 312 a 343;
MuiraEAD, Histor. Introd ., pag . 181 a 235 ; Zocco-Rosa , Le palingenesi della
procedura civile romana, Roma 1887 ; WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig
1888. 555 stituire per qualche tempo un segreto di professione e di casta .
Pomponio infatti attribuisce ai pontefici di aver modellate le legis actiones,
in base alla legislazione decemvirale ; egli anzi dice con Gaio, che di qui
sarebbe provenuta la denominazione di legis actio nes, le quali poi per la
prima volta sarebbero state rese di pubblica ragione da Gneo Flavio ,
segretario di Appio Claudio (1). La notizia poi, che ci pervenne di queste
legis actiones , è molto imperfetta ; poichè lo stesso Gaio , che è forse il
solo che ebbe a discorrerne di proposito, ci descrive il sistema delle legis
actiones nell'ultimo stadio del suo svolgimento , e quindi si limita alla enu
merazione ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al lorchè questi
furono definitivamente formati, senza farci assistere alla progressiva formazione
di essi, salvo quel poco, che egli ci dice , circa la introduzione della legis
actio per condictionem . A ciò si aggiunge, che Gaio , discorrendo di un
sistema di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si limita a cenni
assai generali, i quali per giunta ci pervennero anche con gravissime lacune,
quali quelle relative alla iudicis postulatio , ed alla condictio (2 ). 430. Da
questa notizia, per quanto imperfetta, si possono tuttavia ricavare alcune
illazioni, che, per quanto generali, sono perd impor tantissime per la
ricostruzione della prima procedura quiritaria, che fu senz'alcun dubbio quella
delle legis actiones . È certo anzitutto, che anche in questa parte il
primitivo ius qui ritium non venne creando speciali procedure, per i varii casi,
che si presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche di proce dura , che
i pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai casi particolari, per
guisa che le primitive legis actiones costitui scono , secondo l'esatta
espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui ciascuno poteva
comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi sappiamo in secondo
luogo , che il sistema delle legis actiones è decisamente informato al concetto
, secondo cui la procedura per ogni controversia, che percorresse tutti i suoi
stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali , di cui una compievasi in
iure, cioè (1) Pomp., Leg . 2, § 6 , Dig. (1, 2 ) ; Gaio, IV, 11. (2) V. Gaio,
IV, 17, ove manca il foglio, in cui egli doveva trattare dell'actio per iudicis
postulationem , e passare poi a discorrere della legis actio per condictionem .
( 3) Gaio , IV , 12 , scrive : , lege agebatur modis quinque etc. 556 davanti
al magistrato , e l'altra invece seguiva davanti al giudice singolo od al corpo
collegiale dei giudici, al quale le parti potevano essere rimesse dal
magistrato . Mentre in iure si decideva , se in quel determinato caso si
potesse far luogo all'applicazione della legis actio , e si dava alla
fattispecie la configurazione giuridica delle me desima; in iudicio invece
giudicavasi della ragione e del torto fra le parti contendenti , in base alla
configurazione giuridica , che la controversia aveva assunto davanti al
magistrato ( 1). Ci consta infine, che le legis actiones si dividevano in due
ca tegorie, ispirate ad un concetto compiutamente diverso , in quanto che vi
erano quelle, che miravano a fissare il punto in questione e ad ottenere la
decisione del medesimo, e costituivano così la pro cedura , che potrebbe
chiamarsi processuale o contenziosa ; e quelle invece , che miravano
all'esecuzione del giudicato , e costituivano così la procedura esecutiva .
Nella prima categoria noi troviamo la legis actio sacramento e la iudicis
postulatio , alle quali venne ad ag giungersi più tardi la legis actio per
condictionem ; mentre nella seconda la vera procedura di esecuzione è
costituita dalla manus iniectio , che è diretta contro la persona del debitore
condannato o confesso , poichè solo in pochi casi, determinati dalla legge o
dal costume, è accordata la pignoris capio (2). ( 1) Ho già accennato altrove n
° 243, pag. 296 e seg., come la distinzione fra il ius ed il iudicium debba
considerarsi come una conseguenza necessaria di ciò , che la pubblica
giurisdizione del magistrato non estendevasi dapprima a tutte le con troversie
civili e penali, ma comprendeva soltanto quelle, che eransi sottratte alla
giurisdizione domestica e gentilizia , per essere deferite alla giurisdizione
del magi strato . Di qui la conseguenza, che ogni controversia civile ed ogni
accusa penale davano anzitutto luogo ad una questione preliminare , da
decidersi in iure, in cui trattavasi di vedere, se la controversia , o se il
delitto, di cui si trattava, potessero dare argomento ad un iudicium . Di qui
le espressioni di actionem dare, iudicium dare. Questa distinzione pertanto ,
fra il ius ed il iudicium , non ha nulla che fare colla separazione tra il
fatto ed il diritto : ma mira in certo modo a sceverare le questioni, che
debbono essere lasciate alla giurisdizione domestica ed agli arbitra menti
privati, da quelle, che debbono essere giudicate a secundum legem publicam » .
(2) Questa distinzione fra la procedura contenziosa e la procedura di
esecuzione non è espressamente indicata in Gaio, il quale si limita a dare come
caratteristica delle legis actiones , che esse , ad eccezione della pignoris
capio , si compievano in iure , cioè davanti al magistrato ; ma tale
distinzione è comunemente accettata e può dedursi dalla circostanza, che Gaio
comincia in effetto a discorrere delle azioni, che si potrebbero chiamare
processuali, e poi viene a parlare delle procedure esecu . tive, ancorchè
queste fossero certo più antiche della legis actio per condictionem , 557 431.
In questo stato di cose , la questione fondamentale, che pre sentasi
all'investigatore delle origini della procedura quiritaria , sta in cercare, se
il sistema delle legis actiones debba ritenersi creato di pianta dopo la
legislazione decemvirale ed in base alla medesima, o se invece debba ritenersi
costruito e modellato con materiali giu ridici già preesistenti (1). A questo
proposito ho cercato di dimostrare a suo tempo, che già fin dal periodo regio ,
cosi nei giudizii penali come nei civili , si possono trovare le traccie di
quella separazione fra il ius ed il iudicium , che venne poi ad essere
fondamentale nel sistema delle legis actiones , e che dovettero fin d'allora
già esistervi delle pro cedure consuetudinarie, certamente analoghe a quelle,
che compa riscono più tardi col nome di legis actiones. Che anzi abbiam visto
eziandio essere probabile, che sopratutto all'epoca serviana, in cui si
cominciò ad elaborare un ius quiritium , comune al patriziato ed alla plebe, e
si modello l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram ,
siasi pure iniziata la formazione di una procedura propria per le questioni di
carattere quiritario . Le prime origini di tale procedura sembrano accennate
dalla tradizione, che at tribuisce appunto a Servio Tullio, di aver distinto i
giudizii pubblici dai privati, e di aver ritenuto per sè la cognizione delle
contro versie di maggior importanza , mentre avrebbe affidato a giudici scelti
nell'ordine dei senatori, la risoluzione delle controversie di minor
importanza. È infatti questa tradizione, che unita alla considerazione del
grande movimento legislativo , che dovette ve rificarsi in quell'epoca, rende
assai verosimile l'opinione di co loro , che farebbero rimontare a Servio Tullo
l'origine del tribu che egli ci dice essere stata introdotta per l'ultima. Cfr.
BUONAMICI, Op. cit., pag . 19 e 20 . (1) È questa la questione, che fu di
recente presa in esame dallo Zocco-Rosa, Palingenesi della procedura civile
romanı , Roma 1887. Egli ridurrebbe le teorie in proposito enunciate a tre,
cioè : 1) a quella che vuol fare uscire la primitiva procedura dal seno stesso
della religione e del ius sacrum ; 2) alla teoria, che egli chiama della
preesistenza delle legis actiones alle XII Tavole ; 3 ) e alla teoria della
discendenza delle medesime dalle XII Tavole. Egli viene alla conclusione ammessa
dalla generalità degli autori, che prima delle XII Tavole moribus agebatur ,
mentre posteriormente lege agebatur. Passa poi a cercare le origini della
primitiva proce dura consuetudinaria presso i popoli di origine Aria, e questa
sarebbe ricerca di grande interesse ; ma forse per ora non si hanno ancora
materiali sufficienti per giungere ad una conclusione definitiva . 558 - nale
quiritario dei centumviri, quella dei iudices selecti, ed anche la prima
distinzione fra l'actio sacramento e la iudicis postulatio ; di cui quella
avrebbe aperto l’adito al centumvirale iudicium , e questa invece alla nomina
di arbitri o di giudici, scelti dal novero dei iudices selecti. Questi indizii
tuttavia , che accennano alla for mazione di una procedura quiritaria, anteriore
alle XII Tavole , non impediscono punto, che la medesima abbia dovuto subire un
rima neggiamento in tutte le sue parti, di fronte ad un avvenimento cosi
importante per il diritto privato di Roma, quale fu quello della le gislazione
decemvirale . Non parmi quindi, che possano essere respinte le attestazioni con
cordi degli antichi autori, secondo cui la procedura civile, se non creata ,
dovette almeno essere rimaneggiata , in base alla legislazione decemvirale, per
opera del collegio dei pontefici, e che in quell'oc casione appunto le
actiones, essendo state accomodate alla legge, abbiano assunta la denominazione
caratteristica di legis actiones. Che anzi da questo fatto parmi si possa
indurre con fondamento , che la parte del ius quiritium , relativa alle legis
actiones, dovette essere l'ultima ad essere elaborata dai veteres iuris
conditores , al lorchè già erasi formato un vero ius quiritium , e che, ciò
stante, questa parte , per essere sopraggiunta più tardi, quando le altre già
erano formate , non potè ridursi ad una semplice incorporazione di consuetudini
processuali già preesistenti, ma dovette già essere il frutto di una selezione
e di una elaborazione, a cui le medesime furono sottoposte. Nė può ritenersi
improbabile , che questa elabo razione abbia potuto essere l'opera degli stessi
pontefici, quando si ritenga, che essi da una parte erano i custodi delle
tradizioni delle genti patrizie e personificavano in certo modo lo spirito
conserva tore delle medesime, e dall'altra furono senz'alcun dubbio i creatori
della tecnica giuridica , e i primi maestri alla cui scuola si forma rono i
grandi giureconsulti della Repubblica e dei primi secoli del l'Impero. Parmi
anzi, che questa elaborazione dei pontefici, giure consulti e patrizii ad un
tempo, valga a spiegare quel doppio carattere dell'antica procedura romana, la
quale nelle proprie forme e nei proprii vocaboli richiama ancora
l'organizzazione patriarcale, mentre sotto un altro aspetto è già un capolavoro
di tecnica giuridica, che corrisponde mirabilmente alle altre parti del diritto
privato romano e al concetto del quirite , ispiratore del medesimo. A quel modo
in somma, che i veteres iuris conditores , trascegliendo fra le forme di
matrimonio e di negozii già preesistenti nelle consuetudini delle - 559 genti
italiche , riuscirono a sceverarne un connubium ed un com mercium ex iure
quiritium , e a richiamare l'uno e l'altro a certe forme tipiche e solenni, che
costituirono il diritto esclusivamente proprio della comunanza quiritaria :
cosi essi, operando una scelta fra i modi di procedere, che già potevano
essersi formati nei rap porti fra i capi di famiglia, e in quelli fra essi ed i
loro dipendenti, riuscirono a ricavarne una procedura tipica, che potè essere
consi derata come propria della comunanza quiritaria . Anche qui pertanto i
materiali certo erano preesistenti; ma il primitivo diritto romano non li
accetto senz'altro , quali esistevano, il che avrebbe dato ori gine ad una
varietà di procedure , analoga a quella che occorre presso gli altri popoli
primitivi; ma li sottopose invece ad una se lezione, riducendoli a quelle forme
tipiche , in cui tanto si compia ceva il genio giuridico romano, come lo
dimostra il modo, in cui fu rono modellate tutte le loro istituzioni
giuridiche. Fu in questa guisa , che si riuscì ad una procedura, la quale ,
mentre è adatta ad un popolo agricolo e militare ad un tempo , quale era il
popolo romano, porta perd le traccie evidenti dell'organizzazione patriarcale,
da cui usciva, e contiene cosi un ricordo prezioso delle varie fasi, per cui
passo lo stabilimento della civile giustizia (1) . 432. Noi abbiamo infatti
veduto a suo tempo , come già nella stessa organizzazione gentilizia , e
sopratutto, allorchè al disopra della gens venne a svolgersi la tribus, e colla
riunione dei vici si formò il pagus, già potessero sorgere controversie di
carattere giu ridico fra i varii capi di famiglia , ed anche fra essi ed i loro
di pendenti, e come il bisogno di venire alla risoluzione di tali con ( 1)
Questa spiegazione intorno all'origine delle legis actiones ha il vantaggio di
mettere d'accordo fra di loro i passi di antichi autori, relativi a
quest'argomento, che pervennero fino a noi. Con essa infatti può conciliarsi la
vetustissimi iuris ob servantia, a cui accenna Pomponio, coll'attestazione
concorde dello stesso Pomponio e di Gaio, secondo cui le legis actiones furono
composte ed accomodate sulle parole stesse delle XII Tavole. Questi due
caratteri, pressochè in opposizione fra di loro , possono conciliarsi fra di
loro , quando si accetti la teoria , svolta più sotto, di distin guere nella
legis actio, come già nell'atto per aes et libram due parti, cioè la parte
mimica , e la verborum conceptio. È la prima, che costituisce una vetustissimi
iuris observantia , ed è un ricordo delle varie fasi attraversate nello
stabilimento della civile giustizia ; ed è la seconda , che potè invece essere
accomodata e composta sulle parole stesse della legge. GAIO , IV , 11 ; POMP.,
Leg. 2 , 8 6 e 24 , Dig. ( 1,2). 560 troversie, abbia potuto dare origine a
certimodi di procedura, che col tempo dovettero acquistare una vera autorità
consuetudinaria (1) . Da una parte si dovette formare una procedura fra i capi
di fa miglia , uguali fra di loro , che nella loro fiera indipendenza non
accettavano altro giudice, che quello che erasi fra loro concordato , il quale
, anzichè giudice diretto della controversia , lo era invece della scommessa,
con cui cercavano di rafforzare l'affermazione so lenne della propria ragione .
Questa è quella procedura , che presso i romani fu ridotta ad una forma tipica,
e denominata actio sacra mento , le cui traccie trovansi non solo fra le genti
italiche , ma anche fra le elleniche, e presso i popoli Arii dell'India (3).
L'altra invece fu una procedura , la quale ricorda ancora uno stato di privata
violenza, e che probabilmente dovette svolgersi nei rapporti fra i vincitori ed
i vinti, e più tardi nei rapporti fra la classe superiore dei padri, dei
patroni, dei patrizii, e quella infe riore dei servi, dei clienti e dei plebei.
Essa nelle proprie origini dovette essere una effettiva manus iniectio , ma
poscia fu richiamata ad una significazione giuridica, e significò l'esercizio
anche violento della potestà giuridica spettante a una persona , come lo
dimostra il fatto, che essa continuò anche più tardi ad essere adoperata dal
padrone sul servo, dal padre sul figlio, ed anche dal patrono sul liberto (3 ).
Or bene entrambe queste forme di procedere, che certo ricordano un periodo
anteriore di organizzazione sociale, entrarono nella com pagine del ius
quiritium , e vi furono modellate per modo da cor rispondere alle altre parti
di esso . La prima fu adottata come azione tipica , allorchè trattasi di
istituire un giudizio fra quiriti : come tale essa mira a serbare la più
scrupolosa imparzialità ed ugua glianza fra i contendenti, non sapendosi ancora
chi possa essere il vincitore e chi il soccombente . La seconda invece fu
adottata come azione tipica , allorchè trattasi di procedere all'esecuzione
contro chi abbia subita una condanna, o confessato il proprio debito . ( 1)
Quanto alla primitiva formazione delle actiones, nei rapporti fra i capi di fa
miglia della stessa tribù e in quelli fra i capi famiglia e i loro dipendenti,
vedi ciò , che si è detto nel lib . I, cap. V , § 3º, pag. 130 e segg. (2 ) V.
in proposito lib . I, nº 104, pag. 135 , nota 14. Cfr. il SUMNER MAINE, Early
history of institutions, Lect. IX ; e lo Zocco- Rosa , Op. cit., pag . 209 e
seg . (3 ) V., quanto alle prime origini della manus iniectio, lib . I , nº 106
, pag . 137. Cfr. CAPUANO, Storia del diritto romano , Napoli 1878 ; Cugino,
Trattato storico della procedura civile romana, pag. 116 ; BuonamiCI, Op. cit.,
pag. 58. - 561 433. Di qui provennero i caratteri compiutamente diversi del
l'actio sacramento e della manus iniectio. Nella prima abbiamo una procedura
fra eguali ; quindi i con tendenti sono in certo modo attori e convenuti ad un
tempo : sono le persone, fra cui si discute , che recansi dinanzi al magistrato
. Esse fingono un combattimento fra di loro; affermano con identiche parole il
proprio diritto; fanno le medesime scommesse di 50 o di 500 assi , secondo il
valore della controversia ; sono ugualmente obbligati a dare garanzia
(vindicias dare) se siano ammessi al possesso della cosa , che forma oggetto
della controversia . Lo scru polo nel mantenere l'uguaglianza non potrebbe
spingersi più oltre, ed è uguale anche il pericolo per l'uno e per l'altro dei
contendenti; poichè la somma scommessa si perde dal soccombente , e mentre
nell'epoca gentilizia era forse consacrata ad usi religiosi, nel periodo
storico deve andare invece a benefizio del pubblico erario (1). L'altra
procedura invece, rozza, violenta suppone una assoluta disuguaglianza fra i
contendenti. Quella stessa legge, che procedeva titubante e quasi diffidente
per il timore dioffendere l'indipendenza dei contendenti, non teme invece di
accordare diritti illimitati e pres sochè senza confine al creditore contro il
iudicatus ed il confessus. Essa non si preoccupa dei beni di quest'ultimo, ma dà
diritto al creditore di procedere contro la persona del debitore, di imporre
sopra di lui la sua manus, e di trascinarlo avanti al magistrato per farsi
aggiudicare la persona del debitore stesso . Questi invece non ha diritto di
reagire contro la violenza del creditore (a se de pellere manum ) né di agere
pro se lege ; ma solo di nominare un altro, che faccia valere le sue ragioni
(vindicem dare) (2 ). Mentre l'actio sacramento è come una rappresentazione
simbolica (vis festucaria) di quel combattimento effettivo (vis realis), a cui
poteva dar luogo una privata controversia fra capi di famiglia indipendenti e
sovrani, dell'interporsi fra essi di un vir pietate gravis, dell'affermazione
scambievole della propria ragione, fatta dai contendenti e rafforzata da una
scommessa , della quale deve esser giudice quegli a cui le parti si sono
rimesse ; la manus in (1) Tutti questi caratteri della legis actio sacramento
si possono ricavare dalla descrizione di quest'azione fatta da Gaio, IV , 13 a
17, per quanto la medesima presenti molte lacune, sia quanto all' actio
sacramento in personam , che quanto all'actio sacramento relativa agli immobili
. (2 ) Gaio , Comm ., IV, 21 a 26 . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma.
36 562 iectio invece è la procedura del vincitore contro il vinto , di colui,
che ha il diritto, contro colui, il quale ne è privo, di quegli, che può
dettare la legge, contro colui, che deve subirla. Anche la controversia è una
lotta : quindi se durante la me desima deve essere serbata l'uguaglianza ,
allorchè invece essa è finita , il vincitore può stendere la propria mano sul
vinto e questi è forzato ad arrendersi. Era poi naturale, che la procedura di
un popolo agricolo e militare ad un tempo , per cui l'asta era il sim bolo del
giusto dominio , venisse eziandio ad essere simboleggiata in una specie di
lotta e di conflitto . 434. È tuttavia degno di nota, che i pontefici,
nell'accogliere e nel modellare queste forme di procedura, si attennero ad un
processo del tutto analogo a quello , che abbiam visto essersi seguito nel fog
giare le forme dei negozii giuridici del diritto quiritario . Al modo stesso,
che nell'atto quiritario per aes et libram può ravvisarsi una parte , che
compievasi « dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » e che costituiva
cosi un ricordo del passato , ed una parte veramente viva, che era la
nuncupatio, mediante cui un medesimo atto poteva accomodarsi ad una varietà
grandissima di negozii, anche di carattere compiutamente diverso ; cosi anche
nella procedura primitiva , miri essa ad istituire un giudizio od alla
esecuzione di un giudicato, possono facilmente distinguersi due parti, che
compiono una funzione compiutamente diversa. Havvi anzitutto una parte, che
potrebbe chiamarsi mimica, che si presenta sempre uniforme ed uguale , la quale
è mantenuta evidentemente più come un ricordo del passato, che per l'utilità
effettiva, che si possa ricavarne; come lo dimostra la disinvoltura , con cui
si accettano gli espedienti, che mirano a semplificarla . Questa parte
nell'actio sacramento è rappresentata dal recarsi sul luogo, ove trovasi
l'oggetto in contestazione , se trattisi di immobile ; dal portare davanti al
magistrato la cosa mobile o una particella di essa ; dal simbolo della festuca,
che adoperavasi hastae loco; dalla finta manuum consertio , dalla mutua
provocatio , e dal sacra mentum . Nella manus iniectio invece essa è
rappresentata dal fatto di adprehendere manu qualche parte del corpo del
proprio debitore. È questa parte mimica, la quale, costituendo in certomodo una
soprav vivenza , col tempo divento pressochè incomprensibile, e potè talvolta
essere posta in derisione, anche da autori antichi e fra gli altri da Cicerone.
E tuttavia a notarsi, che lo stesso Cicerone, allorchè scrisse 563
nell'interesse del vero e non in quello del cliente, non dubito di dichiarare,
che era di grande diletto questa impronta di vetusta , inerente alle legis
actiones, e di affermare che : « actionum ge nera quaedam maiorum consuetudinem
vitamque declarant» (1). Queste formalità infatti, conservateci da un popolo ,
che, più di qualsiasi altro , seppe sceverare l'essenzialità del fatto umano
dalle circostanze accidentali del medesimo, sono anche oggidi un impor
tantissimo documento del modo di pensare e di agire. che era proprio delle primitive
genti italiche. Intanto perd, accanto a questa parte, il cui mantenimento era
l'effetto dello spirito conservatore del popolo romano, eravi eziandio la parte
veramente viva ed attuosa , e questa consisteva in quelle concezioni verbali,
solenni e precise (conceptiones verborum , verba concepta , certa verba ), che
servivano a dare una configurazione giuridica alle varie fattispecie e a farle
entrare nella veste rigida delle legis actiones (2). Era in questo modo, che,
malgrado la va rietà infinita delle fattispecie, si riusciva ad isolare
l'obbiettività giuridica delle medesime e a richiamarle tutte a pochissimi
genera agendi. Questo era l'ufficio, a cui attesero dapprima i pontefici, poi
il pretore , e da ultimo i giureconsulti, e fu con questo magistero che la sola
actio sacramento fini per essere accomodata a tutte le controversie di
carattere quiritario , e la sola manus iniectio poté bastare a qualsiasi
procedura esecutiva . Vuolsi quindi conchiudere, che queste due legis actiones
costi tuiscono in certo modo il nucleo centrale della procedura quiritaria .
Esse sono quelle, in cui si può leggere il modo di pensare e di agire del
primitivo quirite, fiero , indipendente , geloso del proprio (1) Co., Pro
Murena, vol. 2, scherza spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla
proprietà di un fondo, dimostrando come le forme primitive avessero complicata
una procedura, che avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De
orat., I, riconosce eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in
questo studio dell'antico, allorchè scrive : « Nam si quem aliena studia
delectant, plurima est in omni iure civili, et in pontificum libris , et in XII
Tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum prisca vetustas cognoscitur, et
actionum genera quaedam maiorum con suetudinem vitamque declarant. ( 2) A mio
avviso, la conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della
nuncupatio nell'atto per aes et libram . Ciò sarà meglio dimostrato più sotto,
nº 449, ed apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole
atte nersi il primitivo diritto romano. 564 diritto , finchè la sentenza non
sia pronunziata ; umile , sottomesso , pronto ad abbandonare se stesso al
proprio creditore, allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria .
Intanto però, accanto a queste due procedure fondamentali, se ne vennero
svolgendo delle altre , che sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di
ri cercare lo svolgimento storico , così della procedura contenziosa, che della
procedura esecutiva. § 2. – Lo svolgimento storico della procedura contenziosa
nel primitivo diritto. 485. Se l'actio sacramento costituisce il nucleo
centrale della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones, noi
sappiamo però, che attorno ad essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo la
iudicis postulatio fra i cittadini, e la recuperatio fra cittadini e stranieri,
e che alle medesime più tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis actio per
condictionem . Importa quindi di determinare la funzione, che questi vari
genera agendi esercitarono sulla pri mitiva procedura , e di ricercare eziandio
l'ordine progressivo della loro formazione. Delle antiche legis actiones,
quella , intorno a cui ci pervennero maggiori notizie , è certo l'actio
sacramento . Noi sappiamo della medesima, che generalis erat, in quanto che
poteva essere adoperata per tutte le controversie, per cui non fosse stata
introdotta altra speciale procedura , si trattasse di agere in rem , od anche
di agere in personam . Essa quindi sembra riportarci ad un'epoca, in cui non
doveva esistere ancora la distin zione fra l'azione in rem e l'azione in
personam ; il che però non impedisce , che essa presentasse delle differenze
nelle solennità e nelle espressioni adoperate, secondo che trattavasi di agere in
rem o di agere in personam . Cosi pure in essa non vi è ancora la distin zione
netta e precisa fra l'attore ed il convenuto, ma i contendenti sono attori e
convenuti ad un tempo, come lo dimostra l'identità delle espressioni da essi
adoperate . Infine essa non conduce alla ri soluzione diretta della
controversia, ma piuttosto a giudicare quale dei due contendenti abbia
affermato il vero e quale il falso , e quale perciò debba essere soccombente
nella scommessa fra i medesimi intervenuta (utrius sacramentuin iustum , utrius
sacramentum in iustum sit) ; cosicchè in essa il soccombente, oltre al perdere
in 565 - direttamente la lite , corre anche il rischio di perdere la scom messa
(1) . Noi sappiamo poi, quanto alle controversie che dovevano rivestire la forma
di questa legis actio, che essa costituiva un preliminare indispensabile per
tutte le cause di carattere veramente quiritario , le quali erano sottoposte al
centumvirale iudicium , ed anche per quelle relative alla verità ed allo stato
delle persone (caussae liberales), quanto alle quali noi sappiamo, che il
sacramentum era solo di cinquanta assi (quinquagenarium ), e che esse erano
devolute ai decemviri stlitibus iudicandis (2 ) . Tutti questi caratteri
imprimono un suggello di vetustà all'actio sacramento , e ci richiamano a
quella potente sintesi, che è carat teristica del primitivo ius quiritium , in
cui non distinguesi ancora fra diritto personale e reale , fra attore e
convenuto , fra la provo . catio e la litis contestatio . Si comprende quindi,
che la mimica , che la precede, sia come un ricordo dei varii stadii, per cui
passò lo stabilimento della civile giustizia , fra i capi di famiglia , e che
essa , trapiantata dall'organizzazione gentilizia nella città, sia stata rico
nosciuta come l'azione tipica del diritto quiritario . Ciò spiega eziandio come
essa, mentre è certamente la più antica , sia stata anche la più duratura delle
legis actiones; poichè, quando le altre furono abolite, continud pur sempre ad
essere mantenuta qual preliminare al centumuirale iudicium , cioè davanti a
quel tribunale dei cen tumviri, che può essere considerato come il tribunale
essenzial mente quiritario , sia per il modo, in cui era composto, sia per le
controversie , che gli erano sottoposte, che erano appunto quelle, che
riguardavano la posizione di ciascun cittadino nel censo , e quindi anche nello
Stato ( 3). (1) GAIO, IV , 13 a 17 : Cic., Pro Caecina, 33, ove dice , che in
una causa da lui trattata per la libertà di una certa Aretina fu deciso , che
il suo sacramentum era iustum . Di qui le espressioni: iusto sacramento
contendere , iniustis sacramentis petere. ( 2) La necessità della legis actio
sacramento , per una causa da istituirsi davanti al centumvirale iudicium , è
dimostrata dal fatto che , secondo Gaio , IV , 31, anche dopo l'abolizione
delle legis actiones, fu ancora permesso di agire in questa guisa : a domini
infecti nomine, et si centumvirale iudicium futurum sit » . È poi lo stesso
Gaio , IV , 14 , il quale ci attesta, che le cause di stato erano precedute
dall'actio sacramento, in quanto che egli afferma, che in base alle XII Tavole
il sacramentum per una questione di libertà era solo di cinquanta assi. L'uso
del sacramentum nelle caussae liberales è poi anche confermato da Cic., Pro
Caec. 33 . (3) La competenza del centumvirale iudicium , per le cause di
carattere eminente. - 566 436. È invece ben poca cosa quello , che ci pervenne
intorno alla legis actio per iudicis postulationem . Dal palimpsesto di Verona
non si potè ritrarne, che il titolo , mentre da Valerio Probo si ricavo la
formola , che dovette adoperarsi per ottenere la nomina di un giudice o di un
arbitro : iudicem arbitrumve postulo uti des. Nelle XII tavole poi sono
indicati varii casi, in cui trattandosi di controversie di carattere indeterminato,
che suppongono una certa libertà di apprezzamento , e che talvolta sono anche
designate col vocabolo di iurgia , piuttosto che con quello di lites, si
propone la nomina di uno o più arbitri ( 1). Bastano tuttavia questi
pochiindizii per dimostrare le molte e gravi differenze , che la
contraddistinguono dall'actio sacramento . Essa in fatti già suppone la persona
dell'attore distinta da quella del conve nuto ; suppone una amministrazione
della giustizia già organizzata , in cuiil magistrato procede alla designazione
del giudice ; conduce alla risoluzione diretta della controversia ; non trae
più con sè, per quanto almeno noi possiamo saperne, il pericolo di perdere una
scommessa . Essa parimenti, come lo indica la sua denominazione, non conduce più
alla rimessione dei contendenti avanti ad un tribunale collegiale , come quello
dei centumviri e dei decemviri; ma dà origine ad un iudicium privatum , nel
vero senso della parola, in cui il giudice o l'arbitro , secondo un
antichissimo costume ro mano, dovevano essere concordati fra le parti (2 ).
Essa infine differisce eziandio dall'actio sacramento per il ca rattere di
indeterminatezza delle controversie , che ne formavano oggetto , le quali
supponevano una certa libertà di apprezzamento 1 mente quiritario, è attestata
dall'enumerazione fatta di tali cause da Cic., De orat., I, 38. (1) I casi, in
cui la legge decemvirale parla di nomine di arbitri , sono quelli relativi al
regolamento di confini: « si iurgant de finibus, tres arbitros dato » ; alla
divisione dell'eredità fra i coeredi (actio familiae erciscundae);
all'apprezzamento del danno dato dall'acqua piovana (arbiter aquae pluviae
arcendae) e qualche altro caso analogo. Vedi KELLER, Il processo civile romano,
$ 7, pag. 25 ; ORTOLAN , Expli cation historique des Institutes de Iustinien ,
Paris 1883, III, pag. 494. (2 ) Sebbene non si possa dire, che il centumvirale
iudicium si contrapponga in senso stretto al iudicium privatum , tuttavia
occorrono passi di autori , in cui i centumviri sono contrapposti al privatus
iudex , come in Cic., De or., I, 38 , 39; in Quint., Instit. or., 10 , n ° 115,
ove scrive : « alia apud centumviros , alia apud iudicem privatum in iisdem
quaestionibus ratio » . Cfr. ZIMMERN, Traité des actions, pag. 36, nota 3 e 4 .
567 - — nel giudice o nell'arbitro chiamato a risolverlo ; cosicchè, di fronte
al iudicium directum , asperum , simplex , che era istituito col l'actio
sacramento , essa iniziava di preferenza un iudicium od un arbitrium moderatum
, mite , in cui cominciava ad essere lasciata qualche parte a quell'equità e
buona fede, che erano escluse dalle forme rigide e precise del primitivo ius
quiritium . Al qual pro posito vuolsi eziandio notare, che quando si confronti
la denomi nazione attribuita da Gaio a questa legis actio, che è quella di
iudicis postulatio , colla formola serbataci da Valerio Probo, secondo la quale
si domanda un giudice od un arbitro , è lecito di inferirne, che in essa
dovette avverarsi uno svolgimento storico. Essa dapprima infatti dovette implicare
soltanto la nomina di un iudex , sotto il quale vocabolo si comprendeva anche
l'arbiter . Più tardi invece, e probabilmente in seguito alla legislazione
decemvirale , la quale am metteva per certe questioni anche la nomina di
arbitri, essa dovette porgere occasione a quella distinzione fra iudicium ed
arbitrium , la quale presentava ancora tante incertezze all'epoca di Cicerone
(1). 437. Questi caratteri presi insieme mi condurrebbero alla con clusione,
che la iudicis postulatio non presenti più quell'impronta di vetustà , che è
propria dell'actio sacramento, e non possa perciò essere considerata come una
procedura di carattere patriarcale , trasportata nella città . Essa invece
dovette già formarsi sotto l'in fluenza della vita cittadina, e dovette probabilmente
essere una con seguenza della stessa formazione del ius quiritium . Siccome
infatti, secondo appare dalle leggi, che ne governarono la formazione, il ius
quiritium non costitui mai tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella
parte di esso , che corrispondeva al concetto del quirite , e che primo era
riuscito a consolidarsi mediante il ricono scimento di una lex publica : cosi
ne consegui necessariamente, che anche le controversie, che potevano sorgere
fra i cittadini, si divi ( 1) Cic. , Pro Mur., 12, osserva, scherzando, che i
giuristi non si erano ancora potuti accordare circa l'uso delle parole di iudex
o di arbiter. La difficoltà di allora non è ancora scomparsa oggidì; poichè la
distinzione fra iudicium e arbitrium , fra il ius strictum e l'aequitas, fra la
lis e il iurgium , è una di quelle questioni di limiti, che non saranno mai
definitivamente risolte. Cfr. KELLER , Op. cit ., § 17, pag. 59. Quanto alla
differenza fra iudicium strictum e arbitrium , mi rimetto ad una mil vecchia
dissertazione col titolo: « De exceptionibus in iure romano » Torino 1873 , pag
. 28 e segg. 568 dessero naturalmente in due categorie. Vi erano da una parte
le controversie di carattere eminentemente quiritario , relative al caput, alla
manus, al mancipium , all'atto per aes et libram , ai negozii rivestiti della
forma del medesimo (nexum , mancipium , testa mentum ), all'eredità e alla
tutela legittima; le quali, per poggiare sopra una legge o sopra un atto od un
negozio di carattere quiri tario , potevano ridursi in certo modo ad una
affermazione o ad una negazione, ed accomodarsi così alle forme rigide
dell'actio sacra mento. Vi erano invece dall'altra parte quelle controversie,
le quali, o per l'indeterminatezza del loro oggetto, o per supporre una certa
latitudine di apprezzamento in chi era chiamato a giudicarle, o per dipendere
più dalla consuetudine, che da una vera legge, abbisogna vano in certo modo più
di un arbitro, che non di un giudice, nel significato ristretto , che ebbe ad
assumere più tardi questo vocabolo . Quest'ultime pertanto richiedevano una
procedura più semplice , non accompagnata dai pericoli dell’actio sacramento ,
in quanto che le parti contendenti potevano anche in parte essere nella ragione
ed in parte essere nel torto : quindi è probabile , che siano state ap punto
queste controversie, le quali, al punto di vista quiritario , ave vano minor
importanza, che Servio Tullio avrebbe cominciato a de ferire al iudex privatus,
introducendo appunto per esse la iudicis postulatio. Così pure non è punto
improbabile, che nella precisione ed esattezza del linguaggio primitivo le
prime controversie di ca rattere veramente quiritario si indicassero col
vocabolo di vere lites, mentre le altre fossero designate piuttosto col
vocabolo di iurgia (1). Siccome poi col tempo una parte di quel diritto, che in
certo modo esisteva allo stato fluttuante intorno al nucleo centrale del ius
quiritium , fini per essere attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle
forme rigide e precise del diritto quiritario ; cosi si può comprendere, come
col tempo la iudicis postulatio , che dap prima aveva un carattere sussidiario
, abbia potuto entrare anch'essa a far parte del sistema delle legis actiones.
Ciò anzi dovette av. venire naturalmente, allorchè la legislazione decemvirale
accolse la iudicis arbitrive postulatio , come lo dimostrano le controversie, (
1) L'opinione qui svolta , circa i rapporti fra l'actio sacramento e le iudicis
po stulatio , si avvicina a quella enunziata dal KARLOWA, Der röm .
Civilprozess, pag. 47 e segg.; 122 e segg. 569 per cui essa prescrisse al
magistrato di addivenire alla nomina di un giudice , o di uno o più arbitri. Da
quel punto la iudicis postulatio entrò a far parte del sistema della procedura
civile romana ; costitui ancor essa una legis actio ; che anzi, per il minor
pericolo che offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento,
come lo dimostrerebbe il Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di
azioni alla iudicis postulatio , che alla stessa actio sacramento (1). Questo
svolgimento poi fu sopratutto favorito dalla distinzione, che si operò nella
stessa iudicis postulatio , fra il iudicium e l'arbitrium , il quale ultimo,
accompagnato dalla clausola « ex fide bona » , fini, secondo l'attestazione di
Cicerone, per essere applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in
tutti quei negozii, in cui do mina la buona fede, quali sarebbero la società ,
la fiducia , il man dato , la vendita , la locazione e simili . Questi negozii
infatti , negli inizii, erano ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium ,
e come tali non potevano formar tema dell'actio sacramento, ma solo della
iudicis postulatio, alla quale probabilmente dovette appartenere la clausola
conservataci dallo stesso Cicerone : uti ne propter te fi demve tuam captus
fraudatusve siem (2 ). 438. Pervenuto a questo punto nella storia della
primitiva pro ceilura romana, parmi opportuno di arrestarmi alquanto all'esame
di un istituto, il quale, malgrado le sue modeste apparenze , dovette tuttavia
esercitare una potente influenza sullo svolgimento della me desima. Esso è
quell'antichissimo istituto, che è indicato col vocabolo di reciperatio , ed al
quale si rannoda senz'alcun dubbio quella ca tegoria di giudici, o di arbitri,
che vengono sotto il nome di recu peratores. Si è veduto in proposito , che
nelle consuetudini delle genti ita liche era indicata col vocabolo di
reciperatio quella clausola , che soleva aggiungersi aitrattati di amicitia e
di hospitium fra le varie genti o tribù, con cui stipulavasi fra esse un
diritto di reciproca actio , cosicchè i cittadini di un popolo potevano
chiedere ed ottenere ragione nel territorio e presso il magistrato di un altro
. Era con ( 1) Il Voigt, XII Tafeln , I, 586-589, assegnerebbe alla iudicis
arbitrive postu latio ben 35 azioni, di cui nove apparterrebbero agli arbitria
, e il rimanente ai éu dicia propriamente detti. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd
., pag. 199 . ( 2 ) Cic., De offic., III, 17. 570 - questa clausola , che la
protezione giuridica , in base ad un trattato ( foedus), cominciava ad
oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio per estendersi a quelli
di un altro , con cui si fosse in amichevoli rapporti. Essa poi aveva questo di
particolare, che po neva in certo modo di riscontro i diritti dei due popoli, e
rendeva anche necessario il ministero di più recuperatores, tolti anche da
popoli diversi, in quanto che i medesimi dovevano rappresentare l'elemento
cittadino e lo straniero ad un tempo (1 ). Quando poi si ritenga, che Roma usci
essa stessa dalla confede razione di genti di origine diversa , e fin dalle
proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle amicizie e colle
alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come in essa la
reciperatio sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente , e abbia col
tempo assunto il carattere di una procedura regolare, da applicarsi nei
rapporti fra i cives ed i peregrini. Cid è dimostrato dal fatto , che gli
antichi autori indicano talvolta la recuperatio col vocabolo caratteristico di
actio , e che in Roma i recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed
i peregrini, si cambiarono in una cate goria di giudici, che potevano essere
nominati anche per le contro versie inter cives, e sopratutto dal bisogno
sentito più tardi di creare un praetor peregrinus « qui inter peregrinos ius
diceret » (2 ). (1) Ebbi già occasione di parlare della reciperatio,
discorrendo del ius pacis, nei rapporti fra le varie genti, nel lib . 1', capo
VII , § 2º, nº 211, pag . 143. Se fosse lecito di paragonare istituti, che si
svolsero a distanza di migliaia di anni,direi che la reciperatio , nel
passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città nel mondo an tico,
corrispose a quella istituzione, che pure ebbe a svolgersi nel periodo di forma
zione degli Stati moderni, e che si esplicò col nome analogo di reciprocanza di
di ritto, la quale consisteva nell'accordare agli stranieri quella stessa
protezione di diritto, che fosse accordata ai nostri concittadini nello Stato ,
a cui gli stranieri ap partenevano. In quei tempi antichissimi la reciperatio,
come nei tempi moderni la reciprocanza , concorsero alla formazione dell'idea
di una comunanza di diritto fra i diversi popoli, che presso i Romani prenderà
il nome di ius gentium , e che nell'età moderna fu dal Savigny indicata col
nome di comunanza di diritto , la quale, se condo il grande fondatore della
scuola storica, dovrebbe essere posta a fondamento del diritto internazionale
privato. V. Savigny, Traité de droit romain , trad .Guenoux, tome VIII, § 374.
Quanto ai rapporti poi, che intercedono fra il concetto dell'antico ius gentium
, e questa comunanza di diritto fra gli stati moderni,mirimetto ad altro mio
lavoro col titolo : La dottrina giuridica del fallimento nel diritto intern .
privato, Napoli 1872, pag. 25 , come pure all'opera : La vita del diritto nei
suoi rapporti colla vita sociale, Torino 1880, pag. 346. (2 ) Quanto
all'influenza, che esercitarono in Roma la recuperatio ed i recupera 571 439.
Queste circostanze intanto rendono probabile la congettura, che in Roma, fin
dai più antichi tempi, dovettero trovarsi di fronte due forme di procedura.
L'una, propria dei quiriti, e perciò adatta al rigore del diritto quiritario ;
l'altra invece, applicabile ai rap porti fra cittadini e stranieri, e percid
più semplice e spedita . Sic come perd uno stesso magistrato sovraintendeva
dapprima all'una e all'altra, cosi esso veniva ad essere posto nella posizione
singolare di proseguire da una parte l'elaborazione del ius quiritium e di
sentire dall'altra l'influenza del diritto degli altri popoli, e di potere cosi
giudicare dell'opportunità e del bisogno di trasportare nella procedura romana
certe semplificazioni, che erano invece proprie della reciperatio . Di qui una
scambievole influenza di queste due forme di procedura, la quale continud
ancora, allorchè l'accre scersi delle controversie condusse a dividere la
iurisdictio fra due pretori, che nella loro stessa denominazione di praetor
urbanus e di peregrinus portano le traccie del dualismo, che essi rappresentano.
Fu questo il motivo per cui, a quelmodo stesso , che i recuperatores finirono
per essere accolti nelle categorie dei giudici fra i cittadini, così certe
procedure, che prima dovettero essere seguite nei rap porti fra i cives e i
peregrini, finirono, come più semplici e spedite , per essere accolte eziandio
nel diritto civile di Roma (1). Che anzi la coesistenza di queste due procedure
dovette , a mio tores, i quali diventarono col tempo una istituzione romana e
furono i modesti pre paratori della maggior opera, che doveva poi compiere il
praetor peregrinus, istituito probabilimente nell'anno 512 dalla fondazione di
Roma, vedi KELLER, Il processo civile romano, pag. 28 de segg.; ZIMMERN, Traité
des actions, pag. 45 e segg. ; JHERING , L'esprit du droit romain , I, pag. 235
e segg. ; KarLOWA, Röm . Civil prozess, pag. 218-230 ; Bouché-LECLERQ, Instit .
rom ., pag. 421 e segg . ; MUIRHEAD, Histor. introd ., pag . 111 e 112 , 123 e
225 , quanto all'applicazione della recuperatio inter cives. ( 1) Il Keller,
Op. cit., pag . 41; nota a ragione: « che il riguardare la legis actio come
propria soltanto dei cittadini romani, è una asserzione più volte prodotta, ma
non pienamente giustificata ». Noi sappiamo anzi da Gaio, IV , 31 , che
coll'actio sacramento poteva procedersi, anche davanti al praetor peregrinus,
al modo stesso che il praetor urbanus nominava dei recuperatores , anche per
cause inter cives ; ma ciò venne appunto ad essere l'effetto di questa
esistenza contemporanea delle due procedure, la quale condusse ad uno scambio
fra di esse. Intanto qui non può esservi dubbio, che negli inizii le cause
relative allo stretto diritto quiritario, quali erano quelle, che si recavano
davanti al centumvirale iudicium , non potevano essere che assolutamente proprie
dei cives romani o dei latini , o dei peregrini , a cui fosse stato esteso il
ius quiritium . 572 avviso , servire a preparare lentamente certi effetti,
chenegli avve nimenti posteriori appariscono pressochè repentini. Cosi, ad
esempio, essa dovette essere una delle principali cause, per cui, accanto al
concetto rigido del ius civile, si dovette venir gradatamente deli neando nella
mente del pretore e dei giureconsulti, che lo circon davano, il concetto più
largo di un ius gentium , il quale, una volta formato , doveva poi recare cosi
profonde trasformazioni nel primo . Cosi pure egli è probabile, che il pretore
in questa procedura, non essendo vincolato ai terminidi una legge, dovette
avere una maggior libertà nel formolare giuridicamente la controversia , il che
lo pose in condizione di poter lentamente preparare, fin da quel tempo, in cui
fra i cittadini duravano ancora le legis actiones, quel sistema delle formulae,
il quale col tempo doveva poi essere accolto dal ius civile ( 1 ). Infine, per
non spingere troppo oltre le induzioni, parmi eziandio probabile, che quella «
legis actio per condictionem » , che ultima comparve nel sistema delle legis
actiones, siasi modellata sulla condictio, che certo già esisteva nella
procedura della recuperatio. Noi sappiamo infatti, che questa era appunto
iniziata , mediante una condictio , in quanto che i contendenti condicebant
diem , ossia fis savano di comparire fra trenta giorni, avanti il magistrato ,
per ot tenere la nomina dei recuperatores; come lo dimostrano le espres sioni,
che occorrono nelle XII Tavole, di « status, condictus dies cum hoste » , il
quale doveva essere sacro per modo da essere un legittimo impedimento a
comparire in un giudizio fra cittadini. Sembra tut tavia , che vi fosse una
differenza fra la condictio nella procedura inter peregrinos, e la condictio
come legis actio inter cives ; poichè, mentre nella prima era in certo modo
concordato il giorno di com parire avanti al magistrato, nella seconda invece,
secondo la descri zione di Gaio , era l'attore, che intimava al convenuto
(actor adver sario denuntiabat) di comparire fra trenta giorni avanti
almagistrato ad iudicem capiendum (2 ). ( 1) Quanto all' influenza del praetor
peregrinus nel preparare il sistema delle formole e dell'Editto provinciale
nell'estendere il concetto del ius gentium è da ve dersi il Glasson, Étude sur
Gajus, Paris 1885, § 12, pag. 212 e segg. Cfr. Carle, L'evoluzione storica del
diritto romano, Prolus., Torino 1886, pag. 18 e segg. (2 ) Secondo il Voigt,
XII Tafeln , I, pag . 697 e 698, la legge 2. Tav. II, fra le altre cause di
legittimo impedimento a comparire avanti il magistrato, accenna appunto lo
status, condictus dies cum hoste . Cfr. quanto alla « condictio cum hoste » il
MuruEAD, Op. cit., pag. 224. - 573 440. Anche intorno alla legis actio per
condictionem ci per vennero notizie molto scarse, in quanto che il manoscritto
di Gaio si presenta manchevole in quella parte, in cui egli, accingendosi a
parlare della legis actio per condictionem , sembrava accennare alle origini di
essa . Da quel poco tuttavia, che egli ne dice, si può ri cavare : lº che la
sostanza di questa legis actio consisteva nella condictio , o meglio nella
denuntiatio , che l'attore faceva al conve nuto di comparire fra trenta giorni
ad iudicem capiendum ; 2º che nella medesima quella scommessa, che occorreva
nel sacramentum , appare surrogata dalla sponsio et restipulatio tertiae
partis, per cui il soccombente, oltre l'importo della controversia , deve
corrispondere al vincitore il terzo della medesima a titolo di pena ; 3º che
infine essa fu introdotta prima da una lex Silia per le obbligazioni di una
certa pecunia e poi estesa dalla lex Calpurnia alle obbligazioni di una certa
res : leggi, che sogliono essere assegnate approssima tivamente al principio
del sesto secolo di Roma (anni 510 a 520 U. C.). Quanto alla causa , per cui la
condictio ebbe ad essere intro dotta, essa forma oggetto di discussione fra i
giureconsulti, i quali ebbero ad osservare, che per le controversie di questa
natura po . tevano servire le anteriori legis actiones ( 1). Ricomponendo
tuttavia questi pochi indizii col resto , che sappiamo delle legis actiones, si
possono ricavare alcune importanti illazioni. È certo anzitutto , che la
condictio non era del tutto nuova, nè quanto al nome, nè quanto alla sostanza ,
e non è punto improbabile , che fosse una imitazione della condictio, propria
della procedura inter cives et peregrinos. Essa poi fu accolta nel sistema
delle legis actiones per le controversie, che volgevano o intorno ad una certa
pecunia o intorno ad una certa res: quindi, riguardando obbliga zioni relative
ad un certum , essa dovette restringere il dominio della (1) Gaio, IV, 17 a 20.
Quanto alla stipulatio et restipulatio tertiae partis essa non è accennata nel
testo mutilato di Gaio , relativo alla legis actio per condictio nem ; ma noi
possiamo indurne la esistenza da ciò , che egli dice altrove, IV , 13 , che
questa stipulatio et restipulatio tertiae partis faceva parte dell’qctio certae
cre ditae pecuniae propter sponsionem . Ora l'actio certae creditae pecuniae,
nel sistema formolario, succedette alla legis actio per condictionem : quindi
se essa ritiene questo carattere, che certamente sa di antico , e richiama
sott'altra forma la scommessa del sacramentum , dovette certo ereditarlo dalla
medesima. È poi lo stesso Gaio, IV , 20, che accenna ai dubbi fra i
giureconsulti circa il motivo, per cui fu introdotta questa nuova legis actio.
574 actio sacramento, anzichè quello della iudicis postulatio, la quale era
propria delle controversie di carattere indeterminato . Per tal modo la
condictio si presenta come una semplificazione dell'actio sacramentu ; abolisce
tutta la parte mimica del sacramentum ; sostituisce, quanto alle obbligazioni
aventi per oggetto un certum , il giudice singolo al tribunale popolare dei
centumuiri; infine sur . roga alla scommessa , che andava a beneficio
dell'erario, la sponsio et restipulatio tertiae partis , che va invece a
benefizio del vinci tore delle lite ( 1 ). 441. Quanto alla causa storica , che
può aver determinata questa semplificazione nella procedura relativa alle
obbligazioni di un certum , essa deve certamente essere cercata in qualche
importantissima tra sformazione, che dovette avverarsi nell'epoca della lex
Silia e Calpurnia , quanto alle obbligazioni di carattere quiritario. Qui per
tanto viene ad aprirsi un largo campo alle congetture ; ma è possi bile di
giungere a qualche risultato probabile, se si tenga dietro al processo storico
del ius quiritium nella parte relativa alle obbli gazioni. A questo proposito
si è dimostrato a suo tempo , che la forma primitiva dell'obbligazione ex iure
quiritium fu quella del l'atto per aes et libram , che pigliava il nome di
nexum . Colla medesima il debitore sottoponeva senz'altro la sua persona a
tutti i rigori della manus iniectio , per il caso che non avesse soddisfatto il
suo debito a scadenza. In questa parte però il ius quiritium subi una
trasformazione profonda, allorchè la lex Poetelia tolse di mezzo gli effetti
speciali del nexum , negando al medesimo l'efficacia di un'esecuzione immediata
contro la persona del debitore. Da quel momento il nexum cessò di costituire
quell'ingens vinculum fidei che prima era, e cominciò a cadere in disuso ; ma
sottentrarono in suo luogo e vece altri modi, esclusivamente proprii dei
cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una certa pecunia , o di una
certa res, quali furono ad esempio la sponsio o stipulatio, la ex pensi latio o
litteris obligatio , o infine la mutui datio, di cui formano oggetto quelle
cose « quae numero, pondere acmensura constant » . Per tutte queste
obbligazioni di un certum , non essendo più consentita la immediata manus
iniectio , che un tempo era con (1) Cfr. in proposito Keller , Op. cit., pag.
62 e 63; e il BuonAMICI, Proc. civ. rom ., 1, 52 e segg . 575 sentita per il
nexum , non poteva più esservi altra procedura, che quella dell'actio
sacramento , la quale, per il pericolo, che vi era inerente, non poteva a meno
di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa , il cui credito
risultava in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile . Si
comprende pertanto, che prima la lex Silia , per una certa pecunia , e poi la
lex Calpurnia , per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento la
legis actio per condictionem , in cui evvi ancora un vestigio dell'antica
scommessa nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non
va più a benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il
vincitore ed una pena per il soccom bente (1 ). Siccome poi nel diritto romano
ogni istituto , che riesce a pene trare nella compagine di esso , ben presto si
rivendica il posto , che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può
essere capace; così la condictio , appena fu ammessa come legis actio, essendo
più semplice , più spedita , meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per
richiamare a sè stessa tutte le controversie relative all'obbli gazione di un
certum , mentre l'actio sacramento si circoscrisse a tutte quelle controversie ,
che hanno il carattere di una vindicatio , intesa in largo senso . Di qui
consegui col tempo, che il vocabolo di condictio , nel linguaggio giuridico,
divenne pressochè sinonimo di actio in personam , mentre l'actio sacramento
finì per significare di preferenza l'actio in rem o la vindicatio . Ha quindi
tutte le ragioni Gaio di accusare di improprietà l'uso , che facevasi ai suoi
tempi, del vocabolo di condictio per indicare l'actio in personam , poiché
l'essenza della primitiva condictio non consisteva tanto nel dari oportere,
quanto piuttosto nella denuntiatio diei; ma ciò punto non toglie, che di fatto,
in virtù di un lungo processo storico, verifica tosi nel sistema delle legis
actiones, l'actio sacramento si fosse ri dotta alle sole vindicationes, mentre
la condictio era in sostanza divenuta la forma, sotto cui facevansi valere
tutte le actiones in (1) V. il cap . prec., $ 2 , relativo al nexum , n ° 376 ,
pag . 484 e sogg ., ove trattasi appunto del comparire della mutui datio e
della stipulatio, in surrogazione del nexum primitivo, che andava in disuso.
Anche il MUIRHEAD, Op. cit ., pag. 226 a 235, 80 stiene un'opinione analoga a
quella proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che egli tratta
contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della legis actio per
condictionem . Ho però già notato, come quest'autore ritenga col Leist la
stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da ammettersi.
576 personam , e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo dell'actio
in personam (1 ). 442. Intanto dalle cose premesse può esser ricavato il
seguente svolgimento storico della procedura contenziosa nel sistema delle
legis actiones. Le due procedure più antiche, le quali rimontano probabilmente
ad epoca anteriore alla fondazione stessa della città , sono l'actio sacramento
e la reciperatio. Quella è la procedura , che fu accolta come esclusivamente
propria dei quiriti, per le questioni di carat tere quiritario , e quindi negli
inizii dovette essere la legis actio fondamentale del ius quiritium , nello
stretto senso della parola ; questa invece si applicò nei rapporti inter
peregrinos ed anche in quelli inter cives et peregrinos. Siccome però nella
città di Roma era continuo l'attrito fra i cives ed i peregrini, e l'una e l'altra
procedura seguiva davanti allo stesso magistrato, così ne venne, che le due
procedure finirono per esercitare scambievole influenza l'una sull'altra ;
cosicchè col tempo le forme più semplici e spedite della procedura inter cives
et peregrinos finirono talvolta per es sere trasportate ed accomodate alle
esigenze del diritto civile romano. Così, ad esempio , allorchè fra i
cittadini, accanto alle vere lites di carattere quiritario, che per la
precisione ed esattezza di questo diritto , potevano risolversi affermando o
negando, si svolsero delle questioni di carattere più indeterminato , che
chiamavansi piuttosto iurgia , accanto all’actio sacramento , che continuò ad
essere l'a zione tipica del ius quiritium , cominciò a svolgersi la iudicis po
stulatio , la quale fini colla legislazione decemvirale per entrare eziandio
nel novero delle legis actiones. Per tal guisa le controversie, che hanno per
oggetto un certum , si trattano coll'actio sacramento ; quelle invece, che
riguardano un incertum , dånno argomento alla iudicis postulatio. Ognuna poi di
queste due legis actiones fini ( 1) Gaio , IV , 18 , dopo aver detto, che
l'essenza dell'antica legis actio per condi ctionem consisteva nella
denuntiatio diei, aggiunge: « nunc vero non proprie con dictionem dicimus
actionem in personam , qua intendimus dari oportere ; nulla enim hoc tempore eo
nomine denuntiatio fit o . Egli aveva ragione dal suo punto di vista , perchè
l'essenza dell'actio in personam ai suoi tempi stava non più nella denun tiatio
diei , ma nel dari oportere ; ma storicamente lo scambio della parola si era
operato, perchè nel sistema delle legis actiones la condictio era divenuta la
forma, sotto cui si proponevano tutte le actiones in personam aventi per
oggetto un certum . · 577 per subire una suddistinzione. Quando infatti,
accanto all'actio sa cramento, penetrd la condictio, la prima fini per
restringersi alle vindicationes, e questa invece attirò a sè tutte le actiones
in per sonam , che avessero per oggetto un certum , e divenne quasi si nonimo
di actio in personam . Cosi pure, allorchè nel diritto civile romano penetrd in
parte la considerazione dell'aequitas e della bona fides, nel seno della
iudicis postulatio si operd pure una distinzione; poichè essa potė dar luogo o
alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un arbitro, secondo la
larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro affidata
nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni di equità
. Intanto però , mentre si avverava questo svolgimento storico, è probabile,
che tanto la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in parte, abbiano
imitate delle procedure, che già si applicavano nei rapporti inter cives et
pere grinos . Fu in questa guisa, che, già sotto la veste ferrea delle legis
actiones, si vennero preparando tutte quelle distinzioni di actiones , che
poterono poi acquistare un libero svolgimento col sistema delle formulae. Tali
sono le distinzioni fra la vindicatio e la condictio ; fra l'actio in rem e
l'actio in personam ; fra le actiones stricti iuris e bonae fidei; fra le
actiones certae e le incertae ; fra l'actio nes in ius conceptae e le actiones
in factum . Si può quindi conchiudere , che anche in tema di procedura tutte le
varietà e di stinzioni delle azioni sembrano procedere da un'unica forma tipica
, che è quella dell’actio sacramento , la quale fu il nucleo centrale, intorno
a cui si svolse la procedura contenziosa dell'antico diritto ; ma che accanto
alla medesima fin dai primi tempi fuvvi la recipe ratio per le controversie inter
cives et peregrinos, dalla quale do vettero essere mutuate certe procedure più
semplici, come quella della condictio. Fu poi eziandio in questa procedura, che
doveva essere applicata dal praetor peregrinus, che cominciò a prepararsi quel
concetto del ius gentium , e quel sistema delle formulae, che esercitarono poi
tanta influenza sul diritto civile romano. $ 3 . Lo svolgimento storico della
procedura esecutiva nel sistema delle legis actiones. 443. Mentre nella
procedura contenziosa l'antico diritto cerca di mantenere la più rigorosa
imparzialità fra i contendenti, esso invece apre l'adito ad una procedura ben
più decisiva, allorchè la G. CARLI, Le origini del diritto di Roma . 37 578
lotta fra i contendenti giunse al suo termine, e trattisi di proce dere
all'esecuzione contro il soccombente . Anche il linguaggio giu ridico sembra
allora richiamare un'epoca di privata violenza , in cui ciascuno era vindice
del proprio diritto , e noi veniamo cosi a tro varci di fronte alla manus
iniectio e alla pignoris capio, di cui quella sembra avere il carattere di una
esecuzione contro la per sona del debitore, e questa invece il carattere di una
pignorazione privata contro i beni del medesimo. È tuttavia facile lo scorgere
, che nella procedura quiritaria si preferisce nell'esecuzione di procedere
contro la persona del debitore, anzichè contro i beni del medesimo. Infatti
nell'antico diritto il modo generale di esecuzione per le ob bligazioni viene
ad essere la manus iniectio , che è diretta appunto contro la persona ; mentre
la pignoris capio riveste in certo modo il carattere di un privilegium , e
viene così ad essere ristretta a pochissimi casi , che furono specificamente
introdotti o dalla legge o dal costume, e determinati dalla natura del credito
(1 ). Intanto nell'una e nell'altra procedura già apparisce evidente , che se i
vocaboli richiamano ancora l'uso della forza, questa perd viene già ad essere
regolata dall'impero della legge ; poichè è questa che determina i varii casi,
in cui può ricorrersi all'uno od all'altro modo di esecuzione. 444.
Incominciando dalla manus iniectio , noi troviamo che la medesima, nel
primitivo ius quiritium , compare sotto forme diverse, che vogliono essere
tenute ben distinte fra di loro. Una prima forma di essa era la manus iniectio,
a cui poteva appigliarsi il padrone col servo, che avesse cercato di sottrarsi
al suo potere, e questa era una conseguenza della podestà del padrone sul servo
, di cui rimasero le traccie nella vindicatio in servitutem . Un'altra forma
era quella invece, a cui dava origine l'obbligazione solenne del nexum , in
base a cui il debitore, che non pagava a sca denza, poteva, anche senza
l'intervento del magistrato , essere trasci nato nella casa del debitore, e
quivi essere ridotto a condizione pressochè servile, fino a che non avesse
soddisfatto il proprio debito . ( 1) Vuolsi qui aggiungere , che Gaio , IV .
29, accenna perfino al dubbio surto fra i giureconsulti, relativamente alla
natura della pignoris capio, che alcuni ritenevano non essere una legis actio,
in quanto che la medesima, sebbene si compiesse certis verbis, a differenza
tuttavia delle altre legis actiones, extra ius peragebatur, e poteva perfino
compiersi in giorno nefasto. 579 Questa manus iniectio rimonta certamente ad
epoca anteriore alla legislazione decemvirale, ed era una conseguenza del
rigore della primitiva obbligazione quiritaria, contratta colle formedell'atto
per aes et libram . Questa fu quella manus iniectio, la quale, applicata
sopratutto nei rapporti coi debitori plebei, diede origine a quelle dis
sensioni civili, a proposito dei nexi, a cui cercò di porre termine la lex
Poetelia nel 428 di Roma. Essa però non era ancora una vera legis actio , in
quanto che non fondavasi sulla legge, ma derivava direttamente dal rigore
dell'obbligazione quiritaria , assunta colle forme del nexum , nella quale la
volontà manifestata dalle parti co stituiva legge, ed implicava la condanna del
debitore . Havvi infine quella manus iniectio , che occorre nella legislazione
decemvirale e che costituisce un modo generale di esecuzione contro coloro ,
che avessero confessato il proprio debito (aeris confessi), o che avessero
subita una condanna giudiziale per il pagamento di una determinata somma
(iudicati vel damnati). A mio avviso , è solo a quest'ultima, che Gaio
attribuisce il carattere di una vera legis actio , e che egli indica col nome
di manus iniectio iudicati, sive damnati (1 ). La severità inumana, a cui
poteva giungere la procedura della (1) Gaio , IV , 21. L'opinione espressa nel
testo fondasi sulla considerazione, che Gaio restringe evidentemente la legis
actio per manus iniectionem ai casi « de quibus, ut ita ageretur, lege aliqua
cautum est » , e si limita a fare una rassegna storica delle varie leggi, le
quali, incominciando dalle XII Tavole,avrebbero consentito questo mezzo di
esecuzione . Nella sua esposizione pertanto non si accenna più a quella
rigorosa procedura , di origine pressochè contrattuale, a cui dava origine il
primitivo nexum ; tanto più che la medesima era andata in disuso fin dal tempo,
in cui la lex Poetelia aveva tolte di mezzo le conseguenze speciali del nexum .
Non mi sembra quindi il caso di voler forzare le espressioni di Gaio per far
entrare i nexi nella espressione dei iudicati o dei damnati, adoperata da Gaio.
Piuttosto i nexi dell'antico diritto potevano ritenersi compresi negli aeris
confessi delle XII Tavole, dei quali non era più il caso che Gaio si occupasse
; poichè, se con quel vocabolo si intendevano gli obbligati col nexum , le
disposizioni delle XII Tavole erano state abrogate, e se si intendevano gli in
iure confessi, non era il caso di farne una categoria speciale di fronte al
principio:« in iure confessus pro iudicato habetur » . Questa opinione intanto
si differenzia da quella di coloro, che vorrebbero compren dere i nexi nei
damnati, di cui parla Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, op . cit., p. 205, e da
quella eziandio di coloro, che appoggiati al testo di Gajo, il quale non parla
dei nexi, vorrebbero escludere gli obbligati col nexum dalla procedura della manus
iniectio, e porre imedesimi nella condizione di tutti gli altri debitori, come
il Voigt, I, 626, e il Cogliolo , nelle note al PADELLETTI, Storia del dir. rom
., pag . 328, il quale pure ha adottato l'opinione del Voigt. 580 manus
iniectio, fu probabilmente una delle cause , per cui la me desima col tempo
diventò oggetto di investigazione curiosa per gli stessi autori latini, i quali
ebbero cosi occasione di tramandarci le espressioni testuali delle XII Tavole a
questo riguardo (1) . Allorchè altri aveva subito condanna per un proprio
debito , gli era prima consentita una specie di tregua (velut quoddam iustitium
), che durava trenta giorni, in cui doveva avvisare almodo di pagare il debito
(conquirendae pecuniae causa ). Trascorsi i medesimi senza che egli pagasse ,
il creditore poteva porre sopra di lui la sua manus, condurlo davanti al
magistrato , e quivi pronunziare la formola solenne della manus iniectio ; né
al debitore era lecito di depellere manum a se, né di agere lege pro se, ma
solo poteva nominare un vindex , che facesse valere le sue ragioni, dando
sicurtà per il processo e per l'eventuale pagamento del doppio nel caso in cui
vincesse l'attore. Intanto il creditore po teva condurre il debitore nel suo
carcere privato, e quivi metterlo in catene, con scelta al debitore di
alimentarsi del suo o di lasciarsi alimentare dal creditore. Questo arresto
durava sessanta giorni, e negli ultimi tre giorni di mercato , compresi in
questo spazio di tempo, il creditore doveva condurlo di nuovo davanti al magistrato,
e far pubblica la somma da lui dovuta accid qualcuno potesse pagare per lui.
Che se anche allora non si fosse fatto il pagamento , il creditore poteva
ucciderlo 0 venderlo al di là del Tevere (capite poenas dabat, aut trans
Tiberim venum ibat) ; ed anzi, se più fossero i creditori, veni vano le famose
espressioni conservateci da Gellio : « partis se canto : si plus minusve
secuerunt, se fraude esto » . (1) L'autore , che ci ha serbata più particolare
notizia della procedura esecutiva nell'antico diritto, conservandoci perfino le
parole testuali della legge , è Gellio , Noc. Att., XX, 1, $ S 41, 51, dove
introduce il giureconsulto Sesto Cecilio Africano e il filosofo Favorino, a
discutere intorno ad alcune singolari disposizioni del primitivo diritto :
interessante discussione , poichè da una parte abbiamo il giureconsulto, che,
riportandosi alle opportunità dei tempi, cerca di scusare il vigore dell'antico
diritto , e dall'altra abbiamo il filosofo , il quale, a nomedella ragione,
viene combat tendone quelle disposizioni, che il tempo aveva fatto apparire o
irragionevoli od inumane. Intanto, a questa discussione poi dobbiamo la maggior
parte di quelle te stuali disposizioni delle XII Tavole, che a noi siano
pervenute, le quali composte insieme colle informazioni dateci da Gaio, IV, 21,
ci porgono le fattezze primitive della manus iniectio . 531 445. Si comprende
come l'enormezza del potere, che la legge qui accordava al creditore, abbia
lasciati increduli gli antichi ed anche i moderni. Di qui il tentativo recente
del Voigt di interpre tare la legge nel senso, che il capite poenas dabat
significasse la riduzione in schiavitù del debitore, e che il partis secanto si
rife risse alla ripartizione del prezzo ricavato dalla vendita, per il caso in
cui fossero più i coeredi del creditore (1) . Certo è, che se noi avessimo
soltanto il testo della legge, questo potrebbe forse consen tire questa
interpretazione, punto non ripugnando che la legge at tribuisse a quei vocaboli
una significazione giuridica, anzichè lette rale : ma noi, oltre al testo della
legge, abbiamo anche il commento , che vi diedero gli antichi, e questo è tale
da escludere qualsiasi interpretazione più benigna. Noi troviamo infatti presso
Gellio , che il giureconsulto Sesto Cecilio , pur tentando di spiegare il
rigore della legge, punto non accenna alla possibilità di tale interpretazione;
ma dice invece , che i primitivi legislatori, nell'intento di tutelare la fede
nei negozii privati, avrebbero introdotta una pena, che per la propria immanità
non poteva essere applicata , come in effetto non lo era mai stata (2 ). ( 1)
Voigt, XII Tafeln , II, pag . 361. Egli, ciò stante, nella ricostruzione della
legge 8 della Tav. III , aggiungerebbe alle parole serbateci da Gellio : «
Tertiis nundinis, partis secanto » le parole « si coheredes sunt » : il che
vorrebbe dire, che se il debitore era domum ductus da uno dei suoi creditori,
egli non poteva più es sere soggetto alla manus iniectio degli altri; ma
intanto se fossero stati più i coe redi del creditore, che l'aveva domum
ductus, i medesimi potevano , in base alle XII Tavole, procedere contro di lui
soltanto per la quota loro spettante di credito, e perciò dovevano chiedere il
riparto della somma loro dovuta. Certo la supposizione è ingegnosa ; ma è difficile
di persuadersi, che una espressione larghissima, quale sa rebbe quella di
Gellio, possa restringersi ad un caso abbastanza speciale , qual sa rebbe
quello posto innanzi dal Voigt. ( 2) Questa interpretazione letterale della
legge, di cui si tratta , non sarebbe solo attribuita alla medesima da Gellio
XX , 1 , 50 , ma eziandio da Quintil., Instit. or., III, 6 , 84 , e da
TERTULL., Apol., 4 ; ma con parole alquanto vaghe, e coll'ag giunta ,pur fatta
da Gellio, loc. cit., $ 51, che la storia non ricordava alcun caso di sectio
corporis: «dissectum esse antiquitus neminem equidem neque legi,neque audiri »
, Parmi poi, che un argomento per questa letterale interpretazione siavi
eziandio in quell'altra disposizione delle XII Tavole, secondo cui: « si membrum
rupit, ni cum eo pacit, talio esto » ; ove compare in certo modo la stessa
tendenza di accordare a colui, che ha subìto un danno per colpa di un altro ,
una potestà corrispondente sul corpo di lui. Questa letterale interpretazione
ebbe pure ad essere sostenuta, col sus sidio della giurisprudenza comparata,
dal Kohler , das Recht als Culturerscheinung, Vürzburg 1884 , pag. 17 e segg. ,
il cui brano relativo è riportato dal MUIRHEAD , 582 Non può quindi essere il
caso di dare alla legge una significa zione diversa da quella , che vi
attribuirono gli antichi, ma piuttosto di cercare, come mai i decemviri abbiano
potuto giungere ad una disposizione di questa natura . Tale spiegazione , a
parer mio , non deve essere cercata tanto nella rozzezza dei costumi romani,
quanto piut tosto in quella logica inesorabile, di cui già sonosi trovate le
traccie nelle varie parti del ius quiritium , e sopratutto nel rigoroso con
cetto, che questo diritto ebbe a formarsi dell'obbligazione personale. Al modo
stesso che il diritto quiritario, nella sua logica rude, trat tandosi del
dominio, immedesimò in certo modo la cosa , oggetto della proprietà , colla
persona a cui essa appartiene : così pure esso, nel concepire il diritto di
obbligazione , vide nel medesimo un vincolo strettamente personale, che stringe
pressochè materialmente il de bitore al suo creditore (nexum ), senza punto
preoccuparsi dei beni, che appartenessero a quest'ultimo. Se quindi il debitore
condannato non soddisfi il debito, la logica del diritto primitivo non si
appiglierà all'espediente di ripiegarsi sovra i beni del debitore, ma procederà
diritta per la sua via, e verrà così aggravando i mezzi di coazione contro il
debitore che non paga,nell'intento di forzarlo ad eseguire il pagamento . Che
se le coazioni di carattere giudiziale od estragiu diziale non bastino, questa
logica primitiva, fissa nel carattere esclu sivamente personale
dell'obbligazione, potrà anche giungere fino al l'estremo di accordare al
creditore il diritto di vendere o di uccidere il debitore, al modo stesso , che
attribuisce al proprietario la facoltà di distruggere la cosa, che gli
appartiene (ius abutendi). È tuttavia evidente, che l'antico diritto ,
accordando simili diritti al creditore contro il debitore condannato, non
intende tanto di accordargli un diritto reale ed effettivo , quanto piuttosto
di attribuirgli efficaci e potenti mezzi di coazione. Ciò è dimostrato da tutta
la procedura op. cit., Appendix a nota 5, pag . 446 e 447. Lo stesso Kohler già
erasi occupato della questione nel « Shakespeare vor dem Forum der Jurisprudenz
» , Vürzburg 1884, di cui può vedersi un largo resoconto del GIRARD nella «
Nouvelle revue historique » 1886 , p. 226 a 240. A compimento di questa notizia
ricorderò anche la interessante dissertazione dell'ESMEIN, Débiteur privé de
sépulture, nei « Mélanges d'histoire de droit », pag. 244 e 266 , ove il
diritto del creditore prende un altro singolare svolgimento, quello cioè di
porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di rifiutare al medesimo il
riposo della tomba, finchè i congiunti o gli amici non ne abbiano pagato il
debito . Qui la coazione adoperata s'appoggia sull'opinione po polare, che
l'anima del debitore non trovi riposo, finchè il suo corpo non riposi nella
tomba . 583 della manus iniectio , dalla necessità nei varii stadii della
medesima della presenza del magistrato , dall'obbligo imposto al creditore di
far pubblico il suo credito e di esporre sul mercato la persona del debi tore ;
ed è questo il concetto , che ebbe ad esprimere, presso Gellio , il
giureconsulto Sesto Cecilio dicendo che i decemviri: « eam capitis poenam ,
sanciendae fidei gratia , horrificam atrocitatis ostentu , novisque terroribus
metuendam reddiderunt » . Che anzi, prendendo alla lettera l'espressione delle
XII Tavole, nella parte , che si riferisce alla spartizione ; del corpo del
debitore , essa appare perfino di im possibile attuazione, poichè vien
dichiarato in frode il creditore, che tolga dal corpo del debitore una parte
maggiore o minore diquella che gli sia dovuta , il che confermerebbe eziandio
l'altra espressione dello stesso giureconsulto, secondo cui: « eo consilio
tanta immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam perveniretur » . Del resto non
è questo il solo esempio di questa logica astratta , propria del diritto
primitivo, che talora si spinge fino a tale da non essere quasi più applicabile
nel fatto. Il diritto infatti del creditore sul corpo del de bitore trova un
riscontro nel diritto al talione, spettante a colui, di cui fosse stato rotto
un membro: talione che, secondo l'osservazione da Gellio attrituita al filosofo
Favorino (1), non poteva essere più fa cilmente eseguito che la spartizione del
corpo del creditore in propor zione dei crediti. Cosi pure esso ha un altro
riscontro nel ius vitae et necis, che giuridicamente parlando spetta al padre
sui figli, al ma rito sulla moglie, al padrone sullo schiavo , ancorchè in
questa parte sia certo, che il rigore del diritto trovava dei temperamenti nel
pub blico e nel privato costume. Non è quindi il caso di inferire da queste
disposizioni l'esistenza di costumi antropofagi presso i ro mani (2); ma
soltanto di scorgere in ciò una nuova prova, che il loro ius quiritium ,
essendo il frutto di una elaborazione giuridica , la quale mirava ad isolare
l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo , fini per essere governato da
una logica inesorabile, che tal volta appare non solo inumana, ma perfino
inapplicabile nel fatto. (1) Dice infatti Favorino presso Gellio , XX , 1 , 15
: « praeter enim ulciscendi « acerbitatem ne procedere quoque executio iustae
talionis potest; nam , cui mem « brum ab alio ruptum est, si ipsi itidem
rumpere per talionem velit, quaero , an « efficere possit rampendi pariter
membri aequilibrium ? in qua re primum ea dif « ficultas est inexplicabilis » .
(2) È il KOHLER, op. e loc. cit., il quale dice scherzevolmente, che alla lista
delle ipotesi escogitate per spiegare questa disposizione, ne manca una sola ,
quella cioè che gli antichi Romani siano stati degli antropofagi. 584 . 446.
Dal momento poi che il primitivo ius quiritium , nella sua procedura di
esecuzione, aveva preso di mira piuttosto la persona del debitore, che non i
beni, che ne costituivano il patrimonio , si comprende, che esso , nella sua
perseveranza tenace, abbia stentato più tardi ad abbandonare la via , che aveva
prima seguito . Noi tro viamo infatti, che nel posteriore svolgimento della
procedura esecu tiva in Roma, mentre il diritto civile nello stretto senso
della pa rola continuò sempre a dirigersi contro la persona, anzichè contro i
beni del debitore, fu invece il ius honorarium , il quale soltanto molto più
tardi riusci ad organizzare una procedura esecutiva contro i beni, che
costituivano il patrimonio del debitore. L'una e l'altra circostanza è
abbastanza comprovata dalle atte stazioni di Gaio . Questi infatti, parlando
delle legis actiones, ci fa assistere allo svolgimento storico della manus
iniectio nel diritto civile di Roma, dimostrando, come, sul modello della manus
iniectio iudicati, altre leggi abbiano introdotto una manus iniectio pro iu
dicato , ed altre abbiano poi dato occasione ad una manus iniectio pura, la
quale, a differenza delle altre due , non impediva che il debitore potesse
manum a se depellere et lege agere pro se, senza ricorrere all'opera di un vindex
. Posteriormente poi una legge Vallia avrebbe ristretto di nuovo i casi, in cui
non potevasi manum de pellere e pro se lege agere, a quei due, che primierano
stati in trodotti, in cui si agiva o in base a un giudicato , o contro una per
sona per cui altri aveva dovuto pagare qual sicurtà : del che, secondo Gaio
rimase una traccia anche dopo l'abolizione delle legis actiones in ciò , che
anche ai suoi tempi colui, col quale si agisce in base a un giudicato o per
aver pagato per esso, « iudicatum solvi satisdare cogitur » ( 1). Lo stesso
Gaio poi, sebbene alla sfuggita, dice altrove , che l'introduzione della
bonorum venditio soleva essere attribuita a Publio Rutilio , il quale dovette
essere Pretore nel 647 di Roma, e noi sappiamo, che è appunto con questa bonorum
venditio , che si introdusse in Roma un concorso fra i creditori, non dissimile
da quello , che ora ha luogo nella procedura per fallimento (2 ). Fu solo più
tardi, che anche il diritto civile , per mezzo della lex Iulia de (1) Gaio, IV
, 21 a 25. È notabile infatti come Gaio in tutta la sua esposizione della
procedura esecutiva non accenni mai alla esecuzione sui beni del debitore . (2
) Gaio, IV , 35. Quanto a questa procedura contro i beni , vedi KELLER , Iі
processo civ . rom ., $ 83, pag. 307 e segg., e quanto alle analogie, che
questo con corso dei creditori presenta col fallimento, cfr . Montluc, La
faillite chez les Romains. - - - 585 cessione bonorum , accordo al debitore il
mezzo di evitare l'esecu zione personale , ricorrendo alla cessio bonorum : ma
anche allora questa cessio bonorum dovette essere consentita dallo stesso debi
tore , e costitui in certo modo un benefizio , che gli venne accordato per
cansare la esecuzione personale e per evitare anche l'infamia , da cui questa
era accompagnata . Quindi neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione
contro la persona, ma piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso,
essendosi introdotto un mezzo per liberarsi da essa . 447. Parmi poi, che
questa preferenza indiscutibile del ius qui ritium per la esecuzione contro la
persona del debitore, anzichè contro i beni spettanti al medesimo, sia stata
eziandio la ragione, per cui si mantenne in così ristretti confini
l'applicazione della pi gnoris capio. Essa infatti si ridusse ad essere un
privilegio per crediti di origine militare (aes militare, hordearium ,
equestre), e per crediti di origine religiosa (il prezzo di un hostia e il nolo
di giumento allo scopo di un sacrificio , in dapem ). Un solo caso di pignoris
capio lascið traccie durature nella storia delle istituzioni giuridiche, e fu
quello introdotto da una lex praediatoria o cen soria , a favore degli
appaltatori delle imposte, sui fondi che erano gra vati dalle medesime :
privilegio di carattere fiscale, che ha un'ana logia incontrastabile col
privilegio generale sugli immobili, che ancora oggidi spetta al fisco per le
imposte dirette. Intanto però sta sempre il concetto , che nel diritto
primitivo di Roma è la persona, che risponde direttamente delle proprie obliga
zioni, e che la missio in bona deve ritenersi soltanto introdotta dal pretore .
Che anzi è degno di nota , che anche questa procedura sembra negli inizii
essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo dimostra il fatto , che noi la
troviamo descritta dapprima nella lex Rubria de Gallia Cisalpina ( 1). Una
ragione di questa preferenza (1) Quanto all'origine pretoria dell'esecuzione
contro i beni, vedi eziandio LENEL, das Edictum perpetuum , pag. 340. La lex
Rubria , XXII , 25 (Bruns, Fontes, pag. 99 ) attribuisce la facoltà di
accordare questa missio in bona al solo pretore della città di Roma, come lo
dimostrano le seguenti parole della legge « Praetor , « isve qui de eis rebus
Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius de « eius rebus omnibus
ius deiicito , decernito, eosque dari bona eorum , possideri, « proscribique
venire iubeto, etc. » Cfr. WLASSAK, Röm . Processegesetze, pag. 94 e segg. 586
dell'antico diritto per la persona, anzichè per i beni del debitore, non
potrebbe essa trovarsi nella considerazione, che tutto il primitivo ius
quiritium ebbe ad essere modellato sul concetto fondamentale del quirite, in
quanto era considerato come una individualità integra e completa sotto
l'aspetto giuridico , la cui parola dava origine al nexum , e la cui volontà costituiva
una legge , cosi nei negozii tra vivi come nel testamento ? Non abbiamo anche
in questo una conse guenza dal punto speciale di vista , a cui eransi collocati
i model latori dell'antico diritto ? § 4 . Alcune considerazioni sulla
influenza delle legis actiones sulla formazione del diritto civile romano .
448. Basta ora ricomporre insieme queste varie parti della pro cedura romana e
metterle in movimento ed in azione, per compren dere come il sistema delle
legis actiones , anzichè essere , come vorrebbero taluni, un complesso di
solennità , escogitate dallo spirito sottile e formalista dei Romani, sia stato
invece il mezzo più po tente ed efficace ,mediante cui venne preparandosi
l'elaborazione del diritto civile romano. Le legis actiones furono, per cosi
esprimerci, il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica del fatto umano
potè essere isolata da tutti gli elementi estranei, ed essere ridotta cosi a
quello stato di purezza , che solo si rinviene negli scritti dei giureconsulti
romani. Siccome infatti ogni diritto , per poter affermarsi in giudizio, doveva
passare per lo strettoio della legis actio : cosi ne veniva , che con questo
sistema prima i pontefici nel modellare le legis actiones ; poscia le parti
nell'adattare alle medesime la loro controversia ; quindi il magistrato nel
determinare i termini, in cui tale contro versia dovesse essere giuridicamente
concepita ; infine i giudici, che dovevano di necessità restringere la loro
decisione al punto di que stione che era loro sottoposto , attendevano tutti ad
un medesimo lavoro , che era quello di spogliare una fattispecie da ogni
elemento etico o religioso, con cui si trovasse implicata , per ridurla ad una
configurazione e ad una formola esclusivamente giuridica . Siccome poi i
giudici della controversia , o erano tolti dalle varie classi o tribù, come i
centumviri e forse anche i decemviri, o scelti nel l'ordine dei senatori, come
i iudices selecti, o convenuti fra le parti, come gli arbitri, od anche scelti
in parte fra i peregrini, come i 587 recuperatores: cosi ne veniva, che
l'elaborazione del diritto in Roma era un'opera collettiva, a cui concorrevano
tutti gli ordini e tutte le classi, e che poteva perfino sentire l'influenza
del diritto e della procedura , che applicavasi dei rapporti fra i cittadini e
gli stranieri. Siccome parimenti tutto questo lavoro era unificato e coordinato
per opera del magistrato , che sovraintendeva all'amministrazione della
giustizia , ed era poi assecondato dall'opera dei giureconsulti , che venivano
racchiudendo in formole la varietà grandissima dei negozii giuridici ; cosi ne
venne, che in Roma fin dai suoi inizii si trovo sapientemente organizzato un
sistema di mezzi, il quale mirava ad isolare l'elemento giuridico del fatto
umano dagli elementi estranei, a consolidare le consuetudini fluttuanti in
forme determinate e pre cise, a richiamare le varietà dei fatti umani a certe
forme tipiche e generali. Fu in questo modo, che poterono scomparire i conten
denti e si sostituirono ai medesimi dei nomi convenzionali ( Aulus Agerius e
Numerius Negidius nelle formole processuali, Titius, Caius, Sempronius, etc. in
quelle contrattuali) ; che le contro versie particolari furono tutte richiamate
a certe forme generali ; e che intanto i concetti primordiali , da cui aveva preso
le mosse il diritto privato di Roma, poterono con una logica perseverante e
tenace essere spinti a tutte le conseguenze, di cui erano capaci. Fu quindi
sopratutto in Roma, che il diritto potè essere l'espressione della coscienza
giuridica di tutto un popolo, un elemento organico della vita sociale, il
frutto di un'elaborazione unica e varia ad un tempo, la quale obbedì
costantemente a quei processi, i quali, applicati prima dai pontefici,
passarono poscia al pretore ed ai giureconsulti, e non furono neppure
abbandonati sotto gli stessi imperatori. Per tal modo quel lavoro di selezione,
che erasi in Roma iniziato mediante le leggi, le quali, trascegliendo fra le
istituzioni delle varie genti, ne avevano ricavato un diritto tipico ,
esclusivamente proprio dei qui riti, e perciò chiamato ius quiritium , venne ad
essere eziandio proseguito nella interpretazione della legge e
nell'amministrazione della giustizia , le quali si sforzarono dapprima di fare
entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente dei rap
porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e vennero poi
gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse , allorchè esse
cominciavano ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di provvedere.
Per tal modo il ius quiritium si allargd ed amplid nel ius proprium civium
romanorum ; poscia accanto a questo venne svolgendosi il ius honorarium , il
quale pur derogando al 588 ius civile ed assimilando nuovi elementi, li forza
tuttavia ad entrare in forme analoghe a quelle già preparate dal ius civile. È
in questa guisa , che il diritto romano, dopo essere stato la selezione più
rigida dell'elemento esclusivamente giuridico, che presentila storia , ed
essere stato una produzione esclusivamente propria del popolo romano, viene a
poco a poco attirando nella propria cerchia le considera zioni di equità e di
buona fede, assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che potevano
ricevere l'impronta del genio giuridico di Roma, finchè non diventò tale da
poter essere comune a tutte le genti, che avevano somministrato i materiali,
sovra cui erasi venuto elaborando. Può darsi ed è anzi probabile, che i
principii di questa grande opera di selezione fossero dapprima inconsapevoli,
come gli inizii di tutte le opere umane, e fossero determinati dal modo di
formazione della città , e dal genio eminentemente giuridico dei fondatori di
essa ; ma egli è certo eziandio , che essa non tardd a cambiarsi ben presto in
un'opera consapevolmente voluta e proseguita per più di dodici secoli con una
perseveranza tenace, di cui non potrebbesi tro vare esempio, salvo forse nella
storia delle grandi religioni della umanità . Così, ad esempio, dell'importanza
delle legis actiones già dovette aver consapevolezza il patriziato romano, allorchè,
dopo avere in parte reso comune alla plebe il proprio diritto , continud
tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici la formazione delle legis
actiones, e la cambiò in un segreto di professione e di casta ; come pure
dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana, come lo dimostra la sua
riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la tradizione, avrebbe resa di
pubblica ragione le primitive legis actiones (1 ) 449. Questa influenza poi del
sistema delle azioni venne ad essere anche maggiore, allorchè l'abolizione
delle legis actiones e l'intro duzione del sistema delle formole attribui da
una parte almagistrato libertà maggiore nella concezione giuridica delle varie
fattispecie , e dall'altra gli porse eziandio il modo di introdurre nuove
azioni, accanto a quelle, che si fondavano direttamente sui termini della
legge. Fu in quest'epoca, che il medesimo, oltre al ius dicere, si (1) Pomp.,
Leg. 2 , § 7, Dig . (1, 2 ); Liv. IX , 46. Secondo la tradizione, Gneo Flavio
sarebbe stato dalla riconoscenza della plebe elevato alla dignità di tribuno
della plebe, di senatore e di edile curule. 589 trovò eziandio nella necessità
di edicere, ossia di pubblicare, entrando in ufficio, le norme, che avrebbe
applicate nell'amministrazione della giustizia ; che accanto ai iudicia
legitima si svolsero quelli imperio continentia ; che , accanto alle actiones
legitimae, quae ipso iure competunt, se ne formarono eziandio di quelle, quae a
praetore dantur. Da quel momento il pretore potè essere considerato come una
lex loquens, e venne in certo modo ad essere arbitro sovrano
nell'amministrazione della giustizia ( 1) . Tuttavia l'abolizione delle legis
actiones e la sostituzione del sistema delle formulae debbono essere intese
alla romana , il che vuol dire, che l'abolizione è soltanto parziale e non
impedisce la sopravvivenza dell'actio sacramento , come preliminare del centum
. virale iudicium e di quello damni infecti nomine, al modo stesso che
l'introduzione delle formulae, anzichè una rivoluzione, è piut tosto il
riconoscimento e l'adozione fatta per legge di una pratica, che doveva già
essersi prima introdotta nel fatto. È infatti proba bile, che il sistema delle
formulae già potesse esser applicato nella procedura inter cives et peregrinos
, nella quale non potevano essere applicate le legis actiones , e che in tal
guisa una procedura propria della recuperatio sia penetrata nel ius proprium
civium ro manorum , almodo stesso , che più tardi l'actio sacramento potè ezian
dio essere proposta davanti al praetor peregrinus (2 ). Che anzi, per esprimere
tutto il mio pensiero, riterrei, che il sistema delle formole fosse in certa
guisa già contenuto in germe nel sistema delle legis actiones . A quel modo,
che la stipulatio riducesi in sostanza alla parte nuncupativa del nexum , la
quale , liberata dalla solennità del l'atto per aes et libram , potè essere
adattata alla varietà dei negozii ( 1) Gaio, IV , 11, dice espressamente, che,
negli esordii di questo sistema di pro cedura, edicta praetorum nondum in usu
habebantur. Era quindi naturale, che quando questi furono introdotti, accanto a
quella parte di diritto , che fondavasi direttamente sulla legge, e che perciò
dava origine alle denominazioni di actus legi timi, actiones legitimae, iudicia
legitima, si svolgesse un diritto, che fondavasi in certo modo sull'autorità
del magistrato, e che, come tale, imperio continebatur, il quale finì poi per
essere compreso sotto il nome di ius honorarium . È poi Cic., pro Cluentio, $
3, 146 , il quale ebbe a dire, che siccome le leggi sono al disopra del
magistrato, e questo è al disopra del popolo, « vere dici potest magistratum
legem esse loquentem ; legem mutum magistratum . » . Quanto ai concetti di
actio legi tima e di iudicium legitimum , vedi WLASSAK, op. cit ., $$ 3 a 5 , pag.
31 e 57. ( 2) Sall'influenza del praetor peregrinus e dell'edictum provinciale
sul sistema delle formulae, v. Glasson, Étude sur Gajus, $ 12 , pag. 112. -.
590 giuridici: così la formola consiste essenzialmente in quei concepta verba ,
che già occorrevano nella legis actio , salvo che questa verborum conceptio ,
liberata dalla parte mimica , da cui era ac compagnata, e da quel rigore di
termini (certis verbis), che era propria delle legis actio , potè acquistare
una duttilità e pieghevo lezza, che la prima non poteva avere. Noi trovammo
infatti , che già sotto la veste ferrea delle legis actiones, ogni modus agendi
aveva finito per abbracciare diverse azioni particolari, e che queste azioni
già avevano cominciato a distinguersi nelle actiones in rem in quelle in
personam , in quelle, che avevano per oggetto un certum od un incertum , e in
quelle , che davano origine ad un iudicium o ad un arbitrium . Or bene tutti
questi materiali, che ancora erano riuniti nella sintesi potente della legis
actio , si trovarono in certo modo abbandonati a se stessi, e si cambiarono in
altrettante azioni, autonome ed indipendenti, aventi un nome specifico , una
propria formola ed un proprio contenuto , e diedero cosi origine a quello
splendido ed opulento sviluppo, che ebbe ad avverarsi col sistema delle
formole. Quella libertà della formola , che sarebbe stata peri colosa negli
inizii della elaborazione giuridica , venne invece ad es sere opportuna, quando
questa era già iniziata ed abbastanza pro gredita ; poichè le prime formole,
essendo state preparate sotto la rigida disciplina delle legis actiones e del
ius pontificium , indica vano abbastanza la via , in cui doveva mettersi il
magistrato per continuare l'opera già incominciata. È questa la ragione, per
cui i pretori, malgrado la libertà apparente, che loro appartiene, sia di
introdurre nuove azioni, sia di modificare le formole già ricevute , procedono
in cið molto a rilento , ed amano piuttosto di ricorrere a finzioni e di
forzare cosi fatti ad entrare nelle forme ricono . sciute dal diritto, che non
di alterare le forme, che già furono ac colte dal diritto civile . Per tal modo
il nuovo trova sempre un addentellato nell'antico , anche allorchè mira ad
introdurre una modificazione al medesimo, e intanto ciò non impedisce , che una
parte di quel diritto, che viveva fluttuante pelle consuetudini, ac canto al
vero ius civile , si venisse ancor esso consolidando sotto forma di un ius
honorarium , che è pur sempre modellato sul primo. Così pure, nella opera
progressiva dei pretori succedentisi gli uni agli altri, potè manifestarsi uno
spirito di continuità, per cui le azioni ed eccezioni introdotte opportunamente
da alcuno di essi finirono per costituire un ius translaticium , che passava ai
succes sori, e serviva cosi a preparare i materiali, che raccolti e coordi 591
nati costituirono poi l'Editto perpetuo di Salvio Giuliano. In questa
condizione di cose appare ad evidenza l'importanza del sistema delle azioni,
poichè ogni progresso pratico della giurisprudenza romana viene ad esser
introdotto , o per mezzo di una nuova azione, che tuteli un diritto prima non
riconosciuto, o per mezzo di una ecce zione, che neutralizzi l'effetto di
un'azione già riconosciuta dal diritto civile . Allorchè poi un'azione è
accolta od un'eccezione è ammessa, essa viene ad essere come un centro, intorno
a cui si moltiplicano le formole per abbracciare l'infinita varietà delle
fattispecie, finchè si giunge a quella ricchezza di formole , a cui accenna
Cicerone, allorchè scrive : « sunt formulae de omnibus rebus constitutae, ne
quis aut in genere iniuriae aut in ratione actionis errare possit : expressae
sunt enim , ex uniuscuiusque damno, dolore, incommodo, calamitate, iniuria ,
publicae a praetore formulae, ad quas privata lis accomodatur » (1). Le formole
pertanto servirono anch'esse ad ampliare e a compiere quel lavoro di selezione,
che già erasi iniziato sotto l'impero delle legis actiones. Esse si accomoda
rono alle varie fattispecie ; isolarono l'elemento giuridico da ogni elemento
estraneo, gli elementi essenziali del fatto umano dalle cir costanze
accidentali : accolsero quelle aggiunte , che erano rese ne cessarie dalla
maggiore varietà dei negozii; riassunsero le varie fasi della controversia in
guisa da presentare come uno specchio ed un compendio dell'intiero giudizio .
Queste formole poi non furono qualche cosa di esclusivo alla pro cedura: ma
all'epoca stessa , in cui penetrarono in questa , si vennero eziandio
esplicando nei contratti , nei testamenti , nei legati , e in ogni altra parte del
diritto civile romano, e vi portarono cosi dap pertutto l'esattezza e la
precisione del linguaggio giuridico , non disgiunta da elasticità e
pieghevolezza alla varietà infinita dei ne gozii giuridici (2 ). È quindi
facile il comprendere come pontefici , pretori e giureconsulti, non abbiano
creduto indegno del loro ufficio l'attendere alla composizione delle formole, e
come bene spesso l'in venzione di una formola abbia reso celebre e tramandato
fino a noi il nome di un pretore o di un giureconsulto . Basta perciò aver
presente l'importanza grandissima e la larghissima applicazione, che ( 1) Cic,
Pro Roscio, 4 , 5 a 9. Cfr. WLASSAK, op . cit ., pag. 67. (2 ) Occorrono delle
notevoli osservazioni sulla importanza delle formole nel diritto civile romano
presso il LABBÉ, Préface all'ultima edizione da lui curata dell'Or TOLAN ,
Explication historique des Institutes de Justinien , Paris 1883, pag. vii e
segg . - 592 ricevettero le clausole « ex fide bona » « quando aequiusmelius »
« ne propter te fidemve tuam fraudatus siem », le formole aquiliane de dolo
malo ed altre, che sarebbe lungo ricordare; le quali ser virono a far penetrare
nel diritto la considerazione dell'equità e della buona fede , e a dare forma
concreta e pratica applicazione alle lente mutazioni, che si venivano operando
nella coscienza giu ridica del popolo romano. Era infatti per mezzo di una
piccola ag giunta in una formola contrattuale e giudiziaria , che le
aspirazioni latenti della coscienza giuridica popolare ricevevano applicazione
pratica, e che il diritto fluttuante nelle consuetudini veniva ad ot tenere la
tutela e la sanzione dell'autorità giudiziaria (1). 450. Quest'ultima
considerazione intanto mi porge opportunità di conchiudere questa trattazione,
spiegando un carattere del tutto peculiare della giurisprudenza romana. Credo
che questo tentativo di ricostruzione del primitivo ius qui ritium abbia quanto
meno dimostrato , che il diritto civile romano, anzichè essere stato il frutto
di una incorporazione qualsiasi di con . suetudini preesistenti, operatasi a
caso e lasciata in balia delle cir costanze, fu invece governato , fin dai
proprii inizii, da una logica fondamentale , che non venne mai meno a se stessa
. Esso può es sere paragonato ad un lavoro lento di cristallizzazione, in virtù
di cui gli elementi affini, fluttuanti in un liquido, cominciano dal pre
cipitarsi a poco a poco, e poi si compongono insieme, atteggiandosi
costantemente a quelle forme tipiche, che sono imposte dalla legge, che ne
governa la formazione. Se ciò è fuori di ogni dubbio, vuolsi però anche
ammettere , che questa dialettica fondamentale , la quale regge tutta la
formazione del diritto civile romano, sembra in certo modo essere dissimulata
nelle opere anche dei grandi giureconsulti. In tali opere, per quel poco che a
noi ne pervenne, i singoli istituti appariscono come autonomi ed indipendenti
gli uni dagli altri, go ( 1) Questa importanza delle formole appare sopratutto
nelle formole processuali, poichè ogni progresso nell'amministrazione della
giustizia lascia in certo modo le traccie nella composizione della formola
giudiziaria. Questo concetto ebbi ad espri mere, molti anni or sono, in un
breve lavoro « De exceptionibus in iure romano, Torino 1873, pag . 13 , colle
seguenti parole : « neque vereor dicere, omnia quae in < iudiciorum ordine,
progressione temporum et seculorum elaboratione, invecta fue « runt ad
corrigendam , producendam , emendandam et adiuvandam antiquissimi iuris «
formulam quodammodo adhibita fuisse » . 593 vernati ciascuno da una propria logica,
senza che più si scorgano le commettiture, che possono stringere un istituto
cogli altri. Vero è , che considerando attentamente il formarsi di ogni singolo
istituto, facilmente si riconosce la mano di artefici, educati tutti alla
medesima scuola, cosicchè i varii istituti si possono paragonare ad altrettanti
cristalli foggiati sulla stessa forma: ma intanto più non si scorgono le
traccie della legge, che ne governd la formazione. Era questo disordine
apparente degli scritti dei giureconsulti, che tornava grave alla mente
filosofica ed ordinata di Cicerone, il quale perciò giunse fino a dire, che i
primigrandimaestri avevano cercato didissimulare la propria arte (1); ma se
questo potè forse esser vero, finchè la scienza del diritto fu un monopolio delle
genti patrizie , o meglio dei pon tefici, custodi delle loro tradizioni, non
può più ammettersi per il tempo, in cui la casa del giureconsulto fu aperta a
tutti coloro , che volevano consultarlo , e anche i plebei furono ammessi al
collegio dei pontefici e a professare giurisprudenza . Non è quindi in una
causa alquanto puerile e di carattere transitorio , che vuolsi cercare il
motivo di questa specie di contraddizione , che presenta l'elabo razione della
giurisprudenza romana, ma piuttosto nel modo, in cui venne in Roma operandosi
l'elaborazione stessa . A questo riguardo vuolsi aver presente , che i
modellatori del pri mitivo diritto di Roma (veteres iuris conditores ) non
ebbero mai in animo di insegnare una scienza , ma piuttosto di professare
un'arte (iuris prudentia), che formò solo più tardi argomento di scienza . Essi
quindi, nei loro scritti , non intesero punto di soddisfare alle esigenze
didattiche, nè di introdurre quell'ordine sistematico, che è proprio della
scienza : ma si proposero sopratutto di soddisfare alle esigenze pratiche,
poichè erano i casi, che si venivano presentando , che loro offrivano occasione
di applicare l'arte loro. Siccome per tanto nella pratica era l' actio, che
predominava , poichè era con essa, che il diritto sperimentava se stesso ; così
ne venne, che dap prima furono le legis actiones, che costituirono il punto di
richiamo dell'elaborazione giuridica , e determinarono l'ordine, a cui la
medesima venne obbedendo. Quando poi la sintesi potente della legis actio venne
ad essere disciolta , e pullularono così azioni e formole, molteplici e
svariate, aventi ciascuna una propria vita ed una propria funzione nella
formazione dei negozii e nell'ammini strazione della giustizia, furono eziandio
le actiones, gli interdicta , (1) Cic., De orat., I. G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 88 594 le exceptiones e simili, che costituirono il punto
centrale , intorno a cui dovette appuntarsi l'arte dei giureconsulti. Quindi è
, che essi, per quanto ubbidissero ad una dialettica fondamentale ,
trascurarono naturalmente di far scorgere i fili, che componevano la trama; co
sicchè i loro scritti appariscono come a frammenti, e ravvicinano istituti, che
non hanno attinenza, disgiungendone altri, che sono in vece strettamente affini
fra di loro (1). Di qui la conseguenza , che la costruzione giuridica romana
non seguì il processo dei concetti fondamentali, da cui partiva, ma venne
seguendo invece l'ordine prima delle XII Tavole, e poscia dell'Editto . Nè
questo disordine apparente poteva recare imbarazzo agli esperti, perchè l'arte
in essi era viva e feconda ; ma poteva invece riuscire grave agli altri, i
quali, come Cicerone, cercavano di inoltrarsi in questo campo con un indirizzo
mentale diverso . Fu soltanto , allorchè la ricchezza dei materiali cominciò ad
ingom brare il campo, che si senti il bisogno di introdurre distinzioni siste
matiche, ma anche queste distinzioni non compariscono nelle opere di
costruzione giuridica propriamente detta , quali sono quelle dei elassici
giureconsulti, ma soltanto nelle opere di carattere didattico ; donde la
spiegazione dell'ordine diverso , che occorre nelle Istituzioni di Gaio e di
Giustiniano e nelle Pandette . Siccome poi anche l'or dine sistematico,
introdotto nelle Istituzioni, aveva naturalmente lo scopo pratico di coordinare
la giurisprudenza romana nello stato in cui si trovava, anzichè di fare
assistere alla formazione progressiva di essa ; cosi ne viene, che anche le
distinzioni, che occorrono in Gaio ed in Giustiniano, dånno talvolta come contemporanei
degli istituti, che possono avere avuto origine in epoca compiutamente di.
versa . Ne consegui, che la giurisprudenza romana, quale a noi per venne, colle
sue proporzioni armoniche e colla coerenza delle sue varie parti, cela in certo
modo la trasformazione lenta e graduata , che venne operandosi in essa , e la
dialettica, che ne governò la for (1) Ciò appare sopratutto nelle Receptae
sententiae di Paolo. Questo apparente disordine invece è alquanto minore nei
cosidetti Fragmenta di Ulpiano, in quanto che questo lavoro di Ulpiano segue
già passo passo l'ordine dei Commentarii di Gajo, abbreviandoli in qualche
parte, e facendovi altrove qualche aggiunta , che al tera talvolta le armoniche
proporzioni dei Commentarii di Gajo. Questi ultimi poi, a parte l'originalità
maggiore o minore del giureconsulto, saranno sempre un mo dello di ordinamento
sistematico, fatto in un intento didattico. Cfr. Huschke, Jurisp . antijustin.,
ed i proemii da lui preposti alle opere sopra citate dei giureconsulti. 595 - mazione;
ma ciò punto non impedisce, che, penetrando sotto la scorza di essa , tosto si
incontrino le traccie di materiali e di ruderi, che appartengono a sorgenti e
ad epoche diverse , e rivelano cosi al l'investigatore i diversi periodi e
momenti, per cui passd la lenta e graduata formazione della legislazione
romana. Giunto al termine di questo faticoso lavoro di ricostruzione , ri tengo
opportuno di riassumere a grandi linee quelli fra i risultati a cui sono
pervenuto , che possono cambiare in qualche parte il modo comunemente seguito
di spiegare la storia primitiva di Roma, nel l'intento sopratutto di porre in
evidenza quella mirabile coerenza organica , che sempre si mantenne nello
svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. CONCLUSIONE.
Allorchè le genti italiche si sovrapposero alle popolazioni già prima stanziate
sopra quel suolo , che più tardi fu denominato italico, dovette avverarsi un
periodo di forza e di violenza , non dissimile da quello, che si avvero più
tardi all'epoca delle invasioni barbariche, ed il maggior bisogno , che dovette
sentirsi allora dai vincitori e dai vinti, fu quello di uscire da quello stato
di privata violenza. Fu allora , che le genti sopravvenute , memori forse delle
tradizioni, che portavano dall'antico Oriente, irrigidirono la propria
organizzazione gentilizia , cercando di attirare nella medesima anche le
popolazioni dei vinti, e costituirono così l'aristocrazia territoriale dei
patres, dei patroni, dei patricii, mentre i vinti furono orga nizzati nella
classe inferiore dei servi , dei clienti , e infine dei plebei. Questa
organizzazione, malgrado le differenze nei particolari, assunse pressochè
dapertutto un carattere uniforme, non dissimile da quello dell'organizzazione
feudale nel Medio Evo : essa venne cosi ad essere composta di familiae, di
gentes e di tribus, strette in sieme dal vincolo di discendenza reale o
fittizia da un medesimo antenato , le quali risiedevano rispettivamente nella
domus, nel vicus e nel pagus , mentre il territorio da esse occupato era
ripartito in heredia , in agri gentilicii, e in compascua. Fu a questo stadio
del proprio svolgimento, che le genti italiche 596 presero tutte a travagliarsi
intorno alla grande opera del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla
città . Questa ebbe sopratutto lo scopo di assicurare la comune difesa e di
fortificarsi nelle lotte pres sochè quotidiane fra i varii gruppi. La città
cominciò dall'essere un sito fortificato (arx , oppidum , capitolium ) per
servire di rifugio in caso di pericolo ; poi diventò un sito per il mercato
(forum ) e un luogo di riunione dei capi di famiglia delle varie comunanze
confederate per la trattazione degli affari comuni (conciliabulum , comitium );
fu posta sotto la protezione di una divinità , comune patrona; finchè da ultimo
sotto la protezione della comune fortezza cominciarono eziandio a costruirsi le
abitazioni private. Non tutte le stirpi però erano pervenute al medesimo stadio
di svolgimento , nè tutte avevano seguito il medesimo indirizzo nella formazione
della città . Mentre gli Umbro -Sabelli aderivano ancora strettamente alla
organizzazione gentilizia, e gli Etruschi erano già pervenuti alla città chiusa
e fortificata , i Latini invece si trovavano in uno stato in termedio : essi
erano pervenuti alla città di carattere federale, con siderata come un centro
della vita pubblica per varie comunanze di villagio . È al buon seme Latino,
che deve attribuirsi l'origine del grande nome di Roma. Essa cominciò
dall'essere lo stabilimento fortificato di un nucleo di uomini forti ed armati
(viri, quirites), staccatisi dalla città di Alba per cercare altrove sorti
migliori, secondo una consuetudine comune delle genti primitive, fidenti
sopratutto nella forza del proprio braccio, ma non immemori delle tradizioni proprie
della stirpe, a cui appartenevano. Le lotte di questo nucleo di uo mini di
arme, stabilitosi sul Palatino, i quali, senza essere ancora veri capi di
famiglia , tendevano a diventarlo, colle comunanze di villagio stabilite sulle
alture circostanti dell'antico Septimontium , lo condussero prima alla
comunanza dei connubii e in seguito alla confederazione colle medesime. Da quel
momento Roma primitiva nella sua progressiva formazione percorse due periodi
compiutamente distinti, cioè : il periodo della città federale, in cui essa è
una città esclusivamente patrizia , ed è un centro di vita pubblica fra varie
comunanze gentilizie : e quello in cui la città esclusivamente patrizia
associasi anche la plebe cir costante, già pervenuta ad una certa agiatezza , nell'intento
sopra tutto di provvedere alla comune difesa , e chiude nelle proprie mura le
primitive comunanze di villagio , che entravano a costituirla . 597 Nel primo
periodo i cittadini di Roma sono i capi famiglia delle genti patrizie,
confederati in uno scopo di comune difesa , e la loro città , posta nel centro
delle varie comunanze di villaggio, ri specchia in se medesima le istituzioni
dell'organizzazione gentilizia, a quella guisa che un lago limpido rispecchia
le abitazioni e i vil laggi, collocati sulle alture, che lo circondano . Essi
infatti trapian tano nella città , centro della loro vita pubblica , le proprie
istituzioni gentilizie , salvo che le medesime, assumendo un intento essenzial
mente civile, politico e militare, cominciano a perdere alquanto il proprio
carattere patriarcale , e ricevono cosi uno svolgimento com piutamente diverso
. La città esce cosi dalla confederazione e dal l'accordo dei capi di famiglia
(patres ) e dei loro discendenti (pa tricii) : ma intanto assume un carattere religioso,
politico e militare ad un tempo, come le genti che concorsero alla sua
formazione. Sono i pontefici, che ne serbano le tradizioni giuridiche e
religiose ad un tempo ; gli auguri, che modellano gli auspicia publica sugli
auspicia , a cui già ricorrevano i capi di famiglia o delle genti ; i feziali ,
che serbano le tradizioni relative ai rapporti fra le varie genti. In questo
periodo la città servi ad operare la selezione della vita pubblica , che
cominciò a spiegarsi nella città , dalla vita dome stica e patriarcale, che
continuò a svolgersi nelle varie comunanze di villaggio . L'urbs infatti
designa l'orbita sacra , in cui trovansi riuniti gli edifizii aventi pubblica
destinazione, ed ha nel proprio contro il tempio di Vesta e la domus regia ; la
civitas non com prende ancora i rapporti di carattere privato , ma quelli
soltanto che si riferiscono alla vita civile , politica e militare : il populus
non comprende tutta la popolazione, ma quella parte eletta della me desima, che
possa giovare alla res publica col braccio (iuniores ) o col consiglio
(seniores). Per tal modo il grande intento della città in questo periodo fu
quello di sceverare la vita pubblica dalla privata (publica pri vatis
secernere), di modellare il concetto della res publica , in quanto essa ha
un'esistenza distinta dalla res familiaris, e di ar chitettarne la costituzione
politica , la quale venne cosi ad uscire dal concorso di tutti gli elementi,
che entravano a costituirla. La sorgente della pubblica potestà risiede quindi
nel populus ; ma in tanto la parte dovuta all'età e all'esperienza nel
provvedere all'in teresse comune viene ad essere rappresentata dal senatus ,
che è già elettivo ed è nominato dal rex ; il quale alla sua volta è l'eletto
del populus e unifica in se medesimo l'imperium , che il medesimo 598 gli
conferisce . Tutto cid , che riguarda l'interesse comune, deve essere
deliberato col concorso di tutti questi elementi, cioè essere proposto dal re,
appoggiato dal senato, votato dal popolo ; cosicchè la legge assume la forma di
una pubblica stipulazione (communis reipublicae sponsio ). Per quello invece ,
che si riferisce alla vita domestica e privata (res familiaris), essa continua
a svolgersi nel seno della domus, del vicus, del pagus, sotto la potestà dei
capi di famiglia o delle genti. Queste continuano a possedere le proprie terre
sotto la forma collettiva di agri gentilicii e di compascua, soli eccettuati
gli heredia , assegnati dalla gens od anche dal re , i quali appariscono
intestati ai singoli capi di famiglia . Anche la repressione dei delitti
continua ad essere lasciata al potere domestico e patriarcale , e le pene
conservano quel carattere religioso , che avevano nel periodo gentilizio : solo
assumono carattere di delitti pubblici, e sono sotto posti alla giurisdizione
del re, temperata dalla provocatio ad po pulum , il parricidium e la perduellio
, di cui quello è come il germe del reato comune e questa il germe del reato
politico. Quanto al diritto privato , esso continua in gran parte ad essere
governato dal costume (mos ), il quale appare ancora circondato da un ' aureola
religiosa ( fas) ; cid tuttavia non impedisce, che fra le consuetudini e le
tradizioni preesistenti già ve ne siano di quelle , che vengono sanzionate da
una lex publica , la quale è preparata dai pontefici, proposta dal re e votata
dal popolo ; donde la formazione delle leges regiae, nelle quali tuttavia le
istituzioni giuridiche ser bano ancora quel carattere religioso , che era
proprio delle istitu zioni delle genti patrizie . Nel frattempo quell'elemento
plebeo , la cui formazione già erasi iniziata nelle stesse comunanze di
villaggio, prende un grandissimo incremento collo svolgersi della città ;
poichè, esso trovasi accresciuto dalle popolazioni conquistate e da coloro che,
spostati nell'orga nizzazione gentilizia , vengono a stanziarsi nel territorio
circostante alla città. Questa moltitudine, che per essere composta di elementi
di provenienza diversa e per difetto di organizzazione chiamasi plebes, non
entra ancora a formare il populus, nè è ammessa alle curiae della città
patrizia , ma abita nelle circostanze di essa , e tiene cosi una posizione più
di fatto che di diritto . Ai plebei, che la compon gono, solo dovette essere
accordato, negli ultimi tempi della città esclusivamente patrizia , il ius
nexi, ossia il diritto di contrarre dei prestiti, vincolando direttamente la
propria persona, e il ius man 599 cipii, ossia il diritto di ritenere quello
spazio di terra, sovra cui essi erano stanziati colle proprie famiglie . È
sotto l'influenza etrusca , che la città comincia a prepararsi ad un secondo
stadio, a quello cioè di città chiusa e fortificata nelle proprie mura, il che
però non toglie, che essa continui ancor sempre ad essere un centro di vita
pubblica per le comunanze e le famiglie , che trovansi stanziate nell'ager
romanus, ma fuori del pomoerium della città . La trasformazione , iniziata da
Tarquinio Prisco , si compie , allorchè con Servio Tullio la città viene a com
prendere nella propria cerchia non solo gli edifizii pubblici, ma anche le
abitazioni private, e in base alla sua costituzione viene a formarsi accanto ai
patres o patricii, un nuovo populus, composto di patrizii e di plebei,
ripartito in classi ed in centurie, di carattere essenzialmente militare, i cui
membri hanno i loro diritti ed ob blighi civili, politici e militari
determinati sulla base del censo . Da questo momento quel dualismo, che
esisteva negli elementi, che entra vano a partecipare alla medesima città,
penetra eziandio nelle istitu zioni politiche di Roma. Per tal modo accanto ai
veri magistrati del popolo, comparvero i tribuni della plebe ; accanto ai
comizii delle curie e delle centurie si formarono i concilia plebis, i quali
col tempo si trasformarono in comizii tributi ; e da ultimo accanto alle leges
si svolsero i plebiscita . Di qui lotte , che condussero a svol gere e in parte
anche a modificare i concetti fondamentali, che servivano di base alla
costituzione primitiva di Roma. Intanto la città si è ingrandita ; nelle
suemura non si esplica più soltanto la vita pubblica , ma anche la vita
domestica e privata : quindi la grande opera , che si inizia in questo periodo
, viene ad es. sere la formazione di un diritto privato, comune ai due ordini,
e la creazione di quell'arte, in cui i romani dovevano essere maestri al mondo,
cioè dell' « ars iura condendi» . Gli elementi, che dovevano convivere sotto la
protezione di un comune diritto, erano due, cioè : il patriziato ,onusto di
tradizionireligiose, giuridiche e poli tiche, e la plebe la quale era un agglomeramento
di elementi diversi, nuovo ancora alla vita civile e politica. Quello aveva
l'organizza zione gentilizia fondata sul vincolo civile dell' agnazione, e
questa non conosceva che la famiglia, stretta insieme dal vincolo naturale
della cognazione ; quella aveva tante forme di proprietà , quante erano le
gradazioni dell'organizzazione gentilizia , e questa non aveva in certo modo
che il possesso delle terre, sovra cui era stan 600 ziata (mancipium ) ; quello
aveva il fas, il ius, l'imperium , gli auspicia , i mores veterum , mentre
questa non conosceva che l'usus auctoritas. Fu la distanza stessa, a cui
trovavansi collocati i due elementi, e il loro modo di sentire e di pensare
compiuta mente diverso , in fatto di religione e dimorale, che resero necessaria
la elaborazione di un diritto , comune ai due ordini, il quale facesse
compiutamente astrazione dalla religione e dalla morale. Cosi pure è questa
distanza, che spiega la lentezza di questa elaborazione e la ricchezza dei
risultati a cui essa pervenne , poichè la medesima dovette prendere le mosse
dalle istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi estendersi a poco
a poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche tempo ciascun elemento
continud ad atte nersi alle proprie consuetudini e costumanze ; ma la
convivenza dei due ordini nelle stesse mura e l'attrito dei quotidianiinteressi
finirono per determinare una specie di precipitazione delmateriale giuridico ,
fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (mores veterum ), o di
costumanze della plebe (usus). Si iniziò così la più mirabile se lezione
dell'elemento giuridico dagli elementi affini, con cui trovasi implicato, che
siasi mai avverata nella storia dell'umanità ; selezione, che da una parte
obbedisce a leggi naturali di formazione, e dal l'altra è già l'opera di una
elaborazione, per parte sopratutto dei pontefici, i quali, essendo i custodi
delle tradizioni delle genti pa trizie, già erano in possesso di una vera
tecnica giuridica . Il nucleo centrale di questa formazione venne ad essere il
con cetto del quirite,ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri suoi
rapporti, per essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e pro
prietario di terre, quale appunto compariva nel censo . Il quirite viene cosi
ad essere una realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un
soldato ed un agricoltore ad un tempo ; ed il punto di vista , sotto cui si
riguardano i quiriti nei reciproci rapporti, essendo determinato dal censo,
viene ad essere quello delmio e del tuo. Di qui consegue, che per essi
ogninegozio riducesi ad un trapasso dal mio al tuo, simboleggiato nell'atto per
aes et libram , e ogni procedura viene ad essere simboleggiata in una specie di
combattimento e di reci proca scommessa . Questo diritto , costituendo un
privilegio dei qui riti, viene ad essere denominato ius quiritium ; i suoi
concetti fonda mentali sono quelli vasti e comprensividi caput, manus,mancipium
, commercium , connubium ed actio ; esso costituisce in certo modo l'ossatura
rigida di tutta la giurisprudenza romana. Siccome pero, attorno a questo primo
nucleo , che si vien precipitando e consoli 601 dando, si mantengono ancora
sempre, allo stato fluttuante, tanto le consuetudini e le tradizioni dei
patres, quanto gli usi della plebe; così il primitivo ius quiritium viene in
certo modo attraendo ed assimilando quelle istituzioni preesistenti, che
potevano avere qualche analogia col diritto già formato. Per tal guisa il
medesimo, arricchen dosi di nuove forme, si viene gradatamente allargando nel
ius pro prium civium romanorum , il quale può essere considerato come un
proseguimento di quella selezione, che erasi già incominciata col ius quiritium
. Sono le XII Tavole, che danno forma scritta alle basi fondamentali di questo
ius civile : quindi nelle medesime si possono scorgere le commettiture dei
varii elementi, che entrano a costituirlo . Infatti in qualsiasi istituzione di
quel ius, che i giure consulti chiamano proprium civium romanorum , può
scorgersi una formazione centrale, che è dovuta al ius quiritium , e due
laterali, di cui una suole essere di origine patrizia , e l'altra di origine
plebea . Così, ad esempio, fra le forme del matrimonio havvi da una parte la
confarreatio di origine patrizia e dall'altra l'usus di origine plebea , mentre
la coemptio sta nel mezzo, ed è la forma essenzialmente quiri taria ; fra le
forme del testamento , le più antiche sono il testamento in calatis comitiis,
propria del patriziato , e la mancipatio familiae cum fiducia , propria della
plebe, le quali poi, pressochè componendosi insieme, dànno origine al vero
testamento quiritario, che è quello per aes et libram ; infine, fra i modi di
acquistare e trasmettere il dominio , il primo a formarsi è quello
essenzialmente quiritario della manci patio , attorno a cui si vengono poi
accogliendo l'in iure cessio e l'usucapio . Intanto perd questa selezione non
si arresta ancora colla formazione di un ius civile, e quindi, accanto al
medesimo, si esplica il ius honorarium , il quale, pur derogando al primo,
assimila nuovi elementi , facendoli perd entrare in forme modellate a
somiglianza di quelle già adottate dal ius civile . È con questo meraviglioso
processo , che il diritto privato di Roma, dopo aver cominciato dall'essere la
selezione più rigida dell'elemento giuridico , che ricordi la storia , ed una
produzione esclusivamente romana, venne a poco a poco attraendo nella propria
orbita anche le considerazioni di equità e di buona fede, ed assimilando quelle
istituzioni delle altre genti, che si acconciavano alla logica fonda mentale ,
da cui era governato , finchè divenne poi tale da essere considerato come un
diritto universale, e da poter essere accomu nato a tutte le genti, da cui
aveva tolti i materiali, sovra cui erasi 602 venuto elaborando. Il diritto
romano riusci cosi ad essere una co struzione eminentemente dialettica , la
quale riunisce da sè gli op posti ed i contrarii; esso è antico nei materiali,
che lo compongono, nuovo per le applicazioni che se ne ricavano ; sotto un
aspetto è sempre fisso e fermo nei proprii concetti, sotto un altro è sempre in
via di formazione ; esso obbedisce ad una logica fondamentale , e intanto
lascia che ogni istituto proceda per proprio conto e segna un proprio concetto
ispiratore ; mentre è una produzione del tutto propria del genio romano,
assimila in se stesso le istituzioni di tutte le genti ; è un'arte ed una
scienza ad un tempo. Esso infine, mentre obbedisce e si piega alle esigenze
pratiche, appare informato , come ben diceva il giureconsulto , ad una vera e
propria filosofia, la quale non si abbandona alle speculazioni ideali, mamedita
sui fatti sociali ed umani, ne scevera l'essenza giuridica, la modella in con
cezioni tipiche, e svolge le medesime in tutte le conseguenze, di cui possono
essere capaci. È questo il motivo, per cui le costruzioni giuridiche dei
giureconsulti romani saranno sempre dei modelli, che difficilmente potranno
essere superati, poichè nella divisione di la voro, che si operò fra i popoli
moderni, non ve ne ha certamente alcuno, che possegga in questa parte le
attitudini veramente mera vigliose dell'ingegno romano per l'elaborazione
dell'elemento giu ridico, e nessuno parimenti, che possa aver l'occasione, il
modo e il campo , che esso ebbe, per applicare la sua giurisprudenza alla
immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare destino quello della
città di Roma! Come le sue mura furono costrutte coi massi più solidi
dell'epoca gentilizia ; così i concetti , che le servirono di base , furono la
sintesi potente di tutto un periodo di umanità , le cui vestigia si vengono ora
disco prendo nelle necropoli delle più antiche città italiche e nelle civiltà
fossili dell'antico Oriente. Da questi ruderi di un periodo che può chia marsi
preistorico , essa seppe ricavare uno svolgimento storico e logico ad un tempo,
che bastd ad organizzare il mondo per tutto un grande periodo di civiltà .
Senza essere ricca di concetti proprii, essa ebbe però tanta forza ed energia
assimilatrice da fare entrare nei me desimi il lavoro di tutte le genti, con
cui denne a trovarsi a con tatto . Senza abbandonarsi a speculazioni ideali,
essa riusci ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, e a
svolgerla in tutte le sue conseguenze con una logica inesorabile e tenace.
Quando poi i concetti, che stavano a base della sua grandezza, furono anch'essi
603 esauriti, dalle loro macerie uscì ancora la grande idea della uma nità
civile, e le sue leggi poterono servire come punto di partenza ad un nuovo
periodo di cose sociali ed umane, Soltanto Roma, fra le città dell'universo ,
pud personificare in se stessa quella legge di con tinuità, che unifica la
storia del genere umano. Le sue radici si perdono nella preistoria , e le
nazionalità moderne furono preparate da essa ; essa fu l'erede e la
raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio , e intanto pose
le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne. Inchiniamoci
alla città eterna: quando si pretendeva di cambiarla in sede esclusiva del
potere spirituale, essa seppe di nuovo rivivere alla vita civile: quando si
credeva di riguardarla come una specie di museo del mondo civile, colle sole
sue memorie essa cooperd a ridestare a vita una giovine nazione. I dualismi,
che ora esistono in Roma, non ci debbono impaurire ; perchè Roma fu sempre la città
dei dualismi. Punto non ripugna, che essa da una parte possa essere la sede del
potere religioso , e che dall'altra sia la sede del governo civile ; già altra
volta essa apprese l'arte di separare il potere religioso dal civile (sacra
profanis secernere). Non ri. pugna parimenti, che essa continui ad essere la
città dei dotti e degli eruditi, e che intanto sia la capitale di un giovine
stato ; essa ha tal copia di monumenti del passato da ricavarne la più splen
dida passeggiata archeologica , e ha spazio che basta per fondare nuovi
quartieri, che possano corrispondere alle nuove esigenze ed ai nuovi bisogni.
Ormai era tempo, che essa un'altra volta arric chisse il nucleo ristretto della
sua popolazione, accordando nuova mente la sua cittadinanza alle popolazioni,
che vi concorsero da ogni parte dell'Italia . Solo sarebbe a deplorarsi, che
mentre il potere religioso cura te nacemente le proprie tradizioni, lo Stato
invece non cercasse di far rivivere la tradizione civile e politica di Roma.
Lasciamo ad altri di combattere l'influenza della romanità ; noi studiando fra
i ruderi di Roma antica avremo nella grandezza del suo passato uno stimolo ed
un incitamento per l'avvenire; nè sarà inutile , che il giovine regno cerchi di
educare il suo senso politico e legislativo , studiando l'opera dei più grandi
politici e legislatori del mondo. La storia ci vile e politica di Roma e quella
del suo diritto non deve in Italia essere privilegio di dotti e di eruditi; ma
deve essere parte dell'i struzione e dell'educazione civile e politica del
popolo italiano. È solo in questo modo, che si spiega la falange di giovani
studiosi, 604 che si precipito sopra questo patrimonio, che deve essere nostro
, allorchè lo studio della storia del diritto romano fu opportunamente chiamato
a far parte dell'insegnamento giuridico nelle Università italiane. Credo
infatti di poter affermare, senza timore di essere con traddetto , che nessun
nuovo insegnamento provocò nel nostro paese cosi largo movimento di studii,
come lo dimostrano le pubblicazioni fattesi sull'argomento , gli istituti per
lo studio del diritto romano, che ora vengono sorgendo, e l'entusiasmo stesso ,
con cui non solo l'Italia, ma tutto il mondo scientifico partecipa alla
commemorazione solenne di quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli studi sul
diritto ro mano poneva le fondamenta dell'illustre Ateneo di Bologna. L'im
portanza dogmatica del diritto romano potrà forse diminuire colla pubblicazione
del Codice Civile Germanico, il quale farà si che il diritto romano cessi di essere
il diritto comune di un grande po polo ; ma la sua importanza storica verrà per
cið stesso ad essere accresciuta , perchè si tratterà pur sempre di determinare
la parte , che nelle moderne legislazioni deve essere attribuita alla grande in
fluenza del diritto romano. Ne è da farsi illusione, che questo ge pere di
studii possa ugualmente mantenersi fuori della cerchia delle Università ;
poichè, tanto in Italia che in Germania , la scienza è nata e si è svolta nelle
Università , ed è in esse, che deve essere tenuto vivo il focolare della
medesima. È soltanto nelle Università , che la storia del diritto antico può
cessare di occuparsi esclusivamente di minute ricerche archeologiche, per
cambiarsi in un sistema di con cetti, che possa essere succo e sangue per la
giovine generazione. Giuseppe Carle. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Carle” – The Swimming-Pool Library.
Carlini (Napoli).
Filosofo. Grice: “I love Carlini, and Speranza loves him even more, but then he is Italian! My favourite is his
“A brief history of philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto
a Talete di Mileto, con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio
era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a
Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia,
Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile,
trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro
dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una
collana edita da Laterza che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi
di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo nella Laterza fu Gentile,
conosciuto qualche anno prima, e Croce, all'epoca ancora in rapporti col
filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso dei licei” ha un scopo
divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto livello degli autori che
collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre al Carlini, anche
Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e coordinamento in
qualità di direttore responsabile, pubblica due saggi su Aristotele (in realtà
raccolte aristoteliche da lui curate, commentate e tradotte) cui fece seguito
uno studio su Bovio che desta l'interesse di non pochi studiosi e
l'approvazione di Gentile, considerato da Carlini suo tutore
indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di
assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e
l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.
In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio
pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero
immanentista gentiliano (Gentile fu, fino alla propria scomparsa, suo amico,
oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di
dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un
percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli
strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della
conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello
spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile
appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si
espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni
trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di
Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia.
Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla
anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani,
raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a
ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato
al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed
esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la
metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist.
Naz. di Cultura, ser. 4; 5); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo
spirito” (Roma, Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura, 2); Il
problema di Cartesio, Bari, Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni);
“La Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le
ragioni della fede, Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” (
Bologna, Nicola Zanichelli). Dizionario biografico degli italiani. Armando
Carlini. Keywords: Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito del realismo, la
categoria dello spirito, animus e spiritus, filosofia italiana, storia della
filosofia romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la antichissima sapienza
degl’italici, la scuola di pitagora, sicilia e la magna grecia, geist, ghost,
spirito, animo, spirito oggetivo, Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei
licei, aristotele, il principio logico, Cartesio, il problema di cartesio,
senso ed esperienza, storia della filosofia, avvivamento alla filosofia, i
grandi filosofi – mondatori – the great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Carlini” – The Swimming-Pool Library.
Caro (Roma). Filosofo. Grice:
“Caro likes ‘interpretant,’ I spent various tutorials going through Aquino’s
Commentarium’ on the ‘peri hermeneias’ – my tutees were fascinated by the fact
that while the Grecian hermeneias is figurative – after Hermes, some say –
‘inter-pretatio’ is not!” -- “I love Caro – he has philosophised on Davidson’s
philosophising, notably Davidson’s idea of the interpretant, an idea Davidson
borrowed – but never returned – from Peirce!” Insegna a Roma. Si occupa di filosofia morale, di libero
arbitrio, teoria dell'azione e storia della scienza. Ha difeso la teoria detta
" naturalismo liberale", già oggetto di discussione nelle letteratura
specialistica sull’argomento. È membro dei comitati scientifici delle riviste Rivista
di Estetica e Filosofia e questioni
pubbliche. Collabora con Il Sole 24 Ore, e ha scritto per The Times, La
Repubblica, La Stampa e il manifesto. È
stato Presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica (SIFA) dal al . È vicepresidente della Consulta Nazionale
di Filosofia. Ha condotto ZettelFilosofia in movimento, programma televisivo
RAI dedicato alla filosofia. L'asteroide
5329 Decaro è chiamato così in suo onore; “Dal punto di vista dell'interprete.
La filosofia di Donald Davidson, Roma, Carocci); Il libero arbitrio, Roma-Bari,
Laterza); Azione, Bologna, Il Mulino); La logica della libertà, Roma, Meltemi);
Normatività, Fatti, Valori” (Macerata, Quodlibet); Scetticismo. Storia di una
vicenda filosofica” ( Roma, Carocci). Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e
il mistero del libero arbitrio (Torino, Codice). La filosofia analitica e le
altre tradizioni (Roma, Carocci).
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responsabili? Filosofia, neuroscienze e società” (Torino, Codice, . Biografie
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filosofia e scienza ,” Sistemi intelligenti , 18, n. 2, 2005, 203-
211.21 ) “ Frankfurt, Harry Gor don” (vol. 5 p. 4464),
“ Teoria de ll az ione” (vol. 2, pp. 987-989), 12 “
Scetticismo moderno e contemporane o” (vol. 10, pp. 10115- 10119), in
Enciclopedia filosofica di Gallarate , Bompiani, Milano 2006.22 )
“ Nozick, Strawson e lillusione della libertà ,” in G.
Pellegrino - I. Salvatore (eds.), Nozick . Identità personale,
libertà e realismo morale , LUISS University Press, Roma2007, pp.
25-52.23 ) “ Questioni metafisiche: Dio e la libertà ,” in A.
Coliva (ed.), Filosofia analitica. Temi e problemi , Carocci, Roma 2007,
pp. 403-440 (with G. De Anna).24 ) “ Davidson sulla libertà umana
,” Iride , 17, 2004, pp. 347-355.25 ) “ L'inscindibilità di
fatti e valori in etica, in economia e nelle scienze natura li,” in
troductionto Fatto valore. Fine di una dicotomia (Italian translation of
H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy ), Fazi, Roma 2004, pp. vii-xxi.26
) “ Naturalismo e scetticismo: il caso del libero a rbitrio,”
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141-153.27 ) “ Responsabilità e sce tticismo” in Egidi - De ll
Utri - De Caro (eds.), Normatività, fatti, valori , Quodlibet, Macerata,
2002, pp. 31-39.28 ) “ Olismo e interpretazione radica le,”
in M. De ll Utri (a cura di), Olismo , Quodlibet,Macerata 2002, pp.
17-36.29 ) “ Il naturalismo fisicalistico: un dogma filosofico? ,”
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179-193.30 ) “ Teorie de llint erpretazione e criteri di
correttezza ,” in C. Montaleone (ed.), Parole fuorilegge.
L’idiotismo linguistico tra filosofia e letteratura , Cortina, Milano
2002, pp.49-72.31) “ Liber tà,” Paradigmi , 58, 2002, pp.
67-84.32 ) “ Forme dello scetticismo e interpre tazione,”
Fenomenologia e società , 24, 2001, pp.31-42.33 ) “ Contro
la centralità delle regole: l esternalismo di Donald Da vidson,”
in Atti della Società Italiana di Filosofia del Linguaggio , Novecento,
Palermo, 2000, pp. 73-83.34) Sui presupposti sociali della responsabilità,
«Filosofia e questioni pubbliche ,” 5, 2000, 183-203.35 ) “
Per un connessionismo non eliminazionista, ” Sistemi Intelligenti ,
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della teoria analitica della traduz ione,” Colloquium Philosophicum
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le,” Paradigmi , 51, 1999, pp. 519-546.38 ) “ Prese
ntazione,” Paradigmi , 51, 1999, pp. 453-456.39 ) “
Determinismo e filosofia della mente contemporanea ,” in M. Cini (ed.),
Caso, necessità, libertà, Cuen, Napoli 1998, pp. 167-195.40 ) “
Monismo anomalo ed epife nomenismo,” Il Cannocchiale, II, 1997,
pp. 255- 267.41 ) “ Il lungo viaggio di Hilary Putnam,”
Lingua e Stile, XXXI, 1996, 4, pp. 527- 545.42 ) “
Epistemologia e interpretazione: l esternalismo di Donald Da vidson,”
Rivista di filosofia, LXXXVII, 1996, pp. 315-341.43 ) “ Il
platonismo di Ga lileo,” Rivista di filosofia, LXXXVII, 1996, pp.
25-40.44 ) “ La discriminazione tra la scienza e l'arte: un
problema per il relativismo epistemic o,” Paradigmi, XII, 1994,
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contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica ,in Iride , 20, 2007, pp.
257-258.4) Review of A. Massarenti, Il lancio del nano e altri
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italiana , January-April 2007, pp. 100-101.5) Review of M. De ll
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512-514.6) Review of Carlo Montaleone, Don Chisciotte o la
logica della follia , in Bollettino della Società filosofica italiana ,
May-August 2006, pp. 91-93.7) Review of Mario Ricciardi - Corrado
Del B o (a cura di), Pluralismo e libertà fondamentali , in
Iride , 2006, pp. 456-457.8) Review of Giacomo Marramao,
Minima temporalia , Iride , in Iride , 47, 2006, pp.
214-216.9) Review of Donald Davidson, Subjective, Intersubjective,
Objective , in Iride , 17, 2004, pp. 436-437.10) Review of
Massimo Marraffa, Filosofia e psicologia, in Epistemologia , Review
of Nicla Vassallo, Teoria della conoscenza, in Epistemologia , 26, 2006,
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(ed.) Wittgenstein: Mind and Language ], in Rivista di filosofia , 1998,
pp. 155-158.12) Review of Mark Pickering (ed.), Science as Practice
and Culture, in Archives Internationale s d’ Histoire
Des Sciences, 1995, pp. 169-171.13) Review of Marc De Mey, The
Cognitive Paradigm. An Integrated Understanding ofScientific Development, in
Archives Internationales d ’ Histoire Des Sciences, 1995,
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Orman Quine ” [review of: W.V.O.Quine, La scienza e i dati di senso
, Roma 1987], Tempo presente, 124, 1993, pp. 78-90.16 Review of “
Scienza e relativismo: un ossimoro? ” [review of: R. Egidi (ed.),
La svoltarelativistica nell'epistemologia contemporanea, Milano 1988], Tempo
presente, 1989, pp. 103-105.17) Review of “ E' ancora possibile una
storiografia dell'arte ? ” [review of: H. Belting, La fine della
storia dell'arte o la libertà dell'arte , Torino 1990], Tempo presente,
109-111,1990, pp. 88-90. 19 June 6, 2006: Università della Calabria,
Conference of Italian Association of Philosophy ofMind. Commentator of the main
speaker, Tim Crane.May 16, 2006: participant in the debate on “ Semiotics and
Phenomenology of the Se lf,” Roma, Società Italiana di Filosofia.May 10, 2006:
University of L Aquila. Lecture on “ Free Will and Causal Determinism ” .
March31 – April 1, 2006: Ravenna Scienza, “
Neurobiology of Free Will: Is Our Will Free? ” .Invited speaker. Paper: “ The
Philosophical Mystery of Free W ill”. January 22, 2006: Roma, Auditorium
“ Parco della Musica ,” Festival of Science. Lecture on: “ Gödel Theorems
and Free will” (with Rebecca Goldstein).January 20 –
21, 2006: Reggio Emilia, Istituto Banfi. Conference “ Nature and
Free dom”; invited spekaer for the section “ The naturalization of free dom”
(commentators A. Benini eS.F. Magni). Paper: “ Nature and Free
dom”. December 2, 2005: University “ Ca Fosca ri,” Venice.
International Conference, “ DonaldDavidson: Language - Meaning - Mind - Action
” ; invited speaker. Paper: “F reedom andInference to the Best Explanation ” .
November 17 2005: Sassari, Sassari Association of Philosophy and Science.
Lecture on “ Freedom and Scien ce” .October 27 – 28, 2005: “
Vita – Salute “ San Raffae le” University, Cesano
Maderno (Milano), First Meeting of the Italian Association of Philosophy
of Mind ; organizer and chairperson.October 19-21, 2005: University of
Genoa, International conference, “ Mental Processes ” ;relatore invitato per la
sezione “ Action and Rationality ” (discussant of Jennifer
Hornsby).September 29-30, 2005: SISSA, Trieste. Conference “
Neurophysiology and Free W ill”; invited speaker. Paper: “ Etica e libero
arbitrio ” .June 9 – 11, 2005: University of Trento,
International Conference, “ Agency and Causation in theHuman Sciences ” .
Invited speaker (paper: “F reedom and the Social Sciences ” ).June 1, 2005: “
Vita e Salute - San Raffae le” University, Milano. International
Conference, “ ADay for Freedom? An International Conference on Free W ill”.
Discussant di ChristopherHughes.May 12, 2005: University of Florence,
International Conference “ Philosophy, Neurophysiologyand Free will”
(invited speaker). Paper: “ On the compatibility of philosophy and scienc e”
.March 21 - 22 2005: Istituto di studi americani, Roma, International
Conference, “ Pragmatismand Analytic Philosophy: Differences and Interac
tions” (invited speaker). Paper: “B eyondScientific Natura lism”.
January 31 – February 2, 2005: University of Piemonte
orientale, Department of HumanisticStudies. Three lectures on Freedom and
Nature. November 26, 2004: University of Florence - Department of
Philosophy. Lecture on TheConcept of Naturalism . November 16, 2005: University
of Pavia – Giason del Maino College. Lecture on
TheContemporary Debate on Free Will . November 15, 2004: University
"Vita e Salute – San Raffae le,” Milano. Lecture
on Freedomand Nature .October 22-23, 2004: University of Piemonte
Orientale, Vercelli, Department ofHumanistic Studies, conference on “
Scientists and Philosophers and the Study ofComplex Sy stems”. September
23-25: Genova, VI International Conference of the Italian Society of
AnalyticPhilosophy (member of the scientific committee). 20 May 11-12,
2004, Rome. International Symposium "Questions on Naturalism"
(Organizer anddiscussant). November 7, 2003, Rome. Paper: “ Davidson on Human
Free dom”. Conference on DonaldDavidson, Department of Philosophy,
Università Roma Tre (speaker and organizer). November 6, 2003, Rome. Discussant
of Akeel Bilgrami. Workshop at LUISS University.September 29, 2003, Florence.
Paper: “ Metaphysical Libertarianism ” . Conference on Robert Nozick s
philosophy, Department at the University of Florence (speaker).September 15,
2003, Sassari. Lecture on “ Logica e retorica ” [Logic and
Rhetoric].Department of Foreign Languages and Literatures, University of
Sassari (invited lecturer). May7, 2003, Siena. Paper on “ Naturalism and
Free dom”. Workshop on The Free Will problem . Department of
Philosophy, Università di Siena (invited speaker).May 5, 2003, Sassari.
Workshop on Skepticism and the Reemergence and the Self ,” Department of
Philoosophy, Università di Sassari, (discussant).October 12, 2002, Messina. Paper
on “ Naturalism and Intentionality ” . Annual Meeting of theItalian
Society of Philosophy of Language (speaker).May 14, 2002, Cosenza.
Lecture: Memoria e identità [Memory and Identity].Department of
Philosophy, Università di Cosenza.May 6, 2002, Florence. Paper: “ Freedom and
Moral Responsibility: Mysteries orIllusions? ” . Department of Philosophy,
University of Florence (invited speaker). February7, 2002, Rome. Lecture
La teoria della conoscenza nel Novecento [TheTheory of Knowledge in the
Twentieth Century]. Italian Society of Philosophy (invitedspeaker)February 5,
2002, Rome. Paper on Il fondamento filosofico dei diritti umani
[ThePhilosophical Foundation of Human Rights]. Conference “ The Question of
HumanRights Today ,” Università di Roma “ La Sapienza ” (sp
eaker).January 16, 2002, Pavia. Lecture on Responsabilità e causalità:
critiche a Strawson e Frankfurt [ “ Responsability and Causality: Some
Criticisms of Strawson and Frankfur t”]. Department of Philosophy,
Università di Pavia (invited speaker).October 30, 2001, Cosenza. Lecture on “
Ragioni e ca use” [ “ Reasons and causes ” ],Department of Philosophy,
Università della Calabria (invited speaker).May 27, 2001, Padua. Lecture on
“ Freedom and Naturalism ,” Department of Philosophy,Università di
Padova (invited speaker).May 8, 2001, Milan. Paper on “ Interpretations and
Criteria of Correctness ” .Conference: Interpretation and Correcteness ,
Università Statale di Milano (invitedspeaker).May 7, 2001, Bologna. Paper on
Causality and Naturalism . Annual Meeting of the ItalianSociety of Analytic
Philosophy, Università di Bologna (invited speaker).April 10, 2001, Rome. Paper
on Forms of Causation . Annual Meeting of the Italian Societyof
Philosophy, Università Roma Tre (speaker).October 5, 2000, Siena. Paper on What
P.F. Strawson Hasn ’ t Proved . Annual Conference ofthe Italian
Society of Analytic Philosophy (spekaker)May 25-26, 2000, Rome. Paper on “
Freedom and the Self ” . Conference: The Nature of theSelf, between
Philosophy and Psychology , Università Roma Tre (speaker). 21 April
16, 2000, Rome. Paper on “ Van Inwagen s Consequence Argument ”
.Workshop: Freedom and Necessity , Università Roma Tre (organizer
andspeaker).April 8, 2000, Florence. Paper on “ What we should mean with the
Word Pe r son” (withS. Maffettone). Conference Le
ragioni del corpo [The Reasons of the Body]. Istituto Gramsci (invited
speaker).December 21, 1999, Rome. Paper on “ Davidson on the Conceptual Schemes
” .Workshop: Talking with Donald Davidson , Università Roma Tre (organizer and
speaker).December 20, 1999, Rome. Speaker with D. Donald Davidson at the
presentation of the book M. De Caro (ed.), Interpretations and Causes.
New Perspectives on Donald Dav idson’s P hilosophy , Università Roma Tre
(speaker).October, 28-30 1999, Rome. Paper on “ Against an Alleged Refutation
of Kripke sSkeptical Argument ” . Conference: Facts and Norms , IV
National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Università
Roma Tre (speaker).October 14-16, 1999, Palermo. Paper on “ Davidson on
Following a Rule ” .Conference: The Linguistic Rule . Conference of the Italian
Society of Philosophy ofLanguage (invited speaker).April 16-17, 1999, Rome.
Paper on Is Libertarianism About Free Will Scientifically Acceptable? .
Conference: Determinism and Freedom , Università Roma Tre(organizer and
speaker).September 23-26, 1998, Bologna. Paper on “ The Roots of Epistemic
Skepticism ” .Conference: Science, Philosophy, and Common Sense , III National
Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Bologna
(speaker).February 27, 1997, Rome. Lecture on Freedom and Necessity .
Seminar of theInterdipartimental Reasearch Center on Scientific Methodology
(invited speaker).October 17-19, 1996, Rome. Paper on “ G.H. von Wright on the
Mind-Body Proble m”. Conference The Study of Mankind in George Henrik von
Wright , Università RomaTre (speaker).December 5-6, 1994, Rome. Paper on
“ Davidson on Holism and SemanticExterna lism”. Conference:
Perspectives on Holism , CNR Roma (organizer andspeaker).October 24-26, 1994,
Rome. Paper on “ Galileo s method ” . Conference: Philosophies of
Nature from the Renaissance to the Twentieth Century , Università Roma “
LaSapienza ” (speaker).April 2, 1993, Rome. Paper on “ Davidson on skepticism”.
Conference Donald Dav idson’s philosophy , Università di Roma
“ La Sapienza ” (speaker and organizer).January 7-10 1993, Lucca. Paper
on Logic and Philosophy of Science: Problems and Perspectives . Triennal
Meeting of Italian Society of Logic and Philosophy ofScience (speaker) .
November 30, 1991, Rome. Paper on “ Perspectives of Rea lism”. Lecture at the
Departmentof Philosophy, Università di Roma “ La Sapienza ” (speaker).
November 20-22, 1989, Rome. Paper on “W ittgenstein and the Philosophy of Mind
” .Conference: Wittgenstein on Mind and Language , Università Roma Tre
(speaker). Mario De Caro. Keywords: Davidson, Putnam, “derivative
Old-World philosopher focusing on New-World philosophers like Putnam or
Davidson!”, interpretatione, peri hermeneias, Davidson on Grice – Grice on
Putnam on Grice ‘too forma’ – Davidson on Grice – ‘a nice derangement of
epitaphs’ Grice on Davidson on intending: conversational implicature theory too
social to be true: ‘intending’ ENTAILS belief, does not IMPLICATE it! Pears, D.
F. Pears. – P. F. Strawson and H. P. Grice on ‘free’ – Actions and Events --.- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caro” – The
Swimming-Pool Library.
Carravetta (Lappano),
filosofo.. Note Peter Carravetta, Del
postmoderno., by Alessandro Carrera
iawa-West welcomes Peter Carravetta and Marisa Frasca on Saturday,
February 14, at Sidewalk Cafe NYC IAWA’s Open Reading Series Featuring Peter
Carravetta & Marisa FrascaFebruary 14,
Filosofia Letteratura Letteratura
Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloPoeti italiani del XX
secoloPoeti italiani del XXI secoloTraduttori italiani 1951 10 maggio. Grice:
“Carravetta has been stealing the Italian voice of Italian philosophers, or
rather silencing it!” -- Pietro Carravetta. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Carravetta” – The Swimming-Pool Library. Tractatus
semeiotico-philosophicus – the opus magnum, almost, of Grice – or Speranza. –
The Swimming-Pool Library.
Carulli (Bari). Filosofo. Grice:
“I like Carulli – he philosophises on things we do not philosophy at Oxford,
such as menstruation – or piegaturi, as Speranza prefers, since this is plural
– ‘delle mestruazioni’.” Grice: “But Carulli has also philosophised on some
anti-Griceian themes: my ‘fiducia’ becomes his ‘sfiducia;’ my ‘ragione’ becomes
his ‘sragione’! Delightful!” – Grice: “When I philosophised on “Not,” or “Not
I!” alla Beckett – I wouldn’t realise these are negative implicatures –
‘negative implicatures of ‘not’ – Carulli speaks of ‘negative reflections on
unaffirmation’!” “Genius!” – Grice: “Carulli can play with word: ‘il ‘mito’
della inatualitta ‘ di X’ – is this equivalent or, as I prefer, a mere vehicle
for the cancellable implicature: ‘la attualita’ di X’?!” – Grice: “Carulli
knows how to subtitle: his ‘sfiducia e sragione’ is not just that but a
Spinozian double treatise, like Witters’s abhandlung – cfr. Speranza’s “Tractatus
semeiotico-philosophicus”.Studia a Bari, una città tradizionalmente soggetta
allo storiografismo, all'impegno cattolico e al marxismo. Produce una filosofia
aliena ai grandi inganni e refrattaria alla celebrazione dei suoi miti -- la
democrazia, i diritti, la socialità, il debolismo -- con un'inconsueta
attenzione alla forma, seguendo la scuola della cosiddetta critica della
cultura, da Nietzsche in poi, unendo gli epigoni di quello ai moralisti. Partito
da posizioni di anti-storicismo puro, culminato in un Benjamin schiacciato sulla
im-politicità di ritorno della sua filosofia in “Oggettività dell'impolitico: riflessioni
negative a partire da Benjamin” (Genova, Il Melangolo). Così come da un'analisi
eterodossa dell'ultimo Schelling, De contemptu, Dello Schelling tardo (Genova,
Il Melangelo) è giunto ad esiti originali con “Metafisica delle mestruazioni”
(Genova, Il Melangolo), dove si sottrae il fenomeno femminile alle analisi
socio-antropologiche per riconsegnarlo alla sua radice metafisica. Il discorso
sul cristianesimo ritorna in “Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico”
(Napoli, La Scuola di Pitagora), dove si riprende inoltre la critica della
democrazia. Il cristianesimo è visto come una forma culturale stanca e
abitudinaria, ma in grado di reggere con la sua apatia allo scontro con
l'Islam. Si affaccia la verità ontologica del “ente” in diminuzione che non
giungono mai all'annullamento definitivo; una verità che lo distanzia
dall'eternità dell’ “essente” come pure dai cultori dell'annientamento. La sua filosofia, centrata ossessivamente
sugli stessi temi, può essere idealmente divisa secondo un'altra direttrice,
volta alla ri-costruzione critica pionieristica di su amico Sgalambro. In
quest'ambito pubblica “Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Sgalambro”
(Napoli, La Scuola di Pitagora); Introduzione a Sgalambro” (Genova, Il
Melangolo), e “La piccola verità. Quattro saggi su Sgalambro” (Milano,
Mimesis). Altre opere:“Lettera in La felicità? Prove didattiche di studenti
“tieffini” in formazione, Chiara Gemma, Barletta, Cafagna. Gianluca Veneziani,
Storia, verità e politica. Perché Benjamin non è un marxista, in Libero, De
contemptu, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Alighieri, Harry Potter e
le mestruazioni: l'idea bellicosa di editoria di Regazzoni, su il foglio Alessio
Cantarella, Sfiducia e sragione, su alessiocantarella, Davide D'Alessandro,
Ratzinger, Bergoglio e l'Abitudine al Cristianesimo, su il foglio. Pier
Francesco Corvino, Religio Medici. Andrea
Comincini, Per una interpretazione di Dio e del Contemporaneo, su scena illustrata.com.
alessio cantarella. Sgalambro, un metafisico distruttore, in La Sicilia. Corriere del Mezzogiorno, Sgalambro,
“impiegato di filosofia” contro i luoghi comuni, in Il Mattino, Sgalambro,
filosofo pessimista che sape come godersi la vita, in Libero, Luca Farruggio,
Una preziosa “Introduzione a Sgalambro” -- Davide D'Alessandro, Cara “Italian
Theory”, ricordati di Sgalambro, su il foglio, Introduzione a Sgalambro su rai
playradio. Alessio Cantarella, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Uno
Sgalambro non isolato, tra Cacciari e Severino, su il foglio, convenzionali.wordpress.com,
Sgalambro e le piccole verità, su lgiornale. Sgalambro, l’esistenza e il peso
di dio, su scena illustrata.com. Sgalambro, il filosofo che ama la canzone, in
La Gazzetta del Mezzogiorno. Antonio Carulli. Keywords: critica della cultura,
Nietzsche, De Contemptu, Schelling, impolitico, Benjamin, menstruazione,
Aligheri sulla mestruazione, ente, essente, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Carulli” – The Swimming-Pool Library.
Casalgeno (Torino). Filosofo.
Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me! Translating
Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating Cassiodoro,,
“more than a translation, he provided a correction – and he tried to prove that
Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not try to
‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he tries to
‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!” Si laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti della
logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi
temi all'interno della filosofia analitica, quali il concetto di verità, la
teoria degli insiemi, l'epistemologia della testimonianza, la teoria della
ricorsività. Altre opere: “Alle origini della semantica formale,” Cuem;
“Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi,
un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla filosofia del linguaggio,
Carocci, Verità e significato. Scritti
di filosofia del linguaggio, Carocci,
(P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il puzzle di Kripke, in
Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre osservazioni su verità e
riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento antirealista di Dummett?,
in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità: problemi e punti di vista,
in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema concernente le condizioni di
asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano, Bompiani, Normatività e
riferimento, in Politeia. Chomsky sul
riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il maestro della filosofia del
linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera, Archivio storico. Grice H. P. (1975). Logica e conversazione. In P. Casalegno,
P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di). Filosofia
del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina 2003, 221–244. Il libro che vi
presento oggi appartiene alla collana “Bibliotheca” della casa editrice
Raffaello Cortina. Il titolo è Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra
i libri di cui ho parlato in questo blog) e si tratta di una interessante e
utile antologia di testi, appartenenti alla tradizione novecentesca della
filosofia analitica del linguaggio. I curatori sono importanti docenti
italiani, tra cui Paolo Casalegno, Pasquale Frascolla, Andrea Iacona, Elisa
Paganini e Marco Santambrogio. I testi antologizzati consentono al
lettore di farsi un’idea (e non poco approfondita) sulle principali questioni e
problematiche inerenti al linguaggio umano, su cui si è dibattuto negli ultimi
decenni in ambito analitico. Ogni testo è preceduto da una introduzione dei
curatori, in cui è presentato il pensiero dell’autore, il contesto culturale e
i concetti chiave che emergono dalla sua opera. Apre il classico Senso e
significato di Gottlob Frege (di cui avevo già parlato qui), seguono
quindi Le descrizioni di Bertrand Russell (testo che tratta delle
descrizioni definite), Significato, uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein
(tratto dalle sue Ricerche filosofiche del 1953), Due dogmi dell’empirismo e
Relatività ontologica di Willard Van Orman Quine, Nomi e riferimento di Saul
Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di Hilary Putnam, Interpretazione
radicale di Donald Davidson, Logica e conversazione di Paul Grice, Dispute
metafisiche intorno al realismo, di Michael Dummett, e si conclude con
l’interessante Linguaggio e natura, di Noam Chomsky. versazione – afferma Grice
- è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in
maniera appropriata . A tale fine , bisogna che ciascuno si attenga a quattro “
massime ” che possono ... Introduzione alla filosofia del
linguaggio Paolo Casalegno 1. Significato e condizioni di verità
Prendiamo in considerazione un’idea del primo Wittgenstein: “Comprendere
una proposizione vuole dire sapere che accada se essa è vera” (Tractatus,
4.024). Poiché comprendere una proposizione equivale a conoscerne il
significato, molti hanno concluso che alla base di una teoria del significato
si deve porre la nozione di verità. Come sostenere la tesi
wittgensteiniana? Un modo può essere questo:
usiamo il linguaggio per descrivere la
realtà. Una proposizione singola fornisce una descrizione appropriata,
anche se parziale, della realtà se le cose stanno in un certo modo, una
descrizione inappropriata altrimenti. Per comprendere una proposi-zione
dobbiamo sapere quali sono le circostante in cui la descrizione della realtà
che essa offre è ap-propriata, dobbiamo sapere come deve essere fatto il mondo
affinché essa sia vera. Possiamo anche esprimerci così: per comprendere una
proposizione dobbiamo conoscere le sue ‘condizioni di veri-tà’. Evitiamo
di fraintendere. Conoscere le condizioni di verità di una proposizione è molto
diverso dal sapere se essa sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna dunque
confondere le due cose. Inoltre, non bisogna assumere che il conoscere
le condizioni di verità di una proposizione equivalga
a sapere come si fa, in pratica, per stabilire se essa è vera. La
tesi wittgensteiniana sembra essere ragionevole, e così anche la sua
conseguenza più immediata: una teoria del significato, ammesso che la si possa
elaborare, deve essere imperniata sulla nozione di verità. Le obiezioni che si
possono però muovere a un siffatto modo di vedere le cose sono moltepli-ci,
concentriamoci su alcune di queste. Le obiezioni possono essere, principalmente,
di due tipi. Da un lato si può concedere che compren-dere una proposizione
equivalga a conoscerne le condizioni di verità, ma respingere l’idea che la
nozione di verità sia la nozione centrale di una teoria del significato (ci
sono espressioni per le quali parlare di condizioni di verità sembra essere
assurdo). Dall’altro lato, si può più radicalmente soste-nere che il
significato delle proposizioni non può essere ridotto a un insieme determinato
di condi-zioni di verità. [Nota metodologica. Al termine ‘proposizione’
preferiamo contrapporre un gergo leggermente più tecnico, facciamo quindi uso
del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a quelle che talvolta si chia-mano
‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle quali si può fare un’asserzione
e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere o false.] La prima
obiezione si basa sull’ovvia constatazione che esistono
espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non sono enunciati, e
alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente attri-buibili
condizioni di verità. Ci sono espressioni
sintatticamente ben formate che non sono
frasi complete, parole singole o espressioni come ‘valigia
pesante’. Che queste espressioni abbiano un significato è
indubbio, ma che si possa parlare di condizioni di verità sembra essere
un’evidente for-zatura. In secondo luogo, ci sono frasi
complete come le interrogative e le imperative.
Inevitabil-mente, una teoria che voglia analizzare il significato di queste due
sorte di espressioni deve ricorre a nozioni diverse da quella di
verità. Sembra dunque impossibile che
proprio su questa nozione si fondi tutta quanta una
teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si può voler
dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata l’unica
nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione centrale.
Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non sono
enunciati ha a che fare con la verità. Consideriamo il caso delle parole
singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti che ci
serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole singole non
fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole abbiano un significato
perché ci interessa che abbiano un significato le frasi complete in cui esse
figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola, comprenderla, equivale in
definitiva a sapere qual è il suo contributo al significato delle frasi: in
particolare alle condizioni di verità degli enunciati. Non è possibile spiegare
in che cosa consista per una parola essere nome di qualcosa — e, più in
generale, che cosa sia il significato di una parola qualsiasi — se non
presupponendo la nozione di verità. Una teoria del significato deve fare
appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle parole singole (questo
vale anche per frasi più com-plesse che tuttavia non sono frasi complete)
(MAH). Vediamo ora il caso delle frasi complete che non sono enunciati.
Se ci si riflette un po’ su, ci si ren-de conto che la nostra capacità di
capire e di usare correttamente frasi interrogative e imperative dipende dalla
nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo, il che comporta
che si sappia quando una descrizione è appropriata e quando non lo è, il che ci
riporta, ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso di domande molto
semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente:
queste domande (come ‘è partito il treno per Udine’)corrispon-dono in modo
ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula la
domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il
rispondere ‘Sì’ alla domanda equi-vale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al
dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene ri-flettendo sui casi
delle interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una
negazione o un’affermazione, e delle frasi
imperative. La centralità della nozione di
verità sembra così essere confermata. Della
seconda obiezioni esistono più varianti,
potremmo perciò formularla come segue.
Concen-trando l’attenzione sulle condizioni di verità, si privilegia solo uno
degli scopi cui il linguaggio può essere adibito: la descrizione della realtà,
la trasmissione di informazioni su come è fatto il mondo. E questa è una mossa
evidentemente arbitraria. Se si decide di ignorare la straordinaria varietà
degli usi cui gli enunciati possono essere adibiti nelle circostanze concrete
delle vita per concentrarsi in modo esclusivo sul loro ruolo di
veicoli di informazione, ci si condanna ad offrire del linguaggio un’immagine
desolantemente impoverita. Del resto anche se si è interessati al linguaggio
come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna convincersi che anche da questo
punto di vista le cose sono assai più complicate. In primo luogo, il fornire
informazione non può mai ridursi al proferire enunciati in modo casuale e
sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci
tro-viamo, delle informazioni di cui i
nostri interlocutori già dispongono, delle
loro aspettative ecc.; inoltre, ci sono regole precise di
costruzione del discorso, violando le quali ciò che diciamo potreb-be non esser
compreso o risultare folle. Per tutto questo le condizioni di verità non
bastano. In se-condo luogo, le condizioni di verità degli enunciati sono
concepite di solito come qualcosa di relati-vamente fisso e stabile. Di
conseguenza, se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse per intero
dalle loro condizioni di verità, dovrebbe essere a sua volta stabile. Ma solo
fintanto che si con-templano gli enunciati prescindendo da ogni loro impiego
effettivo si può avere l’impressione che sia così. Ciò che si può
comunicare con un dato enunciato varia enormemente con il variare dei
contesti. La risposta abituale a questa obiezione consiste nell’evocare la
distinzione tra semantica e pragmati-ca, una distinzione che risale a un saggio
di Charles Morris, secondo il quale lo studio di una lingua, o di un qualsiasi
altro sistema di segni, si compone di tre parti: sintassi, semantica e
pragmatica. La sintassi si occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo
dalla loro interpretazione e dal loro uso, la semantica del significato dei
segni, e la pragmatica di ciò che con i segni si può fare, dei loro impieghi
concreti. Un’obiezione come sopra, si può dire, confonde semantica e
pragmatica. Qualcuno potrebbe però voler dire che questa risposta si
riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione definitoria. Il problema è se un
tale modo di circoscrivere la semantica disgiungendola dalla prag-matica sia
giustificato o meno: se cioè la decisione di isolare le condizioni di verità da
altre dimen-sione del linguaggio rispecchi un’articolazione intrinseca della
nostra competenza di parlanti, iden-tifichi un livello realmente fondamentale,
e possa costituir una scelta metodica feconda. Due punti: né il filosofo
del linguaggio né il linguista sono tenuti a rendere conto di tutti gli usi
pos-sibili del linguaggio. Si è tenuti a rendere conto solo di quelli che
potremmo chiamare gli usi “lin-guistici” del linguaggio (MAH). Se focalizziamo
la nostra attenzione su questi usi, possiamo convin-cerci che l’idea di
partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che la conoscenza delle
condi-zioni di verità degli enunciati svolga un ruolo
essenziale anche quando sono coinvolti fattori che non sono
riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è legittimo
distinguere seman-tica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la pragmatica
presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gli enunciati
siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo 2 Questa
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cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è
quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha
subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una
proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un
“pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono “costituenti psichici”. Usando
le parole di Wittgenstein si può
continuare a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime
un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della
proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il
pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero,
rappresenta (?). Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una
proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che
il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i
pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può
concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore
dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma
del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una
proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la
struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto
che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione
elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo
approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine
solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che
è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che
rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla
proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus
non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni
travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio
artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La
convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base
della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il
più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose
filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non
comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo
ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro
verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La
filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non
sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein
rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia
resterà per lo più immutata. I nomi che figurano in una proposizione
completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale:
oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso
co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio
ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione
completamente analizzata dagli oggetti del senso comune è il
requisito della semplicità. L’oggetto deve
essere semplice, ma di questa semplicità il Tractatus
non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la
genesi del Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente
di Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli
oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava
l’esi-stenza non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì
sulla base di considerazioni logiche astratte e generali. In effetti
un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus
si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli
oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”;
“Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso
dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora
impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo
presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I)
Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che
figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue
dall’idea che le proposizione elementari siano immagini. (II) Se ai nomi
potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna
garanzia che ad un dato nome corrisponda davvero qualcosa.
Un’entità complessa consta di entità più semplici correlate in un certo
modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingen-te.
5 stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la
nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di
interpretazioni che ha subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda
complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso
la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine:
un’immagine mentale i cui elementi sono “costituenti psichici”.
Usando le parole di Wittgenstein si
può continuare a dire, come faceva Frege, che ogni
proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero
espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato
di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite
il pensiero, rappresenta (?). Nel caso del linguaggio ordinario, il
rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato.
Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il
linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore
dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la
forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far
conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che
la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti.
Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire
che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è
corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è
un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e
propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di
cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla
proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus
non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni
travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio
artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La
convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base
della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il
più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose
filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non
comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo
ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro
verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La
filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non
sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein
rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia
resterà per lo più immutata. I nomi che figurano in una proposizione
completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti
non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?)
e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò
che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente
analizzata dagli oggetti del senso comune è il requisito
della semplicità. L’oggetto deve essere
semplice, ma di questa semplicità il Tractatus non da’
neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del
Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente di
Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti
semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza
non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì sulla base di
considerazioni logiche astratte e generali. In effetti un’argomentazione
vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano
soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la
sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non
avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere
un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine
del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di
Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una
proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa
corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che
le proposizione elementari siano immagini. (II) Se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad
un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità
complessa consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora,
che sussista una tale correlazione è un fatto contingen-te. 5
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(III) Pertanto, se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci
sarebbe a priori nessuna garanzia che una data proposizione abbia un senso.
Supponiamo che nella proposizione P figuri il nome N: se a N potesse
corrispondere un’entità complessa C, saremmo sicuri che a N corri-sponde
davvero qualcosa, e quindi che P ha senso, solo se fossimo sicuri
che C esiste: in altri termini, solo se sapessimo già che è vera la
proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi costituitivi di C sono
correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein, “l’avere una
proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”. (IV)
Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure no deve
essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o l’insensatezza di
una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere sicuri che una proposizione
è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma la verità di un’altra
proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e noi non potrem-mo mai
sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di determinato. Non saremmo mai in
gra-do di “progettare un’immagine del mondo vera o falsa”.
(V)Conclusione: devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti semplici che
devono corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio. NB. In questo
ragionamento, la corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici viene
fatta coincidere con quella tra entità la cui esistenza è un fatto contingente
ed entità la cui esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É manifesto
che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere
in comune con il mondo reale qualcosa — una forma —”; “Questa forma fissa
consta appunto degli oggetti”. La proposizione (I) non è dunque
un’immagine vera e propria: la sua struttura non rispecchia la struttura di uno
stato di cose perché i costituenti ultimi di uno stato di cose sono sempre
oggetti semplici, mentre Piero e Marco sono entità complesse. I termini ‘Piero’
e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a Wittgenstein interessa. Questo però non
implica che (I) sia priva di senso. Grazie alla mediazione del pensiero un
senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente bisognerebbe ri-correre a
proposizioni con una struttura del tutto diversa: a proposizioni completamente
analizzate. Si può finalmente comprendere perché ai nomi non si possa
attribuire, a suo avviso, un senso di tipo descrittivo come quello cui pensava
Frege. Identificare un oggetto attraverso una descrizione vuole dire
identificarlo riferendosi ad uno stato di cose di cui esso fa parte. Ma il
sussistere di uno stato di cose è sempre un fatto contingente, mentre la
correlazione di un nome con l’oggetto che ne costi-tuisce il significato deve
essere garantita a priori. Pertanto, ciò che istituisce la correlazione
nome/oggetto non può essere una descrizione dell’oggetto stesso.
Vediamo ora cosa Wittgenstein sostiene riguardo
le proposizioni complesse. La sua idea è
che le proposizioni complesse siano funzioni
di verità delle proposizioni elementari che
figurano come loro costituenti. Supponiamo che le proposizioni elementari
che figurano nella proposizione com-plessa P siano P1, …, Pn. Allora dire che P
è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a dire che il valore di verità
di P dipende esclusivamente dai valori di verità di P1, …, Pn (negazione,
congiun-zione, disgiunzione, condizionale…). Per visualizzare il modo in
cui il valore di verità di una proposizione costruita per mezzo di un dato
connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni costituenti,
Wittgenstein propone un arti-ficio grafico: le cosiddette ‘tavole di
verità’. Tavola di verità della negazione: P¬ PT (1)F (0)F (0)T (1)
6 Tavola di verità della congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione
(inclusiva): Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come
sono, potrebbero addirittura fungere da pro-posizioni complesse di un
linguaggio artificiale: ad esempio, le tre tavole di verità sopra
riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,( P ^ Q),(P ∨ Q). Se si seguisse questo suggerimento si
di-sporrebbe di un simbolismo autoesplicativo ma anche enormemente
ingombrante. Notiamo ora una grossa differenza tra Frege e Wittgenstein
nel modo di concepire i connettivi logi-ci. Per Frege ogni connettivo denota
una certa funzione che associa valori di verità a valori di verità (dove i valori
di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe dunque interpretato la
tavola di verità per un connettivo come un modo per descrivere la funzione da
esso denotata. Per Wittgen-stein, invece, i connettivi non denotano nulla.
Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso consente di costruire
proposizioni complesse il cui essere vere o false dipende, secondo certe
modalità determinate, dall’essere vere o false le proposizioni costituenti.
Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per Wittgenstein, come chiedersi che
cosa denotino le parentesi. A queste considerazioni circa le proposizioni
complesse è strettamente collegata la concezione witt-gensteiniana della
logica. Né Frege né Russell avevano saputo spiegare che cosa contraddistingue
una proposizione logica da una proposizione di altro tipo, e questo era proprio
uno degli obbiettivi di Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa
ancora una volta al valore di verità di una pro-posizione complessa
come determinato dai valori di verità dei suoi
costituenti elementari, si può constare che ci sono due casi
limite: quello in cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui
una proposizione complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili
combinazioni di verità dei costituenti elementari. Una proposizione del primo
tipo Wittgenstein la chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo
‘contraddizione’. Ciò che Wittgenstein sostiene circa la natura della
logica è che essa consta per intero di tautologie. É l’essere una tautologia
ciò che contraddistingue una proposizione logica da qualsiasi altra. Una
pro-posizione logica non è tale per via del suo contenuto ma, piuttosto, perché
non ha contenuto, per-ché non dice nulla. Le tautologie non possono fornirci
alcuna informazione sulla realtà. Il loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo
vere in virtù delle sole regole del linguaggio, esse ci mostrano come questo
funzioni. Avevamo detto che il senso di una proposizione elementare è lo
stato di cose che la proposizione rappresenta. Alle proposizioni
complesse questa nozione di senso non può essere applicata
senza modifiche. Il motivo è che, se P è una proposizione complessa, non c’è
uno stato di cose di cui si possa ragionevolmente dire che è rappresentato da
P. Tuttavia, se Wittgenstein ha ragione nel dire che tutte le proposizioni
complesse sono funzioni di verità dei loro costituenti proposizionali
ele-mentari, l’essere P vera o falsa dipende pur sempre dal sussistere o non
sussistere di certi stati di cose. Ciò che Wittgenstein dunque propone è di
identificare il senso di P con quelle combinazioni del sussistere e non
sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per le quali P risulta vero. “Il senso
della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP ∨
QTTTTFTFTTFFF 7 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti
parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non
perderti parti importanti! è un'attività cooperativa alla quale i partecipanti
devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si
attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL
LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO”
di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA
E’VERA( alla base deve esserci la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x
descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che fornisce una descrizione
della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI
LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’(circostanze
in cui essa è vera)-FRAINTENDIMENTI POSSIBILI:*1.CONOSCERE LE CONDIZIONI DI
VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O FEs: l’uomo + alto
del mondo è bruno= NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI VERITA’ES :
Napoleon was defeated by Nelson=E’ VERA ,MA NON CONOSCO L’INGLESE E NON CONOSCO
LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’*2. CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA
PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La
luna ha un diametro superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI
VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO
COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA-PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo
della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o
f)=ENUNCIATO*tesi è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2
obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE DI SIGNIFICATO ,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON
HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI DI VERITA’ : espressioni sintatticamente ben
formate che non sono frasi complete-PAROLE SINGOLE ,ESPRESSIONI COME “VALIGIA
PESANTE”,FRASI INTERROGATIVE-ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il
conto!*LA NOZIONE DI VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL
SIGNIFICATO: anche nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E
FRASI COMPLETE CHE NON SONO ENUNCIATI2.LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON
E’ SUFFICIENTE X UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI -
concentrando l’attenzione sulle condizioni di verità si privilegia la
descrizione della realtà , ma questo atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO
PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN TUTTI I CASI NON HA MOLTA IMP SE
GLI ENUNCIATI SONO V O F *parlando dobbiamo tenere conto della situazione in
cui ci troviamo, delle info che possiedono i nostri interlocutori, delle loro
aspettative e delle regole della costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO
CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”,MA
E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE
IN UN CONTESTO CONCRETO*Morris= lo studio della lingua si divide in 3
parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI
DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si
occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni
concreti*GRICE: -conversazione= ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I
PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4
massime:1.QUANTITA’=giusta via di mezzo 2.QUALITA’= non dire cs false
3. RELAZIONE=cose pertinenti 4.MODO= parlare in modo chiaro
e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là del
significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE2.FREGE:primo filosofo
analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna -inventa
IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la
teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento
inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO
DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato
linguistico generale1.SINN:senso(OGGETTIVO,NOZIONE
LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è
l’individuo Aristotele La montagna + alta al mondo=
SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’
ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York *descrizioni
definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE es: IL marito di Luisa-UN NOME
HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del
linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato in virtù del loro
senso-senso diverso da rappresentazione= E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE
PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI
HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO
LETTERALE”,MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE
UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO*Morris= lo studio della lingua si divide in
3 parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI
ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI
VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro
impegni concreti*GRICE: -conversazione= ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE
I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4
massime:1.QUANTITA’=giusta via di mezzo 2.QUALITA’= non dire cs
false 3. RELAZIONE=cose pertinenti 4.MODO= parlare in
modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là
del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE2.FREGE:primo filosofo
analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna -inventa
IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la
teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento
inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO
DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato
linguistico generale1.SINN:senso(OGGETTIVO,NOZIONE
LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è
l’individuo Aristotele La montagna + alta al mondo=
SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’ ABBREVIAZIONE
DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York *descrizioni definite=
ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE es: IL marito di Luisa-UN NOME HA SENSI
DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio
naturale-le espressioni hanno un significato in virtù del loro senso-senso
diverso da rappresentazione= E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE
PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE Questa pagina
non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! FILOSOFIA DEL
LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO + DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate,
MedioevoPREMESSAPARADIGMA CLASSICO DEL 900FregeRussell Wi�gensteinTarskiQuinePutnamFREGESENSO
E SIGNIFICATOENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B)TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e
DESCRIZIONI DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di
COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE
DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI
COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALITAUTOLOGIECONTRADDIZIONI
TAVOLE DI VERITÀLA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA.TARSKILINGUAGGIO OGGETTO e
METALINGUAGGIODEFINIRE LA VERITÀCONVENZIONE VCOSTANTI (INDIVIDUALI, PREDICATIVE
e LOGICHE)SIMBOLI AUSILIARISODDISFACIMENTOPARADOSSIVERITÀ RELATIVA AD UN
MODELLOCARNAPDESCRIZIONI DI STATOESTENSIONE e INTENSIONEPOSSIBILITÀ e NECESSITÀ
LOGICHEKRIPKEVERITÀ LOGICAMODELLO KVERBI DI CREDENZADEISSI (o INDICALI)QUINEDUE
DOGMI DELL’EMPIRISMOANALITICO / SINTETICORIDUZIONISMOREGOLE SEMANTICHETEORIA
DELLA VERIFICAZIONE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti
parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti
parti importanti! - il significato non può essere rido�o ad un
insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono
espressioni che, pur avendo significato, non sono enuncia� e
quindi non gli si possono a�ribuire CDV. Tra di esse
troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Tu� gli
studen� che hanno superato la prova”- frasi complete come le
INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi por� il
conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del
significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato
delle espressioni che non sono enuncia� ha a che fare con la
verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola
essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del
significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole
singole.Questa linea argomenta�va risale a Frege e si può
applicare anche alle espressioni complesse. Rifle�endoci,
ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interroga�ve ed
impera�ve dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per
descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata
o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del
significato degli enuncia�. Concentrando l’a�enzione sulle CDV si
privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di
ignorare i vari usi cui gli enuncia� possono essere adibi� per
concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare
impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista
le cose sono molto più complicate, per due mo�vi:-
parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci
sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere
le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e
stabile. Se il contenuto informa�vo degli enuncia�
dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col
variare dei contes�.Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV-
amme�ere che gli enuncia� abbiano CDV che corrispondono
al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la dis�nzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una
lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che
riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concre� dei
segniL’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella
direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe riba�ere che
tu�o ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo
modo di circoscrivere la seman�ca sia gius�ficato.
So�olineiamo due pun�:- non si è tenu� a
rendere conto di tu� gli usi possibili del linguaggio - il significato non può essere
rido�o ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla
constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non
sono enuncia� e quindi non gli si possono a�ribuire CDV. Tra di esse
troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Tu� gli
studen� che hanno superato la prova”- frasi complete come le
INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi por� il
conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del
significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato
delle espressioni che non sono enuncia� ha a che fare con la
verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola
essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del
significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole
singole.Questa linea argomenta�va risale a Frege e si può
applicare anche alle espressioni complesse. Rifle�endoci,
ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interroga�ve ed
impera�ve dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per
descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata
o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del
significato degli enuncia�. Concentrando l’a�enzione sulle CDV si
privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare
i vari usi cui gli enuncia� possono essere adibi� per concentrarsi sul
loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi,
però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto
più complicate, per due mo�vi:- parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui
ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere
questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come
qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informa�vo
degli enuncia� dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In
realtà, varia col variare dei contes�.Restano aperte solo due
opzioni:- respingere la nozione di CDV- amme�ere che gli enuncia�
abbiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate
la dis�nzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo
Morris, lo studio di una lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in
quanto tali;SEMANTICA che riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che
riguarda gli impieghi concre� dei segniL’obiezione, dunque,
sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma
serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe riba�ere che
tu�o ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo
modo di circoscrivere la semantica sia gius�ficato.
So�olineiamo due pun�:- non si è tenu� a
rendere conto di tu� gli usi possibili del linguaggio Questa pagina non è visibile
nell’anteprima Non perderti parti importanti! - è legi�ma la
dis�nzione tra seman�ca e pragma�ca e,
anzi, la pragma�ca presuppone la seman�caQuesto secondo punto è
messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE,
secondo cui una conversazione è un’a�vità coopera�va alla
quale i partecipan� devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario
che ciascuno si a�enga a 4 massime:1- QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né
maggiori di quanto richiesto al momento2- QUALITÀ: non dire cose che credi
false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose per�nen�4-
MODO: parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è
legi�ma la dis�nzione tra seman�ca e pragmatica e,
anzi, la pragmatica presuppone la seman�caQuesto secondo punto è
messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE,
secondo cui una conversazione è un’a�vità coopera�va alla
quale i partecipan� devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario
che ciascuno si a�enga a 4 massime:1- QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né
maggiori di quanto richiesto al momento2- QUALITÀ: non dire cose che credi
false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose per�nen�4-
MODO: parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità
Paolo
Stefano Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Casalegno” – The Swimming-Pool Library.
Casanova (Venezia). Filosofo. Grice: “It is
fascinating to analyse what Casanova calls ‘piegadura’, or ‘piegadure,’ in the
plural – bendings – my implicatura is a bit like his piegadura, only less
acute!” -- Grice: “I would hardly call Casanova a philosopher, but my wife
hardly would not!” -- Giacomo Casanova ritratto dal fratello Francesco Giacomo
Girolamo Casanova (Venezia) avventuriero, scrittore, poeta, alchimista,
esoterista, diplomatico, finanziere, scienziato, filosofo e agente segreto
della Serenissima italiano, cittadino della Repubblica di Venezia. Benché
di lui resti una produzione letterariatra trattati e testi saggistici
d'argomento vario (s'occupò, nell'ampia gamma dei suoi interessi, perfino di
matematica) e opere letterarie in prosa come in versivastissima, viene a tutt'oggi
ricordato principalmente come un avventuriero e, per via della sua vita amorosa
a dir poco movimentata, come colui che fece del proprio nome l'antonomasia del
soave e raffinato seduttore e libertino. A tutt'oggi un playboy viene spesso
chiamato "casanova". A questa sua fama di grande conquistatore
di donne contribuì verosimilmente la sua opera più importante e celebre:
Histoire de ma vie (Storia della mia vita), in cui l'autore descrive, con la
massima franchezza (pur non per questo privandosi d'anedotti romanzeschi e
alcuni abbellimenti), le sue avventure, i suoi viaggi e, soprattutto, i suoi
innumerevolissimi incontri galanti. L'Histoire è scritta in francese: tale
scelta linguistica fu dettata principalmente da motivi di diffusione
dell'opera, in quanto all'epoca il francese era la lingua più conosciuta e
parlata dalle élite d'Europa. Fra corti e salotti vari, si ritrovò a
vivere, quasi senza rendersene conto, un momento di svolta epocale della
storia, non comprendendo affatto lo spirito di fortissimo rinnovamento che
avrebbe fatto virare la storia in direzioni mai percorse prima; rimase infatti
ancorato fino alla fine dei propri giorni ai valori, precetti e credenze
dell'ancien régime e della sua rispettiva classe dominante, l'aristocrazia,
alla quale era stato escluso per nascita e della quale cercò disperatamente di
far parte, anche quando essa era ormai irrimediabilmente avviata al crepuscolo,
per tutta la propria vita. Tra le personalità eccelse dell'epoca che ebbe modo
di conoscere personalmente, e di cui ci ha lasciato testimonianza diretta, si
possono citare Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, Madame de Pompadour, Wolfgang
Amadeus Mozart, Benjamin Franklin, Caterina II di Russia e Federico II di
Prussia. Dalla nascita alla fuga dai Piombi. Venezia, Calle della Commedia
(ora Malipiero) Giacomo Girolamo Casanova nacque a Venezia, in Calle della
Commedia (ora Calle Malipiero), nei pressi della chiesa di San Samuele, dove fu
anche battezzato, il 2 aprile del 1725. Molte opere enciclopediche o
letterarie recano erroneamente i nomi di battesimo Giovanni Giacomo, la cui
origine è sicuramente da ricercarsi nella pubblicazione dell'opera del 1835
Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo
XVIII e de' contemporanei, Emilio De Tipaldo, in cui l'autore della voce
relativa al Casanova, Bartolomeo Gamba, intestò erroneamente la voce a un certo
Giovanni Giacomo Casanova. Successivamente, l'errore fu ripetuto nel 1931 nella
voce su Casanova dell'Enciclopedia Treccani e da allora è spesso riapparso.
Si può leggere il nome corretto nel documento relativo al battesimo del
Casanova. «Addì 5 aprile 1725 Giacomo Girolamo fig.o di D. Gaietano
Giuseppe Casanova del q.(uondam) Giac.o Parmegiano comico, et di Giovanna
Maria, giogali, nato il 2 corr. battezzato daGio. Batta Tosello sacerd. di
chiesa de licentiaComp. il signor Angelo Filosi q.(uondam) Bartolomeo stà a S.
Salvador. Lev. Regina Salvi.» (Storia della mia vita, Mondadori) Il
padre, Gaetano Casanova, era un attore e ballerino parmigiano di remote origini
spagnole (almeno stando alla dubbia genealogia tracciata dal Casanova
all'inizio dell'Histoire, gli avi paterni sarebbero stati originari di
Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la madre, Zanetta Farussi, era un'attrice
veneziana che, nella sua professione, ebbe di gran lunga maggior successo del
marito, dato che la troviamo menzionata persino da Carlo Goldoni nelle sue
Memorie, ove la definì: "...una vedova bellissima e assai valente".
La voce popolare lo considerava frutto di una relazione adulterina della madre
con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4] e Casanova stesso affermò,
seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori né donne, di essere figlio
naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a suffragio della tesi potrebbero
derivare dal fatto che, dopo la morte del padre, i Grimani si presero cura di
lui con un'assiduità che appare andasse oltre i normali rapporti di protezione
e liberalità che le famiglie patrizie veneziane praticavano nei confronti delle
persone che, a qualche titolo, avevano servito la casata. Il che troverebbe
conferma anche nel fatto che la giustizia della Repubblica, solitamente
piuttosto severa, non infierì mai particolarmente nei suoi confronti. Dopo la
sua nascita, la coppia ebbe altri cinque figli: Francesco, Giovanni Battista,
Faustina Maddalena, Maria Maddalena Antonia Stella e Gaetano Alvise.
Chiesa di San Samuele, Venezia Rimasto orfano di padre a soli otto anni
d'età ed essendo la madre costantemente in viaggio a causa della sua
professione, Giacomo fu allevato dalla nonna materna Marzia Baldissera in
Farussi. Da piccolo era di salute cagionevole e per questo motivo la nonna lo
condusse da una fattucchiera che, eseguendo un complicato rituale, riuscì a
guarirlo dai disturbi da cui era affetto. Dopo quell'esperienza infantile,
l'interesse per le pratiche magiche lo accompagnerà per tutta la vita, ma lui
stesso era il primo a ridere della credulità che tanti manifestavano nei
confronti dell'esoterismo. All'età di nove anni fu mandato a Padova, dove
rimase fino al termine degli studi; nel 1737 s'iscrisse all'università dove,
come ricorda nelle Memorie, si sarebbe laureato in diritto; la questione
dell'effettivo conseguimento del titolo accademico è molto controversa: infatti
Casanova descrive nelle Memorie gli anni passati all'Padova, sostenendo di
essersi laureato. Analoga affermazione risulta anche dalla dedica dell'opera
del 1797 a Leonard Snetlage, il cui frontespizio reca scritto A Leonard
Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue, Jacques Casanova,
docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Inoltre da documenti risulta che il
Casanova abbia lavorato nello studio dell'avvocato Marco Da Lezze, dal che si
era presunto che, compiuti gli studi e conseguita la laurea, fosse andato a compiere
il praticantato presso il Da Lezze. Nonostante queste fonti, il primo a
dubitare del titolo conseguito dal Casanova fu Pompeo Molmenti, ma ben presto
gli studi del Brunelli, il quale aveva reperito documenti che dimostravano in
modo certo l'avvenuta immatricolazione al primo anno e le successive
iscrizioni, convinsero tutti gli autori dell'effettivo conseguimento del titolo
accademico; in tal senso, tra i tanti, anche James Rives Childs (Casanova).
Successivamente Enzo Grossato pose nuovamente in dubbio il conseguimento del
titolo rifacendosi ai registri di laurea, i quali non menzionano il nome del
veneziano. Dello stesso avviso Piero Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai
registri consultati dal Grossato, anche un ulteriore codice, il Registro dottorati
1737 usque ad 1747, non riportava il nome del Casanova; inoltre egli constatò
che il Casanova non aveva mai parlato del titolo se non in epoca tarda, quando
ormai ricostruire la circostanza sarebbe stato difficile per chiunque.
Terminati gli studi, Giacomo Casanova viaggiò a Corfù e a Costantinopoli, per
poi rientrare a Venezia nel 1742. Nella sua città natale ottenne un impiego
presso lo studio dell'avvocato Marco da Lezze. Il 18 marzo 1743 la nonna Marzia
Baldissera morì. Con la morte della nonna, alla quale era legatissimo, si
chiuse un capitolo importante della sua vita: la madre decise di lasciare la
bella e costosa casa in Calle della Commedia[E 7] e di sistemare i figli in
modo economicamente più sostenibile. Questo evento segnò profondamente Giacomo,
togliendogli un importante punto di riferimento. Nello stesso anno fu
rinchiuso, a causa della sua condotta piuttosto turbolenta, nel Forte di
Sant'Andrea dalla fine di marzo alla fine di luglio. Più che l'applicazione di
una pena, fu un avvertimento tendente a cercare di correggerne il
carattere. Messo in libertà, partì, grazie ai buoni uffici materni, per
la Calabria, al seguito del vescovo di Martirano che si recava ad assumere la
diocesi. Una volta giunto a destinazione, spaventato per le condizioni di
povertà del luogo, chiese e ottenne congedo. Viaggiò a Napoli e a Roma, dove
nel 1744 prese servizio presso il cardinal Acquaviva, ambasciatore della Spagna
presso la Santa Sede. L'esperienza si concluse presto, a causa della sua
condotta imprudente: infatti aveva nascosto nel Palazzo di Spagna, residenza
ufficiale del cardinale, una ragazza fuggita di casa. Targa
commemorativa su Palazzo Malipiero Nel febbraio del 1744 arrivò ad Ancona, dove
era già stato sette mesi prima. Durante il primo soggiorno nella città era
stato costretto a passare la quarantena nel lazzaretto, dove aveva intessuto
una relazione con una schiava greca, alloggiata nella camera superiore alla
sua.[E 9] Fu però durante il suo secondo soggiorno ad Ancona che Casanova
ebbe una delle sue più strane avventure: si innamorò di un seducente cantante
castrato, Bellino, convinto che si trattasse in realtà di una donna. Fu solo
dopo una corte serrata che Casanova riuscì a scoprire ciò che sperava: il
castrato era in realtà una ragazza, Teresa (con cui avrà il figlio illegittimo
Cesarino Lanti), che, per sopravvivere dopo essere rimasta orfana, si faceva
passare per un castrato in modo da poter cantare nei teatri dello Stato della
Chiesa, dove era vietata la presenza di donne sul palcoscenico. Il nome di
Teresa ricorre spesso nel testo dell'Histoire, a testimonianza dei molti
incontri avvenuti, negli anni, nelle capitali europee dove Teresa mieteva
successi con le sue interpretazioni. Ritornò quindi a Venezia e, per un certo
periodo, si guadagnò da vivere suonando il violino nel teatro di San Samuele,
di proprietà dei nobili Grimani che, alla morte del padre, avvenuta
prematuramente (1733), avevano assunto ufficialmente la tutela del ragazzo,
avvalorando la voce popolare secondo la quale uno dei Grimani, Michele, fosse
il vero padre di Giacomo. Nel 1746 avvenne l'incontro con il patrizio
veneziano Matteo Bragadin, che avrebbe migliorato sostanzialmente le sue
condizioni. Colpito da un malore, il nobiluomo fu soccorso da Casanova e si convinse
che, grazie a quel tempestivo intervento, aveva potuto salvarsi la vita. Di
conseguenza prese a considerarlo quasi come un figlio, contribuendo, finché
visse, al suo mantenimento. Nelle ore concitate in cui assisteva Bragadin,
Casanova venne in contatto con i due più fraterni amici del senatore, Marco Barbaro[E
11] e Marco Dandolo; anch'essi gli si affezionarono profondamente e, finché
vissero, lo tennero sotto la loro protezione. La frequentazione con i nobili
attirò l'interesse degli Inquisitori di Stato e Casanova, su consiglio di
Bragadin, lasciò Venezia in attesa di tempi migliori. Nel 1749 incontrò
Henriette, che sarebbe stata forse il più grande amore della sua vita. Lo
pseudonimo nascondeva probabilmente l'identità di una nobildonna di Aix-en-Provence,
forse Adelaide de Gueidan. Su questa e su altre identificazioni, i
"casanovisti" si sono accapigliati per decenni. In linea di massima,
come è stato sostenuto da molti studiosi, i personaggi citati nelle Memorie
sono reali. Al più, l'autore potrebbe essersi cautelato con qualche piccola
accortezza: spesso, trattandosi di donne sposate, alcune sono citate con le
iniziali o con nomi di fantasia, talvolta l'età viene un po' modificata per
galanteria o per vanità dell'autore che non amava riferire di avventure con
donne considerate, con i criteri di allora, in età matura, ma in generale le
persone sono identificabili e anche i fatti riferiti sono risultati corretti e
riscontrabili. Innumerevoli identificazioni e notizie documentali hanno
confermato il racconto. Se qualche errore c'è stato, lo si deve anche al
fatto che, all'epoca in cui furono scritte le Memorie (dal 1789 in poi), erano
passati molti anni dai fatti e, per quanto l'autore si possa essere aiutato con
diari o appunti, non era facile incasellare cronologicamente gli eventi. Ogni
tanto l'autore si faceva però trascinare dalla sua visione teatrale delle cose
e non rinunciava a qualche "colpo di teatro", il che peraltro
contribuisce a rendere la lettura più piacevole. Il problema dell'attendibilità
del racconto casanoviano è tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in
molti casi, impossibile da valutare è se i rapporti che Casanova riferisce di
aver intrattenuto con i personaggi siano rispondenti alla realtà dei fatti.
Taluni studiosi hanno ritenuto che nel corpus delle Memorie siano stati
inseriti dei passaggi totalmente romanzati e di pura invenzione, basati
comunque su personaggi storicamente esistiti ed effettivamente presenti nel
luogo e nel tempo della descrizione. Il caso più clamoroso è quello che
riguarda la relazione di Casanova con suor M.M.e i conseguenti rapporti con
l'ambasciatore di Francia De Bernis. Si tratta di una delle parti più valide
dell'opera dal punto di vista letterario e stilistico. Il ritmo del racconto è
serratissimo e la tensione emotiva dei personaggi di straordinario realismo.
Secondo alcuni studiosi il racconto è assolutamente veritiero e si è
ripetutamente tentata l'identificazione della donna, secondo altri il racconto
è di pura fantasia e basato sulle confidenze del cuoco dell'ambasciatore (tale
Rosier), che effettivamente Casanova conosceva molto bene. La diatriba tra le
varie tesi continuerà ma, comunque stiano le cose, il valore dell'opera non
cambia, perché ciò che perde il Casanova memorialista lo guadagna il Casanova
romanziere.[E 15] Rientrato a Venezia nella primavera del 1750, nel
giugno successivo decise di partire per Parigi. A Milano si incontrò con l'amico
Antonio Stefano Balletti, figlio della celebre attrice Silvia, e con lui
proseguì alla volta della capitale francese. Durante il viaggio, a Lione,
Casanova aderì alla Massoneria.[E 17] Non sembra che la decisione fosse
ascrivibile a inclinazioni ideologiche, ma piuttosto alla pratica esigenza di
procurarsi utili appoggi. «Ogni giovane che viaggia, che vuol conoscere
il mondo, che non vuol essere inferiore agli altri e escluso dalla compagnia
dei suoi coetanei, deve farsi iniziare alla Massoneria, non fosse altro per
sapere superficialmente cos'è. Deve tuttavia fare attenzione a scegliere bene
la loggia nella quale entrare, perché, anche se nella loggia i cattivi soggetti
non possono far nulla, possono tuttavia sempre esserci e l'aspirante deve
guardarsi dalle amicizie pericolose.» (Giacomo Casanova, Memorie) Ottenne
qualche risultato: infatti molti personaggi incontrati nel corso della sua
vita, come Mozart[E 18] e Franklin erano massoni e alcune facilitazioni
ricevute in varie occasioni sembrerebbero dovute ai benefici derivanti dal far
parte di un'organizzazione ben radicata in quasi tutti i paesi europei. Giunti
a Parigi, Balletti presentò Casanova alla madre, che lo accolse con
familiarità; la generosa ospitalità della famiglia Balletti si protrasse per i
due anni in cui visse nella capitale francese. Durante la permanenza si applicò
allo studio del francese, che sarebbe divenuto la sua lingua letteraria oltre
che, in molti casi, epistolare.[E 20] Ritornato a Venezia dopo il lungo
soggiorno parigino e altri viaggi a Dresda, Praga e Vienna, il 26 luglio 1755,
all'alba, fu arrestato e ristretto nei Piombi. Come d'uso all'epoca,
al condannato non venne notificato il capo d'accusa, né la durata della
detenzione cui era stato condannato. Ciò, come in seguito scrisse, si rivelò
dannoso, poiché se avesse saputo che la pena era di durata tutto sommato
sopportabile, si sarebbe ben guardato dall'affrontare il rischio mortale
dell'evasione e soprattutto il pericolo della possibile successiva eliminazione
da parte degli inquisitori, i quali, spesso, arrivavano a operare anche molto
lontano dai confini della Repubblica. Questi magistrati erano l'espressione più
evidente dell'arbitrarietà del potere oligarchico che governava Venezia. Erano
insieme tribunale speciale e centrale di spionaggio. Sui motivi reali
dell'arresto si è discusso parecchio. Certo è che il comportamento di Casanova
era tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono molte riferte (rapporti delle
spie al soldo degli Inquisitori) che ne descrivevano minutamente i
comportamenti, soprattutto quelli considerati socialmente sconvenienti. In
definitiva l'accusa era quella di "libertinaggio" compiuto con donne
sposate, di spregio della religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in
generale di un comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del
regime aristocratico. Di fatto, Casanova conduceva una vita alquanto disordinata,
ma né più né meno di tanti rampolli delle casate illustri: come questi giocava,
barava e aveva anche delle idee abbastanza personali in materia di religione e,
quel che è peggio, non ne faceva mistero. L'arresto di Casanova
(illustrazione per Storia della mia fuga) Anche la sua adesione alla
Massoneria, che era nota agli Inquisitori, non gli giovava, così come la
scandalosa relazione intrattenuta con "suor M.M.", certamente
appartenente al patriziato, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in
Murano e amante dell'ambasciatore di Francia, abate De Bernis. Insomma,
l'oligarchia al potere non poteva tollerare oltre che un individuo ritenuto
socialmente pericoloso restasse in circolazione. Tuttavia gli appoggi, di
cui certamente poteva disporre nell'ambito del patriziato, lo aiutarono
notevolmente, sia nell'ottenere una condanna "leggera" sia durante la
reclusione, e forse addirittura ne agevolarono l'evasione. La contraddizione è
solo apparente, perché Casanova fu sempre un personaggio ambivalente: per
estrazione e mezzi faceva parte di una classe subalterna, anche se contigua
alla nobiltà, ma per frequentazioni e protezioni poteva sembrare far parte, a
qualche titolo, della classe al potere. A questo riguardo va anche considerato
che il suo presunto padre naturale, Michele Grimani, apparteneva a una delle
famiglie più illustri dell'aristocrazia veneziana, annoverando ben tre dogi e
altrettanti cardinali. Questa paternità fu rivendicata da Casanova stesso nel
libello Né amori né donne e sembra che anche la somiglianza di aspetto e di
corporatura dei due avvalorasse parecchio la tesi. Dalla fuga dai Piombi
al ritorno a Venezia (17561774) Presunto ritratto di Giacomo Casanova,
attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo
allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo) Appena riavutosi dallo
shock dell'arresto, Casanova cominciò a organizzare la fuga. Un primo tentativo
fu vanificato da uno spostamento di cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il
1º novembre 1756 mise in atto il suo piano: passando dalla cella alle soffitte,
attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il
frate Marino Balbi, uscì sul tetto e successivamente si calò di
nuovo all'interno del palazzo da un abbaino. Passò quindi, in compagnia
del complice, attraverso varie stanze e fu infine notato da un passante, che
pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno e chiamò uno degli addetti
al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai due di uscire e di allontanarsi
fulmineamente con una gondola. Si diressero velocemente verso nord. Il
problema era seminare gli inseguitori: infatti la fuga gettava un'ombra
sull'amministrazione della giustizia di Venezia ed era chiaro che gli
Inquisitori avrebbero tentato di tutto per riacciuffare gli evasi. Dopo brevi
soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz lo ospitarono e aiutarono
economicamente), Monaco di iera (dove Casanova finalmente si liberò della
scomoda presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio 1757 arrivò a
Parigi, dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto ministro e
quindi gli appoggi non gli mancavano. Illustrazione da Storia della
mia fuga Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a dedicarsi alla sua
specialità: brillare in società, frequentando quanto di meglio la capitale
potesse offrire. Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé nobildonna
ricchissima e stravagante, con la quale intrattenne una lunga relazione,
dilapidando cospicue somme di denaro che lei gli metteva a disposizione,
soggiogata dal suo fascino e dal consueto corredo di rituali magici. Il
28 marzo 1757 assistette, come accompagnatore di alcune dame «incuriosite da
quell'orrendo spettacolo» (mentre lui distolse lo sguardo) e di un conte
trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite squartamento) di Robert François
Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV. Molto fantasioso,
come al solito, si fece promotore di una lotteria nazionale, allo scopo di
rinsaldare le finanze dello stato. Osservava che questo era l'unico modo di far
contribuire di buon grado i cittadini alla finanza pubblica. L'intuizione era
talmente valida che ancora adesso il sistema è molto praticato. L'iniziativa
venne autorizzata ufficialmente e Casanova venne nominato "Ricevitore"
il 27 gennaio 1758. Nel settembre dello stesso anno, De Bernis fu nominato
cardinale; un mese dopo Casanova fu incaricato dal governo francese di una
missione segreta nei Paesi Bassi.[26] Al suo ritorno fu coinvolto in
un'intricata faccenda riguardante una gravidanza indesiderata di un'amica, la
scrittrice veneziana Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre inglese,
Giustiniana era stata al centro dell'attenzione per la sua rovente relazione
con il patrizio veneziano Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti i modi di
sposarla, ma la ragion di stato (lui era membro di una delle dodici
famigliecosiddette apostolichepiù nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a
causa di alcuni oscuri trascorsi della madre di lei, e, in seguito allo
scandalo che ne era sortito, i Wynne avevano lasciato Venezia.[27] Giunta a
Parigi, trovandosi in stato interessante e di conseguenza in grosse difficoltà,
la ragazza si rivolse per aiuto a Casanova, che aveva conosciuto a Venezia e
che era anche ottimo amico del suo amante. La lettera con cui implorava aiuto è
stata ritrovata[28] ed è singolare la schiettezza con cui la ragazza si rivolge
a Casanova, dimostrando una fiducia totale in quest'ultimo,[29] tenuto conto
dell'enorme rischio a cui si esponeva (e lo esponeva) nel caso in cui il
messaggio fosse caduto nelle mani sbagliate. Casanova si prodigò per
darle aiuto, ma incorse in una denuncia per concorso in pratiche abortive,
presentata dall'ostetrica Reine Demay in combutta con un losco personaggio,
Louis Castel-Bajac, per estorcere denaro in cambio di una ritrattazione. Benché
l'accusa fosse molto grave, Casanova riuscì a cavarsela con la consueta
presenza di spirito e fu prosciolto, mentre la sua accusatrice finì in carcere.
L'amica abbandonò l'idea di interrompere la gravidanza e in seguito partorì nel
convento in cui si era rifugiata. Ceduti i suoi interessi nella lotteria,
Casanova si imbarcò in una fallimentare operazione imprenditoriale, una
manifattura di tessuti, che naufragò anche a causa di una forte restrizione
delle esportazioni derivante dalla guerra in corso. I debiti che ne derivarono
lo condussero per un po' in carcere (agosto 1759). Come al solito, il
provvidenziale intervento della ricca e potente marchesa d'Urfé lo tolse
dall'incomoda situazione.[30] Gli anni successivi furono un intenso
continuo peregrinare per l'Europa. Si recò nei Paesi Bassi, poi in Svizzera,
dove incontrò Voltaire nel castello di Ferney. L'incontro con Voltaire, il
maggior intellettuale vivente all'epoca, occupa parecchie pagine dell'Histoire
ed è riferito nei minimi particolari; Casanova esordì dicendo che era il giorno
più felice della sua vita e che per vent'anni aveva aspettato di incontrarsi
con il suo "maestro"; Voltaire gli rispose che sarebbe stato ancora
più onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse aspettato per altri
vent'anni.[31] Un riscontro obiettivo si trova in una lettera di Voltaire a
Nicolas-Claude Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la figura del visitatore
viene tratteggiata con ironia. Lo stesso Casanova non era d'accordo con molte
idee di Voltaire («Voltaire [...] doveva capire che il popolo per la pace
generale della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza», dirà in seguito),
e quindi rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle parole di stima per
il patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di aver messo quel grande
atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase un brutto ricordo che mi
spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò che quel grand'uomo dava
al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento, anche se, quando leggo ciò
che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver ragionato giustamente nelle mie
critiche. Comunque avrei dovuto tacere, rispettarlo e dubitare dei miei
giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi che mi dispiacquero il terzo
giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti sublimi. Questa sola riflessione
avrebbe dovuto impormi il silenzio, ma un uomo in collera crede sempre di aver
ragione.[31]» In seguito andò in Italia, a Genova, Firenze e Roma.[33]
Qui viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo di Mengs. Durante il
soggiorno presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente XIII. Nel 1762
ritornò a Parigi, dove riprese a esercitare pratiche esoteriche insieme alla
marchesa d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto di essere stata per anni
presa in giro con l'illusione di rinascere giovane e bella per mezzo di
pratiche magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato stregone che, dopo
poco tempo, lasciò Parigi, dove il clima che si era creato non gli era più
favorevole, per Londra, dove fu presentato a corte.[34] Nella capitale
inglese conobbe la funesta Charpillon, con la quale cercò di intessere una
relazione. In questa circostanza anche il grande seduttore mostrò il suo lato
debole e questa scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del suicidio. Non che
fosse un grande amore, ma evidentemente Casanova non poteva accettare di essere
trattato con indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più lui vi
s'intestardiva, più lei lo menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi di
questa assurda situazione e si diresse verso Berlino.[36] Qui incontrò il re
Federico il Grande, che gli offrì un modesto posto d'insegnante nella scuola
dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente la proposta, Casanova si diresse verso la
Russia e giunse a San Pietroburgo nel dicembre del 1764.[37] L'anno
successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò l'imperatrice Caterina II,[38]
anche lei annessa alla straordinaria collezione di personaggi storici
incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni. Merita una riflessione
la straordinaria facilità con cui Casanova aveva accesso a personaggi di
primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con chiunque.
Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto della
curiosità suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più esclusivi
delle capitali. Un po' la questione si autoalimentava, nel senso che
in qualsiasi luogo si trovasse, Casanova si dava sempre un gran da fare per
ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente
ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica
fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate
infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma
Casanova il suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne.
Nel 1766 in Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente Casanova: il
duello con il conte Branicki.[39] Questi, durante un litigio a causa della ballerina
veneziana Anna Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone
veneziano. Il conte era un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao
II Augusto Poniatowski e per uno straniero privo di qualsiasi copertura
politica non era molto consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso
pesantemente dal conte, qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato
in buon ordine; Casanova, invece, che evidentemente non era solo un amabile
conversatore e un abile seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un
duello alla pistola. Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia
in caso di vittoria, in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne
avrebbero rapidamente vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di
Casanova a Madrid Il conte ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza
da impedirgli di pregare onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne
l'avversario, che si era comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza
seriamente a un braccio, Casanova riuscì a lasciare l'inospitale paese. La
buona stella sembrava avergli voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove
fu espulso.Tornò a Parigi, dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia
della morte di Bragadin, il quale, più che un protettore, era stato per
Casanova un padre adottivo. Pochi giorni dopo (6 novembre 1767) fu colpito da
una lettre de cachet del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di
lasciare il paese. Il provvedimento era stato richiesto dai parenti della
marchesa d'Urfé, i quali intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le
pur cospicue sostanze di famiglia. Si recò quindi in Spagna, ormai alla
disperata ricerca di una qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu
gettato in prigione con motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un
mese. Lasciò la Spagna e approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente
(gennaio 1769). Fu assistito grazie all'intervento della sua amata Henriette
che, nel frattempo sposatasi e rimasta vedova, aveva conservato di lui un
ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare, recandosi a Roma, Napoli,
Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i contatti con gli
Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che finalmente giunse il
3 settembre 1774. Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle
Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia
dopo diciott'anni, Casanova riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite
grazie a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli
Inquisitori come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi
prima a condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le
riferte di Casanova non furono mai particolarmente interessanti e la
collaborazione si trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso
rendimento". Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di
persecuzioni che, avendole provate in prima persona, conosceva bene.
L'ultima abitazione veneziana di Casanova Rimasto senza fonti di
sostentamento, si dedicò all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta
rete di relazioni per procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si
usava far sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle
stampe o addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter
sostenere gli elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva
manualmente e le tirature erano bassissime. Nel 1775 pubblicò il primo tomo
della traduzione dell'Iliade. La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che
avevano finanziato l'opera, era davvero notevole e comprendeva oltre
duecentotrenta nomi fra quelli più in vista a Venezia, comprese le alte
autorità dello stato, sei Procuratori di San Marco in carica[50] due figli del
doge Mocenigo, professori dell'Padova e così via. Va rilevato che, per essere
un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva delle frequentazioni di altissimo
livello. Il fatto di far parte della lista non era tenuto segreto, ma in una
città piccola, in cui le persone che contavano si conoscevano tutte, era di
pubblico dominio; dunque le adesioni dimostravano che, malgrado le sue
vicissitudini, Casanova non era affatto un emarginato. Anche qui è opportuna
una riflessione sull'ambivalenza del personaggio e sul suo eterno oscillare tra
la classe reietta e quella privilegiata. In questo stesso periodo iniziò
una relazione con Francesca Buschini, una ragazza molto semplice e incolta che
per anni avrebbe scritto a Casanova, dopo il suo secondo esilio da Venezia,
delle lettere (ritrovate a Dux) di un'ingenuità e tenerezza commoventi,[52]
utilizzando un lessico molto influenzato dal dialetto veneziano, con evidenti
tentativi di italianizzare il più possibile il testo. Questa fu l'ultima
relazione importante di Casanova, che rimase molto attaccato alla donna: anche
quando ne fu irrimediabilmente lontano, rattristato profondamente dal
crepuscolo della sua vita, teneva una fitta corrispondenza con Francesca, oltre
a continuare a pagare, per anni, l'affitto della casa in Barbaria delle Tole in
cui avevano convissuto, inviandole, quando ne aveva la possibilità, lettere di
cambio con discrete somme di denaro. Il nome della calle deriva dalla
presenza, in tempi antichi, di falegnamerie che riducevano in tavole (tole, in
dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La calle si trova nelle immediate
vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo. L'ultima abitazione veneziana di
Giacomo Casanova è sita in Barbarìa delle Tole, al civico 6673 del sestiere di
Castello. L'identificazione certa è stata ricavata da una lettera a Casanova di
Francesca Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov, Repubblica Ceca), datata
13 dicembre 1783.L'appartamento occupato da Casanova e dalla Buschini (di
proprietà della nobile famiglia Pesaro di S. Stae), affittato a 96 lire venete
a trimestre, corrisponde alle tre finestre del terzo piano situate sotto la
soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi foto). La lettera in questione,
spedita dalla Buschini a Casanova ormai in esilio, faceva riferimento alla casa
antistante "È morto la molgie del maestro di spada che mi stà in fasa di
me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche bela la era..." (testo
originale tratto dall'edizione critica delle lettere di F. Buschini Marco
Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste,
Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, cit. in bibl.) Poiché tutti
i caseggiati antistanti erano andati distrutti a causa di due successivi
incendi, avvenuti nel 1683 e nel 1686, l'area era rimasta praticamente priva di
fabbricati e destinata a giardino. L'unico fabbricato ancora esistente era
quello dinanzi al 6673[53]. In seguito la situazione non ha subito modifiche di
rilievo; l'edificio in questione, antistante al 6673, si trova tra il ramo primo
e il ramo secondo "Del brusà" e quindi l'identificazione appare
fondata e verificabile[54]. Negli anni successivi pubblicò altre opere e
cercò di arrabattarsi come meglio poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò
un brutto scherzo: offeso platealmente in casa Grimani da un certo Carletti,
col quale aveva questionato per motivi di denaro, si risentì perché il padrone
di casa aveva preso le parti del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi
componendo un libello, Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur
sotto un labile travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne
chiaramente di essere lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan
Carlo Grimani sarebbe stato "notoriamente" frutto del tradimento della
madre (Pisana Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano
Giustinian.[55] Probabilmente era tutto vero, anche perché in una città
in cui le distanze tra le case si misuravano a spanne, si circolava in gondola
e c'erano stuoli di servitori che ovviamente spettegolavano a più non posso,
era impensabile poter tenere segreto alcunché. Comunque, anche in questo caso
l'aristocrazia fece quadrato e Casanova fu costretto all'ultimo, definitivo,
esilio. Tuttavia la questione non passò inosservata, se si ritenne opportuno
far circolare un libello anonimo, con cui si replicava allo scritto
casanoviano, intitolato "Contrapposto o sia il riffiutto mentito, e
vendicato al libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero La stalla ripulita,
di Giacomo Casanova".[56] Ritratto del 1788 Annotazione
della morte di Casanova nei registri di Dux Lasciò Venezia nel gennaio 1783 e
si diresse verso Vienna. Per un po' fece da segretario all'ambasciatore
veneziano Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi,[57] accettò un posto
di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Lì
trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla
servitù,[58] ormai incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata
per sempre. Da Dux, Casanova dovette assistere alla Rivoluzione francese,
alla caduta della Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno
di quel mondo a cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo
conforto, oltre alle lettere numerosissime degli amici veneziani che lo
tenevano al corrente di quanto accadeva nella sua città, fu la composizione
della Histoire de ma vie, l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue
residue energie, compiuta con furore instancabile quasi per non farsi precedere
da una morte che ormai sentiva vicina. Scrivendola, Casanova riviveva una vita
assolutamente irripetibile, tanto da entrare nel mito, nell'immaginario
collettivo, una vita «opera d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che
la salma fosse stata sepolta nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del
castello. Ma riguardo al problema dell'identificazione corretta del luogo di
sepoltura di Giacomo Casanova, le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non
ci sono, allo stato, che ipotesi non correttamente documentate.
Tradizionalmente si riteneva che fosse stato sepolto nel cimitero della
chiesetta attigua al castello Waldstein, ma era una pura ipotesi. Altre
opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal Francese, da rappresentarsi nel Regio
Elettoral Teatro di Dresda, dalla compagnia de' comici italiani in attuale
servizio di Sua Maestà nel carnevale dell'anno MDCCLII. Dresda); La
Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda 1769Confutazione della Storia del
Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie, Amsterdam (Lugano). 1772Lana caprina.
Epistola di un licantropo. Bologna. 1774Istoria delle turbolenze della Polonia.
Gorizia. 1775Dell'Iliade di Omero tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio
del libro "Eloges de M. de Voltaire par différents auteurs". Venezia.
Il duello; Opuscoli miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia
Belegno alla nobildonzella Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie.
Venezia); Di aneddoti viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto
sotto i dogadi di Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. 1782Né
amori né donne ovvero la stalla ripulita. Venezia. 1784Lettre
historico-critique sur un fait connu, dependant d'une cause peu connu...
Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du différent, qui subsiste entre le
deux Républiques de Venise, et d'Hollande. Vienna. 1785Supplément à l'Exposition
raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata della contestazione, che susiste trà
le due Repubbliche di Venezia, e di Olanda. Venezia. 1785Supplemento alla
Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre a monsieur Jean et Etienne Luzac....
Vienna); Lettera ai signori Giovanni e Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque
d'un penseur, Prague chez Jean Ferdinande noble de Shonfeld imprimeur et
libraire. 1787 -Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise
qu'on appelle les Plombs. Ecrite à Dux en Bohème l'année 1787, Leipzig chez le
noble de Shonfeld 1788. Historia della mia fuga dalle prigioni della republica
di Venezia dette "li Piombi", prima edizione italiana Salvatore di
Giacomo (prefazione e traduzione). Alfieri&Lacroix editori, Milano 1911.
1788Icosameron ou histoire d'Edouard, et d'Elisabeth qui passèrent quatre
vingts ans chez les Mégramicres habitante aborigènes du Protocosme dans
l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois par Jacques Casanova de
Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de Monsieur le Comte de
Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague à l'imprimerie de
l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) 1790Solution du probleme deliaque
démontrée par Jacques Casanova de Seingalt, Bibliothécaire de Monsieur le Comte
de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De l'imprimerie de C.C.
Meinhold. 1790Corollaire a la duplication de l'Hexaedre donée a Dux en Boheme,
par Jacques Casanova de Seingalt, Dresda. 1790Demonstration geometrique de la
duplicaton du cube. Corollaire second, Dresda. 1792 Lettres écrites au sieur
Faulkircher par son meilleur ami, Jacques Casanova de Seingalt, le 10 Janvier
1792. 1797A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue,
Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Dresda. Edizioni
postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn, Paris, La Vogue. 1960-1962Histoire de ma
vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni italiane basate sul
manoscritto originale: Piero Chiara , traduzione Giancarlo BuzziGiacomo
Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965. 7 voll. di cui uno di
note, documenti e apparato critico. Piero Chiara e Federico Roncoroni Giacomo
Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori "I meridiani"
1983. 3 voll. Ultima edizione: Milano, Mondadori "I meridiani", 2001.
1968Saggi libelli e satire di Giacomo Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi
& C. 1969Epistolario (17591798) di Giacomo Casanova, Piero Chiara, Milano.
Longanesi & C. Rapporti di Giacomo Casanova con i paesi del Nord. A
proposito dell'inedito "Prosopopea Ecaterina II (1773-74)", Enrico
Straub. Venezia. Centro tedesco di studi veneziani. 1985Examen des "Etudes
de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin de Saint
Pierre, Marco Leeflang e Tom Vitelli. Utrecht, Edizione italiana: Analisi degli
Studi della natura e di Paolo e Virginia di Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca
Simeoni, Bologna, Pendragon, Pensieri libertini, Federico di Trocchio (sulle
opere filosofiche inedite rinvenute a Dux), Milano, Rusconi. 1993Philocalies
sur les sottises des mortels, Tom Vitelli. Salt Lake City. 1993Jacques Casanova
de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi
de textes inédits. Édition présentée et établie par Francis Lacassin. 2-221-06520-4. Éditions Robert Laffont.
1997Iliade di Omero in veneziano Tradotta in ottava rima. Canto primo.
Riproduzione integrale del manoscritto a fronte, Venezia, Editoria Universitaria.
1998Iliade di Omero in veneziano Tradotta in ottava rima. Canto secondo.
Riproduzione integrale del manoscritto a fronte. Venezia, Editoria
Universitaria. 1999Storia della mia vita, traduzione Pietro Bartalini Bigi e
Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton, coll. « I Mammut », Dell'Iliade d'Omero
tradotta in veneziano da Giacomo Casanova. Canti otto. Mariano del Friuli,
Edizioni della Laguna. 2005Iliade di Omero in veneziano. Tradotta in ottava
rima. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria, Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne, 88-548-0312-X 2006Iliade di Omero in idioma
toscano'. Riproduzione integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria
Universitaria. Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de
Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio
Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard.
Parigi. Histoire de ma vie, tome I.
Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise
Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick.
Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 137), Gallimard. Parigi. Histoire de ma vie, tome III. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la
collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque
de la Pléiade (nº 147).Gallimard. Parigi.
Histoire de ma vie, tome III. Édition établie par Jean-Christophe
Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi. Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi,
Milano, Luni Editrice, ,
978-88-7984-611-0 Istoria delle turbolenze della Polonia, Milano, Luni
Editrice, Valore letterario e fortuna dell'opera casanoviana Presunto
ritratto di Giacomo Casanova, attribuito ad Alessandro Longhi o, da
alcuni[62][63], a Pietro Longhi. Sul valore letterario e la validità storica
dell'opera di Giacomo Casanova si è discusso parecchio.[67] Intanto bisogna
distinguere tra l'opera autobiografica e il resto della produzione. Malgrado gli
sforzi fatti per accreditarsi come letterato, storico, filosofo e addirittura
matematico, Casanova non ebbe in vita, e tantomeno da morto, nessuna notorietà
e nessun successo.[68] Successo che arrise invece all'opera autobiografica,
anche se si manifestò in tempi molto posteriori alla morte dell'autore.
Disegno di un busto di Giacomo Casanova, ubicato in origine a Dux,
oggi al Museo delle Arti Decorative di Vienna La sua produzione fu spesso
d'occasione, cioè di frequente i suoi scritti furono creati per ottenere
qualche beneficio. Principale esempio è la Confutazione della Storia del
Governo Veneto d'Amelot de la Houssaye, scritta in gran parte durante la
detenzione a Barcellona nel 1768, che avrebbe dovuto servire, e infatti così
fu, a ingraziarsi il governo veneziano e a ottenere la tanto sospirata grazia. Lo
stesso si può dire per opere scritte nella speranza di ottenere qualche
incarico da Caterina II di Russia o da Federico II di Prussia. Altre opere,
come l'Icosameron, avrebbero dovuto sancire il successo letterario dell'autore
ma così non fu. Il primo vero successo editoriale fu ottenuto dall'Historia
della mia fuga dai Piombi che ebbe una diffusione immediata e varie edizioni,
sia in italiano sia in francese ma il caso è praticamente unico e di proporzioni
limitate a causa delle dimensioni dell'opera costituita dal racconto
dell'evasione. Sembra quasi che Casanova tollerasse le sue creature
autobiografiche e il loro successo, continuando a inseguire, con opere non
autobiografiche, un successo letterario che non arrivò mai. Questo aspetto fu
acutamente osservato da un memorialista suo contemporaneo, il principe Charles
Joseph de Ligne, il quale scrisse[70] che il fascino di Casanova stava tutto
nei suoi racconti autobiografici, sia verbali sia trascritti, cioè sia la
narrazione salottiera sia la versione stampata delle sue avventure. Tanto era
brillante e trascinante quando parlava della sua vita[71]- osserva de
Lignequanto terribilmente noioso, prolisso, banale quando parlava o scriveva su
altre materie. Ma sembra che questo, Casanova, non abbia mai voluto accettarlo.
E soffriva tremendamente di non avere quel riconoscimento letterario o meglio
scientifico a cui ambiva. Da ciò si può comprendere l'astio nei confronti
di Voltaire, che nascondeva una profonda invidia e una sconfinata ammirazione.
Quindi anche contro la volontà dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più
fortunati ma meno prediletti, le opere autobiografiche avrebbero potuto essere
un grande successo editoriale quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in
misura molto ridotta per vari motivi: principalmente perché questo filone fu
iniziato tardi. Si pensi ad esempio che la narrazione della fuga dai Piombi,
che costituì per decenni il cavallo di battaglia del Casanova salottiero, fu
pubblicata soltanto nel 1787. Inoltre l'opera "vera", cioè
quella in cui aveva trasfuso tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio
negli ultimi anni di vita e il motivo è semplice: infatti lui stesso affermò,
in una lettera indirizzata a quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni
prima e che era stato la causa del secondo esilio: "... ora che la mia età
mi fa credere di aver finito di farla, ho scritto la Storia della mia
vita...". Cioè sembra che per mettere su carta tutto in forma definitiva,
l'autore dovesse prima ammettere con sé stesso che la storia era terminata e di
futuro davanti da vivere non ce n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa
per chiunque, in particolare per un uomo che aveva creato una vita-capolavoro
irripetibile. Ma un altro aspetto, questo strutturale, ha ritardato la
fortuna dell'opera autobiografica: l'Histoire era all'epoca assolutamente
impubblicabile. Non è un caso che la prima edizione francese del manoscritto,
acquistato[73] dall'editore Friedrich Arnold Brockhaus di Lipsia nel 1821, fu
pubblicata, dal 1826 al 1838, però in una versione notevolmente rimaneggiata da
Jean Laforgue, il quale non si limitò a "purgare" l'opera,
sopprimendo passi ritenuti troppo audaci, ma intervenne a tappeto modificando
anche l'ideologia dell'autore, facendone una sorta di giacobino avverso alle
oligarchie dominanti. Ciò non corrispondeva affatto alla verità storica, perché
di Casanova si può dire che era ribelle e trasgressivo, ma politicamente era un
fautore dell'ancien régime, come dimostrano chiaramente il suo epistolario,
opere specifiche e la stessa Histoire. In un passo delle Memorie, Casanova
esprime chiaramente il suo punto di vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma
si vedrà che razza di dispotismo è quello di un popolo sfrenato, feroce,
indomabile, che si raduna, impicca, taglia teste e assassina coloro che non
appartenendo al popolo osano mostrare come la pensano.[75]» Per
l'edizione definitiva delle memorie si dovette attendere fino a quando la casa
Brockhaus decise di pubblicare, insieme all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al
1962, il testo originale in sei volumi curato da Angelika Hübscher. Ciò fu
dovuto all'impianto generale dell'opera che era, a detta dell'autore e di
smaliziati contemporanei come de Ligne, di un cinismo assolutamente
impresentabile.[77] Quello che essi chiamarono cinismo sarà considerato, due
secoli dopo, modernità e realismo. Casanova è già uno scrittore di
costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni, inclinazioni, attività,
trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e tali rimasero ancora più
di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente il primo problema, ma
questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore, fu quello di aver
citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto precise del loro
agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori principali della
storia europea del Settecento, sia politica sia culturale. Probabilmente si
farebbe prima a dire di chi Casanova non ha scritto, e chi non ha incontrato,
tanto vasto è stato il panorama delle sue frequentazioni.[78] Ma questo,
come si è detto, è marginale. L'altro problema, questo insuperabile, fu la
sostanziale "immoralità" dell'opera casanoviana. Ma ciò deve intendersi
come contrarietà alle abitudini, ai tic, alle ipocrisie della fine del
Settecento e, ancor di più, del successivo secolo, ancora più fobico e per
certi versi molto meno aperto di quello che l'aveva preceduto. Casanova ha
precorso i tempi: era troppo avanti per diventare un autore di successo. E
forse se ne rendeva perfettamente conto. Nella lettera a Zuan Carlo Grimani,
ricordata in precedenza, Casanova, parlando dell'Histoire, scrive testualmente:
... questa Storia, che verrà diffusa fino a sei volumi in ottavo e che sarà
forse tradotta in tutte le lingue... E poi, richiede una risposta ... perché io
possa porla nei codicilli che formeranno il settimo volume postumo della Storia
della mia vita. Tutto questo è avvenuto puntualmente.[79] Riguardo
all'uso della lingua francese, Casanova vi fece riferimento nella
prefazione: «J'ai écrit en
français, et non pas en italien parce que la langue française est plus répandue
que la mienne.[80]» «Ho scritto in francese e non in italiano perché la
lingua francese è più diffusa della mia.» Certo dell'immortalità della
sua opera, se non al fine di garantirsela, Casanova preferì utilizzare la
lingua che gli avrebbe consentito di raggiungere il maggior numero possibile di
potenziali lettori. Molte opere minori, del resto, le scrisse in italiano,
forse perché sapeva bene che esse non sarebbero divenute mai un monumento, come
avvenne invece per la sua autobiografia. Carlo Goldoni, altro celebre
veneziano, coevo al Casanova, scelse allo stesso modo di scrivere la propria
autobiografia in francese. L'autobiografia del Casanova, a parte il
valore letterario, è un importante documento per la storia del costume, forse
una delle opere letterarie più importanti per conoscere la vita quotidiana in
Europa nel Settecento. Si tratta di una rappresentazione che, per le
frequentazioni dell'autore e per la limitazione dei possibili lettori,
riferisce principalmente delle classi dominanti dell'epoca, nobiltà e
borghesia, ma questo non ne limita l'interesse in quanto anche i personaggi di
contorno, di qualsiasi estrazione, sono rappresentati in modo vivissimo.
Leggere quest'opera è uno strumento importante per conoscere il quotidiano
degli uomini e delle donne di allora, per comprendere dal di dentro la vita di
ogni giorno. La fortuna dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di
vertice della scena letteraria mondiale, è stata ristretta solo all'opera
autobiografica ed è stata vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu
attribuita la paternità dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in dubbio
l'esistenza storica del Casanova, Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler, Hesse,
Márai. Molti furono solo lettori e quindi influenzati in modo inconscio, altri
scrissero opere ambientate nell'epoca di Casanova e di cui egli era
protagonista. Innumerevoli sono i riferimenti, nella letteratura moderna,
a questa figura che ha finito per diventare un'antonomasia. In Italia
l'interesse si è manifestato tra la fine dell'Ottocento e i primi del
Novecento. La prima edizione italiana della Historia della mia fuga dai Piombi
fu curata nel 1911 da Salvatore di Giacomo, il quale studiò anche i ripetuti
soggiorni napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse un
saggio.Seguirono Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara. Un
capitolo a parte andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti
quelli che si sono occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della
vita e dell'opera del Casanova. Proprio a questa legione di sconosciuti si
debbono infinite identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi
ritrovamenti di documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito,
Nell'Archivio di Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono
di essere studiati e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che probabilmente
giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per l'Europa. La
grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua vita a un
certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla
scrittura[91] Riguardo al mito del seduttore, Casanova, insieme a Don
Giovanni, ne è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di
numerose opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi,
benché ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il
veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono
agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per
renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile,
lasciando dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il
collezionista puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente
all'immagine di sé e soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato
unicamente sul numero delle vittime della sua seduzione.
L'interpretazione del suo mito sarebbe fornita proprio dal libretto del Don
Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da Ponte, in cui Leporello, il servo di
Don Giovanni, in un'aria notissima recita: Madamina il catalogo è questo, delle
belle che amò il padron mio... e prosegue snocciolando le innumerevoli
conquiste, diligentemente registrate. Il fatto che alla redazione del libretto
sembra abbia partecipato anche Casanovacome è stato sostenuto basandosi su
documenti trovati a Dux, sul fatto che Da Ponte e Casanova si frequentassero e
che l'avventuriero fosse sicuramente presente la sera in cui a Praga andò in
scena la prima dell'opera mozartiana (29 ottobre 1787)è tutto sommato
marginale.[senza fonte] La partecipazione, comunque molto limitata, di Casanova
alla composizione del libretto di Da Ponte per l'opera mozartiana Don Giovanni,
è ritenuta molto probabile da vari commentatori. L'elemento fondamentale è un
autografo, rinvenuto a Dux, che contiene una variante del testo che si è
ipotizzato facesse parte di una serie di interventi operati in accordo con Da
Ponte e forse anche con lo stesso Mozart.[94] Quel che è certo è che Casanova
si misurò col mito di don Giovanni e ne costruì uno ancora più grande,
certamente più positivo e soprattutto reale. Mostre 1998 Praga, Palazzo
Lobkowicz, "Casanova v Čechách" (Casanova in Boemia). Catalogo:
Casanova v Čechách, Praga, Gema Art 1998. 1998 Venezia, Ca' Rezzonico "Il
mondo di Giacomo Casanova". Catalogo: Il mondo di Giacomo Casanova, un
veneziano in Europa 1725-1798, Venezia, Marsilio, 1998. 88-317-7028-4
Francia "Casanova for ever, 33 expositions
Languedoc-Roussillon". Catalogo: Casanova For Ever, Emmanuel Latreille (dir.),
Parigi, Editions Dilecta, Parigi, Bibliothèque nationale de France “Casanova,
la passion de la liberté” (dal 15 novembre
al 19 febbraio ). Catalogo: Casanova, la passion de la liberté, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, . 978-2-7177-2496-7 (BnF) 978-2-02-104412-6 (Seuil) Stati Uniti d'America "Casanova: The seduction
of Europe", varie sedi: Museum of Fine Arts, Boston; Kimbell Art Museum,
Forth Worth; Fine Arts Museums, San Francisco. Catalogo: Casanova The seduction
of Europe MFA Pubblications Museum of fine arts, Boston. 978-0-87846-842-3. Filmografia su Casanova
Casanova (1918). Regia di Alfréd Deésy Il cuore del Casanova (Germania) Regia
di Erik Lund. Soggetto di Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con
Bruno Kasner, Ria Jende, Rose Lichtenstein, Karl Platen. Casanovas erste und
letzte Liebe (Austria, 1920). Regia di Julius Szoreghi. Casanova (1927). Regia
di Alexandre Volkoff Les amours de Casanova (Francia, 1934). Regia di René
Barberis L'avventura di Giacomo Casanova (Italia, 1938). Regia di Carlo
Bassoli. Le avventure di Casanova (Les Aventures de Casanova) (Francia, 1947).
Regia di Jean Boyer. Il cavaliere misterioso (Italia, 1948). Regia di Riccardo
Freda. Con Vittorio Gassman, Gianna Maria Canale, María Mercader, Antonio
Centa. Le avventure di Giacomo Casanova (Italia). Regia di Steno. Con Gabriele
Ferzetti, Corinne Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini. Last Rose
from Casanova, titolo originale Poslední růže od Kasanovy, (Cecoslovacchia,
1966). Regia di Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo
Casanova, veneziano (Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard Withing,
Maria Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W.
Branbell, Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi
Maltagliati, Raoul Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro
(Italia, 1975). Regia di Daniele Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens,
Rosanna Schiaffino, Robert Alda, Massimo Girotti. (Casanova è uno dei
personaggi). Il Casanova di Federico Fellini (Italia, 1976). Regia di Federico
Fellini Con Donald Sutherland, Tina Aumont, Olimpia Carlisi, M. Clementi,
Carmen Scarpitta, C. Browne, D. M. Berenstein. Il mondo nuovo (Italia, 1982).
Regia di Ettore Scola. Con Jean Louis Barrault, Marcello Mastroianni, Hanna
Schygulla, Harvey Keitel, Jean-Claude Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold, A.
Belle, E. Bergier, Laura Betti. David di Donatello 1983 per la migliore
sceneggiatura, scenografia e costumi. Il ritorno di Casanova, titolo originale
Le retour de Casanova (Francia, 1992). Regia di Édouard Niermans Con Alain
Delon, Fabrice Luchini, E Lunghini. Goodbye Casanova (Stati Uniti, 2000). Regia
di Mauro Borrelli. Con G. Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E.
Bradley. Il giovane Casanova (Francia, Italia, Germania, 2002). Regia di
Giacomo Battiato. Con Stefano Accorsi, Thierry Lhermitte, Cristiana Capotondi,
Silvana De Santis, Catherine Flemming, Katja Flint. Casanova (Stati Uniti,
2005). Regia di Lasse Hallström. Con Heath Ledger, Jeremy Irons, Lena Olin,
Sienna Miller, Adelmo Togliani. Historia de la meva mort (Spagna/Francia ).
Regia di Albert Serra. Con Vicenç Altaió, Lluís Serrat, Eliseu Huertas.
Casanova variations (Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di Michael
Sturminger, con John Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres. Zoroastro, Io
Casanova (Italia ) Regia di Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier Amour
(Francia ). Regia di Benoît Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo Casanova),
Stacy Martin (Marianne de Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo
lontanamente ispirati alla figura di Casanova Casanova farebbe così! (Italia
1942). Regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Le tre donne di Casanova (Stati Uniti
1944). Regia di Sam Wood. Casanova '70 (Italia 1965). Regia di Mario Monicelli.
Film comici La grande notte di Casanova (Stati Uniti 1954) Norman Z. McLeod.
Casanova & Company (Austria/Italia/Francia/Rft 1976). Regia di Franz Antel.
Tony Curtis, Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt Ekland, Umberto Orsini,
Marisa Mell, Hugh Griffith. Telefilm su Casanova Casanova (Regno Unito, 2005).
Regia di Sheree Folkson. Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole, Laura
Fraser, Nina Sosanya, Shaun Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron d'oronastrino
per uniforme ordinariaCavaliere dello Speron d'oro — Roma, 1760 Riguardo
l’onorificenza, Casanova nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice e
il successivo conferimento dell'Ordine (cfr. G. Casanova, Storia della mia
vita, Milano, Mondadori 2001, II pag.
925 cit. in bibl.). Si è dubitato anche in questo caso, come in altri, che il
racconto autobiografico risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state
compiute approfondite ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di
ritrovare il breve papale di conferimento, sia nel periodo di cui parla
Casanova (dicembre 1760-gennaio 1761) sia in periodi precedenti e successivi,
senza alcun esito. Il che non significa che l’onorificenza non sia stata
effettivamente conferita, in quanto potrebbe essersi verificato un errore
burocratico, di trascrizione o altro. Sta di fatto però che intorno allo stesso
periodo furono conferite onorificenze ad altri personaggi come Piranesi,
Mozart, Cavaceppi e il breve relativo è stato ritrovato. Quindi manca, allo
stato, un riscontro oggettivo. Si aggiunga che il cavalierato dello Speron
d’Oro era all’epoca già piuttosto inflazionato, al punto da sconsigliare
l’esibizione in pubblico della decorazione. Lo stesso Casanova in un passo
dell’opera autobiografica Il duello scrive, riferendosi all’onorificenza,
"il troppo strapazzato ordine della cavalleria romana" (cfr. Il
duello cit. in bibl.).[95] Note Esplicative Casanova visse a lungo in Francia e conobbe
personalmente molti protagonisti del movimento illuminista tra cui Voltaire e
Rousseau. Inoltre, in patria, frequentò membri dell'oligarchia aristocratica dominante
appartenenti all'ala progressista, come Andrea Memmo. In più aveva anche
aderito alla Massoneria, il che lo pose a contatto con tutta una serie di
personaggi portatori di idee progressiste. Malgrado tutto questo egli fu, e si
definì sempre, un conservatore, legato a doppio filo con la classe nobiliare
cui, pur non appartenendovi formalmente, riteneva d'esservi membro in pectore,
reputandosi a torto od a ragione il figlio naturale di Michele Grimani. Allo
scoppio della Rivoluzione francese e nel periodo alquanto turbolento che ne
seguì, scrisse numerosissime lettere (cfr. Epistolario P.Chiara cit. in ) in
cui deprecava in modo reciso l'accaduto e soprattutto non riconobbe mai, negli
eventi, la paternità culturale del movimento illuminista. Ad esso aveva
assistito come semplice spettatore, non avendone percepito mai la dirompente
potenzialità e non condividendone nessuna delle istanze che, ad esempio,
Montesquieu espresse nei confronti dell'iniquo sistema già dal 1721 (cfr.
Montesquieu, Lettres Persanes) e riteneva che, pur con qualche modifica, il
governo della classe nobiliare fosse il migliore possibile. Un esame attento ed
approfondito della posizione politica del Casanova è stato compiuto da
Feliciano Benvenuti (Casanova politico, atti del convegno: Giacomo Casanova tra
Venezia e l'Europa, 16.11.1998, Gilberto Pizzamiglio, fondazione Giorgio Cini,
Venezia, ed. Leo S. Olschki, 2001, pag. 1 e seg.) Il cognome Casanova è attestato appartenere a
nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano, Parma, Torino-Dronero Casanova afferma che dalla città
spagnola il suo antenato, padre Jacob Casanova, a seguito del rapimento di una
monaca, Donna Anna Palafox, sarebbe fuggito, nel 1429, a Roma in cerca di un
rifugio dove, dopo aver scontato un anno di carcere, avrebbe ricevuto il
perdono e la dispensa dei voti sacerdotali da parte del pontefice in persona,
potendo così unirsi in matrimonio con la rapita. A questo riguardo è
interessante la tesi di Jean-Cristophe Igalens (G. Casanova, Histoire de ma
vie, tome I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne,
Laffont , pag. XL , op. cit. in Opere postume) il quale sostiene che la
genealogia inserita dal Casanova all'inizio delle Memorie sia del tutto
fantasiosa. Si tratterebbe di una sorta di parodia di ciò che facevano
regolarmente i memorialisti aristocratici dell'epoca i quali, all'inizio
dell'opera, enunciavano il loro antico lignaggio, quasi a ricercare una
legittimazione per il fatto di esporre, in un'opera letteraria, le vicende di
cui erano stati protagonisti, almeno quelle pubbliche, poiché le private
rientravano nell'ambito dell'autobiografia. La tesi appare fondata se si
considera che la ricostruzione genealogica proposta dal C. risale addirittura
al 1428, cioè a tre secoli dalla sua nascita ed è relativa a un cognome,
praticamente un toponimo, estremamente comune.
A conferma del fatto che la nascita illegittima di Casanova fosse
oggetto di chiacchiere, va citato un passaggio de La commediante in fortuna di
Pietro Chiari (Venezia 1755) in cui si tratteggia un ritratto precisissimo di
Casanova che chiunque era in grado di riconoscere sotto le spoglie di un nome
di fantasia, il Signor Vanesio "C'era tra gli altri un certo Signor
Vanesio dì sconosciuta e, per quanto dicevasi, non legittima estrazione, ben
fatto della persona, di colore olivastro, di affettate maniere e di franchezza
indicibile". Evidentemente il riferimento a tratti somatici tipici e
riconoscibili fa pensare che le dicerie fossero suffragate da una notevole
somiglianza fisica con Michele Grimani. L'identificazione del Signor Vanesio
con Casanova è pacifica, tra i tanti autori, concordi sul punto, si veda:
E.Vittoria Casanova e gli Inquisitori di Stato cit. in bibl. pag. 25. (Immatricolazione 29 novembre 1737 col numero
122, iscrizione al secondo anno 26 novembre 1738, fede di terzeria del 20
gennaio, 22 marzo e I maggio 1739. Fonte: Bruno Brunelli, Casanova studente, in
“Il Marzocco” 15 aprile 1923, pag 1-2)
Il 2 aprile 1742 firmò un testamento in qualità di testimone. Sull'ubicazione esatta della casa natale di
Casanova e di quella in cui trascorse l'infanzia dal 1728 al 1743, anno della
morte della nonna materna Marzia, si è discusso moltissimo. Certo è che al
momento del matrimonio Gaetano e Zanetta Casanova non disponevano di un reddito
tale da sostenere un spesa come quella affrontata, dal 1728 in poi, di 80
ducati annui. Quindi molto probabilmente, dopo il matrimonio avvenuto il 27
febbraio 1724, i coniugi andarono a vivere a casa della madre di Zanetta,
Marzia Baldissera, cheera vedova essendo mortole il marito Girolamo Farussi
poche settimane avanti il matrimonio della figlia. E questa con ogni
probabilità fu la casa in cui Casanova nacque il 2 aprile 1725 con l'assistenza
della levatrice Regina Salvi. L'identificazione esatta della casa natale è
assai ardua, ma comunque è stata tentata. Il casanovista Helmuth Watzlawick ha
identificato la casa di Marzia Baldissera con l'attuale civico 2993 di Calle
delle muneghe. Questa sarebbe dunque la casa natale di Casanova (Fonte: Helmuth
Watzlawick, House of childhood, house of birth; a topographical distraction, in
Intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XVI 1999, pag. 17 e seg.). I
coniugi Casanova si trasferirono nella casa di Calle della Commedia al ritorno
dalla fortunata tournée londinese quando rientrarono a Venezia col
secondogenito Francesco, nato a Londra il primo di giugno 1727. Tale abitazione
risulta essere stata di gran rappresentanza, su tre livelli, con un salone al
secondo piano che fu usato in occasione di feste. L'affitto di 80 ducati annui
era circa il doppio della media che veniva corrisposta nel vicinato per
appartamenti evidentemente meno lussuosi. A questo punto sembrerebbe tutto
chiaro, si tratta solo di trovare in Calle della commedia un'abitazione che
corrisponda alla descrizione: grandezza, salone al secondo piano e camera al
terzo, nonché corrispondenza con la proprietà che si sa essere stata con
certezza della famiglia Savorgnan. L'unica che potrebbe corrispondere alla
descrizione è quella sita nell'attuale Calle Malipiero (già Calle della
Commedia) al civico 3082. Ma su questo non tutti gli studiosi concordano, tanto
che la lapide apposta in calle Malipiero dice "In una casa di questa
calle, già Calle della Commedia, nacque il 2 aprile 1725 Giacomo Casanova"
senza alcun altro più specifico elemento. Alcuni sostengono che a causa di
rimaneggiamenti interni non è più possibile identificare la struttura
originaria. Uno studioso dell'argomento, Federico Montecuccoli degli Erri, ha
pubblicato (L'intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XX, 2003, pag.3 e
seg.) un'analisi molto approfondita basata sulle cosiddette
"Condizioni" cioè sulle dichiarazioni dei redditi immobiliari che
venivano presentate dai proprietari. All'epoca, per verificare l'esattezza dei
dati dichiarati, si procedeva ad un'ispezione diretta casa per casa effettuata,
in ogni parrocchia, dal parroco. Egli procedeva con un certo ordine chiedendo a
ognuno il titolo di possesso. I proprietari dichiaravano il titolo di proprietà
e gli affittuari dovevano o esibire il contratto oppure giurare le condizioni
contrattuali. Poiché è stato ritrovato il documento in cui la madre di Zanetta,
Marzia, giurava per la figlia, nel frattempo trasferitasi per lavoro a Dresda,
che il contratto prevedeva un affitto di 80 ducati annui e che l'immobile era
di proprietà Savorgnan, conosciamo con certezza i dati contrattuali e la
residenza indicata sull'atto, cioè Calle della Commedia. Purtroppo le modifiche
urbanistiche e catastali intervenute non consentono con certezza l'identificazione,
anche perché all'epoca non esistevano dati catastali precisi. Secondo lo
studioso citato, l'abitazione è da identificarsi con la casa al civico 3089
della Calle degli orbi che all'epoca potrebbe essere stata designata come Calle
della Commedia. Corrisponderebbero sia l'aspetto fisico che la proprietà.
Comunque tutte queste ipotesi si muovono entro un fazzoletto di spazio di poche
centinaia di metri; infatti è certo che i Casanova abitavano, per motivi di
lavoro, nei pressi del Teatro San Samuele, di proprietà dei Grimani. Documento:
Calle della Commedia 324|casa|Giovanna Casanova comica al presente s'attrova in
Dresda, giurò Marzia sua Madre|N.H Zuanne e F.llo Co. Savornian|d.ti 80 (annui)
Registro dell'anno 1740 Atti della Parrocchia di S.Samuele. Non nel noto lazzaretto del Vanvitelli, ma in
quello in uso precedentemente. Si è
mantenuta la cronologia quale risulta dal testo delle Memorie. L'autore ha qui,
come in altri casi, confuso le date o fuso insieme più viaggi. In realtà la
permanenza nel Lazzaretto era durata dal 26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24)
novembre 1743. Quindi l'intervallo tra i due viaggi è stato di tre mesi, non di
sette. Come affermato dall'autore, il soggiorno si svolse nel Lazzaretto
"Vecchio", in quanto quello "Nuovo", pur terminato nel
febbraio del 1743, iniziò a funzionare solo nel 1748 allorché la Reverenda
Camera Apostolica se ne prese carico. Sull'argomento si veda: Furio
Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in L'Intermédiaire des
Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno
pag. 711. In tale studio viene ricostruita la situazione dei lazzaretti
di Ancona e confrontato il racconto casanoviano con le risultanze di archivio
relative ai progetti e all'iconografia degli edifici adibiti alle quarantene.La
cronologia della permanenza è stata stimata dall'autore nel periodo
26.10/23.11.1743. Un'altra cronologia differisce di un giorno soltanto:
27.10/24.11.1743 (J. Casanova, Histoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit
original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont, I, Cronologia, pag. XXX, cit. in bibl.) Il
progetto di ristrutturazione del Lazzaretto "Vecchio", datato 1817,
si conserva nell'Archivio di Stato di Roma (Collezione Mappe e Piante, Parte I,
Cart. 2, n° 87/I, II, III.). Esso consente di verificare lo stato del
fabbricato all'epoca della permanenza del Casanova. Il personaggio di Teresa/Bellino ripropone
una tematica ricorrente cioè la questione dell'aderenza alla realtà dei fatti
riportati nell'Histoire e il considerare il personaggio descritto come
realmente esistito. L'identificazione di Teresa con Angela Calori, nota
virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si basa su ricerche effettuate già
dai casanovisti del passato, come Gustavo Gugitz, il quale però ritenne che il
personaggio fosse in realtà una costruzione letteraria. Teresa viene spesso
citata nell'Histoire sotto il nome fittizio di Teresa Lanti, maritata con
Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio. Ma molte delle notizie, date e fatti
riferiti nel racconto casanoviano non quadrano con quelli attribuibili alla
Calori. Quest'ultima è anche ricordata direttamente nell'Histoire allorché
Casanova riferisce di averla incontrata a Londra e di aver provato, vedendola,
le stesse sensazioni avute in occasione di un incontro, a Praga, con Teresa/Bellino,
il che ha indotto taluni a considerare questo fatto una prova che la Teresa
delle memorie fosse effettivamente la Calori. Molti studiosi (tra gli altri
Furio Luccichenti) propendono per l'assemblaggio d'invenzione, cioè pensano che
Casanova abbia costruito il personaggio di cui parla con elementi derivanti da
più persone diverse, il che non esclude che l'autore possa essersi ispirato, in
larga misura, anche alla Calori. Comunque gli studiosi non demordono: Sandro
Pasqual (L'intreccio, Casanova a Bologna, 2007, pag. 33 e seguenti, cit. in
bibl.) ha ipotizzato trattarsi non della Calori, ma di un'altra famosa cantante
bolognese, Vittoria Tesi, nota per il suo fascino androgino e per aver
interpretato spesso en travestie parti maschili. La tendenza a romanzare del
Casanova sarebbe in questo caso particolarmente stimolata dall'ambiente e dai
ruoli dei personaggi descritti. Egli ebbe sempre, infatti, fortissimi legami
col mondo teatrale, essendo figlio di attori e avendo frequentato tutta la vita
teatri e teatranti. Curiosamente, ogni volta che rappresenta un personaggio
femminile che ha a che fare col teatro, sia cantante o ballerina, lo descrive,
salvo rarissimi casi, in modo particolarmente negativo; come se, pur attratto
da quel mondo, ne disprezzasse profondamente gli interpreti, attribuendo,
soprattutto a quelli femminili, le peggiori inclinazioni alla falsità,
all'avidità e al calcolo. Teresa/Bellino è una delle eccezioni, il che farebbe
propendere per l'idealizzazione, cioè per la non rispondenza alla realtà del
personaggio, peraltro nascosto, come si è detto, sotto un nome fittizio. Sul
rapporto tra l'Histoire e il mondo del teatro si veda, di Cynthia Craig,
Representing anxiety. The figure of the actress in Casanova's Histoire de ma
vie. L'intermédiaire des casanovistes, Genève, Année 2003 XX. Marco Barbaro (19 luglio 1688-25 novembre
1771), patrizio veneziano del ramo Barbaro di San Aponal, figlio di Anzolo
Maria, morto senza figli, lasciò a Casanova un legato di sei zecchini al mese.
(Fonte: Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du
manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont cit. in
bibl. I pag. 997, che rinvia a Salvatore
di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi, Milano) Marco Dandolo, patrizio veneziano del ramo
Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di Marco Dandolo 28
marzo 1779 in Archivio di Stato di Venezia. Legato testamentario
"...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo Casanova, che mi fu
in tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla mia persona, e che ha
mostrato in ogni tempo la più comendabile gratitudine a' miei pochi benefizj.
Dichiaro che a lui appartengono tutti i mobili, che sono nella stanza in cui
dorme.......... Al suddetto Giacomo Casanova lascio il mio orologio d'oro e le
mie quattro possate d'argento" (Fonte: L'Histoire de ma vie di
Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in , pag.29 nota 104). L'identificazione di "Henriette"
insieme a quella di "Suor M.M." è stato uno degli argomentipiù
dibattuti dai casanovisti. Il motivo di tante accanite ricerche è connesso con
la centralità sentimentale di questi due personaggi nella vita di Casanova. Il
nome di Henriette ricorre di con tinuo nelle Memorie e la sua identità è
stata mascherata accuratamente dall'autore. Tra le identificazioni che si sono
susseguite quelle più autorevoli sono da ascrivere a: John Rives
Childs (1960), che sostenne trattarsi di Jeanne-Marie d'Albert de
Saint Hyppolite, nata il 22 marzo 1718, sposata a Jean-Baptiste Laurent Boyer
de Fonscolombe, nipote di Joseph de Margalet, proprietario del castello di
Luynes, che si trova nella zona descritta da Casanova come quella di residenza
di Henriette. Helmut Watzlawick (1989), che sostiene trattarsi di Marie
d'Albertas, nata a Marsiglia il 10 marzo 1722. Louis Jean André (1996), che
avrebbe identificato Henriette in Adelaide de Gueidan (1725-1786). Quest'ultima
ricostruzione è sostenuta da un apparato critico impressionante che, attraverso
una raccolta minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia, topografia
della zona), conduce a una notevole verosimiglianza dell'identificazione.
Immagini del castello di Valabre, residenza della famiglia De Gueidan, che
secondo André corrisponderebbe perfettamente alla descrizione datane da
Casanova senza nominarlo, sono visibili qui. Manca ancora però la prova
inoppugnabile, una lettera o un qualsiasi manoscritto del Casanova stesso che
consenta l'identificazione certa. Molti
studiosi hanno tentato l'identificazione di suor M.M. Lo studio più completo
sull'argomento si deve a Riccardo Selvatico, che la identifica con Marina
Morosini (R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti T. CXLII (1983-84) pag. 235-266. Sul rapporto tra romanzo e autobiografia
nelle Memorie si veda tra gli altri L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova
Michele Mari, pag. 237 e seguenti, cit. in .
Balletti era il nipote della Fragoletta, l'attempata attrice amata dal
padre di Giacomo, Gaetano, al seguito della quale era arrivato in giovane età a
Venezia. (Fonte: Charles Samaran, Jacques Casanova, Vénitien, une vie
d'aventurier au XVIII siècle, Pag. 26, note 1,2,3. Cit. in bibl. con rinvio a
un passaggio delle Memorie di Goldoni)
Casanova fu iniziato nella loggia Amitié amis choisis, probabilmente su
presentazione di Balletti (Fonte: Jean-Didier Vincent, Casanova il contagio del
piacere, cit. in bibl. pag. 145, nota 35).
L'affiliazione di Mozart alla Fratellanza Massonica avvenne il 14
dicembre del 1784, nella loggia “Zur Wohltätigkeit” (Alla Beneficenza) di
Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, pag. 56. Bruno
Mondadori, 2005). Nel novembre del 1750,
Casanova ricevette i gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni di
Gerusalemme (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in
Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de
Gérard Lahouati, , cit. in bibl.)
Malgrado la diuturna applicazione, il fatto di aver avuto eccellenti
maestri come Crebillon e di aver potuto fare ampia pratica durante la
permanenza in Francia, il francese di Casanova non fu mai ritenuto
sufficientemente perfetto nella forma scritta, soprattutto a causa degli
“italianismi” che si riscontrano numerosissimi nelle Memorie. Casanova
riferisce con dovizia di particolari il suo incontro con Crebillon e la
successiva intensa frequentazione allo scopo di imparare la lingua. Ammette
anche i suoi limiti: infatti scrive: Per un anno intero andai da Crebillon tre
volte alla settimana ma non riuscii mai a liberarmi dei miei italianismi
(Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori). L'imputazione e la sentenza: 21 agosto 1755
Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di Giacomo
Casanova principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE. lo
fecero arrestare e passar sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio
Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto Casanova
condannato anni cinque sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio
Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. (VeneziaArchivio di
StatoInquisitori di StatoAnnotazioniB. 534245)
Riferte di Giovanni Battista Manuzzi, confidente degli Inquisitori di
Stato Incaricata la mia obbedienza dal Venerato Comando di riferire chi sia
Giacomo Casanova, generalmente rilevo ch'è figlio di un comico e di una
commediante; viene descritto il detto Casanova di un carattere cabalon, che si
fa profittare della credulità delle persone come fece col N.H. Ser Zanne
Bragadin, per vivere alle spalle di questo o di quello... Giovanni Battista
Manuzzi, 22 marzo 1755. ...Mi sovvenne allora che lo stesso Casanova parlato mi
avea ne' giorni passati della Setta de' Muratori, raccontandomi i onori e
vantaggi che si hanno ad essere nel numero de' confratelli, che vi aveva
dell'inclinazione il N.H. Ser Marco Donado per essere arrolato a detta Setta...
Giovanni Battista Manuzzi, 12 luglio 1755.
Secondo il casanovista Pierre Gruet, il motivo fondamentale dell'arresto
di Casanova è da ricercare proprio nella relazione con suor M.M. che, se
l'identificazione con Marina Morosini è corretta (sul punto si veda R.
Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti), apparteneva ad una delle più potenti famiglie del patriziato
veneziano. I Morosini avrebbero quindi fatto pressioni sugli inquisitori per
far cessare la scandalosa situazione. Cfr. Jacques Casanova de SeingaltHistoire
de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl.
Vol I, pag 1065. Bibliografiche
Giacomo Casanova, Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A.
Brockhaus-Librairie Plon, 1960-62.
Giacomo Casanova, Examen des "Etudes de la Nature" et de
"Paul et Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, 1788-1789127. Carlo Goldoni, Memorie, Torino, Einaudi,
1967158. Fonte: Helmut Watzlawick,
Chronologie, pag. LVI in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl. G.Casanova,Storia della mia vita, Mondadori
2001, I, pag. 502 cit. in bibl. (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani) (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello
Studio Padovano. Giacomo Casanova, in Padova e la sua provincia) (Fonte:
P.Del Negro, Giacomo Casanova e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia
dell'Padova n°25, 1992) Aprile, maggio
1741 secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie,
pag. LVIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.
(Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII in Casanova, Histoire
de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit.
in bibl.) Helmut Watzlawick,
Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition
publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl. Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero
di un libertino veneziano, cit. in bibl. pag.32: Ma perché fu fermato? Non
aveva da scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal
Grimani che voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili
della casa paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta,
che doveva occuparsi della questione. Si
veda di Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo Casanova,
L'Intermédiaire des casanovistes, XII (1995), pag. 27 e seguenti. Si veda di Pierre-Yves Beaurepaire, Grand
Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche : una cultura della mobilità
nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali 21, La Massoneria, Gian
Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49 cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag.
LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.
cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova,
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati, , cit. in bibl, Fonte: Elio
Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, pag. 140 e seguenti, cit. in bibl. Fonte: Bruno Rosada, Il Settecento veneziano.
La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore, 2007, pag. 231, cit. in bibl. Riguardo alla paternità del quadro in
questione, la precedente attribuzione a Mengs (risalente a Johann Joachim
Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e, allo stato delle
ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco Narici, pittore di
origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel 1952 a Milano da un
restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale sosteneva di aver trovato
tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un biglietto manoscritto che
recava le parole Jean-Jacques Casanova 1767. Il fatto che il soggetto
rappresentato possa effettivamente essere Giacomo Casanova, si basa su una
serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il
naso; il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di
ipotizzare trattarsi di un uomo della stessa statura di Casanova che è nota; il
fatto che i tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di
mano del fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per
il soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare
a una simbologia molto affine al personaggio di Casanova che, pur nello stile
di vita brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro
passò, nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe
Bignami di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami,
Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des
casanovistes XI, 1994, pagg. 17-23. Il
mondo di Giacomo Casanova.... (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico, 1998,
cit. in bibl.). Giuseppe Bignami, Casanova tra Genova e Venezia, La Casana, n°
3 luglio-settembre 2008, pag. 25-37. Una summa dell'iconografia casanoviana,
che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è
consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra
organizzata dalla BNF, , Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France /
Seuil, pag.68-71 Marino Balbi
(1719-1783), monaco somasco. Era un patrizio veneziano appartenente a una
casata barnabota, cioè a una di quelle famiglie patrizie che avevano perso ogni
ricchezza e i cui membri erano ridotti a vivere di espedienti. Erano detti
barnabotti in quanto gravitavano intorno a Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire
de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, pag. 22, citato in ). Si trattava di un certo Andreoli, custode del
palazzo, che il Casanova vide approssimarsi, da una fessura del portone,
"in parrucca nera e con un mazzo di chiavi in mano". Sul punto, per
maggiore approfondimento, si veda il commento di Riccardo Selvatico Cento note
per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti, ed. Neri Pozza 1997, pag. 316. Sentenza di condanna a carico di Lorenzo
Basadonna, carceriere del Casanova Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni
de Piombi, che esisteva nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali
ne provenne la fuga al primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi
somasco, e di Giacomo Casanova, che vi erano condannati, per tenui motivi di
contrasto con Giuseppe Ottaviani pur condannato ne' camerotti, ne commise la
interfezione. Presi dal Tribunale gl'essami per rilevare l'origine, e i modi
del non ordinario avvenimento, risultò infatti per la confessione stessa del
reo il caso per proditorio in ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il
supplizio maggiore, la clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di
clemenza è devenuta alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r
Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r 175710 giugno. Lorenzo Basadonna sia
condannato ne' Pozzi per anni dieci. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani
Inq.r Bortolo Diedo Inq.r Venezia, Archivio di Stato, Inquisitori di Stato,
Annotazioni, R. 535 c.83. Jeanne Camus
de Pontcarré marchesa d'Urfé 1705-1775, sposò nel 1724 Louis-Christophe de
Lascaris d'Urfé de Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre
figli. Rimase vedova nel 1734 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed.
Mondadori 2001, II pag.1634 nota) G. Casanova, Historie de ma vie, Libro 2,
Volume 5, Capitolo 3 Molti commentatori
hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della
lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École
militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su
particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli
Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista
la rilevanza della documentazione, è indubitabile che Casanova abbia svolto un
ruolo chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature
politiche. Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo
entourage era molto solido. Sul punto si veda G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori 2001 cit. in bibl. II,
Pag. 164 nota 1, in cui si puntualizza che la lista dei 28 ricevitori, pubblicata
nel febbraio 1758, non riporta il nome di Casanova in relazione alla
ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto autobiografico. Secondo
Samaran, (Jacques Casanova ecc.. Cit. In bibl.) Casanova avrebbe diretto una
ricevitoria dal settembre 1758 a tutto il 1759, ma a Rue Saint Martin. Si veda
anche Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie…. Éd. Robert Laffont 1993
cit. in bibl. II, pag 21 nota 4
(con rinvio a C. Meucci, Casanova Finanziere, cit. in bibl. pag. 66 e seg.),
pag. 23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo Casanova) e Jean Leonnet, Les
loteries d'état en France aux XVIII e XIX siécles. Imprimerie nationale, 1963,
pag 15 e seg. Il decreto di fondazione della lotteria è un arrêt delConsiglio
di Stato del re Luigi XV, datato 15 ottobre 1757 (BnF, Departement des Manuscrit
Française 26469, fol. 198). Del viaggio
nei Paesi Bassi, come incaricato di una missione diplomatica descritto da
Casanova, vi è un riscontro obiettivo: il passaporto, ritrovato a Dux,
rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys Lestevenon van Berkenroode
(1715-1797), ambasciatore della Repubblica delle Sette Province a Parigi dal
1750 al 1762 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il
documento originale è riprodotto in Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma
vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol
II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.
Dopo il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre
Anna Gazini (che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard
Wynne) decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero
le altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel
1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un
amore veneziano, Milano, Mondadori, 2003, pag. 23 e seg. e pag. 120 e
seg.). La lettera autografa di
Giustiniana Wynne è andata all'asta all'Hôtel Drouot (Parigi) il 12 ottobre
1999. Il collezionista che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere
l'anonimato, ne ha però consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut
Watzlawick, L'Intermédiaire des Casanovistes anno 2003 pag. 25) «...siete filosofo, siete onesto, avete la
mia vita nelle mani, Salvattemi se c'è ancora rimedio, e se potete...» G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori,
Edizione 2001, II, pag. 394, cit. in
bibl. Histoire, volume 15, capitolo XIX
Nous avons ici une espèce de plaisant qui serait très capable de faire
une façon de Secchia Rapita, et de peindre les ennemis de la raison dans tout
l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres complètes de Voltaire avec des
notes... Parigi 1837, II pag. 91) Fonte: Frédéric Manfrin in Casanova, la
passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France /
Seuil, , Chronologie, pag. 221. G.
Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001, II, pag. 1508 cit. in bibl. Marie Anne Geneviéve Augspurger, detta La
Charpillon, (circa 1746-1778), nota cortigiana londinese (Fonte: G. Casanova,
Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,
III pag.117 nota). Un riscontro
del soggiorno di Casanova a Berlino deriva da una annotazione nel diario di
James Boswell, datata 1º settembre 1764, in cui lo scrittore scozzese accenna
all'incontro avvenuto da Rufin, cioè alla locanda Zu den drei Lilien (Ai tre
gigli) in Poststraße, dove anche Casanova alloggiava. In particolare scrive: Ho
mangiato da Rufin dove Nehaus, un italiano, voleva brillare come grande
filosofo e quindi sosteneva di dubitare di tutto, a cominciare dalla sua stessa
esistenza. Lo ritenni un perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the
Private Papers of James Boswell, London 1953,
IV, pag. 67). Il nome Nehaus è la traduzione di Casanova in tedesco (con
un errore di grafia = Neuhaus) e risulta che Casanova abbia usato il suo
cognome tradotto, con diverse forme. Ad esempio, in una lettera a lui
indirizzata a Wesel, si legge come destinatario comte de Nayhaus de Farussi,
Farussi era il cognome della madre del Casanova. (Fonte: Helmut Watzlawick,
Casanova and Boswell, nota in L'Intermédiaire des Casanovistes, XXIII 2006, pag
41). Fonte: Elio Bartolini, Vita di
Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XVII pag. 271. Casanova passò la frontiera
russa a Riga sotto il nome di Farussi, cognome della madre (cfr. Helmut Watzlawick,
Chronologie, pag. LXXIV in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.)
Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX
pag. 273, 274. Secondo quanto affermato nelle Memorie, Casanova incontrò varie
volte la sovrana, sottoponendole vari progetti, ma senza alcun risultato. Franciszek Ksawery Branicki, conte di
Korczak, (1730–1819). Sul contesto storico in cui si muoveva Branicki, che era
un rappresentante della nobiltà filorussa, la cui collusione con la potente
nazione vicina rappresentò un vero e proprio tradimento, si può consultare la
voce dedicata a Tadeusz Kościuszko, in particolare il paragrafo "Ritorno
in Polonia". Anna Binetti (cognome
di nascita Ramon) celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il
ballerino Georges Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò
all'insegnamento della danza a Venezia (Fonte: G. Casanova, Storia della mia
vita, ed. Mondadori 2001, III pag.1183
nota) G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori 2001, III, pag. 285 e
seguenti, cit. in bibl. La vicenda
sollevò un clamore notevole e fu riportata nelle cronache. Una descrizione dei
fatti, che ricalca sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la
veridicità, si trova in una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe
Antonio Taruffi, segretario del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e
spedita da Varsavia a Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed.
Zanichelli Bologna, 1878. La vita i tempi gli amici di Francesco Albergati
pagg. 196 e seg. e nota 1 pag. 203.)
Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX
pag. 288. Fonte: Elio Bartolini, Vita di
Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 293. Cfr. anche, per la data di
morte di Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa da Casanova (26
ottobre), Helmut Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome I.
Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova. I soggiorni romani di Casanova furono tre: il primo dal 1º settembre
1743 al 23 febbraio 1744; il secondo dal dicembre 1760 al 5 febbraio 1761; il
terzo dal 14 maggio 1770 a fine maggio 1771. I personaggi descritti,
numerosissimi, sono noti alle cronache del tempo e quindi è possibile ritenere
veridico il racconto che consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è
costituito da un documento che certifica la presenza a Roma del Casanova
durante la Quaresima del 1771. Documento: Stato delle anime 1771, in Registri parrocchiali
di S.Andrea delle Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di S.Eufemia
Francesco Poletti anni 51 M. Angela moglie .anni 40 Margarita figlia zitella anni
16 Tommaso figlio anni 20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva anni
40 Piggionanti Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe fratello anni
18 D. Giacinto Cerreti anni 37 Il signor Giacomo Casanova...anni 46
L'immobile in questione è quello, antistante l'Ambasciata di Spagna, sito nella
piazza all'attuale numero civico 32. L'abitazione del Casanova era al secondo
piano. (Fonte: A.Valeri Casanova a Roma cit. in bibl.) Si è a lungo discusso circa l'esistenza di
ulteriori capitoli che dovrebbe essere comprovata dal titolo originale
dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an 1797, come risulta dalla prima
pagina della prefazione. Tuttavia ciò rimane solo un'ipotesi, perché non è
stato mai trovato un manoscritto riguardante il periodo successivo al 1774. Va
quindi considerato che, fino alla data in questione, la fonte primaria delle
vicende di Casanova sono le sue Memorie; dopo il termine temporale delle
medesime ci si è basati su epistolari o notizie di altro tipo: scritti di
contemporanei, registrazioni amministrative, notizie apparse su gazzette.
Alcuni autori hanno tentato una ricostruzione cronologica dei fatti utilizzando
i documenti disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno Brunelli, Vita di Giacomo
Casanova dopo le sue memorie, cit. in bibl.) e il Bartolini (Elio Bartolini,
Casanova dalla felicità alla morte 17741798, cit. in bibl.). Evidentemente le
notizie riguardanti il periodo compreso temporalmente nelle Memorie sono
enormemente più numerose di quelle relative al periodo successivo. Circa
l'attendibilità e la precisione delle notizie riportate nelle Memorie, il
dibattito è stato amplissimo, ma numerosissimi riscontri ne hanno comprovato la
sostanziale veridicità. Il viaggio da
Trieste a Venezia iniziò il 10 settembre 1774; la data è verificabile da una
notizia apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10 corrente è passato per qua
il signor Giacomo Casanova di Saint Gall celebre per li diversi famosi incontri
da lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le opere da lui stampate, fra
le quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio la Storia delle vicende di
Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo perdono e dopo venti anni si
è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj Gorian Editoria e informazione
a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta goriziana” , Trieste, Deputazione di
Storia Patria per la Venezia Giulia , pag. 221-223). È da osservare che la notorietà del
personaggio era grande e che anche della sua attività di scrittore, oltre che
di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti intellettuali, ancor prima
del suo rientro a Venezia. In una lettera datata Venezia Elisabetta Caminer,
rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive "...È dunque costì quel
famoso Casanova che ha fatto tante pazzie e alcune cose buone? Io lo conosco
assai di nome, e mio padre lo conosce anche di persona. Ditemi, in che le sue
maniere sono diverse dalle vostre? Qual tuono è il suo? Voi già sapete la sua
prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa egli codesta sua Storia della
Polonia? Avete voi letta la sua confutazione dell'opera di Amelot della
Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer Lukoschik, Lettere di Elisabetta Caminer, organizzatrice
culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova, 2006). Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo,
Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier. L'elenco completo dei sottoscrittori è
consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero
Chiara, vol VII. (pag.293 e seg.) Delle
lettere di Casanova alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la Buschini,
nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie rivoltele, è
facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute. A Dux sono
state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Francesca Buschini che coprono il
periodo dal luglio del 1779 all'ottobre del 1787. Di queste, 33 sono state
riportate nel volume Lettere di donne a Giacomo Casanova Aldo Ravà, Milano,
Treves 1912 cit. in bibl. L'edizione critica più recente delle lettere di
Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, è stata edita
Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna , Grenoble, Antonio Trampus,
Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni
successivi al secondo esilio di Giacomo Casanova. Attraverso esse si vive il
dramma umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più
avvolta da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che
praticamente viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva
sempre più intollerante. Quando Casanova dovette sospendere i suoi aiuti in
denaro, essendo ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si
ritrovò letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di
Barbaria delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna
notizia ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è
oltremodo toccante. A.Ravà, Lettere di
donne a Giacomo Casanova, cit. in bibl. p.176 e nota. Fonte dell'ammontare del
canone: A.Ravà, J. Marsan, Sui passi di
Casanova a Venezia. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in
bibl. pag. 347 Fonte: G. Casanova,
Analisi degli studi sulla natura... G. Simeoni. Ed. Pendragon 2003, pag. 9. Il
testo del libello è stata oggetto di una pubblicazione a tiratura limitata
Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981. Si è ipotizzato che il Grimani
abbia incaricato della redazione della replica Girolamo Molin, tuttavia il
libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma fu fatto circolare in forma
manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue
memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9).
Foscarini morì il 23 aprile del 1785.
Il conflitto con la servitù del castello divenne con gli anni sempre più
acuto, tanto da far giudicare insostenibile la permanenza al castello del maggiordomo
Georg Feldkirchner, che fu infatti rimosso dall'incarico. La diatriba fu poi
oggetto dell'opera Lettres écrites au sieur Faulkircher... (vedi in ) nella
quale Casanova trasfuse tutto l'astio accumulato per le persecuzionia suo
diresubite. Il concetto è ripreso da un
passo di Piero Chiara (cfr. G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori
1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14) ...Ma il Casanova è quello che è, e
non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per l'audacia, la sincerità con
la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i colpi di spada o di pistola,
il carcere o l'esilio, pur di consumare fino all'ultimo l'avventura della sua
esistenza in un'epoca in cui la vita era un'opera d'arte e si poteva farne, con
vera gioia, un capolavoro dei sensi.....
Il casanovista Helmut Watzlawick ha pubblicato (cfr. L'intermédiaire des
casanovistes, anno XXIII, 2006 pag. 38) una breve nota intitolata Lieu de
sepolture de Casanova, in cui riferisce la notizia, comunicatagli da uno
studioso tedesco, Hermann Braun, di una testimonianza sull'argomento
individuata nell'opera di un memorialista e storico coevo al Casanova: Johann
Georg Meusel (1743-1820), professore di storia a Erlangen. Meusel, nella sua
opera Archiv für Künstler und Kunst-Freunde (Dresda, 1805 I parte seconda, pag. 172) fa il seguente
commento: «L'aîne, Jacques Casanova, Docteur en Droit de Padoue et
bibliothécaire de Comtes de Waldstein-Warthemberg, à Dux en Bohème, où il
mourût aussi, immortalisé par un monument plein de goût que le Comte lui a fait
ériger dans son jardin, où il le faisait aussi enterrer selon son propre
désir.» Pare quindi evidente che la sepoltura fosse ubicata all'interno del
parco del castello e il conte vi avesse fatto erigere un monumento “pieno di
gusto” in memoria del suo bibliotecario. Il conte Waldstein aveva certamente
dell'affetto per Casanova, oltre al legame derivante dalla comune appartenenza
alla Massoneria, se è vero che gli conferì un incarico formale di bibliotecario
ma in pratica, visto lo scarso impegno che comportava, una pensione, che lo
mantenne per lunghi anni provvedendo a tutti i suoi bisogni e che spesso
dovette far fronte ai suoi debiti, talvolta cospicui, con gli editori. È quindi
più che logico che abbia deciso di onorarne la memoria con una sepoltura degna
e con un monumento funebre. Inoltre il Meusel è conosciuto come un biografo
scrupoloso e non avrebbe avuto motivo per inventare un dettaglio facilmente
verificabile da parte dei suoi lettori, tra i quali Francesco Casanova, fratello
minore di Giacomo e famoso pittore, al quale Meusel dedicò, nella medesima
opera, un contributo biografico e che era ancora in vita al tempo della
redazione dell'opera. Come sostiene Watzlawick, per avere la prova certa,
bisognerebbe revisionare la contabilità del castello al momento della morte del
Casanova, cercando la traccia dei pagamenti effettuati per la sepoltura e
l'erezione del monumento. Edizione in
tre tomi basata sul manoscritto conservato presso la BNF, con le varianti di
testo relative a passi rimaneggiati dall'autore. Attualmente () è l'edizione
critica di riferimento. Archivio
Alinari, su alinariarchives. Archivio
GrangerNew York Opere di
LonghiCasanovaUbication: Firenze Miti e
personaggi della modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte,
musica e cinema, edizioni Bruno Mondadori, : «Nell'arte. Di Casanova esistono
alcuni ritratti, tra cui un dipinto giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi
che lo raffigura all'epoca della maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un
terzo attribuibile a Mengs» (NDR: oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco
Narici) Il quadro, conservato un tempo
nella collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e
nero in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe
stato eseguito presumibilmente nel 1774 allorché Casanova rientrò a Venezia
dall'esilio. Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni
sconosciute donato dall'artista a un membro della famiglia Gritti.
Successivamente passò a Francesco Antonio Gritti di Treviso, zio materno
dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò dalla sorella di Francesco
Antonio, Maria Gritti Rizzi. Nel 1934 il quadro faceva ancora parte della
collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del Casanova nel soggetto
ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre, all'epoca
in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, Casanova era vicino ai
cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove
opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova,
la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF, ,
Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil, pag.68-71. Su
Alessandro Longhi si veda l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile
su Ca' Foscari online). In particolare a pag. 237 vengono riassunte le vicende
del ritratto con richiami bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les
portraits de Jacques et de François Casanova, «Gazette des Beaux-Arts», Bernier
G., Beau garçon, Casanova?, «L‟OEil», La questione è stata oggetto di un
cospicuo dibattito sul quale spesso ha pesato il giudizio moralmente negativo
circa la personalità dell'autore. Soprattutto al primo apparire di opere
critiche sulla questione, cioè alla fine dell'Ottocento, primi del Novecento,
si tendeva a separare la indiscussa validità storica delle Memorie, nel loro
complesso, dal giudizio di riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei
passi delle memorie ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta
da Benedetto Croce il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende
casanoviane (si veda: Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili
settecenteschi, ed. Sandron 1914) pur definendo le Memorie "un libro osceno"
(B.Croce, Salvatore di Giacomo e il canto del grillo in "la Critica").
Col tempo il valore storico e letterario cominciò ad avere sempre più numerosi
sostenitori, come Ettore Bonora il quale scrisse ...fissati i loro limiti. i
Mémoires restano un libro eccezionale, rappresentativo quant'altri mai del
mondo settecentesco, un libro che, per la sua stessa ricchezza di materiali
quanto pochi altri, può rivelare a un lettore paziente lo spirito della vecchia
società che la Rivoluzione doveva distruggere (E.Bonora Letterati, memorialisti
e viaggiatori del Settecento, pag 717, citato in ). Fonte: T. Iermano, Le
scritture della modernità, citato in .
Emblematico a questo riguardo è il caso del romanzo utopistico
Icosameron (Praga, 1788) che costituì un tale insuccesso editoriale da minare
definitivamente la già non florida situazione finanziaria del Casanova.
Malgrado gli sforzi dei volenterosi sottoscrittori, si accumulò una perdita di
duemila fiorini, secondo una nota autobiografica rinvenuta a Dux, di ottocento zecchini
secondo una lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre comunque di grande rilievo
che costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato editore a ricorrere a
prestiti usurari, dando in pegno i pochissimi beni residui e perfino capi di
vestiario (Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo Casanova, ed. Mondadori 1998,
pag. 389 e seg.). Fonte: Elio Bartolini,
Vita di Giacomo Casanova. La redazione della Confutazione fu soltanto uno dei
tanti elementi della lunga strategia che condusse all'ottenimento del perdono da
parte delle autorità della Repubblica e il consenso al ritorno in patria
dell'esule, il che avvenne peraltro anni dopo. La pubblicazione dell'opera fu
sicuramente appoggiata da Girolamo Zulian il quale, pur privo di parentele
influenti, stava compiendo un percorso politico lusinghiero e attraverso il
sostegno a Casanova si aspettava di ottenere dai patrizi che lo appoggiavano,
alcuni dei quali molto influenti come i Memmo e il procuratore Lorenzo
Morosini, di essere aiutato a sua volta nel prosieguo della carriera. Zulian
era anche vicino ad ambienti massonici il che spiegava ulteriormente il suo
agire. Sul gruppo di patrizi che sosteneva le ragioni di Casanova ed era
fautore del perdono si veda Piero Del Negro, Il patriziato veneziano
nell'Histoire de ma vie, in L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele
Mari, cit. in , pag.25, 26 nota 90. Si veda inoltre la lettera di Casanova a
Zulian scritta da Lugano nel luglio del 1769, Epistolario di Giacomo Casanova, Piero Chiara, cit. in
bibl. pag. 105,106. Il brano, un
ritratto in prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De Ligne riuscì a
cogliere con straordinaria esattezza e rendere con estrema obiettività gli
elementi del carattere del Casanova. Il passo può essere consultato qui
(Mémoires et mélanges historiques et littéraires, ed. Ambroise Dupont et C.
Parigi 1828). Su come Casanova
esercitasse il suo fascino sull'uditorio, con il racconto delle sue avventure,
vi è una testimonianza assai qualificata, per lo spessore del personaggio, che è
stata lasciata da Alessandro Verri il quale, in una lettera al fratello Pietro,
inviata da Roma nel 1771, scrive: ...V'è un certo uomo straordinario per le sue
avventure, per nome il signor Casanova, Veneziano: egli è attualmente in Roma.
Egli ha molto spirito e vivacità; ha viaggiato tutta l'Europa...Fu posto nei
camerotti a Venezia...gli riuscì di fuggire...Egli racconta questa dolorosa
anecdota della sua vita, successagli quindici anni or sono, con tanto interesse
e forza, come se gli fosse accaduta ieri... Alla risposta del fratello, che
avanzava dei dubbi sulla veridicità del racconto, Alessandro replicava:
...Ultimamente gliel'ho sentita raccontare da lui stesso. Egli ha tutta
l'apparenza di dire la verità: scioglie le obiezioni, ed ha un'eloquenza
naturale ed ha una forza di passione che v'interessa infinitamente.. Fonte:
Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti ed.
Neri Pozza 1997. La lettera, datata Dux
8 aprile 1791 è consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita ed. Mondadori
1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340
Alla morte di Casanova, il manoscritto originale dell'Histoire,
unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini che nel 1787 aveva sposato
Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria Maddalena. Quest'ultima aveva
lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a Dresda, dove aveva sposato
l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e i quattro saggi furono
venduti, nel 1821, all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio , il ministro francese
della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato l'acquisto del manoscritto
dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di Hubertus Brockaus, da
parte della Bibliothèque nationale de France.
Molti studiosi hanno analizzato, parola per parola, l'adattamento operato
da Laforgue giungendo alla conclusione che si è trattato di una vera e propria
riscrittura. Un'interessante analisi della questione è quella operata da
Philippe Sollers (Il mirabile Casanova). L'autore procede per exempla,
indicando il passo com'era stato scritto da Casanova e la versione di Laforgue,
mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con cui era stata operata la
trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera biografia, al duplice fine
di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi e modificare l'ideologia
dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni che mostravano, ad
esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei crimini (tali
Casanova li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la rivoluzione,
cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non espressamente
conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio Alfieri, nella
Vita scritta da esso e nel Misogallo).
G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001, I pag. 733, cit. in bibl. A questo proposito de Ligne scrive ...le sue
memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio,
difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e ritratti, pag.
189, cit. in bibl.), Illuminante, a questo
riguardo, il passo di una lettera datata 20 febbraio 1792, inviata da Casanova
a Giovanni Ferdinando Opiz in cui lo scrivente dichiara: Per ciò che riguarda
le Mie Memorie, più l'opera va avanti più mi convinco che è fatta per essere
bruciata. Da questo potete capire che fin quando saranno in mie mani non
verranno certo pubblicate. Sono di una tale natura di non far passare la notte
al lettore; ma il cinismo che vi ho messo è tanto spinto che passa i limiti
posti dalla convenienza all'indiscrezione (Fonte: Epistolari 1759-1798 di
Giacomo Casanova, Piero Chiara, ed. Longanesi & C.) Si veda in Giacomo Casanova tra Venezia e
l'Europa, Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki 2001, pag. 171, cit. in
bibl. G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione
dell'Histoire (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral
du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 10). Quindi la
scelta sarebbe stata orientata soltanto dalla possibilità di maggiore
diffusione dell'opera. Ma il pensiero dell'autore viene chiarito, ampliato e
approfondito nella cosiddetta “Prefazione rifiutata” (Pensieri libertini, F. Di
Trocchio, cit. in bibl. Pag. 55), Casanova dice Ho scritto in francese, perché
nel paese dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di quella italiana;
perché, non essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i lettori francesi
a quelli italiani; e perché lo spirito francese è più tollerante di quello
italiano, più illuminato nella conoscenza del cuore umano e più rotto alle
vicissitudini della vita. Come si vede, la scelta andava ben al di là di un
problema di diffusione. Stendhal fa,
nella sua opera, numerosi riferimenti a Casanova e all'Histoire cfr. Promenades
dans Rome, Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio Luccichenti Il
casanovismo fra Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di Giacomo
Casanova, Michele Mari cit. in bibl. pag. 383.
Foscolo, durante il soggiorno londinese, recensiva opere di autori italiani.
A proposito dell'Histoire casanoviana scrisse, in due diverse occasioni (sulla
Westminster review dell'aprile 1827 e sulla Edinburgh review del giugno dello
stesso anno), che il protagonista era di pura fantasia e le vicende narrate
completamente inventate. Balzac si
ispirò largamente alle Memorie casanoviane utilizzando personaggi, nomi ed
episodi per l'ambientazione veneziana delle sue opere, come nel caso di Facino
Cane o per desumere spunti narrativi, come nel caso di Sarrasine. Sul punto si
veda Raffaele de Cesare Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l'Italia,
Mondadori. Molte parti del libro, comprese le pagine indicate con relativa
note, sono consultabili on line. Sempre sui collegamenti tra l'opera
casanoviana e Sarrasine si veda L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova,
Michele Mari, cit. in bibl. pag. 95 nota 5 con rimando a J.R. Childs,
Casanova. Biographie nouvelle, pag. 64. Ed. Jean-Jacques Pauvert, Paris
1962 Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e
scrive al padre: ..mi sono comprato le Memorie di Casanova dove spero di
trovare un soggetto. Il soggetto fu il Casanova stesso, rappresentato nella
commedia L'avventuriero e la cantante (1899) (Fonte: L'avventuriero e la
cantante con postfazione di Enrico Groppali, ed. SE). Schnitzler scrisse varie opere ispirate alla
vita dell'avventuriero, tra cui Le sorelle ovvero Casanova a Spa (ed. Einaudi)
e Il ritorno di Casanova (ed. Adelphi).
Hesse scrisse il racconto La conversione di Casanova (ed. Guanda 1989)
che fu pubblicato nel 1906. Márai scrisse
il romanzo La recita di Bolzano (ed. Adelphi), pubblicato a Budapest, che ha
come protagonista l'avventuriero veneziano.
Salvatore di Giacomo "Casanova a Napoli" in Nuova antologia
1922. Benedetto Croce "Aneddoti di
varia letteratura", Napoli 1942. "Di un cantastorie del Settecento e
di un luogo delle Memorie di Giacomo Casanova" opera il cui autografo di
sei pagine è andato all'asta a Milano il 21.5.92. Piero Chiara curò per Mondadori (1965) la prima
edizione italiana basata sul manoscritto originale delle Memorie, scrisse un
saggio Il vero Casanova, Mursia (1977) e molti articoli sull'argomento. Scrive Casanova in una lettera all'Opiz
Scrivo dall'alba alla sera e posso assicurarvi che scrivo anche dormendo,
perché sogno sempre di scrivere. (Fonte: Piero Chiara Il vero Casanova, Mursia
1977, pag.209). Tra le altre si veda
Margherita Sarfatti, Casanova contro Don Giovanni, ed. Mondadori (1950), citata
in . La tesi è esposta in modo
articolato da Francis Lacassin (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie.
Ed. Robert Laffont, I, Préface, pag. X).
Di questo avviso Piermario Vescovo (Il mondo di Giacomo Casanova, pag.
187, , ed. Marsilio 1998, citato in bibl.). Un'analisi particolarmente
approfondita si deve ad Andrea Fabiano il quale esamina, in dieci tesi, tutti i
motivi che rendono probabile la partecipazione (Giacomo Casanova tra Venezia e
l'Europa, G. Pizzamiglio, ed. Leo S. Olschki 2001, pag. 273 e seg.). In
sostanza è stato osservato che Da Ponte e Casanova si conoscevano e frequentavano,
che Casanova era certamente presente a Praga nei giorni che precedettero la
prima, che sia lui che Mozart erano massoni, che una serie d'incidenti aveva
procrastinato la rappresentazione, costringendo a varie modifiche del testo per
manifesta insoddisfazione di alcuni cantanti, che Casanova era stato sempre
molto vicino per gusti e frequentazioni al mondo teatrale e autore egli stesso
di opere di teatro quindi perfettamente in grado di apportare le modifiche
necessarie. Inoltre sembra assai improbabile che, rientrato a Dux, si mettesse
a ipotizzare varianti al testo del libretto per puro passatempo. Sull’argomento si veda lo studio di Furio
Luccichenti, in L'intermédiaire des casanovistes, Genève Année XVII 2000, pag.
21 e seg. In cui vengono minuziosamente riferite le ricerche effettuate, senza
esito, nell'Archivio vaticano. Lettere a G.C. raccolte da Aldo Ravà , Il
mondo di Giacomo Casanova, Venezia, Marsilio, Casanova, la passion de la
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su www-syscom.univ-mlv.fr.Testo dell'Histoire de ma vie edizione integrale in
inglese, su hot.ee. Filosofi italiani. Aspetti poco noti della vita di Casanova
vengono portati alla luce della recente consultazione dei documenti inediti
custodii nell'archivio storico Waldstein a Praga. Emergono cosi' nuove testimonianze
che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato sulle donne ma
rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri sessuali con uomini.
Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in maschera con cui fa un
esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche sull'opera autobiografica
''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la massima franchezza, le sue
avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli incontri galanti. Si ipotizza
che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con almeno una ventina di uomini.
La prima testimonianza di un rapporto sarebbe legata alla sua adolescenza,
quando, in seminario, dove studia per diventare prete, fu scoperto a letto con
un uomo, cosa che costa a Casanova l'espulsione del seminario. Ma il numero di
uomini con cui Casanova e' stato a letto non e' significativo. E' molto piu'
importante sottolineare il *modo* in cui Casanova racconta le sue avventure
sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la qualita' del godimento, ad
affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la chiave per una
comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina psicoanalitica
freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non lo era affatto.
E questo e' un grande merito di Casanova.L’ultimo amore di Casanova: Una grande
storia d'amorebooks.google.com › books· Translate this page Fausto Bertolini ·
2021 FOUND INSIDE ai tempi di Padova e ai giorni delle lezioni dell'abate
Gozzi, che l'aveva istruito con amore per avviarlo al sacerdozio, e con un po'
più di passione e di attenzione se lo era portato a letto per iniziarlo alla
pratica omosessuale che Casanova si ... – Grice: “His first experience was with
a Venetian nobleman; his second one cost him the expulsion from the seminary –
Altham alleges he (Casanova, not Altham) slept with “at least” twenty males!” –
Grice: “Altham’s favourite is the description of the ‘erotical game’ as masked
in Venice -- Giacomo Casanova. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Casanova: conversazione sessuale, conversazione e conversazione” – The
Swimming-Pool Library.
Casati (Roma). Filosofo. Grice: “I like Casati;
he is from Milano, and therefore, as the Italians say, intelligent! – or
‘clever’” – His dissertation is on ‘shadow’ as used by Plato to explain that
there’s ‘man,’ and “man” and the idea of “man,” so the thing is the thing, but
the idea stands for the thing, and the expression stands for the thing that
stands for the thing! But he has also explored ‘amicizia’, as in the case of
Oreste’s alter ego, ‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in sum, a
typical Renaissance man of a philosopher, as he should!” Studia a Milano
con Bonomi. Pubblica la raccolta di racconti filosofici Il caso Wassermann e
altri incidenti metafisici (Laterza). Si occupa di fenomenologia dello
spazio e degli oggetti. Analizzato la rappresentazione di questi due elementi
secondo il senso comune. Buchi e altre superficialità (Garzanti), e Semplicità
insormontabili (Laterza). Buchi e altre superficialità è un tentativo di
analizzare i diversi tipi di buco, superando il paradosso di classificare un
elemento che evoca l'assenza, il vuoto e il nulla. Utilizza strumenti di
filosofia della percezione, geometria, logica e topologia, ma anche linguistica
e letteratura. Un esperimento epistemologico che dimostra come l'esperienza e
il linguaggio quotidiani si trasformino quando diventano oggetto di un'indagine
filosofica e di una formalizzazione scientifica. Un concetto che sembra
semplice, di uso quotidiano, diventa sfuggente e ambiguo. Tra i suoi
principali contributi si annoverano la teoria della filosofia come arte del
negoziato concettuale; la teoria 'conversazionale' degli artefatti. Tra i
contributi alla metafisica analitica: la teoria dei suoni come eventi localizzati,
la regione spaziale immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel
dominio degli oggetti materiali, la teoria del futuro
"strizzato" nella metafisica del tempo (cf. Grice/Myro). Studia
il fenomeno percettivo delle ombre e il loro contributo alla ricostruzione
delle scene tridimensionali grazie alla scoperta di doppie dissociazioni nella
rappresentazione delle ombre (ombre corrette che appaiono sbagliate, ombre
sbagliate che appaiono corrette), scoprendo o prevedendo svariate illusioni percettive
(l'illusione "copycat", l'illusione di Lippi, l'illusione della
doppia ombra, la cattura delle ombre, le ombre delle ombre, il mascheramento
delle ombre, le ombre di oggetti non materiali). Una parte della sua ricerca ha
riguardato il modo in cui l'ombra è stata rappresentata nella pittura ed è
stata usata per il ragionamento geometrico, in particolare in astronomia (La
scoperta dell'ombra). Un'altra linea di ricerca riguarda gli artefatti
cognitivi. I risultati principali in questo settore sono la prima e finora
unica semantica formale per le mappe, una sintassi e una semantica per la
notazione musicale standard, la teoria dei "micro crediti" nelle
pubblicazioni scientifiche, e una teoria generale dei vantaggi cognitivi degli
artefatti rappresentativi. Autore di un progettodenominato Wikilexper l'uso di
strumenti wiki nella scrittura normativa, in un contesto di democrazia
partecipata. La sua Prima Lezione di filosofia difende una concezione
della filosofia come arte del negoziato concettuale. Da questa tesi discende
che la filosofia è molto diffusa nella società e nella scienza anche al di
fuori dell'ambito accademico che le è proprio, che non esistono problemi
filosofici fuori dal tempo e dalla storia, che non c'è un canone filosofico né
un modo canonico di insegnare la filosofia. Altre opere: “L'immagine.
Introduzione ai problemi filosofici della rappresentazione, La Nuova Italia);
Buchi e altre superficialità, Garzanti); La scoperta dell'ombra, Arnoldo
Mondadori Editore, Laterza); Semplicità insormontabili: 39 storie filosofiche
(Laterza); Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici, Laterza); Il
pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi di immaginazione filosofica
(Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza); Contro il colonialismo
digitale: istruzioni per continuare a leggere, Laterza); Dov'è il sole di
notte? Lezioni atipiche di astronomia, Raffaello Cortina); L'incertezza
elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente diaboliche. 100 nuove storie
filosofiche, Laterza); La lezione del freddo, Einaudi). Isola di Arturo-Elsa
Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI UNA TEORIA DELL' IMMAGINE.
L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e definizione. Materialità e
causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA VISTA E L'OGGETTO VISIVO.
Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto visivo. Ombra. Casi limite:
trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti materiali: la nozione di
aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE E PERCEZIONE DELL'
IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed immagine. L'Illusorio,
il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il problema dello
spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore della teoria della
somiglianza Somiglianza e rappresentazione. Alcuni casi limite.
Contro la teoria della somiglianza. La complessità della percezione
dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in. LO SPAZIO
NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione canonica e
scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun luogo. QUADRO
E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie percettiva.
L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario iconografico. Quadro
ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio nel quadro. Alcuni
esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE. Contesto di
interpretazione. Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza iterata. Cornice e
finestra. Cornice ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione ridondante. I CONFINI
DELL' IMMAGINE. Il Paradosso del vedere. L'implicatura di Escher e il
fondamento della rappresentazione. L'implicatura di Magritte: rappresentare e
immaginare. PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia estetica. IL
PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella materialità.
La geometria dell'espressione. La dissoluzione della rappresentazione. Lo Stilo
rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di esplicitazione. L'IMMAGINE
E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la comunicazione. Critica.
Riferimento e generalità. La teoria che Grice e Casati propongono può
chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la conversazione -- ma
‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati alternativi. La teoria di
Grice e Casati sostiene che un artefatto (segno artificiale, non-naturale --
'che p') e un oggetto prodotto con lo scopo precipuo essere ri-conosciuto come
emesso in base all’intenzione di profferire una espressione che... – dove si
può immaginare vari modi di riempire lo spazio lasciato vuoto dai puntini di
sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto è il seguente. Una emissione
conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo di essere riconosciuti come
creati in base all’intenzione di creare un oggetto che servisse a suscitare una
qualche conversazione sulla loro produzione. Cominciamo con lo sgombrare il
campo da possibili equivoci. Un’obiezione semplice è che “molte cose vengono
create con lo scopo di suscitare una conversazione, e queste non sono opere d’arte,
come per esempio la produzione di gesti che conducono alla disseminazione di
pettegolezzi, o affermazioni roboanti sulla stampa”. L’obiezione non coglie nel
segno in quanto la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale non dice
che le opere d’arte vengono create con l’intenzione di suscitare una
conversazione. Di fatto la teoria è compatibile con l’ipotesi che le opere
d’arte non vengano create con l’intenzione di suscitare una conversazione.
L’intenzione pertinente è un’altra: è l’intenzione di creare oggetti che
vengano riconosciuti (per esempio, in virtù di certe caratteristiche fisiche)
come creati allo scopo di suscitare una conversazione. È irrilevante per la
soddisfazione di questa intenzione se vi sia un’intenzione di suscitare una conversazione,
o se una conversazione venga poi effettivamente suscitata 4 . Vediamo subito
anche alcune conseguenze immediate, tenendo presente il fatto che i due
competitori diretti della teoria sono la teoria della comunicazione e quella
dell’intenzione artistica, laddove la prima compete sull’aspetto sociale, e la
seconda in quanto teoria intenzionale. Secondo la teoria metacognitiva dello
spunto conversazionale i prodotti artistici non servono per una “comunicazione”
semplice tra l’artista e il pubblico – non sono latori di “messaggi” nel senso
della teoria della comunicazione. Sono piuttosto oggetti che hanno un legame
preciso con l’attenzione, che devono attrarre (quindi, anche se sono oggetti
utilitari, devono far coesistere questo fatto con una sovrapposizione di altri
elementi che vanno al di là dell’uso), il tutto all’interno di un contesto
sociale in cui potrebbero venir usati come oggetto di discussione in quanto
sono riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette di inquadrare alcuni dei
fatti poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non dice che l’artista debba
creare l’opera sulla base della formulazione di un’intenzione di inserirsi in
una conversazione specifica (che è molto probabilmente quella comune nella sua
epoca), ma dice piuttosto che l’opera deve essere in grado di esser vista come
creata allo scopo di inserirsi in una conversazione qualsiasi. Questo fatto
impone dei vincoli importanti sulla struttura delle opere d’arte. Si tratta di
oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati.
4 La teoria metacognitiva sembra tagliata su misura per performances
artistiche come le opere di Duchamp. In realtà se la teoria è vera certe opere
d’arte sono particolarmente interessanti proprio perché rendono espliciti gli
aspetti impliciti di tutte le opere d’arte. 17 La teoria spiega perché i
prodotti artistici riescono a sopravvivere al tempo (se ci si pensa bene,
questa sopravvivenza è un fatto molto strano, e comunque poco compatibile con
l’idea che i prodotti artistici contengano un messaggio.)5 Passano il test del
tempo perché la capacità di essere riconosciuti come creati allo scopo di
suscitare una conversazione non dipende dalle contingenze specifiche di questa
o quella conversazione, ma dai parametri generici che regolano la nostra
capacità di inserirci in una conversazione, di generarla, di mantenerla. Anche
quando non è più possibile conoscere i termini della conversazione in cui il
prodotto avrebbe inizialmente dovuto inserirsi come stimolo, resta comunque la
possibilità di recuperare il prodotto all’interno di una nuova conversazione.
In modo simile, le teoria spiega perché le opere d’arte passano il test dello
spazio, ovvero possono venir apprezzate da comunità che sono distanti dalla
comunità originale del creatore. La teoria spiega perché i prodotti artistici
hanno l’aspetto che hanno. I prodotti artistici devono risolvere svariati
problemi - massimizzare la novità - attrarre l’attenzione (essere
sufficientemente differenti da artefatti utilitari) - essere sufficientemente
complessi (per via della loro forma apparente, o per via della storia della
loro origine) da massimizzare la possibilità di venir utilizzati come spunti di
conversazione in quanto li si è riconosciuti come tali. La teoria spiega le
fluttuazioni di valore estetico ed economico dei prodotti artistici. Non basta
avere delle buone qualità per essere un buono spunto di conversazione: deve
anche esserci una conversazione per cui tale qualità può venir rilevata. La
teoria spiega perché i prodotti artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti
di moda, e muoiono (laddove la maggior parte delle latre teorie impone cesure
irriconciliabili tra grande arte e arte demotica). La teoria conversazionale
spiega l'origine dell'arte e degli artefatti artistici. L’arte non è stata
inventata. Le opere d'arte sono state scoperte, nel senso che si è visto che
certi artefatti erano produttori di interazioni sociali e davano al loro autore
un credito che questi poteva riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito
si è cristallizzata l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi
requisiti. La teoria spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere
d'arte (come nel caso dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano
di espungere dal novero dell'arte.) 5 Riprendo nel seguito ed espando
alcuni elementi da Casati 2002. 18 Spiega l'esistenza di gradi di artisticità,
e del perché certe cose siano considerate arte da alcuni, non arte da altri
(sono predicati estrinseci con un fondamento nel lavoro che l'artista ha
profuso per rendere un certo oggetto massimalmente “conversazionabile”). La
teoria spiega perché gli artisti amano parlare del loro lavoro e corredarlo di
spiegazioni (questo è particolarmente arduo da spiegare in una teoria della
comunicazione o dell’espressione). La teoria spiega perché i quadri hanno le
etichette e i pezzi di musica dei titoli. La teoria spiega perché le opere
d’arte vengono acquistate senza alcun riguardo per l’autore, come inviti alla
conversazione scollegati dalla persona dell’autore. La teoria è compatibile con
svariate strategie che possono venir messe in atto dagli artisti perché
l’intenzioe che è alla base dell’opera vada a buon fine: sospensione delle
routines (Bullot 2002), esposizione in spazi privilegiati, ecc. Per finire,
dato che la teoria ipotizza che gli artisti producano con un occhio di riguardo
alle possibili conversazioni sulla loro opera, questo permette di risolvere, in
modo del tutto immediato, il problema dell’unità del genere opera d’arte. Le
opere d’arte sono oggetti creati con lo scopo precipuo di rendere possibile una
conversazione. La clausola principale è metarappresentazionale: l’autore deve
avere un’intenzione appropriata di creare un’opera che sia riconoscibile
come... La clausola esclude casi in cui certi artefatti siano di fatto moneta
per lo scambio conversazionale, come le teorie matematiche, senza essere opere
d’arte. Dove interviene lo studio della cognizione nella teoria
conversazionale? Nel fatto che non tutti i soggetti sono riconoscibili come
creati allo scopo di fornire spunti per la conversazione. Studiare i vincoli
normativi sul successo dell’intenzione meta-conversazionale permetterà di fare
interessanti predizioni empiriche sul contentuto e la forma degli artefatti
astistici. Un progetto di ricerca, una antropologia della visita museale,
potrebbe essere un primo passo in questa direzione. Che cosa dice chi passa
davanti a un quadro in un museo? Conclusione La teoria metacognitiva dello
spunto conversazionale rappresenta un’ipotesi che cerca di rendere giustizia
dell’unità delle nostre intuizioni su che cosa è un’oggetto artistico di fronte
all’estrema varietà degli oggetti artistici e all’estrema varietà delle
risposte che tali oggetti suscitano. Anche se è una teoria che si situa nella
regione della dipendenza della risposta, non non è una teoria della riposta
estetica – le risposte estetiche sono un tipo di risposte agli oggetti
artistici, e si applicano anche a oggetti non artistici. Non è quindi una
teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe aspettare di fronte al fatto
che i giudizi estetici possono variare a fronte del 19 riconoscimento che
quello che alcuni giudicano bello e altri brutto resta un’opera d’arte. Un
altro fattore importante di questa teoria è che considera le opere d’arte come
oggetti creati con una funzione specifica, e la cui forma dipende da questa
funzione; una funzione che richiede un’intuizione di controllo il cui contenuto
è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria metacognitiva non non è
certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo oggetto un’opera d’arte,
si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente articolata per fare
predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un oggetto come opera
d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione sociale). Queste
predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi comprensiva dei
meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste uno
pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e
componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli
richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del
genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio, D. 1990 L'arte come idea e
come esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica.
Luigi Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza,
"Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi
Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza,
"Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo".
Roberto Casati. Keywords: “la conversazione come arte del negoziato”; teoria
conversazionale dell’artifatto, segno, comunicazione, imagine, intenzione,
Grice, Ricominiciamo da capo – logico, stramaledettamente logico – implicatura
come stramaledettamente logica -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati”
– The Swimming-Pool Library.
Casini
(Roma). Filosofo. Grice: “I like Casini – he takes, unlike me, physics
seriously! But then so did Thales, according to Aristotle! – At Clifton we did
a lot of ‘physical’ rather than ‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a
Roma sotto Nardi, Antoni, e Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con
“L'idea di natura”. I suoi interessi di ricerca in storia della
filosofia si sono successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze
sperimentali nel Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e
alla diffusione della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a proposito
di filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero, non senza
tener conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in tale
contesto Kant. Insegna a Trieste, Bologna, e Roma. Le sue ricerche
riguardano Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra rivoluzione
scientifica e riflessione filosofica, l'origine e diffusione della fisica di
Newton, le vicende del mito pitagorico tra "prisca philosophia" e
"antica sapienza italica", le dispute sorte attorno al
darwinismo. Altre opere: “Diderot "philosophe", Laterza);
Mecanicismo -- L'universo-macchina: origini della filosofia newtoniana,
Laterza); Rousseau, Laterza); Introduzione all'illuminismo, Laterza --
razionalismo); Newton e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso ed utopia”
(Laterza); “L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il Mulino);
“Hypotheses non fingo” (Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle origini del
Novecento: "Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il Mulino); Il
concetto di creazione (Il Mulino). La lista di autorità e
l’accenno alla filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo Casini.
Si tratta di un saggio dedicato all'evoluzione del mito pitagorico nella
cultura europea. Senza cadere mai nella rassegna erudita, l'autore segue passo
passo le trasformazioni del mito dalla sua prima incarnazione nella cultura
romana alla riscoperta operata nel Rinascimento, alle discussioni
storico-archeologiche e alle strumentalizzazioni politiche del
Sette-Ottocento. Giuseppe Bottai o delle
ambiguità (Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele corporativa -
La guerra di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia – Espiazione) - 2. Ugo
Spirito: «scienza» e «incoscienza» (Una teoresi postidealista - Teorico
dell'economia corporativa - Il «bolscevico» epurato - «Mutevolezza e
instabilità» - «Scienza», «ricerca», «arte» - Guerra e Dopoguerra - Alla
ricerca del padre) - 3. Camillo Pellizzi: il fascio di Londra e la sociologia
(Genius loci - Tra Roma e Londra - Pax romana in Albione - «Aristòcrate» -
Dottrina del fascismo - Il postfascismo e la «rivouzione mancata» - Verso la
sociologia) - 4. I doni di Soffici («Si parla» - «Scoperte e massacri» -
Sguardi retrospettivi: tragedia e catarsi - Docta ignorantia - «Commesso
viaggiatore dell'assoluto» - Genus irritabile vatum - Un dialogo tra sordi -
Amici e nemici) - 5. Un autoritratto (A metà ventennio – Riflessi - Tra casa e
scuola - Agrari in Toscana - I primi pedagoghi - L'Istituto Massimo sj -
Vinceremo! - Il passaggio del fronte – Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo
Tasso) - 6. Studium Urbis (Gli anni Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità
idealistiche - Ideologie in crisi – Diderot - Roma, gli amici - Savinio,
Carocci - La naja – Intermezzi - Olivetti, Ivrea - La "cultura" della
RAI – Let Newton Be - Anni di prova) - Indice dei nomi Order
Zoogonia e "Trasformismo" nella fisica epicurea Giornale
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Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend Bookmark 5 Newton in
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Filosofia 22 (1): 24. 1967. 17th/18th Century British Philosophy, Misc Like
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Repubblica di Ginevra Studi Filosofici 1 (n/a): 77. 1978. Like Recommend
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Pythagoreans Topic Order Teoria e storia delle
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Rivista di Filosofia 87 (1): 83-94. 1996. Like Recommend Bookmark 9
Leopardi apprendista: scienza e filosofia Rivista di Filosofia 89 (3): 417-444.
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in Italia Rivista di Filosofia 97 (1): 117-130. 2006. Like Recommend
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Rivista di Filosofia 83 (3): 411. 1992. Like Recommend Bookmark Rousseau e
Diderot Rivista di Storia Della Filosofia 19 (3): 243. 1964. Like Recommend
Bookmark Diderot « philosophe » Revue Philosophique de la France Et de
l'Etranger 162 324-324. 1972. Continental Philosophy 1 citation of this work
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Filosofia Italiana 1 (1): 7. 1981. Like Recommend Bookmark La ricerca
embriologica in Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di Filosofia 78 (1):
137. 1987. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark L'empirismo e la
vera filosofia: il caso Scinà Rivista di Filosofia 80 (3): 351. 1989. Like
Recommend Bookmark The Newtonian moment in Italy: A post-scriptum Rivista di
Storia Della Filosofia 61 (2): 299-316. 2006. Classical Mechanics Like
Recommend Bookmark 6 James, Freud e il determinismo della psiche Rivista
di Filosofia 93 (1): 65-88. 2002. Sigmund Freud Like Recommend Bookmark 1
Stanley Grean: Shaftesbury's philosophy of religion and ethics. A study in
enthusiasm (review) Studia Leibnitiana 2 (n/a): 147. 1970. Like Recommend
Bookmark Herschel, Whewell, Stuart Mill e l'«analogia della natura» Rivista di
Filosofia 21 (3): 372-91. 1981. Like Recommend Bookmark 14 Newton: the
classical scholia History of Science 22 (1): 1-58. 1984. 1 reference in this
work 15 citations of this work Like Recommend Bookmark Diderot et le portrait
du philosophe éclectique Revue Internationale de Philosophie 38 (1): 35. 1984.
1 citation of this work Like Recommend Bookmark Morte e trasfigurazione del
testo Rivista di Filosofia 83 (2): 301. 1992. Like Recommend Bookmark
L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1
citation of this work Like Recommend Bookmark 10 Zev Bechler, Newton's
Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution. Boston
Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer Academic
Publishers, 1991. Pp. xviii + 588. ISBN 0-7923-1054-3. £103.00, $189.00, Dfl.
300.00 (review) British Journal for the History of Science 27 (2): 229-230.
1994. Like Recommend Bookmark Éléments de la philosophie de Newton (review)
British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. Isaac Newton
Like Recommend Bookmark 6 The "Enciclopedia italiana". Fringes
of ideology Rivista di Filosofia 99 (1): 51-80. 2008. Political Theory Like
Recommend Bookmark 9 Il momento newtoniano in Italia: un post-scriptum
Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend Bookmark 10
Rousseau e l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia 104 (2): 285-294.
2013. Jean-Jacques Rousseau Topic Order 5 Newton
in Prussia Rivista di Filosofia 91 (2): 251-282. 2000. Isaac Newton 1 citation
of this work Like Recommend Bookmark 27 François-Marie Arouet de
Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L.
Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire
Foundation, Taylor Institution, 1992. Pp. xxii + 850. ISBN 0-7294-0374-2. No
price given (review) British Journal for the History of Science 26 (3):
360-361. 1993. 17th/18th Century French Philosophy. Paolo Casini. Keywords:
“antica sapienza italica” razionalismo, la metafora della lume, illuminismo,
Bruno, il patto sociale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casini” – The
Swimming-Pool Library.
Casotti (Roma). Filosofo. Grice:
“I like Casotti; of course, he reminds me of my master at Clifton! Casotti is
into the teaching of philosophy: did Socrates teach Alcibiade or did Alcibiade
learn from Socrate? On top, Casotti tried to systematise WHAT you have to
teach: his first volume is telling: ‘l’essere’, which of course reminds me of
my explorations on the multiplicity of being in Aristtotle – a human being in
an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew would scorn philosophers who use a verb
with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning
‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa sotto
Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione idealistica
della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla dottrina
gentiliana dell'attualismo. Dopo aver
aderito all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in vista di un
rinnovamento della scuola italiana, indirizza il proprio percorso professionale
in direzione della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di Gentile, da
lui riprese e rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e Torino.
Collabora nella redazione delle riviste Levana e La nuova scuola Italiana. Motivazioni personali, unite all'esigenza di
approccio più realista all'educazione, lo portano il ad allontanarsi in maniera
piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche precedenti e ad aderire
all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una filosofia ispirata a
Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis philosophia” dell'aristotelismo
aquinista. Egli avversa da un lato
l'attivismo e il naturalismo, recuperando l'importanza della «lezione» e della
«disciplina», in una prospettiva di insegnamento rivolta all'«imitazione di un
ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il rapporto tutore/tutee
nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa dell'attualismo
gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità, concependolo
piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita, incentrato su
una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che consente il
passaggio dalla potenza all'atto. Fonda
la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna, rinominata in
Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua filosofia, che
vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come disciplina” -- sia da un
aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno speculativo basato sulla
sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e adattare alle difficoltà
del contesto. Altre opere: “La concezione
idealistica della storia” (Firenze, Vallecchi); Introduzione alla pedagogia,
Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione, Firenze,
Vallecchi, Lettere sulla religione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini,
Milano, Vita e Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee
pedagogiche e morali di Rousseau, Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro.
Saggio di filosofia dell'educazione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino.
Saggi di pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia,
La Scuola, Scuola attiva, Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue
basi filosofiche, Milano, Vita e Pensiero, Didattica, Brescia, La Scuola, Pedagogia generale,
Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, La pedagogia del
Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà, Brescia, La Scuola, Il metodo
educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte e l'educazione all'arte,
Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia, La Scuola. Franco Cambi,
Mario Casotti, su treccani. Appello per
un "Fascio di educazione Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco
V. Lombardi, Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla
Neoscolastica, Ugo Spirito, L'idealismo
italiano e i suoi critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia
italiana contemporanea: il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico», Filosofia
e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia
Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti
e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico
degli italiani. 40 L’Appello per un Fascio di Educazione Nazionale , in « L '
Educazione Nazionale » , 1920 , n . ... L ' Idea Nazionale » , 18 , 20 , 21 e
22 aprile 1920 ) vedere M . Casotti , Dopo il Congresso Nazionale , in « La
Nostra Scuola » , 1920 , nn . 1 - È costituito un Fascio di
educazione nazionale fra gli insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori
dei problemi concernenti la ... Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi
Mario Casotti , il quale riconosceva l'opportunità di abbandonare ...
Casotti Mario , La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione moderna , Vallecchi
, Firenze , 1923 . Mazzoni Elda , L ' idealismo ... GENTILE GIOVANNI , Il
Fascismo al governo della Scuola , Sandron , Palermo , 1924 . SGROI CARMELO .
Casotti makes a dramatic break with actualism early in his career. A tutee of
Gentile, he nevertheless underwent a conversion in the 1920's and was called to
teach pedagogy at Milan in 1924. There he worked with Neo-Thomist scholars and
produced works on education with a distinct orientation. He is particularly
remembered as the founder and director of the review Pedagogia e vita, a
journal that took on new importance in the postwar years. A spiritualist who
came out of the idealist tradition, he is considered a pioneer in
neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin; he underwent a conversion,
and was called to the chair of pedagogy a Milan. He produced critiques of
idealism from a neoscholastic point of view. Eventually, he began a systematic
study of divided into three parts: teleology (the aim or end); anthropology
(study of the philosophical tutee); and methodology. In his
"anthropological" writings, he defends personalism against idealism
and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal
Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that
later became more widespread among Italian philosophers. AQUINOSaggi di
filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di S. Aquino, L'educazione
naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in
Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il
secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non
aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima
tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al
più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non
ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi più noti o non assurgevano a un concetto
filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza
agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo
stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta,
per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia
cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere,
di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di
trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile
stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo
fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri
occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è
anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità
d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli
altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il
campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo
di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or
non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche
studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione
moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va
subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha
nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di
parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di
libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa
dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella
Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più
deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso,
oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol
correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come
cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di
avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione
Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e
Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così
volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se
acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine
«autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione»,
che conviene solo a Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi
migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa
collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello
sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della
mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della
Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o
meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della
educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per
un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile,
che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital
bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle
quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di
rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i
suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato
abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di
pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio
discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più
fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia
fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico LA PEDAGOGIA DI S. TOMMASO D’AQUINO Saggi di
pedagogia generale MARIO CASOTTI Professore nell’Università del Sacro Cuore
BRESCIA, Editrice “La Scuola”, 1931 * * * INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di
S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125
Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia
cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari * * *
PREFAZIONE Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la pedagogia
cattolica in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso
come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere,
o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella
grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e,
in essa, al più grande maestro: San Tommaso d'Aquino. Altre volte vi
abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori
scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema
dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o non assurgevano a un
concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano
abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi,
questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però,
salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la
pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama
credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si
desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e
speculativo. Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno
sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea,
che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o,
almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore
la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra.
Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché,
dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo
possano lavorare dopo di noi. Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il
soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San
Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola
per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire
allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata
studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e
mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare
i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane,
dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in
relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or non è molto,
giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso
asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna,
si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito
completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle
teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole
vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di
«creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del
bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia
sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale
che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in
voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il
rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche,
tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di avere
amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale
che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi
annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma
alla maniera di S. Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi
se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine
«autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione»,
che conviene solo a Dio. Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi
migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa
collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello
sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della
mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della
Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o
meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della
educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per
un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile,
che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital
bergsoniano. La pedagogia di San Tommaso d'Aquino! Quando penso alle
immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è
tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma
non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi,
se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto
tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango
che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e
là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la
mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico. Da quelle teorie, anche così come le abbiamo prese
e tentato di rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri
avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un
passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo
pieno di speranze e di promesse. A coloro che nel riprendere il pensiero
di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà
e l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume
Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle
scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia
cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo
illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna educazione:
basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche come teorico e
pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose opere della
pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le faccia
conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri mettono
nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o rinnovate. Anche
questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed intelligenti dei figli
di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore (Piacenza) Convento di S.
Francesco, 4 Gennaio 1931, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. - I saggi
che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo
di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta
pei seguenti : L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana
Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima
della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia
cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso
d'Aquino Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza
temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso
ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a
tutto l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato,
anche nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo
ingegno che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina
al quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi
a testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge
colla fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di
sorta. Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in
quanto dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in
ordine a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma
c'è anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore
scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella
storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso
problema, colle medesime esigenze. Il problema, infatti, che San Tommaso
affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile
che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i
pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la
chiarezza desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di
solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e
delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più
urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i
metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere
senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso
permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di
discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e
didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo
direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la
storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri
sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive
della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in
concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci
nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga
ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere
che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia
dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data
dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità,
della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di
filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna,
quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo
occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso
lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo
«De magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con
tutto quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno
studioso. Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?»
domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno
sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile
l'educazione?». Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e
descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che
cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo
rendono intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna
cominciare dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi
tanto malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è
offerto dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte
quelle particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi,
nella pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre
l'educazione stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente
essenziale e caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è
possibile, davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione
medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un
soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede
determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste
stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e
lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro
che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in
virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed
attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De
Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa
impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e
scaltrite filosofie dell'educazione. * * * Posto così, il problema dell'
educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche
pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il
formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno
sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un
soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate
cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una
contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine
«trasmettere» o «comunicare» o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi
a definire l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se
non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico
del processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale,
allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o
cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò
che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la
scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano «trasmettere», nel
significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto
interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto
impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è
impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia
spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato
problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la
difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due
soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa,
e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di
ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo
meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la
maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su salde
basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza (mentovata,
appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava interrogato
da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a dimostrare,
indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello stimolare o
nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando, cavi fuori la
scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al discepolo una
scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più tardi in tutta
la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la dottrina
dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione: dottrina, cioè,
che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la concezione filosofica
colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria dell'autodidattica
infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più contribuito alla sua
diffusione) permette una grande varietà e latitudine di giustificazioni
filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che immagina il sapere
infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo via via scoperto e
reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al soggettivismo estremo il
quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la sua scienza nell'atto
stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall' insegnamento e dalla
scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir meglio, alla chiara
consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua essenza, e della
quale non può mai spogliarsi. II Ora, di dottrine che potevano concludere
in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne aveva presenti due.
Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto diverse, anzi, quanto
può essere diversa una dottrina vera, e vera di una profonda verità, ma
incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma inconsistenti
sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da Sant'Agostino nel
suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella interpretazione di
Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita attraverso il
commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in un sistema
panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava anticipare in
pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto soffrire il pensiero
moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere subito il diverso
atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e verso l'altra delle
due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a ravvicinarle nel corso di
quella discussione dalla quale dovevano limpidamente scaturire i concetti
fondamentali della pedagogia tomistica. Il De Magistro di Agostino è a
sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto conto, si capisce, d'ogni
differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un modello nel suo genere.
Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa, come non si arresterà
poi l'indagine di S. Tommaso, ai particolari problemi della pedagogia e della
didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui s'appoggia la filosofia
dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S. Agostino, né più né meno
di S. Tommaso, incomincia da questa domanda. “Come è possibile, cioè che un
soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate
cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende in esame il mezzo
principale e più appariscente, che sembra appunto garantire tale comunicazione
tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in genere: il
linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o scritta, con
tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche ond'è
accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale, se
così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette la
mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente
critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente
l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul
linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può
rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva
(spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una
esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica
realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col
dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione della
scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta,
tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più
concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa,
per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha
sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od
«oggettivo», ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento
molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non
ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi
accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia
il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia
deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere
che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare
l'equivoco devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché,
effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non sono
identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete la
indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un
segno della parete: né più né meno della parola trisillaba «parete» [Cfr. S.
agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6]. Segni sensibili: ecco la natura
del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno
appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo
già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo,
allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se
non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La
parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente,
proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di
copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non
col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i
copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la
prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in
relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri,
per intendere il suo significato [Op. cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i
segni che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere
i segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben
lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può
significargli qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il
che vuol dire ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva:
la possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal
maestro allo scolaro. Ed ecco la conclusione. Le parole non possono
essere veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni
sensibili, invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto
interno della mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che
le vengono date «Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose
che sentiamo attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo...
per le cose intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore».
E che cos'è questa verità? «...colui che è consultato insegna: quel Cristo che
fu detto abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna
Sapienza di Dio; chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a
ciascuno si apre, quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o
buona volontà» [Op. cit. cap. XI, 38 e XII, 39]. Che significa, appunto,
concludere a una vera e propria autoeducazione nella quale non il maestro, ma
solo Dio infonde direttamente il sapere allo spirito umano, ch'è precisamente,
come abbiamo notato altra volta, una delle possibili giustificazioni, in sede
filosofica, dell'autodidattica, e si trova, un pò come tutta la filosofia
agostiniana, sulla stessa linea del platonismo e, in questo caso, della sua
celebre teoria della reminiscenza. Dio, dunque, è l'unico maestro
dell'uomo: l'unico maestro al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà
della comunicazione fra soggetto docente e soggetto discente. Affermazione
giustissima certo, sotto l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve
riconoscere che Dio può insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume
intellettuale e la verità, ma appare evidente che il magistero divino debba
essere la causa prima e il fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione
insufficiente sotto l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare
addirittura la possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il
problema, dal quale ha preso le mosse, dei rapporti fra maestro e
scolaro. Nonostante gli spunti geniali della sua ricerca, Agostino non riesce
che a far sentire più acute e tormentose le difficoltà del problema stesso,
cioè, in ultima analisi, a farci desiderare con maggiore intensità una
soluzione veramente razionale, che è infatti il grandissimo merito del De
Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà precisare, dovrà, talora, rettificare
dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma la sua pedagogia non potrebbe poggiare
così in alto, se l'opera di Agostino non le offrisse già una base sicura: l'impostazione
rigorosamente critica del problema, che il De Magistro tomistico riprenderà
tale e quale. III L'altra corrente filosofica alla quale guardava San
Tommaso nell'impostare il problema del suo De Magistro è, certo, ben lungi
dall'avere la chiarezza o, meglio la molteplicità di documenti e di
manifestazioni che oggi permettono a noi di accostarci con tanto profitto al
pensiero agostiniano. Poiché, ancora, il Renan nella sua opera su Averroé e
l'averroismo era costretto a considerare l'averroismo piuttosto come una
tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso le confutazioni che ne avevano
fatto gli avversari, che come un insieme di teorie positivamente sostenute
negli scritti di determinati autori. Studi più recenti hanno cambiato questo
stato di cose: dopo il notissimo saggio del Mandonnet su Sigieri di Brabante,
oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di alcuni averroisti, ma possediamo
alcuni testi di notevole interesse, i quali ci permettono, in ogni caso, di
asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo il 1230, qualcosa di ben più
reale e concreto che una semplice tendenza. Il che, del resto, appare
chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che passa già, in questo
ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De unitate intellectus, e
l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto quindici anni dopo: dove
l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le tesi averroiste fondandosi
sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di polemizzare contro una
dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente insegnata. In ogni modo,
però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è ancora ben lungi
dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi problemi che fa
sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da augurare e da
sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla luce in un
prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior esattezza la
stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella questione disputata
De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella questione 117 della
Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell' altra San Tommaso
attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra maestro e scolaro, e
della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro uomo. Ora,
l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale quel
problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più
probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina
averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia
filosofica intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a
questa domanda. Comunque, se circa questo problema della possibilità
dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine
all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può
essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo
che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo
come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con
intenti nei due casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina
agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo
già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la
tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella
incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità,
non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie
incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo
benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e
che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi
fondamentali dell'averroismo. L'averroismo, infatti, qualunque possa
essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo
fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si
potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura
dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda
la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani
dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a
un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella
mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e
dell'io trascendentale. «Quod intellectus omnium hominum est unus et idem
numero» [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si
cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate dallo stesso
Arcivescovo nel 1277: «Quod scientia magistri et discipuli est una numero...»
Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad
sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi
contro l'averroismo definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo,
ora, addentrarci nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che
questa dottrina coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema
della conoscenza ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla
polemica di San Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate,
qualunque fosse la maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo
intendeva fondarsi su ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto
del pensiero sembra non potersi attribuire in proprio a questo o a quel
soggetto pensante particolare, ma doversi attribuire invece a un intelletto
unico che si rifrange, sì variamente attraverso le singole anime e i singoli
corpi da esse informati, ma che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che
illumina in diverso modo i vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le
differenze fra i singoli soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale
sembravano, cioè, agli averroisti differenze che cadessero, se così ci si può
esprimere, su un piano diverso da quello nel quale si svolge la funzione del
pensiero vera e propria: differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto
che il pensiero [O, al massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima
sensitiva. V. quanto diciamo a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in
quanto forma dell'uomo, qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno
del corpo. Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale
l'averroismo ben merita di essere chiamato, pur colle debite differenze
d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte,
ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più
evoluto e raffinato del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono
trarre da questa tesi dell'intelletto unico in ordine al problema dell'educazione?
È chiaro: se l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è uno solo anche nel
maestro e nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due soggetti, ma un
soggetto solo, almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta
quella tal difficoltà della «comunicazione» fra maestro e scolaro che
tanto aveva tormentato Agostino. Il maestro non ha più bisogno di comunicare
dall'esterno collo scolaro, per la semplice ragione che l'uno e l'altro già
comunicano nella maniera più intima possibile, attraverso lo stesso intelletto,
che è unico in ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro si riduce, non
già al trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo scolaro perché disponga la
fantasia e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel
corpo)] in modo da attuare convenientemente quella scienza che già possiede -
allo stesso titolo del maestro - nell'intelletto unico. Così la teoria
averroistica accresce la sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i
quali si era dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la
sola teoria capace di spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema
dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro,
costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli
averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca, nella
quale non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità di
creare o, almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non
basta: la teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze
circa l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte
energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi
riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se
stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli
abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro,
finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle
difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e
fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la
pedagogia agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al principio
di questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto pensante
(il maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto pensante (lo
scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità, riducendo
l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare una linea
ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé con
Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo
rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una
fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna. Ma la teoria
dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si
considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si
riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori
arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche
condannate nel 1270 affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio
non conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo,
compresi gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza
divina, ma alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in
tutti i commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa
affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare
di «creazione» da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo
l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato
la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le
superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità,
se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata
riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto
diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol
perché si sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero
spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà
d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle
intelligenze. La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che
sta e si svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e
indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre,
anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere
addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause
prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo,
questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta
insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce
in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il
De Magistro di S. Tommaso. IV Il quale S. Tommaso due volte, nelle due
diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere
la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la
teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle
teorie metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, I, q. 117, art.
1, l'averroismo è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze
circa i rapporti fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della
conoscenza. Averroè, dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti
gli uomini e perciò ammise che il maestro non può causare allo scolaro una
scienza diversa da quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad
ordinare i fantasmi nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a
riflettere la luce dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione
della scienza. “ Et secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat
scientiam in altero aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem
scientiam quam ipse habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in
anima sua, ad hoc quod sint disposita convenienter ad intelligibilem
apprehensionem”. Dove bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima
sensitiva, alla quale appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo,
e, quindi, a differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo
soggetto e molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del
pensare si può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o
allo scolaro, non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito
solo all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così
dire, s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o
all'altro individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo
scolaro non sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno
abbia la scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e
due, per natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta,
invece, nel fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua
immaginazione in modo che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali
dell'intelletto unico; mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve
tuttavia disporli. Il maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel
senso vero e proprio della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo
scolaro a formare e ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente
l'espressione, alla luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima,
ma era come adombrata e annuvolata, di passare a risplendere in tutta la
sua chiarezza. Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura
impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il
vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui
giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti
particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare
la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già
faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie
moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro
deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare
il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e
separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste
singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del
pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro?
Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa
difficoltà amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il
termine medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta
di una soluzione che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come
la chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa
attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme
intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che
siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire
che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione
del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per
avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo,
Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico
intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)]. Difficoltà, si noti
bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i
soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire,
«immanente». Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità
o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si
chiede appunto se sia possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei
singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile.
Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa
alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare
dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi
argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama
alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria
averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie,
ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che,
nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e
scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro
sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel
1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da
una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta
soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro:
identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi
mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e
sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice
che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza -
numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma
che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella
che è nel maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum « ...docens non dicitur
transfundere scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia
quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in
discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in
sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria
dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema
della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti
pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che
se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in
rapporto fra loro. V Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non
è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in
generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa
prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è
Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui
che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato,
considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio,
e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di idealismo
monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il problema
morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che le forme
degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e da esso
fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti individuali.
Accanto a questa dottrina S. Tommaso ne ricorda, per criticarla parimente,
un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica, se non ci aiutasse il
riscontro con la citata questione 117 della Summa. Altri credettero, è detto
nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme, scienza, virtù, fossero,
anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e venissero poi soltanto in luce
per opera dell'azione e degli agenti naturali: come se tutte le forme delle
cose fossero già immanenti nella materia. «Quidam vero e contrario opinati
sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita, nec ab exteriori causam
haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem manifestantur: posuerunt
enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu in materia latentes» [De
Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della Summa è detta opinione dei
Platonici "opinio Platonicorum" quella secondo la quale gli agenti
naturali preparano soltanto a ricevere le forme che la materia acquista per
partecipazione delle Idee. «Sic etiam ponebant, quod agentia naturalia
solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit materia corporalis
per participationem specierum separatarum» [S. Theol. I, q. 117, art, 1 (in corp.)].
E il richiamo alla concezione platonica è efficacemente riconfermato dal De
Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di questa teoria si menziona appunto
il concetto che all'anima individuale sia concreata la scienza e che, perciò,
l'insegnare e l'imparare in altro non consista se non nel ricordarsi che fa
l'anima della scienza già posseduta fin dall'inizio e poi obliata col suo
ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè precisamente la dottrina platonica
della anamnesi, che è appunto, come sappiamo, una delle più antiche
giustificazioni della autodidattica. La dottrina platonica, dunque (che è
anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la dottrina agostiniana) e la
dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto contrapposte, come potrebbe
avvenire di una teoria materialistica e di una idealistica, ma anzi poste sulla
stessa linea, come due forme diverse di un medesimo idealismo. E,
infatti, quanto all'insegnamento, che differenza ci può essere fra la teoria
averroistica che concede al maestro solo di stimolare lo scolaro a disporre i
suoi fantasmi in modo che lascino passare la luce dell'unico intelletto la
quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e la teoria platonica che vede
nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che il corpo e i sensi
frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che già possiede, ma
ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe aggiungere, fra queste
antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno che nel maestro e nello
scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi di un Soggetto solo, per
cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa scienza e lo stesso pensiero
del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza oscuro e involuto e che
l'insegnamento avrà per unico compito di render più chiaro ed evoluto? In
realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e autodidattica. Nel
combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in senso averroistico, S.
Tommaso ha effettivamente innanzi a sé già i motivi fondamentali di quella che
sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la pedagogia idealistica
moderna. E all'autodidattica e all'idealismo che ne è il fondamento, S.
Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul magistero, di
togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal presentarsi come
l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le difficoltà inerenti al
problema educativo: prima fra le altre, si capisce, quella riguardante la
possibile «comunicazione» fra maestro e scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé
e nel suo interno la scienza, come potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto
che per S. Agostino un argomento fondamentale contro l'efficacia didattica dei
«segni» ond'è intessuto il linguaggio era proprio questo: o lo scolaro già
conosce le cose da essi significate, o non le conosce: se le conosce, essi non
servono a insegnargliele, se non le conosce, non capirà nemmeno i segni.
A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro il dilemma, col richiamarci uno
dei più importanti caratteri della conoscenza, che non è un oggetto o una cosa,
la quale o c'è o non c'è, ma un processo che si svolge per gradi e si può
considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro in sé la scienza,
dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo senso, sì, giacché,
per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé non solo l'attività
conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni concetti primi, alcune
«forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero (l'essere, l'uno, la
sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale offertoci dalla
sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri concetti. E se
ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi su questa teoria
tomistica della conoscenza, che non è affatto un «innatismo» simile a quello,
poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio «apriorismo» capace di
richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e con una consapevolezza
critica assai minore del tomismo doveva costruire più tardi la filosofia
moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che aveva
costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'«a
priori» nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra
«a priori» ed «a posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che
riconosce un «a priori» nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due
teorie estreme sopra ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso
completo della scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione
che per partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si
vuole, nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività
dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam
scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare
immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o
le «categorie». Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni
scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti
primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro
concetto e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe
formare. Così come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note
musicali sono contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia
escogitato o sia mai per escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette
note musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente,
esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto
vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta
tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in
atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata
o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi,
poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro
sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il
maestro gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in
potenza ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in
quanto possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è
contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle
determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del
maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo
scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera
del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa
cavarne fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è,
secondo San Tommaso uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana:
essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività
sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti
i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che
percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente
nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle
che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre
che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per
mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De
Mag. Art. I (ad XII. mum) « ...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia
consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus
implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per
officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando
»]. L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi,
mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e
immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed
è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella
scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi
mediante il processo del ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno
cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse,
non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI. Sia
concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria di
S. Tommaso riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato
origine a delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente
contraddetta neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della
conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei
primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività
dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto
loro, né dei primi principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è
risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone,
più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le
«categorie» di Kant, l' «io» di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli
idealisti moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè,
tutte le categorie ad una sola, quella dell'«io», resta sempre vero che esse
così si sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l'
«io» solo fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le
altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si
riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione
assai discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i
«principi primi» della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo
aspetto è dunque tanto «moderna» e critica come qualsiasi altra. Nessun
filosofo degno di tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato
quanto alle conclusioni e immediato quanto ai principi, della conoscenza
intellettuale. Appunto per questo l'attività intellettuale ha bisogno di
un «motore» (indiget... motore) che la faccia passare dalla potenza all'atto. E
ne ha bisogno proprio perché il processo della scienza pel quale dai principi
si ricavano le conclusioni, non è un processo che si svolga per una necessità
meccanica e fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i primi principi
debba conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave lasciato a se
stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte non è come
l'intelletto angelico che scorge immediatamente nei principi le conclusioni e
che con un solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece, scorge
immediatamente la verità dei primi principi, e quella di tutte le altre
cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi
principi stessi. Ora, proprio in questo processo di riduzione ai principi e
deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare,
sia perché può non avere la forza e la maturità mentale sufficiente per
effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il
maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle conclusioni: «
inquantum proponit discipulo ordinem principiorum ad conclusione? qui forte per
seipsum non haberet tantam virtutem collativam » [S. Theol. loc. cit]. Ma
il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di conoscenze, il lume
intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra maestra: l'esperienza, o,
meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi principi, i concetti primi e per
sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro animo, forme a priori,
disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al primo stimolo della
esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi non producono nuove
conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati che l'esperienza
sensibile ci offre. Coi concetti di «uno», di «essere», ecc. (primi principi)
io non posso formare i concetti di «animale», di «vegetale», di «uomo» ecc. se
l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini, vegetali,
animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali comuni io
formo appunto il concetto di «animale», «vegetale», «uomo » ecc. Processo che
S. Tommaso descrive così : «Cum autem aliquis hujusmodi universalia
principia, applicat ad aliqua particularia, quorum memoriam et experimentum per
sensum accipit, per inventionem propriam acquirit scientiam eorum quae
nesciebat...» Non basta, cioè, che ci siano i primi principi, occorre che ci
siano anche le cognizioni particolari da ridurre ad essi; se no il processo che
abbiamo descritto prima, col quale la mente umana conosce la verità, non
potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste particolari nozioni manca, o
meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che ha esplorato la propria
esperienza sensibile molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco un altro
modo col quale il maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto, delle
nozioni o proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa saggiare
da sé al lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua osservazione oggetti
ed esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le cognizioni stesse
[«...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales, quas tamen ex
praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua
sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus
intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae». S.
Theol. loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del
maestro: procurare allo scolaro «aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e
strumenti di lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile,
sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur
senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li
adopera. Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo
la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che
da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume
intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa
facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per
intervento diretto della Causa Prima, sibbene per intervento di una causa
seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la
potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause
seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un
effetto decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè producessero qualche
cosa «...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum
quod sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha
conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser
cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza
di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi
sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto
l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e
platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico,
o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli
agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale.
Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del
maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva
d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore:
nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. * * *
Ma, e quel tale, difficile problema della «comunicazione» fra maestro e
scolaro? E quella tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i
puri segni sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto ? Per
rispondere a queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che
saranno, in ogni tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti
all'autodidattica. E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal
maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio
di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa
parlare, in genere, di «passaggio» della scienza dal maestro allo scolaro? Un
oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso oggetto,
uno e identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando sempre
una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa scienza
del maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e contenga,
cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del maestro.
Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra loro come
ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre anche se
fossero uguali persino nelle più insignificanti particolarità, come due
macchine di una identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto unico
di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza passi,
quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri come lo
scolaro possa formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo animo -
una propria scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla scienza del
maestro. In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche oggi) che
siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo sostanzialmente
identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno dall'altro, almeno
nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti, nel maestro? Il
processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo della
conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza, anzi
l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una scienza
senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e basta.
Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale apprendiamo
scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del modo col
quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol dire
uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né uno di
numero. VII Per esempio, nella medicina, il medico guarisce l'ammalato
non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo,
il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto è vero che
qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di medicine. Allo
stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo altro che
aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo intellettuale:
l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico per guarir
l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e fisiologiche, il
maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi intellettuali.
Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé, tanto è vero
che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa questo? Soltanto
che «...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur ars, et
per eadem media, quibus et natura» [De Mag. Art. I (in corp.)] il che, come è
ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia identica
alla natura. «Come la natura chi soffrisse per il freddo riscaldandolo lo
sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che l'arte imita la
natura. Similmente avviene pure nell'acquisizione della scienza, che,
ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose ignote nello
stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto» [Ibid. Si
cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze]. Dunque, la somiglianza
fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell' insegnamento
come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte non esista, o
si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal problema della
«comunicazione»? Com'è possibile che il maestro, imitando la natura, possa, sia
pur non «trasmettere» nel senso materiale della parola, ma anche solo provocare
o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla sua? Ecco, come S.
Agostino, ancheS. Tommaso non mette in dubbio che lo strumento principale della
comunicazione fra maestro e discepolo sia il linguaggio e siano i «segni»
ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla difficoltà che S. Agostino
aveva creduto insuperabile, di conciliare la materialità e il carattere
sensibile dei segni linguistici colla idealità e l'interiorità della scienza.
Poiché il «segno» del linguaggio ha, per S. Tommaso, una fisionomia tutta
speciale: è «sensibile», sì, ma d'una, se vogliamo così chiamarla, «sensibilità»
affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle qualità degli oggetti
materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile della sensibilità che
tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il «fantasma» o
l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed immateriale di
quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il fantasma
linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle sensazioni o
percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già l'esistenza dei
concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò, con essi, in una
relazione molto più immediata che non sia quella della sensazione coi medesimi
concetti. Facciamo un esempio. Si prende la legge fisica: «il calore dilata
i corpi». Che è quella legge? Niente altro che una «forma». Nella natura é la
«forma» di quel processo che è, appunto, la dilatazione. Ora una forma, nella
natura, può esistere solo come esistono in generale le forme in una materia,
come conformazione, cioè, di determinati oggetti o di un determinato accadere.
Nella natura la legge della dilatazione dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei
singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza che ne abbiamo è appunto la
sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre si dilatano. Potrei, dunque,
arrivare a formular la legge della dilatazione partendo dalle sensazioni e
percezioni pure e semplici dei corpi? Certo che potrei e posso, in quanto,
osservando prima il corpo a, poi il corpo b, poi il corpo c ecc. posso arrivare
e arrivo ad estrarre, da queste percezioni particolari, un concetto e una legge
universale riguardante la dilatazione. E come posso arrivarci io, posso
condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua volta i corpi a, b, c, e poi
ne tragga, se gli riesce, la legge della dilatazione. Si noti, però, la
difficoltà e la lentezza di questo processo. Quanti uomini hanno osservato
sensibilmente il dilatarsi dei singoli corpi, eppure non sono riusciti a
formulare la legge della dilatazione! Quanti videro i corpi cadere, e non ne
seppero trarre la legge della gravitazione universale! E si capisce: quella
«forma» che è la legge della dilatazione esiste nei corpi, ma non come forma
pura e come concetto, bensì come forma d'una materia. Come forma pura e come
concetto non la troviamo bell'e fatta, ma bisogna che la costruiamo noi, con
tutte le difficoltà e incertezze che ne seguono. Ma si prenda, invece, la
stessa legge della dilatazione qual è formulata in un trattato di fisica, o
dalla voce del maestro, con queste precise parole: «il calore dilata i corpi».
Anche qui essa viene espressa con segni sensibili, all'udito o alla vista, le
parole. Segni tanto sensibili quanto lo è appunto la percezione dei corpi
a, b, c. Ma con questa differenza. Che per poter dire o scrivere le parole «il
calore dilata i corpi» si è già dovuto formare il concetto della dilatazione
colla legge relativa. La legge della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non
più come forma di quell'accadere materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi,
ma come forma pura nella mente del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle
parole non ha bisogno di tutto un complicato e difficile lavoro per cavarne
fuori la pura forma della legge scientifica, ma assume direttamente da esse la
legge in quanto pura forma o concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile
vedere mille corpi a dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma
non è possibile udire dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole «il
calore dilata i corpi» (udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far
finta) e non ricavarne la legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il
processo della visione e della sensazione si compie regolarmente senza essere
turbato in alcun modo, e cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione
i singoli corpi, non è detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge
della gravitazione o della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto
regolarmente le parole colle quali il fisico si spiega, io dovrò
necessariamente intendere la legge della gravitazione o della dilatazione, a
meno che qualche ragione, diciamo così, patologica non impedisca alla mia
lettura o audizione di svolgersi regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma,
svolto normalmente il processo, ne ho come necessaria conseguenza
l'apprendimento; nell'altro caso, no. È questa, forse, una delle più
originali caratteristiche della pedagogia delineata da S. Tommaso. Per la
quale, a differenza di ciò che succede in moltissimi altri sistemi pedagogici,
la parola del maestro non è né eguale né, tanto meno, inferiore in valore agli
oggetti esterni e, in genere, all'esperienza sensibile dello scolaro, come
accadrà poi, tanto spesso, nei vari metodi «intuitivi» od «oggettivi»
escogitati dalla pedagogia moderna, da Comenius in poi. Questo non vuol dire
certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza - abbiamo visto invece che la valuta
moltissimo - né che non le attribuisca tutta l'importanza che deve avere. Ma
fra gli oggetti sensibili che possono variamente essere offerti allo scolaro e
la parola del maestro c'è, per S. Tommaso, una differenza essenziale che
c'impedisce di considerare quest'ultima puramente come uno fra gli altri
oggetti di possibile esperienza per lo scolaro. Giacché è vero che in un certo
senso "le stesse parole dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto
al causare scienza nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori
dell'anima: perché e dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni
intelligibili". Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole dell'insegnante
causano scienza "più da vicino" che non i sensibili che esistono
fuori dell'anima, in quanto le parole sono segni delle intenzioni intelligibili
[De Mag. Art. I (ad XI.nium) "ipsa verba doctoris audita, vel visa in
scripta, hoc modo se habent ad causandum scientiam in intellectu sicut res quae
sunt extra animam, quia ex utrisque intellectus intentiones intelligibiles
accipit; quamvis verba doctoris propinquius se habeant ad causandum scientiam
quam sensibilia extra animam existentia, inquantum sunt signa intelligibilium
intentionum "]. E sappiamo già che cosa vuol dire quel "più da
vicino", (propinquius) che non è punto indice di vicinanza o lontananza
materiale, ma solo del fatto che abbiamo visto, dell'essere cioè presenti nel
linguaggio le forme pure già astratte dalla materia ed esistenti nella mente:
le "specie" o "intenzioni" intelligibili; le quali invece
non sono presenti negli oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro
le può assumere senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe
assumere dalle cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non
mediatamente, attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui
risultato finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle
particolari forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta,
scoprire. In fondo, è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S.
Tommaso accoglie e sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo
sensibilmente allo scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola
percezione, quali siano gli elementi essenziali e quali gli elementi
accidentali della cosa, quali gli elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua
attenzione e quali quelli che può anche trascurare. E da questa incertezza,
causa feconda di errori, non si esce se non aggiungendo, alla percezione della
cosa, l'insegnamento verbale del maestro, che solo può metterci innanzi le
forme già astratte dalla materia e farci subito distinguere l'essenziale
dall'accidentale, l'oggetto proposto al nostro pensiero, da altri oggetti reali
o possibili. Così il linguaggio del maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza
dello scolaro, è proprio quello che la spiega, l'ordina, l'organizza e,
insomma, le dà un vero significato e valore. È risolto, così, quel tal
problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? Certo, ed è risolto
proprio col rispettare ambedue quei dati del problema che a prima vista
parevano inconciliabili: il carattere sensibile del linguaggio, o, in genere,
dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si serve il maestro per operare ab
estrinseco sulla coscienza dello scolaro e, insieme, il carattere affatto
intimo e interno che sempre ha la scienza nell'animo dello scolaro medesimo,
poiché vera «causa» di scienza allo scolaro - San Tommaso non si stanca di
ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro, ma il lume intellettuale e i
«primi principi» dello scolaro stesso, il quale scopre la verità (o la falsità)
di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo soltanto le forme
intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i primi principi,
mercé quella attività collativa nella quale consiste il raziocinio, attività,
senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il maestro può stimolare e
aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo sostituire. L'opera del maestro —
altro errore che San Tommaso combatte continuamente negli argomenti acclusi al
primo articolo del De Magistro — non è già un'opera creativa; come se il
maestro dovesse dar lui al discepolo il lume intellettuale e i primi principi.
Ma ciò non vuol dire che sia un'opera superflua e inesistente: crederlo, è
l'illusione di coloro che scambiano l'attività colla creazione, l’operare col
trarre dal nulla; e non potendo riconoscere in un uomo qual è il maestro
un'attività creativa propria solo di Dio, finiscono col negargli ogni e
qualsiasi attività od operazione. L'arte dell'insegnamento non crea la
natura intellettuale; la presuppone. Ma la natura stessa dell'intelletto umano
è così fatta che senza l'insegnamento rimarrebbe una vuota potenza non
realizzata, o, almeno, realizzata attraverso un processo assai lento e
malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi si trova nel secondo
articolo del De Magistro, che è una delle critiche più brillanti e spregiudicate
che siano mai state fatte all'autodidattica. * * * VIII Articolo
paradossale in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni
abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un
fatto evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il
centro e il principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di
se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno,
siano, in certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde
senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci,
intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua
dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha
fondato la dimostrazione precedente. E, anzitutto, si faccia bene
attenzione alla differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente
simili: «acquistar scienza da sé ed «esser maestro di se stesso». Che cosa vuol
dire «acquistar scienza da sé» secondo la dottrina tomistica? Niente altro se
non quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i
primi principi. Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla
esperienza sensibile egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad
accogliere nella sua mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme
che, nella natura, esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto,
prima, un esempio a proposito della gravitazione e della dilatazione. È questa,
così ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui
estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori. Supposta, da
parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione della
esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a
che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che
chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato.
Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè,
la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De
Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar
confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio. Ma
se questo processo é, innegabilmente, «acquisto di scienza», è poi anche
«insegnamento», o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è
un'operazione che si svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò,
l’esistenza delle forme intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale
noi sappiamo che quelle forme non possono averla nell'esperienza sensibile e
nella natura, dove sono soltanto forme d'una materia: debbono averla nella
mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di
certo, altrimenti egli non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque
nella mente di un altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un
processo che lo stesso soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione
che ne consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua
mente le forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come
possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente
esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge
della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei
corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e
non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura
legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non
avrei bisogno di cercarla né di impararla. Sembra un'oziosa questione di
parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi
l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina)
per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene
due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di
estendere a una vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è
caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e
l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale
acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno
per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e
propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto
l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per
potersi parlare di vera e propria «azione» (azione «perfetta») é necessario che
l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non
accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)].
Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una
malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non
contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce
la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio
d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è
necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da
essere una vera e propria «azione» (azione perfetta) occorre che nell’agente sia
già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade
soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in
sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà
poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio
è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la
causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile,
contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili
come forme pure) ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al
suo essere di scienza e di forma pura. E questa non è - si badi bene -
un'astratta escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario,
S. Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio in tal
modo. Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo
all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del semplice
insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che
dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a
quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e
giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no
non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste
precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua
cultura, il processo normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra
un filo, e merita elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e
spedito modo di camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo
tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per
camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche
dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo
migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e
che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà
l'autodidatta merita lode «...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la
ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si
segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più
perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento» [De Mag. Art.
II (ad 4.tum.) «quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit
perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad
sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per
doctrinam»]. Né si creda che quel ridurre a scienza «più speditamente»,
sia solo una sfumatura: anzi, c'è sotto una questione di principio, così
importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la
differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe
filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo. C'è
la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a
questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della
filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa,
s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si
crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la
filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente
realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito
sempre facendosi altro da quello che era prima. Ora, un atto di questo
genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che
non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di
completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la
filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero
nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e
futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di conoscere, non già come
atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser
causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo
può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il
seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra
pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di
un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il
supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero
in quanto è una pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come
supporre che il figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla
«possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere
già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta
completa. Ecco la differenza fra la scolastica e l'idealismo o il
materialismo moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà procede, in
fondo, da una pura potenza, da un germe, un X spirituale o materiale che non è
nulla al principio, ma tutto si fa o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non
essere. Secondo la scolastica, la realtà procede da un Atto assolutamente puro,
senza mistura di potenza, nel quale sussistono eminentemente e perfettamente
realizzati e realizzantisi ab aeterno, tutti quei valori che, nella realtà
stessa, la nostra mente poi rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo
d'ogni cosa. Ed ecco, quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio,
fra l'insegnamento e l'autodidattica, fra lo «scoprire» e l'imparare. Si
capisce che per coloro i quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la
doctrina presupponga l'inventio: se prima non abbiamo «scoperto» o tratto dal
nulla la scienza, che cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso
e la scolastica, è vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi
possiamo, cioè, scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in
atto, se no, che cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella
materia che ci dà la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non
esistessero come pure forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve
necessariamente risalire come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes
aeternae, come anche la scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte
le cose. Di qui il valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e
proprio insegnamento, poiché, nella mente del maestro, la scienza ha
un'esistenza d'ordine superiore a quello che ha nella natura e nell'esperienza:
una esistenza, se così ci si potesse esprimere, più lontana dalla materia e più
vicina a quella delle rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il
genialissimo concetto tomistico dell'insegnamento, fondato proprio al polo
opposto dell'autodidattismo moderno, non sull'imperfezione e sul divenire, ma
sulla perfezione intrinseca della scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra
irraggiare ed effondere, nel suo atto, dalla mente del maestro alla mente dello
scolaro. * * * Andare più oltre vorrebbe dire superare i limiti della
presente trattazione, addentrandosi in una esposizione analitica del De
Magistro, che, nella abituale densità e concisione del pensiero tomistico,
presenta quasi ad ogni passo dovizie di dottrina, il cui adeguato svolgimento
produrrebbe tutta una organica teoria della educazione da esporsi in un vero e
proprio trattato, e non in un breve saggio [Chi desidera approfondire
l'argomento può confrontare il nostro volume Maestro e Scolaro. - Soc. Ed.
«Vita e Pensiero», Milano, 1930]. Basti qui ricordare, per concludere, che a
questo punto il pensiero di S. Tommaso si ricongiunge a quello di S. Agostino,
dando origine a una concezione della scienza e dell'insegnamento che si può
considerare caratteristica dell'età in cui il sapere umano s'impose la più rigida
e, insieme, la più feconda disciplina intellettuale: vogliamo dire il Medio
Evo. La scienza come doctrina piuttosto che come inventio: non perché
l'invenzione non possa e non debba avere la sua funzione legittima, ma perché
la doctrina è un organo superiore, il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio
stesso si è servito per ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo
la sensibilità, il lume intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a
tutte le incertezze d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria
scienza, rivelata dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai
Padri, ai Dottori e a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si
estende attraverso i secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in
questa visione della scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo
preferisce insistere sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla
operazione dello Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi,
l'altro mette in luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero
umano che Iddio medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della
Rivelazione, oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente
naturale. Ma anche per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema
dell'educazione e dell’insegnamento non si vede tutto, se non si
considera, oltre che sotto l'aspetto naturale, sotto l'aspetto
soprannaturale. Per questa parte il De Magistro tomistico non s'intende, senza
ricorrere a quella triplice analisi della scienza qual è nella mente divina,
nell'intelligenza angelica e nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa
Theologica: analisi alla quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano
della necessità e possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande
metodo della Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e
l'esistenza della Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere,
disciplinare, consolidare l'opera della ragione. Taluno, certo, obietterà
che questo metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività
e la libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere
passivamente un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio
Evo, come l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità.
Obiezione tanto impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e
fondata sull'equivoco. Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel
conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve
dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione,
anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa,
colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria
violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che
riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma
libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e,
perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più
sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina
rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella
sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un
pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento
della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben
lungi dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto
liberare le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia
moderna cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto
diversi come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché
per essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse
vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito
lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina
completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse
lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia
di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così,
affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei
gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto
«medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo
scorso, con tanta efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa
pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa,
oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro
caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di
una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa
come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato?
Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale
(Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani,
Firenze, 1927) In due sensi può parlarsi di educazione naturale o
soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel
primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od
atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice
esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato,
soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti,
normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i
quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti
dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che
s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via
nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e,
viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della
lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma
soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la
pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi
generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro
possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente
costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù,
potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza
dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o
l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con
l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi
s'assimila attraverso le specie eucaristiche. Prendiamo, invece, un
maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo
in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale
per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché
nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un
libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la
nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile
alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una
rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito
attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce
nella religione i suoi scolari. Evidentemente, oltre questi due casi in
cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e
viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il
metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo
tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti
considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e attitudini
naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia vengono
insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono agli
educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così
numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o
mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti
che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe,
nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un solo, ma tipico esempio: la
discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e
quindi abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino
allora trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro
inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e
risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le
lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i
rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo
che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così
profondamente nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con
quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto. Io non
parlerò adesso - poiché non è mio compito - della educazione in quanto
soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto.
Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e
neppure in quanto veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi
limiterò, dunque, a parlare dell'educazione naturale. II Sarebbe
abbastanza interessante poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto
trascurate, quando non addirittura respinte e derise come assurde dagli studiosi,
le più importanti concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero umano si è,
attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in un lavoro
di così vasta mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che tutte le più
importanti teorie dell'educazione sono, in un certo senso, naturalistiche,
perché tutte confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo, in una
immanente capacità della natura umana, che le permette di svolgersi colle sue
proprie forze, verso la verità e la moralità. Capacità che, essa stessa, si può
coltivare e aiutare con mezzi puramente umani come l'insegnamento, l'esempio,
il governo, la disciplina, dei quali è formata, appunto, l'educazione
naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e nelle forze stesse
della natura umana e nella possibilità di aiutarle, l'educazione sarebbe un
perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la verità e la moralità, egli
non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra, come effettivamente non la
conoscono né la praticano gli animali, i minerali o le piante. Se, d'altra
parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la natura umana non
potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto varrebbe chiudere
tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i maestri, e lasciare
che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non si sarebbe trovato
mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche nell'educare i propri simili;
o, se si fosse trovato, la disperata inutilità del tentativo, lo avrebbe,
subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi, libri, maestri, non sarebbero
mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa legittima persuasione intorno alla
possibilità di educare l'uomo con mezzi naturali, tutte le teorie pedagogiche
si debbono trovar concordi: né la pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare
eccezione. E lo dimostra la storia del cattolicesimo, il quale, nonostante la
grandissima importanza da lui attribuita, nell'educazione, all'elemento
soprannaturale, ha sempre rifiutato come eretica, la teoria la quale afferma
impossibile all'uomo il conseguimento del vero e del bene senza una positiva
rivelazione divina e proclamando «errori» la filosofia e «peccato» le virtù dei
pagani, volentieri condannerebbe al rogo come futili sciocchezze, ogni scienza,
ogni progresso, ogni civiltà. Così, invece di gettar via la scienza del
paganesimo, il cristianesimo poté mantenerne viva la fiaccola nei suoi
chiostri, nelle sue scuole, nelle sue Università e, ricongiungendo
sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare intatta quella tradizione della
civiltà occidentale che ci fa, oggi, giustamente orgogliosi. Ma, oltre
questo «naturalismo» ch'è, in fondo, una ragionevole fiducia nelle forze della
natura umana, la quale, se ha in sé delle tendenze al male e all'errore, ha
pure in sé delle tendenze altrettanto spontanee al bene e alla verità; oltre
questo saggio naturalismo senza cui non è possibile parlare neppure di
educazione, molte dottrine pedagogiche, specie moderne, hanno in sé un altro
«naturalismo» niente affatto utile o necessario all'educazione. Tale
naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha nella sua propria natura
le energie necessarie al suo ordinato svolgimento: afferma che ogni educazione
si riduce allo spontaneo svolgimento della natura umana secondo le proprie,
immanenti leggi costitutive. E non si limita a riconoscere che l'uomo ha nella
sua propria natura una tendenza al vero e al bene, cioè che è fatto, in ultima
analisi, per la conoscenza dell'uno e l'attuazione dell'altro, ma afferma che l'uomo
solo è a sé stesso il vero e il bene, perché appunto nello svolgimento delle
sue umane energie, o per sé prese o nei loro rapporti colla circostante natura,
consiste il solo vero e il solo bene possibile. E non si limita, quindi, ad
affermare la legittimità d'una educazione naturale dell'uomo, ma respinge
come assurda e satireggia come ridicola pur l'idea d'una educazione
soprannaturale, o, comunque, di un elemento soprannaturale nell'educazione.
III Distinguiamo, anzitutto, due cose che si sogliono, per lo più,
confondere: la possibilità d'una educazione naturale, e la sua effettiva
realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi, sia fatto per essere educato
al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti gli uomini siano,
effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli uomini arrivino, in
realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene, almeno nella misura
necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua esistenza umana,
nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui tutti i viziosi e
gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra. Si può, è vero,
sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo ed ignorante del
mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità, che nemmeno il
peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo all’animo,
qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere umano, fino a
un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è facile obiettare
che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente, o la verità che
regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità e quella bontà
di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità delle cose, e non
da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé, esse si distruggono
e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la delinquenza nel
delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante come il tipo
dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si confuta da sé. Se
ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come lo Spirito di
Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato in ogni
condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da lungo
tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato i
fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e
le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione
dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo
inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto
dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva
affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa
possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal
genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole
differenza che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione
effettiva. Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce,
almeno, a portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza
del vero e alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei
santi, degli scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini,
capaci lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è
troppo facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili
l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non
dovrebbero esserci delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni
dovrebbero chiudersi, gli ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte
ordine pace e armonia, non conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita;
la corruzione non insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure;
dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua lieta canzone, e la gioia e la
serenità soltanto tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito
incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere
questo sogno svanire come nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più
modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o
gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non
sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la
competenza, l'attitudine al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le
cantonate! Ma poi, badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di
maggioranza o minoranza, che la scienza non si fa come i congressi o le
elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente diffusa avesse reso tutti
onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti intelligenti, e di fronte a questi
fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse uscito dalle nostre scuole
vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io dico che quest'uno solo basterebbe
colla sua esistenza per dare una solenne smentita a tutti i maestri e i
pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si vanta la nostra civiltà.
Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo - uno solo - circondato da
tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato ai migliori
maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose abitudini, dal quale
poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia - quand'anche non si
potesse citare che un solo esempio di questo genere - l'educazione umana,
l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di fatto (benché capace
di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far diventare realtà
concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al vero che esiste
nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando si è persa una -
una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei non è stato
sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano, irreparabile
sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la natura stessa che
non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto educare coi nostri
sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e ci si mostra d'un
tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa, inaccessibile a tutti i
mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un fato misterioso contro cui
ogni nostro potere sembra disarmato. IV Finora abbiamo parlato in
generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche di cui è piena la
storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi. Vediamolo,
anzitutto, per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in
certo senso, dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee, mediante
quel loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente dell'uno
alla mente dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i ghiribizzi della
sua fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha
intorpidito, se il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la
chiarezza necessari, la lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro
imparato ciò che doveva imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi
che nessuno dei piccoli malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare
andamento delle cose, e per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha
già servito ci può ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle
idee, già usato per la lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni,
le quali dimostreranno se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il
maestro è riuscito, nelle sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando,
sventuratamente, così non fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche
il rimedio. Il linguaggio è sempre là per correggere, chiarire, spiegare di
nuovo, interrogare di nuovo, e dove non bastasse la parola parlata c'è la
parola scritta: libri, quaderni, appunti, riassunti e così via. Ebbene,
la storia della pedagogia, specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una
critica a questo semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è
sempre servita per istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà
servire. La parola, infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che
si possa trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal
maestro e chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno,
atto interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può
ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata,
come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale
spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi
nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione
chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il
paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e
già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è
ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a
questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro»
che vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad
astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo
in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena
di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue
un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più
lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche,
semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende
l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto
le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il
fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al
partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a chiarire,
spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo ripetere
altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la pedagogia moderna
ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione al
procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee astratte.
Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso all'intelletto,
dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza la cosa, l'idea
senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito: procurare, anzi, che
l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea sotto lo stimolo
della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo» che
innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da
augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le
istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo
effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e
applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza
sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un
oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun
significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto
assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel
prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della
sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si
rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole»
ascoltare, nessuna costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di
immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima
analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta
l'istruzione dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la
genialità di un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome
i maestri geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di
conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non
artisti, ricevono una istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile
la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da
solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è,
poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo,
troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto
superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la
teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile
ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche,
nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando occorre,
una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi garantisce
che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate: sono secoli
che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i pregi del
metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il deplorevole
insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere scolastico» è sinonimo
di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor oggi, in mezzo a tutta la
nostra civiltà, una migliore organizzazione dell'istruzione scolastica non s'è
potuta ottenere se non incidentalmente, in alcuni istituti-modello, in alcuni
ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi privilegiati. Nella maggior parte dei
casi, la scuola continua ad esser tutta spiegazioni verbali, definizioni
astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni e parole che gli studenti
ingozzano spesso senza intenderne nulla, per ripeterle tal quali agli esami, e
dimenticano subito dopo. E se un principio scientifico cosi evidente come
quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare per secoli una parziale e
incompleta realizzazione, che sarà di altre verità pedagogiche più astruse e
complicate, eppure non meno necessarie a un buon andamento dell'istruzione?
Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano messe in pratica? Ma
supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui l'istruzione s'impartisce nelle
scuole siano sempre e dappertutto i migliori possibili; supponiamo tutti i
maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi; supponiamo rimosse le condizioni
economiche e sociali che oggi impediscono, o limitano a taluno la frequenza
scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità sufficientemente istruita in
quelle fondamentali verità che importa all'uomo conoscere? Ahimè, non solo il
genio, ma anche la comune intelligenza concluderà che non è in poter nostro
ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un Galileo può formarsi nonostante
tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i più perfetti metodi del migliore
istituto modello debbono confessarsi vinti dalla impenetrabile stupidità di un
ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un altro gallina? Perché i procedimenti
che riescono bene con un alunno, falliscono con un altro? Domande alle quali
non si può dare che la solita risposta: dipendere il successo dell' educazione
o dell' istruzione, da circostanze imponderabili le quali variano caso per
caso. Il che significa, in fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il
limitato valore di tutti i sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale,
supposta anche nelle più ideali e favorevoli condizioni. V Questo, per
l'istruzione. Che cosa bisognerà dire per l'educazione, intesa come formazione
morale e, in genere, formazione della volontà? Se pare tanto difficile la lotta
contro l'ignoranza, che sarà della lotta contro la pigrizia, contro la
sensualità, contro l'orgoglio, contro l'egoismo, contro tutte le tendenze
inferiori della natura umana? Anche qui, la storia della pedagogia è tutta un
lamento sulla assoluta insufficienza e di questa educazione in se stessa, e dei
metodi usati per conseguirla. Uomini dotti, pur coi difetti dei loro metodi,
scuole e collegi e atenei ne producono abbastanza, ma uomini temperati, casti,
umili, pronti al sacrificio, generosi verso il prossimo? E si capisce.
Siccome la volontà non può muoversi alla cieca, senza il lume della conoscenza,
le difficoltà dell'educazione morale sono in certo modo doppie: sono, per una
parte, quelle stesse dell'istruzione, e per l'altra quelle specifiche dell'
educazione. È già difficile per le ragioni or ora esaminate, che tutti gli
uomini possano ricevere una sufficiente istruzione morale: che, cioè, il «non
rubare», «non dire il falso testimonio», «non desiderare la donna d'altri» e
simili precetti della morale naturale siano appresi da tutti, non come semplici
suoni di parole che si ripetono pensando ad altro, ma come nozioni positive che
suscitano una vera, interna convinzione. Ma, anche se questo si potesse
garantire, quando ciascun uomo vi sapesse dimostrare con eccellenti ragioni
filosofiche tutti i precetti della morale, si sarebbe raggiunto appena per metà
lo scopo desiderato. Non basta saperli quei precetti: occorre metterli in
pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e applicarli; e non basta metterli
in pratica una volta sola, bisogna farli diventare abitudine di tutta la vita.
Saper che non si deve rubare e, ciò nonostante, appropriarsi, quando si può
farlo senza pericolo, la roba altrui, predicar la temperanza ed essere
intemperanti, esaltare la castità e darsi al vizio, non significa certo essere
educati moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia moderna ha più criticato
nella educazione morale corrente, si è appunto il vecchio pregiudizio che basti
predicare e insegnare e far leggere libri o novellette morali, per produrre la
virtù: laddove l'insegnamento e la predica e la buona lettura, sono certo
necessari ma concludono poco o nulla se la virtù non è praticata e fatta
costantemente praticare attraverso le azioni. Il tirocinio effettivo
dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima base solida che
l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali debbono, per
imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che le idee
scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari. Ma
questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad
organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne,
tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i
muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più
specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio
della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria
pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle conseguenze
naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per converso,
avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia esperimentata
dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale teoria,
sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei casi dove
maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che il
fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla
rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della
finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il
mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero
del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il
rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo,
cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia
dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere
quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare
l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si
tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare,
pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe
peggiore del male. È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle
piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha
riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a
proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo
ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in
questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato
dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole
questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci
garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e
puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare
per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre
verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In
teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale
probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che
raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica.
In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che
variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta
per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si
fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono
sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali. Ma
l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di
quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale
ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta
proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla
virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di
addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di
falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce
ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce
l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si
tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo
sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a
giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e
fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E
chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre,
nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri,
tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a
favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni,
delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina?
VI Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare,
emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se
gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato,
l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona
scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze
imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi
elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato,
quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un
grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo
senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non
può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e
ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche
essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo
senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo
d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure,
nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto,
meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di
produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi
superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie,
l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e
morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione:
e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la
civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la
compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale
dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur
difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più
che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte
merito loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più
cognizioni che un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini
hanno imparato a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a
mangiare, bere e dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che
di questi progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi
di peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può
mai abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche
nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono,
secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si
ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso
desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un
figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità
ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con
tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere
feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli
altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e
realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in
quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe
giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo fondamento.
Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi è che
realizza quell'equazione misteriosa? È la forza stessa delle cose,
l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È la
razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed
onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle
loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue
istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono
ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza
sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo
della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire
nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro
pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore
alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la
storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde
nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si
possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così
perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari
è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto
ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi
è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la
ragione. «Materia», «spirito», «evoluzione o storia» sono tanti nomi del
mistero: tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro
singolo raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta. Ma sono nomi
oscuri e contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col
fatto stesso, dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla.
L'educatore sarebbe come il giocatore che arrischia il suo avere sulla
probabilità che i dadi o le carte o la ruota producano una fra le tante
possibili combinazioni. L'equazione fra possibilità e realtà si compirebbe a
caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece, un significato ben diverso, non
riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno sull'idea di una vaga razionalità
sparsa in giro per l'universo: riposa sull'idea di un potere consapevole ed
intelligente che dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il proprio
miglioramento, secondo un preciso disegno di cui a mala pena possiamo,
talvolta, intravedere qualche parte. Potere che compie, nonostante tutte le nostre
deficienze, l'educazione del genere umano anche là dove parrebbe temerario
tentarla. Potere che forma Dante e Galileo nonostante i difetti delle scuole, e
al quale si deve se l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano in orde
barbariche per abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio. Dio è
l'autore della misteriosa equazione che si compie tutti i giorni, nell'opera
educativa, fra possibilità e realtà. La pedagogia e la filosofia debbono
fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine soprannaturale
mostrando come il divino Educatore abbia compiuto e compia la Sua missione, sia
con una Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le verità e i precetti
morali onde avevano bisogno, senza le incertezze della scienza umana, sia con
una assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso la vivente azione
della Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed imprevisti che
alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la filosofia possono
garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante conclusione. Senza
ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche nell'ordine
puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso tempo,
irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente
necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione
naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione
intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione,
necessario di una necessità relativa e morale: utile nello stesso senso
in cui i teologi parlano della «utilità» della rivelazione. Ecco una
sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba
indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe
accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto,
arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la
forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La
natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente
educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso.
Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle
passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono
tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare
ad un uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono
macchine complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata
quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti
i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di
un pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i
maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo,
possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che
tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i
suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il
pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di
Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la
corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato,
nella notte. L'Anima della pedagogia. (Discorso tenuto per
l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “
Maria Immacolata » il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga
presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo studio
rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e
democratica, che sono — com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia
d'oggi.) Domando scusa se sono costretto a incominciare con l'affermazione
di una verità così poco peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è
fatta dall'edificio ove si tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli
orari, dai programmi, e nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti
e docenti; sebbene da quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo
animatore che, dimostrandosi capace d'informare di sé tali disjecta membra, le
stringa davvero in un organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità,
quanto più sono evidenti, tanto più spesso corrono pericolo di esser
dimenticate o non avvertite: come l'aria, della quale viviamo senza
accorgercene, o come — se mi perdonate il brusco trapasso — la felicità che si
va a cercare, talora, in paesi lontani, mentre si avrebbe sotto mano, piena ed
intera quanto alla condizione umana è dato raggiungerla, fra le mura di casa
propria. In particolare, poi, le verità riguardanti la scuola hanno avuto da
noi, in Italia, fino all'altro giorno, la curiosa caratteristica d'esser
proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da un notevole numero di persone,
ma di esser poi, con un accordo ancor più mirabile, dimenticate e violate nella
pratica da un numero ancor più notevole di persone fra le quali, sempre, in
primissima linea, coloro che avevano qualche potere in materia di politica
scolastica. Ad esempio, per restare nell'ambito di quel che dicevamo poco
prima, qual è il cittadino italiano immischiato comunque, per dovere od
elezione, nelle cose scolastiche, che non abbia, semprechè l'occasione e la
cultura propria glielo permettessero, fatto dei discorsi sull'«anima della
scuola», sulla sacrosanta necessità «di educare oltreché istruire», sull'
imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione un saldo indirizzo
ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei discorsi, formarsi
un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana nell'ultimo
trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera
quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor
scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa
all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé
l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei
ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario.
Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o
della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere
nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti
— forse per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di quella cultura
decorosa che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili
moderne. Le nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente
pletoriche, da rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli
individui capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per
propria soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si
contano sulla punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo
troppe e neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire,
ma certo non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti
pubblici onde traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo
imperversa, ma è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che
è la noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori
spirituali, l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio
d'istituzioni scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più
svariati casi o interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a
finalità ideali e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti,
leggi, regolamenti cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe
comunque scoprire, non dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta
estrinseca, unità e coerenza d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la
proclamazione aperta di non averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica
neutra onde siamo stati deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non
vale per il nuovo stato di cose prodotto dalla recentissima legislazione della
riforma Gentile: i benefici effetti della quale, giova credere, presto si
faranno sentire nel loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto
naturale e giusto che accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno
agito piuttosto spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale
che ancora paralizzava il nostro organismo scolastico. Ma ecco che mi
sperdo in un mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico
l'oggetto primo del mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio
alla non peregrina eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo
preso le mosse, come la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero,
che s'intitola al Nome tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere
solo una di più fra le lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in
Italia, che pur trae dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali
nessuna sapienza di amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo
stesso Istituto nel volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il
necessario con una larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie
alle Suore che l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle
aule e dagli edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da
rappresentare uno spirito e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual
è lo spirito e il pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che
cosa e con quali idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro
patria, già, come notavamo un momento prima, anche troppo gravata
dall'eccessivo numero degli istituti universitari esistenti fino a ieri, una
nuova scuola universitaria? Problema difficile certo, e tale da render
pensosi quanti si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e
del quale io non presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è
argomento da sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo
nel vostro futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo
quel duro tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la
ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi,
per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto
il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un
differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i primi rudimenti,
ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione
ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con
sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita.
Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi,
un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo
visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in
materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha
infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno
come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le
bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha
trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare
che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra
cadranno da sé come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé un Istituto
Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo
sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la
cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già
compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia
perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in
sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole
ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e
gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole
elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare
che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione
del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici
non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano
ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar
giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi «ponga mano ad
esse», ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde
non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi,
a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che
ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una «cultura» nel
senso di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori
dello spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o
della scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione,
senza un pubblico che li seguisse, senza un'anima nazionale che si
riconoscesse in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola
nella stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta
permise la formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si
riprodusse: da un lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi
misere ed ignare, nel mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni
vera consistenza interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica
di ripieghi. Ed eccoci a quello che dicevamo prima sull'«analfabetismo morale»,
ben più pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili
europee il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o
l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e
difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il bisogno
di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina spirituale. E
il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari, e il medico,
lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le sue pratiche
legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica, e
l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e di
conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con
passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli
anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o
iniziarsi a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad
apprestare alla prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca
d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei
propri acciacchi. Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo
ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra
nota: che si parla, cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe,
forse, dire il contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti
menzogneri e capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni
vera superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina
«romana», le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in
altri tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati,
avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime lodevoli
eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non fosse il
biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e
l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri
accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una
cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione
scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro
pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare
non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E
quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel
miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se non
disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il maggior
tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle agitazioni
socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi
intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con
mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione
intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi
anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione
politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato
che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del
raccoglimento e della meditazione, «va a divertirsi» in un modo più o
meno discutibile, si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle,
ossia la mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè,
del cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo,
l'orrore dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del
lusso, l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio
«moralmente analfabeta» che nei suoi salari che gli hanno permesso il
pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più
sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo
duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica
gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità
simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla coscienza morale
dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono
pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol
lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di
sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami
del caffè e del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le
chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più
massiccia ignoranza delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al
volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche,
agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere
qualsiasi serietà e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il
principio d'una disciplina in un ambiente simile non ci sia voluto meno del
manganello e della rivoltella con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon
pubblico liberale e democratico, quello dello «stellone», non fu purtroppo
accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla discussione di problemi
dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se non aveva il
«fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per esempio, a un
altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e feriti che
sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri pedagoghi, non
avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e democratici mezzi
dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di famiglia perché
degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli trascorrevano in gran
parte la propria vita? Quante volte non avevamo denunciato a gran voce il
vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese fucine del sapere? Quante
volte non avevamo avvertito che così non poteva più andare innanzi e che la
settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni socialiste del dopoguerra,
fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi in primissima linea
l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole, erano già indizi sicuri
di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse presto messo un riparo
alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti? Credete voi che i padri
di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come parlare al muro. C'è voluto
il «manganello» dell'esame di Stato colle conseguenti bocciature, perché i
signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile della borsa, da una
pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli e delle conferenze,
degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un problema scolastico e
finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per altro scopo che non
sia quello di fornire diplomi ai loro figli. La gravità della situazione
che vi ho prospettato dice dunque quanto sia importante il compito al quale
siete chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole elementari; voi,
future insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo sperperando le
migliori riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche energie del
nostro popolo, fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa
incultura, dalle dure necessità del suo lavoro, dalla primitività rurale
delle sue condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo
imperante nelle città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la
guerra e ci permettono ancora di ignorare il terribile problema dello
spopolamento incombente su altre nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a
cambiare lo stato di cose che vi ho or ora descritto: se voi poteste diffondere
davvero una cultura nel più alto e nobile senso della parola e fra le nostre
classi dirigenti e nel nostro popolo: se riusciste a sostituire, almeno in
parte, il libro alla bettola, l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere
del circolo, avreste già bene meritato della causa che servite. Avreste
ottenuto quello che già ottenete in altri campi: e come nell'assistere
ammalati, nel sollevare poveri, nel conquistare alla civiltà le più inospiti
regioni del mondo conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì che il nome
cristiano fosse sempre in prima linea anche in quelle opere socialmente utili
di cui il mondo laico si vanta come di propria conquista perché non è dato
scorgervi, a primo aspetto, alcun carattere religioso, così voi aprendo, anime,
dirozzando intelligenze, opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un
nobile lavoro dello spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce
del sapere, il Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità,
tutte le conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta,
ma sa farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo
che ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a
conoscere nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle
zitelle — sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a
raggiungere un fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi
educativi, un più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro
per questa grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi
dico che ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere
intorno a questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da
un'intima comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente
nostre. Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale
nostro e delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia
scuole simili valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci
con esse nel contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma
anche, secondo la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in
tutto un sistema d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i
criteri pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli
schemi che tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per
approfittare delle favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da
ogni preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire. Come
vedete, è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle
giovani generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio
incontentabile se aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui
importanza ho cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto
che paia, essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto
appello alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi
vi annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura,
l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre
migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si
offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza
italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il
nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo
marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la
parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è
parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un
altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema
pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale,
noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui
si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire
d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia
scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini
e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto
e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e
degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune
discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro
funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie,
alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora,
secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il Cattolicesimo è vecchio,
miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato.
Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri
e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi
tutti, dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la
cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe
sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e
greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica
formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre
medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le
vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato...
Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella scuola
umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella scuola
medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie,
disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man
mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali
deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che
agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana
elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario
come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica,
l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica.
Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge
sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro
l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere
classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza,
daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e
Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da
riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai
positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di
scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato
l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni
civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone,
attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle
letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque
risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la
cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo
scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un
nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia
idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il
medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario.
Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica
che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei «fatti» e
delle «notizie» e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria,
superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo
dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo
contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un
Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi
metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera
piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento
“ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare
chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi,
onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai
tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare
i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella
rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con
cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori
umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i
criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il
segno d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il
realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema
pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior
cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo
avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue
classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al
realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione,
della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel
proporre quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui
metodi naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una
cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di
risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che
è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia
laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi
quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di
ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi
inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola
realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale,
anche la scuola neoumanistica ? La ragione? Ma la ragione sta nello
stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per
umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta
una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come
“uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli
ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema
educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività
umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè,
dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia,
esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o
l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività
umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel
senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito,
ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista,
cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi
ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una
cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella
letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso:
Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise
attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure
per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore:
che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della
sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri,
deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno
egoista ? No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo
decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo
riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una
cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente
a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri
preformati. E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare
a una realtà superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori;
anche quando guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno
all'infinito da lei, essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di
sé. Ben diverso è il caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non
se stessa, ma Dio, tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi,
nel suo seno, il più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare.
L'enciclopedia laica è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso
parte da sé e ritorna in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura
scientifica del realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche
tutt'e tre insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più
caratteristica prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est,
vivere non est necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di
spezzare ogni limite per tendere sempre più in alto e sempre più oltre.
Viceversa l’enciclopedia cristiana è, se ci si consente l'espressione, un
circolo che s'apre, colla filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una
realtà superiore: infinita via su cui le anime dovranno avanzare colle loro
forze sostenute dalla grazia divina. Né la materialità di queste immagini
v'inganni, quasiché la differenza fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in
un ordine soprannaturale. Poiché il tipo e, direi, l'orientamento di una
cultura non può non essere visibile anche in ogni sua minima parte. Ogni
frammento della cultura laica deve riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni
frammento della cultura cristiana il circolo aperto. Così i singoli fatti del
mondo naturale sono, in fondo, nonostante tutte le proteste in contrario, per
la cultura laica, niente altro che la ripetizione di un medesimo spettacolo per
cui l'umanista è assalito dal terrore e dalla noia innanzi alla monotona
infinità dei cieli, e i fatti della storia gli sembrano esauriti quando li ha
sussunti sotto una determinata categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana
avverte l'infinito che è in ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala
infinità” d'una ricerca da proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo
multicolore illimitatamente prolungato, ma come la positiva inesauribilità
d'una esistenza concreta le cui radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire,
come uno dei modi, sempre originali e imprevedibili, attraverso cui la potenza
creativa di Dio si è manifestata. Ecco perché questa nostra civiltà occidentale
nutrita dal Cristianesimo ha avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di
cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera
ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica”
alle anime che facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può
andar mai disgiunta dallo spirito cristiano. Ed ecco, infine, la ragione
dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre
reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo,
una scuola veramente liberatrice. Non basta. Il problema della cultura
non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un
problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie
laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella
ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella
“consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo
pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica
via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé
l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: «che faremo dunque,
degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare?
Negheremo loro la qualifica di uomini?» Problema, si noti bene, assai più
facile in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le
innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla
società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che
poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i
bisogni della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad
occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte
ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i
mille servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di
polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un
intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo
le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle
scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li
lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare, insolubile
per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo antico.
D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri beni
umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è
condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni
dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti
agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia
fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i
lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo
che mina le basi delle nazioni moderne. Anche qui la storia ci ammaestra.
Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal
Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla
giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro
intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di
attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che
rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo
è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci
ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e
di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget
semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso,
alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre
rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la
gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava
compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo
aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta
attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per
la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno
per fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che
non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al
mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del
lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile
tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da
realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo
numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale
sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio della
«buona novella» queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare colla
rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che è un
ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben sapendo che
quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni, interni od
esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior ostacolo sulla
via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un cammello passar per
la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei cieli. Né questo
deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il Cristianesimo,
trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo pagano, divenuto
fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col quale la Chiesa ha
sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e fideistiche, i diritti
della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la tradizione dell'antica
cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio dei «poveri» e degli
«ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo, pur raccomandando in
modo specialissimo la povertà come uno fra i principali consigli evangelici,
Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo che avrebbero voluto
distruggere i beni materiali della società riportando l'uomo alla caverna
primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante pari, nella vita
cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto filosofo, Essa non ha
mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente intesa. Se cultura e
ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi, naturale e
pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di avere in sé il suo
fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate dall'ideale
cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte d'elevazione a chi
le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio. Ecco perché la
Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere aiuti affinché
le condizioni materiali della vita umana venissero sempre migliorate, e, nemica
del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere per l'elevazione
intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio: siccome nel più
ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo propone all'uomo
ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini naturali, e implicito
eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è da meravigliarsi che
tutte le soluzioni del problema economico-sociale dibattute oggi dalla scienza
(razionale limitazione del lavoro, equa distribuzione della ricchezza, severa
disciplina della concorrenza) siano state già da secoli implicite
nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da meravigliarsi che tutti i più
sottili accorgimenti didattici per la diffusione della cultura consigliati dai
grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il presupposto indispensabile
d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro manuale abbrutisce l'uomo,
impedendogli di attendere la propria elevazione intellettuale e morale? Orbene,
da quanto tempo la Chiesa non combatte perché cessi quel gravissimo scandalo
ch'è la violazione del riposo festivo, stoltissima empietà non meno che — ecco
la vera parola — barbara distruzione della libertà umana, la quale “non
vive di solo pane”. Se le grandi feste di precetto del calendario liturgico
cristiano fossero tutte scrupolosamente osservate, non avrebbe forse anche il
più umile lavoratore un adeguato periodo di tempo da dedicare, al raccoglimento
interiore e alla meditazione, in quei giorni che sono «di Dio» appunto perché
Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato ogni altro interesse, si fermi ad
ascoltar la Sua Parola ed a riprender coscienza del proprio posto nella realtà
e nella vita? E se il lavoro di tutti i giorni fosse, anziché esasperato fino
alla vertiginosa tensione cui lo spingono la brama smodata di ricchezza e il
materialismo pratico della moderna vita irreligiosa, contenuto nei limiti che
la morale cristiana impone, lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a
cercare un sollievo nei così detti “divertimenti”? Né solo il tempo
libero, ma anche i mezzi più adeguati alla positiva diffusione d'una vera
cultura, il Cattolicesimo ha sempre messo, con tutte le sue forze, in opera.
Non abbiamo noi sentito vantare come scoperta della pedagogia moderna il “
metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica e suggestiva dell'immagine che
penetra là dove il nudo raziocinio non potrebbe arrivare? Orbene, di
questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta, senza i grossolani
fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è stata la prima
maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina, ha affidato
alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti architettonici,
pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti potrebbero irridere.
Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio, dalla sua forma generale
di una croce, ai più minuti particolari delle porte e delle colonne su cui i
costruttori antichi avevano una dettagliatissima dottrina; eccolo nelle pitture
che adornano le pareti, ove si rappresentano i principali misteri della fede
che il sacerdote commenta ad uso degli illetterati; eccolo in quell'altra
mirabile creazione che è il canto liturgico, nel quale l'emozione lirica
dell'arte è veicolo alla esposizione dei più profondi concetti cristiani, e il
tutto con una facilità di esecuzione tecnica che rende possibile alle
moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da spettatrici, ma da attrici. E
la liturgia stessa delle sacre funzioni, considerata nel suo aspetto umano e
naturale, che altro è se non la partecipazione delle folle a un grandioso
dramma ove la poesia, l'architettura, la pittura, la musica si fanno docili
strumenti della verità? — Oggi si raccomanda il «metodo attivo», si biasima il
verbalismo della nostra cultura, si riscopre il valore educativo del lavoro
manuale. Orbene, non sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni medioevali
ove il tirocinio e l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano del
medesimo senso d'arte e di libertà umana che a mala pena e non sempre oggi si
ritrova nei grandi lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti
moderni prendano, di solito, come tipo dell'educazione cristiana e cattolica le
congregazioni insegnanti della Controriforma e, anche queste, le considerino in
una ristretta parte della loro opera e precisamente in quella parte ove esse
hanno dovuto agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma
forzatamente dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce,
ad esempio, perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della
pedagogia razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana
e dei suoi pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro
assegnato il compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa
tutte le contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché
mai, dato anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai
pedagogisti dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente
stati, i Gesuiti debbano venir giudicati esclusivamente in base all'opera
dei loro collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per
l'educazione clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur
cita lo spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni
effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è
mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto
originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella
da lui vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il
domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la
Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno
ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a
qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là
dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena
realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni
insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si
consideri che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una
larga azione sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare
sistemi e metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in
quanto era possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene
che si poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario
e dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si
accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica
era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale
pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno
uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si
guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella
formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione
francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella
formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in
quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri
principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia
condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina
ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le
diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal
moltitudine di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi,
un amore della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una
infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della
sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per
cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di
superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira
quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o
del missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni
presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini
anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce
a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia
razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche
nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne
ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio,
l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata
esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà
d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della
storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal
turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi
nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare, quando la
burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta
ascoltare, è altamente significativo. Ma è tempo ormai ch'io concluda
questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una
conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una
conclusione che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie
scarsissime forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il
nostro futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e
sempre meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i
maggiori problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi
richiama là dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e,
possiamo dire senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie.
Diffondete pure il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con
gl'intenti ch'Essa vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle
tormentose crisi dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle
esigenze della pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla
quale sarete uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le
altre scuole universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente,
in quanto ciò è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di
raccogliersi sotto l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto:
sotto l'altissimo nome di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio,
umile ed alta più che creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia,
religione e "filosofie" nelle scuole medie L'introduzione
dell'insegnamento religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita dichiarazione
del Concordato secondo la quale la dottrina cattolica deve essere il necessario
fondamento e coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere, strano a
dirsi, nell'animo di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la cui eco si
è sentita nell'ultimo Congresso nazionale di filosofia (1929), e si sente
tuttora negli scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o
per ufficio, amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe
molto lontano dal vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza
dubbio, quando riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse
specialissimo quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene)
debbono uscire maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo
intorno a questa o quella singola materia, ma precisamente intorno alla
religione cattolica; cosa che non potrebbero fare certamente, se già non
avessero ricevuto dall'Istituto magistrale una salda istruzione e formazione
religiosa. È bene dirlo subito: intendiamo di deliberato proposito
trascurare tutti i problemi pratici e contingenti che possono nascere e nascono
nelle odierne condizioni della scuola dalla introduzione dell'insegnamento
religioso cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per un legittimo
desiderio di circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo persuasi che il
turbamento di cui si parlava ora deriva, nella maggior parte dei casi, non
tanto dal considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della questione, sibbene
dal non aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver male risolto il
problema filosofico che della questione stessa sta al fondo. Per
convincersene basta aver la pazienza di formulare solamente la difficoltà quale
corre, si può dire, sulle bocche di tutti. — Che significa — si domandano molti
— questa dottrina cristiana che deve essere d'ora innanzi il coronamento degli
studi? Significa forse che si debbano escludere e bandire severamente dalla
scuola tutte quelle dottrine e quegli autori non conciliabili colla ortodossia
cattolica? Ammettiamolo pure. Ma allora dove andrà a finire la libertà di
coscienza dell'insegnante, anzi, dove andrà a finire quella stessa libertà
della ricerca scientifica che si svolge, è vero, e si esplica pienamente solo
negli studi superiori e nelle Università, ma che non si può neppure escludere
del tutto dalle scuole medie, senza ridurre l'istruzione a una semplice
trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni vero senso di intima ricerca
è esulato? Vedete qual differenza fra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, e
non certo a vantaggio del Cattolicesimo! Mentre l'uno esclude assolutamente
quella diversità di pareri e di teorie dalla quale nasce la feconda ricerca e
la discussione, senza cui non v’è scienza, anzi pretende di ridurre tutti,
volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare; l'altro ha sì gran braccia che
accoglie generosamente, nel suo capace seno, ogni dottrina, poiché in ogni
dottrina riconosce un momento e un aspetto necessario della verità. E dunque,
mentre, secondo il filosofo moderno, anche il cattolico ha diritto di esprimere
il suo parere e di portare nella scuola il suo pensiero, secondo il cattolico,
il filosofo moderno, ben lungi dall'avere questo diritto, deve esser cacciato e
tenuto fuori dalla scuola come un individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da
qual parte stia la libertà e la vera tolleranza: mentre il prevalere della
filosofia moderna apre alla scuola tutte le conquiste del pensiero, il
prevalere del cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più gretto e ristretto
oscurantismo, segno di remoti e barbari tempi. che la civiltà moderna ha, e
vuole avere, per sempre superato. E, poste queste premesse, ecco che
molta brava gente già si sente venire i brividi addosso. Che, già le par di
vedere l'Inquisizione e il Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed entrar
nelle scuole, e buttar sossopra libri e programmi, e, afferrato per il collo
con mano ferrea ciascun insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo e per
segno che cosa dice e che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché. E poi,
al menomo odoraccio di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e rimozioni
dall'impiego, e magari, tanto per essere in armonia col color locale, o meglio,
storico, una buona dose di tratti di fune applicati sulla pubblica piazza, e un
buon rogo, dove se non le persone, che non li usa più, almeno i libri proibiti
formassero un bel falò, a consolazione della gente devota che assisterebbe, fra
cantici di gioia e inni sacri, all'edificante spettacolo. Ora, i timori -
più o meno irragionevoli - sono timori, e la filosofia è filosofia, e forse non
c'è cosa tanto difficile a questo mondo quanto il persuadere certe brave
persone che i timori vanno trattati da timori e la filosofia da filosofia; che
le questioni filosofiche non si risolvono coi timori, ma cogli argomenti.
Accuse di oscurantismo alla religione cattolica se ne sono fatte da che mondo è
mondo, e sempre se ne faranno, fino alla fine dei secoli; sarebbe dunque
puerile meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma giustizia vuole che di
queste accuse si esamini spassionatamente il fondamento e il valore, prima di
sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima cosa, ma finché non
vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente parole: segni, o suoni,
siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta avvinca a sé i cuori, o gli
stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi stordiscono, sulle piazze,
la moltitudine. Sia dunque lecito porre, al presente studio, questo fine:
domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e su quali argomenti poggino
quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si vorrebbe sequestrare il
cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per relegarlo nei musei
d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe inonoratamente seppellire.
Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi quali si cerca di carpire il
consenso attraverso la mozione degli affetti e guardiamo, se ci riesce, di non
arrenderci che alla forza dell'evidenza e della ragione. Cerchiamo, se è possibile,
di ridurre la questione a un tale stato di chiarezza che chiunque ci segue,
amico o avversario, possa senza disperati sforzi d'ingegno o di dottrina,
comprendere le ragioni sulle quali poggia la nostra tesi, od, occorrendo,
scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci sia avvenuto d'incappare.
I. Cominciamo con l'osservare subito che la questione che ora c'interessa
non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono nascere, nella scuola
media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente tale, e l'insegnamento
della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti amerebbero risolverlo,
almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca neutralità:
l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di filosofia insegni
la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda, invece che
l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi diversi di
concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse concezioni della
filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità, diverse tanto, che
non possono convivere pacificamente fra loro, né stare insieme senza
distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della religione finisce
con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei diversi effetti che
quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno di produrre, nel
modo stesso di concepire la religione. Ma quali sono queste due diverse
concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e lo ripetono a sazietà
coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al cattolicesimo, quelle
obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che la verità debba essere
qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile una volta per tutte e
racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di una determinata
dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire: e, anzi, lo
stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si accresce su sé
medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna delle quali è
un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle quali può aspirare
ad esaurire in sé la verità tutta quanta. Ecco dunque le cose
singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte; verità in
continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte, verità
immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra; verità
oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e riconoscere qual
è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal pensiero,
dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa antitesi, molti
amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in alcuni nomi di
filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da una parte e San
Tommaso dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro armati, la filosofia
moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica. Contro, si capisce, per
modo di dire poiché, chi crede tutti i sistemi filosofici veri, non può,
senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso e alla scolastica, ma deve
considerarli essi stessi come un “momento” della immortale verità. E pure Kant
ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la verità come un continuo sviluppo
non può poi, senza darsi la zappa sui piedi, offrirci a modello un sistema
filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a preferenza di un altro. Kant
ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo noi. Kant ed Hegel con tutti
i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso parla o scrive nel loro
venerando nome. Comunque, questo appello alla storia della filosofia, se anche
non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che intorbida - la questione
riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di maggior vantaggio immediato.
Quello di far apparire manifestamente vera la concezione della verità alla
quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per necessaria conseguenza,
manifestamente falsa la concezione opposta, quella tomistica, scolastica o
“cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione infatti, una sola
filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre filosofie, da San
Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni soltanto della più
lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si proclamasse oggi
scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che quella di ripetere
alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo nelle sacre pagine
delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto, colonne d'Ercole
oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano della verità. Di
modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa imbarazzante
condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della filosofia,
diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non è una
storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa scientifica nel
campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo “moderno” non ha pregiudizi
quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire appieno
appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più opposti,
persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura può dar
sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando liberamente
quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se così gli
paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per le
magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi delle
platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e gl'improperi
ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo sconsigliato ardire di
voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o “scolastico”, “tomista” e
filosofo. Ci sia permessa, prima di procedere oltre, una semplice
osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o di questa piccola
commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i personaggi del
filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che le parole sono
parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”, di “libera
ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un grande
effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e ciò
accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere, in
questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di
sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono
essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare stupidi
o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli uomini che
nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è un
naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci venisse
innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non crederemmo
già sulla parola, ma domanderemmo le prove della sua asserzione, e
vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di ambire a quei
titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser progredita e
libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere ciecamente, ma
dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di progresso e di
spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II. Il procedimento
adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la filosofia dei
cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica, come retriva e
non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed artificioso
che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra filosofia non
scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di vituperi. E se queste
parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa da quella che
vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese, diremmo che tale
procedimento è assai simile a quella “illusione cinematografica” del pensiero
per la quale si pensa d'aver afferrato e ricostruito un organismo vivente
quando se ne sono raccostate alcune immagini parziali e frammentarie. E,
infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo: quando alcuno dice di ritener
vera una filosofia, sia essa scolastica o antiscolastica, religiosa o
irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica o scettica e così via, è
costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci danno, per forza, di essa
soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E tanto più approssimativa ed
inadeguata, quanto meno è possibile condensare in una breve formula verbale,
qual è quella per cui uno si dichiara scolastico, materialista, idealista o
naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale nella filosofia: gli argomenti
coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie tesi. E questo stesso carattere
di approssimazione e di inadeguatezza si estende, in un certo senso, a tutte le
parole, e a tutte le frasi, e a tutti i libri che sono stati scritti per
esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per importante che sia, non si può mai
dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina che pure insegna, o possa
considerarsene un equivalente materialmente completo. Tanto è vero che da che
mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e difendere le varie
dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può finire. Poiché una
dottrina filosofica è un insieme di concetti e di ragionamenti: e benché
concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole e con libri, e si
possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule, pure, non i libri e
le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti costituiscono l'essenza
della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire, non deve fermarsi alle
parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire ai concetti e ai
ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto pel quale si
costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è, evidentemente,
lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o s'impara a
memoria un libro. Segue da ciò che quando un filosofo vi dice “siate
idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e vi
scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della filosofia
quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele o San Tommaso, come quelli coi quali
il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere davvero così sciocco
ed insensato da volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente “siamo
scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue parole, e ad
imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di Aristotele e di San
Tommaso. Ma pretende, invece, che i suoi uditori o lettori, da quelle formule e
da quei libri risalgano ai ragionamenti in essi contenuti, e, mediante u n
positivo lavoro del loro intelletto, li riscontrino veri e se li approprino,
facendo così un'opera di ricerca che è certamente originale, benché riesca (nihil
sub sole novi!) a conclusioni già scoperte da altri pensatori, siano essi Hegel
o Sesto Empirico, Kant o San Tommaso. Né questo riuscire a conclusioni già
scoperte da altri menoma in nulla l'originalità e la libertà della ricerca;
giacché la libertà del pensiero non consiste punto nel non aver nulla innanzi a
sé, ma solo nel non accettare nulla che non sia dimostrato vero. E quando una
dottrina è dimostrata vera, la libertà dell'intelletto è garantita, in altro
non consistendo tale libertà se non nell'esser fatto l'intelletto per conoscere
il vero, e quindi nell'esser libero e attivo sol quando il vero effettivamente
conosce. Ma che cosa fanno, rispetto alla scolastica, e quindi rispetto
al cattolicesimo, i critici poco esperti, o male intenzionati? Credono, o
mostrano di credere, che i filosofi scolastici siano, essi soli, così insensati
da far consistere la loro filosofia, non nel pensiero ma nelle parole, sì che,
presso i soli cattolici esser “scolastici” significhi non già compiere
quell'effettivo e originale processo di pensiero pel quale ognuno può
riscontrare col proprio intelletto la verità della filosofia scolastica, ma
solo mandare a memoria e ripetere, senza mutare una virgola, l'una e l'altra
Summa di San Tommaso. Onde, la facile accusa agli scolastici d'esser ripetitori
pedissequi e di voler, perciò, diseducare il pensiero umano, riducendo ogni
ricerca scientifica alla meccanica fatica di ripetere frasi, o libri altrui,
con quelle pessime conseguenze per l'educazione e per la scuola che già abbiamo
udito deplorare. Accusa alla quale, evidentemente, non si può rispondere
altro che negando l'arbitraria e cervellotica supposizione dalla quale è
partita. Nessun filosofo scolastico, infatti, s'è mai sognato di voler indicare
col termine “scolastica” soltanto la parola e non la cosa, i libri, e siano pur
di San Tommaso, e non la dottrina in essi contenuta, le conclusioni, e non il
concreto processo di pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo
scolastico, quando dice agli altri “siate scolastici” vuol loro imporre la
irragionevole schiavitù di una dottrina senza dimostrazione e senza ricerca.
Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse
altro che un concreto processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano vere
alla luce della ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale di
colui che studia. Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non d'un
pezzo di legno, non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così com'è, ma
dovrà bene arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e ripensando, e
non smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo,
sillogizzando, dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non
c'inganniamo, i modi e le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma
la propria attività e originalità, garantendosi di conoscere il vero, e
respingendo da sé il falso. Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la
dottrina scolastica differisca dalle altre dottrine, idealistiche o
positivistiche, materialistiche o scettiche. Che se appare diversamente, è
sempre per quel tale equivoco fra il pensiero e le parole, sul quale gli
avversari della scolastica si compiacciono d'insistere. Infatti, una
dottrina, come or ora s'è visto, la si formula in parole e in libri che,
naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi dall'esterno, debbono per
forza apparire un puro dato, esterno anch'esso; esterno, ben inteso, finché
colui che esamina la dottrina proposta non sia in condizione di passare
all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la propria ricerca, la dottrina
medesima, persuadendosi così anche della bontà ed esattezza di quelle
espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli erano apparsi
qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così vogliamo dirla,
imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può afferrar la verità
immediatamente e tutto in una volta, ma è costretto a raggiungerla per gradi,
non ricade certo sulla sola filosofia scolastica, bensì appartiene a tutte le
dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche che siano.
Le quali, debbono pure anch'esse formularsi in parole e in libri che, in un
primo tempo appaiono, per forza, un puro e indimostrato dato esterno, finchè
colui che le esamina non è in condizione di dimostrar vera la rispettiva teoria
idealistica o positivistica, materialistica o scettica. Il che è ancor
più manifesto quando si tratta della scuola e dello scolaro; che, appunto
perché scolaro non è ancora in tali condizioni da poter riscontrare da sé e
colle sue sole forze la verità della dottrina insegnata e deve, ancora per un
pezzo seguitare a imparar libri e definizioni e formule delle quali non scorge,
o scorge solo imperfettamente la ragione. Che se in questo fatto cosi semplice
si vuol trovare a tutti i costi una oppressione e un vincolo alla libertà del
pensiero umano, allora non soltanto la scolastica, ma anche ogni altra
dottrina, idealistica o positivistica, materialistica o scettica e, magari,
eclettica, si dovrà dire oppressiva e restrittiva per la libertà del pensiero,
e perciò, in quanto tale, oscurantista e retriva, di fatto, anche se a parole
si dichiara svisceratamente amica della libertà e del progresso. Non si vede
infatti perché il proporsi come testo di studio San Tommaso debba esser più
oppressivo, o restrittivo che proporsi Kant, Hegel o Ardigò, e perché
l'imparare definizioni e formule scolastiche debba esser più avvilente che
imparare definizioni o formule positivistiche o idealistiche, vero essendo che
in ogni caso ci s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è dato trovare una
via d'uscita. O il presentare una dottrina restringendola in alcune formule e
in alcuni libri ed autori, che in un primo tempo appaiono, necessariamente,
allo studioso come puri dati esterni da accettarsi solo sull'autorità altrui
(salvo a ottenerne, in un secondo tempo, una compiuta dimostrazione) è
ammissibile, oppure non lo è. Se è ammissibile, nulla ci vieta d' insegnare la
scolastica, così come altri insegna l'idealismo o il positivismo o di prendere
per testo San Tommaso così come altri può prendere Hegel o Spencer. Se non è
ammissibile, la scolastica diventa, certo, una dottrina oppressiva,
incompatibile con l'attività e la libertà del pensiero umano, ma anche
l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo e persino l'eclettismo diventano
dottrine altrettanto retrive e incompatibili con l’attività e la libertà del
pensiero umano. Ciò è tanto vero, che, in ogni tempo, ci sono stati
autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali, per essere imparziali e
non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato oppressiva, antiquata e
insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia tendenza o dottrina
appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la loro vita intellettuale,
fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei sistemi. Pretesa assurda
certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di non credere nella
filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non avere un sistema è un
sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche altro tipo simile. Ma
pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo medesimo dal quale è
partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina rigorosamente definita e
formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior modo, anzi, l'unico modo
di non opprimere il pensiero sarà addirittura quello di non formulare né
insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né
materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale
dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati, legislatori, maestri
e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito, il difetto d'essere
inattuabile. * * * Colla pura e semplice denunzia di un equivoco verbale
cadono, dunque gran parte delle irragionevoli e ingiustificate antipatie contro
la filosofia scolastica. La quale non è un insieme di frasi o di formule da
ripetere meccanicamente, ma è un vivente organismo di pensieri da pensare; così
come appunto sono, o vogliono essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una
dottrina che, lungi dal pretendere d'imporsi irragionevolmente o
arbitrariamente al pensiero umano, non vuole essere accettata altro che
mediante argomenti e dimostrazioni. È bene ricordarlo, poiché oggi certe
nozioni sono grandemente obliate anche da coloro che per professione ed ufficio
avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia scolastica pretende di
essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile tale con argomenti
filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda punto in una
rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una rivelazione
religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si possono
trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente stabilito
e dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega perché sia
molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di filosofia
“scolastica” che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo questi
ultimi termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia che
non è ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca filosofica,
laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire direttamente la
filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo, senza introdurre
altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della scolastica aver
adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi servita della
Rivelazione cattolica e della teologia per controllare le sue tesi, l'uso di
questo secondo metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che vale durante la
ricerca filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione
religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli
argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che
una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica.
III. Risulta, dunque, evidente da quel che si è detto fin qui che per
insegnare filosofia scolastica da parte del maestro, come per apprenderla da
parte del discepolo occorre precisamente tanto spirito inventivo ed originalità
quanta ne occorre per insegnare od apprendere qualunque altro sistema
filosofico, e che, perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo
irragionevole e l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento della
filosofia scolastica appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di ogni
altra filosofia, né più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio
estrinseco col quale si possa decidere su due piedi quali filosofie siano per
riuscire, nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale
criterio è soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o
minore verità delle filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già
abbiamo avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e
le altre riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste;
poiché solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza
della persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne,
alle quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che
riescono, dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò,
nella scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica,
qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di
libertà colle quali si presentano al pubblico. Ma con ciò eccoci
ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche col
massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro la
scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a
quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più
notevole fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente
pericolo che la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di
oppressione e di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già
detto: per la scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori
del pensiero che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre
debbono per forza esser false. Per il pensiero moderno, invece, la verità
e la realtà medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano,
si svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una
sola dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre
un atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora,
a quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo
scolastico non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua,
il filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia
della filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il
discepolo a “crearne” delle nuove. E va benissimo. Sennonché, a un esame
più attento, questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si
rivela almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo,
esso cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il
gran numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che
coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si
direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una
pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di
guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il
dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge
previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno
malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da
mille, che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte
dottrine filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e
colla libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto
diverse come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto
diffuso ai giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra
loro due ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se,
infatti, una dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un
orto, si avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto
lo spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta
dietro i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina
non è un campo o un orto, bensì un atto immateriale del pensiero, e in
quanto tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità.
E se riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di
cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo:
ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale
si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto
immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un
cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè
pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è
inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è
proprio l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo
cambiamento di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel
tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un
simulacro di progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza
dei molti sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui
dal momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno
invertite e quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre
nella scuola molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una
cosa assurda com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E
viceversa, quei filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo
fanno onore alla loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici
fautori d'uno spirito sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può
aversi dalla conoscenza della verità. Ma qualcuno può ancora obbiettarci:
il vostro ragionamento ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la
vostra concezione della verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la
verità è tale che possa esser colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte
le altre, voi avete ragione nel voler che quella sola dottrina venga insegnata.
Ma, e se la verità non fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma
si trovasse in tutte le dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo,
allora, ragione noi di sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i
principali sistemi filosofici, sia utile e necessaria? La risposta a
questa obiezione non può essere che una sola: non esistono due concetti
differenti della verità, benché esistano le parole colle quali ci si illude di
esprimere un concetto della verità diverso dal nostro. Ma sono vuote parole; e
la dimostrazione ce la forniscono gli avversari stessi. Quando essi dicono,
infatti, di non creder vera una teoria filosofica ad esclusione delle altre, ma
di tener vere tutte le teorie che la storia della filosofia registra, che cosa
fanno essi mai se non sostenere e difendere come vera una loro teoria filosofica
particolare? Dire che la verità è in tutti i sistemi filosofici, non è forse
sostenere una teoria filosofica? È il solito argomento contro lo scetticismo e
l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia di non creder vera alcuna teoria
filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto cominciano, sotto mano, col
creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la contraddizione è evidente.
Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire ritener vere anche quelle
filosofie che affermano esserci una sola filosofia vera e tutte le altre esser
false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire distruggere appunto quella
nozione della verità alla quale tanto si tiene, e che esclude assolutamente
potersi sostenere la verità di una sola filosofia, cioè distruggere lo stesso principio
eclettico, o idealistico. Onde, una delle due: o l'idealismo, l'eclettismo e
gli altri sistemi dello stesso tipo restano fedeli al loro programma di
ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le filosofie, e si uccidono colle
proprie mani, perché debbono tener vero anche il concetto della verità opposto
al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma eccettuate quelle che
sostengono un concetto della verità opposto al loro, e allora la loro famosa
tolleranza e larghezza di vedute è finita, ed essi sono liquidati come
idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la verità non sta
punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e precisamente in
quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo, cioè, in ultima
analisi, in un sistema solo. La libertà, dunque, che la filosofia moderna
pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla libertà di certe
democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché, però, non
dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di scegliersi il
sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia l'idealistico, o almeno
s'accordi in tutto col criterio fondamentale dell'idealismo: essere la verità
in divenire continuo ed essere, perciò, vere tutte le filosofie che lo spirito
umano ha escogitato. Ché fuori di questo concetto non v'è salvezza possibile, e
le filosofie che non lo ammettono, non sono filosofie, ma aborti del pensiero,
non vanno neppure presi in considerazione, anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime
disprezzo della gente ben pensante. Ora, quando si è stabilito ciò che in un
sistema filosofico è più importante, cioè il concetto della verità, tutto il
resto ne viene di necessaria conseguenza, e si può ben lasciar libero lo
studioso di dedurlo in un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo con un
titolo piuttosto che con l'altro, e di compiacersi, così, della propria
intelligenza ed originalità inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar
l'esempio di prima, poco importa che in quelle tali democrazie la gente voti in
un modo o nell'altro ed abbia l'una o l'altra costituzione - tutte cose intorno
alle quali, anzi, è bene che ciascuno si diverta a discutere a perdifiato,
ricavandone un gran senso della propria dignità e importanza - purché, alla
resa dei conti, siano sempre gli stessi uomini politici che detengono
effettivamente il potere. Così la storia della filosofia che i pensatori
moderni si vantano d'insegnare con tanta larghezza e liberalità, si risolve in
una illusione. Poiché, sotto l’apparenza di tutti i sistemi filosofici che la
mente umana ha escogitato, da Talete ai giorni nostri, la dottrina insegnata è
sempre una sola: l'idealismo, il concetto della verità come coincidente collo
sviluppo stesso del pensiero umano, e come escludente qualsiasi altra realtà
che il pensiero umano non sia. Ed è ben vero che si parla di Talete e di
Platone, di Aristotele e di S. Tommaso, di Kant e di Hegel, di Stuart Mill e di
Spencer, e che ognuno vi può spaziare entro i confini del materialismo e del
platonismo, della scolastica e del kantismo, del positivismo e
dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta di un dramma dove i personaggi si
riducono ad uno solo, benché volta a volta variamente travestito, e dove Talete
e Platone, Aristotele e San Tommaso, Kant ed Hegel, Stuart Mill e Spencer,
sono, volenti o nolenti, costretti a rappresentare un'unica parte, quella del
filosofo idealista; ora dell'idealista in germe, più tardi dell'idealista
consapevole fino a metà, poi dell'idealista evoluto e progredito, dopo ancora,
dell'idealista che nega se stesso, ma prepara così la strada a un nuovo e più
moderno idealismo, ma in ogni caso, sempre e soltanto, la parte del filosofo
idealista. Poco importano le forme, circa le quali, anzi, si può concedere la
massima libertà, purché la sostanza sia sempre quella. Ma che volete
farci? - sembra di sentire rispondere un filosofo idealista - Dal momento che
la dottrina idealistica è la vera e che l'intelletto umano non può, per quanti
sforzi faccia, appagarsi se non del vero, necessariamente in tutti i sistemi
escogitati dalla mente umana per risolvere i nostri problemi si ritroverà, per
forza, qualche cosa dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro
che metterlo in luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi
credete una dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà
(e sia pur questa realtà la sola storia) e mediante essa vi assumete il
diritto di giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di
diverso la più intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che
cosa, se non precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte
le altre? Che cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in
quanto sono davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e
fantasmi dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici,
sono, parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente,
consapevolmente o no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare
tutta la storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e
non delle aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello
spirito umano, come preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc.
della filosofia scolastica? Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per
questa parte, la posizione della scolastica sia inferiore a quella
dell'idealismo, o a quella di qualsiasi altro sistema filosofico che si affermi
vero e voglia sostenere la propria verità coi mezzi consentiti dalla ragione.
Né si vede in che cosa la scolastica meriti più di qualsiasi altro sistema
l'accusa d'intolleranza, di dogmatismo o di oscurantismo, dato che una tale
accusa, fallitole il concetto d'una verità omnibus, è costretta a poggiarsi su
elementi puramente accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il fatto che i
sistemi filosofici riconosciuti vicini alla verità sono in maggior numero per
l'idealismo che per la scolastica, o che sono nati in epoche cronologicamente
diverse, poniamo nel secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze
che non fanno né caldo né freddo, poiché la verità non ha nulla da spartire
colla quantità o colla cronologia, né si vede perché debba appartenere al
secolo XIX anziché al XIII, o perché debba esser posseduta, in forma
scientificamente adeguata, da molti sistemi anziché da pochi o perché un
professore tedesco in parrucca e codino debba averla vista meglio d'un frate
domenicano colla sua brava tonaca e cintola. E ciò anche a prescindere da
apprezzamenti di fatto, i quali ci mostrerebbero che la scolastica ha i suoi
rappresentanti nel secolo XIX non meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo
espressioni volutamente moderatissime - non meno di qualsiasi altro
rappresentante di qualsiasi altra modernissima “novità” filosofica idealistica,
materialistica, pragmatistica e così via. Supponiamo che qualcheduno
dicesse: Signori, io vi dimostro che l'arte di G. D'Annunzio, o di F. T.
Marinetti è superiore a quella d'Omero e di Pindaro. Infatti quest'ultima è arte
antica e quell'altra è arte moderna: ora, dai tempi antichi, dei Greci, ad oggi
si sono effettuati innegabilmente dei progressi; dunque, anche l'arte d'oggi
deve essere in progresso su quella d'una volta. Un tale ragionamento ci
farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe scolaretto che non ne sapesse
scoprire l'errore pel quale, dal fatto che un'opera d'arte è venuta dopo
un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche migliore dell'altra, e dai
progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze naturali, nella vita civile e
nella produzione economica, si vorrebbero inferire i suoi progressi in un campo
del tutto diverso qual è l'artistico. Ora, lo stesso errore che è derisibile
applicato alla storia dell'arte, non è meno derisibile se applicato alla storia
della filosofia ove il professore X od Y, autore di un novissimo sistema,
dovrebbe saperne più di Aristotele o di San Tommaso, sol perché è nato tanti
secoli dopo. Si crede di negare tale analogia fra la storia della filosofia e
quella dell'arte con l'osservare che l'arte è l'espressione del temperamento
individuale dell'artista, che è, appunto come temperamento individuale, non
trasmissibile, e perciò esclude il progresso da uomo a uomo e da tempo a tempo,
mentre la filosofia è la conoscenza d'una verità universale ed astratta, che
può e deve, quindi, essere trasmessa e progredire. Ma si dimentica che
progresso possibile non vuol dire progresso reale, e che anzi il progresso
filosofico, il quale sarebbe necessario e ineluttabile se l'uomo fosse solo
puro intelletto come gli angeli, ha da fare i conti, nelle attuali condizioni
umane, proprio colle attitudini, coi bisogni, colle tendenze, colle passioni,
cioè, in una parola, col “temperamento” del filosofo, che è tanto personale,
intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare, progredendo, da
individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e che influisce
sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il temperamento dell'artista
sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze assai più gravi, poiché
se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un temperamento per essere
arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire artisti, senza bisogno
d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla filosofia non basta essere
espressione anche sincera d'un temperamento personale per riuscir vera, anzi,
il più delle volte la mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento
individuale d'un filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la
verità e il fargli produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde
segue che il filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter
l'ala vicino alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché,
nel suo caso la mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e
la filosofia vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non
ammette sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai
grandi e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe
saputo scoprire. In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi
filosofi, come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche
che la Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione
cronologica né del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le
sue buone ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di
filosofi, come la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e
che l'opposto criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo
capace di “creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E
può essere anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della
filosofia, così come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo
scovare i poeti a decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la
vera arte e la vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo
la grande maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta,
invece, di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. * * * IV. Possiamo dunque
riconfermare, senza tema di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema
filosofico, idealistico o scolastico, scettico o materialistico, non può,
nonostante ogni sforzo contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una
verità, la quale necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od
opposte. E il sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre
dottrine si rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito
di qualsiasi consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché
contraddittorio, dello scetticismo e dell'eclettismo. La verità di questa
proposizione risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli
avversari pensano di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando
dalla scuola moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la
scolastica e il cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra,
invece, nega il pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi
siete più ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente
consistenza è data dal duplice significato che s'attribuisce al termine
“ammettere” o “giustificare”, che una volta si prende nel senso di
“condividere” una dottrina e accettarne la verità, e un'altra volta si prende
nel senso di “giustificarla” storicamente, cioè di indagare le condizioni
storiche nelle quali nacque, i bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se
si tratta di “giustificare” nel primo senso, allora è certo che la scolastica
non può ammettere e insegnare come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi
altro sistema del genere, ma è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il
materialismo o un altro sistema simile possono ammettere e insegnar come vera
la scolastica, tanta essendo l'opposizione della scolastica a quegli altri
sistemi, quanta è per l'appunto l'opposizione degli altri sistemi alla
scolastica. Ma se si tratta di “giustificare” nel secondo senso, allora anche
la scolastica si può prendere il gusto di fare una elegante rassegna di tutti i
sistemi filosofici che ci sono stati da che mondo è mondo, metterli in
bell'ordine, studiarne i corsi e ricorsi, assegnarne le condizioni, enumerare
le cause che li hanno fatti nascere e ne hanno garantito il successo, corredando
il tutto con un grande apparato di erudizione critica e una sesquipedale
bibliografia. Può prendersi il gusto, diciamo, poiché in realtà la scolastica,
possedendo un concetto della verità molto più severo ed elevato di quello che
mostrano d'avere tanti sistemi moderni, è sollecita più della formazione
mentale, che della brillante informazione ed erudizione dei suoi scolari, e
teme sempre non accada loro questa disgrazia: «necessaria non norunt, quia
superflua didicerunt»: il che la conduce a limitare, nella scuola, più che sia
possibile questa parte storico-erudita, nella quale tanto si compiacciono i
sistemi moderni, perché tanto bene si accorda col loro intimo scetticismo ed
eclettismo. E allora la discussione sarà, non più sulla necessità di tener per
veri o meno questi o quei sistemi filosofici, quanto sulla opportunità di fare,
nella scuola media, un posto più o meno ampio alla storia della filosofia, e,
specialmente, alla sua parte informativa ed erudita. Questione di metodo, della
quale adesso non intendiamo occuparci. Ma l'accusa del pensiero moderno,
o del sedicente pensiero moderno, alla scolastica, di essere limitata ed
oscurantista, può facilmente essere ritorta. Si scandalizzano, i nostri
avversari perché la scolastica accusa di falsità la maggior parte dei sistemi
che hanno avuto fortuna nel mondo della cultura filosofica, e domandano
indignati: l'umanità ha dunque vissuto sempre nelle tenebre della barbarie? E
come allora ha potuto svolgersi e progredire fino a raggiungere una civiltà per
tanti rispetti superiore a quella dei tempi antichi? Dimenticano, costoro, nel
far questa domanda tendenziosa, di richiamare i reali rapporti che intercedono
fra i sistemi filosofici ora ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della
civiltà, poiché la filosofia è una scienza difficile e, come tale,
aristocratica sì che solo un piccolo gruppo di dotti, che in confronto
dell'umanità è una trascurabile minoranza, può in ogni tempo coltivarla e
dedicarvisi. Quanti, fra i contemporanei di Spinoza, di Rousseau, di Kant, o di
Hegel, poterono effettivamente leggere quei filosofi, formarsi un'adeguata idea
del loro sistema, e ad esso ispirare la propria vita? Quanti, oggi, nonostante
l'accresciuta cultura e la maggior facilità di studiare, possono far lo stesso
coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi filosofici prende,
per opera di compiacenti divulgatori, solo qualche idea così vaga e generale
che in tale vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha perduto, come
sarebbe l'idea che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la società è
organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno è libero di seguire le
proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato anche senza i
sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì che si può dire, senza tema
d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in quello che hanno di
specificatamente filosofico, passano senza toccare la vita dell'umanità nella
sua grandissima maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile a che l'umanità
progredisca e costruisca una civiltà anche se i sistemi filosofici dei suoi
dotti sono errati, potendo la verità farsi strada da sé ugualmente, benché in
forma imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi e nelle scienze
stesse. Ben più difficile e ben più intollerante è, invece, la posizione
degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono costretti a condannare non
solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo il quale non soltanto è un
sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della verità, ma afferma questa
verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è
una dottrina filosofica che vada solo per le mani di alcuni dotti, e la cui
verità o falsità non interessi la maggior parte del genere umano, ma è una
religione, attraverso l'insegnamento della Chiesa, chiaramente conosciuta,
seguita e praticata da milioni di uomini, i quali costituiscono certamente la
maggioranza del mondo civile; una religione che non ha mai cessato d'avere una
azione importantissima su tutti i prodotti dello spirito umano, sull'arte e
sulla filosofia non meno che sulla morale e sulla politica, sui costumi non
meno che sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno che
sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione del
mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine di
Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le hanno
conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata
sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua
vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che
in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver
affatto questa malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il
cristianesimo e il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema.
Ma è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro
sistema filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il
cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde
precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione
divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che
si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non
è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma
nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con
diverse parole, gli avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il
cristianesimo vivo ed operante come religione del mondo moderno, la quale tanto
poco può allontanarsi dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo
attenua e addomestica un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo,
sparisce come religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre
filosofie di “cenacoli” intellettuali, quasi a darci una riprova della
costituzionale incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed
assimilarsi il principio fondamentale del cristianesimo e del
cattolicesimo. E dunque la difficoltà resta, per gli avversari, in tutta
la sua estensione. Se il cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per
opera sua quella civiltà che pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad
esistere, dato che anche oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione
e un'importanza infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico?
Condannare il cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia a
“storia d'errori”, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la
filosofia scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana
della civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di
Kant o di Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle
tenebre dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori
bisogni dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal
cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia,
soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che
tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale
concepiscono tale rivelazione. Giacché la differenza fra il pensiero
della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di
“moderna” è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non
ammettere quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel
non ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua
rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia
moderna parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica
quanto mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al
pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e
la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si
accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in
sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa
entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del
pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva
simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama
irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto
parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo
oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad
esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero
medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo
storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che
l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il
semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano,
lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza,
volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che
è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di
certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la
scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione
apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile,
ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare,
per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine,
niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e
progredire: «Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus
est »: ecco l'unico programma - il programma della santità cristiana - che
consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso infinito.
Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la filosofia moderna non è affatto
disposta ad aprire la scuola a tutte le più diverse e disparate dottrine. Che,
anzi, essa persegue tenacemente la realizzazione di un suo ideale, e si propone
- né potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola alla sua propria fede.
Fede intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più intollerante ed esclusiva
delle altre, perché non sa di essere una fede e una dottrina anch'essa, e con
tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le altre dottrine quanto più
si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante autorizzata della verità
e della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e soffocante, affatto
inconciliabile colla sana libertà della ricerca scientifica, e addirittura
contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento dell'anima umana, nella sua
educazione e nella scuola. Poiché l'anima del giovane e del fanciullo, ha, se
così si potesse dire, più ancora che non l'anima dell'adulto, bisogno
dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio, non può darle che vani
trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad essere infranti subito dopo
che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il meccanismo. Pedagogia
cattolica Credo che a parlare di un'opera come questa Rinnovamento
dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano 1921) di Filippo Crispolti, possa
valere quale sufficiente giustificazione non soltanto la ben intesa libertà che
va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un fatto di più
immediato interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche del Crispolti non
hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene d'una
discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano o
dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il
Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e
nemmeno professore; anzi, di non avere in vita sua addirittura frequentato mai
alcuna scuola fuori dell' Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver
appreso da altri che certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del
bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto
della prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza della vita.
Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste dichiarazioni
alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro del Crispolti
alla congiura del silenzio! Noi, per conto nostro, diciamo subito di non
credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per
annettere all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore. L'esperienza
in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa;
ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope professionalismo,
quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente del mestiere,
proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si celebra e
acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone poi tutte
le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa, talché
l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da una
intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici
forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza,
all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come il Crispolti,
ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a
ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano
col portare nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato
quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa
di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con
piena libertà, su quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se
così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero
riusciti inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart,
bensì anche ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici.
Il segreto di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”,
nel loro irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita,
prima di fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente
lievito d'una personalità vivissima, aperta a tutte le voci dello
spirito, sensibile a tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze
che maturavano nei nuovi tempi. Tanto basta, e ne avanza, a giustificare
il Crispolti di aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine
sull'educazione. Il Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo
cattolico e nel campo degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una
presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è
manzoniano nel miglior senso della parola, ch'egli dovesse dar questo segno
tangibile d'interesse per le questioni educative, ove si pensi che quel sano
lievito di modernità ond'è reso così giovane il cattolicesimo manzoniano,
risulta proprio dall'aver il Manzoni intensamente vissuto il cattolicesimo
stesso, affiatandolo con tutti i problemi della vita e della storia, quali il
secolo XIX li impose alla coscienza europea, in una forma in cui il problema
morale e il problema - in lato senso - pedagogico tendevano sempre più a
penetrare di sé la letteratura. Salutiamo dunque, anzitutto, la bandiera sotto
la quale il Crispolti entra nel nuovo agone. Del Manzoni pensatore fu detto che
egli, pur riuscendo spesso ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto
filosofo per una certa sua incapacità a mettere in questione i “primi principi”
e per una certa sua continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina
religiosa, anche se al fine di far vedere come partendo da essa diventino volta
a volta chiare le singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se
con ciò s'intende negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto
metodo largamente deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una
dottrina che lo spiegare in base ad essa i singoli concreti problemi della
storia e della filosofia?) ma è esattissimo come caratteristica del
procedimento prediletto in siffatte materie dal Manzoni e - cosa che qui
c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere pedagogiche
s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far toccare con
mano in quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire alla
formazione dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo
intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci
perché sia un bene morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba
avere un siffatto influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una
educazione che dal cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga
conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito
umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia,
delle antichità classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui
nella sfera dei “primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il
Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha
affrontato in pieno la tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice
aspetto immanentistico dell'idealismo e del positivismo. La religione non è
quindi per lui qualcosa che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro
e insieme nella scienza moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far
fruttificare. Onde, il tono fondamentale di tutta la sua indagine, che è
rivolta a quelli di casa prima che quelli di fuori, ai cattolici prima che ai
“laici”, filosofi o pedagogisti, anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio
vigile su tutto il mondo circostante della cultura e della vita. Si
direbbe anzi, più precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue
lettere parlare a quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una
malattia opposta al filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva
sollecitudine di mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle
concessioni snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo,
grande importanza a tutto il complesso delle doti spirituali che, pur non
interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o rispettabile
nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al senso della
responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di siffatta
timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è, secondo il
Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la religione, di
cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima analisi, con
l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli esempi: quando
noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il coraggioso
nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un villaggio
distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a ricostruirlo da
sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi, o virilmente rassegnati
in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di applaudirli in quanto
cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste loro qualità ad una
educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o cattolica. Altrettanto
avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale, pur apprezzando certo
in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una conseguenza
imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è disposto con
facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche senza lavorare
a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta di doti che,
come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto, condurre
facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad esempio
di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane troppo
curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o quanto
meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non essere, a
lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché così si crea
in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo delle
fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel
cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né
l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna,
dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al
laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via
quella che «l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna
abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo
religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia
cagione e valore» (p. 14). Ora, in qual modo realizzare siffatto
programma? Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla
morale cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di
perfezione umana e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in
contraddizione colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la
religione cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari
raffinatissimo ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la
grande preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo
rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere
appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo
d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha
anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente,
consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso
dell'etica moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della
virtù” , definì or non è molto il Croce il concetto sostituito dalla più
recente speculazione al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non
impossibile sterminio di tutte le umane passioni e tendenze sulle cui
rovine si erga la legge morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio
della moralità stessa. Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la
legge morale deve sempre rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può
comunque risolversi nella sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere
senz'altro questo concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una
soluzione superiore del problema, la santità che non ha bisogno d'una politica
della virtù poiché «non raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò
che loro contrasta, correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro
serrate con un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme,
per un ardore che tutte le supera e le fonde» (p. 16). La carità, l'amore di
Dio possono, nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina
stessa, essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si
richieda il sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e
sentimenti umani. Ma, giustamente ammonisce il Crispolti, la santità eminente
non è da tutti. «Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa
complicazione dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità,
dalla quale può venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi
d'infonderla negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature
chiamate a santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio
timore, temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle
qualità naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio,
l'amabilità nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca
la difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere
tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a
rischio di più frequenti discordanze» (p. 19). Timore, secondo il Nostro,
ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a
mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla
puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli
altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di
solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. «Eppure ogni
metodo di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché
i sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri» (ibid.) e
questi mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità,
ma non per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali.
Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella
di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don
Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso
di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile
l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli
umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata
educazione del coraggio materiale. Poniamo «che Don Abbondio fosse stato un
ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in
cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero
voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce»: che cosa
avrebbero dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il
calore dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui «una qualità terrena
che poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli
esercizi convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più
facilmente a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura». E
allora Don Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più
alti motivi che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato
innanzi alle minacce di Don Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria
coscienza dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello
di esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli
ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro
l'educazione cristiana stessa la necessità d'una «politica della virtù». Poiché
il Crispolti rammenta certo che «sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo»
e che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili
vie della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e
la saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla
ben intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di
difese contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico,
l'educatore dovrà dire : “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser
preparati perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale
di questa preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori,
con tanto ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche
improvviso. Ma v'è una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser
battuta anche perché a mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in
questa che in quella: e consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei
rischi e quei disagi, seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla” (p.
49-50). La «strada più modesta» è appunto la politica della virtù, sebbene
concepita in un senso diverso da quello consentito nell'economia d'un'etica
immanentistica come quella del Croce. Poiché qui è successa una inversione per
cui ciò che là era fine morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova
gradazione di valori richiesta dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel
significato umano della parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che
sorgono sul vero e proprio terreno praticomorale, come il coraggio o
l'abnegazione od altro, ma altresì quelle che sono immanenti in qualsiasi altra
funzione dello spirito, come poniamo la genialità estetica o il vigore
speculativo, debbono necessariamente avere alcunché di imperfetto, frutto
appunto del loro carattere umano: allegarsi, cioè, con una certa dose di
orgoglio, compiacenza di sé, soddisfazione, che le rende tutte «più o meno
passionali» perché presentano all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli
ch'esse offrono, il loro esercizio sempre come un allargamento e una
esaltazione del proprio io. Di contro ad esse sta la vera, perfetta, suprema
virtù: la santità, l'unica che non si fondi per sussistere sopra siffatto
stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio. Talché, appellarsi alle une
per rendere possibile o, comunque, preparare, facilitare, supplire l'altra,
significa da un punto di vista religioso ricorrere già ad una «politica della
virtù»: non perché si sia facilitata la virtù ricorrendo alla dialettica delle
passioni come nell'etica immanentistica, ma perché, esorbitando la virtù «pura»
dai mezzi di educazione umana, si è ricorso per garantire l'uomo dal male ad un
sistema di virtù «umane» e perciò già in sé stesse «passionali».
Conclusione di tutto ciò è dunque per il Crispolti che l'educazione cristiana,
ben lungi dal disinteressarsi delle doti umane, deve e può servirsene come di
mezzi atti a facilitare potentemente quell'economia delle virtù che solo anime
eccezionalmente ispirate da Dio possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè,
in ultima analisi, prendere anch'essa in considerazione il curriculum della
consueta pedagogia, evitando due errori egualmente pericolosi come la
dissociazione delle attività umane dal fine religioso e, insieme, la incauta
persuasione che l'uomo pio sol perché pio riesca eccellente in tutti i campi
del pensiero e della vita. Incominciamo dall'educazione fisica, di cui il
Nostro si occupa nella lettera su l'educazione cristiana del coraggio materiale
per riprendere acutamente, dal proprio punto di vista, quel concetto della
pedagogia moderna secondo cui il rinvigorimento del corpo non è già la
formazione del «robusto ed agile animale», bensì quella del robusto ed agile
uomo, che ha l'obbligo di preparare il proprio organismo fisico a tutti gli
sforzi necessari all'adempimento dei propri doveri di essere spirituale. Al
qual proposito bene osserva il Crispolti, parlando delle società cattoliche di
educazione fisica, il loro carattere religioso dover consistere, non tanto nel
titolo di cattoliche o nel compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel
tener sempre presente alle menti giovanili «lo scopo di far servire le membra
fortificate all'adempimento degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù
sopravanza l'obbligo... cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i
giusti limiti la loro progressiva vigoria» (p. 48). E quindi ai troppo facili
satireggiatori della «ginnastica cattolica», il Nostro può con ragione
rispondere che, oltre a una ginnastica, ben vi può essere anche una «cucina»
cattolica, da quando in alcuni giorni della settimana si preparano nelle case
dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello
religioso su un'operazione umile come il mangiare, perché la pedagogia
cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su qualsiasi attività umana? «Non
si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo della
stessa educazione religiosa il pieno valore della persona umana, questa diventi
superba?» (p. 72). No certo, se teniamo presente che la pedagogia cristiana ha
in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella superbia
ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che
e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente pedagogico.
L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva il
Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'«ansia costante e
smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di potervi
scoprire dei pregi e provarne compiacenza» (p. 74). È un concetto negativo
dell'umiltà ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella
tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a
Beatrice), secondo cui invece «l'umiltà è concepita in forma positiva, come un
avanzare non come un fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di
precauzioni » (p. 74) e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal punto da
non aver tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il proprio
valore e la propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a
Dio. Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino il quale
assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio,
si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido «col solo riverire
la verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la
difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di
qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi» (p. 77). Ogni cosa nel
mondo dello spirito è frutto di umiltà, le grandi opere «sorsero sempre in
un'ora di umiltà, ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa
che era fuori di noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata
umiltà verso la scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io» (p. 81). La
filosofia qui rincalza la religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di
sottoscrivere queste parole. Il concetto pagano della immortalità come gloria è
tramontato irrevocabilmente appunto dopo il sorgere del concetto cristiano
della umiltà. Questa introduzione dell'umiltà come principio fondamentale
nel sistema della pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già
abbiamo accennato, che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista
il dovere di preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle
sue immanenti leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa
a rendere automaticamente l'uomo eccellente in tutti i campi della
scienza, dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del
curriculum pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà
cristiana sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto
e a renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza
di fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le
primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa
offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della
propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel
carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in
genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro
dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di avvicinarsi
quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del carbonaio. Non fa
nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio e delle
discipline umane; al solito, noi non possiamo «tentare Iddio» pretendendo
ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che solo in
casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché, tratte le
somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di addottrinare
l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di rivolgere la
sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una cultura religiosa
quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto acume il Crispolti,
la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani alla fede, fra
l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita intellettuale. «Le quali
sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure non valgono a salvarla da
tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in cui fu di moda la formula
stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola che si apre è un carcere
che si chiude "; ci salvano... dai gusti bassamente viziosi; moltiplicano
i nostri rapporti con le cose, ossia il nostro senso del vivere; procurano
all'uomo una esplicazione dell'attività ed un interessamento che unico dura
oltre la giovinezza e la maturità degli anni » (p. 137). Ch'è, in fondo, lo
stesso principio della cultura come disciplina dello spirito su cui si fonda la
pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto con una osservazione che meriterebbe
d'esser discussa da vicino in sede pedagogica. Il sapere è certo un
potentissimo esercizio di superamento dei propri impulsi particolari a
beneficio d'una legge superiore, ma può esso bastare da solo alla formazione
del carattere morale? Il cattolicesimo e la Chiesa hanno da molto tempo
risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema di pratiche dirette
precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli esercizi spirituali
di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve parentesi, il Crispolti
ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei grandi pedagogisti che,
cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad esempio, di Froebel o
della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza d'una elaborazione
dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo a credere «secondo
spirito e verità» è certo ch'essa va preceduta dalla conoscenza immediata della
religione stessa in tutto il suo complesso di riti, culti, precetti e loro
applicazioni; così come lo studio della filologia non può nascere se non dalla
diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La religione deve, per usare
un'espressione cara a quei grandi pedagogisti, crescere con l'uomo stesso:
essere sentimento, pratica, culto, prima che filosofia o teologia. Argomento
sempre importante per quanti, come noi, vogliono nella scuola un insegnamento
religioso vero e proprio che cominci col catechismo e credono un assurdo sogno
illuministico quello di assicurare l'educazione religiosa a una vaga
religiosità circolante un pò dappertutto nella vita spirituale. Qualcosa
di simile al già detto per la cultura intellettuale, ripetasi per la cultura
estetica ove il principio dell'umiltà riceve un'altra importante applicazione
pedagogica nella lettera su i pericoli della letteratura apologetica nuova. Ove
il Crispolti ha avuto sott'occhio i gravi pericoli cui può andare incontro oggi
una letteratura o una poesia che dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai
propri motivi d'ispirazione, anche una presunzione della propria superiorità su
l'altra letteratura o poesia non cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui
il cattolicesimo non ha, oggi, poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un
D'Annunzio o ad un Pascoli? La ragione è sempre la stessa: pretendono gli
artisti cattolici «di poter ricevere o tradurre nelle opere le ispirazioni
artistiche (della fede), senza nessuno sforzo da parte loro». Tutta la fatica,
secondo loro, dovrebbe farla Iddio. Pretendono quindi che ogni opera di
soggetto religioso, purché lastricata di buone intenzioni, ottenga il favore
della critica a preferenza di opere anche elaboratissime di autori profani od
avversi. Quando poi debbono essi stessi confessare che i Canti di Leopardi così
lontani dal Cristianesimo, valgono più dei canti loro, non sanno come
raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia fatto torto a se stessa. Non
si rassegnano a riconoscere di non aver fatto verso la fede tutti gli sforzi di
dottrina e di meditazione, necessari a rendersi i degni interpreti di lei. Non
si piegano a confessare che non è colpa della luce ma della deficienza o
pigrizia loro, se anche questa volta «i figli delle tenebre» sono stati più
prudenti dei figli della luce ( p. 163). Ciò è quanto dire che, dal punto di
vista pedagogico, anche l'attività estetica ha bisogno d'un apposito tirocinio
dal quale nessuna fede religiosa può dispensarci. Ma la seconda applicazione
dello stesso principio che nel campo estetico fa il Crispolti, viene
esplicitamente incontro a quanto il pensiero moderno in sede filosofica e
pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si pensi che la degenerazione
dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente ridurre la cultura estetica a
una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte a far colpo sul lettore o di
esempi di “bello scrivere” contro cui la critica moderna ha tanto combattuto, è
sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto opposto all'umiltà cristiana:
della vanità che ai pensieri veri e alle convinzioni sincere, preferisce i
pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti. Umili perché casti «parchi e lontani
da tutti quegli artifici che, piacendo ad un gusto passeggero, fanno così
facilmente il nido alla vanità» gli scrittori classici: umili tutti coloro che
non pensarono a scriver bene, ma «presi da alti pensieri, da alti affari o da
alti scopi morali, ossia tanto assorbiti dalla gravità del proprio tema che la
parola si facesse umile innanzi a quello» (p. 158) riuscirono, perciò solo,
necessariamente grandi scrittori. E inversamente, grandi scrittori sono non
soltanto quelli che fecero professione di letterati, bensì «uomini in qualunque
campo grandi, cioè tali, che a qualche cosa di superiore la loro parola abbia
dovuto umilmente ubbidire» (ibid.): talché, per esempio, i Francesi bene hanno
fatto a far rientrare fra i classici della loro letteratura anche San Francesco
di Sales e Napoleone. Una siffatta riforma della storia letteraria sulle basi
dell'estetica moderna quale si è affermata dal Croce in poi avrebbe in più per
il Crispolti questo di interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe
l'introduzione dei grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di
vita. Ma sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti
viene con tanta finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli
molto spesso arriva a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal
pensiero pedagogico e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero
una conoscenza diretta ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera
su Le precauzioni intellettuali contro gli errori religiosi, in cui nel
parlare delle ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il
positivismo e lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico
postkantiano). Ciò riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento
se anche qua e là porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone
degli esempi, scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere
pedagogiche. Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la
morale, il Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina
il fine della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i
mezzi per attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile
incertezza data dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini,
delle situazioni spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In
linguaggio più propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre
sospesa a una concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato
quello che il nostro chiama appunto «il fine». Ma ciò non implica soltanto
superiorità gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia.
Poiché il legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica
e con tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e
la filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da
preoccuparsi, cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere
possibile la educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe
mai accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente
predestinazionista del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da
lui dato ai problemi pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da
quel punto di vista non è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare
di educazione. È questo proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle
questioni recentemente dibattute nel campo filosofico sui rapporti della
pedagogia colle scienze filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente
altrove, nella lettera tredicesima ove, a ragione, combattendo la
falsificazione delle idee intorno al fanciullo che una grossolana psicologia ha
introdotto nei metodi educativi moderni, egli pone la mano su una questione
importantissima, e vi sorvola su senza approfondirla. Si deve sfruttare la
capacità intuitiva e immaginativa del fanciullo per introdurlo al più presto
nel mondo spirituale degli adulti, oppure val meglio cominciare con
l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo fanciullesco? Sia il caso del
linguaggio: «voi vedrete — dice il Nostro — che in tutti i luoghi e in tutti i
tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente di questa disposizione
meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole esattamente conversano con
lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli incomincia a pronunziare» (p.
132). È il principio del “punto di partenza” da trovare nell'animo dell'alunno.
Ma il Crispolti, con queste sue parole, viene a dubitare che esatta conseguenza
di quel principio sia l'identificazione assoluta del mondo spirituale del
fanciullo con quello dell'adulto, come vorrebbe la pedagogia idealistica
moderna, per la quale il mezzo più sicuro di educare il fanciullo è quello di
imporgli decisamente - sia pur con le debite precauzioni - il mondo spirituale
dell'adulto. Il Crispolti giustifica qui, in certa guisa, l'idea di un mondo
fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e di altre simili cose respinte da
alcune correnti della pedagogia moderna. Valeva la pena che egli approfondisse
questo suo dissenso e ne sviscerasse bene le ragioni. Ma queste
piccolezze sono poi un niente, in confronto alla piacevole urbanità con cui il
Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una quantità di problemi importanti,
che il tirannico spazio ci vieta di discutere, come pur ci piacerebbe, con lui.
Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere ancora un consenso e un
dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua lettera ventunesima
sulla cultura femminile. La quale, perciò che il pensiero moderno ha
proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i preconcetti
naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna, non per questo
ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e d'abitudini
diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari di natura e
di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua specifica
fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver dimenticato
questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice piaga che il
Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e quella delle
donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto, secondo il
Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è istruita, la donna,
cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati efficaci per l'uomo,
«come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse nessuna via di
mezzo». E invece non si è pensato alla differenza di abitudini mentali per cui
l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi interessi è più
spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo pedantismo del
sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre la donna, più docile
e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla scuola il sapere con
tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo inconveniente c'è,
per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo i primi
indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale la cura
di fare il resto. «La più elevata e piacevole erudizione delle donne è quella
acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per un
padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle partecipare
in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare in loro non
soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma l'interesse
verso di esse, ciò che è più difficile» (p. 200). Non importa se per questa via
la donna non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente fra loro:
per chi non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo campo
dello scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle singole
idee che dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo; elevazione
per cui la donna «non pretenda di scoprire né di classificare, ma giunga a
compiacersi nella visione delle cose alte; non s'affanni a far camminare il
mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e con amore»
(p. 202). Giacché la difficoltà della cultura femminile è tutta qui, non nel
far assimilare alla donna un certo contenuto, cosa di cui essa è tanto capace
quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il senso dell'importanza e del
valore di ciò che studia; cosa assai più difficile. Istruire la donna «è una
difficoltà non intellettuale ma morale; è una coltivazione non dell'ingegno ma
dell'animo» (pp. 200 - 201). Osservazioni tutte giustissime e sulle quali con
qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La riserva, se mai,
sarà questa: che vi sono donne nelle quali una eccezionale formazione interiore
ha suscitato il bisogno di studi più alti, e alle quali perciò non è possibile
rifiutare la stessa cultura dell'uomo, anche se esse siano per far valere in
quella interessi tutti propri diversi da quelli dell'uomo e per occupare, nella
repubblica delle lettere, un posto a sé. La stessa necessità di collaborare con
l'uomo per fondare l'unità spirituale della famiglia, può render talora
necessaria alla donna anche una completa cultura scolastica, giacché pur fra
gli uomini ci sono in tal senso differenze, e ciò che basta magari alla moglie
di un colto professionista avvocato, ingegnere ecc., può non bastare alla moglie
d'un grande poeta, d'un celebre filosofo, d'un illustre scienziato, i quali di
necessità richiedono alle loro donne una più robusta formazione mentale e una
ben più vasta cultura per esserne anche soltanto accompagnati, seguiti, intesi
nell'esercizio delle loro attività. Ed eccoci ora al dissenso. Parlando
della cultura e dell' arte pratica della vita, il Crispolti torna a proporsi
indirettamente, per conto suo, la vexata quaestio dei rapporti fra teoria e
pratica, pensiero e vita. E, naturalmente, vede da par suo la diversa
formazione mentale richiesta agli uomini d'azione e agli uomini di pensiero,
nonché la diversità di funzioni a cui gli uni e gli altri sono chiamati. Ma
appunto questo poi gli suscita un dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo
intensa cultura intellettuale un grave ostacolo allo sviluppo del senso
pratico? «Mi sto domandando se il guardarsi attorno intelligentemente senza
posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto ciò che ci ferisce la vista,
ossia il menare una vita intellettuale intensa, che debitamente frenata dalla
ponderazione può darci frutti copiosi, originali e buoni nelle lettere e nelle
scienze, non ci renda più inetti all'alta vita pratica, di quel che facesse la
vecchia abitudine degli studi accademici e degli sfoghi retorici, nei quali la
mente non osservava e si può dire non pensava, ossia non acquistava nessuna
verità intorno al mondo e agli uomini, ma si contentava di baloccarsi colle
parole. Probabilmente questa vuotaggine, funestissima alle scienze e alle
lettere, lasciando in riposo e come da parte la capacità quasi istintiva di
sapersi regolare cogli uomini e di saperli regolare, la conservava intatta»
(pp. 191 - 192). E che ciò possa essere e sia, nel fatto, stato, anzi, che
tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del problema della cultura
pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto risolto lasciando
inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va bene. Ma che
possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico, no: le
soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci né le
migliori. Il Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla natura
stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un
Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla scienza e
d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più
vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di
loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove
giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che il Crispolti
sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima
questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se,
invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte
degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione.
Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche
maggior interesse di novità, il Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo
un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di
quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX
infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi
personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o
addirittura diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera
pratica (si pensi allo spregio di Napoleone verso gli « ideologues »!). E che
siffatte personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione
storica, non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi
stessi, prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi
barbarica e pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del
dominio, dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che
innanzi alla morte di Napoleone si domanda: «fu vera gloria?» e non sa
rispondere se non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra
fra due secoli, due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in
fine, là, «dove è silenzio e tenebre la gloria che passò»: lo sgomento del
Manzoni temperamento insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove
si pensi che cristianesimo e modernità bene intesa sono in ultima analisi
concordi nel richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di
ricordarsi anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo
e volontà di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e
raccoglimento interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio
del pensiero, che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie
aeternitatis, potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e
sugli altri, ma finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il
senso dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire
ad una realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere
restano edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre
unilateralità e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un
limite, sia pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di
grandezza è andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è
consueto lamento, innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non
nasca più un Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta
parte all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o
poi, i suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza
politica richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma
di grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per
questo meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica,
che aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di
ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità
per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio
per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica
gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di
fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui
bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la
democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno
attraversato le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura
e semplice capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi
recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui
espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più
saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito
contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al
Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è
affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello
di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli
ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche
con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il
suo normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non
essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi
personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un
subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della
retorica accademica sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero
e lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito
altri pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio
italiano carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica
come eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle
doti pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia
difficile raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si
sono venuti formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma
ciò dimostra anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir
delle grandi personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un
singolare incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi
personalità sono spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente
individualiste: la loro attività politica si consuma in sé stessa come un
sogno, o come - fu già notato a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte
che non ha risultati fuori della sua bellezza; raramente si inquadrano
nell'armonico insieme d'un sistema che le perpetui e le fecondi. E in quanto
esse ci offrono siffatte deficienze, dimostrano appunto che l'abitudine della
retorica fu, in ogni campo, teoretico e pratico, un difetto dello spirito
europeo e non solo italiano. Giacché v'è una retorica della pratica,
consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per sé sola, finisce col non
esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima una religione e una
filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio dell'eroismo, della Realpolitik,
dell'astratto machiavellismo, che noi moderni ben conosciamo sotto tutte le
possibili forme e ch'è una concezione unilaterale della realtà in servigio dei
puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi ciò che lo stesso sano
istinto pratico (che non è mai praticistico) ispirerebbe. Significa ciò, forse,
che bisogna trascurare una cultura specifica delle attitudini pratiche? No
certo: significa solamente che l'educazione ha da formar tutto l'uomo, e che
attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono essere e sono, distinte, ma
non è possibile, né desiderabile, che diventino opposte. L'INSEGNAMENTO
RELIGIOSO NELLE SCUOLE ELEMENTARI Non è ancora spenta l'eco delle
discussioni suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione
dell'Istituto fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi
autorevolissimi (come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato
il loro contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel
quale è meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate
libere di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni
altra minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che «I
Diritti della Scuola» hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in
materia, sia pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la
scuola, e la scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi
aggiungiamo, sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se
così può dirsi, a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto
garbo e molta cortesia - dalla Rivista romana. Notano, dunque, «I Diritti
della Scuola» che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende
ancora la sua definizione precisa. A norma del decreto 1 Ottobre 1923, doveva
trattarsi, come pare ovvio, d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la
prassi della Chiesa Cattolica. Ma i programmi didattici, e la circolare
dell'on. Gentile del gennaio 1924 sembrano invece, al redattore de «I Diritti»,
ispirati a una ben diversa concezione. Non «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo»
ma «poesia e quasi canto della fede», doveva essere l'insegnamento religioso; e
non più la Chiesa, ma l'opera religiosa del Manzoni e le figure più edificanti
del suo romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E
il significato di quelle espressioni è, sempre secondo i «Diritti della
Scuola», molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: «La
tendenza era dunque sempre più verso una educazione religiosa che
parlasse al cuore del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua
dei sentimenti più puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé
e per gli altri. Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella
sua veste letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il
proiettare la luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il
fanciullo dovrà percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a
poco l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia,
nei dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo
catechistico, anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal
sacerdote; e poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre
il giudice del maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come
la religione si impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e
forse non deve) dalla lettera dei sacri testi». Noi non vogliamo
rivolgere a «I Diritti della Scuola» alcun rimprovero: le stesse cose sono state
dette tante altre volte, e con intonazione assai meno cortese, che, quanto alla
forma, noi, e con noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da eccepire. Ma è
impossibile trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro forma deferente e
garbata, quelle parole celano una sostanza ben amara per la religione Cattolica
e per i suoi ministri. L'argomentazione de «I Diritti » si basa tutta su un
presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso come incontrovertibile
verità, della quale nessun uomo, sano di cervello, potrebbe minimamente
dubitare. Ecco il presupposto: la «teologia», la «liturgia», i «dogmi» e i
«misteri» costituiscono, non già la religione ma un suo «irrigidimento»: il
catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della fede cattolica, ma
un «arido dialogo», e l'uno e gli altri sono poi assolutamente incompatibili
con l'«anima ingenua», le «aspirazioni sante», i «sentimenti puri» del
fanciullo e dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui egli è ministro non
possono portare nella scuola che «arido dottrinarismo» o «meccanico
formalismo»: se volete la «poesia» e il «canto» della fede, dovete rivolgervi
altrove. Non c'è, dunque, che prendere o lasciare. Se tenete il decreto Gentile
1 Ottobre 1923, insegnerete la religione secondo la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del Catechismo, della Liturgia,
della Teologia, ecc. - ma avrete l'«arido dottrinarismo» che si voleva evitare.
Se v'appigliate, invece, ai programmi didattici o alla circolare del Gennaio
1924, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e l'anima ingenua, ma vi
converrà gettare a mare la Chiesa, i sacerdoti, la teoria, la prassi e
l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni così diverse ed
avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con molto rispetto ma
con molta fermezza, «I Diritti della scuola». Ripetiamolo ancora: sarebbe
ingiusto addossare a «I Diritti» la responsabilità d'un cuore così largamente
diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a un pregiudizio che, duole
il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi cattolici. La liturgia, arido
formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al canto! La teologia opposta ai
sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma brava gente - verrebbe voglia
di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai sfogliato un breviario? Avete
mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo, assistito non come vi
assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone davvero, intimamente, tutte
le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale è fatto delle sacre
scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre scritture sono i libri
biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli apostoli, le epistole di
San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più begli inni cristiani e via
discorrendo? E non vi pare che come «poesia» e come «canto» ce ne sia
abbastanza da scegliere, anche per le persone di più difficile
contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua opera; ciò
nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano a loro
modo «poeti» non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale, del
resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta
cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione
dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre
scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è
evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una
volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo
nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli
assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del
tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che
riescono quanto mai plastici, sensibili ed «intuitivi» e parlano all'animo
anche delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli
elementi sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato
d'animo cui si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia,
quelle della Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste,
colla loro trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro
pensoso raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa
serenità costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la
natura medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le
stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali
sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione.
Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo
«intuitivo» e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei suoi
templi e il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi illetterate
quando ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali e poeti
erano di là da venire! Certo, la conoscenza assidua e amorosa della
liturgia non è, neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe
desiderare. Ma il movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile
zelo e delle autorità ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va
facendo ogni giorno progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società
francese di San Giovanni Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele
Caronti per la volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei
molti, ottimi testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto
opportunamente, una parte notevole. Per gli amatori di «curiosità» pedagogiche
ricorderemo gli esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo
Montessori; la partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa,
mediante un'offerta che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il
grano e la vite coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie
sacramentali, e via dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e
giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal costituire, come forse taluno potrebbe
credere, una novità rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa, che ha
sempre chiamato i fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere
persino nelle più remote parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le
panchettine, le pilettine, gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario
a scala ridotta del metodo montessoriano. E passo all'altro,
apparentemente più scabroso argomento della «teologia» o del «catechismo», che
sarebbe, in fondo, una teologia elementare per fanciulli, come la teologia è un
catechismo degli adulti. Ora, la teologia è il pensiero di cui la liturgia è la
esterna e multiforme espressione, è l'anima di cui la liturgia è il corpo.
Evidentemente, chi ignora l'una non può afferrar bene l'altra, a meno di
non essere un filosofo o uno scienziato così abituato a muoversi fra i concetti
puri, da potervisi collocare stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e
anche allora l'ignoranza della liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei
mezzi che la Chiesa ha messo a nostra disposizione appunto per comprendere e
praticare la sua dottrina) produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in
fine l'uomo, anche scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di
anima e corpo, di senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di
sorreggere il proprio pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque,
facilmente, che presso coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o
comunque hanno trascurato di completare la propria cultura religiosa con una
buona cultura liturgica, il catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia,
cioè, quell'impressione di arido formalismo e di dottrinario schematismo che
tanto dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze
dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità che avete spezzato:
ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto, la teoria e la
prassi della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride in apparenza,
si vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non solo, apprese o
ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali neppure l'anima del
più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È difficile il concetto della
transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la donnicciola cantano e
sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della resurrezione della carne?
Eppure nessuno, che non sia un idiota o un deficiente, può ascoltare senza
fremere le parole del vangelo giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum
resurrectio et vita. Questo non vuol dire, d'altra parte, che anche il
catechismo puro e semplice non possa dì per se stesso costituire la base d'un
insegnamento vivo, agile, plastico, "intuitivo" ed "attivo"
condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui
viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta,
costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità
l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi
o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto
dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo,
la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica
odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni
inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state
discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani,
le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa
la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno
confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a
parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di
scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con
imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione
catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero
attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi una
società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza di
qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del maestro
troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in
abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che
le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo
spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le
definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il
segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di
poesia, e perciò armonica ai fondamentali bisogni dell'animo infantile,
sta non nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento genuino
della Chiesa. Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione fra il
decreto Gentile del 1 Ottobre 1923 e la circolare del Gennaio 1924 dello stesso
ministro, o i programmi didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al
fanciullo la "poesia", il "canto" e tutte le altre belle
cose annesse e connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni,
il laico così geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di
molti sacerdoti suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o il
Gioberti. Che se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il
decreto e i programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che
nella realtà delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della
filosofia italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il
cattolicesimo, non è il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo
duro pei denti dei filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a
convertirlo in poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto
questo aspetto, la nota de "I Diritti" è, per noi, molto
significativa e confortante: è il sintomo d'un grandioso insuccesso, da parte
di chi aveva creduto poter introdurre il cattolicesimo nella scuola, come veste
mitologica inferiore d'una verità filosofica che, più tardi, lo avrebbe
superato e divorato. Dal 1923 sono passati cinque anni e il cattolicesimo, ben
lungi dall'essere “superato” è lì, colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi
dogmi e i suoi misteri, che minaccia gravemente di "superare" gli
altri e di mangiarsi in due bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali
sta contendendo energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che
pure s'erano riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti "
hanno tutte le ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore
davvero, la sorte delle filosofie "evolute": il che, sinceramente,
non auguriamo. INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65
L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e
" Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195
L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary. Il problema della dialettica
oxoniense suscita una difficoltà. Il chiedere soltanto come è possibile
che il tutore (Socrate) comunichi al tutee (Alcebiade) una determinate
cattitudine psicologica sembra implicare, se non addirittura una
contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile, dato che il termine
"tra-smettere" o "co-municare" o qualsiasi altro termine
consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate su Alcebiade
("conversare") non sembra possa riflettere, se non in maniera molto
imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo
filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o corporale, o
fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse
"co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una
moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si
"tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale,
non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto
proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo
complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia
«tras-mettere», nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere
trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come
Peacocke nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto
di tal genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del
soggetto Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile
che il soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade! Mario Casotti. Keywords: sì che Socrate si tramuti in Alcibiade! Grice:
“And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Casotti” – The Swimming-Pool Library.
Castelli
Castrucci (Monterosso
al Mare). Filosofo. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di
La Spezia, iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi
filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi,
laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di
ricercatore universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in
contatto per un breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia
espressa all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di
laurea (Tra Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena.
I suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle
idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della
dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti
antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la
critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre
le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione
delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo,
le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. Castrucci
ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri
scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso
della sua ricerca ha approfondito in
particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice
europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del
nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e
di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”,
“forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica
europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo
storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione,
o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che
corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un
ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle
premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che
avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la
storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel
quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi
della cultura del primo Novecento. Accade in questo quadro che il primato
classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente
moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma.
Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della
letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori
come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro
voci, che Castrucci analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi
rinnovate rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza
kantiana, a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del
diritto. Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di
potenza si possono infine riconoscere, secondo Castrucci, le linee di
un'antropologia politica fondata su basi individualistiche (potenza come
acquisizione di spazio, ossia affermazione individuale nella spazialità:
Selbstbehauptung), che però non trascura il serio problemaposto nel corso del
Novecento dalla migliore dottrina costituzionale tedescadel radicamento
materiale e simbolico del singolo individuo nella comunità politica di
appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia radicamento individuale e
comunitario nella spazialità). Risulta evidente in tutto ciò il riferimento
all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o radicamento, elaborata
da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea di potenza già
rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di Nietzsche.
L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di riconsiderare,
seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica della cultura,
una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea aveva
concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi distoglierla
"nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra questi problemi
particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso filosofico di Castrucci,
la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche convenzionaliste,
l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel pensiero di autori
classici della filosofia tedesca come Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e
Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più recenti come Habermas,
nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali di costruzione di un
mito politico nell'età del nichilismo compiuto. Hanno suscitato polemiche
alcuni suoi tweet, a partire da uno pubblicato il 30 novembre col quale si riferiva a figure storiche
naziste come Adolf Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento di
Castrucci "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere
che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il
mondo" e Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo
la diffusione di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri,
ritenuti di matrice filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti
nei riguardi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex
Presidente della Camera Laura Boldrini. Replica affermando di aver
semplicemente espresso un giudizio storico personale avvalendosi, al di fuori
della sua attività didattica, del principio di libertà di pensiero e
successivamente, in una memoria difensiva dei suoi avvocati, di non aver mai
aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere un libero pensatore,
sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente provocatoria e
paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la grande
speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la
finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account
è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena
Francesco Frati ha preso le distanze da Castrucci, annunciando di aver
"dato mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla
gravità del caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in procura
dopo aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole del
docente, ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di
negazionismo. Dopo la sospensione, Castrucci non si è presentato alla
Commissione disciplinare dell'ateneo dichiarandola non legittimata a giudicare
sul suo caso[33], mentre l'iter procedurale che avrebbe potuto condurre al
licenziamento è stato bloccato in seguito alla richiesta di pensionamento
presentata dal professore stesso. L'inchiesta penale è stata affidata per
motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine convenzionale e pensiero
decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e "Rechtsidee". Il
pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè Editore); La forma e la
decisione, Milano, Giuffrè Editore); Considerazioni epistemologiche sul
conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione alla filosofia del
diritto pubblico di Carl Schmitt, Torino, G. Giappichelli Editore); Hume e la
proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze
storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti
di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer
filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di
scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi
di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto,
Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli
101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero
giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo,
Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico
delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico,
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni
in Georges Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma
giuridica: Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La
scuola di Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria
politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), Emanuele Castrucci, Milano,
Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della terra, Franco Volpi, traduzione
di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il nomos della terra, Franco Volpi;
Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi
giudiziale, Emanuele Castrucci, Milano, Giuffre). Le radici antropologiche del
'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del Nomos, in Il Nomos
della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi,
Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas, in Filosofia politica, 15, Il Mulino); Dai diritti individuali ai
diritti umani: un totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un
recente scritto di Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari
della forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo
Novecento, Milano, Giuffrè); Ordine
convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali
dello Stato moderno nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la
decisione” (Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e pensiero decisionista.
Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno; La forma e la
decisione; Convenzione, forma, potenza: storia delle idee e di filosofia
giuridico-politica, Milano, Giuffrè). Emanuele Castrucci. Castrucci. Keywords:
il guerriero indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza pragmatica,
l’implicanza di speranza, l’impieganza di speranza, Apel, prammatica. ; Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Castrucci” – The Swimming-Pool Library.
Catalfamo (Catania).
Filosofo. Grice: “I love Catalfamo; his ‘metaphysics of freedom’ is better than
anything that soi-dissant Dame Mary Warnock wrote on ‘existentialism’!
Catalfamo, like most Italian philosophers, take, as Strawson and I do, the
concept of a ‘person’ seriously – indeed, so seriously that he, along with a
few other Italian philosopher, turn it into an –ism: his is a critical
personalism, though, best defined as an expansion from scepsis to hope. Della
corrente del "personalismo storico o critico". Si laurea in Pedagogia e in Scienze
Politiche. Prima assistente volontario di Galvano Della Volpe (che definisce
unico filosofo a livello di Croce), poi discepolo di Vincenzo La Via (che si
era formato alla scuola di Gentile, del quale era stato assistente), e suo
collaboratore dal 1946, diviene libero docente, incaricato di Pedagogia e
infine ordinario di Pedagogia. Fonda e diviene direttore dell'Istituto di
Pedagogia all'Messina. Il suo pensiero
si snoda in quattro fasi: dell'epistemologo, del personalista storico ed
antidogmatico, dello scettico, dell'uomo di fede. La formazione filosofica (fu
Assistente di ruolo di Filosofia e scrisse sulla rivista "Teoresi",
fondata dai suo maestro La Via) traspare nel suo pensiero pedagogico,
concepito, e nel tempo modificato, all'insegna dell'apertura e dell'innovazione
anche didattica. Nel suo personalismo, che ha come principi critici la
storicità, la trascendenza e la problematicità "egli rintraccia nuovi
aspetti... e incomincia a fare i conti con la storia e le sue fenomenologie",
" il personalismo... lentamente ma inesorabilmente si qualificherà come
«storico»; la persona assume una significanza fenomenologica di unità... in
costruzione", "Catalfamo collega l'esserci e il farsi della persona
al flusso della realtà oggettiva, nel doppio senso: nell'influenza e
stimolazione di questa verso quella e della trasformazione della realtà
oggettiva ad opera della persona". "L'uomo come soggetto agente
impedisce che l'esperienza sia un limite, cerca di oltrepassarla vedendo in
essa quello che non è e quello che potenzialmente è. La persona, dunque, è una
realtà trascendente". L'aspetto problematico del suo pensiero, infine, fa
riferimento alla "posizione stessa della persona, la quale, costituita
nell'esperienza, è radicata nella problematicità di essa, perché "il mondo
per la persona è sempre un problema, così come un problema è il suo essere nel
mondo". Catalfamo è stato fondatore
e direttore della rivista "Presenza" assieme al prof. Gianvito Resta;
fondatore e direttore di "Prospettive pedagogiche", dal 1964 fino al
1988. È stato anche Prorettore
dell'Messina. Gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica, la
Medaglia d'oro al merito della Scuola, della Cultura, dell'Arte. Il 12/02/, la
Giunta del Comune di Messina gli ha intitolato un tratto di strada nei pressi
dell'Università, all'Annunziata alta. Più recentemente, a Messina, si è tenuta
una solenne cerimonia, nel corso della quale è stata scoperta una targa
commemorativa, che riporta una sua rilevante riflessione, e gli è stato
intitolato un Istituto Comprensivo. Altre
opere: Kant, Lezioni di pedagogia, Ed. Messina Empirismo pedagogico e
filosofia, "Teoresi", anno IV, nn.1-2 Pedagogia e Filosofia,
"Biblioteca dell'educatore", AVE, Milano Marxismo e Pedagogia, Avio,
Roma Il fondamento della pedagogia. Disegno di una pedagogia personalistica, Sessa,
Messina Personalismo pedagogico, (1958), Armando, Roma La pedagogia contemporanea
e il personalismo, Armando, Roma L'educazione fondamentale, Armando, Roma I
fondamenti del personalismo pedagogico, Armando, Roma La pedagogia
dell'idealismo (corso universitario), Providente, Messina Elementi di
psicopedagogia e pedagogia sperimentale (corso universitario), Providente,
Messina Storia della pedagogia come scienza filosofica, Barbera, Firenze Criteriologia
dell'insegnamento: la didattica del personalismo, Bemporad Marzocco, Firenze
Personalismo senza dogmi, Armando, Roma Giuseppe Lombardo Radice, Ed. La
Scuola, Brescia La pedagogia marxista sovietica (in collaborazione con
Salvatore Agresta), Edizioni dell'Istituto, Messina La filosofia contemporanea
dell'educazione, Istituto di Pedagogia, Messina Compendio di psicopedagogia e
pedopsichiatria (in collaborazione con M. Vitetta), Parallelo 38, Reggio
Calabria L'individualizzazione dell'insegnamento (in collaborazione con
Salvatore Agresta), Peloritana editrice, Messina Lo spiritualismo pedagogico, EDAS,
Messina Introduzione alla psicologia dell'età evolutiva (in collaborazione con
L. Smeriglio), A. Signorelli Editore, Roma Ideologia e pedagogia, EDAS, Messina
La pedagogia del personalismo storico, EDAS, Messina L'ideologia e l'educazione,
Peloritana, Messina Aspetti della socializzazione, Peloritana, Messina Le illusioni
della pedagogia, Milella, Lecce Fondamenti di una pedagogia della speranza,La
Scuola, Brescia L'educazione politica alla democrazia, Pellegrini Editore,
Cosenza Educazione della persona e socializzazione, EDAS, Messina Preliminari
ad una dottrina dell'apprendimento, Catalfamo e il personalismo critico. "Nuove
Ipotesi" a. IV, 246–248, D.U.E.M.I.L.A.,
Palermo. Il personalismo Catalfamo, Accademia Peloritana dei Pericolanti. Elzeviro
Catalfamo. Il personalismo di Catalfamo. Giuseppe Catalfamo. Keywords: il
concetto di persona, la transubstanziazione dell’umano nella persona, identita
personale, il concetto di persona, pronome personale, la prima persona duale
--, il ‘noi’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catalfamo” – The Swimming-Pool
Library.
Catena (Venezia).
Filosofo. Grice: “I love Catena – of course he thought he was being an Aristotelian
– and the confusing title he gave to his philosophising – Universa loca
Aristotelis’ would have you think that – but he is a thorough Platonist –
consider ‘pulcher’ as applied to Alicibiades – but ‘pulcher’ gives ‘pulchrum,’
an universal --!” Precursore della rivoluzione scientifica rinascimentale e
indaga i rapporti tra matematica, logica e filosofia, occupando la stessa
cattedra in seguito occupata da Galilei. Filosofo, eccellente conoscitore del
latino. Lettore pubblico di metafisica a Padova. Gli succedettero Moleti, poi Galilei. Pubblica a Venezia “Universa loca in logica
Aristotelis in mathematicas disciplinas” -- la raccolta dei brani delle opere
aristoteliche che riconoscevano il prevalente carattere speculativo del sapere
matematico, tema a cui dedicò anche un'altra opera. Altre opere: “Super loca
mathematica contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis”; “Astrolabii quo primi
mobilis motus deprehenduntur canones” (Impressi Paduae, Giacomo Fabriano);
“Oratio pro idea methodi” Patauij, Grazioso Percacino). Agostino Superbi,
Trionfo glorioso d'heroi illustri, et eminenti dell'inclita, & marauigliosa
città di Venetia, per Euangelista Deuchino. Domus Galilæ Biografia universale
antica e moderna ossia Storia per alfabeto della vita pubblica e privata di
tutte le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti;
Catalogo breue de gl'illustri et famosi scrittori venetiani, presso gli heredi
di Giouanni Rossi; Le filosofie del Rinascimento, B. Mondadori); Alle radici
della rivoluzione scientifica rinascimentale: sui rapporti tra matematica e
logica. Con riproduzione dei testi originali, Domus Galilæana. On this subject Catena wrote two works , in one of which ,
Universa Loca in Logica Aristotelis in Mathematicas Disciplinas , Venice , 1556
, he tried to supply the lost mathematical basis for Aristotle's theory of
demonstration as explained in the Posteriora Analytica. Pietro, in
Dizionario biografico degli italiani. PETRVS CATHENA
ARTIVM ET THEOLOGIAE DOCTOR , PROFESSOR PVBLI. CVS ARTI VM LIBERALIVM IN
GYMNASIO PATAVINO , SVPER LOCA MATHEMATICA contenta in Topicis & Elenchis
Ariſtotelis nunc & non antea, in lucem ædita. ka CVM PRIVILEGIO ,
LOLOTILLON 0 V EN E TIIS Apud Cominum de Tridinum Montisferrati, M D L XI .
> PETRVS CATHENA DOMINICO MONTE. SORO DOCTORI MEDL song CO EXCBLLBN TISSIMO
OPICORVM libri din Elenchorum Ariſtotelis quædamloca obſcuriuſću la contincbant
qnæ apud Gręcos philofophos erant in primis clara, & per ea co tera loca
maiori difficulta ti inherentia declaraban tur , ob id autem illis con tingit ,
quod veritatis amatores & philoſophiæ principes videri apud exteras
nationes cupiebant, quod & re ipfa tales exiſtimarentur, niſi furto å
Caldeis, egiptijs, & alijs abſtuliſſent, id autem , alįe na ſua feciſſe, vitio
non omni ex parte abeſt, La tini vero quidam auaritiæ fine præſtituto( latinos
hoc loco voco cos qui litteris illisRomanis, vel voce, vel etiam fcriptis ſuos
conceptus explicant) philoſophiæ extremis partibus ita incumbunt A vt ſemper
lutuoli,verlantesin excrementa naturæ appareant, quod quidem laude dignum
effet,fi vt præclară prolem, quemadmodú boni viri faciunt aliqui egros
inuiſerent, quo igiturme uerterem in inuio, non erat conſilium ,ničí Reuerendus
domi nus Laurentius Venetus ex nobis familia foſca . rena Canonicus Veronenſis,
virum Dominicum Monteſorum Gręca ambitione & auaritia immu nem oftenderet,
cui hæc noſtra loca immo Ari ſtotelis declarata dedico, quæ fi Ariſtotelis fco
pum attigerint, vt exiſtimo & tibi fore grata co gnouero ad reliqua philoſophiæ
Ariſtotelis loca declarandanon piger animus noſter erit , quod fi
minus,cenſoriam amicorum virgam nonfugiet hæc noftra expoſitio,interimmegratum
habeas. Vale. IN PRIMO CAPITE PRIMI LIBRI TOPIC ORVV M. I DETV Ř autem hic
modus differre à dictis ſyle logiſmis nequeenim ex veris, &primis ratioci
natur pſeudographus,neque ex probabilibus, nem in deffinitionem non cadit ;
neque enim quæ omni . bus videntur accipit, neque quæ plurimu i ,neque qnæ
fapientibus, & his neque omnibus neque plu . rimum, neque probatiſſimis;
ſed ex proprijs quidem alicuiſcientie fumptis,non tamen veris ſyllogiſmumfacit
,nam vel.eo quod femi circulos deſcribit non vt oportet , vel eo quòd lineas
aliquas dicit non vt ducendæ ſunt paralogiſmum facit. VNC textum declarant
Greci, & Latini vſque ad locum illum quo Ariſtoteles exemplo vtitur Geo.
metrico,ad quem locum pręclari expoſitores cum per uenerint Tantis Tinebris
vinctum loris , & funibus reliquerunt Ariſtotelem , vt ab Alexandri
tempore(vo reor) vſque modo, omnes qui illas preclaras interpretationes legea
rint, illius loci notitia priuati fint, quos prçclaros expoſitores pro prio ſuo
citarem nomine , vt amatores Ariſtotelis eos cauerent vt infames ſcopulos
acróceraunię, fed eos prçtereo vt in hacparte inu liles, line Geometria
logiculos , legantfine liuore & vafricia expo fitores illius lociomnes,
& has noftras declarationes non quidem criſpis naribus, ſubinde iudicent,fi
intellexerint, quanti ingenö fuit , ficut in cæteris ipſe Ariſtoles , hæc citra
in Alatas buccasdixiſſe ve lim , quiſquevt intelligat, fed vt litterarum
aliquando illuſores re primantur pariterque eorum indocta audatia, fufcipiatur
igitur re cta linea, a bquę feccetur quomoçunque contingat in puncto c , &
ſuper vtranearī a ccb, ſemicirculus,non vt primīī petitū docet, facto d centro
vnius & e alterius deſcribatur perperā ſemicirculus a h c,alter chb,
quiſeſe Tangantin puncto h ſuſcipiaturque centrū huius ſemicirculiah cipſum d ,
illius autem ch b ſit centrum e, a punctis igitur d ; & e,ſemicirculorum
centris ducantur duæ lineæ ad h contactum , & intelligatur Triangulus d he
, quoniam autem 3 5 dur'lineædc & dhexeunta centro ad circunferentiam ipfæ
per dif finitionem circuli funt æquales, pariter per eandem definitionem duæ
lineæ ec & ehſunt æquales , duæ igiturdc & ce duabus d h &
eheruntæquales, duæ autem ille dc, ceſuntvnum latus trian guli dhe,ergo vnum
latus d e trianguli d heeft æquale duobus la ceribus eiuſdem triangulidh &
e h ,quod eſt impoſsibile contra vi gefimam primi elemērorum Euclidis,duo enim
latera omnis trian guli quomodocunque ſumpta , ſunt maiora reliquo & non
æqua lia, vtpſeudographo ſyllogiſmo machinabátur proteruus,hocau . cem vitium
non ex coprouenerat qex falfis fyllogiſmus fic con fectus,quia ex veris , &
immediatis, & exeodem ſcientię genere, vt ex definitione 17 primi
elementorum ſyllogiſthus affectus eſt ,ſed error atque peccatum proceſsit ex co
ofemicirculos defcribit non vt oportet, quod notauit nobiliſsimus geometra
Ariſtoteles, fic 1 a 6 etiamhi qui falfo fyllogizant,vnum fatus trigonimaius
eſſe duo bus reliquis trigoni lateribus, no vt oportet femicirculos diſcriben
tes , fic.n.linca a b & puncta in ea ſuſcipiantur cd & circa vtranq ac
, &db , rectam ſemiciruli deſcribantur fe inuicem tangentes in puncto e
alter a ec cuius centrum f,reliquus bed cuius centrum g , &a centro
fprotrahatur recta fe fimiliter a punctog protraliatur gerecta , tunc
triangulusfe g habebit latus f g maius duobus lateribusfe, & ge, quod fic
perſuadetur,lineafc eft æqualis lineæf e cum vtraque exeat,a centro ad circunferentiam
, fimiliter linca g deft æqualis geeadem ratione , fi igitur c d linea addatur
lineis fc, & dg, equalibusfe & gcefficiunt linea fg latus trigoni fe
gma jusduobus lateribus fe, & ge quod eſt impoſsibile per 20 primi
clemcntorum ,vel eo q lincas aliquas ducit non vi ducendæ funt d g paralogiſmum
facit, ſi ducatur linea a centro fad centrum g , illa non tranfibit per
contactum e,vtin hac fecunda figura apparet, ve linea abf,in g,non tranſit per
punctum e vt oporteret, per xi tertij clementora Euclidis, fi duo circuli fe
contingunt & acentro ynius ad centrum akerius recta ducatur linea illa de
neceſsitate applicabi tur contractui, ex mala igiturdeſcriptione attulit
Ariſtoteles exem plum de ſyllogiſmo falſigrapho , qui oſtenſiuo fyllogiſmo oppo
. Situs eft . CAPVT CAPY T SEPTIMVM. SIMILITER vero e ſi cubilali
magnitudinepoſita dixe rit, quod ſuppofitum eft cubitalem magnitudinem ere, eo
quid eft dicit, & quantum fignificat. RES duorum generum propinquorum
continuiatas diſcre. ti vnius tamen generis remoti &analogi, quantitatis
videlicet, in vnacubitali magnitudine continetur,obid, duodicit, qui magnicu
dinem cubitalem ,effe magnitudinem duorum cubitorum , &quid , quando dicit
magnitudinem , et quantum , quando dicit,cubitorum duorum , hinc manifeftum eft
in ynoquod prædicamento reperiri quid,vthoc Ariſtotelis exemplo patet
demagnitudine,aliud eft no tandum , quomodo vnum accidens,vt duorum ,quod ad
Arithme ticam pertinet,accidere magnicudini,quod ad Geometriam attineta CAPVT
DECIMVMTERTIVM, QVAEDAM enim statim &nominibus alia ſunt,vtacu to in voce
contrarium eſt graue, in magnitudine autem , acuto , obtufum contrarium est.
Multiplicita - tem huius vocis # (acutumdemon Itrat Ariſtoteles, quia et
angulum norar, & vocem , # US Angulus accutus rectominor & contrarius eft
obruſo , &voxac cuta graui vociopponitur, et graui contrariatur accutum in
voce, leue in ponderibusgraui oppugnāt. Sed dubitatur,cum quantitati nihil fit
contrarium , quo pacto acuto angulo obtufus contrarius fit ? Dico quod angulus
noneft quantitasfed ex quantitate quan . titati adiuncta proueniens accidit
quãtitati vt fit accata vel obtuſa pariterque pondus &lauitas funt quidem
magnitudiniadiuncta , fed no eſ pondus,et leuitas, quatitas, ſi contraria fint
leue et graue. cantus IPSIvero queà conſiderando eft, quòd diameter cofta incom
menfurabile , nihil. DEincommenfurabilitate coſtæ cum diametro abunde faris in
pofterioribus declaraui,quantum vero adhunc locumattinet, Art ſtoteles inquit,
non effe quippiam oppofitum ipfi incommenſura bilitaci,vrpura commenfurabilitas,
inter coftam atque diametrum quadrati nihil contrarij eft,dubitatur,cum in
præcedenti textu, ſit de terminatum,& ea quęaddita eránt magnitudini, vt
pondus & leui tas contrariarentur,hæc autem quæ magnitudini coſtę &
diainetro, vtincommenſurabilitas, non contrarietur commenſurabilitati?
Reſpondeo, prius dicta cótraria pondus et leue in naturalibus reppe
riebantur,hæcautem incommenſurabilitas in abſtractis geometria cis; Præterea,
nonfuit dictum omnia quæ in magnitudinibus re periuntur eſſe contraria
,Pręterea & li opponanturcommenſurabi liincommenſurabile,non tamen
contraria ſunt, vel etiam fi contra ria fint,non tamen ratione ſubſtractorum
,quçſuntquantitates,co fta & diameter, contraria effe dicuntur , potus enim
fitinon eft nifi quodammodo contrarius, delectatio autem , quæ ex potu prouenit
opponitur contrarie triſtitiæ , quæ prouenit ex fiti, Præterea graue &
leweſuntabſoluta quædam in diuerfis ſubiectis poſita ſeorfim ,
incommenſurabilitas autem relatio eft ; quæ indiſcriminatim funda tur in coſta
,ad diametrum & in diainetro ad coftam . CON SIMILITER autem et acutum ,nam
non eodem mo do in omnibus idem dicitur,nam vox acuta quidem velox ,quemad
modum quidem dicunt ſecundum numeros armonici. NOTA dignnm eft hocloco
conſiderandum , a vox hoc lo co non accipienda eft pro humana voce tantum , ſed
pro ſono , qui quidem fita cordulis inſtrumentorum , nam gratilior corda fitan
gatur plures aeris percuſsiones facit quain crafsior cordula , fiea dem vi
moueatur, modo inter percuſsiones multas aeris cordulæ gratilioris ad
percuſsiones cordulæ craſsioris fi inultitudine repere ris duplam ,diapaffon,
fi fefqualteram , diapente , fi vero epitritam diateſaron, vt aiunt Armonici
continentiam inuenies, quia tamen Ariſtoteles de generatione animalium libro quinto
capite feptimo pucat concinentiam fieri ex alia caufa quam ex proportione illo,
rum ſonorum numeratorum ad alios fonos numeratos,vt pytha . gorici volunt,
ideodicit quemadmodum quidem, vt dicuntarmo nici, quia fententia Ariſtotelis
alia atque diuerfa eft ab illis armoni cis, qui Pythagoræ affentiri videbantur,
CAPITE DECIMO VARTO, ET quòd pun&tusin linea do vnitas in numero , nam
vtrun . que eft principium . PRÍNCIPIV M lineæ punctus , principium autem nu
merivnitas eſt, ſed punctus non componitlineam alős punctis ap pofitus,vtin
pofterioribus demonftraui,vnitas vero cuin alñs vni tatibus numeruin
conftituunt atque componunt, principium tamé lineç atque finis ,punctus eſt ex
cuius fluxu linea fit vt Ariſtoteles in mechanicis & ego in diſcurſu geminico
determinaui, non tamen linea ex punctis conſtat , LIBRO SECVNDO CAPITE SECVNDO.
2 VEL duplicis & dimidij. AN ſit ne eadein diſciplina duplicis atque dimidă
conſiderare oportet, quod profecto allerere videtur ex capire de relatiuis, cum
nemo ſciat duplum ,niſi cuius ſit duplum ſciueric, quod diinidium eft, fi pro
relatiuis vtrunque ſuſcipiatur. HOC autem non ſemper faciendum , fed quando non
facile pojumus communem in omnibus vnam rationem dicere, quemad modum Geometra
quòd triangulus duobus rectis æquos isabet tres angulos. NVLLI id in
controuerſiam venit, an omnis triangulus ha beat tres angulos duobus rectis
æquales , ſed illud dubium eft,an id quod rectilineumeft,habens angulos duobus
rectis æqualis,trian gulus ſir, velquid horuin in plus fe habeat, & non fit
vtrunque ſe cundum q ipſum, ſed vniuerſalius fit, habereangulos duobus reo Ctis
æquales, atque comunius,an potius triangulum effe, ad quam dübitacionein , dico
quod duobusrectis pates habere angulos, eſt quid communius , quam efſetrigonum
, id autem inanifeſtum eſt de pentagono , cuius quodlibet latus, duo ex
reliquis lateribus fec cat latera , id autem per primam partem 32,
primiElementorum bis fumptam & per fecundam partem eiuſdem zz. ſemel ſum
pram, vt in figura ſubſcripta deduci facile eft, & fi habere tres çqua les
duobus rectis conuertatur cum trigono,non tamen habere om nes angulos equales
duobus rectis ,conuertitur cum effe trigonuir . Dico igitur, quod habere omnes
angulos equales duobus rectis,co mune eſt ipſi trigono, & pentagono, cuiusvnum
latus ſeccat duo ex reliquis latera , habet tamen penthagonus quinque equales
tri bus, qui tres duobus rectis pares funt, & fic figuramihabentem B omnes
angulos duobusrectis pares communius eft, quam fit trian gulus, non igitur eſt
affectio trianguli neque angulorum triangu . li, fed quid communius trigono,
vel tribus angulis trigoni, non eft igitur eius proprium ,quod videturfoluere
dubium fuper textu mo tum ,fed affectio trianguli eft habere tantum tres
equales duobus rectis,velęqualitas duobus rectis, conuenit tribus angulis
figuræ triangulari, & non omnes angulos, elle çquales duobus rectis. VEL pt
buius a fecundum lechu ius ſecundum acci dens, vt fecundum Se quidem quòd tri
angulus duobus re b Etis æquales habeat tres angulos, ſecun . dum accidens autē,
quòd æquilaterus, quoniam enim acci dit triangulo,& qui. laterum effe trian
gulum , perhocco gnoſcimusquòdduo bus reétis habeat internos. QVIDAM
interprætes fic perperam exponunt Ariſtotele , quod habere tres duobus rectis
pares,ipfi triangulo per ſe infit,ipfi vero Iſoſcheli cõuenit quidem habere
tres duobus rectis parcs, ſed non per ſe,ſed per accidens , fic vt hæc
predicatio , Iloſcheles habet tres duobusrectispares, ſit accidentalis,hec
quidem ſua interprę. tatio & nulla eſt, &nullo modo ad Ariſtotelis textum
facit, quod nulla fit, & falfa, manifeſtum eſt ex capite de per fe in
poſteriori. bus, quia quod enim ſuperiori per fe ineft &inferiori pariter
per ſe ineſt, ineſt tamen ſuperiori perfe & primo, inferioriautem , per ſe
fed non primo. Aliter igitur exponendus venit is textus , primo igitur
aduertendum quod circa idem ſubiectum fit prædicatio per fé & per accidens,
vtpura circa triangulum , per fe quidem fic, tri angulus habet tres duobus
rectis pares, per accidens vero ſic, trian gulus eſt Iloſcheles; vbi
aduertendum ,vtin præcedentibus libris declarauit Ariſtoteles,omne inferius ſuo
ſuperiori accidens eſt,cum abeffentia fuperioris omnino fecludatur inferius,
& vt alienum a fui natura ſibi conueniat. LIBRO QVARTO. CAPITE PRIMO SIQVIS
infecabiles ponens lineas , indiviſibile genus earum dicat eſſe , nam linearum
habentium diuifionem non eft quod di Etum eſt genus, cumſint indifferentes
ſecundum ſpecicm , indiffe-, rentes enim ſibi inuicem fecundum fpeciem rectæ
lineæ omnes. TRACTATVS quidem de lineis infecabilibus extat,e greco latinitati
donatus quem Ariſtotelis quidem effe exiſtimant, tametfi Georgii pachimerñ
nonnulli effe dicunt, quod, quia cuiuf cunque fuerit,non facit ad expofitionem
litteræ affequendam , me rito prætermitto auctorem fore inueſtigandum ,vt
Ariſtotelis decla rationi infiftamus, pro quo in memoriam reuocandī eft id,
quod Porphyrius habet, ſuperius genus de inferioribus ſpeciebusneceſe, fario
predicari, quod fi de illis non prædicauerit,neque ad illas, illud eſſe genus
manifeſtum erit, quapropter fiquis inſecabiles poſuerit lineas,atque ad illas
genus id, quod eft indiuifibile,effe dicat,ftatim in contradictionem
reducitur,ob id , quia ,diuiſibile,genus eſſe ad li ncas conſtat,modo lineas
omnes eandem deffinitionem ſuſcipien . tes,eiufdem ſint fpetiei, fieri autem
nequit , vt aliqua eiuſdem ſint ſpeciei, & genere fint diuerfa, quod quidem
contingeret, fi indiuifi bile,ad lineas aliquas, genus effe diceretur,tunc enim
indiuiſibile di ceretur de lineis infecabilibus p hypothefim cũ fic ſupponatur
( fal ſo tamen ) ad illas eſſe genus, & etiam de alñs, quæ per 10. primi
Elementorum ſecabiles ſunt cum etiam adillas ſit genus, quod qui dein efle,
nullo modopoteft, propter contradictionem , CAPITE SECVNDO. ET ſi differentiam
ingenere poſuit tam quimſpeciem ,vt im par quidem numerum , Differentia quidem
numeri, impar, & non ſpeties eſt, neque videtur participare differentia
genus,nam omane quod eft, genus, velfpeties, vel indiuiduum eſt, differentia
autem , neque fpeties, neque indiuiduum , manifeftum igitur quoniam non
participat genus differentia , quare neque imparopetieserit , fed differentia
quoniamnon participat genus. B ñ 9 tra NVMERV S quieſt ex vnitatibus profuſa
multitudo,paro ; titur in numeruin imparem , &in numerum parem , vel perhas
differentias diuiditur, quę ſunt, paritas, & imparitas, quarum neu includit
numerum, qui genus eſt ad omnes numeri ſpecies,& fi ifta vera fic,rationale
et animal, quando ly rationale accipitur pro Specie, quæ homo eft, & non
pro rationalitate in abſtracto, qux eſt hominis conſtitutiua differentia ,eodem
modo, & numerus prædi catur de pari in concreto & non de abſtracta
paritare, hęcenin & fimiles illi, ſunt ſemper falle, paritas eſt numerus,
vel imparitas eſt numerus,quodquia oinnia manifeſta , & nora Ariſtoteles
cíle vo . luit, exemplo arithmetico declarauit, A 11 PLIVS ſi genus in petie
pofirit, vt contiguitatem id ipſum quod eſt continuitatem , non enim
neceſſariuin contingui. tatem continuitaternelle, led e conuerſo ,
continuitatem contigui tatem non enim omne contiguum continuatur, led quod
cortina tür contigurn eft. CONTINVVM illum effe dico cuius partes copulantur ad
terminuin vnum communem, qui quidem terminus elt tantuin potentia inter illas
partes ipſius continui, nõ etiam actu, &opere, vt linea lineæ continuatur
per punctum , qui non actu exiſtit, ſed tantum potentia inter illas duas lineas
, velinter duas partes linex , quod & de partibus ſuperficiei , quæ per
lineam in potentia copu lantur, &corporis partes, per ſuperficiem in
potentia, Contiguum autein illud effe dico , quod alteri applicatur &
iungitur non per mediuin potentia exiſtens,fed per mediuin quod actu &
opere exi 1tit, vt manifeſtum eſt de cæleſtibus orbibus , concaua eniin ſuperó
ficies ſuperioris orbis augem defferentis, & fuperficies connexa or bis
differentis epy ciclum ſunt due ſuperficies actu exiſtēres inedia , per quas
continguantur adinuicem illi orbes, non tamen continu : antur adinuicem: Cælum
primū continuum quoddam eſt, & con. tiguaru: Cælo nono ſecundum fuperficiem
concauam ipfius pri mi mobilis actu exiſtentem ,non tamen fequitur , primum
mobile eſt contiguum cum nona ſphera , igitur continuum eſt cum nona iphera
,quemadmodī non fequitur, quinque digiti adinuicem funt contigui , igitur
quinque digiti ſunt continui, ſed bene ſequitur , quinque digiti ſunt continui,
igiturquinque illi digiri ſunt conti gui, vt quando clauditur manus, vel manus
aperiatur quinæ digi zi aeri ſunt contigui ,vel aquç contigui, li in anforæ
aquam inanum ponas , vel etiain cirotececontiguantur , & ratio eft, quia
vnum quodque naturale corpus, alteri contiguatur , ne vacuum daretur in natura
, 7 CAPITE TERTIO . CONSIDERAN DV M autem eſt , fi quod translatiue. dictum
eſt, ut genus aſsignauit,vt temperantiam , confonantiam , nam omnegenus proprie
deſpeciebusprædicatur,conſonantia ve. ro detemperantia ,non proprie,fed
translatiue, omnis enim confo Wantia in ſonis eft. CONSONANTIA eſt diſsimilium
vocum acuti gra . uiſque in vnum redacta concordia, quæ fine ſono, quę aeris
percuſ fio eft fieri nullo modo poteſt, illa autem confonantia quæ transla tiue
dicitur, quæ effrenatam libidinem moderat , non quidem a ſo no , quæ eft aeris
percuſsio , fed illa quidem eſt , quæ a concordia diſsimilium dicitur, hæc
autem non neceſſario in Conis reperitur, vt eſt illa ſupercæleſtis Armonia ,
quæ nil aliud eſt , quam coeleſtium motuumdiuerſorum ,in vnam munditotius
conſeruationem apta concordia, quam celebrant quidem illi ſapientes pythagorei,
quos gratis in libris de cælo redarguit Ariſtoteles, quam armoniam di ces illam
effe de quaMarcus Tullius in 6 derepublica, cui de ſoin . no Scipionis nomen
indidit, docte meminit, hanc quidein dico nul lo modo conſtare in fonis, ſed
illam quam libro primo capite deci mumtertio & in hoc capite tetigit
Ariſtoteles , ... CAPITE QVARTO. AVRSV M ji non ad idem dicitur fpecies 2
ſecundum ſe, da fecundumgenus , vt fi duplum dimidiy dicitur duplum o multi
plum dimide oporter dici, li autem non, non erit multiplam genus cupli,
abundansſimiliter cicitnr ſimpliciter ſecundum om . nia fuperiora genera ad
dimidium dicetur. ABVNDANS numerus is eſt, cuius partes omnes fimul additæ in
vnum exuperant totum illud cuius partes erant , vt duo, cenarius eſt abundans ,
quia 6,4, 3 , 1, ſiin vnum aggregentur 16 coinplent maiorem numerum duodenario
, de quo quidem abun . danti, qui eſt fimilis centimanugiganti , non loquitur
Ariſtoteles hoc loco, fed abundansillud eft, quod ſuperius eſt ad multiplum, ad
ſuperparticularem , & ſuperparrienrem , abundans præterea ,vthic accipit
Ariſtoteles,eſt ad aliquid, quod etiam de multiplici, at& lu
perparticulari, & ſuperparrienti, &de omnibus ſub illis contentis,
dicitur ,duplum igitur triplum ,quadruplumque cummultiplun lit & pariter
vnumquodq; abundans erit, fi igitur abundansnon eſt, non eritmultiplum ,neque
etiam duplum , itaque abundans vniuer lale magis quam multiplum eft . 1 era
CAPITE SEXTO, QVONIAM autem muſicum , qua muſicum eftfciens,elle muſica
ſcientia qua eft. MVSICA enim quathenusmuſicũ effe facit , nõ quathenus
cantorem , qualitas eſt de prima qualitatis fpecie ,quathenus autem ſcientia
eft, &fciens facit, relatiuum quidem eft, vt in capite ad ali quid fuit in
prædicamentis determinatum . NVMERVM diuiſibile,e conuerſo autem non,nam
diuifibi le non omne, numerus, DIVISIBILITAS non modo magnitudini ſed etiam numero
conuenit, non tamen omni numero , ſed numero tantum pari,impari autem ob
vnitatis interuëtum nequaquam , Veletiam melius erit dictu , diuifibilitas in
duo æqualia , numero tantum pari conuenire, diuiſibilitas autem fimpliciter
omni numero conuenire, id quod Ariſtoteles hoc loco velle videturdicere, ſeu in
duo æqua. lia,vel in duo inæqualia numerus ipfe diuidatur , fic vtdiuiſibilitas
in partes integrales cuilibetnumero conueniat , non diuiſibilitas in partes
aliquotas omni numero, ſed tantum numero pari conuenire eft neceffe, aduerte
etiam quod ipfinumero primo conuenit diuili . bilitas in tot partes, quot
vnitates habet;in plus igitur ideft ,quod diuiſibile eft, quam id ,quod numerum
eſſe, quia diuiſibile, eſt com mune ad diſcretum , quod in partes aliquotas
&in partes integran tes diuiditur etiam ad continuum ,ſequitur igitur
recte,numerus eft, igitur diuiſibile, ſi diuiſibile accipiatur commune ad id,
quod in ali quotas & integrantes diuidatur partes, &non econuerſo , vt
diui fibile eft , igitur numerus, LIBRO QVINTO, CAPITE PRIMO. LOGICV M problema
. PROBLEMA apud Euclidem eſt propoſitio ,in qua vnum datur, & aliud (vt in
pluribus) quæritur, vt ſuper datamrectam li neam triangulum collocare, linea
quidem datum eſt, quefitum au tem ef trigonum ipſum conftituendum ſuper lineam
datam , ſem per enim problema verſatur circa praxim ,quapropter, problema
Geometricum ,eftpropofitio practica , Theoremavero Geometri. cum ,eſt
ſpeculatiua propoſitio ,modo Ariſtoteles non ingnarus hu. ius duplicis
fignificationis problematis Geometricc, & logice,pro pofitionem dubiam ad
vtráque partem, dixit problema logicum , &non Geometricum debuifTe
intelligi, inquit enim , logicum au tem eſt problema,ad quod rationes fiunt,
&crebræ quidē, & bong CAPITE SECVNDO . ERIT enim ſecundum hoc bene
poſitum humidiproprium , vt qui,qui dixit humidiproprium , corpus quod in omnem
figuranı ducitur, vnum aßignauit proprium , o non plura ,erit fecundum boc bene
pofitum humidi propriuns. FIGURA hicaccipiatur in corpore locante humidum
,humi. dum enim cum corpus fluxibile atque dilatabile fit , ſuſcipit quan
cunque figuram a re locànte, quæ figura, feu natura, fiue etiamarti ficis opere
introducta fit , in illo vaſe locantehumidum , accipere igitur hocmodo figuram
a re locante , proprium eft ipfius humi di, & non alterius cuiuſque, NON
omne ſenſibile extra ſenſum faftum ,immanifeftum eft, latens enim eft, fi adhuc
ineft, eo quòd fenfu folo cognoſciiur, erit autem verum hoc ,in his, quæ non ex
neceſitate ſemper conſequun tur, vt quia, qui pofuitſolis proprium , aštrum
quod fertur fuper terram lucidiſſimum , tale vſus eſtin proprio ( ſuper terram
in , quamferri) quod ſenſu cognoſcitur, non vtique erit benefolis af fignatum
proprium immanifeſtum enim erit cum occiderit ſol , si adhuc ferratur fuper
terram , eo quòd nos tunc deſeruimus fenfium . CECVS enim huius quod eft, folem
fuper terram ferri,nul. lam habet ſenſationem ,ſed videns, illius ſenſationem
habet quan do folem ſuper terram in die artificiali conſpexerit, quam primum
autem fol occiderit , & fub orizonte conditus fuerit , definit ſenſus
percipere folem fuper terram ferri, fi igitur illud proprium eſſet folis , illo
deficiente, ( quod contingeret nullo conſpiciente ſo lem ferri ſuper terram )
proprio , & Sol , effe defficeret , quod quia abſurdum , non igitur
proprium eft folis eum videri ferri fuper terram , licet femper Sol ſuper
terram fereatur, id etiam , haud folis proprium eft , cum fyderibus omnibus,
Igni, Aeri ſem per conueniat , id autem quod proprium eſt , conuenit omni foli
& femper,inodo fecunda particula, (quod eft foli) non conue nit foli, fed
etiam alijs a ſole, & a fyderibus, & elementis, conuenit; Præterea
folem femper ferri ſuper Terram , & fi proprium ſolis ef fet,illud tamen
non eſt ſenſibile, led immaginatum ,perceptibile,vel intelligibile, particula
tamen illa aftrum lucidiſsimum , ipfi tantum foli conuenit, CONSTRVENTI vero ,
fi tale aßignauerit proprium , quod non ſenſu est manifeſtum , aut cum ſit
ſenſibile ex neceſsitate ineſe manifeftum eft,hoc benepoſitum proprium , vt quia,
qui po fuit fuperficieiproprium quòd primum coloratum eſt, ſenſibili qui dem
aliquo vfus eft (coloratum eſſe inquam) tale quidem quod ma nifeſtum est ineſſe
ſemper, erit fecundum hoc, bene aſsignatum fit perficiei propriim. IMMEDIATVM
ſubiectumn coloris fuperficies eſt , ſub . ftantia enim colorata eſt, quia
corpus coloratum ,etideo corpus co loratum eft, quia ſuum extremum eft coloratū
, extreinum autem, ſeu terminus, ſub quo corpuscontinetur ſuperficies eft , in
qua im mediate color fuſcipitur, iſtud autem proprium ,non ex natura ſu
perficiei profluit , fed extrinſece aduenit color ipſi ſuperficiei , quæ
quantitas quidem eſt, color, autem qualitas , fed cum ſenſibili per fenfum
percipiatur, & fecundum apprehenſionem fiat exiſtimatio, et quia ſuperficies
omnis,affecta ſit colore, ſequitur quod recte pro prium afsignabit ſuperficiei
, fiquis dixerit eain effe coloratam & erit proprium ſuperficiei, proprium
quidem ſenſibile,non tamen ex intrinſeca natura ſuperficiei. CAPVT TERTIVM.
PRIMVMergo deſtruenti quidem, infpiciédum eſt ad vnum quodque eorum cuius
proprium aßignauit, vt ſi nulli ineſt; aut fi non fecundum boc quidem
verificatur, aut fi non eſt proprium c18 iuſ que eorumſecundum illud cuius
proprium aſsignauit; non enim erit proprium ,quod pofitum eſt elle proprium ,
vt quia de Geome tra non verificatur indeceptibilemeſe ab oratione (nam decipi
tur Geometra cum pſeudographiäfacit ) non erit hocſcientis pro prium , non
decipi ab oratione. HIC locus videtur opponi ei quod Ariſtoteles determinauit
de Geometra primo poſteriorum ,vbi ait Geometram non mentiri concipientem 9
concipienten lineam bipedalem, quæ tamenminimebipedalis eſt, fed fiquis recte
inſpiciat,nulla certe oppoſitio apparebit , fed vtera quelocorum mutuo ſeſe
alternatim declarabit, cuinam in dubium illud venit,fępemens ynī interne
concipere, quod falax manus ex trinſece, illud peruertit: hoc quidé
prothagoręfæpe contigiffe reffe runt, vt aprehenfo, ad ſcribendum calamo,id
ſcripfiffe quod men ti fuę opponeretur, & id vitii non ſolum manui, fed linguæ
ſæpe etiam contingit , quis enim id in feipfo non eft expertus . vt quan doque
ynum ex inſperato lingua profferat, Q tamen aliter mente prius conceperat,id
autem etiam cuidam Geometræ, ſi contingar, vt perperam ſemicirculos deſcribat
veltrahat lineas,non vt opor tet ( vt interiusprius mente concepir) ficut primo
topicorum capite primo fuit declaratuin ,non tamen id proprium eft Geometræ
,cum non ſemper vnicuique Geometræ conueniat , ſed raſo etiam vni accidat.
LIBRO SEX TO . CAPITE TERTIO, SIMPLICITER igiturnotius , quod prius eſt
poſteriore , vt punctum linca, o linea ſuperficie , & ſuperficiesſolido ,
quem admodum vnitas numero prius enim &principiã omnis numeris. VIDETVR hic
textus contra determinationem philoſophi primo de phiſico auditu capite de primo
cognito, vbi determinat de circulo p priino cognoſcitur, quam quod fit figura
plana vna linea contenta : pro cuius loci huius &illius intelligentia ,
fcire debes deffinicum cum ignotum ſit, per deffinitionem explicatur,ipſa vero
definitio per ea quę nota ſunt, ingnotum definitummanife ftum facit, quod
Euclides,vbilineam rectam deffinit primo Elemē. torum prius punctum
explicuit,quiin deffinitionem lineæ ponere , tur, vt furt declaratum capite de
per ſe,primopofteriorum fubinde lineam per punctum , & fuperficies per
lineam , & tandem libro 11 , corpus per ſuperficiem deffiniuit , quo autem
modo diuerſo ſe ha heat punctus in linea ab eo modo, quo vnitas in numero,id in
na lyticis capite de per ſe fuit manifeſtīt, ſed id in dubiữ verticur , quo nam
modo corpore ſuperficies, & fuperficie linea , &linae punétus noctiora
fint:'cīí hæc omnia apud Geometrā, & ftereometram ab ſtracte conſiderentur.
Dico quod cum abſtractione in his omnibus minor & maior fimplicitas
repperitur,vt in puncto quam in linea &fic deinceps, Adid autem de primo
phiſicorum de circulo nulla videtur oppofitio in Ariſtotelis verbis, ibi enim
de vniuerfali con fufe aprehenſo hicauté de ſinipliciori dictincte concepto
loquitut C 1 pro no OPORTET autem non latere quædam fortaſſe aliter deffi niri
non poffe, vtduplum , line dimidio. ID notandum euenit hoc loco , quod
Ariſtotiles capite de ad ali quid poft multa examinara ibidemn
determinauit,quodad aliquid non eft, cuius effe fit elle alterius, fed cuius
eile eft ad aliud quodam modo refferri , vt dupli efTe, fic eft, vt abfque
relatione ad illud cu ius eft duplum minimne poflit percipi, licet non
cognoſcat illud fub nomine & natura dimidii,ſed tantum quathenus
duplationen ter minat, quę fundatur in eo, quod illa duplatione duplum eft.
OPORTET autem ad deprehendenda talia fummere mine orationem , vt quod, dies,
eſt ſolis latio fuper terram. QVI deffiniet diem artificialem ( qui incipit ab
emerſu ſolis ſu pra orizontem vſquequo accidat ) ponit in definitione lationem
ſtelle apparentis fuper terram (qui fol dicitur )nam qui die vtitur & ſole
vei neceffe eft , acquiſolem deffinir, ſtellam in die apparentem dicit, in qua
deffenitione alterius,alterum ponit eo modo quo ea , quæ ad aliquid
deffiniuntur, RVRSVS fieo quod e diuerſo diuiditur , id quod e diuerſo di
uiditur diffiniuit, vt impar eſt qui vnitate maror eſt pare , fimul enim
natura, quæ ex eodem genere e diuiſo diuiduntur, impar au. tem &
parediuerſo diuidunt,nam ambonumeri differentia . PRETER eas quas Euclidesin
elementis & Boetius primo Arithmeticæ deffitiones de impari atque,pari
numero dederunt,hęc Vna eít ,qua in comparatione & non abfolute
imparemnumerum in ordinead parem deffinit fic vt neuter abfque altero intelligi
que at , & alter indeffinitione alterius ponatur,vtocto par , vnitatem imparem
feptem ſuperet , & hic fenarium parem eadem vnitate maior euadat. Duo enim
funt quæ diuidunt e diuerſo ipſum nume rum par, & impar, & in
deffinitione alterius alter ponitur,cum ad feinuicem rellatiue conſiderantur
& non abfolure , SIMILITER autem & fi per inferiora ſuperiora
deffiniuit, pt parem numerum quibipartiteſecatur , name bipartite ſuma ptumest
à duobus quæ paria ſunt. HIC textus obfcuriuſculus redditur in littera,ſenſus
tamen fa . cilis eſt , ſuperius enim fi per ſuum inferius deffinitur, vt notius
fia at, fuperius hic eft quod, bipartire ſecatur,inferius autem numerus eſt
par,optime enim fequitur, hic numerus par eft igitur, bipartite fecatur,fed fi
arguas bipartite ſeccatur igitur numerus eft,incõftans eft ifta argumentatio ,
neque y ſquam valida eft, nifi intelligatur 1 numerus in confequente pro numéro
numerato , vt funt etiam ma. gnitudines, quæ nuineri ſunt, vt in
pofterioribusdeciaratum eft per me, ita vtin conſequente accipiatur numerus pro
quodam comu. ni ad numerum numeratū &ad numerum qui eſt ex vnitaubus
profuſus aceruus,fic enim quod bipartitīī par numeruseft, & ficin
deffinitione ſuperioris, quod eſt bipartiri veimur oumero pari,qui inferior eſt
ad bipartiri ſimauis, bipartiri,a binario numero capias qui binarius
inferioreſtad numerum parem ,cum quaternarius, & ali quam plurrimi fint
pares numeri,modoqui in deffinitione nu . meri paris vtitur bipartiri , ille
quidem in ſuperioris definitione Vtitur ſuo inferiore , CAPITE QVARTO . AVT
rurſum qui deffinit noĉtum umbram terra . TERRA eniin cum ſit opacum corpus
radë Colaresnon pof. funt illud ingredi & vltra progredi ( quod in
traſparenti aericone tingit ,) ſed impediuntur a parte terræ , quæ pars ad
folem reſpicit, ex alta autem terræ parte,luminis priuatio contingit, quæ
priuatio luminis folaris fuper terram nox appellarur & cft liquis igitur no
Etem definiat, fic inquiens nox eft priuatio luininis folis ob er iæ opacitatem
proueniens , fimiliter terram quis deftiniens dicet, terra eſt corpus ex cuius
opacitace nox fit, vide quo pacto &ter am in deffenitione noctis, &
noctem in deffitione terræ & vtrun que in vtriufque deffinitione ponitur,
fequuntur quædam Ariſtore lis verba in textu de multiplici & ſubmultiplici,
atque de duplo & dimidio , quæ quia alias declarata ſunt pretereunda duxi ,
fed id no. tandum eft quod in deffinitione priuatiui , vtputa noctis , ponitur
poftiuum , vtputa terra , quod etiam in multis eft aduertendum , quia non ſolum
ponitur pofitiuum ,fed etiam priuatiuum , vtly pri uatio lurninis, CAPITE
QVINTO, Si autem aliquurum complexorum aßignetur terminus, con fiderandum eft
aufſerendo alterius eorum , quæ comple & tuntur ora tionem , fi eft &
reliqua reliqui, Nam fi non ,manifeftum quonia, neque tota totius, vtſi quiſpam
deffinit lineamfinalem rectam fic nem plani habentis finis , cuius medium
ſuperaditur extremis , ſi finalis linca ratio est ,finis plani habētis fines
recte oportet effe re liqui, cuius medium fuperadditur extremis,fed
infinita,neque me dium neque extrema habet, re &ta autem est, quare non est
relo qua reliqui oratio. ст · AVTEM quain ad expofitionem textus deueniam primo
liç terai Ariſtotelis in tralatione Argyropili et in textu Auerois cor rigendam
puto de mense Ariſtotelis ex Euclide iuxta cheonem , le gitur enim in vtroque
textu cuius medium ſuperadditur extre mis , vbi legi debet , cuius mediuin '
non reſulta ab extremis 86 Aueroes in expofitione fic interpretatur,cuius
inedium non occu . lit duo extrema, & videtur afſentiri ipfi Platoni
deffinienti rectă , recta inquit linea eſt, cuius medium non obumbrat extremna
, cæ , terīt mens Ariſtotelis eſt, quo pacto complexum deftiniatur often dere,
vt fi homo gramaticus deffiniatur,hæcenim erit ſua deffini tio , fíue
terminus,aninal rationale mortale recte legens atque ſcri bens, tota quippehec
ratio, huic toti coplexo , nempe, homo gram maticus,conuenit,modo liably homo,
ly gramaticus aufferatur, &ab ly animal rationale mortalely recte legens
atque ſcribens, vt fic dicatur, homo eſt aniinal rationale mortale ,
&gramaticus eft recte,legensatque ſcribens, peroptime data erit deffinitio
primo ipſius complexi,homo gramaticus,quod Ariſtoteles in Geometria
exemplificat,iminaginans (de mente aliorum ,) planum efle infini tum ſecundum
longitudinem tantum , finitum ſecundum latitudi. nem , quod quidein terminatur
linea recta, quæ eius finis ſecundū latitudinem ellet, modo ſiquis definiret
lineam finalem rectam die cens,effe finem planihabentis ( ſecundum latitudinem
) fines ,cuius ( quidein finis) medium non relultat ab extreinis ,hæc
particula, fi nes plani habentis fines , in definitione pofica recte conuenit
lineæ finalis, fed hæc particala , cuius medium non reſultat ab extremis ,
nonconuenit illi particulæ pofitæ in complexo, quæ eſt ly recta , velly linea ,
quia non conuenit niſi recrę lineç finicę , & non infi nitę, quęinfinita ,
vt fupponebatur, non habet medium , neque ex . trema,ideo deffinitio ipſius
totiuscomplexi minime recte data erat quia ficut vna ablata particula in
deffinitione conueniebat ablatę particule deffiniti , non fic reliqna particula
deffinitionis conuenit relique particule complexi deffiniti, $ I autem
differentia terminum alignauit confiderandum , fi eg alicuius numerun comunis
est aſſignatus terminus , vt cum imparem numerum aliusmdium habentcm dixerit ,
deter minandum est , quo pacto medium habentem , nam numerus qui dem , comunis
in vtrique rationibus eſt , imparis autem coaſſum pta eſt oratio , habent autem
&linea & corpusmedium , cum non fintimparia, quare non vtique erit
deffinitio hæc imparis. 12 IMPAR numerusin duoæqua dicendinequit ob vnitatis in
teruentum medium indiuilibilis denumerantis totum numerum cuius illa
vnitasıncdium eft , linea autem & corpus & ſi medium habeat,linca
quidem punctum medium , quod per 10 primielemen torum inuenitur fi diuidatur ,
& fuperficies medium habet diame trum, illa tamen media ,vt nec punctum
lineam ,neque linea ſuperfi ciem dimittuntur, neque illa componunt ea , quoruin
media ſunt, determinatū igitur eft, quo pacto numerus medium habet, & quo
pacto linea atque ſuperficies, & hoc de numero iinpari intelligas, cuius
inedium interduas partes æquales,vnitas eſt , & non de pari, ficut etiam
Ariftoteles ait in textu , CAPITE SEXTO . ex eis QV AE DA M enim ſic ſe habent
ad inuicem, vt nibil ex fiant ; vt linea numerus. LINEA in lineam fiducatur vt
45 primielementorum Eucli dis docet & prima et ſecunda; ſecundi elementorum
fuperficies pro ducitur, pariterque numerus, ſi in numerumduxeris,numerus pro
ducetur , vt ex ſeptimo elementorum manifeftum eſt , non tamen idem prouenit
per additionem, quia linea lineæ addita non facit ſur perficić, &fi hoc
milliesmillienamillia addieris adinuicemlineas, non reſultabit ſuperficies,
neque fi puncta ad fe inuicem addideris linea vnquam reſultabit, vnitas tamê li
vnitatibus, velvnitati,nu. merus (tatim reſultabit, qui acccruus eft ex
vnitatibus protufus, vt etiam in prædicamento quantitatis fuit declaratum.
LIBRO SEPTIMO. CAPITE PRIMO . Avr fi eodem ab vtroque ſublato , quod
relinquitur eſt alte rum, vt ſi duplum dimidi , co multiplum dimidij idem
dixerit elje , fublato enim ab vtroque dimidio , reliquu oporteret indicare,
non indicant autem, nam duplum &multiplum non idem fignificant. VLTRA cà
quæ de duplo & multiplo libro quarto capite quarto ibi dicta ſunt,vnum
illud conſiderandum eſt, quod a nega . tionc dupli ad interremptionem multiplex
fiquis argueret commit teret conſequétis falatiam vniuerſalius enim eft ipfum
multiplum ipfo duplo , vt eft animal equo vtrunque tamen ad aliquid eft, &
duplum ad dimidium , &multiplum ad ſubmultiplum . LIBRO OCTAVO. CAPITE
SECVNDO . . VIDET V R autem &in diſciplinis quædam ob definitionis deffe
&tum , non facile deſcribi, vt quoniam quæ ad latusſeccat planum linea
,fimiliter diuidit &lineam &locum , definitione au tem di&ta ftatim
manifeftum eft quod dicitur,nam eandem ablatio nem babent.loca d linea , eft
autem definitio eius orationis hac. DEFFINITIO ſecunda tertń elementorum
intellectum prebet huius deffinitionis pofitæ ab Ariſtorele , definitū eft ly
linea fec cās planum , definitio eft ly linea fimi a Jiter diuidēs lineam
&lo ct , fic enim Jittera ordi netur , linea quæ ad latus ſeccat pla num ,
eft li. nea diuidens lineam et locuni terminatum ab ipla linea recta , fieri
enim non po teft , vt linea ſecet planum terminatum linea , quin il.. la linea
terminans planum ſeccetur ab eadem feccante linea , id autē manifeſtum g eft ex
fecunda , tertia , & quarta definitione tertń elementorum Euclidis, &
alisexipfo tertio elemen forum , & xi fecundi, ly li. mea quæadlatusfeccat
pla num,vocatAriftoreies orationem in hocloco , vbi ait, oautem : deffinitio
eius orationis, hæc, id etiam dignī notatu cum deffinitio per genus, &
differentiam detur,loco generis in hac definitione, eſt ly linea diuidens
lineam , inodo cum linea prior fit plano, manife , ftum eft,quodde genere
dicendum erat in hac definitione, SIMPLICITER autem prima elementorum , pofitis
qui dem definitionibus ( vt quid linea vel quid circulus) facillimum oftendere,
verum non multis ad vnumquodque eorum eft argumen tari, eo quòd nonſunt multa
media , ſi autem non ponanturprinci piorum definitiones,fortaſſe autem omnino
impoßibile. PRIM A elementorum hoc loco ,non ſunt intelligenda princie pia, quæ
definitiones,petita,& animi conceptiones ſunt, ſed princi, pia ipſa,ſunt
propoſitiones,quæ in probleniata & theoremata diui duntur , quæ prima elementorum,
ideo dicunturcum per ipfa , quæ proponuntur in alís ſcientñs probentur, vt quid
fit linea,videlicet longitudo illatabilis, & quid linea recta,cuius mediñ
ſua ex æquali interiacet figna,tunc ſuper datam lineam rectam triangulum colo
care proponit prima, primi elementorum, & pofita definitione cir culi per
ipſam probatur triangulum ſuper datam lineam colloca. tum effe æquilaterum ,
& folum perilla media videlicet definition nem circuli 17 & primam
animi conceptionem primi elemento rum, quæ definitio , & animi conceptio fi
prius non ponantur diffi cile erit oftendere , fortaſſe omnino impoſsibile,
quod triangulus conftitutus fuper datam lineam ſit æquilaterus, 1 SIMILITER
autem his & in his quæ funtcirca orationes Je habe nt ; non igitur latere
oportet , quando difficilis argumenta bilis eft poſitio ,quòd eft aliquid
eorumquæ di&ta funt. LINE A quidem , atque circulus ſunt quædam incomplexa
quæ diffinibantur ab Euclide deffinitione tertia & 17 primi ele
mentorum,fed linea quæ ad latus ſeccat planum , fiue linea ſeccans planum ad
latus , id totum complexum eft,atque compoſitum , & licut fieri non
poterat, vt oftenderetur æqualitas laterum trianguli, abſque definitione
incomplexicirculi, fic etiam fieri non poterit, vt quippiam de quopiam
demonftretur , quando in demonſtratione ingreditur aliquod extremum complexum ,
quia tunc vtimur toto iſto tanquam principio ,ly linea leccans ad latus planum
, nifi prius ipfius complexi atque orationis præierit deffinitio , quę eſt,ly
linea fimiliter diuidens lineam terminantem locum &locum , ita vtpar.
ticula illa circa orationes non intelligatur yt gramatici, & rhetores
intelligunt orationes, fed oratio , pro quodam intelligatur comple xo
indiſtantitamen , hoc eft fine copula, & verbo principali,parti cula illa ,
pofitio, cum inquit Ariſtoteles quãdo difficilis eſt pofitio , non intelligitur
pro petitione, feu petito , quia petitum non eft argu mentabile,hoc eſt per
argumentum probabile,neque difficile, ne facile , cum ſit primum principium
&non probetur , fed petitio in hoc loco accipitur pro ipfa propoſitione,
quæ probanda venit , ſeu fpeculatiua,vel etiain practicafit, feu problema, vel
etiam theore, ma fuerit,et tunc talis propofitio difficile argumérabilis eft,
quando inter probandam ipſam ,contingit aliquod deffiniendī , quod com plexum
fit, quod nifi delfiniatur,difficilis argumentabilis eſt propo ſitio , &
fortaffe omnino inpoſsibile , quando id quod dictum eſt contigerit,videlicet
quod complexum deffiniendum interueniat, ly fortaffe autem omnino impoſsibile in
præcedenti textu non dubi tatiue ſed magis comprobationis particula accipienda
eſt . 1 CAPITE TERTIO . VELV T Zenonis quòd non contingitmoneri, neque ſtadium
pertranfire. PROTERVI Zenonis eft fententia dicentis ftadium , quod octaua pars
milliaris eft ,pertranfiri non polle, inter genera menſu . rarum quæ magis notæ
ſunt,ftadium numeratur,quod iuxta Ptho. Jamei ſententiã primo Geographiæ eft
milliaris Italici pars octaua. CAPITE QVARTO , OPORT ET autem eum quibene
transfert diale &tice,& non contentioſe transferre, vt
GeometramGeometricæ,fiue falſum fiue verum fit ; quod concludendum eft.
DIALECTIC A trallatio eft,quæ apparens quidem eft,et conuenientiam habet ad
illam remi fecundumquam trallatio facta eft , & non debet effe
dubia,contentiofa , & fophiſtica, ſed magis ad inſtar geometræ, qui nõ
errat aliquo pacto circa ſuam materiam er formam , vt primo poſteriorum
declaraui , vel etiam quitransſeng hanc vocem triangulus, a ternario numero, et
quadratum a nunc ro quaternario propter ternarium, & quaternarium numerum
vel æquicrus a duobusæqualibus tibás, vel gradatus propter tria 1112 - qualia
latera , quæ vt gradus concipiuntur, 2 CAPITE QVINTO. AXT fiquis corum qua
ſequuntur ſeinuicem ex neceſſitateal Strumpetat vt latus incomenſurabile cle
diametrofi oportet dia meter lateri. PRIMO pofteriorum fuit declaratum &
demonſtratū quo pacto diameter quadrati coftę fit incommenſurabilis , quantum
autem ad hunc locum attinet, non ſemper per ca que ſe conſequun tur
immediate,probatio fieri debet, fed medium debet effe aliquo modo idem cū
extremis,&aliquomodo diuerſum , vt in 10 clemë torum de diametro ,
&cofta eftmanifeftū ,Prçterea,non eft proban dumaliquod ingnotum per equc
ignotum, quod fi alterum peta tur in alterius probatione, nil penitus
demonſtratur, IN PRIMO ELENCORVM. CAPITE PRIMO, POSTQVAM enim ipſas per ſe res
in difputationem alla tas vfurpare dicendo non eſt, ſed vocum veluti
nutibus,rerum die ce primur, ſiquid in id incidit vitij,in ipſis eſſe rebus, nõ
in vocibus putamus,quod vfu venire his,qui calculisrationem ineunt, ſolet.
CALCULATORES noſtri temporis characteribus caldaicis vtuntur, per quos, in
numerorī cognitionem trahuntur , ficut per voces in rerum cognitionem ducimur,
IN TERTIO CAPITE, DIVISIONE vero,vt quoniam quinqueſuntduo et tria , fieri vt
paria fint imparia, & maius fit æquale . SI diuiſim ſummas3.& 2.
nunquam , quinque faciunt , ſecue autem fi coniunctim ,
&ceffatomnisinftantia. Neque dixit terna fium , & binarium , quia due
ſpecies numeri , non componunt terº tiam fpeciem numerorum ,ſed quinque
vnitatcs pro materia quiné sii accipiuntur. VD ANTVM vt quale,quale vt quantum
. IN primo pofteriorum in de triplici errore circa vniuerfale fuit oftenfum
,proportionem proprie circa quantum &non circa qua le effe, ita vi ſiquis
putet proportionem proprie eſſc circa quale, is quale pro ipſo vretur quanto
vitioſe. IN QVARTO CAPITE. AVT quod idem eiuſdem duplum , & non duplum ,
duplum quidem in longuni, non duplum antem inlatum . CVM dederic eiufdem ad
diuerfa : vt duo ad uſum &ad tria dat deinceps exemplum eiuſdein ad idem
fecundâ diuerfa tama, Vt linca a b quatuoc,ad lineam a cduo actu dupla eft ,no
autem dú pla in latū immo quadrupla elt a badac duo quod eft effe fuũ in
potentia , quod manifeſtuin eſt, in triangulo a bccuius ca b'rectus eft , id
autem manifeftum eft ex 46 primi Elementorum , Eucli dis, vel dicas ab duplam
ad a cin longitudine, non autem in latiu dine, qua caret, eft dupla 1 : 6
CAPITE ÖVINTO. NEQYE ſi triangulusduobus rečtis tres æquoshabet, & ei .
velfigură ,del primum ,vel principium eſſe dicit;quod velfigura , del primum ,
vel principium eſt triangulus eft, nam non quathe nusfigura del primum pel
principium , ſed quatbenus triangulus demonftratio erat . TRIANGVLVS enim
rectilineus figurarum rectilinea . sum prima eſt,ita vt fic & figura ,
& prima, & principium ,vt qui buſdam placet omnium figurarum
rectilinearum ,non tamen id ve tum eft fecundum Euclidis fcicum ; vtAs primi
clementorum dos cet, &vt Amonius determinat capite deſpecie ſupra porphirit
, ſed hoc loco famoſe loquitur Ariſtoteles, & determinat quod no con uenit
criangulo habere tres duobus rectis æquales , ratione corum quæ de eo dicta
funt, fed ratione ſui ipſius,non aucem quathenus,fi gura ,vel primī, &
principium neque etiam fi ifta fuſius accipian tur,figura,primüm principium
inferunt triangulum efle , arguere. tur enim ex conſequente ad antecedens,
& exmagis vniuerfale ad minus vniuerfale,ex ſuperiorique ad inferius,
figura enim nedum triangulo conuenit, ſed pentagono &alijs multis,primum
nedum figuræ, fed etiamnumero principium quoque in naturalibus, & his quæ
arte fiunt repperitur, nedum in figuris cöpofitis (vt ais. bant ex triangulo
ſape ſumpto , Hoc autem ab accidente differt, quoniam accidens quidem 1 I 1 in
uno ſolo ſummere eft, vt idem ,elle flauum of melse album ege cygnum ,quod
autem propter confequens in pluribusſemper opora tet,nam quæ vni & eidem
funteadem er fibi ipſa poſtulantur elle eadem propter quodfit ea quæ propter
conſequens eft redargutio, eſt autem non omnino verum , viſifit album ſecundum
accidens , nam &nix cygnusalbedo idem ,autrurſum Melyſji oratio, ide elle
poftulat,fa &tum eſſe , &principium babere', autæqualisfieri Geandem
magnitudinem accipere ,quoniam enim principium ba bet quodfa &tum eft.co
quod factum eſt, babet principium ,fa &tum elle postulatstam quam ambo
eadem fint eo quod principiū fa &tu elle finitumquc habent, ſimiliter auto
e in his que æqualiafa &ta Junt, ſi eandem magnitudinem & vnam ſumendo
æqualia fiunt, et quæ æqualia faéta funt eandem dim onam magnitudinem ſum munt,
quare conſequens ſummit. TRES modos errandiin falatia conſeguentis adducit
philofa phus , primade accidente, ve de albo,aiebant quidam cõſequencia hác
valere, cignus eft ,igitur album eſt, & econuerſo ,album eft ,ige tur
cygnus eft ,determinat Ariſtoteles, quod album elle,vniuerſali us fit,quã effe
cygnum , a magis comune ad minus comuneargud do cõinictitur fallacia
cõrequêtis,albedo enim nedum eft in cygno, fed etiã in niue, & alñs
reperitur: Secundo vt Melyflus aiebat, hæc duo videlicet, ly factum efle, &
ly principium habere, vt recte fer quebatur fecundum Melyſſum factum eft,
igitur principiñ habet, principium habet igiturfactum eſt, principium enim
habere , vni uerfalius eft quam factum effe cælum enim principium habet, ma
teriain ſuam ſcilicet &formam , attamen, non eft factum , quia fer cunduin
falſam Ariſtotelis opinionem ſemper fuit, principiữenim .comune eft & ad id
quod materiam &formă haber, & adid quod cæpit efle , in tempore modo a
magis comune ad minus comune arguendo committitur error confequentis , Tertio loco
, aduertic Ariſtoteles quod eadem magnitudo , &æqualis magnitudonon
couertuntur,in plus eniin eſt æqualia effe,quam cadem effe,fiquis igitur
inferat,magnitudo magnitudini eadem eft,igitur magnitudo
'magnitudiniæqualiselt,recte quidem intulit, vi in probatione ſce cunde partis
quintæ lib. primi Elementorī vna &eadem linea di fit balis in duobus
triangulis eft , fibiipfi æqualis & in quinta & ſexta terti Elementorum
vna &eadé linea a centro exiens ad cor cunferentiam ( quæ duabos lineis ali
comparatur )elt æqualis fibi, fed non omne quod eft æquaļe alteri,elt fibi ipfi
idem , vipatet, in 1 . . tertia primi, Elementorum ,cuin de longiori æqualis
breuiuri ſinex linea feccacur, ob id Euclides, In quinto Elementorum propofitio
, ne 11.propoſuit probandum ,quod quæ vni ſunt cadera &libica: dem
ſunt,quod fi principiuin primafuiſſet, licuti eft, quæ vni ſunt E qualia inter
ſe ſunt equalia , non propoſuillet illud in quinto eile probandum ,quod
Ariſtoteles confiderauit, CAPITE OCTAVO. QVARE manifeftum eft, quodeo demonſtraționes
redargu. tiones funt &veræ quidem ,nam quæcunque demonftrare licet, ca
Gredarguere eū,qui contradi tione veri ponet,licet, vtſicomen furabilem
diametra pofuerit;redarguatquis demonftratione, quod incomenſurabilis;quare
omnium oportet efle , nam alia quidem ea quæ in Geometriaſunt principia
eorumque concluſiones &cæt. SIQ VIS diametrum commenſurabilem coſtæ ponat
redar , guitur ab Euclide lib , 10 elementoruin propoſitione 115, vel leo
cundum campanuin , per illam demonſtrationem , quæ ibi adduci . tur,quæ
demonftratio ,redargutio eft ipfius proteruiafferentis con . trarium , fic vt
pro declaratione huius textus fatis fit , quod ipía de monſtratio
veri,redargutio eft falli allerti,vel afferendi a proteruo, NAM ſecundum
vnamquanque,artem ſyllogiſmus falfus est, vt fecunlum Geometriam Geometricus ,
" VIDETVR ex hoc textú quod geometra paralogizet quod oppoſitum eft ei ,
quod determinatum eſt in poſterioribus, Geometram videlicet non paralogizare,
Dico Ariſtotelem loqui non de Geometrico fyllogiſmo in quo,neque circa materiam
nec circa formam error contingit , fed de fyllogiſmo in quo terminus, ſeu vox
aliqua repperitur Geometrica, contraria lux fignifica tioni a Geometra pofita ,
vt quod triangulus pro circulo accipia tur,vel error paratur in conſequentia
,vt fi triangulus, igitur dua. bus lineis clauditur , & vtroque modorum
erit pfeudogeometri cus fyllogifmus , vt fi quis pſeudogeometra per numerum
inipa sem æqualem pari fyllogizer diametrum commenſurabilem effe ipfi coſtr,hoc
ſuo fyllogilino non falſum redarguit, quin potius fal fum ingerit, de quo
fyllogiſmo pſeudogeometrico , hic Ariſtoteles Intelligatur , & non de
Geometrico , vt in pofterioribus determi, nauit philoſophus, & per me fuit
declararā , quo modo Geometra non paralogizat lad ſyllogizat, & id, hoc
loco in memoriam reuo candum eft , quod in prioribusde prima figura dictum fuit
, quo nam pacto Geometra illa vtatur, IN NONO CAPITE. ET la cuis viletur plura
ſignificare triangulus, deditque, nos, vt cam figuram de qua concludebat quòd
duo re&tis, verum ad in telle &tum illius difputauit,hic an non?
TRIANGVLVS enim eft figura plana tribus rectis li . neis contenta de qua
Euclides ſecīda parte 32.primi elementorum demonſtrat quod habet tres angulos
duobus rectis equales, modo fiquis immaginaretur quod triãgulus aliquid aliud
fit, a tali figura ( qui triangulus eſt ) propter id quod omnes anguli ipfius
figuræ fint etiam duobus rectis æqualcs , vtoninesanguli pentagoni,cu . ius
vnumquodque lacusſeccat duo ipſius reliqua latera, talis pro fecto non
diſputabit de triãgulo , quiaad intellectuin triangulinon reſpicit,fed ad
aliud, vt ad talem pentagonum , no enim neceffe eft, vequicquid habet angulos
duobus rectis pares, fit triangulus, nes quod habent tres duobus rectis pares ,
fed quæ figura habet tan tum tres angulos duobus rectis pares,ille triangulus
eſt. VNITATEs binarijs in quaternzrijsæquiles efle,at binse rij hic quidemſic
infunt illiautemſecus, SIQ VIS ex illo principio, quæ vni & eidem ſunt
æqualia, inferre tentauerit quod binarij fint quaternarii, hoc medio, omnes
vnitates ſunt ęquales vnitatibus binarë,omnis numeri quaternarij vnitates ſunt
æqualesvnitatibus binarë, iglur omnes vnitates quaternarñ ſunt æquales
Vnitatibus binarij,igitur quacernarius eft binarius,ad maiorem & minorem prime
coufequentiæ dicendum, quod fi vnitates ſingulę & diuiſion accipiantur
concedendæ ſunt vtræque & confequentia prima , fed fecunda confequentia
interris matur , fi vero vnitates in maiori & minori acceruarim ſuſcipian ,
tur vtraque præmiſſarum eft falla & fequitur conclufio falfa , & les
cundę conſequentiæ anteccedens eft falluin , & conſequentia fequi tur,
& conſequens etiam falſum eſt . CAPITE DECIMO , NEOVE liquod pſeudographum
circa verum eft vt Hyppo cratis quadratura que per lunulas, ſed qualiter Brifo
circulã qua, drauit,tametficirculus quadretur,tamen quis non ſecundum rem ideo
ſophiſticus est, quare etiam qui de bis apparens ſyllogiſmus cft,oratio plane
eſt contentiola. / ! HYPPOCRAS tentauit circulum quadrareper lunulas et reduxit
lunulam deſcriptam ſuper coſtarn quadrati inſcripti in ciro culo ad figuram
rectilineam &exiſtimauit omnem lunulam redu ci poffe ad rectilineam figuram
, ob id fuppofuit lunulas deſcrip tas fuper latus exagoni circulo
inſcripti,poffe reduci adrectilineam figuram ex quo ſuppoſito non demonftrato,
progreſſus eſt ad cir . culi quadraturam &variauit diagramma,tranfiens à
quadrato ad exagonum , & tranfiens a lunula exiſtente ſuper lacus quadrati
in fcripti circulo ad lunulam deſcriptam fuper lacus exagoni inſcripti in circulo
, & fic preudographus factus eſt , Briſo fimiliter errauit circunſcribens
circulo & infcribens circulo quadratum ,vterque fo phiſtice proceſsit,et
fyllogizarunt contētiofe, fed alter in diagrāma te vt Hyppocras, reliquus vero
in principäs proprös neque in illa rione, reliquus autem in conſequentia ,
& quia vtebatur principös coinmunibus, & fi circulus quadretur
fophiftice , tamen non fecun dum rem , vt non per principia propria , neque per
deſcriptionetti diagramatum ,hoceft per cõſtructionem debitam figurarum ,nec ex
neceffaria cófequutione principiorum ad conclufionem ex illis
principñsneceffario illatam, fyllogiſinus igitur quo Hyppocrates & Briſo
fyllogizabant quadraturam circuli, contentioſa erat al tera ,vt quæ Brilonis,
non contentiofa vero reliqua, vi hyppocra . cis ,vti Ariſtoteles inferius in
hoc capite declarat inquiens, CONTENTIOS A vero quodam modo ſic ſe ad dialetti
cam habet,quemadmodum pleudographa ad Geometriam , namex eiſdem , diferendi
modo,captiose & pſeudographa Geometrice de cipit,fed hæc quidemnon eſt
contentiofa,quia ex principys & con clufionibus quæ funt fub arte
pſeudographa facit ,quæ autem ex his eftquafuntfub diale & tica,circa alia
quide contentiofam efle mani feftum eft,vt quadratura quidem , quæper lunulas
non contentio Sa , Brifonis autem contentiofa eft. ILLA ars quę falſum cöcludit
vel potius artifex ille,an potius pſeudoartifex qui ſyllogizat falium ex
principiis veris vel ex theo rematibus probatis, vt fecit Hyppocras in
quadratura circuli,non contentioſe procedit, quia ex propriis principiis &
theorematibus Geometriæ ,Briſo autem proceſſic ex his, quæ nedum Geometria ,
fed etiam aliis diſciplinis applicari poffunt, vt, quæ vni & eidem funt
æqualia inter fe æquaha effe conftat,quod principium et Geo metriæ Arithmeticæ
ſtereometriæ &ei quæ de ponderibus tractat diſciplinæ applicari poteft,
pariter ratio Antiphontisde quadratu. G 16 ra contentiora eft, qua negat
principium Geometriæ , quod eft fe cundum theorema certii elementorum Euclidis
, & negat etiam li . neain poffe in infinitum diuidi, & dicit rectum
eſſe curuum , & cur uum rectum , & dari duo puncta inmediata in linea
circulari, quæ omnia fequuntur ex conſtitutione hilochilium triangulorum qui
conſumunt lunulam contentam a circunferencia circuli & recta linea , CAPITE
DECIMOTERZO . VT impar numerus ejt medium habens, eſt aut numerus im par, eft
igitur numerus, numerus medium habens. IMPAR numerusa pari differt vnitatis
incremento vel im minutione, vt quinarius a quaternario , & ſenario, in his
igitur vo cibus, ly numerus & ly impar committitur vitium nugationis, quale
committitur in his quæ ad aliquid dicuntur , vt fimitas naſi quidem curuicas
eft,modo fic ordineturfyllogiſmus, Omnis impar eſt numerus habens medium . Sed
numerus eft impar Igitur numerus eſt numerus habens medium Ecce quod bis
numerus reppetitur in concluſionc, inaniter factum . LIBRO SECVNDO. CAPITE
PRIMO , ACCIDIT autem quandoque ficut in mathematicis confia gurationibus , vt
illic quæ foluimus quandoquecomponcre iterum non queamus. OVADRATVM,
penthagonum , & cæteras figuras re . etilineas reſoluimus in triangulos,non
tamen ex triangulis quadra tum fit ſed ex dacta linea recta in fe ducta
deſcribitur&, 45primi clementorum Euclidis, & cæteræ figuræ , vt ex
quartolibro elemen torum Euclidis patet,fed per id non videtur factum effe
fatis textui Ariſtotelis,nifi dixeris , quod non ea facilitate idem componimus,
qua facilitate ſoluitur in triangulos, vel etiam dicas quodin Geo metria
abſolute non componitur figura ex triangulis, & fi omnia figura rectilinea
in triangulos refoluatur, fecus autemin Arithmeti ca de mente pythagoræ , tefte
Boetio libro fecundo Arithmetices immo vnaqueque figurarum ſpecies , componitur
ex præcedenu fpecie et triangulo ,vt eo loco demonftratur, vel meliusex tot vni
tatibus, quotpræcedensſpeciesconſtat, & vnitatibus triangulorum , vt illis
declaratur locis, FINIS. VNIVERSA LOCA IN LOGICA M A R то тв LIS IN
MATHBMATICAS DISCIPLINAS HOC NOVVM OPVS DECLARAT. сум PRIVILEGIO. aistas f 4
VBNBTUIS IN OFICINA FRANCISCI ,COLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES .
Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein
citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim .
Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum
Ioannem Grammaticum , & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly
uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco
numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum
Confilio cautum eft , ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń ,
fubpena Ducatorum centum , áammißionis librorum ; ut in Priuilegio conceſſo
Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori , pro
feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN
L MARCOLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES . Primum limen huius ingreſſus
eft in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum
Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim . Pretcrca illud aduertendum
eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum , &
nume rus alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly uel,in fronte ca pitis denotat
partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis
mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft , ne quis hoc
Opus imprimere audeat ante decenniuń , fubpena Ducatorum centum , áammißionis
librorum ; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium
& facræ Theologie Doétori , pro feßorique publicoliberalium artium in
Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN LCOLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD
LECTORES . Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum ,utintel ligat
lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim
indiſcriminatim . Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis
partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum , & nume rus alius, cui
præponitur ly aliàs , aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein
Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis
mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft , ne quis hoc
Opus imprimere audeat ante decenniuń , fubpena Ducatorum centum , áammißionis
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& facræ Theologie Doétori , pro feßorique publicoliberalium artium in
Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN LIOTHEK PETRVS CATHENA VENETÝS
PRESBITERORVM OMNIVM MINIMVS REVERENDISSIMO DOMINO MARCO LAVRETANO EPISCOPO
NONENSI, · AC PATRONO S V O COLENDISSIMO . S. P. மரா NTER
munera ,quæ diuiniore calculo benigna humanitatis arti fex natura
nobiscontulit, uirtu tum de litterarum facratiſsime antistes , ad poftremum
haud quaquam adducitur ipſa ratio , nempe ad quamomnia prope quæhumana addicuntur
ſubstan tiæ ad unum adhæferunt, cuius munere ſi quis minime recte ufus fuerit
ipſum naturæ aduerſari , atſi bonis artibus que de periere iam &deciderunt,
quippiamſplendoris &utilitatiscor rogauerit & farcuerit, illum
rationismunereperfunctumeſſe ne mo nefciat , hac de caufaconſiderans hominum
mentes eodem effe quo arua fato , quæ ſi excolantur bona ſinegligantur mala
perfe runt germina,uidiſſem multos , qui philofophi nominari uolunt prepoſteris
imbutos litteris,quorum mentes ſentes alunt Gmon stra , quibusuellicandisne
unus quidem Herculesſatiseffet , uin Etum in inestricabiles laberinthos quin
potius in carcerem te terrimum Aristotelem ut ciuimilites traxiſſe,qui
inutilibus que stionibus &Græcis tenue intincti literis, bomis
artibusnegletis , fimiles factifunt oculo , qui quòd in tenebris fit lucem
flocifecerit Aij decreuiquoingenijuires ,etiam fi exignas( nam apprime noui
quàm fitmihi curtaſuppellex ) expenderem in eruendo Ariſtotele ex illo obfcuro
, id autem tam comode quàm apte fieri putabam ſi Mathematica exempla ſua
expreſsiora redderem , quibus in ex plicandis Logicis ufusfuit ipſe prefertim
hoc tempore qua publi cis lectionibus Mathematicis in PaduanoGimnaſio
incumbebam , ad huius etiam clariſsimi Philofophi elucidationem accedebat hor
tatio iuuamen ReuerendissD.. Ioannis Marie Piſauri Epiſco pi Paphenſis
&mecenatis optimi cuius expenſis opus imprimeba tur , hortabaturque me ille
, ne opus hocpermiterem ex ire in ho minummanus fine duce aliquo cumpreſertim
milta, &fere difi cilima hac tempestate contineret, que aut ab
interpretibus uniuer fis omiffa , autoppoſita his effent que interpretati ſunt
. Te igitur patronum Dominum meum delegi,qui & Ariſtoteleam Philo ſophiam
uniuerſam cales, &qui has liberalesartes Latinis duri bus inuulgauit. Itaque
ea. Aristoteles loca qua potui diligentia il lustraui, & quæ lucem
claritatemque deſiderare uide bantur , curſimebreuis annotamenti lumine perui
afeci , qua in reſi effe cerim quod uoluizesło iudex &cenfor. Has autem
primores inge - ný nostri fæturastuo nomini Reuerendiss. Domine eam ob rem
dicatas uolui,quo plane intelligeres noftri animigratitudinem pro innumeris
quibus me in dies cumulare deſideras beneficijs , eoque quod aliter non datur
temeum reuerear benefactorem ; neque ob aliud ſanete reuerear quàm quòd omni
laude digniſsimum : Vale præfulum decus . ed RE agat , ueletium num in ſemen
uiri, uelmulieris , uel inmatricem , { OTS PORPHYRII DE GENERE PE T R I C Α Τ Η
Ε Ν Α PRESBITERI VENETINOVA IN T E R P R E T ATIO . IcetVR & alio modo
genus uniuſcuiuſque principium or tus , tam ab co, qui genuit , quám a loco in
quo eft quiſ piam ortus . Dicitur quòd locus , os pater cauſe funteffè
&trices genis ti , diuerfimodetamen ,quippe pater aétiua fit caufa , locus
uero conſer uatiua tantum ,que ad cauſam effe's Etricem non immerito reducitur
,aps te magis quàm adquodcunque aliud cauſé genus. Dico tamen quod , &
locusnedum conſeruatiuum prin cipium est , fic ut genitum folummodo conſeruet
poftea quam genitum ipfum acquiſiuerit effe fuum ,ſed etiam adiuuin principium
eſt ipſe locus affe Ausrefpectu geniti accidentiumſententia est ipſius
Ariſtotelis, quòd per acceſjum atque receſſum planetarumſub circulo obliquo
fiunt in hæc inferioragenerationes atquecorruptiones , folis igitur , e
planetarum aliorum lumine, ac motu , affectus locus, aštiue agit hoc pacto
adgenera = tionem , atque parentes , fi fecus quis audiuerit, tunc sol, &
pater non generarenthominem cum Sol non niſiſuis radijs reétis reflexis autfrae
étis alterando aerem agatin ipſum , ca in contentum , quo autem pacto age
quodmodo eidemſimili,quo etiam in uiſcera terre producitmineralia , o interræ
fuperficie plantas . 6 PORPHY RIVS DE SPE. DE SPET I E. VLCR A Fucies , debita
parilitate demiſſa,coloria bus lineamentiſuć luculenter affecta,fpetiesà Pors
phyrio in prima ſpetiei ſignificatione uocatur. , ut Facies priami dignaeſt
imperio , ad cuius fi militudinem , ill . est , quefub aßignato generepoa nitur
, curus pulcritudo , est differentia fpecifica , qua pulcritudine informe genus
contrahitur , atque pulcrumfit. Et Trianguluun , figuræ fpetiem ſimili modo
ſignificat,fie gura rectilinea genus est ad triangulum , non figura in
uniuerſum quamſic fufamfiguram Euclides primo Elementorum partitur in eam , que
una clauditur linea , & in eam quæ pluribus lineis continetur, qui
Triangulus Axties fitfigure reftilinee per hanc ſpecificam différen tiam qua
est , claudi tantum tribus reftis , qua etiam differentia pula crum redditur
figure genus . Indiuidua funt'infinita . Non intela ligas hoc uelim , niſi
potentia ,qua infinitatis affectione etiam numerus ita intelligatur ; ſed modo
quodam diverſo , numerus enim , quicunque fit , aexiſtat , finitus eſt ,
terminatus ,ſic pariter indiuidua on nia , quæ exiſtunt finita funt, ſed que
preceſſerunt omnia,o que futu rafunt ex utraqueparte infinita diceret
Ariſtoteles, numerus uero cum statum ad unitatemhabeat duplici modo finitus
eſt,« actu , o deſcenden do ,uerum indiuidua duobus modis dictis funt infinita
, unico autem modo ut quæ præfentiafunt, finita etiamfunt. IN PREDICAMENTA
ARISTOTELIS DE O V A N TITATE. ENARAI numeri partes , ut quinque, & quinque
. Animaduerſione dignum exemplar hoc in loco pofuitAriſtoteles., cum dixit
quinque,& quin que partes eſe denarij numeri, non enim dixit quis narium ,
oquinarium denarium numerum compone re , quia nulla numerorun fpeties
componitur ex di uerfisſpetiebus,neque etiam ex unis indiuiduis eiufdem
fpetiei,ut diuerfa fpeties fiat, ex unis ternis uel quaternis , ant quinnis
numeris nonfitfe nariusuel oftonarius aut denarius, ex unitatibus tamen quinis
o quinis D DE VⓇANTITATE
* que materia eft. Cuiuslibet numeri, denari fpeties conflutur, eas ſententia
Euclidis , Nichomaci, atque Boetij. Similiter & in cor pore fuimere
aſsignareque lineam fuperficiemuè comu. nem terininun potes, quo partes
corporis copulantur . Punctum eſſe lincæ terminum , or lineam ſuperficiei , e
ſuperficiem corporis nemo neſcit , niſi qui Euclidis doctrina dignus est ,ſed
illud unum maiori egeret indagine , quo nam pa&o lineaſitforſan etiam ima
mediatus corporis terminus ,ne id Ariſtoteles aſſerens , quippiam affe rat
contra Euclidis fcitum, prima enim deffinitione undecimi Elemen torum inquit
ille , corpus ſiue ſolidum est, quod longitudinem latitudia nem ocraßitudinem
habet , folidi uero terminus fuperficies est , uide ergo quod ſolidi
terminusnonſit linea ipfa , ut Ariſtoteles aſſerit. Ves rum quòd linea
terminusfit corporis manifeſtum est , fi idquod Euclides ait deffinitione nona
undecimi elementorum non ignores ,folidus(inquit) angulus est , qui ſub
pluribus duobus planis angulis comprehenditur non exiſtentibus in eodem
plano,ad unum ſignum conſtitutis , plurium linearum igitur contactus ( nulla
ſuperficierum habita conſideratione) qui estfolidus angulus corpus terminat,fub
illis igitur lineis angulusfox Tidus contentus , terminusest illius folidi,
ville lineæ termini ſuntnes dum illarum ſuperficierum corpus ambientium , quin
etiam inmediati terinini funtillius corporis , cum linea continentes illos
angulos in puran Etum unum concurrant. Preterea idipſum Euclides afferit de
angulo, quod fit immediatus terminusfolidi problemate tredecimo, libri tredeci
mi Elementorum , & in fequentibus quatuor problematibus idem uit ,in quibus
docet conſtruere corpora regularia , queſuis angulis tangant ſu perficiem
concauam circumſcribentis pheri , qui quidem uniuerſi angis li ſub tribus ad
minus &pluribus tribus rectis lineis ad unum pun &tum concurrentibus
continentur , &punctus ille , nedum est linearum terris minus, fed etiam
regularis corporis finis ,cum ſit terminus omnium linea rum , quo termino
tangit fphærum ,patet igitur id, quod Ariſtoteles dixit de lineis nedum
ueritatem habere , ſed ut etiam pun tusſit terminus ips fius corporis, ſecundum
Euclidis ſcitum, perinde dicendum eft de ſuper ficie , quòd non tantum lineis ,
ſedetiam ipſis pun tis terminata fit,fide ea, quæ rectis lineis claudatur
fermofiat, øde corpore Iſoperimetro, fiue quod pluribus re&tis
fuperficiebusclauditur , hocquod dictum est in telligatur . Adid uero , quod
Euclides primo Elementorum ait deſuper ficie fiuefigura rectilinea deffinitione
uigefima , refponde , quod uerum 8 DE OVANTITATE. dicit , figura rectilinea ,
inquit, contineturfub lineis reftis , enon die cit contineturfub pun£ tis ,
agequod contineriſub pun &tis diuerfum eſt, ab terminari punctis . Ariſtoteles
hoc uidens , dixit corpus lineis termia narinon tamenfub illis contineri,quod
deſuperficie ſimiliter eft dia cendum . Vel etiam reétè dices , fi ita fenferis
, quòd figura in uniuer. ſali , linea claudatur , neque una,neque pluribus,
& corpus in uniuer far liambitu ſuperficie claudatur , neque itidem una aut
pluribus , o neua tra deffinitio fic in uniuerfum accepta habet exclufiuam
particulam ,cum autem ad circulum uel ſpherum defcenderis,unum linea una
clauditur re liquum uero una tantum fuperficie ſcias elſe claufum ,reliquæ
uerofigur re rectilineæ non deffiniuntur cum particula exclufiua abEuclide,vel
di cas , quòd in littera Ariſtotelis, eſt fua met interpretatio, ubi enim dixe
rit , in corporefumere aßignarequelineam comunem terminum , statim correxit ſe,
dicens fuperficiem eſſe comuném terminum corporis & Ex * clides non dixit
quòd punctus , ſed quod angulus tangat fphærum . Rurſus in pago quidem , multos
homines , Athenis au tem paucos dicimus eſſe, qui tamen funt illis plures ,
& in domo quidem multos in theatro uero paucos,qui quidem & ipfi multo
funt illis plures .Aduertas Ariſtotelem utroque exi emplo, o paucos &
multos dixiſſe , comparationem faciens hominum ad loca in quibusfunt , non
habens rationens hominum ad homines , ut fimile exemplun daretur ſiquis dicat
pauciaurcifunt in arca , @mule ti in crumena , fi in crumena eſſent tantum fex
, decem in arca , DE HIS QV Æ AD ALIQVID . VADRATIONIS enim circuli , &
fcibilis eſt, ſcientia quidem nondum eſſe uidetur eft autem fcibilis ipſa. Quadam
libertate hoc lo co loquutus eſt Arift.afferens id quod ignorauit, quia ſi non
ignoraſcet eam ,habuiſſet illiusſcientiam , o non dixiſſet (niſi forſan
mendatio) ſcientia quidem now dum eſſe uidetur,fciens etiam quod nullus
adtempus uſqueſuum proprijs principijs quadraturam inuenerit , nequecitra ad
hanc ufq; horam ,quis oftenderit,nififorſan quibufdamſuppoſitis,quu ,et ipfa
non minoriproba tione egerent quàm ipſa circuli quadratio ,fedquidper iftud
exemplum utilitatis Ariſtot. attulerit , illud effe puto , ut ammoto fcibili,
oſcien tia ARISTOTELIS. tia eiusremoveri neceſſe eſt , ut putacaufa nunquam
cauſante nuſquam effectus erit , quadratio igitur circuli cum non ſit ,
nequefcientia de ip . fa quadratura circuließepoteft . Quid nam antiqui de
quadratura ſe na ferint in fractionibus Mathematicis declarabitur . DE QUALI ET
QVALITATE. VARTVM qualitatis gen'us eft figura & ca quæ circa unumquodque
eft forma , & in fuper rectitudo , & curuitas, & quicquid eſt hiſce
fimile . De figura fcias Ariſtotelem lom qui, non ut de ea Geometrica abſtracte
conſiderata, Jed de figura in re figurata exiſtente ,ueluti in fubie & o,
idem de forma, rectitudine , atque curuitate intelligas. Aduere tendum tamen
ordinem quendam feruaffe hoc loco Ariſtotelem in his que proponit , à ſimpliciori
ad magis compoſitum . Primo enim defi gura ,quæ linea , uel lineis clauditur ,
fecundo de his , quæ ſimplici bus lineis , aut ſuperficiebus uniformibus ,
nempe uel tantum re tis , aut tantum curuis , uelſolummodo conuexis ,aut etiain
tantum concauis continentur , modus iſte ſecundus à primo non nihil differt ,
in hoc differentia est inter utrumque , quia primomodo de co quod planum eft ,
ueluti ipſa papyrus , ſecundo modo, de eo quod corpus, utmons , ficuti
uulgus,quodfubtile eſt (ut papyrus) planum uocat , quod autem eft ualde craſſum
, corpus appellat, ut montem, a facilioriperſuadens tya runculis ea,quæ etiam à
uulgo principium cognitionis ſumunt. Triana gulus autem & quadratum
cæteræque figuræ , non uidens tur talem rationem ſubire . Ariſtoteles parum
ante dixit , que: nam ſint et , quæ magis, minufue ſuſcipiunt , ut puta qualia
ipſa, gridus fufcipiunt intenfionis ,modo uides quod neque
trianguliis,nequequadras tum ,qualia ſunt , fed quanta, que intenſione
remißioninonſunt apta. Nam ea, quæ trianguli rationem
circulinefuſcipiunt,trians guli fimiliter , aut circuli ſunt oinnia . Senſus
huius eft , quòd triangulus. quilibet , uel omnia que triangula ſunt, niſi id
quod tribus clauditur lineis ,aliud non eſt, a circuli omnes , nil aliud
funtquam und çlaudi linea , in cuius medio punctus eſt quod centrum dicitur, à
quo oma. nes recte linea uſque ad circunferentiam ductæ inter fefunt
cquales.com hoc nihil aliud quàm circulus eſt,nõ enim triangulus circulus,neque
cira B 10 IN PREDICAMENT A culus triangulus eft , neque utrunque aliquid unum
eſt , licet utrunque figura ſit ,ſed hoc æquiuoce , & non uniuoce eſt.
Neque te turbet hoc quia Ariſtoteles prius de triangulo , « quadrato
propoſuit,c finit ſena tentiam de triangulo , e circulo , & non de triangulo
, quadrato , quia de triangulo o quadrato dicens , ſubiunxit cæteræque figuræ
quo uerbo etiam circulă intellexit, de quo ultimo loco explicite loquitur.
Eorum uero , quæ rationein hanc, non ſuſcipiunt, nihil alio magis minúſie tale
dicetur,non enim quadratum ma gis quàm altera parte longius circulus elt ,
quippe cum neu trum circuli fubeat rationem atque fimpliciter. Si non fubeat
propoſiti, in quofit comparatio rationem , alteruin altero magis tale mi
nuſueminimèdicetur . Quadratum neque circulus eſt, nec etiam altera parte
longius circulus eſt ,cum igitur propoſiti circuli rationem neus trum ſuſcipiat
, neque quadratum circulus eft ,nec etiam quadratum mas gis quam altera parte
longius circulus est , idem age de altera partelons giore. Atquefimpliter pro
hoc uerbo, ſcito Ariſtot.ſententiam hanc eſe , o ſi quadratum , &altera
parte longius circulus eſſet, atque in eo conuenirent, quia tamen neutrum eorum
, atque circulus, non eft qualis tas , fed quantitas,ideo à quadrato, o
abaltera parte longiori, lymas gisminúfue,ſecludenda funt.Expoſitio hæc uidetur
contra id , quòd Aris ſtoteles determinauit in capite de quali oqualitate , quo
loco ait quara tum qualitatis genus eft figura,ad quodfoluendum , dicas figuram
capi uno , atquealtero modo,primo figura conſideratur in ſe abſtracta aſus bie
&to quocunque , cmſic quantumfeu quantitas eft,o non qualitas,nec etiam in
quartoqualitatis genere ,alio autem modo conſideraturfigura in refigurata, cui
largitur tale eſſe, or ſicfigura in fubieéto aliquo,quam. litatis naturam non
refutat . NequeMuſica , cuiuſpiam muſica , niſi generis ratione ad aliquid ,
& ipſa dicatur. De uniuerſali Ariſtoteles,& non para ticularimuſica
loquens , ſiue humant uoce uel inſtrumentis praxis fiat, uel Theorica ipſa
intelligatur , biffariam eam conſiderat, quatenus à fubieéto uel obiecto ſeu
genere ipſo caufetur,et quatenus cauſata in ſubie eo quopiam eſt , primo modo
ad fubie &tum quod genus uocat , tan quàm ad effectricem caufam reffertur ,
ut ad ſonum numeratum , non due tem ad Platonem in quo recepta est , relatiue
dicitur. Vel etiam dicas, quòd refertur rationefuigeneris , ut quatenusfcientia
adfcibile. ARISTOTELIS. IL DE MODIS PRIOR IS. HR N DEMONT SRATIVIS
ſcientisprius eſt nimirum atque pofterius ordine, Elemen ta nanque
deſignationibus ordine priora ſunt . Scito elementa , ut deffinitiones , petita
, animi conceptiones precedere ipfis propoſitiones in ſcientijs , id quod in
Euclidis methodo patet,proa poſitio nem ſubſequitur expoſitio , quam
expoſitionem statim deſigndz tio diagrammatisconſequitur , hancdeſignationem (
que beneficio petia torum tantun fit) determinatio , determinationem
demonſtratio , ſexto loco epilogus, ſiue propoſitionis repetitio. Vel dicas
elementa ,ipſatana tum eſſe petita reſpectu deſignationis tantummodo. Elementa
etiam non tantum principia ,utdeffinitiones,petita , & conceptiones animi,
reſpectu propoſitionum , que per ea probantur dicuntur, fed ipſa propoſia
tiones probatæ , quatenus ad alias fequentes propoſitiones probandas fumuntur ,
dicuntur elementa , hac de caufa , quidam uolunt libros quindecim Euclidis
uocari elementa , alij nero non ob id, quindecim libri dicuntur elementa ,ſed
quia fingulis libris fua affiguntur principia , ut apud Campanum , ſed neuter
modus dicendi placet, quin potius elea menta dicuntur oinnia , quæ in illis
quindecim libris continentur, nedum propter deffinitiones,petita, Oʻanimi
conceptiones ,ut iſti ,neque prou pter hoc , quòd alique prime propoſitiones ,
que demonſtratæ funt , fint pro alijs propoſitionibus fequentibus probandis
principia , &elea menta ,ut illi dicunt , quia tunc ultima propoſitio
noneſſet elementuin ad. quippiam , cum ipſa ultima eſſet, ſed elementa , atque
principia omnia illa dicuntur , reſpectu omnium propoſitionum per ipfa
probandarum infcientijs fubalternatis ad illos quindecim libros.. Bij 12 IN
PREDICA MENTA DESPETIEB.V.S. MOT V S. i bЬ & CRET 10 ' , alteratio non eft.
Hoc perſuaa det Ariſtot. exs * emplo Geometri co ( quod etiam multis modis in
Arithmetica Boetius docet)Gnomon quidem ,ut in fecundo clementorum deffinitione
ſecunda ha betur,figura eſt ſex laterum ,compoſi ta ex uno quadrato conſiſtente
circa diametrum , « ſuplementis duobus , quefigura ab Euclide primo elemen
torum propoſitione tirgeſima quar ta habetur, quæ est 6 , quam fi huic
addideris quadrato a , quadratiſpe ties minime alteratur, licet fiat acre tio
quantitatis , ſic ut in hac figu ra ab , quod una diuerfa peties alteri fpetiei
addita non uariet fpes tiem ,exempla plus centum in tabule Pythagora , apud
Nicomachum , Boetium ,in numeris inuenies , ut pu ta ex duobus longilateris
altrinfecus ad quadratum pofitis, bis medio fumpto quadrato , quod fit, quadra
= tumest ,licetfacta ſit acretio, ut ex duobus , fex , vbis quatuor, ut ofto ,
ſexdecim exoritur ,qui etiam quadratus eft , pari modo ,ex duo bus quadratis,
er bis fumptomedio longilatero, nempe ex quatuor, e nouem ,bisfumptoſenario
longilate ro, uiginti quinque quadratus ortus alb ARISTOTELIS.i . 13 est , que
intelligas uolo ex in ateria primi quadrati , atque longilateri, ut ex ipſis
unitatibus , ego non de numeris tūlis formaliter fumptis , cum prius
corrumpaturſpeties preceden tis quadrati minoris, atque longilas • teri, in
aliam petiem maioris quas drati , qui ex illis oritur , acretio . igitur ubique
facta eſt , nulla intera ueniente alteratione in fpetie ipſius quadrati , licet
e gnomonis atque longilateri apertiſsime facta fit alte ratio . Aduertas tamen
, ad id quòd Ariſtot. ait in hoc exemplo de addia • tione gnomonis ad quadratum
, ſic , utfpetiesquadrati nõ alteratur.licet • fiat acretio , in Geometria
uniuerſali ter ueritatem habet , fed non eſt ita planum in Arithmetica, niſi
intelles Xeris de fpetie ſubalternāte ,quòd ip fa non uariatur, uaristur tamen
qua dratiſþeties ſubalternata , oſpetia liſsima,quòd patet ex eo quòdſi nu mero
quadratoſexdecim ,addus gno monem uiginti, statim ex pariter paa ri, ut puta
ſexdecim , fit impariter par, uidelicet triginta fex , quorums uterque , o
fifit quadratus , diucrfarum tamen fpetierum funt , ut ex libris Euclidis de
Arithmetica mani feftum eft ,quod exemplo fubſcripto manifeſtatur fatis,
quapropter uni uerfaliter Ariſtotelem intelligas de quadrati , quatenus
quadratum eft ', Apetie , hoceſt de fpetie quadrati in uniuerfum , non de
quadratiſpe= tie ppetialifsima . vel etiam dicas quòd Ariſtoteles intelligit
exemplifia cari in Geometria uniuerfaliter non autem uniuerfaliter fimpliciter
, hoc oft non in omnibus difciplinis . 11 14 : IN PRIM VM LIB . IN PRIMO PRI O
R V M AN T E SEC V N D V M S E C.TV M. n A M fine uniuerſali nô erit
fyllogiſmus aut non ad pofitum aut quod ex principio pea tetur,ponatur enim
mulicam uoluptatem & c. Sed magis efficitur inanifeſtum in de
ſcriptionibus, ut quòdæquicruriæquales, quiad baſin , ſintadcentruin ductæ a ,b
, fi igitur æqualem accipiata , c , d , angulum , ipſib , d , c ,non omnino
exiſtimans æquales , qui ſemicirculorum , & rur. fus c, ipfi d ,non omnem
aſunens eum qui ſeçti. Amplius ab æquis exiſtentibus , totis Angulis , &
ablatorum, æqua les eflc reliquos e ,f; quod ex principio petet, nifi acceperit
ab æqualibus æqualibus demptis ,æqualia dereli nqui. Plaa num igitur quòdin
omni oportet uniuerſale exiſtere. Si dubitaret quis ,an. ſemicirculi eiuſdem
ornnes anguli ſint equales, ſic perfuaderi uidetur, b omnes diametri eiufdem
circuliſunt æquales per primam deffinitionem tertij elementorum ,peripheria
eiuſ de circuli uniformis eſt per xv. def finitionem primi elementorit, o me
dietas circunferentiæ est æqualis al teri medietati eiufdě circunferentia
cumque omnes recte à centro ad cir cunferentiam du &tæ fint æquales,fe
quitur igitur , quod duo anguli a , c , d ,cb, d , c , ſemicirculorum eiufdem
circuli a , b , c , d , ſint ad inuicem æquales , hæc perfuafio fiat ei, qui
non omnino exiſtimat æquales , qui ſemicirculorum , rurfus inquit c , ipſi d ,
angulus uidelicet uterý; minoris portionis æqualis eft alteri,nonaccepto toto
angulo, ideſt,toto angulo ſemicirculib, d,c, e a cd , quod ſic perſuadetur,
árcus c, d , eiuſdem est peripherie , que unir formis eſt, c , d , eſt unice,
om eadem re&ta ,ſi igitur utrunque angus lorum minoris portionis ab
utriſque ſemicirculorum angulis detraxeris, qui anguli reininent uidelicet e,
of, erunt æquales æquicrurus igitur. PRIORVM ARISTOT. 15 triangulus habet ad
bafim poſitos æquales angulos , quod demonſtratum fuit ,ſumpta iſta uniuerſali,
ſi ab equalibus æqualia aufferantur , reli qua æqualia remanent, IN PRIMO PRIOR
VM ANTE TERTIVM SECT V M. ECVNDVM uero unumquodque entium elia gere , ut de
bono ,aut fcientia,priuate auten fecundum unamquainque , funt plurima quare
principia quidem quæ ſecundum unu quodq; funt,experimenti eſt tradere,dico au
tem ,ut Aſtrologicam experientiain aſtrolo gicæ ſcientiæ , acceptis enim
apparentibus fufficienter, ita inuentæ funtaſtrologicæ demonſtrationes, &c
. Compertum eſt aſtrolabio ſolem plus temporis conſumere à principio Arietis ad
uſas finem Virginis, quam à principio Libre uſque ad Piſcium fines,idquod o
hiſtoria traditum eft , propter hoc etiam Hiſtoria dereli&tum est Solem
tres habere orbes, quorum medius,eccentricus eſt. Quibus habis tis apparentibus,
facile eftdemonſtrationes de Sole concludere,oſimili ter in unaquaque
diſciplina , prima principia hiſtoria data , &dereli Eta ſine probation
funtpofteris , quibus principijs tanquàm uerisſupa poſitis ( hiſtoriæ enim
proprium eft ueritatem narrare) demonſtratio nes fiuntſi autem de principijs
aliquafiat demonſtratio ,illam « impro priain , a poſteriori, feu à ſigno eſſe
, nemoeſt quineſciat . ANTE MVT V AM SYLLOGISMO RVM RESOLVTIONEM . On oportet
autein exiſtimare penes id, quod exponimus , aliquid accidere abfurdum nis hil
cnim utimur eo , quod eft hoc aliquid elle ſed quemadınodum Geometra , pedalem
, & rectam hanc , fine latitudine dicit, quæ non ſunt: Textushic exponitur
primo pofteriorum T. 52 fed hic tantum dubitatur,quo pacto intellectus ea poſsit
ſufficienti appres henſione capere, quenon funt, ut quæ nunquam , fub fenfu
fuerunt ? 16 IN SECVNDVM LI B. Adfecundum refpondeo, quod animam eſſe ,
intelligit intellectus , quam tamen nunquam uidit oculus, aut manus tetigit .
Ideo multa intelligit ins telle &tus,quorum nunquamſenfus ſenſationem
habuit. Ad primum dico, quodficut intellectus concipit coclearem artem
abſtraftam , quætamen kon eſt , niſi indeterminatis , ſingularibus hominibus ,
fic etiam li ncam ſuperficie?n intelligit , que tamen non ſunt , niſi in linea
atrd . mento picta , o ſuperficie , in corpore naturali , IN SECVNDO PRIORVM
CAPITE DE PETITIONE PRINCIPII. - o cautem eft quidem fic facere,utſtatim cens
ſeat quod propofitum eſt , contingit uero, & in alia tranſeuntes apta nata
per illud mon ſtrari, per hæc demonftrare quod ex princie pio,uelutiſi ,a,
monftretur per b ,b autein per C, c autem natun efſet monitrari per a accidit
cnim ita ratiocinantes ipſum a ,per ipſuninet a monſtrare, quod faciunt, qui
coalternas putant fcribere latent enim ipſi ſeipſos talia accipientes, quæ non
eſt poſsibile monſtra : re non exiſtentibuscoalternis, quare accidit ita
ratiocinans tibus unumquodque eſſe dicere, fi eft unumquodque , ſed ita omne
erit per feipfum cognoſcibile , quod impoſsibile eft.Si propoſitum ſit probare
, quod e ſit a , &id oftendatur per mes dium b,c fieret talis fyllogiſmus (
e est b , beſt a , igitur e eſt 4. Pros batio primæ minoris uidelicet quæ eſt
hæc , e eſt b , fit per hoc medium f , ut in hoc Syllogiſino ( e eftc, c, eſt
b, igitur e eſt b) Cuius minor , uis delicet hæc , & eft c ,fiprobetur .
Tunc reſumitur prima concluſio pris mi Syllogiſmi,quæ à principio probanda
erat, ut in hoc Syllogiſmo e eſt 4,4 eſt c,igitur e eftc) &fic e eft a
,quia e eſt a, Ofic error ijte uerfatur in probanda minore primi Syllogiſmi per
plura media per c, oper a , propoſitio uero que probanda proponebatur ,
hæcuidelicet,e eft a, per tria media per b., perc , & per a , probatur ,
ſimiliter errant illi, qui nituntur probare parallelas effe per hoc, quod Triangulum
habent tres æquales duobusreftis , quod quidem hoc probaretur modo, ſit triangu
= lus a , b , c . cuius latusbc, ſi protendatur ,caufabitur augulus d, c, d ,
exterior equalis duobus angulis a , b , intrinſecis ex oppoſito colla * catis
PRIORVM ARISTOT. 19 [ b N catis , ut patet ex prima parte tri q geſimæſecunde
primi elementorun Euclidis , à punéto c , parallela dua catur ipſi b , a , quæ
fitc, e, patea bit per ſecundam partem eiufdemn tri geſimæſecundæ primi
elementorum , - quòd triangulus a , b , c , habebit tres duobus re&tis
æquales . Si aus tem fumatur probandum quod b , a , uc , e , fint parallelæ ,
per hoc medium , quia triangulus b , a , c , habeat tres duobus re&tis æqua
. les , ideo ipſe parallelæ ſunt , ſic , exterior æqualis eft duobus intrinſe
cis ex aduerſo poſitis , qui exterior angulus a , c , d , in duos pars titur
angulos in a , c , e ,we, c , d , , c , e æqualis eſt b , a,, ere, c , d , eft
æqualis a ,b , c ; quorum utrunque probatur per lis neas eſſe parallelas,ut per
uigeſimamnonam primi elementorum ,feques retur igitur , quod a ,b ,oc, e ,
parallelæ funt,quia parallelæ ſunt,ut b , a ,oc, f , parallelæ funt,quia
triangulus a , b , c , habet tres duoc bus rectis equales , fed a , b , c ,
triangulus habet tres Angulos duos bus reftis equales , quia a , b , & c,e,
parallelæ ſunt,igitur a, b ,a col, parallele ſunt , ,quia parallelefunt, quod
uanum eft , oprobare quipe piam prius per aliquod pofterius , quod pofterius
æget illo priori adſui probationem . Aliter exponatur Textus,ut fiintentü fit
defcriberec, d , queſit parallela ipſi a , b, per uiges ſimamtertiam primi
Elementorum d fiat angulus e , c , d, æqualis angulo 4,6,6, & argue poſtea
,quod d , 0,4 , ſit æqualis angulo b , a , 6 , quod eſſe non poteſt, niſi b , d
,egu c , d ," parallele fupponantur , fic b connectatur inductio , quia
Trian gulus a , b , c , habet duobus reftis æquales,parallelæ funt a ,b , c,d,
&quia paralellæ funt , ideo Triangulus habet duobus rectis æqualis , igitur
paralella funt , quia parallele fit . a : í с 18.INSECVNDVM LIB. DE EO QUOD NON
EST PENES HOC. VONIAM idem utique falſum per plures fup pofitiones accidere,
nihil fortaffe inconue niens , ueluticoalternas coincidere, & fimas jor eft
extrinſecus intrinſeco , & fi triangu lus haberet plures rectos duobus .
Quod autem parallela a , b , c, d , coincidunt fic perſuaderiui. detur Angulus
extrinfecus e , 8 , 6, maior eft angulo intrinſeco g, b , d, (quod quidem
ſummitur falfum , pe nes quodſequitur impoſsibile ) ſed 9 4,8,6,6,8, ho per
xiij.primi a -b Elementorumſunt æquales duobus re&tis igitur b, 8,5,64,6,8,
erunt d minores duobus reftis per illam igi tur communem fententiam , ſi una f
recta ſuper duas rectas ceciderit at que ex una parte cadėtis linee duo anguli
intrinſeci fuerint minoris duobus reétis, illas duas reétas ad pars tem illorum
angulorum concurrere neceſſe erit, fi protrahantur . Et fi triangulushaberet
plures rectos duobus . Duo Anguli g , h, k ,68, k , h , ſuntmaiores duo . bus
re&tis , multo magis igitur b , h , k , d , k , h , ſuntmaiores duos, bus
rectis,igitur duo a , h , k , k , h , ſunt minores duobus res a. h b & is ,
quia omnes quatuor 6 , h , k. a , b , k . d , k , h . @c , k , h . og ſunt
æquales quatuor reftis per des cimamtertiam primi Elementorum bis fumptam
,igitur b , a , d , c , f adpartem a , c , protracte concurs rent, per illam
animi conceptionem ,fire &ta ſuper duas reétas cadensfes cerit duos
angulos'ex una parte minores duobus reétis, illa duæ lineæ ad illam partem
protracte neceſſario concurrent . ! Co Cс PRIORVM ARISTOT. IN DE DECEPTIONE QVÆ
FIT SECVN DVM SVSPITIONEM. ELVTI fia , ineft omnib , buero omni c , a omni c
inerit , fi itaque quiſpiam nouit quòda ineſt omni , cuib, nouit & quòd cui
c, fed nihil prohibet ignorare c, quòd eft, ut ſia duo recti, in quo autem b ,
triangulus,in quo uero c , ſenſibilis triangulus , fufpicari nanque poflet
aliquis non eſſe c ,fciens quod omnis trian gulus haberet duosrectos, quare
fimulnoſcet,& ignorabit idem . Textum ſimilem habes in pofterioribus in
principio primi,preu ter ea , quæ ibi dicentur pro nunc ad explanationem huius
Textus, prie mo littera exponatur , omne b eft a , omne c eſt b , igitur omne
ceſta , uel omnis triangulus habet tres duobus rectisæquales , qui conſtitutus
eſt in tabula est triangulus , igitur qui conſtitutus eft in tabula habet tres
: duobus reétis æquales,ſed ſimul dicas o charateres terminos,omne, b trigonum
eſt habens tres angulos duobus rectis æquales , omnec fen . fibiletriangulum
eſt triangulum , igitur omne c ſenſibile triangulum habet tres angulos æquales
duobus re &tis . Cum teneret quis hanc uni uerfalem , omnis triangulus
habet tres angulos æquales duobus reétis nondum fciebat , quòd ſenſibile
triangulum effet huiuſmodi , quòd han beret tres , uidelicet duobus re &tis
æquales , niſi potentia , non autem actu ; quàm primum autemfyllogizauit
ſubſumptaminore , statim intua. lit , «cognouit , quod ſenſibilis triangulus ,
tres duobus rectis pares haberet. Cum autem ait ſuſpicarinanque poſſet aliquis
, non eſſec , non eft intelligendum , ſic ut Græci , o omnes exponunt , quaſi
quod ignos retur an fit c , fed hoc non uult Ariſtoteles dicere ,ſed cum inquit
fufpicari nanque poſſet aliquis non eſſe c , hoc intelligas modo , quod stante
prima uniuerſali, poterit ignorare anc, habeat tres duobus re &tis equales
, licet non ignorauerit c effe , fed ignorabit c eſſe huiuf modi, utputa , quod
habeat tres duobus rectis æquales ; ſcietigitur po tentia in uniuerſali
propofitione , Waétu ignorabit in particulari ante quàmfiat fyllogiſmus.
Syllogiſmo autem fačto ,feu fa & ainduftione Geos trica de qua inprimo
posteriorum Textufecundo)a & tu ſcit, quòdfenſis bilis triangulus duobus
re&tis tres pares habeat,nihil igitur prohibetfi . Cij 20 IN SECVN. RIO.
ARIST. mulſcire , ignorareidem ſecundum diuerſa , ut ſcire potentia iniſud
uniuerſali , & antequam fiat inductio, oignorare ſimpliciter , ut pus ta in
particulari. DE A BDVCTIONE. VT Rurſus fi pauca ſint media ipſorumb , c ,
nanque & fic proximius ipfi cognoſcere uelutiſid eſſet quadrati, in quo
autem e ,re etilineum , in quo uero z circulus , fi ipfius é z ſolum eſſet
medium ,hoc , quod eft cum lunulis, æqualem fieri circulum rectilineo ce
ſīpoflet prope ipfum cognofcere . In predicamento ad ili quid circa quadrare
circulum fuit determinatum quantum fiebat fa tis ad Ariſtotelis intentionem , e
de quadratura fuſius in fragmena tis noftris , fuper Logicis , multa declarabo
, quo ad preſentem te - xtum Ariſtoteles facit fyllogifmum , cuius minor ,
cumſit dubia e oba ſcura , dicit unum eſſe medium ad probandam illam , arguit
e, rectilis neun , d quadratur , ſed z , circulus fit reetilineum , igitur
circulum quadrari,poſſet quis eſſe prope cognoſcere, minorem tentauit Antipho ,
Hypocrates chiusprobare per id medium , quod lunulas ad rectilis neas figuras
nixi ſunt reducere, diuerſis tamen medijs , alio enim mos do tentauit Antipho ,
o aliter Hypocrates chius , qux figure reetilis neæ reducebantur poſtea ad
quadratum , eo artificio , quo Euclides docet ultima ſecundi Elementorum ,
oſyllogiſmus connectatur ſic , ut fimul dicam characteres , me terminos
Ariſtotelis , e , rectilinea figura , d quadratur , fed z circulus e figura
rectilinea facta est, igitur zcirculus, d , quadratur . 21 IN PRIMVM LIBRVM
POSTERIO RVM ARISTOTELIS, PETRI CATHENÆ NOVA INTERPRETATIO . TEXTVS SECVNDVS.
VPLICITER autem neceffarium eft præ cognofcere , alia nanque , quia ſunt prius
opinarineceffe eft,aliaueroquid eft , quod dicitur intelligere oportet, quædam
autein utraque , ut quoniam omne quidem , quod eſt , aut affirmare, aut negare
uerumeſt quia eſt , Triangulum autem quoniam hoc fignificat ; ſed unitatem
utraque , & quid ſignificat, eſt quia eft , non eniin fimiliter horum
unumquodque manifeftum eſt nos bis . Græci omnes , pariter & Latiniuniuerſi
confuſione plenum rede dunthoc in loco Ariſtotelem , nedum qui ſcripſerunt ,
fed etiam recens tiores , quihac tempeſtate eum interpretantur , & priuatis
colloquijs, epublicis etiam lectionibus. Anſammultorum errorum pofteris omnis
bus prebuit . Ioannes Grammaticus Cognoinento Philoponus , ſuper hoc Textu in
cuius expoſitione plufquain errorum mille contra Ariſto telis
ſententiamfcripſit , qua decaufa , ipfa ueritate fretus, &uniuers fæ
logicorum utilitati conſulens , lucidum , facilein , atque clarum Aris stotelem
in hac parte reddere decreui, o inſaniam ignorantiæ depri = mere, ne etiam in
futura tempora amplius à forticulis doctrina tamclan
rißimiPhilofophilabefactetur , ſcito in primis , tres eſſe modos pres
cognofcendi, quos Aristoteles ponit , in hoc Textu , unicuique hos rum modorum
aptißimum ,atquefacilimum exemplum poſuit , feruans exemplorum ordinem cum
ordine modorum precognofcendi, ſic , ut primo precognofcendi modo primum
exemplum aptet ,ſecundo modoſe cundum , atque tertium tertio . Nequete
perturbet , quod Ariſtoteles IN PRIMVM LIB . ait , dupliciter fit neceſſarium
præcognoſcere'. Tripliciter autem dixes rim ego , primo autemmodo , opus eft
præcognoſcere , quia eſt tantum, alio autem modo , quid eft id , quod nomen dat
intelligere folummodo quos duos modos ab inuicem ſeiunctos , in tertio modo in
unum aggregat uerum methodum compoſitiuam ſeruans . Duo igiturfunt modi precos
gnoſcendi, alter quidem in parte oſeparatim , reliquus uero in totum , oin
parte quidem biffariam . Vnus tantum quia eft ,reliquus uero tans tum quid
ſignificet , in toto uero ille eft modus , qui horum utrunque in ſe comple
&titur . Exempla Ariſtotelis multos Geometric ignaros turs batosego
stupidos reliquerunt , qui ab Apoline reprehenfi , &fpreti à Platone ,
uagantes fomniauerunt , hoc in loco , tria attůlliſje Ariſtotes lem exempla , in
ſcientijs diuerſis . Nempe Methaphiſica ,Geometria , O Arithmetica , quod
chimericum eſt , ex ipſa uunitate magis uanum , fi enim ueftigijs fapientum
Methaphiſices,Geometrie , & Arithmetica, prima limina attigiſſent, non
incidiſſent in hasſuas philoſophicas furias, dicunt enim , quod artificio , id
Ariſt. fecit,ut de demonſtratione agens, que inſtrumentum uniuerſale est , tria
exempla (ſuam oftendensfacuns diam ) in ſcientijs tribus fpeculatiuis ,
&uniuerſalißimis attuliffe , ſic , uttandem concludant in ſua expoſitione
Ariſtotelem uoluiſſe equinam ceruicem humano capiti iungere , &uarias
plumas diuerſarum ſcien tiarum inducere , ut tandem tria formoſa , &pulcru
exempla deſinant in nihil dicere. In una demonſtratione , datum eſſet unitas ,
queſitum triangulus , e principium Methaphiſicum , ualeat pereatque cim ins
terpretibus hæc interpretatio . Non est Ariſtotelis confuetudo , exeine pla
afferre ( aliter effet edire &to contra exemplorum naturam ) niſi ,ut
do&trina , que aliquatenus non innitiatis uidetur obfcura , atque diffi
cilis , fole clarior , atque perfacilis omnibus reddatur , quid rogo cons
fufius, quàm in una re logica explicanda , tria exempla mutila , o tim diuerfa
afferre ? ut in unotantum quia,in alio exemplo,folum quid ,c . in tertio exemplo
, ey quia , &quid , ut tandem in piſcem definat fora mofa demonſtratio.
Dico , omnia tria exempla attulliſſe Ariſtotelem in unica atque determinata
Arte ; uel diſciplina Geometrica , quicquid Niphlus fentiat & fequaces , ex
nulla eſt alia ueritas in hoc Ariſtotelis Textu , neque uerus fenfus , qui ad
Ariftotelem faciat preter hunc , quem fubfcribo , uelint nolint omnes atque
uniuerſi , qui philoponifena tentie initi uidentur, quem nullo modo ipſemet nec
alij recteintelligunt, fcito primum , quod de lineis re&tis a centro ad
circunferentiam du &tis POSTERIORVM ARISTOT. 23 1 Veruin eſt dicere quod ad
inuicem funt æquales, uel non equales, ut etian de quolibet quidem quod est,aut
affirmare,aut negare ucrum est,quia eſt, fimiliter,quòd quæ uni og eidem funt
æqualia interſe funtæqualia ,uel in terſe nonſunt æqualia , uerum est dicere
quia eſt ,ſed alteram partem hu ius diſiun £ ti fummit Geometra deffinitione
xv. primi Elementorum , cum Similiter alterum alterius diſiunéti partem prebet
prima animi conceptio primi elementorum , &hoc est uerum , quia est
linearum à centro ad circunferentiam protractarum , ut adinuicem ſintequales ,
« prima ani mi conceptionis ,utſiab æqualibus equalia auferantur remanentia
æqua lia erunt. Secundo loco exemplum poſitum est ,quid hæc uox , Triangulus
ſignificet,quod etiam fupponit Geometra deffinitione xxi. primi Elemen torum ,
ex ſignificatfiguram tribus re &tis lineis contentam ,ſiue illud actu ſit
ſiue actu non ſit,Quatenus tamen quæritur,nondü habetur,poteft tas men eſſe.
Tertio loco ponit Ariſt.unitatem ,quæ quidem unitas , a quid ſignificet , quia
eft ,utrunque habet . Hanc ego unitatem contra oma nes loquentes , « ad
Ariſtotelis ſententiam aio , eſſe non eam , qua unaquaque res una dicitur,ut ea
quæ eft principium numeri, ſed eſtres queuna ab illa unitate , quæ eſt
principium numeri dicitur , nempe una linea recta data ſuper quam triangulum
collocare oportet , ſiue ille fit æquilaterus , ut Euclides proponit , uel
iſoſcelesaut gradatus, ut Aris ſtoteles querit in uniuerſum , quod quidem
Proclum diadocum ,& Cam panumfuper primum primi Elementorum , non latuit,
quæ unitas linea feu quæ linea una concluditur in decimaquarta primi
Elementorum , tàm quàm queſitum , in qua quidem decimaquarta primi Elementorum
ni hil de unitate, quæ fit principium numeri, ſed, una linea concludi tur , quæ
linea una eſt datum inprimo problemate primi elementorum Euclidis , de qua
lineæ unitate precognoſcitur , quid , utſit a puncto in punctum breuiſsima
extenſio per diffinitionem tertiam primi elemehtoa rum , precognoſcitur etiam ,
quia est ,cum ipfa detur in prima pros poſitione primi elementorum . Ab
Euclidis igitur methodo non recedens Ariſtoteles facilitat, declarat exemplis
ubique locorumfuam do&tria hæc igitur uera atque germana Ariſtotelis interpretatio
eft , alia , ut dixi nulla , fomnia igitur quæcunque diluantur , putas ne Arie
ftotelem afferre illud Methaphiſice principium , nullo modo ad artem ali quam
peculiarem contractum, uni Tirunculo in Logica inſtituendo ? ubi Methodus? que
maior ordinis peruerſio ? quis nam in Logicum eua dere poterit niſi prius
Methaphiſicis inniciatus fit? hec omnia uanis 11 nam , 24 IN PRIMVM'LIB. 2 tate
plena ſunt, non faciunt niſi ad buccas inflandas . De unitate aus temdicit
Ioannes ſic Ariſtotelem intelligere , ſicut docet Euclides pros
poſitioneſextadecima ſeptimi Elementorum , fi unitas numeret quemli bet numerum
, quoties quilibet tertius aliquein quartum , erit quoque, pernutatim ,ut
quoties unitas numerabit tertium , toties ſecundus quar tum numerauerit , datum
inquit Ioannes , eſt unitas, quæ eft principium numeri, de qua habetur
&quid , & quia eft , o ſi hoc exemplo uidea tur Ioannes ueritatem
quidem dicere , licet non ad mentem Ariſtotelis. Dico tamen quod Ariſtoteles
neq; exponitur, & quòdfalfum eft,id quod Ioannes dicit ,ut quod unitas,quæ
eſt principium numeri , fit datum ,non enim eſt unitas datum in ſextadecima
ſeptimi Elementorum , fed unitas cum refpeétu ad numerum aliquem , quem numerat
, eſt datum , que = ſitum autem eſt , ut ipfa tertium numerum numeret , ut
ſecundus nus merus numerat quartum , quemadmodum amplius declarabitur in de
tris plici errore circa uniuerſale.Preterea dignitas ſiue premiſſa in hac loan
nis indu &tione eſt duodecinaſeptimi Elementorum , que probatur per
precedentes , onon eſt immediatum principium ,exponitigitur Ariſtoc telem per
unam demonſtrationem , quæ non procedit per immediata prin cipia , quod non eſt
imaginandumin hoc propoſito , preualet igitur ex poſitio de unitate lineæ ,
quia ibifit deductio per immediata principia ut per xv.deffinitionem ,&
prima animi conceptionem primi Elementorum Ecce quàm aliena est loannis
expoſitio ſuper Textum Ariſtotelis . Die co igitur datum , eſſe unam rectam
lineam , quæſitum , ut ſuper ipfarn trigonum conſtituatur , &quod , id conſtitutum
, ſit trigonum , probas tur per decimamquintam deffinitionem , vprimam animi
conceptionem primi elementorum . TERTIVS TEXT V S. ST autem cognoſcere alia
quidem prius cognofcentem . Aliorum vero , & fimul notitiam capientem , ut
quæcunque , con= tingunt eſſe ſub uniuerſalibus quorum haa bent cognitionem ;
quòd quidem omnis triangulus habet tres Angulos æquales duobus rectis præfciuit
, quòd uero hic , qui in ſemicirculo cft , triangulus fit , fimul inducens
cognouit. Duos modos ſciendi POSTERIORVM A R IST. 25 ſciendi hoc textu tangit
Ariſtoteles , primus , qui eft per reminiſcens tiam,de quo nondubitarunt
antiqui . Alter uero, es ſecundus est , quo de nouo aliquid ſcimus , qui fuit
alienus ab antiquorum mentibus, ſur per hocſecundo , ſit noſtra expoſitio . Ioannes
Grammaticushanc para ticulam , fimul inducens cognouit, interpretatur fic ,ut
per inducen tem intelligat eum , qui habens triangulum in ſemicirculo pićtum ,
ofub penula abſconſum , oftendat eum triangulum eſſe , quaſi abijciens penus
lam , ey aperiens manum obijciat ipfum triangulumoculis uidere uolens tium ,
&Latini omnes fimiliter ,& Aueroes fequuntur ipſum in hac
interpretatione . Non poſſum non mirari hominisiftius alias doétißimi
expoſitionem & omnium fequatium ,que quidem interpretatio, fi ads mitatur,statim
uidetur , quod Ariſtoteles uanus ſophifta effectus , id do ceat , quod ipſe
reprehendit contramale foluentes,ubiinquit in fequenti textu,Nemoaccipit talem
propofitionem ,oinnis triangulus quem tu ſcis eſle triangulum ,quod utique illi
agebant de dualitate abſconfa inmanu,quòd neſciebant eameffe parem ,
quouſq;nonuiderent quòd illa eſſet dualitas . Ioannes &omnes interpretes
Ariſtotelis allucis nati ſunt, putantes quod illa littera Ariſtotelis ſic
debeat legi, quod ues ro est in femicirculo triangulus fit , fimul inducens
cognouit ;cognouit quidem quodfit triangulus , per induétionem , id eſt per
oſtenſionem ad oculum , aperta manuin qua abfcondebatur , ſic ut illa induétio
certificet de eſſe triangul , quod ridiculum est , o uſque ad hæc tempora ,
falfum pro uero habitum ,henuga deſtruunt Ariſtotelis ſententiam ; non enim
Ariſtoteles de trigono in ſemicirculo defcripto dubitat an trigonum ſit , neque
igitur estopus, ut dubium remoueatur per oſtenſionem ad oculum quòd trigonum
ſit , quia ut dixi, hoc non reuocatur in dubium , ſed has bita , hac uniuerſali
,omnis triangulus habet tres æquales duobus res Etis , dubitatur an qui in
ſemicirculo eft triangulus , &qui quidein a &tu uideturſit huiufmodi ,
utputa , quòd habeattres angulos equales duo bus rečtis , quod quidem
manifeftatur non per ſenſitiuum indu &tio s nem , quia per illam oftenditur
tantum quòd fit triangulus , ut illi mda li interpretes exponunt. Neque id
oftenditur per inductioncm Topia cam , que à particularibus ad uniuerfalem procedit
, ocontrariatur huic poſterioriſtico proceſſui , quifit ab uniuerſali ad
particularia , rea ftat igitur declarare quæ induétio fit illa de qua loquitur
Ariſtoteles , quam dicunt aliqui elle ſenſitiuam , aliter tamen ſenſitiuam quàm
loans nes Grammaticus intelligat , dicunt enim quod talis fenfitiua oftenfio 1
1 D 26 IN PRIM VM LIB . couptatur in Syllogiſmoſic , omnis triangulus habet
tres angulos equat les duobus rectis, ſed hic qui in ſemicirculo , eſt
triangulus, igitur hic qui in ſemicirculo , habet tres duobus rectis
aquales,ecce inquiunt,quos modo minor eſt ſenſitiua , quia ponitur illud
pronomen oftenfiuum , isti funt in errore maiori forſan quàm precedentes ,
putant eniin quod illud pronomen , &fimilia pronomina ſint oſtenſiua ad
fenfum , quid igitur dicendum erit de hisloquutionibus,hic Apolo eſt cui barbam
abraderefe cit Dioniſius, huic Apolini coronam Papus , iufsit fieri, & iſte
Aurifexfædauit aurum ; ueletiam iſte est Euclides,quem Plato in theetes to
commemorat , non ne omnia ifta pronomina oſtenfiua , funt ad intela lectum ,
& ſi quandoque per accidens ad ſenſum ſint oſtenſiua ? ideo pronomen in iủa
minori , ſiper accidens oftendatad ſenſum , oſtenſia uum tamen precipue eft ad
intellectum , aliter cecus non poffet illum Syla logiſmum efficere , quòd
manifefte falfum eft , ueritas non eis obuiam uenit ſic
interpretantibus.Laborant adhuc dicentes ,quod ila inductio nil aliud est
quàmfubfumptio huius minoris , fed hic qui inſemicirculo est triangulus , fub
illa uniuerſali nota , omnis triangulus habet tres angulos æquales duobus
reétis , illam quidem diſpoſitionem premijarum in figus ra &modo , uocant
inductionem , hoc autem non facit fatis ad Ariſtotea lis litteram ; quia ante
quam inferatur concluſio , neſcitur de triangulo conſtituto inſemicirculo quod
tres habeat duobus reftis æquales niſi po= tentia , poſt quam autem
illatafuerit concluſio ,fcitur a &tu, o noi ama plius potentia, quòd uult
Ariſtoteles,ut poſt quàmfactus fuerit ocoma pletus ſyllogiſmus, fimpliciter
ſcitur,quod qui in tabula ,habet tres æqua, les duobus rectis . Agamus igitur
& nos ,o . Ariſtotelis litteram prius diſponamus , ſubinde ſententiam
exponamus.. De triangulo uero in feinicirculo conſtituto fimul inducens
cognouit. Simulcum uniuerſale triangulo ſcit ipſum particularem trianguluna,
quòd habet tres æquales duobus rectis , &hoc,inducens, uerbum hoc inducens
du asinductiones ſignificat. Alteram Geometricam ,reliquam ſyllogiſticam , quæ
etiam ordine ponuntur in littera Ariſtotelis dicentis ,antequàm in duétum
ſit,uelfactus fuerit fyllogifmus , quæ duo uerba, non ſunt fynow nima , ita ut
und &eadem res per, utrunque uerbum , inductum ſit , uel fa& usfuerit
fyllogiſmus ſignificetur, quia in doctrinis,non utitur termin nis ſynonymis
,neque Ariſtoteles multiplicat uoces , terminos ean dem rem ſignificantes .
Dicendum igitur, quod aliam rem uox hæc indue dio, &aliam ifta uox
,fyllogiſmus,ſignificat , non gūteſt indu &tio aliqua POSTERIORVM ARISTT..
29 prediétismodisfupra citatis, ut probatum fuit , relinquitur igitur, ut
inductio per quam ſcimus,quodtreshabeat æquales duobus reitis is,qui
infemicirculo defcriptus est,nulla alia fit,neque excogitari poſsit quàm
Geometrica induétio . Ila autem huiufmodi est , fuppofita deſcription per
trigeſimamprimum primi Elementorum , Angulus c b d eft æquas lis ang ulo &
c b, per primam par tem uigeſimenos lice primi Ele - mentorum Euclia dis ,
&Angulus dibe equalis eft ang ulo cab per fecundam partem uigeſimenone
primi elementorum , totus igitu * cbe , eſt æqualis duobus angulis cøa, fed
cbre, cum c b a per xiij. primi Elementorum equiualet duobusrectis , igitur
angulia , cum eodem c b a , funt equales duobus reétis,quod inducendum erat, de
triangulo ac b in ſemicirculo deſcripto,qui triangulus non erat abſcon fus immo
ante oculos offerebatur, tamen illa oblatio,non erat inductio de qua
Ariſtoteles intelligit , quam inductionem quis unquam utcun queetiam intin
&tus litteris dicet , unum eſſe fyllogifmum ? quofyllogif mounico (it
inferius declarabo) poteratidemfyllogizari , neque enthis meina unum eft, cum
ibi multe ſint conſequentie, Enthimemaautem und tantum conſequentia eft , quòd
neque Topica , inductio , patet ; quia ibi à ſingularibus ad uniuerfalem
progredimur,in hac autem induétioneper decimamtertiam Guigeſimănonam primi
Elementorum ,quæ uniuerſales magis funt quàmſecunda pars trigeſimæfecundæ primi
Elementorum per quam patet intentum de triangulo in tabula conſtituto . Neque
mi reris quod in hacinduétione non fumitur illa maior , omnis triangulus habet
tresangulos æqualesduobus re&tis , quia illa fumiturin inductione
fyllogiftica , in inductione uero Geometrica , fumitur decimatertia,cui
gefimanona primi Elementorum , in utraque induktione cumGeometri ca ,tum etiam
fyllogiſtica fit proceſfusab uniuerſalı ad particulare,uel ad minus uniuerſale,
Syllogiſtica uero induétio,ex duabus premiſsis, illa ta concluſione conſiſtit,
quafyllogiſtica indu &tione fæpeutitur Ariftoteles ut Tex.xciiy.Secundum
partitionem loan.Grammatici,uel Textu trigeſi monono in paraphraſi, in magna ,
pero expoſitione Tex .clxiij.prima Dü IN PRIMVM LI B. poſteriorum , &
alibi, habita o ſcita hac uniuerſali, omnis triangulus habet tres equales
duobus reétis ,fatur modo aliquo idem de conſti tuto in ſemicirculo triangulo ,
ſimpliciter autem non fcitur,ofacta ine duftione ſyllogiſticaſimpliciter ſcitur
, quod qui in femicirculo eft triane gulus , ſit huiuſmodi, ſicut ſcita
decimitertiaeuigeſimanona primi elee mentoruin ſcitur potentia , quod qui in
ſemicirculo eſttriangulus , duo bus rectis tres habeat pares ,licet nefciat, an
qui in ſemicirculo ,fit triana gulus,ut Ariſtot,ait Tex.101. uel 169.a{tu autem
, o ſimpliciter fcitur per Geometricam induétionem , quæ ſemper ex ueris,
primis , caufis ila latiuis conclufionis , ex magis notis procedit, non autem
ex immediaa tis ſemper , nequc ex cauſis quedant eße , fed ex his tantum , quæ
dant propter quid iŪationis , tale inſtrumentum quod induétionemGeomes tricam
uoco,non est una conſequentia , fed plures , ut plurimum , neque per
immediatafemper procedit ,fedalternatim per immediata , oper ea que probatafunt
procedit,inmediata autem , uoco propoſitiones per fe notas , etiam illas
propoſitiones demonſtratas,quæ immediate proz bant fequentes , de hoc quidem
toto inſtrumento non aliter Ariftoteles traftauit , nifi per particulas illas ,
utſupra commemoratas , ut ex ues ris Oc. Tractauit tamen de fuis partibus, ut
de enthymemate , quòd pluries fumitur in tali induétione Geometrica,o de
fyllogiſmo, ad quem reducitur talis inductio,non tamenadunun tantum ,ſed ad
pluresfyllogif mos , neque uelim dicas propter hoc, quod Logica, Geometriam
debeat precedere,utplacet nonnullis niſi deLogica,que natura nobis ſuccurrit.
Quorundam enim hoc modo diſciplina eft, & non per inedium ultimum
cognofcitur , ut quæcunque fingularia jamelle contingit, uec de fubiecto quoppiam
. Hunc locum Ariſtotelis extorquent penė.omnes,uerum quidemdicunt, ſed in fua
ues ritate duo errores continentur , primus eft , quod interpretatio non est ad
propofitum , fecunduserror, quia id quodaiunt contradicit huicloa ÇO
Ariſtotelis , inquiunt enim , quod per medium , ſcitur ultimum , hoc est , quod
ultimum . Nempe maior extremitas concluditur per medium de ipſa extremitate
minori . V.ideas quanta fit horum hominum uanitas, Ariſtoteles negatiue
loquitur . Et non per medium ultiinum cox gnoſcitur. Ipfi autem uani exponunt ,
per medium ultimum cognofcia tur , aduertendum quod medium in propoſito
intelligit Ariſtoteles ,quod non tantum fitu ,medium intelligas, quod bis in
premißis capitur, fed me dium hoc loco,nil penitus aliud est quam , quodquid eft
ipſius rei , ut POSTERIORVM A R IST. 29 fparfim in primo poſteriorum , e in
ſecundo manifeftuin eſt , in pri moenim , Textu 201. Juxta partitionein
philoponi , uel 39. uel Textu 169. iuxta aliain partitionem ; ait Ariſtoteles ,
quod uniuerſale mon ſtratur per medium , &non particulare ; uerbi gratia
,hic non per mea dium ,omnis homoest riſibilis Socrates eft homoigitur Socrates
eſt riſi bilis , ly enim hono , non eft quodquid est , ſed eſt ſubiectum , hic
uero per medium , omne animal rationale eſt riſibile , omnis homoeſt aniinat
rationale, ergo omnishomo eft riſibilis, ibi enim animal rationale eft mes dium
, fi inftes fic ,omne animal rationale eſt riſibile Socrates est animal
rationale ,igitur Socrates est riſibilis . Dico quòd hoc non eft per fe,eta
primo de Socrate , quòd fit animal rationale , nec etiam riſibile per ſe ,
& immediate,argués igitur fic ,omnis triangulus habet tres æquales duo bus
rectis ,fed qui in ſemicirculo , eſt triangulus , igitur qui in ſemicir= culo
habet tresæqualesduobus rectis . Ibi enim triangulus non eft quot quid eſt, ſed
potius ſubie &tum , feu genus , ibi igitur non eſt demonſtras tio , licet
fit fyllogifmus , &fi adhuc inftetur ,quod per decimumtertiam
&uigefimamnonam prini,demonftretur quòd qui in femicirculo , ha beat tres
equales duobus rectis , igitur ei qui in ſemicirculo eſt , non con uenit; quia
triangulus;fed per decimamtertiam euigeſimamnonam pris mi Elementorum . Dico
quod in inductione Geometrica , qua de triana gulo in ſemicirculo cöftituto
oftendebatur,quod habet tres æquales duos bus rectis per decinătertiam (
uigefimamnonam primi, id immediate nõ conuenit triangulo quatenusſit in
femicirculo deſcriptus , fed ut trian . gulus eſt, ut oſtenditur ſecunda parte
trigeſimeſecunde primi Elemen torum ,fecundoautem , &per fe non
immediate,omnibus alijs triangulis. Quorundam igitur ſingularium (quorum
quodque non predicatur de ali quo ſubiecto , quiafingularenon predicatur
deſubiecto aliquo , ut in pre dicamentis determinatum est ab Ariſtotele )
diſciplina est , non per medium , ultimum cognofcitur, cognofcitur quidem
ultimum nempe mie iorem extremitatemineſſe minori ,fedhoc non permedium , id
est non per quod quid est . Si vero non eft ita ,quæ in Menone contin . get
dubitatio , aut enim nihiladdiſcet feruus Menonis,aut quæ prius nouit addiſcet
non eniin iam ueluti quidam ni. tuntur foluere dicendum eft particula illa . Si
uero non eſt ita,videlicet fi non eft fcire de nouo,ab uniuerſali ad
particulare progre diendo ; tunc , quæ in Menone eſt, contingit dubitatio , particuld
illa : Non enim iam . Yerbum illud iamfuturi temporis eſt, fic utfit ſens 30 I
N P R IM VM LIB . ſus habita mea doctrina,omodo quo dixi, nos fcire de nouo
,quod id addiſcimus , quod tamen aliquo modo fcimus, non foluas poſt hac , eo
modo , quo illi nitebantur foluere , fed eo palto ut predocui , it de omni
dualitate fciens quod par ſit , de abfconfa in many dicas, quòd etiam de ea
fcis potentia , quodſcit par . Veluti quidam nituntur ſoliere dicendum eſt .
Exponunt Latini &Græci,hunc locum fic,quidam Platonici dicentes, nos nihil
fcia rede nouo ,fed fcire noſtrum eratreminiſci arguebant illos , qui dices
bant quod de nouo fcimus , &nitebantur Platonici ducere eos in contra
dictionem ,hoc argumento interrogatiuo, aiunt enim Platonici ipſi jos ne omnem
dualitatem eſe parem , nec ne anuunt quidam dicentes nos de nouo ſcire , ita
eſſe , ſübinde atulerunt Platonici dualitatem dicentes , igitur fciebatis etiam
hanc dualitatem , quam manu tegebamus eſſe pas rem , quod tamen effe non poteſt
, quia nefciebatis ipſam eſſe dualitatem ecce contradictio , prius fatebantur
ſeſcire omnemdualitatein eſſe par rem , &tamen neſciebantdualitatem hanc
parem eſſe , quod manifeſtum contradictorium eft , reſpondebant autem illi ,
qui dicebant nosfcire de nouo , quod interrogati de omni dualitate, an par
effet, reſponderunt non de omni dualitate abſolute , fed de dualitate quam
utique dualitatem effe ſciebant , modo de illa , quæ abfconfam tenebant , oque
non erat fibi nota , ut eſſe dualitas , non fatebantur illam eſſe parem , quia
neſciebant illam effe dualitatem , ita ut hec expoſitio, eotendat , ut
Ariſtoteles res prehendat illos , qui dicebant nos ſcire de nouo , quia male
foluebant Argumentum Platonicorum , xnihil dicat Ariſtoteles contra Platoni.
Cos. Expoſitio autem mea , e directo opponitur , huic omnium expofie tioni ,
ſic ut Ariſtoteles arguat Platonicos male foluentes argumentum dicentium
nosfcire de nouo , & contra hos dicentes , quòd fcimus deno uo, nihil in
hoc Textu dicit Ariſtoteles . Pro cuiusfententia declaranda, Queritate , est in
primis aduertendum , quod in hoc textu , quoſdam in telligit Ariſtoteles
dicentes , quòd de nouo nos fcire contingit aliquid , quod tamen etiam
preſciebamus in uniuerfali, oiſti inquiſitiuo argu mento probant intentum
contra tenentes , quòd ron ſcimus quippiam de nouo , quorum negantium de
nouofcire reſponſionem redarguit Ariſtoa teles, einterargüendum , peccant og
errant in perſuadendo id , quod probare nituntur , quem errorem , &peccatum
dicentium nos de nouo ſcire , non redarguit Ariſtoteles propter duas cauſas ,
altera est , quia eft adeo manifeftus , ut fine reprehenſione à quolibet
cognofcatur pre POSTERIORVM ARIST. meil , habita intelligentia primi textus
huius primi , reliqua caufa quare: non eos redarguit est , quia primo textu
feclufit fuam perſuaſionem , dicens omnis doétrina , o diſciplina intellectiua
a diſcurſiua , ex præexiftens ti fit cognitione , ex preexiſtenti non quidem
ſenſitiua, quia illa à Singue laribus ad uniuerſalem , hæc uero poſterioriſtica
e contrario, ab uniuer ſali ad fingulare procedit , ideo eos non reprehendit
Ariſtoteles , quia , quifq; per fe intelle &to primo Tex.cognoſcit; quo
modo errabat ilii inter arguendum . Inquiunt enim arguentes , noftis neomnem
dualitatem effe parem necne ? afferentibus Platonicis attullerunt eis quandam
dualitas tem , quam non exiſtimabant eſſe , quare neque parem , en dicebant
iſti arguentes , ſciebatis in uniuerſali, quod omnis dualitas est par , otas
hoc , ideſt paritatem de hac dualitate , qua manu abſcondebatur neſciebatis ,
quiaignorabatis quid eſſetin manu, num dualitas,uel quips piam aliud ,
autnihil, « nunc uos fcitis iam per apertionem manus prius eam tegentis , in
particulari hanc determinatam , & particularem dualitatem eſſe parem , ecce
quomodo ab uniuerſalicognitione deuentum fuerit in cognitionem particularis ,
quod prius dubium apud uos erat . isti ſic arguentes peccant contra primum
textum , utſupra dixi, ocon tra Tex. 112. Neque per ſenſum eft fcire , putabant
autem isti ars guentes illam intuitiuam ſenſationem eſſe doctrinam ſeu
diſciplinam . Quia tamen cum Ariſtotele in intentione , quod de nouo fcimus,
& quia etiam error in perſuadendo manifeſtus eft , ut predocui, de intelle
&tiua quidem & diſcurſiua diſciplina loquitur Ariſtot.ut de uirtute in
uniuer ſali etiam in Menone erat ſermo ideo modo Ariſtoteles dimittit illos
,tam quàm non concludentes propoſitum , quodfatebantur , & diuertit ſe ad
Platonicosmale foluentes argumentum ,tenentes quod id quodaliquo mo do ſcimus
non poſſumus de nouo addiſcere , uel quòd nostrum ſcire,fit re miniſci, foluunt
argumentum ſic, non enim fatebantur Platonici ornem dualitatem eſſe parem ,
neque dixerunt ſeſcire omnem dualitatem eſſe pa rem ,ſed dixeruut dualitatem ,
quam utique nouerunt dualitatem effe, mo do cum neſciuerint, an id , quod manu
tegebatur effet dualitas, neque ali quo pacto fciebantipſam eſſe parem uel
etiam imparem ,quiaſic aiebant, prius,debemusſcire,an fit dualitas,&poſted
,an parfit,uel etiam impar, ita ut quandointerrogati fuerant,an omnem
dualitatein ſcirent eſſe parë uel imparem reſponderunt utique de dualitate hoc
ſcire , quam quidem dualitatem eſſe nouerant , uerum eſſe, ſed de dualitate in
manu abſconſa, nihil fciebant , nec quippiam deea aliquo modo fciebant, ideo
nefciebant I N P R I MVM LIB. 3 idem uno modo , ut in uniuerſali de illa
dualitate ,quòd effet par , u idem ut quod effet par ignorarent in particulari
, atqui ſciunt cuius des monſtrationem habent , & cuills acceperunt.
Acceperunt autem non de omni, de quo utique nouerint; quòd triangulum aut quod
numerus ſit , ſed fimpliciter acceperunt ; illi arguebant deomni numero duali,
atque triangulo,&c . Similiter reſponderunt illi , quod ſciebant omnem
dualitatem efle parem . Verba hæcfunt Ariſtotelis contra tales
reſpondentes,nullus enim propo nitſeu interrogat , aut nulla propoſitio
accipitur talis , quòd quem tu . noſti eſſe numerum dualem , nofti ne eſſe
parem ? aut quam noſti rectili neam figuram eſſe triangulum , quòd habeat tres
æquales duobis reétis ? ſed accipit de omni numero duali, ede omni figura
rectilinea trilatera, quis enim proponeretſuo tam inerudito colloquio
fic,nunquid nofti oma nem dualitatem quam eſſe dualitatem nofti, quòd par fit
,autnon ?ines ptam igitur, contra loquendi modumfolutionem reprehendit Ariftot.
reprehendens quidem Platonicos malefoluentes, cui non illos de nouo fci re
dicentes perperam arguentes ; &modum fciendiquo de nouo fcimus fimpliciter
id , quod potentia ſciebamus epylogando dicit , Sed nihil (ut opinor) prohibet,
quod addiſcit aliquis ſic in particula ri , ante ſciuiſſe in uniuerſali , &
in particulari priusignos raſſe, abfurdum enim non eft ,fi nouit quodam modo,
quod addiſcit , ſed ita eſſet abfurdum , ut inquantum ads diſcit, co pacto
ſciat. Idem diſcurſus &expoſitio fiat ſuper Textu fecundo priorum , in
capitulo de Deceptione ſecundum fufpitionem , qué etiam Textum perperam
interpretātur pſeudo philofophi. De dualitate autemſiquis nunc interrogaretur,
noſti ne omnem dualitatem eſſe parent nec ne ? annuat quod ſic , o ſi offeratur
abfconfa in manus dualitas, dia cat quod etiam ſcit eam in potentia parem effe,
licet neſciat a & u , quod dualitas ſit ,e eft fententia Ariſtotelis Textu
101.0 in hoc Textuhas bita una atque altera interpretatione, cui dubium eft
fecundam eſſe pres ftantiorem prima ?niſi quis dicat primam eſſe
preſtantiſsimorum philo fophorum tàm ueterum Græcorum quàm Latinorum omnium
prefertim iuniorum mentem Ariſtotelis interpretantium , fecunda uero interpre
tatio noua est , o hominis uniusfolius,quæ nullo modo preualere poteft contra
tam preclariſsimosphilofophos , quihæc uerba , &fimilia proa ferunt ex
Macrologia loquuntur ,non ualentes intelligere nifi ea , que auctoritate
proponuntur , fpreta ueritate ege ratione, quis iam tam inerudit POSTERIORVM
ARIST. 33 ineruditus est , quiputet Platonicos , qui ætatem confumpferunt in
fua opinione de reminiſcentia , argumentari contra Peripateticos , niſi a
Peripateticis prouocati ſint ? &quomodo prouocari poſſunt niſi exci tentur
? quo pa &to excitabuntur , nifi co argumenti modo , quem in ſecunda interpretatione
narrauimus? deinde quare magis redarguit Ari ſtoteles ſemiperipateticos illos ,
qui conueniebantfecum in concluſione, quàm illos , quie diametro cpinabantur
contra ipfum ? depoſitaigitur emulatone iudicet id quiſque, quodmagisueritatem
ſapit , uerum eſſe, O rationi magis conſentaneum , & erit ,fifecunde
interpretationi be rebit , primafpreta, &neglecta omni ex parte . TE X T VS
NON VS. ER A quidem oportet eſſe ,quoniam non eſt fcire quod non eft ,ut quòd
diameter fit fie meter. De diametro , coſta pluribus locis Arifto
telesſermonemfacit, utinprioribus, & in Methaphy : ficis , quapropter , hoc
loco declarabo eius fententiam , ut poſteafit omnibus in locis clara ,
primoſcire debes , quod uera eſſe oportet ea , quæ fciuntur , ita ut ueritas
ſuſcipiatur pro illa ueritate que est in concluſione , &non pro ueritate ,
quæ in prins cipijs est , a hoc probat indire & te , quia fi falfum
ſciremus , utputa quod diameter eſſet commenfurabilis coſte , tunc imparia
æqualia paribus fierent , o e conuerſo , ut ſi paria equalia imparibusfunt,
igitur diame ter eft coftæ commenfurabilis , quod estfalfumſi igitur
hocſciremus,ſci remus utique quippiam ex non ueris , fed pofuit, quòd fcire ex
ueris fit, igiturſciremus ex non ueris &ex ueris, quod eſſe non poteft per
immea diatam contradi tionem .Diametrum igiturincommenfurabilem cofte ef ſe
noſcimus , quia impar pari æqualisnon eſt ,in qua re,talis eſt demons ftratio
ſecundum Euclidis ſcitum in decimo Elementorum , qua ducitur ad hocincommodum ,
pofita iſta , quòd diameterſit commenfurabilis co ftæ,fequitur , quod numerus
impar eſſet par , quod eftcontra primum principium ab Euclide poſitumfeprimo
Elementorum ſexta &feptima deffinitionibus,uel etiam nono Elementorum prima
&ſecundafecundum Campanum . In quare demonftranda fit diameter a b
commenfurabis lis lateri a c (li ponatur) erit per quintam decimi Elementorum
ab ad ac, ficut aliquis numerus ad alium numerum , quia illa communis , mene Б
IN : P R I MVM LIB . b Cee ' . fo ... h............. g k.... ei6 fo L. m 64
kıż8 h 81 . a . fura,fehabebit ad illas duas lineds , diametrumfilicet ,
&coſtam a bigo á c , ficut unitas ad unum atque ad alium numerum ,unitas
enim ut duos numeros illos metitur , ſic illa communis menſura diametrum , o
coſtam dimetiretur,cuius rei ſenfus eſt iſte , quòd quoties continebitur in uno
ats que altero numerorum unitas , toties illa communis menfura , quæ linea eft,
continebitur in diametro , atque coſta , fint ergo numeri e @ f , qui ſint
minimi in fua proportione, eritque ob hoc , alter eorum impar, quod fic
probatur , fi enim uterque eorum effet par , non eſſent iammis nimi in fua
proportione , ſi enim par uterqueſit ,uterque biffariam die uidi poſſet,
outraque mediet asunius ad utramque alterius medietatem eandem haberet
rationemficut totum ad totum ,quorumfunt medietates, ut patet de octonario atq;
ſenario, cuius medietates ſunt quatuor, & qut tuor , atque tria etria,eadem
enim fexquitertiaest,octo ad fex, qua tuorad tria, ſic e ofnon eſſentminimi
inſua proportione quod est contra aſſumptum , quia fuæ medietates effent
minores , quadratiigitür illorum minimorum e « f, ſint ge h , ſi ergo e eſſet
impar , a f par , erit quoque per trigeſimam noni Elementorum g impar , fit
itaque k duplus ad h, eritque k par,ex deffinitione prima noni Eleinentorum ,
quia igitur a b ad a c , ut e -ad f, erit per decimamodtauam fexti, ego
decimāprimam octaui Elementorum , quadratum ab ad quadratum ac, ut g ad h , eſt
itaque g duplus ad h , ſic enim est quadratun a b ad quadratum a c per
penultimam primi Elementorum , quia ita k , etiam dupluseft ad h per affumptum
,ſequitur per nonam quinti Elemen torum , ut g numerus impar ,ſit equalis K
numero pari. Quod fi e fit par , f impar , erit proportio f ad dimidium e ,
quod fit L, ficut POSTERIORVM ARIS T. 4 c ad dimidium ab, quod ſit ad , o ideo
erit quadrati a c ad quadratum a d , ficut proportio numeri h , quieſt impar
per trigeſi mamnoni Elementorumadquadratuin numeri L , quifit m, cui K poa
natur effe duplus , eritque K per deffinitionem primam noni Elemento rum par,
at quia quadratum a c est duplum ad quadratum a d per penultimam primi
Elementorum , erit h duplus ad m . Cumque Kſit etiam duplus ad m , erit per
nonam quinti, impar b , aequalis K nus mero pari , quod impoßibile à principio
proponebatur demonftrandum C f . ........... go!" k ...... A Et ſi
diceretur , quòd uterque eorum , quiſunt in fuaproportione mis nimi, ſit impar
, ut quinque ad tria , ut ſcilicet e ſit quinque, ef tria quadrati illorum fint
go b , eritigitur utraque eorum quadra= ta inparia per trigeſimam noni
Elementorum , ſit itaque K duplus ad h , eritque k par ex deffinitioneprimanoni
Elementorum ,quia igis . tur a bad a c , ut e ad f, erit per decimamoctauam
fextielementorum vundecimam octaui,quadratum ab ad quadratum a c , ut g ad h ,
eſt . itaque g duplus ad h , fic enim est quadratum a b ad quadratum ac, per
penultimam primi elementorum , & quia etiam k duplus est ad h.. per
affumptionem fequitur , per nonam quinti elementorum , ut g numea rus impar ſit
, æqualis k numero pari , quod est impoſsibile . Illatum , ſeu concluſio habita
per hanc induftionem Geometricam eft ,quod impar par ſit , Ariſtoteles autem
dicit , quòd diametrum effe comenſurabilem coft.e non ſcimus, quia ita non est,
ſic ut illud fit conclufum , wnor af fumptum, ut in predi&ta indutione
fa& um est . Vt autem fiatconcluſio Bij 336 " IN PRIMVM LIB. “, id ,
quod aſſumptum fuit , aduertendum , quod ut Ariftoteles in prima Poſteriorum
determinat, Geometra non parallogizat , fed tota illa Geo metrica inductio est
conſequentia formalis,quæ in omnibustenet, cs.com cludit ,nequeinquit,
parallogizat Geometra , ut textus 62 probat Arift. ſubinde aliud etiam eſt
aduertendum , ut in Topicis determinatAri ſtoteles, oſparſim in Logica fua ,
quod illa formalis eſt conſequentit , quando ex oppoſito confequentis infertur
antecedentis oppoſitum , mos do cum ex contradiétione poſita , ut diametrum
cofte eſſe commenfuram bilem ,ſequutum fit quòd impar numerus fit par ,
exoppoſito igitur con ſequentis , ut per numerus eft æqualis impari , igitur
diameter coms menſurabilis ex coſte , id autem fequitur ex falfo poſito , ut
quod ime parſit æqualis pari,igitur id quodſciretur , non eſſèt ex ueris,
ſedpoſie tum fuit quod ex ueris oportet eſſe , igitur manifeſta eſt
contradi&tio ,res linquitur igitur,quód diameter, nullo modo eſſet coſta
commenſurabilis, eft igiturfalfum , igitur nonſcitur , quia uera effe
oportet,quæfcim us TEXTV EODEM VEL TEX. V. OSITIONIS autem , quæ quidemeſt
utram libet partium enunciationisaccipiens,ut dico aliquid effe,aut no elſe,
fuppoſitio eft, quæ ue ro ſine hoc,deffinitio elt; deffinitio enim pofi tio
eft.Ponit enim Arithmeticus unitatem in diuifibilem effe fecundum quantitatem ,
lup pofitio enim non eft. Quid enim eſt unitas, & eſſe unitaté, non idein
eſt. Deffinitio inquit Ariſtot. non ponitur, altero membro contradicéte
reiecto,utfit in fuppoſitione accipienda,fed deffinitionis na tura talis eft,
ut ad hocquod ipfa intelligatur aget docente, eſt tamen & ipfa
deffinitio,poft quam intellecta ſit ,etiam poſitio ,cõmuni uoce diéta,et legatur
textus fic paulatim ,ponitenim Arithmeticus unitatem, utſiArithmeticum quis
interroget, an unitas fit, uel non fit ? annuat quòd ipſaunitas
fit,indiuiſibilem autem fecundum quantitatem ſuppoſia tio noneſt,ſed definitio,
os exponitur àdocente, quia numerus quilibet diuidi poteſt, cumautem ad
unitatem , ex qua numerus cöponitur deuen tum ſit, impartibilis omnifariam
reperitur , ut poſito quocunquenumes ro, ut ternario, ocirca ſe, ex utraque
parteſuper ſe numeri,esſuper illos , alij circumponantur, id toties fieripoterit,quousq;
ad unitate dem POSTERIORVM'ARIST. 37 SH it 13 uentum fuerit,at ubi ad ill.im
deuentum erit ,non fit ultraproceffus,ut cir ca tres,quatuor,& duo,etfuper
hos,quinq; c unum ,medium horū aggre gatorī erit ternaris, hoc exemplari 1 2 345
ſignü eftigitur unitate eſſe principium impartibile omnium numerorīt, ut
Boetius in Arithmetica, docet,modo, exſententia Ariſtotelis, non eſt idem
,unitatem fupponere, oipſam deffinire , quæ deffinitio eſt, unitas eft qua
unumquodque unum effe dicitur, uel eft principium numeri, uel eſt
indiuiſibilis, ex quo tamen indiuifibili, diuiſibilis numerus componitur, ad
differētiam indiuifibilium fecundum magnitudinem , quæ indiufibilianon
componunt diuiſibile ali quod. Age igitur ,ut Ariſtoteli placet, quòd non eſt fatis
ad demonſtratio nem procedere ex fuppofitionibus , etiam immediatis, fed opus
eſt etiam ex immediatis dignitatibus , que etiam dignitates improprie
poſitiones funt, ideo in precedenti declaratione concludebatur ,numerū imparé
eſſe parë,quia ex poſitione,quod diameter.eſſet commenfurabilis coſte, pros
cedebatur, &non ex dignitate &deffinitione intelle &ta ,atque
poſita. TEXT. DECIMUS ALIAS QVINTVS, CH fi re Lisa co UE ofi 18 ар 3 VONIAM
autem oportet credere & ſcire ré, in huiuſinodihabendo fyllogifmum , quē
110 cainus demonſtrationein . Eft autem fic , eò quod ea ſunt,ex quibus eft
fyllogiſmus,necef ſe eſt , non folumpræcognoſcere prima, aut omnia, aut quædain
ſed etiam magis. Quico gnoſcit quòd Triangulus habeat tres equales duobus
rečtis, prius nes ceſſe eft,ut cognofcat XIII . ey xxIx. primiElementorum actu
, non autem ufqueaddeffinitiones fit refolutio pro illa x xXJI cognos feenda ,
omniaautem prima cognofceremus ,ſiuſque ad deffinitiones ago Elementa, ad que
illius XIII. XXIX . primireſolutio fieret, que &fifitfactibilis, tedio
tamennosafficeret , fi femperfieret ufqueadele mentaiſta reſolutio,
fedfatis,quod hoc fieri poßit ,ideo dicit Ariſtoteles neceffe eft præcognoſcere
prima,aut omnia,aut quçdam, Sed etiam magis aduertendum , ut declarabo fuſius Tex
. 108 . huius primi,quòdquanto notitia eft deſimpliciori, illa, certior eft,
quam que compoſitioriseft.Cum autem principium fit minus compoſităipfa
concluſione, neceffe eft, ut &fua notitia ſit magiscerta , quam conclue
fionis notitia ,ideo XIII, XXIX. per quas probatur fecunda pars IN PRIM VM LIB.
trigeſimeſecunde primi Elementorum , ſunt magis nota , oſcite ,quàng illa
fecunda pars trigeſimæfecundæ primi. TEXTVS XI. ALIAS V. MA 1 AGIs enim neceſſe
eſt credere principiis, aut oinnibus,aut quibuſdam quam cons cluſioni.
Aduertendum quòd magis credere ,fine pluri, nempe faciliorem effe credentiam
aliud eft , à credere per demonſtrationem , & propter quid, fe ptima, atque
octaua propoſitiones quinti Elementos rum , primo intuitu quando inſpiciuntur ,
facilius eis adheremus oafa ſentimur, quàm aſſentiamur deffinitioni fextæ
,atque o &taua eiufdé quins ti. Ecce quod non magis illis principijs
credimus primointuitu , quins conclufionibus per ea principia demonſtựatis ,
ideo Ariſtoteles ait, aut : quibuſdam , non ſemper omnibus primo intuitu.
Debentem autem habere ſcientiam per deinonſtrationé, non ſolum oportet
principia magis cognoſcere, &, magis ipfis credere, quàm ei quod
deinonſtratur. Sed & cete . Ada uertas quod & finotitia principiorü
uideatur diſtantior intellectui quàm notitia concluſionis, tamen non poteſt
uniri intellectui concluſionis notis tia ,niſi per notitiam principiorum ,quæ
uidebatur ab intelle &u remotior, ut in illis concluſionibus ,
&principijs que precedenti comento citaui. TEXT. XVIII. AVT VIII. I ſiin
omnilinea punctum finiliter eſt. Proprie hoc in propoſito de linea recta
intelligas, que atu punéta habet terminantia , ficut homoactu eſt animal, o fi
etiam de circulari intelligi poßit quæ in puncto à linea recta tangitur, fedde
circulas ri expoſitio uideturfuperftitiofa , aliena à nas tura exempli , quia
exempla per magisfaciliadantur , ita quòd, dequoa cunque uerum eſt dicere, quod
fit linea recta , de co uerum eft dicere, quod in co eſt punctus. POSTERIORVM
ARIS T. TEXT. XIX. VEL IX. 5, Elle P feo to oft 45 oné, 2015 Ado quan ER ſe
autem funt, quæcunqueſunt in co, quod quid cft , utTriangulo ineſt linea ,
& : punctum lineę, ſubſtantia enim ipforum ex his eft , &
quæcunqueinſunt in ratione di cente quid eſt. “ Philoponus & parum dicit
ſuper hoc textu , uel étiam id quod dicit non facit ad propo ſitum Ariſtot.
declarandum , uidetur enim quod tex. his contradicat que : determinat
Ariſtoteles contra Platonem , uidelicet quodlinea non compo natur ex punctis,
præcipue ſexto phiſicorum , primo de generatione, tertiometaphiſice ,ubiex
fententia concludit lineam non poſſe ex punétis componi, quid autem ſuper hoc
textu, qui uidetur oppofitus locis ſupras dictis dici poßit notaui in
prædicamétis, capite de quantitate , uerba aus tem illa , quia ſubſtantia corum
ex ipfis eft, intellige terminatiue, ut linea terminat ſuperficiem triangularem
', pun &tum lineam termis nat, o nullo modo intelligendñ eſt compoſitiue,
ſic ut puncta lineam com ponant , nec etiam linea triangulum , tametfi aliter
ab indoctis intelligas tur, quiafi aliter textus hic concipiatur , ftatim
fequitur , utſi linea ex punctis componeretur, quod diameter o coſta eiuſdem
quadrati eſſent comenſurabiles , quod textu nono, eſſe falſum « impoßibile
oſtējumeſt, quia utrumque per comunem menfuram dimetiretur, nempe per pū
&tum , quod eft contra Ariftot.fententiam ,& contra Euclidis ſcitum .
Preterea tot puncta eſſent in coſta,quot in diametro, &ſic pars effet
æqualis toti, ut coſta ipſi diametro , pro cuius indu &tione , ſit quadratum
a b cd , cuius diameter a d , Cofta uero a c , in qua fuſcipiantur duo puncta e
, f, immediata ſi poßibile ſit , ut aduerfarius ueritatis diceret, cum com
ponatur ex punétis,à quibus, e , of, pun &tis duæ lineæ rectæ aufpicens tur
innitia tranfeuntes per diametrū uſque ad aliă coſtum e regione pri me coſte
collocatam ,certü eft , quòd hæ duæ lineæſecabunt ipſam diame trum in duobus
pun &tis , quæ etiam puneta in diametro immediata erunt, propter hoc quia
lineæ protracte ex hypotheſiſunt immediate , igitur ſi recte lineæ tot
protendantur à coſta in coſtam oppoſitam ,quot pū &ta fue rint in ipſa
coſta, per tot etiam punéta in diametro poſita tranſibūt eedë linee , nec erit
in diametro punétum aliud per quod non tranſiuerit lined aliqua fic protracta
ab immediatis pun&tis ipſius coſte, in puncta imme motia tunin eſt. Uligas,
o achi poßit rcula à ma eguna dicera 40 IN PRIM VM LIB. diata alterius coſte ,
ut patet in hac a. figura ficut f, immediatum eft ipfi e, fic etiam & ,
ipſih , ſi l , fit immedias tum ipſi m , patet propoſitum ,fi au tem interl,om,
intercipiatur pū Aumfitque illud K; ab illo per xxxi. f primi elemétorum
excitetur paralles lus K, o , ipſif , 8 , uel ipſie , he tunc ipſa cadet inter
gb , ut in pun Eto, o , igitur g h , non erant imme diata ,quod eſt contraaſſumptum
,uel extra utrumqueg ,oh, uerſus b , ueld, & tunc k o , neutri linearū f8 ,
web, erit parallelus,quod eſt contra conſtructionem , patet igitur quòd tot
eſſent in diametro quot in coſta pun&ta. De circulari autem linea, quod non
componatur ex pun ftis , fic demonſtratur per tertium petitum primi elementorum
, fuper centrum a, deſcribatur circulus d minor , ocirculus bc, maior ,ficira
cunferentia maioris componatur ex punétis ,duo immediata puneta fi gnentur b @c
, &per primum petitum eiufdem primi ducatur recta alla a ad b, &ab aad
c, hæduæ lineæ tranſibunt per circunferentiam mino ris circuli, ſecabunt igitur
circunferentiam in uno ,uel in duobus pūétis, ſi in duobus, tot punčta erunt in
minori circulo , ficut in maiori, fed ima poßibile eft, duo inequalidcomponi ex
partibus æqualibus numero , ou magnitudine,punctusenim unus non excedit alium
punctum in magnitudi ne,en tot funt in minori peripheria puncta quot ſunt in
maiori, igitur pe ripheria minor eft æqualis maiori peripheric,igitur pars æqualis
eft toa ti,quod pro impoßibile relinquitur, b ſi autem due recte linee a , b ,
4 , C , ſecent minorem circunferens tiam in eodem puncto , fit ille d, ſu = per
illam a c , erigatur linea recta perpendicularis per xi .primi Elea mentorum
ſecansſilicet eam in pun . &to d, quæ fit d e , que erit contina gens
minorem circulum ex corrolda rio x vtertij elementorum , iftad, c.cum linea 4 b
, ex xIII. primi Elemens POSTERIOR V MARIST. 41 2 d IN Elementorum conftituit
duos angulos rectos , aut æquales duobus rectis, @ed cum linea a c facit duos
angulos rectos ex conftru &tione , duo igitur anguli a de , obde , funt
æquales duobus angulis a de , cde per tertiam petitionem prini Elementorum
Euclidis , dempto igis tur communiangulo a d'e , reſidua eruntæqualia, igitur
angulus b.de erit æqualis angulo c d é , &pars toti , quod eftimpoßibile.
Adiſtud diceret aduerfarius , quod db , odc , non includunt ali = b . quem
angulum ; quia poſſet tunc illi angulo bafis ſubtendià puncto bad punétum c ,
quod est oppoſitum po ſiti, quia b c , poſita ſunt ima mediata , quando igitur
diceretur , quod angulus c de , estmaior an gulo b.de negaretur ab aduerſa rio,
quia per angulum b d c, nihil additur in angulo c d e, quia inter bec nihil
mediat , e in concurſu bdoc din d, non est angulus. ifta reſponſio oſi ex ſe
ipſa uideatur ua na , negandoangulum , ubi duæ rectæ line : bd, cd, concurrunt
quæ expanduntur in eadem ſuperficie, oapplicantur non directe , o fit contra
deffinitionem anguli , deffinitione ſexta primi Elementorum , negando etiam à b
inc poffe duci lineam , neget primum petitum primi Elementorum , tamen quia
aduerſarius non putaret iſta inconuenientia , quia ſequuntur ad id , quod ipſe
dicit , ideo contra reſponſionem aliter ar. guo , angulus c d e includit totüm
angulum b de, oaddit ſaltem pun Aum ſuper b de , o ſiproteruias quòd non addat
angulum , & puns Etus per te , eſt pars , igitur c d e addit ſuper 6 d e
partem aliquam , igitur c d e eſt totum adb d e . Aſſumptum patet, uidelicet
quòd c de addat ſuper bd e , quia ſi angulus dicatur fpatium interceptum inter
lineas non includendo lineas,ut Ariſtoteles concipit in queſtionibus meca
nicis, queſtione octaua , tunc pun &tus primus lineæ b d extra circunfes
rentiam minorem nihil erit anguli bde , o eſt aliquid anguli c de , igitur c d
e maior est b de, a probatum fuit , quòd æqualis , igi tur aperta
contradi&tio , fi autem angulus ultra ſpatiuin inter duaslie neas,includat
lineam includentem ,fpatium tunc primus punctus lineæ cd extra circunferentiam
minorem nihil erit anguli b de, e est aliquid ans F ino tis 0 th I N PRIMVM LIB
. guli c d e , addit , igitur utroque modo angulus c d e punctum fuper angulum
b de , patet igitur ex principali demonſtratione & folutionis bus ad
inſtantias , quod linea non componatur ex punétis , neque recta ; neque
circulari , ſubſtantia igitur lineæ ex punétis est terminatiue , o non
compoſitiue, ut in principio expoſui vel dicas quòd Ariſtoteles famoſe ,
oexemplo loquitur de cauſa quæ dat eſe , vel etiam dicas, quod punétus,in
deffinitione Geometrica ponitur, onon Methaphyfice conſiderata . TEX. X X.
ALIAS I X. T rectum ineſt lincæ & rotundum . Verbum il lud rotundum legit
Aueroes circulare, o melius, ut ali bi Ariſtoteles rectum ineft linee o
circulare, ſic ut pro uerbo rotundum ,legatur circulare,ratio quia circula re
lineæ est proprium ,quod uult Ariſtoteles in princis pijs mechanicarum
queſtionum inquiens :In primis enim lineæ illi , que circuli orbem
amplectitur,nullamhabenti latitudinem contraris quodam modo ineſſe apparent ,
concauum ſilicet,&conuexum . Rotondum uero proprie corpori conuenit , non
lineæ , ut etiam placet Ariſtoteli libro fecundo Cali capite primo, quæ lectio
non uidetur difplicere etiam Ioan ni Grammatico , &quodſit iſta mens
Ariſtotelis , utfic legatur manife ftum eſt , per ea, quæ textu decimo ait ,
non enim , contingunt non ineſſc aut fimpliciter , aut oppofita,ut lineæ rectum
aut obliquum ,capiens ob liquum pro circulare. TEXT VSvs X. T par & iinpar
numero . Par quidem ille eft , qui ab impari unitate differt cremento uel diminue
tione , ut quinque à quattuor , uel à fex unitate , Vel par eſt , qui biffariam
ſecatur , impar uero, qui ne in duo æqualia diuidatur, impedimento eft unia
tatis interuentus . POSTERIOR VM AREST. Τ Ε Χ. XXV. ALI AS XI. NIVERSALE autem
dico , quòd cum fit de omni , & per ſe eſt, & ſecundum quod ipfum eſt .
Ioannes Grammaticus & fequaces determinant, ut hæc tria inter ſeſint
diſtincta, fic quod id , quodper ſe eſt inſit abſque eo , quod fecundum , quod
ipſum eſt , 1/oſceli quidem per ſe ineſt habere tres æquales duobus reétis ,non
tamen ineſt ei (inquit Ioannes).ſecundum quod ipſum , quia fecundum quod ipſum
ineſt triangulo. Aduertendum quod famoſa doctrina ( qua etiam fæpe Ariſtoteles
utitur ) perſe Iſoſceli inefthabere tres æquales duobus reftis non tamen
ſecundum quod ipſum . Alio autem modo per fe ,id dicitur alicui conuenire ,
quod etiam conuenit ſecundum quòd ipfum , ita quod, id quod non conuenit
ſecundum quod ipſum non etiam conueniat perſe , niſi quodam modo, fic quod
perſe non immedia = te , oſecundum quod ipſum , diſtinguntur tanquam magis
&minus uni uerfale per fe autem immediate , &ſecundum quod ipſum , hec
quidem non diſtinguntur,ita ut unumſine alio poßit ineſſe eidem , Peccauit
igitur Joannes ofequaces determinantes uniuerſaliter id, quod particulariter
uerum est, uniuerfaliter autem falfum , Triangulo igitur immediate, cu per ſe,
o ſecundum quod ipſum conuenit habere tresduobusre&tis æqua les , quodam
autem modo non per ſe ipſi iſoſceli conuenit habere tres duobus rečtis equalis
. Vt Ariſtoteles ſententia, hæc ſit , quòd per ſe immediate , ſecundum quod
ipſum , idem fint , neque ab inuicem in aliquo diſtinguuntur, per le autem non
primum , “ſecundum quod ip fum , hec duo uere diſtinguuntur , ut Ioannes
ſuisexemplis, immo Ari ſtoteles in Texu,exemplomanifeſtat . HET luben 10a TE X.
X X VI . ALIAS XI I. ## ling PORTET autem non latere , quoniam fæpe numero
contingit errare , & non eſſe quod demonſtratur primum uniuerſale, ſecundum
quòd uidetur uniuerſale demonſtrari primū, aberramus autem hac deceptione, cum
aut ni hil ſit accipere ſuperius,peti fingulare , aut Fij 44 ? IN PR ÍMVM LI B.
ſingularia. Aduertendum Ioannem Grammaticum & uniueros Ario ſtotelis
interpretes , ſiue Greci, Latini , uel Arabes fuerint perperam eſſe
interpretatos hunc Ariſtotelis Textum , &tres ſequentes textus @rita male
fenferunt de Ariſtotele , quòd litteram pariter & fenfum omnem peruertunt
&corruinpunt . Circa Ariſtotelis litteram , an tequim ad eius
interpretationem accedam , falſit as loannis , oſequa tium est hoc loco non
pretereunds. Primo circa hunc textum , loans nes adfert exempla multa quorum
neque unum tantum facit pro textus declaratione , ait enim Ariſtoteles. Cum
nihil fit accipere fupes rius. Nihil fit , neque uox quidem , utputa nomen
aliquod fictitium ,& acceptum ,cui tamen in re nihil refpondeat ut eſt hoc
nomen chimera, cui nomini nihil extra in re conuenit ,fic tandem, ut neque res
ſi aliqua fie ue ens aliquod , ita ut nulla ſit res , neque ſit nomen aliquod
ſignifi cans illud non ens . ipſe autem loannes explicat Ariſtot . litteram
cirs ca illud , cui eſt accipere fuperius , &circa illud , cui nomen
impoſitum eſt,ut est, Terra ,' Sol, øMundus , &triangulus , horum omnium ex
tant nomina , ut manifeftum eft; o ſingulum ſuperius est ad ſua indiuis dua ,
nempe ad hancterram , ad hunc Solem , ad hunc mundum , ad -Scalenonen ,
perperam igitur interpretatur loannes hunc textum cum ipfe adferat exemplum de
eo , cui ſit accipere fuperius , cui nomer impofitum eſt , Textus autem
Ariſtotelis dicat , cum non fit accipere fuperius. T E X. XXVII. i VT fi quid
eft, fed innominatum fit in difo ferentibus fpetie rebus. Ioannes Toto errat
Cees loo .fequentes ipfum , circa litteram e doctrinam Ari stetelis ,textusfic
habet . Si quid eft ,illud tamen innominatum fit in differentibus fpetie res
bus . Ioannes inquit , non exiſtente commune aliquo de quo non exiſtente ,
prebet exempla deexiſtentibus , contra feipſum V etiam de nominatis in
differentibus petie rebus , contra Ariſtotelis textum , ait enim Ariſtoteles .
Sed innominatum ſit in differens tibus fpetie rebus , exempla adfert Ioannes de
Triangulo, qui nominatur , eft in pluribus fpetiebus differentibus , ut in
Iſopleuro Iſoſcele , Scaler.one , o fimiliter de quanto prebet cxemplum loane
nes , quod nedum nomen habet , fed in differentibus fpetie pluribus est POSTRIO
RVM ARIST. 45 par A @ etiam in pluribus generibusdifferentibus eft , neque
mireris uelimſi Joannes ocæteri expoſitores aliò pedem retullerint, cumfaltus
aſperie tatem ſenſerint &iuerit uſque Gorcie inficias , obfcurans
Ariſtotelem Platonicis ſuadelis . TEXTVS VIGESIMVS OCTAVVS. VT contingat eſſe
ficut in parte totum in quomonftratur his enim quę funt in te , ineft quidem
demonſtratio , & erit de omni, ſed tainen non huius erit primi uni uerfalis
demonftratio , dico autem huius primi , ſecundum quod huius demonſtra tionem ,
cumfit primi unirerfalis. Bonus Ioannes ofequaces prefertim Niphus fueſſanus
medices Neapolitanus philotheus Augu ftinus philoſophus, og fequaces multi
fimiles ſine nomine , pleni nominis bus, quos in interglutiendam uniuerſam
Ariſtotelis philoſophiam, os ho rum textū ſuffocauit , cū ad exempla
deuenerint,quibus Ariſtoteles cla rum reddit id, quod in tribus modis errandi
circa univerſale dixit, loan nes ( eg peius cæteri) circa finem comenti huius
textus fic ait ,in reliquia trium modorum exempla per bec exponit, uerū non
utitur ordine exem plorum cum ordine modorum errandi, propofitum enim exemplum
ters tij eſt modi, Dico philofophum fummoartificio ordiri otexere modos errandi
cum exemplis , ſicut modo cuique errandi correſpondeat pros prium
&peculiare exemplum , ut quemadmodum tres numerauerit ers randi modos circa
uniuerfale , tria exempla , ipſis correſpondentia fubiecit, ſic ut primum
exemplum primo errandi modo, fecundum exem plum ; ut in littera Ariſtotelis
ponitur fecundo modo errandi correſpon deat, otertium exemplum ipſi tertio modo
errandi apte conueniat, quo ordine confuſionem omni ex parte inter cxempla os
modos errandi fuæ giens, in primis ſuo artificio , modum errandi &exemplum
fibi corre fpondens notificauit circa id quod debet effe medium demonſtrationis
, ſe cundus errandi modus &exemplum fibi correſpondens, cõcernitfubies Sum
demonſtrationis, tertius modus errandi circa uniuerfale cum exem plo ſibi
coherente, concernit totam demonftrationem , feu arguendi mo dum qui dicitur
permutata proportio , errauit igitur Ioannes v omnes alij, qui aliter quam ut
hucufque dixi extorquent Ariſtotelis textum , non intelligentes. 3 I N P R I M
VM LIB. · Pro declaratione igitur uigeſimi fexti textus , fit hæc noftra prima
ina ter expoſitores dilucidatio uel ſi difpliceat , dicas eam eſſe ſecundam
,uel etiam millefimam . Primī modum errandiexpono ſic, ſcias quòd de duas bus
lineis reétis , tanquam de ſubiecto , concluditur hec paßio , nempe quod non intercidant;
uidelicet quòd parallelæ ſint ſeu equidiſt antes, per hoc , tanquam per medium
, quia linea recta ſuper duas line as rectas cadēs eſt poſita in omnibus
quatuor angulis rectis , ideo ille due recte parallelæſunt, oetiam per hoc me
dium , quod cum linea recta ſuper duas lineas rectas cadensfecerit an- A. 6
gulos quomodolibet æquales, utputa alternos acutos ſibi inuicem æqua- c . d
les, uel alternos obtufos ſibi inuicem equales, illæ duæ lineæ funt æquidis
ftantes , iterum per hoc medium quãdo linea recta cadens fuper duas alias
rectas lineas fecerit exterio rem angulum æqualem interiori ex eadem parte,
ille duæ lineæ paraller le ſunt , &adhuc per iftud medium , ut fi linea
recta cadens ſuper duas rectas lineas , fecerit duos intrinſecos angulos æquales
duobus reftis ,ut probant X X VII. XXVIII. primi elementorum quod adhuc illæ
due recte linee parallelæ ſunt. Modo ſi Geometra putaret demonſtras, tionem
factam per ſingulum mediorum di&torü ,eſſe uniuerſalem ,erraret primo
errore circa uniuerfale ,quia nullibi medium eſt uniuerſale et unī; nulla enim
natura, nec res aliqua eft cómunisad omnes quatuor angulos rectos, ad binos
acutos, binoſque obtuſos,ad intrinſecum et extrinfecum ex eadë parteſumptos ,
et ad duos intrinſecos ex eademparte acceptos, niſi quis uudeat dicere,quòd
quædam cõmunis natura,eſt ad omnes pres nominutos angulos, utputa æqualitas
angulori, quæ quidem angulorum equalitas,ratio eſſet, ut cõcludas lineas
eſſeparallelas, iſtud ſomnium ,ul tra quodfit falfitate plenum , eft etiam
nimis procul ab apparenti mena dacio, non ne etiam in concurrentibus lineis
repperitur æqualitas angu lorum ? ut puta in his angulis qui ſunt ad uerticem
poſiti, cauſati à linea cadenteſuper duas rectus lineas,illa enim cadens cum
utralibet earumf1 . per quas cadit , caufat uerticales angulos æquales ut ſunt
anguli a gd, @ b8f, uel anguli c fe, em gfb, ſtatim hoc reiciet dicens,quod de
al 1 POSTERIORVM ARI'S T. 47 ternis angulis intelligenda eſt illa equalitas ,
ut natura illa communis tantum ſit equalitas coalternorum , hec reſponſio eft
uana cũ illa equa a litas ſitequiuoca , uel dicas analo gam , ad equalitatem
retorum , acu torum , obtuforum angulorum , @etiam dico, quod totã hoc,&
qua litas angulorum,non eft und abſolu = ta naturd,una abſoluta ( utputa) eſt
unus atq; alter angulorum , reliqua natura eſt reſpectiua et ad aliquid , ut
æqualitas inter utrumq;, ſi diceret quod accipitur pro medio, tantuin equalitas
in omnibus illis fine pluri,dico quòd per æqualitatem non con cluditur, quod
lineæ parallele ſint,niſi per æqualitatě talium angulorī, Et dico etiam quòd
non tantum per equalitatem coalternorīt , ſed etiam per æqualitatë extrinſeciad
intrinfecum, et per duos intrinſecos,quorīt alter acutus reliquus obtufus,qui
equalesfunt duobus re & tis, quæ omnia non habent unum ſuperiusuniuocum ,
igitur non eft aliquid accipere ſus perius ad hæc omnia , igitur petimus tunc
ſingularia media in propoſito concludendo, &ſicerramus , ſi nobis uideatur
uniuerſale demonſtrare primū. Error igitur iſte circa uniuerſale,eſt circa medium
demonſtratio nis quod quidem medium uniuerfale, cum non fit , fingularia media
peti mus, ſimile habes huic per XXVII ( XXVIII primi Elementorū, Euclidis per
quas Ariſtoteles manifeſtat propoſitum . Itidem fimile per quintam , fextam , a
ſeptimum fextiElementorum ,quibus probat Eucli des per diuerſa media ſingularia
, o non per unum uniuerſale medium , triangula eſſe equiangula. Aliud etiam in
Euclide habes xui primi Elementorum « in ſexto Elementorum propoſitione xxx,
quibus lo cis ſimile huic probat, quod duæ lineæ ,in dire&tum
cõiun&tafunt et lines und, ohoc per ſingularia odiuerfa media, quibus non
eft aliquid unis accipere fuperius. Vigefimiſeptimitextusſit hec mea declaratio
, immo.eft ipſius Ariſto telis ad unguem , quam Ioannes grammaticus , neque
nouus aliquis , ſiue antiquus etiam interpres, non percepit , hoctextu affert
Ariſtoteles les cundum errandi modum , à primo modo errandi longe dißimilem ,
atque diuerfum , in primo modo errandi nulla natura communis accipiebatur 48.
IN PRIM VM LI B. 1 fuperior, neque nomen aliquod, ſeu quæpiam uox habebatur, in
hoc aue, tem ſecundoerrandi modo, natura ipſa communis eft, o inſuper nomen .
ei impoſitum eſt. Verum quia natura illa non habet ſub ſe plures fpe= ; cies ,
ideo illa, &fi fit, anominata ſit, in pluribus tamen differentibus fpecie
rebus, innominataeſt, ob defficientiam ipſarum ſpecierum , quiail Leſpecies non
ſunt, ut folis , terre , mundi natura , eſt innominatain plu ribus ſpeciebus
terre , quia plures ſpecies terre nonſunt , fi igitur quiſ piam
demonſtrationemde cælo tentaret, & quodfit dextrum in ipſo com cluderet,
&putaret quod eſſet ſuademonſtratio uniuerſalis , quia no eft aliud primum
cælum ,erraret quia non de hoc cælo , primofitdemöſtra tio , fed de natura
coeli , ut eft quid uniuerfalius ad hoc primum cælum , ſeu de cælo , fine
contratione ad hoc ſingulare cælum, quam doctrinants Ariſtotelesſuis
mathematicis exemplis, &quidem aptißimis , fole cans didiorum reddit ;
inquit enim in exemplo fecundo , quod quidem fecundo errandi modo correſpondet
, oſi triangulus non effet aliud quàm 1f0a) ſceles , ſecundum quod Iſoſceles
eſt . Videretur utiqiie ineſſe primo,has bere tres æquales duobus rectis, cum
nullus effet alius triangulus,uel nul la alia eſſet ſpecies trianguli quam
fofceles , &tunc error ſecundo mos : do contingeret. Explico Ariſtotelis
ſententiam . In primis eft aduerten dum , quòd triangulus re ipſa hubet ſub ſe
tres ſpecies triangulorum , fo pleurum , iſoſcelem oScalenonen , quod ſi tamen
per imaginationem ponamns , quod non haberet ſub ſe ljopleurum, neque
Scalenonen , per ſecluſionem illarum duarum ſpecierum , tantum haberet ſpeciem
unā, ut iſoſcelem , eſſet tunctriangulu : innominatus in Scalenone atque Iſos:
pleuro, quia fi in illis ſpeciebus triangulus nominaretur , ut fic,Scalenon eft
triangulus, Iſopleurus eft triangulus , iam illæ ſpecies duæ triangu . lorum
effent , quas ſuppofuit Aristoteles, ut non eſſent,ut ſuum oſtendat .
propoſitum . His ſuppoſitis , ſiquis de foſcele concluderet ; quòd tres haberet
æquales duobus reétis ,o putaret quòd uniuerſalis effet bec des monftratio,
quia nullus eft alius triangulus , quam foſceles, crraretſes. cundo errandi
modo , quia Iſoſceles habet fuperius o uniuerſalius fe , nempe triangulum , de
quo primo concluditur talis affectio, & talis era , ror multa diuerſa à
prinoerrandi modo habet,quorum unum eft, ut pri mus modus errandi,ſit
circa.medium , & iſte ſecundus modus errandi fit. circaſubiectum
demonſtrationis . Aliud , ut in primo nonſitfuperius ali quid nec etiam
nominatum , In hoc ſecundo eſte ſuperius og nominas, tum , ut triangulus,
Tertio illud innominatumſit in pluribusmedijs, hoc. autein ? POSTERIORVMARIST.
49 DS autemfecundo modo innominatumfit in duabusfpeciebus tantum , uideli cet
in Iſopleuro w Scalenone, Ibi ut in omnibus fit innominatum , Hic aue tem
nominatum ſit tantum in una ſpecie, ut triangulus in 1fofcele. Advigeſimum
octauum textum cã acceſſerit philoponus ad orchos in greſſus, non potuit ex
inextricabılı labirintho egredi, ita ut ea, quæ pue rilia ſuntin interpretatione,
perperam ej tortuoſe ſit interpretatus,vt puta uerbum hoc, aliquando , non
temporaliter,inquit,audiendü eſt, ſed quaſi diminutius ut ait ipfe, non exacte
fit audiendum , fimili modo ergo ijtud uerbum , Nunc,haud ,inquit,temporaliter
audiendum eſt , quin po tius , exacte, o ſecundum Methodum demonftratiuam ,
Pedagogorā mo dum inſequutus, qui quattuorgrecis litteris intineti temerario
aufu, ſi ne quacunquefcientia aut liberaliarte ad explicandum Ariſtotelem uens
toſi cum accefferint ipſi implicati non ut loannes plicis binis uel ternis
terminos exponit, ſed denis centenis atq; millenis epiſtolis ſuos codiculos
imptent promittunt etiam multis nobilibus ſe expoſituros Ariſt.uocantų; fepe
illos nobiles nominatim ut teftes tādem ſint ſue infanie , et ut uidean tur
etiam ipſi aliquid in Ariſtotele ſuo chere illuſtraſſe, cum nondum pri ma
philoſophie elementa fufceperint, Pereant ipſi cum ſua ignorantia , uelfuis
fericis ueftibus addifcere poft multa těpora incipiant,oſiferico indueti,atque
equoinfedentes, o rabini facti addiſcere uerecundantur. fufcipiant eam quam
decet philofophum , ueftem , o Euclidis honeſtate accedant ad Socratem ; ne
fintpoſt hac , fomenta praua difpofitionis preſtantißimæ iuuentuti in
celebratißimis terrarum gymnaſijs . Qui dam alij interpretes quorum eſſe
nefcio, quia ſuum eſſe nihil eft, neq; fuit unquam abradunt ly nunc, &
locofuo,legunt, non, &ly aliquando,fo litarie fine fenfu relinquunt ,
quibus expofitionibus uel potius torturis iam iam incipiat Ariſtotelis
lamétatio, Abigatur igitur cum mufcis afta bulòunaatque alteru interpretatio,
feu magis Ariftotelis deprauatio , et legatur textus ut lacet in greco,
quitextus græcus habet has particulas, aliquando, et nunc, que uerba
temporaliter onullo alio modo intelligan tur, neque intelligi aliter poſſunt,
onon legatur , loco de ly nunc , non, ut quidam facit hoc tempore, quenſcies,
ſi tua ſcripta ab ipſo accepta le geris, Pro declaratione igitur uera ,
queunaſola eft, quă inferius fübi ciam , et nulla alia ab ifta uers effe poteft
, ad Arijtotelem redeundo , textum expono . Proportionale, quod commutabiliter
eſt. Aduertendū quod iftud de proportionale, exemplum , eft tertij modi, pro
cutus declaratio 03 of 21 that * MA es G so IN PRIMVM LIB, ne dico Ariſtotelem
proprium quantitatis determinaffe in fine predicar menti quantitatis dicentem ;
Proprium autě quantitati cft maxi. me çqualitas & inequalitas,reliqua uero
queno ſunt quan ta no proprie æqualia ac inęqualia eſſe dicuntur, Velutidiſpo
ſitio ,uel etiam habitus æqualis, inequalisue non omnino propriedicitur, fed
familispotius,atá; dißimilis, & album itidem æqualeinæqualeue non onnino
dicitur, fed fimile dici atque dißimile dicifolet, Proportio ſeu ratio, ut ab
Euclide deffinitur in quintoElemětorum eft duarum quantæcunquefint eiufdem
generis quantitatum alterius ad alte ram habitudo quædam , ex Ariſtotele igitur
habetur , quod proprium eft ipſi quantitati, esſe quale aut inequale. Ex
Euclide uero quòd propora tio eſt quantitatumfolummodo, ex utroqueuero , quod
tantum in quana titate proprie reperitur proportio , quæ quidem eſtæqualitatis
, in equalitatis ; inequalitatis uero proportio biffariamſecatur fecundum
Boetium in primo Arithmeticæ in inequalitatem maiorematque minoa, rem
,equalitatis proportio eſt quandofundamentā et terminusfunt æqua lia, ut duo ad
duo, inequalitatis uero proportio eft quando fundamenti eſt maius , terminus
autē minor , et hæceft maior inequalitas.uerominor eft,quando fundamentum
eftminus terminus uero maior,ut sunr ad 21, maior,et 11 ad 1 1 1 1 minor,
Præter hæc ſcito , quidam modiarguenda quibusmathematici utuntur(de
quibusEuclides in quinto) indifferenter applicatur quantitatibus eiufdem , fiue
etiam alterius generis, dummos do bina ſintuniusgeneris et bine alterius, ut in
equaproportionalitate patet, hic autem modus-arguendi qui dicitur commutata
proportio non niſi quantitatibus, quæ eiufdem generisſunt attribuitur . Quibus
pras intelectis o declaratis , uides Platonem improprie applicuiffe uirtutia
bus in Gorgia cõmutată proportionalitaté, quibus etiã qualitatibus,pro portio
nonconuenit, ex deffinitione proportionis fuperius data,quapro, pter non eſt
propria rerum natura, neque uera e propria Ariſtotelis ſententia ,aliena
docirina perturbanda. Vbienim ait Ariſtotelesloquens de tertio errandimodo,aut
cótingit efle, ficut in parte totūztoti hoc loco,uniuerſale intelligendum eft
,partem uero inferius ad ipfum uni uerfale , Mododico,quòd antiqui philofophi
qui precefferütEuclidem Ariſtotelem ſæpißime errauerunt hoc tertio errandi
modo, putantes de toto, feu uniuerfalemfacere demonftrationem , que tamen erat
in par te demonstratio ,hoc eſt particularis &non univerſalis, ideoait
philoſos plus quemadmodum demonftratum , eft aliquando , uidelicetabantiquis
POSTERIORVM ARIST. philoſophis, qui tempore Ariſtotelem ,atque Euclidem preceſſerūt,quia
ipfi non aduerterunt quod quantum , eſt id (id eſt natura aliqua) quod fum
perius accipitur , nominatum eft in pluribus differentibus fpecie res büs,
differt igitur iſte modus à primo, quia ibi non erat accipere aliquid ſuperius,
o etiam differt àſecundo, quia in fecundo illud fuperiusnon erat nominatuin in
pluribus differentibus ſpecie rebus, hoc autem , quod hic conſideratur, eft in
pluribusſpeciebusnominatum, & comune,atque uniuerſale onnibus quantis, fiue
illa diſcreta , ſeu cötinua ſint, quorun effe fucceßiuuki , feuetiam
permanensſit , ut numeri ſunt,lines , folida, tempora , &alia
huiufmodiſpecie differentia , feorfum ab inuicem ali quando acceperunt antiqui
deſingulis demonſtrationemfacientes. Nunc uero, inquit,philofophus uniuerfale
demonftratur, fenſus, uniuerſali ad hæc omnia,modusiſte arguëdi imediate et
perſe attribuitur, ut ipſi quan titati , quatenus tale . Nunc dico , nedum in
eo Ariſtoteleo quidem tempo të , & à philofophis reéte fapientibus , ſed
etiam oprimo abEuclide; cuius clarißimi philofophi beneficio habetur
demonſtratio uniuerſalis omnibus quantis, ut fuo quinto libro Elementorum
docet, propoſitione fextadecima, Errabant igitur antiqui aliquando , arguendo
permutatim in numeris ſeorſun , in lineis feorfum , cæteris feorfum , nunc au =
tem non contingit iſte error his , qui ſequuntur Euclidis ſcitum , quia nunc,
ideſt poſt Euclidis fcripta uniuerſaliter demonſtratur , hoc eſtmo:.
dusiftearguendi primo per fequantitati conuenit , quægenuseft ergo üniverſale
adomnia quanta , hæc autem eſt mea interpretatio , uera og germanaipſi
Ariſtoteli, ut etiam ipſe ſuis uerbis manifeftat Text. 93. ubi apertißime
declarat propoſitum . Propter hoc nec fi aliquis monſtret, unumquēque trian
ĝulum demonſtrationeaut una , aut altera quod duos re čtos habet unuſquiſque
Iſopleurus feorfum & Scalenon ,& Iſoſceles, nondum cognouit triangulum
, quòd duos rectos habet , niſi ſophiſtico inodo ,rieque uniuerfaliter triangu
huum ,ne quidem fi nullus eſt , pręterhæc triangulus alter,no enim fecüdum quod
trianguluseft cognouit,neque fi om= nem triangulum ,ſed quatenus ſecundum
numerum , ſecun dum autem fpeciem no omnem , & fi nullus eſt , quem non
nouit . Non eſt ſurdaaure pretereundum artificium fummum , quod in hoc exemplo
Ariſtoteles docet, fcias hoc exemplo de triangulo , com ✓ ple &ti duos errandi modos, vel
facerepro duobus modis, errandi, ſecun Gij sa IN PRIMVM : LIB . do, atque
tertio, cum primum defingulo modo , fecundo &tertio , fe. paratim exempla
aptißima e peculiaria pofuit , ftatim attulit aliud exemplum utrique, ſecundo
uidelicet,atque tertio modo feruiens, Com. poſitiuam methoduin etiam in
exemplis feruauit. Littera autem per particulas, ſic declaratur ; inquit enim,
demonſtratione aut una aut al tera; una enim demonſtratione numero fieri-non poteft
, ut deIſopleuro folcele, C Scalenone , concludatur quod tres equales duobus
reftis habeat , uia igitur fpecie demonſtratio erit, qua de his tribus triangu
lorum fpeciebus demonſtrabitur , quod tres habeat æquales duobusree Atis , ideo
dixit Ariſtoteles demonſtratione aut una aut altera ; ac fi dices ret pluribus
numero demonſtrationibus, de tribus ſpeciebus illis cons cludi, quod tres
duobus rectis pares habeat hæc autem demonftratio , nullo modo intelligi potest
, quòd fyllogiſtica ſit , quia tuncmaior pre. miſſa acciperet de
uniuerfalitriangulo , quod haberettres equales duo bus reftis ,ſic fyllogizando
, omnis triangulus habet tres angulos æquam les duobus rectis , ſed Iſoſceles ,
uel Iſopleurus , uel Scalenon , eſt triangulus , igitur foſceles , uel
Iſopleurus ,uel Scalenon habet tres, æquales duobus rectis, Sic igitur
fyllogizando uel particulatim abſque illo diſiunto , fed uno tantum affumpto
triangulo , non ne , ſcio de triangulo uniuerſaliter , in maiori aſſumpta quòd
triangulus habet tres æquales duobus reftis ? quod e diametro opponitur ei quod
Arift. ait,ut et fi de Iſopleuro, et cæteris fciuero,quòd habeat tres æquales
duo bus,nondūſcio de triãgulo,niſiper accidens,per accidés dico quatenus in
ferius omne, ſuperiori accidit,modus igiturilledicendi , quein uidentur omnes
latini atque greciſequi, non poteſtſtarecum Ariſtotelis ſentena tia, quia iam
priusſciretuniuerſale in maiore fumpta et per uniuerſale in cognitionem
particulariñ deueniretur ,qui error non eſt , ſiquis autem di ceret, ut fic
intelligi debeat demonſtratione,aut una fyllogiſtica , aut alte ra Geometrica,
dico quod nullo modode ſyllogiſtica poteft intelligi, quia ſequeretur idein
incommodum eo modo arguendiſyllogistice,contra dos Arinam ex litteram
Aristotelis , ut fupra dixi, quia tunc per cognitio nem uniuerſalis deueniremus
in cognitionem particularium quod ex ſi id uerum ſit, modusquo ipſe textu Il
docet, quo modo de nouoſci mus,non hoctamen in hoc textu pertractat, ſed
agit,hoc textu ,& in hoc , exemplo, de errore , qui opponitur uero modo
ſciendi,onon de mo: do , quo de nouofcimus quippiam. Niſi quis de ſyllogiſtica
demonſtratio neintelligensafingularibus ad uniuerſale progredereturfic, omnis 1
/ 0 POSTERIO RVM 'ARIS T. ſceles habet tres equales duobus rectis,fed triangulus
iſoſceles est , igis tur triangulus habet tres duobus rectis pares, &de
alijs fpeciebus limie liter, & tunc fciret iste ſecundum numerum i
particulariſubiecto I fofce le ad uniuerfalem triangulum progrediendo,quod no
diſplicet, et ſic una fpecieſyllogiſtica concluderetur de uniuerſali per
particularia , uel etiã altera,nempe Geoinetrica . Pro cuius ellucidatione ,
eft fciendun ; ultra ea , quæ de Geometrica demonſtratione dictum eſt in textu
tertio , quod Euclides ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elementorun
demonſtrat quod triangulus qua. tenus triangulus est, habet tres angulos
æquales duobus-rectis , fi quis modo, utcunque intructus bonis litteris ( non
dico Ariftelis deuoratos, res uel potius carnium «acephalorum ſeptem , unis
bycis uoraces , quiafi uerbauinitateplena habeant non tainen Aristotelis
do& rinam tenent,quam falſo profitentur)iſus fuerit illa. demonftratione
oſtendens de 1fofcele , quòd habeat tres e qualesduobus reftis per
decimamtertiam O vigeſimumnonam primi Elementorum , aut altera numero , eadem
ta menſpetie de Iſopleuro & Scaleno.ne idein oftendat , ita quòd de ſingus
lis trianguloruin þetiebus inducat , quod habeat unaqueque ſpecies triangulorum
tres equales duobus, nonduin cognouit inquit , triangus lum quòd duobus reftis
æquales habet , niſi ſophiſtico modo, neque uni uerſaliter trianguluna effe
huiufmodi , ne quidein fi nullus eft , preter, hec, triangulusalius , non enim
quod triangulus eft huiufmodi cogno uit , nequeſi omnem triangulum , hoc habere
contingut , utputs duobus reftis æquales,ſed quatenusfecundum numerum , ideft
fecundum nume rumfpetierum triangulorum, ſecunduin autein fpetien , in uno
uidelicet uniuerfali, non omnein ca ſi nullus eft fecundum ſpetiem , id eſt ſe
cundumnumerum trium triangulorum petieruin , ſeparatim ,quem non nouit. Erraret
igitur duplici errore ille , qui putaret eße unia uerſale fubie&tum , &
totum , id quod effet particulare fubieétum , parsfubieétiut , quia tunc
acciperet in parte totum , id eft partem , to tum effe exiftimaret . Si autem
triangulus immaginetur faluari in unica tantum fpetie , ut in iſoſcele, tunc
exemplum intelligatur , aptari feo cundo modo errandi tantum , non etiam tertio
. Vides igitur amice, quod Ariſtoteles modos tres attulit errandi circa
uniuerfale,quorum cuique proprium , &peculiare exemplum aptauit . Neque
legas poſt hac lyaliquando , prominus exacte , nequely nunc,pro exacte ita ,ut
neutrum ,tempusſignificet , fed utrunque temporaliterlegatur , neque 1 i 54 IN
P R I M V M L I B. legendum eſt ly nunc pronon , ut quidam , qui nullus homo
est facit . Ad id autem quod Ioannes de Gorgia tetigit , aie quod quantitas ,
natura ipſa , qualitatem precedit , fic ut quantitas , fit prior ipſa qualitate
non dico tempore necetiam natura ſed ordine , oid quod propriumquan titati eſt
prius est proprio qualitatis, fimiliter et modi,quiſunt ipſiquãti tati proprij
, ut eſt proportio, & modus arguendi , qui dicitur permu . tata proportio ,
funt hæc quantitati propria oſibi primo conueniunt, deinde etiam qualitatibus
ſecundario « improprie attribuuntur. Quem admodum etiamSyllogiſmus , qui
omnibus philoſophiæ partibus eft com munis per attributionem , de eo tamen
primo oproprijsſime Logicafa cultas agit , quòd ſi ſubſtantijs quantitate
prioribus , quis tribuat come mutabiliter proportionari, tunc uniuerfaliter
reſponde , quod omnibus entibus poteft attribui commutabiliter proportionari
improprie tamen , oper quandam attributionem fecrındariam , quatenus omnia
entia,has bent quantitatem molis , aut uirtutis in ſe ,o ſic Plato attribuit in
Gori gia commutabiliter proportionari illis qualitatibus improprie , opro ut
ille qualitates includunt quantitatem uirtutis , quæ funtgradus pera feftionis.
TE X. XXIX. ALIAS XIIII. VANDO igitur non nouit uniuerſaliter, & quando
nouit fimpliciter , manifeftum eft utique. Quoniain , li idem erit triangulo
eſſe & Iſopleuro , aut unicuique,aut omnibus fi uero non idem fed alteruin
& cætera. Littera ſic exponatur , fi eadem deffinitio quæ trianguli est ,
cſJet ipſius etiam Iſopleuri propria o peculiaris , aut unicuique 1fos pleuro
iſoſceli o Scalenoniſeparatim , aut etiam omnibus fimul in com muni à quanon
ſit alia deffinitio ipſis conueniens , ſi uero non idem , id est finon est
eadem unica deffinitio , quæ bis omnibus æque primo conue ! niat , fed alterum
, id eſt diuerfum nempe deffinitio trianguli est figura tribus lineis rectis
claufa , fed iſopleurus est figura tribus lineis rectis æqualibus claufa ,
iſoſceles est figura tribus lineis duabus nanque æquae libus , una inequali
claufa , gradatus eſt figura tribus lineis inæquae libusclaufa , ecce modo ,
quàm diuerſa ſint deffinitiones , fi ineſt igitur tres habere his omnibus , hoc
quidem eft unicuique , fecundum quod eſt triangulus , uelfecundum quod eft
figura tribus rectis claufa , o non POSTERIORVM ARIST. 55 脚 叶 , 關 洲 加以 如 叫 加 has
pro eta quia illis lireis equalibus , uel inequalibus claudatur. Vtrum autem
fecundum quod eft triangulus , aut fecundum quod Iſoſce les infit, & quãdo
ſecundum hoc, eſt primun, &uniuerfale, cuius eſt demonſtratio,
manifeſtūeſt, quando remotis infit primo,ut Iſoſceli, æneo remoto ,triangulo
infunt duobus rectis pares , fed æncun eſle remoto, &Ifoſceli etiam remo to
infunt tres duobus rectis pares, fed non inſunt tres duo bus rectis pares
figura & termino remotis, quia etiam ipfis inſunt duobus rectis tres
æquales , fed eis non primo, ut fi gura que clauditur termnino uel terminis ,
quo igiturprimo reinoto , cui priino conuenit ; remouetur , & habere tres,
fi itaque triangulus remoueatur, remouebitur & habere tres duobus rectis
pares , & ſecundum hoc igitur , id eft few cundum triangulum ineſt, &
aliis per ipſum & huiuſmodi trianguli uniuerſaliter eſt demonſtratio .
Littera fic ordináta, artificiun Ariſtotelis est conſiderandum , in hac regula
, quam prebet ad cognofcendum , quando erit uniuerfaliter demonſtratio , ego
exem plum eft contraſecundum modum errandicirca uniuerſale,ſic ,utſeruans hanc
regulam ,non errabitſecundo modo errandi circauniuerfale,& pri mo,remotis
accidentibus indiuiduorī ,utremoto ere,non remoueturaf feétio uniuerfalis ut
habere tres duobus reétis pares, as enimfeu aneum effe ,non conuenit fpeciebus
triangulorum , niſi quia indiuiduis triangulis conuenit remota,fubinde fpecie
trianguli , ut Ifofcele remoto , non pro pterea remouetur affectio uniuerſalis,
quæ eft habere tres duobus reétis pares , quia in alijs fpetiebusſaluatur
natura,cui primo conuenit habere tres,ut in ſopleuro,e Scalenone ſaluatur
naturatrianguli,cui prinoco uenit habere tres,tertio remouet genus ad
cuiusremotionem remouetur villa affeétio ,ut remotafigura, &tres habere
duobus re &tis pares remo uetur , Quarto cultimo remota deffinitione
generis, ut remoto termino figura enim eſt , que termino uel terminis clauditur
, remouetur og illa affectio ſed non primo , primo enim conuenit ipſi triangulo
, triangulo igitur remoto, statim remouetur & illa affectio , habere tres
duobusre Atis pares, demonftratio igitur qua concluditur quòd triangulus habet
tres angulos equalesduobus reātis , eft uniuerſaliter . & eft Te i IN
PRIMVM LIB. TEX. XXXVII . ALIAS XX. Pro quo VORVM autein genus alterum eft ,
ficut Arithmeticæ , & Geometriæ ,non eft enim Arithmeticam demonftrationem
accom modare ad inagnitudinum accidentia niſi magnitudines numeri fint. Gnarus
Ari ſtoteles Geometrie & Arithmetica non dubitanz do loquutuseft inquiens
,niſi magnitudines numeri fint , fed fuæ regulæ uniuerfalis exceptionem faciens
, niſi inquit magnitudines numeri ſint. aduertas magnitudines nunquam fieri
numeri nifi numeri nuo merati , o adhuc numeri illi numerati non fit diſcreta
quantitas , ſic ut illinumerati numeri, non copulentur ad aliquem communem
terminum , ſicut numeri, ofillabe, no:1 ad terminum copulantur communem ,fed ad
comunem terminum copulantar ille magnitudines que numeri funt per folum tamen
intellectum à fe inuicem feparatæ intelliguntur ille quidem magnitudines quæ
numerati numeri,Sunt non quod intellectus aliter quã ſint, eas percipiat
oppoſito modo , fed eas tantum conhder atparticunt Latim , no intelligendo eas
niſi priuatiuenon effe coniunctas ,non tamen in telligendo eas negatiue , non
effe coniunétas, ut pro exemplofufcipiatur id ,quod Euclides proponit
propoſitione quinta deci f mi Elementorum commens ar d ſurabiles
magnitudines,ad inuicem rationem habent quam numerusad numeră be cuius
deinonftratio talis est. Sint due inagnitudines a b communicantes, dico quod
earum pro portio eft,ſicut alicuius numeri ad alium numerumfit enim maxima quan
titas c cõmuniter menfurans a ®b, reperta ut docet xiij. Elementorum quæ
inenfuret a fecundum numerum d, o b fecundum numerum e, erita; a ad c, ut d'ad
unit atem eo quod ſicut a eft multiplex Citad eſt multiplex unitatis, at c adi
b, ut unit as ad e , quoniam ſicut c eft ſubmultiplex b, ita unitas eſt
ſubmultiplex e, igitur per aquam propor tionalitatem a adb, ut d ad e quod eft
propoſitum , Ecce quod f linea fecans a lineam in puncto F, non ſeparatprima
partē linet a, à fecunda parte CH POSTERIORVM ARIST. st n parte linee a, quis,
punctus copulansprimam partem lineæ & cum fes cunda parte , manet idem ,
immo eſt communis punétus &ipfi lined a & ipſi f, intelle &tus
tamen intelligit primam , atquefecundam partem li nea 4, abſque quòd
conſideret,ut ad comunem punétum f copulentur. Ecce uides quomodo Euclides
utitur medio Arithmetico,ut puta nume ro in constructione , «æqua proportionalitate
ad probandam affeétio nëdemagnitudinibus, In vis uel 1 x propoſitione decimi
utitur uns decima octaui, tamquam principio Arithmetico in concludenda affe
ftio ne de magnitudinibus , hocfepißimefacit in toto decimo libro Eles mentorum
Magnitudines , numeri funt, quando ille habent communem menfuram qua communiter
dimetiantur , diameter igitur quadrati , Oſuacostanunquam funt, neque dicentur
quod ipfæ numeriſint,de ma gnitudinibus etiä que numeri ſunt trattat Euclides
in ſecundo Elemento rā à prima propoſitione ufq; ad undecimãexclufiue, Ecce quo
pacto utis mur arithmetico principio,circa Genusgeometricã, quod græciala -
tini non aduertentes prætereunt exponentesregulam Ariſtotelis uniuer faliter ,
quãipſe uult intelligi cumparticula exceptiua, In hac parte ex= ponenda
Aueroesimperitißimusfuit, ita utſua littera e directoſit con tra Ariſtotelis
fenfum , inquiens &propterea demonſtratio, quæ eft de queſito computatiuo,
non poteft trăsferri in aliam à computatiua,quem uirum clarißimum non miror,
ſimendacium hoc dixerit in ifta re parut ſed magis ,eum admiror quòd cum
aliàsdiſciplinas mathematicas inuen taspropter ingenij exercitationem ,
&quia etiam philofophus dixerit eas puerost adipiſci, ipſumuero Aueroin
,neque pueritia ,necſuafeneétu te eas fuo ingenio intellexiſſe , niſi dixeris ,
quòd ipſe elleuatus in eſtaſi intelligebat omnia per intellectum in actu , quo
multa peruerſo modo,e ordine intelligebat ſicut quædam fui fequaces Aueroico
uerbo cupientes Aueroiſtas dici , ignorantes tamen que Ariſt. mathematicis explicanda
propofuit, de quo intellectu poßibili, qui nihil eft eorum quæ uere ſunt ante
quam intelligat,utproponit philoſophus,aliquando aperiam ,quòd non de ſeparato
illo chimerico intellectu ex littera cmente Aristotelis, debemus intelligere,ut
quidã Aueroiſta perperăget fequaces peßime in= terpretantur, pertranfeo tamëhæc
inpræfentiarü,et quia non eft hiclo cusdifferendiillud, et utfic docentes falfo
,reſipiſcăt, et ueritatem Arifto telicăianiam incipiãt et intelligeret
&alios post millenos annos docere. Hoc autem quemadmodum contingit in
quibuſdam , po fterius dicetur. littera fic intelligi debet , magnitudines
quando ſint 1 1 H S8 IN PRIMVM LIB: 3 numeri in quibufdam ,nempein temporibus,
ideft quádo ipfa tempord, ut numeri concipiuntur, Poſterius dicetur,ut in
libris de philoſophia et de anima.Hoc loco habemus artificium ab Ariſtotele,
quoGræcorumexpo fitorum abufius mille ,o latinorü millies millena millia
errorum cognoſci mus,De interpretibus uero noſtri temporis,ſierrent,non dico
,fed intelli gas uelim , ut quot uerba proferunt, tot mendacia contra
Ariſtotelis or dinem ýmethodum committunt. Quis enim legit Grecos , Latinos, o
noftri temporis expoſitoresAriſtotelis , non uideret conſiderauerit, illos
ſepe, & fepe fepius adducereloca odoctrinam datamin philofo phia uniuerſá,
in libris de anima, methaphiſicis, pro declaratione lo coruin logices , quis
modus iſte obfcuritatis eſt , per ignotißima declarda re ea , quæ aliquo modo
ignota funt ? eper ea quibus accommodantur principia, ipſaprincipia uelle
declarare, oper poſterior aignota decla rare ipſum prius, ſic utfupponant iſti
declaratores,hominem eſſe philoa fophum , animaſticum , & methaphiſicum
antequàmfiat logicus,utille no Ater bonus homo docebat, quòd Ariftoteles
attulit tria exempla in fecun do textu ,in tribus ſcientijs,ut ibi notaui
ha,ha,pereat modus iſte contra Ariſtotelis doctrinam ,qui poftquàm
exceptuationem uniuerſalis regulæ fue fecit, inquit, hoc autem , quomodo
contingit , posterius dicetur , fic ut id ,quod inphilofophia dicit,
nonreuocetin logicis declarandis , fedt diuerſo,exceptione qua in hoc
locofacit,utetur tanquam nota in philofo phia , ut ex notis ad ignota o utex
uniuerfali ad particularia tēpora procedat,perfuadeturigitur illa exceptio exx
. libro Elementorū ut des claratum eft , & non ex philofophiæ locis , vt
procedamus utpúta ex his, quæ in Geometria notafunt , ad ea declaranda , quæ
inlogicis traa & antur , ut uera methodo , à notis diſcuramus adignota ,
fed fi idem in theologos ſacrosobijcias , qui indiſcriminatim ad declarındas theologia
cas queſtiones loca uniuerſalis philofophiæ adducunt , igitur ipficra
rant,refpondeo , In thcologia cui omnesſcientic &tota uniuerſalis phi
lofophia ancilantur tanquam ſcalares gradus non inconuenit philofoe phic
eliberalium artium theoremata adducere, quia proceditur à nos tis ad ignota
declaranda . Ita ut ultra modum quo intelligimus Sacran do&trinam per
reuelationem , ſunt quidam alij modi intelligendi, ſuppoſia ta tamen
reuelatione primo, unus eſt modus deuotionis fpiritalis, quo particulariter
dominusfuisfanétis, licet alias indoctis tribuit intelligere, ut Petro
intelligebat ea,quecontinebantur in epiſtolis fratris noftri Pau li, quæ
indocti deprauant ad fuum fenfum , non intelligentes, Alius mo POSTERIORVMARIS
T.59 0 4 Ac LE FO r dus intelligendi facras litteras prouenit ex ingenij
uiuacitate tantum , qui modusmultas hærefes attulitfidelibus . Tertius eft
modus intelligendi beneficio naturalis philoſophic , &hic etiam decipit
innaniterfideles nis fiunctione fanétifpiritusmoliaturfua duricies , hoc quidem
tertio modo non intelligit aliquis facras litteras , niſi inſtructus illis
difciplinis , que precedunt ipfam reginam theologiam , valeant igitur, eantuna
oma nes ad olas carnium , nonadScotia Thome libros, qui, his artibus
&philofophia non callent, non peccant igitur Theologitertio modo di di,
copeccato, quo multiGræci, Latini , &præfertim noui interpretes in
Ariſtotelem peccant,confundentes docendi ordinem . Videtur hæc ex poſitio,
Ariftoteli oppugnare, ubi inquit Ariſt. pofterius dicetur , ut in libris
philofophiæ , dixi tamen ego ex decimo Elementorum . Dico Arie ftotelem
promittere quomodo continuum diſcretum căcipiatur , fed Eye clides quo modo per
principium Arithmeticum de magnitudineaffeflio demonſtretur atq; concludatur. •
Ex codem enim genere cft, extrema & mcdia eſſe, fi namqucnonfunt per ſe
accidentia erunt, propter hoc Geo metrię non eft demonſtrare, quod contrariorum
eadein eſt diſciplina , ſed neque quòd duo cubi ſunt unus cubus, ſit heclitteræ
expofitio, ut media oextrema debeant effe eiufdemgeneris, media intelligas, feu
in conſtructione medium , ſeu medium ad probadum , quod eft, aut principium,
uel etiam propoſitiopredemonftrata,que fus mitur ad probandam aliam ,
propofitionem ; extremorum autem nos mine ( ubiait extrema) intelligende funt
ipſa concluſiones , utfitfenfus facilis, premiſſão concluſiones ex codem
genereeſſe debent. Sed ne que quòdduo cubi unus cubus fit , Quomodounus tantum
cus buserit,cum duo fint ?duo prius feparatim erant,quiſi in unum redigan tur,
unum tantum efficiunt ,ut due lincæ etiam una linea tantum efficis citur,
utdocet XIIII primi Elementorum xxx ſexti Elementos rum ,vltra aduertendum quod
cötrariorum cadem eſtdiſciplina,ſed hoc non probat Geometra ſimilitcr duo
cubiunus cubus eft ,quod etiam Geo metra non probat, his habitis odeclaratis.,
ſtatim perit declaratio. cus iufdam philoſophi noui qui maiorigrauitate quàm
pondere utitur; dicit enim illa ſua innani interpretatione, duo cubi in
Arithmetica non faciunt ynum cubum , quod eft di&tu , quod duo cubi numeri
nonfaciunt unum cu bum numerum ,ifta interpretatio opponitur littere
Ariſtotelis ; li ttera anim affirmatiuc loquitur, quòd duo cubi
unumfaciuntcubum,oiſte no ни ex 46 in is hi De IN PRIMV M LIB. ) uus
philofophus exemplificat negatiue , quo mododuo eubi non faciunt unum cubum ;
reiciatur igitur ſuainterpretatio , & Philoponi expoſitio ſuſcipiatur , quæ
hoc in loco fatis conſiderata eft , atque docta ;Ratio enim quare non
demonſtrat Geometra,quòd duo cubi unum cubum far ciunt, eſt quia non uerſatur
Geometra circa genus folidorum , ut circa ſuuinſubiectum , fed uerſatur tantun
circa planorum genus , ut circa proprium ſubiectum , Stereometra autem habet
demonſtrare , quod duo cubi adinuicem aditi cubum unum cõficiunt, ut ftatim
explicabo inferius, cum de duplatione are delorum , & in fragmentis logicis
de triplatione, quadruplatione, quincuplatione, fexcuplatione , eptuplatione,
es dein ceps demonſtrationes fecero. In qua re ut Ioannes refert Apolonij peri
gei talis eft demonſtratio ab innumeris mendis purgata , opermepri ſtino
candori redita cum Euclidis propoſitionibus in locis fuis ,utdecet appoſitis,
ac ſiab Apolonij manibus nunc procederet. Pro cuiusdemonſtrationis notitia,
aduertas quòd Art Delio Apoli ni dicata , eſto ſiuis ut trium eſſet pedum , quando
Apolo imperauit dea lijs peſte laborantibus, eiuſdem Are duplationem , qui
Geometrie impe riti (ut peneſunt in preſentiarum omnes totius orbis Gymnaſiste
)adide runt alteram tripedalem Aram prime are, etſicturbata ,atý; corrupta
forma cubica are primæ,dederunt are duplate formă trabis, fic ut fex pedű
extendereturlongitudine, latitudineuero & craſitie trium pedum extenſa
eſſet Ara, forma in qua complacebat Apolo deperdita ,fþreti igi tur propter hoc
delij ab-Apoline , & graue peſte adhuc laborantes , ad Platoně
confugerunt,qui eos redarguens, utGeometric imperitos tana dem eos adhuc dubios
reliquit dicens eis , ut duas lineas medias inter exa tremas inuenirentſecundum
eandem proportionem continuam . Et tunc ſcirent duplare Aram , formam habětem
cubicam , In qua re plurimigre corum laborauerunt tandem unus Apolonius
perigeus , duas inuenit lia neasillas medias Oſummo artificio duplarunt Aram
delij ,fubinde ad peſte quieuerunt. Dátis igitur duabus lineis inæqualibus,
quarum altera ſit longitudo Ar & primo fabricatæ triumpedum , fecunda uero
lineaſit ed, que deno tet longitudinem trabis quamcompoſuerunt delij, &eſto
pedum fex,ina ter has duas reperiendæ funt duæ alia medie in continua
proportionam litate,quod in numerisfieri neutiquam eſt poßibile, fint igitur
duæ data , primafit b c , quæ erat longitudo prime Are , e a b.longitudo tras
bis, &ponatur per undecimam primi Elementorum uel per uigeſima POSTERIORVM
ARIST. tertiam eiufdem primi, ut rectumangulum contineant,eum uidelicet qui füb
a b c o compleaturparallelogrammum bd ; per tertiam atque tri geſimamprimam
primi Elementorum ;qg diameter ipſius per primum po ſtulatum primi Elementorum
ducatur a c o circa triangulum ac di per quintam quarti Elementorum deſcribatur
circulus a d.c, os produ catur linee b a ,b c , per fecundum poſtulatum primi
Elementorum in directum ufque ad fe 8,0 per primum poſtulatum coniungan tur f
& , per lineam f g tranſeun b tem per punétum d , ita ut fe , æqualis fit
lineæ e g , hoc enim tan quàm petitum ſummitur indemons Äratum . ( De quo,
forſan poſterius noſtra palade non nihil dicetur) ma nifeſtum utique eſt, quod
ex fe æqualis eft ipfi dg per hipoteſim , @primam animi conceptionem . f a f 6
f 6 6 G gд g fil 6 g ď 6 6 egg f fa d Б6 c 1M14 8 с C f f a d AB Xa -f MC À с a
TE lik mo Ma Quoniam igitur extra circulum a dc punctum fumptum est feab ipſo
dufte linee rette f b , feſecant circulum ad punéta a v d , quod igi tur fit ex
bf in fa , per trigeſimamquintam tertij Elementorum ,æqua le eſt ei , quod fit
ex ef, in fd , ac eadem ratione , &quodfit ex b & in c g æquale est, ei
, quod fit ex dg ing e , aquale autem eft id quod fitex dg in g e , ei quodfit
ex e f in f d , utraque enim utrij que equales funt , e f ſilicet ipſi d 8 , og
f d , ipſi eg, igitur , ego quòd fit , ex bf in fa, æquale eftei, quod fit ex
bg ing c , eſt igitur , 62 IN PRIM VM .; L 1 B. ut fb ad b & perfecundam
partem decimequinteſexti Elementorum , ita g c ad f a ,fed ut fb adb 8, fic es
fa ad ad per iij.fextiEleé mentorum , igitur per xi . quinti Elementorum g c ad
f a ,ut f a ad ad, fimiliter per eandem xi. quinti Elementorum , ut dc adc 8 ,
fic cg ad fa, quia utraqueeft ,ficutea , que est fb ad b 8, altera per fecundam
partem xv. reliquaper quartam fexti ;ut d.c.ad cgpro pter fimilitudinem
triangulorum , est autem dcdqualisipfi ab,04 d , ipſi b c per xxxiij.
primiElementorum , igituraut ab ad cg ita f a ad ad , erat autem , out f bad
bg, ideft ut a bad c g ,fic cg ad fa , igitur out ab adog, fic oipfacg.ad fia ,
o ipſa fid , ad b c , quatuor igitur rectæ linea 46,8c,fa,bc, inuicem prom
portionales funt,o propter hoc erit ; uta bad b c , ita quifit ex 4 b cubus ,
ad cubum , qui ex g cega qui ex g c , ad illum qui fit ex f a, e qui ex fa , ad
illum qui ex b c ex corrolario xxxiij. undecimi Elementorum , igitur ut a b ad
b © , ita cubus quiex f a ad cubum qui ex b c , fed a b dupla fumpta fuità
principio , ipſius b.c, eft igia tur cubus , qui exfa, duplus ad cu bum , qui
ex b c , quod demon - g strandum errat . Berlin . g c.8 F G f 6 f 6 6 a . 6 6 G
8 6 g ggġ Ġ gofa dic figffa d . o ga a 6 2. BВ POSTERIORVM ARIS T. 63 Eleg TEX.
XLI. VEL XXII. F G ta 16 ORVM quæ ſæpe fiuntdemonſtrationes funt & fcientiæ
, ut lunæ deffectus , Quee dam noua queſtio à quodam nouo interprete moues tur
, circa particulas in textu poſitas , unde eft , quòdfæpefiat demonſtratio of
ſcientia de lune men ſtruo? Cumſit, quod luna nonſemper , nequeſe pe
eclypſetur, neque meſtruum patiatur? Queſtio mota fuit ex dus plici ignorantia
queex duplici menſtruoſitate contingit , uidelicet Solis ♡Lune , quia ille , qui eam mouerit , neque
in die , neque nocte uidet , quid uelit Ariftoteles, ſi tamen alta uoce
Ariſtoteles streperet in huius doctoris aures, hoc apponeretforſan miringam ,
ſın ditë, ſurdus ipſeerit ideo ille bonus homo,qui quidam homo erat ,fed nunc nefcio
an aliquis ho mo ipſe ſit, monſtruoſamde lunæ menſtruo folutionem ,uel potius
ligas mina tribuit auditoribus centum . Videas , ſepeenim inquit nofter nos uus
interpres, fit Lune eclipſis , quia quandofit,tunc orientalibus quar ta hora ,
occidentalibus autem hora tertia , magis autem occidentalibus hora ſecunda
noctis &alijs etiam ad indos magis tendentibus prima non & is hora
apparet luna menſtrua:a, ecce inquit ille interpres do&tus,quid ſepefit ,
ut puta intot horis noftis, utfecunda&tertia atque alijs plu rimis.
Quemirabilis doctrina @ſcientia , in dialogis &fabelis , quas apud ignem
raulieres habentreponenda magis , quàm àuiro quoquo moa do etiam docto
redarguenda eft , uel etiam à quouis audienda . Litteraſic ordinetur , eorum
demonſtrationes & fcientia ſunt , eorum dico , que fæpefiunt . Dico igitur
lunc deffe tusſæpe , atque ſemper fieri in plenie lunio , quum terra
diametraliter ponatur inter Solem Lunam , quod quidemnon in omni plenilunio
contingit , fed cum sol in capite, & Lue na in cauda draconisfuerit , quod
Plato explicans ait linea re& ta eft cu ius medium obumbrat extrema,
quamfententiam non intelligens quidam alius potius paraſcitus quàm doctor,
&ille est , quem ſuperius dixi hae , bere grauitatem maioren , quàm pondus
, redarguebat in quodam cons uiuio deffinitionem quam Paduano Gymnaſio in
primis meis le &tionibus publicis dederam , explicans deffinitionem lineæ
rectæ , que eft , à pun Ao in punctum breuißimaextenſio , aut cuius medium ex
æquofua inter 1 incet ſigna, hoc eft , cuius medium non reſultat ab extremis ,
ſic explis 64 IN PRIM VM LIB. cabam per fenfitiuam & materialem lineam , ut
facilius ipfa Geomes trica linea à tirunculis intelligeretur , linea recta eft
, cuius medium non obumbrat extrema , neque eſt hæc mea explicatio rectæ lineæ
, Contrda ria illi à Platone datæ , cum hæc in Geometria , illa uero Platonis
in Aſtronomia accomodanda ſit, neque in hoc ignofeendum erat, quia igna rus
Grecarum litterarum eſſem , ut ille efuriens greculus non lingua ne que natione
, fed apparentia tantum , Tipto propter tiptis duo agebat dicens mefalfam
le&tionem Latinam vidiffe , qua legeram in Platone, lie nea recta eſt cuius
medium non obumbrat, cum Græcus textus , affira matiue legatur fic cuius medium
obumbrat extrema, mitto hæc in Cora bonam , oad propoſitum à quo uidebar
digredi redeo, Cauſis igitur illis commemoratis concurrentibus, femper &
ſaepe fit Luna defectus , de qua Luna menſtruata habetur ſcientia , per medium
illud , quæ eft ter re interpoſitio inter Solem atque Lunam diametraliter , que
cauſa pro pria, & propinqua eſt ad Eclipfim de Luna concludendam, modo anfe
pe fiat demonſtratio uelfepe habeatur fcientia de Eclipſi Lune , hoc non tangit
Ariſtoteles., quia ly ſæpe eſemper , non determinant ly demon ſtrationes,
olyſcientia ,fed determinantlydeffe &tusLune ; illis igia tur cauſis
contingit Luna deffeétus fæpec ſemper,non autem illis quas commemorauit ille
phantaſticus , ſecunda uel tertia hora noétis . TEXTVS XLII ALIAS XXIII. VONIAM
autem manifeftum eft, quod unữ. quodque demoſtrare non eſt, ſed aut ex uno.
quoque principiorum , fi id quod demonſtra tur, ſit,ſecundum quod eft illud,
non eſt ſcire hoc quidem fi ex ueris & indemõſtrabilibus monſtretur, &
inmediatis , eſt enim ficmon , ſtrare, ficuti Briſon Tetragoniſinum ,per commune
enim demonſtrant rationes huiuſmodi , quod & alí ineſt, unde & alíjs
conueniunt hæ rationes non cognatis, Quicquid anti qui dequadratura circuli
fenferint , dicam quid fenferim ego , habita prius notia littere, &cognito
textusſenſu, li ex ueris premißis, oins demonſtrabilibus , immediatis, fiat
demonſtratio , non autem fiat ex præmißis proprijs, opeculiaribus illi
generi,de quo fcientia queritur, ex illa demonſtratione per talia principia
primadi&ta non habeturſcien tid POSTERIORVM ARIST. 656 tla,immoneq; illa
erit demonftratio, quia per principia fieret talis pros ceſſus, que non tantum
arti Geometrie, fed alijs difciplinis accommo dari poffunt , quo errore
Brifo.crrauit tentans reducere aream circuli ad figuram rectilineam quadratam ,
quæ t alia erant principia datur max ius, datur minus , igitur datur æquale ,
quidamſciolus laborat , ut hæc principia uniuerfalia ,propria fiant
ipſiGeometric ,dicens,daturquadra tum maius circulo , datur quadratā minus
circulo, igitur datur quadras kun sequale ipſi circulo , et gloriaturinnani ,
& hoc fuum chimericâ con tulerit cum yno do&tißimo huiys noftri
Gymnasij, qui non folum perfua fionemualidam , fed et demonftrationem eam effe
affirmauit ; fcito enim , quòd os folidis, e linels , o numeris coaptatur iſta
dedu &tio , ut datur numerus maior denario eminor denario , igitur datur
equalis nume rus denario, es ſic in alijs plurimis , dico tamen quod huius
fcioli do&to ris contra tio in propoſito nulla eft ad oſtendendum intenti ,
quia ultra quod Briſo errans,proceßit per comunia principia ,errauit etiam
errorç peßimo in conſequentia ,ut ex his quæfuperquintadecima terty Elemen torī
Euclidis demonſtrantur &fuper trigeſima ciufdem ,Ariſtoteles au tem folum
redarguit ipfum in co , quod egit contra regulam de proprijs principijs
,quicquid de confequentia fitprætermittens tanquam non res Marguendum , ut
oppoſitum ſuedat& regul« . De quadratura, errore Brifonis , Anthiphontis,
Hipocratisc Boetij atque iuniorum trattabo in fragmentis mathematicis ſuper
live bro pofterioruin. TEXTVS XLV ALIAS XXIII. ED demonftratio non.conucnit in
aliud nus, aliter quàm ut dictum eſt, Geometricæ in mechanicas, aut
perſpectiuas, & arithme ticæ in harınonicas. XXXVII textu determis nauit
Ariſtoteles quòd ad Geometram non pertinet de BRAVAS PRINT monſtrare quod duo
cubifaciant unum cubum , ratio , ut ibi declarani aßignabaturquia Geometra O
stereometrauerfantur cir ca diuerſagenera, alter circa planum , & reliquus
circafolidum, hoc au fem textu dicit, quod geometrice demonftrationes
conueniunt in genus mechanicum , ait enim geometrice in mechanicas , pro qua
apparenti contradictione, eft aduertendum quòd Stereometrica per principia Gear
I 66 IN PRIMVM.LIB . metric probantur quia in terminis corporis, qui ſunt
ſuperficies , ille geometricæ demonſtrationes attribuuntur , ideodemonftratio
Geometri ca hoc modo in mechanicas,conuenit , o ſinon fint circa idem genus,
necfubfe inuicem diſcipline. TEXTVS XLVI ALIAS XXIIII. VID quidem igitur
fignificent, & prima , & quæ ex his funt, accipiendum eft, quòd au: tem
ſint principia quidem , eft accipere, Alia uero demonftrare, ut unitas, &
quid rectum , & quid triangulus,effe autem unitate accipe re &
magnitudinem ,altera uero demonftra re. Dedatoibi quid fignificent de
dignitatibus ibi & priina. De que fito ibi, & quæexhisfunt. Exempla
omniafunt in boc textu dedato; primum eft in decimaſextaſeptimi elementorum ubi
de unitate,que ſe ba bet ad aliquemſecüdum numerum , ficut quilibet tertius
adaliquem quar tum ,concluditur q, ipſa unitas, itafe habebit ad tertiã numerum
, ſicutfc cãdus numerus ad quartum ,fecundã exemplum eftde data linea in prima
propofitione primiElementorum ,de qua demonſtratur quàd fit æqualis, welminor
cæterisduabus lineis re&tis continentibus,Iſopleurum , uel ifo feelem , uel
Scalenonem ,uel etiam exemplum hoc apparet indecima pri mi Elementorum ubi
concluditur de linea recta , quòd ſit biffariamfe &ta, Tertium exemplum de
dato, eſt in xxx 11 primi Elementorum , ubi de dato Trigono concluditur .
habeat tres angulos duabus re&tis paresnon tantum , quid ſignificentoportet
preaccipere, fed etiam iſta effe , vt tan dem de dato nonfolum quidfignificet,
quod etiam eſt queſiti,preaccipes re, fed eo quidſignificet effe, vtrumque
fupponendum ſit (licet non femper,)ut quid ſit unitas,et unitatem effe ,quemadmodum
ſecundo textu predocuit Ariſtoteles , uerbum hoc , magnitudinem , intelligendum
eſt, rectam lineam ,ut decima primi elementorī ,et triãgulum ,ut trigeſima ſe
cīda primi elemétorum ,quem triangulum ,et reetū, explicite protulit ab
unitate,inquiens alia uero demonſtrare, ut quid unitas , quid rectiem , Oquid
triangulus fignificet, elle autem unitatem accipere & magnitus dinem , hoc
loco aduertendum est Ariſtotelem , ſeiunctam poſuiſſe unita tem à refto
trigono, quæ duo nempe reétum & trigonum amplexi fuifſe in unico uerbo hoc
, magnitudinem , propter hoc ut intelligenda POSTERIORVM ARIS T. 67 effet
unitas de qua hic loquitur principium numeri feu multitudinis , de. qua quidem
unitate alia affe&tio concluditur , quàm de unitate linee , de qua
loquebatur in fecundo textu huiusprimi, wratio interpretationis apparet
exlittera , quia de quolibet dato. feparatim concluditur pro prium queſitum ,
ut hoc textu declaraui. TEX. XLVII VEL XX IIII & 24 Allia 721, pe Court
Alle Blato che * with rima alis -life pri eld Side Vntautē quibus utimur in
demonftratiuis ſciētíjs alia quidē propria uniuſcuiufq fcič tiæ , alia uero
cómnunia, comunia autemfer cundum Analogiă, quoniam utile eft,quá. túeft in eo
(quod eft fub fcientia ) genere, propria quidem , ut lincã elſe huiufinodi.
&rectum , De dignitatibus hoc loco loquens, exempla de dignitatis bus
prèbens ait. Alia quidem propria uniuſcuiuſq & c.Propria Geometrie ſunt
ifta , utlineam elfelongitudinem illatabilem or ſine pro fonditate ,hacde caufa
dixit lineameſſe buiufmodi,id efthabere banc defa finitione, & reétum , vt
puta recta linea est , que ſua ex æquali intera iacetſigna,uel linea recta eft
à punéto in punctum breuißima extenſio, non intelligas lineam, &rectum ,
Jolitarie o incomplexe,quia hoc loco de dignitatibus,que complexa funtloquitur
: non de incomplexis utde linea tantă , ca de recto tantum ſed , dehoc cöplexo
linea est longitudo illa tabilis ; ¢ linea recta eſt ,quæ ex æquali ſua
interiacet ſigna ,de linea in uniuerfali, fubinde de contracta uſpecificalinea
recta exempla explicăs , Communia autein ut æqualia ab æqualibus ſi
auferas,quòd æqualia reliqua ſunt. Aliqui indoctirelatores interpretum et inter
pretes Arifto, non intelligentes hunc locum ; naturam Geometrie ſcien tie
perdunt, dicentes Geometram per principia communia procedere, id autem eft
contra ueritatem ex parte rei econtra Ariftotelis do &tria nam . Pro
cuiusdifficultatis nodo extricando , aduertendum quod princi pium iftud,de
quolibet ente,uerum eftdicere quodeſt,uel no eſt tale, nun quam in demonftratione
ponitur , nec eo utimur niſicontrate, oquae dam determinationeadgenus aliquod
terminatum, er pro altera diſiuna Eti parteaccepto ,nulli enim fcientia eft,
aut diſciplina , que utatur illo principio pro utrag; diſiunéti ,fed pro altera
tantū parte , Sinile de hoc ( & alijs huiufmodi) principio, fi ab
.equalibus æqualia auferas, que re MON jpes non exti ell I i IN PRIM VM LI'B .
Manent,æqualia funt, audiendum eft, nulla quippe diſciplinaest, que es utatur
niſi contracte, fic quòd Geometra nunquam eo ufus eft præters quam inhisquæ
circa planum uerfantur, utfi ab equalibus lineis,uel fu perficiebus,aut
angulis,equates lineæ, uel fuperficies aut anguli deman tur, quæ remanent lineæ
,uel fuperficies ,aut anguli funtæquales ,quão primum autem principium hoc contrahitur
, non eft amplius commune Guniuerfale, fed fit proprium illius generis fcientiæ
ad quod contrahis tur, quod uerohæc noftra declaratio fit ad Ariſtotelis
mentemmanifes. ſtum eſt ex predicamento quantitatis ubi de diſcreto econtinuo
agens, determinat quod utrique proprium eft peculiare fecundum eamæqua leuel
inæquale dici, ſi inſtetur ex menteAriſtotelis dicentis, principiunt . - iſtud
effe commune, inquit enim ,cõnunia autē &c. Dico illud prin cipium eſſe
commune, ſi non contrahatur , quàmprimim uero contrahi tur non eftcommune
amplius , ftatim enin fequeretur contradi&tio , quod eſſet commune ono
commune, doétrina hæcmeacoheret his,quæ Aucroes commentationemagna
affentiriuideturfuper hoc textu, o his que Ariſtoteles hoc loco dicitinquiens
;fufficiens eft autemunumquoda que iftorum quantum in genere eſt,hoc eft
quatenusad determinatū get nus contrahitur, de principijs loquens ,ubi de datis
dixerit, & tertio lo co de queſitis, ibi quodautē ſint demóftrant, o fi
adhuc inftes e Theon &Campanus non contracteinquatuor primis libris
Elemento rum , a quod Euclides affixit illud principium primo libro , dico quod
Căpanus &TheonbreuiloquioStudentes accipiuntipſum principiū fne
Contractione , femper tamen op ubique uolunt ipſum intelligi contra &te cum
determinatone ad illud genus ad quod-co utimur , aliter. errarent , Euclides
autem primo libro affixit , quid utitur ipfo con tracto in primis quatuor
libris, Adhuc fi fortiuscontra hanc expo fitionem precipue inſtetur quod fiquid
ueritatisſaperet , statim haberea tur circuli quadratura per hæcprincipia
contra&ta , datur quadras tum maius circulo , datur quadratum minus circulo
igitur dabitur quadratum æquale circulo , refpondeo , quò du os errores
commiſit Briſo, o talis argutus doctorolus inter arguendum , primo quia Brie so
per principia comunia , iſte audem do&tor per contra &ta illa princi
pra, feduterque in æquiuocisarguebat, circulus enim et quadratum equi uoce funt
figuræ altera enim curuilinea reliqua uero re&tilinea eft , hunc errorem
fecundum non inuenies in mea hac expoſitione,&contra ipfam inftantianulla
est , de crrore autem Briſonisfuſius in noftris fragmentis POSTERIOR V MARIS T.
3 Logicis . Idem enim faciet & fi non de omnibus accipiat fed in
magnitudinibus folum , Arithmeticæ autein in numeris. Diuinus Philoſophus
quàmprimum explicuerit , quæ namfunt propria per duplex exemplum uniusfeientia
Geometria, linee uidelicet , &lia neæ recte , •fubiunxerit , que nam ſint
communia principia exent plum prebens tale, nquit, ut æqualiaab æqualibusfi
auferas quod æqua lia ſint remanentia , ſubiunxit quomodo hoc principium
&fimilia cone trahantur ad proprium genus ſcientiæ &propriafiant dicens
, ſuffia ciens eſt,unum quodque iſtorum , quantum in genere est , fufficiens
quie dem acſi peculiaribus atqi proprijs principijsuteretur Geometra uteng iſto
principio, æqualia ab æqualibus ſi auferas æqualia remanent , non quidemſi de
omnibus accipiat , non quidem dico demonstrabit Geometra: fi fic de omnibus
& uniuerfaliter ſine contractione utatur , fed demon , ſtrabit quidem ,
inquit Philofophus,ſi in magnitudinibus folum , id eſt contracte o determinatim
,eo ufus fuerit .Vtfic, fi ab æqualibus lineis ſuperficiebus , angulis,
Arithmeticus, fi ab æqualibus numeris æqua les lineas ſuperficies angulos uel
numeros auferas quod æquales linea fuperficies anguli onumeri remanebunt. Tunc
uult Ariſtoteles quód iftud principiumſic contractumreddatur propriumipſi
Geometra , og Arithmetico &unicuique artifici in fua arte , ac fi peculiari
epros prißimo uteretur , non
procedit igiturGeometra per communia prins cipia neque ob id , quia per
cominunia procedit Geometria , ideo non fit dicenda ſcientia ipſa Geometria ,
ut quidam ingeniofus noftri teme poris immaginatur . Sunt autem propria quidem
& quæ acci piuntureſſe , circa quæ , fcientia fpeculatur , quæ ſunt per le
, ut Arithmetica unitates , Geometria autem figna & lineas. Euclides in
Arithmeticis ab oskaud propoſitionenoniElemene torum uſque ad tredeci mam
incluſiue accipit unitates , ſed ſigna id eſt punta accepit in ſecunda wtrigeſima
prima primi Elementorum , lie neas uero in primt, ſecunda,& tertia
primi,atque in undecima undecimi Elementorum . Hæc enim accipiunt eſſe, &
hoc eſſe , idemo dixit in principiofecundi textus,ut de dato precognoſcatur
utrunque &quid &quia est , accipiunt eſſe,id est deffinitionemſeu
deſcriptionem welquid per nomenfignificatur, ex hoceffe ,nempeactueſſe , uel
mente oaštu.confideratiuo effe, id quod concipiunt , quod eſſe potentia ,uel
effe aptitudinedicunt . Horum autem pafsiones funtper fe quid quidem figni 70
IN PRIMVM L'IB. ficet unaquæque accipiunt , ut Arithmetica quidem quid par ,
Sicut uigefimaquinta noni Elementorum , aut impar , ut trige fimanoni
Elementorum , Aut quadrangulus,ut xxxvi. noni Ele mentorum , &quilibet
numerus à duobus duplus,ut xxxv. eiufdem , a eut declaraui ſuper textu xx. de
altera parte longiori, Aut cubus ut quarta noni Elementorum ſic intelligantur
termini exemplorum in Arithmetica;Geometra uero quid irrationale,ut XI. X.
Elementorum , aut inflecti per contactum in unico puncto ex xij.ex xv.tertij
Elemen . aut concurrere, ut xv.xi. Elementorum oprima Elementorum Geo metrie
Vitellionis . Animaduerſione dignum est hoc , quod Geometra nunquàm hanc
affectionem , ut irregularitatem deunica lineafola con = fiderat , neque etiam
de una tantum linea id concludit , quicquid Cama panus ſentiat , fed id de
linea una ad aliam comparata atque relata, cum qua non habet uliquam communem
menſuram , ut est diameter wcofta quadrati . Inflexio uero in una atque eadem
linea circulari eft , quætan gat aliam rectam lineam uel alium circulum interne
, uel etiam exterins, in unopuncto tantum , quia inflexa non fecat nequere
& amlineam , nes que etiam circulum , quorum utrumlibetfaceret linea recta
, eifdem ! recte linee 6 circulo non contingenter neque in directum applicata .
Quod autem fint paſsiones per fe demonſtrant per coin munia & ex his quæ
demonftrata furt & Aftronomia funi liter . De datis dequibusaccipiebamus
quid fignificarent &effe , de monſtrant artifices Arithmeticus OGeometra
per communia , idef per uniuerſalia principia (que tamen unius generis ſint) v
ex his etiam propoſitionibus, quæ prius demonſtrata funt, affectiones illas
predis Etas , ſicut etiam aſtronomus facit , utper ea quæ in Geometria probas
ta ſunt, etiam per propoſitiones probatas in Aſtronomia concludat
etfiEtionesfequentrum Theorematun . TEX . XLVIII. ALIAS X XV. VASDAM tamen
fcientias nihil prohibet quædain hortin defpicere ,'ut genus non ſupponere effe
, & fit manifeftum quoniam eft,non eniin ſimiliter manifeftuin eft,quo niam
numerus fit, & quoniam calidur , & frigidum fit. Natura enim &per
fenfum notum POSTERIO RVM ARIST . 70 $ 200 ill 0 si est, quonian calidum eft,
ideo non eft opus precipere mente o ſuppoi fitione aliqua intellettuali,
«quadamſcrupuloſa indaginefuum quiade calido , quando calidum eſt ſubiectum ſeu
datum uel genus, hoc cafu , quandoeft notum quia est dati , deſpicitur
præcognoſcere mentis inda gatione de dato , an fit ? Quod noncontingit
ſimiliter de numero, quans donumeruseft datum , de eo enim eft necefſe mente e
intellectuali acte preaccipere quia numeri, Videlicet quod numerusaétu est
mente con: ceptus , ac fiexifteret aétu , uel aptitudinem ad exiftendum habeat,
en hoc quidempropter hoc , quod numerus neque nataraneque fenfu aetud liter
percipiturquòd fit , fed tantun intelleétu dignofcitur , @ hæc duo exempla de
dito prebetnobis Ariſtoteles,ſubinde de queſito feu paßione facit exceptionem
dicent , & paſsiones non eft accipere quid fi gnificent ſi fint manifeltæ ,
ut puta ſi fit notiſsimum quodtale no men -notifsimam rem ſignificet . Tunceo
cafu non prerequiritur indas gando quid fignificet illud nomen , quia iam notum
eſt. De dignitatibus.au tem idein excipit ab uniuerſaliregula ,qua dixit
fecundo textu , alia nana que quia funt prius opinari neceſſe eſt,utomne quidem
quod est ,aut affir mareaut negare uerum eſt , quia eſt , o textu xlvi.aliud
prebet exem plum , utæqualiaab æqualibus fiauferas , quòd æqualia reliqua ſunt
, de his communibus principijs non eft preſuponerequia eft . Cum ipſorīt
ugritas quafi natura nota fint , quaſi natura dico, utputa quia notis ter minis
ipſarum dignitatum , statim notum est, quia est ipſarum dignitatum fecus autem
eft de dignitatibus proprijs cuique arti,quia tunc non est,fa tis ,quid
fimplices terminiſignificent preaccipere,fed opus etiam eſt pré cognofcere
copulationem terminorū effe neceffariam , ueram ,ut quòd circulus fit figura
plana unicalinea contentain cuius medio punctus est à quo ad circunferentiam
omnes recta linea duétæ funtæqualesfecludit , igitur ariſt.àfubie&to ipſum
quia quandoipſum eſſe,manifesti est ,non ſecludit ipfum quid est , ut exponit
loan .Gram . Alexander, A queſito ſecludit aliquádo quid eft,era comunibus
dignitatibus ipſum quia,quando notumeft quid queſitumfignificet, &quando
ueritasdignitatum eſt mani feftifsima quod autem hæcde datofeuſubiecto
expoſitio ſit germanatex. Ariſt.ut uidelicet excludat àſubiecto ipſum quia
,& non ipſum quid,mani feſtă eſt in littera,ubi ait ,Genus non fupponere
efle fi fitmanife ftūquoniã eſt non dicit Arift.genus no ſupponere quid
ſitexemplü de queſito,quandonon accipiturquidſignificet est propoſitione
xiiij.primi : Elemen.quod est,indiređã linea una,quod quidē quid ſignificet non
tung OI MI deo per da Jet OB um 10 & IN PRIM VM LI B. preaccipitur,cumfit
notum ex deffinitione quarta primi Elementorum , quodnon queratur , quia eft ,
quando est notum ,id apertißime dicit philofophus textu fecundo ſecundi
Poſteriorum ,inquit enim ,inuenien tes autem , quia deficit pauſamus, & fi
in principio ſcirc mus, quia deficit ,nó queremus utruin , cum autem fcimus
ipſum quia ,ipſum propter quid querimus & c. TEXTVS LII ALIAS XXV.
EQYEGeometra falſa ſupponit,ſicut qui dam affirmant dicentes , quòd non oportet
falſo uti , Geometram autem mentiri, dis centem lineam eſſe unius pedis,quę
unius pedis non eft , autrectam lincam , non ree &tam cxiſtentem , ut in
prima propoſitione prin mi elementorumfuper datam rectam lineam triangulum
collocare , etiam in decima primi Elementorum datam lineam rectam , eum
biffaria diuidere iubet Geometra, os ſiilla linea , que atramento pingitur ,
uel penna aut ſtilo protrahitur reta non fit, non ob id tamen dicendum eft,
Geometram errare , quia non ad id intentionem dirigit Geometra quod oculis
fubijcitur , fed ad id potius , quod intus animo concipit , dirigit intentionem
, ideo non contingit Geometram circa aſſumptam materiam errare et mentiri,
Geometra enim nihil concludit fecundum hanc lie neam pitam , quam ftilo
pinxerat , fed fecundum intus conceptam lie neam , demonſtrationem percurrit
,idem habet Ariſtoteles primo priorã ante mutuamfyllogifmorum reſolutionem non
errat etiam Geometra cir ca formam fyllogiſticam , ut textu 59 62, ait
Ariſtoteles, igitur cer tißimefunt diſciplinegeometria, et non quiafenfatæ
fint, ut falfo quis dam dicunt, Quia intus concipiuntur. TEXTVS LIX ALIAS
XXVIII. VONIAM autem ſunt Geoinetricæ inters rogationes non ne funt & non
geometri. cæ ? & in unaquaque fcientia,fecundü qua lem ingnorantiam funt
Geoinetricæ ? & utrum quiſecundum ingnorantiam fyllo giſmus eft, fit qui ex
oppoſitis fyllogifo mus, POSTERIORVM ARIST. 3 dis 2018 pria vik est 200 gt mus;
an paralogiſinus? In unaquaque fcientia contingunt fieri in terrogationes,
ficut in Geometria , In geometria autembiffariam contin git interrogatiofieri,
uno quidem modo,ut nihil fapiat de illo, quod inter rogat, ut fiquis querat an
icoceruus habeat tres æquales duobus rectis, ignorans omnifariam &quidfit
Icoceruus , & quid ſithabere tres duo bus reétis æquales , hic interrogans
habet ignorantiam fecundum nega. tionem , quia omnis habitus negatur in eo de
illa re, quam querit. Altero autem modo, ut interrogās ſciat quippe partim de
illo , quod querit, par tim uero non, ut adinuicem parallelas concurrere,fciat
nanque que nani lineæ rectæ fint, oſcit quòd in utranque partem protrahuntur , ſcit
etiam , quisnam ſit duarum linearum concurſus , &quatenus iſta nouit et
interrogat,Geometrica queſtio atq; Geometrica interrogatio eft, quate inus
autem opinatur an parallelæ in infinitum protrate concurrant,hac ex parte,non
eft Geometrica quæſtio , et habet hic ignorantium habitus, idest fecundum
habitum, quo fcit lineas rectas , ceas in infinitum pro trahi polle, et
concurſum linearum effe in eadem ſuperficie, cum illo qui dem habitu , ſtat hec
ignorantia , ut ne ſciat quòd etiam ſi in infinitura protrahantur, non
căcurrunt. Errore hoc peßimo in interrogatione er rauit Pſcelus Grecus,
quifuitilla tempeſtate quorundain Grecorum ho minum , qui præter uoces re ipfa
nihil penitusaut parum doctrinæ has bebant, in quam calımitatem credo
plurimosnoſtri temporis Græculos incidiſſe, Tentauit ipfe diuidere tonum, qui
fexquioctaua proportione co ſtat accipiebatô; neruos duos, qui tacti,
interuallum foni haberent, quos rum utrumlibet biffariam diuidebat, fubinde
arguens agebat, totus ners uus maior ad totum neruun minorein habebat toni
ratione, igitur medie tas nerui ad nerui alterius medietate ,ut medietas toni
ad toni medietaté, poyo fic putabat dimidium Toni , hoc eſt ſemitonium uerum
adinueniſſe, ignorans pauper , quod proportio totius nerui ad totum neruum eadem
eft , que dimidij nerui ad dimidium alterius nerui per decimamoctauam
@decimamnonam ſeptimi Elemětorum , erat igitur non Armonica quæa ftio, qua
quærebat, an tonus dividi biffariam poſſet ? Verus autem Geo . metra ille eft ,
qui non habet ignorantiam neque ſecundum negationem , neque fecundum
priuationem , «ille non facitinterrogationes non geo metricas, neque
interrogationes partimgeometricas opartim non geo métricas, ſed
interrogationesfacit omnifarians geometricas, ut, an trian gulus cõſtitutus in
tabula, habeat tres æquales duobus reitis pares, Geo metra non errat , circa
uffumptam materiā,ut tex. 52. determinauit phi lik line et K 74 IN PRIM VM LIB
.. lofophus,non errat circa interrogationes, ut hoc textu patuit, neque era rat
in forma, in ſua induftione, ut demonſtrat Ariſtoteles in textu. 62. nullus
igitur error in Geometria contineri poteſt ex mente Ariſtotelis, hanc
eandemfententia habet Galenus in de erroribuscognoſcendis et cor rigendis, quo
loco innumeras Geometrie utilitates narrat. TEXTVS LXII ALIAS XXIX. ONTINGIT
autem quofdam non fyllogi. ſtice dicere propter id quod accipiunt ad utraque
conſequentia , ut & Ceneus facit, quod ignis in multiplicata analogia fit .
Scito Ariſtotelem Cenei mentē recte intellexiſſe, que quia in formafyllogiſtica
errabat parallogizădome rito eum redarguit, ut Joannes exponit ,ſed aduertendum
eſt in materia parallogiſmi , quo modo id cita creſcat in multiplicata analogia
, quia ut Alexander errauit in hac expoſitione quëadmodum Philoponus ei ima
ponit non minustamen & ipfe etium loannes grammaticus grauiter era rauit
aliter exponens quàm Alexander,oſi fuam expofitionem confir met Procli diadochi
auctoritate, qui Proclus , ſi ita fenferit , ut ioana nes refert, perperam hunc
locum interpretatus eſt,«mentem Cenei nõ intellexit,inquit Ariſtoteles de mente
Cenei, quod in multiplicata analo gia creſcit, id cito creſcit , non autem ait,
quod in multiplicationetermi porum analogia creſcit , id cito creſcit ſicut
ipſe loannes & Proclus terminos analogie multiplicentfic , 1,2,4, 8 , 16,
32, 64, 128, 256 , $ 12 , 1024, 2048. Egouero aliter de mente Ariſtotelis ♡Cenei dico ex doctrina Eucli dis
deffinitione undecima quinti Elementorum , &ex deffinitione primi Geometrie
uitellionis ubi quantitates denominantes ipſas proe portiones multiplicantur
non termini, ut loannes ♡Proclus
facies bant,arguebat ſic Ceneus ,quæcung cito creſcit augentur in multiplicata
Analogia , ſed ignis augetur in multiplicata Analogia , igitur ignis cito
creſcit ,ubi maior &minor in ſecundafigura ſunt affirmatiua. Talis au tem
error parallogizando à Geometra non committitur , igitur certiſie ma, ca in
primo certitudinis gradu Geometria reponitur, POSTERIOR VM ARIST . 75 248 2 3
3.2 ov 4 64 16 1 2 8 16 2 S6 256 S 12, 1 256 65536 4 0 24 2 048 ei ad CI , C.
qué mee erit 4096 8 1 9 z 1.63 8.4 32768 6 ss36 Julia ima 1 eta infor TEXTVS
LXIII ALIAS XXIX. ină Tomi club = 56 wich ro cies ONVERTVNTVR autem magis , quæ
funt in mathematicis, quoniam nullum reci s piunt accidens . Secunda pars
trigeſimaſecunde primi Elementorum eſt , quodomnis triangulus duos bus rectis
paret habeat , id autem probat prima pars trigefimaſecunde ,& ſecunda, o
prima pars uigefi menone, &tertia decima primiElementorum , quæ omnes
propoſitio nes concurrunt ad probandam illam conclufionem , quæ conclufio ſi in
fua principia illatiua reſoluatur,non niſiin illareſolui poteſt, que ſupra
commemoraui, ubi cernis &compoſitiuam methodum , ab illis principijs ad
illam illatam conclufionem , reſolutiuam methodum ab illa conclus fione ad illa
principia regrediendo , quihabitus reſolutiuus altißimus eft, e profecto ſignum
eft re &te fapientis. Cumautem conclufiones in mathematicis fequantur ex
determinatis principijs , tunc ibi facie lior eft reſolutio à concluſione in
principia quàm in Topicis , ubi ex uagis, ofolum apparentibus, quandoque
etiamfufpeftis odiuerſis, cito # Bie Kij 7.6 IN PRIMVM LIB . @non ex unis
principijs concluditur quippiam de hac re , abundantius infragmentis nostris
mathematicis fuper Ariſtotelis loca dicturus fum . TEXTVS LXIIII ALIAS XXIX .
& fit par eſt ers VGENT VR autein , non per media , ſed in aſſamendo, ut a
de b , hoc autem de c , rurfus hoc de d, & hoc in infinitum . Et in Iatus,
ut a de b, & de e, ut eſt numerus quantus , uel infinitus ,hoc autem fit in
quo eſt a, nunerus impar quantus in quo b, numerus imparin quo c,eft ergoade c,
& fit quantus numerus, in quo d par numerus in quo e, go a de e. Exépla duo
attulit primo in poſt ſumendo,ſecüdo in litus ſu mendo, primo exemplī prebet in
numerisin poſtfumendo,ut a numerus , de b numero impari, et b ,de numero c
primodicitur igitur a numerus de c numero primodicitur, In latus ſumendo numero
pariter exemplificat, pro cuius notia, imaginare arborem porphirianam ,cui
fimilē in numeris finge, &numerum quantū ,qui etiam potentia infinitus eſt,
loco ſubſtans tiæ apta ; infinitus ait propterhoc, quia omnes imparis atque
paris nu = meriſpecies,quæ in infiritum crefcunt,potentia continet
,ſicutſubſtan = tia fuas inferiores potentia fpeties continet, his autem
numerus non po teft effe aliquis determinatus quantus , quia quicunque daretur
, aut par effet , aut impar, qui non poteft effe communis pari &impari, fed
talis debet eſſe numerus uniuerſaliter ſumptus, noluit autem uti iſto uer bo,
uniuerfaliter, quia non eſt terminus Arithmeticus,ſedſpectat magis ad
dialecticuin , ideo loco debito ufus eſt proprio uerbo hoc, uidelicet, ins
finitus,quæ uox numero conuenit, ſicut incremento creſcat in infinitum inſuis
fpetiebus, & numerus fic acceptus diuiditur in imparem , atque pa rem ,
&imparis numeri diuiſio est , in primum numerum ,ocompofi tum , prinus
autem numerus dicitur in fui natura, &ſine comparation, ne ad alium
quemcunque numerum ,o ille eſt quiſola unitate metitur,ut. 3 , 5, 85" 7,
13. Compoſitus numerus eft, qui alio numeroaf e ,oo ab unitate diuerſo ,
dimetitur, ut 9, aut 25 , à ternario , & à quinario dimetiuntur, is
compoſitus diuiditur in parem , atque imparem , et par quidem numerus ille eſt
,qui biffariam ſecari poteft, ohic partitur in pariter parem , qui in duo
æqualia fecantur , partes eius, quoufquc POSTERIORVM ARIST. 77 1 ad unitatem
uentum ſit , ut trigeſima. In pariter imparem qui quidem in duo equalia
partitur, partes in duo æqualia non fufcipiunt ſectios niem ,ut quatuordecim .
In impariter partem , qui quidem in duo æqualia diuiditur partes ſimiliter in
duo æqualia , fed hæc partitio , uſque ad unitatem non peruenit , ut
trigintaſex , de quibus Euclides libris ſeptia mo o octauo, nono Elementoruin ,
Nicomacus atque Boetius primo Oſecüdo Arithmetice, Quo autem ad Ariſtotelis
textī attinet, manife ftum erit exemplumſuum , numerus infinitus fiue
quantusſit a numerus autē quantus &determinatus ſub ipſo ſit b , numerus
alius nempe infes rior ad b ſit cog,par autem numerus quantus ſit d, qui
trifaria ſeca tur in e k l, ut dictum fuit fupra , eft ergo a ded , &etiam
de e k lo In latus autem dixit ,quiane dum per rectam lineam arboris, fed ex
utra que partefumptio facta fuit. ES 11 in Exemplum in poſt.fummendo. 5,
Exemplum in latus fummendo. 11: 111erus 111 : 11CTUS -is 14 impar primus 13 50
ut impar 6 d par ed S A i primus compofitis . 16 14 pariterper impariterpar
pariter impar. 12 is 14 inte Aduertendumquod exemplum in numeris eſt
contractius , quàm prius propofuerit per litteras ,ideo ne labores in numeris
tot numerosfübfea inuicem poſitos, quot litteras, ibicommemorat, exempla duoin
numeris appofui ut alia ipſe in textufecit, ne alia aliterdefiderentur. mo . 6
8 IN PRIMVM LIB. > TE X. LXIIII. A LIAS X X X. Iffert autem quia &
propter quid fcire primo quidem in eadem ſcientia & in hac dupliciter uno
quidein modo, ſi non per immediata fiat fyllogiſmus , non enim accipitur prima
cau fa , quæ uero fcicntia proprer quid , per pri mam caufam eft . Hoc quidem
primo modo non prebet exemplum aliquod philofophus , quicquid Aueroes ,
Philopou nus , fequaces fentiant , fed exemplum profecundo modo appofuit unicum
folummodo pro quia , de ſintillatione planetarum , de rotons ditate autem Lune
dedit etiam exemplum ,pro fecundomodo quia ,quo ta men exemplo declarat etiam
quo pacto fieret propter quid demonſtratio O ob id imminutus aut ſuperfluus non
fuit , quia primo modo textus est clarus ſatis, c profecundo modo quia ,duo
exempla prebetin diuers ſis ſcientijs , utrunque exemplum est in ſcientijs
medijs , alterum est in optica , reliquum est in Aſtronomia , &quia textus
est ſatisclarus in duobus exemplis quantum ad inductionis modum . Primo declaro
prie, mum modum , quo, quia à propter quid differt de quo primo modo,quo, quia
a propter quid differt nullum dat exemplum ,ubi ait uno quidem modo,fi non per
immediata fiat fyllogif. ita habet textus Philo ponio Aucrois Argiropilus autě
habet , uno quidē modo fi ratio tinatio non per ea, quę uacant medio
fiat,utloco uerbiſyllogiſ. legatur ratiotinatio, omelius meo iudicio, cum illud
uniuerſalius fit uer bū , fenfus tamen ille est, utfi fiat deduétio, non per
immediata,erit demon ſtratio quia ; ut fide homine concludatur reſpiratio, eo
quod ſitanimal, ſi uero de homine concludatur quòd reſpirat , eo quòd pulmonem
habet , eritdemonſtratio propter quid, oin utroque modo,concluditur res
spiratio follogifmo ut omne animal reſpirat ,cæt.velomne habens pul:
monemreſpirat & c. Si uero lectiofiat ſecundum Argiropilum ,Olegatur
ratiotinatio , Tunc exemplum dari poteft pro primo modo, quando non per
immediata fiat inductio, ut prima pars xxxij . primi Elementorum probatur per
uigefimamnonam primi elementorum , & non per immes diata principia , fic ut
fenfus fit , quod illa que probantur per alias pro poſitiones probatas prius,
talia quidem probatione quia probataſint illa uero queprobanturper immediata
principia propter quid demonftrens POSTERIORVM ARIST. 79 zmo citer fiat maus
prio DOM -cpon cofuit bton uo ta cratio extus iuers mes : FUS IN • prie quo,
dem philo atio ogil uer tur , ut eſt queſitum primi, ſecundi, atque tertij problematum
primi Elea mentorum ,que quæfita per immediata principia demonſtrantur , facta
prius deſcriptione , ut conuenit , neque dicendum est , ut quidam exiſtie
mant,quod eafit propter quid ,quando perimmediataspropoſitionesfiat deductio
imediationem illam tribuentes adſitum propoſitionū ut fecundit pars xxvIII. per
primam partem illius, oprima pars uigeſimeoctaua per uigefimumfeptimam primi
Elementorum,fed hoc loco , non imme diata accipit Ariſtoteles, omnes
propoſitiones probatas,uel etiam , quæ per prima probare poſſunt , cum
demonftratio fiant ex primis , & im mediatis, oppungat,ut immediatafint , o
non fint primaabſolute . Et in Geometria etiam alio modo quia eſt , differt à
propter quit , ut quando ab effeétu ad caufam progreffus fit , neinpe quando
per æqualitatem an = gulorum concluditur equalitas laterum ,ut fexta primi
Elementorum Eu. clidis proponit.Propter quid autem eſt,quádo à caufa ad
effectum proces ditur , utputa quando ab equalitate laterum trianguli infertur æqualitas angulorum
illa latera reſpicientium , ut prima pars quintæ elementorum Euclidis proponit
. Atio autemmodo per immediata quidem non auteng percauſam , ſed per notius
eorum que conuertuntur , ut lucidum non ſcintillare,o prope eſſe , fimiliter,
creſcere per rotunda incrementa luz. cida , ceſſe rotundum æqualiter defe
inuicem prædicant,notius tamen eft , non ſcintillare , quàm prope effe ,
¬ius eſt creſcere per increa menta lucida rotunda, quàm eſſe rotundum ,
& primum eft per fenfum ♡per
induétionem in fingulisplanetis notummagis , non tamen caufa eft quare planetæ
prope ſint, fed econtrario.Secundum etiam , ut quod incremento creſcere,non eſt
caufa rotunditatis , licetfit notumfolummo do per ſenſum , non autem per
inductionem à pluribus determinatis ſie mul exiftentibus, quia hoc tantum de
unico incremento creſcente certi fumus , *cum per ipfa, fiunt inductiones ,
quòd planeta propefint, aut quod Luna rotundit ſit, talis utriuſque inductio
eſt quid, quod fi ccontra riofieret, tunc propter quid, anon quia, erit
demonſtratio , ifti igitur duo modi à fe diuerſi ſunt, eo quod primus, per
priora quidem , non tas men immediata procedit. Alius autem per immediata non
tamen per priora , fed ea quæeſt propter quid colligit utraque, & quod ex
prio ribus fit, atque ex immediatis . Amplius quare planetæ , haud fcina
tillare uideantur fuſius ſuper problemateultimo quintadecimæfectio nis
problematum Ariſtotelis fiet per me declaratio , quæ etiam faciet fatis huic
textui , eft tamen hoc loco aduertendum Ioannem dicere fira MON mal , het, pw atur
non ros illa IN PRIM VM L I B. tillationem prouenire , quod protendentes uifus
ufque ad aſtra fixa de biliores fiunt, quaſi quòd uiſio fieret per
extramißionem radiorum , ut Thimeo &Empedocli placituin erat , quos
Ariſtoteles reprehendit capi te ſexto De Senſu &ſenſili. In hac igitur
parte reiciendus est Philopo nus , niſi exemplo loquatur famoſo . Alterum De
rotunditate Lune fus per problemate oftauo eiufdem feftionis aperietur , ubi
querit Ariftote les unde eſt , quòd Luna uideatur plana, cum fit rotunda.
TEXTVS LXV. ALIAS X XX . MPLIVS in quibus inedium extraponitur etenim in his nó
propter quidſed ipfius, quia demonſtratio eft , non enim dicitur caufa , ut
propter quid non reſpirat paries, quia eſt ani mał . Tertium modum quo quia in
eadem ſcientia à propter quid differt , nunc affert Ariſtoteles inquiens
amplius eft, que quando neque cauſa probat 1,ut primus modus effe&tum
infert , neque est,quando ex effectu caufa infertur , fed quando ex nega: tione
pene cauſe infertur ipſius effe &tus negatio , feu etiam econuerfo , ut
quia non funt parallele, ideo alterni anguli non funt æquales, opdo ri modo ,
quia extrinfecus angulus non eft æqualis intrinſeco'ex eadem parte , igitur
parallele non funt ; oeſt hic modus tertius , quo quia à propterquid differt in
eadem ſcientia , dixi quando ex negationepene caufe, oc. Quia parallelas
effe,non eft caufa ut alterni anguli ſintæqua les ,nifi fuper ill. linea recta
ceciderit, que propinqua caufa eft, quod al terni anguli fintæquales,ficut
animal quidem longinqua caufa eft refpira di, propinqua eſt pulmo, totalis
autem eſt animalhabemus pi Imonem me dium enim ad probandă affeétionem in
perſpectiut accipitur extra perſpe fiuã, utputa in Geometria & Mechanica ad
Stereometriam.ld no tißimum erit pariter v iocundum , fi id quod ait
Ariſtoteles in ques ſtionibus mechanicis questione x l'intelligatur ,onera qua
mouentur ſua per ſcytalas facilius mouentur, quam fi ſuper plauftra
mouerentur,ultrd rationes illas Phiſicas quas ibi Ariſtoteles adducit , etiam
ratio propter quidſummitur ex primoſtereometrie Euclidis deffinitione decimao
taud uel undecima ex Theonis littera, Q * tertio Elementorum deffinitione fez
cunda, minus enim offenfant ſeytale, quam plauſtrorum rote , quia ana gulus
fcytalarum longe maior eft, quàmfit angulus rotarum plauftrorit ut angulus
POSTERIORVM ARIST. 81 1 unt 41 utangulus rota a fe, uel etiam a fd longe minor
eft quàm angulus fcytale af c, & ideo minus ad planum af b offenſat ſcytala
quam rota ,quidfcytals,que in uſu noſtro tempore eſt, in questionibus mechaa
nicis declarabo, pro nuncfcito illas eſſe ftangulas ,quibus utuntur lapi cide
in trahendis magnis lapidibus, f & Harmonica ad Aritmetica a -6 Tonum in
duo equalia diuidiſemito nia minime poteſt,quod muſicus dea terminat , ut
Boetius re&te fentit lis bro tertio capite primo muſices, le quicquid
Pfelus Greculus ſentiat , fedfecaturin apothomen eſemi tonium minus, huius
autem propter quid ratio , ab Arithmetico reddia tur, quiafuperparticularis
propor tio non poteſt diuidi in duo equalia , ut Boetius in Arithmeticis docet.
Tonus autem cum in ſeſquioctaua ſonorum proportione conſiſtat in duo equalia
ſemitonia diuidi haud quaquam poteft. & Apparentia ad Aſtronomiam .
Apparentia , ipfa eft phenomena de qua Euclides, e Aratus poeta agunt, atque
VergiliusAgricolas docens tempus quo mila lium feminaredebent , ait in
Georgicis loquens de occafu hellaco , Candi dus auratis aperit cum cornubus
annum Taurus, oaduerfo cedens cda nis occidit aſtro,rationemſiqnis agricola
deſideret , cur eo tempore cda nis, qui et Alabor dicitur, occidat beliace ,id
totum ab aſtronomo petat, qui rationem propter quid redet; Sol enim in orbe
eccentrico à propria intelligentisex occidente in orientem motus , quicquid
fomnietAlpetra gius Fracaſtorius, & fequaces,accedit annud orbita ad illud
fydus, quod eft in geminis &fuo maximofplendore , non finit illud uideri,
id autë fit cum Sol diſcurrës perſignum Tauri , attingit extremam partem Tauri,
tunc enim canis perdit lumen ſuum , non uidetur amplius, propter So lis ad
ipſumſydus uiciniam , quouſque iterum per motum eccentrici ab co fydere
ellongetur Sol, quod iterum oriri heliace incipit ; hi ſunt igitur modi quatuor
, quibuspropter quid , à quia differt , tres quidem funt in eadem ſcientia
fubalternante,oquartus, quando id quoddemon ſtrandum eft inſcientia media ,per
ea quæ in ſubalternante ſcientia nota funt, probatur , in quo quarto modo ,
funt plures demonſtratiomisgraa dus fpeculandi, quos quia Ariſtoteles non
tangit,præterco. L Me hen 1 1 IN PRIMVM LIB . -7. Sunt autem hæc quæcunque alterum
quiddam exiſten tia ſecundum fubftantiam, utuntur fpeciebils, Mathenati cæ enim
ſecundum fpeciein funt, non enim de ſubiecto alia quo,fi cnim & de fubiecto
aliquo Geometrica funt, ſed no quatenus Geometrica,de fubiecto funt. In
præcedenti particu la huius textus dixit de ſcientia quia, quód fenfibilium
eft, inquiens,Hic enim, ipſum quia ſenſibilă eft fcire, de fcicntia uero
propter quid ,quòd uniuerfalium ejt , per caufas habetur,ait ,propter quid
autem mathemde ticorum , hi enim habent caufaruin demor.ſtrationes, ofrequenter
neſci unt ipſum quia, ficut illi uniuerſale conſiderantes , fepe quædam ſingula
rium neſciunt propter id, quod non intendunt; Ecce quantimathematis cos ficiat
philofophus, dicens eos noningnaros illorum, que uulgus tra Etat, fed Socratico
more, ea non intendere quæfumuno ſtudio, amplectun tur uulzures, Differentia
igitur ipſius ,quiu à propter quid,adhuc magis explicans,ait, funt autě ip / e
quidemfcientiæ, quia quecunq;,utuntur ſpe ciebus (fenfibilibusuidelicet, alterã
quiddam fecundum fubjtantiam pecu lantes, alterum quiddam non folum fecundum
ſubſtantium ,fed etiamaltes xum quiddamn in exiſtentia,hoc eft in ſubiecto
materiali exiſtens, Mathem matice enim , nempe quæ propter quid fient, circa
fpccies ſunt , dubita . tur hocloco, cum ſcientia quia utatur fpeciebus, o
ſciétia propter quid circa ſpeciesſit , quo nam puto , in quia , & quo modo
in propter quid fpecies intelligatur. Dico , quod quia ſenſibilium eſt , ut ait
Ariſtoteles, utitur, quia ſpeciebusſenſibilibus,quarum beneficio fenfus ſenſata
perci piunt , fed propterquid,utiturfpeciebus abftractis àſubiecto materiali,
ut ſuperficie , linea, puncto, &ſimilibus, quatenus affectiones aliquas de
ipſis inipſis cognoſcit demonſtrator,non tamē circa hæc uerſatur Geo metra
quatenus in ſubiecto funt ,ſed preciſius abſtractione , ea conſides rat , fi
talia nufquam , ſine fubiecto ſint. Habet autem fead perſpectiuam , ficut hæc
ad Geome triam , & alia ad iftam , ut id quod de, iride eft. Traslatio Ar
giropoli in hac , precedenti particula facilior ,atque candidior eft, quàmfit
textus Philoponi, ne uidear tamen in precedenti particula , e hac preſenti,
litteram ſequi, quam pedagogio neoterici non doctores, ut fe præferunt , fæpe
encruat ; loannis textum in utraque particula ex pono, quo etiam plura uirtute
continentur quam, contineat textus, Are giropoli tum etiam, quia accedit ad hæc
Procli interpretatio , ut teftatur loannes, ſcientiasigitur quas in præfenti
Ariſtoteles cõmemorat,fub ale POSTERIORVM ARIST. 83 terno quodã ordine pofitæ
funt;primo Geometria,cui imediate perſpecti ua,perfpe & iue autē ſpecularia
&huic ſpecularie, ea ſcientia, quæ eft de Iride in qua,
quæponuntur,perfpecularia probantur&, quæ in peculi ria , per ea quæ in
perſpectiua funt notamanifeſtantur , qu : autê in pera fpectiua , per ea quæin
Geometrianoșa, fuerunt , ut quòd iris ſit tricos lor,oquòdnunquamplures duabus
Iridibus appareant ; et quòd denigs Rõ fit nidor femicirculo , per fcientias
ſuperiores, hee omnia probatur. Multæ autein & non fubalternarum , ſcienriarun
fe has bent fic , ut medicina ad Geometriam , q eniin uulnera , cir cularia
tardius fanentur medici eft fcire quia, propter quid autein Geometræ . Parum
ſupra in anteprecedenti particula dixit philofophus ,qu& namfcientiæ
effentfere uniuoce inquiens, fere autem uniuocefunt hurumſcientiarī alique,ut
aſtrologia ' et mathematicaet na ualis , o harinonica quae mathematica , oque
fecundum auditum , in hac autem particuladeterminat de his fcientijs que nullo
modouniuoce funt. ut Geometria os medicina que etiam fubalternate non funt, he
enim due non ſubalternantur inter ſe, quia ſubiectum Geometrie eſt , id quod
circa planum uerfatur , medicine uero ſubiectum eſt corpus jarabi le ,id , eft,
quod proponit; ut quod in alterafcientia proponitur,probatur per ea,quæ in alia
fciētia nota funt; non tamen hæ fevětiæ funt uniuoce , neque fubalternatæ ,ut
in chierurgia ,que pars eft medicina proponitür uulnusrotundum , difficultate
fanari, ut canumexcoriatoresteftantur. Geometria autem nobilis fcientia reddi
propter quid , primo Elemento * rum deffinitione decimaquinta, quia exomni
parte æqualiter diftat cas * o , ficut ibi acentro ipfa circunferentia. ly tie
20 SMS TEXT VS L XVII ALIAS X X X. 170 ot cs, tro autem modo , differt ipſum
propter quid ab ipfo quia , quodelt , peralia fciené Stianu nrruinqué,
ſpeciilari , Huiuſmodi au Matem funt , quæcunque fic fehabent, utals terum fub
altero fit, ut perſpectina ad Geo metriani. vbi ait, per aliam ſcientiam fic
intellis gatur per altam magis uniuerfalem et fubalternantem in aliam minus
univerfalem . Vtrunquefpeculari, utrunque dixit refferens &propter. quid,
quia, alia enim fcientia fpeculatur propter quid, c alia fpecus Ljj 84 IN
PRIMVM LIB. 1.3 latur ipſum quia, ut Geometria proprer quid , perfpeétiuauero,
quia, inquitenim Ariſtoteles. Hæ enimipſum quia, fenfibiliumest fcire, prom
pter quid autem mathematicorum . Verbi gratia,oculus exiſtens in a uidens cd,
uidet ipfam quantitatens minorem , quamſi idein oculus fiat in b , quia inquit
perfpe&tiuus,uide tur ca ſubmaiori angulo ab oculo exiſtente in b , quam ab
eodem oculo in a exiſtente,& quód angulus dbc ſit maior da c, Geometra id
demon ſtrat primo Element propoſitione xxi. Dubitatur circa hoc , quod di
cebatur de mente Ariſtotelis in dia & o exemplo perſpectiuo , quodne que
percurrendum eſt ſicco pede,ut indoctifaciunt no intelligétes bonas artes ,
quicum ad Mathematica ex empla accedunt,pedem referunt,dia centes non eſſe uim
ponëdum in illis . Ego autem econtrario dico , totum neruiim rei, eſſe in
exempli intelles ione, ubi ait , quod perſpectiuus oftendit maius uideri id ,
quod de prope eft , demonftratione quia , o Geometra , idein propter quid ,
demonſtrat in vigeſimaprima primi Ele mentorum , qua uigefimaprimaprimi
Elemen.non propter quid demon ſtratur , fed demonſtratione quia , ut
demonftratio quia diſtinguitur , a propter quid primo modo, ficut textu 64.
declaratumfuit, quòd illa des monftratio , quæ per mediata a probatas
propoſitiones procedit , eft demonftratio quia , diftinguiturab illa ineadem
ſcientia, quæ proces dit per immediata principia ,quæ demonftratio propter quid
dicitur,mo do ex fexagefimoquarto textu ,determinatur quòd demonftratio uig eſi
miprima primi Elementorum eſt , quia , hoc autem exemplo perſpectis uo dicit ,
quod eft propter quid , contradictio igitur manifeſta uidetur . Dico de mente
Ariſtotelis hoc loco,&eft etiam loannis Grammatici ins tentio fuper textu
fexagefimoquarto ,dicentis . Quodammodo autem in precedéribus dicebamusquod
ipſum quia eſt primomado,permediata mo firare, cum fecundo modo ipſumquia per
immediata,ſimiliter w propter quid , unde aduertendum , quod demonftratio ,
quæfit fuper uigeſimam primam primi Elementorum ,que per uigefimam decimāfextam
primi elementorum procedit, fi ad demonſtrationem prime propoſitionis Elc .
POSTERIORVM ARIST. es mentorum , quæ per immediataprincipia procedit comparetur
demon Atratio quia, merito dicitur, ſi mero comparetur adperſpectiuam demone
ftrationein , tunc propter quid dicetur , quia perſpectiuus pier eam pros bat
intentum , u ſictricic apparentis argumenti explicite funt ,fc cundum
philofophiſcitum . TEX. LXVIII. ALIAS XXXI. IG V R A R v M autem faciens ſcire
maxime pri ma eſt , etenim Mathematicæ fcientiarum per hanc demonſtrationes
ferunt, ut Arith metica , & Geometria , & perſpectiua, & fes re (ut
eſt dicere) quæcunque,quæ ipfius pro pter quid faciunt conſiderationem ,aut
enim omnino ,aut licut frequentius , & in plurimisper hanc fi guram (quieſt
propter quid fyllogifmus) fit, Textus hic uis detur edirecto contra
expoſitionem nouam factam permeſuper iỹ. tex tu de inductione illa Geometrica ,
que tanquam fictitium quoddam , uanißimum , &nullo Greco &
Latinoexpoſitore do&tißimoexcogitatū, inquit enim Ariſtoteles , etenim
Mathematicæ ſcientiarum , per banc primam figuram demonſtrationes ferunt , non
igitur Mathematic & fea runt demonftrationes per illam Geometricam
inductionē , utibifuit des terminatum . Inftantia hæc,eft hominisuaniloqui,qui
ea profert& fcri bit ; quæ nonfunt notæ earum , quæin anima paßionumſunt,
cum non folumanimamtanquàm abraſam tabellam habeant , fed potius tanquam
ficcamcucurbitain , in qua nonniſi uentus reperitur , quia tamen nonfo lummodo
fapientuin habenda eft ratio , stultis etians atque infipientibus pariter
reſpondendum effearbitror , ne in fua ignorantia glorientur ua ne . In hoc
textu Ariſtoteles nil aliud determinat , niſi quod preſtantior est prima, quàm
fecunda & tertis figuræ ,&quód Mathematica hac fepe utuntur , &hoc
quidem quandofyllogiſtica arguunt, ut ait in tex . dicens , oin plurimis per
hancfiguram , que eſt propter quidfyllogif mus fit , modo quid refert , ſi
Geometra, utatur fyllogifmo, non nece ibi in tertio textu fuit declaratum , quo
modofyllogiſmo utitur Geomes tra , &quomodo inductione Geometrica ?fimodo
quis ex hoc textu uca lit inferre , quod illa indu&tio Geometrica non detur
, ipfe faciet mendas cem Ariftotelem , dicentem in tertio textu , quòd nedum
fyllogifmo fed 70 IN PRIMVM LIB. , oinduétione , ſcitur quòd triangulus in
femicir culo conftitutus, habeus tres angulos æquales duobus reitis . TEX .
LXXXVII . ALIAS XXXVI. EMONSTRATTO enim eft ex his , quæcun queipſa quidem
inſunt, fecundum ſeipſa rebus , ſecundum feipſa uero , dupliciter , quæcunque
enim in illis infunt in co quòd quid eft , & in quibus, ipſa in eo quodqınd
eft inſunt ipſis , ut in numero, impar, quod ncit quidem numero , eft autem
ipfe numerus in ratione ipfius , & iteruụn multitudo ,aut diuiſibile in
ratione nua meri , horum autem neutrum contingit infinita eſſe ,nec ut impar
numeri, Secundum fe ipſum bipartitur , ut quando prie mum deffinitio de
deffinito predicatur. uel etiam quädo deffinitum de def finitione , ut numerus
est multitudo ex unitatibus aggreguta , ut Euclia des ait fecundadeffinitione
ſeptimi Elementori,et etiam multitudo ex unii tatibus agregata numerus est :
impar nuſquà inuenitur in deffinitione nu meriupud Arithmeticū , neq; etiä
numerusin deffinitione paris, quid igi tur uelit Arift. hoc exemplo noſatis à
Græcis etLatinis explicatum est, puto tamen egoquod ficut in deffinitionibus,
quædum fecüdum quod ipfa inueniuntur,pariter etiam id in diuiſione fit , ut fi
quippiam , nume rus eſt , id quidem impar uel par statim eſſe dignoſcitur ,oſi
quid ims par uel parfit illud tale numerumeffe patet , ſic ut exempluinprimum
Ariſtotelis , ſit circa diuiſionem , fecundum exemplum de deffinitios ne , quia
tamen addit , aut diuiſibile in rationenumeri, nullibi apud Eus clidem
reperitur quod diuſibile in numeri ratione ponatur , quatenus nu merus eſt ,
fed in deffinitione numeri paris ; recteponitur , ut diuidatur in æqualia, ut
primadeffinitione noni Elementorum manifeſtum eſt, par numerus eft , qui in duo
æqualia poteſt diuidi , & quicquid in duo equa lia diuiditur , id numerus
effe patet , fiueboc de numero , quo numerisa mus , feude numero numerato, hoc
intellexeris, ueritatemhabet. Meto dumdiuifiuam , in his exemplis ſeruauit
Ariſtot. primo enim in diuiſione ſubinde in deffinitione,et tertio loco
infpecie contenta, fub deffinito ufus eft exemplo,Numeriigitur primadiuiſio eſt
in imparem atqueparem ; ut Boetius docet capite tertioprimi Arithmetica ,
definitio estſecunda fe-. POSTERIORVM ARIST. 87 ptimi Elementorum , deffinitio
autem paris ; patet ex prima definitione noni Elementorum . Horum autem omnium
nullum contingit infinita eſſe, numerus enim in imparem atque parem , impar in
primum , compoſia tum , compoſitum in quadratun , o non quadratum , igitur
quadratus compoſitus impar numerus eft , onumerus , eſt impar compoſitus qua
dratus, feu numerus eft impar prinus , er prinus , impar numerus eft , ♡ ſicuti status eſt innumero ,ut tandem ſit
ultima particulaque à par te fubieéti ponatur , ſiiniliter ſtatus erit in alijs
particulis , que ponun tur à parte predicati, quando ipfe numerus àparte
ſubiecti pofitus erit neque igitur inſurlum ,ncque igitur in deorſum infinita
pre dicantia contingit eſſe in demonſtratinis fcientís , de quiz bus intentio
eft, in furfum ait deffinitionem refpicientes , neque in deorfum diuiſionein
feu partitionem animaduertit. d ac 38 در ۴ را mi TEX . LXXXVIII ALIAS XXXVII.
for ONSTRATJslautem his , &e . Non te prea terit, quòd habere tres duobus
reétis equales conie nito Joſcelio Scalenoni , neutri tamen per alte,
rumconuenit ,fed utriqueperhoc , quodfigurarea Eilinea trilatera eft , idfæpe
fuit in precedentie bus declaratum exfecunda parte trigeſimeſecunda primi Elementorum
.. other VA 16 . TEXTVS.XCI. ALIAS XXXVIII. M ST autem inuin cuin iinmediatun
fiat & una propoſitio ſinplex eft immediata & queinadınodum in alís eſt
principium fimplex , hocautem non idem ubiqueeſt, fed in graui quidem untia ,
in melodia ,alle tem diefis , aliud autein in alio , fic eft in fyllogitno unum
, propofitio immediata, Secundum antiquos rumfcitum , ut Campanus refert ſuper
oriaus xiiij . Elementorum unumquodqueintegrum in xij.partes æquales per
rationen og intelle Etum diuiferunt, ♡ ipſum totuin fic diuifum in partes illas , aſſem uoc4 = werunt ,
undecim earum dixerunt deuncem , decem dextantem , nchem IN PRIM V M. LIB :
dodrantem , o &to beſſem , feptem ſeptuncem , fex uero partes femiffen ,
quinque quincuncem , quatuor trientem , tres quadrantem , duas ſexa tantem ,
unam autem appellauerunt unciam , quam unciam in minorafra gmenta nonfecat
philoſophus , quia eft ultimum fragmentum integri à quofuum initium fumit ipfum
integrum, tanquàm ab immediato prins cipio ,ex quo,fumiturfimile, quod in
fyllogifmo etiam est ipſa immediata propoſitio, ultra quam nonfit refolutio in
terminos,ſicut etiam ultra un ciam non fecit conſiderationem in
minoresminutias, licet hoc fieripoßit, ficut propoſitio in terminos etiam
quandoquidem refolui poterit. In melodia autem dieſis, Non eſt pretereundum
filentio id,quod hoc loco Ariſtoteles tangit , id autem eſt, quod qui Logicam
ipſiusprofi tetur quiſquis fit ille ,omnibus diſciplinis Mathematicis debetin
primis fſe inſtitutus,aliter enim euenietei , ut in adagio dicitur, operam
fimul ooleum perdet , quid per dieſim intelligat , notum erit fitonum ſimpli
cem , interuallum integrum , nondum ad armoniam pertingens diuidi in duas equus
partes eſe impoßibile quis prius perceperit , ut etiam in tex. Lix.
prædemonftratum eft , duas tamen in partes inæquales diuidi , quarum altera
maior eft , quæ apothomen , ſeu ſemitonium mas ius, reliqua uero eft minor, quæ
minusfemitonium nuncupatur , oip fum minus femitonium in duas partes æquales
diuiditur , quartum utras que dieſis appellatur à uetuftioribus muſicis , ut
Boetio atque Nicomas co primo libro Muſicæ ,capite xxi. placet ,idprincipium
toni eft , quid minimum . Practici uero Muſici dieſim uocant inciſionem duarum
linearumfuper alias duas ſic *quam incifionem fignant ipfi practici Cantores ,
ſuper eam notam , ſub quain deſenſus toni, faciunt defen fum ſemitonij , ſed id
cantoribus relinquatur , prima dieſis acception Ariſtotelis ſententiam explicat
, quia dieſis in illa acceptione , eft minia mum conſideratum à mufico, fiue id
, quodminimum eſt in concinentia conſideratum , ſicut uncia in ponderibus
oimmediata propofitio in de monſtrutione fyllogiſtica , o boc intelligas de
minutijs integri , non de minutiaruin minutijs, de quibus phylolaus apud
Boetium libro tera tio capite octauo agit ,quiabec ad Ariſtotelisfententiam non
faciunt pretermito. MAGIS tur POSTERIOR VM ARIST. 89 TEXTVS XCII. ALIAS XXXIX.
AGIs autein ſeiinus unumquodque , ciim ipfum cognoſcimus ſecundun ipſum, quam
fecundum aliud,utmuficun Coriſcum ,quá do Coriſcus muſicus eſt , quàm quod homo
muſicus fit, Hoc loco tentat Ariſtoteles elencho ar gumento probarequod
particularis demonſtratio ſit uniuerfali potior . Quis nam fit muſicus aperit
Nicomacus atque Boes tius primo libro muſices capite xxx111. ille quidem eft, quinon
ex eo quod manu cytheram pulfat , fed ille qui rationis imperio cantillenas rum
distonice , cromatice,atque enarmonice ratum , atque firmum ſta tum agnoſcit
diiudicat, atque imperat, qua re intellectu ,quærit Ariſto teles,num illa
demonftratio, qua Coriſcus muſicus, an illa, qua homo mu ſicus co:rcluditur ,
quod eft , an particularis, uel ipſa uniuerfalis fit pos tior, Cui rationi
reſpondendum; ut Ariſtoteles innuit per interemptios nem , negando
quodCoriſcusſit muficus per fe , fiue quòd ifta cognofca tur per fe, Coriſcus
eft muſicus. BI 74 1 142 ca TEXTVS XCIII. ici ha 10% OTior autem eſt, quæ eſt
de eſſe quain de non eſſe, & propter quam non errabi tur quàin proptcr quam
crrabitur eſt au tem uniuerſalis huiuſmodi, procedentes enim demonſtrant uniuerſale,
quemadmo dum de eo quod eſt proportionale ,ut quo = niam quod utique fit
talc,erit proportionale, quod ncque linea; neque numerus, ncque ſolidum , neque
planum eft, fed præter hæc aliquid. illud idem totum quod text. xx v di& um
fuit, hoc loco repetatur, ubi Ariſtoteles text. xx v dixit hæc uer ba, nunc
uniuerſalemonſtratur,hoc textu , magis aperit dicens , proces dentes enim
demonſtrant uniuerfale, quod neque lined, &cæt. fed pre ter hæc aliquid ,
quod quidem eſtipſum quantum , quatenus quátum eft, quod uniuocum eft omnibus quantis , neque
illudeſſe tale immagineris, quod oquanto &quali communefit,ut
immaginabatur,lo4nnes gram M IN PRIMVM LIB. maticus afequaces, quia
illud,analogum eſſet, quod à propoſitoſecludit Ariſtotelesnonagefimo quinto
textu reſpondens ad fecundam difficulta tem . TEXTVS XCIIII. S IGIT VR
triangulus in plus eft, & ratio eadem , & non fecundum æquiuocationem ,
conuenit triangulo & Iſoſceli , & ineſt oinni triangulo duobus rectis
æquales,non utique triangulus ſecundum quod eſt Iſoſceles , led Iſoſceles
ſecundum quod eft triangulus,ha bet huiufmodi angulos. Concludit Ariſtoteles
hoc textu uniuers falem demonſtrationem particulari demonſtratione potiorem
eſſe , o eft quando per rationem uniuocam concluditur affectio de ipſo
uniuerfali, eper eandem uniuocam rationem concluditur eademet affeétio de par .
ticulari aliquo, ut habere tres æqualesduobus reétis, probatur infecun da parte
x x x 11primi Elementorum de triangulo primo , deinde de iſopleuro , ſoſcele,
oScalenone non primo , fed quatenus trianguli ſunt, &hoc idem de illis
concluditur perfyllogifmum , uel etiam per ean dem induétionem trigeſimæ ſecñde
primiElementorum Eft in hoc textu non minima conſideratione dignum , quod etiam
non eft prætereundura immobili calamo, Ratio enimtrianguli uniuoca eſt , quia o
nomine for rede uniuerfali triangulo ode particulari Ifofcele prædicatur ,
utpuu tafigura,quæ tribus reétis lineis clauditur , non tamen per ipfam ratios
nem , cõcluditur de Trigono uel iſoſcele habere tres duobus reftis equa les,
ſed per primam partem trigeſimæ ſecunda , eper uigeſimā nonam Otertiä decimă primiElementorum
, quapropter non uidetur quod exemplumſit ad propoſitum regulæ Ariſtotelis,de
ratione uniuoca ,Di cendum , quod naturaexemplieſt, ut non conueniat. Cum re in
omni mor do,quia tunc non eſſet exemplü rei, ſed eſſet res ipſa.Dico fecundo
quod memoria eſt dignum cum præfertimà nullo fit hucuſque perpéfum ,quod nulla
demonftratio mathematica eſt potißima , & ob idmathematicæ nul leſunt
ſciētie ſiſtetur in doétrina Aristotelisratio,quia in nulla conclu ditur aliqua
affectio deſubie &to per deffinitionem fubie &ti,quod tamen uo lunt
uirigraues de mente Scoti, neque etiam per deffinitionem paßionis ut alij
determinant de mente Thomæ, Modo dicas,quod quando per cane dem deffinitionem
,fiue uniuocam rationem, demonſtratur affectio aliqua POSTERIORVM ARIST. 91
ineſſeſubie o uniuerſali , &eadem ineſſeparticulari per eandem deffini
tionem , quòd de uniuerſali , immediate & per fe,de particulari autem non
immediate, neque per ſe, ſed per uniuerſale concluditur, ideo uniuer. falis
ipſa particulari demonſtratione potior, atque præftantior est , ut fi per
rationale mortale, concludatur de homine riſibilitas , &deinde per id, de
Socrate, quod fit riſibilis , illa in qua de homine , quàm illa in qua de
Socrate demonftratio, eft potior, ſicuti de triangulo uerbigratia ,in fecunda
parte trigeſime ſecunde primi Elementorum , &etiam de 1foſce le, probatur
habere tresæquales duobus reftis, illa tamen inductio ,que probat de triangu o
potioreſt illa industione, quæ de iſoſcele idem cons cludit, quia primo de
triangulo uniuerſali, ſubinde de particulari trian . gulo concluditur , hoc
pacto Ariſtotelis regula o exemplum intel ligendafunt. TEXTVS XCVII. fed 72 th
po 1 MPLIvs uſque ad hoc quæriinus propter quid, & tunc opinamur ſcire, cum
non fit aliquid aliud propter quid fciamus, quàm hoc, aut quòd fiat, aut quòd
fit , & cetera uſque ibi, Cum igitur cognoſcamus quidē, quod quiſunt extra
æquales funt quatuor ſcétis , quoniam æquitibiarum ,adhuc decft propter quid ,
quia triangulus , & hoc, quia eft figura rectilinea, ſi aus. tem hoc , non
amplius propter quid aliud , tum maxi mc ſcimus & uniuerſale, tunc
uniuerſalis itaque eft. Hoc tex tu Ariſtoteles determinatquòd , tunc
arbitramurſcire cum ufque ad ul timas cauſas procedit nofter reſolutiuus
diſcurſus , ait enim cum igitur cognoſcamus quidem quod, hi , quiſunt extra
æquales ſunt quatuor rea &tis , o redit rationem , quoniam equitibiarum ,
ſed quia æquitibic figu ræ funt etiam quadrilatere, pentágone , adiecit
proximiorem cau Jam dicens , quia triangulus, quia tamen trianguli diuerfa funt
latera ,ut curua , conuexa, conuexa o curua, curua Qrecta ,conuexa a recta,ut
omnia hæc excludat ait, qui eſt figura re{ tilinea, que cauſa magis udhuc
proxima eft, quæ quidem ultima& propinqua cauſa, cumfucrit inuens
taoaßignuta, non amplius propter quid aliud querimus, pq tunc mas xime fcimus,
uniuerſale, o cæt. Quantum autem ad id , quod exem = plo , Ariſtoteles ait ,
paucis explicetur in fubie&ta figura a bc, cuius 1 1 Mij IN PRIM VM LIB.
mnes extrinfecos angulos , quatuor reétis æquales effe dico, protrahan tur enim
omnis latera a b, br, ca, uſque add, e, f, eritqüe per tertiã decimam primi
elementorum duo anguliad c , pofiti æquales duobusrex & is , eadem ratione
duoilli ad a , o reliqui duo ad b ſimiliter equales duobus re& tis, itaque
omnes fex intrinfeci uidelicet,o extrinfeci,ſunt æquales ſex reftis , fed per
fecundam partem trigefimæ fecunde prie mi Elementorum , tres intrinfecifunt
æquales duobus re&tis , igitur tres reliqui extrinſeciſunt quatuor reftis
equales,quod demonſtrandū erat. Non enim omnis triangulus uni uerfaliter
fumptus , hahet tres an gulos duobus reétis equales , ſed ali quis habet duos
angulos rectos , tertium acută , et quidam triangulus eft qui habet tres
angulos rectos, ut Ptholameus cap. x. ſecüda dictionis magnæ cõſtructionis
theoremate pri G mo, e ſequentibus manifestum faa cit, neque tamen id
cötrariatùr pro poſitioni xyli primi elementorum, Euclidis ut quod duo anguli
cuiusli bet trianguli fint minores duobus rectis , nec etiam eſt contra
fecundam partem xxxl primi Elemen . Euclidis , quòd uidelicet omnis triangulos,
habet tres duobus reftis æquales , ratio , quòdnulla inter hos fapientißia
mosſit contradictio, eſt, quia de rectilineis Euclides , de fphelaribus ues ro
Ptholameus & curuilineis triangulis agit , quod aduertens Ariftotea les
adiecit , quia est figura rectilinea ; ut fit abſolutus fenfus, quod equis
tibia figura trilatera rectilinea , habet extrinſecos angulos quatuor ree Stis
equales. TEXTV S CI. I MPLIV's autein & fic , uniuerſale enim ina . gis
demonſtrare eft, co quòd eſtper medium demonſtrare, cuin propius fit principio
, pro xime autem immediatum eſt , hoc autem eft principium ;fi igitur quæ ex
principio eſt , ea quæ non eft cx principio, quæ magis ex prin POSTERIORVM
ARIST. cipio , ea quæ minus eft, certior eft demonſtratio . Hoc textu
Ariſtoteles apponit extremammanum determinans,quòd uniuerfalis ſit particulari
demonfiratione dignior , in quo quædamnon conſiderata à grecis,neque à latinis.
, difta tamen ohic ab Ariſtotele tertio tex tu , ibi, quorundam enim hoc modo
diſciplina eſt, onon permedium ube timum cognoſcitur , ut quæcunque iam
fingularia eſſe contingit , nec de fubiecto quopiam , ubi aduertit quod
quidammodus est, quo fciuntur af fertiones deſingularibus, onon per medium
,modus etiam est quo affea &tiones fciuntur de particularibus per medium ,
fed non primo de eis , ut declaraui in textů tertio 'nonageſimoquarto huius ,
affectiones uero que de uniuerſali cognofcuntur, he quidem per medium
cognoſcuntur, hac de caufa uniuerfalis demonſtratio , eſt ipſa particulari
potior , quia particularis non per medium , uniuerfalis uero per medium
demonftrat, ut ait, uniuerſale enim magis demonſtrare est ,eo quod eft per
medium de monstrare,id autem Geometrico exemplo-manifeſtat dicens,quod ſi quis
cognouit , quia omnis triangulus habettresduobus rectis æqualesfciuit ,
quodammodo, & quod ifcoſceles duobus reftis tres pares habet,utputa
potentiafcit, quia uniuerfale fciens aetu , potentia etiam fcit. ea, quæfub.
ipfo continentur, &ſi non cognouerit 1fofcelem quòd actu ,oper aper
tionemmanus (ut Philoponus tertio textu ofequaces interpretabane tur)
triangulus ſit, hanc habens propoſitionem ,hæcparticula legenda eft , cum
particula aduerfatiua fic ,hanc autem habens propoſitionem , nempefciens tantum
potentia quod Ifoſceles habet tres duobus rectis pa rés, uniuerſale nullo modo
cognouit, ut quòd triãgulushabeat tres equa les duobus rectis , neque potentia
, neque actu , non quidem potentia, quia Iſoſceles non eſt uniuerfale ad
triangulum ,uniuerſale enim potentia ſua inferiora continet. Accedit ad hoc
etiã, quia ſi non fcitur uniuerſale atu , non ſcitur potentia fuum particulare,
fi igitur particulare non ſcie tur actu, ſed potentia tantī ,quifieripoteft ,ut
propter id ,ſuū uniuerſale potentia fciatur ? non etiam actu fcitur
uniuerfalepropterea,quòd fuum particularefcitur potentia, quia ex ſcibile
potētia , non inferturſcitum actu. Exhoc textuę precedentibus quibus determinat
Ariſtot.uniuerſa lem demonftrationem esſe potiorem demonftratione particulari
habetur de particularibus difciplinam eſſe , particularem eſſe demonſtratioa
nem quæcunquefit illa ,aliter enim nulla effet comparatio Ariſtotelis in ter
uniuerfalem o particularem demonſtrationem . Preterea etiam nos tatu dignum
habetur , contra omnes interpretes , id autem eft, quod ali 94 IN PRIMVM LIB .
quatenus ij. textu ta&tum fuit, ubi determinat quod de nouo quippians
ſcimus, introducit eos , qui tenentes quòd de nouo fciebamus interrogae bant
Platonicos tentantes oſtendere ipſis Platonicis , quod de nouo ſci mus inquiunt
enim , noftis ne quod omnis dualitas par ſit ,nec ne ? Vel etiam , quòd omnis
triangulus tres duobus re & tis æquales habeat, annuen tibus autem
Platonicis attulerunt dualitatem , uel triangulum manu aba fconfum dicentes ,
ecce quomodo uos de nouoſcitis , hanc dualitatem eſſe parem , quia
priusneſciebatis hanc eſſe dualitatem Neotericies antiqui expoſitores inuoluunt
locum , ſic ut nedum ipſi intelligant , fed eshi qui cos audiunt ita
faſcinentur , ut nedum Ariſtotelem fed & feipfos pers dant. Dicunt enim
ſine propoſito , quod prius non poterantfcirede dua litate in manu abfconſa,
ueltriangulo conſtituto in tabula quod eſſet par, uel duobus rectis æquales
haberet , quia neſciebant illam eſſe dualitatem , vel illum effe triangulum ,
putant iſti exponere Ariftotelis"doctrinam fic dicentes , anon aduertunt ,
quòd id dicunt quod Ariſtoteles reprehens, dit , quod illi qui dicebant de nouo
fcire , male tamen perſuadentes per oſtenſionem ad fenfum , egr reſpondentes
perperam , dicebant fe nonſcia re eſſe purem , niſi quam dualitatem eſſe
ſciebant,apertißimehic Aristo. teles dicit , quòd qui ſcit omnem dualitatem
eſſe parem , uel quòd omnis triangulus tres duobus re &tis pares habet ,
fcit quòd dualitas ſitpar , quod Ifofceles , tres duobus reftis æquales habet
potentia , licet neſciat a &tu perſenfum , quòd iſoſceles triangulus ſit,
quem locum à me notae tum inter cetera pulcriora exiftimo animaduerſione dignum
propter fal fos Ariſtotelis interpretes ad hanc ufque noftram etatem . • TEXTVS
CVII. ALIAS XLII . T ca certior quæ non eſt de ſubiecto , ca quæ eſt de
ſubiecto , ut Arithmetica armo nica . Numerus , ſubiectum eſt in ipfa
Arithmetica qui quidem abſtractißimus est , nullum materiale ſubie &tum
concernens , Armonica , uero de nume ro ſonoro , uel magis , de ſono numerato ,
quod magis concernitmateriain , ut fonum ipſum ., qui fonus numeratus, ſub
iectum in armonia eft , ut Boetio placet libro primo muſices , modo Arithmetica
cum circa ſubiectum minus immerfum matericfit , certior POSTERIORVM AR IS T. 95
estquamſit ipſa Armonia , quæfubie£tum conſiderat magis immerſum ipſimateria ,
eftigitur alia certioraltera propterſubiecti maioremabe ſtractionem ? TEXTVS
CVIII. T quæ eft ex minoribus certior eſt , & prior ea , quæ eft ex
appofitione , utArithmetica Geometria . Dico autem ex appoſitione ,ut unitas
fubftantia eft fine poſitione , pun . tum autein fubftantia pofita ,hoc autem
eft ex appoſitione. Hoc in primis conſiderandum eft, quod hoc textu non
loquitur Ariſtoteles de ſubie&to fcientiæ.,ſecundum quòd magis og minus
abſtracteconſideratur, quia id in precedenti tex . determinauit ; una
enimſcientia determinat de abſtracto numero , reli qua uero defono numerato,
unitas enim de qua hoc textu loquitur, non est ſubiectum in Arithmetica,
niſiforfan in aliqua particularidemonftra tione , utin 15 ſeptimi
ElementorumEuclidis ,in quibuſdam alijs des monſtrationibus trium librorum
Arithmeticæ Euclidis . Dico autem ,ut unitas , ſubſtantia eſt, fine
appoſitione, punetum autemfubftantia poſia ta , hoc est ex appoſitione,Nicomacus
,Boetius, Tonſtallus Anglus,Lu cas Paciolus , in primis lordanus , o Euclides
recte interpretarentur huncAriſtotelis textum ſiadeſſent , quem locum obſcurant
rabini cum * ueſtra excellétia ex appoſitione nominati,heu me, in manusquorü
inter pretum incidifti Ariſtoteles ? quæ hominum dementia te torquet : erant ne
ſimile hominum genus tuo tempore , ita inſipidi atque macrologia op preßi, qui
Platonem , quique te audirent , expoliati Geometricis, &dis fciplinis
orbati?ut funthoc tempore nedum iuuenes non recte imbuti lite teris , fed magis
ſeneſcentes in fua , non tua philoſophia homines , exurs gant Romani uiri ,
liberalibus diſciplinis præditi, quorum bonarum are tium hereditas ,
negligentia pofteritatis , uerfa eft ad extruneas nationes o inter Barbaros
fruftratim etiam dilaniatur , eo locum hunc inter pretentur. Non eget unitas
ipſa;ut ſit in ſua natura,quod fit puncto affe & a , uellined , uelalio
quoppiam alieno , fed punctus , uel linea', ſeufuæ perficies , uel etiam corpus
,impoſsibile eft, quod ſit,quin pun &tus unus, uel una ſuperficies , aut
corpusunum , uel plurafint : Plura autem pun & a , eſſe non poffunt , niſi
prius punctum unum ,uel unafuperficies,aut corpus unumfit, minus igitur eft
unitas , quim punétum unum , utetiam 96 IN PRIMVM LIB. ipfa uocemanifeſtum
eſt.Vnitatem Arithmetica conſiderat : non ut fuum fubie &tum , fed ut id ,
quod adſuum ſubie tum quodam ordine attribuia tur tanquàm pars ad ſuum totum .
Vnum pun &tum , feu lineam unam , uel etiam unum corpus Geometra, atque stereometraconſiderans
appos nit lineam ,pun & um &corpus ipſum unitati, uel illis unitatem
appos nens , ex pluribusfacit fuam conſiderationem ,quàm fit illi Arithmetici,
qui unitatem conſiderat abſtractiſsime , nulli reiappoſitam . Ex hac declaratione
patet id quod Ariſtoteles ait primo de anima in principio, quòd fcientia de
anima nobiliſsima , eſt , duabus de cauſis prima ex nobi litate ſubie &ti ,
ſecunda ex certitudine , ex certitudine dico , non ut quis dam inueterati in
philofophia craſſa exponunt , uidelicet ex demonſtra tionis
certitudine,ſedcertior dico , quia exſubiecto ſimpliciori eft, que anima eſt,
atque minus compoſito , quàmſint ſubiecta librorum ,librum de anima
precedentium , ex precedentis textus , atque huius expoſis tione id totum
colligas uelim , ex precedenti, ſi de anima , ex præfens ti autem ſi de anime
particula , loca libri de anima intelligantur . Claret etiam , ex hac noftra
interpretatione,quod Mathematicæ diſcipline non ideo dicendæfunt non ſcientia ,
quia non funt circafubftantias , ut ans tiquusætate indostus quidam in hac
parte , philoſophus non erubes fcitaſſerere', ofequaces ,quia illas inquit
merito dicendasſcientias los quitur , quæ tantum circa fubftantiasfunt ; non
autem que circa accia dentia , ut funt Mathematicæ , quod apud Ariſtotelem
nunquam legitur Dico quòd Mathematice uere e in primis ſcientie , ſecundum nos
& re ipfa funt , ex fententia doétifsimi Boetij in principiofue Arithmeticæ
,ubi ait , ſcientiæ atque ſapientia uerehe funt , quæſunt circa res , quæ nunquàm
mutantur , fed fua natura femper funt,utſunt fubftantia ,a quantitates ; quo
nammaiore auctore hec noſtra ſentens tia corroboratur , quàm ſitipſemet
Ariſtot. in hoc præexpoſito textu ! qui in fua doctrina conftans , punctum
ſubſtantiam appellit, itidem unitatem ſubſtantiam dicit , ſi igitur fole ille
ſint ſcientiæ , quæ circa fubftantiasfunt , in primis Arithmetica atque
Geometria merito ( quics quid balbitiant alij) ſcientiæ appellande nedum
nomine, fed natura digna funt. Quia tamen de mente Ariſtotelis teneo
Mathematicas diſciplinas, non eſſe ſcientias , non ob id , quia de accidentibus
ſint,neque ex eoquod percominunia principia procedunt, ſed quia affectiones que
in ipſis con cluduntur , non perdemonſtrationem , quemfyllogifmum ſcientialem
Ariſtoteles uocat, concluduntur ut declaratum fuit textu nonageſia men , mo
POSTERIORVM ARIST. moquarto ,merito ſcientia non funt , ſiſcrupulofa indagine
ſcientiæ not men indagari, quis uelit . TEX. CXII . ALIAS XLIII . 3 EYE per
fenfum eft ſcire id , Exemplis duobus. Altero Geometrico reliquo, Vero Aſtro
Nnomico , declarat Ariſtoteles , ſi enim ſenſus uifus uideret id , quod
intellefius percipit fecunda par te trigeſimæſecundeprimi Elementorum ,quód
trian gulus. uidelicet , habet tres duobus rellis pares, non tamen propterea
uidens illud diceretur fciens, fed ut fciensfieret ad huc demonſtrationem
quereret ,o huius rationem reddit dicens, necef= feenimquidem eſt
ſentireſingulariter , ſcientia autem eſt in cognoſcen= douniuerfale , unde eſi
ſupra Lunam eſſentus, utputa inſupremo orbe defferente augem Lune , uel in orbe
defférente caput draconis,uel etiam in cælo Mercurij, uideremus Lunam ingredi
umbram terra, e par timenftruum non propter hoc diceremur fcientes, quia illud
, quod uiá deretur ,effet ſingulare , &cum ſcientia ſit circa uniuerſale
diſcurrene do, o per intellectionem ipſius uniuerfalis , ſequitur , quod per
ſenſum non eft fcire . Aliter etiam exponaturſic , ut ſi eſſemusſuper planetum
, qua Luna est , &in illa parte planete que terram , & centrum uniuerſi
confpicit, &foc'es noſtra uerſus idem centrum mundi,quod.eſtterre cen trum
ſentiremusquidem per ſenſum uifus, quòd deficeret Lund tunc, fed non propter
quidomnino,quiaſenſus non plures percipit ecclipſes ſimul neque actu ,neque
potentia ,fed unam tantum ,necobid tumen ſcientes dice remur , non enim
uniuerfalis est ſenfus, fed particularis ut ait , ex conſi deratione
multotiesaccidente univerſale uenantes demonſtrationem ha bemus , non ſecludit
hoc loco Ariſtoteles ſcientiam de purticularibus, ut Tex. iij. fuit determinatum
, fed ita intelligas , quod ſenſus eft tantum particularium , intellectus autem
utriuſque , Sunt tamen quædam reducta ad fenfus defeétum in propofitis & c
. · In hac particula huius textus , idem perſuadet diuerſo exemplo, quòd .
videlicet neque per ſenſum eſt ſcire , in prima huius textus particulas
Exemplum attulit in phænomena eGeometria , in hac autem particula exemplum est
in perſpectiua , eft etiam quoddam aliud diuerfum , quia
precedensexemplumeft,de unica wſingulari eclypſi. In hac auten pars N IN PRIM
VM LIB. ticula exemplum præbet de multis illuminationibus faétis per uitra pera
forata , ſiue foraminailla ſint pori uitrorum , feu etiam foramina ſint ma
gna,artificio quodam facta, que fenfusuifus in multis uitris confpiciens,
compertum haberet , &manifeſtum eſſet , & propter quid illuminat , id
eft,propter ,quid illuminationes multæ fierent,quoniam , ut inquit,uis deremus
quid ſeparatum in unoquoque uitro , id est foramina multa , per qua
radijtranſeuntes illuminationes multe fierent in pariete e re gione collocato ,
uel in pauimento domus,quapropterſi plures eclypſes ſimul perciperet fenfus
uifus,quodtamenfierinequit, &uideret etiam hoc euenire ex obiectu terræ
inter Solem of Lunam , illud de Luna ex emplum nullo modo diuerfum eſſet ab
iſto de uitris perforatis , niſi quod alterum in Phænomena , reliquum eſſet in
perſpectiua ; Ne.credas tam men propter multas irradiationes a uiſu
ſimulperſpectas, Q uiſis etiam fingulis foraminibusſimul , uel poris in uitris
per quos radiationes fica rent, quòd quis ob id diceretur fciens,ſed ex his
fingularibusfenfu pera ceptis unum uniuerfale intellectus
intelligens,deeo.fcientiam generaret qua poftea merito quis diceretur fciens ,
illud autem uniuerfale non cola ligebatur, ab intellectu ex unica tantum eclypſi
uiſa , fed ex pluribus die uerſis temporibusobſeruatis,Ex hoc loco habetur quod
non est ſatisad demonſtrationem habere propter quid., niſi propter quid
habeatur, per difcurfum (fenſus autem non difcurit ) ab uniuerſalibus ad minus
uniuer ſalia , ſenſusenim percipiebat quod multæ illuminationes propter multa
foramina fiebant , nulla tamen erat ibu demonſtratio. TEXTVS CXIIII. IRCA
Textus particulam illam , Aut æquale maius , autminus, Scire eſt , quod primi
Elea mentorum eſt conceptio animi apudEuclidem , ut fi una quantitas comparetur
ad aliam eiufdem genes ris , aut erit ei æqualis , aut eadem maior , uel e46
dem minor , ut quatuor , ad quatuor , uel ad tria , aut ad quinque,ſi
comparentur, fieri nequit , quod eadem quantitas qus tuor,ad quantitatem unam
di &tarum comparata , fit æqualis, a maior minoreadem,statim enim fequitur
contradictio,fedfi ad diuerfas quan titates comparetur , verumquidein poteft
effe, quòd unaſit maior emi nor & equalis,ſi non ad unicam tantum , fedfi
ad plures fit comparata, POSTERIORVM ARIST . 99 P TEX. CX V. ARTIC VI. A huius
Textu , Neque omnium . uerorum principia funt eadem , neque con ueniunt,ut
unitates punétis non conueniūt , læ quidem enim non habent poſitionein ,illa
autem habent, Deappoſitione in punétis , eo pacto intelligas , ut tex.108
declaraui. Exemplo enim loqui tur de principijs ,non quidem ex quibus inferatur
conclufio , fed ex qui dus compoſitumfit , quia ex unitatibus pluribus ſimul
coaceruatis com ponitur numerus , ex pluribusautem punctis non componitur quippiam
ut terminaui tex. xix .huius, ſimpliciores ob idfunt ipſe unitates , que funt
numerorum principia, quamfint puncta,que lineas terminant, uni tas enim ,uel
etiam unitates non ſupponunt punétum ,uel punéta,punétus 'tamen uel puncta eſſe
non poſſunt , quin uel punctum unum,uel plura pun & ta fint ,non
igiturconueniunt inter fe propter appoſitionem unitatis pñ to appoſite ,
wepropter non appoſitionem , puncti ipſi unitati , unitas enim non ideo unitus
est, propter unum punétū,ſicutpunctum unum eſt, propter unitatis appofitionem ,
®ultra ait , quòd diuerſafuntgenere, ille enim in diſcreta , hecuero in
continua conſiderantur quantitate: TEX. CXX. ALIAS XLIIII . VONIA'M autem idein
multipliciter dicitur eft autem , ut non commenfurabilein enim eſſe diametrum uere
opinari inconueniens eſt , ſed quia diameter (circa quam ſunt opi. niones) idem
, fic eiufdem eſt , ſed quod quid erat eſſe unicuique,ſecundum rationem non eſt
idem , Circa eandemdiametrum ſcientia poteſt eſſe, opinio per media tamen
diuerſa , falfam quidem opinionem habet ille qui diametrum commenſurabilem
coſte eſſe ſentiet, ueram autem obtinebit ille qui Eucli dis demonftrationibus
inftrúctus diametrum inconmenſurabilem coſte efje protulerit in qua re tex :
1x. huius determinatum & demonſtratum fuit, quod ipſe diameter
incommenſurabilis eſt ipſi coſte,aliter enin , par numerus , impar effet ,
Circa idem igitur contingit diuerſitas , feu idem multipliciter dicitur , ut
quòd diameter ſit commenfurabilis &inz commenfurabilis cofta . Nij IN
SECVNDVM LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PRESBITER PETRVS CATHENA : V ENETV S.
** 3 TEX T VS II ALIAS I. TEATRI V M enim utrum hoc infit , aut hoc , quærimus
in nume rumponentes,ut utrum deffi ciat Sol, uel non , ipſuin quia quærimus.
Luna enim defficit in ſe a lumine , a patitur menſtruum , propter interpoſitam
terram diame traliter inter Solem u Lunam , Sol autem non defficit lumine
unquam in ſe, fed tantum non illuminat, quana do in capite uel cauda draconis
res peritur fimul cum Luna hoc quidem prouenit , ex eo quod inter afpes Eum
noſtrum o corpus folare interponitur Lund , quæ cum ſit core pus denfum ,
coppacum magis quàm alia pars fui orbis impedit fo lares radios , enon finit
eos ad afpe&tum nostrum protellari . Dubita tur circa id quod fuit
di&tum paruin ante,o quód fæpißimeait Ariſtote les, præfertim in
ſequentibus,ufque ad textum nonum an Luna defficiat penitus lumine , quando
patitur menftruum , quod eſt querere,an Luna habeat aliquod lumen àfe, uelſi
non àfe, an conſeruet lumen in ſe imbis bitum tamen à Sole, utfomniat Aueroes ,
propterea quod , quandotota eclypfatur uidetur non nihilhabere luminis ,
apparere fubnigra, etiam apparet uideri eius rotunditas extra plenilunium , ad
quod reſõſio abſolutißimafit,quod Luna nullum habet lumen,niſi à Sole
ſecundoquod non imbibit lumen, quemadmodum ſpongia liquorem aquæum, cauſaaus të
apparitionis luminis tempore eclypſis, uelfuæ rotunditatis antequam POSTERIOR V
MARIS T. 102 fit in oppoſitione Solis eft, quă ſtatim declarabo quibuſdam
paucis pres intellectis , cum ipſa ſint corpus denfum &politum quemadmodum
cæte ra fydera , radijſolaresquifortes ſunt, cuin ad ipfam pertingunt non
talentes ultra penetrare propter denſitatem ad terram reuerberantur, Tempore
autem eclypſis, radij ſolares impediti a terre occurſu nõ attın gunt lunam, ſed
tunc radij aliorum fyderum , qui debiliores ſuntſolaribus radijs, pertingunt
corpus lunare , &fua tenui uirtute Lunam illuftrat, ob id Luna uidetur
habere nõ nihil luminis tempore ſuæ eclypſis, et pro pter hanc eandem caufam
dicatur quod eius rotunditas apparet citra ple nilunium . TEXT VS I x . + 1 1 +
VID conſonantia, ratio numerorü ,in acu to & graui, & propter quid
conſonat acue tum graui, propter id, quòd rationem has bent numerorum graue
& acutum , utrum eſt conſonare acutum & graue , utrum ſit in numeris
ratio corum ,accipientes autem quia eſt, quid igitur eſt ratio querimus. inter
ea quæ elucidan da funt in hoc textu , idin primis occurrit , notatu dignum ;
graue enim Cum motum fuerit , citius ad quietem redit quam leue æquali pulſumo tüm
, Aliud etiam eft animaduerſione dignum hic notandum quòd neruus cumpellitur
ininftrumentis non unumfolummodo ſonum efficere ſedmul tos , quiquidem multi à
feinuicem distinti non percipiuntur , ut diſtins Eti, propter celeritatein
unius poſt alium , Exemplum præberem de Tur bone,uiride, aut rubra linea
lineato,qui propter celerem motumtotus ui deretur uiridis, aut rubcus , ſunt
igiturmulti foni à grsui corda effceti ad quos, fi foni illi , qui leuiori
neruo procreatifunt ,comparentur has beanto ad illos ratione, ut quatuor ad
tria ,tūc diateſſaron cõfonantiaria minimam efficient, fi ueroeam quæ eſt nouem
adſex diapente, odiapaf fon fi illam efficient , quæ quatuor ad duo , que
concinentie , cum ſint ſimplices; exipſis aliæ que compoſitæ funt generantur,tanquam
ex ſuis proximis elementis, ut eft diapentediapaffon ,o biſdiapaſſon, quæ ome
nia ex Boetio clara habentur , o ſibi do toresqui Calepino student, in
declaratione Ariſtotelis hec gratis prætereant , Alia exempla à tertio textu
uſque ad undecimum ,que Ariſtoteles præbetfua Palade in mathea 1 1 02 IN
SECVNDVM Ľ IB maticis, quæ quiaaliàs in præcedétibus dilucidata per
mefuerunt,nunc conſulto pretereo, fed quæ di&ta funtfuper hoc textu non
plane ſatisfae ciunt nostre menti,ubi enim nonfuerintplures pulfus ad pa
uciores com parati, ut in humand uoce , căcinentia quidem reperitur inter re ,
ala licet nõ niſi ſingula,&fingula uox emittatur,non igitur interfonos paus
ciores tantum, eu plures concinentia , ſed primo inter graue ego acutum
reperitur , quæ autein uocum diftantia inter ſe reperiatur , ut debita ; fiat
concinentia, tum ex hominum ufu ab inſtrumentis accepto , cumetiä per ea que
Boetius tractat manifeſtum est , ſed'in dubium occurrit illud, quod
muſicifaciunt , quando fuper breuem ſillabam , plus temporis cona ſummunt, quim
par ſit, eſuperfillabam longam, breui temporis notu la festinant, ita ut ea
,quæ naturaſunt breues, fiant longe , &quæ longe ſuntſillabæ ,breuesfiant,
ſic ut'nonmodesta &doctaſit ipfa muſica , fed Barbara o contra ufum loquendi
appareat , Ad quod dico , ſequen tia dubia quæ funt,an concinentia proueniat ex
mouente , ut Aristoteles in libris degeneratione animalium , uel ex motis rebus
, ut in rethoricis, an exnumeratis pulſibus, ut hoc textů tangit , quòd in
nostris fragmens tis logicis hæc omnia clarafient, fed pro declaratione littera
, huius tex tus ,uideturexpoſitio feciſſe fatis. TEXTVS XIX. ¿ ALIAS II: MPLIvs
omnis demonſtratio aliquid de aliquo demonſtrat , ut quia eſt, aut non eft , in
deffinitione autem nihil alterum de altero prædicatur , ut neque animal de bis
pede,neque hoc de animali,neque de plano figura , non eniin planum figura eſt,
neque figura planum eft . Euclides póst quam deffinitionem plani dederit in
primoElementoruin deffinitione quinta , ſtatim de angulis planis , e de fiquris
planis adiecit deffinitiones, que figure ideo planæ dicuntur, quia in plano
picte ſunt,feu quia in ſuperficie plana ſunt deſcripte , fi gura plana, hefunt
due particulæ deffinitionis , quarum altera deals tera non predicatur, quia id
quod planum , & id que in plano figura fit, 11on idem eft, demonſtratio
uero cõcludit, quia eft hoc de hoc, ut de trian gulo, quod tres duobus rectis
equales habeat, et q latus trigoni , quod fubtendien maiori angulo, nõ eft
minies lateri fubtenſo minori angulo. POSTERIORVM ARIST. 107 TEXTVS XLIX ALIAS
X I. V ANIFEST VM eft autem & fic , propter quid rectus eſt, qui in
ſemicirculo eft, quo exiftente rectus eft ,fit igitur rectus in quo a , inediun
duorum rectorü in quob, qui eft in feinicirculo in quo c, eius igitur , quod
eſt a rectum inelle c, qui eſtin ſemi circulo caufa eft b, hic quidem ipfi a
æqualis eft, c autem ipſi b, duorum enim rectorum dimidium eft b, igitur exia
ſtente dimidio diiorum rectorum a, ineſt ipſi c, hoc autem erat in ſemicirculo
rectum eſſe . Euclides xxx tertij uniuerſa lius proponit id, quod Ariſt. hoc
loco ait magis contracte , ut ſecundum Ariſtotelem conſtruatur fic , ſit
ſemicirculus a b d cuiuscentrum c, quo perpendicularis excitetur per undecimā
primi Elementorum cd , ſecans arcum a b in puncto d, à quo, duæ lineæ
protrahantur ad ter minos diametri dia,db, ſequiturper quintam primi angului a
dc, bdc effe medietates reéti,quæ ſimulmedietates additæ faciunt angų lum a d
bre&tum ,ficut duæ unitates bi narium numerum , quia tamē non uide tur quòd
philofophus particulariter proponat id , quod uniuerfaliter Eucli des docet, ut
uidelicet quod perpendi çularis à puncto c excitetur, &quòd folus
angulus,qui fit in puncto de deter minato , ubi perpendicularis ſecat ar cum ,
re & tus ſit, licet illa due medietates formaliter ſint unius re &ti,
fina gulađ; dimidium refti, quæ pro materia recti accipiuntur, ficut due uni
tates materia numeri binarij, Ideo aliter declaro & litteræ philoſoa phi
magis cohærebit non in figura præfcripta ,ſit angulus rectus a datus, b
autemfit medietas duorum rectorum , c uero in ſemicirculo conſtitus tus, ſit
æqualis b , quæ uero uni veidēfunt æqualia inter ſe funt æquae lia , cum autem
a ſit æqualis b, quia uterqueeſt medietas duorum res. & orum , or ſimiliter
c qui in ſemicirculo eſt ſit eidem b æqualis, c ipfi a equalis erit, a quippe
rectus eſt ex dato igitur c, in ſemicircula conſtitutus rectus eſt , quod
propoſuit Ariſtoteles , quis ſit angulus rer 104 IN SECVNDVM L I B. Aus patet
per deffinitionem octauam primi Elementorum , quod autem b in quocunque puncto
peripherie femicirculi fit medietas duorum rectos rum , patet per trigeſimam
tertij Elementorum , quodetiam omnis alius angulus in quocunque puncto arcus
ſemicirculi fit æqualis 6 , utputa 0 , patet per uigeſimam tertij Elementorum ,
qubi in priori expoſitione di cebatur ,quòd duæ medietates erant materia totius
relti anguli, hic dica's tur,quòd illiduo partiales anguli b , ſunt materia
torius anguli recti, fic ut demonftretur , quod angulus , qui in ſemicirculo conſtitutus
, eſt re ctus , per materialem caufam , quæ materialis caufa , ſunt iple partes
recti anguli ipſum integrantes . TEX TVS LIII. ONTINGIT autem idein &
gratia alicuius eſſe , & ex neceſsitate , ut propter quid pe netrat
laternam lumen , etenim ex neceſsitas te pertranſit , quod in parua eft
partibilius, per maiores poros fiquidein lumen fit per tranſeundo ,
Minutiſsimæenimſunt; aut potius fub tiliſsime ſpecies uiſibiles ignis ,quæ
propter ſubtilitatem ſuam per poros uiri in quofranguntur exeuntes clarum iter
oſtendunt, ne adlapidem pe: des offendamius , exemplum eſt in
optica,inaterialis caufa eft uitrum , fi nalis,neolfendamus ; fornalis eft illa
compago uitrorum ,lignorumq;, effi ciens autem ,eſt ipſe luterne artifex
,quantum ad matheſimſpectat non eft niſi materialis cauſa in conſideratione, o
radios fractos ipfius ignis in corpus disphinum , per quos illuminationes fiunt
. TEXTVS LVI. ALIAS XII . CLIPSIS Lunæ futura , preſens , atque prete rita
,medio interpofitionis terre , diametraliter in ter Solem & Lunam ,nunc ,
olum , & in futurum con cluditur , cumfuerit Luna in capite uel cauda dras
conis uelprope , o ſub'nadir Solis . SICVT POSTERIORVM ARIST. 105 TEX.LVII.
ALIAS XIIII. IGVt ergo non funt puncta , adinuicem co pulata , ticque, quæ facta
ſunt, utraque enim indiuifibilia funt. Puncta enim fiadinuicem copula rentur ,
statim haberetur , lineam ex pun &tis componi quod impoßibile effe
demonftratum eft in primo , textu Wdecimo octauo . TEXTVS LX. ALIAS X VII. I co
autein in plus ineſſe quæcúque, infunt quidem unicuique uniuerfaliter ,Atuero
& alij ,ut eft aliquid quod oinni Trinitati , in eft fed & non
Trinitati , ficut ens ineft Trini tati, ſed & non numero, numerum quemlibet
ex materia oforma conſtare nemo eft qui neſciat , aliter cnim numerorumſpecies
noneſſent numerofinitæ , potentia ueroinfis nite per unitatis additionem ,
fpecies autemexgenere odifferentia con ftat, genus uero materia differentia
autemforma eft in numero , materia numeriſunt ipfæ unitates, ut in ternario
numero, tres unitates materia eft numeri ternarij,formaautem eft ipfa Trinitas,
ens inquit ineſt Trinita ti népe ternario numero,o hoc prædicatū , ens, extra
genus arithmetică eft, quod quidem ens , alijs multo diuerſis genere à
numeroconuenit. Impar uero & ineft omni Trinitati& in plus eſt . Etenin
ipſi quinario ineft , fed non extragenus , ens quidem alijs ab arithmetico
genere conuenit, imparuero nullis alijs niſi his, quæ infra arithmeticum genus
continentur cõuenire poteſt,utquinariofeptinario &alijs multis. Huiufmodiigitur
accipienda funt uſque ad hoc quouſ: que, tot accipiantur primum , quorum
unumquodque qui dem in plus ſit, omnia autem non in plus. inquit quouſque tot
dccipiantur primum , uerbum hoc, primum intelligatur ex æquo, feu ad equate ,
ut tot uenetur quis particulas deffinientes,quòd non fint ſuper abundantes,
neque diminuteparticule, ſed ad idtendat, ad quod ille,qui tetragonicum latus
alicuius figuræ quærit, utin libris de anima iubet phi bofophus. Duo præterea
funt hic notanda precepta ,ut unumquodquefit LO 6 IN SECVNDVM LIB . cum non in
plus , nempeunaqueque particula deffinitionis uniuerſalior ſitdeffini to, ut
animal,rationale,mortale ,capaxbeatitudine, que omnes particu ie, in hominis
deffinitione ſuntpofitæ, cunaqueque uniuerſalior eft ip sohomine, omnesautem
fimul fumpte,nihilaliudnifihomo funt,Dubie tatur , an illa , quae in
Elementorum Euclidis libris deffinitiones poſite funt, utunapromultis fimilibus
excogitetur hæc,triãgulusredilineus, eft figura, plana ,claufa,tribuslineis
re&tis,fit conftituta ex omnibus par ticulis deffinientibus,quarū una ,et
altera,atqueſingulaſit uniuerſalior, ipſo triangulo rectilineo ? Dicendum
confequenteradAriftotelem pro pter particulam illam , tribus lineis reftis ,
illam non eſſe deffinitionem , fit uniuerſalior ipſo triangulo rectilineo ,
quapropter ſunt ma gis dignitates appellande, quàm deffinitiones ,nifidixeris,
quodAriſtote les intelligit de his particulis definientibus , quæ recto cafu,
& non oblis quo explicantur, & fic proprie dicerentur deffinitiones,
que interpreta tio qualiſcunque fit,non habetur ex Ariſtotelis littert, neque
tamen ual de difplicet. Hanc enim neceſſe eſt fubftantiam rei eſſe, ut
trinitati in cft oinni,numerus,impar, primusutroque modo, & ficut non
menfurari numcro, & licut non componi ex numeris, hæ duæ particulæ
,numerus,impar,nõ patiuntur, difficultaté ,quinipſo. ternario uniuerſaliores
ſint , ſed particula iſta primus utroq; modo,decla ratur ab ipfo Arift. quod
fit uniuerſalior ternario numero ,propter altes rī modorū, quonumerus primus
dicatur eſſe ut unitatefola metiri poßit, multis conuenit numeris, ut quinario,
ſeptenario ,atque ternario , et alijs multis non cõponi ex numeris pariter
multis cõuenit, ut ternario , qui ex binario ounitate conſtat, ſimiliter
binario ,qui conſtat non ex pluribus numeris ,fed ex binis unitatibus, Ex hoc
locohabeturnefcio quid contras Etius,quàm Euclides proponat,in feptimo
Elementorü deffinitione x 15, XIII, quibus ait, quod primus numerus eſt, qui
fola unitatemetie tur, Compoſitus autem eſt, qui dimetitur alio à fe ego ab
unitate numero, quo loco uidetur quòdaliud fit dimetiri numero ; &aliud
numeris dia uerſis componi , ut ſeptenarius , nullo alio número ab unitate
dimetina tur eſi componatur ex diuerfis numeris,ut ex binario o quinario ,c .
ex ternario &quaternario , primo enim modo aliquis poterit effe pris inus ,
qui compoſitus erit fecundo modo ut-XI, 0 X111, atque alij, quos vagu VI, VITI
V Componunt nullus tamen eorum dimetia tur eorum alterum , var vi nullo modo
dimetitur XI, VIII pariter POSTERIO RVM ARIST. 109 to v nullo modo dimetiuntur
x1, cum neuter fit alicuius maioris pars, ut ex prima deffinitione quinti ,
&tertia deffinitione feptimiEle.. mentorum Euclidis manifeſtum eſt ,hoc
igitur loco dico , quod Ariſtotea les non loquitur fecundum Euclidis ſcitum
,fed famoſe , ut philofophoa rum quorundam aliqui, Vbifecundum Ariftotelem tam
partes aggregae tiua, que c irrationales , e integrantes dicuntur , quàm partes
ali quote ,qua rationales, odimetientes, dicuntur numerum compone re, ſed
ſecundum Euclidis fcitum , non niſi partes proprie fumpte , que aliquotæfunt,
numerum componunt ; quod etiam Nicomachus & Boce . tius in arithmeticis
aſſentiuntur, niſi dixeris quod etiam fecüdum Euclia dem ,non omnem numerum
,qui alium componit compoſitum dimetiri, fed ubi hoc Euclides fomniet non uidi.
TEXTVS LXXVIII ALIAS XXV. ARTICVLA difficultatis ſe offert in hoc textu, quam
Grecio Latini pretereunt , Aueroes tamen magna comentatione tangit nefcioquid ,
fed fcopum rei non tetigit iudicio eorü qui Ariſt.et Euclidis inſe quuntur,ueſtigis
, Textus Ioannis grāmatici etArgi lopili obfcurăt aliquo modo primo intuitu
pulchram Ariſtot.doctrinam , quam aperit textus Aucrois, ſiue Abramum , ſeu Bu,
rinam inſpexeris, ipfius Aucrois interpretes , qua Ariſtotelis doctrina ex
Aueroico textu bahita, illam poſtea ex loanne grammatico , Argi ropilo uidebis
neceſſario effluere , loannis textus ita habetur , fi uero ficut in genere ,
finiliter fe habebit ,ut propter quid con mutabiliter, Analogum eſt. Alia enim
eit cauſa in lineis, & in numeris, & eadem , inquantum quidem lineæ ,
alia eft ,in quantuin nero habens augınentun tale , eadem eſt, fic in omnibus,
Argilopilus ſichabet fi fint ut in genere, medium ha bebunt finiliter ,ueluti
propter quid etiam mutato ordia oc, funilitudinein ſubeunt rationum , eft enim
alia caufa in lincis, & in numeris, atque eadem alia quidem eſt, ut linea
rum rationem fubit ,eadem autem, ut tale habet incremen tum , & codem in
omnibus modo; Aueroes fic habet commentar tionc magna,li autem fuerit fecundum
modum generis,eft eis . affection 108 IN'SECVNDVM LI B. uinum fimilitudine,
uerbi gratia , cur quando permutantur : fint proportionalia, huius cnim caufæ
in lineis & numeris ſunt diuerfæ , qua autem addit , hac ſpecie additionis
, hoci modo eft una per ſe in omnibus,hoc textu nõ minus laboris fum pſi
propter uarietatem textuum , quam etiam ob id , quod interpretes: non ita
interpretari uidentur , ut textui Ariſtotelis cohæreant fue interpretationes
aut nug & potius , præter Aueroin , qui magna come mentatione , confuſo
tamen ordine dicit aliquid , faciens ad Ariſtotex : lis ſententiam , non tamen
aperit uerum fenfum littera Ariſtotelis Pro uera igitur Ariſtotelis ſententia
,in primisſcire debes , quod mas gnitudines ſeu continue quantitates,
&multitudines feu quantitates die ſcrete omnes , uerfantur circa unum genus
quanti, omnes enim quane titates funt , quæ antequàm permutentur ,
proportionalia eſſe debent , ut affeétio hæc,permutata proportionalitas ,ſeu
permutatim proportios nari, concluditur de quantitatibus proportionalibus,
ratio autem qua concluditur hoc ; de lineis, fuperficiebus,temporibus , vt
corporibus, eadem de numeris concluditur , primum demonftratur propoſitione dea
cimafexta quinti Elementorum Euclidis per alia principia , opropos ſitiones
diuerſas ab his propoſitionibus &principijs , quibus de nume ris eadem
permutata proportio concluditur in feptimo Elementorum , propoſitione
decimatertia uel decimaquarta. Ecce igitur alia ratio in li neiseft,quia
diuerſa e uniuerſalior , atque per diuerſa media , à ratio : ne qua idem de
numeris concluditur , huius enim caufæ in lineis &nume ris ſunt diuerfæ ,
cauſas has , eas uoco , quæ folum dant propter quid & de his cauſis , que
etiam dant eſſe, hoc loco minime intelligas uelim , quia tamen dicebam ,quòd non
concludebatur hæc affe &tio,permutata pro portio niſi de proportionalibus
quantitatibus . Si modofieret queſtio, o cauſainueftigaretur,quare quantitates
dicantur proportionales, uel que nam ſint quantitates proportionales , aut
quando proportionales funt , Ariſtoteles dicit unam eſſe cauſam in omnibus ,
cum difcretis tum etiam continuis , quæ eft ex additione fimili utrobique pro
cuius notitia mania feſta deffinitio ſexta quinti Elementorum , minime
negligenda eſt, oeft Quantitates quedicuntur eſſe fecundum proportionem unam ,
prima ad fecundam vtertia ad quartam ſunt , quarum prime otertiæ æques
multiplices , ſecunde «quarte equemultiplicibus comparat & , fimiles
fuerint uel additione , ueldiminutione,uel æqualitate ,eodem ordinefum
POSTERIORVM ARI T. 10% ple . V'nica eſt héc caufâ, ut quantitates feu difcrete
ſint , feu etiam continuefuerint,héc uidelicet fimilis additio,ueldiminutio,feu
æquatio inter equemultiplicia,hoc autem eſt.quod ait in textu Ariſtoteles, in
quantum uero habens augmentum tale , eadem eft fic in omnibus,hac igi: tur
ſpecie additionis est una pér fe caufa in omnibus. Similem autem eſſe colorem
colori , & figuram figuræ , aliam efſe alñ æquiuocum enim eft fimile in his
. Hic quis dem eſt fortaſsis ſecundum analogiam habere latera , & æquales
angulos. Figuræ rectilinee funtfimiles ex prima deffinitione fexti Elemen.quæ
habent angulos omnesæquales, es latera illosæquales angulos continentia
proportionalia,ſimilitudo igitur,non habet commus nefiguris ocoloribus, niſi
nomenclaturam , non autem rem naturam unam , in coloribus enim non concernes ,
neque latera , neque angulos . Habent autem fe fic propter conſequentiam ad
inuicem caufa, & cuius caufa,& cui eſt cauſa, unumquodque tamen
accipienti , cuius eſt. cauſa, in pluseſt, utquatuor rectis æquales , qui funt
extra plus ſunt, quàm triangulus, aut quadrangulus, in omnibusautem æqualiter.
Quæcunque eniinquatuor rectis equales,qui ſuntextra ,textus hicdeffétis uus eft
, & mutilus apud Ioannem Grammaticum & Argiropilum , ma. gne
commentationis textus est clarior , ſed non ad plenumfacit fatis ,ut mens
Ariſtotelis , fatim appareat . Caufe illationis , ſeu conſequentie , que mutuæ
funt , feinuicem inferunt pro cuius exemplo, ad ea , quæ pri mo libro tex .
xcvij. di &ta fuere inſpiciendum eſt, oultra aduertas quod uniuerſaliuseft
habere omnes angulos extrinfecos æquales quatuor res Ais ,quàm eſſe triangulum
,uel quadrangulum ,aut pentagonum ,uel exago num , aut quippiamtale feorfum ,
fi autem accipiatur fic reétilineum est, igitur omnes anguli quiſunt extra, funt
equales quatuor re& is , oecon uerfo , fic infertur , omnes anguli quiſunt
extra funt æquales quatuor rectis ,igiturid cuiusfunt anguli extrinſeci
accepti, rectilineñ eft,quo uet bo , re &tilineum , comprehenduntur nedum
triangulus, quadrangulus,co penthagonus , fed omnes figuræ re& ilinec , hoc
igitur uult Ariſtoteles quandoinquit , quod habere extrinfecos quatuor
re&tis æquales , uniuer Jalius eſt trigono , otetragono , ſi uero hec omuia
accipiantur , ut in hoc uerbo , rectilineum , omnes figure rectilineæ
comprehenduntur, ajo fic hoc pacto habentſe propter confequentiam ,ut ad
inuicem caufa «cu us caufa , &cui eft caufa . ilo : CAVSAB IGITVR ILLI
SVMMAB SIT ILLS LAVS QY AM LINGVA ET VNIVERSA MENS CONCIPERE POTEST . FINISI
> R E G I S T R V M. . A B C D E F G H I K L M N O. Omnes ſuntduerni.
CORRECTIO OPERIS. 37 Pac. 4. lined s publicis , à publicis. fac.4.li.6
incumbebam ,abſtinere decreui..li.io laberinthos ,labyrinthos.li.21 literis
litteris ubique . Pd.4 li.3 comode, commode .li. 11 prefertim , præfertim
ubique . li.12cales, calles. li. 16 Ariſtoteles , Ariſtotelis . Facis li.24 age
, aie . Fac . 6.li. 2 pulcra , pulchra ubique. li, z fpetie, fpecie percubique.
li. 32. quinnis, quinis . lin. 3 3 unis,pluribus ubique. Fac. 7 lin.6 neſcit ,
fcit.Fa.8 li.25 comunem ,communem ubique. F2.13 li. 3 precedentis,precedentis
ubique F &c.14 li.9 affumens , afſummens ubique. li.16 ſempliciter ,
fimpliciter. li. 12 equales æqualesubique. Fac.15.li.20 probation , probatione.
Fa. 26 li. 26 reſumitur , reſummitur ubique. Fd. 19.3 1 Geotrica , Geomes trica
. fac.20 li. o quadrati , quadrari. li. 10 e e Spoffet, effe poffet . li. 20
eeſſ;eſe. Fac.22 li. 10 A poline, A polline. Pac. 23 li. innitide tus,initatus.
Fac.30 li. 12 fcit ,ſit .fac.31.li.12 atulerunt attulerunt. fa. 3 2.li.27
manus, manu . fac . 34.li.7 ſilicet , ſcilicet ubique . fuc.36.li.4 Textus ,
Textu . li.25. aget, & get. fac.41. li:3 2 queſtione, queſtione ubique.
fac.4.3 li. 25 texu, textu.fa. 48 li.34 prinus , primus. Fac.49 li.16.fue , ſua
. fac.49.li.20 induéti , induti . fac. stili . 12recte ,recti. fac.53 li. 11
A'riſtelis , Ariſtotelis .fac .53 li . 12 bucis , buccis ubique. li. 6 nltera ,
altera. fac.54.li.2.ie, git. fac. 57 li. 24 puerost , pueros, li. 25 illeuatus
, eleuatus . fac.59 li. 7 olas , ollas . li. 3i ſimilitcr, ſimili ter. li. 3
4.innani,inani ubique. fac. 60 li.z eubi,cubi. li.25 . apolini, apollini per ,
, ubique.lin . 28 pret , preti.fac.61.li.14.palade,pallade, li.24 filicet,
ſcilicet ubique.fac.62 li. 23 rrrat, erat. fac.64. lin . 31 nos tid ,
notitia.fa.67 li.14 prebens,prebens.li.16.profonditate,profundis tate. fac. 68
li. 20 queſitis, quæfitis.fa, 9.li.6.nquiinquit. fac.75 li. s. paret, pares .
fac. 76 li.16 .notia .notitia . fac. 8 2.li. 13 ingnaros, ignaros.li. 27
preciſiua, preciſiua. li. 31. preedenti,precedentiubique fac. 83. li .
8.ſcienriarum , ſcientiarum . lin . 21.chierurgia , chirurgia . fac. 86 li. 10.
neft, ineft.li. 17.angregata , aggregata. fac. 88 lin. 10 pretereundum ,
prætereundum.fac.91.li. 10.triangu o, triangulo. li.28.
redit,reddet.fac.95li,31. eget,eget.fac.96.li.20 fequacea , fequaces. li. 32,
balbitiant,balbutiant.fac. 104.11.18.uirum ,uitrum . ܐܐ ܀ Et fi
qua alia ( que non funt pauca ) pretermiffa funt , diligens le& tor surum
colligat &mufcas abigat .Petrus Cathena. Petrus Catena. Pietro Catena.
Keywords: logica matematica, logica aritmetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Catena” – The Swimming-Pool Library.
Cattaneo (Milano).
Filosofo. Grice: “I like Cattaneo; in fact, I LOVE Cattaneo; he is so much like
me! I taught at Rossall, and he defended the the teaching in what the Italians
(and indeed the ‘Dutch’) call the ‘gym’ not just of Grecian and Roman, but
Hebrew – He famously claimed to know Hebrew when he interviewed for a job as a
librarian! – From a semiotic point of view, he saw semiotics as the phenomenon
the philosopher must consider when dealing with communication – he explored
semantics, but also ‘sintassi’ in connection with ‘logic,’ and obviously,
pragmatics – He was interested in comparing systems of communication in Homo
sapiens sapiens and other species – and being an Italian, he was especially
interested in how Roman became Latin – he opposed the Tuscany rule!” -- Grice: “Only a philosopher like Cattaneo is
can understand Cattaneo’s contributions to semiotics!”. Figlio di Melchiorre,
un orefice originario della Val Brembana, e di Maria Antonia Sangiorgio, trascorse
gran parte della sua infanzia dividendosi tra la vita cittadina milanese e
lunghi e frequenti soggiorni a Casorate, dove era spesso ospite di parenti. Fu
proprio durante questi soggiorni che, approfittando della biblioteca del pro-zio,
un sacerdote di campagna, si appassioa alla filosofia, soprattutto dei classici
della filosofia romana. Il suo amore per le lettere humanistiche classiche
lo indusse a intraprendere gli studi nei seminari di Lecco prima e Monza poi,
che avrebbero dovuto portarlo alla carriera ecclesiastica, ma già all'età di
diciassette anni, abbandonò il seminario papista per continuare la sua
formazione presso il Sant'Alessandro di Milano e in seguito al ginnasio e liceo
classic di Porta Nuova dove si diploma. La sua formazione filosofica fu
plasmata, durante gli studi superiori, da maestri quali Cristoforis e Gherardini,
i quali gli aprirono le porte del mondo filosofico milanese. Grazie a queste opportunità,
oltre alla passione per gli studi classici, Cattaneo inizia a nutrire interessi
di carattere sstorico. Sempre in questo periodo furono fondamentali per la
sua formazione filosofica le letture presso la Biblioteca di Brera e il
contatto con il cugino paterno, direttore del gabinetto numismatico, era anche
un importante esponente del mondo filosofico milanese. Altro punto chiave per
il percorso formativo degli suoi interessi furono la frequentazione assidua
dell’Ambrosiana, grazie alla sua parentela materna Sangiorgio con il prefetto
Pietro Cighera, e della biblioteca personale dello zio. La Congregazione
Municipale di Milano lo assunse come insegnante di latino e poi di umanita nel
ginnasio comunale di Santa Marta. Approfondizza le sue frequentazioni con gli
filosofi milanesi, entrando a far parte della cerchia di Monti. Di questi
stessi anni sono le sue amicizie con Franscini e Montani. Dopo aver iniziato a
frequentare le lezioni di Romagnosi nella sua villa, ne divenne presto amico e
allievo. Si laurea Pavia con il massimo dei voti. Risale il suo saggio
dato alla stampa e apparso sull’antologia, si tratta di una recensione
all'assunto primo del concetto di “giure naturale”. Saggio sulla Storia della
Svizzera italiana. Convinto sostenitore di richieste di maggiore autonomia del
regno lombardo-veneto dalla corte di Vienna, pensava di puntare su una politica
non violenta per avanzare tali richieste. Il motivo del suo rifiuto nei
confronti della violenza si può comprendere da questa affermazione poco conosciuta
del filosofo milanese che al tempo stesso lascia trasparire cosa egli ne
pensasse di un'annessione al Regno di Sardegna. Siamo i più ricchi dell'impero,
non vedo perché dovremmo uscirne. Ottenne alcune concessioni dal vice-governatore
austriaco, subito annullate dal generale austriaco Radetzky. Purtroppo
l'evoluzione tragica delle Cinque giornate di Milano, degenerate in violenza,
fecero capire a Cattaneo che un dialogo tra la nobiltà lombarda e la corte di
Vienna e effettivamente difficile, stessa impressione che curiosamente ebbe
anche Radetzky che nel periodo del suo governo nel lombardo-veneto punta a
cercare il favore del volgo. Cattaneo e i suoi amici parteciparono quindi e contribuirono
alle cinque giornate di Milano, senza agire con azioni di violenza gratuita. Ma
dopo di esse, rifiuta l'intervento piemontese. Considera il Piemonte meno
sviluppato della Lombardia e lontano dall'essere democratico. Presidente del
Consiglio di guerra di Milano, che governa insieme al Governo provvisorio fino
alla caduta di Milano al ritorno degli austriaci. Dopo una serie di moti
popolari, nel frattempo, viene proclamata la repubblica romana, guidata da un
triumvirato costituito da Mazzini, Saffi ed Armellini. In seguito alla
conclusione dei moti ripara nella ivizzera e si stabilì a Castagnola, nei
pressi di Lugano, nella villa Peri. Qui ebbe modo di stringere maggiormente la
sua amicizia con Franscini, potente filosofo ticinese, e di partecipare alla
vita filosofica del Cantone e della città. Fonda il liceo di Lugano, che volle
fortemente per creare un'istruzione pubblica laica libera dal giogo del papa,
al fine di formare una generazione liberale e laica che era alla base dello
sviluppo economico del resto della Svizzera. Amico di Manara, anda a Napoli per
incontrare Garibaldi, ma poi tornò in Svizzera, perché deluso
dall'impossibilità di formare una confederazione di repubbliche. Pur
essendo più volte eletto in Italia come deputato del Parlamento dell'Italia
unificata, rifiuta sempre di recarsi all'assemblea legislativa per non giurare
fedeltà ai Savoia. Viene ricordato per le sue idee federaliste impostate
su un forte pensiero liberale e laico. Acquista prospettive ideali vicine al
nascente movimento operaio-socialista. Fautore di un sistema politico basato su
una confederazione di stati italiani sullo stile della svizzera. Avendo stretto
amicizia con filosofi ticinesi come Franscini, ammira nei suoi viaggi
l'organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputa
proprio a questa forma di governo -- è più pragmatico del romantico Mazzini -- è
un figlio dell'illuminismo, più legato a Verri che a Rousseau, e in lui è forte
la fede nella ragione che si mette al servizio di una vasta opera di
rinnovamento della communità. Pur essendogli state dedicate numerose logge
massoniche e un monumento realizzato a Milano dal massone Ferrari, una sua
lettera a Bozzoni, consente di escludere la sua appartenenza alla massoneria,
per sua esplicita dichiarazione, sovente in quel periodo tenuta segreta e
negata. Per lui scienza e giustizia devono guidare il progresso della
communità, tramite esse l'uomo ha compreso l'assoluto valore della libertà di
pensiero. Il progresso umano non deve essere individuale ma collettivo,
comunitario, attraverso un continuo confronto con l’altro. La partecipazione
alla vita della communita à è un fattore fondamentale nella formazione
dell'individuo. Il progresso può avvenire solo attraverso il confronto
collettivo comunitario. Il progresso non deve avvenire per forza o
autoritarismo, e, se avviene, avverrà compatibilmente con i tempi: sono gli
uomini che scandiscono le tappe del progresso. Nega il concetto di
“contratto” comunitario o sociale. Due uomini si sono associati per istinto. La
comunita, la diada, la società è un fatto naturale, primitivo, necessario,
permanente, universale -- è sempre esistito un federalismo delle intelligenze
umane -- è sorto perché è un elemento necessario di due menti
individuali. Pur riconoscendo il valore della singola intelligenza
monadica, afferma però, che più scambio, conversazione, dialettica, e confronto
ci sono, più la singola intelligenza monadica diventa tollerante dell’altro
nella diada. In questo modo anche la società e la comunita diadica e più
tollerante. Le due sistemi cognitivi dei individui della diada devono essere
sempre aperti, bisogna essere sempre pronti ad analizzare nuove verità.
Così come le due menti si devono federare, lo stesso devono fare gli stati
europei che hanno interessi di fondo comuni. Attraverso il federalismo i popoli,
le comunita, possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica.
La communita, il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà. La comunita,
il popolo non deve delegare la propria libertà ad un popolo lontano dalle
proprie esigenze. La libertà economica è fondamentale per Cattaneo -- è
la prosecuzione della libertà di fare -- la libertà è una pianta dalle molte
radici. Nessuna di queste radici va tagliata sennò la pianta muore. La libertà
economica necessita di uguaglianza di condizioni. La disparità ci saranno ma
solo dopo che tutti avranno avuto la possibilità di confrontarsi nella
conversazione aperta. E un deciso repubblicano e una volta eletto
addirittura rinuncia ad entrare in parlamento rifiutandosi di giurare dinanzi
all'autorità e la forza del re. Viene richiamato quale iniziatore della
corrente di pensiero federalista in Italia. Fonda il periodico Il Politecnico,
rivista che divenne un punto di riferimento dei filosofi lombardi, avente come
intento principale l'aggiornamento tecnico e scientifico della cultura
nazionale. Guardando all'esempio della Svizzera cantonale (improntata alla
democrazia diretta), define il federalismo come "teorica della
libertà" in grado di coniugare indipendenza e pace, libertà e unità. Nota
al riguardo che abiamo pace vera, quando abiamo gli stati uniti dell’Europa,
alla svizzera. Cattaneo e Mazzini videro negli nella Svizzera l’unico esempio di
vera attuazione dell'ideale repubblicano. Federalista repubblicano laico di
orientamento radicale-anticlericale, fra i padri del Risorgimento, e alieno
dall'impegno politico diretto, e punta piuttosto alla trasformazione culturale
della società. La rivista Il Politecnico fu per lui il vero parlamento
alternativo a quello dei Savoia. In accordo con il Tuveri redattore del
Corriere di Sardegna, intervenne in merito alla questione sarda in chiave
autonomistica locale. In tal senso, denuncia l'incapacità ed incuranza del
governo centrale nel trovare una nuova destinazione d'uso al mezzo milione di
ettari (più di un quinto della superficie dell'isola) che avevano costituito i
soppressi demani feudali, sui quali le popolazioni locali esercitavano il
diritto di ademprivio, per usi civici. A lui è dedicato l'omonimo
istituto di ricerca. Altre opere: “Scritti filosofici”; “Interdizioni
israelitiche”; “Psicologia delle menti associate” – questo saggio –
associazione -- non è stata completata e rimane allo stato di frammenti. Il
tema de saggio sarebbe dovuto consistere nel cercare un'interpretazione sociale
– diadica -- nello sviluppo dell'individuo o monada. La città – cittadino –
cittadinanza -- considerata come principio ideale delle istorie italiane;
Dell'India antica e moderna; Notizie naturali e civili su la Lombardia Vita di
Dante di Cesare Balbo Il Politecnico, Repertorio mensile di studi applicati
alla prosperità e coltura sociale e comunitaria; Dell'Insurrezione di Milano e
della successiva guerra. Rapporto sulla bonificazione del piano di Magaldino a
nome della società promotrice, In Lugano, Tipografia Chiusi. Le cinque giornate
di Milano di Carlo Lizzani -- interpretato da Giannini. Cattaneo e le cinque
giornate di Milano Secondo una tesi, non
comprovata e non accolta dai dizionari biografici, Cattaneo sarebbe nato a
Villastanza, frazione del comune di Parabiago in provincia di Milano. Certamente
più antica è la Villa prospiciente la Chiesa, sulla piazza ed attualmente in
proprietà del signor Luigi Gagliardi, cui è giunta per eredità dagli avi.
Un'insistente tradizione vuole che in questa casa, abbia avuto i natali
nientemeno che Carlo Cattaneo. Ma il Cattaneo deve aver passato qui soltanto
alcuni anni della sua infanzia, ospite nei mesi estivi della famiglia amica ai
propri genitori. Si veda, a tal riguardo, “Storia di Parabiago, vicende e
sviluppi dalle origini ad oggi, Unione Tipografica di Milano. (G. Tortora), da
Filosofico (Diego Fusaro) Arch. Rebecca
Fant Milano Bertone, Camagni, Panara, La
buone società: Milano industria. Almanacco istorico d'Italia, 1, Battezzatti. Carlo Cattaneo genealogy
project, su geni_family_tree. 16 marzo .
Il Famedio, su del Comune di
Milano. Carlo G. Lacaita, Raffaella Gobbo, Alfredo Turiel La biblioteca di
Carlo Cattaneo, Le riforme illuministiche in Lombardia, articolo dal saggio
introduttivo a Notizie naturali e civili della Lombardia, come riportato da
Mario Pazzaglia in Antologia della letteratura italiana, Il monumento milanese che lo raffigura reca
l'iscrizione «A Carlo Cattaneo -- La massoneria italiana» Mola, Aldo A., Storia della Massoneria
italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani.
Fonte://manfredipomar.com/ .
l'Enciclopedia, alla voce "Politecnico", in La Biblioteca di
Repubblica, UTET-DeAgostini, C. Petrone, Massoneria e identità, Taranto,
Bucarest, (aD. Fiorentino, Non proprio
un modello: gli Stati Uniti nel movimento risorgimentale italiano, l'8 giugno .
M. Teodori, "Cattaneo, Garibaldi, Cavallotti": i radicale anti-clericali,
anti-papa, in Risorgimento laico. Gli inganni clericali sull'Unità d'Italia,
Rubbettino editore, Dicembre . M.
Politi, D. Messina, G. Pasquino, M. Teodori, Dibattito "Risorgimento
laico". Presentazione del saggio di Teodori, su Radio Radicale, Milano,
Fondazione Corriere della Sera. Tuveri Giovan Battista, in Rassegna storica del
Risorgimento. Luigi Ambrosoli (scelta e introduz. di). Cattaneo e il
federalismo, Roma, Ist.Poligrafico e Zecca dello Stato- Archivi di Stato,
1999, XXXIII,990. Norberto Bobbio, Una
filosofia militante: studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1971. Michele
Campopiano, "Cattaneo e La città considerata come principio ideale delle
istorie italiane", in "Dialoghi con il Presidente. Allievi ed
ex-allievi delle Scuole d'eccellenza pisane a colloquio con Ciampi", M.
CampopianoL. GoriG. MartinicoE. Stradella, Pisa, Edizioni della Normale. Cattaneo
e Carlo Tenca di fronte alle teorie linguistiche del Manzoni, in «Giornale
storico della letteratura italiana». Arturo Colombo, Carlo Montaleone, Carlo
Cattaneo e il Politecnico, Franco Angeli Edizioni, Milano, Fabrizio Frigerio,dir.
Denis de Rougemont, Bruylant, Bruxelles, Mario Fubini, Gli scritti letterari di Carlo
Cattaneo, in Romanticismo italiano, Laterza, Bari. Carlo Lacaita , L'opera e
l'eredità di Carlo Cattaneo, Feltrinelli, Milano. Umberto Puccio, Introduzione
a Cattaneo, Einaudi, Torino); Cattaneo nel primo centenario della morte,
antologia di scritti, edizioni Casagrande, Bellinzona, Antonio Gili , Pagine
storiche luganesi, Arti grafiche già Veladini & Co SA, Lugano 1984. Carlo
G. Lacaita, Economia e riforme in Carlo Cattaneo, Ibidem, 1984, 169-186. Anna Cotti, Carlo Cattaneo in una
lettera inedita di Lavizzari, Cattaneo: studio biografico dall'Epistolario»;
opera di Vittorio Michelini (Milano, NED), Cattaneo scrittore, in Manzoni e la
via italiana al realismo, Napoli, Liguori, Cattaneo una biografia. Il padre del
Federalismo italiano, Garzanti, Milano); Il ritratto carpito di Carlo Cattaneo,
Edizioni Casagrande, Bellinzona); Cattaneo federalista europeo, in «Il Cantonetto,
Lugano, agosto , Fontana Edizioni SA, Pregassona, L'istruzione educante nel pensiero di
Cattaneo, Carlo Moos, Carlo Cattaneo: il federalismo e la Svizzera, Mariachiara
Fugazza, Una lettera inedita di Cattaneo a De Boni. La Repubblica Romana, Ibidem, 47-49. Carlo Moos, Carlo Cattaneo in Ticino, «Bollettino
della Società Storica Locarnese», numero 14, Tipografia Pedrazzini, Locarno
, 95-110. A. Michelin Salomon, Carlo
Cattaneo. Una pedagogia socialmente impegnata, Messina, Samperi, . Jessie White
Mario: Carlo Cattaneo. Cenni. Cremona. Cantoni Giovanni /Il sistema filosofico
di Carlo Cattaneo /Milano ; Torino : Dumolard, 1887 Carlo Matteucci Gian Domenico Romagnosi
Cinque giornate di Milano Federalismo in Italia Giuseppe Ferrari (filosofo)
Liceo di Lugano Stati Uniti d'Europa Sostrato (linguistica) Università Carlo
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italiani del XIX secoloFilosofi della politicaRepubblicanesimoLinguisti
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Regno d'Italia. Linguaggio e ideologia: la posizione di Carlo Cattaneo
Pubblicato il 1 novembre 2020 da Comitato di Redazione
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Edoardo Matania, Ritratto giovanile di Carlo Cattaneo, xilografia, 1887
di Alessandro Prato La centralità della figura di Carlo Cattaneo
(1801-1869) nell’ambito della cultura italiana della prima metà dell’Ottocento
è giustamente ricollegata al suo pensiero liberale e laico, agli studi
giuridici che hanno contrassegnato l’intera sua formazione, all’interesse verso
l’etnografia e la psicologia sociale [1]. La sua personalità di studioso
poliedrico e sfaccettato, fortemente influenzata dalla cultura classicista e
dalla filosofia dell’illuminismo, si è concretizzata in varie forme tutte di
grande rilevanza: il filosofo, l’economista, il critico, lo storico, lo
scrittore politico, il fondatore della rivista Il Politecnico (1839-44) e, non
da ultimo, il linguista. Nel quadro di questa ricerca intellettuale così
ricca e variegata un posto rilevante assumono i suoi studi etnico-linguistici
di impianto storico-positivo e i suoi progetti politici orientati sul concetto
di “nazionalità”. Con questo termine egli si riferiva allo stesso tempo sia
alla più alta e unitaria aggregazione culturale, sia alla diretta
partecipazione popolare allo sviluppo della società civile. Proprio sugli
interessi linguistici di Cattaneo [2] concentreremo la nostra attenzione
mettendo in evidenza l’impulso che egli ha dato alla costruzione
dell’italiano come lingua comune che riflette il nesso tra la vitalità della
lingua e la vitalità culturale della nazione di cui la lingua stessa è «il vincolo
unitario in senso geografico e sociale» (Vitale 1984: 457), perché è da essa
che dipende la possibilità per gli italiani di partecipare al progresso della
cultura del proprio Paese. La forte coscienza del carattere comune della lingua
faceva sì che Cattaneo potesse prescrivere la rinnovabilità della lingua –
rifiutando quindi le angustie del purismo, i grecismi e i particolarismi
provinciali – e sostenere anche un’opposizione recisa, basata su una coerente
visione culturale di impronta europea, sia al neotoscanismo e al fiorentinismo
manzoniano, sia all’accademismo della Crusca, in nome di un principio di unità
di cultura e di vita civile nazionale. Questa impostazione spiega poi la
sua duplice posizione rispetto ai dialetti: da una parte riproponeva in termini
nuovi, non antitetici, i rapporti fra i dialetti e la lingua,
riconoscendo la validità dei dialetti in quanto depositari di un patrimonio
storico da preservare, apprezzando i valori riposti nelle culture popolari e
sottolineando anche il valore della letteratura dialettale; dall’altra però
considerava i dialetti come elementi superabili nel processo dialettico
fondativo della lingua comune, essendo consapevole che il coinvolgimento dei
parlanti nella lingua comune poteva avvenire nella misura in cui essi
riuscivano progressivamente ad abbandonare l’uso esclusivo del dialetto.
Il primo scritto di linguistica di Cattaneo è quello sul Nesso della nazione e
della lingua Valacca coll’italiana, pubblicato nel 1837 [3], come parte di un
lavoro più generale che riguardava l’influenza delle invasioni barbariche sulla
lingua italiana e che non venne mai condotto a termine. Si tratta di uno studio
sul passaggio dalla società tardo romana a quella feudale e poi comunale,
condotto sulla scia dell’insegnamento di Romagnosi ma con una sostanziale
differenza: mentre Romagnosi tendeva a ridurre la storia della civiltà in
storia degli istituti giuridici e solo marginalmente si interessava di
questioni linguistiche, Cattaneo già in questo primo scritto – il cui carattere
storico generale è evidente – metteva al centro della sua trattazione il
problema linguistico, considerando la lingua come espressione della nazionalità
e testimonianza delle vicende della storia dei popoli. La funzione
sociale e in senso lato politica della lingua viene così enfatizzata con la
finalità di studiare le interconnessioni tra le cose, cioè gli anelli che
compongono le catene sociali che tengono uniti gli individui in quanto membri
di una comunità: le parole, che sono ricche di sottili significati, possono
essere comprese pienamente solo se situate in un contesto sociale più ampio di
quello del loro svolgersi immediato (Lewis 1987:17). Il nucleo che tiene
insieme le memorie individuali e collettive è insomma costituito dalla lingua e
l’esercizio della lingua rafforza tale nucleo dal quale poi dipende in buona
parte l’identità di un popolo, la sua coscienza storica. In questo caso
Cattaneo non si riferiva alla lingua solo come insieme di regole sintattiche e
di etichette fonologiche, ma anche come modalità socialmente e regionalmente
differenziata, dunque non la lingua come sistema, bensì come norma e
istituzione: «è nelle parole della lingua che si condensano i path, i
“sentieri” della memoria propri di ciascuna comunità» (De Mauro 2008: 67).
poliCattaneo mostrò fin dagli anni giovanili grande interesse per l’opera di
Vico, anche grazie all’influenza che ebbero su di lui le opere di Romagnosi e
Ferrari che la interpretavano alla luce dell’antropologia laica
dell’illuminismo. Proprio dal libro di Ferrari, Vico e l’Italie uscito a Parigi
nel 1839, egli prese spunto per un saggio Sulla scienza nuova che pubblicò sul
Politecnico nello stesso anno [4]. L’interesse per le età primitive e per la
vita collettiva dei popoli, il rapporto tra lingua e nazione [5] denotano la
presenza di motivi vichiani, con i quali Cattaneo corresse certi eccessi del
razionalismo settecentesco, senza mai però rinunciare all’idea di progresso, e
allo stesso tempo senza farsi influenzare dagli aspetti teologici della filosofia
di Vico. La sua formazione illuminista lo portò a non condividere nessun mito
del Risorgimento romantico e spiritualista, a celebrare come maestro Locke
contrapponendolo alle fumosità dell’idealismo, ad avversare le posizioni di
Rosmini, Gioberti e anche Mazzini. L’illuminismo nella sua opera «si
rivela sotto il carattere di una radicale antimitologia» (Alessio 1957: XIX).
Rispetto al Romanticismo la posizione di Cattaneo è contrassegnata da una
sostanziale estraneità: giustamente Timpanaro (1969: 233-34) osserva che
parlare – come spesso si è fatto – di un romanticismo di Cattaneo può essere
giusto se ci riferiamo al romanticismo come una categoria spirituale generale,
definendo romantico ogni forma di interesse per le età primitive, per le tradizioni
popolari e per il nesso lingua\nazione. Ma questo non ci deve far dimenticare
che per il Romanticismo inteso come movimento culturale storicamente definito
Cattaneo – come del resto anche Leopardi – mostrò sempre un atteggiamento
critico e distante motivato dalla sua avversione al medievalismo, a quella
concezione religiosa della vita che i romantici – sia pure con sfumature
diverse – condividevano e al modo ambiguo con cui veniva da loro esaltato lo
spirito popolare, inteso più come attaccamento alle tradizioni locali e forma
di ingenuità, che come aspirazione democratica. Sui rapporti tra romani e
barbari e sulle origini della lingua italiana Cattaneo tornò diverse volte in
altri scritti successivi quel primo saggio del 1837 [6], sostenendo la derivazione
dell’italiano dal latino volgare e limitando al massimo l’influsso delle lingue
dei barbari sulla formazione dell’italiano, tanto più che secondo lui il numero
dei barbari dominatori era stato assai esiguo contrariamente a quanto pensavano
molti storici. Per valutare al meglio questa continuazione dell’italiano dal
latino volgare per Cattaneo era necessario tener conto anche dell’influsso
esercitato dalle antiche lingue dei popoli italici conquistati dai romani
(etrusco, umbro, celtico ecc..). Questa è l’importante teoria del
sostrato senza la quale è difficile ad esempio spiegare la varietà dei dialetti
italiani e che coinvolge soprattutto la fonetica piuttosto che il lessico: non
si tratta quindi di una generale mescolanza di lingue, ma della stessa nuova
lingua pronunciata in modo diverso in base ad abitudini fonetiche precedenti
che rimanevano vive perché radicate dall’uso dei parlanti [7].
Gli studi sull’origine dell’italiano sono importanti anche per spiegare
la posizione che Cattaneo ha assunto nel dibattito sulla questione della
lingua, che ha avuto del resto una grande rilevanza nella cultura italiana del
tempo. Cattaneo, infatti, non vedeva una scissione tra il suo impegno di
linguista militante e i suoi studi di linguistica storica, al contrario
riteneva lo studio storico delle lingue come la base, e dunque il fondamento,
della linguistica normativa [8]. Di fronte al problema di come la lingua
italiana avrebbe dovuto essere formata e regolarizzata, egli sosteneva una
rigorosa battaglia antitoscana, svolta su due fronti essenziali. Il primo era
diretto – riprendendo una polemica che era stata inaugurata dagli illuministi
lombardi del Caffè – contro il modello arcaico e passatista dell’Accademia
della Crusca, che sosteneva una concezione immobilistica della lingua, estranea
a ogni innovazione e fondata sulla netta scissione tra lingua e cultura. Il
secondo fronte riguardava il modello certamente più moderno e funzionale del
Manzoni, ma che ai suoi occhi risultava troppo accentrato e basato su un
concetto di popolarità che egli non condivideva: «la dottrina della
popolarità da cui primamente si presero le mosse, oramai non significa più che
si debba agevolare l’intendimento e l’arte della lingua agli indotti: ma bensì
che si debbano raccogliere presso uno dei popoli d’Italia le forme che, più
domestiche a quello, riescono più oscure a tutti li altri. Si intende
un’angusta e inutile popolarità d’origine, non la vasta e benefica popolarità
dell’uso e dei frutti» (Cattaneo 1948: I, 8). 2560350164442_0_0_0_696_75In
alternativa, Cattaneo opponeva una forma di lingua che costituisse un punto
d’incontro delle varie tradizioni dialettali italiane in maniera da poter
svolgere veramente una funzione unificatrice della nazione. Una lingua, allo
stesso tempo illustre [9], «insieme austera e moderna» (Timpanaro 1969: 237),
adeguata non solo alla cultura letteraria, ma anche a quella scientifica e
filosofica. Fin da quel primo articolo, cui abbiamo già
fatto riferimento, Cattaneo ha dimostrato inoltre di avere due maggiori
capacità rispetto ad altri autori italiani suoi contemporanei. La prima era
quella di saper andare al di là dei ristretti confini nazionali, interessandosi
ad esempio delle lingue germaniche e del romeno. La seconda consisteva
nell’avere ben presente il principio che la comunanza di origine tra due lingue
è dimostrata dalla somiglianza delle strutture grammaticali, più che dei
vocaboli – principio che ricavava dalla nuova linguistica comparata di Bopp e
dei fratelli Schlegel [10] che, proprio in quegli anni, erano diventati per lui
importanti interlocutori anche polemici e avevano impresso nuovi sviluppi alle
sue idee linguistiche. Nel 1839 Bernardino Biondelli [11] cominciò a pubblicare
sul Politecnico una serie di articoli sulla linguistica indeuropea, recensendo
anche importanti opere dei comparatisti [12], informando così il pubblico
italiano sui risultati scientifici da loro raggiunti. Questi articoli hanno
indotto Cattaneo a prendere una posizione critica di fronte a questa corrente di
studi e a scrivere il saggio Sul principio istorico delle lingue europee
[13]. In questo saggio Cattaneo criticava l’idea che dall’affinità delle
lingue fosse possibile ricavare una comunanza d’origine dei popoli, perché era
invece convinto che non ci fosse una connessione essenziale tra affinità
linguistica e affinità razziale e che la linguistica e l’antropologia andassero
attentamente distinte; inoltre credeva che si fosse troppo insistito sull’unità
dell’indoeuropeo, trascurando le differenze tra le varie lingue dovute al
sostrato. Guardava con sospetto l’esaltazione orientalizzante che costituiva
forse la conseguenza più effimera e fuorviante del comparatismo indoeuropeo
(Marazzini 1988: 406). Per Friedrich Schlegel [14] il sostrato svolgeva
soprattutto una funzione negativa corrompendo la perfetta forma del sanscrito;
per Cattaneo, al contrario, la commistione del sanscrito con le lingue europee
primitive ha dato luogo a un innesto fecondo perché il sostrato «rappresentava
appunto il principio della varietà linguistica, non cancellata dall’azione
unificatrice esercitata dal popolo colonizzatore» (Timpanaro 1969: 266). La
parentela linguistica non è quindi nel sistema di Cattaneo identità di origine,
bensì il risultato di un lento e progressivo avvicinamento delle popolazioni,
dovuto all’istaurarsi fra di esse di rapporti politici, economici e culturali.
Non si tratta, quindi, di un punto di partenza, ma di arrivo: «Le lingue
vive d’Europa non sono le divergenti emanazioni d’una primitiva lingua comune, che
tende alla pluralità e alla dissoluzione; ma sono bensì l’innesto d’una lingua
commune sopra i selvatici arbusti delle lingue aborigene, e tende
all’associazione e all’unità. Se una volta in diverse parti d’Italia e delle
isole si parlò il fenicio, il greco, l’osco, l’umbro, l’etrusco, il celtico, il
carnico, e Dio sa quanti altri strani linguaggi, come tuttora avviene nella
Caucasia, la sovraposizione d’una lingua commune avvicinò tanto tra loro i
nostri vulghi, che ora agevolmente s’intendono tra loro. Il tempo che cangiò le
lingue discordandi in dialetti d’una lingua, corrode ora sempre più le
differenze dei dialetti; e lo sviluppo delle strade e la generale educazione
promovono sempre più l’unificazione dei popoli. Non è che una lingua
madre si scomponga in molte figlie; ma bensì più lingue affatto diverse,
assimilandosi ad una sola, divengono affini con essa e fra loro; e per poco che
l’opera si continui, o a più riprese si rinovi, divengono suoi dialetti e
infine mettono foce commune in lei» (Cattaneo 1957: 450). Sulla base di queste
considerazioni, Cattaneo, nell’ambito dell’acceso dibattito sulla monogenesi o
poligenesi del linguaggio, sosteneva una posizione particolare: rifiutava
evidentemente il primo, ma allo stesso tempo era anche distante da quel
particolare tipo di poligenismo sostenuto da Schlegel, che consisteva nel
separare nettamente pochi tipi linguistici originali dai quali sarebbero
derivate tante lingue cosiddette “figlie”. Per lui invece esistevano tante
lingue primitive originarie che si erano ridotte di numero, via via che le
tribù avevano cominciato a unirsi in aggregati più ampi. Non esistevano quindi
– come per Schlegel – delle lingue perfette fin dall’inizio (le lingue
flessive); tutte le lingue avevano origini umili o, come scriveva lui stesso,
“ferine”. I modelli di questo modo di intendere il poligenismo linguistico sono
Epicuro, Vico e Cesarotti [15]. Sempre contro Schlegel, rivendicava la
giustezza della teoria agglutinante secondo la quale anche le forme flessionali
più perfette e sofisticate derivavano dall’agglutinazione di monosillabi che
all’origine avevano una funzione autonoma. E in quel primo articolo del 1837
osservava infatti che le declinazioni della lingua latina e greca potevano
derivare da semplici nomi con un articolo affisso (Cattaneo 1948: I,
228).
psicologiadellementiassociatecarlocattaneoeditoririuniti_1024x1024-1La polemica
con Schlegel riguardava anche la questione dell’origine del linguaggio: mentre
per il primo la flessione indoeuropea era dovuta sostanzialmente a un
intervento divino, per Cattaneo, l’origine del linguaggio non poteva che essere
umana, e su questo avrebbe mantenuto una posizione coerente anche negli scritti
successivi come le Lezioni di ideologia del 1862, dove, ad esempio, confutava il
sofisma di Bonald che negava all’uomo la facoltà di costruirsi un linguaggio.
Su questo tema come per tanti altri Cattaneo è vicino alla grande tradizione
della linguistica illuminista che con Locke e Herder aveva respinto recisamente
la concezione delle idee innate e l’origine divina del linguaggio (Prato 2012:
17-22) ed è del tutto immune dalla concezione misticheggiante della linguistica
tanto cara ai romantici. Proprio nel Saggio sul principio istorico delle
lingue europee, Cattaneo si proponeva di verificare il rapporto tra fenomeni
linguistici e tradizioni culturali, considerando la ricerca linguistica in
stretta correlazione con una riflessione propriamente filosofica. L’analisi dei
fenomeni linguistici non si riduceva per lui solo a una raccolta estemporanea
di dati ma si traduceva in una vera e propria scienza sociale. Alla filosofia
analitica degli Idèologues – che era rappresentata per gli scrittori italiani
soprattutto da Condillac e Tracy – egli riconosceva senz’altro il merito di
aver esaminato con acume e precisione i problemi del linguaggio, inserendoli in
una prospettiva il più possibile concreta e razionale. Allo stesso tempo era
tuttavia consapevole anche dei suoi limiti, che consistono nell’aver indicato
come proprio oggetto di riflessione una figura di uomo dai caratteri astratti e
indipendente dal rapporto con i suoi simili. Proprio «la famosa ipotesi della
‘statua’ condillachiana gli appariva emblematica di un concetto destorificato
della natura umana» (Gensini 1993: 238). Non a caso alle conferenze tenute a
partire dal 1859 presso l’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Cattaneo
volle dare il titolo di Psicologia delle menti associate [16], dove il termine
di “psicologia sociale” è inteso appunto in senso antropologico sia come riflessione
sull’uomo a partire dai rapporti che lo legano agli altri suoi simili, sia come
ricostruzione delle mentalità e dei sistemi simbolici quale risultato di
mediazioni sociali. In queste lezioni Cattaneo osservava che il lievito che fa
fermentare le idee non si svolge in una mente sola perché «la corrente del
pensiero vuole una pila elettrica di più cuori e di più intelletti» (Cattaneo
1957: 277-78). La genesi delle idee, che Locke aveva dimostrato scaturire
dal linguaggio, in questa nuova prospettiva aperta da Cattaneo, non può che
radicarsi nella pratica sociale: «Nel commercio degli intelletti, promosso da
felici condizioni, si svolgono le idee, come nel mondo materiale, al contatto
delli elementi, si svolgono le correnti elettriche e le chimiche affinità»
(Cattaneo 1960: II, 16). Il linguaggio stesso è la società (Cattaneo 1957:
316), ed è proprio su questo terreno che l’ideologia – ovvero l’analisi delle
idee – iincontra la linguistica. Ideologia è del resto il titolo di una parte
del corso di Filosofia che Cattaneo aveva tenuto presso il liceo di
Lugano. Non a caso aveva scelto questo titolo se consideriamo che per la
sua chiara derivazione illuminista, l’ideologia [17] rappresentava la sola
reale forma di opposizione al conformismo della cultura del suo tempo perché
l’ideologia era «un’arma efficace per una filosofia democratica, atta ad
opporsi alla marea montante della filosofia restaurata, allo spiritualismo
eclettico in Francia, all’ontologismo cattolico in Italia» (Formigari 1990:
153). I principi che contrassegnano l’intera ricerca di Cattaneo e che spaziano
dal riconoscimento del valore del pensiero scientifico, alla negazione della
metafisica e alla difesa della laicità, la rendono insomma pienamente aderente
ai problemi e alle esigenze del nostro tempo, oltre che aperta a ulteriori
forme di sviluppo e approfondimento. Dialoghi Mediterranei, n. 46,
novembre 2020 Note [1] Per un ritratto complessivo di Cattaneo e dei
rapporti con i suoi contemporanei rimandiamo a Alessio (1957) e Mazzali (1990).
[2] Studiati in particolare da Timpanaro (1969: 229-83). Si veda anche Gensini
(1993: 237-40), Benincà (1994: 576-80), Geymonat (2018). [3] Negli Annali
universali di statistica, si leggono ora in Cattaneo (1948: I, 209-37). [4] Si
trova in Cattaneo (1957: 39-75). [5] Anche per Giordani la lingua è il
vincolo di una comunità che si identifica con la nazione (Cecioni 1977: 59),
[6] Per esempio nella recensione alla Vita di Dante di Balbo pubblicata sempre
sul Politecnico del 1839 (ora in Cattaneo 1957: 380-395) di cui viene criticato
il contenuto religioso e metafisico e la difesa del neo-guelfismo. [7] Questa
teoria del sostrato come è noto verrà ripresa da Ascoli nei suoi celebri
scritti linguistici. Sul rapporto tra Cattaneo e Ascoli rimandiamo alle dense
pagine di Timpanaro (1969: 284 sgg) e Timpanaro (2005: 237-51). [8] Qui lo
scrittore lombardo riprendeva un’idea ben radicata nella cultura italiana e che
risaliva al De vulgari eloquentia di Dante. [9] Su questo si può cogliere l’eco
della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca
(1817-1822) del Monti che Cattaneo del resto aveva letto fin da giovanissimo
con passione e interesse. [10] Sulla linguistica dei comparatisti si veda
Morpurgo Davies (1994). [11] Sulla funzione positiva svolta da Biondelli per lo
sviluppo degli studi linguistici in Italia vedi De Mauro (1980: 49-52). [12]
Per esempio la Deutsche Grammatik di Jacob Grimm. [13] Pubblicato sul
Politecnico nel 1841 è certamente il suo scritto linguistico-etnografico più
ampio e originale. [14] Qui Cattaneo fa riferimento al libro: Uber die Sprache
und Weisheit der Indier del 1808. Sulle idee filosofico-linguistiche di
Schlegel vedi Timpanaro (2005: 17-56). [15] In particolare su Cesarotti e sul
suo Saggio sulla filosofia delle lingue (1800) che è stato per Cattaneo una
lettura importante vedi Gensini (2020). [16] Pubblicate postume da Bertani
nella raccolta di Opere edite e inedite in 7 volumi usciti tra il 1881 e il
1892, si leggono ora in Cattaneo (1957: 270-326). [17] Ideologia è del resto il
titolo stesso di una parte del corso di Filosofia che aveva tenuto presso il
liceo di Lugano: si trova ora in Cattaneo (1960: III, 3-204). Riferimenti
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Bologna, il Mulino. Mussafia A. (1866), Reihenfolge der Schriften Ferdinand
Wolf’s, Wien, Hof- und Staatsdruckerei. Ramusio G. B. (1556), Navigationi et
viaggi, Venezia, Giunti, vol. III Ranalli F. (1838-1840), Vite di uomini
illustri romani dal risorgimento della letteratura italiana, Firenze, Pasquale
Pagni. Romanini F. (2007), «Se fossero più ordinate, e meglio scritte…».
Giovanni Battista Ramusio correttore ed editore delle Navigationi et viaggi,
Roma, Viella. Rusconi M. (1842), Sopra i lai o canti degli anglo-normanni, in
“Giornale dell’I. R. Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti o Biblioteca
italiana”, III, pp. 177-187. Delle Lezioni tenute al Liceo di Lugano tra
anni Cinquanta e Sessanta, si analizzano le versioni preparatorie di un
paragrafo dedicato all’originarsi della poesia da canti e balli popolari (con
particolare attenzione alla cosiddetta ballata). Ciò consente di riconoscere in
Cattaneo, che in quel periodo ha ripreso l’attività di studio e divulgazione,
il perdurare d’interessi terminologici e il legame con dibattiti che avevano
coinvolto suoi maestri, colleghi e amici nella prima metà dell’Ottocento.
Curiosità e passioni di gioventù s’intrecciano con letture nuove, alcune delle
quali avranno eco nella seconda serie de "Il Politecnico", altre
rimarranno limitate alla pratica didattica e si possono in parte scoprire
grazie agli appunti preparatori. Indice del saggio su Cattaneo linguista –
recensione Resurggimento. Carlo Cattaneo. Keywords: cinque giornate, community,
communita, diada, monada, associazione, contratto sociale, conversazione,
psicologia filosofica, psicologia, sociologia filosofica, ego e alter ego,
logica e linguaggio, il latino, l’italiano di lombardia, il natale di Cattaneo
– regione Lombardia – provincia -- – Milano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cattaneo” – The Swimming-Pool Library.
Cattaneo (Roma).
Filosofo. Grice: “I love Cattaneo, but then you would, wouldn’t you – He
reminds me of H. L. A. Hart, and then *I* am reminded that Cattaneo translated
Hart to Italian as a pastime! What I like about Cattaneo is that instead of
focusing on “Roman law” and Cicero – he focuses on Pinocchio!”. Si
laurea a Milano sotto Treves. Su consiglio di Treves e Bobbio ha soggiornato
al St. Antony's, criticando Hart, professore di Giurisprudenza, di cui su
suggerimento di Bobbio e Entreves ha tradotto “Il concetto di legge”. Insegna a
Ferrara, Milano, Sassari, Treviso. Analizza l'evoluzione storica delle teorie
della pena e le opere dei grandi giuristi italiani. Membro della Società
Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Altre opere: Il concetto di
rivoluzione nella scienza del diritto” (Milano); “Il positivismo giuridico”
(Milano); “Il partito politico nel pensiero dell'Illuminismo e della
Rivoluzione” (Milano); “Le dottrine politiche” (Milano); Illuminismo e
legislazione” (Milano); “Filosofia della Rivoluzione” (Milano); “Diritto
liberale” “Giurisprudenza liberale” (Ferrara); “Filosofia del diritto,
Ferrara); La filosofia della pena” (Ferrara); Delitto e pena” (Milano); Il
problema filosofico della pena, Ferrara); Stato di diritto e stato totalitario,
Ferrara); Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano); “Metafisica
del diritto e ragione pura, studi sul platonismo giuridico di Kant” (Milano);
“Goldoni ed Manzoni: illuminismo e diritto penale, Milano); “Carrara e la
filosofia del diritto penale, Torino); “Libertà e Virtù” (Milano); Pena,
diritto e dignità umana” (Torino); Diritto e Stato nella filosofia della rivoluzione”
(Milano); Suggestioni penalistiche”; “Persona e Stato di diritto Discorsi alla
nazione europea, Torino); Critica della giustizia, Pisa); L'umanesimo giuridico
penale” (Pisa); Pena di morte e civiltà del diritto” (Milano); Terrorismo ed
arbitrio, Il problema giuridico del totalitarismo, Padova); Il liberalismo penale
di Montesquieu” (Napoli); Dignità umana e pace perpetua, Kant e la critica
della politica” (Padova); “L’idolatria sociale (Napoli); “L’umanesimo
giuridico, Napoli); Kant e la filosofia del diritto” (Napoli); Diritto e forza.
Un delicato rapporto, Padova); Giusnaturalismo e dignità umana, Napoli); Dotta
ignoranza e umanesimo” (Napoli); La radice dell'Europa: la ragione, uno studio
filosofico-giuridico (Napoli). “Analisi del linguaggio e scienza politica”
(Filosofia del diritto); “Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto,
Milano, Istituto editoriale Cisalpino); “Il positivismo giuridico e la
separazione tra il diritto e la morale” (Istituto Lombardo di Scienze e
Lettere, Milano. Richiamo a istituti di diritto privato per la risoluzione del
problema dell'origine dello stato, in “La norma giuridica: diritto pubblico e
diritto privato, Atti del IV Congresso di Filosofia del diritto, Pavia, Milano,
Giuffre); “Il realismo giuridico” in »Rivista di Diritto Civile”; Alcune
osservazioni sui concetto di giustizia in Hobbes, in Il problema della
giustizia: diritto ed economia, diritto e politica, diritto e logica, Atti del
V Congresso Nazionale di Filosofia del Diritto, Roma (Milano, Giuffre); “Hobbes
e il pensiero democratico nella Rivoluzione inglese e nella Rivoluzione
francese, in »Rivista critica di storia della filosofia”; “Il positivismo
giuridico inglese: Hobbes, Bentham, Austin, Milano, Giuffre); Il partito
politico nel pensiero dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, Milano,
Giuffre); Le dottrine politiche di Montesquieu e di Rousseau, Milano, La Goliardica
Stampa); Il positivismo giuridico, in »Rivista Internazionale di Filosofia del
Diritto«, “Il concetto di diritto” (Milano, Einaudi); “Considerazioni sul ‘significato’
della proposizione, ‘I giudice crea diritto«, in »Rivista Internazionale di
Filosofia del Diritto«; Illuminismo e legislazione, Milano, Edizioni di
Comunita); Leggi penali e liberta del cittadino, in »Comunita«, Montesquieu,
Rousseau e la Rivoluzione francese, Milano, La Goliardica); dispense del corso
di Storia delle dottrine politiche, Milano); Quattro Punti, in »Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto«, Liberta e virtu nel pensiero politico
di Robespierre, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino); Considerazioni
sull'idea di repubblica federale nell'illuminismo francese, in »Studi
Sassaresi”,Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano, Istituto
Editoriale Cisalpino); Filosofo e giurista liberale, Milano, Edizioni di
Comunita); Filosofia politica e Filosofia della pena, in Tradizione e novita
della filosofia della politica, Atti del Primo Simposio di Filosofia della
Politica, Bari, 11-13 maggio 1970, Bari, Laterza); Pigliaru: La figura e
l'opera, testo della commemorazione tenuta i125 giugno 1969 nell' Aula Magna
dell'U niversita di Sassari, in »Studi sassaresi«, Serie Ill, 11 (1968-1969),
Milano); Le elezioni e il liberalismo. Autonomia dell'Universita e neo-corporativismo,
in »La Rassegna Pugliese«, Anti-Hobbes, ovvero i limiti del potere supremo e il
diritto co-attivo dei cittadini contro il sovrano (Milano, Giuffre);
Anti-Hobbes o il diritto co-attivo dei cittadini --; Considerazioni suI diritto
di resistenza e liberalismo, in »Studi Sassaresi«, Ill, Autonomia e diritto di
resistenza, Milano); La dottrina penale nella filosofia giuridica del
criticismo, in Materiali per una Storia della Cultura Giuridica, ICorso di
filosofia del diritto, Ferrara, Editrice Universitaria); La filosofia della
pena nei secoli XVII e XVII: corso di filosofia del diritto, Ferrara, De
Salvia). Discutendo giurisprudenza con Treves, pone il problema che sarebbe
stato al centro di tutta la sua vita di uomo impegnato nello studio,
nell'insegnamento, nella vita civile. Interrogandosi suI rapporto fra “rivoluzione”
e “ordine giuridico”, vale a dire fra “fatto” (de facto) e “diritto” (de iure),
giunge alIa conclusione che da un punto di vista epistemico-doxastico-giudicativo-conoscitivo-descrittivo
non e possibile distinguere tra ordine giuridico e regime di violenza,
autoritatismo, perche il diritto non e giusto per sua intrinseca natura, ma
soltanto se e concretamente rivolto ad attuare il valore del giusto e rispetto
della persona umana. Il rapporto fra forza autoritaria e la forza della legge,
che da il titolo a uno suo saggio, e la relazione fra diritto o gius come
valore, costituisce infatti la questione su cui non cessa mai di interrogarsi,
nella prospettiva del fondamento metafisico (escatologico, propriamente) del
concetto di ‘giure’ non e riducibile alla volizione o ragione pratica del
legislatore propriamente adgiudicato (alla Aristotele). In questo modo,
Cattaneo indica la ricerca del giusto come compito specifico della filosofia
del diritto e pre-annuncia il suo intero percorso filosofico
caratterizzato da un assunto basilaro. La filosofia, come assere Socrate, ha il
suo carattere precipuo nel porre un problema piuttosto che nel risolverlo o
dissolverlo, e, come nel mito platonico della caverna, l’analisi concettuale si
muove suI piano della trascendenza escatologica, diverso e superiore a quello
della realta empirica o naturale. Anche la filosofia giuridica, in quanto
filosofia, e aperta alla escatologia metafisica e, avendo come base la conoscenza
del codice u ordine del diritto romano-italiano *positivo*, pone il problema
della sua valutazione escatologica alIa luce del valore della dignita kantiana
umana e del concetto di un “stato di diritto”. Compito del filosofo non e dunque
*descrivere* il diritto positive fattico empirico esistente, ma conoscerlo per
condurne una meta-analisi critica al fine del suo adeguamento al modello ideale
platonico socratico di giustizia contro il neo-trasimaco di Hart. Il problema
giuridico della rivoluzione. Il concetto
di rivoluzione nella scienza e nel diritto, Milano-Varese. Neokantismo nella filosofia
del diritto di Treves, in Diritto, cultura e liberta. Diritto e forza. Un
delicato rapporto, Paova. La filosofia del diritto: il problema della sua
identita, in Filosofia del diritto. Identita scientifica e didattica oggi,
Cattania. IL SAGGIO DI MARIO A CATTANEO “CARLO GOLDONI E ALESSANDRO
MANZONI ILLUMINISMO E DIRITTO PENALE IL tema del rapporto tra
Diritto e Letteratura è stato più volte trattato dal Prof. Mario Cattaneo che
ha pubblicato i seguenti saggi: ”Riflessioni sul <De Monarchia> di Dante
Alighieri” del 1978, “L’Illuminismo giuridico di Alessandro Manzoni” pubblicato
nel 1985 nelle Memorie del Seminario della Facoltà di Magistero di Sassari.,
“Carlo Goldoni e Alessandro Manzoni. illuminismo e diritto penale” nel 1987 e
“Suggestioni penalistiche in testi letterari “ del 1992. Nella Introduzione del
volume su Goldoni e Manzoni rileva che i rapporti tra diritto e letteratura e
la discussione di problemi giuridici in opere letterarie non sono stati in
generale molto studiati; non mancano tuttavia alcune ricerche concernenti
soprattutto il diritto nel teatro Sono stati compiuti degli studi sul
significato giuridico di alcune opere di Shakespeare da R. von Jhering
(1818-1892) e J. Kohler (1849-1919) ed è stato esaminato il
pensiero di alcuni poeti tra cui in Italia soprattutto Dante del quale si sono
occupati Francesco Carrara (1805-1888), Vaturi , Giorgio Del
Vecchio (1878-1970), Mossini e lo stesso Cattaneo . Vi
sono importanti opere della letteratura europea che hanno affrontato problemi
giuridici rilevanti come il “Michael Kolhaas” pubblicato nel 1810 da H.
von Kleist (1777-1811) e “Delitto e Castigo” di Dostoevskijj ,l’ Autore
rileva peraltro che la presenza di temi giuridici nella letteratura è
particolarmente rilevante nell’illuminismo data la sensibilità civile di questo
movimento. Il volume è dedicato all’esame degli aspetti giuridici – soprattutto
di diritto penale – di due grandi autori italiani : Carlo Goldoni ed Alessandro
Manzoni. Cattaneo rileva l’accostamento tra i due grandi letterati deriva
da alcuni elementi di contatto : Goldoni passò l’ultima parte della vita in
Francia e vide il declino dell’ancien regime francese e Manzoni trascorse parte
della giovinezza in Francia nel periodo napoleonico. Goldoni visse gli ultimi
anni della sua vita a Parigi nei primi anni della Rivoluzione francese ma non
sappiamo come abbia seguito le fasi della stessa mentre Manzoni li seguì e
scrisse l’ode “Del trionfo della libertà” che manifesta le opinioni del suo
Autore e verso la conclusione della vita scrisse “La rivoluzione francese del
1789 e la rivoluzione italiana del 1859” un saggio che fu pubblicato postumo e
che, secondo Cattaneo, è ispirato a sentimenti di libertà i due
scrittori hanno un orientamento differente Goldoni, bonario ed
ottimista, esamina gli aspetti gioiosi della vita pur con una punta di
satira e critica della società mentre Manzoni esamina gli aspetti essenziali e
drammatici della esistenza umana, sotto il profilo religioso Goldoni
risulta tiepido ed alquanto indifferente mentre Manzoni nelle sue opere
affronta il problema religioso. Cattaneo evidenzia che l’accostamento tra
i due letterati è già stata istituita da alcuni studiosi e cita l’opinione
espressa da Ferdinando Galanti nel 1973 che evidenzia che Goldoni diede
all’ Italia la nuova commedia, il ritratto della vita sulla scena, Manzoni è
importante per la nuova tragedia ed il romanzo lasciando un popolo di caratteri
originali, vivi e che rimarranno nella memoria di tutti come figure casalinghe,
parlanti, che saranno ereditate di generazione in generazione quale caro tesoro
di famiglia. Galanti ritiene che Manzoni abbia continuato , nel cammino della
verità, l’opera di Goldoni. Questo giudizio è ripreso da Federico
Pellegrini in uno scritto del 1907 che indica come elemento comune <il
rispetto della natura> e ricorda i giudizi favorevoli di Manzoni su Goldoni
in materia di lingua. Pellegrini rileva che nelle Commedie di Goldoni come nei
Promessi Sposi l’esuberanza della fantasia non offende la sobrietà dell’insieme
e vi è una processione di personaggi buoni e cattivi al di sopra dei quali vi è
una idealità: la vittoria del bene sul male, questo è la morale di tutti i drammi.
Pellegrini raffronta ed accosta i personaggi delle opere dei due
letterati e conclude affermando che: i geni si incontrano . Il Mazzoleni ha
istituito un confronto fra “I Promessi Sposi” e “La Putta onorata”
commedia in cui Bettina, fidanzata di Pasqualino, viene rapita dal marchese
Ottavio. Le coincidenze tra le due opere peraltro escludono l’influsso di
Goldoni su Manzoni, per cui vi è affinità non dipendenza. Il Petronio nel
suo libro ”Parini e l ‘illuminismo lombardo” mette in rilievo che. “ben quattro
volte l’Italia ha tentato una letteratura realistica” : “Una prima volta con
l’illuminismo, col Parini e il Goldoni; una seconda con il romanticismo
lombardo, i tentativi generosi del Berchet nel verso e i risultati luminosi del
Manzoni nella prosa; una terza col verismo meridionale e la soluzione geniale
ma singolare, senza seguito, del Verga; una quarta in questo secondo
dopoguerra” Lina Passarella ha associato Goldoni, Manzoni e
Collodi nel suo studio “Goldoni filosofo” ed ha definito i tre letterati “i più
grandi umoristi del mondo” scrivendo che “Mentre il Manzoni narra di lotte
intime di uomini travolti dalla malvagità e Collodi sorride delle cadute e
degli sforzi di quel Pinocchio fatto di legno ed emotivo e vivo di tutti gli
elementi dell’essere umano, sintesi di tutta l’umanità aggrappantesi sulla
ripida china che conduce a essere degni di chiamarsi umani, il sorriso col
quale Goldoni guarda i suoi attori dice che il suo problema è la socialità:
scontri ed incontri, beffe e incomprensioni, cadute e risollevamento nelle
opinioni altrui” Cattaneo evidenzia anche che un breve cenno
comparativo tra Goldoni e Manzoni sotto il profilo giuridico è svolto anche da
A. C. Jemolo il quale scrive a riguardo che Goldoni, che aveva studiato
giurisprudenza, cercò nella commedia “L’Avvocato veneziano” di darci una
figurazione di avvocato virtuoso, per cui la toga è davvero una divisa di
soldato: Manzoni nel mondo del diritto non ci ha lasciato che la immagine
imperitura di Azzecca-garbugli, il ricordo caricaturale delle Gride dei
Governatori e quello del conte-zio, alto burocrate del suo tempo, il quadro
atroce dei giudici della Colonna infame. Padoan ha rilevato in un suo
scritto che << anche oggi, e non senza qualche ragione, potremmo indicare
in Goldoni una polemica contro l’ozio nobiliare, anteriore al Parini; un
atteggiamento di interesse verso il mondo degli umili, che non fu senza
influenza sul Manzoni…>>> Cattaneo conclude l’introduzione
al volume affermando che le citazioni prima esposte sono sufficienti a
giustificare la trattazione dei due autori in un unico volume , la sua
analisi prende in considerazione la visione del problema giuridico dei due
scrittori ed analizza il pensiero giuridico nelle sue premesse di fondo .nelle
sue fondazioni filosofiche , nella misura in cui fare questo è possibile; a tal
fine ritiene che l’elemento unificatore dei due autori in relazione al diritto,
indicato anche nel titolo è l’illuminismo L’autore evidenzia che
nel Goldoni avvocato, difensore della professione forense, che mette in rilievo
diversi problemi giuridici in molte sue commedie, si risente , in modo non
marcato, l’influenza dell’Illuminismo , che è la radice della sua satira
sociale, della sua garbata critica della nobiltà e delle disuguaglianze sociali,
come in Manzoni critico della giustizia umana e della incertezza giuridica, che
satireggia i pubblici funzionari e gli avvocati, raccogliendo l’eredità
del grande nonno Cesare Beccaria (1738-1794) In conclusione Cattaneo
ritiene che, oltre le apparenti differenze,.<< sia rintracciabile, nel
pensiero di Goldoni e di Manzoni, il filo conduttore dato dai principi
fondamentali dell’illuminismo giuridico, principi che si possono individuare
essenzialmente nella certezza del diritto e nella dignità della persona
umana>> Nel primo capitolo del volume l’autore riferisce
degli <Studi su Goldoni avvocato> rilevando che la critica ha tenuto
presente in modo primario del significato letterario delle sue opere un
breve cenno agli studi giuridici di Goldoni era stato fatto da un grande
recensore contemporaneo al commediografo Friedrich Schiller
(1759-1805) nelle due recensioni alla traduzione tedesca dei
“MÉMOIRES.” nella letteratura italiana Zanardelli, importante esponente
dell’Italia risorgimentale, cita Goldoni in alcuni passi del volume
“L’Avvocatura” soffermandosi sulla figura della commedia “L’Avvocato
veneziano” delineato come il tipo ideale dell’avvocato. Gli scritti
italiani più importanti dedicati a Goldoni avvocato, scarsamente
ricordati nelle bibliografie goldoniane, sono opere di due studiosi parenti di
Cattaneo. Il primo è l’articolo “Carlo Goldoni avvocato” di Alessandro
Pascolato (1841-1905) il secondo è di Mario Cevolotto , avvocato di
Treviso Il Pascolato rifiuta la tesi che Goldoni sia stato un
dilettante della giurisprudenza ed afferma la reale e profonda cultura
giuridica attestata dall’esercizio dell’attività forense a Pisa dove vinse
persino tre cause in un mese e che evidenziano il carattere schietto e buono
anche in mezzo ai volumi dei dottori ; il Cervolotto esamina gli studi
giuridici di Goldoni di tre anni a Pavia, ad Udine nel 1726, la sua attività di
coadiutore del cancelliere criminale a Chioggia nel 1728 e la sua laurea in
legge a Padova del 1731. Un capitolo è dedicato alla attività professionale a
Pisa (1744-1748) dove esercitò più nel criminale che nel civile. Il penultimo
capitolo è dedicato all’esame degli aspetti giuridici delle commedie goldoniane
specie la commedia “L’Avvocato veneziano” che costituisce una esaltazione del
foro veneto e altre note commedie. Cervolotto ritiene che Goldoni fu senza
dubbio giurista, oltre che avvocato di valore non certo mediocre o comune
evidenziando i buoni studi benché saltuari da lui compiuti e la sua conoscenza
di molte questioni giuridiche presenti nelle sue opere . Cattaneo cita anche
gli studi Gaetano Cozzi e di Gianni Zennaro Il secondo capitolo è
intitolato “Goldoni, la procedura criminale e Il problema penale” e
Cattaneo riporta un passo dei “Mémoires” di Goldoni che tratta il tema della
procedura criminale ed è commentato dal Pascolato che rileva che <<quella
procedura criminale, colla continua ricerca della verità, coll’assiduo studio
dei caratteri, lo aveva ammaliato: è una lezione interessantissima per lo studio
dell’uomo. Di verità e di caratteri Goldoni faceva allora provvisione per i
giorni, ancora lontani, della sua gloria. E intanto voleva diventare
cancelliere>> Goldoni sottolinea la presenza nel diritto
vigente di limiti posti all’inquisizione dell’imputato, a tutela di questi ma
non appaiono nelle sue opere chiari intenti riformatori della procedura
criminale. IL terzo capitolo è intitolato “L’Avvocato veneziano : Goldoni fra
diritto civile e diritto naturale” Cattaneo rileva che Goldoni stesso mette in
rilevo i due fondamentali temi della commedia : la difesa della onorabilità
della professione forense mettendo in scena la figura di un avvocato onesto ed
onorato e la contrapposizione di due sistemi giuridici e giudiziari, quello di
diritto comune e quello veneto, dando a quest’ultimo la preferenza; la
commedia come è stato evidenziato da alcuni studiosi, rompe una tradizione
letteraria e teatrale di derisione e messa in cattiva luce della figura
dell’avvocato, dell’uomo di legge che troveremo invece nella figura
completamente negativa del dottor Azzeccagarbugli ne “I Promessi sposi”
Il quarto capitolo si intitola “Il giusnaturalismo illuministico di
Goldoni: <<La Pamela>> e altre opere” Cattaneo rileva che le
radici illuministiche e giusnaturalistiche del Goldoni si manifestano in
rapporto alla procedura penale, al diritto penale, al problema delle fonti del
diritto, ai rapporti fra la funzione del giudice e le opinioni dei giuristi. Il
giusnaturalismo e l’Illuminismo di Goldoni si manifestano soprattutto nelle
opere teatrali aventi come oggetto , o come sottofondo, il tema fondamentale
della uguaglianza fra gli uomini, al di là delle differenze fra le classi
sociali. Tra le opere significative per questa prospettiva giuridica teatrali
emergono “La Pamela”, “Il Cavaliere e la Dama” , “Il Feudatario” “Le femmine
puntigliose” il dramma giocoso per musica “I portentosi effetti della Madre
Natura” e la tragicommedia (così definita dall’autore stesso) in versi “La
bella selvaggia” che trattano il contrasto tra natura e società, infine la
commedia in versi “La peruviana” che vengono esaminate negli aspetti più
essenzialmente rilevanti sotto il profilo filosofico-giuridico
dall’autore che conclude il capitolo affermando che : “Quando si
trattava dei valori supremi, come la pace, anche Goldoni sapeva essere
religioso e invocare la grazia del cielo” La seconda parte del volume è
dedicata all’analisi di Alessandro Manzoni. Il primo capitolo si intitola
“Studi su Manzoni e il diritto” e Cattaneo passa in rassegna gli studi
esistenti dedicati espressamente ed esclusivamente o all’idea di giustizia nel
pensiero di Manzoni, o agli aspetti giuridici della sua opera. L ‘autore
commenta il lungo articolo di Michele Zino del 1916 “Il diritto privato nei “
Promessi Sposi” , esamina poi l’articolo di Alessandro Visconti “Il pensiero
storico-giuridico di Alessandro Manzoni nelle sue opere” del 1919. Il più
importante e più completo studio sul pensiero giuridico di Manzoni è il volume
di Roberto Lucifredi del 1933 “Alessandro Manzoni e il diritto” . Tale volume
si conclude con alcune considerazioni generali sulla mentalità giuridica di
Manzoni e Lucifredi ritiene che Manzoni era molto dotato per lo studio del
diritto e sarebbe divenuto un ottimo cultore delle discipline giuridiche, un
ottimo magistrato, un ottimo avvocato nel senso più nobile della parola e della
funzione. . Nel 1939 Fortunato Rizzi ha pubblicato il volume “Alessandro
Manzoni. Il Dolore e la Giustizia” di cui la terza parte è dedicata al
problema della giustizia. Nel 1942 è uscito il saggio di Enrico Opocher “ Il
problema della giustizia nei Promessi Sposi” in cui ribadisce che tutto
il capolavoro manzoniano è essenzialmente un poema sulla giustizia e conclude
affermando: ”I Promessi Sposi non costituiscono soltanto la storia attraverso
cui la Provvidenza sana le sofferenze del giusto, ma anche, e vorrei dire
soprattutto, la storia attraverso cui la Provvidenza feconda queste sofferenze,
facendone lo strumento della redenzione degli oppressori” Nel 1961 il Tanarda ha
pubblicato uno scritto “Il diritto nell’opera di Alessandro Manzoni” in
cui ribadisce che Manzoni era cresciuto in una famiglia coperta da una grande
aureola giuridica, nipote di Cesare Beccaria, familiare dei Verri, amico di
Rosmini; per lo scrittore lombardo l’uso del diritto autentico non può mai
contrastare con la morale. Concludo ricordando la strenna natalizia
dell’editore Giuffrè pubblicata in occasione del bicentenario manzoniano con il
titolo “<Se a minacciare un curato c’è penale>”Il diritto nei
Promessi Sposi” con saggi di noti docenti quali E. Opocher e S. Cotta.
(1920-2007) Il secondo capitolo si intitola “Valori morali, giustizia, diritto
naturale” Cattaneo ritiene opportuno esaminare la concezione manzoniana della
giustizia, anche nelle sue premesse teoriche sulla base sia di alcuni brani, di
pensieri inediti e di scritti di sapore filosofico. Dalla analisi di due
postille redatte da Manzoni e da un brano scritto dallo stesso Cattaneo deduce
che il grande scrittore lombardo esalta la tesi della certezza delle verità
morali, tra le quali l’idea del giusto istituendo un paragone tra verità morali
e verità matematiche. Secondo Cattaneo questo brano manzoniano è
affine alla dottrina platonica delle idee espressa nel dialogo
“Parmenide” , vi è inoltre una affinità con Kant che afferma che non è
cosa assurda pretendere di far derivare il concetto di virtù dall’esperienza,
perché ciò significherebbe fare della virtù qualcosa di ambiguo e di mutevole
secondo le circostanza. In realtà è sulla base della idea di virtù che si
giudicano gli esempi empirici di virtù e di comportamento morale.
L’Autore richiama anche la filosofia di Rosmini , il più grande filosofo
italiano dell’Ottocento , la cui filosofia si fonda sull’idea dell’essere e
cita un brano del “Nuovo saggio sull’origine delle idee” .Va anche
evidenziato che Manzoni ribadisce una sostanziale e piena identità fra morale e
religione, come si rileva dal capitolo III delle “Osservazioni sulla morale
cattolica “ dedicato alla critica della distinzione fra filosofia morale e
teologica . Cattaneo sottolinea che per Manzoni le leggi umane non raggiungono
mai la giustizia, viceversa, la religione conduce naturalmente alla giustizia,
senza ostacoli, perché si appella alla coscienza, perché porta a dare
volontariamente (in vista di un bene futuro), il che non provoca opposizioni,
ma solo ringraziamenti e benedizioni. Il capitolo terzo si intitola “Le
gride e l’illuminismo giuridico ne < I Promessi sposi>” . Cattaneo
rileva che se il problema morale e religioso della giustizia pervade tutta
l’opera di Manzoni, ed in particolare il suo celebre romanzo, Stefano Stampa,
figliastro dello scrittore lombardo, narra che Manzoni dichiarò che la prima
idea del suo romanzo gli venne dalla lettura della grida fatta vedere dal
dottor Azzeccagarbugli a Renzo, nella quale sono minacciate pene contro coloro
i quali <con tirannide> e con minacce costringono un prete a non
celebrare un matrimonio . Dall’esame dei brani di ”Fermo e Lucia” e
dei “I Promessi sposi” risulta che Manzoni muove una pesante critica al
sistema, in quei tempi diffuso, di consorterie e di caste , inoltre,
descrivendo criticamente la società e la situazione giuridica di Milano sotto
la dominazione spagnola, indica chiaramente il modo in cui le leggi penali non
dovrebbero essere e le caratteristiche che le stesse non dovrebbero avere
Il risultato pratico di quella legislazione è da un lato l’impunità del
colpevole e dall’altro la vessazione degli innocenti e dei privati indifesi da
parte dell’autorità Manzoni raccoglie l’eredità dell’Illuminismo
giuridico nella critica alla proliferazioni delle leggi e dell’incertezza
giuridica, che può sorgere sia dalla mancanza di determinazione precisa delle
fattispecie penali, sia dalla enumerazione eccessivamente prolissa dei delitti,
a questa critica è connessa la denuncia dell’arbitrio degli esecutori della
legge, che possono aumentare a capriccio le pene delle gride ed ai quali è
sottoposta ogni mossa dei cittadini Lo scrittore lombardo critica anche
la comminazione di pene sproporzionate , misura considerata ingiusta ed
inefficace per la prevenzione dei crimini , l’impunità dei colpevoli è indicata
dagli illuministi come il risultato pratico che spesso deriva dalla eccessiva
severità o crudeltà delle pene. Il quarto capitolo si
intitola “La critica dell’utilitarismo e della prevenzione sociale” .
Cattaneo sottolinea che la sfiducia di Manzoni nella giustizia penale umana si
traduce in un atteggiamento critico verso la prevenzione generale come compito
e funzione della pena, che si riscontra in numerosi passi de “I Promessi Sposi”
; l’autore cita a proposito il brano del capitolo V in cui è inserita la
conversazione alla tavola di Don Rodrigo, a cui assiste Padre Cristoforo,
relativa al tema della carestia. Il conte Attilio raccoglie la tesi che la
carestia dipenda dagli intercettatori e dai fornai che nascondono il grano e
ribadisce che bisogna impiccare senza misericordia tali delinquenti senza
processi, in tal modo il grano sarebbe saltato fuori da tutte le parti. .
Questo brano rappresenta la mentalità violenta ed aggressiva che sta alla base
della teoria della pena come <esempio>, cioè una pena esemplare
esorbitante rispetto alla effettiva colpevolezza del reo , mirata
esclusivamente a <dare un esempio> agli altri, per uno scopo sociale ed
utilitaristico; in tal modo viene peraltro giustificata la punizione
dell’innocente. In altri passi del celebre romanzo manzoniano si rileva un
atteggiamento mirato ad indicare non solo l’ingiustizia ma anche l’inefficacia
e l’inutilità della prevenzione generale, unitamene ad una condanna della
moltiplicazione dei supplizi, che finisce per favorire l’impunità, come messo n
evidenza dagli scritti di molti giuristi illuministi. Significativo è a
riguardo la conversione dell’Innominato e le ragioni per cui il potere pubblico
non intende procedere contro lo stesso per i suoi passati delitti, in al modo
viene dimostrata l’inefficacia della punizione nel caso di una persona che ha
cambiato vita perché questa potrebbe avere solo l’effetto opposto a quello
voluto Nel penultimo capitolo il commento di Manzoni sulla situazione del
bando di Renzo dal Ducato di Milano dopo le vicende della giornata di San
Martino denota la tesi dell’impunità come risultato dell’eccessiva proliferazione
di minacce legislative e del carattere esorbitante, situazione che porta ad una
frattura tra il comando legislativo e l’esecuzione della pena. Cattaneo
conclude il capitolo istituendo un parallelo sostanziale ed oggettivo (se pure
a qualcuno potrà apparire sforzato) tra Manzoni e Kant, dato che: “la
visione della morale, nonché del diritto, ed in particolare del diritto penale
è svolta in una prospettiva anti-empiristica e ani-utilitaristica, ed è
caratterizzata da un <liberalismo cristiano >, vòlto a difendere la
persona umana da ogni prevenzione collettivistica e <sociale>”
Il quinto capitolo si intitola“ La storia della Colonna Infame”
L’autore ribadisce che il motivo fondamentale della critica conto la ragione di
stato, contro l’utilitarismo sociale, contro il prevalere dell’interesse
generale e sociale sui diritti individuali sta alla base dello scritto
“Storia della Colonna Infame” del 1842 due anni dopo l’edizione definitiva de
“I Promessi Sposi”. . Di recente tale opera ha sollevato critiche severe sotto
il profilo storiografico e si è accusato il Manzoni di non essere uno storico ,
ma di guardare alla storia da moralista, sul modello del cosiddetto
<astrattismo> illuministico settecentesco , e quindi di non studiare le
vicende storiche con partecipazione e simpatia ma di giudicare i comportamenti
umani secondo un codice morale superiore Tale critica è stata formalizzata da
Benedetto Croce . Dopo una lunga ed attenta analisi dello scritto e di
alcuni dei suoi maggiori studiosi Cattaneo conclude che i punti di vista in
relazione ai quali il volume manzoniano ha dato un importante contributo sono
tre: 1) Manzoni ha dato un contributo alla comprensione della storia,
affermandone la non inevitabilità e questo punto ha suscitato le maggiori discussioni
interpretative e le reazioni negative dei seguaci dello storicismo. 2) Tale
scritto manzoniano, come ha sottolineato Giuseppe Rovani, <non è per nulla
inferiore alle altre opere del Manzoni , anzi rivela il suo ingegno e la sua
dottrina e la profonda sua acutezza anche nelle materie giuridiche>
Tale scritto è un’opera giuridica, è senza dubbio la più giuridica del Manzoni.
3) Il significato più importante del libro è quello morale, come rilevato da
Tenca , Rovani e Passerin d’Entreves (1902-1985) e consiste nella difesa del
libero arbitrio , della libertà del volere e nella rivendicazione della
responsabilità morale dell’uomo. Libertà interiore dell’uomo, responsabilità
morale, dignità umana; questo è il trinomio in cui Manzoni fonda la sua lezione
morale o, come potremmo dire, la sua lezione etico-giuridica Il
sesto capitolo si intitola “Manzoni e la criminologia” L’autore evidenzia
che l’analisi della “Storia della Colonna Infame” ha portato a mettere in
rilievo l’idea del libero arbitrio dell’uomo quale elemento centrale
dell’impostazione manzoniana dei problemi giuridico-penali, della sua condanna
dell’operato dei giudici milanesi del 1630. Vi sono studiosi come Graf e
Sergi che hanno creduto di vedere in tale opera di Manzoni ed in alcune
figure di criminali de “I Promessi Sposi” dei precorrimenti delle correnti
criminologiche sviluppatesi nell’ambito della Scuola positiva di diritto
penale, che, rileva Cattaneo, ha respinto l’idea del libero arbitrio dal
problema dell’imputabilità penale ed ha seguito la strada del determinismo .
L’autore esamina in particolare lo scritto di C Leggiadri Laura “Il delinquente
ne <Promessi Sposi> rivolto ad interpretare il pensiero manzoniano in
chiave naturalistico-deterministica e lo scritto del Preve “Manzoni
penalista” che segue l’interpretazione del Leggiadri Laura e delinea nelle
figure dei criminali del romanzo i tipi classificati dalla scienza lombrosiana.
Dopo un attento esame critico di numerosi passi delle opere dei due autori
prima citati e di altri studiosi Cattaneo conclude che non ritiene valida
la concezione di Manzoni come precursore del positivismo penale e
criminologico, dato che per i positivisti non è questione di giustizia e di
libertà del volere, bensì di determinismo e di difesa sociale Il
settimo si intitola “Manzoni teorico generale del diritto ?” Secondo
l’autore la forma mentis giuridica di Manzoni appare evidente anche negli
scritti storici e storico-giuridici, in particolare essa si manifesta in modo
tipico nel “Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in
Italia” oltre che nello scritto postumo sulla Rivoluzione francese.
Cattaneo mette in evidenza un aspetto meno noto che è peraltro presente nel
libro: le osservazioni concernenti il rapporto tra Romani e Longobardi e le
leggi regolanti la loro convivenza, osservazioni che sono di natura di
<<teoria generale del diritto>. Le osservazioni riguardano in
particolare la concessione data agli Italiani di vivere secondo la legge romana
che fu considerata dal Muratori <un bel tratto di clemenza, e una prova, fra
le mole, della dolcezza e saviezza dei conquistatori longobardi> Manzoni
dimostra una sensibilità moderna perché si preoccupa secondo Cattaneo di
rendersi conto di come fosse strutturato l’ordinamento giuridico sotto i
Longobardi e evidenzia la <struttura a gradi> dell’ordinamento giuridico,
per dirla come Kelsen e definisce alcune norme <leggi
costituzionali>, le leggi così designate sono le <norme di competenza>
di Ross e le <norme secondarie> di Hart , cioè le norme che
conferiscono il potere di emanare, modificare, abrogare le altre norme,
concernenti direttamente il comportamento dei cittadini. Manzoni si preoccupa
di esaminare quali fossero le norme di statuto, di competenza o secondarie,
espressione del potere longobardo, le quali regolavano la permanenza delle
leggi romane, che regolavano il comportamento dei cittadini di origine
romana. L’ottavo capitola si intitola “Manzoni e la Rivoluzione
francese” Il rapporto tra Manzoni e la Rivoluzione francese durò in varie
forme per tutta la vita del letterato lombardo. Questi visse molti anni in
Francia nel periodo napoleonico, nel 1800 a 15 anni scrisse il “Trionfo della
Libertà“ un poemetto di sentimenti giacobini ed anti-monarchici con la
condanna delle spietate repressioni penali. Nel ”5 Maggio” Manzoni fornisce un
giudizio equanime su Napoleone dapprima glorioso e poi rapidamente caduto
e rileva la caducità degli idoli umani Nel dialogo “Dell’Invenzione”
Manzoni esamina la figura di Robespierre ed abbandona il cupo giudizio di
<mostro> del politico francese pur non abbandonando la tesi di una
responsabilità avuta da Robespierre nel Terrore ridimensionata dalle moderne
storiografie Lo studio che esprime nel modo più chiaro il rapporto di
Manzoni con la Rivoluzione francese è il saggio pubblicato postumo a cura di
Ruggero Bonghi “La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del
1859” I motivi su cui si basa La critica di Manzoni alla
Rivoluzione francese sono A) La mancanza di un giusto motivo per la
distruzione del governo di Luigi XVI e di una autorità competente nei deputati
del Terzo Stato che ne furono gli autori B) Questa distruzione avvenne
indirettamente ma effettivamente in conseguenza dei loro atti C) Il nesso
di queste cause con gli effetti indicati Le riforme legittime, sentite dal
popolo francese, avrebbero potuto avvenire per vie pacifiche e legali;
Manzoni peraltro non si rende conto che la sua critica non tiene conto della
situazione dell’ancien régime, in cui il potere trovava la legittimità dal
diritto divino mentre la critica da lui avanzata è accettabile entro i
presupposi giuridico-costituzionali creati dalla Rivoluzione francese Il
letterato lombardo sottolinea l’aumento del dispotismo dal Terrore, al
Direttorio, al bonapartismo come risultato immediato degli atti iniziali della
Rivoluzione francese. Trattando della “Dichiarazione francese dei diritti
dell’uomo” Manzoni discute il suo rapporto con la precedente Dichiarazione
americana sottolineando le differenze. Lo scritto di Manzoni ha senza dubbio il
merito di evidenziare il contrasto fra gli ideali e le realizzazioni pratiche
della Rivoluzione francese, nella sua critica lo scrittore lombardo critica,
come in altre opere, il potere politico umano che riveste in forme giuridiche
la sostanza dell’arbitrio e della prepotenza ed ad esso contrappone il valore
assoluto dell’idea del diritto , che è <una verità> Tale
considerazione induce Cattaneo a proporre un altro parallelo fra la posizione
di Manzoni e quelle di Kant e Robespierre. Kant ha negato il diritto di un
popolo alla rivoluzione ed ha considerato l’esecuzione di Luigi XVI un crimine
inespiabile ma nello stesso tempo è stato un convinto sostenitore della
Rivoluzione francese ; Robespierre <rivoluzionario legalitario, giudicato
non equamente dal Manzoni, fu un uomo dal forte sentimento giuridico e , nel
momento della sua caduta ,pur proscritto e ricercato all’Hotel de la
Ville, benché fosse esortato dagli amici a redigere un appello all’insurrezione
popolare esitò e si chiese <Au nom de qui?> come è attestato
dalla sorella Charlotte Nella lunga ed articolata conclusione
Cattaneo ribadisce che il pensiero giuridico di due letterati ha numerosi
elementi in comune e svolge alcune considerazioni sul metodo seguito. L’autore
evidenzia che il suo saggio ha <un taglio diverso> dagli studi citati
sull’attività forense di Goldoni , sul significato riformatore delle sue
commedie e sulle implicazioni politiche del pensiero di Manzoni. Il punto
di vista seguito nel volume dal docente è quello della considerazione a un lato
del diritto come <categoria autonoma>, dotato delle sue specifiche
caratteristiche e dall’altro del diritto inteso come fondato filosoficamente,
posto in relazione con problemi storici, politici e sociali. Lo studio degli
aspetti giuridici e dei problema del diritto nl pensiero e nell’opera di
Goldoni e Manzoni non è stato disgiunto all’esame dei temi della riforma
sociale e della riflessione politica nella loro attività letteraria. Il punto
di vista seguito sempre dall’autore , come da lui steso dichiarato, è
stato quindi¨<quello dell’ autonomia del diritto , ma non inteso
secondo una prospettiva meramente logico-formale, bensì basato su una
fondazione filosofica, e dotato di rilevanza politica. > . L’angolo visuale
usato come punto di riferimento per i due letterati è l’illuminismo giuridico.
L’illuminismo è coevo di Goldoni, che anticipa Rousseau nella
proclamazione del principio dell’uguaglianza naturale ed è aperto al problema
della riforma sociale ,come è riconosciuto da numerosi interpreti delle sue
opere. I rapporti tra Goldoni e l’illuminismo giuridico sono più evidenti nel
passo dei “Mémoires “ sulla procedura criminale e nelle commedie L’uomo
prudente e L’Avvocato veneziano . Manzoni è posteriore all’illuminismo ma
l’autore ha cercato di indicare la presenza di una eredità Illuministica , con
riferimento ai problemi giuridici, ne “I Promessi sposi” e nella
“Storia della Colonna infame” dove peraltro sono presenti degli elementi di
superamento delle concezioni illuministiche. Il docente ritiene di
rifiutare la tesi diffusa di coloro che interpretano Manzoni esclusivamente
dall’angolo visuale della linea agostiniana-pascaliana con venature
giansenistiche negando il profondo legame con l’illuminismo, in realtà Manzoni
si dimostra erede dell’illuminismo per l’habitus mentale razionalistico del suo
pensiero, per la sua considerazione della ragione e per la sua ricerca delle
radici razionali della fede; in tal modo il grande scrittore lombardo fa propria
l’eredità migliore dell’illuminismo, il filone etico-religioso che si
contrappone al filone ateo e materialistico di alcune correnti.
Ragonese e Caretti hanno bene sottolineato i rapporti
tra Manzoni e l’illuminismo. Cattaneo conclude il suo volume ribadendo
che il motivo comune fondamentale di Goldoni e Manzoni è il principio cristiano
ed illuministico (e kantiano) della dignità umana. In Goldoni questo
principio è meno evidente ma è legato soprattutto all’idea della comune natura
umana, al di là delle differenze sociali, che appare in numerose commedie ed
opere drammatiche, in Manzoni la difesa della dignità umana è svolta ad un
livello di maggior profondità ed è connessa ad una prospettiva religiosa come
traspare chiaramente dal testo recitato dal coro de “Il Conte di
Carmagnola” Nella Appendice viene riproposto lo studio di
Alessandro Pascolato “Carlo Goldoni Avvocato” pubblicato su “Nuova Antologia”
il 15 dicembre 1883 CAPITOLO V IL VOLUME DI MARIO A CATTANEO “SUGGESTIONI
PENALISTICHE IN TESTI LETTERARI” Nel 1992 Cattaneo ha
pubblicato il volume “Suggestioni penalistiche in testi letterari”. Il
libro, che è dedicato alla memoria del Prof. Renato Treves, per molti
anni ordinario di Filosofia del Diritto all’Università degli Studi di Milano,
tratta le opere di numerosi letterati. Il libro , che si articola in 12
capitoli ed una appendice, tratta di scrittori che nelle loro opere
hanno affrontato il tema della pena o problemi di natura giuridica. Il
lavoro , rileva l’Autore, non ha avuto una genesi unitaria Il primo
saggio scritto riguardava Giuseppe Parini (1729-1799), un “poeta civile”
rappresentante di un Illuminismo cristiano ed equilibrato , è seguito il saggio
su Collodi (1826-1890), l’uomo del Risorgimento che ha combattuto a Curtatone e
che mostra nel suo aperto scetticismo nei confronti della legge e dell’autorità
costituita una opinione diffusa di molti uomini dell’Italia post-unitaria tra
cui il grande giurista liberale Francesco Carrara (1805-1888) .Il terzo
saggio è stato dedicato a Foscolo (1778 -1827) che nello scritto <
L’orazione sulla giustizia> ed altri due scritti <La difesa del sergente
Armani> ed <una lettera al “Monitore Italiano”> tratta problemi
relativi alla pena Il primo saggio del volume si intitola “Studi Dante e
il diritto penale” Lo studio riguarda il rapporto tra il grande poeta
Dante (1265-1321) ed il diritto penale. . Cattaneo rileva che gli studi di
storici e filosofi del diritto che hanno trattato il pensiero giuridico di
Dante hanno trascurato l’aspetto penalistico. Dante non si è occupato di
diritto penale ma l’analisi del suo capolavoro mostra un elaborato sistema di
rapporti tra colpa e pena. Numerosi studiosi hanno rilevato che le pene crudeli
descritte nell’Inferno del poema dantesco sono molto lontane dalle prospettive
della legislazione penale moderna anche se occorre distinguere tra la
prospettiva morale e religiosa del poema dantesco e le finalità delle
legislazioni penali attuali Dante peraltro opera una distinzione tra peccati
puniti fuori e dentro la città di Dite che può corrispondere ad una
distinzione tra peccati e delitti, il più rilevante contributo indiretto dato
da Dante al diritto penale è il criterio di graduazione delle gravità delle
colpe e le corrispondenti pene come è stato evidenziato da Giorgio Del
Vecchio. Il maggior contributo diretto di Dante alla cultura
giuridica moderna sono l’affermazione del principio di uguaglianza e di
personalità delle pene e l’affermazione della volontà del volere dell’uomo
quale presupposto della conseguente valutazione del merito o del demerito delle
sue azioni. Cattaneo conclude che :” Certamente , fare apparire Dante
come un grande giurista, un grande penalista, può risultare sforzato e
retorico,…..Ma nello stesso tempo, non è assolutamente possibile e lecito
ignorare il contributo, diretto o indiretto, che Dante ha dato anche al diritto
penale; la Divina Commedia è un costante punto di riferimento per qualunque
problema, religioso, filosofico, umano; ricordo che mio Padre diceva che
nella Commedia <<c’è tutto>>” Nella introduzione ho accennato
a due recenti approfonditi studi su Dante ed il diritto , un tema caro a molti
studiosi Il secondo saggio si intitola “Giuseppe Parini e L’Illuminismo
giuridico”. Cattaneo rileva che Parini, sacerdote non per vocazione
ma uomo profondamente credente, fu sensibile a numerosi ideali illuministici di
riforma civile ed attraverso una delle sue Odi riprende le idee
illuministiche sul diritto penale, che propugnavano il principio umanitario
della doverosità della mitigazione delle pene considerando l’inefficacia di
pene eccessive in determinati contesti sociali. Vi è dunque una continuità di
principi da Parini, cattolico ed illuminista, a Manzoni e Rosmini (1797-1855),
cattolici liberali, una continuità di principi ed ideali umanitari relativi al
problema della pena e nell’ode Il bisogno è presente una concezione penale
cristiana ed illuminista. Cattaneo conclude il suo saggio affermando che
Parini poeta civile e morale interpreta il momento migliore dell’Illuminismo e
si fa portavoce dei suoi più significativi valori . Il terzo saggio si
intitola “Ugo Foscolo e la giustizia come forza”. L’Autore rileva
che notoriamente Foscolo fu un poeta impegnato nelle vicende politiche del suo
tempo segnato dalla rivoluzione francese e dall’epopea napoleonica. Negli
scritti di natura penalistica il poeta accoglie i principi della dottrina
giuridica illuministica, come la difesa della certezza del diritto ed il
rispetto delle garanzie processuali. Foscolo inoltre critica la teoria della
retribuzione morale e quella della prevenzione generale. Il quarto capitolo è
intitolato . “Le <veglie notturne> di Bonaventura e la critica dei
giuristi” un libro tedesco poco conosciuto in Italia, opera uscita
anonima nel 1805 a Penig (Sassonia) presso il poco noto editore F Dienemann ,
che l’aveva pubblicata nel suo <Journal von neuen deutschen Original
Romanen>. Cattaneo evidenzia che nelle pagine dedicate a temi giuridici
viene messo in rilievo l’invito a rendere il diritto più umano ed a metterlo al
servizio degli uomini. La descrizione del giudice freddo paragonato ad una
macchina o ad una marionetta , il rimprovero ai giuristi che si assumono il
compito di tormentare i corpi, come i teologhi tormentano le anime, l’uccisione
della giustizia da parte dei tribunali, il richiamo al diritto naturale , che
dovrebbe essere il vero diritto positivo, la critica di una giurisprudenza
svincolata dalla morale sono chiari segnali di una aspirazione ad
umanizzare il diritto, specie quello penale. Il V capitolo è intitolato
“Heinrich Heine e la satira delle teorie della pena” L’Autore
analizza il breve scritto che Heine (1797-1856) aveva aggiunto quale appendice
al suo volume “ Lutezia”, opera scritta tra il 1840 ed il 1843. Lo scritto è
dedicato al problema della riforma delle prigioni ed alla legislazione
penale e porta il titolo <Gefaengnisreform und Strafgesetzgebung> .
Il saggio, pur nella brevità, è un esame attento delle teorie fondamentali
della pena. Cattaneo suggerisce che l’analisi critica del poeta si
traduce in una satira delle dottrine della retribuzione, dell’intimidazione e
dell’emenda e coglie i punti centrali di tali concezioni. Heine sottolinea
l’ingiustizia della teoria dell’intimidazione generale ed evidenzia il carattere
patriarcale e paternalistico delle teoria dell’emenda. Nell’esaminare il
principio di una prevenzione dei delitti commessi con mezzi diversi dalla pena,
Heine ritiene che bisogna agire con durezza , reclusione ed addirittura con la
pena di morte concepite come prospettiva di difesa sociale. Cattaneo rileva che
è sempre più chiara e più facile la parte negativa della filosofia penale ,
cioè la critica delle dottrine sulle pena che la parte costruttiva cioè
l’indicazione di un fine positivo nella funzione penale. Heine critica
inoltre il sistema carcerario filadelfiano e quello auburniano Il
capitolo VI è intitolato “Victor Hugo e la pena come fonte di delitti”
L’Autore rileva che il problema giuridico penale è presente nell’opera letteraria
di Hugo (1802-1885) con una severa critica del sistema penale dell’epoca e la
sua difesa della dignità dell’uomo. Il problema emerge chiaramente nel celebre
romanzo “Les Miserables” e nel suo protagonista l’ex-forzato Jean
Valjean. Il romanzo affronta il problema di una pena sproporzionata ed inumana,
che è causa di nuovi delitti e di una spirale indefinita di reati e pene
successive. Il tema è sviluppato nella figura centrale di Valjean. Tutte
le tragiche vicende del protagonista nascono da un tentativo di furto dovuto
alla miseria ed alla fame; a causa del furto di un pezzo di pane ,che poi viene
gettato via ,Valjean è condannato a 5 anni di detenzione e, in seguito a tre
successive evasioni di breve durata, la sua detenzione dura ben 19 anni.
Vi è una enorme sproporzione tra il danno causato dal reato e la pena che
trasforma ed indurisce Valjean, la cui psicologia viene analizzata in
profondità da Hugo. La pena continua a gravare su Valjean anche dopo la
liberazione per cui questi riesce a lavorare solo per una giornata data la sua
qualità di ex-forzato. Hugo critica sia l’atteggiamento di diffida e di rifiuto
di tutta la popolazione sia la macchia di infamia stabilita dalla legge .
Cattaneo rileva che è ammirabile la battaglia combattuta da Hugo contro la pena
di morte, la sua denuncia della sproporzione tra la gravità dei delitti e
le pene, la critica dell’assurdo criterio nel valutare la recidiva. Queste
battaglie sono importanti contributi all’evoluzione del diritto penale ed
alla difesa della dignità umana. Il settimo capitolo è intitolato
“Dostoevskij la coscienza e la pena” . L’Autore evidenzia la centralità
del tema del delitto, della colpa e della pena nello scrittore russo, come è
stato rilevato nel profondo scritto di Italo Mancini , che ha evidenziato sia
la validità di una ricerca su Dostoevskij pensatore e filosofo sia che
per lo scrittore russo < la questione penale non rappresenta solo un
contenuto ma il contenuto>. Pietro Gobetti a proposito dei personaggi dello
scrittore russo ha rilevato che <I suoi personaggi non si sforzano mai di
arrivare ad una verità, ma piuttosto di chiarire e capire sé
stessi>> Nel volume “I ricordi della casa dei morti “ lo scrittore
russo ricorda l’esperienza personale della prigionia in Siberia e sottolinea
chiaramente l’incapacità del carcere di procurare l’emenda del reo dato
che Dostoevskij rileva che nel corso di parecchi anni non ha visto tra quella
gente il minimo segno di pentimento, il minimo rimorso per il delitto commesso;
lo scrittore russo indica anche nella solitudine e nella mancanza di
privatezza un elemento di particolare tormento della prigione. Il lavoro
nella prigione, rileva lo scrittore russo, non era faticoso ma era penoso
perché obbligato sotto la minaccia di un bastone. Dostoevskij evidenzia anche
l’ineguaglianza della pena per i medesimi delitti in relazione alla classe
sociale, da cui deriva l’ingiustizia e l’inefficacia della pena. Radicale è la
sua critica svolta nei confronti del regolamento carcerario e del comportamento
ottuso e crudele delle guardie carcerarie , severo è il giudizio sulla prassi
della fustigazione definita una piaga della società> Nel
<L’idiota> lo scrittore russo pone un giudizio duro e severo
sulla pena di morte in bocca al principe Miskin nelle prime pagine del romanzo.
Nel brano Dostoevskij sottolinea la svalutazione del carattere meno afflittivo
della decapitazione rispetto ai supplizi accompagnati da tormenti e la
sofferenza morale generata dalla attesa della esecuzione, che è peggiore della
sofferenza fisica. Nel romanzo “Delitto e castigo” Dostoevskij evidenzia
la tesi della necessità della pena giuridica quale espiazione della colpa e
come risultato del rimorso avvertito dal colpevole. La trama del romanzo
mette in luce la progressiva conversione, il rimorso e la ricerca di espiazione
del colpevole. Cattaneo sottolinea che il Leitmotiv del celebre romanzo è la
ricerca della espiazione sulla base di una spinta interiore e del rimorso e
che tale impostazione pone lo scrittore russo sulla linea del Platone del
Gorgia e di Boezio nel <Consolatio philosophiae>. La conclusione
giuridica processuale del romanzo rileva una sensibilità giuridica moderna che
pende in considerazione le circostanze attenuanti, le cause sociali,
psicologiche e morali del delitto ed il recupero morale e sociale del
colpevole. Il finale giuridico evidenzia la complessità del problema penale e
l’interesse di Dostoevskij , spirito umanitario e riformatore, per la
riforma del procedimento penale, d’altra parte, sul piano morale, rileva
il desiderio di espiazione che conduce all’emenda.
Dostoevskij manifesta l’atteggiamento del cristiano che si sente
corresponsabile delle colpe degli altri e riprende le parole di Cristo “Chi di
voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei” Cattaneo ribadisce
che per Dostoevskij il punto che più conta è il rimorso per la colpa commessa e
la auto-condanna da parte del delinquente . La pena giuridica non ha rilevanza,
ciò che conta è il processo di autocondanna, di espiazione e di redenzione che avviene
nella coscienza del colpevole Il capitolo VIII è intitolato
“Tolstoj e la abolizione della pena” . L’Autore ribadisce che lo scrittore
russo postula una radicale abolizione del diritto penale in una prospettiva di
amore cristiano e di non violenza. I temi giuridici vengono affrontati da
Tolstoj un due opere “Resurrezione” e la novella “Il racconto di Koni”.
Il romanzo Resurrezione è fondato su una vicenda processuale , la
condanna ad alcuni anni di deportazione in Siberia della protagonista Ekaterina
Maslova , diventata prostituta a seguito di tristi vicende. Tolstoj analizza il
processo e la successiva pena dei forzati deportati ed evidenzia che negli
istituti di pena gli uomini erano sottoposti ad ogni genere di umiliazioni
inutili, catene, teste rasate , divise infamanti per cui si inculcava l’idea
che qualsiasi violenza, crudeltà e atrocità era autorizzata dal governo per chi
si trovava in prigionia nella sventura. Lo scrittore sottolinea il distacco tra
la condanna e la concreta esecuzione della pena con le sue brutalità. In
Tolstoj il tema fondamentale è l’indicazione dell’ingiustizia dell’intero
sistema repressivo-penale e la sottolineatura delle cause sociali dei delitti
come Victor Hugo. Lo scrittore suggerisce anche la necessità di
abolire la pena e sostituirla con il perdono, un ideale sublime ma difficile da
realizzare in pratica e che indica tutta la complessità del problema, Cattaneo
si chiede se si tratta “del sogno di un visionario , una utopia generosa o di
un ideale verso cui la società deve tendere.” Il nono capitolo è
intitolato “Pinocchio e il diritto” L’Autore rileva che l’opera di
Collodi è stata oggetto di numerose indagini . Le ricerche sulla natura
pedagogica ed educativa sono state sviluppate da Bertacchini , Il testo di
Collodi è stato esaminato sotto il profilo filosofico e teologico nei due
volumi scritti da Vittorio Frosini e Giacomo Biffi . Frosini evidenzia
che: << Il mito di Pinocchio si rivela……come un mito tipicamente
risorgimentale, al tramonto di un’epoca; e anzi proprio di un
risorgimentalismo di stampo repubblicano e mazziniano>> basato su
principi di umanitarismo positivistico. Giacomo Biffi sottolinea che Pinocchio
fu scritto quando l’Italia era unita politicamente ma non era una nazione
consapevole di sé e concorde sui valori che danno senso alla vita. Il Collodi
aveva un cuore più grande delle sue persuasioni, un carisma profetico più alto
della sua militanza politica, così poté porsi in comunione forse ignara con la
fede dei suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo. . La lettura
di Pinocchio evidenzia interessanti problemi e temi di natura giuridica e
filosofico-giuridica e lo scritto di Cattaneo evidenzia soprattutto i temi più
rilevanti dal punto di vista penalistico. Cattaneo sottolinea che Carlo
Lorenzini (1826-1890) (ovvero Carlo Collodi) era un fine umorista che
sapeva cogliere il lato ridicolo ed insieme doloroso della vita umana
(opinione espressa anche da Lina Passarella nel suo scritto prima citato su
Goldoni filosofo), e cita ad esempio l’episodio dei pareri opposti dei
medici al capezzale di Pinocchio in casa della Fata dal Corvo e dalla Civetta e
quello della condanna del burattino derubato degli zecchini dal
giudice-scimmione. Nel terzo capitolo Pinocchio scappa di casa ed è acciuffato
da un carabiniere per il naso (Cattaneo rileva in tal modo la naturale
predisposizione dei cittadini ad essere oggetto delle interferenza da parte del
potere); dopo la riconsegna di Pinocchio a Geppetto e le sue proteste il
carabiniere, a seguito dei commenti della gente, rimette in libertà il
burattino e conduce in prigione Geppetto che piange disperatamente. L’episodio
mostra un membro dell’apparato giudiziario che arresta Geppetto sulla base
delle opinioni della <voce pubblica> compiendo un atto arbitrario senza
motivazioni precise e mostra un innocente debole ed inerme che non riesce a
difendersi di fronte all’atto arbitrario del potere. Un altro episodio
interessante è narrato nel capitolo XXVII, dove si descrive la battaglia con i
libri di testo fra Pinocchio ed i suoi compagni. Un grosso volume scagliato
verso Pinocchio colpisce alla tesa un compagno che cade come morto. Tutti i
ragazzi fuggono e rimane Pinocchio a soccorrere il compagno. Arrivano due
carabinieri che ,dopo un breve colloquio, arrestano Pinocchio malgrado le sue
dichiarazioni di innocenza. Il burattino fugge inseguito dal cane Alidoro al
quale salva la vita mentre stava per annegare. Cattaneo evidenzia a riguardo
che la vittima del potere è l’innocente , l’unico trovato vicino ad Eugenio,
che viene arrestato perché le circostanze sono contro di lui La frase dei
carabinieri “Basta così” è commentata da Biffi che evidenzia che l’invito a
ragionare insospettisce spesso l’autorità, la quale è incline a tagliar corto.
In molte vicende giudiziarie si nota che una concatenazione di indizi
sfavorevoli dà l’avvio a processi indiziari seguiti da condanne di persone
innocenti. Un altro episodio clamoroso di palese ingiustizia è la vicenda
che conclude il rapporto tra Pinocchio ed il due truffatori La Volpe ed il
Gatto. Pinocchio incontra la Volpe ed il Gatto e viene convinto a
seminare i 4 zecchini d’oro nel Campo dei miracoli vicino alla città di
Acchiappacitrulli. Tale città descritta minuziosamente da Collodi è
,secondo Cattaneo, e il simbolo dell’ingiustizia e di un diritto positivo
basato sul puro potere politico; tale città esprime in modo chiaro il pericolo
del prevalere della politica sulla giustizia nella amministrazione della
giustizia, come dimostra l’episodio giudiziario che riguarda Pinocchio.
Pinocchio accortosi di essere stato derubato delle monete d’oro torna in città
e denunzia al giudice i due malandrini che lo avevano derubato, ma ,invece di
ottenere giustizia, è vittima di una tragica beffa. Il giudice scimmione,
al quale Pinocchio si era rivolto, ordina che il burattino venga
messo in prigione. L’ordine viene eseguito da due mastini che tappano la bocca
al burattino , il quale resta 4 mesi in prigione e viene liberato a seguito di
una vittoria dell’imperatore della città di Acchiappacitrulli. Per
ottenere la libertà Pinocchio dichiara al carceriere di appartenere al numero
dei malandrini e così viene salutato rispettosamente e può scappare. Cattaneo
rileva che la figura dello scimmione sottolinea la miseria della giustizia
umana ed il carattere insoddisfacente dei tribunali umani dove, come scrive
Platone, si discute sulle “ombre della giustizia” Biffi nel suo volume rileva
dapprima l’aspetto positivo della figura del giudice che è descritto come un
personaggio rispettabile, benevolo, attento al racconto del burattino,
successivamente Biffi sottolinea che la figura dello scimmione della razza dei
gorilla rappresenta la caricaturalità della giustizia terrena rispetto a quella
vera, per cui il giudice finisce con applicare la legge umana che con i
suoi meccanismi colpisce il debole anche se innocente. Cattaneo rileva che la
situazione proposta da Collodi ricorda quella descritta da Manzoni ne I
Promessi Sposi dove i violenti erano organizzati e protetti ed i deboli , non
sorretti da consorterie, erano vittime dei soprusi del potere. La
lettura di Pinocchio di Collodi ed in particolare di alcuni brani può dar luogo
a considerazioni di natura filosofico-giuridica e giuridico- penale, come
suggerisce acutamente Cattaneo nel suo volume. Merito indubbio di Collodi
è descrivere alcune situazioni caratterizzate da abuso di potere, oppressione
dei deboli e sfasamento dei corretti rapporti stabiliti dagli ordinamenti
giuridici, come del resto è stato rilevato da numerosi importanti interpreti.
E’ opportuno sottolineare che il capolavoro di Collodi, come molte altre opere
letterarie, affronta importanti problemi giuridici tra i quali va segnalata
l’importante e costante aspirazione perenne che la legge in essere non sia solo
la volontà del gruppo sociale dominante , una forma di controllo sociale, e che
inoltre l’ordinamento giuridico tuteli la dignità e le aspirazioni degli uomini
come attesta la storia del diritto. Il capitolo decimo è intitolato “Oscar
Wilde e le sofferenze del prigione” Wilde (1854-1900) in alcune sue opere
ha descritto la sua penosa esperienza carceraria ed il clima del carcere., lo
scrittore inglese fu condannato a due anni di carcere che scontò
interamente. Cattaneo evidenzia che <Wilde fu il tipico capro
espiatorio dell’ipocrisia della società vittoriana> Lo stesso letterato nel
<De Profundis>, redatto in carcere, attesta di essere passato dalla
gloria all’infamia con un mutamento dell’opinione pubblica dalla esaltazione al
disprezzo. Le osservazioni di Wilde sul problema della pena nel suo celebre
<De Profundis> e nella accorata <The Ballad of Reading Gaol> hanno
fornito un importante contributo alla battaglia per la riforma del sistema
carcerario. Il volume <De profundis> fu redatto da Wilde negli ultimi
anni carcere. L’opera è redatta sotto forma di lettera all’amico Alfred Douglas
<Bosie> e contiene molti rimproveri all’amico per i suoi atteggiamenti
durante il processo ed il successivo carcere. L’opera, dopo molte controversie,
fu pubblicata definitivamente nel 1949 dal figlio di Wilde Vyvyan Holland .
All’inizio dell’opera Wilde rimprovera l’amico Douglas e
soprattutto sé stesso e riflette sul suo stato di persona imprigionata e
rovinata <a disgraced and ruined man> lo angoscia dopo la
sentenza e l’esperienza carceraria e e. Lo scrittore inglese rileva che per chi
vive in carcere la sofferenza che lo domina è la misura stessa del tempo ed il
fondamento del proprio continuare ad esistere Wilde evidenzia che la
terribile esperienza in prigione sia stata per lui più dolorosa che per altri e
si e si lamenta per la perdita della patria potestà sui due figli e rimarca
l’ingiustizia di tale procedimento che incrina il rapporto familiare. Lo
scrittore rileva che per i poveri la prigione è un dramma che tuttavia suscita
peraltro la simpatia delle altre persone mentre per gli uomini del suo ceto la
prigione li rende dei <paria> , per cui i condannati di ceto abbiente non
hanno più diritto all’aria ed al sole ,la loro presenza infetta i piaceri degli
altri e bisogna tagliare i legami con l’esterno dato che l’onore e la
reputazione della persona condannata è leso. Wilde evidenzia anche
che molte persone ,quando escono di prigione, nascondono il fatto di essere
stati in carcere che considerano una sciagura e, rileva lo scrittore inglese,,
è orribile che la società li costringa a tale comportamento. La società ha il
diritto di punire i colpevoli ma non riesce a completare ciò che ha fatto e
lascia l’uomo al termine della pena, quando dovrebbe iniziare la riabilitazione,
sarebbe giusto invece che non ci fosse amarezza o rancore tra le parti
(colpevoli e vittime). Cattaneo evidenzia l’ipocrisia che sta dietro l’idea
della retribuzione morale e cioè che subendo la pena il colpevole abbia
pagato il suo debito verso la società, se si applicasse tale principio , dopo
la fine della pena tutto dovrebbe cessare e non dovrebbero esservi più né
fedine penali né casellari giudiziari. Nella realtà comune resta una macchia
sulla persona che è stata in carcere, un pregiudizio che la società perpetua e
l’onta non deriva dal delitto commesso ma dalla pena scontata. La società
riconosce implicitamente l’inutilità della pena perché l’onta del colpevole
incarcerato rimane. Analizzando la vita in carcere Wilde sottolinea che le privazioni
e restrizioni del carcere rendono una persona ribelle ed impietrisce i cuori
dei condannati. L’abito dei carcerati li rende grotteschi come clowns, oggetto
di derisione e berlina della gente. Tali sofferenze ed umiliazioni dei
condannati sono contrari al principio della dignità umana che Wilde riafferma
come profonda esigenza morale della società. Lo scrittore afferma anche che
tutti i processi sono processi per la propria vita e tutte le sentenze sono
sentenze di morte; spesso anche una condanna alla prigione genera delle
sofferenze che conducono alla morte e va rilevato che Wilde stesso morì pochi
anni dopo il carcere nel 1900 in Francia . Wilde scrisse anche <The
Ballad of Reading Goal> nel 1897, l’anno del suo rilascio. in questa lunga
ballata il poeta inglese descrive le sofferenze e le crudeltà cui aveva
assistito durante la prigionia e dalle sue considerazioni sulla triste sorte
dei carcerati risulta un grande senso di pietà per i carcerati ed i condannati
a morte. La poesia è pervasa da spirito religioso e Wilde mette in confronto il
vero spirito cristiano, la pietà per i sofferenti ed i peccatori con
l’atteggiamento chiuso, duro ed indifferente delle istituzioni religiose
ufficiali e dei cappellani delle carceri . Cattaneo rileva che la tragica
esperienza personale ha portato Wilde ad affrontare il tema della riforma delle
prigioni e del sistema penale del quale si era occupato nello scritto “The soul
of man under socialism” . Dalle riflessioni dello scrittore inglese
redatte nelle opere dopo il carcere si ricava una denuncia della brutalità del
trattamento carcerario e della inumanità nell’esecuzione della pena con
critiche alla utilità sociale della stessa Il capitolo XI è
intitolato “André Gide e il non giudicare” Il problema giuridico-penale è
stato esaminato anche da un noto scrittore francese contemporaneo André Gide
(1869-1951), che lo ha affrontato in tre stimolanti scritti “Souvenir de la
Cour d’Assise” che racchiude la sua esperienza quale giurato in alcuni processi
penali del 1912, “L’affaire Redureau” e “La sequestrée de Poitiers” che poi
sono stati pubblicati insieme in una raccolta dal titolo ”Ne jugez pas”
Cattaneo rileva che di tale scritto non si sono occupati molto i critici ed i
commentatori, come sempre avviene quando si tratta di problemi giuridici in
veste letteraria . L’analisi del volume di Gide è interessante perché il libro
è molto rilevante per lo studio di rapporti tra diritto penale e
letteratura e costituisce delle precise prese di posizione dirette su temi giuridico-penali,
desunti dalla realtà della vita. Cattaneo mette in luce l’attenzione, la
precisione , la serietà e la preparazione dimostrate dallo scrittore francese
nel trattare i temi giuridici , soprattutto per la precisione del linguaggio
giuridico. Gide dimostra competenza nel trattare problemi giuridico-penali e
probabilmente “l’ indagine di certi casi criminali lo induce all’analisi di
talune zone inesplorate della psiche umana” L’atteggiamento
dominante di Gide è il “favor rei” che si esprime in due modi o a
due livelli: da un lato sul piano processuale lo scrittore volge l’attenzione
al rispetto delle garanzie dell’imputato, ad una equilibrata ed equa conduzione
dell’interrogatorio, alla escussione di tutti i testimoni, specie quelli della
difesa. Lo scrittore francese solleva anche nei suoi scritti l’esigenza
di una riforma del modo di porre le domande ai giurati e di chiarire il loro
contenuto . Gide si mostra sempre umano e compassionevole verso i colpevoli,
mostra l’esigenza che la pena sia in generale ridotta e che si tenga conto
degli elementi che valgono a titolo di difesa, quali motivi di giustificazioni
e scuse. Lo scrittore francese si preoccupa che la pena possa causare mali
peggiori e cerca di evitare risultati negativi della stessa. Cattaneo evidenzia
che in sostanza nel libro di Gide “è primaria l’attenzione per l’uomo, la sua
complessità e la sua imperscrutabilità psicologica , che porta al dubbio e alla
perplessità circa il fatto che alcuni uomini possano giudicare altri uomini, queste
pagine sono dunque dominate dal monito evangelico, per cui particolarmente
adatto risulta il titolo complessivo della raccolta: Ne jugez pas.” Il
capitolo XI è intitolato “Franz Kafka, la legge e il totalitarismo”
Cattaneo ha discusso in molte opere il problema del totalitarismo che è
stato analizzato soprattutto nel suo volume “Terrorismo ed arbitrio Il problema
giuridico del totalitarismo” Analizzando le opere di Kafka (1883-1924)
Cattaneo premette che è particolarmente rilevante il pericolo di un forte
divario fra la letteratura critica ed interpretativa ed il testo originario
dello scrittore per cui ritiene che siano legittime molte diverse
interpretazioni dell’opera di Kafka, e molte <chiavi di lettura> .
, certamente l’interpretazione più interessante dello scrittore ceco è quella
data dall’amico Max Brod, che evidenzia la religiosità ebraica presente
nelle opere di Kafka ed in questa chiave interpreta i brani relativi al
problema della legge, del processo e della colpa. Una interpretazione
giuridica delle opere di Kafka è stata compiuta da Pernthaler .Cattaneo intende
esaminare alcune opere di Kafka dalle quali il problema della legge emerge
anche dal punto di vista filosofico-giuridico In tali opere di Kafka
ricorre il tema del difficile rapporto dell’uomo con la legge, che è
interpretato in chiave religiosa o in chiave psicologica o psicoanalitica ma
che può essere analizzato anche dal punto di vista filosofico-giuridico.
Cattaneo esamina alcuni temi che emergono da “Il Processo” dall’apologo
“Vor dem gesetz”, dallo scritto ”Zur Frage der Gesetze” e dalla novella “In der
Strafkolonie” e dall’analisi complessiva di tali opere interpreta Kafka come
profeta e critico del totalitarismo che fu instaurato in alcune nazioni dopo la
sua morte, lo scrittore ceco delinea situazioni di angoscia, di incertezza, di
impossibilità di comunicazione, di errore e di ferocia tipiche del
totalitarismo . Kafka collega la burocrazia e l’oppressione del potere sugli
uomini caratteristica del nascente totalitarismo . Pietro Citati rileva
che <Nel Processo , l’immenso Dio sconosciuto, di cui non ascoltiamo mai
pronunciare il nome, ha invece una vita così intensa e un potere così
illimitato, come forse non ha ma avuto nei tempi> L’interpretazione di Citati
è più psicanalitica che religiosa ma è priva di prospettiva giuridico-politica.
Di impronta psicoanalitica è l’interpretazione data da Sgorlon del
<Processo> di Kafka ma la prospettiva giuridico politica,
trascurata da questi studiosi, è presente e Cattaneo evidenzia che proprio nel
primo capitolo, in cui è narrato l’improvviso arresto mattutino di Joseph K
esprime in modo preciso proprio la sensazione del passaggio graduale ed
insensibile dallo Stato di diritto allo Stato totalitario .Di seguito le
indicazioni che Joseph K riesce a ricevere da parte di vari personaggi connessi
al Tribunale concernenti il meccanismo, il funzionamento, l’andamento del
processo mettono in luce la totale assenza di garanzie giuridiche e
processuali, di tutela dell’imputato, elementi che costituiscono l’esatta
antitesi dello Stato di diritto Il tema della inconoscibilità e irragiugibilità
delle leggi è ripreso da Kafka nello scritto <Zur Frage der Gesetze> In
tale scritto Kafka delle <nostre leggi> che non sono conosciute da tutti,
ma sono un segreto del piccolo gruppo della nobiltà che ci domina. Kafka
dichiara di non avere in mente tanto gli svantaggi derivanti dalle diverse
possibilità di interpretazione, quando questa è riservata ad alcuni e non
all’intero popolo, questi svantaggi non sono poi molto grandi. Le leggi sono
antiche , secoli hanno lavorato alla loro interpretazione, l’interpretazione è
diventata essa stessa legge, e sussistono sempre, benché limitate, alcune
libertà di scelta dell’interpretazione Il motivo dominane l’intero
scritto è il carattere inconoscibile della legge, dato che la legge è
misteriosa e nessun membro del popolo è in grado di conoscerla per cui è
comprensibile che vi sia qualcuno che arriva a negare l’esistenza delle leggi e
riconosce peraltro il diritto all’esistenza della nobiltà La fredda
descrizione di uno strumento di supplizio , nell’ambito di un sistema
processuale completamente privo delle fondamentali garanzie è il messaggio del
racconto <In der Strafkolonie> ( Nella colonia penale) e la conclusione
della novella di Kafka riflette la logica del totalitarismo per cui quando il
viaggiatore comunica all’ufficiale di essere avversario di questo sistema
punitivo, l’ufficiale si rende conto di essere rimasto il solo difensore di
tale sistema punitivo e libera il soldato dalla macchina del supplizio, si
denuda e si pone lui stesso sul lettino al posto del condannato, la macchina
del supplizio inizia a funzionare e l’ufficiale muore senza aver capito
il senso del supplizio come ogni sistema totalitario si
autodistrugge e divora i propri figli Cattaneo cita la fucilazione dei coniugi
Ceausescu nel 1989 operata nell’ambito del totalitarismo comunista.
L’Appendice del volume è intitolata “Vaclav Havel e la legge come
<<alibi>> nel sistema post-totalitario” Havel (
1936-2011) ,noto scrittore contemporaneo, che è stato Presidente della
repubblica cecoslovacca, è autore di numerose opere letterarie e teatrali.
Cattaneo ritiene che se Kafka rappresenta il tempo del pre-totalitarismo, Havel
rappresenta il post-totalitarismo ,al quale ha dedicato uno scritto bblicato
nel 1978 che l’autore del volume esamina nella traduzione tedesca.
Havel delinea l’opposizione al comunismo, nel suo momento post-totalitario,
come tentativo di vivere nella verità; la verità, intesa come opposizione ad un
sistema che si fonda e si regge sulla menzogna. Lo scritto ha un carattere
etico-politico ma contiene importanti pagine di natura giuridica e di critica
dell’ordinamento giuridico proprio del regime totalitario e post-totalitario.
Tale sistema politico è caratterizzato, secondo lo scrittore ceco, come
una dittatura della burocrazia politica su una società livellata. Lo scrittore
ceco elenca le caratteristiche del sistema <post-totalitario> che
lo distinguono dalla dittatura tradizionale ed evidenzia che A) tale
sistema non è delimitato territorialmente ma domina in un ampio blocco di forze
ed è retto da una superpotenza B) mentre le dittature classiche non hanno
una solida radice storica, la radice di tale sistema dono i movimenti operai e
socialisti del XIX secolo. C) Tale sistema dispone di una ideologia
strutturata ed elastica che ha i caratteri di una religione secolarizzata ed
offre una risposta ad ogni domanda dell’uomo in una epoca di crisi delle
certezze esistenziali D) Alle dittature tradizionali spettano elementi di
improvvisazione per quanto attiene alla tecnica del potere mentre lo sviluppo
di 60 anni nell’Unione sovietica e di 30 anni nei paesi dell’Est europeo ha
dimostrato la creazione di un meccanismo perfetto , che permette la
manipolazione diretta ed indiretta della società. La forza di tale sistema è
incrementata dalla proprietà statuale e dalla amministrazione
centralizzata dei <mezzi di produzione> E) Nella dittatura classica
vi è una atmosfera di entusiasmo rivoluzionario, di eroismo , di spirito di
sacrificio che sono scomparsi nel blocco sovietico. Tale blocco sovietico, che
è un elemento solido del nostro mondo, è caratterizzato dalla stessa gerarchia
di valori presenti nei paesi occidentali sviluppati e sono una forma di
società consumistica ed industriale. Il sistema sopra descritto è
designato da Havel come <post-totalitario> perché è un sistema
totalitario con caratteristiche diverse dalle dittature classiche e , rispetto
al totalitarismo classico, è caratterizzato da una misura più attenuata di
terrore ed arbitrio Havel considera il sistema post-totalitario come
caratterizzato dalla menzogna, ciò è un effetto del dominio della ideologia;
gli uomini non devono credere alle mistificazioni totalitarie ma tollerarle in
silenzio ed accetta, ciò è un vivere nella menzogna e lo scrittore
insiste sul valore e sul significato morale ed esistenziale della dissidenza.
Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico nel sistema post-totalitario
lo scrittore rileva che tale sistema sente la necessità di regolare tutto
con una rete di prescrizioni, norme, istituzioni e regolamenti per cui gli
uomini sono delle piccole viti di un meccanismo gigantesco. Le
professioni, le abitazioni ed i movimenti dei cittadini e le sue manifestazioni
sociali e culturali sono controllate, ogni deviazione viene considerata un
passo falso ed una manifestazione di egoismo ed anarchia. Havel rileva che non
bisogna prendere alla lettera l’ordinamento giuridico e ciò che conta è< come
è la vita> e se le leggi servono alla vita o la opprimono ¸la battaglia per
la <legalità> deve vedere questa <legalità> sullo sfondo della vita
come è realmente. Analizzando il rapporto tra la società post-totalitaria
e la moderna civiltà tecnologica, con riferimento anche agli scritti di
Heidegger, Havel rileva che il sistema post-totalitario è solo un aspetto della
generale incapacità dell’uomo contemporaneo di divenire <padrone della
propria situazione> e la prospettiva giusta è quella di una <rivoluzione
esistenziale> generalmente comprensiva L’aspetto più interessane di
Havel è la delineazione dei caratteri del sistema post-totalitario come
fenomeno sorto dall’incontro della dittatura con la società industriale e
consumistica. Per quanto riguarda i problemi giuridici, Cattaneo rileva
che Havel sottolinea il significato autentico del diritto, che deve avere
coscienza dei propri limiti naturali, il diritto ha un significato esteriore,
deve difendere alcune esigenze minime (tutela della convivenza civile dalla
violenza e dalle invasioni nei diritti altrui ma non deve pretendere di
adempiere a compiti per cui non è adatto - In tal modo , sottolinea
Cattaneo, il letterato ceco riprende la migliore lezione del liberalismo
classico per cui il diritto non è al servizio del potere , ma può essere un
valore solo in quanto esso sia un mezzo di difesa e la garanzia della libertà e
della dignità dell’uomo Il grande insegnamento del letterato Havel
è la tutela del valore più calpestato dal totalitarismo , la dignità umana che
è lo scopo fondamentale ed essenziale del diritto, dato che diritto e
libertà sono collegati ed il diritto ha valore se garantisce e protegge la
libertà. Grice: “Cattaneo’s philosophical background is much stronger than
Hart’s! Hart always doubted his philosophical abilities – as he kept comparing
himself to me! When Cattaneo was at St. Antony’s, Hart found that he had to
play brilliant, since a ‘continental’ was watching! Cattaneo is especially good
in the study of Roman-Italian giurisprudenza, from Cicero, Goldoni, Carrrara,
and Manzoni, onwards! They don’t need no stinking Hart!” -- M. A. Cattaneo. Mario
A. Cattaneo. Mario Alessandro Cattaneo. Mario Cattaneo. Keywords: eidolon,
autorita, autoritarismo, positivismo di H. L. A. Hart, il concetto della legge,
filosofia del linguaggio ordinario, scuola oxoniense di filosofia del
linguaggio ordinario, il gruppo di giocco di Austin, il primo o vecchio gruppo
di giocco di Austin al All Souls, giovedi notte; il nuovo gruppo di giocco di
Austin sabato alla mattina. Hart, Hampshire, Grice. Grice, neo-Trasimaco,
giustizia, fairness, valore legale, valore morale, le legge e la morale,
priorita della moralita sulla legalita, concetti di priorita, priorita
evaluativa, neo-trasimaco, neo-socrate, platonismo giuridico, positivismo
pre-Kelsen: hobbes, bentham, autin. I giuristi italiani. Storia della
giurisprudenza italiana. Goldoni, Carrara, Manzoni, Collodi, Lorenzini,
Pinocchio, Foscolo, Perini, Beccaria, Colonna infame, letteratura italiana,
fizione italiana, prosa italiana, giurisprudenza italiana, avvocatura ed
implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool
Library.
Catucci (Roma). Grice.
Filosofo. “I love Catucci – Ogden and Richards, whom I’ve read profusely,
expand on Husserl – and Catucci is “our man in Husserlian phenomenology of
intersubjectivity!” – Grice: “As a typical Itaian philosopher, viz. eclectic,
he has philosophised on Luckacs, and Foucault, too!” -- Grice: “Catucci’s approach to Lukacks is via
‘poverty,’ which has little to do with my idea that the poorer the semantics
the richer the pragmatics: ‘His semantics was poor, but it was honest!”. Altre
opere: “La filosofia critica di Husserl, Milano, Guerini & Associati); Beethoven
Opera Omnia. Le Opere. Fabbri Classica); Bach e la musica barocca, Roma, La
Biblioteca); Introduzione a Foucault, Bari-Roma, Laterza); La storia della
musica, Roma, La Biblioteca); Spazi e maschere, Roma, (a cura di, con Umberto
Cao), Meltemi Editore); Per una filosofia povera, Torino, Bollati Boringhieri);
Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet. Si laurea a
Roma sotto Garroni. Studia a Bologna. Legge Tugendhat e Tertulian. Insegna a
Camerino e Roma. Pubblica il saggio La filosofia critica di Husserl (ed.
Guerini e Associati) la cui preparazione ha richiesto un periodo di ricerca
presso lo "Husserl-Archief” di Leuven, in Belgio. Il lavoro sui
manoscritti di Husserl lo ha portato alla pubblicazione di diversi saggi di carattere
fenomenologico, tra cui “Le cose stesse”; “Note su un’autocritica
trascendentale della fenomenologia di Husserl”, basato sull’analisi di testi
husserliani inediti. Pubblicato per Laterza un saggio su Foucault. Quindi è
stata la volta del saggio “Per una filosofia povera”, uno studio ad ampio
spettro sulla filosofia italiana nella Grande Guerra (ed. Bollati Boringhieri).
Ha inoltre collaborato alla stesura del Dizionario di Estetica curato per
Laterza da Gianni Carchia e Paolo D'Angelo. Ha numerosi saggi su Foucault (La
linea del crimine) sull’estetica, sull’architettura e sulla musica, in
particolare musicisti come Wagner e Stockhausen. Potere e visbilità (ed.
Quodlibet). La sua ricerca Imparare dalla Luna (ed. Quodlibet) ha ottenuto
ampia risonanza anche al di là del campo degli studi filosofici, portandolo fra
l’altro a tenere conferenze al Festival delle Scienze di Roma, al Festival
Wired di Milano, e al Congresso
Nazionale della Società Italiana di Fisica. Membro della Società Italiana di
Estetica. Coordina “I Concerti del Quirinale”. “Tutto Wagner”. Collabora
regolarmente con l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Orchestra Sinfonica
Nazionale della Rai, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino,
Festival Mi-To Settembre Musica) e ha organizzato manifestazioni di tipo
filosofico-musicale per la Biennale Musica di Venezia e per il Festival Play.it
di Firenze. 11573/1481990 - 2021 - L'arte è un progetto? Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Estetica Elementare - (9788891918345) 11573/1546600
- 2021 - L'esperienza del coro fra etica e tecnica Catucci, Stefano - 02c
Prefazione/Postfazione book: Insieme. Canto, relazione e musica in gruppo -
(978-88-590-2554-2) 11573/1411530 - 2020 - La storia dell'estetica come
critica e come filosofia Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper:
AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) pp. 53-61 -
issn: 0393-8522 - wos: (0) - scopus: (0) 11573/1412191 - 2020 - Di cosa
parliamo quando parliamo di teoria Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo
book: Cinque temi del moderno contemporaneo. Memoria, natura, energia,
comunicazione, catastrofe - (978-88-229-0397-6) 11573/1465101 - 2020 -
Bellezza Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Parole
del XXI secolo - (978-88-12-00876-6) 11573/1466031 - 2020 - Il Kitsch:
ieri, oggi, domani Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Riga -
(9788822904584) 11573/1469956 - 2020 - Aesthetics and Architecture Facing
a Changing Society Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper:
International Yearbook of Aesthetics (JP Službeni glasnik, ) pp. 107-118 -
issn: 1402-2842 - wos: (0) - scopus: (0) 11573/1263257 - 2019 -
Introduzione a Foucault. Nuova edizione riveduta e ampliata Catucci, Stefano -
03a Saggio, Trattato Scientifico 11573/1350028 - 2019 - Imparare dalla
Luna. Nuova edizione riveduta e ampliata Catucci, Stefano - 03a Saggio,
Trattato Scientifico 11573/1411293 - 2019 - Il corpo e le forme. Note sul
discorso spirituale nella filosofia e nell'arte Catucci, Stefano - 02a Capitolo
o Articolo book: Della materia spirituale dell'arte - On the spiritual matter
of art - (978-88-229-0438-6) 11573/1504257 - 2019 - Perché gli artisti
nei luoghi del disastro Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Terre
in movimento - (978-88-229-0306-8) 11573/1083086 - 2018 - The Prison
Beyond its Theory. Between Michel Foucault's Militancy and Thought Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Prison Architecture and Humans -
(978-82-02-52967-3) 11573/1157274 - 2018 - Postfazione Catucci, Stefano -
02c Prefazione/Postfazione book: Qualcosa sull'architettura. Figure e pensieri
nella composizione - (978-88-229-0186-6) 11573/1198338 - 2018 -
Prefazione. Vite di architetture infami Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione
book: Incompiute, o dei ruderi della contemporaneità -
(978-88-229-0261-0) 11573/1202778 - 2018 - Potere e visibilità. Studi su
Michel Foucault Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico
11573/1411498 - 2018 - Prefazione a L. Romagni, Strutture della composizione
Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Strutture della
composizione. Architettura e musica - (9788822902481) 11573/1411558 -
2018 - Presentazione. Leo Popper: l'etica e le forme Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi
di estetica) pp. 7-25 - issn: 0393-8522 - wos: (0) - scopus: (0)
11573/1084786 - 2017 - L'angelo della matematica Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: La vetrata artistica della Scuola di Matematica.
Disegno di Gio Ponti per Luigi Fontana - (978-88-229-0151-4) 11573/928912
- 2016 - A roadmap toward the development of Sapienza Smart Campus Pagliaro,
Francesca; Mattoni, Benedetta; Gugliermetti, Franco; Bisegna, Fabio; Azzaro,
Bartolomeo; Tomei, Francesco; Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume
conference: 16th International Conference on Environment and Electrical
Engineering, EEEIC 2016 (Florence Italy) book: EEEIC 2016 - International
Conference on Environment and Electrical Engineering -
(978-150902319-6) 11573/951275 - 2016 - Luce, Illuminazione,
Illuminismo Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: I percorsi
dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani -
(978-88-6822-434-9) 11573/951334 - 2016 - L'opera d'arte e la sua ombra
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L'estetica e le arti. Studi in
onore di Giuseppe Di Giacomo - (978-88-5753-620-0) 11573/951355 - 2016 -
La linea del crimine. Michel Foucault e la vita degli uomini infami Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AGALMA (-Roma: Meltemi -Roma :
Castelvecchi, 2000-) pp. 75-88 - issn: 1723-0284 - wos: (0) - scopus: (0)
11573/647595 - 2015 - Materia primordiale e Growing Design Catucci, Stefano;
Lucibello, Sabrina - 01a Articolo in rivista paper: ANANKE (Firenze : Alinea,
[1993]-) pp. - - issn: 1129-8219 - wos: (0) - scopus: (0) 11573/798868 -
2015 - Preliminari a un'estetica della plastica Catucci, Stefano - 02a Capitolo
o Articolo book: Plastic Days. Materiali e Design / Materials & Design -
(9788836630721) 11573/1203740 - 2014 - Antropomorfismo Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - () 11573/1203747
- 2014 - Arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Wikitecnica - () 11573/1203750 - 2014 - Einfühlung Catucci, Stefano - 02d
Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - () 11573/1203758 -
2014 - Movimento Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Wikitecnica - () 11573/1203775 - 2014 - Sovrastruttura Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - () 11573/1203777
- 2014 - Strutturalismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Wikitecnica - () 11573/1460811 - 2014 - Il nome del presente. The
name of the present Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: DOMUS
(Rozzano Milan Italy: Editoriale Domus) pp. 46-48 - issn: 0012-5377 - wos: (0)
- scopus: (0) 11573/525663 - 2013 - Imparare dalla Luna Catucci, Stefano
- 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Imparare dalla Luna -
(9788874625819) 11573/526040 - 2013 - Filosofia dell'eccedenza sensibile
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Vice Versa -
(9788867490158) 11573/530661 - 2013 - La Gaia estetica Catucci, Stefano -
02a Capitolo o Articolo book: Costellazioni estetiche: dalla storia alla
neoestetica. Studi offerti in onore di Luigi Russo - (9788862504287)
11573/549891 - 2013 - Conversazione con Stefano Catucci Gregory, Paola;
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Progetto e Rifiuti. Design and
Waste. No-Waste - (9788895623498) 11573/477665 - 2012 - La contingenza
impossibile: note su alcuni modelli espositivi dell'opera d'arte. Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il museo contemporaneo. Storie, esperienze,
competenze - (9788849223132) 11573/499160 - 2012 - Metamorfosi :
un'architettura dopo il postmoderno Catucci, Stefano - 02c
Prefazione/Postfazione book: Autocostruzioni. O degli ultimi spazi del progetto
- (9788889400906) 11573/500466 - 2012 - Mission to Mars- Catucci, Stefano
- 01a Articolo in rivista paper: HORTUS (Roma: Facoltà di Architettura
"Valle Giulia" , universita' la "Sapienza" Direttore) pp. -
- issn: 2038-6095 - wos: (0) - scopus: (0) 11573/502652 - 2012 -
Necessity and Beauty Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Parks
and territory: new perspective in planning and organization -
(9788895623788) 11573/503211 - 2012 - Eyes Wide Shut. Architecture
without Philosophy Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference:
The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education (Patrasso - Grecia -
Dipartimento di Architettura dell'Università di Patrasso) book: The Signifiance
of Philosophy in Archtectural Education - (9789607588340) 11573/379086 -
2011 - Estetica della speranza Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione
book: Teoria critica del desiderio - (9788872856659) 11573/411942 - 2011
- "Reimparare a sognare". Note su sogno, immaginazione e politica in
Michel Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La coscienza e
il sogno. A partire da Paul Valéry - (9788871865058) 11573/504705 - 2011
- Visione e dispersione. La regia architettonica di Luigi Moretti Catucci,
Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference: Luigi Moretti architetto
del Novecento (Facoltà di Architettura, Università di Roma
"Sapienza") book: Luigi Moretti architetto del Novecento -
(8849222009; 9788849222005) 11573/493982 - 2010 - Critica del contesto
Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: PIANO PROGETTO CITTÀ
(-Avezzano (AQ) : LISt- Laboratorio Internazionale di Strategie editoriali,
2010 -Avezzano (AQ): Ed'A- Editoriale d'Architettura -Pescara: Sala Editore
Pescara Pescara : Clua, 1984-) pp. 142-149 - issn: 2037-6820 - wos: (0) -
scopus: (0) 11573/495728 - 2010 - Essere giusti con Marx Catucci, Stefano
- 02a Capitolo o Articolo book: Foucault-Marx: paralleli e paradossi -
(9788878704763) 11573/127253 - 2009 - La terza dimensione Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: VEDUTE (Roma-Macerata : Quodlibet,
[2009]-) pp. 47-57 - issn: 2239-6462 - wos: (0) - scopus: (0)
11573/127254 - 2009 - «Eine eigene fremde Welt»: le utopie terrestri di
Karlheinz Stockhausen Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: ATENEO
VENETO (Ateneo Veneto:Campo S. Fantin 1897, 30124 Venice Italy:011 39 41
5224459) pp. 129-144 - issn: 0004-6558 - wos: (0) - scopus: (0)
11573/170422 - 2009 - "Des moustiques domestiques”: Notes on the Tautology
of Visual Writing Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume book: Beyond
Media: Visions, catalogo della 9. Edizione dell’International Festival for
Architecture and Media - (9788896531006) 11573/170451 - 2009 -
Prolegomeni a un'architettura della relazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: L'esplosione urbana - (9788888791180) 11573/170452 - 2009
- I generi musicali: una problematizzazione Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: (Enciclopedia Treccani Terzo Millennio), vol. II,
Comunicare e rappresentare - (9788812000388) 11573/170697 - 2009 - Senso
e progetto. Il contributo dell’estetica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: Il progetto di architettura come sintesi di discipline -
() 11573/196017 - 2009 - Il progetto di architettura come sintesi di
discipline Catucci, Stefano; Strappa, Giuseppe - 03a Saggio, Trattato
Scientifico 11573/180207 - 2008 - Il lavoro della dispersione Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L’idea e la differenza. Noi e gli
altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo. - (9788849821468)
11573/180783 - 2008 - Introduzione a Foucault Catucci, Stefano - 03a Saggio,
Trattato Scientifico 11573/353134 - 2008 - Tutto quello che "la
musica può fare". Conversazione con Francesco e Max Gazzè. Magrelli,
Valerio; Moretti, Giampiero; Piperno, Franco; Giuriati, Giovanni; Catucci,
Stefano; Scognamiglio, Renata; Caputo, Simone - 02a Capitolo o Articolo book:
Parlare di musica - (9788883536656) 11573/378907 - 2008 - Costruire,
abitare, patire Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Arte, Scienza,
Tecnica del Costruire - (9788849214116) 11573/493930 - 2008 - Elogio del
parlare obliquo: la musica classica alla radio Catucci, Stefano - 02a Capitolo
o Articolo book: Parlare di musica - (9788883536656) 11573/127320 - 2007
- La proprietà intellettuale come problema estetico Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma : DeriveApprodi) pp. 36-46 -
issn: 1973-3607 - wos: (0) - scopus: (0) 11573/127321 - 2007 -
L’architettura al tempo di Nikolaj Rostov Catucci, Stefano - 01a Articolo in
rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa
& Nolan, 1998-) pp. 22-27 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)
11573/127322 - 2007 - Per una critica delle narrazioni urbane Catucci, Stefano
- 01a Articolo in rivista paper: PARAMETRO (Faenza Italy: Gruppo Editoriale
Faenza Editrice) pp. 24-29 - issn: 0031-1731 - wos: (0) - scopus: (0)
11573/176810 - 2007 - Michel Foucault filosofo dell’urbanismo Catucci, Stefano
- 02a Capitolo o Articolo book: Lo sguardo di Foucault - (9788883535727)
11573/177011 - 2007 - La cura di scrivere Catucci, Stefano - 04b Atto di
convegno in volume book: Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno -
(9788884835246) 11573/207632 - 2007 - La via dialogica dell’arte: i nuovi
linguaggi urbani Catucci, Stefano - 04a Atto di comunicazione a congresso
conference: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo
millennio (Roma - Pontificia Università Urbaniana) book: Nel convivio delle
differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio, a cura di E.
Scognamiglio e A. Trevisiol - (9788840160139) 11573/496481 - 2007 -
Spartacus : i dilemmi della libertà Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo
book: Una strana rivista : «Gomorra» 1998-2007 - (9788883536021)
11573/502875 - 2007 - Dizionario di Estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (9788842058298)
11573/157929 - 2006 - Il colosso senza immaginazione Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Osservatorio Nomade: immaginare Corviale. Pratiche ed
estetiche per la città contemporanea - (8842491799) 11573/176696 - 2006 -
Il visibile e l’invisibile. Riflessioni sul potere in Michel Foucault Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Conoscenza e potere. Le illusioni della
trasparenza - (9788843039517) 11573/177761 - 2006 - Un passato che non
passa. Bachelard e la fine dell’abitare Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: Simbolo, metafora, esistenza. Saggi in onore di Mario Trevi -
(9788871863924) 11573/501672 - 2006 - Corridoi Transeuropei Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma :
Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 22-27 - issn: - wos: (0) -
scopus: (0) 11573/127044 - 2005 - La “natura” della natura umana Catucci,
Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Della Natura Umana. Invariante
biologico e potere politico. - (8888738703) 11573/166395 - 2005 -
Estetica e Architettura Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book:
Contaminazioni culturali. Materiali di studio del Dottorato di Ricerca in
Riqualificazione e Recupero Insediativo - () 11573/127045 - 2004 -
Criticare l’estetica per criticare il presente Catucci, Stefano - 01a Articolo
in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano :
Costa & Nolan, 1998-) pp. 8-11 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)
11573/127046 - 2004 - Le Corbusier a Pessac: un paradigma moderno Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO
PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) pp. 45-51 - issn: - wos: (0) -
scopus: (0) 11573/127047 - 2004 - Michel Foucault: dalla novità storica
all’estetica dell’esistenza Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper:
FORME DI VITA (Roma : DeriveApprodi) pp. 73-86 - issn: 1973-3607 - wos: (0) -
scopus: (0) 11573/166388 - 2004 - La pensée picturale Catucci, Stefano -
04b Atto di convegno in volume conference: Colloque de Cerisy - Michel
Foucault: La littérature et les arts (Cerisy - Francia) book: Michel Foucault,
la littérature, les arts - (2841743470) 11573/166394 - 2004 - Attraverso
Velázquez: Foucault, Las Meninas, la filosofia Catucci, Stefano - 02a Capitolo
o Articolo book: Il classico violato. Per un museo letterario del ‘900 -
(8875750041) 11573/127043 - 2003 - Tre versioni del misurare Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO
PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) pp. 92-99 - issn: - wos: (0) -
scopus: (0) 11573/180784 - 2003 - Per una filosofia povera: la Grande
Guerra, l'esperienza, il senso ; a partire da Lukács Catucci, Stefano - 03a
Saggio, Trattato Scientifico book: Per una filosofia povera: la Grande Guerra,
l'esperienza, il senso ; a partire da Lukács - (9788833914473)
11573/255955 - 2002 - L'angelo dei rifiuti Catucci, Stefano - 01a Articolo in
rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa
& Nolan, 1998-) pp. 20-28 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)
11573/248424 - 2001 - Estetica dell'abitare Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: La nuova Estetica italiana - () 11573/64920 - 2001 - Spazi
e maschere Catucci, Stefano - 06a Curatela 11573/1203503 - 1999 -
Ambiguità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203505 - 1999 -
Poetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario
di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203507 - 1999 - Architettura,
teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203509 - 1999 -
Censura Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario
di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203511 - 1999 - Distruzione
delle opere d'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203513 - 1999 -
Fenomenologica, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203515 - 1999 -
Fisiognomica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203517 - 1999 -
Fotografia, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203519 - 1999 -
Kitsch Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario
di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203521 - 1999 - Marxista,
estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203523 - 1999 -
Musica, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203525 - 1999 -
Opera d'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203527 - 1999 -
Originalità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203529 - 1999 -
Particolarità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203531 - 1999 -
Realismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203533 - 1999 -
Retorica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203535 - 1999 -
Rispecchiamento Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203537 - 1999 - Ritmo
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203539 - 1999 - Scientifica,
estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203541 - 1999 -
Sociologia dell'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203543 - 1999 -
Storicità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203545 - 1999 -
Struttura Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203547 - 1999 -
Strutturalista, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203549 - 1999 -
Terapie artistiche Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203551 - 1999 -
Tipico Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario
di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203553 - 1999 - Autenticità
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203555 - 1999 - Oggetto estetico
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203557 - 1999 - Estetica e politica
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/127040 - 1999 - Fra tempo e spazio:
rassegna sul vuoto in musica Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper:
GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan,
1998-) pp. 54-56 - issn: - wos: (0) - scopus: (0) 11573/497947 - 1999 -
Estetica della censura Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La
cortina invisibile - (888744501X) 11573/166387 - 1997 - Figures de l’art,
figures de la vie. Une idée de philosophie chez le jeune Lukács Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Life - (0792341260) 11573/166393
- 1997 - L'etica e le forme Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Scritti
di estetica - () 11573/223078 - 1997 - Saggi di Estetica Catucci, Stefano
- 06a Curatela 11573/127039 - 1996 - Gli animali di Céline Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: RIVISTA DI ESTETICA (Rosenberg &
Sellier:via Andrea Doria 14, I 10123 Turin Italy:011 39 011 8127820, EMAIL:
tina.cesaro@rosenbergesellier.it, Fax: 011 39 011 8127808) pp. 87-108 - issn:
0035-6212 - wos: (0) - scopus: (0) 11573/166392 - 1995 - Dall’estetica
all’ontologia. Lukács lettore della «Critica del Giudizio» Catucci, Stefano -
02a Capitolo o Articolo book: Senso e storia dell'estetica - (8873802362)
11573/180788 - 1995 - La filosofia critica di Husserl Catucci, Stefano - 03a
Saggio, Trattato Scientifico book: La filosofia critica di Husserl -
(9788881070053) 11573/162879 - 1994 - La fenomenologia negli Stati Uniti:
metodo e fondazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Specchi
americani. La filosofia europea nel Nuovo Mondo - () 11573/127038 - 1991
- La fenomenologia come teoria estetica. Note in margine a: Recensione a F.
Fellmann, Phänomenologie als ästhetische Theorie Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: STUDI DI ESTETICA (Sesto San Giovanni MI: Mimesis,
2014- Bologna: CLUEB) pp. 342-346 - issn: 0585-4733 - wos: (0) - scopus: (0). Stefano
Catucci. Catucci. Keywords: la via conversazionale, l’originarieta della
conversazione; estetica della conversazione, filosofia dell’eccedenza
sensibilie, rispecchiamento, parlare obliquo, Lukacks, filosofia povera,
filosofia ricca, Husserl, Husserl-Archief, Leuven, Belgio, “la cosa stessa”,
“la linea del crimine”, potere, la luna, musica, estetica della musica,
estetica dell’archittetura, critica fenomenologia, Foucault. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Catucci” – The Swimming-Pool Library.
Cavalcanti
(Firenze). Filosofo. Grice: “I like Cavalcanti; he thinks he is an
Aristotelian, but he is surely Platonic – therefore, obsessed with ‘eros,’ or
‘amore,’ as the Italians call it – Like Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’
is confused, but interesting!” Come del corpo fu bello e leggiadro, come di
sangue gentilissimo, così ne’ suo fiosofare non so che più degli altri bello,
gentile e peregrino rassembra, e nell’invenzione acutissimo, magnifico,
ammirabile, gravissimo nelle sentenze, copioso e rilevato nell’ordine,
composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue beate virtù d'un vago, dolce
stile, come di preziosa veste, sono adorne. Lorenzo il Magnifico, Opere).
Alighieri e Virgilio incontrano all'Inferno. Ritratto di Cavalcanti, in Rime.
Figlio di Cavalcante dei Cavalcanti, nacque in una nobile famiglia guelfa di
parte bianca, che ha la sua villa vicina a Orsanmichele e che e tra le più
potenti della regione. Il padre fu mandato in esilio in seguito alla sconfitta
di Montaperti. In seguito alla disfatta dei ghibellini nella battaglia di
Benevento, padre e figlio riacquistarono la preminente posizione sociale a
Firenze. A lui e promessa in sposa la figlia di Farinata degli Uberti, capo
della fazione ghibellina, dalla quale Guido ha i figli Andrea e Tancia. E tra i
firmatari della pace tra guelfi e ghibellini nel Consiglio generale al Comune
di Firenze insieme a Latini e Compagni. A questo punto avrebbe intrapreso un
pellegrinaggio -- alquanto misterioso, se si considera la sua infamia di ateo e
miscredente! Muscia, comunque, ne dà un'importante testimonianza attraverso un
sonetto. Alighieri, priore di Firenze, fu costretto a mandare in esilio
l'amico, nonché maestro, con i capi delle fazioni bianca e nera in seguito a
nuovi scontri. Si reca allora a Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai”
e composto durante l'esilio. La condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue
condizioni di salute. Muore a causa della malaria contratta durante l'esilio
forzato d’Alighieri.È ricordato oltre che per i suoi componimentiper essere
stato citato da Dante (del quale fu amico assieme a Gianni) nel celebre nono
sonetto delle Rime Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose
con un altro, mirabile, ancorché meno conosciuto, sonetto, che ben esprime
l'intenso e difficile rapporto tra i due amici, “S’io fosse quelli che d'amor
fu degno”. Alighieri, remmorso, lo ricorda anche nella Divina Commedia
(Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre
Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina Commedia e in una novella del
Decameron. La sua personalità, aristocraticamente sdegnosa, emerge dal
ricordo che ne hanno lasciato gli filosofi contemporanei, Compagni, Villani,
Boccaccio e Sacchetti. Il gentile figlio di Cavalcante Cavalcanti, nobile
cavaliere e cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario, e intento alla
filosofia. La sua personalità è paragonabile a quella di Alighieri, con la
importante differenza del carattere laico. Noto per il suo ateismo,
Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf. X, 63). Boccaccio (Decameron VI, 9: si
dice tralla gente volgare che questa sua speculazione filosofica sull’amore e
solo in cercare se puo trovarse che Iddio non e. Villani (De civitatis
Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è stata tra l'altro rilevata
nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me prega” -- certamente il testo
più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico -- di tutta la poesia
stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di correnti radicali
dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato dal Boccaccio di
una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due fiorentini a
cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da Italo Calvino in
una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui compiuto, diventa un
emblema della leggerezza. L'episodio figura anche nell'omonimo testo di
France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i fatti risalienti della sua
vita vengono riportati sotto una veste quasi mistica. La opera di
Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici
ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza
ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la ballata ed il sonetto,
seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla sua poetica, poiché
incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si risolvono poi in
una costruzione armoniosa. Peculiare di Cavalcanti è, nei sonetti, la presenza
di rime retrogradate nelle terzine. Temi Quadro di Johann Heinrich Füssli.
Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo antenato Guido Cavalcanti. I
temi della sua opera sono quelli cari al stilnovista; in particolare la sua
canzone manifesto “Me prega” è incentrata sull’effetto prodotti dall'amato
sull’amante. La concezione filosofica su cui si basa è l'aristotelismo radicale
che sostene l’eternità e l'incorruttibilità dell'anima separata dal corpo e
l'anima sensitiva come entelechia o perfezione del corpo. Va da sé che, avendo
le varie parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse potevano
raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta – anima/corpo entelechia. Si deduce
che, quando l'amore colpisce l’anima, la squarcia a e la devasta,
compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima inferiore vegetativa – L’amante
non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza dell'animo che, destatasi per
questa rottura del sinolo, rimane impotente spettatore della devastazione. È
così che l'amante giunge alla morte. L’amato, avvolto come da un alone mistico,
rimane così irraggiungibile. Il dramma si consuma nell'animo dell'amante.
Questa complessissima concezione filosofica permea la poesia ma senza
comprometterne la raffinatezza o superfizialita letteraria. Uno dei temi
fondamentali è l'incontro dell’amante e l’amato che conduce sempre, ed al
contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia kierkegaardiana, e al
desiderio di morire. La opera dell’amore di Cavalcanti possiede un accento di
vivo dolore riferio spesso al corpo dell’amante. Cavalcanti e un fine filosofo
– scrive Boccaccio: lo miglior loico che il mondo avesse -- ma non ci
resta nulla di sue saggistica filosofica, ammesso che ne abbia effettivamente
scritte. Il poetare di Cavalcanti, dal ritmo soave e leggero è di una
grande sapienza retorica. I versi di Cavalcanti possiedono una fluidità
melodica, che nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti fonici del lessico
impiegato, dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni sintattiche.
Cavalcanti: la poetica e lo Stilnovo, L’amico di Dante” (Roma-Bari: Laterza).
“Species intelligibilis”, Cavalcanti laico e le origini della poesia italiana,
Alessandria: Edizioni dell'Orso); Cavalcanti auctoritas”; Cavalcanti laico; La
felicità: Nuove prospettive per Cavalcanti (Torino, Einaudi); Cavalcanti
(Torino, Einaudi); Cavalcanti: poesia e filosofia, Alessandria, Edizioni
Dell'Orso); Cavalcanti: uno studio sul lessico lirico, Roma, Nuova Cultura);
Per altezza d'ingegno: saggio su Cavalcanti, Napoli, Liguori); L'ombra di
Cavalcanti; Roma, L'Asino d'Oro, . Guido Cavalcanti, Rime, Firenze, presso
Niccolò Carli). Dizionario biografico degli italiani; Il controverso
pellegrinaggio Cavalcanti”; “La Divina Commedia. Inferno, Mondadori, Milano);
La società letteraria italiana. Dalla Magna Curia al primo Novecento. La fama
o, meglio, l’habitus di filosofo Cavalcanti lo deve essenzialmente ad una sua
poesia: la canzone celeberrima e alquanto complessa, sia per la metrica che per
i contenuti, Donna me prega. In essa il poeta parlerà di “amore” con gli
strumenti della filosofia naturale (“natural dimostramento”), conducendo
un’analisi razionale volta a spiegarne la natura e le cause. Una prima
importante informazione circa l’essere dell’amore Cavalcanti ce l’ha già
fornita nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto che l’amore è un
accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa definizione,
tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta mutua dalla filosofia
di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La sostanza, secondo il
grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che cioè esiste
autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di essa; in
altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una
caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza,
mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido,
paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a Cavalcanti, egli afferma
che l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come,
ad esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso
esiste piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità)
dell’uomo (sostanza). Innanzitutto, Cavalcanti ci dice che l’amore si insedia
nella memoria. Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia
di Aristotele, poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta.
Nel De anima, Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per
forma non intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la
struttura che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà
al corpo la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur
essendo unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre
parti: anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima
riguarda le funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la
riproduzione) degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda,
invece, comprende i sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e
dell’uomo; la terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali,
ed propria solo dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per
Cavalcanti, appartiene all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o
estensione della sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo
permette all’uomo di vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette
anche di avere di questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è
creata da una sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che
l’immagine di essa si imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una
operazione dell’anima sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto,
appartengono sia la funzione della vista che quella della memoria. Il poeta,
tuttavia, ci dice che questa immagine trova “loco e dimoranza” anche
nell’intelletto possibile. Che cosa intende con questi versi? Bisogna ritornare
brevemente alla psicologia aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda
delle sue funzioni, può essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima
delle tre riguarda il pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo.
Secondo Aristotele, dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che
l’immagine di esso si è impressa nella memoria, esso viene pensato
dall’intelletto. In che modo? Una parte dell’anima sensitiva, che egli chiama
intelletto possibile, riceve l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie
all’azione di un’altra componente della stessa anima, che egli chiama
intelletto agente. Per fare un esempio, si potrebbero paragonare l’intelletto
possibile ad un quaderno ancora intonso e l’intelletto agente all’azione dello
scrivere. Dunque, mentre i sensi producono nella memoria l’immagine della
donna, l’intelletto agente imprime nell’intelletto possibile la forma astratta
di questa immagine. Ricapitolando, nell’anima sensitiva si sviluppa la passione
amorosa attraverso la vista della donna e la memoria della sua immagine, mentre
niente di tutto questo avviene nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata
soltanto un concetto astratto e disincarnato. L’amore non è una virtù morale
(queste, infatti, sono un prodotto della ragione, dell’anima intellettiva), ma
è una virtù sensibile, appartiene all’anima sensitiva. Cavalcanti ci dice che
non l’anima intellettiva, ma bensì l’anima sensitiva è perfezione dell’uomo,
poiché essa attua tutte le potenzialità insite nell’individuo umano. Il poeta,
infatti, seguendo l’interpretazione che di Aristotele aveva dato il filosofo
arabo Averroè, ritiene che esista un unico intelletto sempre in atto ed eterno
separato dagli uomini, con il quale le facoltà superiori dell’anima sensitiva
di ciascun essere umano entrano in contatto ogni qual volta si sviluppa il pensiero.
In altre parole, egli, affermando l’esistenza di un intelletto unico ed eterno,
separa l’anima intellettiva, unica ed eterna, dalle anime sensitive concrete e
mortali di ciascun uomo. Questa complessa psicologia che Cavalcanti mutua da
Averroè è la base del suo celebre pessimismo amoroso. La passione amorosa
ottunde la capacità di giudizio poiché l’immagine della donna amata, ormai
insediata nella memoria e desiderata dai sensi, determina il netto prevalere
dell’anima sensitiva su quella intellettiva. Questo non vuol dire, però, che
l’amore ottenebra l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti, le
facoltà intellettuali sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre, il
poeta, seguendo Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è
separata dalle anime sensitive degli uomini. Quello che Cavalcanti intende,
dunque, è questo: la passione amorosa, “se forte”, impedisce all’uomo, dominato
totalmente dai bisogni dell’anima sensitiva, di stabilire un contatto con
l’intelletto e quindi di avere raziocinio. In questo senso egli parla
dell’amore come di un vizio, che porta chi ne è colpito a non saper più
distinguere il bene dal male (“discerne male”). Ciononostante, Cavalcanti ci
dice che l’amore non è cosa contraria alla natura (“non perché oppost’a
naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni naturali, la passione amorosa
sviluppa una potenzialità propria dell’anima sensitiva e, pertanto, rinunciarvi
sarebbe deleterio e controproducente. Come interpretare questa affermazione
apparentemente contraddittoria? È necessario, anche in questo caso, richiamare
Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo greco afferma che ognuno è
felice quando realizza bene il proprio compito (ad esempio, il costruttore sarà
felice quando realizzerà oggetti perfetti). Il compito dell’uomo, però, non
potrà certo essere quello di assecondare l’anima vegetativa o quella sensitiva;
egli dovrà piuttosto vivere secondo ragione; pertanto, secondo il filosofo
greco, la felicità per l’uomo consiste nell’attività razionale, nella vita
secondo ragione. Cavalcanti, dunque, seguendo Aristotele, ci dice che l’amore è
deleterio e mortale solo quando ci allontana violentemente da questo tipo di
vita; poiché una vita vissuta in preda ai bisogni a agli istinti dell’anima sensitiva
è una non-vita, più adatta agli animali che agli uomini. Viceversa, l’amore che
riesce ad essere temperante, e che cioè non allontana l’uomo dalla vita
razionale, è espressione di un naturale bisogno della nostra sensualità. Guido
Cavalcanti. Keywords: lo sviluppo della teoria dell’amore in Aristotele – amore
e morte, amore e anima vegetativa (l’amante non mangia, l’amante non dorme) –
l’animo e il corpo come entelechia, sinolo perfetto – l’amore come incontro
disastroso di due entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavalcanti” –
The Swimming-Pool Library.
Cavallo (Napoli). Grice: “I
love Cavallo, and so did most of the members of the Royal Society!” Grice:
“Cavallo wasn’t strictly onto mythology, but the Italians on the whole are: the
Elettridi are a couple of islands off the mouth of the shore where Fetonte fell
– due to … electricity, as Cavallo called it – Cavallo is what at Oxford we
would call a ‘natural philosoophy’ – for which there was once a chair – it’s
very odd that it’s the chair in transnatural or ‘metaphysical’ philosophy that
still sub-sists, as Heidegger would put it! By using ‘elettricita’ in the
feminine abstract, Strawson criticsed Cavallo – but Strawson criticised most!”
-- Autore di trattati di elettricità, magnetismo ed elettricità medicale, compe
anche studi relativi ai gas e all'influenza dell'aria e della luce sulla
biologia. Propone numerosi apparecchi elettrostatici di misura e di ricerca.
Intue la possibilità di volare utilizzando palloni aerostatici. Costrue il
primo elettroscopio. Altre opere: TreccaniEnciclopedie. Figlio di un medico. Si dedica alla filosofia e al commercio a giudicare
da alcuni suoi studi. Si ritaglia un posto di rilievo come ideatore di
esperimenti, inventore e realizzatore di strumenti di precisione e di apparati
sperimentali, anche su commessa, e autore di trattati sistematici molto
valutati per chiarezza, sistematicità e completezza. Si lo ricorda in
particolare per i suoi studi di aeronautica, legati alla possibilità di usare
l’idrogeno come gas portante. E il primo a effettuare esperimenti sistematici
sulle capacità ascensionali dell’idrogeno, gas che era stato scoperto quindici
anni prima da Cavendish. Inizia con bolle di sapone riempite d’idrogeno, e che
per questo salivano in verticale. Prova poi con involucri di carta, che però si
rivelano inadatti perché permeabili al gas, e infine con vesciche di animali,
troppo pesanti per sollevarsi ma in grado di far misurare una riduzione del
peso. Non riusce a trovare un involucro abbastanza leggero da sollevarsi una
volta riempito di gas. Cavallo, Tiberio. - Fisico (Napoli 1749 - Londra 1809);
recatosi per commercio in Inghilterra nel 1771, ivi si dedicò a ricerche di
fisica e di chimica. Già nel 1777 aveva intuito la possibilità del volo per via
aerostatica, mediante un pallone ripieno di gas leggero; eseguì in proposito
una serie di ingegnose esperienze servendosi di bolle di sapone gonfiate con
idrogeno. Deve considerarsi il vero inventore dell'elettroscopio. Fisico e filosofo naturale italiano. I suoi
interessi includeno l’elettricità , lo sviluppo di strumenti scientifici, la
natura delle "arie" e il volo in mongolfiera. Membro della Royal Academy
of Sciences di Napoli. Presenta tredici volte di seguito la Lezione Bakeriana della
Royal Society di Londra. Nacque a Napoli, Italia, dove suo padre era un medico.
Apporta diversi ingegnosi miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso
citato come l'inventore del “moltiplicatore di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro
tascabile" che usa per amplificare piccole cariche elettriche per renderle
osservabili e misurabili con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto
dalle correnti d'aria da un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In
seguito al lavoro di Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti
sistematici sulla refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi
volatile. Si interessa alle proprietà fisiche delle "arie" o dei gas
e condusse esperimenti sull '"aria infiammabile" (idrogeno gassoso).
Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria” fece "un esame
giudizioso del lavoro contemporaneo", discutendo sia la teoria del “flogisto”
(citado da Grice in “Actions and events”) di Priestley che le opinioni
contrastanti di Lavoisier. Alla Royal Society venne letto un articolo che
descrive il primo tentativo di sollevare in aria un palloncino pieno di
idrogeno. La sua “Storia e pratica dell'aerostazione” e considerata "una
delle prime e migliori opere sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo
secolo". In esso, discute sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i
suoi principi fondamentali. Si rivolge a un pubblico più generale in questo
lavoro, evitando il gergo tecnico e le prove matematiche, ed era un efficace
comunicatore scientifico sia per i suoi colleghi che per il pubblico in
generale. Influenza i pionieri dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard .
Storia e pratica dell'aerostazione , Tiberio Cavallo. La piastra I, che
illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di
idrogeno La piastra II, che illustra l'apparato chimico e i palloncini
utilizzati per la generazione di idrogeno Cavallo pubblicò anche sul
temperamento musicale nel suo trattato “Del temperamento di quegli strumenti
musicali, in cui sono fissati i toni, le chiavi o i tasti, come nel
clavicembalo, nell'organo, nella chitarra, ecc . Il memoriale di Burdett
Coutts, Old St. Pancras. Il nome di Cavallo è verso il basso, ma mancano le
lettere B e C. Secondo quanto riferito, fu sepolto nel cimitero di Old St. Pancras
in una volta vicino a quella di Paoli. La tomba è perduta ma è elencato nel
memoriale di Burdett Coutts alle molte persone importanti sepolte in
essa. Altre opere: Pubblica numerosi lavori su diversi rami della fisic ,
tra cui: “Trattato completo di elettricità in teoria e pratica” (Firenze:
Gaetano Cambiagi); “Teoria e pratica dell'elettricità medica”; “Trattato sulla
natura e le proprietà dell'aria e di altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato
completo sull'elettricità in teoria e pratica”; “Storia e pratica
dell'aerostazione”; “Trattato sul magnetismo”; “Proprietà mediche dell'aria
fittizia”; “Elementi di filosofia naturale e sperimentale”. Per la Cyclopædia
di Rees ha contribuito con articoli su Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma
gli argomenti non sono noti. Un resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici
del Sig. Tiberio Cavallo comunicato dal Sig. Henley, FRS, Transazioni
filosofiche della Royal Society di Londra. TRATTATO COMPLETO D'ELETTRICITÀ
TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI ORIGINALI DEL SIGNORE TIBERIO CAVALLO TRADOTTO
IN ITALIANO DALL'ORIGINALE INGLESE Con addizioni e cangiamenti fatti dall'
Autore , 9 FIRENZE MDCCLXXIX . PER GAETANO CAMBIAGI STAMP. GRANDUCALE CON
LICENZA DE SU PÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU CLAVERING PRINCIPE E
CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA GRAN BRETTAGNA ec .
AVoi folo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta verſione dall'origi
nale ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica colle preſenti ſtampe e
di compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio . Ella è d'uno della
Voſtra Nazione , è ſtata intrapreſa per Voſtro comando , fatta ſotto i
Voſtriocchi, e quafi tutti gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro copioſo
ed elegante Gabinetto, che avete voluto rendere quaſi pubblico a comune vantag
gio di chi brama profittare delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali . Proſeguite
come fate in que queſta Voſtra generoſa in trapreſa ; mentre ſotto i Vo ftri
fortunatiſſimiauſpicjcol più profondo riſpetto mi glorio di poter paſſare a di
chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA Di Caſa 26. Marzo 1779. Umiliſſimo Servo > IL
TRADUTTORE VII A VV 1 SO DEL TRADUTTORE. " Mi ſarei facilmente
diſpenſato dal fare veruno avviſo a queſt' opera ſe non mi foffi creduto in
dovere di rendere in teſo l'Autore della medeſima , della ſtampa che meditavo
fare della preſente verſione , anco per ſentire da ello ſe avea niente da
aggiugnere o mutare al ſuo lavoro. Avendogli dunque ſcritto il Sig . Ma gellan
alle richieſte d'un mio amico ſu queſto propoſito, gradì molto queſta parte , e
traſmeſſe alcune addizioni e cambiamenti che deſiderava che foſſerofatti, come
èſtato eſeguito , accompagnati con una corteſe let tera del tenore ſeguente .
Signore . Incluſa in queſta Ella riceverà una nota di alcune poche addizioni e
cam bia 1 a 4 VIII A V VISO biamenti che bramerei foſſero inſeriti nella
traduzione del mio Trattato ſull'E . lettricità . La prego fare intendere al
Traduttore e al di Lei corriſpondente che ſono loro molto obbligato per aver mi
dato parte di queſta intrapreſa , e che ſon pronto a ſervirgli in quel poco che
poſſo . Nov. 30. 1778. Suo Tiberio Cavallo , Sig. Magellan Nevils Court Ferter
Lane . 1 NEL TRATTATO DI CAVALLO SULL' ELETTRICITA' . Pag. 2.8 . v. 6. In vece
di è quaſi tutte le dure pietre prezioſe ſi legga ad alcune altre dure pietre
prezioſe . Pag. 40. Il paragrafo che comincia fiz nalmente concluderemo e
finiſce da un corpo ad un' altro ſi dee totalinente omertere . Pag. DEL
TRADUTTORE } Pag. 99. Il paragrafo che comincia Le caufe e gli effetti ſono
così intimamente, e termina nella pag. 100. colle parole cer tezza epreciſione
fi dee omettere affatto . Pag. 137. Alla nota in cui ſi deſcrive l’Amalgama ſi
poſſono aggiungere i fe guenti verſi : Il Dott. Higgins ha ultima mente
inventato un Amalgama che è molto preferibile a quello di ſtagno , perchè una
piccoliffima quantità di effo non solo fa agire il vetro più potentemente , ma
dura anco più lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di fagno. Queſt'
amalgama è fatto d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer . curio meſcolati
inſieme. Pag. 279. v. 12. Si dice non ſarà at tratta del ec. ma più toſto
recederà dal punto ſpecialmente ſe l' ago ſi preſenti velociſſimamente verſo
ilmedeſimo: Ora leparole di queſto paſſocheſono interpun tate deono ometterſi ,
cioè dee dir così , non ſarà attratta dal medefino. a 5 Pag. X À VVISO 1 Pag.
335.v.8 . Tra le parole poichè e l'e lettricità ſi dee aggiugnere in parità di
circoſtanze . Pag. 393. v. ult. cioè della nota In ve ce di Vol. XLVIII. e
LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII. Del reſto polo aſſicurare il mio Lettore che
la maggior parte degli ſperimenti in queſto Trattato riferiti ſono ſtati
ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e ſcelto Gabi netto di S. A. il Sig.
PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il comodo, ed ha colla sua autorità
promoſſo queſto lavoro . In tanto vivi felice , e godi di queſta fatica . 1 . 1
i r 1 PRE 2 XI PREFAZIONE DELL'AUTORE. HL diſegno di queſto Trattato è di pre
ſentare al pubblico un proſpetto che comprenda lo ſtato preſente dell'elettri
cità ridotto in quei limiti più riſtretti che la natura della ſcienza può
tollerare . Eſſo è diviſo in quattro parti, in ciaſcuna delle quali ſono
contenute certe particolarità che avevano anche minor conneſſione col
rimanente, e la cui diſtinta veduta ſi è creduto , che poteſſe eſſere un mezzo
da impedire la confuſione dell' idee nella mente di quei lettori che non fi
erano prima refa molto familiare queſta materia . La prima parte tratta
ſolamente delle leggi dell'elettricità ; cioè di quelle leggi naturali relative
all' elettricità che per mezzo d' innumerabili ſperimenti ſi ſono tro ) 1 XII
PREFAZIONE il trovate coſtantemente vere , e che non dipendono da veruna
ipoteſi. In queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par ticolarità , la
quale non foſſe chiaramente ſicura , o la quale foſſe di poca conſeguen za ; ma
nel tempo medeſimo ha procu rato di non omettere coſa alcuna impor tante , o
che ſembraſſe promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è meramente
ipote tica , non per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni. La grande
improba bilità della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato l'autore
a renderla più breve che foſſe poſſibile . La parte terza contiene la pratica
dell' elettricità . Qui l'autore ha procurato d'in ferire una deſcrizione di
tutti i nuovi mi glioramenti fatti nell'apparato , i quali nel tempo medeſimo
ſervono a minorare la fpefa , e a facilitare l'eſecuzione degli eſperimenti. In
riguardo agli eſperimenti mede 1 DELL' AUTORÉ . XIII medeſimi , egli ha principalmente
inſiſtito ſu quei pochi primari che gli ſon parſi i più neceſſari a illuſtrare
e confermare le leggi dell'elettricità , omettendo un gran numero d'altri che
ha trovato non eflere altro che i primi in qualche coſa va rjati . Egli niente
di meno ha dato un rag guaglio di alcuni altri che quantunque non affolutamente
neceſſari, gli parvero però meritare che ſene defle notizia . La quarta ed
ultima parte contiene un breve ragguaglio dei principali ſperi menti eſeguiti
dall'autore medeſimo in conſeguenza di quanto gli è accaduto nel corſo dei ſuoi
ſtudj in queſta parte di fi loſofia . Quì egli ha laſciato di far men zione non
ſolo di quei tentativi che non hanno prodotto verun conſiderabile effet to ,
maancora d'innumerabili congetture che ha formato intorno a' medeſimi , e
intorno ad altri non ancora ridotti alla ſicurezza dell'attuale oſſervazione .
L'au XIV PREPAZIONE · L'autore prende queſt' opportunità di dimoſtrare la ſua
riconoſcenza a varj ſuoi ingegnoſi amici per diverſe eſperienze comunicategli ,
e particolarmente al Sig. Guglielmo Henly il quale ha fatto quel che per lui ſi
poteva per informarlo di ciaſcuna particolarità che ha creduto po teſſe
arricchire e abbellire l'opera . Non è ſembrato neceffario il nominare quei
ſoggetti, le di cui eſperienze e of fervazioni recate in queſt' opera erano
avanti ben cognite al mondo ; per lo che l'autore ſi è riſtretto a far menzione
di quelle perſone le cui eſperienze erano nuo ve , o non comunemente note agli
ſcrit tori di queſta materia . Per rendere il trattato più intelligibile ed
utile ſono ſtate aggiunte tre tavole in rame, e un copioſo indice delle materie
che meritano maggiore attenzione . IN XV 1 INDI CE DEI CAPITOL I. Neroduzione
pag. 1 . PARTE PRIMA.. Leggi fondamentali dell'elettricità . II . CA P. I.
Contenente la spiegazione d ' alcuni termi ni che fono principalmente uſati
nelle lettricità CA P. II. Degli elettrici , e dei conduttori .... 15 . CA P.
III. Delle due elettricità 24 CA P. IV . Dei differenti metodi di eccitare gli
elet trici . 37 . CAP. I XVI CAP. V. Dell elettricità comunicata 48. CA P. VI.
Dell' elettricità comunicata agli elettri ci . 63 . CA P. VII. Degli elettrici
caricati , ovvero della Boc cia di Leida ' . 71 . CA P. VIII. Dell elettricità
atmosferica go. CA P. IX. Vantaggi derivati dall elettricità ....96 . CA P. X.
Che contiene un proſpetto compendioſo del le proprietà principali dell
elettrici tà . 119. PAR 4 XVII 1 PARTE SECONDA. Teoria dell'elettricità , CA P.
I. Ipoteſi dell' elettricità poſitiva , e negati Va 126. CA P. II. Della natura
del fluido elettrico 136 . CA P. III. Della natura degli elettrici , e dei con
duttori... 149 CA P. IV . Del luogo occupato dal fluido elettrico . 153 . PARTE
TERZA. Elettricità pratica . CA P. J. Dell'apparato elettrico in generale . 101
. CA P. II. Deſcrizione d' alcune particolari macchine elettriche 387 . CAP.
XVIIL ze... CA P. III. Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti neceſſarie
dell'apparato elettrico . 200. CA P. IV. Regole pratiche riguardanti l'uſo
dell' ap parato elettrico , ed il fare l'eſperien 216. CA P. V. Sperimenti
relativi all'attrazione , e re pulſione elettrica 226. CA P. VI. . . Sperimenti
ſulla luce elettrica ... 262 CA P. VII . Sperimenti colla bottiglia di Leida .
289. CA P. VIII. Sperimenti con altri elettrici caricati. 3 34 . CA P. IX .
Sperimenti ſull' influenza delle punte , e ſull' utilità dei conduttori
metallici ap puntati per difendere gli edifizj dagli effetti del fulmine 345
CAP. 1 1 1 1 XIX са CA P. X. Elettricità medica .... .. 364 CA P. XI. Sperimenti
fatti con la batteria elettri 369. CA P. XII. Sperimenti promiſcui 384. CA P.
XIII. Ulteriori proprietà della boccia di Leida ovvero degli elettrici
caricati. 409. PARTE QUARTA. Nuovi ſperimenti dell' elettricità .. 413. CA P.
I. . Coſtruzione dell' aquilone elettrico , e di altri ſtrumenti uſati con ello
421 . CA P. II. Sperimenti fatti con l' aquilone elettri 435. co CAP. XX CA P.
III. . . Sperimenti fatti coll.elettrometro atmosfe rico , e coll' elettrometro
per la prog gia . 405. CA P. IV. Sperimenti fatti coll' elettroforo comune
mente chiamato macchina per eſibire l'elettricità perpetua · 474 CA P. V.
Sperimenti ſu i colori . 487 CA P. VI. Sperimenti promiſcui 494 . Indice 505. .
. . . . . IN 1 INTRODUZIONE L E arti e le ſcienze a guiſa dei re gni e delle
nazioni, anno cia ſcuna alcuni fortunati periodi di gloria e di fplendore, in
cui eſſe mag giormente attirano l'umana attenzione , e fpandendo una luce più
viva che in qualunque altro tempo divengono l'oga getto favorito e la moda del
ſecolo ; ma queſti periodi terminan preſto , e pochi anni di luſtro e di fama
reſtano ſpetto oſcurati da interi ſecoli d'oblivione . Da queſto faro infelice
per altro alcune ſcien ze ſono riſervate ed elenti , le quali in grazia della
vaſta e neceſſaria eilenſione del loro uſo e delle fruttuole produzioni che da
loro ſi ricavano , ſono ſempre flo ride ; e ſebbene una volta ſiano ſtate in А
CO INTRODUZIONE cognite , pure quando la fama ne ha fatto riionare il lor
naſcimento o pubblicato i loro progreſli , giammai dopo declina no , e benchè
divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono . Di queſto ge nere è
l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra tutte le parti della
Filoſofia naturale , che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo . Queſta ſcienza
dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua forza , dopo
che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura , è ſtata
ſempre in voga , è ſtata col maſſimo profitto coltivata , e ſenza interruzione
alcuna ha fatto tali progreſſi , che ora è ridotta a uno ſtato in cui in vece
di divenire ſterile , ſembra ulteriormente impegnare la generale at tenzione e
ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe. Gli Ottici
è vero , moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà , ma ſempre rela.
INTRODUZIONE 3 1 i relative alla ſola viſione : il Magnetiſmo rappreſenta la
forza d'attrazione , re pultione , e direzione verſo le parti po lari di quella
ſoſtanza che ſi chiama ca lamita ; la Chimica tratta delle varie compoſizioni e
riſoluzionidei corpi : ma l ' Elettricità contenendo per così dire tutte queſte
coſe dentro di ſe ſola eſibiſce gli effetti di molte ſcienze , combina in ſieme
le diverſe energie e ferendo i ſenſi in una particolare e forprendente manie ra
, dà piacere ed è di grand'uſo all'igno rante ugualmente che al Filoſofo , all'
opulento ugualmente che al povero . Nell' Elettricità ci divertiamo contem
plando la ſua penetrante luce rappreſen tata in innumerabili diverſe forme, am.
miriamo la ſua attrazione e repulſione che agiſce ſopra ciaſcun genere di corpi
, reſtiamo ſorpreſi dall'urto , atterriti dall' eſploſione e forza della ſua
batteria ; ma quando la conſideriamo ed eſaminiamo A 2 , CO 4 INTRODUZIONE come
cauſa del tuono , del fulmine , dell' aurora boreale , e di altri fenomeni na
turali , i cui terribili effetti poliamo in parte imitare , ſpiegare , ed anche
allon tanare , allora sì che reſtiamo attoniti per la maraviglia , la quale non
ci per mette di contemplare altro che l'ineſpri mibile e permanente idea
dell'aminira zione e della ſorpreſa . Il più remoto rag guaglio a noi cognito ,
che abbiamo di qualche effetto elettrico eſiſte nell ' opere del famoſo antico
naturaliſta Teofraſto che fiori circa trecento anni avanti Cri ſto . Ei ci dice
che l'ambra il cui nome greco è nextpor , e da cui il nome d'E lettricità è
derivato , come pure il Lin curio ( 1 ) poſſiede la qualità di attrarre i corpi
leggieri . Queſto ſolamente era tutto cio ( 1 ) E ftato in qualche maniera
provato cbe il Lin curio di Teofraſto è la medeſima ſoſtanza che va ſotto il
nome di Turmalina, di cui avremo occae fione di parlare nel corſo di queſto
trattato . 1 INTRODUZIONE 5 ciò che ſi conoſceva ſu tal ſoggetto per circa 19.
ſecoli dopo Teofraſto , nel qual lungo periodo non troviamo nell'iſtoria fatta
menzione di alcuna perſona che abbia fatto veruna ſcoperta , e ne pure
ſperimento alcuno in queſta parte di Filoſofia , eſſendo rimaſta queſta ſcienza
affatto nell'oſcurità fino al tempo di Guglielmo Gilbert medico Ingleſe , che viveva
ful principio del decimo fertimo ſecolo ; ed il quale a cagione delle ſue
ſcoperte in queſto nuovo e inculto cam po può giuſtamente chiamarſi il padre
della preſente Elettricità . Offerva egli che la proprietà d'attrarre i corpi
leg gieri dopo la confricazione non è una proprietà particolare dell'ambra o
del Lincurio , ma che molti altri corpi la poſſeggono egualmente . Rammenta un
gran numero di queſti e nel medeſimo tempo varie particolarità , che conſide
rando lo ſtato della ſcienza in quel ſe colo 1 6 INTRODUZIONE colo poſſono
ſembrare veramente grandi ed intereſſanti. Dopo Gilbert la ſcienza avanzando
benchè con piccoli progrefli , paſsò per così dire dall'infanzia alla puerilità
, a vendo intrapreſo alcuni eccellenti filo ſofi ad eſaminare la natura in
queſte ope razioni . Tale fu Franceſco Bacone , Ro berto Boyle , Ottone
Guericke , Iſacco Newton , e più di tutti il Sig. Hawkesbee ſoggetto a cui
ſiamo molto obbligati per alcune importanti ſcoperte e per il reale avanzamento
dell'Elettricità . Il Sig. Hawkesbee fu il primo che oſſervò la gran forza
elettrica del vetro , ſoſtanza che fin da quel tempo fu generalmente uſata da
tutti gli elettriciſti in preferenza di qualunque altro elettrico . Egli fu il
primo che notaſie le varie apparenze della luce elettrica e il fragore accom
pagnato con eſſa , inſieme con una varietà di fenomeni relativi all'attrazione
e ri pulſione elettrica . Do INTRODUZIONE 7 Dopo il Sig. Hawkesbee la ſcienza
dell' elettricità per quanto fin lì foſſe avanzata , rimaſe quaſi per venti
anni in uno ſtato di quiete , eſſendo l'attenzione dei Filoſofi in quel tempo
occupata in altri filoſofici ſoggetti, i quali in riguardo alle nuove ſcoperte
dell'incomparabile Iſacco Newton erano allora grandemen. te in reputazione . Il
Sig . Grey fu il pri-, mo dopo queſto periodo d' oblivione a portar la ſcienza
di nuovo alla luce del mondo . Egli mediante le gran ſcoperte che fece la
inſinuò di nuovo alla cogni zion dei Filoſofi e da lui ſi può dire che prenda
la ſua data la vera e florida epoca dell' Elettricità . Il numero degli
elettriciſti che ſi è giornalmente moltiplicato dal tempo del Sig . Grey , le
ſcoperte fatte , e gli uſi che ne ſon derivati fino al tempo preſente , fono
materia realmente degna d'atten zione e meritano l'ammirazione di qua lun 1 1 8
INTRODUZIONE 1 lunqne amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere .
Chiunque vuole informarſi dei parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza ,
legga l'elaborata iſtoria dell'Elettricità compilata dall'eccellente D:
Prieſtley , opera che lo può informare di tutto ciò che è ſtato fatto in
rapporto a queſto ſoggetto fino alla ſua pubblicazione . Io per me mi
diſpenſerò dal farre un lungo dettaglio iſtorico ; queſto trattato eſſendo
diretto a dare un ragguaglio dello ſtato preſente dell'Elettricità , e non a
for marne un'iſtoria . Soltanto oſſerverò in generale , che quantunque la
ſcienza ab bia , mediante l'indefella attenzione di molti ingegnoſi foggetti ,
e mediante le ſcoperte che furono giornalmente pro dotte , eccitata la
curioſità dei Filoſofi e impegnata la loro attenzione ; con tut to queſto
ſiccome le cauſe di ciaſcuna cola piccola o grande , cognita o inco gnita ,
INTRODUZIONE gnita , di rado ſono oſſervate con at tenzione , ſe i loro effetti
non ſono sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino all'anno
1746. ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi . La ſua attra zione può eſſere
rappreſentata in parte dalla calamita , la ſua luce dal fosforo , e in una
parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto della
pubblica attenzione , e ad eccitare una generale curioſità , fin che non fu .
accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza , in ciò che
ſi chiama boccia di Leida in ventata dal Sig. Muſchenbroeck nel 1746. Allora lo
ſtudio dell' Elettricità divenne generale , ſorpreſe ciaſcuno oſſervatore , e
invitò alla caſa degli elettriciſti un più gran numero di ſpettatori di quello
che avanti ſi foſſe mai unito inſieme per oſſervare qualunque altro filoſofico
ſpe rimento . Dal perta del 1 5 INTRODUZIONE 1 Dal tempo di queſta ſcoperta il
pro digioſo numero d'elettriciſti , di ſperi menti , e di fatti nuovi che ſono
ſtati giornalmente prodotti da ciaſcun angolo dell'Europa e da altre parti del
mondo , è quafi incredibile . Le ſcoperte ſi cumu larono ſopra altre ſcoperte ,
i megliora menti ſopra altri meglioramenti , e la ſcienza da quel tempo fece un
così ra pido corſo , ed ora ſi eſtende con sì mi rabile velocità , che ſembra
che il fog getto dovrebbe eſſere tutto eſaurito , e gli elettriciſti pervenuti
al fine delle loro ricerche : per altro non è così . Il non plus ultra è con
tutta probabilità ancora molto lontano , e il giovane elettriciſta ha avanti a
ſe un vaſto campo che mé rita altamente la ſua attenzione e che gli promette ulteriori
ſcoperte forſe o d' uguale o di maggiore importanza di quelle che ſono ſtate
già fatte .Of Natural Philosophy ;—~its Name ;•—its Objeft —its Axioms ; —and
the Rules of Philofophizing . T HE word Philofophy, though ufed by ancient
authors in fenfes fomewhat different, does, however, in its moft ufual
acceptation, mean the love of general knowledge. It is divided into moral and
natural. Moral philofophy treats of the manners, the duties, and the condud of
man, confidered as a rational and focial beings but the bufinefs of natural
philofophy, is to colled the hiftory of the phenomena which take place amongft
natural things, viz. among# the bodies of the Univerfes to inveftigate their
caufes and effeds ; and thence to deduce fuch natural laws, as may afterwards
be applied to a variety of ufeful purpofes*. Natural * The word philofophy is
of Greek origin. Pitagoras, a learned Greek, feems to have been the firfl who
called himfelf philofopher j viz. a lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom.
2 Of Philosophy in general. Natural things means all bodies ; and the
aflemblage or fyftem of them all is called the univerfe. The word phenomenon
fignifies an appearance, or, in a more enlarged acceptation, whatever is
perceived by our fenfes*. Thus the fall of a ftone, the evaporation of water,
the folution of fait in water, a tlafh of lightning, and fo on ; are all
phenomena. As all phenomena depend on properties peculiar to different bodies ;
for it is a property of a ftone to fall towards the earth, of the water to be
cvaporable, of the fait to be foluble in water, &c. therefore v/e fay that
the bufinefs of natural philofophy is to examine the properties of the various
bodies of the univerfe, to inveftigate their caufes, and thence to infer ufeful
deductions. Agreeably dom, from the words piaoj, a lover or friend , and
croplxi, of knowledge or wifdom. Moral philofophy is derived from the latin mos
, or its plural mores , fignifying manners or behiyiour. It has been likewife
called ethics, from the Greek r,ccs, mos, manner, behaviour. Natural philofophy
has alfj been called p hylics , phyfology, and experimental phi Ifophy: The
ftrft of thofe names is derived from nature, or gv-T.hr., natural ; the fecond
is derived from pvair, nature , and >. a dijeourfe ; the laft deno nination,
which was introduced not many years ego, is obvioufly derived from the juft
method of experiment. ' inveftigation, which has been univerfally adopted ftnee
the r P.vul of learnin-"- 'n Europe. * Phenomenon, whofe plural is
phenomena, owes its origin to the Greek word pf.-.ai, to appear. and the Rules
of Philofophizing. 3 Agreeably to this, the reader will find in the courfe of
this work, an account of the principal properties of natural bodies, arranged
under diftincft heads, with an explanation of their efFefts, and of the caufes
on which they depend, as far as has been afeertained by means of reafoning and
experience; he will be informed of the principal hypothefes that have been
offered for the explanation of faffs, whofe caufes have not yet been
demonflratively proved; he will find a flatement of the laws of nature, or of
fuch rules as have been deduced from the concurrence of fimilar facts ; and,
laftly, he will be inftrudted in the management of philofophical inflruments,
and in the mode of performing the experiments that may be thought neceffary
either for the llluftration of what has been already afeertained, or for the
farther inveftigation of the properties of natural bodies. We need not fay much
with refpect to the end 01 defign of natural philofophy.—Its application and
its ufes, or the advantages which mankind may deuve therefrom, will be eafily
fuggefted by a very fuperficial examination of whatever takes place about us.
The properties of the air we breathe ; the action and power of our limbs ; the
light, the found, and other perceptions of our fenfes ; the adcions of the
engines that are ufed in hufoandry, navigation, &c. ; the viciffitudes of
the feafons, the movements of the celeflial bodies, and io forth ; do all fall
under the con fideration of b 2 the 4 Of Philosophy in general ; the
philofophcr. Our welfare, our very exiftenee-. depends upon them. A very flight
acquaintance with the political ftate of the world, will be fufficient to fhew,
that the cultivation of the various branches of natural philofophy has actually
placed the Europeans and their colonies above the reft of mankind. Their .
difcoveries and improvements in aftronomy, optics, navigation, chemiftry,
magnetifm, mineralogy, and in the numerous arts which depend on thofe and other
branches of philofophy, have fupplied them with innumerable articles of ufe and
luxury, have multiplied their riches, and have extended their powers to a
degree even beyond the expectations of our predeceffors. The various properties
of matter may be divided into two claffes, viz. the general properties, which
belong to all bodies, and the peculiar properties, or thofe which belong to
certain bodies only, exclufively of others. In the firft part of this work we
fhall examine the general properties of matter. Thofe which belong to certain
bodies only, will be treated of in the l'econd. In the third part we fhall
examine the properties of fuch fubftances as may be called hypothetical ; their
exiftenee having not yet been iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall
extend our views beyond the limits of our Earth, and fhall examine the number,
the movements, and other properties of the celeltial bodies. The and the Rules
of Philofophizing. 5 The fifth, or laft part, will contain feveral detached articles,
fuch as the defeription of feveral additional experiments, machines, &c.
which cannot conveniently be inferted in the preceding divilions. The axioms of
philofophy, or the axioms which have been deduced from common and conftant
experience, are fo evident and fo generally known> that it will be
fufficient to mention a few of them only. I. Nothing has no property; hence,
JI. No fubftance, or nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot
be annihilated, or reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily
admit, the propriety of this axiom ; feeing that a great many things appear to
be utterly deftroyed by the action of fire ; alfo that water may be caufed to
difappear by means of evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that
in thofe cafes the lubftances are not annihilated ; but they are only
difperfed, or removed from one place to another, or they are divided into
particles fo minute as to elude our fenfes. Thus when a piece of wood is placed
upon the fire, the greateft part of it difappears, and a few afhes only remain,
the weight and bulk of which does not amount to the hundredth part ot that of
the original piece of wood. Now in this cafe the piece of wood is divided into
b 3 its 6 O/Philosophy in general ; its component fubdances, which the atdion
of the fire drives different ways : the fluid part, for inftance, becomes
fleam, the light coaly part either adheres to the chimney or is difperfed
through the air, &c. And if, after the combuftion, the fcattered materials
were collecded together, (which may in great meafure be done), the fum of their
weights would equal the weight of the original piece of wood. IV. Every effect
has, or is produced by, a caufe, and is proportionate to it. It may in general
be obferved with refpedt to. thofe axioms, that we only mean to affert what has
been conflantly (hewn, and confirmed by experience, and is not cont rad idled
either by reafon, or by any experiment. But we do not mean to affert that they
are as evident as the axioms of geometry; nor do we in the lead prefume to
preferibe limits to the agency of the Almighty Creator of every thing, wvhofe
power and whofe ends are too far re- moved from the reach of our underBandings.
Having dated the principal axioms of philolophy, it is in the next place
neceffary to mention the rules of philofophizing, which have been formed after
mature confideration, for the purpofe of preventing errors as much as poffible,
and in order to lead the dudent of nature along the fhorted and fifed way, to
the attainment of true and ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than
four; viz. I. We and the Rules of Philofophizing. 7 I. We are to admit no more
caufes of natural things, than fuch as are both true and fufHcient to e:g in
the appearances. II. Therefore to the fame natural effects we muft, as far as
poffible, affign the fame caufes. III. Such qualities of bodies as are not
capable of increafe or decreafe, and which are found to belong to all bodies
within the reach of our experiments, are to be efteemed the univerfal qualities
ol all bodies whatfoever. IV. In experimental philofophy we are to look upon
propofitions colledted by general induction from phenomena, as accurately or
very nearly true, notwithftanding any contrary hypothefes that may be imagined,
till fuch time as other phenomena occur, by which they either may be corrected,
or may be fhewn to be liable to exceptions With refpeft to the degree of
evidence which ought to be expected in natural philofophy, it is neceifary to
remark, that phyficai matters cannot in general be capable of luch abfolute
certainty as the branches of mathematics.—The propofitions of the latter
fcience are clearly deduced from a fet of axioms fo very fimple and evident, as
to convey perfect convi&ion to the mind ; nor can any of them be denied
without a manifeft: abfurdity. But in natural philofophy we can only fay, that
becaufe lome particular effects have been conflantly produced under certain
circumftances ; therefore they will moft likely continue to bV produced as long
E 4 as 8 Of Philosoph Y in general $ as the lame circumftances exifl ; and
likewife that they do, in all probability, depend upon thofe circumftances. And
this is what vve mean by laias of nature \ as will be more particularly defined
in the next chapter. We may, indeed, affume various phyfical princi[>ies,
and by reafoning upon them, we may ftndtly demontliate the deduction of certain
confequences. But as the demonftration goes no farther than to prove that luch
confequences muft neceflarily follow the principles which have been afl'urned,
the conlequences themfelves can have no greater degree of certainty than the
principles are pofieftedof; fo that they are true, or falfe, or probable,
according as the principles upon which they depend are true, or faife, or probable.
It has been found, for inftance, that a magnet, when left at liberty, does
always direct itfelf to certain parrs of the world ; upon which property the
mariner’s compafs has been conftructed ; and it has been likewife obferved,
that this directive property of a natural or artificial magnet, is not
obftructed by the interpofition or proximity of gold, or filver, or glaft, or,
in fhort, of any other fubftance, as far as has been tried, excepting iron and
ferrugineous bodies. Now afluming this obfervation as a principle, it naturally
follows, that, iron excepted, the box of the mariner’s compafs may be made of
any fubftance that may be moft agreeable to the. workman, or that may beft
anivver other purpofes. Yet it muft be confefted. and the Rules of Philofophizing.
9 confe fifed, that this proportion is by no means fo certain as a geometrical
one ; and (luctly lpeaking it may only be laid to be highly probable ; for
though all the bodies that have been tried with this view, iron excepted, have
been found not to afifefl the directive property of the magnet or magnetic
needle , yet we are not certain that a body, or fome combination of bodies, may
not. hereafter be difcovered, which may obftrudt that property. Nqtwithftanding
this obfervation, I am far from meaning to encourage fcepticilm ; my only
objedt being to fhew that juft and proper degree of conviction which ought to
be annexed tophyfical knowledge ; fo that the ftudent of this fcience may
become neither a blind believer, nor a uielels fceDtic*. Befides a ftriCt
adherence to the abovementioned rules, whoever withes to make any proficiency
in the ftudy of nature, (liould make himfelf acquainted with the various
branches of mathematics , at leaft with the elements of geometry, arithmetic,
trigonometry, and the principal properties of the conic * Scepticifm or
fkepticifm is the do&rine of the fceptics, an ancient let of philofopbers,
whofe peculiar tenet was, that all things are uncertain and incomprehenlible ;
and that the mind is never to afient to any thing, but to remain in an absolute
date of hefitation and. indifference. — The word fceptic is derived from the
Greek anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive. 10 A General Idea
of Matter , conic fedions ; for fincc almoft every phyfical effed depends upon
motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate velocities,
powers, weights, times, &c, without a competent degree of mathematical
knowledge ; which fcience may in truth be called the language of nature. Cavallo.
Tiberius Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: filosofia naturale, filosofia
trans-naturale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavallo” – The Swimming-Pool
Library.
Cazzaniga
(Torino). Filosofo. Grice: “I like Cazzaniga – he shows that latitdunial unity
is not a myth! He has researched on Cocconato – and he has seriously spoken of
the ‘catene d’unione’ – the handshake – which is crosses the longitudinal and
latitudinal unities – consider Thatcher: “There’s no such thing as societies;
only individuals! The ‘catene d’unione’ is represented most easily by a
handshake, but this is in a catena usually a circle – need it be a close
circle? It should be! Perhaps Austin and the Play Group formed such a circle!”
-- Gian Mario Cazzaniga (Torino), filosofo. Studia a Milano. Si laurea a Pisa
con Massolo. Insegna a Pisa. Quaderno Rosso. Il potere operaio. Funzione e
conflitto. Forme e classi nella teoria marxista dello sviluppo, Napoli, Liguori);
La religione dei moderni, Pisa, ETS); Metamorfosi della sovranità: fra stati
nazionali e ordinamenti giuridici mondiali. Società geografica italiana, Roma,
Pisa, ETS); La democrazia come sistema simbolico "Belfagor" (LV); Le
Muse in loggia. Massoneria e letteratura nel Settecento (Milano, UNICOPLI);
Storia d'Italia. Annali 21: La Massoneria, Torino, Einaudi) Storia d'Italia.
Annali 25: Esoterismo, Torino, Einaudi). Gian Mario Cazzaniga, “Massoneria e
letteratura: Dalla 'République des lettres' alla lettera- tura nazionale,” in
Le muse in Loggia, ed. Gian Mario Cazzaniga et al. (Milan: Unicopli,
2002), Gian Mario Cazzaniga, “Origine ed evoluzione dei rituali carbonari
italiani,” in Cazzaniga, La Massoneria, Chi anche in questa fine di millennio
continua a nutrire interesse per la storia delle vicende umane, per la storia
delle idee e dei tentativi messi in atto per concretarle - soprattutto se le
idee in questione sono quelle di libertà, fraternità, uguaglianza - trova in
libreria un testo di sicuro interesse: “La religione dei moderni”. Convinto con
Eraclito che per trovare oro è necessario scavare molta terra, Cazzaniga ha
dissodato a fondo un terreno a prima vista assai ingrato: l'arcipelago
multiforme e delirante della massoneria e delle sue sette. Il risultato è però
la dimostrazione di come la nottola di Minerva possa tornare con un bottino non
solo erudito, ma capace anzi di rinnovare la nostra stessa auto-comprensione
spiccando con metodo il suo volo anche sulle strane isole e penisole culturali in
cui vivono illuminati, teofilantropi, filaleti, U.S.D. (leggasi: Uomini Senza
Dio) e come diavolo con nome di rigenerazione si sono ribattezzati i mille e
mille fratelli costruttori decisi ad erigere una carcere per il vizio e un
templi alla virtù. Tra loro spiccano in ogni caso alcuni tra i massimi
intellettuali italiani: e anche Lessing, Herder, Goethe, a Mirabeau, Condorcet,
Fichte, Heine. Chi indotto da recenti vicende italiche rischiasse di confondere
massoneria e piduismo, può finalmente scoprire momenti e figure assai più
nobili e rilevanti di questa istituzione e apprende come nella loggia e nato
praticamente ogni ideologia - liberalismo, democrazia cristiana, comunismo... -
risultati costituitivi della modernità occidentale. A chi si chiedesse cosa e
chi ha spinto allo studio dell'ambiente massonico un intellettuale lucido,
raffinato e dalla ben nota militanza nel movimento operaio come Cazzaniga, il
saggui non manca di rispondere. Da esso emerge netta l'opzione per una
filosofia curiosa dei luoghi storico-sociali capaci di generare il nuovo e
attenta ai valori della differenza, nutrita da quella passione per le radici
culturali del nostro mondo che già aveva indotto Cazzaniga a esplorare
"Fin'amors e cortezia nella poesia trabadorica" quali matrici dello
"spirito laico". Nel caso attuale si aggiunge un'indicazione di Marx
che, in compagnia di Engels, criticava i "critici-critici" tedeschi
alla luce delle esperienze realizzate della critica pratica del cervello
sociale messo in moto dalla Rivoluzione Francese. Cazzaniga stesso segnala il
debito con i dioscuri fondatori del moderno partito politico di massa. Lo fa
con ironica signorilità citando a conclusione del commento su Nicolas de
Bonneville le parole che hanno costituito l'input decisivo per l'avvio di
un'indagine che, partita dal Cercle social indicato dalle pagine della Sacra
Famiglia quale origine del "movimento rivoluzionario moderno", si è
poi allargata all'intero mondo delle logge rivelatosi uno dei luoghi più
fecondi dell'attività mito-poietica alla base della "invenzione" del
legame sociale, soprattutto allorquando i membri dell'istituzione muratoria si
sono fatti "massoneria pubblica", identificando il luogo di
rifondazione del legame sociale nel terreno dell'attività politica organizzata.
Fenomeno che abbraccia l'Europa e le due Americhe, la massoneria si rivela uno
dei più rilevanti tentativi moderni di fornire risposta alla crisi aperta nel
fondamento del legame sociale dalle guerre di religione del
Cinquecento-Seicento. Per molti cittadini della République des Lettres la
massoneria più che società segreta è infatti una società che tratta segreti,
terreno embrionale di una nuova possibile convivenza inter-umana, progetto e
luogo possibile di rifondazione di quel legame sociale posto in crisi dalla
nascita dell'individuo come nuovo protagonista spirituale della storia europea
e dalla distinzione tra religione naturale e religioni positive. Con le sue
radici giusnaturalistiche e neo-stoiche, dal mondo classico il progetto
massonico recupera anzitutto l'idea di cittadinanza, primo grande esperimento
riuscito di costruzione artificiale di un legame sociale ispirandosene per
costruire, nella situazione di crisi dell'ancien régime, un progetto analogo.
Collocandosi da questa prospettiva la ricerca di Cazzaniga trascende ampiamente
la storiografia auto-celebrativa intra-massonica e illumina di nuova luce
origine e natura della politica, identificata, in sintonia con Giarrizzo, come una
“religione”. L'elezione del mondo delle logge massoniche quale oggetto di
analisi avviene cioè in base alla convinzione storica-teorica circa il loro
carattere di "laboratorio" di nuove forme del vivere associato,
anzitutto a proposito del vero opus magnum ch'esse hanno contribuito ad
edificare, ovvero la costruzione di quella forma politica, sostenuta da partiti
di massa, che fu lo stato-nazione d’Italia. Che poi la nottola filosofica
spicchi il suo volo in condizioni oggi hegelianamente ideali, al tramonto
dell'egemonia organizzativa, culturale e morale dei partiti politici di massa,
per oltre un secolo protagonisti della democrazia rappresentativa e di una vita
politica basata sulla cittadinanza, insieme al tempismo di Cazzaniga è
dimostrazione di come la sua fedeltà al marxismo intelligente non abbia spedito
in soffitta neppure quell'Hegel che qui, insieme a Heine, ottiene il tributo di
due splendidi saggi. Oggi la storia ha cominciato un capitolo nuovo e l'autore
non ha dubbi che si stia voltando pagina. Non condivide però la convinzione che
ciò significhi fine della modernità. Se le crepe nella sovranità degli stati
nazionali pongono in crisi partiti e sindacati, ovvero "i legami sociali
artificiali sui cui la modernità ha costruito la propria storia", la
transizione in atto "lungi dall'essere una negazione dei principi
costitutivi della modernità, è in realtà "un'affermazione radicale di
essa". E la prospettiva indicata da Marx non è affatto radiata in secula
seculorum dalla storia. Il comunismo resta all'ordine del giorno, solo che se
ne riprospetti il nucleo vivo e fondamentale non costituito né
dall'eguaglianza, né dalla giustizia sociale, né tantomeno dal recupero di una
dimensione comunitaria solidaristica, ma dalla capacità progettuale collettiva,
dal controllo consapevole del ricambio con l'ambiente naturale, dalla
possibilità storica che si apre per la società e per i singoli, in rapporto
alla rivoluzione scientifica e tecnologica, di essere finalmente padroni del
proprio destino. Nessun dubbio per noi che qui l'impeccabile storico di questa
religione riveli la sua personale cifra
ideologica e la passione per il marxismo. E' l'unico luogo in cui la sua prosa,
peraltro sobria, cede a frasi fatte come la padronanza del destino. Una
espressione, questa, inerente, più che alla politica, a un ambito
filosofico-esistenziale, a tematiche, cioè, con cui questa religione deve forse
ancora imparare a cimentarsi. Mario Cazzaniga. Gian Mario Cazzaniga.
Keywords: massoneria, esoterismo, democrazia come sistema simbolico, sovranita,
stato nazionale, conflitto, liberta, fraternita, iguaglianza. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cazzaniga” – The Swimming-Pool Library.
Ceccato (Montecchio
Maggiore). Filosofo. Grice: “I like Ceccato – like other Italian philosophers,
he has an obsession with geometrical conjunctions and my favoruite of his tracts is “La linea e
la strischia’ – but he has also philosophised on other issues – notably on
‘cybernetics,’ where he purports to give a ‘mechanical explanation’ of language
– he has also talked about the ‘mind,’ – ‘mente’ – an expression Italian
philosophers hardly use as they see it as an Anglicism, preferring ‘anima,’ –
“He has rather boldly philosophised on ‘eudaimonia,’ without taking into
account J. L. Ackrill’s etymological findings – but then the Italians use
‘felicita’! – ‘the ingeneering of happiness’ – and also of the ‘fabrica del
bello’ --. Grice: “How to, and how not to” “Are all ‘how not to’ ironic?
Ceccato thinks not – he has philosophised on sophistry in ‘how NOT to
philosophise’ – and he sees Socrates, who claims to be ‘imperfect,’ (i. e. ever
unfinished), and echoing Shaw on Wagner, as the perfect philosophy – ‘il
perfetto filosofo’!” Filosofo irregolare, dopo aver proposto una definizione
del termine "filosofia" e un'analisi dello sviluppo storico di questa
disciplina ha preferito prenderne le distanze e perseguire la costruzione di
un'opzione alternativa, denominata inizialmente "metodologia
operativa" e in seguito "cibernetica". Filosofo prolifico, ha numerosi
saggi -- rendendosi noto in particolare nella cibernetica. Pur ottenendo
notevole successo di pubblico con i suoi saggi, riscosse scarso successo
nell’ambiene filosofico bolognese. Fu tra i primi in Italia ad interessarsi
alla traduzione automatica di testi, settore in cui ha fornito importanti
contributi. Sperimentò anche la relazione tra cibernetica e arte in
collaborazione con il Gruppo V di Rimini. Studioso della psicologia
filosofica, intesa come l'insieme delle attività che l'uomo svolge per
costituire i significati, memorizzarli ed esprimerli, ne propose un modello in
termini di organo e funzione, scomponendo quest'ultima in fasi provvisoriamente
elementari di un ipotetico organo, e nelle loro combinazioni in sequenze
operazionali, in parte poi designate dalla espressione semplice e della
espression complessa (frastico, frase) e del ‘codice’ utilizzato nel rapport sociale.
Fondò ed animò la "Scuola Operativa Italiana", il cui patrimonio è
tuttora oggetto di studio e ricerca. Studia Giurisprudenza, violoncello e composizione
musicale. Fonda Methodos. Costrue “Adamo II”, un prototipo illustrativo della
successione di attività proposte come costitutive dei costrutti (la lingua
adamica) da lui chiamati "categorie" per analogia e in omaggio a
Immanuele Kant. Insegna a Milano. Diresse il Centro di Cibernetica e di Attività
Linguistiche a Milano. Incontró, durante una cena di gala, il Professore di
Sistemi di controllo, a Pavia, Mella. Successivamente a questo incontro
ispiratore decise di partecipare come attore nel film "32 dicembre"
di Crescenzo, interpretandovi il ruolo del folle Cavalier Sanfilippo che si
crede Socrate. Un tecnico tra i filosofi, così intitolò il saggio apparso
nelle Edizioni Marsilio di Padova, con i rispettivi sottotitoli: "Come
filosofare" e "Come non filosofare”. Altre opere: “Il linguaggio con
la Tabella di Ceccatieff”, Actualités Scientifiques et Industrielles, Éditions
Hermann, Paris); Adamo II, Congresso Internazionale dell'Automatismo, Milano);
“Un tecnico fra i filosofi, Marsilio, Padova); “Cibernetica per tutti,
Feltrinelli, Milano); “Corso di linguistica operativa, Longanesi, Milano); “Il
gioco del Teocono, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano); “L’anima vista da un
cibernetico, ERI, Torino); “La terza cibernetica. Per una anima creativa e
responsabile, Feltrinelli, Milano); “Miroglio, Ed. Priuli&Verlucca,
Ivrea); “Ingegneria della felicità” (Rizzoli, Milano); Il linguista
inverosimile, Mursia, Milano); “Contentezza e intelligenza (Rizzoli); Mille
tipi di bello” (Stampa alternativa, Viterbo); “C'era una volta la filosofia”
(Spirali, Milano); Il maestro inverosimile” (Bompiani, Milano) (CL In Italia la
Società di Cultura Metodologica Operativa a Milano, il Centro Internazionale di
Didattica Operativa. l Gruppo Operazionista di Ricerca Logonica. Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La
cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine. Origini e
attualità della logonica attenzionale a partire da Ceccato, Mantova,
Universitas Studiorum. 2.00 PRIMI STUDI PER UN ATTEGGIAMENTO ESTETICO NELLE
MACCHINE , di Silvio Ceccato. LA TRADUZIONE NELL'UOMO E NELLO MACCHINA, by
Silvio La Mecanizzizione delle Attivita ... L ' Anatomica methodus , di
Andrés Laguna ( 1499 - 1560 ) . Pisa , Giardini , 1968 . Ceccato , Silvio ,
comp : Corso di linguistica operativa . A cura di Silvio Ceccato .
Centoventotto illustrazioni nel testo . Milano , Longanesi , 1969 . 321 p .
lllus. Language and Behavior ( 1946 ) was published in Italian translation in
1949 , thanks to Silvio Ceccato ( cf . Petrilli 1992a ) . Silvio Ceccato ,
padre della cibernetica italiana , che in quegli anni stava mettendo a punto
insieme a Enrico Maretti un prototipo di calcolatore “ intelligente ” , di cui
si può leggere in una nota su “ La grammatica insegnata alle macchine. Studi
in memoria di Silvio Ceccato - Page 5books.google.com › books· Translate this
page 1999 · Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 5 In memoria di Silvio Ceccato
Felice Accame Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte , i giornali
hanno dedicato pochi , imbarazzati e , a volte , imbarazzanti articoli alla
figura di Silvio Ceccato . Se qualcuno , tramite questi articoli ... Silvio
Ceccato's little volume Corso di linguistica operativa ( Ceccato 1969 ) sits on
a quiet shelf in Lauinger library , the work of a semantic pioneer. Silvio
Ceccato . Silvio Ceccato . ( Civilta delle Macchine , Nos . 1-2 , 1956 ) This
monograph presents a discussion of the problems encountered by members of the
Italian Operational School in their attempts to develop techniques to be used
in ... Foundations of Language - Volumes 1-2 - Page 171books.google.com ›
books 1965 · Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 171 ... with his hand , when he
moves the pieces , he performs a manual , a physical activity . Foundations of
Language 1 ( 1965 ) 171-188. All rights reserved . The two types of activity
can be distinguished in a 171 SILVIO CECCATO CECCATO. I use an operational
approach to mental activity based on Silvio Ceccato ' s " TECNICA
OPERATIVA " ( Ceccato - 1953 , 1961 ) , one of the earliest approaches
implemented on a computer ( University of Milan , 1961 ) . 2 - I look at the.
Debbo la spinta a studiare processi di questo tipo alla ' tecnica operativa '
di Silvio Ceccato , di cui un primo abbozzo in Language with the Table of
Ceccatieff . Paris : Herman & Cie . 1951 . Die Ceccato si verdano anche
articoli in Methodos ... Silvio Ceccato , the Italian pioneer in the analysis
of mental operations and construction , told me that once , after a public
discussion of his theory , he overheard a philosopher say : " If Ceccato
were right , the rest of us would be fools ! Silvio Ceccato's group exploited
semantic pattern matching using semantic categories and semantic case frames ,
and Ceccato's approach ( 1967 ) also involved the use of world knowled. Grice: “Ceccato
developed a theory very similar to mine – Like myself, he is an unusual
philosopher!” -- Silvio Ceccato. Ceccato. Keywords: logonia – logonico, tabella
di Ceccatieff, Adamo II, lingua adamica, operativismo, Teocono, ingegneria
della felicita, il genitore come ingegnero, tutee di Dingler, tutee di
Bridgman, influenza di Gentile, modelo cibernetico della communicazione,
adattazione, soprevivenza, organo ipotetico – organo e funzione – codice conversazionale,
modello mentale, psicologia filosofica, adamo II, lingua adamica, -- --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceccato” – The Swimming-Pool Library.
Cellucci (Santa Maria Caputa
Vetere). Filosofo. Grice: “I love Cellucci; for one, he wrote on Cantor’s
paradise, which is an extremely interesting tract and figure! There’s earthly
paradise and heavenly paradise and Cellucci knows it!” – Grice: “Cellucci, like
me, also philosophised on ‘logic,’ in my case because of Strawson; in his,
because of me!” Si laurea a Milano. Insegna a Siena, Calabria, e Roma. Si
occupa soprattutto di logica e teoria della dimostrazione, filosofia della
matematica, filosofia della logica, ed epistemologia. Altre opere: “Breve
storia della logica italiana: dall'Umanesimo al primo Novecento” (Lulu,
Morrisville); “Perché ancora la filosofia” (Laterza, Roma) – perche no? “La
filosofia italiana della matematica del Novecento” (Laterza, Roma); “Filosofia
e matematica” (Laterza, Roma); “Le ragioni della logica, Laterza, Roma); “Teoria
della dimostrazione” (Boringhieri, Torino); “Alcuni momenti salienti della
storia del metodo” La Cultura; “I limiti dello scetticismo, Syzetesis); “La
logica della scoperta, Scienza & Società, Creatività; Conoscenza
scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi. Scienza e senso comune, ed.
A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino); Razionalità scientifica
e plausibilità. In I modi della razionalità, eds. M. Dell'Utri & A. Rainone.
Mimesis, Milano); Filosofia della matematica, Paradigmi, Il paradiso di Cantor, Bibliopolis, Napoli La
filosofia della matematica, Laterza, Roma); Breve
storia della logica: Dall'Umanesimo al pr imo Novecento [Lulu Press,
Morrisville; Perché ancora la filosofia Laterza, Rome, La filosofia della
matematica del Novecento, Laterza, Rome, Filosofia e matematica, Laterza, Rome,
Le ragioni della logica, Laterza, Roma; Teoria della dimostrazione,
Boringhieri, Turin, “La rinascita della logica in Italia”, in “Momenti di
filosofia italiana, ed. F.Pezzelli & F. Verde. Efesto, Rome – quando e
morta? -- Alcuni momenti salienti della storia del metodo, La Cultura. La
logica della scoperta, Scienza e Societa. Creatività. “Aristotele e il ruolo
del nous nella conoscenza scientifica”, In Il Nous di Aristotele ,
ed. G.Sillitti, F. Stella & F. Fronterotta. Academia Verlag, Sankt
Augustin; Conoscenza scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi.
Scienzae senso comune , ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni,
Torino, Razionalità scientifica e plausibilità, In I modi della
razionalità , ed. M. Dell'Utri & A. Rainone.Mimesis, Milano; “La preistoria
della logica polivalente nell'antichità o la storia antica, Bollettino
della Società Filosofica Italiana. Gli approcci di Turing alla computabilità e
all'intelligenza. In Per ilcentenario di Alan Turing fondatore dell'informatica
, Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere, Roma; Intervista di
Antonio Gnoli, La Repubblica; Breve storia della logica antica; Ripensare la
filosofia. Un colloquio con (e su) Carlo Cellucci; La spiegazione in matematica.
Periodicodi Matematiche (For Grice, unlike Kantotle, mathematics “7 + 5 =
12” has zero-explanatory value; Dialogando con Platone, in Il Platonismo e le
scienze , Carocci, Roma); Logica dell'argomentazione e logica della scoperta”,
in Logica ediritto: argomentazione e scoperta , Lateran University Press,
Vaticano); Ragione, mente e conoscenza, in Fenomenologia della scoperta , Bruno
Mondadori, Milano); Filosofia della matematica top-down e bottom-up. Paradigmi.
L’ideale della purezza dei metodi, I fondamenti della matematica e connessi
sviluppi interdisciplinari Pisa-Tirrenia,
Mathesis, Rome); Per l'insegnamento della logica. Nuova Secondaria. La
logica della macchina, in Le macchine per pensare ,La Nuova Italia, Firenze); Logica
e filosofia della matematica nella seconda metà del secolo, in La filosofia
della scienza in Italia nel ‘900 , Franco Angeli, Milano; Bolzano, Del
metodo matematico, Boringhieri, Torino; Il ruolo delle definizioni esplicite in
matematica; in C. Mangione (Ed.), Scienza e filosofia ,Garzanti, Milano; Storia
della logica, Laterza, Bari, Il fondazionalismo: una filosofia regressiva,
Teoria. La complessità delle dimostrazioni nella logica dei predicati del primo
ordine, Logica Matematica, Siena. Il ruolo del principio di non contraddizione di
Parmenide nelle teorie scientifiche. Verifiche. “È adeguata la teoria dell’
adaequatio?” Scienza e storia , Il Laboratorio, Napoli. Il paradiso di Cantor.
Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi. Bibliopolis, Napoli. Proprietà
di coerenza e completezza in L-omega1-omega. Le Matematiche. Proprietà di
uniformità e 1-coerenza dell’aritmetica del primo ordine, Le Matematiche. La
logica come teoria della dimostrazione, in Introduzione alla logica , Editori Riuniti,
Roma. La qualità nella dimostrazione matematica, in La qualità , Bologna (il
Mulino). Teoremi di normalizzazione per alcuni sistemi funzionali, Le Matematiche.
Logica matematica. EditoriRiuniti, Roma. Il problema del significato. Il
Veltro. Una dimostrazione del teorema di uniformità. Le Matematiche. Un
connettivo per la logica intuizionista. Le Matematiche. I limiti del programma
hilbertiano, Società Filosofica Italiana, Roma. L’evoluzione della ricerca sui
fondamenti, Terzo programma. Operazioni di Brouwer e realizzabilità
formalizzata, Pisa, Classe di Scienze. Concezioni di insiemi, Rivista di filosofia.
Qualche problema di filosofia della matematica. Rivista di filosofia. Un’osservazione
sul teorema di Minc-Orevkov, Unione Matematica Italiana. La filosofia della
matematica, Laterza, Bari). La teoria del ragionamento matematico: meccanico o
non meccanico? In L’uomo e la macchina, Edizioni di Filosofia, Torino. Categorie
ricorsive, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana. Filosofia della
matematica. Paradigmi. La ricerca logica in Italia. Acme, Cisalpino, Milano. Prospettive
della logica e della filosofia della scienza, ETS, Pisa, Logica e filosofia
della scienza: problemi e prospettive, ETS, Pisa); Temi e prospettive della
logica e della filosofia della scienza contemporanee, CLUEB, Bologna, Logiche
moderne, Istituto dellaEnciclopedia Italiana, Rome, Il paradiso di Cantor. Il
dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi, Bibliopolis, Napoli, La
filosofia della matematica. Laterza, Roma. C . Cellucci ha illustrato gli
scopi della logica matematica di Peano . Anche se con motivazioni diverse ,
tali scopi sono pressoché analoghi in Peano e Frege , e consistono principalmente
nell ' ottenere. Carlo
Cellucci. Keywords: Peano, logico filosofico, philosophical logic, logica
filosofica, il paradiso di Peano, la rinascita della logica in italia, storia
della logica in italia, formalismo, platonismo, teoria dell’adequazione,
calcolo di predicato di primo ordine, regole d’inferenza, spiegazione
matematica, logica antica, la logica nella storia antica, connetivo, connetivo
russelliano, connetivo intuizionista, prova, dimostrazione, Aristotele e la
mente, il nous, l’anima. Concetto di nomero, definizione splicita, implicita,
gradual del numero, peano, frege, logica della scoperta, revivirla? il paradiso
di Rota, il paradiso di Cantor, parmenide, non-contradizzione, il significato,
il problema de significato, il problema del significato in Hintikka, Grice
divergenza connetivo logico e connetivo nella lingua volgare (‘non,’ ‘e,’ ‘o,’
‘si,’ ‘ogni’, ‘alcuno (al meno uno)’, ‘il,’. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cellucci” –
The Swimming-Pool Library.
Centi (Segni). Filosofo.
Grice: “I like Centi; he is better than Kenny!” – Grice: “Centi dedicated his
life to Aquinas, o “San Tomasso,” as he called him – first-name basis – But he
also philosophised on other figures notably Savonarola – However, he is deemed
the expert on ‘Aquino,’ as he also called him – as we call Occam Occam! –“
Grice: “According to Centi, Aquino is a Griceian!” Uno dei massimi esperti
della filosofia d’Aquino. Emise la professione solenne. Si addottorò presso l'Angelicum
di Roma sotto Garrigou-Lagrange. Insegna alla Pontificia accademia di San Tommaso
d'Aquino, Maestro in Sacra Teologia dal maestro generale dell'Ordine domenicano
Costa. Collabora con numerose testate cattoliche, tra le quali “Il Timone”. Noto
soprattutto per il suo commento alla filosofia d’Aquino. Curato per i tipi di
Adriano Salani la prima traduzione integrale in italiano della “Somma Teologica”.
Commenta anche la Summa contra Gentiles, il Commento al Vangelo di san Giovanni
( Città Nuova, Roma), il Compendio di Teologia, diversi opuscoli (Contra
impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae etc.) e
varie Questiones Disputatae. Oltre al
commento d’Aquino, si occupa anche di altre importanti figure storiche come Savonarola
e Beato Angelico. È stato membro della commissione storico-teologica incaricata
di revisionare la filosofia di Savonarola e ne ha difeso l'ortodossia,
dimostrando la falsità delle “Lettere ai Principi” a lui attribuite che
avrebbero rivelato le sue intenzioni scismatiche e sostenendo che la scomunica
inflittagli fosse illegittima e che la vera ragione della sua condanna fosse la
sua opposizione alle politiche espansionistiche di papa Alessandro VI. Altre opere: “La omma teologica, testo latino
dell'edizione leonina, commento a cura dei Domenicani italiani, T.S. Centi,
Salani, Firenze, poi ESD, Bologna); “Somma contro i Gentili, UTET, Torino); Catechismo
Tridentino. Catechismo ad Uso dei Parroci Pubblicato dal Papa Pio V per Decreto
del Concilio di Trento, Edizioni Cantagalli, Siena); “Savonarola. Il frate che
sconvolse Firenze, Città Nuova, Roma); “La scomunica di Girolamo Savonarola.
Santo e ribelle? Fatti e documenti per un giudizio, Ares, Milano); “Aquino
Compendio di Teologia e altri scritti); Agostino Selva, UTET, Torino); “Il
Beato Angelico. Fra Giovanni da Fiesole. Biografia critica, Edizioni Studio
Domenicano, Bologna, Inos Biffi); Le altre due Somme teologiche Edizioni Studio
Domenicano. Nel segno del sole. San Tommaso d'Aquino, Ares, Milano. Speranza,
“Grice ed Aquino”. Aquino e un proto-griceiano intenzionalista (grammatico
speculativo) – l’intenzione del segnante. Il problema
del segno (segnante, segnato, segnare, segnazione, segnatura). Un segno e
monosemico. La figura retorica della metaforia permesse interpretare un sengno
de maniera allegorica, ma e rigorosamente referenziale. Un segno che e presente
rinviano ad una segnatura – segnato/segnatura -- un evento che ha la realta come
punto di riferimento. Un segno particolare o particolarizato è quello del sacramento, o
segno efficace, che testi-monia la presenza della grazia divina e fa quel che
dice di fare. Un segno e naturale, ma un segno puo essere ‘ad placitum’ –
‘grammatica speculativa’ – modus significandi – un segno e dal segnante legato
no iconicamente ma arbitrariamente, libremente, ad un concetto. Un segno
naturale o un segno iconico e invece correlato per causalita (efficace) e per
iconicita o similitudine al segnato. I modo di correlazione del segno e del
segnato puo essere meramente causale (consequenza – segno naturale), o
arbitrario -- modo iconico, modo arbitrario non-iconico. Il “De interpretation”
(cf. Grice e Strawson, “De Interpretatione”) è una delle sei opere di logica
contenute nell’Organon aristotelico. Il testo chiarisce la relazione che
intercorre tra logica e linguaggio. Analizza in particolare il rapporto fra le
otto parti del discorso e il giudizio che scaturisce dalla combinazione di
queste parti. Aquino, nella sua “Expositio libri Peryermenias” sviluppa un
commento serrato all’opera aristotelica. L’Expositio tomista è stata
interpretata e commentata durante il corso di Logica tenuto da Gimigliano presso
l’Istituto Filosofico San Pietro di Viterbo aggregato al Pontificio Ateneo
Sant’Anselmo di Roma. Al termine del corso tutee elabora un’interpretazione su
un paragrafo del primo libro dell’opera tomista attraverso la stesura di un
contributo scritto. Non tutti i paragrafi sono stati analizzati e tutti i
contributi sono raccolti all’interno di questo lavoro. Introduzione e conclusione
sono ad opera di Gimigliano. Praemittit
autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in
hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de
principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet
intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit:
primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum.
In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes
definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones.
Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia
ex definitionibus alia cognoscuntur. Si quis autem quaerat, cum in libro
praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum
de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum
triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute
significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum
praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes
enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub
ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum
tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem
dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur
secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de
eis sub ratione terminorum in libro priorum. Potest iterum dubitari
quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo
determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione
determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet,
ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et
verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his;
et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola
nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim
comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen
determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod
consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero
sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad
aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes
navis, sed partium navis coniunctiones. His igitur praemissis quasi
principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem,
dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes:
non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem
enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes
subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem
manifestabitur. Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in
categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione
et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus
categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et
multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet
absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber
iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex
suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur
per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles
praetermisit tractatum de hypotheticis enu nciationibus et syllogismis. Subdit
autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio,
quae est genus enunciationis. Si quis ulterius quaerat, quare non facit
ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde
pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de
anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie
orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales
ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse
praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est
enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum
quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum.
Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit
affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad
partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum
quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse,
prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat
affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul
natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus
accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum,
sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum
de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de
quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit
significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum
complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa
primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum;
secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex
impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera. Est ergo
considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur
quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus
intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic
passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset
naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis
rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis
innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces
significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt
diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo
uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc,
sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris
animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant:
sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et
nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et
tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo
conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt
in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae. Sed quia
logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est
immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem
considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota,
non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici.
Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus:
quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce,
notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi
ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et
verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet
vocum significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat,
ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis.
Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem
tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio
modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit
ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia
consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces
sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter, quae
longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet
suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest
quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam
naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quae advenit
rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina
et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto
diceretur, ea quae sunt in ligno. Circa id autem quod dicit, earum quae
sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter
dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia
huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones
significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum, et
aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus
significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones animae hic
intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes
significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse
quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet:
significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus.
Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde
Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia
hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam
Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere
quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus
res. Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles
nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed
manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae
operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia
intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali
passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum
intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam
ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de
anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex
aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem
conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum
refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum
cuiusdam impressionis vel passionis. Secundo, cum dicit: et ea quae
scribuntur etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc
inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut
sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et
litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et
quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod
enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae
voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem,
ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur:
quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie,
secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in
prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et
ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur,
sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum
ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt
in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et
verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce.
Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam
praemissorum significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse
secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit
quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter
significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes.
Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem
apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad
litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam
ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud
quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic
determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes,
ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec
voces naturaliter significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae,
quae naturaliter significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt
eadem apud omnes. Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones
animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes.
Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus
(quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt
notae, idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad
secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones),
et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae,
scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras
dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter;
passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res
non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in
sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces
passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio
institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In
passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas
res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Obiiciunt autem
quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas
significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas
sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae
passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones
animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius
conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non
intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod
componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest
essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices
intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem
apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud
aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem
simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde
dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et
ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad
primas conceptiones a vocibus primo significatas. Sed adhuc obiiciunt
aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio,
quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo,
qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert;
et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur,
se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est
quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per
comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces
sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum
animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.
Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum
consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum
similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum
negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem
significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam
significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo,
praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim
et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae
vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine
differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa
significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili,
sed etiam ex causa quam imitantur effectus. Est ergo considerandum quod,
sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in
III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem
invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine
vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia
voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad
hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum
significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam
autem cum vero et falso. Deinde cum dicit: circa compositionem etc.,
manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu;
secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi:
nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus
quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo
quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet
intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium
intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei
quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel
quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod
huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac
secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur
veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut
etiam traditur in III de anima. Sed circa hoc primo videtur esse dubium:
quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur
quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione.
Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea
quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno
modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt
similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum;
in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si
consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio,
ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc
quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad
rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio
quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens
coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem,
quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et
per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum
coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum
significat rerum separationem. Ulterius autem videtur quod non solum in
compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res
dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam
quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio
intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate.
Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in
sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla
est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et
summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et
divisionem. Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas
in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio
modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in
eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente
vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem.
Quod quidem sic patet. Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum,
est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit
per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem
sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines.
Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno
quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad
intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum
quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem
naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut
posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in
hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent
simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur
tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum,
non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt
facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum
verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut
mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum.
Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis;
falsum vero, in quantum deficit a ratione artis. Et quia omnia etiam
naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem,
consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam
formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum.
Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam
formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat
quoddam divinum. Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam
mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra
animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra
animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus.
Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et
divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem
considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen
cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis
suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi
habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest
cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas
est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem
praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in
re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non
cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a
re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.
Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod
pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et
intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est
absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster
intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit
compositionem et divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur
ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum
circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu,
consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur
intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album
dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed
postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est
instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem
factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam
intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se
positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est
instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis:
quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita
compositio, licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem etc.,
inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex
hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus,
et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam
conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel
falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium
intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus,
quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel
secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed
secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem
utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo
statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit
verum vel falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine
significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus
significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est
subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia
subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa
enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit:
primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet
partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet
orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine,
quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat
actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod
consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen;
secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.;
tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non
homo vero non est nomen. Circa primum considerandum est quod definitio
ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil
rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid
aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat. Et ideo
quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per
quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus
ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima.
Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam
quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata,
sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo
factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex
praemissis concludit quod nomen est vox significativa. Sed cum vox sit
quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus
institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex
natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est
signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret
quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in
vas. Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex
parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae
artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut
concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni
subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant
quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum
autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi.
Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione
ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut
cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium
significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus,
convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus,
ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox
significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi
significantia ipsas formas artificiales in abstracto. Tertio, ponit
secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum
institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt
nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et
voces brutorum animalium. Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet
sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia
hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria
possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam,
et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest
considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod
primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et
passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum
tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen
et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum
secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo
verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen.
Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod
significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. Quinto,
ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa
separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis
secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma
nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab
homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione,
cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. Deinde cum
dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et
primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi:
secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex
praemissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit
, manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo
facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit
circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non
quemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil
significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim
nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut
significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum
nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id
a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc
nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen
imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars
nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non
significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad
significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars
orationis significat partem conceptionis compositae. Deinde cum dicit: at
vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et
composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in
compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque
secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem,
idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut
dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen
simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam
imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum
imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius
significet. Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam
partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen
significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim
est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex
institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando
imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed
naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut
ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos
quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed
tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem
horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non
significat naturaliter. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa
quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter
significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt
quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales
similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter
significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut
Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod
eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una
res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae
similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa
diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est
nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam
nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis
sonus est nomen, ut dictum est. Deinde cum dicit: non homo vero etc.,
excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus
nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non
homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut
homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut
Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque
determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae
aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici
indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera
est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est
non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus
existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente,
ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod
potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione.
Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones
concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata,
sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est
oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod
non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam
nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est.
Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et
dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus
nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis
ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia
quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur
rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus:
quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori
conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens
sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur.
Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se
habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est
eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod
nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel
falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de
verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae
cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem,
quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur,
poenitentia habet Socratem. Sed contra: si nomen infinitum et casus non
sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis
convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen,
postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel
dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim
infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat
secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus
determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit:
primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non
currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad
nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo
facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem
quoniam consignificat et cetera. Est autem considerandum quod
Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt
nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae
dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione
verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod
consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen
significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur
verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra
significat. Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur
hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad
placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum
est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut
cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae
componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his
distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest
etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur
oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum
habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est
quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit
iterari. Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non
solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit:
et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia
scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed
verbum semper est ex parte praedicati. Sed hoc videtur habere instantiam
in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum
dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi,
quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in
vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina.
Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per
se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem.
Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto,
velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio,
ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est
egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per
verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse
processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et
significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae
significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba,
ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.
Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando
in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in
tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius
significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam
vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis
partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum. Deinde cum
dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et
primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum
ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit:
et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars
extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis.
Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia
videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per
modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro
vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium
est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum
est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore
mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam,
quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non
convenit nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit
aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis
significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum
actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte
praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut
dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero:
tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni
praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua
praedicatum componitur subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut
eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de
subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto
autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo
verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est
ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur
in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem
pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed
quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et
ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum,
quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata
verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad
compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam
significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum
quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione
compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive
accidentaliter. Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc.,
excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba
praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit
ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est
enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod
praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius
quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non
proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in
definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat
agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies
tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper
ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio
reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem
vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae
dictiones significant remotionem actionis vel passionis. Si quis autem
obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba;
dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter
sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a
perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi
dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum
verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea
verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum
indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim
negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis.
Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba
a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba
vero negativa in vi duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem
curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit
quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod
est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt
verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum
consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde
circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter
praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in
instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens
tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per
actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non
sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel
pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est
agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est
secundum quid. Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis
rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia
praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum
quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens. Cum autem declinatio
verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per
numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex
parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et
tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam
verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti
vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur
casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque
etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo,
proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant
aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt
nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut
dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive
sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse
intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et
ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat
quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum
agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum
nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur
communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem
sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde
nomina possunt subiici et praedicari. Deinde cum dicit: et significant
aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant
aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel
falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo
primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant
aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae
significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet
aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit
vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum
in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit,
quiescit. Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit
quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim
dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem
dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum
duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel
verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae
est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in
suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio
terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem,
quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se
dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem. Et ideo statim
subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat
aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est
secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae
maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum
quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se
dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus
alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim
dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter
manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest
quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia
currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia
non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum,
scilicet rem esse vel non esse. Et hoc consequenter probat per id, de quo
magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem
nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum
dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant
rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse,
scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia
ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se
positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius
significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non
est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur
proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum
intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca
non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud
per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem
praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat
naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat
quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem,
quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur
dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset
neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo
aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest
non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit:
consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit,
consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed
consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem
significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc
commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse
secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam
speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod
ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum
ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest
non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens:
quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per
hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens
significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul
dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in
hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in
quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis
non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit
veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent,
planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse,
probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid
esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam,
et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare
compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa
compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine
componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non
apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse
verum, vel falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat
compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti;
significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis
absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo
significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat
hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis
vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel
actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est,
vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus;
secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum
est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de
verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius
existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale
enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim,
proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo
etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.
Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo
ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est
vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de
verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia
supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati,
ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia
significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen
vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo,
cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim
dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum
quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars
est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est
significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se
non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed
quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum
compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio
competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde
subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est
significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut
affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de
affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit
affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat
aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Sed contra hanc
definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis
convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut
affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et
ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et
posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius
speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo
quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio
simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel
potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in
communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi
simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut
affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes
aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune
orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione
orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod
pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius
sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum
affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet
quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit
dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars
orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret,
secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est
quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit
quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod
partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus
referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes
significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes
referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad
ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal:
quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut
lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal
mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo
omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius
pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde
ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae. Deinde
cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo,
manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi:
sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid
partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars
orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio,
quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in
potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel
negatio, scilicet si addatur ei verbum. Deinde cum dicit: sed non una
hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate
dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei
addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non
conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est
in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum
separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate
venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum
est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et
verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel
litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non
tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis,
quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico
rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut
una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per
se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus,
tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat
simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere
partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest
habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt
voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae
imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito,
partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem.
Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae
possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid,
scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem
significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo
modo, sicut supra dictum est. Deinde cum dicit: est autem oratio etc.,
excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius
partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc
utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta:
quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est
naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius
est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis
conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est
aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed
naturaliter. Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui
intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est
significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia
instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus
formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni
distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis
interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur
naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res
naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio
significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et
voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex
humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam
non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed
supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius
corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet
virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis
utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc
modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis:
quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de
principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et
dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in
secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici
enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de
aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In
prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima
oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi:
quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem
enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio
ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit
quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.
Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum
alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut
supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est
usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est
significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt
operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in
alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit
ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa,
sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles
mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis
oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in
qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio
enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.
Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus
veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur
in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro
praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa
est. Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc
definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus
imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non
faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non
exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur
praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam,
quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa,
interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen
vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis
significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur,
sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio
nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola
enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute
significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum. Sed quia
intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed
etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et
ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur
ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes
ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione
unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc
pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet
oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet
quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio
deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo
non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae
quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo
est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in
nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae
significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi
orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur:
quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad
interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam. Deinde cum
dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est
agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae,
quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio
convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio
praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri
directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per
rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo
demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus,
significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et
poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt
propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae
plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut
philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum
orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie
sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem
autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam
philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas
partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam;
ibi: necesse est autem et cetera. Circa primum considerandum est quod
Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est
quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut
etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut
indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut
ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et
omnem enunciationem aliqualiter esse unam. Alia vero subdivisio
enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa.
Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum
tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et
intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est
prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra
affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa
enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae
significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est
compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio
nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat
esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter
prior est privatione. Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est
affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima,
subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa,
ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit
quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. Ex
hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in
affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio
nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis
speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens
esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de
novem generibus accidentium. Sed dicendum quod unum dividentium aliquod
commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias
rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis
illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem
generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam
rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant
rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo
mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem
generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis:
quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet
respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio
secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant
rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio
in qua verum vel falsum est. Deinde cum dicit: necesse est autem etc.,
manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod
enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat
secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel
negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit:
primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum;
secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.
Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet
constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est
praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in
enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc,
quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam
enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam
est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est,
quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid
huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio
enunciativa. Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex
nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod
tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa
invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine
nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur,
currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est
nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars
enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur
apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a
forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de
parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica
dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel
negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod
affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et
adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel
verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit
tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una
simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod
illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit
per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat
compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum
est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens
intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi:
quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem
propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est
definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis
definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii.
Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius
assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per
se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per
formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex
forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia.
Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut
scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae,
idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non
interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si
interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret
primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur
interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem
definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et
interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit
medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad
unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis
servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam,
homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod
absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam
importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et
est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad
materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum
simpliciter. Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad
manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod
dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis
secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa
primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod
ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et
verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis
unitatem manifestat per modos pluralitatis. Dicit ergo primo quod
enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel
una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est
intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant
et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque
coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.
Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas
orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur
secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum
solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est
albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem
significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam,
animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in
conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem
quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione
ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio
plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in
enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto
vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive
non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si
coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine
coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc
sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat,
non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter
enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando
interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter
ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua
interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum,
multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex
quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus
currit. Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem
Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur
distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est
coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non
multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum
et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod
Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam
coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat
quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes,
dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis,
sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent.
Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter,
sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes
est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione
dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum
manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit
duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae
plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno
communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est
animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et
ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter
definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis
opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non
solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus
coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et
secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo
pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde
manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures:
plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus
accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum
unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat,
sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt
simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua
uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia
quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est
coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Deinde cum
dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et
verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset
autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum
unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum
dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo
loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis.
Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest
dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel
verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi
enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes;
puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem
utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit.
Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non
enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui
profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte.
Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad
interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium
enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod
intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si
quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit.
Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est
quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem
inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem
orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Deinde cum dicit:
harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum
rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno
significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis
est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit:
harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur
una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem
simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne intelligatur quod
sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut
aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest
per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur
coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo,
enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur
in simplex et compositum. Deinde cum dicit: est autem simplex etc.,
manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod
enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo
quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae
enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod
simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet
ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc
intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt
divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in
praesenti. Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret
enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere
affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset
genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione
generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non
significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari
nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur
aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in
praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque.
Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem,
volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et
negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Sed contrarium apparet
ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere,
cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est
enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero
est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem
aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo
Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et
definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non
est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed
quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc
solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis;
melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox
significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio
enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione
enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum
eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione.
Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum
dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem
enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent
poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare
esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium
negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur
enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum
est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem
definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est
autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in
species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis,
hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et
negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel
falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo,
movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo
quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una
opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in
duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis
absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex
parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso;
secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et
sit hoc contradictio et cetera. Circa primum considerandum est quod ad
ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem
enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum
quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet
enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non
esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas
et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel
non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio
falsa. Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum
permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur
ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum
Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid
non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur,
Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non
est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus.
Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad
negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a
minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam
praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet
in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit:
et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit
affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum
dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit
negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non
est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc
quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel
non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit
vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est
albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens.
Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus,
in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in
enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra
enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi.
Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode
enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita
vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens
est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis
affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem
manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in
rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum
contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari,
et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote
ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat
negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset
contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non
posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit
absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per
nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo
quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni
huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod
dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen
contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut
Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit
contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio
affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae
requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita
esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato,
requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint
eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est
contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur,
Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur
quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit
simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non
sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una,
requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae
unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit
identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem
et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis
diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset
oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec
autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum
diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est
albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte
praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non
movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est
animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel
temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in
Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex
habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures
quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et
quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in
disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et
litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I
elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis
esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit
distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur
quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam
divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum
assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et
cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum
differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum
enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est
enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco
nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis
intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis
distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia,
quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem
per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus
praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed
de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est
universale, Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc
divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non
est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae
substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur
esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res
videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod
hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in
enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi
mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur
secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus
intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione
alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est
proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in
quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum
aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut
rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod
convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur
significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est
commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale,
quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est
communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute
secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum,
non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem,
puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem
Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel
de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem
intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de
anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit
autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei
quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid
accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus
remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol,
non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae
ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non
dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum
est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in
materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter
potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum
praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod
terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod
significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod
nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod
per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in
materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus
dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit
Plato, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato
est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur
hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse
enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo
intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de
pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus
inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen
Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia.
Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia
materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed
aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit
divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re;
rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod
quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium,
quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et
est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et
cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor
modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a
singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum
sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest
ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato
aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod
homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim
intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum
quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur
aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut
unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad
esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si
dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae
etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior
est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non
sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc
modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo
attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque
quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod
ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum
dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur
ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid
quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari
autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in
apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno
solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est
animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat.
Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit
affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio
enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum
quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est
divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic
enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum.
Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae
quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam
praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis
enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem
enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia
significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur
secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo,
et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas
consequitur materiam. Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc.,
ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem
subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum
in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones
diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile
est et cetera. Circa primum considerandum est quod cum universale possit
considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis
singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum
est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam
dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod
aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab
omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant,
ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum
modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed
Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas
determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali,
prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra
singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et
similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in
singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt
quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic
accepto. Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur
universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari
de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in
qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa
est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto
universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem
praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod
praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur
sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi
nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo
praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel
removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis
quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod
praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed
quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione
singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non
est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus,
universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest,
non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit
universalem affirmationem. Sic igitur tria sunt genera affirmationum in
quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali
praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia,
in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam
homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur
absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi
enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes
oppositae. De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione
praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem
ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo
nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo
ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat
ei ratione singularitatis. Si igitur tribus praedictis enunciationibus
addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius
pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et
particularis. Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat
diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam
universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad
particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria
facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem;
secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.;
tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera. Dicit ergo
primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest
secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut
non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis
homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria
dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum
quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat
communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic
igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus,
removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod
negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec
dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est
albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad
rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit
contrarietatem. Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit
oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non
universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim
universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus
subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt
contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria.
Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla.
Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter,
sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed
de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in
universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus
homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo,
qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo
praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum
universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur
universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper
significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio
refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter
enunciatur, non sunt contrariae. Sed hoc quod additur: quae autem
significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem
contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre
voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi
enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus,
homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se
tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse
falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione
significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad
propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et
falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est
albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non
est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto,
etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum
dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio
actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia
est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia
non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa,
quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt
contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones
quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est,
quod aliquid non est bonum. Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis
pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de
contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio
Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non
determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret
contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret
contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non
sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque
ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid
universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum
universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae
enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis
homo est animal, nullus homo est animal. Deinde cum dicit: in eo vero
quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam
diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a
parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod
similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod
universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad
hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est
verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse
potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare
praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est
enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum
autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur
universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad
singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur
particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum
sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et
ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato,
sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam,
omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo
est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a
philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod
praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere,
investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod
anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis
enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae
essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod
posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali
praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur
ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal.
Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula
quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub
homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam
subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod
quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant
rationi singularis, quod accipitur sub universali. Nec est instantia si
dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus:
disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret
autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae.
Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi
convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si
ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua
materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et
similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo
omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam
aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal
est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est);
et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est.
Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est,
dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus
determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes
ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando
universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex
oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo
tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi:
contrariae vero et cetera. Particularis vero affirmativa et particularis
negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur
circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale
particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate
pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid
affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et
negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et
negationis, secundum praemissa. Dicit ergo primo quod enunciatio, quae
universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei,
quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit
affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et
particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus,
non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi
particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus;
sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non
quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus
(quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est
universalis negativa), sunt contradictoriae. Cuius ratio est quia
contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem;
universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid
aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri
non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod
particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde
relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis
negativa, et particulari affirmativae universalis negativa. Deinde cum
dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et
dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae;
sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis
negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat
extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc
pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et
negativa se habent sicut medium inter contraria. Deinde cum dicit:
quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio
oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum
ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio,
quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem
in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa
et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae.
Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie
opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut,
non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est
albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus
homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam
album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et
nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum,
sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non
possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul
possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc.,
ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod
considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non
plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno
modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum
est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate
refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec
potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis
affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate
praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem
universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium
enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim
contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi
quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando
dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV
metaphysicorum. Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc.,
ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse
contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod
intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.;
tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem
subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio
et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi
propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare,
et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum
philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de
universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit
verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum
dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus,
et, homo non est probus. In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui
Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit
accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali
ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae;
materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est;
dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et
ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa:
sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem
particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior
est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro
universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse
Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in
libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non
est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo
dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum
sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est
verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et
alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per
accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato
etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro
universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis
affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens;
ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem
in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id
quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa
esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo
indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior,
sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione
partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni
parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas
particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et
simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae
negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione
suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi
indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab
universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in
his, quae per se de universalibus praedicantur. Deinde cum dicit: si enim
turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes
enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis
affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas,
quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata:
quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum
perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo,
idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro.
Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine
existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam
homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo
est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus;
ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem
ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem
oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur
ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius
quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in
successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est
albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit
albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus.
Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus.
Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem
circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse
inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur
idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet
dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut
ex praedictis manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos
oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi
una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni
affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio
vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit:
primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim
idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et
cetera. Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est
una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit
plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes
opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum
praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo
non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est
albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo
removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est
albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem
universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra
hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem
universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una
est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde
cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem;
secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem
sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae
est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud
idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud
subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter,
vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita
scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni
affirmationi opponitur una sola negatio. [80425] Expositio Peryermeneias,
lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat
propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi,
Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius
propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset
negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non
opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est
albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando
subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic
affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non
omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit
exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum:
et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius
propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus,
idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est
universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus,
opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus.
[80426] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra
id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum
indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua
opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad
hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem
refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo,
quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de
eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid
affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur.
Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et
concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una
negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae,
aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de
subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est
etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large
contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in
his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare
autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia
scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul
esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et
ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est
vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt
contradictoria. Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit
quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum
est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua
aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter,
multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas
enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas
enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali,
cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per
multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et
cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum
significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale
universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale
particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et
exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo
est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet
non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine
autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum
sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola
multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis
propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia
praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se
divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. Deinde cum dicit: si
vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem
enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit;
secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil
enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his
et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex
quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non
fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa
continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen
animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad
invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad
excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis,
sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint
partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus.
Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem
enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum
aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit
tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam,
canis est nomen. Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod
dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et
equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio
una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali
ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur,
tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed
istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures
enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si
significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et
equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae
componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica
est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum
quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et
equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec,
tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera
existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones
ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad
unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est
albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec
cum dicitur, tunica est alba. Deinde cum dicit: quare nec in his etc.,
concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae
utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam,
quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam
philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo
dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod
poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter
inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo,
proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et
cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis
triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum
unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel
coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est
affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod
enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et
quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum
tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro;
et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est
enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu
verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi
sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi
quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur
secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit
subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum
dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se
repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in
materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio
modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter
se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit,
ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de
praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito,
necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa.
Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in
enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter
praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel
negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra
quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter
praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso
universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed
particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit
vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in
enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra
habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de
universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et
altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum
est. Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de
praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de
futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de
universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia
necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in
praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem
impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et
particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus.
In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus
vel praeteritis. Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo.
Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum
determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus
quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et
altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam
quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris
singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles
mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia
pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant,
attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur
versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de
futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit
vera et altera falsa. Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc.,
probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat
propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia
quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper
potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod
non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et
cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam
consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est
vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est
quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit:
quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco,
probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum
unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat
hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod
in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel
affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum
dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus
propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et
negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse
est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse
vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter
consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et
hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album
sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex
necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel
non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem
etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum
dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel
negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat,
sequitur quod affirmans vel negans mentiatur. Est ergo processus huius
rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in
singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel
negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne
necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio
determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc
concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus
contingentium excluditur. Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae
accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia
scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt
ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in
senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent,
nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam
permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad
productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae
sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se
habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum
sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo
enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum
dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste
sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et
philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet.
De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici
quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed
eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad
unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque
quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa
hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate
sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et
sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet,
similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum
quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic
expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem,
quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum
determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto
contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per
consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est
in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori
parte. Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam
rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si
enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris,
sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo
modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de
aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album,
erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in
propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit
album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta
sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel
de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius
consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid
vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri,
ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti
vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod
non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et
quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri,
ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae
futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque
ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex
necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo
et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate
dicere esse futurum. Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum
hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum,
quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et
ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum
est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit
tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea
proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest
dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet
inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc
determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest,
hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa
pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud;
unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod
sit futurum, sed quod sit vel non sit. Deinde cum dicit: at vero neque
quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris
utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est
verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non
est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit,
neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum
duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum
et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum
quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam
esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si
ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non
est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in
singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc
autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit
quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et
cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae
sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi;
ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia
inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit
ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia
sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut
in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed
omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo
inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari:
probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex
necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse.
Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter
aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt
superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non
operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea
intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis
finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis. Deinde cum
dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur
ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta
inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem
inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et
cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando
nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc
aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur,
alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio
determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit;
ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in
omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at
vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non
ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno
affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se
habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim
propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel
non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum,
sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod
nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante
quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat
veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere
diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse
sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic
se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat
per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non
futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal
rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici,
scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc
dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea
quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et
accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in
praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.
Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta
esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia;
ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo,
ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et
quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse
impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse
principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et
in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si
removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia
philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis,
nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines
alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis
scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit
principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod
consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent
dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam
naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde
impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel
consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod
omnia ex necessitate eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est omnino
etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus
naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse
et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod
non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est
album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album
permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit
etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est
in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et
non esse. Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit
propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est
quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte
agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile
est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra
probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem
contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam
exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque
possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter
concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in
potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed
eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem
quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in
pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit
vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus. Est autem
considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et
necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea
secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam
erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit,
quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora
prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi
quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile
vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur
esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid
est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est
necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori
et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet
impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et
ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur
illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse;
impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod
ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum,
sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet.
Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia
Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et
contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi,
in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque
oppositorum. Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in
corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et
non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa
ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde
dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur,
non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae
activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit
determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex
necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo. Hoc igitur
quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus
naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam
dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione
causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa
autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit,
multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis;
et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed hanc rationem
solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum
assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud
quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie
non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse
musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse
musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter
etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum
poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius
effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis
lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Si autem
utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia
ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset
effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere
in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc
est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse
est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum
effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum:
si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse
est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque
praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est. Obiiciunt autem
quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se,
et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non
attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit
ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui
subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per
accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per
se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non
habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum
proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V
methaphysicae dicitur. Quidam vero non attendentes differentiam effectuum
per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius
provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium
corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis
syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic
aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et
directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive
ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut
probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus
seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis
potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum
sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium
corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem
hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre
a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et
voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus
sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non
inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas
concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum.
Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae
per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus
effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id
autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam
virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per
accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est
una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus
dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in
corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia
scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum
se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum,
cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter
agentem. Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab
intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se
non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo
format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per
accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem;
sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis
quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se
intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi
occurrant. Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo
aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae
divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti
negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui
singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et
velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit
omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem
ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem
cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit
omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso
quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod
est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid
cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per
intellectum agens. Sed si providentia divina sit per se causa
omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex
necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest
eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit
evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non
potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.
Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et
operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum
tamen multo dissimiliter se habeant. Nam primo quidem ex parte
cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae
secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub
ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra
ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam
secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in
magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si
ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub
ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et
subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad
ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos
eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si
autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa
turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in
via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet
ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium
praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se
vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet
adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius
cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo
praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter
perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non
cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis
suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut
ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic
determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem
modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum
quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile
secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet
per philosophum in IX metaphysicae. Sed Deus est omnino extra ordinem
temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui
subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et
ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et
unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum
quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et
ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque
eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem
sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem
sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad
effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem
sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est.
Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia
quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt
ex necessitate, sed contingenter. Similiter ex parte voluntatis divinae
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo
ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest
potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur
vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina,
sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae.
Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia
omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo
oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit
contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non
omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem
aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus
consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in
eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum
voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod
sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei
quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens
semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per
consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod
similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem
quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia,
quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se
nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex
necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse
falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones
demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus,
postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem
sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod
possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus
non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis
inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est
propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et
huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam
necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt
appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad
principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua
bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent
ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et
forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed
particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub
ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere
hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant
appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex
necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter
radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii,
quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in
quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III
Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas
hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere.
Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis
rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et
circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab
enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res
sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas
circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare
quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas;
secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi:
et in contradictione eadem ratio est et cetera. Dicit ergo primo, quasi
ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet
omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet
quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse
est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium:
impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est
illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non
esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et
similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse
est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod
omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non
esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed
ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est,
necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem
significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens
simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex
suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de
esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex
necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et
per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his,
quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum
determinate esset futurum. Deinde cum dicit: et in contradictione etc.,
ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad
sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in
suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit
necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita
etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem
oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum
sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc
principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde
impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non
esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute.
Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum
cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras;
similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad
necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit
futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.
Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit
qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se
habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo,
finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et
cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae
ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non
est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita
se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod
contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive
alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat
contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum
contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper
sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed
quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter
se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum
enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione
altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa
determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars
contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in
pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum
determinate sit vera vel falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est
etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod
non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet
veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt,
sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum
est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum
et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse.
Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro
determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de
enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt
autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae
praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina
et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in
enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius
enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima,
ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in
subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod
aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi:
his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones
enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi;
ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum
quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem
enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis
dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat
enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo,
ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi:
at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat
de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus
nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex
parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa
primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales
enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima
est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes
distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest
esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi
enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.;
tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. Resumit
ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet
affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est
proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo
aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum;
et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum
affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut
in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur
innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed
solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione
subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id
quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc
loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum
talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. Deinde cum dicit:
nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit
nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est
nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed
infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis
remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non
enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam
generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem
formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno
secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde
sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid,
idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est
unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne
aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non
significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. Deinde
cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod
duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex
nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et
hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid
significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi
ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et
negare, ut in primo habitum est. Deinde cum dicit: praeter verbum etc.,
ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum
est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest
enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur
loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni
infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum
constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per
se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut
addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem
potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen
infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio
illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non
accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc
quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in
enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur
veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel
ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori
intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit
affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut
diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et
infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo
addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in
primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in
casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et
futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde
si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc
est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et
ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum
vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia
intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia,
secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum
universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione
prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem
ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam
affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est.
Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter
ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non
universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus,
in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia
singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi
enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam
praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter
ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto
universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex
parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in
extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant
praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam
philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas
enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti
et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi
enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent;
ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit
de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de
enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et
cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum
triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de
enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum;
secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi:
similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen
infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa
primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium
enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem;
ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et
cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit
quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet
intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens
praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est
quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates
est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in
rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale
praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum
subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut
asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante
hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali
praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia
est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato
facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in
tres. Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando
est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur
oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus,
in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum
erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter
sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando
est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto
existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum
vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est
iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus.
Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum
est, quod est nota praedicationis. Deinde cum dicit: dico autem, ut est
iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum
dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam
tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen,
prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia
dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus
magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad
hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum. Deinde
cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo,
ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae
quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et
cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium
adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens
est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens,
praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum
duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem;
et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et
negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam,
ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia
breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est. Ad
cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in
huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum
quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet
homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque
vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae,
scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae.
Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae
aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur
privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas
praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad
affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum
consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de
praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se
habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum
transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad
affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito
praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito,
huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato,
scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic
scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de
infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo
praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato,
scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa
vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est
iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae,
quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus.
In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo
praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut
patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato,
sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed
duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non
homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et
hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad
illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram.
Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato
et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et
cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur
in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in
praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non
loquitur. Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes
quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato,
sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem
affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes
seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter
affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut
homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem
dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt
de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis
secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est
simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter
negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra:
haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi
nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine
I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel
privativo praedicato, alium sensum accipit. [Ad cuius evidentiam
considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad
illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari
potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de
quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec
enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet
vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi,
manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita,
quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de
quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus,
potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo
qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen
haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus
quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de
pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam
affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit
homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa:
potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum
virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere
dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam
negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de
homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam
negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo
iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo
quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non
iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum
iustitiae neque habent habitum iniustitiae. His igitur visis, facile est
exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum
praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et
negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera
negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut
privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem
affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa
infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa
privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa
sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita
etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus,
et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo
infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum. Sequitur, duae
autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet
infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas
in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte
simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa
est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in
plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam
infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad
infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.
Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen
videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur
sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in
praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et
postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et
magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius
ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo
secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum,
scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una
est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad
affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius
negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad
affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet
negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex
negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae.
Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.
Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra
dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim
nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum
quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet
iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut
cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad
verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi
opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod
praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae.
Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum
dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam
figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est,
intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura,
in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex
opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus
scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non
iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel
negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor
enunciationes. Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes
disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis,
idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut
non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini
adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur
ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de
infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati.
Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte
praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta
littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod
signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non
differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Grice: “You
tell me one of them Italian philosophers is a priest, and I refuse to call him
a philosopher – the same with them Irish Catholics, like Kenny, and even
non-Irish, like Copleston!” Tito Sante Centi. Tito S. Centi. Keywords: gemitus,
Aquino’s cry – natural sign of his illness – gemitus infirmis, gemitando
infirmus signat infirmitas -- tomismo, Aquino, why Aquino is hated at Oxford. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Centi” – The Swimming-Pool Library.
Centofanti (Calci). Filosofo.
Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in the rus of Tuscany
– dedicated all his life to the philosophy of Tuscani – notable are his
philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the Cole Porter
mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” – how much he
hated the Etrurians, he made them second-class! – and most importantly, the
Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration on ‘Italian
philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee for his
history of English philosophy, but in a typical Italian manner, Centofanti
dedicates his history of Italian philosophy to a member of the nobility! – the
duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si laurea a Pisa.
Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore secondo Mamiani”;
“La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana,
Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e
le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia
della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa);
“Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri”
(Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia
– noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia”
(Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della
nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano”
(Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo
in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso
storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo
diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di
Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La
letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli;
“Pitagora” (Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degli italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e
sede del suo Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a Crotone
che tosto vi opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa
pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e
vinti dall’autorità del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza
delle ragioni discorse. E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce
a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde:
a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E
la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine
liberale e giusto. Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma i romani (pria
di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re Numa escono
legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina.
Gli animali l’obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano
alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d’Abari, il
mistico viaggio all’inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti e lo
accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell’invidia e
malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte.
Quando e come si forma questo mito? Non tutto in un tempo nè con un
intendimento solo, ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al
nuovo pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica.
L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a
parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è
maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l’essenza e le
condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai
quali egli appartiene, l’arcano della società da lui instituita, e il simbolico
linguaggio adoperato fra suoi seguaci dano occasioni e larga materia alle congetture,
alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl’interessi
politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando surgeno gli
storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e
specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggi mai
separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture
delle dottrine apocrife, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di
quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto,
e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di
densi veli alla posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti
usate da altri per trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore.
Basta mostrare la natura e le origini di questo mito, senza il cui
accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria
caratteristica. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello
di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non
impede l’azione e la moralità conduce alla scienza. Ragione ed autorità sono
cosi bene contemperate negli ordini della disciplina che avesse a derivarne il
più felice effetto all’ammaestrato [tutee]. Tutto poi conchiude in una idea
religiosa, principio organico di vita solidaria, e cima di perfezione a quella
setta filosofica. Condizione prima ad entrarvi e l’ottima o buona disposizione
dell’animo. Pitagora, come nota Gellio (Noctes Atticae, I, 9) e uno scorto
fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando la conformazione ed espressione
del volto e da ogni esterna dimostrazione argomentando l’indole dell’uomo
interiore. Ai quali argomenti aggiunge le fedeli informazioni che avesse avuto.
Se il giovinetto presto impara, verso quale cose ha propensione, se modesto, se
veemento, se ambizioso, se liberali, ecc. E ricevuto, comincia la sua prova;
vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisogna
imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer
sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, ti fa freddo al
sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale dolcezza, o ti rende impuro a
goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile
schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il corpo e lo spirito. Breve il
riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio
esercitar l’astinenza, e corporali gastighi reprimessero dalla futura
trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro egoismo è quello che
procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri
ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia. La domande cavillosa,
la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto l’ingegno
prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il disprezzo giusto
e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i ingiusto, a cercare
sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti doma la
compiacenza nell’ornamento vano. Questo accrescimento del mito é opera di
Bruckero (Hist. crit. phil., II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips.). Chi recalcitra
ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente, un terzo egoismo
è alimentato dal privato possesso di una cosa esteriore immoderatamente desiderata.
La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del
l’umana socievolezza, vincesi con la comunione del bene, ordinata a felicità
più certa della setta. Quei che appartene ad un pitagorico e a
disposizione del suo consorte. Ecco la verità istorica. Il resto, esagerazione
favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale della setta pitagorico,
perchè è fabbricata secondo la verità dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”,
dice Diodoro Siculo, “si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut
cum *fratre* dividebant” (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón
te medėn fysiofai” – “proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio (VIII,
21) consuona al principio ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito
a Pitagora da Timeo. Fra due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των
φίλων”. Anche la domande cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo
abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della
vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo
fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si
dirama la co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato
con profondo senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di
ogni procede al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo
magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina e l’autorità.
Nell’età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero
dell’*obbedienza* e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa
o non conosciuta. Il fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si
lascia dominare dal fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma
all’uomo e la presunzione non occupa il luogo della scienza. La solidità della
cognizione radica nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi
per le vie del sapere ha una nozione sempre scarsa della verità che impara,
finchè non ne ha compreso l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata
non basta, chi non v’aggiunga l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo
e sapientissimo testi-monio della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere
intese pienamente da ogni e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di
quelche la insegna o che presiede alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per
anche iniziato al gran mistero della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro
senza discuterla. Il precetto e giusto, semplice, breve. La forma del discorso
e simbolica; e la ragione assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che
così ha detto e insegnato. “Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse
dixit” credo di aver determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè
nota Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone,
Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo
attribui ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di
grave disorbitanza. “Tantvm opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione
valeret auctoritas” (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe
detto Pitagora stesso, riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal
quale riceve il suo domma – “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come,
secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) rifiuta il titolo di *sapiente* e
adotta il titolo di ‘filosofo’, perché la sapienza (sofia) vera, che è quella
assoluta, a Dio solo appartiene. Meiners e incerto fra varie congetture,
accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicasi quel
precetto alla vita e dai buoni effetti ne argomenta il pregio. Ma acogliere con
più sicurezza il frutto che puo venire da questo severo tirocinio, moltissimo
dove conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per
due, tre, o cinque anni, e proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella
vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero. E la
baldanza dell’espressione spesso argomenta impotenza all’operazione. Non
diffusa nel discorso l’anima, nata all’attività, si raccoglie tutta e si
ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera l’espressione
sua propria col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il
giusto, ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richiede non dirado
questa difficile virtù del *tacere*, fedelissima compagna della prudenza e del
senno pratico. Persevera l’alunno nella sua prova fino al termine stabilito. E
allora passa alla classe superiore e divene de’ genuino fratello, amante,
discepolo (pvýccol óuenetai). Fa mala prova, o sentesi impotente a continuarla,
ed e rigettato o puo andarsene, riprendendosi il suo bene. Dura l’esperimento
quanto e bisogno alla diversa natura del candidato: ed all’uscit od espulso
ponesi il monumento siccome a uomo morto. Che questo monumento e posto,
non lo nega neppure Meiners. All’abito del silenzio, necessario al più forte
uso della mente, e al buon governo della setta, bisogn formare il discepolo. Ma
qui ancora il mito dà nel soverchio. L’impero dell’autorità dove essere
religioso e grande. Ma il degno di rimanere nella setta, e che passa alla
classe superiore, comincia e segue una disciplina al tutto scientifica. Non più
simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d’esame. Alzata
la misteriosa cortina, il discepoli divene college, compagno di giocco,
condizionato a non più giurare sulla parola del maestro, puo francamente
ragionare rispondendo – conversazione --, pro-ponendo, impugnando, e con ogni
termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. La aritmetica e la
geometria apparecchiano ed elevano la mente alla più alta idea del mondo
intelligibile. Interpretasi la natura, speculasi intorno al necessario
attributi dell’ente parmenideano; trovasi nella ragione del numero
l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della contemplazione
filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di
perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”), ovvero chiamasi per
eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores, gli studi, ciascuno
seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine, o esercitando
quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto alla filosofia;
gli altri, a governar le città e a dar la leggi al volgo. Della classe de’
pitagorici e detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi
il venerabile, etc . Intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo
doversi intendere. E quanto ai gradi dell’insegnamento, notisi una certa
confusione di una filosofia neoplatonica con l’anticho ordine pitagorico,
probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII,
etc.). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi uditorio
comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove esser
desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla cosa
parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni prossimamente
decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l’una
all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come
la statua di Memnone, adorava e salutava la luce animatrice a della
natura, cantando o anche danzando. La qual musica li dispone a conformarsi al
concento della vita cosmica ed e eccitamento all’operazione. Passeggiav soletto
a divisar bene nella mente la cose da fare. Poi applica alla dottrine e tene il
con-gresso nel templo. Il maestro insegna, l’alunni impara, ogni piglia
argomento a divenir migliore. E coltivato lo spirito, esercita il corpo -- al
corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici. Dopo il quale esercizio, con pane,
miele ed acqua si ristora e preso il parco e salubre cibo, da opera al civile
negozio. Verso il mancar del giorno, non più solingo come sul mattino, ma a
due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando insieme della cosa
imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del comun pasto, al
quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio lo apre: lo
imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosamente lo
chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E prima di coricarsi
canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra molteplici cure e
diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata unità della sua
vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto e la regola
ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo senso
dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella certezza
di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa parte
del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio comune
piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν,
την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam quæ nunc
vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon (Str.,
1. 15). Questo e l’ordine, questo il vivere della Società Pitagorica
secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo
vi e educata ed abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo
conduce o sirve a quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella
esplicazione piena e nella feconda disposizione della sua potenza, concordasi di
atti e di letizia col mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e
contentezza. Così il pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale
anche con la sua veste di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e
singolare dall’altro. La breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria
a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una
sua propria nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo
ora cercare e determinare un criterio onde la verità possa essere separata
dalla favola quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e
materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito,
popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo
parere in alcune sue parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità
col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla
varia opinione che altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento
nel vero primitivo dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella civiltà
della setta a cui quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta
diversità della sua apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi
quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente
riscontrasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di
Pitagora vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in
due idee principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune
condizione dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina.
Seconda in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a
rendersi universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda
alla setta pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la
durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale conclusione
ultimamente risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente un’idea
storica e scientifica. L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il paese
dove quest’idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e
fortuna, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce.
Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del
mito e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembra
essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità
che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che
precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora
(o Grice) sia insieme un filosofo e una filosofia perenne. Nel che volentieri
si adagia quel forte e temperato senno che non lasciandosi andare l’agli
estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria.
Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un filosofo, e alla norma di
questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla filosofia,
alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e
assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un filosofo, è un
rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per rispetto alla
filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione del
filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e alla ricupera
della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale.
Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita
longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi
non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa
nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un
autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro
filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con
quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce
implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa
greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto, II, 81.; IV, 95 — Isocrate
reca a Pitagora la prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων
TTPŪTOS ES tous Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E Cicerone lo fa viaggiare per
la Liguria (De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di
Pitagora come di filosofo diligentissimo più che altri mai a cercare
storicamente la umana cognizione e a farne tesoro e scelta per costituire la
sua enciclopedica disciplina -- Laerzio, VIII , 5. -- la cui allegazione delle
parole di Eraclito è confermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21).
Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione di Pitagora; perché, a
suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa trovare la scienza dentro di
sè e basta a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla
concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e opportuna testimonianza a
quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e
maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi “cosmopolitica” o universale in
senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam praestantia doctus plurima, mentis
opes amplas sub pectore servans cunctaque vestigans sapientum docta reperta, nam
quotiens animi vires intenderat omnes perspexit facile is cunctarum singula
rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle presso Giamblico
nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar fondamento
istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo, il
quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel dire la verità
non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio, VIII, 21). E noi qui
alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore
etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma
per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio,
pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una
più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria
partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di
lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II )
conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo
iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri
filosofi meno antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o
molto antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie
della vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella
Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam
Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής
φιλοσοφίας”) quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana
(“èv toiS TAVT atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus,
aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis”
-- zúov; che è notabile differenza: perchè , laddove le tre vite razionali
nella traduzione latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono
obiettivamente divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune
principio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea
filosofica che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano
(Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1). A ciò che dice Aristotele parrebbe
far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit. ,
19) ci lasciò notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα
παρά πάσιν”) era anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei
vouiſelv”, vale a dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana
di che parla Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica)
tra quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento
organico dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato.
L’altro dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la
prima sentenza e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e
la seconda appartenere alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto
intellettuale. Non ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in
Giamblico, ma chi che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno
nel concetto riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa
velo all’idea (segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta
occulta, e comunicata quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra.
Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico
testimonio che l’ombra dell'arcano pitagorico si stende anche alla filosofica
dottrina. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta
per tre condizioni di vita e Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca
che media tra la condizione puramente divina (pizio Apollo) e la condizione
puramente umana. Ond’egli è nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più
alta e perfetta ragione di che la nostra natura e capace. Ora la filosofia
anche nell’orgia pitagorica e una dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e
di perfezionamento, sicchè l’uomo ritrova dentro di sé il dio primitivo e
l'avvera nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente scopriamo
l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società
religiosa e filosofica e coordinata col magistero che nel di lui nome vi e esercitato.
Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata
con quella della setta (cfr. grice, setta griceiana), e possiamo far distinzione
da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni
storiche di un uomo e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e
storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci
sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore e mirabilmente confermano
il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de’ pitagorici: l’uomo esser
bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile al
nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza, o quell’istesso che dice la verità:
i suo detto e l’espressione di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver
fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte
e radice della natura sempiterna. Alcuni videro in questa tetratti il
tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio. Altri, a grado loro,
altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da
Giamblico (Vita di Pit.. XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali
riguardavamo toccando della tetratti e che sono la formola del giuramento
pitagorico – “Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως
ριζώμα τ’έχουσαν” – “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym fontem
perennis naturae radicemque habentem” (Porph., V. P., 20). Il Moshemio
sull’autorità di Giamblico (in Theol. Arith.) attribuisce questa forma del giuramento
pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla
duplicità dell’anima. Poco felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s.
20). Noi dovevamo governarci con altre norme -- e altre sentenze di questo
genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o
filosofo, ma a Pitagora qua persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli
ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi
anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea
primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito,
e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia trovato e determinato.
Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato è sempre uomo ed
idea: un uomo tirreno che dotato di un animo e di un ingegno altissimi, acceso
nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini, capace di
straordinari divisamenti, e costante nell ' eseguirli viaggia per le greche e
per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi , fa cendo
raccolta di dottrine , apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera ; e
il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo , che le
acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio
suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e
instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti ; e
il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella
costituzione della sua scuola . Fra le quali due idee storica e scientifica dee
correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui
esistenza vera risplende, a guisa di corona , questo lume ideale , si rimane
nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora
ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana
eccellenza di lui , non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella
sapienza or dinatrice del suo instituto : ma insieme quello che fosse per
rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella
vita ellenica , o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime
congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà
furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più
addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario
fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo
con altri metodi , non si muove mai da . un concetto pienamente sintetico , il
quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare ; non si ha un criterio
, che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e
considerazioni . Si va per ipotesi più o meno arbitrarie , più o meno fondate,
ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito , non cosi tosto nasce o è
fabbricato e famigerato , che ha carattere e natura sua propria, alla quale in
alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse
vi si discordino , pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose.
Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare , come gia notammo,
per alcuni rispetti con la natura delle cose vere , o talvolta essendo la forma
simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano
sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra
diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il
mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso , che dalle sue origini fino
alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale;
fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e
dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo
processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e
riferite ai loro diversi autori , non era cosa che potesse eseguirsi in questo
lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e
diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva
formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si
vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli
uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni
intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal
nostro racconto , l'idea divina , im personata in Pitagora, era organica in
quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la
storia necessariamente in molte parti si riscontrano , e in diversa forma
attestano una verità identica : e qui è il criterio giusto ai ragionamenti ,
che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una
setta , e il principio organico della sua istituzione , e tutta la sua dot
trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati , è cosa
naturalissima a intervenire , e della quale ci offre l'antichità molti esempi.
Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si
proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero
con giuramento l'orsa daunia , né indusse il bove tarentino , di che parlano
Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio,
n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini , a non più
devastare le campagne : ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all '
indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi
scansi i suoi miracoli , tutte le cose apparentemente incre dibili , che furono
di lui raccontate, all'idea , e ne avremo quasi sempre la necessaria
spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra
cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a
Zamolcsi , nume e legislatore dei Geti , ci ha dato anche un gran lume (non so
se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi,
prima è servo di Pitagora : poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa
tria , e vede i costumi rozzi , il mal governo, la vita informe de'Geti in
balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde , valendosi della sua erudi dà
opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una
scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi
accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS
ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune.
Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al
disprezzo dei piaceri , alla tolleranza delle fatiche , alla costanza della
virtù , Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε
κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col
miracolo , ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente
apparisce , è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le
sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di
Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε
έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al
divino uomo pelasgo - tirreno ; ma la tradizione ellenica facea derivate le
istituzioni getiche dalle pitagoriche : e a noi qui basti vedere questa ragione
e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la
testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti ,
e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti ,
incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e
la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima ;
conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre
attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici , e della medicina
pitagorica ; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo,
favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa
all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito
pitagorico ha origini antichissime , ma anche qual si fosse la sua forma
primitiva : e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la
verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali
si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il
Meiners, che fece questa critica , accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma
dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo
lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti
i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito , ma con
legittimo criterio, a ' spie. garlo , discorriamo rapidamente la storia ,
secondo la parti . zione che ne abbiamo fatto . Preliminari storici della
scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli
greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica , e un più chiaro
lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in
Samo , città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a
maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse : questo è ciò che
i moderni critici più severi reputano similissimo al vero , e che noi ancora ,
senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne
tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso ; i quali per lo meno
accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e
le feni cie , le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste
corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate
sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere
contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione
della sua vecchia scuola ; cosi Caronda , Zaleuco, Numa ed altri poterono in
alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi
storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in
computi cronologici . Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di
Polibio , di Cicerone , di Varrone , di Dionigi di Alicarnasso ,diTito Livio fu
già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora
sotto il regno di Assarhaddon , contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca
d' Eusebio, ed. ven. , I , pag. 53; Niebuhr , Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel)
Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro
ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse
argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui
non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche
il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee
pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro
generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole
di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII,
3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità:
e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima .
mente introdusse fra i Greci e pesi e misure ( μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal)
, congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle
Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni
il sistema dei pesi e delle misure , e quello della confinazione agra ria , e
trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi
Giamblico , V. P. , VII , XXX ; Porfirio , id . , 21 , dov'è allegato
Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi
riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e
limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane.
Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse
Pitagora? Creta non solamente è dorica , ma antichissimo e ve nerando esempio
di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci : e Creta, come fu
osservato dall' Heeren , è il primo anello alla catena delle colonie fenicie
che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta
eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti
all ' incivilimento . In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha
libertà sua propria , tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società
federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della
lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv . fédér,
et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che
facesse Li curgo dubita assai il Grote , History, ec., tomo II , p . 530 e
segg. -- del comune , i possedimenti : le mense, pubbliche: punita
l'avarizia , e forse l'ingratitudine; -- Seneca , De benef., III, 6 ;
excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma
vedasi Tacito, XIII ; Valerio Massimo, I , 7 ; Plutarco nella Vita di Solone
-- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico : e tutte le
leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos , de. gnato alla
familiarità di Giove , vede questa eterna ragione dell ' ordine , e pone in
essa il fondamento a tutta la civiltà cretese , come i familiari di Pitagora
intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e
della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX , 179. Aiós meráhou
bapuotis. Plat. in Min . ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta : dorica
anch' ella , an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione
vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio
sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città
: tutta la vita , una disciplina ; la quale prende forma tra la musica e
la ginnastica : e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono .
Pre domina l'aristocrazia , ma fondata anche sul valor personale e sui
meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore : le nature de' giovanetti,
studiate: proporzionati i premi e i gastighi , e in certi tempi pubblico il
sindacato ; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più
ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero , e son
comuni i banchetti : e la donna (cosa notabilissima) , non casereccia schiava ,
ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane . A chi
attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi ? Ad Apollo Pitio . Come appunto
Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo , era figliuolo
di questo medesimo Apollo . Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche.
Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta
ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici : onde in
queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale
civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica . Che diremo delle
instituzioni jeratiche ? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia
sarebbe importantissi mo lavoro , ma non richiesto al nostro bisogno .
Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche
volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella
comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri , il teologo per
eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni .
Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache
e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine
e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea
, fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra,
simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di
passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea ; finalmente , dopo molte
lotte, la concordia loro : ed altre cose che possono leggersi nella sua
Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una
comune dottrina jera tica , che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e
dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della
materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia
potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi
due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste
nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della
parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero
aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa
cosa è nella storia , e Platone ce lo attesta , che gli antichi Orfici quasi
viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano : non
sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col
miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà
abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza,
a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione
trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora , nel Carmide, nel
Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi
fatto un cenno alla metem psicosi . Il Lobeck scrive così di Platone....
ejusque ( Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem
dictorum , sed orationis illustran . dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph
., p. 339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte
belve, gli ascoltanti alberi , i fiumi fermati, e le città edificate, che ci
circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse , la sapienza
sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica , e i legislatori divini ai
legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia , eccitata
da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade ,
recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero
letterario della sua storia . Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali
cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie
dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù ,
e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck
che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o
quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi
e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un
impulso all'ordinamento della scuola pita gorica . Veniamo ora all' Italia ;
alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di
tutte le altre ; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per
dottrine , per arti , per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli
studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca .
Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi
della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo : ed Aristo
tele , che testimonia questi fatti , ci fa sapere che alcune di quelle leggi e
quelle sissitie italiche , anteriori a tutte le altre , duravano tuttavia nel
suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti
pitagorici. Polit. , V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata ; ma
se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche , forse avrebbe potuto avvi .
sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli
erranti Enotri all'agricoltura , e con le stabili dimore e coi civili consorzi
comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla
Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra
tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio
dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile , le somiglianze tra
questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto
appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P., XXX.
Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas ... venerati post
mortem domum, Cereris sacrarium fecit : quantumque illa urbs viguit, et dea in
hominis me moria , et homo in deae religione cultus fuit . VIII , 16. Chi
poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre
memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica
-- Mazzocchi , Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses.
Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo
storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra
privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a
prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1.
Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile
ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della
storia. E volli accennare ( Plut. , in Num .) anche a Pico ed a Fauno, perchè
questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno ; mito principalissimo
della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa
placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica
Accipimus. Faino, Picus pater ; isque parentem Te, Saturne , refert; tu
sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in
queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per
mezzo d'Ippolito , disciplinato , secondo chè ce lo rappresenta Euripide , alla
vita orfica . At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae
Egeriae nemorique relegat ; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum
Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII , 774 seq.) Ippolito,
morto e risuscitato , e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto
a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma
Virgilio , giudicando romanamente il mito , lo altera dalla sua purità nativa.
Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere
ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella
medicina e nelle arti magiche , operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei ,
il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone , la congettura del Niebuhr
essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia , il mito che fa Pitagora
figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste
cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca
era un sistema arcano di teologia politica , di cui gli occhi del popolo non
vedessero se non le apparenze , e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so
stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica
stavansi connesse con la morale e con la politica . Imperocchè gli ordini della
città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè
nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità
primitiva , dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e
il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto
sino alla formazione dell'uomo , e la vita umana per altri seimila anni si
sarebbe continuata . Dodici erano gl'Id dii consenti , e dodici i popoli
dell'Etruria . Pei quali con giungimenti della terra col cielo , la civiltà
divenne una religione ; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e
governare il vulgo ignorante , e la matematica una scienza principalissima e un
linguaggio simbolico . Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine
tagetiche e le pitagori che , l'etrusco Lucio , introdotto a parlare da
Plutarco ne' suoi Simposiaci , diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente
noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C. , VIII , 7,18. 11
Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica . Antichità
Ilal., vol . III , pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina
etrusca e la filosofia pitagorica , e credė es servi state comunicazioni fra la
Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi
dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici , scoprirebbe analogie più
inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al
nesso storico fra le cose etrusche e le romane , e comprendendo nel mio
concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri , più di me
amico delle congetture , potrebbe , se non recare il nome dell'augurato, e
quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici
semitiche, e suonerebbe : la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa
raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo
XXX dei Proverbi. La tradizione , che recava a pitagorismo le instituzioni
di Numa , sembra essere cosi confermata dalle cose , ch'io debbo temperarmi dal
noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti , il
tempio rotondo di Vesta , ia sapienza arcana , le leggi , i precetti , i libri
sepolti , i pro verbi stessi del popolo . Onde niun'altra idea è tanto cit
tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num.
Aggiungete la Dea Tacita , e la dignità fastosa di Numa ; il Flamine Diale , a
cui è vietato cibarsi di fave ; il vino proibito alle donne , ec. ec.: pensate
agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana , ec. ec.
Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e
quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il
monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere
tutto il sistema primitivo della romana civiltà , dalle cose divine ed umane
comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo , come alla donna, dalla vita sobria e
frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela ,
dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale , dalla suprema
indipendenza del ponti ficato , simbolo della idea divina che a tutte le altre
sovra sta , dagli ordini conducenti a comune concordia , dalla re ligione del
Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale , da un concetto di generalità politica
che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni , ec.
potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo
nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella
stessa lingua del Lazio , e ne argomenta nazionalità necessaria . E il
Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico , e
congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco
sacro, ove fosse spento , col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole
, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di
Numa , e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose
volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del
Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal
Mazzoldi ( il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse
, ec . Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male , è piena di
congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie
, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse ;
ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè , senza più oltre
distenderci in questi cenni istorici , concluderemo , che nelle terre greche e
nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione
della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più
esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni ,
e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze ;
indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque
Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della
sua società ? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria , per la
cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero , e
divenissero altra cosa in quella sua instituzione ? Certamente coi preliminari
fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza
cosmopolitica di Pitagora . E se ci siam contenuti entro i termini delle terre
elleniche e italiche , abbiamo sem pre presupposto anco le possibili
derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni , o le
sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe
dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro
analogia con le pitagoriche è chiarissima : e questo è il valore istorico del
mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie . Vedi Cesare, De Bell . Gall. , VI
, 5 ; Diodoro Siculo , VIII , 29; Valerio Massimo, II , 10 ; Ammiano
Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi : Hi terrae, mundique
magnitudinem et formam , molus coeli et siderum , ac quid Dii velint , scire
profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in
specu , aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt , in vulgus
effluit , videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque
ulteram ad Manes, III , 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα
αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita.
Dicerem stullos , scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato , nisi idem
bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit . Il Röth fa derivare la
Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson , la teoria dei numeri e della
musica . Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1 , pag. 296. Ma il
grand' uomo , del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non
contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione
pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a
trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam
trovati nella civiltà , nelle scuole jeratiche , nelle consuetudini volgari
della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema
tico ordinatore è quella di un sapiente , che di tutte le parti buone che può
vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e
future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia
; ma anche generalmente alle terre greche e italiane , e congiungere la sua
idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana ; che era l
' idea scientifica . Procedimento pieno di sapienza , e che già ci an nunzia
negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza. Questa è la
con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella
quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della
prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare
la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile
magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c . V. 33. Ma
l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore , chi volesse eseguire un
disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca . E forse anco
l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse . Trovò genti calcidiche , dori che ,
achee , e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza , e nelle
terre opiche i tirreni . Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute ,
repubbliche in guerra , go verni abusati ; ma e necessità di rimedi , e ingegni
pronti , e volontà non ritrose , e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione
di alti divisamenti , quante fatiche tollerate , pensata preparazione di mezzi
, e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre
fuori tutto se stesso dalla profonda anima , e dar forma a'suoi pensieri in una
instituzione degna del rispetto dei secoli .... Mal giudicherebbe la sua grand'
opera chi guardasse alle parti , e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea
orfica primitiva , indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a
viver civile , è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed
età , e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed
estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate
ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee , ma tutte , e secondo i
gradi della loro dignità nativa : non esaurisce la sua idea filosofica
nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma
comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione :
con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più
degni , e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli
interessi nazionali , e il co stante scopo al quale debbano intendere è il
miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo
pelierunt, ut Senatum ipsorum , qui mille hominum numero constabat, consiliis
suis uti paterelur. Valerio Mas simo , VII, 15 . Non ferma le sue
instituzioni a Cro tone , a Metaponto , nella Magna Grecia e nella
Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno , e fa invito a tutti i magnanimi
, e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco ,
nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino
concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta
all'Italia , destinata ad esser la patria della civiltà universale . Non vorrei
che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che
presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea
organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva , i
cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e
processo erano già contenuti in lei , quasi in fecondo seme : tanto è profonda
, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la
costituiscono ! Cominciate , osservando , dall'educazione fisica delle indi
vidue persone ; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche . La sana e
forte disposizione di tutto il corpo non è fine , ma è mezzo, e dee preparare ,
secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali . E
la musica , onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di
vigore , è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale , e compie i suoi
effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che
ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui ; forma primitiva
dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto
alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura
segue nel l'esplicarle , e secondo i gradi della superiorità loro nell'or
dinata conformazione dell'umana persona . La quale , inte ramente abituata a
virtù ed a scienza , era una unità par ziale , che rendeva immagine dell'Unità
assoluta , come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo
niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo , che
nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza
sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente
recare a Pitagora anche questa idea , non per la sola autorità di Cicerone
(Vetat Pythagoras, ec . , De Senect. , XX ; Tuscul., 1 , 30) , ma e per le
necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo , i
provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione , siccome a Sparta , e
continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla
veneranda vecchiezza . Aristosseno ap. Stobeo , Serm . XCIX. – Dicearco , ap.
Giamblico, V. P. , XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso
Stobeo ( Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà
della vila : ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere : ai giovani
, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che
sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e
criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli,
funciulleggiare i giovani , gli uomini giovenilmente vivere , e i vecchi non
aver senno , repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di
scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza , e di utilità ; di vanità e di
bruttezza , la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del
l'educazione di tutto l'uomo , di ciò che a tutti comunemente fosse con
venevole : e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non
esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età , anzi lo
presuppone, ma in quelli soltanto , che, per nativa attitudine , potessero e
dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta
alla legge di una educazione sistematica , e conti nua ; e tutte le potenze ,
secondochè comportasse la natura di ciascuno , venjano sapientemente educate e
conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema
anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το
Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv, .... oportere hominem
quoque fieri unum (Str. , IV , 23.). Imperocchè fin dalla loro prima
istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia , a questa
bella unità , cioè perfezione dell'uomo intero , più che ad altri non sia
venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė : l'idea religiosa
è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e
che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più
alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si
dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di
educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla
società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un
legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà , al
cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo ; ma
deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli : 0 se pone nella sua
città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile
partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della
natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno
promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano , dimenticò
talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti
com'elle erano , mise in guerra le sue idee con le cose , e preparò la futura
ipocrisia di Sparta , e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi
ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere
da ogni luogo , venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed
universale . Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo
civile , o di quello almeno italo-greco , era , non può negarsi , una specie di
stato nello Stato ; ma essendo composta di elettissimi uomini , e con larghi
metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane , esercitava in
ogni terra , o avrebbe dovuto esercitare , con la presenza e con la virtù dei
suoi membri un'azione miglioratrice , e avviava a poco a poco le civiltà
parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune . Im perocchè Pitagora ,
infondendovi il fuoco divino dell'amore , onde meritossi il nome di legislatore
dell'amicizia , applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che
aveva applicato alla vita de' singoli uomini , e quell'unità, con la quale
sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali , desiderava che
fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli
attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la
ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti
storici o non saprebbe spiegarli bene ; e direbbe fallace la sapienza d'un
grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni
versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi
seguaci non avesse veduto i vincoli necessari . Ma queste due universalità ne
presuppongono sempre un'altra , nella quale sia anche il fondamentale principio
di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora , racco glitore storico
della sapienza altrui : ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria
filosofia . E diciamo , che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si
professava no , e la speculazione era libera , tutte queste dottrine do . veano
dipendere da un supremo principio , che fosse quello proprio veramente della
filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria ,
nell'aritmetica , nella musica , nell'astronomia , nella fisica , nella
psicologia, nella morale , nella politica , ec . , non si potrebbe se non a
frammenti , e per supposizioni e argomentazioni storiche ; nè ciò è richiesto
al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto
giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi
suc cessori . Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il
principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col
pensiero alla fonte dell ' or dine universale , alla Monade teocosmica , come a
suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile , non potea
non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di
Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év . De Ei apud Delphos. Che
se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice , v'la una prima unità da cui
tutte le altre pro cedono : e se questa prima e sempiterna unità è insie me l'
ente assoluto , indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio
e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente
si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo
svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e
possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per
tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema
mondiale , non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e
luogo e tempo secondo ragioni numeriche , ma che ciascuna sia anco effettual
mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo
universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e
rinnova tutte le cose ; e il libero arbitrio dell'uomo , anziché esser di
strutto , ha preparazione , e coordinazione , e convenienti fini in questo fato
armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella
materia , nelle cui con figurazioni si determina , e si divide , e si somma , e
si moltiplica , e si congiunge con quella geometrica , e misura tutte le cose
tra loro e con sè , e sè con se stessa , questa eterna ragione ci fa
comprendere , che se i principii aso matici precedono e governano tutto il
mondo corporeo , sono ancora que’ medesimi , onde gli ordini della scienza
intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella
musica , nella ginnastica , nella medi cina , nella morale , nella politica ,
in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica
universale dello scibile ; un'apparenza simbolica ai profani , e una sublime
cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati . Questo io
credo essere il sostanziale e necessario valore del principio , nel quale
Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia : nè le condizioni sincrone
della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi
nione. Questa filosofia , fino dalla sua origine , fu un ema. natismo
teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero . E perocchè questo
emanatismo è vita , indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica,
ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le
cose scritte da Aristotele (Met., 1 , 5) sulla filosofia pitagorica ,
comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico ( Pyrrh. Hyp. , III ,
18) , se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione
del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il
numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua
anteriorità a tutte le cose che esistono ( των όντων ... οι αριθμοί φύσει
πρώτοι) . Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini
principalmente facessero delle matematiche , ma ad un profondo concetto della ragione
del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa , se non fosse una , sarebbe
nulla , indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione ,
ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed
assoluta , senza la quale niuna cosa può essere , notavano che percorren dole
tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra , ma che
l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e
semplicemente è uno in sè , è mutabilmente e differentemente molti nella
natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin
coli continui del numero , che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro
ed essenza e procedimenti , si risolve da ultimo in una unità sintetica , che è
l'ordine ( xóquos) costante del mondo ; nome che dicesi primamente usato da
Pitagora . Il quale se avesse detto ( Stobeo , p. 48) , che il mondo non fu
ſatto o generato per rispetto al tempo , ma per rispetto al nostro modo di
concepire quel suo ordine , ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle
sue idee : γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione
geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro
formazione corporea , e appartiene alla fisica generale dei pitagorici . Ma la
dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele
adunque , inteso a combatterli , non valutò bene questa loro dottrina ; e i
moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto
il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali , che consuonano coi
concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna , anche
l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui , e
conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle ,
o raggi di una co mune sostanza eterea , debbono nei sociali consorzi riunirsi
coi vincoli di questa divina parentela , e fare delle civiltà un'armonia di
opere virtuose . Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico
necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita
individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una
idea filosofica , che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà , la
quale è l'ordinatrice di tutte le cose . Da quel che abbiam detto agevolmente
si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte
superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le
quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo
, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e
nelle fantasie ed intendimenti altrui . Ch'egli usasse le maravigliose ap
parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne , non ci
renderemmo difficili a dire : che amasse le grandi imposture, non lo
crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le
solennità religiose ad acquistare riputazione ; e si può facilmente credere .
Veggasi anche Plutarco , in Numa , ec . – Ma il Meiners, che recò ogni cosa
allo scopo politico della società pitagorica , molto volentieri concesse , che
a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali , gl' in
cantamenti mistici , la religione , e tutte le arti sacerdotali, senza pur so.
spettare se cid importasse una solenne impostura , o non facendone conto .
Parlando poi dell'arcano di questa società , ne restrinse a certo suo arbi .
trio la ragione , per non cangiare Pitagora in un impostore l ... II, 3. Noi
qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con
parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in
stitutrici ; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini
giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina ; e i moderni
seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente
giudichi, nelle speculazioni , anziché pro muovere la pratica delle idee
religiose surse contraria al politeismo volgare , del quale facea sentire la
stoltezza ; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice ,
dovea rispettare le religioni popolari , e disporle a opportuni miglioramenti.
Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito , e
l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine
della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo
gli facea precetto di raggiungere un fine , cioè una perfetta forma di vita ,
alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia . E questa era
la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento
continuo , un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie
universali , un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte
della vita , filosofia , religione suonavano a lui quasi una medesima cosa . I
vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole , il maestoso
silenzio delle notti stellate , il giro delle stagioni , la prodigiosa
diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della
virtù , e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito
di divinità presente , un concento dina mico, un consentimento di simpatie , un
desiderio , un do cumento , una commemorazione di vita , una religione d'amo re
. Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali ,
e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea
religiosa era cima e coro na , come già notammo, a tutto il pitagorico sistema;
e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione
razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e
pitagorico , insegna , doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro
dignità ; ovvero astenersene , quando cor rano opinioni contrarie alla loro
alta natura : έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem
hominem dicere de diis honesta . (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα
γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem
Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio
Geronimo di Rudi ( doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin.,
V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno , dove
vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno
agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato , e anche
ripeteremo , che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza
pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza , che
recava tutto all ' Unità , alla Monade teocosmica , non poteva non applicare
cotal suo principio al politeismo volgare . Imperocchè gl'intendimenti
de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi . Fugandum
omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis
praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre
luxuriam , a civitate seditionem , a fumilia discordiam dixooposúvnu) , a
cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice
Aristosseno , allegato da Porfirio ( V. P. , 22 ) , suo . navano spesso in
bocca a Pitagora ; cioè , questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed
egli , come ci attesta forse lo stesso Aristosseno , tirannie distrusse ,
riordinò repubbliche sconrolle , rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle
illegalità pose fine , le soverchianze e i prepotenti spense , e fucile e beni
gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P. , XXXII). Or chi
dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto
alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e
ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug . gitrice delle
tirannidi. Ma questa dottrina sacra , chi l'avesse così rivelata al popolo
com'ella era in se stessa , sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire
le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico . Il perchè non mi
maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo , furono
trovati libri pitagorici di questo genere , fossero creduti più presto efficaci
a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno
politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea
Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari
opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in
iscienza della natura -- ... quibus explicatis ad rationemque revocalis ,
rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1 , 42. La teologia
fisica era altra cosa da quella politica ; di che non occorre qui ragionare .
Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa , la cosa con alcuna
varietà è concordemente attestata da Cassio Emina , da Pisone , da Valerio
Anziate, da Sempronio Tuditano , da Varrone , da Tito Livio , da Valerio
Massimo , ( L. 1 , c . 1 , 4 , 12) e da Plinio il vecchio ; al quale rimando i
miei leggito ri ; XIII , 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare
l'esistenza del fatto . Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe
dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno
romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la
religione, la filosofia di Pitagora : e la necessa ria e indissolubile
connessione che indi viene a tutte que ste cose , che sostanzialmente abbiamo
considerato , è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni.
Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche
dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una
semplice società privata : e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri
varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale
di tutta quella comunità ; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose ,
mostrando , quanto fosse possibile , la proporzionata dipendenza di queste e il
proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo
volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica , e
la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o
l'opportunità del mistero. Insomma , guarda sparsamente le cose , che cosi
disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il
sistema , le avrebbe trovate più grandi , e tosto avrebbe saputo
interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come
il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione
pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio
giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo
trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo
che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo
i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale , ma dal
concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello
dell'umanità che per opra sua cominciasse , si vide posto , per la natura de'
suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto
segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin
ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica.
Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli
bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con
profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici,
essoterici ed esoterici , pitagorici e pitagorèi , son diversi nomi che
potevano non essere adoperati in principio , ma che accennano sempre a due
ordini di per sone , nei quali , per costante necessità di cause , dovesse
esser partita la Società , e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma
essenziale. Erano cause intrinseche , e sono e saranno sempre, la maggiore o
minore capacità delle menti ; alcune delle quali possono attingere le più ardue
sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime
ragioni , fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non
minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i
cuori e le volontà : e mentre durava la disciplina inferiore , che introducesse
i migliori nel santuario delle recondite dottrine , quell'autorità imperiosa
alla quale tutti obbedivano , quel silenzio , quelle pratiche religiose ,
tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per
farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà , che, se non
è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e
dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il
tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano
tutto il prezzo , e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato
l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo
pitagorico , potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi , e di tutto
il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque , che questa
dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone ,
di discipline , di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni
desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico , le
une colle altre sapientemente contemperate : e l'ar cano , che mantenevasi con
le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o
convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare , ma in
tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia,
disciplina a perfezionamento dell' uomo ; e la perfezione dell'uomo individuo ,
indirizzata a miglioramento ge nerale della vita ; vale a dire , tutte le parti
ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo . Con questa idea sintetica
parmi che molte difficoltà si vincano , e che ciascuna cosa nel suo verace lume
rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento
di uffici politici? No , per fermo ! ma era una società - modello , la quale se
intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc
cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica ,
coltivava ancora le scienze , aveva uno scopo morale e religioso, promoveva
ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga ,
quanta è la virtualità della umana natura . Or tutti questi elementi erano in
essa , come già mostrammo, ordinati sistema : erano lei medesima formatasi
organicamente a corpo mo rale . E quantunque a ciascuno si possa e si debba
attri buire un valore distinto e suo proprio , pur tutti insieme vo gliono
esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima
forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto
il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in
questa superiorità di cognizioni , di capacità , di bontà morale e politica ,
che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e
popoli, fra i quali ebbe esistenza , non sentiamo noi che le prudenti arti , e
la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità,
doveano avere una conformità opportuna , non con una parte sola de' suoi ordini
organici , ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni
richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza
riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano , a che starsi uniti
in quella loro consorteria? qual differenza fra essi , e gli altri uomini esterni?
O come avrebbero conservato quella superiorità , senza la quale mancava ogni
legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica , alla loro
consociazione ? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione
mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro
dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose
non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche
le idee volgari , quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che
fossero degni di entrarle ? Indi la necessità di estendere convenevolmente
l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita , e perd. anche alle più
alte e più pure dottrine filosofiche , e religiose. S'inganna il Ritter quando
limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa
lo credette inutile affatto , e necessarissimo alla politica , di cui egli ebbe
un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto . Nè
l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa
intorno alle opinioni religiose , ha valore . Imperocchè troppo è lon tana la
condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica . E che poteva
temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo ? da
pochi motti satirici ? da una poesia filosofica ? L'idea semplicemente proposta
all' apprensione degl ' intelletti è approvata , rigettata , internamente usata
, e ciascuno l'intende a suo grado , e presto passa dimenticata dal maggior
numero . Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee , ad
avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione
continua e miglioratrice sulla società ge nerale . Quindi , ancorchè non
potessero tornargli cagione di danno , non si sarebbe licenziato a divulgarle.
Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica ; la quale dovea
con circospetta e diligente cura custodirla : aspettare i tempi opportuni , e
prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non
voleva restarsi una pura idea ; ma divenire un fatto. L'arcano adunque , gioya
ripeterlo , dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti ,
tutto il patrimonio migliore , tutto l'interior sistema della società
pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza
della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte , che se ne volesse
far materia di severa disciplina . Non dico l'esilio assoluto della voce , come
chiamollo Apuleio , per cinque anni ; esagerazione favolosa : parlo di quel
silenzio , che secondo le varie occorrenze individuali , fruttasse abito a
saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή
σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P.
, 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica , non lo
negherò prescritto anche per altre ragioni più alte . Che se Pitagora non ebbe
gl'intendimenti de' neo - pi tagorici , forseché non volle il perfezionamento dell'uomo
interiore ? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel
raccoglimento pensieroso , quel ripetere men talmente le passate cose che ogni
giorno facevano i pita gorici , e non gli dispiacquero que' loro passeggi
solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi , che pur somigliano tanto
a vita contemplativa , come potè esser nemico di quel silenzio che fosse
ordinato a questa più intima vita del pensiero ? Quasiché Pitagora avesse
escluso la filosofia dalla sua scuola , e non vedesse gli effetti che dovessero
uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse . Ma
tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false
opinioni , le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato
stabilimento di quella vera . I ragionamenti più belli e più giusti all '
apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo , che ne scopre la
falsità nascosta . Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza , quando non
si convengono con le leggi della ragione : e la storia che non abbraccia il
pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali , ne
frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali .
Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle
idee e delle dottrine ; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di
cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico : infaticabili nello
stu dio , non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico
fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che
domandavano ordine e direzioni ; ma a cosiffatte norme si governavano anche le
altre Scuole filosofiche dell'antichi tà , e massimamente i collegi jeratici ,
fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai
grandi , e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione
suprema I primi con severe astinenze , con lu strazioni sacre , con la giurata
religione del segreto , ec. , celebravansi di primavera , quando un'aura
avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura . I secondi , d'autunno;
quando la natura , mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano
dell'esistenza , e l'arte dell'agricoltore , confidando i semi alla terra , ti
fa pensare le origini della provvidenza civile . E il sesto giorno era il più
solenne . Non più silenzio come nel precedente ; ma le festose e ri . petute
grida ad Jacco , figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa , la notte misteriosa
ed augusta , quello era il tempo della grande e seconda iniziazione , il tempo
dell'eеро ptea . Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati
felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte
dottrine , e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del
vero supremo . Abbiam toccato di queste cose , acciocchè per questo esempio
storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico , e
saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora . Quello era la
parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione
delle verità più alte , nè partecipante al sacramento della Società ; questo
valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di
guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria
spiegazione di quella parte del mito , secondo la quale Pitagora é immedesimato
coll' organamanto dell' Istituto : e determinando l'indole della sua disciplina
e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del
. l'umana eccellenza , che fu in lui simboleggiata . Che era l'ultimo scopo di
queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara
miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi principalmente
abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili
deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito , la quale
concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino
, indi non venisse lume logicamente necessario , non potrebbe in una
conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due
parti non potendo essere separabili , ciò che è spiegazione storica dell'una
debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i
cui membri potevano essere d'ogni nazione , e che fu ordinata a civiltà
cosmopolitica , ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi
che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta . Già vedemmo , la dottrina
psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con
l'ontologica ; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me
tempsicosi , chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi
periodi della vita cosmica , e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa
vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine
vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la
filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e
d'amicizia , dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni ,
quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i
seguitatori della sapienza . E forse in questi monumenti dello spirito umano
cercava testimonianze storiche , che comprovassero o des sero lume ai suoi
dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni
anteriori nel corpo di Etalide , stimato figlio di Mercurio , e nei corpi
di Euforbo , di Ermotimo e di Pirro pescatore delio , ha la sua probabile
spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito , che altri narrano con
alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso
Pitagora (Laerzio, VIII , 4) ; il che , secondo la storia positiva , è
menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata ; perchè qui
Pitagora non è l'uomo , ma l'idea , cioè la sua stessa filosofia che parla in
persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica,
nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi
della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo:
TepūTOV TË QATL , scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι , την ψυχήν , κύκλον
ανάγκης αμείβου . oav , äraore än2015 évseifar C60! 5 , VIJI. 12. primumque
hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis
immutantem , aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero
determinate bene , non si vuol credere ; ma che realmente se ne fosse cercato e
in alcun modo spie . gato il sistema , non vuol dubitarsene . E con questa
psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale
de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao , quale
vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima , fossero appunto quelle di
Pitagora : ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb'
essere criterio grande la dottrina della metempsicosi , non considerata da sè ,
ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al
primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza
avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo
tellurico , come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita
cosmica , dovea mostrarsi a coloro , che le professassero come una forza
maravigliosa che tutto avesse in sè , che tutto potesse per se medesima , ma
che molto perdesse della sua purezza, libertà , e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee , etc. Queste idee son tanto connesse , che ricusare
questa inevitabile connessione loro per fon . dare la storia sopra autorità
difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità
soverchia. Finalmente , a meglio intendere l'esistenza di queste adunate
dottrine, giovi il considerare , che se nell'uomo sono i germinativi della
civiltà , essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e
passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti
opportuni . Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia
dell'incivilimento , i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi : e
molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste
corporazioni jeratiche ; o quelli che separavansi dal centro nativo , non ne
perde vano al tutto le memorie tradizionali . Questo deposito poi si accresceva
con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario , e pei
lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri . La gloria privata di
ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune
mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di
tutto se stesso , esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri,
e mostrando in esso la sua dignità . Anco per queste cagioni nella So. cietà
pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla
sua istituzione , cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie : e fino
all'età di Filolao , quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non
iniziati , tutto fu recato sempre al fondatore di essa , e nel nome di Pitagora
conservato , aumentato , e legittimamente comunicato. Essendomi
allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi
sono aderito neppure facendo questa , che è molto probabile congettura ,
fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero
i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh
, e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, VIII , 15 , confermato da
Giamblico, V. P. , XXXI , 199, da Porfirio , da Plutarco, e da altri , il domma
pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao , μέχρι δε
Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine
storico , che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle
posteriori intorno alle cose pitagoriche , e a farne sapientemente uso. - Nė da
cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in
tutto questo corso di tempi , o che tutti coloro che la professavano si
dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza
delle dottrine , i principali intendimenti , il principio fondamentale
certamente doveano conservarsi : le altre parti erano lasciate al giudizio e
all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo , che il deposito delle
dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria
di questi uomini pi tagorici , indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli
col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle
simboliche . Le quali se da una parte erano richieste dalla politica;
dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così
abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti
questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro
non è certamente, nè poteva es sere , una intera storia di Pitagora , ma uno
stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di
essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e
anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero , quando la critica
avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato , e
dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità
storica fino a ' giorni nostri ; or dine di lavori da potersi considerare da
sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo
segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le
ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora
anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo
studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie
condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò
dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di
Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di
quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo
argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare
davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno , nė
mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma
leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile
risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò
il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel
mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè
il Del Mare seppe farla con più felice successo , quantunque volesse mostrare
in gegno a investigar le dottrine . In tutti questi lavori è da considerarsi un
processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica , e con essa
dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi
in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la
maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col
Micali , scrittore di una storia generale dell'Italia antica , le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners , ma con servilità o con poca originalità
di ricerche . Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo , e che , se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose . Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica : combatte il classico
pregiudizio di quelle greche : non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia , non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi , o con quanta preparazione di studj , ma certo con
divisamento generoso , e con dimo strazione di napoletani spiriti . Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico , che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio
Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza
, che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare ; ma quelle che dissi bastavano
all'occorrenza. Fra le anteriori al termine , dal quale ho incominciato
questa menzione , noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e
quelli di Giov. Battista Ricciardi , già professore di filosofia morale nella
Università pisana nel secolo decimosettimo , le cui lezioni latinamente scritte
si conservano in questa biblioteca . Fra tutti quelli da me menzionati il
Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle
dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi
Introd . allo studio della Relig. lib. II , SS 1 e seg.). Nell'Italia
adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono
storie generali , nè speciali , nè dotte monografie: ma per la maestà superstite
del mondo antico , per la conservatrice virtù della religione , per la mirabile
diversità degl' ingegni , per la spezzatura degli stati , per le rivoluzioni e
il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della
filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora , non ha avuto costante
procedimento, nè intero carattere nazionale , nè pienezza di liberi lavori. Ma
non per questo abbiamo dormito : e fra i viventi coltivatori di queste
discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella
cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV , pag . 147 e
seg. Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico
fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia , nè io voleva
sterilmente ripetere le cose scritte da altri , nè poteva esporre in pochi
tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non
pei soli sa pienti , ma per ogni qualità di leggitori , i quali non hanno tutti
il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi , e troppo spesso , quanto
meno lo posseggono , tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi.
Pensai di scriver cosa , che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni
sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere ; che fosse una
presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o
doversi fare tra noi . E peroc chè tutti , che mi avevano preceduto nella
nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io
cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo , e poste alcune fondamenta
salde , di qui mossi a rifare la storia . Per quanto io naturalmente rifugga
dalla distruzione di nessuna , e però degnamente ami la creazione delle nuove
cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito
e conservare Pitagora - uomo alla storia , riman sempre alcun dubbio , via via
rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche.
Ma laddove non è dato vedere , senz'ombra nè lacune, la verità , ivi la moderazione
è sapienza necessa ria , e la probabilità dee potere stare in luogo della
certezza . Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione . È
desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri
le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi
nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai
pelasgici , e che faccia un lavoro pieno, quanto possa , intorno a questo argo
mento . Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie :
forse nei primordi di Roma , anche pelasgica , quegli elementi sono più
numerosi e meno in frequenti , che altri non creda : forse alla storia di
Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre
reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta
dall'egregio Conte Balbo ; quella cioè della consan . guinità semitica dei
pelasgbi . Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i
Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica . Il corso trionfale dell '
Ercole greco , che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da
Creta , e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas . sando in Italia ; corso narrato
da Diodoro Siculo (B.6l . Hist. , IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni
conservate da Timeo , e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca , è
da restituirsi all'Ercole Tiri , come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren (
De la politique, e du commerce, etc. II , sect . I , ch . 2) . E il luogo
sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che
per tutto abbatte i tiranni , volge al meglio le istituzioni e le condizioni
del suolo , e insegna le arti della vita ; simbolo della civiltà che seconda
alle navigazioni, ai commerci , alle colonie , alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito , poi divenuto romano , intorno a Caco , e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra , e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri . E non poche voci semitiche
tuttavia restano nella lingua del Lazio , e a radice semitica potrebbersi
recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a
Pitagora , non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi
viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha
gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva ; e quanti
elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può
argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto
imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere , che la
filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta
alle speculazioni sole , ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla
natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non
sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi
sapienti : furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono
il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea , di qualunque
natura ella siasi , tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un
fatto ; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di
tutte le esterne cose , che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente
ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o
professata nei recessi sacerdotali , non basta più ai bisogni del secolo , e il
secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed
accresci mento , allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i
loro studi , e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le
cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di
tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i
cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono
ed imperversano , da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle
cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo
amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente
profonda , l' immensità luni nosa , la libertà , la pace del mondo ideale: e là
egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici ; e a riformare
il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda
l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù
dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della
filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto
speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita , onde
questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si
scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una
semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel
passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel
principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto
bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni ,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a
ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei
incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà,
potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia
bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma
quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico
individualmente piccoli , i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta
grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e
fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi
stromenti che ora possiede , nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che
vuol dire che umanità verace e grande non vi era , o non sapeva di essere , e
bisognava formarla . Il perchè una società , che introducesse fratellanza fra
greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci
fra genti lontane , grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di
discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel
cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una
disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed
italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma
misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre
nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e
corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo A superare tutti questi
limiti bisognava , lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di
tutti i paesi, e consociarli a consorterie , che avessero la loro esistenza
propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita
seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e
con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro
i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi
uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità
per impeto necessario , doveano passare molti secoli , e molte arti essere
variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più
concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione , a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi . L'indole e
gli spiriti aristocratici , che per le condi zioni di quella età dove assumere
e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune : quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa , intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue , il vantaggio pubblico ,
gli effetti della buona educazione , la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi . E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono ; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali , e da
altri ; ond'io , non potendo qui entrare in discussioni critiche , mi rimango
dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op . portuna sopra un luogo
che leggesi in Diogene Laerzio , e che fin qui passo trascurato perchè mancava
il criterio a fare uso storicamente del mito : αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι
, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous ; ipse quoque
(Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines
ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda ? lo
non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso , e miticamente , cið le più
volte è argomento , non dell'uomo, ma dell'idea . Or chi cercasse in queste
parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza , che poneva
nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita ,
che poi ne uscissero in luce , in luminis auras , qui troverebbe indicato il
nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole . Ma
ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo , quella espressione tę didew
, ex inferis, non vale una provenienza , che , recata ad effetto una volta ,
indi sia asso . lutamente consumata ; ma una provenienza , che si continua
finchè duri la presenza della mitica persona , di che si parla , fra gli
uomini. Onde , finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente , lo è in
forma acco. modata alle sue condizioni aidiche , cioè recondite e misteriose :
ex inferis o più conformemente al greco , è tenebris inferorum adest. Le quali
condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria , che la
discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es
senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi , come in quello di Pita
gora , che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe
netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero , ovvero , come nel
caso nostro , quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella
sensibilità del simbolo , dal quale si offre poi anche ai profani in forma
proporzionata alla loro capacità , o passa invisibile fra loro come Minerva,
che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto
possa esser presente , è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia
simbolica , ég aidéw. Adunque , se queste nostre dichiarazioni non fossero
senza alcun fondamento nel vero , noi avremmo ricuperato alla storia un
documento cronologico , da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti
alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè , secondo questa testimonianza
mitica , dalla fondazione di esso alla età di Filolao , e degli altri che
pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia , correrebbe lo spazio
poco più di due secoli . E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato
presente agli uomini dall' inferno , d'infra le ombre di Ai de; cioè la
sapienza da lui , e nel suo nome insegnata , avrebbe sempre parlato , come
realmente fece, con un arcano linguaggio . – A rimover poi altre
difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general
coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta
dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet . tuale , chi
ne facesse riferimento ai molti , talvolta è fatto istorico che vuolsi
attribuire ai pochi , cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della
scienza della natura esterna ; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero.Altre
cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali
dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e
scadimento. Nè solo per vizio intrinseco ; ma ancora perchè la società corrotta
cor rompe poi coloro che voleano migliorarla , e depravati gli disprezza o
rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina , professavano
solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo
volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano
per le vie nelle feste Sabazie , gridando come uomini inspirati , e danzando:
chi divoto fosse purificavano : inse gnavano ogni spirituale rimedio , e
preparavano a felicità sicura . E intanto seducevano le mogli altrui , e con
pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici ; testimoni sto rici , Euripide,
Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai , nè potevano , i
pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso
trasmutossi in cinismo squallido , la religione in supersti zione , la virtù in
apparenze vane ; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali
corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi , e all'
impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non
veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni
ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De
pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II , ec. – Poi vennero le
contraffazioni affettate ; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie , e
Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo
il cangiamento primo nell' abito , e nel culto esterno del corpo. Timaeus . . .
. scriptum reliquit .... Diodoro ...diversum introducente or natum ,
Pythagoricisque rebus adhaerere simulante .. Sosicrales .... magnam barbam
habuisse Diodorum narrat , palliumque gestasse , et tulisse comam , alque
studium ipsorum Pythagoricorum , qui eum antecesserunt , for ma quadam
revocasse, qui vestibus splendidis , lavacris , unguentis , lonsura que solita
utebantur. Ateneo, Dipnos. IV , 19 , ove si posson leggere anche i motti de'
comici — Diog. , Laert. , VIII , 20. Al capo di questa nobile
istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di
seguaci indegni , o per infelicità di tempi . Fu illustre il pitagorismo per
eccellenza di virtù rare , per altezza e copia di dottrine , per moltiplicità
di beni operati all'umana ge nerazione , per grandezza di sventure , per lunga
e varia esistenza . Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella
Magna Grecia , già sparsamente stava , come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia ,
e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica . Intimamente
unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse
per tutti i procedimenti della loro sapienza : fu ispiratore e maestro di
Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco :
e se stava nelle prime istituzioni di Roma , poi ritornovvi coi trionfi del
popolo conquistatore , e nella romana consociazione delle genti quasi lo
trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo
fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi , come
da fonte inesausta , quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile
orgoglio della nostra vita . Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono
nella moderna Europa , tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che
ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana , poco più
altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie . Le
basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine , perchè in Roma
si conchiuse tutto l'antico ; e il pitagorismo , che noi con tutta la classica
sapienza ridonammo ai moderni , lo troviamo congiunto con tutte le più belle
glorie della nostra scienza comune , e quasi preludere , vaticinando ,
alle dottrine di Copernico, di Galileo , di Keplero, del Leibnitz e del Newton
. Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi . glio di Niccolò
Puccini , il quale , tra le pitture , le statue ed altri ornamenti , che della
sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero ,
volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia
italica . Chè dove i nomi di Dante , di Michelan giolo , del Macchiavelli , di
Galileo , del Vico , del Ferruccio , di Napoleone concordano con diversa nota
nel concento delle nazionali glorie , e insegnano riverenza e grandezza alle
menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe
mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima
di chi vi ri. sguardi . E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda
istituzione comprese il passato e l'avvenire , la ci viltà e la scienza ,
l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò
principalmente, come la più degna di tutti i paesi , l ' Italia ; qui l'Italia
comparisce creatrice e maestra di arti , di dottrine , di popoli ; e dopo avere
dall'incivilimento antico tratto il moderno , con Napoleone Bonaparte grida a
tutte le na zioni , grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande
svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà
con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al
risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole
espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e
della virtù , mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero
pitagorico , e i nostri : mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita
dalle fondamenta , e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a
privilegiare l'infeconda inerzia , ma sorgente da natura ed estimata secondo i
meriti dell'attività perso nale : e accenna alla forma nuova degli ordini
pubblici , destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca
e armoniosa esplicazione di umanità . — Quando l'ora vespertina vien serena e
silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni , e tu movi
verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago . L'architettura è
dorica antica , come domandava la ragione delle cose : le esterne parti ,
superiore e inferiore , sono coperte : quella che guarda a mezzogiorno ,
distrutta : e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre , e varie e
frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi
delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell '
eternità consumati , i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la
storia ; e in quella ruina , in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto
i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali , e che della
spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e
vastità deserta . Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice
dei corsi e de' naufragi umani , e conserva anco in brevi indizi lunghe
memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio , leggerai in due
sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica : Αληθευειν και ευεργετείν
: dir sempre il vero , e operar ciò che è bene . Hai mente che in questo
silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci ? Congiungi questo docu
mento con gli altri , che altamente suonano dalle statue , dalle pitture ,
dalle scuole , da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa ,
sacra ai fasti e alle speranze della patria , e renditi degno di avverarle e di
accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo
tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede
del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone che tosto vi opera
un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa pubblica. I giovani
crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e vinti dall'autorità
del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza delle ragioni discorse.
Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza.
Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde: a Sibari, a Taranto,
a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa,
e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine liberale e giusto.
Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria di Carneade!)
vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda , e il re Numa escono legislatori dalla sua
scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l'obbediscono.
I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il
servo Zamolcsi , la coscia d'oro, il telo d' Abari, il mistico viaggio
all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come
un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell'invidia e malvagità umane, e
chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si formò
questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo ma per varie
cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo Pitagorismo, o, per dir
meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera
di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno
intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura
si move ad escogitarne l'essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario
e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l ' arcano della
società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra' suoi
seguaci diedero occasioni e larga materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai
fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl'interessi politici accrebbero la
selva di queste varie finzioni. Quando sursero gli storici era già tardi, e il
maraviglioso piacque sempre alle anime umane , e specialmente alle italiane; e
non senza gran difficoltà potevasi oggimai separare il vero dal falso con
pienezza di critica. Poi vennero le imposture dei libri apocrifi, il
sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se
il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento
scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla
posterità che fosse curiosa d'investigarla. Non dirò delle arti usate da altri
per trarla in luce, nè delle cautele per non cadere in errore. Basti aver
mostrato la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento
mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. Diciamo ora
dell'Instituto. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello
di vita . Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non
impediva l'azione , e la moralità conduceva alla scienza; e ragione ed
autorità erano cosi bene contemperate negli ordini della disciplina, che avesse
a derivarne il più felice effetto agli ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in
una idea religiosa, principio organico di vita comune, e cima di perfezione a
quella famiglia filosofica. Condizione prima ad entrarvi era l' ottima o buona
disposizione dell'animo; e Pitagora, come nota Gellio, era uno scorto
fisonomista (ipuoloyuwuóvel) (Noctes Atticae, 1, 9) osservando la
conformazione ed espressione del volto, e da ogni esterna dimostrazione
argomentando l'indole dell'uomo interiore. Ai quali argomenti aggiungeva le
fedeli informazioni che avesse avuto: se'i giovinetti presto imparassero, verso
quali cose avessero propensione, se modesti, se veementi, se ambiziosi, se
liberali ec. E ricevuti, cominciavano le loro prove; vero noviziato in questo
collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisognava imparare a vincere con
magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente
dalle fatiche anco non dure, freddo ai sacrifici generosi , chiuso alle morali
dolcezze, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il voluttuoso è un egoista
codardo, un ignobile schiavo di sè. Esercizi laboriosi con fortassero il corpo
e lo spirito: breve il riposo: semplice il vitto; o laute mense imbandite ma
non godute, a meglio esercitar l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero
dalle future trasgressioni le anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è
quello che procede dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te,
sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande
cavillose, questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni
giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il
disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i
ingiusto , a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le
squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti
vani. Questo accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril.
phil. Par, II , lib. II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato,
accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è
alimentato dal privato possesso delle cose esteriori immoderatamente
desiderate. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole
espansione del l'umana socievolezza , vincevasi con la comunione dei beni
ordinata a felicità più certa dell'instituto. Quei che apparteneva ad un
pitagorico era a disposizione de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il
resto , esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio
fondamentale dell'Instituto pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità
dell'idea; cosa molto notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis
sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc.
(Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto "ideóv te undėv
fysiofai", "proprium nihil arbitrandum", riferito da Laerzio
(VIII, 21) consuona al principio ideale della scuola: e tutti co noscono il
detto attribuito a Pitagora da Timeo: fra gli amici dover esser comuni le cose,
"κοινά τα των φίλων". Anche le domande cavillose, le vesti squallide,
i corporali gastighi abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre
punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia.
E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti
centrali, donde si diramano le molteplici correlazioni tra l'ordine morale e
l'intellettuale, erano stati con profondo senno determinati e valutati, sicchè
l'educazione e formazione di tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con
leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa
fondamental disciplina era l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola,
s'ignorano da non pochi le arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè spesso
la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che presumono
di essere uomini, ed uomini che si lasciano dominare a
fanciulli. Nell'Italia pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la
presunzione non occupava il luogo della scienza, e la solidità della cognizione
radicavasi nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le
vie del sapere ha nozioni sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne
abbia compreso l'ordine necessario ed intero: e le nozioni imparate non
bastano, chi non v'aggiunga l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e
sapientissime testimonie della verità infinita . Poi non tutte le verità
possono essere intese pienamente da tutti e possono dover essere praticate.
Onde l'autorità di coloro che le insegnano o che presiedono alla loro debita
esecuzione. Gli alunni, non per anche iniziati al gran mistero della sapienza,
ricevevano le dottrine dalla voce del maestro senza discuterle. I precetti
erano giusti, semplici, brevi; la forma del linguaggio, simbolica; e la ragione
assoluta di tutti questi documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e
insegnato ("dutòs ipa", "ipse dixit". Di questo famoso
ipse dixit credo di aver determinato il vero valore. Alcuni , secondo chè
scrive Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone,
Quintiliano , Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai
discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave
disorbitanza: "tantum opinio praejudicata poterat , ut eliam sine ralione
valeret auctoritas!" (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida , l'avrebbe
detto Pitagora stesso, riferendolo a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse
ricevuto i suoi dommi -- "ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" -- come,
secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di
*sapiente*, perché la sapienza vera, che è quella assoluta, a Dio solo
appartiene. Il Meiners erra incerto fra varie congetture, accostandosi anche
alla verità, ma senza distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e
dai buoni effetti ne argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza
il frutto che potesse venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea
conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du
, tre o cinque anni era proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità
del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la
baldanza delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa
nell'esterno discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si
ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo
proprio col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto
ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado
questa difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del
senno pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine
stabilito? E allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini
discepoli, o familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi
impotenti a continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi
i loro beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei
candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini
morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners.
All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon
governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà
nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma
i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e
seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero
né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa cortina, i
discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro, potevano
francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni termine
convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche
apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo
intelligibile. Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari
attributi dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle
cose cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica
otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto
e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza
uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel
genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio , che meglio fosse inclinato: i
più alti intelletti alle teorie scientifiche ; gli altri, a governar le città e
a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo
quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc .;
intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e
quanto ai gradi dell' in segnamento , notisi una certa confusione d'idee neoplatoniche
con gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici. Vedi Porfirio,
V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII , etc.). Vivevasi a social vita , e
la casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp axóïov). Prima che
sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco medesimo discorrere
nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse nel giorno o ne'
due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo
ordine con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi dal sorgente
astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano e salutavano
la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual
musica li disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica , e fosse
eccitamento all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella mente le
cose da fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi nei
templi. I maestri insegnavano , gli alunni imparavano, tutti pigliavano
argomenti a divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al
corso , alla lotta , ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con
pane, miele ed acqua si ristoravano : e preso il parco e salubre cibo, davano
opera ai civili negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul
mattino, ma a due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando
insieme delle cose im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva
l'ora del comun pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con
libazioni e sacrificii lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di
scelte carni di animali: e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e
con lezioni op portune. E prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e
l'anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti,
ricomponevano con gli accordi musicali alla beata unità della sua vita
interiore. Il più anziano rammentava agli altri i generali precetti e le regole
ferme dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio, rendutosi all'intimo senso
dell'acqui stata perfezione, riandava col pensiero le ore vivute, e nella
certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si
addormentava. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche
storia. Quanto all'Uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente
Alessandrino: και την Εκκλησίαν , την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.
xos ? ov diVÍTTETA!: et eam , quae nunc vocatur ecclesia, significat id quod
apud ipsum (Pythagoram) est 'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli
ordini , questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che
via via formossi alla storia. Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed
abituate ad operare nobili effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a
quella dello spirito: e lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e
nella feconda disposizione delle sue potenze , concordavasi di atti e di
letizia col mondo , e trovava in Dio il principio eterno d'ogni armonia e con
tentezza. Così il pitagorico era modello a coloro che lo ri guardassero: il
quale anche con la sua veste di lino bianco mostravasi diviso dalla volgare
schiera e singolare dagli altri. La breve narrazione delle cose che fin qui fu
fatta, era necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole
maravigliosa , e quindi una sua propria nota ed an che sotto un certo aspetto
una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio , onde la
verità possa essere separata dalle favole quanto lo comportino l'antichità e la
qualità degli oggetti , che son materia a questo nostro ragionamento. E prima
si consideri che il mito , popolarmente nato , o scientificamente composto ,
quantunque assurdo o strano possa parere in alcune sue parti , pur dee avere
una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima
cosa vi è sempre la quale dia origine alle varie opi. nioni che altri ne abbia
; e quando le tradizioni rimango no , hanno un fondamento nel vero primitivo
dal quale derivano , o nella costituzione morale e nella civiltà del popolo a
cui quel vero storicamente appartenga. Che se nella molta diversità delle loro
apparenze mostrino certi punti fissi e costanti a che riducasi quella varia
moltiplicità loro , questo è il termine ove il mito probabilmente riscon trasi
con la storia . Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora ,
vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee
principali : 1a in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione
degli uomini per singolarissima partecipazione alla virtù divina; 2a in quella
di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi
universale nel nome di que st'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla
società pitagorica , ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la
durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalle quali conclusioni
ultimamente risulta, Pitagora essere o poter essere stato un personaggio vero,
ed essere cer tissimamente un'idea storica e scientifica. L'Italia poi
senz'ombra pure di dubbio, è il paese dove quest' idea pitagorica doventa una
magnifica instituzione, ha incremento e fortune, si congiunge con la civiltà e
vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre
conclusioni risultando dalla general sostanza del mito , e riducendone la
diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembrano essere il necessario
effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi
sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un
ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora sia insieme un
personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato
senno , che , non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne concilia e ne misura il
contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che
Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte
le cose favoleggiate intorno alla patria , alla nascita, ai viaggi , alla
sapienza , alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e
assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un uomo, è un rinunziare
anticipatamente quello che potrebbe esser vero per' rispetto all'idea. Lo che
venne fatto a molti . D'altra parte se la esclusione della persona vera fosse
assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e alla ricupera della storia
, sarebbe timidezza soverchia il non farlo , o ritrosia irrazionale : potendosi
conservare Pi tagora alla storia, e separar questa dalle favole , pecche rebbe
di scetticismo vano chi non sapesse contenersi den tro questi termini
razionali. Vediamo ora se a queste nostre deduzioni logiche aggiungessero forza
istorica le au torità positive di autori rispettabili, e primamente parliamo
della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge le
orgie e le instituzioni pitagoriche , con quelle orfiche, dionisiache , egizie
e con le getiche di Zamolcsi , attribuisce implicitamente al fi gliuolo di
Mnesarco una erudizione che si stende alle cose greche ed alle
barbariche (Erodoto, II , 81 .; IV , 95. — Isocrate reca a Pitagora la
prima intro duzione nella Grecia della filosofia degli Egiziani : φιλοσοφίας (
εκείνων ) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge ( in Busir. , 11 ) . E Cicerone
lo fa viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella Persia. De Finibus, V. 29). Ed
Eraclito , allegato da Laer zio , parla di lui come di uomo diligentissimo più
che altri mai a cercare storicamente le umane cognizioni e a farne tesoro e
scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina (Laerzio , VIII , 5. --
la cui allegazione delle parole di Eraclito è con fermata da Clemente
Alessandrino (Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (xaxoteXvinv) la
molteplice erudizione di Pitagora ; perché , a suo parere , tutte le verità
sono nella mente , la quale dee saper trovare la scienza dentro di sè , e
bastare a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla
concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e op portuna testimonianza a
quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e
maestro d'una filosofia che quasi possa dirsi cosmopolitica. Vir erat
inter eos quidam praestantia doctus Plurima , mentis opes amplas sub pectore
servans, Cunctaque vestigans sapientum docta reperta . Nam quotiens animi vires
intenderat omnes Perspexit facile is cunctarum singula rerum Usque decem vel
viginti ad mortalia secla . Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora,
XV e presso Porfirio , id. , 30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione
non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo ; il quale scrisse che Pitagora fu con
questo nome appellato perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo
Pitio. Diog. Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo , non
per accettare la convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con
quello scientifico dell'uomo , ma per mostrare che prima degli Alessandrini il
nome di Pitagora era anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di
una più che umana virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla
divinità fonda vasi l'opinione intorno alla di lui stupenda
eccellenza. Aristotele , allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma
Aristippo, testimoniando che i Crotoniati lo appellavano Apollo iperboreo.
Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri scrittori meno
antichi, i quali peraltro ripetevano una tradizione primitiva , o molto
antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchinano i moderni critici , ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era que sto : tre essere le forme o specie
della vita razionale, Dio, ľ uomo e Pitagora. Giamblico nella Vita di
Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in
libris De pythagorica disciplina (èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod
huiusmodi divisio αυiris illis inter praecipua urcana ( èv toiS TAVT
atroppñtois) servata sit: animalium rationalium aliud est Deus , aliud homo,
aliud quale Pythagoras . L'originale non dice animalium, ma animantis, Súov ;
che è notabile differenza: perchè , laddove le tre vite razionali nella
traduzione latina sono obiettiva mente divise , nel greco sono distinte e
insieme recate ad un comune prin cipio . Il Ritter , seguitando altra via da
quella da me tenuta , non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste
parole , né la ragione del l'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A
ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco , il quale in un luogo
conservatoci da Porfirio (Vit. Pit. , 19) ci lasciò scritto , che fra le cose
pitagoriche conosciute da tutti ("γνώριμα παρά πάσιν") era anche
questa : και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv, vale a dire ,
che tutte le nature animate debbonsi repu tare omogenee. Ma la cosa arcana di
che parla Aristotele, è principalmente Pitagora; la natura media tra quella
puramente umana e quella divina: idea demonica, probabilmente congiunta con
dottrine orientali, e fondamento organico dell'instituto. Poi, l'uno parla di
esseri semplicemente animati: l'altro dell'ordine delle vite razionali; che è
cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza poteva essere divulgatissima ,
come quella che risguardava oggetti sensati ; e la seconda appartenere alla
dottrina segre. ta , per ciò che risguardava agli oggetti intellettuali . Non
ch'ella non po tesse esser nota nella forma, in che la leggiamo in Giamblico;
ma coloro che non sapevano che si fosse veramente Pitagora, non penetravano ap
pieno nel concetto riposto dei Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse
velo alle idee , e con qual proporzione quelle esoteriche fossero tenute
occulte, e comunicate quelle essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle
altre. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico
testimonio che le ombre dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla
filosofica dottrina. Di ciò si ricordi il lettore alla pagina 402 e
seg. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta
per tre condizioni di vita , e Pitagora essere il segno di quella che media tra
la condizione puramente divina e l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e
l'altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura
possa esser capace. Ora la filosofia anche nelle orgie pitagoriche era una
dottrina ed un'arte di purgazione e di perfezionamento, sicchè l'uo mo
ritrovasse dentro di sé il dio primitivo e l'avverasse nella forma del vivere.
E in Pitagora chiarissimamente sco priamo l'idea di questa divina perfezione,
assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica , e
coordinata col magistero che nel di lui nome vi fosse esercitato. Onde
ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con
quella dell'instituto, e possiamo far distinzione da quello a questo,
conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo
, e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e
dėssi attribuire a un principio . Quindi non più ci sembrano strane , anzi
rivelano il loro chiuso valore , e mirabilmente confermano il nostro
ragionamento quelle sentenze e simboli de' Pitagorici : l'uomo esser bi pede ,
uccello , ed una terza cosa , cioè Pitagora. Pitagora esser simile ai Numi, e
l'uomo per eccellenza, o quell'istes so che dice la verità : ei suoi detti
esser voci di Dio che da tutte parti risuonano : e lui aver fatto tradizione
alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della
natura sempiterna. Parlare di questa Tetratti misteriosa sarebbe troppo
lungo discorso. Alcuni videro in essa il tetragramma biblico , il nome sacro ed
essenziale di Dio ; altri , a grado loro , altre cose . Ecco i due versi
ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico ( Vita di Pit.. XXVIII
, XXIX) e da Porfirio ( id ., 20) ai quali riguardavamo toccando della Tetratti
, e che sono la formola del giuramento pitagorico : Ου μα τον αμετέρα ψυχά
παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum, qui
animae nostrae tradidit Tetractym , Fontem perennis naturae radicemque habentem
. (Porph . , V. P. , 20) Il Moshemio sull'autorità di Giamblico ( in Theol.
Arith . ) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle , e
lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell'anima. Poco
felicemente ! ( Ad Cudw. Syst . intell., cap. IV , $ 20, p . 581. ) Noi
dovevamo governarci con al. tre norme -- E altre sentenze di questo
genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora - uomo , ma a
Pitagora , idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue
instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto
posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell'idea
primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito , e rifare
quanto meglio si possa la storia parmi che sia tro vato e determinato. Pitagora
, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato , è sempre uomo ed idea : un
pe lasgo - tirreno , che dotato di un animo e di un ingegno al tissimi , acceso
nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini , capace di
straordinarj divisamenti , e co stante nell ' eseguirli viaggia per le greche e
per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi , fa cendo
raccolta di dottrine , apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera ; e
il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo , che le
acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio
suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce
una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti ; e il tipo della
razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione
della sua scuola . Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una
inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera
risplende, a guisa di corona , questo lume ideale , si rimane nell'uno e
nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo
Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza
di lui , non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza
or dinatrice del suo instituto : ma insieme quello che fosse per rispetto alle
origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica ,
o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni
con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le
dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la
filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due
idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri
metodi , non si muove mai da . un concetto pienamente sintetico , il quale
abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare ; non si ha un criterio , che
ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e
considerazioni . Si va per ipotesi più o meno arbitrarie , più o meno fondate,
ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito , non cosi tosto nasce o è
fabbricato e famigerato , che ha carattere e natura sua propria, alla quale in
alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse
vi si discordino , pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose.
Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare , come gia notammo,
per alcuni rispetti con la natura delle cose vere , o talvolta essendo la forma
simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano
sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra
diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il
mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso , che dalle sue origini fino
alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale;
fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e
dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo
processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite
ai loro diversi autori , non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro.
Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti
leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro
io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi
assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non
appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento
suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto
, l'idea divina , im personata in Pitagora, era organica in quella società. E
di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia
necessariamente in molte parti si riscontrano , e in diversa forma attestano
una verità identica : e qui è il criterio giusto ai ragionamenti , che sull'uno
e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta , e il
principio organico della sua istituzione , e tutta la sua dot trina siano
ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati , è cosa naturalissima a
intervenire , e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo
facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si
proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero
con giuramento l'orsa daunia , né indusse il bove tarentino , di che parlano
Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio,
n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini , a non più devastare
le campagne : ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole
della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi
i suoi miracoli , tutte le cose apparentemente incre dibili , che furono di lui
raccontate, all'idea , e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e
renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto,
che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi , nume e
legislatore dei Geti , ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il
vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi,
prima è servo di Pitagora : poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa
tria , e vede i costumi rozzi , il mal governo, la vita informe de'Geti in
balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde , valendosi della sua erudi dà
opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una
scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi
accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS
ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune.
Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al
disprezzo dei piaceri , alla tolleranza delle fatiche , alla costanza della
virtù , Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε
κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col
miracolo , ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente
apparisce , è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le
sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di
Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε
έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al
divino uomo pelasgo - tirreno ; ma la tradizione ellenica facea derivate le
istituzioni getiche dalle pitagoriche : e a noi qui basti vedere questa ragione
e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza
di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti , e generalmente
della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti , incominciava
dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del
corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima ; conformemente alla
terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il
Meiners ragionando degl'incantamenti mistici , e della medicina pitagorica ; e
ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore
della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio,
VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini
antichissime , ma anche qual si fosse la sua forma primitiva : e con criterio
sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol
recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare
uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica
, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo
nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo
fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a
distruggere con senno volgare il mito , ma con legittimo criterio, a ' spie.
garlo , discorriamo rapidamente la storia , secondo la parti . zione che ne
abbiamo fatto . Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora
comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia
l'esercizio della ra gione filosofica , e un più chiaro lume indi sorge a ri
schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo , città già
occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse
la Grecia e in Egitto viaggiasse : questo è ciò che i moderni critici più
severi reputano similissimo al vero , e che noi ancora , senza qui muover
dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri
viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso ; i quali per lo meno accennano a
somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie
, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste
corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate
sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere
contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione
della sua vecchia scuola ; cosi Caronda , Zaleuco, Numa ed altri poterono in
alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi
storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in
computi cronologici . Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di
Polibio , di Cicerone , di Varrone , di Dionigi di Alicarnasso ,diTito Livio fu
già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora
sotto il regno di Assarhaddon , contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca
d' Eusebio, ed. ven. , I , pag. 53; Niebuhr , Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel)
Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro
ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse
argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui
non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche
il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee
pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro
generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole
di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII,
3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità:
e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima .
mente introdusse fra i Greci e pesi e misure ( μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal)
, congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle
Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni
il sistema dei pesi e delle misure , e quello della confinazione agra ria , e
trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi
Giamblico , V. P. , VII , XXX ; Porfirio , id . , 21 , dov'è allegato
Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi
riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e
limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane.
Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse
Pitagora? Creta non solamente è dorica , ma antichissimo e ve nerando esempio
di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci : e Creta, come fu
osservato dall' Heeren , è il primo anello alla catena delle colonie fenicie
che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta
eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti
all ' incivilimento . In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha
libertà sua propria , tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società
federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della
lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv . fédér,
et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che
facesse Li curgo dubita assai il Grote , History, ec., tomo II , p . 530 e
segg. -- del comune , i possedimenti : le mense, pubbliche: punita
l'avarizia , e forse l'ingratitudine; -- Seneca , De benef., III, 6 ;
excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma
vedasi Tacito, XIII ; Valerio Massimo, I , 7 ; Plutarco nella Vita di Solone
-- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico : e tutte le
leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos , de. gnato alla
familiarità di Giove , vede questa eterna ragione dell ' ordine , e pone in
essa il fondamento a tutta la civiltà cretese , come i familiari di Pitagora
intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e
della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX , 179. Aiós meráhou
bapuotis. Plat. in Min . ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta : dorica
anch' ella , an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione
vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio
sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città
: tutta la vita , una disciplina ; la quale prende forma tra la musica e
la ginnastica : e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono .
Pre domina l'aristocrazia , ma fondata anche sul valor personale e sui
meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore : le nature de' giovanetti,
studiate: proporzionati i premi e i gastighi , e in certi tempi pubblico il
sindacato ; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più
ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero , e son
comuni i banchetti : e la donna (cosa notabilissima) , non casereccia schiava ,
ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane . A chi
attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi ? Ad Apollo Pitio . Come appunto
Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo , era figliuolo
di questo medesimo Apollo . Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche.
Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta
ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici : onde in
queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale
civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica . Che diremo delle
instituzioni jeratiche ? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia
sarebbe importantissi mo lavoro , ma non richiesto al nostro bisogno .
Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche
volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella
comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri , il teologo per
eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni .
Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache
e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine
e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea
, fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra,
simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di
passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea ; finalmente , dopo molte
lotte, la concordia loro : ed altre cose che possono leggersi nella sua
Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una
comune dottrina jera tica , che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e
dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della
materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia
potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi
due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste
nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della
parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse
potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando
questo, certa cosa è nella storia , e Platone ce lo attesta , che gli antichi
Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano
: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col
miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà
abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza,
a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione
trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora , nel Carmide, nel
Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto
un cenno alla metem psicosi . Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (
Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum ,
sed orationis illustran . dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph ., p.
339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli
ascoltanti alberi , i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i
mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse , la sapienza sacerdotale cedeva il
luogo a quella filosofica , e i legislatori divini ai legisla tori umani.
Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia , eccitata da quella luce
intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade , recavasi a
riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della
sua storia . Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore
che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non
potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù , e non disporle
opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad
Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli
almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e
poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un
impulso all'ordinamento della scuola pita gorica . Veniamo ora all' Italia ;
alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di
tutte le altre ; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per
dottrine , per arti , per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli
studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca .
Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi
della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo : ed Aristo
tele , che testimonia questi fatti , ci fa sapere che alcune di quelle leggi e
quelle sissitie italiche , anteriori a tutte le altre , duravano tuttavia nel
suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti
pitagorici. Polit. , V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata ; ma
se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche , forse avrebbe potuto avvi .
sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli
erranti Enotri all'agricoltura , e con le stabili dimore e coi civili consorzi
comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla
Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra
tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio
dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile , le somiglianze tra
questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto
appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P., XXX. Valerio
Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas ... venerati post mortem
domum, Cereris sacrarium fecit : quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis
me moria , et homo in deae religione cultus fuit . VIII , 16. Chi poi col
Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie
illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica
-- Mazzocchi , Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses.
Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo
storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa
terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a
prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1.
Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile
ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della
storia. E volli accennare ( Plut. , in Num .) anche a Pico ed a Fauno, perchè
questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno ; mito principalissimo
della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa
placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica
Accipimus. Faino, Picus pater ; isque parentem Te, Saturne , refert; tu
sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in
queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per
mezzo d'Ippolito , disciplinato , secondo chè ce lo rappresenta Euripide , alla
vita orfica . At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae
Egeriae nemorique relegat ; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum
Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII , 774 seq.) Ippolito,
morto e risuscitato , e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto
a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma
Virgilio , giudicando romanamente il mito , lo altera dalla sua purità nativa.
Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere
ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella
medicina e nelle arti magiche , operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei ,
il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone , la congettura del Niebuhr
essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia , il mito che fa Pitagora
figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste
cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca
era un sistema arcano di teologia politica , di cui gli occhi del popolo non
vedessero se non le apparenze , e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so
stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica
stavansi connesse con la morale e con la politica . Imperocchè gli ordini della
città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè
nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità
primitiva , dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e
il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto
sino alla formazione dell'uomo , e la vita umana per altri seimila anni si
sarebbe continuata . Dodici erano gl'Id dii consenti , e dodici i popoli
dell'Etruria . Pei quali con giungimenti della terra col cielo , la civiltà
divenne una religione ; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e
governare il vulgo ignorante , e la matematica una scienza principalissima e un
linguaggio simbolico . Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine
tagetiche e le pitagori che , l'etrusco Lucio , introdotto a parlare da
Plutarco ne' suoi Simposiaci , diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente
noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C. , VIII , 7,18. 11
Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica . Antichità
Ilal., vol . III , pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina
etrusca e la filosofia pitagorica , e credė es servi state comunicazioni fra la
Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi
dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici , scoprirebbe analogie più
inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al
nesso storico fra le cose etrusche e le romane , e comprendendo nel mio
concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri , più di me
amico delle congetture , potrebbe , se non recare il nome dell'augurato, e
quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici
semitiche, e suonerebbe : la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa
raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo
XXX dei Proverbi. La tradizione , che recava a pitagorismo le instituzioni
di Numa , sembra essere cosi confermata dalle cose , ch'io debbo temperarmi dal
noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti , il
tempio rotondo di Vesta , ia sapienza arcana , le leggi , i precetti , i libri
sepolti , i pro verbi stessi del popolo . Onde niun'altra idea è tanto cit
tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num.
Aggiungete la Dea Tacita , e la dignità fastosa di Numa ; il Flamine Diale , a
cui è vietato cibarsi di fave ; il vino proibito alle donne , ec. ec.: pensate
agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana , ec. ec.
Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e
quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il
monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere
tutto il sistema primitivo della romana civiltà , dalle cose divine ed umane
comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo , come alla donna, dalla vita sobria e
frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela ,
dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale , dalla suprema
indipendenza del ponti ficato , simbolo della idea divina che a tutte le altre
sovra sta , dagli ordini conducenti a comune concordia , dalla re ligione del
Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale , da un concetto di generalità politica
che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni , ec.
potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo
nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella
stessa lingua del Lazio , e ne argomenta nazionalità necessaria . E il
Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico , e
congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco
sacro, ove fosse spento , col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole
, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di
Numa , e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose
volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del
Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal
Mazzoldi ( il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse
, ec . Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male , è piena di
congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie
, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse ;
ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè , senza più oltre
distenderci in questi cenni istorici , concluderemo , che nelle terre greche e
nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione
della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più
esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni ,
e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze ;
indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque
Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della
sua società ? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria , per la
cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero , e
divenissero altra cosa in quella sua instituzione ? Certamente coi preliminari
fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza
cosmopolitica di Pitagora . E se ci siam contenuti entro i termini delle terre
elleniche e italiche , abbiamo sem pre presupposto anco le possibili
derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni , o le
sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe
dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro
analogia con le pitagoriche è chiarissima : e questo è il valore istorico del
mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie . Vedi Cesare, De Bell . Gall. , VI
, 5 ; Diodoro Siculo , VIII , 29; Valerio Massimo, II , 10 ; Ammiano
Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi : Hi terrae, mundique
magnitudinem et formam , molus coeli et siderum , ac quid Dii velint , scire
profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in
specu , aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt , in vulgus
effluit , videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque
ulteram ad Manes, III , 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα
αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita.
Dicerem stullos , scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato , nisi idem
bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit . Il Röth fa derivare la
Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson , la teoria dei numeri e della
musica . Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1 , pag. 296. Ma il
grand' uomo , del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi
a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica
mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne
vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati
nella civiltà , nelle scuole jeratiche , nelle consuetudini volgari della
Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico
ordinatore è quella di un sapiente , che di tutte le parti buone che può vedere
nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e
future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia
; ma anche generalmente alle terre greche e italiane , e congiungere la sua
idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana ; che era l '
idea scientifica . Procedimento pieno di sapienza , e che già ci an nunzia
negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza. Questa è la
con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella
quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della
prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare
la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile
magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c . V. 33. Ma l'opportunità
del luogo non poteva esser maggiore , chi volesse eseguire un disegno preparato
a migliorare la umanità italo-greca . E forse anco l'appartenere a schiatta
tirrena lo mosse . Trovò genti calcidiche , dori che , achee , e i nativi misti
coi greci o fieri della loro indi pendenza , e nelle terre opiche i tirreni .
Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute , repubbliche in guerra , go verni
abusati ; ma e necessità di rimedi , e ingegni pronti , e volontà non ritrose ,
e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti , quante
fatiche tollerate , pensata preparazione di mezzi , e lunga moderazione di
desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla
profonda anima , e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del
rispetto dei secoli .... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse
alle parti , e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva ,
indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile , è qui
divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età , e conveniente
alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora
chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune
facoltà spiritali e corporee , ma tutte , e secondo i gradi della loro dignità
nativa : non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e
nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed
apre una larghissima via all'umana speculazione : con giunge l'azione con la
scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni , e dai confini del
collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali , e il
co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco
Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum , qui mille hominum
numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo , VII, 15
. Non ferma le sue instituzioni a Cro tone , a Metaponto , nella
Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno , e fa
invito a tutti i magnanimi , e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli
effetti nel continente greco , nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e
vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea
cosmopolitica bene era dovuta all'Italia , destinata ad esser la patria della
civiltà universale . Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti
fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono
necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere
una esplicazione progressiva , i cui tempi sarebbero iinpossibili a
determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei ,
quasi in fecondo seme : tanto è profonda , e necessaria, e continua la
connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate ,
osservando , dall'educazione fisica delle indi vidue persone ; dalle
prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche . La sana e forte disposizione di
tutto il corpo non è fine , ma è mezzo, e dee preparare , secondare e servire
all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali . E la musica , onde
tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore , è anche un
metodo d'igiene intel lettuale e morale , e compie i suoi effetti nell'anima
per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi
nell'uomo come nella donna individui ; forma primitiva dell'umanità tutta
quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili
potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel
l'esplicarle , e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata
conformazione dell'umana persona . La quale , inte ramente abituata a virtù ed
a scienza , era una unità par ziale , che rendeva immagine dell'Unità assoluta
, come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente
recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo , che nel
cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua
gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente
recare a Pitagora anche questa idea , non per la sola autorità di Cicerone
(Vetat Pythagoras, ec . , De Senect. , XX ; Tuscul., 1 , 30) , ma e per le
necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo , i
provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione , siccome a Sparta , e
continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla
veneranda vecchiezza . Aristosseno ap. Stobeo , Serm . XCIX. – Dicearco , ap.
Giamblico, V. P. , XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso
Stobeo ( Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà
della vila : ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere : ai giovani
, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che
sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e
criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli,
funciulleggiare i giovani , gli uomini giovenilmente vivere , e i vecchi non
aver senno , repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di
scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza , e di utilità ; di vanità e di
bruttezza , la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del
l'educazione di tutto l'uomo , di ciò che a tutti comunemente fosse con
venevole : e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non
esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età , anzi lo
presuppone, ma in quelli soltanto , che, per nativa attitudine , potessero e
dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta
alla legge di una educazione sistematica , e conti nua ; e tutte le potenze ,
secondochè comportasse la natura di ciascuno , venjano sapientemente educate e
conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema
anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το
Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv, .... oportere hominem
quoque fieri unum (Str. , IV , 23.). Imperocchè fin dalla loro prima
istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia , a questa
bella unità , cioè perfezione dell'uomo intero , più che ad altri non sia
venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė : l'idea religiosa
è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e
che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più
alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si
dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di
educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla
società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un
legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà , al
cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo ; ma
deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli : 0 se pone nella sua
città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile
partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della
natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno
promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano , dimenticò
talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti
com'elle erano , mise in guerra le sue idee con le cose , e preparò la futura
ipocrisia di Sparta , e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi
ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo
scegliere da ogni luogo , venia facendo una società potenzialmente cosmo
politica ed universale . Questa società sparsa e da stendersi per tutte le
parti del mondo civile , o di quello almeno italo-greco , era , non può negarsi
, una specie di stato nello Stato ; ma essendo composta di elettissimi uomini ,
e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane ,
esercitava in ogni terra , o avrebbe dovuto esercitare , con la presenza e con
la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice , e avviava a poco a poco le
civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune . Im perocchè
Pitagora , infondendovi il fuoco divino dell'amore , onde meritossi il nome di
legislatore dell'amicizia , applicava alla vita del corpo sociale il principio
stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini , e quell'unità, con la
quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali , desiderava
che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli
attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la
ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti
storici o non saprebbe spiegarli bene ; e direbbe fallace la sapienza d'un
grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni
versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi
seguaci non avesse veduto i vincoli necessari . Ma queste due universalità ne
presuppongono sempre un'altra , nella quale sia anche il fondamentale principio
di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora , racco glitore storico
della sapienza altrui : ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria
filosofia . E diciamo , che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si
professava no , e la speculazione era libera , tutte queste dottrine do . veano
dipendere da un supremo principio , che fosse quello proprio veramente della
filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria ,
nell'aritmetica , nella musica , nell'astronomia , nella fisica , nella
psicologia, nella morale , nella politica , ec . , non si potrebbe se non a
frammenti , e per supposizioni e argomentazioni storiche ; nè ciò è richiesto
al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto
giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi
suc cessori . Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il
principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col
pensiero alla fonte dell ' or dine universale , alla Monade teocosmica , come a
suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile , non potea
non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di
Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év . De Ei apud
Delphos. Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice , v'la
una prima unità da cui tutte le altre pro cedono : e se questa prima e
sempiterna unità è insie me l' ente assoluto , indi conseguita che il numero e
il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili
combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e
costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme
ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade
esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e
insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale , non solamente fa si che le cose
abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche , ma
che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà
individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una
necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose ; e il libero
arbitrio dell'uomo , anziché esser di strutto , ha preparazione , e
coordinazione , e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma
la ragione del numero dovendo scorrere nella materia , nelle cui con
figurazioni si determina , e si divide , e si somma , e si moltiplica , e si
congiunge con quella geometrica , e misura tutte le cose tra loro e con sè , e
sè con se stessa , questa eterna ragione ci fa comprendere , che se i principii
aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo , sono ancora que’
medesimi , onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli
della natura. Però il numero vale nella musica , nella ginnastica , nella medi
cina , nella morale , nella politica , in tutta quanta la scienza: e
l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile ;
un'apparenza simbolica ai profani , e una sublime cosmologia e la dottrina
sostanziale per eccellenza agl' iniziati . Questo io credo essere il
sostanziale e necessario valore del principio , nel quale Pitagora fece
fondamento a tutta la sua filosofia : nè le condizioni sincrone della generale
sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa
filosofia , fino dalla sua origine , fu un ema. natismo teocosmico che si
deduce secondo le leggi eterne del numero . E perocchè questo emanatismo è vita
, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente
profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da
Aristotele (Met., 1 , 5) sulla filosofia pitagorica , comparandole anche con
quelle scritte da Sesto Empirico ( Pyrrh. Hyp. , III , 18) , se mai potessero
essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin
cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a
principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le
cose che esistono ( των όντων ... οι αριθμοί φύσει πρώτοι) . Lo che non para si
vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle
matematiche , ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè
considerando che ogni cosa , se non fosse una , sarebbe nulla , indi
concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione , ontologi camente avverandola.
E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta , senza la quale
niuna cosa può essere , notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe
mai una perfettamente identica a un'altra , ma che l'unità non si aliena mai da
se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè , è
mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità
delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero , che si
deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti , si
risolve da ultimo in una unità sintetica , che è l'ordine ( xóquos) costante
del mondo ; nome che dicesi primamente usato da Pitagora . Il quale se avesse
detto ( Stobeo , p. 48) , che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al
tempo , ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine , ci
avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee : γεννητον κατ'
επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose
dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea , e
appartiene alla fisica generale dei pitagorici . Ma la dottrina che qui abbiam
dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque , inteso a
combatterli , non valutò bene questa loro dottrina ; e i moderni seguaci di
Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico
è un sistema di atti intellettuali , che consuonano coi concenti co smici
procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna , anche l'uomo dee esercitare
tutte le potenze del numero contenuto in lui , e conformarsi all'ordine
dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle , o raggi di una co mune
sostanza eterea , debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa
divina parentela , e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose . Però
come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so
cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato
hanno il regolatore principio in una idea filosofica , che ordina tutte le
scienze alla ragione dell'Uni tà , la quale è l'ordinatrice di tutte le cose .
Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la
dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli
furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro
nelle qualità straordinarie dell'Uomo , ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e
linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui . Ch'egli
usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua
istituzio ne , non ci renderemmo difficili a dire : che amasse le grandi
imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli
facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione ; e si può
facilmente credere . Veggasi anche Plutarco , in Numa , ec . – Ma il Meiners,
che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica , molto
volentieri concesse , che a questo fine fossero adoperate le cognizioni
mediche, le musicali , gl' in cantamenti mistici , la religione , e tutte le
arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne
impostura , o non facendone conto . Parlando poi dell'arcano di questa società
, ne restrinse a certo suo arbi . trio la ragione , per non cangiare Pitagora
in un impostore l ... II, 3. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica
di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti
necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici ; dall'altra detrarre non poco
dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica,
contenta, questa loro dottrina ; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono
l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni ,
anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al
politeismo volgare , del quale facea sentire la stoltezza ; ma la pitagorica,
che era anche una società perfeziona trice , dovea rispettare le religioni
popolari , e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore
corroborava e perfezionava quella dello spirito , e l'af fetto concordandosi
coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme
un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di
raggiungere un fine , cioè una perfetta forma di vita , alla quale non potesse
venire se non per mezzo della filosofia . E questa era la vera e profonda
religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo , un sacra mento
di conformarsi al principio eterno delle armonie universali , un'esecuzione
dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita , filosofia ,
religione suonavano a lui quasi una medesima cosa . I vivi e i languidi raggi
del nascente e dell'occidente sole , il maestoso silenzio delle notti stellate
, il giro delle stagioni , la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi
immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù , e il culto della sapienza,
tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente , un concento
dina mico, un consentimento di simpatie , un desiderio , un do cumento , una
commemorazione di vita , una religione d'amo re . Il quale con benevolo affetto
risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali , e volea rispettato in loro il
padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na ,
come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire
al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione
segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico , insegna , doversi
parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità ; ovvero astenersene ,
quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura : έστι δ ' ανδρί φάμεν
εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta .
(Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν'
ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare.
Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi ( doctum
hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva
anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno , dove vedesse puniti
Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog.
Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato , e anche ripeteremo , che fra le
idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una
necessaria con nessione; e questa sapienza , che recava tutto all ' Unità ,
alla Monade teocosmica , non poteva non applicare cotal suo principio al
politeismo volgare . Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di
educatori e di riformatori magnanimi . Fugandum omni conatu, et igni atque
ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum,
ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam , a civitate seditionem , a
fumilia discordiam dixooposúvnu) , a cunclis denique rebus excessum láustpiav):
Queste parole forti, dice Aristosseno , allegato da Porfirio ( V. P. , 22 ) ,
suo . navano spesso in bocca a Pitagora ; cioè , questo era il grande scopo
della sua istituzione. Ed egli , come ci attesta forse lo stesso Aristosseno ,
tirannie distrusse , riordinò repubbliche sconrolle , rivend.cò in libertà
popoli schiavi, alle illegalità pose fine , le soverchianze e i prepotenti
spense , e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti
(Giamb., V. P. , XXXII). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non
dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore
congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della
gente dorica, distrug . gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra
, chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa , sarebbe
sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e
dell'ordine pubblico . Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba
di Numa, o in altro luogo , furono trovati libri pitagorici di questo genere ,
fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che
ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del
fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia,
di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo
la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura -- ... quibus explicatis
ad rationemque revocalis , rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat.
Deor., 1 , 42. La teologia fisica era altra cosa da quella politica ; di che
non occorre qui ragionare . Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di
Numa , la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina ,
da Pisone , da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano , da Varrone , da Tito
Livio , da Valerio Massimo , ( L. 1 , c . 1 , 4 , 12) e da Plinio il vecchio ;
al quale rimando i miei leggito ri ; XIII , 13. Sicché difficilmente potrebbesi
impugnare l'esistenza del fatto . Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi
potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno
romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la
religione, la filosofia di Pitagora : e la necessa ria e indissolubile
connessione che indi viene a tutte que ste cose , che sostanzialmente abbiamo
considerato , è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni.
Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche
dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una
semplice società privata : e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri
varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale
di tutta quella comunità ; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose ,
mostrando , quanto fosse possibile , la proporzionata dipendenza di queste e il
proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo
volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica , e
la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o
l'opportunità del mistero. Insomma , guarda sparsamente le cose , che cosi
disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il
sistema , le avrebbe trovate più grandi , e tosto avrebbe saputo
interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come
il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione
pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio
giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo
trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo
che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo
i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale , ma dal
concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello
dell'umanità che per opra sua cominciasse , si vide posto , per la natura de'
suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto
segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin
ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica.
Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli
bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con
profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici,
essoterici ed esoterici , pitagorici e pitagorèi , son diversi nomi che
potevano non essere adoperati in principio , ma che accennano sempre a due
ordini di per sone , nei quali , per costante necessità di cause , dovesse
esser partita la Società , e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma
essenziale. Erano cause intrinseche , e sono e saranno sempre, la maggiore o
minore capacità delle menti ; alcune delle quali possono attingere le più ardue
sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime
ragioni , fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non
minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i
cuori e le volontà : e mentre durava la disciplina inferiore , che introducesse
i migliori nel santuario delle recondite dottrine , quell'autorità imperiosa
alla quale tutti obbedivano , quel silenzio , quelle pratiche religiose ,
tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per
farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà , che, se non
è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e
dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il
tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano
tutto il prezzo , e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato
l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo
pitagorico , potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi , e di tutto
il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque , che questa
dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone ,
di discipline , di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni
desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico , le
une colle altre sapientemente contemperate : e l'ar cano , che mantenevasi con
le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o
convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare , ma in
tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia,
disciplina a perfezionamento dell' uomo ; e la perfezione dell'uomo individuo ,
indirizzata a miglioramento ge nerale della vita ; vale a dire , tutte le parti
ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo . Con questa idea
sintetica parmi che molte difficoltà si vincano , e che ciascuna cosa nel suo
verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero
adempimento di uffici politici? No , per fermo ! ma era una società - modello ,
la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e
aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa
pubblica , coltivava ancora le scienze , aveva uno scopo morale e religioso,
promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto
larga , quanta è la virtualità della umana natura . Or tutti questi elementi
erano in essa , come già mostrammo, ordinati sistema : erano lei medesima
formatasi organicamente a corpo mo rale . E quantunque a ciascuno si possa e si
debba attri buire un valore distinto e suo proprio , pur tutti insieme vo
gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la
massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e
che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva
appunto in questa superiorità di cognizioni , di capacità , di bontà morale e
politica , che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle
città e popoli, fra i quali ebbe esistenza , non sentiamo noi che le prudenti
arti , e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e
prosperità, doveano avere una conformità opportuna , non con una parte sola de'
suoi ordini organici , ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le
operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici
avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano , a
che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi , e gli
altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità , senza la
quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica ,
alla loro consociazione ? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro
religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le
loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee
religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a
purificare anche le idee volgari , quando aprivano le porte della loro scuola a
tutti che fossero degni di entrarle ? Indi la necessità di estendere
convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita , e perd.
anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche , e religiose. S'inganna il
Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners
che a questa lo credette inutile affatto , e necessarissimo alla politica , di
cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi
dell'Istituto . Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà
allora concessa intorno alle opinioni religiose , ha valore . Imperocchè troppo
è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica
. E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria
di un uomo ? da pochi motti satirici ? da una poesia filosofica ? L'idea
semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata ,
rigettata , internamente usata , e ciascuno l'intende a suo grado , e presto
passa dimenticata dal maggior numero . Ma Pitagora aveva ordinato una società
ad effettuare le idee , ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone
eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale .
Quindi , ancorchè non potessero tornargli cagione di danno , non si sarebbe
licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia
filosofica ; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla :
aspettare i tempi opportuni , e prepararli: parteciparla ed usarla con
discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea ; ma
divenire un fatto. L'arcano adunque , gioya ripeterlo , dovea coprire delle sue
ombre tutti i più vitali procedimenti , tutto il patrimonio migliore , tutto
l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche,
accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio
era cosi forte , che se ne volesse far materia di severa disciplina . Non dico
l'esilio assoluto della voce , come chiamollo Apuleio , per cinque anni ;
esagerazione favolosa : parlo di quel silenzio , che secondo le varie
occorrenze individuali , fruttasse abito a saper mantenere il segreto.
-- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et
accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P. , 19. E dopo
averlo conceduto a questa necessità poli tica , non lo negherò prescritto anche
per altre ragioni più alte . Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo -
pi tagorici , forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore ? E se
al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento
pensieroso , quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano
i pita gorici , e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri
boschi e in vicinanza de'templi , che pur somigliano tanto a vita contemplativa
, come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più
intima vita del pensiero ? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla
sua scuola , e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito
conversare delle profonde anime con seco stesse . Ma tutta la sua regola è un
solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni , le quali ho
voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella
vera . I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono
alla prova di un fatto solo , che ne scopre la falsità nascosta . Ma tutte le
autorità del mondo non hanno forza , quando non si convengono con le leggi
della ragione : e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non
sa spiegarli con le loro necessità razionali , ne frantende il valore e stringe
vane ombre credendo di fondarsi in verità reali . Noi italiani dobbiamo
formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine
; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano
alcune volte di senno pratico : infaticabili nello stu dio , non sempre buoni
giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un
profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano
ordine e direzioni ; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole
filosofiche dell'antichi tà , e massimamente i collegi jeratici , fra i quali
ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi , e i
grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I
primi con severe astinenze , con lu strazioni sacre , con la giurata religione
del segreto , ec. , celebravansi di primavera , quando un'aura avvivatrice ri
circola per tutti i germi della natura . I secondi , d'autunno; quando la
natura , mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano
dell'esistenza , e l'arte dell'agricoltore , confidando i semi alla terra , ti
fa pensare le origini della provvidenza civile . E il sesto giorno era il più
solenne . Non più silenzio come nel precedente ; ma le festose e ri . petute grida
ad Jacco , figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa , la notte
misteriosa ed augusta , quello era il tempo della grande e seconda iniziazione
, il tempo dell'eеро ptea . Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano
appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle
riposte dottrine , e veramente compartita la felicità che proviene dall'
intelletto del vero supremo . Abbiam toccato di queste cose , acciocchè per
questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit
pitagorico , e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora .
Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata
alla visione delle verità più alte , nè partecipante al sacramento della Società
; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della
scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la
necessaria spiegazione di quella parte del mito , secondo la quale Pitagora é
immedesimato coll' organamanto dell' Istituto : e determinando l'indole della
sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura
dell'idea demonica del . l'umana eccellenza , che fu in lui simboleggiata . Che
era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora
quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi
principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre
le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito
, la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di
quell'uomo divino , indi non venisse lume logicamente necessario , non potrebbe
in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste
due parti non potendo essere separabili , ciò che è spiegazione storica
dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una
Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione , e che fu ordinata a
civiltà cosmopolitica , ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti
i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta . Già vedemmo , la
dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza
con l'ontologica ; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me
tempsicosi , chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi
periodi della vita cosmica , e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa
vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine
vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la
filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e
d'amicizia , dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni ,
quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i
seguitatori della sapienza . E forse in questi monumenti dello spirito umano
cercava testimonianze storiche , che comprovassero o des sero lume ai suoi
dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni
anteriori nel corpo di Etalide , stimato figlio di Mercurio , e nei corpi
di Euforbo , di Ermotimo e di Pirro pescatore delio , ha la sua probabile
spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito , che altri narrano con
alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso
Pitagora (Laerzio, VIII , 4) ; il che , secondo la storia positiva , è
menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata ; perchè qui
Pitagora non è l'uomo , ma l'idea , cioè la sua stessa filosofia che parla in persona
di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella
dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della
migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË
QATL , scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι , την ψυχήν , κύκλον ανάγκης
αμείβου . oav , äraore än2015 évseifar C60! 5 , VIJI. 12. primumque hunc (parla
di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem , aliis
alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene , non si
vuol credere ; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie . gato
il sistema , non vuol dubitarsene . E con questa psicologia ontologica dovea
essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non
vorro qui dimostrare che le idee di Filolao , quale vedeva nel corpo umano il
sepolcro dell'anima , fossero appunto quelle di Pitagora : ma a storicamente
giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la
dottrina della metempsicosi , non considerata da sè , ma nell'ordine di tutte
le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima
secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non
potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico , come quella che
perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica , dovea mostrarsi a
coloro , che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in
sè , che tutto potesse per se medesima , ma che molto perdesse della sua
purezza, libertà , e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee , etc.
Queste idee son tanto connesse , che ricusare questa inevitabile connessione
loro per fon . dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate,
parmi essere semplicità soverchia. Finalmente , a meglio intendere
l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare , che se nell'uomo
sono i germinativi della civiltà , essi domandano circo. stanze propizie a
fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri
o trapiantamenti opportuni . Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella
storia dell'incivilimento , i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi
organi : e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra
queste corporazioni jeratiche ; o quelli che separavansi dal centro nativo ,
non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali . Questo deposito poi si
accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario
, e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri . La gloria privata
di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune
mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di
tutto se stesso , esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri,
e mostrando in esso la sua dignità . Anco per queste cagioni nella So. cietà
pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla
sua istituzione , cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie : e fino
all'età di Filolao , quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non
iniziati , tutto fu recato sempre al fondatore di essa , e nel nome di Pitagora
conservato , aumentato , e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato
dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono
aderito neppure facendo questa , che è molto probabile congettura , fondata
nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi
a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh , e dal
Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, VIII , 15 , confermato da Giamblico,
V. P. , XXXI , 199, da Porfirio , da Plutarco, e da altri , il domma pitagorico
si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao , μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι
γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico , che ci sia
avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle
cose pitagoriche , e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la
filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di
tempi , o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente
trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine , i
principali intendimenti , il principio fondamentale certamente doveano
conservarsi : le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero
degl'ingegni. Ma qui osserveremo , che il deposito delle dottrine e di tutte le
cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi
tagorici , indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso
raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche . Le
quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire
a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a
valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e
società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es
sere , una intera storia di Pitagora , ma uno stradamento, una preparazione
critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella
narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni
moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero , quando la critica avea già molte
falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato , e dopo il quale
con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a '
giorni nostri ; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era
il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente
una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con
piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia
valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio
dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della
cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e
mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi
temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello
protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo
argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare
davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno , nė
mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma
leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile
risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò
il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel
mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè
il Del Mare seppe farla con più felice successo , quantunque volesse mostrare
in gegno a investigar le dottrine . In tutti questi lavori è da considerarsi un
processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica , e con essa
dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi
in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la
maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col
Micali , scrittore di una storia generale dell'Italia antica , le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners , ma con servilità o con poca originalità
di ricerche . Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo , e che , se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose . Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica : combatte il classico
pregiudizio di quelle greche : non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia , non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi , o con quanta preparazione di studj , ma certo con
divisamento generoso , e con dimo strazione di napoletani spiriti . Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico , che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio
Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza
, che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare ; ma quelle che dissi bastavano
all'occorrenza. Fra le anteriori al termine , dal quale ho incominciato
questa menzione , noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e
quelli di Giov. Battista Ricciardi , già professore di filosofia morale nella
Università pisana nel secolo decimosettimo , le cui lezioni latinamente scritte
si conservano in questa biblioteca . Fra tutti quelli da me menzionati il
Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle
dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi
Introd . allo studio della Relig. lib. II , SS 1 e seg.). Nell'Italia
adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono
storie generali , nè speciali , nè dotte monografie: ma per la maestà
superstite del mondo antico , per la conservatrice virtù della religione , per
la mirabile diversità degl' ingegni , per la spezzatura degli stati , per le
rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia
della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora , non ha avuto
costante procedimento, nè intero carattere nazionale , nè pienezza di liberi
lavori. Ma non per questo abbiamo dormito : e fra i viventi coltivatori di
queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella
cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV , pag . 147 e
seg. Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico
fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia , nè io voleva
sterilmente ripetere le cose scritte da altri , nè poteva esporre in pochi
tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non
pei soli sa pienti , ma per ogni qualità di leggitori , i quali non hanno tutti
il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi , e troppo spesso , quanto
meno lo posseggono , tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi.
Pensai di scriver cosa , che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni
sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere ; che fosse una
presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o
doversi fare tra noi . E peroc chè tutti , che mi avevano preceduto nella
nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io
cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo , e poste alcune fondamenta
salde , di qui mossi a rifare la storia . Per quanto io naturalmente rifugga
dalla distruzione di nessuna , e però degnamente ami la creazione delle nuove
cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito
e conservare Pitagora - uomo alla storia , riman sempre alcun dubbio , via via
rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma
laddove non è dato vedere , senz'ombra nè lacune, la verità , ivi la
moderazione è sapienza necessa ria , e la probabilità dee potere stare in luogo
della certezza . Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione . È
desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri
le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi
nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai
pelasgici , e che faccia un lavoro pieno, quanto possa , intorno a questo argo
mento . Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie :
forse nei primordi di Roma , anche pelasgica , quegli elementi sono più
numerosi e meno in frequenti , che altri non creda : forse alla storia di
Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre
reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta
dall'egregio Conte Balbo ; quella cioè della consan . guinità semitica dei
pelasgbi . Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i
Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica . Il corso trionfale dell '
Ercole greco , che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da
Creta , e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas . sando in Italia ; corso narrato
da Diodoro Siculo (B.6l . Hist. , IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni
conservate da Timeo , e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca , è
da restituirsi all'Ercole Tiri , come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren (
De la politique, e du commerce, etc. II , sect . I , ch . 2) . E il luogo
sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che
per tutto abbatte i tiranni , volge al meglio le istituzioni e le condizioni
del suolo , e insegna le arti della vita ; simbolo della civiltà che seconda
alle navigazioni, ai commerci , alle colonie , alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito , poi divenuto romano , intorno a Caco , e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra , e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri . E non poche voci
semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio , e a radice semitica
potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani.
Quanto a Pitagora , non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto
de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso
rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà
primitiva ; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra
civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni
quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi
pretermettere , che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre
italiane, che non si contenta alle speculazioni sole , ma quasi inspi rata dal
clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti
alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle
civiltà furono anch'essi sapienti : furono sapienti i fondatori delle ari
stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento
d'impero. L'idea , di qualunque natura ella siasi , tende sempre per impeto suo
proprio a estrin secarsi in un fatto ; la quale non solo è figlia divina della
Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose , che la fanno nascere, e
alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella
costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali , non basta più
ai bisogni del secolo , e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che
debbano darle gagliardo moto ed accresci mento , allora questi nuovi pensatori
la fanno unico scopo a tutti i loro studi , e cosi compiono il grande ufficio a
che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e
l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più
indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti
rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano , da questi
ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda
convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del
bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda , l' immensità luni
nosa , la libertà , la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria,
là eseguisce i suoi civili uffici ; e a riformare il mondo, dal quale sembra
aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il
bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare
gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per
rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle
condizioni generali della vita , onde questa scuola non fu rivolta
all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio
s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col
presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali
tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità
storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se
poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo
italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni , nei quali tutto è
pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione
dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col
far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo
del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai
ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai
essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità
in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che
ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e
sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che
meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno,
non dico individualmente piccoli , i quali anzi parteciper ranno in comune a
tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di
essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi
giosi stromenti che ora possiede , nè la coscienza delle sue forze consociate:
lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era , o non sapeva di
essere , e bisognava formarla . Il perchè una società , che introducesse
fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta
microscopici, commerci fra genti lontane , grandezza fra idee limitate e
passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità
insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima
ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze
greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di
educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re
golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a
mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo A superare
tutti questi limiti bisognava , lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai
migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie , che avessero la loro
esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi
Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno
pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat.
tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei
più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a
cattolicità per impeto necessario , doveano passare molti secoli , e molte arti
essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a
più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione , a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi . L'indole e
gli spiriti aristocratici , che per le condi zioni di quella età dove assumere
e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune : quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa , intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue , il vantaggio pubblico ,
gli effetti della buona educazione , la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi . E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono ; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali , e da
altri ; ond'io , non potendo qui entrare in discussioni critiche , mi rimango
dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op . portuna sopra un luogo
che leggesi in Diogene Laerzio , e che fin qui passo trascurato perchè mancava
il criterio a fare uso storicamente del mito : αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι
, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous ; ipse quoque
(Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines
ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda ? lo
non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso , e miticamente , cið le più
volte è argomento , non dell'uomo, ma dell'idea . Or chi cercasse in queste
parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza , che poneva
nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita ,
che poi ne uscissero in luce , in luminis auras , qui troverebbe indicato il
nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole . Ma
ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo , quella espressione tę didew
, ex inferis, non vale una provenienza , che , recata ad effetto una volta ,
indi sia asso . lutamente consumata ; ma una provenienza , che si continua
finchè duri la presenza della mitica persona , di che si parla , fra gli
uomini. Onde , finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente , lo è in
forma acco. modata alle sue condizioni aidiche , cioè recondite e misteriose :
ex inferis o più conformemente al greco , è tenebris inferorum adest. Le quali
condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria , che la
discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es
senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi , come in quello di Pita
gora , che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe
netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero , ovvero , come nel
caso nostro , quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella
sensibilità del simbolo , dal quale si offre poi anche ai profani in forma
proporzionata alla loro capacità , o passa invisibile fra loro come Minerva,
che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto
possa esser presente , è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia
simbolica , ég aidéw. Adunque , se queste nostre dichiarazioni non fossero
senza alcun fondamento nel vero , noi avremmo ricuperato alla storia un
documento cronologico , da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti
alla durata dell'Instituto pitagorico. Imperocchè , secondo questa
testimonianza mitica , dalla fondazione di esso alla età di Filolao , e degli
altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia , correrebbe
lo spazio poco più di due secoli . E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe
stato presente agli uomini dall' inferno , d'infra le ombre di Ai de; cioè la
sapienza da lui , e nel suo nome insegnata , avrebbe sempre parlato , come
realmente fece, con un arcano linguaggio . – A rimover poi altre
difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general
coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta
dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet . tuale , chi
ne facesse riferimento ai molti , talvolta è fatto istorico che vuolsi
attribuire ai pochi , cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della
scienza della natura esterna ; ma dell'uso filosofico dell'umano
pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte
le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a
degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco ; ma ancora perchè la
società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla , e depravati gli
disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina ,
professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo
il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano
corre vano per le vie nelle feste Sabazie , gridando come uomini inspirati , e
danzando: chi divoto fosse purificavano : inse gnavano ogni spirituale rimedio
, e preparavano a felicità sicura . E intanto seducevano le mogli altrui , e
con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici ; testimoni sto rici ,
Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai , nè
potevano , i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro
fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido , la religione in supersti
zione , la virtù in apparenze vane ; sicchè furono bersaglio ai motti dei
comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei
tempi , e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune
dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella
regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo:
Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II , ec. –
Poi vennero le contraffazioni affettate ; e Timeo nel libro nono delle sue isto
rie , e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro
d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito , e nel culto esterno del corpo.
Timaeus . . . . scriptum reliquit .... Diodoro ...diversum introducente or
natum , Pythagoricisque rebus adhaerere simulante .. Sosicrales .... magnam
barbam habuisse Diodorum narrat , palliumque gestasse , et tulisse comam ,
alque studium ipsorum Pythagoricorum , qui eum antecesserunt , for ma quadam
revocasse, qui vestibus splendidis , lavacris , unguentis , lonsura que solita
utebantur. Ateneo, Dipnos. IV , 19 , ove si posson leggere anche i motti de'
comici — Diog. , Laert. , VIII , 20. Al capo di questa nobile
istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di
seguaci indegni , o per infelicità di tempi . Fu illustre il pitagorismo per
eccellenza di virtù rare , per altezza e copia di dottrine , per moltiplicità
di beni operati all'umana ge nerazione , per grandezza di sventure , per lunga
e varia esistenza . Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella
Magna Grecia , già sparsamente stava , come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia ,
e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica . Intimamente
unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse
per tutti i procedimenti della loro sapienza : fu ispiratore e maestro di
Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco :
e se stava nelle prime istituzioni di Roma , poi ritornovvi coi trionfi del
popolo conquistatore , e nella romana consociazione delle genti quasi lo
trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo
fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi , come
da fonte inesausta , quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile
orgoglio della nostra vita . Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono
nella moderna Europa , tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che
ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana , poco più
altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie . Le
basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine , perchè in Roma
si conchiuse tutto l'antico ; e il pitagorismo , che noi con tutta la classica
sapienza ridonammo ai moderni , lo troviamo congiunto con tutte le più belle
glorie della nostra scienza comune , e quasi preludere , vaticinando , alle
dottrine di Copernico, di Galileo , di Keplero, del Leibnitz e del Newton .
Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi . glio di Niccolò
Puccini , il quale , tra le pitture , le statue ed altri ornamenti , che della
sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero ,
volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia
italica . Chè dove i nomi di Dante , di Michelan giolo , del Macchiavelli , di
Galileo , del Vico , del Ferruccio , di Napoleone concordano con diversa nota
nel concento delle nazionali glorie , e insegnano riverenza e grandezza alle
menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe
mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima
di chi vi ri. sguardi . E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda
istituzione comprese il passato e l'avvenire , la ci viltà e la scienza ,
l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò
principalmente, come la più degna di tutti i paesi , l ' Italia ; qui l'Italia
comparisce creatrice e maestra di arti , di dottrine , di popoli ; e dopo avere
dall'incivilimento antico tratto il moderno , con Napoleone Bonaparte grida a
tutte le na zioni , grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande
svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà
con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al
risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole
espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e
della virtù , mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero
pitagorico , e i nostri : mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita
dalle fondamenta , e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a
privilegiare l'infeconda inerzia , ma sorgente da natura ed estimata secondo i
meriti dell'attività perso nale : e accenna alla forma nuova degli ordini
pubblici , destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca
e armoniosa esplicazione di umanità . — Quando l'ora vespertina vien serena e
silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni , e tu movi
verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago . L'architettura è
dorica antica , come domandava la ragione delle cose : le esterne parti ,
superiore e inferiore , sono coperte : quella che guarda a mezzogiorno ,
distrutta : e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre , e varie e
frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi
delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell '
eternità consumati , i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la
storia ; e in quella ruina , in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto
i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali , e che della
spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e
vastità deserta . Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice
dei corsi e de' naufragi umani , e conserva anco in brevi indizi lunghe
memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio , leggerai in due
sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica : Αληθευειν και ευεργετείν
: dir sempre il vero , e operar ciò che è bene . Hai mente che in questo
silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci ? Congiungi questo docu
mento con gli altri , che altamente suonano dalle statue , dalle pitture ,
dalle scuole , da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa ,
sacra ai fasti e alle speranze della patria , e renditi degno di avverarle e di
accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo
tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno della nascita di Romolo, e pone la
fondazione di Roma nel primo anno della VII Olimpiade, 3198 del mondo, 750
avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al primo anno della XVI Olimpiade ,
3235 del mondo , 38 di Roma , 713 avanti G. C. Gli editori di Amyot rinchiudono
lo spazio di tutta la vita di Romolo dal l'anno 769 all'anno 715 av. G. C., 39
di Roma . I. Intorno al gran nome di Roma , la gloria del quale è già distesa
per tutti gli uomini, non s'accordano gli scrittori in asserire chi e per qual
cagione dato lo abbia a quella città. " * Fra le varie cagioni , alle
quali si attribuisce dagli scrittori l'oscurità della prima storia romana ,
deve annoverarsi prima l'incendio de' Galli , nel quale fu rono distrutti
monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il Beaufort, e a' di nostri più che
mai , s'è disputato , se l'origini di Roma , quali le narrano Livio e Dionigi ,
sieno verità storica o favola poetica . Quello che può dirsi in generale si è ,
nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser favoloso né lutto vero. Cice
rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era uso cantare le antiche
memorie e le antiche imprese. Un carme epico , però , su questo argomento prima
di quel d'Ennio non si conosce ; e che un solo carme sia stato fonte di tutte
le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi . Plutarco stesso ci
mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti che scrissero
intorno ad esse . Vi banno certo , e ognun se n'avvede , nelle lor narrazioni
delle cose poetiche , ma ve d’ha di semplicissime e schiette , come quelle che
riguardano l'antica forma di governo, la religione , i sacerdozj ; tratle , non
possiam dire , se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali , i quali , al
dir di Cicerone , risalivano almeno al tempo de' re . Uoa delle guide scelte da
Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore anch'egli in
molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la storia , ma le
origini solo , ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso più in giù di
Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo , indi con allri ch'ei nomina in
diversi luoghi . Il primo tra essi è il re Giubba , che avea PLUTARCO . - 1. 5
50 ROMOLO . Ma altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere andati va gando per
la maggior parte del mondo, ed aver soggiogata la maggior parte degli uomini ,
si misero poi ad abitare ivi , e che dal lor valore nell'armi diedero il nome
alla città. ? Altri vogliono 3 che essendo presa Troia , alcuni , che sen
fuggirono, trovate a caso delle navi, sospinti fossero daʼventi in Etruria ed
approdassero alle foci del Tevere , dove , es sendo le donne loro già
costernate e perplesse , e mal tolle rar potendo più il mare , una di esse ,
che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e di prudenza sembrava di gran lunga su
perar tutte le altre , abbia suggerito alle sue compagne di abbruciare le navi.
Ciò fatto, dicono che gli uomini da prima se ne crucciassero : ma poi ,
essendosi per necessità collocati d'intorno al Pallanzio , e riuscendo loro in
breve tempo la cosa meglio assai che non avevano sperato , esperimentata avendo
la fertilità del luogo , e bene accolti ritrovandosi dai vicini , oltre gli
altri onori che fecero a Roma , denominarono la citlå pure da lei , ch' era
stata cagione che si edificasse. E vogliono che fin da quel tempo siasi
conservato il costu me che hanno le donne , di baciar nella bocca i loro con
sanguinei ed attenenti ; poichè anche quelle , quand' ebbero abbruciate le navi
, questi baciari e queste amorevolezze usa ron cogli uomini, pregandoli, e
cercando di mitigarne la collera. Altri poi affermano , Roma, figliuola d'Italo
e di scritta la storia di Roma dalla sua origine , e ch'egli chiama
diligentissimo . Non cita Dionigi che una volta e per dissentirne ; ma in
troppi luoghi, ove bol no mina , s'accorda con lui . Costoro invasero la
Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che almen 1800 anni prima dell'era
nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche in Italia . a Poichè fafen
significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide sovrannomato Lembo ,
contemporaneo di Polibio . 4 Invece d'Etruria e Tevere l'originale ha Tirrenia
e Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto intorno a Crotone ,
presso il fiume Neeto ( 1. VI ) . Ma il fatto che alla fondazione di Roma
appartiene , e narrato da Aristotele presso Dionigi d'Alicarnasso ( St. , l . I
) . Sennonchè egli dice che le navi erano greche , e le donne che le
abbruciarono , prigioniere troiane . Specie di fortezza sul monte Palatino
fabbricata dagli Aborigeni o primi abitanti del paese . ? Nondimeno Antioco
siracusano , vissuto un secolo prima d’Aristotele , af. ferma che lungo tempo
prima della guerra troiana eravi in Italia una città nomi nata Roma. 6 ROMOLO .
51 Leucaria , ' altri la figliuola di Telefo d'Ercole , ad Enea spo sata , ed
altri quella di Ascanio , figliuolo di Enea , aver po sto il nome alla città ;
altri aver la città fondata Romano , figliuolo di Ulisse e di Circe ; altri
Romo di Ematione , da Diomede lå mandato da Troia; altri quel Romo signor dei
Latini , il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da Tessaglia in Lidia , da
Lidia in Italia. Nè già coloro che con più giu sta ragione sostengono che fu
alla città questa denomina zione data da Romolo , concordi sono intorno alla di
lui ori gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli figliuoio fu di Enea e di
Dessitea di Forbante , ed ancora bambino fu portato in Italia insieme con Romo
fratello suo , e che , periti essendo . gli altri schifi per l'escrescenza del
fiume, piegatosi placida mente sulla morbida riva quello , in cui erano i fanciulli,
essi , fuor di speranza , restaron salvi , e da essi fu poi la città appellata
Roma. Alcuni pretendono che Roma , figliuola di quella Troiana sposata a Latino
di Telemaco , partorito abbia Romolo ; ed alcuni che ne sia stata madre Emilia
, fi gliuola di Enea e di Lavinia , congiuntasi con Marte ; " e al cuni
finalmente raccontano cose favolosissime intorno alla di lui generazione ,
dicendo che in casa di Tarchezio re degli Albani , uomo scelleratissimo e
crudelissimo, si mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè narrano che ,
sollevandosi un membro genitale dal focolare , continuasse a farsi vedere per
molti giorni , e , ch'essendovi in Etruria l'oracolo di Tetidė, fosse da questo
recata risposta a Tarchezio , che una vergine si dovesse congiunger con quel
fantasma, dalla quale nasce rebbe un figliuolo per virtù chiarissimo , ed
insigne per for tuna e per gagliardia. Avendo pertanto Tarchezio dello que sto
vaticinio ad una delle sue figliuole , e comandatole di usar Seguendo l'ottima
lezione , meglio Leucania. Meglio: la moglie di Ascanio figliuolo d'Enea . 3
Della venuta di questi Lidj in Italia parla Erodolo nel primo. 4 Con più
diligenza Dionigi d'Alicarnasso , nel primo delle sue Storie , reca i nomi de'
greci e de' romani autori , i quali tennero queste sentenze diverse in. torno
all'origine di Roma. E son essi Cefalone, Damaste , Aristotele , Calia ,
Senagora , Dionisio calcidese , Antioco siracusano , ed altri. 5 Simili
apparizioni sono frequentissime nella storia de' secoli oscuri . 6 Forse di Temide
, chiamata da' Romani Carmente , a cagione appunto de ' suoi oracoli. D'un
oracolo di Telide mai non s'intese parlare. 6 2 ROMOLO. con quel mostro, dicono
ch'essa non degnò di cið fare, ma in sua vece mandovvi una fante ; che
Tarchezio , come seppe la cosa , gravemente crucciatosi , le fece prender
ambedue per farle morire ; ma che poi egli , avendo in sogno veduta Vesta , 4
che gliene vietò l'uccisione , diede a tessere alle fanciulle imprigionate una
certa tela, con questa condizione di dar loro marito , quando avesser finito di
tesserla ; che quelle però andavano tessendo di giorno , ma che altre per
ordine di Tarchezio ne disfacevano il lavoro di notte ; che , avendo la fante
partoriti due gemelli , Tarchezio li diede ad un certo Terazio , comandandogli
di toglier loro la vita ; che co stui, avendogli deposti vicino al fiume, una
lupa andava poi frequentemente a porger loro le poppe , ed augelli d'ogni sorta
, portando minuti cibi , ne imboccayano i bambini , fin tanto che cið veggendo
un bifolco, e meravigliandosene, prese ardire di avvicinarsi , e ne levo i
fanciulletti; e che finalmente essi , in tal maniera salvati e allevati,
attaccarono Tarchezio e lo vinsero. Queste cose sono state scritte da un certo
Promatione , che compild la Storia Italiana. II. Ma il racconto , che merita
totalmente credenza e che ha moltissimi testimonj , è quello , le di cui
particolarità principali furono la prima volta pubblicate fra'Greci da Dio cle
Peparetio , seguito in moltissimi luoghi anche da Fabio Pittore. Vi sono pure
su queste varj dispareri ; ma , per ispe dir la cosa in poche parole , il
racconto è in questa maniera.“ De’re , che nacquero in Alba discendenti da Epea
, il regno " Vesta , perchè il portento erasi fallo vedere nel focolare .
? Storico sconosciuto . 3 Storico anteriore alla guerra di Annibale, ai tempi
della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli Annali di Roma , e , come già
si accenno , ed è pur detto qui appresso , in moltissimi luoghi lo prese a
guida. 4 Fabio , che segui Diocle in moltissimi luoghi, qui l'abbandona, e
Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito Numitore , aggiugnendo plus
ta men vis poluit quam voluntas palris aut reverentia ætatis ; pulso fralre ,
Amulius regnat. Due cose combattono adunque l'opinione da Plutarco adottata ,
cioè la testimonianza contraria degli altri storici , e il diritto
incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani alla paterna corona. 5
Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353 anni, vi furono tredici
re d'Alba . Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio , sono 311 , seb bene
Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio presso Roma. ROMOLO.
53 pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio. Essendosi da
Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti , e contrapposto al regno le
ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno. Avendo Amulio
dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva Numitore, usurpó
facilmente il regno ; e, temendo che nascessero figliuoli dalla figliuola di
questo , la creò sacerdotessa di Vesta , onde viver dovesse mai sempre senza
marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia , altri Rea ed altri
Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la legge alle Vestali
costituita ; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo suppli zio , Anto ,
figliuola del re , intercedette per lei , pregando il padre. Fu però chiusa in
prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra persona , acciocch'ella
non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori poi due bambini grandi
e belli oltre misura ; onde , anche per questo vie più intimo ritosi Amulio ,
comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via. Alcuni dicono che
questo servo nominavasi Fau stolo , ed alcuni , che non già costui , ma quegli
, che da poi li raccolse , avea questo nome. Posti adunque i bambini in una
culla , discese egli al fiume per gettarveli dentro , ma , veggendolo venir giù
con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e depostili presso la riva
, andò via. Quindi , crescendo il fiume, sollevossi dolcemente dall'inondazione
la culla , e fu giù portata in un luogo assai molle , il quale ora chiaman
Cermano, ma una volta , com'è probabile , chiamavan Germano , poichè chiamavan
Germani i fratelli . III. Era quivi poco discosto un fico selvatico , il quale
appellavano Ruminale , o dal nome di Romolo, come pensa la maggior parte , o
perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore scrive sempre Plutarco. • Aveva
prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il figlio di Numitore per nome
Egesto ( Dione , 1. 1 ) . 3 Trent'anni a quelle fanciulle sacre conveniva esser
caste e senza marito. 4 Varrone chiama Germalus il luogo, e Cermalus il dice
Festo . Da Var rone prese Plutarco ciò che leggiamo in questa vita dell'anno
lla fondazione di Roma e della nascita di Romolo , il quale calcolò l'uno e
l'altro ( anzi calcolo fino il giorno e l'ora in cui Romolo fu concetto )
coll'aiuto di certo Tacozio matema lico greco e suo amico. 5 Tito Livio
l'afferma assolutamente . 5* 54 ROMOLO. zogiorno bestiami che ruminano , o
piuttosto per essersi ivi al lattati i fanciulli, perciocchè la poppa dagli
antichi fu chia mata ruma, e Rumilia ' chiamano una certa Dea, che si crede
abbia cura del nutrimento degl'infanti, alla quale sacrificano senza vino , º
facendo libamenti di latte. A'due bambini, che quivi giacevano , scrivon gli
storici , che stava a canto una lupa che gli allattava , ed un picchio , che
unitamente ad essa era di loro nudritore e custode. Credesi che questi animali
sieno sacri a Marte, e i Latini hanno distintamente in grande onore e ve
nerazione il picchio; onde a colei , che quei bambini avea parto riti , fu
prestata non poca fede mentr’ella affermava d'averli par toriti da Marte :
quantunque dicano che ciò ella credesse per inganno fattole , stata essendo
violata da Amulio 5 datosele a vedere armato. Sonovi poi di quelli che vogliono
che il nome della nutrice , per essere un vocabolo ambiguo , abbia dato motivo
alla fama di degenerare in un racconto favoloso. Im perciocchè i Latini
ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale specie , ma le femmine ancora
che si prostituiscono : e vo gliono che di tal carattere fosse la moglie di
quel Faustolo , che allevó que’bambini, la qual per altro chiamavasi Acca Larenzia.
A costei sacrificano ancora i Romani, e nel mese di aprile il sacerdote di
Marte le reca i libamenti, e chiamano quella festa Larenziale. Onorano pur
anche un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la chiama Dea Rumina nelle sue
Quistioni Roma пе . n . 57. ? Ciò viene attestato anche da Varrone. Come poi di
Ruma erasi fatta la Dea Rumina , cosi di Cuna si era fatta Cunina , divinità
che proteggeva i fan ciulli in culla . 13 La conservazione prodigiosa e
l'agnizione del fanciullo Romolo ne ram mentano i casi di Ciro fondatore d'un
altro impero. E non è questa la sola favola straniera , con cui i Romani
tentarono di nobilitare i primordi delle loro istorie . 4 Sono molti gli esempj
di donzelle che abusando la credulità di que' primi tempi copersero col velo della
religione i loro errori . 5 Coloro che accagionano Amulio di questo fatto ,
dicono ch’ebbe in ciò intenzione di perdere la vipote, perchè le Vestali
pagavano colla morle simili errori. 6 Due feste di questo nome si celebravano a
Roma : l'una nell'ultimo d’apri le , l'altra ai 23 di dicembre. Plutarco ,
nelle sue Quest. Rom. , pretende che in aprile si festeggiasse la nutrice di
Romolo , e in dicembre la favorita di Ercole, Ma Ovidio afferma invece il
contrario , e in ciò vuolsi credere ad uno scrittor romano piuttosto che ad un
greco. ROMOLO . 55NN zia , e, per tal cagione, il custode del tempio di Ercole,
es sendo , com'è probabile, scioperato, propose al Nume di giuo care a’dadi con
patto di ottenere , se egli vincesse , qualche buon presente dal Nume; e , se
per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume stesso una lauta mensa , e di
condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo ciò , geltati i dadi prima pel
Nume, indi per se medesimo , vide egli vinto. Ora volendo mantenere i patti , e
pensando cosa ben giusta lo starsene alla convenzione , allesti al Nume una
cena , e tolta a prezzo Larenzia , ch'era giovane e bella , ma non per anche
pubblica , l'accolse a convilo nel tempio , ove disteso avea il letto : e dopo
cena ve la rinserrò , come se il Nume fosse per aversela . Dicesi per verità
che il Nume fu insieme colla donna , e che le impose di andarsene sull'alba
alla piaz za , e , abbracciando il primo che ella avesse incontrato , sel
facesse amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in età e di molte
ricchezze , che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli, siccome quegli
, ch'era senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le volle bene , e
morendo la sciolla erede di molle e belle facoltà , la maggior parte delle
quali essa lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che, essendo ella già
molto celebre , e tenuta come persona cara ad un Nume , disparve in quel
medesimo luogo , dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo si
chiama ora Ve labro , perché , traboccando spesse volte il fiume, traghetta
vano co' barchetti per quel sito alla piazza ; e questa maniera di trasporto
chiamano velalura. ?. Alcuni vogliono che sia detto cosi , perchè coloro che
davano qualche spettacolo , coprir facevano con tele quella strada che porta
dalla piazza al cir co , incominciando di là ; 3 e la tela distesa a questa
foggia nel linguaggio romano si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la
seconda Larenzia appo i Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son
descritte estesamente da Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in
derisione da Aristofane. a Velabrum dicitur a vehendo : velaturam facere etiam
nunc dicuntur qui id mercede faciunt. Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il
nome di Velabro molto prima che si pensase a coprir con tele la strada di cui
qui si parla, usanza introdotta la prima volta da Quinto Catulo nella
dedicazione del Campidoglio. Plin . , 1. XIX, c . 1 . 56 ROMOLO. IV. Faustolo
pertanto , il quale era custode de'porci di Amulio , raccolse i bambini ,
senzachè persona se n'avvedes se: ma per quello che“ più probabilmente ne
dicono alcuni , ciò si fece con saputa di Numitore , ' il quale di nascosto som
ministrava il nutrimento a coloro che gli allevavano. Nar rasi pure che questi
fanciulli , condotti a Gabio , apprendes sero le lettere e tutte l'altre cose
che convengonsi alle persone ben nate : e scrivesi che furono chiamati Romolo e
Remo 3 dalla poppa , poichè furon veduti poppare la fiera. La nobiltà che
scorgevasi nelle fattezze de’loro corpi , fin dall'infanzia diede subito a
divedere nella grandezza e nell'aria , qual fosse la di loro indole. Crescendo
poscia in età divenivano amendue animosi e virili , ed aveano un coraggio e un
ardire affatto intrepido ne' rischi più gravi . Romolo però mostrava d'essere
più assennato e di aver discernimento politico nelle conferenze che intorno
a’pascoli ed alle cacciagioni ei te neva co’vicini , facendo nascere in altrui
una grande estima zione di se , che già manifestavasi nato per comandare, assai
più che per ubbidire. Per le quali cose si rendevano essi amabili e cari agli
eguali ed agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano de' soprantendenti ed
inspectori regj, e de'go vernatori de’bestiami , considerandoli come uomini ,
che punto in virtù non erano più di loro eccellenti; né delle minacce loro
curavano , nè del loro sdegno. Frequentavano gli eser cizj e i trattenimenti
liberali , non pensando già cosa degna di un uomo libero l'ozio ed il sottrarsi
alle fatiche, ma bensi i ginnasj, le cacce , i corsi , lo scacciar gli
assassini , l'ucci dere i ladri , il diſendere dalla violenza coloro che
ingiuriati vengano. Per queste cose eran essi già decantati in ogni parte. V.
Essendo nata una certa controversia fra i pastori di · Egli fondava le sue
speranze di ricuperare il trono in questi fanciulli; ciò che diminuisce in gran
parte l'interesse di questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso dice che i due
fanciulli vennero istituiti nelle gre che lettere , nella musica , e nelle
belle arti . Furono poi spediti a Gabio , città dei Latini e colonia d’Alba ,
distante circa dodici miglia da Roma , siccome a luogo di maggior sicurezza. 3
Il greco usa sempre il nome Romo, che ricorda il più antico, e s ' appressa più
a quello di Romolo . ROMOLO . 57 Amulio e que’di Numitore , e questi conducendo
via de’be stiami agli altri rapiti , ciò non comportando i due garzoni ,
diedero loro delle percosse , li volsero in fuga e li privarono di una gran
parte della preda , curando poco l ' indegnazione di Numitore; e ragunavano ed
accoglievano molti mendici e molti servi, dando cosi adito a principj di
sediziosa arditez za. Ora , essendo Romolo intento ad un certo sacrifizio (im
perciocchè egli era dedito a’sacrifizj e versato ne’vaticinj ) , i pastori di
Numitore, incontratisi con Remo , che se n'an dava accompagnato da pochi,
attaccaron battaglia. Riporta tesi percosse e ferite dall' una parte e
dall'altra , restarono finalmente vittoriosi quelli di Numitore , e Remo
presero vi vo. Quindi fu condotto ed accusato da loro innanzi a Numi tore : ma
questi non lo puni per tema del fratello , ch'era uómo severo ; al quale però,
andatosene egli stesso , chiedeva di ottenere soddisfazione , essendo stato
ingiuriato da’servi di lui che regnava , egli che pur gli era fratello ; e
sdegnando sene insieme anche gli Albani, persuasi che Numitore fosse
ingiustamente oltraggiato , Amulio s’indusse a rilasciargli Remo , perchè ad
arbitrio suo lo punisse. Avendolo Numitore ottenuto , se ne tornò a casa , e
guardando con istupore il gio vanetto per la di lui corporatura , che di
grandezza e di ga gliardia superava tutti , e veggendo nel di lui aspetto il co
raggio e la franchezza dell'animo, che non lasciavasi vincere , e si mostrava
in sensibile nelle presenti sciagure ; in oltre sentendo che i fatti e le imprese
di lui ben corrispondevano a quanto egli mirava , e soprattutto , com'è
probabile , coope- · randogli un qualche Nume , e dando unitamente direzione a
principj di cose grandi , egli , locco per ispirazione od a caso da desiderio
di sapere la verità , interrogollo chi fosse, e in torno alle condizioni della
sua nascita , aggiungendogli fiducia e speranza , con voce mansueta e con
amorevoli sguardi e benigni ; onde quegli vie più rinfrancatosi prese a dire :
« Io » non ti nasconderò cosa alcuna ; imperciocchè mi sembri più » re tu , che
Amulio ; mentre tu ascolti e disamini avanti di » punire , e quegli rilascia al
supplicio le persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da prima
esserefigliuoli di Fau » stolo e di Larenzia , servi del re ; e siamo due fratelli
nati 58 ROMOLO. » ad un parto ; ma da che ci troviamo accusati e calunniati »
appresso di te , ed in repentaglio della vita , gran cose dir » sentiamo di noi
medesimi , le quali , se sien degne di ſede » sembra che abbia da farne
giudizio l'esito del presente pe » ricolo. Il nostro concepimento , per quel
che si dice , è un » arcano : il nostro nutrimento poi e la maniera onde fummo
» allattati , sono cose stravagantissime ed affatto disconve » nienti
a'bambini. Da quegli uccelli e da quelle fiere , alle » quali fummo gittati ,
siamo noi stati nudriti , da una lupa » col latte , e da un picchio con altri
cibi minuti , mentre gia » cevamo in una certa culla presso il gran fiume.
Esiste an » cora la culla e si conserva con cinte di rame , dove sono » incisi
caratteri che appena più si rilevano , i quali un giorno » forse potrebbono
essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili di riconoscimento , quando noi
morti fossimo. » Numi tore , udilo questo discorso , e veggendo che bene
corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane , non iscacciò più da se quella
speranza che il lusingava; ma andaya pensando come potesse nascosamente
abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola , che leneasi ancora
strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto , avendo sentito ch'era preso Re
mo e consegnato a Numitore , esortava Romolo ad arrecargli soccorso , e gli
diede allora una piena informazione intorno alla loro nascita , della quale per
lo addietro favellato non avea che in enigma , e fattone intender loro sol quanto
basta va , perchè , badando essi a ciò ch'ei diceva, non pensassero bassamente.
Quindi egli , portando la culla , incamminavasi a Numitore , di sollecitudine
pieno e di tema , per quella pres sante circostanza. Dando però sospetto alle
guardie del re, ch'erano alle porte , ed osservato essendo da loro , e confon
dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si , che quelle non si
accorgessero della culla , che al d'intorno ei cuopria colla clamide. Erayi fra
di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i bambini da gittar
via , e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener guardie alle porte
della città ; però Dionisio di Alicarnasso nota , che , temendosi allora in
Alba qualche sorpresa , facevansi dal re custodire le porte. ROMOLO . 59
presenti quando vennero esposti. Costui , veduta allora la culla , e
ravvisatala dalla forma e da' caratteri, s'insospetti di quello ch'era, nè
trascurò punto la cosa: ma subito, fattala sapere al re , gli presentò Faustolo
perchè fosse esaminato , il quale , essendo costretto in molte e valide maniere
a ren der conto dell'affare , nè si tenne affatto saldo e costante , nė affatto
si lasciò vincere : e confessò bensi ch'erano salvi i fanciulli, ma disse
ch'erano lontani da Alba a pascere ar menti ; e che egli portava quella culla
ad Ilia , che desiderato avea spesse volte di vederla e di toccarla , per aver
più si cura speranza intorno a' suoi figliuoli. Ciò che suole addi venire agli
uomini conturbati, e a quelli, che con timore o per collera operano alcuna
cosa, addivenne allora ad Amulio : conciossiachè egli mandò sollecitamente un
uom dabbene, è di più anche amico di Numitore , con commissione d’inten dere da
Numitore medesimo, se gli era pervenuta novella al cuna de'fanciulli, come
ancor vivi. ” Andatosi dunque costui e veduto Remo poco men che fra gli
amorevoli amplessi, diede ferma sicurezza alla di lui speranza, ed esortò a dar
subito mano all' opere, e già egli stesso era con loro e unitamente cooperava.
Nè già le circostanze di quell'occasione davano comodità di poter indugiare
neppure se avesser voluto: im perciocchè Romolo era omai presso , e non pochi
cittadini correvano a lui fuori della città , per odio che portavano ad Amulio
, e per timore che ne aveano. Inoltre egli conduceva pur seco una quantità
grande di armati distribuiti in centu rie , ad ognuna delle quali precedeva un
uomo , che portava legata d' intorno alla cima di un'asta una brancata di erba
é di frondi, le quali brancate da’Latini sono dette manipuli; donde avvenne che
anche presentemente dura negli eserciti loro il nome di questi manipularj. Ma
Remo avendo solle vati già que' di dentro, e Romolo avanzandosi al di fuori, 3
* Plutarco oblia d'aver detto poco avanti , che ad un solo era stato com messo
l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti . È egli verosimile ( chi qualche
critico non contento della spiegazion di Plutarco ) che un tiranno si accorto
come Amulio dia una tal commissione ad un uomo dabbene é amico di Numitore ?
Non è almeno più verosimile quel che narra Dionigi, che Amulio cioè spedisse a
tutt'altr' uopo a Numitore un messo , e questi mosso da pietà gli scoprisse ciò
che sapeva aver Amulio deliberato ? 60 ROMOLO . sorpreso il tiranno , che
scarso di partiti e confuso, non s'ap pigliava nè ad operazione , nè a cosiglio
veruno per sua sal vezza , perdè la vita. La maggior parte delle quali cose ,
quan tunque asserite e da Fabio e da Diocle Peparetio ( che , per quello che
appare , fu il primo che scrisse della fondazione di Roma) è tenuta da alcuni
in sospetto di favolosa e finta per rappresentazioni drammatiche : ma in ciò
non debbon esser punto increduli " coloro , che osservino di quai cose ar
tefice sia la fortuna, e che considerino come il Romano Im pero non sarebbe
giammai a tal grado di possanza arrivato , se avuto non avesse un qualche
principio divino , e da non essere riputato mai troppo grande e incredibile.
VII. Morto Amulio , e tranquillate le cose , non vollero i due fratelli nè
abitare in Alba , senza aver essi il regno , nè averlo durante la vita dell'avo.
A lui però lasciato il go verno , e renduti i convenienti onori alla madre ,
delibera rono di abitare da se medesimi , edificando una città in quei luoghi ,
dove da prima furon essi nudriti , essendo questo un motivo decorosissimo del
loro dispartirsi ;? e , poichè unita erási a loro una quantità grande di servi
e di fuggitivi, era pur forse di necessità che o restassero privi intieramente
d'ogni potere , sbandandosi questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare
con essi. Imperciocchè , che quelli che abitavano in Alba , non degnassero di
ricevere in loro -com pagnia que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini ,
manife stamente si mostra , principalmente da ciò che questi fecero per
procacciarsi le donne , prendendo cosi ardita risoluzione per necessità e loro
malgrado , mentre non potean far mari taggi in altra maniera , e non già per
intenzione di recar onta , poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra
pite. In appresso , gettati i primi fondamenti della città , avendo essi
instituito a' fuggiaschi un certo sacro luogo di franchigia, chiamato da loro
del Nume Asileo ,• vi ricevevano * Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco
dovuto mostrarsi un po' meno credulo. Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge
dal traduttore. Fu motivo deco rosissimo ad edificar la città la memoria
dell'educazione loro in que' luoghi. 3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità
con tal nome adorata , poichè fra ROMOLO. 61 ogni persona , ' senza restituire
né il servo a' padroni , né il debitore a' creditori, nè l'omicida a'magistrati
, affermando che quel luogo, per oracolo d'Apollo , esser doveva inviola bile e
di sicurezza ad ognuno , sicchè in questo modo fu ben tosto la città piena di
uomini : imperciocchè dicono che ivi dapprincipio le abitazioni non fossero più
di mille. Ma già queste cose addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla
edificazione della città, vennero subitamente in discordia per la scelta del
luogo. Romolo aveva fabbricato un luogo , che chiamavasi Roma quadrata per
esser quadrangolare, e però volea ridur quello stesso a città : e Remo voleva
che si edi ficasse in un certo sito assai forte dell'Aventino , il qual sito
per cagion di lui fu chiamato Remonio , e Rignario presente mente si chiama.
Quindi commettendo essi d'accordo la de cision della contesa al fausto augurio
degli uccelli , e po stisi a sedere separatamente , dicesi che mostraronsi a
Remo sei avoltoj, e dodici a Romolo: alcuni però vogliono che Remo gli abbia
veramente veduti , ma che Romolo abbia mentito , e compariti non gli sien questi
dodici, se non quando a lui venne Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani
servonsi ancora negli augurj specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro
Pontico , che anche Ercole solea rallegrarsi veggendo un avoltoio , quando
mettevasi a qualche impresa , conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra
tutti gli altri animali , non guastando egli punto né i seminati, né le piante,
né i pascoli che sono ad uso degli uomini ; ma si nutrisce di corpi' morti
soltanto , nè uccide od offende animale alcuno che viva ; e si astiene
da'volatili anche morti per l'attenenza ch'egli ha con loro , quando le aquile
e le civette e gli spar vieri offendono pur vivi ed uccidono quelli della
medesima specie ; e però, secondo Eschilo , Come fia mondo augel che mangia augello
? gli antichi il solo che ne parli è Plutarco : sembra però potersi
congetturare che fosse Apollo. · Dionigi d'Alicarnasso dice invece che v'erano
ricevuti i soli uomini li beri ; ma di ciò può dubitarsi assai ragionevolmente.
Fortezza fabbricata da Romolo sul monte Palatino in luogo di un'altra più
antica che v'era prima. Plutarco , usando il presente , ne induce a credere che
questa a'suoi tempi ancor sussistesse. PLUTARCO , -1. 6 62 ROMOLO . Di più gli
altri ci si volgono , per cosi dire , negli occhi , e continuamente si fanno
sentire ; ma l'avoltoio veder si lascia di rado , e difficilmente ritrovar ne
sappiamo i pulcini : ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi
qua discendano da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere
appunto rari ed insoliti ; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che
apparisce , non secondo l'ordine della natura e da se , ma per ispedizione
divina. Accortosi Remo della frode , n'era molto crucciato ; e mentre Romolo
sca vava la fossa per alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne
frastornava i progressi : finalmente , saltandola per dispregio, º restò ivi
ucciso o sotto i colpi di Romolo stesso , 3 come dicono alcuni, o , come altri
vogliono , sotto quelli di un certo Celere , ch'era un de' compagni di Ro molo.
In quella rissa caddero pur morti Faustolo e Plistino suo fratello , il quale
raccontano che aiutò Faustolo ad alle var Romolo. Celere intanto passò in
Etruria ; e i Romani per cagion sua chiamano celeri * le persone pronte e
veloci : e Celere chiamarono Quinto Metello , perchè dopo la morte del padre in
pochi giorni mise in pronto un combattimento di gla diatori, ammirandone essi
la prestezza in far quell'apparato. VIII. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo
co' suoi balj in Remonia , si diede a fabbricar la città , avendo fatti chiamar
dall'Etruria uomini, che con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed
insegnavano ogni cosa , come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata
una foss cir colare intorno a quel luogo , che ora si appella Comizio , e
riposte vi furono le primizie ? di tutte quelle cose , le quali per legge erano
usale come buone, e per natura come ne cessarie ; e alla fine, portando ognuno
una picciola quantità i Nidificano sulle cime scoscese dei monti.
L’Alicarnasseo dice che Remo salto il muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono
che Remo fu ucciso nella mischia contro l'espresso di vieto di Romolo. 4
Vocabolo greco che significa cavallo veloce . 5 Sul monte Aventino . 6 Gli
Etruschi erano versatissimi nell'arle degli augurj e nelle cerimonie re ligiose
, state loro insegnate , dicevasi , da Targete discepolo di Mercurio . 7 Come
presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà . ROMOLO. 63 di terra dal
paese d'ond' era venuto , ve la gittarono dentro e mescolarono insieme ogni
cosa ? ( chiamano questa fossa col nome stesso , col quale chiaman anche l’
Olimpo , cioè mondo) : indi al dintorno di questo centro disegnarono la città
in guisa di cerchio. Il fondatore , inserito avendo nel l'aratro un vomero di
rame ed aggiogati un bue ed una vacca , tira egli stesso , facendoli andar in
giro , un solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che
gli vanno dietro , s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva
l'aratro , non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto
il muro con una linea , chiamata per sincope pomerio , quasi volendo dire :
dopo o dietro il muro. Dove poi divisano di far porta , estraendo il vomero e
alzando l'aratro , vi lasciano un intervallo non tocco : onde re putano sacro
tutto il muro, eccetto le porte ; poichè se credes sero sacre anche queste ,
non potrebbero senza scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose
necessarie e le impure. IX. Già da tutti comunemente si accorda che questa
fondazione sia stata ai ventuno d'aprile :: e i Romani festeg giano questo
giorno , chiamandolo il natal della patria. Da principio ( per quel che se ne
dice ) non sacrificavano in tal giorno cosa alcuna animata : ma pensavano che
d'uopo fosse conservar pura ed incruenta una festa consecrata alla na scita
della lor patria. Nientedimeno anche innanzi la fonda zione essi celebravano
nel medesimo giorno una certa festa pastorale , che chiamavan Palilia : ma ora
i principj dei mesi romani non hanno punto di certezza nella corrispon denza
co’greci . Dicono ciò nulla ostante per cosa indubitata, che quel giorno , in
cui gettò Romolo le fondamenta della * Ovidio dice invece dal paese vicino ( et
de vicino terra pelita solo ) , a significare che Roma soggiogando i paesi
vicini , diverrebbe all'ultimo padrona di tutto il mondo. » Inutili e
imbarazzanti queste parole. Meglio sarebbe : mescolarono le va rie quantità di
terra . 3 Il testo dice : l’undecimo giorno delle calende di maggio, secondo
l'an lica maniera di numerare i giorni. Del resto , dopo Dionigi d'Alicarnasso
, Euse bio e Solino , i moderni cronologi s'accordano a dire che Roma venne
fondata 754 anni prima di G. C. * I lavoratori ed i pastori rendevano grazie
agli Dei per la figliazione dei quadrupedi ( Dion . I. 1. ) 64 ROMOLO. . città
, fu appresso i Greci il trentesimo del mese , e che fuvvi una congiunzione di
luna , che ecclissò il sole , la quale cre dono essere stata veduta anche da
Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno terzo della sesta olimpiade.
? Ne' tempi di Varrone filosofo , uomo fra tutti i Romani ver salissimo nella
storia , eravi Tarruzio ? suo compagno , filo sofo anch'egli e matematico , il
quale a motivo di specula zione applicavasi pure a quella scienza che spetta
alla tavola astronomica , nella quale riputato era eccellente. A costui fu
proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e de terminarne il giorno
e l'ora , facendo intorno ad esso dagli effetti che si dicono cagionati dalle
costellazioni, il suo ra ziocinio , siccome dichiarano le risoluzioni de'
problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della speculazione medesima
tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona, da tone il tempo
della nascita , quanto l'indagar questo tempo , datane la maniera della vita.
Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato : e avendo considerate le
inclinazioni e le opere di quel personaggio , e lo spazio della vita e la
qualità della morte , e tutte conferite insieme si fatte cose , tutto pieno di
sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre il primo
anno della seconda olimpia de , nel mese dagli Egizi chiamato Cheac , il giorno
vigesimo terzo , nell'ora terza , nella quale il sole restò intieramente
ecclissato , e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo
primo , circa il levar del sole , e che da lui gittate furono le fondamenta di
Roma il nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora :
imperciocchè stimano che anche la fortuna delle città , come quella degli
uomini , abbia il suo proprio tempo che la prescriva , il qual si considera
dalla prima origine , relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e
simili cose pertanto più altrar ranno forse i leggitori per la novità e
curiosità , di quello che * Delle varie opinioni sull'epoca della edificazione
di Roma tratta Dionisio, il quale merita fede sovra gli altri per avere
veramente, com' egli afferma , svollo con molto studio i volumi de' Greci e de'
Romani . • Era egli pure amico di Cicerone , che parlandone nel II de Divinat.
si esprime così : Lucius quidem Tarutius Firmanus, familiaris noster , in
primis chaldaicis rationibus eruditus elc . ROMOLO . 63 possano riuscir loro
moleste per ciò che v'ha in esse di fa voloso, X. Fabbricata la città , prima divise
tutta la gioventù in ordini militari : ed ogni ordine era di tremila fanti e di
trecento cavalli , ed era chiamato legione dall'essere questi bellicosi
trascelti fra tutti gli altri . In altri officj poi distribui il restante della
gente , e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò consiglieri cento personaggi
i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli patrizj , e senato chiamando la di
loro assemblea. Il senato adunque significa veramente un collegio di vecchi.
Dicono poi che que' consiglieri ſu rono chiamati patrizj, perchè , come
vogliono alcuni , padri erano di figliuoli legittimi , o piuttosto , secondo
altri , per ch'eglino stessi mostrar potevano i loro padri , la qual cosa non
poteva già farsi da molti di quei primi , che concorsi erano alla città ; o ,
secondo altri ancora , cosi chiamati fu rono dal patrocinio , col qual nome
chiamavano e chiamano anche presentemente la protezione e difesa degl'
inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con Evandro , vi fosse un certo
Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più bisognose e le soccorreva ,
e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a questa maniera di operare.
Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi si credesse , che Romolo
cosi gli abbia appellati , pensando esser cosa ben giusta e conveniente , che i
principali e più potenti cura si prendano de’più deboli con sollecitudine ed
amorevolezza paterna , ed insieme ammaestrar volendo gli altri a non temere i
più grandi , e a non comportarne mal volentieri gli onori , ma anzi a portar
loro affezione e a riputarli e chiamarli padri. Imperciocchè fino a' nostri
tempi ancora que’ cittadini, che son nel senato , chiamati son principi dagli
stranieri , e padri coscritti dagli stessi Romani , usando questo nome di somma
dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha mai , e lontanissimo dal
poter muover invidia. Da principio adunque furono detti solamente padri , ma
poi , essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più , detti furono padri
coscritti : e cosi di questo nome si rispettabile servissi Romolo per di
slinguer l'ordine senatorio dal popolare. Separò pure dalla 66 ROMOLO.
moltitudine de' plebei gli altri uomini , che poderosi erano, chiamando questi
patroni , cioè protettori , quelli clienti , cioè persone aderenti ; e insieme
nascer fece reciprocamente fra loro una mirabile benevolenza , che per produr
fosse grandi e scambievoli obbligazioni : perocché gli uni impiegavano se
medesimi in favor de' suoi clienti , esponendone i diritti e pa trocinandoli
ne' litigj, ed essendo loro consiglieri e procura tori in tuite le cose : gli
altri poi coltivavano quei loro patroni, non solamente onorandoli , ma
aiutandoli altresi , quando fos sero in povertà , a maritar le figliuole ed a
pagare i loro debiti ; nė eravi legge o magistrato alcuno , che costringer
potesse o i patroni a testimoniar contro i clienti , o i clienti contro i
patroni. In progresso poi di tempo , durando tuttavia gli altri obblighi , fu
riputata cosa vituperevole e vile , che i magnati ricevessero danari da uomini
di più bassa condizione. XI. Ma di queste cose basti quanto abbiam detto. Il
quar to mese dopo l'edificazione , come scrive Fabio , fu fatta l'animosa
impresa del ratto delle donne. Dicono alcuni che Romolo stesso , essendo per
natura bellicoso , ed inoltre per suaso da certi oracoli , esser determinato
da’ fati , che Roma, nudrita e cresciuta fra le guerre , divenir dovesse
grandis sima , siasi mosso ad usar violenza contro i Sabini, non avendo già
egli rapite loro molte fanciulle , ma trenta sole , siccome quegli , cui era
d'uopo incontrar piuttosto guerra , che ma ritaggi . Questa però non è cosa
probabile : ma il fatto si è , che veggendo la città piena in brevissimo tempo
di forestieri, pochi dei quali avean mogli , ed i più , essendo un mescuglio di
persone povere ed oscure , venivano spregiati , nè sembra va che dovesse esser
ferma la di loro unione , e sperando egli che l'ingiuria , ch'era per fare ,
fosse poi per dar in certo modo qualche principio di alleanza e di
comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne , diede mano all'opera
in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui , che ritrovato avesse
nascosto sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano Conso , o si fosse
il Nume del consiglio (poi Sellio scrive con maggior verisimiglianza , essere
ciò accaduto nel quarto anno . In fatti , come mai una città , per così dire ,
nascente , avrebbe fatta im. presa cotanto ardita , che doveva eccitarle contro
un si pericoloso nemico ? ROMOLO . 67 chè i Romani anche presentemente chiamano
consiglio il luogo dove si consulta , e consoli quelli che hanno la maggior
dignità , quasi dir vogliano consultori ) , o si fosse Nettuno equestre :
conciossiachè questo altare , ch'è nel Circo Massi mo, in ogni altro tempo
tiensi coperto e solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni poi dicono
che, dovendo essere il consiglio cosa arcana ed occulta , è ben ragionevole che
l'altar sacro a questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora , poichè fu scoperto
, fece divulgare ch'egli era per farvi uno splendido sacrificio , un giuoco di
combattimenti ed un so lenne universale spettacolo. Vi concorse però molta
gente : ed egli sedevasi innanzi agli altri , insieme cogli ottimati , in toga
purpurea. Il segno , che indicato avrebbe il tempo del l'assalto , si era ,
quand'egli levatosi ripiegasse la toga , e poi se la gittasse novamente
d'intorno. Molti pertanlo armati di spada intenti erano a lui ; e subito che fu
dato il segno , sguainando le spade e con gridi e con impeto facendosi ad dosso
a’ Sabini, ne rapiron le loro figliuole , lasciando andar liberi i Sabini
stessi che sen fuggivano. Vogliono alcuni che trenta solamente ne siano state
rapite , dalle quali state sieno denominate le tribù ; ma Valerio Anziate dice
, che furono cinquecento ventisette , e Giubba seicento ottantatrė vergini , la
qual cosa era una somma giustificazione per Romolo; con cioşsiachè dal non
essere stata presa altra donna maritata , che Ersilia sola , la quale servi poi
loro per mediatrice di pace , si vedea ch'essi non erano venuti a quella rapina
per far ingiuria o villania , ma con intenzione soltanto di ridurre in un sol
corpo le genti , ed unirle insieme con saldissimi vin coli di una necessaria
corrispondenza. Alcuni poi narrano che Ersilia si maritò con Ostilio , uomo fra’
Romani sommamente cospicuo , ed altri con Romolo stesso , e ch'egli n'ebbe
anche prole , una figliuola chiamata Prima , dall'essere stata appunto la prima
per ordine di nascita , ed un figliuolo unico, ch'egli nominò Aollio, '
alludendo alla raunanza de'cittadini sotto di ni , e i posteri lo nominarono
Abilio. Ma Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta , ha molti
contradditori. XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero Quasi
volesse dire aggregamento, dal verbo 6027.i6w , che significa raunare. 68 ROM
OLO . alcuni di bassa condizione, ai quali avvenne di condurne via una , che
per beltà e grandezza di persona era molto distinta e che in essi incontratisi
poi alcuni altri de' maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano , ma
che quelli che la conducevano , gridassero che la conducevano essi a Talasio,
giovane insigne e dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò , prorompessero
in fauste acclamazioni , in applausi ed in lodi , e taluni ritornando addietro
andassero ad accompa gnarla , per la benevolenza e propensione, che avevano
verso Talasio , di cui ad alta voce ripetevano il nome ; onde venne che
da'Romani fino al di d'oggi nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio , come
da'Greci Imeneo : conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente
con quella sua moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese , uomo alle Muse accetto
e alle Grazie , diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del
rapimento ; e che quindi tutti , portando via le fanciulle , gridavan Talasio ,
e per questo mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono
, fra ' quali è anche Giubba , che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad
attendere ed al lavoro ed al lanificio , detto da'Greci talasia, non essendo
per anche in allora confusi i vocaboli greci cogl' italiani . Intorno alla qual
cosa , quando falsa non sia , ma veramente si servissero allora i Romani del
nome di la lasia , come i Greci , potrebbesi addurre qualche altra cagion più
probabile. Imperciocchè, quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi
Romani , si pattui circa le donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli
uomini in nessun altro lavoro , che nel lanificio . Ond'è che durasse poi l'uso
ne'ma trimonj che andavansi novamente facendo; che tanto quelli che davano a
marito , quanto quelli che accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze ,
gridassero per ischerzo Tulasio , testificando con ciò , che la moglie non era
condotta ad altro lavoro , che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di
non lasciar che la sposa , passando da se medesima sopra la soglia , vadasi
nella casa dov'è condotta , ma ve la portano sollevandola , poichè anche quelle
vi furono allora portate per forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono
alcuni , che anche la consuetudine di separar la chioma alla sposa ROMOLO . 69
con punta di asta indica essere state fatte le prime nozze con contrasto e
bellicosamente , delle quali cose abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi.
Fecesi questo ratto il giorno decimo ottavo , all'incirca , del mese detto
allora Sestilio , e presentemente Agosto , nel qual giorno celebrano la festa
de' Consuali. XIIĮ. Erano i Sabini e numerosi e guerrieri, ed abita vano in
luoghi senza mura , siccome persone , alle quali con veniva essere di gran
coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi colonia de' Lacedemonj: ma non
pertanto , veggendosi eglino astretti per si grandi ostaggi , e temendo per le
loro figliuole , inviarono ambasciadori , che facessero a Romolo mansuete
istanze e moderate , esortandolo a restituir loro le fanciulle , e ritrattarsi
da quell'atto di violenza , ed a voler poi stringer amicizia e famigliarità fra
l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e legittimamente. Mentre
Romolo però non rilasciava le fanciulle , e confortava pur i Sabini ad approvar
quella società , andavano gli altri procrastinando nel consultare e
nell'allestirsi. Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di valore nelle
cose della guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite imprese di
Romolo , e pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per quello che
fu da lui fatto intorno alle donne , e che non si potrebbe più tollerarlo , se
non ne venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra , e mosse con
un poderoso eser cito contro di Romolo , e Romolo contro di lui . Come giunti
furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si sfidarono l'un
l'altro a combattere , stando fermi intanto su l'armi gli eserciti. Ed avendo
Romolo fatto voto , se vin cesse ed uccidesse il nemico , di appendere l'armi a
Giove egli stesso , il vince in effetto e l'uccide, e , attaccata la bat taglia
, ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non fece però oltraggio
veruno a quelli che vi sorprese ; ma li obbligó solo ad atterrare le case ed a
seguirlo in Roma , dove stali sarebbero alle medesime condizioni dei cittadini
; nè vi fu altra maniera , che più di questa facesse poi crescer Roma, la
quale, a misura che andava soggiogando , aggiungeva sempre a se stessa , e
divenir faceva del suo corpo medesimo 70 ROMOLO. i soggiogati. Romolo intanto ,
per rendere il voto somma mente gradevole a Giove , e per farne pure un
giocondo spet tacolo a'cittadini , veduta nel campo una quercia grande oltre
modo, la recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte
vi sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste , e inghirlandatosi
lo zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto
fermo e di ritto , camminava cantando un inno di vittoria , seguendolo tutto
l'esercito in arme , ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini .
Una tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso.
E questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal
verbo ferire usato da'Romani : imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di
ferire e di atterrare quell'uomo : e quelle spoglie chiamate sono opime da
Varrone , siccome chiamano essi opem le sostanze : ma sarebbe più probabile il
dire che cosi sieno appellate per cagion del fatto eseguitosi ; perché
appellano opus l'operazione. L'offrire poi e il consacra r queste opime
non permettesi che al capitan dell'esercito , quando valoro samente di sua
propria mano abbia ucciso il capitan de' ne mici ; 4 la qual sorte è occata a
tre soli condottieri romani , il primo dei quali ſu Romolo , che uccise Acrone
il Ceninese; il secondo Cornelio Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco ; e dopo
questi Claudio Marcello , che uccisé Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello
però , portando essi i trofei, entrarono condotti in quadriga ; ma Dionisio va
errato in dir che Romolo si servisse di cocchio : imperciocchè si racconta che
Tarqui nio , figliuolo di Demarato , fu il primo fra i re ad innalzare in
questa forma e con tal fasto i trionfi; quantunque altri vogliono che il primo
, che trionfasse in cocchio , fosse Pu blicola : e si possono già vedere in
Roma le immagini di Romolo, che il rappresentano in alto di portare il trofeo
tutte a piedi. " Plutarco s'inganna , poichè anche un semplice soldato
poteva guadagnare queste spoglie . Marcus Varro ait , dice Festo , opima spolia
esse , etiamsi manipularis miles delraxerit , dummodo duci hostium. E l'esempio
stesso di Cosso , recato qui appresso , è a Plutarco patentemente contrario ,
essendo pro vato che Cosso , quando uccise Tolunnio , era appena tribuno
militare , ed Emi. lio il generale. ROMOLO. XIV. Dopoche furono soggiogati i
Ceninesi , stando tuttavia gli altri Sabini occupati in far i preparamenti,
quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero unitamente contro i
Romani; e restando similmente superati in battaglia , furono costretli a
lasciar depredare le città loro da Romolo , a tra sportarsi eglino ad abitare
in Roma, ed a vedere diviso il loro paese , del quale distribui Romolo
a'cittadini tutto il re sto , eccetto quella parte, ch'era posseduta da'padri
delle fan ciulle rapite , lasciando che se l'avessero questi' medesimi. Quindi
mal sopportando la cosa gli altri Sabini , creato con dottiero Tazio, mossero l'esercito
contro Roma ; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a motivo del forte,
ch'era in quel luogo , dov'è ora il Campidoglio , ed eravicollocata una guar
nigione , di cui era capo Tarpeio , non la vergine Tarpeia , come dicono alcuni
, mostrando cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi Tarpeia , figliuola di
questo comandante , che in vaghitasi dell'auree smaniglie , di cui vedeva
ornati i Sabini, propose di dar loro in mano per tradimento quel luogo , chie
dendo in ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano alle mani
sinistre. Il che da Tazio accordatosi , aprendo ella di notte una porta , li
accolse dentro. Non fu pertanto Antigono solo ( come si può quindi vedere ) che
disse di amar que' che tradivano , ma di odiarli dopo che avesser tradito ; nè
il solo Cesare , che disse pure , sopra Rimitalca Trace , di amare il
tradimento e di odiare il traditore : ma questo ė verso gli scellerati un,
sentimento comune a tutti quelli che abbisognan dell'opera loro , come bisogno
avessero e del veleno e del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro
l'uso nel mentre che se ne servono , n'abbomi nano poi la malvagità , quando
ottenuto abbian l'intento . Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia,
co mando che i Sabini, ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei
nulla di ciò , ch'aveano alle mani sinistre , e trattasi egli il primo la
smaniglia , l'avventò ad essa , e le av ventò pur anche lo scudo , e , facendo
tutti lo stesso , ella per cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi , dalla
quantità op pressa e dal peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da
Romolo, fu preso e condannato di tradimento, siccome 72 ROMOLO. afferma Giubba
raccontarsi da Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia , men
degni d'esser creduti sono certamente coloro , i quali scrivono , ch' essendo
ella figliuola di Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da
Romolo , operò quelle cose , e n'ebbe quel gastigo dal pa dre ; ed è pur
Antigono uno di questi. Ma il poeta Simulo farnetica affatto , pensando che
Tarpeia abbia dato per tradi mento il Campidoglio a' Galli , e non a'Sabini,
innamoratasi del re loro; e ne parla in questa maniera : Tarpeia è quella da
vicin che in velta Stava del Campidoglio , e già di Roma Fea le mura crollar :
poichè bramando Co' Galli aver letto nuzial , de' suoi Padri sceltrati non
guardò gli alberghi. E poco dopo sopra la sua morte : Non però ad essa i Boj ,
non le cotante Genti de' Galli diedero sepolcro Di là dal Po ; ma da le mani ,
avvezze A infuriar ne le battaglie , l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane , E
poser sovra lei fregi di morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu
Tarpeio dal nome di lei , finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a
Giove , ne furono trasportate le reliquie , e manco ad un tempo il nome di
Tarpeia ; se non che appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio , giù
dalla quale preci pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini,
Ro-. molo irritato li provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento ,
veggendo che , se anche venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi
una ritirata sicura. Imperciocchè sembrava che il luogo tramezzo , nel quale
doveasi venire alle mani , essendo circondato da molti colli , avrebbe ren duto
per la cattiva situazione il combattimento ad ambedue le parti aspro e
difficile, e che in quello stretto breve sarebbe stato e l'inseguire e il
fuggire. Avendo per avventura il fiume non molti giorni prima fatta
inondazione, avvenne che ri masta era una melma cieca e profonda ne'siti piani
, verso là , doye ora è la piazza ; la qual cosa ne si manifestava allo ROMOLO.
75 sguardo, nè poteva essere facilmente schivata, affatto peri colosa e
ingannevole, verso la quale , portandosi inavveduta mente i Sabini, accadde
loro una buona avventura. Concios siachè Curzio , uomo illustre , e tutto pieno
di coraggio e di brio , cavalcando veniva innanzi agli altri di molto , ed , en
tratogli in quel profondo il cavallo , sforzossi per qualche tempo di cacciarnelo
fuori, colle percosse incitandolo e colla voce ; ma, come vide che ciò non era
possibile , abbandono il cavallo , e salvò se medesimo : e per cagione sua
chiamasi ancora quel luogo il Lago Curzio. Allora i Sabini , schivato il
pericolo , combatterono validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo ,
quantunque molti restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che
fu marito di Ersi lia , ed avo di quell'Ostilio , che regnò dopo Numa. XV.
Attaccatesi poi di bel nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie , com'è
probabile , fanno principalmente menzione di una , che fu l'ultima, nella quale
, essendo Ro molo percosso da un sasso nel capo , e poco men che ucciso,
ritiratosi dal resistere a'Sabini, i Romani volsero il tergo , e via cacciati dalle
pianure se n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però , riavutosi alquanto
dalla percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e , ad
alta voce gridando che si fermassero , li confortava a combattere : ma,
veggendosi tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa , e non
essendovi persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico , alzando egli le
mani al cielo , prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose
dei Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle . Com'ebbe fatta la
preghiera , molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re ,
e il timore di quelli che fuggi vano , cangiossi in coraggio. Primieramente
durique ferma ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore , che potrebbe
interpretarsi di Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo ,
e risospinsero i Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio
di Vesta. Quivi, preparan dosi essi a rinnovar la battaglia , rattenuti furono
da uno spettacolo sorprendente e maggiore d'ogni racconto . Concios siachè le
figliuole rapite de'Sabini furono vedute portarsi da PLUTARCO . - 1 . 74 ROMOLO
. diverse bande fra l'armi e fra i cadaveri , con alte voci e con urli , come
fanatiche, a'loro padri e a'mariti ; altre con in braccio i piccioli infanti,
altre colla chioma disciolta , e tutte co’più cari e teneri nomi ad invocar
facendosi quando i Sa bini e quando i Romani. Si commossero pertanto non meno
gli uni che gli altri , e diedero loro luogo in mezzo agli eser citi . Già i
loro singulti venivano uditi da tutti , e molta com passione destavasi alla
vista e alle parole di esse , e vie più allora che dalle giuste ragioni, ch'
esposte aveano liberamen te , passarono in fine alle preghiere e alle
suppliche. « Qual » mai cosa , diceano , fu da noi fatta di vostro danno o di
vo » stra molestia , per la quale si infelici mali abbiamo noi già » sofferti e
ne soffriam tuttavia ? Fummo rapite a viva forza, » e contro ogni diritto , da
quelli che presentemente ci ten » gono ; e , dopo di essere state rapite ,
trascurate fummo dai » fratelli , da’ genitori e da'parenti per tanto tempo ,
quanto » è quello ch'essendoci finalmente unite con saldissimi vincoli » a
persone che ci erano affatto nemiche , ci fa ora timorose » sopra que' medesimi
rapitori e trasgressori delle leggi , i » quali combattono , e ci fa sparger
lagrime sopra quei che » periscono. Conciossiaché non siete voi già venuti a
vendi » car noi ancor vergini contro chi ingiuriare ci voglia ; ma » ora voi
strappate da’mariti le mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi misere un
soccorso assai più calamitoso di » quella non curanza e di quel tradimento. In
tal maniera » amate fummo da questi : in tal maniera compassionate siamo » da
voi . Che se poi guerreggiaste per altra cagione , dovre » ste pure in grazia
nostra acchetarvi , renduti essendo per » noi suoceri ed avoli , ed avendo
contratta già parentela ; ma » se già per cagion nostra si fa questa guerra ,
menateci pure » via insieme co'generi e co'figliuoli, e rendeteci i genitori »
e i parenti , nè vogliate rapirci la prole e i mariti , ve ne » preghiamo,
acciocchè un'altra volta non divenghiamo noi » prigioniere di guerra. » Avendo
Ersilia dette molte di si fatte cose , e mettendo suppliche pur anche l'altre ,
fecesi tregua, e vennero i capitani ad abboccarsi fra loro . In que sto mentre
le donne conduceano i mariti e i figliuoli ai padri e a' fratelli, e da
mangiare e da bere arrecavano a chi ne ROMOLO. 75 abbisognava, e medicavano i
feriti, portandoli a casa , e fa cevan loro vedere com'elleno avevan della casa
il governo , come attenti erano ad esse i mariti , e come trattavanle con
amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi fu pattuito che quelle donne che
ciò voleano , se ne stessero pure co'loro mariti , da ogni altra servitů libere
e da ogni altro lavoro , ( siccome si è detto) fuorchè del lanificio : che la
città fosse di abitazione comune a'Romani e a' Sabini : ch'essa fosse bensi
appellata Roma dal nome di Romolo, ma tutti i Romani Qui riti dalla patria di
Tazio , e che regnassero amendue e go . vernasser la milizia unitamente. Il
luogo , dove si fecero que ste convenzioni , si chiama sino al di d'oggi
Comizio , poiché coire chiamasi da' Romani l'unirsi insieme. XVI. Raddoppiatasi
la città , furono aggiunti cento patri zj, scelti dal numerº de'Sabini ; e le
legioni fatte furono di seimila fanti : e di seicento cavalli. Avendo poi
divisa la gente in tre tribù , altri furono chiamati della tribů Ramnense da
Romolo ; altri della Taziense da Tazio ; e quelli ch'erano nella terza ,
chiamati furono della Lucernese per cagion del bosco che fu d'asilo a molti che
vi si ricovrarono , i quali furono poi a parte della cittadinanza , chiamando
eglino lucos i boschi . Che poi tre appunto fossero quelle divisioni , il nome
stesso lo prova , dette essendo anche presentemente tribú e tribuni quelli che
ne son capi. Ogni tribù aveva dieci compa gnie , le quali dicono alcuni che
aveano il medesimo nome di quelle donne ; il che però sembra esser falso ,
imperciocchè molte denominate sono da’luoghi. Ma molti altri onori bensi furono
a queste donne conceduti , fra'quali sono anche que sti : il dar loro la strada
, quando camminavano , il non dir nulla di turpe in presenza di alcuna di esse
, il non mostrar * Dionigi dice : « ciascun cittadino dovea chiamarsi in
particolare Romano , » e tutti insieme Quirili . » Ma la formola Ollus Quiris
lætho datus est mostra che anche in privato si chiamavan Quiriti . Intorno
all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre questioni di romana istoria
vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una tal denominazione gli fu
data molto tempo dopo Romolo . 3 Sono stati qui dotati due errori di Plutarco :
a lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti, nè di 600 cavalli , come
potrebbesi agevolmente dimo. strare . 76 ROMOLO , sele ignudo , il non poter
essere chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti capitali , e
l'esser permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la bolla ,
ch'era un ornamento appeso d'intorno al collo , cosi detto dalla figura simile
a quelle che si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito
unitamente intorno agli affari, ma ognuno di loro consultava prima
separatamente co'suoi cen to , e cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava
Tazio 2 dove ora è il tempio di Moneta , 3 e Romolo presso il luogo , dove sono
que' che si chiamano Gradi di bella riviera , e sono là , dove si discende dal
Pallanzio al Circo Massimo ; e dicevano ch'era in quel sito medesimo il
corniolo sacro , favoleggiandosi che Romolo , per far prova di se , gittata
avesse dall' Aventino una lancia che aveva il legno di corniolo , la punta
della quale si profondo talmente, che non fuvvi alcuno che potesse più
svellerla , quantunque molti il tentassero ; e quella terra ben acconcia a
produr piante , coprendo quel legno , pullular fece e crescere ad una bella e
grande altezza un tronco di corniolo. Quelli poi che vennero dopo Romolo, il
custodirono e venerarono , come la cosa più sacrosanta che avessero , e lo
cinser di muro : e se ad alcuno che vi si ap pressasse , paruto fosse non esser
morbido e verde , ma in . tristire , quasi mancassegli il nutrimento , e venir
meno, co stui con gran clamore il dicea subitamente a quanti incontrava, e
questi non altrimenti che se arrecar soccorso volessero per un qualche
incendio, gridavano acqua ; e insiemecorrevano da ogni parte , portandone colå
vasi ripieni. Ma, nel mentre che Caio Cesare ( per quello che se ne dice )
faceva fare scalee , gli artefici, scavando al d’intorno e da presso , ne
maltratta rono senz' avvedersene le radici , e la pianta secco. I Sabini
accettarono i mesi de'Romani ; e quanto fossevi su questo proposito che
tornasse bene , l'abbiamo noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli
scudi de’Sabini e mutò l'ar . * Una Sabina accusata di omicidio non poteva
esser giudicata dai soliti ma gistrati , ma si unicamente da' commissarj del
senato . · Teneva Tazio i monti Capitolino e Quirinale ; Romolo il Palatino ed
il Celio . 3 Cioè Giunone Moneta. ROMOLO. 77 matura sua propria e quella de'
Romani , che portavano prima scudi all'argolica. XVII. Facevano in comune i
loro sacrifizj e le lor feste , non avendone levata alcuna di quelle che
proprie erano dell’una o dell'altra nazione , ma anzi avendone aggiunte altre
di nuovo , siccome quelle delle Matronali , 4 data alle donne in grazia
dell’aver esse disciolta la guerra , e quella delle Carmentali. ” Alcuni
pensano che Carmenta sia la Parca destinata a presiedere alla generazione degli
uomini , e perciò onorata ella sia dalle madri. Altri dicono ch'ella fu moglie
di Evandro d’Arcadia , indovina ed inspirata da Febo , la quale sia stata
denominata Carmenta , perchè dava gli oracoli in versi , mentre i versi da loro
chiamati vengono carmina ; ma il suo vero nome era Nicostrata : e questa è
l'opinione più comune. Sonovi nondimeno di quelli che più probabil mente
interpretano Carmenta , quasi priva di senno , per mo strarsi fuori di se negli
entusiasmi ; poich'essi appellano carere l'esser privo , e mentem il senno.
Intorno poi alle Palilie si è già favellato di sopra. E in quanto alla festa
de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in cui si celebra , che ordinata
fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa ne' di nefasti del mese di
febbraio , il qual mese potrebbesi interpretar purgativo; e quel giorno era
chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi de'Lupercali significa lo stesso
che nell'idioma greco Licei : e quindi appare esser quella solennità molto
antica , portata dagli Arcadi , che vennero con Evandro. Ma, comune essendo
quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina , potrebb’essere che una tale
appellazione dedotta fosse dalla lupa ; poichè noi veggiamo che i Luperci di lå
comin ciano il giro del loro corso , dove si dice che fu Romolo esposto.
Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In tali feste , che si
celebravano il primo giorno d'aprile , le matrone sa grificavano a Marte ed a
Giunone , e riceveano doni dai loro amici. * Feste solennissime, cha
celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del Campidoglio vicino alla
porta Carmentale. Carmenta , madre e non moglie di Evandro , come osserva
Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom. , veniva adorata auche sotto il nome di
Temi. 3 Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio Pane delto Lupercus ,
per che teneva lontani i lupi . 78 ROMOLO . che in quest'occasione si fanno ;
conciossiache essi scannano delle capre; poi , condottivi due giovanetti di
nobile schiatta alcuni toccano loro la fronte con un coltello insanguinato, ed
altri ne li forbiscono subitamente con lana bagnata nel latte : ed i giovanetti
dopo che forbiti sono , convien che ridano. Tagliate quindi le pelli delle
capre in correggie , discorrono ignudi , se non in quanto hanno una cinta
intorno a’lombi, dando scorreggiate ad ognuno che incontrino. Le donne adulte
non ne schivano già le percosse , credendo che conferiscano ad ingravidare , e
a partorire felicemente; ed è proprio di quella festa il sacrificarsi
da’Luperci anche un cane. Un certo Buta , che espone nelle sue Elegie le
cagioni favolose circa le cose operate da'Romani , dice che avendo quelli ,
ch'erano con Romolo, superato Amulio , corsero con allegrezza a quel luogo ,
dove la lupa avea data la poppa a' bambini, e che que sta festa è un'imitazione
di quel corso , e che vi corrono i nobili Dando perrosse a chi s'incontra in
loro , Come in quel tempo con le spade in mano Fuor d'Alba vi correan Romolo e
Remo : e dice che il mettere il coltello insanguinato sulla fronte é un simbolo
dell'uccisione e del pericolo d'allora , e che il terger poi col latte si fa in
memoria del loro nutricamento . Ma Caio Acilio2 scrive ,. che prima della
fondazione di Roma si smarrirono i bestiami guardati da Romolo , e che , avendo
egli fatte suppliche a Fauno , ne corse in traccia ignudo per non venir
molestato dal sudore , e che per questo corrono d'intorno ignudi i Luperci. In
quanto al carie , se quel sa crifizio fosse una purificazione, potrebbesi dire
che lo sacri ficassero , servendosi di un tal animale come atto ad uso di purificare
; imperciocchè anche i Greci nelle purificazioni si servono de'cagnuoli , e
sovente usano quelle cerimonie che chiamate sono periscilacismi. Ma se fanno
tali cose in gra * Poeta greco che scrisse Delle origini, o Delle cagioni. ·
Caio Acilio Glabrione , tribuno del popolo nell'anno di Roma 556, avea scritta
in lingua greca una storia citata da Cicerone e da Tito Livio , il secondo dei
quali afferma, ch'era stata voltata in latino da Claudio . 3 Vedi Plutarco ,
Quest. Rom. , n . 68. ROMOLO. 79 ? zia della lupa e in ricompensa dell'aver
essa nodrito e salvato Romolo , non fuor di ragione si sacrifica il cane ,
perchè egli è nemico dei lupi , quando per verità quest'animale non sia
piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci nel mentre che vanno scorrendo.
XVIII. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad instituire la consacrazione del
fuoco ,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate Vestali ; la qual cosa
alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli storici, che Romolo fosse
distinta mente dedito al culto degli Dei , e raccontan di più , ch' egli fosse
anche indovino , e che per cagion del vaticinare por tasse il lituo , ch'è una
verga incurvata , ad uso di disegnarsi gli spazj del cielo da coloro che
seggono per osservare gli augurj: ed asseriscono che questa verga , la quale
custodi vasi nel Pallanzio, si smarri quando la città presa da’Galli ; e che
poscia , dopochè i Barbari furon discacciati , trovata fu illesa dal fuoco in
mezzo ad una gran quantità di cenere, dove ogni altra cosa perita era e
distrutta . Stabili pure al cune leggi, fra le quali ben rigida è quella che
non permette alla moglie di poter mai lasciare il marito , ma permette bensi
che sia scacciata la moglie in caso di avere avvelenati i figliuoli, o in caso
di parto supposto , e di aver commesso adulterio : e se taluno per qualche
altro motivo ripudiata l'avesse, ordinava quella legge che parte delle di lui
so stanze fosse data alla donna e parte consecrata a Cerere ; e che quegli
medesimo che ripudiata l'avea , sacrificasse agli Dei sotterranei , Cosa è poi
particolare , ch'egli , il qual non avea determinato verun gastigo contro
quelli che avessero ucciso il padre, desse il nome di parricidio a qualunque
omicidio , ' come fosse questo cosa veramente esecranda , e quello impossibile.
E ben per molte età parve ch'egli a ra gione non avesse riconosciuta possibile
una tale iniquità , " S'intende in Roma , poichè già in Alba eranvi e
questo fuoco sacro e le Vestali , da una delle quali dicesi nato lo stesso
Romolo. · Cicerone dice che questa verga fu trovata in un tempietto de' Salii ,
sul monte Palatino , 3 Plutarco ha qui probabilmente in mira la celebre legge,
Si quis homi nem dolo sciens morti ducil , parricida esto; la qual legge però
viene da alcuni attribuita a Numa. 80 ROMOLO. 1 ed conciossiachè quasi pel
corso di seicent'anni non fu com messo in Roma verun delitto si fatto ; ma
narrasi che dopo la guerra di Annibale , Lucio Ostio fu il primo che ucci desse
il padre. Intorno a queste cose però basti quanto si è detto sin qui . XIX.
L'anno quinto del regno di Tazio , incontratisi alcuni di lui famigliari e
parenti negli ambasciadori, che da Laurento venivano a Roma, si sforzarono di
rapir violente mente i danari ; e , poichè essi resistenza faceano e difesa ,
gli uccisero, Fatta un'azione cosi temeraria , Romolo era di parere che
convenisse punir subito gli oltraggiatori ; ma Tazio si andava scansando dall'
aderire a ciò , e sorpassava la cosa ; e questo fu ad essi il solo motivo di
un'aperta dissensione , portati essendosi con bella maniera in tutt' altre cose
, affatto operando , per quanto mai è possibile , di comune con senso. Quindi
gli attenenti agli uccisi , non potendo per cagion di Tazio in alcun modo
ottenere che coloro puniti fossero a norma delle leggi , assalitolo in Lavinio
, dov'egli sacrificava insieme con Romolo , gli tolser la vita , e si diedero
ad ac compågnar Romolo , siccome uomo giusto , con fauste accla mazioni. Egli ,
trasportato il corpo di Tazio , onorevolmente lo seppelli nell'Aventino ,
presso al luogo chiamato Armilu strio : nė punto si curò poi di punire quell'
uccisione. Scrivono però alcuni storici , che la città di Laurento intimorita
gli consegnò gli uccisori di Tazio , e che Romolo gli lasciò an dare , dicendo
che stata era scontata uccisione con uccisione : il che diede qualche ragione
di sospettare , ch'egli volentieri si vedesse liberato da chi gli era compagno
nel regno. Nulladi meno non insorse quindi sconvolgimento veruno , nè si mos
sero punto i Sabini a sedizione : ma altri per la benivoglienza che gli
portavano , altri per la tema che aveano del di lui potere , ed altri perché il
tenean come un nume, persevera vano con tutto l'affetto ad ossequiarlo.
L'ossequiavano pur * Scrive Dionigi d’Alicarnasso che i re di Roma erano
obbligati a trasferirsi ogni anno a Lavinio per sagrificare agli Dei della
patria ; cioè ai Penati di Troia che v'erano rimasti . • Luogo dell'Aventino ,
dove le milizie andavano a purificarsi nel giorno 19 di ottobre. ROMOLO. 81
anche molt'altre genti straniere ; e gli antichi Latini , man datigli
ambasciadori , fecero amicizia e lega con esso lui . Prese poi Fidena , città
vicina a Roma , avendovi , come vogliono alcuni, repentinamente mandata la
cavalleria , con ordine di recidere i cardini delle porte , ed essendovi soprag
giunto poscia egli stesso all'improvviso : ma altri dicono che furono primi i
Fidenati? ad invadere, a depredare e a dan neggiar in molte guise il territorio
romano ed i borghi mede simi ; e che. Romolo , avendo loro teso un agguato , e
uccisi avendone assai , s' impadroni della città. Non volle demolirla però , nè
spianarla , ma la rendette colonia de' Romani , man dati avendovi duemila
cinquecento abitatori, il terzodecimo giorno di aprile. XX. Insorse quindi una
pestilenza , che perir facea gli uomini di morti repentine senza veruna
malattia , e rendeva anche sterile la terra , ed infecondi i bestiami. Oltre
ciò fu la città bagnata da pioggia di sangue ;: cosicchè s'aggiunse a quelle
inevitabili sciagure una grande superstizione. Ma , da che le medesime cose
avvenivano aạche a que' di Lau rento , già pareva ad ognuno , che , per essere
stata violata la giustizia , tanto sopra la morte di Tazio , quanto sopra
quella degli ambasciadori , l'ira divina malmenasse l'una e l ' altra città.
Dall'una e dall'altra però dati reciprocamente e puniti gli uccisori , si
videro manifestamente cessar quei malanni : e Romolo purificò poi la città con
que' sacrifizj, i quali dicesi che si celebran anche oggidi alla porta
Ferentina. Prima che cessata fosse la pestilenza , vennero i Camerj ad assalire
i Romani e fecero scorrerie nel paese di questi, con siderati già come
impotenti a difendersi per cagione di quella calamită. Romolo adunque mosse
tosto l'esercito contro di loro , e , superalili in battaglia , ne uccise seimila.
Presane poi la città , trasporto ad abitare in Roma la metà di quelli * Cosi
anche Livio ; ma Dionigi d'Alicarnasso incolpali d'aver rubate le vettovaglie
che i Romani traevano da Crustomerio . dice soltanto 300 ; da quel che segue in
Plutarco apparisce che questo numero è minore del vero. Queste pioggie di
sangue , tanto terribili agli anticbi , compongonsi molto naturalmente da
insetti o da esalazioni tinte in rosso ; ed anche ne' tempimoderni se n'ebbero
esempj. 2 3 82 ROMOLO. ch'erano restati vivi ; e da Roma passar fece un numero
di gente , il doppio maggiore, ad abitar in Cameria il giorno primo di agosto ,
coll'altra metà che vi aveva lasciata . Di cosi fatta maniera gli
soprabbondavano i cittadini , sedici anni circa dopo la fondazione di Roma. Fra
le altre spoglie trasporto da Cameria anche una quadriga di rame : questa fu
appesa da lui al tempio di Vulcano col simulacro di se medesimo , che veniva
incoronato dalla Vittoria. Rinfrancalesi in questo modo le cose , i vicini più
deboli si sottomisero alla di lui si gnoria , e , trovandosi in sicurezza , se
ne stavano paghi e contenti. Ma quelli che aveano possanza , da timore presi ad
un tempo e da invidia , non pensavano che convenisse ri maner più neghittosi e
trascurati ; ma bensi opporsi a' pro gressi di Romolo , e cercar di reprimerlo.
I Vei ^ pertanto , i quali possedevano un vasto paese , ed abitavano in una
grande città , furono i primi fra ' Toscani ad incominciare la guerra, con
pretender Fidena , siccome cosa di loro ragione : il che però non pure era
ingiusto , ma ben anche ridicolo ; perocchè , non avendo essi dato soccorso
veruno a' Fidenati, mentre in pericolo ed oppressi erano dalla guerra , ma aven
doli lasciati perire , ne pretendevano poi le abitazioni e 'l terreno , mentr'
era già in mano d' altri . Essi adunque aven do riportate da Romolo risposte
ingiuriose e sprezzanti , si divisero in due parti : coll’una assalirono
l'esercito dei Fide nati , coll'altra se n'andarono contro di Romolo. A Fidena
, rimasti superiori , uccisero duemila Romani , ma dall'altro canto superati da
Romolo , vi perdettero sopra ottomila dei loro. Combatterono poi di bel nuovo
intorno a Fidena : e si confessa da tutti , che la massima parte di
quell'impresa fu opera di Romolo stesso , avendo ivi fatto mostra di tutta
l'arte, unita all'ardire , e sembrato essendo gagliardo e veloce assai più che
all' umana condizion non conviensi. Ciò per altro che vien riferito da alcuni ,
è del tutto favoloso e interamen te incredibile , che di quattordicimila che
morirono in quella battaglia , più della metà ne fosse morta per man di Romodo
; + Abitanti di Veio capitale della Toscana. Esagerazione presa per avventura
da qualche inno di vittoria . Cosi anche ROMOLO . 83 come sembra che per
fastosa millanteria dicano anche i Messenj intorno ad Aristomene , che tre
volte sacrificatè egli avesse cento vittime per altrettanti Lacedemonj da lui
me desimo uccisi. Romolo fuggir lasciando quelli ch'erano re stati vivi , e
avean già date le spalle , s' inviava alla di loro città. Ma quelli che v'eran
dentro , per una tale calamità , non fecero più resistenza , anzi divenuti
supplichevoli stabi lirono concordia ed amicizia per anni cento , rilasciata a
Ro molo molta quantità del loro paese , da essi chiamato Sette magio , cioè la
settima parte ; e cedutegli le saline presso al fiume; ed inoltre datigli in
mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati. Anche per la vittoria avuta sopra
costoro egli trionfo a' quindici di ottobre, avendo fra molti altri prigioni il
capitano stesso de' Vei , uomo vecchio , ma che sembrava che in quelle faccende
portato si fosse senza quel senno e quella sperienza che si convenivano all'
età sua. Per la qual cosa anche al presente , quando sacrificano per avere otte
nuta vittoria , conducono un vecchio colla pretesta per la piazza del
Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e il banditore va gridando:
Sardi messi all' incanto ;? imper ciocchè dicesi che i Toscani sieno colonia
de' Sardi , e la città de' Vei è in Toscana. XXI. Questa fu l'ultima guerra fatta
da Romolo . In ap presso schivar egli non seppe ciò che a molti , o piuttosto
quasi a tutti, suole avvenire , quando dal favore di grandi e straordinarie
fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno però di baldanza
per le cose da lui operate , e portandosi con più grave fasto , già si toglieva
da quella sua affabilità popolare , e la cangiava in un molesto contegno di
monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia dell'abito col
quale si vestiva ; conciossiachè egli mettevasi in le donne d'Israele ,
precedendo a Davide , che ritornava dalla vittoria dei Fili stei , cantavano :
Saulle uccise mille , e Davidde diecimila . Settemagio o Seltempagio spiegasi
comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non procedono dai
Lidii , cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della costumanza qui parrata
; la quale , per testimonio di Sinnio Capi. tone, s'introdusse soltanto dopo
che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la Sardegoa. 84 ROMOLO. dosso
tonaca di porpora, e portava toga pretesta , e teneva ra gione standosi
agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli poi sempre
d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano ne'
ministerj. Ed avea altri che , quando andava in pubblico, lo precedevano
risospingendo con verghe la calca , e portavan cinture di cuoio , onde legar
prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare , che
ora da’ Latini dicesi alli gare , anticamente era detto ligare, Liclores sono
da essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son
baculi , dal servirsene che facevano allora , come di bastoncelli. Pure è
probabile che questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c , fossero
nominati prima Lito res , essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2
im perciocchè i Greci chiamano ancora añitov il popolo , e lady la plebe. Morto
che fu in Alba l'avolo suo Numitore , quan tunque a lui toccasse regnare , ciò
nullostante , per far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo
libero, e d'anno in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo
ammaestrò anche quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica
senza re ed arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero
governati. Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già
più parte alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica ; i quali
, raunandosi in consi glio , piuttosto per costume che per esporvi il loro
parere , stavano tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne
partivano poi col non aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare , che
d'essere stati essi i primi ad inten dere quello che si era fatto . Ogni altra
cosa però era di mi nor importanza , rispetto all'aver egli da per se stesso
divisa a' soldati la parte di terra acquistata coll'armi , e restituiti gli
ostaggi a' Vei , senzachè que' patrizj il volessero o per * Erano la guardia
presa da Romolo per la propria persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo
leggesi ai Sabini , e il Dacier non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e
seguito dal Pompei. Egli considera qui due atti diversi di Ro. molo ; uno che
si riferiva agli Albani, l'altro ai Sabini. ROMOLO. 85 suasi ne fossero : nel
che sembrò ch' ei recasse grande con tumelia al senato , il quale per questo fu
poi tenuto in sospetto , e diede luogo alle calunnie , quando poco tempo dopo
fu d'improvviso levato Romolo dalla vista degli uomini ; la qual
cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio , ed allora Quintile ,
non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e d'incontrastabile
, fnorchè il tempo già detto : imperciocchè anche presentemente si fanno in
quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento di allora .
XXII. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza , quando , morto essendo
Scipione Affricano ? dopo cena , in casa propria , non v'ha modo onde poter
credere o provare qual fosse la maniera della sua morte : 3 ma alcuni dicono
che , essendo egli per natura cagionevole , si morisse da per se stesso ; altri
ch'egli medesimo si avvelenasse ; ed altri che i suoi nemici , avendolo
assalito di notte , lo soffocassero : eppure Scipione , quando fu morto ,
giaceva esposto alla vista di tutti , ed il suo corpo , da tutti essendo
osservato , potea dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno
alla sua morte . Ma, essendo Romolo mancato in un subito , non fu vista più
parte alcuna del di lui corpo , nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni
s'immaginavano che i senatori , assalito e trucidato avendolo nel tempio di
Vulca no , smembrato n'avessero il corpo , e ripostasene ognuno una parte in
seno , portato l'avesser via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano ,
nè dove fossero i soli sena tori , foss' egli svanito , ma ch' essendo per
avventura fuori in un'assemblea presso la palude chiamata di Capra , o sia di
Cavriola , si fecero subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti
nell'aria e mutazioni incredibili, oscurandosi il lume del sole , e venendo una
notte non già placida e quieta , * Il Calendario romano segna in questo
Populifugium , None Caprolineæ , e Festum ancillarum , cose tutte , che possono
aver relazione al fatto , come si vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di
Paolo Emilio adottato da Scipione Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo
avvelenasse la moglie. Non si fece per altro nessuna indagine per conoscerne il
vero , onde Valerio Massimo disse : Raptorem spiritus domi invenit , mortis
punitorem in foro non reperit. PLUTARCO , 1 . 8 86 ROMOLO . ma con tuoni
spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta ; onde la
turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero insieme.
Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la luce, e di
bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo , dicono che
fu allora cercato e desiderato il re ; e che i primati non permisero che se ne
facesse più esatta ricerca , nè che venisse presa gran cura ; ma che esor
tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli Dei,
e come , da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno.
Affermano però che la mol titudine , udendo questo , se n'andava allegra , è lo
adorava piena di buone speranze : ma che vi furono pur anche laluni, i quali ,
aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne'
patrizj, e li calunniavano , come cercassero di dar ad intendere al popolo cose
vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. XXIII.
Essendo adunque essi cosi costernati , si racconta che Giulio Procolo ( uomo
fra' patrizj principale per nobiltà , e tenuto in somma estimazione pe' suoi
buoni costumi , fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da
Alba ) andatosi nella piazza , e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più
sacrosanto , disse alla presenza di tutti , che , camminando egli per via ,
apparso eragli Romolo , che gli si era fatto incontro in sembianza bella e grande
assai più che per lo addietro , adornato d'armi lucide e sfavillanti ; e ch'ei
però sorpreso ad una tal vista : « O re gli aveva » detto , per qual mai offesa
da noi riportata , o per qual tuo » pensamento , hai tu lasciati noi esposti ad
ingiuste accuse » e malvagie , e la città tutta orfana, e in preda ad un im »
menso dolore ? » E che quegli risposto aveagli : « È piaciuto, o » Procolo ,
agli Dei , che essendo io per cosi lungo tempo rima » sto fra gli uomini , e
fondata avendo città di gloria e d'im » pero grandissima, vada novamente ad
abitare su in cielo , » donde io era venuto. Tu pertanto sta di buon animo , e
» fa sapere a' Romani che colla temperanza e colla fortezza * Per opera ,
dicevasi , del Dio Marte padre dello stesso Romolo. ROMOLO . 87 » arriveranno
eglino al sommo dell'umano polere : ed io » sarò il Nume Quirino a voi sempre
benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani degne di fede, si pe' buoni costumi
di chi le narrava , come pel giuramento che fatto egli aveva : ed in oltre
cooperava a farle credere un certo affetto divino, simile ad entusiasmo, dal
quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi alcuno che contraddicesse , ma
lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia , si diedero a far voti a Quirino e ad
invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha della somiglianza con ciò che vien
favoleggiato dai Greci intorno Aristeo Proconnesio , ' e Cleomede d’Aslipalea .
Imperciocchè dicono che Aristeo morto sia in una certa officina da tintore , e
che, andati essendo gli amici suoi per dar sepoltura al di lui cor po , fosse
svanito ; e che alcuni, i quali tornavano da un loro viaggio , dicessero di
averlo incontrato che camminava per quella strada che porta a Crotone. Di
Cleomede poi dicono , che essendo grande e gagliardo di corpo oltre misura , ma
stolido in quanto alle sue maniere e furioso , facesse molte violenze , e che
finalmente in una certa scuola di fanciulli , percossa colla mano una colonna
che sosteneva la volta , la rompesse nel mezzo , precipitar facendone il tetto.
Periti in questo modo i fanciulli, raccontano che , venendo egli inse guito ,
se ne fuggisse in una grand’arca, e , avendola chiusa, ne tenesse il coperchio
cosi fermo al di dentro, che non fu possibile alzarlo , quantunque molti
unitamente di far ciò si sforzassero; e che , spezzata poscia quell' arca , non
ve lo ritrovassero nè vivo , nè morto ; onde stupefatti mandassero a consultar
l'oracolo a Dello , e risposto fosse dalla Pitia : L'ullimo degli eroi è
Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche svanito il corpo di Alcmena ,
mentre portavasi a seppellire, ed essersi in iscambio veduta giacer nel
cataletto una pietra. E moll' altre in somma raccontano * Aristeo dell'isola di
Proconneso nella Propontide , storico , poeta e grau ciarlatano , visse ai
tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta . 3 Nel tempio di Minerva ove
Cleomede si riparó . 4 Plutarco cita una sola parte della risposta , la quale
cosi Gniva : Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non appartiene ai
mortali. 88 ROMOLO . d' di tali favole lontane dal verisimile , divinizzando le
persone che son di natura mortali , e mettendolé insieme co' Numi. XXIV. E per
vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di divinità , ell ' è cosa
empia e villana ; ma ell'è altresi cosa stolta il voler mescolare la terra col
cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando , secondo Pin daro , si
ha già sicurezza , Ch'è della morte al gran poter soggetto Bensi il corpo ognun
, ma resta salvo Lo spirto ancor , d'eternitade immago . Conciossiaché questo
solo è quello che abbiam dagli Dei , e che di lassú viene e lassù pur sen
ritorna , non già in com pagnia del corpo , ma quando sia più che mai dal corpo
al lontanato e diviso , sgombralo della carne , e mondo e puro del tutto.
Imperciocchè l'anima , quando è secca ed inaridita , secondo il parere di
Eraclito , ” è allora nella sua maggiore eccellenza , volando fuori del corpo,
come baleno fuor di una nuvola ; dove quella , ch'è mista col corpo e dal corpo
cir condata , è come un vapore grave ed oscuro , che difficilmente si accende e
s ' inalza. Non si deggion dunque far salire al cielo contro natura i corpi
degli uomini dabbene insieme cogli spiriti , ma tener per fermo che le virtù e
l'anime per loro natura e per giusto decreto divino sieno sollevate a can
giarsi di uomini in eroi , di eroi in Genj , e se perfettamente, come nelle
sacre espiazioni , purificate e santificate sieno , schive da quanto v ' ha di
mortale e soggetto alle passioni , tener si vuole non per legge di città , ma
per verità e secondo una ben conveniente ragione, che cangiate vengano di Genj
in Numi , ottenendo cosi un bellissimo e beatissimo fine .? .XXV. In quanto poi
al soprannome di Quirino dato a Romolo , altri vogliono che significhi Marte ;
altri dicono che cosi fu egli chiamato , perchè anche i cittadini nominati eran
Quiriti ; ed altri pretendono che ciò sia , perchè gli antichi appellavano
Quirinum la punta o l ' asta ; e il simulacro di * Eraclito d'Efeso , vissuto
poco dopo Pittagora , riguardava il fuoco sic come principio universale delle
cose. Esiodo fu il primo che distinse quesle quattro nature, gli uomini, gli
eroi , i genj, e gli Dei. ROMOLO. 89 Giunone , messo in cima d'una punta ,
detto era di Giunone Quirilide; e Marte chiamavano l'asta collocata nella
reggia : ed onorayan quelli che valorosamente portati si fossero in guerra ,
col donar loro un'asta : onde affermano essere stato Romolo appellato Quirino ,
per dinotarlo un certo Nume bel licoso e marziale. Gli fu pertanto edificato un
tempio nel colle detto Quirino dal nome di lui . Il giorno , in cui egli svani
, si chiama fuga di volgo , e None capraline: perché in quel giorno , discesi
dalla città , sacrificano alla palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio
pronunciano ad alta voce molti nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio ,
imitando la fuga ed il chiamarsi vicendevolmente di allora con timore ed
isconvolgimento. Alcuni però dicono che questa non è già imitazione di fuga ,
ma bensi di fretta e di sollecitudine, riferendone la ragione ad un altro si
fatto motivo. Quando i Galli, che avevano occupata Roma, ne furono scacciati da
Camillo , e la città , spossata ed indebolita , mal potea per anche riaversi ,
mossero l'arme contro di essa molti de' La tini , avendo per lor capitano Livio
Postumio. Accampatosi costui poco lontano da Roma , inviò un araldo , il quale
dicesse ai Romani che i Latini suscitar volean di bel nuovo la già mancata
antica famigliarità e parentela , coll' unire ancora insieme le nazioni per
mezzo di maritaggi novelli: e che però , se eglino mandassero loro una quantità
nume rosa di fanciulle e di donne senza marito , pace n'avrebbero ed amicizia ,
siccome da prima per un egual modo l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste
cose i Romani , temeano in parte la guerra e in parte consideravano, che il
dare a quelli in mano le donne era lo stesso che il porle in ischia vitů.
Mentre stavano eglino cosi perplessi , una serva nomi nata Filotide , oppur
Tutola , come altri vogliono , li consi gliava di non fare nè l'una cosa nè
l'altra , ma di schivare per via di frode tanto l'incontrar guerra , quanto il
concedere ostaggi. Era la frode', che Filotide medesima , e con lei altre serve
avvenenti e ben adornate , fossero , come persone li bere , mandate a' nemici ;
e ch'ella alzerebbe di notte tempo una fiaccola , ed allora i Romani far si
dovessero addosso a' nemici stessi già sepolti nel sonno , e li trucidassero,
Cosi 8* 90 ROMOLO. per appunto addivenne, essendosi fidati i Latini. Alzó
Filotide la fiaccola da un certo fico salvatico , tenendola al di dietro ben
riparata e coperta con tappeti e cortine , acciocchè lo splendore non fosse da'
nemici veduto , e chiaro si mostrasse a' Romani , i quali , come il videro ,
subitamente uscirono fuori affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi
spesse volte l'un l'altro nel sortir dalle porte ; ed essendosi avven tati
allora improvvisamente sopra i nemici , e superati aven doli , celebrano una
tal festa in grazia di quella vittoria ; ed un tal giorno è chiamato le None
capraline , per cagion del fico salvatico , detto da’ Romani caprificus. Fanno
poi un convito alle donne fuori della citta all'ombra de' rami di fico ; e si
portano quivi le serve con ostentazione , raggiran dosi intorno , e facendo
giuochi ; e poscia reciprocamente si battono e si percuotono con pietre , come
allora che diedero soccorso a’ Romani , e combatterono insieme con essi in quel
conflitto . Queste cose sono ammesse da pochi storici : ma intorno all'uso di
chiamarsi a nome in quel giorno , e intorno all'andare alla palude della Capra
, come ad un sa crifizio , sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla
prima ragione , se per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma
però nel giorno medesimo , l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu
levato dalla vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli
trentotto di regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo , e ne
aggiugne uno al suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne
regnati 37. Silvestro
Centofanti. Keywords: platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di
Plutarco, la prova della relata steriore e la oggettivita della cognizione,
storia della filosofia romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia
della storia, formula logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta. Refs.:
“Grice e Centofanti” – The Swimming-Pool Library.
Cerebotani (Lonato).
Filosofo. Grice: “Ceere-botani is a genius, and I’m amused of his surname,
since a linguistic botanisit he surely was! His ‘prontuario del periodare
classico’ charmed everyone, including his ‘paesani’ of Brescia – the little bit
on Lago di Garda! There’s a stadium in his name! He also played with Morse,
which means he was a Griceian, since he was into the most efficient way of
‘transmit’ information! ‘quod-quod-libet, he called it, what Austin had as
Symbolo!” Presentato da Marconi. Linceo. Altre opere: “L’organismo e
l’estetica della lingua italiana classica” Inventa il teletopo-metro, l’auto-le-meteoro-metro,
il tele-spiralo-grafo, ecc. Il pan-tele-grafo-cerobotani o tele-grafo
fac-simile, cioè apparecchio a comunicare immediatamente e per via elettrica il
movimento di una penna scrivente o disegnante ad altre comunque distanti.
Emise idee sulla tele-grafia multipla. Fonda il Club elettro-tecnico, coll’intervento
della regia Legazione italiana. Inventa il tele-topo-metro, uno strumento che
serve misurare la distanza tra due punti. Altre opere: 'La tachimetria senza
stadia'. Fa costruire una stazione meteorological. Amico di Marconi. Riesce a
trasmettere La Divina Commedia a 600 km di distanza. Nel settore della
geodesia, inventa il teletopometro, un apparecchio che serve a misurare le
distanze fra due punti che sperimenta sulla marina da guerra. Inventa il nefo-metro,
per misurare le nubi. Costruzione di una stazione meteorologica automatizzata
nelle montagne del Caucaso. Questa stazione e dotata di strumentazione in grado
di comunicare le variazioni atmosferiche direttamente a Roma attraverso segnali
a radiofrequenza, ed era alimentata elettricamente con delle batterie che si
dovevano ricare ogni due o tre anni. Il teletopometro serve a misurare la
distanza tra un punto mobile ed un punto fisso. Il Santo Padre l’esegue la
misura della distanza tra la cupola della basilica di San Pietro e le stanze
papali. Il teletopometro fu usato a inizio secolo per eseguire i primi rilievi
topografici in Liguria, ed è stato soppiantato poi dal telemetro
monostatico. Inventore di un telegrafo a caratteri, che fu sperimentato
con successo tra Roma e Como. Inventa un ricevitore a caratteri senza filo, che
rende più docile il Coherer.Inventa una serie di strumenti per le miscurazioni,
come il autotelemetereografo e il tele-curvo-grafo. Inoltre, ha anche costruito
un pantelegrafo, ed è stato il primo a tentare una trasmissione radio inter-continentale,
esperimento che riuscì a Marconi. Il tele-autografo è uno strumento che sirve a
trasmettere un segno (disegno o scritto) a distanza. Costruì un teleautografo
che, con un penna, permetteva di comandare il moto di una penna ricevente,
comandata elettricamente. Grazie al suo apparecchio, riuscì a trasmettere un
segno a 600 chilometri di distanza. Il sistema di rilevazione della posizione
del pennino, e di comando, è completamente diverso da quello del pantelegrafo
Caselli. Nel settore della telefonia, inventa un selettore per una chiamata
individuale, per centralini telefonici e telegrafici inseriti in un circuito;
il 'Qui-Quo-Libet', oggi chiamato telegrafo stampante. il teletipografo, o
telefono scrivente, o telegrafo stampante. Il teletipografo è una macchina da
scrivere collegata ad un telegrafo, il quale a sua volta viene collegato ad una
ruota, il 'tipo', sul quale sono impresse le lettere dell'abecedario. In
trasmissione, l'operatore scrive sulla macchina da scrivere, e il telegrafo
invia una serie di impulsi elettrici che codificano il carattere inviato, come
nel codice morse. In ricezione, il telegrafo riceve gli impulsi, e, in base al
segno, comanda il 'tipo', con il quale viene stampato su carta il carattere
ricevuto. Lo stesso apparecchio è utilizzabile sia in ricezione che in
trasmissione, e sfrutta la normale linea telefonica. Questo strumento
permette di trasmettere un carattere alfanumerico ad una velocità di 450 segni
al minuto (più di 90 parole, come una normale macchina da scrivere dell'epoca),
e quindi tre volte superiore rispetto al codice morse. Usato per le
comunicazioni tra la Segreteria di Stato e gli uffici vaticani. Inventa
un orologio elettrico senza fili, capace di regolare il movimento di altri
orologi collegati con la stessa fonte d'energia. Studia la luce fredda.
La lampadina ad incandescenza sfrutta l'energia della corrente elettrica per
effetto Joule, mentre la luce fredda è luce generata sfruttando la corrente con
dei condensatori, in modo tale da eliminare il calore. Questo tipo di
illuminazione ha trovato impiego nelle lampade al neon. Lo stesso principio
della luce fredda è anche alla base della tele-visione. Altre opere: Direttorio
e Prontuario della Lingua Italiana. Dizionario biografico degli italiani UN
SAGGIO DELL’OPERA. Nervatura del periodare e dire classico italiano ( “I ( ) i.
ABBOZZI E LINEE I ) I l N DIRETTORIO E PRONTUARIO DELLA LINGUA ITALIANA sI:( 1
) NI ) ( ) ( i I, I S( H: I l 'I ( )1: I ANTICHI a) V 1, I ' ( ) N A “. 'I'
AI;. 'I'I l'. Vl. I; l 'I l'IN EI. I , l E i FROENAIO ( 'n i grande mov/r
, l'archi: o c', ''a / ) a italiana - (, e mesi da V /i ) i o / /i, le gio. a
m. ' - /Xivisione - . 1//a f, ggio in cem , l ’ abi/e, intangibile il valore
dimo, fra l ' - l ' 7 de /fo di scrittori gratissimi e figure rºt/or he, le
me/a/ore non sono la lingua - Voi : i stile senza la lingua - V)all'integrit. 1
del tessuto la psiche della lingua italiana - Via lingua italiana adopera al risveglio
del sopito genio italiano - Prima demolire e poi riedificare - L'una e l'altra
cosa dal Direttorio imp, ric a. miun senso da lingua, chi ct // ruga a ſe la
c/o cuzione può essere cosa convenzionale e arbitraria - . I mularne un mom/i
le//a ne va del /'intrinseco valore e della . ila importanza adunque e valore
ancora didattico del DIRETTORIO. Opportunissimo ad ogni pemma e gra -
devolissimo il PRONTUARIO l/aniera di la S (17 ) a 62. Sono agli
sgoccioli della povera vita mia, e sarebbe gran peccato se mancando questo uomo
mancasse anche quel po’ di bene che mi sono lavorato per la patria mia adorata.
sicura, un repertorio, l’archivio della sua bella lingua. Se niun’opera
dell'uomo può essere mai si conipletº e perfettº che non sia anche suscettibile
di modificazione e di ammenda, molto più devesi ciò affermare di un saggio
che vorrebbe aver cerche tutte le innumerevoli regioni e più riposte di una
lingua, e particolarmente di un saggio siffatto, il cui indirizzo. o dirò
meglio il cui voto Sarebbe di somministrare ordinatamente e con la scorta di
acconce riflessioni, le devizie, le grazie, e le pieghe tutre dell’italico
idioma. Sarebbe quindi temerità, milanteria a dargli nome di opera perfetta e
completa. Il modegi i.clo che per: in fronte, cioè, non altro che di semplice ABBOZZO
E DI LINEE vuole adunque temperare il malsuone che farebbe dirlo alla scoperta:
i) DIRETTORIO E PRONTUARIO. Uscito dall'aringo delle scuole, ove lo spirito
comincia sanamente a vedere, e prende triove forme, ed è avido di nuove cose,
ed agile e svelto si addestra ad imporare, lui tosto sollecito di lavorarmi mano
maro una certa maniera di altre tanti 'dde-Aic, un quante le discipli te nelle
quali l’ufficio mio portava che mi erudissi, e delle quali era vago. E così col
decorrere degli anni mi vennero riempiti parecchi vade-mrcum, sia delle Sacre
Scritture, sia della Morale e della dogmatica, e sia ancora delle cosidette
scienze esatte, della storia, di alcune lingue moderne e finalmente di una maniera
di scrivere dei nostri classici italiani, che mi º brava non solo diversa dalla
comune e vol gare d’oggidi, ma che mi piaceva e mi andava all’animo che nulla
più. Andò poi tanto nn , i 'anore, la delizia, la vigoria che veniva il sito
spirito dailo strid e ibri di quei gloriosi dei 300 e 500 che mi misi alla dura
di farini gia dentro terra, scandagliarne le ragioni ieg he, sapere dell’onde e
perchè di questo notevolissimo, sostanzialissirio divario, e presi subito a
sviscerarne tutti gli autori che quel l’Accademia slie il più bel fior ne coglie
i propone si come maestri di ;ingua ed ai quali dà nome di “classici”. II
l'ade-Meetini della linea italiana cresceva indi a dismisura, di che man in no
che si accumulava il materiale, anche l’aculeo della me, e venivº ogrori più assottigliandosi,
ghiotta come n'era, avi da vi più e brenese di elaborarsi sicuri, costanti
criteri qual che la m sria e lo stile del saggio classico si fosse, mercè dei
quali riconoscer ip os e I i s ! º º ci, sicuº, che giammai in n saggio volgare
e moderno. Sgom:onto e in caſi piacciº insieme a ripensare le aspre fatiche Che
con diuturnº i reità ho durate per anni ed ºnni, solo di vederla a purtg di
ragione e chiarirmi di quel tanto encomiato ma non mai spiegato non so che. Stupendo,
meraviglioso i tito quello che il lorno i.ll l I l CAN/ A r ci
lasciarono scritto un Varchi, un Bembo, un Cinonio, un Corticelli, e molti
altri. Sottili le disanime di un Bartoli, amplissime le ricerche, gli si udi di
un Gherardini, da sim fuor g . gr mi . Ai . le dissertazioni di un Padre
Cesari, ma dopo tutto ciò, dello scrivere classico non si è porta e discussa
altra cosa che gli accidenti e le apparenze dell’essere, non il suo vero essere
vitale, quidditativo, sostanziale. L'essere. ia ma, ura dell’ELEGANZA si
rii i ſino tuttavia og cilta, e cgili a loro hº e rºg, vi i ce .re ch: i
ganzo è al postutto un non so che. Ma è appunto questo non so che che io voglio
a tutt’uomo tor di mezzo, e farla intuire, non che sentire, l'essenza, la
quiddità immanente di quello che dicesi : Il ci º N / A.E stimulato dall’ardore
di questa idea tenacissima misi mano ad un lavoro arduo e faticoso quanto niun’altro:
mettere cioè a riscontro di tutti quegli infiniti luoghi del 300 e 500 che più
mi ferirono la medesima cosa detta mºdernar:ente. Riempiti poi che mi vennero
per siffatta guisa ben cento e cento fascicoli, e pºstº luindi nenie a tute le
più minuti circostanze del differire che fa il linguaggio º di riº: d l 'ic :
classico, mettendo di ogni luogo in rilievo quelle voci, tutti quei momenti del
logos, quelle curve, quelle pieghe, e quella maniera di costrurre che è sol proprietà
di ogni scrittura antica e classica, di º cosa all’opposto niente cc:nsine º
una cenna volgare e moderna mi notai da prima di ogni penna classica, e di ogni
stile, il mantene e ripetersi inalterato, sia di un medesimo assetto e tornio
periodale, sia di certe singolarissime locuzioni: ci; mi sfuſi i denti
qui.iti i s. a più i ngo e la virtù 2 e di 3 ti - , ingr. l Ti s. “I e investigandone
ad un tempo, e quanto possibile acutamente, gli intimi rispetti e le più
riposte correlazioni logiche, mi vennero a non molto veduti e costantemente
confermati tre ordini distinti di quella cosa onde a mio senno di genera l’eleganza:
e sono appunto le parti della prima sezione di questo saggio. Cose di indole
organica e che più strettamente si rife riscotto al tessuto periodale:
inversioni, separazioni, compagini, locuzioni elittiche ecc. Parole e forni e
notevoli, e il cui retto uso adopera anche alla l'ila del DISCORSO e all'ossetto
costruttivo.Verbi e alcune altre voci generalmente note, ma dal cui retto uso
alla elocuzione garbo si deriva e vigoria. E' in 'b e º ci reggi e 1 in
to gº e sº ort che - - - - - - : - 'n - 1 v altri studi, altre sollecitudini
me ne impedivano, l’avrei già allora consegnato alle stampe, malgrado l’indole
del tempo che abborrisce dal cosidetto purismo. Era naturale che, compenetrato
come era di questo purismo, gli scritti che misi poi fuori intorno alle mie
elucubrazioni scientifiche º v-vºno essi pire ris mire del 300 e 500. A vedere
lo spirito al tutto singolare e diverso onde sono guidate le lettere d’oggidì,
basti ricordare come siano mal capitati i miei manoscritti, e come gli inca
ricari della stampa, non che loro andassero all’animo, ma neanche puº e re . p
v. i) , c gion di ssinpio, aveva scritto che quel litogo era oscuro che nulla
uscita vi si scorgea» (simile a : selle scura el la dii iita via era smarrita)
per la stampa si volle ritoccare e completare: a quel luogo era tanto oscuro
che.... ». E dove : i n sºn va che l in', se a condiscºndervi o se rimanerme ne
» (simile a : non Sap 'a che farsi. Se su 'i salisse o se si stesse, l3ecc.) iº
lo vidi inve: : : Inp. 1a così : non sapeva che cosa do vessi farc. Se vi
dovessi accondiscendere ecc. ). Dove: « nè questo già ner sancr farmi sl, al
viadon sss (tolto di peso dal Bartoli) si sta impò invece: nè questo già perchè
egli vi adoperasse sapere darmi o li dove ancora affermava di avere fatto a una
cosa a spasso », di « esserini pensato non so che di a arer cessato una mala
ventura º, di giºcº l'aiiiino a checchessia » ecc. ecc., oimè, dolente mè! che
invece mi freero dir el "vevo ! alla cosa al risseggio » che ci aveva
pensato di noti so che , che la mala l’entura era ceS Sgla o che aveva un’arimo
grande per ecc. . ! ! l: di questi pretesi titocchi ed ammende Sono
Sconciamente straziati e snaturati i miei manoscritti che si pubblicarono cella
mediazione di chi non aveva paia o di rivonica, i nº chi classici.E' quindi
agevole immaginare lo si to del mio animo (ora che fi palmente mi accingo a
pubblicarle queste mie fatiche giovanili) di frºnte all'indirizzo del mondo
linguistico d’oggidì. Forse si griderà al retrogrado, al pedante, che vuole
imporre cose vecchie e smesse, e rimettere sul mercato masserizie da rigattiere
e da cassoni. Ma ad enta di tutto ciò tri pensiero già ſin d’ora mi sorregge e
mi conforta, ed è che di questo saggio, quantunque in contrario sia per
seguirne, col l’immensa copia di esempi tolti dai saggi mastri, e di ogni forma
e di ogni stile, riun critico, per acre e spiacevole, potrà mai impugnarne il
lato DlMOSTRATIVO, che cioè il Glamiera di Scrivere degli antichi è gitelia che
ti si dimostre, ed è altra dalla comune e volgare dei mestri giorni. E qui
lascio la parola a nomi autorevolissimi, e prima a quell’entusiasta che fu del
300 e 500, l’abate Giuberti, il quale pieno di sdegno verso lo scrivere
moderno, lo dice, nel suo PRIMATO, senza una pietà al mondo. Pedestre,
terragnuolo, ermafrodita, evirato, senza nervo e colore, di mezza temperatura,
non si alza dal suolo e striscia per ordinario, allia e svolazza, non vola mai,
una fosca meteora, non un astro che scintilla. E più avanti si rifà all'affrontata,
e lo chiama scucito, sfibrato, spettinato, sregolato, scompaginato, rugginoso,
diluto, cascante, floscio, gretto, goffo, deforme, un bastardume: un intruglio,
un centone, un viluppo di brandelli, e ciarpe straniere, uno stile da fare
stomaco, spirito francese camuffato alla nostra le ecc. ecc. ), mentre, tutto ammirazione
e venerazione verso gli antichi prosegue e scrive: a Paiono talvolta ritrarre
gli aculei sentenziosi dei proverbi e le folgori dei profeti. Quanta leggiadria
e gentilezza non annidassero nel maschio petto di quegli uomini a cui la
schifiltà moderna dà il nome di barbari! In quella era vera coltura Ciò che
oggi chiamasi coltura è in molti piuttosto un'attillata barbarie. Anche il
laconico ma forbitissimo Gozzi lamenta che l'Italia non sa più come parli e
ognuno che scrive fa come vuole, una fiera dove corrono tutte le nazioni e dove
tutti i linguaggi si sentono. S’impa racchi a II n a I l m g II a S m 0 I I i C
a td e tr 0 Il Cd, S e Il I a a r red 0, S e n 1 a 0 n 0 re, St 0 p er di re S
e Il I d l ibertà e dà quindi sulla voce agli scrittorelli senza studio e
fatica necessaria ad acquistare un sicuro possedimento di quella lingua in cui
si scrive, i quali scrittorelli non avendola per infingardaggine curata mai,
atterriscono tutti col dire, che essa è inutile e col farsi beffe di chi vi li
a p er d II t 0 d e II tr 0 gli 0 C C h i. Il melodico e terso Salvini deplora
esso pure i traviamenti letterari dei suoi tempi, presagisce e nota. Guai alla
lingua italiana, quando sarà perduta affatto a quei primi padri la riverenza!
Darassi in una babilonia di stili e di favelle orribili, ognuno farà testo
nella lingua, inonderanno i solecismi e si farà un gergo e un mescuglio
barbarissimo. Chi non sa che il grande Davanzati, è una maestà, un portento in
opera di lingua? Ma ecco come alloguisce coloro che già ai suoi tempi facevano
a fidanza con lo studio e con l’uso della lingua. Fingete di vederla (la nostra
antica favella) dinanzi a voi quì comparire in figura di nobilissima donna,
maravigliosamente adornata, con la faccia in sè bella, quanto amorevole, ma ferita
sconciamente, e travolta le sue fattezze e tutta laida di fango, e che ella vi
dica piangendo e vergognando. Guai a me, che straziata sì m’hanno, come voi,
quì mi vedete, quelle mani straniere. Io
vi chieggo mercè. E ora sia lecito anche a me, sotto l’egida e fra le trincee
di questi valorosi, di dire brevemente quello che ne sento, ciò è a dire
chiarirci di alcune idee, ed anche discorrere l’opportunità ed il valore non
solo dimostrativo, ma anche didattico di questo DIRETTORIO. Asserendo che nei
dettati alla moderna non vi sento quella leggiadria, quel garbo, quel candore,
quel non so che di soprasensibile che regli antichi, non è già mia intenzione
di censurarne le alte concezioni e menomarne comechessia il valore e la
spigliatezza, e sia nella scelta e convenienza delle metafore e delle immagini,
sia nella vivacità e pompa delle descrizioni, e sia in questa o quella cosa,
che del resto, i cn è, vi , p v': c velli rs it:li no, ma che può essere comune
e sº bene neiie in altre lingue. Se l’essere, il valore di una lingua dimorasse
sol nei vocaboli e nelle figure rettoriche, cioè ièci traslati, nelle metafore
e nelle immagini, non sarebbe l'idioma, e ne andrebbe del carattere non
ch’altro e dell’estetica della lingua in quanto lingua le varie lingue tornerebbero
ad una, e renderebbero immagine di III la sola cantilena che sia suonata ora
con uno, ora così altro istrumento, differendo l’una dal l’altra solo quanto
può differire il suon di una tromba da quello di : 1) : l ri: ti: .I e
concezioni, il modo di pensare, la disposizione e l’ordine del le idee sono di
una persona che ne ha la lingua, non altro che il suo stile, cioè un fatto suo
individuale, una maniera di DISCORRERE secondo intende e sente. Come non può
essere che un uomo si cessi la sua individualità e ne prenda un’altra, così
sarebbe opera disperata chi si affidasse di pigliarsi lo stile d’altri. Ma la
cosa che negli ameni dettati degli antichi si impone alla nostra ammirazione e
vuol essere oggetto di considerazione e di stu si o, è l'intrinsec. e sei le
ferma sostanziale, c S nip e la medesima, di qualsivoglia stile, dalla quale
allo spirito più che al senso quella soavità viene cottel diletto che mal si
cercherebbe nella materialità delle voci, è la grazia, quel vago ascoso e
nudico onde ogni stile torna a quello che dicesi stile elegante: simile alla
luce che, mentre senza di essa ogni cosa è spenta e al senso della vista non è
solo che un suo raggio apparisca, la natura tutta subitamente risveglia, e alle
molteplici individualità del visibile dà vita e vigoria di ghºzzo infinito, la
lingua è rispetto allo stile quello che la luce, la forma sostanziale delle
cose, rispetto alle individualità. Comr l’origine e l’essere di tutte le
infinite individualità della luce, le quali sono perchè sono i sensi, è un
solo, oltre la barriera dei sensi e fuori di cifra, fuori della ragion di
quantità, fuori delle angustie delle individualità, e come al -
tresì la sostanza delle cose è costantemente e universalmente
una, inaccessibile ai sensi, e, come che essa pure non sia ai sensi
che per le sue individualità, cioè per quello che dicesi materia seconda,
specie od accidenti, ell’è tuttavia ben altra cosa che le infinite sue
individualità, così l’essenza della vera lingua non può essere che costantemente
UNA, un “non so che” di soprasensibile, quantunque ai sensi svariatissima nelle
sue individualità, che sono appunto quello che ha nome stile. Si parla di stile
più o meno elegante, più o meno piacevole, ma non si pon mente alla ragione
intrinseca di quel grato che per lo stile allo spirito si deriva, il quale, non
nella materialità dello stile, ma bensì nell’intima vitalità della lingua
essenzialmente dimora; simile al vago della bella natura, di cui più che il
senso lo spirito nostro si diletta, e che non dal sensibile si genera e dagli
accidenti, ma da quel l’occulto che ne è l’essenza vera, il principio di vita. E
poichè ci venne dato nei veri della natura, notisi ancora una acutissima
considerazione onde la natura stessa ci è maestra, che cioè come cosa qualsiasi
non può essere individualità di una forma sostanziale ove ne manchi la sostanza
(a cagion d’esempio individualità del l'oro, del legno. ove manchi la sostanza
dell’uno e dell’altro, individualità di un essere sia vegetale che animale ove
manchi la vita) così non solo non può essere lo stile di una lingua stile
elegante, ma addirittura non ci può essere stile veruno ove manchi la lingua.l:
ora si capirà anche meglio l’eff to di soc”:inzi. . he cioè la natura, la forma
sostanziale di una lingua, e più che di ogni altra della nostra cara lingua
italiana, nei cui visceri ogni cosa è vita, delizia, soa vità e pace, è ben
altra cosa della materialità dei vocaboli, sia nel proprio che nel traslato,
non altrimenti che di un ricamo, di un disegno il cui pregio agli occhi della
mente nulla si muta mutandosene la materia. Che monta all’estetica, al valore
architettonico, al concento delle linee di un monumento, di un edificio, l’essere
costruito più tosto con una che con altra pietra? Siano pur preziose le parti organiche
di un essere vivente quanto si vuole, che giova se vi manca la vita? Di Apelle
si narra che, invitato da un giovane pittore a dare il suo giudi zio intorno
all’effige della bella Elena, esclamasse. Non la hai saputo fare bella, l'hai
fatta ricca. Metto pegno che chi discorre queste pagine e non ha colºu' º di
lettere altro che moderna, gli nar di tre o mare, di sm morire, e poco si tiene
che non mi mandi con Dio e mi dia anche nonne di esaltato e di sofisticone. Non
meraviglio. Il medesimo sarebbe di chi è abituato alle cantilene da villanzoni
o solo alle canzonette da piazza e da trivio e altri volesse di
punto in bianco ringentilire il suo udito volgare e bastardo, e recarlo per
niun’altra via che tessendone gli elogi, a dilettarsi delle grazie vereconde di
un Pergolese, delle profondità pottoniche di un Palestrina, di un Orlando di
Lasso, dei portenti delle fughe di un Bach, delle poderosità melodiche di un
Beethoven, di un Heyden, di un Haendel: od anche di chi non vede più là delle
Sorde larve e Sozze di certe oleografie, più i degli imbratti di un pennello
pedestre e terragnuolo, ed altri ne deplorasse la decadenza, lamentasse le
turpitudini volgari e moderne a petto delle inarrivabili sublimità degli antichi
in opera di pittura e di scultura. Ah! siamo sinceri, e confessiamo ch’è
oggimai agonizzante la psiche del metafisico e dell’estetico, e non che sopito
il senno antico, ma anche il senso del genio e del bello che irradia nelle
opere dei nostri padri, è oggi a termini del più miserando languore. Che altro
ci rimane adunque se non di por mano a tutti quei mezzi che adoperano, secondo
scrivono l'8artoli, Costa, Casati, ed al tri molti, alla riforma, ad una
sostanziale elaborazione del pensiero, ridestando e rivocando a vita l’originale
candore, il sopito e per poco spento genio italiano è l’elaborato mentale,
soggiunge a tal uopo Giuberti, è di sì intimo messo inoculato al linguaggio,
che sarebbe violato e guasto il concetto, ove la parola mutasse, o l'ariasse un
nonnulla. Nè altri opponga che se la bisogna sta come qui si afferma, e si
tratti veramente di guasto vitale e sostanziale più che organico del l’umana
intelligenza, vano sia per essere ed inefficace ogni umano conato, e che solo
il miracolo di una nuova creazione potrebbe ripararvi. Ma non è così, ed è la
cosa appunto che vuolsi ora sanamente ponderare. Non è vero che lo spirito
eletto dei nostri padri, la mente italiana sia il tuttº esiint: e lo dimostrano
i dettati e le opere più recenti di quei chiari nomi che sulle orme dei gloriosi
antichi, e frutto di dittti i rime fºriche, riverberano il genio antico. O l’indole
dei tempi, o i periodi delle invenzioni e delle macchine, che fanno del
pensiero fantasia, o il grido della ribellione al soprasensibile, onde è
incatenata la mente, l’ontologico dilegua, è in onore e si prende lo scettro
del magistero didattico, la menzogna dell’essere, il mondo dei sensi, l’individuo,
la materia, o questa o qual altra mai si fosse cagione, la mente nostra è
oggimai avvizzita e recata a una ciarpa, a un intruglio, il senso del vero e
dell’estetico sciancato, evirato, l’imaginativa incespicata, aggrovigliata, e
non è quindi non solo a stupire, se la maestà e la virtù dell’italico idioma
non è più sulle penne dei moderni dettatori, ma se è altresì e tal mente soffocato
il senso del vero essere della lingua italiana, che ne è misconosciuta e
recata a vilipendio l’alta virtù, ignorato vergognosamente il sublime lavorio
che questa lingua privilegiata mirabilmente adopera negli aringhi della vita
intellettuale. Con queste mie calde parole parmi di avere toccato dove veramente
ci duole e penso che saranno poi tanto più autorevoli in quanto esse collimano
coll’enfatico sentire di un Davanzati, di un Bartoli, di un Bembo, di un
Varchi, di un Salvini, e ultimamente di un Mamiani, di un Giuberti, e perfino
di quell’ammiratore delle nostre glorie letterarie, il grande Goethe. Non si
pensi poi che con queste affermazioni io mi lusinghi di avere senza più
conquistato il favore e l’omaggio di chi è fuori dell’orbita di queste ai suoi
sensi inesplorate regioni. Nò, non ho altro in animo che di agitzzarne la voglio,
e che si mett meno ti volt, quegli argomenti con cui inoltrarci, ed esplorarle
queste opulentissime regioni.Considerando la profondità e la vastità dei miei
studi in opera di lingua, ripensando le trite disamine di quanto trovasi
scritto su questo materia e rifacendomi mi oi ist cei eri che mi sei elaborato
intorno a quello che costituisce il fascino dell’eleganza, non mi perito di
asserire che codesto mio DIRETTORIO sarà per essere appunto il saggio
desiderato, quella scorta sicurº ed unica, quella palestra nella giale
addestrerº: chi vi si ºccire con i i rivocare l'avito sentire, le occulte virtù
dell’italico idioma. Con un terreno vergine e di fresco dissodato è agevol cosa
farvi di buoni seminati, ed anche conseguire sana e coniosa messe. Ma se il
terreno è stracco, illanguidito, e per male erbe che vi crebbero im bastardito.
nulla giova il farvi ritrove seminagioni; gli è mestieri estir parne dapprima
la zizania, ucciderne i parassiti e non prima riseminarvi in sulla vanga che
non sia accuratamente purgato e risanato. Anche con un corpo ammalato di febbre
maligna e male in essere di visceri e di stomaco nulla approderebbero, anzi
guasterebbero, i corro boranti e le vivande, se mercè di opportuni farmaci non
sia stato prima guarito di ogni male e tornato perfettamente sano. E così è di
chi si disponesse a ricevere nuovi semi di quella lingua che egli non può nè sentire
nè ipperire perchè il suo senso, rigoglioso tuttavia di cesti e mºssº bestardº,
non può altro che sdegnare e ribellarsene, o di chi volesse nutrirsi di quei
cibi prelibati che gli ammaniscono le letture antiche e classiche, essendone lo
stomaco ricalcitrante, come quello che lº paciucche volgari e mederne hanno
viziato e guasto. Sarà dunque opportuno, chi veramente vuole rigenerare e
tornare t:sso e si misuoo Ioio top cluoulli, il lusi li op lºI033. Osloo
lº ::.looue liuis o oltu l ' ºssige il gp o ti lº si p ºsòssi pilºp ºliº ºpei
.l. It us el ' i' i ti - e ! ss outigui illuu.ioldsoul Oiesstv. Un li vº: i bl)
ºl! Sº! ).le daiºlº slioni i euuuo5 oliomb u lius sºli o i M o duº lºop i silos
gllep luo!. ilo Ao olloilo,S Ip lo33s o lo s ſ olt.loqt lº 0 ai i ti: osto
o.lilt: uou o 55eniull ouuuun, Ilop ollos e o uuuoò il AS o ºlsiiqo. OI -toni
civili lonn 'ouo; o il 9 AIR alloni si sn p op su o!! ). Il ti -Issºlº 3 atlº,
lui: ºtti.lo ol olodlu o l illoulillº ºa so Qrº uviu :I i poi il tt i tr.
ss Lt: lº), ci uo:t., e o isoluo5 eu o optAn.. ui, oggi, i 'ti i ti: : ti io lº
t:l lido su tre et 't i3: lIou 'Il 2005U )It is It ul it e sul i ti cieloiti i
lili è il trilos i luopll S i tit il sot! ti) º il lo, st 3, 8 l.it, º t ti
3llit 8 º A i el: tlii lp 't ult: ulti del 9 l lu ti iº - il so, si
s ... 'ti i .i. . . .lºli i; ss ', ... ... i - i ! i ti&ui o
soli º in l It:ISS º o loti u - Rutp li ºt toº , ti o, i poi tu º 3 lt è
loM o.lgIl lli t..li) op. N..lo slp : 01S , clti, pu Sclip ci , i Ip º lossº
t'il pº 'it:5 s : i isl il pºp OiiSAS º al! Se oè , si va 1 otIº tifos . º ºlio
p : 0.it tios oso.I -05! A osio; op: i n.lip top t millus G, i tº o 3 As il il
3 osseti lap ei liti in el o Isoi cui il bis '09: loui.it o!!isso) ſi è is
'Glös tipicº -.10ul ti o º lill A i , 5 ti! Sii ! s ºu ( olis 10S il q.li i
ſiti allº guas iA liliti Il ci º ! A O, 0i) (ſili) i lº!a il p iù.tvi336 | Il
ſul SI, riu aus ottiliº I iosi pe.oſse.I l º d lp Girl: Iº tunio.lui uli olei è
eluoul el gu: A è tºiplit ; o tiri uſi :p 3iiiiSpo otto i p up:I o Aoati olsanb
Ip 3Juulo n.ISUS | E.li o illo5 luntti iiiis ol.Iodp e oilun W
o S.- “Si - Si – s S. S - S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole organica
e che più strettamente si riferiscono al tessuto periodale Il grato e
l’efficacia del dire dimora assai volte più che nel valore dei vocaboli e delle
l gla o ini) tali lui,ppi: Rida A au ºi i tg ei p ..iiil I pil, ivi op oi il I
attº cul.o, ind oilºni -lallagui gi! A p ! .lvi 5i A º 3 op.It: ci.vt mt! pſ.
I; ii ti Iguas sº Aoin:il nr. - i s Istºnli a reput. 5 o islip i 51
o 3: Ss li Ili oipnlS ossenb oput ºss ºi i IIIess: lp Oliput ouvs 1: i su Ifil
si al c. 5 i .In 15i giri i rp :5ucu. li odita, uno º Iovi ouault: sti: è o
niti : ti; olio; Itzu Io ip a ol! Ilds OI aulluas Ip o piis lgido opuali ti
OIAi() .L.: St | (l Gisonb Ip guided uso 'ofoni dr5 lui ig.it, i Jr. sp: l o ,
aiuougers -ued eua3del loo eliricituo3 oood : oSod il mio zn glpo. I p o
puoizilouºp Ip riodo esami ottº oro:ni oirs e insis AIA e W ologIpo o
Soduco l oillouap bus Uieto n. . nip o Ies gipol.I riolle pº oluopeA lap
e Cisgiº Iap 5 i5sti p .s. p r , iº le p.It, i gol q -uoo 'oullios
opinismq Ons Iap oua.I.io II euil. Iddrp o Iri Ind otte! Ieri i pure
di vertiginosi cicli, e di un tempo oltre ogni misura, e di cui niun atto,
niuna parte potrebbe mai mutare senza guastarne l’equilibrio, la Pace. Lungi da
me la pazza ipotesi, la chimera del così detto equivalente meccanico, ma è pur
cosa ſi afes iter d’ogni dubbio che la vita, il principio semplice di un corpo
animale non è, e non può essere sorza i qualitative e ri e che gii è (are a ciò
di si intimo nesso coll’integrità del tessuto organico, che tanto sol che
intristisca questo f 12 f.f. º gt eii, i si.. i tiri i d . -, uf,3 giui tura o
cosa qualsiasi anche minima, non solo ne soffre l’organismo, ma talora si
spegne, è finita la vita stessa animale. E altrettale è appunto della bella,
delicatissima lingua nostra italiana. Ne va del valore intrinseco e della vita
non ch’altro, ove sia ignorato o male osservato il retto uso di certe
articolazioni e particelle, o o sia a la siruttura e la curva sconciata,
l’ordine dell’azione traviato, e l’occulto di certe voci previlegiate mal sentito
od esso pure ignorato. E qui non accade ch’io ne dica di più, che con queste
parole e coll’anzidetto ti è ora molto bene palese quello che il DIRETTORIO
vuol darti, ed anche come usarne rettamente ed utilmente. Non dovremo poi
starci contenti all’esserne soltanto risanati, del guasto sentire e dei torti
appetiti, ma saremo anche vaghi di avere a nostro piacere e commando e
avvenendo di trovarci sulla penna le grazie, le dovizie di questa lingua troppo
cara e più che aitre efficacissima e poderosa. Ed ecco che a tal uopo ti verrà
assai volte opportuno ed utilissimo il PRONTUARIO, che fa seguito al Dl RETTORIO,
e col quale si completa l’ardito torneo di questa mia palestra. Mentre col
DIRETTORIO, cioè collo studio assiduo sulle linee del medesimo, ti troverai la
mente uscire gagliarda e serena dai vincigli di una morbosa rigidità, e la
parola altresì più leggiadra nelle forme, e nei movimenti agile e destra, il
PRONTUARIO sarà per ogni penna vuoi da ringhiera, vuoi da pergamo, vuoi da
effemeridi, o che altro mai, fornitore, ove bisogni, di costrutti classici e di
un corredo di lingua proprio di quella cosa che altri venisse ragionando. Ed
ecco come ne userai. Ti farai a quella parola, verbo o sostantivo che hai sulla
penna, ed anche al nome di quel tema, cosa, luogo, fatto, forza, passione,
virtù, vizio, arte, disciplina onde prendi a ragionare, e il PRON TUARIO ti
darà tutto quello che ti bisogna, cemento grammaticale e materiale di lingua.
ii fornirà di ogni idea generale un copioso corredo di vocaboli e di modi di
dire con brevi istruzioni ed esempi che ti ammoniscano come e quando
rettamente adoperarli. Ti dirà quale verbo o predicato sia proprio o meglio
convenga a quel tal nome, cioè alla cosa di cui è nome, soggetto od oggetto che
egli sia, quale attributo all’uno e all’altro, quali epiteti, aggettivi od
avverbi deno tanti con proprietà di espressione la maniera o il grado di essere
o di agire. Ed anche ti dirà i nomi delle parti componenti ciò che ha parti,
cioè a dire come rettamente e con eletti vocaboli e propri denminare i
componenti e le attinenze di cosa qualsiasi. Ti fornirà da ultimo o più
veramente vorrebbe fornirti, e lo farà completamente quando sarà opera compiuta
i vocaboli propri di quella tal arte o professione, e così di puro ingegno come
altresì di mano, e degli affetti dell'animo, dell’esterno operare e del
muoversi ed agire di checchessia, e in ciascun argomento i particolari e propri
modi di ragionarne, usati nello scrivere che ne han fatto gli antichi, e dove
questi ci mancano, presi da quel che ne abbiamo in voce viva adope rati da
maestri di buona lingua. SAGGIO DIRETTORIO cioè ritagli di alcuni vapitoli
delle sue tre parti. S.- “Si - Si – s. S. S - S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole
organica e che più strettamente si riferiscono al tessuto periodale. Il grato e
l’efficacia del dire dimora assai volte più che nel valore dei vocaboli e
delle frasi, in un certo spiro di virtù occulta, procedente vuoi da una
singolare disposizione e collocamento delle parole, vuoi da una certa forma
compaginativa, e vuoi finalmente da certi vezzi di finissimo intaglio, e di
raſſilature e tagli a corona. Ed ecco tracciati i quattro capi che ci forniscono
a larga mano il materiale di questa prima parte. Inversione e separazione. Particelle
e compagini a foggia ed uso classico. Virtù organica di alcune altre
voci. Locuzione elittica. Sel a aranzi o 1 , i cº II , N cºrsi o 1 ,
i SEC.) NI) : ) ( ; I, I ANTI ('I I I SC'It I'l' To) RI E ('I, ASSI
("I Intendiamoci, non è del I per lui lo ch i l' igi I lill e, ch' io
voglia pur allegare esempi d’iperbuto. Non farei che ripeter quello che ne
hanno scritto ii ( il lio, il l'1 l . ll ( 1 li !li, il Zilli il li, il Ct - il
e tanti altri, i quali al postutto conchiudono che quegli soltanto può giudicarne
e servirsene rettamente che ha l’orecchio educato alla scuola dei buoni
scrittori. In opera di lettere e di estetica nè mi picco di superiorità,
nè mi darebbe mai l’animo di prolierirne giudizi, e nè anche di elaborarne
acute e sollili delinizioni con le ſa ad esempio il Tommaseo), e molto meno di
porgerne teorie e Ilorine da seguire. Uscirei dall’indole e scopo di questo
saggio, che è semplicemente quello di mostrare ordinatamente e con grande copia
di esempi il dicario che ella il linguaggio così dello classico e quello di
oggidi, ed anche di somministi al c. chi ne losse mai cugo, un modo opportunissimo,
collo studio cioè degli esempi, di rieccitare nei nostri pelli lo spirito
classico, e di tornare a quella forma di dire e di pensare che è la le penne di
quei grandi. Siavi di 11 11 I po' balo, che a litrios 1 a 1 lo col
vorrebbe prima far vedere come l'ordine inverso – L’INVERSIONE --, sia il
diritto o questo l’inverso, raccolgo solto questo capitolo, e Ini diviso
secondo un certo criterio buona copia di quel costrutti antichi, nei quali il
collocamento delle parole e l’accozzamento delle parti è altro dal colgare e
comune dei nostri giorni. Non è però il differire soltanto di un costrutto
antico, e come che egli sia, dal moderno, che ciecamente Ini Imuove ad
allegarlo e proporne lo studio, ma scelgo quelle maniere che sono più che altre
frequenti e più in uso appo i classici, e nelle quali il singolare costrutto è
qualità dirò così in lernet, e ormai al III sapore, ad il garbo che lº li a V
l'elolo a pezzi il dili al dolo. La sola TRASPOSIZIONE di questa o quella
particella p. es. non vi essere, non lo vedere, non vi rimanere, ecc. - a e ne,
la creslllla, per non o vi essere stata valevole gia sei anni che regnò (
doardo, la calca degli accorrenti allogava i vescovi e lav.: è necessario che
tu per niente a non rispondessi a persona, ma sempre acessi vista di non li
vedere e non ii udire l’irren: noi possiamo i ce le si avagali lettori di non
le motteggiare (gli al ll il a niere? a non vi prosperare? a non vi proteggere?
Segn.: si potrebbe a Ialun contenere di non se gli avventare egli stesso alla vita?
º Scull.: o una semplice inversione di parole umana cosa è aver
compassione degli allilli. Zali. . e me anche quel tanto a loro il vello il
fine, il li sono oggetto e materia di questo Caploio, ma quella trasposizionr e
inversione, onde al periodo, come si è detto, viene talora vaghezza ed anche
alla frase maggior forza e gravità: one che allore verullo, ch io mi sappia, le
abbia ma da quindi addiello rilevate, e messe in Vislia siccome prerogativa
dello scrivere antico e classico, lo è la cosa al punto che prendo io ora a
dimostrare, ma senza apparato e pompa veruna d lunghe e trite discussioni, e in
un forma semplice al possibile ed evidenlo. Ma prima di farmi a quest’opera
mia e di mostrare queste separazioni e dulle le altre cose di questo saggio divisale
in articoli, la mi di richiedere il le loro benevolo che gli piaccia di
rimanersi da ogni commento e giudizi sopra i singoli articoli, che a guardarli
lo singolo non sono allo che mini vie, ma di aver l’occhio a Illella gran massa
d'oro, della quale ogni articolo non vuol essere che una imponderabile
particella NON DER … CHE … MA in luogo di non perchè …ma … Ciò è a dire: il per
disgiunto dal clie e frammessovi l’oggetto o predicato. 1. ignal, o poco
pi illico irl cosl li e o per dar rassic , valido V. gl’illel'11lare clic
: non llll'olio cagione di ... lecchessia gl' Insulti e le Villalie che il ri
limiti gli lanciasse, ma il suo procedere indecoroso cec. esporrebbe il silo a
11 ello solo sopra cosi: non pºi clie ei mi dicesse insulto o rillania, ma
ecc. L'esperto il 1vece, o chi ha e sente le maniere antiche e classiche
disgilige il bell il l vigo assi Is e ci si non per insulto o rillania che ei
mi i licesse, il t.... Pochi esempi e basteranno a farlerle assaporare il
grato, ed anche inlerider e la relaliva il rip, rli - IliII1ento che niun
articolo, per esiguo, è cosa di sì poco momento che, a conserto di mille e
IIIille altre ond è forni ore codesto direttorio, non sia anch’esso un
argomento di vita, per quali lo II il loscopico, un umile virgulto di quell’albero
rigogliosissimo e poi il post che è il linguaggio classico. Signor mio,
io non vengo nella tua presenza per rendella ch’io attenda dell’ingiuria che nn
è stata ſul lat... ma... o 13occaccio. Nè questo già per saper d ai mi ch’egli
vi alopei disse che in quello s in arrimento non ci rimase al riso dai la
milo.... . l li..... smarri, ma pur di nsi per l'ergogna che per animi o che
gli bastasse a tanto, ſullosi cuore disse. Bartoli. Non opera ra per appello o
propensione che si sentisse a questa ed a quella cosa, ma pure a guida della
ragione e del placer di Ilio Cesari, Ed anche senza la correlazione di non e'
mai può talora aver luogo si alla disgi Illzi 11. Standosi adunque l’uggieri
nella camera, ed aspettando la donna, a rendo, o per la lice, durata o per cibo
saluto che nel nulla lo stresse, o forse per usanza, una grandissimo sole, gli
renne reali lui...... . I ; i carri . rispose che ben si ricordava che andalo
era ad albergare con la fante del maestro Mazzèo nella camera della quale area
bevuta acqua per gran se le ch'a rca a 13o crio.« e riponessegli l’anima sua
sicuramente in mano, chè ben potea farlo, per l'uomo santo e lollo che sapere:
lui 'Nsri e litrioli,Ed in generale, sempre che la cagione o non cagione. Il
1olivo, ocra sione di checchessia è l'oggetto stesso, non il rispellivo verbo,
si pºne primieramente quello a guida di per per cagione, per motivo,
quindi il relativo che e finalmente il verbo : sol per l'amore che io nutro per
le , non perchè io nutro ec e per i lucia le mia ch'io porto » ecc. ecc. Nolisi
da ultimo che la stessa forma per... che... può avere altresì forza di : per
quiet n lo ch . Al, i ciò sara : i i ben altro e più rile V al I ri-Si liti nel
[ . . lil. io il tv: i 1. ci zioni elillich r . Cilf: pronome relativo di
quello, questo, costui, tale, quanto, uno ecc. si disgiunge dalla voce cui si
attiene posponendolo al verbo e appar tenenza relativa al primo
inciso. a ... il sole è alto e la per lo i tignon, culi o cd ha tutte le
pietre asciulle: perchè tali parola 'slo lo sci di p ii , le ri sono che la mi
all in di tmzi li il solo l'abbia i ts ull, poi i n n . .. .. . I3oce. “ .
Quanti leggiadri gorani, li quali, non l'alli , ma Gallieno, Ip poci di li' o
li si illui puo di ri i no 1 li li all ' s NN, mi - la nullino lesinarono coi
lor per l en ll, con poter mi col ct mi ci che lº , la sera i 1 nºn lo appresso
nel l'alli o non lo conti on lli lo i passi li li a lo.e colui è più car o ai
ril , e più la mis, i se si un ali signori onorato con pl e mi gi o nolissimi i
cºsti letto, che poi il lom in roli parole dice, o a alli; 1 i cin (lo l i
gogna , l rol, il l mondo pi esºn le ed argomento assai , rielen le che le rii
li li la I l poi i lil si l anno nella leccia dei rizii i mise i rice'n li di
blu nel nulli . I 3 c.La speranza del per loro si è data a chi lo ruolo: e
colui l'ha per mio dono, che del suo peccato duole la l'odi.( nche di esse e il
conlessore nello in poi i la penitenza discreto. ll e alcuna cosa pruolº la re
o sos le me l'e' una persona, che non può l'alll rai o. IPassa V.Con questa
melajora e somma bi erità diciamo: uno aver dipinto 1) Anche la lingua
francese offre esempi di costruzione non guari dIsstmlle ; tel brllle au second
rang qui s'éclypse au premier. che dello o lalto ha cosa calzante per
l'appunto che non polea star me glio ». Davanzati. « Quando.... tal cosa verrà
ben falla che non si pensa . Dav. « Qualche gran fallo dee esser costui che
riballo mi putre o l?occ (coslui che.... dee essere. . .(Oggi si direbbe saper
di guerra o ragion di stato che fa lecito ciò che e utile. Il popolo la direbbe
un time in I)av. i gi ii) si | | il ll es .. si direbbe. E in colal guisa, non
senza grandissima utilità, per presto accorgi mento, fece coloro, rimane e
scherniti, che lui. Iogliendosi la penna, a rea il ('r('alli lo sch e l'm iro
so. I3 cc . E quello essere che era s'in aginò l?arſ. a 1)issele: non isl in
sti c. moglie mia, uomo tlcuno mai essere nostro amico, il quale la reggia on I
ro il nos/ I o cuoi e o, IP: Indolfini.co Colui non fate citt e Neri i tio. che
non rºtolo rirºre sul no e' lie / - di ilſilli. Quegli al bisogna di poco che
poco desidera ». Albertano. a 1 ssai son di quegli che a capital pena son
dannati, che non sono dai prigionieri con tanta guati liti sei riti . Rocc.a
Indò per questa selra gridando e chiamando a tal'ora tornando indietro, che
elli si crºllera in noi in zi di malare o lº scr.« E i ri si riduce rat no come
a un porto, in perocchè saperano che ('hristo ri remira, e non gli polerano
andare dietro in ogni luogo e ta lora crederano che fosse in un luogo, ch'egli
era in un altro ma vener, do in Iº e la mia. Cav. Solo Iddio sa i nostri
occulti ed il nostro fine, che il giudicio umano molto è fallace: che spesse
volte tal cosa ci parrà buona ch'è ria, e tal uomo ci pare rio ch'è buono
Cav.rispose che delle sue cose e ai nel suo rolere quel farne che più gli
piacesse. Bocc. Propose di rolere andare al mostra lo luogo, e di redere se ciò
fosse rero che nel sonno l'era pari lo . I3ore.a I)a Pietro martire a Solo quel
lirario era che già S. ( toslino futc, ct da Futu sfo mi al nicheo, suo
maestro, a S. ( n broſio: l'uno lullo fiori e legge rezze. l'altro frutti e
saldezza , Dav.a l)i I)icembre dicono che nulla nasce che si semini, pur semina
o i zo, o fare in su lui ranga. piselli e sul ri le fu mi . I)il V.a Quella
potenza con ragione si stima maggiore d'ogni altra, la quale con sussidio di
minori mezzi può conseguire più felice nºn lº il suo line o Segneri.a gitta
l'ammo e tal pesce li rerrà pigliato che ralfa il tributo per lite »
(esari. ARTICOLO (5 Due nomi, aggettivi od avverbi relativi ad un
sol Soggetto 0 verb0 a) Si separano frapponendovi il verbo. b) Anche il
complemento indiretto disgiungesi talora dal rispettivo diretto, pure
frapponendovi i verbo. c) Gli aggettivi si trovano talvolta framezzati
dal sostantivo. \ l 1 g . . . . l sl e silli, i - i scolla la, l I l: -
Il l i pez, a il II iscir: \l: : : ' s ." ; i viaggi chi
blo s . . . . il liri . I sing il il suº pensi li stili e li - si si i .
II . Il li sºlº lirli resi i vigli , sl 1 il II , Lici II l ' s l; in
ºsservazioni. Vs sa sono li al rialli , ss nel s', i rºssi , . maestri s
, l. I li alll I castigatori . I 3 . l: ln i ritiri il ' , con i tiri , l
isp, N . . ll delle sue cose era nel suº i , lei e quel farne cºl pari ai
li pºrti ss i \ ella quale gran parte i ipoti di un de sui soldati \ l .
i qui i rolli per chi mi ieri sono, nel n. ilio alle donne stanno cli, agli
ucnini, in quanto, pii alle donne che ci il rion lui ii molto pati la rº e
lungo, quando si n : a 'sso si mossa la si l: Nali, lº si l ri'il miº l .l
l ' i '', un fiero i nº , l un forte . I 3, i . lº , i Trori i no,
in luogo, le loro i rom : mi stanchi. Il grossi piloti reni buoni .I)i ſanta ma
i tiri lui e di cosi nuova in i pieni ..... l3 o . E l appresso, questo non si
lanci le la rozza rocr' e rustica in con le il l e o il latili nel riclit NN,
il ct oli canto lire' i no mi tr Nl l o r , li suono, e nel cui calcoli e nelle
cose bellich cosi noti in come li lei i t. snc : lissim ſi l lira' il n. li mi
rilici e, in grandissimi ti i pomerili e con presti aliula nel lit... . I 3
c'e' I n uomo di scellerata vita e di corrotta, il quale lui chiamato le lo il
lla Alu Nsti e. lº ce.I' mi nella nostra città un grandioso in cui la nl e
ricco . l ore. A piè di una bellissima fontana e chiara, che nel giardino era,
a sluirsi se n'urnalò ». Bocc. Voi ordineremo onorevole compagnia di
buone donne, e anche di buoni uomini e forti, che li possano portare, e larci
cessare la gente ulosso. Cavalca. e questo addicenne che quanto è maggiore la
infermità e più puz zolenie, lanlo il medico, s' egli è buono, più s'appressa
all'inlermo, e di più si studia di guarirlo losſo. Cavalca. e (in cort disse
loro, il lil tulo come al rºssºro la re, e' eleggere atlcune buone persone e
fedeli che rendessero queste cose, sicchè. Cavalca. Essendosi tutto il bianco
vestimento e sottile loro appiccato alle ('t l'ni...... ». 13 ,:C.1ncora quegli
rampolli che sono occhiuli di molte e grosse gen me e spesse, impe occhè dore
sa di moltitudine delle gemme e spesse iri ſia l'abbondanza della genei a lira
rili. Cresc.« .... oltre al credere di chi non lo uli presto pati la loro val
ornato Giambillari.« Patira questo ignorante popolo e rozzo quelle lungherie, e
parere rallen le chi altra ra l il ll , un ali di uli I e . l): I V ill.1 rera
ad un'ora di sè stesso paura e della sua giovane la quale lullaria gli pur era
di reale e o lui oi so o del lupo si rangolare ... I3 cc « e oggi se fiore ho
di sapere e nome rie il più la rel si cl e lui gli ai 1 - ringhi, e roglio oggi
mai rimane mene o. I)avaliz.a Tu che di nascosta ch'ella era ed impercettibile.
la remule's li molti ' I rut / la bile il ricorut at i Neri Si.... , Stºgli.«
Non prima dir parola le rolle di correzione che dileguato si foss' ogni accusa
lorº. Sºgn.chi men riuſ ut I lui al lungo studio e sollecito da lui adoperarlo
in lui piccolo a rincere ogni pazioncello e Cesari.a Belli sono i fiori e
vezzosi; mi ai coni e dice il prorerbio, in mol no all In I l i non islam l),
no ... Silvi! i.a I greci panegirici ancora non ci amo mica una pura oziosa
lode, ed inutile ma..... . Salvini.a lalalore se questo spirito, di carità ma
nca che insieme le leniſti ed unite le irre in bici di ('ris lo blu / le e in
orle qui il li catal 'rc rºm ſono ut ſul rsi. S: il Villi.a lunque non li par
questo luogo buono, lorº iò si gran copia di erbe e si saporite, un fiume che
mena i più dolci pisciatelli di questi potesi ed assai, e alore non ci bazzica
mollat gen I e che ci possa i tr lui il miº r. I 'i l'el l/. NON … PRIMA …
CHE . . . . quando in luogo di : Il0ml . . . . prima che e quando a valore di :
C0mle prima . . . . ; come . . . . così . . II0Il Si toSto . . . . che . . . .;
appena . . . . che . il IIIala pcIld . . . . Che . . . ;Non selzi il l '
1 lo senso di co; il 'la li l' ' gl. , Inl \ 1 Il Sºl la colla illica l 'Inghi
e prol di sci i tagli, il lis , rag olio logica, la Virli, il vigo e l'uso
vario e rello di questa e di cento e cento alle singolarissime strutture, molto
più che se vi sono per avventura esempi di una forli alcun poco diversa, sono
questi, esempi di autori non alili hi, ma che solari lo hanno scritto sulle
orme degli antichi Inºltre colle scril ( Il re del 300 e 500 colesto I)il el
Iorio è veramente, e senza eccezione vertina, il sicuro Direttorio, e appena
che vi si trovi un sol esempio, che colmi il III e con i radisca. Mello
ſui due periodoli di origine antica e classica, con parole quasi egli li SI 'I
Il III non... prima... che... , ma che l' Illo e l'all si ass: il live si . e
la sala si li va il rialli si sia Il pi IIs li sl : non.. primat. che.. , e sia
l'on.le dell'ulio e dell'altro sigllili : l : I - Non lo volle prima al
suo cospello che egli si fosse pentito e avesse le testato il sile) fallo
no. Non venne prima al suo cospello che egli nel cuore con punse e sl ,
il sl 1 , ſtillo Mentre il vago del primo periodello consiste
manifestamente nella separazione dei due incisi della forma avverbiale
demolante precedenza di tempo: prima
che: lasciando cioè il che solo al posto
suo e antiponendo il prima, cioè avanti il verbo del primo inciso ed accanto
alla rispettiva negazione e parlicella negativa, non o nè che ella sia: nel
secondo pe riodello la stessa forma : non... prima.. che.., indica invece
simultaneità di azione, è ormai ci ripagilialiva che il lilli il ra lingua, e
orna al 'il II ra: con e prima...; come... prima: come pill los lo..; poichè
prima..., con '... così: ecc. Noli Irli esſendo il considerazioni che,
più che le mie parole, ſi darà materia di senſirle, non che di falle, il grillo,
la spontaneità del costrutto, la morbidezza e soavità della curva, il velluto
negli esempi che quì li allego. SSEM L'I DI UN : Il0Il . . . . prima . . .
. Che . . . . ed anche senza la negazione, I)I UN : prima . . . che …in luogo
della forma volgare : Il0m . . . prima che; oppure: . . . . prima che
Delºrm inò di non prima mi torri e a lui il riglia che egli gli arresse
alloltrinali e costumi ali ai la licati e I), v. 12.perche' essa rc i goſ n.
Nani e le lissº, si esse il piu' recel et lui ci al ogni suo comando: ma prima
non potei e che l e onl , inola lo Iosse in Purgatorio ». Doce.Mouli, a cui
rullo, col ti l'a 1 / i ti al cio: in prima all I o le c', che ella s in ſegnò
li reale i lielli di tiro …dirò come una di queste sui ti 'ºssº, il cosi l mi 1
e si lil e si mostri - li , osse lui ll , il ſei no, l'unº su di lui ci ti i
prima al N. nl I e il I moi ll rull: con dolla che i lioli di rºsse con sei il
I .lasciano slal e i pensieri....... e gli e li : i in I so mi ci li. che prima
siamo sli acchi, che i libici mi disposto, e apparecchio lo le cose oppo lui ne
( ('un l'ºliº e li ill ci , la r il .Prima prelerirebbe cioe' ini, l be tullo
il mondo, che Idilio fosse lºslini onio di falsità pure in un primº lo Iºr (ii
rel. a nè prima ri formò che il di s. gueul, 13oce. perchè messosi in cammino
prima non si listelle che in Londra per rºmanº o. I 3 cc.« rolle non solo
disporre, ma intera nºn le conchiudere il patrºn letali, nè prima reslò li lire
che non utlisse: l'in l?elier cui ci ritmi le Segr. 13 Così coperse lui nuli di
lell'utilull ºrti, di lui con lolla nel le mi pio, quando non prima di parola
le rolle di correziose, che dileguato si fosse ogni accusa lo re ... Segri.«
('osì comerse la nudità della Santrilotti at. a lui sopraggiunta presso una
fonte, quando non prima rimprororare la rolle di disonestà, che rili ralo si
fosse ciascun apostolo . Segni. I 1 .« e rolera parlargli, se ne scusò Luigi
per non arene licenza, nè prima lo rolle ascoltare che il generale l'a resse a
ciò licenziato, di che il cardinale ne prese grandissima edificazione ». ( es.«
Quiri riposatisi alquanto, non prima a larola andarono, che sei canzonette cºn
tale furono o. I3o c. 15.a Prima sofferirebbe d'esser e squal lato che tal cosa
contro l'onor del suo signore nè in sè nè in altri consentisse , Doce. ESEMPI DELLE
FORMI E COMPAGINATIVE, DIMOSTRANTI CONTEMI L’ORA NEITA I)I AZIONE
Il0II prima . . . . . l Il0Il . . . . . . I10Il Si toSto . . . . . che . . .
ilppella il IIIilla perla . . . . . EI) ANCII E DELLE EQUIVALENTI :
C0mle primiù . . . . ; C0mle . . . . prima . . . . ; come piuttosto
poichè prima . . . . ; come - . . . così . . . slli il tille V lgi l'I e
ci li Nlo che su bilo, che, ci . I . Non prima e libri al boillu lo il gºl in cesto
in lei l a che la cugion, della noi lo lei mi isºli a mio n li a ppoi i re . I
3 .Il ct c'Ncat e 5 in bella , per ogni sorta di tici ll e non li di prima Nºli
- di alo uno che gli li o I il sºlo se mio lo sta la a lola . Caro. l. Il ct: l
tesle in tilt ne reni ſono i pi ppo, e il so il 1 l po'. Ne' non prima la l rila
che gli l'ha . I lav …l doll, che sarà, io li promello cli gli non ne senti il
prima l' al re', che lei riti liti e li isl il l il c . l 1 l' . Idilio. lisse,
li Il 1 li lo i cui, e non elilu il n 1 l o di lirilli, lo che ſli si coni in
tal il pil irli, e lº ri.e non elil, e li rile, l'intillnerali la mia sl i il
che il reti lo si l irolse al l l . in on lui ma i Nplut mi, su bilo il n 1 l l
.Non prima al talli lo ri mi li a mo di ril lo i ti noi, che lo slo, Nlton no
ci ri li di lui. I l at col 1. se non lo sº e nelle di ''I I I nosissimi al
ligut . Segl. Nè prima il rule o che pi ruppero in lullo da disperati, in gen
il il ct o. Se gliL'isl, Nso ( io li ho li sui bocca in lesina lo conferma
l'orch è mor prima , l lorº letto: \ un renis/is. el modo ricºnles plagotn mi
rotn linells. che nel rersell seguente soggiunse su bilo: \ un quid dia i : a
lei le mili il l cle su lislam lidi resl rat clona le mih l' . Segli. Inzi non
prima r han con le rila una grazia alquanto spesiosi, ch'essi pretendono tosto
che lui lo il dì roi li dobbiate e accompagnar ne' corteggi, e apportar ne'
cocchi, e servire nelle anticamere ». Segn. \ on rel lissº io º non prima io
roglio, cominciare a parlare, che il Santo P ofele I)a riele mi toglie le
parole di bocca ». Se gli. Non prima riule ro ossequiosi sol lorni eIlersi i
mari alle loro pianle'. e tributarie stemperarsi le murole ai loro palali: non
prima sperimentarne a loro pro luminosa la molle, ombrato il giorno,
rugiadose le pietre, fe conda la solitudine, non prima cominciarono a debellare
i popoli con la forza o a premerli con l'impero, che si ribellarono
arrogantemente dal culto del vero Dio ecc. . Segn. Non prima contemplò quiri
assisa la forma pubblica di giudizio ap prestatosi a condannarlo, non prima i
giudici apparsi nel tribunale, non prima gli (ircustlori uscesi sui l os/ri,
nºn prima il popolo concorso (t)) ol lalamente a mirarlo, che non potendo più
reggere alla rergogna, ristelle un poco, e di poi, tra lo furiosamente uno
stile, si diº la mortr. Segn. Troppo indegna cosa è il reale e che non prima
risolva usi quelli donna, quel cittadino, quel catrali, re, o ai rºslire con
maggior sempli cità, o a con rersare con maggior riserbo, o di ricere con maggior
rili ratezza, che subito cento male lingue si ci fu zzino al molleggiarli .
Segli Non prima l'innocente colomba uscì fuor del nido, che diede fra le ugne
di un rapace sparriere . Segn.IIa un ingegno diabolico e pronto, un proceder
ſardo, un pati lar grare, un arriso subito, un ritratta i si in su l la II, che
non gli c prima messo un lascio innanzi che r la I l o a lui la sua riſortolot
o. Caro. « Non si tosto poi la riſolse in mano, che la fece di sorpe
ritornar gut ». Sºgli. E appena ebbe letto le predelle parole, che li
subito sopra di loro renne una luce con la n la chiarezza, che essendo il rore
nelle oscuro e' si redeano innanzi chiaramente come di bello di chi ti o .
Cavill a. ()uiri appena ) il che ecco l'ar male degli Areni, i quali quali lo pl
in al riale ro i nostri, diede l o l u llo insieme in col mal e latin li li li
. I 3: l'1. Appena egli posò il piede in terra, che mentre si mira col (l'ul ll
' 'n i . quiri l'inchiolarono.... . Si gn.E a mala pena e libe apri la la
bocca, che gii , o rinò misert nºn le . l'iore 17.Ed appena erano le parole
della sua risposta ſimile, che ella Nºn li il tempo del mar Iorire esser renulo
o Docr'.a .... e'l figliuolo essendo andato per il n calino per lat (lolcit.
appena era il ferro entrato nella carne un'oncia che il porco cominciò a
gridare i Sacchi.« Appena si sollera ra un leggiero, diletica nºn lo di senso
negli animi i di un lierna raſo, di un Franco, di un lemºdello, che in con lui
nºn le I lilli ignuoli correrano chi ad allui)arsi nei ghiacci chi... . Segn.«
Appena era comparsa nel campo la generose (iiudillo che l'atlli subito quasi
alla risſa di un insolito, lune, rintser lilli incitmlali a si gran beltà ».
Segn.Il ralen l'uomo senza più tranti andare, come prima chlie tempo questo
racconlò.... ). I3cc ('.a riri sicuro che come prima addormenta lo ſi fossi
saresti slalo (tm mazzalo) ». ROCC. a dore egli come prima ebbe agio fece
al messere grandissima festa ». Docc. -. E in altro luogo ripel e il 13 cc. la
stessissima frase: « Ella, come prima el be agio fece il Saladino, grandissima
festa »..... la qual cosa come prima si udi per la Lombardia, lolse laul (li
credi lo o, (iiamb. “e promellendogli ancora largamente di levarsi in
aiuto suo. come egli prima possº in campagna . (iianl).la cui poichè prima ne
in lese, si son li prende i si. che…) . 3il 'l. « L (quila come piuttosto
di ciò s'accorso'. enl , è lui la sol lo sopra e così s'andò la (iiore, e con
togli il caso, lo pregò che... ... l'iorenz. e quando egli ci sarà, io lo me è
e come tu mi senti, cosi il ia en li ai r in questa cassa e se i ra i cl clen I
ro . I3 cc. con le prima, lº sl he . Come lu gii, disceso cosi il lil o I russe
. I 3 ('.Come ti ſei rola il sen li tono cosi se ne scese o alla sl 1 di lui lº
ce Come ride corre e al pozzo. cosi ricorerò in casa e se i rossi le uli o 3 )
.... per le quali parole il mio marito incolla nºn le s'allo nºn lo e' ccme al
lorni en la lo il set le cosi tipi e l'uscio e riense ne dem l'o, º slots si
con m cco e questo non la lla mai e lº il S.Come io giunsi ed ecco sopi arreni,
l'irl ro 13ore 19 NOte e Aggi U1 1 m te all' articolo 8 12)
Simile alla coes-ruzione tedesca: nicht eher... als.... Il luogo di ehe oppure
bevor, che sta per l' itero prima che,13, Quel non, che li i lo I r . I s-li
alti - Ilpi , a 1 lie della sesso Segneri, è lorse scivolato di liti per
il la ai valori e i Segneri, ai quale sapeva male, pensº io, o gli veniva del
guasto e dello storp Io a dire : che udisse. 14, l'oni Ine!lte il lesto e
i i pr . e le 11 e le 1 di . . . II, 'il:lo all'ait , si rassolini, li, i lle
11. Il perdori sl il 1. l)llº I – Il re 1 il ll li si , gol i . 15 Il
Corticelli si l plico Ia, il il 1 , par. 1 , se qui con le e di ragione,
imperocchè rilerenido, lo stesso - Impio, osserva che la par ticci la prima con
la negativa ha la proprieta di significare talvolta infi nattanto che, e
talvolta subito che. I - Il ll il 1 , si l: i 1ei la se conda parte di questo
Inedesimo al tiroio S. Mia che li citato non prima fol mi da se S lo frase o
modo avverbiale colli e vorrebbe e valga infin tanto che, non so cui possa Ilia
I capire nella 'lini , che il grato sente e intende (lei II l 'ti er-e III l i
lill 1. Il nel significato di infintanto che, lira Ilei la s partiz le due lil
- la l l'avverbi , prima che, tra li l'11 | tendov -: o li e -il-sogllita o
leve sllssegllire. 16 Qil - o prima 1 e 1 : :l'i; 1: de l eher li di
piuttosto, più presto. Ma ad ogni modo, resta sempre il grafo della di
sgiunzione e trasposizione dell'inciso che, 1, Binda che i ll'en III al
clie fa r , ti ra questa o qllelia for Inti in coInfronto di un'altra clle III
i dl o con i lille e volgare, non è In lo avviso che questa sia sempre lilello
bilonia, e sia la sli: 1 ter addlr IIura. \ che i Inodi tos:o che, subito che
non solo a ragi m d' s III pi - II: il 1 li che non ne usasse quando ben torni,
anche il I recenti e cinque º to Simile a questo subito che, IIIa in Iorma piu
gaia e pil ſorte è il da te si o ratto che: . . . . . . . ed r si lev o ratto
Ch', la ci vide passarsi (l: V: l Int ( m. 18) Al che i Latini usarono ut
i greci o snello stesso siglli l'rim.1 di passare a l alti e altri tazi,
i no: voglio qui rimanermi di ºsservare che (Il testº : come.... così..... è
ben altra cosa della forma coin. parativa, p. es., del sieguente passo : nè sia
chi ne stupisca , perche come l'uomo è vissuto cosi generalmente muore. Notisi
però che di questa forili º comparativa ai buoni scrittori piu che il diretto:
come... così..., a: a Va assil I lll'ill Ilio l'assetto in V clso:
cosi... come...; che cosi in alti e non come l'ho citato lo trovi questo
inedesimo passo nel testo originale del pil dre Seglieri: li siti e li I tre
still list il per le cosi l'ul, irlo lilllore generali Irelle, come è vissuto
n.Assaporalo il grata di codesta lli versi rime anche negli eseIl pi se gllenti
:Queste sono le operazioni (le l' ill: Ino: all III: estrº l e, a Irl III
ollire ...., l - gli cosi Coni e lº, il 1 lt il ſil 1 l. - - - - - - e ce , aci
per i re cosi lo III: i glie loro come lo Ilge gli ed intelligenza il ogli i sa,
e pera º norevole I l Ill sa.... » l' 1:1 lo l Illi.Io potrei cercare lulla
Siena e Ilol Ve ne troverei illmo, che cosi II i s.esse belle come il si .La li
la dre, che le tl , l ire l: I 1:. ll ll l: I g il va Il ferirla, poi, le le
seppe Il rito Il . dI S. l a no esco con lido che cosi or: la p 1 l el l e
l'Isll st 11: l III , I | 1, come , Zi l', i Vrebbe potuto risal lia l' iller
IIl l: illo . ll , cosi i ns, come gli 1 ll dal V a ntl gli si gel1 o 1 pl il
1, rot! S si III in id) , Il Irgli ». I3: l .« . . . . . . ll I II li assi. Il
ril . ll I 1:1 e-1 r il pil sapere di V ( I, cosi II slla l la legg . . I
1st a 1 il ss 1 vs 1 1, come voi ora il I persl 1: i let ss. l la s. l '
. I 3: l . e … se li , V . - ti . . ll cosi !) il liti e In Il lidosi come il l
V el'elil e la V il si , 13a l .« A Ilzi cosi il ssista Idcl I o il V revole il
Il le :is eri come i 1:ì ll pil II: i n1 il Se tl.Se l'uomo la il sottil I geg.
l lo i teli e lo chiali o, il salda me noria, loli se li puo e l'1, i re: le
cosi - : S I lllll liti de Vizi, come li virtll , . lPass: l V .lº, il vero ,
li , cosi come lei, il ... - Illesi: da li ll. I l il l re i ti li . . -. I 3 ,
i .“ . - - - - il ilse la V I rl I si sa delle liti . . . . per le cosi
come, lisa V Vedula trielite : so - ei 1, si via tre il - i l: spegnere
per o!: ºr i li ll li i' l I l: il ct , lì 11 . - lo Il Vila : “i sa slla
i livi gli in stra quella cosa la qual e egli ha più cara, a flernlando che se
egli potesse, cosi come questo, ma lto pit volentieri gli mostreria il suo
cuore », l?occ. “e che cosi fosse servita cosi ei come se sua propria moglie «
I (lsse ». I3C) ( ('.« . . . . . rispose che così era il vero come quello Irti
le aveva detto ». Fioretti.« E son certo che cosi a V verrebbe come voi dite,
dove così a ndasse la e bisogna come avvisate ». I3 a .« Ma non illte:ldendº
essa che questa fosse così l'ultima come era sta e ta la prima ». Bocc.e Sio
Irli conoscessi cosi li pietre preziose, come i ini, sarei e buon gioielliere
». I.ib Motl.19; Ho annesso agli ani e li liti in li Il testo esempi di un come
. . . . e...., e sì per mostrare l'allal - ia, mie a 1 he per rilevar e la
diffe renza. A cenlla bellsl 1 il l Il s.o come. . . . e. . . . alla con impara
nella di dlle atti, Ina Vi senti al che la relazione | 11:1 lo di: in quel
mentre, in quella che... , precisamente al fora. . ., e qlla ido, di quando. .
. , tanto. . . .; di che ti sia l all o p III , l i rili pari le lilli e si ra
. , il 1 e l'allegato, gli esempi che seguono:e IO Ini leva diritto, e come i i
vole: l IIIa ridare chi fosse, e che a Vesse, ed e . , Iri esser I.: Inler 1 1:
v. I l sul l . 1 litot e 2 , 3oCome noi pro lia il e s II h , a e ge')till III:
I mie!'e V ( Ing Il i : ll' ! ! li , , ( si ri.Come pili i vecchia la V . AV
relIl mio tilt li in li iori - : l:di. l il bit. ll e pill ripostigli, e più si
cerebb il le s II - , e come piti adoperate e liti per ferite e ! ti ve nio,
poi io che si lo i come le vesciche, le quali come pili solo lo rientate, e pii
- empiono ,. (.ar .()sserverai lili -1 e si pllo talora sotſi' il lil re, ti:
nel I e torni bene, e punto illlia n soffra il senso. l'rima di
uscire di questo come, cli i lili: lelli voci re Illonti sulle penne degli alti
li, p la eliri per il III : il clii il 7 Zii e collettivita, di completare e
mette e qui il Vppenali ll l a rigor di ordine s: rebbe materia del capit , i
gli ºli, , , , il ll li - Il pi l'1 ol':i, sia di un semplice come, che, - : l
li a lli I chi, lui ora Iorzi di siccome, poscia che, conci ossia che, subito
che, li quale il . col. . . quale, precedute dalle voci modo, via ecc., e quali
(lo di che, di finchè ed anche di quanto n 1 modi: come spesso, come presso?) e
talora lillalrilen e di im, con, di qual maniera, guisa e simili, sia de 'I I
riport come che, a valore quali ido, di avvegnache, I: I: Ido li in qualunque
marie ra che, e talora anche di uli semplice come ( siccome. “e com'è Illisse
di verilo e'l freddo gra il le, V eg. ) io l'ill l'e ll 11 di que” bacherozzoli
o F, ronz. a Come villan che egli era il canili, di lilltalli, gli illò
della s lll'e a sulla testa sì piacevolmente che … Fier liz. I concia -si: chè
egli era villa li , cosi ſi celido come si lol la r llli Villa lì
lì. ti e come colui che pi col l lev:I | Il ra a V V a 9. l 3 ct'.
“.. . . . un giorno verso la sera elitrò li ei gia i dilio illi: gi valle hella
e vistosi, come quella che Ioriº ita era di vestiti riti di seta e
d'argelli avea intorno le piu nuove ed is;uisite legge che si lisa-ser ,
(iozzi a .... e com'e' vedeva i lºlirici in posi, novella illelite ridava
all'arle º Bart. e dissegli che come nona sonasse il chiamasse» Bocca Come la
donna udi ques.o levatasi in pie, comincio a dire....» Doce. E dire il
vero, com'e' l: rai, Ild ri. Illesla (til lido ilz:i di l)io il lin llc, l'e, è
lllli il n. St gli...... e com'ei Ill iIII per li re, lei scaccia la... ft III
l'il' li lllllg , si eliſ on I ); i V.a Questo animale, come sentirà l'odo e
del pesce, ilscira fuori e con il a ciera a mi: ng la rsi di Ill peso 1 il ni ,
Fiºrenz.“ - - - - - - come pervennero alla città di Gaza li l iuoli
inlerinarolio si gra veli elite d'ulio Inc. rilo e le el'a ll lisleri It I l (
il Val 1. Io voglio andare a trovar modo come il s 1 di qlla elitro » lº - e
segretamente deliberero io che si dovesse trovare ogni via e ogni modo, come
poi sistro la r 1:1 ril e (ies Il Cav.... e da quivi innanzi penso sempre modo
e via come e glieli potesse ll l':ll'e o li l el'. … che per certo se p
ssibili fosse ad avere pi e ebbe come i il V esse » i 3 . li Il l . . . . . l
Ebbe l: nuova come (ialobal era il is l il V . .... come ti se lui spesso ad
Ira . . I3llon: i ferrilli!):l, come il cºlessi I ea voi? Vlessere, dlle tl):17
/ :ll di ma lo » 13 . In Itlal I l 'lieri, i 11: il prezzo).Come è il V , si ro
Il le? e il V I l come li, il 'll ? e lº quale, di ſlal lo fila . e . . . e di
li a 1 lo come li - : -st :: Il a I.:i giova:le, plai lig il , l ' s - .
ll avev. a - la li paglia nei a selva sli tirrita, i ri . I come presso lo ss o
il Vlag : :l, i cui I l bilo: ll il si se...... l3 e . I ) Iss i llora l:
i giova il lº come i l so io : l italizi presso di di ver il berga l' ? » I 3 i
.Veduti e gli allegati i seri ini i lil 1 | li i lisi di tiri come il form la
selm plice, passiamo ora agli esempi del collip - come che, in quell'lls , e
val( il chilo (li: i rizi: (*) Notale queste forme: come avete mom e ?
com'è il vostro nome ? Vostro padre corn e ha nome ? Sono st m.lli alle
tedesche ed inglesi: Wie heissen Sie ? Wi e ist der Name ? What is the
name ? ecc.Usane anche tu, e la sera il francesismo : come vi chiamate? ecc. e
simili. Si che l'ha anche il Boccaccio questo chiamarsi in significato di aver
nome, ma ne us a tm maniera ben diversa e più leggiadra, che non fa il moderno.
Esempio. « Domandò Giosefo un buon uomo, il quale a capo del ponte si sedea,
come qui vi si chiamasse. Al quale il buon uom , rispose : M a sera qui si
chiama il ponte all'oca ». I) al qual esempio ognuno intende che quel si non è
particella pronominale riferita a quivi, qui, ma sta per gente, uomo, on, man
th ey the people - e qui si chia:n a vuol dire: qui la gente dice, qui si dice,
qui tutti chiamano, o cosa stmlle. Di esempi del modo aver nome in luogo di
chiamarsi abbonda ogni libro classico : “ Beata Margherita fu fi gli uola d'uno
ch'ebbe nome Teodosio, Il quale era Patriarca ed era gentile uomo e adorav gli
Idoli . . . “ Cav. , ed io non Glan noto, ma Giuffredi ho nome Bocc. ec . - Nel
tempo d'un Imperatore pietoso e santissimo, il quale ebbe nome Teodosio Iu un
senatore della città di Roma, il quale ebbe nome An tigo no, uomo di grande affare,
e molto congiunto al detto Imperatore . . . Tolse questi mog te, una donna, la
quale ave a nome Eufrasia, donna religiosa, e molto temente l ddlo n.
CaV. 33 a) L'avverbio come che non ha quel senso di perciocche nel
quale tanto frequentemente è in bocca d'alcuno. Il suo natural
significato e d'avvegnache, ancora che, ben che (Bar toli). Notisi però che
anche in questo senso trovasi il piu SOVC Ilte, l) Ull al principio del
periodo, ma entro a questo acconciamente innestato. In testa al periodo prelerilai:
quantunque, quantunque volte, benche, avve gnaCChe ecc. « AVVisando che
dell'acqua, come che ella gli piacesse poco, trovereb º be in ogni parte »
Fierenz. “ ......e sempre che presso gli veniva quinlo poica ( n mano,
come e che poca forza l'avesse, la lontanaval o 13o . " . . . .. .
ed oltre a questo, come che io sia al titº, io sono inoltro, colite « gli
altri, e con le voi vedete, io : io, i s a I r; i vec li a Lioce. º . . .
. . . il quale, come che II lotto - ingegnassi di pir, r , salito :ier, º
al flat ol' della fede e l'isi d l'1, i ra Ilon III . Il tono liv st 1. alore
di hi a piena a V ºa la b rsa e li li rli dI - ii a lei le s III sse » l?occ. a
Ella ll ( lilediCa Il li l' ', conne che li l s , il lit: i rito, se la ll I li
« fallo llli crede. 1 e esser III , I » I 3 t .« L'ira in fervelllissili lo Il
rore accenti si r.: ; e come che e questo -C Vento 1: egli iol 1, 1, 1 a VV 11:
1, 1: là con ni:: :: : : danni s'è nelle donne Veillllº º Bocc. º . . . .
. . si è adoperato i 111a Iliera di ri . . . , come cime inolfi il Liegano, a (
( Il dann, a lido d'errore il dire.... » I3: l'I. « ...... e come che
gran moja nel cuor fi nis e, º eriza n. il tar viso, in braccio la pose al
famigliare e dissegli: te . .... 13 cc. « I Inalla cosa è aver
rimp.issione d gli : Il Il ti; e ceme che il claso una a persona stea bene, a
colori e mass III, III e 11 e 'I l ' st , ' quali.... » 13 r. b) Anche
per comunque, in qualunque maniera, e ad i era lui si desimo come che, scrive
Il I al I l l', - lizia Illi. Il sospet lo d'errore.In questo caso pero e il
come non il come che) l'avverbio risolv: toile lei sului (le111enti: in
qualunque maniera, e ii che li e la rispettiva . giunzione o pronome realivo,
congiuntivº: nella quale ecc. o Nuovi tormenti e nuovi torinºlltilt i Mli V gg
, Ill. l'I1 , come che io, « mli Inuova, E come che lo li li V l il.... » l)a
ille. « Come che questo sia stato o no.... o lorº. a Come che in processi di
tempo s'avvelisso . Docc. « Come che loro venisse fatto » l?occ. « Ora come che
la superbia si li renali, o per l'un modo, o per l'al.ro...» Passavanti.« Ma
come ch'ella li governi e volga l?rili lavora per me non tol la « mai »
Petrarca. c) Notevole anche il come che dei seguenti esempi, nei quali
sia il valore di un complice come i siccome, « E come che il povero corvo
fosse persona antica e di gran ripºrta « zione....., molti lo venivano a
visitare, e come si usa, pil con le parole « che con fatti, ognuno gli
profferiva e aiuto e favore ». l'iel'eliz. 3 - - - - - - m:
disposi a non voler più la dimestichezza di lui e per non averne ragione, nè
sua lettera, nè sula 1 Imbasciata più volli ricevere; come che io e l'elo, se
li lu fosse perseverato,..... veggendolo io consu « Illare, colli e si fa
la neve al sole, il limito dll r , proponilla mt , si sarebbe a piegato »
Boce. I3mila però che il come che di questi ed allrl siiiiili esempi
senza nu Intero, 11 , li si vuol leggere i dlli filo e pr . llllll iare con
quell'accento che il comme che a valore il quantunque, benchè, che sarebbe
imbra il o troppo rincrescevole e noi ne aver sti a lei in senso, ma
profferirlo in guisa che il come risalti e recli egli solo l'impronta di
siccome, im perocchè. La congiunzione che non ha qui a far nulla col come, nè
sta ad al.ro ulfficio, oliº di semplice collg Illizione o nesso di puro
OrnaIlento, e la portersene all'he l'Il rialle e', 'Irle appllll. , fece, tra
l'altri, e assai si velli e il lºlere:lzuola. (AIPITI'() I,() I [..
Particelle e compagini a foggia ed uso classico; avverloi, cioè, col ngiu
11 azioni e voci il n go - I nera n lo è o li in iu 11 i valore altro cl neº
rela a tivo, 1 r) a tu ltto i 1 n t rii msec », i1 in in nea 1 nerì te Clirò
cosi, e il nero 1 i te al costruutto, con i lcº il gran to del tcsst 1to l crio
la ale, il va ago . lo il coro lit collega - 1T nel nto gli slo: nrtite i
lec . Ad alculle di sili. Il l Irella l. I li gi i tiri lici li nomine di
1 - pieno, e ci sono ce le colali particel. . . . ess, proprie della lingua
toscana, le quali, oli e il 11 11 11 -si l i i s ll la III , il alla tela gl a
- Intili: Ile, clie pi l'eblo sl. 1' st 117 -s . l II l' - I lil a cle aggli
Ingallo a - l'orazione forza, grazil. ori a 111 mil . . . se li n . I ro. Il
cerla maliva pr - prietà di linguaggio ... C. rl Icelli. CIl mio ed
altri. Ma vorrei qui rilevare che codesti autori fanno appunto oggetto di
particolare osservazione le l ' Vlt i l (..l'.I l .E che non inati, o ti ifici
o altro cile di ornamento e di ripieno; men .re le l ' V l l I ( I, I l l. e 4
t ) , il V º il N I, e le V ( ) ( 'I IN (i I, NIEI è VI ,E, di cui e parola in
questo e in altri capitoli del I)II E I'l'ORl(), sono argomento di studio da
quindi addietro al tutto igno rato e assai più rilevante che non sia cosa
puramen le ori:arm2miale, come quello che adopera all'origitial candore e alia
NEI VA I V del perio dare classic. NON SI (tanto) . . . CiiE NON . . .
Per squadernare che io faccia un libro, il derio di penna volgare o colta, a
gran pena ch'io vi Irovi pure il periodo a lornia e sll'ulltila clie negli esempi
che qui ſi allego. E dire ci clia è si bella, strella, evidente e di un garbo
tutto ilaliano ! L'ebbero a grado assai ed usarolila di Irequente
scrittori non pur del [recento ma e ti i cinquecento ed anche dei piu recenti,
– di età cioè, non di sonno e di ullura, ch'ella è antica e non invecchia
mai. ltisport pressa poi al 11 sl 1 o : per quanto... lulla via..., e
talora a 11 ne ai cori e tali vo: qui un lo... all.rellan lo.... Cili è però
mestieri di ben altri, i lilo a 1 il ri: il lique suscellibile sia dell'uno che
dell'altro 1 ggi il coinvºlte i Sy Pochi esempi, ma quanto basti ad
aguzzarlene l'appetito: .... e le giustizial to a sioni in calesine in
diverse lor pan li debbono a re e al rei si nun li, nè si l ruora alcuno
muri e o cosi bello e leggiadro, che ustio li', pur intenſe non luiuslidisca e
generi sazietà . Varchi. E dunqu su penso che l'osse un re libero di carila,
che non è si poco site noti avarizi, e , a lui pia, che li lle le cose ci
colle, onde ella di mld l'a, più te, e l'uni, e in . ch ella non la ceca se
medesima . Cavalca. .... m. a e la loro si alla lo alla mia che una
paroluzza si che la non si può dire, che fiori si senta o. liocc.
....pei e che mai uomo non mi vuol si sce, e lo parla e che egli non roglia la
sia pari udu e, e se ci cruene che... i 13ove..... Mi ss, i disse la donna, il
giovane con che alle il laccio non so, ma egli non e un casa uscio si serrate,
che come egli il tlocca non s a lui a ... I c.percio, che egli non c alcun si o
bito, al quale io non ardisca di da ciò cl, bisogna, ne si lui o o zolico che
io non annoi bidisca l'ºnº r, il il di ciò che io cori di litrº.il in ii ......
ancora che egli non loss mollo chiuti o il dì, ed egli s ci sº in sso il
cappuccio in util: li li occhi, non si seppe si , io ci o cali non posso
prestamente conosciuto dalla donna - lº no: si p co che oltre a diecimila
dobbre non calesse e lº ins, s. capelletto: Messer lo piale, non dil cosi, io
non mi onirs se ne tatto e le nè si spesso, che i sempre non mi i colºssi i sa,
i n i 'mente di lulli i miei in rili. che io mi ricordassi dal ci, ci e, a qui,
in lino a quello che con lº stilo mi sºnº i 80 t . ve mai enti e così ci rendo
cedrete coi, niuna spesa lalla si ſnºdº, è si s., lo sa, ne tanto magnifica,
che ella non sia di molli, per molli mancatinenti, biasimarla l' º '.e 1,i, il
re in guardi, che i cari sia le nulle si lº lui il li) con l rul 'lo alla fase
a degli uomini quanto l'ºrº ristº: niuna è si chiut l'ut (' eccci fetil e in la
quale non stia oscura, e sconosciutº sºlº l'u n'atrizia ». l', i licli il . - -
E la chi potremo noi lidire' più il vero, che da voi, il quale si"
riputato sion tanto spendente che in roi non slot onesta mºsso" " si
le massaie, tale che non dobbiale ºsserº reputato liberale? ». andolº. si eli,
a I, sperar mi ero cºſiº I)i quella ſera la gaietta pelle. ; del I n po , la
dolce slogionº, Ma non si, che paura non mi dºssº La rista che mi apparre di un
lºrº º l)ante. - - - - - i vini campo, fu mai si ben collirottº, che in esso º
orticº ". o alcun primo non si l'orossº mescolato fra l'erbe migliori º l'
iamme" « Non ci sarà tanto dolce la consolazinoe che prenderete del
sºlire,.... che egli non vi debba altresì essere utilissimo il al re... C -
sari. (29).« e dilellami di pensare di lei maggiormente, che reca maggio: virtù
e maggior ſortezza: e so bene ch'io non potrei tanto mensa, che più non ci
avesse da pensare a Caval a.«... e' l dimonio disse: Al mondo non è per cui lo
si gr. 1 nel , che I, lali, non gli perdoni, se si converte, ma qualunque uomo
si accal. . per I l pºnilºnso o per altro modo, se llio non gli ha misericordi,
si e ci rius I., Cavalca. non è si aspra e malatgerole che alcun pur non la
les, le i Cav.« non è si magro carallo che alla bietola non rigni in il 1 lo .
. S º . . . . . con piacere inci 'dibile del mio stillin , che son d se la trº
Sloi (), che per si la lo on i re non si l is 'n lor e il tr . . . . . ); . .
.a Io ne ho parecchi esempi ma per dir crro, non son cos: i ſissini: che non
possan ricevere latin lo accorcia in n 1 l in I pm la l . . . li « Qual luogo è
si sui grossi nto, che i c. coli non ti tra il ct 1 nel 1 : insidie alla loro
incut u lui one's là? , S gl, 30« un lento morire di dodici anni, per una
penosissimi a : i riti iii: nè tanto leggiera, che quasi sempre non isl ess, in
agonia. se tanto il re alle forze della sua carità, che sempi e non in licasse
i sei zio di Dio e delle anime n. 13a l'I.« Non istelle o però sempre quiri in
Tucuscima fermi si ciºe l'uno e l'altro non iscor esser tal rolla a seminatre e
mielere il lle tll re isole di quel contorno ». Bart.« Che se non è mai tanto
aspro dolore che il len per non lº distri li ed anco non lo annulli, perchè la
prudenza e la costati ai rom l dr G almer in itigare? ». Caro.a Secolo non però
tanto di rii li sterile che qualch . n e si ri; i non producesse ». Dav. - «
Sicchè bisogna guarda i ri da animo delittº ºlo. perchè alla osti, nazione non
è si difficile impresa che non riesca . Fiºr º.a V ero è nondimeno che in
questa pati (e di nasconi, si tl riti º gli renne fatto di conseguirlo si
interamente che ti º di quello, che fuor che agli occhi di Dio egli pensava
essere occill I, r; l uſ gli atll ri . nºn si palesasse ». Dart. – 38
– NOte all clrticolo 7. ?S) To II: Ilive e per i 1:1 1 : la .
. . . . Il Not so. . . . but that.... Es.: I noi so but that I l l:lve g ancd
at rva - sonº l'1: v. l . ll, Willls ver not so Il 1 l v d . . . A cºl
bu:i tinat i -li si stile t : 2!) ( );: non si u, le motº. . . . . ! ! (
r -, , e al I li e ! ::i ll l: llll rºl , l tall ll . . . . . . o si
pºte:to... o tre.... vi il lla - . v . l i non meno , , , cime VI, ina :
qui li a l. egi 12 linette i'a, la cosa e i'altra; I l V i l IV V :) 11 egua i
rincari e il pregio di virtù e in nuriero di lei le!. l . . . . ., l i i 30 (
). li è in ſo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . - ! i ; iprimo incis , l'
ri: Ni: in It:ogo è si s - :: cin e voi i pl: i non te ! , trici 1 e ti
. ARTICOLO 13 n0n Ciii . . . (anzi, ma . . .) l' vi l' non
rli slli gg ad Il col: il liso, ci chi si l i delle in circ venti li e ſi ha -
- il l e per le fornire e c i cl: ssi i : I l . E li ul: ssaggio
dei model i i non cli : « E vi la lo il tg ci li : . spicca il I l . non
v li e' viali ecc. il III il s lis . . l si gli e il solo cile gialnili:
li si riliv li i ll ' : 1' ll - : il lassiche, | Non sº, l l: li lilai i
". I sici in l:il guisa, ma luitino, se lingua a que”
gloriosi. l:s il de vi: il re ciò e ,i lire : si oln in he uscir de
condo pari a me, pole a riti per il che | Il il colport Isse, lanlo è diverso
questo modo, non che dall'antico e lui si li l'ente sulla Appo i classici
vale a dunque quando non solo, (Illando non solo non. Il Bartoli e parecchi
altri sottili investigatori in opera di lingua appuntarono il Vocabolario che
definì il non che : Particella e crersalir. e di negazione, e corressero
aggiungendo: alcune role sì, alcune colte no ma e del si e del no niuna regola.
Io non pretendo crear regole; rife risco l'Osservato e se altri fai assene
regola, al sia di lui.Dico adunque che Dante. Doccaccio, Cavalca, 13a Ioli , di
altri li grande autorità dànno al non che senso di non solo non quando regge in
passato e talora anche il presente del modo congiuntivo: in altri casi vale
sempre o quasi sempre non solo.Il Cesari però adopera l'un per l'altro. Forse
ch'io inal , apponga o che il valoroso Cesari (lui sgarrasso? Non oserei
asseverarlo. Il ma od anzi del secondo inciso ordinariamente non ha luogo di
lando. vi è inversione di frase, e però il non che sussegue, non precede, come
si farebbe direttamente. Nè per questo torna al non che moderno, che la
relazione di non solo non e mai vi si sente ſul lavi, ed è lontano le mille
miglia di assumere il torto significato di siccome anche e ancora ( C('.Senza
inversione di frase può per altro il mal precedere l rrelativo non che, come
fecero, Boccaccio. Partoli e tant'altri senza rimerci. Loggi e dimmi se vi
ravvisi il non che moderno ! E' affare di ori ginal candore, integrità e vago
non pur della frase, ma del peri do ancora, che i moderni non curano affaſ (c,
lo bistrattano, e pare che i cciano a chi più lo strazia.(38). Non che io
faccia questo.... ma se roi mi dicesſe ch'io dirorassi nel fuoco, credendori io
piacere, mi sarebbe diletto ». Borc.« Non che la mattina, ma qualora il sole
era più alto..... ra si poteva (1 ntl (tre ). T30CC.a non che a roi ma a me han
contristati gli occhi ! ! ». Bocc. « Di qua, di là, di giù, di su li mena.
Nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena ». Dante.a
Quanti leggiadri giovani, li quali non ch'altri, ma Gallieno, Ippo crate o
Esculapio arrieno giudicati sanissimi ..... ». Bocc.« Ed oltre a questo non che
alcuna donna, quando fu fatta (la legge ci prestasse giuramento, ma niuna ce ne
fù mai chiamata ». Rocc. (30). « Ma non che punto giovasse a rimetterlo in
miglior senno, che anzi ne riportò parole disconce e di non liere strapazzo ».
Bart. 40'. «... e da questa tanto generosa e salda risposta rimase il buon capi
tano si commosso e sì mutato nel cuore, che non che prunlo (tltro dicesse per
isrolgere il santo dal suo stabile proponimento, ma egli medesimo determinò di
rimanersi, e correr quella medesima fortuna che lui, nulla curando, nè la
perdita della sua mare, nè il pericolo della vita ». Bari. « ... e non che il
desse al ballesimo, ma da indi innanzi cominciò una sanguinosa persecuzione ».
I2art.« Sostenne (Socrate, con grandissimo animo la porertà. intanto che, non
che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale avesse ma ancora i doni da'
grandi uomini offeritegli ricusò m. Rocc. (Comm. sopra la Co media di
Dante). « Li quali piaceri lauto all' una parte ed all'altra
aggradirono, che non che l'un dall'alli o aspettasse l'essere in ritato a ciò,
anzi a doverci essºre si lot e cct in nl ro l'un atll al! I o, in rilanci. . l
occ.() la che il San lo ri in tre line di calci i giù a rompicollo in rati i
temi pi di ſtuciulli e il mal dl mi ma che di ragione, ballendo sopra dei sassi
a pil del nº iro, poi l' noi in all zza di reano º immaner imiranti, in ton che
la ni avvenisse il lor che anzi non mi andarono pur leg gri li ul, li si ºr a
nolo di Sai , i rol rol, della promessa, in risibile mi il lit ma il ct - sl n.
1 li s l alti i l . ll . I 3, l .Il Sult 1 io non che si mostrasse il till I N
l li li , l . . o si ritirasse in sè i cd 'simi per non lo si ut e r , i ma, ma
anzi con sembian Ie e modi d' ui a schiella ci ſia balili e il ct pi e l i tiri
i tiri in li, lui lo aggradira, fino a bere per man loro ..... l?arl. - - « l'
rciorch è c'illi era di sì l in Nsrl rilai, e li e non che egli l'ultrui on le
con giustizia vendicasse, anzi in limite con valup eroli , illà a lui fattene
Nosl e ne rai . I 3 cc.« .... e questo set persi sì con la meml, la e, che
quasi mini no, non che il sapesse, ma nè suspicat, a o lº c.Ma con ciò non che
li domasse che anzi maggio in ente gli inasprì : itl che.... ». I3:art.« Ma non
che cessasse con ciò la l. 1 , in e la suoi i rallelli, che anzi maggiormente
le crebbe a 13ari.a Le mie scrilure. e de nei passati, allora e poi le lemmi
occulle rinchiuse, le quali non che ella potess lega re nè ancora rederle º,
IP:ulldolf.« Ma, non che il corno nasca egli non se ne put e nº pedala nè ombra
o. l 31 t ('.a ... se ce li rai in corte di lotti si e' reale la scellerata e
lorda rila dº coi lipi, poi, non che , gli ºli ( il malco si juta la cris' il
mio, ma s', gli lossº cºn i si tro la sen-a fell , giudeo si ritornerebbe
l'oce.illiri o il rili , e scorallo, non che se ne adontasse. I remi il mulo
lui il ſì dal tempio per nascondersi doc, chessia de Cristo che lo minacciava ,
(es. 41).e nessun alito di le ter, di luci costume, nè di sentimento, non che
gentile ma nè un erno si è mai potuto appiccare in Intel srl rigºrio animo v (
s. Il salarmino cielo, non che gli altri, piorera a noi ", il ſiorno
ch'elli nacquero . Filoe. (ſ2.Non che polare è cosa perniciosissima salire
sopra i lrulli e scull picciarli molli anazzosi, o auando è nebbia che gli fa
sdºrnire º, l)av. (ppena el io a dissi di crederlo non che li scriverlo ».
Bocr'. 13', si r, tutti di tingere a tale alle ot, ch' minali ali alberi non
che a ritm-i le bicicl, o. Segn ( 1 ).« Tutto 'I I, in po di cita, che mi può
dare ancor let maltra, ſia pocº a rammemorare, non che a rendere all'Accademici
lo ſtraziº che io debbº ". T):) V.« I)i cosa, che egli roglia, ma io dico
si' rolesse l'asin nostro, non ch' altro, non gli sia detto di no ». Bocc.
(ſf).« Madonna, se voi mi date una camicia io mi ſtellerò nel fuoco non ch'
altro ». BOCC. « .... e sfacciati più ancor dell'antico Cam non dubitate
per beffa nudar chi dorme non che in ritare di molti a mirarne la nudità º ).
Sogn. « .1 dunque, come ha rerun di roi gran premura di assicurare l'eterna sua
salvazione, mentre passeranno i dì in lieri, non che le notti, senza che di ciò
mai ri ricorra alla mente un leggier fantasma ? ». Segn. (46). « ... non
sorrenendoli prima, per sommo loro dispregio neppur di un salmo, non che di
alcun più onorevole funerale ». Segn.« ... al sentirsi rimbombare quellº ch m !
nella mente, Don Abbondio non che pensare a trasgredire una tal legge si
pentiva anche dell'aver ciarlato con Perpetua ». Manzoni. (47). NOte e
Aggiunte all'Articolo 13. (38) Non sarai poi di si corta vista che
non ti avvegga di equivoca zione, a volere, come fanno certuni, sempre e non
altro vedere e inten dere che il ragionato modo non che, sol che si trovi un
che accanto alla particella non. Il seguente esempio ſe ne chiarisca: « Come,
disse il ge « loso, non dicesti così e cosi al prete che ti confesso? La donna
disse: « Non che egli te l'abbia ridello, Irla ogli basterebbe se tu fossi stato
« presente: Inai si che io gliele dissi: ». I3occ. Separa quel non dal che,
intendilo nel senso di non già che ecc., o altro di simile, e la frase è
chiarissima. Ma col senso (li nonche lì lì le cavi alcun costrutto. (39)
Traduci: non solamente niuna donna ci prestò giuramento. Ina. Poni mente
costrutto egualissimo dol seguente esempio: « Il re udendo « questo e
rendendosi certo che IRuggeri il ver disse, non solamente che « egli a peggio
dover operare procedesse, ma di ciò che fatto avea gl'in crebbe ». I30 ('.
cioè: non solamente non procedè a peggior operare, ma. . . . E chi dubitare a
dunque che in costrutli si fatti il non che ha senso di non solamente che, e
l'uno e l'altro, come che altra voce non segua che comunque il neghi, vaga e
breve forma avversativa e di ne gazione? Osserva come in molti degli esempi (e
potrei allegarne a centinaia) che fanno seguito a questo primo del Boccaccio il
non che ha senso di non solo non, o come a tutti codesti non che risponde un'im
perfetto o presente congiuntivo, il quale solo che al non che si sostituisca il
non solo non, torna al passato o presente indicativo. Ma quanto è migliore quel
costruito! Ammira stretta commessura e soavità di tornio! Traduci come
sopra: non solo non giovò, e così nei seguenti esempi.41) In questo esempio del
Cesari non vi senti forse quel vigore che nei precedenti. Vuoi saperlo? Manca
il ma od il che anzi come suol fare il Bar (li. Inseriscilo il fatti ed oti
leni subito un tornio COI'l'ettis simo, e al tutto col fornire a quello costan.emente
adoperato dal Bartoli e dal I3Occaccio.(2) Non t'illuda la costruzione, il
vertisei e trovi sempre il non che il discorso: o Non che gli altri, ma il
saturnino cielo pioveva a InOre ». E di siffatti modi a migliaia ne troverai
soluadernando i classici, di ogni età e di ogni sfile. (43) Inversione: non che
di scriverlo ma nè di crederlo. 44) Invers, come sopra, e così negli esempi (
le seguono (5) Qui piacque al liocc. di esprimerlo il ma non ostante l'inver.
sione. Noterai di quesio e del seguente esempio la naniera non ch'altro, la
quale pare che andasse assai all'animo al nostro valente oratore I3arbieri.
L'ha sempre sulla penna e ben dieci o dodici volte la trovi in una sola
predica. Vale: non solo, checchessia d'altro che voi pensi nte, ma perfino. . .
.(6) Se ti sorge dubbio intorno al senso di quel non che, non hai che a
consultare il contes , e saprai subito se vale: siccome anche, oppure non solo,
l'arla di coloro che neppur lesti si sentono una a sol volta rapire
violentemente i pensieri a Dio ».(7) l'8occaccio, l)a Valnzali e lº arti li
avrebbero 'se, coerentemento all'ossorvato, costruita la frase un po'
diversamente. « Al sentirsi rim « bombaro (Illell'ehm' nella mente, l)on
\bbondio, non che pensasse a « trasgredire una tal leg e ma si pentiva persino
del'aver ciarlato con « IPerpetua ». I3ada veli' che non ho detto con ciò che
sia errato o men bello il poriodo del Vlanzoni. l'olga il cielo ch'io a ridisca
di censurare od appuntare comecchessia quelle troppo care, adora le
pagine. A RTICOLO 14. SE NON SE NON CHE SE NON FOSSE (che,
giù) forli e li dire costantemente risale dagli antichi e buoni
scrittori, ed oggi invece s degli sani enl e neglelle e al lullo smesse, se non
che ad alcuni oratori, specialmente da chiesa, pare di rammentarsene
profferendo assai volle un solenne se non che, ma a grande sproposito, e
insignificato di ma che non l' ha. (48;.40) Sulla penna a classici le
dette forme hanno ben altro valore e vo gliono dire: se non fosse stato che, a
meno che, lollo che, salvo se, salvo che, altrimenti che. Il Bartoli
ragionando di questa ed altre sorniglianti maniere, cui il periodo deve nesso,
brevità e leggiadria | IIIa italiana, soggiunge: (( ( “ ( ) - Inuti Ilie poi
abbiano a servirvi, o sol per cognizione o ancora, per uso ». Grazie
dell'avvertimento, ma noi seguiremo più che le parole il suo e Sempio. L'
Asia del Bartoli è uno stupendo velluto contesto e lavorato ad opera di ricami,
Irapunti e compassi di così fa la gioielli , º le sullò tali Nso e se non
che ci lui lo sl 1 o, e ralsesi del calore, ella ne ſacerat mille pezzi .
Fiorenz.º (i rotn cosa è slitta col slot. e se non che la lati della Iu, io non
la ('re' le roi , . I 'i rel/.()nde non è lui in pºi lati e in sè a lijello il
non di rerlo, nè di colpa (trerne l l'oppo; se non fosse già che atll li desse
o all' uno o all'altro la cagione, la quale....? ... Passav« Il miglior
piacere, e 'l più sano è il ſitcºre boccone, o quasi, peroc ch è tutte le menº
brut clen I l o sl i rino, nel loro luogo : se non fosse già che la persont a
resse losso o asmat. o altro in ſei mili, che lo facesse ambascia, o noja lo
slar boccone . Passav.« E se non fosse che egli temera del Zeppa egli arrebbe
della alla moglie una gran rillatnici così rinchiuso con e era ». I3oce.a e se
non fosse ch'io non coglio mostratrº.... io direi che dimani...». I 3 co.a e se
non fosse ch' egli era giovane, e sopra i remira il caldo, eſili arrebbe a rulo
troppo a sostenere ». Dolci -.« E arrei gridato, se non che egli, che ancor
dentro non era, mi chiese mercè per Dio e per roi ». Tocc.« E se non che di
tutti un poco riene del caprino, troppo sarebbe più piacevole il pianto loro ».
Rocc. (49.« Cosa che non fosse mai stata redula, non ri crederei io sapere in
segnare, se ciò non fosser già starnuti ». Rocc. (traduci: a meno che si
trattasso di....).« Era la terra per guastarsi se non fosserò i Lucchesi, che
rennero in Firori: o yo. G. Vill.« Se non fosse il soccorso, che il nostro
Comune ri mandò così Sit bito. la città di Rologna era perduta per la Chiesa .
G. Vill.« Se non fosse il rifugio della terra, pochi ne sarebbero scampali ». (
; Vill. (5ſ) .« E se non fosse che i Fiorentini ci mandarono inconta nºn le
lorº ambasciatori, .... Iologna era l'ulta guasta ». M. Vill.« ... e niuno
seppe mai il fallo suo, se non ch'ella il confessò in peni lenzia al prete,
dicendo la cagione e 'l processo del sito isriamento, e la grazia ricevuta m.
Passav.« Queste nuove cotanto felici fecero alzare al Saverio le mani al
cielo, e piangere d'allegrezza, poichè gli giunsero agli orecchi colà
nella costa di Comorin, dore laticara nelle opere che di sopra contammo: e se
non che Tuiri (tre a presente alla mano una troppa gran messe d'anime che rac
cogliera, sarebbe incontamente ilo a Celebes a farvi grande quella piccola
cristiani di m. I3art. º -..... baluardi non commessi come oggidi nelle
nostre fortezze, con (tl di cortina fra mezzo, ma srelli e isolati, se non
quanto cerli pomli vanno (i con il nicare il passo della gola dell'uno, a
quella dell'altro ». Bart. Era donna di gran nascimento e ricchissima, se
non quanto i Bonzi l'acerano a poco a poco smunta fino a spolparla ». Bart.
51). « E non sarebbe rimaso riro capo di loro, se non che gilardo l'armi
e gridando mercè, rende ono i legni rinti e sè schiari ». I3art. ( .... e
l'arrebbon linito, se non che un di loro gridò che il serbassero (Il riscatto
». I3art. º - - - - - -. ri diò in altra parte con la nla foga, che del
tutto arenò : e se non che tagliarono tosto da piè l'albero della rela maestra,
agli spessi e gran colpi che dara, coll'alzarsi e 'l calar della poppa mobile e
ondeg giante, si aprira » lºart. « Egli (un cerlo 13onzo tanto più
infuriara e ne faceva con lulli alle peggiori: finchè il re il mandò cacciare
come un ribaldo fuori di palagio. e disse: che se non che egli era in
quell'abito di religioso, a poco si ter rebbe di fargli spiccar la testa dal
busto ». I3art. NOte all'articolo 1 f. (48). Quante vol. e si
vedono questi ora Iori riprender fiato, mutar sembiante o proseguire, con vi
quando più grave e quando più di messa, e lentamente, articolando un solenne:
Se non che! lo non so di ninno scrittore antico e se del più recenti almeno
puro e corre.to, che adoperasse mai il se non che in quella forma e senso che
in certi dettati o a dir meglio imbratti moderni.(49). Da questi esempi del
Boccaccio si vede che gli era tutt'uno il se non che e il se non fosse che, ed
usava indifferentemente l'un per altro. (50). Pare che a G. Vill. sapesse
meglio il costruito diretto e senza la congiunzione che, il quale sol che s'inverta
o s'inserisca un verbo torlìa ( Vidolltelnonte all'anzidetto: « Se non fosse
che 'l nostro Comune « Imandò così sul [o il Soccorso occº. ».(51). Nota bella
elissi: se non fosse stato che i Bonzi la impoverirono a segno che . . . .
oppure : a meno che ella s'impoverì di tanto di quanto potevano sul suo cuore i
Bonzi i quali la smunsero fino a. . . . ARTICOLO 18. NON
Stranissimo e fuor d'ogni regola positiva, come che di buona, anzi ottima
lega parve all'autorevolissimo Bartoli l'uso di questa particella. « Però che,
dicº egli, considerandola secondo la natura e la forza che ha di negare e
distruggere quello a che s'appicca, pare che contradica, dove talvolta, se
nulla opera. Inaggiormente afferma; e sol un buon orecchio sa dirci quando vi
stia bene e quando no ». Così avvisa il Bartoli, e con lui ogni allro
scrittore cui occorse di ragionarne. Ma io non m'acquelai e volli non per tanto
esaminarla e stu diarvi dentro, e vederla a punta di ragione, intenderne cioè e
discernerne il come, quando e perchè. E non fu fatica inutile, parini anzi
averla colta che nulla più. Tre costantissime osservazioni mi vennero fatte che
ogni caso comprendono del non che non nega. Non oso erigerle a norma o
regola di eleganza. Menzionerolle e me ne passo. a). La congiunzione
salvo, salvo se, salvo che, a meno che e simili, e l'ammonizione altresì
di guardia, cautela, accortezza, vigilanza che cosa non si faccia, non si dica
o l avvenga, che poi dispiaccia o comunque metta male, è costantemente
susseguita, –- simile al se garder dei Francesi – dalla particella non.
b, che, commessura di comparazione risolvibile nel suo equiva. lente: di quello
che, è susseguito dal non sempre che nel primo inciso non vi abbia non od altra
voce negativa o comunque avversativa. In caso contrario non ha mai non che vi
aderisca. – Appunto come avviene del que dei Francesi, nesso comparativo or
seguito or nò dal ne senza il pas. – (55). c). L'inciso dipondente dai
verbi: temere, dubitare, sospettare, suspi care, ed anche dalle voci: per timore,
paura, e simili – espresse o sol tintese – il quale si governa comunemente a
guida di che o che non, solº reggosi e sta elegantemente senza il che pure a
nodo o tramezzo della particella non, ma sì che il soggetto tramezzi e l'una e
l'altro. Seguono gli esempi divisati, conformemente al ragionato, in tre
dif ferenti gruppi. « La casa mia non è troppo grande, e perciò esser non
vi si potrebbe salvo chi non volesse starvi a modo di mulolo, senza far mollo o
zillo alcuno ». BOCC. « salvo se i Bonzi non levassero popolo e li ci
allizzassero contro ». Bart. “ Una cosa vi ricordo, che cost, che io ei
dica. voi vi guardiate di non dire ad alcuna persona . Iº occ.º l'irºgli da
parte mia, che si guardi di non arer ll’oppo cre - dilo o di non credere
alle lavole di Giannotto , l3 cc. º l Ittºsto la rete, che coi diciate
bene i desideri l' Nl li, e guardatevi che non ri renisse nominato un po' il n
till I ..... . 13 , . « e sta bene accorto che egli non li l'ºnºs le luci
ni tdosso o locc. º e lì la loro lo luna in quello che la olerano più la
col e vole, che ('SSi medesimi non dimandavano , . 13,ce.“ Ma lullo al rinculi
addicenne che ella arrivato non avea ». Boce. º tºndo più animo che a sci co
non si appartenera , Bocc. º ... Se non ci chi è di rim alo e pli lori che non
s no io o l?art. ( .... che io ho l'oro lo donna da molto piu che tu non se',
che meglio mi ha conosciuto che tu non laces , 13( Compagni, non ci lui bale,
l'opera sia altrimenti che voi non pen Sale ». DOcc.« Se io vi polºssi più
esser la nu lui che a non sono, la ulo più ri strei, (1tl am lo più cara cosa,
che non son io mi i sensi. I ne mi rende le m. 130ce. « rispose che per più
spazio che non ha da l a iulino al cielo era fuoco ardente ». Passav.« Assai
volte già ne potete aver recluta i clico, delli e di scacchi troppo più cari
che io non sono . l o e... più assai ce n'erano, e li oppo più belle che queste
non sono ». IB ) c.« Voi m'ono ale assai più che non docerale una persona non
cono sciula e di sì poco alla re ci ne son io , ( aro.« Ma troppo altro gli
incolse che non avere di risalo . Ces. « Perchè dunque sì rall risluti ri, che
gli altri facciano la m lo bene di più che non ſale voi: e però inquiela, li
deriderli, disturbarli ? ». Segn. « Ben conosco per me medesimo la grave: sa del
mio pericolo mag giore ancor che non di le... ... Segm.« Forse a rete voi li
rido il rosli o pello la più frequenti percolimenti di pietra, che non portare
nel suo slam pali irolamo . Segn. l « Nelle donne è grandissimo tre alimento il
set persi guardare del prendersi dello amore di maggio e uomo ch'ella non è o.
Boce. « Dubitando non ella confessasse cosa, per la quale.... ». lRocc. «
.... temette non per isciagura gli renisse smarrita la via ». Boce. « I)i che
egli prese sospetto non così fosse come era ». 13occ. « Chi vuol fa, e la cosa
ancor non rielala, la fa con timore non ella si vieti ». Davanz.
"Forte temeva, non forse di questo alcun s'accorgesse ». Bocc. “ .... i
quali dubitavan forte non Ser Giappelletto gl'inganasse ». Boce. “ Di che
Alessandro si maravigliò ſorte e dubito non forse quegli da disonesto amore
preso, si moresse a così l'attamente toccarlo ». Doce. « ... sospettando non
Cesare gli togliesse lo stato ». Davanz.« Tenealo a bada (Cesare Ienea a bada
il Cardinal Polo ch' era ancora al lago di Garda) perchè le nozze di Filippo si
compiessero prima che ('gli arrivasse, temendo non la sua presenza le
intorbidasse ». I)avanz. « La quale udendo questo, temendo non lorse le donne
per troppa lrella tanto l'uscio sospignessero che s'aprisse..... ». I3occ.( 0r
questo gli dava lroppo gran pena: conciossiachè egli temeva non lorse egli
losse caduto in quella durezza di cuore.... ». Cesari. « tanto i santi sono
teneri e sfiduciati d'ogni lor desiderio, non forse la natura ne gabelli
qualche cosa sottº inteso: per timore che... o temendo mon....) ». Bart.« Ma
gli parve di soprastare alcun poco non forse la troppa sua sollecitudine gli
noiasse (tenendo non forse....) ». Cesari. « ... presso in che di letizia non
morì ». Barl. « Io temo non colui m'abbia ris lo ). I 30cc. - NOte
all'articolo 18, (55). A prova di quanto atºserisco non basta si
alleghino esempi col nom, questi confermano il primo caso, ma occorre anche
mostrare come il che del secondo inciso allora soltanto va senza il non che nel
primo inciso si trova un non o altra forma comunque avversativa.Eccone però un
saggio: « ..tutti presti, tutti pronti ad ogni vostro « piacere verranno nè più
(più tempo) staranno che a voi aggradi». Bocc. « Conservate il vostro, non
ispendete più che portino le vostre facoltà» Pandolf« .... nè avete voi più
desiderio di udirmi, che io ho di farvi mas Sai ». Pandolf.Alla parte 2.
articolo 11 si ragiona tra l'altre cose anche di questo che a valore di : di
quello che, e si allegano molti altri esempi con o senza non in conformità a
quello che qui mi avviso. E' poi tanto vero che, in locuzioni si fatte,
cotesto non l'una o l'altra volta ci deve essere, che ove al Boccaccio, non
sapeva buono (come che di ragion ci stesse, ma per suono forse men grato che all'orecchio
ne veniva) la seconda volta, no ! lasciava la prima avvegna che non ci avesse
luogo: « E chi negherà questo i contorto ) quantunque egli si « sia, non molto
più alle vaghe donne, che agli uomini, convenirsi dona « re?» (In cambio di:
molto più alle vaghe donne che non agli uomini...) CAPITOLO
III. Alcune altre voci il cui valore ed uso vario secol ndo lo
scriverc clegli arm tichi ed anche de 1 migliori nºn oderrni, reca a talora al
l'assetto di nuove e vaghe fornme, così che al periodo non nel no che alla
frase, e vicle I nza 1 ne vierne, garbo e sapore. Nel precedente capitolo
allegai ed illustrai maniere – particelle, compagini e tramezzi – di una forma
e ragione tulla interna, coesiva dirò così e inerente alla struttura e
nervatura del periodo. Ora vuolsi invece studiare e prelibare il grato di
tal'altre voci, le quali quantunque rechino un senso delerminato ed adoperino
sull'esteriore soltanto del pe riodo, son però tali e tal collocale che a
lasciarle, sostituirne altre o co munque tramutarle sconcerebbe e n'anderebbe
di quel candore ed ele ganza che è sol retaggio della lingua antica.Dada neh !
che nel commendare che farò questa e quella maniera, non è mia intenzione che
tu poi la usi a tutto pasto, come fanno certi scrittori i quali si danno l'aria
di purissimi imitatori del trecento, dove non ne sono, a dir il vero, che
odiosi conl raffattori e lo mettono così in discre dito anche ai meno avversi.
Questi colali non sanno far alll'o che infar cire i loro dettati di maniere
solo antiche e male accozzale.Tienlo ben mente, non è scrillo sì elegante che
non sia anche semi plice e spontaneo, nè può esser mai bellezza quella che si
distacca ed esce comechessia di euritmia.Più che la teoria siati adunque
criterio e guida un buon orecchio, conformato però – mercè di lungo studio e
severo - al ſorbito perio dare soavissimo e grave dei nostri classici.
ARTICOLO 4 MISSfil Delle novità che ci venite a raccontare! Chi non
sa degli italiani, per idiota che il vogliate, che la voce assai è altrettale
che molto ? Con buona pace vostra, risponderei a chiunque fosse quel benigno
che volesse mai censurarmi ed opporre ch'io ridico cose molissime, non è il
valore 4 soltanto, ma l'uso altresì di alcune voci e particelle,
anzi questo più che altro ch'io mi proposi di ragionare. Mai, sol rarissime
volte, leggendo un qualunque moderno di mezza inta mi venne scontrato
l'avverbio ed anche aggettivo assai al locato e si vago che negli esempi, fra
mille e mille, che quivi appresso.Quale aumentativo (sehr, ti s. very di aggettivo
e di avverbio, si che l'adopera e forse l roppo, anche il moderno, ma giammai,
o quasi mai. accoppiato a sostantivo, o sostantivo egli medesimo in ogni genere
e numero come che invarialbile.E quant'altri e più minuti scandagli restano
tuttavia a fare prima che e siamo rivocale e ristorale le avite bellezze
dell'italico periodare ! VIIro che piali e ciance! Sollecitiamo a che la via
lunga ne sospinge ». (71). E disse parole assai a Paganino le quali non
montarono un frullo ». l 30 (”.Ed assai n'e' uno che nella strada pubblica o di
dì o di molle lini a mo . l 3occº.senza le rostre parole, mi hanno gli effetti
assai dimostrato delia ros rai bene colenza n. 13 cc. . . .Spero di tre e assai
di buon lempo con le co . lioco. Entrati in ragionamento della valle delle
donne, assai di bene e di lode ne dissero o. I 3 ' ('.... applicò subito
l'animo a guadagna lo, e gli si dia a dire assai delle cose da farlo ra eredere
della sua cecità lioco. Il I occotccio l'usò delle volte assai . I 3arl. « ...
ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo rispello riguardo) º. Cesari.«
Minuzzatolo e messori di buone spezie assai, ne fece un manicº retto troppo
buono ». Bocc.a La prima persecuzione ſu mossa alla Religione essendo anche
tiri assai degli apostoli ». Ces.« Nè vi stelle guari che egli ride assai da
discoslo ritornare il Car pignat con assai allegra faccia ». Fiorenz.In
compagnia di assai numero di soldati per andare di danni il l live) lo .
(iiamb.... la mia guardia ne prende, e si stretta la lenca, che forse assai sºn
di quegli, che a capital pena son dannati, che non sono da prigionieri con lan
la guardia serrati ». Bocr'. ()r chi sarebbe quella sì ci udele Ch'a rendo un
damerino si d'assai, Non direntasse dolce come il miele ? ». Lorenzo de' Medici
(73). E oltre a ciò rireggiamo (acciocch'io laccia, per mºno ºrgognº di noi, i
ghiottoni, i tarermieri e gli altri di simile lordura disonesti uomini assai, i
quali.... essendo buoni uomini repulati dagli ignoranti, (tl lim0mº di sì gran
legno son posti ». Bocº. t. A rispondere, assai ragioni vengono
prontissime ». Bocc. « ..... nel quale erano perle mai simili non vedute, con
altre care pietre assai ). Bocc.« Assai sono li quali essendo stoltissimi,
maestri si lanno degli altri e castigatori ». Bocc.« ... dove molti dei nostri
irali e d'altre religioni trovai assai ). Bocc. « ... che assai faccenda ce ne
troveremº tuttavia ). Ces. NOte all'articolo 4 (71) Della
frase : essere assai a checchessia (per basilare a, . . .) che l'ha delle volte
assai e il Boccaccio e il Cav. e loro più scelti imitatori, parlerassi ad altro
luogo. (72) Nota il genitivo. La voce assai non è qui avverbio Ina
sostantivo oggetto, e va unito col complemento della vostra ecc. La forma
obbligua assai di, del . . . . suona talora Ineglio che la diretta. Osservala
negli esempi seguenti. Conf.: tanto tanto di... alquanto di...). (73).
Uomo d'assai significa valoroso. ARTICOLO 9 NUIIIII, NIENTE
NONNUlillſ, NUlill0, NIUN0 ecc. Negli esempi che senza più qui allego –
alcuni dei moltissimi che ho raccolto, e recanti ciascuno l'una o l'altra delle
proposte voci – vuolsi singolarmente notare: a) come le particelle
negativo niente, nullo, nulla, niuno escano ta lora, ed anche elegantemente dai
confini che il vocabolario loro inesora bilmente prescrive e si lasciano
governare, sol che l'orecchio e la cosa il consenta, a maniera di aggettivo e
sostantivo; b) come in nostra lingua il niente e il nulla, oppure non
nulla, (simili al rien dei francesi) si spendono per qualche cosa, e il niuno e
il nulla pur vagliano per alcuno. Alcuni Grammatici ne fecero regola ch'io
non so come a tanti e sì autorevoli esempi, che dimostrano il contrario, non
sia mai stata impu gnata e ripudiata. « Quando si usano, scrive tra l'altri il
Corticelli, per « via di dimandare, di ricercare, o di dubitare, oppure con la
negazione « o particella senza, hanno senso affermativo ... Sì che alcuni
esempi ve n ha, ma ve n'ha allresì in cui le delle voci affermano e tuttavia
non negazione, non senza non dubbio o dimanda comechessia. Leggili questi
esempi, intendili, assaporali, e sii certo che come il senso avrai libero e
sano, questo, più che niun'altra norma, ti guiderà sicuro alla scelta
convenevole di questa o quella voce ed anche in quella forma e ragione che nei
libri mastri di nostra lingua. .... invincibili dicendo i romani cui
nulla ſorza vincea ». Dav. .... si stava così a spellando senza piegare a
nulla parte ». a Inall'ulfizio naturale delle nozze nulla ricerca
impedimento all'eser cizio libero delle più nobili sue operazioni ».
Bart. « ... in tal modo che nullo più mai ardito fosse d'andare all'eremo
Cav. « Se nulla potenza a reste, bastava uno ad uccidermi ». Cav.
senza molti segni che si nolano, com' egli si ha niente indizio della cosa ,
l'iel'eliz. .... di subito si rivolse al sasso brancolando con le mani se
a cosa nessuna si potesse appigliare ». Cav. 1 llora disse la 13adessa :
se tu hai a disporre niun luo l'alto, o l'ºro se ruoi pensa e nulla di questa
tua fanciulla, pensanº losto, impercioc ch º.... ... (.av. Quando la mia
opinione resti denudata e senza ippoggio di ragion nessuna ...... o.
Martelli. Ed a ogni modo è, se non maggior brºne, minor male pendere in
questo caso, anzi nel troppo che nel poco, acciò transi più tosto alcuna cosa
che ne manchi nessuna e. Varchi. non intendo però di quella lunghezza
asiatica fastidiosa, della quale fu ripreso Galeno, ma di quella di Cicerone,
al quale non si poteri aggiungere cosa nessuna, come a Demostene cosa nessuna
lerare si po le ru m. Varchi. Se nulla ri cal della nostra amicizia abbia
le compassione alla mia miseria n. Fiorellº. tssaggiare qua e là un
nonnulla di... ». Bocc. a ... alla quale (allezioncella) mi sento
attaccato un nonnulla ». Ces. “ e se li hai nulla a lare con lei tornerai
domani e non ci far questa Seccaggine stanotte ». Bocc. « Ciascuno che ha
niente d'intendimento ». Passav. 82. « remuta meno l'acqua e gli uomini e il
cammello, affogarano di sºlº, º cºrcando d' intorno se niente d'acqua
trovassero, e non trovando t'enº, -1 mlonio..... ». Cav.“ Su bilanente corsi a
cercarmi il lato se niente (qualche cosa) v'avessi ». Docc. « Potrebb'egli
essere ch' io a ressi nulla ? o I3oce. “ Gli si fece incontro e salutandolo il
domandò s'egli si sentisse niente ). I30cc.( Come noi facciam nulla nulla, e
non hannº allro in bocca: quel l'allra lacera e quell'altra diceva.... ».
Fier.º ... º forſe nºn lº ſa resistenza al nemico, giammai in niun modo
acconsentendogli acciocchi il rinca, e poi del tuo sposo (G. c. possi essere
coron (tl (1, peroco lº 'gli il nemico e le bole, come ſu uno, a chi ardita in
en le se ne fa brile, e anche fori come leone a chi in nulla nulla gli con
sente ». Cav.« Non perciò a me si mostra ragione che nulla basli a derogare
l'autorità e la ſede o. I3ari.« ... e per sangue e per rilli d'animo superiore
ad ogni interesse, che punto nulla sentisse del basso, non che, come questo
dell'empio , Bart. « Mostrare se egli ralesse nulla ». I3occ.... ri potr questa
scusa legittima, scusa sa ria, o non piuttosto una scusa che se vai nulla
prorerebbe anche che non dovreste coltivare i ro stri poderi con lanta
diligenza, che non... ». Segn.« al quale io debbo quel poco ch'io raglio nel
predicare, se nulla raglio ». Segn.« Vecchi che, perdute le gambe, pare ram
sempre pronti, chi nulla nulla gli aizasse. a digrignar le gengive ». Manz.« Se
nulla può sull'animo rostro la voce della ragione, sia le religioso, perchè
religione e ragione è tutt'uno ». Tomm.« per la qual cosa furono tutte le
castella dei baroni tolte ad Ales sandro, nè alcun' altra rendita era che di
niente gli rispondesse » Rocc. (83). « Ed arrisandosi che fatto non gli
verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli disse.... ». Docc.« Trorossi in
Milano niuno che contradicesse alla potestade ? ». No Vellino antico.« .... e
se egli ce n'è niuno che voglia metter su una cena a doverla dare... ». Bocc.«
... ma se nessuno di quelli che, o si burlassero del fatto tito, o... ». Fier.«
.... e dovunque sapeva che niuno cristiano adorasse Cristo, il fa ceva pigliare
e mettere in prigione.... ». Cav.« egli sarebbe necessario che tu li guardassi
da una cosa: e questo si è, che se nessuno ti domandasse di qualche cosa, che
lui per niente non rispondessi a persona, ma... ». Bocc. (84). NOte
all'articolo 9 S?, voleva ci lir qualche cosa, alcun che di . . . . . e
così il niente e nulla di tutti gli I tri es IIIp di Iu -! IIIedesimio gruppo
S3). Il niente d quest, i del s ..: 1: es n i I Il tv l':la a in
l'il llll tiltra II la lllera della si sºsi V , niente, ed i ll Il ..:ll (Ill.
ll ilìtelis IV, di negazi rile, si inile all'avverbi , punto del N. edente.
Torna sottoso pra alle forme; un menomc olle, in n in mo,do ive Iles Wegs, iIn
gering S[.(ºll ( (''.E spaurita e sbig || 1o per le pelle e per gli gravi
tormenti che e aveva veduti sostenere a per at ri nell'altra v .a, la rendogli
i parenti e gli amici carezze e le sta, non si ra! grava niente ». Pass.
« ....il quale l'est e . Irle lº rili la si vide i pescatori adosso,
salito e a galla, senza Inlli versi niente, mostrando l'esser in ort , tu
preso ». Fier'.« Niente avevano sonno o pensiero d'andarsi a riposare in sul «
letto, niente , vevano voglia d'esser consola | I, quando vedevano, () a
pensavano che la infinita carita di I) o aveva dato il suo figliuolo a a patire
tante pene e tale morte senza niun peccatº o colpa sua». Cav Si avverſa,
si rive il Pil ti, che questo niente in sentimento di non) quando si usa senza
il non si mette piu comunemente avanti il verbo, e quando si unisce col non si
pospone al verbo. (84). No.a anche qui la maniera per niente in quel
senso che nella nota precedente. ARTICOLO 21 IIITRI (che) – filiIR0
(che) – AllTRIMENTI (che) Quan! inque il significato e l'impiego di
queste tre voci a base di una medesima radice e a governo di un comune valore,
poichè in ognuna vi senti con prevalenza l'allributo allro cioè altra persona,
allra cosa, altro modo non sia cosa lanlo singolare e peregrina che anche una
penna volgare talvolta non ne usi, tuttavia la maniera di usarne appo i
classici è sì diversa e molteplice, e indi anche il vago e vario
foggial' della frase sì notevole e commendevole, che credo ſarò cosa non
meno grata che utile a dirne alcunchè partitamente, e profferirne di ciascuna e
di ogni uso distintamente alcuni esempi.a). Altri o altrui (non altro, che è
fallo) posto assolutamente è pronome, e suona quanto: allr'uomo, altra persona,
un altro, uno, alcu mo, chicchessia. Si trova appo i classici tanto in caso
retto che obliquo. « Molto dee indurre a dolore o al dispiacere del
peccalo, considerando che l'anima è lavata e purificata nel sangue di G. C'. e
altri l'abbia im brattata e lorda nella bruttura dei peccati ». Passav.« Per
non fidarmi ad altri, io medesimo tel son renulo a significare ». I30cc'.«
Sentendo la reint, che lº milia della sua morella, s'era (le liberala, e' che
ad altri non resta rai (t (lire .... ». I30cc. « Il che la donna non da lui, ma
da altri sentì ). I30(''. « ... in tanto che a senno di minima persona rolea
fati e alcuna cosa, nè altri far la colera a suo m. Bocc.« . ( ndiamo con esso
lui a Itomai ad impetrare....: ma ciò non si ritolº con altrui ragionare ».
Bocc. « Oh quanto a me tarda che altri qui giunga ! ». Dante. « Irrere pertugio
dentro da la muda La qual per me ha 'l litol della fame. E 'n che con rien che
ancor ch'altri si chiuda , Dante.« La confessione per la quale altri si
rappresenta a quegli che... ». Passa V.a ... non solamente i peccati veniali,
ma esiandio i mortali i quali altrui (tresse al lutto dimentica li ). Passa V.«
Il secondo modo, come si dee studiare, e cercare la divina sciens(1. si è
innocentemente, cioè a dire, che altrui riva santa mente ». L'assav. « Si
restiemo una cotta, che non si potea reslire senza aiuto di altri . Vill.« Non
hanno altro mestiere che di pescare altri perle, altri pesce p. 3a l't.a ...
che per accorto e sottile intelletto che altri abbia mai non ne giunge al
chiaro ». Bart.« Quanto altri più sa della lingua ben ripresa nelle sue radici
lºnſo più va ritenuto in condannare ». Bari. ... nè teme punto ciò che altri di
lei dirà . Segn. ... e partirane con quel disprezzo che altri fa delle cose
sogge e della bruttura ». Ces.« Egli mi pare, che niuna persona, la quale abbia
alcun polso, º dore possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimast. altri che
noi n. 13 del . Inverti e vi riconosci il ragionato altri: Egli mi pare che
altri clº noi ci sia rimaso, il quale.... b). ll i clº, altro che vagliono
entrambi fuor che, ma sì che altri che non si riferisce che a persone e torna
al dire: altruomo, qualunque alla prºsolia che ..... ed altro che ad altra cosa
qualsiasi. Questo altro, (illº che, in significato di altrimenti, in altra
maniera... che , ecc., è una di quelle forme che andavano assai all'animo al
valoroso Bartoli, e l'usa Spessissimo in Inel miracolo di facondia che è la
Storia dell'Asia. Ma os serva come e con quanta grazia: Io non so potersi
dire di ... altro che bene o. E altrove: « Ma poichè º il videro felino di non
conceder la disputa altro che a questi patti, sel presero in pazienza ed
accellarono . Traduci: non in altra forma che. “ E ancora: « E perciocchè quivi
non era per rimanere altro che inutil mente, gli ispirò al cuore di andarsene
al Meaco o, ecc. ecc. che ad allegarli tutti codesti esempi non ne verrei a
capo in parecchie centinaia di migliaia. Al lllllo simile a questi luoghi
del Bartoli è l'altro del Bocc. : « non º avendo avuto in quello convif [o)
cosa altro che laudevole o : e altrove: ( AV ea grandissima vergogna, quando
uno dei suoi strumenti fosse altro che falso Irovalo ». Nè guari dissimile quel
del Davanzati: « Con gente « sì accagna, crudele e superba puoss'egli altro che
mantener libertà o « morire ? ». ſar al Ira cosa). Bammento l'intercalare
non chi alti o, di cui si è ragionato al Capo Secondo - Articolo 13, e piacermi
ancora menzionare il modo : senz'altro..., che opplre, e talvolta anche
rileglio : senza... altro che : « senza amici altro che di mondo o invece di
senza all i amici che... : « senza famiglia allro che bastarda o, o senza
affelli altro che brutali o ecc. . IBart). Ed oltre a questo anche il seguente,
gli alissimo: niuno, nessuno, reruno... altro che.... : « aspirando a niun fine
all ro che nobile ». « Portatovi da mium stimolo di senso altro che puerile e
rello o a...inteso a rerum lavoro altro che di mente ». « ... I rallenendosi
con niuna femmina altro che onestissima ». I3ar[.. Segm. ecc. ecc. Nola qui
l'allro a forma di averbio, mentre congiunto al senza, niuno, reruno ecc.
sarebbe ad uſicio di ag gettivo. Chi legge e studia ne' classici le ritrae
queste forme anche senza avvedersene. « II vietare con semplici parole, senza
autorità altro che « privata non si direbbe propriamente divieto, ma sì quel di
legge e di « decreto ». Tom. c). Analoga a questº forma avverbiale altro
che è l'altra, anche oggi nola e continissima non altrimenti che.« Noi
dimoriamo qui, al parer mio, non altrimenti che se esser vo lessimo testimone
di quanti corpi morti ci siano alla sepoltura recati ». Doco.« Non gli concedè
che si ritornasse altrimenti che promettendo di ri « tornare altro volte a
rivederlo ». I3art. (Cioè gli concedè... non in altro modo che promettendo,
oppure sì reramente che promettesse. Conf. Cap. II. A rticolo 25).Ma nota da
ultimo di questo altrimenti (altrimenti che) un uso ben diverso delle forme che
qui sopra: come cioè la voce altrimenti in molte guisa ad altre
collegata e con un costrutto e commessura di ottima ra gione entro il periodo
leggiadramente contesta, sia talora altresì sol orna mento e tramezzo, non mai
inutile e superfluo, se pur non necessario, e non altro, a dirla col
Corticelli, che pura proprietà di lingua. Rinforza la negazione e vale in
nessun altro modo. a Della sua pelle senza ſorarla altrimenti se ne
sarebbe potuto fare un bel vaglio ». I30cc.« ... e pauroso della mercatanzia
non s'impacciò d'investirne altri menti i suoi danari, ma..... ». I3oce.«
recita fino a un punto il contenuto senza altramente leggerlo ». Caro. « I
Siluri, oggi estinti, mostra Tacito nel suo Agricola, che ri renis sero già di
Spagna, e al guiscelo da molti segni, che io non replico ora altrimenti non
potendo per ria di quelli sapere quando e' ri siano venuti ». Giambulari.....
il nostro bene, la nostra rera felicità non dipende altrimenti no, dall'amore
che noi portiamo a persona, la quale all rºllan lo ne porti a noi, ..... ».
I3arbieri.« E' dunque mestieri fermamente attenersi a quelle idee, a quelle
speranze immutabili, che non sono l'opera dell' uomo, che non dipendono
altrimenti, da una opinione passeggera, che rengono acconce a "ulli i bi
sogni, che .... ». I3arbieri.« e senza tenere altrimenti conto della sua obbliga
la ſede.... ». Giall bulari.« E tanto basti aver accennato di quelle, che per
poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può altramente che non sia
troppo ». Ball « ... non aspettò altrimenti che il disegno si colorisse ».
Giamb. « ... non arendo altrimenti che dargli si lerara il cornon da collo
(iiamb.« Le sue cose e sè parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse
rimise nelle sue mani ». Bocc. un ful I e.tlsou e Iop olooos Ufonq lºp
uomiios ilf ouuxupuoqqu o.luluud lp onloAuslp o toluetu ºttº º ſullº I I ouu
Auuuulo ot ouo. I touo A olsenb ll I luttuº nId otor I allop luou ouulloAul lp
ipotu itino le outleti oli elzºti l' º l.zzoIl fu A ip otl.) os º trou
olto.o un o o Iuliud lop el Aol I lol 55tui ti º º S otto it: i tºlsoni) cl ouol
Ru.i uoo Illu) I tollo olios cui lu u uutti i litio o .ilto. llo i - lo tºllo
Alun ottu.tellulos 'ortll lito.Ioll lui Ruo IV o op.otto: 1 o. ll 'llout Ill.I.
“ Isopullios o Iosso otiosso i “olu.opluuuuuuli ella A e allo Ip
:lloti - lllllº º oil. Issi III, II F o ollo.o! I -.tuti o o luouo td 1 o olio
A o .it: i sºli. Il 1 li tºlsl-º sonl) o o lo stºp ll out. I votolelu o il 'u
Iso:) Il ) A LI - Ipotti i lotti e io lº otlos IA " . eodo]uttlollo
outsioloou otus olos : li titoli onl) Ip A o.Il ol Iso.IddV out Ao;iuniti o
totu lo vos luo. I lºtti I I.) o, dt: ti Il plº o il uAInfioso oln) eo.lolol o
eluuun oli l'illS º il ossImpo.Il tetto SIS Il l III euto ollo]Jo uono lº o lod
os os , ou o alle p letti ossitto, ve º tº IV e void 1. ll il l e o la tollo un
1: Is ll It , looluu.Iou;il p o Iul e n.InsIl pl. I sei “I lumbs un.oltº otto
puºiolli: Iduloso liuloop) Ied otto.III') ott o lo Isol.Ioli onl Ip ottil. Il
od oil.Il leso, e il -ulououout outIoztto Vito e il p .olio III lo o .olio o.I
l: \ Il “Il d | 12 | | Il sollia.osop o lou.oo Iuulio II lo ottoutele in lull
l' "lº ºlotºs º o | II. Il -Iu.Iouoi ouopuolo.ld o Inddºl otto le vo .In
lon.o utin o 55es e Ilillº.ilsotti lod o su Islenb uru lp otto voi o utili ulds
ezilos essudiº.I | Il III ed l miº o ns o olios ouour pidui orie, o vo otlriori
olio lord III trim opotu u onios eupulo, etil e oil.on. l oil o Ip olfettes
oil.it il a ºsteo il o negli Ion A ou ouo olio in Ile e se il N . Ierio. In
oiloti in love u “ouoduloo is opito illed ollop elziloti o le zut: sos ld
Ilesse litolzltifo. ouuuiosi di lui os usul [.. etti e il Ip o | | | | | | | .
ll tº o lo l.tolto) sod l) ouopzlullop el o optito. Io l ott e elliot II o II)
ml. ll los o utopuoli, ) allo, Ao eI.Io.osolio.ol.i e lpini oil.o nello,osi
Iloil oliolli. I ti o Atº III. Il N i lºl li Idl tioli o I.). Il luttoso oft: A
otl.oltelloouoptIoonppe 'otiuillirio o ostili osti i millepitoli Itito.
el.IIIIIIop olilout -eoplollo.I n.InfII e III: lo esonb o lo s oliº o In VoI o
Iellios II, lo (s) osogssu Io e Iuº pop.Ieo I o UUIpsspn U IUP55oIo,I
-Iep eIes II e eu OIun Oo l-IoU I II epU IO “I UIop t Iu II5olo o IoA
-I.Ios OI Opuooos 'eooA u IIon I O unsenb pp e UIopssIULuo po auloIllla
Iuolzno oT sillessi, enalagge, anòfora, iperbate, tropi, metonimia,
iperbole, prolipsi catacresi eutimema, epicherema e va discorrendo.Lessi e
m'imparai i relativi saggi, assaporando a brevi tratti oi l'uno, or l'altro dei
più celebrati componimenti. E qui vi ammirarsi la Pura semplicità del Villani,
e là la nobile dolcezza del Giambulari e quando celebrarsi la faconda brevità
del l)avanzali, quando la rigida su blimità del Machiavelli. E or questo or
quello esaltarsi, e la severa ele ganza del Varchi, e l'abbondante gravità del
Guicciardini.Ma dopo tutto ciò, venendo ai fatti. falliva ogni prova. In opera
di eleganza, meno alcune frasi che a forza di udirle pil l' Ine ne ricordava e
le inseriva sforzatamente, e anche le più volte a sproposito, tra le ciarpe di
una dizione sempre mia e di un periodare sconveniente, avveniva di me quel che
di un gastronomo, il quale senza impararne altrimenti il me stiere e nulla
suppellettile avendo di cognizioni pratiche, pure al saggio di questo e quel
manicarello e mercè di un buon corredo di nomi, a. cesse professione d'arte
cucinaria.Quarle sconciature ! quanle ingrale dissonanze ! quanti piastricci
rincrescevoli ed insipidi! E non se ne può altrimenti. Il commettere ordire di
frasi e periodi più tosto ad una che ad altra foggia è cosa tutta soggettiva, è
affar di sentimento e vigor mentale. Il quale se guasto o Inal composto, ed il
linguaggio altresì. La ridice adunque, il midollo, non le foglie e i fiori si
vuole medicare, riformare, ringentilire, a volere che l'albero di selvatico e
malvagio risani, Trulli buoni renda e soavi. – Chiesto parecchie volle dai
Tedeschi, Francesi ed Inglesi del modo ond'io mi resi lo studio di lor ſavelle
proſi! Ievole a segno da reputarini si al parlare che allo scrivere un lor
connazionale, diei risposta che fa ap punto pel caso nostro. Perare la mia
mente, il mio pensiero ad eſligiarsi in delineamenti e forme straniere non
importa appo me l'accostare alla 'nia l'altrui favella, mettere a riscontro
l'una parola all'altra e violentare lue e più disparatissimi linguaggi, mercò
di contusioni e scontorcimenti, a combaciarsi l'uno all'altro, fatica da farla
i provetti ed investigatori delle ultime recondite ragioni filologiche, non via
ad imparare lingue fo. restiere: sistema orſo, le diosissimo, lunghissimo e mal
sici Iro. Il metodo delle sempiterno raduzioni è una bizzarria, un perditempo,
tortura delle menti, inutile, anzi esiziale. E' sempre il linguaggio a
conflitto col lin guaggio: non il concetto ad assisa dicevole e sua, e quindi
il parlare e scri vere insipido, barbaresco, a urti, a stropiccio, a
singhiozzi; indi il de turparsi della propria ed altrui favella; indi lo
studiare che si fa ben otto anni la lingua latina ed uscirne appena
balbuzienti, quando due anni – chi veramente slidiasse ed avesse alleli o da
ciò – basterebbero a farne poco men che un Cicerone. A dunque il ripeto, recare
il mio pen siero a riprodursi in effigie di altro idioma vale, a casa mia,
legare imme diatamente la parola all'idea, suscitare, a forza di leggere,
trascrivere e ripetere ad alta voce e pensatamente gl' idioſismi, le frasi più
elette, i per riodi più caratteristici ed anche lunghi tratti, un senso, cioè a
dire, im pressioni e senzazioni, pari alla natura ed indole di quel medesimo
idioma. ma sì che facendomi a quel linguaggio, le risento e al risentirsi
spontaneo scorre dalla lingua il linguaggio stesso. E' un fatto incontestabile.
Io ho memoria assai tapina, ho studiato sempre solo e senza guida, non ho mai
salto tradizioni, eppure, la mercè di un tal sistema, e a tirocinio di po
chissimo tempo mi son reso signore di alire lingue.Egli è il dunque per
convnizione di fatto ch'io dico e sostengo che ſilichè l' italiallo d'oggidì si
contenta di vederla soltanto ed ammirarla l'eleganza e non è punto del mondo
sollecito di recare a proprio sentire il caratteristico elegante e classico,
non gli verrà mai fatto per fantasti gare, lambicare, comporre e travagliarsi
ch ei faccia, di ritrarre il grato dei gloriosi antichi, ma il suo linguaggio
sarà sempre suo, ritratto sempre del suo sentire, del suo pensare. Egli è
mestiere di una radicale riforma. Noli erudi e dissertazioni, non indagini, non
rile analisi o scrutini filolo gici. Troppo presto. Lo ſaremo sul nostro quando
sapremo parlare. Ora lia li sll'o compito studiare accuratamente il magistero
del favellare periodare classico; decomporne le parti e quegli elementi
imprimerci che ne costituiscono il caratteristico e bello.I ritornando a d'ondo
il giusto sdegno, mi trasviò, dico che ad apprendere con sicuro profilo ed
anche usare convenientemente quella figura che si chiama con il nemici le elissi,
ci bisogna prelibare assen natamente, e leggere, e poi rileggere ancora quegli
esempi che in varie guisa la contengono, e ch' io li porgo, gentil lettore,
schierati in due di sliIl le classi e solo : I. Voci e il dtsi che comporlot no
, e licenza. II. l'articelle e il ct si cui si alliene il prete mi esso.
("LASSE I. Voci e frasi che comportano reticenza l: previlegio
di alcune voci o parole, che hanno luogo nel discorso, e luttavia non vi sono,
di poterle, chiunque legge ed ascolta, agevolmente intendere, e sentire, e
lorse più che non si otterrebbe esprimendole. Molte di colali reticenze
sono in uso anche oggidì, e le ha il popolº continuamente in bocca, e di queste
non accade occupal selle. Ma ne sono alcune che il moderno ordinariamente
non usa, e solº pur quelle onde, a mio senno, vagamente si abbellano e prendono
sa pore e forza gli ameni dellali dei migliori scrittori. Te ne offro,
caro lettore, che mi lusingo di averlene ogginai in vaghito, eletti e copiosi
esempi, colli la maggior parte nell' Eden deli ziosissimo del trecento e
cinquecento, e che mi parve di ordinare lº articoli recanti in fronte il segno
di quella voce che secondo il sºntinº degli esperti in opera di lettere, in
qualche modo si omette, e va Pº intesa. Torno a dire che non è l'assetto
della collezione ch'io metto innanzi, e quello che io ne sento– che non mi dà
niente noja se ad altri non piace o se ne facesse anche beffe – ma oggetto del
mio lavoro è la Lingua degli antichi, e non altro che la lingua. cioè il
costruire e fraseggiar clas sico in quanto differisce dal volgare e moderno,
mostrato con esempi, e di tante e sì diverse forme, e di autori colali e in
numero tanti ! ARTICOLO 1. Ifilif; IMIlMENTE: (si bene; in guisa
ecc.) L' omettersi a suo tempo e luogo l'una o l'altra di queste
particelle dà alla frase un garbo che il profferirle non farebbe.Dove, quando e
come te lo diranno assai chiaramente gli esempi. (101). « ... e così
dicendo, con le pugna le quali aveva che parevan di ferro tutto il viso gli
ruppe ). Bocc. (Traduci: le quali aveva sì ialle). « Di ciò che... so io
grado alla ſottunu più che a voi, la quale ad ora vi colse in cammino che
bisogno ci ſi di renire a casa mia ». tale) Docc. « Diceva un chirie e un
sanctus che pareva un asino che ragliasse ». BOCC. (ad ora'
Alfermando sè, di spezial grazia da Dio, avere una donna per moglie, che lorse
in Italia ne losse un'altra ». I3occ.« Parti egli d'aver fatta cosa che i moli
ci abbian luogo? ». Bocc. « ... e andronno in parte, che mai nè a lui nè a te,
di me perverrà alcuna novella ). I30 cc.« E messa in terra parte della lor
gente, con balestra e bene armata, in parte la fecero andare, che...... ».
Bari. (102)« E guardi bene colui che avendo l'autorità di prosciogliere della
mag giore escomunicazione, assolvi altrui che non lasci della forma della
chiesa niente; però che gravemente peccherebbe ». Pass. (ass. altrui in guisa
che).« .... e tanto andò d'una in altra (parola), ch'egli si ſu accordato con
lei, e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona s'accorse ». Bocc.
(talmente - sì chetamente e furtivamente).« Costei è una bella giovane ed è qui
che niuna persona del mondo il sa ». Bocc. (in tal luogo e
maniera). “ ... Sere, andiamocene qui nella capanna che non ci vien
mai per Soma ». Bocc. (lal nascosta e sicura che,º pensando che in quelle
contrade non area luogo dove egli potesse stare nascoso che non fosse
conosciuto pensossi di iuggire ad alcuna isola rimola ». Cav. in guisa, sì
perfettamente .“ ... con inciò a gillar le lagrime che pareano nocciuole ».
Bocc. “ cºddº, l'ºppºsi la coscia e per lo dolor sentito, cominciò a mug ghiar
che pareva un leone ». Lo c.“ Dirºmulo nel viso quale è la molto secca terra, e
la scolorita co mºre ». Bocc. (103).« IIa roi adunque in parte la lortuna posto
che in cui discernere pole le quello che ancora giani ma non potesſe vedere ...
Bocc. E da indi innanzi penso sempre modo e via come ei glieli potesse lurare
». Fier. 104 .() h. non li ricordi della cosa dell'Aquila e dello Scarafaggio,
che non lui moli la più bello rende la ' o Fierenz. Iale, sì bene ordita,
che...). Egli allora con una superbia che mai la maggio e... ». Fierenz. (105).
... roi l'a re le colta che niente meglio ... Ces. talmente, sì bene che...), \
on gli bastando più l'animo di andare in procaccio, si condusse ad atto talora,
che... m. Fiel'eliz. (t ... ... e conchiuso di appiallargli un bel
figliuolo che non vedeva altro che lui n. Fiorenz un igliuolo, l'altrº ente
bello e caro, che non vedeva... . « Guarda come ciascun membro se la rassomiglia,
che egli non ne perde nulla . Fier. (in modo, il glisa, sì perfettamente . «
Per ciò bestemmia, che non par suo fallo . Malin. Se ne scantona, che non par
suo allo . Malm. - 1)ice le cose, che non par suo fatto o. I 3el ll. lilli. «
Se non fosse lo scrivere, sarebbe un modo di vivere che non m'arrem mo bisogno,
ed in rece sua serrirebbe il tener a mente ». Caro. (un modo di vivere tale che
..).« E questo pensiero la innamorara sì l'orte di Dio, che non si po - Irebbe
dire, e ricrescevale l'odio di sè e della sua vita passata, che con - - grande
empito si sarebbe molla, s'ella tresse credulo che piacesse a Dio o. º
CaV. « ... che se io fossi serrata e rinchiusa tullo di domane in
prigione e tenuta ch' io non potessi andare a cercare di lui, penso mi che
immansi che fosse sera, io sarei trova la morla ». Cav. - « ... e andò la
infermità montando che i medici il disfidaro (l'ebbero . per disperato).
Cavalca.- a Giunse alla porta e con una verghella. L'aperse che non ebbe alcun
- rilegno ». Dante (106), in modo, sì presto, sì facilmente. « Si reslieno una
cotta che non si potra reslire senza aiulo d'allri ». - Vill. (Iale foggiata
che...). NOte all'articolo 1, i101) Analizza un po' la frase
nostra lombarda: egli è afflitto come mai, e mille altre di somiglianti, nelle
quali vi senti oltre l'elissi di tale talmente, anche quella de verbo essere
che regge la frase: la quale omis sione è, tra l'altre cose, oggetto di
ossrvazione nel seguente articolo. (102) Guarda come ai valenti in itatori del
Trecento uscissero della penna spontanee le frasi e maniere dei loro
Inaestri.(103) Qui si è forse la voce quale che con leggiadria sta sola e cessa
la corrispondenza di tale. Simile all'allegato è quel del Petrarca : « Piaceni
a almen che i Iniei sospir sieni quali Spera il Tevere e l'Arno ». (caliz. 29).
(104) cioè quel tal modo acconcio e sicuro ; non un, nè il, la cui onis sione
dice assai piu che l'articolo non farebbe.(105) E' forma superlativa adoperata
spessissimo dai buoni scrittori. (106) E cosi dovrebbesi intendere, a In 1o
avviso, anche il secondo verso della Divina CUII, III edia: « Nel II mezzo del
cali Iilin di nostra vita -- Mi « ritrovai per una selva oscura – Che la
diritta via era sinarrita ». Cioè oscura tanto, a segno che.... E nºn dare a
quel che, senso, chi di poichè, perchè (Tomm.) e chi di per dove i Cinomio ed
altri). Con questo modo di sentire (tanto, si fattamente), è l'uomo che
pervenuto all'età delle tumultuanti passioni si trova coine in una selva tale
oscura che non ne vede più uscita, Inentre col chè, perchè ne risulta un senso
al tutto opposto; quello che è causa diventa effetto. ARTICOLO
2. flilSSI DI UN VERB0, quando in maniera subordinata e quando a
SS0luta u). I no stesso verbo di due incisi o membri l'uno all'altro
comunque copulati, l'una o l'altra volta, si lace, ove nol vieti pericolo di
ambiguità o bisogno di precisione. (« Ti avrei rii a modo che alla Maddalena ».
Fior. – che avvenne alla Maddalena). Si sopprime il più nell'inciso
secondario, dipendente subsunto, il quale talvolta il primo luogo occupa e
tal'altra il secondo. Assai vaga e commendabilissima è l'ommissione, non pur
del verbo, ma e di sua appartenenza dopo un che pron.) nesso comparativo, il
cui membro principale suona, espresso o sottinteso; tale, così...., in quel modo
e grado, quel... che: ecc. (« avere in quell' onore che padre ». Bocc. – cioè
nel quale si ha o si deve avere un padre . Si osservi di più che ornettesi
talora tal verbo, che anche nel primo inciso è sottinteso (« Richiedersi un
uomo del saper che il Padre Nugnez » . Bart. – cioè a dire che sia del sapere
onde è il Padre Nugnez, opp.: fornito di quel... ond' è fornito). b).
Anche il verbo soggetto ad un che congiunzione (dass, als, ut, quam) ed al
quale risponda un modo – qualità o grado di azione – che sia più che il verbo
da avvertire e rilevare, si tralascia molte volte non senza leggiadria di frase
e sapor di stile. Il vescovo rispose che vo lentieri ». Bocc. – cioè che il
farebbe volentieri la qual cosa avviene non solo di un che a governo di altro verbo
(es.: disse, rispose che...), ma altresì del che correlativo di tale, così, il
più e « lºd egli con una Su perbia che mai la maggiore, Fier – che non ebbe o
non fu mai la mag giore). Gli esempi che li reco, disposti in
quell'ordine che dianzi, non solo vogliono dirti che è veramente crisi, ma
anche farlene sentire il grato e stimolarli allo studio assiduo ed elica e di
questa e mille altre somi glianti venustà. ... perchè egli chiama
rimedii, quei che gli atlli i Ncellerat lesse o. l)av. quei che gli altri
chiamano a rate ciri, ha questa tarola della penitenzia da quello mºdº da
cui la navicella dell'innocenza, cioè da Gesù Cristo e dallº Sltº Pº sione ».
Passa V. « E poichè non potevano sassi si colsero a gittar maledizioni e
calun nie ». 13art. e poichè non potevano gilla' sassi. ... se la faceva
la maggior parte dell'anno, all'ºstºsº (lell'Indie, con riso; e quando più
sontuosamente, con un pºco d'ºrlº condite sol di lor medesime n. 13arl. e... se
la faceva tºll llli lº d'erbe...) º 107): a punzecchiò un poco la donna e
disse: ºdi l' quel ch' io? ». Bocc. (quel che odo io). Io non so,
disse... se a coi sia intervenuto quello che a me, che tutto il dormire di
questa notte m'è andato in un sºgnº" continuo di...». Ces. e però re
intervenuto quello che (tll'eremila col suo con lo 0 n 0 º. lierell?. «
I)eh, non..., che redi che ho così rilla la ren Iurat les lè che non c'è
persona ». lSocc. - - « ... sforzandosi tutto di di non parere quei dessi
che dianzi, tanti oltraggi gli dissero e così luidi : l)av. ierata del
parto e daranti di linº renula, quella reverenza gli fece che a Padre ».
Bocc. « ... i quali tenevano il Saverio in quell'amore che Padre, e in
quella reverenza che santo ». Bart. si tiene un santo). º
indicasso di ufficio e nei lºdºsini ierri che il re, inviato a... ». Barl. (ed
essendo ºi medesimi ferri nei quali era stato il re ). (nel quale si
tiene un Padre..., nella quale “ ... fare a modo che la madre al lº ºillo
quando lo ſa bramare la pOppſl n. Fioretti. « Ma di sè non curò punto più
che se non bramasse di rivere, e non le messe di morire ». Bar . di
vivere). « ... stimerebbono le anime del l'ill galorio rose quel che noi
Spine: chiamerebbono rugiade quel che noi solli . Segni. ºi Iliello che
avrebbe curato se non braInasse “ ... trendosi a credere che Tºllo a lor
si convenga e non disdica Che alle altre . I3occ. ... che si conviene e l 1 l I
disdice alle altre..« E quelle medesime forse hanno in India l'iti li e
gl'ingegni che in lºlºgna: e in quello medesimo pregio sono i lottolº roli
costumi in Austro che in Aquilone » Bocc.« Come il Paragone l'oro, così
l'arrersi di dimostra chi è amico ». I 3 c'e'. “ Ed intendi sanamente, Pietro,
che io Non l'n minº, come l'alt e, ed ho voglia di quel che l'altre ; sì che
l'ºrch º io non me ne l) l'ocutc''i non cºndonº da te, non è da di menº male ,
I3 cc'.“ - ºgli medesimo determinò di rimanersi e Correre quella medesima
fortuna che lui, nulla curando me la pºi dila della sua mare, nè il pericol,
della sua vita ». Bocc." Iº lº uomini della condizione che essi, maestri e
promotori del l' idolatria, altro non era da (t Spell (Irsi ... I 3ar[.."
l'Ili all'incontro era fermo di rimanersi al mi e lesimo rischio che ºsi,
parendogli la r da mercenaio, non da buon poi sloi e', se at bbandonass la
greggia... o. I3art. Se io piango ho di che o. I; rec. di che | Iilliger . “ La
ſan le piangeva forte come colei che arera di che , Boce. “ Le quali ſcortesie,
molti si sforzano di fare, che benchè abbian di che, sì mal far le sanno, che
prima le l'anno assai più comperar che non ragliano che ſale l'abbiano . I
loce. (di che doversi sforzare a farle, º Dirò quello ch' io avrò fatto e quel
che no , Ifoc,« Voi l'avete colta che niente meglio ». (les in maniera che
meglio non si poteva cogliere).“ Di certo non lu mai uomo innamorato così
l'alcuna persona che ne facesse o sentisse quello che Luigi per amore di
Dio « Dice il Sere che gran mercè, e che... ». Il che vi tiene obbligo di
gran mercè). « E rispose a sè medesimo che mai no o l'assav. “ ...
e se di niente ri domandasse, non dite altro che quello che vi ho detto. Messer
Lambertuccio disse che volentieri e tirato fuori il coltello... come la donna
gl' impose così fece p. Bocc. - « Tornali a Sacai, si ad una ono loro
intorno tutti i cristiani a udire voda Lorenzo che norelle recasse: ed
egli a tutti, che felicissime: e contò...». I3: il 1.Prese una tal gentilezza e
proprietà che mai la maggiore ». Ces. ... ri con cerrebbe a lui lornare e
sarebbe più geloso che mai ». l3 ('.llli 2 di Giugno 1S33 lu incorona la 1 nn
13olena con la maggior pompa che lei ma mai o. I )av.Fracassata l'armalat. g) e
mite le lilora di cadaveri, con più virtù e lierezza che mai quasi ci esciutti
di numero.... Dav. 108). ... godendo che l'ossei o così vilipesi e br amando
che peggio ». Fier. li e li avveri sso di peggio .Vli repliche il lorse... V e
di mente che si, ma... . Caro. ! Il rint ºn li, come lo dimosissimo del noti li
io, sarebbe quinci pus sotto dentro le l a a predica e ad l abi e a Persiani,
con quella riuscita che pochi mesi aranti un lei ren le religioso dell'ordine
di S. Francesco, e certi all il seco, li aliili con stelle e mo) li la saraceni
. Bart. N Ote all' alrticolo 2. 10) , I, I.issi, a lui lo
rigore, sarebbe anz doppia: e quando la faceva pI i sontuosame te, se la faceva
con.Troppo ci sarebbe che dire se tutte si adducessero le reticenze vaghe
parimenti e vigorose di questo potentissimo scrittore Guarda, per dirne pur
qualche cosa, con quanta grazia . I 13artoli adoperasse un altra eissi simile a
questa che abbiam tra Irlano e, non qualche volta soltanto, Irla soven , che
due e tre la riscontri talora nella Imedesima pagina, cd e quei 1 di una
proposizione al pit ve li recati ad un solo mercè di ll li V el'ho ( olillllle
e generale, cioè in lire di valore lil delel'Illinato essere fare,
mettere, ecc.), che ! ., una sola volta ed a cui guida reggonsi le altre voci
di riol: liti il che, come, dove e della diversa azione attri butiva: debboni
prenderla alla scoperta contro de lºonzi, rivelare gli rrendi e le andi or
vizi, e metterne gli insegnamenti in dispregio e i costi tini in abboninazione
del popolo ». « Ciò farebbono levando popolo in Funai come si era fatto
in Amangucci, e mettendo le mer anzie de Pol togliesi in preda, la nave a
fuoco, e quanti v'avea di loro al taglio delle scimitarre o invece dei gerundi
predando, incendiando e tagliando) – I) in Sancio, come padre comune, a tutti
dava albergo, ( a tutti largamente di che sustentarsi ».10s Simile il modo
nostro lombardo: contento, allegro, tristo, afflit , come mai, che fu già
menzionato alla nota 101. Anche la lingua te desca ci somministra esempi non
guari dissimili, ARTICOLO 12. I VERBI: VOIERE, DOVERE, p0IERE
(mögen, können. diirien) comportano reticenza ove all'ombra di altra
idea, verbo o qual altro sia si termine, sì leggiadrati len le riparano che più
grata ed eſlicace torna la loro parte assenti, che non ſarebbero
presenti. Come e in quanlc guisa e li chiaris ono gli esempi. Non
leggerli soltanto, ma studiali, assaporali e fil di prenderne dilello. Egli è
in questa maniera che il pensare e, per conseguente, anche il dire prende a
mano a mano quel tornio di azione, quelli Iorina al resi di eleganza che nei
dettati dei migliori scrittori. « E vede ra la bruttura dei peccati suoi,
e i demoni d' intorno ag gravando queste parole in molti modi, vedendo ch ella
non sapeva ancora che si rispondere ». Cav. che cosa dovesse o polesse
rispondere. « Qui ha questa cena e non saria chi mangiarla ». Cav. chi potesse
O volesse mangiarla). « Qui è buona cena e non è chi mangiarla ». I30cc. « ...
ſecesi compagno..., per lasciar chi succedere ». Dav. « I)i tanta santili che
li dei nomi non al re ritmo a cui entrar dentro o. Fiorelli. (non avevano
persona in cui polessero entrare”.« Viene il demonio per sospignerlo quindi
giuso. Di che S. Francesc non avendo dove fuggire si rivolse al sasso lo
stucolando con le mani...». Cav. i non avendo luogo dove potesse filggire .«
Allora disse la liadessa: ligliuola mia, e non ci ha dove tu dorma: ed ella
disse: «lore coi dormi in ele, e io dormirò.... ». C: V.« ('h e la mia rila
acerba, Lagrimi a nolo II o rasse ove acquietarsi ». Pelr. « Non sapiendo dove
andarsi, se non come il suo ronzino stesso dore più gli parera ne la porta ro
». 13 cc.« Non sapeva nè che mi fare, nè che mi dire se non che l'rale Ri naldo
nostro compare ci renne in quella ... I 3 t .« I)i Giusea, do ho io già meco
preso partito che farne, ma di te stillo Iddio, che io non so che farmi . I 3
('C'.« Imperocchè quello libro (l' ipocalisse è di grande solligliezza ad
intenderlo ). I3ll I. Corn. l)all I e.« E redendosi il leone ingiurialo lanlo,
e ſi rendo preso un ſolo slot di intra due, o dargli morte o perdonargli n.
Volg. Es p. (se dovesse dargli morte....). º Tullº la rila sua acra spesa
in lontanissimi pellegrinaggi, cer cºndo i luoghi santi del Giappone, doru nque
e, a qualche idolo o cerimonia con che prosciogliersi dai peccati a Bari.ln
lendi sºnº nºn lo, marito mio, che se io volessi far male, io tro l'ºri ben con
cui : che egli ci sono le ben leggiadri che mi amano, e co gliomini bene l'oro
con cui poterlo lare.Sr lossº un palagio, e l'osse e siandio lullo d'oro e
d'argento e bello quanto pil polºsso essere, e non fosse chi l' abitare e non
ci stesse per sonti, il n grande peccato sarebbe questo lº Giord.Perche ... chi
saperlo? chi ride nel secreto di Dio il perchè di que sto gore i nutrsi così '
. Cesari.e l.odulo sia lalello, se io non ho in casa per cui mandare a dire che
lui non si aspellato 13 non ho persona... per cui io possa mandare). E se ci
losso chi farli, per lullo dolorosi pianti udiremmo o. Dav. Il loroso qui i lo
mai alcun altro (19 .trasporta casi dove il vento... . Bari dove voleva il
vento). (110). ( atlandrini ... pºi c'e' lissimo librº srco medesimo d'esser
malato lilllo sºlo tra il latlo qli doni di nullò : Che fo ? l)isse lº uno: A
me pare, che tu torni a casa, e i lilli in sul lello . I clie dello io il re
?... A me pare l'ori i ba riare a .. .V (Ilen l uomo, io ho la più persone in
leso, che lui se sa essimo, º nelle cose al l si l i n olio e col nºi: e per
ciò io saprei colentieri da le, I tale delle l e l'afgi l il repuli la cerace,
o la giudaica o la saracena, o la cristiana loce. Vorrei sapereli a dalla per
la sua presto a dore fare ciò ch'ella gli comandasse ». I 3 (''. | | | .Ella
rimase lulla con lenta, pur e ch'ella polesse fa, e cosa che gia piacessº, e
rimase a pensa e con queste cose si facessero più presto mm e mi l ' . ( il V :
il n.\ 'il' atli Illes la dolorosa notal re lulli mori, e, e mirando or l' uno
or l'altro, non saprei qui al primo si piangesse o Cav. si dovesse piangere.
l?irollosi tutto a docet li orare modo come il giudeo il servisse, s' av risò
di lot rºlli una forza d'alcuna ragion colo, alla s. Bocc.a 1 me pai rebbe che
noi andassimo a cerca senza star più ». Bocc che noi li ll'emiro, dovremmo
andare .Ma se alcuno si moresse e dicesse: perchè non fu questo rivelat , ad 1
ml mio innanzi che quel li atle morisse, che, come sorerenne all'uno, così
avesse sovvenuto all' all I o ” . Cav. avesse potuto.... . E fallo questo, gli
disse: quello che a me parrebbe che tu facessi sarebbe questo, che tu pigliassi
di molti pesci e ponessegli l'um dopo l'altro dalla bocca di questa lana sino
al buco della serpe.... ». Fierenz. a N on sapeva che farsi, se su vi salisse o
se si stesse ». Botc. (che ci si dovesse fare, se dovesse...).« Io non so quale
io mi dica ch' io faccia più, o il mio o il tuo pia cer, . I3, c. non saprei
qual dei due io debba, o mella conto ch' io faccia, se il lilio o il lli i
piacere.a Ond' io a lui: dimandal tu ancora Di quel che credi che a me
satisfaccia: 'h'io non potrei, tanta pietà mi accordi ». Dante. (mi vogliº, ini
debba, o mi abbia a sodisfare). « Nastagio udendo queste parole, tutto
limido dire nulo.... cominciò ad aspettare quello che facesse il catraliere n.
Docc. « E perciò dunque proromper ('risto in eccessi a lui così disusati
di maraviglia ? ». Segn. (volle, dovette Cristo prorompere). NOte
all'articolo 12. (109 ) Forma di grado superlativo, frequell Issillo -lilla
penna i classici e con lume alla lingua tedesca e inglese. (110) Negli
esempi fin qui allegati avrai osserva lo clic e una delle voci: chi, cui, che,
dove, onde, ove, se il soggetto, oggi 11 o o circost: i nz: principale cui -
riferisce con il lique l'azione del III do elit Iro. i 111) Gustalo,
anche negli esempi che a questo film Ilo segui o, quel congiuntivo che cessa
l'all l'o, veri o ill de si gllida. 'l'ori la loro is: I lente al : mögen,
dirfen delle solite forme tedesche. E dire che si è scritto e di scusso tanto intorno
a quei facessimo del l'assava iti. Non per opere « di giustizia che li oi
facessimo » ( oè che noi potessimo Irlai fare V . - sione del testo di S.
Iº:nolo : « non ex operibus ill-titi que facimus nos. E chi la disse scorrezion
degli stampa [ori, che e il rilugio ordinario degli ostinati; chi licenza del
traduttore e chi l'una e chi l'altra ( º belleria. Il Bartoli all'incontro, che
se l'era il trecento tornato, per così dire, in natura, sente in quel facessimo
non il fecimus e II è anche il face remus, che sta bene, dicegli, nell'italiano
quel che nel la Inal sone. rebbe; ma un non so che di elittico, come sarebbe a
dire: quantunque ne facessimo o altro di somigliarmi e. Vielle a dire in 1
nelllsi i le cºllº, i militi che lion lo dica e nessuno, ch'io sappia, l'abbia
mai deti' , espressamente, in tale e simili costrutti vi è sempre clissi di uno
dei verbi potere, volere, dovere. ARTICOLO 13. Il'INDEfINITO DI UN
VERB0 obbligato ad uno dei verbi potere, role e, sapere, dovere, si trala
scia alcune volte, con un sapore e con un garbo ſullo italiano. L'oppostº del
ragionato all'articolo precedente: là questi verbi, non espressi,
erano sottintesi in un altro verbo; qui sono appunto questi medesimi verbi
che ne sottintendono un altro. Quando e come agli esempi. “ Ti orºlli ( o
di notti in ono onor quanti seppe ingegno e amore ». l3 cc. seppe o il mare e
Irovare Sºnº lºro non può l tono un cibo, ma desidera di variare ». Doce.
(non può soffrire . l: I tiri spesso rolle insicuri e si la cella rai no,
ma più a ranli, per la solenne guardia del geloso, non si poteva . I; ci
ma di più non si po teva fare).º ... non c'n li tlc mi cco in preconi nè in
prologhi. Quando volete cose Che io possa, but N lui il m con lo ... ( il
l' . lo era un asinaccio che non poteva la rila , Fiorenz. non poteva
reggere).l'ºr la qual cosa ci ri unº, che ci e scendo in lei a mor con
linuamente, ed una malinconici sopralli di aggiungendosi, la bella giovane, più
non potendo, in fermò ed eridem le mente di giorno in giorno, come la neve al
sole, si consumara o. I3 cc. pil non potendo reggere .Voi mi ſono aste e mi
accarezza sle allo, a assai più che non dove vate una persona non conosciula e
di sì poco a fare come son io o, Caro. che non doveva e onorare una persona, o
fare con una... . ... Spatccia la mente si lerò e come il meglio seppe, si
resti al buio...». I3 cc.« Il percosse Iddio in la parte che non potea meglio
per isrergo (/n (trlo ». Cesari, che li in pole a fare, accadere meglio....
.lºra bassello di persona, e pieno e grasso quanto potea (quanto pol ea mai
esserlo, divenirlo .E già tra per lo gridare, e per lo piangere e per la paura,
e per lo lungo digiuno, era sì rinto che più a ranli non potea. ». Bocc. non po
leva andare, reggere, sostenero).('on gen le sì laccagna, crudele e superba
puoss' egli altro che man temere libertà o morire º v. l); V al 17.E tanto
basti a rer accennato di quelle che per poco che sia, al niente che riliera il
saperlo, non può altrimenti che non sia troppo ». Bari (non può essere, non può
fare).« Ma lulli erano a campar la vita, se potessero con la fuga o. Dav. (se
potessero mai farlo con).« Ora con quante più dimostrazioni di riverenza
sapevano, di nuovo l'imarbora ramo . I3art, la croce sapevano fare, esprimere,
tributare). « Adorni il meglio che sapevano ». Rart.« La lena m'era del polmon
sì munta Vell'andar su, ch'io non potea più oltre a Dante, Maniera comune ad
altre lingue).« l 'ea finalmente preso sì allo grado di perfezione che non si
potea più là ». Ces.« La natura della cosa porta così e non se ne può altro ».
Ces. (dire. fare altro). « ... se ne rennero in un pratello nel quale non
vi poteva d' alcuna parte il sole ». Bocc. (non poteva avere azione... --
Nolalo anche negli esempi che seguono questo particolare uso del verbo potere,
che è bello, forte e tutto italiano). « La bottega dello speziale debbº
essere posta in luogo, dove non possano l'ºn li e solo o. I): I V. ( ...
pendici boscose, per i venti di tramontana che molto vi possono smaltate di
così duro ghiaccio... ». I;art. Segn. « ... in paese di terren magro e
sil restro, e in lornia la i là d'allis simi monti, onde il lreddo vi può
eccessivamente: e pur r è caro di Ie gne ». Bart. () [LASSE II.
Voci e frasi cui si attiene il pretermesso Meritano all'enzione in modo
particolare e studio quei costrulli che l'erario ad l Il senso che
grammaticalmente non hanno, od è altro, e ! all le avanza il malural valore
delle parti onde si compongono. La qual costi procede, io m'avviso, da un colal
modo di significare, dirò così la lente e lºroprio soltanto di questa o quella
voce, alla quale, in tale lal all ra forma ad perala e convenientemente
collocata, viene una forza e indi alla mente un' idea che il senso e
l'intelletto subitamente appren dono, ma il maniera assai più vaga ed evidente
che non farebbe un se gno di valore letterale ed esplicito. Le elissi
della classe precedente erano quelle di certe voci mani festamente pretermesse
ed alle tuttavia a sol lin[endere. Ora vuolsi al l' incontro allegare e
proporre allo studio del giovane filologo molti esempi di quelle voci le quali,
non che si tralascino, ma stanno per più altre dicono più assai che non faccia
il material suono. ( ). ( ) A me sembra, dirò col Gherardini, che,
indirizzando la mente a ritrovar questi ascosi concetti, si abbia a ritrarre
dalla lettura un diletto ignoto a chi non penetra più là dai lievi egni delle
idee che l'autore intende risvegliare. PreVengo che per non isparlire, più
che non l'isogni, la materta. pillºvelli di alcune menſi varle soltanto e rimandare
il lettore ad altro capitolo di altre ragionarne anche oltre i lerimini
dell'Articolo e dire di altri usi più notevoli. ARTICoLo 1. lascio
le discussioni intorno alla natura di questa particella, se sia O possa essere,
secoli l g' sci il lori, alla cosa che semplice preposizione, se si verili e il
posto il luogo di altre voci, e se finalmente, i saldi si ad i Ilicic, che di
semplice pi e posizione, si i lorº clip i cicli con i voti lolio, li a gli
altri, il Ghe rardini, da lui le ho idea pl e le press e soliti esa, o sia
dessa all' in con l'o, e così pare il mio, e lo ſcroll l: di Iroppe altre idee,
torna a l lIn Se gli e la l li se il l il si l radl Il l'ebbe sull' rogando il
re parole, la con i ponenti in ci o la sintesi e slenuandone Illindi il sapore
e il vago di II li ascosa vi li Islà: e comincio subito co; - l' addii re,
prima di lillo, esempi di un ct ad Iso ben diverso che di sem plice
preposizione, e di un gol I loro, di rina belli, virli cd elicacia, che non si
potrebbe a pezza con la lunque al ra v . e. ( )sserver: li : il come
l'essere una al parlicella ora articolata e ora no, iol è, con le dicono, allar
di colli o di ſol ma sl l'iore soltanto, ma adopera sull'essenziale valore e
quiddi là del liscorso. Le frasi, a cagion d'esempio: con lo scudo di pello:
stendersi di un vento a poppa: pianura di mare: quardare al concupiscenza, ecc.
ecc. si scollcierebbero e guaste rebbero non chi altro ad incorporare comunque
l' articolo con un a co tale; laddove altre coll'articolo, p. es.: male allo al
camminare: virer.' all' altrui mercede ecc. ecc., perderebbero lor sapore e
forza sopprimen (l lo): lo) come assai sovente colesl a risveglia nell'animo un
senso che torna pressº a poco ai modi: allo scopo, a fine di, ad elfello di, al
hoe ul: in confronto, per rispello a..., al rispello di..: in forma di.., in
modo di... a guisa di.., conforme, i clatira nºn le t... quanto d..: a lorsa
di....ricorrendo a... con, col mezzo: dopo, di lì a., a distanza, ad inter
rallo, della durata di..: intorno a: ecc. ecc.. e come talvolta li par che
codosi a come acutamente osserva il Gherardini, si continui alle ideº
sottintese: inducendosi, recandosi, nellendosi....... : guardando, ponendo
mente: esposto, occupato, inteso, raccomandato, solo posto ecc.Dopo gli esempi
di un a che mi avviso altra cosa che una semplice preposizione e voce cui si
attiene evidentemente il pretermesso, porrò, quasi a complemento di quello che
parmi doversi dire intorno all'uso antico e commendevole della particella a,
altri esempi di un a che, se pur è segno di semplice preposizione, non però a
quel modo comune e volgare d'oggidì. Si leggano e rileggano colesti
esempi, ma attentamente, assennata mente, ed ad alta voce, così cioè da
gustarne il vago e sentirne proprio la forza, il peregrino che lor viene dalla
particella a, e gioverà a render sene al tutto padroni, e ridirli e riſarne,
occorrendo, de somiglianti, ma sì che appariscano cosa naturale e tua, non
opera di studio e d'artificio, gioverà, dico, più assai che non ſarebbero vaghe
teorie, mille sacciute definizioni e divisioni, che in materia di eleganza
guastano talora, non che n'aiutino lo studio, ciò è a dire il pratico
profitto. (138) « Mi metterò la roba mia dello scarlatto a vedere se la
briga lui si roll legrerà n. 13 cc. tafline di... opp. e sarò vago di.. .a Che
senza dolerlene ad alcun tuo parente, lasci fare a me a vedere se io posso
raffrenare questo dia rolo scatena lo m. Bocc.« Vè caghezza di preda, nè odio
ch' io abbia con ra di roi, mi i lºrº partir di Cipri a dovervi in mezzo mare
con armata mano assali, c . lioccº, º allo scopo di... aſlinchè vi dovessi....
.() ne's la cosa º perdonare ai poreri quando errano, ed esot minuti e sè
stessi a vedere se negli animi suoi alcuno diſello per arren litrº nascoso si
stesse ! ». Casa, Uff.a ()ra ci raccomandiamo a questo Santo morello a vedere
s' ('Ili lº niuna forza in mare che ci faccia riare e l'ancore nostre , V. SS
Pad. « I ccise un suo mimico, e per camparsi dalle forze della Itaſſio nº si
fuggì a franchigia in un monastero ». Barl.« ... disse che egli sarebbe a
sepultura ricerulo in chiesa ». I3ocr'. « ... or mi bacia ben mille volte a
vedere se lui di rºm o . I3o e'. «Spessissime volte io ho mangiato e bruto non
a necessità, ma a volontà sensuale ». San Bern. Tral. Cosc. Cioè: ho mangiato e
bevutº non a fine di soddisfare t....« Per quanto io posso, a guida mi
l'accosto . l)alle. mi accompa gno pronto a esserli guida,a Ver è ch'io dissi a
lui, parlando a giuoco: lo mi saprei lerar per l'aere a rolo . Dante. (a fine
di pigliarini giuoco.« Se tu studi nella continenzia, fa di abitare non a
diletto ma a sanº tade ». I)on Gio. Cell.« Leggi non solamente a consolazione e
diletto degli orecchi, mi con pensamento, intelletto e fatica d'animo . lºsop.
Cod. Fars. « onde se il frutto ti piace più che il fiore, cioè leggere il librº
º trarne ammaestramento....... guarda al line che importano le parole ».
Esop. Cod. Fars.E andando il leone, poco dopo queste cose, a diletto
sprovveduta mente gli renne dato nel laccio del cacciatore ». Pass. 139. ... nondimeno
a cautela si ordinò che.... ... Caro. « Io ro che l campo là do Sul (teini l
omani a spasso andiamo a risilare ». I'illci Luig. Morg. (a scopo a titolo, a
modo di... ). Caro figliuolo, se roi amarale avere a donna questa damigella.
roi non lorº rotte le nºr bargagno -. Vill. M. destinandola a esser vostra
moglie.l 'endo... una gru ammazza la.... quella mandò ad un suo buon
cloco...... e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse o Bo, c. Federigo
andò a V inezia, e gillossi a piedi del... Papa a miser - cordia , per
ottenere, o implorando... Vill. G.Molle colle si conduce l'uomo a ben fare a
speranza di merito, od altro suo rantaggio, più che per propria rirli o Nov.
ant.« Chi potrebbe dire quanti già a diletto lasciarono le proprie sedie, e alloga
romsi nell'altrui? ». I3oce.('osa ordinaria, dic 'egli, che chi è rivit lo
dissolutamente a fidanza della divina misericordia, morendo ne sconlidi ».
I3art. 140). Maledello è da l io ogni uomo che pecca a speranza ». Pass. (141).
La speranza del perdono. Si è data a chi la ruole: E colui l'ha per mio dono.
Che del suo peccato duole: \ on chi a speme peccar suole, Ch' io non faccia la
rengianza la l'ond.Paolo, sepulto rilmente in terra, risusciterà con gloria :
roi, coi sepolcri de ma mi ed esquisiti ed a trali, risusciterele a pena ».
Vit. SS. IP: l d.Trasse di prigione la della ln per il rice, e isposolla a
moglie nella e il là ali Patriot , Vill. (i. i trad. destillandola a esser
moglie. E Maddalena, piena di contrizione, si seri è l'uscio dietro e spo gliossi
alla disciplina, diessi a piatti nei e amarissimo mente i suoi peccati ».
Caval.... e da rasi ne' piedi e nelle gambe, e da casi nelle braccia, e lo
gliera la cintola sua spianata la fornita di spranghe, ch'ella solera por lare
a vanità, e spogliarasi ignuda, e batte casi con essa tutta dal capo (il piò,
sicchè ella filatra lilla san Ilie o, Caval.a I)i lui rimase uno figliuolo che
ebbe non e' l rrigo, che 'l ſece eleſſ gere a Re de Vomani ». Vill. (i.
142).I)ormendo in sieme... nel suo lello piccolo a due, ma ben fornito ».
Sacch. cioè fatto per servire a due persone), Ed assai bene circonda la
di donne e d'uomini, da tutti conforta la al negare . I3 # 1 (3). a V
elele com' io son gra ricciuola e male alla al camminare ». Fier. a
Rincorandolo al taglio ». I3occ. a soffrire, a volersi permettere il
taglio. “ Chi adunque s'interporrà a che voi coll'anima non possiate a ro
stri amici andare, e stare con loro, e ragionare, e rallegrarsi e dolersi ? ».
Boce. (ad impedire che..., opp. con tale effetto che...):º 1 roi non sarebbe
onore che vostro lignaggio andasse a pover tade ». Nov. ant. (a languire nella
povertà).“ ... di poi sempre meco medesimo dedussi quei suoi deli, sentenz º
ammonimenti a mio proposito ». Pand.« ... e molti altri che a narrar li saria
fastidio ». Giamb. a volerli narrare, se si dovessero narrare, opp. facendosi a
narrarli.« Vom prima decaduti ri mirano a ril fortuna che los lo suonano a
ritirata, a raccolta, se non fors'anche a vergognosissima fuga . Segn. Sta ma
nº, anzi che io qui renissi, io trovati con la donna mia ir casa una femmina a
stretto consiglio ». I3 cc.« Chiamare, venire a parlamento.... o. I)av. – (osì
dicesi : Suonare a capitolo dei fra i).« Il santo fra le fu insieme col priore
del luogo, e fallo sonare a ca pitolo, alli irali raunali in quello mostrò Ser
('appellello essere stato un s(1n lo so. E la C.« ('ongiurarsi alla rovina,
alla morte di... ». I3arl. (a conseguire la.. « ... e saranno solleciti a
quello che da maggio i sa , i loro coman dalo ». Pand. (a far quello). «
I)i seta, d'oro e d'osli o era coperto E dipinto a bellissime figure Alaiml.
Gir. (con ornamento di...).« Una coltre la corala a certi compassi di perle
grossissime ». I3 cc. (a forma, il maniera di..., col...).« ('ollirare a
campagne di seminali e giardini di delizie ». I3a (a modo..., in tal
malliera... .« ('olesti luoi denti falli a bischeri n. 3 cc. (a guisa di... a
simili! Il dine di...).« Volendo ciascuno la propria insegna, e ſu forza
d'allargarsi in più colori, e quel medesimi in dirersi modi formare a doghe, a
sbarre a traverse, a onde, a scacchi, ed in mille altre maniere o. I3orgh. V. «
E quelle recchie loro col fazzoletto sul riso a saltero.... V e contº elle ci
ſan gli occhiacci torti ! ». I3uon Fier. (144.« I pesci nolar redeam per lo
lago a grandissime schiere ». Ioce. la modo di..., – schaaren Weise, Zll...).«
Venite a me ispesso, ma non venite a troppi insieme che forse non sarebbe il
meglio ». Sacch. (145).« ... renendo da me, non renile a molti, ma a due o tre
o. I3ocr'. (non molti insieme, ma due o tre per volta).« E come gli parve tempo
cominciò a mettere coperta nºn le ſanli in Faenza a pochi insieme o Vill. (i.a
Il conte vedendo che la Chiesa non gli mandara da mari se non ti slenlo e a
pochi insieme, le melle... ». Vill. (i.« Le gocciole del sudore del sangue di
G. C. che per tullo il suo lº nero corpo a onde discorrevano in terra.... ».
Med. Alb. Cr. ( Fºcerſili grande onore regnendogli incontro a processione
con molli armeggiatori o Vill. (i.“ Come da più lelisia pinti e l ralli Alla
liata quei che vanno a rºta, Lºran la voce e l'allegrano gli alli: Cos... ».
Dante, vanno in modo simile a ruota,( 0r chi se lui che ruoi sedere a scranna?
». Dante. (sentenziare a lnodo che fa il (iiudice in tribunale .« La licina
prese a vero la parola e incontamente la significò al Re di lºro ucit sito fra
lello » (i Vill, per cosa simile, o conforme al vero). “ Se io parlassi a
lingua d'angelo e a lingua d'uomo, e non avessi col rilà sì la I ei rom e la
campana che si ball e o. (ir. S. Gir. in modo sº. mille a Illello che puo mai
fare un angelo ecc.,li gli amando la nudità serrò la resle di (risto : voi,
vestiti a seta, arcle perduto il reslimento di Cristo - Vit. SS Pad. (146). Vom
scºrre mai se non a suo senno , I ): ille, Conv. 147 . v I na
gioranº... bella li a lull e l'alli e... ma sopra ogni altra bizzarra,
spiacevole e ril rosa intanto, che a senno di niuna persona voleva fare al c'll
not cost, nd” (il tri ſul l lut role ra a suo , l 3 , .\ (ii resse l?omolo a
senno suo. V una tecon ciò il popolo a Religione e Divinità , . I ): V.lo
roglio del I e di costui che renne lui di, alel mio a mio senno, arri'. gnacchi
non l'abbia merita lo . Pass, come mi pare e piace). ... fallo a ress' io a
senno del mio cane figliuolo e non egli del rec chio padre ! . l)av.Dorma ri e
da cantar l'usignuolo a suo senno liocc. quanto e col le V Il le .Ma non si
arendo con quei pesci caratlo a suo senno la fame.... ». I I'.... l (t m lo c'h
e a senno vostro io, lo debbo tre le l il 1 le pel contralatte no. (i il b.\ on
ne corrò meno di li cºn l' ollo, come egli me ne prestò e jam mene questo
piacere, perchè io gli misi a suo senno e l'occ. 1 (S). e in somma si pose in
cuore di colei e io e contrario a tutte quelle cose. eh ella si dilella ra
quando ella era rana: e questo lutto a senno e volontà del suo maestro, e con e
ci lui piacesse Cav.... e atmcora pensatrano di domandati lo che modo e che
rila t ressero a tenere, e ancora quello che dovessero fare delle cose
corporali, impe rocchè ogni cosa volerano che fosse a suo senno e a sua volontà
». Cav. i 149). ... tutto quel rimanente di pianura a mare n. 13art.
150). (posta vicina al mare, che si illiene al mare, e anche piana come il mare
. ('a mm e rut a tetto , ( la zzi. I Ncio a strada . I3oe('.
... e se la collut ne' loro luoghi a mare l ro raramo riso...., allora de lizia
ramo ). I3arl. ... incontra un rento che le si stende a poppa . l?art. I
che sollia e spinge innanzi investendo soavemente la poppa). «
Portava a carne cilicio aspro . Cav. ſrad. a strazio di viva carne “ ...
faceva asprissima penitenza, portando a carne sacco asprissimo e di sopra un
rozzo vestimento o. Cav. “ ... negozi che non si fanno tutta ria col
notaio a cintola, ma con fede e lealtà di semplice parola . liocc. (par che
dica : col nolajo attaccato O appeso alla cintola . ma con ballerano
pianali, dove i nostri con iscudo a petto e spada in pugno,
sloccheggiarano quelle menº bront o. Dav. « Messa si prestamente una
delle robe del prete con un cappuccio grande a gote, ... si mise a sedere in
coro ... I ce che arrivava fino alle... o da coprirsi le gole) a La
moglie ne lece piccolo lamento a ciò che ella dovea fare ». Vill. G. a petto,
in confronto di... .« Ma io credo a rei rene dello pure assai. Aſſà sì, a
quello che porla il tempo, non a quello che ſulla ria rimarrebbe n. Ces.«
Troppo ci è da lungi a fatti miei, ma se più presso ci fosse.... .. Bocc. (per
rispetto, relativamente a... .« Ciò che daranti dello ſtremo, poco è a quello
che dire intendiamo ». I3 cc.« E tanto basti a rer accennato di quelle che per
poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può all rimenti che non sia
lroppo ». Bart. « Che è questa pena a quello che merita sti? ». I3occ.« Ma che
è a Dio la oll racola la superbia di un rerne ? ». Dav. « Dall' età di
Demostene a questa ci corre 400 anni, o poco più, che alla frale vita nostra
possono parere spazio lungo; ma alla natura de' secoli e all' eterno è un
batter di ciglia ». I)av. (15 l .« V ent'anni ! che spazio son dessi all'eterno
? tu se' ma la merce tanlessa se ruoi ch' io li baralli a quello o. l)av. (1 o
2 .« Ma lasciamo andare questa comparazione e simili, le quali sono piccole
all'altre spese, che si fanno soperchie ». Pandolf.« Le cacce, i parchi, le
conigliere, le colombaie, i boschi e i giardini che ri sono già inviati, sono
cose ordinarie, a quelle che si possono fare ». Caro.« Essendo conosciuta così
allera, Che tullo il mondo a sè le pſ rºot vile ». Ariosto. (cioè : tutto il
mondo, paragonato a sè, le parea vile). « Noi abbiam casa d'aranzo, alla
famiglia che siamo ». Cecch. « Domandò quanto egli dimorasse presso a
Parigi : a che gli ill risposto che forse a sei miglia ad un suo luogo ». Bocc.
(153). Ch'era presso alla città forse a due miglia ». Fioretti « Appresso delle
sue terre a tre giornate ». Sacch. « ... io vi era presso a men di dieci
braccia ». BOCC. Onde seguì a poco tempo che 'l predetto Irale non resse
all'Ordine e lorn Ossi (al secolo ! ». Vit. SS. Pad. “ Lo l'isloit
rispose, a lui parere gran fatto, ma dovendosi a pochi di lorni (tre redrebbe
chi di loro losse che dicesse il cero ». Sacch. “ Egli è la fantasina,
della quale io ho avuta a queste notti la maggior lºtti l'a che mi ti s'a rºsse
o lºocc. (intorno a queste...., in una o alcune delle scorse notti. (154).Forse
a otto dì alla sua promessa vicini . I3 cc. Fiam. lla nosli a lo desiderio
grandissimo e in certo modo certezza d'ac col lo..., non ostanti le cose delle
a questi giorni in contrario ». Caro. E a questo sci irri e toscano basta la
lezione delli rostri tre primi l'atmlº, l'ºl rarcati e l'occaccio, e di certi
buoni che hanno scritto a questi tempi ». Caro (circa, in lorno a questi
tempi « Il cui dilello a rendo il maestro redulo, disse a suoi parenti
che dove un osso lracido, il quale area nella gamba, non gli si carasse, a
costui si con renica del lullo o tagliare l’ulla la gamba o morire, ed a
trargli l'osso potrebbe guarire ». Boc ricorrendo al mezzo di... appigliandosi
al partito di...). (155).« A grave e crudel morte ti fa i ) morire o, Cav. di
morte cagionata da grave e crudel supplizio).c ... in un suo orlo che egli la
cort ra a sue mani , l?occ. A buone lanciate li ribullarano rovescioni giù
dalle scale ». Bart. (a forza di..« ... aggrappandosi a mani e piedi su per
greppi inaccessibili ». Bart. ... miun alti o di sua grandezza aver avuto due
nipoli a un corpo : recandosi le cose ancor di fortuna a gloria ». Dav. (156).«
Vi dico che 'l cui rallo è mul rilo a latte d'asint... Ed ln l'ennero clº il
puledro ſu noi ricato a latte d'asina ». Nov. ant. 157).« Il Demonio tutto di
pugne a coltello i peccatori, e non gridano, e non s'agitano, e non si
difendono, e non se ne curano: ma lo sto sentiranno il duolo delle fedile, se
non se ne medica no ». Fra Gior (cioè : « punge cacciando mano a coltello ».
Gherardini). « I rrecarci in collo un fascio di legne, e rende alo a pane
ed ad altre cose da mangiare ». Fioretti. (gegen Brod., mediante permuta
di...). a che parimente l' uman sangue, anzi il cristiano, e le dirime cose a
danari e renderano e compra citno o l'80cc.« Qual colpa, qual giudicio, qual
destino, Fastidire il vicino Porero, e le fortune alflitte e sparte Perseguire,
e 'n disparte Cercar gente, e gradire Che sparga il sangue, e venda l'alma a
prezzo ». Petrarca, Non per vendere poi la sua scienza a minuto, come
molti fanno o. Bocc. Schiacciara noci, e rendera i gusci a ritaglio ». I
;occ. “ Vicere all'altrui mercede ». Giamb. (appoggiato, mercè
dell'altrui.. . (158). -º 1 ndando un dì a vela relocissimamente la mare... ».
I;occ. (cioè : la nave commessa a la vela. 159 .“ Malacca, tornata peggio che
prima su gli sparenti e su la diffi. denza era tutta a popolo ed a romore , l
art. 160,“ ... e mise il mare in così sforma la tempesta che quattro di e qual
tro molti corsero perduti a fortuna, senz'altro miglior governo che... , Bart.
abbandonati alla fortuna, in balia della.... ; 1 - « Non è sì magro
cavallo che alla biada non rigni un tratto ». Fie. renz. (che al Vedere la
biada.« Non possiamo a certe stravaganze tenerci di non le motteggiare . Caro. «
E molte volle al fatto il dir riem menu) p. I)alte. « Se tu non te ne al
redessi ad altro, si le ne dei a rivedere a questo, che noi siam sempre
apparecchiate a ciò , Bocc.ſt Ma dimmi: al tempo de dolci sospiri. A che e come
concedette Amore Che conoscesſe i dubbiosi desiri? ». I)ante. al vedere che
cosa, facendo attenzione a che cosa . « Conoscere all'abilo. alla furella , e
simili. « La città si reggeva a consoli o Vill. (i. (con governo di... .
(161 . « La della città si resse gran tempo a governo e signoria degli Impe
r(Ilori di Roma ». Vill. G.« Se li vorrai ricordare di qual patria lu sii nato,
conoscerai che ella non si regge a popolo, come ſacera già quella degli
Ateniesi, ma è gorer nata da un signore solo ». Varchi.« ("h e la città
allora si reggesse a Consoli o con l'autorità del suo con siglio o
senato, lo dicono chiaramente gli scrittori nostri » Bargh. Vin. Seguono
altri esempi di un'a ad altro valore che di semplice pre posizione e di usi
assai diversi, ed in parte anche noti. Non ne faccio serie distinte, che
sarebbe troppo lungo, ma ne scelgo alcuni e li di spongo qui alla meglio, l' un
dopo l'altro. " " º "gli º º º ninno che voglia metter su
una cena a doverla dare a chi vince ». Bocc. la quale sia da darsi a chi
" : lº º l'"ºn lºrº in su un ronzino a vettura venendosene ». Docc.
destinato a lirar la vel | I ra”. “ ... con le note rele a chi più mi
esalli , I; art. tale [llo, ad hoc: chi pil...). Inler indire a morte o
l'iel'eliz. º lº Iºsti a baldanza del Signore si il batteo rillanamente... ». Bocc
con lº e' Illanti da compiacere all'ardire...).a l?ilo) ma ndo a d'onde mi era
poi l'lilo... ... Fier eliz. (al luogo onde). 1 cc (sotti nel castello...
vicinissimo a dove ºggi all blano 13asilea (iia il (al luogo dove.('on atmdò a
pena della testa . I3 c. (bel Todesstrafe). 1 ml e pare essere a campo, tanto
cento viene su questo letto » Sicch. Fr. esposto all'aria del campo.lº a mal
rete in sino a Pisa a questi freddi i ... Cecchi, (cioè esposto a | Iesi freddi
lo i diesel villeº la donna rimasti sola, racconciò il larselto da uomo a suo
dorso , l30cc. (sì che facesse pel suo dorso (162).“ Qualunque altro trilla la
resse, quantunque il tuo amore onest., slalo fosse, l'arrebbe egli a sè amata
p) i loslo che a te . l oce. (cioè : l'avrebbe egli ama la destinandola a sè
per sposa, piuttosto che cederla ti le o. (illerardilli .“ Ed il popolo tutto a
grandi voci ringraziò ladio . Vi ss Pad. (163, l'ill d.In abito di peregrini
ben forniti a denari e care gioie... ». Doec. cioè : il lallo, per quello che
spella, relativamente.... .1 Firenze il luglio e l'agosto si sta male a pesce,
perchè si arriva sempre i radicio e pazzolen le o. I Redi I e II. I 64 .l'ol
re, in li a prendere q. c. ad istanza, ad indotta di alcuno o. I3oce. I ): I V
. I 3:ll'1. I tesla finalmente a mostrare come anche l' a copulativo e ad
ufficio di semplice particella prepositiva venisse allora adoperato dagli
autori classici il lima i maniera assai diversa che non si faccia comunemente e
volgarmente col linguaggio di oggidì ed è pur degna di osservazione e di
studio. « lo estimo, ch'egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando
Do menedio me manda altrui o. IBocc. (165). c ('he cosa è a ſarellare ed
a usar co' sa ri? ». I3oce. lo dico che è cosa commendevolissima a mangiare
e dormire con sobrieldì m. 13art. Giunto (un cervo) a una stalla di buoi,
entrò fra essi: de' qua'i buoi uno parlò al cerro lali parole: Questa è cosa
nuova e disusata a star con noi ». I sop. Cod. Fars. « Misericordia si è a
perdonare l'olese che sono fatte...., a consigliar chi dubilat, e ammaestrare
chi non sa m. Fior. Virl. A. M. « Mi si arricciano i capelli a ricordarmi
di quella orrenda entrata, e sola vittoria di Gallia o. Dav. (166. « ...
ed ultimamente per renne l'anello) alle mani ad uno, il quale area figliuoli
belli e virtuosi, e molto al padre loro obbedienti ». Bocc. « 1 cciò che
a mano di rile uomo la gentil giovane non renisse, si dee credere che quello
che arrenne, Egli Iddio per sua benignità per mettesse ». Bocc. (167. ...
ed egli ricercò di more colmen le La basso che stesse contento a dazi ordinari,
senza metter muore angherie , (iial b. Ma siccome noi reggiano l'
appetito degli uomini a miun termine star contento...». Bocc. (168. « ...
e len negli ſarella infino a vendemia . I3occ. (169. « L'ora ju a
sospetto; la cagione presa per colpa: e la procura la quiete le rò rumore ».
DaV. « Da lui le parti si allolla cano allo no a fidanza di sentirlo
parlare . Bari. « Non ti nara rigliar se io le dimesticamente ed a
fidanza richiederò I3occ. (con conſidenza) (170. « .....passalo a Mantova
il cerno, il Padre lo tra millò a Casliglione a speranza che l'aria ma lira e
la bella postura del luogo lo risanatsse di... S. « Non pensando che li
mandassero a processione cerli re rsi con l' gli han manda li p. Caro ( 17 l
. « Era fornito l' altare a bellissimo disegno e con molto splendore col
(tlchè..... » IBarl. « Gli parlava a capo scoperto ed occhi bassi (
es. « Arregnacchè a sua colpa la naricella sia fracassata e rolla º
l'assav. « Il peccato nº ha quegli che 'l ja, perocchè l la a mala
intenzione o I'l'. (iiol (l. « In due maniere sono perdule l'orazioni
dell'uomo: s'egli non le fot a buon cuore; o s'egli le fa, e non perdona a
colui che natº lº ". (i l'. S. Gir. a 1)unque loi lu ricordanza
al Sere! Fo bolo a Dio che mi vien voglia di darli un sergozzone n. 13,
c. e Slot che lo : io li lai di medico re al mastro 13anco che è molto mi
o (1 mlico . Sacch. i 2;.Signor mio, io son presto a contessori ci il vero, ma
fatevi a ciascun che mi accusa dire quando e dove io gli tagliai la borsa, ed
io vi dirò quello cli e io ci ri ) la llo, e quel che no . 13 cc. (173.l'ulte
queste cose in lesi io gia i ceti a 1 e a uno ricchissimo padre e lº la miglior
rosli o di colo, l'alla loll.l clendo º l'ucidide l e lui e ad Erodoto le sue
storie, s'accese cla (I 'nº' Noi ci il bi: i ne' . Salvi i li. I 4 . e l
not figliol lat.... non essendo ci slui ma, e udendo a molti cristiani.. --
mollo con nºi, la l e lui ci is list not leale.... . l oce. i menduni o
alibi due li fece pigliare a tre suoi servitori ». Bocc. ll fece prende e a'
suoi uomini ». Sacch.chiunque per le circostanti parli passa ra rubar faceva a
suoi soldati .. l) co.e appresso. Nè lece la rare e sl i picciare alle schiave
». Bocc. .... Può e deve per sè dei irare a tutti questi capi infiniti ed
efficci - cissimi i corili rli , ( al . I 5 .a guisa che la veggiamo a questi
palloni Francesi ». Bocc. a quella guisa che far veggiamo a coloro che per
allogar sono, quatrº - clo prendono alcuna cosa . 13o .Mollo a reali le donne
riso del cattivello di Calandrino, e più n ci - ri e libri ancora se slalo non
fosse, che lo inci ebbe di vedergli torrº' ancora i rapponi a coloro che lollo
gli avevano il porco . Docc. I. , ol, ndo la r e nè più nè meno che s'acesse ceduto
fare al maestrº - ct tal, le .. . l i r.l mal ripo' a gillossi alla mano di
Paolo: la qual cosa (per la un tal e si relendo quei ba) bat i prende e la mano
di Paolo a quella bestia. - - - - alls Nero.... . A li apost. | | 6 .Sbigottiti
per le pene e per li tra ci tormenti che avea veduti Sos tº 7 ti, a peccatori
li l': il ril Vlli .. . l'assveggendosi guastati e a quelli che c'eran
d'intorno... ». Boce. ... e ad infiniti ribaldi con l'occhio me l'ho ceduto
straziare (il mai ») I 3 , ( -.. goira, di qui e beni che li reali gode) e a
questi padri ». Ces : a ! Lasciarsi ingannare ad una rana e slolla speranza ».
Pass. (177). Lasciarsi colgere al piacere all rui . Caro.Lasciarsi colge
all'obbedienza del superiore , Ces. Lasciarsi rincor e' a questa gente , l?art.Lasciarsi
occi pare e vince e alla paura, per forma che... ». C º Ed egli tutto fuoco
lasciandosi tira e al suo usalo ferro e d'alletto. - - - i . - -
- - - - - - - 1 Ed io roglio che lui gli conosca, acciocchè regga
quanto discre º º men le tu li lasci agli impeti dell'ira trasportare ».
130cc. t « V assene pregalo da suoi a Chiassi, quiri vede cacciare
ad un ca valiere una giovane, ed ucciderla, e diroiarla da due cani o Doce.
(178). « ILa giovane sentendosi toccare a: - nºani di c li l il , il 1 le
ella sor, i l tutte le cose amara..... senti i l la erº nell'a mm , quanto, se
ios se stata in Paradiso ». Bocc. 179). NO te e Aggiti inte
all'Articolo 1. :138) Gli esempi che ti allego, divisati e ord. nati come
meglio seppi, sono in numero Inolti e di Iliolte forme e baster: illo; ma son
ben pochi del resto, anzi pochissimi a quelli che mi vennero a mano. Non ne ver
rei a capo in parecchie centinaia di pagine se Illſ e prendessi a recitare le
proprietà, i privilegi, le perogative, gli usi iroll eplici di cosi fatta
particella, scandagliarne e discuterne le intime ragioni logiche, erigerne
teorie e apprestarne criteri; fallica, del restº, di n. llli pro e per poco no
civa. Ella è assai spesso elemento essenziale di Ip idiotismo, o maniera di dire
leggiadra e propria della lingua italia tra es. fare a chi piu Iman gia, beve,
grida, ecc., e come tali e non in par (Illi luogo da ragionarne, si come quella
che d'Illi si intimo, lodo si lega, o per cosi dire si ſolide cogli altri
elementi, che ad estrarla, appena la riconos i, e vi si però sell irrle,
gustarne ed apprezza ; II e la fa , zii, il ll - da sè sola, Ina nel suo tutto;
il che pili convenientemente ſaremo alla terza parte di questo
I)irettorio. I)i più l' a articolata ( III en , preti ess: a 1 in li od
altre voci di II, la moltitudine sterminata di maniere avverbiali, nelle quali
quella medesima preposizione a, che talora il lica spartiſamente disposizione:
a uno a uno; a decine a decine ecc.; tal'altra del ta III do, Iorma: andare a
piedi, a cavallo; fare checchessia alla buona, alla carlona; a poco a poco, a
otta a otta; vesti a oro, drappo a fiorami ecc., e signi a 1:1, ora, quan-- do
imitazione: vestire alla francese ecc., e quando fisica e morale disposi
Ziolle: a viso aperto; a occhi chiusi; a malgrado ecc., lIiolti dei quali nodi,
cioè i meno noti e pur degni da inci Ilcarsi, si addiirra:ino, corredati al
solito di buona scelta di esempi, quando ratteremº degli avverbi o for me
avverbiali in particolare, (139). Nota il modo andare a diporto, a
diletto cioè a scopo di diletto ecc. Simile anche l'altro del Passavanti:
Guardare a concupiscenza cioè con appettito di rea concupiscenza. Cosi si
dovrebbe intendere anche il modo (divenuto) Volgaro : andare a spasso, cioè non
nel significato di an dare a passeggio, ma in quello di andare scrivere,
leggere ecc.) al scopo di svago, di diletto, di passo. al 10,. Ti aſiuc.:
( ull'allino, col intelizione che confidando e ricorrendo alla livina il seriº
rili: lle soglia poi la V V ed Incillo e perdono. I 1, l: la traduzione del
molo luogo: maledictus homo qui peccat in spe. Ma Ilia lil , e lº iu vaga e lo
I e la Irase italiana! Vi senti l'anilino 11 i - osl, illo e resi resi li ti so
a ore, il cliale, Vinto dalla pas sic, Ile, Inti Illit do pur spel I li ai li
la V Vt di Irle:lto e perdono continua Iel 1 , ne a 1 I test Illlarsi i pc .I ?
Nota la rase: eleggere a re, a maestro, a direttore, cioè ad uf I l i , (il ...
SIII il ricevere a servitore. l'elilella , che Griseida non I s se l'all 1' ,
ai loro presi, e per lui el' . ll v pendendo, ricevere mol \ -- a servidore ..
. l 3 , l 'Il sl, avere a maestro, a padre, a si giore , l Ne l il roll ,
il Sesil I allegri da poi che l'elobo lo a signore , l'av. S. Analoghi anche i
modi: avere ad o more ad orrore: ..... ed s, il fr. ta lite nostre sord, de
zze, ma n avrà ad crrore d'esser da noi i co, da 11 Segn.; avere, tenere;
a schifo, a vile; recarsi a vergogna; tenere, avere alcuno a savio, a folle: N
Il tr es. i tu a molto folle e la l... » e c. Sell. l'Isl.: avere a tale: « Mlo
- rand i poverta lolio Ila e l re r1 llezza l'eo, acciocchè noi il do vessli, i
a tale avere. » (ill 111. l.eli .: avere checchessia a misfatto: « A non «
minor misfatto aveano il lei e una pulce che un uomo » . Bart. avere a niente.
Anni 1 -1 a i l’aut re che il luno, per lui sia in istato di gran polenza,
prenda il dire di Villa il gelare e arrogantare i miseri e pic averli a
niente.» l'isp. Cod. Fars.| 13, l. a. arti , lata Ilo, di questo e del seguenti
esempi, dipendente lei il l l e V g . In - re: a portare, a dovere, a fare ecc.
o in a 1 l di sol: Igli, l , , sia il il logº dell’ull o dell'altro verbo (vd :
l'ast di Illi e ! ll I lil.S: il l V el sl at le porti li o le inonache. 115 C1
e fra l'era da cori veri e li molli alla volta. E' proprio il zii viel del I cd
si li. Ed an li a due, a tre e si traduce zu zwei, zu drei e .I 6 Simile: Sopra
vestito a bianco come neve , Vlirac. Madd., ed a 1 le l: i rinse notissimi la
vestire a lutto, a bruno: E vedrai mella morte l ' Illi. Il I | 'ltte vestite a
brum le li :lle l'el - , l'etrarca, \ mire - della quale si sedeva il la
limatrona tutta piena di lagrime vestita a bruno. , l'i . e z! modo, secondo,
rili e il senno suo. No alo anche lº : li es . I | i le segli no, lui e sto
mollo: la re checchessia a suo senno, a seiºno altrui . . che è bello e proprio
della Lingua italiana.1 - Si!! i :ll": lo misi a suo senno, a senno, a
talento di..., è l'altra a sua posta, a suo avviso, a posta di....... cºli e lo
ss 1 in do per il ri sultº all, pie o altri membri in sua volontà se iroli a
posta d'altri. IPal d lf. Conf. Parte II, Cap. III, Serie 3: Modi avverbiali a
governo di a.)l º Vl : si ro ( i valra pare che piu che il modo: a senno
piacesse ta lo 1 l'altro: a senno e volontà.150 l 'a d (Illesti esempi ha alcun
che di comune a tutti, ma non è - "Il pre il nº de into. Si infilo, gli
slalo, che è evidente e di un sapore che lo: si potrebbe dire. (151) Ha
ripetuto la nota frase di Dante: ....mill'all ni..., e l'Iti “tºo Sli zio
all'eterno, che un muover di ciglia Al cerchio che più tai di ill e leio è
tOrtO ». (152) Nota il costrutto: barattare a... Con il Premiº Ilari (153).
Senza entrare in discussioni nulili a chi, noi la filos list della lingua, ma
la lingua stessa si vuole ( Il racemente imparare, li II lºttº Illi alcuni
esempi di un a che si riferisce allo spazio sia di 1 li luogo e torna press'a
poco ai modi: indi, di li a, in capo a, Icntano, di stante tante ore, tanti
metri ecc. Le frasi dell'uso: oggi a otto; lettera di cambio a sei mesi lida per
sei mesi) e simili, sono modi di un a a quell'ilso e valore º il gli esempi che
quivi arreco.(154) Questo a è somigliantissimo all' a dei precedenti esempi la
to alla forma, non quanto al senso che manifesta Iriente è assai diverso. ( 155
) Questi esempi recano una che par significhi col mezzo, mercè di, ricorrendo a
ecc.(156) Nota qui anche la frase: recarsi a gloria. ( inf. V b . Recare, Parte
III).(157) Così dicessi: Quadro a olio, ad acquarello e va dicendo. (158) L' a
di questi eseIIIpi ha i rain (li: abbandonato a, appoggiato a, in balia di
ecc.( 159 ) Crinf. sotto Nave IP ultitario) - VIa niere propri della Natiti a
(160) Nota la bella frase: essere una città a popolo ed a rumore, cioè in
rivoluzione, in balia del popolo ecc. – E piaceni (Illi II, il vantº le altre:
andare a rumore Bart , levarsi a rumore, levar popolo Iº i rt., I)av. ecc.
ecc.).(161) Mefferai a sacco anche questa frase: reggersi a re, a consoli, a
popolo ecc.(162) Simile anche l'altro, pure del Boccaccio: La donna li fece a
p. prestare panni stati del marito di lei, poco tempo davanti morto, li ciuali
« come vestiti s'ebbe, a suo dosso fatti parevano ».(163) Dicesi anche, ed è
notissimo. a bocca aperta, a struarcia gola, a braccia tese. « I)al sommo d'una
rovina si vede Ina donn:i..., la quale « avendo il figliuolo in mano, lo geſta
ad un suo... che sta nella strada « in punta di piedi a braccia tese per
ricevere il fanciullº o Vasari. (164) Prima di passare ad altro ti piaccia
altresì por In, nto, tra le altre molte che le son notissimo e non accade
occuparsene, alle maniere : essere a studiare, a giocare, a desinare, a
dormire, e nºn ho: trovare, ve dere, stare a giacere; porsi a sedere e simili;
il cui a, si bev, rifl 'fi, e si è quella semplice preposizione di vincolo o
relazioni o come: venire, andare, cominciare, disporsi a far checchessia, ma
necenna attualità di azione ed implica il senso delle parole: nello stato di,
occupato in, attento, inteso, dato, ridotto e simile. « Io mi credo che le
Suore sien l'uffe a dormire ». Bocc.: « Che Venerdì che viene, voi facci:lto sì
che M Iºa olo Trav orsari « e la moglie e la figliuola o tutte le don; e lor
parenti, e il l'e . In A i a piacerà qui sieno a desinare moco ». Rocc.: .
Venuta a dunque a con « fessarsi la donna allo abate, ed a piè posta glisi a
sedere... » Bocc. : « Costoro avendola veduli'a a sedere e cucire.... o IBC)
c.: . Altre stallino « a giacere, altre stanno ºrie », l)n mtc.; e Sfi:lmo :)
Inc it :) veder l:i gli ri: a Inostra ». Petr. ; e Veduti gli alberelli de
silli i colori, quale a giacere e quale sottº sopra, e penneli tutti git at qua
e là e le figure tutte il Illbrattate e gli isl , -: i bit , p lisò... » Sa
ll.: Si III osse correndo verso a la Cl re e trovandola a mungere e 1: i .... ,
( a : « I); pinse un re a ( sedere coll ol'e lli lilli gli lss II e V dl ialli.
- l am dei Incrdi: am Studie ren, am lesen, am spielen sein, e simili di alcune
provincie della Ger II l: l Ilia, e appllini o l'a del c : la lol V e In altri
casi l'a di un in finito soggetto a V el'lno, loli a m - Vlt ; tl , i dll re,
la zu.165 , l 'a di questi esempi st: l'a rti oli per altra preposizione
articolata e sappi ch'elli e V zzo 1, si a n a preporre talvolta all'infini,
o, a maniera di sostantivo e soggetto comunqil di una proposizione assolu
ta o dipendente, la preposizione a live e dell'articolo, ecc. (166 . Trad. lel
I l rilarini, e lui 'i gli 1 volta che mi avvenga il ricorda l'ini, so oft,
quoties recordor ecc.167 i Venire alle mani; a mano di alcuno e anche Iriodo
figurato i le significa: venire in potere d'alcuno.16S) Nota la frase: star
contento a qualche cosa. Cont. Contento, l'arte II, Capo V.).169) Simili i modi
andare a città Vo' in fino a città per alcuna « Irli:l vicelli la o lº si ...
per Vai l'll lno illo, cle andava « a città , l o in illera el tº :ca e vale i
nda, e per fatti suoi al capoluogo. Di un viaggiº (ore . ll e la sºsta di ll'i:
in altri , iº fa e non dicessi che va a città; andare a santo; . . ll v . l t .
ll li i possº andare a santo, e nè il niun bila il luogo ». Boc .; andare,
recare a marito – . ... e questa Il l:nti ! nº ll e lo o ire a marito, e le
festa bis lo fa a è apparecchiaio , Do ..: . . lo - a : a re dei di delle feste
che io recai « a marito » l 30 ..: essere a riva di ... e l ' , a riva di Reno
dllo est l' e citi » I), v.: menare a prigione l'a e il gºl al de ll cisiolle
di ri e Illiri... che ella si illlllo ne menarono a prigione, ma tutti li
misero al a taglio delle spade ». V ill. G. ecc. ecc.(170) Non lo scambiare con
l'a fidanza del primo gruppo di questo medesimo numero. Lo stesso dicas del In
lo seguente a speranza. i 17 1) I 'a di questi esempi sta evidentemente in
luogo di una delle pre posizioni: con, per, in, da.17?) Coi verbi: fare,
lasciare, vedere, udire e qualche altro simile, che reggono un'azione in
infinito, il sol getto operante di questa, osserva assennatamen e il
Fornaciari, si suole, per distinguerlo nettamolto dal l'oggetto, cºstruire
collo preposizione a, che corrisponde all'accusativo a - gente melle locuzioni
latine con jubeo, sino, video, andio ecc. – Messo to scalmanente si pone il
soggetto colla preposizione da, riguardandolo come semplice causa dell'azione.
Laddove a dire a esprimesi ancora il rispetto, l'ordine di moto, dirò così, a
chicchessia o checchessia hin, her), l'atten zione, il concorso positivo della
volontà, l'azione comunque diretta del soggetto principale verso l'agenl e, o,
come dice il Fornaciari, verso il soggetto operante, cui egli ſa fare, od al
cui ar o dire porge l'orecchio, volge lo sguardo ecc.Ed ora ritorna agli esempi
e sappi s'egli è indifferente e affare di garbo soltanto, con lo molti
asseriscono, e tra gli altri lo stesso IP. Cesari, il porre in sifatte
locuzioni l'a per da o viceversa. Trattandosi poi di
cosa dicevolissima se pur non necessaria ed opportuna all'interezza
e verità del discorso e tuttavia dai moderni niente osservata, parvelli di
allegarle un buon numero, e ciò all'effetto di toglierne il mal vezzo se Inai
bi sognasse di riformarne il gusto.(173) Ognuno sa che il fare dei modi: far
portare, far lavorare, far medicare ecc. equivale ad ordin: re, coma Ildare che
si porti e , altro di somigliante. Ora vuoi vedere se quell'a lla sua forza e
il n vuºl essere scambiato col da: costruisci ( (il comandare, e il 1:1 l 'lie
chessia : chicchessia, sarà nè piu nè meno di colmal, dare a chicchessia 'io di
reatamente) che ei faccia ecce. quando il far fare che chi sia da l 1 es sia è
comandare che si faccia da chi li essia e -- la fa ! (sia cioè che il comando
venga da lui li et la III elte o - li sta r il till iſlie trasmesso).; 174) Se
avesse detto: udendo da.... sal ebbe stata , l'horen 1 e O ll ricevere
materiale involſrl)ti l'io, e aslla le cºlle a l' lel st sia che lo si ascolti,
sia che llo, con l at Inzi - nzi ; Il lil I l e i leti , udendo a, volle
precisamente significare l'an . zuhoren, l star o ce clio, tender l'11 di o,
l'udire ( oli attenzione e concorso li vol ! 11a. 175) Cioè: dee fare che da 11
, l I questi capi si derivi Quel deri vare è qui adoperato a forma di verbo
callsativo e sigla I a far deriva re (conf. parte II. Natura ed essere val o di
alcuni verbi e(176) Tra (luci: volge:ldo la vista, gli ardi li do a Illella ln
l lin, la ti: i le prendeva la mano di Paolo.177) Sostituisci l'al fine
permettere e saprai li ferenza da a. (178) Questo esempio ci porge ma era di
altre osservazio i cle non fanno qui. Conf. Natura ed essere vario di alcuni
verbi ci l'arte II . (179) Il Gherardini spiega cosi: La giovane sentendosi ti
recare venuta o pervenuta alle madri di colui occ.; pare al Gherardini di
sentire il quell' alle mani, la voglia altresi che aveva di pervenire a...180)
Nota differenza tra la frase: sentir dello scemo e l'altra: sentir di scemo in
checchessia, cioè aver difetto, ecc. Conſ. Verbo Sentire, l': i e III).181)
Nota la questa frase far del...., simile alla precede le sentire, ave re
del...), che è Imaniera bellissima e nostro.º 182) E altrove: « Come state
dello stomaco ? » cioè per rispetto in fatto di...., in quanto a... A
RTICOLO ! ! Cilf (cong.) Prima di farmi all'oggetto da trattarsi,
piaceni premettere cosa la quale non li verrà si strana e Irivola che non ſi
sia anche il lile e a grado altresì d'averla udita. “ (lº è prontone, dice
il vocabolario, ma è anche congiunzione di frequentissimo uso dipendente
di verbo, da avverlio, e da comparativi; º coll'accento sta per poiché, perchè
- l' “osi la pensano granai e filºlogi che l'urolio e che sono, nè
sa prei º solº cui cadesse in animo di contraddirvi. l' olga il cielo
ch'io ººº º lilli di tenerla a leva, ma a censore di sì tillo, autorevole
magistero º il falli , che in omaggio a al do Irina pongo qui il chº, S! "
ºn liti il tonº, o il la sa cli, il ragionato estè. Ma se li pur in mia i a V ,
e - - irº che questo che di frequentis sillo liso. I pendente ci v.
l - Si p. ssa :ili le intendere o sentire tuttavia pronone, cioè lº chº,
nè più nè meno, del precendente numero A lizi, diro 'll 'i'i, lº sll sl tit ,
ti ma il rale di semplificare e vedere il lill lo tiri I l ss , , - i gºl
. . . . l III di strano ch'io abbio di concepire, io non so e A cdr e
sentire nella voce che, adope , sola o al I e di altra voce, Se non il pl o non
e' e non altro mai che il promonte, | Il lido in una, quando in altra
forma. l' essi i S \ ºpi ilarli poi di questa ini era l' intendere
e sentire, ti Pºi lui appressº i monti e pon i no e l'intrinseco valore
Virli sillclica di Irla i - l\ ini: gli orsi, chi ben la consi deri, in
altre voci pron nera' i ritmi le gi annuali ali:l'irroli cinque differenti
manici e di un colal che cong. | i l. I l a sla al riti il che vo non ,
sale . I3 cc. 2a Mio fratello è pil dello che pio . :3a ... che
vºli che li cosi rilla la ventilra che non è persona , Boc . ſa « Non era
ancora arriva lo che io e gi i partito .. ;)a lº si pensava che ingannando
i l i crilin fosse appresso al tutto signore n. Vill. (i. Questi
esempi reali, il che dei casi nellovati dal Vocabolario, e che ippo i Cirali ma
ci addini in asi rigorosamente congiunzione. Ma se ci testo che la fa il resì,
e li si sv: r al guisa, da pronome (v. numero precedente, e il qui il lice
cilalo che comporta decomposizione in una ad altra gilisa dello stessº i rom
ne, chi ini viola di riguardarlo, senza inello con le pronoln e sen| Irlie al
suolo i rispellivi elementi? Il che del primo esempio lesla in me il senso dei
modi: di quello che, di quella cosa la quale. Quel del secondo vale, a mio
intendere, quanto le voci: di ciò di questa cosa il verbo del secondo incis ,
virtù di elissi, omesso . ll Ierzo lo riconosci agevolmente quale il che del
numero precedente, solo che nell'avverbio così ſi intenda l'equivalente: in tal
modo. Anche il quarlo lo ravvisi evidentemente pronome framellendovi la voce
allora che va lui forse sol ſintesa, ed i cro che la frase torna subito
all'altra: in quell'ora, in quel tempo nel quale ecc. Più malagevole a
concepirsi pronomi pare, a prima giunta, il che del quinto caso, nè mi
basterebbe l'animo di asserirne la possibilità se testimonianze ai
lorevolissime non li vi confortassero. Come infatti ri guardarlo questo, stesso
che quale pari ella ad ollicio di pura e semplice congiunzione e punto
capace di virtù pronominale, se non vi è paro' a cui congiungersi, non un
congiuntivo od indicativo che sia comunque obbligato al che, ma un indefinito?
Eppure ant'è. Proprio il verbo del citato esempio, ch'io voltai al congiuntivo,
il Villani e lo mette all'inde finito, ed eccolo nella sua originale
integrità : « E si pensava che, in “ gannando i Fiorentini, e venendo della
città al suo intendimento, es. sere appresso, al tutto Signore ».l'erchè parini
da ragionarla così: Se quello stesso che, cui noi avremº Ilio obbligalo un
congiuntivo od indicativo, sì come nodo, il ppoggio tramezzo di questo ed altro
verbo, appio i classici rinviensi Ialora susse. guito dall' indefinito, che a
nostro modo di intendere mol palirebbe a - solutamente, egli è pur gioco forza
che quegli antichi, usando egualmente ol l'uno ol' l'altro modo, avessero di un
colal che alla apprensione, allro senso che di semplice appoggio di tramezzo
che si voglia.l) e molti esempi che, oltre l'allegato, mi vennero qua e la
scontrati le tre poligo (Illi alcuni pochi. l eggili allentarne le e di rini se
io mi li In apponga.« Manifesta cosa è che, come le cose temporali sono
transitorio nortali, così in sè e fuor di sè essere piene di noia . I3
cc. \ - giamo che poichè i buoi alcuna parte del giorno hanno faticato, solo il
giogo ristrelli, quegli essere dal giogo alle viali , I3oce. -– a Si ve dova
della sua speranza privare, nella quale portava che, se I lor « misda non
la prendeva, ſeriamente doverla avere egli n. Bocc. i E parendo loro che quanto
più si stellava, venire il maggior indegna « zione dei Fiorentini.... ». Vill.
– ( Proposto s'avea al lutto nell'animo che, se necessario caso l'avesse
rilenillo, di rinunciare l'Iſlicio ... Vill. – « Seco deliberarono che, come
prima tempo si vedessero, di rubarlo o Bocc. -– « Pirro per partito aveva preso
che, se ella a lui ritornasse, ci fare altra risposta n. Bocc. – « .... la
precedente novella ini lira a « dover simili nelle ragionare d'Il geloso,
estimando che ciò che si a fa loro dalle lor donne, e massimamente quando senza
cagione inge «losiscono, esser bel ſalto m. I3 cc. – ecc. ecc. ecc.
Costruzione stranissima, e al nostro orecchio per poco errata, quali lo a
colesto che ogni altro flicio si disdica che di semplice congiunzione, I
'allo invece pronorme, recalo - con inque si opponga il rigido gramina - tico –
a valore di ciò, o questa cosa, e la sintassi è chiarissima, logico il
nesso, e l'orecchio pienamente soddisfatto. E quanti altri luoghi piani ci
vengono ed evidenti mercè di sì fa II: interpretazione, senza la quale
stranissimi li credi ed anche errali. Ti basti, per ogni altro, il seguente del
Boccaccio: « E lui come po a rai mostrare questo che ſi affermi ? Disse lo Scalza:
Che il mostrerò « per sì fatta ragione, che non che lui, ma costui che il niega
dirà che i « dica il vero ». – E che ha mai qui a fare quel che se noi vale
questo, questa cosa ?Ella è pur cosa degna di osservazione che altre lingue
ancora a dir perano ad officio o valor di congiunzione quella stessa voce che è
all'esi pronome, e pronome non pur relativo, ma anche dimostrativo, cioè: oi
tos. quod, que, dass (anticamente anche das si scriveva dass , lh tl ecc. ecc.
Talchè io mi figuro che quegli antichi della prima scuola, dicendo, a
cagion d'esempio: comandò ch'ei studiasse – er befahl, dass er sl il dieren
sollte. – ecc., volessero dire, oppur suonasse loro quanto: collan lº
questa cosa (dasº: studiasse »: ed anche nei medi composti di che ed
altra voce – ll'eposizione od altri i - intendessero tuttavia e vi
sentissero non altro le il proliome, orti relativo, ora dimostrativo. 239
. Neh! lo ripeto, è una mia opinione e resti lì.lº riprendendo ora il filo del
nostro assunto, dico che il che cong.; ha virtù dirò così concentrativa e
Irovasi nei libri mastri di nostra lingua assai solvente. - I di
comparazione e recante senso di : di quello che - l . il significa di affinchè,
sinchè, prima che, senza che, Ne m on, jlto i cºllº e sillili. . llpl calo a
lil:inlera e valore dell'avverbio di tempo: quando.... quando, alcuna
rolla... alcuna rolla, di quando in quando ch'è, ch'è ed anche parle....
ma le. Il che, per dacchè 210 , poichè, posciacchè, perchè 241 poi che
(242) è notissimo e comunissimo, nè porla il pregio di ragionarne.
\ iuno dice a trovarsi, il quale meglio nè più acconciamente ser risse al limit
la rolul dl mi m signor e, che se i ri rut ella , l?occ lo non coglio che
lui ne I l a rl pii la coscienza che ne bisogni o. I 3 (' '. \ orella non
quali i meno di pericoli in sè contenente che la mar l a lui li I tu roll (t ).
I 3 cc . ... che io non so il no ben mesce e ch'io set ppia informare ».
Bocc. lº migliori ol) e le dando che li sali non e' di no.... . lSocc. \ on le
doti più dolore che la si abbia . l occ. ( n si era la cosa cºn il lut ut
lanto che non illi in en li si curatra degli uomini che morire no che ora si
cui e're bbe di capre l occ. \ on li molea renir molto più ni di doll in,
nè di speranza, nè d'autorità, nè di gloria, che di già s'a rºsse acquista lo .
Caro. « I fallo i sono poco solleciti, e prima cercano l'utile loro che
del padrone . Pandolf. che quello del.... . a I)arano rista di non tener
più con lo di lui, che si facessero cogli allri ». Ces. ... io ri a cillà
e poi lo queste cose a Se) lontcorri, che m' (tilli di non so che mi ha ſallo
richiedere . I3 cc. allinchè mi aiuti a questo ggello ch'è.... . (i uan
da ra d'intorno dove porre si potesse che uddosso non gli mc rigasse ».
Bocc. « ... gli menarono innanzi una sua nipol e ch c'ra rimasta, di
sºlli' anni, ch are rai nomi e Maria, e lasciatron gliela che egli la gol'ºrnd
Ssº Comº gli paresse . Cav. a ... recatasi per mano la slanga dell'uscio
non restò di ballºrni che per isl racco la slanga le calde di mano o l'ierenz.
(243). ... precetto che non parlisse che non me lo pagasse ». Caro.
« ... juggì via e non riposò mai che egli ebbe ritrovato Riondello
Bocc. (( ... nè mai ristette ch'ella ebbe tutto acconcio ed
ordinato p). ROCC. - non si ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che
Fede l g0 l'emisse ». Bocc. ... si pensò di dovere per quello pertugio i
tante volte gualare che ella redrebbe il giorane in atto di polergli parlare ».
Docc. - “ Ma fermamente lui non mi scapperai dalle mani, che io non ti
paghi sì delle opere lue, che mai di niun uomo farai beife, che di me non ti
ricordi ». Doce. 244;. º sempre gli (al rilano mancherà qualche cosa mai
ſi farellerà che non ti rechi spesa . I'and. (( ... “ Von posso
passare per la strada che non mi regga additare o I;oce. “ ... e l 'nsò non
potere alcuna di queste li e, più l' ma che l'altra lodarº, che il Saladino non
a resse la sua intenzione ». Bocc.« Mai la sera non rimetterete a riposare che
prima non abbiate fatto ſes(tmº della coscienza n. [3art.Giarda le adunque
quelle grelole che sono sotto l'abbeveratoio della rostra gabbia, che per la
molla acqua che ci si versa sopra sono im fradiciale in modo che voi non ri da
rete su due roll e col becco che voi le spezzerete e farete una buca sì grande che
re ne potrete andare a vostro bell'agio ». Fierenz.« ... non canterà stanotte
il gallo due volte, che lui ben tre alla fila arrai negato di conoscermi ed
esser de' miei o. ( es. 2 . .« E questo è il riro della fortezza al tutto
inespugnabile ad ogni altra forza che d'assedio e di fame o filorchè, se non. I
art. « I)onolle che in gioie e che in ratsella nºn li d' o o e al di rien
lo e che in danari, quello che ralse meglio d'altre decimila dobbre o.
I3oce. « Questo regnò anni trentaselle, che re dei lomani, e che impera
loro n. I)a V. « I'(Il li ch' è ch' è Ne m (t lo) l'i n. l): I V. «
Fu ascolto con giubilo unirersale e m' ebbe in ricompensat, che in danari e che
in roba, un ricco presente ). I3art. NOte all'articolo 11, 239)
Alle congiunzioni perchè, sicchè, fuorchè, affinchè, che se, poi chè, dopo che
ecc. rispollidono le le lesclle lielle quali il che rendesi tra - dotto ora vo
() was ed ora da 0 den – coll1 razioni ( riduzioni di was e das, e sono: warum,
darum, so dass, ausserdem, damit wofern, nach dem. ecc. , 240). Dalla
prima volta in poi che io risposi alla vostra non vi ho pIù Scrillo ». Calo. .
Essendo limiti i due anni che Luigi era entrato « lella compagnia ». Ces.241 Nè
solo per l'enim, etenim, mam, ma anche per l'eo quod, e cur; « Vlla prima
giunta mi fece un cappello che io non l'avessi aspettato ». Caro.Disse:
Beatrice, l da di l)io vero Chè non soccorri quei, che ti amò alto Che
Ilsi io per te della V o!gare s ll el l ' » - I), i lite. 242). Nota per o
costruzione fuori della quale il che per poichè, dopo chè lì lì la lr 1:1 i lu
go: tuttº si disarmo e cenato che egli ebbe se ne e andò a ripos lire ». Fier.
- è poi che egli ebbe cenato - e ... ci condurrà alla stanza della serpe, dove
condotto che sarà, io ti prometto ch'egli lloli ne sentirà prima l'od re, i lle
da naturale istinto forzato, e le torrà la vita ». Fierenzuola. Ci si dl lano e
compito ch'io ebbi; e gua rito ch'io fui; e letto ch'egli ebbe: e discesi cine
noi fummo ecc. ecc. 243 Vlla pari e I V rti . S è par li di tl: la costruzione
nolì guari dis simile a quella di questo e dei tre seguenti esempi; potendo
differire l'una dall'altra solo in ciò: che, ve in quella la V ore prima è
espressa, in que sta può essere soltintesa. Ma sia che quest , che si trovi ad
ufficio di finchè, sia che si senta nel periodo l' omissione della voce prima,
è sem pre vero che a questo che si attiene alcunchè di sentito e non espresso.
21 ). Il primo che vale: finchè, prima che; il second : senza che, Nota anche i
tre seglie , nei quali il che ha evidentemente senso di senza che,2 (5). Fallo
futuro presente il verbo reſto da' che e il costrutto è unum et idem che il pre
edeinte del F. e enzuola. (illarda l' erenz: e non vi da rete su due volte col
be , che voi le spezzeret ( n Ces N ºn canterà sta notte il gallo dlle volte
che lui ben 1 l'e negllera 1 dl conosce l'Illi. A RTICOLO 12
CHI In questo e nel segui le n il loro li porgo una maniera di dire, che
il lis; Izzo grammi, i lico (listi prova add ril lilla e se lendola se ne slrignº
gli vien del concio e si con loro e, per il la col l?arloli, più che non fanno
i cedri troll (Iula ndo sentono il tutor , Vla 1, il s o di lui. Chi -a
all'epos lo e sente il ... , e la virtù che viene alla frase per l'elissi di
alcune parti del dl scorso ci si allengono a certe voci ecc., non che
intenderla questa In Iniera per l la ed in quel pregio che un vezzo assai
grazioso Il ll garbo sl l' .E sappi alunque che anche la particella chi la
quale bene adoperata, dice il Puoti, dà molta grazia al discorso – simile alla
poch'anzi ragionata che, ha lal virtù sulla penna a valorosi nostri classici,
ch. dice altro e più che non dica il letteral suono della voce. Tien luogo
quando dei casi obliqui a vario rispetto, cioè senza il segnacaso di, a, da,
per, con, che, e quando di chiunque, chicchessia, ed anche di se chicchessia,
se all ri muti ecc.Mlal però si potrebbe stabilire quando il segnacaso e quando
altra roce sia da sottintendersi, che le più volte l'una e l'altra spiegazione
egualmente 1a. « I biloni cosl III li, scrive l'Alamanni, mal si ponno il 11 a
parare chi troppo invecchia , ciò è a dire, soggiunge certo lale, da chi troppo
invecchia. E son con lui. Ma chi mi vieta d'intenderla anche così : se altri,
se l'uomo, o quando l'uomo l roppo invecchia, o in allra sì fatta guisa ? « Ma
qualunque spiegazione piaccia, l'asta andar d' cordo su questo che il chi (son
parole del Fornaciari per proprietà º i « lingua si usa spesso ed eleganlelneri
le cosi in certi modo assoluto. « Di rado avverrà di potere le proprietà delle
lingue in I lilli i luoghi « spiegare a puntino nel modo stesso ».Sentilo
questo chi e gustalo negli esempi del Trecento ed anche del simpatico nostro
Manzoni. o « ... la casa mia non è troppo grande, e perciò essº non ci si
por trebbe, salvo chi non volesse star a modo di mulolo, senso la r moll o
zitto alcuno ». I30( C.« Molto da dolersene è e da piangerne... chi ha punto di
sentimento, o di conoscimento, o zelo delle anime o. Passa V.« ... e con tutto
ciò non si potevano difendere da lui, chi in lui si scontrava solo: e per paura
di questo lupo e cºn nºi o ſi lan lo che nºs suno era ardilo d'uscir fuori
della terra n. Fiorelli.« E non è da farsene maraviglia, chi pensasse lo
sterminato bene ch'elleno portavano alla persona sua . Cav.Sì come veder si può
chi ben riguarda... ». Dante (CoirV. . « Quinci si van, chi vuol andar per pace
». Danle. potransi far più forti piantamenti, chi vorrà...». Cresc. « Sì come
la candela luce, chi ben la cela ». I3 l'un. « Come pienamente si legge per
Lucano Poeta, chi le storie 'orri cercare ». G. Vill.« Sì come per lo dello suo
trallalo si può reale e', e intendo re, chi º di sottile intelletto ». G.
Vill.« Furonri sventuratamente sconfitti, e così arrien e chi è in rºllº di
fortuna ». G. Vill.« Da volar sopra 'I Ciel gli area dal'ali Per le cose
mortali, lº son scala al Fattor, chi ben le slima ». Pelr. (per chi, a chi, se
allli mai « Invoco lei (la SS. Vergine, che ben sempre rispose Chi la chitml )
con ſede ». Petr.« I quali trionfando degli animi dei pazzi cittadini, la
misera città variamente lacerarono, con acerba ricordazione di quelli inlºlici
secoli liſt con non minor gioia, chi queste cose andrà considerando, della
tran (I lillità dei presenti ». Scipione Ammir. Stor ſior. - Le quali lui le
cose sono esempi rarissimi di gran povertà, umiltà cd (in negamento di sè
medesimo, chi pensa che talora per mantenere una di Iºsle loro ragioni,
sogliono i mondani nellere a sbaraglio ogni aver loro, e la loro anche la vita
un duello ... Ces.º V ºcchi che, perdule le zanne, parcram sempre pronti, chi
nulla nulla gli dissasse, a digi ignar le gengive.....; o, Manzoni.('osì il
lurore contro costui il ricario , che si sarebbe scatenato peggio, chi l'avesse
preso con le brusche e non gli avesse voluto conce der nulla, o a con quella
promessa di soddisfazione, con quell' osso in bocca s'acque la ra un poco e...
». Manz. ARTICOLO 20 Sf (C0mg.) Anche la particella se vuoi
qual congiunzione sospensiva e condizio nale, vuoi qual desideraliva, è appo i
classici una di quelle voci previ legiale sotto cºlli ripari in parole, ossia
aggiunti, laciuli talora o non completamente espressi. Il che avviene di
un se. – a . recante senso :ì così, e in certa forma di gi Iran lenlo, volo e
simili: lo esprimente ricerca, indagini ecc. soppresso e si linteso il verbo
che lo precede: per ve: dei e, per sentire, osservare e va dicendo.
Non misteri della lingua al dunque, non licenze degli scrittori come sano
sentenziare alcuni (i rammatici dall'orecchio volgare e guasto, (246) | ma
virtù e proprietà delle particelle, onde cioè la ragione intrinseca di cerle
contrazioni e maniere si relle e vigorose, le quali sien pur strane e niente
intese a pochi sperli, ma a chi sa di lingua, non altro sono, all'incontro, che
vezzi e gioie. l;oce. Così l dio mi dea bene, con l'egli è vero, ch'io mi
veniva ...). Se Dio mi aiuti, io non l'utri ei mai credulo o. I 30cc'.a se
m'aiuti Iddio, tu se' pore o, ma egli sarebbe mercè che tu fossi | Se Dio
mi dea bene, che io mi i re mira a slitr con le co un pezzo . molto più
o. l occ. a se Dio mi salvi, di così alle ſemine non si vorrebbe aver
miseri cordia ). I 3 cc'. « I), h, se Iddio ti dea buona ventura, diccelo
come tu la guada gnasti ». Bocc. « Subilamente corsi a cercarmi il
lato se niente r'avessi ». (per sentire se). Bocc.« ... l'un degli asini, che
grandissima se le arera, tratto il capo del capestro, era uscito della stalla
ed ogni cosa andava fiutando, se forse trovasse dell'acqua ». Bocc.« ... s'egli
è pur così, ruolsi realer ria, se noi sappiamo di riaverlo » Bocc.« Cercando
d'intorno se niente d'acqua trovassero ». V. SS. PIP. « ... brancolando con le
mani, se a cosa nessuna si potesse appi gliare ». (per vedere, per sentire
se.... . Cav.« Corse per tutta la città se per centura la polesse trovare ».
Cav. « Lesse come Libona area lallo gillar l'arte, se egli avrebbe mai tanti
danari clie..., e colali scempiaggini e canità da increscere buona mente di lui
». (per sapere, scoprire se...). DaV.« Venite qua, guardate bene... Toccale i
polsi se han molo tasta º il cuore se palpita ». (per sentire...). Segn.
(247). NOte all'articolo 20 (246). Uno di questi cotali poi
ch'ebbe ragionato della sinchisi, con fusione di costruzione nel periodo e
dell'anacoluthon, che è quando, lice egli, si pone qualche cosa in aria, e senza
filo di costruzione, e intendeva appunto di parlare degli esempi di questo
numero, del precedente e di al tri che ragioneremo, riprende fiato e soggiunge
: a l)i queste figure non « mancano esempi e nei latini e le lorstri allt l'i,
ma non si vogliallo a imitare, essendo anzi errori che mo. Sono | Igure,
scrisse il valent'll In « inventate per iscusare i falli, nei quali sono
talvolta incorsi per una la « fiacchezza anche i più celebri autori ». –-
Cavalca, Boccaccio, Dante, l'e trarca ecc. ecc. ecc., che duraste gli alli e i
decellºni in escogitare e ci Ill porre gl'immortali nostri libri, e vi si
udiaste di l: rlo più chiaramente e leggiadramente che per voi si potesse,
solleci'i, sopra tutto, di dare alla vaga, tersa precisa vostra lingua un tornio
ed una forma facile ad un tempo, decorosa ed elegante, siatene pur grati agli
acliti a sservatori della posterità che a guardarne noi poco sperti vostri
lettori scopersero ne vorstri componimenti i solecisilli, le magagne, gli
scerpelloni nei quali voi pure, e quel che più monta, tutti ad un modo, con
tutto lo studio e saper vostra, portatevelo pur in pace, talvolta
incorreste!.... (247) Alcune volte l'omissione di per vedere, per sapere
e simili la luogo molto leggiadramente anche senza la soggiuntiva se. « Ed è
lecito º il nrola d'usare queste sorte negli olſi i temporali a cui prima
tocchi « la volta: come si fa degli ufficiali della città... ». Pass. cioè per
sapere, per stabilire ecc.) ARTICOLO 24 VENIRE l)el Vario uso
e valore così del verbo venire come di molti altri se n parlerà alla distesa
nella III." Parle di questo Direttorio. Quello che ora piacermi
merilovare è una certa forma di dire, bella, brevissima ed evidente in cui il
verbo reni e non è quell'ausiliare comu I missili o con le guidasi e lorº la
passivº in qualsiasi verbo transitivo-attivo, e che tien luogo dell'ausilia e
essere, ma è al arnese mercò cui l'azione transiliva-alliva volge ad altro
rispello, prende un ordine, dirò così, in verso e ci fa l'effetto di cosa che
dall'oggetto soppravvenga al soggetto o di azione emessa indipendente nelle dal
concorso di mente e volontà del soggetto, sì che il sol parli ipio aiutato dal
verbo venire semplifica e t duce ad una parola le voci: a crenire ad alcuno lo
lui la mente, impensatla mente che.... (286i. Intendila questa bella
maniera nei pochi esempi che ti allego. E' tutta italiana e classica, nè so di
altra lingua che ne appresti un'altret tale. Solo coi verbi così del li dei
netti dei l alini, parmi di sentire alcun che di somigliante. Ma lasciamo ora
questa cosa, che troppo vi sarebbe che dire, ed anche a ragionarlo e discuterne
poco o nulla rimonterebbe; e passiamo subito agli esempi. « ... e
venutogli guardato là dove questo Messer sedea e... il renne considerando ».
I3occ. e essendo avvenuto ch'egli vide... . « A queste la rete che coi diciale
bene e pienamente i desideri ro stri: e guardatevi che non vi venisse nominato
un per un altro: e come delli li arrete elle si parliranno o l'occ. (che per
mala ventura non tv venisse di nominare).a Credetlimi, quando presi la penna,
dovervi scrivere una convene role lettera : ed egli mi venne scritto presso che
un libro ». Bocc. (ma trovo all'incontro di avervi scrillo.« ... spacciatamente
si levò e, come il meglio seppe, si restì al buio, e credendosi tor certi veli
piegati, li quali in capo portano, le venner tolte le brache (li.... m. 130cc.«
La prima cosa che venne lor presa per cercare lu la bisaccia ».
Bocc. « ... le quali i bisaccie, son si somiglianti l'una all'altra
che spesse volte mi vien presa l'una per l'altra ». Bocc.« Fornito il suo
ragiona e disse a Simone: melliti più dentro mare, e gilla le reti a vedere se
nulla ti venisse pigliato ». Ces.« V atti al mare, gilla l'anno, ti verrà
pigliato un pesce sbarragli la bocca e ci troverai lal monela che raglia il
tributo per due o. Ces. « ... così andando si venne scontrato in quei due suoi
compagni ». I30 c.a ... facendovi qua e là nola, quelle bellezze nelle quali ci
venisse scontrato ). ( ( S.« Perchè io entrando in ragionamento con lui delle
cose di que paesi, per arrentura mi venne ricordato Lelio . Filoc.Fu un giorno
al suo Padre lui lo ama ricalo d' un grave sospetto: cioè che cercando la
propria coscienza con ogni possibile diligenza, non gli veniva trovato mai
nulla che a suo parere, arrivasse a peccato re miale ... gianni mai avvertiva
ch'egli sapesse miai trovare... . Ces.« ... gli venne per ventura posto il piè
sopra una tavola, la quale dalla conti apposta parte scom)illa dal li a
ricello, con lui insieme se n'andò quindi giuso ». (avvenne ch'egli perse per
ventura il piè....). Bocc. « ... venne questa cosa sentita al Fontarrigo ».
Bocc.« I ll imamente essendo ciascun sollecito venne al giovane veduta una ria
da potere alla sua donna occultissimamente andare ». Bocc. a Mira lavoro di
tribulazioni e d'affanni che ti dee venir adoperato nell'anima...». Bart, che
ti avverà di dovere anche a tuo malgrado ado perare..... (287).
NOte all'articolo 24 (286). IRecasi, la mercè di un sil fatto
costruito, ogni verbo a quella cotal proprietà che è sol privilegio di alcuni,
i quali senza mutarne altri menti la voce si trasformiano d'uno in altro es -
ºre; e dresi p. es. perdere alcuno irreparabilmente fare che altri rovilli,
spari-ra) e perdere, altre si, checchessia (cioè rimanerne privo, sì che il
primo d ce azione diretta, il secondo quella che non dal sºggetto all'oggettº,
ma oggettivamente in relazione al soggetto intervielle Conf. Natura e essere di
alcuni verbi et . IParte II.). (287)Che tu dei adoperare -offrire) non
solo è inen bello e languido, Intl am(:lle inesatto e lìoll V ( l'O). N. ll Vi
-(ºlti l'idea della le cessità dell'atto, indipendentemente dal concorso della
volontà. : Tra. Dizioni e forme notevoli e il cui retto uso adopera anche
alla vita e all'assetto C0Struttivo Le cose che abbiamo vedute ſin qui
sono senza dubbio gran parte di quello oride il costruirre classico è altro dal
volgare e moderno. Ma non si starà contento a questo solo, chi desidera
istruirsi davvero ed è veramente vago di riformare il suo dire e conformarlo a
quello dei clas sici, recarlo cioè a quel candor di coricelli, Vigor di
espressioni e tornio di periodo che è sol proprietà della lingua degli
antichi. E però, prima di passare alla Parte il I., la quale somministra
ordi natamente il correlazi. I1 e coesione con certi verbi e voci previlegiate
un copiosissimo corredo di lingua, e le dizioni più elette dell'italico idioma
piaceni mentovare collettivamente alcuni altri capi nei quali il moderno non
sempre s'accorda coll'antico º dai quali la costruzione italiana prende talora
sapore e leggiadria. Natura ecl essere vario «li alcu 11 n i vo rl ,i,
suscettibili cioè di vario foggiare riflessivo o irriflessivo, coll'affisso o
scenza, e capaci di Cloppia ragioi i ce li agire O Cli valore a cloppio orcli 1
ne cº rispetto, tra 1 1sitivo e il n transitivo, attivo e I neutro.
Intendo qui di offrirli, o mio le! I re, partite serie di esempi che i mostrino
quasi in azione corle proprietà e passioni di alcuni verbi, negli
accompagnamenti che prendono, nei casi che reggono e Irelle lalicelle che in
cellano o rigellano 13arloli, e come essi prendano or un essere ed or un allro,
e diventino quel che vuol siano chi gli ado pera, puri alliri o puri neutri, o
neutri passivi o assoluti. Ho detto negli accompagnamenti che prendono, avuto
cioè riguardo al vario ordine dell'azione, non al vario messo o rispello in che
sta ogni verbo, e in ogni lingua, col suo corredo; chè non si vogliono qui
riprodurre tutte quelle inſi nite categorie, classi, divisioni e suddivisioni
che fecero e fanno tuttavia grammatici e linguisti: il lime, del resto, e in
Filosofia utilissime, ma non mai a far di leggiadria, sapore ed eleganza. Di
que verbi poi, il cui governo, sulla penna e lingua a classici, relativamente
al loro oggetti, dipendenza e corredo si discosta come chessia, o è altro che
il volgare e comune d'oggidì, ed anche dell'uso e valore vario di molti altri
verbi, si dirà alla dislesa nella Parte III., ove, lra l'altre cose, si ragiona
in proprio delle convenienze grammaticali e concordanze reciproche.NEUTR [
ASSOLUTI, CIO È VERBI coMUNQUE RECIPROCI o RIFLESSIVI – NEUTRI PASSIVI, ATTI V
I PIt() NOMINA LI () TRANSITIVI PASSIVI – A IDOPERATI ASS() LUTAMENTE
Sono alcuni verbi che nelle menti e sulle penne de Imigliori nostri scrittori
si trasformano assai voli e dallo esser loro comune e volgare e tornano di
attivi prol li il trali, o trailsitivi passivi, neutri assoluti, liberi da ogni
affisso o particella. Piaceni fornirtene un elet o saggio: per lui del
rest o, anzi pochissimi al gran numero che potrei allegare. Studiali, intendili
e senti il garbo, il sapore, la forza che viene alla frase dall'uso dicevole e
giusto di una tal malliera e striltli. ACCIECARE - « In prima si commette
in occulto, poi l'uomo accieca, in e tanto che pecca manifestamente e fa
faccia, e non si vergogna » Cavalca. Al)I)Ol.ORARE – « Or lorniamo a
Maria Maddalena, ch'era illella ca a Imera e addolorava sopra i suoi peccati ».
Cavalca. Al FONDARE andare a fondo) – « E più galee delle sue affondarono
in « Inare con le genti ». Vill.- - v. - - - - - - - « ....più volte si
videro su l'affondare, e poichè non potevano dar volta, « gran che fare ebbero
a una litenersi e torcere finchè.... » Bart. AGGHIACCIARE – «Come fa l'uomo che
spaventato agghiaccia » I)ante. « Ghiacciò il mare...., fu grande freddura e
ghiacciò l'Arno » Vlil. ALZARE - ABBASSARE – « Ma già innalzando il solo, parve
a tutti di « ritornare ». Bocc. – Simile al to rise degli inglesi -- il cui
causativo to raise).SCInarido al continuo per la ci là tutte le campane delle
chiese, infillo che non alzò l'acqua.. .. ». Vill.L'altezza del corso del
fiume, che per lo detto ring rgamento era to nuta, abbassò e cesso la piena
dell'acqua ». Vill. – Equivalente dl sinkem tedesco e to sink inglese – attivo
senken, to sink).« Poichè il sole cornincia abbassare e allentare il caldo....
» Cresc. ANNEGARE - AFFOGARE – e Mescolansi le compagnie con l'acqua ora « a
petto e ora a gola; perduto il fondo, sbaraglia i si, annegano » I)a V.« Mal
credendo che un legno si lacero potesse esser sicuro, mentre faceva
tant'acqua e le pareva di continui annegare ». I3art. « Alla guisa che
far veggiamo a coloro che per affogare solº quan « do prendºno alcuna
cosa.... » Bocc. APPIGLIARE – e Sugano l'umor del campo, e non lasciano esser
nu « triti i sogni nè debitamente vivere e appigliare ». Cresc.
APPRESSARE – « Più e più appressando in ver la sponda Fuggelni er « ror
». I): lillte. « Quando il cinquecentesimo anno appressa ». I)ante
APRIRE – « La terra aperse non molto da poi... – qui non ti conto con, e « la
terra aperse ». I) il tam.ARRATBBIARE – « ..... per quanto ne arrabbiassero i
demoni, mai però a non ardirono più a valti che ... » Bart. « ...ed
all'uscio della casa, la donna che arrabbiava, lato vi delle Ina lli, « il mallClò
oltre.... » I20 cc. »« ...nel soddisfare alle loro passi il arrabbiano, sinºni:
no, sono infe. « lici ». Cosa riASSALIRE – «Il fante di Rinaldo veggendolo
assalire, come cattivo, mi ha « cosa al suo aiuto adoperò » Bocc. (cioè:
veggendolo che era assalit , lui essere assalito).ASSII)ER ARE – «
...assiderarono tutta la notte, senza pallini la ascill « garsi, senza fuoco,
ignudi, infranti ». I): v.ASSOTIGLIARE - INGROSSARE - - . Il collo digrada va
sottile, e nel ven « tre ingrossava, e poi assotigliava, digradando con ragione
ſino alla « punta della coda ». Vill. Parla di certa serpe di fuoco apparsa
in aria). ATTENERE – « .... lanciato da banda tutt'o ciò che attiene a
costumi ». Bart. ATTENTARE – « ... desidera ido e nº n attentando a fare
imprese e ho a non fanno, che non attentano di fare gli altri ». Bocc.
BISOGNARE –- Questo verbo mi darà ina) eria da ragionare le più ava lli). «
Come costoro ebbero udito questo, non bisognò più avanti ». B c. – Il Bartoli
guarda come l'ha egli pure identica la stessa frase . I « Bonzi come
riseppero di quel così vituperevole cacciamento, non « bisognò più avanti,
perchè si inettessero tutti a rumore ». – E qui dagli ai puristi, ai
trecentisti, quando un Bartoli non solo ne parlava con sommo rispetto, ma di
loro da vizi e studiosamente si arricchiva. CALMARE – « .... il vento
calmò e un altro 1; e scosse e le dava alla nave « appunto per poppa ».
Bal'. COMPUNGERE – e Forte nel cuor per la pietà compunsi ».
Dittain. (.()NCIARE i maltrattare – E la fa Iligiia di casi vellendo
costoro cosi a conciare, corsero a (iesti cori gri a n pianto, e sl gli
si inginº celli:ì rono « a piedi, e dissero: Signore, la Maddalena e caduta in
terra e pare « limorta e... ». Cavalca.Il Puoti nota che li el vocabolario noi
e registrato questo verbo in forma neutra, come ve lº si qui adoperato,
CONFONDERE – « .... onde se si messo nel pianto confondo, maraviglia non « è ».
Dittam. CONTIA ISTARE - Allora, vedendola la badessa e si contristare,
disse « a lei : or che t'è addivenuto, figliu la mia Fufragia, perchè così a
crudelinelli e piangi e contristi ? » ( avalca. CONVERTIRE - Si prop,
sero di convertire alla fede di Cristo ». Vill. DEGNARE - «... nè v'è
uomo, benchè povero, che degni far servizio della « sua persona ». Bari. Simile
al daigner dei francesi). I )EI,IZIARIE a .... e se talvolta le llloghi a
mare trovava llo ad avere « un uovo di testuggini e alcun poco di pesce allora
deliziavano ». Bari. IDILETTA IXE - Vergognisi chi le reglia in virtude e
diletta in lus « suria ». Nov. Ant. DIMAGRARE - INGRASSARE - I primi
quindici di dimagrano e negli a altri quindici di ingrassano ». Cresc. a
Ingrassando e arricchendo indebitamente.... ». Vill. I) ISFARE a E di
vero inali ſul lis fatta nè disfarà in eterno, se non al di « del giudizio ».
Vill. DOLERE – . E cortamente di lui tanto dolsi quanto donna del far di
« buon marito ». I)itta in« La speranza del perdono si è data a chi la vuole. E
colui l'ha per a mio dono, Che del suo per rat, duole ». Jac. Tod.
ESALTARE – « Della detta pugna esaltò si esaltò il capitano di Mela a no, e il
re Giovanni abbassò . Vill.a IDC lla sopra detta vittoria la città di Firenze
esaltò molto ». Vill. FENDERE - Vnche se ne fanno convenevolmente
taglieri, e bossoli, « i quali radissime volte fendono ». Cresc.GLORIARE - –
... pensomi che l'ºmºnima sua fosse tratta a quella beata a
contemplazione di vedere Gesù, Figliuolo, suo carissimo, così gio a riare,
attorniato dagli angeli suoi, i quali così volentieri gli face « vano festa con
somma letizia ». Cav. Traduci: colmo, circondato di gloria).IMPICCARE - – Di
questo verbo, otlre a molti altri di egual forma enatura, si è il senso passivo
assoluto (non per riflessione si ggettiva cioè, ma d'altronde) di cui è capace,
e senz'altrimenti variarla – simile al vapulo dei latini – la forma attiva.
Pare però che solo l'infinito di tali verbi abbia il privilegio di ricevere un
cotal senso passivo.« Fu condannato ad impiccare ». Vill. I cioè ad essere
impiccato). « La battaglia fu ordinata, e le forche ritte, e 'l figliuolo
messovisi a « piè per impiccare ». Vill. – Conf. più avanti sbranare.
INCHINARE (far riverenza a... } – « E voleseIni al Maestro, o quei mi fe
a segno Ch' io stessi cheto ed inchinassi ad esso ». Dante. INEBRIARE – «
I)ando loro lle celli) a beccare, Sillbito inebriano e lloll « possono
volare ». Cresc. « Egli giuocava ed oltre a ciò inebriava alcuna volta ». Bocc.
INERPICARE – « All'alba scassano i fossi, riempiendoli di fascine, inerpi «
Cano Sll lo steccato.... » I)a VINFERMARE (anmmalare) – a.... E da questo
discorse un uso che niuna « donna infermando, non curava d'avere a suoi servigi
un uomo..... Ol Che.... » BOCC'.« Egli è alcuna persona, la quale ha in casa un
suo servo, il quale inferma gravemente.... ». BOCc. « Avvenne che per soverchio
di noia infermò . Bocc. « Avvenne che il detto Patriarca ammalò a Imorte ».
Vill. « infermare, ammalare a morte ». Bocc. Vill. Caval ecc. « La povera donna
cadde tramortita e ammalò gravemente ». Gozzi. INFINGARIDIRE – « Non badavano
n.ITe faccende pubbliche, e insegna « vano a cavalieri Romani infingardire ».
I)av. (Conf. Pigrizia Pron tuario).INFRACIDARE – « Infracidinsi l'ossa di
quella persona che fa cose de « gne di confusione e di vergogna. Lo
infradicidare dell'ossa signifl « Ca..... ». Passa V.« Il nutrimento dei frutti
infracida leggermente, perocchè la natura « non l'ordinò, nè produsse ad altro
fine, se non accio hè infracidas « se ». Cresc.INNAMORARE – « Concede alle
anime che di lei innamorano agevolezza « di Volare in cielo ». Fioretti.
INVII,IRE - RINVELIRE – « Ma poichè si vide ferito invili sì forte... ». Part.«
....la quale (merce) allora appunto rinvili che egli non la voler ». Rart. « Il
ladro surpreso nel fallo invilisce ». Vill. LAMENTARE – « Una donna in pianto
scapigliata e scinta o forte ia « mentando.... ». NOV. Ant. e Giusto duol certo
a lamentar mi mena ». Potrarca. LAVARE – « ... prestamonto lo menai a lavare ».
Firenz. LEVARE – « Io sono costumato di levare a provedere le stelle ». Nov.
aInt. « Ma vedendolo furioso levare per batter e glie... » BC (
c. º llll'altra volta la ino MARAVIGLIARE – L'anime...
maravigliando doventare sinorte ». Dante. « Con tutto il maravigliare
n'eran lietissimi Mll I,TI l?ILIC.ARE – « Mla cldo e l'a llie lìte : «
adosso in aggiore », lºore. « I)ebb no alunque studiare i padri
come ». Fia Ill. multiplichi e con clue Iniestier ed uso
s'allmeriti, e divenga fortunata ſilli. - . . . . . que rime 1tlti
i cresce a io e moltip Il lonte ». I)av. l'ENTIIAE – « SI cl, e pentendo
e per lollando l)allte. « Assolver non si può li noli si sieme
puossi ». l)ante. « (.lli (li trolls PROVARE -- La Marza car, vellla cert:
quali a Inosca dello Iara ca l'ovello dl lilll'allle o lo Provan benissimo alla
ril nei luoglli caldi Prontuario . I? AFFIXEI)I).ARE IN IS(..VI.l) \ I RIE (
tale a lui a contro il Sallesi ». V Ill. al s'affr, tti si s old fa
di pentire ». la calca gli multiplicava ognora a ſalniglia, ! ».
lPall.lol licheranno llaraviglio -:1 fo, l'a ll vita Ne
pentire e llSciIlllllo ». V ,iere iil l'laln. la ll
pero in sul nero e - apore ». l):) V. (. . ll noso aleli f.
Pianta - a è quasi sempre d ' e a ed e leggieri a pesarla, e tosto
raffredda e io sto riscalda . Cresc. « I Fiorentini si tennero forte gravati, e
il riscaldarono nell'i gue: ra IRIIP AI : AIRE L'inglese to repaire ( on
I. lo stesso verbo, IParte Il I . « Nella quale Fiesole º gran parte riparavano
dei suoi seguaci ». Amet. « Come vide correre al pozzo, corsi ricoverò in casa
e sorrossi dentro ». I30 ('. « .... tutta la lla V e dis armi: i ta
dalle opere in m te, mal nu:i:a e dalla tempesta, e.. aver bisogno
di ricoverare a Mºnla ca e Iulvi a sverl):n l'e ». 13:art. ROVINARE
- Piuttosto vuoi rovinar colla caparbietà tua, che esaltati a col buon consiglio
di chi li vuol bene ». l 'ieronz. a Mentre che io rovinava e li è col
reva precipitosamente a fiacca collo) o in basso loco, Dinanzi agli occhi
mi si fu offerto Chi per lungo si a lenzio parea fioco ». Dallite.
a L'altissima scimmia del tempio di S. lteparata ſu da un fulmino , il a
tanta furia percossa, le gran parte di quel M:I ( Ini:n volli. e
Rovinò g il mister, mente da un lalzo della montagna ». a l'asst, l'
illla volta sull traileo che Il tº t. (A') fatto ». Segn. pilona lo
rovino ). l3,) i t. rovinare... non è gradi a lºietro aveva
gia preso la china giù rovinando... se non che... » Cesari. e Clio
non rovini , lli vi i l i lil: r. :i bali: l'i slli trabocchetti, i 'l:º
a sopra saldisini p.I vini : i I, lov Ilie troverete ? . Segn. SALI) AIRE
- It.A MI Al AIR(i IN AIRI. I rite g randi non è mal trovato - e a saldino in
ventiquattr'ore e che perfettamente rammarginino ». Red. SBANI)ARE --
.... le ( -a coiiil ritte isselli iti, perchè al grido a del st ) Ve li
sbandarono , l . . . SI3I(r()TTI I º I. – La li ill:1 - 1/: pll'1 o
sbigottire, con voce assai piace vele rie, ose.... » I3oce. SRR.AN ARF -
Illvii “i i sll Ille. la do iº la annata di lui ad un e desinare, l: qual
, v. d. ll -t: IIIedesima giovane sbranare ». B.)cc. Aggiungi i modi : mandare o
menare chicchessia ad annegare, a uc cidere, e simili, ci e ad essere annegato,
ucciso Indi a quattro dl, col ta:nto -piarne, scope, ta, fu mandata uccidere ,
I3a t. ccc., cliº li son frequentissimi in tutti i lor li bilogia il guai
del trecento e cinque ei to; e li segi :iti a bella cosa a vedere: dura a sof
frire; – « Case vaghissime a vedere, comodissime ad abitare ». 3:1 rt. Demonia
crribili a vedere ). V |!! - V si lt l'1, l'ille, elle mi racolo furono a
riguardare ». I3 ... solº i maravigliose e pau rose a riguardare ». Vili. ...
l: Il l: -:1 e l'il 1:1 i lt , il N' - a stagio gravosa a comportare, che
per lo loro piu' volte gli venne dosi dºri di ll 1 le; - l . I3 , . . . . . . .
. Forl II ( ll dire che abbia Illo cºntinua in mt boscº 1, scrivi il 13 arioli,
IIIa Il li sempre si agevoli e piare a intendere che i 1: pia in di . . . .i e,
v. altri si av veng: i il : l II; 1 - il 1 l ' I - I riti l' ignII llo. I ' '
ncere poi di troppo ilt! - In ant III:I: 1 re, che amp ma , o creda po tersi
mai trovare un verbo :itti, o chi in qui, sta o simile gui-, non siasi talora
uscito a riche in significazione assolut: niente passiva. E s che i rutissimili
(.ss e v. 11 ri . di lirl II i qual . In Forli' ciarl, .le .::i: dimi ed altri
la intendono e - i ga: o l Iversalme , sarei tº itato il rigil:i ril: i re
corri ti 'i : 1:1, li i leli iti :itti vi si getti : l II l de' verbi: fare,
lasciare, vedere, udire. Ho veduto, udito, lasciato... a mare liare,
biasimare... Tizio a Sempronio - rubare, prendere, por tare, lavorare e il na
cosa a chicchessia o checchessia.Mlal, l . Io: Ilo il cli: no i lil I la 'ti i
lil Il di al front i rili e Inl Itt e il :ì il tro: i :l ll 1 : i : li si . I l
it ,Vli sia però lecito di osservare le villa di irolti esempi in cui il
soggetto i porant e il preposizione a ion piò cssere l'i cells itivo a rentrº
dei lati; li, e li : : lì il ve li vi ttiva, a tri menti che - orcendo e guar
1:1 dollo la sintassi: e bast, per tutti il - guente del Boern cio : Va -- e l
og: 1o di suoi a Chiassi, qui ivi a vede cacciare i d uli i Vallicº: il nº . io
va ti ucciderla e divorarla a da due cani ». Si di: • i :) I cacciare,
'l'uccidere e divorare che l'l1:ì. Il no di mi li ssi: -si V . , ( belle sta,
il lil:) di scorretto: velt e-ser i: i ti li lì i rivali, il lill cavalli ºre
ed eserla cioè: e la stessa essere ) u ( Isa e divorata da due cani. Qual'1 do
invece s'oncordanza sarebbe e sconnessione troppo rincrescevole e male ancora
si atterrebbero le parti al loro tutto, se si volesse riguar (lare il cacciare
quale verbo di significazione, noi Imeno che di fur ma, attivo, il cui
soggetto, cioe', cavalliere accusativo agente, ed og gettº , una giovane. Ed
oltra ciò si ponga mente a quel che segue, che e appunto il suallegato esempio:
Illvita i suoi parenti ecc. , Qiii è omessa o sottintesa la ra tisa dell'aziº
alle o l a o da, e però lo sbranare di senso non altro che assoluto passivo. Ma
e non e egli forse quel medesimo cacciare, uccidere e divorare del periodo
precedente? SI) IRI 'CIRE - « Esse Ildo essi li oli gular sopra Majolica,
sentirono la nave a sdrucire » I30 ('. SERIRARE rinchiudere ecc. , Olm!
che dolore ti venne quando tu il vede sti serrare là dentro, fra le mani dei
lupi rapaci, che desideravano di velldicarsi di lui ». Caval.E pensonni che
questo ti fosse si gravide il dolore di vederlo così rinchiudere e con lui non
potere essere alcuno di voi, che quello del la morte non fu maggiore. »
Caval.Allora una delle suore, la quale vide visibilmiente gittare lnel
poz u ( e zo, gridando forte.... » Cava! Tra due l: essere
gittata (lal dellº - lli , nel pozzº ). SM V I, I'IRE - - « (..il iarolo a
smaltire ». Cres . STANCARE a E avvenendomi così piu volte, e io pure
volendº mi me - a tere per entrare, stancai, sicchè io rimasi tutta rotta del
corpo... ». Ca.Val.STRANGOLARE - Aveva ad un'ora di se stesso paura o della
giovane, « la quale gli pare, vedere o da orso o da lupo strangolare. » Boce.
TEI)IARE - Alquanti cominciarono a tediare e a dire.... » Fier. TIRARIRE i
tirare) -- . E come a messagger che porta uliv . Tragge la gente « per udir
novelle, E di calcar nessun si mostra schivo... » Dante. a () ( corso lor
l'asilmondo, il quale con un gran last me in mano al « rumor traeva. » I30
('C'.º . . . . . il topo che nelle sue branche era stato, riconosciuta la voce
del « leone, trasse al suo rumore, e ricordandosi di tanta grazia ....» Voi
gar. di Esopo. a Maravigliando pur trassi a lei. » I)ittani. « Vide ontrare un
topo per la fenestrella, che trasse all'odore. » Nov. V nt.« E la fama di
questa opera di santa Marta s'incominciò a spandore e per tutte le contrade
d'intorno, e per tutta la Giudea di questo modo a ch'ella teneva, sicchè tutti
gl'infermi e poveri traevano a Betania, « e chi non poteva venire si faceva
recare, e vi si riducevano come a « un porto. » Cavalca. e Un piovºnº i
grillorando a scacchi, vincendo il compagno, suona a a martello per mostrare a
chi trae come ha dato scaccontato, o quan ti do gli ºrde la casa i lillllo Vi
trae. » Sacchi,« ... tutto quasi ad un fine tiravano assai crudele. »
Bocc. – Nota la questa frase: tirare ad un fine, per aver la mira ecc.
Anche del vento del mare ecc. di cesi che tira, v. gr. violentissimamente a ll
e beccio ». I3a 1 t.Per nº lì tornare a 1', dire le stesse cose, vi piaccia qui
di por mente ad altre II1:ì il lere che si ill bllo: le e dell'ils . Tirare da
uno e cioè sol Ili gliarlo); tirar via un lavoro, tirar giù un lavoro cioè non
badare che a finirlo in fretta, anche st; pazza idol ; tirar giù di una persona
(dirne male se, za Ibla discrezione al III ndo ,: tirare al peggiore: a Egli
1tlti io che ſi evin (i i lil I::lco tirava al peggiore ». Da V.; ecc. «
Ari ippò l'insegna e trasse : : - la il I grida 'I l ... » I)av. “ . . . . . .
e scorrendo per le vie s'intoppano negli alimbasciatori, che udito « il l ril
1g ( 111 di (i e II, 1 lli , a llll traevano, e svillaneggianli...» I)a V «
.... la vaghezza di ricolº oscere i gran personaggi, sicche in calca la «
gelite - ll al trarre il vederli. , ( es. l ri. TI IRB.ARE – . Il cielo e
lill!) io :i turbare. » Nov All. VERGOGNARE - SVERGOGNA IRE .... a qual cosa
-oste no, per lui, li a sia il lo, temendo e vergognado ». 13ocr'.« Allor: il
crav: lo tilt , svergrgnò ». I v. Esoi). Conf. Disonorare, svergognare –
Prontuario). V( )I,(iERE - V ( ) I, I AI? E . ()r volge, sign( l' In 1 ,
l'ill decimo allllo, Ch'io a fili sommessº, al di-. go ». I'et: Noto e 'n
ulso anche og gi(lì, ma chi pensa e vi sento Ina i 'a fol'Irla assoluta
?) a Noril lan'lo III oltr a voiger pr . In queste ruote. , I)ante. « Il tifone
voltò e preso altra via, la burrasca subito rallentò...» I3:art SERI E I
| I. VERBI RIFILESSI VI o con L'AFFisso, AvveC NAcri è superfluo, o NoN
NE CESSARIO ALL'INTEGRITA DEL SENSO, L' posto di quello le si è vedi o
lestè. Egli è un colal vezzo de gli scrittori, oggi rarissimo e per pc o
smesso, render reciproci alcuni verli : he (li la III l'a ll l solo. I
'alliss , mi li, ci, si. : Il paglia verbo si rive il Ft il naciari , a come
forse meglio lirebbesi, riflessivo, ha virli al l'a di concenl ' ::: l'azione
nel si ggello, quasi come quella sperie di cerbo medio greco che i grai lilli
alici dicono sul biellivo . Nella Serie IV seguente ragioni: Isi di
alcuni verbi, il cui soggellº non è agente, ma causa dell'azione d'allronde. E
come altretta i mi parer ble da riguardare i pronominali di questa serie:
pensarsi, sedersi. cominciarsi, entrarsi, morirsi, ecc. ecc. volendosi
esprimere azione che il soggetto non solo fa, ma si fa fare: e però, per
esempio, mi penso, voler dire: faccio me o a me pensare, o faccio sì che io
penso: mi vede, chec chessia, mi entro, mi comincio, mi muoio V. g. di
cordoglio, di crepa cuore, ecc. ecc., significare: faccio mie vedere, entrare,
cominciare, morire. e, che è lo stesso, faccio si che io vegg , entro ecc. E
quanti più altri co. strutti e modi, che misteri della lingua si appellano, ci
verrebbero piani e ne sentiremino la ragione intrinseca e logica, l'original
candore, se l' genio studiassimo e l'indole della lingua, la natura cioè dei
verbi, l'ordine dell'azione, il vero, non storto valore delle frasi ecc.!
Sturdiali i seguenti esempi, e saprai come e con quanta grazia. V V
EIASI Sapete ormai che a far vi avete se la sua vita vi è cara.» lo c. AVVIS
ARSI – . .... la qual cosa veggendo, troppº s'avvisarono ciò che « era e
..... » IBO ( ('. e perchè... s'avvisò troppo bene con lo dovesse fare a... »
Boer, « Ma io vi ricordo che ella e piu malagevole cosa a fare che voi per
avvelt Ilvo lli v'avvisate. » l Bo .CAMPARSI - - « Appena si campano le dºnne
con gli occhi adosso; che a farebbero sdlmenti a te gli anni e quasi
rimandate?» I)av. ( ()NTINI AI? SI e ... liguarda ll do Emilia sembianti
le fe”, che a grado li fossitº, che essa i coloro che detto a Veano, dicendo si
continuasse». I3 cc. I) I BITARSI - « e saravvi, mi dubito, condannato in
perpetuo. » Caro. EN'ITIRA IRSI «E grillingtºndo alla terra, in vendo
l'entrata, senza uccision a vi S'entrarono o. Vill. a Ruperto vi s'entrò
dentro. » Vill. l'SSERSI - « ... e messosi la via tra piedi non ristette, si fu
a casa di «lei ed entrato disse.... » B i .Sempiterne si son le mºzzate, le
ferite, i vermi crudi, le stati ran. « golose ecc. ) I):) Vanz.“ In ogni parte
dov le noi ci siamo, con eguali leggi siamo dalla a lla tll ril trattati. » Boi
('.“ Io mi sono stato, da echè..., il più del tempo a Frascati. » Caro. l'AIRSI
- e Che monta a te quello che i grandissimi re si facciamo?» Boce. “ Divano º
sta di non tener più conto di lui che si facessero cogli nl « tiri. »
(esari.MORIRSI – « Finalmente, dopo due anni, fra le lupo si mori di
vecchiaia». Fioretti. « ... e così morendosi in poco d'ora, mostrò quanto
ciascun uomo sia « mal Infol InatO.....» SCglì. NEGARSI – « E' il vero
che l'amore, il quale io vi porto, è di tanti forzi « che io non so come io mi
vi nieghi cosa. Tra luci: che io faccia al lile, « induca me a negare a voi
cosa ecc. , che voi vogliate che io faccia º BOCC. PARTIRSI (v. Dividere
– IProntuario, – ... dell'isola non si parti ». I3ocr'. PENSARSI – (Conf.
Pensare - IParte III,. – SoInigliantissimo il sich denken dei tedeschi. –
Pensarsi è una specie di pensiero, una fol'Inil d'induzione, d'imaginazi
lie, d'invenzi Ile. Nel pensarsi e sovellle ll il iImaginamento o supposizione
non tutta conforme al vero; nel cre dersi è il silnile, Ina Ilon talnto. -- Solº
parole del Tollll I laseo. Le Spa - lo per quel che valgono. Io dico che
pensare viale formar giudizi, e pen sarsi, un imaginarsi pensando, un farsi o
formarsi pellsieri relativa IIlente a checchessia.« Quale la vita loro in
cattività si fosse ciascun sel può pensare ». BOCC.« La sera ripensandosi di
quello che egli aveva fatto il dì... ». Fioretti « ...mi disse Parole per le
quali io mi pensai Che qual Voi siete tal « gente venisse ». I)ante.“ . . . . .
sappiellolo che nella casa, la quale era allato alla slla, a Veva « alcun
giovane e bello e piacevole, si pensò (Traduci: si fece, si recò a pellsare,
escºgitare) Se per lugio alcuno fosse nel Inllro...». Bocc. º . . . . . . e si
pensò il buon uomo che ora era tempo d'andare .... ». Bocc. SPERARSI –- «... e
sperandosi che di giorno in giorno tra il figliuolo e 'l « padre dovesse esser
pace.... ». Bocc.USCIRSI – « ....io vi voglio mostrar la via per la quale voi
possiate « uscirvi di prigione ». Fier.« S'usci di casa costei e venne dove
usavano gli altri Inerendaliti ». TBocc. SERIE IV. VERBI CAUSATIVI, cioè
INTRANSITIVI o NEUTRI – siA si MPLICI, si A PASSIVI – I&I,CATI AID USO E
FORZA TRANSITIVA. Alcuni grammatici non la guardano tanto da presso e
mettono in fascio liransitivi e intransitici, o transitivi di fallo e di
apparenza soltanto, dando nome di attivi transitivi o di azione transitiva
(imperfetta, come dicono essi) a certi verbi di lor natura neutri e però sempre
intransitivaper Iliesto sol che loro risponde nell'oggetto in cui, per cui, su
cui, od a ºi º è o si riferisce l'azione, non un caso obliquo, come vorrebbe il
natura messo o rispello, ma, per certo lui il vezzo di lingua o tornio di
frase, l'accusativo o caso rel.. - ll che avviene, vi i per elissi di I lº
svela is o preposizione espri mente "in dell'azione, rispetto aila i
stanza o termine cui si ri "sº, lº sºnº : . io h Fei io se stesso, e la
sua donna comini c'Io ct piange e . I 3 º li, o solº a se stesso...: ....
cominciò º ſi correre il regno saccheggiando I; I. io è il dire pel regno:
( Ma pure ingendo di non aver posto mente alle sue parole passeggiò º due
o tre volte il giardino, sempre ril, inava (iozzi: « venivano il giorno cerli
pescatori al lago di Ghiandaia per pescarlo ». Fier., º Tristo chi vi per cui
rimando aliora le solita te libiche pianure ' . Stroc chi; e ci si dicesi
: nº l'11tri il liti in se', nel I e le scale, il monte, ecc.: rotſionati e
discorre e un jail! ; liti ti un pº' irolo: andai e una riu. – ... la via che
ad andare abbiamo . I ce. passati e il fiume: passare ll no con il coltello
dare ad una donna in uno stocco per inezze il pelo e passarla dall'altra parte
I, centi si, desinarsi qualche ºsº, ecc. ecc. , vuoi per rili li erla p i
licelli, preposizione, o altro aderente al verbo con piani e ai per - con i re
un paese: obe dire - ob - audire il padre, la madr : riandare un lavoro, la
vita ecc. – (ili cominciò a spiana e quella grand'ella, qual gli pareva che
fosse riandare l'ulta da capo la sua vita . I; il I. , n. ll per reva azione
di rella che dal soggello agente Irapassi all'oggetto paziente. Ma lo è
di verbi si illi e li vuolsi o li ragionare. Nella Serie II. allegai ai verbi
al liri-pi o nominali che sulla penna a classici ci si pre sellli II l ' il
lillili il neutri se in plici, la cui azione, cioè transitiva e ri Ilessi sul
soggello li a emoli si rel: il lasitiva, non più emessa. lira il rimanente e
inerente al soggello. Qui invece mi pongo alcuni altri neitli i di lor nallira.
In alli al sl 1 il lei e altresì il cagionars, altronde della rispelliva azi si
rie, si gg i è riori : hi la fa, ma a chi la la lare. Nolissimo, a cagi li
d'esempio, il doppio uso del verbo Non ci re. l)i esi: la campana, l'isl 1 lu
meri lo suona, lila allresì e bene: io suono, ed anche: io suono la campana, il
cembalo ecc. Il primo è neutro in Iran silivo: l'azione del sil riare, ni:
ridar lu ri suono, aderente al seg. gello, del sogg l sogge! I ci: il si rondo
e il lerzo invece non è verbo che dica azione chi si s Io, il cli: i ar . vale:
io laccio sonare io faccio sì che un isl 1 Imen lo renda silon Vl tried sino
modo spiegasi il III zionare al livo dei verbi qui soll shie ali: e il di p.
es. cessare chec chessia torna a questo : fare che una cosa essi,
linisca. (*) I, a lingua tedesca è ricca pi assai che l' Italiana, francese
ed inglese di tal maniera neutri intransitivi. Lasciando stare il gran
vantaggio che ha di collegare a nodo di una sol voce qualsivoglia verbo con la
rispettiva dipendente preposizione sia dell'oggetto diretto che indiretto o
complemento, gran numero di verbi neutri (che, spogli di ogni affisso, reggono
un caso obbliquo, o l'accusatlvo con preposizione, e però d'ordine e rispetto
indiretto relativamente al loro corredo) trasforma ad altro rispetto e indole
quasi transitiva attiva, premettendo ed affigen dovi la particella be, Es : den
Rath be folgen (den Rath folgen): dem Herrn bedienen (dem IIerrn dienen ; einen
Freund beschenken ; don Feind bedrohen ; Etwas bezweifeln Etwas be sorgen;
Jemand behelfen, beweisen, befallen, belasten ecc. ecc.Si che di alcuni anche il
Vocabolario ne riconosce l'uso attivo, ma li pºne accanto tal altro verbo che
risponde bensì al senso della cosa, ini non n è l'equivalente letterale e non
ſi mostra come il suo valor ma lui l'ale, l'azione neutra resta lullaria,
avveglia che dipendente e soggetta a chi la ſa fare. Dice p. es. che cessare,
attivo, vale rimuovere, sospendere, sºlirſtrº ecc. e ne convengo quanto al
senso, ma non quanto alla ra. gione intrinseca e letterale della parola,
secondo la quale il cessare non è propriamente azion transitiva del soggetto
che cessa, v. gr. un pericolo come sarebbe il dirsi rimuovere un pericolo ecc.,
ma egli è sempre azion leutra della cosa che cessa. Si è il pericolo che cessa,
e il cessarlo non è, a rigor di frase, un rimuover! , che si Iacria, ma vale
far sì che il pericolo, comunque non abbia più luogo. Il qual modo far fare,
onde spiegasi la forza transitiva di cui è capace il verbo neutro, vuolsi
applicato a qua lunque altro che comechessia il comporti. NI3. – Si fa
qui menzione di quei verbi soltanto il cui uso alliro - causaliro – il V
Vegnachè ordinariamente assoluti o costruiti neutral mente – è virtù, è
particolarità antica e classica. Di allri molli, dei quali una tal proprietà è
tuttavia comune di generalmente nola, non accade or cuparcene. Nostro compito è
richiamare a vita le smarrite o poco nole hellezze, proprietà, virtù e dovizie
dell'avilo, italico idioma. (*) Di tal fatta verbi è ricchissima fra
tutte l'altre viventi) la lingua inglese. E per menzionartene alcuni eccoti :
to fall (cadere e far cadere, to drop (cader giù, gocciolare e far cadere o
gocciolare, to drink (ubriacarsi e far......), to fly (volare e far.....), to
sink (calare, andar giù e far.....), to wave (ondeggiare e far.....), to fire,
to well, to play, to please ecc. –. Nella lingua tedesca, invece, si è mercè di
una piccola alterazione che il verbo di neutro si rende nel modo esposto attivo
: Steigen (ascendere), steigern (far ascendere) ; folgen-folgern; nahen -
nahern (e anche nahen cucire); sinken - se nicen ; trinken – tranken , dringen
- drāngen; schwanken - schwänken ; erharten - erhärten ; erkranken - krānken;
fallen - fallen , stiche In - stechen ; schwimmen - schwemmen ; springen -
sprengen ; wiegen - wagen ; einschlafen - einschläfern ; liegen - legen ; sitzen
- setzen ; stehen - stellen ; rauchen - rauchern ; abprallen - ab prelien ;
fliessen - flössen ; schwallen - schwelten , lauten - làuten ; (es lautet
so...., es wird geleutet) ecc. ecc. Io non so di niun grammatico o
filologo il quale parlasse mai od accennasse a coteste verbali analogie,
rispetti e relazioni etimologiche. E quanti, a cagion d'esempio – non esclusi
Ollendorf, Filippi e Fornaciarl –, s'ingegnano per molte altre vie e a tutto
lor potere, e per dichiarazioni e per esempi, di mostrare e far capace il lor
discepolo dell'uso e valore, l'un dal l'altro assai diverso, di clascuno dei
surri feriti verbi stellen, setzen, legen, quando una parola soltanto
basterebbe e farebbe più assai; dicendo cloè che ll son verbi causitivi :
stellen di stehen, setzen di sitzen, e legen di liegen. S'io lavorassi o
dettassi comunque una grammatica, distinguerei quattro gran classi di verbi
: I.a – Attivi transitivi – lo anno. L'azione transitiva è mia. II.a – .
Attivi causativi. – lo guariseo alcuno, io risano, io suono, io cesso
ecc. – Mio l'atto causativo, ma non gli l'azione stessa del guarire ecc.
III.a – Meutri relativi. – Io corro (una via), io piango (alcuno) ecc. (Conf Il
ragionato testè).IV.a – Meutri assoluti. – io vivo, io dormo, ecc. Il dire:
vivere una vita. tranquilla, dormire un sonno dolce, placido ecc. non
toglie al vivere, al dormire la sua forza neutra assoluta, ma é sol modo
elegante che torna nè più nè meno all'altro: vivere, dor mire placidamente, e
pºrò altro non è l' accusativo che un verbale o simile spiegativo dell'a zione
o qualità del soggetto, non già vero accusativo od oggetto paziente. “ Dormito
hai, bella donna, un breve sonno. , Petrarca.CESSARE – « ...da troppo più erano
in lorze, ma il Saverio ne cessò ogni pericolo ». Bari.« ...e cominciò a
sperare - e nza sia per clie, ed al quallo a cessare il desiderio (lell: l III
olt . l 3o t .Così a dilnque, l la sua pr inta e si riazzevol risposta,
Chichibio cessò la mala ventura e la il 1 ossi col sito - . . . ». Bove.
E se pure i liti e li rig . Vi volesse soprarſi lº cessatelo con pazienza
e sopp rti / i 'le. .. .. l'a ll dollini. Eglino si l vera lo sotto i rii il l
i s'1-s . . . . . .it , livºr cessare la neve e la notte e le sov l
instil V a . l ore 11 i. Cristo pregò il lº; i dr . lle cessasse il calice le!
l -- i il di lui ». ( la Val. e l'el terna li slla voli e, lil
cessossi e la lº tissi da FI l elize ». V ll I.: s cessarsi di q. c. 1 - lei
tºls e, rilla nerselle. ( :) | Astenersi lº l'a lt 1 l:ì i l . La terra fu
cessata dai livelli lº stilt la c. l . « l'el cessare i pesi d llllo si,
it : i cl l - e gli stessi , con la Illiato ». ( es: ali. « Per cessare
ogni vista di tiri, la gran le zza s. Cesari. CONVENIRE. - indi convenuto, le
ini, e il dizi: io, che è participio non del neutro, ma del call sativo
ccn venire, e si n 1 l I a chi è fatto con venire o gli fu intimato di
convenire« Questa (l'anima , dinanzi da sè, il Clti i lu lu parte del mondo,
può a convenire chi le aggrada » (iitll .a Chi conviene altrui il giustizia di
pi st Ilnolli ». (iiulo. « I)ilmalizi a gillsto gill di 1 , i : i - o sia le
convenuto ». Bo c. cioè siate stato chi: Irlat , ( 1:111 o vi è lll'
'.CIRESCERE - « Questo luovo tono di vita, crebbe in lui lo studio della Virtuſ
». Cesari.E indi a poche linee torna a in ora la stessa frase : . Questa piena
de « di alzi alle crebbe il lui lo stll dio della Virt il il segno... ». « E
crebbono assai l: l 'ilt: i (li tºis: l ... V Ill.E questo pellsiero la illlia
Ino a va sì forte di l io: che lì lì si potrebbe a dire, e ricrescevale l'odio
di sè e della sulla vita passata, che con grande empito si sarebbe morta s'ella
avesse ci eduto che piacesse più a I)io». Ca Valca. Il testo li rincrescevale,
ma niuno degli intelli gellti dubitò mai ch'egli sia altrº tale che
ricrescevale, il quale sta qui non in significato neutro, come nota qualche
espositore, ma cau sativo retto da pensiero, il quale non solo la
innamorava ecc. ma adoperava ad accrescere vie più l'odio di sè e c. Noterai
qui anche l'altro causativo: si sarebbe morta. E chi dubitarne se da quel che
segue chiaro, a parisce che per lei sola si rimase che d'odio non morì ?
DERIVARE. - « .... cºme il giardino con fare il solco deriva l'acqua alle
piante, così.... ». Segn.« ....che può e deve per sè, senza ch'io e litri in
queste vane dispute, « derivare (il folgern dei tedeschi) a tutti questi capi
infiniti ed effica cissimi con forti ». Caro.FALLIRE – « Ma il barbaro amore
questa promessa falli ». Rart. « Guarda in che li fidi ! Risposi: nel Signor
che mai fallito Non ha « promessa a clli si fida in llli ». IPetr.« Onori
avevano grandissimi e sfolgorantissimi; come altresì fallendo il loro voto,
erano seppellite vive ». Cesari.Nola qui le frasi: fallire il colpo, alli, e la
ria. Fallire neutro, vale : li tallº all'e, V Cnil lilello - le lire e - V el
sagi li ''I raro, commellere fallo, andare a vuolo - si leiler n : - la
debolezza vostra per conto della « carlie è maggiore che non crediale, ed a
passi folli la lena vi fallirà o. Cesari. – « Sentendosi il marchese agli
sll'eli e pallendogli tutti i pal a lili da scioglierne... . . ( es. \ i rolli:
il falli la speranza ». I liv. Ml. (Conſ. Dilello ecc. Pi ritira iFINIRE –– a
Per cessare il pericolo o finir la vergogna dell'essere sl Iriale sullla bºcca
dei suoi 1 ratelli.... ». Bart. « Chiedeva lo riposo per interce e di non
morire in quelle fatiche, a Ina finire, con il pi di viver , si duro soldo o
l)av.« Finite i peccati.... Io vi prega v. 1 che finiste le oscenità dei teatri
». Ceskani.« III camera dell'ill fºr III o, (Ill: Indo peggiori, gli albarelli
e le alilpolle « Inoltiplicano e l'apuzzano e lui aggravano e finiscono». l)av.
– IPoni niente triplice rispe:to o ti e differenti maniere del verbo finire: a)
- a ... di sollecitarlo non finiva glanina i p. Bocc. – Finire di vivere O
finire Selz'altro: a Mall vive il do 11 ll IIi erit:i Ilo di bell finire ).
Passa V. b) - « Un lavoro di grande artista dagli altri si giudica terminato «
quand'egli illon l'ha all ra finito a suo inodo ». Grassi,c) - Finire la vergogna,
finire le oscenità, finire un infermo, come sopra. –- Nel primo modo è neutro,
11el secondo attivo tra lisitivo, nel terzo attivo ('allSativo.FUGGIRE – (Conf.
Fuggire - Parte III. Chi avea cose rare o mercanzie « le fuggia in chiese e in
luoghi religiosi si ll ' ». Vill. MANCARE - « Questa asprezza delle grida
era Imaggiore che dell'arme « per attrarre l'aiuto a quella parte di quei
dentro, e mancarlo ov'era e l'agguato ». Vill.« Nè a lui basta l'avermi mancato
la sua difensione e l'osserni il v - a cato, ch'egli rsi ride della Inia rovina
». Fiorenz« Mancare ad alcuno il proprio soccorso ». (iillb. A on f. ll - i
vari di questo verbo - Parte III . MONTAIRE a ..... e così in poco d'ora
si mutò la falla co fortuna ai Fio. « rentini, che in prima con falso viso di
felicità li avea lusingati e « montati in tanta pompa e vittoria ». Vill.Anche
i francosi dà mmo nl loro il rallsitivo monter va l'il'e altresì i rall -
sitivo. I tedeschi mutano steigen in steigern, e gli inglesi to rise I'm to
raise. MORIRE – Nei preteriti) a Messere, fammi diritto di quegli che a
torto « m'ha morto lo figliuolo ». Bocc.« Tutti gli altri, coll'arme in mano,
uccidendo, l'illmo presso dell'altro a furono morti ». Bart.)lss 13 rullo
plaliani e ite: Velestlla? l?ispose Caliandrillº: oimè si! ella m'ha
morto o lº i . - - - - - e ln , il i gl I l va 1, l. (.li la lill Il
lesti nostri Pontefici e Sa cerlot, º hanno morto questo Gesù Nazzareno, per
cui... » Cavalca. , Vedi un altrº º semplo dei Cava a s. ti o Crescere,.
Mista l'o di illma: la pel lidinº la super bla era il veleno che avea morto
l'umana natura ». ( es.Fu incarcerato ed a ghiado di coltello, morto ».
Dav. Avendovi morto la ſua 11 l o elito | I solle .... » l)a V. Fra l III
olti isl lel verbi, morire le ultra linelli e il toreno: e Morire di alcuno e
lº i loro esser:le l'i: la morato, morire v. gr. d, uno scoglio, di una
spiaggia i fili : I l a tºrto e lº iallo el'a lln sentiero s gli Imbo. (
.li e in liesse il 1 l la n o della lacca Là ove piu . he a mezzo muore il lembo
». l)ante.l'ASS ARI. Conf. Passare - p.lli III. (i la Iri Irla i lioli fu qui
ponte, Il 1. lo si lui e passo slli li e spille Illit lillique... » e
l'rego un ge:11: le li i portasse a a.ti a riva di un fiume. Quegli, , per
natural cort sia, o per che pur gi a lesse dell'anima, volen e tieri il compla
llli e passo llo ». Bart.I mi: rilla I e i soldat , , lire il v vien le lunghe
navigaziºni passa vano il tempo e la noia giocando illrsieme alle carte ».
Bart. - Passare il tempo, frase notissima e volgare, non vale adunque, rigo
rosamente parlando, trascorrerlo zubringen) come comunemente si crede, Ina sì
rimuoverlo, scacciarlo, farselo passare (sich die Zeit Ver tre ben , cioe parsa
lo in senso causativo. Se così non fosse come il lig e vi: e la noia? I a noia
non si trascorre, ma si rimuove di Zeit Ilind di I.: ll e W . Il vertreiben,
non zul rilmgeilm), MI: il l?o, le o, moli e l'altri, con i fertili e la cla
scudo al mio pensiero. ') po . . er detto che alla donna conviene talvolta di
Inorrarsi in ma 'I: onla e gravi i 1:1, se questa la nuovi ragionamenti non è
rimossa - :: - il l ' :: : il cli, degli innamorati il lilini i lorº avviene.
Essi, se :I l il 1 : Irri li vezza il I l ' - I ' , gli i filigge, lì:almn Ino
di , di illl :: 1:1 re a da passare quelle ». l 'r erni . .I )i , he lo n vedi
che codesto passare e il rimuovere sopra detto. I 'I l ? I)I.I E Tinete
eum qui potest animi: In et corpus perdere in gehell ma li ig: tris , Vlath. :
' '| ... Il cui numero la loi , scritto essendo completo, ed egli tolse
di I lil : do e lo ebbe perduto senza riparo » Cesari, Perdidit I)eus II emoria
III: Iddio ha perduta, cioè distrutta, la nº e Ilioria dei sll per l'i ll
Illini ». l'assia V. (!) È ben altra cosa il dire perdere checchessia –
cioè rimanerne privo – e dire: perdere uno, perderne l'avere, la riputazione
ecc. Quì perdere denota azione diretta di volontà che fa che altri si
perda, rovini; quando nel primo modo è cosa che, indipendentemente dalla mente
e volontà del soggetto, al soggetto co me clessia avviene. A gli esperti
del Breviario romano ricordo la bella discussione di S. Agostino intorno al
doppio senso dell'espressione: perdet eam del noto eflato di G. C.: qui amat
animam suam perdet eam, cioè o l'uno, o l'altro: colui che ama veramente la sua
anima, perchè sia beata l'IOVERE - NEVICARE - TONARE – Sue beltà piovon
fiammelle di e fuoco alimate d'uno spirito gentile ». Dante (Convito).a .... e
però dico che la belta di quella piove fiammelle di fuoco ». Dante altrove
Conv.)« Il Saturnino cielo, non che gli altri, pioveva amore il giorno che a e
ili nacquero ». Filocolo.Sospira e suda all'opra di Vulca 'lo, IPer rinfrescar
l'aspre saette il Giove, Il quale , tuona, rnevica, or piove ». Petr.Questo e i
precedenti esempi in strano chi la o non esser certi verbi, che si chiami lo
illip I somali, si rigi il sili, elle lilli che non siano slali Ialora
adoperati - e lo si può ſulla via anche a maniera di al livi, sia retti
solamente Vegge il la cagi li che il lato priore ». l)ante: Innanzi che la
ballaglia si comincli - si porre una piccola acqua ». Vill. Pio rele, o Jian
ne, e li o in lei il voraci le possessioni . Segn. Quando il giali (ii ve
lona Pell. e par el l e il libe che squarciata « lona , l anti , sia reggeri li
ricorsi il II Il caso. Nè pol rassi perciò mai lidariri i re di errore il dire
come elletri e le till illegali : le stelle pio rono in luenze: i nu voli pio
con sassi, e c. SOLAZZARE - Non avvali pe: ne, Irla di pipistrello era
lor inodo, e e quelle solazzava, - che ti venti si trovean da ello ».
Dante TIR.ASTI I,I. ARE e \l trastullare i fanciulli ill el le;l p.
13ocr'. VENIRE - - - E l' ste detta fu quasi tutta se la raſsi e venuta
al niente senza colpa dei nermi. I n. Vill. nell'eternità, darà
opera che sia perduta, eloè resa inerme, la farà perdere nel tempo: oppure:
colui che ama la sua anima nel tempo la perderà nell'eterno.Quanto all'uso di
perdere a maniera assoluta ti è forse noto, ma non ti verrà discaro un qualche
esempio: « . . . Essere tutto della persona perduto e rattratto » Bocc. « . . .
e mise il mare in così sformata tempesta che quattro dì e qnattro notti corsero
per « duti a fortuna senz'altro inlglior governo che . . . » Bart.“ Guarda come
ciascun membro se le rassomiglia ch'egli non ne perde nulla , Fler. Nota ancora
gli usi: andar perduto di checchessia o dietro a chicchessia i perdersi
d'animo; amare perdutamente ecc. ecc.CAPITOLO III. Voci e rnaniere il
noleclinabili Non sarà certo alcuno, per ignaro e poco sperto in opera di
lingua - il quale leggendo e studiando nel clasisci non s'avvegga che anche nel
l'uso di certe voci o maniere indeclinabili - oltre a quelle che ad altro
oggetto l'agiolai ed illustra i più sopra - consiste talora il vago e l'effica
cia del discorso, e vi è molte volte diversità tra l'antico e il model'In..
Anche a queste forme vuolsi adunque por mente, e farne oggetto di | esame e di
studio. Le dispongo a ordine di classi o serie sol per divisarne comunque la
materia, non per logica ragione che me ne richiegga. Assapora, studia e sappi quando
e con le usarne, discretamente cioè e con lo senno, sì che alla frase lorni
garbo e naturalezza, non mai al fetta la e l'ill ('l'eso e vole ricercatezza.Ti
verranno anche qui, come al rove, scontrati esempi già addot.i. Se il ripetere
lalora annoia, in opera di forma al tutto didattica torna anzi - utile e grato,
e vale qui più che in altre discipline il noto proverbio: Re petita
iuvant. SERI E I. MIA NIERE A VVER BIALI o I o RM : IN C: EN FIRA
I, E Albo PERATE FREQUENTE M ENTE I) A I ( I, A Ssl ('I A I) Fs l' RIM l. 1: E
l I, GI: A l M ( N ) ( E SU'PERLATIVO 1) I QU' ALITA, AzioNE, o Cosv Ql A LSI
Asl. Le quali tornano solo sopra alle volgari: immensamente: incompare:
bilmente; inesprimibilmente, assoluta non le : onnina nºn lo nel modo mi. glio
e, possibile ecc. ecc. COMI E ME(il,I(); II, MIlGI.I () ('ll E. ....; CI
IE NIENTE MEGLIO; CIll: NUl.l.A l'III'; ECC. ECC. - – - Spacciatamente si
levò e, come il meglio seppe, si a vestì al bllio ». 13 , c .« Senza liti, la
cura e prestamente come si potè il meglio... » Boc . . - “ . . . . .
riprese animo, e cominciò come il meglio seppe..... » Bocc. . “ . . . . . . a
dorni il meglio che sapevano m. Bart.“ . . . . . tutti pomposamente in armi
dorate e in vestimenti i più ricchi a e gai che per ciascun si possa ».
Bart.AI, « Voi l'avete colta che niente meglio» . Cos. « .... con quella
modestia che io potea la maggiore ». Fierenz. Inv. costr. con quella maggior
modestia ch'io potea. ) - - POSSIBILE; QUANTO PUO' ESSERE; AL TI
"ITO; IN TUTTO; ECC. « .... purissinra l'aria ed asciutta e secca al
possibile ». Bocc.« Vi terrò sermone di nel quale io sarò parco al possibile ».
Cesari, º . . . . . pregandolo di porgere, quanto per lui si potesse, alcuni
subitº, « ed efficace l'ilno (lio ». Balt. e Luigi ne fu lieto quanto potea
essere, ma.... . » Ces. « E però al tutto è da levarsi di qui ». Bocc. « () che
il prete fosse al tutto ignorante, che non si pesse discernere i peccati. o
fare l'assoluzione..... » Passav.a Fortezza al tutto illespugnabile ad ogni
altra forza che d'assedio « () (li fa II le o. B:ì rt.« Si pose in cuore e
determinò al tutto di visitarlo personalmente ». Fi , retti.a Malvagia femmina.
io so ciò che tu gli dicesti, e convien del tutto l'io sappia...... »
Boce. “ . . . . . non ha bisogno delle 11 i lodi ſi è cll'io l'a lti le
lodi slle e e però Inc le taccio in tutto ». i l IIll). PIU' CHE ALTRA
COSA; QUANTO NII N ALTIA(); ecc. « Assai più che a altra femmina dolente,
a casa se ne tornò ». I3o . e Lo scolare più che altro uomo lieto, al tempo
impostogli andò alla a casa della donna.... » Boc ('. “ . . . . . il che
voi, meglio che altro uomo ch'io vidi mai, sapete fare con a Vostro sºllino e
col V ( Stre ll ( Vello ». I30 ('.a Vergine madre, figlia del tuo Figlio,
l'Ilile ed alta più che crea a tura, Te: Irlino fisso d'eterni i
collisiglio.... » I)allte.« .... d'altezza d'allirno e di sottili avvedimenti
quanto niun'altra dalla « I):ltº Ira dotata ». Bocc.« Più tosto si richiede
onostà e modestia, la quale fu in lei quanto a in alcuna altra ». IPandolf.a
... la rendi (Malacca j, collo industrie della sua carita e coll la virtù e dei
miracoli, illustre quanto mi un'altra ». Bart. PER COS.A I)EI, MONI)();
C()I, AI, MIA (i (i I()R... l)EI, MONI)(); II, ME GI,IO IDEL MONDO: PUNTO
DEL MONI)(); SENZA.... AI, MONI)(); ecc. – a .... e quantulinque in contrario
avesse della vita di lei udito, per a cosa del mondo nol volea credere ». lºoc
('. --- (Simile la fraso del l'uso : per tutto l'oro del mondo – nicht um die
ganze Welt) « Alla maggior fatica del mondo rotta la calca, là pervennero
dove... » Bo( ('.« Alla maggior fatica del mondo gliel trassero di mano, così
rabbuf a fat () o mal concio d'Olm l' orº ». Fior.a Io gli ho ragionato di voi,
e vuol vi il meglio del mondo ». Rocc.« Punto del mondo iron potea posare ne
di, nè notte ». Bocc. « Ne la Inella Vano senza una fatica al mondo ».
Fiel'enz. A CHIEI)ERIE \ I, IN( il \: \I. I)I SC) I PR A: ( ( ) MIE I)I(
) VEI, I)ICA: ....E' I N.A FAV ()I..A \ I)IIXE; Sl: NZ A VIISI IN A: ec .
. . .... ed a chiedere « a lingua sapeva onorare cui nell'alimo gli capeva che
il valesse ». l30 cc. « Il popolazzi, . . asso, st L. e ti emend al di
sopra, ridicolo, impau e rito ». I ): v.... un catarro che li accolla io questi
gi il 'ni come Dio vel dica». Caro. « .... colle l'a II lilli , fierall 'i! te
è una favola a dire . Flereinz. « La giovane, la quale senza misura della
partita di Martuccio era stata dolente, ti derido illi e il li :iltri . sser.
In rto, lungamente pialise ». Doce. SERIE II, AVVERBI I) I
TEMl PO Ass v I I REQUEN I I VI po I ( I. AssicI E D AI MoloERNI RARE VOI,TE
EI) AN('l I E S (' ) N V ENI ENTF VI l .N l'F, A l)() l'ERATI. Solº, e
ben si vel . io il amezzi e talora anche vºi per sè insignIl lill. I l l
sentire e del pensare rivelano assa i volle, chi li Is I l s , che di gentil e
di fino. Ad intendere a che li gli oli | lesl Iraniere avverbiali siano cosa da
non dove si l rais li tre pas e il por nelle alla sconve nienza di allre voci
che venissero sul gale, per quanto equivalenti c (lell'lls . I , A
I PI? I VI \ (.( )S \ \loid 'il: 1 o, e st . In tla prima cosa che faceva, clle
dI va, che li l' I, le ill e I e I blie i . ( olf. Al llla si Sel ie . I - il I
l I so: volte, i vi si va via , la prima cosa a visit to il corpo di l l lo so
S. Z :lolo º lº i :li. ( n'egli era a levati , la prima cosa spendº via
il rile, i ora zione mentale . » l3: l 't. ( o s.VI.I. \ l'IRI MI V di primo in
alto il prima giunti (.lle lisogli a sciolla Il 1 Se la l - i lrn 1. ll il I
alla prima acconsentono º , l):n V ( in tilt to li alla prima ti sti lou, i l:t
lizione ... o V ill I ) \ Iº lº I M.A ... Illando l'alto livlio Vl sse da prima
quelle cose a bello. » I ): l.llto.« Lasso che male accorto lui da prima ! »
l'elr. Parla dei primi istanti dell'amor sul .)IN PRIMA – « In prima si
commette in occulto, poi l'uomo accieca in « tanto che pecca manifestamente ».
Caval. « Io voglio in prima andare a Roma ». Bocc. DI PRESENTE
subitamente incontamente). Matteo Villani elle questa forma di di e
continuo alla penna, e per quanto a me ne paia, non mai usata a significare il
ro che su bila mente: nel qual senso la rove ete nel primo libro della sua
Cronica delle vol, allilelio cinquanta. I3artoli. Ma non inferire la ciò che
sia inal Isa! anche il senso di : al presente. L'ha il Caro, il Lasca, il
Segneri e noi, altri: « Ma forse che di presente non v'è l'Ics Iso?
Segn di presente e gli cadde li Iurore ». I3ore. a ... tutte le Imadri
che avessero fºr ll illlli ferirli gli o tav: l'1 , l . detto monastero e la
badessa li piglia va e pi Vagli llel mezzo del a chiesa...., e di presente
erano saniati d'ogni info, Irlita. , Cav. ... e poi le fece il segno della
Santa Croce nella sua fronte. All ra « il demonio incominciò di presente a
gridare e... » ( a V.Se l'andò di presente alla madre e contolle tutta
l'ambasciatº. » Nov. Ant. Le illimicizie. In riali trascono di presente. » (ia
la teo. a \ppena avvisato da lui questo peso l'intrepidimento, di presente º so
ne riscosso ». CesI)I TIRATTO – a ...il domandò se..., ed egli di tratto rispo-
di si. ( -. I) \ INI)I INNANZI – « E da indi innanzi si guardò di Inai piti. .
» I3o: . a Chianrossi da indi innanzi non più... Ila.... » (iia lill).l'EIR
INNANZI – « ....o tennero per innanzi Messer Betto sottile ed iniel: a dellte
cavaliere. » Boicº a...o fatene per innanzi vºstro piacere. » Rocc. I).A ORA
INNANZI - « ...da ora innanzi spenderemo la nostra diligenza « in cose... »
Bart. « In fede buona, discio, io voglio da ora innanzi credere come il
re, e cioè in nulla ». Da V.– Così dicessi: da oggi a 20, 30 ....dì: Mi
seguiterai da oggi a venti di º. Vit. S. Girol.DA QUELL'ORA INNANZI – . E da
quell'ora innanzi gli pºrtò sempre « onore e river olza. » Fioret. I) I
MOLTI MESI INNANZI. . . . ... con le collli cl) o l or Ill ort , l':n ve: i rii
a molti mesi inmanzi. » Rocc.DA QUINDI ADDIETRO. A te, corpo mio, sia pena e
vergog vi e « confusione la tua mala vita che ti hai fatta da quindi
addietro, se a tu ci vivessi conto migliaia d'anni. » Cav. DI POCO
Inolfo) TEMPO VV VNTI. . . Di poco tempo avanti a marito a vomiltºn lº..... »
IBoc ('. DA POI IN QI A CIIE.... - - « Da poi in qua ch'io servo a stia
Vltezza a non ebbi mai motivo di querelarmi. » POI AD UN GRAN TEMPO per
buona pozza di poi - , senza che a poi ad un gran tempo non poteva mai andare
per via che... » Fioret.- IPOS(.I.A A NON MIOLTO) : IP()SCIA \ I) l E, TRE...
ANNI. – . ...benchè il « perfido, che convertito non dalla verita, lira
dall'interesse, si era illdotto non ti d essere, lila a filigersi cristiano,
poscia a non molto apostasse. » I3 irt.A lui al che si deve la conversione
cleposcia a due anni si ſè di... e d'InCli: sllo forlin. o I 3: i rt.l'OI. – v.
Poi in significato di poichè, congiunzione, Serio 5.) « tue giorni poi lo i
lidir no rel: ma la detti (iialma. » I)a V.a Le mie scritture e dei miei
passati allora e poi le tenni occulte, e e l'inchillse, le quali non chi
e la potesse leggere, nè anche vedere ». IPalld()|f.DI POI, I).AIPPOI postea,
la liber. dal au I e - Il giorno di poi a che Curiazio Materno lo sse il
suo Cat ne... » I)av. Fecesi questo primo ufficio a mano e di poi se ne fù
borsa. » Cron. M () l'(ºll. - S'arrende Cappiali , si lv ro a
dappoi la rocca, -aivo - a l'avel e o V Ill. l) A IPOI CI IE...: POI CIIE
.. posi ea quan Ne furono assai allegri, « da poi che l'ebbe il signor Tav
rit. a E molti enºni , quasi me razionali, poi che pasciuti erano be; le
e il giorno, la molte alle lor , a se, senza al il correggimento di pa store,
si tornav: lo satolli. I3 ) . r . « Quale i fioretti dal lot il no gelo ,
li lati e chiusi, poi che il sol r e l'imbianca si drizzi in tu! ti : pe: ti il
loro stel . . » l)a nte. - Poi che innalzai un co pit 'e riglia vidi il
maestro di color che saillmo se dor tra la fil sofi a larniglia o l)ante.
IN QUEI, TANTO in quel frattempo i 17 w is henº « Quando -: ti o a un
colore e quando sotto un'altrº allungava sempre la cosa, e secre e
tamente in quel tanto attendeva a In tte, si in I tinto. , (iiaml). I F. I I I
V () I TIC: \SS \ I I) ELI E V () I 'TE. Non a quella chiesa che.... a ma alla
più vi in: le più volte il portavano. Doce. .... ed a Luigi non ebbe assai
delle volte questo riguardo ». Cos. I N MIFIDESIMO. - Gelò in un medesimo per
timore e avampò per a rabbia ». I3art. IN (*) Nota uso altro del
comune d'oggidi. « Da poi o di poi, scrive il Bartoli, sono avverbi | - «
di tempo come il poste a dei lattni: non così dopo, che è preposizione e vale
post, nè riceve « dopo sè la particella che, come i due primi. Perciò i
professori di questa lingua condannano « chi stravolta e confonde l'uso di
queste voci facendo valere l'avverbio per preposizione, e « questa per quello
che è quando si dice : da poi desinare, o dopo che avrò destinato ; da
poi « la colonna, da poi mille anni, dovendosi dire dopo desinare, da poi
che avrò desinato, - « dopo la colonna, dopo mille anni.. ... Due testi son
prodotti da un osservatore in prova di « quello ch'egli credette che in
essi la particella dopo abbia forza d'avverbio di tempo: ma, « o 1o mal veggio,
o egli in ciò non vide bene, però che poco dopo e picciolo spazio dopo, « che
leggiam nel Filocolo (e ve ne ha d'altre opere esempi in moltitudine) sono
altrettanto che « dire dopo poco e dopo picciolo spazio: nè perciò che dopo si
posponga per leggiadria « perde il proprio suo essere di preposizione,
cambiando natura solo perciò che muta luogo. » (Torto e diritto),TUTTO A UN
TEMPO. –- Si vide egli una volta venire innanzi quel « figliuolo
scialaquatore che tutto a un tempo illil izzito di freddo e e smunto di farne,
a gr. ll fatica poi i più reggere lo spirito lli sulle a labbra ». Segn.AI) I
NA; AI) ( N () R V. - I. - lio, e il riº lite illl collo ad una le l gi che e
l'azioliali . (iiillo.E fatto questo al padre - i ti e, con i ti o dino li
avere ad un'ora a cio che in sei mesi gi loves - e dal re ». I3 cc.a Tu puoi
quali lo ti vogli ad un'ora piacere a Dio ed al tuo signore ». l3a) ( .FII ad
un'ora l: ti inta II: i r; V Igli, e il ti: i ta a rieg l'ezza solº l'appli - ,
ch, a pena sapeva che ſi rs dovesse Bar!.a S'io avessi mille cuori in corpo,
credo, tutti scoppierebbero a e un'ora ». ( a vill.....e lo slle - rel. l: elie
l l' il, clli ' lei i 'o che ella fosse spira 1:1, a un'ora piangevano i
figlill lo e la IIIa - dl e o. (..i Val.AI) () IR.A: A TEVI IP() ZIl re e lit,
Zeit, frilli - e il ' . .... il III la ll (lſ) ll ll (le' suoi quanto al ra i
vos- li Illi. : I 'a via e se ad ora giunger e potesse d'elitro rvi . l?oce.Io
so grado alla ſor . I: I: pi oi, la III: ll ad ora vi colse In a cammino che
bis 2: o vi Ill di ve la mia piccola ci sa . Bocc. . – Quell'ad ora, se il il
ring oliato al (.: p. Locuzioni e lillich e, pilò al 11 le sigllifici:'e': in u
il trio mi cºn lo ſtile - e i l Zeit Ve! llia! 1 llissell.ALI,()R \, CI IE....
- MIo -s . ( r , l il all ora che - guardali do voi egli crederebbe º li voi
sapete l'in - ll - ci , Bocc. - - Allora che e il coin: sto li ai l'ora che,
cioe a quell'olti nella quale. Vu, i vederlo? « .... cominciò a rilere e disse:
(iiot ſo a che ora, verº e il di qua allo 'n oltr i di noi in fo: - ti re, che
mai voluto moll t'avesse, credi ti cºllo e gli ori (le -se che tu fo: - i il ln
igli r di « pi:itore del miº endo, con le ti - \ clii (iioti o prestamen! e
rispose: a Messore, e ved, i cllo e: i il ''t l 'oblio allora che.... . . .,
col Ile sopri). AI.I,()R \ \ I, I.() R . . . . E allora allora ve: i cori in 1
il to a venire ill a torno alle gote il poco di lanuggine ». Fierenz. « Se la
Irla il giò allora allora in sl1: pro - ilza ». Fiºr liz. « .... fil percosso
da un accidente di filºiosissima gocciola, la quale allora allora i 'a in atto
di sopraffarlo e co- Il lorº ndosi... ». Segn. CIII E' CHIE E'. a ... fatti
ch'è ch'è solº l'1 t . . ri o. I ):) v. CIIE..., CIIE parte.... parte ()
e - o re : ni) che re dei rom inni e che a imperatore ». Dav.QI ANDO..., QI
VNI)(). Quando sotto lº col re prº testo e quando a sotto il li
filtro.... ». I3: i rt « Quando a piè, quando a cavallo, º eco il che il destrº
gli vi lliva ». T30C ('.l'N POCO.... I N AI.TIRO (un po o orn, il poco di noi -
Intanto ecco a (Illi, cianº i l un poco e ci:n nci i un altro..... noi siamo a
.. ». Cos. I)I CORTO, DI POCO. I)I FIRESC( ) ( id) , l di corto si attºri il tv
l e a quindi a mezzo anno seguì . I3art.« I più furono dei grandi, che di nuovo
eran stati rubelli, rimessi in a Firenze di poco ». Vill.a ....mercecchè questo
era timore di uno che aveva di poco cominciato « a peccare ». Segn.a .. . forma
generica di teli fare che sul l usa l'e il demonio a riguada a gnarsi quei che
l'ha di fresco lasciato per darsi a 1)io ». Segn. A (i IRANI)E ()IR.A. - . Va,
figli la mira, e clla Ina queste mie suore, che a ti aiutillo, e fatelo buono
assai l'unguento e domattina il lande ete a a grande ora, si colme tll la i
detl () ». ( a V.Si parla dell'unguento col quale la Maddalena di ve:a ungere
il corpo del Maestro suo nel . ionumento. E adunque fuori di dubbio ( le la
frase a grande ora è altretta le cli a buon'ora. Ma il valoroso Cesari nota
questo modo nei dia gli di S. (i regol io, e gli pare clie signi! Ichi anzi
l'opposto, cioe' tardi, ad ora avanzata.I PRIMI A ( III: A (i I? AN VI \ I I
IN( ) - ... ll e il colpagno prima che a a gran mattino, chiamandolo e scotendo
o per farlo lisen Ire del sonno, se º le avviole». I 3:art.A I, I NOi ( ), V IP
() (.() A NI) \ I I : I ) ( ) l ' ( ) I, I N ( , ( ) V Nl) \ IRI .. A V Vlsa:
l.losi o cle a lungo andare o per lorº o per il litore le converrebbe venire a
dovere i piaceri di Pericoli fare, con altezza d'animo seco pro pose....
». I3 cc. e .... (ºd In questo con 1 il tar lì , ll la lollo la pezza a vanti e
le perso la se ne avvedesse l'ul e a lungo andare, essendo un giorno il Zeppa
il casa, Spinelloccio venne a chiamarlo ». Borc. Così si dilra fatica a
difenderlo, ma spero che a lungo andare la verità verra pur sopra . Caro.« Chi
si vergogna di apparire malvagio è facile a lungo andare che all ora si
vergoglli di essere tale o. Segl). I)ev'egli telider sull'uditorio le
masse deila divina parola, senza restarsi per stanchezza di lati, che a lungo
andare gli succeda, o sºlldol' di fronte.... ». Segn.e Dopo lungo andare,
vincendo le naturali opportunità il mio piacere, soavemente m'a (ld l'Inel tai
o, Borº. Si dostò il silo mal illnore, e che a poco andare livelltò l'ov
(ºllo, fl'e lesia, rabbia ». Giuberti. Non so però di millm altro
scrittore e li ll sasse mai il modo a poco andare il luogo dell'altrº, a non
lungo andare. V me pare di sentire nell'a lungo andare dei citati esempi non
tanto il significato di dopo lungo tempo, quanto quello di continuando su quel
tenore, andando avanti cosi, il quale significato mal si cercherebbe nel modo:
a poco andare.IPrima di passare ad altro ti piaccia, o luon lettore, notare di
questo andare un altro uso avverbiale bollissimo ad andare d'alcuno, e si
gnifica: conforme alla durata del tempo che impiega quel tale a fare un
determinato cammino a l)icosi che, ad andare di corrieri, sono sel e
ovvero otto giornate; ma elli vi peliaro ad andare più di due mesi ».
Mold. Vit G. C. NON MOLTO STANTE; POCO STANTE. . . . . . perchè..... non
molto stante partorì un bel figliuolo maschio ». Bocc.“ E il buon pastore
vegliava sopra le pecore sue; e io nni stava allora “ presso a lui e piangeva
di cuore, imperocchè io vedeva bene a che partito e ci conveniva venire. E poco
stante e disse... ». Cav. “ ... dissº; e poco stante - e ne vide il buon esito
». Bart.IN POCO ID OR A -- E cosi in poco d'ora si mutò la fallace fortuna ».
Vill. .... quandº le si coinil: i) a cambiare il sereno in torbido e 'l vento
I'l'ospel'evole in coli'; il rio e si font , che in poco d'ora ruppe un'or
ribile tempesta . Barte così i lorendosi in poco d'ora, irrostrò quanto ciascun
uo, lo sia sempre Inal in Ioriato, di ciò che passi nell'intimo di se stesso ».
Segn. SEMPRE ( il E. , 2 ni , olta ch ....: per tutto il tempo che ...; -
so . It als...: so l' Ilge :ils . . sempre che p -so gli veniva, quanto
poteri “ll In: i fo: zii li i vesse, la lont: in: va ». I 30 ....ti fa
l'ſ, con il iº lira? I ra che tu io da uno li ricorderai. Sempre che l Il 'I
viverili. (I e Il III lili , , lº e - Add II e le forme avverbiali,
bisognerebbe compi l'opera e porre Iri al mi allri modi di In li e costruire il
to italiano, dai quali ap prendere le lo Izi li varie ri la livinnelli e il
tempi , e corre cioè accell li: l' e il I e II limiti e il quando di un fallo,
e con le esprimere la durata di checchessia. I cori e lo spazio di lempo
decorso. o la decorrere da un prelisso le minº, e come gli aggiunti, le
circostanze per rispello al pre semle, al passato e al ſul tiro, ecc. e c. Ma
questo lo vedrai nel Prontuario s: II , la parola Tempo. AVVERBI I I
Morbo A : UII A Ioi A, oi: v. SEMPLICE E e RA AR ricolATA (*) A I3U ()N.A
FEI)E ( red 1. ll Il lllll III a buona fede llo la Cagioli della a ai 1 l' - Il
I la lorº ita . ll I)1 , ». (.a V. Di buona fede, con bucna fede in buona
fede solo i nodi, loli si lo dl f. ſei eliti dall' Ilegato, ma anche
diversi fra di loro: Semplice uomo e di buona fede o V ill. Il pr, ritente
ritrovisi in buona fede » a 'I'utti gli il milli del boilo enti lorº
porta i con buona fede ci è con le alta o. 'I Irl. A ſ;I ()NA EQI ITA' -.
il suº - gliore si ptio a buona equità lo le: ( o ri lilllari cari l ' s ll lo
» lºt) ,Sill','': a buon diritto li lil I l di ragione; a Sotto nome di
Ghibellino occupa questo patrimonio, che di ragione s'a spetta il Guelfo ».
Salv. (*) Conf. Particella A, Cep. I v.A ROTTA – ... In zzando in un
tratto il bel discorso di suo fratello, e si parti a rotta ». Fier. cioe pieno
di mal talento, stizzito ,tutto veleno ecc).In tal guisa scrivendo a rotta se
ne compilerebbero i grossi volumi. ( es. Simili le frasi scrivere in
borra, borrevolmente --- abboracciare un libro. I)av - Caro - Gillb. A I) ()V
EIRE - ( osa fatta a dovere overnarsi a dovere » A FII) \NZA - Non ti
maraviglia e se lo te dimesticamente ed a fidanza a rielli e del do o. IBoc .A
FI RORE: A FURIA - Quando il rumore contro il re si levò nella terra, il
popolo a furore corse alla prigione a Bari. e Temevano gli uomni li lt
il:giurio ed esso (i ('. lº sostoli ho gran dissime essendo dannato così
ingiustamente ( a furore di popolo ». Cav. ci è abband intito, dato in preda...
) a Carlo v'andò coll'esſere to, a furia ». l, l'll i. A SI º V VIENI () .. .
prende questo servo e quello per lo braccio: Te, ficcal qui. Fuggono a
spavento, di lino nel luine: rimas() al blli ggiIrlai della morte, con due
colpi si sventra ». Da V.A (.() I 'SO I. \ NCI VI'() .... volmita le sue
bestemmie in una foga di ben nove versi a corso lanciato, senza il fiatar di
mezzo ». Ces. \ SI, A SCI (): \ I 'I V ( ( A ( () I.I,() Cori ele, precipitarsi
a slascio, a fiacca collo v. Correre, IProntuario).e due schiere di lenici a
fiaccacollo, della selva nel piano e del a piano nella selva si fuggirono in
intro a Dav.E gia so: i gialliti dove il fossi on firma l'resso alla terra, e
la fin tanto forte. Ognilli a fiaccacollo VI ruina: Chè 'l ponte è alzato e si
in chiuse le porte ». Bern.A SGORGO; A RIBOCCO . ... fonti... le quali doccia
no a sgorgo per dar a bere e saziare a ribocco i slloi V ml: nfi di Villo dolce
». Medit. del | Vlb. (lollº ( l' ) ( (º A ( IR AN I 'IN A a.... ll'el a
tanta la grande gol to che vi veniva, che a a gran pena vi capeva » Cav.A (( i
RAN) E ATIC V .... ( con le luci tanto confitte dentro di quelli e occhi)
che a fatica vi si vedevano ». (iiamb. a I)i cento mila, a gran fatica un solo
». Segn. Traduce il noto effato di S. (ii l'olio in co : Vix (lo con tull) l Il
till I lolls lllllls ». )a Quel figliuolo scialacquatore che tutto a un tempo
intirizzito di freddo e smunto di fame a gran fatica potea più reggere lo
spirito in e sulle labbra ». Segn.a Quella povera vedova, la quale vi avea a
gran fatica riposti due soli piccoli ... » Segm. duo minuta). ... a
fatica poterono le insegne campare dalle folate del vento ». Dav. ()ttone,
contro alla dignità dello imperio, si rizzò in sul letto e con e preghi e
lagrime gli raffronò a fatica ». Dav.« A fatica, risposi io, gli ha potuti per
un grosso nuovo cacciar di a mail a un pescatore ». Fir. As. \ MAI O
STENTO a mala pena) - .... e a malo stento si tonno ch'ella nol a fe ( o o. Iº
nt ('.A GRANDE AGIO -- a ... tanto che a grande agio vi potea metter la
mano « e il braccio ». Bocc. A TORTO – « Messer, fa IIIIII diritto,
di quegli che a torto In'ha morto a lo figliuolo ». I30cc. .A NI IN
PARTITO; A NI UN IP. \ I Tt ) egli a niun partito s'indl Isse a coin a
piacermelo ». Dart. (Conf. Partito, parte III . « E certaIllelìte se ciò non
fosse, il clitori, li li credo i già che Irli sarei « contentato a patto veruno
(li comparire stamane su questo pulpito ». Segn.– Keilles Wegs, un keine il Preis.
- Simile l'altro avverbio dell'uso e classico : per niun verso, per niente , v.
Serie seguente). A CREDENZA (senza proposito, non serialmente e
daddovero) – . E' a debbono essere da sei o sette anni che un brigante di
quei lilli ha a tolto a litigar III eco a credienza e Vieille alla volta lnia
ard Itamente ». Car().« Sicchè lion ( 1 edo far I)io bravate a credenza quandº
i lºg 'i a fferma a che repentina succedera la morte ai mormoratori ».
Segn. A BALl).ANZA -- a ...e questi a baldanza del Signore si il batteo
villana III e ille.... » Bo(:('. – « Che a dirlo latilio, soggiunge il
Cesari, non si direbbe più breve di a questo : I) Inini patrocini fretllesi
. A MAN SALVA senza tiri re di punizione o vendetta ecc.;
impunemente) a ....e quello con tutta la ciurma ebbero a man salva ).
I3oce « Senza che al ll no, o marinaio o altri se l'acci orgesse, una galea di
corsari sopra venne, la quale tutti a man salva gli prese ed andò a Via ». RO(
('.« E perchè tante diligenze ? non potea egli averlo a man salva ovun a que
volesse? » Segn. (parla del fratricidio di Caino). A MIA POSTA; A
TI"A, A SI' A POSTA; ecc. – Somiglia all'altro mento vato sotto A,
Cap. IV: a suo senno; e significa gosì in disgrosso: con for Ine all'ordino
posto, secºndo aggrada ecc.« Io non posso far caldo e freddo a mia posta, come
tu forse vorresti». BOCC.« .... mi disse che tu avevi (Illinci una vignetta che
tu tenevi a tua posta ).a ... Ma quell'altro magnanimo, a cui posta Restato
In'era, non mutò aspetto ». Dante al cui ordine). Lascia pur dire il mondo a
sua posta » Caro. aspettava solza mandarsi a lui dinunziando od entrare a sua
posta, come avrebbe potuto ». Ces.... del resto se volesse andarsene, facesse
pure a sua posta ». Ces. Il tempo è cosa nostra..., e a nostra posta sarà d'altrui,
e quando Vorremo ritornerà nostra ». IPandolf. Farassi, disse Malerno, altra
volta a tua posta ». Dav. Non si doe a posta d'alcuni milensi levare a mariti
le loro consorti de beni e del mali, e lasciare questo fra le sesso scompagnato
in preda alle vanità sue e alle voglie aliene ». Dav.« ... ma lascia dire e
tien gli orecchi chiusi, Non ti piccar di ciò, sta pure al quia; Gracchi a sua
posta, tu non le dar bere ». Malm. (r (l\ A \
\ A .A V - Oltre agli altri significati della V o
posta, olre i son noti o del l'uso, nota anche quello di agguato, e però la
frase: stare in posta. – Si pºsero il cuore di trovare quest'agnolo e di sapere
se egli sa pesse Volare: e piu notti stettero in posta ». Doce. MIIC), A
SI () AVVISO zza e chiarita, che a suo º avviso a Vanzi va per sette a rili la
bellezza del sole ». Cav. (il II).A – Vennono i Magi a guida della stella , V
it. SS. PP. " ... (Illi, l'alt alllll III e lo gliti li l'Israel a
guida della colonna ». Vit. SS IPI . SECOND A - Venendº giù a seconda di
l iilline eri in un grosso al e bero attraversato il l leti o le! ! util, a (
-1)ITO: A MISNAI) ITO per i pp, li o Illiile ()Inbre Ilio e St l'OI Il Ill I e
il Il l a dito ... I l liteINDOTTA - Scrive e in a indotta di un qualche amico
». Giub. TENI () NE; A RILEN l'() co. l l:: Fal e clle clessi:i, opei a
re, lavorare a tentone; il nºda , procedere a rilento. SI PI? () lº() SI 'I'( )
- Fra - della era te a sproposito, gramma t ( a 1 rbitraria... , Mla lizl3 Al
RI)()SS(): \ BISI) ()SS( ) I .el l. Ville a cavallo senza sella e guarni Il
lent : fig. alla peggio, alla buona, alla carlona.“ ... titlito è Irleglio, il
dicit re lº tºga rozza e a bardosso che in cotta las Iva da Irie reti I
ce .. l): V. . . . . . tilt. I3rotier .... E ogni liofil Ill se le scolla,
Veggendogli una cupola a bisdos « So )). Bll roll.I II)()SS() Non un sol
l'eroerin º ome in l'annonia, nè soldati veg º gentisi pit | rti seri ti a
ridosso, ma molti a viso aperto alzavan « le Voci ». l)a V .Ridosso, sost.
vale: renaio lasciato il secco dalle acque. –- Cavalcare a ridosso è lo stesso
che cavalcare a bisdosso.RANI) A \ RANDA (appresso, rasente, ed anche a mala
pena, per l'ap punto). Dal tedesco Rand margine, orlo, estremità....« ... A
randa a randa, cioè risente rasente la rena, coiè tanto at costo a e tanto
rasente che non si poteva andar più là un minino che, a IBl1t. « Quivi
fermammo i piedi a randa a randa ». l)ante. « ...era apparita l'alba a randa a
randa ». Morg. « ...e poi gli mise in bocca l'na gocciola d'acqua a randa a randa
» Segr. Fior. IBACIO (al rozzo, all'uggia º contrario di: a solatio. « I susini
simiani nelle orti, lungo i muri, a bacio fanno bene. Dav. (.()NTR VILI ,l ME
(che ll ) m l'i( ove il llllll (º il dirittll l':ì \ Qlla dro a con trallume –
faro che li ossi:ì a contrallume. SPRAZZO (sparso di mil utissime macchie
l'anºni a sprazzo, lavorati a sprazzo.SEST'A misuratamente, precisamente, per
l'appunto) -- I)a sesta, com passo. Nota il modo: colle seste. Parlare
celle seste, cioè parlare cal colato, misurato, compassato. « ...e
menandogli un gran colpo che passò a sesta per la commettitura « dell'osso, gli
spiccammo il braccio » Bocc.A SCHIANCIO – Da schiancire – schrag treffen,
schief Schlagen. « Tagliandolo a schiancio in giu dall'urna parte, salvo il Imidollo...
» Pallad. Fobbr.« Le sue pertiche del salcio, si ricidano rotondamente, o
almeno li n « molto a schiancio ». Cl.A SGHEMBO: A SGIIIMBESCI() / di traverso,
obliquamente, – «Sull'elirio a sgembo giunse il colpo crudo . Bern. Orl. «
...campi divisati Per piano, a pl Imbo, a sghembo ». Bllº lì. Fier. « Capito al
pizzicagnol, chieggo un pezzo di salsiciotto, ed ei Inel ta grlia a sghembo ».
Buon. Fiei'. « ... Se non che a sghembo la lancia lo prese ». Morg. « Pare ogni
palco appunto un cataletti IRestato, come dire, in Iºlel a Galestro. Che la
natura fece per l'Ispetto, Ed ogni tetto a sghimbescio « Il Il canestro... »
Alleg. – Tagliare, lavorare, operare, camminare a sghimbescio. A MICCINO a poco
a poco, a poco per volta) – Fare a miccino, collº all Imare con gran risparmio;
dare a miccino; parlare a miccino.« ... E' un dare a miccin la ciccia a putt I,
Vccio ch'ella moli fila cia poi « lor male ». Fil', rim.« ... Senza chè qui fra
noi I)el buon si debbe far sempre a miccino ». Alleg.« Favellare a spizzico, a
spilluzzico, a spicchio e a miccino a è dir poco e adagio per n In dir poco e
male ». Varch.A GHIAIDO – « Fu incarcerato ed a ghiado morto » (cioè di
coltello). l)a V. A M AI, OCCHIO – « Antonio, mirando quel dischetto a mal
occhio, dice « va e pensa Va infrì sè stesso: ond'è... » Cº V. A SOLO A SOLO; A
TU PER TU a quattrocchi, da solo a solo). « I)esidero di fa Vollare a solo a
solo )). V. S. (i. l3. « ...mangiare un poco con lui a solo a solo ». Rini.
Ant. « E' mio marito, e non è ragionevole ch'io Ini p inga a colitenderla a
seco a tu per tu v. Varch.« A tu per tu d'ordinario indica, se non contesa,
almeno un non s . che di lì (r)) amichevole o di riottoso ». Tomln).A IOSA – a
Idiotismi lombardi a iosa, frasi adoperate a sproposito, « periodi sgangherati....
» Mlalz.– Simili: a ufo, a macco, a diluvio, a masse, a larga mano, ad usura, a
oltranza, a gola, a buona misura ecc. e Iddio renderà al bonda lito a mente, a
buona misura, tormento e pena a coloro che fanno la su « perbia». Passav.
– Retribuet abundanter facientibus superbiam. Sai:Il A GUISA CIIE...: A MODO
CIIE..., DI... – « A guisa che far veggiamo a h a questi palloni francesi....
». Rocc. i a ... schiccherare a guisa che fa la lumaca ». Bocc. ti « Fare a
modo che la madre al fanciullo quando lo fa bramaro la « poppa ».
Fioretti. « F: l'( a modo che alla Maddalol)a.... » Fioretti. - - -
- - entrò in una siepe molto folta, la quale molti pruni e arboscel « li
avevano acconcio a modo d'un covacciolo o d'una capannetta ». Fior.A PEZZA: A
GRAN PEZZA di gran lunga, di lunga mano, a dilungo )« Iddio la IIIa lì dato 1
elill, a lille desll'i: - i lol prendo, per avvell « tura S III lile a pezza li
rl III i ti l'lleri ». lSucc. « Tu non la pareggi a gran pezza ». l 3 a ... che
Villce a pezza le forze il ii il II alla natura ». Ces. « ... che a pezza li in
poterono i no, l'1 :li a liostrº ». Giuli. ...al qual peso pollai e gli a gran
pezza lo! I SI se lliva sufficien a te n. Ces. ET - A buona pezza, a pezza sia
al 1 ora per: da un pezzo. Il Corticelli lo fa altresì avverbio di tempo a vu i
tre, º io e a dire col significato di: a lungo andare , indi a gran tempo e .
:: il l: l V a Illel lil - go della Nov. .º in cui il 13o a clo, il ricolllla
lir di Tebaldo, l'e putato uccisº dal 1. l re: ti sºlo i clie : l i vº:
lo ſtesso, dice: l' 1. l e I edeva no all or I e II la lr e 11 , se i vi ebber
iatto a pezza i in li e a lilolto l'Irl | o s, il 1 o l -se che lor e lì i rio
« chi fosse stato l'll (iso .Pezza per tratto di teli e ti In e te l: il sito
dai classici: ...a e le quali, quando a lei i i nip . . - rido e la buona pezza
di mot a te.... , l 3 , . \ V , l: do ss 1 di buona pezza di notte e il
ogpl I lioli o il l ' Illi: e... l . . . . ed i: questo con I lilla rotto una
buona pezza iva il l i soli: si ll il V . . desse º lº) . Erano a buona pezza
pia . Il l ... » lº . A I) II, l'NG ( ) ...lila po . I sa – 1, piti il V
".go, a dilungo le pi Vinci e ill « gannò ». l)a V.A (..ATA FASCI () Fa
cela di voi gli l a catafascio ». l 'a taff. Io non fu mai. lle solo di
gloria Vago, lº vivi , a raso e scrivo a Ca « tafascio ». Vlatt. Fraliz. l.ibli
( i rte a catafascio. \ I,I, I S.ANZA ( )ltre i cliest . : se si lal::lo
ba nelletti regali... ll !) e inoln Ine: l'e, all'usanza (li (1:la, di
co- e dl gla il valore, ll lì.... ». Calo. « .... se la faceva la maggi . parte
le 'a nero, all'usanza dell'Indie, e con l'iso, e quando pit sontuosa ine:lie
oil... » Bart. ALI, I SAT(); AI, SOI, IT() .... lle resta V a dl di rilli
all'usato di strane « tentel)llate ». Fiel'.« ... e ne rinfocola V a l'iberio,
per ll è al solito lllllga lllente in lui a V a vampati, ne uscisse o saette il
rov in se . l)av.“ . . . . . non ga e al solito, Irla cori tlc it to . .. e co;
i visi, benchè a ce on e ci ai ln (stizia, pil V ( ralli elite cagles lli... .
l):ì V. AI, CONTINU ( ) Sonando al continuo, per la città tutte le
campane. .. » V ill. AI, TUTTO - Conf. Tutto, Cap. III e l'elisorili che
Marta s'inginoc a chiò a piedi di lei e disse: Madre dolcissima, al tutto sono
appa a recchiata d'ubbidire, chi io sento n. ll'admin la mia che l vostro par «
lare Imi conforta ». (.a V. AI, CERTO – - a Se....., al Certo i denloni
ne farebbero, gran rumore ». Iºart. AI.I.A SCOPERTA – . .... potè poi
mettersi con lui alla scoperta in più a ragionamenti. » Bart.Al, DIRITTO – « Il
Sole..... feriva alla scoperta ed al diritto sopra il te « nero e delicato
colpo di costei. » Bocc.ALLA DISPERATA – « ....nnellare d'attorno bastonate
alla disperata. » BaI l.ALLA SPIEGATA – « .... appunto culme la nave... sulla
quale tornò non e potesse levar mille fasci di lettere, che dicessero alla
spiegata quan a to egli veniva a raccontare. » Bart. ALLA SPICCIOLATA – .
Tagliare a pezzi alla spicciolata. » l)av. – Andare alla spicciolata o
spicciolati vale: andare pochi per volta e non ilì Ordinanza: l'O( o dopo si
Inossero gli altri bravi e discesero « spicciolati, per non parere una
compagnia. » Manz.ALLA SPARTITA – . Le varie scienze brancate non hanno più
alcun « Vincolo coinline che insieme le c' III ponga e le organizzi; si no a ce
« fali, vivono alla spartita e tenzonano fra di loro. iub. ALLA STAGI,IATA –
Andare alla stagliata per la via più corta i : « .... E vanno giorno e inotte
alla stagliata. Non creder sempre per la a calpestata ». Morg.ALLA DISTESA – «
Ben è vero che quella grandine di concettini e di « figure non continua cosi
alla distesa per tutta l'opera ». Manz. ALLA 1)IROTTA – Piovere alla dirotta. «
Che lavorio non si pigli alla dirotta per alcuna cupidità, ma piut « tosto per
servizio dello spirito ». Ca V.ALLA SCAPESTRATA senza ritegno, – «
Ruzzando..... troppo alla sca « pestrata..... ». Bocc.a Correndo alla
scapestrata e senza ordine niuno, cadono nell' ag a guato ». M. V. – Simili,
all'impensata; all'improvviso; alla spensie rata; alla sciammanata – « Mi
diletta oltre Imodo quel vostro scrivere a alla sciammanata cioè scomposto, se
llcito, o, Caro; a fanfara – “ . . . . . non usavano i vecchi nostri far le
cose a fanfara ». Allegri; alla carlona; alla rinfusa; alla sbracata; alla
cieca; a mosca cieca; a chius'occhi – . Negligolza dc lettori che passa lo il
vizio, a chius'occni» V ill. ecc. ecc. ALL' AVVENANTE (a proporzione, a
ragguaglio ... dispensavanº loro a oltrate all'avvenante ». DaV. a .... e fece
fare... le monete dell'argento all'avvenante ». G. V. ALLA MEN TRISTA (a
farla bucina) – . Passato il quarto di, Lorenzo, se a condo il consertato, non
ritornò; talcli è già altri il farºvano molti, « altri, alla men trista,
prigione ». Bart.« Stava in gran dubbio di sè, certamente credendo che il re, alla
men « trista, il disgrazierebbe ». I3art. ALLA CIIINA – « ... i piaceri
sono monti di ghiaccio, dove i giovani cor. « rOIlU alla china ». I)a V.
ALI,A BRUNA – « Uscire di casa, ritornare, il sene alla bruna , i di notte «
tempo ).PA RTE TERZA Verbi e alcune altre voci generalmente note, ma dal
cui retto uso all'elocuzione garbo ne deriva e vigoria (APITOLO I.
Verloi di particolare osserva , Aio1 ne non quanto all'ordine
dell'azione, che se ne è parlato alla Parte ll º Cap. 2º, ma quanto alla varia
maniera di usarne, così cioè da risultarne ora un senso e ora un'altro, e
quando una frase più che altra concellosa eſlicare e chiara, e quando Ina forma
di dire piacevolis ima. In assello di espressioni elegantissime, nulla comuni
ad altre lingue e al tutto con forini all'indole, all'original candore
dell'italico litigliaggio.Uno dei capi che formano il carattere di una lingua
è, senza dubbio, l'uso frequente e vario di certi verbi previleggiati, onde
quel tal linguaggio prende una piega, una forma che lo distingue da ogni altro,
reca un'im pronta decisa e sua, e rivela l'indole, la natura della nazione che
lo parla I; sli a entra al to do, io ſo, lo gri, i sel. I pul, lo li arr, lo li
hº to trill, lo shall ecc. ecc. degli inglesi: al bringen, Schlagen, selsºn,
lath rºm ziehen, reissen, allen, hallen e er . l i l des hi: al lati e doti
lºrº mºtivº quel gal dler, falloir, aller, ceni, e crc. d . I rili esi.Niuno
per fermo potrà mai farsi a credere di saperlo l'inglese, il tedesco, il
francese se non conosce appieno l'uso molteplice di cotali verbi. Ma e dovrà
poi dirsi che noi italiani conosciamo l'italiano, lo par liano, lo scriviamo,
quando molti usi e vaghissimi di alcuni verbi sºli º gli scrittori nostri del
trecento e cinquecento e loro valenti imitatori, o ci sono al tutto ignoti, o
non vi badiamo gran fallo, fuggono al sensº º quel ch'è peggio, non pigliano al
rina ſatiri di apprenderli ?Mentre nel Prontuario trovarsi in diversi luoghi.
“ioè quando sºlº una parola e quando sotto un'altra, l'uso e il significato
altresì diversodi ognuno il ſitº si re bi, in questo Capitolo sono invece
raccolti in pro prio, ci si il li del is fli e, iro, i molti sensi e gli usi
inoll piici di questi si illli i crli. \' scopo poi il liv sarne in qualche non
lo la I al ria, i , li i di li 'il ſole e portata loro, due orditi
(listi, ci :V ci li pi li, si incli di più ampia sv al l: VitaliiD. llli i
cºrti non si li prºnti, il che anche di questi, cioè dei 'oro Ilso l g.gior
grazia e vigoria. Il dis( ºr sor. - S 1 º Verbi più notevoli,
ciò è a dire rigogliosi e fecondi di più ampia e svariata vitalità, e sono:
andat e, dare, fare, prendere, levare, met tere, recare, portare. it jutlatre,
sentire, stare, tornare, venire. Arm ci are Noli II l via di etill
irli qll il I agioli alimenti e andarmene in discus si ti sul come e ind , che
a fil e ass. I li II e i di ºrgan, a il più delle volte a lin, ia, gialli rina
approda e laio a anche trilore; imperocchè allo si ling r . a p. l si la fatica
con (edio e danno di chi legge e li in pro º cli il lr Iriesi e gli anni in
istu diare, raccogliere, e vergar car lei e per passi di quanto scrisserº
grammatici e il logi rh , e li arreco subito alcuni sempi colti li i migliori
libri di Ilarsi i lingua, dai quali potrai di leg gieri a ndere l'uso vario e
vagilissimi del vei bo andare: e metto anche pegno che pur leggendoli nel
tendovi un po' di studio, saprai senza scandagliarne altrimenti le rip. ste
ragioni il logiche, convenevolmente imitarli e rifarne, occorrerlo, d
aitrella!. ... e son cerlissimo che cosi a cre' l e blu conto coi dile,
dove così andasse la bisogna come a risale: ma lla andrà all imenti . Boce.
(410). Manda vanglisi di Ilona e d'Italia gli aguzzamenti dell'appelile; le
poste correrano dall'uno all'altro mare: se n'andavano in banchetti i grandi
delle città: rovinavansi esse cillà.... . Dav. ll .(neste cose belle dicerano
in pubblico: ma in sè discorrera ciascuno: questa colonia in piano potersi
pigliare con assalti e di molte col medesim , a dire e più licenza di rubare: aspettando
il giorno se n'andrieno in ae cordi e lagrime: un poco di gloria rana e pietà
pagherieno lor fatiche º sangite ». Da V.“ . Somiglianº si può dire anche il
genio e la natura degli abitatori I tillo va in delizie e in piaceri di musiche
e di odori e di n. 13al l “ Lo ingegno di Verone degli anni teneri se n'andò in
di pignºre, in tagliare, cantare, cavalcare ». Dav. “ .... lullo il
dormire di questo molte m'è andato in un sognar continua di nomi, cerbi crc. ).
( es. “ ... e per non andare in troppe parole ... Se in. Che fama
andrebbe al lui mi i secoli di ieri e I;a, 2 ... ºbbºlo per rili poi ci li ti
resi nel l' u tutti e ne andò gran timore per lullo, il regno . I al I. I tempi
vanno u mi irli , N ſi i St ! ! 1. l’ulla la città di isti i patiti ne andava a
rumore I3. I 413 , ... la gen I e andò a fil di spada q io ti l ne volle l'ira
e il giorno ... l ralosi il pool ogni cosa andava a ruba . (0 utndo questa
cili, la l 'dei lgo in presa, andatoci a ruba ogni CoSa ... . . . . . . . .ln
questi mutnici e si li sº quel luogo il quale andò a ruba ed a Sa CC0 . I .Ma º
non crei propri iani e il liri i titoli I e il I il enci si che face rain , i
monaci qualche li ha o di quelli in blio che, le quali miseramente anda vano a
ruba T, il lil. º mi ios li si i 'le, che li ci mi i ssis si incli il non
irresi ſtiamº mai andando me la vita?In queste cose l'isogna andar cauto; ma lo
si e va il capo cantis sino.... \ :. A chi con in el l e così i ti
e mi isl 1 il ris va la vita pºi giustizia i a ... e giudicò che e' lusse
al pi p si andassene G che volesse dire che egli ci ſi presto al gni suo placer
. Fi, l'. ... vi andasse anche la vita, io sono e sarò si mpre al l ostro
pit ( e re ... Ci s a I', il lil, i cl e ne andrebbe dell'onor stuo ... .
. . ( : l', n. a E se n'andasse il collo, sempre il rero son per dir li
Sacchi. () ual delle due ri pa; lunque più con i nerole: che ne vada
l'onor vostre, orrei o che ne vada l'onor divino? Si, si. r ho inteso : ne vada
pur , (lile. ne ratula l'onor divino. pl i cli, sull' isl il nostro .
Segli a Sim il cosa diceran quel di Tci n. eh il pm a rosso le ren d'Ital
e andrebbe a male se la V era si spirl issa'.... . I ... ma in vano
andaremo i pri, gli i? . « Lo stral rolò: con lo sl rale un volo Subito mi
sci. che vada il colpo a vôto o l'iissi).Allora domanda consiglio di tua
salute quando vedi le cose del mondo andarti molto prospere, e fa ragione che
tu se' alto allora a sdruc. ciolare ». Mar lili. V es . º I) il nulla º
quando Ma io ride che li detti lei Sacerdole andavano a quel medesimo ch'egli
intendea... Sal Isl. Ortando la cosa fosse andata per lo contrario....
... Fier. (416). “ ( r se li tºsle i tgton son in mileste. Se le tocchi
con mano, s' elle ti vanno, con chi intoli.... . I 3el ll . i na circºla
dirà: quell'uomo mi gol in una fanciulla saggia: quel l'uomo mi andrebbe. Son
molte le cose che la bano al gusto e che non vanno (tl e il roll le re . l'orn
Ill. () irando tlcuno o non intende, o non ruol intende e alcuna ragio ne
chi della gli Nict. Nuole dire : ella non mi va, non mi entra, non mi ralsa,
non mi rape, non mi quadra, e il re parole così lalle o. Varchi. ...
l'ira e li cruccio, il 'nendo, andava disposto di lui li rituperosa mente
morire 13 cc. (418).... ma non che la nl o di rivenisse di loro, che anzi non
ne andarono pur leggermente offesi ... I3arl. « Quanto all i più sa della
lingua ben app s. nelle sue radici, lanto più va ritenuto in condannare ».
Bart.... e da principio va ritenuto lipoi comincia a poco a poco ad arricinarsi
alle pristino compagni. Si gri i 19« .... se prorar lo potesse, andrebbe
asciolta ». Ariosto. a Le trecce d'or, che dorruen fare il sole. D'invidia
molta ir pieno , IE A1 at li fre'don ne va poco contento IPull . Mi l' .«
Perchè lal, che qui grande ha sugli Argiri Tutti possanza, e a cui l' (cheo
s'inchina, N'andrà, per mio pensar, molto sdegnoso ». Monli. « ... nè però fu
tale La pena, ch'al delitto andasse eguale ». Ariosto, « Si potrebbe indovinare
che noi andassimo facendo e forse farlo essi all res) n. 130cc.« Concediamo che
spendiale in Noren li con rili, in allegrie e, quel che anco conceduto non
andrebbe in men che onesti amori o Menz. pros. () uesto ſarà il mestier come va
fatto . Mtilln).a Le ragioni contrarie, a roler che sieno bene e pienamente
rifiutate. vanno con chiarezza e con fedeltà esposte . Salv.e dunque non va
segnato mai in principio d'alcuna parola quesi 3 segno . Salv. a ...
acciocchè resti si potesse e forni di cavalcatura cd andare orrevole . I 3 o .
( 20 . ... o Nseri utili al loro i I3oluzi: con unº º l'andarsene rasi
barba e ca pegli ». Bari « Von area cominciato nella religione ad andar
dispetto e vilmente ». vestire alla buona, cienciosanielle . Fior. Ces.« ...
perocchè il rigore toglie la con lidenza: e dove questa lor manchi andranno con
voi copertamente, che appunto è quello di che il demonio si varrà m.
Bart. Con lor più lunga via con rien ch'io vada . Petr. (421 . « ... io
vi porterò gran parte della ria, che ad andare abbiamo, a carallo . Bocr'.a ...
ma la bestia voleva pur andare a suo cammino . Continuare, proseguire. Fier.«
... e dove..... da niuna parte il loro cammino a sè vietato sentono ii fiumi,
riposa la mente le lor umide bellezze menando seco, pura º cheta se ne
vanno la lor via . I 3 : Illo. ... Lu (lor lco se n'andò al suo viaggio ... l'
1 r. ... Ma lasciandoli gridare balassi a ir pel fatto tuo v. Fior. 122,. ...
ed ella colal salratichella, facendo rista di non avvedersene, andava pur
oltre in contegno ». Bocc. « ... un vento sempre intavolato per poppa e
così fresco che anda vano a più di cento miglia al giorno . Bart. a Siale
in procinto di rela, che non andrà a due anni che di costà chiamerò molli uli
roi n. 13arl. (23 . - -« Tulli i cristiani di quel poi lo iurono intorno al l'.
Cosimo, a pre garlo con lagrime che non frammettesse troppo a campar la vita,
chè il perderla andava a momenti ... Ilari.a ... Ma poco tempo andrà che l'uoi
ricini Faranno sì che lu potrai c'hiosarlo ... T)il rile.« ... e costoro si
levarono tutti smar il talendo questa parola: poco andò che noi reulen mo....».
(.av.« Essendo già la metà della notte andata, non s'era ancor potuto
Telmullalo adultorm en la re . I30cc .« Ouesla notte che è andata, si sognai
ciò che l'è apparito ». Stor. S. Ells [ach. « () uei area poco andare ad esser
morto . Pelr. Si notino Jin (il men le le ini (iniere : son..... anni e
va per...... : « Io la persi, son quattro anni finiti e va per cinque,
quant'è da settembre in qua n. 13occ. a Signor mio, son questi 1)ebili
premi a chi l'ado di e cole? Che sola senza te già un anno resti, E e va per
l'altro, e ancor non te ne duole? ». Ariosto. Vada questo per
quello: « ... e non credo errare ad aggiugne di mio oi namenti e forze
a'concetti di Cornelio alcune colte vada per quando io lo peggioro ». Dav. Andar
del pari con... : 42.1 ..- - - - - ma i fatti non andaron del pari con le
promesse o. Bocc. - Bart. Ncn andavano in lui del pari la gagliarda del corpo e
la genero sità dello spirito . I3art. - Basti Germanico privilegiare che in
consiglio dal senato, non un con le da giudice si conosca della sua morte, del
resto vada del pari I)aV. Andare a chi più..... « .... perciò dove il fatto
andava a chi più può in forze e in armi, i cristiani di quelle spiagge quasi
sempre i rstarano al di sotto . Bart. I t 425 . Note al verbo
Andare 41() Similmente di resi con le vanno l la cellule? N lì so come
vada questa cosa. Come va la sanita? Gli affari non vanno bene, 4 1 1 - -
Nota la frase andarsene in chechessia, e io è a dire: distrug gersi dietro a
cherchessia, perdersi, ma -sare il tempo, non far altro che.... i 12) -
L'andare di qui sto e del seguenti i senipi e al ufficio pressa poco di
essere, correre, trovarsi, mettere, soggiacere e Ma è chiaro che -arebbe guasta
la frase, non le andarne d l grato, a voler mettere un di questi verbi al luogo
di andare.i 13) – Maniera bellissima. Simile le seguenti: andare a ferro, a
fuoco, a sacco, a ruba; andare a fil di spada, e vale essere in preda,
abbandonato a... ecc. Frasi, del rost, che a tradurle in altre lingue
converrebbe dire: uccidere, consumare incendiando, rubando ecc. o che altro di
somigliante, – « L' andare a ruba, osserva il Tommaseo, affermasi di tutte o
quasi tutte « le cose in un luogo co; tenute, quando l'essere rubato può
riferirsi ad a una o poche ( se tra moltissime ». Mi par di poter asserire con
sicu rezza che ne anche il tedesco idi Ima si apprestarci un modo simile a
questo andare a...., o altra frase che torni se ttosopra il medesimo. 11) –
L'andare chechessia di questo e del seguenti esempi significa: trattarsi di
....; essere in pericolo, esposto a perdere; avvenire, seguire che chessia ecc.
Leggili, intendili, che è maniera vaghissima e nostra. (415) - Ognuno vede che
l'andare di questi esempi andare a male, andare a vuoto, andare in vano, andar
bene, andare a chechessia, andare per lo contrario )val quanto: riuscire,
battere, cogliere, tornare e simili. 416 – Significa: non riuscire, riuscire
altrimenti che il concetto avviso, riuscire nel contrario. Bocc.417 – E' il
Zusagen, anstehen affarsi dei tedeschi. Simile a questo andare è l'entrare dei
modi: mi entra. ci entro; questo non mi entrerà mai, ecc. e significa, l'uno e
l'altro: capacitare, appagare, sodisfare. 418 – Andare, coniugato con
certi partecipi pass. Ovvero con certi ag gettivi, piglia talvolta il valore
del verbo essere, conservando però seni pre l'idea di una cotale progressione e
continuazione nella cosa di che Si tratta, (andar disposto di...; aridar ornato
di...; andarne offeso, andar ne contento; andar metto da una colpa ecc.) e
tal'altra fa l'ufficio del ge rundio passivo de' latini, e vale: dover essere,
voler essere, doversi ecc. (Gheraldini); - - Quel tal delitto va punito;
quell'atto caritatevole va pre miato e Cc 419 – Nota la questa
frase andar ritenuto, guarda i si da. . , proceder con riserbo ecc.120 – Anche
l'andare di questi esempi, accompagnato da altra voce agg. partic. o
avverb.) che ne indica il modo, e ad ufficio del verbo essere, o meglio di
contenersi, di portarsi, governarsi, procedere e va dicendo.421 – Pon mente
costruzione o maniera di connettersi delle par le che si attengono a cotesto
andare (andare una via, andare a suo cammi mo, andare oltre, andare a tante
miglia ecc.) Il quale la senso di percor rere, proseguire, seguitare, il suo
viaggio e simili,422 – I nbekil Inl Inert seilles VV egs gehell SI Inile a
Illmina l'e al V lag gio suo: « Ma poichè i regni e gli stati camminano sempre
al viaggio loro a e dove prima furono diritti indirizzati, non fla Inal li or
an . Il a passo ». Giamb.423 – Andare, parlandosi di tempo, indica lo scorrere,
il trapassare del tempo, e la durata del tempo impiegato in checchessia. Nota
costruzione andare a ..... – Ricordo qui il modo avverbiale, affine a questa
forma di dire, a lungo, a poco andare ecc. v. lProntuario, Tempo - avv.) Un altro
lISO molº. In alto dissimile, di llll a ndare, cioè, il sºlliso di passare
ecc., è quello della nota frase: « ma lasciamo ora andare questo: « quando e
dove potrem noi essere insieme ?» Doce.424 – Questa maniera è simile all'altra
già addotta: andar eguale, andar vilmente, copertamente ecc. ma è forma di un
assetto singolare e va però notata a parte.425 – Chi non ha le belle ma Iliere
italialle Ilon uscirebbe dalla forma comune: trattasi di ..... a perciò dove
non trattavasi che di chi prevaleva in forze....... NoDare Il suo valore,
dirò così, naturale e comune all'equivalente di altre lin gue (dare - latino,
geben, to give, donner ecc.) è quello di trasferire una cosa da sè in all'ul,
consegnarla, renderla e simili. Ma poni mente va ghissimi altri usi ed
efficacissimi di un colal verbo, assai diversi dall'or dinario di altre lingue,
inoll plici e ſanti che appena se ne potrebbe rac C () l'l'( il mul) el'
. Gli esempi che allego contengono quei costi utli e quelle maniere, ch .
mi parvero meno note oggidì ti volgari, cioè, e a poco sperti), ma opportu
nissimi e ancora a sapersi, chi vuole impararla daddovvero la lingua ita liana
e usarne l'el talmente Metto prima alcuni esempi di un dare quasi
assoluto, cioè adoperato. per elissi od altro, senza l'oggellº e il mal i ra di
assoluto cec. Poi altri i un delel'inilla lo costrullo, egliali di lornia, non
di significato i dare im, mel: dare del: dare per mezzo a ecc. Seguono undi
alcune maniere di un dare ti forma transitiva, e inallelle all i nodi o Irasi antiche
e dell'uso. Il sole e alto e dà per lo Inugnone entro, ed ha tutte le
pietre ra st it ltte- o lºo . . .37. " . . . . . . Sono posti i
primi, quando lo veggano li ella vernata già secco, a levar la scure e dargli
alla cieca tra capo e collo, tra tronco e rami ». Segn. “ . . . . . . e
ancora raddoppia V. Il dolore e il piant e davasi nel petto e diceva: or II
lisera.... ». (a V. a l)icoti, Signore, ch'io loll lo virt tl da clò, e
tll il sai. E davasi nel petto e piangeva sì forte che pareva che il cuore
se le spezzasse in corpo , ( :) V.“ . . . . . e gittato il cappuccio per le ra
e dandogli tuttavia forte.... ». Boce. « Un muletto di Libia avendo
scorto nel fiume l'imagine del suo corpo e meravigliato di sua grandezza e
bellezza, dati i crini al vento volle cor rore come il cavallo ».
Adriani. “ . . . . . ( con questa tenzone il porco, uscito lorº tra le
brache, corre per ulo androne e l'altro porco dietroli, e dànno su per una
scala.... Torello levatosi e 'l figliuolo dicono: o imiè! Inale in lobiamo
fatto. Dànno su per la scala dietro ai porci, là dove il sangue per tutto
zampillava. Giunti in sala, caccia di quà, caccia di là, e quello ferito dà in
una scanceria (scº sinº tra bicchieri ed orciuoli per forma e per modo che
pochi ve ne rimasero Salvi ». Sacc. (438). a Su, andiamo, diss'ella, ma
sei mi dà nelle unghie lo concerò io come ei merita ». I):) V. « Non
prima l'innocente colomba uscì fuori del mido, che diede fra le ugne di un
rapace sparviero ». Segn. e Poichè si diede nel sangue e che "a
nominanza era rovina, si attese a cose più sagge ». Dav.a Lorenzo de' Medici a
uno che voleva dar nel sangue, ricordò che gli agiamenti a Filenze si vuota: no
di notte ». Da V.La prima e ben grailde II al I vigº.ia che dava loro negli
occhi si era Che uomini di quel conto.... ». Bart.« .... raccogliere alla
rintlls i ciò che dà alle mani ». Macchiav. E come e vedeva i nemici in posa,
nuovamente ridava all'ar. Ino ». Bart.« Il colore del tuo abit dà che si
fornaio ». Cav. 'Inostra, appalesa – verriith).Diamo che a casa vostra nulla
deloba arrecare di pregiudizio l'iniIni cizia divina. Diamo che col malvagi
conquistamenti voi la dobbiate eter 11are. Diamo i le le lobbiate a l escere
credito, aggiuli:go le autorità, a qlli stare a dereilza: vi pal' però che vi
torlli ( olllo di farlo? ». Segll. Coil ed la II 10, assentianro) t439 .« Per
la qual cosa la confida:izi dentro le dava pe: lo fermi o li e la pure si
convertirebbe . Cav. i 10« Non mi dà il cuore di venire il cilielli o con sl
potlºrosi nellli i n. Segn. 441 .E vi dà il cuore di lasciarveli sta, e nel
Purgatoriº piu lungamente?» egn « La mia coscienza non mi dà di piacere a Dio
». I3ari. S IVARE IN NEI.: a Essere venuti quatti quattº pe; tl a
getto di mare per noi dare in chi gli pettoreggi. cacci e prema... . I)av.
gerathen).Il sali o, facendo intramesse al ra . colito, dava in affettuose
preglio re ». Bart. prorompeva .a Ma su, fingiamo che abbiate tiato in amici di
lor natura piu libera li.... ». Sogindovrà egli dura una gr ali fatica per
mandarla a live) o a r Inter e in uno scoglio, o ad arenar lolle secche, o a
dare nei corsari ». Da V. « Allora Sonzio fece dar ma corni, nelle trombe:
piantare scale, salire al bastione.... ». Giali) b.“ . . . . . i quali, quanto
prima videro i nostri, diedero tutto insieme in corna e tamburi e grida disso!
la ntissimi e all'usanza dei barbari ». B: rt. a l'erò qualvolta voi scorgerete
alcune persone che volentieri in luo gli tali convengono a trastullarsi, dite
pur senza rischio di dare in temerità, dite che ...... ». Segm.« Allora il
Bonzo, dato in un rider sboccato, volse le spalle ai Padri C..... ». Barf.
(442). T).AIRE I)I l NA (()SA IN, PER..... : a ... e, dato dei remi in
acqua, si rili se' , al ritornare ». BO . a ... comandò che de' remi dessero in
acqua ed andasser via ». lRocc. a Se...., io gli darei tale talmente) di questo
ciotto nelle calcagna, che cgli si ricorderebbe forse un mese di questa
beffa, e il dir le parole e l'aprirsi e 'l dar del ciotto nel calcagno a
Calandrino fu tutt'uno ». Bocc.“ . . . . . e inginocchiavansegli dinanzi e
dicevanº: Ave rex Judeorum, pro fetizza chi li percuote; e davangli delle canne
in sul capo, tanto clie le Spille gli si ficcari no insino al cervello ».
Cav. « ... le dicevano l'altro suore: e verrà a 1 e Eufragia e daratti
del ba stone. E in Illantille lite che la ll dl va ricordare Eufragia, cessava
il dia Volo (li tol'Illentarla a. (.a V. “ . . . . . poscia a se ne
disino die di un coltello per niezzo il ventre e.... ». l)a V. « Cielò ll
llll Inedesimo per timore e avvampo per rabbia, e dato barba ramente di un'asta
per mezzo il petto a quell'infelice lo squartò ». Bari. « .... Si chè,
(Itlillido venne l origine e diede della lancia per lo costato e si a perse il
cuore del corpo di Cl isto, il s a ligu, li us i fuori tutto ». Cav. « ... vi
possono dar su di spugna liberamente i pittori sopra un qua dro, ». Segn.
A 13. |) \ IR PEIR A | EZZO) (l, li... (alla e mi l un ct, ct mi scot
ciertt . - - - - - ond'è conseguentemente il dare che la lino per mezzo a tutte
le l"il bill leriº ». Bari. « .... le altre filsto dessero per mezzo
delle nellll ll , il V Ve!ltandº i fuoclli e ſerell (lo (l'ast:) o (li Ill (
Selletta ». l 3ii l'1.“ . . . . . Inl egli la diede per mezzo alla si apestrata
e senza ragione ». I):av. • I) AIR V ( )I, I'E: a Tu dai tali volte per
lo letto, che .... » lº i c dimen trsi . a Messa la chiave nella toppa, dandovi
da quattro a cinque volte, l'aper se e....» (i Ozzi I ) \ E SI () I RIPI
E I) \ N NI IN... e simili Dava ilì ogni cosa storpi e danni al lilli li I); v.
« Solo coſa li scioperati che noi: sanno la l' altro e le illeli:ì 'e la font
ini, e e dare storpi e danni nella fama altrui. » Ces. l .Alt E I E
SPALLE collar le spalle o I)all'aiuto di l)io e dal vostro, gentilissime don
me, nel cluale io sperº. armato, e di buona pazienza, con esso pro ederò
avanti, dando le spalle a questo vento (della mormoraziolie e lasciandol
soffiare » Roce. I) \ IRE STIR A MAZZATE : e .... i quali cavalli in quel
terren il sangue loro e di loto molliccio. davano stramazzate e sprangavan
calci. , Dav. DARE PIRES\ a, di... (dal pretesto, motivo: dare appicco -
reranlassen, « Vero e che queste osservazioni .... daranno presa al lettore
svagato e malevolo d'affibbiarmi un altro bottone che però non mi farà troppo
noia avell (lo l'occhiello. » (iiub,DARE CARICA AD UNO DI Q. C. : «.....lo
Volle seco...., lo colmo di onori e linalmente gli die carica di VI i eri. »
Balt. DAI BRIGA (sich michts aus Eturas muchen): « Ne anco Imi dà molta
briga se, per compiacere a un amico, ho dato da dire u molti curiosi. »
Caro. I)AR NOIA A... Ed accordatisi insieme d'aver per giudice Piero
Fiorentino, in casa cui lano, ed andatiseme a lui e tutti gli altri
appresso per vedere perdere lo Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli
raccontarono. » Boce. DARE GRAN VISTA) (sich schòn, gul ausnehmen -- onde
vistoso): « Tutto va in delizie, in piaceri di musiche e d'odori, di portar la
Vita con grazia, di vestire abiti che dànno gran vista. » Part.
appariscenti, I) ARSI IN (ERIE(.(XIIESSIA, A ( III ( CHIESSI A
(applicarsi, abbandonarsi t...): e Calalndrilio, Veggendo che....
si diede in sul bere. » Boce. . si diede allo studio e della filosofia e della
teologia. » Bocc. I ).AIRE NEL MIC), NEI TU ( ) In mein Fach einschlagen
–- in casa mia, nella mia bev (t :a Voi date proprio nel mio : l entrare in
discussione intorno a questo [ . lll tr. » ( es. - I 3:ì l'1. l3 . I )
\RI ( III: IRII) I 13 E (da e male riut dal ridere : e Diè tanto che ridere a
tutta la compagnia, che illlllo v'era a cui non di lessero le lnascelle. » Boi
('. I) AIVE I MOLTO BENE I) A MANGIARE ecc. a A te sta ora darmi ben da
mangiare, ed io darò a te ben da bere. » Bocc. a Dar molto ben da far
colazione. » Fiel'. I ) \ IX I ) I CC) LIP( ). I ) I CC)ZZ( ) (in...
('('('. : - - Si scagliano di anci , il verso lui e Vanillo a dar di colpo
sopra i di rupi del fondo, dove s'infrangono. » Bart. “ . . . . . e V: Illasi a
dar di cozzo in una ville. n Bart. I).AIRE | ) I SIP.VI.I.A : º Adoperò
la sua Madre, che già conosceva assai disposta, a dargli di spalla n. a S.
Luigi per indurre il Padre a...). Ces. I) A IRE I)I SCI() (CC). I )l.I.I l
IRIETICC) ecc. l) Al l I)I IR E, l)| ( ( )NT E e il lilolo) di “ . . . .
. Se mi avesse l'o (ld lIo so clic m'avrebber dato di sciocco il vulu l'e che
l'oratore sia di necessità legista e filosofo ». I)av.benche gli tolgon ) ogni
appiglio di darmi dell'eretico e del miscre dellte. » Giul).Non vi do di
signorie, per le, quando scrivo a certi uomini che sono uomini daddovero,
soglio sempre parlare piu voleliti ri a essi medesimi che a certe loro terze
persone in astratto. » Caro.« Augusto si trovò questo vocabolo di sovranita per
non darsi di re, nè di dittatore. e pur III ostrarsi con qualche nome il
maggiore. » Da V. I ) AIRE AI)l)| | | | | ( ) ( ilira si, in limorirsi,
sbigollirsi Sich u b Schrecken a Vinti dal timor della morte, davano addietro e
rinnegavano ». Bart. I) AIA NE' IRI LI , l vale sulla e', i lazzare, r.
Scherza) e, saltare, Prontuario): « Ora è ben tempo, soz I, I)a stare
allegramente, E dar ne' rulli e saltare e cantare l'er questo rovinevolo
accidente. Buon. l'ier DARE VDOSSO VI I NO, VI) ( N V Cosv (investirlo
con parole e con jalli - angrºijen, sich re g 1 e il n. 444 ) : con le fa
un ser it , che, vedendo l' - le sue l e al cosi il gulal dia. Colì a ver le
bagaglie abbandonate, non quello investe ma dà adosso a quelle e fallì ( Sllo
bolt Ill ( n. l)il V. I ) \ IR E AI ) ( SSC) \ I ) ( N I \ V ( ) IR )
significa : alle mele ri con assiduità). I ) \ I RI SI | .I.A V ( ) ( l V
| ) \ I,( il N ( ) : Diasi pur sulla voce al presuntuoso che sale - ha o ha i
ed io di... » IDa V. « Io conosco un auto e a cui per questo peccato si diede
più volte sulla voce e, sventurata nel. e, n loro profilo. » (iiill).IIa i
sentito come mi ha dato sulla voce, con le so avessi detto qualche sproposito?
Io non ne n solo la tio caso punto ». Mlanz. – E' Vgnese l r r l le
ricorda a Lucia (lulei ripiglio sgarbato della signora i 15) I) AIRE A
VISI) EIR l, l) \ I l A ( IRI,I ) Il RI : « ....e dato a vedere al padre una
domenica dopo mangiare, che andar voleva alla perdonanza.... » Bocc. «
Fra Alberto dà a vedere ad una donna che l'agnolo Gabriello è di lei
Innamorato ». Bocc. Conf Far vista, far sembiante, far veduto - sotto fare).
1)ARLA TRA CAPO E COLLO (sentenziare di chicchessia o checchessia senza pietà,
senza alcun riguardo, con poco senno ecc.) – l)Ali DI MANO, DAR DI PIGLIO
: « ... die di mano al coltello e sì l'uccise ». Pass. “ Noi per
questo, dato di mano alla rivestita ampolla, col marchio.... ce
l'andammo.... ». Alleg. « Lo duca mio allor mi die di piglio, E con
parole e con mani e con enni, Riverenti mi fà le gambe e il ciglio ».
Dante. « ... i più severi centurioni dànno di piglio all'armi, montano a
cavallo... » IDaV. « Draghignozzo anch'ei volle dar di piglio ».
I)ante. DARE I TRATTI (essere allo stremo della vita: « .... braino che
ella, che nelle sue mani dava i tratti e boccheggiava, nelle mie basisse,
spirasse e intrafatto perisse ». Dav. « ... e incominciò ad entrare nel passo
della morte e dare i tratti ». Cav. 446). Note al verbo Dare 437 – ll
dare di questi primi esempi torna sottosopra ai verbi: bat lere,
percuotere, arrivare, colpire, cogliere ecc. Prova, recalo in altre lingue, p.
es. in tedesco, e non lo potrai far meglio che usando le voci proprie:
schlagen, elnschlagen, klopfen, gera then ecc. ecc. 438 – Dànno su per
una scala è lo stesso che: fuggono, si diſilano. Dare o darla è spesso verbo di
moto, nota il Fornacciari, e ac cenna per lo più a un moto violento e quasi di
urto. 439 – In questo caso anche il tedesco adopera il suo geben (zu
geben); anzi è la forma di dire ordinaria questo: vir geben zu, per:
concediamo, accordiamo ecc. 440) – E' appunto l'einreden ed anche l'eingeben
dei tedeschi. 441) – Simile anche il modo: dar l'animo (Conf animo, Parte III).
442) – Aggiungi le maniere consimili: dare in vacillamenti, in ver
tigini, in frenesie (Segn.); lare in escandescenze; dar nelle gi relle, nei
rulli; dar nel ge mio ecc.443 – Anche il modo: dar di morso a.... va annoverato
qui: « E lu darai di morso al calcagno di lei io. Ces. (Et tu insidia
beris...). 444 – « Dare adosso ad alcuno, figuratamente, vale anche
nuocergli COi detti, co Cattivi il flizi ... (il) el'ardini. – Simile al detto:
l'agliar le legne addosso ad uno. – « Tal ti loda in presenza che lontano
Di darti addosso bene spesso gode o. Leopardi. – Nota altri modi con questa
voce addosso: andare addosso a mimici - I bav : l are un processo addosso ad
alcuno (Bart. - DaV.) ecc. 445 – I)are sulla voce è un riprendere,
biasimare, censurare, chia rnando all'ordine per vie indirette, per certi
segni, avvisi, ml Ila/CCe GCC. 446) – Dicesi anche: fare i tratti, e pare
che significhi, anche questo, dare i tralli; cioè agonizzare: ... e la Madre e
tutte le altre stettero chete, in silenzio, mentre Gesù faceva i tratti e pas (
sava di questa vita o º av Fare Lascio le dissertazioni intorno a
questo verbo, e mi faccio subito agli esempi, non trascritti dalla Crusca e
d'altri Vocabolari, come fanno ecelli compilatori di grammatiche e dizionari
dei quali tutti, quando presi a lavorare questo libro, io non avea nozione
alcuna –, ma colti, al solito, nei migliori autori, lilli da me diligentemente
cerchi e stu diosamente analizzali e sviscerali. A maggior chiarezza di
idee e ad agevolarne alche meglio lo studio. distinguerello sei ordini
liere di lare: la - che sta per quali il tre altro verbo dianzi menzionato. IIº
- aggiunto ad un indefinito sì come vezzo od ornamento di frase (il pianger che
faceva, che vede a fare ecc .IIIa - a valore di esse e o così che potrebbe
stare anche essere (esser ll lile, esser buono eI Va - ad uso di varia
significazione, cioè in luogo e forza di uno dei verbi: giudicare, ripulare,
ottenere, conseguire, importare, fare in modo, passare, renire (parlandosi di
piante).Va - pronominale farsi) e col significato di inoltrarsi, sporgersi, af
facciarsi e simili.VIº - finalmente, ad usi diversi e come parte di questa e
quella frase, cioè a connubio di altre voci e di un significato inseparabile
dal medesimo. (449). --- -- I. « ..... onde ella amava piu te e
l'amore tuo, ch'ella non faceva sè me desitna. » CaV. (450)« l?el lo
co.municare ille,iorire s'avventava ai suoi, loll all l'illelit I che fac cia
il fut.co alle cose urtte. » l3o .- - - - - che io ho trovato dolllla (la III
lto più che tu non se, che li leglio m'ha conosciuto che tu non facesti. »
130cc.« Il cuore non altrimenti che faccia la neve al sole, in acqua si
risolves se.... ». Bocc. « .... le dice che se ne guardi; eila noi fa e
avvienle. » I3 a « Quantunque quivi così muoiono i lavoratori come qui fanno i
cittad. ( Figliuolo, Messer (ieri non ti manda a me. Il che
raffermando piu volte il falinigliare, nè potendo altra risposta a Vele, 1o 11
, in (ieri e sl gli li dis se: – Tornavi e digli che si fo ci re: che ti
mando . – Il lamigliare, torna a to, disse: –Cisti, per certo Messer (ieri mi
manda pure a te. Al quale Ci - sti rispose: – Per certo, figliuol, non fa ci e,
non mi ti manda, o Bocc. « I)i spettacoli e d'ogni maniera divagamenti
non potea pur patir di sen tirsene dir parola e partivane coli quel disprezzo
che altri fa delle cose Sozze e della Dl'll tll ra. » ( es. a .... e
percio' che amore merita più tºsto diletto che afflizione a lungº andare,
con molto maggior piacere, della presente materia parlando, obbe dirò la Reina,
che della precedente non feci il IRe. » Bocc.a non meno la grazia ( i a Inor
del Soldano acquistò i l suo bene adope rare, che quella del (..italano avesse
fatto, i 13 .'I'll ci il celll quasi coine se noi non conoscessimo I l 3 a 1
con i collle fac ci tu. ) Bocc. a .... li quali per avventura voi non
conoscete come fa egli. » Bocc. Itil V Vedeti oggi Ill:li e torna ll II 1 ,
coiile tll escº l' - le Vi, e non fa l' far beffe di I e ti chi conosce i
filo di tllo come fo io. , B º a Tu diventerai molto migliore e piu
costumirato e piti da bent la che qui e non faresti. » Bocc. a ...
e nol credevano ancor fermamente, nè forse avrebbe fatto a pezza (indi i
lì0m molto), se ll : l caso a V Velllllo 11oIl 1 sse ch'e lor cllia l' elli
fosse stato l' ll cciso ». 130cc. e prega V: i lil. Inolf ( ll II, il III
trite ch'ella di V -- andare il lil 1 l 'a sua, com'ella prima faceva, e
molto piu..... m ( il V. a Quivi pensò di trovare altra maniera al suo
malvagio, ad perare, che a fatto non avea il: altra parte. » Bocc.
Ed ecco venire in camicia il Fontarrigo, i quale per torre i panni come a
fatto avea i dalmari, veniva..... l3o a ... non v'è oggina , chi ad un amicº,
terreno non creda pil di quello, che faccia a I)io. » Segn. a I)avano
vista di non tener più conto di lui, che si facessero degli al a tri. »
Balºt. Ces. « Ma veggiamo forse che Tebaldo meritò questi cose? certo non
fece: voi medesimi già confessato l'avete. l 3o . a Niuna cosa è al mondo
che a lui dispiaccia, colme fai tu. ) 13 r. 151 a .... ilſſuale non altrimenti
gli lol corpi cali di li nascondeva che fareb be una vermiglia rosa un
softil vetro o Bocc. « Come suol far bene spesso molti altri, non m'ingannava.
, Fier. 1t)Non potendo egli per le sue malattie intendere agii studi
quanto face vano gli a Irl, º d egi I l Istora Va Illesi e il 'dite coll .....
» (.es. a Dio tranquillasi assai piu ti sto che in li fan l'onde di
turbata peschie a ra al posar (l, vei iti. » Salv. a Amatemi coln, io fo
Vol. (io/ zi. ) ! e Cosi l i poppavano colti i madre avrebber fatto ».
lSocc. S'io mi conoscessi così di lieti e preziose, ci rime io fo
d'uomini, sarei blloli gioielliere. I ,il Vlati II. Ed era si gri il de
il percuotere che facevano il Sielli e le lololar, , che slavi, la V il 110 Il
loro o il il iie l relli.Nel fuggir ch'egli Assi i lill ta faceva lie, una
foltissi Irla sei vil, gii in cell le ll ' la g 1, l. 1 Isg, i Zl: 1. S -
li.l'el Issa i cori e se li 1 , l su tv li intendere e del guardare, ch'egli i'
leva ch'esso facesse le ,i di 1 min. 13 , .()n l'e ( olls gli ::. in l. ii dare
che fanno per mezzº a tutte le ribal (l, l' e.....! I3: il t.Qlle rigoglio dal
scperchiar che fanno le linesse de gli il ll ' ( ssell (lo 'll - I ll . (
..:Per esaminar che facesse egli in desino, ogni azion sua..., con quella
Sotlill-siIrla a ' ll ratezza º le farebbe ! l ... I l di pill roso e maie a
milm:a “ to........ !! ( sali 1,3; - Il III ore il plli ſi te
e il martellar che faceva il povero cuor di l.u cia.! Mla liz.pero che tro) po
lisa: il si logorava a disciplina del santo, la l'ecò il pit l i-erlo, si illo
e Irl) Il lt , il battersi che facevano con alcune a discipi ille, o il de ci
si ill si Vºle, tl a V a Ill quella dei santo.... Dari. a ... al Illale il
saporito bere che a Cisti vedea fare, sete avea generato ». I 3 mcc.« I)a
(Illel ol'l'el' che gli viddero fare il lla volta (ll ... I3:l rt. colll'elera
il d a loro, per venir me: io dissecar che questo faccia, non perciò se lº svil
I llia. . ll : :lzi... » 13 arb.I l piangere che lo l il re in teneriti fino
alle la grini e vedevamo fare al mostro fratello, ci reco ad altri pensieri, e
avremlino a condisceso, se non clie.. .... a I3: l l'1. Ne I llli loro a
spe, e ne vide i gli eletti, quando nel darsi che fecero per lo mezzo dei
barbari, mist ro tale sp: vento... ». Iºart. il l. Il liv fa l la teli per
atissima stagione di pri Il l: i ver, l . . I 3: l ... . . . ll vi fa
lin'. I l la derisi e greve º I ai t. )l re a ciò al spiaggia di Malacca fanno
venti freschissimi, o l'art. l'etiche, a ragione di tr Inn ti che vi fanno
spessi e gagliardi, esse « (case) non abbiano il mio volte sopra al chi. »
l?art.a Ben so che per te farebbe di lasciare il vincoli e li poso della carne
a e alrdarne a Cristo ». C: Vali. . io -il ebbe il lile).e Niente ha i sapor di
biada e perciò tu non ti fai a me, nè io mi foa te ». Fav. Esop.« Non fa per te
lo star tra gente allegra, Vedova sconsolata in veste negra ». Petr.Fanno pei
gran disegni e mutazi e Ilori e da la dare ove la posa piu ti rovina clie la
tern rità. » I)ava zMa perchè nell'acqua chiara ! ! - i lig lio la l et le ia V
gg li : la torbida fà per chi gli vilol piglia ' , III: ng ſare. l)avanz.
Noli può fare li Ill re : I l e - - al 1ori la lol ( III il tal11:1. Sºg
Il ..-e egli dice , N 1 il por io può fare ch'ei rion si p it , e
se n'esce ri le 'le, quell'avel tº Inlito gii accresce il dl! . » Da V. in
quanto piu' alie d ' Iº che agli uomini, l' I, olto parlare e ling o quando
senza esso si possa fare si disdl Bo 155 l Ia' tll a Irli in olii o li or
fan sedici anni, i l .. . ( l Slla V a 56 IV. a Suo cimitero di Illelia
part la lino ( 1 Epi :ll'o ti 111 i su: i seglia - e ci, (le l'anima col
corpo morta fanno. » l)a 1; e I epili i go, suppongo io, giII il 1 a 1 Ma
il popolo che vuol ci ala e il faceva chiari at ali adozio e, a I) avanz «
L'anſica III e Imoria fa il torri pi di icato dal... , I): v.a La tua loquela
ti fa mi i lifesto manifesti rien! Di qui la riobi! pa tria nati. Alla quale lo
sa lui troppo mio' si o I): inte . i s'ipno , ti appalesa – verráth dich.a I),
Pietro in ritiro a Solo quel divario era oli e la S. Vg -tillo faceva da Fausto
Manicheo si primo mi:i stro : S. \ mily g io. L'uno tilt 'tori e leggerezze,
l'a lt) o frutti e -: il lezz' o I): V. Lc fo partito per di qltà ». Fier. a
Dunque hai tu fatto lui bevit re. e V. , o di siti - 'e gli dai taccia) Colli i
clie ha il ll ll gli fa l'i . . . . . . . 11: li l 3 , i ll l 1:1, Illeſ le co;
to fa lrlestitºri E questo fa cli: i lio: e Itil, i ni li stili lo i libri li .
( s. i Mla poi li è 11 11 si | lo fare i lic lºl - 1 , ' - ri - i l. 1 ,
, , l a dio alcuno, nè posso - I gri e 'a e l' a i 'tr... ll ' Ina -
- a ledir Cadmo e chiunque fosse altri di quelle teste matte che ritrovarono a
questa maledizione dello scrivere . » Caro ottenere, fare a meno) «
Mentre che.... io non poteva fare ch'io non mi doleSSì almaramente. »
Fieren. rate che al nostro ritorno la cena sia in essere. » Caro fate in
modo, procurate) I)eh se vi cal di me, fate che noi se ne ineniamo una
colassù di queste papere. » Borg.e perciò una canzone fa che tu ne dici qual
più ti piace. » Bocc. l'areva che non ti l'i sole, il la a Sinigaglia
avesse fatto la state. » lºo: . passaio, trascorso (ono fatto fù ii (li chiaro
verso la si dl lizzò. , Bocc. | - Il sul far della lotte e presso della
torricella nascoso. » Bocc. 157) l'altra urla de l'en li colli l?olna
li.... Susilli non se lº cura; fanno per tutto, purchè grasso vi sia. »
I)avanz. Colne ogni altro frutto tra piantasi il noce : fa per tutto
viene adagio: dura assai: appirasi agevole: la ombra nociva, onde egli lla il
nome, o Da V. 458) V . . Il quale come egli vide fattoglisi incontro gli
die lel viso un gran punzone. » Boc i 150. « Onde non è mai raviglia, che
la llclo, la lit I anni al presso come si e det to, vider co'a ll no della
compagli 1.1, gli si facesero tutti incontro a domall darlo del loro padre, e
se v'era speranza di mai piu rivederlo ». Bartoli. « Chi volesse cimi ( 1 lt;
lr sl lol a V i rl facessesi innanzi a l):ì V . « Ma ancora aspettano di dirle
altro, e fannosi innanzi, e mettonle un cotale pensiero. » Caval.a e allora si
leva rollo costoro, e il maledetto Giuda si fece innanzi, e ba (“iolla) e
disse. » ( a val. a Ver me si fece ed io aver lui mi fei ». l)a lite, Non posso
farmi nè ad uscio, nè a finestra nè uscir di casa, che egli incontamente non mi
si pari innanzi ». Bocc.« in vista tutta sonnachiosa, fattasi alla fenestra,
proverbiosamente disse: chi picchia laggiù? » Bocc.« Fattoni in capo della
scala vidi e sentii tutto ciò che passò tra loro. » Bocc.« Spinelloccio è
andato a disinare stamane con un suo amico, ed ha la a donna sua asciata sola,
fatti alla fenestra, e chiamala, e dì che venga a « dosillal' coll (esso lì oi
». ROC Cº.« Fattosi alquanto per lo mare, il quale era tranquillo, e per gli
capelli a presolo, con tutta la cassa il tirò in terra. » Boce,a li contemplava
dalla riva in lotta con le onde, perchè da oli passion « Inosso fattosi
alquanto per lo IImare, dopo Illolto affaticarsi, li l aggiullse, a li prese
entrambi per le vesti e tirolli a terra. » Bart. « Così senz'altro dire,
la buona quaglia starnazzando l'ali per ia gabbia con più empito che poteva
fece tanto rumore che il padrone senti, e fattosi e alla fenestra cacciò via lo
sparviere. » Fi( l'enz. « E facendomi dal primo dico.... ». Ces.
460). a Fatevi con Dio, e di Iile non fate ragione. » Sarch. COllſ. l' 1
rte I. Ca po III.) a Fannosi a credere, che da purita d'animo proceda il
non saper tra le « dolllle, e co' valelnt'uomini favellare. » Bo -. 161« Il che
se la natura avesse voluto, come elle si fanno a credere, per al tro Inodo in
Vrebbe lorº limitato il cinguettare . Bocc.« facendosi a credere che quello a
lºr si convenga e non di sºli a che al e le all re. » IBO(''.« I vestimenti,
gli ol'namenti e le caliere piene di superflue delicatezze, le quali le donne
si fanno a credere essere al ben vivere opportune o Bocc. « Ma questo io mi fo
a credere che fu un giuoco, l'n tranello, un lavoro « l)i quel malvagio |
risto!.... » Buonar.e Pognano il torto a tua gente, la quale molestando i paesi
pacifici, si a fa ad uccidire uomini, bruciare templi, sparare donne, sforzare
vergini!...» Lett. Pap. Nic. « Chiunque si farà a considerare quanto ..... !! ,
( l'ulse: i « La vide in capo della scala farsi ad aspettarlo. ) Bocc.
VI. FARE COL SENNO, COLL' UMILTA' (e simili. 462). (rl lidogllerra ebbe morire
ed in sua vita. Fece col senno assai e con la « spada. » IDante« Fd ella
incontalmente lasciò quella risposta, e prese conforto e disse: e io farò come
la Cananea, coll'umiltà e coll'improtitudine e colla perseve « ranza, pure per
avere da lui misericordia, perocchè m'è detto ch'egli è tut « to benigno e
misericordioso. » Cavalca. F VIR SENNO (53). « Senno non fai se llor: lla
i telli ſi gli Idi. » l)ittaln. « Meglio di beffare altri li Vi glla rderete, e
fareste gran senno. Bocc. Fl\l8 RAGIONE (che..., di..., con...I. Ma io fo
ragione che i nessi tornassero tutti affrettati, e dissero: ve « duto abbiamo che
questo maestro è testè passato per cotale contrada... » Cavalca i 464)« Allora
domanda consiglio di tua salute quando vedi le cose del mondo « andarti molto
prospere, e fa ragione che tu se' atto allora a sdrucciolare. » Martin
Vesc.rai: e Ora per non i petere.... io fo ragione di non tenere un
disteso ragiona lIlCl1to. » CCsari. « E peroc he.... fece seco ragione di
rimandarmelo ». Ces. « Ma volentieri farei un poco ragione con esso teco, per
saper di che tu e ti rammarichi. o lº intenderIileia con..,« E pero a te,
siccome a Savio,... ti convien confortare, e far ragione che Inal ve lli: a 11
mln l'avessi, e lº si lalia a indare. » I30 c. 465)« E - I fate ragione, che
pe: quellito egli potra, Sara Selmpre il primo a a rovesciare sopra di voi la
sua colpa o Segn.lº co; i forni 1 e lo ch sll edette allo sventurato Saulle
fate pur ragio « me, l tito:i, che avveni del bri a tutti i peccatori. » Segn.«
E in esso luoco, fate ragione che il Signore venga a purificar quelle anime,
quasi lentro un cro, illolo terribilissimo, finchè depongono tutta « l'antica
storia. » Segn.E pensonni che Gesti i Marta disse: fa ragione che tu mi vedessi
in a ferino, come si mo . -toro, hº giacciono qui entro, e in così gran
Drsogno, « pensa quello che li fa resti a ine, e fa a loro ». Cav.« E però dico
che i lutti l sua sollecitudine pose di far bene l'ufficio, che a le era dato
di lui, il quai ella vedeva che tanto gli piaceva, che poneva in sè la p rsona
e l'era se: vita. Ed ella cosi faceva ragione di non partirsi a da lui punto; e
qua:ldo serviva il povero e l'infermo pareva a lei servire Cri e sto nella sua
persona, o ( v. a E fa ragione ch'i' ti sia sempre allato ». l)ante. \ V
EI ) l I ( ) - – I VIR SEM1 I \ V IS I \ \ V IS | | | ) | --- l' A |
31.VN Tl. .... , ella a tal - i vitiche1ia, facendo vista di non avvedersene
anda va i colti e in colite- io. Boa l l' allora fe vista di : andare a dire
all'allergo che egli non fosse atteso a en I, p. I d p moltº ragionamenti,
postisi a cena, e splendida In nte li riti , va i se viti, astutamente quella
menò per lunga fila al l: il l - lll'a. » l oe l'appa ma i ti r; parevano molto
religiosi e molto costumati, e gran vista facevano di cosi essere ». Cavalca
(66).l'il, l'io li in voi i 1. ll scostarsi da Itolina, e ogni anno faceva le
vi « sto li voler visit lº serviti e le provincie. Mettevasi a ordine. Ineve
vasi, fermavasi, o, ivi in inet , orire la ti gallo, onde di evano gallopiè.
» l):n V:ll 17. a E fatto prima sembiante il sere la Ninetti messa in un
sacco, doverla a qu . te t - il. 1. Inizzerare, se la rimeno alla sua
sorel a l:n. » i 3 t . E quando i s rso i litro fecero sembiante di
meravigliarsi forte. » H3 ) .. Fatto adunque sembiante d' , li conoscerlo, gli
si pose a sedere a pie a di. . I8o .« Quindi vicini di terzi levatosi, essendo
gia l'uscio della casa aperto, a facendo sembiante gli vs si a' tr Inde se ne
salì in casa e desinò. » Boceº -. ... e cosl ad Andreuccio fecero veduto
l'avviso lol' . » Pocº. 'diedero a vedere, a conoscere) 467, FARE AI L'AI
TALENA, ALI ..\ IP.AI.I.A, A I.I.E (..AIRTE, AI .I E ( I ) I, TELLATE, A SASSI,
AL MAGI IO, (e simili). a e per vilificarsi faceva al giudo dell'altalena. »
Fioretti. « QuiVi si fa al pallone, alla pillotta. » Lippi 468) « Noi abbialno
carte a fare alla basetta. » Cant. Carli. « IDicesi che c'era un tratto un
certo tempione, che si trovava un paio di si gran tempiali, che facendo alle
pugna con chiunque si fosse..., non si a poteva mai tanto riparare che ogni
pugno non lo investisse nelle tempia. » Caro.« Siccome, se tu fossi nato ill
(il e ia, dove e corrottºv le esercitar l'a rti a In e cora giocose, e gli
Iddii ti avesſero fatto nerboruto coine Nicostrato, iº non « patirei che quei
braccioni nati a combattere si perdessimo in fare a sassi a o al maglio, così
ora dalle accademie e dalle scene ti richiaino a giudizi, e alle cause, alle
vere battaglie . Dav.« E' facevano al tocco, per li avea a Inter: 1 primo di
loro. IBllonerotti. (469) FARE A CIII PIU'....: FAIRE A FARE CII
ECCIIESSIA a gara – um die W ette). « i quali con altri magistrati fanno a chi
più adula. » I)av. « Ma lldendosi allora ()tone e Vitelio, con iscellerate
all'Illi, fare delle cose) umane a chi più tira.... ». I)a V.a che è quanto
dire che più di mille e mille lingue fanno continuamen a te a chi più squarcia il
buon noi, e degli innocenti. » Giul).« Vennero subito gran guantiere colme di
dolci, che filro presentati pri « ma alla sposina, e dopo al parenti. Mentre
alcune monache facevano a a rubarsela, e altre complimentavan la IIIadre, altre
il principino, la bindes sa fece pregare il pricipe che..... Manz. ſ'.ARE
A FII) ANZA, V SI( U IRTA' con..... a perdonatemi s'io fo così a fidanza con
voi. Bocc. « Coloro che fanno a sicurtà colle riputazioni e per sin colle vite,
non solo (le” cittadini, ma.... » (iilib. FARE ALLE PEGGIORI con i
contenersi, governarsi nel modo peggiore) « Augusto senza dubbio inizio l'I:
neilla a fare alle peggiori con Agrip a pina. » Dav. « Egli tanto più il
1 furiava, e facea con tutti alle peggiori, fin lì è il re il a Inandò
cacciare come il Il ril):I l I liori li pii l:ì gi . » I3:urt.FARE A MICCINO :
consumare, od altro, con gran risparmio. Miccino vale pochino e a muccino a
poco a poco. 170) FARE A SAPEI? E a crerti, e, ammonire e simili. « E
quando tu la intenda altrimenti, io ti fo a sapere da parte sua ch'egli « Sala
tanto (Illa Into e ispetta a Sua Maesta. » Fier. FARE DEI. SAVIO, DEL
SUPERBO - I)I.IL PAZZO -- DEL BUON COMPAGNO –- DELl. UOMO e simili da sl
l'aria... den gelehrten spielen ecc).Allora il corvo, che tacea del savio e
dell'astuto prese carico sopra di e - d'esserne (il re... o lº le reliz.« Il
che udendo la testuggine e volendo far del superbo anzi del pazzo, « senza
rico: darsi dei e aminionizioni datele, plena di vanagloria disse.. » Fier. «
.. . . Volelrd , far dell'uomo essendo lo stie, Illalrdano llla e e rovinano «
non stilainelli e. . » Fiel'.« Ho fatto tanto del buon compagno che me – il lio
acquistati tutti. » Caro. FARl, \, FARSEI, A CON contentarsi.... stai con
lento a....). e Domandò come Silv: la facesse, quello che fosse della moglie
e.. » Fier. « Se la faceva la miaggior parte dell'itino all'usanza dell'Indie
con riso; e e quando piu sontuosamenie con in poi , d'erbe condite sol di ior
mede « Sime. » I3art. FAIRE I ,i ,( ) V . . l) il liut ) Ni lºrº in l.
FARE ILE BELLE PAROLE e simili. « acconciarsi le parole in locca. » l80 parlare
lorbito, in quinci e quin di ecc.)« Ed ella, facendo le belle parole,
rispondeva che le era a grado assai, ma « la dimora, l'eta, l'ufficio.... e º
no pur cose (la polmderarsi.. » Fier. FAI? FORZA AI ) A I CI NO) – FAIR
FC) I Z \ l)l Q. C. I 'ARE I)i FORZA ci avvisò di fargli una forza da al ll ma
l agioli colorata. » Bocc. « Colnili ciò a gridar forte: Aiuto, aiuto, che
conte d'Anguersa mi vuol far forza. » Bocc. , il « La reina faceva ai giudici
forza dell'appello. » Dav. « sa tanto ben ciurmare che incorrendo in
contumacia, turbando posses a sioni, e facendo di forza, la cagion gliene
comporta.... » Bocc. F AR M1 T TO AI) ALCUNO (v. Parlare Proml.). 'FAR FALLO A
abjallen). a donne le quali per denari a lor mariti facessero fallo. » Bocc.F A
R CONTO DI... CHE (daraui gefasst sein, sich cturas u oill be mer ken –
bedenken ecc.).« Si addestrino a vincere il demonio in altrui, trionfali dolo
ill lor stessi, a e faccian conto che i pericoli passati son minori di
quelli che sopravver « ranno. » Bart. e sappiamo che...., e sian
prevenuti che....., e ponderino bene che....) a Dunque dovrò starmene
tutto l'inverno tra questi geli e durare si lun « ga fatica...? Fa tuo
conto. » Gozzi a Le saranno adunque, ripigliava il ragazzo, candele? Fa tuo
conto, diceva il padre, le sono appunto candele. » Gozzi. FAR
BISOGNO A. Q. C. a e le nozze e ciò che a festa bisogno fa e
apparecchiato. » Hocc. FARE AI) ALCUNO SEI? VIZIO IDI SUE I3ISOGNA Bocc.
I)av. I3art., I ARE CEFF ( ) .472 . a farebbe ceffo a questa
fiorentilliera che cosi le propri la nostre appe. con barbarisino goffo e
sllo e cellsll rel'ebbe così. I a V . l'ARE ACQUA a Cercar di al III la
sorgente ove farvi buon acqua. I3art. Fier. a poi ripigliò: forse il dite
perche quella nave qui una volta fè acqua. » l3al rt. 473; I AI?
CARNIE : I n di ch'ella acquiia, era ita a far carne. » Fier. º e Ini venne
veduto quell'iniquit so giovane colla spada ignuda per ogni canto far carne, e
gia giacerne i suoi piedi tre, tutti imbrodolati di sangue, che ancor davano i
trat ..... » Fierenz. | FARF II. TOMC) Conf. Cadere Pront.. FAR CERA (da
Kairen). “ lo indusse a....., a far gran cera. » I)av. FAR GREPPO quel
raggrinzar la bocca che fanno i bambini quando vogliono cominciare a piangere)
Crusca (474)FAR GESU' congiunger le mani in atto di preghiera – vive in Toscana
FARCI II, CAP() .- FAI? E TANT ( )Farci il capo vale averci pensato tanto o
pen-acchiato o provatosi di pensarci, che nºn se ne intenda più nulla, nè anco
le cose chiare e che si vedevano alla bella prima.Fare tanto di capo vale
sentirsi stordito o da pensieri noiosi o da mal CSS el'e o da rumori.M'avete
fatto tanto di capo, dicesi ad un uomo parolajo ancor che ne in parli a voce
alta, purchè coºfonda ed uggisca la mente. Così Tommaseo, Gherardini, ed altri.
FARSI RELI.O:“ . . . . . . che se ne fa bello per aver tradito le tre legioni
smembrate ». Dav. l'AIRSI LARGO allargarsi, agevolarsi la strada – avere i
mezzi di farci rispettare e di avanzare presto nella via che prendiamo.) «
Coloro che per le corti colla virtù e colla fedeltà si fanno far largo ».
Iºierenz. « se non vi fate largo coi donare.... ». Cecchi. --- Farsi largo
colle chiacchere, coll'ingegno. -- C'è chi llell'ultimo altrui si fa largo
donando, chi domandando, chi piangendo, chi ridendo, chi co mandando, chi in
Inacciando, chi lo dando e via Via. \ V ER A FARE CO)N..... I)I a bella donna
con cui lo imperatore ebbe a fare ». Dav. che ho io a fare di tuo farsetto? »
l8oce, Note al verbo Fare 449, – Non curo di molti altri usi,
vi oi con uni ad altre lingue, vuoi notissimi e frequentissimi an ha oggi, p.
es. far lare nel doppio significato di ordinare di fare, e di cagionare di
fare fare apparecchiare checchessia anferlingen lassen – fare
all'l'ossire ullo – l'hre Arligkeiten mitchen mich erròthen –
Lessing. fo0 Anche il to do degli Inglesi ha tra gli altri molli, un uso
pres. sochè eguale. Es. The day techn J sau him ho looked belle lham he does
nou'. fol - Quel come lai lu sta per come dispiace a te. Nola inversione
illicola di costrullo e dell'ordine l'azione. 4,2, (iozzi chiude
parecchie volte le sire lettere così. 3 - Nola anche il secondo : che
ſarebbe il fare cioè del primo gruppo com'egli stà per un verbo del primo
inciso sottinteso adoperando..., che adopererebbe..... º, o per l'anzi detto
esa m in tre: colla quale esaminerebbe ecc. 4 , Per dimolare lo slalo di
essere del tempo, dell'aria, del mare sillili, o loperano i buoni scrillori
assai sovente il verbo ſul re': come latino i francesi il loro laire. – Guarda
come, i , - Mlodo a lille l'altro antic e dell'uso far senza (una cosa)
ci è pol el sºl le limitinº l'e - esser star bene senza.... ». fºſi - I
granimalici li apprestano indi la regola: « Fare stà per lº minare,
compire, rattandosi di Iempo, e ad esprimere quan lilì passa la lo mi trovo più
semplice la formula che anche il Tuesto caso il verbo far fa pel verbo
essere,157) – Nota di questo gruppo le maniere: lorº la state, l'autunno ecc.
il farsi del dì, della notte ecc. 458) – Analoghi a questo fare sono i
mºdi lar buona proºº, fa, gran prova, provare. Conſ. Pianta. Pront. 459,
– Metti a serbo i modi: idr si incontro: larsi ºººoi farsi in nanzi...; larsi
alla porta, alla fenestra: larsi a credere e simili. 460) – Simile: « E
iatlosi dalla in attina venne lo raccontando... » Ces. - - - - - Dicesi anche:
farsi dappiº, per cominciare dal primo prin cipio. it:I – Pon mente al
senso del pronominale farsi degli esempi an tecgdenti, e ti sarà agevole
intendere come il modo farsi a credere non sia come melle qualche vocabolario,
un credere a dirittura ma un accostarsi, recarsi, darsi, inclinare a credere.
Simile anche l'altro: larsi a fare checchessia – cioè mettersi prendere
a... 4( 2 – E' ingegnarsi, studiarsi, faticare ecc., adoperando il senno,
l'umiltà ecc. – Far colla cosa sua . Non gli dar noia.... chè egli la colla
cosa sua Cavalca pare che dica sempli cernente adoperar del suo. 463) –
Vale operare saviamente, metter giudizio emendarsi. E' modo elittico, simile al
precedente ma di significato assai più ristretto e talora diverso. s 464)
– Traſduci : mi penso, mi arriso. Si adopera questo: far ragione che..., di...,
a più altri usi e significa quando supporre, repu tare, e quando stimar bene,
opportuno ecc.; mentre far ra gione con alcuno vale intendersela, fare i conti
e simili. 465) – Far conto che, dicono i ...ombardi. Simile anche il
seguente del Segneri. 466) – Far vista, far le viste di ecc. è altrettale
che fingere, dare a vedere (v. Dare); sich stellem als ob....., Miene machem,
sich den Anschein, das Aussehen ſi bem. Pilò però significare anche
semplicemente sembrare, parere: « non facendo l'acqua alcuna a vista di dover
ristare, presi dal N. N. in prestanza due mar lelli. » Bocc. Anche il nodo detr
vista (conf. 1)are) è usato dal Sacch. e dal Cesari (e lorse anche da altri che
non ricordo) : senso di lar rista, sich slellen ecc. « 1)avano vista di volervi
« andare. » Sacc. « I)avano rista di non tener più conto di lui « che si facessero
degli ºltri. » Ces. 468) – Nel traslato: fare alla palla dei quattrini
vale spendere senza riguardo.Si fa alla palla di checchessia quando avendone a
josa, non si bada a risparmio. Anche la frase: lare alla palla d'uno ha senso
non guari dissimile e vale traslullarsene, dargli la balta, prenderne giuoco,
fare a sicurlà de fatti suoi ecc. 467) – Questo modo far veduto pare che
abbia un doppio senso, e si usi tanto a significare far si che altri pegga o
gli paja di vedere, quanto dare a vedere, lar sembiante ecc. « le iè ve duto di
uccldorli » BOCC.Così pure dicesi : « far vedulo di commettere, di perpetrare
ecc. In questo senso usasi anche l'altro: far vedere. » venne un medico con un
beverag 21, e lattogli reale e che per lotuſosta ICIulu. I « e lo 5 allop
oddo.15 Un'; Iso, o IoitIt: otp lºp o puqquI I ouuº ollo IS.It All I lºp
olioIA os IOI o II.) BAIA ost.I I » – (3 li - ll T. -uui uu.o Idl I «
mhop Imi lood ºzuos e.lolu uluti ſoli al QuUIels e][0.Alu l ol[.) e Illo,I u Ip
(IIIII O]UIelo.) ( UIII º II ) o, pullo Iod pm bam api Ip osn, I o IIIssItini
il o, o od o lou il timbrº p Is.IopeAAO.Id Q olduioso 0.Illi, lot o I] Ioli
manlaodm oil al pm b uod mh.op, I le.I]tto toIIIUlis onl. I pi ln()
eztl.).Io]Ilp eloN - - (gli uol.opu or) p. I : ossa: I a 9.Iu 5IoA opotti
lot ou. Il sopo I oddiº o IliioosLI o IIo N . tºzuoloIA In I “uz.Io e
Insn alu.I -oUoS UII eoUIuisis (olduttoso ottil III liop) pc lol lp o. Di
opotti II un illup llp, mo:) Iols )llo, no!) loo oolpe, il Co, sopo II o II.) o
| | Il I Isti.Il '.I]od ( OloA [oſ [0, oluooo IlS sopueSu lost Oiolo le prof
pl.oool I o : OICI e ouuu è Iopulso.Id el ouo ez.Io] el º .it / l'Is Out oli
ut: qui o ostº.I | Ip Ici.I e “o.IoSuII.ilso,o un N (Io.I I o Io ti uli Iso,
JUIO )) o.Ioi II.I]s -oo Iap ouo o Iez loſs ottºz.it I lop Il pd to Il prato i
pl II IIenb eplau ooo ufos « lama luo pm ns. oi ml III o uso o il n.IIIIGI ) dd
SS IA ( o.llitt.top non lº pztof l l lo Io : l UIonios o Ilop mz.tol ) un loo
ollopns Istº.Il flop “ps.iol pun o. pf pr.toi trof. II lod o e opuoguoo UION
luppoI SS )IA ( mr lo? oso).to.) o un ll fiopuo.rmi o e o Iel 5ueu e olotto;
Ind lºttout IIIonb oIopuolo.A » oso).Ioo o oIlluo3 opoUII UI! QUIolº II io.A.Al
' IoitII.I so,o un o.I(Ittios o po “pzuol asoluoo pun otni ollout: Qn i S o,oo I
luoloIA o Inslui “o.Iol -od p osnque po osta,p o IoA).Ionº olle (Inp QoloIII
ons IoToA In olrmu5epuniº o olio;iuti.Ilso,o ol.In pur o ooºoooº I top ellione
ulu.5oIUe,I opuooos ole.A oum.o)p pm vs.tol pum olmi o pcaoſ 1D.I – Ily
outloollll D o 1 pp out.), lui lo o.tpll pd oII.) Ie IsooICI – () , luooo) glo
e opuºluo, “l.It ds-p o lred as ou5oAtto II opu0.oos o elp mld o oun opuello
5 l Is o “eso.) eull UI! Il looo) lu o lº odopo.A o[U.A O.).ool / D olm,
I – (6), (o topo.to llbollmſ ollo ossols ol ooogl . lg olt, uouLIOppe
otto “llens o lo)s QUI o loq ooo I lo! [5 e Aup OlogIS Ital Ip o luouaol
Ili iFrenciere (Pigliare) sia lº cºsi di lºro - il mo: into a chi
non ha mai o l: lingua italiana – quello che si è mola , sin 'I I. ( Il les (il
n ad ( SS ( l' \ i re cosi di questo cori li ai ri veri tra loro - r. 1
,ºrticolarità di della I i licli, e lassici, q o no in una º i il Zii, il colal
girlo che non la clin a pezza , ali di si ! "i sanno che cosa voglia di e
prende, ma i I l ' s ci ii, alla l' hissimi, che ne usano i d , e , l in A , is
simo e i I i di classici del medesimi sono da Lilli il si e al ci a uno lors,
ma li avºltº il peregrino. Chi lo intende, a cargoli d'ese p . Il valore, ma i
le poli 1 ai linelli all'uso : bo i l'rende e dilello, prende i mali con
ri. p, i lorº con l i . . . . . . . . consolazione: prendere p , i ti ; i
mal . . . . . . . ) : i i 'ti li' li ti , prendler guardia. Sospello; lo : l '
s . . . . . . . - losi, i di qualcuno e .: pt ºutlc i l preso ad atleti no
bene, ci pass . p pºi lº i dire: il fare clic li ssi, i pi nel I e il I i gio .
. . . . . . . . . . . EpptI re li. Il sol li : V g: li e lode. I re. E ci
l si si | | | e cose. e prei I l i s 1 si lilire e maniera li i pir . -
di il Italo. “ .... pil per istrazia, lo li, pr diletto pigliare i
: l si e Iſ) di Illesl e os º prendendo annni irazione. . . . . . il II l
r chi alla toll :I n. I) ,li ( 1 . (. . . a Ella d'altra parte o il I e -
e clerlo ; o secondo l' ill Iorli; i vi , i i miglior tempo del lo II e
il - mondi è mrendendo il li tl ( . Il li l , l . . . . . . . . . . si o
di non avvedersi di qll st . a Tu puoi di quindi v lere il 1 l - i N si -
li l Inattilla va tlitto solo, prendendo di porto i . (illata Hilaldo e I
liv . ri .I l ril, 1 , E molta ammiarzio i seco prendea, a Chè gli parea
ognun fiero e gagli E \ - jardo » l'ulc. Luigi Morg. a Ed ella Maddale: 1: il
corti. Il nte la s lo [Il ' , , , - -ti e prese confor. to e disse: io farò
come la Callanea ». Caval l. a Laonde ( gli diceva : Se io (Il test gli dis, la
di me e.... le mi metterà il odio, e cos l III li il l: l li , i « moll avrò ».
Bocc.a Bergamino dopo il Illanti ril, li ! I vi - ge:Idosi il lil IIIa l'', li
richie a - I prenderà g -dere a cosa, che a suo inestier
partenesse, ed oilr a ciò consumarsi nell'al bergo co' suoi cavalli e o suoi
fan incominciò a prendere malinconia: r ma pure aspettava, non la
endogli lie: far li partirsl . Bocc. « ... e nondimeno di queste parole di Gesù
presero un grande conforto nel . . ll or loro». (.a Valca.e Nol) Vi si l a 1 i
lil l e la coinsolazione li vo: prenderete le! Seilt il' .... che egli non vi
debba essere altresì utilissimo il vedere....». Cesari. Senza questo, i lus,
ira vºi li i ogni fatica, che ci si prenda intorno » Borg. « La seconda cosa che
e efll ace rimedio contro alla disperazione, si è la virtu deila e ilterza, che
la prendono vigo osaliment. col) folt:ì e sostit ss i v. « Menagli
questo cammielo e digli che ne prenda servizio ». Cavalca. a E voi appresso con
III e o insieme quel partito ne prenderemo che vi pal rà il migliore ». Bo c.«
Ora il n dl avendo gia lº l l: presa grande amistà con esso loro, il tanto che
lui si la l util Vallº li l l'o, - zia 'liente per lì è Vedea no l el'
fettamente in lei Cristo abitare; per la qual cosa di lei niuna guardia o
sospetto prende anc..... » ( . I v.: 1.« Di che la donna avvedendosi, prese
sdegno, e...» Bocc. « A \ onla I sta i presi - . 3 i ari. o Il re, o la -
sciarlo a B) c. 5? I V edi, a noi e presa compassion di te » I 3o o??”. La
buona Iellini il l Ill st V e del do, me le prese pietà ». 13o e. «
....subitamente il prese una vergogna tale che ella ebbe forza di fargli v II ,
il l l Il l3,Gran duolo mi prese al cor, quando io intesi ». Dante. a l 'Il
cavaliere la domandò, se ella ne togliesse a fare un altro : rispose « che nò ;
che non le era preso si ben di lei, che ella si dilettasse di farlo » IB() ('.«
Con la piacevolezza sua aveva - la sua donna presa, che ella non tro « vava
luogo....». Bocc. (fatto innamorare di sè). Prenderete subito tiltti a
Iuliilli il re i tº o di me... » l)a V, 'comince rete ,23).Il quale facendo
rumore, che molte strade d'Italia eran rotte, e non abitevoli per misleanza dei
conducenti e trascuranza dei magistrati, le prese a rassettare ». I)a V.sol per
onore di lui prendeva a condurre quella, per altro troppo mai - e gevole
impresa ». I3art. e voltosi al popolo prese a dire in questa guisa ».
l'8art. - .... stabilito com'egli fu nel trono, pigliò di modo a preseguitare i
Catto « liri che.... » Segm.« Ed ecco che ella medesima prese a trattar
di rimuovere dall'Imperio « Neron, suo figliuolo ». Segn. « Anzi cred'io,
che il rigetterebbe la se, ed in cambio di voler più protog e gerlo contro ogni
altro, lo prenderebbe egli il primo a perseguitar » Segm. E così in
piedi, prima di deporre ancor gli abiti di campagna, prende a a fare una
lunghissima dice ia.... o Seg . Ti piaccia ancora di por niente ad alcune
altre frasi nolevolissime oi verbo prendere ed anche i cerli usi del derivato
Pi esa. PI (ENI) Eli TERRA – di una mare, approdare, alle ra e PI ENI)
Eli MIARE – PI º ENI) I.I è IP()IAT ( ).In quel ritorno g.i avv (-lili, di
prender terra il C: la lorº. I3art. e così le rinaio, alle ore il ſos - Illor:
li sta gioli , prese mare e navigo... » I3:ì l't.Erano i quattro d'ottobre,
quando i nemici, preso terra, e ordinatisi in pit squarire, baldanz si | 1 o il
11ti -- lo ii il solº a li l e, si ill via l'olio al il 1 l l'olta rsi St
.... , l il l'1. 1 | | | NI) EI? (..AS.A SI' A NZ V ſe i nati e slanza,
cºn l rai e ad albergo, slan zare, I 'I? I.NI ) ERE I IP.ASSI o Nimili ).
4 a ci ritornò e presa casa nella via ... non vi li gitali di litorato le...
» Bocc. a colsero in gran numero chi a prendere i passi, e li ad avvisare
di lui per tutto il paese di cola fino al mare e l'art. a Floro
s'ammacchiò; vedendosi poi presi i passi dell'uscita succise Da V. « si
spartirono chi quà chi là, e in un tratto presero i passi ». Fiorenz. 1 l
? l .N1) EIRE l'N SAI,T ( ). « e posta la mano sopra... prese un salto e lussi
gittato da l'aitra parte Docc. I RENDERE UN VOLTO, UN VSPETTO sereno,
allegro, soltre, giocondo, grare, terribile ecc. UN MI \SCIIIO ARI)Itli e
simili lari. ('('N. ecc... l I (; LIAIA LA MIA LE - sbaglia r la
struttlet. « Ma io mi accapiglio teco, o Materno, che aver il ti la
natura l'latitatº lº « su la rocca dell'eloquenza tu la pigli male, hai cons -
uito il megliº º il « attieni al peggio ». l) V. 525. l'RENDERE Q. C. IN FESTA
EI ) IN GABBC) – PIGLIARE A GABBO. « Inteso il motto, è quello in festa ed in gabbo
preso, mise mano in al a tre lnovelle ». HOC ('. « Che non è impresa da
pigliare a gabbo Descriver fondo a tutto l'uni “ Verso Nè da lingua che
chiami Mamma o Babbo ». Dante. I ]RENI)ERE SC)N NO. “ Aveano ciascuno per
suo letto un ciliccio in terra ampio un gomito, e lungo ti e, e in questi
cotale letto prendeano un poco di sonno ). Cavalca. I 'RESA – Pretesto,
molico, Anlass, V eranlassung) AVER PRESA, 13UON V PRES \ V DIRE A FARE –
opportunità, ap picco, buon gitto o l)Al? PRESA A...... r. l)ai e . a
Sesto Pompejo con questo presa di minicare Marco Lepido lo disse da ! ! iellto,
lmorto di fame, vergogna di casa sua....». I)aV. FAR PRESA. a Sono
imbarazzo da leva l V la colli e le centine e l'arma dura quando la r vòlta ha
fatto presa ». l)a V. Note al verbo Prendere 520 – E' il to
take degli inglesi nelle note forme: To take delight; to take pleasure; to take
cold; to take a turn; to take airs; to take a run; to take ship; to be taken
ill; to take up, ecc. ecc. 521 – Conf. voce Partito, Parte l Il.
522 – Notalo bene l'uso e costruzione singolarissima di questo prendere. Torna
quanto al senso, pressapoco, all'appiglialºsi, apprendersi di una cosa ad un
altra. « Amor che al cor gentile ratto s'apprende » Dante – « E veggio il
meglio, ed al peggior m'appiglio ». Petr video meliora, proboque, deteriora
se quor). 523 – li alla lettera il fangen (an lungen dei tedeschi. 524 –
lnvece di occupare ecc. Si dice anche « dell'occhio che prende un vasto ozzi
onle ». Bart. –- l)i una sedia, di un posto ven duto e simili, dicesi che
è preso. 525 – Cioè in cambio di far l'ol'alore fai il poeta.ne rarr Le
vere Ha molti vaghissimi usi, e voglio si principalmente notare i
seguenti: I ,EV AIRSI IN CONTI? ( )..... . Ma vedendolo furioso
levare la r battere un altra volta la moglie, leva º tiglisi allo incontro il
ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver la do Illna.» BUcc.
Coll dollnes a placevolezza levatiglisi incontro, prese a garrirne lo e.... »
I30 ('. “ La quale veggelidol venire, levatiglisi incontro, con
grandissima festa il l'it'eVotte. » BO C'('. LEV . A IRE I)I V.
ANZI « E non pareva potesse avere niti il 1 Imedi , pensando che quel
corpo del Maestro suo le fosse levato dinanzi, ch'ella nol potesse vedere, nè
toccare; e gri(lº Va..... » ('i Valt:a. LEV AIRIE I)'INN ANZI
V..... .... Veduta la alterata, e poi dirotta nel pianto, parve da
levarlesi d'in manzi e fare il rimanente per via di messaggio. » I)av.a
Pensonni che Malia il 1 ori il ciava a ridere e a Caltare, e a levarsi loro dinanzi
a quei clie la riprendevanº duramente, e non le stava a Illire, sicchè costoro
riºna e Vallo con Vie n1:1ggior dolore.» Cavalca. 600). I .I V VIRSI IN
SU PI: I RI; I \, IN ( ( ) \ | IPI A | NZA I ) I l NA COSA (Bart. ( es. ! (50 l
. I ,EV VIXSI IN AI , I'( ) . ()h Imadre carissimi, noi ti levasti
in alto, perchè tu lossi Inadre di cotale figliuolo, e per lui.... anzi quanto
era inaggi ºre la prosperità, tanto piu ti profondasti in umiltà. Cavalca. 60?
. I,I V VIRSI A VI ( ) IR E I ,I \ AIR IR l VI ( )| è l I (50.3. LEVAR
MoltMORIO bisbiglio ecc. d. q. c. I E VAR POPOLO (604) « E ben liè....
alti esi non line o ani: Ived va le I' 1to l'lti l'll tºru si leverebbe a
rumore. » l3:i l'1.leva losi il popolo a rumore, andava ogni cosa a l ulba o Giamb.
il popolo della citta di Modena si levò a rumore gridando pace, e ('a ccia
l'11e fuori la Signo; in e solº l: t . , V ill. (i.“ Alqualiti discepoli
s'avallo e (i lilda, e l'elison che alcuno di loro lo riprende Vallo le iniglia
lilelle, e ci lil e li aveva levato gran mormorio del l'unguento intra tutta
Itl lla g it sºli e i tutto indegnato per la ver gogna e Ile a V ed i VllI:I (
I V: l' ipells lni le si levasse un gran bisgiglio i le genti, e molti gri di V
le liti Illi e sa, e il ti? han:no In orto (ies Il Nazza l'en lo . . . (
:) V: . Salvo S i lº 'lzi non levassero popolo, attizz: tssero contro. » I3a r
. Ciò li rebl o I levando pc polo il Fuli Ine si era latto ill Arnull gucci, e
il bel tendo le rile: il lizie d l'ortogliesi a ruba, l'1 nave a fuoco, e la
li1 , V e allo li l al t. LEVA IRI IN V VI \ | | | | VZI ( ) N E ſe i
protra riq lui e l'iello il palese illello, le . - -s . I lilt lil e i
parvoli; e nel se greto rise! V: lui l' , lo l ss , levi in ammirazione
l'altissimi e menti. » VI ) l'ill. S. (il'. I l V V | | | | ( ( )N | |
(50), ll el l e levare i conti . lle : vev: i l)i V ( llll le ll '
o sospiro.... , Dari LEV VIRSI IN COLI le reti di lei la e meller
sulle spalle .... pastore, e li e o per la l a sti, il liti e riti o
vandola, la si a Ievò in collo e le elle l 'i g! ea zii e les", l'ass:
v.ti ovò un pover Iº e mio obbi lido lato, ed egli si levò in collo costui e
portollo in lei in luogo, dove egli il servi sei mesi e lasciò la pace e la a
quiet, sia per anno del prossimi » ( vale a I ,lº V V | RSI I ) \ SI | )|
| RI, I ) \ I ) ) I ? \l ll l ... l) \ I .l.(i (il l RE, l) \ SCIRI V l.IR l ..
e simili. . La quale non altrimenti lo se da dormir si levasse, soffiando
inco Inilli i .... a l?o . LEV Alt SI \ COIAS \ rale nellersi a
fuggire relocemente, ed è bel modo di nostra lingua .lº dicendo queste parole
Antonio, quell'animale si levò a corsa, e fuggi.» ( il Villt':l.Piacermi
finalmente inclilovare alcune altre maniere più notevoli a dell'ilso:
LEVARSI IN PUNT A l)I PIEI)I. e e la madre guata va se fosse irreali, i
fattori il suo dolce figliuºlo, e per a chè ella non era molto grande, e
levossi in punta di piedi, guatò in mez « zo degli armati, e Vlde il
dolce Maestro legato colle mani di dietro sic Irle l:1 di o,.... » C: Va
a. I ,EV Al? E l) \ I , SA ( IA ! ) l'() N | E l e il re e la l I e Nilm
o U.EV \ I ? E \ I, S.V (IR() I ()NTI: II. N ( ) \ | | | | I.... 13 ( I l
(rli I .EV AI? SI I)EI , VIENT( ) ; I3art. – LEVARE LA PIAN I \ ali un
edificio, di un terreno – I.E V AR MI I LIZIE – J.E \ AI? LA LEPIRE – I
E\ \ RSI AI ) IIRA, ecc. ecc. Note al Verbo Levare 600 -
Questo le rarsi al in nanzi al l gli In vede, ma l' tirsi, andarsene ecc. I
bicesi al che le reti si dannan si clicchessia, o levarsi checchessia dagli
occhi e significa liberarsene, sgra varselle. lol'selo di dosso. . ( olle (
l'eslerà di darle, ella [ 1'0 verà sue scuse per le retrse lo d'innanzi. »
Fier.Si inile: le rarsi dagli occhi checchessiat: le rare cl i dosso. « Si
risolverono gli l'iorentini per bli . Inolo le rai si dagli occhi in alto e
Iale ostacolo e per millma) gilisti più confortarlo. a Stol'. Sonniſ. –- I)i le
rarlo mi l'ululosso Irli studiel'ò » L'occ. (01 - Simile: salire in
baldanza. « I)a si felice principio i litori salirono in tanta baldanza, come
nulla potesse durare innanzi alle loro armi » Barl. ( 2 - - ()sserva la
correlazione (li le rarsi in alto -– hoch lalren – e profondarsi in
umiltà. 603 -- Simile la frase: la r rumore di checchessia, indurre cioè
a tu nullo. dare, da discorrere, prorompere il disdegno ecc. « Il quale facendo
rumore che molte strade d'Italia erano rotte.... le prese a rasseſ are. »
I)av. 604 Piaceini ricordare anche il nodo: essere a popolo, a rumore ec'
('.605 – Simile: « lerare le partite, p. es. della coscienza con Dio. » I3: i
rt,N/lettere (Porre) fili a quegli degli prºl e lo sel degli inglesi isº
º lº gri, º l ' s ii del mettre dei fran i ' s I. Al ii l ' - I -
volgarissimi 629, nè la li si l sl i l pi. Ma sono alcuni
altri non corrono spedita reni e li - maniere poi di quo l | laii ( i l I
t . ! ! - l - l - ss la gran lunatica, sa l' i crº, ci: ci - il - i e il
vago della frase il sisl ei s ci , il ss; li il sia, è ad ufficio e valol
e º il signi lº i - s porli il suo proprio let i r, i - : i i no del verbo
con altre pa i . \ I soli linelle, che anzi li li ii considerazioni
e all is | | | i l ! l sl glº: i \ | | | | | | | | | N A S. ,
VI A V , l SU ). ( All I I I I Rl, | N A | | | | | | | | | | | | | | | | V | V
( il l V l l ' Simili. mise cinque mila fiorini d'oro contro a
mitic ' , i l . - , metter su una cena a lovella da re i .. . . l 3 -) : l l .
. i . - i i lo s; i ti sul metter de' pegni pegnº tra loro messo loro, I
, nºtito pegno i - i ; . - i l: i nei i ore il collo a tagliare, e i : lessano
che la Verità l); i V. : l l . , ( -. il \ | | | | | |
| | | | ll piatti lº t' ('. I mette ld , e più forte illli , Va' . ( I t
si - 11: - , -1; I l - e mai il tronco avrebbe i l: mettere I l il 1 fi .
. . . . . ( i In li vere - i rii e assai lo il sull mettere e gel' moglia
e o, Ces. 630)METTERE SIPAV EN I ( ) - VI I I I I I E \ N I \ I ( ) \ | | | | |
| | | , A \ | | | | | . . AIETTERE A VIVIII RAZI( ) N . \ | | | | | | | | | | N
SI El ' ( ) e Nilli lli. Cadde e voltandosi i ra i ple li a 'a - e rite,
messe tanto spavento e odio le i soldati si li filº roi o li I ) : t: Ig
it li , eſ . Quel giovane.... fu il primo a mettere in lino agli altri. I3e: 1.
( ell. I ri vo:aggia li, confortarliQuando Agricola mise animo a tre coorti
Bavere e lui l ingi e di venire a alle Inalli con le spade ». Da V 63 Ali (III
, i se mettevi l'amore tuo. F ( a Per la qual cosa, vedendola di tanta buona f
riliezza, sommo amore l'avea posto ». Bocr'. « Con quei ti:lti lo avi In Irli d
mirazione ». Salv. VI a ie . it - lo il I l s . : :: I l lit: i mettono
inella moltitudine am . a me, miser pensiero, .lon gli voles - Il tel
rili lpe, pari o all'alltica. l tirar « d ll rallle 11ttº ». I )d V.i diedero a
pensare, fecero sospet e den Verdacht erregten 63? \IETTIEIR AI.E MI
ETTEI E r. g. Il PEI I; I \ N( \ | | TT | | | | V .. STIt II) A. muggli, i
niggili. MI ETTEI MEZZI e simili. l?el ſ to loos o il fiel ( il V al
mette ale , l ' ll I, II ig. Vlorg. (figura, a III, corre col gra il V el
. it: “ . . . . . . nel quale era e il ratto il diavolo, e -la s a costei
legati colle catene le malli e i piedi, e giti vi . . sº i e ai lo schilli e
strideva co' sl1 i denti, e crudeli mugghi e strida mettea, il 1: lit , che
chiunque l'udiiva spa. ve: lta Va ». Cavalca. Allora qllella
stridento , e mettendo grandi e crudeli ruggiti, lol telr1ente l'assilli.. . .
» ( a Val n. º il 'tli la milizia lioli nello che l'eta avea messo il pel
bianco ». Bart. .... per la qual cosa non gli valse il metter mezzi e
pregare . Cesari. \I ETTEI N E. VI V | E. \ | | | | | | | V | | ( i | | (
) \ | | | | | | | ( ( ) NT ( ). “ E (Ill si ciò fosse poco, come metteva
bene al suo interesse, ci si faceva girls ligia, dando ragione a chi se la
comperava . Bart. -L'esser bistrattato non e' in previlegio mio o....., ma di
tutti univer. saliente se onlo che il farlo gli metteva bene ». Giub."
l'elisa ggiInai e delibera a quale partito ti metta meglio appigliarti ,
('esari.11on perhè alla l'epillollica mettesse conto patire mali cittadini ».
l): v. nè i figliuoli, ma i rovinati; sovvertendo i cavilli dei cercatori
ogni casa ». DaV. \ | | | | | | | | | N N | ( ) M ET l'EItE IN ASSETTI , IN Alt
NESE – MIET I ERE IN ESSERE di far q. e. MIETTERE IN CAR I \ zu Pap er
bringen nel tre par ècril – lo sel clou n . e se l e la III e li e il
Ille, i nto Ittendeva a mettersi in punto ». Giamb. il pll'esso (Ill sto lilli
- misero in assetto di lar bella grande e lieta est: l . 13 , .l'ol le e- il
ribe dato o lille con Colpo del colle e del quando ,e che e si luroli messi in
arnese di cio che la eva l ' bisogno ». Fierenz. (si for I S il ('si il .... e
– l llla la si metteva in essere di baſ taglia . l 31 lt. l)a V.Irli la bisogno
mettere qui in carta ( o poi le ll leo I contorni delle co -1 l Ilia
l'ille..... o l8al t. V | | | | | | | | VV ( ) | , V \ | | | | | | | | V
I \ V ( V. lolla li l'al' e sl per ol li tºlti mettevan tavola il s si
.ora che l'usato si meteSser le tavole. . \ | | | | | | | V S | ; N
V ( \I | | | | | | | V l , A l' ( C ), Mll. l l'EIRE | N VV V | N | | | | V
, l le 'il l Illia di Illesle lol o l'agielli soglio li , i li; li il
mettere a sbaraglio le la Vita il , ( es. i vi G3 istelli, minacciava di met
ierlc a ferro e a fuoco, - t , sto lioli i l V lo i prigl n. o l8al l. 635
l lº sa e con lì io, e, a disposto a metter la vita in avventura, e lui e
il venil - , al site Ina ri . l'8art. esporsi al pe: i per i volo
li lo del l - l at si \ | | | | | | | | V | , N | | N | | | \ | | | | | |
| | V | | | | | | V \] | I'l'll è l: l"N I)l S( ( ) | | | )| | , I N SI |
| | ( \ | | | V | | V , , Nim ili. Se. ... I certo I (lelli rebl . . . .
. . . . . . ll tiro e, e ogni forza use ; per metterla al niente. I 3. l .(),
si va Il lino, si saprò mettervi a terra si reo pretesto. » Segn. N i letto i
ri; 1 , l'a! di di l: i ve: Irle fù per mettere la repubblica, se I rsſ o ll -i
( V V in discordie C armi civili. l) a V.dols e si li. ... . ll e il V e il
messo ( es al'e in su le cattiviià e risse. m l)a V.MIETTEIRIE (i UERRA,
CONFLITTI. discordia. dissapore, e va dicendo, tra cristiani, amici ecc. l)av.
Bari. Ces. METTER Por giù r. g. I \ P Al IRA, L'ALTERIGIA, UN PENSIEIRO,
UN AI3IT ( I )NE ecc. - e tanto che, posta giù la paura del l e- e dei i
atelli e lii - il colore in tal guisa si addimesticò cl io ne ma qui e son: le
qu'il 1 l III I Voll. 13 , a Pon giù l'alterigia e studi:iti di prendere
un viso ilare e gli vi e.» lº art . Pon giù i ferventi amori e lascia i
pensieri triatli o Bo MI ETTEI RE IN N ( )N CALE \ | | | | | | | E IN I 3
ASS( ) - MIE I TI lº l: l N S( ) )() - MIE IT EIRE IN I ( ) IRSl - \ | | | | |
| | I: IN IP AI ' ( )| .I. Per lilla di lina ho messo E. ll 1 II lite in
non cale ogli i l el-i ( . l ' ' 1 l'ill ('il.E chi, per esser salto virili
solº rosso, Spel a 4 ellenza: e sol lº l Ill Sto brama Che 'l sia di sir
grandezza il basso messo. 1)ante.« . .. mi par necessario definire prima e
mettere in sodo il sostanziale valore di alcune espressioni.... » I3art.Chi
farebbe i re votare i loro tesori, pr (Il ce ne Impi sotto la III i loro
popoli, e mettere in forse la loro maestà, se questa spera la non fosse? I 30
.e in altro non volle prender e I - i nº di lover'a mettere in parole se
lo delle sue galli; la', e.... » I3o MIETTERE IN V.JA con....
\li raftivella, cattivella, elia non sapeva ben, donne mie, che cosa è il
mettere in aja con gli scolari.» I; º cimentarsi, intrigarsi,
avventurarsi a voltº la fa r , voler l' il cºlle agli scolari, misura le sue
forze cogli - METTER MI VNO A o per q. c. “ .... e messo mano un di
di noi per un tagliente coltello, e nella logli un gran colpo...., gli spicca
inno il braccio. , Fiereni. e Messo mano ad un coltello, quellº apri nelle reni
, Bo 3;I All. N l VI ( III ( S \ ( ) \ Q. C. - .... pose mente alla
sl i 1: 1. I s e, ponete mente le carni mostre e lui è stallino. » I3 n.
1:. Ponete mente atroci spasimi, lil: se l: in lenti e divili la li l: i
les li Se i 1. Ponete mente effetto i li e le e il via il cºsi della lor
debolezza. E \ | | | | | | | | | | | | ,( ( | | | SSI \ A SI N N ( ) | )
l...... ( 3, , e gli misi a suo senno, e iroli - \ | | | | |
| | S | A N \ :3S \ | | | | | | RSl Al, l'ACElAE – \ | | | | | | | SI SI | | NZ
| ( ) \ | | | | | | RSI IN | A | è ( Il I ( C.llESSIA – MIET | | | RS | S ( | |
| V ( ) | | | \ | | | | | | | SI l N V V | V. dal si misero al
ritornare.» Bocc. I rimisero al ritornare. l 3 al E mettiamoci ai ritorno. 4 ,
N -- li siti, si s Illal alle; te si posero al iacere. I 3: : 1. . . . . . . .
i si metie siienzio. l 3 l: i . () il l i VI inelli - la si mette al
niego.» I ). l .le sia l i lliesto. Meini . S'era messo in prestare Scpra
castella , l in tre loro entrate. » netiersi sulle volte e lo i leggi i
ve. » l?ari. cioè, tor isl l l: i veri il si per la via, l No!:l, si
mise. » l 3o . \I E I I I I I I I I I I V \ I | A PEIR VI CI N ) da e la
sua vita per Nell'all . \ | | | | | | | | | | V \ I I V. I V S \ NI | V .
I l . SOS I \ NZE ecc. Udas le ben ('' . . ll l in 1 m., 'il bis. Nel ' '
li l: osi e se c'è bisogno, mettiamoci la vita. . ( i ll.(i e il ( ! ! ! , il
III le pose la sua vita per la nostra redenzione.» ( : v. l ' :l.« .... e lui
beato che fu il primo che ci mise la vita! » Cesari. « Però vi esorto a
passarli travagli per il lodo , le no, ci mettiate della sanità. » Cal O.
MIETTERE SU UNC), c) MIETTERI AI , l' N I ( ). « è istigare alcuno e
stimul i r , a dov e dli o la r il il na Inglilia o V Il a lania,
dicendogli il modo, lil po-sd. ( del liti o lill la, o lil a. i litº , - - si
chiama generalmente commettere male i l a 'ti i liolo e ! Iltro, . . . . r Inti
o al Ilici che sia imo. Val li Nola gli appellativi: commellinale, un
teco meco : « d'uli con melli a male, il quale sotto spezie d'amicizia
vada la riferendo i testi, e ora a quelli si dice egli è un leco nero .
Varchi. METTERSI AL TIEIRZ( ) I ( C. I )] .I , ( il V | ) \ (iN ( ). e
Andavano dotto letti sto i rieg Li, messi al terzo e alla metà ! ! gli: -
dagno, a cercar le case, e le var i ti Irer -- las, i a o l'edità colltro
alla legge, i l): I V. Note al Verbo Mettere - . 628 – Eccone un
saggio : to set al monuſ li I linellere il niente : lo .. set ad usork (porre
in opera : to sel on llame li eſtere a fuo- - co: lo sºt sail nel tere vela: lo
set aside mettere da parte , - - " lo set one s self (imettersi a.... : so
se lo m in l. ere giù - lo se out (metter fuori, pubblica e lo pul dorn
por gilt, nettere a terra : lo put in u riling In Ilere in isc l'illput in mind
mettere in alti , ricordare i to put a question; lo put to death ecc.
ecc. 269 – Mettere in abbandono: nelle e tulosso una cosa ecc., nellere
le mani adosso, mettere sol lo l'armi; mette i si in tla i mº; mºl tersi a
correre: mettersi, porsi in animo di 'jar checchessia: mettere in campo; ecc.
ecc. i30 – lndi l'appellativo messa, pallone o germoglio della pianta. «
Quel rigòglio è pur vago. I rallo e l'odio dal soperchia che fanno le mºsse
degli alberi, essendo il succhio ... Cesari.Analogo al mettere delle piante è
l'altro modo: mettere pr - sona, cioè crescere di corporali Ira. 631 – Si
dice anche, con valore di egual significato, dar animo. Il modo meltersi in
animo di far 1. c. vale proporsi di farla ». (5:32 (5.3.3 (3
(53, (5.3(5 (5:3, io m'ho più volte messo in animo.... di
volere con questo nu ſolo provare se così è p. Bocc. Conſ. avanti Voce
Animo. Neh! questo metter pensiero non.... è ben altra cosa che il
mettere in pensiero. - Avrai avvertito differenza i ra il meller tarola
(a, e metter la tar'ola. Il primo è la r lanchetti, dal pranzi, il secondo ap
parecchiar la tavola. Sinile mettere a repentaglio - Giuberti adopera il
verbo git lare ecc. • Pronto al meno no cenno di gillare ad ogni sba l'uti/lio
o. Noli ricol (lo si allo stesso modo e valore siasi mai usata la rnia
nelle e al sacco: Giul), ed altri l'adoperano in senso dii ripio, 1 e, mette da
parte, far tesoro. « Debbo saper grado al Padre Curci che non abbia sdegnato di
mettere a sacco la lingua e lo stile delle mie opere . Giub. Melte mano
in checchessia o di lar checchessia significa co m in cicli di palla rue e c.
Col I Muno (al). 2. ( Se il m o l?a l'1 e I. Al clersi al ritorno
re, e simili, è il laniera elitica e vale accin gol si all'azione, all'ill,
presa del..... Mettersi o porsi, in ge le tale, e la r q. c. è all rolla e che
il cori linciare, apparecchiar si, porsi nello stato di farla. Si dice anche
mettersi coll'anima e col col lo t... ( Si mºlle con l'anima e col corpo al
dice al la r l ich '5 st . lºl'. (ii il d.Re care Sil primo significato è
il l di poi la e, si rire. Il talu, i (Illali cosi' io llllle di ſua coli n e o
di votarne il recai ed holl 1 e ... 13oº'. e con il significa i resi in li lig
Il al miele a recare d'una ill alil a liligi la v. ecc. Mia poli III lil
al li isl 1 l issi di quies era, e il I rili li alle 11 la Iliere: lº e' st e
il no, una cosa ci l 'c li ºss lat, a far lecci es . sia, recarsi a.......
liele Illilli il V e io i reati e sigilli, i ſilando condill re, ridurre, indul
re, e quando i riliire. I l ...., il V ( l e va dicendo). .. li Ille-t Il
l: l ' 1 tl i i l: - i mini recasti. I3 o 20 I - I i ls ' il - l si l: recarsi
a condizione di privato. a ( a s. .... sol che esso si recasse a prender
11 glie. I3 . Vedi modo e sappi - , oli di l: parole il pil i recare al piacer
mio. 13o . II lis- 5000 fiori il loro i litro a 1000. . ll e io la sll, di
reche a rei a miei piaceri. I3o .il Vello già liledira: o gli animi d i s.it i
baroni, e recatigli alla vo glia sua.» (riallil,I ti: l l'orri i- di 1. I l s.
vel . l i r, casse la madre e prin cipi e..... a dover esser cori I lit '
( 1 - i Qllesti recando a suo proprio quel con il Villlierlo di I o Izi,
a poco si 1611 le clle coll..... » I Bill'1. - - l'eputaldo, considerando
sullo la r pri .. . e Ne recava a prestigio i miracoli, e la santità ad
ipocrisia. l?art. attribuiva, o aveva il conto di..... a recava la mia rettitudine
ad ipocrisia. (iiil lill). . niun altro l'olila 11 , di sua grandezza il V e il
V l Ito dlle lipot i il ll 1 i corpi, recandosi le cose ancor di Iori il la a
gloria. Da V.« . .. lle v'è uomo che legni di fir se Vilio della slla persona
che sel reche rebbono a viltà. » I3:1 rt.Mangiavanº i carne il venerdi e il
sabato, e come cosa orali ai passata e in usanza e comune, nè a coscienza sel
recavano, nè a vergogna. Bart. 52, « Non si recava a vergogna di fare,
bisognandolo, l'arbitro con lo dal la belti.... » Balt.« E dicesi nella storia
di Santa Marta che non sia niuno che creda ch'ella desse il corpo suo a ſanta
vergogna: chè quello unoli lo sarebbesollel to, le ll I ratello cogli altri su
i parenti e amici l'avrebbero e li al celata, impero, le se l'avrebbero recato
a vergogna.» Cavalca (528) E vi sara cli per contrario se la rechi una carica a
piacere, a premio, a riposo, e.... S - :).e generalmente o il lancio, il ril ci
rechiamo ad un genere di empietà e offesa a qualsivogia a ilmale, quando egli non
ci dà noia?» Segn. ll – e le : l le , Fi, al di l orlìa 1 di sl , ll la l'ott
1, e 11 in fillelllo d'in sse; li t. It con 1 l ils: l ' , no; i clle Vilì
c'ere i - ilì molte haitaglie, ne recò a più alto principio la cagiona e
oltre - io ho veralmente era, i sse i ll , si era il V V ei lilli , il
vi: ill, 'i . I l i pic lo es reit , del re doll i – l . e/ se \ , Va. l
. ; le I) i l rist l li , a . l sei za niun risparmio, N si | | | (
V.I RSI | N S . il strelto alla 1 si sta i ltto in se mediesimo si recò,
e con sembiante 1 a V e a 'e ll it l aºs i tre lisse l3, i li. | R
| ,( V | è SI IN VIA N ( ) | V | | Si VI \ N ( ) I RI ( AI SI IN ( ( ) l.I.t )
( | | | ( ( II ESSIA \ oi vi recherete in mano il vostro coltello ignudo,
e con un malviso e tilt to tu balo V e l'anall et g ti per le sca', el a idrete
dice: do; lo ſo lot , il l)i lle o il cog el'o . . . l ' ve. I 33llfli liti o
recatosi in mano uno de' ciottoli elle 1 a volti a Vea, disse: l)el V ed si -se
egli teste nelle l e lil a Calandrino, e : ... o I 31 . . .(olli e il li elobe
Il., 1 , li lega i recatasi per mano la stanga dell'uscio, lioni e sto prima di
latte. Il 1 le pel si la stanga le raddo di malmo.» I el l /.e recatosi suo
sacco in collo riposo ni li che egli ehloe vinto il ſolito.... 13:
l'I. l: I VIRSI CO) I I ESE teme le mani al petto, per riverenza, di
rosione, piu'll . i let: Illesi , e latto, recandosi cortese disse.... »
Sacch. | V | | | IN | ,l ( I Iſetti, il gran tempo, sia i mas osi,
ci appare chiamo a recare in a luce o all's Licht lo ingen). Giamb.r- a -
li ECARSI UBBIA DI....... « Per dilungarsi dal morto, e Iliggi l'ubbia e
le seri prº si recava le « Inolti.» Sacch. IRECARSI A MIENTE (Itidui si a
memoria, sorreni e . a Và, e non volere oggi mai piu pecca e. Recati a
mente, e vedrai che.... a I Passa V.Onde meglio è, sostenere la vergogna degli
Iloii, Ini che quella di Dio, a recandoci a mente (Illello che dice la Sci Itt
il ra 11 l lilol della « parlando in persona di coloro che il rollo di risori,
cioe Sapienza, is ll terril itoli le giusti; i (It.all.... » l?assa
V. IRECARE IN I N ) nellere insieme, a comunanza, in cui molo, la re un
fascio ecc. ). « Voi siete ricchissili, i giovani, li lello e le llo, i
soli io: il ve voi vogliate a recare le vostre ricchezze in uno e in lar terzo
possell: ore oli V oi insieme e di quelle...., senz'alcun fallo mi da il cuor
di la , e, le.. . . Bocc. l? EC.Alº:SELA (o anche recarsi assoluta non le
maniera elettica e ralle offendersi, pigliare il traie, pigliare in offesa come
falli a sè, o coll'a blatiro della persona, o coll'espression della cagione
ecc.. e recaronsi che gli aretini avesso i loro rotta la pace, a V Ill. «
Checchè egli l'abbia di III detto, io no, voglio, che il vi rechiate, e se
11oli corile da uno ubbriaco. o 13 , la consideria oli le c, fatta vi da un
ubbriaco). -in da 11 a V I Nota al Verbo Recare 526 – Simili
i modi: recare a fine, a perfezione checchessia cioè ſi nirlo, perfezionarlo,
recarsi a menſe, recare in uso ecc. V. il presso.527 – Nota qui la frase:
recarsi checchessia a coscienza, ciºè lº ninrderne la conoscenza, e simili.52S
– Così dicesi recarsi checchessia a noia, a onore, a Ilºil, º lº rore
ecc. cioè stimar nojos, ecc., reputa il “ Mi liº una grande ingiuria a stili ,
mi di si p o giudizio che ll il mi debba ripulare a farore, che li esser
N. N. si degli di stºri verini ». Cal' .F corta re Al l lano i rili Is ,
elellico di portarsi per portar rici. Qui vogliº lisl rilenzi, il re alculli
usi notevolissimi e ina niere assai fre le li sºllia per il la ai classici
quello che li li fa il moder li e poco spello del pari tre latliano , cioè
l'uso del verbo portare a va lore di esigere, richiedere, in prorla e,
comportare, sopportare e simili; e le maniere: portati dolo e, poi, la r no a
uli che chessia: portar osservan sot, onore, ricerca sa, l ispello a lui li
sssia, portar amore; portar pena: portar per i lenza; portati pericolo di
al'.... poi la r il pregio valer la pena : portar opinione. I rl ( es. porla in
pace checchessia: portarsi d'ai il no e Val di elido () i noli e gli ºri
Ilde - i tizi ile , lollo prº sstuma oltre alla sua forza, e fa cia le imprese
piu che non porta il sito potere? » l'assav. e lº sta che i polelli ssilli
dispor di lei, e se non quanto porta e il dovere. » ( all'o.Nelle passioni l'a
lliIl r. Il liti S.s: lite portar dov: ebhe la sua lla il ril, lIl l . . ll la
V , º l?a l'lo.Il segreto della profondi - si lli: za di l) lo portava, che
solamente dopo 10 secoli.... » Cers.a Vennero le due g lov il lette il dile
giallo) e di zºld º do bellissime con due grandissimi piatelli d'argento in
mano pieni di varii 1 litti secondo . lle il 1 l ... loli portava. o lºMla io
credo IV e ne dett pil re assai. A |fe si a quello che porta il tempo, 11 le
lilt:: via l il 1 l Ces. I :i natura del l s i porta così e io, il - e lº
può altro. » ( -. Non portavano quelle idee che egli dovesse avere presto un
numero « o d'i!) finite V i.... . » (' -. Conservate il vostro, lion
spendete piu che portino le vostre facoltà, fuggite i vizi, seguitate la
virtù. » Pandolfini. .... questa volta parmi aver la cosa certa che il sogno
portasse che... Ces. a Portando egli di questi cosa grandissima noia, non
sapendo che falsi, propose di averne parere con mosse lo prele. » Bocc.
So, i testimonio dell'amore ch'egli vi portava e dell'animo che le neva
di farvi grande. Caro. l'ex donerà questa inia presunzione all'amore che
le porto da fedel solº Vito l'e. » (art). ... i quali del giovane
portavano si gran dolore che... » loce. « E bene bisognava ch'egli li fortificasse,
chè da ivi a pochi di avevano a a portare smisurato dolore. » Cavalca,« Di che
il padre, e la madre del giovane portavano si gran dolore e malinconia, che in
aggiore non si siria potuta portare.» 13o .« Ma Iddio, giusto riguardatore
degli alti il merili, 'e mobile Iemmina - conoscendo, e senza colpa
penitenza portar de l'al: ru pe cato, altra mente dispose. » Bocc.
- « Percio' lì è quando io gli dissi l'amore il quale io a costui
portava, e la dimestichezza che io aveva si o, Irli capo II li spaventa,
(livelli loin l.... . I 3 , . le all o!' « E da quell'ora il li
illzi gli pcrtò sempre onore e riverenza. » Fioret I. E 11 lì è da
falsene il raviglia. I lil pensisse lo sterminato bene ch'el leno portavano
alla persona sia o C i va. a. « E se il confessore lo riprendesse dei
suoi vizi, porti lo pazientemente: chè sono inolti che, per essere tanto umili
e gli isti, spesse volte si biasi mano eglino stessi: ma se interviene,
che altri gli riprenda, non lo portano pazientemente, ma iº degli I no.... »
Passav.« ....porterà espresso pericolo di riceve e vergog :i e dal lillo. ,
(iia lill). a Sfirmiamo che pcrti il pregio rilett : s tl dl Ill st
luoghi. » Segn. a ... lion portava il pregio ch V | V I rom pesi e il
sonno per risponderº a III e, di cosa massimamente chi lilla II, II i V a l
o Ma sai che e' portatelo in pace. » I 3 . « So tu ti porterai bene
d'altrui, convien cli altri si porti di te, e Fioretti.Ajutare L'aiutare
dei pochi esempi che qui arreco non è l'ordinario e comune di presta aiuto,
socco so (ail lelen , ma si rassomiglia al to help degli inglesi, nei costruiti
fig.li lo help forucard, lo help of the time, to help lo ecc. ecc., e dice
cosa, in generale, che cresce altrui virtù, o dà I nodo d'operare. Noterai
ancora i nodi aiuta, e alcuno, aiutarsi da chec chessia; aiutare uno di una
cosa: aiuta, si al lar checchessia ecc. “ .... e che l'Inilia cantasse il
na . il Zone dal Lillto di l)ione aiutata. » Bocr'. (guidata, accompagnata .e
Ritornò si notand piu da patira , le da forza aiutato. » Docc. sorret to,
sospinto j.Fa Itisi tirare a paiiscalini ed aiutati dal mare, si accostarono al
pic ciol legno. » Bocc. sorretti e sospinti .Ma quel povero Iritto, per aver a
con le tar troppi vervelli, e di varie e mature, spacciata Iriente si inti e di
l::i i : si iroli e forte aiutato di lavo a recci e di concime. l):tv.« Al
lllla lolloni - e al 12a lo! ese, e il lile! :l ajutaio, lº rese nulov , con
siglio. I 3 r . . . . . llQlle - le parti si posso lo aiutare e collo balillage
e co.i soppalli.» Fierenz 571).E se Illesio può fare il senno per se Inedesimo,
quanto maggiormente Il dee 1are chi dalla opportunita , intendi necessita e
aiutato o sospinto.» l30 c.Ajutava le parole col piangere, col darsi delle mani
nel viso e nel letto. Se n. aggiungeva Virtti alle parole .Ma se il lla pl o la
par li a lia del celerino per via di medicina se ne a prenda, con lierà lo
stomaco, e aiuterà la Virtu digestiva, e farà buono il lito. » Cl es . . ll
orrera a rinforzare, a ravvivare, a promuovere). « Per fare ancora i vini
piccanti, saporiti e dolci, aiuta assai, dopo la prima sera, che siell
1messi... i grappoli inel tino. Soder Vit. (gi va, adopera . Tuttavia, se
la pers, ma fece quel cle eila potè, e non ci commise ne e gligenza, e
ledettesi a vel i- il mio confessore, la buona fede in questo caso l'aiuta, e
'l sommo sacerdote lidio compie quello che mancò nel de fettuoso prele, o
Passav. A.IUTARE I) A CIll.CCIIESSIA, E ANCHE DI CIIECCHESSIA. « Vedi la
bestia, per cui io mi volsi, Ajutami da lei, famoso saggio e Cln'ella mi fa
tremar le vene e i polsi. » IDante,(difendimi da.... ()ppure maniera clittica:
aiutami a fuggire a difendermi da loi).« Or ov'è 'l naso ch'avevi per odorare?
Non ti potesſi dai vermi aiu « tare? » Jac. Tod.« Anche ::lolto è da col
Sidlerare e da Il 1t la Vigliare che, essendo solo, tutti i 11 st.li idoli
gittò il : tel l'a , e iº li ill la cosa gli poterono luocere, nè da lui
aiutarsi. » Caval. (life! 1tlersi . a Pero ('ll è : i Frances lli non
atavano li Romani dalle ingiurie de I,OIII e liardi e dei Toscani; ne il
Pap 1, ne la Chiesa l ' tiranni che lo perse a guic 11t). » Vill. (i. 572
. e lo fo voto a Dio, l'ajutarmene al Sindacato. ioe d'aiutarmi da que
sta cosa al...., o di li, 1 l'ere, il ll'ajuto le l.... , Boc .Io vò infino a
città per a illla m a Vi enda, e porto queste cose a Ser a l 3olla corri d' (i
inestre, o, c le m'ajuti di non so che nn ha fatto richiedere per una
comparigione.... il giull e del dificio. Bocc.a Sempre o poveri di Dio [ile!!o
che lo giadagnato ho partito per n mezzo, la lilia Ineta col Veri e
il l is tra Iletà dall do loro; e di ciò m'ha si il mio Creatore aiutato, che
io ho sempre di loelle ill me - glio fatti i fil 11 l inici. n 130 . e
Alberſ o d'Arezzo era te ! 111 egio, le per delolto il quale gli era
addolmandato e mitra ragione: onde e si ra Intl lido a S. Franco che di ciò il
dovesse aiutare. » V ;1. SS. Tad. A.I l I'.Al ' SI A...... a ....
Ti o, ipo -olio rimasto dei lise le mie speranze: III lºt'e Voi, lìoll O sta
inte si g l al lilot I V , di rai VV i dervi, il V e il test i pillttosto a
prevaricare, e non vegognandovi, quasi clissi di al collo la lite ingorde,
indisciplina e, le quali allora si aiutano a darsi bei tempo, era pola 11do per
ogni piaggia, carola ndo per ogni prato, quando antivegg, no che gia sovrasta
procella , Segn. s'ingegnano, pro iº lo trachten, tàchent). Nota al
Verbo Aiutare 571 – Parla del seno delle donne che per parer più pieno si
può.... . 572 – Così l'ediz. fior.; – La Cro Sca e La stampa delle Soc. tip
. Class. ital. leggono un po' diversalmente: lion atavano (aiutat vano,
nè liberatrano i lio mani. S e ritire \' illo solillo al Isi pi ii e in
no comuni oggidì. Si ado lº' i ''l ct ''l Nºttso, il gºl l pprensione,
coscienza, notizia di chec lºssli, li guardi come il latº glise. Nota i nodi:
sentirsi, sentirsi (il capo...... ; Nºn li re dl il 1 l gelsi, avvertirlo , la
r sentire ad alcuno; N. il lir (le'l gli e' cio, li ul, l'', l'a mia l o ecc
scºni lir bene, mi alle di checchessia, e simili. lo soli i ll ella sento
di me. , Rocc. \ V e i tit Illa ira solº ai la lollia le quasi non si sentia. »
Bocc. ll (Illi, le si alte: il letta ogni parte del corpo loro avea
considerata, lls, el l -se deli a Illa, le chi ai? I n l'avesse pulito, non si
sarebbe sen tºto. » Bo se al 1 o l'avesse punto mi li ne avrebbe avuto il
senso). l) l'1 e le lla I d glli il test i e le ii senti al capo. » l3oce. I me
ne sento alla borsa. ( ... ll I. S. Bernardo di e li mi ni loro stupido e
che non si sente, è più di º ll I ligi la lla Salt l' 1 ss. l 1 no
li il senso li sè stessº, i. ( olli lel quale - la i vizio della super leia, e
non si sente, cade nel V Iz lo lella lissili la del' 1 a 1 ne, e I diio
palese il suo peccato, acciocchè la co . fusione e la nla li la lel peccato
brutto lo fa la risentire, che prima er: il sensibile , l ' s sv .
\ V e I talit ezza per l ' s lllite dell'allina, che della morte del si sentia
niente. ti i.a Il rumore dell' 1 al 1 : :: van ls li a grande, e quello che più
lor gr. l V il V a el . . ll e-- oteva no sapere, il l ossero stati coloro che
i pita la V e vallo. VI: ( li, il l Illa 'e liti e le atl a il no altro ne
calea li in aspettº i di li lov erlo in Ischia sentire, fatta armare una
fregata, S I \ i ll lito. (. . . l 3o . le: le [lli li elite, e con le
addormentato il sente, cosi apre l'uscio e vi sene dentro. o lºo ('. \la poi
che ella il senti tacer disse: o l?o « Non potrei sentir cosa alcu ma che mi
osse più grata, che ierl'esser le!la slla lollolla gl azil. » ( asil.si mise in
cuore, se alla giovane piacesse, di far che questa cosa avreb be per effetto; e
per interpositi persona sentito che a grado l'era, con lei si col venire di
doversi e in lui di IRoll la fuggire. » l'8o c. 529). IPer io hº se rigli' rdat
, v'av: ssi, non ti sento di sì grosso imgegno clle tll essi Illella , oliosi
ill to rose, che.... » l'80cc,I a giovane d'esser pil in terra che lº mare,
niente sentiva. » IBoce. (530). (ollo il tavola il solitº l'olio, così se le
scesero alla strada, o Doc C,e Senza farne alcuna cosa sentire al giov., III -
III Ise o il via a Bocc. “ E col mandato alla lor fa nie, le opi : ' viº, per
la quale quivi son trava, dimorasse, e gli 11 -e se a 1.1o v In Is-e, e loro il
facesse sentire, tiltlc e sette sl si vogliarono i l ent: i l el laglietto. »
I3o .\ Vvellº le 1:ll' 11 Ille cl, (.ri, e' o, ( Irlino al palo con un stio a
Inico a ce la I e e fatto lo sentire i (i la l.lole, compose con lui, che
quando un certo enno a esse, egli vi -- e troverebbe l'uscio aperto, La
fante d'altra parte lui nte di Ille- o si prend, fece sentire a Minghino clo
(iia corilino l:ori vi . ilava e gli dissi » Bocc. Venuſ o il dl si
alleint e l -sendosi a Vl: ddi le ha 11 ovata morta, III rono alcuni clie per
invidia e l dio h a l gli tto portavano, sul lita III ( )11 ( :il l)ll a
l'ebbero fatto sentire. » le non si ppiendo per il I | tergli presta mia
disposizion fargli sen tire più accornei:unc)lle cle per te. i ti collinettere
la voglio 13o . « Come il sapore del V Ilio vo clio, che per vecchiezza
sente d'amaro....» Sollec. I Pist. 03.Non era nel bilono investigator. l i
pieni a ve: la borsa, che di chi e di scemo nella fede sentisse. , I3o .a Io il
quale sento dello scemo a 17 i che lui, lei vi debbo esser caro.» Bocc. « Ed
oltr'a e io disse ti co- li questi - la bellezza, che lui un fa. s|ilio) ad Il
dire. Fl'ite \ Il melt, li costei sentiva dello scemo. » Bocc. 531,. Ttl
st -:) Vissililo, e riel; e se li I)io senti molto avanti. » I3t) 5.3 ?).
Vll'ill ontro chi, colli e tº. Sente si poco avanti lelle slle file desillo e
se, che di se goli si ricorda, nè sa qual si vivesse sotto gl'innullerabili
stati e che nel decorso dell'eternità ha mutati, segno è che.... » l' irrcllo
morl) sente molto avanti nelle regi lli delle bilolle e l'eanze.» (i
illlo. a S. Greg. S. Agost., S. Ambr., S Girol., che sono i quattro i
principali dottori (li Sa.'lta Chiesa, sentono tutti concordemente l'opposto. »
Segn. e Cerf:n ci sa è, che nè lileno i suoi ni: i levoli stessi ne sentono si
empia mente; anzi molti ancor de genili lo reputaron profeta di gran virtù.»
Segui. a I Jacobiti sollo ( l'isti a 'li...., londillelli) male della fede
cristiana Sen « tono. » IPºtl'. lloril. ill.e Della provvidenza degli Iddii
niente mi pare che voi sentiate. » Bocc. « Allora udi: direttamente senti, Se bene
intendi perchè la ripose Tra le sustanze. » Danſe (Par. 24.).e Ciascuno
studias-e sopra la questioni della vision º de Santi, e faces a sene a lui
relazione, secondo che ciascuno sentisse, o del pri) o del con a tro. » (i.
Vill.a Del suo pelo del cavallo) diversi uomini diverse cose sentirono: Ima s
pare a più. che baio scuro è da lodar sopra tutti. » Cresca Questo Inedesillo
pare che senta Santo Agostino, quando parla della « l'esul'l'eziolle di Cristo.
» Vled. Vit. (r. e Virtù, dice, è diritta niente di Dio sentire e
dirittamente tra gli uomini a vivere, e operare. » Caval. Conferisca gli
tutto quelio le ella sente, come farebbe a me proprio. » Casa. Nota al
Verbo Sentire 2!) Il V el'inchineri dei tedeschi: Analoga l'altra frase
(v. appresso): la c all rul sentire chi ce li ossia cioè operare fare in
modo che la non i via Venga il suo l'ecclli ecc. lo 0 lo che li on
s . Il ll grazie del 13 o accio ed altri), osservava qui il Valiolli, e ne sono
del III to pl Ivo, avrei detto: « La gio valle non si accorgeva se fosse il
lerra o in mal'e o, il che sarebbe dello gl . ss lallali e rile. Il lºoccaccio,
invece di dire: non si accorgeva , dice : nien l Neri li ai clie è molo di dire
più scello; e disponi le parole il selli e lo ſullo con molta mag gior vaghezza.
Zali ell ' e io li a Lib. I. 53 | Noli e ulivo re: Senli, di scºm, o v.
g. nella fede) vale nati l' aver diſello di..... ; e sentir dello scemo è aver
poco senno, aver la qualità di clil è scenio. Sentir dello scemo stà da
sè. e senti di scemio è predica o di checchessia. Analogo a questo
sentire è il sostantivo sentiva della nota fra se sentita di guerra.
32 .... mia egli con miglior sen lite di guerra, si era posto in ag
gilato dietro alle spalle di una montagna, per rammezzal loro la via, e cogliergli
improvvisi. I 3art.Stare Lascio le definizioni, le discussioni, lascio i
numerazione di qlI clie cose che o tutti sanno o nulla montano – che uscirei
del mio assunto, e troppo vi sarebbe che dire a voler anche sol accennare a lui
ii i modi e forme particolari dell'uso di questo verbo - , e mi starò contento
ad ilculli esempi lei quali il verbo slare è ad Iso, e ad Ilicio di un valore
che lnai o quasi Inai nei costrulli di una locazione moderna, cioè di chi solo
sente e pensa moderna li crite. Noterai le forme: slare checchessia ad
alcuno, per convenirgli, osser gli dicevole anstehen, zustehen, ed anche per
costare: stare bene per com venire, meritarc. esser ben disposto: stai si,
stare per astenersi, rimanersi: slare (di checchessia per alcuno, per non
essere, non aver luogo per call sa di alcullo: slare uno, due giorni ecc., per
indugiare: stati si bene, ma le ecc. per contenersi: slare, assolillimetile,
per non mi i versi stati e di clie chessia, per essere il ſiles' , ei lo slalo,
condizioni e cec.: slal e a lot I e cli ºcchessia, cioè il dicali e il l
IIailili di azioli e le siglli ſi alo del Vello che seglie ecc. ecc. I
qui li II lotti per i clie oriev - olio i 't alle donne stanno che i gli
uomini, il quarto pit . Il ti line e le agli il fil III l Iliolto par e la re e
lui lg , si disdire. I3o .e E sev o volete essere di quella legge - se il loro,
a voi sta: Ina a valli lle.... , I 3 s -1 el l 1 l el Ill 'le) l .Sillito la
vo' veller', s' , la dovessi la r per III: li o lil II rini, che la a non mi
stà. » I, rºll Zo di Mleclici. V el l l ll : l: l s;ì l II e Il non mi Sta. » I
3 , . Bene non istà a lei il clillo. A | V era la III gel'' (la ril - il
sil 1 e il il ti ( Il'io Sollo, '1 : iStà bene l'attelldere il d all1 , l' . »
l 3 m . Frate, bene sta, io li e me li di roteste cos Ill: ... , l o '. Frate,
bene sta; baste: ebbe se egli li avesse ricolta dal fallgo. » Do . S78. e Io
non son ancilllla alla quale questi ill: la III o almeniti stiamo oggi mai
bene. , Bocc. -i al ddi allo).2ssendo egli bianco º bi º 1 lo; e legg l'1 li o
molto e standogli ben la V li il l30 ('.e io potrei cercare luita Sie:a, e non
ve ne troverei uno che così ini a stesse bene e me quiesto. » Docc.« Avendo
studiato a Parigi per saper la ragioli delle rose e la cagio: a di esse, il che
sta bene il gentile lloli 1 . . l 3o .« At colleerò i fatti Vostri ( i miei il
III: lliera e le Starà bene. » l'80 . a La qualcosa veggendo Stecchi e
Marchese cominciavano a dire che a la cosa stava male. » l'8o c. a ....
di che noi in ogni guisa stiam male se cosl li lilllore.... » Bor ri troviamo a
mal pallito).dis- l' ill V: e se avviso lui Ilai non doversi la a veduto,
avesse: ina pur niente perden a lov i Si Stette. si aste i: il liss 1, il rio -
a listelmell I30 ('C'. N isl , li lev si stava. . l)av. N si s si s i s; i liss
. . - Si stesse, e l'80 . lº l' 1: v. I l il sitº Il le stessero. V ... :lle
cessassero, si fer Il luss ( l ' , -- ero (i a noi o non istette
per questo che egli passati alquanti di, non gli r! Inovesse sin – li pirole l
3 . Per me non iStara -: i sia. » I 3, cº. l' egali dolo, l e se
per lei stesse di non venire al suo contado, gliele si li, ſi iss , l 3 ,
. S!), . Senza troppo stare t a il lino e il territo visto gli rispose. »
Bocc. - il 1 , sich lange besinnen).l ve: i IIIa pe: il nº te i ni ivi e no 1
po' Stare un giorno che li ssi . 3 ,Siette al quanti l i renz. l i no in Stara
molto i l:ì l's il 1. , l lel . Stando pochi giorni.... l l as it giorni. Ne
stette poi guari tempo e le si . la Iltale della Illin molte ful lieta is: l
BtNè sta poi grande spazio le elli, si ni la Giustizia e la potenzia il I I ) I
V - - , l sºl l e. . l 3 SS0'. l I e Ilio - li - Il d. si iellza stavasi
innocentemente. » Ca \ si. .. li o 1 i vasi . lº, e lo statti pianamente fino
all'i nia tol nata. . liocc. (.l, polendo stare, via, - ius o è he mal
suo grado a terra : i l ier'.Compa il lato l'opera sta altrimenti che voi non
pensate.» Bocc. L'opera sta pur cosi, ti i sa. I l Vtloi, stare il II; eglio
del miº lido. » lºt ,E relet , porrete irrente le carni nostre come stanno.»
Bocc. Staremo a vedere , olle V i governel e le , Calo. Se volete
chiarirvelle state ad udire. » Se n.«Che dunque mi state a dire non aver voi
punto i rotta di convertirvi.» Segn. . « Non mi state a descriver di I lique il
ll'Iliferi, caverne oscuro, schifezze - º stomacose. » Segn. 881;.
- lºra i liolli all'i lli li col V e lo slal e' gran parte moli e dell'
Is Ilo ſereno: STARE CONTENTO A QUALCI E COSA con lei la serie - ed
egli rice! cò almorevolmente. La basso che stesse contento a dazi ordi a
mari. » (iiali. - e Ma siccome noi Veggiano l'appetito degli uomini a niun
termine star e contento. » Bo( C. « A me li li pare buono collli, il
quale lo ista contento al suo pro prio. » Palld. STAIRE SOPRA SE In
ne halten SS2, a Alquanto sopra sè stette e cominciò a pensare quello che
la dovesse o Bo) , Li Volse dire, senza pit | ns. vi clie e - e u ss (Il
1 l: proli: tt i Vl a guardandolo fis , nel volto, per V del e se egli diceva
la V cro, le venner a Vedliti quegli occhi spal V n1 i ti...: stette sopra di
se e li e però disse: l'otrebbe esser clic... Fierenz. ST'.\ I º I, SU
I,.... - - ST AIR E SI | , ( il V V | | | | | | | | | ( ( I ( ). ( sillli | | |
3 ( - ST AIRIE SU LA RIPI I \ZI( ) N E. SI I, IPI N I ( ) | | | | | A ( VV
VI.I.E I? I A, I) EL ( ( )N V EN I V ( ) I .I . - SI' A | ' I SU I. ( VNI) E
c'e'. a Stavano sempre sul contradirsi e difendere la propria lt - i «
Inigliore. » Bart. e Stalino Irti su la riputazione e gli ideg: « Messer lo
corvo io lo paura che il vostro star sull'onorevole non vi a faccia lIlarcire
in questa prigione. » Fierenz.a E stanno in ciò tanto sul punto della
cavalleria che persona di Volgo « è Inai alm Inc.-- a loro col Vogli. »
Bart. : gli 1 il ri . , l3 l: i. STAIRE A PETTO | ener fronte,
reggere al paragone , « si scusò col dire che non ave: gente di stargli a
petto. » (iia Ilil). STAI? I, IN FIEI)E a Pochi ne corruppe, gli
altri stettero in fede. » l)av. SI \ RE IN SOLI ECI l'UI) INE V. g. de lalli
altrui prendersi briga, es serne lui lo premi tra SI \ It I A Ll.( ( il
crisi liti, elorca, la II nella liti... reggersi secondo... ) l Il e no,
le tuito, stava a legge ma umettana, gli si ribellò... » Bart. S I \ I Rl
l?I l l N ( ) / e mi e' e la llo su di lui l Nilo partito – STAR BENE IN
(i \\llº E forſe da la persona SI \ RE IN CEIRV El.I ( ) (saldo alla pr 111 ss
S I \ RE \ | I \ PIR ) \ A di Probe bestelen – STAR SEN E NEI.I. \ SENI ENZ V
NO a lire al visi – STARE I).AI - I 'OCCIII ( ) ( A | | | V ( ).
\la V to io, che gli stava dall'occhio cattivo, non lo volle udil e....» l'occ.
S | V | | | | N N | | | | | SI' A | R| | N | | N | | N N l. ( o la base
del 1 al pil e quasi ai li o sta in puntelli il mondo.» Fier. si eI tto, le li
se in esilio, p - e lo Io e il ti: i piè Inail o, stava in tentenne. o l: le (
liz Si ponga nelle da li Ilio all'uso del sosta livo slanza per slare,
tral le mº) sl. in lui ſia i c', lino e lo micilio e c. (il voll:i li in
lato veri pla, endogli la stanza, là g : i (oln e 1 I pia e in stanza in Ille
ta i ltta? Fiel enz. E come le g . a V e li palesse il partire, pur tenendo
moli la troppa stanza gli osse agio e di voli e l'avil o dilettº in tristizia,
se n'andò. » l 31 .I ra gli alti Vlo i l o, cavaliere celebratissimo, e primo
perso maggio nella dell'imperato e in petrò al padr e la stanza stabile nel .
Mlea o, e per i o is reti ministri se ne spedire al regie patenti. » Bart.
IPensando voler fare stanza il ga e continua fuor di Roma, e per la sei i re a
l), il so solo ova rinai il consolato,... » l)a V.Note al Verbo . Stare
S7S – Questo bene sla è maniera in personale e orna all'altra: ( ) - ſimamente,
sono con voi, siamo intesi, basta così ecc. ; oppure all'interiezione: capita,
buono allè ecc. – Simile il modo del l'uso : ben gli sta, cioè l'ha il
ritata, e simili. S79 – Conf. Rimanere – maniera eguale: rimane e per
alcuno od - una cosa dipendere da.... SSO – Alialogo a codesto slare è il
sigili il lo del trio(lo avverliale - poco slan le, non mollo slot n lº..... disse
e poco slante se ne - vide il buon esito . I3a rI. , se li il climpo del pari
orire ess torì un bel figliuolo maschi . I3 cc. SSI – Simile lo slare dei
modi: stare al campo è iè eſsser accani palo, – stare a buona spel al nsot.
Pioli di compassione il conforlò e gli disse che a buona speranza stesse,
perciocchè se.... Iddio il riporrebbe li onde lorº lina l'avea gillalo o.
13ore. ser venuto; perchè dalla ma di e ijilala non molto stante, par- -
CC (”. SS2 - - Esprime l'alto di chi si pone al pensiero, in dubbio, in
so spetto. -- I tiri la nel libblos , sostene e, sopraslaT corri a re Si
lsi ci sia le molle per lo nare a essere, divenire, diventare, lor 1 (tre il
90S , pºi renire. ridurre, ripori e, iar ritornare, iar diventare lsali\ al
lile. l iuscii , l i londa e ed anche per essere di nuovo ciò che alli i ſo
alla cosa ci si innanzi ecc., finalmeno per andare a stare, prendere Nl ct mi s
(t. ;)( ! ) . l oggi, poli legali le lito, lo costruzione e l'ordine del
l'azione, e lo si liri, clie lori ci ſi poi accadendo cosa tua. lº a V v
l It il il I e torna uomo Ine tll esser solevi, e lì Olì fal far l ' I l3 . .
.l'alto i a | 11 he tutt , torno li sudole, e tutto trangosciava. » Ca valca
910,\ l spill 1, si rende l'ono alla Verità, e battez z.it tornarono non solamente
cristiani, ma predicatori di Cristo. » IBart. . La nl IV Coletta - I lista e
torna in aria. o Fr. Glord.l)el lle tornò in istatua di sale. » CeSari. I loro
pompose botteghe tornano a orciuoli e zolfanelli. » Sacc. di v si liti il collo
il l essere ... ..() il 1 ltra il ro lo ai la tornavano al buon ll mio forse
tre e mezzo. » Sacc.? E il V V elli, colle del buon cotto che a mezzo torna. »
CreSc. a S1, ll ' I g Ill la l effa iornò a vero. o l?art.a (i la , la Valle,
le carni i listinte ... Egli era tornato ossa e pelle nuda. » ( es: l l'.La
caduta di lºietro torno in fondamento piu solido del suo innalzarsi le lege
poi. Ces.Ogni vizio puo in grandissima noia tornare di colui che l'usa. » (ri
doll dare il.... l o C.A dunque le parole di Crist , tornavano a questa
sentenza... » Cesari, a tanto lo stropiccio on a qua calda che in lui
ritornò lo smarrito colore ed alqua lte delle perdute forze, e le e rivivere)
Boce.a inſer ma di gravissime ed i maldite infermità intanto che la purgatura
del naso e le lagrime degli occhi e il fra ido Ilmore che le usciva dagli lui,
cºn le lido: il terra in ontanelli e ritornava in vermini. » Cavalca. La qual
cosa ti memdo l'aolo, fuggi al deserto e quivi aspettando la fine della
persecuzione, con le piacque a l)io, che sa trarre d'ogni male belle, la
necessità tornò in volontà, e incominciossi a dilettare dello stato dell'eremo
per amor di Dio, dove prima era fuggito per paura mondana....» (
l'avalca. I , lu go studio della volontaria servitude, la consuetudine avea
tornata in natura. » Cavalca. º sel l'eca un inferno) a casa, e con gran
sollecitudine, e con ispesa il torna nella prima Sanità. Io e. e la quale
ſia inina, rapida Ilente consiln io e tornò in cenere quel poco a che l'era
rimasto, o ( es. le e divenir, .Ma il Si Verio tormolle all'abito e al
ritirarmento.... . I 3:1 I t. io e le ſei e ritornare.“ Qil lio stesso ill, la
I a bbona e Io e torno il vento in poppa. onde sall'ite l'ancore, ripiglia o! I
l vi i gio. 13ari. Ie e tornare, .... e Sp 111a gli 1 11:1, V. , inza, i - II i
cd 1 , tcrnò in amicizia i parenti i degli ammazzati. » l?il l di t-se il
l....... e dei suoi zii - lli di II lo ristor. tornandogli in buono stato.
Bocc. 911).a Tornato il re in istato e la città come era in tranquillo.... »
Bocc. i -e fosse stato il piacere a Dio di tornarlo in istato, tutto .. s - si
gulalaglia Va all i lede. » I 3art. No Il Solalilei 11, avea tornato l'uomo nel
primo stato. Il la a V vantaggian (loit di 1 1 cippi pill dolli l'a Vea - Il
bil II la .... (.esil loIII e di.... lIl lla nella memoria tornato una
novella.... » I3o c. Tacitarmente il tornarono nell'ivello. , 13 , riposero a
l'ill ('a la clle IIIali in casa tornatalaSi.... . I 30 . lIn giorno di
salvato se lei lo costo: il la 'nzi alia chiesa di S. ( i lill allo, a nella
quale tornavano. I regim V allo I; ost l' V ( st Vo Nll II lo , Ca Valca. a lº
fa venire Simone, il quale torna in casa di Simone coiaio. » Cavalca fatti
Aspo-toli).a colmando il dile sll Zelli che il - Itassero, e consider: ss l' in
quale albergo tornava il vescovo che i veri predirato a Cavalca. Simile
al ragioni lo è il tornare delle frasi: II, (.( )NT () T()IANA cioè non c'è
errore i cl calici lo. I | Ierale: il collo si riproduce bene, risulta esalto,
riviene 912 . TORNAIR 13ENE esser utile, di piacere...... « Coloro
i quali sono grati perchè torna loro bene cosi, non sono grati se a non quando
e quanto torna ben loro. » Varchi.a Scrisse quello che a suoi i teressi tornava
bene di far l'edere. Bill I. e fatela quando e come ben vi torna. , Bocc. l'(
)lº N VIRE IN A ( ( ) N ( I ( ) \...... stal utile lºlºsa che se a Dio
fosse piaciuto di prosperarla, tornava mirabil mente in acconcio al desiderio
del Palavi, e a grande utile alla Corona a dl l'ortogallo. , Bart. l'( )
I N VI RE IN NI EN I E lil liti º se assai, le ſtia li tutte in vento
convertite tornarono in niente. . I ; ) -. l' )| | N VIRl V (il l ()| | |
( ( I | | | )| la Illal e sa tornandogli alle orecchie. , Fier. Il testo
la r o' e tornate agli orecchi di.... » l?art. l' N VI E \ I ) | | | | V
| VIRI e c. si pa rtl e tornosSi stare in Verona, e (ii:alm! Note
al Verbo Tornare !)()S Sinile al tour ner dei francesi e più ancora al to
turn degli in glesi: The milk, the beer, the urine, le cream, ere g thing li
(ul lunn ed sour. l he jeu is going to turn christian. – l'his young mall
first intended to study Ihe lav, but after W :ards lle l urned Soldiel ecc.
ecc. 909 l'illlo simile anche in ciò all'inglese: lo turn in an inn, e va
dicendo. 9 () Nolalo questo modo: tornare in sudore, lornare in aria, tor
mare in sangue e simili cioè diventare, convertirsi in.... !) | | Nola,
la maniera : tornare alcuno in islalo, in vita etc. Co testo tornare tiene
alcuanto della natura ed essere di quei ver lui che mi piadue di contrassegnare
col nome di causativi (Par le 2. Cap. 2. Serie 4. Ma è l'uso e la forma al
tutto singolare che vuolsi qui ancora notare. 912 – Tornar con lo simile
a metter conto, metter bene, metter: me glio - è altra cosa: « Non li torna con
lo recare all'anima tua un minimo pregiudizio º Segn.Vernire Olire
alle cose delle alla parte I. Cap. IV Classe II, noterai di que sto verbo i
seguelli usi:\ EN Il 3 E A.... V EN Il ' E IN.... : e il ct rich o V | N | | |
| CI I IE( CIIESSI \ ecc., per dire nire, la rsi, rialli rsi di..... lo ruoli e
c' Nini ill, sul Pil l'as tre rulen, su I l l'ots ka) mi mi ºn e le. gli
il II pe: a lo; i erano venuti a quattro, il le All - lls-ii e dtle ( e-il rl.
, (iia lill). .... ades, a ndo i piti leggeri di cervello, il bril iati il
danari, preci pitosi i ga bligli, venne a tale che.... l)a Valz . e
assile la Itosi.... a patire la la lire, il s II', sei , con tutti gli altri st
Illi e disagil.clic ..., era gia venuto a un termine. lle il disagio non lo
olfendeva e dell'agio noi si ci a V a (riali W e il briligen dass...., 11 - :
dosi illeri, il venire a volte si furioso.... (i, allil, il (ſlale il tori, ea
lilelli e il nºt e V a 1 il 1 l l li do a V e 1 - o ti il to Il sito altri 11
venuto in povertà, il ire gli il li ri . :) V:llieri, c . I I I I I I I 1 ,
divenne a tania triSiizia e mia iin coinia il si volev l l I-; e il l . » l'
1-- I v. desiderosi vennero il 1 I l l: V . . le; e.... , I 3 , « ... sino a
tanto, he venuta discordia civile tra l ti: io e l'altro paese.... , (i 1,1
mil).« Tanto pili viene lor piacevole. Ili: i to li aggi e stata del salire e
dello slli (olti ro la gri V. Zza. » Bo ('. VIEN II? | IN ()| I. IN |)
ISIPI,I VZ |() N l e Nili i li V | N | | | | IN S( I R].ZI () (.() N. . V | N |
| | | | N | V \ | | (i i | V V | N | | | | V..... per renire, di l
riraro. venutasene in somno furore.... , l 3 , ('. calo il 1 alta trisi
izia e il la; iia a irli: i - I ne vengo in dispe razione. » Fit , l'.Veilezia
turbata li . Il testa per lita sarebbe venuta in qualche disor dine. » (ii: Il
j).a M: la Belcolo: e venne in screzio col Sero, i telli e li fa Vella....» Boc
. « Non ostante che tutti venuti fossero in famiglia, uniti che mai strabo
- - , le oltre le spel ea. » I3 ge.Chi mi sta pagatore l'Io venga a
dimani. » Bart. Ces. Questa parola parve lol te olltraria alla donna, a quello
a che di ve nire intendeva. I 3 , . VENIRE AI) Al Ct N ) che che sia,
conseguire, meritare. – VENIR | N ( ()N ( I ) \ ENIRE I 3 EN E ad ai tirio per
riuscire. arrenir bene, al maltro all'attimo. VEN | | | V ( ( N SEI RT ( ) V
l'Nllº I; l'()N PUNTO). Nori gli potea venir molto polti tre li dottrina,
ne di speranza, nè di autorita nè li gio! a s'avesse acquistal n. » C aro.( Il
le veniva loro in concio di Il gere, ed essi ll facevano con lor sen e 11 . »
I3: i rt.Col forte le 'la falli e la ali lo si levar l'assedio e tutto venne
bene.» Dav. MI l'asciassero a pi: el e e bilo: empo per le foreste e discorrere
a Irle ben mi venisse. l' el'el./partiamo d . ordo li la sto la soro, il to he
ognuno possa fare della parte sua quello che ben gli viene. Fiorenz.ma per le
ogni cosa gli venisse a conserto, appena fu in porto che s'incontrò il l.... o
IX I l i.\ Iſili hè dove gl ii e venisse buon punto, al re lo mostrasse. »
lºart V ENIRE, VENIR A \ VN 'I per occo , e , v. occorrere, apparire, mo
strarsi, affacciarsi. - Aguzzato lo ingegno gli venne prestamente avanti
quello che dir do a vessº. » I Bot ( . « A rispondere assa glon vengono
prontissime. » Bocc. VIENIRE A l) ALCUN () ll. F AIR CIIECCHIESSIA
(loccare, Jemand die lei le kommel, . A te viene ora il dover dire. o
Boct'. VENIRE AI) ALCUNO DEI CENCIO VENIRE Pl ZZ0) – VENIRE DEl. CAPRINO
e simili - ed anche solo venire per venir fuori uscirne odore, esala l'e
ecc. E quando ella andava per via, sì forte le veniva del concio che
altro che torcere il muso non faceva, quasi puzzo le venisse, di chiunque ve «
desse o scontrasse. » Bot ('. 920). E se non che di tutti un poco vien
del caprino, troppo sarebbe più a piacevole il pianto loro. » Bove,
Dianzi io imbiancai miei veli col sulfo...., sì che ancora ne viene. » Lipp, \
ENIRE DELLE PIANTE per reni, su, mettere, crescere, « Quella che mezzaliani
ente - lo iglia, a liglia e viene. Cresc. VENIRE ALLA MIA, ALLA | UA.....
a Venuto s'è alla tua di condurmi oltre Imonti. » Vill e da hin bringen \
EN II? MI EN ) a chicchessia - gli ºli p. I l:i, i lobi o delle promessº
e simili) \ niti il partito il 1 e il l via lo venir meno al debito delle
loro promesse. I)a V. Risl - , si il ve: a 'I 111 ssa : l' 1 si lill la
le giova il 18 di:lli , al quale non intendeva venir meno. B si ti: 11 e
1 li della s la propria ssi , V EN II I \ ( ENI ) ( ). I ) I ( I,N | ) (
) , ....... e tll (l: ll II il l:lti S1 ll verrete sostenendo. I 3 i '. e
venutogli glia ridato la d . . . [ 1 - Vi - e se l a... ... il venne con
siderando. , I3 . Fi: no alla porta a S. Galio, il vennero lapidando. , (
ovale, e fattosi dall, Illia! til:: venna lor raccontando.... ( - I ri.
L'utilita dell'udi e le ville º si liti di ora in colloscere, e le nel venirli
stirpando.» Cers. la lo) l'o a salitificazioli ( poll istal Ile! llo!) il
Vel difetti, l'Il Note al Verbo Venire ecc. è, in Irli Is .
Il li sll l'e 'oli 920 - - V oniro (lel cºncio ll - [llella spiace
storcimenti e con l'azioni di viso e di p l'Stllil, - - - volezza o nausca che
al rila di ce:icio o cosa illilipsilica che gli verrisse vedi la. scillili, il
lills il 1. : -) () s 2". Altri verbi di particoiare osservazione,
del cui retto uso si adorna il discorso, ed anche l'idea prende talora maggior
grazia e vigoria; e sono: accadere, acconciare, adoperare, apporre, appostare,
appuntare, avvisare, bastare, confortare, cercare, conoscere, correre,
divisare, entrare, fitggire, guardare, investire, lasciare, mancare, mantenere,
menare, mattare, occorrere, occºrpare, ordinare, passare, pensare, perdonare,
procacciare, ragionare, rimanere, rispondere, riuscire, rompere, sapere
scusare, spedire, studiare, tenere, toccare, togliere, usare, itscire, vedere,
volere. Accaci e re Il suo significato con Ilie, e proprio, e lello
di arrenire per caso, inopina la mente, in lei venire, seguire ecc. Il lorno a
questo non accade esemplificare che e molissilio e dell'uso anche più che non
bisogni. Mla gli all i classici : l i al dissi i vagano il l sless , verbo accadere,
in un senso assai pil ial , o elill Icannelli e vario. Gli esempi li diranno
come alcune vo' e si rii ti: con il lotto, con il corso, ed altre con cºn il '.
venir in acconcio, caler a proposito, reni e ad uopo, loccare, di parlenere, e
si ilsi anche a sigilli al e, ora la r di mestieri, bisognare ecc., ed ora
preceduto dalla particella non non essere bisogno, nichl brauchem ecc. ( cc.
Conſ. Pall. I. Cap. III . E in ende ai ancora come un sifalto acca dere si
avvenga alla frase e acizi ci si direbbe sostituendo altra voce o quello
che egli pressapoco º similica. IPerche io ho compero un podero e voglio
o pagare, e fa ne ini, le altri a Iati i miei come accade, a Fiera Inz. come si
l: Il tali e il costanze, o collis bell Illi Vielle, ( c'e'. . lolina
illo...., e iº gli risposi a ogni osa come gli accadeva. » Fier. i cioè
colive.lientemente, adeguatamente, o come lui la V e ol)poi tullo', e
.... e accadendo ti serva di me, o l'iorenz. all'uopo, al bisogno). Io
potrei, per confortarla, venire per infinite alti e vie: ma non accade con una
donna di tanto intelletto entrare a discorrere sopra luoghi volgoli e comuni
della risoluzio. e. ( i ro, non ſa di mestieri, o Illegio, lo i è oli velici e,
dicevole, opportuali, i c. . Etl alla donna, a cui il ll , lº i io
li pi i lito, li : ()r elle s'aspetta? So correi qui non la grini accade. A io
sto conviene, fa d'uopo . Ma dell'Ilso di Inett l'It gelift zio insieme, come
nelle Real di Sl'ilari: I e di Ilioli i sigli i al rilan: e in alci e l'Italia
si vede, essendo ti- , olt: a 111 inta no e 1 li l 11o-tri, a noi non accade
tratta e o l?orgh. lon 1 . ( t, il gli si app:i: tiene a .... e a III e il rio
cadesse il ri; e il vi 11e di ei, avendo rigi a: il che '.... , Bo .. t .
. ss , - appar lesse, , i so, li i i ll io V Non dis-e: i a lizi
(ſt 1: Io la r cadde lº do il le? , ( es. o o se, a V . Vell veli : .- . ll ii
l' .... accada : il la di II lº - stieri..Fece cos e colla pr -: i o!!a spada
che non accade adorna le di l: I: ( e, p Cirle.... , ( : l 'o. i liti e, iroli
e le ossa ri . .Qll:) !ldo il rili di leit I e II li ſi l acca dcno altre ti
-si l: azioni. . (ri, Zzi. lion , li li la d'ltopt di.... . E lic, chi i :
istiani - li Iile ! I po a si'l citudine di sal º : : -i. ] il ce: i letti I l
accade, Sia il I l II toi, le cºl ltsinglliaIlio . è lI::l 'life-ti- iII: , S.
.. . .Ali, il non accade , i 1- I lii : i g male! » Sºgli. Iila: lor: i ti lit
li lit.... .N li accadrà, - . -i, li d'oro il 1 l izi l: i i sta il listino
giornal li le t in . i ! e col Salinis a.... l) ils IIiti in In.. Segm. non
sara bi - Ogil ( ....Non accade per ta: to i lie i t II li' li -so di lui l'in
- l'Ize. lol dl }ivi , i, l1 Il cli . . . . . ll 1: i ', - , Il li Sºg lì.Vi
bast ri e ai la s; e iº li mi l britto a o che fu commesso, mln . . . il mio
lo; e qlla ido, altri, il e o lo o ign ra lite. A olesse e spritri, o, avvis
it, lo amorevolmente che non accade. Segn, non con vie: -i - Vie . l .Il qui e
disse al detto Fed rigo: \ndate a trovare un certo giovane ore e fice che ha il
III e le velluto: quello vi servira li ti belli e gel o non e gli accade II io
disegno: ma poi li è voi non pen-iale che di tal piccola cosa io v e in fila
giro l ' ſ tiche. Inolto v lentieri vi l'iro Il m po o di di a segno. » Bell
Cell (non è bisogno che egli abbia, o io gli fa ria Il litio (lisegllo .A cc
orm ciare la ssi sºlº il ro - se e se li rai ii garbo e non so che di
eletto, ll Viºli alla II se la Iso i si litio di questo verbo. Guarda come, e
il lilli | is ssi I, elio che non là ordinariamente il Il 1 del'11 . Sgrill I l
pl plio, acconi da e, assellare, disporre accon cui mi cºn le mºlle e in buon
ordine al l inger, si richten, lo dress, allogare ssi i i ssa a conciati e le
gambe, le braccia, la testa, ll il ct col Not, il luci col tr . (. ll 1 l. ll .
. . . . di colecisti e cut ralli, uccelli, diamanti, l'ilari e ce : lesto
verbo, costrutti e maniere leggi: i dri, e li ill sigli il l più aplo e
figurato. Acconcio le braccia i li, l l io l'. (.lle si s .... e, a da l
idel e .. averla veduta quali lo s'acconciava la testa. (Illanta diligenza, con
qualita il ll Iel: l i - - , l SI | o! | i ti va, la V Via Va, intreccia Va,
ol' il via i l lil'Il sil i l i 11 il lo e le li li sappiamo acconciare le
camere, ne lar, in olte , sa le a . . si lati: lo sta si richieggono.» Bocc. E
e il tro i la si pe ll it lta, la quale molti pruni e al loscelli avevano
acconcio il modo di iolo o d'una capillnet a. » l'ioret, Racconciava , i le ,
(.es.E' e all'il: ci lire i diamanti non si possa lo acconciar soli, i l':
i , il l: -- l tra l ' o. » l8ell. Cell. i vz: ezioli e le lezza elle e si
veggo:lt il lili iE si acconci i lil, . . . . . . . . . i lor ronzini, e il
lesse l ' va ige, e lº \ sl e I I I I se li ve : ero a F l'elize. I 3 r . ri è
st l'illi, il ll(ili ni: elido . lle a vela l': i slis- gl tl , e g O\ el'll
Ssel:ì bene. Chi libio, acconcia la grù, la II - a filoco, e col sollecitudine
a cuo .VI esse l' . . . . . . preso, e per acconciar uccelli viene in notizia
al - .Acconcia il tuo i i possº esser tolto....; se l:ai d. ll: acconciali per
modo li si sappia sieno tuoi.... » Morell. ( 1. ( 1 , il\ vello a tu qll il
Coni e il figliuolo e la figliuola acconci, pensò di più a li le cliniora e il
l Inglilterra e lº allogati, i messi a posto”. Seglioli al time parlicola
i manici e usi diversi del verbo Vccon cia e conciare .ACCONCIARSI p. es. alla
mensa. Fior.: ed anche in significato di porsi a sedere, mettersi a giacere
acconcia mente, assellarsi ecc. . Si acconciò gentil IIlell, e i ti voi:
. Egli verrà la 1 Voi il 11a bestia nera e o li liti,... (Illa ndo a
costata vi salà e Voi allora Vi Salil Salso. e colli e slls , vi siete
acconcio, così a Irl) do e che se steste e ries . Vi rc II e IIiani a tito, se
:iza piu o ai la bestia. » I 30 ('. \ ( ( ( )N ( I \ ItSi esser
utcconcio ut, o li lati che ce li c'Nslal ciclot I lati si, russº gnarsi,
esser disposto. Il to, tppa i cech lato..... Io lo :l po-so acconciarmi a
l el I e re.... » l 3 , . \ (livelli le li I): 111 .. . a pl i ro a ... -
l'e. sospil i.... non pote; gli rendere la lei dili i donila: per i quali
cosa oli | il pazienza s'acconciò a scstenere l'aver perduto la -la pl es Inza
I 3 , .e Io non posso acconciarmi a perdere il fi l'io a file si cal . Cesari.
« Io mi sono acconcio a biasimar to I 11 che Asp) , gli lotli. » I): I V.
Io sono acconcio a voler vincere Il -: i cºnti. » I 3 . E come io sarò
acconcio, V -st ) e alla va º lº i . Non è ia carli e acconcia di
sostenere . r i ve l Fr. (ii in l. Quanto più se puro, piti se acccncio di
ricevere Iddio e Fr. Ci lo d. Quivi volti i navi in tiri ſia rico, in acconcio
di lavorarvi. » Bali. i la V l',1 : vi m a E ve le; do l'
Argilla i in concio di cavalcare. 13o (disposto, appa l' chi lt)....
i A( ( ( )N ( I \ RSI ctconciati e atlcino ( ( ) N ( I | I ( ( I l ESSI A
conciliarsi, (te cordarsi pacificatrsi . \lla fine... s'acconciò
col Fiore: il il li :lti i ( illelli (li l si allit, to: Il ssi iI Vleli
agli 1. o V ill. (i. Lo e pri: la II :ito il ole, per racconciarlo con
Messer :) lo li Valois. o Vill. (i. ... col quale entrata in parole, con
lui s'acconciò per servitore facen a dosi elli: II; il r l: Fiºmille. » I
3 ( . Nola questa forma singolare: acconciarsi con alcuno pºi se
ritore. \CCONCI \ ItSI NEI I VNIMI ) capacitarsi. I 'carsi a crede e persua
tlersi. (ili ei trul. \lti Silli SI, V ii e ! :i 'li, l'Isalli, e ci sia
- acconciar nell'animo. ) aCCc: i ciar ine! l'aninno , l l3 - li V . I
distinzione e \ ietti li ! I Ve!'l, l: (i iallllo. (ieil. la
melitoria e le |! l - , vi E acconciare nel mio animo, e non ini parea
lecita - l - e-- l - lº s; - li S liatori. » I 3: u.
Lat. \ ( C )N ( I \ A Nl VI \ / i pati si alla no le col ricevere l
Set 1 e mi cºn li li il ciliotti lº si con ll li ecc. Vi es . ( acconciasse
i fatti dell'anima t: glla le, e l a li: il 1 e il . . l l: l. sl a
i (lisse 'lie egli susa, i l si che egli la voleva Z: eri Vil. SS. I Pil
(ll'. v( ( ( ) N ( I \ | RS | | | | | | A N | VI \ il n. i da i
falli dell'anima . ct no io rsi in ciò che riguar N e ciate dell'anima
Il n al! Si li: i pilli ! sto cle vi accon - i lì piu al
tempo, V ( ( ( ) N ( I \ N ( ) \ V | N V | | | | | | (il ('c'e'.
F.1: e volesse stare a ctl i l'u . - I l a bottega. E Vi , l
Acconcio con Maestro , la rasse i . . . . l acconciateli I
tl. lillo , a io lì è inil \ l. ( N ( I \ I tl. VI ( Il N ) pr millo. Il
tra Ilia I l . l i nºn lati lo ecc. su l ich len. \ ii farò
acconciare i l Illia lii º l i si tr . . . . . lle tll ci vive: ai. » l
3o . ... Aloi li . m'acconciò questi ll e g le I); o V el li o, o (
a ri . Sll : il l lilli 1 , l is s'. ll I Il 1 littl. I);l V. lliti
sei lili la ll !! ll glie lo concierò l'eli io lº \ IR E. I ESSI A IN A (
C ) N ( I ) li.... in vantaggio..., facen do cioè se r , e checchè sia a suoi
lini ecc. l?erg: lilino i lor:i, senza pil nl o pensi e, quasi molto
tempo pelsato a il V e -- e, subitamente in acconcio de' fatti suoi disse
questa novella. » lºoct'. ( \l) Eli li reni e, lo ma, I N A l in 1 l
propºsito, reni in luglio, rec. . Qui cade in acconcio , I , i : i S. l l si i
lºrº di ioso voli in ... , se iTorna in acconcio l i - . I l S. , , , i Nºi voi
i 11 - i º se stiti - il re: il 1. º , a tra i -, z º di e, dal e più
acconcio ci veniva, i l ingrºssare il vo . Il V Ad operare
Per poco che al li sappia di Lingua, si accorge ben osſo che il voi , di
loperare dei seglie il I sei il pi è ai l i costi dei lorº il rio e con illo ad
ºgni pelli volgare. - No ai soli a l I I I I : alopei a e bene, ma le o anche
solo taloperai e, per lipo i lati si, gore, narsi, con le nei si; alope) tre,
operare, la r opei a con alcuno li e..... l 'pri ti e', operati e che.... pºr
lati sì, procacciatºre ci : e inali, il ciclopici ai ci ... per conferi e,
esser utile, gioca c', o con lo si i e oggi lo on influire. l eggi a Iuo
prò e al dile o al resi. V i lido col e si e-s, li iii , ol, i quaie avea
l adoperato per le a slie III: li I. , I o el1 I (verrichtei). a ll re
quariiunque adoperasse i º pr. a, an's Werk seizen). a Mi la V z1 : ve il nr ad
operaio i i il 1 il lil. . . 13:1 rl. Ne ſilesi , gia ch'egli vi
adici rosse. l - - -o sl 11:1, l'III e l11 Il 1:1 s ... , vis il l i | , , v –
i V , 'l 1 l il 1 Isse, Irlett -- ed egli il pil ct, i vi l -i, iniorino
ai i quali s'adoperava con l' it (... ss. (); il roli e il lil cli: a C0pera
l.ene o y I l a co; i do ci i ri! tura il - ii Is Izia, - li l ad opera male e
vizir - Viv | - li si diporta, Si ccntiene lº : 1 –- verfahri, vvandoli ,
iti).e .... li oli mi ero la gr. z ,: i Si - berte a deperare, che [ileia (i (
ri: la no tv e ! 1, governo di vita, ecc.)e il V , e le si illi, o il la il
lili, la liene, virtuosi, troppo modesti, le belle adoperando i lileil lido -
lo appregiati....» Dav. Col, iv. I l l ita 1! Il sºlfi . . niente ad opera
malamente, tutto fa bene, ogni - le glova, e il s Salvani non agit perperamº.
lo II el'o, il ri . . . . . . . . . . . - o, dove il confortar ti vogli, si
adoperare, e il e . . . . . . l: -, redo re al novelle, le soli i lilli 1 º te
ti -Cosi certante iº e Ari it – V ssc, adoperò colla famiglia. » ( i s. si
\'.v)lli: li : Il la l o i ri: le tv l In- ll It ! ! a, e tali o col Re adope
rarono. l'egi e 1 , il l / s la i3 (fecero sl, operarono in modo,
procacciarono).i lil:n le li so il il vi: ti ſia di m 1, operò con l'apa
Gregorio - , hº.... » (1 ialml). id.)ed egli, di e, operò talmente con Cesare,
s . ll e li perdonato il 1 l id.E tº it , adoperarc no gial l V el:a che... o
Bal t. ferirla ndo ll ma l operarono li, il 1 e Carlo, ripassata la Mosa si
torllasse llel rºg il s; I ( - i.... .... e farebbe opera li . it la liri º la
sc a lìoln n. » I) tv. id . Io vorrei che i 1, ne faceste opera di villa N .N.
» Caro (vi adopera sl pressoºl li º il colle per a sua gracilità Es ) vi
il dl -: ma , in egli era il s ii ei cui i valta - at , di si' nza, di
compagno, di luogo, gli sempre adoperar tanto e S: il riori, ch ... »
Cesari. che dunque a soste itali: rito dell'onore adoperano le ricchezze,
che la poverta non la ia molto piu i.lilalizi? Io :. il fluisce, conferisce,
giova , « Ma loll di Ilent la ceV a, che poteva, per rientrarle
lnell'allini : li la trielit parenti e li adoperare, si disperse, - Il 1 ne
dove - sº, di par la rl esso stesso, lº giovane, effettuare,
procacciare). State alle li e di buona v glia; che molto più adopera il valore
e l'ardire dei pochi che la inutilissimi i tumba ro, a, quando la fusse
ben t infinita. » (iiamb pro accia. . ol' 'Isre). Si moli da ultimo
la maniera: in opei a li.... i pel in fallo di.....) lonio ( i lissimo e
di gran traffi o in cpera di drapperie. » lºocº. e trovato le in opera di buon
garbo, di de enza e di dottrina Vill e va l'aspettativa, mi sentii i
liar, al c il rilore. (i illh.App orre Olll' ai valori e ieller. Il
proprio i tggiungere, arroga e poi so pi di Sel, il re la confusione del polso
e PI 11 cipio tu del mal della il tale, con le li N appi ne ........ l ( ) ll
il l i lieti di appori e il 1 - i gi li - - iulo. , p e iº le : li ra i sl: i
lig il ' . . . di ripula 1 e' accusa e, in colpare all riti di qualcosa,
aldossati gliela, nel lase apporre ad uno una cosa: l li il 1 i v. l i - gi;
ella follia | I l il 1ale : cippo i si Imparano Is , c live , l ' gi! I
lag esempi. I rito 1 a l er . . . agi 1 -- lei, e ora apporle questo per
i- usi li - e. . Bo , .E- ii e il V o cl II , l ' Irli i g IIIai sonº la mente
io sven t 1 at ) ::: V , le la cui marie e apposta al mio marito, la quale
luorte io l it ti: B . .E le appeni tu ad alcuni quello il 1 i il III col silio
t'hai fatto e iiii? , 13 , (r, i 'lo: i -- : ci t st: l) il che mi
apponete di coolnestare | e e lil iio la c. 1, l Illa. . (i illl).E Ve; 111 e
il rili lag ill: r. 1 lo si, e s'appose, ( l'eli t loss ( sua 'Iloglie, ei sºlo
a l'i! ). » Mallia ! 11. l'att i l 'sti 1, lis - e li, il dr. Ino. l la
illg. elier asse non ti apporre sti a cento. . l):ì s'. Il 21 i liti, vi resti
li li lilla i lorº le co; 1 o Corsi di relli i quei gr. ll li il mini, i
l io l .go per certo che si appor rebbcno. » - n. Inoli s': i galil; e) ebbe
o Nota al Verbo Apporre 5,3 I) a º nel segno. ragionando, è il
pporsi, le collge lire, o forcare il lasſo e piglia e il nel bo della cosa. Var
cºlli.App ostare (Dar posta, star a posta) ''sl - di chicchessia
o si illeso, cioè (lulalido si: s - , l .\ - è issa e il luogo e le
tipo s'. Il V : - s ci si s s' il ct ch ein dei tedeschi, l suo pit
) e', e in quel luºgo | | | i rt (I sua posta, con I. Parte II ( I l . ll
i , i', º i apposio c;uando i lollio . si - i disse l'ogii quella :I - le
glali lint re è e.... l'. I l l - l'avea apposiaia | 1 g l'allo. , (i azi.
Appostato il piu ienebroso tempo i l tacite, , lei , ioè nel quale il so: i s -
l. : - , i lil a :. ll sell on clie:almente . ll . :is: i ... . . . . . . . .
.... ( si ll e lo appostasse sull'ingresso del Campidoglio. ll mi - la al liri
o di s in ital re, di frecce e l Segì).I :: dove aveva appostato, l et al
pullm: o ill sul villf 3e; n. l va o, lis- llo, i retto il colpo).VI it l'ill
si Is sennaio. Si sta, la Iat il asta illega vi lo, i . Apposta ove colpisca,
on a o va l), l ' orlo tutto gli l'avvenuta I l o ( il l .\ v . . . l l ego lº
appostar gli Austriaci, a . . . . . ti tasse il la a sul pi e-iudizio. » Botta
te :I n lo lo i in loli - li alidati i ti. le r data posta il l lie tiva
e noi i vlt il cli'io il vi trovi a Quel mal. Ieri in una siette due anni
a posta d'un sold it . » lo c.App urntare 'A | | | | | | | | | Il lo si '
i loli - li ai i . riprei il l 'o r . tippli il latre il ct cosa al di la
uno. l'l'ov l' . ( ppm ti litri e li e .... ii.... l'i: il 1 III e appuntiti e
un colp , e | illlo presi di illil: l. I gi i - t ' ' ) - ! . . . .
. l; i si. -: i l fu appuntai o V tº! :lli lo sono, i Padri - - , i
: : : ' I in pirole. , I):ì v. I l . .. . I t'i .- I: - - I . , fi,
i I l - I li. . I ): I V , le liti, il li il .... -; l - . . . l is
-si l i - i l. S: 1' iot: vi si appunterà l l i' 13 º 1. E di li a coloro
la II, il 1 , Ser Appuntini. , ( S. S l it 1:
AppuntoSSi che s- i t ... , I ) l V. Appuntò coi detti l' 1 l i
tutto ciò l: 1:1 Vl: . S. 11 , l appuntò un ci: Ip o l: film
inò il capit: o o | Ianti lo ci illavº i . Avvisare (Avvisarsi - a
v vi sco) Allego si ripi non del verbo il livo a rristi e I tir e
risapev. le. I vv . 1 i re, I menſe, il quale in viso a chi og:
g:iela i Il lº 1 . . i. s', i lice: i :l I l il
altro, si al l o rimase agli sciope::lti l 3 l: ali in lil ( : I
)i, ci si lti liasin i d il il; ºlio rilli - , , l ' il 's si t. e
tt l'olarsi, ordilla) e tº . i di l: colpire il l' - . ! ! !:ì 1
-, i ri'app lº ri: sv ) I s II, V a 1 , gl, \ si appuntar noi l -
I l ' ' il il i il appuntare : eppur un apice, 'i - e tutto
appuntano, a l - i; - ! :) li ... la isso il pari pt Ito, e
noi la r il riso, il vell , I tivvisi , e. l' Ili. . issili i
i -s ( l' i l'i: l' " Il liti i ligi ri . . loli l'illoleri. Ira del leill
ro assoluto, o prono I l hº gli sli, le il valore simile al s'avis 1 e avis dei
francesi li irri in tutina i si. I ti sei sl, la si a : ci lei e co., il cili i
so, se ben in avviso, I l si ggi ci si po spelli in opera di lingua ed è
a ' s i cli l'oli gli esser :ili le liti e il prelibar l I l:
! . I si li : al avigliosa gran ! . . . . . . v avviº arcno : lei, i - in
esser velenosa dive I il avvisava li ss e passa r . » Bocc. sup I l
.. li-:i avvisando - - iº l e dissoluti. » I30 ('. - i l avviso il s.se; desso.
» Bocc. lo avvisò i li i' alcuni luogo ebbro lo II : -i, si l e o lº .i l s ! I
1... ss, il ssetto, 1 ist e dolente se ne tornò ; s.l, avvisando - ti - r.
-I:It i ... , Bo ,li-s, E e Seco avviso illi Illa, i no ll doversi I ve -- l 3o
.avvisando i l e ella gii piacesse poco) trove s ii e lº .l I | tesi . ll e l:
e avvisò il vocabo l' . I ells l'e li it , S'avvisò a coluso
ss e trova: e di ... l . . . l ' ' , | 2, . I atto e deliberò I l e' s si
s i vi e - ssi di vole sapere - : ! ed avvisossi del modo nel quale ciò gli i i
l3, ... l , S ( avvisati - - In che Illes o così ti faccia? Saccº. I .V
-: i - . S'avviso il l li llll:n ſ l /a d'alt lº lì:a : i | . . . .E per ivi
set s'avvisò troppo bene, come egli - V. - ll ' : i .Il pil) , io si à il lia,
s'io ben m'avviso, rispetto ad un altra assai Il l: si Se; ll . Se
gli al riso al ris di un sinificato ill: i go sl , lº sllo di crisi i '.
: i l'avviso , le ''I I I Ilia della sua bellezza il V i 1 l in tºs ,
l \l: :lli il II lili il . V e e l o il sallo avviso. l): \ « Nè fù lungi
l'effel si o avviso. » B cc. « A cui 11 in era avviso , li fosse tempo da clan
, l ier. e li è già per -: per l'ill Ie 'il' gli vi ad pe risse, ci il qll 'lo
smarrimento non vi rimase avviso da tanto. » Bocc. 579, acc ol - rilentoe fatti
suoi avvisi accettò la proposta. I3 po; id I a ta li li le e l'i cosa.siccoli
le usanzi su l ess, le li fatti suoi avvisi, spedI. . 13 i fattl i s Il ri . al
li, .I)omi: i lidò il pilot se vi era avviso del I a lisca il lº i rt s si s
orgea a Apple la avvisato da lui questo peso il il p . In 11 e-cºit se
ne riscosso a Ces: l'i. Note al Verbo Avvisare 5, S - Nola il
linº al 1 al riso rsi li ti ma i sat. d i siti si il mal cosa, e vale la d ' a
lei la pens. Il ct, i | I l s rie, ci - ci) ruſ e rsone'. I )i si ti li hº i
risa e il noi cosa, per il rei tir lei, notarla. Appena arrisalo da lui questo
peso di ieri di I e di presente se ne riscosso ( esari,579 – Quanto è vago o
lorev | Iesſo il is gg si direbbe: Il - | perocchè a tali strette, non vi
fu empo li peli sare, escogitare, o che altro cli si limigliari i c. E a
stare Polli menſo doppio sensº di basſati e le seg: lili o il violi:
()nte sl'arle basta a me , cioè in è sul lirielli e li li li i lis alli: iº
basto a quest'arte ho mezzi e forza per..... le lili l: i lil, le liri, l' 17 e
il livalho ad imprendere... La prima è comunissima e volgare, le tre le chiali
con esempi. La seconda all'incontro è maniera eletti, e di quei pochi che
sentono un po' avanti nelle rose della lingulil. Anche il bastare della
frase buts/a r l'animo o Se vi basta l'ulmino di far che in accelli
offritenegli Caro Conf.. il Valli l nino - è al purito il bastare di
questa seconda lo ilzi lie, e indica pressa poi esser (l'animo da tanto,
giungere, per renire (l'unino a tanto, e vi dicendo.i la ro: ra . al its
bastiamo, a 13occ. 5S0). - i r re i al l i rbicati e cresciuti, i il bastiamo a
stir : l . bastere;li e. . 13 or sar hl) e ta . . . . . . n . . . .
. . risentirle una copia i ra i on v'avv a quivi dipintore, che a ta, nto
bastasse, I le dele (li. I 3; i 1. Note al Verbo Bastare )
Sſ) l'id è lo stesso lº il ci l dll e il vece, con le diremmo noi, il si delle
donne lo slot l'atl e l l'uso e l'arcolaio, non disse lui slot, Ilia è assai.
il so, orsi e rifigio di quelle che ama mio per i celi è all'all ssati
l'atto e 'l luso e l'arcolaio il di l': i Cercare E il cristalli
lil e I l nl 'l Nucl e il Salili i re, slidiare con il tenzione, I l is e, il
laga l' , col sill' 11 lt ll ſi asi: ci ce l un libro, cercar le di se ci I
citi una perso il ct - . l)i si il cc i col 1 e una città, una terra sigilli
passa ossei validi . . ei clo, la co . li oli al lilli e soli i pi:
( )li le!'a il e lilli e, V agli illi: il litigo studio, e 'l grande cercar lo
il volume. o l)il lte.i Lercol 3 al 1 , e , i li, li i e i buloi. » Caro
(ricercare una persona sig: i ii a il l e 1 i lie i ': li .\ clotto) etti si
-si il te: zo e alla metà del gua dagno, a cercar le case, e ieva l s : il 1:1,
e, per trovar e li godesse lasci lita C, alla l):l V .I 'e'.rso li corcarne la
divina voi omià i ll Zio, le altrui, o l'ior, n iºgge.a Cli ben cerca
tutto il vangelo forse non trovera che un siffatto acqui e sto di tanto pop lo
il solo un tratto in esse mila i lle sue prediche (i ( (Ill:llito il Sola
( [llesi a breve ( r; i t . e S. Iºietro, a (.. º rivolse ogli diligenza
- l' e di Illili i lile. ll i s loi a cercar della sa e nità. » Gianllo.
Elissi: cercar : utti i mezzi. Inet r . - mi premi per ria - V el' .a Sillitti
,.a Augusto cercò di successore il rasa slla. l)a A allA. - 1; 1: o lio. Indigo
per il Vere.... e si liliso coli - I li stili (l: iige: z a ricercare
falda a falda della Velità. » Fiel'eliz “ El a Ve lº io cerche molte
provincie cristiane, - per Lolibardia , a º al rallelo, lei passare º I II:
iti, i vs en le le ali da 1 lo di Melano a l'avia, ed essendo gia Vespl
o, si s litri l'olio in 1:1 e il il l Ilio. » Boc . Mla poi li è tutto il
ponente, i senza gia i ſalti :i, ebbe cercato, i 11 t l'ito il IIIa l'e s
ile 1 : : 1() , i V ess: il n 13 , . . « .... e pot; ei cercare tutta
Siena, e io ve li troverei uno che... , Boc . a A Vell dol' cercata iutta 'a .
li col e ssell gia stali o Ill l II li-i ill l'itori la re. o Fle: :lz.Tutta la
vita si fa a sposa l'i loliti li-simi pellegrinaggi, cercando i luoghi santi
del Giappone. I 3 art.« E con i grandi ravvolgime liti Filire i quali ora alla
ti inontrº la , ed ora all'opposta parte si aggira ricercandola la terra, quasi
per tutto..... » (iiil Illb. C confortare (sc e riferta re - Conf.
D is sua ciere. Pront.) (on)orla e alcuno a qualche cosa, che si faccia
q. c. ecc. e pel sili derlo, so Iarlo, in arlo, spirig, l' i lil e . S ºf I
larinel è l' p oslo. N i li per i recari e alcuni esempi. Ed issa i
beni a impa - , I li la trie e il torri li da tutti confortata al li gire, la
valuti il podesta V litta, il III lo col l Ilio Viso, e ce li saldi v e quello,
che egli a iei dotina li lasse B I 'oi del suo alti i lite ri o li li lo-
i' (Ill: el: otto lil ( st 1, assa preso di quivi, aveva in un io a
ccnfortar Pietro che s'andasse a letto per io che tempo ne a o l'o .e primi i
che di quivi si pr isson, a cio confortandogli il Podestà, i mi
odificarono il grillel statuto.... º lºFresco conforta la nipote che non si
specchi, se gli spiacevoli, come ll e A 1 , e ti º 1 ) : Ve lei lo i si. l o .I
testo ma i ti o confortati da lor parenti e amici, che riconosces se oli e voli
ſessare. » G. Vill.V e il nero, il V a 11 , l Il 1 confortarmelo che ubbidisse al
ri . o I): I V .Gcnforto tutti a lasciar . si sa – glie, l'orazioni e comunioni
Zulin ::lli li , Il l i. l)a V.s confortandomi al tornarmene a casa. » Fiel'
)nz. - I serio i silo il confortavano di temperarsi e di allentare l'in i siti
il sil i alti ( 'esa ri.Se io vi -si p a le!! come tu mi conforti, l'anima mia
a noi e le ai le li/ si e io ho dato la carne lli: i.... ( il V .\la verido ,
sto o portata l'. I bias ial a ad Ell fragia, e a ciò per molte l a io li
confortata - l is - e s' i lisse i olte l'ag : ille, e coll a Inaro pi:
il Quai a voi li s oi . . he a cosi i lte cose m'inducete.... » C o
noscere (FR i cc n cos cere) ( o mosco i NI ci li tra i set. -il ii
so se con noi il re de I cl., significa in l'ulci se il '. 'onosce il no
, , , l 'ce lessic clu allro, è di s'ill il 1 I l , is . ('onosce e o riconosce
e una grazia, un ja col e la .... è lov e la, il I l il lirla a ... i liti rare
di averla da..... - omose, e della morte e simili li il no, vale
riconoscerlo, dichiararlo eo li..... l?iu' , il N . . . . . . . . . . l ' , l '
l?iconoscersi di una colpa, di un è liſossal l . s io mi conoscessi
cosi di pietre preziose, II e io ſo d'uomini, sarei il i vi ! lle e º I, Il
Matt.per quello ne mi dice lº ſietto che sa che si conosce cosi bene di q:
lesti pallºni sbia vati, e lº r.o i ll (º non si conoscono il l fſe 1
l punto d'architettura.... » ( es. \ , il donº la rispose: I o la o
si: Iddio, se io non conosco ancora lui da un altro. n l3 , l . V qui -
unità si conosce dal mondano lo spirito di Gesù Cristo. » ( si ri. a Opera da
dover far da Irlatti, il che si conoscon meglio le nere dalle bianche. » Boc .a
.... perchè levati quelli, la plebe irrilla oserebbe: e riconosceriensi po scia
i complici dagli amici, o l)av. « Dal tuo I (rdere e dalla i i la lo! lla
le Riconosce il grazi e l: i vi itti It . l):al 11 e . “ Basti G e Inalli
o privilegiare che in consiglio dal senato, non in corte º da giudice, si
conosca della sua morte, el r . -t val del pari. l)av. º .... e
riconoscendosi dell'ingiuria atta a questi frati. » l'ioretti, e Allora egli
riconoscendo la sua colpa, fece penitenza, e donandogli perdonº. » Vis. S. S.
IPad. Correre (Disc correre) I la molli e vari Isi e formarsi
di belle maniere. Nota le principali linello e Iri III li le seguelli esel
pi. e I | rall cesi a ºltrati delit corserc la terra senza il loll col
trasto. » Vill. 585). .... coli in id) :i correre il regno -a loggia il clo. »
IBartoli. Illustre predicatore che corre i puipiti d'Italia fra gli applausi le
do a voti » (iiillo.e I ( Ini di Ibi: o il r.) vi Il viate corsa questa
preminenza. » ( a l o. «... assai mi aggrada d', ssere co ei clic corra il
primo arringo. » Bocc. 5S6 . Me felice s potessi correre questo arringo i
velido aiutato l'opo la del « Vangelo. » Cesari.....egli II le lesiIII , del I
II lillò (li l'iri la liersi e correre la medesima for tuna che lui, nulla
curando, nè la perdita della slla nave, nè il pericolo della slla Vita. »
IBart.« Di sette lance che corse li rilppe cinqlle con allegrezza e meraviglia
(l'ogli tl 110. » ( 1 l'o. a .... queste ragioni mi conforta ono a correre
anch'io la mia lancia in questo al gºl nonto. » Cesari. a Lasserò correr
questo campo della poesia a voi altri Academici che siete giovani. » Caro
affendere a quella, dal e opera alla medesima).· I l II o tempo correndo le
luci la citt non perciò meno l sta inte . ontado. , Bo .si li live sale e
contagiosa fù l'infezione che fra loro corse quel l'a ll 3a l'1.tra gli 11
corre un intezione di febbri di ... - I pessima ragione, ll ... ( i vzi. Nello
st: 11 - che allora correva. (rilllo. I ) , l'eta di Demoste le : il testa ci
corre 400 anni o poco più...» Dav. 587). \ : corresse spazio di un ora. l3
.Corre quest'isola in lungo sette miglia, e tre sole in largo. » Bart. Pe
o mezzo a l.it , l e sa l:ndia corre di itamente da Setten I una catena di
monti, e le sl - a da Call caso e scende a... » l 3: il I agii occhi gli
corse a -- . I3o elle gli SS E al cor mi corse ( ia i colli e persona ſr.
I l . . . l): i . ln - correva per l'animo e.... » IBart. ( (
I il pericolo slle liner all tizie di gran avrebbo in corso in mare. 13:1 I 1
S) ( N ( ) l) l. | 3 | | | ill). ( ( ) | | | | | | | | | N V | | ( ). I |
Sl.lº \ l/l ( ) l) l.... In questo a so dove corre il servizio e l'invito
d'un mio padrone. » Caro i . se son pi ve lo disco , cre, usato a
significatº: cºn lº ami e la scom e e, derira e ecc. si lelle che
nelal. Mii la- i ere e buon tempo per le foreste, e discorrere cc me mi
venisse, l'it''.e da questo discorse un uso quasi davanti mai non usatº,
che...» l'80C'e'. a io lo - i tiri la discorrimento per l'ulta la casa º Bart.
- mi - nza discorrere il fine, si lan io subito alla scurre e misesi a pende,
in li di quei ciuoli, o l e ºlz. Senza lºnsºlº al come sia l'elobe : il data
a lillire la cos:lº.Note al Verbo Correre 585 - l' idoperato quasi al
livamente, ma con significato più esteso, figurato, che non farebbe a pezza un
equivalente al letterale ('O l 'Cºm'e'.5Si - Notilla Illesla frase: col rer
l'arringo, e similmente le altre che seguono: correr una lancia, con i ri
il campo ecc. Si - Noli ſtesſo impersonali ci col re. I corre di questi sei
ripi, è del tempo e del luogo che, fila si scorrendo, prende e traccia di ill
pillo all'alli o dei lo spazio I: la determina la linea.5SS –- Qui con lei e e
ad uſiiclo di occurre e venire andare. Nola e frasi correre al cuore, correr
per l'animo, e simili.Sº Q1 slo Iriodo: cori ei pericolo è con uno a molte al
re lingue alie (i clah r lui ieri, ecc. Divisare Senlio questo di
risare nei pochi i serpi che ſi appresso: a signi irare ci è mai rai o
dimalamente a uscinander scizen dispore con ordine, scomparti, e parli e ed i
licli, pensati si arrivare ( cc. li loro l'illi i i parlare i 'loli i c.
v. gr., ho di risalo, mi son di risotto, per dillol: l' 'i la propos, o,
deliberato, deciso, non ad esprimere, come ſarebbe chi selle e parla i
alianamenſe, che si è pen safo, ha disegnato, arriserebbe che..... a
tenelidº, per la rino che la cosa -- e passa 1:1 con i giiela avea egli di visata.
» Fiel eliz.a .... ed appresso ciò, che i la' e il V sse, il ritº e il silo
reggimento due rasse gli divisò » a useiirald , setzte . 13o e dagli
scritti del salto trasse materia di comporre il sil: ingata Irla tel', la II Il
libro, Ill e li cºl bel ' : dillº diviso | Iti: la tra i cia (leil;a
l'olen zione del II loli (lo. » I3:ll'1. « .... ed e-sendo : -s: i
feriali lente dalla donna ri vili , le disse che cosi la resse l'il la r la
corre Melissa, divisasse. , l?o r. a .... la donna.... 1 i clonna Ilula 1
e (iiosef Illello che vola via si la cessi da desinare. Egli il divisò, e poi
Illand fil ora lo ri:lli, toltinianielli e gli a cosa, e secondo l'ordine dato,
ti ovaron fatlo. , lo .Voi avete divisata la cosa assai bene, sicchè mi vi pare
compresa tutta e a Ilatelia dell'eleganza, o disposta, ordinati . Ces.di
ſilelle sole vivande divisò a sti i cuochi per lo convitto reale.» Bocc. a
Verall I e II la i lill. ll ora per te, da avarizia assalito fui: ma io la via
e o con gli el l istone, le tu li redesimo hai divisato.» m'hai fatto il pil e
B . . . Sl, ma i Ilie la sinagolarissili la differenza, ch'io sopra vi
divisava.» lei o lì a te il sito per le usa da vel un buon scrittore, e
si Il bo a al volgo. ( sl se la divisavan Ilie doti, i quali.... » Ball. si
elisavallo, avvisa vi 1 . .\l l'i mi diviso, le rimastis: Iuori quav dalla
soglia, vi mirino filgl ill: :ld . Segli Ini figli l'o).si che io mi diviso che
non a rilisse; o i miseri di alzar occhio, non li orli : l pil le.. Se gli.11
ilare un vocabolario d'un per il : Itti i vei bl, divisatevi le nature e le
proprietà di ciascuno. » Bart. do- ni di tal ne trarrazione, se non che troppo
a me lungo, e forse a li legge in si evole : ills in elole, divisar qui le
tante dispute chi egli ebbe.» 3:ì nºi.vestiti superbamente all'usanza, d'abiti
divisati a più maniere di colori, con i filisslilli - il milli ntl ...
Bart. Ermtrare Notevoli di questo verbo le manie e bellissime
a ENTRARE. MI ENTI VIRE IN CIIECCIIESSIA, ENTRARE A...., per cominciare,
prendere a latº e ecc. lºrin la che tu m'entri in altro, dimmi, -oli io
vivo o morto. » Sacch. Non m'entrate in preccnii, nè in prologhi. Quando volete
(lualche cosa che io possa, basta un centro. (art.lira non a 1 le con una donna
di tanto intelletto entrare e discorrere e sopra luoghi volgari e comuni della
consolazione. » Caro.I) una in altra parola entrammo ne fatti della fanciulla.»
Bocc. poichè io entrando in ragionamento con un delle cºse di quei
paesi, per avv. tu a mi venne ricordato Lelio. » Filoc. | EN l'It Ali
E \ All.SS \, ENTI VIRE \ I \ Vol. V, ENTRARE A MENSA c'Ca'. La
confessione generale che fa il prele quando entra a messa. » Pass.c ENTIRAI? E
IN TIM ( )I? E, IN ESI | ) EIRI ( ), IN PI.NSI EIRC), IN SC)SIPI, l' I ( ), e c
(t (lice nulo. entrata in timore - sei o III. Il cap tº re Ba 1 t. IP re
i 'clie a g, ilt i, \ l). go l'e . . . . . . l ... I mili: i le - -:llito Vivo:
e º dell'ill ia 1 1 : era r . ll - I ldei prossimi, entrarono in desiderio ci
si pre e, in ancora spo: desse li ll , l ' t”. tº ll tº si ri' o 1 .... 3 I l
Iin una settii malizia entrato, i vo i es - a l It I lilt il 1 e il
- d ENTIR ARl, ad alcuno Al Al I EV VI ( E per..... ed io v'entro
mallevadore per lui li l e se è le. llla III It . Fi ..Chi entra mallevadore,
entra pagatore. - - .: Ilss II: Il V tº I,N | | è A | I, I | |}I; | Rl, I
V | | è \ \ | ) \ | , l N ( ); | N I | | VI è E SA | VN I \. I; IRA \ I \ I )
I.....: - N | | | V | | | | N ( i | | ( ) SI \ e c. I ) | VI ( l N ( ) : EN V
IRE NEI . ( VIP ) \ I ) \ I ( il Nº in cig in cui si, clarsi ad intendere, osti
il dirsi (t ( red º l ' , Ils. ll lo) I | riti si illi -:1; Iz.l i i dis,
7 entrò una febbri cella, e l'inna se lei III omistero. . (la Valcº. I ,
qui ii a o o in a . I riti animi entrò smania nel Ilici; ve a lolli eti, dl e
Vil:1 . (li paz/ 1. l): i V. per la qual cosa disse che gli entrò si gran
paura º le calde il tºrº , e quasi tutto stupefatto, ſi angosciando e sud (lii
n non Kyrie eleison. » Cavalra. a Di che la Minetta accorgendosi, entro
di lui in tanta gelosia che ce li non poteva andare in pisso, l e ella
non ri - -- , l al! -- º ) l'ole e col cºl ll i lili ( : : 1
, il ... tl bol: Issº. I 3 a gli entrò nel capo li li dove li te: -- . . . lle
e-s; il vos - 1 - liotalmente vivere nella lor povertà. e 13 , . I, MI
ENTRA CI ENTIRO. (ne son persuaso, mi capacita. m i quali (t. mi ra
.Fuggire l Is: s e il re il sito proprio di partirsi I l il si alla I - -
llando di evitare una cosa, Nºn solº, º ssd i si la clie' ci essia, e sinii, e
quando con forma tran si vi o il sito va si' al re di li alligare, la luggire,
la r portar via ! I l sillili. N Ss , le Ieggi il 1 l I fuggire.» I 3 . «
Fuggendo la - i liz si i vas i: in entenne ºri e o Cavalca. N fuggire il i f.
sse a l?o . ( l III a - l: le fuggia in chiesa e in luoghi di re I : gl - , il
l V , il - ro c n una lettera che seco avea fuggita a quel li s Il
\lo, lisl ( r , , lº; i l 1. Si il paiolo, e vale l'ergiversare,
cer ir si l gi, scappa! Io, gelli e . v le lis lo stilli - e o il
modo di prendere il battesimo, egli con si t! lle astuzia se ne fuggiva in
parole, il ia i ghe giallo con promesse, l'... a lºrº rt. Guarciare
Pongo esempi di I guai dare ad al ro uso che il suo proprio di dirizzar la
vista verso il ciggello . Significa quando preservare, difen le re li ulem, bel
dilem , 'lalido cusl uli e, con sei retro', e lalora anche con siderati e poi
non le , gli ai lati bene, sta r bene in guai clic prendre garde), pone le
dire, in gri ma 1 si ecc. Dal qual errore desidera il no di guardare quei
che non hanno l'ngua la lilla.... n 13 . . .I lolio, il -- , ti guardi la
bocca, e ebl e II lili, li dirgliel , che gli si con lic Io ad imputridire. ,
Bart. Dalla stanza poi l ddio le guardi a ni. » (..) l' . Dagli amici mi guardi
Iddi , he da nemici mi guard'io.» , noto proverbio). Ill IIIesso l' 1 lgiolie e
il III lilliga III si ria guardato. . º Te, rarissili lo I rate, Ille, l la
guarda « diligelli e Illelite. » Fiol etiia li crisi fi, al IIIe: i la
guardavano il ritta Vi elit . Al fine di guardar la sua pºlvezza a l
'i: e che guardasse molto bene l Llls 1, ii le leſi i [ll: e
bedie:lte. e fedele: e p. io guarda li: i I lilllla pel solla senta giallllli:
. - sia II, il si n. 13 , S : l | | | | º io i ſoli posso credere,
le lil - te lo i « per io guarda quello che ti la li: e se l'11 e l: 3
onsidera, poi i lr 1 lite . io lion ſarei a lili si alti guarda i ti piti
di sl latte cose in ragi, li I. I3 - li ii glia i Non accade
esemplificare il rito al moli li ll Is : (il Altl) Alt I.E FEST E cioe ossei reti
e lui e quello oli e presº i il lo ( il V ) \ I RI , V IN IP( ) ( | | | (
) ( V | | | | | N | I l its e il I ti q. c. con sler lo tsl - - nºn
lo si ecc'. ( il VI I ) \ I V S( ) I I I I VI IN | E c'Na mi in tl e con il l .
(i l ' A IRI) \ I ? I. \ ( . \ VII.I ? \, e Nilm ili. Nolerai da
illlllllo il ſigilli il del s II lil e o si ri . . . . . . . . . . . . . . . .
. . che guarda un all ra: que!! piagge , le quali gt ai lava, l , l i b -
lei li di qll illo, o, l rivestire Il suo primo significa lo è quello di
ill e il I ss di II la cal . d'uno slalo, d'un beneficio ecc. il cili, VIII l
iris I/ l il so stalli ivo. In restitui a concessioni di dollli li \la di essi
il li : li ti in resli e il luindi 1 o, ( i l i rili – : l in resti
e il mio i gl ii li –: c in cºsti di liti i v . a enti e, d. l , poi , i
- l – cioè adoperarlo in compere o si assalirlo, all'olitarlo (ali
fallen, ali in uno scoglio, in una sceca – ci è 'i - gli sll'alidell, allf
cilie Sand i . : \ ( il suo in un anello investito, il c Valli era : 11
.... e i I os - ini; d) l'investira altrimenti i lo; dal I ri, Iii: gli tv va,
dato e s, li ve:lli i l. it: l investire e il . I li, e la i
si l aº, li è per molto l , li e li si - ll s: i gli i il tisse, si
lº ric:a li ai tanto i parti e le ore li li : l . Io investisse nelle
tempia. » Caro, « .... liles is a so di il l I e spiaggi (ii Zeila:
d, a dove investi e l II , e l3:ll Lasciare Lascio gli isi
più contini 60i e poligo al solito alcune maniere fro quel ſenelle adopei al
dai Classici, ma niente volgari e poco note oggidì. | \ S( I \ V | R V |
{ l N ( l \S( I \ | | | | | | | VI ( U N ( ) tra lo i veri a lasciate far
me con lui, che voglio conciarlo si Il riti e lº .l) Iss le , l io vi sºs l ,
lasciate far pur me, lì e con l'io la troverò, os a bai ei , tanto bella
e Vo: li I \ S( I \ VN | ) \ | Rl, l. \SCI Vlt ST VIRE I a lasciati di
dire, l'assare in silenzio. A on ne parla ro”. \ on lire ecc.( ) a di: se ...
[llo da pozzi sono d [li, pull e, s lº elle lunga mate ria. Lasciamo
andare, l'air (Illesto e le ini, che, .. » Fr. (iiord. lºred. I rosl 1 Ile poi
li e - le quai, lascio andare. . Fr. (, i ..Ma lasciamo andare questa corn
parazic ne, ; - al : i re si s . ll - il 1 i l Io lascio andare e li I,
to! i i se' st - e il top ( ', - l l'oi. ll (lasciato andare - -- - lei la lr1
si rii i i li: i li: i I l g il 1 li :i re S e il se i - \li - - -- li tit. º
Slº. - l.: don 1, lasciamo stare . . . . / es. a rl I 1. - se, o il piu' il 1 ,
i -: i in ' t :lti li' les. I titºs « Lasciamo stare, l . . . . . ll II, i : :
. - l l: Iss, l' , ' di lt 11t . Il... » V ill.lo lascerò stare la rabbia : l .
l s s i M. ss: -, lazio: i re : re. I 3 . Mla oli e - - Il ti il V 11 i
Lasciaria sia re ciº'egi i t -to - a io | Il ! io. e. . l .... . . . .. .. ( )
1: - - . Lasciamo stare continuo (li I) io li li' l zi, 11 - di e 1 , il il :
il: il , par i ( s; I l i (50!) . - 1, V S( I \ I I \ N | ) \ | | | | N ( :( )
N S \ SS ( ). ( VI ( li si di lui i lo - e ( ) , . ll lo un man rc vescio antia
r gli gi i.ascia l s - . . I) li ve li . I !, i i t - . e lasciato
andare, – i l ss (i li lasciai andare in paio di calci pi: l'i: l'. Vli lascio
andare un si fatto tempi orie, ( li Il I p. e I3: il FI, r ,10. I , VS (
I \ | RSI \ N | ) \ | | | | | | | V Sºs - - I V con lisce nel 'I e a....
Ne' in luti e lei i son ; - la si lasciava andare al motteggiare. l . .
. V ºsci .. ire in dotaria il 1 : l ' il solº Irla li hit : l . .
Il V l ( il l. Il tir , . . . . . - : i li' si lascian andare alle
vogl e le liti i : Segni, Arist IR Nota al Verbo
Lasciare (it), Q Ielo per es., a ce lo valore elillico, di lasciar fare «
Que s il 1 lili i dirlo io : liti Iddio non lo lascia. » Fr. (i:ord io di pl
el', mollere, lasciar di lire ecc. t di di iroli scrivo se non la soli, rila:
l'alli e parole la scio . l ' (il d . ed alle la li lasciar scritto nel
testamento..... clie. .... e la I Cina lasciò che vi e' in non po\ esse lorro,
moglie se del silo ligliaggio. VI il Pol. ecc. ecc.\ di lascia i colli o alcuno
| rascurarlo, non promilo verlo lasciati si indiel I o al no si perarlo :
lasciar di fare, ecc. ( il l . ( ''NN (I l ' ( ) mi e't le I e Iºl ll . soli ,
col nullissimi e del i ls e bassi era avelli a crel II l . ( I ) S I l
esso la I l : non che potesse.... oppure non clima molti i se s'ella poli's
e..... ll l il..... In generale questo lasciatmo sloti e che, lasciar
stati e checchessia ecc. è quando ſolº il di livelli il che colliva i non
clico, e quando significa mºlle', ', li atletsciuti e ecc., si li alll a lasciar
andare. ( I )!) \ ggiIl ligi alici e li slo: "li si ispiri lascia lo
stare il cli de' pitler nos li l.... l o c.(, N , ivi , di ques'a ll'ast : la
scia i trialo colpi, calci ecc. l .i v s ital, e fa gr . Il colp .
N/1 arm care I )ell'uso di mancati e', e similmente di allire a forma
transaliva (man tr . I i l etillo, il soccorsº , Valli e all' ui la promessa
ecc.) se n'è par la o alla I al I 2 Cap. 2 Seric . Il mancare dei
seguenti esempi equivale ai nodi venir meno, ſar di ſello di... l e star di
lare, restar di essere e simili. Ma nota singolar for lira e costi illo di un
sì al incotro che non so se alcun moderno, il p co sperto cioè ed ignaro delle
occaille bellezze e proprietà di nostra li igili, l'Isasse lnai. e anc ,
di questo lo endeva la Maddai e ma un grande conſolio, che la mi irta di Gesù
s'indugia , a pill tempo: nelle era certa non poteva mancare che non morisse,
ma quel chiavello, che l'era litto ºlel cºllo e suo, lui penso la faceva spesse
vol e riscuotere, e gittar degli amari sospiri. » Cavalca (620) (Juan o a...
vedete che il tempo mi e tolto, domani forse non mangherò ch'io vi
soddisfaccia. » l 3o . . 621).a Io non potei mancare ai molti obblighi che li
ti pareva avere con ºutta « la casa vostra. » Fiel ( liz venir Illello .a
L'aquilla... se n'andò da Giove e lo pregò.... Giove che si teneva dae lei bell
Sel Vit , nella [llisto il I (i:I lillili le, non le potè mancare. . I Z. Onile
ancor sindusse a e rito, che per lui si po teva II!aggiore, pagandoli, i lile
il - III - l I riti o 1 -: ni si evil, goli il e borsa di Dio che rilai non gli
mancava di quanto v' - - riti a me a lºro sllo e l'alt l'lli. m I3a l't. non
gli fa reva d fel! , li Note al Verbo Mancare ſi20 – Proprio l'aus
bleiben dei cdeschi. Ma i la bell il 1 o governo e ci si l IIZl llº.621 – (
)sservo i li. di Illes , c del ese, il pi . l' Iso di ill siſal o mancati
e ai sbloiben) . I l personale. N/i a nte nere Si Ils. I 1 A il l
si i li isºl V : l che è il ' , e ci li ulissillo, I la ill: le li soste il l ',
i rºſſº' , si l' eſiſ, i c'; cli) e il clero e slm Ili. (i: la rla i 'i
ll ll 1'. - manu e nitori di un altra g Cstra l': I l (.:I: . Mante:rere
a pianta d'armi , i lil. a .... \ , - ri ) , l e l'i; e cli) , a mantenersi, I
te , I ? I l . ragioni colle quali essi mantengono la ior causa. I3: r"
non - ea mantenere sue ragicmi - ti li lo . . . . . i, li : l 't a r . e
semplice ( r se I e ! - . . . . a .... e per chi l'inge o iv h e le la V [a
fisica lo Tta mantener le proposizioni, i clie e gli 1, i i. N/1 e ri a
re Ne ad Ilico gli usi e le maniere più cara. Ieristiche,
frequietilissime 622, tippo i classici. I lilello, il sile, V (ilga
l'illelle. (ggiuli. \I EN VI I I VIA NI - All.N VIR I 3 VST ( N VTE – MI ENAIA
COLPI e simili. ll 1: V e menava l is lo le mani.» Da V. i Imei far le mani
le.... » (ii:lln), ( . I meitai :: in Ceip 3 , l ità ell .... Fi, Uilz. (
l' - er tulla la casa, gii -- menanrio d'attorno bastonate alla l sperata, e
ciò per rac i ' :: : l 'mena ti ma ceffata Il latita i lilla di mano I alla
spada e menò un fendente e lo tig iato un recellio. . l i
menandogli un gran colpo... \ | | N , \! I N VI: 'I SCI di un lago,
fiume...... – MENAIR \ N VI A [ . . . . . . \ l .N VI R | | | | | | | – Al I.N
A | è \ I \ V N '' i; i nne. I vant 2 figli di eli. - ! . ! . I I li i. pia di
ellite si - nema i piu dolci pesciatelli di questi paesi ed l . . ssa Iar
danno. 2 , Fierenz. I : i i li l è l'ozze, alla I ºne man o cro. S i vii ! ..l.
I l v . . . . . I menava tant'acqua :I pm i I l ergli o vetture e le quali neri
ino V I - I menava vermini. . ( a val n. ll e illlia dell ' , o di fuori
gliela "; l ., i menando marcia e vermini, e un puzzo intol
l si , il til - i lº': i \ | | N V | | Vlt ) ( i | | | | (52
Iliesti nel sima festa, per . . . . . . . . . . . . . . l e, g i | tesse la l
cha () rimis la i mera:ºsse incºglie, l' . ll di 1 l le (lulello lì ledesimo
Parsin:unda menasse Efigenia, Ill o Ormisda menasse Cassandra ». º . . .
» lº , \ | | N V 2, i v 11, 1, 1 : i menarlo il Saverio) con c ss; 13 i :
del pari. I 3' : Mlſ, N.VI è SMI-AN | E lie il Viglil I | . . . . l - ne
menava smanie, In il a il l: il b :ljat per poterla va le 13
c. t 11: me itava smanie . All.N.Al ' ( ) IR(i ( ) ( i LI ( ) (
li.. I) esi, it , l . : 1 :: il l nenare orgoglio. , I'l' se
Fi \ I f.N AIR E S | | | V ( i V | N A -, l lorº ! ! ! ! , i
. nmenava ovu: ii qua si ragiº e rovina, , ( 1:: Illi. \ | | N A
| ( i il li. ( º 'N. | 3 | ( ) N l i ce li ' NN / 1 - il lui lotto
1, per il miti i lui 'cr. l al 1 l. A | | N VI , IN | V | | | | | | “ Il
N V qui \] [ N \ ( il . . ! . i : l ' : :l IN | IM V Nl lemer a
pari ole. I ciance ecc. I nne maio il re i re giorni in parole i I
3 l . El! l i 11 il pi meno per lunga ſino I l .
i rmerava d'oggi in dimani. B: i (i:º: (52 \1 l a li e
on e o menava d'oggi in dimani. ( - i. i lo si si, l' . I I Ili
Note al Verbo Menare S i li cias si i. i issili li e v . " I
ri. E volgare, ed è a 11 le lis si , i lr 1 tl , mi e' mai rsu Il le , lilli il
la la niglia e fa gli menar su . Si h. Il menati e di questi li li. pare
il re tale che produrre, tre I ecati e º sil I lili. L'u rore mi dicere
le; la lini. Si rile: I rail al giudicati e al l una sl 1 e qui . N. Il cice gi
li all' al i sii isl l'allerile cli li il . I l sse e qiuali, atto alla
medesi ma stre'ſ ut , (iiill). N/lutare Tra r utare, perrr utare) S
li li ma alle li e oggidì, sulla : i la il alla liturnelite, le maniere: p, i
lati si o nº i lati e li ce li ssia lui il mi luogo, da una cosa cioè toglier
via, 'I si po' mi i lati e ulio ed una cosa al li li lu . I - ll 1,
i \ I) Iss l Suff: Inarco: ( ) 1); 13 i bel veduto, se egii liol
muta di là, i iS - opravvenga, replli o i mutarci di qui e andarne e. 13o
. il l e l'en veder lui mºnti iava mai gli occhi da lui. m ( S. I s VI
tramutò a Castiglione, a sp e .i , 1 'la, le col piedli nè con i llla,
ol' (luà, ol là si tra mutava piangendo, lº( - e il telº dove ci permutiamo?
» S - e si l ss e luoghi dove l'uomo si per N tre chicchessia del
suo proponimento, si l si º li ille, la Mlad l'o e la lºadessa si sse per lui
un modo la pole lel suo pl o poi, in cºn l . ll li l la ll al re dal monastero
. t i vi l I C c correre e di bisognare, far i sli, i i i s
I, - , il ll pal i lide si con i poli e ob, a Valli, incontro, e il 1 l ' ' ,
ci º l: in lei venire, il reen il ', reni e incontro a... –- vorkom men,
'n l I 'I ml , li mi cºn silli Ill.« Egli occorse al III si lillo il caso. I
gol so se ne voglia piuttosto dire « cl'udele che strallo. » Fiel elz.« Nella
prima apri lira di uº, il cccorse quei la parola ... » Flor. « Dopo molte
parole occorse di villa e l' a Bart.« Occorrendo le AIII e igo viene il servil
e V. E. In'è pirso, poi li è per so: la fida |a, scrivere.... » al V Vell :ldo
. VI: I ti: I.teneva la V [lli b. I servito ne l'a lllisto di (ialli e no: gli
occorrendo per allora luogo pit si le lis- c. ll -- sl ful (iioVe,
e le si Ilierle. Inoli le liote Iria Il 1 : e, a cltro da porvi le ll v a -1 e
ſa | | 0. » Fiel'eliz. lli ll V e' ('il logli il lil, il to ,. C c cup
a re E | 11 n . . . . i violsi : esse e occupato da un aſ ſello,
dalla rirti di cliccchessia. « ... I l l da grandissimo sito pi qll
st: giovalle, occupato. I 3o . « .... (Illasi da alcuna i timosità (l, -
occupato a V e so. «... e l: la Virtti di II la bev: 1 la occupato... in
lo ev ra Iliori , (iia Irl). Io lili Ss , il l)i , e l Il gla i ll I ssa Il II
li altra volta vi dissi, o il gi : : le pi e in molti i vi: occupato;
ch'io I lli sul pe: lo....» l': -- I v. C rci in are con
leggi: iri. I l gli allori clas prescrivere, nel loro in ordine III: il
liclle li (il lill li I o II l sici ti significa l'e ll ll st il colpº:
il lill . cliecchessia ecc. colli e ſil, e li li si lal iil I Il lil del ll .
sporre, s'abilire, di risati e, con l'ori e con clic li e ssia ali di mºlti l
', li ſu l e' N, la la ſi l'Irla : orolin (tre con atleti no, oralini rc in Nic
mi e che, con l' ('i . (º 'C.l ordinarono V eg::leil I e tiltti e
tre fos sero insieme, a e l: il l: st i ta.... lo . .... se crdinatc Cine dovessero
fare e dire.... . I 3 , . E st e, con lui ordinò d'avere ad illl'ora rid) le si
gli ºli , sOrdinò con lui, il V: i villi llles ( la li le lºssle le) e, Il ll
lºE l evano stimola [o, e siccome egl o avevano ordinato, i . Il 1 a 1 i
lil a ze: \ are i suoi peccati....» ( v. l . E crdinarcino insieme come
elle love-sero uscire Il lo; i il 1/ Ca Val :i. E li si s . p le i s / iol la;
e? I doperarli in corsº lle - e il l . crdinare che niuno di lo; o per la I
lOrdinata il v lo s . I l Ilioto grigia : - tlil. » I) i v. Fassare
Nella Sez Io l' 1 l ' 2 ( p. 2 Sel e 1, solo allegali esempi il Il passati e ai
lo li li a usi il ct. I soglielli in sl ratio al 1 li : l ' si e li alie
e di questo verbo, note volissimo, e il I e Ilissili le s Illa pellia si classici.
lli : passa i tlc il no (t. «la banda di banda, puts sare olli e, passati e i
lorni in i lisci la l le puts Noire d'uno in ali o luogo, passati al vino di
bellezza, di sotp e, passa la bene, passar notissimi, sola e simili. I l
soli i pll'ic le solo alcli e oggi (lell' Is . I : l : vi l le
passò tra loro.» I ti it) Ml lit e passavanº il cºi si l: - lì la
le!!:i li ... o lº i. E o tiſi into le It V, e passan le cose, o
l'it l (',! l /. te lo do per te li o l la cosa fosse passata colli e
gliela aveva egli divis: ta.. o l'iter l/. Conto lo quanto avea
passato col l e Fierenz.« Le quali tutte Ccse passano su Inza a V - Vellg 11o.
. » l'ier Iz. Deside. I va in il caso passa. 13 , . e - l III : : l - l
si l sia sempre mal i Irlato , il che passi , , ni III o li si s - . ,
Sog Il. ()g! li cos: passo al contrario. l . I V. 6 , lº,':ls , ci; e le CCSe
il - passar bene. 13: 1. si III dialie i cvelle ci passiamo. , s - I 3 i
“. . i : -1 : l I l . I jel, lo ero il tie-t: -: i Ill 1: II i l: : se - ll Iss
di passarserie adita niente | 3 ll , st 1, s. ll 1 ( - Iº, io - , si S sa: i
lei | 1. l se ne passo. I 3 , ti i? I l bene passare. » ( : l V l. 1 :i. : l
'N. ll si It ... sll ( ! - I i s l e Ileli | , se ne passava. :I passo mene qui
ora brievemente. Vi SS. l' .lo a V ! ! ! ! ! It , passarmi al tutto di muover
parola.... (iiill . - Ma per che io ci , l ... - Za li Ire, mi pare di pc cr
passare - al pr - li e, vi li : l la lierli lie) - Ss ('ll lo 'll C ( i 1: Il 1
so di volersi del fallo commesso » da lui mansue lamente passare. I 3.ei e li i
1: o li passandosi paziente. Fior. E - l: l'agglia - se, io , Ill. Il lo ! ! !
! I V ( le , l si passava assai leggermente. -. l3 i . Il II III: 1. ll
bh , l' - rili i li li I e il ... Ma me ne voglio passare di leggieri. pe. ll
11 : - illili allilnali .... po; : quelli li ti Nolti i ricorsi i lorº li
: I ASS \ | | | | | | N ( ) IN VI , I E l va il l per passare ol: ti III lili.
. . . B i I) v e il 1 l si passare in Toscana. Ci si ri. - - - - - p, e vedendo
. . . . . . - ll I | , il de / Il l l io, s'ils - lli , del a - o e passò in
una gora i lì e il 1 l Z. I lanieliti passarono in icmulto. » l) i v . Iº V SS
\ I ? I, I ) I V l 'I V S it | 11:1 - ss: li gli 1:1 c'evade s'inti, e le
passavano in questa via; ma egli non gli all'anima di G. C.) si re -si l e. ( a
V al :i.Comiso, 1 la tila doll i i [llai - mi 1 , lo le tu di questa vita
passasti, stil a iº l ' , ill: l 3 a Dopo non guai i spaz , passo delia
presente vita. » I3 . Note al verbo Passare () () Il passo re
di Illesi i sei tipi e il rella le cle accadere, avvenire. in terreni e seguire
ecc. Al: sserva particola le cosl l’ullo e for ll lt l. (i Nola la testa
litanie a passare al contrario, cioè non riuscire, avvenire col il rari Iliello
- e il che la segue le passare bene', ci è l'illscire ('. (i 12 () uesto
passo rsi di una cosa si: il tal se passer de q. c. dei l'alicesi è di varia
significa i me. Vaio nºn arne parola, Illasi lºol forli al sl a pal la no,
lasciarlo correre, quasi lo fermarsi a pulirla: ora con le n la sene, li lasi
non fermar si a ll lov e o lillicoili, e si lili un gelien, il bergehen
ecc.) (i 1:3 Scilli ilel passa, si mansu e la mente, paziente mente, le
fermi cºn le e simili per non farne caso, proceder sen sul lig , l ' loli e il
rall e il till ' , loll dal Selle fastidio bliga (('c). (i i l'. Il
ſilenlissimo l'uso di passati e per parlirsi, andarsene da lIl 1 ll I go
. . ll ti i lo ) q c'h ('ll. Ferm sare Cerlamelle che a definirlo
sia, come la il Tommaseo, esercitare il pen sie o | Iasi clic il pensiero si
alll : cosa del pensare - sia come ſe c'ero già il lolli al rililologi, esser
conscio a sè delle proprie impressioni – quello che io mi dil ei più vera nelle
coscienza, non pensare, – non è Ian , facile e il rarvici e intendere il colme
dei diversi usi di questo ver bo. Deliniamolo all'incolillo con più semplicità,
e quello che veramente è, ſa e cioè giudizi con la mente, ed è subito manifesto
e piano (così pare a me il valore logico, la ragione il lº inseca dei
modi: a pensarla –- sinonimo di lenlellarla - , sovraslare inne hallen,
ille si elen , rallenere cioè la mente il riflessioni e considerazioni, sen za
conchillolere, risolvere o Vellire ad allo; lo pensare una cosa, cioè
indagarla, e Ncogitarla, cercarla e trovarla pensando:c) pensarsi,
immaginare pensando - fare sè o a sè pensare, ecc. – ed anche: d)
pensare, senza l'allisso e in modo assoluto, simile ai verbi della 2 Serie,
Parte 2 Cap. 2. Non parlo dei 111 di pari sa i cui l i na cosa, pensare
sopra i na cosa, di una cosa, che è l'uso ordinario del V b
pelsare. ... era li a lui la pensava, l ... l) , V. lº da il di illi i 21
pcnso sempre modo e via gli li p s- ll ril l'e. » Fiero lº y. e Con I liti o
id) abbiamo pensato un rimedio.... l Z E siccome a Veduto loli, . p; estini i
ebbe pensato quello che eri da la ! e, e il Salil il llo il disse. l
8, a pensò un suo nuovo tratto il: 1 st z:1. o C sa li. a Oil:ia e la Viſ
n loro il c i i liv - I loss , . i: 1- li il Sel può pensare.» 13 , . E si
pensò il bilo n uomo che era l'elipo, d i rid: si me alla B colore. » I3 . Mi
disse parole, le qll al 1' mi pensai ( li II: il V oi i tal gelite e Vellisse.
o l): l ' i te. « Pensossi di ener modo, il quale il ddl esse.... o loce. « Sla
tanto li me che pensiamo sarà presto gilari o del Il lo. » Caro 533. a Illa 11
in si a Va - lo s ... Il la la III e, pen a Sando forse, che si ill a rl) , ,
lov e l'll el', e: Il lido, V ne sarebbe e quali l'un altro si vi -:ils pe:Isa:
dosi, irrina - ni ndosi . Fiereliz. Nota del verbo Pensare
533 -- trir den kºn er l'ird balal tricole, gi / se in \1 dl , ( li lico come
si è del [ . e sta per ci pensiamo. Perci con a re (C coro ci cori
a re) Solio liolevoli sopra illlo i modi: per donare la rila ad alcuno,
cioè lasciargliela, non ſorgliella: perdonare, condonare ad alcuno di fare,
cioè accordargli, per le lere ecc., perlonare al jeri o al luoco e simili,
slarsi. rimanervi dal applicare il ferro, il fuoco ecc., e finalmente non
perdonare a denaro, a lot lica od all ro, cioè il sarne più che si può, senza
riguardo ecc. l o elli v - se perdonare la vita. o l'iere 12. ll I po V e
le dosi di III, lta p. egava il leone che lo la s Isse e perdonasse gli ia
vita. V , l ' i' / II; di Es po. N perciorasse pietosamente la vita a
Roma già - Il l il I I I I I I e l Si l Perde maie, i, pcrdonate il lil,
alle ricchezze, le i:ì li all'ute, e il l i -, i isl al lilia? e . Ed a
'e la in condonisi di recar lo ve / le pendenti agli a ol'eccl I. » Se ll.Che
:lol V - si ill o il litri interessi unani, io li Vi perdono ciºe arrischiate
la I loa, che avventulliate | lº ri lli: zio, il che li ss i sa , i ta, li l..
. » Segìn. -col e gli ... oi , illi, e le e' ſù perdonato al ferro e al fuoco.
(ii:Tilti i 1, non perdonando a memorie, magnificenze, librerie, spi: i lito, l
I e I do la V el - 1 , V . , – lla slal'e il nido. » I );l v . se
polesle. ., 1 l l i gia che perdonereste a denaro. . Segn. \ V e perdonato a
fatiche a spese a industrie, ed avrebbe tollerato di veder l illa del tri: 1 il
pe: i - se poi li fa render beata?» Fºro cacciare llo is o V al I e
il I e il I l re di pi curarsi, o procu 1 a 1 e ad al Illo che chi essi,
i licl il sels , VII l essere illeso anche il I 1 (lo : di malati e il p
o ti º lo gi la di più l'allino di andare il procaccio, si e' li Is simile a
quello del p, r'alizi l'agi li lo stilope ti e' piu' al '. Si gli assi
lilla nelle fare in molo, ingegnarsi, inclusi i inti si o si riiii. (il è
per or | , se | -s,l, le to e ad i vi i procaccerebbe come i 'avesse.» l '
.frastaglia trieli: e vi dico, i lle i procaccerò s. viza la , che voi di
nostra e brigata si ete. » I3 .Volla procacciar col papa che i voli llli d 1-
elisasse. » l?o . « Il llla e Veggendo la nave, sul tallenta in Irlaginò ciò
che era, e coa Ina ndò ad un de lalnigli, che si li/a. Il dilg 1 , procacciasse
di su montarvi, e e L, i lati . Itasse ciò che Vi 1 - - o lº . r a
)ra si procaccia Viati.i:i di avell are agli al s oli, ( ! elisol II: la
Vellasse e loro IIIo o il milmente, e co., lilolte lag rili . (ilValca.« Procacciante
in atto di mercatanzia. , lº . . ) - I tos , l l Ilsl rios , . a Procacciam di
salir loria che si abiti: (.li gia lo si pollici se il dl Il : l iode. » Dalì
e.gli venne illio va cile i litoria , i i' si della reli gione, si , ra ils it
la', pro cacciava tornare al regno. ( i : i i. E pensolini che la lon:.: 11 1 1
l vi aveva del o i S. (iii) valli che - procacciasse d'andare i l leili, e Il
1:1 11 e disse loro, a dire i lic va ri-s . . . . . - il i: i lila
i lilla. E pensº irri ste e - 1 elle e - I sl11: rr, te.... procacciava di
favellare loro. ( il via l . e º pe; soli i clie il vºltº il rii ( - si VI: i
dolina, e li ci sse: Carissili. Ma il c. v ! le li li, V e lere chi e gli scril
I e F: i sei procacceranno che questo corpo sia ben guardato, e Irla. 1
ler: li li i di l: -- li si li li li sa l bl e 11est: i stanza li li l: - tra ,
( . I v Sſare .Procacciando d'aver libri i -1: l silt: l o (.es: l'i..... e
senili e procacciava in vero studio di accompagnarsi coi laici, e c. l e
perso le di l -si l III: ( Ragionare Notevole l'uso di Illesi i
verbo I I I I I I I I I rilisi iv livo, col caso l'ello ecc. 2, a val I e di
disco , ci e, se il pli e il di pi la re, emersi parla di di checchessia
ecc. e t - , la e 1 l , i -; tiri . I ll zza . ll (iesti ila -s , e per
ragionare con lui quello, lo delibe: il to Insiellº. , Cavalca, a IP Srla e le
m'ebbe ragionato questo l i l: i grilla li do vr ilse; a Per liò mi i ferº, del
veli il pil pro-lo. a l)a te.e forse mi sarebbe igev che ragionato m'avete, a
che Iriella : il rili al V Ita el l Ila. » I 3 .« Come il di Ill venili o ella
Inandò per Illi si sale e ragionato con lui a questo fatto. » Borc.« All
(li:llmo 11oi coll e-st, il il lºonia ad Impellare che..., ma ciò non si a
vuole con altrui ragionare. » lº cc.Collllll iarollo il ragionare di diverse
novelle, o Bocc. - .... insieme con il rarono a ragionare delle virtù di
diverse pietre.» Bocc. E' stato ragionato quello che il maginato, avea di
ragionare.» Bocc. Io gli ho gia ragionato di voi, e vlt lvi il meglio del
mondo. » Bocc. “ Se io sentirò ragionar di venderla, io vi dirò si e torrolla
per te.» Sacch. Nola da ultimo i nodi : entra e in ragionamento v.
Entrare: stare d'uno in all o ragiona nºn lo tre i tgionamento: cader nel
ragionare, i sul l tgionali e ecc. e .... e di questi ragionamenti in
aitri stili sul ſua, lo caddero in sul ra e gionare delle orazioni li gl: i
lori i l a l)io. » B cc. Rinn a ro e re Restare) (ill: il da
colli i lill li si l Ill li Ilsill', li , elillica nelle, il Voll)o rima nei '.
I in nºi sl, per cessare, lasciati li la re ecc., ed anche dicevano ri li di me
si, i 'sl di I Ni (li che lessi:i, il logo della folla ordinaria, asle lie
selle, non la re ecc.e Valli il picchiar si rimane. » l'80cc. l'er g . I li,
che nel e li li e di Ille, le i l onllo e le el o nido, si stoppal on i detti
art firi per il lo, che si rimase il detto sucno. V Ill.Per voi non rimase, il
st il dele, che egli non si il 1 les-e colle - lle 11 la Ili. l 36a Tull ti via
In li vo che per questo rimanga che voi non li ne facciate il pia e vostro. 13
i n i VV e il 1. pl te! is a, si tl al msci).Per questo non rimanga che li per
venil e il II lo al corpo sanlo tro Verò io le; l lodo. 13 , i .a Madonna, per
questo non rimanga la r il na notte o per dile, intallo che i pensi.... » Doc
.a IPercio hº, quando io gli dissi al collessore l'amore il quale io a a costi
li portava.... mi ero un rullo e in apo che ancor mi spaventa, di condomi, se
io non me ne rimanessi, io li'a il re in bocca del diavolo nel profondo de l'i
nferno. o lº e'.quanto pochI - n 1 lei che rimangonsi dalle colpe! » Segn. . ()
il -. o è mal I atto, e dei tll egli ve ne convien rimanere. » loce. - - - - -
ess idono da alcullio loda l rossiva e inos l'avallº tra i dolori, che, pure
per non dargli quella lanta noia, si rimanevano dalle sue lodi.» ( es. r
.... e oggi se ſiore ho di sapere, e nome, vien più da Volsi che dalli al a
ringhi e voglio oggiinai rimanermene; perchè que: codazzi, riverenze ea
corteggi a me sono con i bronzi e io iIII il gilli, e li riti li Il cast : li
o!' « contro a Illia voglia. o I)av.º per cinque anni era con Intlalileite nel
pt at , e li pil re: che se a ne potesse rimanere. » ( es: ri.a sfolzil Vasi di
oli dll l'1 e l: I); Vill: l 3 lit: i d i lilli olii i cºlori di - i lo a padre
che restasse di più opporre imp, dillio Io.... , ( es. “ .... ei percossº. Il
lin fascio di legno, e tratti ne II: il « e nocchieru o che vi fosse, non restò
mai di battermi. » Fie A. 537 Note al Verbo l?ipararsi o al clie
ripara i º il so, il II lil in qualche luogo, è rill Rimanere 536 –
Maliera elillica e vuoi dire che i lu solo di peso da lui se la costi non ebbe
effello, ma che per la ri', la da lui sarebbe anzi il V Venll : 1.537 – - Aggi
Iligi la frase : l in an rsi con alcuno, cioè resi il l'accor d . « e cosi gli
raccollò IIa lo si era rimasto col giudice .. lierellz. | | - Riparare
giarvisi, ricoverarvisi, prendervi stallizzi, il bergo o si riili. l ipoti e
rsi la checchessia, prenderne riparo, e di lenale sene, schermi il seno ecc.
e lº co-l facendo, riparandosi in casa di lil I rate! l la li (Illivi ad
Isllr: prestavano e ili pe: I lil. I d' I, ss MIli ci: Vd io e Il rito, al V
Vellino che (ºgli il [..'Irld). o I3 , ,« Nella quale , Fiesole, gran parte
riparavano le sito soldati. Aln . « Nella corte del quale il conto alcuna vol
1, l gii ed il figliuolo, per a Ver (la Illa ligiare, molto si riparavano. »
I3o . « .... e avendo ll dito il nuovo riparo preso da lui.... » I 3 c. «
tempeste terribili con poco schermo dell'a! | a ripararsene, per cal gione dei
grandi spezza Irnelli i che vi la line, le cellule. .. . I a r .
FRispondere Si lis: per l en le e, l ali che si appr. pria ad usci,
finestre li ries si | I go ecc.Vi si st l'1, ed ali e loro entrate, , le quali
di gran vantaggio bene gli rispondevano. l'8 c.E ,si i si l:n linzi li o gli
rispon deva.... » I I.il rolliri to, di che gli rispondeva a stia p.'ol s olle,
o Ces. \ la ti tale sopra il maggior canal rispondea, e (Illindi s
( si d . io, e - ta la io el l altra parle dell'andit , I Gime r spondeva nei
cortile.. .. . Vl in 1/. ( : :llo iella (.li es , e a tinto dal lato che
rispendeva verso la casa parrocchiale , a in la I bitulo, il 1 bugi a :
il ii Il \ l: il la. Riuscire la I e di jiu il '..... in li le rispoliciere V. g.,
di una fi I solº i di qualche logo. il ri si il V lente a che il
fatto riuscisse, l V e Illel inisero me li: i sliI l l: vi ll . e qui riusci la
fede di Il sºlte. lti . . . » l al [.. 5.3S l . . . .. il che riusciva º ;;
l'orto della sua casa. I leveliz. ! . . . ll le gabbia e gli altri o il certo
I, li sl re d'un palazzo che riescono sopra una bella pescaia di dettº Villa. »
l'itº l'eliz.E le 'tero a dove riuscire ad cdio e inimicizia Illani le 1:1, ed
il ( s. Note al Verbo Riuscire 5:'S -- Nota anche il modo :
riuscire nel contº aio (l?art. Fier. Ces: C' ('C'. IRorn pere assolti
alle il c. e di 1 , il I e pºi e' ipi di isl, scoppiati e, a Isbrerli li , re
nir fuori, mosl riti Ni, renire al 1 ll il 1 ot, la nulli) , il ſuo Srl, il l i
tic li e si il ( )sserva Colle. spia º la r la e i d g romper nelle I):ì
v. che il mare ſta il lo rompe la fortuna , si i º la ve .... » Bart. Ma :ì
colm pass ºli d'ºl - lo d lo c . lI l a zato a rompere in questo lamento. » (
il .... Si V ) ll 11 e - I | Il ri - Ci10 ruppe la più Sfornata tempesta. .. »
I3: it. . . . . ll si l il Iss ....... si ricco d'a ll sor, enti e pio a 'le.
verno rompe, i cli è noli ha pºi il l si 3 l rt. Al romper de' primi alberi 13:
e () li liseri e vili e le colle vele , il re i riposare, per lo irill ( o di
veli! rompete l il sit I'' | il ti» li: il tragi , l)a 1! ( Convit.« IP:lrla il
santo I)otlo e della penitenza, l silligli: il 7: che rcrmpono in mare . 5 (),
IPass. A 11aloghi al I o mi per e silciello, solo i lil (ii: l'olio di
chi ce li ºssidi I l - , di risi) di cui i ne sfr millili e le alli: il ri: (ii
Ili. l'uol li | redica o di persona e val lira hi:il di ogni vizi e delillo, si
bilo il l'il': rollo palla e se l'I l ºrº al l (t poi i lil si al I olla e . A
vizio di lussuria fui si rotta, ( ll iil I I : i ( il bi' -ilm o ill che
e' il ci li lo | 1:1 , . . ); I l ' e li o di po; con roito parlare disse a I
io - , i di loro chi sono pi posti a go . erno dei legni . li enz.
! , si parti :: rotta ». a MIozy Iºirellz. In t . . . .ti, i a crive a
rotta. si 1, ero i rossi V lillili ». CCS. Note al verbo
Rompere , 4ſ) Quando il discorso non è di na Il giro e si vuol sare la so
irriglianza del mal frigio si dice l o nº perc in m al '.Sapere Nola il
sale dei seguenli esempi, e osserva come sia usato a inves ce di conosce e,
cioè il lal luogo e follia che penna volgare inon sapere di lole la conosce e
lo elli in etile per saper lare, saper trovare, .. . . . . lill il sels l o
spiacevoli e cagionato da checches si se pºi li rion Nat per lu nº, se per
male, saper meglio, peggio e o il il I - sapeva ed il luogo della
donna, e la t o! : liss . 13 , . V sapete bene il legnaiuolo, Il
tale era l'area, dove noi I Ille- i le lel lmondo ». ... si il gialli
avi, le tl - e i llino da ni:aggiori miracoli, che lima losse, per ine sapevano
bene la sua infermità di prima, e tutta la gas. s tripli di gelle ( i val.i ( o
si º li elit: rl, impero che sapeva l'animo Stio ( a V alcºl.I ll (lº vi o li
sapendo la mala volontà di Alberto , (ii:alml). l'er certi ti metti da campi
che a gli sapea molto bene ». Balt. Non sapea aiIro bene o vantaggio che lolli
li Ino; i do ». Cosa ri. b) l urono oli ri quanti seppe ingegno e amore
». I o .Sappi s'ella :) : voi a 1 e e ingegliati di rilene) e la n. 13oce. Se
e- l si, val lsi ve lel via, se noi sappiamo, di riaverlo ». l 3oce. \ li i: it
: l . Il tº sappiate come stà ». I3 .V e li li io e sappi se con dolci parole
il piloi recare al piacer mio a. l 31 \ lorni il meglio che sapevamo l?o
l?art. a 'l'empi rirs delle cose che sanno buono alla bocca » (che
piacciono, il 1 ml, rano i gusto, vanno i versi, i l:llelli , l'iol'. a
Nell'all pero di chitidere o si arta la io, per riporlo, mi sapeva male e che
una storia cosi bella dove - se l'Iliialle'e lllt la via sconoscilla ».
Manzoni.Note al verbo Sapere 5 (1 – Lascio i 111 di : super gi atolo ....
e noi ve lº sappiamo grado quanto Dio vel dica ... Fierenz. --,saper di q. c. –
..... In li li perciò che li lo sappiamo « d'armi, sono punto rimane selli. Il
prolili id arri, eggiar per poco. I3art. –, ed al ricli si generalmente noti ed
all che usati. Sc usare Scusare ad alcuno checchessia significa lui e per.....
rale rgli checcles sia. Scusa i si da un incarico. di un onore è l'alleli
nen dei ledeschi, dispen strNene, declinarlo. gli Scusava altresi
tavolino da scrivere , ( es. I) Io g! scusò .... ll Il gi! io lli: It i
li (. Il lun atto di III: rivºglio - a 11 in Ita . ll Ior- e la vi a a la
fortezza degli altri due , gli val-e, gli compe: so . I3: rt. :I III l st 1:1 -
lli - , e o l il l: N velli re º il l il lii lutti, vo: ebbro
piuttosto scusarsi . I) , l:iz. .... e vi va parla gli uli (a: di: 1 e se ne
scuso I, pe . . . li : l ' li enza. Iº e prima lo volle as lta: e
cli .. . ( -. Sp e dire (Spacciare) Dicesi | III o spedire
che spacciati e negozi, alla ri e val - igarli, dar fine e in prestezza, dar
loro crimine od eseguirne lo ecc. I 'tillo e l'altro sti, per sbrigare.
libera e mandati in orina, distrug gere: li la lida che spacciare in tal senso
è piu forte ed incli e violente ed espresssivo talora più di spedil e.spot ist
e il ses, i ve: id I e, esilare presto, agevolmente non E spedirsi,
all'incolillo, il senso di Irellarsi, sbrogliarsi, sarà tal \ l igliore di
spacciati si.Sp li e lº si usi il ho io l in rial c. 1 | li la relole
spacciare; sicci lire - Il s s' , si e' li i I ispedire erti legozi
. lle gli erano assai l | 3: i t ( ) s Vli - s III Ill: ll spacciare
l'Imundò Lui l ( - l a \ si essendo espediti, e partir dovendosi,
Messer ( I espedita; e le so, i1 il - ! i , i l 3 , lº 1, si l SI
II il 1 e ia li e si inseparabili, li ! Si va per ispedirsene lo sv. Il relit
tº ai assa la primo all'ultimo, N es 1 - oi i : Il mat . Seg Il. \ llllllll
cosa, cioè alla dol. il pot, i ni spedire e mi spedirò brevissima e la pill
dolce dell'I latina, tanto i vol a 1 e e V al cliI .. . . . In li spedito e
"ri i colli li sa e la col vento in poppa, o ll Illl), \ si vºli l e
spedito in nel rito l'llo delle fatiche, V sgombro, libero, franco di \
si lss 1 e 2 ti el: - S , ( Spacciato se ge il tº l l ) rls , l il s ol'l'eva.
. » I): I V. spacciarsi la qua le briga. o liocc. E dello spacciatamente se a
divise o tra loro. » l'ierenz. l est .l. I li : il li li di analoghi, con lo
spaccia i nuove, ſandonie, chiac li c', ': spot cicli ll mi lit l . la sci: lil
el l Spetcciarsi lºt' ....... si li util Napoli, il rils... . . . . .
. Stu ci ia re Stu ci I co N sl 1 la sl, slultati e di che ce
li essa, il checchessia, le studia e clicci li essa, i cºsse V so, il lendervi
con solle Ilic, pigli, il si al cloro c.a e convolſolo per lo fa rig . I
titti i panni i ' iosso gli stracciò : e sì a que sto fatto si studiava che
pull e una volta, dalla prima innanzi, non gli pote, Bionde'lo, dire una pa! o
1, mi doll::l lavo ler, li è qll sto fa -se o. I3ore. No:i lasciò il II
la 11: i si studiava, - - ll il ei lidi i maggiori bo-coni ». Pass. Forto
studiare il l re . ll - ll -si l ... I3 e “ Va (lo zel: i vezzosa li studi in
ben parere, 1 A v . lI I ſi per il Ver nonni e pregio di ie lezzi, -se la gli
ali a nſi an:ata: sper a chiati le molti mieli i pieni d'alloni : vi ss v.e Il
campo - I: il c hene studiaio I l i il to - - ( il v; l' . No ! I V il r! - a
te, ma studiate il passo , I): Il fe Analogo a questo studiati e e il -
si liv sl ulio le s - le I sei pi Sta per cultura, affezione, indistria,
premi di li solleci il ne. I bassi , si per 'o litig , e , oli! studio,
si ri-sezza dello el'r: i clivelli e le lissil II , e odori | ero III !E fi1g e
11 lo og Ili studio di V: la s i Z: st: si e n. ( il V: Il l.lº ! ) ll è lo
studio il "l: V ( " , 11 l 'I:I - tll (le, 'il rolls il tt (line avea
t riati il vo! I Si r I e II, l'i: 1. ll I-tri: l'si, lo si ll - l3llo lo
studio Vill. I l l'illll! ». lPl' , el'. lºrosſo si fa tl o studio di vita
perfetta e I l lito, veline ogni l in questa « :i va ilzi 11(lo ..... r. C -a
l'I.Questi pie: i l dicazione. ... crebbe r 'lii lo studio della vir' il n.
Bart. Ma per le egli i il la ſi va in ai li sºlo - e io, conferi la corsa e l e
s ii: i re, i quali i :ilm ira o di ſalito studio di perlezione, ne lo scoll
fortd) ». ( es: l'i.(ollsidera , a studiosamente III: le V irti - -in a livelli
e in larni il | il il 'Si a.... . i . i: l st il n; i ri'. Il te:i,
ed il 1 st ) : -, il 1 l l il 1 a e santi invidia, dall'uno il riprende i : -
il: zi, d ' 'ta, l o : la mi i suoi lidine di tie-fo, ed la carta li seguita
l'o si sfu diava ». ( a val. 1 bello slurli . in re o si riali ,
per ni. Slare di sl italio è ſl se elilli, il V ,le. - I li - ci del liti.......Term
e re ( Attero ere) Se lº ritieni disco rere il conto e l'onde, che
allo stringere va poi I che non per altro è così se non per l is si, il re sul
lo alcuni esempi i più notevoli fra i molti i 'i ll il 1 di II lo nºi e vi gali
ci o di operato e di varie significazioni - Il l l: i clivel st Iori e cosi
lilzi ille. N gli ese, il clie sogliolo: lº I. I so di lenere per
legge e, ritenere, in porta e portare, occupare, : lire, ci si r , si ri:ll.I
terrebbe - - l:lza non l'attelluasse U al tutto ! -s ..... , l 3 l:\ e V : l
l'ill: il la terrebbe llll esel - i l): I V .I le llll :lollo solo ne teneva
mille di l . . . . Il il l lei sul i... (ii: Inl). stava di .....)I i s
tengcno, le : l li vuol divenir beato mo Bo, ritengono, insegnano).
- , s. . . . . . . . . . . . . -: teneva i li , i liatura di quelli non si tor
Ita 1 - lasse la lollo le arli ». l)av. (portava, il l , l . S S. ,' ' A
ripagne che tengono gran i - i loTe', se -: i e letto a filo il lo ». l ' , SS.
) l\l I l emete li - i l: l 3oce. Te', si . 'ls ll' Illol te lº guarda Ito rov
1, appena gli amici ten riero I l l' ... I tl V . º li I nel si e' isl e
le st. a rl - la si river pillole di se ecc. E nctendosene tenere, subita il
file con le braccia aperte gli corse . N potendosene tenere, il dolla Il
lo se li gliese losse o forestiera. » Il lo il vide: o, ſemnersi, o
Nºvell anl. I si tennero, si llll'olio in Inghilterra.» Bocc. (non sl
arrestarono li : l .S - e li l silio, e si tiene e per il cosi è adulatore di
sè ss . , V º l'eli,3º di Tenersi, allen ci si il.. . attaccato, legato,
olbligato il per l'e, .. al c. aver fode, esser a L'eredità s'aiteneva i
mie, i lire pi stretto parente , Ambra. « I'( 'la, cals! e 1 , V s'a tiene il
... , l 3a lr . Ere le d'Il 1o, la lo; i t'atticºne quasi nulla Attenendosene S
il li, gellolt Ztl....). Si vl it - : : l si . « E pure con esse si
forte o d si gran colpo quell'albero e con tenersi a tante sarte, ll l'Int
irli E' pi 1 , la volta gl si caricano sopra bufere di vi 1! .... , l?art
SS6, ſ" I e Irla Iliere: i l: NEIt ( SCI(), IP ()I? I \ I.N | | | V
I \, e si lill. l'ingresso, non sto con l'altro 'co'. i ſicali e le per
rielar l' (Illa lo uscio ſi fù III' i l nut o? l . (. . Il lilli lo il 1
ll 1 i gli :iltri i l ll il l Se Ml 17 Zeo vo) esse venire, a lui g a Iri
Iri: i porta gli -se tenuta. S'i ll. Lo Ialo a Illore delle cose. Il 1 la
tiene la intrata della pelli tºllzil. » l3elti. Simile: TENEI? FA \ El.I.
\ per i sloti e di pali la I e cco MI , l' 13e! oli e veri e I l Is rezIo
coi Sere. . (ennegli ſavella illlino a V (“Il l'Ill III 1:1. » I3 r .
l'ISN EIRE. VI I I NIEI E I. \ IPI: All.SS \ e simili per N S . I l ct i
lui, mi e' lere in esecuzione, al lendere la cosa pi o mi essa. E co-i v.
illy i lo; p - attenuiC S : MI i beni vi prego le vi ricordi il l: III
e l attenermi la promessa. I . l'ENEI E I) \ N VI CI N ) per stare
per alcuno, a lei il c ecc.. e anche l'ENI.IRE A I) \ I CI N . per esse gli
diroto, allo zio ma lo e' ra dicendo. Chi stupis e, li gºlia. In sella ma li la
e per tenere da chi vin cesse. n I):l V . a 'I'll .t: 'ls V - , cini | Cnea C 9
l l'uno, V ed I ad un'altra donna tenere i s il 1 l (''le. » I 3 :
. ch, coll'altro , l 3 . III, i ql el l . . . . I | Il t . Il
I | NIEIR ( IREI)| NZ V, Sl (il t El () il mat cosa, poi oss . (la e il
secreto di ser lui i c. 1 li tr\la V e V ,i In 1 in la di tenerlomi
credenza. » Bocc. Se lo ci º lº si le ti li tenessi credenza, io ti direi un
pensiero che l lo II v .. . . 3 . Il 1 s ii il va onle lo so tener
segreto? » Boce. l'ENEIR E I) I. I) El. per are le qualità di..... \li e
l - - Fiesole ab in ritiro, E tiene ancor del mcnte del macigno, I si fi; a per
tuo ben far nemico, o I ): l ll ta”. Tenendo egli del semplice e molto
spesso atto e piano de Laudesi.» 3 m . I Per si s ZZ I l: l'ill
orrore che tiene insieme del ri tirato e del venerando, ( il ri . |
| N EI ) \ VI , l N ( ) | N \ ( ( ) SA, lu' i lat, i guardarla ('( ) )llº
dolla, procu i ctta la ecc. Tengo da te lite o lei lo 'I EN EIR (i
It VN I \ \l I (il I \ I loss leben. I anche di grand -- TENEIR SI (i N ( )| I
\ S( ) | | | V. e sillili. il il l'ono a spendere, tenendo gran il
l'I) leggiando.... » - z: il l ll dissima famiglia.... . . ontinua in
lite corle, di mando ed I 3 ) . Illelle e il laie, e tutti insieme li Ilenò se
il gºl , l 'e ivi teneva signoria sopra di loro. ...» | | (ºl (': l/. I
EN EIt All NI E q c. S.Si Til lo) ll till al pl. I Tienlo ben mente. Clie di tu
di lui? » IPass, l'ENEIRE \ Vl Vlt | El I ( ) per i cºſtiere alla pi ora.
Se o elillirill I - o d'a i to, lo Il varellol danaio, perciocchè I lill
I l: e le terrebbe a nnartello, o lº s . Silll I | \ / solisti , cli, li
i rilio a ppa: eliza di vero, e poi lo reggono al martello. I renzo
Vledici, I | N | | | | V Iº Alì ( )] ,l. il grand slmo lolor punto, ve
gelid si l ubare a costui, ed ora te nersi a parole. » I3ore.
SS8).TENEIRSI A POC ) CIIE o li... . per mancati e poco, a un polo
che..... l il pcco mi tengo e il 11 si l V : l ... l 3a rt. a poco si
terrebbe di fargli sp a r i: esla dal busto. » I)av. e Tull lossi il giil l a
poco si tenne che lol li la ndasse ill I)io. » I3ti l .Qll ('sli l' 1 l V il ll
per lei l'8olizi a poco si tenne che non rompesse i trezzo le parole in bocca
al re. » 13ari. e a po22 si tenne ll Il 'l g . . lIl l: ss e ll l: 1. ll lentº.
» I3a l .\ III:il t 'ito si tenne , li ll i no! I lºo . po o II lancò che). e
non so a quello che io mi tengo che io li sego le reni. o loce. S89) Liis
lo i titoli lelier: teme i campo disp. Il re , e nel parlamento; lemer cuslità:
l 'ner con lo. le ne I e di metri les li tr. di matri simil N . . ed all 'i
lllolli le sollo I: fissilli ed il 1 l 'g: i 'li e le Isilli, Note
al verbo Tenere S85 - Si inile ſi ſti, slo, le nei c . ss it ella
di Illi, Irla il clii : lento a dirvi. Ieri lo li | | | | | | | . . l ..., ecc.
I r; I li prelie. l 'il pollai, li li sl i ti ci l e. Non voglio sollelizia I
cle sia l al dlel' , Il si ſti e mi ero lei libri di il . SS5º - Tè per
lieni vasi spesso it is lil III e il liclio e classiche. Si ginifica : prendi
prende le simile il lencz dei francesi. SS6 Vlialogo è il modo : esser
tenuto ad alcuno, per essergli obbli galo ecc. e di clic i sell e vi sat) ) le
nu lo . I3 cc. SS - E' lei il ra cosa che poi mi cºn le len ci ai miei
le. Tener men le è la cli il lool e, ii l'l'ic loli -i. I li N le lui li I
Na'im . ( sil I lili. SSS -- Simile l'alli, lene e a piuolo e la spella
lunganielle, ed a li che tener a bala, cioè il ... I per il lig , dal pascoli
loil, lo parole ( t' '. ('. S80 – I radici: lo si si il... o da qual
cosa i , sia | ralleli. Il . obblig: il , che il... E' il tenersi cl Ilia
cos: ad un allla come sopra. Si si | or al l 'e ll il ', il l 'I l l e', tipº
partºnº re, spettare, riguardare, con c'e' li l ', mi lui , l ' i', con il l
ecc. (i II l la collo e il lido : Nella lira e bri It i 'i: occo rit ...
» Fie: enze. 892) e la \ e l'e lloln Inai in quelle cose che a lui non l
occano. , all el l Z S9.3le leggi il mio esse: oliill ill, e l: tl e oli
collºelntill lento di coloro, a cui toccano. . . . l. I 3 ) ,Qi lel il li illli
le l mondo si spenga di fall le, si lle l . ll i non ne tocchi una. . l o . -
TI (ccchera il va! ii , li ho perduto non hai. » Bocc. Eliorniti che li toccano
il III | orsoli 1. Giul, che non riguarda lo) ( )iles o ti togli il tº it e
toccò l'animo dello alate.» Bocc. Nill riso si v l .., liti ma les!: il tocca,
niun giuoco. » Bembo. rili on le li rilate e tocche s on III te. l) avE pur i s
l it toccavano i soliti dieci assi per un danario il giorno. » ve . . . . . . .
l):ì V . \ i le li si – li -se esser tocca. » rubata) BUcc. Nola al
re niti ie e ci si parlicola i del verbo loccare e suoi deri \ ai li : l occo,
locco line ( C VIRE I;l SSE, 13 VS N \ I l e simili, cioè ricererle,
guadagnarsele. S!) Si occo l: ve li e la sto male. » l'a! . l.llig. º
l:Il quale, il V e ilo dal canto leg 'i Vitellesi una buona piccata toccato,
l'Is - il l: i ti, , V al cell.I l toccarne il 1 , lº strappatella di fullle, e
fa - e peggio il loro a. m I.: si Stavano olle ſelleri li non toccar
qualche tentennatº. » Lase. | ( )( ( V | | | | | , I ( )| S( ). i
tcccatogli il polso, i' 1 , V o li s. Il: le... » l'8art g l Il losſ o, egli
non si risemi occandogli il polso e il settimº il lo trovandogli, tutti per
costante ell ss ( lilor | o » l 30''. I N A 13ESTI \ perchè
cammini, \ lid: V a ill: zi toccando l'asinello. , V S. ( , l .l'ARE AL
TOCCO cioè cedere a chi tocchi Sºſ, « E' facevano al tocco Per chi avea a
morir prima di loro. » Buonerotti. DARE UN TOCCO SOPRA UN ARGOMENTO dare
un cenno e passa oltre). I N A TOCCATINA I)I..... « Rizzasi in più
con gran prosopopea, Ed una toccatina di cappello.» Lippi. l'( ) ( ( C) I
)I.I.I.A (..AN II º VN V. Che li cºlli pa 11: l'o, un toc co. »
Vill l: I I'( )( ( AIRE I N I VV ( )| ? ( ). « Ne i pittori le sºno
ritoccare il lavoro a fresco, quando è sec o. » Bor. glini. Note al
verbo Toccare 892 – Si dico anche oggi, e col e gil: il forli la e
sigilili : mi locci, gli toccò di redere ecc. ecc. 893 – Simile il modo
volgare: tocca a me, locca e le ecc. No a dop pio significato della
maniera : tocca e al alcuno a la r che che sia. Vale cioè allo apparle nel si a
lui il lati lo Quel che loc a cara allora a lare a ('alone nel Senato, e di che
veniva pro « cisamente incaricato, si era la reiazione dell'operato da lui in
Africa..... » Salvini , che essergli forza il farlo . Se così ſia toccheran ni
a star e le Mlach. .306 . « Trovall a domi in prigione de l'Il cili, mi toccò a
navigare sul quo e sſo Irla l'e . Magal. Va l'. () per il . 894 – Si costruisce
non solo col caso olli | Io o l: l'ivo di chi le riceve - – toccare tal alcu no
basl 1 i le ec . li l: i col l'ello e loInilia livo, cioè ad Iso e va' l' oli
verbo neutro assolulo (Conf. Parte 2, Cap. 2 Serie 2 loccati e alcuno delle
busse, simile all'esempio di sopra : l occati sconſille crc. - -: e dicesi
anche elillicarnelle toccarne, se 17 il ro. (ili esempi che allego sono citati
anche dal (il era l'elilli. 895 -- Si ſa gillando uno o più dita, e
secondo, il convegno Se pari o dispari, contando a chi lo cehi.Togliere
(Torre) Il sil prillo e volgare si gli ſcalo è ſuello di pigliare, le rar
via. Ma guardi colli e le e vago I al I silli: i polli ai classici, e notevole
l'uso il liche il lal senso. Trovasi poi anche il lill glisi sa che pare
significhi l'opposto li loglie i ri la I e lo gli hecclessia , e li on è altro,
a mio il vviso, ci Il loglie i re Isiliv , cioè la re che al rilolga
ecc. Ollil tit , il ... V e le cºlle il lempo m'è tolto; lo illa!)i 1orse
non li lall, ll : il ch'io vi soddisfa la l 3 Sº)Ilena i logli i dosso Iliel
poi, l'esercito, il l aggiunse a Marsiglia, togliendogli il tempo da.... , (
amb.No orre alcuno. » l)ante. (le il ſierº del li i tolse. » l): ll e. « . ..
che pole! ( ll gli abbia N ' i torrà si endere questa roccia.» lº: i ll tºEl e
o pit and: I mi tolse il rio, e lì in mi impedi, mi vietò Ma lui li do, io mi
tolsi di soi o al letto .. . I levenz. 900 Togliersi dal sonno e dal letto, e
lº renz.per lo miglior loro e Illrolio, lo zali a tormisi d'in su le spalle. »
Fier. E per io hº il solo la so sl: i o non li aveva tolto, che egli non con -
scesse, llle slo sllo e Irl , l e ss. r . ll rd venienza, si comio savio, a
millno il palesava , 13o 90 |.... Irla I e il iv si dissº: l) il nullle toi tu
ricordanza per no al Sere? Io boto a l)i che mi vien voglia di dirti un gran se
- gozzole ». IB ) .e tolta buona licenza, se n. a do. Fier senza la li
complimenti, si prese a liberta...Se vogliamo tor via che gente tillova i
sopravvºlga reputo op portino di mill' arci li lill, ( and l: le altrove. B
90?) Itender enn , Ianto che app, ma il potea o, chio, torre. » l)ari e 903 e
dal a rito il questa l'alti e toglien l'anda e la de e ratle. » I)ante.
si toglievano gli uni agli altri quel piccolo soccorso che loro polevano di re
i silli, o l?: il 1. 00.... o ad Illbra li do il vose o ai proprio, o :i
sperandovi con rili pro averi, o togliendovi il modo di fare un'alimenda
onorevole. » (iilllmer. mise o el ºnn i molato Cirio: le pe: dè la sua liſl la
lag iata, senza altro averle tolto, che alcun “ In ci si fa la guisa i. e
genia, poi, o dav:ì il i la llli gl bacio. » l?occ. (cioè dato)« perchè or che
difender non ti potrai conven per certo clie così morta a e Irle tu se', io
alcun bacio ti tolga. I 3 . . . io ti dia , Ili venga a Ito di darſi).
905) Nola alla ora le bolle illalli, l ' : TOGLIERE ( ) TOlt It E |
I. \ la checchessia, cioè preferire, con len larsi di..... , e Tiberio
tolse a comparire in le; so I , a ! !', e o , e di ndere.... » I) i V. «
Vinco io le battaglie pil pericolo e pil dire e per la giustizi:i tol « gono di
morire. » I3: rt. a MI:ì io sono illttavia il di Ir i l:I l orrei di bel
patto a portare a i loro libri. » ( es. ll i. si ripuli e ebbe o beati sº
I ssa r , slie, l 1 l'ido io torrei di bel paſſo, d'esser qual s'e di loro il
pil abietto e pov . . . » ( a r . a Togliendo anzi per la sempre tra i -
llai, e li rili : r per quali mille. » I30, c. TOGLIERE A far che che
sia, cioè cominciare, intraprendere. « l Il cavalie e la donna idò e ella
ne togliesse a fare un'altro: rispo e º che nºi le era preso si inen , l ui,
ch', l: sl d let se li Ial lo.... , Sacch. a E debbono esser da ci o e i lini ,
l III lo igani e di quei film ha tolto a liiigar II le . ( recl, liz I e V , l:
il lil V III in : l di alle 11 e o ( a ro. a ciascuno tolse a studiare l sprint
re il e la parte del suo in e gigio. » (iiub.N il so, III: Cºstro l?ier, Ill r
l)i I l st: In: lov i lilla Inalarl a collin, Ch'io ho tolto V ri-lotele a
lodare, e l'8 l Il. r. 1 Il.Questo sci , o dello Sf i villa ha telto a voler
vincere d'astuzia le volpi. » Cecch. 'I'( )| RSI | )'I N A ( ( )S \ T
IRSI N V C s V, I) \ I PENSIEIRO.... rim (I morsi. Nn c / le re 90(5, Si
tolse del tilt to di comparire i . a Cosi i miei avversari si terranno
giù dal pensiero di più rispondermi e e dalla speranza di vincere. » (le-ari.T(
)| | |? I | )I VITA -- 'I'( ) IR I)| | | | | | | V | | | | | | | | | | | | VI (
) NI)() ll ('ciulo l'o, a ()li re a cento inili , creatur il mare si redo
per cerlo . sser stati di a vita tolti, o lo . a Acciocchè una medesimi
la ola togliesse di terra i dile amalli I ed il lor e figliuolo. » I30 .
Vle o immaginati di voi s' ingerla a formi del mondo.» Label. « vera niente io
Illi fa i in V a Il , se i di terra mol tolgo. I 3 . T()RSI I) AVANTI.
a l?oichè gli si fu tolto davanti, pieno di trial tal to n ebbe con gli altri a
parole III olto disco lice.... » l?art. l' IRIRE I V F VME – I V SET E ToItNE
UNA SATOLIA (907. lei li l o, le i vi ve l e li la volta con esso te o,
pur per veder fare il forli Ille: Irla il l' e tormene una satolla. »
I3occ. Note al verbo (T cogliere, S!)!) - Nola la lesia inti
i ra: ii lempo m'è lollo: togliere il tempo (tel alle 11 il lui....
4)()() Tor I e, Torst, li dot... sigli ſi scostarsi dilungarsi levarsi.
901 - VI li ra e il lic . . bella tanto, la quale torna al dire: non gli
a reci ſolo l'uso dell'intelle lo si che egli non conoscesse...., od all' di s
ti riglialle. !) º I 'io lo l via, ma il varo, vedere pren loro modo e
rut, ci si lal si ch . 903 - ci è ricco gel sole, i VV e li ' . 90
, cioè si prestavano. !)(lo - l li libilarle? Parla di lilla slla alla
la, ma non amalo, la Il le liti l'a si l): il re. !)()(i lº pro isalire
le ictu) gelo in lei l'edeschi. Simile il modo : p . I giù smettere Pon gli i
ſervenli amori, lascia i pensieri in atti I3 cc. 007 - Si riii: una
corpaccia la la ne, prenderne una buona si ll: l. l 'iel el Z. U
sare l sai e ad un luogo, ed anche usati e con alcuno, usare insieme'.
Rollo nraniero buonissime, di frequentissimo uso nei migliori libri di nostra
lingua. e sarebbe gran pc calo non farne conto e non volerne più usare, checchè
ne dica il l'on il laser, il quale assel is e che non sono della lin gua
parlata ecc. ecc. Significano i requentarlo, praticarvi, bazzicare, es ser
solito a l ora i si, al csson e', o l e molare e Pilegen; l mgang mil Jº il,
and pilºgan e . Notevole anche il modo : esse usato, esse uso di fare,
cioè aver l'a bil udine, esser solilo, non essere usatlo di checchessia, e
simili. (), a avvenne, che usando questa donna alla chiesa maggiore.... »
l'80ct'. a S'uscì di casa costei, e venne dove la usavano gli altri mercadanti.
» Bocc.« Le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e
usavagli. » Bocc.« ma pure accontatosi con una povera fon; Ili i clie molto
nella casa usava, non potendola ad altro in li! : la 1; i ''i corruppe.... »
Bocc. « .... io cercherei qui sta po- - ssi i li !. . . ciov e ne filmi, nè
ruine di piove me li potassolio tv utº assortº iacircncelli, e l'el che rei che
vi ſul - -. l':: : :) ) : l ' : - - « In quel tempo usavano relia coi ti
atia li. , Fioretti. « non colli e g ill', esse I, vi vi foc3e usato da molti
anni. , l 3' r . (ſ « Si (lio (le a Cl essi i gi ad usare « con coloro
che ri !!i e ! , ; - i dile tt - « Vallo. » PO ( ('.« .... il quale il più del
' t com . . . . . . . . i usava. » Bocc. « Quanto più uso con voi. lii i l' .«
Questi due giovani s II: usava: 2 insieme e pe tiello che ino « strassono, così
- al vario, o pi iri li.... Ave id si « adunque quesi a pl ( III essi il litº,
e l'insieme conti: uamente usando. » Bart. « senza che, con le era usata
di fare, li l -- : lì la lite. » Bo . a º miglii , l'i oli 1 e (l'1 I l
tº Sa: i erati 0. . « In quella cav, i 1, dove di piangersi e dolersi era
usa, si ra ornò » Bocr'. «Noi siano molto usati di far ria cr:::º, i s; » I30
. « Della quº: l' orizi in e non era usato i ( - a e que.li o n t e
li ti o 1 : i e i piu « di tali servigi non usati. » l': i Uscire
(915) (illal'da b l'1!si , e i ti: i usci) e di che che sia : ed aliche
uscii e s e 7 il l '. Uscir di mendicume – - Usai: cºi gaſ to selvatico
–- Uscir de' Cenci – Uscir del manico (916) S « Con la doſe - ll: il il
l:. i usci de panni ve « dovili -si. I 2 c. « Se io uscirò di mia natura
. l re li li alcuno, sianni qui e perdonato ». Da V.e dilungandosi di veder
costei olla gli usci dell'animo ». Bocc. - E benchè quelle bastona : in
avessero fatto uscir di passo, come a quegli che i trial, la rile: e li lti la
illo, vi invea fatto il callo ». Fier. e Mla usciamo di Papa Urisi, io e All
III: a un parti a clie mi diceste.» Tel'.l lo i tir i pi s v - e, si usci di
lui.» (par issi, an dl -- elle . . cs:i l'1.. Questa lilla s'incon, in Il 1 lo
ci Vi l ao e quando l'Aprile, ma in « Aprile finl- ed esce. » (i o d.Via ve: o
l' rola v . . . esº, ere li | ra! ti ». Cosari. e uscito poi della furia.... ,
t , i fillo. Nola alle ol a l: Il cosi la gºl l ' : l S( | | | | |
N ( VN V ( i N V (ii: l: l . l S( I | Rl, V | 3 V | | V ( V e si irrill a
Il [il 1 nº . . ! ! :: : sa: uscire non a bat e taglia, lo; i titi i ti i ) :
, e filiali nell' l'all ss : : I SCII? E al alcuno ( N I \ N VII I.
\ NIE, CON IVAI313UFFI, ( ( )N I \I IPI si, il i. a Ella m'usci con tºn
;, rºm r Gb: i to adesso ). BOCC. Note al verbo Uscire 915 – Collſ.
I liuscire. 916 – disine Iere i cos vi: Irasandare i termini del proprio cº
Silllll ( ( . t ('. N/ e clere E' elegante l'uso del vello redere per
gliardale, in luire, esaminare, scaldaglia e, investigal e, ( s.srl . . . .
llle: « Pre il lo non dove ero li ' t . . corsi stili alimente credere,
senza « vederne altro. 13 , l l lle, l'indagi, li º ) «.... di che l'altra
parte, che per avventura aveva più ragion che danaro, « fieramente sdegnata,
volle vedarla a punta d'armi, e farsi da se giustizia « con le sue mani ».
I3art. « Vedere il vero e il falso l ' pt: 11 i ti : i3a t. «
Avvisato di vedere de' fatti dell'i: II. . . . . . . . - itti « e.... ». Bari.«
.... Vola e Inill il 1 e a veder de' fatti dell'a inima sua e le - -
- « in altra religione pil di gºla o li. I |. « e vedi con lui
insieme i fatti nostri ). I . « Vedi modo, e si ppi se con lo! I le , pli i a º
il pi Inio». BOCC. « Tosto pone la querela; propone di rili o le " I
to I. vegga, l a. « mansi a furia i padr : per gl a Il cas . : : i I), i
. « S'egli è pur cosi, vuolsi veder via - 1 i sai io li lo.» I3
917. Fra i molti altri usi di questo verlo . I l I e voi li ricorderò
: AVER VIST.A con ulla rislut (t l'ºut , li lli il 1 l 3 ) . FAR VISTA I
AI R LI V ISTI, I A [ . \ EI ) ( I ) - I ) \ | R| V I STA – I)ARE A VEDERE I
Vedi sopra l)arr, Fare Note al verbo Vedere 917 – Notale
queste maniere, realer modo a ria se....: re ler l fatti dell'anima: senza
reale, ne all ro; reale, il re o, il falso, vederla a punta d'armi di r i co
. Volere Si usa a) per convenire, dore, si in vari modi, il più
cºll'allisso ed impersonalmente, sì al singolare che il plurale - : b per
essere per segui re una cosa, mancar poco che....: ( per opinati '. a rl'isti
e' Noterai da ultimo il modo voler bene. Il quale si adopera a siglliſi
care tanto amare germ ha ben che sta lenº, o cosa simile. 922 . « S'egli
è pur così, vuolsi veder via se noi ºppºlinº (i li: i Veio. I 3 ( .
l « E' opera si grande e malagevole che di io si vuole chiedere consiglio,
º Fior,« Andiam noi con esso lui a Roma ad impetrare dal santo Padre
che..., « ma ciò non si vuole con altri ragionare ». Bocc.«Se I)i() mi salvi,
di così fatte femmine non si vorrebbe aver misericordia». Rocc. (923). « Elle
si vorrebbon vive vive mettel llel fuoco ». BOCC. « Al combattere si vucI l en
uscir spedito, ma nel ritorno delle fatiche, a qual conforto più onesto che la
moglie? » Dav.« Comlare, egli non si vuol dire». Bccc. nº n convien che si
dica). « Questi lombardi cani non ci si vogliono più sostenere » Bocc. (non con
« vien, noi dobbiamo sostenerli.« Il beneficio si vuol fare con faccia l'ela,
non vi lana, nè dispettosa... ». IDa V.a .... e che insegnando egli la verita,
e la da chiunque si porga, vuol a prendersi e profittarne e si vuol prendere
Bart.a colme.... così l'animo quando è in lotta o o infetta, e di focose
libidini arde e languisce, con altre tali rimedi ferro e fuoco si vuole
attutare ». Segn. « Per 'rattat de Tai rl'iti usciti d'Arezzo volle ossel
tradito e tolto ai « Fiorentini il castello di Larel no . Vill, cioè fu per
essere, a un pelo cho....).« Pietro, veggendosi quo la via impedita, per la
quale sola si credeva « potere al suo desio pervenire, volte morir di dolore ».
Doce. (In fondi: le fu sì dolente che per poco ci me lova la vita). « Gli volle
dire che..... –- In:a.... ». Fiel'. « Pitagora ed altri vollero che esse
tutte procedessero dalle stelle ». Sacc. (a V Vista l'olio, ills e gla l'o; 1
). « Pa: ente nè attrico lascia o s'avea che ben gli volesse ».
Doce. « Vi vo' bene, perchè vo cli e il lla ln rinto Siele ». Bocc.
« V cali io voglio tutto il mio bene ». I3o . « Tra lol' 11oli Ill lin: i
lite o di ſe' liza. VI:ì d'accordo volevansi un ben « matto ». Malma lì
i. « Con le pugna ſul to il viso le ruppe, nè gli lasciò in capº un ca a
pollo e le ben gli volesse » l Note al verbo Volere 922 –-.
\nche il lo rill degli inglesi la usi pressoche eguali, oltre a molti altri che
il nostro colei e non ha, fra i quali singola rissimo è quello di far l'ufficio
di ausilia e alla formazione del tempo futuro di ogni altro i b – I rill come,
oppure I shall come – secondo cli l' –.923 – Come il verbo volere sia per
lorere, così pare che anche il verbo dovere abbia alcune volle senso di
colºre.« Richiese i chierici di là en! l'o che ad Abraaln (loressero dale « il
ballesimo ». I30cc,« e con molta riverenza mandò lºro galido la Madre sita che
le « dovesse piacere di veri e il tie l logo di ve egli era o. Ca valca.Trovo
inolta analogia dell'uli ell'altro, di testi verbi, ado perali in questa
follia, e il nigen dei tedeschi ed anche col to may degli inglesi, i quali veri
si costruiscono in guisa che non sapresti se meglio radurli rolere o dove
e.CAPITOLO II. Uso va a rio di alcune altre voci Olli i Verli di
illzi l'ecilali, si o alcune altre voci (animo, argomen lo, talalosso, lui
nolo, colpo, con lo iori und, l'onlc, latica, latto, mano, netto, pello, pºi i
lio, pati lo stomaco, cerso.... il cui uso frequente e vario è par li i lili di
elogi rii si rili il . Si lornali o con esse di molte e belle ma nici e e le
viene al discorso quel gri lo sapore, quel colorito, quella pu I A /a (li - il
cºllo e il la al telistica del linguaggio antico e classico. \len Ire le
palli elle e le voci in generale della Parte I. di questo Di i 'llo io, li li
sono che si ni vaghi, e adoperano più che altro all'assetto tegli in mi collosi
e non li alla si irl Il ct del lisco so, i vocaboli di que sla l'arte, ed il l
cie: la p . l rile, sºlo per sè, e precipuamente, for me cloculi e, con
l'icienti di lingua. Da quelle le compagini e la curva, da [lles e il salgle e
la polpa. Arm irro co (illarla come e in tranſ e guisa ne usano i
buoni scrittori. Suona press'a poco quando disposizione d'animo, condizione,
slalo di essere mo rale, e quando intenzione 926 , voglia, mi a. lalento,
inclinazione e simili. Son , poi nolev li i modi: a re e, anda) l'animo a...;
patir l'animo; essere, anal 1 e all'animo, la stati l'inimo: nelle e animo,
acconciarsi nel l'animo r. acconcia e Cap. pl cc : dole ne all'animo; dire
l'animo ad uno di....: rivolger per l'utnino; ecc. già d'e è di 16 a li,
i veri l piu animo che a servo non s'apparteneva, l lo la villa della se: vi in
lizio il ... » l 3o .... e se tu non li li cuell'animo che e tue parole
dimostrano non mi pas er di vana speranza ». l o . se dicessimo per
correzione e non per animo di disonorarlo ». Mae Struzzo. « Son
testimonio dell'amore ch'egli vi portava e dell'animo che teneva « di farvi
grande.» Caro.« Con animo di ienersi le liti e li ſale : l it il venisse miglior
« fortuna ». Gialnl). « Il valente uomo ſe e 1 og: i...., che giurerebbe
Con animo di ' on oss. l : r. cosa : . « secondº, che lle.i'animo gli
caºgai. º . . . . . . parlit - i li fellone aniins r i pieno di mal i
alCºllt ();. « Così slibiti i la forza di « fargli Inllta: animo ». I
. « IParii-si a dillolti e i S : :i , . . . gra:idissimo animo, se « via
gli durasse, e I - 1 , ; s , di fare a Il « ( ora non Ini: - se. I3 ) . «
Ed avendo l'animo al di v . . . . . . . . gli 1 il gione, ed « Ogni giustizia
dal lilla delle i i ti. li li lo il suo lellsiel di « Spose.» IBO .« Non gli va
l'animo ad 1 [ . a dre. » l' Issa V. « Consigliata a mari a 1 si ebbe l'animo a
at o . . .ite di De « Voin, ma tols e Filippi, figlillo. , l: ( : V. , lº: V.«
Tu badi ad l ? A lizi ho sempre l'animo a casi vostri, e sempre « mai ruguino
cose... » Anibl. « Luigi non avea l'animo ch: a li, l i il i -. » ( es. «
Se pure questo vi è all'animo, i d a li. . r?S. Cesari. « Ed a Ile
liento. Il lei lo va all'animo (Ill si g ) della prima novella.» Cesari.
« Egli che sapeva, che io ero felimini, perchè per moglie mi prendeva, « se le
femmine contro all'animo gli erano.? , lº . « Se vi basta l'animo di ſei
rail. l 'in . . . . . . Il 1 li li . ) !!) (.:ll' ). « Non gli bastando pºi
l'animo di 1 i si Il dll -- e ad « atto talora....» l'itel ei 17.« E Irli basta
l'animo di A ti . . .. . l ie . liz. « Vi basta l'animo di I l Il «
atterrirvi?» Sog n.« E mi basta l'animo di 1 V il 1 ll - 1/.l il i 1. »
Fiel'('ll Z. « A noi non dice l'animo di pa . . . . . i da! . di ti liti libri
e si lolloni.» Cesari.a se avrete farne del'a paroli di Vill: il lidi : ) di
potere, in que a sta Quaresima, ancor piac º v', in se i mi dà l'animo ».
Segn.« Ma vi dà l'animo in Illi t Impo si lill, i . e 'I ! clie, è peggio si
illl' « bolento e sì tetro, quale si è l'ultimo della Vila, apparecchia i vi
con Csame a distinto a tal confessione....?» Se n.« nè di fare morire alcuno
dei suoi lion gli pati mai l'animo ». DaV.Il Ina le è ce ne ſiu cic ai l'anim
2. o C s. Part. Qì la - i i , ' ' nette 1 - 3 ::inno : : i ri. » I3( 11v.
Cell Qll'il. ll - oscia chè così e Irli se rintuzzato l'attinº 5 si'C is
r r;o. . . . . 9.30 « Qlla lido, lili si rivolge per 3 a: rap ità ... »
Fierenz. a rivoltandomi per l'animo i : i uli. o l'ierenz Note alla
voce Animo 92C, Simile al n. inl degl ii i : la mind lo buy one. – IIa e
yon di minal lo ti il 2 v 92i – cioè secondo le g, i l va. W i, es il m su Mulh
ucur. 92S -- FsNel ct ll a 1, il ss. cc : i andar all'animo è sil lillio i : sè
i ct g ci li chè a grado l'era, di lui facesse ndr ) e a sangue quand'el li a
noi ci ss a sangue, io la voglio per disp. ll si o apacissimi di calun
liare i lolloni º il lor casi di reisi , Giub. , andare («Se l [llesl e
l'agl il sol li a Il slo, si troll ii ranno ». I3uonerotti ( ('('. 929 -
- Sinili: Sich gel i due n; sici : u n t then: cs dal in brigen: se latire
l'orl . . . . Vlt i ti li I l eguali sono le maniere: (la re', di e l'utilimio,
il cui oi , i n i cldi il cuore di Venire a il meno con si p del si li ti I. S
gli. « E vi dà il cuore di las, la veli slal e il l IP. Il gol l il lill
gamelle? » Segn.); pali e l' animo, sentirsela. Il teleti si co . e la (ſuale –
inten zi Il senza l'agi o vosli o n li li allilo di poter condurre » ( tiro a
Se io non la riveggo i n n't li do di descrivere.» Caro, S affidano di poter
brava e lilli e di vincerla colla provvi dellza . (iilll). .N 'isi singolare
trasformia, i tre graduazione delicatissima" di significati: Chi dice mai
basta l'otti in indica con ciò e di polere e di volere: chi dice non mi basta
l'animo indica non già di non volere ma di lì in pole Vli dà l'animo, il
cuore', suona a un di presso: il cºllº il ri: della, mi sento inclinato, avrei
voglia, sarei vago ecc. l indoº l . Iuantunque suppo sla, dall'idea di potere;
non mi dà l'animo, torna a : non mi sento punto inclinato, sento, provo i
tignanza, avversione a fa re, a dire ecc. Che se questi ri: 'lalanza venisse da
senti mento di delicata e ſuità o di colli issione, o di simile affet to e non
per pura avversioni alla cosa stessa da fare, da di ro ecc., allora
esprimerolla assai meglio, che non farei con l'una o l'altra di delle frasi,
dicendo: non mi soffre l'animo, il cuòre (« Ad Adamo non patì il cuore di
contristar la suadonna » Ces. – «nè di far in rii e alcuno dei suoi non gli
pali mai l'animo ). Dav. – A on mi basta l'animo esprime adun que impotenza:
non mi dà l' animo ripiglianza in generale; non mi solire il cuoi e lip glianza
ri e del iva da un particolar Sentimento.930 – Itintuzzare è lett. rivolgere a
pil: Isi, ripiegare il filo – stumpi m(tellºn, e il di la l lla in ſol :i, l in
lui zzati l'anima , ci è di venire avverso. Ilijuſſi e l'animo è il 'ril e
addirittura, Argorn e nto « Argomento è voce che ha molte significazioni,
e tra esse quella « di istrumento d'invenzione, di modo, d'auto, di
provvedimento e si « mili ». Pedi 931, « Qllivi : i foli era chi con i
(Ilia 1 l di l:1, argomento, le sn la r . a l'ile f. Ze l iv () : -- . » I3. .
. .« I medici con grandiss mi argomenti e con presti aiutandolo, appena a dopo
alquan ) di tempo il poter no di nervi gºla: ire ». B .« .... e fa la l la fra
il l. 1, e gi. I l 'gli il i vi i suoi altri argomenti fºnt li fa re, Illas gli
y olesse ... - III: I rila vita e il sentirne il o l'eV 0 0 l'e.... » I3 ('.«
.... a zi, o che il natur :) del III:I e no! p . Iss e, o le la ig it anza
de' Inedicanº i non conosco -se di clie si in vesse, e poi consigli il
debito « argomento non vi prende- se non - li te pi h I gilarivano, i
pizi.... a Bocc. o presi e li argomenti per 13 « con quali argomenti di fila li
II lit: i sl il ... ? l): V. « Gridò: fa ſi che le giºrno, chi ci li'
Ecco l'angel di Dio! piega le na ri! ()Inai vedrai di si fatti uſi illi, V (li
che sºlº gna gli argemcnti umi ini, Sì che remo non vi lol li è nll: o Velo,
chi le ali slle tra liti sl lo : alli. » I)alit . « E d'onde debbono
prendere cagi no e argomento di non pill l urt, ed eglino più per callo.»
l'assav. « .... il quale fermamen e ''avrebl ero il riso, se un argomento
non fosso « stato, il quale il March se subit Ilmente prese..... » l . ll
Il Illotivo, llli appicco.)Note alla voce Argomento 931 – « Le malattie
delle femmine, prosegue il Redi, di molti argo menti della fisica son
bisognevoli. – Per lo che i medici han potuto dar generalmente nome d'argomento
a tutte quante le loro medicine. – Può dul que esse avvenuto che essendo
il serviziale il più frequente di tutti i medicamenti, sia rimasto a esso
serviziale il noir e di argomento. Può anche essere che sia slalo chiamato ci
go onlo perchè il serviziale è un aiuto che per poterlo usa e vi è bisogno d'un
argomento, cioè d'un istrumento, quale appai,lo il cannone dei
serviziati». Aci osso (A ci cossa re) Guarda come si unisca a
molte idee e ne renda più evidente l'ordine dell'azione verso chicchessia o che
cle sia s inili all'hin, her, hiniiber, hine in ecc. dei tedeschi . «
Escono i cani adosso al poverello ». I)ante, « Ella m'uscì con un gran
rabulff o adosso. » Boce. « Entra il l)iavolo adosso ad alcuni, e per la
lingua loro predice le cose « ch'egli sa.» Passa V. 933) « fa che tll gli
metti gli ul gli ioni adossº, sì che tu lo scuoi ». I)ante. « Oll - io
veggo porre mano adosso a tua persona senza riverenza, cer ta Inente il III io
dole, le cºlore - col piera.... » ( a Valca. « Non pensando che, se fosse
chi adosso o indosso gliene ponesse, un « asino ne porterebbe 'roppo piu che
alcuna di loro.» Doce. 1934) « por gli occhi a dosso ». 13 i c. «
Stammi adosso (amore e lpoler ch'ha 'n voi raccolto.» Petrarca. (935) «
Recarsi sopra di sè, e no.n appoggiarsi adosso altrui.» Casa. a 'I'll
rarogli gli occhi, e a impeto gli corsono adosso colle pietre.» Cavalca.
« No .l, altrimenti che ad un c. n 1 l estiere tutti qui ,i della contrada «
abbajano adosso.» B , c. « Avrebbe avuto mal giuoco a darmi adosso mentre
i padri mi levano « a cielo.» Giub.Gridare adosso ad uno Vil. di Cristo) –
darla adosso – Gridar la croce adosso a uno – Dandir la croce adosso a uno
(nodo vivo, cioè dirne il miglior male possibile, perseguitare. Formare, lare
altrui un processo adosso. (Bocc.) « Addossandosi a lei s'ella s'arresta.
I)an e. « A Celso adossava gli el'l'oli alf rili. » I)a Val)Z. Note alla
voce Adosso 933 – Così dicesi : avere il diavolo adosso Passav),
andare, correre adosso ad alcuno. – «Gli corsono adosso con le pietre. » Ca
Valca. 934 – Parla di soverchi ornamenti delle femmine. 935 – Stare
adosso, in generale significa insistere, importunare. E a ri ci co
(E a n ci i re) Un pajo di esempi, che ti anni niscano del valore ed uso
legittimo di questa voce. « Mi rallegro che abbiate ricuperato il bando
di casa vostra.» (decreto, pubblicità, ecc.). Caro« E per bando il popolo
ammoni, non queste esequie come l'altre del « divino Giulio scompigliassero ».
l)av.« fece ordinare bando la testa sopra chi fosse trovato reo di tanta bar «
bara ( l'Uldeltà.» I3art.« v'avea colà strettissimo divieto e bando la testa o
la prigione in vita, a a....» Bart.« Diede bando di male amministrata
repubblica a....» DaV. (940)“ . . . . . i liò i S 1: a li i vºli lº s ......
II. l. 1 la lo bandire per coià ir, lo, e al passato i tiri l o il si....
» B irl i : e- si io ev , e l.llis i in itine del fra tello la bardi, e l
l i. E 'lo, li - a, noi lo handiamo a ti: l ':17 Bandire la croca
adesso ad uno v addS80 . Note alla voce Bando () () I )al
band, gli che che sia al cicli uo, è condannarlo per giu dizio, caccia l da un
lu go e porlo a morte se vi ritorna. Testa (capo) I sei i modi
anche oggi con il missili:i e \ lgari ed accenno ai me ll , lsali (lal V.
lgo Far capo ad uno :) I lil I e i i ti to o : io » – Far capo in un
luogo ai da quivi, º l'in visi, fa: mia ss 1 – Mctter capo di un ſi li le : 1)
Inn l a t: o ti li(illi lava i tl, la la il li, e I ll (ill:belli la faceva
capo a lui. » Giov. V lll.I fr: ti.... v. lllero a l'i: l e, suggellº) . dºtti,
e fecer capo agli anziani del popolo. , (i. Vi!!.Così fa cia il l dl e della
famiglia, distingua le sue cose, e tengale a i l II odo che a lui sclo faccia n
capo, ed a lui i sien, ovdi l'ate....» l?andolfini, E l d -omi che quando il
Sig 1 e era l, ella città, continuamente si a torºla in allergo il più delle
volte a lima ig e qu' a era grande all'e « grezza e consolazione a tutti i suoi
divoti, ch . vi facevano capo.» Cavalca. « E i... Firenze facevano e ai le
dette fontane ad uno grande palagio, a che si cimiamava Termine, Caput aquae. »
G. V.« Quelli, che per con rada non usata camminano, qualora essi a parte «
venuti dove parimenti molte vie faccian capo, in qual più tosto sia da « mettersi,
stanno sul piè dui bit si, e sospesi.» B( Imbo. « Per lo fiulrle del
Nilo, e li fa i c' a l) I lili i : l in Egil [o, e mette capo « nel nostro
mare. » (i. Vill. Fare di suo capo º 1 a slo, - sulo mi do . - - Dir....
far.... di miº, tuo, suo capo il 1 l il V , Iz« NCE, sapendo far d suo capo .
In Illini i sa del mio, il lo. , A.le. « Ma questa cosa I)inni li li on li fece
di suo capo, IIIa i- I is - e, i.i: la zi « al suo padre, e il suo p li dlel l
i l: nza. » V it. Plth .« Affel'Int) non di mio capo, III.) di s .it: te de lla
ll rati « ma d'alculli (le Teologi , li la vostra le lezza è lº l'aria delle
cose celesti. » Riel'el)Z. Farsi da capo. « Qui si dimostra che il ift: -
si e' qua « di riconfessarsi da capo. « Me-sala, qui si da capo rifai!
csi, disse: " I)av. l la ci sonº e lenti a Tirare a capo
– Venire a capo ondulr a fi; e, v ir, illa e il si le.. « Tiriamo crmai a capo
Gueata tela, o lº« Se io ve le vo! re, io non ne verrei a capo in
parecchi « Iniglia.» I3o e'. « Volendo e pil fla III It , i no - e e, o
ve le , sa o di troppº fatica, « e nº !) st 11 venire a capo. F: (iio: l:
li . « Iº gli 11 Il si verrebbe a capo il 1 le tl1te le co. (..» La l).
Ccrrer per lo capo a llar pe: la fa ta sia Entrar nel capo il lilaginarsi, darsi
ad intendere, sli, la rsi a credere, . E qll si o libi o Ini corsero
mille altre o per lo capo. Amle[.. a (i li entrò nel capo, ! , V : seve, lie -
-; il V t's - o - I lie a famente vivere nella lod povertà o I3o . Farci
il capo - fare tanto di capo V. Verli, Fare ( ip. I pala l'. I – Venire in Capo
arra (!. re, sll len e, illt ( ve : i re .“ Sicchè lene Inostrò e trovò vi o
illel elle V | olio li aveva s pitt , a cioè che in b ºve l'ira di Dio
gli verrebbe in capo. , Cav: a. « Mi lide ) d. l''i vos: a In te, e farò li ffe
e sche, n. di voi, qui nn lo a quello che ell: V . I vi verrà in capo. »
l' issava il 1.A capo erto, a capo chino – Andar a capo chino, ecc. ecc.
Si usa tanto letteralmente che metaforicamente, cioè a indicare dipinta mente
la franchezza, la baldanza o la umiliazione di alcuno. Ricordo da ultimo alcuni
del ti proverbiali: Cosa fatta capo ha (Dante l loc. G. Vill.), Scambiare il
capo pel rivagno, pigliare una cosa per un altra, Mangiare col capo nel sacco
vivere senza darsi pensiero, o briga di cosa, alcuna). Note alla voce
Testa 941 – Di sua testa non pare il medesimo. Significa: giusta il suo
proprio intendimento, senza altrui aiuto o consiglio.« Diedegli certe scritture
di sua testa compilate ». M. Vill. « Io non ardirei rispondere di mia testa a
sì grave quistio ( ne ». Dav.Non è da credere che scrivesse questo particolare
di sua a testa o Fierenz. A proposito di Ics'a lon sala inutile far
osservare alcuni usi di que sta voce al cui luogo non ſarebbe capo. Sta a per
persona: « Si levò una tramontana pericolosa che nelle secche di Barberia la
galea) percosse, nè ne scampò lesta ». Iº c.; b per l'estremità della lunghezza
di qua lunque si voglia cosa, con le : l'esta del ponte, della camera, della
tavola, della tela e simili: ( Egli ha allo in lesla d'una sua gran
pergola....» Caro; e per intelletto ingegno: o l'ira u no al suo tempo ripulato
astuto e di buona testa . M. Vill. di buon capo farebbe ridere). Dicesi
finalmente: senza testa non senza capo: Gridare a testa (ad alta voce); Gridare
in testa altrui garrirlo: fan e all' ui un gran rumore in testa (Doce); far
lesla (fermarsi, resistere, difendersi); tener testa, rifar testa ». G. Vill.
(v. I3attaglia, Prontuario). Cornto Sono noti e dell'uso i modi:
Conto aperto (od acceso), conto spento, conto corrente, conto a parte, a buon
conto, aver a conto una cosa, ricevere a conto, lar i conti con alcuno, la r
conto di che che sia (farne stima, averlo in pregio, farne assegnamento, far
capitale), domandarconto di una cosa, render conto, dar conto d'alcuna cosa
(darne avviso, notizia, e anche render ragione dell'operato , arere in buon
conto (in buon concetto), avere chi che sia o che che sia in conto di.....,
tener conto di checchessia, per averne cui i : « Non gli restarono altri
ninnici che i suoi figliuoli ecc. da tenerne conto Sogli. Si r., ed anche per
orenderne memoria, in Letraclit zieh en, il V e il considerazione : « senza
tenere altrimenti conto della sua obbliga la fede . (iiallo. ecc. ecc. Di
molti altri usi di questa voce niente volgari o meno comuni oggidì piaceni
menzionare i seguenti: Persona, uomo di conto ioè di stima, di 1 pillazione . «
davagli in commende i conveni a uomini di conto. » Dav. « In verità che io non
sapeva di essere un personaggio di tal contu, « che potessi turbare i sonni e
stancar l'1 pelllia di un ministro.» Giul). Far conto che.... ),
pensatsi, in Imagina si, sal ersi, supporsi, darauf gefasst sein).« Si
addestrino a vincere il demonio in altrui trionfandolo in loro stessi, « e
faccian conto che i pericoli passati son minori di quelli che sopravver «
rannO.» Bari.« Facciam conto, che in campo alla pastura Un oro, sia costui, o
un a cavallo.» Malrn.« I)unque dovrò si armene tutto l'inverno tra questi geli,
e durare sì « lunga fatica?.... Fa tuo conto. » (iozzi.« Le sar i rillo a dll
nelll.', ripiglia via i ragazzi , i lidele? Fa tuo conto di a ceva il padre, le
sono appunto candele. , (iozzi. Metter conto, tornar conto es - or utio,
tornar bene, zutreffen). « A Gel'Irla Ilico mise conto voltare.» I): I V. « Non
perchè alla repubblica mettesse conto patire mali cittadini.» Dav. « In ragioli
di Stato, il conto lo l iornar IIIa i -, li ti si fa con un solo »I)a V.
Levare i conti. º nel cominciare a levare i conti che avea con Dio, cavò
un lento sc « spiro.» Bart.Fortuna liscio gli esempi nei quali questa
voce è adoperata a significare ora condizione, stato, essere a Ahi quanto è
misera la fortuna delle dollll .... lº . . col l'a tt con intento
indeterminato, caso, avventura e lasciaio ai re a beneficio i fortuna ».
Fierenz.), e quando ven tu rot, ct r r nini e il I , buono ed è talora anche
l'opposto cioè disgrazia, av rom in n le calli ro ecc. e le n lo [ili alcuni di
un uso men comune, ci è il sig li tre pi elle, lui asco di noti e, mare
l'ortunoso e simili. Si crt ti ma i ve: lt , A sì forte, e in petuoso,
che - 1: Vili.l'ill st , s, il 1 l e gran fortuna di pioggia gli sorprese.» (i.
Viil.a \ Ife, in lio, io l a cos . Il l tempestosa fortuna esser na º | :) » l
. e Ond ei pi , e ne rive in fortuna, l): nte. I.: fcrtuna - i lob pople:ì. » B
art. li ria: e ci I l lo rempe fortuna, si or endi colpi la batte (na V ('....
. I 3: l ' 1.e li i- e l' In ill , sl - , mi ata la nipes: elle qualtro di e
quattro molli corsero perdutº a fortuna, senz' ' 'o miglior governo che....»
Bart. N : \ e li coi reva a fortuna il t :: il e o IBari, 950) \ ndo si seni
fortuneggiando con avvenimenti or prosperi or a V V e 'si. I 3a 1 t.I questo li
lo si elli, la va a il 1 l iltà fortuneggiando.» G. Vil. I bella , li in azione
lei - i to Iri Il re, quando più fortuneggia, per « alleggi: l' a la rca. »
(oll. l'al'. Note alla voce Fortuna !) ,( ) N Iala questa
frase: correre a Fortuna correre perduto a for i una, l he la sc itelle lo i
rineggiare che ha un uso e si niſi il lassi e giale, ci è ali birrasca,
avventurarsi agli accidenti forlilli si del mare e li i lamente, essere tra
civili empeste.Faccia (Fronte) Adduco esempi di faccia o fronte in senso
analogo ai derivati slac Ciato e sfrontato. I.i soli chiarissimili ed il e lell'uso.
« Pure di dal e il ci II la l1 lilli e li S. , . . . ll , l el taccia . «
Con qual faccia, s a ci: il I II , - l . Il lidi e « la fede?» (il lido (iiudl
('. « Adunque con (. . I faccia « add Llcile? ». (iil I l . a Ol' e
il 1 - le fronte il il 1 : ' ' , i - . . . . . . . . « Poi che l'uoli o
si º le vi! ll 1 o, fa callo º iro iile, i - - - a ratamente a ogni In . » ( IV
al a 95 « Hai | ll ll lla fronte cosi incallita, i lle ', il l i « di
doverti call Il bial'e il el Vis ? S, - il. . . . . l « Con faccia
tosta - e 17 i pi Va: ll 11 , Il). 9 , è « In prima si coniII e II in o Ill o.
I l tanto che i « manifeslainen e li faccia, e li ri . . « Quel che tu
in, l): a l ha fa coia, ( i, li i ll v o Lasca. Rilne. 9) i . « UOII10 Senza
faccia - Il v.i . . . . . . . . . . « Vede e 'a lliere: i iacul, e « rere
Iſlale . , Fl'. (1 o l'il. « Don Roi Igo 11 , l avrà faccia l: Note alla
voce Faccia Fronte 951 – Cioè diventa sfortunato, si ucciulo.... l
on li ha poi mol [i al li Ilsi e lo; i s'eri le sco perla, cioè aver bilona
fali i tºni i l I ( n le; Mostrare la fronte (slare al posto la r II on le pp
rsi : a prima onl, ecc. 952 – Un ragazzo ha faccia tosta, lº li ha ſron
le incalli lat. 953 – Far faccia vale prender il II e, a lei il pil i Far
crlr facce di olio in Toscana per la ri . ligure, e poi , i a dover dire o far
cose. Il li li llo ci livelli rili il l ' il . 954 – ci è chi noli la
senso di ver: liti e di 1 ss ('. 955 – non si ardirà a far.......
16Fatica (Faticare) Ricordo i modi poc'anzi addoti: senza una fatica al
mondo, alle mag gio) i folliche del mondo, di tr fatica, prender latica intorno
ad una cosa, a la lira il V V el l con ſali , i pºli , a gre , ai) alicarsi una
cosa (cioè alla lira si per i lilisla la ed i gi o alcuni esempi di un altro
uso men nol e mieille comune agli sci Il ri di oggi di cioè della voce fatica
il sigilili lo li li a raglio, per il latino sostenuto o lato, e dell'analogo
la licati e il no, una cosa, ciò è l raglia, lo, allige) lo tempestarlo alal, V
e voll e, i l ligar . E I: la turiſti e !). ll la ed ass: i n , e in
riini della persona, per la fatica il Irla . . . . . . . . . . l pa evano le
sue fattezze bel e is si lite , l ' , , , , , - ( il'er le . In le , i ai altro
pensare che di lui, e ogni altra cosi le v 1 - a eva grandissima fatica e per
dil 1 lite si l V a oli , il 1 l quali, essendo cia si - , i faticarono la
nave, dove la donna era, e' marinariLa loro si el e , e faticatº o ezia radio
gli ali inni de savi. » Amm. Ant. l ' Illal (iiii , e ora il mare, ora la
terra, cra il cielo di paura fatica Ill lo II e il I l fatigat .» S. Agost. C.
l). PRT atto Mi acio, i nodi dell'iso, che li li è fallo mio: si
fallo (di tal fatta di tal maniera : li fallo e Te! ivan n[ 9:50): in fallo, in
fatti: fatto sta che.....: in sul fallo in orielli- : iallo l'arme: uomo Vallo,
cavallo jallo, il lilla, biale. o si lili, latte e 9 l . e piacenti porre
alcuni esempi di un riso assai ſi ſui lil e il loro i cl siri e non comunemenie
osservato oggidi. (ilar la II Il nle iel , l a che va a mente, si adoperi que
sta voce alto il significa e il negozio, faccenda, affare, interesse, e ora
torerno della p rs not n 1 micr, ii , ' i cliessia e Nolerai le frasi: dire
ſare, esse e checchessia di lall prici, le falli suoi (cioè di me, di lui ecc):
andatr pei falli sui ri; a 1 e i lalli su i non potrer suo fallo (non mo strar
che si faccia a posſa essere fatto mio, fallo suo (cosa che appartie ne a
me.... : disporre ordinati e i lorº li suoi: entra e nei fatti altrui ecc.
Masopratutto porrai mente al vario uso del nodo gran fatto: non essere gran
fatto che....; parere gran fallo che...... essere clicchessia o chec chessia un
gran fatto ecc. « Noi abbiamo de' fatti suoi pessimo parli o alle milani.
» Borr. « Ed in questa guisa Bruno e Dil falli la II o, « traevano de'
fatti di Calandrino il III - « E se non era il g ... l in 1:1 lit , il 1
l i de' fatti - Il l III !! a dire.» Berni. « Mossi a col il pass oli del
fatto suo.... l « Come se egli - lo so , o de' fatti ric stri - I ' ' :
l. i l - li i ll it , l . . . « E mangiato, e bevuto, s'and:
i pe' fatti loro, B « Egli sarebbe necessario che ti l . Ia la ss da il: cosa,
e l: sto s « è, che se nessuno ſi domanda ss e di cosa , l ... , o la r . - del
fatto iuo..., a che tu per niente non rispoli il -si - . . . . . l: i si
v; st: (ii « non li vede l'e ( 11, Il li Ildil e. ll tº 1 - in 1 l 'i a
ir pel « fatto ſuo. » Fiert':1z. « Non lili da r no] , e , a pe fati i tuoi. VI
'In. « Chi fa i fatti suoi non si ill, i ti:I l 11 , l s . « Perseguitava una
val Int. a quia li i - « giungerli, on.le la line - li illa non ve li : l
rime tii a fatti suoi, l a - a comandò ad illlo scarafaggi l . . Flei ei
12. « Senza che paresse lor fatto, li colli, i cono a lorº, i lit: qi, lu
- « qll Csto Sllo Illari) o. » Fiere:la. « Se ne sta ritorna, che non par
suo fatto. Vi rili. « Dice le cose, che non par suo fatto. I3 i «
Renzo al suo posto, senza che paresse suso fatto la il clo « Inessun altro.»
Manzolli. « Il padre si lamenta del ſigilli lo, e si rie e di pin egli il
a fatto suo. , Cavalca.« Un solo anno stette e visse in questa º o , linellza
ed avendo tutti i « suoi fatti di votamente disposti, con grande part se ne
andò i (iesi ( ri « sto.» Cavalca.« Ed (rrdilla () in Egitto (ng li suo fatto,
- i : il l ... » I3 . . « ID'ulna in altra parol. I entrammo ne' fatti dell' :«
.... e sta bene accorto che egli non ti ponesse le mani adosso, per i « ch'egli
ti darebbe il mal di ed avresti guasti i fatti miei. Bo, c.« Troppo ci è da
lungi a fatti miei, ma se più presso ci fosse, bon tia dico che io vi verrei
una volta con esso teco pur per vedere a fare il tomo a quei linac lei ogni e
lo limºne una satolla o, Bocc. « Non sarà gran fatto ch'egli getti
qualche bottone, col qual io discopra il suo pens . ro.» Flei e la.- - - - - e
11 : -: la gran fatto . ll al ti: o ce le cincischi.» Da Van. e le per esse
-il), A di I'll imo, non sarà forse gran fatto li a l loba l l ulmanità.» Segn.
. .. . pe. indos I di -s non è gran fatto, che per livore o innato vi doig:
vedere in alti io, li noli e conceduto acquistare a voi. Segn.« Pare a voi di
tre gran fatie , l: i Cielo a voi debba costare qualche leggie di s. l '
It , i lil II l S . In cli I), o vi debba º si º gran fatto oll i- ato,
per un ossequio che piu proi, il merile poi il re - l ni:il lil:i. Se n.e 11 il
bis – il l gran ta! to : Vi l e a, per lº....» Bart. « Nè avi il gran fatto : '
' , p s a h si rai slm litato dal pic a col le li , , l ' : l /Ed il la 1/ gran
fatto in là, ella arrivò ad una a certa ri; l:1. o lº . I fior enti
i : il : i a fiorini d'oro, senza a quelli li vi ii fit is ºn grati fa 11 o.»
(i. V ill.( gras, a to - I l ini l e.» I3o . E I. e illliamolata di me cli, ti
pal ei gran tetto, lº il l: i 1.1. I vig , l .( )il - , vi i : 1 - . . . sse, e
cado: le gran tolli, i loro i no , mºltº gra.: 1a!! 3. ( A , i tl ad.
grandi e sanliº. Note alla voce Fatto !)(,() si ,s , li oi i pi si
nºi il cli: li presente, sui biſamente, in mantinente si rii di 1, il calde
nori o nella piana el' i l. l'Iron , pi si..... e di fatto, e senza alcun
soggiorno tutti fu I no il pic i fi . Mi Vili. - (i \nche allo per
cosa falla. I rili, in pposizione a dello, è s illli bocc. di I lilli. - Che
mille volte al ſal'o il lir vien meno . Dalle. « I fatti son maschi e le li
role so' felimininº o ProV. ital.N/l a n co E' Voce Ilsalissimi, si, i 11
. I pelle molle Il lamiere, gran parte volgi il s - che ad al lI'e lillgue 961
, si go, il 1 - I l guidi, quelle tavia sulla lingua del p ' . ( il 1.
leggiadria od eccellenza di senſi nellº si i ... a no, la tale solo per certa
analogia ila mano, avuto cioè riguardo ai vari lilli i ti che iene la mano, a
quello che li, al per: per a signi cioè che Ilon V elig l srli. I -, - i
. . l'l'ono ll ( ficare potere, forza azione au il pri, tra i là di o
l'uori lilli , soc corso, aiulo, banda, lutto ecc. « Acciocche a mano di
si', il ri . . . . . . . . . . . . . . non vertisse. I3o ('. « Venendo a
mano il it - - il II , le V elite e l'i « Stiano.» Vit. SS. I': l. «
Molti dei quali lug - I l . . . . . . . . . . . . . a mano de' nemici « uſ.
Inini II lontani pervennero. «I terno forte di II lilli i r . . . i t. 1,
i ir: imam l lilllico. » l?et l'. « La republic tilt i, in mano.
Dav. « La saliti del V sl l fi I l l i nº lla ntitº i l l3 ( '. « E
quale le an a -, i la mano a prestalica, io l'auto « rità dei prelati della sim
mila ( li a. il 1 l: Ali - oli?» PasSV. « Fare i voti in mano di.... , l
3:1 i t. Cºs « Manda il la lizi una marmo l . . « I entulli, Vlt
telli, l .li ra: no ci º randi. I : l .. « far guardare a mano di
soldati. I « rifiorir la calunnia coi li la mano ri: di doppiezza. »
Giub. « Carlo con potente mano v V on gi al quantità di gente a rinata
. « nè Inolo poi con piccola mano di armati V, il 1 , a S. Iplone.... a
lºoce. (Lett.) « Sopra i detti fili si da lol : ill. it e s'ilm «
ponga grossa i lile l'a lt 1 : : e io i Irella mano « di terra, che s'è
la [a di sotto. 13 Inv. ( e'!. () i « Andando egli per di la, molta mano l'Il
III liri de la ri; in Iglia l'incon « trarono.» Benibo. « ma.... fu loro
adosso subitnmento una mano di ribaldi....» l?art.di lini .... l) o lo veggia,
e porgami la sua rºmano, - 1, li, i - ca. » V il SS. IPad. I is: i o, che
tenevano mano al fatto, t e del mondo.» Bocc. 965) \ qi te li- , e tenienc mano
molti baroni del Regno.» G. Vill. ! . (ii i e Isolmi e le Gesù mise mano
& i serrano ine li piu se e , più per ſette che mai avesse I t . l .
ti l a, fere cenno ch'esse (le pie i ! ! , l i º S rimise mano e disse que le
parole che - il pi su ro, e colli e gli entrò l. Ili, soggiunse e di
Sese). VI: messo matto in Alberto da Siena seguirò di dire di lui ll o
lº I l ott . .. m Se ntano in altre novelle. , Bocc. 966). i :ili º di
.oli perdere lo stato suo, mise mano , l s ... Il miº l 'ils li a l e E
da', e , Vit. S. Giov. Batta. I ss; Il li i lill I, il I . . ll mi venne a
mano, l'infrascritta cosa.» Vit. SS I .(olis derare oltre. ll he primi i gli
venisse a mano.» Bocc. (967) li li avendo il pri' il o la ello a mano lavorava
con guinzagli di I l ( -: i ri.() la d [.li mi viene ai le mani al lli i
giovanetta, che mi piaccia...» Bocc. I li pervenuta gli fosse. I 3 , > cade
per mano, la gio ma no di cambi.» I3occ. lt 'e llla l' e il I dil e che li
cation [ra mano.» Ces. rss e il dover lol dire, con lo costoſi alle
mani Era il pi vo! Il no del mondo, e le più nuove novelle avea per le
mani, o lº e'.l'o-se va le e lo ill, e pretºre dei sogni i qua l abbiamo fra le
mani.» l', - li ttiallo). Se \ ( i, e li gli ha fra mano ». l) il tam. \ Inzi
mi prego il cast lo l l se io m'avessi a cuno alle mani, e i la S . » l'8 eNoi
abbiamo die ia | i sit i | -sino l'irtito alle mani.» Bocc. ( : e quelli, che
lo li pi Ili, d minare hanno alle mani.» Galat. S. ll p il sier in o o
d'i: lur e o amichevolmente o levargli la mano, a e li, lo ſi l e , i sºli, Ina
grado. » Nell. I. A. Com. (968)C 'i ll nini innamorati bisogna lar come coi
polledri: con essi ci v(( la briglia, frusta e fil d'erba; o: i rile, i
li, o a casfig rli, a lusingarli; « altrimenti, se ci piglian la
rinano la si o ti noi quel che ben ioro torna.» Nelli. I. A. COnl.
(( (( (( (t « Non so...., nè a quale di i i il 1 l si
ri le! V il gelo I.lligi dovesse ceder la mano. » ( es. « Boezio
pruova, che l'll in pole, il II ci ha peggio, che l'uomo di bassa mano. » ( il
V: il l.« Se tll II letti ll ! !: i lil :) il il l il bassa mano l . I (', o lì
(vl) è mai per roba, che ella vi p . i, t : a Ilio. , (io l. Spor. « Anzi prova
il va il V 'o sſ 1: laici e colle persone di bassa mano. Ci s.« Non sieno di vite
i ro? ( d alta, Ina - Ierio di vi . . . i mezza rilano. l' « Ull
chiassº lillo assai fuor di mano. l t. « Torrestela voi fuor di mano i ve lo i
si V elido; lo più vili. » Pandorlf. « Luogo molto solingo e fuor di mano. I3)
c. « E quello con lui fa la ciurma ebbero a man salva. 13o c.
sicuramente, impuneInel1te). (( (t (I « Senza che
al lillo , Iri: i i , ga e 1 di Col - sari sopravvenne, la Ilta e tu ti a man
salva - I pl - e el andò via.» l?oce. « E perchè tante diligenze? 11 i
poteri e gli averlo a man salva ovunque volesse?.» Segn. parla del fratricidio
di Cal no . « Vedendo il caso Ill ! I limiti e li - . V - il era vinta
della mano Nerone era spacciat . » I)av.« Tutti studiava lisi di Ig Il: i rl I
se non vincerli della mano. » Cesari. « e il buon Gesù Maestro utili per
il pa le, e ilppelo, e così bene disse tulle le tavole, e lo ile dall'una mano
e dall'altra a coloro che gli erano più presso. » (. . V: il 1. 9ti!) «
Va', gli disse dalla mano dritta d ' s dica, ed egii andò dalla mano sinistra.
Iº, re « Così tornava per 'o cerchio t. 4 r . Da ogni mano, all'apposito
punto.» Dante Inf. 7, 32 970) « Così duo spirti, l'uno all'allro
chili, « Ragionava ll di Intº ivi a man dritta « Poi fer li visi,
per dirmi, supini.» Dante. l'urg. 14.'(o)upds popuSIs Inb) ooogI v'o.IlIO Qpunu
II “lumi ollop paol pp “u Au ICICIe II º oul o uutlop tº | I nuovi ed estro el
l - Il -IV » - 'lue AoN « ossip o :ppp) Non ſi pl), li our il pl), l'
op.elp outdooo!!) Iosso l\ » sslo I sl. Il l is o ollo llo, li eICI o zUIo,
Iolel « OI.).otº. I | ottili Il 1 ls 5 -opupuotu o “ollo)lo. o) n. il
film l u n t al I ti Ip (in on ott oss, il o » : IIus o otodlam oliil Ip le
oumi in l 'oupu Inl. -0p3 uol.IIUISIS plssol.o.ool. III our li lp i pp o II. In
po 'pso.o) on li tod o p oumul lo), ti : opoit | o olistino ti il litis
oi ri: - red o o Tupou Ituo) e olltils o u? o una o lo)). Il 2n ils . . . .
N (pupoIV) optio. Il sip I n. p oso.Iotti: o s -oI) Ip Isopu ellu.Il
'tele i cd in 51 | tell, il lil III o II l ' op opulooos II oz.Io un Ip Ipniri,
il ti mid o Iod : II o II: il onpoque ouuoi luis oumu lp tou, l oum il
trito.I lollflot ſpum il : uoſol) l) lt 1) II l lº fu i pup II t, l. 1 ,
l ' ul, N li pill) I -.0 l 'll 30 l) il pul) lt.)() () 'l l : il 2 l. N S I. W N
il p pli) II cºl l ’s ..o): I.).o: ls o “al IpUIoA Ip o Ille.it | | | | |
| te, Ip o netto e l our, il tool , pi). IOI QuoopUIo,oos Isso od li elil I un
ul . l I, pp .I : ) « oupul pl oood un lap. tifi oil o sotto ll op. pddos
uoi o! Io e,op is , l lo -ſim :(usu ) « oum il plm lui o il ulson lì Ip
o] Iod o [op e ti º lo utI UIou ott.Ia:S Ip oso - It?, Ilo) dolo) olim il mo)
molti i pl . ) : l o il lo ſi un lp : i -lad pl app :(Utlopl) oum lti li lui il
'lo. I pps : s i lo) -ulo plm luput ollo. Il N :ol n. ll o in lui lo pu Inl si
.lol : :: - -souloootlo otIIIss.Io.A .Iod o letti i l o, on i lou , il miti il
: msoo mun oumu to. I p.), o) , mi : ps spel up it I pi : oss. I lupu ol o toam
:o)pſi.o) ll put , l . . ) :p) spel il lunni , l -IIu.IoqII o Insn pſ up) o umi
p) , p : s e -ed IuI I] Iolod lp output pluti il 1 ol ss (I -od) oumtl ul .lo,
m : In Ir) our li mi i nomi o l oil..I l 5, so uotp o[.Inq UIoN ) Tn1) o un mit
ti , i no 1 o s - Ied II5o au » – ollu. I Il o v . Id e il pil un omone: i -oq
IIosnI.I n el IIIquº plssolo. ,ol.) un omi piu pitono i p i ns o ai -nole
uzUIos) olon lupul p : olio: rºns e o os “Il p . I ºIIe aolo) oum.olm,p ou put
il o al piu . l) o is i a i ) I ll , , 1 ) N N, i : ls, -
TeInzza) ' uo) lupu opm o.lu, , , losso : ss s IlTOUI e ouput ul oumu lp o Ioi
o is I, opIV -- o, epi in pu Intro3 o otto Inpulition i volti, oros Ip II o un
p on pu p . “mIIadno nun III olio novo Iorio ſi o IIIod s our in un ou put np
“oumtl p on pnti p : Io I Il tº - il vi:.) e p), il -issmu.out o Issoptions o I
, Ill.) o 5 - -1)ll,9lll :(o)uo III el.oIII).In n our li in e ss « ouml5 ml o
unl ſi u mu . . . . . . . . . . l IV fi , l ' li' in :(IoI, I « IoIIIn
IIfop oi 15 º oliº olpoul “olzIpn15 solo emb lp e los I, -on T ) : opcIt II e a
1. o un triplº : It: [.Ied ſoup oi lotte o lesn po o li li so I I I s | | |
| Oue IAI eooA e le emoN !): ſi - (i I :)(i967 –
Questo venire a mano o alle mani significa capitare, occor rerº, scontrarsi,
non renire in potere come negli esempi del primo gruppo. 968 – Lerare la
mano ad alcuno significa sottrarsi all'obbedienza, usurparne l'autorità,
comandare in sua vece. (Gherardini). In senso analogo dicesi pigliar la mano,
cioè non curar più il fl'eno, ed anche guadagna la mano. 969 – Nola
singolare costruzione, l 970 - Ci è tanto da destra che da sinistra. Dicesi
anche (v. ap l'ºssº e con egual sigili caſo, ad ogni mano, a mano de Sl
r(t, a mano sinistra. N etto E' un agge livº e significa pulito, se
ilza macchia o lordura ed anche buono, senza risio o magagna, leale, schietto.
E però dicesi: coscenza nella. « () dignitosa coscienza, e nella Colle l'è
picciol fallo amaro Inol'so! » I alle º I l'allava con nella coscienza ogni
negoziuccio ». Fr. Giord. ; di mºlta rila a liv. M.: animo nello, ed intero ».
M. V. ecc. Ma si usa altresì a modo di avverbio, e talora anche
sostantivamente. Si notino tra l'altro, le forme seguenti: Averla netta,
andarne netto, passarla metta. « Non ebbono netta del tutto l'avventurosa vi
torla.» M. Vil. « Niuno ne andò così netto che non piangesse qualcuno.»
Dav. Uscirne netto opp. uscirne al pullo, in do toscano – Farla netta
980) « Io mi credeva d'averla fatta netta di que la vesſa, e aveva la se... »
Fiel'enz. Coglierla netta. « Io non vo' che la colghino così netta »,
Ambr. Giuocar netto (cioè con lealta, senza frode, ed anche andar call'o, e
simili) – Mettere in netto 981, --- Tagliar di netto, portar, gittar, saltar,
far chec chessia di netto i cioè con precisi rie, interamente affatto, in un
tratto), « E con -sa sospintolsi d'addosso, di netto col capo innanzi il gettò
». Bocc.« E rimessa la briglia al suo giannetto, Come un pardo, saltovvi su di
« netto ». Malm.« Senza certa violenza pare non si possano recidere di netto
certe grandi | « quistioni ». Tomm. Il netto di una cosa il chiaro, il
fatto preciso). Note alla voce Netto 980 – Significa in generale
fare un male con garbo senza farsi scor gere. l)icesi anche larla pulita, farle
pulite. 981 – Meglio il modo lo scano: mettere al pulito.
Fetto L'uso della voce petto nel traslato non è oggidì sì noto e comune
che non sia profittevole proporne lo studio con alcuni esempi. E' dizione
eletta e si adopera a denotare l'interno dell'animo, la regione del cuore, la
stanza degli affetti e dei l ensieri, ed anche l'intero uomo, la sua persona,
la sua corporatura quasi fortezza e baluardo del suo essere. « Camminando
adunque l'abate al quale nulove cose si volgean per lo « petto del veduto
Alessandro ». I3o .« Non altrimenti che un giovanetto, quelle nel maturo petto
ricevo te ». 20 cc.« ()nde dì e notte si rinversa Il gran desio, per isfogare l
petto, Che for a Ina tien del variato aspetto ». lPetr.« Era con sì fatto
spavento questa tribulazione entrata ne' petti degli « uomini, e delle donne,
che l'un fratello l'altro abbandonava ». Bocc. « ....benchè tu non se' savio nè
fosti da quell'ora in quà, che tu ti la « Sciasti nel petto entrare il maligno
spirito della gelosia ». Bocc. « Ogni indugio, ogni vità disgombri il vostro
petto ». Fier. « E troppo mi dispiacciono alcuni mari'i, che si consigliano
colle mo « gli, nè sanno serbarsi nel petto alcun secreto ». Pandolf.« Ma pria
vorrei, che mettessi ad effetto Quella impresa per me, che, « come sai, Per
comandarti In'ho serbata in petto ». Bern. Orl . (985) « Se le prime
novelle li petti delle vaghe donne avean contristati, questa « ultima di Dioneo
le fece le tarili o ridere.... che » Boce, « Le miserie degli infelici
anni) l'i raccontate non che a Voi, donne, Ina « a me hanno già contristati gli
occhi e 'i petto ». Bocc. « Agli occhi miei ricominciò diletlo Tosto ch'i
uscii fuor dell'aura morta Che In'avea contristati gli occhi e 'l petto
». I)ante (986). º . . . . . ma i loro petti empire di far là da poter
disputare del bene... ». Da V. « Come innesterebbe principi di legge in petti
che.....? » Bart. « ... e luogo prestarvi da potere la sapienza dei
vostri petti, e la dottrina « e l'eloquenza diffondere ». D: V. « Arnol di I)
io, che avvampagli dentro al petto ». Seg Il. Avvampare il petto d'indignazi
(rnº ». Seg Il. « Ammollire gl'iniqui petti ». Barl. « E voi Cristian I ll , Il
avete petto (la la re un'egual protesta in 'Ocſe all « cora più scellerate, piu
sozze, piu abbori inevoli? » Segn. º ...... allora sì che Dio non potè
contenere l'ira nel petto.... ». Ces. « Ma son del cerchio, ove son gli
occhi casti Di Marzia tua, che n Vista ancor ti prega, O santo petto, che per
tua la tegni ». I)ante. Si notino da ultimo lo seguenti li laniere ,
Stare a petto. « Stettono arringati l'una schiera a petto all'altra buona pezza
». G. Vill. « facilissimo a risentirsi di ogni emulo, che pretenda di stargli a
petto ». Segn.« scusandosi col dire che non aveva gente di stargli a petto ».
GiaInb. Pigliare a petto checchessia (cioè impegnarsi in checchessia con
prelnura) – Mettere a petto confron a re A petto dirimpetto, a paragone, a com
parazione di). « ed avevanvi fatto a petto il Castello del Montale ». G. Vill.
« Egli non ha in questa terra medico che s'intenda d'orina d'asino, a « petto a
costui o. Boec. « Nè..... ma Volse a petto a lui se Inlorare un oro ». l)a V. «
Ma tutte l'allegrezze furono nulla a petto a quando vide la fanciulla » Bocc.«
Tutte le pene di questo mondo sono niente a petto che loro (i demoni) a vedere
». Vit. S. Girol. trad. a petto a questa cosa: vedere i demoni).Note alla voce
Petto 985 – Il tedesco nel parlar famigliare adopera anch'esso la nostra
voce petto e dice: Ich habe in petto ect. per esprimere anch'e gli che si serve
in pello o in animo di far checchessia. 986 – Nola eglalissima dizione di
I)anle e I3occaccio : Contristare gli occhi e 'l petto. Fartito
(sost) Il significato dell'uso, secondo il quale cioè ques'a voce è sulla
boc ca di tutti, è quello di palle, frazione ed anche di occasione parlandosi
di matrimonio o cosa simile. Ma è il sala da buoni scrittori anche diver
samente, a conserlo ci è di altre voci e ad esprimere molte altre idee, e
piacemi di allegarne alcuni esempi non avendole queste forme, secondo pare a
ine, il volgare linguaggio, e al che chi sa di lettere, non essendone per
avventura ben sicuro, leggi e vedrai come alcune volte questa voce partito ha
senso di modo, guisa, el al re di patto condizione, conven sione, accordo,
stato, disposizione d'animo, e lalora denota risoluzione, determinazione, tal
altra termine, pericolo, cimento ecc. ecc. e biasimarongii forte ciò, che
egli voleva fare; e d'altra parte fecero a dire a Giglinozzo Saullo, che a niun
partito attendesse alle parole di Pie o tro, perciocchè sel facesse, ma per
amico, nè per paren e l'avrebbe ». Boce. a Parendogli in ogni altra cosa
si del tutto esser divisato, che esser da « lei riconosciuta a niun partito
credeva . Doce. « Ma il mulo ora da questa parte della via, ed 'a da
quella attraver « sandosi, e lalvolta indietro tornando, per niun partito
passar volea.» Bocc. “ . . . . . . . . . . ma egli a niun partito
s'indusse a compiacerne io ». Bart. (990) « In verita, madol, na, di vol
in'incresce, che io vi veggio a questo partito a perder l'anima ». Boce.
991; a Noi abbiamo da fatti suoi pessimo partito alle mani ». Bocc.
a....chè in verità vi dico che se ll dio mi mettesse al partito, piuttosto «
elegger l la povera Ionica di Paolo e ' Ineriti suoi, che le porpore del re co'
« redini suoi ». Cavalca (cioè mi desse la facolta di eleggere tra due cose
l'uma). « Di S.Gregorio si legge, che posto al partito per un piccolo suo
pec « cato, quale voleva innanzi, o essere sempre infermo o in avversità, o «
stare tre dì in purgatorio, elesse piuttosto d'ossere sempre infermo ». Ca
Valca. « E così tra l sì, e 'l no vinse il partito, che non gliel darebbe
». Nov. anl. « Ma a cagi n che di questo li stro partito n li l'Inter venisse
scandalo e alcuno, egli sarebbe liere - il 1 he tu ti guardassi da una cosa,
che...» Fie renZ.« Laonde egli si delllier , il tutto e pi UI | o di pigliarvi
su qualche « partito; ed ebbe : p ir, e con lIn – Imbe, o h el a dottore in
legge.» Fierenz. « Ma dei piu cattivi parti bisogna pigliare il migliore ».
Fierenz. « S'avvisò di voler prima vedere e li tosse, e p i prender partito ».
Borr. « E pc:nsando seco lei in lo, prese per partito di volere quesì a morte
». Bocc.« Prese per partito di voler e in tempo e -se e appresso ad Alfonso Re
« d'Ispagna ». Bocc. 99?« E sentivasi si forte il lo! ..e, l'e..a sl Imav i
pure lnorile, e non sa peva la Maddalena che partito pigliarsi ». (..aval
a. a Adunque a cosi fatto partito il folle amore di Rest Ignolie e l'ira
della Nilletta, se collº llls - el'o e il 1 ll 1 ll l n. 13 -. (( «
Ora approssima in dosi Impo cle (i e su lov, a noi in e per la salute Il Ost
l'ºl, e....... gli Srl ii) e F vedeva l'1-1 : mal partito, per blè 'll tta la «
gente credeva a llli.... . ( il 1 l. ſt a .... dell'anno li . ll
irl I e I e - il li fili l'a ll III lo. . lle al partito a m'ha recata che | Il
lill V li ». l 3 993 º . . . . . ed essi tutti e tre a Firenze, il veli
lo dirilenti, il to a qual partito gli a avesse lo sconcio spendere altra vi
lta recati, non ostante che in famiglia a tutti venuti fossero piu le mai
tralocchevolmente spendevano. » Bocc. « Per io chè se io veli di al II li
volessi, riglli ridando a che partito tll po a nesti l'anima Inia, la tua loli
lili basterebbe ». Bo . Si irolillo da Illino lº ſi rime: Mettere il
partito (904) « Pilato termè, ma pur, vola i dol liberare, lo ritenne, e fece
mettere il par e tito cui eglino volessero liberare in quella l'asqua, o (i sti
o 13:ll'abba ch'era « ladro ». Cavalca. Andare a partito Mandare a
partito Mettere il cervello a partito. « E poi quel, che per i consiglio si
vince - e, andava a partito ai consiglio « delle capitudini dell'alli maggiori
». G. Vill.« Con codesto tuo discorso tu II li hai messo il cervello a partito
». Fièrenz. « Coss oro han messomi il cervello a partito ». Amh. - - -Note alla
voce Partito 990 – A miun partito, per nium pa tito è modo avverbiale di
frequen tissimo uso, e vale in niun modo, per niun verso, a niun pat lo,
keinesu egs, un keinem Preis. 991 – cioè: con questa maniera di agire, su
questa ria, a tal termine, Slºtto, disposizione d'animo, e simili. Parla di una
che si con fessa e non è punto disposta a cessare i peccati. º2 - Nolale
queste maniere: prendere partito, pigliarvi su qualche partito, prendere per
partito. Coif. Verbo Prendere par. 1. Capitolo precedente. Simile quello del
proverbio: «Preso il par tito cessato l'aſalino, Palafſ – a partito preso è
forma av Verbiale e vale analogamello, le maniere sudelte, pensata mente, dele,
minalamente. « Per cogliere i nostri a partito pre No, e a V alllaggio loro o,
M. V ill. 993 - Era inferna. 994 – Non mi pare al lutto sino in
dell'altro: mettere, mandare a partito, cioè porre in deliberazione,
Fºarte Voglionsi notare di questa voce i nodi seguenti: Salutare,
dire, fare da parte di..., per parte di.... (995) « Con lieto Vir-o
salutatigli, lo ro a loro disposizione fe” malli Testa, e pre « gogli per parte
di tutti che.... » Bocc. « Signore, io mando a V. M. il signor Amalrile
Rucella, perchè le faccia a reverenza da parte mia ». C sn. « V. S. gli
dica da parte mia, che se non si fa forza, diventerà ipondria e co ». Red.
lett. Dalla parte di.... - - Dalla parte mia, sua... v:ale dal conto mio,
dal inio lato. Sono frasi quasi di modestia, o almeno di riserva. Tom.).
a Egli era dalla sua parte presſo i d V i), ch'ella irli comandasse ». I3',
cº.« Perchè noi dalla parte nostra saremo sempre e pronti e presti». Cas.
lett. Lasciar da parte – Porre da parte « Si pone o si mette da parte per
ripor itare, per serbare, per discernere , Tomm., ed anche per non farne conto,
non farne cap ale . « Ma lasciando questo da parte se io ci elº -si...... » H (-Illb.
996 « Lasciando l' altre ragioni da parte una - la basti per tutte . Borgh.
Tosr. A questo do . . I nn l r noi, posti da parte tu! l i t . In di 1, st i .
Va: lli. Trar da parte a pmi te – Ghia mar da parte – Star da parte in
disp :te – Tener, fare a parte, Star da parte vale non confondersi
con altri. Tirar a parte è alline a lirar in disparte. Si dirà :
tener conto a parte, far cucina a parte ecc. e non altrimenti. a Tratto
Pirro da parte, quinto seppe il mie li , l' . IIIb:is glata gli fece di l a
Slla donna ». Bo , « Chiamate i altre (lo! llle da una par c... »l 3o
. « Quello che già è passato si sta da parte tra le cose sicure ».
Varchi. a Tris - stando i in dispart ..... o I Piety'. a Cl teneva
il flz , li i parte , I3 r. ll ! Il. Prendere pigliare, terra re in
buona, in mala parte ecc. I) e lui lo :li e 1 : lt i tºv - '' i , ve: t 'i nt i
presi in mala parte, e non in buon grado, dl-so un inti , li' gli gli porgeva
colla le stri, l'a.tro colla a sinistra prendeva gli o. Salv. Note alla
voce Parte 995 – «Diremo: fategli una visita da parte mia, meglio che a
nome mio .» Tommaseo.906 – E' inaliera simile all'altra : lasciar sta i c. V.
Verloo Lasciare « Lasciar da parte è più scelto di lasciar da banda .
Tolim.Storna c co E' voce usatissima anche nel famigliare linguaggio, e
tanto nel pro prio che nel traslato, cioè per indignazione, commozione e
simili. Ricordo alcuni modi e l'asterà : Dare di stomaco il cibo
recello, i militarlo Fare, dire.... con istomaco. « Onde i veri padri con
grande stormaco ricorrono al senato ». I)av. « (..he da Ine si noill Illi, noi
con istomaco o. Call. Fare stomaco, venire a stomaco, avere a stomaco. «
I no stile da fare si omaco a tutti gli animi i livn contornati ». Giuber, 1. «
Non si lesse il testamento, per le al popolo non facesse stonaco l'in a giuria
e l'odio dell'aver i là ( p - o al ligliuolo il figliastro ». I) a V. « La
sofisteria, e l'incivili a li quest'uomo è venuta a stomaco alla gente ».
Caro.Fare sopra stomaco a male in cor) – Esser contra stomaco (contra voglia).«
Io vi dò questa commissione in al volentieri perchè so che v'è contra «
stomaco, come a me » (in o. n il vi v 1 a Versl .a Tengan per me e do i miuse,
conte di Virgilio, tra quelle sagre om « bre e fontane, fuori di solle il l cul
e e mi sta di far cose tutto di contra sto « maco, libero da ci rte lla e va
ill: e Irla ». I), i Vanz.« Mi lascio trasporta a questa a Iv: us inza, ancora
che gli voglia « Inale e lo faccia sopra stomaco ». ( il NA erso
Tutti sanno che ci sa è il re so in poesia, il verso sciolto ecc., il verso
degli uccelli Gli uccelli, su per gli verdi rami cantandº piacevoli versi, ne
davano agli orecchi testimonianza , l'occ. « E gli augelli incominciar lor
rersi .» Pelr. : ed è altresi comune ad ogni penna l'uso vario sia del la
preposizione verso, verso di..... l' 'No ! ) ..... che del sostant. verso per
banda o palle. « Questa è la cagione che ſa che gli scrittori
d'agricoltura concedono che per un verso le piante si pongono più presso che
per altro .» Vatt, Colt). E così va intesa la forma pure dell'uso: pigliare una
cosa per suo trerso.Verso per riga, linea, l'ha tra l'altri il Caro. «
Scrivetemi solo un rerso clie le V, slle cose valli lelle . Ma ciò non è
tullo. La v e rcrso, ed è quella delle forme qui appres so, si adopera alcol a
a sigllil: l'e : manici di modo, ria modus, ratio). Per Cgni verso –- Per
mium verso - andare per un medesimo, per un altro verso. \ niIn: ' di e tre i
ri . 11,1 per cgn, mai verso . Iº lº I. (.: s. Ne pilò per verso alcun l era -i
a el re li oi i to; a sfa l I mali . Varell. El'col.Andando la cosa Itta via
per un medesimo verso gli Is g : va pe: lo; za li: rtir di lllel il 1 g . . .
FI el'eliz. - e ( II), si vi: il 1 l' II it : i 1, se vanno verso . (ia!.
Si-t. l'er 1:1 r.- 'i . . v . . . . . . . . . . . . . . - verso i cui il non vi
fu mai ». I 3 l': 1. () rl. Trovar verso, ( ) ribe, II; s -. 1 ( orv . .
. - se i trovai 9 verSc 1Z. I 11:) . mi ri . ll It - ir: - si rl: . Mutar
verso. « I l in un li versa i Z. Andare a verei andargli al versc.
Q). l io. ... ci segui i aridare ai versi, - l'ill Il '11 l . . . . . ll :: V .
. . . .i i-silli i tii : il il 1 che lor non vannº a ver, i il lo « S: si
orz: v. li :: Isili andarle ai versa, e ! : I)1s, il l. - ir.A l?IPENI) ICE AI,
CAPIT() ILO SECONDO Di alcune parole ad uso e valore di voci e parti del
periodo collegative e talora anche integrative. E e n e – NA1 a 1 e
al 13 EN E. lasci º si va il riavvi i bio: giustamente, acconcia nºn le , con
la mente, l'ulo non le , sicuramente e ecc., ed anche le no le Irasi: ben bene,
il no per bene di garbo , la coro fallo per bene, or bene, bene sta, condurre a
bene a lilot line ecc..., e mi piace di offrir li al II li esempi in cui bene e
la cosa piu o meno riempiliva che l'ene il s. la sicci esce lo si e o , e tiene
alcuni poco del tedesco li li l. (5(i Ma egli Iul bene, qui intlin
[ue s elevatissili , proporzionato alla lama e Vita di Ill il s'e ll 11 l' e st
. l l ): l 11/.Nel l bene i l . . a l In, io che | o-s, ! ». ! 3:1 t.MI,a con i
ti I t'l spes- , a lirato? o, disse S 1 (i appelletto, contesto e vi dico io
bene, che io lo tiroll o spesso la II l3 , r.a Egli e qua un trialv lo uomo, le
trili i l: - l alo a l sa º il ben cento lior ºli d'olo a. lº . Ma se vi pi e,
io o le insegnero bene tutta n. Boc . Voi - i pete bene il legnaiuolo,
dirimpelto, al quale era l'area.» Bocr'. \ te sta ora dal ni ben da 11 g 1:1
re, ed io a te ben da bere». I 3 r. º lll gli da ra . Il mito lei e la la l
la.Si le, e visti di tratta e lui - tra i 1. I l incn ill - I l n; l)av: 'lz.
Bene i ll vel , che .... l o .Bene e vero, di vo tra Irle, se lº tibel i lido
li nº i lorº liti o, ben è vero a che quella grandine di coli e lini e di li
tir e il 1 o nlinua cosi alla distesa I r lil, a l'opie 1. ManzBene e il vel .
. . he il l e le : :i riti - nte d'Illi: lo za sull e iol e, e la a ! :ilta, il
ri il 1 e 1 il 1 l. I lirt 'nzi e, il vetl, i ver li ille, di lora a ple a rlo.
, ( art.e e appresso gli dimorava una serpa, la quale bene spesso gli divorava
i figliuoli poichè erano grandicelli ». Fi. I ciz.a vomita lo slla - Il perba
lº stermini: i i ben il V e V el - i :n corso a lanciato senza un l I l
tar di II lezzo ». ( es.b. M.Al.E. – Tulli sanno che male è predi alo di tutto
ciò che è coll trari, il bilono e al bene: in ſei mili, pena, Iorli, il ,
inisſallo, danno di sgrazia, lenſazi ne dolorosa e c... Si li e al ra e
volgarissime le frasi : a rer a male, a malati e di male, a re e il malanno e
l'uscio adosso (lina di sgrazia dopo l'all ecc. ecc. Via li li so . I rile dei
moderni o volgari scril lo i c li si a la vo male, Isi Ina in ſilella forma,
vuoi di aggettivo, vuoi di avverbio, che nei seguirli i esempi. Leggili,
rileggili e fa di sentir - lie la forza e il l non so clie di vago e per gl II
, che è il lilà di così d'arti l'isl ic . (li el II zi, le elegi Ssic li
. a .. . st V : l III mal conceito fuoco. I 3 . «.... :) . Il coll mal
viso - Il l I am li ri- -e . l . « .... il rinai .. Se; (iappa letto i lic - i
pm rai 1 , si , l ma le agiato el' 1 ( -a del II lo; lidº , o. I 3 ) .maie
agiato l' –, li la a gil: i il .. 11 , l Inl , o male agiato esse, e male
, pe . lli , a - io , e - : : : a male i:n bocca si , vitili era, o
e , l 3:1 . I 1 A. « c' 11 se l' ' , male : l e \ Il ..li , lili i lo
nia? .... ( , l . Il n. volt': li la III , i mal piglio , l .ll è lie: \ e le
colli e iº sº io - , il V rºtale lili, i . . » I el'eºlz.Il ragi la I ( l ai :
le maie a lo)ia si convenesse . l . . .chi v e iilipov rito: chi vi : ini: i il
a , l . . i: ti : ti l i male arrivati )). I .a do III', nd Indo pier lorº i
val, l l' , l ' I mal degno n. 1 ss , loſ nig ill: I li .Voi sie ( o grilli
vecchio ( pole le male durar fatica , l ' , di liri a III nte, l'8 ('. e
I, il III lo zi le : i riz liz li mai -; l I e a :I III lil (i: /:1 e n.
la t al I ): v. lll. “ . . . . . rip, ta io a lor lui gli le male accozzate i -
V a essere male in essere di d . Il l ri, li -: li i l ' : . . l 3. l l'I. ....
poi ho li ſu Io!Io avanti pre o di mal talento i lo! « parole molto lis o eo.
13ar [.. e .... tutto pe o, se male a me non ne pare .. l 3 l. e Onde pa , che
male si a latino al vstro lº so , si fa i lma iº e d'ill « si fa ». Si li.a e
finalmente la gatta gli pose la io a lica a iº -- , e non lo 's io i ri vare
alla male abbandonata e sta ». ( i 22. Vi esort era il 10 al 1- e' di vi
con più 1 ri') o quando ancor vi conosca a l male in gambe ». Si . n. 8s.
( S : - I :ile i siti: il ma! - be il s . . i: e i nº, lo re I ma le
:nctiuisi o V i S:s lº i l: i Note alle voci Bene - Male (iſ
, 1 , di bello - con i | II e, e lipiello di forza, è noto e volgi si li esel i
pi e me ne passo: l' ' belle sei il le li i l l'illmo all'allro ». 13 cc ( li
l: ss e le liti in tv l' e la lle legare in anella e... I V l'elol) cli, l V !
ss . 13 o .Noi la frase: esse i lr me (ni le li alcuno: le pallel'elmo al i pi
lo lingua (i, II, i posſo in li si ma le ali a 1, del 13a l' oli, del
Gozzi, e di tali li : ll is, del 13occaccio, e come i g, e l' ai c . Il riso le
li ell'avili, la V eliti el'Iluissero sponta e dalla lingia e dalla per le lo;
e inalier e del glorioso tre i º ( S Sla i bene, male in gambe è I
l is li fissili ira, ma l'ho volli a poi le pol chè si vegga quali male si ali
ngano certi autori di gi il nome, i rial: ci si ali i lalora certe frasi, l li
trial lo scadille, snoss , alli e, siccome appunto il male il disco so, e il li
s'avv goli che pur vivono nella lin gli col nulle. N/I a i l
'avverini , ma , el: vale più che il latino unque n. e li il cli, sia con il il
S. liv e il l li, lui li i maestri di lin gli IPI Il v'ha del con la I - i : il
13 irl li, esempi, e non | . lli al clic so, ci li e la leg ai la lil loro e la
non si sia rolla o. lº si rip; il lilli. I il silio il I ti: le e, già
gran lenipo, stral ci gidi (lelilli- e mai a V cl sels , l'in alcun len o, e
d'in nessun empo; e lei l'uno o dell'all ' , cliave e indizio non solo I! I lil
si le lilla legil'i; il cos! i le Alti i basta ad ill riderlo il si mai e
cºsì dicasi delle molle \ lo io e con i renda e allo studioso l .
il li igil: clic ci velisso Inai si lill egli allori fonti e mae l |
| –– 281 – stri di lingili ilaiii . Il II ci del e di averne senza
più conseguito il 1 ello scultri, i si p . . si , Direttorio, al quale
più che le definizio i l sl 1: i il [.. assioli , lei relalvi e semi pi
Ne li Ilo (ſi alcºli - anche di qlles la mi ai -, i lili li diranno in Irla: 'e
vi gie li ti li l . . i li' ci li - Illia di II li ignaro delle classiche
venisſà, lo si pel lo i c' rss , i indi, sia cli e Villga in al cºn l 'mi
pi . . . . ll il 'Nsui le nip . S . . . . . . . . . . . roll e li ll () . o per
arren lui ci. i ! iº i l i cli, si mi, ti se il l i . intellsivo della s
. ssi ma mi tiro i si, a Pe! l III list, 1 l g io, i tic, l l . si
mai nascesse. . I 3 , i . C. ll pill IIIa li e p. mai drappi ! -- dialli , IB,
. m Coln in 1 il i i il mai ! : esse MI, sl l'a ll il
Ver mai . I 3 , . . “ . . . . . i isl - se mai i piaccia , ti con i le
itto i pal.11 st: Il lit - . . . . più che mai i - a che VoIIIeri le spalle, a
II . 13o . .E se egli avvi e che ti mai vi Il « che..... » I30 . e I)isse Fer
Ildo: () li mai . ll Ill 2 a I)i - se il III lil SI, li Idilio V il . () Il l -
- I l S I a mai, io sarò il III: gli 'Iri It , il l in I l . . 13 , .... l'av:
elie | r in 1 e 3 - 1 r. ll più - che mai lº . E venivasi li rila lirlo ! !
oppo, i ve lº ſi tº e ! - ll gian: mai : , a connesse, e piang nel loi i riti ,
sop . . . . . . . . . . e sop a che n 1 - i poli ebbe dire . Cavill .
a... ma per certo i test i lia la sez/ i l che tu ci farai mai». . a Questo e i
pili allo Stato li Itc 'igi ssi mai e lº I l . le quali fili o no e primi clie
- , e le sei mai : l ill). Fl: assalti i al IIIa la... , l mai, i [.ra ti :lel
cliore ». (iiil III l . e.... ed oli voi fel ci, il litori - e il -1 V , il lill
a fa rii mai santi! . Sºgli. a Ed è possibil . che mai gli 11-: . « . .
quali lo In'a ci r. , ma andr: il 1 : : i pi che mai. - 1. « Mla l: Ve: i ti ti
, i lil il gºl ! I mai e Cmpre. « Se i II a i º I)isse Nicostra [o:
Maisi, i pizi - li lo i vi " lº i l II 30 U. a credeva, º ile - egli dieci
anni Sempre mai ! ll - , a che ella mai :i cosi fatti novello : l il . a
Corne, disse Terondo, dunque so io, io in l ? Diss il 1 Mai31. I 3 pt
i'. derili ti far sempre mai il i. I lil -Note alla voce IM ai 70 -
Vive nei diale l'i: Come mai? ; è afflillo come mai, ecc. ( li si voglia
di si ill di gr. ss , ognun sel sa, ma gli esempi più che le parole i
cli, tris li rello so e vero significato della voce lia, a |iliale og i è
sl Irola o la le adolierala, che pur talvolta non sè ne abºsi o ti liori si
lasci li il 1 orla non disdirebbe. \li i e, : i fia l' - . / lia la tll
ci ! ll li Ill'ai». l 3oni e . . I voi, il te: i ia questo ). l 'lei'.- - - - -
| li i - li i si ve l fia il presente º il tilli: i I ! : )st l': l
'li l'tl S. .. - 1:11 - I ll v;t , fin l v . . l 3o . . le fia , 13
. Qui i fia ir: le l Sel lembre . Caro. l fia .... . I v .I! ! - , l ia suggel
che ogni uomo sganni ». Ces. Dante) \ i li - lo ill go fia llº:i li fesl:i. ,
(iianl). ll ( : | | | l fia l e l'1 a 1 a: perchè - º la piovana - . . n
Il re deila t rra ». l)av. ! , lil: il - . . . . . . p le i, illi, e alle fia
di loro, se l' - I no ll v i l il 1 li i :''i . I l ' l : i
.... le St i t , i s . i mi vo'il a sito dispe to lanni di chi fia
la colpa? » Se ll. V et cine e gli oli Illi i : l i tº vi N ſia mai
vero, il l . Si i pil I: I: 1' i rp - a io i vi prosperare? a non
ºn l fia mai vero. » Segl). sul gio: li l' osti i Ira d rupi scoscesi,
che fia iera ſºnº la nºn la l e in cima a titlei precipizii, a
tracciare sì belle prede . Segni. non oltri , he pli il ... ma hi l
- ve..a sino alla fine, quegli fia salvo ». Salviºli.N/1 e rc e Non in
senso di mercede, che se l'ha pur questo, ma in quello più co Illume e assai in
list, il pp i classi, d'aiuto, di soccorsº, di grazia, di cor lesia, di merito,
di pietà, misericordia, compassione ecc. vuolsi qui si diata la voce nei cº. I
il quale non solo forma alla francese merci, o all'in glese mºrcy, 111 i clide
e ci III , Illasi ad III in do si governa che nell'una e nell'all la lingua I e
Iris a ragion d'esempio; merci, a la merci de.... se ne tre il la III er i
cie.. : grand mri ci 1)ieu merci; o quest'altro: for mercy salvº': al lli e nºi
ci o , e si o le medesime, cl e le Isale comune menſe dei nostri classici.
Eccone alcuni esempi. 4. a Marfe, lºro gridava mercè per Dio; e quanto
poteva sa - il1stava: ma... ». HOC ('.“ . . . . . II e io ll li ll 'oi, i
vostra mercè. lI loro de ll ' 'e volevate ». I30 ('. .... di e il Si r. le gran
mercè, e che... ». Bocr'. ()r ecco clle veli le ( esil, e Lazzaro, gli andò
incontro, e lil - sl tutto in to i ra, e ba io i sºli i pit li, dicendo e grida
i lo: gli Into e, mercede a te ril: e º si ro, cli( ti - e' leg lì: i di V ( I
lil alla casa dei servi Illo I. , ( a Valca 6; a Voi la vostra mercè a vel e il
' Il lili Vito ed io voglio oliora i vori. o I3 r. I Io pe ril o, il torn all i
vostra mercè. , Borr. I 1 Dic mercè, e la vostra, io li io, che io il - i lel',
i vi .... : la II o II a dosi a el l te, noi li per iniet e si i l i mercè di
Dio, Irla consapevole della slia i degnita. » lº i rt.a .... io lli soli,
condotto per tl, to il viaggio senza slo e felice le te. mercè del passo, dei
sussidii, ecc. e , Caro.a E be: hi, quelle bastonato i fili o non Ini avessero
fallo liscir di a passo, con quegli che oramai, la mercè di quel fanciullo, vi
aveva fatto il callo. o Fierenz.« Non vi par che sarebbero stati auda i, presi
Intuosi, protervi, e in dºg li a di quel perdono, che ri verono mercè la loro prontezza?
Segiº.Questo e imbiò la in Egit o II il Vlosè di I l e --as-In, il divoto Illo
« ma o, mercè di una sola predica dell'Ill lerno da lui - :llitti, Il
lillitllll Ille « per accidente.» Sogli. a e gran mercè vostra che peggio non
abbia fa ſto. » Bo . Chiede il 1o mercè a l)io per lo merito del pr omesso
liberatore. Ces.Note alla voce Mercè sserverai bella elissi, quand della
preposizione per e quando del verbo essere – virtù del resto e proprietà non
esclusiva della V e nel cº, li la collllllle all ora ad altre, v. gl'.
grazia, ne il o, col 1, sia e c. buona grazia costra : e tru vo, grazia d'Id
duo, che io mi sono conserva lo ſtian lo più posso... » Pandolf.: merito
l'assicIllita dei vostri stildi, ecc. ecc. – Conf. Elissi – IP: I l e l.N erai
lili ancora come la c ligi inzione, notissima, merce chè, non è che un composto
di mercè e di che. « Non pote lono essere preferiti, me cechº I ddio non si
lascia adescar da doni . Seg.iti – Mercè a, ed anche nei cede a, è modo di
ringraziare proprio del la litiglia italia, la.) - I fissi del segna as del non
le I)i , dipendente da mercè ( tut I simile al francese I)i i merci . La qual
omissione però i li ha pºi il luogo quando il no di l)io si posponga a mercè :
Itri lire le velini dore ne è l'Iddio e di questa gentil don li scali Io sono .
I3, c. I li li ho bisogno di sue cose, rei li la mercè di Ilio, e il l marito
mio, io ho tante borse, e alle cillole, ch'io V e l'alloghel ei elillo ».
l?occ. Fºurnto E sl il . e lui le avverlio viene la voce punto
assai volte º : ri: i vi il ci ills e. I e - n 11 lissili , lira gli
eserº i pi li animi niscano quando e come me gli Ils: il tre, si ch il per i
clo, lerivi grazia e buon sapore di eleganza. I pil con i col sos intivo soli :
essere in punto in assello, in accon io il precipilo, in istalo. grado e nelle
re in punto (cioè all'ordine: nellere al punto aizzare, cimentare con il lesia,
l'uomro perchè fac cia.... in buon punto opportunali e le at buon punto: al mal
punto; dare nel punto: di punto in bianco all'improvviso : di lui lo punto ecc.
ecc. I vverbio ci fornisce: a ln di che legano con maggior intelnsilà, li
r es.: punto, punto; nè punlo nè poco; punto nulla e qui tiene alquan Io del
point dei francesi); b) un certo grazioso riempitivo che torna ad a lui un lo; un
nonnulla ecc. ecc. . . . Le previsioni siano in punto a lor tempo.» Ci
sa, Piuttosto tre cavalli buoni, grassi e in punto, che qui il tro affannati e
a Inale forniti.» IPandolf.« Navi lornite di tutto punto, o Si Lerdonali.
« In mal punto si ori emino il mare ondoso.» Menzini. “ Dunque, ripiglio
I rail all' inte (i riso, messo cosi al punto.» Mla zoni, « Cosi già in
punto d'ogni cosa bisognevol a qil passaggio, prima di « Inettersi in mare, il
dl IIIessa.» Bal'.. « Alcuni di essi, parte torchi di mia e, pari opp.
e-si da, e ritiche, ſu « l'oil in punto di lasciarvi la vita. 13a I. ....
coli 11el (i imporre si sl: e- si va in te sul punto da i
convenevole. ... e stalli , il ciò tintº sul punto della Cavaileria
che.... , 9 , i 3 art. .... affinche', dove gli ne venisse Euan putil o al n o
in strasse. o Bºri. º volea dire, secondo - i no 11 i 1 , , , li : soli iti e
litta a ce ngiura « era in punto. l)av.« Cento e piu loliiiiii li quel lite, li
i luro , i ti o al lav.o, e , Inque « di le filsle e il Cat Ir furc no in
punio di navigare i IlilitIero, o l a v. e Miille navi, lurono las, i voli lº
stalli 1 e ! il. . . . in punto.» I)ava inz. le Illali e se li ril s
gloiro, altri li a gr . - era punto di rievolezza. Boce. « Punto Inoll I Il l:
II le gital (ial s. i «Qllegii che hº illio con il prat: 11 le li: Il to
punto nè fiore. SI). Se n. l'ist. « Punto del mcndo il 11 poi ea posare il ll.
Il li otto. o I i I ti. « All re ragioni di non punto men grave il il 1 ,
lizi.» l?art. a e lei si riglia e li rvirill d . I 1111, si lire, i 1. I
tigli: il re - se le punto « nulla sentisse del bar -o il 1 e il 1 olii
Illesi , l 'empio. , 13 art. a che punto ch'un tral, li. I o v sta a igi
si trova in l.1 o ſu il lie la lite « in boc. a. » Cal') « Moltº è
la plance. . .. . ll 1 11:1 punto di ieri interni o... l ' i -. « S Voi mi
volete punto di bene, il 1 e il v; 1 . . . . . B . . . Sc Il legna illolo e
punto abile. I ... Il D ... - il l .« Con l'e rabbuia punto, lo sl 1 l o il il
i li. « Ma no: percio che ino:o -aio i lil i : li , sa p.ti, i 3 malteschi,
le « pronti il d urlneggia 1 e l - la li: i « a finire lº ll'Illia delle
illa', o li co . . e. , li; . . . . . si l .l.i.« loli sara forse gl .lli la o,
ll il Il l il 'cloro. Cili punta 1 I li le « d'umanità.» Seg ll.a El io 1 orno
a dirvi co; i pl º tes, e del Si io che li punto confida « ll (ille Sile forza
dov l'à ( il dere. » Stg , ()gni donna che punto bella 1 -se vol 1. l) I V. E
nn la di ea. ch'e g: ai le pericolo a.i II, II, scprasſare punto nella « immaginazione,
qua l.do gli vi .. li . a Ine: te l zza d'ill felillila, a pe: occhiº
soprastandovi punte ri le volle a l livi rie, ch'ezi , i lio un'anima « molto
in onda in castità, le ril ma ne per os - l II l i lilla.» ( 1 Valia. a (iò
sarebbe, da re a discutere la Legge di crisi la ni a Sriali lasci dolo a e a
Cicondono a quaii, ve ella pa in punti necevole al lo le pillol!: o a degi
strati, agevolmen e riuscirà d'indurre il (.ali - a Irla a disdire al Vil a
lela la grazia e col finarlo fuor del Giappone, a Bart.Note alla voce
Punto i – Punlo, nullat, un non nulla, niente, sono talvolta perfetti si
li lilli, e di till inedesillo, IIS , e ci si rilai ille. Conſ. Parle I. Cap.
3.7S Sinile: vesti di punto. I rili o di lui lo punto; armato (º ('tº.79 -–
Nola il modo : stare sul pil n lo le l con rene role, dell'onorevole, della cui
l'alleria ecc.St – ci è punto punto, li ill. ; II l Il significato di punto,
niente, un non nulla ecc. Il 1 si il 1 , il ppo gli antichi, e ha sli la nota
frase di Danie: Peli a orinai per le s'hai jior d'in gegno, Qual lo divenni!
SIII le litel del Manzoni: Ma di che i julo gli p lesse esser il Ila o al l:
che già brillo ricorre Va al fiasco per l'Irnell e i il cerv ello, il tale
circostanza, chi la lio di se uno lo dica . E i lichi il sito quale intensivo
di non : « I giovani e maggiori e le I compagni di Celso, non si s not guti o
no ! io e, anzi li i più i dirali contro la plebe....» l.iv. M. \nche il mica
dei Lombardi vuol essere qui menzio Ita' che li li è poi la lil I lilli: rido
che li in fosse già sulle I rili e al recello. . V | lale l'ill , rispose:
Signor mio non so gli nè mica, li è voi a che li li : ogni le, alzi vi dimenale
ben si, che ... ... l occ. e Vale le ali le illla nica, un miccino, Il lanlio,
l'idea, nè pun lo nè poco - a I greci panegirici ti l'ora li li el'alio mica
una pill', i vi -a lode ed inutile!....... Sal Villi.SI – Tra di lei quel
rialleschi: pl o lili il menar le mani. (schlagfertig, Tutto
l'referisco qui le lole Iorme avverbiali: lull'uno, lullo da vero, al lullo,
innanzi tullo, lui lo di, dai, per lullo, tu ll'ora ecc. ecc. il tui tut lo,
aggettivo o sostantivo che si voglia, è il variabile e sempre di un ge nere e
numero, e piaceni allegare esempi di un lullo avvel bio e pur de cliliabile o
si scel libile di genere e lllllllel' . Aggiunge energia, e vale
interamente, oli minaliente ecc. ma non sì identici, che sostille dosi questo a
quelli non ne soffra lalora il tornio e sconcio ne venga non meno alla Irase
che al periodo. Tiene alquanto del toul dei Francesi, come che troppo diverso,
che non è il francese, sia il governo ed uso del nostro lullo, e ben più vago.
Polmi mente sopra lill t virlù sintetica dei modi: tull'orecchi: l’ullo gambe;
tutto leggi: lullostoria; tutto musica ecc. e par che si dica: a tutta forza e
vigore, non alllo illeso che... immerso in..., non d'altro occupato che...,
anima e colpo abbandonato a... ecc. ecc. (85) « Io conosco assai
apertamente niun altra cosa che tutta buona dir po e t. 1 -i (li Illirlti li(Il
1 s'è l'Illi di costoro.» I3oce.a Qllel. e gge le fila li il carro di
tl’amon[ana gla l'olava, e l'allo tutto e loost let Ii di Illo: Illoli, di
frascilli....» I 30 cc.a delibera o li tollla! si ill It llia, tutto solotto si
mise ll call Illillo. » l 3o '. « Il fallig', io trovò la gent. l giovane tutta
[imida star las Stil. » I3(º . « Senza - I tal l' - , e sollecitata da suo ,
cosi tutta vaga cominciò a a parla ! e. . I3) .I)imo a lido il giov: in tutto
solº nella . orle del suo palagio, una ſe II lillell'i . . i l lo lill sill: l.
, IB ) . Tuito a piè fa - i loro il colli l o ! il 1 do disse.... » l 3 . o i
lut . In te la II : sua la Ilte ne ſei a spiare. ( trovo che Verºl Incli e I
giova e il 11 l'a trii n, dormiva tutto solo. , 86 Bocc. il qua e es-endo tutto
leggi e tutto antichita... » Bari. ....i-1 l'1 lis, ( llella e la i i, il ll
1tl i) la l la ll illli, s v l'Ve i gli ill le liri, tutto e il o li in
soli ordia. Dal t. Chiamò Mosè, e qui si tutto dolente del suo fallire: Su
diss'egli ch'io Il il 'l' Illi). , Se . ll.Io dovrei di file stamane esor farvi
con grand'ardore ad essere tutti zelo; l sl? SC : : 1.\l di Iliori tuttº animo,
tutti ardire, tutti baldanza, ma nel di dentro roll ovall-i o l'abb 1::. »
Sºgli.a MI , oli qua e . l e Iron al ro sonº parimer: e. ch'a ffelli di un
animo a tutt'orrore il quale per la 'pa già stimasi dato in preda a tutte le
più ſiel e ! Il re.» Sºgli. Note alla voce Tutto S, I ), ſu
Io ci ligi Illzioli e il vv e glachi, ben cºlli, solo o elemento di all i
spressione col lutto che, con tutto, tutto che, indeclinabi io o il rialliera
di agge livo con lullo che mi sia le amico; con I tilt a lui costi (t a mi ci
si darà ragione di parlarne più a V : Illi.Anche del modo elettico: tutto
quanto, tutti quanti, e dell'altro con il missili o : lutti e due, lu lli e l
re avremo occasione di ragio irare ad altro proposito. 86 -- Agiungi a
questi esempi del Boccaccio, le frasi anche oggi in Irs lop late al rilie volte
dai 'le si esso I;occaccio: esser tullo i , in Il lavoro: vino da bersi a lui lo
pasto: essere i ullo della pr i soli i perdillo e rall rallo, e simili.U n
tratto – Urna volta Non credo alla liri erra' o asserendo esser oggi
smessi, scordati e per | oro discº li si illi i lodi: un trillo, una volta in
quella forma e valore cli negli esempi il si a i cii noi 'Iali a volersi
prendere un tratto nel sigliific l una sola, e una colla spacciarlo per quel
che su na sareb be sl la hit si e da il crescerne buona mente di chi sell liss
si p vi 1, il i l di liligº la, e non ne vedesse più là. I modi una
colla, un l al lo le , i cser I i l n al di l l sch si : si h mail al n. Non mi
'mal her, guck 'mal hin, n un link in all ' . ( r .I e II si li primi o li
allo; anzi ! : allo, d'un tratto, dare il tratto; dare i tratti di olz en Zi
pensare un irrillo ecc. ecc. Si , non spettan quì, - , li o lo così in di
grosso l'ein Ilù ſiti il presº il nosli a cui la li li igl lill ('.
N la non l gni un tratto.» Sacch. i u;3a volta li . ri che tu n'a Vesti. »
l80cc. : i i Vo: 'rei una volta con esso i lì: lº; o li. » E ('. N un tratto a
voi.... . I 3 , c.I un iratº o . Vol. sse il Vesl il il re. » Fiere Z. il lb t
i d si facesse un tratto l'l V v tl le l V , e , le in: Va l'allino un tratto «
non ci si va a il t.a E 11 i mill ! - ! i l l anno grazia e mer º o un tratto
dal funesto letargo, il chav si g la lolla , i vv i, illuminato gli o chi ? lla
loro mente....» Barbieri. a cede per or . Fa1, del late che si sveg
Note alla voce Un tratto - Una volta S; - - e pensò un suo nuovo l
rallo da lei il re la sua costanza» (I30cc. 3art. (es. cioè cercò un altro tell
alivo, astuzia ecc. (Conſ. (.., p. 1. verbo Dare.Forte Forte è sos la
livo, agg IIIA ed avverbio. Oltre all'appellarsi forte un luogo qualunque for
Il calo, di esi, e bene: il forte di una persona la capaci i maggiore della si
essi , il Joi Ie di In'opera, di un componi niente, di un impresa, di II live
in Illo, di checchessia, cioè il fiore, il lierlo, il III rl , ecc. . Il l io
le lel (li 'al si e del lill loversi dei soldati ». ( esilli , ecc. Foi (e, e
chi liol - , è predica al l esi di persona o cosa che ha lº rlezzal, gaglia. I
clia, si l // , illle Isili, ecc.E fin III al I cºlli e Iri del I i l ero e se
il III lilo. Ma non si gra dilo e si cornuti oggi li è il forte avverbio, assai
li ute le sulla penna dei classici, in sºlis cioè di assai, lici a menſe,
gaglia, la mente, profonda nel te'. role'n la mente, ln tºni sui mi cºn te, tal
alla rocr', e clillo alle alicola ve . inenza d'animo, che lalillo anzi non lo
disgrazi, 1: Il che sa per gli buono, e gridi all'anticaglia, se ad altri anche
oggi piacesse mai di usarle. Per chè non ſi sia grave assaporarlo lic pochi
esempi, fra i moltissimi, che IIIi a º plesso, r le id , lilei e il III al II a
Telli, ci se, ed azioni il lamelle si convenga.a essendo assa i giova rie, e
lelli, e lo I. I lei s'innamorò si forte e il Podesta del paese, che pill ſita
le piu la non vedev . , 88 Bocr'. e Avell (lo V ( lll v . " ( il V ( , l:
i re, is l'all: lui (º littº « piacendogli, forte desiderava di aver , ma
pur non s'att | I vi li do e Irl:ì ll l: l ' ( ). » I3 ) . a e saputosi il fat
o forte fu biasimato.» Bocc. E biasimarongli ferte o li' gli voleva fare. » I3
Cornº che ci si liri o altro dormisse forte, ci illli cli . l 'i lei la stato
era, a 11 mln (lo l'1Iliv:ì a 11 ol': 1. o lºa I ca li presa forte la giov i
tre li ſi ill: lli. Bo . e ....o vede; dol dormir ſorte, di li rsa gli rasse
(Illa: li egli avea. » I3o r. a \ ndl e il rio, go!) risponde dogli il la
illl'o, cominciò più forte a chia a mare. » I3C) .commendolia forte, tanto nel
suo desio a cellulºil (lo-i, (Illanto da più a i rovava essere la reilla che la
sti i passatº - il la.... o I30 . a I)i Alessand o si meravigliò forte, e
illibitò noi foss ....» Bocc. E avendo la barba grande, o , ieri, e il vita, gli
par si forte esser bello e piacevole ch'egli s': 1 . Vis:I.... » I30 .e.... e
quando ella a ridiva per via si forte le veniva del cencio che allro llo t r
ore il III Ilso l1 Il ſºl , Va.... » I3 . .a .... i quali dubitavan forte non S
(ii i ppel º lo gº ingannasse.» I3 c. « Questa parola parve forte contraria
alla donna, a quello a clie di ve a lil e intende va. » Pocº. a .... e
perchè mio marito non ci sia di che forſe mi grava, io ti saprò a b(an.... »
I20 ('. a .... per le quali - oso, messer o prete ne 'nvaghi si forte...
l'occ a Forte nel cuor noi la pietà compunsi.» Dittani.a .... ma poichè si vide
ferito invili si forte.» Bart. « ... Allora come a cose di sapore che pare a
loro aver forte dell'agro....» Bart, Note alla voce Forte NN Il
Cavalca idoi era anche l'avverbio fortemente e significa il gra su per la livº
di illi: azione. « E in questo tempo slalido ci si, e I Zzaro, in je' m ) ſorte
nºn le; [ueste due suore MI; il l: e Mlal a jo) le men le l'ut, al ramo,
perch'egli era così buono e perchè sapevano che Gesù mollo l'amava».
Troppo () lesta voce li rila alla memoria la pacifica contesa ch'io ebbi,
or è già l'anno, e l'ol Si fra ello intollio al cone letteral li e si, e l el'e
pi le del sacro leso : Mei ces tua magna gli is. Noli è il l al nimis che del
basi qui li adurre, sentenziava egli. ( º lesto mi mis è Il lal V e// li Ill 'e
lle lol la ad un massimo grado slip I lal V , che la llli gli i alla lia li li
ha. A li io, che quali (lo si ll alla di vedere il V el a pillºla di Iagione,
la voglio sempre spuntare nè nulla a Ilorilà si li li porti li al ere. Ials ,
falsissimo replicai. La lingua ila lialia l'ha sì bello e ſol le clic li il so
se all ra lingua possa mai fornircene il III colale. Ed è appli l'e lliv le le
italiano dello stesso minis, trop po onde forma si Vil: il cli Illi: i l: il V
( e un così fatto superlativo. ln pero lì è la voce li oppo sulla pena al
classici non significa soltanto il lellera' e minimis Ilia il minis all
resì lollo, assai – del citato luogo S9, a ch'io perciò li l'avviso non potersi
meglio tradurre che colla Iorma troppo più grande, che ecc. Al Boccaccio e ai
suoi valenti inni la Iori, andava all'animo assai la fºrma comparativa, la
quale poi tor la mercè della V e troppo ad un massimo grado di comparazione,
dirò così. superlativa. Leggi e dilnini s'io mal in'a ppoliga a
\-l-ai volte già ne potete aver veduli i dico de li re di scacchi troppo « più
cari che io non sono » Boce.« più assi li ve n'erano e troppo più belle che
queste non sono.» Boce,"IIa colui è troppo più malvaggio che non
t'avvisi.» Bocc. « Non pensaldo che, los- e chi addosso o indo-c o glieli
e polie-se, ull a: illo ne porterebbe troppo più che alculla di lei. ,
90, Bo e. « IlliSe lIlano ad una Vlt. troppo più dura e rigida della
menata pre Sente.» E0cc. « E se Inoll ('lle di tult i ll li lo o
viene citi l aprillo, iroppo sarebbe più piacevole il pianto loro.
Bocc. e Vi tl o V () la II , e tali ltto , le V a - troppo più cle tll
la la spesa. » Borg. Egli e' troppo più malvaggio e h - li ll s'a vvisa.
» I 30 cc. E Annibale l il troppo più accei io a l .Allti e, lle a suoi
Cartaginesi Stato il n era. E assai lostri con il i adill I si lio gla di
troppo più splendida fama stati al presso le nazio; li esl 1 in nee e le app
lºsso ioi. » I3, c. « .... a Badagi, che da troppo più erano in forze, numero e
ardimento; Ina il Saverio la cesso ogni per i lio. » I 3. l'i. « .... ed
era la piu bella lei mi a, le si rov a -- I l II onl , silvo la Vergine
Maria, la quale era troppo più bella di lei senza niuna compara zione,
pill e cori raimlt ita'. » Cav al 1. e .... il giova il tilt o il 'li i lil III
e col il III ( -s Si l' 11 le alle sºle Iila li; e lo II , li e il V e --, pill
lo i soglio d'es s-it rs', mila anzi eg i pl egava lui a lioli a biorrirlo nè
rifiut l 'lo, per occhè era troppo maggior pecca (cre che forse egli mcn
credeva. I3: i rt. 91 , e Ma to li 1:1 tii, Signori, I il III , che troppo
ancor più alto con via li le Val SI. o Segli. III' troppo altro gi ill
ols e le :lo I, a . . . . livi- i lo. , ( - a li. a dimosti o che troppo
più che alle pratiche e negoziati.... era da repliare alle orazioni lºr
Ille-to elietto da il latte a l)io. » ( s. a N in sol: III e il I e tornò i llo
II lo nel primo lato, lil:i, a V Valit: - º in Indolo di troppo più doni, lo
sll blin lo ... ( e il li. Note alla voce Troppo 8) –. Troppo, il
re al significato di soverchiamente, vale anche mol lo, e questo significato
s'incontra spessissimo ne buoni autori. ( orlicelli.90 – Parla dei soverchi ol'nalienti
delle felillirile del suo tempo, 91 – L'ho preso questo esempio un po' più da
lontano che non biso gliasso al fallo nostro, come ho alſo gia più oltre
volle assai, e ſarò sempre che ti potrà tornare non solo in utile ma ed in
piace re. Qui, a cagion d'esempio, oltre a quello onde questo luogo vuol essere
esempio, hassi al resì a gustare e quel non che...., ma anzi, e quel non –- non
credera (di cui al Cap. 2 Part. I.).Là ºggi si griderebbe l'affellazione,
oh! oh! egli è il purista dàgli la bili e colali all'e ciance, chi alla
Boccaccio e alla l)ante insegnasse mai rile all'oro, il cloro e all'onde sia
lic volmente da premettere il correla livº li Illillo si voglia far emergere
l'idea di colà, appunto colà, pro prio lino a quel luogo ecc. l'icinsi
clicccè si vogliano a me non dà l'animo di partirmi da una sºlola iroppo più
aulorevole e veneranda che la moderna a pezza non è li potrai li li
essere. l Irisi: più là che bello: più la v. g. che l bruzzi ecc. ti
mostrano corti e si governi, secondo sellire e sapore classico, il comparativo
del l'avverbi di luogo, di slalo e di invio: là e quà. Non gia: più in là, più
in quà. I ro: piu in là di ecc. Irra : pii là che ecc. e in brieve grida
lidosi a luogo, la logo, là pervennero ove il corp , di S. Ai 1 Igo el:a i -1o.
13 , . (º A t'll il li ai lo cli, avanti ora di Inangiare pervenne là
dove l il bio: e el in. a i là onde r , il o se al povero non
ritornasse.» l'80cc. E Il lesto letto, in Il l to a l . . . . . . - 11/a lista
le colà pervenne ove Sep a leilltil a la la loli tra lº '.e coli lei il sieri e
niti 11 o il 1 : vi o, e presero il rallini in verso Alagna, là e dove l'ietl o
aveva certi anni , dei quali es - o mi l o si confidava.» Bocc. Vli rispingeva
là dove il sol ti º lì l'ite.Chi (Illin l e gli scelse la ll mi e pianti, cotal
si rilla ue subitamenſ e là onde l:i svolso. » I ): ll I e.lº fa l l'ill lento
ordina ono ins II, con le elle dovessero uscire fuori anzi di, e a: la l e a
Irio: il Calvario, là dov'era il mio lillimento. » Cavalca. vuolsi cosi colà
dove si pllo: e ( io e le si vllo, e... » l)ante.a li de ella de sl 1 i lo, l
III ell lo l'esser fedita; ma e ricordandº - i là dove era, tutti i lis . ss
1-1, tel o del luogo, di quel tal Illuogo). 13 , Di lei sil, la norò sì
Iorſe che più quà nè più là non ve! va.» Boce, e l' (Ill: ll e II lig.i: ci li
h? Maso is º I la elle pill dl millanta, che tutta e lotte tali a. l) is - e
Cai: noi il 1 : I)lln Ills dee e ssel e più là che Abruzzi. Si - lo, ine,
rispose M - , si e avei ('. » lº . « avea preso -i alto grado di perfezion , he
non si potea più là. o Cesari. e V vº: lo pl o ede: p in là, ci sia i cose , i
veri :a il vedute che...» (.esi. .... . ll 1 più là li oli lo i possibile a
ridare. » (. . .Quello Il Boccaccio, il Passavi, il . il Pil dl Iſi, il (
il Vilca, ed il valentissimo Dal loli, il mila i d. l II mila serie di ira ori
e discepoli della scuola tallica, Ilsa l'olio assai , e i le stra, il
guidi e poco grato al viziato nostro ore o il prosione dimostrativo quello
posto a glisi di 11 Il ro, ci si d . it -igi, i lic la lino Illul lI
d l Di esempi ve li ha a bizelle. Ne a I ero al ini e piaceri di aggiunge
e d in quello, in quella, pari alle lorni e avverl : i : in quel menti o,
nel menti e, in quel momento ecc. e si dis: quello li n. - - id . v . . .
. . vi i e quello li vi - e' ii 1 e l'Il l il e io vi - ll 1 , v. . . . I3 .- :
Itt - il 1 se. l ' a 1 il 1. l it ; l quello tl a Valli I e (lo V ess, lil ('.
: l o .lutti ; - i fri lis . quello li da N i e:: si iro l'1 - , -1 . . » 3 )
.l'In/ li lis- I - - I, quel ch'io? » I3 . I - , quello le 1 , III -- il l sa
io vi li essi. o lº ' . i 1:1 ! I, ve l i. -i potrei lo Viºla e quello che noi
a id:assino ſ: o ll il . » I 30 t . ... e io! I si, a quell cche io mi
tengo l i le sc ( l ' e 'li.» I3 . 92. o Seguiti rolio, il sil, no, i ti l'e.
sse) l da l . (III l 'o più a ll'Iva n , piu lui iro il lit . 2' l'1 e va
e le , i di 1 e ven re a quello, al quale dopo lo I - ra l III antila li
-si, er . , FIl colo. Itispos, il III ), gua a lile. ll III i lII il 1 o quello
clic pil III e il bis: - rizi - - I ..A questo II e les, il II, II - Il to si
It , l e il q"1ello che è det o a lI - l ... l'a - sav 1:1ti.I, -era ril
II- I 1 -i di quello che : ' ' Vt a la l .... » Fioretti. E p. lito, ve
li quello che i li' Inita col suo compagno » 'i e il v. I :: v. i :
quello che i lr che , è.... » ( ,s In quella cli ... , l . E le IRillall
stro, col il l e, c in quella. I 3 . . QII, il q: le! Io o clic si s la
fa in quella a Che il 1 l vi le Cllº gir 1 m -:1, III: qlla - là
saltelli, a Vil'i, lo Mill it: il ri . f: l' . . it: l'. . l): "ll . « In
quel che si appiattò IIIi-ºr li denti« E quel di ace, il 1 o a b) allo a
ll'ano e Pol sen portar quelle membra dolenti. I pante. 93) e con
[aii ingegni...., che il ponte sarebbe mancato a lui sotto i piedi « In quello
clie e gli pas . . a. . Ces. Note alla voce Quello !)2 () i la fa
da relativo e ville: qual cosa: non so a quale cosa io mi le fa, o che è lo
stesso, non sò qual cosa mai ini | l'attenga | lo li li lo se gli I e rolli ( '
Ill. V el'b , le nuºre . 93 – lº è) ssere che colesto in quel vaglia non
in quel momento, ma nell'uno di quei due che col revano, il quale per istracco
s'ap cli i non le segli le relil ( Inl verbo le nei cº. U Corn Co
(li li li si l - valol e del sostali livo il rio? Che ha a far lui l eleganza?
I tagione e Il li se no e loli più là. Eppure alche uomo è al V re sulla
penna a classici che alcune volte, più che il l a essa pul e al grato velluto,
al tornio e saper della II se. (lsserva quanto è vago quell'uomo in senso di un
e ualunque uomo, di chicchessia, e in luogo della particella a verbo su. VIa
avverli a ricola sul gills o governo, costruzione. lº . . . . . ll III li
ucnnc lo i ri: i V li l: e cl’egli non voglia “ . . . . . pl il l n
t il to in ebbe con gli all i pm role irollo (lis once, e il l d'uomo . l 3 l
i.e si e il II ll e uomo in:li in quel e cose che a lui l 7( t , lo uamo il l
im . it - l'alcuna persona clie ne fa cesse e sei a -- quello le Luigi
per il mio e di I)io . Cesa l'i. « E nel vero l' 1 , a: per lo I e uom
dice he io lº blo essere a Imo:tº giudiruto. io no! oli in Is I niti i r.
13 .“ Fra sè Inedesimo disse: ve mente è (Iliºli così magnifico comio uom
« dice ». Bocc. “ Non è rosa piu naturali ai li! I v.le e giusti e li Illel
piacere e le « uomo sente dall'esse; ama o la si oi ratelli . 94;
Cesari. Note alla voce Uomo 94 – Che cosa è l'ou dei fr: il
cesi - e li li Il collll al ci di home? ( il man dei [ d sch è altra cosa li
ler Alain n il trio ? (ili inglesi poi dicon , they, I he people say ( [ . he
loria al nostro : la gelle dice ecc. Fers o n a L' Iso odier 1 esſi
voce è il rilalissili , e non si ado pera in milli a 'I ro -iglili clie di II
lil il genere, o, a dirla coi fi losofi, d'essere si issisi e e rigi nev, le,
ma si l rispello alla sua sussi s ente individi la fila, e lo scili del l s e
ido, di s la essenza o la lira. Il male di elog: I: / Is e virili si che a ra
vale colpo , e poi il ras e li li | Il l: il no irla eziandi tii animale, l o
al significa I " Il li h Ss 1, c. ed il li inalmente ha senso di ver: i ,
n. ss II , il li do le app i ll'all cesi l'aurun, per Non ti c'.
)sservill e gli sla i li a presto. I )elle frasi cl in 1: la III | I
molte re persona crescere di corpora Ira : fare di e in persona di... () le lil
del a | Iel primo superbo in persona di lulli gli allri, Isti: prolcl: : 1)i ,
isli in corde lilo e Passav. : far la persona di.... li l: lle spielen,
sostenere la parte. «I di quie Por ogi si che ſce, a chi l il suo personaggio
nella gloriosa e parsa la valli al I e I r!. 9, la la persona adosso ad alcuno,
soperchiarlo 96 : mettere in persona di alcuno qualche cosa v. g. una r lidi
:i, costi i lirl li di essi, 97 e .. ci sarà poi la cril sio: e li i la
rli id al l silo. Iº, i cºl logli -s e II l bel fante della persona . l a
IP o cle ella era lei a del c 'po, i giovane : 11 ol, issai, e destra a e
atante della persona ». 13 , . . . . te, i bil 1 E le iclè ella fosse
contraffatta della persona.» B ita', e .... essere tutto della persona perduto
e rattratto.» loce, l'1 va: la lo- i mal disposto della persona, e le, la
inelite lion molto sallo.» ( 11:llillo,\bbiati i cavalli i ve li lilli- al
grande colpo, cioè persona.» V ol-: i rizzº / l':lli li .il se - ll o chi a
losso, e con grandissima af lº ziº e la persona di lui, e i silo i siti mi
onsiderand d'o culto alliore t . vt', ll tell it | º li li : ss e. . l 31 , ,la
li e ti e i , till ia persona piglia e va i, senza lasciarle in capo - , i
periti, o oss - so , li i n e -se. I 3 , . .ed i a º s', 1 e la piu role belle
e ri che al dosso a l'una e ine, i viri della persona - i pareva che la
giovanetta, la qll ' , a pl p - o li -: i B , l stat 'i: si
val.etta....) S -- ti: . ss e i stesse persona, il 1 - si l qll il
il 1 1 1 o cava tv:ai. i cºllo persona se n'av v ( lº - e lº t. Io li n
.. .. . I , l l la ventura lestè, che non è pcrscina. 13 \ i i vi li Ilia
i persona.» l'8oce. Io e li ( s'o, che tu non facci liliale le a
lui ne a persona.» e al ll un altro Fio: etli. I la ll l'a cos l: e questo si
è, - - al lil. I - - - che se nessuno ti doni i -- 'I gira li cost, che
lui per niente non ri spondes ; a pcrscita, tra seri li essi vista di n.
1 l ele: è e noi li udire.» l3 . I | p. g v , se i persona come
fosse ivi, edl li non v il giov, il sillo º l'io etli. Ed ho da mio at oli ed
za, lº io lºn la possa dare a perscrma.» l'1 r, Ili.li i per ſuo - o il 1 :
ini: 1. ll il a persona del In illo. , Bocc. « E ' il l - tira perso ia mi li,
e ! i Zzo perdonato. » l 3o . I; rulli, a non salirà persona se : it 11
Note alla voce Persona ) , simili ma in tal caso spogliandosi il
principiº la lºrsonº di principe, e mescolandosi egualmente coi titºli di sè,
gºl l-l il tilar la gi al lezza, piglia un'altra grandezza, Castigl. Corle- giallo.
«Mi pareva appunto di scherzare ſuttavia fra le conver sazioni soli e di
Brusseles, e l'avia di far la persona di cor legiano il luogo di quella che mi
conviene fare ora di viaggia lo l'eo. I3C Ill. 96 - Lo stesso che la re
l'uomo adulosso al altrui, cioè cercar d'aſfe l'irl , col le minacce. E
volendosene al non so che esecuzione il lido ſilio a S. Giovanni a Irovar mio
fratello, e gli bastò l'animo di ſoli gli persona addosso, Illando egli
meritava d'esserne casi i g: l ' . ( a l . .il Diil (iherardini. Voci e maniere
. - 9' - l'orili, il francese sui la le te e il gosl o volgare in testa
d'al clino. (ili rilizio l'Abbadie per me lei le in persona d'un al ll o,
Calo. S e lºro orie di terza persona d'arri lo i lilli neri e genitºri,
che si riferisce | | sempre al soggello del verbo, adoperandi
si lui e lei negli altri casi. II o Irascritto di peso la definizione che ne da
la Crusca, e basterà. Come piacesse p i al Boccacci re di all i trolli.
In colal sè in In lo assolti, o e coll'i: definii , l gicli e Illasi si
ºss , V edilo, di con Io e mille che ve li ha, in ſilesti p. chi
esempi. a Per un cali o ambasciatori gli signifi ) sè i ssº; il l ogni
sll ' Illall « dal Il (). » I30 .“ 'ostili... dir. se, sè con gli li ri ins me
essere in questa opinione.» Iyoce. s “ Gli altri llitti, che alle tavole e
rallo, illli I sienne dissero, sè elier a quello che da Nico, uccio era sta lo
risp sto). Bo .Aiess. Il dr ) gli 'e il dè grazie del cori l to, i sè a l og:
li sll , collandin - In li o di -se esser presto. Boce.e loro, che di queste
co-a lui il rili, or -: van , , strillse a confes º - ll sè i sien: con Folco
esser il la mo: del a Maddale, la colpevoli. » I3o . “ . . . . - e pel I i ll e
le slla pit l il lill e liceva Ilo, sè aver a Vli, o e da lei, non essere
incor, di tanto tempi gri , il 1, che | i leta potesse es e Stºre la crea
llra. o loce. Questi e Quegli Si che lo scrittore il derll , lo
usa, e l'uno e l'all ' , posto assoluta nell le in senso di costui e colui. Ma
non la iſo a colifortarli all'uso quanto a mostrarlene sil vero uso e legittimo
piacermi riferirne qui alcuni esempi.oru I ond II o luotiIoluogtro vito
ottimisti es lllo ollo ofunifiiu o pil minl -la.os mlnuto un olo luou l. In ott
Insi non lº oALI sold o! Il lo Ieoo.A II I tuºi-Io v o ottussIssotti Ip ons e
1.Il 'lo s : l'impolli o lo I II Is v.ll st ..ol. Il “odſuo ul lui opeo li o
outpur, ep li out optio o lo vº oppull o! Iº lº up.uºni; ios uº.In ln. ezzotti
Ip e I potti o.I | Il los . I volo “ol I pm Ilio. I l'i: i) a luito o illu po
olso outlolzilotti o esonl lo v Iloil Ip los il I _ e ne» \ :sºlº.
I « opinpu u Aupututuop ou. 115amb Ip ) : IR il p to eve) op e idos il ci lop o
oulo “ollomb o. : ), ond is oli otti. I l III II e III Is l'otti o solll V
Aussu. I « usolt [..) Eleti o o si ) Il “1159mio l 'esoi II) l'Ilop º oluto
tuupu euro. oI tod el IIes tddl - riti ei lod otto Iss o IIIo lº I so.I ) e il
V Il 5 UI ,i. S ) : IIoII. 113enb Ip o Io , lui il di lui se li ti os o II. o
Il s o II is º III o II , 1132mb VIII A 1) « ott zu.Il 113 onb I 'll A ) . l is
tº lo 118omb e p . Io ſº i Is I V | o v N.« o in IRII ol o) toni tu III o l on
tº il 118anº il - IV l. 1: I 'l: i sanò “I I V r) « e ſu di ni: I.I
I I I Il 11;anb N N I I V l t, vi | l 'ItI A o « Us II . t: l ' I l. ) A
l: II. 18anb º il l il l: li I “I: I l l i n . I I I . .I ) \ I ? i.) I
vi: - st , l III! - - I II -Issluti Inl o II oul o 1139mb p I ogI sl II-nd in
euro a Ion A ott fops i samb 13 anò lIl ll o III ), i . I | III F III l st ) )
somb o-s II s l . I olti (I e ssa: Il sanò olII trOI s sono o sanò uºi In I tºl
In A III o Noll - sanò o il III : -nIossº o ollo.I costi. Il cºlson l
olloni (i i l Is soulotte etti ln)soo “lm)o. Ind Itoli o in º.oo.A o allo l o
oum. Il I I I I I I I I | 11: Il i li osso il s II II l s ri: o II.
ii l' oil. ss I.) o VI i .I o III II . I | anbuntuoo ºpttodsI.I 15 o
infossils o Iod opilenlo “Il q o se ti o in ouaq els ſolluſosutti - o
Ielofuſs illionh outoo soo o illel e il pr i ] N sempre e come gli
talenta, mercè che il saperne usare a dovere è già in dizio di buon gusto, e
mostra altitudine al concepire classico, e indi lo scrivere che altri fa vago
ed ornato.Ma usarne debitamente, e voglio di e il m a casaccio, storpiandone il
senso, o il maniere e concelli orestieri che ne l comportano. Perchè dirò
della voce guari – che vale molto, assai ! III o l'opposto del francese ſuºre o
fuºri's e il di il colllllllissimi i : non ha guarì, a significare non º gran
tempo, ed è sempre precedIIIa da particella negativa - quello che di ogni
altra onde presi a rallare, che cioè il verº mezzo, il più efficace, il piu'
sicuro, di rendersene veramente padroni, è quello di leggerne e rilegge le slli
di saniell e i molli e sei ripi, e le belle maniere di uri si fa l guai . e
cosi conseguirne un rello sentire, e riconoscervelo sì come palle del disco so
non decol a lira soltanto ma ed in regrativa altresì. a .... nè stette
guari che addormi itato ill. » Bocc. 6 nè stette guari che si vider i frutti il
rie- dei loro allorazzo. » Bari. inè vi stette guari ch'egli vi le as-: i la
dis, sl , ' t ) l'11 l: Il Cil l' « piglia con assai a.legra fa e a.» I ierenz.
.... non istette guari a tornare. » Fie: e ilz. e ...., il quale non istette
guari che i rap issò mori ; o lo e .... ed essendosene entrati in cani ra, non
istette guari che il Zeppa ornò, il (Illale con le a loli n. 1 - ell: l.... »
I30 .ti e credendola acqua da bere, a li ce:i postal:usi, tutta la bevve:
nè a stette guari, che il lì gl al S. ll :lo il prese e Ills- I l ltdori
nell' ato.» I30' ('. a ... ll è il ro i ti elideva, che da llli ( ssere
richiesta: il che non guari « stette che avvenire; ed irisieli le fil rollo ed
il ti: i Volta e l all 'a.» I30 ('. « .... di paese non guari al suo lo
litri :) . » I3:1 l'I. a Ella non fu guari con Gualtieri di mcrata, che
la ingr i vidò, ed al tempo « I rarº ori. » Bocc. « Il quale non durò
guari che, lavorando la povere, a costili venne un « sollllo sllbito e fiero
llella testa. » I 3, c. e Si mi isero in via nè guari più d'un miglio
ſull'olio al 1 la i clie....» Bart. e .... novella non guari meno di
pericoli in se . . ll I e nel II e che la narrata e di I .allretti. » I30
. « Dopo non guari di spazio,.... » Fier. « .... nè guari tempo
passò.... » I3 . a Fermila lire e, se tul il terrai guari in bocca, e gli ti
gli asterà quelli che : oli dallalo. o 6 , Bocc. « Essendo essi non guari
sopra Majolica, seni l'ono, la nave sdrucire. » lo c.Note alla voce
Guari ( - Nola II sto In lo leggiadro del I occaccio e suoi valenti imi
il li: non isl le quali i clie.... per dire: non andò a lungo; non l' Iss po; e
indi a I l in iſo, ecc. iti - l' illo dei litri casi nei quali la voce
guari non è a governo di ll ( ) ll t ) Il t '. N/1 c r ) ci ci li
del non lo al mondo aggiunto ad altra voce qualsiasi, non le " "lilli
ºli il III si p . I livi, è a nella livo e intensivo della stessa, " Sºlº
sºlº sºpra all'allo, incomparabile, qual che si voglia minimo, ; il t N.Nll) l
('C'. \li gli esempi soli si chiari ed i maestri di ogni età si
autorevoli che rebbe superi il rallenervici a lungo, e discorrerne più che
tanto. ºsserva l'ºl di II lire qualche cosa, a come l'occaccio, per esprimere
il mirino, ed anche a singolarità e superiorità assoluta di oggetto o sa
(ITalsiasi id per asse con più forza e più garbo che non farebbe un illi a V
cc, la II lillici a : con persona.... del mondo, e come quel gran il lacsl lo i
pera di lingua, che è l'eloquenlissimo 13artoli quasi lette l'alleli e lo
imitasse: lo come a 13 ccaccio, a Fiorenzuola, per tacere di il ri molli, si
possero i loro i nodi superalivi: punto del mondo, senza una la licet (tl
mondo, alla maggior ottico del mondo, e va dicendo – il lilali alla lelleria
dal Villellissillo ( esal I. Senl e al lillo del l rall cese non le, in :
le moins du monde, e simili. Ala non sarelli , sì vigliacchi di gridare per i
lesi o al gallicismo: o lon dovremmo dire più lº slo cle toscanismi si illi, i
nodi di I.inguadoca che i li oscilli si rass lirigliani ? a .... e 1
litto in se ined sillo si rodea, lo l tell lo del barattiero cosa del mondo
l'all ('. , l 3o t .a .... perchè Ferondo se stesso e la su i donna cominciò a
piagnere, le più nuove cose del mondo dicendo.... l 3 , c .E quantunque in
contrario avesse della vita di lei il dito buccinare, per cosa del mondo lol
Vole: i creilere. » l3 .benchè i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a
palagio.» I3'll [ .« Cominciò ad avere di lui il più bel tempo del mondo con
sue novelle.» 3 ('.« Costei è una bella giovane, ed è qui, che niuna
persona del mondo il « Sa.» I30 ( ('.a Io gli ho ragionato di voi e vuolvi il
meglio del mondo.» Dart. a Alla maggior fatica del mondo, l'otta la calca
là pervennero dove...» Dori'. a Punto del mondo non potea posare nè di, li è
noli e.» Fior« .... perciocchè io ebbi già un Ilio virillo, che al maggior
torto del mondo, non facea al ro che batter la moglie, sì che.....a presero il
volo e le l: Inen:I rollo senza una fatica al mondo.» Fier. a se li Inangio
senza una discrezione al limondo, o Fier, » I30 ('. a gente che
vuol conseguir la salute senza pigliarsi però un incomodo ill Inoli dC). » Seg
Il. « Alla maggior fatica del mondo gliel trassero di mano, si rabbuffato
e lnal con o com'era. » Fier. « Lo spirito di l)io il Irava si fortemente
in quei pii affetti, e con ſale unzione il saziava di sè, che alla maggior
fatica del mondo egli potea scol pir le parole e venirne al filo. ,
Cesari. ſr L'Opinione giornale , con la stessa serenita olimpica
con cui sentenzia che il quart'alto della Cecilia è il pitt bel quar alto del
teatro moderno, senza un riguardo al mondo a Cluel poveri drali li i clia il: i
no I re a 1 | i soli, SIIIeltisce a Ilo izia. » Il Fanfulla del 1875 .
!)!) Note alla voce Mondo 99 – Leggeva allora il Fanfulla, solo per
amor della lingua di quel giornale, che è buona, non bastarda come quella di
molli al ri. | N T E R M E Z Z O l)ETTI Sl:NTENZIE - - Bene è vero
che così lo studio di cer ti detti e sentenze come anche la Retorica sono ben
altra cosa delle intrinseche dovizie, degli scandagli linguistici di questa
nuova palestra, ma avuto riguardo all'assetto singolarissimo di alcuni effati
che, stu diando negli autori classici, più mi ferirono, e che non sono così ge
nerici e acconci ad ogni linguaggio, come sono ad esempio le così dette figure
retoriche, che non siano anche particolarità italiana e inerenti al carattere e
alla natura della lingua italiana, non mi pare iuor di luogo di compiere
l'opera e mettere qui alcuni di questi modi che, se con metafora, hanno anche
nome di gerghi e proverbi. l t . N. 1 l il miº cl. ii e il ct mi al
buio. l ' e' l lo sa il n 1 uct I tuolo li l'. I l ' il mio cºnci
li elolco'. Iº - appropria lo a uno che iene del semi I lice. l'ut I lo i
colle si sle la Nesla, allico sll lllllelo la misura. Slc re e il m li se
li diglllllare, Vlcºl l'1 si in capo l'alcolaio gli ribizzare,
fantasticare. l'atl e il III milita in all 'cati si im sul qual mquam –
darsi aria d'im li . l . I cºllo l'e' in sul quat mi qua mi - col
ridicola gl avità. Spacciati e il quinque mi voler farsi lenere il gran
fallo, \ 'il tr le cellula ne alla les la Scilli si allera o da qualche
impressio il 1, di dispei lo d'ali re ecc. li mpri e la scopa l si a Vila
disonesla. lo son litigliato a questa misura Ambra - esser fatto così, di
que s Iella la luna. lisse'r la Ilio lo bene o male, l'irla pºi
punta di lo) chella con grande affelazione, l'aitre e gracchiare come i
cani e ranocchi alla luna. Giub. – gri di I e il Vallo. Trorarsi
nelle secche a gola. Caro - esser povero. Mºller l'ali - a Tre Iarsi.Alzar le
corna – il super bile. Restare sull'a mm allona lo – l'Illia nel poveri. -
Stare in Apolline – Irlangiare lautamente inodo di lire del valo da una
stanza dedicata ad Apolline in cirl Lllo lillº laceva la illissili le
celle. Mangiare a ballisca i put - maligiare i piedi, il II elli. Esser
al coniile mini – il punto d . Il 1 l le. l scire il jislolo da dosso tl i no
13 i . logiici si da il lalso sci spetto, cessare di ang. Isi il gli ill
li li il l i gilli il I, si spelli gri si ecc. E nodo basso. (i li fanno afa
i beccalichi e gli pizzo no i li, i i lati in to fai il l ll - calo, il
fastidioso delle cose pit s ti Isile. \ on Nat per cli Nº – Il ciglio del
volgari esser li li (li si . Esser nell'ol o di gola –- riccone, ricco di
rili . Esser innanzi con uno -- essergli il gri 7 , i vi Vlesser Al
dighieri fu gi al ci ladino e molto innanzi con il tessel (i: Viscolli Saccl. e
Fui figlill il di illi: i giallole e gelilli. I l lale e' il molto in mani si
coll’ili per il I e . ( a V. Torsi giù dal pensiero di fare . . . (
o mi mettersi a... lasciò il cilli ri ma mi 'lendosi di I Dio e alla sua provvi
le 12:1..... Civ. ('ori e re boll len clo e II lilo cli, le legi , i l .
ri ci , i Nº but I lemulo . I)av. Sillili: ballo e il gri sil. lo, il
lersela. Esser in pie' e plando ( alba era in piè lenne la col ſole .
l)av. 1 rer l'alli più grandi clel nido illa / I s; l' Iss: li si illa
col Cli/i 'le il cili si riac | Ie. l'ut I e il loro o di ll (mc (l ci
lidi ri . il II e il I l: cos: 1. (iel I al I e il m (t mica , clic'I l o
lut No il re i v . l il li Is I l iss . aggi. Il gel (lalli al clarin .
Mellere il pel bianco –- e il III la mia vi: il l' ii a V messo il pel bianco .
13arl. Pagare di moneta senza comio spacciar Iole. I , Ils, I)alle
e il 1 l e I3 ccaccio rili lo II e la loro e i lli li li Il selli Vallo
si illl'allino che spesso ne fa les r , il III: Iggio elica li col l mali e il
del sl1 , clile. Tener a piuolo ( inf. tenere . l otre all rili il
lettino ſalgli il lates l' 1 all ss . Promelter Itoma e Toma – più di ciò
che si può ottenei e la mit le tel'. è luogo almeno. 1 mln usdtrº uno
indovinarlo, conoscerlo per quel che è. Fotr uno scilo m (l parlare a
lungo per indurre alcun a la c o non ſi l'e. Scoprir paese. Ma il 1/.
veli al chiaro di talche cosa. ('a calcare la capra in rerso il climo. I3
cc. Irovarsi in pericolo di i l'l': l ' , l ' ('. I malati sºnº col
cºlei ci ſoio. I3 cc, palli fischiandosele.– fog -- 'l): - ol,l DS .
l.los 1)llop ).Im. I “ollllooo oscio o il telos Oosol limp o idol pl
Ivan, 'oooº I 'º elodlid oolIdillos Ip : l'ol e ope, too util plo) lo m olmpoli
low up Au - In) on upl ls not o lo l cofi, li o plo) ul. D o plot lo. ol soli.
ll u n t pel lº lodo ! Il.I |llº, letto.Ils lod o luo5t. Il to All I lod
ollo Ato. ll still s'o.Il... [Illel ore -II All.) Iloio; il 2.It I.) II
.Il lod o letto iu'. Ooli llli lo l opoli ll o, p. 1 , :los.lop 5 º ) - ol. I
ti ll) 1)(l. p) ll . 1) / S ( p lo ) Spp uo.Iopul) olp lo) lo! I top oſ) p I
loI – l.ool o l. Il ll o l.oo, o o l o I : 0.I |llº, olt IIS - olto, o l. Ill)
ll ſi o p. ll l l ll olios o I Il d lºs o I o II ) : ossopu o il n. 1: s ).Ill)
.Iod o O)tºllo..)Il 0 [.lli | Il so,oll) ol, o ol . l p ou puo ul l tool pd l
olltilt il .lol - D) ll plcl . ) ol I. . . . ll N o Illy) li ll lo) lo IV
lUI.).llº A ( OIis Ol.top Is p Il l: sl) Ios il l o Il 7,top II (ls -l.I O
).IopUIodsl. I lli Iloit . . . . . . Ip ( o.lios III. Il l .Il vi:.) .
I.).I.).) olt: Il II “olon.A ottenb Oulla pu o.llp o Il sºl l: Il 15 IS ) pl
I.), m il plli) opos I DIS o]llottle Illllio II o III o III: VI .Il Dl
I.), p il 1. ll I – Dll.).))) ll plli) ledttii: s .l Il pl . . p il plp pso.o
ol.) i pm b l l), I l'Iss) I |.).)ol|.) In I e o luouletin).Iodi III oli
ell. Ilos ll mi pm ossopp o Ispº) ll o p.l.loS pNN Il l)llo li lop il pil ll I
Dsl (). I plo l pm N ))) I m, 0. I opomp l.) o, op o un ddl n. 1 p.).)o l
“od.Ion Il solº tu e otto Issolo. Il le i ti ).Il 1. l is lº) io. I p. 1) I
p.ll.I. elu.II) .I e o Ioli: mlpo il pil 1) l .I lo.tpllo3m ) ) ). ell.In letti
e sulle op ten . lº ziios l: 1: lsi I l:, I 5 o II. I | | | | | | Isenb oso.)
ol lº)lo.I e rozzo.Id | V : o il II o I pil V ol I., p. 1) 1) ll il d.ll' I pl
uopo, il plss. . . . . ) I pu to.I o | Ioli -o AIIo,oul IIIfo e opotuli o
luo.Id lo ve lo io l I l spl I lil Los ei leitilissi: prºo Impoutuo o senb
epito o on I e II li .tel li olo il 1 l . . . . ll o.lo) lo IV popd ns addez
ellop step (lo) . )))) il dl Nill o 1 pllo.). l e \ vi s o I e II º I - ºlns Il
pl ſild ou. m. p I Isti, d (Ioli .I l o Io te stili npd a IA QIo III “o.I lº
IIaq lp Isl: le ... ! I pun'I plio il pls ns il loI 'Ioi l occod ll o no) in
olon. I loro l out o n pm olto toll I pm.op..) un supp loſioli os– uodlo)s
upſilo N uomo io) ) – pnbon, p . ll lº un il dl pliol - - u, li updsfiniid uop
lo) un molosſ) olci - lon) li supi il oi p. ll ' ºllº IV op) o il lou pm b.o) l
i plso. I p.olpo i pl o od uto) ll oi pl). ſuo tolto a sp IV pun uoldo II -
orodns ll Po o in l ' loI lod oliſmo lo pnh.o o lo) lo IVmlnpoolpo Intti epp An
– mumpm10 in p.l lod ()) lo Il ll ).I.) p.l.' I oITuttI III ottonlaAu ozuos o
InluoAAu In II.Iossº a Ip – mlmſ illolo, il sºlº ! "l.l (uoſ Dil
pup)s.to.A up loſium IV) - m) lolloq Dl pudos ollo,lto. ll to, l' (uobollſ
lnplV sul u Il uoqnm.L uo uo) p.t lo 0 olp csmp 10 nml 0 1GI) – Dl-lod D
p.). oil o oufi pspl ol implodsy tuorlos dou).top!) tunc MoogI uo(I) – 0dnl ll
plp.tmnſ ul paoood pl oam (I o.It: Iso – onbop onp m. i tm)S vo) lo I l
Iolu .lnu 'ltoſi lotti lob.to IV) – o.pso.to pºllo,l o I.) olli), D.) Dlfium IV
oiltiºp o eso(Is Uztlos o.IO.I.Io o oli; io -tu! oil.olenb tºp Islu.loqll
– mſn.o pllop ollo. ll tod ouapssmd o outlos. l mld (lm):) A o Iedd e osi lo I
o lui ottio 5.It: III los IIIl regolº (Ideos e un “o5 old I un o.In.Ao.I
| – plo) o ſi o l.olmnb tod ll sn plo/v. ſi pl tm no. L i lums millim. ſi otto
op Is tr.lo.) Iº puoti in ſqu;Il pells optIo :o.Io s.It:puntuonº.oe.I o II.) o
sol) I d o III. I tessed Iod o . Il -opze.Ilslp lod Isoo Ilopulº)) eai luus lop
o Id e out s Iseill) : 1.I.ood I.If I “esInI ?lo Id utin lp e.I srl III o
II: I – .ooo I o in l uld lp olio lpold l I m/) p.1:) .ooo! I ouolfim. plums lp
o un atollm:I'ouoizu: un lp Is.Il luod – ottenso) osta Iop – oli luod und ll
amfium IV ro5.Ioi ole; o Inº Ilop osuos ll lpitI i lo! lo Io lop olzl.it:
A1: os Izi Il sod o Iop e Iru.lo Iui ol . -It! - l oro,oo! I II e il III | Io e
Aol 5 o [ tt . Ieri lo tel o - o.topro. of I lu um, -ol!) S ll plc) ſi mºllop
plumnl muon pun uo. luput al lm Il m lou ſi )lo I l soIAtop lollipº I o il
lossl.AA) - Iſſ.Il lº oil.oul e In.).ooo,oº o].Io.. n ...Iosso titill l'Ilodes
- ppo. pl uali olo,amp ll o, op todps – outp) todms 'oliloti in lito – o.Il D
opup.oul.Ilm mosul pl oulo. o impul loInbul “os III e IIIs a 5II o Im)um. pl/m
opII , sotto lo v o 5 e I º plo) tnam.L - I topi.oon o o oddº. Io ottes.I:II
.Ipaduti .Iopulo. In “of.In loIII: Ip o Ill.ols Ozzotti II (IIII!) “o.It:) ( p
lo) um. m / mons ml opuo.oos ouons ll lao.Il II5 (lo olim on.ipenlis e III.Id
nei rioti o Iſo.).on Ip e li s III3o Iod . I -Io(ſti IIA o noso etI - plo) una pl
ons pl opuo.o, is ouons ll o un pm im o il (InIr) e ions IoIIII.oti Iq.lodins l
oil.i ſi lod pu nu aºasi il Iollos ICI Iso:) o o Io od oris III olio.Ar - o
unopm ofli ſi lod i puo IV i trie.Io Ifr I 5o. elos-.InI e o.non ſi ton eso.Il
l'Iionſ la vi: - l I.),ol.) o, 1 m.)lum il tonº to, l' I.).Il V e lipo.oo ll ſi
opt odm ou up il lun.olui ! :..Ip Ions Is II-latile.Il l I op e III ed otti).I
ve IIoII o II o o olni sotto, oi i s .I. I o I.Ialoni ti:III a oIodde.Il l oilo
o Ie.Il sotit .Iod » – i loro lºſ oliodm ouum lui.nu. I ouolfin.I n.Il .Iod o
orifi-osICI o II love II li Io I o o lo IosnoLI a Io ns i 5o II.) eso.o Ip
ol.I.) Io RI... ] I III o Ip Iso. Il n o In.oso) opo III I – oliſm) l p
los lop . () il 0.1 O) ſpi o N . I .IRSI Ind e J a o o-neidsip o II lºso. lei
in oso III IoAn – onl.).oo tollou o ond pum o. p. lug oosn IIIIIIo I. -
a.Teit v -o oltratuo.IoluI e III o IIIIp mld a IIIqm IositiI nid IzIA Iop o In
mezIo opleIII “Iuotze.IouI.Iotti IlunoIptII Ipo IV » – ddl I on.o o mlfm)
o lo pnfull pun a.taa V – III.Io:I – RIssoII o oli I.) e ossopp ouogo mi fi li
“ou upd ll tml ſip.I Izzotti In olnsuod Io Am mzttas nsa.IdIIII In e
Is.Inpſ IIn – noo! I rollo osul ruos polmſ ul tolla IV IIIo o Iop o
Iaisund IsInp nziros editrua o estInIII Iulo Ip -– o opms lou odm o lo o imbum
IVIpa e ansa – poi gere occasione – ansa lett. è maniglia, nel figurato
appicco, pretesto. Arei mantello a ogni acqua – esser pronto al bene e al
male, accu In dal si a togli 'osta. Arriluppar l rasche e riole – inventa e se
lalse. Mentre il rasli ello - predare, saccheggiare. Gianl). Super di
barcamenare – essere ac orto e destro nel condurre i negozi. Mangiare a
bertolotto - senza darsi briga o pensiero di dover poi pagare. Il langiare a
lla ecc.I?accoglie e i biocc . - ascoltare gli all rili discorsi per poi rappol
largli - da bloccolo, particella di lana spiccata dal vello. iellar la broda
adosso ad uno – Il colpa l'e. lºom per la cuccu ma li portuliare, alloial e.
l?idere agli angeli - l idel e per chè i dolo gii all'1. l?idere sol lo rºm li
o le ba)) sori dere di nascosº o con gioia li ali ziosa di cosa che ad
all ' , oli sia pia ere nè oliole e che palesa la tollell (le l'el)))e.
l'issi pissi ciò al lavato i pissi pissi d' A Iglisla . l)av. v Vo I rinata
dallo sl repllo che l'anno e labbra di chi lavella piano perchè : il l 'i ll ll
sell la . l)a V. ('olo il c un disegno ed egli lon dal lido si sta al
lina o indugio ai colorire il disegno suo . (ilan, b. : effel! lla e ſulello
che si era progettato. (''rcati e ai ſalula di ſalula V g. della verilà
lorse da Fallen, piega – scandagliare, investigail e, indagare. (''rc at
) e della Notn il dl rivolse ogni diligenza sua e dei medici suoi di cercati e
della sanità ». l al . l'utre un laccio ſolise di 'as dei l si compulo
all'ingrosso, slagliare il ci lil , al tribuire al lavoreccio, un valore
così in massa senza calcolare per la inintità a ragion di elipo e ti tanti è,
fai tutto un moni .lasciar alcuno sul latº metico v. g. di andar cercando...
I3oce. I)ire a sor do .... ma se li la cavi di dosso io non li con i radico.
Non disse a sordo, che di subito codesto povero gli cavò la tunica di «dosso ».
Fiorelll. Prendere, pigliare, cercar lingua di...... Qllesli andò e
cercando lins gua di lui nella cillà....... » Bari. « Poscia mandalo da ogni
parte a prender lingua del vero ». I3arl.Fare del buon compagno - fare bus na
compagnia. IIo l'alto tanto del buon compagno, che ini gli ho guadagna i fulli
o. CaroFa alti ui tornar sulla testa la loro la mei e le Isar I. - farla paga
('il l'il.Guardare, ridere sollecchi – di soppiatſo, alla sfuggita ecc. (V on
der Stºile (tm) schielem Valo sbirciaro ).Scaponire - vincere l'altrui
ostinazione. Dal pronominale incaponir si, osſimarsi in mºdo duro e
goffo.Sgarare – le I. vincer la gara è affine a scaponire, nella frase
sgarare un ragazzo, vincere cioè a forza un suo capriccio. Non lo scam biare
con sgarrare. (V. Errare - Pronſ). Sentire del guercio, sentir di scomo –- V .
Sentire.'A1'CI 't Old nu duu! OIoolpI.1 'BI (los!p [u optioutod) w' los to
Ossip o 'ozzl?IOdoºl H » - UZZou Ip u!A Q. o 110u 'ou JIt', o outu, o –
los o ossm () ' 'I.).»r's P.) 12“IU10! (l)ou?uu0s O! (Iool2CI It: 'U.111]utoA
tº II u – 1)oot.) m.)so nu m d.tv.).0n1; ) 'o IOIl.A IS JAOI) vr]
[toUUlt'.lo(III uu?put! - 1) tilll!), m.) 1)/ .).t.) 1.to.)S 'ou01Zu? Iop1st
10.) t'ZUIJS - 0.o0.1.) .) op iſ.).Jo V '. D.)« » v, IBloJJIds 'd III) tºp tºt!
Is to t's Is oilo o] |n) up - opont) tot 1 m/oy.).yoſis '001 un) nu 1 op 11.)sm
-- Izzo.I III III Isr).»! 0.10||otils!D - - loud, op - Ool/l), los o//mſ lp
orum.omputorit ºp ty.)s ) 'old UU10 |su (I - Oulu pm ! tto.1 dl 11)
1.).), do. t/S : 9IUA 'old U]SI115513.1 al.IU! 15u11:55 U.u oIJ U uit:
Ids -- O.tn)so.) ./l 1 v.10.1/12/ 'o1.IU UIoo tº los.IUUI5 Upt?Inn - DSO.) Dun
gs.tv.)./of/ '.I)! I 'Or]UJUI - putd] !! ) () [qtis 'out I tºp ! 11.1 | 11:
o.11: oo. I - Out of tºub 12 1//s,ºf mun t mel 'OssOpt: " ) 1 ]sorbt u| |
| |5.11:J 'ou!]1: | | | |11. | |lt: o.11:D - OUIL1. »It! |'t! ONN op D ! uit
1)(l ! ) to/ju1.1/S 0.1 n itt l! , 01.)sn,l D.1/ ).to/jult/N 'ZL11? IV 't
PZ -11,0.1.11 .). O ! | 150 l 1! ) | | | | | | | | | | | | |ollo Z) |O 14 l 12t
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Ip oieA Iosso - tel.In I : o lui o li tºp - O.It:) o un.olm p o lui olfi ll
o.tolo V so ) ( put.to, ll p .ll.osn ottetto) otI. Il tal. Il tº I otto. Isl:
Ill o . I Is - bol oIloo tepul: Il 0.1 [ulos lui , o tu As o le volp lº
lll.lo.llol) .ll.)N ) quel!) . .I RUIos Ilºp ou lost. prº.soood o oloA |
otteAopuol o le los ti otitº.All. Iuºl , vi: II.os I e zz -UIG.Ii eulº tuo.I tº
I o II.it I col eztloloIA :l 55o o II. I ll pp l Il pm.os . I tolti “ouolzuºu e
un ostello e Aoi.Iod otto sou.lº 1: tos Il 15o lo os oil. I l -Uuoso Iliou ol!
UIoS oleo, ill. Il II si ulltiltos o il tri .I potti il 15 III e III. ll: as
op.Iool.I tioN o Ido. Ito. Ip oi lotti :p o .I I I I II, I l o I, lun. 'N Al (
I It:p los Iop 751.I . ile lugds up o A.Ied il 5 pp.to, plus p.).oo. pl o ibIII
p opup Is e III Is o o..ot: -) e,l o.IeIddo,os Iod II ll losso - foltº.I s o II
il 1 olt: \ l: p.lo. Iº | 12.I | | | | Il trooo.I] e [op o A n.) Il teo.oul º
u.).ooo , pp.to, ºlns ul p.). o, pl o il S “.),oo! | Iliº AI.Iolo. I Is tº I. ,
l:. . . . . . . . .“olons n olons o I veti olioti opzitelli. Io li oi oil I II
Is oillo. Io vi: pt. Il'eAlls (ossoI) ollo il Il po o l?.I s S olo ns m , lo s
. l'Aopo.I.) Is o [.) o[[onl) Ip ( I. 1.I luo. Iº o II la V A : l I. A 1:( l .)
lp Qss pd o ICI : onb.me l o lo us . Il No SN1). I -.). Il re I Il lp 1, 1, do
il I so ) . l. (l -oud ul o e lied n.Io Illn e o intito. Il viso | | | | ol i
do tal ul A l:( :s-oo e o.Iluo.o tutti i lopuloid lp muli, uo. Il pi is ulloII
I llllº solo.Id I o Is.Imp.Io.. e o III o VII . il 1) il fi . ll o il l eso.o e
o Ao.ol. oil. I l o A Il 5 o il - vi III i -tito) Ip o Iniel Ip miss,
loolII. Il . Is.I tºp IO.), lº ol n.), uo, pl) lim) I l / es .) Il fo :
III | o elle ol; poi li osto. Noi i pl in I o.lui iuta il tºp .Io vu:
toll o l..) .l. o loo.l.) I l I o II lotti o I e II li. mld II l .lo I i
v. ri II: I pn: I I I I I Il il tul.). Il vl'Ifo II: ool.IntIo5 outot a
o,opo – olº.Iotti: lui o Iosso pri uop uo, o, pil ll . . l oliºfolli: lo ol o
elusi o II (1 ptt pil “eIollo.II on.A mlnq – oſinod III e II o riſpºl u
ntlmi il miº ll, i NN, i ll l all I toulos popu o top li V – pu u m. pl
tolo. Il ml) , l ' Ill) Il ll I m sl IV (uopolosa oa si ſomus.o!) I. (I
pillso i tm l lo o psso l'on. 'I l I.) ſuoqmaſoo run II tap ) foll pdl – ma lo
u VI top / SI. IN DCI - -und ll mys unb : osodsII el'uoloA elis e o
Infioso e vo vop Is otto. Il 5 l.lo il po “Ipnos Ip op IISIui Iod olose
oilo elodi:) .II In lui: oddo l II ale.II Ionb e olinqII 'u ottIssluſo un ollo
II ) , - o lund ll o Ippo) ln () arou alloo olmuuaſi l' opumnh (n.IlIn Iin Io o
olibri.nlm.nl) nso.) oa pl pp m II ro.Ino o non limp out il l pts No I.).ool.
o.tplli o .IoI I II.).I l? \ .I - «I – pose II III opud Ip – otInoso)
opoIV – ouol)fillo.mſ ul ott 1 V p impos 'vllob.ll, il ll Dul Ssn il
lolill L uo(I) o lo pſipd D.lluo o.topm,tollmut pulu. ll.) looo.) o lito.t.too
losso noti i plimd lp opuol losso lou I milſild l) il dſ II o Il pl) il 5
il ril oi lotti lop plAtº t.I sotu ! ! Io l: - olso.it) o toplſ llli uou opolds
llo.ool o lo opm ſi pull Dl Ippll llſ lou o tolto. llo.ool o lo upo )
Izzo!) o tool -ms ll o oli uos lp di qll ollllll lp od too ul pllio, ll plotto,
un uld lp l loll (I lo Spºl uo il lun. I tu n = bupl os I loli fini M
to(I, 'odulo. ls oillſ plm o lo pnbop,l lod o lo tol ma o um,l lo! I lons ,oo
Ilſi o llllllls ,o. lllullS lo! I Dl.ol)lli p.t.to) m opp.lli ons ll li o
l.) e olsn ſi pl, m. l opm. I m/s opuolod l 1 ) Iollfill, l .lo. I l II), noſ)
| I l N.1 o V, D.ln / uo, plm tl pl.).om.) m. n.) Duom:I o l.los D. l Il p.) od
tuoi olto i ton.) A eCI ) un lato i po.t o, ul, olpm Is u . I (- Il n.ll
l uo il lo)) SNI)| Dp Isl 1 I.)lli S I lil souloI Nm \\ - l 10 pl pluſ ml
luo).om.I.L) - di pls lospl oa mi ps lou l I,) lo Iel lli),l o l.lo.) o I
molfin. pl Dz.iol pl o il to, Atº (l o utild lo, “ollo) Il D.l ol li Out
o l)ssol l)lloli o topi). l) o. pplli) 0.ool.) ll opo, l I, A 'CI olfils to.) o
I.) olod il l lulti ou up I l) li p.to il filºl!)o lotto) oil. Il 1 | Iloil
polo lui) li o) p.) Il to il l.s lou lons ll pot l oi l I, ) ufos ll put o lon.
ll piu ! I, 'oli.I e le lotti e liti tetti o I. pl ſi fiou.tp.) mlfi fio) sof l
I, oliuls l.ol pol I ssop osso lo po. I u.osso M oum. ll u lp o o upd lllllll
pol lt lo l mm.it/ ol). 1. ll l / D I SI onl:) Nm p ... W i tons ) un
I.iol 1 m. pl/mq uoq loss o o d Il 5 o II o II.oni, ons lop Ile ond o
Intini - l I. .)oufi mi spºt pms pl).op i pl Qnd un ufi () epº.I s
I.).ol. II. o II. olio Alio. es . otI.), tºnfi le id o Ie Ip e lo IIIIIII.I
Iloil III o o lu mſ plº (lm ollo, lo pſ lou l I, puo il m ollo il pilo.) p.).
Dallon, o l.) Ollon h o, o la toil o lom p ll ſi o I.) ollonh lp pp roll l I.)
m.).oo) ll ſi o lo onl) ps ls uoi p.).) o il o l uop pl pil in o I. ll I
“) lugl o I][..losO Ip III) -nlillotti e Iluotti lep mln out e tio.Ipel otrosso
Joid lp o .I 'elopſ o 5o lp “m.i.a) oa l uop l.luc[.Ieq i lutti lop e tituli
lod o .Iugl - p.t.to) O.I luop mld oluti.Ioli onp sulllo alle ol) optio.) ng »
- o Imu o. I top m.llo) 0.I luo(I rooogI « allo Iod olionl uonq un lui li ott
o) ups m oampum ossOd lo IIOII otlo olopo.A o II.) » – oln.) O.Iones li oli ed
i pilo.Id – Olups o o ampu V roo nelll.) lens e lº slº.), i ti so I ep III lº
Ions I l I sè.A o II o I z-utellIA In p oil.oun po 'oion lode. In lons illie od
o Iupire ole.A o n.oI) Il n.roluntII I II..ms o epilo.o! A nſiti nunoIl lod p)
Il p o V » .).oogI pl/lo . m l), m)pum OUI.) oll) Ollion | In AO.I] ()
otI.).oo!.).Iod » – p) ll. m o impuyChi ha terra ha guerra. Giamb. Volpe
recchia non teme laccio. Fier. A buon intenditor poche parole – dal latino
intelligenti pauca. Così le intelligenze equilibrate e l'ele. Ma il tedesco
pedante: Gelehrten ist gul predigen. L'inglese fa lo spiritoso: rith a clerer
one word. Al fran cese è troppo una parola: è un home d'esprit un lemi mot.
Indi l'indole (ielle nazioni.Inran si pesca se l'ago non ha esca – , W e nicht
gut schmierl, faehrt nich l ſul\ on è il più bel messo che se stesso. Selbst
isl del Mann. \ iun bene senza pene. A cine Freud oline Leid).l'aga ben chi
paga lo slo - VV e rasch giebl, giebl doppellº. \ on scherzare collo so se non
ruoi essere morso. 'Mil grossen 11erren isl nich l ſul lv il Ncl en essen .()
gni santo ruol la sua candela. Ehi e le m Eh re gebili rl). l dl ct sino al
tiro but N lom tl i ro au) cinem gl o ben I lotz gehört e in I rober A e ill)i
quel che non li cale non di nè ben nè male. W as ist nicht ucciss, match t mich
nich I heiss . Il ledesco è limigliore dell'iltiliano.Più ricino è il mio dente
che nessun parente, leder ist sich sclbst der \ aechsle Nell'italiano, senti
l'uomo coscienle della individualità del Sll 'S.Stº l' .Dopo il bere ognun lice
il suo parere. Del V e in lisl die Zunge). Pal ere e non essere si è come lila)
e e non tessere.Chi di galla nasce, so ci piglia. Dic Ralze latess das Mausen
nicht'. (cqua che la cerni mºna. (com). Menare Stille VV asser sind tie'ſ. () /
mi legno ha il suo latº lo ogni ctgio ha il suo disagio. ('hi dell'altrui
prende le sue liber là rende, ('hi ha dentro fiele non può spillar miele. Dopo
il con len lo riene il lor men lo. ('hi parla semina, chi lace , accoglie
vergogna! snellere questa sen lenza che è losſ 'a e ricullissima, e si
sliluirvi la ledesca, malerialissima : Redeli isl Silber, Schweigheli isl (i
old .l grande molle gi andi lan le ne (i rosse i bel erſo dern grosse Mittel).
('ol mollo non sta bene, col poco si sostiene. Mi riclem hatell man (tl N, mi
il trºnig kon mi l man (tus).Morla la bestia, morto il veleno. Todle II und
beiszt nicht mehr). E' meglio esser capo di gallo che coda di leone.Non si può
cantare e portar la croce Gule Mirne zum bisen Spiel mi (tch e nº.Shºm (tco
digiuno non spregia cibo alcuno. Il un ger ist der beste Koch . Giuoco che li
oppo dura, di ren la seccatura.('hi li oppo l'assottiglia, la scarezza. Ill:
uscha, i machl schartig). Chi è bella in rista spesso dentro è Irisla. Fier
(Der schinste (piel li atl oil einem VV trim .La donna è come una castagna ch'è
bella di fuori e ha dentro la ma il magnat. l oce. I quali ino a quattrino si
fa il fiorino.Le fave nel nolaccio , il gran nel polveraccio. Dav. Chi è reo e
buono è lenulo può fare il male e non è credulo. Bocc. ('hi ha allar con Tosco
non ruol esser losco. Bocc.Alle giovani i buoni bocconi e alle vecchie gli
strangulioni. Docc. strangulione lett. è angina, infiammazione delle tonsili.
Chi lava la testa all'asino perde il ranno ed il sapone. Ciaballin rimanli al
cuoio Schuster bleil bei deinen Leislen). Mal fan coloro che voglion far
l'altrui mestiere. Fier. Qual guaina, tal coltello. Qual asino dà in parete, al
licere – a chi ſe la fa, fagliele, o se ſu non puoi, tienloli a mente linchè
lui possa, acciocchè qual asino dà in a parete la ricerca n. 13oce. Secondo la
misura che lati, misura lo sarai. Paga e di tal nome la quali furono le derra
le vendulº. Q ual proposta tal risposta. l?ender pan per focaccia - (i leiches
mit (, leichem rergellºn . Chi la la, l'aspetti. Chi altri tribola, sè non
posa. Chi offende s'offende. 1?l'overbi bellissimi, il [ichi e dell'Ilsci, « che,
dice il Meini, giovel'ob be rallimentar sempre, e più a chi l'igne ha più
lunghe ».A confortator non duole il capo – e dal confortare all'operare è gran
(le diffel'eliza e distanza, e dove l'uno è molto agevole, l'allro è somma
Inoli o malagevolo ). Bocc.Luigi Cerebotani. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cerebotani” – The Swimming-Pool Library.
Ceretti (Intra). Filosofo.
Grice: “I love Ceretti; and I wish Strawson would, too! Ceretti distinguishes
three stages in the development of a communication system. The first is very
primitive, obviously, and avoids the reference to ‘io’ and ‘tu’ as metaphysical
– ‘hic’ and ‘nunc’ will do. The second stage he says may be all that some
societies need – ‘green’ for this plant – The third stage involves the general
concept of ‘plant’ and this is where a soul-endowed entity (animal) can refer
to a plant or to an animal like himself or his companion – at this last stage,
Ceretti speaks of ‘soul’ (anima), and the affectations of the mind being what
is communicated – if that’s not Griceian, I do not know what is!” -- I suoi
genitori, Pietro e da Caterina Rabbaglietti, di condizioni agiate, lo
affidarono all'insegnamento privato di ecclesiastici e successivamente ai
docenti del seminario di Arona dove si distinse per il suo carattere
refrattario ai vecchi metodi didattici e ribelle alle rigide regole di
disciplina. Quasi al termine degli studi si appassiona all'approfondimento
della lingua latina e alla composizione di poesie che lo fecero conoscere come
poeta a braccio. Frequenta come alunno esterno un collegio di gesuiti a Novara
dove risulta primo in retorica tanto che il suo maestro lo spinse a comporre la
tragedia “Il duca di Guisa” sulla base della Storia delle guerre civili di Francia
di Davila. Soggiorna successivamente a Firenze dove ebbe modo di frequentare i
membri del gabinetto Vieusseux.
Dedicatosi agli studi scientifici e storico-filologici e soprattutto a
quelli filosofici, scrisse il poemetto incompiuto Eleonora da Toledo dove dà
prova di penetrazione psicologica dei personaggi e di abile descrizione
ambientale. Nello stesso periodo compose poesia a contenuto filosofico, il
romanzo “Ultime lettere di un profugo” sul modello foscoliano, e infine le
riflessioni “Pellegrinaggio in Italia”, nate a seguito di numerosi viaggi
avventurosi per l'Europa in compagnia di zingari e vagabondi, che gli permisero
di apprendere diverse lingue. Opere queste che mostrano la singolarità del suo
mondo spirituale profondamente diverso e in contrasto con quello degli
altri. Soggiorna nella villetta "La
Chaumière", presso Chambéry, dove lavora alla “Pellegrinaggio in Italia” dato
alla stampe a Intra con lo pseudonimo di Alessandro Goreni. Trasferitosi alle
Cascine a Firenze, pubblica “La idea circa la genesi e la natura della Forza”.
Adere all'hegelismo, di cui tenta una revisione in senso soggettivistico in una
grande opera in latino, “Pasaelogices Specimen”, che non riscosse alcun
successo di pubblico. Decide quindi non pubblicare più nulla. Tuttavia continua
a comporre una grande varietà di saggi filosofici. Si dedica esclusivamente
alle meditazioni filosofiche espresse in numerose opere tra le quali i “Sogni e
favole” (Torino), le Grullerie poetiche (Torino) e le Massime e dialoghi
(Torino). La sua opera è stata pressoché
sconosciuta. Solo Gentile gli ha assegnato un ruolo di rilievo in “Le origini
della filosofia contemporanea in Italia” (‘Ceretti e la corruzione dell'hegelismo’).
A lui oggi viene riconosciuta una certa influenza sul pensiero filosofico della
scuola torinese. e sulla formazione della filosofia di Martinetti. A lui è
dedicata la Biblioteca di Verbania. Dizionario Biografico degli Italianim Piero
Martinetti Pietro Ceretti. “La natura logica di tutte le cose” e pubblicata
presso la UTET di Torino. Gentile. Cfr. G. Colombo, La filosofia come soteriologia,
Milano, Vigorelli. Dizionario biografico
degli italiani, Opera Omnia D'Ercole, 15
voll., Torino, Vittore Alemanni, Ceretti. L'uomo, il poeta, il filosofo,
Hoepli, Pasquale D'Ercole, La filosofia della natura di Pietro Ceretti, UTET, Giuseppe
Colombo, La filosofia come soteriologia, Vita e Pensiero, Fiorenzo Ferrari, Il
filosofo di Intra. L'idealismo di Ceretti, in Verbanus, Vigorelli, Martinetti.
La metafisica civile di un filosofo dimenticato, Milano, Bruno Mondadori. L'uomo vuol essere consideralo come l’ultimo frutto, ossia
il massimo sviluppo psichico dell'animalità. Questo massimo sviluppo presuppone
necessariamente i prossimi animali dello sviluppo minore, e cosi via
discorrendo. L'uomo vuol essere, inoltre, considerato come il frutto più
recente dell'albero zoologico. E qui nasce oggidi rispetto all’uomo una
contestazione circa la sua produzione immediata o derivata da’ più prossimi
animali inferiori. Questa contestazione non può ammettersi dalla speculazione,
e neppure dalle discipline naturali empirico-induttive; ma la si agita sopra un
terreno affatto estraneo a quello della speculazione, e della scibilità
empirico-induttiva, fomentata da ogni sorta di passioni, partigiana di
religiosità, di moralità, e così via. È assurdo supporre che una specie si
tramuti in una nuova specie come tale; perocchè le specie sono mere distinzioni
teoriche del nostro intelletto. La natura, come disse un sommo naturalista, non
facit saltum; e conseguentemente la distinzione caratteristica che costituisce
le specie “Homo sapiens” non risulta se non in quanto si prendono in
considerazione termini sufficientemente lontani e si trascurano i termini
intermedii. Infatti, se noi consideriamo gli animali superiori dell'albero
zoologico, nei quali le differenze ci sono più sensibilmente manifeste,
troveremo che le specie si suddividono in razze differenti fra loro sotto varii
rapporti, e che le razze si suddividono in varietà differenti, e che dette varietà
si suddividono in varii individui pur differenti fra loro. Inoltre, troveremo
che queste differenze sono a noi tanto più evidentemente manifeste quanto più
si salga alto nell'albero zoologico, ed a noi più vicina sia la specie che si
prende a considerare. La vera trasformazione della specie perciò non si deve
investigare nelle specie come tali, ma piuttosto nei minimi termini della
specie, ossia nella variazione individuale del specimen. Questa variazione,
tuttochè lentissima, modifica col volgere dei secoli le specie, così come la
conchiglia microscopica, variando la propria natura, varia il terreno che ne
risulta. Gli agenti che effettuano la suddetta progressiva variazione sono di
tre ordini, vale a dire: planetarii, psichici, e spirituali. Questi agenti sono
progressivamente tanto più efficaci quanto più si concretano nella efficacia
spirituale. L’agenti del primo ordine planetario modifica semplicemente il
corpo e l’organismo, e indirettamente, ma assai lentamente, la facoltà
istintuale. E un agente puramente planetarii, p . es ., la natura del suolo e
dell'aria, ossia generalmente il clima, la condizione geografica e topografica,
e cosi via. L’agente planetario si possono chiamare elementare, perocchè opera
su tutta l'animalità senza distinzione veruna, e sono presupposti dagli altri
agenti succennati. Si può dire in tesi generale che gli animali inferiori non
subiscono modificazione se non lentissima, e molte specie degli animali
inferiori si sono spente, appunto perchè non hanno potuto subire le
modificazioni necessitate dalle progressive variazioni dell'aria e del suolo.
L’istinto delle specie animali inferiori e rigido e difficilmente modificabile,
appunto perchè e un istinti poco variato, che non puo neutralizzarsi fra se in
una ricca varietà di modificazione. L’agente del secondo ordine e psichico (e
no ‘psicologico’ ma veramente psichico), epperciò più intimo nell’organismo,
ossia più essenziale. Un agente psichico modifica l'animale nella sua intima facoltà,
ossia una attitudine, assai più facilmente e più profondamente che non gli agenti
naturali succennali. Questo secondo agente e nella sua essenzialità un maggiore
sviluppo del primo agente naturale plantario, epperciò si manifesta nella
generazione susseguente come una profonda modificazione dell’organismo e
dell’sstintualità. Questa modificazione non e più mera variazione giusta una
astratta affinità, per le quale, p. es ., una facoltà diventa minore di altra
facoltà, vale a dire, si manifesta come una pura variazione quantitativa
dell’istintualità. E una modificazione profonda che diventa la proprietà
caratteristica dell'animale (un tigre che tigrizza) e qualche volta e affatto
estranea e contra-dittoria o opposta, o contraria, alla facoltà della
generazione pre-esistente. Allora si dice che una nuove specie (Homo sapiens) e
venuta all'esistenza, e la vecchia si e spenta. La facoltà psichica si modifica
sulla base di un istinto più svariato, il quale si neutralizza appunto fra loro
tanto più facilmente quanto più svariati. L’istinto dell’animali inferiore e
tanto più fermo e rigido quanto meno
molteplice e svariato. Questa modificazione causata da un fattore psichico
modifica il sistema anatomico e fisiologico, perocchè non e possibile una
modificazione psichica sulla base d'una invariabilità anatomico-fisiologica. E
una modificazione profonde, la quale, se qualche volta poco modifica l'ordine
anatomico-fisiologico sensibilmente manifesto, e però effettuata piuttosto
nell’elementi anatomico, nel così detto ordine istologico. La modificazione
psichica non spetta, come quelle generali, ad una specie o ad una razza, ma
sono più profonde modificazioni dell’organismo e della corrispettiva
istintualità. Essa rifletta piuttosto la mera individualità animale, epperciò e
variabile indefinitamente. La condizione causale di questa modificazione e data
dalla ciscostanza nella quale versa un certo individuo animale. Cosi non è solo
la varia natura geografica e topografica del suolo e dell'aria in che vive, ma anche
i varii vegetabili e animali con che vive; perocchè dette varia condizione e
sufficiente a modificare l'anima (la psiche) dell'animale. Le delle varia
circostanza costringe un certo individuo a esercitare preferibilmente una certa
facoltà psichica, e per conseguenza a svilupparle preferibilmente. Data la ricca
molteplicità e varietà della facoltà istintuale proprie della specie di “Homo
sapiens”, questa facoltà variamente si combina e si neutralizza. L’istinto cosi
neutralizzato, ossia radicalmente variato, si trasmette alla generazione
veniente; e cosi le condizioni succennate, variando l’atttudini dell’anima
individuale, preparano il terreno alla più ricca e più profonda azione del fattore
veramente spirituale. Il fattore spirituale modifica quell’attitudine che
appartene non alla specie, ma all'individuo animale, ed e un fattore che non
più modifica l'anima senziente, ma lo spirito (animus, psiche, sofflo) ideante
dell’animale. Tuttochè questo fattore, nel su concreto sviluppo, appartene allo
spirito umano, pure gli animali superiori (p. es., una scimia antropomorfa)
possegge un certo quale esercizio equivoco e parziale del suddetto fattore.
Cosi la scimia impara dalla propria osservazione, epperciò gl’individui più
vecchi sono assai più scaltri e periti dei più giovani. È questa la ragione per
la quale l’animale non solamente si aggrega ma si organizza gerarchicamente
giusta un certi statuto di un sentimento comune. È importante che un individuo
animale possa profittare della proprie osservazione; perocchè dello profitto
provoca una maggiore perizia pratica, la quale dal più vecchio è partecipata al
più giovane e trasmessa alla generazione vegnente come una dialettica della
categoria istintuale che più tardi si sviluppe in una vera mentalità. La
categoria spirituale (spiritus, animus) funziona qui come sviluppata categoria
psichica (psiche), epperciò la lingua, il linguaggio e la communicazione, nel
suo amplo uso, vera sintesi e genesi manifesta della categoria spirituale,
arriva all’esistenza come linguaggio no planetario o naturale, ma puramente psichico;
o come linguaggio equivoco o misto, ossia psichico-spirituale; o come
linguaggio assolutamente o puramente spirituale o oggettivato (communicazione
proposizionale – la logica di tutte e cose). Qui non occorre accennare al terzo
ed ultimo stadio, ossia al linguaggio puramente o assolutamente spirituale,
proprietà *esclusiva* (alla Grice) dell'uomo o Homo sapiens sapiens, ma
solamente al primo stadio (psichico) e al secondo stadio (misto) del linguaggio
che nasce e si sviluppa nell’animalità sub-umana, pre-razionale. Il fattore
caratteristico di questa crisi, ossia lo sviluppo dell’anima senziente inter-soggetiva
nella spiritualità pensante proposizionale, è manifesto piuttosto dal
linguaggio ‘muto’ o il gesto di una emozione del corpo e principalmente di
quell’emozione della fisio-nomia. Quest’emozione formula un sistema
comunicativo, in quantochè manifesta una definita emozione intima con una certa
categoria, che, non essendo destinate alla mera soprevivenza o conservazione
dello specimen o della specie, non si puo chiamare semplicemente psichica,
ovverosia istintuale. L’animale sub-umano, p. es. , lussureggia per una mera
sensualità erotica – omo-erotica, come Socrate ed Alcibiade --, la quale non
può essere destinata in verun modo alla propagazione della specie dei Grecci!
Così pure due specimen giovani di animale giocano (la lotta greco-romana) colla
vivacità propria dell’età loro, la qualcosa può giovare, ma indirettamente,
all’educazione e destrezza corporale dell’individualità . Così il padre non
solo alimenta il suo figlio, ma l’educa e disciplina ad una pratica operazione
requisita dalla propria specie, locchè dimostra che l’ingenita istintualità non
puo bastare, ed abbisogna dell’ammaestramento dell’osservazione data a lui che
ha già vissuto praticamente nella vita. Il linguaggio misto, o equivoco, ossia
psichico-spirituale, è quel tale sistema di comunicazione che non consta semplicemente
di questo o quello gesto, il quale segna non solo una definita emozione
dell’animo, ma una certa anfi-bologica determinazione della ‘mente’ (mentatio,
mentare, mentire). Così, per es., il cane, alla presentazione d'una cosa che
altre volte fu nocivo, puo involuntariamente fuggire guaiolando. Il gesto segna
naturalmente la paura. Qui certo v’ha una psichica emozione provocata da una
simile cosa, ma quest’emozione del cane dev'essere legata alla *memoria* della *sensazione*
originaria, la quale memoria appunto costituisce una determinazione *equivoca*,
mista, psichica o mentale-spirituale. L’animale superiore possesse una facoltà che
incluse un svariatissimo repertorio di questo o quello segno o gesto, mediante
una modulazione combinatorial di questa equivoca determinazione. Quando l’animale
arriva definitivamente alla soggettivazione della propria coscienza, ossia al
suo “lo” distinto categoricamente dal “non-lo” (cfr. Grice, “Privazione e
negazione), entra categoricamente nella coscienza spirituale – del spirito
oggetivo. Questo passaggio costituisce la creazione o mutazione o trasmutazione
o trassustanzazione (metaeousia) dell’uomo, Homo sapiens sapiens, e solamente
questo passaggio colla propria manifestazione può segnare un soggetto umano che
puo attuare in inter-soggetivita con un altro soggeto umano. Qui l’”umanismo” si
manifesta categoricamente nel proprio caratteristico (la definita soggettivazione
del ‘ego’ come ‘ego’ e del ‘tu’ come ‘tu’), e si manifesta colla parola (parabola)
non certo col documento anatomico-fisiologico, che non puo bastare se non a
certa ampla generalità della distinzione o del genus animale. Prima di entrare
a caratterizzare questa crisi importantissima, ossia lo sviluppo dell’anima
nello spirito, dobbiamo assumere la speculazione retro-spettiva della coscienza
da un ordine uranico nel ordine planetario e nel ordine vegeto-animale. In un
ordine uranico, la coscienza procede verso un’individuazione dalla nebulosa al
cometa, al sole ed al pianeta. Il solo caratteristico essenziale dell'umanismo,
assai più caratteristico di quell’antichissima vaga definizione dell'uomo ragionevole,
animale rationale homo est, è senza dubbio la soggettivazione, e la manifestazione
di questa soggettivazione è fatta con l’inezzo spiritualmente formolato. Conformemente
a ciò, più innanzi, l’uomo (Homo sapiens sapiens) è designato anzi definito come
coscienza inter-soggettivata. Quest’individuazione, qualunque la si voglia
supporre, non può essere una soggettivazione; perocchè l'individuo (Erberto) non
si distingue dalla specie (Homo sapiens sapiens), e le varie specie dei corpi
celesti si confondono colle varie età di un solo individuo. Cosi pure,
speculando in un ordine generalissimo, una specie animale e una età
dell’animalità. Nella specie animale piu infima, l'individuo si distingue dalla
specie (una rosa piu bella dall’altra). Nella specie animale superiore, non solo lo specimen si distingue dalla
specie, ma anche il soggetto dallo specimen ė progressivamente distinto. Cosi,
p. es., il corpo di un animale consta d'innumerevoli individualità viventi aggregate
ed organizzate fra loro, le quali, svolgendosi dall’una in altra fase,
costituiscono l’organo (dell’organismo), l’apparecchio, e la funzione vitale
dell’animale. Ma la coscienza resuntiva di questo individuo vivente è
nell’organismo dell’animale concreto, e non negli animalcoli gregarii che lo
costituiscono. L'animale resuntivo della propria soggettività costituisce lo
svolgimento del senso del pensiero. Qui dobbiamo definire la distinzione del
senso e del pensiero. Il senso non può supporsi astratto dalla coscienza;
perocchè in questo caso sarebbe un senso che non sente (il senso non sente,
l’animale sente), ma può supporsi astratto dalla *co-scienza* del senso;
perocchè la co-scienza e il senso funzionano indistintamente. Finchè la co-scienza
non si distingue categoricamente dal proprio oggetto. E una co-scienza identica
alla sua forma esteriore, la quale è una sensibile esistenza. Quando però la co-scienza
si distingue categoricamente dal proprio oggetto, allora dice: “Io sono e
l'oggetto è” – “Io sono quello che sono, e l’oggetto quello che è, cioè l’ “lo”
e il “non-lo” (p. es., il tu) *siamo* due termini distinti in relazione
d’intersoggetivita. Quest’idea fondamentale che si percepisce un “lo”
(pirothood) è la soggettività; ossia, la nascita dello spirito. Nascita dello
spirito e nascita del pensiero, facendo consistere la spiritualità specialmente
in questo. A conferma di ciò, si noti, primamente, che in questo paragrafo ei
vuole fare appunto la distinzione di senso e pensiero; secondamente, che nel
susseguente paragrafo, parlando dei momenti dello spirito, vi accoglie il
principio sensitivo non come pura e semplice *sensazione*, ma come *sentimento*.
Sulla predetta distinzione, del resto, ritorno nei paragrafi susseguenti. Lo
spirito consta di tre fasi: il sentimento (aisthetikon), l’intelletto (noetikon)
ed il concetto – il A e B – concetto soggetto, concetto predicato). Lo spirito
nel sentimento è uno spirito immediato che poco si distingue dall’anima
senziente. Ma quest’anima senziente appartiene allo spirito, perocchè si *percepisce*
soggetto (un ‘lo’). Il sentimento consta di tre termini: l’attenzione (la
risposta ad un stimolo), la memoria (il riflesso condizionato), e l’imaginazione
(la risposta ipotetica o condizionale). La funzione più o meno complessa di
questi tre termini crea la *soggettività*, che lentamente si svolge dal
sensibile nel cogitabile (co-gitatum, cogito; ergo sum). L’attenzione deve funzionare
nello spirito esordiente, e cosi lo spirito deve *sentire* *che* il senso della
natura – ossia, l’istinto -- più non gli basta. Questo sentimento dell’insufficienza
del proprio istinto l’avverte *che* necessita osservare ed imparare la pratica
della vita. E la prima funzione della mentalità. Epperciò la lingua ariana
conserva più la traccia della parentela del concetto di “manere” e “mens” -- quasichè
pensare e fermarsi, ossia il soggeto ferma l’attenzione sopra un oggetto – che
puo essere un altro soggetto --, siano due operazioni molto affini. Veramente,
tuttochè sommamente dissomiglino queste operazioni, nella loro sensibile inanifestazione
esteriore s’identificano in un fatto comune, quello dell’arrestarsi – la
risposta ad un stimolo. La co-scienza che fissa l’attenzione sopra un oggetto
(che puo essere un altro soggetto), cerca nell’oggetto qualcosa *oltre* il sensibile
immediato, quando esso oggetto non sia la funzione di una mera sensazione immanente,
ma la funzione di una sensazione trascendente. Una seconda funzione del
sentimento è la memoria. Mediante la memoria, una sensazione o attenzione
presente si può risuscitare quando non sia più presente. La co-scienza
attentiva all'oggetto studia un oggetto esteriore ed abbisogna della presenza
di esso oggetto per osservarlo. Ma la memoria contiene e conserva in sè stessa
l’oggetto osservato (che puo essere il ‘lo’ – l’identita personale come
memoria), epperciò si costituisce in-dipendente dalla presenza del medesimo
oggetto. Una terza funzione del sentimento è la imaginazione. L'imaginazione
non solo conserva l’oggetto osservato, ma *crea* l'oggetto possibile che non ha
osservato. Questa funzione emancipa o libera la co-scienza, non solo, come la memoria,
dalla presenza dell’oggetto (s’ricorda o imagina un oggetto assente), ma anche
dalla sensibile esteriore realtà del medesimo oggetto, epperciò l’imaginazione
può liberamente crearsi una propria oggettività, alla Meinong. Questa facoltà
crea non solo l’oggetto composto (compesso combinato) di due oggetti (obble 1 e
obble 2) osservati, ossia non crea solo la mera composizione, addizione o
combinazione, ma puo creare un oggetto che non consta di questo o quello
elemento osservato, ma un oggetto radicalmente imaginario (un circolo quadrato,
un numero imaginario) , tuttochè le semplici categorie dello spirito e della
natura debbano necessariamente fornire all’imaginazione se stesse per possibilitare
questa creazione imaginativa o predittiva. Il passaggio dalla coscienza
senziente alla cogitante, ossia dalla bestia all’uomo, è pure una progressiva
distinzione della co-scienza in soggettiva ed intersoggetiva. Qui la distinzione
de soggetivita e intersoggetivita è una mera distinzione generale dell'”io” dal
“non-io” (il ‘tu’). L’ “io” si suppone vivente e pensante *altro* dal non-io
(il tu, in combinazione, il noi), in sè stesso parimenti vivente e pensante. La
natura si rivela come un *popolo*, popolazione, aggreggato, organismo sociale,
di piroti viventi e di pensanti , non si suppone ancora l'altro dal vivente-pensante,
ossia il non-vivente e il non-pensante. Si suppone semplicemente l’altro dal
moio lo vivente e pensante. Perciò la natura uranica, la terrestre,
stochiologica e minerale, la vegetabile o l’animale si suppone distinta dal mio
io, non però distinta dall’io generalmente parlando, ossia si suppone possedere
un loro io analogo a quello della mia co-scienza. Esaminate la radice, ossia
gli antichissimi elementi della comunicazione e troverete ogni dove segnata
l'universa natura (physis) come vivente e pensante analogicamente alla mia co-scienza.
Non vi troverete mai la natura morta colla sua forza cieca, governata da
necessità parimenti cieca, vale a dire, la natura della riflessione. Il
sentimento esplicito dalla mia co-scienza soggettiva può essere comunicato
dall'uno all'altro individuo. È questa comunicazione (o conversazione, nel
senso biblico) la prima proprietà per cui una idea cogitabile è distinta da una
mera sensazione per definizione non-condivisibile. Nessun sistema di
comunicazione puo fornire una sensazione, se questa non sia stata data dal
senso (il ‘dato del senso) come tale – nihil est in communicatione quo prius
non fuerit in sensu). Potrò, p. es., parlare in qualsivoglia modo di un oggetti
visibile. Ma un cieco nato non puo mai ne sentire ne comprendere che sia la
visibilità. Se un soggetto abbia un tempo posseduta la facoltà visiva puo,
parlando di un oggetto veduto, richiamarli alla memoria quasi visibilmente
presente, ma non puo mai fare che tale visione sostituisca la concreta visibile
realtà colla semplice imaginazione. La prima conseguenza della co-scienza
senziente che si sviluppa nella cogitante è che, siccome l’idea o concetto come
tale, ossia nella forma della co-scienza cogitante, può essere *trasmessa* (il
trasmesso) dal l'uno soggeto all'altro soggetto, non può essere trasmesso il
senso come tale, ossia nella forma della co-scienza senziente . Cosi un soggetto
è abilitato a sapere quello che non egli, ma l’altro soggetto ha percepito col
senso (“Una serpe!”), oppure quello che egli in altro tempo ha percepito col
senso, oppure indurre un’idea da quello che presentemente percepisce col senso.
Cosi, p. es., la pecora condotta al macello *vede* macellare la sua simile e fortunatamente
non solo *non* induce che sarà ella stessa macellala, ma anche non percepisce
che questa presente operazione segna un'uccisione; perocchè non possiede l'idea
o il concetto della morte. Cosi il soggetto pensante o intellettivo può sapere
quello che il senziente non può sapere, e questo sapere nasce dalla facoltà
cogitativa o concettuale, per la quale da una sensazione si astrae un’idea
generale o un concetto. Cosi, per es., il soggetto pensante vive nel passato
colla memoria, e nell'avvenire (possibile o reale) coll'imaginazione; il
soggetto senziente, o bestia, vive astrattamente nella sua sensazione presente.
In virtù della sensazione che non può essere indotta in un’idea, egli non
possiede, come il pensante, la distinzione di una natura predominante ed
insubordinabile al soggetto e di una natura subordinabile e passibile del
soggetto. Quest’idea prototipa della forza è un’idea cardinale dello spirito, è
stata il primo germe del sacro. Osservate il sacro e lo troverete Dio, non
perchè sommamente ragionevole, ma perchè onnipotente. Nella religione
spiritualmente più adulta rimane tultavia l'idea dell'onnipotenza, piuttosto
che quella della ragionevolezza, l’attributo eminentissimo del sacro. Mediante
questa passibilità il soggetto può sapere la prima volta di essere nato, di
essere stato lattante, di essere stato partorito, e cosi pure può sapere che
OGNI soggetto, nessuno eccettuato, non vissi oltre una certa mnassima età, ma
morirono in quella o prima di quella. Conseguentemente egli sa *che* il soggetto
non solo nasce (si genera) e muore (corruption), ma può nascere in varie
condizioni e morire in qualsivoglia momento della sua vita. La nozione della
nascita e della morte del soggetto è un fenomeno della co-scienza realizzato la
prima volta che la co-scienza senzienle si svolge nella pensante; perciò
sapientemente nella “Genesi” è detto che l’uomo (Adamo) prima di peccare, ossia
di gustare il frutto del bene e del male, non moriva, ed avendolo gustato dovrà
morire. Veramente la co-scienza senziente non può sapere di nascere e di
morire; perocchè questo sapere non si sa se non sia una nozione *trasmessa* (il
trasmesso) da un soggeto ad altro soggetto, ovvero un'idea indotta dal fatto
costante della morte. Questa crisi della co-scienza, ci manifesta che la co-scienza,
dalla sensazione svolgendosi nella mentalità , procede in un sistema di
distinzioni ideali o possibile o concettuali e astratte che non sono possibili
nella mera sensazione. La mentalità, che nasce dalla sensazione, è prototipicamente
*imitatrice* o inconica della sensazione, e porta seco nel suo sviluppo la *forma
logica* della sensazione stessa , che progressivamente si trasforma in quella
del pensiero. La mentalità è prototipicamente sentiment e funziona in tre caratteristiche
funzioni -- attenzione, memoria, ed imaginazione . Da queste tre prototipiche
funzioni del sentimento nascono tre forme rudimentali della mentalità. La
mentalità non più vive nell’immediata sensazione ma crea il conflato
temporaneo, e vive nella retrospettiva del passato, e nella prospettiva
dell'avvenire. Questo conflato temporaneo possibilita un'esistenza ideale oltre
l’immediato sensibile presente, e conseguentemente un'idealità inducibile
dall'osservazione. Da quest’osservazione nasce una seconda idea elementare
della mentalità, cioè d'una forza naturale che domina la nostra, e d'una forza
subordinabile alla nostra. Di qui la mentalità si esercita per subordinare le
forze predominanti, e da questa generale osservazione si percepisce come un
fatto costante che l’uomo nasce e muore, e finalmente che *io*, come uomo, ma
no come persona, sono nato e devo morire. L'idea della morte come necessità,
tuttochè sembri un’idea comunissima, è lungi dall'essere tale. La co-scienza
primitiva, come quella di certi selvaggi oggidi viventi, percepisce la morte
come un fatto costante. Ma, come la riſlessione, non arguisce punto che questo
fatto, tuttochè costante, sia necessario. Suppongono questi selvaggi che la
natura umana o sovrumana abbia sempre ucciso l’uomo. Ma suppongono parimenti
che quest'uccisione non sia una necessità, ma una sfortunata accidentalità. La
co-scienza che dalla sensazione si svolge nella mentalità si sistematizza in un
sentimento pressochè comune alla umanità. Il soggetto possiede la sua propria
determinazione individuale. Ma proprie determinazioni non affettano un sistema
generale della co-scienza umana, che perciò ſu chiamato senso comune. Mentre
questo sistema generale della co-scienza è pienamente uniforme al senso comune,
il soggetto è un soggetto comune e spiritualmente normale. Ma quando questo sistema
si aliena dal senso comune in on sistema d'idealità più misteriosa, e trascende
con un giudizio prestigioso i giudizi comuni degli uomini, allora si dice, che
questo soggetto è inspirato, ossia profetico, taumaturgico, e così via.
Generalmente parlando, questa co-scienza trascendente subordina la comune, come
provano i varii sacerdoti della primitiva religiosità romana ed etrusca. Quando il soggetto si
aliena dal senso comune senza trascendere in un'idealità prestigiosa, ed
esercita una pratica contradittoria o contraria o opposta a sè stessa, ovvero
incompatibile colle esigenze generali della pratica oggettività, allora si dice
che il soggetto è spiritualmente ammalato, ovverosia demente. L'alienazione
vuol essere accuratamente distinta, se cioè sia alienazione dal mero senso
comune ( in questo senso si può dire, che tutti gli uomini grandi furono
alienati), ovvero se sia una alienazione dalle generali esigenze pratiche
dell'oggettività naturale e spirituale (in questo senso gli alienati sono
coloro che comunemente si chiamano pazzi). La co-scienza trascendentale, ossia
la co-scienza dominata dall'idealismo, co-scienza essenzialmente poetica, è il
polo opposto della co-scienza dominata dalla sensazione, co-scienza essenzialmente
prosaica. A quella si devono tutte le organizza zioni primitive dell'umanità ,
a questa si deve preferibilmente la tecnica industrialità e la mercatura
primitiva. Vedremo più oltre, che la Coscienza umana progredisce sulla base di
quest'opposizione archetipica della sua storia. La funzione più essenziale e
più generale della mentalità è la comunicazione (il trasmesso). Il primo stadio
del trasmesso è l'uso di una radice designativa – de-segna – segna. Qui io non
segno che una presentazione o un modo di una presentazione, e sempre si riduce
alle semplici categorie dello spazio e del tempo. Il pronome personali non fu
primitivamente io e tu, e così via, categorie troppo metafisiche, per servire a
questo primo stadio della lingua , ma, “qui”, “là” (Bradley, this, that, and
th’other, thatness, thisness), ecc. , categorie dello spazio. Un sistema di
comunicazione che consta di radici semplicemente per la che io de-segno non può
soddisfare alle esigenze più generali della mentalità , epperciò da questo
primo stadio si sviluppa, per l'implicita esigenza della mentalità, il secondo
stadio. Il secondo stadio consta della combinazione di una radice con la che
de-segno con una radice pre-dicativa, ma tuttavia legate a una sensibile
determinazione; cosi, p. es., per designare un oggetto , si sceglie l'attributo
sensibile più esplicito in quel l'oggetto, p.es., il verde per designar la
pianta, il bianco per designer la neve. Quest’attributo sensibile, sendo
necessariamente variabile o contingente nell'oggetto, non può costituire una
specie. In questo secondo stadio si trovano molte lingue dei selvaggi o barbari,
i quali scelgono un attributo sensibile dell'oggetto per designarlo, e
conseguentemente non possono arrivare a formolare le specie o il genus o
l’universale, ma semplicemente oggetti in certe sensibili condizioni . Il terzo
stadio usa la categoria propria della mentalità esplicita, la categoria
metafisica, per designare l'oggelto; come, p . es . , define la pianta non
l'individuo verde, ma l’individuo polare, i cui poli cospirano alla luce ed
all'acqua. Questa proprietà generica comprende ogni pianta; perocchè la detta
polarità è l'attributo cogitabile generale della pianta. Il gesto è posseduto
da ogni animale come inezzo psichico di movimenti o di formalità; ma il gesto
che caratterizza la soggettività è appunto il trasmesso psichico che si svolse
nella spirituale. La prima radice segna una mera affezioni dell'anima e più
tardi si svolse in un segnato meta-forico, per rispondere all'esigenze della
progressiva mentalità. Il rapporto fra il canale fisico *espresso* dall'anima e
l'anima esprimente (segnante) è quello stesso rapporto, ma più complesso, per
il quale un animale segna con un certo definite gesto certa definite affezione
della sua anima. L'uomo, sviluppando in sè stesso la propria mentalità e
l’inezzo per segnarla, si conobbe come specie comune. Il primo sistema di
comunicazione quasi naturale deve essere stato pressochè identico in ogni
umano, come ogni pecora bela, ogni cani abbaia ed urla. Dovette essere un
inezzo nato con lui e trasmesso senza il minimo bisogno di convenzionalismo e
di pratica convivenza per essere capita. La communicazione è stata realmente
uno degli argomenti più favoriti e più frequentemente trattati dal filosofo, il
quale la conosceva, ed a fondo, in molte forme antiche ed in un numero ancora
maggiore di forme moderne. Egli ne ha trattato, infatti , in molte sue opere.
Ne ha accennato nel primo volume della sua grande opera, cioè Saggio circa la ragione logica di tutte le cose
“Prolegomeni,, Torino, pag. 43 e ss. ( confr. anche ibid ., pag. 291 e
susseguenti). Ne ha accennato anche nelle seguenti opere già pubblicale in
Torino, e cioè nella Proposta di riforma sociale, pag. 26 e seg.; nella Introduzione
alla cultura generale (facente parte del predetto vol.) , pag. 120 e seguenti.
Ne parla poi in parecchie altre opere ancora inedite. L'uomo che possedette
questo sistema di communicazione visse nelle foreste in una aggregazione o
società piuttosto fortuita, poco dissimili da quelle dei quadrumani, ma si armò
per esercire la caccia e la pesca. La sua nudità lo facea più fragile degli
altri animali, epperciò ha dovuto sopperire a questa nudità e debolezza colle
armi artificiali, e sopratutto colla propria scaltrezza. Questo primo stato
dell'uomo vuol essere qui accennato come quello dell'astratta soggettività
abbandonata a sè stessa; perocchè l'uomo, cacciatore o vivente dei prodotti
naturali della terra e del mare, può vivere solitario. Le aggregazioni o
società di questi uomini sono mera accidentalità non necessità dello stato
proprio. In questo primo stato la soggettività nascente è caratteristicamente
manifestata dalla perversione di certi istinti essenzialissimi alla
conservazione del soggetto e della specie. Così, p. es., nessuna specie animale
s'alimenta del proprio simile, ma certi selvaggi mangiano indifferentemente i
loro nemici, amici, consanguinei, figliuoli, ed alimentano le donne, affinchè
ingrassino e siano buone a essere mangiate quando partoriscono più figliuoli da
mangiare. Quest’enorme perversione d’un istinto cosi radicale (l’affezione alla
progenitura) segna quanto sia profonda la crisi che svolge l'istintualità nella
mentalità. Sono certo che la quasi totalità de’ filosofi non sarà d'accordo su
questo puntoe riterrà l’associazione umana come una necessità e non già come un'accidentalità
. Ma l'autore, per la vita solitaria e un po' misantropica da lui fatta, è
stato come involontariamente tirato a generalizzare questo suo particolare
carattere. E una mentalita che si manifesta come un'orribile perversione
dell'istinto, ma è una mentalità volente, non un mero modo d'ingenita
istintualità. Questo titolo è quello, che nonostante la massima perversione,
può nobilitare l’uomo antropofago sopra la bestia istintualmente tutrice della
prole. Cosi pure, relativamente al soggetto individuo, l'uomo selvaggio o
barbaro in procinto di essere cattivato dai suoi nemici, può suicidarsi, la
bestia non mai (penguino?). L'istinto della propria conservazione individuale è
un istinto comune a tutti i viventi nella natura, come pure quello della
conservazione della propria specie non offre eccezione veruna nel regno della
natura. Le sole eccezioni a questo fenomeno generalissimo della vita si trovano
fra gli animali pensanti come il penguino. Tuttochè qui dobbiamo parlare del
soggetto della natura, astratto da qualsivoglia organizzazione necessitata
dalla sua condizione, abbiamo parlato di tre stadii caratteristici della
comunicazione, come quella che può essere comunicata da soggetto a soggett, senza
convenzione, indipendentemente dall'organizzazione sociale fra soggetti o dalla
nessuna organizzazione. La comunicazione appartiene cosi al soggetto solitario
(il Deutero-Esperanto di Grice ch’inventa al bagno) come al soggetto socievole,
e generalmente al soggetto solitario che profitta segnatamente delle occasioni
dell’amore. L’uomo solitario pratica qualche volta questo rapporto colla
femmina come un mero rapporto erotico occasionale. Abbandona la femmina alle
conseguenze della fecondità, non conosce i suoi figliuoli che sono allattati,
nudriti ed educati dalla madre. Ma la comunicazione, che persuase la copula
dell'amore, è la medesima colla quale la madre educa i suoi figliuoli. Cosi la
comunicazione può dirsi radicalmente una creazione della specie ed assume
dignità ed ha il suo svolgimento nella storia universa della spiritualità. Si
può dire in tesi generale che la comunicazione genera la storia nella sua più
semplice elementarità; e dallo svolgimento della lingua si conosce lo svolgimento
dell'umana mentalità e conseguentemente, delle gesta che ne sono conseguite. Nel 1884 mi furono mandati a casa, in Torino,
dal benemerito libraio Loescher tre grossissimi volumi intitolati Paselogices
Spe cimen Theoo editum . Intri, etc. Un filosofo di nome Teofilo Eleutero era a
tutti ignoto ; e non fu poca la mia mera viglia nel vedere come un'opera
filosofica così voluminosa, scritta e stampata in latino, avesse potuto
sfuggirmi; giacchè, come adesso ancora nella mia tarda età , specialmente
allora ho sempre seguito con vivo interesse il movimento filosofico . La
curiosità quindi di sapere chi egli fosse, e qual valore avesse, mi fe' tosto
gittare gli occhi sul primo volume che portava la designazione di Prolegomena,
e che, come subito vidi , era una Introduzione, o Propedeutica che voglia dirsi
, a tutta l'opera. La mia meraviglia crebbe dopo la lettura delle prime pagine
del volume, tanto più che ad essa si congiunse il sentimento del l'ammirazione:
sentimento che col proseguimento della lettura di venne un vero entusiasmo. Io
mi trovava dinanzi ad un hegeliano, e, per giunta, un hegeliano di alto ingegno
e di larghi propo siti: i quali propositi erano nientemeno che quelli di una
Riforma dell'hegelianismo mediante principii dell'hegelianismo stesso.
Comunicai la mia impressione e il mio entusiasmo al signor Loescher, il quale
m'informò che l'autore dell'opera era un intrese, di nome Pietro Ceretti ,
dalla cui figlia aveva ricevuto l'esemplare dell'opera che mandò a me per
prenderne conoscenza. L'impres sione e l'entusiamo potettero ancora, per mezzo
della figlia , essere comunicati al filosofo, che era già assai infermo e che
poco di poi morì della malattia che da parecchi anni lo travagliava, la
paralisi progressiva. Io continuai , naturalmente , a leggere e stu diare la
preziosa opera , ed è di essa che accennerò maggiormente in questo ricordo del
filosofo , essendo essa indubbiamente il maggior titolo del valore e della
posizione filosofica del medesimo. Senonchè, a render meno incompiuto il
ricordo, mi si conceda che rilevi alcuni altri particolari della sua complessa
personalità . Per cio che concerne biografia e bibliografia mi limiterò alle
poche notizie seguenti . Nato il 1823 , e assolti bene o male, anzi piuttosto
male che bene, i primi elementi della sua istruzione, cominciò a trarre qualche
profitto in un Collegio di Gesuiti a Novara , ove fu qualche tempo , uscendone
il 1840. È una singo lare circostanza questa, che un uomo che ebbe sempre uno
spirito non solo diverso, ma anche opposto a quello de' Gesuiti, avesse proprio
da questi avuto il primo impulso e il primo profitto agli studi Ma un profitto
maggiore e un vero inizio di studi serii IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 29 furon da
lui fatti a Firenze, ove si recò subito dopo, mettendosi in relazione cogli
uomini del famoso Gabinetto Viessieux e con sacrandosi tutto agli studî' di
lingue, lettere e scienze. Quanto a lingue, tra il tempo che fu a Firenze e gli
anni che immediatamente seguirono , ne apprese parecchie tra antiche e moderne,
allo scopo non solo di legger libri negli idiomi ori ginali, ma anche di
viaggiare, per prender diretta notizia di uo mini e cose. Infatti, cominciò
subito a viaggiare percorrendo in lungo e in largo non solo l'Italia, ma anche
la Svizzera, la Francia, la Germania , l'Olanda e l'Inghilterra. Gli studî che
fece nella prima giovinezza si allargarono e di vennero più intensi , quando
dopo i viaggi si ritirò nella nativa Intra, nella quale accanto agli studi
cominciò anche a scrivere opere di vario genere, segnatamente filosofiche.
Nella sua carriera di scrittore passò per varie fasi, che io ( nella mia opera
intitolata Notizia degli scritti e del pensiero filo sofico di Pietro Ceretti)
ho designate e descritte come fase poe tica , fase filosofica in genere ed
hegeliana in ispecie, fase di tran sizione, fase utopistica e riformativa della
società civile , e fase ultima del pensiero cerettiano, la quale è quella del
così detto si stema contemplativo. Ad ognuna di queste fasi corrispondono
opere, e non poche, che si muovono nell’orbita del pensiero cerettiano
gradatamente svolgentesi ed esprimentesi in essa. Le quali opere, se si consi
dera il complesso di esse tutte, costituiscono una massa addirittura ingente ,
che versa su tutte le parti dello scibile. Ceretti , infatti, fu un pensatore e
scrittore veramente universale. Tanto per dare una idea della predetta massa di
scritti , ricor derò innanzi tutto quelli che si riferiscono alla fase poetica,
la quale gli scaldò tanto la mente ed il cuore, che gli fe ' dire : Cari poeti,
voi dell'alma mia Foste il primo verissimo Messia . Ad essa appartengono le
opere poetiche (di genere romantico ): Eleonora di Toledo ; il Prometeo ; il
Pellegrinaggio in Italia ; le Poesie liriche : inoltre, queste altre (di genere
giocoso, satirico e filosofico e scritte anche in tempo posteriore alla
giovinezza) , le Avventure di Cecchino, e le Grullerie poetiche. A queste opere
scritte in versi se ne potrebbe aggiungere un'altra scritta in prosa e pur
facente parte di questa prima fase , cioè quella intitolata Ultime Lettere d'un
profugo e costituente un romanzo sul genere del Werther di Goethe e del Jacopo
Ortis di Foscolo. Questa prima fase nella quale la mente del Ceretti è ancora
incomposta ed in via di formazione – è caratterizzata dall'aspira zione di lui
ad incarnare in sè stesso i pensieri e i sentimenti de' grandi uomini del suo
tempo e di quello che immediatamente 30 COENOBIUM 1 lo precede. Il che egli
stesso riepiloga ed esprime dicendo : « In giovinezza io fui innamorato e
delirante alla Werther, patriota furibondo alla Jacopo Ortis, stravagante alla Byron
, dolorante alla Leopardi , misantropico alla Rousseau , satanico alla
Voltaire, ateo materialista alla La Mettrie, e finalmente miserabile alla mia
propria maniera » . Alla seconda fase, che contiene il pensiero filosofico più
emi nente e più compiuto del Ceretti , appartiene -- oltre ad un primo abbozzo
di opera intitolata Idea circa la genesi e la natura della Forza — la grande
opera latina predetta Pasælogices Specimen . Il pensiero filosofico di tal fase
ha il fondo hegeliano, ma però da lui riformato. Le ultime fasi del pensier
cerettiano costituiscono poi una ulteriore deviazione tanto dal pensiero
hegeliano in genere, quanto dall'istesso pensiero hegeliano da lui riformato ed
esposto in que st'ultima. Come prima deviazione e ad un tempo come transi zione
alle fasi susseguenti si possono considerare la Sinossi del l'Enciclopedia
speculativa ; le Considerazioni sul sistema della Na tura e dello Spirito ;
l'Insegnamento filosofico : le quali opere hanno ancora spiccatamente il
carattere di filosofia teoretica ed enciclopedica. La nota principale della
suddetta deviazione è che al Logo assoluto, il quale nella grande opera latina
diviene il principio cerettiano riformativo dell'Idea hegeliana, viene più de
terminatamente e accentuatamente sostituito il principio della Co scienza
assoluta, Coscienza, che , a dir vero, era già apparsa nella stessa opera
latina . Quale ulteriore deviazione , ma specificamente appartenenti alla fase
utopistica riformativa della società civile , vanno ricordate le opere intitolate
Sogni e favole e Proposta di una riforma civile . Oltre ad esse, vanno
ricordate anche queste altre , le quali però sono scritte in forma di romanzi,
cioè , i Viaggi utopistici ; l'Inconclu dente ; Don Simplicio ; Don Gregorio ;
il Protagonista , e qualche altra . La deviazione massima è in quegli altri
scritti , che rappre sentano più spiccatamente l'ultima fase , nella quale il
Ceretti per viene ad una specie di subbiettivismo nullistico, da lui designato,
come è detto , col nome di sistema contemplativo. I pensieri di quest'ultima
fase appaiono in parecchi altri scritti dell'ultimo tempo di sua vita , come
per esempio, per nominarne alcuni , nella Vita di Caramella e nelle Memorie
postume. Ma gli scritti mentovati delle diverse fasi , benchè già nuinerosi,
non costituiscono neppur gli scritti tutti del filosofo d'Intra, es sendovene
una quantità ancora notevole , che possono esser nomi nati scritti varii ed ai
quali appartengono: Biografie, Autobio grafie (tra queste , notevolissima, La
mia Celebrità ), Commedie, Novelle morali, ecc. e persino un Trattato
d'Astronomia e un Trattato di Medicina. Come vede il lettore , quella che io
chiamava una ingente IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 31 massa di scritti , e
versante sulla universalità dello scibile , non è una denominazione esagerata,
ma interamente reale. E ciò basti a dare una idea sommaria degli scritti del
filosofo intrese . Per cio che concerne il filosofo propriamente detto , egli
va considerato rispetto al corso della filosofia in genere ed al periodo
filosofico idealistico tedesco in ispecie , nel qual periodo si riat tacca alla
maggiore manifestazione speculativa del medesimo, che è la hegeliana. Egli si
apparecchiò a pigliare il suo posto in quest'ultima, con uno studio e
conoscenza non comune, primamente delle varie discipline dello scibile,
sopratutto di quelle concernenti la Storia universale e le Scienze positive e
naturali d'ogni specie ; seconda mente, di quelle attinenti alla filosofia
propriamente detta . Rispetto a quest'ultima, è veramente ammirabile l'opera
del nostro filosofo, che – dopo i suoi profondi studi sui filosofi delle
diverse età (non esclusa quella stessa della filosofia indiana ) e in genere
ne' testi originali de ' medesimi ne ha dato un saggio no tevolissimo egli
stesso nel primo volume della sua opera latina, cioè ne' mentovati Prolegomeni.
Ma nella Storia della filosofia uno de' periodi che egli più ha studiato e
conosciuto è il predetto periodo filosofico tedesco sì ne' filosofi massimi di
essa, come Kant, Fichte, Schelling ed Hegel , si ne' secondarii e pur
importanti del medesimo, come Herbart, Schopenhauer ed altri . In questo
periodo era naturale che quello che massimamente attraesse e legasse il suo
spirito fosse Giorgo Hegel , siccome quello che compendia in sè, primamente la
Storia filosofica generale e, in secondo luogo, lo stesso speciale periodo
tedesco. Hegel, in fatti, è da lui considerato come quello che ha raggiunta la
più alta forma di speculazione nella scienza filosofica, sopratutto nella
disciplina logica . Considerando il filosofo tedesco in tal modo, è naturale
che egli nel complesso ne accogliesse le idee e si riattaccasse a lui .
Senonchè, pur accogliendole, non le riteneva scevre di vizii o errori che
voglian dirsi . In conseguenza di ciò egli si propose da una parte , di
additare questi vizii , dall'altra, di correggerli . E la correzione, che
costituiva per lui una riformazione dell'hegelianismo, non è poi altro che la
filosofia cerettiana stessa , quale è conce pita ed esposta nella predetta
grande opera latina. Ciò posto , seguiamo ora tal pensiero filosofico
cerettiano ne suoi tratti fondamentali. Primamente, accogliendo l'hegelianismo
come la predetta su prema manifestazione della coscienza filosofica, ei
l'accoglie nel general fondo e pensiero del medesimo, fondo e pensiere, che ven
gono da lui riassunti ne' seguenti principii generali : 1 ° L'assoluto è l'Idea
; 2 ° l'Idea concreta è lo spirito ; 3° l'essenza concreta ed asso luta dello
Spirito è l'Idea logica. Inoltre, l'evoluzione dialettica del l'Idea , nella
quale evoluzione consiste il processo metodico di 32 CENOBIUM quest'ultima ,
avviene e deve avvenire secondo la Nozione, ossia secondo il Concetto , come
dice Hegel (dem Begriffe nach ). Rispetto a tali principii designati come
hegeliani non che come veri e inoppugnabili, e quindi da lui stesso accolti, va
però osservato, che di essi non può essere ritenuto come schiettamente e
veramente hegeliano il terzo ; giacchè, secondo Hegel, l'essenza concreta ed
assoluta dello Spirito non è l'Idea logica. Questa è per Hegel l’Idea pura e
semplice soltanto, e però immediata ed astratta , non ancora dialetticamente
esplicata e , mediante l'espli cazione, fatta concreta. L'essenza assoluta e
concreta dello Spirito è per lui invece l’Idea che da puramente e semplicemente
logica ( da Idea logica ) si è estrinsecata nella Natura (cioè si è fatta Idea
naturale o Natura) , e, attraverso di questa , è giunta a coscienza di sè,
ossia è divenuta spirituale , o, che vale lo stesso , è divenuta Spirito. In
altri termini, l'essenza concreta assoluta dello Spirito è la Coscienza
dell'Idea, ovvero è l'Idea conscia di sé, mentre l'Idea logica hegeliana è
ancora inconscia. Per cio che concerne i mancamenti e vizii della dottrina he
geliana, essi , secondo il Ceretti concernono l'evoluzione dialettica dell’Idea
, o , che vale lo stesso, concernono l'Idea nel suo pro cesso ( esplicazione)
dialettico. Un primo vizio generale in tale evoluzione è per lui quello che
nella logica hegeliana concerne il Prius e il Risultato dell'Idea. Notoriamente
per Hegel, benchè l'Idea sia , da una parte , il prin cipio universale
assoluto, e, dall'altra il principio iniziale dell'evo luzione dialettica
assoluta, principio iniziale che farebbe come il Prius ideale dialettico , pur
non di meno pel filosofo tedesco il vero Prius dell'Idea non è questo iniziale
, ma quello finale a cui l'Idea perviene come Risultato del processo dialettico
, risultato finale che è propriamente lo Spirito, ossia l'Idea pervenuta a co
scienza di sè. È per questo che Hegel sostiene che il vero Prius non è l'Idea
logica, ossia l'Idea pura ed estratta , ma lo Spirito, che è l'Idea che col
processo dialettico si è fatta veramente reale e concreta. Or questo Prius che
Hegel pensa e pone come vero è invece dal Ceretti ritenuto falso, perchè
pensato ed ottenuto secondo un procedimento dialettico prestigioso e sconforme
al vero ordine lo gico , che deve avere e seguire il Logo ( Logo che, come
tosto si vedrà , è il principio specifico assoluto cerettiano sostituito alla
Idea hegeliana) . Accanto a questo vizio generale , egli trova e addita vizii
particolari affettanti l'Idea come logica naturale e spi rituale. I vizii
spettanti all'Idea logica e al corrispondente processo dialettico sono tre e da
lui stesso brevemente indicati come segue: Il primo è che nell'esplicazione
dialettica dell'Idea logica la genesi di questa sia « una genesi della Nozione
dalla Non-Nozione » . Il secondo è che l'esplicazione dialettica dell' Idena
logica è piut tosto un'astratta esplicazione delle categorie, anzichè un
concreto IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 33 un ri immanente processo di esplicazione
ed implicazione. Il terzo è che il processo dialettico dell'Idea logica
hegeliana è piuttosto un Logo astratto astrattamente esplicantesi e
riassumentesi in sultato , anzichè la sanzione ( o affermazione) di sè stesso
nella con creta immanente ed assoluta verificazione della propria posizione,
dialettica e riassunzione ( 1 ) . Il primo de' tre vizii indicati, riproducendo
il mentovato ge neral vizio del Prius, ei lo determina meglio designandolo come
processo inconscio dell'Idea logica, processo che Hegel pensa appunto come
inconscio ed il Ceretti pensa e vuole invece come conscio. E può dirsi che su
tal coscienza dell'Idea logica poggia il punto cardinale della differenza
dell'Idea hegeliana dal Logo cerettiano. Quanto al vizio concernente l'Idea
naturale, esso è in grosso quello stesso dell'astrattezza, testè rilevato , o ,
che vale lo stesso , della non raggiunta realtà dell'Idea nel farsi naturale.
Infatti, dice egli , l'Idea logica , estrinsecandosi e divenendo Natura, rimane
in quello stato astratto e puramente e semplicemente ideale che ha come Idea
logica, e non giunge a veramente naturarsi, com'ei dice , cioè a farsi vera
realtà naturale. E finalmente, quanto allo Spirito , od Idea hegeliana
spirituale, il filosofo intrese vi trova il vizio di quella stessa
prestigiosità speculativa ( speculativa prestigiositas ), che ha trovata e
rilevata per la Logica. Ed osserva, per giunta, che il general vizio in nanzi
mentovato dell'Idea hegeliana, che cioè essa sia un Risul tato, diviene più
specifico nello Spirito, in quanto questo , conce pito da Hegel come l'Idea che
dal suo Esser-altro ( cioè dalla sua esistenza naturale ) ritorna a sè stessa ,
ha appunto il carattere speciale di essere un Risultato e non una realtà , a
dir cosi , ori ginaria. Accanto ai predetti vizii fondamentali concernenti
l'Idea nelle sue varie forme, logica , naturale e spirituale , ne rileva alcuni
altri secondarii; ma noi , limitandoci alla indicazione de ' fonda mentali,
passiamo ad indicare le corrispondenti emendazioni di essi . Preposto che alla
Idea hegeliana egli in genere sostituisce il Logo, principio universale ed
assoluto anch'esso, la prima generale emendazione, concernente il Prius ed il
Risultato dell'Idea innanzi esposti , è fatta dal Ceretti nel senso che il Logo
è oiginariamente conscio e non già tale per risultato. Rispetto ai tre vizii
dell'Idea logica propone come emendazione ( 1 ) Mi piace di riferire colle
stesse parole latine del Ceretti il predetto triplice vizio : cioè , «
Hegelianæ logicæ tractationis defectuositas, in exitu prolegome norum designata
, est primo, quatenus notionis a non-notione progenesis ; secundo, quatenus
categoriarum abstracta explicativ, potiusquam concreta explicationis et
implicationis immanens contraprocessuosilas ; tertio , quatenus abstractus er
plicativce dialectica logus in abstracta resumptione, potiusquam in concreta
positionis, dialectica et résumptionis immanente absoluta verificatione suun
ipsum sanciens » . Pasael. Spec. vol . II , p. 6 . CENOBIUM , Vol. III, Anno
II, Marzo - aprile 1908. 3 34 CENOBIUM e però riformazione, che il primo venga
emendato mediante il principio della generale coscienza logica della Nozione od
Idea hegeliana : il che importa che il Logo sia una Nozione ( Idea) che si
genera dalla Nozione stessa e non già dalla Non-nozione ( No zione inconscia) .
La emendazione di questo primo vizio coincide in grosso anche colla generale
emendazione predetta del Prius e del Risultato. La emendazione del secondo
vizio è dal nostro filosofo otte nuta col propugnare ed effettuare che la
genesi delle categorie logiche non avvenga secondo un processo astratto di sola
espli cazione , ma secondo un processo concreto di esplicazione ed im
plicazione insieme : nel qual processo concreto i momenti astratti di
esplicazione si negano come astrattamente tali ed affermano perciò la loro
unità . Il terzo finalmente viene emendato, pensando e determinando il Logo
assoluto in guisa che esso non rimanga un momento astratto di riassunzione (
risultato) , ma che divenga assoluta ed immanente affermazione (sanzione) di
tutto il corso esplicativo , costituendo così un processo e controprocesso, in
cui ogni mo mento è unità dell'astratto e del concreto. Quanto ai vizi relativi
all'Idea naturale hegeliana , la emenda zione ( stata già implicitamente
accennata nella critica fatta di essi ) consiste in quella che il Ceretti
appella la naturazione del Logo. E cioè, mentre Hegel concepisce la Natura siccome
l'Idea ritornante a sè stessa dal suo Esser- altro (dalla sua esternazione ed
alterazione) , il Ceretti invece pensa che la Natura non è sol tanto ciò , ma è
e dev'essere reale naturazione del Logo, ossia reale incarnazione ed
obbiettivazione del medesimo. E da ultimo, quanto all'emendazione del vizio
dell'Idea spi rituale, essa nel complesso è quella già rilevata nella critica
fatta del vizio , e consiste nel concepir la medesima, ossia lo Spirito ,
siccome Logo originariamente conscio e non divenente tale per risultato d'un
processo. Le predette generali e fondamentali emendazioni , accanto ad altre
subordinate e secondarie , son quelle che nella esposizione ed esecuzione delle
Idee filosofiche costituiscono la filosofia cerettiana riformativa della hegeliana
, e filosofia riformativa che forma il contenuto della più volte mentovata
grande opera del Ceretti , intitolata Saggio di Panlogica. Questo Saggio è
un'opera veramente colossale ed è l'enciclo pedia filosofica cerettiana ,
modellata sulla nota corrispondente En ciclopedia hegeliana ( Encyclopädie der
philosophischen duissen schaften) in tre volumi. Il Ceretti concepì la propria
Enciclopedia vasto disegno da assolversi in otto volumi : il primo (i
prolegomeni) come propedeutica a tutta l'opera, propedeutica che ad un tempo
contenesse in germe il pensiere della stessa Enciclopedia ; il secondo
contenente ( col nome di Esologia ) l'e sposizione della Logica e Metafisica ;
il terzo, il quarto , ed il una con un IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 35 quinto (
col nome di Essologia ) costituenti la trattazione ed espo sizione della
filosofia della Natura nelle sue tre parti della Mec canica, della Fisica e
della Biologia (od Organica) ; il sesto, il settimo e l'ottavo (col nome di
Sinautologia ) designati a trattare la Filosofia dello Spirito, distinta
anch'essa in tre parti denomi nate Antropologia, Antropopedeutica ed
Antroposofia . Di questa vasta concezione ed esecuzione il principio fonda
mentale ed assoluto è il Logo, che il lettore vede essere in fondo alla Esologia,
Essologia e Sinautologia : Logo che, come si è detto , in Ceretti piglia il
posto e la generale significazione del l'Idea di Hegel. Il Logo Cerettiano,
come quest'ultima, è l'uni versa ed assoluta realtà , e realtà con preminente
carattere ideale , comprendente in sè la realtà logica, la naturale e la
spirituale. Per tal carattere anche la filosofia cerettiana è idealismo ; tanto
più veramente assoluto , in quanto , non meno e forse ancor più dell'hegeliano,
abbraccia in sè in complessiva unità tutte le forme di Idealismo apparse nel
corso storico della filosofia, si in generale le antecedenti all'Idealismo
tedesco , si in modo più speciale quelle di quest'ultimo , cioè gli Idealismi
subbiettivi Kantiano e Fichtiano , l'Idealismo obbiettivo Schellinghiano , non
che lo stesso Idealismo assoluto Hegeliano. Questo carattere di universalità ed
assolutezza dell'Idealismo cerettiano è una delle cose più spiccanti , più
notevoli ed anche più rilevate dell'Enciclopedia filosofica del filosofo
intrese. Quanto al principio assoluto del Logo , va parimenti rilevato , che ,
per la natura conscia del medesimo innanzi additata, esso vien dal Ceretti
designato anche come puramente e semplicemente Coscienza : per modo che
Coscienza e Logo ricorrono quasi pro miscuamente nella Enciclopedia cerettiana
ed anche in altre opere posteriori) come espressive e determinative del
principio assoluto. È bene , inoltre, rilevare che tal principio assoluto e dal
nostro filosofo anche puramente e semplicemente detto l'Assoluto, il quale
corrisponde in tutto e per tutto al Logo e alla Coscienza consi derati come
assoluti . Ciò fa intendere come pel Ceretti l'elemento conscio costitui sce il
carattere essenziale del suo principio assoluto , ossia del suo Logo in tutto
il suo ambito , mentre per Hegel l'elemento conscio è caratteristico e
specifico dello Spirito propriamente detto, ossia dell'Idea giunta a coscienza
di sé . Ciò farà, d'altra parte, pari menti intendere come il filosofo intrese
ponga come riformativa dell'hegelianismo la proposizione : L'Assoluto è la
Coscienza . Per cio che concerne la designazione del principio assoluto, rilevo
ancora che, ad esprimere il predetto principio assoluto, egli adopera tante
altre volte anche le parole Idea, Nozione, persin Pensiere , come Hegel. Ma, se
le espressioni son varie, il senso e valore fondamentale del suo principio è
quello del Logo pen sato come Logo conscio o Coscienza (assoluta).
Conformemente a ciò ( e in grosso conformemente all'hegelia 36 CENOBIUM con
nismo) il Logo vien pensato nella sua intrinseca natura e nel suo processo
dialettico. Nella sua natura il Logo vien considerato in tre diverse forme di
esistenza, cioè, quale è in sè, quale è per sè, e quale è in sè e per sè. La
considerazione del Logo in sè stesso costituisce la predetta Esologia (da sis,
és, dentro e hópos) , ossia la dottrina logico- metafisica del Logo ; quella
del Logo fuori di sè costituisce la Essologia ( da few fuori, in latino
Exologia) , ossia la dottrina ( filosofica ) della Natura ; e quella del Logo in
sè e per sė, o come il Ceretti la dice , del Lago in sè e con sè, costituisce
la Sinautologia ( da suv e autos, con stesso ), ossia la dottrina dello Spirito
. Degno di rilievo è inoltre che il Logo in sè pel filosofo in trese è il Logo
nella sua Subbiettività, il Logo fuori di sè è il Logo nella sua Obbiettività,
e il Logo in sè e sè il Logo nella unità della sua Subbiettività e della sua
Obbiettività, ossia è il Logo subbiettivobiettivo, che è poi il Logo assoluto.
È bene parimenti rilevare che come il Logo per lui è per eccellenza il Logo
conscio , il quale è poi lo Spirito o la Coscienza , così si de signano
egualmente lo Spirito e la Coscienza nella loro Subbiettività, nella loro
Obbiettività, e nell'unità della Subbiettività e dell'Ob biettività. Il predetto
triplice modo di essere della natura del Logo soggiace ad un processo
esplicativo , che costituisce il pro cesso dialettico , appellato anche metodo
dialettico. Questo pro cesso metodico ha , tanto per Hegel quanto per Ceretti ,
tre mo menti anch'esso. Questi momenti, che il filosofo tedesco appella
comunemente dell'in sè , del per sè e dell'in sè e per sè , dando loro il
valore e significato di momento immediato o intellettivo ( della speculazione
dell'Idea ), di momento mediato o razionale negativo , e di momento immediato e
mediato insieme, o razionale positivo, vengono invece dal Ceretti appellati (
nel complesso però con valore e significato simili a quelli di Hegel) momenti
della Posizione, Riflessione e Concezione. La posizione , come la parola stessa
indica, ha il valore e significato di quella che comunemente ( in Fichte ,
Schelling ed Hegel) , ricorre come tesi , mentre la ri flessione ha significato
e valore di contraddizione ( opposizione, an titesi ) e la Concezione
significato e valore di conciliazione degli opposti, sintesi della tesi e
dall'antitesi. La triplicità delle forme di esistenza del Logo ( quelle di Eso
Jogo , Essologo e Sinautologo con le corrispondenti dottrine di Esologia,
Essologia e Sinantologia) costituisce per Ceretti i tre Cicli di quest'ultimo.
Cicli che , mentre son tre , pur ne costitui solo sotto triplice forma :
costituiscono cioè il Logo assoluto unitrino . Un altro punto pur degno di
rilievo e caratteristico è il modo come Ceretti determina la considerazione filosofica
o speculativa de tre Cicli . La considerazione del primo, ossia dell'Esologia ,
è per lui il pensiero del Pensiero ( cogitatio cogitationis) quella del scono
un IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 37 ma secondo o dell'Essologia è il Pensiero del
Pensato ( cogitatio cogi tatis ), e quella del terzo, o della Sinautologia, è
il Pensiero del Pensante ( cogitatio cogitantis ). Anche nell'hegelianismo il
Pensiero assoluto è identificato col l'Idea assoluta, in quella guisa che il
Ceretti identifica parimenti il Pensiero assoluto col Logo assoluto. Però nella
espressione e determinazione cerettiana la cosa ha un significato più
specifico, e propriamente questo , che cioè l'Esologia è la considerazione del
Pensiero in sè stesso , del pensiero puro hegeliano e potrei an che
soggiungere, della ragion pura kantiana ; l'Essologia è la considerazione del
Pensiero del Pensato , cioè del Pensiero non più in sè, puro ed astratto , del
Pensiero estrinsecato ( fatto per sè ) , obbiettivato ; e la Sinautologia la
considerazione del Pen siero del Pensante, cioè del pensiero come esistente ed
esercitan tesi nel subbietto pensante. Potrei dire che la predetta triplice
considerazione è quella del Pensiero puro e semplice, quella del Pensiero come
obbietto di sè medesimo ( estrinsecatosi fuori di sè nella Natura ), e quella
del Pensiero astratto ed operante come proprio subbietto ( nella Coscienza del
pensiero stesso o nello Spirito ) . Dopo le antecedenti generalità , passiamo a
considerare parte per parte il Logo nelle sue tre forme di esistenza nella
logico metafisica ( Esogia) , nella naturale ( Essologia) e nella spirituale (
Sinautologia ). La dottrina logico -metafisica, conformemente alla hegeliana, è
pur distinta in tre parti che anche per lui , come per Hegel , son quelle dell'Essere,
dell’Essenza e del Concetto : solo che queste nel filosofo tedesco si
susseguono nel modo indicato e nel filosofo intrese mutan posto , diventando
primo il Concetto , secondo l'Es sere e terzo l’Essenza . Questo mutamento di
posto nella serie porta poi naturalmente con sè un corrispondente mutamento nel
processo dialettico. Le dottrine di queste tre parti così spostate hanno in
Ceretti i nomi speciali di Prologia, Dialogia e Autologia . La prima con sidera
il Logo esologico, o logico -metafisico, nella astratta iden tità del Pensiero
, la seconda nella differenza di esso , e la terza nella unità sintetica
dell'identità e della differenza del Pensiero stesso. Non credo che il nostro
filosofo abbia avuto giusta ragione d'invertire l'ordine de' tre principii
fondamentali predetti . Ma, checchè sia di ciò , è bene di allegare la ragione
dell'invertimento da lui ritenuto razionale e necessario . La quale, a suo
credere , è che per il Logo conscio, o che vale lo stesso, per la Coscienza il
primo ( Prius) prologico ( cioè il primo con cui deve cominciar la logica) non
dev'essere nè indeterminato , come sono l'Essere di Hegel e di Rosmini, nè
determinato , come sono l'Io di Fichte e la predetta Ragione di Schelling , ma
dev'essere lo stesso Prius, nel quale sieno implicitamente contenute tanto la
indeterminazione 38 COENOBIUM quanto la determinazione. E un sì fatto Prius pel
Ceretti è la Proposizione, che è il primo ed iniziale momento della sua Pro
logia, il quale è più primitivo e più semplice del Giudizio che ne costituisce
il secondo, al quale poi segue il terzo unitivo de' due primi, che è il
Sillogismo. Quanto alla natura de suddetti momenti della Prologia, la
Proposizione è la immediata ed indistinta coscienza logica, la quale , appunto
per la sua indistinzione, non è nè subbiettiva nè obbiettiva . Il Giudizio
invece è la coscienza logica, che dalla indistinzione od indifferenza si
esplica e passa nella subbiettività ed obbiettività di sè medesima. E da ultimo
il Sillogismo è la subbiettività della coscienza logica , la cui attività
consiste nell'e splicare se stessa , esplicazione di sè stessa , che in fondo è
poi una obbiettivazione della subbiettività. Dato tal concetto generale de'
momenti della Prologia , il nostro autore passa a considerare e determinar
ciascuno in se medesimo, ed inoltre secondo il predetto processo metodico trico
tomico della Posizione , della Riflessione e della Concezione. Conformemente a
ciò , distingue la Proposizione in posta, ri flessa e concepita ; e in posto,
riflesso e concepito, distingue e de termina parimenti sì il Giudizio che il
Sillogismo. La trattazione ed esposizione di ciò è amplissima, specialmente
quella del Sillogismo ; ed è non solo amplissima, ma anche note volissima per
le molteplici determinazioni logiche ed ontologiche non che illustrazioni ed
applicazioni d'ogni genere alle diverse parti dello scibile e della stessa
realtà . La trattazione è di tanto interesse che è degnissima di esser presa da
ognuno in considerazione anche oggi alla distanza di una sessantina d'anni,
dacchè fu pensata ed esposta . Non potendo entrare nelle particolarità a far
intendere il pensiero cerettiano sì nella concezione de' momenti della predetta
Prologia sì nel passaggio da questa alla Dialogia, allegherò un luogo nel quale
l'autore lo riepiloga, e che è questo . « Il pen siero prologico ( 1 ) , uscito
(passato) dalla sua generalità formale ( cioè dalla proposizione) colla
particolarità formale della sua gene ralità ( cioè col giudizio) nell'unità
formale della sua generalità e della sua particolarità ( cioè nel sillogismo ),
si concepisce come sistema metodico della razionalità, ossia come forma
assoluta delle forme. La forma sillogistica delle forme pensabili insegna che
il pensiero è essenzialmente il sistema di sè, e non v'è sistema all'in fuori
del sistema del pensiero, poichè l'altro del pensiero non può essere fatto
(posto ) da altro che dal pensiero. Inoltre, insegna che il sistema assoluto
del pensiero è il sillogismo giudicativo della proposizione, perciò l'Assoluto
non può esser concepito altrimenti ( 1 ) Cosi a pag. 125 della Ragione Logica
di tutte le cose , vol . II Esologia , nella versione dal Latino di Carlo
Badini, Torino, 1890. IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 39 che nella forma
sillogistica ; questa concezione porta con sè la ne cessità logica di sè ,
poichè è la Nozione della Nozione. Il sillogi smo assoluto , come
prologico , non è più che la formalità ( la forma assoluta del Logo, la
quale invoca l'essenzialità assoluta di sè da esplicare in sè da sè stesso .
Quindi il sillogismo passa dalla sua subbiettività assoluta ad esplicare la sua
obbiettività im plicita assoluta ; questa obbiettività è la verità della
subbiettività sillogistica assoluta » . Ciò posto , quella che ora effettua il
passaggio e progresso dalla forma e dalla subbiettività del Pensiero alla
essenzialità ed obbiettività del medesimo è la Dialogia, che per eccellenza è
la dottrina delle categorie logiche del Pensiero. Corrispondendo la dottrina
dialogica cerettiana alle dottrine logiche hegeliane dell'Essere e dell'Essenza
prese insieme, ne segue che le categorie, onde qui è parola , sono in grosso
quelle che ricorrono nelle predette due dottrine hegeliane. Quanto al concetto
della categoria e alla funzione logica della categorizzazione, sono importanti
queste parole del filosofo intrese : « La categoria , dic'egli ( 1 ), è
propriamente la predicazione del Pensiere fondata dallo stesso pensiere come
necessaria ; e la cate gorizzazione del Pensiere è l'atto più nobile della
speculazione filo sofica e la più alta concezione dal Pensiere umano Nè meno im
portanti in proposito sono gli additamenti ch'egli fa intorno alla evoluzione
storica delle categorie presso i diversi filosofi e corri spondenti scuole che
spiccano intorno ad esse . Per cio che concerne le categorie trattate e
sviluppate nella Dialogia, le fondamentali son quelle dell'Essere,
dell’Essenza, e del l'Esistenza, come costituenti la triplicità dialogica per
eccellenza ; e da queste fondamentali se ne sviluppano altre costituenti mo .
menti subordinati, ma non meno importanti. L'Essere, infatti, è da prima il
Logo generale ed indeterminato (est Logus Conscentiæ generalis) , ma esso si
particolarizza e de termina in sè medesimo in ulteriori principii categorici.
Per esem pio, si distingue e particolarizza come qualitativo, quantitativo e
modale, sorgendo così le categorie della qualità, della quantità e della
modalità (misura ). Ed inoltre l'Essere nella sua stessa gene rità ( innanzi
alla predetta particolarizzazione dunque) è essere , non essere e divenire (
esse , non - esse , fieri); come, d'altra parte , le categorie della qualità,
quantità e modalità alla lor volta si distin guono e particolarizzano in altre.
Chi conosce la logica di Hegel vede subito nelle predette ca tegorie cerettiane
la simiglianza con le corrispondenti hegeliane ; ed è forse questa la parte ,
nella quale il Ceretti si tiene più da vicino a quello ; mentre in altre parti
vi sono non poche dissi miglianze. ( 1 ) Nel predetto citato volume della
Esologia , pag . 132 . 40 COENOBIUM ecc. Dall'Essere il processo dialogico
conduce alla seconda cate goria fondamentale predetta, cioè alla Essenza la
quale non è altro che la particolarizzazione dello stesso Essere ( Esse suam
absolutam particolaritatem adeptum est Essentia ). Ciò che si è detto avvenire
per la categoria fondamentale del l'Essere avviene anche per l’Essenza, che
cioè anche questa , alla sua volta distinguendosi e particolarizzandosi in sè
medesima, ne produce di ulteriori , come quelle del fondamento, della sostanza
, della materia , ecc. E quanto alla terza categoria fondamentale, cioè
l'Esistenza , essa è l'unità dell'Essere e dell'Essenza . Ognuno nella
Existentia riconosce l'Esse come particolarizzato ; ma d'altra parte, nella
particolarizzazione dell'Essere si specifica e manifesta anche l'E lemento
dell'Essenza, per forma che l'Esistenza risulta siccome una manifestazione
dell'Essenza ( Exsistentia est essentia manifesta ). E da ultimo l'Esistenza dà
anch'essa origine ad altre categorie subordinate , come realtà, necessità , La
terza parte della Logica ( o della Esologia ) cerettiana, cioè l'Autologia, si
fonda, sviluppa e sistematizza in tre categorie fon damentali, che son quelle
di Sapere, Volere, Agire, ( Scire, Velle, Agere ), le quali sono in
corrispondenza di quelle che ricorrono nella terza parte della Logica
hegeliana, e che sono l'Idea del conoscere (die Idee des Erkennens ), l'idea
del bene ( die Idee des Guten ) e l'Idea assoluta ( die absolute Idee ). Va
però osservato che il volere e l'agire che in Hegel si congiungono nella Idea
del Bene , e costituiscono la Idea pratica , in Ceretti appariscono, al
contrario , come momenti e categorie distinte . Questa terza parte della Logica
del Ceretti è una delle più belle e ad un tempo una di quelle in cui il Ceretti
è come più originale e più indipendente da Hegel . Il modo rome il filosofo
intrese vede la distinzione, la relazione e la unificazione del Sa pere, del
Volere e dell'Agire è qualche cosa di profondo, di stu pendo e di vero , e lo
si vede più chiaramente e più determina tamente di quel che possa vedersi nel,
pure grandissimo, filosofo tedesco . Ciò viene dal perchè i tre momenti, che in
Hegel sono come ancora implicati e inviluppati, in Ceretti ricorrono come più
sviluppati e ad un tempo più sistemati . Il pensiero cerettiano dell'Autologia
è ( secondo che lo espressi nella mia Notizia degli scritti del pensiere
filosofico del Ceretti) che « l'Assoluto è la Coscienza logica che si
sistematizza in se stessa , per quindi sistemarsi fuori di sè ( 1 ) allo scopo
finale di sistemarsi in sè e per sè come assoluta unità di sè stessa. L'Au
tologia costituisce un sillogismo assoluto ( cioè una connessa tri plicità
assoluta ), i cui termini sono i predetti di Sapere , Volere , Agire. Nella
Coscienza assoluta il Sapere è l'essere del Volere, ( 1 ) Nel Volere c'è ,
infatti, esterîorazione del Saputo. IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 41 il volere è
l'essenza del Sapere, l'agire è l'esistenza del Volere ; e tutti e tre insieme
costituiscono l'unitrinità della Coscienza » . Anche le tre predette categorie
si distinguono e particolariz zano in altre . Il Sapere si svolge ne ' momenti
subordinati (i quali son categorie anch'essi) di Sapere immediato, mediato,
assoluto ; il Volere si distingue e particolarizza alla sua volta nelle forme
ca tegoriche di Volere subbiettivo , obbiettivo e assoluto ; e l'Agire nelle
sue corrispondenti di Agire attuoso ( agire come atto puro e semplice ), Agire
volonteroso e Agire concettuale ( 1 ). Questo è in breve il concetto e disegno
della prima parte della grande opera enciclopedica del nostro filosofo . La
seconda parte, quella del Logo fuori di sè o del Logo nella sua obbiettivazione
, cioè la Filosofia della Natura, ha avuta una estesissima trattazione ; e
trattazione in cui il nostro filosofo si mostra non poco originale ed
indipendente rispetto alla corri spondente parte della Enciclopedia hegeliana.
Essa è per noi italiani tanto più importante, in quanto non vi è in Italia ,
neppure presso i nostri filosofi maggiori moderni, una sola opera che , prima
di questa del Ceretti , meriti il nome di filosofia della Natura nel senso
ampio, vero e moderno della parola. Io ho scritto su questa parte della grande
opera cerettiana tre lunghissime Introduzioni ai tre volumi che vi si
riferiscono, le quali, riunite insieme e pubblicate sotto il titolo di
Filosofia della Natura di Pietro Ceretti, formano un'opera di ben 487 pagine; e
in questa ho ampiamente chiarita e dimostrata la verità di tutto ciò . Quanto
al cenno che posso farne qui, specialmente a cagione della vastità di
trattazione che ha nel Ceretti , esso non può con sistere in altro se non nella
pura e semplice indicazione del di segno, della materia e dell'andamento della
trattazione stessa . Premessa la determinazione della posizione e del concetto
della filosofia della Natura nel Sistema panlogico , egli passa alla
considerazione di un punto importantissimo, quello cioè della evo luzione
storica della concezione filosofica della natura , evoluzione che, secondo lui
, passa per tre gradi e corrispondenti forme della coscienza filosofica , la
forma estetico-teologica ( o sentimentale) la forma empirico -matematica ( o
intellettiva e riflessiva ) e la forma speculativa propriamente detta ( o
concetturale) . E fa in propo sito una stupenda rassegna storica di queste
forme, giungendo all'ultima , ossia alla hegeliana, alla quale egli si
riattacca, ulterior mente sviluppandola e riformandola in ciò che ha di
difettivo . Procede quindi alla partizione della Filosofia della Natura,
dividendola come abbiam detto in Meccanica , Fisica e Biologia , conformemente
alla Natura distinta in sè stessa in meccanica , fi ( 1 ) Queste tre azioni (o
funzioni ) categoriche dell’Agire il Ceretti le designa come Agere actum, Agere
voluntatem e Agere notionem . 42 CENOBIUM sica e biotica ( vivente ). Carattere
costitutivo della Natura mecca nica è la quantità, della fisica la qualità, e
della vivente l'unità della quantità e della qualità, la quale unità è poi la
modalità o la misura della medesima. Quanto all'unità inscindibile delle tre
parti distinte e de' corrispondenti tre ' caratteri della natura , sono
notevoli e riassuntive queste parole del filosofo intrese . Cioè : Il
meccanismo é ove è la fisica ( la natura fisica ), e la fisica é ove è il
meccanismo ; e se vi sono il meccanismo e la fisica, vi è anche la natura
vivente » . Ad intendere meglio il rapporto ed il corrispondente concetto
filosofico delle predette tre parti e de ' tre predetti corrispondenti
caratteri , il nostro filosofo arreca un esempio illustrativo , che è bene di
riprodurre anche qui . « Il meccanismo, dic'egli , suppone necessariamente
l'esteriorità reciproca dei suoi termini ; quando questa esteriorità , passata
nella sua interiorità , nella sua unità in separabile, trascenda sé a sè
esteriore, non versa più in un piano ( campo) meccanico, il quale ammetta per
sè alcuna intrinsecazione qualitativa della esteriorità meccanica, ma versa
propriamente nella natura fisica del meccanismo ( in mechanismi physi ), la
quale è la quantità passata nella sua qualità che deve esplicarsi. Così , ad
esempio, in qualunque modo supponiamo il ferro, diviso, figurato, posto in
movimento, ecc. , esso non cessa di essere ferro. E quando per azioni esterne,
come ad esempio, per l'ossidazione, cessi di essere ferro, non consideriamo
tali azioni come meccaniche, perchè due modi della materia (l'ossigeno e il
ferro) sono divenuti un solo modo (neutrale), il quale non ammette più alcuna
coalterio rità esterna ( 1 ) di fattori (essenzialissima al meccanismo, ma è in
sè l'unità qualificata de' quanti , la natura fisica del meccanismo » . La
quale unità è poi la vita, ossia , quel « principio , com'ei dice , grazie al
quale l'alteriorità meccanica si neutralizza fisicamente , e la neutralità
fisica si alteriora ( si fa altra ) meccanicamente : il che , in quanto è nella
circoscrizione essologica ( naturale) , è la vita » . Ciò posto , egli ,
concependo la natura meccanica o il « mec canismo come il sistema della
quantità » , passa alla reale consi derazione e corrispondente sistemazione filosofica
di tutti i prin cipii (detti anche categorie naturali ) della medesima come
spazio , tempo, moto , ecc. Conformemente a ciò , concependo la natura fi sica
parimenti come il sistema della qualità » , svolge i principii o categorie
naturali di essa, come etere ( o materia eterea) , luce calore, magnetismo,
elettricità ecc. E s'intende che ciò che è detto della natura meccanica e della
fisica, va detto anche della natura sivente, della quale, come unità concreta
delle due antecedenti, si vvolgono, determinano e sistematizzano i
corrispondenti principii e momenti. Questi principii , coi relativi sistemi
vitali , sono nella loro generalità e progressività evolutiva la vita cosmica
od uranica, la vita geologica e la vita fito -zoologica. ( 1 ) Per questa
intende la predetta reciproca esteriorità de' termini . IL FILOSOFO PIETRO
CERETTI 43 La vastità di conoscenza delle discipline naturali non che la forza
speculativa ch'ei mostra nell'intenderne e collocarne i prin cipii nel suo
vasto disegno del Sistema pantologico sono tali da fare del Ceretti una delle
menti filosofiche più vaste e più profonde del nostro paese. Col terzo volume
della Filosofia della Natura, che è il quinto della grande opera panlogica,
questa rimase interrotta ; però se rimase interrotta, la iattura non è stata nè
intera nè irreparabile. Giacchè i cenni e relativi concetti riformativi anche
della terza parte del sistema panlogico già delineati primamente ne' Prole
gomeni, poscia qua e là considerati negli stessi quattro susseguenti volumi ,
son tali e tanti da potersi fare un concetto chiaro e de terminato anche di
esso. Ma, per giunta ed ulteriore integrazione di questa, l'autore ha lasciato
in italiano due opere (scritte dopo dell'opera latina) , che concernono proprio
questa terza parte, cioè le due già mentovate intitolate , l'una,
Considerazioni sopra il si stema generale dello spirito ecc. ( Torino 1885),
l'altra , Sinossi del l'enciclopedia speculativa ( Torino 1890, da me
pubblicata e con mie note ed introduzione) . Un brevissimo cenno anche di
questa terza parte è il seguente: Quanto al concetto , obbietto e partizione di
essa, rappresen tando la prima parte la subbiettività del Logo o della
Coscienza assoluta , e la seconda la obbiettività , questa terza rappresenta
l'assoluta unità delle medesime : assoluta unità , che vien cosi ad essere la
Coscienza subbiettiva obbiettivata e ad un tempo la Co scienza obbiettiva
subbiettivata. Or questa Coscienza risultata tale è ciò che il Ceretti (
conformemente ad Hegel) appella comune mente anche Spirito, il quale è appunto
l'obbietto di questa parte da lui denominata Sinautologia. Intanto , siccome lo
Spirito , benchè già sorgente nella stessa animalità , pur non giunge alla sua
reale manifestazione, esistenza e verità (1 ) se non nella umanità , così
divien questa lo speciale obbietto della Sinautologia. La quale perciò è dal
nostro filosofo , designata come speculante l'Uomo, primamente nella
Subbiettività secondamente nella Obbiettività, e in terzo luogo nella Assolu
tezza del medesimo : Assolutezza, che è l'unità della Subbiettività e
dell'Obbiettività. Di questa triplice considerazione, o meglio speculazione, la
prima costituisce ciò che egli chiama l'Antropolo gia, la seconda
l'Antropopedeutica, la terza, l'Antroposofia. I lettori che conoscono la
dottrina hegeliana vedranno tosto la simiglianza della dottrina cerettiana
colla dottrina hegeliana dello Spirito, distinta in quella di Spirito
subbiettivo, spirito ob biettivo e Spirito assoluto . Senonché, se c'è
simiglianza nella ge nerale concezione, c'è anche una notevole differenza nella
partico ( 1 ) L'uomo, dice il Ceretti , è la concreta verità dello Spirito (
Homo est spiritus concreta veritas ) . 44 CENOBIUM lare trattazione della
medesima. Per dire ancora qualche cosa della concezione e partizione cerettiana
della predetta Sinautologia rileverò che l'Antropologia considera l'Uomo come
Subbietto gene rale . E come tal Subbietto consiste dell'elemento fisico o
corporeo e dell'elemento metafisico ( come il Ceretti lo chiama) ossia ani mico
, così essa è primamente Psicofisiologia ; indi considera nel generale
subbietto umano l'elemento, dirò così specificamente umano, ossia la mente, ed
è Noologia ; in terzo luogo , la mente, o l'attività teoretica , si realizza
come attività pratica e allora l’An tropologia nel suo terzo momento è
Prasseologia o dottrina del l'azione (spirituale) . La Psicofisiologia, la
Noologia e la Prasseo logia hanno alla lor volta principii , ossia momenti
subordinati , e vengono anche questi considerati , accolti e sistemati nella An
tropologia L'Antropopedeutica, all'opposto della Antropologia che consi sidera
l'Uomo subbiettivo, considera l'Uomo obbiettivo, ossia l'uomo nella
obbiettivazione della propria subbiettività : la quale obbiettivazione
costituisce , primamente, la dialettica mondiale u mana e produce ciocchè si
appella la Storia ; è in secondo luogo « il Logo sistematico della dialettica
obbiettiva » , che in senso lato è ciocchè si appella la Didattica ; e in terzo
luogo è la « stessa obbiettività sistemata nel Subbietto » , che è quella che
si designa col nome di Diritto. Che anche queste tre parti
dell'Antropopedeutica (Storia, Di dattica, Diritto ), si sviluppino,
particolarizzino e sistematizzino in ulteriori sfere, attività , principii ,
ecc. , lo s'intende da sè ; e cosi viene assolta anche questa parte della
Sinautologia. E finalmente vien considerata e trattata l'ultima sfera di questa
, cioè l'Antroposofia, la quale ha che fare coll'Uomo considerato nella sua
assolutezza , ovvero nella sua Coscienza assoluta, e com prende la sua attività
artistica , religiosa e filosofica. L'Arte è la contemplazione e produzione del
bello, del buono e del vero me diante l'ispirazione estetica : la Religione e
l'apprensione, rivela zione e culto del divino, e tramezza la manifestazione
estetica e la concezione filosofica ; la Filosofia sviluppa la immediata ap
prensione religiosa nella mediata concezione del pensiero assoluto. La triplice
ed assoluta attività dello spirito , artistica , religiosa e filosofica costituisce
l'ultimo e supremo sillogismo del Logo as soluto o della Coscienza assoluta , e
con esso si chiude il Sistema panlogico. Tale è in nuce il vasto pensiere
filosofico cerettiano e la vasta esecuzione del medesimo. Per ciò che è
riferito in queste poche pagine rimando il let tore ai miei molteplici lavori
intorno al Ceretti, specialmente alla « Notizia degli scritti e del pensiere
filosofico » di Pietro Ceretti, non che alla « Filosofia della Natura » del
medesimo. E sog giungo e annunzio qui volentieri che intorno a quest'uomo, che
IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 45 ha occupato due decenni di studi della mia vita ,
son presso a finire l'ultima mia opera : opera che consiste in una estesa e par
ticolareggiata esposizione di tutto intero il suo Sistema panlogico , compresa
la Sinautologia. Ho forse speso intorno a lui più tempo di quel che conveniva
per i miei propri studî e lavori ; ma non me ne pento, non solo perchè egli è
stato di giovamento a questi stessi , ma specialmente perchè ho contribuito a
far conoscere un uomo, che fa onore grandissimo alla filosofia in genere e alla
filosofia italiana in ispecie. ‘Alessandro Goreni’. Pietro Ceretti. Keywords:
communication, convention, homo sapiens, pirothood, inter-subjective,
animality, animalness, soul, psichico, psychic, psychical versus psychological,
progression, pirotological progression. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Ceretti” – The Swimming-Pool Library.
Ceronetti (Torino).
Filosofo. Grice: “I like Ceronetti; he is a typicall Italaian philosopher; that
is, a typically anti-Oxonian one; he thinks, like Croce and de Santis did, that
philosophy is an infectious disease that some literary types catch! My
favourite of his tracts is “Diognene’s torch”! Genial!” Per essere io morto
all'Assoluto vivo come un innato parricida tra gente già di padre nata priva; pPer
aver detto all'Inaccessibile addio da un cortiletto senza luce vergogna vorrei
gridarmi ma resto muto. Tutto è dispersione, lacerazione, separazione, rotolare
di ruota senza carro, e questo ha nome esilio, o anche mondo. Di vasta
erudizione e di sensibilità umanistica, collabora con vari giornali. Tra le sue
opere più significative vanno ricordate le prose di Un viaggio in Italia e
Albergo Italia, due moderne descrizioni, moderne e direi dantesche, da cui vien
fuori tutto l'orrore del disastro italiano, e le raccolte di aforismi e
riflessioni Il silenzio del corpo e Pensieri del tè. Di rilievo la sua attività
di saggista (Marziale, Catullo, Giovenale, Orazio). Diede vita al teatro dei
Sensibili, allestendo in casa spettacoli di marionette. Le sue marionette
esordivano su un piccolo palcoscenico, nel tinello di casa Ceronetti, ad Albano
Laziale. Si consumavano tè, biscottini (i crumiri di Casale) e mele
cotte." Nel corso degli anni vi assisterono personalità quali
Montale,Piovene, e Fellini. Con la rappresentazione de La iena di San Giorgio,
I Sensibili divenne pubblico e itinerante. In Difesa della Luna, e altri
argomenti di miseria terrestre, suo saggio d'esordio critica il programma
spaziale da prospettive originali e poetiche. Il fondo Guido Ceronetti --
"il fondo senza fondo" -- raccoglie infatti un materiale ricchissimo
e vario: opere edite e inedite, manoscritti, quaderni di poesie e traduzioni,
lettere, appunti su svariate discipline, soggetti cinematografici e
radiofonici. Vi si trovano, inoltre, numerosi disegni di artisti (anche per I Sensibili),
opere grafiche, collage e cartoline. Con queste ultime fu allestita la mostra
intitolata Dalla buca del tempo: la cartolina racconta. Prese posizione a
favore dell'eutanasia, con la poesia La ballata dell'angelo ferito. Beneficiario
della legge Bacchelli, in quanto cittadino che ha illustrato la Patria e versante
in condizioni di necessità economica. Robbe-Grillet, Moravia e Ceronetti
al Premio letterario internazionale Mondello. Palermo Proposto dal controverso
critico e politico Sgarbi come senatore a vita a Napolitano, declina subito
l'invito. Attento alle tematiche ambientali, era noto per essere un acceso
sostenitore del vegetarismo e per una pratica di vita estremamente frugale,
quasi da moderno anacoreta. Solo un vero vegetariano è capace di vedere
le sardine come cadaveri e la loro scatola come una bara di latta. Un
mangiatore di carne (non mi sento di scrivere un carnivoro perché l'uomo non è
un carnivoro) neanche se lo chiudono nel frigorifero di una macelleria avrà la
sensazione di coabitare con dei cadaveri squartati. C'è come un velo sulla
retina dei non vegetariani, quasi un materializzarsi di un velo sull'anima, che
gli impedisce di vedere il cadavere, il pezzo di cadavere cotto, nel piatto di
carne o di pesce. Alcuni suoi articoli sull'immigrazione (disse che ha "un
carattere preciso di invasione territoriale, premessa sicura di guerra sociale
e religiosa") e il Meridione, pubblicati sui quotidiani La Stampa e Il
Foglio, furono tacciati di razzismo, così come scalpore fecero alcune posizioni
da lui espresse sull'omosessualità maschile, accusate di omofobia. In
precedenza sull'argomento si era attirato gli strali dei cattolici per aver
descritto don Bosco come un omosessuale represso. Intervistato nel per Radio Radicale Come articolista,
principalmente su La Stampa e il Corriere della Sera, si occupava spesso di
letteratura, arte, filosofia, costume e cronaca nera (ad esempio scrivendo sul
caso del delitto di Novi Ligure), analizzando il problema del male nel mondo
odierno in una prospettiva gnostica; al contrario giudicava noiosi i processi
di mafia. Notevoli discussioni suscitò, altresì, un suo intervento
giornalistico a difesa del capitano delle SS Erich Priebke (che visitò in
carcere e con cui ebbe uno scambio epistolare), condannato all'ergastolo per la
strage delle Fosse Ardeatine ma che fu soltanto un mero funzionario esecutore,
colpevole della "miseria di non essere un santo" (parafrasi del
saggio di Bloy La tristezza di non essere santi), e creato Mostro delle
Ardeatine, vittima di una giustizia dell'odio. Allo stesso modo, pur esprimendo
sempre la sua simpatia per gli ebrei e per Israele, per convinzioni personali e
la sua parentela acquisita con Giuliana Tedeschi, definì l'ergastolo inflitto a
Hess, al processo di Norimberga, come un crimine politico. La sua posizione
anticonformista pro-Priebke e pro-Hess fece scandalo essendo l'autore un noto
filosemita, con moglie e suocera (superstite di Auschwitz) ebree nonché
convinto filoisraeliano (scrisse articoli di fuoco contro Khomeini e il
terrorismo palestinese). Nel fu
insignito del premio "Inquieto dell'anno" a Finale Ligure. Ostile
al fascismo nella seconda guerra mondiale e al comunismo poi, ma anche
diffidente delle forme della democrazia, non prese mai parte politica attiva, a
parte un brevissimo periodo in cui ebbe la tessera del Partito Socialista dei
Lavoratori Italiani, fino al , quando intervenne al congresso dei Radicali
Italiani, movimento liberale e libertario, e altre volte ai microfoni di Radio
Radicale (era amico di Marco Pannella), anche se si considerava un
"conservatore" e patriota del Risorgimento (descrisse
l'Italia come «una democrazia strangolata sul nascere da tre poteri con il
verme totalitario, democristiano, comunista e sindacale»). Talvolta fu definito
come un "reazionario postmoderno". «Sono sempre stato anticomunista. Il
Mullah Omar e Osama Bin Laden sono modi dell'antiumano. Dietro di loro... l'ombra
di Lenin, inviato della Tenebra, fondatore imitabile dell'universo
concentrazionario, capostipite novecentesco di malvagie entità che non
finiscono di manifestarsi.» (Ti saluto mio secolo crudele) Nel propose in un articolo su la Repubblica,
ispirandosi al fenomeno delle assistenti sessuali per disabili, l'istituzione
di un "servizio erotico volontario" rivolto agli anziani senza che
dovessero rivolgersi a prostitute, per evitare "la barbarie di una
vecchiaia senza sesso". Fece uso di vari pseudonimi, tra i quali Mehmet
Gayuk, il filosofo ignoto (riferimento a Louis Claude de Saint-Martin, filosofo
così chiamato), Ugone di Certoit (quasi l'anagramma di Guido Ceronetti) e
Geremia Cassandri. Morì nella sua casa di Cetona (SI) dopo un breve
ricovero a causa di broncopolmonite. Come da disposizione testamentaria, dopo
tre giorni e una cerimonia religiosa a Cetona, fu sepolto sulle colline tra
Torino e il Monferrato, in una tomba a terra situata nel cimitero di Andezeno
(Torino), il paese di origine dei genitori. Disposizione da prendere. Non
voglio donne in calzoni ai miei funerali. Cacciatele via. Almeno in questa pur
insignificante occasione, ma per amore, siano insottanate come le ho sognate
sempre, nella vita.» Altre opere: “Difesa della luna e altri argomenti di
miseria terrestre” (Rusconi, Milano); “Aquilegia, illustrazioni di Erica Tedeschi,
Rusconi, Milano, con il titolo Aquilegia. Favola sommersa, Einaudi, Torino); La
carta è stanca” (Adelphi, Milano); La musa ulcerosa: scritti vari e inediti,
Rusconi, Milano); Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina,
Adelphi, Milano); La vita apparente, Adelphi, Milano); Un viaggio in Italia, Einaudi,
Torino); Albergo Italia, Einaudi, Torino); Briciole di colonna. La Stampa,
Torino); Pensieri del tè, Adelphi, Milano); L'occhiale malinconico, Adelphi,
Milano); La pazienza dell'arrostito. Giornali e ricordi, Adelphi, Milano); D.D.
Deliri Disarmati, Einaudi, Torino); Tra pensieri, Adelphi, Milano); Cara
incertezza, Adelphi, Milano); Lo scrittore inesistente, La Stampa, Torino, Briciole
di colonna. Inutilità di scrivere, La Stampa, Torino, La fragilità del pensare.
Antologia filosofica personale Emanuela Muratori, BUR, Milano); La vera storia
di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria, Einaudi, Torino, N.U.E.D.D. Nuovi
Ultimi Esasperati Deliri Disarmati, Einaudi, Torino); Piccolo inferno torinese,
Einaudi, Torino); Oltre Chiasso. Collaborazioni ai giornali della Svizzera
italiana, Libreria dell'Orso, Pistoia, 2004, La lanterna del filosofo, Adelphi,
Milano); Centoventuno pensieri del Filosofo Ignoto, La Finestra editrice,
Lavis); Insetti senza frontiere, Adelphi, Milano); In un amore felice. Romanzo
in lingua italiana, Adelphi, Milano, , Ti saluto mio secolo crudele. Mistero e
sopravvivenza del XX secolo, illustrazioni Guido Ceronetti e Laura Fatini,
Einaudi, Torino, , L'occhio del barbagianni, Adelphi, Milano, , Tragico
tascabile, Adelphi, Milano, , Per le strade della Vergine, Adelphi, Milano, ,
Per non dimenticare la memoria, Adelphi, Milano, , Regie immaginarie, Einaudi,
Torino, Guido Ceronetti, Poesia Nuovi salmi. Psalterium primum, Pacini
Mariotti, Pisa); La ballata dell'infermiere, Alberto Tallone Editore,
Alpignano, Poesie, frammenti, poesie separate, Einaudi, Torino, 1968 Premio
Viareggio; Opera Prima; Poesie: Corbo e Fiore, Venezia); Poesie per vivere e
per non vivere, Einaudi, Torino, Storia d'amore ritrovata nella memoria e altri
versi, illustrazioni di Mimmo Paladino, Castiglioni & Corubolo, Verona); Compassioni
e disperazioni. Tutte le poesie, Einaudi, Torino, Disegnare poesia (con Carlo
Cattaneo), San Marco dei Giustiniani, Genova, Scavi e segnali. Poesie inedited,
Alberto Tallone, Alpignano, Andezeno, Alberto Tallone Editore, Alpignano, La
distanza. Poesie, Edizione riveduta e aggiornata dall'Autore, BUR, Milano, Preghiera
degli inclusi, Alberto Tallone Editore, Alpignano, senza data Francobollo,
Alberto Tallone Editore, Alpignano (sotto lo pseudonimo Mehmet Gayuk), Il
gineceo, Alberto Tallone, Alpignano, febbraio 1998; Adelphi, Milano, In
memoriam di Emanuela Muratori, Alberto Tallone, Alpignano, Messia, Tallone,
Alpignano, Adelphi, Milano, , [nella prima parte del libro] Tre ballate recuperate
dalle carte di Lugano, Alberto Tallone, Alpignano, Tre ballate popolari per il
Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone, Alpignano; Pensieri di calma a bordo di
un aereo che sta precipitando, Alberto Tallone, Alpignano; A Roma davanti al
Tulliano Notte del 3 dicembre 63 a. C., Alberto Tallone, Alpignano, Con l'armata
dell'Ebro morire oggi, Alberto Tallone, Alpignano; Invocazione al Dottor Buddha
perché venga e ci salvi, Alberto Tallone, Alpignano; Le ballate dell'angelo
ferito, Il Notes magico, Padova, Poemi del Gineceo, Adelphi, Milano, , [riedizione
de Il gineceo con inediti e nuova
prefazione] Sono fragile sparo poesia, Einaudi, Torino, , Drammaturgia Furori e
poesia della Rivoluzione francese. Carte Segrete, Roma, Alcuni
esperimenti di circo e varietà. Teatro Stabile-Teatro dei Sensibili,
Alberto Tallone Editore, Alpignano, Mystic Luna Park. Teatro Stabile-Teatro dei
Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Mystic Luna Park. Spettacolo per
marionette ideofore, ricordi figurativi di Giosetta Fioroni, Becco Giallo,
Oderzo, 1988 Viaggia viaggia, Rimbaud!, Il melangolo, Genova, La iena di San
Giorgio. Tragedia per marionette, Alberto Tallone, Einaudi, Torino); Il volto
(Ansiktet), Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Le
marionette del Teatro dei Sensibili, Aragno, Torino [contiene: I Misteri di
Londra e Mystic Luna Park] Rosa Vercesi, un delitto a Torino negli anni Trenta,
Teatro Strehler-Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone, Alpignano, Rosa Vercesi,
illustrazioni di Federico Maggioni, Edizioni Corraini, Mantova; Traduzioni e
curatele Marziale, Epigrammi, introduzione di Concetto Marchesi, Einaudi,
Torino, II ed. riveduta, Einaudi, Torino; nuova edizione con un saggio di G.
Ceronetti, Einaudi, Torino; nuova ed. riveduta e nuova prefazione di G.
Ceronetti, La Finestra Editrice, Lavis, I Salmi, Einaudi, Torino; nuova ed.
riveduta, Einaudi, Torino; col titolo Il Libro dei Salmi, Adelphi, Milano,
1985, Catullo, Le poesie, Einaudi, Torino, Adelphi, Milano, . Maurice Blanchot,
Il libro a venire (Le Livre à venir), trad. G. Ceronetti e Guido Neri, Einaudi,
Torino; Il Saggiatore, Milano, . Qohelet o l'Ecclesiaste, Einaudi, Torino, Alberto
Tallone Editore, Alpignano, nuova traduzione ; Qohelet. Colui che prende la
parola, Adelphi, Milano, Decimo Giunio
Giovenale, Le Satire, Einaudi, Torino, La Finestra Editrice, Trento, Il Libro
di Giobbe, Adelphi, Milano, Premio Monselice di traduzione, nuova ed. riveduta,
Adelphi, Milano, Cantico dei cantici, Adelphi, Milano, Alberto Tallone Editore,
Alpignano, nuova versione riveduta, . Il Libro del Profeta Isaia, Adelphi,
Milano; nuova ed. riveduta e ampliata, Adelphi, Milano, Come un talismano.
Libro di traduzioni, Adelphi, Milano, 1986. Konstantinos Kavafis, Nel mese di
Athir, Edizioni dell'elefante, Roma. Konstantinos Kavafis, Tombe, Edizioni
dell'Elefante, Roma, Giovenale, Le donne. Satira sesta, Alberto Tallone
Editore, Alpignano, Nostradamus: annunciatore nel secolo 16. della Rivoluzione
che durerà dal 1789 al 1999 / profezie estratte dalle Centurie di Michel de
Nostredame, Alpignano, Alberto Tallone Editore, Tango delle capinere, Castiglioni
& Corubolo, Verona. Due versioni inedite da Shakespeare e da Céline, Cursi,
Pisa, Teatro dei sensibili, La rivoluzione sconosciuta. Pensieri in libertà per
ricordare. Una scelta di testi Guido Ceronetti, Tallone, Alpignano, col titolo
La rivoluzione sconosciuta, Adelphi, Milano, raccolta di 44 locandine teatrali
a fogli sciolti dalla mostra-spettacolo di Dogliani] Henry d'Ideville, Oggi,
Alberto Tallone, Alpignano, senza data. Constantinos Kavafis, Poesia, Alberto
Tallone, Alpignano, senza data Georges Séféris, Poesia, Alberto Tallone,
Alpignano, senza data. Sofocle, Edipo Tyrannos. Coro, Edizioni dell'Elefante,
Roma (con Cristina Chaumont) Sura 99. Al Zalzala (Il tremito della terra) dal
Corano, calligrafia di Mauro Zennaro, Edizioni dell'Elefante, Roma, Il Pater
noster. Matteo 6, calligrafia di Mauro Zennaro, Edizioni dell'Elefante, Roma, Léon
Bloy, Dagli ebrei la salvezza, con un saggio di G. Ceronetti, traduzione di
Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Piccola Biblioteca n. 330, Adelphi, Milano, Giorni
di Kavafis. Poesie di Constantinos Kavafis, Officina Chimerea, Verona, Messia,
Alberto Tallone Editore, Alpignano; Adelphi, Milano, .nella seconda parte del
libro, Siamo fragili, Spariamo poesia. i poeti delle letture pubbliche del
Teatro dei Sensibili , Qiqajon, Magnano, 2003 Tito Lucrezio Caro, I terremoti.
De Rerum Natura. Alberto Tallone, Alpignano, Constantinos Kavafis, Un'ombra
fuggitiva di piacere, Adelphi, Milano, Trafitture di tenerezza. Poesia
tradotta, Einaudi, Torino, François Villon, I rimpianti della bella Elmiera,
Alberto Tallone Editore, Alpignano, . Orazio, Odi. Scelte e tradotte da Guido
Ceronetti, Adelphi, Milano, . Epistolari Guido Ceronetti e Giosetta Fioroni,
Amor di busta, Milano, Archinto, Due cuori una vigna. Lettere ad Arturo
Bersano, Prefazione di Ernesto Ferrero, Padova, Il Notes Magico, Guido
Ceronetti e Sergio Quinzio, Un tentativo di colmare l'abisso. Lettere, Milano,
Adelphi, . Spettacoli del Teatro dei Sensibili La Iena di San Giorgio. Tragedia
per marionette (allestito in appartamento), prodotto dal Teatro Stabile di
Torino, con Ariella Beddini, Simonetta Benozzo, Paola Roman e
Manuela Tamietti, regia di Egon Paszfory (Guido Ceronetti), scene e costumi di
Carlo Cattaneo Macbeth (spettacolo per marionette allestito in appartamento) Lo
Smemorato di Collegno (anni '70, spettacolo per marionette allestito in
appartamento) Diaboliche imprese, trionfi e cadute dell'ultimo Faust (spettacolo
per marionette allestito in appartamento); Fu interpretato al Festival di
Spoleto da Piera degli Esposti, Paolo Graziosi e Roberto Herlitzka, con la
regia, scene e costumi di Enrico Job I misteri di Londra (allestito in
appartamento); prodotto dal Teatro Stabile di Torino, regia di Manuela
Tamietti, con Patrizia Da Rold (Artemisia), Luca Mauceri (Baruk), Valeria Sacco
(Egeria), Erika Borroz (Remedios) e le marionette del Teatro dei Sensibili.
Furori e poesia della rivoluzione francese. Tragedia per marionette (allestito
in appartamento); al Teatro Flaiano di Roma con i burattini di Maria Signorelli
Omaggio a Luis Buñuel prodotto dal Teatro Stabile di Torino, Mystic Luna Park (prodotto
dal Teatro Stabile di Torino), spettacolo per marionette ideofore con Armida
(Nicoletta Bertorelli), Demetrio (Guido Ceronetti), Irina (Laura Bottacci),
Norma (Paola Roman), Yorick (Ciro Buttari) La rivoluzione sconosciuta,
mostra-spettacolo all'ex-convento dei carmelitani a Dogliani Viaggia
viaggia, Rimbaud! (prodotto dal Teatro Araldo di Torino, in occasione del
centenario della morte di Arthur Rimbaud), regia di Jeremy Cassandri (Guido
Ceronetti) con Melissa (Manuela Tamietti), Norma (Paola Roman), Francisco (Gian
Ruggero Manzoni), Yorik (Ciro Bùttari) e Zelda (Roberta Fornier) Per un pugno
di yogurt, collage di poesie Les papillons névrotiques (al Cafè Procope di
Torino) con la partecipazione di Corallina De Maria La carcassa circense, spettacolo
per marionette, azioni mimiche, cartelli, organo di Barberia con Rosanna
Gentili e Bartolo Incoronato Il volto, dedicato a Ingmar Bergman in occasione
dei suoi ottant'anni Ceronetti Circus ovvero Casse da vivo in esposizione
pubblica, letture di poesia, azioni sceniche mimiche e intermezzi musicali con
Elena Ubertalli e Giorgia Senesi M'illumino di tragico, collage di testi e
pantomime liriche; in tournée anche con il titolo I colori del tragico Rosa
Vercesi (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano), con Paola Roman, Simonetta
Benozzo e Luca Mauceri Una mendicante cieca cantava l'amore (2006, prodotto dal
Piccolo Teatro di Milano) con Cecilia Broggini, Luca Maceri, Elena Ubertali e
Filippo Usellini Siamo fragili, spariamo poesia, collage di testi poetici,
ballate e canzoni Strada Nostro Santuario (prodotto dal Piccolo Teatro di
Milano) filastrocche, canzoni, ballate, azioni mimiche, happening e numeri di
repertorio popolare La pedana impaziente (), repertorio di marionette e azioni
sceniche mimiche Finale di teatro (, al Teatro Gobetti di Torino) con Fabio
Banfo, Luca Mauceri, Valeria Sacco, Eleni Molos, Filippo Usellini Pesciolini
fuor d'acqua (), con Luca Mauceri e Eleni Molos Quando il tiro si alzaIl sangue
d'Europa (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, in occasione del centenario
della prima guerra mondiale) con Eleni Molos, Elisa Bartoli, Filippo Usellini,
Luca Mauceri e Valeria Sacco Non solo Otello (al Teatro della Caduta di Torino)
Novant'anni di solitudine (, a Cetona in occasione dei novant'anni
dell'autore), con Luca Mauceri, Filippo Usellini, Eleni Molos, Valeria Sacco,
Fabio Banfo, Salvatore Ragusa e Elisa Bartoli Ceronettiade. Deliri e visioni di
Guido Ceronetti (, a Cetona in occasione dell'anniversario della nascita
dell'autore), con Luca Mauceri, Eleni Molos, Valeria Sacco, Filippo Usellini
Cataloghi di mostre L'Atelier dei Sensibili a Dogliani, Michela Pasquali,
Dogliani, Biblioteca civica Einaudi, (catalogo della mostra nell'ex Convento
dei Carmelitani a Dogliani). Dalla buca del tempo: la cartolina racconta. I
collages di cartoline d'epoca del Fondo Guido Ceronetti, cura di Diana Rüesch e
Marco Franciolli, Archivi di cultura contemporanea, Museo Cantonale d'Arte
Lugano, Poesia marionette e viaggi di Guido Ceronetti nelle visioni di Carlo
Cattaneo, Paolo Tesi e Maurizio Vivarelli, Comune di Pistoia, Dare gioia è un
mestiere duro: trent'anni più due di Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti,
Andrea Busto e Paola Roman, fotografie di Mario Monge, Marcovaldo, Nella gola
dell'Eone. Ti saluto mio secolo crudele. Immagini del XX secolo. Tutti i
collages di immagini dedicati al ventesimo dell'era da Guido Ceronetti, Il
melangolo, Genova, "Per le strade" di Guido Ceronetti, Omaggio allo
scrittore, Diana Rüesch e Karin Stefanski, Cartevive, Biblioteca cantonale,
Archivio Prezzolini-Fondo Ceronetti, Lugano, Opere audiovisive su Guido
Ceronetti I Misteri di Londra. Tragedia per marionette e attori, regia di
Manuela Tamietti, Teatro Stabile di Torino (riprese videografiche dello
spettacolo, Torino). Sulle rotte del sogno. Parole musiche storie, di Luca
Mauceri (cd e vinile EMA Records, Firenze ). Guido Ceronetti. Il Filosofo
Ignoto, film documentario di Francesco Fogliotti e Enrico Pertichini (Italia'),
prodotto con la collaborazione del Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti e
dei Cinecircoli giovanili socioculturali. Guido Ceronetti nei mass-media Cura
cinque Interviste Impossibili per la seconda rete radiofonica rai, in cui
"intervistò" Attila (Carmelo Bene), Auguste e Louis Lumière (Alfredo
Bianchini e Mario Scaccia), George Stephenson (Mario Scaccia), Jack Lo
Squartatore (Carmelo Bene) e Pellegrino Artusi (Mario Scaccia). Il cantautore
Vinicio Capossela, nella raccolta di brani dal vivo Nel niente sotto il
soleGrand tour, ha inserito come incipit della seconda traccia (Non
trattare)una registrazione di Guido Ceronetti che declama i primi versetti del
Qoelet. Note Ha usato per molti anni un
sigillo con scritto "In esilio" : Capossela intervista Ceronetti. 6
febbraio . Morto lo scrittore, in Corriere fiorentino, G. Ceronetti, Tra
pensieri, Adelphi, Milano, p.11 Paolo Di
Stefano, In morte. Raffaele La Capria, Ultimi viaggi nell'Italia perduta, Mondadori,
Milano, . Guido Ceronetti morto,
ripubblichiamo la sua ultima intervista al Fatto: “Sono un patriota orfano di
patria. Italia, regno della menzogna”
Nello Ajello, Ceronetti. Poesia in forma di marionette, La Repubblica, ricerca.repubblica/
repubblica/archivio/ repubblica ceronetti-poesia-in-forma-di-marionette.html Samantha, lo spazio e il signor Freud "Guido Ceronetti. L'inferno del
corpo", in Cioran, Esercizi di ammirazione, Adelphi, Milano, "Oggi una quantità delle mie carte è
partita per Lugano dove tutto entrerà a far partedegli archivi della Biblioteca
Cantonale." Per le strade della Vergine, Adelphi, Milano,«Urlate urlate
urlate urlate. / Non voglio lacrime. Urlate. Idolo e vittima di opachi riti/
Nutrita a forza in corpo che giace / Io Eluana grido per non darvi pace Diciassette
di coma che m'impietra Gli anni di stupro mio che non ha fine. Con Decreto del
Presidente della Repubblica (pubblicato nella G.U.) gli è stato infatti
attribuito un assegno straordinario vitalizio ai sensi della legge, l'aiuto
della legge Bacchellila Repubblica, in Archiviola Repubblica. Edizione,
"Il nostro meridionale è attaccato alla propria famiglia e nient'altro,
qualsiasi abbominio, qualsiasi sfacelo pubblico non arrivino a toccargli la
Famiglia non gli faranno il minimo solletico. Sono popoli incapaci di amare
disinteressatamente qualcosa perché bello, al di sopra dell'utile. La loro vera
patria la loro nostalgia prenoachide è il deserto e faticano da ubriachi a
ritrovarlo". La pazienza dell'arrostito, Adelphi, Milano, (comedonchisciotte. Org forum/
index.php?p=/discussion/ ceronetti-dal-mare-il- pericolo-senza-nome lessiconaturale/
migranti-e-prediche/)
(ilfoglio/preservativi/news/il-grande-pan-e-vivo) (ilfoglio/cultura/news/far-torto-o-patirlo) (ilfoglio/ preservativi/news/ deutschland-pressappoco-uber-alle,
Sugli sbarchi in Sicilia l'europeista Ceronetti dice, come altri non
oserebbero, che “hanno ormai un carattere preciso di invasione territoriale,
premessa sicura di guerra sociale e religiosa", Ceronetti, nel dolore si
nasconde una luce) Mario Andrea Rigoni,
Ma non bisogna confondere il nichilismo con il razzismo, Corriere della Sera, Guido
Almansi, Le leggende di Ceronetti, la Repubblica, L'innocente Priebke
L'invasione Africana; “Il male omosessuale” (Ceronetti dixit). Albergo Italia
(Einaudi, Torino), capitolo "Elementi per una anti-agiografia", Uno, cento, mille Ceronetti, Guido Ceronetti,
Priebke. Alcune domande intorno a un ergastolo, la Stampa Pietrangelo Buttafuoco, La pietas di
Ceronetti per Priebke, il Foglio, Sono sempre stato anticomunista, sempre, Forse,
subito dopo la guerra ho avuto una certa simpatia, però non mi sono iscritto al
partito il giorno dopo aver visto La corazzata Potëmkin, come innumerevoli
giovani. Antifascista non è neanche da dire, da quando ci si è risvegliati. Di
quel periodo non ho voglia di parlarne, ero tra i soliti ragazzini stupidoni
che andavano alle adunate, ma non c'è storia di anima o di pensiero o di
famiglia che riguardi il fascismo. I miei non erano fascisti né antifascisti,
erano bravi cittadini come tanti. (Corriere della sera). Si dice il responso
delle urne. Come se un popolo di cretini potesse fornire oracoli (Per le strade
della Vergine) la mia America: “Un
baluardo contro l’ideologia comunista” XIII
Congresso Radicali Italiani ilfoglio/preservativi/
prttttt-in-una-sigla-tutto-pannella- impenitente-ottimista-e-visionario (corriere/
cultura/guido-ceronetti-in-un-amore-felice
Chi era, fustigatore dei vizi degli italiani Riviste/ Su
“Cartevive” omaggio, reazionario postmoderno
CERONETTI: ‘METTIAMO FINE ALLA BARBARIE DELLA VECCHIAIA SENZA SESSO: PER
DISABILI E CARCERATI QUALCOSA SI È MOSSO MA PER I VECCHI MASCHI SI MUOVERÀ MAI
QUALCUNO? LA PROPOSTA: UN SERVIZIO EROTICO VOLONTARIO PER GLI OVER 70! Abiterò
per tre mesi al N. 4 di via Giolitti a Torino, per mettere in scena col Teatro
dei Sensibili La Iena di San Giorgio. Sulla porta metto quest'altro mio nome:
Geremia Cassandri. La pazienza dell'arrostito. Giornale e ricordi, Milano,
Adelphi, Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premioletterario
viareggiorepaci. I VINCITORI DEL PREMIO “MONSELICE” PER LA TRADUZIONE ,
su biblioteca monselice, Alberto Roncaccia, Guido Ceronetti. Critica e
poetica (Bulzoni, Roma) Emil Cioran, Esercizi di ammirazione ( Adelphi, Milano,
Guido Ceronetti. L'inferno del corpo) Giosetta Fioroni, Marionettista. Guido
Ceronetti e il Teatro dei Sensibili secondo l'alchimia figurativa (Corraini,
Mantova) Giovanni Marinangeli, Guido Ceronetti. Il veggente di Cetona
(Fondazione Alce Nero, Isola del Piano) Fabrizio Ceccardi, Il Teatro dei
Sensibili (Corraini, Mantova) Andrea De Alberti, Il Teatro dei Sensibili di
Guido Ceronetti (Junior, Bergamo) Marco Albertazzi, Fiorenza Lipparini, La luce
nella carne. La poesia (La Finestra Editrice, Lavis) Masetti, A. Scarsella, M.
Vercesi , Pareti di carta. Scritti su Guido Ceronetti (Tre Lune, Mantova), Ortese,
Le piccole persone (Adelphi, Milano). Lattuada, Frammenti di una luce
incontaminata in Guido Ceronetti, La Finestra Editrice, Lavis, Emil Cioran Gnosticismo moderno. Ma io diffido dell'amore universale Guido
Ceronetti, la Repubblica, Archivio. L’ultimo bardo gnostico che cantava il
dolore per la bellezza perduta. Morto il più irregolare degli scrittori
italiani. Ernesto Ferrero, La Stampa, V D M Vincitori del Premio Grinzane
Cavour per la narrativa italiana V D M Vincitori del Premio "Città di
Monselice" per la traduzione letteraria V D M Vincitori del Premio Flaiano
per la narrative. Guido Ceronetti. Keywords: la lantern di Diogene, poesia latina,
Catullo, Marziale, Orazio, Giovenale, il filosofo ignoto, la pazienza del … --.
Aforismi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceronetti” – The Swimming-Pool
Library.
Cerroni (Lodi).
Filosofo. Grice: “I like Cerroni; he is very Italian: what other philosopher –
surely not at Oxford – would philosoophise on the precocity of Italian
identity? But his more general philosophical explorations may interest the
Oxonian who is not into “Italian studies”! – My favourites are his “Logic and
Society,” which reminds me of my “Logic and Conversation.” Then he has a
‘dialectiics of feelings,’ which is what all my philosophy of communication is
about; he has also philosophised on anti-contractualist philosophers like
Benjamin Constant --!” Studia a Roma con Albertelli e si laurea in Filosofia
del diritto. Ottenne la libera docenza in Filosofia del diritto e
l'incarico di Storia delle dottrine economiche e di Storia delle dottrine
politiche all'Lecce. Divenne professore di ruolo di Filosofia della
politica e ha insegnato a Salerno e all'Istituto Universitario Orientale di
Napoli. Ha insegnato per piùdi venti anni Scienza della politica nella Facoltà
di Sociologia dell'Università "La Sapienza" di Roma. Sempre
all'Università "La Sapienza" di Roma, era stato nominato professore
emerito. Macerata gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze
politiche. Altre opere: “Problemi attuali di storia dell'agricoltura
dell'U.R.S.S.” (Milano : Ed. Centro Per La Storia Del Movimento Contadino); “Il
sistema elettorale sovietico” (Roma: Tip. dell'Orso); “Legge sull'ordinamento
giudiziario dell'U.R.S.S.” (Roma : Ed. Associazione Italia-U.R.S.S, sezione
giuridica (Tip. Sagra, Soc. arti grafiche riproduzioni artistiche) Recenti
studi sovietici su problemi di teoria del diritto” Bologna); Sul carattere dei
movimenti contadini in Russia nei secoli 17. e 18.” (Milano : Movimento
Operaio); Studi sovietici di diritto Internazionale : A cura della sezione
giuridica della associazione Italia-urss. [presentazione di Umberto Cerroni, Roma
: Tip. Martore e Rotolo); La dottrina sovietica e il nuovo codice penale
dell'URSS / Umberto Cerroni.S.l. (Bologna : STEB) Poeti sovietici d'oggi, Roma
: Tip. Studio Tipografico, Per lo sviluppo degli studi storici sulla Russia, Bologna
: STEB); Diritto ed economia : rilevanza del concetto marxiano di lavoro per
una teoria positiva del diritto / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); Idealismo
e statalismo nella moderna filosofia tedesca, Milano : Giuffrè); Individuo e
persona nella democrazia / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); “Il problema
politico nello Stato moderno / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); Diritto e
sociologia / Umberto Cerroni. Kelsen e Marx / Umberto Cerroni.Milano :
Giuffrè); L'etica dei solitari / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); Lenin e il
problema della democrazia moderna : saggi e studi (Roma : NAVA) Parlamento e
società / Umberto Cerroni. Edizioni giuridiche del lavoro); La prospettiva del
comunismo / K. Marx, F. Engels, V.I. Lenin Roma : Editori Riuniti); Ritorno di
Jhering: Edizioni giuridiche del lavoro, (Città di Castello : Unione arti
grafiche) Sulla storicità della distinzione tra diritto privato e diritto
pubblico Milano : Giuffrè); La critica di Marx alla filosofia hegeliana del
diritto pubblico / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); La filosofia politica di
Giovanni Gentile / Umberto Cerroni. (Novara : Tip. Stella Alpina) La nuova
codificazione penale sovietica / Umberto Cerroni. Edizioni giuridiche del
lavoro); Concezione normativa e concezione sociologica del diritto moderno /
Umberto Cerroni.S.l. : Edizioni giuridiche del lavoro); Diritto e rapporto
economico / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); Kant e la fondazione della
categoria giuridica / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); Marx e il diritto
moderno / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Teorie sovietiche del
diritto / Stucka ...(et al.) ; Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); Saggi /
Benjamin Constant ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Samonà e Savelli); Il
diritto e la storia / Umberto Cerroni. Le origini del socialismo in Russia /
Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Il pensiero politico dalle origini ai
nostri giorni / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti, 1966 Un ouvrage recent
sur Marx et le droit : Umberto Cerroni , Marx e il diritto moderno, Rome, par
Michel Villey.[Paris] : Sirey); Che cos'è la proprietà ?, o, Ricerche sul
principio del diritto e del governo : prima memoria, Pierre-Joseph Proudhon ;
prefazione, cronologia, Umberto
Cerroni.Bari : Laterza); Considerazioni sullo stato delle scienze sociali :
relazioni sugli aspetti generali / Umberto Cerroni.[Milano : Centro nazionale
di prevenzione e difesa sociale, (Milano
: Tipografia Ferrari) La funzione rivoluzionaria del diritto e dello stato” (Torino
: Einaudi); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni” (Roma, Editori
Riuniti); La rivoluzione giacobina / Maximilien Robespierre ; Umberto
Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Discorso sull'economia politica e frammenti
politici / Rousseau” (Bari : Laterza); La libertà dei moderni” (Bari : De Donato);
Metodologia e scienza sociale” (Lecce : Milella); Problemi della legalità
socialista nelle recenti discussioni sovietiche / Umberto Cerroni.Milano : A.
Giuffrè); “Sulla natura della politica : utopia e compromesso” (Milano :
Giuffrè); Considerazioni sullo stato delle scienze sociali”; Il metodo
dell'analisi sociale di Lenin” (Bari : Adriatica); Il pensiero giuridico
sovietico” (Roma : Editori Riuniti); La
questione ebraica” (Roma : Editori Riuniti); La società industriale e la
condizione dell'uomo” (Lecce : ITES); “Sul metodo delle scienze sociali: una
risposta” (Milano : Giuffrè); Principi di politica / Benjamin Constant ; Roma :
Editori Riuniti); Strade per la libertà” (Roma : Newton Compton); Tecnica e
libertà : conferenza tenuta al Lions club di Bari (Padova : Grafiche Erredici)
Tecnica e libertà / Umberto Cerroni.Bari : De Donato); Lavoro salariato e
capitale / Appunti sul salario e appendice di F. Engels ; Introduzione, cura e
note filologiche di Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton italiana,La societa
industriale e le trasformazioni della famiglia / U. Cerroni.Milano : Giuffrè); Salario,
prezzo e profitto / Karl Marx ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Newton
Compton); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin ; introduzione di Umberto
Cerroni.Roma : Newton Compton italiana); Teoria della crisi sociale in Marx :
Una reinterpretazione / Umberto Cerroni.Bari : De Donato); Strade per la
libertà / Bertrand Russell ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Newton
compton italiana); Discorso sull'economia politica e frammenti politici /
Rousseau ; traduzione di Celestino E. Spada ; prefazione di Umberto Cerroni.Bari
: Laterza); Caratteristiche del romanticismo economico / V. I. Lenin ;
prefazione di Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Kant e la fondazione
della categoria giuridica / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); La libertà dei
moderni / Umberto Cerroni.Bari : De Donato); Marx e il diritto moderno /
Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Il pensiero di Marx / Antologia
Umberto Cerroni , con la collaborazione di Oreste Massari e Anna Maria Nassisi.Roma
: Editori Riuniti); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni /
Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Saggio sui privilegi : che cosa e il
Terzo stato? / Emmanuel-Joseph Sieyes ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma :
Editori Riuniti); Lo sviluppo del capitalismo in Russia; Lenin ; introduzione
di Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); In memoria del manifesto dei
comunisti / Antonio Labriola ; Manifesto del partito comunista / Marx-Engels ;
introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton); La libertà dei moderni
/ Umberto Cerroni.2. ed.Bari : De Donato); Teoria politica e socialismo; Roma);
Il pensiero di Marx / antologia Umberto Cerroni ; con la collaborazione di
Oreste e Anna Maria Nassisi. 2. ed.Roma : Editori Riuniti); Teoria della crisi
sociale in Marx : una reinterpretazione (Bari : De Donato); Teoria politica e
socialismo” (Roma : Ed.Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Karl Marx ; con
appunti sul salario e appendice di F. Engels ; introduzione, cura e note
filologiche di Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton); Marx e il diritto
moderno / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Il marxismo e l'analisi del
presente / Umberto Cerroni. Politica ed economia); Societa civile e stato
politico in Hegel” (Bari : De Donato); Salario, prezzo e profitto” (Karl Marx”
(Roma : Newton Compton italiana); Il lavoro di un anno : almanacco, Umberto Cerroni.Bari
: De Donato); Il pensiero di Marx / Karl Marx ; Roma : Editori Riuniti); Il
pensiero politico : dalle origini ai nostri giorni” (Roma : Editori Riuniti); Il
rapporto uomo-donna nella civiltà borghese, ed.Roma : Ed. Riuniti); Scienza e
potere / scritti di U. Cerroni ... <et al.>.Milano : Feltrinelli); Stato
e rivoluzione / Vladimir I. Lenin” (Roma : Newton Compton); Lo sviluppo del
capitalismo in Russia” (Roma : Editori Riuniti); La teoria generale del diritto
e il marxismo / Evgenij Bronislavovic Pasukanis ; con un saggio introduttivo di
Umberto Cerroni.Bari : De Donato); Introduzione alla scienza sociale, Roma :
Editori Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Karl Marx ; con appunti sul
salario e appendice di F. Engels ; introduzione, cura e note filologiche di
Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton, Materialismo storico e scienza / Umberto
Cerroni.Lecce : Milella); Il rapporto uomo-donna nella civilta borghese /
Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti, Salario, prezzo e profitto / Karl Marx
; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton); Sulla storicità
dell'eros : note metodologiche / Umberto Cerroni, Annarita Buttafuoco); Crisi
ideale e transizione al socialismo / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Scritti
economici / V. I. Lenin ; Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Stato e
rivoluzione / Vladimir I. Lenin ; introduzione di Umberto Cerroni.- Roma :
Newton Compton); Carte della crisi : taccuino politico-filosofico / Umberto
Cerroni.Roma : Editori Riuniti, Crisi del marxismo? / Umberto Cerroni ;
intervista di Roberto Romani.Roma : Editori Riuniti); Critica al programma di
Gotha e testi sulla tradizione democratica al socialismo / Karl Marx ; Umberto
Cerroni.Roma : Editori Riuniti, Due tattiche della socialdemocrazia nella
rivoluzione democratica / V. I. Lenin ; Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti,
In memoria del manifesto / Antonio Labriola ; introduzione di Umberto
Cerroni.2. ed.Roma : Newton Compton Editori); Che cos'è la proprietà ? : o
ricerche sul principio del diritto e del governo : prima memoria, Pierre-Joseph
Proudhon ; prefazione, cronologia, biografia Umberto Cerroni. 3. ed.Roma ; Bari
: Laterza, Lavoro salariato e capitale / Karl Marx ; con appunti sul salario e
appendice di F. Engels ; introduzione ... di Umberto Cerroni.Roma : Newton
Compton); Lessico gramsciano / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); La
prospettiva del comunismo, K. Marx, F. Engels, V. I. Lenin ; Umberto Cerroni.Roma
: Editori riuniti); La questione ebraica e altri scritti giovanili / Karl Marx
; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Editori riuniti); Saggio sui privilegi
: che cosa e il terzo stato? Emmanuel-Joseph Sieyes ; introduzione di Umberto
Cerroni : traduzione di Roberto Giannotti.Roma : Editori Riuniti, Strade per la
liberta, Bertrand Russell ; introduzione di Umberto Cerroni ; traduzione di
Pietro Stampa.Roma : Newton Compton); Teoria del partito politico (Roma : Editori
Riuniti, I giovani e il socialismo, K. Marx, F. Engels, V. I. Lenin, A. Gramsci
; Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Introduzione alla scienza sociale,
Roma; Storia del marxismo / Predrag Vranicki ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma
: Editori Riuniti, Quasi una vita... e anche meno, poesie di Italo Evangelisti
; prefazione di Umberto Cerroni” (Milano ; Roma); “Che cosa fanno oggi i
filosofi? Milano); “Logica e società : pensare dopo Marx” (Milano : Bompiani, La
democrazia come problema della società di massa; Principi di politica” (Roma :
Editori Riuniti); “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico” (Roma
: Editori Riuniti); Il pensiero di Marx : antologia, con la collaborazione di
Oreste Massari e Anna Maria Nassisi.III. ed. Roma : Editori Riuniti, Scritti
economici” (Roma : Editori Riuniti); Teoria della società di massa” (Roma :
Editori Riuniti); La rivoluzione giacobina” (Roma : Editori riuniti, Politica :
metodo, teorie, processi, soggetti, istituzioni e categorie / Umberto
Cerroni.Roma : NIS); La politica post-classica : studi sulle teorie
contemporanee” (Taviano : Lit. Graphosette) Urss e Cina : le riforme economiche”
Centro studi paesi socialisti della Fondazione Gramsci.Milano : F. Angeli,
stampa, Che cosa è il terzo stato con il Saggio sui privilege” (Roma : Editori
Riuniti, Democrazia e riforma della politica : Lo Statuto del nuovo PCI / Umberto
Cerroni.Roma : Partito Comunista Italiano, Regole e valori nella democrazia :
stato di diritto, stato sociale, stato di cultura” Roma : Ed. Riuniti, La
cultura della democrazia / Umberto Cerroni.Chieti : Metis, Che cosa e il Terzo
Stato? / Emmanuel-Joseph Sieyes ; Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti, La
rivoluzione giacobina / Maximilien Robespierre ; Umberto Cerroni ; traduzione
di Fabrizio Fabbrini; apparati biobibliografici di Grazia Farina.Pordenone :
Studio Tesi, Manifesto del partito comunista / Karl Marx, Friedrich Engels ;
nella traduzione di Antonio Labriola ; seguito da In memoria del manifesto dei
comunisti di Antonio Labriola ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: TEN, Nazione/regione : i contributi regionali alla
costruzione dell'identità nazionale / Andrea Battistini, Umberto Cerroni ,
Michele Prospero.Cesena : Il ponte vecchio, L'ambiente fra cultura tecnica e
cultura umanistica : seminario svoltosi presso l'ANPA Umberto Cerroni ; A.
Albanesi, M. Maggi e L. Sisti.Roma : Anpa, [Novecento : almanacco del ventesimo
secolo, Cesena : Il ponte vecchio, Il pensiero politico italiano / Umberto Cerroni.Roma
: Newton Compton, Il pensiero politico del Novecento / Umberto Cerroni.Roma :
Tascabili economici Newton); “Le regole del metodo sociologico” (Roma : Editori
Riuniti, 1996 Regole e valori nella democrazia : Stato di diritto, Stato
sociale, Stato di cultura / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, L'identità
civile degli italiani / Umberto Cerroni.Lecce : Manni, L'ulivo al governo :
come cambia l'Italia / interventi di U. Cerroni; Paola Piciacchia.Roma: Philos,
stampa Politica / Umberto Cerroni.Roma : Seam, Confronto italiano : atti degli
incontri di Cetona, Giovanni Bechelloni, Umberto Cerroni.Firenze : Ed. Regione
Toscana, stampa (Firenze : Centro Stampa Giunta regionale); “L'identità civile
degli italiani” (Lecce : Manni, Lo Stato democratico di diritto : modernità e
politica / Umberto Cerroni.Roma : Philos, stampa, Habeas mentem : Scuola e vita
civile :Umberto Cerroni.Rionero in Vulture (Pz) : Calice, Conoscenza e societa
complessa : per una teoria generale del sensibile” (Roma : Philos, Ricordo di
Marisa De Luca Cerroni / scritti di Umberto Cerroni ... et al.Lecce, stampa Confronto
italiano : atti degli incontri di Cetona, Giovanni Bechelloni (Firenze : Ed.
Regione Toscana, stampa (Centro Stampa
Giunta Regionale) Taccuino politico-filosofico / Umberto Cerroni.Roma : Philos,
Precocità e ritardo nell'identità italiana, Roma, Precocità e ritardo
nell'identità italiana, Roma : Meltemi, Taccuino politico-filosofico, Umberto
Cerroni.Lecce : Manni, Le radici culturali dell'Europa, Umberto Cerroni.Lecce
:Manni, Radici della civiltà europea, Lecce : Manni,Globalizzazione e
democrazia, Lecce : Manni, Taccuino politico-filosofico, Lecce, Taccuino
politico-filosofico Umberto Cerroni.San Cesario di Lecce : Manni, L'eretico
della sinistra : Bruno Rizzi elitista democratico” (Milano : F. Angeli, Taccuino politico-filosofico, Lecce; La
scienza e una curiosita: scritti in onore di Umberto Cerroni / Cosimo Perrotta
; con la collaborazione di Mariarosa Greco” (San Cesario di Lecce : Manni, Manifesto
del partito comunista / Karl Marx, Friedrich Engels ; nella traduzione di
Antonio Labriola ; seguito da In memoria del Manifesto dei comunisti di Antonio
Labriola” (Roma : Newton & Compton, Dialettica dei sentimenti : dialoghi di
psicosociologia / Umberto Cerroni , Alberta Rinaldi.San Cesario di Lecce :
Manni, [Taccuino politico-filosofico, Umberto Cerroni.[San Cesario di Lecce] :
Manni, Ricordi e riflessioni : un dialogo con Giuseppe Vagaggini / Umberto
Cerroni.Montepulciano : Le Balze. Umberto Cerroni. Keywords: categoria
giuridica, Trasimacco, Kelsen. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerroni” – The
Swimming-Pool Library.
Certani (Bologna).
Filosofo. Grice: “I like Certani – but then in Italy they learn Hebrew at
school, whereas we at Clifton separated Montefiore from the rest!” Grice:
“Certani philosophised, like Kierkegaard later will, on ‘L’Abraamo,’ Insegna a
Bologna. Opere: “Conclusioni di filosofia” e di teologia. Insegna a Cesena, Brescia,
Milano e Bologna. Si laurea a Bologna. Altre opere: “Abramo: Caino ed Abele”
(Venezia); “Francesco Saverio” (Bologna, Ferrosi); “La verità vendicata; cioè
Bologna difesa dalle calunnie di Francesco Guicciardini. Osservazioni Istoriche
dell'Abate Giacomo Certani Canonico Dott. Teologo Colleg. Filosofo, e
nell'Bologna pubblico Professore di Filosofia morale. In Bologna per gli Eredi
del Dozza); “Maria Vergine Coronata. Descrizione, e dichiarazione della divota
Solennità fatta in Reggio per Prospero Vedrotti); “La Chiave del Paradiso;
cioè, invito alla Penitenza alle Cavalieri” (Bologna per Giacomo Monti); “Il
Gerione Politico, Riflessioni profittevoli alla vita civile, alle Repubbliche,
e alle Monarchie” (Milano, Compagnini); “S. Patrizio Canonico Regolare
Lateranense Apostolo, e Primate dell'Ibernia; descritta dall'Abate D. Giacomo
Certani ec.” (Bologna nella Stamperia Camerale); “L'Isacco ed il Giacobbe”
(Bologna, per il Monti); “La Santità Prodigiosa, Vita di S. Brigida Ibernese
Canonichessa Regolare di S.Agostino Scritta dall'Ab. D. Giacomo Certani
Canonico Regolare Lateranense Dott. Filosofo e Teologo Collegiato ec. per gli
eredi di Antonio Pisarri); “La Susanna in versi, notata da Lorenzo Legati: nel
suo museo Cospiano al fol.117 e la nota ancora Gregorio Leti nell'Italia
Regnante parte III lib. II, pag. 118 ove parla di Questo soggetto. Oltre i
sopraccennati ne parla ancora l'Orlandini negli Scrittori Bolognesi ec. Giacomo
Cerretani. Jacopo Certani. Giacomo Certani. Keywords: Il cavaliere penitente;
ossia, la chiave del paradiso, chastita, maschile. Christian masculinity,
Percival, The Holy Grail, the knight-penant, cavalier penitente. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Certani” – The Swimming-Pool Library.
Ceruti (Cremona).
Filosofo. Grice: “Ceruti is a good one – he has philosophised on solidarity –
and previously on altruism – these are VERY different concepts, as he notes –
but also on ‘vinculum,’ a nice Latin word for what I’m into! – “A Griceian at
heart!” -- Grice: “Only one T!”. Tra i
filosofi protagonisti dell'elaborazione del pensiero complesso, è uno dei
pionieri della ricerca contemporanea inter- e trans-disciplinare sui sistemi
complessi. La sua filosofia si produce all'intersezione di una pluralità
di domini di ricerca: epistemologia (filosofia e storia della scienza, storia
delle idee, noologia…), scienze della natura (fisica, biologia, cosmologia…),
scienze dell'uomo (antropologia, sociologia, psicologia, storia…), scienze
dell'organizzazione e del management. Si laurea in filosofia della scienza
con Geymonat con “L'epistemologia genetica di Piaget” nella quale, attraverso
l'analisi dell'epistemologia viene posto il problema del ruolo della biologia e
delle scienze del vivente, nelle varie articolazioni disciplinari, come
decisiva interfaccia fra le scienze fisico-chimiche e le scienze umane, in
grado di favorire processi di circolazione concettuale e di traduzione
reciproca fra vari e multiformi campi del sapere. Nei suoi studi ha affrontato
le questioni del significato filosofico ed epistemologico delle maggiori
rivoluzioni scientifiche del ventesimo secolo (teoria dei quanti, relatività,
teoria dei sistemi, biologia molecolare) focalizzando le sue ricerche sui temi
del cambiamento stilistico e delle relazioni fra stile e contenuto nella storia
delle idee, nonché dello statuto conoscitivo dei risultati innovativi connessi
alle rivoluzioni scientifiche. Una sintesi di queste ricerche è contenuta nell'opera
Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica di Piaget. Assunto
da Ginevra, presso la Facoltà di Psicologia e scienze dell'educazione fondata
da Piaget, in qualità di assistant, svolgendo ricerche nel gruppo di lavoro
coordinato da Munari. In questo periodo approfondisce le relazioni che
connettono l'opera di Piaget a vari modelli e approcci del contesto scientifico
a lui contemporaneo: alla termodinamica di non equilibrio di Prigogine, alle
ricerche sul concetto e sui processi di auto-organizzazione e autopoiesi,
all'embriologia di Waddington, ai nascenti dibattiti sul significato delle
ricerche della biologia molecolare. Il tema chiave di queste convergenze
disciplinari è la possibile delineazione di modelli generali del cambiamento,
nonché del ruolo della discontinuità in questi modelli. L'approfondimento dei
singoli filoni disciplinari gli consente di interrogarsi più estensivamente sul
significato profondo e complessivo dei cambiamenti paradigmatici delle scienze
alla fine del ventesimo secolo: dalla convergenza di varie discipline emerge la
prospettiva di una scienza nuova, caratterizzata da precise assunzioni
relativamente alla natura del cambiamento, alla relazione fra soggetto e mondo,
al ruolo del tempo, della storia e della narrazione negli approcci scientifici.
La nozione di complessità costituisce un'utile maniera sintetica di rapportarsi
con tali assunzioni. Per ricostruire queste novità del contesto scientifico,
imposta un programma di ricerca attorno al tema della epistemologia della
complessità, parte integrante del quale è stata a partire l'organizzazione di
convegni internazionali e di seminari, e la pubblicazione del volume La sfida
della complessità. Ricercatore associato presso il Centre d'Etudes
Transdisciplinaires, Sociolgie, Anthropologie, Politique diretto da Morin,
centro di ricerca associato al CNRS e all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences
Sociales di Parigi, presso il quale dirige l'unità di ricerca di filosofia
della scienza. In quegli anni approfondisce le problematiche dell'epistemologia
genetica e della cibernetica, pubblicando Il vincolo e la possibilità e La
danza che crea. Svolge inoltre ricerche sul ruolo giocato dalle scienze
evolutive e dalla teoria dell'evoluzione di tradizione darwiniana nel più
generale mutamento di prospettiva delle valenze cognitive e stilistiche del
contesto scientifico, focalizzandosi sulle conseguenze epistemologiche e
filosofiche dei modelli di cambiamento e delle relazioni fra continuità e
discontinuità conseguenti alla teoria degli equilibri punteggiati di Gould e Eldredge,
ai dibattiti sulle estinzioni di massa e sulle testimonianze paleontologiche,
alle nuove forme di collaborazione fra evoluzionismo e genetica, alle relazioni
fra approcci storici e approcci nomotetici nelle scienze del vivente. Ne deriva
una serie di ricerche compendiate nel volume Origini di storie, in cui il tema
del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della contingenza e
della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi all'interno di un
ampio spettro disciplinare, che connette bio G. Bocchi, 1993), in cui il
tema del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della
contingenza e della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi
all'interno di un ampio spettro disciplinare, che connette bioogia evolutiva,
cosmologia, fisica del caos, antropologia e storia delle idee. Gli
interrogativi sul modo in cui dallo studio del radicamento naturale delle
società umane possano scaturire nuovi strumenti di comprensione dei fenomeni
sociali e culturali della nostra specie lo portano a entrare in contatto con le
ricerche condotte in questi stessi anni dal Santa Fe Institute, volte
all'individuazione di leggi generali della complessità e di modelli generali
sul comportamento dei sistemi complessi. Una nuova linea di ricerca di
filosofia della scienza, che approfondisce a partire dalla metà degli anni
novanta, è lo studio dei modelli di cambiamento dell'evoluzione umana, in
relazione alla teoria degli equilibri punteggiati, alla visione discontinuista
della storia naturale, alle dinamiche ecologiche e ambientali. Una seconda
linea di ricerca epistemologica, strettamente interrelata alla prima, è lo
studio dell'importanza delle analisi genetiche per la ricostruzione dell'evoluzione
e della storia umane, sia dei tempi lunghi della storia delle varie specie
ominidi sia dei tempi medi della storia della nostra specie Homo sapiens. A
partire da Solidarietà o barbarie. L'Europa delle diversità contro la pulizia
etnica, imposta una serie di seminari e di ricerche di filosofia delle scienze
biologiche, evoluzionistiche e storiche sul tema dei confini e sulle identità
nazionali e culturali. Nel far ciò approfondisce una concezione evolutiva di
tali identità, consonante con la prospettiva epistemologica costruttivistica, e
convergente con i presupposti epistemologici, costruttivisti e
antiessenzialisti propri della tradizione evoluzionistica darwiniana. In queste
ricerche, viene affrontata anche la questione del significato della rivoluzione
darwiniana nell'intera storia della tradizione scientifica occidentale. Un
ulteriore studio dedicato a tali problematiche è il volume Educazione e globalizzazione,
che traccia un bilancio epistemologico degli intrecci disciplinari fra storia,
geografia, antropologia, scienze evolutive e naturali per comprendere il ruolo
della diversità culturale nella storia della specie umana e le radici profonde
degli attuali processi di globalizzazione. Insegna a Palermo, di Milano Bicocca,
di Bergamo e a Milano, dove attualmente insegna e ricopre la carica di
direttore del Dipartimento di Studi umanistici. Presidente della Società
Italiana di Logica e Filosofia delle Scienze. Preside della Facoltà di Scienze
della Formazione dell'Università degli studi di Milano Bicocca. Preside della
Facoltà di Scienze della Formazione dell'Bergamo. Direttore del Centro di
Ricerca sull'Antropologia e l'Epistemologia della Complessità che comprendeva
la Scuola di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità a Bergamo.
Principali tematiche presenti negli studi di Ceruti: Antropologia Bioetica
costruttivismo (filosofia); Epistemologia; Epistemologia della complessità;
Epistemologia genetica; Evoluzionismo; Globalizzazione; Scienze cognitive;
Scienze della formazione; Teoria dei sistemi. Membro della Commissione
Nazionale di Bioetica della Presidenza del Consiglio dei ministri. Nominato,
dal Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni, Presidente della
Commissione incaricata di scrivere le nuove Indicazione per il Curricolo per la
Scuola dell'Infanzia e per il Primo Ciclo di Istruzione. Partecipa alla
fase di fondazione del Partito Democratico, venendo eletto all'Assemblea
costituente del partito e assumendo l'incarico di relatore della Commissione
incaricata di redigerne il Manifesto dei Valori. Alle elezioni politiche
italiane della XVI Legislatura eletto al Senato della Repubblica nelle liste
del Partito Democratico. È stato membro della Commissione permanente
(Istruzione pubblica, beni culturali), della Commissione parlamentare per
l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e della
Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza. Non si è ripresentato
alle elezioni della XVII legislatura. Altre opere: “Il tempo della
complessità” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “La fine dell'onniscienza” (Studium,
Roma); “La nostra Europa” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Organizzare
l'altruismo” (Laterza, Roma-Bari); “Una e molteplice: ripensare l'Europa”
(Tropea, Milano); “Il vincolo e la possibilità” (Feltrinelli, Milano); “Origini
di storie” (Feltrinelli, Milano); “La sfida della complessità” (Feltrinelli,
Milano); “Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato” (Raffaello
Cortina Editore, Milano); “Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina
Editore, Milano); “Formare alla complessità, Carocci, Roma); “Le origini della
scrittura. Genealogie di un'invenzione, Bruno Mondadori Editore, Milano); “Le
radici prime dell'Europa: gli intrecci genetici, linguistici, storici” (Bruno
Mondadori Editore, Milano); “Epistemologia e psicoterapia, Raffaello Cortina
Editore, Milano); “Pensare la diversità. Per un'educazione alla complessità
umana, Meltemi, Roma); Evoluzione senza fondamenti” (Laterza, Roma-Bari);
“Solidarietà o barbarie: l’Europa delle diversità contro la pulizia etnica” (Raffaello
Cortina Editore, Milano, Prefazione di Edgar Morin, Il caso e la libertà,
Laterza, Roma-Bari); Evoluzione e conoscenza, Lubrina, Bergamo); “L'Europa
nell'era planetaria” (Sperling & Kupfer, Milano); “Turbare il futuro: un
nuovo inizio per la civiltà planetaria” (Moretti & Vitali, Bergamo); “Che
cos'è la conoscenza, Roma-Bari); “La danza che crea. Evoluzione e cognizione
nell'epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano, Prefazione di Francisco Varela,
Lazlo E., Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano); Dopo Piaget. Aspetti
teorici e prospettive per l'educazione, Edizioni Lavoro, Roma); Modi di pensare
postdarwiniani: saggio sul pluralismo evolutivo” (Dedalo, Bari); L'altro
Piaget. Strategie delle genesi, Emme Edizioni, Milano Bocchi G., Ceruti
M. Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica dell'opera di
Jean Piaget, Feltrinelli, Milano. Direttore delle riviste scientifiche:
La Casa di Dedalo (Casa Editrice Maccari, Parma); Oikos (Pierluigi Lubrina
Editore, Bergamo); Pluriverso (Rcs, Milano). mauroceruti. Pagina nel sito del
Senato, su senato. Ministero della Pubblica Istruzione, Nuove Indicazioni
Nazionali per il Curricolo, su pubblica.istruzione. Presidenza del Consiglio
dei ministri, Comitato Nazionale di Bioetica, su governo. Mauro Ceruti.
Keywords: dal semplice al complesso, complesso proposizionale, discover the
simple elements, philosophy as deconstructing the complex, solidarity,
altruism, solideratieta, altruismo, sistema complesso, sistema semplice,
etimologia di ‘complesso’. Filosofia della solidarieta, solidarieta: il
semplice della solidarieta, il semplice dell’altruismo, Butler, amore proprio,
amore improprio, altruismo, egoismo, self-love, other-love, benevolence,
organizzare l’altruismo, abitare la complessita, multiple e diverso, unico e
multiple. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceruti” – The Swimming-Pool Library.
Cerutti (Genova). Filosofo.
Grice: “Cerutti is into politics, like Hobbes, and it’s not surprising he
philosophised on ‘il leviatano,’ as the Italians call it – and represent as a
tortoise ridden by Jacob --,” -- “La globalizzazione dei diritti umani dovrebbe
avere il suo culmine con il riconoscimento del diritto che ha il Genere Umano
alla sopravvivenza» Insegna a Firenze. La
sua filosofia verte principalmente sul marxismo occidentale e la "teoria
critica" propria della Scuola di Francoforte da cui, tra l'altro proviene.
Lavora sulla filosofia politica delle relazioni internazionali ed affari
globali, seguendo due diverse tematiche: la teoria delle sfide globali (armi
nucleari e riscaldamento globale), e la questione dell'identità “politica” (non
sociale o culturale) degli europei in relazione con la legittimazione
dell'unione europea. Da ricordare la sua amicizia con Bobbio del quale Cerutti
stesso si ritiene allievo. Altre opere: “Storia e coscienza di classe”
(Milano); “Totalità, bisogni e organizzazione” (Firenze); “Marxismo e politica.
Saggi e interventi, Napoli); “Gli occhi sul mondo. Le relazioni internazionali
in prospettiva interdisciplinare, a cura di, Roma); “Sfide globali per il
Leviatano. Una filosofia politica delle armi nucleari e del riscaldamento
globale” (Milano, Vita e pensiero). Furio Cerutti. Keywords: lotta di classe,
Lukacks, Marx, unione europea, identita culturale, identita sociale, identita
politica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerutti” – The Swimming-Pool Library.
Cervi
Cesa
Cesarini (Genzano di Roma).
Filosofo. Grice: “Cesarini was more of a warrior than a philosopher, but I also
fought in the North-Atlantic – in Italy, war trumps philosophy! He wrote a
philosophical story of the war of Velletri – and liked to dress up as one of
his ducal ancestors – a gentleman!” -- There are many philosophers with the
name Sforza Cesarini. Figlio del III duca Lorenzo Sforza Cesarini. Convinto
sostenitore del nuovo Regno d'Italia tanto da nascondere le armi degli insorti
nel suo palazzo. Per questo motivo, il papa confisca tutte le sua proprietà che
vennero loro restituite da Vittorio Emanuele II dopo il suo ingresso a Roma,
reso possibile dalla presa di Porta Pia, accompagnato dallo stesso filosofo in
veste di consigliere del re. Grice: “My mother loved him; but then every
Englishman loved the Kingdom of Italy, or rather, every Englishman hated the
Pope!” – Grice: “Sforza Cesarini should never be confused with Cesarini Sforza:
Sforza Cesarini is under “C”; Cesarini Sforza, the jurisprudential philosopher,
is under “S”. IV duca Sforza Cesarini. Francesco II Sforza Cesarini. Francesco
Sforza Cesarini. Sforza Cesarini. Cesarini. Keywords: “Letters of my father,
kingdom of Italy, anti-Popish, Palazzo di Roma. Patria, patriotism,
nazionalismo. Il nuovo regno d’Italia, Vittorio Emanuele II, Porta Pia. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cesarini” – The Swimming-Pool Library.
Cherchi (Oschiri).
Filosofo. Grice: “Cherchi demonstrates that Jersey exists – if a philosopher is
from Jersey we wouldn’t call him English – neither would he! Cherchi is from
‘Sardinia,’ and he philosophises mainly about that – which is very fun! My
favourite of his tracts is one on the circle and the ellipse as it relates to Vinci’s
‘homo vitruviano.’ Anda a scuola al liceo Siotto Pintor a Cagliari. Placido
Cherchi studiò a Cagliari con Ernesto De Martino e Corrado Maltese,
interessandosi contemporaneamente di studi e problemi etno-antropologici e
storico artistici. Come autore di importanti lavori sul pensiero di Ernesto De
Martino e sui problemi dell'identità e della cultura sarda, fu un membro attivo
della Scuola antropologica di Cagliari, dovuta alla presenza all'Cagliari di
maestri come Ernesto de Martino e Alberto Mario Cirese, come pure di loro
allievi quali Clara Gallini, Giulio Angioni e lo stesso Cherchi. Morì nel
all'età di 74 anni a causa di un'emorragia cerebrale. Altre opere: “Paul
Klee teorico, De Donato, Bari); Sciola, percorsi materici, Stef, Cagliari); “Pittura
e mito in Giovanni Nonnis, Alfa, Quartu S.E.); Nivola, Ilisso, Nuoro); “Placido
Cherci, Ernesto De Martino: dalla crisi
della presenza alla comunità umana, Liguori, Napoli); “Il signore del limite:
tre variazioni critiche su Ernesto De Martino, Liguori, Napoli); “Il peso
dell'ombra: l'etnocentrismo critico di Ernesto De Martino e il problema
dell'autocoscienza culturale, Liguori, Napoli); “Etnos e apocalisse: mutamento
e crisi nella cultura sarda e in altre culture periferiche, Zonza, Sestu); “Manifesto
della gioventù eretica del comunitarismo e della Confederazione politica dei
circoli, organizzazione non-partitica dei sardi , coautori Francesco Masala ed
Eliseo Spiga, Zonza , Sestu); “Il recupero del significato: dall'utopia
all'identità nella cultura figurativa sarda, Zonza, Sestu); “Crais: su alcune
pieghe profonde dell'identità, Zonza, Sestu); “Il cerchio e l’ellisse.
Etnopsichiatria e antropologia religiosa in Ernesto De Martino: le dialettiche
risolventi dell’autocritica, Aìsara); “La riscrittura oltrepassante, Calimera,
Curumuny); “Per un’identità critica. Alcune incursioni auto-analitiche nel
mondo identitario dei sardi” (Arkadia. Silvano Tagliagambe: Giulio Angioni, Una scuola sarda di
antropologia?, in (Luciano Marrocu,
Francesco Bachis, Valeria Deplano), La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi,
processi culturali, Roma, Donzelli, , 649-663
Addio a Placido Cherchi, il ricordo di Giulio Angioni: "Fu ideologo
del neo sardismo" Archiviato il 2 ottobre
in . Notizie.tiscali È morto
Placido Cherchi, vicepresidente della Fondazione Sardinia
Fondazionesardinia.eu Scuola
antropologica di Cagliari Ernesto de Martino
Giulio Angioni, In morte di Placido Cherchi, sito "il manifesto
sardo".il 6 ottobre . Roberto Carta, Che cosa è Placido Cherchi? Due o tre
cose, per decidere di essere sardi Po arregordai a Placido CherchiEnrico
Lobina, su enricolobina.org. Silvano Tagliagambe, L'eredità preziosa di Placido
Cherchi. Placido Cherchi. Keywords: filosofia sarda, etnos, etnicicita
italiana, sardegna non e parte d’Italia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cerchi” – The Swimming-Pool Library.
Chiappelli (Pistoia).
Filosofo. Grice: “One of my most recent reflections is on the distinction and
striking parallelisms I draw between the Athenian dialectic – best represented
in Raffaello’s “La scuola di Atene” at Rome – and the Oxonian dialectic – but
represented in those reeky meeting at the Philosophy Room at Merton – or
better, my Saturday mornings at St. John’s with Austin! Chiappelli provides us
with a most brilliant hermeneutic of the iconography in Raffaello’s painting –
Strawson tried to emulate him with some caricatures of Austin, Grice, and the
rest of the Play Group – but his doodlings ccouldn’t compare!” Figlio del fisiologo
Francesco Chiappelli, zio del pittore omonimo, si laurea in lettere e filosofia
all'istituto superiore di Firenze ed inizia la carriera universitaria a Napoli,
dove è stato titolare della cattedra di storia della filosofia e incaricato
dell'insegnamento di pedagogia e direttore dell'annesso museo. Ha inoltre
insegnato storia delle chiese a Pisa, Bologna e Firenze. È stato membro della
Società reale di Napoli, delle accademie dei Lincei di Roma, delle scienze di
Torino, pontaniana di Napoli e della Crusca di Firenze. Consigliere comunale a
Firenze è stato incaricato di una missione di ricerche e studi negli archivi e
biblioteche di Firenze sull'arte fiorentina del Rinascimento e membro della
commissione provinciale di Firenze per la conservazione dei monumenti e delle
opere d'arte. Altre opere: “Della interpretazione panteistica di Platone, Firenze
: Succ. Le Monnier); La dottrina della realtà del mondo esterno nella filosofia
moderna prima di Kant” (Firenze, Tip. dell'arte della stampa); “Studi di antica
letteratura cristiana, Torino, Loescher); “Darwinismo e socialismo, Roma,
Forzani e C. Tipografi del Senato); Saggi e note critiche, Bologna, Ditta
Nicola Zanichelli); “Il socialismo e il pensiero moderno, Firenze, Succ. Le
Monnier); “Giacomo Leopardi e la poesia della natura” (Roma, Società editrice
Dante Alighieri); “Leggendo e meditando. Pagine critiche di arte, letteratura e
scienza sociale, Roma, Società editrice Dante Alighieri); “Nuove pagine sul
cristianesimo antico, Firenze : succ. Le Monnier); “Pagine d'antica arte fiorentina,
Firenze, Lumachi); “Dalla critica al nuovo idealismo, Torino, Bocca); “Pagine
di critica letteraria, Firenze, Le Monnier); “Idee e figure moderne, 2 voll.,
Ancona, G. Puccini e figli). Dizionario biografico degli italiani. Crusca. Alessandro
Chiappelli. Keyword: Alcibiade, Gli Scipione, la dialettica romana, storia dela
filosofia romana, Cicero, ambassiata Carneade, Kant, neo-Kantianismo, external
world, internal world, the reality of the external world, iconography, detailed
ecphrasis of “La scuola di Atene” – dialettica ateniense, dialettica romana.
Grice: To Athens, via Rome. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Chiappelli” – The Swimming-Pool Library.
Chiaramonte (Rapolla).
Filosofo. Grice: “Problem with Chiaramonte is that he let things influence him
too much! My favourite is his tract on ‘silenzio e parola’ – where as he
explains, ‘parabola,’ as used by the Greeks meant conversazione, because among
primitive people, it is all about ‘comparison,’ and that is what a parabole is
– by comparison we may think of miaow-miaow and the bow-bow theory of
meaning!”. Esponente antifascista, appassionato di filosofia (fu discepolo di
Andrea Caffi) e di teatro, fondò con Ignazio Silone la rivista culturale
indipendente "Tempo Presente". Nacque a Rapolla, in
Basilicata, da Rocco e Anna Catarinella. Il padre, medico, si trasferì con la
famiglia a Roma, Sin dall'età di vent'anni si votò all'antifascismo, dopo una
breve parentesi fra le file fasciste, entrando a far parte della formazione
Giustizia e libertà e finendo esule a Parigi per evitare l'arresto della
polizia. Fu in Spagna, combattente repubblicano nella guerra civile
spagnola contro le armate franchiste nella pattuglia aerea di André Malraux (la
figura di Chiaromonte è adombrata in quella del personaggio dell'intellettuale
Giovanni Scali, del romanzo L'Espoir), poi abbandonò il fronte per contrasto
con i comunisti. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, in seguito
all'invasione tedesca della Francia, riparò a New York, facendosi notare nel
gruppo dei cosiddetti New York Intellectuals. Fu propugnatore del
socialismo libertario che contrappose alle spinte trotzkiste della rivista
politics di Dwight Macdonald, a cui pure si legò in un sodalizio di amicizia e
di frequentazione intellettuale. Ebbe legami d'amicizia con filosofi come
Hannah Arendt e Albert Camus, e scrittori come George Orwell, e collaborò con
Gaetano Salvemini al settimanale italiano a New York, Italia libera.
Tornato in Italia una prima volta e una seconda, si sentì esule in patria,
anche per il suo rifiuto a sottostare ai compromessi che volevano la cultura
strettamente legata ai partiti politici; per un periodo tenne una rubrica di
critica teatrale sulla rivista Il Mondo fondata da Mario Pannunzio. Nel
1956, assieme allo scrittore Ignazio Silone, fondò "Tempo presente",
rivista culturale indipendente, esperienza innovativa nell'Italia dell'epoca
che portò avanti, nonostante qualche dissapore con Silone, con grande
attenzione agli autori di notevole spessore che riempivano le pagine del
mensile. Le sue posizioni furono improntate all'anticomunismo ma, a
differenza di Silone, fu senz'altro più utopico; vicino alle posizioni di
Albert Camus, teorizzò «la normalità dell'esistenza umana contro l'automatismo
catastrofico della Storia». Nel testo La guerra fredda culturale. La Cia
e il mondo delle lettere e delle arti (Fazi editore) della storica e
giornalista inglese Frances Stonor Saunders, si sostiene che la rivista Tempo
presente sia stata finanziata dalla CIA: la Saunders ne individua i fondatori
come personaggi di punta del Congress for Cultural Freedom e principali
destinatari dei finanziamenti della CIA per attività culturali in Italia.
Dal gennaio 1967 e fino alla morte, intrattiene una fitta corrispondenza con
Melanie von Nagel Mussayassul, amichevolmente chiamata Muska, una monaca
benedettina, sul tema della verità. Opere La situazione drammatica,
Milano, Bompiani, The Paradox of History, Londra, Le Paradoxe de l'Histoire,
prefazione di Adam Michnik, introduzione di Marco Bresciani, Cahiers de l'Hôtel
de Galliffet, Credere e non credere,
Milano, Bompiani; Collana Intersezioni, Bologna, Il Mulino, Scritti sul teatro,
Introduzione di Mary McCarthy, Miriam Chiaromonte, Collana Saggi, Torino, Einaudi,
Scritti politici e civili, Miriam Chiaromonte, Introduzione di Leo Valiani, con
una testimonianza di Ignazio Silone, Milano, Bompiani, Il tarlo della coscienza
(The Worm of Consciousness and Other Essays, Prefazione di Mary McCarthy),
Miriam Chiaromonte, Collana Le occasioni, Bologna, Il Mulino, Silenzio e
parole: scritti filosofici e letterari, Milano, Rizzoli, Che cosa rimane,
Taccuini, Collana Saggi, Bologna, Il Mulino, Lettere agli amici di Bari, Schena,
Le verità inutili, S. Fedele, L'ancora del Mediterraneo, La rivolta
conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una città, Forlì, Fra me e te la
verità. Lettere a Muska, W. Karpinski e C. Panizza, Una città, Forlì, Il tempo
della malafede e altri scritti, Vittorio Giacopini, Edizioni dell'Asino, Albert Camus-Nicola Chiaromonte,
Correspondance, Édition établie, présentée et annotée par Samantha Novello,
Collection Blanche, Paris, Gallimard, Dizionario Biografico degli Italiani. Simone
Turchetti, Libri: "Le attività culturali della Cia" Galileo, Cesare
Panizza, Nicola Chiaromonte. Una biografia. Presentazione di Paolo Marzotto,
prefazione di Paolo Soddu, Roma, Donzelli. Dizionario Biografico degli
Italiani, XXIV, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Filippo La Porta, Maestri irregolari,
Bollati Boringhieri. Gino Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede,
Lacaita, Manduria-Roma-Bari, Michele Strazza, Contro ogni conformismo. Nicola
Chiaromonte, in "Storia e Futuro", Filippo La Porta, Eretico
controvoglia. Nicola Chiaromonte, una vita tra giustizia e libertà, Bompiani. Bocca
di Magra Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Nicola
Chiaromonte Nicola Chiaromonte, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Nicola Chiaromonte, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Nicola
Chiaromonte, . Fotografie e documenti di
Nicola Chiaromonte La cultura politica azionista. "Nuovo Partito
d'Azione". Il fondo librario Chiaromonte. Nicola Chiaromonte. Keywords:
parola, parabola. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiaromonte” – The
Swimming-Pool Library.
Chiavacci (Foiano
della Chiana). Filosofo. Grice: “Chiavacci is a good one; Italians tend to
identify him with Miichelstaedter, but surely there is more to Chiavacci than
an exegesis of Michelstaedter (especially to refute Gentile’s) – my favourite
tracts are three: his ‘critique of poetical reason’ – a critique we were
lacking! --, his little treatise on ‘man’ – and his ‘reality’ and not
appearance, as Bradley would have it, but ‘illusion,’ which is related to Latin
‘ludus,’ game – His ‘philosophical studies’ cap it all!” Partecipe della
stagione neoidealista italiana, fu tra i più innovativi interpreti ed eredi
dell'attualismo gentiliano. Nato a Foiano in provincia di Arezzo da
Enrico Chiavacci e Annunziata Doni, ricevette l'istruzione primaria a Cortona,
e quella secondaria nel liceo di Iesi. Frequentò la facoltà di lettere del
Regio Istituto di Studi Superiori a Firenze, dove fu allievo di Guido Mazzoni,
e conobbe tra gli altri il poeta filosofo Carlo Michelstaedter, di cui divenne
grande amico, insieme ad Arangio-Ruiz, Cecchi, De Robertis, Lamanna, Facibeni.
Si laureò con una tesi sul Decameron di Boccaccio, e l'anno seguente ottenne
una cattedra di insegnamento per il ginnasio inferiore. Con l'entrata
dell'Italia nella prima guerra mondiale, Chiavacci combatté al fronte come
capitano di artiglieria. Tornato all'insegnamento, nell'immediato dopoguerra
vinse una cattedra per il ginnasio superiore, e iniziò nel contempo a frequentare
la facoltà di filosofia a Roma, dove incontrò Giovanni Gentile, col quale si
laureò con una tesi su Antonio Rosmini. Dal 1924 cominciò a insegnare
filosofia nei licei, e due anni dopo fu promosso a preside di varie scuole, tra
cui Siena dove nacque suo figlio Enrico. Divenne professore universitario di
pedagogia alla Scuola normale di Pisa, e insegnò filosofia teoretica a Firenze,
anche la cattedra di estetica. Entra a far parte dell'Accademia
Roveretana degli Agiati. Gli verranno quindi elargiti diversi altri titoli
accademici e riconoscimenti, come la medaglia d'oro ai benemeriti della scuola,
della cultura e dell'arte. L'idealismo: tra Gentile e Michelstädter «Se mi
domando [...] che cosa debba al pensiero filosofico di Gentile, quale mi sembri
essere il nucleo più vitale della sua dottrina, non trovo, a voler tutto
restringere in una parola, risposta più esatta di questa: la dottrina dell'atto
puro.» (Gaetano Chiavacci, L'eredità di Gentile, in «Giornale di metafisica».
La filosofia di Chiavacci si muove tra l'idealismo attuale di Gentile da un
lato, e l'anti-dialettica esistenziale di Carlo Michelstaedter dall'altro,
conciliati in un'ottica spiritualista cristiana. Dell'attualismo
gentiliano egli intende rivalutare la portata atemporale dell'atto puro dello
Spirito, a cui riconosce piena realtà, a differenza dell'attualità concepita
come un presente situato storicamente tra un passato e un futuro
illusori. Riappropriandosi al contempo del criterio della persuasione di
Michelstädter, Chiavacci ritiene che non si debba a sua volta fare dell'atto
una teoria, una filosofia panlogista staccata dalla vita e dal suo stesso
attuarsi, «perché deve essere essa la vita». Gentile ha avuto il merito
di elaborare una filosofia anti-intellettualistica che non si esaurisce nel
concetto, ma è autoconcetto, mostrando come il mondo consista
nell'autocoscienza dell'atto pensante, in cui vi è «assoluto possesso, realtà
attuale immanente al suo farsi». Egli tuttavia non avrebbe compreso appieno le
conseguenze di questo attuarsi dell'atto, e sarebbe rimasto a sua volta dentro
un "concetto" dell'autoconcetto, cioè in una forma di mediazione
logica, di costruzione intellettuale, in un logo astratto che supera e
smarrisce la «fonte della verità». L'atto invece, per Chiavacci, proprio
perché non può essere ridotto a fatto, cioè ad oggetto, è un atto «che sfugge
ad ogni metro di criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna
rivivere dal di dentro». Tale consapevolezza interiore che «il soggetto
ha di sè senza oggettivarsi», è per Chiavacci fondamentalmente un'intuizione,
un sentimento, che permea la dialettica dell'atto pensante articolata nel
soggetto e nell'oggetto. Essa bensì è anche un processo mediato, da cui risulta
un logo "pensato" senza cui non si avrebbe coscienza formante della
sua stessa origine intuitiva, ma un pensato che resterebbe vuota astrazione,
«caput mortuum, se si distacca dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da
quella sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l'intuizione
costitutiva dell'attualità dell'io e che forse meglio si potrebbe dire sensus
sui». Essa è infine, negli esiti religiosi dell'ultimo Chiavacci,
essenzialmente fede. Opere Tesi di laurea: La Commedia nel Decamerone
(Iesi, tipografia Fiori) Il valore morale nel Rosmini (Firenze, Vallecchi)
Illusione e realtà. Saggio di filosofia come educazione (Firenze, La Nuova
Italia), concepita come una traduzione in forma propositiva del tema della
«persuasione» che era stata esposta nell'opera di Michelstaedter in maniera
indiretta e non sistematica come contrapposizione alla «rettorica». Saggio
sulla natura dell'uomo (Firenze, Sansoni), dove il conflitto michelstädteriano
tra illusione e realtà diventa quello tra natura e ragione umana, superato
dalla dialettica dell'atto spirituale. La ragione poetica (Firenze, Sansoni),
divisa in due parti: Il momento dell'Indifferenza, che affronta il problema
della discordanza tra natura e intelletto, ovvero tra fatti e concetti, e tra
questi e valori; e Il momento della libertà, che assegna alla libera creatività
di una ragione non logica ma poetica il fondamento di quei valori, attraverso
le dimensioni dell'arte e della religione. Chiavacci ha inoltre curato
l'edizione delle Opere di Michelstaedter (Firenze, Sansoni), oltre a redigere,
su richiesta di Gentile, la voce "Michelstaedter" per l'Enciclopedia
Italiana. A lui si devono poi altri due saggi sul Rosmini:
Filosofia e religione nella vita spirituale di A. Rosmini (Milano, Bocca), e La
filosofia politica di A. Rosmini (Milano, Bocca). Postume Quid est veritas?
Saggi filosofici, A.M. Chiavacci Leonardi, introduzione di Eugenio Garin,
Firenze, Olschki, GentileChiavacci. Carteggio, Paolo Simoncelli, Firenze, Le
Lettere. Roberto Grita, Gaetano Chiavacci, su treccani. Antonio Russo, Gaetano
Chiavacci, interprete di Michelstaedter, Trieste. Così Chiavacci ricorderà il
suo primo incontro con la figura di Gentile: «Leggendo per la prima volta la
Teoria generale dello spirito, ebbi un lampo di luce, pel quale intravidi la
possibilità di comprender la vita, di potervi trovare quel valore senza del
quale ogni altra cosa non ha pregio» (da una lettera di Chiavacci a Gentile,
cit. in Gentile-Chiavacci: CarteggioSimoncelli, Firenze). Scheda su
Gaetano Chiavacci [collegamento interrotto], su agiati.org. Cit. anche in G. Chiavacci, Quid est veritas?
Saggi filosofici, A.M. Chiavacci Leonardi, Olschki. Gaetano Chiavacci, Il
pensiero di Carlo Michelstaedter, articolo sul «Giornale critico della
filosofia italiana». Chiavacci, Il centro della speculazione gentiliana:
l'attualità dell'atto, in «Giornale critico della filosofia italiana», Gaetano
Chiavacci, Il centro della speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto, Gaetano
Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, A. M. Chiavacci Leonardi,
Olschki, Gaetano Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, Antonio Russo,
Gaetano Chiavacci interprete di Michelstaedter. Eugenio Garin, Introduzione a
G. Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, Antonio Russo, Gaetano
Chiavacci interprete di Michelstaedter, Gaetano Chiavacci, su sapere. Gaetano Chiavacci, Michelstaedter Carlo, in
«Enciclopedia Italiana», Roma. Gustavo
Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia, La Scuola, Augusto
Guzzo, Gaetano Chiavacci: la "Ragione poetica", in «Giornale di
metafisica», Francesco Valentini, Recenti studi sull'attualismo, in «Rassegna
di filosofia», Antonio Testa,
Michelstaedter e i suoi critici, in «Rassegna di Filosofia», Gianfranco Morra,
La scuola gentiliana e l'eredità dell'attualismo, in «Teoresi», Vito A.
Bellezza, Gentile e l'attualismo nell'ultimo ventennio, in «Cultura e Scuola», Dario
Faucci, L'«attualismo» di Gaetano Chiavacci, in «Filosofia», Antimo Negri, Giovanni Gentile: sviluppi e
incidenza dell'attualismo, Firenze, La Nuova Italia, Antonio Russo, Gaetano
Chiavacci (1886-1969) interprete di Michelstaedter, Sergio Campailla, in La via della persuasione. Carlo
Michelstaedter un secolo dopo, Venezia, Marsilio, Attualismo (filosofia)
Giovanni Gentile Idealismo italiano Carlo Michelstaedter La Persuasione e la
Rettorica Enrico Chiavacci Gaetano
Chiavacci, in Dizionario biografico degli italiani. Gaetano Chiavacci.
Keyowords: critica della ragione poetica, illusion, allusion, ludo, la natura
dell’uomo, carteggio con Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiavacci” –
The Swimming-Pool Library.
Chiocchetti (Moena). Filosofo.
Grice: “I like Chiocchetti – a surname most Englishmen are unable to pronounce,
but cf. Chumley! – For one, he exapanded, alla Croce on Vico as proposing
‘espressione’ as prior to ‘communicazione,’ as I do – but he went further – he
studied the Latin-language author, and saint, Aquinas, and his ‘modi di
significare’ – Lastly, he expanded on ‘pragmatism’ as the term of abuse it MUST
be! Why are non-philosophers OBSESSED to keep miscalling me a ‘pragmaticist’
who is into ‘pragmatics’ – It’s totally anti-Oxonian – Oxford being the epitome
of aestheticism – to do so! Chiocchetti also played with the abused term,
‘scolastic’: he thought there are two scolastics: the palaeo-scolastici, or
scolastici simpiciter, and the ‘neo-scolastici,’ like his self! He wrote a
little tract on Gentile, who ungently threw it onto the wastepaper basket!” -- Emilio Chiocchetti (Moena) filosofo. Nato a
Moena, in Val di Fassa, vestì l'abito francescano nel 1896 e l'anno successivo
concluse gli studi secondari a Rovereto. Durante il corso di teologia si
appassionò agli studi biblici, anche se non gli venne concessa la possibilità
di approfondirli presso l'Istituto biblico francescano di Gerusalemme e la
Facoltà teologica di Vienna. Nel 1903 venne ordinato sacerdote. Fino al 1908 studiò filosofia a Roma presso
il Collegio internazionale di San Antonio. Tornò quindi a Rovereto per
insegnare filosofia presso il liceo interno all'Ordine dei Minori e iniziò
un'assidua collaborazione, su invito del padre Agostino Gemelli, alla Rivista
di filosofia neoscolastica fin dalla sua fondazione (1909). Tra il 1908 e il 1909 progettò uno studio
sistematico sulla filosofia di Henri Bergson, interrompendolo definitivamente
nel 1910 per approfondire ulteriormente la sua preparazione filosofica a
Lovanio, centro degli studi neoscolastici. Subito dopo si recò in Germania, a
Fulda, per ascoltare Konstantin Gutberlet, e successivamente a Vienna, dove
frequentò come uditore le lezioni di psicologia di Wilhelm Wundt. Tornato
all'insegnamento a Rovereto nel 1912, assunse la direzione della Rivista
tridentina. Note Chiocchetti, Emilio, su
siusa.archivi.beniculturali. 20 marzo .
G. Faustini, , Emilio Chiocchetti, Antonio Rosmini e la cultura
trentina: un filosofo ladino tra Trentino ed Europa, Trento, Pancheri, 2008 G.
Faustini, , Emilio Chiocchetti: un filosofo francescano di fronte alle sfide
del Novecento: antologia, scritti di filosofia e cultura, Trento, Pancheri,
2006 Padre Emilio Chiocchetti un filosofo francescano tra il Trentino e
l'Europa: atti del seminario di studio promosso dal Museo storico in Trento,
svoltosi a Trento il 3 dicembre 2004, "Archivio Trentino", 1, 2005, 101–215 S. Pietroforte, Storia di un'amicizia
filosofica tra neoscolastica, idealismo e modernismo: il carteggio
Nardi-Chiocchetti (1911-1949), Firenze, Sismel Edizioni del Galluzzo, 2004 R.
Centi, Un filosofo francescanoEmilio Chiocchetti, Trento, Gruppo culturale
Civis, C. Coen, Chiocchetti Emilio, in Dizionario biografico degli
italiani, 25, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1981 (Dizionario biografico degli italiani) G.
Consolati, , diEmilio Chiocchetti
filosofo trentino (Moena 1880-1951) rettore generale francescano e professore
di storia della filosofia moderna alla Università cattolica del S. Cuore, Trento,
Saturnia, Emilio Chiocchetti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Emilio
Chiocchetti, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per
le Soprintendenze Archivistiche. Opere di Emilio Chiocchetti, . Pubblicazioni di Emilio Chiocchetti, su
Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.
Emilio Chiocchetti. Chiocchetti. Keywords: Grice: “In Italy, just to know that
a philosopher has a religion orientation disqualifies as a philosopher, and
that is at it should. The keyword is: anti-Popish, Vico, Croce, estetica,
Aquino, Gentile, Neo-Scolastica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiocchetti” –
The Swimming-Pool Library.
Chiodi (Roma). Grice: “I like Chiodi; for one, he
plays, somethings rather sneakily, with the Italian language as Heidegger
played with the German language: Heidegger is able to play with Latinate versus
Germanic words: tat (deed) versus fakt. The Italians only have ‘fatto’ and this
leads Chiodi to restrict ‘fatto’ to ‘tat’ and invent ‘effetto’ for ‘fakt!’ –
“But other than that he was a genius!” -- Pietro Chiodi (Corteno Golgi)
filosofo. Figlio di Annibale e Maria
Romelli, frequentò le scuole elementari al paese natio e le medie inferiori e
superiori a Sondrio sotto la guida del prof. Credaro, che lo avviò allo studio
della filosofia. Dopo aver conseguito nel 1934 l'abilitazione magistrale si
trasferì a Torino, dove si laureò il 27 giugno 1938 in pedagogia sotto la guida
di Nicola Abbagnano. Nell'anno successivo ottenne la cattedra di storia e
filosofia del liceo classico Giuseppe Govone di Alba, dove insegnò per 18 anni.
Qui entrò in contatto col professore di lettere Leonardo Cocito, del quale
divenne intimo amico, ed ebbe tra i suoi allievi lo scrittore Beppe Fenoglio.
Questi ricorderà più volte nei suoi scritti i due insegnanti, con i loro nomi o
con pseudonimi; Chiodi diventerà così, nel romanzo Il partigiano Johnny, il
personaggio di Monti. Grazie ai suoi
contatti con Cocito, fervente comunista e antifascista, Chiodi entrò, Il 2
luglio 1944, a far parte di una formazione partigiana Giustizia e Libertà col
nome di battaglia di “Piero”. Il 18
agosto di quello stesso anno Chiodi venne catturato dalle SS italiane, assieme
ai suoi compagni, e deportato in un campo di prigionia a Bolzano, quindi a
Innsbruck. Aiutato dal comandante del lager e da un medico, ottenne il visto di
rimpatrio. Il 30 settembre alle ore 07:30 era alla stazione di Innsbruck
diretto a Verona. Il 3 ottobre, verso sera, giunse nell'albese. Qui riprese la
sua attività di partigiano, ora sotto il nome di battaglia di Valerio,
mettendosi a capo, nelle Langhe, di un battaglione della CIII Brigate Garibaldi
intitolato al suo collega Cocito, impiccato dai tedeschi a Carignano (località
pilone Virle) il 7 settembre 1944, insieme ad altri patrioti. Nel 1946 narrò la propria esperienza di lotta,
di prigionia e di guerra civile nel libro scritto in forma diaristica e
pubblicato dall'ANPI, Banditi, uno dei primi memoriali di deportati politici
italiani. Dopo la liberazione di Torino
nel 1945, Chiodi era tornato all'insegnamento ad Alba. Nel 1957 si trasferì
come insegnante al Liceo di Chieri e poi al Liceo Vittorio Alfieri del
capoluogo piemontese. Nel 1955 ottenne la libera docenza e dal 1963 fu
incaricato e poi titolare della cattedra di Filosofia della storia alla Facoltà
di Lettere e filosofia a Torino, insegnamento che ricoprì fino alla sua
prematura morte nel 1970, affiancandolo all'incarico di Pedagogia. Nel 1961,
l'Accademia Nazionale dei Lincei gli assegnò il premio del Ministero della
Pubblica Istruzione per la filosofia e nel 1964 gli fu conferito il Premio
Bologna. Alla ristampa del 1961 di
Banditi Chiodi premise questa avvertenza, poi conservata nelle edizioni
successive: «La presente ristampa si rivolge particolarmente ai giovani, non
già per far rivivere nel loro animo gli odi del passato, ma affinché, guardando
consapevolmente ad esso, vengano in chiaro senza illusioni del futuro che li
attende se per qualunque ragione permetteranno che alcuni valoricome la libertà
nei rapporti politici, la giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in
tutti i rapportisiano ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente
da chicchessia». Raccolse grande stima
ed affetto tra suoi allievi, che ne conservano tuttora il ricordo di un grande
Maestro, limpido esempio di tolleranza e serenità di giudizio. Attività filosofica L'attività filosofica di
Pietro Chiodi si concentrò specialmente sull'Esistenzialismo, riletto in chiave
positiva. La maggior parte delle sue opere è dedicata a Martin Heidegger. Egli fu il primo traduttore in Italiano di
Essere e tempo, nel 1953, e il terzo in assoluto a realizzarne una versione in
un'altra lingua, dopo il giapponese e lo spagnolo. Proprio a Chiodi si deve la
definizione della terminologia heideggeriana in Italiano, divenuta poi abituale
tra gli studiosi. Valga un caso per tutti: la traduzione del tedesco Dasein con
l'italiano Esserci, capolavoro di sintesi ed efficacia, spesso e volentieri non
ancora raggiuntain questo specifico casoin altre lingue. Al filosofo tedesco
dedicò anche, ovviamente, diversi saggi: L'esistenzialismo di Heidegger (1947),
L'ultimo Heidegger (1952), Esistenzialismo e fenomenologia (1963). Fu, inoltre,
traduttore di L'essenza del fondamento (1952) e Sentieri interrotti (1968). A
Immanuel Kant dedicò, invece, La deduzione nell'opera di Kant (1961) e ne
tradusse nel 1967 la Critica della ragion pura e gli Scritti morali, usciti
nella sua versione nel 1970. È infine da ricordare il suo interesse per
Jean-Paul Sartre, del quale si occupò nel 1965 nell'opera Sartre e il
marxismo. L'esperienza partigiana rimase
sempre una pagina fondamentale nella vita di Pietro Chiodi, per cui il valore
della libertà occupò sempre il primo posto. Non è un caso che Fenoglio faccia
rivolgere da parte di Monti, nel Partigiano Johnny, proprio questo ammonimento
ai giovani partigiani di Alba: «Ragazziteniamo di vista la libertà». La sua
breve e unica opera narrativa, Banditi, ricca di valore non solo storico e
morale ma anche letterario, è stata definita da Davide Lajolo «Il libro più
vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana» (L'Unità, 10
ottobre 1946) e da Franco Fortini «quasi un capolavoro [...]. Ci sono dei
tratti straordinari, nel tragico come nel comico». Opere Chiodi Pietro, Banditi, con
introduzione di Gian Luigi Beccaria, Torino, Einaudi, 2002 [1961], 978-88-06-16322-8. Chiodi Pietro,
Esistenzialismo e filosofia contemporanea, Giuseppe Cambiano, Pisa, Edizioni
della Normale, 2007, 88-7642-194-7.
Note Deportati Politici Italiani, su
restellistoria.altervista.org. Chiodi, Banditi, Torino, Einaudi, 1975V. , Conoscere la Resistenza, Milano, Unicopli,
1994132. Resistenza italiana Deportati
politici italiani Esistenzialismo Martin Heidegger Opere di Pietro Chiodi,
. Biografia di Chiodi nel sito
dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, su anpi. Centro Studi 'Beppe
Fenoglio'CHIODI Pietro, su centrostudibeppefenoglio. V D M Antifascismo
(1919-1943) Filosofia Filosofo del XX secoloPartigiani italiani 1915 1970 2
luglio 22 settembre Corteno Golgi TorinoBrigate Giustizia e LibertàDeportati
politici italiani. Chiodi. Keywords: nulla annhihila, Kant imperative, counsel
of prudence, rule of ability, practical reason, existentialism, Heidegger,
greatest philosopher, maxim universality, maxim universability. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Chiodi” – The Swimming-Pool Library.
Chitti (Citanova).
Filosofo. Grice: “I like Chitti; not so much for what he philosophised about –
law and law and law – but the way he corresponded with Say – a French
philosopher – on the lack of an adequate philosophical vocabulary in Italian to
express Aristotle’s principles of oeconomia!” Fervor, temperanza e, ingegno finissimo
fanno di lui uno di quegli filosofi che sono atti egualmente alla filosofia ed
all'azione. Figlio di Giuseppe, avvocato
e giudice alla Gran Corte Criminale di Reggio e di Saveria Barbaro, nativa di
Napoli. Partecipa a Napoli, col padre ed
i fratelli, alla rivoluzione. In seguito alla capitolazione del Forte Castel
Nuovo, ripara in Francia. A Parigi, termina gli studi giuridici e strinse
amicizia con molti patrioti del tempo.
Ferdinando I delle Due Sicilie Tornato a Napoli, esercita in città la
professione di avvocato e difese Casalnuovo (l'odierna Cittanova) contro la
feudataria del luogo, Maria Grimaldi-Serra, ultima principessa di Gerace,
davanti alla regia commissione feudale. Fattosi un nome come avvocato, dopo la
restaurazione ebbe la nomina di segretario generale al Ministero di Grazia e
Giustizia del Regno. A Napoli sposa la figlia
di Emanuele Hipman, un capo dipartimento di uno dei Ministeri del Regno. Fu
coinvolto nella rivolta contro Ferdinando I organizzata dai sottotenenti
Morelli e Silvati, fu quindi privato della carica ed esiliato. Passa un periodo
a Londra, e tenta di ritornare a Napoli, ma ebbe l'inibizione ufficiale a
rientrare nella capitale. Anda a Firenze e di lì a poco, chiamato da amici, si
recò a Bruxelles. In Belgio da lezioni
di diritto pubblico e di economia sociale, ottenne la carica di segretario
della Banca Fondiaria e si fece un nome. Il governo belga gli conferì la
licenza di professare Economia Sociale, e tenne quattro letture pubbliche nel
Museo di Bruxelles. Le sue quattro letture furono intitolate da lui stesso
«Corso di Economia sociale», compendio delle sue vaste vedute e della sua non
comune cultura sull'argomento. Pubblica altre opere ed in seguito alla fama
acquisita, il governo belga gli conferì la carica di Professore alla facoltà di
diritto dell'Bruxelles. In Belgio pubblica la maggior parte dei suoi lavori e
strinse amicizia con Gioberti, che lo definirà valente economico. Nonostante la
revoca dell'esilio, non torna a Napoli ma rimase in Belgio ancora per parecchi
anni fino a quando partì per il nuovo mondo.
In America, tenta varie imprese
commerciali, ma difficoltà sopravvenute gli fecero abbandonare presto i suoi
progetti e si stabilì a New York. Altre opere: “Trattato di economia politica o
semplice esposizione del modo col quale si formano, si distribuiscono e si
consumano le ricchezze; seguito da un'epitome dei principi fondamentali
dell'economia politica di Giovanni Battista Say” (Napoli, Stamperia del
Ministero della Segreteria di Stato). Ermenegildo Schiavo, Four centuries of
Italian-American history, Vigo Press. The New York Herald morning edition mercoledì.
New York Daily Times pag. 4 Daily Free
Democrat. The American almanac and repository of useful knowledge, Center for
Migration Studies Special Issue: Four Centuries of Italian American History Wiley
Online Library Vincenzo De Cristo, Prime
notizie sulla vita e sulle opere di Chitti Economista, Prem. Tip. e Lib.
Claudiana, Dizionario biografico degli italiani, 25, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Luigi Chitti. Chitti. Keywords: economia sociale, economia politica,
l’economia filosofica d’Aristotele. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chitti” –
The Swimming-Pool Library.
Cicerone – (Italia). Ciceronian implicaturum: Grice: “One has to
be careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone ain’t Italian, but
Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo romano’ – matter!”
Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone IS discussed by
this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to provide us with some
nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I would mention the
two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for the “Roman
chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to Lucrezio and
Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty recent: due to
the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome in 183 a. u.
c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely class, notably
the Scipioni!” -- Marcus Tullius, Roman
statesman, orator, essayist, and letter writer. He was important not so much
for formulating individual philosophical arguments as for expositions of the
doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy, and for, as he put
it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance of the latter can
hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the philosophical
vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern period. The
most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to unify
philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the
Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers
whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical
persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to
effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without
the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy.
This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls
humanitas a coinage whose enduring
influence is attested in later revivals of humanism and it alone provides the foundation for
constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad
training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In
philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education
encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an
ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal
disciplines is essential for citizens if their rational autonomy is to be
expressed in ways that are culturally and politically beneficial. A major aim
of Cicero’s earlier works is to appropriate for Roman high culture one of
Greece’s most distinctive products, philosophical theory, and to demonstrate
Roman superiority. He thus insists that Rome’s laws and political institutions
successfully embody the best in Grecian political theory, whereas the Grecians
themselves were inadequate to the crucial task of putting their theories into
practice. Taking over the Stoic conception of the universe as a rational whole,
governed by divine reason, he argues that human societies must be grounded in
natural law. For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal
code; in particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules
against which existing societal institutions can be measured. Indeed, since
they so closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions
furnish a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory,
if not its particular details, established a lasting framework for
anti-positivist theories of law and morality, including those of Aquinas,
Grotius, Suárez, and Locke. The final two years of his life saw the creation of
a series of dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of
Hellenistic philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of Philo
of Larissa and the New Academy. Holding that philosophy is a method and not a
set of dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However, unlike
Cartesian doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind phenomena,
since he does not envision the possibility of strict phenomenalism. Nor does he
believe that systematic doubt leads to radical skepticism about knowledge.
Although no infallible criterion for distinguishing true from false impressions
is available, some impressions, he argues, are more “persuasive” probabile and
can be relied on to guide action. In Academics he offers detailed accounts of
Hellenistic epistemological debates, steering a middle course between dogmatism
and radical skepticism. A similar strategy governs the rest of his later
writings. Cicero presents the views of the major schools, submits them to
criticism, and tentatively supports any positions he finds “persuasive.” Three
connected works, On Divination, On Fate, and On the Nature of the Gods, survey
Epicurean, Stoic, and Academic arguments about theology and natural philosophy.
Much of the treatment of religious thought and practice is cool, witty, and
skeptically detached much in the manner
of eighteenth-century philosophes who, along with Hume, found much in Cicero to
emulate. However, he concedes that Stoic arguments for providence are
“persuasive.” So too in ethics, he criticizes Epicurean, Stoic, and Peripatetic
doctrines in On Ends 45 and their views on death, pain, irrational emotions,
and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus Tullius 143 143 ness in Tusculan Disputations 45. Yet, a
final work, On Duties, offers a practical ethical system based on Stoic
principles. Although sometimes dismissed as the eclecticism of an amateur,
Cicero’s method of selectively choosing from what had become authoritative
professional systems often displays considerable reflectiveness and
originality. “Cicero = Tully” Grice:
“Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different things! ‘Cicero’ is more of a
description than a name!” La morte di Cicerone. Cicero proscribed by the
triumvirate. Cicero killed by Marco Antonio, one of the three ‘vires’, along
with Ottaviano. Cicero offered his hands, with which he had written the
Filippiche. His head and hands were displayed at the Senate. The Romans never
quite liked him because he was only a provincial nobility and never displayed
courage. Grice: “Most English gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb
Classical Library, a book fit for the gentleman’s pocket! One at a time, since
there are quite a few volumes dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the
revised pronounciation, /kikero/!” Grice: “Austin liked Cicero because he made
ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Cicerone – Keywords: untranslatable,
signans/signatum, signans, signatum. Cicerone, Cicero = Tully. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool Library.
Ciliberto (Napoli).
Filosofo. Grice: “I like Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an
interesting way: confronting his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have
not explored the irrational, too much – but I suppose Strawson might implicate
that everything I say ON reason is an implicature on the irrational – Ciliberto
uses the vernacular for the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi
esperti del pensiero di Bruno. Si laurea a Firenze sotto Garin con
“Machiavelli”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa.
Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze. Dal 1998 è presidente di I. R. I. S.
A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di Firenze. Lince.
Al centro della sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento con speciale
attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica, no-continntale,
ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile, Cantimori, Garin); e la
filosofia politica e in maniera specifica la crisi della democrazia
rappresentativa. Altre opere: “Il rinascimento. Storia di un dibattito” (Firenze,
La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari, De Donato); “Lessico di
Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri); “Come lavora Gramsci. Varianti
vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a
«Società», Bari, De Donato); “La ruota del tempo. Interpretazione di Bruno,
Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza); Bruno, Roma-Bari, Laterza);
“Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Implicatura in
chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il dialogo recitato” “Preliminari
a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze, Olschki); “La morte di
Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I contrari”; “Disincanto e
utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il teatro
della vita” (Milano, Mondadori); “Il laico” “Il libero” dell'Italia moderna,
Roma-Bari, Laterza); “Democrazia dispotica” – etimologia di dispotismo –
(Roma-Bari, Laterza); “Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza),
“Parola, immagine, concetto” (Edizioni della Normale, Pisa); “Croce e Gentile”
“La cultura italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia
italiana Treccani, . Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo
Umanesimo, neo-classicismo, neo-umanesimo”, classicism, neo-classicismo come
ironia” (Roma-Bari, Laterza); “Pazzia e ragione” (Roma-Bari, Laterza); “Il
sapiente furore” (Collana gli Adelphi, Milano, Adelphi) Michele Ciliberto,
Lessico di Giordano Bruno. Michele Ciliberto. Keywords: intelletuale fascista,
lessico, lessico di Bruno, lessico di grice, lessico filosofico europeo, umbra
profunda, implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il libero,
despotismo, immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il pazzo, il
ragionato, istituto su studi sul rinascimento, la tradizione italiana, la
tradizione filosofica italiana, democrazia rappresentativa, concetto di
rappresentazione, Grice e Ciliberto sulla rappresentazione. Il primo ministro
britannico ripresenta suoi costituenti. Il barone della camera alta del
parlamento, parlamento ed implicamento, il team di cricket rippresenta
Inghilterra: fa per Inghilterra quello che Inghilterra non puo fare: gioccare
cricket. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool
Library.
Cimatti (Roma). Filosofo. Grice:
“I like Cimatti – for one, he develops a biological semiotics, and he takes
seriously the issue that man IS an animal -- -- and has thus philosophised on
animality!” Si laureato sotto Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna
ad Arcavacata di Rende. Altre opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende,
Centro Editoriale e Librario); “La scimmia che si parla. Linguaggio,
autocoscienza e libertà nell'animale umano” (Bollati Boringhieri); “Nel segno
del cerchio. L'ontologia semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri La mente
silenziosa. Come pensano gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente e
linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il
senso della mente. Per una critica del cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente,
segno e vita. Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il
volto e la parola. Per una psicologia dell'apparenza, Quodlibet, Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la
morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni”
(Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente
comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che
verrà. Biopolitica per Homo sapiens, , ombre corte, Filosofia della
psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia
dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A
come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio
e pulsione di morte, Quodlibet);
Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot,
La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per
una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il
linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata);
“La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Grice: “I share a lot with Cimatti; we
both believe that there’s a semiotic continuity, and more important that it’s
psi-transmission that matters: a pirot perceives that the a is b, and
communicates that the a is b to another pirot, who perceives the communicatum,
‘the a is b’ and comes to think that the other pirot thinks that the a is b – I
use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to cover willing, since it’s willing
that’s basic, though! Felice Cimatti. Keywords: homo sapiens, storia
innaturale, animale, bestia, linguaggio, segno, vita, zoosemiotica, prodi, corpo,
codice, mente, cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica,
mentalismo, storia innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali
della comunicazione, percezione e comunicazione, comunicazione come percezione
trasferita, psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The
Swimming-Pool Library.
Cione (Napoli). Filosofo.
Grice: “I love Cione; my favourite is “The age of Daedalus – which reminds me
of Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him – the story of a
failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other subjects as well,
such as Leibniz, and of course, Croce – in his case, first-hand knowledge! –
and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He thinks there is a
Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs – his study of
‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational etiquette! –
especially the illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze
socialiste, e in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce.
Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di
Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo
indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale
Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende
esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica
indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento
Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano
Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso
Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del
Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa,
tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato
per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a
dichiarare: «Per ingannare i nostri
avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia
fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra l’altro
ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di Cione. Non
ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando di
crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato
di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni
partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana.
Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di
Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto
consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato
con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso
dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una
militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il
messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la
cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso
con una completa della sua opere e degli
scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera
filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica”
(Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore);
“Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea
corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli
e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale
italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi);
“Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele);
“Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce”
(Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia
degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi,
Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica
editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta
di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli
Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di
Salò crea un "partito contro" su suggerimento del ministro
dell'Educazione Biggini di Silvio Bertoldi.Domenico Edmondo Cione. Keywords:
l’idea corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo sociale, icaro, la
caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta greco-romana, corporativa,
principio corporativo, principio cooperative, corpotivismo, corporatismo,
corporativismo, ideale corporativo, conservative as corporativo, ugo spirito,
“pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione” – The Swimming-Pool
Library.
Civitella (Montorio al
Vomano). Filosofo. Delfico-de-Civitella (under Ser Marco). (Montorio al
Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote on Roman
jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his (Delfico’s, not
Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that back in them days
of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’ as in
‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love (that makes the
world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it is
the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive
it!” Civitella è giustamente ritenuto il Nestore
della letteratura napoletano. Questo illustre autore di molte opere di storia e
di una varietà di soggetti interessanti, unisce ad una vasta istruzione una
accuratissima e profondissima conoscenza di ogni aspetto che interessa la sua
terra; e possiede, ad un'età così avanzata, l'ancor più raro merito di saper
comunicare le preziose esperienze acquisite con una amenità di maniere, una
facilità e semplicità di espressione che le rendono più apprezzate a quelli che
le ricevono. Figlio di Berardo e Margherita Civica, nacque nel castello feudale
di Leognano, in provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano
almeno al secolo XVI quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente
riconosciuto come il capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in
“Delfico” e adotta il motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni,
e tra questi Luigi Savorini, il cognome originario era “de Civitella”.
All'interno della sua famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto ben
presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito inviato
a Napoli, per il completamento degli
studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le
materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per
il diritto e Mazzocchi per l'archeologia. Nella città partenopea si
laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito
diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se
ne spogliò subito per motivi di salute. Nella prima parte della vita si
dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia
politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel
miglioramento e l'abolizione di molti abusi. Con il ritorno in patria si
inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di
Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le
premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del
territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi,
Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio Delfico, il figlio di Giamberardino, che fu
allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto
noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di
libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente
del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio
della Repubblica Partenopea. Caduta la Repubblica Partenopea anda in
esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza.
Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima
storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una
serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale
di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio
territorio. Sotto Giuseppe Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far
parte del Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali.
Restaurato il governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli
archivi e successivamente Presidente della Reale Accademia delle
Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla
presidenza della Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a
Teramo. La famiglia di Melchiorre Delfico si estingue con Marina, sposata al
conte Gregorio De Filippis di Longano, ando origine all'attuale famiglia dei
conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di Civitella si forge nel
fermento culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche
furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in
quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano
rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I
fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e
contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata,
che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.
Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò
l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla
compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto
dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del
regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione
dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole
della morale corrente. Come politico e come giurista, e eminentemente
pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori
del suo tempo. Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto
nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede
nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a
filosofo. Altre a Teramo e alla frazione
di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla
Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo;
Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche
intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato
massone. Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non
esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie
relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo
all'appendice del volume di Franco Eugeni, Carlo Forti, allievo di N. Fergola. I
principali indizi si possono così riassumere: I maestri ed amici di
Civitella, come Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni;
In un diario del curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia
massonica esistente a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza.
Promuove un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo
illuminista. Nella rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i
Quartapelle, Comi, Pradowski ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la
descrizione di una Loggia. Manda il nipote Orazio Delfico, futuro Gran Maestro
della Carboneria teramana, a studiare a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni,
tre noti massoni del tempo. Perrone pubblica un saggio basato sulla
corrispondenza di Münter con noti massoni napoletani lo dà come sicuramente
massone, anche se "il suo nome non s'incontra nelle logge
razionaliste". Altre opere: “Saggio filosofico sul matrimonio” (s.n.tip.
ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle provincie confinanti del regno” (Napoli, presso Giuseppe
Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe
Maria Porcelli); “Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de'
suoi cultori” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria
e su l'incertezza ed inutilità della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali
Roveri); “Nuove ricerche sul bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della
antica numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare
su le origini italiche” (Teramo, Angeletti). Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il
Palazzo Dèlfico, Edigrafita Nico
Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della
rivoluzione. Con la corrispondenza massonica e altri documenti, Palermo,
Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni, Sulla vita e sugli scritti del
commendatore Malchiorre de' Marchesi Delfico, in Giornale arcadico di scienze,
lettere ed arti, Raffaele Liberatore,
Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili del Regno delle Due Sicilie,
Ristampato come Delfico (Melchiorre), in: De Tipaldo Biografia degli Italiani
illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù
di Melchiorre Delfico, Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della
vita e delle opere, Teramo, Angeletti, Raffaele Aurini, Delfico Melchiorre, in:
Dizionario bibliografico della gente d'Abruzzo,
ITeramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo),
Andromeda editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo
napoletano, l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di
storia e letteratura, Vincenzo Clemente, Dizionario biografico degli Italiani,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori, L'inventario
del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro abruzzese di
ricerche storiche, Gabriele Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e
riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS, Nico Perrone, La Loggia della Philantropia.
Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio.
Treccani. Il dritto romano e sempre incerto ed arbitrario. Tale il suo
carattere, poichè sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure
quelle sole qualità (incertezza e arbitrarieta) sono bastanti per renderlo
mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a trattare, come quelle
che portarono a luce la vantata giurisprudenza romana. Ed accio questo
ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che della nascita e
de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più importanti. Fra gli
innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo quello di cui tutti
gli i filosofi si servirono, quasi di testo alle loro ricerche e commenti. Già
si vede che io parlo delle opera del giureconsulto Sesto Pomponio, della quale
si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo, rapportando nel titolo
dell’origine del dritto, tuttocid che il nomato giureconsulto aveva raccolto su
tal oggetto nel suo Manuale. E poichè Pomponio incomincia la storia del dritto
dai re di Roma, dello stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca
abbastanza oscura non vi sarà pero materia di dispute, poichè Sesto Pomponio parlando
conformemente alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con
incerte lege gi e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè
si deve intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia nella
qual forma Roma ebbe il suo incominciamento. Quindi Pomponio si espresse nelle
precise parole. Populus sine lege certa, sine jure cento primúm agere
instituit. Ne altrimenti doveva avvenire, poichè quella prima associazione
essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora
positiva forma di società, doveva essere piuttosto regolata dalla forza del comando
che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che Romolo per accrescere il
numero de primi suoi compagni, prese l’espediente di aprire un asilo da era
retto ve s9 ) da che si puo comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma.
I di lui favoriti furono i più valorosi briganti, e questi divennero i padri
della patria, i forti, i primi quiriti, e formarono il senato come una Dopo
questi primi tratti caratteristici relativi al le leggi Pomponio siegue a
raccontare tradizione, che essendo cresciuta in qualche modo la città, Romulo
divise il popolo in tante parti chiamate curie e col voto di esse prende. 9 va
cura delle pubbliche cose, e fece in seguito la legge che si chiama legge
curiata, come no , fecero ancora i re successivi, e tutte furono, raccolte da
Sesto Papirio, il quale visse al tempo di Tarquinio il superbo, e dal nome
dell'autore quella raccolta fu chiamato “dritto papiriano”. Non m'impegnerà nelle
dispute istoriche e critiche delle quali si occuparono gl' interpreti di
Pomponio, ma osservero che sebbene da principio parli dello stato informe di
Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa dindi vedere come fu
data una forma, non una costituzione alla città nascente, e come dai re fu
promulgata la legge curiata. Per due secoli e mezzo in circirca; quanto duro la
regia signori , Roma non ebbe dunque che questa o quella legge occasionale, e
la società fu mantenuta più col governo che colle legge. Prima intanto di
passar oltre, e per la migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non sarà
inutile il presentare in poche parole lo stato politico del popolo romano sotto
l’epoca dei re, e quale fosse l’indole della legislazione per tutto quel tempo.
E poichè di cose che non ebbero autori contemporanei o vicini, non è possibile
il ragionare con precisione ed esattezza; percio scortato dalla natura delle
circostanze e dalle tradizioni pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto
il più ragionevole. Fra l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che
quella società incomincia da un adu namento di persone appartenenti a vari
popoli non solo italici, ma greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria
associazione avendo Romulo per capo visse da principio di prede e di rapine, gusto
che fece il perpetuo carattere della nazione, trasformato poi in quello di
conquiste, come gli avol toi comparsi a Romolo nel prendere gli auguri furono
poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose non vi fu da principio
bisogno di leggi, la legge, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma fu
fondata come Livio si esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute
erano decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e
nelle società de’ briganti è sempre ava venuto. Avviene similmente che nel
formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia , e così
avvenne di Roma. Il palagio di Romolo fu una succida capanna: il di lui trono
quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il Senato fu la scelta de’
commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare
certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto fu vile
plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie nascente.
‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ furono nomi di versi appartenenti alle stesse
persone secondo i va. rj rapporti ne' quali erano considerati, o di Senato
consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata su le
divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia
non ebbe alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi
autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle
parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagli antichi autori,
parlando dell’origine delle clientele si esprime in termini rappresentativi
della verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo.
Patrocinia appellari capra sunt cum plebs distribuia est inter paires. Ne si
devono contare per un ordine intermedio di citetadini quegli equiri o celeri o i
fossuli nominati fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato
politico ma al stato militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi
di quella società nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a
consolidare in quella forma nella quale da principio era stata abbozzata. Sotto
il re Numa vediamo i primi passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento
della proprietà territoriale: la prima legge relativa alla religione ed al
delitto, lo stabilimento dei ministri e degli interpreti della divinità; ed in
somma un principio di governo teocratico, pel quale pare che sieno passate
tutte le nazioni prima di portare su le cose civili le considerazioni proprie
della ragione. Ma quello che specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel
re teosofo ebbero i primi principi le scienze ancora della legge e del politico
governo. Non si dee durar gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in
tutti gli atti umani e farli nascere ancora in un popolo quanto ignorante tanto
superstizioso. Così par che facesse Numa o per idea propria o per imitare i
stabilimenti della sua nazione o pel natural corso del sociale andamento; cosi
gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia sommamente poderosa poichè combina
nello stesso corpo gl’interessi del sacerdozio e dell’impero, o le due
aristocrazie, politica e sacerdotale. Su questo piano Roma crebbe
successivament sotto i re. L’aristocrazia fu sempre salda contro le regie
intraprese, e la storia ci mostra con quali mezzi crudeli e sacri seppe
sostenersi. Massacrarono Romolo e ne fecero un dio. (Cristo). Tale idea pero
del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta, ed il primo per
quanto io sappia a darne l’idea fu il nostro Gian Battista Vico, il quale riunendo
alla multiplicità delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle
origini sociali, fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le
ricordanze degli antichi costumi seppe scoprire come un principio naturale politico,
che nel comune corso delle nazioni la società primitiva comincia sempre
dall’aristocrazia, la quale deve nascere dalla qualità delle circostanze,
dall’ignoranza de’ dritti, e della compagna superstizione. Le luminose tracce
di Vico furono poi seguite dal Duni e fermatosi particolarmente a considerare
il governo romano, dimostra che Roma nacque aristocratica, che il re none che il
capo dell’aristocrazia, che i soli patrizi ebbero la quarta di cittadini che
furono in perfetto stato di combinazione l’aristocrazia politica e
l’aristocrazia sacerdotale, e che il nome di ‘popolo’ ne’ primi tempi ai soli
patrizi appartenne, come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza
(cives polis), i quali poi furono gradatamente dalla plebe acquistati. Egli concilia
luminosamente la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto Pomponio
e fa vedere che il re non ha che una parte del governo o dell’amministrazione,
ma che la somma dell’autorità , la vera sovranità, il potere legislativo, il
dritto della pace e della guerra risedevano nel corpo de’ patrizi, come anche il
dritto di eliggersi il loro re o principe. Furono essi i depositari delle leggi
e delle medesime i (Duni Orig. del Citted. Romano . 1) ministri ed interpreti:
e siccome per un’eterna verità l’aristocrazia non si sostiene che sull’appoggio
della superstizione. Cosi dal corpo aristocratico si sceglievano i vari
sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici fu specialmente destinato a dar i
giudici alle divine cose ed umane. Quindi la conoscenza della legge e
l’amministrazione delle medesima fu un dritto esclusivo e divenne una dottrina
arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a modo
d’oracoli e strettamente custodita nell’ordine de’ patrizi. Codesta emanazione
della prima teocratica idea non solo si conserva per quanto ebbe di durata il
governo del re ma per quanto visse la Roma. Una repubblica, colla sola
differenza pero che come crebbero le cognizioni ed i necessari riflessi della
ragione, e da essi nacquero i sentimenti di libertà e di eguaglianza, così
quelle idee si andiedero a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i
soli simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna
effettiva in Auenza. E necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale
fosse lo stato della legge, dell' am ministrazione giudiziaria e della giurisprudenza
ne’ primi tempi di Roma; e senza impegnarci nella particolari legge sotto il re
emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge fu
minima, eventuale ed incerta, e che l’interpretazione delle medesine essendo
stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire
ancora che la giurisprudenza fu incerta, irregolare, arbitraria, e quale ad una
nazione anco sa ignorante e superstiziosa poteva solo convenire: e per
conseguenza esser stato pur vero ciocchè Pomponio scrisse, che sotto i re sine
lege Gerta , sine jure certo vissero i romani. Lascio agli ambiziosi di glorie
filologiche legali l’andar raggruzzolando I pochi superstiti frammenti della
legge regia, poichè i stessi antichi giure consulti ne fecero poco conto e le
lasciarono finalmente perire. Chi volesse però riconoscerle, troverebbe in esse
la conferma di quelle idea superstiziosa caratteristiche della prima
aristocratiche associazione. Espulso il re si crede comunemente che il governo
di Roma cangiasse d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gli eroi
della libertà. Ma chi - giudica senza prevenzione non vi troverà che gli eroi
dell’aristocrazia . Anche quessti parlano di libertà; della propria libera però
non della liberta pubblica, e per servirmi delle parole di Dionisio, della
libertà propria e del dominio su gli altri. Quindi Roma non vide alero
cangiamento che di due re invece di uno e la legge e l’amministrazione politica
e civile rimasero nella stessa condizione. L'incertezza fu seguita
dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio, ciocchè ci dà manifestamente ad
intendere Pomponio dicendo: Exactis deinde regibus . .ae . iterumque cæpic
populus Romanus incerto magis jure & consuetudine ali quam per latam legem,
idque prope sexaginta annis passus est. L’aristocrazia era stata alquanto
abbassata dall;ultimo re, per cui ebbe fine il suo governo, ma dopo la sya espulsione
ritorno presto nel pria miero vigore. Quindi gli effetti dovevano essere conseguenti,
e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infatti si sa che dall’anno fatale
ai Tarquini, fino al tempo della leggi decemvirale, il potere legislativo ed il
potere giudiziario furono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo sarebbe
ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i
plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della
forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale erano tenuti,
tentarono de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano
oppressi. Ottenuto il tribunato si avvidero ben presto che esso era troppo
debole ostacolo contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente era annidata
dentro la stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo (sprit du corps) ,
che fieramente la difende. L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può
escogitare un popolo schiavo ancora dell'opinione, furono più volte ripetute;
ma le loro domande erano incerte, le loro querele generali, ed i loro desideri
si riducevano ad essere considerari come uomini e come cittadini: Ut hominum ut
civium numero simus . In questo stato compassionevole compresero finalmente che
niun mezzo vi poteva essere migliore per ottenere l’intento che quello di formarsi
una legislazione generale, poichè la sola legge puo stabilire la libertà e
l’uguaglianza civile, potevano esser riguardati come uomini cittadini. Strano
ed arrogante sembra al patrizio il desiderio della plebe, e strano parrà sempre
al possessore del potere arbitrario il desiderio del ristabilimento della legge
e della giustizia. Quindi il patrizio non lascia mezzo intentato per
frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e persuaderli che i patri
costumi erano sufficienti e che di nuova legge non vi era bisogno; mores
patrios observandos, le ges ferre non oportere. Furono intanto inutili le persuasioni
, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trovava detta suo questo solo
espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul modo di
sedare le civiche discordie rispose loro: fatevi la legge; i Romani plebei
sentirono l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je gemevano.
Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche
furono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposava colla più
buona fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i
quali dovevano mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia
a raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occulta rono in
qualche luogo d'Italia , e la legge poi fu tirata dalle arche pontificali e perchè nulla mancasse di condimento
aristocratico, si fecero poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da
Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle
dodeci tavole se fosse trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe,
sarebbe un articolo sommamente istruttivo; ma questa ricerca veramente politica
è stata molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si
dovesse servire e che non dovessero aver più in luogo di una legge il capriccio
o la privata autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il
patrizio risponde che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastavano la
usanza, no la legge. Il popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la
religione, e questa spesso parla per bocca de buoi e di altri animali, del
linguaggio de quali si fa un merito d'essere interprete. I plebei volevano che
la legge si facessero dal popolo legitimamente e liberamente congregato. Il
patrizi sostiene che non vi sarebbero stata altra legge, che quelle ch'essi
stesse avrebbero fatte: darurum legem neminem, nisi ex parribus ajebant. Il
popolo vuole una legge di uguaglianza. Il patrizio le promette in parole;
sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente dopo tante
vicende le dieci tavole furono pubblicate e successivamente le altre due come
ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e
resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il
popolo la esamino e la approvó solennemente. Ma la storia stessa ci dice che
quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno; che sconvolsero tuttol'ordine
pubblico e secondo Livio nihil juris in civitate reliquerant, che per quella
legge ogni consuetudine aristocratica e conservata, che la vantata uguaglianza
resiò in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconobbe d'
essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata
pienamente scoverta da molti autori e specialmente dal Vico, da Bonamy e da
Duni: la favola d;essere state leggi di uguaglianza e di giustizia, la può
scoprire facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia •gli avanzi
di quelle leggi . La scovri ancora il E 4 po . (Vico : Scienza nuova; Bonamy, Memoir.
de litterar. de l' Accad. de Paris. Tom . XVIII; Duni : Dėl Cittad. Rom) popolo
, quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato potè
tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse
la gente come uomini e come cittadini, non trova che una legge civile, una
legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco
l'interessavano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi
bisognavano una legge costituzionale che avessero ragguagliati i dritti, che li
avesse egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai
suffragi. Niente di tutto questo; e la plebe resto delusa della sua troppo
malfondata speranza. Vedremo in seguito come seppe rinnovare le giu ste sue
pretenzioni ; ed in tanto senza voler fare l'analisi di que’miseri frammenti
delle leggi decein virali , è pur giusto portarvi uno sguardo generale per
vedere almeno, se meritano tutti gli elogi de' quali sono state ciecamente
onorate dagli antichi é da moderni ; ed osservare in seguito, se ne pro
venissero quegli effetti felici, ai quali produrre era no state destinate.
Cicerone in più luoghi esaltan dole sopra tutte le leggi conosciute , non è poi
molto felice nel darne le pruove ; così condanna Solone , per non aver imposto
pera al parricidio , supponendolo impossibile , o volendolo supporre talo tale
per onore dell'umana natura; ed elèva la seviezza della Romana legislazione per
aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola , sem sapientiam !
esclama egli dopo aver lungamen: te ragionato con Logica forense. Tale fu la sa
viezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi ; poichè se si
riguardano per la parte crimi nale esse furono Aristocratiche , ingiuste ,
severe , é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale
poch’indizi ci sono restati, andavano al la conservazione dell ' Aristocrazia :
se per quella della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi
concepimenti del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, dovevano
esser ana loghe alle leggi ed all' usanze : se per la parte te stamentaria , è
facile il vedere, ch' esse contene yano la massima ingiustizia politica , per
conser vare in forza gli Aristocratici dritti : della stessa indole furono le
indegne leggi relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche
nelle quali sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al contratto, la
legge furono pur sempli ci , come devono essere in un popolo barbaro con pochi
rapporti civili; ma le usure d'ogni spe cie furono terribili. Chiunque vorrà
esaminar quel te leggi in buona fede , e misurarle secondo i vem ri rapporti
che le leggi devono avere colla natura e collo stato civile , troverà senza
fallo ingiusti ed irragionevoli gli encomj alle medesime attribui. ti . Ma
forse neppur in Roma si pensò tanto favo revolmente di esse, poichè col tempo
par che fos - sero del tutte néglette e dimenticate. Cicerone stesso riferisce
che al suo tempo neppure erano ben intese , e sebbene egli nell'infanzia le
avesse ap prese a memoria , era poi passato di moda tal co stume : discebamus
enim pueri XII. ut carmen ne cessarium , quas jam nemo discit. Ed in seguito al
riferir di Gellio erano cadute . in tale disprezzo ed obbllo, ch' erano derise
come fossero le leggi dei Fauni e degli Aborigeni . Si può trovar intanto
qualche motivo, pel quale si possono difendere gli antichi panegiristi delle
leggi decemvirali ; poichè per quanto fossero selvatiche quelle leggi , godevam
no pur dei dritti che danno l'opinione e l' anti chità; e paragonata la
giurisprudenz'antica a quel la degli ultimi tempi della Repubblica, il paragone
risultava in favore della prima. Ma che i Giure consulti moderni , e quelli
specialmente della setta degli eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri
frammenti superstiti come il più interessante per MC 75 per la conoscenza del
giusto, e rincariscano su gli elogj degli antichi, cið non può essere che
l'effetto d'un Letterario fanatismo Se Livio chiamo le leggi delle XII tavole
fonté ogni equità fu troppo credulo alle espressioni ed alle promesse
degl’iniqui decemviri. Qual nie fu infatti l’utilità pel popolo Romano? La
severa ed ingiusta costi tuzione non fu cangiata , e da quella vantata ugua
glianza la plebe neppure ottenne di acquistar la condizione desiderata . Per
quel principio Teocrático , di sopra accen nato , ciò che distingueva in tutti
gli effetti civili tanto pubblici che privati , il patrizio dal plebeo , era il
dritto degli Auspicj . Era questo dritto che dava la vera qualità di cittadino
negli affari sacri e ne'civili ; ed incominciando dal primo vincolo sociale ,
cioè dalle nozze ' , con i soli auspicj si produceva il connubio o nozze
solenni, dalle qua li derivava il carattere di padre di famiglia , la patria potestà
, e la facoltà di testare ; e questa specie di nozze era de' soli patriz; ;
poichè gli al tri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj auspicj
non potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e propriamente gli
auspi cj maggiori poi erano i soli mezzi per aver drito 1 ( 76 ) alle
Magistrature , e far parte dell'ordine regnante dello stato. Or niun
cangiamento fu fatto da quel le vantate leggi su di un articolo tanto
importante in quella costituzione nella quale tutto era sacro ; e la Storia
c'insegna, quanto poi costasse di tran quillità alla Repubblica, il voler
introdurre in qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la
giurisprudenza de' tempi più antichi di Roma , pure si può asse rire , ch '
esse non avessero propriamente la loro origine che dopo la pubblicazione delle
XII tavole . Si crederà intanto che quel prezioso codice avendo acquistata due
qualità principali, cioè d'eso ser pubblico e generale, avesse resa ceria e
stabia le la legislazione. Autorizzato dal popolo , fisso nel foro e delle
curie , ciascuno doveva trovarvi la certezza de' giudizj , la sicurezza de'suoi
dritti la legittimità de' suoi dominj; ma su questa con seguenza ci fanno
nascer gran dubbj gli antichi Autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre
ricordare che il principal carac tere delle prische Aristocrazie fu la
misteriosa cu stodia delle leggi o consuerudini, e della religione, ciocchè formava
il privilegio esclusivo, o la pri yatiya di quella sola sapienza che gode del
bujo & del ( 77. Det ZE = ; pro ice e della pubblica ignoranza . Ma codasta
sapienza Romana era fondata parte su l’ingiustizia , parte su l'errore : su
questo , perchè la loro scienza saa cra ed arcana non consisteva nel celare al
volgo i misteri della natura , l'origine della cose, l'enera gia della forza
motrice, la fecondazione dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani
presso le altre nazioni : la loro scienza arcana si raggira va sul cantare o
cibarsi dei polli , sul volo degl uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori
delle viscere , e simili cose , alle quali non pud appartener mai il nobile
titolo di scienza o sapien . ma quello solo di vane osservanze . L'errore poi
lo facevano servire all' ingiustizia , poichè con tali mezzi si mantenevano
nell'assoluta disposizio ne delle leggi , facendole servire alla conservazione
del preteso dritto del più forte, cioè alla soy version ne di tutte le idee del
giusto. Or poichè quelle leggi qualunque fossero erano pur pubblicate , una
parte della scienza arcana e dell' aristocratico potere sarebbe andato a
svanire , se non si fosse trovato un modo col quale si ae vesse potuto riparare
una perdita si grave. Ques sto si effetrul col conservare il potere giudiziario
Dell'ordine de' patrizj , e col rendere inutili le lege es za 7 bid SSO rvi ti
chi Tale Cu ne, ori ujo el gi ( 78 )* gi; se non fossero state avvalorate dalla
doro re condita sapienza . Essi dovevano spiegarne il sen so ; essi conoscere
qual dritto nasceva da una tal legge ; qual era l'azione che ne proveniva ,
quale il modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che poteva impedirla
; e finanche si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si poteva
amministrar la giustizia senza offendere i Numi . Ecco insomma la giurisprudenza
, ossia il mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio
d'una Legislazione. Essa vanta un ori gine Aristocratica , un origine che si
confonde coll' errore , colla malizia , e colla prepotenza . Sebbene dunque la
giurisprudenza fosse nata su bito che vi furono leggi incerte ed arbitrarie ;
pu re non si confermd , estese e stabilì nelle forme , che dopo la
pubblicazione delle XII . tavole ; dopo questo prezioso compendio dei dritti
degli uomini e degli Dei. Pomponio conferma le mie parole. Dopo pubblicate (egli
dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente avvenir suole , s'incominciò
a desiderare per l'interpretazione delle medesime l'autorità de' giurisprudenti
, e le ne by cessarie dispute del foro. Tali dispute e tal drit » to non
scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però un nome proprio
come le altri parti del dritto , ma con pocabolo comune è chiamato dritto
civile. Quasi nel tempo medesimo da „ quelle stesse leggi si fecero nascere le
azioni, colle quali si doveva discettare a litigare : ed sacciò non fosse in
libertà di ciascuno il farne uso, si pensò a farle essere certe e solenni ' ; e
que „ sta parte del dritto fu denominata azioni della legge , o sia azioni
legittime E cosi quasi ad - un tempo nacquero queste ' tre specie di dritto
cioè leggi delle XII. tavole ; dritta çivile deriva „ to da esse; ed azioni
della legge, composte su i s dritti antecedenti , La scienza poi tanto delle »
leggi quanta dell'interpretazione , e delle azioni %, stesse era riservata al
collegio de Pontefici, quali in ogni anno destinavano persona che pre sedesse
ai privati affari o litigi ; e con questa , consuetudine visse il popolo per
cento anni in » circa , „ Quale orribile contradizione ! Appena pubblieata una
legislazione tanto vantata per la sua perfezione, fu trovata cosi
insufficiente, ch'eb be immediato bisogno di sostegni e di interpreta zioni . E
codesto fu il codice superiore a tutte le biblioteche de’ filosofi? Ogni parola
di Pomponio contiene una contradizione alle idee di leggi e le gis 80 )
gislazione che somministra il buon senso il più comune. Il dritto civile tanto
encomiato non fu altro dunque che il risultato delle interpretazioni de'Giu.
risprudenti e delle dispute forensi ? E qual razza di prudenti erano mai
quelli! Ciascuno sa che quella fu l’epoca della più crassa ignoranza; la spada,
la zappa, i polli e le usure erano le sole idee che fiorivano in quelle teste
leggislatrici . Ma poichè col progresso del tempo , e colla frequenza de'
giudizi qualunque fosse stato quel dritto con suetudinario poteva pur ridursi
in massime o in principj di giustizia , e cosi divenire di comune. intelligenza
e di un uso generale; si pensò il mo. do onde questo non avvenisse , e si
mantenessero sempre le leggi nel bujo e nell'incertezza . Ne cið era
sicuramente per una vanità dottorale , ma per conservare un potere ed una
leggislazione arbitra sia , qual era il grande scopo dell' ordine Aristo,
cratico . L'unico mezzo che essi viddero il più opportu 80, fu quello
d'inventare le azioni , cioè delle for mole colle quali non solo si doveva
agire o ecce pire in giudizio , ma secondo le quali si doveva no regolare i
contratti e gli altri atti civili , accið por ve far potessero avere un effetto
legale. Non bastò loro di aver la privativa de' giudizj ; poichè colle leg gi
certe difficilmente avrebbero potuto abusarne : bisogno dunque inventare un
nuovo dritto di esso e della nuova pratica una nuova legis lazione da surrogare
all'antica scienza mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá cu
stodia, colla quale prima delle XII. tavole teneva no le antiche consuetudini .
E perchè non si man casse di venerazione a tale straordinario stabili . mento,
i Pontefici ne furono fatti depositarj egual mente e disponitori . Chi' può trovare
in questa specie di legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria
diret ta non a dispensar giustizia , ma a conservare ľ Aristocratico dispotismo
, darà segno , di non aver avuto mai idea di ciocchè costituisce il carattere
delle leggi. Ma non si trattava già di fac leggi , si trattava solo di tener il
popolo in schia vitù : perchè se avendo già esso acquistato i drit ti di
privata cittadinanza avesse potuto godere anche quello d'Isonomia , cioè dell'
eguaglianza delle leggi , qual'era stato il suo intendimento nel promuovere una
pubblica leggislazione , avrebhe fatto un gran passo verso quella libertà che
tanto F ambiva , ma che più sentiva che conosceva . Escla . md esso sovente
contro quella specie di occulta o privala legislazione , dicendo, che la sua
condizio de ea in questo assai peggiore di quella dei po poli vinti ;
essendogli negato il poter sapere cioc che riguardava i più comuni affari
çivili , e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agli altri non era Ignoto :
segno sicuro che l'aristocrazia romana era inolto più feroce o severa di quella
delle altre città o popoli vicini. Il dottissimo Vico con gran proprietà d'
intelli genza penso che quel notissimo motto di Solone: conasciti, fu piuttosto
un précetto politico che mo rale . Pieno l'animo di tutti i sentimenti della ve
ra giustizia Solone ricorda va con quel motto all' oppresso popolo di
riconoscer se stesso , cioè di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a
colo ro che li opprimevano. Il popolo Romano non eb be un Solone , che gli
desse così utili ricordi ; ne forse ne aveva bisogno , poichè abbastanza si ri
conosceva , ed agli insulti de'Patrizi rispondeva , che non erano fioalmente
essi ne discendenti do’ Dei , nè venu i giù dall' Empireo . Avrebbe perd avuto
bisogno di un Solone , per aver lidea d'una costituzione , senza la quale arrivo
si a distruge gero gere la maggior parte degli abusi del potere Ari „
stocratico, ma non giunse mai a formare una pere ferta Repubblica, fondata su i
veri rapporti sociali e su i dritti primitivi della Giustizia naturale e
positiva : per cui se Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle
ricchezze, cadde an che presto nella voragine del disporismo . Ma ritornando a
quella Giurisprudenza che suc cedè immediatamente alle XII tavole, e che diede
nascita a quel nuovo dritto così stranamente am ministrato, dirò , che sebbene
da quanto semplice mente espone Pomponio, se ne possa giustamente fare il
carattere; pure ad esuberanza aggiungerd, che l’illustre Gravina , tuttochè
pieno d' entusiasmo per la Romana Giurisprudenza, non seppe nascon dere ,
quanto fosse infelice quella de' tempi de'qua. li abbiamo ragionato. Antiqua
jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum prodiit
: aspera quidem illa tenebricosa & tristis non tam in æquitate quan in
verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiu dizj
Filologici, avesse voluto mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. cap. 46. F
2 di giudicare giustamente , come riconobbe per tenebrosa l'antica
giurisprudenza , avrebbe ricono sciute per arbitrarie e maligne le successive
giuris prudenze dette media e nuova , ed avrebbe discon * fessato gl '
inopportuni encomj , che in generale yolle ad esse tributare . Per quanto perd
si è finora ragionato , non ho toccato che leggermente la nequizia della giuris
prudenza e della giustizia sacerdotale ; ma chiun que per poco abbia di buon
senso converrà meco, che una delle tristizie maggiori in fatto d' Ammi
nistrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e conoscenza , e ridurle
per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani misteriosi . Nascondere le
leggi, è nascondere la luce civile ', è precipitar gli uomini ne' vizj e nella
corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità d'espressione si chiamano la
ragion civile , onde il celarle, il corromperle , val lo stesso che privare
gl'individui del corpo po litico di quella ragione che loro deve servir di
guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurispru. denti non lasciarono
mezzo per tenere il popolo nell'oscurità , poichè non solo coll' inventare le
azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le
guastarono ; ma de' nuovi stabili men ( 85 ) menti anche s'impossessavano per
poterne disporre a loro talento. Livio n'è amplissimo testimone di cendo :
institutum etiam ab iisdem coss. ( cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut
Senatusconsulta in ædem Cereris ad ædiles plebis deferrentur , quia ante ato.
bitrio Consulum supprimebantur vitiabanturque. Non fu però sufficiente questa
legge, come vedre mo in altro luogo , e i giurisperiti seguitarono ad essere
veri Monopolisti delle leggi . Dobbiamo credere però che i più virtuosi Ro mani
avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di soverchieria ; e perciò . la
storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali quasi senz’intervallo
tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti rurali gli arnesi
guerrieri , o coronavano l'aratro di allori trionfali . Si sa che Roma allora e
per alui secoli non presentava al cuna occupazione che potesse allettare alla
vita cittadinesca , la quale dalle belle arti , dalle scien ze, e dal prodotto
da, esse spirito sociale si rende solo piacevole ; perciò chi non amava
l'intrigo, nè la vita oziosa soffriva , in vece di darsi alla cabalistica
(Livio) e viziosa giurisprudenza , si riparava nella esercizio dell'agricoltura
sempre preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo
istruire , mostrandoci , che la famiglia la più in festa allo Stato , la
perpetua persecutrice della li bertà popolare e della Giustizia pubblica fu una
famiglia di giurisprudenti. Tale fu la Claudia ; e sempre si è veduto che dove
dottori e forensi 80 no, la discordia prende il luogo della pace e della
naturale tranquillità . Ma ritorniamo a Pomponio . Egli ci dice che quella
mistica giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo : la storia pero a gli
altri autori dicono , ch' ebbe una durata eguana le a quella della Repubblica ,
toltene alcune diffe renze dalle quali non fu alterato il fondo del la cosa ·
Seguita dindi Pomponio a racconta re , come quelle formole ed azioni , essendo
ri , dotte in forma da Appio Claudio , cotal mistico libro gli fu involato da
Gneo Flavio figlio d'un libertino e scriba dello stesso Claudio : ed aver . ,
dolo pubblicato e fattone un dono al popolo , » questo gli fu si grato , che lo
fece pervenire ad » esser Tribuno della plebe , Senatore , ed Edile „ Questo
libro contenente quelle azioni delle quali > si è già parlato , dal nome
dell'editore fu deno ( 87 ) Si po , mitato drino civile Flaviano , benchè egli
nulla » vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in Romi la popolazione e nel
multiplicarsi gli affari maticando alcune specie di formole , Sesto Elio non »
guari dopo compose nuove azioni e ne pubblico co un libro chiamato Dritto Eliano
, . trebbe" ragionevolmente pensare , che pubblicate le leggi e resa
publica la scienza arcana , il dritto cívile , le ' azioni, la pratica, e le
leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo illua minato su
i principj legali , sulla condotta degli affari , sul modo di amministrar la
giustizia , . sulle ordine giudiziario , non avesse più bisogno della
maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto , e sapere i mezzi
d'ottenerlo . Ma tuu ' al trimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i
patrizj perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella
scienz'arcana , che forma va la base principale del loro ingiusto potere, tro*
varono il'modo , onde far rimaner il popolo de fuso . E come nelle sette se si
vengono a scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, pres stamente
si cangiano , e de ' nuovi si surrogano , onde sia salvo it mistero ; cost i
bravi Giurispe siti eseguirono , cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti
dell' ordine , e conservarono il grande arcano della Giurisprudenza . Le
formole e le azioni furono cangiate , e forse in maggiori cifre involute onde
potessero rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo
plebeo . Ma ascoltiamone, Cicerone, il qua le ce ne dà il più distinto
divisamento ; Erant in In igna potentia qui consulebantur : a quibus etiam
dies, tamquam a Chaldæis petebantur. Inventus est scriba quidam Gn. Flavius qui
cornicum oculos con Fixerit , & singulis diebus ediscendos fastos populo
proposuerit & ab ipsis cauris
jurisconsultis coruin sapientiam compilarit . Itaque irati llli , quod sunt,
veriti , ne , dierum ratione, pervulgata & cognita șine sua opera lege
posset agi . notas quasdam com posuerunt, ut omnibus in rebus ipsi inieresseni Non
fu di alcun utile dunque l'aver trafitti gli oc chj a quelle cornacchie poichè
in breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi
prosiegue , la Storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro
secoli gli stessi sentimenti , gli stessi principj , la 2 stes (Cic. pro Mur.) cha
stessa condotta". La Giurisprudenza fu latente , in çerta , arbitraria ,
ignota al popolo ,, e privativa del solo ordine paurizio sacerdotale, il quale
lungi da quella virtù che sola consiste nella beneficenza » da quella sapienza
che cerca il vero , per render lo di comune demanio ; da quella Giustizia trova
i principj nella ragione, e gli espansivi sens țimenti nel cuore ; da quella
naturale benevolenza e da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uo mo civilizzato
; da'veri sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla
Giusti, zia ; , lungi dico da tutte queste qualità e gli Eroi del Campidoglio
non sembra che provassero altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di
corpo, sempre contrario, anzi distruttivo de' sentimenti so ciali , dal vile
interesse personale e pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj , e dall'abuso
di un illegiti mo potere. E pure questi furono i patriarchi della
giurisprudenza ! Seguitando quindi Pompopio ad esporre i fonti del dritto
Romano ci accenna l'origine de' plebi. - . sciti e de' senatusconsulti, specie
di leggi dettate dal popolo o dal Senato , e delle quali in appressa, vedremo
gli effetti ee'l'l valore , e soggiunge , che » nel tempo stesso anche dai
Magistrati nacque » un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè ,
tecid saw pessero i cittadini , di qual dritto i Magistrati in si sarebbero
serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura , & perchè vi andassero
premuniti, pubblicarono degli editri , da quali si costitui il » Dritto
onorario , cost detto perchè proveniya dall'onor del Pretore , • E dopo aver
parlato finalmente dell'altra parte del dritto che nacque delle costituzioni
de' Principi , cost riepiloga tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano
. ,, Nel la nostra Città dunque dice egli ) la legisla os zione è costituita
del dritto" o sia legge ; da » quello che propriamente si chiama Dritto
civile , che non è scritto , è consiste nella sola interpre mtazione de'
prudenti : dalle azioni della legge » le quali contengono le formole di agire;
dai plebisciti che furono fatti senza l'autorità del » Senato , dagli edini
de'Magistrati,da' quali nasce il dritto onorario ; dai Senatusconsulti
costituiti dal Senato senza legge particolare ; e finalmente , dalle
costituzioni de' Principi , Ecco tutta la Storia seguita , che Pomponio ci ha
lasciata del dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gli autori
tunti convengono . Abbiamo finora voduto quale fosse il dritto é la C 91 ) fa giurisprudenza
Romana prima è dopo dello leggi decemvirali , e quindi come per quattro secoat
li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1 caratteri d'irregolarità ,
d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la ragion popolare andasse ac
quistando qualche dritto su l'Aristocrazia , puro questa sostenuta dal
Sacerdozio , qnantunque per Necessità cedesse in qualche cosa de’dritti
pubblici, fece perð ogni sforzo per tener recondite le leggi , e sotto le
chiavi del mistero tutto quello che ri guardava l'anministrazione della
giustizia. Conoba bero ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno
veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle
leggi e della giu stizia , e che tanto più diventa tale autorità effica cé ,
quanto più le leggi sono oscure incerte ed ar bitrarie . Ma per vedere come
questo continuassets e come la Giurisprudenza seguitasse ad esser sem pre della
stessa indole , prima di venir a ragionia re de' plebisciti e de'
senatusconsulti ch' ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel
dritto; cui si volle dare il titolo di onorario , ma che ves dremo' non essere
stato degno di alcun onore. Se si volesse parlare del la ridevolezza di quelle
vantate formole , che costituivano la Romana Giurisprudenza , ci porterebbe a
perdita di tempo , ma se i Romani di buon senso e Cicerone stesso le.
deridevano e tenevano in altissimo disprezzo , cre do che dopo due mille anni
potremo far noi al- , trettanto , e chiunque non sia un’ vero divoto , e cieco adoratore
della Romana antichità e giurispru-, denza. Rifletterà solamente , che quando
di cose sem. , plicissime si vogliono far misteri , allora dovendo vi aver
luogo l'arte d'imporre , le idee semplici si devono involgere in un numero di
parole non necessarie , e surrogare impropriamente le imma gini e le finzioni
alla semplicità e realità delle co se e delle idee : specie di geroglifici che
deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura Siccome non è mio
intendimento però di fare la Storia del governo civile di Roma, mà solo
indicare il corso infelice delle leggi e della giurisprudenza, cosi non
m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i patrizi,
quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza , e questi per
allontanarli , facevano tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi il foro
Romano; ma accennerò so , lamente ciocchè importa , per passare all'origine del
dritto onorario . La forza dell' opinione non aveva più molio. scevano valore
contro la forza reale ed effettiva ; per cuti essendo riusciti i plebei a
partecipare ad alcuni di quegli officj che fin allora erano stati privativi de
patrizi , come fu quello della questura e de' tria buni militari , non parve
foro di aversi assicuraii i sospirati dritti , se non ottenevano la massima
delle Magistrature , vale a dire il Consolato . E poichè già per lunga e
dolorosa esperienza cono che sempre col manto della Religio ne i patrizj
cercavano coprire le loro pretese , o tependone lungi il volgo profano ,
ailontanara lo da tutte le magistrature che de' sacri auspicj abbisognayano ;
così i plebei videro che per farsi strada al Consolato, si rendeva necessario l
' ardi mento di entrar ne' sacri pene trali , ed andar an che essi a studiare e
consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni che fecero cor
rendo alla fine il quarto secolo di Roma , furo no queste cose combinate ; cioè
che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de De. cemviri , e
che di questi cinqué patrizj fossero ed altrettanti plebei : e che nella nuova
elezione de Consoli l'uno fosse del loro ordine , e l'altro pae trizio . Invano
Appio Claudio montà in tribuna per fare non arringa ma una predica Teologica
contro le 94 et le nuove idee filosofiche sorte negli animi della plebe Romana
: invano ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete ; invano minacciò d
anate ma quel popolo , che potea far a lui più reali mi nacce : Roma ( diceva
egli ) fu fondata cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico , di privato ,
di sacro , di profano , in guerra , in pace , in cae sa e fuori , tutto doversi
cogli auspicj trattare : che i soli patrirj in esclusione de' plebei per
inveterato costuma godevano del dritto degli auspicj: che niun magistrato
plebeo fu mai creato cogli auspicjse che in fine canto era il creare i Consoli
dalla ple. be , quanto il rovesciare interamente la religione , ed incorrere
nell'ultima indignazione degli dei. Non ostantino però tante e si gravi
rimostranze Lucio Sestio nel 387. ottenne finalmente il conso lato . Se questo
colpo fosse doloroso a sostenere per i patrizi, è facile l'immaginare ; ma al
male già accaduto non potendo portare alcun riparo ef ficace , si rivolsero ad
escogitare qualche rinfranco , per non perdere intieramente quel privativo
potere che dipendeva dal consolato . Pensarono dunque sta ( 12 ) Lir. lib. YI.
cap. 36 mabilire una nuova Magistratura, che potesse con servare nell'ordine
patrizio l'amministrazione del da Giustizia, il potere giudiziario , e tuttociò
che riguarda l'esecuzione delle leggi civili. Quindi col pretesto che i Consoli
erano quasi sempre fuori di città alla testa degli eserciti , onde non poteva
no adempire agli ufficj della giudicatura , proposent to di stabilire un nuovo
magistrato che adempisse & questa parte dell'Amministrazione , e fu
ordinato che si traesse dai patrizj e si chiamasse Pretore . La pretura dunque
fu stabilita per conservare nell'ordine de' padri eutto il sistema giudiziario
o forense del quale avevano facto fin allora uno scempio cosi crudele . Le
leggi e la Giurispruden za seguitarono ad essere malversate , ma per poia chi
anni durd privativamente nelle mani de' patri zj la Pretura . Eccoci intanto al
tempo nel quale si pud fissare veramente l' epoca di quella Giuris prudenza che
passo di mano in mano fino agli ul. timi tempi ne' quali ebbero qualche
celebrità il no . me Romano e l'Impero . Questa parte del dritto , come testè
ci ha insegnato Pomponio , nacque da gli editti , che emanavano į Pretori
nell'entrare in esercizio della loro Magistratura , ed essa façeva il maggior
latifondio della Scienza forense . L'im para the S6 ) portanza dunque della
medesima ci merte nel do vere di portarvi sopra uno sguardo particolare ,
seguendola brevemente nel corso della Storia' , ve derne in qualche modo l' uso
, il carattere ; e gli effetti , Dopo lo stabilimento della pretura e della
comu nicazione a tat officio delle plebe , e più dopo ese guito il censo di
Fabio Massimo il governo di Roo ma perde la forma Aristocratica , benchè non ne
perdesse lo spirito ; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti , che si
trasformasse mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La
libertà popolare fu molta , e qualche volta ecces siva a segno che degenerd' in
licenza , poichè essa non era limitata dalla legge ; ed il dritto de' suf
fraggj ed il potere legislativo non ebbero mai quel la regolarità ed uniformità
, che può rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo . E non fu
mai tale il popolo Romano, poichè la for ma del suo governo non fu costituita
su d'un pia no antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de'
varj rapporti sociali si fosse ri montato alla necessaria divisione del
pubblico po tere , e questo ripartito in modo che le varie par ti non si
potessero nuocere fra loro , e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire ; ma
per un nesso naturale tutte coordinatamente contribuissero al grande scopo
della perpetua conservazione sociale . Non avremo perciò quind' innanzi
frequente oco casione di parlare dei disordini dell' Aristocrazia patrizia o
sacerdotale , poichè gittati i semi del disordine e della corruzione , essi si
moltiplicarono dovunque trovarono suolo adattato alla facile germi nazione.
Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki , non però tutti quelli che
sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione. Ma passiamo final mente a
vedere quale fosse stato il fato della Giu risprudenza in questo nuovo ordine
di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più accurata , mente trattarono
degli editti pretorj sono da distin guere il celebre Giureconsulto Eineccio ed
il Sig. Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per trattare il più
compitamente che fosse possibile questo importantissimo articolo relativo alla
Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono ricerca alcuna
conducente al loa G TO ( 1 ) Heinec. Hist. Edict. ( 12 ) Memor. de l'Accadem .
des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo . Trovarono che in Roma e per l'Impe , so
ancora non solo quelli che propriamente Man gistrati erano detti , ma diverse
altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere , ebbe To pure il
dritto o il costume di fare degli edinti Quante che fossero adunque le
divisioni e suddi visioni del potere esecutivo o giudiziario , ed in quanti
diversi rapporti fossero esse costituite, pren dendo un tal dritto , ebbero
l'uso e la facoltà di straordinariamente comandare. Cosi , incominciando dai
Pontefici e dai Tribuni della plebe , nè gli uni nè gli altri Magistrati , e
passando ai Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vol. lero
avere il dritto di far editti , e godere di quel. Ja parte di potere che in
tale facoltà o prerogativa era compresa . Fra tanti Magistrati perd che eb bero
o si arrogarono cotale autorità , gli editti di maggiore celebrità , e che
contribuirono a creare una nuova Giurisprudenza furono quelli de'Pretori.
Abbiamo già detto di sopra che dai patrizj fu inventata e fatia stabilire
questa nuova Magistraa tura a consolazione ed indennizzamento della per dita
che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe ; e quindi ottennero , che
il Pretore dal loro ordine dovesse essere prescelto Non durd mol , ( 99 molto
intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza fosse
la Pretura , non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche para tecipare a tal
carica , mentre ancora era unica e non divisa nei due Pretori Urbano e
Peregrino ; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo , cioè nel anno 510. Coll’andar
del tempo si multiplicarono maggiormente , ed oltre dei due mentovati e dei
Pretori Provinciali altri ve ne furono nella Città , de' quali alcuni erano
addetti a rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo
detto del la origine della Pretura , ciocchè ci viene attesta 10 da Livio e da
altri , cioè che essa fu surro gata al potere giudiziario, che i Consoli
esercita vano , si dovrebbe naturalmente pensare , che se i Pretori cagionarono
alterazione nell'antica Giu risprudenza , e ne fecero nascere una puova , çið
essere accaduto per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze , le
quali avessero per la loro giustizia meritata la conferma della pubblica auto
rità , e passate quindi in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal
motivo , nè si po trebbe facilmente immaginare , che essi a priori fossero
autori di un nuovo dritto e d'una nuova Giu. 3 . G 2 ( 100 ) Giurisprudenza .
Eppure non fu altrimente : essen do essi semplici giudici o ministri di
giustizia , colla facoltà di fare degli editti seppero per tal modo usurpare
l'autorità Legislativa , che il dritto fu cangiato , e gli editti più che le
leggi furono osservati , e maggior uso ed autorità ebbero nel Foro . Ma se i
Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia , il loro
officio era solo di applicare .la legge al caso particolare , o sia ve der i
rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si di. sputava. Un Giudice non può
creare un dritto col le sue sentenze , poiché esse altro non sono che la
dichiarazione del dritto medesimo ; cioè che la legge nel caso proposto si
verifica per la tale azio ne o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo
, cioè esercitando l'attualità della Magistra tnra non può crear un dritto ,
molto meno dee cid poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza
della Magistratura. Gli editti pretorii dunque per i quali si alteravano , si
cangiavano le leggi , e se ne stabilivano delle altre temporarie , ci pre
sentano degli atti di autorità arbitraria , tempora ria , ed incerta che non
possono formar mai una parte del dritto , il quale può solo emanare dalla - potestà
legislativa , e dev'essere certo generale o perpetuo , fino a che non sia
abrogato dalla stessa autorità. Quando dunque in una carica siriuniscos no
contro tutti i principi della ragion pubblica quelle facoltà , che devono
essere divise da limiti insurmontabili , si può dire che tal carica contenga
almeno in potenza (come dicevano i Scolastici) i principj del disporisano , e
dispotico si può chia mar il Magistrato che l'esercita . Nel crearsi la Pretura
io voglio supporre che non s'intese produrre un mostro di tal fatta , ma come
codesta carica fu surrogata al potere giudi zionario che avevano prima i
Consoli , il quale era riunito al potere esecutivo , cosi' e per questo per
quel grado d'autorità che prendevano dall ' or dine da cui erano tratti , non
fu difficile il farvi passare di tali abusi . A considerar dunque giusta mente
la cosa non nacque nella Pretura tale abuso dal semplice potere giudiziario ,
ma da quello di far gli editti . In fatti se si va all'origine di que sto dritto
, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli antichi) quod jubemtis fieri
: espres sione tanto generale , che potrebbe comprendere l'esecuzione di tutte
le potestà non esclusa la le gislativa ; e perciò fiequentemente le parole di G
leggi e di editti furono di uso promiscuo : Ma Papiniano è quello che più
nettamente ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che fu
introdotto a pubblica utilità , per adjuvare supplire, e corriggere il drilio
civile . Jus prætorium adjuvandi, vel supplendi , vel corrigendi juris gratia
propter publicam utilitatem introducium : Ecco dunque la vera origine del
drixco Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gli editti .
Ajutare intanto indica debolezza , supplire , mancanza, cor reggere , errori .
Si dice ch'è nell' ordine naturale delle idee di amministrazione , che quando
al caso non si trovi alcun stabilimento di dritto , alcuna legge scritta , la
volontà del Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto
che il loro piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta ,
utile o noci va alla Repubblica ( 13) . Ma che altro è mai il Dispotismo ,
l'odio de' popoli czualmente e de' buoni regnanti : Se le leggi mancano,
bisogna far le , e non solo il Ministro di giustizia , ma niun Magistrato è mai
autorizzato non dico a fare alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom.
72. ( 103 11 0 7 I na legge , ma nè a soccorrerle cadenti , nè a sup plirle
difettose , nè a correggerle erronee , nè ad interpretarle oscure · Lascio le
tre prime condizio ni o circostanze delle leggi , sopra le quali non pud cadere
alcun dubbio , che il restituirle in qualun que modo non possa spettare ad
altri che al So vrano ; ma in quanto all' interpretarle , . sopra di cui il
probabilismo forense pare che abbia stabia lita la sua autorità , rifletterò
che l'interpetra re o interpatrare da principio fu in Roma del so to ordine del
patrizi , quando tutti i poteri e spe cialmente il legislativo erano ristretti
nell' ordine "Aristocratico . Essi dunque che facevano le lega gi erano i
soli che potessero interpretarle , uno e l'altro potere era illegitimamente
stabilico ed abusivamente amministrato . Quando una leg ge è oscura , non vuol
dir altro , che il non sa persi precisamente , ciocchè essa comandi o pre
scriva ; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stes sa autorità , che l'ha
emanata , sola interprete le girima di se stessa . Ne i giudici dunque nè i
giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale è tan 10
facile l'abusare ; e percid gli ottimi legislatori e Giustiniano stesso
ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10 . ( 104 ) no . Le leggi bisognose di
sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti , de' quali di
sopra abbiamo accennato il rimedio , ed il maggior male da esse prodotto fu d'
aver fatta nascere la Giurisprudenza , ed in seguito la corruzione della
giustizia : nel qual fatto osserva l ' Eineccio , che i Romani furono cogli
Ebrei sotto lo stesso paral lelo (14 ) Or l'autorità data ai Pretori cogli editti
prova visibilmente due punti: il primo che le leggi era no così incomplete ,
come sono quelle dei popoli bara bari ; e che i Romani lo furono a tal segno ,
che non seppero conoscere, quanto il confondere le po testà , ed il lasciar il
poter arbitrario ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di
ogni buon governo . Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel
modello delle Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù , e che con
nobbe più delle altre la libercà e l'uguaglianza ? Non togliamo a Roma gli
onori che merita. Essa fu la prima inventrice degli editti, essa fu la sola Re.
Heinec. De prohib. a Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per
quanto si sappia , che li avesse in costume. A vedere quale era il dritto
Pretorie lungi dal dover credere i Pretori Magistrati giudiziarj , do vremmo
anzi prenderli per riformatori o corret . tori delle leggi . Tali furono in
fatti , ma non per uno stabilimento autorizzato dalla potestà le gislativa : lo
furono solo per abuso , vergogno so ai costituenti di sì strana Magistratura ,
e fer nicioso sommamente al popolo soggetto. Se Roma avesse conosciuti i
difetti delle sue leggi , e l'in congruenza nella quale dovevano essere per la
dif ferenza de' tempi , e per i politici cangiamenti ; ed avesse voluto imitar
veramente le leggi ed i sta bilimenti di Atene , avrebbe trovato più oppor tuno
mezzo ' a correggere e modificare la sua bar bara legislazione . Ciascuno sa
che in Atene vera un Magistrato detto de’ tesmoreti , il quale propo neva
annualmente i cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi , e queste erano
poi approvate o riggettate dal potere legislativo . Non deve farci intanto
molta meraviglia che la pretura s' introducesse con tali abusi e tant' auto
rità straordinaria , se rifletteremo che quella. Magi stratura fu da principio
stabilita privativamente per l’ordine patrizio, il quale la conservò in suo
potere per trent'anni . Per sapere poi come quell'abusivo potere si esercitasse
, devo ricordare , che vi erano quattro specie di editti , cioè Repentina :
perpetuæ jurisdi fionis caussa : translaticia : nova . E senz' andar esponendo
il valore di ciascuno , ciocche fino alla sazietà da molti autori è stato
eseguito , mi ri stringerò ad alquante osservazioni più importanti. E
primamente dirò , che quelli editti i quali do vevano contenere il sistema
giudiziario attuale del la pretura , furono quelli appunto , da'quali deri
varono maggiori abusi , cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa , pei quali
il Pretore esponeva nell' albo le formole delle azioni , delle cauzioni, delle
eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che la
Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole era com preso,
chi era autore delle formole, lo era in con seguenza del dritto medesimo.
Chiunque nell'agire in giudizio mancava a quelle formole per qualun que causa ,
cadeva dall ' azione , o rimaneva con inutile eccezione cioè perdeva la lite
anche che intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la
disposizione delle leggi. Ecco dunque il Magistrato div enuto legislatore , ed
arbitrario it sistema di giudicare. Dobbiamo però credere , che tuttociò fosse
fatto senza principj , e che non aven do idee certe e generali de' principj del
driito , fa cessero gli editti ciascuno secondo le proprie co gnizioni ed idee:
poichè come le ultime deriva zioni e ramificazioni delle leggi si possono
ritrar tutte della retta ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se
i loro editti fossero derivati da tali fonti , non sarebbero stati prescrizioni
annua li , ma avrebbero avuta una continuazione o vera perpetuità. Nè ci faccia
illusione il nome di perpetuæ jurisdictionis , poichè quella perpetuità era
ristretta ad un sol anno . Il Pretore o Pretori che succede vano alla carica ,
avevano il dritto assoluto di proporre nel nuovo albo un nuovo sistema giudi
ziario , e cangiare a lor grado la formola ed i principj ; e sebbene questo non
si fosse fatto sem. pre nè in tutto, poichè spesso i succes'sori conser vavano
integralmente o parzialmente gli edirii an tecedenti , ciocchè diede il nome di
translatixj agli editti di tal indole , era sempre però in liber tà de' nuovi
Magistrati di farne di nuovo co nio , che perciò portarono il titolo di nova. Se
maggiori irregolarità , incertezze ; ed arbitrj . si possono portare nell'
ordine giudiziario e ne ! dritto , lo lascio giudicare agli amici della Giu
stizia e della ragione. La Giustizia dipendeva solo dal capriccio pretorio , e
gli attori in giudizio do vevano essere ben intrigati in variar le loro fora
mole , e su di esse disputare ed argumentare , per trarre le disposizioni o le
opinioni legali al loro partito. Questo portò col tempo , che fossero mol te le
azioni per lo stesso giudizio , ciocchè faceva un nuovo intrigo , ed accresceva
l'arbitrio de’ magistrati . Più anche dovette crescere quando i Pre tori furono
varj , e vi era in Roma quasi una po polazione di Magistrati , poichè ciascuno
a suo modo proponendo gli editri , quel ch'era giusto pres. so di uno , si
trovava ingiusto presso un altro . La morale pubblica e quella delle leggi
particolara mente era dunque così incerta, che non aveva per regola che le
opinioni o il capriccio, e si dilatava o ristringeva , allungava o accorciava
secondo le sublimi Teorie del probabile , le quali sorgono sem . pre dall'
arbitrio e dalla corruzione . Se il Pretore fosse stato uno solo , se l' Ammi
nistrazione giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di
Magistratura , non avrebbe potuto 1 dirs ( 109 ) diffondersi tanto l'incertezza
della Giustizia e la forza dell' arbitrio : ma gli ammiratori o visionarj della
Sapienza Romana , trovano ragioni sufficien ti per ogni disordine . Il
progressivo accrescimento della Città o della Repubblica porto secondo essi
multiplicità e varietà di affari , per cui si doveano coerentemente
multiplicare e variare le Magistra ture e le Giurisdizioni . Esempio pur croppo
fune stamente imitato nei vari stati di Europa '! Nel progresso delle Società
si aumenta è vero la po polazione o il numero degl' individui; ma non per
questo crescono i rapporti naturali e necessarj che essi hanno collo stato ,
col governo, e fra se stessi . Non crescendo i rapporui non devono multi
plicarsi e variarsi le leggi , le quali ne sono I espressione ; ne devono
quindi" crescere e di versificarsi in varj generi e classi i Magistrati
che ne sono i Ministri o dispensatori . Possono crescere in numero bensi ed in
divisioni , ma de vono essere costantemente della stessa specie e con i stessi
nomi. Quindi il dividere i giudizj crimi nali e civili in tante varietà ,
giurisdizioni , e le gislazioni differenti è il produrre volontariamente una
confusione , e multiplicare gli abusi dell'arbi crario potere : ciocchè però
non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti deb
cittadino . In questo caso, la legislazione sarà uni voca , generale, uniforme
; i limiti del potere giu diziario resteranno distintamente marcati ; e le
giurisdizioni , e le Maggistrature non saranno sta bilite e divise sopra
rapporti immaginarj e fattizj . Più , non nascerà pelle Magistrature quello
spirito di corpo per cui sono in continua contesa o guer. ra fra loro, e , per
conseguenza col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inver sa
della grandezza del corpo medesimo , onde più saranno piccoli , più avranno i
difetti della piccio lezza , più saranno capricciosi , irragionevoli , ed
abuseranno della forza e dei momenti favorevoli : . Un gran corpo di
Magistratura ben costituito e con venevolmente diviso , senza gelosia e senza
inte- , ressi contrarj avrà la dignità che deve aver la Magistratura , ma non
ne avrà le follie . Per quanto però fosse ampio ed esteso il dritto o potere
che i Pretori esercitavano , non sembro loro ad ogni caso sufficiente ; e
poichè delle cari che non limitate o mal circoscritte dalla legge si . passa
facilmente da abusi in abuşi , essi non fu sono contenti dover osservare i loro
stessi princi pį idee e sistemi per quella perpetuità annua , ma , pensarono
d'abbreviarne il termine a loro piacere Fenomeni di tal natura sono forse del
tutto nuo vi nella storia ! Una magistratura costituzional mente arbitraria ,
si arroga anche il dritto di can . giar quelle norme legali divenute leggi per
mezzo della pubblicazione , e farne delle nuove senza pre, vio esame , come, un
corpo leggislativo farebbe , ma di propria volontà e piacere come un Despota
potrebbe fare . Questo pur si faceva nel foro Ro mano , e spesso durante l'anno
della Pretura si vedeva quasi magicamente scomparir l'albo espo sto , ed un
altro a quello sostituito . Pensi chi vuole , che fosse quella una sublimità di
condos. ļa , o la surrogazione d' idee più giuste ed al paba blico vantaggiose;
io penserò cogli antichi , che i pretori, nol fecero per altro che per favore ,
per interesse e per altre tali cagioni , stimate ferite mortali per la
Giustizia . Cosi penso anche l'Ei neccio, il quale benchè impa stato di vecchia
giu risprudenza , pure abominò il dritto pretorio ed i più illegali abusi de'
Pretori . Si erano essi accom modati talmente a cotal giuoco, che portandolo,
ormai all'eccesso , e facendo vero scempio della giustizia , si svegliò
finalmente un'anima virtuo sa compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua
la en le tentò d'apportarvi riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che
della giustizia fanno gli stes si di lei sacerdoti , e non sentirsi l' animo
com mosso da pietà egualmente e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle
semplici idee di quella véra sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e
l'umanità alla virtù , vedeva con orrore l ' amministrazione della giustizia
Romana tanto nel la Città quanto nelle più infelici provincie . Vede va
condannati gl'innocenti , i deboli oppressi , ed i Magistrati impuniti ; e questo'
nell'epoca la più memorevole della Romana virtù . Sdegnò egli (co me rapporta
Plutarco ) i studii che la nobile gio venid coltivava ai suoi tempi per
giungere alle cariche : quindi non comparve mai nel foro , o a piatire innanzi
ai Magistrati , o ad umiliarsi al po polo per ambizione ; ma corse libero la
strada del la gloria e superò tutti i suoi contemporanei in virtù ed in valore
. Nè vi vuol meno d’un tal carattere per attaccare i pregiudizj potenti , gli
abu. 81 interessati , ed i sistemi di corruzione . Essendo infani pervenuto al
Consolato non fu tardo a proporre le sue idee ajutatrici, e quali che fossero
le generali opposizioni trionfo su la pub- . blica corruttela , stabilendo, che
i Pretori non potesssero cambiare più i loro Editri = V. K. Apria lis . Fasccs
penes Æmilium S. C. factum est , uti prætores ex suis perpetuis edictis jus
dice teni. Paulo Emilio fu in dovere di partir subi . to per la Macedonia ,
dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani nimici , che quelli ottenuti su i
ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura. Que. sii fecero infatii rimaner
invalida la legge ; e non è raro che i nimici del bene pubblico riescano con
mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno cha fu il 585 di Roma i Pretori
seguirono ad imbal danzire alle spese della Giustizia , e di quell' equirà
medesima , che tanto vantavano nei loro editri a nella loro giudicatura . La
Repubblica sempre in disordini correva già al suo termine per i vizi della
casuale costituzio ne ; ma tra i disordini , la Giurisprudenza pretoria era
giunta ad un punto insopportabile . A nulla valevano le accuse contro de '
Magistrati , poiché i mezzi di salvarsi erano molto conosciuti . Quello però a
cui un Console non potè riuscire con ef fetto susseguente , riuscì un virtuoso
Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato contrariato dai suoi compagni .
Questi fu C. Cornelio Silla il quale o tocco dai stessi sentimenti di Paulo
Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle depredazioni di Verre e de'
simili a lui , fra le altre utili leggi , propose la rinnovazione del
Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori. Livio e Dion
Cassio ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la sfrenatezza
pretoria , « ma il grand' interesse de nobili specialmente a conservarsene il
possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale ne' Comizj , che
i fasci Consolari andiedero in pezzi , ed i sassi facendosi sentire più delle
vo ci , convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa ad altro tempo più
tranquillo . Infatti secon do Asconio Pediano la legge passò = Multis 12 mon
invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus dicere
assueverunt , sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto
impedirla , rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia ,
e Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di Cice. rone : Troppo
tardi perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio ; la Repubblica era già
spirante i disordini irreparabili , ed apparecchiati i ferri per le Ascon . in
Orat. pro Cond . le nuove catene . Roma non godè mai della liber ' tà , non
seppe conoscerla , nè conobbe mai i moa menti favorevoli , ne' quali avrebbe
potuta ren : derla eterna , Se colla Repubblica però fini la grande autorità
de' Pretori , e se nuova Legislazione , nuova Giu risprudenza e nuovo metodo
giu diziario furono introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give
risprudenza , l' ordine giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli
usi o d'abusi, che l'ar te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in
trodotti y aveva . Nuove parole ' , nuove azioni , nuovi atti legittimi
ingombrava no le leggi e la giurisprudenza ; ma quello che poi fu il colmo
dell' abuso , ridicolo per se stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver
inventato un nuovo metoda di considerar in giudizio gli oggetti , .i rapporti e
le azioni ; in sostanza le finzioni legali : Anche questo bel ritrovato lo
dobbiamo alla Romana intelligenza . Senz'averè molta perizia nella Giuris.
prudenza , basta la più semplice ragione per ve dere , che tali invenzioni
furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni della ingiustizia. Si possono
perdonare ai Romani ; ma come perdonare a que' moderni Giureconsuli , i quali
ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far sacri libamenti alla
Giustizia? Tale fu l’Alteserra, il quale offerendo al Sig. de Lamoignon l'opera
de Fictionibus Juris , così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones , quam
juris remedia et jurisprudenium supulua IC , qui bus difficiliores casus
expediuntur , et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur ? = e
peg gio altrove . Tale fu l'Eineccio ancora il quale nel la Dissertazione, De
Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le
finzioni legali , e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di
conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza , potrà consultare i cita ti
autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti . lo aggiungero soltanto
, che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne ,
che nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi
de' tesçamen tị , de contratti , de’ litigj , credettero quasi che fosse
cangiata la realità , e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati
. Per la secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per
eludere le loro prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano
espressamente par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo
Vico portando le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e
richiamando, le ai loro principi, chiamò il vecchio dritto . Roma- , no un
Poema serio , poichè le immagini si erano Sosti uite alla realità , e non si
erano trovate poi espressioni più semplici e più adattate . „ In con „, fum tà
di tali nature ( dice il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu
Poetica , la qua . le fingeva i farti non facii , i non fatti, fatti, na y ti
gli non nati ancora , mori i viventi , i morti vivere nelle loro giacenti
eredilà : introdusse tan , te maschere vane senza subjenti , che si dissero , »
jura imaginaria ; ragioni favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua
riputazione in rim „ trovare sì fatte favole , che alle leggi serbassero y la
gravità , ed ai fatti somministrassero la ragio talche tutte le finzioni
dell’antica Giurism prudenza furono verità mascherate, e le formo , s le colle
quali parlavano le leggi , per le loro circoscrit te misure di tante e tali
parole , nè più, nè meno, nè altre si dissero carmina. Ed altrove ragionando
della Giurisprudenza Eroica ciod . H 3 bara sia : 99 he : (Vico Princ. della
Scien. Nuo.) barbara de' Romani , la paragona a quella della se . conda barbarie
, dicendo , Cost a tempi barbari ,, ritornati la riputazion de' dottori era di
trovar , cautele intorno a contratti , o ultime volontà red in saper formare
domande di ragioni ed ar ticoli, che era appunto il cavere e de jure respon .
dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò si rileva, che sebbene la
RomanaRepub . blica progredisse in quanto allo stato politico verso la libertà
, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in quanto alle leggi però
ad alla Giurisprus , denza i Romani erano rimasti in quello stato poetico, o
barbaro , che caracterizza i primi passi sociali o lo stato (dirò cost) di
necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la cagione , si troverà
facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel perfezionamento dello
spirito o della Ragione ; poichè da questo solo possono essere migliorate le :
costituzioni , le leggi politiche , e le civili . Mi dispenso volentieri, è
credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le novità, che i Pre cori
introdussero nel dritto , se da quanto si è detto finora , la Giurisprudenza
pretoria resta ab bastanza caratterizzata ; e chi volesse meglio istruir sene ,
può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno sarà preventivamente
infatuato del'no me di Roma , vi troverà cose maravigliose e pelle grine ,
compiangerà l'attuale barbarie , e gemerà su le ruine del Campidoglio : ma se
sarà una persona ragionevole e senza prevenzione , riderà di molte fole ,
compiangerà coloro che ne sono restati illu si , e farà voti sinceri, accið
tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell ' obblio . Volendo
dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata dall'ammirazione e dai
pre giudizi della infanzia , dovremo dire , che i Preto - ri poterono essere
buoni o cattivi , come in tuli gl ' impieghi sociali accader suole ; e che
perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative ', riducendo
all' equità , o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità , le leggi troppo
se vere. o barbare che allora esistevano . Ma dall' al tra banda dovremo pur
confessare , che la maggior parte de pretori si abbandonarono ciecamente ai
nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare , per cui , più che ministri o
sacerdoti furono conculca tori della Giustizia . Riconosceremo nel tempo stes
50 , che questo nacque , dal non essere stata limi ta e legittimamente
circonscritta la di loro autori tà o potere ; e per questo d'ogni arbitrio
abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario , la Giurise prudenza
equivoca ed incerta' , e fecero nascere una nuova specie di dritto , che tali
qualità tutte in se comprendeva ; e sebbene non autenticato da alcun atto del
potere legislativo , divenne . pure . un dritto consuetudinario più esteso e
più usato delle leggi , e durò con perpetua continuità insiem . me colla
Repubblica e coll' Impero Romano . Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto
vantata eruiià pretoria : l'equià ve a fu solo de' buoni , e quella specie di
equità può solo valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè
giusta. Considerando le antiche azioni della leg gé , gli atti legittimi , e le
finzioni legali , ci com parirà molto giusto che Giustiniano le chiami favo le cioè
azioni Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si
rappresentavano innan zi ai Magistrati . Cosi tutte le azioni che si face Justin
. In proem instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis
fabulis discere , sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco
difetto della Romana Repub . blica non parmi che si pensasse gianımai a pora,
tar un vero rimedio . , per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce
,nè si può sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere , e fuggi .
finalmente di mezzo a un popolo , che non la co nobbe , e non fu mai degno
d'adorarla . Il latte della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani , ne quina 7
vano per æs & libram , le rivindicazioni, le cré zioni , le manomissioni ,
le nunciazioni di nuove opere , le usutpazioni , le licitazioni , le antestazio
lé elezioni & c. non solo erano faite conceptis verbis , dalle quali non si
poteva trascendere , me con azioni e rappresentanze particolari , che rende.
vanò comiche le processure giudiziarie . Questo però non significa altro , se
non che, nei tempi d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all'
espres sione naturale delle idee e de sentimenti ; e percið i simboli , i
geroglifici, le gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della
lingua parlata é divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro ; in che
principalmente consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i
sentimenti di sociabilità , i piaceri della società , le regole che
all'adempimen to di essi prescrive la Natura . Perciò e per effet to della loro
barbarie ed ignoranza , si disputò , si discusse , si combatte , si decise
sempre sopra idee particolari, nè mai seppero elevarsi a generalizza re i
principi , che la ragione ci mostra per la buo na' costituzione de corpi
sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi continuo l alternativo passaggio
maquanto furono felici colla forza o colla frode altrettanto infelici furono
nell'uso della ragione . Essi non ebbero mai sentimenti univoci , e se la plebe
fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia conservò sempre la sua
condotta , ne seppero far cessare il nome di plebe , che vergo gnosamen te li
caratterizzava , e distingueva pre giudizievolmente il cittadino dal cittadino
. Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea , e quindi non poterono averla
della libertà , che sola per quella sussiste , ed il vantato censo , non diro
quello di Seryio Tullio , ma quello stesso della Res pubblica non fu una
invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad alcuno superflue
in rapporto al soggetto della Giurispru denza Romana , rispondero , che tali
non sono poic ( 123. Det poichè quando si parla delle leggi , convien neces
sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore , dei suoi
sentimenti , e della forma e condizione del potere legislativo. Or potrà
sembrare strano il dire , che Roma era formata quasi di due stati l'uno
nell'altro , e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in
tre , e che poi quelle leggi fossero di un uso generale . E pure tal fu di Roma
nel tempo in cui fu più celebre e risplendente . $' egli è vero, che nella
undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani ,
dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata , poichè i
fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine . E
quantunque io sia nell' idea , che quella tavola non contenesse che i prin
cipali dritti dell' Aristocrazia , qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto
detestata dalla plebe , e ro versciata vittoriosamente da Canulejo ; pure in un
frammento rimastoci , troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento
del dritto Legisla tivo , cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $
TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni,
la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio ; e nel significato
generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo
stato , ma di quelli soli che godevano il dritto , e meritava no il vero nome
di Cittadini , quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente
venne a partecipare alle qualità civiche , la parola po . " polo divenne
generale , e non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato ,
ma solo di classi , ciocchè la cennata legge prescriveva , passò ad essere nel
suo vero uso e valore , cioè , a far , sì che legge si chiamasse , ctocchè
l'intiero popolo avea prescritto e comandato . Se tale è però il principio
costitutivo delle Rear pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te
ancora alla natura umana , vi devono esse re delle regole , accið lespressione
della volon tà generale sia certa legittima libera ed uguale , onde ciascun
cittadino senta essere una parte in tegrante del Sovrano , dello Stato , e
della Patria : Tali sono le leggi costitu zionali , che riguardano il dritto
del suffragio , o la maniera di communi care la propria volontà al corpo
sociale , e fare che la volontà pubblica sia realmente il risultato del. le
volontà particolari. Il Dritto di suffragio costi tui yang tuisce dunque
principalmente la qualità di cittadi. no , e il modo di darlo , forina quasi
una misura di graduazione del Cittadino mede simo . cioè che tanto più si è
Gittadino , quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale . Troppo
lungi mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence colla Storia , come
questo drit to si stabilisse in Roma: , cioè nella formazione casuale di quella
Repubblica , alla quale contribul molto più la natura o il corso naturale delle
sa cietà , che i priacipj d'intelligenza e di ragione . Dirò solo , che quel
popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere l'importanza di
queste idee , che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un corno di bue
alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato quel luogo,
dove si radunava , per compir l'atto il più degno , il più glorioso p er
un popolo , cioè il dar leggi a se stesso . Ma cotai nomi ed usanze erano
avanzi dell'antico stato Aristocrațico ; e pa stori e mandre sono correlativi
necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf ( 18) Dionys.
Antiqu. Romanarum lib. z. ( 126 e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può
dire che fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo , giacchè i
Comizj delle Curie furono obblia ti , nè ebbero in effetto il potere
legislativo ; ed i Comizj centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza
alle ricchezze . Vi fu inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro
dritto , che di esaminare o consultare , si arrogo pure in parte il potere
legislativo . O la Nazione dunque radu nata per Tribd , o essa stessa convocata
per Cen turie , o il Senato ebbero o in dritto o in fatto l'esercizio del
potere legislativo . Le risoluzioni per tribù dette plebisciti , non ottennero
che dopo molte contese la vera for za di leggi , cioè di obbligare tutti i
cittadi ni , giacchè da principio non obbligavano che la plebe soltanto . Tanto
è vero che i Patrizi si cre devano un altro popolo un altra Nazione ; che
quelle leggi nelle quali non avevano potuto far prevalere, le loro idee e le
loro volontà , per mol to tempo non le fecero valere per leggi. L'auto rità de'
Senatusconsulti fu meramente abusiva , poichè nè per le leggi Decemvirali ne
per al cun stabilimento posteriore, il Senato da se solo aveva in alcun modo la
potestà legislasiva. ( 127 ) el 3 2 tiva . Quelle risoluzioni però che
portarono parti colarmente il nome proprio di leggi, furono le de cisioni dei
Comizi centuriati , delle quali non oc corre ripetere nè il metodo nelle
proposizioni , nè quello della convocazione , nè quello delle deci sioni .
Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca , e si può trovare presso mille
autori , che del governo Romano anno ragionato . Ho voluto solo ricordare
queste poche notizia per mostrare , come il potere legislativo fu stabie lito
in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la realità , e come
il dritto di suffra . gio, non fu lo stesso nè uguale nei diversi comizi. Nei
centuriati la qualità di Cittadino era misus rata su le ricchezze , e non si
può dire , che fosa se la volontà del maggior numero de' cittadini , che
rappresentasse la volontà generale , come don vrebb' essere per natura . Și sa
ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le decisioni del minor
numero , e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva già decretata la
legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile e , delusa . Che
quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente gli Entusiasti ,
ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione : Dirò di più , e
ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione , che quei comizj
oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà governativa' , ed
in molte occasioni simil mente il potere giudiziario ; ciocchè indica , qua le
idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema . Fu sicuramente un
effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire , che i
Tribuni del popolo non fossero Magistrati , perchè non avevano nè imperio nè
dritto di vocazione, nè giu risdizione , nè auspicj , ma in verità se non erano
magistrati nominali , lo erano in effetto , ed eser citavano un potere
amplissimo su la plebe , sul Senato , e sopra tutta la Repubblica : ad es si
apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero
corpo le gislativo , se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente
ed integralınente ad ogni . cittadino . Il Cittadino vi figurava come Citra
dino libero , e non era il rango o la ricchezza , che davano la preponderanza .
E pure questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge , come
l'ebbero le risoluzioni de'Comizj cen turiati . lo non decido pai se al paragone
le leggi Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato , che
quelle proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori . Possiamo però
ri Aettere , che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica , o
relative alla libertà ed al lo stato popolare , le quali si possono chiamare
leggi di Umanità e di Giustizia uni versale , furono tutte o quasi tutte
proposte dai Tribuni . Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie,
poi che erano le leggi naturali della libertà , e quindi necessarie e
costituzionali per un popolo che voleva essere libero , Nè è da imputar loro
che non fos sero migliori ; giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni
era comune ai patrizi ed ai ple bei . Lo stesso Cicerone contuttoche fosse
Aristo cratichissimo , non potè far a meno , di con fessare , che se si
avessero voluti annoverare i misfatti de' Consoli, non sarebbero stati pochi ,
ma che toline i due Gracchi , non si potevano contare altri Tribuni perniciosi.
Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi alla Repubbiica , e le leggi
an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse furono effettiva. mente a
pubblico vantaggio . La maggior parte però delle leggi , dei plebisciti, e de'
Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o temporarie , essendo per
lo più pro mosse per occasioni particolari ; ¢ sebbene si procurasse di dare ad
esse tutta l'autenticità so. lenne , non si riducevano però in un corpo , che
avesse l'autorità d'un codice di legislazione ; ne io credo, che ad uso
pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di bronzo , come pur ci vo
. gliono far credere alcuni autori antichi . Sono in dotto a pensar cosi da
varie testimonianze , e spes cialmente da una di Cicerone . Possiamo da esse
raccogliere , che quando le leggi furono una scienza arcana de' Patrizj e de'
Pontefici , si conservaro no e custodirono con gelosia e con mistero, trat
tandosi quasi della loro proprietà più preziosa , e proprietà come abbiamo
veduto molto dispo nibile . Il tempio prima di Cerere par che fosa se a ciò
destinato, e poi il pubblico Erario , accid i Consoli'o i Senatori non le
corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica ,
gli antichi curatori non le curarono più , e funne generalmente negletta la
custodia Al ( 131 ) si . Almeno cosi ci attesta Cicerone , assicurandoci , che
per saperle , o per conoscerle , bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti
= Legum custodiam nullam habemus : itaque hæ leges sunt , quæ apparia tores
nostri volunt ; a librariis petimus ; pubblicis literis consignaram memoriam
publicam nullam ha bemus . Græci hoc diligentius , apud quos xquaquaames
creantur : nec hi solum literas ( nam id quidem een iam apud majores nostros
erat , sed etiam facta hominùm obsesvabant , ad legesque revocabant. E la credė
egli così necessaria , che nel suo Co dice , legislazione stabilisce appunto
nell'Erario la conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i
Romani si avvidero, che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore.
Ho avver che Tacito caratterizzò con molto favore le leggi Decemvirali , non
perchè meritas sero elogj di equità e di giustizia , ma perchè, al meno in
apparenza , avevano avuta una certa re golarità di formazione e di
pubblicazione ; ed a causa delle leggi posteriori , prive di tali qualità .
Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i co tito di sopra , 1
(Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le leggi oltre la
viziosa costituzione , è da credere ancora , che il disordine e la confusione
sempre vi avesse ro luogo , e spesso vi avesse parte la violenza, la cerruzione
, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità , da privato
interesse , e da spirito di vendetta . Cosi di fatti c'indica Tacito dicendo
compositæ duodecim tabulæ , finis omnis æqui juris : nam sequuræ leges , etsi
aliquando in maleficos ex delicto , sæpius tamen dissentione ordi hun , et
adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava ,
per vim taie sunt . ( 20) Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to
abbiamo detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono
tanti encomiatori . Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero
e giusto , avrebbero veramente meritate P adorazione , e l'accettazione della
posterità , se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci
avessero presentato un archetipo degno d'imitazione . Ma colla scorta della
Storia , e sce vri (Tac. Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile
prevenzione tutt'altro abbia - mo trovato . Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen
" ta Romolo come un legislatore Filosofo , ed in struito della storia
degli alui stati ; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia
pri mitiva , cioè barbara e feroce , la quale risorin - geva nel suo ordine,
tutte le qualità di uomo e di cittadino : ma la storia del primo Regno e de gli
alııi successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa , come si potrebbe
provare su le poche tracce , che non sfuggono ai critici indagatori del le
origini civili . In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato
, che dopo una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che
le consuetudini Aristocratiche , si co minciò a dare una forma alla nascenie
società. Il re videro , che il loro potere era un nulla , se invece di esser
capi de'patrizj , nol divenivano del la plebe o del popolo ; ma Romulo scompar
ve per diventar Quirino ne' cieli , Servio fu tru cidato , ed il secondo
Tarquinio espulso . In tanta incertezza di cose , come i storici assai
posteriori parlarono dei tempi passati colle idee dei tempi loro , così si aprì
la strada a credere , che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee
in epo che di is ble che assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse
seguenti si tormentarono prima lo spirito in tante ricerche , e poi si
distillarono il cervello per con cordare le contradizioni, che ad ogni passo
incon travano fra le idee prima formatesi , ed i fatti che poi trovavano nella
Storia. Quindi tante ricerche e tante dispute inopportune e difficili per la
man canza di monumenti , ed inutili affatto ai progres si della ragione. La legge
regia però non meri tando alcuna particolare attenzione, importava so lo al
nostro assunto il vedere , che l' incertezza delle leggi cominciò col nome
Romano , e porta rono questa marca vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la
durata della Repubblica . Tali poi furono anche il dritto civile , le azioni
legitime , gli Editri de' pretori o sia il dritto onorario, e finalmente le
leggi propriamente dette , le quali sempre più confusero e resero incerto il drit
, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque poter drittamente dai fatti con
chiudere , che le leggi e la Giurisprudenza Roma na furono immeritevoli di
quelle lodi colle quali sono state esaltate , ed indegne di reggere un po polo
qualunque , mancando di quelle qualità che poteyano renderle pregey oli e sacre
, cioè collo stabilire la regola eterna della giustizia, render P urmo suddito
di esse , e non dipendente dall' arbitrio; ciocchè positivamente distingue la
libertà del dispotismo , qualunque sia del resto la forma o la costituzione
sociale . Se le specolazioni de' politici si fossero fermate principalmente su
quest'articolo , avrebbero facil mente ravvisato , che Roma non cadde oppressa
della sua grandezza , poichè per gli edifici mate riali o politici è essa anzi
una cagione di resi stenza e di durata. Cadde quella mole immensa per mancanza
di base , e per difetto di Architettum ia . La base della Società è sempre la
Giustizia tanto nella legge e nel principio, quanto dell'amministrazione ed
esecuzicne di esse. Che poi l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un
prodotto progressivo del caso , credo averlo di sopra abba stanza dichiarato.
La giustizia di Roma fir in principio quale può essere nella barbarie; d'indi
qua le suol' essere nell'amministrazione arbitraria; e fi nalmente quale
dev'essere nell’anarchia , nella confusione della legge e nella generale
corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo della Bellezza. Il Bello della
Natura. Il Bello dell'arte , ossia della imitazione e del Bello ideale. La
grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello.
L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere complete (Teramo, Fabbri).
Indizi di morale. Il metodo della morale. Il sentimento morale. L’origine
del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment morale. Divisione della
morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà. Lo vviluppo della
morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere morale. L’obbligazione
morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler – self-love). La virtù. La
benevolenza – la benevolenza conversazionale. La giustizia. L’educazione. La
felicità. La passione. Note agli "Indizj di Morale" di G. Pannella Ricerche
sul vero carattere della giurisprudenza romana. La giurisprudenza romana
dal tempo de' re fino all'estinzione della repubblica. Sequela dei carattere
della giurisprudenza romana sotto gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza.
L’amministrazione della giustizia. Memorie storiche della Repubblica di S.
Marino. La Situazione corografica della Repubblica di SAMMARINO e dei
varii nomi dati successivamente al capoluogo dello Stato. L’origine della
Repubblica di S. Marino, e prime sue memorie fino al secolo decimosecondo. Le
memorie di S. Marino nel secolo decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento
delle memorie istoriche per tutto il secolo decimoquarto. Proseguimento delle
memorie per rutto il secolo decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto
il secolo decimosesto. Proseguimento delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela
del secolo decimottavo. Il governo politico della Repubblica di San Marino. Diplomi
ed altri monumenti citati nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed
inutilità. Ai dotti e agli studiosi delle scienze della natura. L’origine
naturale della storia e dei progressi ed abusi della medesima. La storica
incertezza. L’autorità degli storici contemporanei del cavalier Tiraboschi. L’inutilità
della storia e dei pregiudizi derivati dalla medesima. Verificazione degli
antecedenti principj con esempi tratti dalla storia della romana repubblica. I
bello. Ai giovani educati. L'origine dell'idea che abbiamo del bello. Il
bello della natura. Il bello dell'arte, ossia della imitazione e del bello
ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del
bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. L’antica Numismatica
della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini
italiche. Alla reale accademia ercolanese di archeologia e a S. E.
reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società
Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri
nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte
sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D.
Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca
Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio
istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo
oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della
milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio
del marchese D. Francescantonio Grimaldi . Il tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere
uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità
di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea
riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria.
L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio
fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle
nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla
medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità
organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale
Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali
bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche
allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di
pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi
alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di
Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica
di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti
(Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene
(Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo
Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri
a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis.
Spallanzani all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli ..... pag. 138
Spallanzani a M. Delfico ..... pag. 140 Luigi Grimaldi a M. Delfico .....
pag. 141 Toaldo a M. Delfico ..... pag. 142 Spannocchi a M. Delfico
..... pag. 143 V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle] ..... pag. 148
Michele Torcia a G. Berardino Delfico ..... pag. 148 Gaspare Mollo a M.
Delfico ..... pag. 151 Alessandro Carli ..... pag. 152 F. Mùnter a
M. Delfico ..... pag. 154 Mùnter a Delfico in Napoli ..... pag. 159
Mùnter a M. Delfico ..... pag. 160 Filippo Mazzocchi a M. Delfico .....
pag. 163 Gazola a M. Delfico ..... pag. 163 Giuseppe Micali a M.
Delfico ..... pag. 170 L'abate Bertola a G. Bernardino Delfico ..... pag.
178 Il medesimo a M. Delfico ..... pag. 179 L. Brugnatelli a M.
Delfico ..... pag. 179 Antonino Anutos a M. Delfico ..... pag. 180
Gio. Andrea Fontana a M. Delfico . Il Duca di Cantalupo a M. Delfico ..... pag.
183 Giuseppe Palmieri a M. Delfico ..... pag. 180 Tommaso Gargallo
a M. Delfico in Teramo ..... pag. 190 Giuseppe M. Galante a M. Delfico
..... pag. 194 Giovanni C. Amaduzzi a M. Delfico ..... pag. 194
Mattia Ab. Zarillo a M. Delfico ..... pag. 195 Giuseppe M. Giovene a M.
Delfico ..... pag. 197 C. Amoretti a M. Delfico . Francesco Soave a M.
Delfico ..... pag. 203 Giovanni Acton a M. Delfico (Teramo) ..... pag.
205 Fortis a M. Delfico ..... pag. 205 Pietro Zannoni a M. Delfico
..... pag. 206 Bossi a M. Delfico ..... pag. 206 Tommaso Frantoni a
M. Delfico ..... pag. 209 Daniele Felici a M. Delfico ..... pag.
209 G. Napoleone a. M. Delfico ..... pag. 212 G. Giacomo Trivulzio
a M. Delfico ..... pag. 212 G. Melzi a M. Delfico ..... pag. 223
San Severino a M. Delfico ..... pag. 23 Il duca di Sant'Arpino a M
Delfico ..... pag. 231 Tracy a M. Delfico . Antonio Canova a M. Delfico
..... pag. 240 Angelo Maria Ricci a M. Delfico ..... pag. 241
Donati Gioli a M. Delfico ..... pag. 243 Luigi Dragonetti a M. Delfico
..... pag. 243 Giuseppe Zurlo a M. Delfico ..... pag. 246 Michele
Arditi a M. Delfico ..... pag. 249 Antonio Orsini a M. Delfico ..... pag.
250 G. M. Burini a M. Delfico ..... pag. 251 Taranto a M. Delfico
..... pag. 252 Francesco Sorricchio a Delfico ..... pag. 252 L.
Cicognara a M. Delfico ..... pag. 258 F. Santangelo a M. Delfico .....
pag. 259 Sebastiano Ciampi a M. Delfico ..... pag. 260 Donato
Tommasi a M. Delfico ..... pag. 261 Il Duca di Laurenzana a M. Delfico
..... pag. 262 Giuseppe Grimaldi a M. Delfico ..... pag. 264 N.
Santangelo a M. Delfico ..... pag. 271 Lodovico Bianchini a M. D. .....
pag. 272 Carlo Filangieri a Melchiorre Delfico ..... pag. 272 G. B.
Niccolini a M. Delfico ..... pag. 274 Giuseppe Rangone a M. Delfico .....
pag. 276 Leopoldo Pilla a M. Delfico ..... pag. 278 Il Duca di
Gualtieri a M. Delfico ..... pag. 281 II Barone Poerio a M. Delfico .....
pag. 283 Leopoldo Armaroli a M. Delfico ..... pag. 283 G. Neroni a
Leopoldo Armaroli ..... pag. 286 Francesco Fuoco a M. Delfico ..... pag.
287 Giuseppe Micali a Gregorio de Filippis ..... pag. 288 Aggiunta
agli opuscoli. Fiera franca in Pescara ..... pag. 293 Al sig. Pasquale
Borelli ..... pag. 307 Al sig. Antonio Orsini ..... pag. 313 Al
sig. Conte Armaroli ..... pag. 315 Alessandro Volta a Orazio Delfico
..... pag. 317 Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a
M. Delfico . Piemonte . Liguria . Regno D' Italia . Toscana ..... pag.
326 Stati Romani ..... pag. 327 Napoli . Memoria per la
conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo ..... pag.
335 Discorso del Cav. Comm. Gian Berardino Delfico letto in occasione del
solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia
dalla Città e Provincia di Teramo ..... pag. 363 La famiglia e le opere
di Melchiorre Delfico . I titoli nobiliari . Episodi della vita del Delfico . Opere
ignorate del Delfico . Il contenuto delle opere . Catalogo per materia delle
opere di M. Delfico . Lettere del Delfico e al Delfico . La Repubblica di S.
Marino in onore di M. Delfico . M. Delfico a Gaspero Selvaggio . A Paolo D'
Ambrosio M. Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico (1744-1835) è uno dei più
cosmopoliti e al tempo stesso dei più autenticamente provinciali tra i
riformatori meridionali della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo
primo soggiorno a Napoli, interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato
di emottisi, il giovane intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio
Genovesi e frequenta il gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate
(2), che dal 1754 al 1769 costituisce il fulcro del movimento riformatore
meridionale. Sarà questa scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri,
Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere una «benefica scossa» (3)
alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi un serrato e articolato
dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo le linee di un
possibile rinnovamento della società civile che non di rado contrasteranno con
l'angusta politica del governo borbonico (4). È soprattutto dalla
rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle
scienze (5), considerato il manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene
rivendicato un uso pratico del sapere, che Delfico matura una nuova concezione
della cultura e dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi,
«più pratica che teoria» (6), e la convinzione della necessità di un impegno
politico più diretto. Un atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di
ascendenza giannoniana (7) e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due
lavori, con i quali inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa
dei diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento, dal 1077 sotto il
dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato
ecclesiastico (9). Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali
dell'autorità ecclesiastica, dimostrando «false o insussistenti» le pretese
giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per
legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo «vergognoso»
perché «prodotto per dolo o per frode» (10). Sebbene notevole sia stata
l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le
molteplici espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta
possono essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano.
Anche per i rappresentanti della corrente «più provinciale», «più tecnica e
descrittiva»(11) della scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non
sempre costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso Delfico, sebbene
riconosca il suo debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore
che la «propria ragione gli faceva desiderare» (12), bensì il pubblicista che
ricerca e analizza i mali economici e sociali della sua terra. «La fortuna però
- scriverà più tardi - avendomi fatto pervenir nelle mani le immortali opere di
Loke [sic] e di Condillac, parve che il mio spirito prendesse una nuova
modificazione, e quindi una inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per
i morali sentimenti» (13). Già nel Saggio filosofico sul matrimonio,
apparso a Teramo nel 1774, alcuni anni dopo il suo ritorno in provincia, s'intravede
l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese basato su una visione tutta
empiristica e sensistica dei rapporti umani, che indurrà la Congregazione del
Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index librorum prohibitorum il 19 gennaio
1776. L'opera è una vera e propria esaltazione sia dello stato coniugale che
dell'amore, inteso come desiderio, come piacere fisico ma soprattutto morale.
In polemica con Rousseau, Delfico considera il vincolo matrimoniale una fonte
continua «di sensazioni e di sentimenti aggradevoli» (14) e sostiene,
richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo e
duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è l'occasione
per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui sostiene l'emancipazione
e la rivalutazione nella famiglia e nella società, fino a rivendicare una
legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i sessi. Del 1775
sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore Pietro Paolillo
che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i quali
«svelano assai più a fondo e gl'ideali politici del Delfico e la sua cultura»
(15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione
all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei
due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato
alla dottrina sensistica. Confesserà molti anni dopo ad un amico: «Dopoché il
mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho
turbato più perché mi vi sono trovato comodo, non trascurando però le
successive osservazioni le quali hanno potuto migliorarlo» (16). Egli riconosce
alla morale il fondamento empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce
l'origine dei sentimenti morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gli
uomini acquisiscono le prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano
utili o dannose, ne consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella
delle loro attività si dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui
maggiormente cresce la possibilità di comprensione della qualità degli oggetti
e gli individui sono messi nelle condizioni che meglio permettono la
individuazione dell'amor proprio. «È nel passaggio dall'Aristocrazia allo stato
popolare», scrive, che «le nazioni godono del colmo della virtù» e «nasce
quella gara di Eroismo che è difficile a trovarsi nelle Monarchie» e che si
verifica ogni qualvolta «l'interesse di tutti i particolari va a riunirsi col
pubblico»(17) e i cittadini partecipano maggiormente alla sovranità e al
potere. L'affermazione non si concreta in una scelta della democrazia
come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti politici
alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica. L'allusione alla
repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di un reale contenuto
politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria simpatia per il
despotisme éclairé (18). Vi è, da parte sua, una svalutazione della politica in
quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più immediatamente
finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti. Suo obiettivo
principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato attraverso
un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di trasformazione che
miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha niente a che vedere con
la «fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di eterne contese. Il
problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche costituiscono una
imprescindibile componente, consente a Delfico di condurre a fondo l'attacco
contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora assai
diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del potere
che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i mali che provengono
dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve
essere un canone politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad
altre ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria» (19). Al
contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre «lusso e
corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati
della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino «la vita,
l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri» (20). Dopo il
sequestro degli Indizi di morale e la messa all'«Indice» del Saggio filosofico,
Delfico incorre in un nuovo spiacevole episodio con le autorità provinciali.
Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e dell'assessore Giacinto Dragonetti,
con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e
condannato per la fuga di certe monache dal monastero di S. Matteo di Teramo
(21). L'exequatur del Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio 1778) con
il conseguente ordine di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri
«lajci seduttori» (22) presunti responsabili dell'insubordinazione, lo
costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà circa
tre anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con l'indulto
regio del 17 giugno 1780. Questo secondo soggiorno partenopeo, avvenuto a
dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo per lo
scrittore teramano che ha l'occasione di rinsaldare i legami con gli
ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti
della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi,
Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura
l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali
prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica
governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra
capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella
Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di
riforme. Ritornato a Teramo, Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo
stabilimento della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo (20
giugno 1783), la nomina ad Assessore militare della sua provincia. Lo scritto,
dedicato all'amico Filangieri, inaugura un'intensa stagione che vede
l'illuminista abruzzese farsi promotore di numerose riforme. Nel Discorso la
questione militare acquista rilevanza politica, avendo intuito l'Autore
l'importanza che una buona costituzione militare poteva assumere per la vita di
uno Stato. Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel «sentimento
dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro una
classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a riqualificare il
ruolo del soldato all'interno della società, non soltanto in tema di sicurezza,
ma anche, soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau,
la qualità di soldato a quella di cittadino (23), così che i due termini
diventino sinonimi fra loro. Ad alimentare la fiducia nei primi anni
Ottanta che si potesse realizzare sul piano legislativo e amministrativo quanto
si veniva sostenendo su quello dottrinario, contribuirono sia la istituzione
della Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere (che però tradì presto le
attese suscitate) che quella del Supremo Consiglio delle Finanze. Sorto nel
1782, il Consiglio si prefiggeva di riformare gli antichi e perniciosi abusi
del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i
canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso Delfico vorrebbe
sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo,
pubblicata a Napoli nel 1783. Considerato «forse il più limpido e ragionato»
(24) dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è una dura
requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di certi
abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione in uno
stato di sottosviluppo (25). La risposta delficina è in favore di un
ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli
ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la
realizzazione di un'economia di mercato. Nell'estate dell'83 Delfico è di
nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa
una permanenza piacevole. All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto
un sentimento di profonda amarezza per l'andamento della vita politica della
capitale. Egli prende coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un
programma organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a
dura prova dal terribile terremoto calabrese della primavera del 1783. La
condotta della corte borbonica gli appare quanto mai improvvisata e piena di
incertezze e di contraddizioni. Ritornato a Teramo è raggiunto, nel
febbraio del 1784, dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio
Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio (26) che ne rievoca il
pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere giovanili (27), lo
scrittore abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli
uomini, pubblicate a Napoli in tre volumi tra il 1779 e il 1780. In esse
l'Autore confuta le tesi roussoiane sull'uguaglianza tra gli
uomini, correggendo quei «paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere
e nobili osservazioni» (28) sono racchiusi nel Discours sur l'origine de
l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere
«presque nulle dans l'Etat de Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio
dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono
eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro
di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui
l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per «gli
oziosi e gli annojati», ma in funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità
e, in particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non
è più il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze
del momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la
vita morale delle nazioni. Alla fine di giugno del 1785 Delfico si
trasferisce di nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi
nella città natale nell'estate dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a questo
periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter, venuto
in Italia nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine degli
Illuminati di Baviera (31). A Münter, con il quale visiterà assieme a
Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà
da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che
trentennale (32), accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto,
per la numismatica. A Napoli Delfico pubblica nel 1785 la Memoria sul
Tribunal della Grascia (33), considerata, assieme a pochi altri testi, «il
vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco
contro il «terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il
confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello
«più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di
scambiarsi liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e
lasciando quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione» (35). Vi è nella
Memoria l'affermazione del principio della libertà di commercio e
dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del quale vengono
fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il
Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle nazioni.
Nel 1788 vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia (36) in cui Delfico
rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e
il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei
contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata
alla pastorizia. In un Paese così «infelicemente» amministrato, dove regna una
troppo marcata diseguaglianza e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione
tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non
soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato.
Tutti «i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei proprietarj,
come quella che dava il vero carattere di cittadino» (37). La proprietà infatti
è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei proprietari
«sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono di
riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni altra
classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta
applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia
l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nel 1784 nella pur
breve ma incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero
«desolato» che va dal Fortore al Tronto (38), in cui denunciava le gravi
«avarie» commesse dai governanti con la creazione di continue dogane che,
ostacolando il libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per
immiserirle sempre più. Si coglie in questi scritti non soltanto la
totale adesione di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza
del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico
imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia
di mercato, che egli affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio
della fine degli anni Ottanta (39), in cui esalta il principio del laissez-faire
contro le regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di
«ogni coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di
produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e
uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che
allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli
governativi che ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le
attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica
riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di
accrescimento della ricchezza e del benessere individuali. In
quest'ultimo soggiorno napoletano prima dello scoppio della rivoluzione
francese, Delfico si attiva non poco, presso le Segreterie della capitale, per
sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti le provincie del
Regno. Ma le sue istanze non sempre trovano il riscontro desiderato (40). Ciò
non fa che accrescere in lui un sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice
del governo. Un'insofferenza, quella nei confronti del potere politico
partenopeo, che lo porterà nell'estate del 1788 ad allontanarsi da un ambiente
dove gli era diventato penoso vivere, non prima però di aver presentato a
Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la vendita de' beni dello Stato
d'Atri (41). Nello scritto condanna la giurisdizione feudale in nome dei
principi roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a
ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità stessa
«non solo un atto nullo, ma anche ingiusto» (42). La notizia della
rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno napoletano, mentre si
trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre del 1788 per
accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la
guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare
gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il filosofo
e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista senese
Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed economiche
Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un rapporto di
amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi informato. È
lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia a quanto sta
accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si conduce
l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la rivoluzione di
Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti «un esempio favorevole
per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla strada delle
riforme. Rianimato da queste speranze, nel dicembre del 1789, dopo aver
fatto da poco ritorno nella sua città natale (44), Delfico si trasferisce a
Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni su la vendita
dei feudi (45) in cui, ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe,
conduce un attacco più diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la
giurisdizione baronale in particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori (46), che
rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano
nei confronti del diritto romano» (47), cui viene negato ogni valore. Ad
emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed uniforme per
tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo legato alla
tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e dei governi
presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo scrittore
abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una
legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario
fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda sull'uguaglianza
delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità
legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango
o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso
lo stabilimento di magistrature locali e provinciali. Da una soluzione di
tipo monarchico-costituzionale Delfico non si allontanerà mai. Alla politica
illuminata del sovrano restano per lui legate le condizioni di cambiamento
della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua predilezione per la
monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa nel Teramano un
conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a
credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il
crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un
programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si
sorprende sempre più spesso «scontentissimo». Il rientro a Teramo, nel
dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e
letterario, al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la
rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo
napoletano. È, questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti,
come Delfico, avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793
la consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente
conclusa è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga
interruzione della sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse
allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una
politica di rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché
totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e
l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte
«agitazione». È l'epoca della scoperta della congiura giacobina che porta
all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini.
Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera
innocente e spera invano venga presto scagionato. L'accentuarsi del
carattere reazionario della politica napoletana non determina tuttavia in
Delfico, come in altri illuministi, il passaggio «da regalista in giacobino»
(50) o repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede
più nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici.
L'avversione per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo
storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra
una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di
uguaglianza, ed una fase successiva, il '93, caratterizzata da «tanti
orrori». Alla fine di ottobre del 1795 Delfico lascia di nuovo l'Abruzzo
per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi
per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva
ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e legarsi
al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato francese André-François
Miot (51). A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per
quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che
ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo
raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in Lombardia.
Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova
non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le
innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati. Nella
seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la
Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la
possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di
trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse
che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un
viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua
partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della
Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese (27 settembre 1796)
sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di
cui risulterà vincitore il piacentino Melchiorre Gioia (53). Immutato è
invece il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97
egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico (54), non
scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà
guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel 1798, quando verrà
nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di
rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle
trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per il
susseguirsi di infondate accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da
parte di anonimi concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale
prova del suo lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni
«malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura» (55).
Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica,
tanto che il 27 settembre 1798 è tratto in arresto, nel proprio palazzo,
assieme a tutta la famiglia (56). Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo
a Teramo delle truppe francesi (57), è dapprima posto a capo della Municipalità
della città e successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale
dell'Alto Abruzzo. Il 12 gennaio 1799 è chiamato a presiedere a Pescara il
Supremo Consiglio (58), l'organo politico più importante esistente in Abruzzo,
che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi
organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui
il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il
territorio regionale. Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico
con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di
reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre
confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore
teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella
repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella
vera e propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia intellettuale che
è stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione
(60). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante
la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie
del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia
pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (61) del 24 piovoso anno
VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo
pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui
maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi
e aspirazioni precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i
provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica
napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il
decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni
capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione
gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a
tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita
ai poveri; la «prontezza» e «l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione
delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse
provata la «frode» del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché
la possibilità di ricorrere in appello. Volentieri egli si sarebbe
portato nella capitale partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era stato nominato
membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo Championnet. Ma a Napoli
Delfico non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il
rammarico per non poter partecipare all'attività legislativa del Governo
Provvisorio a cui muove l'accusa di aver non solo «abbandonato» ma addirittura
«obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero «le più
ferali tragedie» ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi (62). Non è
da escludere a questo punto che proprio durante il periodo pescarese Delfico
abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio
rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino
(63). Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789,
del 1793 e del 1795, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i
diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza
all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza,
giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui
spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le
imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ammette la possibilità di
armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il
ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e
i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse delle sommosse che si
stavano verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le masse contro
le nuove istituzioni. Il 28 aprile 1799, di fronte al crescente stato di
abbandono delle province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo,
Delfico preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana,
lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle
Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San Marino (64). Nella
piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re
di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica di consigliere di
Stato. Durante il soggiorno sammarinese Delfico si interrogherà a lungo
sulla «tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come Cuoco (65), critica
l'«immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il metodo
rivoluzionario, ritenuto «distruttivo» (66). La confusione dei princìpi,
l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli avevano fatto nascere delle
idee politiche così «mostruose» che per i loro intrinseci difetti non avevano
potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni
politici «falsi e irregolari». L'Italia, «abbagliata ed attonita - scrive - non
ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le
provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi
politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa
veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza
del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze
intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia»
(67). Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico trae
l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica
nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si
sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il
soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso
di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed
i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua
tranquillità e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza
rivoluzionaria si risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica
saggia e realistica che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per
«proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a
cui è lecito aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi
civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle
forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una
definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San
Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed
involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non
utopistico, «mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di
società» (69). Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per
riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni
mesi nella casa del marchese Giovanni Maria Belmonte, la cui amicizia risaliva
al 1784, o per andare a Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in quel tempo
prefetto della biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803
soggiornerà ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Nel 1804 si porterà a
Milano per seguire la stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel
capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della
legislazione universale di Georg Ludwig Schmidt d'Avenstein, rivedrà Vincenzo
Cuoco e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro
Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo
Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con il
celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago, donna
assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà, come con gli
altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso
anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello. È, quello
sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori dalla vita politica attiva,
riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della Repubblica di S. Marino
e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità
della medesima che, usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due
edizioni (70). Lo studio della storia in stretta relazione con la realtà
presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche
diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute
iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro i quali
riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice della civile
sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta,
scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito» di San Marino, di
come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas e serbato
l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello politico
agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico Zuccolo e Matteo Valli.
Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della piccola Repubblica era
tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende di un popolo
che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione» (72). Questa
«rivalutazione» dell'esperienza storica (73) appare quanto meno strana in un
pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo
italiano (74). Nei Pensieri Delfico affronta il problema della conoscenza
storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza
di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza» (75). Con quest'opera
esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia
utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché
questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla
tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi
metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata
conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert,
Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons d'histoire (76) risente la stesura
dei Pensieri (77), nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte
siano state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di
certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli
si pone principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio
della storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e
manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la
proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro
stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri
della pratica storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre
il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze
nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e
le loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti
gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più semplici
siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo che
«mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da
percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla
luce» (78). Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare
positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria
per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una
convinzione, questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino del
1824, Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita
l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in
funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e
quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la
pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di
protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca
storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia
«qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico
chiama anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il
carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore
intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della
sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è»
(80). Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle
mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad
incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso
degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro
cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa
di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Francescantonio
Grimaldi (81) e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi (82). La
dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di
confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli
«impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in
realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una
conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti
naturali. Una diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti
«favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il «divino» Platone, Delfico
tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito
umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non aveva
maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le
idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i
primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male
e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero
così «la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno
neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente
scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del
popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno
stato «più infelice» (84) di quello dei secoli remoti. Il ritorno a
Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una
nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano
quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse» (85) e che lo
induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio
sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio,
della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la
possibilità di un recupero di quello «spirito di ragione e di moderazione», a
cui riteneva necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e
che costituiva l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei
rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari. Nominato da Giuseppe
Bonaparte consigliere di Stato (3 giugno 1806), Delfico viene assegnato alla
sezione delle Finanze, per poi passare nel 1809 alla presidenza della sezione
dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio di Stato.
Regge più volte ad interim il ministero dell'Interno, facendo parte delle
Commissioni per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice civile,
per la procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma della
pubblica istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei beni
dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del Regno,
nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, nel 1815 viene insignito
da Gioacchino Murat del titolo di Barone (86). I numerosi incarichi di
responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale, tutta incentrata
sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni. Evidente appare il
suo debito nei confronti di Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808),
sostenitore della sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana.
Delle teorie dei Rapports du physique et du moral de l'homme (1802), l'opera
più importante del filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la
sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità
della specie e del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni del 1813 (87) e la
Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio fisico
dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue, l'anno
successivo, la Seconda memoria (88). Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche
sul Bello (89), pubblicate a Napoli da Agnello Nobile. Con la
restaurazione dei Borboni, nel 1815, Delfico dirada il suo impegno nella vita
politica. Ciò nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820,
Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del
1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro
della Giunta provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino
al suo insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel
Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre 1820, vivrà solo fino al marzo 1821,
quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre fine
all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario.
Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti
governativi. Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non
soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si interrompa
quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale, avviato dai
Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese. Nell'azione
di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della ricomposizione della
vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede profilarsi la minaccia di
rendere il mondo «stazionario» se non addirittura di farlo a grandi passi o
salti «retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso, ancora più probabile da
letture ideologicamente distorte di grandi autori, non ultimo Niccolò
Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali ci si serve per
sostenere fini politici particolari. Questo clima è per Delfico l'occasione (o
forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico pensatore», di
cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così, agli inizi degli
anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del
Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di confrontarsi con Machiavelli
intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà, il problema
costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni pregiudizi che si
sarebbero formati sotto la sua «potente autorità» (92), senza tuttavia
tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le
civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno
accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni positive.
Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico e l'aderenza alla
realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta speculazione
politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una particolare
proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico contingente, qual è
la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi un precorritore del
Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo un'interpretazione
del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la «viva passione», la
disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi
della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione di immobilismo e di
decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la
soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati italiani, non porta lo
scrittore teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario
fiorentino: «Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona»
afferma «questo non vale per le sue dottrine» (93). Infatti, se da un lato egli
comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una
prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi
eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo
realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione
machiavelliana tra etica e politica e il principio che «per regnar tutto lice»
(94). Divergenze emergono anche dal tentativo che Delfico in seguito
compie di ricondurre il pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi
valutarlo sulla base delle proprie convinzioni ed esperienze storiche,
politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte sono
tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali, come
l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza
giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo
e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo antisociale dei
«gentiluomini», di quegli uomini cioè che, «oziosi», vivono dei proventi dei
loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il
merito di aver legato la «questione militare» alla «questione politica», di
aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale
correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati
basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria
«affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte
dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le
condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità Delfico
fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è
concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più
«conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra
rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva
manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde
soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei
diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e
personale. Nel maggio del 1822 Delfico torna a Teramo, ma nell'autunno
successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla
primavera del 1823, quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel
capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più
allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i
lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non
terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della
importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della
filosofia intellettuale del 1823 (97), in cui ribadisce la sua concezione
materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico
e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e
tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e necessarie
al benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla numismatica
pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con il titolo Della
antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare
su le origini italiche (98). Non verrà meno neppure il suo impegno
riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal
titolo Fiera franca in Pescara del 1823 e Breve cenno sul progetto di un porto
da costruirsi alla foce del fiume Pescara del 27 aprile 1825 (99), con i quali
si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora poco
sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del
commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza
delle Provincie» (100), non senza però aver prima creato le condizioni e le
strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la
realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe
sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso
di merci, di provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di
importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari
abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato
pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia.
Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che
potrebbe così finalmente «divenir attivo» (101) e moltiplicare i capitali e far
nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle
esistenti. La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del
fiume Pescara costituisce l'oggetto della riflessione che Delfico conduce nel
Breve cenno. L'idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra
loro» (102), permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la
determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità
che la creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per
l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta
di Pescara quale centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di
avere la cittadina adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere «punto
centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade,
l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima
verso lo stato pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo,
ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che
renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di
Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando
era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano
fatto confluire le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per
agevolarne gli scambi commerciali (103). A metà degli anni Venti un libro
anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à
la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H.
Tarlier, Bruxelles 1825), di cui uscirà nel 1829 una traduzione italiana
incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore
Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e dell'editore del
testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata ordita nel 1814 da
alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei
presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto del
conte Luigi Corvetto (1756-1821), «justement regardé comme un des meilleurs
jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus
vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al
Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M.
l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie,
datato Napoli 14 ottobre 1814 (104), sulle condizioni politiche e morali dei
vari Stati italiani, che sarebbe dovuto servire all'imperatore francese per
meglio valutare le possibilità di successo dell'impresa. Ma nessuna conferma in
proposito è mai venuta dalle carte delficine, né da successive ricerche, per
cui ancora oggi l'ipotesi di una partecipazione del Nostro al progetto resta
legata a quest'unica notizia. Nel 1829 Delfico pubblica la lettera
Della preferenza de' sessi (105) alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in
cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna affrontati in
gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della
vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo periodo
risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da numerose pagine,
ancora inedite, conservate presso il «Fondo Delfico» della Biblioteca
Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo
Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i
progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti,
il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende
«rivederlo» (106). Nel 1832 riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le
regioni del Regno, e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di
Commendatore dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese Delfico muore
il 21 giugno 1835. Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla
sua morte Delfico cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a
Giovanni Gentile (107) dal ristretto ambito locale, che lo aveva reso per tutto
l'Ottocento un autore sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una
dimensione più ampia, nazionale, Delfico è oggetto di una diversa
considerazione a partire dal secondo dopoguerra. Una rivalutazione che si
determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la
cultura e la storia del Settecento e, in particolare, per alcune esperienze
intellettuali e politiche significative dell'illuminismo italiano (108). Merito
di questa storiografia è quello di aver ricondotto e legato il riformismo
delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento riformatore
napoletano della seconda metà del XVIII secolo. Una lettura che ha privilegiato
il Delfico «riformatore», la sua fase riformistica, contrapponendosi alle
rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neoidealistica che
del ventennio fascista (109). Di recente, nuove linee interpretative stanno
approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di
Melchiorre Delfico (alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella
relativa al decennio rivoluzionario 1789-1799 o quelle che contrassegnano la
sua evoluzione, agli inizi dell'Ottocento e durante gli anni della
Restaurazione, da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a filosofo della
storia e della politica. (1) Era nato il 1° agosto 1744 in un paesino
vicino Teramo, Leognano, dove i genitori, Berardo e Margherita Civico, si erano
rifugiati durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Morirà a Teramo il
21 giugno 1835, all'età di novantun anni. Per le notizie biografiche, la
migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-Delfico, Della vita e
delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Angeletti, Teramo 1836,
arricchita di un'elencazione degli scritti editi ed inediti del Nostro (alcuni
dei quali successivamente pubblicati), nonché di quelli non terminati e dei
frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continuò sul «Giornale abruzzese di
scienze lettere e arti», a. VI (1841), vol. XVIII, n. LIV, pp. 147-173 e
a. VII (1843), vol. XXI, n. LXIII, pp. 129-153, col titolo Notizie intorno alle
opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico e, sempre sulla stessa
rivista, a. VII (1843), vol. XXII, n. LXVI, pp. 163-171, col titolo Notizie
sulla vita e sulle opere di Melchiorre Delfico. (2) Molti degli amici e
dei discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai
fratelli Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino Romualdo
de Sterlich, Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne,
l'aquilano Giacinto Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano
Giammichele Thaulero e Troiano Odazi di Atri, che nel 1781 successe al Maestro
nella cattedra di economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è
stato definito il «partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo
borbonico. Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto
1984, pp. 23-31 e 46-49; U. Russo, Studi sul Settecento in Abruzzo,
Solfanelli, Chieti 1990, pp. 25-31 e 53-63. (3) F. Diaz, Dal movimento
dei lumi al movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna 1986, p. 317. (4)
Sul riformismo borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia,
Bonacci, Roma 1990, pp. 103-155; I Borbone di Napoli e i Borbone di
Spagna, a cura di M. Di Pinto, Guida, Napoli 1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno
dal 1734 al 1799, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli
Angioini ai Borboni, Edizioni del Sole, Roma 1986, pp. 373-467, e la sintesi di
a. M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana,
vol. 12, Il secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano 1989, pp.
215-290, e la ricca bibliografia in essa contenuta. (5) Lo scritto,
dedicato a Bartolomeo Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i
mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo
Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e
del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli nel 1753.
(6) A. Genovesi, Lettere accademiche su la questione se sieno più felici
gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli 1764), Lettera XI, in Autobiografia,
lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, p.
497. (7) Per una valutazione dell'influenza di Pietro Giannone sulla
cultura napoletana del XVIII secolo oltre al lavoro sempre valido di L. Marini,
Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della
coscienza politica del ceto intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr.
G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Ricciardi,
Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Ajello,
Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di E. Chiosi, La tradizione
giannoniana nella seconda metà del Settecento, vol. II, pp. 744-780. (8)
Sulla posizione di Genovesi nei confronti dell'autorità temporale e dottrinale
della Chiesa, cfr. E. Pii, Antonio Genovesi. Dalla politica economica alla
«politica civile», Olschki, Firenze 1984, p. 158 sgg.; G. Galasso, La filosofia
in soccorso de' governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli
1989, p. 383 sgg. (9) Le due Memorie, dal titolo Intorno a' dritti
sovrani di Napoli sulla città di Benevento e Saggio istorico delle ragioni dei
Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono
commissionate a Delfico dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della
prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato
di Teramo, «Fondo Delfico», b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio
beneventano. La seconda, invece, fu pubblicata la prima volta su «La Rivista
abruzzese di scienze e lettere» nel 1890 (a. V, fasc. I, pp. 22-30; fasc.
III-IV, pp. 142-168; fasc. V-VI, pp. 248-261; fasc. VII, pp. 305-322 e fasc.
VIII, pp. 358-365), preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del
manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, vol. III,
Fabbri, Teramo 1903, pp. 9-80. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti
delficini (alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti),
esce a Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L.
Savorini. (10) M. Delfico, Del territorio beneventano, cit., p. 17.
(11) F. Venturi, Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi
italiani, Ricciardi, Milano-Napoli 1962, p. XVI. (12) G. De
Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p.
11. (13) M. Delfico, Memoria autobiografica, inedita, conservata presso
la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Misc. 3, n.
846. (14) M. Delfico, Saggio filosofico sul matrimonio, in Opere
complete, cit., vol. III, p. 126. (15) A. Garosci, San Marino. Mito
e storiografia tra i libertini e il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano
1967, p. 167. (16) Lettera di Delfico a Luigi Dragonetti del 10 luglio
1826, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi
Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della
Rassegna Nazionale, Firenze 1886, p. 122. La lettera è stata riedita nelle
Opere complete, cit., vol. IV, p. 54. (17) M. Delfico, Indizi di morale,
in Opere complete, cit., vol. I, p. 36. (18) Sull'ambiguità concettuale
di tale espressione cfr. M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo
illuminato, La Nuova Italia, Firenze 1986, pp. 1-24; L. Guerci, L'Europa del
Settecento. Permanenze e mutamenti, Utet, Torino 1988, pp. 501-508. (19)
M. Delfico, Indizi di morale, cit., pp. 48-49. (20) Ivi, p. 47.
(21) Per una ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza
teramana e riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico
presso il Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981,
pp. 71-85. (22) L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi
Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio del 14 febbraio 1778, in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 86-99.
(23) Cfr. M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in
Opere complete, cit., vol. III, pp. 164-165. (24) F. Venturi, Nota
introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori napoletani, cit., p. 1168.
(25) Favorevole nel 1783 ad un più moderno sviluppo dell'attività risiera per
una ripresa economica della sua provincia, Delfico assumerà alcuni anni più
tardi un atteggiamento decisamente contrario alla risicoltura. Su tale
mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della defeudalizzazione in provincia di
Teramo: le risaie atriane (1734-1831), in «Itinerari», a. XXIV (1985), n.
1-2-3, pp. 21-154. (26) M. Delfico, Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo Orsino, Napoli 1784, in Opere
complete, cit., vol. III, pp. 222-260. (27) Delfico ammira soprattutto la
Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli 1769), poiché in essa l'Autore era riuscito a
saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con la storia politica dello
Stato stesso e a far vedere come la mancanza di costituzioni e di leggi
fondamentali tenesse lo Stato «in continua rivoluzione» (Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi, cit., p. 235). (28) M. Delfico, Elogio del
marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 245. (29) J.-J. Rousseau,
Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes
(1754), in Oeuvres complètes, vol. III, Gallimard, Paris 1964, p.
193. (30) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi,
cit., p. 253. (31) Su tale associazione, fondata il 1° maggio 1776 ad
Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di Baviera, in
Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La
Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 309-334. (32) Alcune lettere sono state
pubblicate nel quarto volume delle Opere complete di Delfico, cit., pp.
154-162; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel Friedrich
Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten 1780-1830,
herausgegeben von Ø. Andreasen, Erster Teil, P. Haasse, Kopenhagen-Leipzig
1944, pp. 215-220. Due di queste ultime sono state riprodotte in appendice al
libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico. (Studi e
ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di
Lettere e Filosofia, Chieti 1978, pp. 154-155 e 157-160, il quale ha pubblicato
altre lettere di Delfico a Münter, assieme ad alcune lettere di Delfico alla
sorella del Danese Federica Brun (ivi, pp. 140-166). Altre, ancora inedite,
sono conservate presso la Biblioteca Provinciale di Teramo. (33) M.
Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle
provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli 1785, ora in Opere complete,
cit., vol. III, pp. 265-323. (34) G. Solari, Studi su Francesco Mario
Pagano, a cura di L. Firpo, Giappichelli, Torino 1963, p. 201. Sullo stesso
piano l'Autore pone l'altro scritto di Delfico, Memoria sulla libertà del
commercio, e l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo,
pubblicata anonima a Palermo nel 1783. (35) M. Delfico, Memoria sul
Tribunal della Grascia, cit., p. 279. (36) M. Delfico, Discorso sul
Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e
non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere
complete, cit., vol. III, pp. 359-396. (37) M. Delfico, Discorso sul
Tavoliere di Puglia, cit., p. 370. (38) Il testo è stato pubblicato da L.
Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e
Sud», a. XXIV (1977), terza serie, n. 31-32, pp. 191-199. La lettera è datata
Teramo, 7 ottobre 1784. (39) Scritta tra il 1789 e il 1790, su invito
dell'Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi del problema
della libertà di commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a
Milano, presso Destefanis, nel t. XXXIX della raccolta Scrittori classici
italiani di economia politica, a cura di P. Custodi. L'opuscolo è stato
recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985) con un'introduzione di M. Finoia.
Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le carestie,
in cui apporta alcune «modificazioni e moderazioni» al principio della libertà
assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato l'intervento diretto
dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il «terribile flagello»
delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo, letto il 1° dicembre
1818 nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato nel 1825 negli
Atti dell'Accademia stessa (vol. II, parte I, pp. 3-43), è stato riedito a
Teramo nel 1985 assieme alla Memoria sulla libertà del commercio. (40)
Se, dopo varie insistenze, all'inizio del 1788 ottiene, come aveva richiesto
due anni prima nella Memoria per il ristabilimento del Tribunale Collegiato
nella Provincia di Teramo (in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano,
cit., pp. 255-257), il ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei
magistrati unici, più agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta
fortuna incontreranno invece le sue richieste sia di abolizione della servitù
degli Stucchi, del 1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a
Teramo ad indirizzo «fisico» ed orientamento laico, avanzata agli inizi di
maggio del 1788. Sugli sviluppi delle iniziative delficine si vedano R. Di
Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera Università Abruzzese degli
Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo 1978, pp. 7-24, la
quale pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un
nuovo sistema per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una
«piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo 1999,
n. 6, pp. 3-7. (41) La Memoria è pubblicata in appendice al volume di a.
M. Rao, L'«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione
feudale a Napoli alla fine del '700, Guida, Napoli 1984, pp. 349-367.
(42) M. Delfico, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, cit., p.
354. (43) Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita,
conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti
Delfico», Ined., n. 402. (44) In Lombardia Delfico si trattenne fino al
mese di giugno del 1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due
mesi, e in seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, finché nel novembre
del 1789 rientrò in patria. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe
modo di stringere e di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e
delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 25 sgg. (45) Ora in Opere
complete, cit., vol. III, pp. 403-431. (46) L'opera, che provocò subito
«molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che
ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli,
nel 1791 e fu ristampata a Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli
nel 1815. (47) C. Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di
Melchiorre Delfico, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII
(1954), vol. VII, parte II, p. 432. (48) M. Delfico, Ricerche sul
vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I,
pp. 225 e 105. (49) Troiano Odazi (1741-94), nativo di Atri, in provincia
di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del
Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle
lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di
Etica nel Reale convitto della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a
ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e
rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu
coinvolto nel fatti del '94. Arrestato, morì suicida nelle carceri della
Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani,
Don Trojano Odazi. La prima vittima del processo politico del 1794 in Napoli,
in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp.
853-867. (50) B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari
19264, p. 24. (51) Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G. De
Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp.
38-46. (52) Si veda la lettera di Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da
Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico,
in «Rassegna della letteratura italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3, p.
419. (53) L'ipotesi di una partecipazione al concorso origina da De
Filippis-Delfico, il quale riporta tra le opere delficine «non-terminate» (cfr.
Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 122), un opuscolo di
26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il
miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito
a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione
biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda G. Carletti, A proposito di
un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di Melchiorre
Delfico al concorso del 1796, in «Trimestre», a. XXXII (1999), n. 3-4, in corso
di pubblicazione. (54) Sono del 1797 le delficine Memoria per la Decima
imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo
dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da
ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per
rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte
inedite. (55) Lettera di Delfico a Fortis del 7 novembre 1793, in M.G.
Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., pp.
415-416. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli (1740-1820), nobile di
Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777
al 1804 e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Nella Relazione
risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793 (pubblicata da L. Tossini,
Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane»,
terza serie, a. XVI (1977), pp. 86-97), egli era costretto a difendere la
propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di «vaghe» e
«calunniose imputazioni» di qualche delatore. La denuncia del '93, pur non
avendo gravi conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che Delfico succedesse al
fratello nella presidenza della Società Patriottica di Teramo. Nel 1794 una
nuova denuncia anonima era stata all'origine del rifiuto del Supremo Consiglio
di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. Non avrebbe
ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con decreto del 25 marzo 1815
Gioacchino Murat gli avrebbe conferito quello di barone. (56) Il pretesto
è fornito da alcune lettere «rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica,
da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la
donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio
Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la
Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799, scritta
presumibilmente da Giamberardino Delfico «allo scopo - è precisato in
un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni», dopo che,
condannato dai Regi inquisitori nel processo contro «i rei di Stato» e
trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era stato liberato in
seguito all'indulto generale del 1° maggio 1801. Il testo è stato pubblicato da
V. Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4, pp. 368-385 e a. V
(1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che portò all'arresto dei Delfico è a p.
375 sgg. (57) I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in
Abruzzo il 6 dicembre 1798. L'11 dicembre in 1500 arrivarono a Teramo. Messe in
fuga dai rivoltosi, le truppe francesi riconquisteranno la città il 23
dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne il 24 e Chieti il 25. Per
una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L.
Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni,
L'Aquila 1928, voll. III e IV, Tip. Consorzio Nazionale, Roma 1939. Sull'arrivo
e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr. anche le tre cronache del periodo
rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli avvenimenti in Teramo ed altri
luoghi d'Abruzzo 1777-1822 (in L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli
Abruzzi, cit., vol. III, pp. 38-440); G. Tullj, Minuta relazione dei fatti
sanguinosi seguiti in Teramo dall'anno 1798 al 1814, con postille e con la
continuazione del canonico Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo
Una cronaca inedita teramana (1798-1814), in «Storia e Civiltà», a. IX (1993),
n. 3-4, pp. 269-285; a. X (1994), n. 1-2, pp. 93-116 e n. 3-4, pp. 148-172; a.
XI (1995), n. 1-2, pp. 94-118 e n. 3-4, pp. 175-196; a. XII (1996), n. 1-2, pp.
58-86 e n. 3-4, pp. 171- 195); C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano
dal 1798 al 1809, Teramo 1999. (58) Il Consiglio, di cui fecero parte,
oltre a Delfico, i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Antonio Madonna,
entrò in funzione subito dopo e svolse la sua attività non oltre la fuga del
suo presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito,
M. Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una repubblica giacobina, in «Rassegna
storica del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 11-12, ora in La
Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp.
188-189. Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. anche F.
Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra
intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», a. XX (1987),
n. 1-2, pp. 41-69. (59) Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato
a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie,
cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica
di un moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135 sgg. (60) Cfr. G.
Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a XCVI (1984),
fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi, cit., p.
519 sgg. (61) Il testo è stato pubblicato da R. Persiani, Alcuni
ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio
del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere
ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-439. Senz'altro meno
importante è l'altro atto a firma di Melchiorre Delfico, Proclama sulla
sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), con il quale
venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio. (Ivi, pp.
441-442). I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri scritti
delficini da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce,
Pescara 1999, pp. 51-55 e 57-58. (62) Cfr. la lettera di Delfico al
Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. (27 marzo 1799),
in Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974,
pp. 695-696. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze
di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica», a. XX (1981),
fasc. 1, pp. 1-46, e il più recente volume Per una rilettura
socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del
Sole, Napoli 1995. (63) Per il testo cfr. G. Carletti, Melchiorre
Delfico, cit., pp. 138-139. (64) Sulla permanenza del Teramano nella
Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica
di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935. (65) Cfr. V.
Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, II ed. con
aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806, p.
96 sgg. (66) Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete, cit., vol. I, pp.
249-250. (67) Ivi, p. 472. (68) Ibidem. (69) Ivi, p.
250. (70) Il libro, il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei
suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che Delfico l'aveva consegnato
alla stamperia Roveri e Casali. La seconda e la terza edizione uscirono a
Napoli nel 1809 e nel 1814. (71) M. Delfico, Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino, cit., p. 249. (72) Ivi, p. 246. (73) Cfr.
M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre
Delfico, in «Itinerari», a. XXIII (1984), n. 3, p. 94. (74) Cfr. G.
Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della «Critica», Napoli 1903, p. 46
sgg., il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel
modo assoluto del Teramano. Un estremo radicalismo nell'«antistoricismo»
delficino è stato rilevato anche da B. Croce, La storiografia in Italia dai
cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della
storia» e 2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», a.
XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp. 16-18 e fasc. II, p. 95, poi
rielaborati nel volume Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono,
Laterza, Bari 1921, e da G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nei
secoli XVIII e XIX, Laterza, Bari 1921, pp. 158-165. (75) M.
Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima,
in Opere complete, cit., vol. II, p. 11. (76) Il titolo per esteso
dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la
République française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris an VIII.
(77) Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. C. Rosso, De Volney à
Melchiorre Delfico: l'histoire, une discipline aussi inutile que dangereuse, in
L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Presses de l'Université,
Angers 1988, pp. 345-356. (78) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e
sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 43. (79) Ora in
Opere complete, cit., vol. II, pp. 307-325. (80) M. Delfico, Pensieri su
l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 174.
(81) Porcelli, Napoli 1781, Epoca I, pp. 329-338. Grimaldi si era rivolto
all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella Marsica moderna di
antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali relazioni tra queste e i
rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata alle pp. 18-21 della
recensione al volume di Grimaldi apparsa nel fascicolo del febbraio 1784 del
«Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente, del suo
principale estensore Alberto Fortis. (82) Per un esame critico del testo,
riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata dissertazione di
Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares», a. XLV (1979), n.
1, pp. 5-53, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi
guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma 1995, pp.
79-138. (83) Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora
inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in
«Aprutium», a. IV (1986), n. 3, pp. 32-48. (84) M. Delfico, Discorso
sulle favole esopiane, cit., pp. 39-40. (85) Lettera di Delfico a Teresa
Onofri del 21 marzo 1806, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre Delfico.
Lettere sammarinesi, Arti grafiche Della Balda, San Marino 1934, p.
53. (86) Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese, cfr.
G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese (1806-1815), Edizioni
del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il quale riproduce in appendice alcuni
scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il
sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli 1985, pp. 125-135.
(87) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 471-497. (88) Ora
in Opere complete, cit., vol. III, rispettivamente pp. 501-528 e pp.
531-550. (89) Ripubblicate nelle Opere complete, cit., vol. II, pp.
187-294, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di
A. Marroni, Ediars, Pescara 1999. (90) Per un quadro d'insieme
dell'attività amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno
napoletano, oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla
prima edizione del 1941, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia
meridionale, Einaudi, Torino 1976, pp. 231-332, cfr. P. Villani, Il decennio
francese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai
Borboni, cit., pp. 575-639. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli
nel decennio francese (1806-1815), a cura di A. Lepre, Liguori, Napoli
1985. (91) Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di
esso si conservano due stesure pubblicate da A. Marino, Scritti inediti di
Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, rispettivamente pp. 19-42 e
59-79. (92) M. Delfico, Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del
Segretario fiorentino, cit., p. 20. (93) Ivi, p. 67. (94) Cfr. ivi,
pp. 29 e 70. (95) Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere di
Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia 1813, vol. I,
lib. II, cap. XII, p. 79. (96) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra
la prima deca di Tito Livio, in Opere, cit., vol. III, lib. I, cap. LV, p.
159. (97) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 567-588. (98)
L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli nel 1826, per i tipi di
Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della città di Atri nel Piceno
con alcuni opuscoli su le origini italiche, ora in Opere complete, cit., vol.
II, pp. 299-505. (99) Pubblicati nelle Opere complete, vol. IV, pp.
293-305 e vol. III, pp. 631-644, i due testi sono stati riediti da G. Carletti,
La «Pescara» di Melchiorre Delfico, cit., rispettivamente pp. 23-36 e pp.
37-50. (100) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 37. (101) M.
Delfico, Fiera franca in Pescara, cit., p. 32. (102) M. Delfico, Breve
cenno, cit., p. 38. (103) Cfr. ivi, pp. 47-49. (104) Ora, tradotto,
in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 325-333, col titolo Rapporto sull'Italia
inviato a Napoleone e attribuito a M. Delfico. (105) M. Delfico, Della
preferenza de' sessi. Lettera all'ornatissima signora contessa Chiara
Mucciarelli Simonetti del 12 marzo 1827, pubblicata a Siena nel 1829 ed ora in
Opere complete, cit., vol. IV, pp. 31-45. (106) Cfr. la lettera di
Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio letterario
e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 156. (107) Cfr. G.
Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, cit., pp. 18-87. (108) Per un quadro
d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto - G.
Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza,
Roma-Bari 1993, e la ricca bibliografia in esso contenuta. (109) Per una
ricognizione degli studi delficini, cfr. G. Carletti, Recuperi, oblii e
prospettive. Per una storia critica della storiografia delficina, in
«Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp. 5-40. Il cavaliere Commendatore
Melchiorre dei Marchesi Deflico. Melchiorre III Delfico de Civitella.
Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords: giurisprudenza romana, sul
bello, estetico, sensus, il vero carattere della giurisprudenza romana, suoi
cultore, benevolanza conversazionale,
giustizia conversazionale, il principio di sensibilita imitativa, l’estetico,
l’imitazione della natura, l’espressione. La storia romana, incertezza e
unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta della repubblica,
aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale tra iguali. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool Library.
Cocconato: Grice: “I like Coconato – I used to
say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless you are
a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato! He spent
some time in London, as I did – and he shows that the average Italian
philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato,
as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto
Radicati, conte di Passerano e Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore,
fu il «primo illuminista della penisola», secondo una definizione di Piero
Gobetti. Cocconato matura il suo pensiero anti-clericale nel clima
dell'anticurialismo sabaudo ben presente in alcuni settori della corte di
Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora tutto della sua prima formazione,
verosimilmente affidata a qualche ecclesiastico. Un infelice matrimonio
precoce, combinato dalle famiglie, lo coinvolge ventenne, e già due volte
padre, in una serie di penosi contrasti il cui significato travalica i
conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti della moglie si mobilita il
partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a corte in chi appoggia il re
sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la Curia romana. Il
grottesco-ironico racconto della sua «conversion pubblicato a Londra e
ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of the Modern Cannibal's
Religion” induce a datare intorno agli anni venti il precipitare della crisi
della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto. Nell'opuscolo
autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso emblematico di
«uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal contrasto tra santoni
bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli agostinianisui presunti
miracoli operati da un'immagine della Vergine, rinvenuta nel convento
agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la fede e come, verso i
vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a far uso della mia
ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione intellettuale è il viaggio
compiuto nella Francia della "Reggenza" tin cui poté ampliare il
raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi libertine come La Sagesse
di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité contre la Médisance di Brosse,
in cui ricorrono motivi che troveranno eco e sviluppo nelle sue opere. Il
suo scritto principaleI discorsi morali, storici e politici redatti su diretto
incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato clima conseguente alla ratifica del
Concordato stipulato tra regno sabaudo e Benedetto XIII diverrà anche la
ragione vera del suo esilio. Il conte, che da un riacquisito potere
dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà e per la sua stessa
incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a Londra, dovendo poi
subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il sequestro e la confisca
dei beni. A Londra pubblica con un discreto successo l'instant book che
ricostruisce i retroscena della recente abdicazione di Vittorio Amedeo II mentre,
al contempo, lavora alla stesura del più audace e radicale dei suoi scritti,
“La Dissertazione filosofica sulla morte,” che, tradotta da JMorgan, uscirà dai
torchi londinesi destando un enorme scandalo. Nella Dissertazione, che gli
costa anche l'esperienza delle carceri della tollerante Inghilterra di Walpole,
propugna il diritto al suicidio e all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita
filosofia materialistica che scorge nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano
il suo unico grandioso orizzonte di senso. Nella sua meditazione sulla
morte e sulla liceità del suicidio si inserisce in un dibattito che già
Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere Persiane, riprendendo una
discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il suo Biothanatos. Interessato
a proporre un progetto politico che esige come sua prima tappa essenziale una
riforma radicale della cristianità occidentale, capace di affrancarla dal
giogo clericale- o se si vuole, in termini più neutri dal potere pastorale- la
scelta del tema del diritto individuale alla morte non è scelta casuale per
quanto la meditazione sul suicidio non sia priva di elementi autobiografici. Le
chiese cristiane di ogni confessione ritengono infatti un loro preciso dovere
intervenire direttamente nella gestione del trapasso a quella che esse, in base
alla loro fede, considerano la vera vita, quella ultraterrena. Del resto non
solo il mondo cristiano, lo stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire
come un dogma l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se
stessi, per secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e
irreparabile dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla
volontà divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano
per la crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei
loro eredi. Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente
da una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al
pari di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore
di una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi
occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella
Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio
muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana.
Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega
affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio
vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di
servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente,
incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi
per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le
cose. Definisce l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa
intrattiene con il tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia
della materia che costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La
certezza che ci resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e
dagli idola tribus, i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo
vicissitudini della materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio
londinese e poi olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci
giunge fino a Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione,
continua ad aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione
continua. Come per il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la
materia pensata dal Radicati è la materia actuosa che reingloba nel
meccanicismo moderno motivi provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui
ineriscono direttamente movimento e autoregolazione. L'universo è un
mondo infinito in perpetuo movimento: in esso nulla continua ad essere anche
solo per un istante la stessa cosa. Le continue alterazioni, successioni,
rivoluzioni e trasmutazioni della materia non incrementano né diminuiscono
tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera dell'alfabeto si aggiunge o si
perde per le infinite combinazioni e trasposizioni di essa in tante diverse
parole e linguaggi. La natura, mirabile architetta sa sempre come utilizzare
anche il minimo dei suoi atomi. La fine della nostra individualità costituita
dalla morte non è quindi fine assoluta, perché niente si annichila nella
materia e il principio vitale che ci anima come non è nato con noi troverà
sicuramente altre forme di esplicazione: come la nostra nascita non è avvenuta
dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.-- è estranea ogni forma di
lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla sua rifiorirà in una
delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici della modernità,
nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina, Diotima: “Noi moriamo
per vivere: «Oh, certo, i miserabili che non conoscono se non il ciarpame
arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del bisogno e
disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della natura, a
ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro mondo, non
conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da stupirsi che
temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho sentita la vita
della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò una pianta, sarà
poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire dalla sfera della
vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti, riunifica le nature?
come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti gli esseri?» Opere
Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed economisti del
primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, Dodici discorsi
morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori,
Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo, Pisa, Ets Vite parallele.
Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò
editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il Nazareno e Licurgo messi in
parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check); edizione e commento di D.
Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione filosofica sulla morte, F.
Ieva, Indiana, Milano Piero Gobetti,
Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero nel Risorgimento, Torino, anche in
Opere completeSpriano, Torino, Einaudi Franco Venturi, Adalberto Radicati di
Passerano, Torino, Einaudi, Franco
Venturi, Settecento riformatore, I, Torino, Einaudi, Silvia Berti, Radicati in Olanda. Nuovi documenti
sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti, in «Rivista Storica
Italiana», S. Berti, Radicali ai margini: materialismo, libero pensiero e
diritto al suicidio in Radicati di Passerano, in «Rivista Storica Italiana», J.
I. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of Modernity
Oxford, Oxford University Press, passim Tomaso Cavallo, Introduzione a A.
Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, Pisa, Ets, Tomaso Cavallo, Le
divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e Licurgo: impostori e
legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione ad A. Radicati, Vite
parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri Levante, Gammarò,
Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in «I Quaderni di
Muscandia», G. Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and Unbelief in
Early Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves and Others
in the Early Modern Period, ed. by S. Broomhall and Jacqueline Van Gent,
Ashgate, ,TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite Parallele di Alberto
Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come uomo politico e
consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di filosofo; e la sua
filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono a destare
interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero come cose
inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come il loro
autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese su di
loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua filosofia.
Infatti il Saraceno pubblicando il « Manifesto» e le due « Lettere »
indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e
premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e
bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia
a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a
Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il
suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei
pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono
vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come
non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile
lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune
notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e
la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca
di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in
Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate
invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al
British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino,
dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta
in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P.,
Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata
al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio
Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che
intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia
della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S. Sebastiano.
Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True Light” in “XII
Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted”
(London. Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row; and sold by
the Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication of
Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of
Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the Crown
in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came to
repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his
Restauration. On a letter frorn the Marquis de T. . . a Piemonlais now at the
Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd
without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa
recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange ; and by the Booksellers
and Pamphletsellers of London and Westminster MDGCXXXII. “A phliosophical [sic]
dissertation upon death composed for the consolation of the unhappy, by a
friend to Truth” (London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on
Ludgate-Hill). Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele III0 colla quale supplica
la prelodata S. M. di voler gradire la dedica della opera da lui composta e già
presentata alla fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC . (Arch. Slato Torino -
Storia Real Casa - Cat. Ili - Storie particolari). Twelve discourses concerning
Religion and Governement, Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by
Albert Comte de Passeran, Written by Royal Command, The second Edition”
(London, printed for the Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad
Westminster). Recueuil de pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes
– Rotterdam, Chez la Veuve Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don
Carlos; Factum d'A. R. de P. parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a
composer cet ouvrage. Douze Discours Moraux, historiques et politiques,
preceduti da una Declaration de l'Auteur, Histoire abregée de la profession
sacerdotal, ancienne et moderne a la tres illustre et tres celèbre secte des
esprit-forts par un Free-Thinker Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis en
parallele par Lucius Sempronius neophyte, Epitre à l'Empereur Trayan Auguste,
Recit fìdelle et comique de la religion des Cannibales modernes par Zelin
Moslem, dans lequel l'auteur declare les motifs qu'il eut de quitter celte
abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe a Rome par M. Machiavel [sic]
imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda fide, con prefazione
dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour rendre utile à la
Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son maintenant fort à charhe,
traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la grande assamblé des Quakers
par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée, traduit de l'Anglois a Londres,
au depens de la Compagnie. La religion Muhammedane comparée à la paienne de
l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem epitre a C.inknin, Bramili de Visa - pour
traduit de l'Arabe. A Londres au depens de la Compagnie. Notiamo, ora di queste
opere le notizie e di caratteri più salienti. Fu edita dal Saraceno, nell'opera
più volte citata. Il testo rimane nella sua grafia del tutto immutato, con le
inconstanze di scrittura (et, ed; chino e hanno) caratteristiche del filosofo;
alquanto mutata è invece la punteggiatura, e gli alinea, la prima più scorretta
nel testo originale, i secondi inesistenti nel MS., che corre tutto di seguito.
Questa lettera con la quale comunica a Vittorio Amedeo II il suo desiderio di
fargli pervenire la cassetta e di cui abbiamo notizia sia dalla lett. del
March. d'Aix, sia dalla risposta del March, del Borgo, che c'informa pure del
suo contenuto, per quante ricerche abbia fatte all'Arch. di Stato di Torino,
non mi è stata possibile trovarla. Questa Memoria inedita si trova all'Ardi, di
Stato di Torino. Fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale
andata perduta. Delle lettere comprese sotto questi due numeri abbiamo notizia
da una lettera del Cav. Ossorio al March. Del Borgo e dalla risposta del Del
Borgo. Ma non mi è stato possibile poterle rintracciare. Quest'operetta edita,
in un elegante Vili0, dopo due anni di soggiorno in Inghilterra, doveva nella
mente dell'Autore essere composta di dodici discorsi. Fu edita invece
incompleta contenendo solamente un “Preliminary discourse in wich the Author
gives a particular account of his conversion” e il Discourse I, “Of the
Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al primo di essi corrisponde alquanto
mutato nella forma e nell'estensione il Recit, contenuto nel Recueil. Al
secondo corrisponde invece esattamente il Discorso I. Cfr. Twelve Discourses
riprodotto poi integralmente dal Discours, Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus
Christ, dei Douze Discours, moreaux ecc.editi nel Becueil „. Ritornando al
Preliminary discourse abbiamo detto che questo discorso fu riprodotto nelle sue
linee sostanziali dal Recit incluso nel Recueil, ma molte varianti, e alcune di
valore capitale sussistono fra i due testi. Accenneremo, qui, da un punto di
vista generale, le caratteristiche più salienti dei due testi, e la maggior
importanza che può avere, da un punto di vista biografico, l'edizione inglese;
e infatti, pur essendo quest'ultima mancante dell'introduzione che troviamo nel
testo di Rotterdam. L'imprimeur au lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di
Benedetto XtlI, le numerosissime note esplicative, che svelano luoghi, nomi e
date, la rendono di una importanza capitale per la ricostruzione della vita del
filosofo. Senza questa edizione, corredata di note e di avvertimenti, veramente
preziosi, sarebbe stato impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal
semplice testo le notizie importantissime documentanti la conversione del filosofo
al calvinismo. L'assenza di note del Recit e l'espressione più attenuata, in
taluni punti, del testo inglese costituiscono i caratteri differenziali fra le
due edizioni. I titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla
Christianity sono i seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the
Apostles and Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the
Religion of Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption
of the Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the
great Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the
Bishop of Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse
VII: That neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by
the Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has
maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can
make use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns
and their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of
Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual
as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical
Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to
Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere
dai titoli i discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli
contenuti nei “Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso
contenuto nella Christianity del tutto analogo al primo di quelli
contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e
facilmente confrontando rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur
essendo vi qualche tenue variante di espressione, sintettizzano reciprocamente
un analogo contenuto. Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British
Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad
un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al
filosofo, furono fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo
potuto rintracciare e confrontar e con l'edizione inglese che possediamo.
Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve
les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner la couronne en faveur de
son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est
repenti, avec les raisons et les intrigues secretes qui l'ont porte à
entreprendre son rétablissement par le marquis de F*** piemontois, à present à
la Gour de Pologne; en forme de lettres écrite au comte de G*** a Londres. S.
1. in Vili. Histoire de l'abdication de Victor Amédé e nel volumetto La
politique des deux partis, ou Recueil de pièces traduites de l'anglois de
Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione:
Génève contenente una seconda lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de
filosofo. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris,
in 4°, erratament e attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio
identificato. L'Oettinger dà una traduzione tedesca dell’Histoire edita a
Francoforte. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne, et de
sa detention au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit les veritables motifs qui
obligerent ce prince d'abdiquer la couronne en faveur de Charles-Emmanuel, son
fils, et ceux qu'il eut ensuite de s'en repentir et de vouloir la reprendre.
Lettre écrite au Conte de C*** a Londres, par le marquis de Trivié, qui est à
présent à la Gour du roi de Pologne, edita nel " Recueil de pièces qui
regardent le gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui ont rapport aux
affaires présentes de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire de
l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure attribuita
dall'Oettinger al Lamberti. Cfr. OETTINGER, Bibliographie biographique
universale, Paris. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne
etc. de sa detention au Ghateau de Rivoli et des moyens qu'il s'est servi pour
remonter sur le trone, à Turiu. De l'impremerie Royal. Anecdotes de
l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II, Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne
Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury che il Qnerard
ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de l'abdication de Victor
Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau de Rivole, et des
moyens dont il s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle édition sur
celle de Turin de 1734-, a Londres, 1782. Non abbiamo creduto necessario per
quanto il testo inglese rappresenti il testo originale redatto dal P. di
annotare le poche varianti che esistono più di forma che di contenuto. N. 9 di
questa operetta, che ho trovato solamente al British Museum, catalogata sotto
il nome di Thomas Morgan (l'indicazione della bibliografia del B. M. è : "
A philosophical dissertation upon Death - Composed for the consolation of the
Unhappy (By A. Badicati Count di Passerano translated or edited by John, or
rather Thomas Morgan? era data notizia tanto dal Cav. Ossorio, che ne espone in
brevissime righe il contenuto e ci avverte che fu causa di prigionia per
l'autore e il traduttore, quanto dal Lilienthals, dal Kahl e dall'Henke (1).
Completamente dimenticata dai più recenti studiosi del R. compare citata dal
Natali senza indicazione nè di data nè di luogo di stampa. Secondo quanto
afferma l'Ossorio, l'operetta stesa in lingua italiana dal R. sarebbe stata
tradotta da " un de ses compagnons „ " en bon Anglois „ e sotto il
nome di questo traduttore, che si seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa
andò per alcun tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno (4) ed è una copia della
lettera originale andata smarrita. La scoperta di questa nuova edizione,
ricordata in alcune opere Cfr. HENKE , op. cit. loco cit. LILIENTHALS , op.
cit. loco cit. FREYTAG , op. cit. loco cit. VOGT , op. cit. loco cit. BAUER :
op. cit. loco cit., WAHIUS , op. cit. loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove
però compare come semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di
luogo di stampa, nè di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che
i " Discours „ siano stati stampati per la prima volta a Rotterdam nel
" Recueil „, e che quindi sino al 1736 i " Discours „ medesimi siano
rimasti manoscritti nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista
la primissima introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere
edita prima del 1733 per le ragioni stesse che giustificano l'edizione de!
1734) che il nostro si decise a dare alle stampe i " Discours „ dopo aver
visto che non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di
conseguenza dallo stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più
dipesa la possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo
l'edizione inglese dei " Discours „, la quale messa in confronto con
quella di Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese
la " Dedica „ a Don Carlos (sedizione Rotterdam pag. Ili a pag. X) e il "
Factum „ fonte di preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da pag. 1 a
pag. 10). mentre che la Declaration de Vauteur „ contenente i motivi che hanno
spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel suo svolgimento,
che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che sotto riproduciamo
è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. TH E AUTHOR' S
DECLARATION . Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the benevolent
reader will forgive me for making a short declaration concerning the
publication of this work , as follows. BAUMGARTEN : Narichten von einer
Ilallischen Bibliothec, ENGEL : Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum
omni scientiarum genere rarissimorum - BERNAE, TRINIUS : Freydenken Lexicon. -
Leipzig, und Bemberg, Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon, Voi. I, pag. 1098 .
MASCH I Beilriige zur Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK :
Cristliche Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig SCHLEGELS : Kirchengeschichte des 18
Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un Amateur citato dal QUERARD. Les supercheries
litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma
parlando del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur grand
papier, celui de la Bibliotheque du Roi, et le mien „ Di questa edizione,
probabilmente in foglio o in 4° grande, (" sur grand papier „) non siamo
però riusciti ad averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera
indirizzata dal P. a CARLO EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit.
In primis & ante omnia. I do declare that this Work was written at the
Command of a great PRINCE, who would be plainly inform'd of all the matters
contain'd in it : and as that PRINCE was then reputed to be one of the greatest
Politicians of his Age, I was oblig'd to proportionate my Labour to his
profound Capacity. So that if I have reveal'd some Religious or Civil Mystery,
which had generally been conceal'd, I have methink given a suffìcient Reason
for it: However, I have alter'd some Passages and soften'd some Expressions, to
make them more intelligible and more agreeable to the Reader. I do solemnly
declare, that in all this Work I had nothing in view but Truth, Equity, or
Justice: In a word, the Good of Mankind in general; and I flatter my self that
all who shall peruse it with candour, shall be convinced of the Rectitude of my
Intentions. I do declare, that I have kept dos e throughout this Work to the
Doctrine and Morality of our Saviour, occording to the best of my knowledge;
and I hope I have not advanc'd anything without good authorities. I do protest
before GOD and Men, that whatever is said in this Work concerning the Church or
Clergy is to be understood of the Popish Church and Clergy only (who really
have long since abandon'd and despis'd the most sacred Precepst of our Blessed
LAWGIVER) and not of any other church whatsoever; whose Clergy and Prelates
being very humble, vastly charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur
and Riches; may justly be stiled the true and only Imitators of Crist's
Disciples, and of those primitive good Prelates (*) instituted by the Apostles.
(*) See the 54th page of this Book, and you will fìnd what their duty was, and
with what Qualities they were endued. Item. I do declare, that I have not her e
opposed the superstitious Tenets of the Popish Church ; for this has been so
often done ever since the Reformation, and by so many Learned Divines, that it
would be vain to attempt it. Besides, Popish Princes little regard at this time
wha t is said against Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of
Saints, and such like; as (pag. X ) things, which ways affect their temporal
Interest : so, whethe r these opinions are well or ill-grounded ; whethe r they
spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e they to
know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to the
WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon the
proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin ; and
this is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work
. I tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be
of some service to this Country, particularly at this time, whe n " the Emissaries
of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their Diligence
in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in every Corner
of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age „. (*) Dr.
Clarke' s Sermons, pag. 18, LASTLY, ] declare that I have made use of ali
the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII ) the TRUTH
S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in Mysteries ; in
order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and that of others.
I presume I have found them, and for that reason 1 now publish them. But if I
have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know myself not to be
infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent Divines of this
happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my Reason by Reason
itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII ) And I farther beg
of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with this salutary
Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha s expressly
commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous; nay, mor e
contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to rad,
calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who labour
Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss of
Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this
plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope
that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice,
will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for
having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz .
lond . pag . 1-13 ; Ediz . Rot . pag . 15-26 ) è integralmente riprodotto nella
edizione olandese: uniche varianti sono le seguenti : Pag . 2 - in not a
Collins è qualificato : 0 great and goodman „ attribut i c h e mancan o
nell'Ediz . de l 1736 . Pag . 11 - manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e
si trov a a pag . 2 4 dell'Edizion e di Rotterdam . Il Discors o II (Ediz .
lond . pag . 14-25 ; Ediz . Rot . pag . 27-37 ) è pur e ess o integralment e
riprodotto . Unich e varianti : pag . 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag . 3 5
ediz . di Bot.) è aggiunt o " and 1 shall not be tought in the vrong for
vanking him withe Heliogabalus „. Pag . 24-25 , nota , dop o le parol e "
universally observed „ " généralement observées „ pag . 3 7 ediz . Rot.)
ch e no n si trov a nell'edizion e del 1736 : " I say universally
observed: for wer e there a Society or Republic, however great it might be,
that should be inclined to observe the Laws of Gbrist, it would be obliged for
their own preservation, to lay aside the laws of Christ, or suffer themselves
to be destroyed by following them. - In a word, a Society of true Christians,
wer e they as numerous as the whole Empire of China, could no more make head
against a single Infide], who had a mind to plunder them, than a hundred
thousand Rabbits could make head against a hungry Lion, that should fall
in among them. But if ali Men, without exception, were good Christians, it is
most sure they would be exceding happy. For, being without Ambition, Envy and
Revenge, nothing would be capable of di sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult
- Bayle's Pensées diverses chap. 141 - continuation des Pensées - Ghap. 123 -
124 „. Il Discorso III (Ediz. lond. pag. 26-52 ; Ediz. Rot. pag. 38-60) ò
invece del tutto diverso - Cfr. quindi il medesimo riportato in Appendice. Il
Discorso IV (Ediz. lond. pag. 53 72; Ediz. Rot. pag. 61-76) è quasi del tutto
riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole " le
gouvernement de leur Eepublique „, pag. 69 dell'ediz. di Rot.) il testo
prosegue con 2 pagine in più che qui appresso riproduciamo. But they wer e
never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles,
we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the
Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles
of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that
Religion, and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so many
words, that we ar e " not to boast of our good works, but of Faith alone
in Jesus Ghrist, for that good works ncither justify, nor save (*); but to him,
saith he, that worketh not, but believeth on him that justifieth the ungodly,
his Faith is counted for Righteousness (**) and shall save him „. James, on the
other hand, in a few words summing up the Essentials of Religion, and not
amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that " Faith
without good woorks will neither justify, nor save „ ; and gives us to'
understand that " good works will save us independent of Faith”This Doctrine
is highly just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha t avails
it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he is cruel,
covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5. (**) James II, etc. (***) Rom III. 26,
27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better without that
Belief, but good, charitable, and humble ? it is much better for a man to be a
Christian in practice without speculation, than to be a Christian in
speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage,
who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian,
who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio'
he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice
and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to
Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by
building Religion upon various. and different foundations bave caused an
infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian
Gommon-wealth, by whieh it ha s been, and will ever be tome asunder most
assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible
speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets,
which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same
as those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali
ye that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke
upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find
rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„,
and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*)
Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond. pag. 73-92; Ediz. Rot.) è
riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag. 80, in nota su S.
Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue: " Non in
Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in operibns
misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda simplicium
callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates - Cyprian de
Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella Edizione di
Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot. pag. 95-123) è
riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg.
125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche
varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag.
128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et
Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo
enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „.
Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è
tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con "
Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è
riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag.
165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti
sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant
ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.;
Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz.
Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By
natural right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each
individual, whereby each of them is forced or determined to act, according as
he finds it necessary for the preservation of his own being. All animals are
forced by nature to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they
eat, drink, and sleep of natural and absolute right, when they stand in need of
them. In the same manner, fish being by nature determined to swim, and the
greater to devour the smaller, consequently they enjoy water by natural right,
and the greater by the same right devour the smaller. Thus, birds are
determined by nature to fly, and by consequence possess the air by natural
right, and birds of prey by the same right feed upon the tame. For it is most
certain that Nature considered in the general, has an unlimited right over
every part of herself: that is, this right extends as far as her power extends,
so that every thing that she can do is lawful for her to do. For the power of
nature is the very same as that of God, whose right is eternal, and
consequently unalterable. Now as the power of nature is the same with that of
every individual who make up that Nature, without exception, it follows, that
the right of no one is limited, but extends as far as the strength and industry
that nature has bestowed on them; and as it is a general law for all beings,
that each of them in particular shall perpetuate his kind, as far as lies in
his power, without regarding anything save his own preservation. it follows,
that the natural right of every indivual is, to subsist and act to that end
according to the power which nature has given him. In this state man is not to
be distinguished from the rest of natural beings, no more than the words,
reason, or wisdom, and folly; virtue, and vice; honest, and dishonest, just and
unjust are, etc. Wherefore there is no difference between the wise and the
foolish, the virtuous and vicious; for every individual has a right to act
according to the laws of his constitution or organization. that is, according
as he is determined by nature to such and such a thing, without being able to
act otherwise. So that considering man under the empire of nature, as
unacquainted with what philosophers call reason, or virtue; and not having
acquired a habit of either, they have, I say, as much right to life in pursuing
the dictates of their appetite, as they have that live according to the laws of
reason, virtue, and justice, with which they have conneted their ideas. That
is, that, as he who is called wise in society has a right to do any thing that
is dictaded to him by reason, and to live according to the light of it; so the
ignorant and foolish man in the state of nature has a right to every thing his
appetite suggests, and to live according to its dictates. For, according to the
apostle’s opinion before the law, or in the natural state of man, no man could
sin. Rom. 4. V. 15. It is not then the business of that reason, or
justice, to regulate the right of nature, but of the desire or strength of
every individual. For, so far is nature from determining us to live according
to the law and rules of this reason, that, on the contrary, notwithstanding
education, and the penalties appointed in order to natural impulses. Such is
the power of nature. New as we are obliged, as far as in us lies, to preserve
our natural being, so we cannot do it but by acting in obedience to the laws of
appetite, since nature denies us the actual use of that reason, and none of us
are more obliged to live according to the rules of good sense, introduced among
us by the civilised part of mankind, than an ant is to live according to the
nature of an elephant. From whence it follows that, in the state of mere
nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things whatever without
exception, because nature has given all to every man, and may use it without a
crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by entreaties, or
threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or endeavours to
hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural right, an animal
may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his power to support
his own individual, or satisfy his inclination. However we are not to imagine
that so unlimited a liberty can produce any great disorder amongst animals of
the same kind, as many have thought, because nature has previded them
necessaries in abundance; upon which foot, they can have none, no, not thel
esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves. Foxes with
Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the state of
nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy, and an
implacable hatred reign between one species and another. And this would in
reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom consisted
in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the pidgeon
would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a sufficient
strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the same
complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint would
be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain limited
time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that every being
may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never be, if an
animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must necessarily
die to make room for another, it imports little whether he dies in this or that
manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's prey, and the
wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that have devoured
them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion,
languish and suffer long before they die, if they die a natural death. Besides,
a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's injustice, by making
him the prey of innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones,
and throughout their whole bodies, which feeding upon the best and finest
substance in their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him without
mercy. For, those invisible animals that kill not only a lion, but a man too,
and every beast that dies of a natural death has no more thought of the
mischief they do in feeding upon their blood, than a lion or a man when he
kills another animals for food without mercy, they having ali a power to do so
by an absolute and natural right. An animal therefore, far from complaining,
tough constantly to thank Nature for her infinite justice and goodnes to him,
in giving them a limited life only. For, had she created him immortal, she had
shewed herself exceeding cruel; considering we are all assured there is no
condition of life, however happy, but what at last grows rneasy and burthensom.
As we see by those, who having passed most of their time in the polite world,
are desirous of retiring, and leading a private life in the country; so he that
lives in solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he
that has long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and
wishes for a new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may
be perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his
life; what would it be, were they to live for ever, without ever varying the
pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels. Part
3) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they
complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which
they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal,
who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy
his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most
signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of
her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them
equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man,
since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an
animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small
point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and
that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that
what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man,
appears such only because we know things but in part, and because we cannot
have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending
the immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what
reason sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and
laws of universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme
natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which
is really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action
of an animal tending to the preservation and propagation of his own individual
or his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end,
proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali
those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to
those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that
they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for perpetuating
their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender mother of ali
Animals, not satisfied with impressing on their mind those notions, has always
affixed a proporlional recompense to moral good, and a like punishment to moral
evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and avoid the other with
pleasure. Not that she had any occasion to setlle such rewards and punishment
in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well knew she should be
obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which is Man. And it was
for them se appointed them, because knowing they had several cavities in their
brains fdled with animai spirits, which by a high fermentalion would so heat
their imagination, as to make them fall into a sort of madness, on Delirium.
Nature, I say, to bring them back from their wandring, has thought lil severely
to punisti them, whenever they swerve from their duty and act agreeably to the
false notions with whict that madnes inspires them, which notions tend to the
destruction of their own individuai, and to make their Species unhappy. I will
explain my self. It is well known, that ali Animals, except Man, act according
to the notions infused into them by Nature, commonly called Instinct, for
instance, knows its proper food, and the actions to be performed in order to
live in health, and perpetuate its Species. Consequently to these notions it
acts, by chusing at first such places as are agreable to it: some live in
Marchs, some in the Fields, some in the Plains, and others on Hills; some swim,
other crawl, and in short, some, called amphibious, live bo!h on Land, and in
Water. Ali these Animals perceive what they are to do in order to subsist
Wherefore they eat, drink, and make use of their females, when they have
occasion ; mor did, or do, any one of them ever force itself to eat, or drilli
or enjoy its females, when it was satisfied; nor did ever any of them ever
voluntarily refuse to eat, drink, or make use of their females, whenever Nature
required it; thus by denying themselves nothing necessary, and by never forcing
themselves to do what is beyond their strength, they lead a healthy and a happy
life. But this is not the case of Mankind. For, tho' they pretend to a greater
share of wisdom and reason than other Animals, their actions shew they have
less than the rest of them ; some thro' excessive folly eating and drinking
when they are neither hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon
and kill Ihemselves; and forcing themselves upon venereal pleasure when they
are exhausted, is so much as to destroy themselves : Others from a contrary
madness, denying themselves meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and
dragging a miserable life, consume and pine away. Thus by not allowing Nature
what she absolutely requires, or forcing her beyond her strength, they are
guilty of real moral evil, from whence the Physical takes its rise, which
cruelly torments them their whole life time. Anolher madness, to which Mankind
are subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches,
without making any use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only
makes himself miserable, but greatly contributes to the misery of others. There
is stili another kind of madness, called ambition, that lords it over Man,
which puts most Men upon depriving themselves of what is really necessary to
life, for Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili
effects of this last folly have not stopped there, but produced the greatest
disorders amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For,
it has happened, that some of them thinlcing themselves better than others,
have endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to
the rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the
opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These
different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that
have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have
from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to
preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which
they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from their
errore ; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a whole
Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the
decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his
naturai right, promised obedience to them, upon condition that they on their
side should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and
formation of Aristocratical Government. Da pag. 200 in poi (pag. 186 Ecliz.
1736) il test o corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo le lievi
differenz a qui sott o notate . Pag . 207 - i puntin i di quest a edizione son
o son o sostituiti nell'edizione olandes e (pag. 102) " le coeur de Nobles
en àrbitraire ou absolu „. Pag . 22 3 : mancano le ultime due righe del testo
di pag. 20 6 ediz. Rol . 11 Discorso XI (Ediz. lond. pag . 224-248 ; Ediz .
Rot.) Titolo : "Wherein it is proveci that religion was introduced into
Society by legislatore, in order to give a sanction to their laivs; and that
consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to the Prince
„. Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto dell'edizione
olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima parte del
titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve riassunto di
queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente. Il R. così
comincia: My design then in this Discourse is to make Princes sensible that
Religion was institued by legislators, in order to give strength and credit to
their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration of civil
Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1 propose
tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil authority
in one, and the second, to the People, by rescuing the from the Tiranny of
Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us concerning
the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi, l'intera
pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz. Han.;
l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag. 524,
ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e
Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav.
Joseph, contra Appion. libr. 2, pag. 1071 - Edit. 1634, in fol., e " a
very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2
eh. 5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il Gharron : " Ile was
Canon and Master of the School of the Church of Bordeaux - He lived in
Montagne's time, and ivas his intimate freind - See Bayle's Did. Artide,
Charron „. E con tutte queste citazioni la dimostrazione è raggiunta: "
Wherefore 1 may be allowed to say without any impietg, that lleligion might be
subject to the Prince, to Religion „ (pag. 235). Dopo di che da pag. 236 a 248
continua con la seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz.
Rot. Unica differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter,
late Czar of Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant
authority io his own power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di
Rotterdam. " Enfin chacun fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso
XII (pag. 249-271 Ediz. lond.; Ediz. Rot. pag. 211-238) è riprodotto
integralmente, ed unica differenza è data dalla mancanza a pag. 259 della
esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12: Abbiamo già parlato a proposito
del N. 11 degli scritti " a-b-c „ contenuti nel " Recueil „ ed a
proposito del N. 7 dello scritto " f „ ed abbiamo notato come la loro
prima comparsa, eccettuato per il " b „, sia avvenuta in lingua inglese, e
quali cambiamenti abbiano subito nella loro ultima redazione francese.
Notiamo invece per le operette " d „, " e „ che il testo dato dal
" Recueil „ deve presumibilmente essere l'unico lasciato dal P. ; nè
infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi, anteriori o posteriori al 1736,
nè elementi o prove che suffraghino questa possibilità; potrebbe essere
presumibile che queste operette scritte dal R. ancora in Inghilterra e forse
già pronte per essere tradotte, siano rimaste a noi nel loro testo originale
per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle in Olanda, non avendo più
possibilità di trovare un traduttore, le abbia conservate e poi edite nella
loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la traduzione dell'operetta
analoga dello Svvift: " A modest proposai for preventnig the children of
poor people in Ireland from beìng a burden to their parents or country, and for
making them beneficiai io the publick „ (1). Non esiste tra le due edizioni
alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del testo originale le due
uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione a pag. 369 del "
Recueil „ della parole: " Gastigat ridendo mores „ immediatamente dopo il
titolo, e omesso dall'originale; e la sostitutuzione della parola " Spain
„ del testo inglese, con la parola " Rome „ della versione del R. pure a
pag. 369. Fu fatta nel 1749 a Londra una ristampa di tutto il N. 12 ("
Recueil de pieces curieuses sur le matieres les plus interessantes par A. R.
comte d. P. a Londre) ma dall'esame di questa nuova ediz. posseduta dalla Bib.
Querini-Stampalia di Venezia, è risultata l'identità, persino negli errori di
stampa coll'ediz. di Rotterdam. N. 13-14 formano nell'Ediz. originale un volume
solo, senza titolo generale, con pagine numerate progressivamente (da 1 a 47 il
testo n. 13, da 49 a 104 il testo n. 14). L'attribuzione di paternità al R. del
primo di questi opuscoli, e convalidata non solo da quanto afferma il "
Dictionary of National Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il
Barbier, ma dalla rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei
" Twelve discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché
originai „ manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del
testo ingl. ; pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. op. cit. in: The Works of
Jonathan Swift, London MDCCLX, V, IV, pag. 66-77 . (2) Cfr. Dictionary of
national biography, edited by LESLIE STEPHEN , sotto 'Elicali.’ Cfr . QUERAR D
op . cit . Col . 1231 , T III. Cfr. BARBIER : Dictionaire des onorages anonymes
etpseudonym.es - Paris, 1827 > T . III . N . 16186 . commento e la
cit. del testo ingl.; pag. 8, nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10:
" vòtre pere celeste „ manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2:
manca la nota del testo ingl.; pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del
testo ingl.; pag. 17 " ces Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e
nota 2: manca la cit. e il comrn. del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je
mes Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo
ingl.; pag. 21 nota 2: manca la spiegaz. esistente nel testo ingl.; pag. 22:
"et comment auroit-il mieux „ manca la nota del testo ingl.; pag. 26:
" Amerique „ manca la nota del testo ingl.; pag. 27 e 28 sino ad: "
Enfiti temoin... „ mancano nel testo ingl.; pag. 32, nota 2: manca il lungo
coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2; manca la citaz. del testo ingl.; pag.
35: " les hommes hereux „ manca nel testo ingl. la nota corrispondente;
pag. 38 dopo le parole " ... leur dependence „ manca quasi l'intera pagina
47 del testo ingl.; pag. 40: " mes cheres Frères „ manca nel testo ingl.;
pag. 4 nota 2 : differisce dalla rispondente nel testo ingl.;: l'ultimo periodo
(“l'esprit... vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In merito al N. 14
l'attribuzione di esso al R., è affermata dal Querard (1) e dal Barbier (2) che
svolgono lo pseudonimo Ali-EbnOmar con il nome del R., è confermata dal fatto
che a pag. 100 dell'operetta in una nota l'autore citando se stesso rinvia al
" Discorso Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale attribuizione, per ambedue,
N. 13 e 14, sostengono pure lo Henke, il Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a
proposito di quest'ultimo che viene ad affermare che spesse volte l'opera n. 13
viene seguita dalla n. 14 con un seguirsi di pagine progressivamente numerate
(tale è l'ediz. da noi esaminata), come facenti parli del " Recueil „
edito a Londra e Rotterdam nel 1736, facciamo rilevare come ciò non risponda a
verità. A parte la confusione dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz.
Olandese, tanto nell'una che nell'altra non troviamo stampate le operette di
cui si tratta, nè infatti potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo
venute alla luce la prima volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce
esattamente la precedente, nè possiamo considerare questa ediz. dell'operette,
che abbiamo esaminata, come stralciata dal volume del 0 Recueil „ stante
la appariscente diversità dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state
edite a Londra, mentre già da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non
siamo in grado di dire: forse trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte
stampare da qualche suo amico nella capitale inglese? e allora non perchè a
Rotterdam dove era già uscito per i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più
volte citato? Sono questi tutti interrogativi che ci poniamo senza avere la
possibilità di potere rispondere, per mancanza di documenti che giustifichino
una ragione piuttosto che un'altra; e questa è un'altra lacuna nella perfetta
conoscenza della vita del R. Cocconato. Keywords: implicature della morte.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library.
Coco (Umbriaco).
Filosofo. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can play with
words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is conversation a
work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the ‘codice’ of
the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’,
short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It sounds slightly
fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco
is a performativist, so he understands that ius must ‘constitute’ and define:
so he goes on to analyse what I’ve been analysing too – what is to cooperate –
in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements
for mutuality, and so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it
provides a framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a
Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” --
Dal punto di vista sistematico molto vicino alla visione del grundnorm,
teoria da Kelsen. Si laurea a Napoli. Sostituto
procuratore del Re a Cassino. La Regia Procura di Roma. Procuratore Generale
presso la Corte d'appello di Roma. Fondatore dell'Ufficio del Massimario.
Insegna a Roma. Noto soprattutto per aver partecipato ai lavori di stesura del
nuovo codice civile italiano nonché del codice di procedura civile, entrambi
entrati in vigore nel 1942. Si occupa prevalentemente della stesura di leggi in
materia del contratto, obbligazione, e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli
eclettismi contemporanei e le lezioni di filosofia del diritto” (Lagonegro, M.
Tancredi & Figli); “La filosofia del diritto”; “Una quistione di diritto transitorio
in tema di farmacie” (Milano, Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo
capoverso dell'art. 375 del codice penale” (Milano, Società Editrice Libraria);
“Luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed.
Meridionale); “Per la tradizione giuridica italiana” (Milano, Società Editrice
Libraria); “Saggio filosofico sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del
diritto del lavoro); “Sulla costituzione di parte civile delle associazioni
sindacali” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale
(recensita da Santi Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova,
CEDAM); “Intorno alla pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma,
U.S.I.L.A.); “Raffaele Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro
e la impresa cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli,
SIEM). Annuario Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna
di dottrina, legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista
di diritto pubblico. La giustizia amministrativa, Roma, Società per la Rivista di diritto
pubblico e la Giustizia amministrativa, Una vita per il Diritto Giusto, La
giustizia penale. Rivista critica settimanale di giurisprudenza, dottrina e
legislazione, Società editoriale del periodico La giustizia penale, Tale
trasferimento avvenne per via di un suggerimento pervenutogli al Re dagli
allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli Salvatore Pagliano e
Giacomo Calabria. La giustizia
tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città di Castello, Società
tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Cfr.
Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva. Rivista di diritto e
procedura penale, Milano, Vallardi. Iniziò la sua
carriera a 24 anni e nel 1906 fu nominato pretore di Lagonegro. Quattro anni
dopo divenne pretore di Moliterno, per assumere in seguito le funzioni di
sostituto procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma presso la Procura.
Oltre vent’anni dopo, fu Presidente di sezione della Corte Suprema di
Cassazione, oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di una
solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo, partecipa ai lavori per la stesura del nuovo
Codice Civile e del Codice di Procedura Civile. Cura vari aspetti
dell’allora nuova normativa: contratto, obbligazione, diritto del lavoro. Una
delle sue grandi doti fu quella di riuscire a non farsi condizionare dal regime
dell’epoca. Non accetta la candidatura in Parlamento offertagli dai suoi
conterranei della Calabria. “Una Vita per il diritto giusto” si lascia
leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno
contraddistinto come uomo, come magistrato e giurista, troveremo, inoltre,
la sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica, il tutto in un arco
temporale di oltre quarant’anni. Sotto il profilo sistematico si accosta
alla visione di Kelsen per quanto riguarda l’ordinamento e le codificazioni,
nonché, proprio per la ricerca e per l’identificazione di una grande norma
fondamentale (grundnorm). Dal punto di vista epistemologico, rappresenta la
condanna dell’ideologia e della prassi delle scomposizioni in una galassia di
frammenti superficialistici. Lo sguardo al pensiero Coco ci consente anche di
sottolineare la sua analisi critica, egli non si ferma alla semplice
stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei confronti del singolo.
Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare come all’accanimento
contro la condotta individuale della persona fisica non corrispondesse eguale
severità verso gli atti illeciti e dannosi della pubblica amministrazione.
Proprio negli anni ‘30 scrisse “la responsabilità della pubblica
amministrazione”. -- è stato anche filosofo e storico al tempo stesso.
Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso ricordare. Dal
padre, persona di cultura, ricevette i primi rudimenti di
storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno, successivamente, in
taluni suoi saggi filosofici su Aquino. Iniziò la carriera giudiziaria a soli
ventiquattro anni e ottenne la nomina a Pretore di Lagonegro. Divenne
Pretore di Moliterno, per assumere successivamente le funzioni di Sostituto
Procuratore del Re a Cassino. Trasferito a Roma , presso quella Regia Procura ,
col viatico di rapporti oltremodo favorevoli e lusinghieri dei Procuratori
Generali Pagliano e Calabria della Corte d’Appello di
Napoli, dove vi permarrà per passare alla Procura Generale
presso la Corte d’Appello. Ottenne la nomina a Procuratore Generale del
Re presso la Corte d’Appello di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la
titolarità. Chiamato, invece, a presiedere il Tribunale Supremo delle Acque,
era Presidente di Sezione della Corte Suprema di Cassazione. Il giornale
“Il Tribunale”, pubblicazione mensile edita a Roma, lo saluta a
tale nomina. È della nostra famiglia, di quell’aristocratica famiglia
giornalistica, alla quale non disdegna di appartenere, nonostante
l’altissimo grado che ricopre nell’ordine giudiziario, oggi lieti di
salutarlo, insieme con quello forense, Presidente di Sezione della Suprema
Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di Cassazione sin dagli anni ormai lontani
della sua felice unificazione. E stato, infatti, tra i fondatori e promotori di
quell’Ufficio del Massimario che raccoglie il vasto e prezioso materiale
giurisprudenziale della Suprema Corte. Non appena conseguita la
promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica di Consigliere, partecipando
attivamente alla funzione giudiziaria di così eminente consesso. Ci asterremo,
di proposito, da ogni aggettivazione che non sarebbe di buon gusto né
riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaboratore; non possiamo, peraltro,
esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo di Professore di
Filosofia del Diritto nella Scuola di Perfezionamento di Diritto Penale
né l’altro, per noi particolarmente caro, di Redattore Capo
della Rivista di Diritto Pubblico. La recente nomina, se
indubbiamente costituisce un nuovo riconoscimento dei meriti di così
eletto Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore di così
ambita carica. Ma l’accoglierà di buon grado, assolvendo
anche dal nuovo seggio presidenziale le delicate funzioni giudiziarie,
alle quali porta il valido contributo della sua competenza, ma soprattutto
una grande serenità ed equanimità. Riguardo ai meriti illustrati
dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus honorum non è stato
caratterizzato soltanto da solidissima dottrina e da rigorosissimo lavoro
applicativo, ma anche dalla partecipazione costante all’evoluzione dell’ordine
giudiziario, e tappa importante in tale attività, fu la Sua nomina a membro del
Consiglio Superiore della Magistratura, ossia dell’organo politico e
politico-amministrativo, anche se in base alla legislazione dell’epoca il
Consiglio Superiore della Magistratura non aveva ancora il potere e
l’importanza che la Costituzione e la successiva normativa di attuazione gli
diedero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario civile della
Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu tra i
principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni, perchè
all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino
esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli
e di Palermo (che assunsero anch’esse la denominazione di Corte di
Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre
quella di Roma fu trasformata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare
dell’insegnamento di Filosofia del Diritto presso la Scuola di Perfezionamento
in Diritto Penale dell’Università di Roma “La Sapienza”. In questo ambito,
svolse attività accademica per quel periodo che vide la Scuola annoverare i
più bei nomi della dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano,
ancora oggi, alla base della trattatistica più importante. Altro aspetto
rilevante della sua eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio
del nipote dell’alto Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il
Professore Nicola Coco, dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal
coerente riferimento alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento
giuridico quali unica garanzia di contratto sociale. Per questo, il periodo che
va dal primo dopoguerra all’ avvento del fascismo,
costituisce una parentesi temporale di efficace e prorompente
elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro e sindacale, o “giuslavorismo”,
costituendo davvero una novità assoluta nelle scienze giuridiche del tempo.
Così, quando si verificheranno gravissime crisi socio0economiche che
metteranno a rischio l’assetto della produzione, la politica e i sindacati
troveranno i loro punti d’incontro nel noto Statuto del Lavoratori, una
ri-edizione aggiornata delle linee guida tracciate, agli inizi del “secolo
breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i quali appunto Coco. Altro aspetto
qualificante del giurista è l’aver concorso alla stesura del Codice Civile, ai
cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e Grandi (che è il sottoscrittore
anche del Codice di Procedura Civile, emanato anch’esso, furono chiamate
le più belle e fertili menti di magistrati e giuristi. Cura vari aspetti della normativa
(il contratto, l’obbligazione, diritto del lavoro), tant’è, che nell’imminenza
della promulgazione, il Ministro Dino Grandi gli inviò una lettera personale di
ringraziamento per il prezioso contributo offerto per il Codice. L’ultima parte
della sua vita coincide con l’immane conflitto mondiale, con
la guerra civile e con la scia di vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo
la fuga del Re e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, viene
invitato ad assumere la Presidenza della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia
e fors’anche la carica di Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta.
Ebbene, nonostante tale ferma presa di posizione nei confronti del regime
fascista, sulla base di taluni articoli che aveva scritto su “Il Messaggero”
di Pio Perrone, di commento a leggi e questioni giuridiche di alto livello,
ovviamente di epoca fascista, l’occhiuta Commissione di epurazione, su decine
di articoli scritti in una pluridecennale collaborazione, ne scova qualcuno
che suona come apologetico del Fascismo. Nulla di più falso, quando era nota a
tutti la dirittura morale del magistrato integerrimo, del quale va appena ricordato,
ammesso ve ne fosse bisogno, che la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli
fece pervenire sollecitazioni per una causa che la interessava. Ebbene, Coco
procedette secondo coscienza, quindi non nel modo auspicato dalla sorella del
Duce! L’epurazione ingiusta, nella quale probabilmente influirono anche
motivazioni non occulte di gelosia e invidia da parte di taluni, soprattutto per
il fatto che per meriti poteva benissimo aspirare alle funzioni di Primo
Presidente della Suprema Corte, ne mina rapidamente le condizioni di salute.
Negli ultimi mesi non volle proporre ricorso contro i provvedimenti che lo
avevano colpito e rifiuta cortesemente anche una candidatura in Parlamento,
per le elezioni, che i conterranei di Calabria gli avevano offerto con affetto
e riconoscenza. Spira serenamente, non mancando nel suo testamento di
perdonare cristianamente quanti gli avevano provocato tanto immeritato dolore.
Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa cooperative e della mutue
assicuratrici, delle societa cooperative – disposizione generali – cooperative
a mutualita prevalente. Articoli: societa cooperative; societa cooperative a
mutualita prevalente, criterio per la definizione della prevalenza, requisiti
delle cooperative a mutualita prevalente.
Del Lavoro. Nicola Coco. Keywords: cooperativa, impresa
cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra,
giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto,
corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di
procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione,
sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico,
unica garanzia del contratto sociale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco” –
The Swimming-Pool Library.
Codronchi (Imola). Filosofo. Grice:
“One would underestimate Codronchi if it were not for the fact that he wrote a
smartest little tracts on the two ways I see conversation as: ‘game’ and
‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do confess to having been attracted
for a while to a ‘quasi-contractualist’ approach to conversation alla Grice (i.
e., G. R. Grice) – and I’m not sure the reason I give there for rejecting the
view is valid, or strong enough! As for ‘games’ – of course conversation is a
game – but I never took that too seriously – perhaps because Austin was
obsessed with games and rules of games – and the subject was worn out for me –
when Hintikka came along all he did was talk about ‘dialogue games’! – I do use
‘game’ terminology – and cf. ‘contract bridge!” – such as ‘conversational
move,’ ‘converaational rule’ of the ‘conversational game’ – and conversational
‘players’ – “Only this or that ‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente
alla nobiltà, dopo la laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto
dal padre. In seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con
Ferdinando I e poi con Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a
consigliere di stato. Le sue saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”,
in cui affronta con semplicità l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue
in tre classi di contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è
noto il rapporto tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un
secondo contrato nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento
contrario è fondato sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo
tipo di contratto nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento
contrario si basa su una legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time, I was attracted by the idea that observance of
the CP and the maxims, in a talk exchange, could be thought of as a
quasi-contractual matter, with parallels outside the realm of discourse. If you
pass by when I am struggling with my stranded car, I no doubt have some degree
of expectation that you will offer help, but once you join me in tinkering
under the hood, my expectations become stronger and take more specific forms
(in the absence of indications that you are merely an incompetent meddler); and
talk exchanges seemed to me to exhibit, characteristically, certain features
that jointly distinguish cooperative transactions: 1. The participants have
some common immediate aim, like getting a car mended; their ultimate aims may,
of course, be independent and even in conflict-each may want to get the car
mended in order to drive off, leaving the other stranded. In characteristic
talk exchanges, there is a common aim even if, as in an over-the-wall chat, it
is a second-order one, namely, that each party should, for the time being,
identify himself with the transitory conversational interests of the other. 2.
The contributions of the participants .should be dovetailed, mutually
dependent. 3. There is some sort of understanding (which may be explicit but
which is often tacit) that, otl1er things being equal, the transaction should
continue in appropriate style unless both parties are agreeable that it should
terminate. You do not just shove off or start doing something else. SAGGIO
FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO DEL CAVALIERE NICCOLA CODRONCHI.
Sor's incerta vagatur , Fertque refertque vices . Lucan. FIRENZE PER GAETANO
CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO
LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI
TOSCANA &c. &c. & c. 1 NICCOLA CODRONCHI. Questa operetta che
sottopone il contratti d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per
fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea
bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati
tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il
vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la
felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi
all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non
sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio,
penetrato del la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose
beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali
desidero con tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi
forſe negli uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di
arricchire. L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi
necessari a sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha
voluto che ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo
stimola, gli ha inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore;
acciocchè se dalla propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi
della vita, riconosca però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e
l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma sempre operosa accende
talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che se medesimo, o un
piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa sovranamente in
un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che non sian vaste e
sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi dell’uman genere ecco i
grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i
lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato.
Quindi è che sempre nuove vie si spianano al commercio, nuovi mezzi si studiano
per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano per dilatarlo. Questo ardore
medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre inventando un nuovo
contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e più estese forme. Chi
avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili società, quando altro
contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi dell’armento in
cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un giorno uomini,
che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente, sicura, e da
esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta, la soggetta
al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane dei mori
che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale colla
polvere d’or , che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si appoggia
solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della fortuna? Il
moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli pare che il
negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente quantità l'a
preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite delle loro
sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e questo
contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo determinati,
o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria a render
giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di uguaglianza in
tale contratto aleatorio giova maravigliosamente quell’utilissima scienza che
arditamente calcola le probabilità e si rende soggetti, per così dire, i sempre
vari accidenti della fortuna. Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica
politica perchè è stata ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte
a 2 del commercio e di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi
veglia alla pubblica felicità . Ma io crederò di potere con parità di ragione
chiamarla “aritmetica del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra
il certo presente e l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato
quel seme fecondo che ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee
produr nulla meno la sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce
dell’onesto e del giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil
cosa se io cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una
sì vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su
di essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al
contratto aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia
possibile investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura,
più o meno esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne
determini l’uguaglianza, é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia.
Contratto aleatorio io chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un
diritto, o vogliam dire di una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei
separatae), il buon esito della quale è affidato all’incertezza della sorte
(cfr. Grice, “Intenzione e incertezza”). E quì si osservi che si può nel
medesimo contratto considerare l’aleatorio relativamente ad ambedue i
contraenti. (parola chiave: “ambedue i contraenti”). Quello, il quale talvolta
per far guadagno di una tenue somma di denaro (a) ma certa, vende la speranza
incerta di un gran guadagno, sottopone all'aleatorio tutto quel di più che
avendo buon esito la ceduta speranza, supera la tenue somma in cui la cambio.
L'uguaglianza che dopo fissato dalla legge o dalla consuetudine il prezzo della
cosa ricercasa nel contratti perchè sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata
la cosa che ne forma l'oggetto, ritrovisi in (a). Vedasi più sotto ove si parla
del contratto di alii curazione un vero senso egualmente pregevole ciò che
danno nel contratto e reciprocamente ricevono ambedue i contraenti. Or chi non
vede che l'avere un diritto o una speranza è molto più valutabile che il non
averla? E se ciò è vero, è manifeſso che questa speranza puo dirsi avere un
vero e real prezzo nel commercio degli uomini. Ma siccome tuttociò che ha
prezzo pui avere un prezzo diverso, questa speranza ha anch'essa la sua
diversita e puo per conseguen prezzo calcolarsi in guisa da poterne trovare il *rapporto*
a quello per cui alcuno desideri di farne acquistom che è quanto dire potrà
ridursi ad una vera uguaglianza. Stabiliscasi adunque l’incontrastabile
fondamenza il suo tale TEOREMA. Nel contratto aleatorio vi puo essere essere
quella uguaglianza, che gli caratterizzi per giusti . ng Too vorrei potere
esporre con la maggior precisione e chiarezza la serie delle idee che conducono
a fissare il canone per cui si puo in un contratto aleatorio rinvenire
l'uguaglianza di cui si parla. Il soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto
lume e farne poi l'opportuna applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto
molte importanti osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o
vagliano a dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo
tutto quello o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento
la quantità che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo
quello per cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero
osservare che per nome di premio si può intendere , e l'oggetto solo a cui si
aspira e il medeſimo più il prezzo che si è o esposto o sborsato per
acquistarne la speranza. Ciò ben'inteso parmi che per rintracciare questa
uguaglianza sia d'uopo conoscere i o per 8 la diversa speranza. Di due elementi
viene egli composto. Tanto è più stimabile una speranza quanto ha un'oggetto
più pregevole; e questo è ciò che io intendo per valore intrinseco; ma tanto
anche è più stimabile per altra parte quanto è più probabile che ha un esito
favorevole, e questo col nome di estrinseco valore vuolsi significare. La
probabilità è maggiore o minore secondo che è maggiore o minore il numero di
casi favorevoli all'evento rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si
facesse una tavola che gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si
avrebbe una vera tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento
separatamente e senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien
espressa dal *rapporto* del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli
insieme e de’ contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere;
per definire la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo
conſiderare le 10 bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si
fa l'estrazione dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia
l’oggetto di una speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo
degli eventi favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana
regolatrice della umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare
acquisto di una speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia
uguale a quello dei sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata
uguaglianza e necessario che il valore intrinseco della speranza o sia
dell'oggetto della medesima, sia *doppio* del prezzo che si espone per
acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del valore intrinseco resta compensata
dal prezzo che si è pagato; l'altra metà, che sola è un vero guadagno è uguale
al prezzo medesimo che si è espoſto all'aleatorio; e così deve essere essendo
nel caso nostro uguale la probabilità del buon esito e dell’infausto. E non
altro appunto significa quella regola infallibile secondo la quale è sempre 10
il valore (a) dell’aspettativa, quando in ugual numero siano i casi favorevoli
all’esito bramato e i sinistri. Che se si accresca il numero de’ casi sinistri;
siccome scema percið il valore estrinſeco della speranza, converrà che si
accresca *proporzionatamente* l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto
medesimo. Per maggior chiarezza di cio suppongasi il prezzo con cui si compra
la speranza uguale ad un dato numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli
uguale a quello dei sinistri. In questo caso la probabilità del buon esito e
uguale a quella dell'infausto e la speranza si elide col timore, e per
conseguenza il suo valore estrinſeco puo considerarsi = 0; verrà dunque in
confronto il solo prezzo col premio; che però queste due quantità dovranno
eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della speranza, o sia il premio
medesimo preso in una più estesa significazione 111 (a) L’aspettativa non è
altro che il grado di probabilità che uno ha di ottenere un’intento fortuito.
II sia doppio del prezzo, poichè una metà del premio medesimo non si può
chiamare lucro, restando compensata col prezzo già sbor fato ed esposto
all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per punto fisso dal quale si
parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se il numero dei sinistri
casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di tanto la probabilità
del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto farà a proporzione
maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della speranza; lo che
non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza necessaria converrà che
a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo caso il prezzo con cui
si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e quindi li puo universalmente
stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle speranze sono in ragion composta
del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o reale sperato (res sperata), o dell’spettativa.
Ne terzo teorema, nel contratto aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto
aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de
contraenti stia al premio, come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma
dei favorevoli e dei contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la
porzione che si lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio,
aleatato. E siccome, per quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi
in ciascun prezzo questo rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra
di loro come il numero dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la
somma de favorevoli e de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si
istituisce il paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei
contrari: e così dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si
deduce il seguente corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà
l'uguaglianza quando i prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro , come i numeri
dei caſi ri ſpettivamente favorevoli . Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap
pariſce, che per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare
maturamente , qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza
; quali ſiano i veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con
quella eſattezza che convenga alla naturą del contratto in queſtione.
Conſiderando at ; tentamente la natura e le leggi dei diverſi contratti di
azzardo , mi è parſo che preſen tino una facile e natural diviſione , per la
quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi li pof ſono comodamente diſtribuire.
Imperciocchè dalla loro diverſa natura , e dalle diverſe leg gi che gli
coſtituiſcono , ne naſce una diverſa maniera di fiſſare i rapporti del numero
dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri . A tre fi poſſono in fatti ridurre
i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e quindi collocare in una di
tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo . Primo metodo è quello per
mezzo del quale conſiderata la natura , e le leggi del contrat to rilevaſi il
ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle ragioni, che poſſono in
fluire ſul buon eſito della ſperanza , numero determinabile , e ragioni certe ,
e ſicure . Il ſecondo è quello nel quale per la natura del contratto , non ſi
può fondare il rapporto , ſe non che ſulla ſperienza , e ſulle oſſerva zioni
eſatte perd , e molte volte replicate ; e ſopra cagioni incerte , e
variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e dei fi niſtri, non
può mai eſſer certo , determinato , e ſicuro . Terzo metodo è quello per cui ſi
appoggia la indicata proporzione , parte alla conſiderazione di leggi certe e
ſicure , e par te alla ſperienza del paſſato , e a circoſtanze incerte ', e di
numero indefinito . Nei contratti adunque della prima fpecie , conoſciutene le
leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire ſull'oggetto del 1 4
13 contratto , ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali poſſono combinarſi,
ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei caſi favorevoli ai
finiftri . La ſcienza delle combinazioni , e permu tazioni è ſtata nel noſtro
ſecolo così illuſtra ta , e dall ’ Ugenio , e dal Bernullio , e dal Moivre, ed
è così vaſta ed eſteſa , che vo lendo io trattarne a lungo, non potrei per
l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione, e
ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe , che non laſciaffero
un neceffario deſiderio di molte più , intorno alle quali l'intertenermi ,
oltre paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio ; e tanto più
, che ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per
avventura trattare tutti i caſi par ticolari . Nel venire però eſaminando la na
tura dei diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi , ſi
vedranno di trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati , ed
indicata la maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo
! 16 rétto , e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più
compoſti, ed aſtruſi . Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti
che alla prima claſſe debbonſi riferire . Mi è noto quanto ha ſcritto il cele
bre Giacomo Bernulli , per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di
fortuna il numero dei caſi favorevoli e dei contrari , i vantaggi reſpettivi
dei giocatori , e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco
per ritirarſi ſenza rinunziare alla miglior condizione , in cui l'hanno già
poſto alcuni colpi favorevoli . So che eſſendo la probabilità , o ſemplice, o
compoſta , ne ha queſto gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di
una linea retta con una curva logaritmica , o di queſta con una pa rabolica , e
così ſucceſſivamente aſcendendo alle curve dei gradi più alti . Ma laſciando da
parte i profondi calcoli , e i miſteri della fublime Geometria , i quali però
ben pene trati ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo
, piacemi in quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura
e le leggi del gioco , per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo , come ſi
poſſa in eſſo e dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori , e in tal guiſa
applicare a queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi . Il gioco di
pura ſorte è una ſpecie di con tratto , nel quale due o più perſone, dopo di
aver convenuto di certe leggi, e condizio ni , ſi diſputano un premio , che ſi
rilaſcia a chi ſarà più felice , per rapporto a certi acci denti l'effetto dei
quali non dipende per ve run modo dalla loro induſtria . E quì cade in acconcio
fare una rifleſſione comune a tutti i contratti di azzardo . Il dire che una
coſa accada caſualmente , non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è
a noi ſconoſciuta ; e che non vi abbiamo alcuna volontaria influenza . Per
altro quan do fiegue in natura un determinato effetto , qualunque ſiaſi, è
certo che neceſſariamente dovea ſeguire . Che due dadi gettati ſu di una tavola
, ſcoprano piuttoſto un numero , che un altro ; noi ne ignoriamo la cagione b
18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue per le noſtre mani medeſime il tratto . E perd
ugualmente vero , che dato quel tal moto alla mano che gli getta , dato quel
tal grado d'impeto , e non più nè meno , data la mole dei medefi mi , e il
piano ſu cui ſi aggirano , devono neceſſariamente preſentar quel tal dato nu
mero e non altro . Così dicaſi dei giochi di carte le combinazioni delle quali
dipendono dalla diverſa maniera di meſcolarle , e di dividerle alzandone una
parte di eſſe fovra il reſtante ; anzi pure non ſolo del gioco , ma dicaſi,
come ſi avvertì di tutti i contratti di azzardo , e generalmente di qualunque
evento fortuito ( a ), (a) Non ſolo ne' contratti ove ciò che ſi perde o che ſi
guadagna è riducibile ad una miſura diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente
marcati , ma anche in tutto il tenore di una vita diretta a un fine fpe rato ma
incerto ha luogo il prezzo ed il premio . Le fatiche , gl'incomodi , le
priyazioni dei piaceri formano il primo . Nella gloria , nell'autorità , negli
onori , nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo , che molte volte defrauda le
meglio fondate ſperanze , o almeno ad effe perfettamente non corriſponde; onde
può dirlig . 19 Varie ſono le ſpecie principali dei giochi di pura ſorte ,
ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il premio.O due giocatori eſpon
gono all'eſito della forte le loro reſpective porzioni di depoſito con la legge
che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il quale felice mente s'incontra prima
dell'altro in un fa vorevole accidente , che ambi ſi ſono propoſti d'incontrare
; o a quello , che in ugual nu mero di faggi, ſotto le medeſime leggi , di
pendentemente dalle medeſime condizioni , 6 2 che così in queſte ſecrete e non
ftipulate aſpettative come in quelle per cui s'inſtituiſcono e ſi celebrano i
contratti,domina ugualmente quella inſtabile divinità creata dall'ignoranza
della conneſſione delle cagioni delle coſe , e del compleſſo delle circoſtanze
necef ſarie ai fortuiti eventi , ma che in tutti i caſi ſuol chiamarſi
ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere pertinax . Biſogna
però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli attributi della fortuna
, o del caſo , quando ſono uſate dal Filoſofo , hanno un fenſo di verſo da
quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia , e il volgo che non ragiona .
<< tro , così dire nega incontra quelle combinazioni che preſen tano una maggior
ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco , e alla quale è at taccata la
vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco è tale che un ſolo dei
giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto certe condizioni ,
d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di altri ' compoſto ,
e quale non incontran do , la ſorte s'intende aver deciſo per l'al la ſperanza
di cui per tiva , non ha altro oggetto che l'eſito infe lice delle mire
dell'avverſario , non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente ve run
colpo di gioco . Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i giocatori
azzardare una egual fomma, o prezzo , altrimenti reſterebbe manifeſtamente
tolta di mezzo la neceſſaria uguaglianza . E' chiaro che allora il prezzo con
cui ſi acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell' oggetto ;
poichè il primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori e
il ſecondo è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il
totaledepoſito .Ma co me trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli
uguale a quello dei ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria ? E certamente
ſe fi conſiderino i caſi favorevoli , ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno
dei giocatori ; non ſi potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra
qualunque . E' queſta una evidente verità , ſe ben ſi conſiderino le leggi di
queſto gioco , per le quali dipendendo la ſorte di un giocatore , non dai ſuoi
colpi ſolamente ma da quelli ancora dell'avverſario , i ter mini della
proporzione ſaranno ſempre rela tivi , e per conſeguenza variabili . Eſaminata
però più maturamente la natura del gioco di cui ſi tratta , fi dee riflettere ,
che il nu mero dei caſi favorevoli a un giocatore , è compoſto non ſolo dei
caſi propizi a lui di rettamente , ma dei caſi altresì all'avverſario contrarj
; e al contrario il numero dei finiſtri , altro non è che la ſomma
degl'infauſti a lui , e dei favorevoli all'avverſario . Ma quando fi giochi con
condizioni eguali , queſte due fomme fono eguali : dunque anche in queſto 22
caſo può reſtare verificato il canone della ſtabilita proporzione , e i prezzi
ſtare fra loro come i caſi favorevoli ai finiſtri . Da ciò ne ſegue , che ſe
due giocatori proponganſi di incontrare la medeſima favo revole combinazione o
la medeſima ſomma di accidenti ; ma che uno voglia far più ſaggi del gioco , o
cercar con più mezzi quelle combinazioni che preſentino maggior ſomma degli
elementi del gioco , nella guiſa di ſopra accennata ; l'altro in tal caſo dovrà
eſami nare di quanto il numero delle combinazioni a ſe favorevoli reſti
fuperato dalle ſiniſtre , ed eligere che la porzione di depoſito dell'
avverſario ſuperi in tal proporzione quella che egli conferiſce nel gioco . Sia
concertato per eſempio , che abbia il premio del gioco quello che fa più numeri
con i dadi , ed uno voglia gettarli più volte , o in ugual numero di volte
gittarne un mag gior numero , è manifeſto , che dalla natura , e dalle leggi di
queſto gioco , ſi potrà con le note regole delle combinazioni ricavare in che proporzione
debba egli eſporre all'az 23 zardo ſomma maggiore . Che ſe poi trattiſi della
ſeconda ſpecie di ſopra accennata , che è allor.quando uno ſolo dei giocatori
ſi eſpone ad incontrare una o più favorevoli combinazioni , in un dato numero
di faggi, e ſotto certe leggi , e l'altro guadagna full infauſto eſito
dell'avverſario , ſenza tentare egli di per ſe alcuna forte di gioco , è più
difficile allora , ed è più operoſo il fiſſare gli opportuni termini della
noſtra proporzione . L'intenzione e l'oggetto dei giocatori in tal caſo può
eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione , o di eſporla diverſa . Nel
primo caſo il giocatore che intraprende , e faminata la natura del gioco , e le
leggi chę a lui propone l'avverſario , potrà ricavarne il numero dei caſi
favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni nelle quali
queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi quelle condi
zioni nelle quali , il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto quello dei
contrari , di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella dell'altro , o
al contrario . Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera che ſi ſcuopra
la faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una ſol volta ,
ſiccome ha cin que combinazioni contrarie , e una ſola fa vorevole , converrà ,
che l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore , altrimente la proporzione
reſta alterata . Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da entrambi i
giocatori , e ſi voglia più volte ricominciare , erinovare il gioco , converrà
oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero dei caſi
favorevoli , ſia uguale a quel lo dei contrarj , del che , e relativamente al
noſtro addotto caſo , e ai fimili , ne da una eſtefa tavola il gran Bernulli
alla propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti tolato ars conje
&tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta proporzione è facile
a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla prima apparenza , ſenza
internarſi profondamente nelle fue leggi . Diffi, quan do fi voglia più volte
ricominciare , e rino vare il gioco , per le ragioni addotte dal Ber nulli nel
loco citato ; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente , egli è evidente
che chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6. per eſempio , ed
azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario , do vrà chiedere di
gettare il dado tre volte ; e cid col patto che non s'intendano in queſto
numero compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima faccia del
dado già ſtata ſcoperta . Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi di più ,
e ſi conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei giocatori
, e l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione , e ſi vedrà che non
reſta punto terata la noſtra teoria , benchè coll’eſporre una determinata ſomma
ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero dei giocatori ( a )
. Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di gioco , ridurli ai ſem
plici dei quali è compoſto , ed eſaminare in ciaſcuno di effi le ſovra
ſtabilite maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a) Vedi il
Corollario del Teorema III . 26 che i vantaggi , che ha in alcuni giochi il
banchiere , per eſempio nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima
carta , ed altri che ha ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono
l'uguaglianza , perchè tur bano la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi
medeſimi nei quali il premio che dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata
dal puntatore, il numero dei caſi favorevoli al primo è maggiore del numero dei
favo revoli al ſecondo ; o in ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo
azzarda più del primo . Si pretende nonoſtante , che ſe ſi conſideri, non la
relazione che ha ciaſcun giocatore in particolare al banchiere ma bensì tutto
il ſiſtema del gioco , vi ſiano molti rifleſſi che giuſtifichino queſto
vantaggio di condizione . Una ſplendida ſomma ſottopone egli alla cie ca ſorte
, e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo . Il puntatore per lo contrario
può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa for tuna , che tenta in vano di
placare ; o aven dola provata propizia può aſſicurare i ſuoi doni dalla
capriccioſa ſua volubilità . Oltre 1 1 27 di ciò la ineguaglianza delle ſomme
eſpoſte dai vari giocatori , delle quali alcune per dendo può il banchiere
rimanere ftremo , ed eſauſto , ſenza ſperanza di tirar profitto dalla
incoſtanza della fortuna ; le altre ſe vin ce appena gli recano un tenuiſſimo
guada gno ; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere medeſimo poſſono
baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte ma del gioco . Io
preſcindo dall' eſaminare quale , e quanta conſiderazione eſigano le accennate
circoſtanze . Due coſe ſolo aſſeri ſco . E che alcune di queſte ſono quantità
non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a circoſtanze facilmente
alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par te dei puntatori
relativamente al banchiere , come par certamente debbaſi conſiderare, la
alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in iſvantaggio dei
primi , e in manifeſta utilità del ſecondo . Non voglio perd omettere , che
eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi del banchiere
per ogni pofta fem 1 28 plice , cominciando dalla ſuppoſizione che vi ſiano 52.
carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano dell'iſteſſa
figura, ſi è rilevato che la media , è il 5 . per 100. Ma in tutto un giro
quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle paci la
forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte , allora la media
diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono compenſa
zione non variano in modo da efigere que Ita differenza ( a ) . Non ſi ha
dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com
penſazione delli ſvantaggi del banchiere . Bi ſognerà dunque per ottenerla , o
fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra , e fotto de' quali non
poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta : 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile
una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di
ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno ,
onde ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo . 29 effendo un di
più della poſta medeſima, ma conoſciuto , non altererà le giuſte proporzioni
fra il prezzo ed il premio : o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra
i con tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge
leggi vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità
luſinghiera , ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure , alle dotte
occupazioni , ed al domeſtico reg gimento delle famiglie , alle quali recano sì
di frequente irreparabile ruina ; che non è già sì di rado, che una carta di
gioco , o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di
molti infelici . Si aggiunge a queſto , che la dura legge del biſogno , e la
ſevera faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno
oneſte , e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo ; talchè ſi verificano di
troppo i celebri verſi di Madama Deshouliers . Le deſir de gagner qui nuit
&jour occupe Eft un dangereux aiguillon ; 1 1 1 1 30 Souvent quoique
l'eſprit, quoique le coeur foit bon , On commence paretre dupe , On finit par
etre fripon . E quanto il gioco di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo
conoſcerà chi oſſervi le Leggi Romane al tit. De aleatoribus , e nei digeſti, e
nel codice , e legga i dotti commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà
che ſi è ſempre riguardata come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera
condizione di que gl’incauti quos praeceps alea nudat . Io però e nel gioco , e
in tutti i contratti di azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla
ſovra eſpoſta neceſſaria ugua glianza , preſcindendo affatto da qualunque
carattere che poſſa rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide
leggi , e ai retti coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti
d'azzardo , che chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri ; cinque dei quali
ſi eſtraggono da un vaſo , e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza , che
eſcano 31 dall'urna miniſtra della fortuna , azzarda una data ſomma di denaro .
Troppo ſon note le leggi di queſto contratto , e troppo è facile il conoſcerne
e combinarne gli accidenti , per poter francamente aſſerire che non vi è forſe
contratto di azzardo nel quale , e più nota bilmente e più ſolennemente la
ſtabilita pro porzione reſti alterata . Sempliciſſimi elemen ti formano il
ſiſtema di queſto contratto , e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è
baſtevole per far conoſcere , che ſebbene una tenue ſomma di denaro può
cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro , pure a fronte di un caſo favorevole ve
ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di gua
dagnare da quella di perdere , che non la ſomma azzardata dal promeſſo premio
per ricco e grande che poſſa parere . Per ſalvare la giuſtizia di queſto gioco
, non giova il dire , che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta libertà
a queſta diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella convenzione
, che ſarebbe al trimenti tanto leſiva . Queſto argomento pro * 32 verebbe
troppo in genere di contratti , e per ciò deve conſiderarſi di neſſun vigore.
Sareb be queſta maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e la
difeſa di infiniti illeciti guadagni . Oltre di ciò la maggior parte di quelli
che giocano al lotto neppure ardiſce di ſoſpet tare , che ſiavi a loro
ſvantaggio una sì di chiarata ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come
generoſa e prodiga quella mano che premia i vincitori , come ſe foſſe un
gratuito dono ciò che non è ſe non una piccola parte di un debito . Più ſolida
difeſa potrebbe recarſi riflettendo doverſi in queſto contratto dal padrone del
lotto impiegare molti miniſtri, e fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può
eſigere ragionevolmente un riſarcimento ; ma tutto ciò ancora non baſta a
rendere giuſto queſto contratto fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia
ridotto . Troppo anche più enorme era la diſugua glianza , prima che con lo
ſtabilito aumento foſſe migliorata la condizione dei giocatori ; condizione
però , che tuttora è aſſai inferio re a quella del padrone del lotto . / 33 Quì
però fa d'uopo dileguare un inganno comune a moltiſſimi che hanno le vedute
corte , e limitate dalla prima ſuperficie delle coſe . Altro è l'aſferire , che
il lotto conſide rato ſemplicemente come un contratto è in giuſto ; altro è il
dire che un Principe giuſto non poſſa ammetterlo nel ſuo ſtato , e debba
toglierlo affatto , e ſradicarlo come un mal nato germe della rovina di tanti
ſconſigliati . Il lotto può conſiderarſi come un tributo , che viene impoſto a
chi ſpontaneamente con fente di pagarlo ; cangiandoſi così in vantag gioſo al
pubblico , ciò che potrebbe eſſer tan to pernicioſo al privato . Non ſi può
deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a cercare in queſta guiſa un propizio
ſguardo della for te ; nè ſi può immaginare quanto ſia pungen . te lo ſtimolo
che ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con una tenue ſomma di denaro , che
azzardi , può guadagnare di che ſoſten tare una languente e numeroſa famiglia ,
o pur talora dilatare i confini del proprio luf ſo , o accreſcer anco tal volta
un nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri . Quindi è che tanti , e 34 tanti ſi
affollano a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati dall'idea, e ſedotti
dalla luſinga di ( a) Non può negarſi per altro , che riccome tutte le cofe
hanno un grado di valore e di eſtimazione ri Spettiva che naſce dall' uſo che
può o vuol farne chi ne è padrone : può conſiderarſi ſotto l'iſteſſo aſpetto
anche il denaro . Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal rapporto che egli
ha alla maſſa delle coſe che ſono in commercio , può dirſi che un altro egli ne
abbia privato e ſpeſſo mutabile , che naſce dalla qualità e quantità
deibiſogni, o reali , o di opinione che à nelle date particolari circoſtanze,
chi lo poſſiede; Può darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto , levato da
una gran quantità , fia una piccola por zione di eſſa , relativamente
ſuperflua; onde il ſuo valore ſia ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma
ragguardevole che rappreſenta un gran numero di comodi e di piaceri benchè
fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado di probabilità , che detto valore
nella eſtimazione di chi lo gioca ſia conſiderato come zero , o come una
quantità più o meno ad eſſo approf. fimante , formandoſi perciò , per così dire
, una nuova e riſpettiva proporzione, ſecondo la quale il vantaggio molte volte
ſarebbe dalla ſua parte . Queſto ſe non baſta , come ognun yede manifeſtamente
, a render giuſto il contratto ſerve a render qualche ragione del traſporto ,
che hanno a tentar la forte in queſto gioco tanti che pur ne fanno ben
conoſcere le condizioni , e calcolar le ſperanze . 35 quel bene che ſperano ,
non penſano a mi. ſurare i gradi della ſperanza medeſima; e il molto oro che
già poſſeggono col penſiero , getta ſugli occhi loro un lampo che abbaglia
talvolta anche il più ſaggio filoſofo , e il più freddo calcolatore. Quindi un
tale impeto non conoſce freno che poſſa reggerlo , e non legge che poſſa
vincerlo . Se un Principe tol ga dal proprio ſtato queſto oggetto dei co muni
voti , la ſconſigliata avidità ad onta delle più fagge leggi, e deludendo le
più ve glianti ſollecitudini ſi precipiterà in altri ſtati, che ſi
arricchiranno a ſpeſe di quello onde il lotto ſia proibito ed eſcluſo .
Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a queſto torrente , accid non
sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi tutto a pubblico vantaggio
, e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano follemente alla loro
avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli per il medeſimo, e
poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio , neſſun nocumento
però ne venga alla Repub blica . Così facendo il faggio Principe , e non 1 36
fi attira la taccia di ingiuſto , e merita tutta la lode di prudente , di
politico , di difenſore e cuſtode della pubblica felicità . Di queſta verità ne
conoſcono per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial maniera quei
popoli , che hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani e benefici,
che per l'uſo che fanno del loro erario , anzichè pof ſeſſori , ſe ne moſtrano
piuttoſto amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio . Havvi un'altra
ſpecie di lotti nei quali non è un ſolo il premio , nè un ſolo il colpo fa
vorevole della forte , ma molti ſono i premi , come molti e vari i caſi propizi
; e ſecondo l'ordine dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na , o ſecondo altre
leggi convenute in pri ma ſi decide del maggiore , o minor premio . Tale è il
lotto che ſi è fatto in Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia , nella
quale occaſione ſiccome ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità , e penetrazione
di ſpirito di chi ha ideato il progetto della grand'ope ſi è diſtinta non meno
la finezza , e il di ſcernimento di chi ha regolato il metodo di ra ; . 2 37
accumulare le gravi ſomme di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo diſpendio .
In queſto contratto come nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare , che varie
ſono le ſperanze e molte , perchè vari e molti ſono i premi , e che la ſomma di
tutti reſta come venduta a quelli che hanno comprati i viglietti . Sicco me
queſti hanno sborſato un ugual prezzo , così devono avere fra loro ugual numero
di caſi favorevoli e finiftri relativamente ai di verſi, o maggiori o minori
premi ; quali eſſendo per lo più vitalizj, l'uguaglianza fra gli azionarj e il
padron dell'impreſa dipen de dalle regole , ſecondo le quali ſi ſtabiliſce la
giuſtiza dei vitalizj . Ma non ſi troverà mai eſatta queſta uguaglianza ,
poichè una parte notabile del denaro che contribuiſcono gli azionarj , non già
nel numero o nel valore dei premi ſi impiega , ma ſi deſtina alle ſpeſe delle
ideate opere ſontuoſe . In queſto di Murcia però così ſono ſtati bilanciati i
di ritti degli azzionarj , e ſono ſtati così grada tamente formati i premi , e
in tal numero , e così bene è ſtata regolata l'economia di 38 1 1 queſta sì
grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato mai un'altro lotto , in cui ſiaſi
nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma ne ceſſaria alla deſtinata opera ,
e ſia ſtata me no alterata la proporzione a ſvantaggio de gli azzionarj. Troppo
ſon note le lotterie , che con al tro nome chiamanſi dai Franceſi Blanques
perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le qualità , e i caratteri di tale
contrat to . Dall'economo del gioco ſi mette in un vaſo un certo numero di
viglietti , dei quali alcuni ſon bianchi ed altri neri , e ſi vende il diritto
di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo eſtraſſe il guadagno di un
premio del valore che è notato ful viglietto medefimo . Ognun vede , che accið
ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla regola mede ſima, che ſi è data pei
lotti che ſi fanno per grandioſe opere pubbliche, avuta anche quì in
conſiderazione la fatica , e il diſpendio dell'economo del gioco , e
riflettendo che in queſto caſo i premi non ſono vitalizj. Queſto è un contratto
della natura di quello che dai 39 Latini chiamavaſi olla fortunae . In fimil
guiſa Auguſto dilettavaſi al riferir di Svetonio di compartir doni ai ſuoi
cortigiani, chiaman do così la forte ad eſſer miniſtra della ſua beneficenza .
Talora un ſolo è il premio che ſi diſputa fra quelli che giocano alla lotteria
, e allora ſe il premio non è denaro ma un altra coſa qualunque che abbia
prezzo , ſi giuſtifica più facilmente, giuſta l'opinione del Barbeirac , la
notata diſuguaglianza : e l'economo del gioco può vendere non ſolo tanti
viglietti quanti corriſpondono al valore del premio , ma ancora in maggior
numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera ſua , e il diſpendio ,
quando ve n'abbia . Queſti lotti fi riducono , dice il citato au tore ad una
ſpecie di compra , che ſi fa in comune , a condizione che la ſorte decida a chi
debba appartenere la coſa comprata . Se ſiavi adunque dell'alterazione nella
propor zione , ſi potrà conſiderare come ſe fi foſſe comprata la coſa ad un
prezzo un poco più alto del corrente ; penſando che ciaſcuno tra 40 1 ! fcuri queſto
di più che in altra fpecie di con tratto gli parrebbe forſe notabile, ſulla ſpe
ranza di guadagnare il premio più o meno fondata a proporzione che uno ha
comprata maggiore , o minor quantità di viglietti . Queſta mallima, che non è
certamente di ri goroſa giuſtizia , non ſi potrebbe eſtendere perfettamente a
quei lotti nei quali , e molti e di vario prezzo ſono i viglierti, e molti e di
vario valore i premi ; a tutti quelli in ſomma, nei quali non ſia aſſolutamente
u guale la condizione dei ſingoli poſſeſſori di ciaſcun viglietto , benchè lo
ſia riſpettiva mente . Prima di paſſare ad altri contratti giovami riflettere ,
che anche quando il padron del gioco , o qualunque altro che ne abbia di ritto
pretende , che ſiano valutate le ſue fa tiche e il ſuo difpendio , non tanto ſi
può dire che v'intervenga una compenſazione ; quanto che ſi verifica di fatto a
tutto rigore la noſtra proporzione , giacchè quel di più che fi paga , non è a
titolo di compra della ſperanza , ma bensì a titolo dell'altrui di 41 ſpendio ,
e fatica ; e per conſeguenza eſſendo una quantità eſtranea alla detta
proporzione non la può in verun modo alterare . Si poſſono ridurre ad un
contratto d'az zardo appartenente a queſta claſſe le ſorti ancora propriamente
dette . La ſorte, dice l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria degl'ora coli , è
l'effetto dell'azzardo , e come la deci fione , o l'oracolo della fortuna ; ma
le ſorti fono gli ſtrumenti di cui uno pud valerſi per ſapere qual ſia queſta
deciſione . Le ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più antichi popoli ; e la forte
s'interrogava , o col gettare i dadi colle proprie mani, o col gettarli da un
urna : e ai caratteri , ed alle parole che ſu i dadi erano ſegnate,
corriſpondevano alcune tavole che ne contenevano la ſpiegazione. Altre molte erano
le maniere di tentare la ſorte , e di a ſcoltarne gli oracoli . E' incredibile
poi quan iti , e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di queſta cieca
divinità . Baſta leggere gli autori che trattano dei voti che ſi offe rivano a
Preneſte , e ad Anzio , e che parlano diffuſamente delle forti Omeriche , e
Virgi 41 liane . I verſi dell'immortale Epico Greco , nei quali dipinge con sì
vivi tratti l'impeto , e il furore dell'indomito Achille , ritrovati a caſo
nell'aprire l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione della rovina
delle più floride città , e della deſolazione d'intiere Provincie. E ſe per lo
contrario , aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli amabili
colori coi quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d' Anchiſe ,
gli animi tutti non reſpiravan che pace , e quei pochi verſi baſtavano per dar
fine alle guerre più ſanguinoſe . Aleſſandro Severo , ſalito al foglio dei Ce
fari , credette di averne avuto un preſagio , quando privato ancora , anzi
odioſo all'Im peratore Eliogabalo , aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di
Virgilio , s'incontrò in quel tratto , ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e
piange i'immatura morte di Marcel lo , e preciſamente gli ſi preſentarono
quelle parole fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris . Ma io non parlo
propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei
monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa . Io quì parlo delle ſorti, che
chiamanlı elettive , diviſorie , attributorie , e ſimili delle quali brevemente
eſporrò la natura e le qua lità , ed applicherò alle medeſime i più volte
enunciati Teoremi . Due , o più perſone han diritto ad una coſa medeſima;
eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non vogliono gettare ,
nè tempo , nè denaro in ſuſcitare queſtioni ; aſcoltano anzi ſentimenti più
miti , e commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè affidarlo
alle lun ghe , e diſaſtroſe vie dei Tribunali . Conſe gnano i loro nomi
all'urna diſpenſatrice della forte , e quello è giudicato favorito dalla me
deſima, del quale vien eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico , e ſolo
padrone di quella coſa alla quale avea con gli altri ugual diritto . Che ſia
lecito commettere in talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non
v'ha dubbio alcuno , giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi
ſotto una condizione tale , che il purificarſi la mede fima dipenda
dall'incerto , e vario evento della forte . Ora ſe i diritti ſono uguali , ſe
quanti fono i concorrenti tanti ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna , ecco
che i prezzi che vengono rappreſentati dai diritti che ſi az zardano , ſtaran
fra loro come i numeri dei caſi favorevoli ad uno , al numero dei caſi
favorevoli a ciaſcuno degli altri riſpettiva mente ; ed ecco ſalvata
l'uguaglianza di pro porzione fra i favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i
riſpettivi prezzi della ſperanza , la ſomma dei quali è l'oggetto della
medeſima nel caſo di cui ſi tratta . L'iſteſſo può dirſi a proporzione , quando
uno abbia un diritto , per eſempio doppio di quello degli altri ; e baſterà che
in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome all' urna fata le ; e così dicaſi
di altri ſimili caſi . E di fatto queſto contratto a farne una giuſta analiſi
ſi riduce ad un gioco di pura forte, in cui molti depoſitando ugual por zione
un ſolo guadagna tutte le porzioni de poſitate, del quale ſi è di ſopra parlato
; e ſi 45 è detto , che uno depoſitando maggior por zione , pud eſigere a
proporzione condizioni più vantaggioſe . L'iſteſſe maſſime regolar denno le
ſorti elettive che ſi uſano , quando molti avendo un privato diritto ad eſſere
eletti a qualche onorifica o autorevole dignità, troncano ogni ſorgente di
diſcordanza col tentare la forte , L'iſteſſo dicaſi delle ſorti diviſorie, e di
quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap poggiano ai medeſimi
fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la proporzione che coſtituiſce
l'uguaglianza fra i contraenti , Fin quì fi è parlato di quei contratti che
alla prima delle ſopra indicate claſſi appar tengono . In effi fra la ſperanza
che ſi acqui ſta , e il prezzo con cui ſi acquiſta ſi può fif fare un eſatta ,
inalterabile , e matematica proporzione. Note fono tutte le cagioni che poſſono
aver rapporto al favorevole o triſto evento della ſorte , ſi conoſcono tutti
gli ele menti dei quali ſi formano le varie combi nazioni, e ſi fanno
perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo dei quali queſte fi forma no .
E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa applicare lo ſpiritoſo Emblema
del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota della fortuna, e ſopra di eſla una
ſemicirconferen za di cerchio , che con le ſue diviſioni ſerve a regolare quei
capriccioſi giri , che ſono l'og getto di tanti voti, e la cagione di tante vi
cende dei mortali . Chi intraprende queſti contratti pud , direi quafi, venire
alle preſe con la ſorte , e conoſcendone la forza e l'ar mi bilanciare il
deſtino della lotta fatale . Non è così certamente nei contratti che alla
ſeconda claſſe ſi riferiſcono , ne' quali il rapporto neceſſario a formare
l'uguaglianza fra i contraenti , ſi appoggia alla ſola ſperien za del paſſato,
e a cagioni incerte , e varia : biliffime. lo ſo bene che ſi ſono pur trovati
dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe . La prima, che nelle umane
vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono fortunoſi e
irregolari, ſiavi un ordine coſtante , eun'originale diſegno per cui dirette da
una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate leggi, eſcano a
ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del Mondo . La ſeconda ,
che l'irregolarità , che non agli eventi medeſimi e alle vicende , ma alle
noſtre cortę vedute deveſi attribuire , ſcom parirà finalmente , e replicate
l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita , e ſi
conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che
regolano con sì bella armonia l'intero univerſo . Da queſte due propoſizioni
argomentano , che dunque dopo un dato tempo , ſiccome cre ſcendo il numero delle
ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un
evento , che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la
regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza .
Ecco ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni Filoſofi, alla teſta dei
quali è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi
penetrali l'ordine della natura , e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto ,
che non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i
rego lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo . Egli è
veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel
grande impulſo , che poi la mantiene in moto coſtantemente , e dal quale come
da prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima , benchè
immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono , e
le dan forza . Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa
per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano
di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele . Le grandi vedute di un
politico illumi nato , che formano il ſoſtegno e la forza del Trono , non ſono
agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute
cure di un ſelvaggio , dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita , e a
difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni . Che poi l'Eterna mente che tutto sà e
49 za , o del tutto regola , abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono
la ſerie delle umane vicende , e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo
fortunoſi ſiavi un rapporto più che un altro , un tal'ordine e non un altro ,
queſto è quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai . Che dopo un certo
periodo ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento , chedopo certe rivoluzioni
torni l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della
fapien potere eterno , e ſovrano ? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers
dono le idee , che noi abbiamo di ordine , e conneſſione . O non vi è
relativamente agli occhi divini ordine e regola ; o non potiam noi conoſcere in
che conſiſta ; o tutto deve dirſi averla ugualmente . Chi vede inſieme col
preſente ſiſtema di coſe infiniti altri pof fibili , vede un punto che non è
ſuſcettibile di quei rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e
finite ; o ne vede infiniti altri , per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi
parer regolato tutto ciò che noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione, d
50 Ma non è forſe neppur vero eſſere più van taggioſo all'uomo che ſiavi di
fatto nelle umane vicende queſta regolarità . Fra le infinite vedute , che
l'occhio im menſo ha preſenti per il vantaggio delle ſue creature , chi ſaprà
dire quale abbia fillata a preferenza dell'altre ? Se un Sovrano cela ai ſuoi
popoli i diſegni che forma, e le impreſe che và maturando, queſta condotta è
diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione , e ad allontanarne l'orgoglio : e
ſe un padre , ben chè benefico fa l'iſteſſo co'propri figli, non lo fa ad altro
oggetto , che ad animarne la cieca confidenza che è uno dei più vivaci alimenti
di un reciproco amore . Non vi è dunque argomento che comprovi queſta preteſa
regolarità degli eventi che ſi fogliono chiamare fortuiti , e caſuali. Ma ſe ancor
foſſevi, io ben non veggo ſu che fondamento ſi aſſeriſca , che agli occhi
mortali eziandío dovrà una volta comparir chiara , e ſvanire per conſeguenza
quella ap parente irregolarità che alla ſcarſezza delle noſtre notizie , e alla
mancanza di eſperien ze , in tale ipoteſi deveſi attribuire . SI Quando ſi vuol
fiſſare la contingibilità di un evento , oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei
compariſce , le circoſtanze che lo accom pagnano , e l'intervallo di tempo che
paſſa fra le diverſe ſue apparizioni . Quanto più creſceranno di numero le
oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in quali circoſtanze ed in qual tempo
debba arrivare . Da queſto ap punto argomentano gl ' indicati filoſofi, che
ciaſcuna ofſervazione è diretta a ſcemare un grado della diſtanza che corre
fralla irrego larità dipendente a ſenſo loro dalle noſtre corte vedute , e la
regolarità che eſiſte di fatti nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u
niſce ſotto certe leggi tutte le varie vicende . Replicando adunque le
eſperienze , rinovan do le offervazioni, ſi potrà arrivare a render nulla
affatto queſta diſtanza ; e a ſquarciare del tutto quel velo che cela ai noſtri
occhi queſta bella regolarità . Di fatto ſoggiungono , che altro è la cer tezza
ſe non un tutto di cui la probabilità è una parte ? Creſcendo adunque queſta
per mezzo delle oſſervazioni, potrà arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col
ſuo tutto : ed ecco fiſſata la certezza di quegli eventi , che ſi fo no ſempre
creduti giochi , e capricci di una irregolare fortuna . E' egli per altro
evidente queſto diſcorſo ? Potrebb'egli un animo , che non voglia ar renderſi
ad altra forza , che a quella della ve rità , dubitare ancora di ciò medeſimo
che uomini di grande ingegno hanno tenuto per certo ? E prima di tutto nel
formare la tavola dei tempi nei quali ricompariſce l'evento medeſimo , convien
riflettere di non notare ſe non quelle volte , nelle quali ſi moſtra ri veſtito
delle medeſime circoſtanze . Se così è , e ſe queſte ſono preſſo che infinite ,
e in finitamente variabili , ne verrà per conſeguen za che quella rivoluzione
che dee ricondur l'iſteſſo evento farà sì vaſta , e il circolo che la
rappreſenta sì ampio , che o non ſi potran no da chi oſſerva congiungere
oſſervazioni sì diſparate e rimote , o sì poche ſe ne po tranno fare , e la
probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai arrivare al 53 grado
di confonderſi con la certezza . Tra= laſcio di oſſervare che un evento può com
parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed eſſervi nulladimeno
tanta va rietà , che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa rebbe sì che a
tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni, dovrebbeſi ri
chiamare . Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti eventi che fortuiti
chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire , e queſte in quante maniere
poſſano combi narſi ; e vedremo , ſe per quante ſi vogliano replicate ſperienze
ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle circoſtanze che altre volte fi
videro accompagnare un evento , la eſiſtenza del medeſimo . Quelle ragioni
medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi fortuiti hanno
conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote , che innumerabili ſono
ancor eſſe , e capaci di innumerabili gradi di alte razione . E quì potrei
ricorrere a tante fiſiche teorie , le quali dimoſtrano , che un gran fe nomeno
può avere la ſua prima ſorgente , tam 54 lora sì rimota che per infiniti giri ,
e tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare ; talvolta sì piccola , che dopo
averla conoſciuta , ap pena ſi può credere che da eſſa derivi . E la ragione ,
e la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al pen fiero
l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di
offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me , ( ſe vogliano
porſi in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono , è relative ad oggetti
ſimili ) e l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità . Di
quì deriva , che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima , che la
probabilità di queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza . E
quì fa d'uopo riflettere , che la proba bilità , e la certezza ſono due atti
eſſenzial mente fra loro diverſi , come dicono i meta fiſici, e che fralla
maſſima probabilità che arrivi un evento , e la certezza , vi è di mez zo una
ſerie infinita di poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la
maſſiına pro . 55 babilità e viene eſcluſo dalla minima cer tezza , è una
barriera inſuperabile, per cui non ſi poſſono giammai fra loro confon dere , ed
è quello appunto che le rende ( ſia mi lecito uſare un termine di matematica
trattando di una materia nella quale ſe n'è fatto uſo con tanto profitto )
quantità in commenſurabili . Le prime oſſervazioni che fi fanno intorno a un
determinato evento , non poſſono dargli che un grado di pro babilità così
piccolo riſpetto al vortice im menſo della irregolarità , e all' infinita ſe
rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di verſi , che queſto grado pud
conſiderarſi co me un infiniteſimo . Siccome adunque per trasformare un
infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto moltiplicare per l'in finito
, così queſto grado di probabilità do vrebbe ricevere infiniti aumenti per
mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi poſſa chiamare ridotto al
carattere della cer tezza . Parlo di caſi nei quali la ſerie dei poſſibili, che
è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza , è compoſta di cauſe , che
ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere , e poterſi in infinite maniere
combinare . Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render certe , o almeno
eſcludenti un pru dente dubbio , alcune ſempliciſſime leggi della natura , dove
tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre cagioni poſſibili , che
anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi deduce non eſſervi luogo
a ſoſpettare che altre ve ne ſiano . E' ben diverſo il caſo noftro ove trattaſi
degli eventi che danno occaſione ai contratti di azzardo ; e riguardo a quali
ſi pretende ſolo di mettere in diffidenza la maſſima che promette che ſi abbia a
cangiare in una aſſo luta e rigoroſa certezza , quella che è mera probabilità ,
e forſe capace di creſcer ſolo pochi gradi . Che non pud fare l'amor di ſiſtema
? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a portar lume ai più aſtruſi miſteri della
geometria , e ad ana lizzare le coſtanti leggi della natura col più felice
ſucceſſo , ſi lancia ardito dal gabinetto $ 7 di un filoſofo , e prefume di
porre in mano ai mortali un filo che ſegni la traccia co ſtante degli eventi
più incerti , e di aſſoggets tare alla ſua eſattezza ed uniformità , quan to
v'ha di più vario , e mutabile . Non ſolo hanno cercato alcuni di ſcoprire
un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne riſpettato dai morbi , e dalla
ineſorabil morte ; ma hanno fperato di poterlo tro vare anche in quegli eventi
che più dipen dono da cauſe morali e libere , le quali agi ſcono certamente ,
non perchè così voglia un ordine e non un'altro , ma perchè così vo glion eſſe
, e non altrimenti . Si è perfino tro vato chi ha propoſto le tavole
degl'incendii , delle cadute fatali da un precipizio , e di molti altri ſimili
fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in eſſi a ſuo tempo
regola , ed ordine . Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi fiche cauſe
trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie concatenate , in
guiſa che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che un'altro ; non
ſi potrà mai dire 1 1 . $$ altrettanto quando vi abbia luogo una libera volontà
che non ſiegue ordine , o conneſ fione , e che può produrre un'atto ſenza rap
porto a verun' altro che abbia altre volte prodotto , o che ſia per produrre in
appreſſo . E ſe è vero , che negli eventi , e nei caſi preſi in compleſſo di
tutte le loro circoſtanze , e in quelli ſpecialmente che ſono il ſoggetto dei
contratti di cui parliamo , qualche o più proſſima, o più rimota influenza vi
hanno le cauſe morali ; che ſi può egli penſare di più ſtravagante che il
volergli ridurre eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro babilità
in certezza ? E chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e confuſe
foglie , che contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer
dotella di Cuma ? Ma quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero
l'impoſſibilità di arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in
qualche certezza la probabilità, pro vano almeno , che per noi , e per ben mol
te generazioni queſta farà una ſterile ricer 59 ca ; giacchè per molti , e
molti ſecoli, ( ac cordando anche più di quello certamente , che ſi può ) non
ſi potrà vincere quel diſordi ne , e irregolarità almeno apparente , che of
ſervaſi nelle umane vicende , e che in ſomma il limite delle medeſime è tanto
diſcoſto , che pud conſiderarſi come infinitamente diſtante . Dal fin quì detto
per altro non ſi può ra gionevolmente inferire , che dunque dal com mercio
degli uomini ſi debbano eſcludere i contratti di azzardo che appartengono alla
ſeconda delle ſopra indicate clafli . Per provare la verità di queſta
aſſerzione convien fiſſare due maſſime conformi alla ragione , e che ſe non
erro ſono il fonda mento al quale ſi appoggia la giuſtizia di queſti contratti.
Queſta uguaglianza fra i contraenti che è sì neceſſaria a render giuſti i
contratti è un termine vago , e che non ha affiffa alcuna idea , ſe allo ſtato
di natura vogliam rimon tare . Il prezzo delle coſe introdotto o dalla legge ,
o dalla conſuetudine che imitatrice della legge la vince di autorità , ecco ciò
che 60 ha chiamata l' uguaglianza a preſiedere ai contratti . Alla ſocietà
dunque , e alle fire maſſime deveſi attribuire . Si eſamini pero lo ſpirito
della ſocietà, e ſi vedrà che nelle ſue maſſime generali non ſi devono
comprendere quei caſi che è dello ſpirito della medeſima l'eſcludergli, e l'
eccettuarli . Si riduce al lora la queſtione, ad eſaminare ſe ſiano utili alla
ſocietà i contratti in queſtione; e ſe nelle bilance del pubblico bene ſia di
maggior mo mento il vantaggio che recano , o la preciſa offervanza di quella
perfetta uguaglianza ne contratti, che è tanto neceſſaria generalmen te alla
quiete , e felicità degli individui , e al buon ſiſtema, e conſervazione di
queſto cor po morale , e politico . Pochi elementi , e poche idee ſciolgono il
problema . Induſtria eccitata , commercio invigorito , circolazione ampliata .
Vantaggi fono queſti generalmente procurati da tali contratti ben regolati ,
come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo ſpirito , e le conſeguenze .
Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo rifleflo . In queſti
contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta ugua glianza di
condizione , perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro forte . Ma ciò che
manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi . Ad entrambi è egualme ite
i gnoto per chi debba eſſere il vantaggio , e per chi il diſcapito , potendo
ugualmente nel caſo noſtro , e l'uno , e l'altro a ciaſcun di loro arrivare ; e
queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale , la quale pud ſupplire a
quanto manca alla perfetta uguaglianza . Diſli alla perfetta uguaglianza ,
perchè le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate , vacil lano ſoltanto , perchè
oltrepaſſano certi li miti , dentro dei quali rinchiuſe provano moltiſſimo,
rapporto alla uguaglianza che deve eſſere nei contratti della ſeconda claſſe .
Inteſe le maſſime con la dovuta moderazio ne , è veriſſimo che eſtraendo da
un'urna ove ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti neri , quante
più eſtrazioni fi anderan no facendo , tanto più creſcerà la conoſcen za del
rapporto che hanno fra loro : è verif fimo che le oſſervazioni ſegnate in
tavole danno ai giovani la prudenza dei vecchi : ed è incontraſtabile che
quanto più ſpeſſo ac caderà in natura un evento , tanto più ſi po tranno
attrappare le circoſtanze che lo ac compagnano , e farà meno irragionevole l'in
duzione che dalla eſiſtenza di queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello
. Si potrà dun que avere un qualche dato per eſaminare la probabilità di
un'evento , e proporzionargli il prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza .
Per formare una ſerie dei diverſi gradi di tale probabilità gioverà eſaminare
un qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte ;
poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una giuſta analiſi, o alme no
egualmente chiara , ſe fi conſideraſſero le idee in aſtratto , e ſenza
applicarle ad un de terminato ſoggetto . Fra tutti i contratti che ridur ſi
poſſono a queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente
eſaminata l'aſſicurazione , Efla è un contratto per cui uno dei contraenti ſi
obbliga a riparare tutti i danni che può un 63 . altro ſoffrire nelle ſue merci
per naufragio , o altre convenute cagioni ; e queſti ſi obbli ga a pagarli una
determinata mercede in com penſo del pericolo al quale volontariamente ſi
eſpone. 1 Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio per tutto il Levante
aveano fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di lo devole induſtria,
e fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno ſtato , e che fu ſempre
del loro carattere , furon quelli che riduſſero a certe leggi queſto contratto,
e gli diedero for ma e credito . Inſegnarono così alle altre na zioni
commercianti a tirarne quel profitto , che il profondo , ed illuminato Melon
aſſe riſce dover eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di eſperti, ed
avveduti aſſicuratori. Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb bonſi i primi
capitoli di aſſicurazione che furono diſteſi negli anni 1523. , e 1525. A
queſti ſucceſſero negli anni 1563. , e 1570. le ordinazioni di Olanda . Non è
ſtata queſta l'unica occafionein cui abbiano, gareggiato in fatto di commercio
64 queſte due nazioni , la prima delle quali ha faputo ſempre profittar
pienamente delle fe lici fue circoſtanze , e la ſeconda compenſare ognora in
mille modi i danni della infelice ſua ſituazione; e inſultar quaſi alla natura
di ayerla in eſſa collocata . Gli ſcrittori che hanno trattato di queſto
contratto lo diſtinguono in due ſpecie. La prima chiamano eſſi aſſicurazione
propria mente detta , ed è quando le merci che ne ſono l'oggetto appartengono
di fatto a quello che ne chiede l'aſſicurazione ; e queſto è ciò che intendono
ſotto il nome di riſico dell' aſſicurato ; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog
gette a pericolo , o com'eſſi dicono a ſiniſtro . Per la validità di queſto
contratto ricercaſi la coeſiſtenza del riſico , e del ſiniſtro ; ed è quanto dire
, che l'aſſicuratore non deve pa gare la ſicurtà , nè l'aſſicurato la mercede ,
ſe le merci avean corſo già il loro deſtino quan do fi ftipulò il contratto , o
ſe non apparten gono all'aſſicurato . Per maggior comodo poi , e dilatazione di
commercio fu introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle merci o proprie
, ma non nella ſomma che ſi afferiſce , e che cade ſotto l'aſſi curazione : o
appartenenti affatto ad altra perſona . In queſto contratto il fondamento
conſiſte nella fola eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo ravviſare
un'apparenza di Scommeſſa della quale però gli mancano ſe condo molti , alcuni
caratteri . Anche in queſta ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le merci
ſiano in pericolo ancora quando ſi fa il contratto ; benchè in alcune piazze ſi
ſoſtenga anche nel caſo che le merci aveſſero già corſa la loro forte quando ſi
ſti puld il contratto , purchè però queſto non foſſe a notizia dei contraenti .
Per ridurre pertanto in qualche vero ſenſo il contratto di aſſicurazione alla
Teoria ſopra eſpoſta regolatrice della uguaglianza neceſ faria nei contratti di
azzardo , fa d'uopo con ſiderare due fatta di caufe che influir poſſono
full'evento incerto , che ne forma l'oggetto . Altre ſono le cauſe fiſiche che
per un puro meccanico impulſo della materia agiſcono in dipendentemente da
qualunque libera deter 66 minazione di una cauſa ſeconda ; il mare cioè più o
meno ſparſo di pericoli , agitato da vortici , terribile per gli ſcogli ; il
vento che tormenta più un ſeno di mare che un altro , e domina più in una
ſtagione, che in un altra ; la qualità del naviglio , più o me no capace di
reſiſtere agli urti , e di inſul tare gli Aquiloni ; e finili altre che a que
ſte ridur ſi ponno , anzi con queſte confon derſi . Più incerte affai, e più indocili
all'eſat tezza del calcolo ſono quelle cagioni che mo rali ſi chiamano , perchè
o conſiſtenti nella libera determinazione di un ente creato , o da quella
dipendenti almeno mediatamente . La deſtrezza, e la buona fede del capitano :
l'abilità dei marinari e dei piloti : il nume ro , e la gagliardìa
dell'equipaggio : la mag giore o minor frequenza dei pirati che infi diano
fraudolenti, e poi attaccano rapaci ; o dei nemici armatori che appoggiano le
fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti della guerra , ſono o le
uniche , o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali . 67 i Se il fondare un
calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è impoſſibile: il fondarlo che
ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo : lo ſarà molto più l'appoggiarlo alle
cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione di mo vimenti , e d'impulſi
che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che operano per una mera
libera determinazione , che per qualunque congettura la più apparentemente
probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul momento abbandonarſi
, per cangiarla in una affatto diverſa , e talora dia metralmente oppoſta, e
contraria . Un canone perd univerſaliſſimo, e da non preterirſi giammai in
queſto contratto , parmi quello di non conſiderare neſſuna cauſa , o fiſica , o
morale , ſeparatamente o iſolata dalle altre ; ma di oſſervare l'influenza reci
proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra , e quella non meno che
hanno ſulle morali ; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto alle fiſiche . Il
momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente è combi nata , o
temperata colle altre . e 2 68 Per conoſcere però quanto poſſano queſte cagioni
, e ſingolarmente preſe , e in complef ſo , è neceſſaria una lunga ſperienza .
In queſto contratto , per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte quelle
combinazioni , che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore , e perder la
nave , nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili violenze
, la confe gnano al ſoſpirato porto . Fatta una tavola di accurate , e
frequenti oſſervazioni , e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze
ſiaſi perduta la nave , e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine
; la ſomma delle prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri ; e quella delle
ſe conde ſi tiene per il numero dei favorevoli ; e ſu queſti dati ſi forma la
proporzione da noi ſtabilita nel III. Teorema . Queſta è la ſpecifica
differenza che paſſa fra i contratti del primo genere , e queſti che al ſecondo
appartengono . Nei primi entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e
fini ſtri, e favorevoli, perchè ſi fanno tutti , e ſe ne conoſce perfettamente
il numero ; noi 1 69 ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto , che dopo una lunga
ſperienza ſi ſono oſſervati ; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri
pof ſibili , i quali perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in
proporzione di no tati . La proporzione ſi accoſta tanto più al vero , quanti
più ſono i caſi oſſervati, come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto
numero di palle bianche e nere : delle quali con tanto minor pericolo di errore
ſi può fiffare la proporzione , quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione.
In una parola , nei primi è incerto l'eſito della ſorte ; nei ſecondi è incerto
anche ciò che può determinarlo . Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti
perfettamente delle medefine circoſtanze . Fa d'uopo adunque per formare la
propor zione ricorrere alle diverſe tavole , ove ſono notate le circoſtanze
preſe ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti
i dati della proporzione . Scioglie una nave dal Porto , e veleggia per un mare
tranquillo , e placido ; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70
zione da ſtabilirſi fra il valor delle merci , e il prezzo dell'aſſicurazione;
e la tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma
fe queſta nave corra un pericolo di pirati , o di nemici che le altre navi
facendo il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai , nel formare la
proporzione vi entra anche queſto elemento , la di cui forza ſi miſura dalla
tavola di altre naviga zioni benchè fatte in altri mari , e ſi compone il minor
pericolo che ha queſta veleggiando per un mare tranquillo ; col pericolo che
cor ſer altre per la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle
proporzioni com poſte di varj elementi , il valor dei quali ſia regiſtrato in
diverſe tavole , non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano
dalla reciproca loro influenza . Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza
baſtante a far conoſcere i gradi di probabi lità dell'eſito lieto , o infauſto
. Monta per la prima volta un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti
governato naviglio alcuno: infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati
da qualche ſcoglio che alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità
e dei quali ignoraſi per anco il numero , ed il valore , o a meglio dire la
violenza della eſecrabile loro ſete dell'oro e del ſangue ; chi potrà miſurare
i gradi dell'influenza che ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del
primo , e ſull’infauſto l'ardire , e la forza dei ſecondi ? In tal caſo per
quanto vogliaſi dare un va lore anche a queſte circoſtanze nuove ; fon dandolo
ſu qualche piuttoſto appreſa , che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è
certo però che ſenza una più volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una
propor zione di cui ſi calcolino i gradi , e ſi nume rino i valori ; e ſenza di
eſſa non ſi può for mare una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza
ricercata in tali contratti. Tutto alla fine ci conduce a riflettere , che una
e fatta proporzione nei contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai ;
che in molti caſi ſi potrà avere meño lontana dall' eſattezza ; in altri ſi
troverà dalla medeſima 72 più rimota , come dal fin qui detto chiara mente
appariſce . Ma forſe gli aſſicuratori interrogano que ſte tavole , formano
calcoli , e ſciolgon pro blemi ? Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai
loro principi eſamina le azioni degli uomini e le bilancia , conoſce che queſti
cal coli ſono neceſſarj a ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che
queſta tanto più ſi otterrà facilmente , quanto più ſiano frequenti queſte
tavole , e numeroſi i caſi che ad eſſe , come a indicatrici della ſorte ſono af
fidati; l'aſſicuratore poi accorto ed illumi nato le conſulta , o le deſidera ;
l'indotto , e meno avveduto ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore , o
minor frequenza de' fini ſtri nelle date circoſtanze ſeguiti , e ſu queſto
implicito calcolo forma il ſuo giudicio più o meno eſatto , e non ſi affida
totalmente alla cieca all'arbitrio dell'incerta forte . In queſto contratto il
prezzo che eſpone l'aſſicuratore , è il valore delle merci , che egli ſi mette in
azzardo di dover pagare all' aſſicurato ; quello dell'aſſicurato è la merce: 1
73 de che egli paga all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo .
Ma ſiccome fatto il contratto di aſſicura zione , l'aſſicurato deve in
qualunque evento pagare all'aſſicuratore la convenuta merce de , pare a prima
viſta che per l'aſſicurato non ſiavi azzardo alcuno ; poichè dal punto dello
ſtabilito contratto è deciſa la ſua forte ; o a dir meglio riguardo a lui nel
ſuo con tratto non ha luogo alcuno la forte . Baſta però una giuſta rifleſſione
ſulla natura di tal contratto , per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è
l'eſito favorevole della ſorte ſicco meancora l'infauſto . Caſo favorevole può
chiamarſi quello che rende il contraente pago , e contento di aver fatto il
contratto ; talmente che ſe aveſſe pre veduto l'eſito , conſultando ſolo il ſuo
van taggio , l'avrebbe nonoſtante fatto , anzi con tanto maggiore alacrità .
Per lo contrario infauſto può dirſi quello che in qualche modo gli dà occaſione
di pentimento , in guiſa che ſe aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare
il contratto. Ora quantunque 74 l'aſſicurato , fatto il contratto ſia già
ſicuro di dover pagare la mercede , qualunque ſia l'evento ; quando però la
nave giunga a ſal vamento , è in caſo di pentirſi del ſuo con tratto ; poichè
ſe non lo aveſſe fatto , e avreb be avuta ſalva la nave , e non avrebbe fof
ferto il diſpendio della ſtabilita mercede . In queſto ſolo ſenſo , e non in
altro , che ſareb be troppo contrario all'umanità , poichè ſi riſolverebbe in
compiacerſi dell'altrui dan no , che neppur ridonda in proprio vantaggio , ſi
pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del ſalvamento della nave ; e
in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere di una vera ſcommeſſa , di
cui è eſſenziale ſe condo alcuni , che l'avvenimento favorevole ad uno dei
contraenti , ſia per l'altro infau ſto , e ſiniſtro . Conchiuſo il contratto ,
l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità , deſi dera che ſi falvi la nave ,
ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto . Quello che non ſi può
in modo alcuno ri durre a calcolo , ſi è nella perdita di una na ve , la
minore, o maggior quantità di merci , ! 75 che ritoglier ſi potranno
all'ingordigia dell onde , e ritrarre al lido ; lo che ſuccede mol te volte , e
fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere egualmente
dannoſo ; ma diverſi , a miſura , che più o meno delle aſſicurate merci , ſi
perde , e ro vinafi . Il poter prevedere , e calcolare in a vanti tal quantità
influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te . Ma chi
potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile
ac cidente ? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di
combinazioni ; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore ? I principj
fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto , quando ha per oggetto merci
affidate al pericoloſo traſporto di mare , pof ſono facilmente adattarſi alle
merci traſpor tate per terra ; anzi alle merci , o ſituate nei magazzini , o in
altra maniera cuſtodite . Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal
accidente , e per quello perire , o deteriorarſi , fi fa eſſere oggetto di
queſto contratto . Anzi il guaſto di un incendio divoratore , le ruine 70 di un
turbine procellofo che abbatte caſe , porta la deſolazione per le campagne , la
vio lenta incurſione di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e
alle tenebre della notte dalle timide mani infidiatrici , ed altri pericoli di
tal fatta , che a prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di
divinazio ne , ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con
la ſorte , ſenza che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo
e colla maggiore ineſattezza , miſurarla . Un'altro contratto non meno
intereſſante , e che appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che
chiamaſi vitalizio . Gli uomini non contenti di affidare la loro forte a tante
, e sì varie combinazioni che alterano , e modificano sì ſtranamente gli ef Teri
inanimati ; hanno voluto che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili ,
ed hanno fatto sì che un uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per
lungo tempo sì prezioſo dono del cielo . La vita iſteſſa è venuta tal volta in
bilancia con un tenuiſſimo guadagno . Il vitalizio altro non è che l'annuo inte
77 ! reſſe di un capitale collocato a fondo per duto . Chi colloca in tal guiſa
il ſuo capitale lo fa ad oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello
che riſerbandoſene il dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con
tratto e a coloro che non avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di
ſangue o di amicizia , o che non curando le veci dell' uno , o dell' altra ,
non hanno nulla che gli ritragga dal provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a
quei biſogni che ſono figli del più molle, e faſtoſo luſſo ; e a quegl'
infelici, che ſenza queſto compenſo condur dovrebbero i triſti loro giorni in
ſeno all'inopia, e allo ſqual lore . Il vantaggio di liberarſi da tante fre
quenti , e penoſe cure della domeſtica eco nomia luſinga molto , ed è talor
neceſſario , a chi trovandoſi in un'età cadente , accom pagnata per lo più da
una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie mani rapaci diſperſi, e
lacerati i ſuoi fondi , rendergli un frutto di gran lunga inferiore a quello
che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci domeſtici fti pendiati
uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un frutto maggiore
dell'ordinario ha per oggetto non folo di fare in un colpo l'acquiſto di una
ragguardevole ſomma , ma di vedere la vita di quello a cui lo paga non
oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca il
capitale , e la ſomma degli inte reſſi ordinarj , che egli ne ha ritratti .
Aipri mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la
ſomına delle an nuali rendite vitalizie , queſta ſuperi il fondo perduto e di
più le rendite ordinarie del medeſimo . Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi
affretti a troncare prima di tal termine i giorni dell'altro . Ecco lo ſpirito
di queſto contratto . Per rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza ,
e per verificare i noſtri teore mi è neceſſario riflettere , che sborſato il ca
pitale che ſi perde , e fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria , vi ſarà
un certo nume ro di anni , per il corſo dei quali ſopravi vendo , la ſomma
degli ecceſſi della rendita vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capita 6 79
le . Se quello adunque che perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal
corſo d'an ni , non potrebbe eſiger di più di queſta de terminata rendita
vitalizia . Ma ſiccome quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un
determinato numero d'anni ; per poter rendere eguali le condizioni dei
contraenti , è neceſſario fiſſare un tal numero d'anni , che la probabilità di
ſopravivere ſia uguale a quella di premorire , e che al caſo che uno ſopraviva
o due o tre anni , o qualunque altro numero , ſi poſſa con ugual probabilità
contrapporre il caſo che muoja un egual nu, mero d'anni prima . Quando dunque
ſi tratta di formare un vitalizio , conviene eſaminare quanto abbia
ſopraviſſuto un gran numero di perſone , per eſempio mille , all'età di quello
che vuol farlo . La ſomma di tutti gli anni che tali perſone hanno ſopraviſſuto
di viſa per il numero delle medeſime , dà un numero , che ſi chiama l'età media
. Trovato queſto , ſi ſuppone che chi fa il vitalizio deb ba ſopravivere fino a
tal termine , e ſi fa il diſcorſo che ſi è detto di ſopra , quando ſi è 80
fatta l'ipoteſi che uno foſſe ſicuro di vivere nè più nè meno un determinato
numero d'anni . Nel fiſſare la media ſi ſono conſide rati gli eventi che
poſſono favorire il caſo della ſopravivenza eguali in numero a quelli che vi ſi
oppongono ; uguaglianza che ſi ac coſterà tanto più al vero quanto ſarà mag
giore il numero delle vite dalle quali ſi ri cava la media . Ecco dunque, come
in queſto caſo la ſpe ranza può dirſi uguale al timore , e per con ſeguenza può
aver luogo l'azzardo ſenza op porſi alla giuſtizia , ed ecco finalmente ridot
to il contratto ai termini dei noſtri teore mi . La ſomma del capitale più le
rendite ordinarie , che è il prezzo eſpoſto da chi perde il fondo , deve ſtare
alla ſomma delle rendite vitalizie che formano il prezzo eſpoſto dall' altro
contraente , come il numero dei cafi favorevoli al primo , al numero dei caſi
fa vorevoli al ſecondo ; i quali ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata
ragione , ne ſegue che la ſomma del capitale , e delle rendite vitalizie dovrà
eſſere eguale alla fom 81 ma del capitale , e delle rendite ordinarie computando
tal ſomma fino al termine del la vita media , che per ipoteſi ſi dà ſtabilito
per l'indicato calcolo . Si ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a
diſtribui re per detto numero d'anni queſta ſomma ; o ſia a rendere anche più
ſemplice l'eſpreſ fione , ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite
ordinarie il capitale diſtribuito per detto numero d'anni . E'evidente che per
rendere in queſto contratto le condizioni più eguali convien pigliare un
grandiſſimo nu mero di vite per formar la media . E quì ſi oſſervi che ſe
poteſſe la probabilità della du rata di una vita fino a un dato numero d'an ni
cangiarſi in certezza , ſarebbe tolto affatto l'uſo di queſto contratto : lo
che dee dirſi di tutti i contratti di azzardo . Si penſa a can giare la probabilità
degli eventi in certezza . Se queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto bandita
quella cieca divinità alla quale ſi abbando nano gli uomini per formarne un
ramo di commercio . Vogliamo adunque miſurar la forte , non eſpellerla . f 82
Tanto più farà facile in queſto contratto fiſſare la media , quanto più ſaranno
ridotte a claſſi diſtinte le perſone delle quali ſi ſom mano le età . Qualità
di profeſſione, carattere di temperamento , indole di clima , eligono ſeparate
oſſervazioni . In fatti, ſiccome per cali favorevoli s'intendono quelli per i
quali ſi prolungano le vite , per contrari quelli che le abbreviano ; e i
ſecondi , nel fillarſi l'età media vengono conſiderati moralmente ugua li di
numero ai primi ; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla vera , quanto
maggiore ſarà la parità di circoſtanze . Se abbiaſi però riguardo non ſolo alle
an nue rendite vitalizie , ma al frutto delle me deſime, potendoſi eſſe, e il
frutto loro cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera ; fic come quello che
paga l'annua rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello che ritrae ;
dovrà a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia ſull'ordinaria .
Queſto però non ſi oppone alla verità del teorema terzo ; poichè in tal caſo il
prezzo che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non ܪ 83
farà più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull' ordinaria , che naſcerebbe
dalla fillata proporzione ; ma ſarà un ecceſſo tanto mino re , quanto è la
differenza del frutto della rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente , e
per ferie cangiato in forte fruttifera , dal frutto della rendita ordinaria
conſiderata nell'iſteſſa maniera , e così cangiandoſi pro porzionalmente le
eſpreſſioni dei due prezzi , non ſi cangerà l'analogia . Non farà difficile il
perſuaderſi dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che chiamata la ſorte
totale per eſempio A , e una di lei porzione C , alla quale corriſponda l'annuo
frutto B , ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve
ogni anno nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte , eſpreſſa dalla
ſeguente formola . (C + B ) A ,( B ) A ( C ( C + B С N o ſia eſprimendo per Nil
numero degli anni ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando il N frutto non ſi
cangia in ſorte fi avrà una ſe C_A f 2 84 rie aritmetica il di cui primo numero
cor riſpondente al primo anno farà il capitale col frutto ; il ſecondo il
capitale col doppio del primo frutto ; il terzo il capitale col tri plo del
primo frutto . Il valore adunque del frutto del primo anno ſarà la differenza dei
termini di queſta ſerie . Siccome poi nel caſo dell'ultima ipoteſi , tanto la
rendita ordiną ria , quanto la vitalizia ſi cangiano in forte; fatte le due
ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula , e ridotte ai termini individui
del caſo di cui ſi cerca , ſi conoſcerà il valore della ricercata differenza .
Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj ſtabiliti in quello
dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi favorevoli , altro non
s'intende , che il numero di quelle per ſone che in parità di circoſtanze hanno
ſo pravviſſuto un dato numero d'anni , per ſi niſtri poi il numero di quelle
che ſono man cate prima ; che queſta parità di circoſtanze vien compoſta talora
da molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte no tato ; e che
la vita dell'uomo dipendendo da 85 cagioni fiſiche e morali , fa di meſtieri
riflet tere al diverſo loro carattere , e alla recipro ca influenza delle
medeſime. Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole , o regiſtri, nei quali ſi
notino la naſcita , la morte , e gli altri accidenti della vita umana ; poichè
queſte ſole appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti vantaggioſi con
tratti ; ed elle ſole danno la miſura delle forti, e delle aſpettative dei
contraenti . Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun medico regiſtraſſe
privatamente le qualità , e gli accidenti dellemalattie che egli tratta ;
ſiccome quelle del temperamento di ciaſcun malato , che egli libera , o che non
può ritrarre dalle prepotenti fauci di morte . Queſte ridotte in ſiſtema, e
reſe pubbliche riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne molte
formate da indotti oſſervatori , anzi fovente farebbero neceſſarie ; poichè
l'imperito regiſtratore omettendo tutte le circoſtanze , o alcuna almeno delle
eſſenziali , rende inutili le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione
all'altrui errore , o irri fleſſione . 86 Benchè e da quali tavole ſi potrà mai
rica vare la giuſta miſura della vita d'un uomo ? Quot non ſunt caufae , dice
S'graveſand intro duft. ad Phil. a quibus vita hominis pendet ? Una di queſte
tavole forſe la più eccel lente , perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e
provincie , è quella di Pietro Süſmlich da lui intitolata : La divina
providenza nelle vicende dell'umana ſpecie , dimoſtrata dall'or dine delle
naſcite , morti e moltiplicazioni . Celebre è anche quella di Hocdſon fatta
appunto per fillare le annue penſioni vitali žie , e dedotta dai cataloghi di
mortalità di Londra . Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato
fin'ora più dell'altre nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito
d'indu ſtria , e di curioſità , che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe
l'intendeſſe ſempre con la vera , ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte
oſſervazioni meteorologiche , ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ
fimo S: Toaldo ha dato alla luce un libro nel quale ſono regiſtrate le
oſſervazioni fatte 87 í per un lungo corſo d'anni . Più palpabile però , per
ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo Filoſofo , e più immediata ſarebbe l'utilità
delle tavole di cui ſi parla . Vi è tutta la ragione di aſpettarla grandiſſima,
dalla aſſiduità , ed efficacia dei noſtri Italiani oſſervatori. Il preſagio
comincia ad avve raríi felicemente . Già dai regiſtri delle na ſcite , che la
noſtra fanta religione rende neceffari, ſonoſi ricavate delle conſeguenze
ſull'articolo della popolazione : ficcome dalle oſſervazioni delle frequenti
morti dei bambi ni , ſi è preſa occaſione di rintracciarne la cauſa , e
d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi , che sì facilmente foc
combono anche ad un leggiero urto , e ad una tenue ſcoſſa . Al genere dei
vitalizj appartiene quella convenzione , che dal ſuo oggetto chiamaſi: la dote
della figlia . Un provido padre sborfa una determinata ſomma di denaro con la
condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi prima dell'età nubile
, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che l'ha ricevuta ; ma ſe la
figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una ſomma proporzionata
agl'intereſſi decorſi del denaro , e al pericolo in cui ella è ſtata di morire
in tal intervallo , e di per der così la ſomma dal padre sborſata . Dovrà in
tal contratto rifletterſi che il prez zo , che sborſa il padre per la figlia è
uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno prefiffo ; quello che
azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata ſomma , e i frutti
ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita . Deve dunque come il
numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino alprefillo termine , ſta
ai ſiniſtri (a) , o fia ai favorevoli all'altro ; così ſtare la ſom ma sborſata
dal padre , più le rendite ordi narie , all'ecceſſo della dote che ſi dovrà
alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma sborſata più le rendite ordinarie
. Havvi un'altro contratto per cui un par ticolare, che vuol comprare una
conſidera ( a) Anche in queſto contratto i caſi favorevoli , e i finiftri
s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89 bile carica ; per non
privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una famiglia a lui ca ra che la
ſua morte potrebbe mettere in braccio alla deſolazione, e all'inopia ; fi fa
aſſicurare la propria vita per un dato corſo di anni , pagando , o una ſomma, o
un'an nua penſione all'aſſicuratore , che ſi obbliga all'incontro di pagare
agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto della carica , ſe egli muoja
prima del termine ſtabilito . La eva luazione della vita , si in queſto , come
in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab baſtanza commendate tavole .
Si oſſervi, che in queſto contratto quello che riceve la ſoin ma o l'annua
penſione, trova vantaggio nella prolungazione della vita di chi la sborſa , al
contrario di ciò che accade nei vitalizj , e negli altri contratti ad eſſi
analoghi . Nel for mare adunque la proporzione cangian nome fra loro i caſi che
nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del reſto non vi è dif ferenza
veruna . E' queſto un contratto di cui tanto meno importa trattenerſi ad eſami
nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1 1 1 1 1 go cità di uno ſtato
che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo . Diaſi però in quella vece
una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo inven tore chiamaſi Tontina
. Non differiſce que fto dal vitalizio , ſe non in ciò che ove in quello la
rendita annua ceſſa alla morte di colui , che collocò il ſuo capitale a fondo
per duto ; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che appartengono alla
medeſiına claſſe , e che hanno fatto un ſimile contratto col padro ne della
tontina . L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo capo tutte le ren
dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua claffe . A
formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età . E' celebre la Vedova di un
Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni , e godeva 35000, lire di
annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire . Dalle tavole di mortalità ſi
è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite coetanee quanti
anni ſia per durare la più lunga . Da ciò il padrone della tontina pud co 91
lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le ren dite ; poichè
per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto , val lo ſteſſo per ciaſcuno la
ſua penſione col diritto di ac creſcere , che hanno quelliche ſopravvivono ,
pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre . Potrà per
conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni . Si è in oltre
trovata la formola che eſpri me , dato qualunque numero di vite coetanee , il
tempo in cui uno , o due , o più manche ranno , la formola per il caſo che più
perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono , da
dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo
praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi
durante la ſua vita ; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione
che devono preſtare. E faminate queſte formole , ed avuto in conſi derazione il
metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj , ſi ritrova facilmente
la medeſima anche per le contine . 92 1 1 E' oltre ogni credere benemerito
dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre , che ha trovate , e applicate
le anzidette , e molte altre formole , che ſi trovano nella incomparabile ſua
opera intitolata la dot trina degli azzardi . Io non le ho riportate perchè il
far ciò e troppo lungo ſarebbe , e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro
poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti
d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè
ſian giuſti ; voglio rammentare , che i più illuminati politici hanno deteſtato
l'a buſo di queſte pubbliche rendite , come ap punto ſono le tontine , ed altre
di fomi gliante natura . E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i
germi dell'induſtria , e ad appreſtare alla parte ozioſa , e indolente della
ſocietà armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà
moto , ed anima al ben eſſere dello ſtato ; oltre di che ſi oppongono alla
propagazione , allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I 93
generar figli ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici . En fin je ne me
plaindrai plus De l'etoile qui me domine ; Il me reſte encore cent ecus Que je
vais mettre a la Tontine : O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars
eſſuyé le orages , Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages , Je ferai ſur
l'etat , & j'aurai penſion . Così cantò un elegante Poeta Franceſe in
tendendo così di far la ſatira delle tontine ; e pare di fatto che il Poeta
potrebbe ora viver quieto ſu queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate , e
andate in diſuſo , benchè non così gli altri contratti del genere di cui
parliamo . Ma d'altra parte eſſendo utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben
dello ſtato il poter ſollecitamente raccogliere una grandioſa ſomma di denaro ,
ſenza imporre perciò nuo ve contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini
, le circoſtanze dei quali rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen
94 . fioni vitalizie ſi potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni ,
per fare un eſame regolato dell'età , e delle circoſtanze di quelli che
doveſſero eſſere ammeſſi alla compra delle azioni , e con i neceſſari
regolamentipreveni re gl ' inganni , che in queſto articolo intereſ fante poteſſero
deludere le pubbliche vedute . 1 1 1 1 . 1 Per eſaminare i contratti della
terza claſſe ne quali il rapporto su cui ſi fonda l ' ugua glianza fra i
contraenti ſi appoggia in parte alla conſiderazione di leggi certe , e ſicure ,
e in parte alla ſperienza del paſſato , e a cir coſtanze incerte e di numero
indeterminato , ſi ripigli l'eſempio dell'urna , nella quale ab biavi un
determinato numero , per eſempio di go. palle . Se la ſperanza dell'eſito
felice è affidata all'eſtrazione di una palla ; per la natura di tal contratto
, o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il numero dei caſi
favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il numero totale m farà
il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1 : m - 1 e per conſeguenza l'aſpettativa
del buon'eſito farà = mo ſia -112 95 Ma ſe ſia vero che la palla alla quale è
affidata la ſperanza eſca più frequentemente dall'urna che qualunque altra , e
l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle altre ſia Þ ; il numero dei caſi
favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp ; e quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1 ,
la probabilità della ſperata eſtrazione farà Xp L'addotto eſempio è la norma
coſtante di tutti i contratti che poſſano mai cadere for to queſta terza claſſe
, come comprendenti le condizioni che ne formano il carattere . Di fatti la
probabilità dell'eſtrazione della palla fatale dipende dalle leggi del
contratto certe , e ficure che danno il rapporto di e dalla ſperienza , ed
oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della medeſima, che danno l'ecceſſo di
p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre palle nell' urna rinchiuſe , la
quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I : m ; 112 Non è neceſſario che io
offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto ecceſſo p , non 96 dimeno non è
ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla , di quello che ne eſca un'al tra .
E queſta è una di quelle circoſtanze che io chiamo incerte e variabili . Che ſe
ſi trattaſſe di paragonare la pro babilità dell'eſtrazione fra due palle ,
ſicco rapporto che naſce dalle leggi certe e ſicure è lo ſteſſo per tutte due ,
eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe attendere ſolamen in te la diverſa
frequenza dell' eſtrazione di queſte due palle . A queſto eſempio ſi poſſono
ridurre fpe cialmente le offervazioni dei giocatori di lotto , e di quelli che
ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi moſtrino più ſovente, o quali facce
del volubil dado , ad avvicendare nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e
la triſtezza. Ben' è vero però che per quanto fiano replicate le eſperienze ,
in moltiſſimi caſi non apparendo neppure in confuſo una minima conneſſione di
tal frequenza con una vera cauſa da cui derivi , non potranno giam mai meritare
che le abbia in viſta , chi ra 97 giona ſu dati veri , e non fa caſo di mere e
vaganti accidentalità . Se ſi aveſſe a queſte riguardo , molti di quei
contratti, che nella prima claſſe ho eſa minati , a queſta terza dovrebbonſi
riferire . Ma io per le indicate ragioni , a quella ſola nei ſuoi veri termini
inteſa giudico i mede ſimi appartenere . Anche in tali caſi perd vi ſono inolti
che credono doverſi fare ſcrupo lofo conto dell'oſſervazioni, e per queſta ra
gione ancora approverebbero la mia diviſio ne ; eſſendo queſta terza claſſe da
me confi derata in modo che può , ſe vogliaſi, compren dere le medeſime, anche
quando non appa riſca la ſopra indicata conneſſione . Che ſe il numero delle
offervazioni ſia grande , e i riſultati coſtanti , ed abbiavi qual che
conneſſione fra l'eſito della ſperanza , ed una cauſa dalla quale poſla
derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora non v'ha dubbio che ſiamo nel
caſo che caratterizza queſta terza claſſe , e la diſtingue dalle altre . Vi
ſono in fatti molti giochi , nei quali l'eſito fortunato dipende in parte dalla
pro g . 98 pizia ſorte , e in parte deveſi alla propria in duſtria o deſtrezza
nel combinare gli elemen ti del gioco , e rendergli coſpiranti al termi ne a
cui ſta anneſſo il guadagno del premio deſiderato . L'induſtria però di un
giocatore pud conſiſtere o nella ſola avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare
l'eſito delle varie coin binazioni del gioco , che ſi vanno ſuccefliva mente
preſentando , e la replicata ſperienza delle quali porge la norma ai caſi
avvenire ; o nella deſtrezza maggiore di combinare gli accidenti medeſimi del
gioco , di dedurre , di ſcuoprire gli artificj dell'avverſario ; e in
qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi l'induſtria , è ſempre vero che i
giochi che di effa , e della forte ſi chiamano miſli, hanno un filo non
traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle dei contratti di azzardo ,
In un gioco miſto è molto difficile che tornino per appunto le medeſime
circoſtan ze ; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re lative ſono della
natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe appartenenti ; in certe cioè
, e incapaci di rendere indubitato 99 e ſicuro l'evento , ma fiſabili quanto
baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua glianza , acciò il contratto
ſia giuſto . Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi ſono dati ſicuri
dipendenti dalle loro leggi inva riabili ; quindi è che eſſi appartengono alla
terza claſſe , perchè regolati in parte da tali leggi, e in parte da cagioni
incerte e inde terminate , e dalla ſola ſperienza . Siccome però poſſono eſſere
o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito medeſimo, a miſura che
queſte ſono in maggiore o mi nor numero , prevale nei giochi miſti l'in duſtria
o la ſorte . Inoltre la deſtrezza di combinare , di de durre , di rammentarſi
gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite ſucceſſivamente dalla malla
totale delle medeſime nel decorſo del gioco , è variabile , come può ognuno of
ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a nimo neceſſaria , la perfetta
diſpoſizione di ſa lute , e per conſeguenza l'agilità degli ſpiriti,
l'elaſticità delle fibre ; in una parola l'atti vità neceſſaria per ben
riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di mente , e
attuazione di fantasia . Conſiderate queſte come cauſe incerte ed indeterminate
, e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni fatte giocando
col medeſimo avverſario ridurre a calcolo , e quanto alla loro frequenza , e
quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco ; ecco anche in ciò un motivo
per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi miſti, dipende, e
dalle invariate e ſicure leggi del gioco , e da circoſtanze incerte , e indeter
minate , Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar profitto dai colpi
della ſorte , e il gioca tore avveduto , dice la Bruyere , imita in queſto un
gran generale , e un abile politico . Al valore del primo , e alle vedute del
ſe condo è miniſtra la forte . Arrivano entrambi francamente al loro intento
per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo ; e che là metton capo , ove
forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati , e i piùmeditatiprogetti
. Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di cui ſi parlò
trattando dei giochi di puro azzardo . O i giocatori tentano con eguali
condizioni l'evento medeſimo ; o un folo tenta la ſorte del gioco , e l'altro
ſta ozioſo ſpettatore , e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto eſito
dell'avverſario . Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e dei
ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco , è l'iſteſſo per ambidue , ſi riduce
a calcolo l'eſperienza ed induſtria , la quale ſi oſſerva nelle medeſime
circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco ; calcolo
che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte . Giacchè farebbe d'
uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario ; eſſendo la
deſtrezza , e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella
dell'avverſario ; e potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno , o reſtar
coſtante ſecondo i progrelli , o uguali, o proporzionali , o di verſi, che l'uno
, o l'altro facciano nel gio co . E' vero però non meno , che trattandoſi di
rapporti , poſſono in qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità
di un 102 giocatore riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual
proporzione abbia quella dell'avverſario . Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non
è più riſpettiva , ma aſſoluta ; e fi riduce a calcolo con l'offervare , nelle
medeſime combina zioni , o in non molto diffimili per la natura del gioco ,
quante volte l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto ,
fotto le date condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale
per otte nere il premio dovea pervenire . Generalmente adunque ficcome il
numero dei caſi favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del
gioco , in parte dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva , e afloluta
induſtria , converrà diſtinguere , e calcolare queſti due elementi componenti
la ſomma dei caſi favorevoli , e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta
nel Teo rema III.', e nel Corollario . Se non due , ina più ſiano i giocatori ,
ſi rammenti la regola di ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti , e di
eſaminare in 103 ciaſcuno a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il
già detto ; ſe io voleſſi ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della
prima claſſe , e in quelli della feconda . Bafli l'avvertire che in queſti
della terza claſſe ove trattaſi dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto
dipendono dalle leggi certe e ſicure del contratto , convien ricorrere ai
priini ; ove poi fia queſtione di offervazioni , e di cauſe indeterminate ,
conviene eſaminare i ſecondi ; non omettendo mai di riflettere quanta
alterazione poſſa produrre l'influenza degli uni , ſu gli altri , e la varia
loro com binazione . Stabilite così le leggi ſulla ſcorta delle quali ſi giunge
a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque claſſe di contratti di azzardo
; non devo diffimulare , che uno dei più grandi Filoſofi il Signor d'Alembert
ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro babilità quanto alla ſua
applicazione agli ac cidenti umani . Accid , dic ' egli , queſto cal colo foſſe
applicabile , ſarebbe neceſſario , che tutti i caſi che ſono ugualmente
poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di fiſica
poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario , che gettata infinite volte in alto una
moneta , ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca , per eſempio
palle , e ſull' altra una diverſa , per eſempio croce , foſſe ugual mente
poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle , o croce ; e che ſi ſcopriſſero
alternativamente queſte due diverſe marche . Ma benchè ciò ſia ugualmente
poſſibile matematicamente parlando , non lo è fiſicamente . E queſta di verſità
appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità , non
è applicabile ai caſi fiſici . Anzi non ſi potrà mai fiſſare il numero delle
volte per il quale duri la poſſibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella
faccia della moneta , e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità
, durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo , ed oltre qualunque
aſſegnabile numero di getti , la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi
della medeſima faccia . : Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per
certa : che non è in natura , che un 1 1 1 IOS 1 effetto ſia ſempre, e
coſtantemente il mede fino ; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi , ſi
raſſomiglino fra loro . Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro
babilità di una combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone
accader più vol te , in parità di circoſtanze è tanto più pic cola , quanto
queſto numero di volte è più grande , di modo tale che quando queſto è maſſimo,
la probabilità è aſſolutamente nulla , o quaſi nulla ; e all'incontro quando
queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non ne reſta che poco , o punto
diminuita per queſto riguardo . Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la
ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati della teoria dei probabili ,
quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica , ſono
ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura .
Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque
arrenderſi , e diſperare della cauſa del noſtro calcolo dei probabili ? 1 106 1
Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non
ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà , o le mede fime reftino ſciolte .
Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di
probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi efla rinvenire . Se diaſi
dunque un caſo , che non cada in modo alcuno forto la cate goria dei
fiſicamente poflibili , e che per con ſeguenza nè il minimo grado abbia di
proba bilità ; io dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie ; ma non
concederò mai che per queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet tainente ai
caſi , che ſiano di fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano
i caſi o le combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è
neceſſaria una fre quente e replicata oflervazione . Che ſia fiſicamente
impoſibiie ( ſe pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta moſtri un
inaſſimo o un infinito numero di volte la ſtella faccia , donde ſi ricava , fe
non dall'avere offervato che una tale con 107 tinuazione dello ſcoprimento
medeſimo non accade , ma che al contrario ſi vanno alter nando , e cangiando di
tanto in tanto le facce della moneta ? Benchè non può dirſi a rigore
fiſicamente impoſſibile il caſo in cui per un infinito numero di getti ſi
paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia , a meno che non vi ſia nella moneta qualche
fiſica e meccanica cagione che ciò non permetta . Se ſi concedeſſe ancora (
benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato ) che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi
dia un albero perfetta mente ſimile ad un altro , non che , come fi contenta di
dire il Sig. d'Alembert , che ſi raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro ;
non correrebbe la parità , per dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti
di una moneta , l'uniforme ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia
fiſicamente impoſſi bile . Poichè vi corre una notabiliflima di ſparità . Tutte
le combinazioni le quali fanno , che una coſa non ſia fimile all'altra , danno
tanti ios riſultati fra loro diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che
faran caufa che l'ala bero A non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B ,
naſceranno tanti alberi fra loro diverſi ; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà
la diffe renza . Ma dalle diverſe combinazioni che poſſono fare che non venga
infinite volte di ſeguito la faccia palle della moneta ; non ne poſſono venire
che riſultati affatto ſimili , cioè croce ; poichè ogni volta che non ſi ſcopra
palle , ſi ſcoprirà croce . Queſto prova che le combinazioni che ſono contrarie
alla per fetta ſomiglianza di due coſe , formano infi niti rapporti , infiniti
riſultati dei medeſimi, infinite diverſe compoſizioni di parti dipen denti da
infinite meccaniche direzioni delle particelle della materia di infinite
poſſibili diverſe velocità , figure ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi
verificano . Di fatto gli elementi che formano la com binazione , che per
infinito numero di volte preſenta palle , ſono tutti ſimili fra di loro , ed
hanno fra di loro un folo invariato rap porto . Di modo che ſe ſi ſupponeſſe
mutato 109 l'ordine col quale eſce prima la infinita ſerie di palle, e ſi
ricominciaſſe il getto , e ritor naſſe di nuovo a ſcuoprirſi infinite volte la
faccia che preſenta palle , ne verrebbe un or dine fimiliſfimo al primo ,
potendoſi dire , che l'iſteſla relazione ha il primo ſcoprimento di palle al
milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo , e così dicaſi di tutti .
Talmentechè a rigor parlando , non ſi può dire , che fra queſti getti vi ſia
ordine che formi fra effi un rapporto piuttoſto che un altro . Non così degli
elementi che formano un dato fiore , o albero ; eſſendo combinabili fra di loro
con infinite varietà di ſopra ac cennate . Gli elementi fiſici adunque delle
combinazioni nel caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove nell'eſempio
addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene , che la parità non
corre ; e dalla fiſica impoſſibilità ( ſe fi ammetta ) di trovare mol te , o
anche due coſe fra loro ſimili ; non ne viene la fiſica impoſſibilità che una
monetan gettata in aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia . 110 1
La diſparità compariſce più chiara , fe li rifletta che qualunque vedendo in un
dato ſpazio tutte le particelle più minute compo nenti i corpi ; e riflettendo
alle variazioni poſſibili della velocità , e della figura delle medeſime; e
vedendone in un ſimile ſpazio un altro ſimile numero , avrebbe ſubito infe rita
l'impoſſibilità di una combinazione ta le , che ne riſultaſſero due alberi
ſimili . Laddove vedendo una moneta , e ſapendo che ſi deve gettare in aria
infinite volte , non avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non ſi
ſarebbe un infinito numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia , e di credere
tal combinazione fiſicamente impoſſibile , come la pretende , fondato ſulle
addotte ri fleſſioni , il Sig. d'Alembert . In una parola della impoſſibilità (
ſe tal vo glia chiamarſi ) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a
colpo d'occhio una fiſica meccanica ragione ; lo che non può dirſi dello ſcoprimento
della faccia di una moneta . Lo ſteſſo a proporzione dicaſi delle diverſe , III
combinazioni delle lettere che formano la parola Conſtantinopolitanenfibus. Chi
attribuirà al caſo , dice d'Alembert , che ſi combinino in modo tante lettere
che formino queſta pa rola ? chi vorrà crederlo poſſibile ? Dunque conchiude
egli ſarà ugualmente impoſſibile il continuo per infinite volte ſcoprimento
della faccia medeſima di una moneta . Queſto eſempio è molto ſimile a quello
dei due al beri fimili ; e ſi riſponde anche a queſto , che ciaſcuna lettera
può variare rapporto a tutte le altre , e che ciaſcun riſultato ſarà diverſo .
La Luna , aggiunge il Ch. Filoſofo , gira attorno al ſuo alle in un tempo
preciſamente uguale a quello che ella impiega nel deſcri vere la ſua orbita
intorno alla terra ; e queſta eguaglianza di tempo produce ammirazione , e ſi
vuol cercare qual n'è la cagione . Se il rapporto dei due tempi foſſe quello di
due numeri preſi all'azzardo , per eſempio di 21 : 33 , niſſuno non ne ſarebbe
ſorpreſo , e non ſe ne ricercherebbe la cagione ; e pure il rap porto di
uguaglianza è matematicamente و II2 parlando ugualmente poſſibile , che quello
di 21:33 ; perchè dunque ſi cerca una cagione del primo , che non ſi
cercherebbe del ſe condo ? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei pianeti e del
rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro , alla sfera
. Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to del caſo ? perchè queſta
combinazione , benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre , ſi riguarda
.come effetto di un diſegno , e di una regolarità ? E non ſi crederà poi , che
il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la quale la moneta
ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta fiſicamente
impoſſibile , benchè abbia una matematica poſſibilità eguale a quella delle
altre combi nazioni ? Ma io riſpondo , che di fatto le com binazioni dei citati
eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte l'al tre
combinazioni ; che non vi è forſe argo mento che provi che il caſo non le
aveſle po tute produrre ; ma che anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente
impoſſibili al ſolo caſo ; ciò è per chè ſon compoſte di elementi infinitamente
variabili ; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a conſiderare le
diverſe cagioni , e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon far sì che i
tempi dei due giri lunari non ſia no uguali ; e che la zona delle orbite plane
tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha infatti; cagioni
tutte fi fiche , e meccaniche . Di più dico , che l'uguaglianza dei corſi della
luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di uguaglianza è
quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la differenza che
fra eſſo , e gli altri paffa , non è che metafiſica ; e nulla po ne di fiſico
per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre . Lo ſteſſo
dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus . Queſta combinazione di lettere
fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola , e che al ſuono della
medeſima abbia mo legataunidea ; non così a un Turco idio ta il quale non col
nome di Coſtantinopli b 114 ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare la
ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano . Non contento Monſieur d'Alembert
degli eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione , l'appoggia ad altre
due rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo , contando dal
giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni ; ſi è pure conoſciuto per mezzo
delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più ome no
è di 32 anni ; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata dei
regni di ciaſcu na parte d'Europa , che la durata media di ciaſcun regno è di
circa a 20 in 22 anni . Si può dunque dic' egli , ſcoinmettere non ſolo con
vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non
vive- , ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno
più di 640 anni in circa ; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a
420 anni . Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27 . anni la
durata media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare , o non
dalle di 32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni ; oppure portaſſe
che 20 Re ſucceſſivi regnaſſero , o molto più , o molto meno di 420 anni , non
ſarebbe fiſicamente poſſibile ; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando .
Dal che riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili ,
che ſi denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della
natu ra . Dunque la combinazione in cui , o infi nite volte , o un gran numero
veniſſe ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta , benchè di matematica
poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione , dev’ eſſere
rigettata . E' nell'ordine naturale , ché un banchiere di faraone , che ha dei
caſi favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo . Di
fatti ſi oſſerva coſtantemente , che non vi è banchiere , che non accumuli
groſſe fomme di denaro . Queſto prova , che quelle combinazioni , che hanno più
caſi contrari che favorevoli , ſono alla fine di un certo b 2 116 tempo, meno
fiſicamente poſſibili che le al tre ; quantunque matematicamente parlando tutte
le combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili . Dunque conclude egli , la combina
zione , la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la
ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa . Per riſpondere a queſti due
eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità , che
con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo
diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando
il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle , o
aſſai maggiori , o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni ; dun que tale
combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo
dicafi di quella , per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal
gioco medeſimo ri dotto all' inopia ; caſo che non è poi sì in frequente ad
accadere . Dicafi piuttoſto che l'una , e l'altra di queſte combinazioni con
tenute nei due eſempi addotti dal chiarilli 117 mo d'Alemberţ ſono molto
difficili, e tanto più , quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni
medeſime ſupera il numero dei favorevoli ; lo che conviene appunto con li da me
ſtabiliti principj . Venendo poi al caſo noſtro dico , che fo no varie , e
moltiſſime in numero le cauſe vere , e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli
uomini . Ma trattandoſi del getto della mo neta , non vi ſono principj fiſici
diverſi, e tali , che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una ,
che l'altra delle combi nazioni , che a rigor parlando non ſono che due , come
più ſopra ſi è offeryato . L'ordine delle umane coſe , e le fifiche qualità , e
coſtituzioni dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita , ſon
con ſultati nel primo caſo ; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa
conſultare a formare il preſagio . Dunque fi pud predire , che ioo o maggior
numero di uomini avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di
altri 100 uomini ; benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal
corſo file 1 b 3 118 ſare; così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni,
conoſciuto il ſiſtema del gioco del faraone ſi può predire che un numero molto
maggiore farà quello dei banchieri che arric chiſcono , che non ſarà quello
degli altri che ſi rovinano . E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche
cagioni che portano a for mare queſto preſagio , e cagioni che naſcono dal
ſiſtema del gioco . Ma chi sà dire qual fi fica ragione addur voglia uno , che
vedendo gettarall'aria una moneta , aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile,
che o per un maſſi mo , o anche infinito numero di volte , pre ſenti ſempre la
ſteſſa faccia ? Varie poſſono eſſere le maniere di gettare in alto la moneta .
Si può gettare a una gran de altezza , e a una piccola ; con poca forza , e con
molta ; con tale direzione che la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte ; o
che lo faccia obliquo ; oppure in modo che ſia ad eſlo parallela . Si può anche
gettare in ma niera che ſomigli quaſi il laſciarla cadere leggermente da un
punto fiſſo . Fermiamoci ad eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi ve 1 1 119 1
drà , che laſciandola in tal modo cadere , ſpecialmente a piccola altezza ,
anche in finite volte , non vi è ragione di preſagire , che non poſſa eſſere
coſtante lo ſcoprimen to della faccia medeſima . La impoffiſibilità di queſto
uniforme ſcoprimento , la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo ,
o negli altri caſi ? Se la intende in queſto caſo , come dunque ſi verifica ,
che il ſolo or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento
? Se poi non la intende in queſto caſo , come dunque ſi verifica uni
verſalinente la ſua maſſima ? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito
delle ragioni del Sig. d'Alembert , che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo
in cui non altro appunto , che un non sò quale fatal ordine della natu ra
,potrebbe cagionare la preteſa variazione . Che ſe pure ſi trattaſſe degli
altri caſi , dico che nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto
,dell'altezza , della direzio ne ; queſte non poſſono valutarſi in modo da
rendere fiſicamente impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di
queſte va 120 riabili combinazioni, non ſono che due ; o lo ſcoprimento di
palle, o lo ſcoprimento di croce ; e non ogni variazione , e combinazione di
tali cauſe influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli
eſempi ad dotti dal Sig. d'Alembert , nei quali trattan doſi di rapporto , o di
diverſa conſociazione di parti , ognun vede , che ogni variazione influiſce a
produrre un effetto diverſo . O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti
; e negli addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che
due non potendoſi voltare , che palle , o croce ; o ſi ri guardi la diverſità
nelle cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no
anch'eſſe infinite , giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa
; nel caſo della moneta non è così , potendoſi dare moltiſſime combinazioni di
forza , altezza , direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto ; potendoſi
anche dare che in infiniti getti , o in un numero aſſai grande , ſi man tenga
l'iſteſſa direzione , benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande;
l'iſteſſo im 1 1 pero , benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto . Parmi
adunque che e queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con
quello della moneta ; o al più provano una no tabile difficoltà nella
combinazione che pre ſenti ſempre l ' ifteffa faccia della moneta ; verità che
ſi accorda perfettamente con gli eſpoſti principj; poichè le oſſervazioni me
deſime ce lo fanno conoſcere ,ed io ſuppon go nell' applicargli, il caſo
probabile , e con la ſcorta dei medeſimi ne cerco il grado di probabilità ; dal
che ne viene che la teo rìa non è applicabile ai caſi ove o neſſuna o quaſi
neſſuna probabilità del buon eſito appariſca , per poterne formare la propor
zione . . Quando poi cominci il numero in cui non ſia ſperabile un
continuodiſcoprimento di una fola faccia della moneta , le oſſervazioni, e non
altro , poſſono moſtrarlo ; quelle oſſer vazioni io dico , che io medeſimo ho
prefe per ſcorta in moltiſſimi caſi appartenenti alla materia dei contratti di
azzardo. 122 } E' poi tanto evidente che la propoſizione del Sig. d'Alembert
non atterra l'uſo del calcolo delle probabilità , che anzi in qual che caſo ſe
ne poſſono tirare delle conſeguen ze , che lo conferinano . Chi gettando un
dado intraprende di ſcuo prire per eſempio il 6 non vorrà gettarlo una ſol
volta , quando debba azzardare una fom ma eguale a quella che azzarda
l'avverſario ; ma vorrà gettarlo più volte . La ſua ſperan za è ,che non
voltandoſi ſempre l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi ſcuopre, e che può
non eſſere il 6 , arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6 ; altrimenti ſe
non fcopren doſi alla prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in tutti i tratti
ſucceſſivi quel numero che ſi ſcopre il primo , la ſua perdita ſarebbe ſicura .
La ſperanza dunque di queſto gio catore acquiſta tanto maggior fondamento
quanto più è vero che ſia impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero che alla
prima fi ſcoprì; impoſſibilità , che reſta compreſa nel la impugnata opinione
del Sig. d'Alembert . Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123 glianza
nei contratti d'azzardo , e difeſane l'applicazione non reſta che a deſiderare
, che uomini di ſublime ingegno , e di pro fondo ſapere ſi applichino in gran
numero ad eſtendere ſempre più l'uſo di una dottri na sì utile . Quanto a me ,
mi pare di aver ottenuto il mio intento , ſe poſſo luſingarmi di aver formate
ed eſpoſte idee giuſte, e chia in un articolo per una parte sì arduo , e per
l'altra sì intereſſante. Codronchi. (NrcoLA), na cque in Imola il 2o aprile
1751 ed alla patria e al casato accrebbe lu stro e decoro: perchè già rapida-,
mente corsi gli studii delle amene lettere e della eloquenza sotto la
disciplina de' Gesuiti, e con pub blico saggio nelle materie di filo sofia
sperimentatosi non ancora compiuti gli anni 16, potè dallo stesso genitore
nelle matematiche, delle quali era egli peritissimo, essere ammaestrato. E col
magi stero di quella scienza sublime, illuminando la mente già ordinata a
diritti giudizii e scorto da pre cetti delibati dalla scuola non fal libile
degli antichi esemplari, com formò la scrittura alla altezza del pensiero, alla
cultura dello spirito ed al candore dell'animo : nè i gravi studii della
giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato (insegnatore monsignor Giovan
nardi concittadino di lui, e fiore de giureconsulti) gli tolse di col tivare la
poetica, alla quale senti vasi per tal guisa inclinato, che poco oltre il terzo
lustro di età bastò a dettare alcuni componi menti i quali resi pubblici con le
stampe trovarono grazia e lode somma ne cultissimi di quel tem pi, e sì pure in
Arcadia alla cui accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono ne
gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori poeti,
onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono degni
verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver egli con
arte maestra saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei modi
sceltissimi onde le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano
parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di
Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil
lo, muove nel Codronchi con quella spontanea e nobile sempli cità che
t'invaghisce nel Canti; 282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che
lo Zappi infioriva le soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato
della cro ce di Santo Stefano, e nella Imole se accademia degli Industriosi di
cui fu socio si mostrò erudito ed elegante oratore e poeta: d'indi a non molto
passato per le caro vame a Pisa ebbe colà lezioni di pubblico diritto da
quell'alto spi rito del Lampredi, che il tenne in istima d'ingegnoso e di
colto, e che lo ebbe sempre carissimo. Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo
gli conferì la carica di ispettore delle carovane, e ad un tempo la cattedra di
etica; intor no a che compose un trattato qua si corso di lezioni, degno per
fer mo di essere fatto di pubblica ra gione: ed a quel principe intitolò il
Codronchi una eloquente e dot ta Orazione composta eletta, per incarico da lui
avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed i fasti
dell'ordine, che fu pubblicata il 1779, pel Cam biagi in Firenze, dai torchi
del quale uscì nel seguente anno 1785 altro grave e prezioso libro col titolo
di Saggio sui contratti e giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di
pubblico economista e di filosofo; ed ove la materia gravissima, e che diresti
poter so lo dimostrarsi col soccorso del cal colo, per la chiara sposizione pia
ma e facile si mostra alla intelli genza comune, Corse intanto tal fama del sa
pere di lui alla corte di Ferdinan. do di Napoli, che con reale decre to del 25
novembre 1787, il no minò membro del supremo consi glio di Finanze; nel qual
tempo venne ad egual carica eletto quel sommo ingegno di Gaetano Filan gieri,
cui il Codronchi fu poi sempre stretto con vincoli di re ciproca stima e di
amicizia tene rissima. E ben di questo è prova il pa rere dal Filangieri
proposto al re intorno all'enfiteusi del così no mato Tavoliere di Puglia che
leg gesi negli opuscoli di lui pubbli cati pel Silvestri in Milano il 1818. ove
egli da maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega
consigliere Codronchi proposto , quando a questo fine per sovrano volere eb be
a recarsi in queHa provincia. Del quale importantissimo servi gio ebbe onore da
maestrati quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il
provvedimen to del principe ed il nome del be nemerito consigliere in latina e
pigrafe eternarono; e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio:
imperciocchè gli di grado di consigliere effettivo con voto, e di
sopraintendente alle dogane ed alle zecche del regno; nel che adoperò a
maniera, che sommo vantaggio m'ebbe lo stato per la retta amministrazione di
quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te lettere di mano della stessa
regnante Carolina onorevolissime lodi. Seguì il Codronchi la real corte a
Palermo quando dovè colà ri fuggirsi nel 1798 : e con essa lei tornò al suo
impiego in Napoli nel seguente anno 1799. Salito al trono il re Giuseppe, volse
tosto gli sguardi ad esso lui come a spec chio di sapiente reggimento e di non
comune interesse, e gli confe rì la carica di consiglier di stato, di cavaliere
del nuovo ordine del le due Sicilie da esso lui istitui to: ma la mal ferma
salute che gli vietò continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolse a
quel regno ove lasciò fama durabile del suo merito, procacciò alla patria il
conforto di vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali era de siderio e
delizia : e ben l'ebbero eglino zelantissimo della pubblica 283 morale, e
civile istruzione dei giovani a quali col più potente dei precetti, l'esempio,
era di bel la guida e di stimolo; e per l'im portante buon regime delle acque
operoso; e di quant'altro poteva interessare il pubblico vantaggio
studiosissimo: nè mancavano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi soccorsi
i quali seppe providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a meritato
sollievo della vera indigenza. Illi bato del costume e per la esqui sita
erudizione della quale era for nito nella sociale consuetudine piacentissimo,
con la serena calma del giusto vide giungere l'ora e strema del vivere, che a
suoi cari ed alla patria il rapì nel giorno 15 novembre 1818, in età di an mi
67: e della acerba morte di lui amaramente si dolse l'universale della città
desolato per la perdita irreparabile di quest'uomo chia rissimo nel quale si
ammirarono congiunte a sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lette
re, integrità di vita e dovizioso corredo di ogni bella virtù. Nicola
Codronchi. Keywords: contratto, tre tipi di contratto, contratto epistemico,
contratto empirico, contratto misto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi”
– The Swimming-Pool Library.
Colazza (Roma). Filosofo. Grice:
“Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into ‘iniziazione’ – specially
in the equites of ancient Rome, but not much different from mine!” Di una
famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito agli studi umanistici e si laurea
a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle dottrine massoniche e teosofiche. Fonda
il club antroposofico in Italia. Dall'incontro con l'antroposofia Colazza
apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di concentrazione adatte al
contesto occidentale, coltivando in particolare la «via del pensiero
cosciente». Altre opere: Dell’iniziazione
(Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni Mediterranee). Evola e l'esperienza
del Gruppo di Ur. A strong anthroposophical influence came from Giovanni
Colazza and Duke Giovanni Colonna di Cesard . Close to the group , which
adopted the name UR , were Guiliano Kremmerz ( 1861-1939 ) , founder of the
Fraternity of Myriam. Sedute spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico
Giovanni Colazza, e che talvolta si protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA
CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA
INTERIORE”. Il saggio l’Iniziazione mi fu consigliato da Steiner in francese a
Piazza Spagna, come un saggio importante, da tenere sempre presente come guida. L’uomo così come nella vita quotidiana serve a
poco o niente per il mondo dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo
poi altri insegnamenti estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra
persona, di cui siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto
utile per giungere alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare
in noi il pensare che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di
Eurialo e Niso, che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente.
L’esoterismo e facile, se si conforta sempre donandoci personali indicazioni,
circa gli esercizi e la pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare
fedelmente e scrupolosamente quello che possiamo accogliere e applicare a noi
stessi. Si dice che è importantissimo
cominciare sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il
concetto di “venerazione” con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento
che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o
sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da
riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima.
L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di
nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore
di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali
rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con
atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del
cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la
gerarchia. Tale stato di nostre anime
destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali,
ai quali siamo debitori. Astenersi dalla
critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la
qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia
perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità
dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo
sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore,
soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla
sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da
cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima.
Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare
immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando
nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni.
Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli,
senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le
concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano
esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale
ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel
nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un
perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione
su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali
esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la
nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un
grande nemico. ESERCIZIO DELLA PIANTA CHE APPASSISCE. Bisogna osservare una
pianta in pieno sviluppo afferrando tutti i dettagli; osservarla e riceverne
una percezione così chiara che, chiudendo gli occhi, possa rimanere come chiara
immagine interiore di fronte a noi. Esercitarsi con la forma esterna cercando
ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza
non bisogna assolutamente tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla
in sé e coltivarla. PREPARAZIONE E ILLUMINAZIONE. Altra cosa importante da fare
è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la
differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di natura vegetale
o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il
rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una diversa
manifestazione delle Forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo prolungare in
noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio
dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in Silenzio il sorgere di
qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come
avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne
la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi
percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo
se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni
immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad
impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione
soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è
affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come
manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico,
genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità
che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene
in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico
ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel
mondo spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo
fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna
sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e
sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL
TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti
dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una
direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza
accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra
direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre
e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di
colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi
all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di
colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi,
nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver
avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il
sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine
percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è
un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o
lemurico). È un primo passo verso il
riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in
completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli
occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò,
occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del
seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi
chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera
pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la
quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente
contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla
nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di
crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione: radice, fusto, fogliame, fiori, frutto. Non è
importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa manifestazione, la
potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente delle forze insite
nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva è l’elemento
invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo vegetale
trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e percepibile. Ci
si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad esso l’intero
processo immaginativo delle potenziali forme di crescita, dell’invisibile che è
diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà in noi come facoltà
di visione: una specie di nube luminosa, una specie di piccola fiamma di colore
lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la vivente forza vitale che
edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare una pianta in completo
sviluppo, sforzandosi di vedere in essa immaginativamente l’attuarsi del ciclo
seme-pianta-fiore-frutto seme, realizzando così un senso di perennità della
vita vegetale, espressa nella sintesi della forma della pianta stessa. In un certo senso, è come se dalla
pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o
Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi
sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa
pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi
tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante.
Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna
sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che
appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta
morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare.
Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della
pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione
personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da
una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta,
solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare
la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il modificare
il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo di
questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo
contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un
evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti
di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi
quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale
sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare
obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno
diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi
inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza
spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza
stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o
intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente
protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale
qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse
verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia
in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da
evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso
immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una
specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita,
distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del
mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un
naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono
l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa
paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente
spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare,
come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce
solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI
DAGLI ESERCIZI. Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una
maggiore mobilità del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si
aiutava attraverso particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali
pratiche sono dannose: si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il
fisico; se tuttavia se si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe
priva di controllo, casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A
seguito degli esercizi antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un
nuovo ritmo. La mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il
proprio corpo fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il
tirocinio esoterico, avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono
venir interpretate come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima,
il proprio sistema osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è
sperimentare i propri muscoli come percorsi da correnti; si sente scorrere
qualcosa nel sistema muscolare, quale moto del corpo eterico. Si può poi avere
la sensazione che la nostra coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella
testa, ma lungo tutto il sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro
noi. Si avverte poi il il centro del proprio essere nel centro del cervello,
mentre nella periferia di esso si percepisce la zona ove opera e agisce la
memoria rappresentativa. Il sistema nervoso comincia a rendersi indipendente
dalla corrente sanguigna. Si ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e
l’individualità dei singoli organi interni. Ciò vale anche per gli organi di
senso, che sembrano come “attaccati” al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è
un senso, ma un urto contro il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando
le relative percezioni di gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle
ispirativamente, è possibile ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è
un organo di percezione dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere
vitale. L’udito è l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto
per la percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda
all’antico Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione
dell’etere di luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla
memoria: essa viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra
facoltà mnemonica non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su
ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il
cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e
conservata. Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo
sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si
risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una
grande autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza
esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo
spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare
insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la
responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo
uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie
misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla
nostalgia del nostro passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di
contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina.
La parola chiave è “Pazienza”. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo
spirituale per potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare
nel discepolo calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le
potenze spirituali sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter
essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo
consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente
attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di
muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi
aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano purezza
interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza, a
connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva,
l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di
avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva,
paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla
collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza
del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé:
dominio dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei
rapporti con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una
barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio:
positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto
dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in
mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il
manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera
così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia:
si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre
chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e
se si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale libertà
agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE
ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte volte occorre
chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi sul fisico, da
purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso miglioramento. Per la salute
del corpo occorre sopratutto coltivare la chiarezza del pensare e del
discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo esterno. Prima di parlare o
di esporre una propria considerazione o un’opinione, occorre stabilire con
chiarezza il pensiero da formulare in immagini: non è bene difatti cercare a
tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la figura d’insieme da cui
partire. È l’immagine che deve far scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi
un arto della vita universale, una parte di questa, superando ogni senso di
separazione. La sostanza divina è solo apparentemente e necessariamente
ripartita nel cosmo: lo scopo finale dell’evoluzione è comunque ricostituire
un’unica entità spirituale. Bisogna aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli
altri fossero. 3- Si deve divenire consapevoli che i pensieri e i sentimenti
hanno la stessa valenza e importanza che le proprie azioni: il movimento del
pensiero e dei sentimenti è altrettanto concreto quanto le azioni fisiche
operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità per il circostante
ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si diffondono, comprendendo
nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare secondo i puri impulsi
dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve prendere coscienza che il
corpo fisico, nel quale solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un
arto dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una decisione presa; il
rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è
mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o
fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda di un moto passionale o
di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti, grati al mondo esterno e
allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di Saturno, “Tutto era Uomo”, e
che solo grazie al frutto del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri
fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato possibile configurare
l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento giornaliero. Considerare la
vita e agire in essa, secondo la direzione enunciata nelle precedenti
condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata alla vita facendo in modo
che le finalità delle proprie azioni siano determinate dalle attitudini sopra
descritte. Molte cose devono essere abbandonate, e molte altre acquisite per
porsi al servizio del divino. LA POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa
perpendicolarmente e orizzontalmente da correnti, che possono favorire o
ostacolare la meditazione. Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre
pertanto avere la colonna vertebrale verticale rispetto alla superficie
terrestre. La posizione distesa, supina, invece accoglie le correnti orizzontali
dirette alle specie animali, inducendo automaticamente ad un tipico stato
semisognante. I FIORI DI LOTO. Il corpo eterico è percorso da innumerevoli
correnti che muovono in senso longitudinale o circolare radiale. Durante la
veglia, il corpo astrale rimane connesso spazialmente al corpo fisico; quando
si apre nel discepolo la coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in
proporzione dello spazio che può essere percepito, ossia diviene grande quanto
il suo campo di percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali,
fra gli occhi, perché esso è connesso con il risveglio di forze che
appartengono alla chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni
di sicurezza, del loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”,
sul capo. In un lontano passato, i fiori
di loto erano attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente
solo la loro metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano,
cominciando a muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici
(cuore)e dieci petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta
sull’Io inferiore. IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della
preparazione e dell’illuminazione tendono ad attivare tale centro. Si tratta
principalmente di lavorare nel campo delle idee, curando la moralità nell’uso
delle parole e la qualità di buon fine delle proprie risoluzioni prese. Tale
centro, attivato, conferisce la capacità di entrare in comunicazione con altri
Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le condizioni da realizzare sono otto,
ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente: Formarsi rappresentazioni il più
fedeli possibili del mondo esterno, prive di fantasia personale, eliminare
l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività; le parole usate in un
discorso devono essere sempre rigorosamente connesse all’argomento; ogni gesto e atto deve essere sempre in piena
coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare, pianificare
concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità e la
giustezza delle proprie aspirazioni; imparare
ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita; la giornaliera meditazione per interrogarsi
sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È
di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità
promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo
interiore. A volte non è molto
altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza.
Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’
E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità:
anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione
sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a
due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale
centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il
cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio
reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione. Bisogna suscitare un rispettoso silenzio
riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre
accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni. Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a
trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta
incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle
forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la
percezione delle “forme”. Come gli
altri, anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni
da realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad
ogni petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema
o da un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente,
distaccandosi così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di
persone che parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non
intervenire correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri
deformi e correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé.
Controllo delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato
dagli istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai
movimenti, in modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire
determinate da impulsi inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro
pensiero. Pratica della Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità,
compiendo e portando sempre a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi,
gli esercizi o le determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare
la conoscenza dei motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla
comprensione degli errori altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di
criticare o giudicare; occorre far nascere in sé il desiderio di voler essere
utili all’altro tramite consigli o considerazioni costruttive, non con giudizi
che bloccano la sua evoluzione. Pratica dell’obiettività o spregiudicatezza;
non respingere immediatamente qualcosa che ci venga detta, e parimenti non
rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose da noi già appianate e
conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità, equilibrio degli
esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere le normali
reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina certamente
difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un buon
esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente importante
ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con un’altro
pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici PETALI
(Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri le
potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo
sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma
piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera
condotta di Vita. Occorre considerare la
totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee
spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la
coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse
risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono
alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato
tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare interiormente
il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente impresse in noi come
tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o simpatia. In tal modo
si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si immette nella
corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno dell’addome).
Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri spirituali. Si
sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e spirito. Deve
sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire immersi nello spirito:
incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e insistere nel lottare
duramente contro una propria inclinazione o tendenza molto pronunciata; se tale
difetto è così preponderante, a volte lo si può solo dominare o controllare, ma
non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare e sublimare le proprie
passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni tendenti al voler
tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di sperimentare la
gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE PARTICOLARITA’ SUL
CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre in perenne
movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente, seguendo la
circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da localizzarsi
nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono agli altri
centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale imperfezione. Esso è
un organo di natura Solare. Nella zona centrale della testa vi è un punto specialissimo
in cui corpo eterico e corpo fisico sono congiunti; qui inizialmente si formano
le correnti del corpo eterico. Prima di rendere operativo il fiore a 12 petali,
nel cuore, occorre predisporre un centro provvisorio nella testa, per rendere
possibile uno sviluppo interiore condotto in piena coscienza. Successivamente,
dopo aver raggiunto un giusto stadio di controllo cosciente delle attività di
pensiero, tale centro dovrà venir trasferito nella sua vera sede, presso il
Cuore. Gli esercizi di concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare
tale centro nella testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore
l’attivazione. RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere
il vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei
esercizi fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA
VIA INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una
specie di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere
pronti per qualche cosa. E’
relativamente facile contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un
libro, difficile però realizzarlo con la stessa continuità, puntualità,
perseveranza e coerenza nella vita: nella vita non è come nel libro, dove un
passo viene descritto uno dopo l’altro; a seconda delle occasioni e delle
situazioni individuali ogni passo può svilupparsi prima o dopo, in modo
assolutamente non conseguente. L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA “CONTINUITA’ DELLA
COSCIENZA”. Il corpo eterico è di per sé, un principio spirituale: è
connaturato con il tempo, è fatto di sostanza temporale. L’uomo non ha
assolutamente alcun potere di interferire o di influenzare le forme pensiero,
di sentimento, di desideri o passioni da lui generate. Una volta emanate,
queste forme non possono più venire controllate. Durante lo sviluppo occulto,
in un primo momento, il sé superiore si pone di fronte al proprio mondo
inferiore, il suo Ego. Si ha la
percezione che tutto che era la nostra natura interiore, prende forme che
tendono a venirci addosso, incontro dal di fuori. Si verifica un rovesciamento
delle immagini, tipico del mondo astrale. Il praticare esercizi in modo non corretto,
disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida base, potrebbe
causare la percezione di queste forme pensiero in forme ossessionanti ed
aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e anche
possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però
indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che
comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia
quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale).
L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2
petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali. Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue
tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello
spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà
rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri
immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva,
passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è rintracciabile
come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir sentito il più
possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà spirituale si
sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo apparire veri fatti
e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano nella coscienza la sede
atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere: costruiscono quasi la
sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale esperienza. Si arriva
poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene: il karma. A questo
punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la sorgente del proprio
essere. Da questo momento il discepolo non torna più indietro perché,
compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di quanto gli è
inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di veglia, l’uomo si
trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno ha la possibilità
di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La coscienza di sonno
senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà percettiva
corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si percepiscono
come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la sensazione di parlare
a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in noi esseri spirituali.
Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio: sono cenni del progresso
spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di aver ricevuto qualcosa,
qualcosa che non si riesce a definire.
Poi, i rapporti con gli esseri spirituali assumono la caratteristica di
domanda e risposta; si sente al risveglio una voce interna donante luce e
chiarezza alla propria vita interiore e alla vita esteriore. Non è bene
sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno, ma lasciarle sorgere
spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al risveglio, questi messaggi
diventeranno sempre più chiari, così da portare nella vita di veglia tutte le
esperienze della vita spirituale vissuta durante la notte: si instaurerà la
continuità fra lo stato di veglia e lo stato di sonno senza sogni. Una volta
stabilita, tale continuità di coscienza verrà portata dal discepolo anche
attraverso le porte della morte, e con essa la stessa pienezza del ricordo
nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione indispensabile per tale
realizzazione è la pratica della concentrazione, meditazione e contemplazione.
Il discepolo potrà porre delle domande in meditazione, durante lo stato di
veglia: riceverà le risposte durante il sonno senza sogni: ciò è l’inizio di un
colloquio fra esseri spirituali. Il vero scopo dell’Iniziazione consiste
nell’instaurare la continuità della coscienza. Ciò è una mèta assai lontana, ma
dirigendosi verso di essa si possono cogliere degli sprazzi di luce che
indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza. LA SEPARAZIONE DEL
PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il discepolo ad esperienze
inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione delle tre facoltà umane
è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi spirituali. Sono tre i
pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare: divenire astratti
teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e indifferenti nei confronti
dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel proprio pensare in
solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può sentirsi trasportata
in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un estremo godimento
del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del Volere: divenire
super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il mondo esteriore,
lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO
ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in modo immediato,
istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve distaccarsi da tale
automatismo innato, predisposto in lui.
Il fatto di poter dominare le reazioni e i sentimenti conferisce a tutto
l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché le emozioni non hanno autorità
sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si deve fondare su di una nuova
personalità morale, il quale deve conferire al discepolo la coscienza di ciò
che deve agli altri, di ciò che deve al mondo spirituale e a ciò a cui deve la
ragione della propria esistenza. La Libertà prevede che si sia superato
l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di moralità e di equilibrio da
poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma per l’umanità.Il discepolo
diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori, con la libera decisione
di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in tal modo si può parlare di
una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui stesso e agli altri. IL
GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato pensare, sentire e volere è
possibile accedere all’esperienza del guardiano della soglia. LA SOGLIA. Il liberare
le facoltà dell’anima significa assumersi direttamente la responsabilità delle
proprie azioni. Avendo liberato il corpo eterico e il corpo astrale dagli
automatismi del pensare, sentire e volere, si avvicina l’esperienza del
guardiano della soglia: si rende obiettivamente visibile il grado a cui si è
pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano diviene un essere indipendente,
al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era intessuti con lui, ovvero con
ciò che rappresenta cosmicamente il nostro essere, ora si presenta
esteriormente la nostra interiorità. I propri moti interiori si traducono nella
figura esteriore di questo essere. Il guardiano si presenta all’improvviso,
appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima esperienza soprasensibile.
Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al cospetto del guardiano, che
palesa il grado di imperfezione e purezza da noi raggiunto sinora, riconoscono
la propria inadeguatezza, la propria immaturità nel sopportarne la visione,
quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie limitazioni: i difetti assumono un
carattere obiettivo. Solitamente questo essere si presenta per la prima volta
al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato, tanto da suscitare terrore.
SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo che un uomo con il viso
deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto specchiarsi; quale sarà la
sua reazione di fronte allo specchio, quando per la prima volta vedrà la sua
deformità ? Prendere coscienza della propria figura interiore è l’incontro con
il guardiano: egli è noi, che ci appariamo all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA
INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il nostro karma; la sua figura riassume il
nostro passato vivente con tutte le cause di dolore e gioia. Qualora si trovi
la forza d’intrepidezza di guardare in volto il guardiano, da quel momento ci
si assume coscientemente la responsabilità di pagare i propri debiti karmici,
quasi andando incontro a questi. Ci si accorge che ogni tentativo di evadere o
di rimandare il pagamento del proprio karma, provoca un disastro nell’ordinamento
spirituale. Ogni mancanza si riflette assumendo forma demoniaca. Occorre
assolutamente a cagion di ciò, quali discepoli, superare il sentimento della
paura. Il coraggio di affrontare il guardiano
è contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie
mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore,
rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore
resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile
e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in
modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere
figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento
dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel
nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto
la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé
stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di
essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per
prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si
comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si
sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE
GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel
quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che
condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel
quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il
riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che
ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere
nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno
la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a
quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini
inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di
conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se
vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende
qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale
nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato
durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e
dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del
mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai”
a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza
risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti
dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione
dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo
nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire:
offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente
proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA.
Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le
regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra
veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare,
sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa
stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La
vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in
coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande
tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato
dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non
detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura. L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale
seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel
mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento
egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa
da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato
partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti
gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali
porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha
compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo.
Breno. Kur. Giovanni Colazza. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colazza” – The Swimming-Pool Library.
Colecchi (Pescocostanzo).
Filosofo. Grice: “What I love about Colecchi is that while he was a bad
Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse
perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli
ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare della Nunziatella.
Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al
ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant.
Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a
Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli
Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello
di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo kantiano in Italia. Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo
d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La legge del pensiere;
L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della ragione; “Se il
raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se nell'invenzione
eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li giudizi necessari
sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del raziocinio sia
valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio misto?”; “Il
principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e quando istruisce”;
“Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una logica mista”; “Se
una idea soggettiva non altro sia che una idea di un rapporto, L’idea dello
spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di filosofia: se la sensazione sia
esterna di sua natura, o tale diventa in forza del giudizio abituale? Alcune
quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia, Logica applicata, Ideologia,
Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche
storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia della filosofia italiana
dal Genovesi al Galluppi, Firenze; Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a
cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F.
Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi
filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa,
Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di
letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura,
filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis,
La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema
filosofico di Ottavio Colecchi (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F.
Amodeo, Ottavio Colecchi, in «Atti della Accademia Pontaniana», Discussioni
biografiche e documenti inediti, Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel
Napoletano; Città di Castello, Colecchi filosofo e matematico: nuove notizie e
nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia e d'arte», Gentile, Storia
della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, II, Milano); Pedagogisti ed educatori, Milano);
Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo ad Ottavio Colecchi, in
«Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: Ottavio Colecchi, in «Archivio
storico per la Calabria e la Lucania», A. Cristallini, Ottavio Colecchi, un
filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana
dell'Ottocento, Bari; E. Garin, Storia della filosofia italiana, III, Torino; F. Tessitore, Colecchi e gli
scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche, Napoli; G. Cacciatore, Vico
e Kant nella filosofia di Ottavio Colecchi, Centro di studi vichiani; Io e
Ottavio Colecchi. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore,
L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla
tomba della setta italica, tenendo dietro alle ori gioi dell’antica lingua del
Lazio – la lingua romana -- trasse fuori il Vico que ste divine idee; aveva
lello forse Bruno ancora, perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua
filosofia, spezialmente nella “Scienza Nuova”, dove l’uomo passa suo malgrado dalle
selve allo stato civile per la sola opera di una lupa (la lupa
capitolina). Se non che l’uomo di Vico rimane nello stesso stato in cui avealo
lasciato Enea. Devono le divine idee rideslarsi all'occasione delle sensazioni;
njun tentativo per ravvicinare la sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare
l’induzione, ma la ragione è sempre scontenta di quanto scopre l’induzione. Non
ancora siera mostrato Kant per conciliar insieme la sensazione (sensus) e
l'idea o concetto. Con questa filosofia, appoggiata all’induzione, si dispose
Vico a crear il “diritto universale” della nazione del Lazio – la nazione
romana. Ma preoccupalo sempre delle civili cose di Roma, brillando sempre nel
suo spirito l'immagine di Roma, si risolse in fine di stabilire Roma come
modello di civiltà. Il perchè nella storia, della mitologia, nelle lingue, nel
Blasone, e pe’ feudi pur anche del medio evo deesi Roma ripelere,e la romana
giurisprudenza diventar quel la di tutte le nazioni del mondo. E come i fatti
hanno a servir di occasione per ridestare la idea, così il diritto di Roma, le
XII Tavole, tutta la storia, tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar
le idee del vero, del giusto, a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è
che metafisica, logica, morale, educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano
prima della religione de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla
città di Roma; dove il senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in
Ordini, per reprimere le ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante
critiche sulla storia positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due
simboli. La sapienza del poeta vera immagine della sapienza o scienza del
filosofo, L’Eneide confuse con la sapienza dei romani. E tutto questo per via
di etimologie stirale, di mili forzati, di stranissime analogie. Egli è evidente
che tal metodo d’interpretazione deesi ridurre in fine ad una tortura , per
isforzare tutt’imonumenti della storia e delle favole a deporre in favore di un
sistema. Siegue da questa osservazione che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione,
per la potente sintesi di Vico, pieghi sempre al modello di Roma, no di
Koesingberga, e la sua civiltà a poco a poco siasi spenta, fino a che passato
il medio evo, col risorgimento delle lettere e delle scienze, ricomioci il suo
corso; può non pertanto rimaner il dubbio che il popolo romano altro forse non
sia che un fatto isolato. Essendo si in effetto limitato il Vico al uomo del
Lazio.Vico, dobbiamo pur dirlo a Gloria d'Italia,Vico è di gran lunga superiore
ad Herder, il quale nella sua Storia dell'umanità ha parlato pur anche
dell'origine e del progresso della civiltà de'popolo romano. Imperocchè se
Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del Lazio nella natura, e dalla
formazione del cristallo, per una ben lunga scala, va sino all'uomo che è la
corona dell'organizzazione. Vico, seguace di Platone e non d’Aristotele, con
maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo nell’uomo stesso contempla.
E se l'analisi di Herder vivamente rallegra l'immaginazione, la sintesi di Vico
sembra lalmente falla l'intelligenza per, che il lettore, in onla del suo
linguaggio enigmalico e della strapezza delle analogie, viene attirato
potentemente dalla magica forza della sua filosofia. Niuno più originale di
Vico, e pare che l’originalità dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel
Vico spenta. De’ suoi principii intanlo, per quel che riguarda il nostro
assunto, egli è facile di raccorre, che avendo le legge per iscopo di metter
freno alla passione umana, e di render l'uomo migliore; ben possono per esse la
*forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi
il genere umano, convertirsi in *valor militare*, *prudente mercatanzia* e *savio
governo*. La legislazione dunque, considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi
migliori la passione, lo riforma e trasmuta in quello che esser deve. La
massima di Vico pertanto, ben lunga dall’opporse alla legge morale, la conferm
viemaggiormente e ne presuppone l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei
lettori, se da Vico stesso tolgo le prove di questa mia assertiva. L’unico
principio e fine del diritto è per Vico la virtù del vero. E'chiama virtù del vero
l’umana ragione (la vernunft di Kant), la quale è virtù in quanto combatte con
la cupidità -- è giustizia in quanto regola e pondera la utilità. La utilità
non e per sè stesse ne onesta nè turpe; ma turpitudine è la sua ineguaglianza,
onestà la sua eguaglianza. L’utilità privata di un singolare individuo, o anche
nazione o popolo di due uomini, è labile, perchè finisce con l'individuo la
diada dei due uomo o con la nazione; ma l’eguaglianza delle utilità, che è
figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è cosa immutabile ed eterna. Una cosa
caduca non puo produrre l’immutabile, nè un corpo dar nascimeoto a ciò che li
trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari, con questi pochi molli
del Vico, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre detto di Pedio presso
Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la legge introdotta è buona
occasione supplire con la legge stessa le altre cose che tendono alla stessa
utilità. Una buona occasione adunque e alla divina provvidenza l’umana
debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa spontaneità, ritrasse
gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere socievoli, uguagliando tra
loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio per intera onestà, ma
per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione* di mutua utilità che
interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un padre (superiore) e un
figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti – l’eguale è tra fratelli
Romolo e Remo o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e Niso, i due amici,
tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice ed equatrice.
L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione geometrica --
misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della giustizia
*distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone. L'eguaglianza poi
delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression aritmetica -- misura, è materia
della giustizia equatrice, volgarmente detta giustizia *commutativa*, la quale
si rapporta al mio ed al tuo – al nostro -- --
ed ba luogo in ogni società eguale. Nè o s t a p u n t o ( come crede
Grozio , il quale dital L'occasione poi, per la quale una cosa accade,
non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide, trattando dell'origine
del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente ad una osservazione
tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non fu produttrice del
diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco Machiavelli, ad Obbes, i
quali intesero per utilità la cessazione o del bisogno, o della violenza, o del
timore; ma fu l'occasione, per la le gli uomini divisi, deboli, bisognosi
tralti furono alla vita sociale. qua. Siegue da ciò , che l'upa e
l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice hanno per fondamento l'onestà, e che
non può avervi giustizia senza morale: conseguenza importautissima, dedotta dal
Vico da vero suo priocipio, e sfuggita al positivista Carmignani, il quale fa
della morale e del diritto due cose talmente distinte, quasi non avessero nulla
di comune tra loro. Elementi del giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la
temperanza, la fortezza. La prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta
con ragione, von come della la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle
cose utili genera la libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la
incolpala tutela. La tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il
diritto naturale, che gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici
appellano il principio della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono
cose nalurali all’uomo, e oale per le occasioni. Così la libertà del diritto
era prima della guerra; ma venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi,
per la guerra, la schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii
delle cose del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii
introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla
potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione
siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo,
prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di
lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che
li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso,
se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su
iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo
secondario, e dagli Stoici conseguenti della natura. Rimontiamo col Vico all’origine
di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la
sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva
del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui
vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere
agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi
quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode
col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire
le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle
utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con
seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di
cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita:
diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di
respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione
de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo
conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della
natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli
uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto
domina la prima: di guise che quando Pompeo, impedito dalla tempesta a partire,
disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo
dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar
rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la
ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che
comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile
ancor la prima , non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi
, non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora
imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel
principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro
di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma
:non esser ella di alcun uso , sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e
giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli
stesso l'ammelte tacitamente ; perchè in questo appunto il suo uso consiste,
che nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del
primo. Ma bisogna un Vico per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e
mostrare a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto
naturale primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il
diritto naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto
volontario è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè
al tutto dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in
parle viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione
della legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione
dalla legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e
la mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata
per altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della
legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori,
per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir
non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè
data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta
al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio
ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può
l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero
leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità,
la qual , dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della
libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza
per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio
sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza
del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura
mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità,
seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto
non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta
o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale
variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge
al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di
vero , che rende certa la legge , m a non del tutto vera ; perchè qualche
ragione non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt
Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale
na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela,
nacque il diritto delle prime genti , che può dirsi ; Diritto della violenza.
Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle
genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si
stabilissero le leggi : motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri
numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei
delle genti maggiori .Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la
città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che
vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi.ParealVicoche tale
divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono patriziï
delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero, e
patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto
delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che
gli uomini, senz’alcun freno di legge , toglievano con la propria mano, ed
usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e
con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per
mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni,
usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso,
come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti,
usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine
dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si
manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano
che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale! per tre nolti
continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero
in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della
ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due
cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque
stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come
che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne' Governi divini ed
eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col
Diritto delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè
dicemmo, si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si
ollenevano, con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza
frequenta risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e
poco fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural
pudore, conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore
disordine in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente
trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad
essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse
certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa
formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata
volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non
per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà
o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di
privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla
via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e
distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte
ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto
naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e
della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in
moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose
insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori
vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del
diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori,
coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la
terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio,
la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il
privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col
quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore
si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende;
all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita
questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani
Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama Vico il romano diritto un
serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni,
delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta
il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le
mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la
liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione
del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la
usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto
significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi ,ma con certo
legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani
con una paglia, dellaper. Ciòda Gellio festucaria.Pernon diral la fine di tanteal
tre, l’azione personale chiamata condictio non più e l’andar unito il creditore
al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia. Le quali
cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede il poeta
il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di Anfione vero.
Ella è questa, secondo Vico, l'origine ed il progresso dell’universale diritto
delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di Vico stesso, in istretta
amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti questo
gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù
universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano
alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla
temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza,
che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non
appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio
diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più
il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità
della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor
della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer
anche meglio l’accordo della filosofia di Vico con la legge morale, basta
osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo
in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente
nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo Vico,una sola virtù,
e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli,
che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto
alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a
latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come
particolare virtù, nell'animo del sapienle , c regola gli uffizi di tutte le
virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde
Vico, v'ha unica ragione che così della , unico vero bene, unica giustizia, e
unico diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il
principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata
del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo
nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se
quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o
vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa
non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto
civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti
maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che
quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio
dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di
violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica
e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella dell’istinto
a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo certamente il suo
destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente diverso da quello
che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè stesso crear questo
bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato di libertà: a
quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle alla legge morale,
come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve l’uomo, a dir breve,
diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere morale, ed un tal
passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno di
congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione,
qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe
egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere
in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del
primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra
per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero
il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era
semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor
coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne
seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli
strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo
e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono
con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon
l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che
prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la
monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero
della legge. S o l l o queste forme di governo l u l l a si spiega la moralità
dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta
mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio
figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò
famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita
l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il
fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto
grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar
colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero
quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo
in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi
osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri
della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal
puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e
consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce
la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero
amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo
delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta
all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso
gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.
Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo Vico, nei quattro stati su indicati
noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca
egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua
salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con
la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua
salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio,
ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico,
in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da
altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la
familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si
facevano nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano
gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’
goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa
o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la
ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il
senso. governo. Così è , diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo,
tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia;
secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di
tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati
non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico
si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano
egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della
provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del
giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla
norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica
degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue
forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il
civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle
genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la
re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle
palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per
regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione
che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che
ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per
paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune
de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso
comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la
nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano:
che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò Vico seguendo Gaio
chiama diritto civile comu. d e il diritto comune di ogni popolo; perchè Gaio,
ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e
da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune
diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la
stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la
loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto
spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio,
dalla libertà nacquero, secondo Vico, tre pure forme dello stato. Quella degli
ottimati, la regia, e la libera. Fondamento dello stato degli ottimati è la
tutela dell’ordine, con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano
gli auspicii, il campo, la gente, I connubî, i maestrati, gl’imperî , e presso
legenti i sacerdoti. La regia risplende pel dominio di un solo, Romolo, e pel
sommo e formisura libero arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien
celebrata dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per
l’eguale adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di
essi comanda un solo,o come vuole Tacito: uno essere il corpo della repubblica,
e doversi governare con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun
politico reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari
che l’unico non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati,
benchè sieno da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse;
tultavolta allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà,
il potere risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e
costituiscono irë parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto
è l’anima di ogni stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine
delle cose corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine,
ma sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il
prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono
i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi
stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge
all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di
civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’
sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato
dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe Romolo si
vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione
dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede, diligenza,
solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad onorale
cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di guisa che
i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e li dirigano. Ma
quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero dalla plebe,
all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo, il quale altro
non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della parola, da cui
nasce la coscienza dal dubilar sicura . Imperoc chè I primi imperi degli ottimi
o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo passarono, o a
monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel lignaggio come nell’aristocrazia,
o nel censo come nella democrazia, o nella casa regnante come nella monarchia. Ma
de la nobiltà, né il patrimonio rende sapienti. Il nascer orincipe è cosa
fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome però il certo è parte del vero, e la
ragion civile nasce della stessa ragion naturale per le cause di certo Diritto,
così l'ordine civile per natura sua fa parte dell’ordine naturale in quanto è
esso cagione della pubblica sicurezza, ond'è che anche la citta la più corrolla
da questo stesso civile ordine viene conservata. Ed è per quanto però la
mente è più verace del discorso, altrellanto l’ordine e più stabili della
legge; im pe rocchè la mente sempre una cosa detta al parlare, ma pel giudizio,
o sia per la volontà, noi più volte falliamo, servendo spesso a ciò che dice il
senso, senza ascoltar la mente. La parola in oltre non viene sempre con
prontezza alla mente, spesso non esprime i suoi comcetto, mentre viene quella
incessantemente spronala a raggiugnere Ma questi ordini per la via della
legge col timor delle pene, con la speranza de un premio, impongono al
cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual cosa l’ordine e più stabile
dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino sull’ordine, e che questi
conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il quale è misto di ordine
naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò che Aristotele della
legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E come che la mente del
popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa mente stessa suole addivenir
talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa da intestine turboleoze.
Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del popolo romano sconvolta dal
demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con particolare legge fuori
l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di chiara virtù, per elevare
ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini. Vero, il la qual forza di
vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola sovenli volte elude questa
forza di vero, per la perversa volontà di chi ragiona. L'ordine perciò naturale
e l'ordine misto è il solo che può con giustizia amministrar il diritto, e
questo avviene quando uomini per sapienza e per virtù prestantissimi, giusta l’ordine
naturale, e non secondo l'ordine concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto
chiamato da Grozio e Kelsen puro, e da Gaio diritto comune a tull ipopoli,
altro non è ch e il diritto naturale , il quale h aperto della parola, o che
torna lo stess , non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della
legge stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano
ed è necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader
ancora che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per
ignoranza si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e
quello stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine
o secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si
conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si
cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano.
Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi.
Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla
legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può
darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che Vico
distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione,
questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più
della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani
governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera
elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione.
Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le
diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro
autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i
più prudenti, come vuole il Vico, non si propongano per i scopo il diritto vero
e che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione
infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si
conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di
perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar
l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà:
nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli
scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli
considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di
lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso
giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui
occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella
solamente , nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere;
di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli
anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio,
e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè,
prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già
erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso
diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il
legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo
non era ancora. La libertà del diritto,
dice Vico, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il
dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di
operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che,
ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del
tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che
tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli
in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si
dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche
ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il
quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione,
appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di
cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer
il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o
comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti
determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo
con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la
suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi
basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial
la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre
elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non
può avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di Vico si accorda perfettamente
con la morale. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s
easy enough to check his references to other Italian philosophers – not just
Vico, as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero –
and perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan
Hegelians!” -- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi,
Cacciatore, Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative,
massima, first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico –
il kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario
kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio
necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno,
Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di
Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto,
la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione,
l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la
rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di
Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius como la virtu unica,
giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia distritutiva,
l’ordine aritmetico e l’ordine geometrio – la base matematica della filosofia
di Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo,
padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima
universalisabile, l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il
vero versus il certo, la nascita della morale dal ordine agglomerazione
sociale, la potesta naturale, il dominio, la tutela, la liberta, libero
arbitrio e passione, autorita e ragione, forza, autorita e raggione,
l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo dell’avo, la societa di
equali, il modello della societa romana antica, la societa dell’amicizia,
Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come requisite del patto
sociale, la parola e il concetto, la formola della parola, verbum/res, res
pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine: primo stato
dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di inequali,
padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo, il paese di
Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant, Hampshire on Vico. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The Swimming-Pool Library.
Colletti (Roma).
Filosofo. Grice: “I like Colletti – he takes political philosophy seriously
unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman
and has all the Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a
Roma. “Partito Socialista Italiano”. Altre opere: “Il marxismo e Hegel, in
Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, 1958. Ideologia e società,
Bari, Laterza, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo.
Crollo o sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista
politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari,
Laterza, Il marxismo e il "crollo" del capitalismo, a cura di,
Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto
dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a oggi; Dialettica e non-contraddizione;
Kelsen e il marxismo], Roma-Bari, Laterza, 1980. Crisi delle ideologie.
Intervista politico-filosofica, Il marxismo del XX secolo, Le ideologie dal '68
a oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e politica, Milano,
Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della
filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla
ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto Lucio Colletti voce
"contro" di Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo
Parlamentare di Forza Italia, Ricordo di Lucio Colletti, Roma, Stampa e
servizi, Orlando Tambosi, Perché il marxismo ha fallito Lucio Colletti e la
storia di una grande illusione, Milano, Mondadori, 2001. 88-04-48844-1 Ministero per i beni e le
attività culturali, Lucio Colletti: il cammino di un filosofo contemporaneo, Roma,
Essetre, 2003 Pino Bongiorno, Aldo G. Ricci, Lucio Colletti scienza e libertà,
Roma, Ideazione, Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, Manifestolibri.
Collétti, Lucio la voce nella Treccani L'Enciclopedia Italiana. il 20/07/ Lucio
Colletti, su CameraXIII legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su
CameraXIV legislatura, Parlamento italiano. La storia di Lucio Colletti di Costanzo
Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza Italia”. Il
saggio di Colletti Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di alcuni
temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left Review” nel numero di
luglio-agosto 1974, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista.
Più esattamente Colletti si propone di chiarire la «differenza tra “opposizione
reale” (la Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e “contraddizione
dialettica”». Si tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza
contraddizione (ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den
Widerspruch)» (1974: 65). La opposizione dialettica (66-69) è espressa dalla
formula «A non-A», nella quale ciascun opposto è solo la negazione dell’altro,
ma non è niente in sé e per sé. I poli dell’opposizione sono cioè ambedue
negativi, più esattamente ciascuno è la negazione dell’altro, ma solo
all’interno dell’unità con l’altro. Quindi «entrambi gli opposti sono negativi,
nel senso che sono ir-reali, non-cose (Undinge), ma idee». Ciascun opposto «ha
la sua essenza fuori di sé» (67), nell’altro di cui è la negazione. L’origine
dell’opposizione dialettica, e della stessa dialettica, è platonica: l’unità
degli opposti è la koinona ton genon. L’opposizione reale (70-76) è espressa
dalla formula «A e B», nella quale ciascun opposto sussiste di per sé, è
positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più importante è che
Massimiliano Biscuso – Opposizione reale, contraddizione logica e contraddizione
dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà
(Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga
indicato come il contrario negativo dell’altro» (72). Questo accade ad esempio
quando ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione
contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo
qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di
contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso
che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè
come non-essere» (74). Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il
pdnc, proprio perché sono «senza contraddizione» (dove è già implicito, come
sarà confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il
marxismo non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi
generi di opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con
sufficiente rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la
dialettica delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso
preciso che è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si
presta attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito,
essere-pensiero, segue il modello della contraddizione “A non-A”. Fuori l’uno
dell’altro, cioè al di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi
astratti, irreali» (80), e l’unità che include il finito e il falso infinito
(falso perché altrettanto finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al
finito) è l’Idea, il vero infinito. Dunque, commenta Colletti, «dov’era la cosa
è ora subentrata la contraddizione logica» (81 – si badi bene: contraddizione
logica e non, come ci si attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il
«dramma del marxismo» è aver «ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana
della materia, scambiandola per una forma superiore di materialismo. Dramma,
perché quella dialettica era volta: a) alla distruzione del finito, b) alla
negazione del pdnc; cioè proprio a ciò a cui la scienza non può rinunciare,
anzi da cui si deve necessariamente muovere (d’altronde la scienza, che si basa
sul pdnc, «è il solo modo di apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il
mondo», 112). Avvertiti di questa difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni
marxisti polacchi e tedesco-orientali cercarono di mostrare che «ciò che i
“materialisti dialettici” presentano come contraddizioni nella natura sono, in
realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne Widerspruch; e che, dunque, il
marxismo può benissimo continuare a parlare di conflitti e di opposizioni
oggettive, senza, per questo, essere costretto a dichiarare guerra al principio
di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta con la scienza» (86). Tali
risultati convergevano con quelli della ricerca di della Volpe: a costo di
liquidare «gran parte dell’opera filosofica di Engels» (94) in quanto fonte del
Diamat, sembrava però legittimarsi «l’aspirazione del marxismo a costituirsi
come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società»
(95). In realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a
che fare con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la
sostantificazione dell’astratto, www.filosofia-italiana.net 5
l’inversione di soggetto e predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto
modi difettosi della logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi
che egli ritrovava […] nella struttura e nel modo di funzionare della società
capitalistica stessa» (97). Vi sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato
dell’economia politica e il critico dell’economia politica. Questo significa
riconoscere i limiti della stessa lettura dellavolpiana, che condivide con
molte altre letture marxiste il difetto di non cogliere le due facce del
pensiero di Marx. «Quando il marxismo è una teoria scientifica del divenire
sociale, è tutt’al più una “teoria del crollo”1, ma non una teoria della
rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria della rivoluzione, essendo solo
una “critica dell’economia politica”, rischia di risultare il progetto di una
soggettività utopica» (102). Dunque per lo stesso Marx le contraddizioni del
capitalismo sono non opposizioni reali, bensì contraddizioni dialettiche nel
senso pieno della parola. Da un passo delle Teorie sul plusvalore (la
possibilità della crisi è la possibilità che momenti che sono inseparabili si
separino e quindi vengano riuniti violentemente) Colletti conclude che i poli
dell’opposizione, separandosi, si sono fatti reali, pur non essendolo
veramente: «sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità per sé
irreali seppur reificate» (107). «Teoria dell’alienazione e teoria della
contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria» (109): la
contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del
lavoro, pur essendo intimamente connessi, si danno un’esistenza separata. È la
contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata dai
maggiori analisti della società civile borghese del Settecento. «La società
moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un
tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’“unità originaria”
dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo» (111), dove l’unità, essendo
data, non deve essere spiegata, mentre è da spiegare la divisione. «Seppure
modificato, riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E
questo, ci si scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello
scienziato, naturalista e empirico» (112). Georg Wilhelm Friedrich Hegel
versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik (im Sinne einer Lehre von den
Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die Logik in einer Weise zu erweitern
(sog. dialektische Logik), die den Satz vom Widerspruch außer Geltung setzt.[3]
Damit versuchte Hegel, die Kantische Widerlegung des sogenannten 'Dogmatismus
in der Metaphysik' zu umgehen. Der Wissenschaftstheoretiker Karl Popper
kommentiert: „Diese Widerlegung [Kants] betrachtet Hegel als gültig nur für
Systeme, die metaphysisch in seinem engeren Sinne sind, jedoch nicht für den
dialektischen Rationalismus, der die Entwicklung der Vernunft berücksichtigt
und deshalb Widersprüche nicht zu fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische
Kritik in dieser Weise umgeht, stürzt er sich in ein äußerst gefährliches
Abenteuer, das zur Katastrophe führen muss; denn er argumentiert etwa
folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den Rationalismus durch die Feststellung, er
müsse zu Widersprüchen führen. Dies gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses
Argument seine Stärke aus dem Gesetz vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur
solche Systeme, die dieses Gesetz akzeptieren, also solche, die beabsichtigen,
frei von Widersprüchen zu sein. Das Argument ist nicht gefährlich für ein
System wie das meinige, das bereit ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für
ein dialektisches System.‘ Es besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen
Dogmatismus von äußerst gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der
keinerlei Angriff mehr zu fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie].
Denn jeder Angriff, jede Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode
stützen, irgendwelche Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie
selbst oder zwischen einer Theorie und irgendwelchen Fakten […].“[4]
Logisches Quadrat Das logische Quadrat Unter der Voraussetzung,
dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind, bestehen zwischen den
unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene Beziehungen: Zwei Aussagen
bilden einen kontradiktorischen Gegensatz genau dann, wenn beide weder
gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein können, mit anderen Worten:
Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum ist genau
dann der Fall, wenn die eine Aussage die Negation der anderen ist (und
umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen trifft das kontradiktorische
Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren
Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide falsch
sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in konträrem
Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann, wenn
nicht beide zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können. In der
Syllogistik steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen
den Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht ein
Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im
logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P
sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h.,
wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese
Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches Quadrat“
bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte
Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen
Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben. Grice: “Colletti
takes negation more seriously than Popper does. Colletti examines Hegel’s
target, which is Kant’s distinction between ‘real opposition’ or ‘real
repugnance’ and ‘dialectical contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed
wishes to go beyond the principle of non-contradiction instituted in Velia by
Parmenides. The Italian language allows for some distinction that the English
language doesn’t. There’s the opposto, which is combined of posto, posto is
cognate with ponere, as in modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’
(as opposed to negative, or strictly, togliere, tollere modus tollens – to
deny). So the the posto, we have the opposto. On the other hand, there’s the
‘contra’, which translates Greek ‘anti’ – so that ‘apophasis’ becomes
‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate with ‘deixis,’ and so more to do with
dictiveness and indicativeness than with ‘vocalisation’. The Germans deal with
the widerspruch but that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto.
But after Cicero, the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and
l’opposto then pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation
and privation,’ and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant,
Hegel Colletti, and I, allow for ~ being all we need!” Lucio Colletti. Keywords:
opposition, negazione, la contraddizione dialettica e la non-contraddizione –
hegel – Oxford Hegelian, “Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The
Square of Opposition” Das Quadrat – contradictum – the deicticness of the
dictum – contra – counter – anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum –
contrarium, il contrario, l’opposto, contra-dictio and contrario, il contrario,
il contradditorio, dialettica ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Colletti” – The Swimming-Pool Library.
Colli (Torino).
Filosofo. Grice: “I love Colli – his ‘filosofia dell’espressione’ is much more
serious than my ramblings, well meant, though, on Peirce! I was only trying to
be fashionable! At Oxford, they loved my lecture on ‘meaning,’ which got me into
‘implying,’ and eventually, ‘expressing.’ – My unity developed – Colli was born
with it!” Insegna a Pisa. Di una facoltosa famiglia, il padre amministra
“La Stampa”, incarico dal quale fu poi estromesso all'indomani della marcia su
Roma, su ordine di Mussolini. Studia a Torino, laureandosi sotto Solari con “Politicità
ellenica e Platone”. Scorse nella tradizione filosofica classica greco-romana
l'autentico "logos" a cui ritornare. Lo stile di scrittura,
profondo e costellato di aforismi taglienti, si caratterizza da un'attenzione
maniacale alla musicalità del discorso. Questa dote musicale emerge con
chiarezza dalle letture di alcuni passi di Colli recitati da Bene. Il suo
saggio principale è “Filosofia dell'espressione” che fornisce, mediante una
complessa teoria delle categorie e della deduzione, un'interpretazione della
totalità della manifestazione come “espressione” di qualcosa (l'immediatezza)
che sfugge alla presa della conoscenza. Comunque, ritiene che sia possibile
riguadagnare il fondamento metafisico del mondo portando il discorso filosofico
ai suoi estremi limiti e "(di)mostrando" la natura derivata del
logos. Importante il suo contributo su i filosofi italici Gorgia, Zenone, e
Girgentu, e le figure di Bacco ed Apollo, dismisura e misura. Al tentativo di
interpretare gli enigmi di questi culti a-logici, fra i quali quelli oracolari,
viene fatta risalire l'origine remota della dialettica. Altre opere: “Filosofia
dell'espressione” (Adelphi, Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La
nascita della filosofia. Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso,
Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La
sapienza greca” “Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene,
Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca”; “Eraclito” (Adelphi,
Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione errabonda” (Adelphi, Milano);
“Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi, Milano); “La Natura ama
nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi, Milano); “Gorgia e
Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni su Diofanto di
Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone politico” (Adelphi, Milano);
“Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e dionisiaco” (Adelphi, Milano);
“Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta dello spirito per la potenza,
Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino); Organon, Einaudi,
Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di Giorgio Colli, Einaudi,
Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e paralipomena” (Adelphi,
Milano); Nietzsche (Classici Adelphi)
Scritti giovanili; La nascita della tragedia; Considerazioni inattuali; La
filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti postumi; Wagner a Bayreuth;
Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano, Aurora; Idilli di Messina; Così
parlò Zarathustra; Al di là del bene e del male; Genealogia della morale;
Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce homo; Nietzsche contra
Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume; Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità
e il danno della storia per la vita (Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle
nostre scuole” (Adelphi, Milano); La mia
vita (Adelphi, Milano); La nascita della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di
fede e lo scrittore, Adelphi, Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di
Mazzino Montinari, Adelphi, Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il
servizio divino dei greci” (Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo,
Bari); Dizionario biografico degli italiani,
Implicazioni estetiche in Colli; Misura e dismisura. Per una
rappresentazione di Colli, ERGA, Genova); L’enigma greco; Apollineo e
dionisiaco in Colli, in Clemente Tafuri e David Beronio, Teatro Akropolis.
Testimonianze ricerca azioni, vol II, AkropolisLibri, Genova); I Greci:
annotazioni su alcune traduzioni, in "Episteme", Mimesis Edizioni,
Milano); Il Girgentu di Colli, Luca Sossella Editore, Roma. Giorgio Colli. Colli.
Keywords: L’Apollo romano, L’appollo d’etruria, La mesura d’Apollo, la
dismisura di Bacco; l’enigma filosofico, Bacco, Nietzsche, Girgentu, Velia, Crotone,
Gorgia, Zenone di Velia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colli: l’implicatura
di Bacco.”
Collini (Firenze).
Filosofo. Grice: “If you love birds, you love Collini – he loved
‘pterodattili,’ though and made nice drawings of them, as they fought with
‘uomini’!” Discendente di una nobile famiglia, studia a Pisa. Si trasferì a
Coira. Collini venne descritto come scontroso, spesso in litigio. A lui si deve
la descrizione dello pterodactylus, un rettile volante, o pterosauro o
pterodattilo. Denuncia il fanatismo durante le guerre rivoluzionarie francesi
in Europa. Grice: “I often wondered why the conte would flee his family seat in
lovely Tuscany for the darker landscapes of the North – till I found out the
reason: he had helped one of his noble friends (Ottavio) to do some evil-act on
a nobile gentildonna (Malspina): so he had no choice!”. Altro Italiano non ricordato dal Lucchesini, forse perchè assai più
tardi aggregato all'Accademia, è Cosimo Alessandro Collini, nato a Firenze.
Narra il Denina (1) che, mentre ea Pisa, aiuta a Domenico Eusebio Chelli, da
famglia civile di Livorno, nel ratto della marchesa Gabbriella Malaspina, sicchè
dovette fuggirsene (2). Dopo essersi fermato a Coira, va a Berlino raccomandato
da una signora M. (egli stesso non ne dà che l’iniziale) abitante in Firenze,
amica di famiglia e sorella della Barberina. Accolto da questa, ormai signora
Coccei, con molta benevolenza, attesea studiare, e con baldanza, quando
Voltaire venne a Berlino, si presenta a lui, che lo riceve amorevolmente
dicendogli, la Toscana è stata una nuova Atene e i toscani sono stati i nostri
maestri. Gli si raccomandò per trovare un'occupazione e n’ebbe lusinghiere
promesse. Ma il tempo scorreva e il conte ha fretta, sicchè pensa di valersi,
oltre che della ballerina, anche di una celebre cantante, l’Astrua, che gli
ottenne il posto di segretario dello stesso Voltaire. Stette con lui copiando i
suoi lavori e leggendogli la sera il Boccaccio e l'Ariosto – l’uno pienamente
con tento dell'altro. “Mon secrétaire», scrive il Voltaire al Thiriot, “est un
florentin, très-aimable, tres-bien né, et qui merite, mieux que moi, d'être de
l'Académie della Crusca. Fu compagno al filosofo poeta anche nella sua fuga
dalla Prussia e nelle sue pe regrinazioni e vicissitudini per la Germania, la
Francia e la Svizzera. Ma nper una lettera nella quale scherzava su mad. Denis,
si separa da Voltaire, che tuttavia continua a volergli bene e a corrisponder
con lui; e sulle raccomandazioni del Voltaire passa al servizio dell'elettor
palatino, che lo fece suo bibliotecario e segretario dell'Accademia di
Mannheim. Scrive saggi sulla storia della Germania e su quella del Palatinato,
ma più ch'altro di mineralogia. È lodato anche un suo volume di Lettres sur les
Allemands, pubblicato anonimo a Mannheim nel 1784, cui un altro doveva seguirne
sulla letteratura tedesca.E là dove aveva trovato una seconda patria e una
onorevole residenza, mori nel 1806. All'Accademia,alla quale forse furono
ascritti anche altri Ita liani oltre quelli ricordati qui e più addietro,e cui
è da aggiun gere G. B. Morgagni (3), si riferisce questo brano di lettera del
(2) Il COLLINI stesso nel suo libro Mon séjour auprès de Voltaire et Lettres
inédites que m'écrivit cet homme célèbre,ecc.,Paris,Collin,1807, confessa (pag.
5) la fuga dalla patria e dalla famiglia, m a ne dà per m o tivo una giovanile
vaghezza di conoscere il mondo e gli uomini. L'esemplare
tipo dell'animale ora conosciuto come Pterodactylus antiquus è stato uno dei
primi fossili di pterosauro scoperti e il primo ad essere identificato. Il
primo esemplare di Pterodactylus fu descritto dallo scienziato italiano Cosimo
Alessandro Collini, nel 1784, sulla base di un scheletro fossile, portato alla
luce dai calcari di Solnhofen, di Baviera. Collini fu il curatore della
"Naturalienkabinett", o "camera delle meraviglie"
(l'antenato del moderno concetto di Museo di Storia Naturale), nel palazzo di
Carlo Teodoro, elettore di Baviera, a Mannheim.[17] Il campione era stato
affidato alla raccolta, dal conte Friedrich Ferdinand zu Pappenheim,
probabilmente intorno al 1780, dopo essere stato recuperato da un calcare
litografico nella cava di Eichstätt.[18] La data effettiva della scoperta e
l'ingresso del campione nella collezione è sconosciuto. Non è stato menzionato
in nessun catalogo della collezione, preso nel 1767 quindi deve essere stato
acquistato tra il 1767 e il 1784, anno della descrizione di Collini. Ciò
potrebbe rendere il fossile il primissimo pterosauro descritto; Nel 1779 fu
descritto una seconda specie chiamata Pterodactylus micronyx (oggi conosciuto
come Aurorazhdarcho micronyx) che però era stata inizialmente scambiata per un
fossile di crostaceo.[19] Ricostruzione di Wagler, del 1830, su uno
stile di vita acquatico per Pterodactylus Collini, nella sua prima descrizione
del campione di Mannheim, concluse che si trattava di un animale volante. In
realtà, Collini non riusciva a capire di che tipo di animale si trattasse, ma
lo accostò ad uccelli e pipistrelli, per via di alcun affinità anatomiche. Più
avanti lo stesso Collini ipotizzò addirittura che potesse trattarsi di un
animale acquatico. Tale ipotesi non venne avanzata su rigori scientifici ma su
una supposizione di Collini che pensava che le profondità dell'oceano potevano
ospitare animali stravaganti.[20][9] Nel 1830, l'idea che gli pterosauri
fossero animali marini persisteva ancora in una minoranza di scienziati tra cui
lo zoologo tedesco Johann Georg Wagler, che pubblicò nel suo testo intitolato
"Anfibi", un articolo che vedeva gli pterosauri come animali marini
con ali disegnate come pinne, ispirandosi ai moderni pinguini. Wagler si spinse
fino a classificare lo Pterodactylus, insieme ad altri vertebrati acquatici
(come plesiosauri, ittiosauri e monotremi), nella classe Gryphi, tra uccelli e
mammiferi.[21] Prima ricostruzione di uno pterosauro al mondo ad
opera di Hermann, nel 1800 Fu lo scienziato francese/tedesco Johann Hermann che
per primo dichiarò che il lungo quarto dito della mano dello Pterodactylus
venisse usato per sostenere una membrana alare. Nel mese di marzo del 1800,
Hermann fu allertato dallo scienziato francese George Cuvier dell'esistenza del
fossile di Collini, che era stato catturato dagli eserciti di occupazione di
Napoleone e inviato alle collezioni francesi a Parigi, come bottino di guerra;
in seguito alcuni commissari politici francesi sequestrarono i tesori d'arte e
gli oggetti di valore scientifico. Hermann in seguito inviò una lettera a
Cuvier, dove vi era scritta la sua interpretazione del fossile (anche se lui
non aveva esaminato personalmente), dichiarando che l'animale doveva trattarsi
di un mammifero, e inviò anche una bozza di come doveva apparire in vita
l'animale. Fu la prima ricostruzione artistica per uno pterosauro al mondo.
Hermann disegnò l'animale con una membrana alare che si estendeva dalla fine
del quarto dita fino alle caviglie e ricoperto da pelliccia,(all'epoca il
fossile non presentava ne segni di membrana alare ne di pelliccia). Hermann nel
suo schizzo aggiunse anche una membrana tra il collo ed il polso, come quella
presente oggi nei pipistrelli. Cuvier d'accordo con questa interpretazione, e
su suggerimento di Hermann, pubblicò questa nuova descrizione nel dicembre del
1800.[9] In uno scritto Cuvier dichiarò che, "Non è possibile mettere in
dubbio che il lungo dito servisse a sostenere un membrana che, allungandosi
all'estremità anteriore di questo animale, formava una buona ala."[22]
Tuttavia, contrariamente a Hermann, Cuvier era convinto che l'animale fosse un
rettile. In realtà l'esemplare non era stato sequestrato dai francesi.
Infatti, nel 1802, dopo la morte di Carlo Teodoro, il fossile fu portato a
Monaco di Baviera, dove il barone Johann Paul von Carl Moll, aveva ottenuto
un'esenzione generale della confisca per le collezioni bavaresi. Cuvier chiese
a von Moll il permesso di studiare il fossile, ma fu informato che il pezzo non
fu trovato. Nel 1809, Cuvier pubblicò una descrizione un po' più a lunga, in
cui l'animale veniva chiamato "Ptero-dactyle" e confutava l'ipotesi
di Johann Friedrich Blumenbach, che sosteneva che l'animale fosse un uccello
marino. Ricostruzione inesatta di P. brevirostris, da parte di Von
Soemmerring, del 1817 Contrariamente a rapporto di von Moll, il fossile non è
mancata; fu oggetto di studio da parte di Samuel Thomas von Sömmerring, che
tenne una conferenza pubblica sul fossile il 27 dicembre 1810. Nel mese di
gennaio del 1811, von Sömmerring scrisse una lettera al Cuvier deplorando il
fatto che era da poco stato informato della richiesta di Cuvier per
informazioni. La sua conferenza fu pubblicata nel 1812, e in essa von
Sömmerring diede alla creatura il nome di Ornithocephalus antiquus.[23] Qui l'animale
fu descritto come un mammifero simile ad un pipistrello ma con caratteristiche
da uccello. Cuvier in disaccordo con tale descrizione, lo stesso anno fornì una
lunga descrizione nella quale ricordò che l'animale era in realtà un
rettile.[24] Nel 1817 fu rinvenuto un secondo esemplare di Pterodactylus,
ancora una volta a Solnhofen. Questo esemplare rappresentato da un giovane fu
descritto nuovamente da von Soemmerring, come Ornithocephalus brevirostris, per
via del muso corto, avendo tuttavia capito che si trattava di un esemplare più
giovane (oggi si sa che questo fossile appartiene ad un altro genere di
pterosauro, probabilmente un Ctenochasma[3]). Von Sommerring fornì anche uno
schizzo dello scheletro[9] che in seguito si rivelò essere sbagliato e
impreciso, in quanto von Soemmerring aveva scambiando il metacarpo per le ossa
del braccio inferiore, il braccio inferiore per l'omero, il braccio superiore
per lo sterno e lo sterno per una scapola.[25] Tuttavia Soemmerring rimase per
sempre fedele alla sua idea dello Pterodactylus. Lo avrebbe sempre immaginato
come un animale simile ad un pipistrello, anche se a seguito di alcune ricerche
nel 1860 ammise che l'animale era un rettile. Tuttavia l'immaginario collettivo
dell'animale rimaneva quello di una creatura quadrupede, goffa a terra,
ricoperta di pelo, a sangue caldo e con una membrana alare che si attaccava
alle caviglie.[26] In epoca moderno (2015) alcuni di questi elementi sono stati
confermati, alcuni smentiti, mentre altri rimangono ancora oggi in
discussione. Paleobiologia Classi d'età Esemplare giovane di P.
antiquus Come molti altri pterosauri (in particolare il Rhamphorhynchus),
l'aspetto degli esemplari di Pterodactylus varia a seconda dell'età e in base
al livello di maturità. Le proporzioni di entrambe le ossa degli arti, le
dimensioni e la forma del cranio e le dimensioni e il numero dei denti possono
stabilire a quale classe di età appartiene l'animale. In passato queste
differenze morfologiche hanno portato a credere che si trattassero di specie
distinte con caratteristiche anatomiche differenti. Recenti studi più
dettagliati e che utilizzano nuovi metodi per misurare le curve di crescita
degli esemplari noti, hanno stabilito che in realtà vi è un'unica specie di
Pterodactylus ritenuta valida ossia, P. antiquus.[6] Il più giovane e
immaturo campione di P. antiquus (da alcuni interpretato come facente parte di
una seconda specie chiamata Pterodactylus kochi) possiede pochi denti e i pochi
che possiede hanno una base relativamente ampia.[4] I denti di altri esemplari
di P. antiquus hanno denti più stretti e numerosi (fino a 90).[6] Tutti i
campioni di Pterodactylus possono essere suddivisi in due diverse classi di
età. Nella prima classe, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza
complessiva che va dai 15 ai 45 millimetri di lunghezza. Nella seconda classe,
invece, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che
va dai 55 ai 95 millimetri di lunghezza, ma sono ancora immaturi. Questi due
primi gruppi di dimensione erano a loro volta classificati come giovani e
adulti della specie P. kochi, fino a che un nuovo studio ha dimostrato che
anche quelli che si credevano "adulti" erano comunque esemplari
immaturi, e probabilmente appartengono ad un genere distinto. Una terza classe
è rappresentata da esemplari specie tipo P. antiquus, così come un paio di
grandi esemLplari isolati, una volta assegnati a P. kochi che si sovrappongono
P. antiquus per dimensioni. Tuttavia, tutti i campioni di questa terza classe mostrano
anche segni di immaturità. L'aspetto degli esemplari completamente maturi di
Pterodactylus esemplari rimane tuttora sconosciuto, oppure potrebbero essere
stati erroneamente classificati come un genere diverso.[4] Crescita e
riproduzione Bacino fossile di un grande esemplare, riferito alla dubbia
specie P. grandipelvis Le classi di crescita degli esemplari di P. antiquus
mostrano che questa specie, come il contemporaneo Rhamphorhynchus muensteri,
probabilmente allevava i piccoli in determinate stagioni e questi crescevano
costantemente durante tutta la vita. Quindi la riproduzione e il conseguente
allevamento dei cuccioli avveniva ad intervalli regolari e probabilmente in
ogni stagione.[4][27] Molto probabilmente poco dopo la nascita i cuccioli erano
già in grado di volare ma dipendevano ancora dai genitori per la nutrizione.
Questo modello di crescita è molto simile a quello dei moderni coccodrilli,
piuttosto che alla rapida crescita dei moderni uccelli.[4] Stile di vita
Dal confronto tra gli anelli sclerali di P. antiquus con quelli di moderni
uccelli e rettili si è scoperto che lo Pterodactylus aveva uno stile di vita
diurno. Questo coinciderebbe con la sua nicchia ecologica, che lo vedrebbe come
un predatore simile all'odierno gabbiano, evitando inoltre la competizione con
altri pterosauri suoi contemporanei che in base agli anelli sclerali sono stati
giudicati notturni, come il Ctenochasma e il Rhamphorhynchus.[28]
Paleoecologia Durante la fine del Giurassico, l'Europa era un arcipelago asciutto
e tropicale ai margini del mare Tetide. Il calcare fine, in cui gli scheletri
di Pterodactylus sono stati ritrovati, è stato formato dalla calcite delle
conchiglie e degli organismi marini. Le varie aeree tedesche dove sono stati
ritrovati gli esemplari di Pterodactylus erano lagune situate tra le spiagge e
le barriere coralline delle isole europee Giurassiche nel Mare Tetide. I
contemporanei di Pterodactylus, includono l'avialae Archaeopteryx
lithographica, il compsognatide Compsognathus, svariati pterosauri come
Rhamphorhynchus muensteri, Aerodactylus, Ardeadactylus, Aurorazhdarcho,
Ctenochasma e Gnathosaurus, il teleosauride Steneosaurus sp., l'ittiosauro
Aegirosaurus, e i metriorhynchidi Dakosaurus e Geosaurus. Gli stessi sedimenti
in cui sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus hanno riportato alla
luce anche diversi fossili di animali marini quali pesci, crostacei,
echinodermi e molluschi marini, confermando l'habitat costiero di questo
pterosauro. L'enorme biodiversità di pterosauri presenti nei Calcari di
Solnhofen, indica che quest'ultimi si erano differenziati tra di loro occupando
ogni possibili nicchia ecologica disponibile.[29] Note ^ Fischer von
Waldheim, J. G. 1813. Zoognosia tabulis synopticus illustrata, in usum
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Paläontologie, Abhandlungen, vol. 210, 1998, pp. 421–441. ^ Cuvier, G., Mémoire
sur le squelette fossile d'un reptile volant des environs d'Aichstedt, que
quelques naturalistes ont pris pour un oiseau, et dont nous formons un genre de
Sauriens, sous le nom de Petro-Dactyle, in Annales du Muséum national
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von Sömmerring, S. T. (1812). "Über einen Ornithocephalus oder über das
unbekannten Thier der Vorwelt, dessen Fossiles Gerippe Collini im 5. Bande der
Actorum Academiae Theodoro-Palatinae nebst einer Abbildung in natürlicher
Grösse im Jahre 1784 beschrieb, und welches Gerippe sich gegenwärtig in der
Naturalien-Sammlung der königlichen Akademie der Wissenschaften zu München
befindet", Denkschriften der königlichen bayerischen Akademie der
Wissenschaften, München: mathematisch-physikalische Classe 3: 89–158 ^ Cuvier,
G. (1812). Recherches sur les ossemens fossiles. I ed. p. 24, tab. 31 ^
Sömmering, T. v., Über einen Ornithocephalus brevirostris der Vorwelt, in
Denkschr. Kgl. Bayer Akad. Wiss., math.phys. Cl., vol. 6, 1817, pp. 89–104. ^
Padian, K. (1987). "The case of the bat-winged pterosaur. Typological
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perception", pp. 65–81 in: Czerkas, S. J. and Olson, E. C., eds. Dinosaurs
past and present. An exhibition and symposium organized by the Natural History
Museum of Los Angeles County. Volume 2. Natural History Museum of Los Angeles
County and University of Washington Press, Seattle and London ^ Wellnhofer, P. (1970).
Die Pterodactyloidea (Pterosauria) der Oberjura-Plattenkalke Siiddeutschlands.
Bayerische Akademie der Wissenschaften, Mathematisch-Wissenschaftlichen Klasse,
Abhandlungen, 141: 133 pp. ^ Schmitz, L.; Motani, R., Nocturnality in Dinosaurs
Inferred from Scleral Ring and Orbit Morphology, in Science, vol. 332, n. 6030,
2011, pp. 705–8, DOI:10.1126/science.1200043, PMID 21493820. ^ Weishampel,
D.B., Dodson, P., Oslmolska, H. (2004). The Dinosauria (Second ed.). University
of California Press. Biografia Steve Parcker John Malam, Dinosauri e altre
creature preistoriche. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
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Paleontologia Portale Paleontologia Rettili Portale Rettili Categoria:
Pterosauri. Il conte Cosimo Alessandro Collini. Keywords: pterodattilo,
filosofia, pisa, Firenze, nobilita, coira. Pterodattilo. Polemica filosofica, Domenico
Eusebio Chelli, marchesa Gabbriella Malaspina, Voltaire e la Toscana, “Firenze
come una nuove Atene”, Collini su Ariosto e Boccaccio, Collini makes fun of
Voltaire’s daughter. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Collini” – The
Swimming-Pool Library.
Colombe (Firenze).
Filosofo. Grice: “If you love stars, as any philosopher must – vide Thales! –
you LOVE Ludovico who refuted Kepler’s idea that the thing next to the
serpentary’s foot was a ‘star,’ never mind ‘nova’!” Noto per essere stato uno
strenuo avversario di Galilei. Non si sa
quasi nulla della sua vita, ma restano diverse sue saggi, nelle quali difende
la dottrina aristotelica con un particolare disinteresse sia verso le nuove
osservazioni sia verso la coerenza logica.
Scrisse un discorso sulla nuova stella apparsa sostenendo che si tratta
di una stella non nuova, ma esistente da sempre. Scrisse un discorso Contro il
moto della Terra. Per conciliare le
osservazioni di Galilei sulle irregolarità della superficie lunare con la
concezione aristotelica della perfetta sfericità dei corpi celesti sostenne che
le valli e gli spazi tra i monti della luna sono colmati da un materiale
perfetto e invisibile. Contrario all’idrostatica archimedea recuperata da
Galileo, nel suo Discorso apologetico, sostenne che il galleggiare o l’affondare
dei corpi dipendesse dalla loro forma. Nella conclusione del discorso usa anche
una metafora di questa teoria, affermando che le ragioni dell'avversario per
essere troppo argute e sottili vanno a fondo senza speranza di ritornare a
galla, mentre quelle di Aristotele, per essere di forma larga e quadrata, non
possono affondare in nessun modo. Sono rimaste anche lettere tra il Delle
Colombe e Galileoi che stimava pochissimo il suo avversario, che aveva
soprannominato Pippione. Vari accenni a questo personaggio sono nella
corrispondenza tra Galilei e i suoi amici. Dizionario Biografico degli
Italiani, Amici e nemici di Galileo, Milano, Bompiani. Aristotelismo. Grice:
“If I had to choose between Colombe-Aristotle to Galielei-Plato, I chose the
former!” -- Colombo. Colombe. Ludovico delle Colombe. Ludovico Colombo.
Keywords: the irregular surface of the moon is filled by an invisible
substance, the earth does not move, the ‘nuova’ stella is a misnomer: it has
always existed; bodies float or sink according to their shape. Aristotle’s
reasons never sink because they are square. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colombe” – The Swimming-Pool Library.
Colombo (Milano). Filosofo.
Grice: “I love Colombo as I love Wilde – I mean, the sponsor of the Wilde
Lectures on Natural Religion! Colombo wonders, ‘can ‘theologian’ be written
under ‘profession’? Surely, like me, Colombo distinguishes between theologian
and philosophical theologian – if there is no such distinction, and I’m not
sure there is – perhaps there shouldn’t be, Colombo would say, the ‘philosophical’
in my ‘philosophical eschatology’ is totally otiose and anti-Griceian!” Insegna
a Milano. Si è occupato di antropologia, metafisica e la filosofia italiana --
Rosmini, Martinetti, Volpe, ad Aosta. Altre opere: “Senzo e atto” (Studium,
Roma). La morale communitaria (CUSL, Milano); “Pietra angolare: l’chiesa
d’Inghilterra” (CUSL-Centro Toniolo, Milano-Verona); “Antropologia” (Massimo,
Milano), “L’immanente e il trascendente”; “La correttezza del nome nel Cratilo
– il nome corretto -- in L’origine del
linguaggio (Celestian Milani), Demetra, Verona; Il ri-ordino dei cicli
scolastici, in "Quaderno di Iter", “Filosofia come soteriologia:
L'avventura di Piero Martinetti (Vita e Pensiero, Milano); “Il giusto prezzo
della felicità, -- reasonable or rational? -- Edizioni ISU-Università
Cattolica, Milano); “Antropologia ed etica (EDUCatt, Milano). Forme e modelli del
pensiero filosofico. Introdurre alla comprensione e uso
dei linguaggi e degli strumenti specifici
della metafisica, dell’antropologia, dell’etica;- all’acquisizione
di abilità critiche e analitiche per comprendere le dinamiche del vissuto,
della società e della storia contemporanea dell’uomo occidentale. Salute
e salvezza dell’uomo. Il senso
della cura e dell’educazione. Una
sfida per la ragione e per la fede.Valutazione
critica del rapporto metafisica-antropologia-soteriologia
in tre momenti della storia dell’Occidente. Il mondo
antico-classico greco-romano. Il mondo nuovo Cristiano. Il mondo moderno e
post-moderno.BIBLIOGRAFIA G. coLomBo, I Greci e l’amore incerto: grandezza e
aporia dell’eros platonico: il Simposio, ISU-Università Cattolica del Sacro
Cuore, Milano, S. kierkeGaard, La malattia mortale (qualsiasi
edizione, purché completa): ai fini della
prova d’esameè richiesta la conoscenza della sola Prima
parte: La malattia mortale è la disperazione;J. p. SarTre,
L’esistenzialismo è un umanismo, Armando, Roma, 2006 (o altra edizione, purché
completa).DIDATTICA DEL CORSOLezioni in aula, ricerche e percorsi
personalizzati.METODO DI VALUTAZIONEEsame orale finale, valutazione di eventuali
elaborati scritti o relazioni orali. 75AVVERTENZEIl docente è a disposizione
degli studenti per ogni chiarimento didattico e contenutistico, per
l’assegnazione delle tesi di laurea e l’assistenza necessaria alla loro
elaborazione.Il docente riceve durante il periodo di lezione presso lo studio
universitario, martedì e giovedì h. 10.00-11.30. Pausania, do not
multiply loves beyond necessity – l’ambiguita di ‘amore’ – L’Afrodita celeste
no participa della natura femmina, solo della natura ‘maschile’. Pausania parla solo a maschi, ai maschi
virili, al maschio virile. L’amante o amatore e maschio virile, l’amato o
l’innamorato e maschio virile. L’amore celeste (ouranios) participa solo della
natura maschile. Criterio d’amabilita, l’amabile. Giuseppe Colombo. Keywords:
atto, attualismo, actualism, actum, senzo, sensus, sense, morale communitaria,
pietra angolare, Chiesa d’Inghilterra, Cratilo, origine del linguaggio,
glossogenia, glossotesi, gossogenetic, semio-genesi, il soteriologico,
immanente/trascendente, aporia dell’amore platonico, eikesia, ‘Daddy wouldn’t
buy be a wow wow’ true iff Daddy wouldn’t buy me a bow wow – correctness of
iconicity of ‘daddy’ and ‘bow wow’ --. Heteroerotismo
– Il discorso di Alcibiade – analisi del simposio, l’elogio dell’eros. Il
discorso di Pausania. Ero demone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombo” –
The Swimming-Pool Library.
Colonna
(Roma).
Filosofo. There is already an entry for this; in Italian it is ‘Egidio Colonna’
-- giles di roma, Rome, original name, a
member of the order of the Hermits of St. Augustine, he studied arts at
Augustinian house and theology at the varsity in Paris but was censured by the
theology faculty and denied a license to teach as tutor. Owing to the
intervention of Pope Honorius IV, he later returned from Italy to Paris to
teach theology, was appointed general of his order, and became archbishop of
Bourges. Colonna both defends and criticizes views of Aquinas. He held that
essence and existence are really distinct in creatures, but described them as
“things”; that prime matter cannot exist without some substantial form; and,
early in his career, that an eternally created world is possible. He defended
only one substantial form in composites, including man. Grice adds: “Colonna
supported Pope Boniface VIII in his quarrel with Philip IV of Franc eand that
was a bad choice.” The Latin is EGIDIVS COLUMNA. The “Corriere” has an article
as his book being a bestseller of the Low Middle Ages!” Cosnisder the claims
here: ‘essence and existence are really distinct in creatures – and each is a
thing – prime matter cannot exist without substantial forml – eternal and
created world is not a contradiction – there is only ONE substantial form in
compostes, including man. Grice: “Must say I LOVE Colonna, or COLVMNA as the printing
goes – of course the “Corriere della Sera” hastens to add that he wassn’t one!
In any case, my favourite of his tracts is of course the one on Aristotle!”. Egidio
Romano, O.E.S.A. arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio
Romano e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Incarichi
ricopertiArcivescovo di Bourges Nato Roma Nominato arcivescovo
Roma Manuale Egidio Romano, latinizzato come Ægidius Romanus. Dopo
la sua morte, gli furono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e
Theologorum princeps. Discepolo d'Aquino. Insegna filosofia. Fu inoltre il
tutore di Filippo il Bello al quale dedica il saggio “De regimine principum”,
sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo. Considerato tra i
più autorevoli filosofi di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita
intellettuale e politica in un contesto culturale ed istituzionale travagliato
da frequenti ed aspre polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale
e potere spirituale. Generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo
Giacomo da Viterbo, per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam
Sanctam di Papa Bonifacio VIII e per il ruolo significativo che assunse il
Maestro degli Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De Ecclesiastica
potestate e, dunque, quale teorico famoso e autorevole della plenitudo potestatis
pontificia. In Colonna rileviamo subito una compresenza del duplice atteggiamento
dottrinale e politico. Infatti è possibile rintracciare, fra le opere
giovanili, il “De regimine principum”, saggio dedicato a Filippo il Bello e di
ispirazione aristotelico-tomista inerente alla naturalità dello stato,
erigendola a difensore della potestas regale. Nel “De Ecclesiastica potestate”,
invece, afferma la superiorità del “sacerdotium” rispetto al “rex” o “regnum”, distinguendosi
quale rappresentante della teocrazia papale. In seguito alle condanne di
Tempier, difende la tesi d’Aquino, per la sua qualifica di Baccalaureus formatus,
ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene sospeso dall'insegnamento. Gli
avversari del papato trovano in Aristotele gli strumenti per svolgere
un'analisi politica che metta in discussione la sacralità del potere.
Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente speculativa
dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale, di
compenetrazione fra stato e chiesa, all'interno del quale Agostino viene a
giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo “De
Civitate Dei” conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della “Civitas
Dei Caelestis” e il piano temporale della vita terrena che è “Civitas Peregrina”),
che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del
sacerdotium rispetto al rex e regnum, costituendo un vero e proprio “partito
del Papa”. Rivendica la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva
dell'auctoritas del Papa in quanto “homo spiritualis”. Sostituisce al concetto
agostiniano di “ecclesia” quello di “regnum” al fine di estendere gli ambiti
del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico, il Papa, dove
esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire
l'ordine mediante una forma di “dominium” che coincide con la sua stessa
missione spirituale. Atre opere: L'edizione critica dell'opera omnia è
stata intrapresa, per Olschki (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus
Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), da Punta. “Quaestio de gradibus
formarum” Ottaviano Scoto, Boneto Locatello. “In secundum librum sententiarum
quaestiones” Francesco Ziletti); Opere, Antonio Blado; “In libros De physico
auditu Aristotelis commentaria”; Ottaviano Scoto; Boneto Locatello, “De materia
coeli” Girolamo Duranti, “Quodlibeta”. Silvia
Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano, “Le opere
prima”; “I commenti aristotelici”, "Documenti e studi sulla tradizione
filosofica medievale", Dizionario biografico degli italiani. DEL GOVERNO
DI SÈ. Del sommo bene. Quale è la maniera di parlare nella scienza de're e de'
principi. Quale è l'ordinanza delle cose che si debbono dire in questo libro. Come
grande utilitate ei re e' principi ånno in udire e in intendere e in sapere
questo libro. Quante maniere sono di vivare e come l'uomo die méttare il
sovrano bene di questa mortal vita in queste maniere di vivere. Com'è grande
utilità e a' re ed ai principi che ellino conoscano il loro fine e'l loro
sovrano bene di questa vita mortale. I re ne i principi, non debbano mettere il
loro sovrano bene in diletto corporale. I re ne i principi non debbono mettere il loro
sovrano bene in avere ricchezze. I re ne
i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere onori. I re ne i
principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere gloria o gran rinomo
di bontà. Nè i re né i principi non debbono méttare il loro sovrano bene in avere
forza di gente. I re ne i principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle
uopere della prudenzia cioé del senno. Come ei re e' principi debbono méttare
el loro sovrano bene nelle opere della prudenza e del. Il prezzo e'l guidardone
dei re e dei principi bene governanti il loro popolo, secondo legge e ragione,
è molto grande. senno. Della virtù. Quante potenze à l’anima e in quali potenze
e la virtù di una buona opera. Come la virtù di una buona opera e divisa nella
volontà e nell’intendimento dell'uomo. Quante virtù di buone opere sono, come
l'uomo die préndare il numero di esse. Delle buone disposizioni che l'uomo à,
alcune sono virtů , alcune sono più degne che virtù, alcune altre sono
apparigliate a virtù. Alcune virtú sono più degne d'alcune altre e più principali.
Che cosa è la virtù dell’uomo ch'è chiamato senno, over prudenza, over sapere.
Ai re ed ai prenzi conviene es sere savi. Quanto e quali cose conviene ai re e
ai prenzi avere acciò che ellino siano savi. Come și re e i prenzi possano fare
loro medesimi savi. Quante maniere sono di drittura ed in che cosa è drittura e
come drittura è divisata dalie altre virtú. Senza drittura e senza iustizia ei
reami non possono durare, nè nulla signoria di città. I re e i prenzi debbono
intendere diligentemente acciò che essi siano dirilturieri e che drittura sia
guardata nelle loro terre. La forza di coraggio e . e quali cose ella die
essere , e come ei re e i prenzi le. possono avere. Quante maniere sono di
forza e secondo la quale ei re e i prenzi debbono essere forti. Che cosa è la
virtù che l'uomo chiama temperanza e in quali cose quella virtù die essere, quante
parti a la temperanza, come noi la potemo acquistare. Ched elli é più
disconvenevole cosa che l’uomo sia distemperato in seguire LI DILETTI DEL CORPO
che in essere paurioso. Il principe debbe essere temperato nel diletto di suo
corpo. La virtù che l'uomo chiama larghezza e'n quale cose cotale virtù de'
essere, e come noi la potemo acquistare. Che a pena può essere el re o'l prenze
folle largo e come è troppo sconvenevole' cosa che essi sieno avari e ch'ellino
debbono essere larghi e liberali. Che cosa è una virtù che l’uomo cjiama
magnificenzia e'n quali cose quella virtù die essere, e come noi potemo avere
quella virtù. Come è cosa isconvenevole che i re e i prenzi sieno di piccola
dispesa e di poco affare, e che maggiormente s'avviene a loro essere di grande
spese e di grande affare. Che condizioni à l'uomo che è di grande spesa e di
grande affare, e che conviene maggior mente averle ai re ed ai prenzi. Che cosa
è una virtù che l'uomo chiama magnanimità, cioè a dire virtù di grand'animo e
in quali cose quella virtù di essere e come noi potemo essere di gran cuore. Quante
condizioni à l'uomo che è di gran cuore, e che maggiormente si conviene ai
prenzi d'averle. Come ei re e i prenzi debbono amare onore , o quale è la virtù
che l'uomo chiama virtù d'amare opore . 68 Cap. XXV. Ca insegna che amare onore
ed èssare umile possono essere insieme e che quelli che è di gran cuore e di
grande animo non può essere senza umiltà. Che cosa é umiltà de la quale il
filosafo parla e in quali cose ella die essere e che maggiormente conviene ai re
ed ai prenzi essere umili. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama dibuonairetà ,
ed in che cose la buonairetà die essere e che conviene ai re ed a i prenzi
essere dibonarie. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama piacevolezza, cioè di
sapere CONVERSARE PIACEVOLMENTE e in che cose la detta virtù die essere e che
si conviene che i re e i preozi sieno piacevoli. Che cosa è verità e in che
cosa ella die essere usata e come si conviene al principe ch'esse sia veritiero
o sincero. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama sollazzevole, quasi dica di
sapere sollazzare, e di essere allegro e gioioso, là ' ve si conviene , e per
la quale ' l'uomo si sa avvenevolmente rallegrare nei sollazzi, come ei re e i
prenzi debbono essere allegri e sollazze voli. Conviene al principe avere tutte
le virtù, perciò che perfettamente l’uomo non ne può avere una senza le altre.
Quante maniere sono di buoni e adi malvagi uomini e quale maniera di bontà ei
re e i prenzi debbono avere. Delle passione. Quanti movimenti d'animo sono e
donde essi vengono. Quali movimenti d'animo sono principali che gli altri e
come essi sono ordinate. Come il principe debbe amare e quali cose debbe amare.
Come il principle debbe desiderare e che cosa debbe desiderare. Come ei re e i
prenzi si debbono portare ayvenevolmente in isperare e in disperare. Come
avvenevolmente ei re si debbono portare in avere ardimento. Che differenza elli
à intra corruccio e odio, e come ei te e i prenzi si debbono avvene volmente
contenere nei corrucci e ne le di bonarietà. Come ei re e i prenzi si deb bono
ayvenevolmente avere nei diletti. Come alcuni movimenti d'animo sono mantenuti
e ritornano ad alcuni altri movimenti. Ched ei movimenti dell'animo alcuni sono
da biasmare ed alcuni sono da lodare e come ei re e i prenzi si debbono
conferire nei movimenti detti dinanzi. Della costume. Quale costume e quale
maniere de giovani uomini fanno da lodare, e come il principe debbe avere essa
costume ed essa maniera. Quali costumi e quali maniere dei giovani uomini fanno
da biasmare , e come ei.re e i prenzi debbono ischiſare cotali maniere e cotali
co stumi. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da biasmare , come ei
re e i prenzi ei debbono ischifare. Quali costumi e quali maniere dei uomini
fanno da lodare. Che costume e che maniera ha il gentile uomo, e come il
principe debbe avere. Che costumi e che maniere anno l’uomo ricco e come ei re
e i prenzi ei debbono. Che modi e che maniere ánno coloro che sono possenti ed
anno signorie , e come li re e li principi si debbono avere in verso la gente
convenevolmente. Avere. DEL GOVERNO DELLA FAMIGLIA. Della moglie. L'uomo die
naturalmente vivare in compagnia, e che i re i prenzi il debbono sapere. Che,
acciò che la casa sia perfetta, si vi conviene avere quattro maniere di
persone, e come e' conviene questo secondo libro divisare in tre parti. Quella
casa è perfetta ove v'à assembramento di un uomo e di una femmina, un
figliuolo, e servi. L'uomo naturalmente si die ammogliare e che quelli che non
vogliono vivare in matrimonio, o elli posono bestia, o ellino sono migliori che
l’uomo. Ciascuno uomo e ciascuna femmina , e medesimamente ei re e i prenzi che
sono ammogliati, si debbono tenere in matrimonio senza partirsi o senza
divídarsi. A ciascun uomo die bastare una femmina, e che i re e i prenzi e
ciascun altro uomo si die tenere appagato a una femmina. Un uomo die bastare a
una femmina , e che una femmina si die chiamare contenta d'un uomo. L’uomo non
die prendare moglie la quale sia troppo presso a lui di parentato o di
lignaggio. Come le moglie dei re e dei prenzi e di ciascuno altro uomo debbono
avere abbondanza di beni temporali. Come nè i re né i prenzi, nė cia scuno
altro uomo non debbe chiėdare solamente ei beni temporali delle loro mogli ma
anco ei beni del CORPO e quelli dell'anima, e ciò e il bello e il casto. L’uomo
non die governare nė tenere la moglie nella maniera ch'elli die tenere e
governare il suo figliuolo. L’uomo non die tenere nė governare la moglie nella
manera che l'uomo die tenere e governare e fanti. Che elli non si conviene nė
ai re nè ai prenzi ned a nessuno altro uomo, ch'ellino usino il matrimonio in
troppo giovano tempo. L’uomo die piuttosto fare l'opera del matrimonio nel
verno che nella state. Come alcune cose sono nelle femmine che sono da
biasmare. Come ei re e i prenzi e ciascuno altro uomo die avvenevolmente
governare e addrizzare la moglie. Come gli uomini si debbono portare con le
loro mogli. Come la femmina maritata deb bono convenevolmente adornare il loro
corpo. Né I re ne i prenzi , nė li altri uomini , non debbano essere troppo
gelosi delle loro mogli. Che cosa è ' l consiglio della femmina , e che 'l suo
consiglio l'uomo non die credere se non in alcun tempo. Com’l’uomo non debbe
dire il suo secreto alla sua moglie. Dei figli. Il padre die essere curioso di
guardare il suo figliuolo. Che ciò s'avviene maggiormente ai re ed ai prenzi,
cioè ch'ellino sieno guardatori e curiosi dei loro figliuoli. Il padre governa
il suo figliuolo per L’AMORE ch'elli à in lui. L’AMORE NATURALE il quale die
essere da padre a figliuolo prova sufficientemente che il padre debbe governare
i suo figliuolo e il figliuolo debbe ubbidire il padre. Nel quale dice che i re
e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine insegnare la fede ai
loro figliuoli. I re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine
insegnare ed appréndare ei buoni costumi e le buone maniere ai loro figliuoli.
Il figliuolo del gentile uomo debbe apprendere le scienze della chericia, ciò sono,
morali, naturali e matematice. Quale arte il figliuolo di un gentile uomini
debbe apprendere. Quale die ėssare il tutore del figliuolo di un gentile uomo.
Il padre die insegnare al suo fanciullo a parlare e a vedere ed a udire. In
quante maniere l'uomo puó peccare in mangiare e come il garzone si debbe
contenere. Come il padre die insegnare al suo fanciullo acciò che si sappiano
portar avvenevolmente nel bere e ne' diletto della femmina. Come il garzone si
debbe contenere nel diletto del corpo. Come in giovanezza l'uomo die schifare
le malvagie compagnie. Che guardia l’uomo die avere de' figliuoli da che sono
nati, insino a’ sette anni. Che guardia l'uomo die avere de' fanciulli da sette
anni fino a quattordici. Che guardia l'uomo die avere del figliuolo da
quattordici anni innanzi. Che il padre non die insegnare al figliuolo uno
medesimo travaglio di corpo. Della casa e dei servi. L'uomo die diterminare e
parlare delle cose donde la vita umana può esser sostenuta, volendo governare
la sua famiglia e la sua casa. Il casino della villa del’uomo , die esser fatto
sottilmente ed in buon áire. Il casamento dei re e dei prenzi , e di ciascuno
altro uomo, die esser fatto in luogo dove abbia abbondanza di buona acqua e di
chiara. Naturalmente l’uomo die avere possessione in alcun modo e che quellino
che rifiutano le possessioni, non vivono come uomini, anzi sono migliori che
uomo. Elli è grande utilità alla vita umana, che l'uomo possa vivare della sua
propria ricchezza. Come l'uomo die usare dei beni temporali, e quale maniera di
vivare è buona e onesta. Nel quale dice che ciascuno uomo, e medesimamente ei
re ei prenzi, non debbono desiderare troppo grande abbondanza di ricchezze ne
di possessioni. Quante maniere elli sono di vendere e di comperare e perchè ei
denari fuoro prima mente fatti e trovati. L'usura è generalmente malvagia , e
ch'ei re ed i prenzi la debbono difendare ch’ella non sia fatta nella loro
terra. Nel quale dice ch’ei sono diverse maniere di guadagnare denari e che
alcuna di queste maniere è avve nevole ai re ed ai prenzi. Alcuna gente è serva
per natura e ch'elli è loro utilità ch'ellino sieno suggetti ad altrui. Nel
quale dice che alcune genti che sono servi per natura e per legge. Nel quale
dice ch’ellino sono alcune genti le quali sono serve per prezzo ed alcuna gente
che servono per l’amore ch’elli ánno ai suo signore. L'uomo die dare gli ufici
ai suoi fanti nelle case dei re e dei prenzi. Come ei re e i prenzi debbono
provvedere ai loro sergenti robe e vestimento. Che cosa é cortesia e ched e'
conviene ai fanti dei re e dei prenzi ched ellino sia cortese Nel quale dice
come ei re e i prenzi si debbono contenere inverso ei loro sergenti. Che quelli
che servono e quelli che mangiano alla tavola dei re e dei prenzi , e
generalmente che il gentile uomo non debbe molto favellare. DEL GOVERNO CIVILE.
Detti dei filosofi nel governamento delle città. Nel quale dice che la villa e
ordinata e stabilita per alcuno bene. Fu grande utilità alla vita umana che
colla comunità della villa e delle città , li uomini ordinassero la comunità del
reame. Nel quale dice ceme Platone e Socrate dissero che l’uomo dovea ordinare
e governare le città. Nel quale insegna che i re e i prenzi debbono sapere che
tutte le cose non debbono essere COMUNE siccome Platone e Socrate dissero. Nel
quale dice quanti mali avverrebbero se il figliouolo fusse comune. Nel quale
dice come la possessione debbe essere proprie, e come debbono essere comuni,
secondo l'utilità delle ville e delle città. I re ei prenzi non debbono
sofferire che una medesima gente duri sempre in una medesima signoria. Nel
quale dice che l'uomo non die cosi ordinare la città come Socrate disse, che
dovieno essere ordinate. Come l'uomo può trarre a buono intendimento le parole
che Socrate disse , al governa mento delle città. Come un filósafo , ch'ebbe
nome Fal lea , disse, che l'uomo dovea ordinare le città. Le possessioni non
debbono essere eguali, siccome disse Fallea. Come quelli che signoreggia alcuna
città, elli die più principalmente intendare a cessare le malvagie volontà e i
malvagi desideri e convoitigine, ched elli non die intendere a cessare la
disuguaglianza delle possessiono. Nel quale dice, come un filósafo ch'ebbe nome
Ippodamo , disse che l’uomo dovea ordinare le città. Nel quale dice quali cose sono
da riprendare in quello che Ippodamo disse del governamento della comunità. Della
migliore maniera di governare le città. Il quale insegna come l’uomo die
governare le città in tempo di pace, e quante cose l’uomo die guardare in
cotale governamento. Quante maniere sono di signorie e quali sono buone e quali
sono rie. Ched o' val meglio che le città e ' rea mi sieno governati e retti per
un solo uomo che per molti e che quest' è la migliore signoria che sia quando
un solo uomo signoreggia ed elli intende il bene comune. Nel quale dice per
quali ragioni alcuna gente volsero provare ched e’ valeva meglio che le terre e
le città fossero governale per molti uomini che per un solo e dice in questo
capitolo ciò che si die rispóndare a cotali ragioni. Ched e' val meglio che le
terre e le signorie e' reami vadano per redità per successione DEL FIGLIOUOLO che
per elezione. Nel quale dice quali sono le cose ne le quali il re die
sormontare gli altri, e che diversità elli à intra'l re 'e'l tiranno. Nel quale
dice che la signoria del tiranno è la peggiore signoria che sia e che i re ei
prenzi si debbono molto guardare ch'ellino non sieno tiranni. Quale dia esser
l'ufficio dei re e dei prenzi, e com’essi si debbono contenere in governare le
loro città e i loro reami. Quali sono le cose che’ l buono re die fare , le
quali il tiranno mostra di fare ma non le fa nèmica. Nel quale dice per quante
cautele il tiranno si sforza di guardare sė ne la sua signoria. Ched elli è
molto isconvenevole cosa ai re ed ai prenzi ched ellino sieno tiranni, perciò
che tutte le malizie che sono nell’altre malvagie signorie, sono ne là signoria
del tiranno. Nel quale dice che i re e i prenzi debbono molto ischifare la
compagnia del tiranno, perciò che per molte cose ei soggetti aguaitano ed assaliscono
il loro signore quand’elli é tiranno. Nel quale dice quali cose guardano e
salvano la signoria del re e ched e'conviene fare al re sed e' si vuole
guardare ne la sua signoria e nel suo reame. Quali cose fanno a consigliare e
di quali l'uomo die avere consiglio. Nel quale dice che cosa è consiglio, e
come l'uomo die fare ei consigli. Nel quale dice che consiglieri ei re e i
preozi debbono avere ai loro consigli. Nel quale dice quante cose conviene
sapere a quellino che consigliano ei re e i prenzi e in quali cose l’uomo die
préndare consiglio. Nel quale dice che tutte le cose donde l’uomo giudica, l'uomo
die giudicare secondo le leggi e che l’uomo die fare pochi giudicamenti e dare
poche sentenze per arbitrio o per credenza. Nel quale dice come l’uomo dic fare
ei giudicamenti: e ch’e giudici debbono vetare che li uomini che piateggiano
non dicano parole dinanzi al giudice che’l possa muovere ad amore nè ad odio
contra ad alcuna de le parti. Nel quale dice quante cose conviene avere
a’giudicatori a ciò ch’ellino giudichino bene e drittamente. Nel quale dice quante
e quali cose conviene riguardare al giudice, acciò ch’elli perdoni e sia più di
buonarie che crudele. Nel quale dice ched e’ sono diverse maniere di leggi e
diverse maniere di giustizia e che al dritto natu rale ed al diritto iscritto
tutti gli altri dritti sono ridotti e ramenali. Quali debbono esser le leggi
umane e ched elli fu grande utilità ai reami ed a le città a fare cotali leggi.
Nel quale dice che ciascuno non die némica istabilire nė ordinare le leggi; e
ched e' conviene che le leggi sieno publicate é fạtte sapere acciò
ch’ell’abbiano forza d’obbligare le genti. Quante opere e quali le leggi ch'ei
re e i prenzi istabiliscono ed ordinano, debbono contenere. Nel quale dice
quale vale meglio o che le città o i reami sieno governati per un buono re o
per una buona legge. Nel quale dice che co la legge naturale e co la legge
iscritta e' conviene che l’uomo abbia la legge di Dio e la legge del Vangelo. Come
l’uomo può, si die guardare le leggi del paese e ch'elli non è utile ch'elle si
rimutino ispesso. Nel quale dice che cosa è città e che cosa è reame e chénte
die essere il popolo ch’è ne le città e ne' reami. Nel quale dice che allora è
la città e’l reame trasbuono e 'l popolo trasbuono, quand’elli v’à molte di mezzane
persone. Nel quale dice ched elli é grande utilità al popolo di portare grande riverenza
al prenze ed al signore e ched ellino guardino diligentemente le leggi che i re
e i prenzi ánno ordinate. Come il popolo e generalmente tutti quelli che
dimorano nel reame, si debbono mante nere saviamente , acciò che’l re o’l
prenze non abbia corruccio nė odio contra loro. Come ei re ei prenzi si deb
bono mantenere , acciò ch'ellino sieno amati e temuti dal lor popolo. Ed
insegna questo capitolo che tutto debbiano ei re ei prenzi esser amati e temuti
dal lor popolo, ellino debbono maggiormente volere essere amati che temuti. Del
governo in tempo di guerra. Che cosa è cavalleria e da ch'ella é ordinate. Nel
quale insegna in quale terra sono e’migliori combattieri e quali l’uomo die iscegliere
per combattere dell’uomini che debbono andare a la battaglia. In quale tempo
l'uomo die acco stumare il fanciullo all' opere dela battaglia e per quali
segni l'uomo può conosciare ei migliori battaglieri. Nel quale insegna quante
cose e quali e' conviene avere a' buoni battaglieri, acciò ch'ellino si
combattano bene e giustamente. Nel quale insegna quali sono migliori
battaglieri o i gentili uomini , oi villani , o quellino che nel campo dimorano,
ciò sono ei lavoratori. Nel quale insegna ch’elli è grande utilità ai baltaglieri
chedellino sieno bene esercitati all'arme; e che l’uomo die ei battallieri
apprendare a correre ed a saltare ed andare ordinatamente. Nel quate insegna
ched e’si conviene appréndare ai battaglieri molte altre cose che quelle che
sono dette, cioè a córrare ed assaltare ed andare ordinatamente. Nel quale
insegna che l’uomo die fare nell’oste fossati e castelli. Ed insegna questo
capitolo come l’uomo die fare ei castelli e quante cose l’uomo die guardare in
farli. Nel quale dice quante cose l’uomo die guardare quand’elli vuole o die
imprèndare battaglia comune. Nel quale dice ch’elli è grande utilità ne le
battaglie di portare bandiere e gonfaloni: e che l’uomo die ordinare capitano e
maggiore a ciascuna ischiera. E so - nemici migliantemente questo capitolo
insegna quali debbono essere e banderari e i capitani di quelli a piè e di
quelli a cavallo. Nel quale dice che avvedimenti die avere e che die fare il
signore dell’oste acciò che la sua gente non possa essere gravata dai nemici
per la via. Nelquale dice come l’uomo die ordinare le schiere e le battaglie,
quando l’uomo si die combattere contra I Nel quale insegna che l'uomo die
ferire il suo nemico nello battaglia di puntone e non di ramata. Nel quale dice
quante cose fanno gli avversari più forte che quelli dell’oste é come l’uomo
die assalire ei suoi nemici. Nel quale insegna come ei battallieri si debbono
tenere quando vogliono ferire ei loro nemici, e com’ellino ei debbono inchinare
e come l'uomo si die trarre in drieto quando la battaglia non porta utilità. Nel
quale insegna quante maniere ei sono di battaglie; e in quanti modi l’uomo può
prendare le città e le castella ed in che tempo l’uomo le die assediare. Come
quelli dell'oste si debbono fornire e come l'uomo può vénciare le castella per
cava. Come per l’ingegni del legno che l'uomo può menare al muro del castello,
l’uomo lo può prendare. Come l’uomo può e die edificare le castella acciò
ch'elle non sieno leggermente prese ně come l'uomo può e die guérnire le
castella acciò ch'elle non possano esser prese. Nel quale dice come quelli che
sono nel castello assiso possono e debbonsi difendersi da la cava e dai tra
bocchi e dalli altri ingegni che quellino dell'oste vi fanno. Come l'uomo die
fare le navi, e come l'uomo si die combattere nell'acqua o nel mare, da che
cosa tutte le battaglie debbono essere ordinate assediate. Che cosa è una virtù
che l’uomo chia ma piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE piacevolmente con le
genti, e in che cose la detta virtù die essere, e che si conviene che i re e i
prenzi sieno piacevoli. Appresso ciò che noi avemo detto che cosa è debonarietà,
noi diremo d’un'altra virtù, che l’uomo chiama piacevolezza. E dovemo sapere che
le opere e le parole dell'uomo sono ordinate a tre cose, si come ad avere
piacevolezza e verità, ed avere diletti e giuochi nei solazzi e nelle
allegrezze. LA PRIMA RAGIONE: E la piacevolezza si è, in SAPERE BENE CONVERSARE,
unde quelli che sa onorare e riverire gli uomini convene volmente e secondo
ragione, si à la virtù della piacevolezza. La SECONDA ragione si è , che le
opere e le parole dell’uomo sono ordinate sie a verità che, per le opere e per
le parole dell'uomo può l'altro uomo conosciare chi egli è (“Conversation
maketh the man”). Donde, verità non è altro se non che l'uomo non sia vantatore
e che nè per parole nè per fatti elli non dimostri maggior cosa in lui che vi
sia, nè che l'uomo non si faccia ispiacevole nè per parole nè per fatti oltre
quello che ragione insegna, perchè elli sia gabbato ne dispregiato. La TERZA
RAGIONE a che l'opere e le parole dell'uomo sono ordinate, si è, acciò che
l'uomo sia sollazzevole convenevolmente, e si sappia bene portare nei giochi, e
nelle allegrezze e nei sollazzi . Donde, se l'uomo vuole CONVENEVOMENTE
CONVERSARE e' die essere giochevole e piace vole e veritiere. E di queste tre
virtù noi diremo partitamente, ma prima diremo della piacevolezza. E dovemo sapere
che, NEL CONVERSARE, alcuni si mostrano troppo piacevoli, si come sono e
lusinghieri, e quelli che’n ogne cosa vogliono piacere altrui, che acciò che
piacciano altrui, si lo dano tutti ei fatti è tutti ei detti di ciascuno uomo.
E alcuni sono, che anno troppo gran difalta NEL CONVERSARE co le genti, si come
sono ei malvagi e quellino che sono battaglieri, e tenzonieri; e questi fanno
contra a ragione. Chè neuno die volere essere si piacevole nè si compagnevole,
ch’elli ne do venti o ne sia lusinghieri, e piacere a tutti gli uomini, nė
neuno die essere si pieno di contenzione e di noia, che li con venga cessare
della compagnia delli uomini, ma quelli è da lodare che si sa mezzanamente
portare e secondo ragione, nel CONVERSARE. Donde la virtù che l’uomo chiama
piacevolezza cessa la contenzione dell'uomo e tempera il lusingare, e quello
per lo quale l'uomo vuole a tutti gli uomini piacere. E perciò che l'uomo è per
natura compagnevole, si come dice il filosafo, si conviene dare una virtù per
la quale ne le parole e nei fatti sappia CONVERSARE COOPERATIVAMENTE E
convenevolmente e secondo ragione. E questa virtù che l'uomo chiama
piacevolezza, tutto sie cosa che, tutti quelli che vogliono essere piacevoli e
vivare in cooperazione, compagnia ed in comunità con l’altro, conviene ch'elli
abbiano, acciò che siamo cortesi e piacevoli, non perciò debbiamo essere si
cortesi ne si piacevoli ad uno come un altro: chè la dritta ragione insegna,
che, secondo la diversità dei due conversatori, l'uomo si die portare in
maniera appropriata con l’altro. E perciò che troppa amistà e troppa gran
compagnia mostrare ad ogni uomo fa l’uomo ispiacevole e vile; il gentile uomo
si debbe più alteramente contenere che l’altro, acció che l'uomo lor porti più
onore e più reverenza, e che la dignità de la loro grandezza non sia abbassata
nè avvilata. Donde il filosafo dice che i re e i prenzi debbono mostrare
ch’ellino sieno persone degne d’onore e di reverenza. Chè si come noi vedemo
che alcuna vianda fuôra soperchio a uno infermo che non basterebbe ad uno sano,
cosi è nell'essere piacevole e cortese, che alcuna piacevolezza s’aviene a’re
secondo ragione, che non s’aviene cosi ad un’altra persona comune. L’Enciclopedia
italiana cura l’edizione critica del “Il regime del principe”, testimoniato da nove manoscritti, tra cui il
codice della Biblioteca di Firenze (sig, che si distingue sia per motivi
cronologici (nell’explicit reca la data) sia per la veste linguistica, in
prevalenza senese, verosimilmente molto vicina a quella dell’originale, ciò che
lo rende un documento di lingua privilegiato rispetto alle coeve attestazioni
di varietà toscane non fiorentine tra fine Due- e inizio Trecento. L’opera
discende dal “Il regime del principe”, composto da Colonna filosofo tra i più
autorevoli della sua epoca, nato a Roma. Dedicato a un principe, di cui Colonna
fu tutore e ispirato alla Retorica, la Etica, e la Politica di Aristotele, esuddiviso
in tre libri concernenti la “morale», ossia l’etica (disciplina
dell’individuo), l’oeconomia (della casa), e la politica (della città o reame o
villa) - è il più corposo trattato basso-medievale sul regime del ‘gentile
uomo’ ed ebbe non solo una straordinaria fortuna in Italia fino a tutto il XV
secolo come elogio della cavalleria. Esercita una notevole influenza sul Convivio,
sul “De vulgari eloquentia” e sulla “Monarchia” di Alighieri. “E lasciando lo
figurato che di questo diverso processo dell’etadi tiene Virgilio nello Eneida,
e lasciando stare quello che Egidio eremita [il filosofo appartenne all’Ordine
degli Eremitani di Sant’Agostino ne dice nella prima parte dello Regime del
Gentile Uomo. L’ampia Introduzione, oltre a tracciare il profilo biografico di
Egidio illustrando contenuto, fonti e storia della ricezione del suo
capolavoro, esamina nei dettagli il debito di Alighieri, la fortuna figurative
o iconografica del trattato (l’affresco giottesco della Cappella degli
Scrovegni di Padova, precisamente nella Virtù; l’Allegoria ed Effetti del Buono
Governo realizzata da Lorenzetti a Siena, specie nella particolare
raffigurazione della giustizia commutativa e la giustizia distributiva alla
sinistra dell’affresco -- i rapporti tra il De regime e il Livre dou
gouvernement (una drastica riduzione non sempre perspicua, di cui sono noti
trentasei manoscritti) e tra questo e il Livro del governamento, la prima
traduzione, pur parziale, di opere che solo successivamente furono volgarizzate
nella loro interezza, ad opera di un anonimo senese, come avevano già
ipotizzato, tra gli altri, Segre e Castellani. Inoltre si auspica - e intanto
s’imposta in modo acuto e pregnante - un commento dedicato alle fonti del
“Regime”, ormai indispensabile alla luce della ri-valutazione della filosofia
nel vernacolare tra Medioevo e Rinascimento portata avanti dalla bibliografia
più recente. Grazie infatti agli studi degli ultimi due decenni, siamo oggi più
informati sui modi in cui la cultura vernacolare interagì con quella antica,
bolognese, tradizionalmente ritenuta ‘più alta’, e sul diverso pubblico,
dichiarato o reale, cui si indirizzava la trattatistica filosofica dei secoli
dal XIII-XIV in avanti. Infine, si passano in rassegna le altre versioni del De
regimine (quella senese è bensì la più antica, ma non l’unica: se ne conoscono
almeno altre cinque). Nella parte prima della Nota al testo si dà conto
della tradizione manoscritta dei testimoni completi e dei testimoni parziali
(descrizione esterna, descrizione interna, bibliografia), offrendo dati
preziosi sulla tradizione a stampa del De regimine e sulle edizioni del
Governamento. Nella parte seconda si indicano i criterî di edizione e gli usi
del copista. L’appendice prima alla Nota al testo raccoglie le aggiunte
inter-lineari e marginali al Governamento del manoscrito fiorentino, mentre in
una seconda appendice si riportano alcune annotazioni sulle relazioni fra i
testimoni del Governamento. La prima e fondamentale caratteristica della tradizione
è che tutti i mss. paiono al tempo stesso testimoni molto vicini tra loro tanto
che è dimostrabile la presenza di un archetipo a monte della tradizione, ma non
per questo facilmente classificabili nei loro rapporti reciproci,
principalmente perché spesso contaminati dal ricorso alla versione nella lingua
antica. Il secondo volume è interamente dedicato allo spoglio linguistico
sistematico sull’intero testo, tendente per quanto possibile «all’esaustività
delle allegazioni per ciascuna forma»: grafia, fonetica, morfologia,
sintassi. Chiudono il volume un ricco repertorio bibliografico e
gl’indici onomastico, toponomastico, dei nomi e dei manoscritti. Grice: “Poor Ockham is known as Ockham – god knows,
but he is not telling, what his surname was, if any! On the other hand, the
rather pompous Romans have Egidio as a ‘Colonna,’ even if, as the Treccani notes, ‘the links with the
Roman family are unclear’!” -- Romano: Egidio
Romano, arcivescovo della Chiesa
cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di
un codice medievale). Template-Archbishop.svg Incarichi
ricopertiArcivescovo di Bourges Nato tra il 1243 e il 1247, Roma
Nominato arcivescovo25 aprile 1295 Deceduto22 dicembre 1316, Roma. Egidio
Romano, latinizzato come Ægidius Romanus, indicato anche come Egidio Colonna
(Roma), filosofo. Generale dell'Ordine di Sant'Agostino. Dopo la sua morte, gli
furono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum
princeps. Fu discepolo di San Tommaso d'Aquino all'Parigi, dove più
tardi insegnò, prima di diventare generale degli agostiniani e arcivescovo di
Bourges (1295). Fu inoltre il precettore di Filippo il Bello per il quale
scrisse il trattato De regimine principum, sostenendo l'efficacia della
monarchia come forma di governo. --
è considerato tra i più autorevoli teologi di ispirazione agostiniana,
attivo anche nella vita intellettuale e politica in un contesto culturale ed
istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche sul problema del
rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Questo filosofo è
generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da Viterbo, per
il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam del 1302 di Papa
Bonifacio VIII e per il ruolo significativo che assunse il Maestro degli
Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e,
dunque, quale teorico famoso e autorevole della plenitudo potestatis
pontificia. In Egidio Romano rileviamo subito una compresenza del duplice
atteggiamento dottrinale e politico; infatti è possibile rintracciare, fra le
opere giovanili, il De regimine principum, opera scritta per Filippo il Bello e
di ispirazione aristotelico-tomista inerente alla naturalità dello Stato,
erigendola a difensore della potestas regale. Nel De Ecclesiastica potestate,
invece, Egidio Romano afferma la superiorità del sacerdotium rispetto al
regnum, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia papale.
La riscoperta di Aristotele e l'agostinismo politico In seguito alle condanne
di Étienne Tempier. Colonna difende la tesi di Tommaso, per la sua qualifica di
Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene sospeso
dall'insegnamento. In quegli anni, gli avversari del papato trovano nel
pensiero di Aristotele gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta
in discussione la sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza
della corrente speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno,
tipicamente medioevale, di compenetrazione fra Stato e Chiesa, all'interno del
quale Agostino viene a giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto
teorico del suo De Civitate Dei conduce a confusioni inevitabili fra il piano
spirituale della Civitas Dei Caelestis e il piano temporale della vita terrena
che è Civitas Peregrina), che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma
la superiorità del sacerdotium rispetto al regnum, costituendo un vero e
proprio “partito del Papa”. Egidio rivendica la Plenitudo potestatis come
proprietà costitutiva dell'auctoritas del Papa in quanto homo spiritualis.
Egidio sostituisce al concetto agostiniano di ecclesia, quello di regnum al
fine di estendere gli ambiti del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano
ecclesiastico (il Papa) dovrebbe esercitare la sua sovranità anche sul potere
temporale al fine di garantire l'ordine mediante una forma di dominium che
coincida con la sua stessa missione spirituale. Opere:Frontespizio delle
In secundum librum sententiarum quaestiones L'edizione critica dell'opera omnia
è stata intrapresa, per Leo S. Olschki, (Aegidii Romani opera omnia, collana
Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), dal gruppo di ricerca di Francesco
Del Punta. Quaestio de gradibus
formarum, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, 1502. In secundum librum sententiarum quaestiones, 1, Francesco Ziletti, 1581. In secundum librum sententiarum
quaestiones, 2, Francesco Ziletti,
Opere, Antonio Blado, In libros De physico auditu Aristotelis commentaria,
Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, 1502. De materia coeli, Girolamo Duranti,
Quodlibeta, Domenico de Lapi. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. 3 dicembre . Roberto Lambertini, Giles of Rome, in Edward N. Zalta ,
Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and
Information (CSLI), Stanford, . Charles
F. Briggs e Peter S. Eardley , A Companion to Giles of Rome, Leiden, Brill, .
Silvia Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano: I. Le
opere prima: I commenti aristotelici. "Documenti e studi sulla tradizione
filosofica medievale", Gian Carlo Garfagnini, Egidio Romano, in Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, . Francesco Del Punta-S. Donati-C. Luna, Egidio
Romano, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Filippo Cancelli, Egidio Romano, in Enciclopedia
dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Papa Bonifacio VIII Teocrazia
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Romano Egidio Romano, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ugo Mariani, Egidio Romano, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio Romano, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. su ALCUIN, Ratisbona. Opere di Egidio Romano, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. su Egidio Romano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.
Egidio Romano, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. David M.
Cheney, Egidio Romano, in Catholic Hierarchy. Roberto Lambertini, Giles of
Rome, in Edward N. Zalta , Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the
Study of Language and Information (CSLI), Stanford. Biografia a cura
dell'associazione storico-culturale S. Agostino, su cassiciaco. Predecessore
Arcivescovo metropolita di BourgesSuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Simone
di Beaulie u25 aprile 1295 22 dicembre 1316 Raynaud de La Porte. Egidio Romano.
Egidio Colonna. Colonna. Keywords: conversazione cortese, conversazione
gentile, padre/figlio, amore naturale, principe, cavalleria, cavaliere,
cavalier attitude, cavalier implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colonna” – The
Swimming-Pool Library.
Colonnello (Benevento).
Filosofo. Grice: “I like Colonnello; as a typical Italian philosopher, he has
philosophised about ‘all,’ from, first, of course, Croce, to the ‘tedesci’! –
But also about ‘guilt,’ and my favourite, the ‘transcendentale,’ which in
Italian, for lack of ‘n’ becomes ‘trascendentale’ – how many? Colonnello thinks
more than one, if the plural is of any guide!”
Insegna a Callabria. Privilegia l'arco tra criticismo trascendentale e fenomenologia,
esistenza, ermeneutica di Pareyson, storicismo di Croce, Nicol, Dussel. La sua proposta
è verificare l'interazione, in chiave storico-critica, del kantismo, della
fenomenologia e la filosofia dell'esistenza.
Altre opere: “Esistenzialismo kantiano” (Studio Editoriale di Cultura,
Genova); “Croce e i vociani” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Tempo e
necessità” (Japadre, L'Aquila-Roma); “Tra fenomenologia e filosofia dell'esistenza”
(Morano, Napoli); “Ermeneutica esistenzialista del concetto di ‘colpa”
(Loffredo, Napoli); “Percorsi di confine: esistenza e libertà” (Luciano, Napoli);
Croce (Bibliopolis, Napoli); “Ragione e rivelazione” (Borla, Roma); “Melanconia
ed esistenza” (Luciano, Napoli); “Storia esistenza liberta. Rileggendo Croce,
Armando, Roma); Martin Heidegger e
Hannah Arendt, Guida, Napoli); “Orizzonte del trascendente e dell’immanente,
Mimesis, Milano); “Inter-soggettivita riflessiva” L’itinerario dei corpi”
(Mimesis, Milano). Corpo, mondo,
Fenomenologia (Mimesis, Milano); Fenomenologia e patografia del ricordo,
Mimesis, Milano-Udine). Grice: “I used ‘body’ informally in my ‘Personal
identity’, where I suggested, that “I fell down the stairs” could be replaced
by “MY body fell down the stairs” – there is yet an essential indexical.
Different if two wrestlers unison say, ‘Both our bodies are oiled” – where
again the dual “both our” is used. We have not the second person but the FIRST
PERSON dual. “Our bodies” “Both our bodies”. Pio Colonnello. Colonnello. Keywords:
rivista La Voce, Croce e i vociani, patografia, German for ‘body’ Lieb, cognate
with ‘life’ so that ‘Das Leib ohne Leben’ would be odd. The Anglo-Normans
solved the problem with ‘corpse’, corpus, vita, corpore, vita, vivere, German
‘leben’, ‘live’ meaning with ‘remain’, creature construction, thing, living
thing, living body, personal human living being. Bodily movement. Method in
philosophical psychology, manifestation in behaviour, bodily behaviour, brain
state, different from bodily movement --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colonnello” – The Swimming-Pool Library.
Colorni (Milano).
Filosofo. Grice: “To understand the passion in Italian philosophy, as the
passion I experienced with Austin in the postwar and with Hardie on the
golfcourse in the good old days, one has to understand Colorni – he was a
socialist, and thus an empiriociritic! He found opposition in the Gentileians.
Oddly, Colroni’s main interest is the ‘monad,’ but he also explored what we
would at Oxford call ‘science’ – rather than philosophy. Lay the blame on his
tutor at Milano!”. Promotore del federalismo europeo. Mentre era confinato a
Ventotene, su saggio, “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Figlio di Alberto
Colorni, di Mantova, e Clara Pontecorvo, milanese di famiglia pisana (zia di Pontecorvo,
del regista Gillo, del genetista Guido e del giurista Tullio Ascarelli). Studia al ginnasio di Milano. Si appassiona
al Breviario di estetica di Croce. La sua formazione adolescenziale, come
raccontò egli stesso nella “Malattia filosofica”, fu influenzata dal rapporto
intrattenuto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio Sereni, tutti più grandi di
lui. Fu Enzo, che era un convinto socialista
ad esercitare su di lui una forte influenza ideale. Studia sotto Borgese
e Martinetti. Si laurea sotto Martinetti con “Il concetto di individuo”. Strinse
amicizia con Guido Piovene, che però verrà interrotta per via di certi articoli
anti-semitici scritti da Piovene su L'Ambrosiano. Partecipa nel gruppo
goliardico per la libertà di Basso e
Morandi. Saggio sull'estetica di Roberto Ardigò. Si accosta alla divisione
milanese del “Giustizia e Libertà”. Collabora in seguito col nucleo giellista
torinese, che fece capo prima a Ginzburg e poi a Foa. Incontra Croce, con
il quale conversa a lungo. Saggi per Il Convegno, La Cultura, Civiltà
Moderna, Solaria e la Rivista di filosofia di Martinetti, e presso la società
editrice "La Cultura" di Milano, uno studio critico su L'estetica di
Croce. Saggio sulla monada e la diada, vinse il concorso per
l'insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima assegnazione al
liceo Grattoni di Voghera, ottenne la cattedra di filosofia a Trieste. Qui
conobbe e frequentò, fra gli altri, Saba (ritratto poi in Un poeta) ed anche Gambini,
Pincherle ed Curiel. Nella collana scolastica che Giovanni Gentile
diresse per Sansoni, pubblica “Diadologia”. La diadologia lo costrinse ad
affrontare studi di logica e semantica. Riparte da Kant e dalla problematica
kantiana, e medita sulle conseguenze che la fisica quantica e la psicanalisi
potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali. Quando,
come si legge in Un poeta,Saba gli domanderà, ‘Perché fa filosofia?’, Colorni
concluse che da quel giorno, ‘io non faccio più filosofia’. Non e la filosofia
che rifiuta, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano seguaci Croce
come Gentile e Martinetti. In occasione di un congresso di filosofia a Parigi,
incontra Rosselli eTasca. In quanto ebreo e rinchiuso a Varese. I giornali
pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli “di razza
ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti in
Italia e all'estero”. La sottolineatura
sul “complotto ebraico” serviva a giustificare la legislazione anti-semita
appena varata in Italia dal regime, per potersi così allineare alla linea
politica seguita dagli alleati nazisti. Confinato a Ventotene, dove prosegue i
suoi studi filosofici, e conversa intensamente con gli altri compagni
confinati, Rossi, Doria e Spinelli. Un'eco fedele di quelle discussioni si
ritrova in “Conversazioni di Commodo”. Risale a questo periodo la sua adesione
alle idee federaliste europee, stesurando il Manifesto per un’Europa libera e
unita. Saggio: Problemi della Federazione Europea, che raccoglieva il Manifesto
ed altri scritti sul tema. Nella sua "Prefazione" al Manifesto,
auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro “universalista”,
come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra. In
tale ottica, la creazione di una federazione di stati europei era da lui
considerata come condizione indispensabile per un profondo rinnovamento
sociale, anche per iniziativa popolare, che partendo dagli enti territoriali
avrebbe coinvolto tutta l’Italia e, quindi, l’intera Europa. Circa le
dinamiche che portarono alla stesura del Manifesto, è generalmente ricondotto
ai soli Spinelli e Rossi il contributo maggioritario del testo, sebbene, alcuni
recenti studi storiografici, abbiano seriamente rivalutato il suo ruolo. Di
trinità si tratta, e lo spirito santo della situazione è lui, che partecipa alle
discussioni preparatorie alla stesura del Manifesto assieme a poche altre
persone, ed ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo e
di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista, verso i due
autori del documento, fino al suo trasferimento a Melfi, benché comunque i
contatti non cessassero del tutto. Grazie anche all'intervento di Gentile,
riusce ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante
lo stretto controllo della polizia, riusce ad avere contatti con alcuni degli anti-fascisti
locali. Assieme con Geymonat, elabora il progetto di una rivista di
metodologia scientifica. Riuscì a fuggire da Melfi, rifugiandosi a Roma,
dove visse da latitante. Dopo la capitolazione di Mussolini si dedica
all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nato dalla
fusione del PSI col gruppo del Movimento di Unità Proletaria. Partecipò,
assieme a Spinelli, Rossi, Doria, Braccialarghe e Foa, in casa di Rollier a
Milano, alla riunione che diede vita al Movimento Federalista Europeo. Il
movimento adottò come proprio programma il "Manifesto di Ventotene". Svolse
nella capitale un'intensissima attività nelle file della Resistenza. Prese
parte alla direzione del PSIUP e s'impegna a fondo nella ricostruzione della
Federazione Socialista Italiana e nella formazione partigiana della prima
brigata Matteotti. “Io ero da poco stato nominato segretario della
Federazione Socialista per suggerimento e per decisione di Pertini, che era
membro della segreteria del partito in quell'epoca. Avevamo organizzato una chiamiamola
brigata, anche se era un gruppo armato che era comandato da Colorni che poi
è assassinata alla vigilia della
liberazione di Roma. Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestine. Così Pertini
ricorda il suo impegno per la stampa del giornale socialista: «Ricordare
l'Avanti! clandestino di Roma vuol dire ricordare prima di tutto due nostri
compagni che a forte ingegno unevano una fede purissima, entrambi caduti sotto
il piombo fascista: Colorni e Fioretti. Ricordo come Colorni, mio
indimenticabile fratello d'elezione, si prodiga per far sì che l'Avanti!
uscisse regolarmente. Egli in persona, correndo rischi di ogni sorta, non solo
scrive gli articoli principali, ma ne cura la stampa e la distribuzione,
aiutato in questo da Fioretti, anima ardente e generoso apostolo del socialismo.
A questo compito cui si sente particolarmente portato per la preparazione e la
capacità della sua mente, Colorni dedica tutto se stesso, senza tuttavia
tralasciare anche i più modesti incarichi nell'organizzazione politica e
militare del nostro partito. Amava profondamente il giornale e sogna di
dirigerne la redazione nostra a Liberazione avvenuta e se non fosse stato
strappato dalla ferocia fascista, sarebbe stato il primo redattore capo
dell'Avanti! in Roma liberata e oggi ne sarebbe il suo direttore, sorretto in
questo suo compito non solo dal suo forte ingegno e dalla sua vasta cultura
filosofica, ma anche dalla sua profonda onestà e da quel senso del giusto che
ha sempre guidato le sue azioni. Per opera sua e di Fioretti, l'Avanti! era tra
i giornali clandestini quello che aveva più mordente e che sapeva porre con più
chiarezza i problemi riguardanti le masse lavoratrici. La sua pubblicazione
veniva attesa con ansia e non solo da noi, ma da molti appartenenti ad altri
partiti, i quali nell'Avanti! vedevano meglio interpretati i loro interessi. Nella
Roma occupata dalle forze naziste, in una tipografia nascosta di Monte Mario,
fece stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine intitolato Problemi
della Federazione Europea, contenente il "Manifesto di
Ventotene". Il 28 maggio del 1944, pochi giorni prima della
liberazione della capitale, venne fermato in via Livorno da una pattuglia di
militi fascisti della famigerata banda Koch. Tenta di fuggire, ma fu raggiunto
e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni,
muore sotto l’identità di ‘Franco Tanzi’. Indomito assertore della libertà,
confinato durante la dominazione fascista, evadeva audacemente dedicandosi
quindi a rischiose attività cospirative. Durante la lotta antinazista,
organizzato il centro militare del Partito Socialista Italiano, dirigeva
animosamente partecipandovi, primo fra i primi, una intensa, continua e
micidiale azione di guerriglia e di sabotaggio. Scoperto e circondato da
nazisti li affrontò da solo, combattendo con estremo ardimento, finché travolto
dal numero, cadde nell'impari gloriosa lotta. Tre lapidi esistenti, una, posta
nel 1982 dalla III Circoscrizione del Comune di Roma è semilleggibile perché
scurita dal tempo, un'altra, posta nel 1978 dal Partito Socialista Italiano, è
spaccata in due e un'ultima, posta nel 2004 sempre dalla III Circoscrizione del
Comune di Roma, contiene un errore. Foto delle tre lapidi. Altre opere: “Scritti, Norberto Bobbio, la
Nuova Italia, Firenze); “Il coraggio dell'innocenza, Luca Meldolesi, La Città
del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli); “Un poeta” (Il
Melangolo, Genova); “La malattia della metafisica” (Einaudi, Torino).
Dizionario Biografico degli Italiani. L'itinerario politico di Eugenio Colorni,
in Id., Il socialismo riformista tra politica e cultura, Il socialismo
federalista di Eugenio Colorni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze,
Anno Accademico, Gaetano Arfé, Eugenio Colorni, l'antifascista, l'europeista,
in , Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli,
Milano, Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e
dopoguerra. Guido Piovene ed Eugenio Colorni, Einaudi, Torino e Hoepli, Milano,
. Geri Cerchiai, L'itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di
Storia della Filosofia», Stefano Miccolis, Colorni e Croce”. Talvolta non si
distingue debitamente fra l’emergere originario di un testo nell’opera di un
filosofo e il suo riemergere, o diffondersi, in altri tempi o contesti. In tal
modo, proprio la tragedia del Novecento ha spostato spesso, rispetto alla
composizione, la diffusione di scritti intrisi di attualità. Poche volte, come
nel Novecento, è stato così vistoso il fenomeno delle letture differite. Ora, e
al di là della nota di polemica che affiora da un montaggio tendenzioso fino al
limite delle falsificazione – questo è quanto è all’incirca avvenuto per Colorni:
scoperti (o riscoperti), dopo la morte dell’autore, in quel particolare
contesto del quale si sono nutrite le due stesse riviste, “Analisi” e “Sigma” –
che, insieme con «Aretusa», li hanno per prime pubblicati, a tale contesto sono
rimasti giocoforza legati, venendo così ad essere proiettati all’interno di una
tradizione e di un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro, condotto in un
altro linguaggio. Si è parlato, a proposito di tale linguaggio, dello spirito
del ’45, e sovente si è visto in esso, da parte degli stessi animatori, una
vera e propria prosecuzione, in campo culturale, delle istanze portate avanti
dalla Liberazione. Alla “dittatura dell’idealismo”– il cui [Razionalismo e
prassi a Milano: La cultura milanese vive profondamente quello “spirito del
’45” fatto anche di semplificazione e di attivismo, di fiducia ingenua
nell’anno zero, nella svolta politico-sociale in corso, ma soprattutto di un
nesso inscindibile con la liberazione e la Resistenza. La dittatura dell’idealismo
è il titolo dato da Cantoni ad un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini.
Espressione di un comune sfondo sociale e di una comune struttura economica, le
filosofie di Croce e Gentile si sarebbero unite, nella prospettiva di Cantoni,
in una sorta di convergenza sociologica con il regime, riuscendo così a
rimediare una posizione di singolare monopolio per la cultura idealista.
Certamente, e una grossolanità speculativa e un errore storico identificare il
destini del fascismo col destino dell’idealismo, anche se questa identificazione
di fatto si verifica nella persona del maggior rappresentante filosofico dell’idealismo
italiano, Gentile. In realtà, molti idealisti, dal Croce al De Ruggiero,
staccarono, prima o dopo, le loro sorti da quelle del regime. Eppure, al di
sotto della dichiarata e sincera avversione, un filo, inconscio spesso ma
tenace, lega tra loro gli avversari e ne permetteva una, sia pure scomoda,
convivenza. Questo filo era costituito dal loro comune, e inconfessato carattere
*conservatore*. Lo spiritualismo idealista agì come una dittatura logica. Avendo
in mano cattedre e riviste, gli idealisti facevano il bello e il cattivo tempo
nella filosofia, facendo decadere al piano della non-filosofia gli avversari
positivisti ed logico-empiristi. Alcune opinioni sul crocianesimo che, oltre ad
essere meno drastiche, risultano per certi aspetti accostabili ad analoghi
spunti della critica colorniana. Vale la pena di rimettersi a una revisione
intelligente dell'idealismo italiano, rimanendo idealisti] filosofia viene
assimilata alla sorte del regime – si è così tentato di opporre una filosofia
più aperta al dibattito contemporaneo ed internazionale, fosse esso
identificabile con le correnti fenomenologico-esistenziali o con quelle più
strettamente epistemologiche ispirate al positivismo o empirismo logico del
Circolo di Vienna. Quest’ultimo, d’altro canto, viene in Italia presentato da
Geymonat con parole quanto mai indicative del clima che ne accoglieva i
principi. L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato è e
vuole essere un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla
ragione un valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantano
il medesimo nome. Gli è che il razionalismo deve essere ben più agguerrito e
penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati. Deve essere:
critico, ossia capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la
pura ragione dalla filosofia mistica e decadente; costruttivo, cioè in grado di
soddisfare le esigenze di ri-costruzione e di logicità caratteristiche della
nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la
scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano. Gli Studi per un nuovo
razionalismo, che raccoglievano le ricerche di un intero ventennio (il testo
più datato, Le idee direttive del neo-empirismo, era stato pubblica Ciò che si
può apprezzare in Croce, da questo punto di vista, è il suo tentativo di
sciogliere il pensiero dai legami colla filosofia metafisica per avvicinarsi a
una filosofia intesa come chiarificazione dell’esperienza, intesa cioè come
trapasso dalla metafisica alla metodologia. Croce si sarebbe in tal modo
inserito nella corrente più viva della filosofia, non riuscendo tuttavia (e in
questo consisterebbe il suo maggior limite) a rompere completamente i ponti con
la metafisica specuativa. Croce non ha quindi tanto combattuto la metafisica
speculativa quanto sostituito alla metafisica trascendente la metafisica
immanente. Per una ricostruzione più esaustiva delle diverse posizioni di
Cantoni su Croce, si rimanda a R. Franchini, Remo Cantoni critico di Croce, in
C. Montaleone e C. Sini (a cura di), Remo Cantoni, filosofia a misura della
vita, Milano, Guerini, Cfr. N. Bobbio, Introduzione, in E. Colorni, Scritti,
Firenze, La Nuova Italia. Tra il 1930 e il 1940 avviene la crisi
dell’idealismo, cui segue la ricerca di nuove vie, proprio ad opera della
generazione di Colorni. […] le vie battute per uscire dalla crisi sono
soprattutto due: quella che passa attraverso una riflessione sulle
trasformazioni avvenute in seno al sapere scientifico e che dà origine a una
filosofia scientifica, risolutamente anti-metafisica, qual è il positivismo
logico, cui aprono la strada gli studi di Ludovico Geymonat; e quella che passa
attraverso l’esistenzialismo (Abbagnano, il primo Luporini)». 7 L. Geymonat,
Studi per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore. Come ha fatto notare Mario
Dal Pra, e a conferma di quanto si scriveva di sopra, l’accostamento in questo
passaggio dei termini “ricostruzione” e “logicità” sembra diretto a far pensare
che «l’avversione alla metafisica del neoempirismo e l’avversione alla
dittatura fascista da parte del movimento di liberazione abbiano per Geymonat
una comune radice» (M. Dal Pra, Il razionalismo critico, in A. Bausola, G.
Bedeschi et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari,
Laterza. Geri Cerchiai 4 to per la prima volta nel 1935 con il titolo Nuovi
indirizzi della filosofia austriaca), fu significativamente fatto uscire, nel
1945, con la medesima data di stampa del giorno della Liberazione di Milano; e
in quello stesso mese di aprile apparve il primo numero della rivista «Analisi»
che, come si è accennato, contribuì fra le prime, con la pubblicazione del
frammento intitolato Filosofia e scienza, alla diffusione dell’epistemologia
colorniana9 . Ed è proprio da una lettura di «Analisi» e «Sigma» che è
possibile sommariamente inquadrare il contorno di quel periodo storico al quale
si deve la prima scoperta dell’epistemologia colorniana. Voluta da Giuseppe
Fachini, «Analisi» fu stampata per cinque numeri fino al 1947, mutando il nome,
nel corso delle pubblicazioni, in quello di «Analysis». L’«esperienza personale
che io avevo fatto», racconta Fachini circa la nascita della rivista, mi aveva
convinto della necessità di una piattaforma di incontro interdisciplinare.
Allora in Italia mancava qualcosa di simile. La guerra spezzò agli inizi i miei
tentativi. Gli eventi bellico-politici stessi, per conto loro, mi portarono […]
a profonda solidarietà mentale con Livio Gratton. Nacque così l’idea di
«Analysis»: con ambizioni editoriali infantilmente dissonanti col momento.
Trovammo poi nel Buzzati-Traverso un biologo “fisicalista” […] ma aperto ad
ogni esperienza. Tra i “filosofi” professionali (a formazione cioè tradizionalmente
filosofico-letteraria) il Banfi, cui mi ero rivolto, mi indicò l’allievo suo
Giulio Preti, come fornito di interessi e preparazione fisico-matematica,
allora rara nel “filosofo”. Per inciso, ricordo i miei contatti con un altro
giovane “filosofo” con preparazione e interessi analoghi: Eugenio Colorni10 . I
temi portati avanti dalla rivista furono sostanzialmente due: l’interesse per
la metodologia delle scienze – attraverso la quale indagare la possibilità di
un fondamento comune alle diverse discipline – e la volontà di mantenersi
all’interno di un’impostazione strettamente antimetafisica11. La collaborazione
fra 8 In «Rivista di filosofia». Cfr. E. Colorni, Filosofia e scienza, in
«Analisi». D’ora innanzi si indicheranno gli scritti raccolti in questa
edizione col solo titolo seguito dal numero di pagina. Di «Analisi» e «Sigma»,
con specifico riferimento alla figura di Eugenio Colorni, si è occupato M.
Quaranta, La “scoperta” di Eugenio Colorni nelle riviste del secondo
dopoguerra. Gli scritti sulla relatività, in G. Cerchiai e G. Rota (a cura di),
Eugenio Colorni e la cultura italiana fra le due guerre, Manduria-Bari-Roma,
Lacaita. “Analysis”: trent’anni dopo, testimonianza di Giuseppe Fachini, in
Analisi. Milano, riletta da M. Quaranta, con testimonianze di G. Fachini, S.
Ceccato, L. Geymonat, L. Gratton, E. Poli, Bologna, Arnaldo Forni Editore. Aggiunge
Fachini, a proposito della sua formazione, che l’«impulso a uno sforzo collettivo
interdisciplinare era sorto in me dai primi contatti con l’ambiente mentale del
neopositivismo logico», ma che la «soluzione neopositivista, verso cui ero in
un primo tempo quasi costretto, mi si rivelò presto insoddisfacente per
l’irrigidimento formale, verso cui stava avviandosi. Il «periodico», si
affermava nel Programma pubblicato sul primo numero, era «inteso ad offrire un
luogo di libera discussione a quanti abbiano interesse ai problemi di
metodologia e di critica della scienza, nello sforzo di purificare ed
universalizzare il linguaggio Cinque scritti metodologici di Eugenio
Colorni 5 scienziati e filosofi fu uno degli aspetti qualificanti della
pubblicazione, ma fu anche d’impedimento ad un’armonica composizione delle sue
diverse anime, concorrendo in definitiva alla conclusione dell’esperienza:
«L’incontro con i fondatori e la rivista», racconta a questo proposito Silvio
Ceccato, avvenne per chiamata gentile. Io mi trovavo in parabola
neo-positivistica o logico-empiristica discendente. Il filone che cominciava ad
interessarmi era ormai piuttosto quello di P.W. Bridgman e di H. Dingler,
comunque un filone operativo. Questo difficilmente avrebbe permesso una intesa
con i due filosofi del gruppo, L. Geymonat e G. Preti. Una collisione non
poteva tardare anche con il più aperto filosofo ufficiale, Antonio Banfi, più
storico, più umanista. Un certo divario di lavoro si venne a creare anche con
gli scienziati in quanto per lo scienziato di discipline assestate e floride,
come la fisica, la biologia, l’anatomo-fisiologia, etc., la metodologia si può
aggiungere come ornamento, come divertimento. Ma non per me. Così terminate le
pubblicazioni di «Analisi», la sua eredità venne raccolta, in quello stesso
1947, dalla rivista romana «Sigma», fondata da Vittorio Somenzi e Giuseppe
Vaccarino13. Il periodico – che riportava il sottotitolo di «Conoscenza
unitaria» – si proponeva di riunire, come si legge nella seconda di copertina,
«una limitata quantità di elementi atti a determinare una concezione unica
della conoscenza». La nota di presentazione della rivista precisava poi i
confini all’interno dei quali si intendevano muovere i curatori: «si va facendo
evidente che esaurire la scienza nel tecnicismo dello specialista è dannoso –
non solo ai fini della costituzione di un sistema unitario della conoscenza
scientifica, ma anche nei riguardi degli stessi progressi tecnici nei singoli
settori»14. Da qui specialistico verso una comune impostazione dei modi
fondamentali, pur essi comuni, con cui si edifica e modifica il sapere
scientifico». Unico limite, in tal senso, era quello di non «travalicare di là
dalla metodologia in una sistematica della scienza [per] fare della metafisica
insaputa e inutile» (Il programma, in «Analisi»). 12 “Analysis”: trent’anni
dopo, testimonianza di S. Ceccato, in Analisi. Milano 1945. In una lettera a
Giuseppe Vaccarino del 3 maggio 1947, Vittorio Somenzi rilegge la storia di
«Sigma» con le parole seguenti: «La rivista è nata con la modesta intenzione di
pubblicare il vecchio materiale tuo, di Colorni e Cotone, mio. E di esaurirlo
coi primi numeri. Poi si è visto che, se non altro dato il costo della carta e
stampa, conveniva pubblicare un tentativo di sintesi organica, sia pure
provvisoria, del tuo – e limitare quello dei due C. e mio a ciò che poteva
avere ancora interesse dal punto di vista filosofico. Infine è sorta l’idea,
con la crisi di Analisi, di prenderne il posto con il programma serio di
Metodo. Già l’impostazione dei primi due numeri ci alienerà le simpatie dei
Castelli, Blanc, Fantappié ecc., ma anche dei Filiasi e Geymonat
(l’interessamento di quest’ultimo è condizionato alla possibilità di una nostra
conversione al materialismo dialettico/razionalista tipo “La Pensée”).
Attualmente spero solo nei Servadio e magari Spirito, Savinio e stop»
(“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo
Vittorio Somenzi, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di
lavoro non organizzate, 4, Collaborazione con Giuseppe Vaccarino, b. 1,
Vaccarino, 1943-1948. Da ora in avanti, il Fondo sarà abbreviato con la sigla FS,
seguita dall’indicazione dei riferimenti completi d’inventario). 14 La
conoscenza unitaria, in «Sigma». Scriveva Giuseppe Vaccarino a Vittorio Somenzi
il 14 ottobre 1946 riguardo a questa nota: «Rileggendo la tua edizione riveduta
della Conoscenza unitaria penso che possa andare come presentazione anonima,
specie se sarà da Geri Cerchiai 6 avrebbe anche dovuto discendere il
ruolo della ricerca metodologica, che – comprendendo un discorso più largamente
critico-filosofico – avrebbe dovuto fissare le norme dirette ad unificare in
sistema le scienze particolari o la conoscenza in genere. Come «Analisi», anche
«Sigma» ebbe però vita breve, e dopo sei numeri una nota editoriale ne
annunciava la confluenza nella rivista «Methodos». Questo fu dunque lo sfondo culturale
che vide nascere l’interesse per la filosofia colorniana, un interesse che, attraverso
la pubblicazione di alcuni testi del filosofo milanese, richiamava alla
ricostruzione della filosofia empiristica italiana (come la proposta del
ebraico-britannico Ayer a Oxford) come tradizione anti-metafisica e
anti-idealistica e capace di attuare un profondo rinnovamento negli orientamenti
teoretici nazionali. D’altra parte, che il pensiero di Colorni fosse in certa
misura vicino alle posizioni espresse da «Analisi» e «Sigma» è testimoniato,
oltre che dalle singole scelte di politica editoriale delle due riviste, da
quanto raccontato dagli stessi protagonisti: «Ricordo con precisione», ha
scritto ad esempio Fachini sul secondo numero di «Analisi», le conversazioni di
quell’epoca: credo di poter affermare, per esperienza personale, che il
Colorni, giovanissimo sia stato tra i primi italiani di preparazione filosofica
a tentare di accogliere e di comprendere, in modo serio, le nuove affermazioni
epistemologiche. La più gran parte del suo lavoro è inedita: molte pregevoli
cose egli ha lasciato: e forse potrebbe indicarci vie nuove. Gli amici di
«Analisi» auspicano di poter far conoscere in cerchio vasto il suo lavoro, a
vantaggio della ricerca metodologica e in omaggio alla sua memoria Somenzi, a
sua volta, scrivendo a Giuseppe Vaccarino della pubblicazione degli scritti
colorniani su «Sigma», afferma: Per Sigma convinciti che i nostri scritti,
incomprensibili per virtù proprie dalla maggioranza dei competenti, l’hanno irrimediabilmente
“condannata” e che quelli di Colorni sono ancora i migliori che potessimo o
possiamo esibire, oltre che i più vicini al nostro ordine di idee. “Fisica teorica
e filosofia” di Colornimerita senz’altro la pubblicazione sul numero che spero
di riuscire a dedicare a questo argomento19 . Rievocando poi il Progetto di una
rivista di metodologia scientifica – da Colorni discusso fra gli altri con
Ludovico Geymonat durante gli anni della guerra – ante ulteriormente ampliata.
Effettivamente rileggendo il mo testo subito dopo averlo scritto non avevo
avuto una buona impressione. Ma ora mi è piaciuto» (FS, sez. 5, Corrispondenza,
gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, gen. 28, 135, Vaccarino Giuseppe,
1946-1948. 15 La conoscenza unitaria, cit., p. 4. 16 F. Cambi, Razionalismo e prassi
a Milano, G. Fachini, Eugenio Colorni, in «Analisi», I, 1945, 2, pp. 105-106.
18 Si tratta di E. Colorni, Critica filosofia e fisica teorica. 19 Lettera di
Vittorio Somenzi a Giuseppe Vaccarino. Alcuni inediti riconducibili a tale
progetto sono presentati in M. Quaranta, La “scoperta” di Eugenio Colorni,
cit., cfr. in part. le pp. 126-130. Per i testi di FS destinati alla rivista
metodologica. Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 7 cora Somenzi ha
sottolineato nel 1986 come esso corrispondesse «nella sostanza a molte
realizzazioni degli ultimi quarant’anni, da riviste come “Analysis” a collane
di volumi di filosofia della scienza e di storia della scienza quali quelle
impostate a Milano e Torino [dallo stesso] Geymonat e da Paolo Rossi»21 . A
partire da queste premesse, appare evidente come la storia della riscoperta
colorniana nel dopoguerra possa concorrere a gettare luce su alcuni
fondamentali aspetti dello stesso pensiero dell’autore; essa ne evidenzia
difatti la novità di prospettiva e la conseguente, connaturata disposizione a
dialogare coi più avanzati ambienti filosofico-culturali del nostro Paese. Ciò
che tuttavia rende affatto esemplare la filosofia colorniana, concorrendo a fare
di essa un importante «contributo alla comprensione del travaglio della
filosofia italiana al momento del declino della preponderanza idealistica, non
è soltanto la particolare modalità della sua ricezione nella seconda metà degli
anni Quaranta, ma anche la complessiva parabola intellettuale seguita dal
giovane studioso per giungere alle posizioni metodologiche degli ultimi anni.
2. Fonti e maestri Colorni fu allievo di Giuseppe Antonio Borgese e di Piero
Martinetti alla Regia Università di Milano. Nel raccontare della formazione
universitaria del giovane Eugenio, Enzo Tagliacozzo ha scritto a questo
proposito: va ricordata l’influenza che sui suoi studenti ebbe allora una
personalità come quella di Borgese, che Eugenio e compagni chiamavano
scherzosamente G.A. Era uno di quei pochi professori che non disdegnavano
allora di soffermarsi a discutere dopo la lezione con i propri studenti. Altra
influenza determinante per i suoi studenti quella dell’austero Piero Martinetti
che spiegava Kant alle otto del mattino. Martinetti avviava gli studenti al
rigorismo dell’etica kantiana, mentre il brillante G.A., più alla mano,
discuteva di estetica e letteratura comparata23 . I debiti con l’insegnamento
di Borgese, d’altro canto, sono resi espliciti dallo stesso Colorni, che in un
suo curriculum universitario afferma: Durante i miei studi mi sono occupato
specialmente di problemi filosofici ed estetici e, sotto la direzione del Borgese,
ho redatto lavori su L’estetica di Roberto Ardi21 V. Somenzi, Eugenio Colorni
filosofo della scienza, in «Filosofia e società», N. Bobbio, Introduzione, cit., p. VI. 23 E.
Tagliacozzo, L’uomo Colorni, in «Tempo presente». Prosegue poi Tagliacozzo
nella pagina seguente: «Martinetti […] indusse [Eugenio] ad approfondire Kant,
amò Spinoza dopo la prima infatuazione per l’idealismo italiano. E chi in
quegli anni non lesse Croce e Gentile, ma specie Croce? […] Eugenio conobbe
Hegel, ma non fu mai hegeliano. Studiò dal punto di vista filosofico Marx, ma
non fu mai marxista. Dopo un’esercitazione sul positivismo – e si noti
l’influenza borgesiana nell’approfondimento dei problemi estetici – si
indirizzò verso Leibniz» (ivi, p. 54). Geri Cerchiai 8 gò e del positivismo
italiano, L’estetica bergsoniana e L’estetica di Benedetto Croce. Quest’ultimo
studio è stato pubblicato più tardi a Milano dalla casa editrice “La Cultura”24
. Più complesso, e forse maggiormente studiato, è il rapporto di Colorni con
Piero Martinetti, col quale l’autore si laureò nel 1930 su Sviluppo e
significato dell’individualismo leibniziano. Il primo, fondamentale impulso
all’approfondimento di Leibniz25; l’introduzione alla filosofia di Kant26; il
rifiuto del metodo dialettico27; l’urgenza di rinvenire una nuova, diversa
organizzazione del nesso fra individuale ed universale, sono elementi che stringono
Colorni al magistero martinettiano e che risultano fondamentali per la più
generale formazione del filosofo milanese. Al di sotto di tutti è poi presente
l’esigenza di individuare il corretto rapporto fra l’analisi della realtà e la
sua organizzazione sistematica, esigenza il cui movimento e la cui parabola
all’interno della propria maturazione intellettuale sono così descritte, ne La
malattia filosofica, dallo stesso protagonista: 24 Curriculum vitae di Colorni,
s.d., in Archivio Hirschmann, Roma, citato in S. Gerbi, Tempi di Malafede.
Guido Piovene ed Eugenio Colorni. Una storia italiana tra fascismo e
dopoguerra, nuova edizione Milano, Hoepli, pp. 41-42. Cfr.: E. Colorni,
L’estetica di benedetto Croce. Studio critico, Milano, La Cultura; Id., Roberto
Ardigò, in «Pietre», firmato con lo pseudonimo di Carlo Rosemberg; per una
storia di questa pubblicazione rinvio ad A. Vigorelli, Antifascismo tra i
giovani: il caso di “Pietre”, in Eugenio Colorni e la cultura italiana, a cura
di G. Cerchiai e G. Rota, cit., pp. 251-266); lo scritto sul bergsonismo è
tuttora inedito. È lo stesso Colorni, ne La malattia filosofica, a raccontare
come si svolgevano, durante le lezioni di Borgese, le esercitazioni dalle quali
è nato ad esempio lo studio su Croce: «All’università si dà continuamente
battaglia contro Croce. Ogni settimana, uno studente sale sulla cattedra per
discutere coi compagni e col professore […]. Salire anche lui su quella pedana,
gli piacerebbe tanto: ma per che dire? Tenterà, ad ogni modo» (E. Colorni, La
malattia filosofica, p. 26). Sul rapporto fra Colorni e Borgese rimando ad A.
Riosa, Giuseppe Antonio Borgese ed Eugenio Colorni tra letteratura e politica,
in G. Cerchiai e G. Rota (a cura di), Eugenio Colorni e la cultura italiana. Nello
stesso periodo nel quale si laureava Colorni, altri due allievi di Martinetti,
Giovanni Emanuele Barié e Carlo Emilio Gadda, venivano indirizzati dal maestro
allo studio del filosofo di Lipsia. Si veda, a mero titolo di esempio, quanto
lo stesso Martinetti scriveva nel 1926 a Gadda: «Se fra tre o quattro anni Ella
potesse uscire con una bella esposizione di Leibniz (non tema d’avere
concorrenti in questo argomento!) la via dell’università (per storia della
filosofia) Le sarebbe aperta» (Lettera di Piero Martinetti a Carlo Emilio
Gadda, 24 febbraio 1926; in P. Martinetti, Lettere a Carlo Emilio Gadda, a cura
di G. Lucchini, in «I quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani», Cfr.
anche: G. Cerchiai, Due inediti di Giovanni Emanuele su Leibniz, in «Rivista di
storia della filosofia», LIII, 1998, pp. 125-136; Id., Eugenio Colorni lettore
di Leibniz, in Eugenio Colorni e la filosofia italiana, cit., pp. 159-176. 26
Si veda la testimonianza di Tagliacozzo riportata poco sopra. Per il clima nel
quale poteva essere riletto Kant durante le lezioni martinettiane (con
particolare riferimento alle vicende relative a Colorni), si rimanda a S.
Gerbi, Tempi di malafede, cit., p. 39. 27 Una delle poche citazione dirette di
Colorni presenti nel libro sull’estetica crociana rinvia proprio allo scritto
di Martinetti intitolato Il metodo dialettico (in «Rivista di filosofia), là
dove Colorni scrive: «perché, per quale forza o per quale principio questa
implicazione dei contrari debba presentarsi quasi come una generazione dell’uno
da parte dell’altro, è difficile a intendersi. Perché si deve dire che il
Non-io, il quale è, per la sua stessa definizione, inseparabile dall’Io,
sgorga, si svolge, si origina da esso? Che il particolare nasce
dall’universale?» (E. Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, cit. p. 11).
Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni. Il problema che lo occupa è
sempre il posto, la collocazione delle facoltà nel mondo dello spirito. A un
certo punto, gli balena la possibilità che questi elementi di cui cercava con
tanto accanimento l’ordine e la collocazione, non patiscano alcun ordine:
possano vivere così, separati, paralleli, autonomi. L’idea lo entusiasma. Gli
sembra di avere ora fatto veramente un passo innanzi. E non pensa più tanto a
definire e a ordinare, quanto a descrivere. Ma questo procedere dovrà pure
avere una sua giustificazione teorica, dovrà pure inquadrarsi in una visione
del mondo, avere un suo nome che termina in -ismo. Pierino [alter ego di
Colorni] si butta sui pluralisti, sugli empiriocriticisti: studia Mach e
Avenarius, si addentra nel labirinto di Leibniz. Su queste basi, si può dire
che quello che altrove ho definito il “problema dell’ordine” divenga, talvolta
anche solo per contrasto, uno dei fili conduttori dell’intera riflessione colorniana:
impostato fin da L’estetica di Benedetto Croce, esso cercherà una prima,
instabile sistemazione nella filosofia di Leibniz, per trovare poi nella
rilettura metodologica ed epistemologica del criticismo kantiano una soluzione
– o, come potrebbe dirsi: dissoluzione – affatto originale. Al fine di seguire
il movimento del pensiero di Colorni da questo punto di vista, può essere utile
rileggere le parole dell’autore stesso. E. Colorni, La malattia filosofica, p.
29; cfr. anche ibidem, n. 19 del curatore. Di Leibniz dirò in seguito, in
questo stesso paragrafo. Per quanto riguarda l’accenno agli empiriocriticisti,
si rimanda a quanto scritto da Luca Guzzardi nel 2011, il quale, esaminando
precisamente la radice dei riferimenti colorniani a Mach, Avenarius e Schuppe,
ne ha riconosciuto l’origine proprio nell’insegnamento di Martinetti:
«Colorni», spiega Guzzardi, «aveva potuto trovare una valutazione positiva di
questo pluralismo, nonché delle “filosofie dell’esperienza” di Schuppe,
Avenarius e Mach, nell’Introduzione alla metafisica di Piero Martinetti.
D’altra parte, ai primi del Novecento Martinetti aveva indirizzato allo studio
di Mach, Avenarius e Schuppe, un giovane e promettente allievo, Aurelio Pelazza.
Tali circostanze», secondo Guzzardi, «fanno ritenere», insieme con altre che
dovrebbero essere approfondite, «che l’interesse originario di Colorni per
l’empiriocriticismo sia da collegare a Martinetti e Pelazza» (L. Guzzardi, Lo
specchio della natura. Colorni e la cultura scientifica del suo tempo, in Eugenio
Colorni e la cultura italiana, a cura di G. Cerchiai e G. Rota, cit., pp.
177-195, pp. 188-189). Prosegue Guzzardi in queste stesse pagine: «Non solo
Schuppe e Avenarius vengono citati da Colorni nella recensione all’Introduzione
alla metafisica; qui si trova pure accennato fra i meriti di Martinetti “quel
concetto di esperienza pura e obiettiva che egli sembra indicare come via di
uscita dalle difficoltà in cui il pensiero moderno si trova impigliato” – e
l’esperienza pura [reine Erfahrung], attorno a cui Pelazza aveva costruito la
propria presentazione dell’empiriocriticismo, aveva costituito il punto
d’approdo della filosofia di Avenarius» (ivi, p. 189). La recensione
Sull’“Introduzione alla metafisica” di Piero Martinetti si trova ora alle pp. 52-57
dell’edizione Einaudi degli scritti colorniani. A tutto ciò si può aggiungere
che Colorni accostò all’empiriocriticismo anche la filosofia di Benedetto
Croce: «L’individualismo del Croce […] non è necessariamente in contrasto col
suo idealismo: risolve piuttosto il principio dell’autocoscienza – che è
essenziale all’idealismo – in una coscienza del pensiero nella effettualità del
suo pensare; identifica il punto di partenza soggettivo col suo necessario
correlato oggettivo, l’universale col particolare. In questo senso si avvicina
piuttosto a forme di contingentismo e di empiriocriticismo; e in questo senso
appunto è giustificabile il suo tenersi al dato e partire da esso: in quanto
questo dato non può essere inteso che come uno stato d’animo, un’esperienza che
debba essere vissuta intensamente, e da cui si debba trarre a volta a volta
l’assoluto» (E. Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, cit., p. 6). 29 Cfr. G.
Cerchiai, L’itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di storia
della filosofia», Geri Cerchiai 10 Nel libretto su Croce, il problema
dell’ordine è inquadrato a partire dalla questione del rapporto fra la
«soprastruttura» 30 dialettica del sistema e l’effettivo valore delle singole
osservazioni: «Ciò che sta sotto l’organizzazione esteriore», scrive Colorni, è
nel crocianesimo il vero sistema, non ancora chiaro e formulato, ma agile e
ricco di molteplici possibilità. Ricercare tale ricchezza sotto un’impalcatura
in gran parte insoddisfacente è il compito che s’impone a chiunque viva quel
pensiero come un’esperienza della propria vita. E seguirne la possibilità di
sviluppo anche di là dalla forma che ha dato a se stessa, ci pare il miglior
omaggio che si possa rendere a una filosofia31 . Se il “metodo
individualistico” così identificato nella filosofia di Croce conduce Colorni a
liberare le singole osservazioni «dall’interpretazione che il Croce stesso ne
ha data allo scopo di adattarle ad un suo schema presupposto di organizzazione»,
per cercare di «renderle di nuovo pure» e «ravvisare» di conseguenza «in esse»
un sistema «non imposto in precedenza, ma derivante e identico coi dati stessi
forniti»32, non può stupire l’interesse teorico nutrito dal filosofo milanese
per il secondo dei suoi “auttori”, ossia per il pensiero di Leibniz. Quest’ultimo,
infatti, pare offrire precisamente la possibilità di chiudere in un circolo
coerente l’analisi empirica del particolare e l’organizzazione sistematica del
tutto. Scrive Colorni: Leibniz […] non parte mai con l’intento esplicito di
costruire un sistema. La sua attività filosofica si presenta a tutta prima come
una grande raccolta di prese di posizione particolari. Eppure il sistema non
manca in esse: è anzi continuamente presente. I singoli problemi si mostrano a
poco a poco connessi l’uno all’altro; le soluzioni convergono, si giustificano
e confermano a vicenda […]. Il sistema non è una pura esteriorità, un
concordanza sopravvenuta; è anzi l’anima di ciascuno osservazione, attraverso
cui tutto si spiega e si giustifica33 . Per tali motivi, Leibniz rappresenta
quasi il contraltare dello storicismo crociano o, meglio ancora, il rimedio
alle sue lacune; «Leibniz», infatti, «differisce [proprio] in questo da altri
pensatori, apparentemente più coerenti e organizzati, ma la cui ricchezza va
cercata al di là del sistema, nelle varie formulazioni particolari»34: vi
differisce cioè per il fatto che, come si è visto, il suo sistema si E.
Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, cit. Scrive ancora Colorni: «chi parta
dal mondo stesso e, rendendo eterno e universale ciascun dato di questo, voglia
costruire una scienza delle forme possibili di questa universalizzazione e di
qui giungere ad una visione complessiva dei modi eterni della realtà e delle
loro reazioni reciproche, non pone il sistema all’inizio, come premessa della
sua ricerca; ma ad esso giungerà al termine ideale del suo cammino. Colorni,
Nota bio-bibliografica, in G. W. von Leibniz, La monadologia, preceduta da una
esposizione antologica del sistema leibniziano, a cura di E. Colorni, Firenze,
Sansoni. Il riferimento sembra rinviare precisamente alla critica della
filosofia crociana. Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 11 sviluppa
spontaneamente dalle singole osservazioni e l’insieme si mostra nella sua completezza
attraverso il complesso dei suoi aspetti. E tuttavia, lo scacco della
prospettiva leibniziana giungerà a sua volta quando, muovendo da simili
presupposti, Colorni dovrà constatare il carattere prettamente soggettivo del
tentativo di sistematizzazione da quella realizzato: Leibniz, spiega così
Colorni nel suo ultimo scritto sull’argomento, applica all’ordine spirituale
quella continuità, quel passaggio ininterrotto, quel procedere da ogni legge ad
una legge più vasta, che egli crede di scorgere come l’essenza più profonda del
mondo naturale. Che questa stessa continuità e questo allargarsi sia, più che
una legge della natura, un’esigenza dello spirito nella considerazione della
natura stessa, egli non sospetta36 . L’insuccesso del punto di vista
leibniziano consentirà però anche a Colorni di schiudere un più libero sguardo,
sciolto ormai dai condizionamenti delle diverse scuole filosofiche, sul
criticismo kantiano e sugli strumenti da questo forniti per lo studio dei
meccanismi di funzionamento del pensiero. Già nel 1932, Colorni aveva anticipato
le due linee – leibniziana e kantiana – della propria filosofia, là dove aveva
scritto, in Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà, che la monade di
Leibniz avrebbe dovuto completarsi con la dottrina kantiana, di modo che
l’«universalità della monade, intesa come realtà cosciente, puo coincidere con
la trascendentalità del conoscere, inteso come conoscenza reale»37. L’effettivo
passaggio ad un più maturo kantismo segna tuttavia per Colorni un punto di
svolta fondamentale o, come afferma l’autore stesso, una vera e propria
«operazione di cataratta»38, capace di conquistare una diversa prospettiva sul
mondo: esso, infatti, consente al giovane studioso di voltare le spalle alla
“conoscenza filosofica” e di approdare infine a quella particolare metodica
ch’egli presenta come conoscenza prettamente scientifica, intesa cioè come padronanza
di un processo. La domanda impossibile (senza senso) della filosofia, spiega
così Colorni, pur nella loro rigida formulazione teoretica, sono sempre
espressione di qualche tendenza, di qualche profonda esigenza dell’animo. La
risposta si dà dunque divenendo padroni del meccanismo psicologico mediante cui
la domanda viene posta; essendo capaci di riprodurlo, di seguirlo nelle sue
fasi, di variarlo all’infinto. Al problema della realtà, si risponde fabbricando
animi per cui l’expressione “realtà” non ha senso. Alla domanda se esiste un
mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo non sia uguale a due
angoli retti, si risponde costruendo una geometria in cui tale somma sia
effettivamente maggiore o minore di due retti, e mostrando che tale geometria
non è né più né meno vera di quell’altra; ma è, rispetto all’altra, essenzialmente
nuova E. Colorni, Libero arbitrio e grazia nel pensiero di Leibniz, E. Colorni,
Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà. E. Colorni, Critica filosofia e
fisica teorica, E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 237. 40 E. Colorni, Critica
filosofia e fisica teorica, pp. 229-230. Geri Cerchiai 12 È in questo contesto,
all’interno del quale Colorni ritiene di essere definitivamente guarito dalla
sua «malattia filosofica»41, che vanno collocati i titoli di seguito trascritti
e conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del
dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. Di tali scritti, e degli altri
pubblicati dalle riviste «Aretusa», «Analisi» e «Sigma», è lo stesso Somenzi a
raccontare la storia nel già citato testo su Eugenio Colorni filosofo della
scienza. 3. La metodologia colorniana negli scritti del Fondo Somenzi «Nel
1945», scrive difatti Somenzi, comparve sulla rivista «Aretusa» un Ricordo di
Colorni scritto dall’amico Guido Morpurgo-Tagliabue, accompagnato da due
inediti stimolanti: Il bisogno dell’unità e Sul complesso di Edipo. Altri
inediti mi pervennero attraverso la rivista «Analisi» […], e di questi una
parte venne pubblicata su «Analisi» e sulla rivista romana «Sigma» che ad essa
si affiancò per iniziativa di Giuseppe Vaccarino e mia. Dal carteggio fra
Vaccarino e Somenzi emergono altre importanti informazioni sui dattiloscritti
conservati in FS, che con ogni evidenza i due fondatori di «Sigma» si inviavano
in reciproca lettura. Di quanto scriveva Somenzi a Vaccarino nel maggio del ’47
si è già reso conto nel § 1. Il 27 gennaio di quel medesimo anno, è Vaccarino a
dire a Somenzi di sperare «tra qualche giorno di inviar[gli] i Colorni»; il
giorno appresso, e quello successivo ancora, Vaccarino aggiunge poi quanto
segue: Spero domani di inviarti i Colorni. Molto interessanti e brillanti.
Comincerei con i dialoghi di “Commodo”, combinandoli in modo che abbiano tra di
loro un certo legame. Ieri sera ho riletto i Colorni, che ti rimando tranne
l’ultimo, che ti invierò tra qualche giorno. “I dialoghi” si potrebbero
pubblicare in 3 puntate – (La seconda notevolmente più lunga delle altre 2) –
Vi è una quarta puntata sull’economia, che mi piace meno. Nel testo ho cambiato
qualche parola a matita (in modo che tu possa eventualmente ricorreggere). Ho
creduto anche opportuno evitare il “dialogo nel dialogo” nel primo n°,
introducendo invece del “fisico ribelle” il “Curiosus” del secondo n°.
L’Apologo ed il Ritorno alla natura vanno anche benissimo. Forse si potrebbero
pubblicare unitamente al terzo dialogo, che è molto breve. Le idee di Colorni
mi sembrano meglio espresse nei dialoghi che nel capitolo sulla fisica, data la
forma brillante 41 La malattia filosofica è per l’appunto il titolo che Colorni
diede alla sua più completa biografia intellettuale, già qui ricordata nelle
pagine precedenti. 42 V. Somenzi, Eugenio Colorni, cit., p. 79. Prosegue poi
Somenzi citando di fatto alcuni dei titoli dei quali si sta qui discutendo: «La
rivista doveva contenere articoli di fondo dedicati a problemi come: il
concetto di esperienza, costanti universali e unità di misura, l’illusione
finalistica nella fisica e nella biologia, l’illusione realistica nella fisica,
geometria ed esperienza, l’assiomatica dei principi della meccanica,
l’assiomatica della teoria della relatività e quella della meccanica
quantistica, fisica puntuale e fisica di campo, il concetto di istinto, la
polemica tra meccanicismo e vitalismo, la costruzione di una economia
indipendente da premesse psicologiche» (ivi, p. 80). dell’espressione. In
quanto alle opinioni espresse (l’io, la storia, l’amore, ecc.) non c’è coincidenza
con la metaconoscenza, anzi piena opposizione43 . Su «Analisi», nel 1947, uscì
Filosofia e scienza44, mentre – fra il 1947 e il 1948 – un più consistente
numero di titoli apparve su «Sigma»; si trattava, in particolare, dei testi
seguenti: Apologo su quattro modi di filosofare; Della lettura dei filosofi;
Del finalismo nelle scienze; Dell’antropomorfismo nelle scienze; Sugli idoli
della scienza fisica; Critica filosofica e fisica teorica; Il ritorno alla
natura; Filosofi a congresso45 . Oltre a questi – e presumibilmente
appartenenti al medesimo gruppo di testi del quale Somenzi afferma di aver
pubblicato solo una parte – in FS sono conservati altri dattiloscritti, di cui
sono qui trascritti quelli maggiormente compiuti46 . I primi tre scritti appartengono
con ogni evidenza al gruppo di testi destinati dall’autore alla rivista di
metodologia scientifica progettata con Ludovico Geymonat nel 194247. Questa,
oltre a note di varietà, rassegne e recensioni, avrebbe infatti dovuto ospitare
una sezione dedicata ad «Articoli e saggi», fra i cui titoli Colorni indica per
l’appunto Geometria ed esperienza e Assiomatica delle leggi della meccanica. Il
testo intitolato II: Relatività generale è, come mostrato dalla numerazione
romana, il secondo paragrafo di Sull’assiomatica della teoria della relatività
(anch’esso menzionato nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica),
il quale comincia proprio con l’indicazione di un paragrafo (I) La relatività
ristretta. Tutti e tre i testi fanno riferimento al discorso intorno all’idea
di esperienza che per Colorni discende dalla scoperta del carattere relativo
delle categorie: «la coscienza che abbiamo acquistato della nostra possibilità
di modificare [i] dati elementari»48 della conoscenza, infatti, costringe secondo
Colorni sia a riformare i concetti di a priori e di a posteriori, sia a
rivedere coerentemente la nozione di esperienza. «A priori», spiega così
Colorni, «non significa più della ragione. A posteriori non significa più dei
sensi. Sia i dati della ragione, sia i dati dei sensi, ap43 Lettere
rispettivamente del 28 e del 29 gennaio 1947; quest’ultima è scritta di seguito
all’epistola del giorno precedente, sul medesimo foglio. Il 17 gennaio 1947,
Vaccarino aveva informato Somenzi del suo scritto sulla metaconoscenza, col
quale confronta qui gli scritti colorniani: «Avevo preparato uno scritto sui
rapporti tra la conoscenza e la religione, il quale in definitiva risultò
troppo lungo ed infarcito di considerazioni metagnosologiche. Ho pensato perciò
che è meglio direttamente attaccare la questione della metaconoscenza». Tutte
le lettere sono in FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza
scientifica, 1942-2003 gen. 28, 135, Vaccarino Giuseppe, 1946-1948. Il “fisico
ribelle” è probabilmente il Fisico che Colorni inserisce quale interlocutore
(appunto: quasi come dialogo nel dialogo) in Del finalismo nelle scienze, e che
nella stampa definitiva su «Sigma» non viene poi effettivamente sostituito dal
Curiosus interlocutore di Dell’antropomorfismo nelle scienze. 44 Cfr. supra, §
1, n. 9. Il testo comprende parzialmente anche: Sul concetto di esperienza e
Intorno al principio di identità. Cfr.
infra, la Nota del curatore. 47 Cfr. supra, § 1 e la n. 20. 48 E. Colorni,
Filosofia e scienza, p. 241. Geri Cerchiai 14 paiono come elementi in cui il
fattore soggettivo e quello oggettivo si presentano mescolati, ma di cui è in
nostro potere, mediante un procedimento logico e psicologico insieme,
modificare la struttura»49 . L’esperienza, a sua volta, «anziché rivelare leggi
naturali», dovrà suggerire, secondo le contingenti necessità degli studiosi,
«determinate forme di definizione e di misura»50, utili a proseguire nel lavoro
di ricerca scientifica51 . Siamo qui di fronte a quel progetto di “liberazione”
della fisica «dalle premesse realistiche-finalistiche» che deve per Colorni
rappresentare non solo «uno degli scopi essenziali della rivista»52, ma anche
il fine ultimo della sua stessa critica epistemologica. Di tale progetto il più
lungo e strutturato Programma contribuisce a tracciare ulteriormente i contorni
teorici. Il nucleo dello scritto ruota intorno alla considerazione secondo la quale
la «filosofia odierna dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in
mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine. Criteri che, ormai ciò è
chiaro a tutti, trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta che ci
fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato». La constatazione del
carattere condizionato della realtà diviene in tal modo, e nuovamente, il punto
di partenza – tutto kantiano – della metodologia di Colorni. Il criticismo
trascendentale, aggiunge però l’autore, «ha messo tutti sul chi vive», sì che
«la curiosità di vedere al di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta
sempre più intensa»; sarà tuttavia soltanto la capacità della conoscenza
scientifica di disubbidire all’«ammonimento di Kant» per trascurare «i limiti»
da questo imposti che consentirà, ancora una volta, di compiere il secondo,
decisivo passo lungo la strada già intrapresa dalla Critica della ragione pura:
«La domanda da porsi», chiarisce Colorni in un passo cruciale di Critica
filosofica e fisica teorica, Non [è]: “È il mondo del nostro pensiero, o non è,
quello reale?”; bensì: “Come potrebbe essere conformato un mondo di pensiero
diverso dal nostro?”. La prima domanda parte da quella esigenza di sicurezza e
stabilità che è sempre collegata col pensiero del reale [e che appartiene
all’atteggiamento filosofico]. La risposta che essa cerca è una risposta che assicuri
tale sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi; nel reale, o in qualche cosa
che lo sostituisca. La seconda domanda [propria dell’atteggiamento scientifico]
muove invece da una esigenza di novità […]. Si tratta qui del secondo passo
della rivoluzione copernicana. Il primo era consistito nell’accorgersi che le
leggi della realtà non sono che forme del nostro intelletto. Il secondo
consiste nel domandarsi se queste forme siano proprio necessarie ed immutabili
e irresolubili. Anzi, non 49 Ibid. A priori diviene perciò il «nostro potere di
modificazione che si riferisce sia agli oggetti della nostra ragione, sia a
quelli dei nostri sensi. Mentre poi «la geometria definisce gli oggetti su cui
opera mediante i suoi assiomi, la fisica definisce quei medesimi oggetti
mediante definizioni reali, cioè facendoli corrispondere a determinati fenomeni
naturali. Mentre dunque la prima gode di una completa libertà nella scelta
degli assiomi, la seconda è legata alle conseguenze implicite nella scelta di
quelle particolari definizioni; libera però di mutare le definizioni, qualora
le conseguenze non la soddisfacessero. E. Colorni, Sul concetto di esperienza,
p. 251. Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 15 nel domandarsi se
siano irresolubili (domanda che presuppone l’uso di quelle forme stesse) ma nel
tentare senz’altro di scioglierle53 . In tal modo, spiega Colorni al termine di
Programma, è la conoscenza scientifica a raggiungere quell’“al di là” che alla
prospettiva kantiana era negato, ma l’“al di là” al quale essa perviene «non è
una negazione del “di qua”, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di
nuove categorie», un mondo al quale si viene portati, in primo luogo, dalla
consapevolezza che la «legge essenziale della natura è la ragione, e la ragione
è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto l’uomo non fa che
proiettare fuori di sé l’essenza della propria natura»54 . L’ultimo testo qui
trascritto, Commodo a Ritroso, appartiene ad un gruppo di dialoghi, noto come
Dialoghi di Commodo, stesi a più mani durante il periodo del confino a
Ventotene55. Commodo, come ha spiegato la moglie Ursula Hirschmann in occasione
dei primi tentativi di pubblicazione integrale dei frammenti colorniani, è lo
stesso Colorni; Ritroso è Ernesto Rossi56 . Lo scritto prende spunto da
argomenti economici per chiarire alcune questioni che, venendo a teorizzare una
sorta di “dilettantismo metodologico”, rendono conto della stessa natura
dell’indagine colorniana. L’«appartenenza professionale», dice Colorni all’amico
Ritroso/Rossi in uno dei dialoghi già 53 E. Colorni, Critica filosofica e
fisica teorica, pp. 227-228. 54 Ivi, p. 234. 55 Racconta Altiero Spinelli nella
sua autobiografia, ben descrivendo non solo la genesi dei Dialoghi di Commodo,
ma anche l’atteggiamento di Colorni nelle discussioni: «Parlavamo ogni giorno
delle cose più varie, di politica, di geometria non euclidea, di nostri
compagni di confino, delle nostre letture, delle nostre storie personali, dei
grandi della storia, ma sentivo che [Eugenio] stava sempre attento a scoprire
un qualche mio coperto punto malato, che egli avrebbe messo in luce, curato e
guarito – poiché la vocazione del guaritore d’anime l’aveva proprio nel sangue
[…]. Mi affascinava la precisione quasi infallibile con la quale scopriva il
punto errato di un ragionamento, il punto equivoco di un atteggiamento, il
momento retorico di un’espressione […]. Talvolta uno di noi, ripensando la sera
alle parole scambiate durante il giorno, le proseguiva scrivendo un dialogo nel
quale diceva la sua e immaginava quel che l’altro avrebbe risposto. Talvolta il
dialogo aveva un seguito, scritto dall’altro, prima di terminare a voce» (A.
Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Bologna, Mulino, 1988, pp.
299-300). 56 Gli pseudonimi principali utilizzati negli altri dialoghi sono i
seguenti: Severo è Altiero Spinelli, Manlio Rossi-Doria è Modesto, Ursula
Hirschmann è Ulpia. Così scriveva Ferruccio Rossi-Landi alla Hirschmann. Penso
che i tempi stiano maturando per
un’edizione in volume degli scritti lasciati da Colorni: come sono maturati,
dopo tanti decenni, per la ripresentazione ai lettori italiani di quelli di
Giovanni Vailati, che fu studioso per tanti versi affine ad Eugenio e che,
rimasto quasi sepolto fin da prima della Prima Guerra Mondiale, ricomparirà ora
presso Laterza e presso Einaudi su mia iniziativa». RossiLandi faceva poi
riferimento alle pubblicazioni di «Analisi» e «Sigma». Ho potuto prendere
visione della corrispondenza relativa ai diversi tentativi di pubblicazione
degli scritti filosofici di Colorni (prima presso l’editore Laterza e poi per
la Feltrinelli) grazie alla cortesia di Renata Colorni, che ancora conserva una
parte del carteggio e che qui debbo ringraziare per la sua disponibilità. 57
Esso va dunque letto insieme a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella
ed. Einaudi alle pp. 322-342. Per una più precisa contestualizzazione dei
frammenti economici colorniani cfr infra, la Nota del curatore. Geri
Cerchiai 16 pubblicati da «Sigma» nell’immediato dopoguerra, «comporta un
legame così stretto con la scienza e un interesse così diretto ai vari problemi
particolari in cui la ricerca si articola momento per momento, che è difficile
avere la possibilità di riprendere in esame i problemi iniziali e i principi
fondamentali da cui si è partiti»58; proprio per questo, secondo Colorni, i
«dilettanti e gli outsider», sono forse maggiormente in grado, attraverso
l’esercizio di un «tranquillo, pacato, spregiudicato esame dei punti di
partenza e delle definizioni iniziali»59, di «sconvolgere dalle fondamenta
tutto l’edificio del proprio sapere»60. Certo, dovendo rispondere all’accusa di
«presumere di rivedere i principî di tutte le scienze, senza averle mai
praticate»61, lo stesso Colorni – che alla scienza è giunto passando per la
filosofia62 – parla in qualche modo pro domo sua. E tuttavia, egli va anche a
puntualizzare, in tal modo, il «carattere pragmatistico»63 del proprio
pensiero, il quale deve giocoforza confrontarsi con le più differenti
discipline scientifiche. In Commodo a Ritroso, Colorni riprende questi medesimi
argomenti, insistendo però con maggior vigore su quello spirito d’indipendenza
– indispensabile ad un proficuo sviluppo dell’opera scientifica e filosofica –
il cui significato teorico è già stato indagato in Programma. Scrive Colorni:
«Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo […], io
parto con la lancia in resta, pieno di idee sbagliate e confuse, sfondando
porte aperte ad ogni passo […], desideroso di scontri e di battaglie». Emerge
qui, accanto alla consapevolezza di un metodo teorico ormai chiaramente
precisato, una componente particolare del carattere del giovane filosofo:
quella irrequietezza, ironicamente descritta ne La malattia filosofica, che
contribuisce a rendere conto della stessa, febbrile attività politica
colorniana. Essa rivela una vivacità intellettuale che si mostrò sempre
incapace di fermarsi ai risultati volta per volta raggiunti e che, trascorrendo
dai primi studi storico-filosofici a quelli metodologici degli ultimi anni,
viene a costituire l’anima, per così dire, anche dei dattiloscritti colorniani
conservati nel Fondo Somenzi. 58 E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle
scienze. Com’è noto, e a dispetto della sua formazione umanistica (lit. hum.),
Colorni si cimenta direttamente nella ricerca fisica, con particolare attenzione
alla teoria della relatività. Cfr. nello specifico i titoli seguenti: Unités de
misure et relativité; Le trasformazioni di Lorentz come caso particolare e
Deduzione del campo elettromagnetico di una carica in movimento rettilineo e
uniforme. 63 E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Nota del curatore
I testi di Colorni in FS – tutti dattiloscritti – sono per lo più approntati
per la composizione a stampa, spesso con indicazione del corpo e della
impaginazione da utilizzarsi. Alcune correzioni e integrazioni, la segnalazione
«a penna» talvolta riferita ai titoli o alla firma, i commenti a margine sulla
opportunità o meno della pubblicazione, fanno supporre che ci si trovi per lo
più di fronte a trascrizioni battute a macchina dagli originali. Salvo che dove
diversamente segnalato (come ad esempio – per i motivi lì esposti a pié di
pagina – in Programma), ci si è generalmente attenuti al criterio di integrare
le eventuali sviste od errori ortografici direttamente nel testo, senza
ulteriore indicazione. Ugualmente ci si è comportati per le correzioni e gli
interventi a penna o a macchina. Il dattiloscritto di Programma presente in FS
conserva la conclusione, che risulta invece assente nelle precedenti edizioni
in volume. Oltre ai titoli qui riportati, e a quanto si dirà qui appresso, in
FS sono conservati anche i testi seguenti: Il bisogno dell’unità; Sul complesso
di Edipo; I primitivi e le categorie dello spirito; Filosofi a congresso; Sul
concetto di esperienza; Costanti universali e unità di misura; Sull’assiomatica
della teoria della relatività. I. Relatività ristretta, tutti già raccolti
nelle diverse edizioni dei frammenti colorniani. A partire da Sul concetto di
esperienza, le pagine sono numerate, a mano o a macchina, in sequenza, sì da
creare un complesso unico comprendente anche: II. Relatività generale (da
inserirsi dopo Relatività ristretta), e di seguito: Sull’assiomatica delle
leggi della meccanica e Geometria ed esperienza. In FS sono inoltre presenti
due ulteriori scritti di argomento economico: Batti, ma ascolta! e Ritroso a
Commodo: meno compiuti degli altri, essi saranno da me trascritti in un volume
di prossima uscita. Già nella nota introduttiva a Dello psicologismo in economia,
pubblicato nella edizione Einaudi alle pp. 322-342, si ricostruiva, anche
grazie agli elenchi dei titoli stesi da Ursula Hirschmann per Ferruccio Rossi-Landi,
la genesi degli scritti economici colorniani, che qui ci si limiterà dunque ad
integrare con quanto emerge dai titoli presenti in FS. Dello psicologismo in
economia risulta composto da tre blocchi. Il primo, intitolato È possibile
costruire una scienza economica indipendente da premesse psicologiche e
sociologiche?, è citato anche nel Progetto di una rivista di metodologia
scientifica fra i possibili «Articoli e saggi», e prosegue dall’inizio del
dialogo fino al terzo capoverso: «[…] sarebbe una differenza di grado e non di
natura. Del secondo (Robbins considera), che comincia subito dopo il primo e
termina in ivi, E m’invita a prendere tutto l’argomento non troppo sul serio»),
è conservato in FS il solo ultimo foglio, del quale così scriveva Silvio
Ceccato a Somenzi il 5 febbraio del 1943: «Ho guardato fra le carte di Colorni.
Spaiato trovo un foglio, numero 5, che mi sembra appartenere al dialogo fra
Commodo e Severo [che in effetti è l’interlocutore di quella parte del
dialogo]. Se vuoi te lo mando, o lo do a Vaccarino. Altro non c’è, mi sembra,
che possa interessarti. Stampa pure. Quando hai ben deciso, fammelo però
sapere, che, per cortesia, ne avvisi la sorella» (FS, sez. 3, Attività
professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste,
enciclopedie e progetti editoriali, 1, Sigma Analysis, b. 5, Analysis Methodos (Ceccato).
Il terzo blocco, Vedo che riprendi (cfr. E. Colorni, Dello psicologismo in
economia), rappresenta il nucleo centrale e la con- Geri Cerchiai 18 clusione
del dialogo. Per quanto riguarda i titoli di FS: Ritroso a Commodo – come si
evince dai numerosi riferimenti a Vedo che riprendi – prosegue il dialogo già
iniziato in quest’ultima parte di Dello psicologismo in economia; Commodo a
ritroso è la risposta a Vedo che riprendi; Batti ma ascolta è l’«accluso
foglietto» menzionato in Commodo a Ritroso. Le note in calce ai testi sono
tutte del curatore. Desidero Ringraziare Giovanni Battimelli, Responsabile del
Fondo Vittorio Somenzi, e Maria Luisa Libutti, Direttrice della Biblioteca del
Dipartimento di Fisica (“Sapienza” Università di Roma), per la disponibilità e
cortesia che mi hanno dimostrato durante la consultazione dell’Archivio. G. C. Cinque
scritti metodologici 19 II. Relatività generale1 Se vogliamo estendere quanto
si è detto per la relatività ristretta3 al caso di sistemi in movimento
qualsiasi4 , il problema della relatività generale diverrà quello di
determinare le misure spazio-temporali per un osservatore in movimento
qualsiasi rispetto ad un sistema inerziale nel quale valga la geometria
euclidea. La determinazione di tali misure sarà fatta di nuovo assumendo come
fissa la distanza fra due punti5 , e come costante la velocità della luce. In
linea generale risulterà che la geometria tridimensionale del sistema in
questione non sarà euclidea. Viceversa dovrebbe essere dimostrabile che se le misure
assunte da un osservatore col metodo di cui sopra, danno luogo ad una geometria
non euclidea, si potrà sempre trovare un sistema i cui punti siano mossi
rispetto all’osservatore in questione in modo tale che la sua geometria sia
euclidea. In tale sistema non vi sarà alcun campo gravitazionale. Una tale
impostazione del problema differisce un poco da quella classica della
relatività generale. Non si tratta qui di trovare una formulazione delle leggi
di natura che sia invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, e quindi di
attribuire ad ogni sistema la geometria richiesta dal campo gravitazionale in
esso vigente, ma piuttosto di trovare le trasformazioni che permettono di
passare da un sistema ad un altro qualsiasi6 , avendo assunte per tutti i sistemi
determinate convenzioni7 riguardo alle misure spazio-temporali; e questo senza
fare alcuna ipotesi riguardo alla forma delle leggi naturali. 1 FS, sez. 3,
Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5,
Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, Sigma Analysis, b. 6, Articoli, Il
titolo è cancellato nel dattiloscritto, così come è barrata la numerazione “5”
(a penna) della pagina, numerazione che, insieme con quella romana, segnava il
foglio come seguito di E. Colorni, Sull’assiomatica della teoria della
relatività. I. Relatività ristretta (cfr. la Nota del curatore), del quale lo
scritto è il secondo paragrafo. 2 All’inizio del dattiloscritto sono inserite a
penna delle virgolette basse (chiuse al termine del terzo capoverso), che
spiegano l’intervento del quale si rende conto infra, n. 4. 3 Il riferimento è
a Sull’assiomatica della teoria della relatività, che infatti è numerato: La
relatività ristretta. A penna è stato qui aggiunto: «prosegue Colorni». 5 Cfr.
E. Colorni, Sull’assiomatica della teoria della relatività. Anziché assumere
come unità di misura fondamentali una lunghezza […] o un intervallo di tempo
[…] per poi dedurne le altre grandezze cinematiche […], si potrebbe assumere
come unità primitive la distanza fra due punti dati e la velocità di
propagazione di un dato fenomeno». 6 Si tratta qui precisamente dell’idea di
revisione del concetto di esperienza in relazione a quello di definizione che
costituisce uno dei nuclei del programma metodologico colorniano. 7 Sono molti
i riferimenti di Colorni al carattere convenzionale della scienza e delle sue
definizioni. Riporto, per il suo carattere “generale”, quanto affermato nella
Postilla al programma della rivista di metodologia scientifica (in M. Quaranta,
La “scoperta” di Eugenio Colorni, cit., p. 130): «Si tratta, in breve, di
partire da una concezione “convenzionalistica” o “idoenistica” della scienza;
non limitandola però, come fa in sostanza la scuola di Vienna o anche il
Gonseth, alla interpretazione filosofica dei fatti scientifici; applicandola
invece ai concetti basilari su cui poggia l’edificio della scienza, e mostrando
come un chiarimento rigoroso delle ipotesi che sono implicite nell’assunzione
di tali concetti possa trasformare effettivamente e rendere più chiare molte
formulazioni scientifiche, e forse risolvere alcuni dei problemi più scottanti
della scienza moderna». Eugenio Colorni 20 Formulando in questo modo il
problema, si giungerebbe probabilmente alle medesime conclusioni della
relatività generale riguardo alla gravitazione; ma la nuova impostazione
permetterebbe forse di aggredire in maniera diversa da quella consueta altri
problemi (in particolare quello dell’elettromagnetismo). Non si tratterebbe più
in questo caso di formulare le leggi del campo elettromagnetico in forma
invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, ma di rendersi ragione della
loro struttura, studiando sistematicamente il comportamento di cariche in
movimento, mediante “Transformation auf Ruhe”. Questo saggio si riferisce a
studi ancora in corso e ben lungi dalla conclusione8 ). 8 L’ultimo capoverso è
barrato a penna nel dattiloscritto. L’inciso fra parentesi riprende quello
analogo – non riportato nelle edizioni dei testi colorniani, ma presente nei
dattiloscritti di FS – posto al termine di Sull’assiomatica della teoria della
relatività. I.- Relatività ristretta, il quale recita nel modo seguente:
«Questo saggio si riferisce ad un lavoro già terminato, in cui lo sviluppo qui
descritto viene eseguito» (FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte
organizzate da Vittorio Somenzi, 1929-2000, 2, Scatole grigie 1942-2000, 1,
Eugenio Colorni e Italo Cotone, b. 3, Colorni, 1945-1993). Sull’assiomatica
delle leggi della meccanica. Il principio d’inerzia è notoriamente una definizione
camuffata. Esso definisce come non soggetto ad alcuna forza il corpo dotato di
movimento uniforme; quindi come soggetto ad una forza il corpo dotato di
movimento non uniforme. È possibile considerare i principi della conservazione
della quantità di movimento e dell’energia come delle estensioni del principio
d’inerzia, cioè anch’essi come delle implicite definizioni della forza?
Crediamo di sì. Consideriamo infatti un sistema di due corpi. Diremo che il
sistema non è stato sottoposto all’azione di alcuna forza, non solo quando i
due corpi proseguono nel loro moto rettilineo ed uniforme, ma anche quando
hanno modificato tale loro moto dopo essersi urtati. Ciò che dovrà essere
rimasto immutato nel sistema non sarà dunque più il moto dei due corpi, ma una
funzione di tale moto; funzione che si tratta di determinare, ponendole delle
condizioni derivanti da esigenze plausibili. Anzitutto si può richiedere che il
mutamento provocato dall’urto nello stato di moto di uno dei due corpi sia
misurato dal mutamento provocato dal medesimo urto nell’altro corpo: cioè che
ciò che rimane costante nel sistema sia la somma delle funzioni in questione
riferite a ciascun corpo. Individuato poi ciascun corpo mediante una costante
caratteristica di esso (la sua “massa”), si può richiedere che il cambiamento
provocato in un corpo successivamente da due altri corpi di uguale massa e
uguale velocità, sia identico al cambiamento provocato da un corpo di massa
doppia e di uguale velocità: il che equivale a dire che la nostra funzione
dovrà essere della forma mf(v). Si potrà poi osservare che la funzione in
questione deve poter esprimere sia un mutamento nel valore assoluto della
velocità di ciascun corpo, sia un mutamento nella sola direzione: le funzioni
in questione devono cioè essere due, l’una vettoriale, l’altra scalare. Infine
si osserverà che, poiché due corpi in movimento uniforme rispetto ad un sistema
inerziale lo sono pure rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale, la
costanza delle nostre funzioni deve essere invariante rispetto a trasformazioni
di Lorentz. Tutte queste condizioni limitano la scelta delle nostre funzioni in
modo da determinarle univocamente; e ne risultano le espressioni relativistiche
della quantità di movimento e dell’energia. Ciò è stato mostrato da Langevin2 ,
il quale parte però da premesse un po’ diverse. Gli sviluppi precedenti possono
avere un’importanza per il seguente motivo: la teoria della relatività giunge
alle sue espressioni dell’energia e della quantità di movimento, partendo dalle
equazioni di Maxwell, che suppone assicurate dall’esperienza. Ma il controllo
sperimentale di tali equazioni suppone che si 1 FS, sez. 3, Attività
professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929- 2000, 2,
Scatole grigie, 1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, Nel dattiloscritto, le
pagine riportano la numerazione, a penna in rosso, da 6 a 7 (cfr. supra, II.
Relatività generale, n. 1, e la Nota del curatore). Langevin e un fisico francese
che, non diversamente da Eddington – altro autore colorniano e griceiano – fu
abile divulgatore scientifico. disponga di una definizione dell’energia e della
quantità di moto. Inoltre, quando si siano definiti i principi fondamentali
della meccanica indipendentemente dall’elettromagnetismo, rimane aperta la
possibilità di dedurre le leggi stesse dell’elettromagnetismo servendosi di
alcuni risultati della relatività, e raggiungendo così una più profonda
comprensione di quelle leggi. (Anche questo articolo si riferisce a studi in
corso, di cui la prima parte, riguardante la relatività ristretta e
l’elettromagnetismo, è terminata; ma avrebbe carattere troppo tecnico per la
rivista4 .) 3 Assente nel testo. 4 Per un’analisi degli scritti colorniani
sulla teoria della relatività, si rinvia a M. Quaranta, La “scoperta” di
Eugenio Colorni. Colorni sulla teoria della relatività, pp. 122-130. Per
l’inciso fra parentesi, cfr. supra, II. Relatività generale. La rivista è la
progettata rivista di metodologia scientifica, sulla quale si rimanda ancora a
quanto scritto supra, § 3. Cinque scritti metodologici 23 Geometria ed
esperienza1 Gli assiomi della geometria sono delle definizioni implicite, o
meglio rappresentano delle limitazioni imposte alla nostra libertà di definire
gli oggetti ai quali essi si riferiscono. Tali oggetti però possono essere di
due tipi: o sono tali che per ottenerne una rappresentazione concreta è
necessario immaginarli realizzati da un fenomeno fisico (p. es. la linea retta
realizzata dalla traiettoria di un raggio luminoso nel vuoto); in tal caso la
definizione implicita negli assiomi è una definizione “reale”
(Zuordnungsdefinition2 ), e gli assiomi limitano il numero degli oggetti o dei
fenomeni che possono essere assunti per realizzare fisicamente quel determinato
ente geometrico. Oppure l’ente geometrico in questione è tale da poter essere
definito mediante un’opportuna combinazione di altri enti precedentemente
definiti (p. es. l’angolo uguale ad un angolo dato può essere definito senza
ricorrere ad alcuna sovrapposizione, quando sia stata definita precedentemente
la distanza fra due punti); e allora gli assiomi limitano il numero degli
accorgimenti che noi possiamo usare per definire quel determinato ente
geometrico. Agli scopi della costruzione fisica di un sistema galileiano, è
opportuno distinguere questi due tipi di definizione; e può essere utile
studiare da questo punto di vista le “Grundlagen” di Hilbert3 . Non è detto che
si possa sempre trovare un insieme di fenomeni fisici capaci di realizzare
contemporaneamente tutti gli assiomi di una geometria. Per esempio, se si vuol
realizzare la geometria mediante raggi luminosi assunti co1 FS, sez. 3,
Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 2,
Scatole grigie,1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, b. 3, Colorni, 1945-1993.
Numerato a penna 8 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e Nota del
curatore). Il titolo è anch’esso sottolineato a penna con l’indicazione: a
mano. A margine, scritto a matita in rosso e cancellato, alcune segnalazioni
per il tipografo: «Corpo 10/10 tondo // Giustezza 27». Scrive Colorni in
Filosofia e scienza. Ora, mentre la geometria definisce implicitamente gli
oggetti di cui tratta, mediante gli assiomi, la fisica li definisce
direttamente, mediante definizioni reali (Zuordnungsdefinitionen). Con queste
parole, Colorni richiama il concetto reichenbachiano di Zuordnungsdefinition,
per cui cfr. H. Reichenbach, Axiomatik der Raum-Zeit-Lehre, Braunschweig,
Vieweg & Sohn Akt.-Ges., 1924; Id., Philosophie der Raum-Zeit-Lehre,
Berlin- Leipzig, W. de Gruyter & Co. In una lettera firmata da Hirschmann
(ma in realtà scritta da Colorni) e indirizzata a Geymonat per il tramite della
moglie Virginia, l’autore afferma di possedere il primo dei due titoli, e a
questo rinvia per la comprensione del proprio pensiero. Noi abbiamo qui
l’importante saggio di Reichenbach, “Axiomatik der relativistischen
Raum-Zeit-Lehre”, che mette le cose da un punto di vista molto affine a quello
che Eugenio vorrebbe sviluppare. La lettera, conservata nel Fondo Geymonat
presso la Biblioteca del Museo civico di storia naturale di Milano, è citata da
M. Quaranta (La scoperta di Eugenio Colorni), il quale commenta: «Ora, se è
rintracciabile in Kant una nozione rigida dell’a priori, letture kantiane
sviluppate in quegli anni da Ernst Cassirer e Hans Reichenbach, in Italia da
Giulio Preti, vanno nella direzione di accogliere la fecondità del “metodo
trascendentale”; le indagini epistemologiche di Colorni si inseriscono in questa
linea di ricerca. Questo capoverso, da Agli scopi fino a Hilbert, è cancellato
a penna nel testo dattiloscritto. Il riferimento è ai Grundlagen der Geometrie
(Fondamenti della geometria) di Hilbert. me rettilinei e di velocità di
propagazione uniforme, non è detto che risulti verificato l’assioma di Euclide;
e questo assioma, se è verificato per il sistema costruito da un determinato
osservatore, necessariamente non è verificato per il sistema costruito da un
altro osservatore, dotato rispetto al primo di movimento non uniforme. Cinque
scritti metodologici Programma1 Supponiamo che l’uomo viva in un palazzo le cui
porte sono tutte chiuse. Egli non ha le chiavi. Cioè egli ne possiede un
mazzetto, ma non sa se esse si adattino alla serratura, né quale chiave a quale
serratura. Prova, riprova, si costruisce nuove chiavi nella continua speranza
di potere un giorno abitare tutto il palazzo. Lo scienziato è un uomo al quale
è riuscito di aprire una porta. Una chiave, per sua fortuna, o per sua abilità,
ha girato nella toppa. Egli apre, e trova nella camera immensi tesori, li
utilizza3 , li mette a disposizione degli altri uomini che lo ringraziano
ammirati. Da quel momento4 la camera è accessibile a tutti. Entusiasmato, lo
scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di
grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte5 . La chiave comincia a diventare uno
strumento pericoloso nelle sue mani. Egli la vuole usare dappertutto. Il
risultato è che sfonda le serrature. Ci vorrà6 poi una gran fatica per
accomodarle e per trovare o costruire una nuova chiave che permetta di aprirle
(Fuor di metafora: p. es. la medicina è stata rovinata per secoli
dall’ossessione del metodo meccanicistico, che aveva fatto meraviglie nel campo
della fisica. E si è voluto risolvere tutto a base di anatomia, di rapporti e
di modificazioni di tessuti. Nella maggioranza dei casi non si è cavato un
ragno dal buco). Il filosofo, invece, cosa fa? Egli non ha avuto la fortuna o
l’abilità di aprire una porta, ma anche lui è preso dall’ossessione di aprirle
tutte. Con la chiave9 dello scienziato o con un’altra di sua fattura. La sua
ossessione è forte, meno pericolosa10 che quella dello scien1 FS, sez. 3,
Attività professionale, 1929-2003, serie 1, Carte organizzate da Vittorio
Somenzi, 1929- 2000, 2, Scatole grigie, 1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, b. 3,
Colorni. Nel dattiloscritto un primo titolo, barrato, recita come segue:
«SCIENZA E MATERIALISMO // È un caso che tutti gli scienziati tendano ad essere
materialisti? // PROGRAMMA». A margine, scritto a penna, il titolo è fissato
così: «SCIENZA E REALISMO». Un asterisco rimanda alla seguente nota
manoscritta: «(V[edi]. l’“Apologo su quattro modi di filosofare”, altro inedito
di Colorni, in Sigma. Sempre a margine, si ha l’indicazione di stampa, a penna:
«Corpo 10 tondo 11 // giustezza – 10 su 12. Poiché lo scritto si discosta
spesso – nella forma, mai nella sostanza – dalle precedenti edizioni (nelle
quali esso risulta per altro incompiuto), è parso utile indicare in nota le
differenze fra le diverse versioni. Per questo stesso motivo ho talvolta esplicitato
le correzioni e gli interventi sul dattiloscritto. La sigla FS rimanda al testo
presente fra le carte di Somenzi; la sigla E a quello dell’edizione Einaudi.
Benché sia barrato, e per consentire una più chiara identificazione, si è
preferito mantenere il titolo Programma. 2 per sua fortuna, o per sua abilità
FS : per sua fortuna o per sua abilità E. 3 immensi tesori, li utilizza FS : immensi
tesori. Li utilizza Di seguito nel testo di E. 5 lo scienziato vorrebbe aprire
tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte
le porte FS : lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte E. 6 le serrature.
Ci vorrà FS : le serrature, ma ci vorrà E. 7 di aprirle (Fuor di metafora FS :
di aprirle. (Fuor di metafora E 8 Il filosofo, invece, FS : Il filosofo invece,
E aprirle tutte. Con la chiave FS : aprirla con la chiave E. 10 è forte, meno
pericolosa FS : è forse meno pericolosa E. Eugenio Colorni ziato, ma più
intensa. Per lo scienziato essa è necessaria accessoria11. Il massimo sforzo è già
stato compiuto12 nel trovare la chiave. Il tentativo di allargamento è spesso
solo abbozzato. Il filosofo, invece, è tutto fatto di questo bisogno. Egli è
abbastanza accorto per avvedersi che il correre da una parte13 all’altra con la
medesima chiave si risolve in un danno e in un disordine. Egli vuole soddisfare
alla sua esigenza in un modo sistematico, che non lasci residui. La sua
ossessione è che il palazzo sia completamente abitabile, aperto in tutte le
camere, dai saloni ai ripostigli. Che cosa fa per soddisfarsi? Si costruisce un
palazzo a suo uso e consumo, simile il più possibile a quello vero, in cui
tutte le serrature siano apribili con una sola chiave, o con le varie chiavi
che ha a sua disposizione. Lì si rinchiude; lì15 gli sembra di vivere
tranquillo. Ma il palazzo è di cartapesta. In poco tempo crolla. Le camere sono
identiche a quelle dell’altro palazzo, ma sono vuote. Il poterle aprire non dà
all’uomo maggior ricchezza e maggior17 potenza. A volte avviene che nel lavoro
di costruire, al filosofo venga fatto di scoprire o inventare una chiave nuova,
che gli altri uomini possono usare, e provare nelle varie serrature. In questo
caso egli sarà ammirato e studiato solo per questa invenzione fortuita o
strumentale, che nelle sue intenzioni non doveva essere che un dettaglio del
grande edificio. E il grande edificio scompare. Dopo un secolo nessuno ci crede
più, nessuno può più abitarvi dentro. Lo si considera come un bel rudero, come
l’interessante documento di un’epoca; lo si apprezza per un certo impulso che
indirettamente, nei coi suoi contorni, ha dato alle lotte e alle ricerche
dell’umanità. Gli storici, gli esegeti, cominciano a scuoterlo per vedere se,
non potendosene più servire in blocco, non si trovi del buono fra il materiale
della costruzione. E cominciano a distinguere “ciò che è vivo e ciò che è
morto” e a manipolare il sistema ai propri fini. Ne risulta che ogni pensatore
viene, di regola, apprezzato dai posteri per motivi che egli non avrebbe
immaginato e che sono estranei alle sue intenzioni fondamentali. Quello che
egli aveva creduto il suo vero apporto alla cultura e alla civiltà viene
considerato inutile. Il dispendio di energie è enorme. Vediamo gli uomini più
intelligenti dell’umanità dirigere tutti i loro sforzi per raggiungere mete che
andranno poi completamente perdute; e 11 necessaria accessoria. FS :
accessoria, sopraggiunta. E. già stato compiuto
FS : già compiuto E. parte FS : porta E.
14 sola chiave, o con FS : sola chiave o con E. 15 Lì si rinchiude; lì FS : Là
si rinchiude, là E. 16 di cartapesta. In poco tempo crolla. Le FS : di
cartapesta, non di mattoni veri. In poco tempo crolla, si disfa. Le E. 17
ricchezza e maggior FS : ricchezza o maggior E. scoprire o inventare FS :
trovare E. 19 possono usare, e provare nelle varie FS : possono usare nelle
varie E. 20 rudero FS : rudere E. 21 nei coi suoi FS : nei suoi E. scuoterlo FS : smontarlo E. ogni pensatore
viene, di regola, apprezzato FS : ogni pensatore (come spesso anche ogni poeta)
viene di regola apprezzato E. 24 immaginato e che FS : immaginato, e che E.
Cinque scritti metodologici: 27 siamo costretti a racimolare con fatica alcuni
residui del loro lavoro. Nella25 scienza le cose sembrano andar meglio. Siamo
per lo meno nel palazzo vero, dove le camere sono piene di ricchezze; e là dove
la chiave ha aperto la porta, la potenza dell’umanità ne è stata infinitamente
aumentata. Ma se la porta non si apre? Dai Greci al Rinascimento, per duemila
anni, gli uomini si sono affaccendati a costruir26 chiavi di tutti i generi e
magnifici palazzi di cartapesta. Ma nessuna porta dell’edificio vero si è
aperta ai loro sforzi. Da Galilei e Bacone27 in poi, alcune sembrano cedere.
Una, quella28 del meccanicismo fisico si è addirittura spalancata. Ma quante
restano ancora chiuse[!]?29 Quale sarà per esse la chiave giusta? L’abbiamo già
in mano o dobbiamo ancora costruircela? E come sfuggire alla continua
tentazione di usare per ogni porta quella che ha fatto una volta buona prova,
col rischio di rovinare tutto? La filosofia odierna, anziché costruire bei
palazzi di cartapesta, dovrebbe proporsi il compito di affacciarsi a questi
problemi, e tentare di mettere un certo ordine, allo scopo di evitare sforzi
inutili e raggiungere risultati il più possibile concreti. Dovrebbe anzitutto
esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi
d’indagine coi quali noi affrontiamo il reale e cerchiamo di renderlo utile ai
nostri usi. Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano31 radicalmente
la realtà, operando una scelta che ci fa scorgere solo ciò che da essi può
essere afferrato. Ciò che noi chiamiamo realtà è evidentemente condizionato non
solo dai nostri sensi, ma da tutto l’insieme delle forme, delle categorie, dei
criteri associativi e interpretativi senza dei quali non ci è possibile di
pensare e di percepire alcunché. Criteri che noi potremo studiare, scomporre,
modificare; senza però poter mai uscire dal campo di un’attività del soggetto
costitutiva della realtà stessa. Noi34 non possediamo, allo stato attuale delle
nostre conoscenze, alcun nesso mezzo per eliminare il sole lato35 soggettivo
della nostra nozione della realtà; anzi abbiamo seri elementi per propendere a
ritenere che la nozione di una realtà oggettiva, da noi indipendente,36 sia
un’ipostasi della nostra mente,37 do25 A capo in E. costruir FS : costruire E. Da
Galilei e Bacone FS : Da Galileo a Bacone E. Una, quella FS : Quella E. 29
Chiuse[!]? FS : chiuse! E. 30 d’indagine a penna nel testo FS : ermeneutici E. che,
ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano FS : che – ormai ciò è chiaro a tutti –
trasformano E. Queste righe, e quelle
immediatamente successive, rappresentano una sorta di compendio della filosofia
colorniana, ossia del ruolo essenzialmente critico-metodologioco che, muovendo
«dalla grande scoperta kantiana» (E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 240),
essa dovrebbe svolgere. A capo in E.Di seguito in E. alcun nesso mezzo per
eliminare il sole lato a mano nel testo FS : alcun mezzo per eliminare il polo
E. 36 oggettiva, da noi indipendente, FS : oggettiva da noi indipendente E. 37
mente, FS : mente E. Eugenio Colorni vuta ad un nostro fondamentale bisogno di
contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci contro qualche cosa, di
polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un passivo ed un attivo.
Vedi Fichte (Trascendenza interna)38. Ciò che chiamiamo realtà non è dunque né
l’oggetto né il soggetto39, ma alcunché nella costituzione del quale il
soggetto, con i suoi criteri e le sue categorie, ha una gran parte e41 che noi,
per comodità di studio, consideriamo per un istante come dato di fronte a noi,
coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi qualche cosa cui partecipiamo
noi stessi. Ora questo “qualche cosa” gli uomini si sforzano di manipolarlo ai
loro usi, di penetrare nella sua costituzione, di prevedere il suo divenire, di
costruire in base alle previsioni. A seconda che si accentui il carattere
oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo consideriamo un “penetrare nelle
leggi della natura” oppure un estrarre dalla natura un certo numero di elementi
regolari per usarli a loro vantaggio, un cedere alla natura” o un “farle
violenza”, e si chiamano positivisti o pragmatisti. Ma questa distinzione
riguarda il significato metafisico dell’attività umana, non la sua conformazione,
i suoi procedimenti, il suo fine: che è ciò che c’interessa qui di indagare per
contribuire al progresso dell’umanità46. Lo scienziato non conosce
concretamente un problema del carattere pratico e teorico47 della sua attività.
Egli non si domanda mai, seriamente, se ciò che lo spinge alla ricerca sia il
“bisogno di sapere” inteso come fine a sé stesso, o la speranza che gli uomini
possano ricavare un utile dalla sua scoperta. Egli si dedicherà secondo la sua
attitudine ad un campo più vicino alla ricerca pura o più vicino alle
applicazioni. Ma nella sua mente ricerca e applicazione costituiscono un tutto
unico di cui solo per comodità di studio e per la necessità della divisione del
lavoro egli scinde a volte le parti. La scoperta si considera come la naturale,
evidente premessa dell’invenzione:51 l’invenzione come la conseguenza della
scoperta. L’antitesi positivismo-pragmatismo non ha senso per lo scienziato, e
non moVedi Fichte (Trascendenza interna) FS : (Vedi Fichte, Trascendenza
interna) E. Su questo aspetto della metodologia colorniana, si legga quanto
affermato da Ferruccio RossiLandi, che rileva fra l’altro, negli scritti
colorniani, la presenza di «quel disimpegno dalla visione realistica del mondo
[…] che è merito della migliore critica idealistica, soprattutto negli sviluppi
dell’attualismo» (Sugli scritti di Eugenio Colorni, in «Rivista critica di storia
della filosofa né l’oggetto né il soggetto FS : né il soggetto né l’oggetto il soggetto, a mano nel testo FS : l’uomo parte
e FS : parte; e E. A capo in E. un estrarre dalla natura un certo numero di
elementi regolari per usarli a loro vantaggio, FS : un “estrarre dalla natura
un certo numero di elementi, regolarli per usarli a loro vantaggio”; E. 44 “un
cedere FS : un “cedere E. 45 violenza”, e FS : violenza”. E E. 46 per
contribuire al progresso dell’umanità FS : per raggiungere risultati utili e
teorico FS : o teoretico sé FS : se E. 49 dedicherà secondo la sua attitudine
ad FS : dedicherà, secondo le sue attitudini, ad E. Ma nella sua mente ricerca
FS : Ma, nella sua mente, ricerca
dell’invenzione: dell’invenzione; E. Cinque scritti metodologici: difica
in nulla il suo agire. Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che egli ha
di fronte a sé e della quale sono elementi costituenti alcune “forme” e
“categorie” che provengono dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela
rendono comprensibile e afferrabile. Di queste forme o categorie egli ne
considera alcune come appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di
fuori di sé. Quali sono? Sono quelle cui egli si sente necessariamente legato,
di cui non può in alcun modo fare a meno, senza le quali gli sarebbe
impossibile vedere e pensare. Kant ne ha elencato5 alcune: spazio, tempo,
causalità, numero ecc. Egli ha riconosciuto sì che esse vengono imposte alle
cose dallo spirito dell’uomo; ma col dare ad esse un carattere necessario ed a
priori, ha ammonito gli uomini sulla impossibilità di uscire da esse. Infatti
gli uomini comuni, senza preoccuparsi della loro provenienza e accontentandosi
del fatto che di quelle categorie non si può fare a meno, le attribuiscono
senz’altro alla realtà. Ma l’osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive;
e la curiosità di vedere al di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta
sempre più intensa. Si può dire che la filosofia si sia scissa a questo
proposito in due opposte direzioni, a seconda che l’ammonimento di Kant sia
stato seguito o no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati60 hanno
continuato a considerare le categorie come reali, e a lavorare in un mondo
costruito sulla base di queste categorie, contentandosi a volte di mantenere
nello sfondo l’ombra di un inconoscibile (Spencer, positivisti), oppure62 di
acquisire coscienza della relatività dei loro sforzi, limitando63 il compito
della scienza alla costruzione di ipotesi semplici e maneggevoli (Poincaré,
pragmatisti). Su questa via essi hanno continuato ad ottenere un buon numero di
successi, proseguendo quell’indagine e quello sfruttamento della natura che era
cominciato con Galilei e Newton, e che consisteva nell’uso sistematico di
quelle categorie che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche tempo
l’impressione che il campo stia per esaurirsi e che non restino da fare in
questa direzione se non scoperte particolari di importanza ristretta. I
filosofi invece, insofferenti di qualsiasi dualismo o relativismo, e
preoccupati di saldare l’unità del reale, preferiscono eliminare la tentazione
del52 A capo in A capo in E. 54 impossibile FS : assolutamente impossibile E. elencato FS : elencate E. spazio FS : Spazio
E. numero ecc. FS : numero, ecc. E. A capo in E. filosofico FS : filosofico
scientifico E. 60 no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati FS : no.
(I) Fra quelli che l’hanno seguito (a) gli scienziati E. categorie,
contentandosi FS : categorie; contentandosi positivisti), oppure FS : positivisti); oppure
E. sforzi, limitando FS : sforzi; limitando E. 64 Newton, e FS : Newton e di FS : , di I filosofi invece, FS : (b) I filosofi,
invece, E. Eugenio Colorni 30 la “cosa in sé” col negarne addirittura
l’esistenza; e attribuire realtà assoluta al pensiero nella sua forma
universale68. In tal modo essi soddisfecero contemporaneamente all’esigenza
Kantiana69 di non uscire dalle leggi del pensiero e al bisogno tipicamente
filosofico di risolvere senza residui il problema della realtà; incuranti
d’altronde se questo loro sistema li conducesse o no a un qualsiasi risultato
apprezzabile che non si limitasse alla soddisfazione del loro bisogno di
completezza. Coloro invece71 che “hanno disubbidito” sembrano a tutta prima
disprezzare l’ammonimento di Kant e trascurare i limiti da lui posti: ma in
realtà sono essi suoi figli molto più che gli ubbidienti. Quel limite, quella
barriera appunto li ha eccitati ad andare al di là: ha indicato loro la
direzione verso cui rivolgersi Cominciamo74 questa volta dai filosofi. a) - Il
filosofo vuol gustare il frutto proibito. Ma egli sa oramai che non potrà mai
raggiungerlo con le categorie, con75 le quali Kant gli ha indicato così
chiaramente i limiti. Egli abbandona per sempre le illusioni della metafisica e
della teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli
strumenti della ragione; ed76 è alla continua ricerca di un altro strumento che
gli permetta di raggiungere il suo scopo. Volontà, fede, intuizione, ispirazione:
in una parola l’irrazionale è ciò cui egli si affida. Ad esso egli attribuisce
tutte le possibilità che mancano alle categorie della ragione. Con esso egli
afferma di poter aprire tutte le porte del palazzo. Ma che garanzie gli dà la
nuova chiave? Semplicemente di non essere79 la vecchia. Ogni interpretazione
irrazionalistica del mondo, là dove non consista in esplosioni di entusiasmo, è
una polemica contro l’impotenza della ragione. Polemica spesso acuta e giusta,
ma che non costituisce un motivo bastante per accettare come criterio
definitivo tutto ciò che ragione non è. Le80 esplosioni d’entusiasmo81 ,
invece, sono a volte più interessanti e fruttifere. Esse ci permettono di
penetrare, sia pure in modo confuso, nella costituzione interna di queste
attività irrazionali; di conoscere un po’ meglio quali siano i loro
procedimenti. Ciò che ha paralizzato però tale indagine e non le ha permesso di
dare finora se non scar e FS : ed E. Evidente riferimento all’idealismo nei
suoi diversi modelli. 69 Kantiana FS : kantiana E. 70 se FS : che E. 71 Coloro
invece FS : (2) Coloro, invece, E. disubbidito” FS : disubbidito”, E. appunto
FS : appunto, E. 74 Di seguito in E. 75 categorie, con FS : categorie delle E.
76 teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti
della ragione; ed FS : teologia – cioè i tentativi di afferrare la realtà
assoluta con gli strumenti della ragione – ed E. 77 parola FS : parola, E. 78 A
capo in E. essere FS : esser E. A capo
in E. d’entusiasmo FS : di entusiasmo E. Cinque scritti metodologici: 31
sissimi risultati,82 è che tali attività sono sempre state descritte appunto
col presupposto e con l’esigenza di attribuire ad esse un valore assoluto,
molto superiore a quello della ragione. Preconcetto il quale ha naturalmente
deformato la descrizione ed ha impedito qualsiasi seria indagine sull’uso che
di questi atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare. Anche qui la fretta di
chiudere il circolo e il bisogno filosofico di rinchiudersi in un edificio
abitabile in tutte le sue parti ha impedito di compiere qualsiasi vero
progresso. E le interpretazioni irrazionalistiche della realtà si sono
succedute l’una all’altra senza condurre l’umanità ad alcuna conquista stabile.
È questo un fenomeno che si ripete da secoli; ché la constatazione delle
insufficienze della ragione e il tentativo di affidarsi ad attività irrazionali
non data da Kant, ma è vecchio, si può dire, quanto la nostra civiltà. E la
massa di esperienze che si è venuta raccogliendo è83, se non ordinata, pure
imponente; e dà l’impressione di una grande miniera inesplorata85 in cui il
materiale prezioso è unito con le scorie. Siamo qui ad uno stadio di evoluzione
e di sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo della ragione. Il
materiale della ragione è stato esplorato a fondo, inventariato, ordinato dal
pensiero greco e dalla scolastica. Con Galilei e Newton ha trovato il campo cui
applicarsi, conducendo ai vastissimi risultati che conosciamo. Kant infine88 ne
ha tracciato i limiti segnando insieme (forse un po’ in anticipo) l’esaurirsi
della miniera dal89 quale esso traeva ricchezze. Il campo dell’irrazionale
probabilmente comprende regioni infinitamente più vaste che quelle della
ragione, contenenti materiale dal carattere più eterogeneo, atto agli usi più
disparati. Il fatto solo che siamo abituati a classificarlo secondo la rubrica
negativa del “non rientrare nella ragione” ci mostra lo stato disordinato delle
nostre conoscenze al proposito. Ordinare questo mondo in modo che ci possa
servire, analizzarlo con mente tranquilla e senza preconcetti entusiasmi od
avversioni, liberarlo dal continuo incubo del confronto con la ragione ed
infine tentare se alcuni dei dati così ottenuti ci possono90 servire come criterio
per risolvere qualche problema, come chiave per aprire qualche porta: ecco il
compito che s’impone oggi alla nostra indagine91 . Va92 da sé che i metodi da
usarsi non saranno i medesimi che si sono usati per il mondo razionale: e che
l’ordine ottenuto non assomiglierà neppure da lontano a quello che noi
conosciamo nel campo logico-matematico. La parola 82 risultati, FS : risultati
E. raccogliendo è, FS : raccogliendo, è, E. 84 imponente; FS : imponente: E. 85
inesplorata FS : inesplorata, E. 86 unito FS : misto E. 87 A capo in E. 88 Kant
infine FS : Kant, infine, E. dal FS : dalla possono FS : possano Nietzsche»,
afferma Colorni in Critica filosofica e fisica teorica aveva indicato, con
acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi lo seguì col pacato distacco
dell’indagatore, ove il riferimento è chiaramente al metodo psicoanalitico. Di
seguito in E. Eugenio Colorni stessa “ordine” non vuole avere qui che un
significato analogico. Si tratterà di attingere nel mondo stesso dell’irrazionale
per trovare in esso dei punti intorno a cui quella materia possa coagularsi e
offrirci dei punti di appiglio per essere da noi usata. Sarebbe assurdo e
avventato dare qui direttive e indicazioni. La riuscita di questo lavoro
dipenderà dalla fantasia e dal fiuto di chi lo compie, dalla sua capacità di
servirsi liberamente di esperienze fatte in altri campi senza lasciarsene
suggestionare, dalla mobilità e ricchezza della sua facoltà di combinazione. Il
risultato massimo sarà di mettere l’umanità in possesso di una o più nuove
chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale o, se preferite, di costruire
nuovi sistemi di concordanze che si offrano al nostro uso e ci permettano di
soddisfare alcuni nostri bisogni. b) - Lo scienziato che dalla messa a punto
kantiana ha ricevuto l’impulso ad andare al di là delle categorie, non
s’indugia però nella ricerca dell’irrazionale, che non offre, finora, alcuna
presa ai suoi metodi. La sua mentalità è ancora imperniata completamente sul
razionalismo logico-matematico, che ha permesso ai secoli scorsi di compiere le
grandi scoperte di cui vive la nostra civiltà. Ed il superamento che egli vuol
compiere non98 è un superamento di principio, trasportandosi di un salto in un
mondo completamente diverso, ma graduale, volta a volta seguendo le esperienze
che non sono giustificabili mediante le leggi finora conosciute. Egli non si
domanda quale sia la realtà assoluta che si cela agli occhi degli uomini dietro
il velo delle categorie; ma piuttosto come sia possibile apprendere e organizzare
il materiale secondo categorie che siano diverse da quelle finora usate. In
questo senso egli è molto meno realista che il del filosofo idealista o mistico
o che lo dello scienziato positivista. E in questo senso si può quasi dire che
egli porti una conferma sperimentale, se non alla necessità a priori delle
categorie kantiane, almeno alla dottrina kantiana delle categorie. Lo
scienziato di regola non ha letto Kant. dei FS : quei E. campi senza FS : campi, senza E. concordanze
FS : concordanza E. E. logico-matematico, che FS : logico-matematico che compiere
non FS : compiere, non E. di un FS: d’un
E. e FS : ed E. che il del FS : che il E. 102 che lo dello FS : che lo E. Proprio
in questo comune punto di arrivo», scrive Colorni in Critica filosofica e
fisica teorica trattando delle diverse forme della filosofia e della
epistemologia postkantiane, «in questa medesima esigenza, in questa eguale
preoccupazione di raggiungere una base stabile cui si possa attribuire un
valore obbiettivo, tali diversi modi di procedere riconoscono forse tra di sé
quella parentela di premesse e di fini che permette loro di attribuirsi il nome
comune di filosofia. La scienza, al contrario, e precisamente perché figlia
della rivoluzione kantiana, rifiuterà al contrario di operare secondo il
criterio delle affermazioni di verità per muoversi attraverso un procedimento
di composizione e scomposizione della propria materia. sperimentale, se FS :
sperimentale se E. 105 Kantiane FS : kantiane E. Kantiana FS : kantiana E. Cinque
scritti metodologici. Ma l’atmosfera diffusa del Kantismo e la nozione stessa
della categoricità del reale gli suggeriscono di porsi, di fronte ad una nuova
esperienza inspiegabile, nell’atteggiamento di colui che attribuisce tale
inesplicabilità alla violenza che le categorie tradizionali operano sulla
ricerca organizzando ogni dato secondo le loro forme. Dal quale atteggiamento
deriva direttamente il tentativo di modificare le categorie e provarle di
nuovo, così modificate, sul metro della interpretazione scientifica.
Modificare, ho detto, non abolire. Qui si mostra la modestia dello scienziato,
il suo voler provare una dopo l’altra le chiavi, il suo volontario limitare il
proprio orizzonte. Da quando egli si è accorto di usare delle categorie nella formulazione
delle sue leggi, è continuamente tentato di provare che cosa avverrebbe se
queste categorie fossero fatte altrimenti. Come si comporterebbero i fenomeni
in uno spazio che non sia quello euclideo? Materia, energia, sostanza,
causalità. Che aspetto avrebbe un mondo in cui queste categorie si
presentassero con caratteri diversi da quelli che hanno finora avuto?
L’elemento a priori del reale, divenuto cosciente nell’uomo, comincia ad
eseguire un gioco di spostamenti, di retrocessioni, di modificazioni tale da
trasformare completamente l’immagine della realtà sulla quale gli uomini
lavorano: come un obbiettivo che abbia imparato ad aprirsi e a chiudersi, a
mettersi a fuoco a seconda delle esigenze dell’oggetto da ritrarsi. E se da un
lato si può dire che questo accomodamento delle categorie viene imposta dalle
modalità della ricerca scientifica, cioè dalle esperienze e dalle osservazioni
che non è possibile far rientrare nelle categorie finora usate (cioè quelle
dell’universo newtoniano), d’altro lato è avvenuto forse che gli scienziati,
tratti dalla vaga sensazione di essere sul punto di crearsi nuovi strumenti per
l’apprensione del reale, fossero attratti appunto da quelle esperienze che dei
nuovi strumenti potessero aver bisogno. L’esperienza non è mai evidentemente
qualche cosa di puramente passivo, e vi è sempre un motivo perché lo
sperimentatore raccolga la sua attenzione su di un fatto piuttosto che su di un
altro108. Comunque se la conformazione delle singole categorie è stata
fortemente modificata dalla scienza moderna, non è stata modificata, anzi è
stata rafforzata la coscienza della categoricità del reale. Il filosofo può
giungere con ragione alla conclusione che le nuove teorie fisiche non hanno
intaccato la concezione Kantiana del mondo. Noi diremmo che esse hanno tratto
da quella concezione le uniche conseguenze che aprono alla mente umana nuove indefinite
prospettive di ricerca. Le quali non consistono in una vaga e problematica
evasione dalle categorie, ma in una tranquilla accettazione del fatto che non è
possibile prescindere da una “categoricità”. Accettazione che permetta però la
continua revisione delle esistenti. Kantismo e la nozione stessa FS : kantismo
e la nozione stessa E. Da questo punto comincia la conclusione assente nelle
precedenti edizioni del testo. 108 Sulla revisione colorniana del concetto di
esperienza, cfr. supra § 3. 109 Colorni non si astiene mai dal sottolineare,
nei suoi scritti metodologici, «quanto vantaggio derivi alla scienza stessa
dall’eliminazione del suo substrato metafisico-finalistico» (E. Colorni, Del
finalismo nelle scienze, pp. Cfr. p.e. Id., Critica filosofica e fisica teorica.
Non c’è miglior propaganda per un nuovo atteggiamento intellettuale e morale
che il fatto che esso si dimostri una chiave capace di aprire molte porte nel
campo della scienza e della conoscenza». Eugenio Colorni 34 categorie; cioè di
quelle categorie dalle quali la mente umana al suo stato attuale non può
prescindere. Non è forse inutile precisare che tale revisione non ha nulla a che
fare con quelle discussioni sulle classificazioni delle categorie di cui i
filosofi così spesso si dilettano. Non si tratta affatto di discutere se le
categorie siano dodici o dieci, o quattro o una. Se il “finalismo” costituisca
una categoria a sé o rientri in un’altra. Se l’“economico” e l’“estetico” siano
modi autonomi o meno di considerare le cose. Non si tratta di organizzare le
forme conosciute del pensiero, e accordarsi su quali si debbano considerare
originarie, quali derivate. Il lavoro da compiersi è molto più profondo e
creativo. Si tratta di dare allo spirito umano la possibilità di vedere le cose
in modo completamente diverso da quello usato finora; di fornirlo di un nuovo
senso, mediante il quale egli possa scoprire cose finora sconosciute, risolvere
problemi finora insolubili. L’atteggiamento “critico” in senso Kantiano si
mostra così come l’ultima fase di tutta un’epoca e di un modo di prendere
contatto col reale. La scienza messa nella possibilità di prendere piena
coscienza non solo dei propri metodi, ma delle premesse necessarie di ogni sua
costruzione, riceve da ciò l’impulso a superare tale necessità ed a crearsi
premesse nuove. Il lavoro che qui compie lo spirito non ha solo i caratteri di
una ricerca intellettuale. Ne fanno parte alcuni atteggiamenti che possiamo
raccogliere sotto il nome generico di morale. Si tratta di uno sforzo violento
contro un modo di considerare le cose cui tutto ci tiene legati, di tendenze
alla liberazione, di salti fuori dal mondo cui si apparteneva. Si cerca di
rifarsi una “nuova mentalità”, di vedere le cose con occhi diversi, di
ritornare semplici, di rifiutare le costruzioni già fatte. Ci si affida alla
fantasia, all’invenzione, all’intuizione, per immaginarsi mondi diversi da
quello che siamo abituati a vedere. Tutti questi movimenti di conversione dello
spirito, che siamo abituati [ad] attribuire al mistico o all’uomo desideroso di
purificazioni o di visio. È questo il tema affrontato fra l’altro nel dialogo
di Commodo dedicato a Dell’antropomorfismo nelle scienze, là dove Colorni,
stabilendo la necessità di rovesciare l’umana tendenza a ricreare una natura
fatta a propria immagine e somiglianza, distingue due differenti forme di
antropomorfismo, a seconda che si sia o meno consapevoli – e si sappia quindi
controllarne i risultati – della nostra impossibilità di prescindere dalla
“categoricità del reale”: il primo antropomorfismo è «una constatazione, o
meglio una necessità, dalla quale non siamo riusciti a uscire, l’altro è invece
una esigenza. Ora io odio le esigenze. Non ho nemmeno alcun motivo di amare le
necessità, ma da queste non vedo alcun modo per liberarci, se non
illusoriamente. Evidente riferimento allo storicismo crociano, su cui Si mostra
qui, in tutta la sua originalità, il senso più profondo che Colorni attribuisce
al kantismo all’interno della storia del pensiero filosofico e scientifico
della modernità. E. Colorni, Critica filosofica e fisica teorica (p. 206), ove
si sottolinea il carattere essenzialmente morale che caratterizza il primo
impulso alla scoperta scientifica: «alla base di ogni grande scoperta, di ogni
rivoluzione nel campo della scienza, c’è una conquista morale; l’abbattimento
di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le pieghe della nostra
anima, di cui è estremamente difficile accorgersi, estremamente doloroso
liberarsi; idolo fatto per lo più di un cieco ed infantile amore per noi
stessi, di un bisogno di sentirsi circondati da forze a noi congeniali, di
veder ripetuto nell’universo, nella realtà oggettiva, ciò che sperimentiamo nel
nostro intimo». Cinque scritti metodologici: 35 ni, non devono essere stati
estranei a chi si è sforzato per il primo di immaginare la terra rotonda
anziché piana, o il sole immobile e non la terra in mezzo ai pianeti, o lo spazio
a quattro e non a tre dimensioni. Solamente che mentre il mistico suole
descrivere molto accuratamente il processo della conversione, ma si ferma solo
ad esso e non ci dà alcuna garanzia quando comincia a parlare di ciò che egli
trova “al di là”, lo scienziato invece compie la conversione silenziosamente,
spesso quasi inconsciamente; ma giunto al di à, cioè al nuovo punto di vista, è
sollecito ad occuparsi solo di ciò che sia non dico vero in senso assoluto, ma
usabile, cioè organizzabile in un ordine, in una legge. E per giungere a ciò
escogita esperimenti e controlli che gli diano la garanzia di camminare su un
terreno sicuro, sul quale sia possibile ai suoi strumenti di far presa. L’“al
di là” non è affatto una negazione del di qua, non è un assoluto privo di
categoria. È un mondo di nuove categorie che pretendono di essere più vaste, di
comprendere in sé anche le vecchie. Rotondo anziché piano, meccanismo anziché
finalismo, probabilità statistica anziché determinazione causale. La validità
delle nuove chiavi è determinata dal loro uso, cioè dalla maggiore o minore
possibilità che esse offrano di spiegare fenomeni, di risolvere problemi, di
formulare leggi. La maggiore difficoltà consiste nell’abituarsi al nuovo modo
di vedere. Non esiste neppure un vocabolario che permetta di esprimere le cose
nei termini delle nuove categorie, e si è comunemente costretti a ricorrere a
metafore tratte dal mondo vecchio. Gran parte del lavoro, nei primi tempi,
consiste nell’escogitare una formula di trasformazione che permetta di passare
agevolmente dai termini delle vecchie categorie a quelli delle nuove. Come le
leggi della prospettiva mi permettono di rappresentare su un piano ciò che ha
un volume nello spazio, così le “trasformazioni di Lorentz” mi permettono di
usare gli strumenti a mia disposizione (calcolo, misura, ecc.) nello spazio
normale, per il nuovo spazio einsteniano; analogamente la psicanalisi tenta di
tra Il dominio della natura è divenuto così il prezzo dell’incredulità. È come
se la grazia venisse a toccare proprio colui che ha cessato di sperarla. Il
coraggio di riconoscersi abbandonato da Dio, di rinunciare ad essere il centro
e lo scopo dell’universo, apre immediatamente l’occhio agli uomini, li
arricchisce d’un immenso patrimonio. A bella posta abbiamo espresso queste cose
in un linguaggio mistico. Quando Kant parla di rivoluzioni dovute all’ardimento
di un sol uomo, di illuminazioni subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi
brancolava alla cieca, c’è in lui sicuramente la coscienza che una vera grande
conquista conoscitiva è sempre frutto – più che di uno sforzo logico o di uno
sviluppo dialettico – di un capovolgimento affettivo e morale; di una
inversione di valori, di una vittoria conquistata contro se stessi e contro ciò
cui con più profondi e tenaci ed inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per
primo un capovolgimento deve anzitutto combattere nel suo intimo una lotta non
molto diversa da quella che combatte l’uomo che voglia raggiungere lo stato di
perfetta passività ed umiltà di fronte al suo dio. Molinos diceva che non
bisogna chiedere nulla a Dio, neppure la propria salvazione. Lo scienziato deve
pure rinunziare all’idolo di una natura che parli il suo medesimo linguaggio,
di un mondo organizzato in vista dei suoi bisogni e dei suoi organi. Solo
questa assoluta vuotezza e purità, questa mancanza di anticipazione gli
permetterà di aprire gli occhi su se stesso e sul mondo». L’osservazione
rientra pienamente nell’antirealismo della metodologia colorniana. D’altra
parte, risulta di particolare interesse il tentativo di delineare le
caratteristiche che dovrebbero assumere le nuove categorie rispetto a quelle
che volta per volta si vanno ad abbandonare. Eugenio Colorni sformare in
termini della coscienza ciò che è inconscio. Mediante tali trasformazioni si
aiutano anche gli altri uomini a trasportarsi sul nuovo piano; si forniscono
loro, per così dire, gli occhiali che permettono di vedere con la nuova
illuminazione, finché non si sarà tanto avvezzi da poter fare a meno di
occhiali, ed usare un linguaggio diretto. Ma il linguaggio appunto serba sempre
le tracce di ciò, e le etimologie documentano spesso tali mutamenti di registro.
Tale è, presso a poco, lo stato delle cose attualmente. Si veda, fra i
riferimenti colorniani alla psicoanalisi e a mero titolo di esempio, quanto è
dall’autore affermato nel dialogo intitolato Della lettura dei filosofi. La
psicanalisi è una scienza ad uno stadio che corrisponde circa a quello
dell’astronomia prima di Copernico, e dell’alchimia prima della chimica. Ha individuato
in modo vago, mitico, pieno di pregiudizi e di troppo rapide generalizzazioni,
delle relazioni e dei rapporti finora inosservati. Ha abbozzato una parvenza di
metodo di ricerca: metodo talmente incerto e malsicuro che il più delle volte
conduce a risultati opposti a quelli che si volevano ottenere. Ma insomma, si
muove in un campo completamente sconosciuto, e il materiale che sta portando
alla luce è di un tale interesse, che il rifiutarlo solo perché non è stato
ancora capace di organizzarsi secondo gli aurei schemi del metodo scientifico
mi sembra il colmo del filisteismo professorale». L’accenno alla possibilità di
una condurre una vera e propria analisi categoriale attraverso lo studio del
linguaggio è forse uno degli aspetti più interessanti ed originali di queste
pagine Cinque scritti metodologici Commodo a Ritroso Vedo che non sei sazio di
facili vittorie. Se il tuo scopo era di dimostrare che tu sai l’economia e io
no, l’hai raggiunto pienamente, a tua perenne gloria e soddisfazione. Ma se io
volessi ritorcere le tue intimazioni sulla mia abilità nelle scienze di cui mi
occupo, ti direi che, con tutta la tua bravura, non sei stato neppure capace di
chiarire il mio dubbio. Non te lo dico, perché sono sicuro che ci saresti
riuscito facilmente, solo che ti fossi occupato di capire attraverso gli sbagli
e le imprecisioni, quello che ho cercato di dire, anziché limitarti a sfogare a
tua rabbia. Se un dilettante o un principiante di teoria della scienza mi viene
a parlare di corpo rigido in un senso errato e diverso da quello usato dai
fisici, io cerco di capire quale concetto egli cerchi di adombrare dietro al
termine improprio; e mi guardo dal cedere alla meschina soddisfazione di
prenderlo in castagna ad ogni parola. Il fare così, con tua buona pace, si
chiama in italiano pignoleria. Io non voglio prendere sul serio questo tuo modo
di discutere che è probabilmente solo una reazione alla mia aggressività, e il
riflesso di arrabbiature prese non in questa ma in altre discussioni. E non ho
ancora perso la speranza di trovare in te un esperto ed aperto iniziatore ai
problemi dell’economia, anziché un geloso e gretto sacerdote del tempio della
scienza. Questo metodo, hai ragione, è supremamente irritante e presuntuoso; ma
a me è molto utile, perché mi permette, fra l’altro, di appropriarmi i concetti
fondamentali con maggiore consapevolezza, senza subirli, e mantenendo rispetto
alle scienze quel certo distacco che è pur necessario al critico e al
metodologo. Una nozione si forma molto più salda nella mia mente, quando ha
resistito vittoriosamente ai miei ripetuti attacchi, che quando l’ho dovuta
imparare dalle pagine di un manuale. 1 FS, sez. 1, Carte personali, serie 2,
Documenti diversi, b. 3, Inediti di Eugenio Colorni. Per la storia di questo
scritto in relazione agli altri dialoghi economici colorniani, si rinvia alla
Nota del curatore. Così si rivolge Commodo a Ritroso in E. Colorni,
Dell’antropomorfismo nelle scienze. Mi pare che tu sia un po’ troppo attaccato,
o Ritroso, alle prerogative professionali. Sei proprio sicuro che l’aver
frequentato una scuola ufficiale e aver letto molti trattati, e avere una lunga
consuetudine coi ferri del mestiere, sia una condizione assolutamente
necessaria per capire qualche cosa dei principî fondamentali di una scienza? Non
vi è mai capitato di dover dire a una persona una di quelle cose scottanti,
dopo le quali non si ha più il coraggio di guardarsi negli occhi? Ebbene, se
voi scegliete il partito di prenderlo in disparte con tono mansueto e fraterno,
mostrandogli comprensione ed affetto, e lo consolerete, e cercherete di
addolcirgli in tutti i modi la pillola; se farete questo, siete dei volgari
istrioni, innamorati di voi stessi, infatuati della vostra funzione, incapaci
di comprendere e di amare l’amico. Voi vorreste assestargli il colpo che darà
inizio per lui a una dolorosa lotta contro se medesimo, e in più avere la sua
gratitudine, la sua ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente
basso e spregevole, apparirgli voi come l’arcangelo liberatore, il puro, il
disinteressato, l’immacolato. Se vi prende a calci, è il meno che possa fare.
Ditegli invece le medesime cose in un accesso di rabbia, in una lite violenta,
in cui voi avrete almeno altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia
queste verità come veleno che schizzi dalla vostra lingua; dategli un appiglio
per difendersi, un’occasione di odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite
come falso e malvagio. Il vostro Eugenio Colorni Non so se questo possa
servire agli occhi tuoi da giustificazione. Non credere che questo metodo sia
in me qualche cosa di cosciente e di voluto. Me ne accorgo oggi per la prima
volta, cercando di analizzare perché le tue accuse mi colpiscono e insieme non
mi colpiscono. Delle tue osservazioni incasso senz’altro la lezione sulla
matematica; io non avevo avuto altra intenzione che di riinventare per conto
mio quell’ombrello; e naturalmente l’ho inventato più brutto, più goffo e
confuso di quello che c’è già. Il solo punto che non mi è ancora chiaro è
quello indicato nell’accluso foglietto. Mi basta che tu risponda a monosillabi
e credo che non ci perderai più di un quarto d’ora. PALINODIA COMMODO A RITROSO
Da principio mi sono preso una solenne arrabbiatura, e ti avevo già risposto
una lettera piena d’insolenze. Poi, nel rileggere tutto insieme a mente più
calma, ho visto che in fin dei conti hai tutte le ragioni. Ma, poiché le tue
accuse mi toccano solo in un certo speciale modo, vorrei spiegarti quanto segue
a puro titolo di chiarimento personale: Da uno che si avvicina ad una scienza
che non conosce è giusto di pretendere che lo faccia “con le ginocchia della
mente inchine” pronto ad apprendere anziché a criticare. Gli s’impone, e ben a
ragione, un lungo e silenzioso noviziato, solo finito il quale gli si potrà
accordare voce in capitolo. Tutto questo è giusto (e lo dico senza la minima
ironia). Ma il risultato è che un uomo, di solito, di questi noviziati ne fa
uno solo, e vi resta legato per tutta la vita. Si specializza in una materia, e
da essa non esce, salvo che per excursus curiosi e dilettanteschi. Ora a me
questo non è concesso, giacché i miei interessi più specifici si rivolgono alla
metodologia delle scienze. E dato che mi farebbe schifo risolvere il mio
problema dall’alto, escogitando un paio di criteri filosofici e applicandoli
poi come chiavi capaci di aprire tutte le porte6 ; sono costretto ad
avvicinarmi a insegnamento allora penetrerà nel suo cuore in modo umano, lieve,
benefico. Egli sarà libero di accoglierlo come cosa sua, e avrà modo di stimare
se stesso per non avervi serbato rancore. Nella sua accettazione ci sarà il
senso di fare una conquista, di costruire qualche cosa. Non vi temerà. Che sia
questo il senso del mito di Nereo, l’indovino col quale bisognava azzuffarsi
perché si decidesse a profetare?». Su questa immagine del mito di Nereo, rinvio
ad A. Cavaglion, «Il mio poeta». Colorni, Saba e la psicoanalisi, in G. Cerchiai
e G. Rota, Eugenio Colorni e la cultura italiana fra le due guerre, Cfr. quanto
spiegato nella Nota del curatore. Citazione a senso da Vergine bella, che di
sol vestita, dal Canzoniere di Petrarca (CCCLXVI, v. 63). E. Colorni,
Giustificazione, Colorni disprezza coloro che chiamano filosofia l’aver trovato
una formula per interpretare il mondo. La metafora della chiave è spesso utilizzata
da Colorni per indicare precisamente l’errore di scambiare la ricerca
filosofico-scientifica con la scoperta di un criterio esplicativo unico ed
onnicomprensivo. Su tale metafora cfr. anche Programma. ciascuna scienza, non
per esserne genericamente informato, ma con l’impegno di osservarne con occhio
critico gli interni meccanismi e cavarne conclusioni non genericamente
filosofiche, ma che possono aiutare il procedere della scienza stessa. Se
voglio far questo è chiaro che non posso pretendere di sfuggire al noviziato
più severo, in ciascuna delle scienze cui mi avvicino. E non mi sogno di
sfuggirvi. Posso però cercare di rendermelo più piacevole. Il metodo che,
inconsciamente, ho trovato, è questo: Anziché accostarmi a grossi trattati con
fare accogliente e passivo, pronto ad imparare e ad adagiarmi nell’ordine della
loro esposizione, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sballate e
confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo, ed inventando ombrelli,
desideroso di scontri e di battaglie. Da ogni scontro esco ammaccato e contuso
(come da questo con te) ma con un’idea più chiara. Ogni knoch out subito mi fa
fare un passo avanti nella comprensione della scienza. Così non evito
naturalmente, lo studio; e della lettura dei trattati non posso certo fare a
meno: ma mi riesce più piacevole leggerli come appassionati combattenti,
piuttosto che come amorosi pedagoghi. A patto, s’intende, di non impuntarsi
mai, e di essere pronto a riconoscere la sconfitta. Laboratorio dell’ISPF. Geri
Cerchiai ISPF-CNR, Milano. Laboratorio dell’ISPF. Saggi di Colorni conservati
presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica,
Fondo Vittorio Somenzi. In essi Colorni espone alcuni dei punti chiave della
propria metodologia, delineando una proposta epistemologica destinata ad essere
riscoperta e apprezzata dopo la caduta del regime fascista, nel secondo
dopoguerra. Carlo Rosenberg. ‘G.
Rosenberg’. ‘Agostini’. ‘Franco Tanzi’. Eugenio Colorni. Colorni. Parole
chiave: diadologia, il concetto dell’individuo, l’idealismo filosofico como
malatia, indice alla malatia metafisica, scritti filosofici curati da Bobbio,
scienza unificata, ebreo-italiano, ebreo-britannico Ayer, circolo di Vienna,
Reichenbach, Hilbert, Eddington. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colorni” – The
Swimming-Pool Library.
Conte (Pavia). Filosofo.
Grice: “Must say I love Conte –
he has almost the same talent for
linguistic coinage that I do! In Italy ‘filosofia del diritto’ is much more
respectable a discipline that it is at Oxford! But Conte managed to keep it
philosophically interesting for the philosopher’s philosopher that I am!”
“Conte proves that moral philosophy is at the heart of philosopohy
qua-uni-virtue – for the critique of reason must include the buletic – and
that’s all that Conte dedicates his philosophy too! Into the bargain, he
expands into concepts like sacrifice, punishment, ‘fiducia’ (my principle of
conversational trust), and so much more!” “He plays with language the way only
Heidegger did in German and I in English!” --
-- Grice: “Conte is what I – and Italians – would call a ‘Griceian
conversationali pragmaticist.’” Studia
a Pavia e Padova. Si laurea a Torino sotto Bobbio con “Ius naturale.” Insegna a
Pavia. Si occupa della semiotica del performativo deontico o buletico, la
regola eidetico-costitutive, validità buletica – desirabilita -- deontica, modo
imperativo, prammatica conversazionale – alla Grice. In che cosa consiste
quell’’impero’, dal quale il modo imperativo prende il nome. Altre opere: “Interpretazione
analogica. Pavia, Tipografia del Libro, “Ius ed ordine” (Torino, Giappichelli).
Primi argomenti per una critica del normativismo. Pavia, Tipografia del Libro,
Ricerca d'un paradosso deontico” (Pavia, Tipografia del Libro); Nove studi sul
linguaggio normativo. Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio
normativo. I. Studi; Torino, Giappichelli, Filosofia del linguaggio normativo.
II. Studi; Con una nota di Bobbio. Torino, Giappichelli); Imperativo ed ordine.
Studi Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi,
Torino, Giappichelli); Filosofia del diritto” (Milano, Cortina); Ricerche di
Filosofia del diritto” Torino, Giappichelli); “Res ex nomine” (Napoli,
Editoriale Scientifica); “Sociologia filosofica del diritto. Torino,
Giappichelli); “Adelaster. Il nome del vero” (Milano, LED). È inventore del
genere da lui chiamato "eido-gramma" ed autore di numerosi
eidogrammi, solo parzialmente éditi:
Nella parola. Osnago, Pulcino elefante, Kenningar. Bari, Adriatica. "Per
una critica della ragione deontica" (introduzione alla Filosofia del
linguaggio normativo). Pragmatica. Filosofia
del diritto Logica deontica Ontologia Performativo (atto verbale) Pragmatica
Semiotica Semantica. Grice: “Conte quotes from Aristotle’s Soph. El. On the
‘homonimia’ of deon’ – “sometimes for the good, but sometimes for the bad.”
Conte distinguishes between semantic ambiguity – surely ‘must’ or the
imperative mode does not have TWO senses – and ambivalenza prammatica. Since
Aristotle is refusing to use Frege’s idea of ‘Sinn’, and keep referring to
‘semeion’ (Latin segnare) rather, we may well conclude that Aristotle is just
Greek Grice. Conte does not dwell much on the imperative mode. Modo imperativo
is qualified. Modo is qualified as being modo verbale – the mode of the verb
impero. But then the future in French has a ‘valore imperativo.’ Conte is more
interested in the ‘must.’ But surely his quoting from Philippa Foot and his
joint work with von Wright into Kant’s hypo versus cate is very Griceian! On
top, Conte has a taste for local historical analysis and has discovered some
gems in some jurisprudential philosophers of his ‘paese’!” Amedeo Giovanni Conte. Keywords: the sorry
story of deontic logic, fondatore della logica deontica al Ghislieri di Pavia,
il giuridico, giudicare, giuridicare, impiego, employ (as noun), employ-ment,
empiegamento, Conte e Wright – Wright cited by Grice, alethic --. Wright on
change cited by Grice in “Actions and Events”, Mario Casotti, Volere, Grice,
Volere --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conte” – The Swimming-Pool Library.
Contestabile (Teano). Filosofo.
Grice: “I love Contestabile; I love a philosopher with a sense of humour! At
Oxford, it has become increasingly difficult to laugh at people’s surnames! But
‘grice’ means ‘pig,’ in Norwegian! – Anyway, Contestabile contests a
revisionist account of Bruno’s life – “surely he wasn’t a coward – I know
because of his links with the Campanella whom my family supported in his fight
against the furriners!” Cacciato con una telefonata» Intervista di Dino
Martirano, Corriere della sera. Con il Psi non ho ricoperto grandi incarichi ma
ho avuto l'onore di essere stato amico di Craxi. Mi mancherà la politica ma non
è una tragedia. Torno ai miei studi, alla filosofia medioevale. Mi mancheranno
certi momenti. Io, che ero stato nel Psi fin quando nel '92 la procura della
Repubblica lo ha sciolto, ricordo bene i mesi trascorsi al ministero della
Giustizia: col ministro Biondi fummo i protagonisti del tentativo fallito, però
generoso, di riportare la giustizia sui binari della normalità. Sciolto il
partito [Psi], chi si è fatto maomettano, chi ebreo, chi cattolico. Però sempre
socialisti siamo rimasti. Domenico Contestabile
avvocato e politico italiano Lingua Segui Modifica Domenico Contestabile
Sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia Durata mandato10 maggio
1994 – 17 gennaio 1995 PresidenteSilvio Berlusconi PredecessoreVincenzo Sorice
SuccessoreAntonino Mirone Vicepresidente del Senato della Repubblica Durata
mandato 16 maggio 1996 – 29
maggio 2001 PresidenteNicola Mancino Senatore della Repubblica Italiana
LegislatureXII, XIII, XIV Gruppo parlamentareForza Italia
CircoscrizioneLombardia CollegioCinisello Balsamo, Vigevano Incarichi
parlamentari Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia Sito
istituzionale Dati generali Partito politicoFI Titolo di studioLaurea in
giurisprudenza Professioneavvocato Domenico Contestabile (Teano, 11 agosto
1937) è un avvocato e politico italiano. BiografiaModifica Laureato in
giurisprudenza, esercita la professione di avvocato. Entra in politica
iscrivendosi al Partito Socialista Italiano (partito a cui è appartenuto fino
agli eventi che hanno travolto tale formazione politica)[1]. In seguito
aderisce a Forza Italia, affermando che in tale movimento politico l'area
socialista era ben accolta e rappresentata[2]. Viene eletto senatore per la
prima volta nel 1994 ed è rieletto anche nelle due successive legislature. Dal
16 maggio 1996 al 29 maggio 2001 è stato vicepresidente del Senato[3]
Incarichi parlamentariModifica Ha fatto parte delle seguenti commissioni
parlamentari: Affari costituzionali e giustizia; Difesa. Membro, inoltre, della
giunta per le elezioni e immunità parlamentari. Sottosegretario di
StatoModifica È stato sottosegretario di Stato per la Grazia e giustizia nel
primo governo di Silvio Berlusconi (dal 13 maggio 1994 al 16 gennaio
1995). NoteModifica ^ Tutti i figli e i figliastri del
garofano[collegamento interrotto], su qn.quotidiano.net. ^ Adnkronos - Psi:
Contestabile a De Michelis, noi stiamo bene in FI ^ Senato - XIII legislatura
Voci correlate Modifica Governo Berlusconi I Partito Socialista Italiano Altri
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italiano Giulio Maceratini politico e avvocato italiano Gaetano
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Bruno: una revisione contestata” – La storia della
filosofia è continua revisione, e non mi scandalizzo per il revisionismo
bruniano. Mi sembra però che questi non colga nel segno. La vita diBruno, dalla
fuga da S. Domenico Maggiore a Napoli fino al rogo di Campo dei Fiori a Roma, è
di singolare coerenza. Fu una vita “contro”. L’accusa implicita di opportunism mi
sembra perciò singolare. E’ vero che, durante il processo, ritratta molte sue
tesi, e avrebbe avuto salva la vita se avesse continuato in questo
atteggiamento. Alla fine però si stanca, e scelse lucidamente di morire.
E’ opportunista chi cerca solo di salvare la pelle, e poi decide di morire
perché ritiene che il suoi giudice ha esagerato? In quanto alla tesi sul Bruno
spia elisabettiana, essa non è, a mio giudizio, provata, anzi è smentita dalla
comparazione tra la grafia di Bruno e quella dei biglietti di spionaggio.
Infine, la tesi a proposito della relazione tra Campanella e Bruno non mi ha
mai convinto. Campanella (la sua rivolta e finanziata dalla nobile famiglia
Contestabile, come ricorda Firpo nel suo ottimo saggio sul processo a
Campanella) vuole poi un regime “comunista”? A leggere “La città del sole” non
si direbbe. Domenico Contestabile. Keywords: nobilita italiana, la
famiglia Contestabile financia la rivolta di Campanella -- filosofia
medioevale, Bruno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contestabile” – The
Swimming-Pool Library.
Conti (Roma). Filosofo. Grice:
“Conti is a good one – he reminds me of Bosanquet and Pater – the decadents in
Italy came AFTER them at Oxford! Conti philosophised on many aesthetic
subjects, such as man, masculinity, and maleness --!” Di una famiglia originaria
di Arpino, dove frequenta il locale liceo. Si ccupa di filosofia estetica. D'Annunzio
lo cita nel “Giovanni episcopo” e si ispira a lui per ‘Daniele Glauro’ in “Il
fuoco”. Insegna a Firenze presso la Galleria degli Uffizi ed a Venezia presso
l'Accademia di Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione – l’estetica di Zorzi”
-- Tornato a Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggi che delineavano la sua
concezione critica ed estetica, ispirata dichiaratamente a Platone, Kant e
Schopenhauer. La prefazione fu curata d’Annunzio, il quale scrive di stimare
molto Conti e di ammirare il suo “ascetismo” estetico. Direttore delle Antichità di Roma. Direttore
della Reggia di Capodimonte a Napoli. Si ispirò alla poetica del filosofo
oxoniese Pater e Ruskin. Altre opere: “Giorgione,
Firenze, F.lli Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia,
Venezia, Tip. L. Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume del
tempo, Napoli, R. Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R.
Ricciardi); Domenico Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “San
Francesco, con un saggio di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgilio
dolcissimo padre, Napoli, R. Ricciardi). Praz nota che Parodi era solito
leggere La beata riva di Conti prima di addormentarsi; quando morì, la lettura
non era stata ancora terminata. Dizionario
Biografico degli Italiani, Forme del tragico nel teatro italiano. Modelli della
tradizione e riscritture originali,Romantici, vittoriani, decadenti – filosofo
decadente – decadentismo -- e museo dannunziano, in Bellezza e bizzarria – il
bello e il bizzarro., Croce, La letteratura della nuova Italia, Marcello
Carlino. A. Conti, Due conviti di Mattia Preti, Bollettino d'Arte. Io vengo dal mare di Napoli e sono tornato qui a
rivedere la primavera. Non c'è nessuna altra città in cui, come in questa, il
rifiorire degli alberi e delle siepi si accordi con la giovinezza delle opere
del genio umano, nessuna ove, come qui, la Primavera sembri rimanere per un
istante velata, per poi riapparire pili fulgida e piìi lieta, al ritorno dei
venti che spirano dalle colline e recano i nuovi fiori. Sono anche giunto fra
voi, per parlarvi della pittura di Leonardo. Ma il mio compito, dopo la lettura
deirillustre scrittore francese che m' ha preceduto, sarebbe oggi, non dico
diffìcile, ma quasi vano, se le mie idee fossero affini alle sue ed egli fosse
vicino al mio pensiero come io sono vicino al suo aff'etto per questa nobile
terra toscana, ove l'arte ha continuato la grazia gentile e la pura bellezza
della natura. Diversità di pensare e anche d'immaginare mi rendono oggi
possibile esprimere qualche cosa a voi forse non detta, e combattere qualche
affermazione troppo lontana dalla mia sicura fede. Leonardo è il discepolo del
Vermocchio. Ora, che cosa poteva egli apprendere dal suo grande maestro? Non
cer- 84 Angelo Conti, Leonardo pittore tamente l'arte, la quale non si apprende
e non si insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà mai pensare
alla possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista, un
poeta? La natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli a
trovare i mezzi d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nel
mondo. Il maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire : " Il tuo
cuore è impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressione
plastica o per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tua
amarezza; guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umano
discorso, ecco la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori che
imitano la bellezza del cielo, della terra e del mare ; ecco in qual modo si
modella la creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l'
immagine dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma il discorso,
il canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare „. Ogni
opera d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa e nuova, nella
quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e preesistenti, hanno
mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto inatteso e prodigioso
che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in Leonardo appare un'
immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle labbra del giovinetto
Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che illumina un altro mondo
; poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra dell'eroe adolescente sul viso
e negli occhi della Gioconda, diviene il mistero della seduzione femminile, una
grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che nasce dal- Angelo Conti,
Leonardo pittore 85 l'espressione d'iin volto, si diffonde verso il paese
lontano e attira il contemplatore. Il sorriso verrocchiesco è in Leonardo come
nn brano di Plutarco in Shakespeare. Or chi oserebbe dire che l'immortale
tragico inglese derivi da Plutarco? Leonardo e il Yerrocchio sono due artisti
assolutamente distinti, che parlano un linguaggio interamente diverso e che, se
somigliano esteriormente in qualche cosa, hanno due anime quasi opposte, chiusa
l'una nella sua idea di bellezza e di stile, l'altra aperta a tutte le
manifestazioni della natura e della vita, in una continua ansietà di fissarne
l'immagine mutevole con la semplicità del segno rivelatore. Noi viviamo pur
troppo in un triste momento della vita, poiché la maggior parte degli uomini ai
quali parliamo non sanno che cosa sia l'arte, e lo Stato crede a chi meno vede.
Non è forse ancora possibile vincere una così detta scuola di critica
scientifica, fondata sull' errore già accennato e chiusa nella rete del
pregiudizio cronologico. A coloro che ancora credono alle influenze sugli
spiriti geniali e alla necessità in arte di una classificazione come in
botanica, noi possiamo trionfalmente rispondere con Leonardo che l'artista
genera le sue opere qual fanno le cose. Egli deve creare come fa la natura, e
le sue opere superare e cancelUxre i segni del tempo che passa. Un quadro, una
statua, un edifizio debbono nascere come le selve e apparire come le albe. Or
chi penserà all'epoca d'una primavera o d'un ciclo stellato? Non c'è opera
d'arte geniale che venga per noi dal passato lontano, come non e' è indizio di
vetustà nelle montagne e nella aerea architettura delle nubi. Dinanzi
all'umanità che passa, il genio si ferma e rende eterna la 86 AxGELO Conti,
Leonardo pittore sua traccia come è nel cielo il cammino delle stelle. Avete
udito il canto dcirusignolo? Lo riudirete in tutte le primavere. Il genio vi
farà sempre udire la sua voce fresca e giovanile come nella stagion nuova della
terra il canto dell'usignolo. Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano le
allodole, è una notte serena, e l'uomo si perde nella luce lunare. Aprite
Dante, e siete nell'eternità della vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa
invecchia o perisce, e noi stessi, -accanto a quelle grandi anime, siamo per un
istante fuori del tempo. Questo momento di liberazione provai per la prima
volta alcuni anni or sono a Milano, trovandomi dinanzi alla Cena, nel convento
di Santa Maria delle Grazie. Vidi il capolavoro nella medesima ora indicata
dalla luce clie lo illumina dal fondo, tanto che mi fu d'un tratto facile
superare i mille e piìi anni passati e trovarmi presente alla scena Gesù era
seduto nel centro del convito e da poco avea prò nunziato le parole : qualcuno
di voi mi tradira. I convitati a destra e a manca s'erano ritratti e aggruppati
in tumulto lasciando nel mezzo Gesù solo, con la sua tristezza infinita La sala
era piena di gesti concitati e di ansiose interrogazioni. Il Maestro solo era
calmo e la sua figura, sul paese che gli s'apriva lontano alle spalle, era
immobile. Ma qual dramma in quella immobilità ! Mentre la sua mano destra,
lievemente contratta, esprimeva un istante di ribellione e come un istintivo
moto d'ira, la sinistra nel momento successivo s'abbandonava col dorso poggiato
sulla tavola e le Angelo Conti, Leonardo pittore 87 dita allungate, esprimendo
la rassegnaziona e il perdono. Gli occhi abbassati non guardavano e non
vedevano nulla di ciò che era presente, ma contemplavano internamente il grande
spettacolo del dolore e della miseria umana, mentre la sua anima sembrava
essersi già rifugiata in quel fondo di paese luminoso e lontano, dove abitavano
una grande speranza e una eterna pace. Nessun uomo avevo veduto mai così solo
come Gesù in mezzo a quel tumulto. Era un'isola in mezzo a un mare procelloso.
Le onde fragorose del tempo, che travolgono^ uomini e cose, mi avevano forse
spinto ad approdare ad una riva ove splendono i fiori eterni della vita? Mai
infatti, come quel giorno, ebbi, per virtìi dell'arte, la visione della vita,
in un oblio piti completo. Quando il custode del Cenacolo venne ad annunziarmi
Fora della chiusura, io riudii nuovamente, dalla strada vicina, il rumore delle
carrozze e il rombo dell'esistenza; e ritornai fra gli uomini. Pochi anni or
sono Gabriele D'Annunzio scrisse una bella pagina di poesia per rimpiangere la
rovina del Cenacolo. Voi infatti sapete, che, come della antica e celebrata
pittura dei greci, fra pochi anni della Cena vinciana non resterà se non il
ricordo ^ Il doloroso avvenimento non ^ Questo studio su Leonardo lìiitore era
già stato scritto, quando fu compiuta in Milano dal pittore prof. Luigi
Cavenaghi l'opera di ristauro del Cenacolo, salutata da tutti i cultori ed
amatori d'arte con gioia e gratitudine. Il Cenacolo, compiuto da Leonardo nel
1497, cominciò ben presto a guastarsi; ì primi provvedimenti per salvare il
capolavoro risalgono al cardinale Borromeo, poi nei secoli si susseguirono
alternative di lunghi abbandoni, di fallaci rimedi empirici, di studii
incompleti e riparazioni deturpatrici, fin che il prof. Cavenaghi fu nel 1904
incaricato delle ricerche scientifiche e tecniclie che, precisando le cause e
l'entità dei guasti, portassero ai rimedii più efficaci. Egli trovò — sono sue
parole riprodotte naìVIllustrazione Italiana, n. 41, dell'I 1 ottobre 1908 —
che il dipinto, coperto da polvere di secoli, si screpolava e la crosta di
colore si solle- ^rt Angelo Conti, Leonardo inttore poteva non commuovere e non
far riapparire la visione tragica del fato clic incombe sui capolavori. Ma è
forse una illusione. In realtà la natura non distrugge ne i fiori o le selve
della terra ne le opere del genio : la Minerva criselefantina di Fidia è
passata dall'avorio e dall'oro nelle pagine immortali dei poeti e nella eterna
memoria degli uomini. Quando un capolavoro scompare, noi non dobbiamo pensare
che il tempo lo abbia distrutto, ma semplicemente che si sia oscurato lo
specchio che ci proiettava la sua imagine nel tempo e nello spazio. Nella
profonda unità dell'anima umana, clie rende i poeti e i filosofi simili ai
figli d'una madre sola, l'ispirazione da cui esso nacque riman pura e vivente
come una forza della terra non ancor vestita della sua forma. Se avessi la
virtù del canto, vorrei lodare e far comTava dall'intonaco, a squame di varia
misura, di modo clie parecchie di quelle i grandi, accartocciandosi, formavano
altrettante sacche che si riempivano con al- tre piccole squamette che vi
cadevano dall'alto. Vuotare ad una ad una le sac- che senza scuoterle, senza
quasi toccarle, mediante una pagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza
adatta, poi fare aderire le sacche e le croste all'intorno, togliendone, con un
certo liquido dal Cavenaghi ideato, la polvere alla superficie, questo
sostanzialmente fu il lavoro paziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi
durò il Cavenaghi, rendendo più tonica la fibra in isfacelo, facendole riac-
quistare un po' di colorito, così che il dipinto non debba peggiorare e possa
vi- vere ancora a lungo, con infiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il
Cavenaghi — sarà sempre un organismo precario, e per le condizioni sue, pieno
come è di cicatrici, e per l'ambiente. Ad ogni modo questo del Cavenaghi è
•stato pel Cenacolo Vinciano il ristauro essenziale, decisivo, nei secoli; e
grandi manifestazioni di gratitudine ed ammirazione sono state tributate
all'assoluto disinterewse, pari all'amore grande per l'arte, spiegati dal
benemerito ristauratore, al quale Caravaggio, sua terra natia, ha consacrato
una targa artistica a memoria del fatto; ed i cultori ed amatori d'arte, auspice
Luca Beltrami, gli hanno conferita il 4 luglio 1909, davanti al capolavoro
vinciano, una bellissima medaglia d'oro. Il prof. Cavenaghi inoltre è stato
chiamato dal Papa, in sostituzione 4el defunto prof. Seitz, all'onorifico
ufficio di direttore delle pinacoteche vaticane. Angelo Conti, Leonardo inttore
89 prendere la vita maravigliosa che il Cenacolo leonardesco chiude nella sua
rovina. Come la rovina d'ogni cosa grande, essa equivale ad una purificazione e
ad una apoteosi. Finche resterà un sol frammento della parete prodigiosa,
finche un sol disegno, una sola stampa, una sola fotografia, custodiranno un
riflesso lontano della sua bellezza, quella creazione del genio sarà per noi
piìi potente che se il tempo e gli uomini l'avessero rispettata in tutte le sue
parti caduche. E un errore credere che il tempo non rispetti i capolavori; e
noi molto spesso parliamo, spinti dall'abitudine, contro l'eterna verità delle
cose. Il tempo, artista maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genio
umano. Dove sembrava che l'opera geniale sì fermasse, egli la continua,
mutilandola: dove appariva ciò che è chiuso e preciso, egli apre una via
infinita all' imaginazione ; dov' era un aspetto freddo e muto della realtà,
egli fa nascere i segni del mistero. Ciò che sembra una distruzione e invece
una rivelazione e una consacrazione. E la natura che riprende l'umana opera
interrotta, che fa apparire la sua forza dove la mano dell'uomo cadde stanca, e
che, dove l'ispirazione di questo si oscurò e si confuse, fa cantare le sue
eterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il tempo soltanto per le sue rovine ;
è necessario esaltarlo anche per tutte le opere d'arte che, in compagnia del
fato e della umana malvagità, ha impedito di compiere al genio umano. Alludo
principalmente alle cosi dette sculture non finite di Michelangelo e ad un
quadro, che è ancora considerato un abbozzo, di Leonardo. Come i capolavori in
rovina appariscono vicini a rientrare Leonardo da Vinci. 12 90 Angelo Conti,
Leonardo pittore nella iiuiversalitìi della vita, i capolavori incompiuti
seml)rano usciti da poco dal seno stesso della natura. L'artista ne segnò
l'imaginc non fra i tormenti del lavoro consapevole, ma come in sogno,
obbedendo ad una volonth oscura che per qualche istante abolì la sua volontà individuale.
Poche tracce di pentimenti in quei primi segni, ma l'espressione d'una beata
obbedienza, come di chi si affidi al mare, e una ricchezza e una esuberanza di
vita uguale a quella di cento uomini felici. * Mi limito a parlarvi del quadro
di Leonardo, oggi nella Galleria degli Uffizi, e che rappresenta l'Adorazione
dei Magi. La prima cosa che ci colpisce è il movimento. Noi sentiamo subito che
il pittore ha voluto rappresentare un avvenimento straordinario, un grande
fatto della natura e della vita. Quasi tutte le figure vanno, strisciano,
accorrono verso la parte centrale della rappresentazione, ove si fermano
prostrate e come atterrate dallo stupore e dalla maraviglia. Fra i gruppi in
movimento, alcune figure stanno diritte e immobili a guardare la scena. Nel
centro una calma assoluta. La Madonna vi appare seduta in una attitudine piena
di grazia materna, e sulle sue ginocchia il bambino si china e protende una
mano per toccare il 'dono che un vecchio genuflesso gli porge. Intorno si
raccoglie e si concentra tutto ciò che nel quadro raggiunge la maggiore
intensità d'espressione e la maggior forza di vita. Questi vecchi che vengono
da lontano, guidati dal mistero, sono una A\GELO Conti, LeonarJo j)ittore 91
fra le più potenti creazioni del genio umano. Tutta la scena, piena della loro
commozione e del loro sbigottimento, sembra irradiare come un vento di tempesta
che, dall'anima dei vecchi, giunga sino ai punti piti lontani del quadro. Ed
ecco che noi vediamo gli effetti dell'onda invisibile. Dietro il gruppo
centrale è un accorrere disordinato di gente : uno ha le mani levate e grida
come per un ignoto pericolo, un cavaliere non riesce a contenere lo spavento
del suo cavallo, altri gruppi di cavalli nel fondo appariscono spinti dalla
furia d'una battaglia; qua e là, sotto archi crollati, uomini che corrono e
s'interrogano ansiosi, altri che salgono discendono a frotte e smarriti per una
gradinata. Si sente che un grande avvenimento si compie, e per tutta l'ampia
scena notturna è diffusa l'atmosfera del miracolo, come in un giorno sereno la
luce del sole sulle campagne. E questa è appunto l'idea che Leonardo ha
espressa nel suo quadro con una potenza e una eloquenza suprema. Mai infatti,
sino a questi ultimi anni del quattrocento, 1481, la pittura aveva rappresentato
il miracolo, mai lo stupore e il terrore di ciò che sembra turbare le leggi
della natura e far presentire agli uomini un rinnovellamento del mondo, erano
stati resi visibili nell'opera d'arte. Leonardo, con questa composizione
sintetica, con questo semplice suo disegno a chiaroscuro, nel quale non un sol
particolare h compiuto, è riuscito a rappresentare il miracolo come non sarebbe
stato possibile con l'opera piìi meditata e più coscienziosamente finita. E la
ragione mi sembra questa. Vi sono idee e sentimenti che le arti plastiche non
possono rappresentare se non con mezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che
co- 92 Angelo Conti, Leonardo pittore miincmcnte si chiama V incomplitto. L'
incompiuto è spesso un mezzo meraviglioso dì espressione per il genio umano; è,
a rovescio, il mezzo stesso che la natura adopera per purificare e per
consacrare nei secoli i capolavori degli uomini. In questi la natura procede
per eliminazione, nell'opera rimasta incompiuta il genio lavora in uno stato di
concentrazione suprema. Li^ Adorazione dei Magi non solo rappresenta un
miracolo ; ma è essa stessa un'opera miracolosa. La notte che vi si addensa è
piena di luce per l'anima umana. Fra tutti i quadri della Galleria degli Uffizi
è il più vivo, il piìi drammatico e il più profondo per significazione.
Continuando per voi la enumerazione delle opere pittoriche vinciane e per
mostrarvi che, come allora mi fu possibile liberarmi dal tempo, posso anche
oggi, e mi piace, spezzare le catene della cronologia, passerò a parlare della
Gioconda. La vidi alcuni anni or sono, e feci, quasi per lei sola, il mio
pellegrinaggio da Firenze a Parigi. Quando entrai nella pinacoteca del Louvre,
la giornata era grigia e le sale quasi in una penombra. Nella sala dei
capolavori gli occhi delle figure dipinte da Tiziano, da Raffaello, da
Yelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda, corsi verso di lei. Entro la
fioca luce indovinai il sorriso e sentii il fascino dello sguardo ; vidi anche
il candore del seno. Ogni altra cosa era indistinta. In una pinacoteca non è
possibile abbandonarsi all'oblio, Angelo Coxti, Leonardo piUore 93 come in una
chiesa o in nn cenacolo. Coloro che entrano a visitare le collezioni dei
dipinti vanno per lo più a fare confronti, ad osservare particolari, a cercare
note caratteristiche, e portano con sé libri e fotografie. Io, qnando mi
dispongo ad andare o a tornare al cospetto d'nn capolavoro, m'affatico a
togliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia dato procedere con passo leggero
e mi trovi dinanzi all'opera geniale, con l'anima semplice e serena. Sono
abituato a contemplare un quadro, come se fosse una costellazione. Nella notte
ir cielo è pieno di silenzio e le stelle splendono armonizzando ciascuna il suo
ritmo alla musica del cielo. Guardando gli occhi di Monna Lisa del Giocondo, li
vidi palpitare in ritmo, in armonia con la musica del suo sorriso. Il quadro
m'era ancora ignoto, e pensavo a Leonardo. Mi pareva vederlo, mentre nel suo
studio fiorentino aspettava l'arrivo della sfinge ridente. Poco dopo ella
entrava e si sedeva accanto alla finestra. In fondo apparivano le colline di
Fiesole, Monte Morello, l'Appennino lontano, e l'Arno serpeggiava scintillando
nel mattino, mentre le torri della città uscivano dalla nebbia al primo sole.
Anch'egli si sedeva, e, presa la lira d'argento che s'era fabbricata con le sue
mani, cominciava a cantare. La bella donna, udendo la laude melodiosa,
sorrideva, mentre l'Arno da lungi diveniva più ricco di scintille. Poi
cominciava a dipingere, e, dopo i primi tocchi una orchestra invisibile di
liuti riprendeva la canzone interrotta. La donna sorrideva in una calma regale
: i suoi istinti di conquista, di ferocia, tutta l'eredità delia specie, la
volontà della seduzione e dell'agguato, la grazia dell'inganno, la bontà che cela
un prò- 9i An'gelo Conti, Leomrdo pittore posito crudele, tutto ciò appariva
alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nel poema del
suo sorriso. Per un momento usci un raggio di sole; ed io die m'ero allontanato
dal prodigio, corsi e lo vidi intero. La donna era viva dinanzi a me, in tutta
la sua vita reale e ideale. Buona e malvagia, crudele e compassionevole,
graziosa e felina, ella rideva, e il suo riso si prolungava nel paese lontano e
nell'anima mia; sino a darle l'oblio die viene dalla presenza delle cose
immortali. Pochi istanti dopo, il sole scomparve e la penombra regnò nuovamente
nella sala. Lì presso un sol quadro ardeva come una lampada e in esso cantava,
non affievolita, la musica del colore. Era la Festa campestre : fra due donne
nude, un suonatore di liuto svegliava alcuni accordi e pareva che la Gioconda
ne sorridesse come quando Leonardo cantava, per rendere piìi intensa la sua
vita e per tradurre col disegno la sua misteriosa bellezza. Questo
ritratto non esprime soltanto ciò che l'occhio vede, ma è il riflesso d'una
creatura amata da uno spirito che per oltre quattro anni si affaticò a
penetrarne a rivelarne la vita. Come dinanzi alla Gioconda, Leonardo si pone
dinanzi ad ogni cosa vivente col medesimo ardore di conoscenza, con la stessa
ansiosa curiosità e lo stesso desiderio invincibile di fissarla con segni
semplici e definitivi. Tutto questo poema della sua anima, questo dramma intimo
che si chiude in una alternativa di tentativi d' espressione e di istanti di tregua
contemplativa, di rapimenti e di lotte con la sorda materia, d' ansietà e
scoramenti e di calma trionfale, è raccontato nei suoi disegni, che sono 1'
imma- Angelo Coxti, Leonardo pittore 95 gine più completa della sua potenza non
solo intuitiva ma creativa. Per lo scultore il disegno è appena un segno, uno
scliema, un presentimento dell'opera futura. Lo chiamiamo disegno, perchè ijon
abbiamo altre parole per significare le notazioni figurative degli scultori ;
ma esso non è se non un appunta ideale, un mezzo per ricordare un sentimento.
Ricordate i disegni di Michelangelo per le sue statue, ricordate gli odierni
disegni di Rodin per i suoi gruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì disegni,
benché esprimano una visione di movimento, non sono pittura e non sono scultura
perchè non illuminano una idea che potrà essere espressa, come chiaroscuro e
come colore sopra una superficie e che sia per apparire come forma nello
spazio. La scultura comincia soltanto col bozzetto in cera, in creta o in
gesso, cioè a dire quando V idea, destinata a manifestarsi come forma nasce a
somiglianza d'una cosa viva fra le altre cose viventi e sorge nello spazio,
nell' aria e nella luce, sottoposta alle leggi del peso e chiusa nelle sue
dimensioni. Per parlare con esattezza, la scultura non ha disegno. Nella
pittura il disegno è tutto, è il primo segno che nota la visione ancora vaga
sopra una superficie, ed è il chiaroscuro e il colore che pili tardi la
renderanno eloquente, che le daranno una voce che parla e che canta, come in una
musica e come in un poema. Per Leonardo, genio universale, il disegno non è
soltanto linguaggio pittorico, ma è il mezzo adeguato d'espressione di tutto
ciò che appare e che passa nel suo pensiero, nella sua memoria, nella sua
imaginazione e nella sua fantasia. Tutti gli aspetti e tutti i momenti della
multiforme ed ine- 96 Angelo Conti, Leonardo pittore saiiribilc attività del
suo spirito trovano la loro espressione negli innumerevoli disegni che egli
traccia in margine e fra le linee dei suoi manoscritti, la precedono e spesso
la superano con la loro potenza di linea intuitiva e divinatoria. Mai come in
Leonardo il disegno ha avuto la virtìi d'esprimere tante cose, dalle più athni
alla pittura alle pili lontane, dalle pili concrete alle più astratte; mai come
in Leonardo e giunto ad una cosi vasta e così intensa forza di analisi e di
concentrazione. I disegni di Leonardo non sono solamente una testimonianza del
suo amore per la natura, non sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V
anima delle cose, ma principalmente sono un mezzo di cui egli si è servito per
conoscere l'universo. Invece di consultare i trattati scientifici ed i sistemi
di filosofìa, Leonardo disegna. I disegni sono i suoi pensieri, le sue
meditazioni, le sue osservazioni, le sue intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo
disegno contiene un segreto svelato, è una verità conquistata, è il segno d' un
nuovo trionfo della indagine umana, è un lembo del mistero dell'universo
sollevato dal genio umano. Dinanzi a ciò che noi chiamiamo il vero e può essere
ugualmente chiamato il mistero, Leonardo ha lo sguardo limpido, sereno, nuovo,
lo sguardo meravigliato del fanciullo, ha quella innocenza del genio, senza la
quale, come afferma Bacone, non si può entrare ne nel regno della verità ne nel
regno dei cieli. La differenza fra l'uomo di genio e l'uomo comune sta p
principalmente in questo: dinanzi ai fatti e agli aspetti della natura e della
vita V uomo comune si abitua e finisce con l'abolire in se il senso della
maraviglia ; le sue impressioni, invece d'avere sempre un carattere loro
proprio, invece d'es- Leonardo da Yisci Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X.
LA GIOCONDA. Angelo Conti, Leonardo j^^itore 97 sere sempre eccitatrici
di sentimenti nuovi, gradatamente si attenuano, si affievoliscono ; finche si
adattano e si sottopongono al modo di sentire individuale, finche si scolorano
e muoiono davanti alla monotonia dei bisogni quotidiani. L'uomo guidato dalle
abitudini è un addormentatore di se stesso, è uno schiavo di ciò che nel suo
spirito è meno degno di comandare. Il genio invece è sempre libero, è sempre
desto, e il sonno dell'abitudine non può far discendere un velo sui suoi grandi
occhi puri. Leonardo è appunto della famiglia di coloro che non conoscono lo
stato di sonno e d'indifferenza, ma che vivendo sempre in una ansiosa curiosità
vedono il continuo apparire delle cose e l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni,
e che sembrano veramente nascere ogni mattina. In questo stato di attesa
dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione è per Leonardo una visione, ogni
analisi è una scoperta. Guarda un ramo con le sue foglie, ne cerca la vita col
suo disegno, e gli appare la legge di filotassi ; canta accompagnandosi con la
sua lira d' argento, e scopre la legge di risonanza delle corde negli accordi.
In ogni fenomeno egli sente e vede una confessione fatta dalla natura al suo
genio divinatore. I suoi disegni sono la traduzione grafica di queste
confessioni fatte alla sua anima dall' anima delle cose. Ciascuno d'essi pili
che studio dal vero è opera d' immaginazione, è figurazione intuitiva,
destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire, dietro ciò che passa,
l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterne verità. Ogni loro
contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogni luce un riflesso
del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci. lii 98 AxGELO
Conti, Leonardo pittore un'eco d'un vivente mistero; e tutta quella sua opera
della penna, del carbone, della matita non è se non un mezzo potente da lui
adoperato per stringere d' assedio la natura e per costringerla a rivelare il
suo segreto. Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie egli trova il
cammino che deve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo manoscritto e in
un suo disegno il movimento dell'acqua veduto simile al movimento d' una
capigliatura, ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto lo aiutino a
comprendere quelli del volo, in quel maraviglioso trattato che ha la virtìi di
metterci in segreta comunicazione con 1' anima e con la forza delle creature
volanti. In questo modo, sempre per mezzo di imagini e di indagini grafiche, di
analogie, di forma e di movimento, osservando e studiando l'aria e l'acqua, il
suono e la luce, e paragonando le loro proprietà essenziali, egli giunge ad
intuire l'unità delle forze fisiche precorrendo Cartesio. E la sua conoscenza,
alla quale appariscono come intuizioni le principali conquiste della scienza
moderna, è figlia della sua imaginazione. Più ancora che nei suoi manoscritti è
espresso nei suoi disegni il cammino fatto dalla sua conoscenza, guidata
dall'amore e resa più profonda dalla sua infantile maraviglia. Chi non ricorda,
fra gli altri innumerevoli, i suoi disegni di foglie e di fiori? Sono questi
fra tutti gli altri, esclusi quelli solo che ritraggono la figura umana, i più
precisi. Pure in questa precisione è l'infinito della vita. A prima giunta
potete pensare o credere che quei segni corrispondano a qualche cosa di
limitato e di esteriore ; poi sentiamo che ciascuno di essi ha la potenza di
continuarsi in noi. La sua precisione non è il segno rigido e freddo fatto da
Angelo Conti, Leonardo pittore S9 una mano abile, ma è la linea sicura del
genio che ha trovato la vita. Però egli non trascura mai un solo particolare,
non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir tutto sino all'ultima parola.
Infatti egli dice tutto ; ma il suo linguaggio è come il mare e come
l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra farsi vasta come 1'
anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere questa potenza
d'espressione? In un modo semplice e grande : imitando la natura. L'imitazione
della natura è il principio che Leonardo proclama in tutti i suoi scritti e
mette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa imitar la natura?
Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come fanno oggi la
maggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di vita. Imitar
la natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità, significa divenire
come la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d' arte nel modo
stesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual fanno le cose.
Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei manoscritti di
Milano, di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno sviluppo e
un'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono connessi
intimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi due parole
dei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero. Voi sapete
che nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè ? Volle forse Leonardo
coltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e contribuire al
loro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo. L'uomo 100 Angelo
Conti, Leonardo inttore non dev'essere " solo un sacco dove si riceva il
cibo e donde esso esca „ , non deve essere soltanto un " transito di cibo
„ e avere della specie umana la sola voce e la figura, e tutto il resto "
essere assai manco che bestia „ . Il vero scopo della vita umana è per Leonardo
il pensiero. Il pensiero, per conoscere il passato e la nostra dimora terrena;
ecco il mezzo per vivere nobilmente liberandoci dalla illusione del piacere. Il
tempo che fece piangere Elena allorché ^ guardandosi nello specchio, vide i
primi segni della vecchiezza, il tempo non può colpire il pensiero. Il
conoscere la sapienza degli antichi e la vivente realtà delle cose presenti,
ecco il decoro e l' alimento degli spiriti umani. Ma perchè un tal desiderio di
conoscere? Questo e per me il punto capitale, il vero nodo della questione. Il
sapere perchè Leonardo ha voluto studiare tante forme ed ha cercato il segreto
di tanti fatti della vita universale, ci farà conoscere la qualità essenziale
del suo genio. Nella sua indagine instancabile d'ogni fenomeno del cielo e
della terra, nel suo ininterrotto colloquio con la natura, Leonardo non è
animato da curiosità puramente scientifica, non da vanità di dottrina, né dalla
naturale tendenza d'un intelletto analitico cui l'esercizio delia osservazione
doni la gioia più intensa. Spirito sostanzialmente intuitivo e sintetico, egli
si sottopone in tutta la sua vita al rigore e spesso al martirio dell' analisi,
per acquistare una conoscenza pili ricca, più vasta e piti profonda. Le sue
innumerevoli osservazioni, i suoi continui esperimenti sono i gradini che
debbono condurlo colà dove, entro una luce inestinguibile, appare l'eternità
della vita. Soffrire la disciplina del ragionamento e dell'esperimento Angelo
Conti, Leonardo piitore 101 per aver in fine, come premio, la visione della
vita, non h forse una divina aspirazione? Più la sua conoscenza, nel quotidiano
osservare e meditare, gli svelava nuove leggi e nuovi segreti, più cresceva in
lui l'amore per tutta la natura ; ne vi fu mai al mondo, dopo l' umile frate
d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e più ardente. Chi più conosce
'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore generato dalla conoscenza è tutto
il segreto dell'opera di Leonardo, dai manoscritti e disegni alle pitture. Il
suo realismo è un mezzo per giungere all'idea, è il modo ch'egli adopera per
ricomporre ciò che prima ha scomposto, in maniera che la natura stessa sembri
formarsi dinanzi a noi e farci assistere alla sua stessa creazione. Chi conosca
i manoscritti di AYindsor, nei quali i disegni hanno un'importanza assai
maggiore del testo, può convincersi agevolmente di questa verità e può anche
comprendere (cosa che in questo momento deve particolarmente interessarci) che
quando Leonardo parla di anatomia o di fisiologia, come nei così detti trattati
che si vanno ora pubblicando, egli non è mai un anatomico vero e proprio, ne un
vero fisiologo, ma è sempre prima d' ogni altra cosa e sopra ogni altra cosa
pittore. Tutta la sua opera di scienza, tutti i suoi disegni d'anatomia,
d'embriologia, di botanica, non ser- vono se non a rendere più vasta, più
profonda e più ricca la sua visione pittorica dell'uomo e della natura. La
scienza non è se non un mezzo d'espressione della sua visione del mondo, ed
egli se ne giova per dare un carattere di precisa realtà agli ardimenti del suo
sogno. Scopo del suo immenso lavoro e di giungere a creare ima- 102 Angelo
Conti, Leonardo pittore g'ini clic sembrino nate con le stesse leggi con le
quali la natura produce le sue forme : qual fanno le cose. E doloroso che nella
sua vasta opera essenzialmente pittorica, nella quale " non fu impedito „
, come egli dice, " da avarizia o da negligenza, ma solo dal tempo „ ,
manchi irreparabilmente una fra le pagine piti vive e più grandi: La Battaglia
d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa Maria Novella, a pochi passi
dal luogo nel quale egli disegnò r opera maravigliosa. Le campane che suonano
nel campanile roseo al primo sole del mattino, sembrano diffondere sul mio
ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi il lavoro fu compiuto, e
immediatamente cominciata la pittura a fresco per la sala del Consiglio in
Palazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506. Poi l'opera fu da lui
abbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora nella sala del Papa,
mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da Michelangelo era nel
Palazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti all'ammirazione del mondo. Da queir
anno manca ogni notizia. Della pittura incominciata in Palazzo Vecchio si sa
soltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma cadente a causa della cattiva
preparazione dell'intonaco e dei colori. Cito, contro il mio solito, dati di
fatto e date, perchè l' opera pur troppo manca. Se l'opera esistesse, il suo
linguaggio renderebbe insostenibile la voce della cronologia ; ma poiché è
perduta, ci è necessario contentarci delle parole di chiunque ce ne parli. I
due tre ricordi pittorici rapidi e sommari dell' episodio centrale della
battaglia, non bastano a dare un'idea di ciò che fece Leonardo. Angelo Conti,
Leonardo irittore 103- Chi sa in qual modo maraviglioso e straordinario egli
avrà rappresentato la mischia, la furia guerresca intorno allo stendardo, che
sappiamo fosse nel centro, qnal prodigio di scorci, quale evidenza di
movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e quale perfezione di cavalli, dei quali
egli conosceva la vita come nessuno dei suoi tempi ! Di tutto ciò nulla e
rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ogni traccia dell'opera scomparve, la
natura, per compensare il mondo, dovè creare una primavera favolosa, non veduta
mai. Poiché nel mondo nulla si perde, e quando una bellezza è distrutta, sia
essa una selva che arda, un' isola che si sommerga, un capolavoro che cada in
rovina, la natura provvida fa nascere nuovi germogli, suscita nuove bellezze e
nuove energie, e la sua forza di creazione rimane intatta in virtii della sua
maggiore attività : il mutamento. Doctor Mysticus. Angelo Conti.
Keywords: decadente, decadenza, divina decadenza, filosofia decadente, filosofo
decadente, decadentismo, divinely decadent – d’annunzio, museo d’annunziano, il
bello e il bizzarro, il bello bizzarro, estetica, sensatio, senso, sensum,
sentior, sentitum, perceived, perceptum – sense and sensibilia, estetico/noetico
(nihil est in intellectu qui prior non fuerit in sensu), propieta estetica,
proprieta di secondo grado, secondary quality, Grice, Sibley, Scruton, Platone,
Kant, Schopenhauer, Ruskin, Pater, Antichita, antico e moderno, il fascino
dell’antico, from the antique, from life, Uffizi, Accademia Venezia,
RegieAccademiadiVenezia, Capodemonti, Napoli, Antichita Roma, il fiume
d’Eraclito, Ulisse e il canto delle sirene, Morelli, Francesco, Virgilio,
dolcissimo padre, ascetismo, ascecis, zorzi, riva beata, Pater, Essay on Style
by Pater, Da Vinci, Morelli. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The
Swimming-Pool Library.
Conti (Padova). Filosofo. Grice: “Conti is a good one; for
one he is a ‘patrizio veneziano,’ for another he like Alexander Pope and
detests Newton! (Italian temper there!) – My favourite are his “Dialoghi
filosofici,’ full of implicata as they are!” Patrizio veneto, classicista, famoso
per essere stato arbitro nella controversia tra Leibniz e Newton, circa
l'invenzione del calcolo infinitesimale (keyword: infinito). Si lege in amicizia
con Fay, noto per gli esperimenti fisici
che conduce all'Accademia delle Scienze. Di lui esiste una statua in Prato
della Valle, fatta da Chiereghin. Scrive saggi riguardanti la struttura della
tragedia, e nel “Trattato del fantasma poetico” discute la funzione del coro:
monologo, dia-logo, coro (terza persona?). Tra le sue tragedie, la più
significativa fu il “Giulio Cesare”. Ne scrive altre tre, tutte di soggetto
romano: “Marco Bruto”, “Giunio Bruto”, e “Druso”. Altre opere: “Opere” (Venezia,
presso Giambatista Pasquali); “Versioni poetiche” (Bari, Laterza). Dizionario
biografico degli italiani. Della nascita del Conti sono r’ſuoi veri pu dj.
Principio de’ suoi studi scritto da lui stero. Disputa col Nigrisoli e altre
particolarità de’ suoi studi sono al primo viaggio di Francia. Primo viaggio in
Francia. Primo viaggio in Inghilterra e prime conversazioni col Newtono.
Mediazione tra il Newtono e il Leibnizio Studi e altre occupazioni di Conti a
Londra. Suoi sudj di belle lettere. Viaggio d'Ollanda e d'Allemagna. Nuova
dimora in Inghilterra. Ritorno in Francia nel 1718. e ſuoi pudi. Amicizie. e
converſazioni in queſti anni in Francia. Querela col Newtono. Suo ritorno in
Italia. Edizione del Cesare. Studi e commerzi. Edizione delle ſue Prose e
Poesie. Sue Tragedie. Illustrazione del Parmenide di Velia di Platone; fima e
onori di Conti. Traduzioni. Altri suoi fudi. Progetti di nuove opere. Ultimi
ſtudi. Edizione del Druso ; ſua morte. Rifleli Jul carattere di Conti , e
notizie particolari della ſua vita private. Relazione de’ Manoscritti lasciati
da Conti. Dell' Imitazione. Del Fantasma Poetico. La Poesia Greca. Allegoria
dell'Eneide di Virgilio. Illuſtrazione dello Scudo di Enea. Illustrazione del
Poema di Catullo intitolato le Nozze di Teride e di Peleo. Dissertazione sopra
la Tebaide di Stazio. Discorso ſopra la Italiana Poesia. Illustrazione del
Dialogo di Fracastoro intitolato il Na. wagero, o fia della Poesia.
Disertazione sopra la Ragion Poetica del Gravina. Della Potenza conoscitiva
dell'Anima. Della Fantasia. Poesie Tradotte dall' Inglese. Al Sig. Marcheſe
Manfredo Repeta sopra il Poema del Riccio Rapito. Il Riccio Rapito. Prose
Franceſe Italiane a Monſieur Perel. Dialogue ſur la Nature de l' Amour. Lettre
à Madame la Preſidente Ferrant. Lettera al Sig. Cavalier Vallisnieri. Al sig.
Marcheſe Maffei. Al N. U. Sig. Benedetto Marcello. Al P. D. Bernardo Piſenti C.
R. Somaſco.A Monſignor Cerarti. L’allegoria dell’Eneide
di Virgilio propone una cosa per farne intender un'altra , che ſeco è in
proporzione , se l’ “Eneide” per consenso di tutti i più abili commentatori é
un panegirico *allegorico* d'Augusto, convien necessariamente che la cosa
proposta sieno l’azione d’Enea (l’explicatura), e la cosa che deve intendersi
ed è loro proporzionata, l’azione d'Augusto (implicatura) più memorabile e più
degna di lode. Per çiò con una ſuccinca narrazione pone prima sotto gli occhi
l’azione d'Enea, che e il primo termine (l’explicatura) su cui l’allegoria o
metafora o implicatura (& fonda, o come l'originale del ritratto; indi fa
il confronto dell’azione di Augusto . Nell'istoria d'Enea, basta quloſſervare
l’oggetto dell’epica, e il carattere stoico dell'eroe. L'oggetto tutto tende
alla nuova colonia di Roma o al Principato ch'Enea (via Ascanio e Romolo e
Remo) ha da fondare nel Lazio e Italia. Questo gli predisse Creusa, Febo, i
Penati; questo le Arpie, Eleno e la Sibilla; e perchè fi compisca l’oracolo della
predeterminazione e del fatalismo stoico, Enea li salva dagl in incendi e dalla
strage di Troja. Ettore lo dichiara Pontefice. I compagni lo eleggono Re.
Avvisato o protetto schiva i tradimenti , gli scogli, i ciclopi; non è sommerso
nelle tempeste, non trattenuto dall’africana Didone più pericolosa delle stesse
tempeste. Finalmente arrivato in nel Lazio trova il re latino dispoſto a
riceverlo per genero, Evandro e i toscani pronti a dargli soccorso; sebben
abbia a fronte Torno, un nimico feroce e collegato coi vicini, lo vince e
l'uccide. Gli oracoli fatalisti predeterminati stoichi dunque, i viaggi, e le
guerre d’Enea non riguardano se non lo stabilimento d'un regno o principato. Il
carattere poi d’Enea o dell'eroe si vede in tutta l'Eneide composto della
*virtù* stoica convenevoli al capo e fondatore d'un regno. La virtu e pietà
verso l’uomo e verso Diuspater, senno nel provvedere a’pericoli e prevederli,
valore da soldato e da capitano. La pietà (o compasione) verso l’uomo e la carità
– l’imperativo della carita conversazionale, verso Diuspater religione. Della
carita o benevelonza o compasione, o compieta verso l’uomo Enea dà esempi
illustri per tutto. Salva il padre Anchise dalle fiamme portandolo sulle spalle
dirige sempre il viaggio secondo i di lui consigli, celebra il suo anniversario
co'giochi conſiderati da’ pagani come una parte della eeligione, e per
ubbidirlo discende fino all’inferno! Quanto è tenero per il figliuolo Ascanio,
e sollecito e della salute e de gli avanzamenti di lui! E quando Creusa sua
moglie si smarrisce, non va egli a ricercarla tra gl'incendi e le stragi? Che
dirò della sua pietà, carita, compassione, compieta, benevolenza, verso il suo
compagno (o d’Eurialo verso Niso), verso l’amico, e verso Torno, il nemico
stesso? Nella tempesta più s’affligge della loro perdita che della propria, gli
consola e gl’incoraggisce negli affanni, li provvede di cibo, li divertisce e
premia co’giochi, fa l’esequie a Polidoro suo parente, a Miseno suo
trombettiere, a Gaeta sua nutrice; piange la morte di Palinuro e più quella di
Pallante (Patroclo), e ne manda il cadavere ad Evandro con magnificenza e con
lutto degno di un re. Avendo ferito a morte Lauro che l’assalì, gli itende la
destra, lo solleva, e lascia che a Mesenzio se ne porsi il corpo. Vuol
perdonare a Turno, e non l’uccide *che* per vendicar suo amante Pallante; ciò
ch'era un atto di carita. Verso Diuspater sempre fervida e pronta è la sua
pietà. Come stoico perfetto e negatore del libre arbitrio, nulla intraprende
senza consultare l’oracolo, e non comincia alcun’azione senza offrir un voto,
una preghiera e sacri fizj, ch’egli offre egualmente al Diuspater propizio, che
alle Diuspater nonpropizio o Giunone e Pallade. Per ubbidir Diuspater supera la
passione che la strega Didone invoca, cede rispettoso alla sua collera
nell'incendio di Troia; conosce Apollo per principal protettore; ascolta
attento i cantici d'Ercole , e invoca Berecintia che l'allista nella nuova
guerra. Alla sua pietà corrisponde il suo senno. Tosto ch'entra in un paese
vuol conoscere i liti, i luoghi, e la gente che l'azbita; così fa in Affrica, e
nel regno d'Evandro, e scoperto l'assaſlinio di Polinestore fugge il pericolo
di cadervi: fa metter in aguato i soldati per lorprender l'Arpie; egli steſſo
dirige la nave che manca di piloto; manda ambasciatori al re del Lazio; cerca
soccorso nella guerra; ricevuto lo distribuisce in due corpi per più
imbarazzare il nemico ciò ch'è una parte della virtu o prudenza militare, non
meno che assediar la città mentre il nemico è sospeso. Questo o quello segno (manifestazione
secondo Vitters) del valore poi non dà nell'attaccare i nimici, nel farne
stragi di sua mano? uccide i più forti e tra gli altri Lauso, Mesenzio, lo
stesso Turno. Più comparisce il valore d'Enea, se col P. Boſsù fi confronti con
quello di Turno, antagonista, avversario, dell’epica, ardente, milantatore,
prepotente e buono sol per la guerra che vuole giusta od ingiusta, ed in questa
è incauto e senza direzione. Enea all'opposto grave – la gravita romana --, misurato
e non peccatore o essecivo, parla poco, laconico, opera molto, sempre consigliato
e forte colla gloria del consiglio e dell'esecuzione. Di questo o quello segno
della virtu -- pietà, senno, e valore, c’e un intreccio mirabile, sicche
comparisce Enea saggio e paziente capitano come Agamennone, valoroo vincitor
del nimico come Achille, destro a maneggiar lo spirito ed a condur una
negoziazione o consenso cooperative conversazionale come Nestore e Ulise:
giugne a questa virtù una pietà sincera, una probità esatta che mai non ſi
ſmente , una compassion tenera per il suo amico e il suo suddito. Enea è buon
figlio, buon padre, buon amico, buon amante, e tutto ciò per motivi superiori
di dovere e di ragione morale kantiana alla luce del stoicismo fatalism del
predeterminismo. Sopra tutto pero domina la specie della virtù più convenevole
d’ogni altra specie al fondatore della dinastia di Romolo, perchè per essa si
merita la protezione di Deuspater, si rende l’amico o il popolo che deve
ubbidire, l’alleato, ed il vicino con cui si deve patteggiare e con-federarsi
in cooperazione conversazionale verso un fine comune. Vi sarebbero il carattere
degli altri personaggi e dei dell'epica, ma essendo scritti di mano dell’autore
sono come non scritti. Anche la seconda parte che riguarda le azione del primo
imperatore romano, Ottavio detto l’augusto è molto imperfetta; eccone qualche
confronto. Nella rovina di Troja li ravvisano la rovina della Roma repubblicana
di Cesare ed Catone. Da questa rovina, Ottavio, come Enea era stato preservato
dalla provvità, 1 videnza del fato, come dice Orazio nel Carmie Secolare. Enea
porta in ispalla suo padre Anchiee; Ottavio prende la vendetta del suo padre addotivo
Cesare. Enea e in Troja maricato a Creusa da cui ha Julo; Ottavio e maricato a
Scribonia da cui ha Giulia. Ma Creusa per ordine de’ Fati è colia ad Enea, come
Scribonia ad Ottavio; e nel dir che ad Enea si apparecchia moglie, da cui
doveano discendere tanci Re, adula cacitamente Livia. Didone che s’oppone al
disegno (de-segno – plannificazione) d’Enea magnifica e vana dell'impero ha del
carattere superbo, impecuo lo, ed astuto di questa altra Africana, Cleopatra,
che impiegò cutre l'arti femmini li per impegnar Ottavio. Ma v'è un tratto
finissimo di lode nella comparazione che poteano i romani fare d’Enea e
ďOttavio, perchè laddove Enea cesse alle lusinghe di Didone, e dopo averla
posseduta l’abbandona scorteſemente in preda alla disperazione, biasmo da cui
poco lo scusanu gli ordini degli Dei; quanto più dovea stimarli Ottavio che mai
non si lasciò vincere dalle tante arti di Cleopatra? In Evandro, che accoglie
Enea, si puo ravvisar Cicerone, che col suo credito e colla sua eloquenza reſe
tanti servigj a Ottavio. L’epica, però per non rimproverargli la disgrazia di
Cicerone, fa che non Evandro ma il figliuolo di lui resti ucciso da Turno, nel
quale *senza dubbio* vien “simboleggiato” Marc’Antonio, valoroso bensì, ma
imprudente, e che le in molte cose mostra fortezza d’animo chiaro ed
eccellente, in molte altre, come Turno, li governa malissimo, e da quello o
questo segno non meno di magnanimità che di pulsanimità. Nulla dimostra più la
finezza cortigianesca di Orazio e di Virgilio come il loro non nominar mai
Cicerone. S'astennero dal risvegliar in Ottavio un'idea che gli dava de’ rimorsi.
All'incontro nominarono Giunio Bruto e Catone, per mostrare che Ottavio non ha
usurpata la libertà, ma che anzi ne era il protettore, l’imperatore, come negli
ultimi tempi lo volea Cromuvelo (Lord Protector) in Inghilterra. Antonio stesso
molto si risparmia, esi può osservare in Orazio che mai non si parla d’Antonio
senza congiungerlo a l’africana Cleopatra per far cadere in lei l’odio e la
colpa; e cosi fa Virgilio fagacemente nella battaglia d’Azio , quando parla
d’Antonio palesemente, e quando ne parla per allegoria, supprime quell vizio
che avrebbero dispiaciuto ai suoi partigiani ch’erano molti, ed a’figliuoli
elevati da Ottavio a sommi onori. Queſta è pur la ragione prammatica, per la
qual Virgilio non dipinta le guerre che fece Ottavio con Bruto, Callio e cogli
altri, che per modo di peregrinazioni, onde non offender quei ch’erano ancora
del partito di questi ultimi difensori della pubblica libertà. Il re del Lazio,
Latino, che ammonito dall’oracolo vuol dar la figliuola più ad Enea, che a
Turno, è il vero ritratto del senato romano, che vecchio (senior, senatore) ed
impotente non potendo più regolar la repubblica, benchè per ispirazione divina
egl’inchini più a lasciarsi governare d’Ottavio che da Marc’Antonio, atterrito
nondimeno dagli apparecchi di guerra, lascia disputar la vittoria a’ due rivali,
come appunto il re Latino fuggendo lascia terminar la guerra a Turno ed Enea.
In Mesenzio ed in Lauso si veggono Cassio e Giunio Bruto, e l'empietà data a
Mezenzio e la virtù data a Lauso lo persuadono. Muore Laulo ed Enea lo
compiagne, come Ottavio compianse Bruto, al dir di Plutarco. Quando Lauro
combatceva, era Mesenzio con la persona appresso di un tronco per posarvi
appoggiato, e gli stava intorno un cerchio de’ più eletti e de’ più fidi; e
quando vide Lauso ucciso, comincia a disperarsi, e a lagnarsi, e andar incontro
alla morte. Queſta deſcrizione concorda molto con quella che fa Plutarco di
Cassio, allora che ritirato sul colle stava rimirando l’esercito di Bruto, e
credendo ch’egli fosse rotto, disperato si confiſſe nel le reni la spade. Non
occorre cercare rassomiglianza perfetta tra questo o quello accidente vero e
questo o quello accidente finto. Baſta che uno si ravvif nell'altro. I ritratti
della Poesia, e particolarmente epica, sono “simili” a quelli che i gran
pittori introducono ne’ quadri istoriati; negli Dei, negli eroi , ne’ capitani
ritengono le fattezze del volto de viventi che vogliono onorare ma variano le
attitudini, o le velti per variare le imagini, e produr nello spettatore maggior
maraviglia ed affetti più vivi. Con questa regola si pollono ritrovare molti
altri confronti nelle cose dell'Eneide colla vita d’Ottavio. Nè par probabile
che tanta corriſpondenza sia effetto del caso , attesa spezialmente la sagacità
del poeta , e l'idea generale dell'opera. Parte di questa corriſpondenza fa
vedere nello scudo d' Enea la seguente illuſtrazione, che si dà intera.
. g. v. 176 D. V.. ILLUSTRAZIONE DELLO SCUDO DI ENE A. . Ome
nell'Iliade d'Omero Teti porge ad Achille unoScu do fabbricato da Vulcano così
nell'Eneide di Virgilio Venere porge ad Enea uno Scudo fabbricato dallo ſteſſo
Dio . Quì non s'intraprende d'illuſtrare ſe non ciò che appartie. ne allo Scudo
d'Enea , oſſervando prima generalmente , qual ne foſſe la materia , la faldezza
, la figura , l'intreccio e i colori , ed indi particolarmente l' ordine e' i
fiti delle coſe ſcolpite, le loro ſtorie , cd allegorie . I'Ciclopi impiegarono
nell'armatura d'Enea il rame, l'ac ciajo , l'oro , e l'argento , ma fecero che
ivi abbondante più dell'uno o dell'altro metallo ove era biſogno di maggior die
feſa , o di più raro ornamento . L'Elmo che dovea abbagliando minacciare i
nimici , riſplen dea per la terſezza dell'acciajo , non altrimenti che ſe fiam
. me ſpargeſſe . La Lorica era ſcabra per i rilievi del rame e del bronzo , che
quanto più maſſicci'ſi fingono , ed incurva ii , tanto più le faette e le ſpade
ſpuntavano . Ben è vero che per la miſtura degli altri metalli , i colori della
Lorica ſi mi ſchiavano con quei del bronzo e dell'oro , ond'ella riſplende va
come un Iride in faccia al Sole . Nell'aſta e nelle ſchinie re abbondava
particolarmente l'elettro che è un compofto d ' oro e ' una quinta parte
d'argento , ma purgato più volte da'Ciclopi ; l'oro nel foco avea ſvaporato
l'argento, onde la compoſizione riuſciva più prezioſa , più denſa , ed impene.
trabile . Nello Scudov'erano tutti e quattro i metalli tra loro op portunamente
fuſi e temperati . I Ciclopi ne aveano appiana ta la maſſa in ſette piaſtre
rotonde , che a guiſa dei ſette cuoi attorti dello Scudo d' Ajace implicarono
l'une nell'altre , perchè lo Scudo refifteffe a tutte l'armi de' Latini .
Miſterioſo era il numero di ſetre appreſſo gli Antichi per la relazione ch'egli
avea al numero de Pianeti. Forſe credea no , che gli aſpetti di cucci e ſette
influendo nella fabbrica d' uno Scudo gli deffero una tempra immortale . La
figura dello Scudo d'Enea era ovale , nè a cid forſe an cora mancava il ſuo
miſtero . Gli Scudi ancili chc fi fingea. no 177 no caduti dal Cielo a tempi di
Numa , aveano la ſteſſa figura , Or lo Scudo d' Enea non era men celeſte di loro
; ed Enea , che doveva portarlo , non ſi fuppone men pio di Numa. I Ciclopi nel
fabbricar lo Scudo avendo poſta in opera per comando di Vulcano tutta la loro
arte maeſtra , collocarono , intrecciarono , limetrizzarono , e colorirono le
figure ſcolpite in maniera , che lo Scudo emulava la reflicura di un arazzo .
Nè queſta a mio credere è un'Iperbole poetica , ma un'imi tazione di quell'idee
che Virgilio, avea vedute ne'baſi rilievi di Roma , ove ſoggiornava, ed in
quelli delle Città della Gre cia , ove per profittarlı dello ſtudio delle
bell'arti avea viag giato . A Roma nelle Biblioteche e ne' Tempj ſtavano appeli
certi Scudi tutti ſtoriati , e tra gli altri Plinio racconta , che nel Tempio
di Bellona Appio Claudio confacrò uno Scudo , ove in picciole figure era
rappreſentata tutta la Genealogia dell'antica famiglia de' Claud) . Nel
conveſſo dello Scudo di Minerva avea Fidia ſcolpita la battaglia delle Amazoni
, e nel concavo la guerra degli Dei e de'Giganti . Offerva Plinio , che Fidia ,
volendo moſtrar l'arte nelle minimeparti , avea elpela ſo ne' Sandali della Dea
la battaglia de' Lapiti e de'Centauri , e nella baſe della ſtatua la naſcita di
Pandora con quella di trenia Dei. Ne'baſſi rilievi delle lamine che cingevano
la ſe dia della fatura di Giove Olimpico , lo ſteſſo Fidia in oro ſcol pito
avea , da una parte il sole che conduceva il cocchio , e dall'altra Giove e
Giunone ; a lato di Giove v'era una delle Grazie , indi Mercurio e Veſta.,
Venere pareva, uſcir dal ma re , l'Amore l'accoglieva , e la Dea Pito la
coronava . Nello ſteſſo baſſo rilievo li vedeva Apollo e Diana , Minerva ed Er;
cole , e nel piedeſtallo da un canto Anfitrite e Nettuno , e dall'altro la
Luna, che galoppaya ſopra un cavallo . Qual mol ticudine , qual varietà ed
intreccio di figure in poco ſpazio ? Or è molto verifimile , che come lo Scudo
d'Achille diede a Virgilio la prima idea dello Scudo d'Enea , così į baſli
rilie vi da lui yeduti a Roma in Atene e in Olimpia gl'inſegnal ſero a
perfezionarlo . Nella deſcrizione delle figure ben fi ſcor ge che l'artifizio
dell'imitazione, non deriva dagli alerui fan tasmi , ma da
un'acurata oſſervazione del ſenſo , che regold la fantaſia del Poeta fino
· lo ſpingo oltre la conghiettura , e pretendo che alle figu. se veduce da
Virgilio ſcolpite o nell’avorio , o nell'oro , od in altro metallo negli vi
applicalle la forza e la leggiadrią Tomo II. 2 de' 3 178 ra 1 1 de colori da
lui veduti nelle pitcure encauſtiche : Plioio ne annovera di tre fpezie , e non
ſaprei fuggerirne una miglior idea che raſſomigliandole alle picture che
vediamo, non dirò fulle porcellane di troppo fragil materia a confronto del me
tallo , ma su fmali di più dura tempra , e su vaſi e ſulle cop pe antiche , ove
la varietà del colore riſultò dal vario grado del foco , che lor fu dato nel
fondere e nel tingere il metal lo. Difficile è proporzionare il grado del foco
ad ogni colo re , ma difficiliſſimo ove i colori lieno per conſiſtenza e viva
cità differenti , e ſi debba nello ſteſſo tempo abbrugiandoli laſciarli ſecondo
il biſogno o floridi , od auſteri , ed a tutti imprimere quello fplendore che
ſecondo Plinio non è lo ſtef To che il lume , ma di'mezzo tra il lume e l'ombra
, ed è propriamente l'intenſione d'ogni colore nella ſua ſpezie. Il Sig. Abate
Fraguier , la cui memoria mi ſarà ſempre ca. offerva , che nello Scudo
d'Achille la terra fenduta in folco dall'aratro cangia in nero il color d'oro ,
che i grappo li d'uva ſono neri e la vigna d'oro , che le giovenche ſono
rappreſentate al vivo col bianco e col giallo , cioè collo lta gno e con l'oro
, e che veriſſimo è il langue trangugiato da due Leoni che lacerarono il bue.
Da ciò inferiſce che l'arte encauſtica fioriva a'tempi d'Omero ; ma quando
anche i Cro nologi che non convengono dell'età d'Omero glielo conce deffero , molto
più debbono elli concedere , che nel tempo d' Omero quell'arte era molto
imperfetta a paragone dell'eccel lenza a cui la portarono i Greci nel secolo
d'Aleſſandro , e ne’ſuſſeguenti . Le picture de' più celebri artefici
encauſtici e rano ſtate portate dalla Grecia a Roma da' Capitani Romani , é
poſcia conſecrate ne! Tempi. Virgilio che avea ſotto gli oc chj de'modelli così
perfecti , gli ha verifimilmente adombra ti ne ' colori del ſuo Scudo yine
queſta ſpezie d'imitazione pud negarſi ad ua Poeta sì doito , e d'on guſto così
eſquiſito in ogni genere d'arte • Per reftarne convinti bafta riflettere alla
varietà ed armonia de? colori delle figure deſcritte j ai sfuma menti, 0 , come
parla Plinio , alle commiſſure de culoriftel fi, ai fecreti più mirabili della
perſpectiva introdotti negli ac» tidenti delle imagini, e finalmente
all'efpreffione degli affec ti de coſtumidegli Uomini rappreſentation La
varietà e larmonia de'colori appariſce nell'Oca d'ar gento che vola ne' portici
d'oro , ne' flutti biancheggianti per lai fpuma ini un mare cerulco Larrei ſono
i colli de'Galli , men. 1 1 179 mentre le loro chiome fon d'oro , e vergate
d'oro le veſti ; il langue di Mezio è vermiglio e gocciola dalle ſpine che lo
no verdi . Per gli sfumiamenti de colori , ed inſieme per l'eſpreſſione degli
affetti e de' coſtumi , diverſi nell' arni e nelle veſti fo no i colori de'
Barbari condotti in trionfo ; il limitar del Tem. pio d'Apollo è bianco come la
neve , ma più bianco è lo ſteſſo Dio ; Cleopatra è pallida per la morte futura
; il Nilo al ſembiante ed al geſto moſtra la doglia che lo crucia e l'
impazienza di ſalvare i fuggitivi ſuoi figli. Che dirò della forza della
perſpectiva ? Parrafio dipinle , al dir di Plinio , il Demone degli Atenieſi
vario , iracondo , in giuſto , incoſtante .. Virgilio rappreſenta Porſenna che
nello Iteſſo tempo comanda , li ſdegna , e minaccia . Nel Portico a . vanti la
Curia di Pompeo era dipinto , ſecondo lo ſteſſo Plinio , un Soldato che non ſi
fapea ſe con lo Scudo aſcendeſſe o di Icenderſe . Virgilio fa che i bambini
attaccati alle poppe del. la Lupa fieno da queſta alternaniente accarezzati ;
ciò che il Tallo imirò nelle figure delle porte d'Armida ove Marcanto nio nel
ſeguir Cleopatra che fugge , Mirava alternamente or la crudele Pugna ch'è in
dubbio , or le fuggenti vele . Ma paſſando a coſe più particolari , io per far
meglio in tender l'ordine , l'intreccio , ed i fici delle figure , divido in
quattro parii lo Scudo . La prima contiene la diſcendenza d ' Enca fino alla
Lupa incluſivamente . La copula o , cioè an cora dimoſtra che tutto era nello
ſtello baſſo rilievo . La ſeconda parte contiene molte coſe memorabili fotto i
Re e ſotto la Repubblica . La terza la battaglia d' Azio . La quarta i tre
Trionfi d'Auguſto . Queſte parti, ſi fanno ſenſibili dividendo l'ovale in
quattro altre ovali concentriche che io ſegnerò co'numeri 1. 2. 3. 4. Nello
1pazio ſegnato i . ch' è come l'orlo dello Scudo io pongo le figure che
rappreſentano i diſcendenti d'Enea anno verati da Virgilio nel primo libro e nel
ſeſto : queſti ſono A Scanio , Silvio padre di molci Re , Proca , Capi , Silvio
, Enea, i due giovani coronati di quercia , Numitore , e la Lupa che allatra i
due bambini . De quindici Re d'Alba , di cui parla 2 2 Dio 186 Dionigi
d’Alicarnaſſo e Tito Livio , Virgilio non nomina che queſti , perchè, come egli
accenna , furono fondatori di colo . nie , avendo edificato Nomento , Gabia ,
Fidene , Collazia full? állo d'una montagna , ed il caſtello d'Inuo o di Pane .
Fon darono ancora Bola e Cora , e queſte ed altre nominate Cit rà eſſendo nel
Paeſe de' Sabini e de' Volſci , avranno dato oc caſione alle guerre e battaglie
nello Scudo eſpreſſe. Nel baf ſo rilievo d'Alcanio dev'egli rappreſentarſi a
guiſa d’un Ca. pirano o d'un Re che comanda di fabbricare una Città qual era
Alba lunga . Altri prendono gli ordini , ed altri gli eſegui ſcono, ed i
Soldati ſtanno riguardando l'opra . La pittura d ' Aſcanio è ſulla cima dello
Scudo ; nella parte oppofta , o nel ballo v'è la Lupa che allatta i bambini, e
biſogna rappre ſentaría qual è in molte medaglie . Ne' lati dell'orlo dello
Scudo toſto ſi vede un bambino in mano d'un paſtore ch' eſce da una ſelva ; lo
ſiegue in Re circondato da molti bam bini coronati , indi un Ře che guida un
eſercito , un altro che eſpugna una Città , un altro che è in mezzo a Sacerdo
ti e a Veltali , molti giovani Re cinti il capo di quercia che combattono e
fondano colonie , o su monti , o nelle pianu. se . Nè Tito Livio , nè Dionigi
d'Alicarnaſſo parlano in par ticolare di queſte battaglie , onde ſi poſſono
ſcolpire a fanta ſia , ma devono eſſer ſcolpice in medaglie appeſe a rami od
alle foglie d'un albero genealogico che ſerpeggi nell'orlo. Nello ſpazio
ſegnato 2. io pongo da una parte due baſſi ri lievi di forma ellittica , ma
incaſtrati di varj fogliami che riempiono i vuoti . Elli rappreſentano il ratto
delle Sabine , e la pace cra Romolo e Tazio . Pongo dall'altra parte altri
rilievi della ſteſſa forma che rappreſentano Mezio ſquarciato da ' cavalli , e
Porſenna che afledia Roma . Nel ſommo dell'ovale ſi vede nelle figure più
rilevate il Campidoglio affalito da’Galli , e difeſo daManlio ; e nelle più
lontane i Salj e le Matrone che eſulcano ; nella parte oppo. fta che è la più
baſſa dello Scudo v'è il Tartaro con Catili na affiffo allo ſcoglio , e ſopra
il ſotterraneo ( chiamato da Vir gilio la bocca profonda di Dite ) verdeggiano
gli Elisj , ove Catone dà la legge all'anime pie . Le figure di queſto ſpazio
ſono maggiori di quelle dell' orlo perchè le parti più vici ne al centro dello
Scudo ove fi fogliono diriger i colpi, devo no eſſer più maſſiccie per più
reliftere . Lo ſpazio è percid maggiore Nel i 81 5 Nello ſpazio ſegnato 3. v'è
la battaglia d' Azio . Apollo ſaettante è ſul Promontorio , ove Auguſto
gl’inalzò un Tem pio . Le navi d'Auguſto ſono alla deſtra ſchierate in arco ;
nel deftro corno v'è Augufto colla ftella in fronte e co' Pe. nati in mano ,
nel finiftro Agrippa cinto le tempia della co rona roftrata . Dirimpetto vi
fono le Navi torreggianti d'An tonio . Secondo Plutarco , Antonio con Publicola
reggeva il corno deſtro , e Clelio il ſiniſtro . Cleopatra è nel mezzo in atto
di percuotere il fiftro , ſtromento dedicato ad Ilide che Cleopatra voleva
emulare in curto . Tra i due ſemicerchi del. le navi ve ne ſono alcune
diſtaccate che tra loro combatto no . Soggiunge Plutarco , che Ceſare non
ſolamente non or dina ferir le prode dure e ferrate d'Antonio , ma nè anco
inveſtirle per fianco , perciò che gli ſproni facilmente ſi ve nivano a romper
urtando nelle cravi quadre incaſtrate infie me col ferro : Era dunque queſta
battaglia ( ſegue egli) mol to ſimile a una giornata per terra , anzi piuttoſto
all'aſfalco d'una Cicà . Perciocchè tre o quattro navi di Ceſare com battevano
intorno a una nave d'Antonio con partigiane , piche , e con fuoco . D'altra
parte gli Antoniani ftando ſulle gabbie di legno traevano dardi e pietre contro
i nimici . Così ap punto Virgilio rappreſenta le navi che combattono . Sulle
navi di Cleopatra vi ſono i Dei moſtruoſi d'Egitto , in atto di ſaettar Neituno
, Venere , Minerva , che ſtanno ſulle navi d'Auguſto , e contro alle quali egli
diſſe al Senato che Antonio avea moſſo la guerra , non meno che contro al. la
Patria . Marre è in mezzo della batcaglia , la Diſcordia , e Bellona
, ed in aria ſtanno le Furie . Tutto ciò è ſotto la fi. gura del Campidoglio o
nella parte ſuperior dell'ovale , men tre a'lari ſono le navi ſchierate . Nella
parte inferiore vi fo no le navi di Cleopatra che fuggono ſpinte dal vento
Japiga , che ſoffia dal capo di Salentino ; non lungi è la figura del Nilo ,
che allargà la veſte , e chiama i vinci a ricovrarli ne? ſuoi naſcondigli :
egli è d' una figura giganteſca appoggiato ſull'urna che verſa i ſette fiumi
nel mediterraneo , nel reſto dello ſpazio ſi diffonde il mare coi delfini che ſcherzano
. Le figure di quello ſpazio ſono maggiori per la ragione ſopraccen nata , ed è
maggiore lo ſpazio ſteſſo . Nello ſpazio ſegnato 4. vi ſono eſpreſli i tre
trionfi d'Au guſto . Egli trionfo , dice Svetonio , in tre giorni l'uno dietro
all'alcro ; la prima volta per la vistoria Dalmacica , la ſecon da 4 182 1 da
per l'Aziaca, e la terza per l'Aleſſandrina . Dione Caffio particolareggia i
trionfi . Trionfo Ceſare , dic'egli , il primo giorno de' popoli Pannoni ,
Dalmatini , Japidi , ed altri loro circonvicini , e d'alcuni popoli della
Gallia e della Germania ancora , perciocchè Cajo Carina avea già vinti e
ſoggiogati i Morini e gli alıri popoli appreſſo , che nella ribellione da lo .
Fo fatta gli erano ſtati compagni , ed oltre ciò avea dato una rolta a'Svevi ,
ed a quelli che aveano già paſſato il Reno ; laonde ed egli e Ceſare feco
rappreſentò il Trionfo percioc chè la vittoria folevaſi attribuire ſempre
all'Imperatore , e l' Imperatore era Ceſare , è teneva in mano il governo di
tut, 10. Il ſecondo giorno Ceſare rappreſentò il Trionfo della bat taglia fatta
al promontorio d' Azio nel mare . Il terzo poi dell'Egitto ſoggiogato . Le
ſpoglie in queſte guerre acquiftare furono baſtanti ad ornar tutto l'apparato
di que' Trionfi ; quel. Je però d'Egitto avvanzavano di gran lunga curti gli
aliri ap parati d'ornamenti di ricchezza e di rarità ; tra l'altre coſe vi fi
vedea Cleopatra fteſa ſopra una colore in alto di morire , onde in un cerio
modo queſta Reina era condotta in trionfo cogli altri prigioni, tra'quali v'era
Aleſſandro ſuo figliuolo , e Cleopatra fua figliuola chiamati da lei col nome
del Sole e della Luna . Gl’interpreti fi vanno inutilmente affaricando a cercar
le ragioni della qualità de'prigioni , e particolarmente perchè ne' cocchi ſi
vedeſſe l'imagine dell' Eufrate e dell’A . raſſe fiumi dell'Armenia e della
Meſopotamia non conquiſtati da Auguſto . Il P. Arduino nelle ſue rifleſioni
fopra Virgilio non ritrovando queſte vittorie d'Auguſto ne trae degli argo
menti diſavantaggioſi all'Eneide. Io non perderò inutilmente il tempo a
riſpondergli in particolare . Ciò che poſſo dire a coloro che ammettono
l'autorità di Dion Callio , è far loro oſſervare , che Antonio dopo aver
chiamara Cleopatra Reina dei Re , Ceſarione Re dei Re , ed aggiunto alla loro
giuriſdi. zione l’Egico , donò la Siria a Tolomeo , e lutte le Provin cie di
quà dall'Eufrate fino all'Elleſponto ; donò l'Africa fino alla Cirenaica a
Cleopatra , ed al fratello di coſtoro chiama to Aleflandro dond l'Armenia con
tutto il rimanente del pae fe al di là dell'Eufrate Gno all'Indie . Or non è
verifimile che Auguſto da cutti queſti Paeſi fcieglieſſe de' prigioni , che
egli doveva aver fatti o nella battaglia d'Azio , o nella ſcon fiila data ad
Antonio in Aleſſandria ? Quanto al Reno , Agrip pa l'avea paſſato nel 717. nė
fi curò del Trionfo , ma egli è pro . 183 probabile che Auguſto voleſſe che
Agrippa trionfare ſeco co me Cajo Carina . Non v'era. ſegno d'amicizia e
d'onore che non gli deſſe , perciocchè oltre la corona roſtrata , con cui lo fregið
dopo aver vinto Seſto Pompeo in Sicilia , volea ch'egli avelle una cenda e
l'altre inſegne militari ſimili a quelle dell' Imperatore , e , come
dall'Imperatore , da lui ſi prendeſſe il ſegno della milizia , ed egli era in
forſe di dargli per moglie Giulia : canto grande , gli diſſe Mecenate , tu
faceſti Agrippa , che o biſogna ucciderlo , o ch'egli ſia tuo Genero . Dopo il
Trionfo Auguſto inalzò molti Tempj ; uno ad A. pollo ſecondo Svetonio ſul monte
Palarino , al quale aggiun ſe una Loggia con una Biblioteca Greci e Latina ; un
altro ne edificò a Marte vendicatore per il voto fatto nella guerra contro
Bruto e Caſſio per vendicare il Padre , ed un altro a Giove Tonante nel
Campidoglio . Secondo Dione egli ancora conſecrò il Tempio di Minerva , ornò il
Tempio di Giulio ſuo Padre ſoſpendendovi molti e molti doni della preda por
tata d'Egitco , e molti ne conſecrò ed offerſe a Giove Capi. tolino , a
Giunone, a Minerva . Non è da traſcurare che po fe l'imagine della vittoria
ſecondo Dione nel Tempio di Mi nerva , e ſecondo Plinio nel Tempio del Padre
Celare , il qua le era nel Foro ; aggiunge Plinio , che vi poſe ancora i Ca
ſtori che forſe ſimboleggiavano Auguſto ed Agrippa , nel pri mo libro
aſſomigliati da Virgilio a Romolo ed a Remo , come interpreta Servio . Poſe
ancora Augufto nel foro due quadri , uno della guerra , e l'altro del Trionfo ;
e s’io non m'ingan doveano queſti rappreſentare coſe alluſive alla battaglia d'
Azio , ed ai trionfi dello ſteſſo Ceſare . Comunque la coſa ſia , ove è il
centro dello Scudo che è la parte più alta , io pongo la Cupola del Tempio
d'Apollo , alle cui porte Augufto affig ge le corone d'oro che erano i doni
offertigli da’ Popoli dalle Provincie confederate . Tutto all'intorno vi ſono
le are e gl’incenſi colle vittime , e quindi la pompa e la lecizia del trionfo.
In quel giorno che Auguſto entrò in Roma, dice Dio ne , gli fu conceduto un
Arco nella Piazza di Roma , e in o nor di lui li celebrarono i giuochi
quinquennali , e gli anda rono incontro le Vergini Veítali , il Senaco ed il
Popolo , colle mogli , e il figliuoli: mi par ſoverchio ( ſoggiunge Dio. ne )
di raccontar i voti e le imagini ed altre coſe fatte per lui · La pompa del
Trionfo conſiſte ne' prigioni Nomadi , o Numidi , Affricani , Lelegi , Cari
popoli dell'Alia minore Ge no , e 184 Geloni ſpezie di Sciti , Morini popoli
della Gallia Belgicà fi tuati verſo l' Oceano Britannico . Tra queſti vi ſono
molti cocchi colle imagini dell'Eufrate, del Reno , e dell'Araffe col ponte che
Auguſto vi fabbricò . Tali ſono i baſli rilievi e le figure di tutto lo Scudo ;
elle s'ingrandiſcono a proporzione ch'egli ſi va rilevando , e le miniature
devono render ſenſi bili i colori di cui ſono in Virgilio dipinte . I colori
domi nanti ſono il giallo e il bianco che rappreſentano l' acciajo ed il rame .
Marte però deve eſſer dipinto con un colore fer rigno , o fia di ferro , non
raffinato in acciajo ; diverſi ſono i gradi de colori o floridi od auſteri che
biſogna lumeggiare ed onibreggiare ; ma ſopra tutto convien dar alle figure lo ſplen
dore , o ſia quel grado vigoroſo di colore di cui s'è parlato . Spiegato in
queſta maniera ciò che concerne la parte ma teriale e ſtorica dello Scudo ,
egli è tempo di ragionare delle relazioni che le figure hanno ad Auguſto , al
quale tutto il Poema è diretto , come a lungo eſpoſi nell'altra diſſertazione .
Biſogna quì ricordarſi che l'adulazione , ingegnoſiſlima nelle fue compiacenze
, or impiega le lodi dirette e manifeſte , or l'indirette ed occulte , ſecondo
che l'une e l'altre per le cir coſtanze fono più grate a colui che fi loda .
Lodar Augufto per la ſua ſtirpe , lodarlo per la vittoria che gli diede
l'Imperio , e per i tre trionfi , ne' quali fece tanto riſplender la ſua pietà
, erano lodi che Auguſto fonima mente defiderava che ſi pubblicaſſero , onde
eſſo poteſſe ritrar: ne più venerazione ed ubbidienza . Conviene a parte a
parte moſtrarlo . Giulio Ceſare nel far l'Orazione funebre in lode di Giulia
ſua Zia: La firpe materna , diſſe , di Giulia mia Zia ha origi ne dai Re , é la
paterna è congiunta cogli Dei immortali , im perciocchè da Anco Marzio derivano
i Re Marxj del cui nom fu mia Madre , da Venere i Giulj della cui gente è la
noſtra Fa miglia . Trovaſ dunque nel ceppo antico della caſa noſtra la fantità
dei Re la quale appreſſo gli Uomini è di grandiflima autorità e la Religione
degli Dii nella podeſtà de' quali ſono el Re . Sin quì Svetonio . Non potea
dunque che molto pia. cere ad Augufto che Virgilio noftraſſe e nel primo enel
ſe fto e nell'ottavo che nella ſua genealogia verano i Re , gli Dei , e gli
Eroi . Virgilio dice nel primo libro: il giovine A ſcanio che porta oggidiil
cognome di Giulio e che ſi chiamava Ilo, mentre Ilio era in piedi, governerà
Lavinio per trent'anni 1 in. 185 intieri etraſporterà la sede del Regno in Alba
lunga di cui faa rà una forte Città . Nel feſto egli dice: uſcirà dal ſangue
Tro jano miſto all' Italico Silvio ſuo figlio poſtumo che perpetuerd in Alba il
ſuo nome , e ſarà egli fello Re e padre di molti Re , . per lui la noſtra
ftirpe dominerà in Alba . Virgilio ſcaltro nul la parla delle guerre che
ſecondo Dionigi d'Alicarnaſſo vi fu rono tra Giulio figliuolo d'Aſcanio e
Silvio , e molto meno che per i ſuffragj del popolo ſi deſſe a Silvio il Regno
che apparteneva a ſua madre , ea Giulio per contentarlo la fo vranità ſulle
coſe della Religione, per cui, ſoggiunge Dionigi , la Famiglia Giulia ha goduto
fin al mio tempo del ſovrano Pontificato , e s'è chiamata Giulia a cagion d'
Julo da cui u ſciva . Io non so accordar queſto paſſo di Dionigi d'Alicarnaſ ſo
con quell'altro di Plutarco e di Svetonio , ove ſi vede che Giulio Ceſare non
per dricco di ſangue , ma per i ſuffragidel popolo in competenza di Catulo
ottenne il ſommo Pontifica to. Laſciando cid , baſta quì oſſervare , che
Virgilio confonde Aſcanio con Silvio figliuolo di Lavinia e gli altri
diſcendenci da lui, poichè dice , che v'era ſcolpita tutta la ftirpe d'Enea
cominciando da Aſcanio . Io così interpreto quel Ab Aſcanio . Di tutti queſti
Re e di queſti Eroi Virgilio nefa come del le imagini trionfali , che pone
nell'orlo del ſuo Scudo , come negli atrj delle caſe de' Romani ſi poncano le
imagini degli Avi loro, ſulle quali Giuvenale e Plinio fanno sì gravi riflet
fioni intorno al biasmo ed alla lode de' diſcendenti . Ciò ba fi intorno la
lode manifeſta della ftirpe d'Auguſto. Palliamo alle lodi indirette . Nelle
medaglie , ove fi legge Reft. o reſtitui , ſi vede l'ima. gine o d'un Bruto, o
d'un Coclite , o della libertà , o d'al tre coſe alluſive alle azioni celebri
de' Romani antichi , che gl' Imperatori Romani aveano imitate o reftituite . Il
P. Ar duino vuole che queſte allegorie nelle medaglie cominciaſſero ſotto Tito
, di cui ſi contano fino 22. medaglie di queſta ſpe. zie e terminaſſero ſotto
Trajano , di cui ſe ne contano 24. ma non , perchè queſte medaglie non ci
reſtino , ſi può dedur che ſotto gli altri Imperatori e particolarmente
ſottoAuguſto , che vantavafi d'effere il difenſore della libertà del Senato e
dei popolo , l'adulazione non aveſſe inventate l'allegoric ; certo è almeno ,
che con queſt'ipoteſi ſi rileva il ſenſo del ratto del. le Sabine, e della pace
ira Tazio e Romolo . Prima che Planco determinaffe il Senato a dar ad Occavio
Tomo II. il 186 9 il nome d'Auguſto , molti volcano che ſi chiamafle Romolo .
In fatti Auguſto l'imicava non ſolo nella fondazione d'un nuovo Impero , ma
ancora in molte circoſtanze della ftella fon dazione . Come Romolo col ratto
delle Sabine avea provvedu to al mantenimento della Città , così Auguito con la
legge di maricar gli ordini che Orazio chiama legge Marita ; due ne fece
Auguſto ., la prima nell' anno 736. e ſi chiamava legge Giulia , e l'altra
dell'anno 762. e li chiamava legge Popea perchè fatta ſotto i Conſoli Sulpizio
e Popeo. Con queſte leg. gi fi rinovarono l'antiche rammemorate da Cicerone e
da Aulo Gellio , e Dion Caſſio merte in bocca d'Auguſto una lunga arringa su
queſta materia al Senato , nella quale dopo d'aver cogli eſempj delle nozze
degli Dei eſaltato il vantaggio e la giocondità de'figli , l'utile della
Repubblica , e il biasmo di viver ſenza moglie , gli fa dire : Romolo autor
noftro , e da cui diſcendiamo, non li ſdegnerà con tagione conſiderando il fuo
naſcimento e i coftumi introdotti ? Orazio nel Carme ſecolare lodando per
queſta legge il Se nato obliquamente loda Auguſto ; ma Virgilio nella lode
obli. qua involge l'argomento del minore al maggiore come s'egli diceffe : fe
tanta obbligazione hanno i Romani a Romolo che con una violenza provvide al
mantenimento della Città , mol to maggior obbligazione i Romani hanno ad
Auguſto che ſen . za danno de' vicini vi provvide con una legge si ſaggia.
Romolo dopo le guerre con Tazio ai rapacificò ſolennemen. te con lui , e diviſe
feco il Regno ; ed Auguſto dopo molte guerre con Marcantonio conciliatoſi ſeco
per l'opera de' co muni amici diviſe l'Impero , del quale il termine ſecondo
Plu tarco era il Mar Jonio . Tutta la parte , dic'egli , verfo Levan te fu
conceſſa ad Antonio , e l'alira verſo Occidente a Ceſare . Pegno della pace fu
Ottavia maritata ad Antonio , e certamente ella è rappreſeatata nella vittima
che ſi ſcanna nella ceremo nia del giuramento tra Romolo e Tazio : ne deve far
difficol tà il noine della vittima , poichè tutto ciò che li confacrava agli
Dei era fanto , e la Scrofa è ſtata ad Enea d'indizio del paeſe che ricercava .
La pittura di Mezio non è meno allegorica ; egli tradi Tul lo Oſtilio come
Antonio tradì la Repubblica , e tradi Ottavio con la guerra che all'uno ed
all'altra intimo per far piacere a Cleopatra . Mezio ne fu ſquarciato a viſta
di Tullo; ed An. tonio fu coſtretto a darſi la morte quafi agli occhi
d'Augufto. An 187 Antonio mentre s'incamminava al ſepolcro ove s'era rinchiuſa
Cleopatra , andava verſando il ſangue per le Atrade come ap punto il corpo di
Mezio per la ſelva . Non ſi potevano eſpri mer da Virgilio coſe sì delicate che
in un quadro allegorico , Due volie , dice Svetonio , entrò Auguſto in Roma
vitto rioſo e ſenza trionfare , una, poichè egli ebbe vinto Bruto e Caffio
ne'campi Filippici, l'altra avendo vioto Seſto Pompeo in Sicilia ; il che
moftra , qual foſſe la modeſtia politica d ' Auguſto ; queſta ſteſſa egli usò
con Marcantonio del quale e gli non crionfo , ma di Cleopatra , come ſi può
raccoglier dal Trionfo deſcrito da Dion Callio . Egli ſollevò i figliuoli d'
Antonio alle prime dignità , nè col moſtrar odio e vendetta con Antonio dopo
ch'egli era morto voleva offender Octavia a cui era ſempre grata la memoria del
marito . Orazio e Vir gilio ben ſapendolo non mai parlarono di Marcantonio ſc
non mettendolo in compagnia di Cleopatra su cui fecero ca der l'odio e la colpa
; ma nel tempo ſteſſo , conoſcendo forſe che Auguſto ſi compiaceva , che negli
animi de' Romani non ſi ſmarriſſero l'idee di quanto avea fatto contra
Marcantonio per la finta difeſa della libertà , eſli procurarono di maſcherar
ne l'azioni con l'allegoria , della quale Auguſto poteva abba ſtanza intenderne
il ſenſo , e non offenderſi i partigiani d'An tonio per le varie
interpretazioni che poteano darle . Nelle mie note su l’Odi d'Orazio io ſpiego
con ciò molte coſe in intelligibili ſenza queſta ſuppoſizione, nè ſarà diſcaro
che ne moſtri l'uſo nelle ſtorie di Porſenna e di Manlio ſcolpite da Virgilio
nella ſeconda ovale dello Scudo . Porſenna voleva riſtabilire in Roma la
tirannia traſportan dovi i Tarquinj, e nonmeno Antonio voleva riſtabilirla tra
ſportandovi Cleopatra . Se Antonio , dice Dione , foſſe ſtato ſuperiore e
ſignore del tutto , era per dare a Cleopatra la Cit tà di Roma ; è poco dopo
ſoggiunge , che Cleopatra era venu ta in ſperanza d'acquiſtar l'Impero Romano ,
e che quando al cuno le dimandava giuſtizia , ella riſpondeva che gliela fareb
be in Campidoglio :al che pur allude Orazio nell'Ode 37. l . 1. dicendo ch'ella
era ebbra di folli ſperanze non meno che di vino mareorico . Io non so ſe
troppo raffini nel ritrovar in Clelia che ſi falva a nuoto , Ottavia che al dir
di Plutarco eſce precipitoſamente dalla caſa d'Antonio ; ma certamente Coclite
che rompe il ponte è un ſimbolo d'Agrippa che con la vittoria navale interrompe
l'avvanzamento d'Antonio. AQ 2 Tito 188 Tito Manlio è difenſore della libertà
del Campidoglio con tra i Galli , come Antonio fu difenſore della preteſa
libertà contra Caſſio e Bruto e gli altri nimici di Giulio Ceſare. Non
mancarono , dice Plinio , i fregi delle coſe militari in Manlio Capitolino , ſe
non gli aveſſe perduti nell'eſito della vita ; e Tito Livio ſoggiunge , che lo
ſteſſo luogo nell'Uomo ſteſſo fu un monumento e d'inſigne gloria e di ultima
pena . Anto nio difeſe il popolo Romano ne' Campi Filippici , e il popo lo
Romano in Azio ed in Aleſſandria l' inſeguì e fu cagione della ſua morte . I
Salj ed i Luperci eſultano , e le matrone ne loro cocchi agiati conducono le
coſe ſacre per la Città per dimoſtrare che non ſono ammeſſe in Roma le
ſuperſtizio ni Egiziache , abborrite eſtremamente da' Romani ne'cempi d '
Auguſto e di Tiberio . Catilina tormentato nell' Inferno non moſtra egli le
pene dovute a Marcantonio ? e per la ragion de contrarj quante lo di meritava
Auguſto per la ſalvata libertà ? In grazia di que fta ſoffriva Augufto che fi
lodaſſe Catone Uticenſe . Orazio nell’Ode 12. c. 1. lo mette tra gli Eroi di
Roma . Loderò di Caton la nobil morte ? Il P. Catrou pretende , che il Catone
che negli Elisj dello Scudo dà legge agli ſpiriti, non fia altrimenti Catune
Uricen ſe , ch'era troppo odioſo a'Ceſari, ma Catone il Cenſore , di cui dice
Seneca , che tanto giovo co'ſuoi coſtumi al popolo Romano , quanto Scipione
colle ſue guerre . Il P. della Rue é per il Carone Uticenſe , ma non ne aſſegna
la ragione , la quale è manifefta, ſe ſi riflette al paſſo di Taciro da me
nell' alıra diſſertazione addotto e che qui ancora ſoggiongo , perchè cgli
moſtra quanto Ottavio fi vantafle, come Cromuello fece a' noſtri tempi , di
paſſar per difenſore della pubblica libertà . Tito Livio ( così fa dir Tacito a
Cremuzio Cordo in Senato ) chiariffimo tra tutti gli Scrittori e per eloquenza
e per fedel tà , celebrò con tante lodiGnco Pompeo che Auguſto lo chia mava
Pompejano , nè perciò gli fu meno amico. Nelle Opere di Aſinio Pollione ( cui
Virgilio dedicò l'Egloga terza ) li fa onoratiflima memoria di Callio e Bruto :
Meffala Corvino pre dicava Caffio per ſuo Imperatore , e l'uno e l'altro
viſſero lun. gamente pieni di ricchezze e d'onori, ed Auguſto , non ſi sa le
con maggior lode di manſuetudine o di prudenza , laſciò 1 cor 189 correr le
lettere d'Antonio , e l'orazioni di Bruto , che molto lo diſonoravano ; nel che
forſe volle imitar Ceſare Dittatore che tollerò i verſi di Bibaculo e di
Catullo , ed al libro di Marco Cicerone nel quale s' inalza Catone al Cielo , riſpoſe
perorando come ſe foſse avanti i Giudici . Con queſto paſſo di Tacito ſi può
dar la ragione per la quale Virgilio ed Ora zio non temerono , dedicando
l'Opere loro ad Auguſto , di no. minar Giunio Bruto , Marco Bruto , e Callio ,
Catone, e Pom peo . Maquale ſcaltrezza cortigianeſca v'è in Virgilio nell'
introdur Catone a dar legge agli ſpiriti ? Par, ch'egli accen ni , che Carone
meritava ſolamente grado in quella Repubbli ca ideale di Platone , la quale
ſecondo Cicerone egli cercava nella feccia di Romolo . Ed ecco ciò che dovea
dirſi intorno alle lodi indirette ed allegoriche . Le figure del quarto e del
quinto ſpazio contengono lodi di rette , perchè cuite ripiene delle coſe di cui
si compiaceva Auguſto che i Romani continuamente acclamaffero . Egli ſteſ ſo ,
come ſi diffe , avea nel Foro di Ceſare conſecrata l'ima gine della battaglia ,
e del Trionfo , nè io dubito punto che Virgilio ne aveſſe eſpreſli i tratti
della pittura nello Scudo in quella guila , che nel primo libro nel
rappreſentar il Furore alliſo ſopra i trofei e con le mani annodate al tergo
imita la pittura ch'era nel Tempio di Giano . Tutto poi nella deſcrizione e
della battaglia , e del Trion fo , è diretto alla lode d'Auguſto. Nella
battaglia , Auguſto è coi Padri , col Popolo , coi Penati , e co'magni Dei, ed
ha in fronte la ſtella paterna ; ciò ſignifica , che la guerra era in trapreſa
per la libertà del Popolo , del Senato e coll'alliſtenza di Giulio Ceſare già
Deificato . All'incontro Antonio non ha ſeco che de' Barbari , ed un'effeminata
Reina ; Auguſto è di feſo da Venere genitrice , da Minerva , e da Apollo , Dei
del la prudenza e del conſiglio , e da Nettuno , che gli era ſtato favorevole
nelle guerre in Sicilia contro Seſto . All'incontro Antonio non ha ſeco che Dei
moſtruoſi ed odiati da' Romani . Quanto cgli deſcrive più feroce la pugna ,
tanto maggior mente eſalta il valore d'Auguſto e d' Agrippa , ch'egli ſempre
accompagna per le ragioni di ſopra accennate . Le Furie e la Diſcordia con
Bellona liriferiſcono a Cleo patra ; ma qual mai v'è ſagacità poetica
nell'accennare la fu ga e la morte di queſta Reina ? Mentre ella ſuona il
filtro non vede i due ſerpi che la minacciano alle ſpalle ; ella con fida iyo
fida in vano nelle forze dell'Egitto , e in vano tenta di rifu . giarſi nelle
più occulte ſpiagge delNilo . Tutto allude al .con higlio ed alle azioni di
Cleopatra . Perchè poi Virgilio non nc introducefle nel Trionfo l'effigie , e
tra i prigioni non poneſ ſe i figliuoli di lei , la cagione n'è forſe ſtata il
timore d'ec citar nell'animo altrui con queſte imagini qualche grado di
ammirazione e di compaffione , e perciò ſcemar in parte la lode d'Auguſto , e
tra l'altre quella della pietà . Ne'gran Poe. ti biſogna egualmente riflettere
e a quel che dicono e a quel che tacciono , onde molto male s'argomenta dalla
Poeſia alla Storia , e dalla Storia alla Poeſia , quando non s'attende al fi ne
a cui tutto vuol accomodare il Poeta . Il fine delle figure ſcolpite nei vari
ſpazi dello Scudo ha relazione al fine gene rale dell'Eneide . Le figuredel
ſecondo ſpazio riguardano il ſenno d'Auguſto , le figure del terzo il valore ,
le figure del quarto riguardano la ſua pierà . Queſte ſono le tre virtù do.
minanti dell'Eneide . Dionigi d'Alicarnaſlo , che ſcriveva nel tempo d'Augufto
, le ſtabiliſce come neceſſarie ai fondatori d ' un Impero , e Virgilio vi
fabbrica ſovra l'Eneide . Molte altre coſe io potrei addurre intorno
l'artifizio poeti. €0 , la chiarezza , e la brevità , colla quale Virgilio in
sì po chi verſi eſprime tante coſe , nè mai per oftentazione o d’in. gegno o di
dottrina o d'erudizione , maſempre relativamente al diſſegno del tutto e delle
parti , ciò che deve ſervire a' Poe. ti moderni di precetto e d'eſempio.
DISSERTAZIONE PRELIMINARE i ALL' ILLUSTRAZIONE DEL PARMENIDE DI PLATONE.
atentat nesatentratata L A ſecca della Filoſofia Italica fondata da Pitcagora
ebbe nome e ſede nella Magna Grecia , tra le cui Provincie fu per l'eccellenza
de'Filoſofi, che vi fiorirono , celebre la Lucania , ed in queſta la Città di
Velia , o d'Elea così denomi nata dal fiume che l'irrigava . Quivi Senofane di
Colofone , Cit tà della Jonia nell'Alia minore , ſtabilì e perfezionò la fecta
, che dalla Città d'Elea fi diffe Eleacica , e meritò d'avere tra gli al tri
diſcepoli Parmenide nato di Pireto , e quel Filoſofo grave e venerabile , che
con Zenone paſsò in Atene , ove tenne la con ferenza con Socrate eſpreſſa in
queſto Dialogo . Ora avendomi propoſto io d'illuſtrarlo nella ſua parte ſtori
ca e Filoſofica, credo diſoddisfar quanto baſta al mio impegno ſe prima tento
d'accordar l'erà controverſa dei tre Filoſofi nomi nati, indi ſe della dottrina
Eleatica ſpiego l'origine e l'effetto , o la Filoſofia Pittagorica , e la
Platonica ; finalmente ſe mi fer punto che Platone in queſto Dialogo n'eſpoſe,
e dichiaro l'artifizio filoſofico , e poetico dello ſteſſo Dialogo . lo difli ,
che Senofane ftabili , e perfezionò la ſecca Eleacica perchè Platone dice nel
Sofiſta , la gente d ' Elea incomincia appref ſo di noi da Senofane, anzi da
più antichi, i quali non poteano eller che Talete, o Pittagora , oi difcepoli
loro ; non regnando, allora alıra Filoſofia nella Grecia , ſe non l'introdotta
dai due fondatori, o profeſſata da i loro allievi . Alcuni però fecero Se
nofane poſteriore a Talete , ma più antico di Pittagora, nè fo dove prendeſſero
le loro congetture cronologiche , alle quali oltre l'autorità di Platone ,
s'oppongono le ſcoperte dei due Fi loſofi , e i viaggi loro . Taletecalcolo il
primo l' eccliſli lunari , ma come poteva egli calcolarle ſenza conoſcere la
propolizione , che Euclide poi fe ce la 47 del primo libro degli Elementi , e
di cui s'aſcrive or dinariamente l'invenzione a Pitcagora ? I calcoli
aſtronomici ſo mo ſul . no ( 4 ) no dedotti da trigonometrici, principio de'
quali è il triangolo rettangolo miſura diſe ſteſſo , e de gli altri triangoli.
Pittagora dunque, che l'invento , o fu contemporaneo di Talete , o fiori prima
di lui . , Io credei , che queſta foſſe una dimoſtrazione in cronologia ,
finchè in Plutarco ( a ) ritrovai che gli Egizj ſimboleggiavano co ? tre lati
del triangolo rettangolo miſurati da 3, 4 , e s le loro principali divinità
Ilide, Oliride, ed Oro ; aſſegnando ad Oſiri de la perpendicolare, la baſe ad
Ilide , e ad Oro l'ipotenuſa ; L'antichità del ſimbolo manifeſta quella della cognizione
, tan to più che gli Egizi coltivarono l' aſtronomia da poi che eb bero
inventato la geometria per miſurare i terreni, e non par veriſimile , che ſenza
conoſcere il triangolo rettangolo , il pri mo e il più facile ad immaginarſi de
gli altri, poteſſero riu ſcire nella pratica di queſte due ſcienze .
V'aggiungo, che fe condo Platone ( 6.) noci erano, agli Egizi gl'
incomenlurabili , la prima idea de' quali naſce dall' impoſſibilità di eſtrar
la radice dal quadrato dell'ipotenuſa del triangolo ; I lati del retcangolo
Pitta gorico ſono i numeri accennati , e queſta è la prova che dagli E giz lo
toglieſſe Pittagora , e nello ſteſſo tempo o poco prima l' aveſſe colto Talete
, benchè poi Talete ſi contentaffe di moſtrare all'Aſia minore l'ulo aſtronomico
della propoſizione, e Pictagora ne deſſe alla Magna Grecia la dimoſtrazione
Geometrica , ed è forſe quella regiſtrata da Euclide nel primo libro diverſa
dalla 8 del libro 6 dedotta dalle proporzioni delle linee , e che nel progreſſo
del tempo Eudoffo , che fiori nel tempo di Placone , portò dall' Egitto col s
elemento . Or fe i gradi delle cognizioni dello fpirito umano ſono fema pre gli
ftefli, dall'analogie dell' Epoche moderne ſi poſſono de durre le antiche , e
particolarmente quelle che hanno relazione agl'inventori de' principjmatematici
. Nel paſſato ſecolo ſi trova prima dal Toricelli la Cicloide , e l' Ugenio
l'applicò a regola re il moto dell'orologio a pendulo ; il Newtono fi limitò
all'altrace ta Teoria della luna , e l' Hallejo l'applico a correggere le Tavo
le aſtronomiche . La ſeconda congettura della contemporaneità di Pitragora, e
di Talete , ſi prende da coſe più facili . Vuol Jamblico , che Ta lete
ſcriveſſe una lettera a Ferecide maeſtro di Pittagora, e gli legaſſe certi
fcritti morendo , e par che Plinio convenga che i due Filoſofi foſſero ſtati in
Egitto al tempo che regnava il Re Amaſi. La queſtione non cade più dunque ne ſu
tutto il ſecolo , ne ( a) Trattato d'Ilide, ed Oſiride . ( 6 ) Nella Rep. e
nelle leggi . ( 5 ) 1 4 ne ful mezzo ſecolo , ma su l'età dell'uno e dell'altro
di pochi anni diſtante ; Talete par più vecchio ſe ſcriſſeuna lettera al
maeſtro di Pittagora , machi sa poi ſe Pitragora non era allora in Egitto ?
queſta lieve differenza non toglie però , che ſe Talete' fu più d'un
ſecoloprima di Senofane, non lo foſſe ancora Pittagora : Io ritrovo bensì, che
Senofane era contemporanco d'Epicar mo , e diEmpedocle. Secondo Timeo lo
Storico , Senofane paſsò in Sicilia al tempo di Gerone , ſotto il cui Regno
Epicarmo era illuſtre per le ſue commedie, e Plutarco (a) ci conſervò la memo '
ia d'una riſpoſta , che diede Senofane ad Empedocle . Non è facile il
determinare , nè qui lo cerco , quanto Epicar mo , ed Empedocle foſſero
diſtanti da Pittagora , e quindidà Ar chita Tarentino il vecchio , da Peritione
, da Timeo di Locri , da Ocello Lucano , e da altri , che ſi dimandavano
Piccagorei ( 6 ) perchè udirono Pittagora , a differenza deglialtri , che ſi
chiamava no Pittagoriſti. Quando cominciò Senofane a ſtudiar la Filoſofia ,
quella di Ta lete era già diffuſa nella Jonia , e quella di Pittagora nella
Magna Grecia ,e nella Sicilia ; su queſto fondamento altri fecero Seno fane
diſcepolo di Anaſimandro , ed altri di Archelao diſcepolo di Anafagora , il
quale avea il primo traſportata la Filoſofia dalla Jonia in Atene, ove paffato
Senofane ftudiò ſotto ( c ) un certo Bottone Ateniere . Dalla povertà cacciato
Senofane dalla Grecia , paſsò nella Sici lia e quà s'abbandono alle doctrine
Pittagoriche , più delle Joniche conformi all'ingegno di lui acre , e profondo.
Dalla Filoſofia Jo nica , e dall' Italica traſſe un nuovo liftema , è meritò ď'
effer ca po della ſecta Eleatica primo fonte dell'Accademica , e della Pla
tonica , delle quali poi furono rami lo ſcetticismo, e lo ſtoicismo, Nulla ancora
s'è fatto , ſe non ſi dimoſtra accordarſi l'ecà di Senofane con quella di
Parmenide , e queſta con quella di Socra te . Tralaſciare dunque molte epoche
inverifimili, io m'arreſto a quella che aſſegna Timeo a Senofane , ed è che
egli fiorille nell'olimpiade 76. Parmenide, ſecondo Laerzio ſeguito dallo Stan
lejo , e da altri , fiorì nell' olimpiade 69 diſtante dalla 76 di 7 olimpiadi,
che importano 28 anni, calcolando ogni olimpiade per 4 anni compiuti . La voce
fiorire è molto vaga o ſteľa nel la Cronologia , perchè non ſempre moſtra , che
un Filoſofo fof ſe nel punto più alto della ſua fama, ma che ſolo aveſſe un no
meilluſtreacquiſtato . Il Newtono , che cosi rapidamente ſi per fezionò nelle
matematiche, fioria del pari in Inghilterra nel 1662 quando ſcriſſe al
Leibnizio la lettera in cui gli dichiarava lo ſvi luppo , ( a ) Plut. de
vit.pud . ( 6) Patr. diſcuſs. prop . 1. 6. (c) Laerzio vit.di Sen. ( 6 ) 3 8
luppo , e l'uſo del Binomio eſaltato ad una potenza indetermi nata , e
nell'anno 1716 in cui molte coſe aggiunſe al ſuo libro de' colori, e n'illuſtrò
molte altre nei principj naturali della Fi loſofia matematica , Senofane, che
lo Scaligero fa vivere 104 an ni , ed altri almeno fino a 100 , potea fiorire
in olimpiadi mol to diftanti, perchè per la forza della ſua mente facilmente
riu fcendo nelle fue applicazioni, in breve acquiſtava fama di lomme Filoſofo ,
e la ſua fama tanto più ſpargeali per le bocche degli Uomini , quanto egli
abbelliva le ſue meditazioni filoſofiche con la Poelia per farle ricercare , e
leggere con più d'avidità . Parmenide fece i ſuoi ftudi in Elea ( a ) ſotto
Amenia , e Dio cheta Pictagorici , i quali lo riduſſero a laſciar le ricchezze
, ecol tivar la vita privata, e darſi tutto alla Filoſofia . Biſogna dun que
che in eſſa molto riuſciſſe , o la Filoſofia foſſe la paſſione , che più lo
dominava, ſe nato de' più ricchi, e de’più nobili di Elea ebbe tale coraggio ;
ma ciò molto applauſo dovea avergli acquiſtato appreſſo de'ſuoi Cittadini , ſe
fin d'allora cominciarono a celebrarlo in guiſa , che al dir di Ermipo
Empedocle l'emuld . Nulla vieta il ſupporre, che Empedocle avelTe molto
ſoggiornato in Elea , e poi foſſe ritornato in Agrigento ſua Patria . In Elea
era ſtato emulator di Parmenide doctiſſimo nelPittagoriſmo, e lo fu in Sicilia
di Senofane , che lo profeſſava con qualche cangiamento', dopo gli anni 28 che
è l'intervallo frappoſto tra l'olimpiade 69 e 76 . Paſso Senofane in Elea , ed
ivi Parmenide conſecrato agli ſtudi corſe ad udir Senofane , come i giovani
nobili , e ben educati ſo leano far nella Grecia , quando nelle loro Circà
udiano entrar un Filoſofo illuſtre , e che potea inſtruirli in qualche nuovo
liſte ma , del che chiari gli eſempi ne vediamo nel Protagora , nelGor gia , ed
in altri Dialoghi di Platone . Quando Parmenide udi Se nofane, queſti poteva
eſfer molto vecchio ; ma qualunque età dia ſi a Senofane, mi baſta , che nel
pricipio dell' olimpiade 76Parme nide imparaſſe da lui il fiſtema dell'uno
immobile , e non aveſſe allora che 36 , e ancor 40 anni , la ſteſſa età che
avea Zenone quando diſputò con Socrate in Acene . Socrate nacque al fine
dell'olimpiade 77 , ed avea 4 anni com piuti o 5 anni cominciati , quando nella
noſtra ipoteſi Parmeni de ne avea 40. Se zo anni dopo ſi fuppone, che Parmenide
con Ze none paſlaffe da Elea in Atene , come vuol Platone , non avea che 60
anni, e Socrate che 25 , onde era egli molto giovane relativa mente a Parmenide
. Semplici, e al fommo veriſimili ſono queſte ipoteſi degli ſtudi, 1 e dei ( a
) Laerzio vita di Parmenide . 1 ( 7 ) e dei viaggi dei due Filoſofi , e ſe
s'accordano facilmente con le olimpiadi , perchè oftinarſi a rigettarle , e
rinunziare all'au corità di Platone , che potea molto meglio al fuo tempo cono
fcere l'epoche dell'era filoſofica , che non ſi conobbero 6oo an ni dopo , e
ben più ? Le circoſtanze , con cui Platone accompagna l'abboccamento di Socrate
con Parmenide , accoppiano in guiſa alla verità del fatto la veriſimiglianza
ſtorica del Dialogo , che pare non do ver laſciarſi alcun ſoſpetto . Io le eſtrarro
dal Dialogo . Parmenide , e Zenone fuo diſcepolo favorito o fuo figlio a
dottivo abitavano fuor delle mura di Atene in caſa di un cer to Pitidoro .
Nelle ſolennità de grandi Panatenei , itofene So crate a ritrovar Parmenide ,
ritrovò folo in caſa Zenone , e comia cid a diſputar feco fu l'idee . Entrato
poco dopo Parmenide in caſa con Pitidoro , ſi proſeguì la diſputa incominciata
alla pre fenza di molti , tra' quali Ariſtotele non lo Stagirita , ma uno dei
30 Governatori , o Tiranni di Atene . Tali ſono le circo ftanze del luogo , del
tempo , e dei teſtimoni della diſputa . Socrate non avea allora che 25 anni ;
or eſſendo egli mor to nell'età di 72 anni, dall'abboccamento alla morte non vi
fo no che 47 anni di diſtanza , e tanti appunto o pochi più dall' abboccamento
al Dialogo , ſe Platone lo ſcriffe dopo la morte di Socrate : ma poniamo che l'
aveſſe compoſto anche 20 anni dopo ; la memoria di un Uomo così illuſtre qual
era Parmeni de non potea più ignorarli in Atene , di quel s'ignori ora a Parigi
la dimora che vi fece il Leibnizio, e l'Ugenio , e le di fpute che ebbero nell'
Accademia reale . Alle verilimiglianze ſtoriche s'aggiungono le poetiche necef
ſarie all' ornamento del Dialogo , che è una ſpecie di Poeſia Dramatica : così
lo teſse Platone. : Cefalo per bocca di Antifone ſuo fratello uterino , e
figliuo lo di Pirilampo , racconta ad A dimanto , e Glaucone , tutto ciò che
avea udito da Pitidoro fu la diſputa che ebbero Zenone pri ma , e poi Parmenide
con Socrate . ' Antifone avea converſaco familiarmente con Pitidoro compagno di
Zenone , ma poi laſcia ta la Filoſofia coltivava l'arte equeſtre , e quando
Cefalo ad in ſtigazione de' compagni andd a ritrovarlo , egli dava certo fre no
ad accomodare ad un fabro ; circoſtanza che io credo finta per dar rilievo al
racconto , é fiffar la fantaſia del lettore con qualche coſa di ſtrano . Par
toſto che Antifone occupato in un volgare eſercizio , non debba favellare ſe
non di coſe volgari , nè mai s' aſpetta , che egli ſia per ſalire nell' ultime
aſtrazio ni della metafiſica ; quindi il lettore reſta ſorpreſo dalla mera
viglia ( 8 ) 1 > e di viglia , allora che egli racconta il principio della
diſputa tra So crate e Zenone, e che poi s'interrompe alla venuta di Parme nide
, che fattoſi pregar un poco la continua fino al fine. Quan te menzogne , ſe
Socrate non parld mai con Parmenide ! All incontro qual arte fina di
veriſimiglianza poetica , per dar or namento alla verità del fatto di cuiCefalo
, Adimanto , e Glau cone vivendo poteano renderne teſtimonianza ? Come immagi
narſi, che un Filoſofo il qual volea render accetta la lettura de ſuoi Dialoghi
, cominciaſſe a diſguſtar il lettore con bugie le più sfacciate ? Ariſtotele,
che calunnia il ſuo Maeſtro in tante parti dell'opere ſue fue , e che parld
ſovente di Parmenide Socrate non attaccò mai Platone ſul loro abboccamento , e
pur ne poteva trar degli argomenti, per renderne la dottrina ſoſpetta. Non ne
parlano altri autori Greci più vicini a Platone , non gli autori Latini , che
più ſtudiarono i Greci , e tra gli altri Cicerone e Plinio , che tante coſe ci
conſervarono fu l' iſtoria ed Era Filoſofica . Non v'è che il ſolo Ateneo il
qual viſſe a' tempi di Marco Aurelio , che vuol dir quaſi più di 600 anni dopo
Platone . ( a ) Egli dice : Appena permette l' età che Socrate aveſe veduto ,
ed udito Parmenide , non dover però noi meravigliar ſene, perchè Platone
ſuppoſe che Fedro vivere al tempo di Socrate ; che Paralo , e Zantippo
figliuoli di Pericle , e morti nella peſtilenza , ragionaſſero nel Protagora ,
e che Gorgia diceſſe nel Dialogo del ſuo nome quel che mai s'era fognato di
dire . Molte altre accuſe contro Platone vibra Ateneo , e s'affatica a
dipingerlo tanto mordace , e maledico quanto bugiardo . Non so perchè i
Cronologi attenti a peſare ogni minuzia de'te fti non oſfervino , che Ateneo
nel dire vix ætas permittit dichiara , che poco intervallo di tempo v'era ſtato
tra la morte di Parme nide, e l'età di Socrate , maqueſto vix qual ha poi forza
cronologica poſto in bocca di Guriſconſulti, di Oratori, diPoeti , di Filologi,
non di Cronologi, che avrebbono diminuito l'allegrezza del convito coi loro
calcoli, e colle lor aſciutte illazioni ? Il Calaubono il qual nel ſuo
comentario d'Ateneo in un'altro libro in foglio sfoga tanta eru dizione ſu
l’erbe, ſu ipeſci, ſui coſtumidel convito , elu mille altre coſe inutiliffime a
ſaperli nulla degna di dire ſu le accuſe colle qua li uno dei Dinnoſofiſti
morde Platone . Io per me credo , che A teneo vedendoſi incapace d' emulare
l'immenſità della dottrina Platonica , e l'arrificioſa maniera con cui l'eſpone
Platone ne'ſuoi Dialoghi , teſſe lunga ſerie d'accuſe , e lo condanna di
menzogne ro , e maledico per accreditar ſe non altro la veracità , e la mo
deſtia colla quale caratterizza i ſuoi Dinnoſofiſti. Il buon Grama cico ( a )
Ateneo lib . 14. Sympt, 9 ) tico ne goda egli pure , e ſen ' applauda ; non per
queſto io crede rò , che Parmenide non poteſſe ragionare con Socrate , e ſtard
immobile nelle mie ipoteſi cronologiche , che a ben peſarle non vagliono meno
di tante altre , che in queſto ſecolo fi ſpacciano, e fi difendono come i
Teoremi diGeometria : Candidamente perd confeſſo , che io farò per ſacrificarle
a colui , che all'autorità di Ateneo ne aggiungere qualchealtra più
dimoſtrativa, e meno ſo fpecta ; finalmente malgrado le congetture eſpoſte io
ſon perſua ſo , che ſe Platone tutto finſe , il Dialogo è più ammirabile per la
menzogna poetica tutta opera della ſua fantaſia, che non è per la verità del
fatto , di cui poteano farſi onore i men dotti . Platone fcriffe in Filoſofia
più ditutti gli antichi che lo precede rono , e come da Eraclito le coſe
fiſiche, da Socrate le morali , così tolle da' Pittagorici lemetafiſiche , le
quali non ſi correffero che nel fecondo ſecolo della Religione , per le varie
diſpuce che, nacquero tra iPlatonici , e tra i Criſtiani. Eſaminerò dunque
prima d'ogni altra coſa la natura della difpu ta , dopo di cui proporrò
generalmente l'antica Filoſofia , ed in di la particolareggierò in Pittagora ,
e ne'Pittagorici, tra'quali Se nofane e Parmenide, e la terminerò con Platone .
A queſte due coſe io riduco l'origine, e l'effetto dell'Eleatiça Filoſofia ..
Gli antichi Filoſofi , ſenza eccettuarne nè pur uno , convennero nel principio
, che di nulla fi fa nulla , e ciò gl' impedì di poter conoſcere che Dio era un
ente ſingolariſlimo, uno, onnipoten re , buono , e libero; in ſomma di tutte
quelle perfezioni dotato le quali o per negazione , o per caſualità , o per
eminenza gli at tribuirono i SS. Padri, e cuti'i Teologi . Era Dio ſtato ſempre
con la materia ? Dunque altro non gli competea , che eſſer un modo di efla od
un ente , che ſolo per preciſion di ragione dalla materia ſi diſtingueva ; era
egli per metà uno , per metà onnipotente , fe dipendea da un principio , ſenza
il quale operar non potea , non più che il Pitcore dalla tela e dai colori , e
lo Scultore dal marmo. La diminuzione della potenza toglieva a Dio la bontà ,
perchè non poteva egli vincer in guiſa la contumacia della materia , che non
regnaſſe a ſuo malgrado il male miſto col bene . Come dunque Mosè per opporſi
al politeiſmo del ſuo tempo dalla creazione cominciò la ſtoria del mondo ; così
per opporſi a tutti gli errori che derivarono dall'eternità della mate ria fi
cominciò nel ſimbolo Apoftolico da Dio creatore , inſiſten do al dogma di S.
Paolo , il quale nella Epiſtola agli Ebrei : In tendiamo ; ( a ) dice egli ,
per la fede eſſere ſtati connelli i ſecoli Tom . II. b dalla ( a ) Epiſt. agli
Ebrei cap. 11. Fide intelligimus aptata eſſe ſecula ver bo Dei . ( 10 ) dalla
parola di Dio . I Padri nelle loro diſpute co'Gentili lo dichia rarono. Noi ,
dice Atenagora ,Jepariam Diodalla materia , lamateria crediamo un ente diverſo
---- ( m ) Dio è uno , ed ingenito , ed eterno ; la materia è corruttibile ; e
poi celebriamo tutti un Dio ſolo crea tore di tutte le coſe . - - .- la fua
forza immenſa non poterono abbrac ciar coloro con l'animo, che la notizia di
Dio non cercarono nello ſtef fo Dio, ma dentro fe fteſi . Taciano (6 ) pur dice
: Dio non s'inſi nua nella materia e negli spiriti materiali e nelle forme , ma
egli è artefice inviſibile ed intangibile di tutte le coſe . Teofilo
d'Antiochia ( c) parlando ad Autolico, dice , ſe Dio è ingenito e la materia è
pur tale , non è più Dio fabricatore e creatore di tutte le coſe . Queſti Pa
dri viſfero tutti e tre nel ſecondo ſecolo non molto diftanti l' uno dall'altro
. Gli errori de' Marcioniti , de' Valentiniani , de' Baſiliani , chefuronopur
cutti e tre che in queſto ſecolo diedero occa fione a' Padri d'illuſtrare il
lor zelo , dichiarando con la crea zione della materia il principio
fondamentale della Religione Criſtiana . Anzi Taciano dimoſtro , che i Greci ne
avevano ri cevute l'idee da'Barbari , ed i Barbari dagli Ebrei , benchè poi le
aveſſero oſcurate e corrotse . Affaccendati gli altri Padri a purgarle ,
oſſervarono che Dio , autore del pari della Fede , che della ragione , non le
avea ſeparate in un modo caliginoſo ed impenetrabile , ma le avea in maniera
accordate , che dall'aurora dell'una fi potea paſſare al pieno giorno
dell'altra , cogliendo però dalla ragione quanto e Platonici e Pittagorici e
Stoici, ed Epicurei v aveano im preſſo col lor proprio carattere . Si
compiacquero dunque della ſetta Eclerica , ed il primo che l'abbracciale fu
Atenagora il primo de' Catechiſti d'Aleſſandria , poi S. Clemente ed Origene
dal Veſcovo Uezio chiamato Pocamonico ( d ) anzichè Platoni ço , San Clemente
ſpinſe tant'oltre la condiſcendenza , che pro poſe come poflibile un ſiſtema
filoſofico, il quale raccoglieſſe tut te le verità ſcoperte dalla ragione umana
fin dal principio del mondo , ed agevolaſſe il metodo di far ricever i dogmi
della fede, e quello della creazione. Amonio Sacca conciliator di Ariſtotele e
di Platone , ritrovando che in Ariſtotele l' eternità del mondo ſi conciliava
con l'eter nità di Dio , ſe ben egli nulla ſcriveſſe , laſcid tuttavia a' ſuoi
diſcepoli , onde ſtabilire tal dogma. Diſtinſe egli l' eternica in due gradi o
in due ſegni , nell' uno dei quali poneva Dio, nell'altro le coſe bensì create
, ma da lui dipendenti , come il raggio dalSole , o l'ombra dal corpo .
S'accorſero i Padri, che iFi ( a ) Apologia pro Chriftianis . ( 6) Tat. allir,
cont. Græc. ( c ) Teof. Aut, lib . 2. ( d ) Iftor. del Moeffenio nel
finedelCuduortio . ( 11 ) e tras i Filoſofi mettendo con la creazione eterna
una dipendenza tra la materia é tra Dio , coglievano a Dio la libertà , perché
cacitamente fupponevano , che da Dio neceffariamente foſſe emanato il mondo
come il raggio dal Sole e l'ombra dal corpo . Far di Dio un Agente neceſſario ,
è lo ſteſſo che farlo per metà Signore , per che ſe fi confeſſa da una parte ,
che da Dio dipenda la coſa che egli fa , fi nega dall' altra che da lui dipende
il farla ed il non farla. La libertà è la maggiore delle perfezioni. Perchè dun
que corla a un ente infinitamenteperfetto ? Lafcio S. Ireneo, S.Cirillo , ed
altri, cheſoddisfarono ampia mente a tutte l' obbiezioni ; ma quello , che più
degli altri le ſcDIonvolſe ed atterrò , è ſtato Lattanzio Firmiano , che con au
reo ftile nel quarto ſecolo ſcriſe . In queſto ſecolo ancora ſcriffe ro Eufebio
nella Preparazione evangelica , e poi S. Agoſtino nel la Città di Dio , l'uno
ſegut l' ormeaccennace da Taziano , 1 alţro con erudizione più vigorofa , e più
filoſofica ſcriffe contro l'eternità , l'animazione , la divinica del mondo , e
l'immutabi lità del Fato . Apparve Proclo ( as nel príncípio del V1. fecolo
fondendo nella ſua Teologia molto di quella de' nomiDivini at tribuita a S.
Dionigi Areopagita , rinovd il fiſtema di Amonio Sacca riſtoro il Platoniſmo
caduto . Nel fecolo dopo , Zac caria di Mitilene , ed Enea di Gaza , ſcriſſero'
pure contro l'eter nità del Mondo. E da' loro fcritii ſi raccoglie , che l'idea
di Dio, combinata col policeiſmo era un'idea nugatoria , non men di quel la del
bilineo rettilineo , che rappreſenta alla mente una figura , é non è che una
contraddizione . Il P. Balto , nel ſuo dotuiffimo libro contro il Platoniſmo
ſvelato , lo dimoftra ; e dopo il Balto fe de fece dal Moeſfenio quella
circoſtanziata iſtoria ſul Platonis la quale è nel fine dell' opere del
Cuduortio , da lui tradotre dall' Ingleſe in Latino . lo nell’eſpor la doctrina
de Filoſofi antichi non mi feryi rò dell'autorita de' Platonici recenti , non
più , che fe non aveſ ſero mai ſcritto , ſalvo allora , che s'accordano cogli
antichi, e ci confervano qualche circoſtanza ſtorica indifferente . Cercherò
prima ne' teſti de' Filoſofi ftefli il ſenſo , che naturalmente preſen iano , e
dove ſia queſto oſcuro , ed equivoco , ricorrerà all'in terpretazione o di
Cicerone , o di Plutarco , o di Sefto Empirico , o di Laerzio Viſle Cicerone
molti anni prima del Crifianeſimo , e Plutar co viffe a Roma ſotto Adriano, o
Trajano , dopo d'aver ſtudiato in Egitto forro Amonio , diſcepolo di Potamone,
e del quale egli b 2 par ( a ) Pachimero in Suida , Vedi Fabrizio Bibliot. art
, Proclo . e mo , . ( 12 ) parla nella vita di Temiſtocle ed altrove. Laerzio e
Seſto Empi rico , fiorirono in circa ſotto Severo , che vuol dire molto prima
di Amonio Sacca , di Plotino , di Porfirio , e di molti alori nimici del nomeCriſtiano
; non rifiuterd dall'altro lato i ſoccorſi , che i Padri m'offrono allora
particolarmente , che non hanno certa indulgenza alle opinioni filoſofiche ,
ſcrivendo agl’Imperatori, o non argomentano ad hominem contro coloro , che
gl'inſultava no . La mecafiſica di Platone non è diverſa da quella de' Pittago
rici , e ſe una volta io dimoſtro, che queſti e particolarmente Pitta gora ,
Senofane, e Parmenide conobbero bensì un principio intel ligente , ma non
ſeparato dalla materia , anzi con effa non facen do che un tutto , avrò
dimoſtrato , io mi perſuado, che queſto pur era il ſiſtema Platonico .
Cominciero da Cicerone che in poche ma ſoſtanzioſe parole compendio tutto il
ſiſtema de' primi Accademici o di Platone , e lo craſſe da' Pittagorici , come
da Placone purtraſsero il loro gli Stoici, e i ſecondi e verzi Acca demici ,
poichè quanto a' Peripatetici ( a ) eli convenendo nelle cafe non differivano ,
che ne' nomi . Gli antichi , dice egli , divideano (b )lanatura in due coſe ,
l'una delle quali era efficiente, e l'altraad eſsa quafi preſtandoſi quella di
cui ſi fa ceano le coſe.. Incid che facea riponevano la forza , in ciò di cui
ſi fa cea , una certa materia , ma l'una e l'altra era nell' una e nell' altra
perchè nè la materia può aver coerenza , ſe non ſia da qualche forza ritenuta ,
ne v'è la forza ſenza qualche materia , poichè nullo v'è che non fic in qualche
luogo . . Se la forza e la materia erano indiviſibilmente unite , la fola mente
le ſeparava , e perciò conſiderar l'una ſenza l'altra era un ?: aſtrazione ,
una preciſion della menee . Cid che riſulta ( c ) dall'uno e dall'altro , o ſia
dall'accoppiamento , lo chiamavano corpo , e quafi certa qualità ...-- . Di
queſte qualità al tre fono principali, ed altre derivate da queſte . Delle
principali ſono ognuna ( a ) Cicer. Quæſt. Acad. 1. Peripateticos', &
Academicos nominibus differentes , & re congruentes lib. 2. ( b ) De natura
autem ita dicebant, ut eam dividerent in res duas , ut altera eſſet efficiens,
altera autem quaſi huic fe præbens ea qua effi ceretur aliquid : in eo , quod
efficeret vim eff: cenſebant ; in eo au tem quod efficeretur materiam quamdam :
in utroque tamen utrum , que : neque enim materiam ipfam cohærere potuiſſe , ſi
nulla vi contineretur ; neque vim line aliqua materia : nihil eft enim quod non
alicubi eſſe cogatur. ( c ) Sed quod ex utroque id jam corpus , & quaſi q
uandam qualitatem nominabanc Earum igitur qualitatum ſunt aliæ Principes , aliæ
ex his ortæ . Principes ſunt uniuſmodi , & ſimplices , ex iis au tem ortæ
variæ funt, & quafi multiformes : itaque aer quoque ( uti niur ( 13 )
ognuna della ſteſſa ſpecie , e ſemplici. Da queſte qualità , altre ne for no
nate , e quaſi moltiformi. L'aere , il fuoco , l'acqua , ela terra for no primi
, e da queſti nacquero le forme degli animali , e le altre coſe , che ſi
generano dalla terra . Dunque que' principi , per tradurlo dal Greco, ſi dicono
elementi , de' quali l' aria , il fuoco , banno la for za di muovere , e di
fare , le altre parti di ricevere , e quaſi di pati re , l'acqua, dico , e la
terra . La parola ſemplice quì non ſignifica indiviſibile , e Seſto ( a ) Em
pirico pur la prende in queſto ſenſo . Vè un quinto genere , b )di cui ſono gli
aſtri, e le menti ſingolari , ed Ariftotele lo pone diſimile dagli altri
quattro . Se le menti ſono tratte dallo ſteſſo elemento , che gli altri , non
ſon eſſe ſemplici nel ſenſo d'indiviſibile, ciò che Cicerone dice altrove .
Teniamo noi che l'animo abbia tre parti , come piacque a Platone, o ſia
ſemplice ed uno ; ſe ſemplice ſia egli come il foco , il fangue , l'anima ,
cioè il ſoffio . Queſte coſe conſtando di parti non ſono ſemplici. Continua
Cicerone . ( c ) Ma penſano, che di tutte ſia ſoggetto una certa materia priva
di ogni specie , e d ogni qualità , e da eui Butte le coſe ſono eſpreſſe e
fatte , e che può ricever in sè tutte le coſe . Se la materia era prima d'ogni
fpecie , d'ogni qualità , non cra corpo , e perciò conſiderata dalla mente ,
indipendentemen te dalla forza , ella era incorporea ; Selto Empirico chiama
per . incorporei i punti, le linee , e le ſuperficie . .. Platone nel Timeo ,
la chiama difficile ed oſcura fpecie , e il recercacolo d'ogni generazione, e
quali nutrice ; aggiunge , che ella non fi diparte mai dalla propria potenza ,
perciocchè tut te le coſe riceve , nè prende maiper alcun modo, alcuna forma a
queſte fimile , e prova eller convenevole , che di tutte le ſpecie ſia privo
quel. che ha in sè da ricever tisti'i generi, comequelli che hanno da fa re
unguenti odorofi, l'umida materia , che vogliono di certo odore, cori dire di
tal guiſa preparano ', che ella non abbia alcun proprio odore e colore eziandio
, vogliono in materie molli imprimere alcune pgure , los niuna mur' n. pro
latino ) ignis , & aqua , & terra prima ſunt. Ex iis au tem' orræ animantium
formæ earumque rerum quæ gignantur è ter ras, ergo illa initia , ut è Greco
vertam , elementa dicuntur ; è qui bus aer , & ignis movendi vim habent
& efficiendi ; reliquæ par tes accipiendi & quafi patiendi, aquam dico
& terram . a ) Contra Mathematicos. ( b ) Quintuin genus e quo eſſent aſtra
mentesque ſingulares earum quatuor quæ ſupra dixi diſſimiles , Ariſtoteles
quoddameſſe rebatur . ( 6 ) Sed Salicetam putant oinnibus fine ulla fpecie ,
atque carentem omni illa qualitate o ... materiam quandam ex qua omnia eſptela
, atque effecta lipt qux'- tota omnia accipere pofito ( 14 ) 1 njuna figura
affatto laſciano primieramente apparire in quelle , ma cer cano pria di
renderle quantopoſſibil fra polite. Molte altre coſe aggiunge Placone , che
Ariſtotele in una de finizione riduce , dicendo che la materia non è alcuna di
quelle co fe , di cui l'ente fi determina , e tra l'altre coſe annovera la qua
lica , e la quantità , che par Cicerone ridurre alla ſola qualità ; ma che
l'idea del corpo , e della materia foffero diverſe ſecon do gli antichi , lo
dimoſtrano le diverſe parole , con cui l'eſpri mevano , chiamando la materia
ùns, ed il corpo owllde. Chi po ne un nome , dice Platone nel Sofiſta , dalla
cofa diverſo , introdu ce veramente due coſe . La materia dunque, non eſſendo
il corpo , ella era incorporea , ed incorporea la chiama in molti luoghi Sefto
Empirico , e Plotino , la cui autorità qui è tanto più for te , quanto che egli
ſteſo col nome d'incorporeo , non ſignifi cava la ſteſſa coſa che noi chiamšamo
fpirituale . Stobeo ( a ) lo conferma col dire: Si nega effer corpo lamateria
non tanto , perchè manchi degl'intervalli del corpo , o delle tre dimenſioni ,
quanto perchè ſia priva d'altre coſe appartenenti al corpo, figura, co lore ,
gravità , leggerezza, ed ogni altra qualità , e quantità . La materia pud ( b )
in tutti i modi mutarfi , ed in ogni parte non mai ridurſi al niente, ma ſolo
in parti che poſsono all' infinito partir li, e dividerſi , nulla eſſendo di
minimo in natura , che divider non fi pola. Le coſe poi che ſi movono tutte',
moverſi con intervalli , che all'infinito ſi poſſono dividere , e cosi'
movendoſi quella forza , cheab bian detta qualità ( cioè il corpo ) e di qud ,
e di là verſando per fano , che tutta affatto la materia fi muti , efi faccian
le coſe, che chix miam quali, dalle cui nature coerenti, e continue in tutte le
ſue parti è fatto il mondo , fuori di cui non v'è alcuna parte di materia , nè
abas cun corpo . Quante coſe raduna Cicerone in poche parole ! Con la divi
fibilità all'infinito della materia , eſclude gli atomi forſe ammeſ da
Empedocle ne' minutiſſimi corpicelli , che componevano gli elementi, e da
Eraclito nelle mondature piccioliflime , ed indivi fibi ( a ) Stobeo. I. 1.
Egl. fil. cap . 14. 16 ) Omnibusque modismutare atque ex omni parte eoque etiam
interi se non in nihilum ', ſed in ſuas partes quæ infinite lecari , atque di
vidi pollint, cum ſit nihil omnino in rerum naturam minimum quod dividi nequeat
: quæ autem moveantur omnia intervallis moveri; quzintervalla item infinite
dividi poſfint, & cum ita moveatur il la vis , quam qualitatem effe diximus
, & cum fic ultro citroque verfetur : & materiam ipfam totam penitus
commutari putant , & ita effici quæ appellant qualia , e quibus in
omninatura cohærente , & confirmata cum omnibus fuis partibus effectum elle
mundunt, extra quem nulla pars materiæ fit nullumque corpus . ( 15 ) Ibili .
Con la coerenza delle parti della materia , Cicerone eſclu de il vuoto negato
da tutti , da Talece fino a Platone , onde dif ſe Empedocle: Nulla di vuoto vė
, nulla che abbondi. Accenna pur Cicerone le leggi coſtanti che conſervano
icore pi movendoſi, e nel dir che fi movono con certi intervalli , i quali all'
infinito ſi poffon dividere , non applica egli le leggi del moto a' corpi
minimi come a'fenfibili ? Le parti (a) del mondo effer tutte le coſe che fono
in eso, e tutte occupate da una natura che ſente , e nella quale v'è una
ragione per fetta , e la ſteſsa fempiterna , nulla effendovi di più forteche
poſsa diſtruggerla , e la steſſadirfi mente , ſapienza perfetta , e chiamarfi
Dio, ed eſer .quafi certaprudenza di tutte le coſe , cheprovede alle coſe
celefti , ed a quelle che in terra appartengono agli uomini. Se queſto Dio
degli antichi Filoſofi rifultava dalle nature coerenti e continue di tutte le
parti del mondo , ſe egli era il ſenſo , la ragione perfetta, la ſapienza , la
providenza che reg gea queſte parti , era egli altro che una modificazione
della forza e della materia , giacchè non v'era forza ſenza materia , nè
materia fenza forza , e non era egli ſeparatamente dalle co ſe conſiderato che
un ente di ragione ? Qual relazione ha que fto Dio al noſtro , che è un ente
ſingolariſtimo in sè, e fepa rato non per preciſion di ragione , ma realmente
dalla forza e dalla materia , della quale egli è il Creatore ? Alle volte
lochiamiamo ( b ) neceſſità , perchè null' altro pud farſi , ſe non ciò che da
lei è coſtituito nella quafi fatale , e immutabile con tinuazione d'un ordine
fempiterno ; alle volte poi lo chiamiamo fortu na , la qual fa molte coſe
improvvife , nè da noi penſate per l'oſcuri. tà , ed ignoranza delle cagioni ;
ed ecco Dio rappreſentato come agente neceſſario , o ſenza libertà ; ecco
diſegnato l' ordine fa tale e ſempiterno delle coſe ; ecco come per la noſtra
igno ranza non poſſiamo conoſcere la conneſſione , e le conſeguenze delle ( a )
Partes autem mundi effe omnia quæ infint in eo quæ natura ſentiente teneantur ,
in qua ratio perfecta inſit quæ fit eadem ſem piterna : nihil enim valentius
eſſe a quo intereat , quam vim ani mam effe dicunt mundi eandemque effe mentem
fapientiamque per fectam quem Deum appellant, omniumque rerum quæ ſunt ei fub
jedtæ quafi prudentiam quandam procurantem cæleftia maxime dein de in terris ,
eaque pertinent ad homines . 16 ) Quam interdum neceſitatem appellant quia
nihil aliter poſfit, at que ab ea conftitutum fit inter qual fatalem ,
&immutabilem conti nuationem ordinis fempiterni ; nonnunquam quidem eandem
fortu nam , quod efficiat multa improviſa hæc nec optata nobis propter
obſcuritatem ignorationemque cauſarum , ( 16 ) delle cagioni , e degli effetti
loro . In ſomma l'antica Filoſofia aveva adotata l' eternità , l' animazione ,
la divinità del mondo , e l'immutabilità del Fato , le quattro coſe che Santo
Agoſtino ha egregiamente combattute nella Città di Dio . Comparando il trattato
d' Ilide , e d' Ogride di Plutarco col paſſo di Cicerone , non è difficile di
raccogliere, che la Filoſo fia Egizia ne' principi eſſenziali non era diverſa
dalla Greca , ſe non nella maniera di ſpiegarſi o ne' ſimboli . La materia , di
cui parla Cicerone , era Ilide , la quale in ogni coſa potea tramu . tarſi, e
di tutte le coſe eſer capace , della luce , delle tenebre , del giorno, della
notte, della vita , della morte , del principio , e del fi ne . La forza è
Oſiride , la cui veſte ſi facea ſenza ombra , e ſenza varietà , d'un color
ſemplice , e rilucente ; perchè ella è il principio dalla noſtramente ſolo ,
intefo , puro, e ſincero, tutt' iſimbolicontrarj a quelli delle proprietà
dipendenti dalle qualità de' corpi diſegnati per Oro . Riſultava queſti
dall'accoppiamento d'Ilde , e d'Oſiride, e chiamavaſi parto o creatura ,
rappreſentandoſi per l'ipotenuſa del triangolo miſurata dal 5 ; per cui ſi
chiamava con la voce Pente , da cui deriva Panta, o l'Univerſo , che gli Egizi
penſavano eſſer la ſteſſa coſa con Dio , nel che, come egli dice , s'accordava
Ma netone Sebenita con Ecateo Abderita . Diodoro di Sicilia nel principio della
ſua Storia , ſcrive coſa pen {aſſero gli Egizj su la generazione del mondo ,
ſul principio del le coſe , ſul naſcimento dell'Uomo. Par che Euſebio afcriva a
Tot , che è il Mercurio degli Egizj , quanto ſcriſſe Sanconiatone ſul caos, e
ſulla formazione della Luna , delle Stelle , degli Elementi . La Teologia
miſtica dei Fenici , che dagli Ebrei , ſecondo Euſebio ed altri Padri , ſi
preſe , reftd in guila alterata e confuſa, che nel caos poſero prima i principj
delle coſe, ed introduſſero poi l'arte fice o l'amore , per opra del quale
ordinarono il caos , é fabbrica rono il mondo . Orfeo il primo la portò nella
Grecia e L'Inno criſto canto del caos vetufto , E come agli elementi , e come
al Cielo Origin deffe, ed alla vaſta terra , E alla profondità del mar Amore
Antichiſſimo, e ſaggio . Il caos era la materia , l'amore , o la forma, ed i
prodotti, i compoſti, ed i corpi, ed in queſte tre coſe conſiſtea la fiſica
generale degli antichi . La ſcienza che n'eftraſſero o la metafi fica
rappreſentandola in una maniera molto indeterminata , la ſciava infeparata la
materia da Dio , e dai compoſti , ed era molto perciò differente dalla noſtra
metafiſica, la quale nell' en te include eſſenzialmente le creature , nè
s'eſtende che per un ' 9 1 5 ܗܳ ana ( 17 ) analogia molto lontana al Creatore . Io lo
dimoſtrerò partita mente ne' liſtemi di Pittagora , di Senofane, e di Parmenide
, e ſarà facile ad applicarne l'uſo a Platone . Pittagora e Platone ( a )
giudicano , che il mondo ſia ſtato fatto da Dio : dunque le Platone fece da Dio
generar il mon do ordinando la materia fluctuante , egli imparò ciò da Pitta
gora , che l'avea imparato dagli Egizi, da Orfeo , anzi dal pro prio maeſtro (
6 ) Ferecide Sciro. Avea egli ſoſtenuto , che in tut ta l'eternità Giove , il
tempo , e la terra erano ſtati. Facciali pur di Giove, la cagione di tutte le
coſe , e gli ſi dia ſomma pruden za , e fomma ſapienza , egli non ſarà mai che
la forza , e l'amore che eguaglieraffi al tempo , e alla terra ; vi ſi aggiunga
, che poi chè Giove diede il premio alla terra ſi chiamò queſta Tellure, ( c )
non altro mai ſi concluderà , ſe non che prima la forza , e l'amo re
temperaffe, digeriſſe , ed ornaſſe quella mole indigeſta , che chiamavali terra
. Pittagora generò il mondo dal foco , e a guiſa di foco ſotti liſſimo ( d )
Iparſo, e rinchiuſo nel mondo , volea Placone , che foffe Dio . L'ornamento , (
e ) l'unione , l'ordine di tutte le coſe furono chiamate da Pittagora Coſmos, o
il mondo, e diffe egli , che il mondo viſibile era Dio . Stimò il primo , dice
Cicerone ( f) l'animo per tutta la natura delle coſe eſer diffuſo , e per la
mente da cui gli animi noftri ſono tratti , ne vide per la detrazione di que
fti diſtaccarſi , e ſquarciarſi Dio , e farſi miſera una parte di lui , mentre
queſti ſoffrivano. Dio dunque era il mondo , e l'anime era no parti di Dio ,
effetto della Metempficoſi, ſe pur non era queſta una coſa affatto poetica,
come Timeo di Locri lo dice . Virgilio eſpreſſe il ſentimento di Cicerone nelle
Georgiche. * Della mente di Dio parci efſer l' api, E forfi eterei differo ,
che Dio Va per tutte le terre, e tutti i mari , E pel profondo Ciel ; quindi
gli armenti, E le pecore , e gli Uomini, e ogni ftirpe Di fere, e ogni altra ,
che da se rimove La tenue vita allorchè naſce . Tomo II. E nell ( a ) Plut. de
Ifid.& Ofir.car. 374. Franc. Edit. Vechel . ( 6 ) Laert. (C ) S. Clem .
Aleſs. ( d ) San Giuſtino apolog. Ermia nel fine dell'opere di S. Giuſtino. (
e) Plut,plac.lib.2 . ( 1) De Natura Deor. I. 1 . Elle apibus partem divinæ
mentis , & hauſtus Æthereos dixere : Deum namque iré per omnes Terrasque
tractusque maris Columque profundum . Hinc pecudes , armenta , viros , genus
omne ferarum Quemque fibi tenues naſcentem arceſſere vitas . 1.4. Georg. . C (
18 ) E nell' Eneide , * Nel principio le terre , il Cielo , e i campi Liquidi,
e della Luna lo fplendente Globo , e gli aſtri Titanj , interno fpirco Alimenta
, ed infuſa in ogni membro Tutta la mole n'agica la mente E fi framiſchia nel
gran corpo ; quindi E di pecore , e d'Uomini la ftirpe, De volanti la vita ,
e'l mar che i moftri Sorco la liſcia ſuperficie porta . no , Pittagora fu
l'autor dell'idee ; (a ) oſervd il primo tra'Greci che la mente non potendo
rappreſentarſi ſingolari, perchè ſono in numerabili nel compararli, ne traſfe
igeneri, e le ſpecie , ne'qua li ſi ravviſano le coſe ſparſe . Così ravviſava
tutti gli individui umani nell'animal ragionevole. Nel far queſti aſtratti ( 6
) conſide rò , che la materia era mutabile , alterabile , Auflibile in ogni gui
fa , ma che non vi ſono ſpecie , che s'accreſcano , o che perifca e perciò gli
Uomini oſſervandole coſtantemente in tutti i tempi, e in tutti i Paeſi le
credono eterne ed immutabili . La que ſtione era di rappreſentar queſt'idee. I
numeri convengono all'Uomo , al cavallo , alla giuſtizia , al la caſa , e a che
so io ; dunque i numeri ſono univerſali , perchè atti alla rappreſentazione de'
molti. L'oſſervazione è d'Ariſtotele , ( c ) e molto più la ſtende Poſſidonio ,
riferito da Seſto Empirico , ( d ) il qual dimoſtra per i numeri aſſimigliarſi
cutte le coſe , e ſen za queſti non poterſi intendere nè gli elementi, nè
l'armonia , nè alcuna delle tre dimenſioni del corpo , nè ciò che riſulta da
corpi uniti , coerenti , diftánti, nè tutti i calcoli delle quantità fùccef five,
nè ciò che appartiene alla vita , ed all' arti fondate su propor zioni ſolo
intelligibili per i numeri . Pitragora dunque ſi ſervì del numero , per dar un
ſimbolo dei due principj delle coſe, la forza , e la materia , di cui chiamò
l'una l'uno , e l'altra il due . L'unità , diceva egli , è Dio , ( e ) ed anche
il bene che è di natura * Principio Coelum , ac terras camposque liquentes
Lucentemque globum Lunæ Titaniaque altra Spiritus intus alit : totamque infuſa
per artus Mens agitat molem , & magno ſe corpore miſcet. Inde hominum
pecudumque genus vitæque volantum , Et quæ marmoreo fert monſtra ſub æquore
pontus . ( a ) Plut. plac. Phil. l. 1. ( 6 ) Plut. ib . l. 1. c.9 . ( c ) Metaf
. lib . 10. ( d ) Contra Logicos . ( e ) Plut. plac . Phil. lib. 2 . ( 19 ) un
ſolo , e lo ſteſso intelletto , il due infinito , e genio triſto , d'inser
torno il qual due ſi fa la quantità della materia . Chiamava uno la forza
perchè noi la concepiamo a guiſa d'un non ſo che d'indi viſibile ; chiamava due
la materia , perchè ella è fempre divil bile in due , Di queſti due principj,
uno è quello del bene , e l'altro del male, già l'ha inſinuato Plutarco.
Archelao Veſcovo ( a ) di Cara dice ; Širiano introduce la dualità contraria a
ſe ſteffa , la quale egli preſe da Pittagora , ſiccome tutti gli altri
ſettatori di tak dogma, ; quali difendono la dualità declinando dalla via retta
della ſcrittura . Tutte in ſommal'ereſie , che vi ſono nel compendio della Filo
fofia di Cicerone , che vuol dir l'eternità , l'animazione , la divis nità del
mondo , Piccagora le raccolfe in un ſiſtema , ed in vano fi dice, che egli
nulla fcriveſſe . Liſide diſcepolo ( b ) di Pittagora in una lettera fcnca ad
Ip parco , dopo la morte del maeſtro ſignifica non voler comuni care ad alcuno
i precetti, e dimoſtra che delle coſe , le quali di ceano i ſeguaci di
Pitcagora , non ve n'era nè pur ombra. Por firio nella vita di Pittagora dice ,
che agli Uomini oppreſli da tale calamitat, ( cioè dalla morte di Piccagora ) :
manca lo ſciens di lui , la quale arcana e recondita cuſtodida in petto , nè vi
reftas fono che certe coſe difficili da intenderſi imparate a memoria dagli udi
tori dell'eſterna Filoſofia, poichènon v'era alçun ſcritto di Pittagora ; ed
aggiunge ,che dopo la morte di lui „ Lilide , Archippo ,ed altri furono
folleciti , chei penſieridiPiccagora non ſi pubblicaffero , onde eutti gli
arcani della ſua Filoſofia con lui perirono'. To dubito aſſai del la vericà
della lettera di Liſide, la quale con quel che dice Porfirio pud eſſere ſtata
finta ,perchè i Criſtiani nontraeſfero argomenti da quanto ci reſta diPitagora
, in Cicerone, in Plutarco , in Laer zio : ma ſe non v'era coſa alcuna della
Filoſofia di Pittagora ,.co me poi Jamblico poeea gloriarſi di riftabilirla ; e
non è manifeſto che egli la riſtabili a fuo modo per combattere i Criſtiani
de'quali fu accerbo' nimico ; lo ſteſſo Porfirio , che dice nulla aver fcric to
Pittagora , come poi ebbe fronte d'afferire , che egli avea ſcrit to fu l'ente
, il che Euſebio ( c ) riferiſce ? Diſcepoli di Pitcagora furono Archita
Tarentino il vecchio , Pe ritione , Timeo di Locri, ed Epicarmo. Archita il
vecchio ( d ) , che Simplicio confonde col giovine , fcriſſe delle dieci voci
corriſpondenti ai dieci concetti dell'animo , i quali s'eſtendono a cutte le
cole , potendoſi d' ognuna cercar la ( a ) Zaccagna collect. monumentorum
veterum Eccleſiæ Græcæ , atque Latinæ . Archelai Epiſcopi acta . ( 6 ) Galeo .
( c ) Propof. Evang, lalg . (d ) Patrizia diſcuſ, Peripa,1 ( 20 ) la ſoſtanza ,
la quantità, la qualità , l'azione , e gli altri acciden ti regiſtrati a lungo
da Ariſtotele nella ſua Logica , in cui copiò il trattato di Archita . Lo
Stanlejo , che pretende di numerare tutte le donne Pitcago riche , omette
Peritione, e pur eſser ella dovea la più celebre ,le da lei trafse Ariftotele (
a ) tutta l'idea della ſua metafiſica . Lo prova con molta erudizione il
Patrizio , allegando la definizio ne della fapienza di Peritione , e
comparandola con quella di Ariſtotele. Laſapienza , diceva ella , verſa in
tutt'i generi degli en ti , perchè verſa intorno tutti gli enti , come la
viſione intorno tutti i viſibili. Ariſtotele definì la metafiſica, per la
ſcienza che contem pla l'ente , in quanto ente , e le coſe che per sè gli
convengono . Peritione egregiamente ſpiegò gli accidenti dicendo : delle coſe
che accadono agli enti , alcune univerſalmente accadono a tutti , alcu ne altre
a molti di loro , e certe ad un ſolo , ma riguardar univerſal mente , e
contemplar tutti gli accidenti appartiene alla ſcienza . Que. fte ed altre cole
che ilPatrizio aggiunge, danno idea della preci fione , e nettezza di Peritione
, e nel tempo ſtefso quanto tra' Pittagorici erano familiari l'idee
Pittagoriche , ſe le donne ſtef ſe ne ſcriveano con tanta eleganza filoſofica ·
Non dobbiamo tuttavia meravigliarſene , di poi cheabbiam veduto ne’noftri gior
ni Madama la Marcheſa di Chatelet , ſcrivere ſulla natura del. le monadi
Leibniziane , queſtione molto più oſcura di quella dell'ente . Timeo di Locri
nel ſuo ragionamento ſull'anima del mondo , in queſta univerlità di natura ,
dice egli , v'è un certo che, il qual rimane , ed è l intelligibile eſemplare
delle coſe , che ſono in un fuſo perpetuo di mutazioni, e queſto nelle vicende
delle coſe ſingolari , co ftante, e perpetuo eſemplare ſi chiama idea , ed è
dalla mente compre fo . Nell'univerſità dunque delle coſe , che vuol dir dentro
le coſe o in cutti i compoſti v'è quel non ſo che , che mai non cangia , e può
dalla mente eſtrarli qual idolo . Le coſe ſenſibili eſser in un perpetuo fluſso
lo diſsegnarono , al dir di Platone , nell'Omero , ed Eſiodo ſotto l'imagine
dell'Oceano , e di Te ti , e di queſte non aſsegnarono fcienza i Pictagorici ,
ma ſolo di quelle , che nè col ſenſo , né coll' immaginazione ſi ravviſa no , e
queſta fu la prima differenza tra la Filoſofia Jonica , e l'Italica . Epicarmo
ſommo Poeta , come Omero al dir di Platone , so all' una grandezza d'un cubito
( diceva egli ) altra tu voglia aggiun gervi o ſottrarsi, non avrai mai certo
la Nera miſura ; gli Uomini pa rimen ( a ) Patriz. l . 2. cap. 1. diſcuſ.
Perip. ( 6) Ragion, ſu l'anima del Mondo . ( 21 ) rimente conſidera or
accrefcere , ed or decreſcere , tutti ſoggiaciono ai cambiamenti del tempo . (
a ) Jeri tu fofti un altro , io pur vi fui, E un altro ſiamo in queſto tempo ,
e fieno Di nuovo gli altri , che non mai gli ſteſſi Noi ſiamo , come la ragion
lo predica . Per l'Intelligibile così parlo : A. L'arte tibicinal è qualche
coſa ? B. Perchè no . A. Forſe è l' Uom queſta tal arte ? B. Non mai A. Vediam
, che coſa queſto ſia Tibicine B. Egli è un Uom ; non dico il vero ? A. Il ver
ma ftimi che non debba diri Ciò pur del bene ? Io voglio dir che il bene Una
coſa pur ſia , ma s'altri impari Ad effer buon ei già dirafli buono ; Il
Tibicine è quegli che la tibia A ſuonar imparò. Quel che a ſaltare Salvatore ,
e ceſtor quegli che a teſſere Impararo , e così d'ogni altro l'arte Certamente
non è , ma ben l'artefice . Nel dir Epicarmo , che il bene è una coſa come
l'arte , e che nè il buono , nè l'arte ſono gli uomini che la partecipano, egli
c ' inſegna a far le aſtrazioni della mente , la qual avendo comparato tra loro
molti Uomini che fien buoni , molti tibicini , molti falcatori e teſtori , ne
ha compoſto quell'idea , che poi convie ne a tutti . Queſt'idea reſtando ſempre
la ſteſſa in tutti i tem pi , ed in tutti i caſi, per quanto variano i
temperamenti, e le figure degli Uomini, li confidera ſempre nello Iteſſo modo ,
ed è principio del diſcorſo , o di ciò che nel Teeteto ſi chiamano analogie
ſcoperte , le quali nel raccogliere le coſe col mezzo de' ſenli , le fanno
comprendere la ragione. Epicarmo era contemporaneo di Senofane, come ſi diffe ,
ed eccoci a ' Filolofi più vicini a Socrate, ed indi a Platone , i qua li a
poco preffo ſi trasfuſero le ſtelle idee non diverſificate , che dalla maniera
d'eſporle, e di colorirle . Senofane, dice Euſebio , e quelli ( 6 ) che lo
ſeguirono , moſfero così con ( a ) Laerzio Vita di Platone . ( 6 ) Lib. 11.
cap. 1. Prep. Evang. ( 22 ) 1 . 1 contenzioſe ragioni , che piuttoſto
arrecareno a' Filoſofanti confuſio ne , che ajuto . Pittagora volea che il
mondo foffe eterno , benst come gli altri Filoſofi , quanto alla materia , ma
non quanto alla forma, poichè credea che foſſe ſtato generato dal foco; Se
nofane pofe il mondo non generato , ma eterno , 'aderendo ad Ocello Lucano ,
che fcriffe fu l'eternità del mondo prima d'A. riſtotele ; ecco la prima
differenza tra Senofane, e Pittagora Un'altra più forte ve n' era ; Pittagora
avea pofti per principj l'uno , e il due , Senofane riduſſe tutto all'uno ,
Senofane", dice Cicerone ( a ) , è più antico di Anafagora ; vuel che uno
fieno tutte le coſe , nè queſto uno è mutabile , ed è Dio non mai nato , e
ſempiter no , e di conglobata figura . Seſto Empirico ( b ) parlando per bocca
di Timone foggiunge, che fecondo Senofane l' Univerſo era una fola coſa , che
Dio eſiſteva in tutte le coſe , e che era di figura sfe rica , e di ragione
dotato . Ad Empirico ſi conforma Laerzio ( c ) dicendo , che ſecondo Senofane ,
Dio nella materia tutto udiva tutto vedeva , ſebben non reſpirale, e che tutte
le coſe inſieme erano la prudenza , la mente , l'eternità . Io dimando, ſe nel
far Dio fparfo per tutte le coſe, e fen ſitivo, e prudente, e intelligente,
differiva egli dall' opinione che Cicerone eſpoſe nel compendio della Filoſofia
? Non v'è che la figura sferica che gli aſſegna Senofane , e per cui non
infinito , ma finito lo rende ; ma chi fa , fe nel concepir gli antichi la figu
ra sferica , comela più ſemplice , intendeſſero ſimbolicamente d'ac tribuir a
Dio tutte le perfezioni ? converrebbe faper fe Senofane fcriſſe ciò in profa,
od in verſo , e ben eſaminare tutto il conte fto della fua dottrina . Non
reſtandoci che conghietture , io m'at tengo a quella del ſimbolo per accordar
Cicerone con ſe ſteſfo , il quale nella natura degli Dei combatte Senofane, che
aggiunſe la mente all'infinito . Queſt'infinità era una conſeguenza del fuo
ſiſtema , perchè ſup poſta l'eternità della materia cost argomentava : ( d )
Eterno è cid che è , se è eterno è infinito , fe infinito uno , ſe uno fimile a
sèl . Di nuovo ſe l' uno è eterno e ſimile , egli è ancora immobile , fe
immobile non ſi trasfigura per poſizioni, non ſi altera per forme, non ſi
miſchia con altri . Ariſtocele elamina i ſoffiſmi contenuti in queſto ragio
namento ; il principale è ; da ciò che il mondo è ecerno , infini to , uno ,
non ne fiegue che egli lia effettivamente immobile , per che le coſe eſiſtono
nella maniera che poſfono eſiſtere, e la materia ſe ſteſſa il principio del
moto non v'è contradizione a cont ( a ) Queſt. Acad. lib. 1 . ( 6 ) Lib . 1.
dell'ipotipoſi . ( c ) Laert. lib. 9. idí Arift. contra Xenof, Zenon. &
Gorgiam . eſſendo per i 2 ( 23 ) a concepire, che il moto ſia eterno come la
materia . Coloro che ammettevano il caos eterno , davano eterno il moto , ſebben
ſen za regola o forma . Non ſi cerca qui però , ſe concludeſſe l'argomento di
Seno fane , ma ſolo qual foſſe la ſua ſentenza , e coſa egli ne dedu ceſse .
Come poi accordarla colla ſua fifica? Ammetteva egli per principj ( a ) delle
coſe naturali la terra , il foco , l'aria , e l' acqua , e dalle alterazioni di
queſti elementi, rendea tutti i miſti a generazione, e corruzione ſoggetti.
Grand uſo fece di quefte due coſe , perchè, ſecondo lui , conſiſteva il So le
negl'ignicoli raccolti dall umida (6 ) eſalazione in una nuvola ignita , e la
Luna in una nuvola coſtipata . Manon era poſſi bile decerminare il grado di
verilimiglianza filoſofica ch'egli da va all'Ipoteli, poichè nelle ſentenze
filiche di Senofane y' è mani. feſta contradizione . Poneva egli de' Soli
innumerabili , e la Lu na abitata . I ſoli innumerabili erano quelli de'
Pitcagorici , e di Orfeo ( C ) ; ma come abitar una nuvola ? La terra ( d ) la
quale per immenſa profondicà fi ftendea di ſotto , era coſa ri pugnante alla
sfera armillare che Anaſimandro forſe di lui, maeſtro avea inventata o
propagata per cutta la Grecia . Cor revano allora tali dottrine, e Senofane ,
in Colofone, in Atene, in Sicilia , e in Elea le avea ſtudiate ; avea Talęce
calcolate l'eccliffi del Sole, e della Luna , avea Pittagora applicare al
liſtema celeſte le conſonanze Muſicali, e nella lira a lette corde determinato
il pu mero , e le diſtanze de' Pianeti ; non è poſſibile , che Senofane in un
tempo così illuminato voleſſe diſcredicare il ſuo ingegno con ipoteſi aſſurde e
ad ogni ragione contrarie ; non erano dunque , che idoli fantaſtici, iperboli
poetiche, o ſimiglianze groſſolane, in cui ſi deve più badare al color, che
alla coſa . La grande difficoltà di Senofane era nel combinare il fiſico col
metafiſico , o lo ſtato ideale con l'obiettivo . Avea già ſtabilito Pictagora ,
l'intelletto altro non eſſer che ( e ) mente , ſcienza , opi nione , ſenſo, da
cui tutte l' arti, e le ſcienze nacquero. Egli diſse gnava la mente per l'uno ,
ciò che adeſſo noi chiamiamo lemplice intelligenza ; diſegnava la ſcienza pel
due , poichè s'acquiſta la ſcienza deducendo una coſa da un'altra ; diſsegnava
l'opinione per il tre , poichè nel trar la conſeguenza da un principio proba
bile ſe ne riguarda nello ſteſſo tempo due , in uno de'quali v'èla ragion
ſufficiente d'affermare, nell'altro di negar la coſa . I Pit 3 ta ( a ) Laert.
vit. di Xen. Plut. plac. ( 6) Plutar. lib .... Origenes Philoſ. ( c ) Veggali
Moefenio ſu l'eſiſtenza d'Orfee . Plutar. plac. de Fil. lib.i. ( d) Gregorii
Aſtronomici Pref. ( c ) Plutar. lib. 1. de plac. ( 24 ) tagorici furono tutti
dogmatici , o per dar credito alle ſentenze del ſuo maeſtro , o perchè pareſſe
loro , che la fapienza non do veſſe mai eſſer miſtad'ignoranza , come accade
nell' opinione milta dell' una , e dell' altra . Senofane fu il primo ad
introdur il dubbio nella Filoſofia, e quindi l'opinione. ( a ) Chiaro l'Uomo
non ſa , nè ſaprà mai Degli Dei coſa alcuna ed altre coſe Che da me dette fur ,
ſiaſi perfetto Pur quanto ei dice , tuttavia non fallo , E v'è opinion in tutte
queſte coſe . Da queſti verſi Seſto Empirico inferiſce , che Senofane non to
glica la comprenſione, ma ſolamente quella che dalla ſcienza de riva ; nel dire
in tutte queſte coſe d'è opinione accenna il proba bile , e l'opinabile , onde
conclude che Senofane deve porſi tra coloro , che negano darſi criterio della
verità , e non tra gli ac cattalecici , che negavano alcuna coſa poterſi da noi
compren dere . L'autorità di Selto Empirico è d'un gran peſo , ove ſi tratta di
determinare i gradi della cognizione , ma non è da ſprezzar fi ciò che dice
Cicerone ( b ) : Senofane e Parmenide quan tunque con non buoni verſi però con
certi verſi accufano quaſi irati d'ignoranza coloro , che ofano dir di ſaper
qualche coſa allo ra che nulla fanno . Chi dice nulla eſclude ogni ſcienza , ed
ogni opinione . Senofane ſi diſtinſe per la Logica , ( c ) e ſecondo la Cro
nologia di Euſebio , (d ) egli fu udito da Protagora , e da Nef ſa ; Metrodoro
udi Nefra ; Diogene Metrodoro ; Anaſarco Diogene, e coſtui Pirro d' Elea , dal
qual ebbero nome i Filo ſofi Scercici fino a Gorgia , il qual diceva : Non v'è
nulla ; ,fe anche vi foſe qualche coſa , non ſi potrebbe comprendere , e ſe
compren dere , non mai ſpiegare con le parole . Come inoltrarſi dopo tale raf
finamento di dubbj ? Tra i diſcepoli però di Senofane il più illuſtre fu
Parmeni de deſcritto da Platone nel Teeteto qual vecchio grave , e vene rabile
e di una profondità al tutto generoſa , il che vuol dire, ſe mal non m'appoogo
, che egli nella diſputa non era oſtinato , ſu perbo , rozzo ed agreſte, come
Ariſtotele ( e ) dipinge Senofane è Meliſſo . Socrate in quel Dialogo , ed in
altri s'aſtiene quanto pud ( a) Xenoph. ap . Seſt. Emp, adv. Matem. ( 6 )
Queſt. Acad. l . 2. ic ) Eufeb.1.6 . C. 19. ( d ) Id. l . 12, c . 7. ( c )
Metaf. lib. ... ( 25 ) può di ragionare contro le ſentenze di Parmenide per la
rive renza che ad eſſo portava . Euſebio ( a ) caratterizza la dottrina di
Parmenide , qual via contraria a quella di Senofane . Ermia però , dice
Parmenide in bei verſi, c'inſegna che queſto Univerſo è eterno, immobile , e
ſempre ſimile a ſe ſtero . Lo ſteſſo Euſebio credeva, che ſecondo Parmeni de
l'univerſo foſſe ſempiterno , ed immobile . Stobeo riferiſce , che Senofane,
Parmenide, e Meliſſo colſero affatto la generazio ne , e la corruzione. In che
dunque diſconvenia Parmenide da Se nofane , ( 6 ) Ariſtotele chiaramente lo
ſpiega nell' accennar la dif ferenza che v'era tra Parmenide e Meliſſo ,
dicendo : volea Par menide, che tutto foſe uno ſecondo la ragione , e Meliſo
ſecondo la materia , e da queſti due differiva Senofane, che chiaramente non
dif ſe nè l'uno , nè l'altro . Eſer uno ſecondo la materia , è il medeſimo che
ritrovar nell eſſenza della materia la ragion ſufficiente dell'unità della
ſteſſa . Ed in fatti una è la materia , fe in tutte le parti e nel tutco e
nella medeſima fpecie è omogenea , qual Cicerone la deſcrit ſe nel compendio
della filoſofia , e l'ammiſero Platone , ed Ariſto tele . Cicerone rammemora
ancora la forza , utrumque in utroque , ma conſiderando forſe Meliſſo , che gli
effetti della forza, o ſieno le forme, ed i modi aggiunti ſucceſſivamente alla
materia , non mai erano continuamente cangiando , gli eſcluſe dall'eſſenza , e
in con ſeguenza dall'unità della materia ; ma ſe una era eſſenzialmente la
materia , uno era il mondo o l'univerſo , che da eſſa riſultava e ſe uno in ſe
ſteſſo indiviſibile , eterno , ed immutabile . Malgrado dunque le continue
aggregazioni delle parti ne' loro tutti , e le continue diſſoluzioni de'tutti
nelle lor parti , malgrado le altera zioni , le generazioni, e le corruzioni,
contemplando Meliſo l' univerſo nella parte effenziale lo credeva uno , e
immutabile in quella guiſa che è ilmare, non oſtante le continue agitazioni che
foffre da innumerabili flutti . Se tal era la ſentenza di Meliſo, ella non è
men empia ri ſpetto a noi, che ridicola preſo i Pagani , perchè la materia , fe
condo lo ſteſſo Cicerone , non può aver coerenza , e in conſeguen Tomo II. d za
( a ) Cap. 5. l. t. Præp. Evang. ( 6 ) Parmenides unum fecundum rationem
attigiffe videtur , Meliſſus vero fecundum materiam , quare id & ille
quidem finitum , hic ve ro infinitum ait effe , Xenophanes autem quando prior
iſtis unum poſuerat ( nam Parmenides hujus auditor fuiffe dicitur ) nihil tamen
clarum dixit , & neutrius eorum naturam attigiſſe videtur , ſed ad folum
coelum refpiciens ille unum ait effe Deum . Metaf, Arift. l . 1 . cap . 5.
ediz, Parigi ( 20 ) 1 1 1 4 > za unità , ſe non è ritenuta da qualche forza
, e la continua ſuccef fione delle forme conſiderata affolutamente in ſe ſteſſa
, non è me no eſſenziale al mondo , che alla materia . Ragionava dunque più
ſottilmente Parmenide ; dalla materia , e dalla forza , dalla ſoſtanza , e
dall'accidente , avea coll'aſtra zione della mente dedotta l'idea dell'ente e
dell'uno, e preten dea che l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo preſcindeffe da
tutte le forme, e le differenze dell'ente ſteſſo . Il P. Maſtrio quali tre
mille anni dopo ebbe una fimile idea , poichè egli vuole che l'en te in quanto
tale preſcinda dal finito , e dall'infinito , da Dio , e dalle creature e la
ſentenza è ſeguita da tutti gli Scotiſti . Qualunque ella fiali , certo è che
come quella di Parmenide curta opera della ragione più raffinata , e che ben
diſſe Arifto tele , che l'uno di Parmenide era tutto ſecondo la ragione, non
che la ſentenza di Meliſſo ancor non lo foffe , ma egli nel fondarla tutta
ſulla materia croppo s'accomodava ai pregiudizi del ſenſo . Da Parmenide , e da
Meliſſo ſi diſtaccava Senofane, il quale ef ſendo il primo a ragionare
dell'immobilità dell'ente e dell'uno , s'at tenne alla concluſione ſenza
ſpiegar il metodo con cui la deduſſe. Ariſtotele ( a ) che avea diviſe le loro
fentenze nella metafiſi ca , par che nella fiſica le confonda dove diffe', che
altri di lo ro tolfero la generazione' , e la generazione , e la corruzione, i
quali come ben dicano in altre coſe non ſi deve perd penſare che parlino da
Fifici , poichè l'efervi alcuni enti immobili è più inſpezione di una ſcienza
ſuperiore, che della Fiſica. Non condanna dunque Parme nide , e Meliffo ,
perchè aveſſero tratcato dell'unità , ed immo bilità dell'ente, ma perchè ne
aveano fatto un punto di Fiſica , dalla quale egli eſclule il trattato delle
coſe eterne , e immuta bili , onde credendo che il mondo , e il Cielo lo
foffero , parte ne trattò nella ſteſſa metafiſica , e parte ne' libri del
Cielo; na chi può credere che Parmenide non diſtingueffe queſte due ſcien ze ,
avendo aſſegnati due principi delle generazioni, il foco , e la terra ? e
determinato che un foco ſottiliſſimo , o lia l'etere cingeſſe gli altri , e che
movendoſi in vortice raffrenaffe colla ſua rotazione ſe ſteſſo , e le coſe
contenute, ciò che è il principio de' più moderni Filoſofi. ( 6 ) Egli
componeva il mondo di molte ghirlande tra loro teſſüste , una rara , e l'altra'
denfa ; fra le ghirlan de ne poneva dell'altre meſcolate di tenebre , e di luce
, e volea che la coſa la qual a guiſa di muro le circondava forje foda , e
maliccia . Queſte ghirlande, e corone erano i vortici di Empedocle, dei qua li
egli dice parlando de caſtighi de'genj. Quelli ( a ) Ariſt. Fiſic. lib. 1 , ( b
) Plut, lib. 2. cap. 7 . ( 17 ) ( * ) Quelli nel mar ſollicitante forza Dell'
etere rifpinge , e fola ſpucali Ne’ſotterranei abimi, e nella lampada Dell'almo
Sole dalla terra cacciali , E il Sole infaticabile tramandali Ne' wortici
dell'etere . Accoppiando il paffo di Parmenide con quel di Empedocle, par che
tutti due deſſero vortici alle Stelle , raffigurando Parinenide nella luce le
fiffe , e nelle tenebre i Pianeti ; chi sa, che queſta coſa maf ſiccia non
foſſe il moto del vortice tutto luminoſo , perchè tutto etereo , il quale
impediffe con la ſua forza di rotazione lo sfaſcia mento del mondo viſibile ?
il moto della Luna , dice Plutarco , ( a ) ol'impero con cui gira , l'impediſce
di cadere in quella guiſa , che la fionda torta in giro dalbraccio impediſce la
caduta del faffo . Vuol Favorino, che Parmenide primo ſcopriſſe, che la ſteſſa
Stella pre cede il Sole la mattina , e lo fiegue la fera, o che il Veſpero è lo
ſteſſo che il Fosforo . Plinio ne attribuiſce la ſcoperta a Piccago ra, il
quale veriſimilmente la portò d'Egitto , col ſiſtema cele fte ; ma forſe
Parmenide, nella Teoria di queſta ftella , più che gli altri Pittagorici ſi
diſtinſe, come Filolao nel moto della ter ra . Filolao la facea gira r in
cerchio intorno alSole , ed Ecfan to volea , che movendoſinon partiſſe dal
proprio luogo , ma fer mata a guiſa di ruota , ſopra l'aſſe proprio intorno
quello giraffe da Occidente in Oriente ; non (6 ) aderiva Parmenide , nè a Filo
lao , nè ad Ecfanto , ma conſiderando la terra d'ogni intorno egualmente
lontana dalCielo , la ponea in equilibrio , e voleva che ſenza eſſer fpinta da
alcuna forza a queſto , o quell'altro verſo , ella fi ſquaſfaſe bensì , ma non
ſi moveſſe . Parmenide feparò il primo le parti abitate della terra fuor de'
cerchj fol ftiziali , indizio manifeſto , che egli avea proficcato delle teorie
di Anaſimandro , di cui ſi ſuol far ignorante Senofane. Tal era : il ſiſtema
aſtronomico di Parmenide : nel fiſico egli divinizzò la guerra , la difcordia ,
l'amore , e diffe : Di tutti gli altri Dei cauſa è l'amore . * Αιθέριον μεν γαρ
σφεμένος πόντον δε διώκει , Πόντος δέσχθονος έδας απέπτυσε, γαία δ' εσαύθις
Η'ελία ακαμαντος , ο δ αιθέρος εμβαλε δίνεις . Α'λος δ' εξ άλα δέχεται και
συγένεσι δε πάντες . Plut. de Ifide , & Ofiride . ( a ) De facie Lunæ . 16
) Plut,deplac . Phil. lib. 3. d 2 Cosi ( 28 ) 1 Così gli attribuiſce Simplizio
, ed Ariſtofane colle da Par menide l'amore che ordina , e fabbrica le coſe nella
commedia degli uccelli , gli altri Dei non erano, che gli elementi già di
vinizzati da Parmenide. ( a ) Empedocle l' emulò , benchè egli quattro elementi
poneſse , e due Parmenide , il foco , e la ter ra , principali architetti delle
corruzioni, e delle generazioni, e che rarefatti, o condenſati , ſi cangiano in
aria , ed in acqua . I principj, ſecondo Ariſtotele , devono eſser tra loro
contrari , e nulla v'è di più contrario , che il caldo , e il freddo , a quali
corriſpondono il raro , ee ilil denſo denſo,, ilil moto moto ,, e la quiete .
Tutto queſto ſiſtema fiſico di Parmenide eſpreſse Platone nel Sofiſta . Le mu
je Jadi, ele Siciliane, dice , a queſte poſterioriſtimaronocoſa più ſicura
d'annodare le coſe inſieme , in modo che l'ente ſia molte coſe ed uno , e ſi
tenga colla diſcordia , e colla concordia , perchè diſcordando ( 6 ) fem pre
s'accoſta egli come dicono le più forti muſe , ma le più molli non hanno voluto
, che ciò ſe ne ſia ſempre così, ma privatamente alcuna volta dicono che
l'Univerſo ſia uno , ed amica per Venere, altra volta molte , e con sè per ſeco
diſcordanſi con certa conteſa . S'io non m'in ganno , qui s'allude all'amicizia
, e alla diſcordia , o all’amore , e alla lite, che Parmenide poſe come
principj efficienti delle genera zioni , e corruzioni; molti Poeti ſtaccando
ciò dalle Poeſie di Par menide, e di Empedocle , non ifpiegarono con la lite, e
con l'ami cizia , ſe non alcunifenomeni particolari , come chi dalſiſtemadel
Newtono , il quale poſe per principio univerſale l’ attrazione ; al tri ſolo la
prendeſse per iſpiegare i fenomeni del magnetiſmo, e poi per iſpiegare
l'eletricità , la gravità ec . fi valeſse d'altro prin cipio . Non può dirſi
dunque , che Parmenide non foſse eccellente Fi fico , ſe egli allora penſava a
ciò che il Newtono pensò tanti ſeco li dopo ; ſcriſſe in verſi il trattato
della Natura , come Lucre zio , ma il Poema s'è perduto, e non ce ne reſta che
il principio conſervatoci da Seſto Empirico . ( c ) Mi portano i deſtrier , e
quant'io voglio Traſcorrono ; che già m'aveano tratto Nella celebre via del
Genio ; via Di cui m'aveano ammaeſtrato appieno Gľ ( a ) Cicerone .... 6 ) Nel
Gítema Newtoniano in tanto una parte di erta fugge da un' altra parte , in
quanto ella è attratta con più forza da un altro corpo ; quindi dall'attrazione
ſi deduce l'a repulfione. ( ) I verli ſono in Seſto Empirico contra Logicos. (
29 ) 1 Gl'infigni coridori, e dalla fama. Correndo il cocchio ſquaſsano , cui
Duce Le fanciulle precedono , ma l'aſſe Splende ſtridendo nell'eſtrema parce
De' raggi tra due fiſso orbi torniti . Allorchè s'affrettaro le fanciulle
Eliadi , e della notte abbandonando Le café tenebroſe oltrepaſsarle , Nella via
della luce al fine entraro ; Da i ſpiragli rimoſsero le vele Con man robuſta
dove ſon le porte Delle vie della notte , e della luce ; L'une e l'altre
circonda un arco immenſo , E il pavimento tutto n'è di marmo ; Agiliffime
corronvi, e s'appreſsano Colà dove tenea Dice le chiavi, L'ultrice Dea , che
premj , e pene imparte . Con parole molcendola ottennero Le fanciulle , che
all'uſcio ella fmoveſse L'interna leva . L'adattata chiave Spalancando le porte
per immenſo Foro i chioſtri ſcoperfe , mentre l'affe Si rivolgeva , e l'orbita
del cocchio , Facilmente reggean l'alme fanciulle , A cui ben pronti il cocchio
, ed i cavalli Ubbidiro . La Dea liera m’accolfe , E per la deſtra preſomi usd
meco Tali parole . Dio ti ſalvi , o figlio Dilecto figlio, che alla noſtra
Řeggia Guidarono que' nobili deſtrieri Che hanno in forte di reggere il divino
Cocchio , nè rea fortuna ti conduſse In tal via . Non è trita a paſſi umani Ma
audacemente di pregare è d'uopo I Numi , onde ti laſcino le leggi Inveſtigar
della natura , in grembo Di veritade , che a ubbidire è proſta , E de' mortali
tu fuggir potrai Le opinion , di cui non vera fede , Ma tu rimovi il tuo
penſier da queſta Via di ricerca , nè ti sforzi lunga Eſperienza delle coſe gli
occhi Figgere accenti o pur aperte orecchie Ai ( 30 ) Ai dogmi che ragion non
prova . Quello Che ti preſcrive eſperienza lunga La ſola mente dall'error
corregge . Seſto Empirico , comentando queſti verſi oſſerva , che Parmeni de
chiama gli appetiti dell'animo i cavalli , la ragione il genio , o demone , e
gli occhi le fanciulle Eliadi ; tutto il reſto è fancaf ma poetico , e,
comeSenofane , egli penſava intorno alla ricer ca del vero ; concludendo il
giudizio appartener alla ragione , e non ai ſenſi , ſenza eccettuare i due
delladifciplina , o l'udi to , e la viſta ; dogma che fu poi quello
dell'accademia , come a lungo Cicerone lo prova . I verſi fe hanno per oggetto
cofe fublimi, e leggiadramente accoppino l' allegoria all' imitazione , e all'
armonia , foddisfanno in un tempo ſtesſo , al fenſo, alla fantaſia , e
all'incellecco , ono de queſte potenze coſpirando inſieme a ben rappreſentarci
le co fe cantase , a preſtano ſcambievolmente le loro cognizioni, affin chè
troppo sfumando nelle aſtrazioni , non ſvaniſca l'idea , e le ſenſazioni, e i
fantasmi non l'offuſchino , ma ſervino alla mente di ſpecchio per ben
contemplarla. La grande arte è , che lo ſpec chio non abbia troppo d'aſprezze,
le quali non diſpergano ſover chiamente , ed affortiglino il raggio , che
turbaco non ci laſci diſcernere , dove è l'oggetto. Alla proſa dunque , ma
proſa poe tica ricorre Platone volendo appagare tutte le potenze della anima .
Ed eccoci finalmente a Platone, dopo d' aver eſaminato come Pittagora
dall'eternità , divinità , animazione del mondo racco glieſe l'idee ; le
divideſfero in certe claſſi generali i Pittagorici le diſtaccaſſero dal tutto ,
e ne faceſſero degli enti a parte ; come Senofane, il primo ricavaſſe la
concluſione dell'ente uno ed im-. mobile , come Parmenide contemplaſse ſecondo
la ragione queſt' idea , e nelle coſe fiſiche s'uniformaffe a Senofane ,
diſtinguendo ľ opinabile dal vero . Tutta queſta fabbrica era fondata ſu la
maniera di penſar di Pictagora , maniera falla , e pienamente diſtrutta da
Padri, che molto al di là del IV . fecolo non combatterono collo fteffo Pit
tagora , ma con Platone , di cui ſi debbe adeſſo rintracciare qua li influenze aveſſero
nel Dialogo la dottrina dell'idee , dell'uno immobile , e dello ſcetticismo ,
perchè egli vi parla , e dell'idee , e dell'uno , e tutto proponendo per
iporeli nulla conclude. Prima però di ſviluppar queſte cofe l'ordine della
doctrina ricerca , che favelliamo dello ſtile Platonico in generale . Profonda
e delicata cognizione della lingua Greca ſi ricerca per ( 31 ) e per ben
intendere la bellezza , la forza , e l'armonia dello ſti le poetico di Płacone
; l' Abbate Fraguier , che in tutto il cor ſo della ſua vita , l'avea con un
ſpirito molto colto nella Poeſia Greca , e Latina , ed in ogni altro genere di
belle lettere ſtu diato , ben eſaminando il ſuo ſtile , ritrovava che Platone
avea trasfuſo ne' Dialoghi l' Epico , il Lirico , ed il Dramatico . Com parava
egli la profopopea , colla quale Dio nel Timeo ra giona agli Dei inferiori
'all' ode più ſublime di Pindaro travedeva nelle narrazioni dello ſteíſo Timeo
, e in alcune del la Repubblica , la magnificenza Epica dell'Iliade . Nel paſſo
cita so di ' Ateneo ', Gorgia mal ſoddisfatto di quel Dialogo intito lato col
ſuo nome , ci dice , che un giovane, e Lepido Archilo co regnava in Atene ;
allude egli a Platone , che irritato con tro i Sofifti, non riſparmid le
accucezze, ed i ſali contro di lo ro , ma i ſali di Platone non erano aſpri, ed
ulcerofi , come quelli di Archiloco , e di Ariſtofane , ma eſtratti dallo
ſteſſo mare , in cui nacque Venere. Così Plut arco dice di Menandro , e con non
men di ragione io poſſo dirlo di Platone , che tut to comicamente condiſce con
le grazie , e con le luſinghe della Poeſia di Omero , ed ingentiliſce in guiſa
le accuſe de Sofiſti , che non mai gli affronta con quell' ingiurie , colle
quali il Re de'Re alla preſenza dell'eſercito rinfaccia Achille . L' ironia di
Socrate a ' è la chiave , ed ella è così ben maneggiata , che da alcuni ſi
crede nel Menedemo ( a) lodarſi le orazioni funebri, e pure vi ſi condannano .
L'allegoria è perpetua in tutti i Dialoghi; allegorici ſono i nu meri armonici,
di cui teſſuta è l'anima del mondo ; allegoriche le Sirene degli orbi celeſti;
allegorico il carro dell'anima, l'ali e il coc chiere; allegorici gli
Androgini, la naſcita dell' amore, la gradazionedegli animali di Prometeo, e di
Epimeteo, la guerra de gli Atenieſi contro i popoli del mar Atlantico , e
quanto diſſe dell'Iſola Atlantica , e ſulle leggi, esu i coſtumidegli abitanti;
tutto vi è finto per preparar l'idea della Repubblica , il cui modello cerca
Platone nella fabbrica ſteſſa del mondo , ed ordiſce così la men zogna poetica,
che molti s'affaticarono di ſpiegare ſtoricamente l'Iſola Atlantide, come il
Ciro di Senofonte . Più s'occulta Pla tone in certe allegorie incluſe nelle
frafi poetiche, per le qua li ſimboleggia molte coſe , e politiche, e morali, e
metafiſiche, diſegnando l'ulcime con coſe colte , o dalla muſica, o dall'altro
nomia, o dalla geometria ; tre ſcienze ( 6 ) nelle quali era fo mamente dorto
al ſuo tempo . Certo è , che ſe giuſtamente non retro s'ap ( a ) Cicer, lib. 3.
Acad. ( 6 ) Ab, Fleurì nella lode di Platone . ( 32 ) s'apprezzano le fraſi
poetiche riducendole al ſenſo filoſofico , li corre riſchio di non intender mai
, nè le parti , nè il tucco di un certo Dialogo , e ne vedremo nel Parmenide
ſteſso gli eſempj. Ebbe dunque Platone comune la poeſia con Parmenide , ma
molto egli l'accrebbe col Dialogo , modo più naturale per iftrui re , più
comodo per illuminare , adoprato da Socrate , da Seno fonte , da Stilfone,
daEuclide , da Glaucone , e al dire d'Ariſto tele da un certo Aleffamene
inventato . S'imitano col Dialogo i ragionamenti degli Uomini , come ne? drami
s'imitano le azioni . Platone che voleva emular in tutto la poeſia di Omero ,
ſi sforzo d'imitar le diſpute de Filoſofi , in quella guiſa che Omero avea
imitate le azionidegli Eroi . Ciò che al Drama è la favola e l'epiſodio , è la
queſtione al Dialogo , e la digreffione, e' nell'una , e nell'altra riuſcì
egregiamente Plato ne . Non v'è Tragedia antica , che meglio eſprima il
principio , la percurbazione, il ſcioglimento dell'azione, di quel che Platone
proponga , diſcuta , termini la queſtione , in cui ſebben nulla concluda , però
gli bafta d'aver conſumate le ragioni dall' una , e dall'altra parte. Nelle
digreffioni comincia per lenti gradi ad allontanarſi dalla queſtione , poi
ſpazia o nella Geometria nella muſica , od in altra ſcienza a fuo talento , e
ſenza che il lettore fe ne accorga , il riconduce alla prima propoſizione non
per ſalti , ma per gradi . Anche in cid imitd Omero , che al dir del Gravina (
a ) traſcorre tallora alſoverchio , tallora moſtra ď abbandonare , ma poi per
altra ſtrada ſoccorre . Platone non imita meno Omero nel carattere
degl'interlocu tori , e delle ſentenze ; io ravviſo in Alcibiade un non so che
del carattere di Paride, l'uno e l'altro è milapcatore, fuperbo , e laſcivo ;
il carattere di Neftore è trasfuſo in quella parte del carattere di Socrate ,
ove queſto conſiglia , ma Neſtore auto rizza i ſuoi diſcorſi con l'eſperienze
acquiſtare nell'uſo della vita , e Socrate con l'impreſſioni del genio che il
dominava . I caratteri de' Sofiſti ſono preli da quei dei Trojani, che ſenza
ordine , e ſen za diſcipliita s'avanzano come le Gru ſchiamazzando , e poi
reſta no ſconfitti da' Greci, il cui coraggio e valore era ſoſtenuto dalla
ſapienza , e dal consiglio, e fino da Minerva . Molti . pretendono che Platone
ſpieghi la ſua ſentenza nel far ragionare Socrate , Timeo , Parmenide, l'Oſpite
Arepieſe , e l' Eleatico , due perſone anonime, e che gli faccia dire a Gorgia
, a Traſimaco a Claride., a . Protagora , & Eucidemo , ciò che non approva
e vuol rifiutare , ma coſtoro non avvertono , che nel ( 2 ) Ragion Poetica . (
33 ) nel far Platone ſiſtematico lo fanno peſlimo Dialogiſta , e talor peffi
moFiloſofo , perchè egli concraddice a ſe ſteſſo in diverſiDialoghi , o almeno
le coſe vi ſono così ſconneſſe , che non ſi può raccoglierle , non più che le
membra di Penteo ( a ) diſunite e sbranate. Tratto di cutte le parti della
Filoſofia, or Logica , or Fiſica, or Metafiſica, accennomolte ſcoperte de' ſuoi
tempiintorno alla mufica, all'aſtro nomia , all'ottica , ma imitando poi la
ſetta Eleatica ne'dubbj, e nell'opinioni , tutto propoſe ſenza nulla
concludere. Cicerone lo conſidera come il primo degli Accademici, o quel che
diede ad Ar ceſilao , ed indi a Carneade il metodo di dubitare . Seſto Empirico
ſenza altro lo pone tra' Pirronici nelle materie an cora più gravi , come in
quelle dell'anima,del mondo , di Dio ; nè a ciò Cicerone ( 6) è contrario .
Conveniamo dunque che Platone, co me nello ſtile poetico convenne colla ſcola
Eleacica , così vi conven ne nel metodo di opinare,che egli col Dialogo reſe
più problematico . Confideriamolo adeſſo nelle fentenze , e principalmente in
quelle che riguardano l'idee ſulla Divinità , e ſulla materia. S'è già
dimoſtrato , che i Pitcagorici riducevano tutto all'idee , ed ai numeri.
Platone ſcielſe, e perfezionò ilmetodo dell'idee , econ duffe lo ſpirito alla
cognizione del bene per l'idea del bene, della bellezza per l'idea della
bellezza , e cosìfece del valore , della tem peranza, della ſcienza , e dell'altre
virtù morali ed intellettuali , com ponendo tra loro l'idee n'eſtraffe l'idea
della Repubblica , o l'idea del giuſto conſiderato nell'amminiſtrazione d'una
Repubblicazimmagine di quella amminiſtrazione, che delle potenze dell'anima fa
la ragione. Credevå egli , che ſpiegar le coſe particolari per le univerſali,
fof ſe il metodo chela natura leguiva , allorchè procede dalle cagioniagli
effecti. Parve ad Ariftotele, che foſſe più facile , e più ſendibile nelle
inſegnar le ſcienze , ſeguir l'ordine dello ſpirito , chealla cagionevi per
l'effetto. Non ſono più oppofti queſtimetoditra loro , che la ſin teſi, e
l'analių , di cui l'una comincia dalle coſe generali , per difcen dere alle
particolari, e l'altra dalle particolari, peraſcendere alle ge nerali ; l'uno e
l'altro Filoſofo nell'inveſtigar l'idee delle coſe , adoprò il metodo ſteſſo di
comparare i ſingolari,e di farnele aſtrazioni oppor. rune, e lo dimoſtrerd a
lungo pel ragionamento dell'idee Placoniche. Cicerone riduce l'idea alla (c)
terza parte della Filoſofia , che ver ſa nel difputare. Così l'idea trattavaſi
dagli antichi , che ſebbene ac cordavano ella naſcer de ſenſi, però volevano
che il giudizio nonfoſe ne fenſi , ma che la mente fore giudice delle coſe ,
ſtimandola ſola atta a di ſcopriril vero , perchèfola diſcopriva cid cheera
ſemplice, della ſteſanas tura , o tal qual era , e queſto lo chiamavano idea
già così nominata da Platone , e noi poſiamo ( conclude egli ) rettamente
chiamarla la lpecie . Non erano perciò l'idee Platoniche , a ben comprenderle,
che le fpe cie , eigeneri che noi facciamo , comparando ed altraendo , eche ,
Tom . II. ( a ) Eufeb.Prop.Evang. ( 6 ) De Natura Deorum . ( c ) Lib.1.Accad .
2 e come ( 34 ) 1 come ſi diffe , cappreſentavano i Pittagorici per l'unità,
poichè la mente tutto va unificando per ſua natura . Una ſpiegazione sì facile
, e breve dell'idee Platoniche, perfectamente s'accorda co' principi
d'Ariſtotele. Egli tratta nella Merafilica l'idee Platoniche da metafc re
poetiche , e queſto nome gli avrebbe pur dato Platone, se avelle dogmaticamente
ſcritto come Ariſtotele', ma nel Dialogo ſpecie di Poelia Dramatica egli
eguagliò la compoſizioneallo ſtile . Morco Platone, ed offeſo Ariſtocele di
vederſi poſpoſto a Pfeufipo „ a lui tanto inferiore in ingegno , e in dotcrina
vi oppoſe un'altra ſcuola di cui ſi fece capo , e per accreditarla cominciò a
combattere le fentenze del ſuo antagoniſta , attaccandoſi alla parte più
difficile , e più equivoca o alla quiſtionedell'idee , alle quali Preuſipo
imitando .forſe il metodo di Platone dovea dar troppo di realità. Ariſtotele
ſcriſe dunque contro l'idee ſeparate, ma Platone avendo già nel Par menide
conſumato quanto potea dirli contro di loro , Ariftotele ne copiò gli argomenti
dipeſo , ed al ſuo ſolito con brevica ed oſcurità di ſtile, fingendo di
combatter Placone critico Preuſipo , ed i ſuoi di i fcepoli. Dital congettura è
mallevadore il Patrizio nelle ſue diſcuſ fioni peripatetiche . S'elle ſon vere
, non che verifimili , verifimile è pure che fin d'allora ſi ſpargeſſero i ſemi
che prima Ammonio Sacca, ed indiPlotino , Porfirio coltivarono , e Jamblico , e
Procloridul fero in regolato fiftema. S.Giuſtino , che avea più ſtudiatii
Platoni ici , che Platone era perfuafo, che l'idee foſſero ſoſtanzeſeparate ,
collocate con Dio nella sfera più alta . S. Cirillo rifiuţa Giuliano A poſtaca,
che credeva il Sole , la Luna, egli altrieller l'idee viſibili e comporre gli
Dei. 11 P. Balto riferiſce a lungo ipaſſi di S. Ireneo , di S. Bafilio e
d'altri , i quali impugnarono l'idee ſeparate , che introdu cendo il politeismo
rovinavano ne'ſuoiprincipj la Religione Criſtia pa . Soſpetta il P. Balto , che
Eufebio difendere l'idee Platoniche persè ſuffiftenţia pro dell'Arianismo da
lui profeſfaco. Negli ultimi tempi il Clerico ne rinovd la ſentenza , e molto
più l'anonimo Soci niano nel tuo Platonismo ſvelato , ove ſi confondono con
l'idee di Platone , gli Eoni rami de'Seffirotii cabaliſtici adottati da'
Valencia niani e da' Baſiliani, e de'quali nella concinuazione dell'iſtoria
degli Ebrei parla a lungo il Basnage , I comentatori di Platone
abbagliatidatante autorità , nè avendo forza di critica fufficiente per
reliltervi, s'abbandonarono ai fantasmi di Proclo , e di Jamblico , anziche
abbadarea'ceſti di Platone , ne s ' avviſarono di ben pelare le dottrine del
Parmenide contro l'idee ſeparate aggiunte da Ariſtotele alla metafiſica. S. A
goſtino è il primo de' Padri Latini, che non fepara l'idee Pla toniche da Dio ;
dando a Dio la creazione del mondo non poteva egli non concepire nell' intelletto
divino la ragione dell'ordine del le coſe create , e queſte appunto ſono l'
idee su le quali poi San Tommaſo ſeguito da' Teologi , ne fece molti articoli ,
of. feryando che l'idee divine ſono univerſali, onon rappreſentano a Dio ( 35 )
2 € Dio ſolo le ſpecie , ma ancora gl'individui , col rappreſentargli le coſe
non quali noi per la limitazione della noſtra mente le veggiamo , ma quali ſono
in fé ſteſſe. Il Padre Balco riprende a dritto su queſto punto il Dacier , che
per difender malamen te Platone, cade non volendo in un errore . Ma fe Platone
preſe da’ Pitragorici l' idee nel ſenſo , che le propoſero Pitcagora , ed
Archira , pare che egli ancora come queſti ſentiſſe intorno la Divinità . S'è
già dimoſtraco che dopo Pitcagora , Senofane e Parmenide conſideravano Dio non
altrimenti, che l'anima del mondo. Lunga cofa , dice Ci cerone , ( a ) ſarebbe
a dire dell'incoſtanza di Platone intorno a Dio ; nel Timeo nega , che porta
nominarſi il Padre del mondo; nel libro delle leggi, ſtima non doverfa ricercar
affatto coſa ſia Dio . Lo stesſo nel Timeo , e nelle leggi, dice eſſer Dio, il
mondo , e gli altri e la terra , e gli animi , e gli altri Dei, che abbiamo
ricevuti dagl' iftitu ti de' Maggiori . Il Padre Arduino raccolſe tutti i paffi
, ove Pla tone parla degli Dei nel ſenſo ſtero . Dio nel Timeo ſi chiama bensì
il Padre , e l'artefice del mondo , ma non mai il Signore , il Sovrano ; ſi
chiamava il mondo un Dio generato , il quale ba una perfetta ſomiglianza con
Dio ; figliuolo , e figliuolo unico di Dio ; un Dio completo , un Dio generato
da un altro Dio , un Dio felice , im magine del Diointelligibile , perfetta
copia d un originale perfetto Dio ottimo malimo, qual appunto i Romani doceano
diGiove , per cui folo intendevano il deſtino inviſibile delle coſe . Molci
alcri paſſi ſpiega l' Arduino , e da cutii ſi raccoglie , che Placone non co
noſceva Dio , che come principio intelligente , qual lo conobbe Pittagora ,
Senofane, Parmenide, e cant alori , a' quali può ben applicarſi il pallo di S.
Paolo , in un ſenſo filoſofico , che cono ſcendo Dio , non come Dio l'onorarono
( non ſeparandolo affacco dal la materia , o , ponendolo ad eſsa coeterno . )
Pitcagora avea generato il mondo , e lo generarono i Fenici, Orfeo , ed Eliodo
. A queſt'idea poetica , Platone aggiunſe le Fi loſofiche accennate da Timeo di
Locri nel fuo ragionamento della natura , e dell'anima del mondo , e ne compofe
il Timeo , nel qual volea nell'ordine oſſervato dalla ſapienza nella fabbrica
del mon do , dar un modello di quella Repubblica, che poſcia propoſe nel
Dialogo del Giuſto . Ariſtocele pur comparava la coſtituzione del mondo ad una
Repubblica, in queſta v'è il Principe , che comanda ai Magiſtrati militari , e
civili , e nel mondo v'è Dio , che col miniſtero degli Dei inferiori, compie ,
conſerva, ed ordina cuc te le coſe . S'è © e di lo Lei li i e lo i e ( a ) D:
Natura Deorum lib. I. 3 ( 36 ) s'è gia dimoſtrato , che i Platonici recenti nel
divider in due punti, o ſegni, l'eternità , neaſſegnavano il primo ſegno a Dio
, in quanto a Dio , ed il ſecondo a Dio creatore della materia la difficoltà è
di ritrovare in Platone qualche coſa che s'av vicini a queſta dottrina .
Teofilo ( a ) non ve la ritrovd altri menti dicendo , che Platone coi ſuoi
ſeguaci poneva Dio , e la materia ingenita ; con che non venia a porre Dio , nè
uno; nè ſolo . lo qui ſtenderò un lungo paſſo di Plutarco , perché fe 'ne
giudichi . Il mondo , dice egli,è bensì ſtato fabbricato da Dio , perchè fra
tutte le coſe è bellißimo il mondo e Dio fra le cagioni l'ottimo , ma la
ſoſtanza , e la materia , della quale è ſtato formato , non eſſer mai nata , ma
ſempre averſi trovata ſottopoſta ab Maeſtro , ed ubbidiente a ricever
quell'ordine , e quella diſpoſizione , che fore in quanto ella potelle
comportare a lui fimigliante , percbè il mondo non fu creato dinulla , ma di
ciò che era privo , di bellezza , di leggiadria , e di perfezione , ſiccome la
caſa , la veſte , la ſtatua, perciocchè tutte le cose , primache naſceſe il
mondo , foffero confuſe , e diſordinate, nondimeno le coſe confuſe non erano
ſenza corpo , ſenza fora ma , ſenza regola , moſle da movimento a caſo , e
ſenza ragione. Que sto altro non era ; che la ſproporzione dell' anima, di
ragione Spoglia ta , perciocchè Dio di coſa ſenza corpo non fece corpo , nè
anima di coſa d'anima priva , nella maniera che noi vediamo , cbe il Maeſtro di
muſica , e dell armonia , non fa egli la voce , bensì la voce acconcia , e il
moto proporzionato ; così parimenti Dio non fece il corpo trattabile , e ſodo ,
nè l'anima atta a moverſi, ed in gannarſi, ma preſo l' uno , e l'altro
principio , quello oſcuro e pienodi tenebre, queſto confuſo e pazzo, amendue
più rozzi, e più difformidel convenevole ordinandoli ; e diſponendoli , e
congiungendoli formd un animal beltiſſimo , e perfettiſſimo. Dunque la natura
del corpo non è punto diverſa da quella natura , come dice Platone , che
abbraccio il tutto , ed è fondamento e nutrice di tutte le coſe che naſcono ;
non dimeno la natura delp anima fu da Platone nel Filebo nominata infini to ,
il quale non riceve numero , nè proporzione , nè vi ſi trova miſu ra, o termine
alcuno di mancamento, di ſoverchio , di ſimiglianza, o di differenza. Così
parla Plutarco ed è facile il dedurne , che ſecondo Pla tone eterna era bensì
la materia del mondo , ma nuova la for ma , ( a ) Teophil. ad Autolicum 1.2 .
Plato cum ſuis aſſeclis Deum quidem confitetur ingenitum , patrem præterea
& conditorem hominum , at que deinde fubjicit , live ſupponit Deo materiam
quoque ingenitam , quæ fimul cum Deo prodiderit five extiterit ; verum fi Deus
cen ſetur ingenitus , & materia perhibetur ingenita , jam nec amplius Deus
conditor & creator eſt hominum etiam fecundum Platonicos , nec quod unus
& folus ſit ab his vere demonftratur . nè il moto , ma 1 1 ( 37 ) má , ed
in queſto Platone differiva da Ariftotele, il quale , come s'accennd , fece ad
un tempo eterne , e la materia , e la forma; Ariſtotele rimprovera perciò
Platone , d' aver fuppofto , che la materia con cuiDio compoſe le coſe, foſſe
in moto, e loda Anaf fagora, che la poſe in quiete . Vuole egli ignorare , che
affatto poetico foſſe il Timeo ; pure non è credibile ,che egli non l'aveſſe
udito dir più volte da Placone ſteſſo , che nel Dialogo finſe Socra te a
favellar con Timeo di Locri contemporaneo forſe a Pittagora ; parla dell'
abboccamento che Solone ebbe coi Sacerdoti d'Egitto , iutta ſpaccia la favola
dell'Iſola Atlantide. , ſtempera in una taz za i numeri armonici dell'anima del
mondo compoſta di cre ſo ftanze , ne ſparge le reliquie su le ſuperficie de
glòbi', conſidera come coſa reale la mecemplicoſi , che Timem ( a ) nel ſuo
ragiona. mento introduce come coſa politica . In ſomma ben eſaminan do tutte le
frafi Platoniche e tutto il conteſto della dottrina Filoſofica poeticamente
maſcherata , io ſon perſuaſo , che in Platone , comene Pictagorici , Dio vi
s'introduca qual animadel mondo , o la ſteſſa mente , e ſapienza perfecta
ſparſa per tutto ; allora perciò che dice Cicerone nella natura degli Dei, e
quan do Platone fa Dio incorporeo ( b ) egli confonde Dio con la mate+ ria , la
quale era incorporea , come ſi diffe , prima che da Dio ſe ne eſtraffero i
corpi . Dall'alcra parte nell'ipateli, che Dio gli abbia eſtratti, fece Dio
concepirſi" al di fuori della materia , co me l'architetto al Palagio , e
lo ſcultore alla ſtatua . In vano dun que dall' opere di Platone, e degli altri
Filoſofi antichi , i qua li ammifero la materia eterna , li cerca l'idea del
Dio che ado. riamo ; egli è uno ſpirito infinito , nella di cui natura
inviſibile ſono riunite cutte le perfezioni immaginabili , e poflibili ; onde
gli ſcolaſtici lo chiamarono il cumulo delle perfezioni ; e i Cartuliani l'ente
infinitamente perfecto . Sino a què l' ammet cevano gli ſtefli Pagani , ma la
definizione non balta, ſe ad el fa non s? aggiunge , che Dio ha tratto dal
niente l' Univerſo , e che è diltinto realmente , e ſoſtanzialmente da tutto
ciò che ha creato . Tale definizione come ortodoſſa propoſe l' Abbate d'Oliveta
’ Filoſofi ( c ) dopo di aver eſpoſte tutte le loro fen tenze , tra le quali
entra e Pittagora , é Senofane , e Parmeni de , e Platone Itello , Non (a . )
Nel fine. ( 6 ) Cicer. Natur. Deor. ( c ) Nel fine del Tomo 3. della traduzione
della Natura degli Dei;. Par ce mot. Dieu , je veux dire un eſprit infini ,
dont la nature eſt indiviſible & incomunicable ; dans lequel font réunies
toutes les perfections imaginables & poſsibles , ſans aucun mélange d'
imperfe etion ; qui'a tiré du ndant l'univers, & qui eſt diſtinct
réellement & ſubſtantiellement de tout ce qu'il a créé . 0 1 ( 38 ) o dell'
Non è tuttavia , che debbano ſpregiarſi le dottrine di Placone , e rigettarle
come inutili ; conobbe egli Dio ſotto un'idea con fuſa, come lo conobbe
Ariſtotele , e in quella guiſa che S. Tom maſo da Ariſtotele tralle molti
principi , e combinandoli coi rivelati propoſe molte concluſioni Teologiche ,
così può farſi di Platone ; S. Tommaſo dall' uno , e dall'altro traſfe
l'eſiſtenza di Dio , impiegando i mori , le cagioni , l'ordine del mondo , i
gra di più o meno perfetti delle coſe , ma non potè trarla dall' en te
contingente e neceſſario , che Platone non conoſceva , ponen do ecerna la
materia , e chiamandola neceſſità . Dimoſtrar il primo ente qual principio
intelligente , per l'adequaca idea di Dio , non baſta le da eſſo non ti
rimovono tutte le compoſizio ni , dimoſtrando , come fa S. Tommaſo , che in lui
non ve n'ha nè di forma, nè di materia , e che non può ridurſi ad alcun genere
, Nel Parmenide però non v'è biſogno d'alcuno di queſti ar tificj ; tutto vi
fi' riduce all'idea metafiſica dellence uno . Convien dedurla da' ſuoi
principj, od eſtrarla come fece Pittagora , e Peritione da tutti i compofti ,
ed eſaminarne le proprietà . Così San Tommaſo , ove tratta dell'unicà , e della
bontà di Dio , prima ricerca , quanto la ragione, gli può per mettere , coſa ſia
l' uno , e coſa ſia il buono , indi col princi pio rivelato cid combinando ,
dimoſtra la purità , e la bon tà di Dio. Io parimenti ricercherò con la ragione
, fe si poſſa ben intendere l' uno del Parmenide , laſciando agli altri la fa
rica di ſpiegarlo in un modo fublime , applicandovi le coſe Teologiche , delle
quali non intendo d' attaccarne , o diftrug . gerne la minima . Io cratterò
della dottrina del fine , indi del metodo del Dialogo. Gli antichi con ragione
intitolarono queſto Dialogo , il Par menide o dell' idee , perchè Parmenide
parla più degli altri , e tutti i ſuoi ragionamenti raggirano su l' idee , o
per cercarle con le aſtrazioni della mente, o per diſtruggere le ſeparate ,
eſempli ficandone il caſo nell'idea dell' uno , la più ſemplice di tutte l'al
tre , e a cutte l'altre comune . Supponevano i Pictagorici , che tutte le coſe
imicaſſero , o par ticipaſſero l'idee , o le fpecie ; provacontro loro
Parmenide , che le cofe non poſſono eſſer partecipi delle fpecie, nè ſecondo il
tutto , nè ſecondo unaparte , indi col principio di contraddizione , col
progreſſo all'infinito , e coll' ideaſteſſa delle perfezioni divine ; gli
fteffi argomenti di cui ſono nel Parmenide i femi, fteſe Ariſto tele, ed è
mirabile che i comentatori non abbiano penſato di con frontarlo nel
ragionamento dell'idee con Placone , ciò che attri buiſco all'ipoceli da loro
fiſsata , che in queſto Dialogo Parmenide, o Pla ( 39 ) o Platone confermi e
non diſtrugga. l' idee ſeparate . Annullate tali idee in modo cheSocrate ne
reſta convinto , Pare menide per non laſciarlo nell' imbarazzo gli moſtra la
neceſſità che ha il Filoſofo d'ammettere certi principj fiſſi ed immutabili e
tanto più difficili a comprendere , quanto che non fi poffono de terminare , nè
co' ſenſi , nè colla fantaſia . Parmenide' nell'etem plificare il caſo del
metodo propone l'idea dell'uno , e la con ūdera relativamente a ſe ſteſſa ,
indi all'ente , al fine , al non en te . Così un matematico trattando per
eſempio del triangolo , lo conſidererebbe prima in ſe ſteſſo , poi per rapporto
all'altre figure rettilinee o piane , ed al fine alle non rettilinee, od
alcerchio . Definiſce Zenone l'uno per oppoſizione a molti , e chiama uno ciò
che non è molti . Ariſtotele, nella metafiſica molto ap prova queſta
definizione, perché i molti ſono più noti al ſenſo che l' uno ; prende
Parmenide la definizione , e negando dellº uno tutto ciò che s'include in molti
o li predica de' molti ; negà ch' egli fia cutro , parte , principio , mezzo ,
fine , figura moto , quiete , lo ſteſſo , diverſo , ſimile , diſſimile , eguale
, mag giore , minore ; in oltre gli nega le differenze del tempo, pre lente ,
paſſato , futuro , l'eſſenza , la ſoſtanza , il nome, il ſen fo , la ſcienza ,
l'opinione. Parmenide prende ſempre l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo, nè
men volendo che l'uno â conſideri per rapporto a ſe ſteſſo , perchè nel riferir
l'uno a sè li concepireb be come due o come molti. La ſeconda quiſtione è , ſe
l'uno ſia che accada all' uno , ed all'altre coſe ; qui l'uno fi ſuppone inſeparabile
dall'ente , come rente dall' uno, onde tutto ciò che s' include o li predica
dell' , pud predicarſi dell' uno ; quindi ſe nell' ente's include o dell'ente
fi predica , la parte , il tutto , il finito , l'infinito , il principio ,
mezzo , il fine , la figura , il luogo , il moto , la quiete, il fimile , il
diffimile , lo iteſto , il diverſo , l'eguale , il maggiore, il minore, il
tempo paffato , preſente , e futuro , 1 eſſenza, o la ſoſtanza , la ſcienza ,
l'opinione , il ſenſo , tutte queſte coſe ſi predicheranno ancora dell'uno .
Non ſi predicano però queſte coſe oppoſte dell' uno , e dell'ente. nel medelimo
tempo, e ſecondo lo ſteſſo riſpetto , ma in varj te m pi o ſecondo diverſi
riſpetti , e ciò fa che le contraddizioni non ſieno , che apparenti , o del
genere di quei meraviglioſi , che de generano ſpiegandoſi in puerilità. Cosi
penſa lo ſtelfo Platone nel Teeteto , maParmenide nel cercar qui ſe ſia l'uno ,
quali altre co fe ne fieguano , non cela all'uſo de Sofiſti , ma ſpiega come
vero Filoſofo in termini ſemplici i miſteri , e queſta iola credo una nuova
prova del liftema Parmenideo da me ſtabilito . In ente ( 40 ) In queſte due
prime nozioni dell' uno non vi ſi framiſchiano le immaginarie', o poetiche ;
mabensì ve ne fono nella terza , ove fi rapportal'uno al non ente , o al nulla
, di cui non s'ha nozionereale', ma ſolamente immaginaria come dell'impoffibile
. V'è un affioma Logico , il qual diceche , dall' impoflibile ogni coſa ſe ne
deduce , pera che in lui fi complicano i contraddicorj, anzi il criterio per co
nofcerlo è per mezzo dei contradditorj, e poichè l'uno è inſe párabile
dall'ente ; fia lo ſteſſo dir il non uno, che il non en te , ma del non ente o
dell'impoffibile fi dice che ha effenza , o che non l'ha , che è lo ſteſſo e
diverſo , che è ſimile , e non fi mile , eguale , non eguale , cheſe genera e
fi diſtrugge ec. Dun que le ſteſſe coſe che ſi predicheranno del non ente
conveniran no ancora al non uno . Nell'attribuire il non uno all'altre coſe ,
fi trasformeranno queſte in fantasmi, o sogni d'eſtenſione , di mal fa , di
moto e di quiete , ciò che rende il mondo più poetico del cabbaliftico .
Platone o Parmenide maneggiano queſto argo mento con ſomma ſagacità , e
delicatezza , e ben ſi vede quanto foſſe la loro Filoſofia profonda , e quanto
utiliffima eller poſla , non cangiando il grado dell' aſtrazione , nè
inneſtandovi opinioni affatto encufiaftiche, come fece il Ficino . I celebri
Pittori , attenti ad oſſervare in ogni luogo tutto ciò che loro ſomminiſtra
idee nuove d'atteggiamenti , di ſcorcii , di lineamenti , difigure , ſe mai su
i muri più affumicati ritro. yano quelle ſtriſcie fortuite impreſſevi dalla
caligine , le vanno combinando con la loro immaginazione , e creano delle
figure leggiadramente fimecrizzate , e canto ſi rifcaldano nel vagheggiar opera
loro , che le additano agli altri , come fe ivi foffero ,e ſi cruciano e
fremono , e ingiuriano , quando queſti ſemplicemen te riſpondono di non
ravvifare , che orme irregolari di fumo . I Filofofi, e particolarmente i
comentatori hanno lo ſteſſo coſtu me , fiffi in un fiftema l'addatano a tutto
ciò che incontrano nell' autore da loro accarezzato , e dove egli ancora parla
nel modo più ſemplice , e naturale , e conveniente a'ſuoi principj, par loro di
fargli torto , ſe non l'abiſfano nelle loro profonde ſpeculazioni , e lo
dimoſtrano tanto più ammirabile , quanto nyono l'intendono , c quanto dagli
altri è meno intefo . In tutti i Dialoghi s'è prefiſſo il Ficino, di far di
Placone ( a ) un Teologo Criſtiano, ma non so come ritorni in queſto Dialogo al
( a ) Prima ex quinque ſuperioribus de uno fupremoque Deo dixerint quomodo
procreat diſponitque deorum ſequentium ordines . Secunda de fingulis Deorum
ordinibus , quo pacto ab ipſo Deo proficiſcuntur ec. argum. Marſ. Ficini Parm .
vel de uño rerum principio , & de 9 ideis . ( 41 ) al Paganeſimo, e vi
traſporti tutte le idee fimboliche del Timeo , e del Fedro ſenza biſogno , e
profitto ; e che coſa ſon queſti Dei che ſeguono Dio nell'ordine loro , ed in
qual parte del Parmeni de li ritrovo ? Annullò il Serano gli Dei, e vi ſoſtituì
due ſorti d'idee ; Dio è la prima e principal idea , le ſeconde ſono le va .
rie idee delle coſe create ; ma ſe Parmenide non diſtingueva Dia dal mondo ;
coſe affatto poeriche non ſono le idee divine ? Non bado il Serano , che
Parmenide toglie all'ente ſino il tem po' preſente, e le toglie ancora
l'eſſenza. Si , ma intende il Se rano l'eſſenza delle coſe ſingolari , e quando
Parmenide dice , che l'uno è molte coſe, vuol dire, che egli dà la forza
d'elfte re alle coſe ſingolari . Or come ſi può includere nell'idea dell' uno ,
in quanto tale la forza? E come poteva Parmenide inclu derla nell' uno , ſenza
concepirvi l' eſſenza , e nell' accoppiare l' eliftenza alla forza , e non
concepir l' uno come molti contro l? ipoteſi? La prima idea , dice il Serano ,
fi diffonde in maniera ſulle coſe create', alle quali Dio dà la forza , e
facoltà d ' eſiſtere , che ad ogni modo circoſcrive ne' determinati cancelli
dell' uno , la feffa moltiplici, tà , e quaſi infinità delle coſe ſingolari .
Queſta è la luce tenebroſa del Flud , chi può ſpiegarla ? Va il Serano peſcando
le affezioni dell' idee ſeconde , e ne ri trova ſei , dopo le quali la ſua vena
metafiſica , e teologica , ſi conſuma, o perde , ed in tutto il reſto del
Dialogo immobil mente fiſto , ed eſtatico ſul ceſto Platonico , par uno di que'
Chineſi, che per molti anni guardandoſi la punta del naſo s'im maginano di
veder l'eſſenza divina; non batte egli palpebra tutto concentrato in sè , nè
degna abbaſſarſi a ſoſtener con note margina li l'imbarazzato lettore . Io ſon
ben lontano dal condannare le al tre note di queſto autore , colle quali negli
altri Dialoghi eſpone la conneſſione, e callora le ragioni ſemplici del teſto ,
ma nel Par menide ſpiegando alto il volo per emular il Ficino , li dimentica
del ſuo coſtume, e laſcia in aſciutco il leccore ; ma come è poſſi. bile , che
avendo egli canto ſtudiaco Platone, e confrontati i teſti, nonabbia atteſo ad
unpaſſo delFilebo , in cui li ſpiega il fine , che Platone ſi prefiſſe in
queſto Dialogo ? Nel Filebo , che non ſenza ragione gli antichi faceano ſeguir
al Parmenide , cosi ſi parla da Socrate a Protarco . Tu , o Protar dice Socrate
, intorno l' uno ed i molti ai dette le coſe pubbliche dei meraviglioſi, le
quali, per dir cosi , ſono concedute da tutti, che non fieno punto da toccarli,
ejendone alcune puerili , e facili da conoſcerſi, e per nuocere maſſimamente a
ragionamenti, fe alcun le ammetteſſe ; nè è Tom. II. f de ( 42 ) - 1 1 tal uno
, da ſtimarſi coſa meraviglioſa , ſe alcun dividendo rolla ragione le mem-, bra
d'alcuna coſa , e tutte quelle parti , confeſſando quella eſerne una ; di poi
la confutalle , e ne prendeſe beffe quaſi sforzato a con . feſare coſe
moſtruoſe , cioè che una ſola coſa ſia molte ed infinite, ele molte quaſi una
ſola , E' quì da notarli quel dividere con la ragione le membra di alcuna coſa
, formula che egli repplica ſovente nel Parmenide , in cui dice , ſeparar le
coſe con l'intelligenza , e fino sbranarle ; indizio manifeſto che qui non ſi
tratta , che d'aftrazione di ra gione, per cui nelle coſe più ſemplici fi
diſtinguono , non le par ii, ma gli attributi , e le relazioni che le fan molte
per rapporto alla mente ; or tutto ciò che dice nel Parmenide dell'ente, e
dell' uno , non divien egli un di que' meraviglioſi puerili, de' quali par la
Socrate , fe non s'averte , che le contraddizioniſono apparen . ti , o che nel
medeſimo tempo , e ſecondo lo ſteſſo non s'aſcrive all'uno , il fimile e
diffimile? Siegue Socrate : quando alcuno giovane pone l'uno , non eſſer alcu
na di quelle coſe , le quali naſcono , e muojono , perciocchè quì un co come
poco fa dicemmo, ſi è conceduto , che non ſi debba con futare . Parla quà
Socrate della prudenza , della ſcienza , e della men te , di loro natura une,
immortali, ed eterne nel ſiſtema Piccagori co , e delle quali , come d'eſſere
reali , parla nel Sofiſta . Conclude Socrate : Ma quando ad affermare è
altretto un fol Uo mo , un ſol bue, una coſa bella , ed una coſa buona , allora
veramen. te in queſte, ed in cotali unità ſi rende ſollecito lo ſtudio , ed
anche ſi fa ambiguala divifione. Primieramente ſe ſieno da ammetterſi certe uni
tà sì farte, che fieno veramente ; di poi, in qualguiſa ſia de penſarſi, che
ciaſcuna di quelle coſe ſia una , e la medeſima ſempre, nè fi pren da
generazione, nè morte , ma ſe ne ſtia fermiſima nell' unità di lei ; finalmente
ſe ſia da porſi alcuna coſa nelle coſe generate , od infinite, o partita , ed
oggimaifatta moite coſe, o tutta eſa in diſparte da ſe medeſima, il che più di
tutte l'altre coſe parrebbe impoſibile che uno , e lo dello ſi facele parimente
in uno , ed in molti. Quefto è l'uno, ed i molti che ſi trovano intorno a
cotali coſe , ma non quelli , o Protarco che non conceduti bene ſono cagione
d'ogni dubitanza , ed ogni facilità ben conceduti . Manifeftiffimo è , che quì
Socrate ripete le difficoltà ſull' idee ſeparate fattegli da Parmenide , e ſu
le quali confeffa , che impoſſi bile è di scioglierle, indi fa attenzione al
metodo inſegnato da Par menide, di cercar l'idee per via dell' aſtrazioni, con
le quali ſi to glie ogni difficoltà intorno a'molti, e all'uno . Da ( 43 ) Da
queſti palli io deduco , che il fine di Platone in queſto Dialogo altro non fu
, che d'allontanarſi da quel meravigliolo e puerile, in cui facilmente fi cade,
quando non ben li diftingua no i concerci della mente , o s'amia irasformare i
concetti in ido li , ed a realizzarli poeticamente , come faceano i Pittagorici
. Per compir queſto diſegno fcelle Platone il Filoſofo più ſpeculativo
dell'antichità , e deſcritto da Socrate qual Uomograve, evenerabile , e d'una
profondità al tutto generoſa , il che vuol dire , ſe non erro , che egli nella
ſua maniera d'argomentare franca , libera, ed inſie me profonda, nulla tenea
del lopraciglio , e della vanità dei Sofi fi; Platone quimoſtra fin dove
arrivar pud l'ultima analiſi , che i Pitcagorici faceano dell'idee , oltre le
quali il procedere'era un eſporſi a pericolo di non più intender quello che ſi
dicea , comepur trop ро è arrivato ad alcuni Scolaſtici , che fpingendo troppo
, oltre le queſtioni oncologiche , ofarono ſin negare il principio di con
traddizione , ed affermarono chel'infinito ſi raggruppaffe in un pun to . Nel
Gorgia, nel Protagora , ed in altri Dialoghi contro iSo fifti , coll'arte
dell'ironia Socratica , li dipinge a diritto Platone quali cacciatori mercenari
d'uomini, mercatanti venditori, appal tatori di ſcienze , e diſcipline falſe ;
ma chi può dire che Platone ebbe difegno di proporſi in queſto Dialogo
Parmenide , qual mer catante venditore, ed appaltatore di bujo peſto , che così
devono chiamarſi le quiſtioni tenebroſe , ed all'ambicate ; bujo peſto è quel
lo di cui troppo liberalmente lo caricano il Ficino , ed il Sera no, non quel
che combina la doctrina d' Ariſtotele , con quella di Platone ; dotcrina che
curt " i Peripatetici , e gli Scolaſtici ab bracciarono e che ultimamente
con tanta chiarezza e preci* fione , eſpoſe il Wolfio nella fua Ontologia .
Queſto Dialogo è primieramente ontologico , e preſo in queſto ſenſo non ha in
sè più di pericolo che la metafilica d' Ariſtocele , ma ridotta alla Dialeccica
, L'antica Dialetica verſava fu i generi di tutte le coſe , attenca a
compararli , a combinarli , per preparare' ed illuſtrare la quiſtio ne
propoſta. S'ingegna lo Stanlejo di ridur a tre generi la Dialec tica de
Piccagorici .1. Ai non ripugnanti , o ſia all'eſſenza delle coſe nelle quali ſi
combinano, coſe tra loro non contradditcorie.. Così l'eſſenza del triangolo o
del quadrato , è l'eſfer figure di cre o quattro linee , perchè non v'è ripugnanza
, che il numero ter nario o quaternario , s'adatti o fi combini alle linee
rette . 2. Ai differenti o alle coſe che tra loro ſi diverſificano nell'eſſenza
, nc gli attributi , e ne' modi ; così il triangolo è differente dal qua drato
, ed il quadrato dal cerchio . 3. Ai relativi a'quali ſi riduco if 2 no ( 44 )
no tutte le matematiche conſiderate dagli antichi , come il vero modello della
diſciplina , ed a cui i moderni riduſſero l'arte dell' analogie filoſofiche, ed
il calcolo de' probabili . Platone ſtabiliſce in molti luoghi non tre ma cinque
generi del le coſe ; l'eſſenza o ciò che è , lo ſteſſo , il diverſo , il moto ,
e la quiere ; a queſte due ultime nozioni ſi riduceva tutta la fiſica antica ,
onde diſfe Ariſtotele , che ignorato il moto s'ignora la natura . Lo ſteſſo e
il diverfo vaga per tutte le altre fcien ze ; onde Platone dello fteſſo , e del
diverſo , compoſe l'anima del mondo , e la bellezza . Lo ſteſſo e il diverſo
ſono relazioni dell' ente in genere , fi ſpargono ſulle relazioni dell'ente in
ſpecie , il fimile, il diffi mile , Peguale , il maggiore, il minore , il nuovo
, l'antico . Que fta era la ſcala de'generi ſuperiori, o quelle nozioni
ontologi che aſtratte per l'acume della mente da' concreti , coſa ben di verſa
dalla ſcala de' predicamenti d' Ariſtotele . Il Wolfio ( a ) fa propoſe per
ultimo oggetto degli ſtudj fuoi, di perfezionar" la Icala de'generi , e
con eſſa ſciogliere il problema dell' analiſ dell'idee , propoſta ma non
trattata dal Leibnizio . I Pittagorici ne diedero i primi ſemi, e Placone più
li ſviluppò , applican doli alla determinazione dell' idee , quindi è che nel
Parmeni de tutti iſuoi argomenti ſi riducono alle relazioni dell'ente , in
genere dell'ente , in ſpecie . Rinferrata ne' fuoi limiti la materia del Parmenide,
il meto do che v’applica è quello del principio di contraddizione , che ci
conduce all' aſſurdo ; metodo non tanto accetto a noi , per . chè ci dimoſtra
la noftra impotenza , ma che ci sforza invin cibilmente all'faffenſo . In
queſto metodo Platone ne aggruppa molti altri , il metodo d' eſcluſione è
quello dell'analiſi geo metrica . Nel metodo d'eſclufione fi numerano tutti i
caſi di una co ſa , e s'eſcludono o tutti per dinotare l'aſsurdità , o tutti
men in cui fi cerca la ſoluzione del problema . Così Archi mede avendo
dimoſtrato , che un dato poligono non è , nèmag giore , nè minore del cerchio ,
nel quale è inſcritto o circon Icritto , conclude che gli è eguale . Placone in
molti caſi ado pra il metodo ſteſſo . Nel metodo dell'analili geometrica , fi
aſſume ( 6 ) il quefito come conceffo , e per legitime conſeguenze s'inoltra
fino ad un ve 1 uno , ro ( a ) Affumptio quæſiti tanquam conceſsi per ea quæ
conſequentur ad verum conceffum . ( 6.) Wallis Il . dell’Algebra . ( 45 ) To
conceſso , da cui riteſsendo il ragionamento ', li dimoſtra il quelito ; molti
vogliono , che Platone ſia l'inventore di queſto metodo, e che abbia fatto il
Parmenide per darne l'eſempio ; maqueſti attribuirono al tutto ciò che conviene
adalcune parti, Utiliflime ſarebbono le metafiſiche de'moderni , fe i loro
autori fi foſsero limitati all'ipoteſi, e ſi foſſero guardati di proporle in
for ma di dogma , cagione d'eterni litigi non ſalvati , ne da ſtile elo quente
, nè da calcoli algebraici. Il Carteſio ſegui nelle ſue medi tazioni ilmetodo
analitico , ma diede occaſione a molti ſiſtemi più ſtrani de'ſogni, come quello
degli Egoiſti, conſeguenza dello fpi nofismo fpirituale . Che dirò dell'arte
del Dialogo , in cui s'è già dimoſtrato imi, tarſi i ragionamenti umani, come i
Poeti Dramatici aveano imi tate le azioni umane . All'imitazione. ( a ) di
queſte convien il palco , ed il verſo , non all'imitazione de' ragionamenti, la
quale per ſua natura appartiene alla Dialettica : poco o nulla di leg giadria
avrebbono i fillogismi, egli entimemi in verſo , e poco o nulla lor gioverebbe
l'apparato della ſcena . Si è pur detto che la quiſtione, e la digreffione al
Dialogo , è come la favola , e l' epiſodio al Drama . Nel Parmenide la
quiſtione è intorno l'idee , ma non v'è digreſſione, ſe pur non fi voglia ridur
a queſta , la preparazione alla diſputa con Par menide, incominciata tra
Zenone, e Socrate . La differenza de' drami ſi prende dal diverſo modo
dell'azio ne , la quale o è ſemplice, o compoſta, e la differenza de’ Dia loghi
dal modo del ragionamento, nel quale , o s'inſegna, os inveſtiga da un ſolo , o
s' inſegna , o s'inveſtiga da molti la quiftione propoſta . A quattro generi
riduce il Taffo i Dialoghi , al dottrinale , al Dialettico , al tentativo , al
contenzioſo . De’due primi generi è miſto il Parmenide, perchè dopo di aver
egli diſputato con Socra te , quaſi ſolo favella, non contandoſi le riſpoſte
d'Ariſtotele , approvazioni per lo più della concluſione , o preghiere d' eſpor
più chiaramente la ragione accennata . Nel inlegnare qual fia la natura o
l'idea dell'uno , qui non v'è tentativo , nè litigio , nè in queſto Dialogo v'è
molto a ricercare , ſe ſia meglio adat cato all'inſegnamento che il maeſtro
interroghi , od i diſcepo lo . , perchè appena termino la breve diſputa có Zenone
, che Parmenide cominciò a interrogar Socrate , ed avendolo confu? lo , ed
imbarazzato con una difficoltà cui non poteva riſpondere, Para ( a ). Torquato
Taſſo diſc. ful Dialogo . ( 46 ) uno . Parmenide paſſa ſenza interrompimento
alle tre poſizioni dell ' Vuol Torquato Tallo , che come una ſia l'azione nel
Dra ma , così una fia la quiſtion nel Dialogo , la quale o è infini ta , per
eſempio ſe deve apprezzarſi la virtù , o è finita , per eſempio che deggia far
Socrate condannato a morte . La qui ftione del Parmenide è infinita , perchè fi
tratta dell' idee di cui ſi cerca la natura e l'origine , la natura dimoſtrando
che non ſono dalla noſtra mente feparate , l'origine dimoſtrando come per via
delle ſuppoſizioni s'acquiſtano . Queſte due coſe ne fan no propriamente una ,
perché non ſi può intender la natura dell' idee ſenza prima determinarne
l'origine . L'una e l' altra determina Parmenide , e rimove l' idee feparate
per convertire il ragionamento al modo con cui la mente le acquiſta. Parme nide
lo propone , non lo dimoſtra per non allontanarſi dal co ſtume della ſua fetta
, che era di propor dubitando le coſe : Non è cutravia in ciò ſolamente che
appariſce il coſtume di Par menide . Dimanda Socrate , che gli ſia dichiarata
la quiſtione delle idee , ed intorno alle coſe che ſi veggono ,ed ancora
intorno a quelle che ſi comprendono con la ragione . Parmenide , e Zenone
attentamente lo aſcoltano , eſpero guardandoſi l'un l'altro fog ghignano quaſi
di Socrate meravigliandofi . E queſta è quell'evi denza tanto neceſſaria al
Dialogo , e di cui Platone diede si chiari eſempj neli' Ippia , e nel Fedone .
Ella è qui ordinata a manife ſtare il coſtume d'un Filoſofo accento , e che
colla triſtezza , e coi fogghigni accenna , ciò che nel diſcepolo non s'accorda
con la ra gione . Un tratto poi del coſtume d'un Filoſofo attento , è do ve
dice Parmenide o Socrate troppo per tempo , innanzi che tu ti eſerciti a
parlare , ti sforzi di definire ciò che ſia il bello , il giu ſto, il buono , e
qualunque dell' altre ſpecie . Perchè poco fa il con fiderai vedendoti
diſputare con Ariſtotele . Per certo mi credi , que fto tuo fervore è bello è
divino , il quale alla ragion ſi conduce , ma recati in ſe ſtello, ed
eſercitati mentre ſei giovane in queſta fa coltà la quale a molti inutile , e
ſi chiama dal volgo garruli tà , altrimenti ſi fuggiria da la veritade.
Parmenide qui accenna la Dialectica in quanto vaga per cutti i generi , ſulla
qual coſa poco dopo ſoggiunge conſervando il co ſtume divecchio venerabile .
Sarebbe cofa ſconvenevole , cheſi trat tale maſſimamente da un vecchio certe
coſe si fatte alla preſenza di molti , non ſapendo il volgo , che ſenza queſto
vagare , e diſcerne re per tutte le coſeſia impoſſibile abbattendoſi nel vero
acquiſtar men te . Ariſtotele e gli altri lo pregarono , e Parmenide riſpoſe
con un apo 7 pare inutile ( 47 ) apologo : egli è neceſſario finalmente che
s'ubbidiſca , tutto che mi è av viſo di tutto quello che patà il cavallo Ibico
, cui Atleta e vecchio do vendo prendere la conteſa delle carrette , e per
l'eſperienza iremando de' ſuccelli , alimigliando egli a ſe ſtello, dille
cheegli già vecchio era coſtretto di ritornar agli amori . Nel medeſimo modo
diſſe Parmeni. de , a me pare di temer malto , quando penſo in che guiſa
cosè.d'età avanzata , io pola paſar a nuoto un mare cosi profondo di ragionda
menti . Intorno la ſentenza , o ſia ciò che ſente il principale interlocu tore
del Dialogo , ella è qual conveniva a un Dialettico eſperto , nel vagar per i
generi delle coſe , e nell'argomentare , e ben de gno , che nelle coſe
intellettuali Platone , Secondo il teſtimonio di Apulejo, lo preferiſſe agli
altri Pitiagorici , e n'imitaſſe la ſotti gliezza , e nell' idee , e nel metodo
di proporle . Nella Poelia. Epica , altro è che il Poeta imiti narrando un facto
, altro che introduca un degli attori a narrarlo . Così nell' Odiſſea , aḥtre
ſono le cofe che Omero direttamente narra accadute ad Uliffe , altre quelle che
narra Ulife ſteſſo . S'in troducono ne' Poemi i racconti , per variar i modi
dell' imita zione , ed ancora per accreſcerla ; ella è perciò doppia , quando
nel Poema i perſonaggi imitati, imitano effi fteffi col loro rac conto . In
queſto Dialogo , Pitidoro imita, narrando i diſcorſi che inteſe da Parmenide .
I Dialoghi, benchè fpecie di Poeſia Dramatica , in ciò con vengono con l' Epica
, e Platone , che nelle diſpute de'Filoſo fi volle imitare i combattimenti
degli Eroi di Omero , emold anche queſto nel modo di rappreſentarli . Nel
Filebo propone ſenza alcro la difputa chiaramente enunziata intorno la felici
tà ed il piacere , nè premette alcuna circoſtanza ſtorica ai ra gionamenti dei
tre interlocutori , Socrate , , Filebo e Protar co ; così fa nel Sofiſta ,
nell' Eutifrone nelle Leggi , e nella Repubblica , ma non cosi nel Convito ,
nel Fedone, e nel Par menide . Pitidoro vi narra ciò che ha udito da Antifone,
e queſto è modo più artificioſo dell'altro , perchè vi ſi ricerca molta ſa
gacità nel render neceffario il ragionamento, ed accompagnar lo di quelle
circoſtanze che più mettano la coſa fotto gli oc chi , intereſſino il lettore
ad aſcoltare i perſonaggi, e di tem po in tempo lo ricreino con opportune
digreffioni , ma tutte convergenti alla quiſtione propoſta , ſenza che ſe ne
accorga il lettore. Nel diſcorſo naturale noi pafliamo ſenza rifleſſo da una
coſa all'altra , ma nel Dialogo , ſe ſi vuol imitando perfe zio ( 48 ) zionar
la natura , nulla vi ſi deve introdurre ſenza ragion ſuf ficiente . La ſomma
difficoltà dell' artificio del Dialogo è nell: interrogazioni, e nelle riſpoſte
diftinte e preciſe , ma nel Par menide il dialettico s'accoppia col dottrinale
e queſta è la parte dominante , perchè eſcluſe l' idee ſeparate , Parmenide ſem
pre parla ſcorrendo per le ſuppoſizioni. ; 1 1 1 > ILLUSTRAZIONE D E L 1
PARMENIDE. . Tom . II. } , ( 51 ) ILLUSTRAZIONE D E L PARMENIDE. tertentanut
Estates L A diſputa su l' idee fatta tra Parmenide, Zenone', Socra te , ed un
certo Ariſtotele , viene a Glaucone , e ad Adi manto riferita da Cefalo per
bocca d'Antifone, il quale avendo familiarmente converſato con Pitidoro
compagno di Ze none', avea su queſta materia udito da lui le ragioni dei tre Fi
loſofi. Reſtarono queſte cosi profondamente impreſſe nella me moria di Antifone
allor giovanetto , che molti anni dopo ſeb ben diſtratto dagli eſercizi
equeſtri , poté in tutte le loro cir coſtanze rappreſentarle nell' abboccamento
, che egli ebbe con Cefalo , e coi compagni . Tofto Cefalo eſpone il motivo
della diſpuca Parmenide ne Poemi avea detto che tutto è uno , e Zenone provato
in uno ſcritto , che uno non è molti . Si comincia la Jercura dello ſcritto , e
Socrate vi fa ſopra delle difficoltà a mi fura che ſi legge. Poco mancava' a'
terminar la lettura , quan do Parmenide con Pitidoro , e Ariſtotele entrarono
in caſa . Si leſſe di nuovo alla preſenza di Parmenide , e degli altri il pri
moargomento , e fi difputò incidentemente su la differenza del le due
definizioni parendo a Socrate , che il dire tutto è uno foffe lo ſteſſo che il
dire , uno non è molti . Glielo concede Zenone , é lodaća la ſagacità di
Socrate dichiara', che non per vanità o per 'arcano di Filoſofia egli ha'
fcritto , ma per fo ftener l'orazion di Parmenide contro coloro che ſi
sforzavano di ſchernirlo , perchè ſe molte contraddizioni degne di riſo pativa
l' Orazion di Parmenide , molte altre di più ridicole ſe ne inferivano dalle
ſuppoſizioni degli altri. Zenone ſcriſfe il : li bro nella ſua giovanezza , ma
un certo avendoglielo rubato.fi pubblico . Si ricomincia la diſputa. Parmenide
, e Zenone lafciano a So. crace eſpor tutta la ſua ſentenza su l'idee ſeparate,
per le quali moſtrava la definizione dell'uno da Zenone affegnata non eſſer
univerſale " . Accorcol Parmenide , che tutta la forza dell'argo mento (
52 ) mento di Socrate fondavaſi su l’idee ſeparate , l'imbarazza co
ftringendolo ad aſſegnarne alle coſe fiſiche. Non sa Socrate ri folvere la
difficoltà. Parmenide fingendo di conceder l'idee ſe parate argomenta contro la
loro participazione , contro il lo ro progreſo all' infinito , contro alla loro
incomprenſibilità. So crate n'è molto curbato , credendo che annullate l ' idee
ſepara te non vi fieno più principj per ben filoſofare . Ammira Par menide il
fervor di Socrate , e lo conſiglia ad eſercitarſi nella Dialetica per ben
inveſtigare l'idee . Pitidoro ed Ariftotele , pre gano Parmenide ad
eſemplificar il metodo dell'inveſtigazione dell'Idee . Egli ſcieglie l'idea
dell' uno , e col metodo delle ſup poſizioni la tratta. Orquattro ſono le
quiſtioni che ſi poſſono eſtrar dal Parmeni de relativamente alla definizione
di Zenone , che l'uno non è molti . La prima è quella dell'uno per rapporto
all' idee feparate ; Ia ſeconda dell'uno per rapporto asé ; la terza dell'unc
per rap porto all ' ente ; la quarta dell'uno per rapporto al non ente . Le tre
ultime quiſtioni ſono propoſte per via d'ipoteſi : ſe l'uno ; ſe l ' uno è ; fe
l'uno non è . Per non traſcurar nulla di ciò che agevola l'intelligenza del
Dialogo , premetterò partitamente ad ogni quiſtione la Ipiegazio ne delle voci,
e delle nozioni neceſſarie , ſtando più che mi ſia poſſibile attaccato alle
parole del teſto quale Dardi Bembo il tra duffe ; mi par inutile di por tutto
il Dialogo , perchè eſſendoſi ri ſtampato di freſco , tutti coloro i quali
hanno vaghezza d inten derlo ſe ne faranno già proveduti ,per gli altri
èinutile e vana ogni illuſtrazione . SEZIONE PRIM A. b. I. Enone defini l'uno
ciò che non è molci . Approva Ariſto tele ( a ) queſta definizione, perchè in
generale ogni defini zione , dovendoſi aſſegnare per le coſe più lenfibilia e
più note, l'eſperienza di tutti i ſenſi ci moſtra , che i molti ci ſono più
noti che l'uno ; i fanciulli più teneri nel coccare , nel vedere , e nell'udire
pereepiſcono i molti , e la loro cognizione è imme là dove hanno biſogno , che
la loro ragione fi maturi un poco per cominciare a dir uno , e quindi numerar
su le I molti dunque eſſendo più noti dell' uno , negandoli di forma 6 ) Metaf.
lib . 1o. diata ; dita . il ( 53 ) il concetto negativo dell'uno in quella
guiſa , che negando le par ti ſi fa il concetto negativo del punto . Dall'uno G
fa l'idea aſtratta dell'unità , come dall'idea dell'uomo l'idea aſtratta
dell'umanità . Tre ſono le ſpecie dell'unità ; la Lo gica, la Matematica , la
Metafifica. L'unità Logica ſono i generi , e le ſpecie, o certe idee univerſali
atte a rappreſentar molti in uno; l'unità matematica è il principio compoſitivo
de' numeri , o il prin cipio per cui fi numera ; principio differente dal zero
, da cui ſi nuinera . L'unità metafiſica' è una proprietà traſcendentale dell'
ente , o che conviene all'ente in quanto tale , poichè d'ogni ente fi predica
l'uno , come fi predica il vero , e il buono , o ſia il perfetto , ma la verità
, e la bontà , o la perfezione , inclu dendo ordine nella varietà ſuppone l'
uno , onde tra le proprie tà dell'ente egli è la più univerſale ( a ). L'unità
o l'uno nel ſuo concetto aſtrattiſſimo preſcinde da tutte le relazioni,
potendoſi per l'aſtrazione della mente non riferire, nè alle coſe che
rappreſenta , nè a' numeri che compone , nè a ciò cui conviene : In queſto
ſenſo aftrattiflimo definiſce Zenone l' uno , opponendolo ai molti in genere .
Contro queſta definizione cosi argomenta Socrate . Vi ſono idee ſeparate :
dunque ogni idea eſſen do una in sè , e molti , nel participarſi a molti l'uno
, eimolti poſſono accoppiarſi ; dunque non pud dirſi , che l'uno fia molti .
Prima di ſviluppar l' argomento rifletterò su certe voci , e nozioni di
Socrate. $. 2 . Suppone toſto Socrate, che vi fieno idee ſeparate. L'idea ſe
condo l'etimologia della voce Greca , ſignifica propriamente com fa viſta , e
per traslato ſignifica coſa inteſa , o ciò che s'inten de ; ma tallora
ſignifica l'atto per cui s'intende , il qual però meglio ſi chiama nozione o
concetto. Åleinoo defint l'idea , intelligenza per rapporto a Dio , pri mo
intelligibile per rapporto anoi , miſura quanto alla mate ria , eſemplare
quanto al mondo ſenſibile , effenza quanto a ſe ſteſſa . In tutti queſti ſenſi
la prende or Socrate , ora Parmeni de ; ma la prima nozione dell' idea ſeparata
è che ella fia il primo intelligibile . $. 3• ve ) Wolfo Metaf. ( 54 ) § . 3 .
Socrate: oltre l' idee del bello , dell' oneſto , e del giufto , che Parmenide
gli accorda , ammette ancora quelle del limile , del diffimile, del moto ,
della quiete , dell' uno , e de' molti . Queſte ultime idee ſono tra loro
oppoſte e contrarie , come il caldo , il freddo , il bianco , ed il nero ;
eſſendo contrarie , ciò che convie ne all'una , non conviene all' alira , e
quindi ſecondo Socrate i ge neri, e le ſpecie , idee più o meno univerſali
conſiderate in se non patiſcono paßioni contrarie , ma nulla vieta nell'ipoteſi
di Socrate, che non poſſano participarſi dalle coſe. 1 S. 4 . Partecipare è
propriamente ritener in sè una parte d'un cutto ;; così l'aria partecipa la
luce ', poichè ogni particella d' aria ha in sè una particella di luce . In un
ſenſo più ampio , la voce partici pare s'eſtende dalla quantità alla qualità ,
all'azione , all effenza Iteffa. ;. così ſi dice , che l'accidente partecipa
della ſoſtanza', gli effetti delle cagioni, un figlio le virtù , eivizj.del
padre : La par cipazione è quindi' più ampia della ſimiglianza limitata alla
ſola convenienza delle qualità , e molto più dell'imitazione , che alla
fimiglianza aggiunge la relazione tra il modello , e la copia ; due gemelli
naſcendo saſlimigliano , e pur l'uno' non è la copia dell' altro . I
Pittagorici' nel riferir le coſe all' idee ſeparate , come a loro
modellidiceano', che participavano o imitavano l'idee , ma fecondo Ariſtotele (
a ) non mai filoſoficamente ſpiegarono le voci di participazione, e
d'imitazione . S. 56 Cið fuppoſto , il primo argomento di Socrate tratto da
queſti principj fi pud diſtinguer in due per maggior chiarezza . Ogni idea è
una in sé , ed una in molti , dunque nel tempo ſteſſo , uno può efser molti .
Cosi lo conferma , Benchè l' idee lieno tra loro con crarie , nondimeno poſsono
eſserº nel tempo ſteſso participate da. molti , anzi dallo ſteſso ſecondo
diverſi riguardi , ma in queſte participazioni ritengono la loro unità ,
dunque: ſon uno e molti. Così lo prova : oppoſte e contrarie ſono tra loro
l’idee , del ſimile , del diſſimile', del moto', della quiete , dell’'uno; é
dei molti ; dunque comenulla viera , che lo ſteſso poſsa aver more in ( a )
Metaf, lib. ( 55 ) in una parte , e quiete nell'altra ; eſfer fimile ad un
altro in una parte, e diffimile nell'altra, così nulla vieta che ſia uno , e
molti ; una Caſa ha molti legni , e molte pietre ; ogni . Uo mo è uno
conſiderato in sè , ed è o ſeſto, o ſettimo conſide rato con altri . la un Uomo
, altra è la deſtra , altra la fini ſtra , altre le parti dinanzi, altre di
dietro , altre le ſupreme , al tre le infime. Nel Sofiſta egli dice ; noi
chiamiamo un Uomo denominandolo con molti cognomi , mentre a lui attribuiamo i
colori , le figure , le grandezze, le virtù , ed ivizi : nelle quali coſe tutte
, ed in altre infinite , non ſolamente diciamo che egli fia Uomo, ma ancora
buono , ed altre infinite coſe , e le altre fecondo la ſtella ragione . In
cotal gui sa fupponendo noi qualunque coſa una , di nuovo l'appelliamo molte e
con molti nomi ..... Onde ſi è da noi data occaſione di contraddi re , come jo
penſo a' giovani , ed a ' vecchi di tardo ingegno : percioc che incontinente ci
potrebbe chiunque far obbiezione che ſia coſa impos fibile, che molte sofe
folero una , ed una molte . ( a ) Dunque uno può eſſer molti ; dunque non è
generale la de finizione , che uno ſia non molti . La participazione dell' idea
evidentemente lo manifeſta . 7 9. 6 . . Sciolto è l'argomento ſe fi nega
l'ipoteſi dell' idee ſeparate perchè colte l'idee è colca la loro participazione.
Parmenide ri gecta l'ipoteſi, come nè generale , nè chiara ; non generale .per
chè non s'eſtende a cutti i cafi poflibili i ; non chiara . , 'perchè non pud
fpiegarſi la participazione dell'idea. Cost :provo la pri ma parte non ſi
debbonoaſſegnar idee delle coſe ſeparate, o aſſegnarſene di tutte le coſe ';
che vuol dire , non baſta affe le .coſe morali , e matematiche , mabiſogna af.
ſegnarne ancora per le fifiche : dunque non ſolamente vi ſono idee del giuſto ,
del bello , del buono , del grande , del fimile ec, ma dell'uomo, del foco,
dell'acqua , e d' alcune coſe , che molti fimano per avventura ridicoloſe ; i
peli, il fango, le macchie., ed altre coſe ignobili , e vili. Socrate toſto lo
nega, perchè gli pare , che ammettere queſt' idee, ſarebbe coſa troppo
diſconvenevole , poi can didamente confera, che alcuna volta queſto penſiero lo
turbo , e che quando di là fi ferma ſe nefugge temendo di non corrompere la ſua
mente , e fantaſia cadendo in ciancie ineſplicabili ., onde a quelle coſe
ritornato ( cioè all'idee del giuſto , del bello , del buono, ed all idee
'matematiche ) verſa intorno a quelle . In ( a ) Sof, pag. 306 , ( 56.) In un
caſo ſimile ſi ritrovò il P. Malebranchio ; ſentendo egli la difficoltà di
ſpiegar chiaramente , come l'eſtenſione intelligibi- : le , eſſendo immobile in
Dio , gli rappreſenti il moto , ove il luſtra queſto articolo dice nel fine : (
a ) Io non oso impegnarmi'. a trattar queſto ſoggetto a fondo , temendo di dir
coſe, o troppo aftrat te , o troppo ſtravaganti, o ſe ſi vuole , per non
azzardarmi a dir co ſe che non so , nè sono capace di diſcoprire. Queſto è il
ripiego di Socrate . Ariſtotele ( do ) ove nella Metafiſica combatte l' idee
ſeparate malamente attribuite a Platone , adduce tra l'altre coſe , che dandoſi
idee ſeparate ſi dovrebbe darne de' ſingolari, de' corrut tibili ; egli non
eſtendeche l'argomento da Parmenide eſemplifica to , e poida Alcinoo , che
afferi non darſi nel fiſtema de' Platonici idee delle coſe arcifiziali ; uno
ſcudo , una lira ec. ne delle co fe oltre natura la febbre , la bile non
naturale ; non delle coſe ſingolari, Socrate , Placone; non delle vili, ed
abbiecte ſozzure , paglie ec. donde traffero i Platonici dopo Ariſtotele,
queſta di ſtinzione, ſe non dal Parmenide ? §. 7 . Propoſta che ha Parmenide
un'obbiezione , che Socrate non può riſolvere , egli cangia l' argomento ad
judicium in quello aid hominem , che vuol dire non argomenta più ſecondo i
principi della ragione univerſale, ma ſecondo i principj del diſputante , e ne
deduce la contraddizione . Suppone dunque che vi fieno idee ſeparate ", ma
come poi date queſte idee lo ſpiegare che lieno participate dalle coſe Queſta
participazione ſi fa , o ſecondo il tutto , o ſecondo la parte . Parmenide
dimoſtra , che nèl'uno , nè l'altro può eſſere . Sia da una coſa participaca
l'idea ſecondo il cutco , dunque tut ta l'idea è in ſe ſteſſa .; e tutta fuori
di ſe ſteſſa ; dunque nel tempo ſteſſo eſiſte tutta in sè , e cutca fuori di sè
. Siaľ idea conliderata in sè A , e participata fia B , C, D ec. generalmen te
, o non A ; dunque nel tempo ſteſſo l'idea è A , e non A , ciò che è
contraddittorio . Nè occor dire che un giorno è uno , e lo Steffo , ed inſieme
in mola ti luoghi , e pur non è da ſesteso in diſparte . Il giorno non è che la
luce del sole , diffuſa in tutto il noſtro emisfero . Or quel la parte di luce
, che illumina me, non illumina il compagno ſebben mi lia vicino . Parmenide li
ſerve dell'eſempio della ve la , ( a ) Ricerca della verità T. 4. pag. ... ( b
) Metaf. I. .... ( 57 ) la , la quale molti coprendo , non è perd una in molti
, perchè la parte c he copre l'uno , non è la parte che copre l'altro .
Reſta a dimoſtrare, che l'idea non è participata dalle coſe ſe condo una parte
; la dimoſtrazione è da se manifefta , perchè l'idea participata ſarebbe una ,
e non una ; una tutta in sè , e non una nelle coſe che ne hanno ſolo una parte
. Queſto modo d'ar gomentare , è fondato ſul principio di contraddizione
adoprato lovente da Platone, e ſtabilito da Ariſtotele , come il primo prin
cipio in cui ſi riſolvono cutti gli altri . Eſperimentiamo noi cal eſſere la
natura della noſtra mente , la qual mentre giudica che una coſa ſia , non può
inſieme giudicare , che la ſteſſa non ſia . Parmenide eſemplifica
l'impoſſibilità di queſta ipoteſi. 5. 8. La grandezza è ciò che è capace di più
e di meno . Nel conce pir il più fi concepiſce il maggiore, nel concepir il
meno fi conce piſce il minore , e nel concepir l'eguale non ſi concepiſce nè
più , nè meno nelle quantità che ſi comparano. lo dico che li comparano ,
perchè nè il più , nè il meno, nè l' eguale concepir ſi poſſono ſenza riguardar
una coſa nel tempo ſteſ to che l'altra o ſenza compararle , e in queſta
comparazione pro priamente la grandezza confifte, la quale , come ben dice il
Wol fio , non ſi può concepir ſenza un altro a differenza della quali tà .
Tutto quindi l' effer della grandezza è relativo , od ha tut to l'eſſere in
ordine ad un altro . Così Platone eſpreſſe la natu ra della relazione nel
Politico , nel Simpoſio , nel Sofifta , e pri ma di lui Archita , ed Ocello , (
a ) i quali diviſero la relazio ne in quattro generi . Da queſti autori traſfe
Ariſtotele ( 6 ) la definizione , che dà della relazione . Nulla perd vieta ,
come & proverà , che per compendiare i concetti non ſi concepiſca la gran
dezza come qualche coſa di aſſoluto , a cui accade – eſſere mag giore , minore
, ed eguale , e che di nuovo ſi concepiſcano il maggiore, o'l minore come
aſſoluti, a' quali accada il più , o meno , o nè l'uno , nè l'altro . Suppoſto
dunque , che fi dia l'idea della grandezza , e in conſeguenza del maggiore, del
minore , dell' eguale, così argomenta Parmenide. Sia A l'idea del maggiore , B
del minore , C dell' eguale ; ſi dividano tutte2 , e tre in parti ineguali : С
poichè dunque una coſa in canto è maggiore , in quanto partecipa l'idea del
maggiore , lia l'idea - B del maggiore A diviſa in parti ineguali, e la parte
minore delmaggiore ſia participata, quello che la Tom . II. h par ( á ) Diſcuſ.
Perip. Patriz ; T. 2. pag. 185. ( b ) Ad aliquid alia dicuntur quæcunque quod
ipſa ſunt aliorum effe dicuntur. o il A ( 58 ) partecipa non ſarà egli nel
tempo fefto , e maggiore , e mino re? Maggiore, perchè parcecipa l'idea del
maggiore; minore per chè parcecipa la parte minor del maggiore. Così potrà
dirli della participazione della parte più picciola dell'idea del minore, e
dell' idea dell'eguale . Se'l idee dunque fi participano dalle coſe , ſe condo
una parte loro non potrà mai effer quefta , una delle par ri ineguali.
Parmenide non procede olore , maè facile l'aggiun-. gervi , che nè meno pud
parcicipare delle parti eguali , perchè la parte .eguale del maggiore
participata dalla coſa , la farebbe nel tempo ſteſſo eguale , e maggiore ; e
così la parte eguale del mi nore , ſarebbe la coſa minore ed eguale. . 9. La
noſtra mente , come per ſua natura non può concepiricon tradditrorj, così non
pud frappaſſar l'infinito , biſogna che s'ar reſti ad un primo, o ad un ultimo
, il qual è come Tuncino che ſoſtiene curri gli anelli della catena. Ariſtocele
, e'ne'mori, e nel le cagioni, e ne'fini dimoſtra l' aſſurdità del progreſſo
all' infini 10 , modo d' argomentare imparato dal Parmenide di Platone non men
che l' altro del principio di contraddizione. Il Wolfo dimoſtròeffer impoſibile
il progreſſo all'infinito rectilineo, e cir colare . g. 10 , . Poſta
l'aſſurdità del progreſſo all'infinito , così argomenta Par menide : Tu ſtimi
che qualunque ſpecie fia una , quando pare i te cbe certe , e molte coſe fieno
grandi, parendoti per avventura in ris guardando a tutte le coſe , che ſia
queſta una certa idea , onde tu penfi che il grande fia uno . Prima
d'inoltrarſi è da oſſervare, che qui Platone inſegna, co me comparando le coſe
, nel riflectere a quello in cui conven gono , ne riſulta un'altra idea , come
prima avea inſegnato Epicarmo , Queſt' idea è ſempre una , perchè uno è l'atto
della mente con cui ſi rifletre a ciò che le coſe hanno di commune . Continua
Parmenide : Se'il grande, e l'altre coſe che ſono grandi nel medeſimo modo
conſideralli per tutre le coſe , non apparirebbe egli da capo ceri' una coſa
grande, onde farebbe neceſſario che queſte tutte pareffero grandi? Vuol dire
che nel compararſi dalla mente di nuovo l'idea del grande con le grandezze
participate , nè riſulta un'altra idea di grandezza , per la qual coſa
concludeParmenide: apparirà di nuo po altra ſpecie di grandezza fuor do esſa
grandezza , e di quelle che fono ! ( 59 ) fono partecipi di lei , e dopo tutte
queſte , altra di nuovo con cui som rebbono queſte grandi, nè pide
qualunqueſpecie fia una , ma piuttoſto di numero infinito . La ragione è , che
l'idee della grandezza di nuovo aſtratte nella comparazione , eſſendo per loro
natura re lative faranno fena pre di nuovo comparabili , e così all' infini to
. Ariſtocele su queſto fondamento del Parmenide , e tutti i Platonici, e tra
gli altri Alcinoo dillero , che non fu potea aver idee de relativi. $. 11. cioè
per Dal modo con cui Parmenide comparando l'ideę , altre idee He deduffe ,
concluſe Socrate, che le ſpecie ſono' atti dell'intel fetto, i quali non riſiedono
, che nell'animo . Gli concede Para menide, che ogni atto dell' intelletto è
uno , ma gli fa confef fare , che queſt' acto ha un oggetto , ed è l' ente';
l'ente perd in quanto ſi concepiſce o s'intende', non s'immagina o ſente :
prende egli qut l'idea , non per la nozione , o per il concetro' della mente 1
atto , ma per la relazione che ella ha ad un certo oggecto, e conſidera l'unità
dell'idea' non relativa mente all'atto dell'intelletto , ma all' ente che la
partecipa poichè ſecondo i principj di Socrate , ella è ſempre la ſteſa in
tutte le coſe . Ne deduce per confeguenza , che ſe l'idee ſono' at: ti
dell'intelletto , le coſe che partecipano della ſpezie', o deli? idea faranno
tutte intellective, ed intelligibili . Vi riſponde So crace , che le coſe non
partecipano' dell' idee , in quanto' queſte fono atti dell'intelletto , ma in
quanto rappreſentano le coſe ; che vuol dire, in quanto l' idee Tono eſemplari
, di cui le co fe fono limiglianze ; onde in tanto le coſe le partecipano', in
quanto ad effe li fanno ſimili . Parmenide contro queſte fimi glianze dell'
idee , argomenta coll' aſſurdità del progreſſo all' ip knito , come fece delle
grandezze . $. 12 Supponiamo che' molte' coſé' fieno ſimili per la
participazione dell' idee della ſimiglianza. Potendoſi dunque comparar dall'in
telletto le ' fimiglianze' , e delle coſe , e dell' idee , Te' ne' eſtrar rà
un'altra' idea di ſimiglianza , e queſta di nuovo comparando 1' idee con le
coſe , darà un' altra idea di fimiglianza , e co sh all'infinito , cio' che è
aſſurdo”. Cosi eſprime queſto argo mento Parmenide : non ſarebbe egli neceſſità
grande , che' quel che è fimile al fimile' folle partecipe dell' uno , e della
fleffa ſpecie ? Or hi 2 non ( 60 ) 5 non ſarà ciò la ſtessa ſpecie , di cui le
fimili coſe rendendoſi partecipi fiano fimili ? Dunque non può alcuna coſa
eller ſimile alla ſpecie, ne la ſpecie ad altrui, altrimenti oltre alla
fpecie', altra ſpecie ſempre apparirebbe, che ſe ella folle fimile ad alcuna
coſa altra dacapo' , ne cellerebbe mai queſto progreſo , che non ſi faceſſe
ſempre nuova fpe cie , ſe ancora folle ſimile la ſpecie , a chi di lei ſi
rendeſe partecipe : Ariſtotele propoſe lo ſteſſo argomento ſebben oſcuramente
L'Uomo , dice , ſignifica non meno la ſoſtanza ſenſibile degli Uomini ſingolari,
che la ſoſtanza intelligibile dell'Uomo per sè , o fia l'idea dell' Uomo . Or
ſe queſt' idee convengono in una coſa comune , fi concepiſce comparandole un
terzo Uomo, equin di un altro , e così all'infinit . Ariftotele creſce
l'aſſurdità Socrate lingolare participando dell'Uomo univerſale partecipa , e
dell'animale e dell'animale a due piedi , e d'altre coſe , ciod , quelle che ha
comuni colle piance, colle pietre , ed altre innume rabili. Converrà dunque
moltiplicare all'infinito l'idee, onde per una coſa ſenſibile converrà porne
infinite; ſi può aggiungere che queſto numero di nuovo ſi moltiplicherà
all'infinito am mettendoſi l' idee dei relativi, poichè ogni coſa che è nell'Uo
mo , pud compararſi a turce l' idee delle coſe viſibili , ed invidia bili , o
della ſteſſa, o di diverſa ſpecie. Ma l'Uomo ideale, diceano i Pittagorici ,
effendo incorrutti bile , ed univerſale non ſi può comparar a coſa ſingolare ,
e cor ruttibile , ed eſtrarne quindi nuova idea ? Ariſtotele vi riſponde : i
binarj feparati ſono anche eſſi incorruttibili , e pur per conoſcer li biſogna
dar un'idea comune di binario , in cui convenga il binario B , il binario C ec.
In oltre l'idea di figura è comune al cerchio , al triangolo , ea tutte le
figure piane e ſolide, onde ella , è propriamente ge nere relativamente alle
ſpecie , ma chi può mai conoſcere una figura che non ſia , nè cerchio , nè
triangolo , nè altra ſimile ? Intanto la concepiſce la figura in genere , in
quanto la mente non s' applica , che ai limiti che circonſcrivono lo ſpazio ,
fen za far attenzione rifeffa , nè al modo , nè al numero , nè al fito dei
limiti ſtelli . Spiegherd la coſa con un eſempio più fa cile . Egli è
impoſſibile che io concepiſca un triangolo ſenza rappreſentarmi che egli fia ,
o Equilatero , o Iſollele , Sca leno ; altro è poi , che nel rappreſentarmi uno
di queſti crian goli io non faccia determinata attenzione alle ſpecie dei tre
lati . Noi non intendiamo le cofe , dice San Tommaſo , ſe non cona vertendoſi
a' fantasmi loro . Ora a qual fantasma è anneſſa l' idea della figura ?
Confuſamente a tutte le figure ; ma io non ne , con ( 01 ) conſidero
diſtintamente alcuna , e ſolo attendo a ciò in cui cut te convengono , ed è d'
eſſere uno ſpazio circonſcritto ; ma ſe nel concepire l' idee de' generi delle
coſe matematiche v'è canta dif ficoltà ammettendo l' idee ſeparate , quale ve
ne ſarà nell'idee metafiſiche ? Nell'ipoteſi Pitagorica ſi dovranno aſſegnar
idee del poflibile , dell'ente , dell'atto , della potenza , della cagione ,
del principio , del modo , dell'attributo , del terminato , è dell '
indeterminato , del neceſſario , del contingente', del perfetto dell'imperfetto
ec. nè ſolo di queſte coſe , ma del prima , del dopo , dell'inſieme , del
ſeparato , e finalmente del genere in quanto genere, e della ſpecie in quanto
ſpecie : coſe tuote af furdiffime nè abbaſtanza eſaminate da coloro che
preteſero che noi vediamo le coſe in Dio , perchè ad ognuna di queſte coſe non
men che all'eſtenſione , ed al numero dovrebbe aſſegnarſi un'idea , Ariſtotele
con gran ragione v'aggiunſe, che neli ipo teſi dell' idee ſeparate, oltre
l'idee de relativi converrebbe am mettere l'idee delle negazioni , e delle
privazioni , o degli op pofti , cioè dei contraddittori dei contrarj ec. 9. 13.
Dace l'idee , data la loro participazione, ed eſcluſa la compa razione
a'ſenſibili, ricerca Parmenide fe debbonſi annoverare l'idee tra gli enti
relativi; od aſfoluti . Vi fono delle coſe, di cui tutta l'eſſenza conſiſte nel
riferir fi all'altre, e queſte ſono relative , ( 8. 8.) é ve ne ſon altre di
cui l'eſſenza conliſte nella non ripugnanza dei predicari , che le
coſtituiſcono , e queſte ſon le affolute ; Poichè tutto l'efferé de’ relativi è
nel loro confronto , ( 5.8 . ) includono effi neceffaria. mente due termini tra
loro oppoſti, il fondamento dei quali fo no le coſe affolute , che tra loro fi
comparano ; quindi il fonda mento del relativo è sempre l' aſſoluto . Un Uomo
fuffifte per sè , e ſe foſſe ſolo nel mondo , non farebbe nè Padrone , nè ſer-'
vo , ma ſuppoſto che viva in una ſocietà , può eſſer l'uno , e l' altro, in
guila però che non è ſervo in quanto Padrone, nè Pa drone in quanto ſervo , ma
come Padrone ſi riferiſce a coloro cui comanda , come ſervo a coloro cui
ubbidiſce, e l'uno , e l' altro gli accade in quanto è Uomo , ed a diverſi
Uomini li ri . feriſce. Poichè dunque l'idee fi riferiſcono ai fimili che le
par tecipano , biſogna che ſieno in ſe ſteſſe e parimenti perchè i ſimili che
partecipano l'idee fi poffano riferir all’ idee, convie ne che fieno in ſe
ſteſi. Biſogna in una parola , che l'idee, e le coſe che le partecipano abbiano
un' eſſenza determinata . Con clude ( 62 ) 1 clude quindi Parmenide, che l'idee
hanno tra loro, un ' eſſenza , ma che queſta non è un eſſenza tutta: relativa
alle coſe che ſo no appreſſo di noi, o pure le coſe fi nominano ſimiglianze , o
in altramaniera di cui facendoſi partecipi , noi la nominiamo con , qualunque
di eſſe. ; . aggiunge parimenti, che le coſe che ſono in noi, non hanno la
virtù ſua d'eſiſtere in verſo l' idee , ma fono quel che ſono relativamente a
ſe ſteſſe . Parmenide quin di chiama le cofe. che ſono in . noi ,, e: in torno
a noi: equivoche: all' idee .. Cagione equivoca: degli animali , delle piante ,
de metalli ec. diſero Ariſtocele , e gli Scolaſtici il Sole , perchè ſebben
concorra alla loro generazione, non conviene con loro , 0 non gli aſſomi glia
che nell'eſſere . Parmenide parlando ad bominem par che allu da all' opinione
di Socrate , il quale nell' ammecter l' idee , come cagioni delle coſe , era
sforzato ad ammetterle come cagioni equivoche ,, non potendo ammetterle, come
cagioni eſemplari, il che: Ariſtotele così : dimoſtrò :-ſe quando l'Uomo fi
genera da Socra te, eglis'alfomiglia all'idea , e non a Socrate , fi potrà
generar: { mile all'idea , liavi o non ſiavi Socrate ;; ma ľ Uomo generandofia
non s'aſſomiglia all'idea , ma a Socrate , come è manifeſto dall' eſperienza ;
dunque Socrate , e non l'idea è l'eſemplare del generato: Poſto dunque che l'
idee : influifcano nella generazion delle coſe, convien ſempre porle , come
cagioni equivoche ; : ma da: chi Ariſtotile traffe cal idea , ſe non da Placone
? ' Or fe: l'idee non hanno relazioni alle coſe , o ſono diloro ca gioni
equivoche, come poſſiamo conoſcerle? Se le piante , de pie tre ragionaſſero , .
potrebbono mairappreſentarli ( rimirando ſe fteſ . ' fe , . ), che il Sole
foſſe loro: tanto diſſimile ? che ebbe . tanta parte nella loro generazione .
Le noſtre idee non ſono cagioniequivoche delle coſe , le quali noi produciamo
affilandoſi ſul loro modello . Un Architeto uno Scultore, un Pitcore fanno la
caſa , la ſtatua , . , l'immagine ſecondo l'idea che ne hanno formata , e
perciò comparano l'effet to all' idea per miſurarla ,, e perfezionarla ; ,
nella combinazione dell'idée chiare , . e diſtinte conſiſtendo la ſcienza ,
l'oggetto del la noſtra ha ſempre proporzione all'idee che d'effo formiamo ;..
ma ſe l .idee : ſeparate come cagioni equivoche non hanno alcu na proporzione
con le coſe che vediamo , non par poffibile di : riconoſcerle , e in
conſeguenza aver- Scienza di loro . Delle co fe quindi rivelate , non abbiamo
ſcienza ma fede; ſono certe , € infallibili , ma non a noi: chiare e diftinte
.. g . 145. ( 63 ) S. 14 . Platone nel Filebo ſtabiliſce due generi di coſe;
altre non 'han no avuto origine , nè finiranno giammai , perchè ſono immutabi
li , e fempiterne ; altre non ſono perchè ſempre 'fi fanno ſono a generazione,
& corruzzione ſoggette : À queſti due ge neri di coſe , ' fa corriſponder
due generi di cognizione ; delle coſe immutabili , ed eterne ſi ha ſcienza ,
dell' altre non ſi ha che opinione. Le coſe di cui s' ha ſcienza ſono l'idee ,
perchè ſono ſempre nello ſteſſo ſtaro , nè ſi può ſapere ſe non ciò che è , ed
è ſempre nel medeſimo modo ; le coſe di cui s' ha opinione fono le coſe
ſenſibili, perchè continuamente fluendo , non ſono mai nello ſteſ fo ſtato .
Come dunque Placone nel Tilebo , dà fcienza dell'idee , e nel Parmenide non la
dà ? La riſpoſta generale è , che da cid che ſi dice in un Dialogo ,nulla deve
inferirſi relativamente a cid che ſi dice nell'altro , perchè Platone non
ragiona ſecondo la ſua ſentenza , come nelle lettere per eſempio , ma ſecondo
le ſenten że altrui ; oltre a cid , Platone trattando nel Filebo della defini
zione della ſcienza egli è manifeſto , che tratta ſolo della ſua pof fibilità
relativamente all'oggetto ,ſenza poi procurarſi di cercare , ſe ſi dia o no
tale ſcienza negli Uomini , I Matematici definiſco no il cerchio , e il
triangolo in quanto è poffibile , nè fi curano ſe eſiſta o.no : quindi ben ' li
definiſce la Filolofia , la Scienza dei poffibili in quanto tali ; nel
Parmenide non della poſſibili tà , ma dell'attualità della ſcienza ſi tratta ,
e Parmenide mo ftra , che dandoſi l' idee ſeparate non poſſiamo aver 'ſcienza
di effe , perchè non hanno alcuna proporzione con noi , e con le coſe .noſtre .
5. 15 . Ammettendo con S. Agoſtino , e S. Tommaſo , cheIddio ab bia idee , e
molte idee , onde per eſſe conoſca i ſingolari , i fu turi , i contingenti, gli
infiniti, non perciò poſſiamo dire , che abbiamo ſcienza dell' idee di Dio , o
che poliamo conoſcere co me per queſt' ideeegli conoſca le coſe. Il
Malebranchio , ed il Poiret, che lo tentarono , caderono ſecondo la fraſe di
Socrate in ciancie ineſplicabili. 1 . 16 . ( 64 ) . S. '16. : s' inoltra
Parmenide: La ſcienza in sè conliderata è un'idea , come la bontà , la bellezza
ec. ma ſe queſt' idea della ſcienza , non ha alcuna proporzione alle ſcienze a
noi note, non poßia mo conoſcerla , poichè le ſcienze intanto a noi ſono note
in quanto verſano su noi , o su le coſe che ſono intorno a noi . Or non
conoſcendo l'idea della ſcienza in quanto tale , nè men poſſiamo conoſcere
ſcientificamente l'altre idee, perchè per aver ſcienza dell' altre idee convien
participar dell'idea della ſcien za , ciò che è impoflibile : Parmenide par qui
ſupporre che la noftra ſcienza paragonata all'idea della ſcienza ſia come il
zero all' infinito ma ſe noi non participiamo dell'idea del la ſcienza , come
potremo ſcientificamente , o chiaramente , e diſtintamente conoſcere il bello ,
l'oneſto , il giuſto , e l'altre idee ? Nulla a mio credere v'è di più acuto ,
e profondo che queſtº argomento , e quel d ' Ariſtotele non l'eguaglia , benchè
per altro concluda contro l'ipoteſi dell' idee ſeparate . Oſservò egli che lº
idee eſsendo immutabili per loro eſsenza , non ſi può per eſse ſpie gar il moto
, dalla cui cognizione dipende quella della natura ; dunque l' idee ſono
inutili alla ſcienza per cui furono introdotte . Coloro i quali amiſero con
Eraclito , che le coſe ſenſibili ſono in un continuo fluſso , ricorſero
all'idee ſeparate , le quali immutabili eſsendo , ſomminiſtravano a? Filoſofi
dei principj immutabili del loro ſiſtema ; la difficoltà è come i Filolofi le
conoſceſsero , ſe la lor mente , non nell' eſsere , ma nell operare dipende dagli
organi del corpo umano , ſoggetto alle vicende dell'altre coſe fenfibili ? f.
17 . All' argomento tolto dal principio di contraddizione del pro greſſo all'
infinito , Placone aggiunge l' altro tolto dalle perfer zioni Divine . Come il
retto è la miſura di ſe ſteſſo , e del cur vo , così il cumulo di tutte le
perfezioni che è in Dio ; ci ſer ve di miſura per giudicare, e delle perfezioni
di Dio ſteſso , e di quelle dell'altre coſe . Per via del principio di
contraddizio : ne del progreſso all'infinito ſi dimoſtra l'eſiſtenza di Dio , e
per via , o di negazione , o di eminenza , o di caſualità , fi di moſtrano le
infinite perfezioni di lui , onde ſe a qualche data ipoteſi conſegua
l'annullazione di qualche perfezione divina , l'al ſur ( 65 ) ſurdo è maſſimo,
perchè Dio nell' effer principio dell'eſiſtenza, è ancora principio di tale
eſiſtenza , e nulla può eſiſtere ſe ri pugna alla natura Divina . Socrate non
potea non conoſcer Dio comeprincipio intelli gente , dunque era neceſſario ,
che gli attribuiffè l' idee non me no convenevoli all'intelletto , che i tre
lati ad un triangolo ; pur tace Socrate , quando Parmenide gli prova , che la
perfec tiſſima ſcienza o P idea della ſcienza convenendo a Dio , egli per
queſt' idea non poteva conoſcer le coſe , ciò che era con trario alla divina
natura . Par dunque che Socrate ſupponeſſe l' idee ſeparate , ma dall'altra
parte Ariſtocele dice chiaramen te , che Socrate noo ammetteva l' idee ſeparate
ſe ben deffe gli univerſali . Non ſi ſoddisfarebbe in parte alla difficoltà ,
di cendoli che Platone , per bocca di Socrate , parlò dell' idee in fenfo
poetico , per aver occaſione d'annullarle, e propor la doc trina che ha da lui
copiato Ariſtotele , e della quale poi ſi ſervì contro que' diſcepoli di
Platone , che realizzarono l' idee ſeparate . . 18. Annullate l' idee ſeparate
, la voce idea nel progreſo del Dia logo , tutta fi riſtringe all' idee , che
la mente aftrae comparan do le coſe . S'è già accennato ( $ . 8.) il modo, con
cui deduſ fe Parmenide l'idea della grandezza , e de' ſimili , e li vedrà
inoltrandoſi , che egli parlando dell' uno e dell'ente, proteſta di ſeparar le
coſe con l'intelligenza , e con queſta fino sbra narle', che è quanto dire,
diſtinguer i concetti o l' idee , ſecon do i rapporti delle coſe, foſſero
ancora quefte ſempliciffime ; nulla v'è di più ſemplice dell'anima per ſua
natura indiviſibi le , e pur in eſſa ſi diſtinguono varie potenze , ſecondo le
rela zioni , che ai varj organi del corpo ella ha operando , onde fi dice che
ella ſente , ë che ella immagina . Nella parte ancora intellettiva , ſi
diſtinguono le facoltà che ella ha di comparare , e di aſtrarre , e di
combinare e di , e di contemplare l' idee', onde ella dichiaraſi mente , e
ingelletto, ( c ) voci non altrimenti fi nonime, poichè le loro etimologie di
confrontano ai varj uffizj dell'anima ; tutte quindi le ſcienze ſono ſu l'
aſtrazioni fonda te . La fiſica aftrae dalle coſe ſingolari, la matematica
dalle ſen Tom . 11. i (a) Mens è detta a menfura , poichè l' anima compara , e
miſura le coſe , Intellectus da intus legere , poichè intendendo ſcieglie , e
deduce una cola da un' altra . fibili , ( 06 ) fibili , la metafiſica da ogni
materia . Vuole il Patrizio , che come in una gran parte del Sofifta , čosi in
tutto il Parmeni de non ſi tratti che di quella metafiſica , che Ariſtotele
colſe da Placone , e di cui le prime idee ne diedero i Pitcagorici , e tra gli
altri, Archira e Peritione; io v'aggiungo che la me cafifica avendo due parti ,
cioè l' ontologia , o la ſcienza , che tratta delle proprietà dell'ente , in
quanto ente , e la Teolo gia naturale o la ſcienza , che tratta delle ſoſtanze
ſeparate dal la materia , come Dio e l'anima , Parmenide ſi riſtringe in que
ſto trattato all' ontologia , e manifefte ne faranno nel progreſo ſo le prove ;
baſta accennar qui , che dovendofi dar un elem pio del modo con cui s
acquiſtano l ' idee , ſcieglie Parmenide l'idea dell'uno , applicando ad efla
il metodo delle fuppoſizio ni . Due coſe aggiunge alluſive all'analiſi , ed
alla ſinteſi . La prima che ufficio e d' uomo ingegnoſo il poter apprendere ,
come ſi ritrovi il genere di qualunque coſa , ciò che ſi fa cominciando
dall'analiſi , o dall'eſame delle coſe particolari , e per l'aſtra zione ,
elevandoſi agli univerſali ; la ſeconda , che ufficio è di uomo meraviglioſo
inſegnar agli altri le coſe ritrovate , ciò che ſi fa per la ſinteſi ,
combinando l'idee generali, e quindi le lo ro combinazioni, da cui ſi deducono
i problemi , e i teoremi , ed indi i corollari , e le annotazioni. Sommo acume
di men te fi ricerca nel far le opportune aſtrazioni , e di nuovo da .quefte
aftrarne altre, ſin che ” analiſi propoſta ſi riduca all' ul time idee , e
ſomma fodezza , ritrovare l'idee , concatenarle in guifa che alcri con facilità
, e prontezza le intendano, e l'uno , è l'altro dimoſtra Parmenide , o col luo
nome Placone. SEZIONE SECONDA . Se l'uno che ne ſegua . b . I. Vuol Uole il
Ficino , che queſta prima fuppoſizione debba inten derſi . Se l' uno , perchè
il verbo è , o ſia la copula del predicato o del ſoggetto v'è pofta , non in
grazia della coſa , ma dell' orazione . Nel legger la nota marginale del Ficino
mi ricordai, che Licofrone ( a ) invecedi dire , il parete è bianco , di ceva
il parete bianco , ed altri il parete biancheggia , quaſi che Platone non riprovaſſe
nel Sofiſta l' orazion ſenza verbi , o che (a ) Ariſt. 1. Phil. 9 ( 07 ) che i
verbi non foſſero ſtati inventati per compendiare i gius dizi ! Non è forſe lo
ſteſſo il dire , io amo , che io ſono aman te é io biancheggio , che io fono
biancheggiante ? La fuppofi zione dunque, je l' uno equivale all' orazione
condizionata , ed implicità fé uno , nè così la propone Parmenide , ſe non per
intimarci, che a null' altro fi deve badare nell'ipoteſi , che all uno preſo in
un concetto aſtrattiflimo. Nella Geometria ſinteticamente ſi comincia dal punto
prin cipio della linea ; nell'aritmetica, dall'uno principio del nume ro ; e
nell' ontologia dall' uno traſcendentale , che conviene ad ogni noftra idea .
Eſclude tutte le relazioni , perchè riferendofi l'uno per eſempio ad A , B , C
ec. non è più uno , ma molti , in quanto in lui fi conſiderano le diverſe
faccie che ſi riferi ſcono ai molti . Parmenide in queſta prima ipoteſi eſclude
dall' uno cutte le relazioni, cioè quelle dell'ente in genere , e l'alore dell'ente
in fpecie . Relazioni dell'ente in genere ſono l'identicà , e la di verſità ,
perchè non competono meno alla ſoſtanza , che alla quantità , qualità , ed agli
altri predicamenti. Relazioni dell'en te in fpecie ſono , la limiglianza , la
diſſimiglianza , Peguaglian za , l'ineguaglianza , l'antichità , la novità eco
perchè competo no o alle fole qualità , o alle ſole quantità ec. * l une e
l'altre intanto ſi dicono relazioni , in quanto non conſiderano le coſe in ſe
ſtelle , ma relativamente tra loro : il diffimile , l'eguale ec. non li
concepiſcono ſenza i due termini , che tra loro fi paragonano . Se l' uno in
quanto tale non può compararſi ad alcuna coſa , biſogna eſcluder da lui tutte
queſte relazioni , tan to più ſe nelle coſe riferite s'includono i molti.
Parmenide comincia dall'eſcluſione delle relazioni più facili a conofcere', che
ſono quelle della quantità ; paſſa alle relazioni della qualità , e ad alcre ,
e finalmente all'eſſenza ; nè di ciò con tento efclude le relazioni, che l'uno
può aver all'opinione , al la ſcienza , é lino al nome. Se l'uno in queſto
concetto aftrat tiſſimo fi nominalle , avendo ogni nome relazione al ſenſo , al
la fantalia , od alla mente , e quindi a tutti gli uomini, che lo pronunziano o
l'odono, l'uno con l'aggiunta di queſte relazio ni ſarebbe molti . Si ſente più
che non s'eſprimequeſt' ultimo grado , ed abbiamo grande obbligazione a Platone
, che in que Ro Dialogo , nel rappreſentarci la dottrina della fetta Eleatica ,
ci ha moſtrato l'uſo opportuno delle aſtrazioni. Egli di conten ta di non
moltiplicarla , che fino ad un certo grado , a fine che l'idea coll' altrarla
tanto non s'inlanguidifca , è sfumi; onde al fine la mente non poſſa più
ravviſarla in quella guiſa , che i 2 l'im 708 ) l'immagine d'un oggetto riflettuta
da uno ſpecchio ſucceflivamen te in molti altri , al fin diviene si ombratile ,
che ſvaniſce da. gli occhi . Frattanto era neceſſario dimoſtrare in un ſoggetto
aſtrattiſſimo per sè , l'uſo dell'ultime aſtrazioni che può far la mente , non
eſſendovi altro modo di accennare , come in ogni quiſtione s'arrivi a quell'
ultima idea , in cui conviene che vi ci ripoſi , anco malgrado l'impeto innato
, che inevitabilmente ci porta a ſempre più nelle cognizioni inoltrarci.
Nell'inveſtigazione poi dell' idea vaga Parmenide per tutti i generi , come era
in uſo nell'antica Dialetica, e fatta la ſuppoſizio ne determinata per via di
comparazioni, ed eſcluſioni, egli ricava il punto preciſo della quiſtione
propoſta. Con la chiarezza maggio re che io poſſa , procurerò deſprimer
diſtintamente tutti i gra di tallor dell'analiſi, e callor della ſinteſi
Parmenidea . Nel trat çar l'altra quiſtione meconvenne ſeguire le
interrogazioni, e le riſpoſte degli Interlocutori ma quà folo Parmenide parla ;
onde bafta ſolo ſeguendo l'ordine del Dialogo premetter le.co. ſe neceſſarie ,
eſtrar la propoſizione, e dimoſtrarla fe fi può cal metodo de' Geometri . L'
uno non è molti . Abbiamo quanto baſta illuſtrata queſta definizione ; qui fo
lo avverto , che come il Wolfio , dopo d'aver definito , che l'en te ſemplice è
cid che non ha parti , da queſta definizione ne gativa egli deduſſe, che l'ente
ſemplice non è ſteſo, non è diviſibi le , ſenza figura , ſenza grandezza, che
non riempie ſpazio , che non ha moto inteſtino ec. Così Platone , da ciò che è
l ' uno , dimoſtra le fteſſe coſe , e molt'altre che andremo partitamente,
conſiderando , e deducendo dalle nozioni preme{le . g . 3 . 11 Wolfio defini il
tutto ciò che è lo ſteſſo con molti ; per abbracciar in una definizione non
ſolo il tutto integrale , che chiamaſi totum , ma ancora il potenziale che
chiamali omne. Lo ſteſſo , come ſi vedrà fra poco , conviene non meno alle
quantia tà , che alle qualità , ed alle ſoſtanze , e l'idea di molti è più
univerſale , che quella delle parti , convenendo i molti e agli enti ſemplici,
ed a' compoſti come a' quantitativi . Parmenide non definiſce qui , che il
tutto integrale , raccogliendo inſieme le 1 ( 69 ) le parti , e limitandole in
uno, a cui niente manca , ed è per fua natura indiviſibile; la nozione di molti
è quindipiù aftratta della nozion delle parti , e in queſto ſenſo Ariſtotele
diffe , che il tutto è prima delle parti, e non le parti del tutto , il che ,
ſe ſi crede al Patrizio , tolfe da Ippodamo Turio . ( a ) §. 4. L'uno non è nè
tutto , nè parte di sè . Se l'uno è tutto non vi manca alcuna parte , ( $. 3. )
dunque ha parti ; dunque è molti contro la definizione dell' uno ( $. 2. ) Se
l'uno è parte di sè , è un tutto riſpetto a sè , ma non pud eſser un tutto ,
come ſi dimoſtrò; dunque non è parte disè. COROLLARIO . L'uno non effendo nè
tutto , né ſteſo , od è indiviſibile , o è ſemplice. parte , non è 8. S. Ogni
cutto ha principio , mezzo , e fine . Cid vuol dire , che propoſtoſi un turco
nel numerarne le parti fi comincia da quella che chiamaſi prima , e li
progrediſce all' ultima paſſando per le intermedie . §. 6. L'uno non ha
principio , nè mezzo , nè fine. ol, Se l'aveſse ſarebbe un tutto ( $ . 5. ) il
che è impoſſibile ( 8.4. ) Α Ν Ν Ο Τ Α Ζ Ι Ο Ν Ε . Speſre volte inſegnò
Ariſtotele, che l'infinito è ſenza principio, ſenza fine ; offerva il Patrizio,
che lo preſe dal Parmenide, ove ſi dice , che l'infinito ( o piuttoſto come io
crederei l'indefinito ) non ha ne principio , nè fine, cioè non ſi sa in eſſo ,
nè dove comin , ciar la numerazione , ne dove terminarla . In queſto ſenſo una
li nea non è propriamente infinita , o indefinita , le comincia da un punto ,
nè una ſuperficie, nè un corpo , ſe la ſuperficie comincia da una linea , e il
corpo daunaſuperficie. A queſti infiniti måtema rici , che cominciano da un
termine , non compere la definizione, che Platone aſſegna dell'infinito , da
cui eſclude il principio , ed il fine . ( a ) Diſcuſ. perip. T. 2. p. 280. ܐ S. 2 : ( 70 ) S. 7. L ' uno è infinito .
L'uno non ha principio, nè fine ( S. 6. ) Dunque è infinito . ( An. Si 6: ) 9.
8 . La figura è una parte dello ſpazio , o dell'eſtenſione circonſcrit ca da
cerci limiti , o è retta come il quadrato , il cubo ec. o ro tonda , come il
cerchio , la sfera , Pelifli , l'eliffoide ec. o miſta dell'uno , e dell'altro
. Il principio della figura è dove i moder ni pongono il vertice , il fine dove
pongono la baſe" , il mez zodove la figura fi divide per mecà . 8. 9 .
L'uno non ha figura . Ogni figura, o recta , o rotonda ha principio , mezzo , o
fine ( 8. 8. ) ma l'uno non ha principio , nè mezzo , nè fine. ( $ . 6. )
Dunque non ha figura. COROLLAR10. L'uno è infigurabile. $. 10. Non lo può
concepire' , che una coſa ſia in ſè ſteſſa ſenza il di 1 ſtinguere con la mente
, che ella è comprendente e compreſa , cid che è concepirla due volte , o di
uno far due . Non ſi può conce pire , che una coſa ſia in altrui , ſenza che
ella ſia toccata in mol te parti. Il luogo abbraccia , o comprende la coſa in
lui colloca ta · Eſer in alcrui , od effer in ſe ſtello ,, ſono due oppoſti
ſenza. mezzo , come il moto , e la quiete . So IT . L'uno non è in luogo. O
ſarebbe in sé , o in altrui ; ( $. 10. ) ſe in sè , egli ſarebbe a sè il ſuo
luogo , onde abbracciando ſe ſteſſo ſarebbe nel tempo fteflo , e comprendente ,
e compreſo , cioè l' uno ſarebbe due co ſe o molti contro la definizione ( $.
2.) ſe foſſe in altrui, fareb be 1 1 1 1 ( 71 ) be toccato in molte parti, onde
avrebbe molte parti contro la definizione. ( §. 2. COROL. L'unonon è
circonſcritto da alcuna coſa , terra , Cielo , materia , ſpazio ec. ANNOT.
Daqueſto argomento lice inferire , che Parmenide cob ſidera qui l'uno , in
quanto è dalla mente aſtratto da corpi , che ſono in luogo ; s'è già oſſervato
, che l'ontologia degli anti chi era fondata su l' idee aftratce dalla materia
, dalla forma, dal compoſto, dagli accidenti ; onde queſt'uno aſtratto da corpi
, e da loro dipendente non ha alcuna relazione a Dio , ch'è un ente per sè , in
sè , infinito cc. . 12. Il moto alla ſoſtanza , ſecondo Ariſtotele , è quando una
coſa , per eſempio una parte di terra ceſſa d'eſfer terra , e comincia ad eſſer
pianta . Il moto alla quantità è quando una coſa , per eſempio un fanciullo
creſce nella ſtatura , ed un vecchio decreſce . Il moto alla qualità è quando
per eſempio la carne d unUomo fredda , dura , ed aſpra , li fa da sè calda ,
molle , liſcia . Preten deva Ariſtotele, che queſti tre moti dipendendo dalla
forza in crinſeca , che facea cangiare alle coſe la ſoſtanza, e gli acciden ti
loro , li diſtingueſſero dal moto locale , nel qual altro non ſi con ſidera ,
che il paſſaggio da un luogo all' altro : Parmenide , o Pla tone, benchè parli
del moto di generazione, e d'alterazione, par ſolo far attenzione, ſecondo
l'ulo de'moderni, all'accoppiamento delle parti , e quindi all aumento delle
qualità , due coſe accom pagnate dal moto locale , o di traslazione. Lo
conſidera egli in linea retta , oin cerchio , nel qual moto una parte della
coſa & forma nel mezzo , e le altre parti fi rivolgono intorno al mezzo .
Vuol poi , che tutto ciò che ſi genera ſi faccia in qualche luogo ſecondo il
principio da lui in queſto Dialogo replicato più volte. Ciò che non è in alcun
luogo è nulla . Platone nel Teeteto dice per bocca di Socrate : Se dimoſtran
eli una ſpecie di moto , o due ſpecie , come a me pare , nondimeno io conſidero
che cid non ſolamente appaja a me folo , mo ancora tu ne fii partecipe,
acciocchè amendue parimenti patiamo qualunque coſa face cia meſtieri, ficchè mi
di , cbiami tu forſe moverſi , quando alcune coſa fe mute da luogo a luogo, e
nello steſo ſi raccoglie ? Teodoro glie lo concede. Socrate ſoggiugne : Dunque
fiare una specie questa , ma quando fermandoſi alcuna coſa nello ſteffo luogo
s'invecchia , o di bian , ca fi fa nera , o dara dimolle , e ſi altera da certa
altra alterazione, son chiameremo noi meritamente queſt' altra ſpecie di
movimenti ? ... Ora dico che fieno due le ſpecie del movimento cioè alterazione
, la ( 72 ) la circonferenza. Egli dice circonferenza in luogo di traslazione
in cerchio , per moſtrar che nel pieno ogni coſa va in giro. , Conſidera poi
quì , che nel farſi una coſa vi la un accoppia mento , nel qual prima una parte
fi congiunga a quella che li fa , mentre l'altra parte , che ſi deve aggiungere
, è ancora fuori della coſa . 1 $. 13. L'uno non ha moto di alterazione , nè di
generazione . Non di alterazione , perchè ſe ſi altera non è più uno , ac
quiſtando nuove qualità ; ſe fi genera non è più uno, acquiſtan do nuove parti
. Or nuove qualità , e nuove parti fanno molti ; dunque ſe l' uno o fi altera ,
o fi genera , è molti contro la de finizione . IN ALTRO MODO. Una coſa non può
generarſi o farſi che in un' altra , perchè tutto ciò che è , o fi fa, è in
qualche luogo , ma ſe l'uno non può effer in un altro ( S. 11. ) nè meno può
farſi in eſſo . In ol tre ſe una coſa ſi fa in un altro , non ancora ella è ſe
ſi fa . Or quando una coſa ſi fa, una parte è in lei , e una fuori di lei ,
perchè le parti fi vanno ſucceſſivamente aggiungendo , ma l'uno non avendo
parti ( 5. 4. ) nè può eſſer nè tutto te in sè , nè tutto , nè parte fuori di
sè . Dunque non può ge nerarſi . Corol. L' uno non è generabile , nè alterabile
, nè par § . 14. L'uno non ha il moto di traslazione . L'uno non è in luogo (
5. 11. ) ma la traslazione in linea ret . ta è una mutazione ſucceſſiva del
luogo . Dunque l ' uno non eſſendo in luogo ( $ . 11. ) non può mutar il luogo
, ſecondo la linea retta , ma nè meno pud mutarlo , ſecondo la linea circo
lare, perchè deve raggirar nel mezzo , e tener fiffe le parti che fi rivolgono
intorno al mezzo ; ma l'uno non ha nè mezzo , né parte , dunque non può
rivolgerſi in cerchio'( . 13. ) Dunque le alluno non conviene nè l'uno , nè
l'altro , non gli conviene il moto di traslazione . Q. 15 . 1 1 . 1 ( 73 ) g.
isi Come ſi concepiſce il moto , nel concepire la traslazione fuc ceffiva del
mobile , o ſia il rapporto continuamente vario della diſtanza del mobile a '
corpi contigui, così fi concepiſce la quie te nel concepir il rapporto coſtante
di diſtanza a ' corpi conti gui ; quindi nel moto, il corpo va ſucceſſivamente
occupan do diverſe parti dello ſpazio , e nella quiece occupa le ſteſſe par ti
dello ſpazio . $. 16 . Luno non è nè in quiete , nè in moto . L'uno non è in sè
, nè in altrui ( 9.11 . ) ma ciò che è in quiete , è ſempre nello ſteſſo , ciò
che li move è ſempre in al trui . Dunque ſe l'uno non è in ſe ſteſſo , nè in
altrui, non ſi ripoſa , nè ſi muove . $ 17 Platone ha ſin ora conſiderato l'
uno per eſcluder da lui la ragion di tutto , di parte , di principio, di fine ,
di mezzo , di figura , di luogo , di moto , cioè per eſcluder dall' uno tutte
le relazioni che appartengono alla quantità, come la più nota , e più facile.
Senofane pur provava, che l' uno era infinito , im mobile , non ſi trasfigurava
nella poſizione, non s'alterava nel la forma, non fi milchiava con alcri. Non è
egli molto veri ſimile , che egli ne arecaffe le ſteſſe ragioni , che poi
Parmeni de più fteſe , ed affottiglid ? Paſſa Parmenide ad eſcluder dall' uno
le relazioni dell'ente che appartengono alla qualicà , di cui le prime ſono
l'identità e la diverſità . Non premette Parmenide alcuna definizione dello
ſteſſo , e del diverſo ; come fece del tutto ; dai Pittagorici ( a ) impard ,
al dir del Patrizio , che l'identità , e la diverſità non devono conſiderar fi
come paſſioni dell' ente , ma come generi ſecondarj , i di cui primi ſono il
moco e la quiere . Ariſtotele all'incontro riduce l' identità a una certa unità
, e dichiara che ella come la diverſità appartiene alla ſuſtanza , poichè
fteſse ſono quelle coſe che con vengono , o nella materia , o nella ſpecie , o
nel numero , o nel Tomo II. k gene ( a ) Diſcuſ. Perip. T. 2. p. 207. ( 74.),
genere di cui una è la ſoſtanza. Platone eſtende l'identità , e di verſità alle
qualità , e da lui impårarono i matematici a dire , che le ragioni o
proporzioni , che ſono le ſteſſe con una ſtella , ſo no le ſteſſe tra loro ; e
non ſi dice pur tutto giorno lo lteſto grado di calore , di lume ec. e.
parimente ragioni diverſe , di verſo grado di calore , di lume ec. Dunque non
alla ſola fo ftanza , ma alla quantità , alla qualità , ed agli altri
predicamen ti apparciene lo ſtello , e il diverſo . Inliftendo il Wolfio su le
nozioni ſcolaſtiche , dà il criterio per diſtinguere lo ſteſſo dal diverſo .
Quelle coſe , dice egli , fou no le stelle che ſi poſſono ſoftituire.
ſcambievolmente ſalvo qua lunque predicato , che loro aſſolutamente , ſotto
qualche con dizione convenga ; ſicchè fatta la fortituzione , la coſa reſta ta
le , come ſe non foſſe ſtata ſoftituita . Se in una bilancia , in cui ſang equilibrati
due peſi, in cambio di un peſo , d' una certa grandezza, io ne ſoſtituiſco un
alıro, in modo che l'equilibrio Loro non lia tolto , queſti due peſi, in quanto
peſi, nulla diſtin guendoli: ſi chiamano gli ſteſſi . Se nel peſo che è prima
nella bilancia , vi foſſe una certa figura , ed un certo colore , eun cer to
grado di calore , e di freddo , ed anche un certo odore , e tutto ciò appuntino
ſi ritrovalle nel peſo che ſi ſoſtituiſce , que fti due peſi non
diſtinguendoſi, e nel peſo , e nell' altre qualità li chiamano gli fteſi; Lo
ſteffo in numero è ciò che ſi afferma di ſe ſteſſo , o cui ripugna d'efiftere
due volte ; nel dirſi, queſto triangolo è que ſto triangoló , ' ſi predica lo
ſteſſo triangolo di ſe ſteſſo , onde convenendo la ſtella eliſtenza al ſoggetto
, e al predicato , egli è manifeſto , che il triangolo in quanto è nell' uno ,
e nell' altro non ha doppia eſiſtenza , mala ſteſſa, I diverſi poi ſono quelli
, che ſcambievolinente non poſſono ſoſtituirfi , falvo ogni predicato che all'
uno , o all' altro aſſo lacamente o condizionatamente convenga . Così nel caſo
della ſoſtituzione de' peſi della bilancia, ſe un peſo nel ſoſtituirſi all'
altro cangia d'equilibrio , il pelo ſofticuito è diverſo dal peſo , di cui
preſe la vece ; egli è diverlo in ragion di peſo , benchè per altro poteſſe
eller lo ſteſſo nella grandezza , nella figura nel calore , ed altre qualità .
Poſſono dunque le coſe eſſer le ftel ſe in un predicato , e diverfe negli altri
; quindi ſi può diſtin guer lo ſteſſo , e il diverlo in affoluto , e in
relativo ; ſono aſ loluti, ſe le coſe convengono in tutti i predicati, o
diſconven gono falva però la loro eliſtenza ; ſono relativi le convengono in
alcuni predicati, ma diſconvengono in altri . E'cid neceſſa rio di ben
avvertire, perchè in queſto Dialogo fi prende lo ſteſ 1 1 ſo, 1 ( 75 ) fo , e.
il diverſo in queſti due fenfi. Qul Parmenide perd pren de aſtrattamente la
coſa , perchè a lui baſta, che l'identità , e la diverficà fiano affezioni, o
generi delle coſe non preſe in sé , ma relativamente all'altre , baſtando
queſta fola relazione per eſclu derle dall' uno ; quindi può facilmente
dimoſtrarſi, che l'uno non è , nè a se , nd ad altrui lo ſteſſo , perchè nel
ſuo concerto aſtrat tiffimo efclude ogni comparazione ; ma Parmenide in alcro
modo lo dimoſtra , rappreſentandoſi alla mente per via d'una nozione
immaginaria , che l' uno prima è uno, e poi per forza della com parazione egli
è molti . Ciò ſi rende ſenſibile col diſegnar l'uno col ſimbolo aritmetico I ,
e poi aggiongendovi A , o qualche alera lettera , onde egli fia prima i , indi
1 + A. S. 78 L'uno non è lo ſteſſo , nè diverfo a sè , nè ad altri. Se l'uno
foſſe da fé ſteffo diverfo , ſoſtituendoſi l'uno per l'uno dove prima della
ſoſtituzione fi concepiva i , dopo della foftitu zione si concepirebbe 1 + A ,
dunque non più i contro l'ipoteſi. Se fia lo ſteſſo ad altrui egli farà quello
, cioè 1 + A non cið che è , od uno , il che di nuovo è contro l'ipoteſi . .
19. L'uno non è diverſo , nè da altrui , ne da ſe ſteſſo . L'uno convenendo con
tutte le coſe , perchè d'ogni coſa ſi dice , uno non è diverſo da effe , che in
virtù di qualche predicato ; dun que in quanto non è più uno ; dunque non può
eſſer diverſo dall' altre cofe . Non è la ſteſſa la natura dell' uno , e dello
ſteſfo , perchè quando una coſa li fa la ſteſſa ad aleuna non ſi fa uno ; il
colore di A per efempio ſia lo ſteſſo , che il colore di B , non perciò mai A è
B , perchè le due coſe colorite comparandoſi, benchè con vengano nel colore , e
in queſto fieno uno , non perd convengono nell ' çliſtenza , Se gli Itelli non
ſi conofcono , che per la Toſti tuzione, gli ftelli convengono bene
ne'predicati ; ma ſono fem pre due . Dunque quando una coſa ſi fa la ſteſſa con
l'altra , di due non ſi få uno , ſe non inquanto ſi concepiſce, che con vengono
, o nella quantità , o nella qualità ec. ma non perchè convengono non ſono due
; dunque o l' uno paragonato all' uno ſi fanno due , e cosi l'uno non è uno , o
reſtando uno non k 2 ſi può ( 70 ) la pudfar ſoſtituzione . Dunque non pud dirſi
, che l' uno fia lo ſteſſo a ſe ſteſſo . 20 . Parmenide paſſa a comparar l'uno
coi fimili , e diffimili. Aris ftorele dice , che i ſimili ſono quelli che
patiſcono lo ſteſſo , ei diffimili quei che pariſcono il diverſo ; de' primi
una è la qualità, dei ſecondi è diverſa la qualità ,onde egli ripone i ſimili,
e dilli mili ſotto l'identità , e diverſità , il che imparò da Platone nel
Filebo ( a ) e più facilmente dal Parmenide , ove Platone defini ſce il ſimile,
per ciò cui adiviene patir lo tego , il diffimile , ciò cui adiviene patir il
diverſo. Conſidera quì Parmenide le.qualità , come attributi o modi che ſi
ricevano nel ſoggetto , il quale nel riceverle in cerca guiſa paciſce; ſono
queſte nozioni immaginarie, come quella della ſoſtanza . Su queſte orme
Parmenidee , il Wol fio definiſce i fimili quelli , in cui le ſteſſe ſono le
coſe, per le qua li doverebbono diſcernerſi , onde ſecondo lui , la fimiglianza
è l' identità di quelle coſe per cui dovrebbono tra loro diftinguerli. Se in
due volti per eſempio io ritrovo nelle parti gli ſteſſi linea menti , ne'
lineamenti gli ſteſſi gradi de' colori ec. in fomma ſe io ritrovo , che le
ftelle fieno tutte quelle qualità, per cui dovereb bono diſtinguerſi, i due
volti ſono ſimili; diffimili all'incontro ſono quei volti , in cui diverſe ſi
ricrovano le coſe per cui tra lo ro fi diſtinguono , che vuol dire i lineamenti
delle parti, le figu la collocazione, le grandezze . Il Wolfio fi fece ſtrada
con que ſta definizione a definir i ſimili matematici , ben oſſervando , che le
loro proporzioni, benchè abbiano per fondamento ilquanto , fi riducono al quale
. re , S. 21. L' uno non è fimile nè diffimile ad alcuno , o a se , o ad
altrui. Simile a quello cui adivienelo feſto ( . 20. ) ma l' uno eſclu de lo
ſteſſo ( S. 18. ) Dunque efclude il ſimile. L’uno ſe riceve alcuna coſa fuor di
quello che è l' eſſer uno , pa tiſce d'eſſer più l'uno , perchè egli è l'uno ,
ed inſieme la coſa che pariſce , onde almeno egli è due o molti ; dunque non è
più uno ; dunque ſe l’uno non paciſce d'effer lo ſteſſo , o loco , o con altri
, non può eſſer a ſe ſteſſo , o ad alcri ſimile , ( a ) Patriz. Diſcuſ. perip.
p.202. Il ( 77 ) Il dillimile è quel che pariſce diverſità ( 5. 20. ) ma l'uno
non può parire diverſità , dunque non è , nè diverſo da lui, nèda altre coſe,
altrimenti non ſarebbe più uno ; dunque l'uno non è diſli mile , nè a ſe ſteſſo
, nè ad altrui . 1 l . 22 Concluſo che ha Parmenide non convenir all'uno , nè
l'iden: tità, nè la diverſità, nè la ſimiglianza , nè la diffimiglianza, paſ fa
a ricercare ſe gli convenga l'eguale o l'ineguale , due pro prietà delle
grandezze comparate P une all' altre ; l'eguale im murabilmente ſta nel mezzo ,
da cui l' ineguale allontanandoſi per ecceſſo ſi chiama maggiore, e per difetto
minore . L'egua le paragonato all'eguale ha le ſteſſe miſure , paragonato al
mag giore ha meno miſure, e ne ha più paragonato al minore. Ra gionando
Parmenide con Socrate ad bominem , fi ferve del ter mine di participare , che
non è allegorico , ove ſi tratta di par ti . Offervo che non miſurandoli,
ſecondo Platone, che con l'uni tà , e col numero, è manifeſto , che la miſura è
ſecondo lui quan tità ; pur gli attribuiſce lo ſteſso , e il diverſo. g. 23 .
L'uno non è , nè eguale , nè maggiore , nè minore . Non participando , nè dello
ſteſso , nè del diverſo , non parte cipa mai, o le ſteſse , o le diverſe miſure
, in conſeguenza non è nè eguale , nè maggiore , nè minore. 6. 24. Come ſi
miſurano le grandezze permanenti , così ancora ſi mi ſurano le ſucceſſive , le
quali paragonare l'une all' altre, compete loro lo ſteſso e il diverſo , cioè
il più, e il meno . Si dice che due Uomini hanno la ſteſsa età , quando è
miſurata per lo ſteſso nu mero di rivoluzioni ſolari, e che hanno maggiore o
minor età le ella ſia miſurata per maggiori o minori rivoluzioni ſolari .
L'antichità , la vetuftà , la novità ſono relazioni degli enti ſuc ceflivi per
rapporto alla loro eſiſtenza fucceffiva ; antico ſi dice quello che da lungo
intervallo di tempo e prima d'un altro ; nuo vo quel che ora è, e non fu che
già poco tempo prima d'un al tro ; il giovane , il vecchio , ſono propriamente
le differenze dell' età degli Uomini, mas'attribuiſcono per mecafora a curce le
coſe . 9.25 . ( 78 ) f. 25. L'uno non è più vecchio , più giovane di ſe ſteſso
, o dell' altre coſe . L ' uno non pud participare , oo delle ſteſse ,, o di
maggiori o minori miſure degli enti ſucceflivi, perchè non può partici pare
dello ſteſso , e del diverſo ; ma quel ch'è più vecchio , partecipa di maggiori
miſure, quel che è più giovine di minori , dunque ec. g. 26 . Per ben intendere
come uno nel farli più vecchio di fe fteſso o d'un altro ſi fa più giovane , mi
è neceſsario trasferire alcu ne nozioni della ſeconda ipoteſi , ed
aritmeticamente ſvilupparle . g . 27 6 3 5 4 Se il rapporto del maggiore al
minore crefca per l'aggiun ta agli antecedenti, e a' conſeguenti d'una
grandezza eguale , il rapporto ſempre decreſce . Sieno i numeri 1 , 2 , 3 , 4 ,
5 , 6 , 7 , i quali ſucceſſivamen te creſcono per l'aggiunta dell'unità ,
èmanifeſto che ( a ) > 4 $ Si prendano i quozienti o valori delle ragioni .
Il valore della ragione di = it ; il valore di = ito il valore di = i + . Or
tal eſsendo la ragione qual è il fuo valore ſe I +1/2 > it it ec. come è
mani 3 feſto fard > 5 ec. Or rappreſenti A C l' età d'un 3 fanciullo di 3
anni , e B D l'età d'un | fanciullo di due anni , s' aggiunga alla А С F prima
età un anno , ciod ad " A C. s'ag giunga CF , e alla ſeconda età B D SA D
G. aggiunga un altro anno o DG. Onde s' averà la ragione di } ; li vada
aggiungendo ſucceſſivamente alle due età un'anno, ed indi un'anno, e li
averanno le ragio ni di e di . Egli è manifeſto , che il fanciullo di tre anni
è più vecchio di quello di due, ma nel creſcere all'uno , e all' al > 3 4 Ā
1 B tro ( a ) Il ſegno è quello del maggiore , Il ſegno di < del minore . Il
ſegno è quello dell'eguale . ( 79 ) tro un' anno la ragione che ne riſulta di è
minore dell'altra ; molto minore è quella di , e molto più minore quella di
onde ſebben il primo fanciullo ſi faccia ſempre più vecchio dell'altro ,
contuttociò per l'accreſcimento dell'egual quantità ſi fa più gio vane
relativamente , perché dove nella prima ragione la differen za era nella
ſeconda è minore di 1 , e quindi , ſempre mi nore . Egli è vero dunque, che un
fanciullo nel farli' più vecchio d'un altro li fa ancora più giovane. Se non ſi
compari l'età di due fanciulli , ma ſi conſideri folo l' erà di uno , che
ſempre riſpetto a ſe ſteſso creſce di un'anno , egli è manifeſto , che per
queſto eguale accreſcimento , nel decreſcer ſempre le ragioni degli anni cra
loro comparati , lo ſteſso fanciul lo nel farſi più vecchio di ſe ſtefso , fi
fa ancora più giovane. Si vede quindi , che nel farſi il più vecchio dal più
giovane , fi fa cid dal diverſo , e che non è diverſo , ma'ſi fa . Corol. Lo
era , lo efser ſtato , il li faceva , ſignificano i modi del tempo paſsato ; il
ſi farà , il ſarà , e ſarà per farſi, i modi del fucuro o dell'inanzi ;
l'eſsere , il farſi, i modi del preſente. f. 28. L'uno non è in cempo . Se
l'uno fofse in tempo participerebbe delle miſure del tempo ; dunque or ſarebbe
più giovane, or più vecchio , ma queſto non pud eſsere , come s'è dimoſtrato (
9. 25. Dunque ec, IN ALTRO MODO. Quel che è in tempo nel farſi più vecchio , ſi
fa più giovane di ſe ſteſso , ( §. 27.) ma l'uno non può farſi più vecchio , nè
più gio vane di ſe ſteſso , perchè non può farſi , nè una cola , nè l'altra (
9.25. ) Dunque non è in tempo . Il più giovane che ſi fa dal più vecchio è
diverſo da lui , e non è ma ſi fa , ma l'uno non può ricever il diverſo ( § .
18. ) Dunque non può farli dal più vecchio il più giovane ; dunque non è in
tempo . Il più giovane non ſi fa dal più vecchio , nè in più lungo tem po , nè
in più breve di fe fteſso, ma ſempre nell'egual tempo con le ſteſso , o fia , o
ſia ſtato , o ſia per dover eſsere ; ( § . 27. ) mą l'uno non è ſuſcettibile
dell'eguale ( § . 23. ) Dunque nè meno dell' egual tempo ; dunque non avendo le
paſſioni del tempo non è in cempo . . 29. ( 80 ) S. 29. L'uno non partecipa ,
nè del preſente , ' nè del futuro nè del paſſato . L'uno non eſſendo in tempo
non può partecipare del tem po , ma le paſſioni del tempo ſono , il preſente ,
il paſſato , il futuro . ( $ . 27. ) Dunque non le partecipa . Corol. Se l'uno
non è partecipe di niun tempo , non fu mai , nè ſi faceva , nè era , nè ora è
fatto , nè fi fa , nè farà . 8. 30. Ogni ente , o ciò che è partecipe di
eſſenza , è , ſecondo Plato ne , o nel tempo preſente , o ſarà nel futuro , o
fu nel paſſato . Nel Timeo egli dice , che Dio per far il tempo fluente nel
numero , fece un'immagine dell'eternità . Dunque l'eternità fiſſa in ſe ſteſſa
non contiene, che il preſente , e ciò pur dicono i Teolo gi nel diffinirla con
Boezio , una poſſeſſione tutta inſieme di una vita interminabile . Negando
dunque Parmenide, che il pre ſente competa all' uno , gli nega l'eternità ,
onde è egli evidente che non parla di Dio , ma ſolo d'un ente di ragione, dal
quale per l' astrazion della mente eſclude tutto ciò che involve rela zione a
qualche coſa , ed anche a lui ſteſo. Dall' altra parte , qui Parmenide non
eſclude dall'uno , ſe non cid che appartie ne per lo più alle coſe corporee e
viſibili, il tutto , le parti , il luogo , l'eguale , il maggiore , il minore,
la generazione , la traslazione , le differenze del tempo ; e ciò che dice
dello ſteſ. fo , e del diverſo , del fimile , e del diflimile , che pur conven
gono alle coſe incorporee , lo ricava da ciò che ha negato ne' quanti. 1 . 31 .
L'uno non è , o non ha eſſenza . L'uno non partecipa del preſente , del paſſato
, del futuro ( 9.29. ) ma ciò che ha effenza partecipa dell'uno , o dell'altro
( $. 30. ) Dunque l'uno non ha eflenza . Annot. Dall'uno conſiderato
preciſamente come uno , cioè a dire oppoſto amolti , ſi debbe eſcludere , oltre
l'eſſenza attuale , an cor la poſſibile , perchè la poſſibilità come fonte, e
principio del, la ( 81 ) la realità porta ſeco qualche relazione a cid che
eſiſte , é dall' uno ogni relazione deve eſcluderſi.; molto più le relazioni
dell' uno all'ente , di ragione che chiamali intellettuale qual è il Lo-. gico
, il metafiſico , il matematico , e l'altre relazioni ancora ché aver poteſſe
all'ente immaginario ancor chimerico . . §. 32 . tra coſa Primafi concepiſce
la, non ripugnanza dei predicati delle co ſe , ed è l'eſſenza , e queſta non ſi
dice d'altre coſe , o d'al tre eſſenze , ma bensì o gli attributi , i modi , e
le relazioni fi dicono deſsa ; cal è la definizione logica , che Ariſtotele
diede della ſoſtanza , chiamandola ciò che non ſi predica d'al ma che tutte le
coſe ſi predicano d'eſsa . In que ſto ſenſo l'eſsenza nel ſuo concetto aſtratto
, non differiſce dal la foſtanza , che in quanto queſta ſi riferiſce a ſe
ſteſſa , ed agli aleri de' quali è ſoftegno , per il che ſi dice , che ella non
ha contrario , e non è capace di più, e di meno . Se l' uno non può predicarſi
dell'uno , o di le ſteſſo , per non radoppiarlo o farne due o molti , egli è
manifeſto , che non è ſoſtanza to più ſe fi conſidera col Wolfio , che nella
nozione della fo ſtanza, v'è qualche coſa d'immaginario, perchè ella fi rappre
ſenca alla fantaſią , come un valo od altra coſa , che in sè ri. ceve gli
accidenti . $. 33 L'uno non è ſoſtanza . L'uno non ha eſſenza . ( S. 31. )
Dunque non ha ſoſtanza ( $ . 32. ) ſ. 34. La ragione è propriamente quell'atto
della mente , che da una coſa n'inferiſce un' alera , od è ancora ſe ſi vuole
la con neſſione delle verità univerſali ; la ſcienza è la cognizione cer ta ,
ed evidente delle coſe, ed è tutta opera della ragione che deduce una coſa da
un' altra . Nell' attribuire una coſa ad un altra , ſe li ha qualche cimore ,
che ad efla ſi poſſa attribuire l'op poſto, ſi ha della coſa opinione. Col
ſenſo poi non ſi percepi Icono , che le coſe ſingolari , o determinate in ogni
parte , e quindi compoſte di molti . Da queſte definizioni e manifeſto chenegli
oggetti della ragione, della ſcienza, dell'opinione, del Tom . II. I fen ((82 )
. fénfo s } includono moki , çd - in oltre che ogni coſa , che .0.4 ſénte , o
su cui di ragiona fcientificamente , od opinabilmente , ha un' eſſenza attuale
o poflibile ; falfa o vera. 1 $. 356 Dell' uno non li ha ragione, ſcienza ,
opinione , ſenfo . Quefte coſe includono molti , e dipendono dall'ipoteſid' un
eſſenza ( §. 34. ) ma l' uno non ha eſenza ( S. 31. ) e non in olude molti
(.9.,2 . ) Dunque ec, g . 36 Non ſi dà nome ſe non alle coſe , della cui
eſſenza , o per ragione, o per opinione, o per ſcienza , o per ſenſo ſi ha un '
idea o chiara , od ofcura, o diſtinta , o , confula , o miſta di que Ite
differenze. S. 37 ... L'uno non ha nome. L'uno' non ha effetiza:( : 34:) Dunque
l'uno non ha nome. 1 §. 38. Ragruppando in poco ciò che ſin ora ſi è detto , ſi
può for mare tal fillogismo . Dal concetto aftrattiflimo dell' uno ſi de vono,
eſcluder i molti di qualunque genere effi fieno ; ma cid che appatriene alla
quantità , alla qualità ; alla refazione ec ? vi s'includono imolti ; dunque
devono queſti eſcluderſi dal.concet to aſtrattilfino dell'uno , . ] Se fi
diceffe , che così concludendo ſi confonde l'uno col nul la , manifeſto è
l'inganno , poichè la definizione del nulla è , che egli non abbia nozione
alcuna o poſitiva , o negativa , ciò che elclude dal nulla ogni realtà .
Quando'io dico all'incontro, l'uno non é molti, non tolgo a lui ogni realtà ,
benchè eſplicitámen te io non vi rifletta. Io ſto più immobilmente che poſſo
affil ſo su l'uno, in quanto s’oppone a molti , e in queſta conſide razione
preſcindo più che poſſo dal conſiderar l' uno , o per rap porto all'ente, o per
rapporto al mio penſiero ; noi poſſiamo, come accennai , più ſentire, che eſprimere
queſte preciſionimen tali , e momentanoe, ma 'non laſciamo di fentirte, e le
fencia ·mo ( 83 ) mo ſe poffiamo eſprimerle in qualche modo, e farle'
intendered agli altri ; nè per altro la fcola Eleacica; ed indi Placone le pro
poſe , che per addeſtrar la mente ad inveſtigar l'idee delle coſe. Era
necelfario fciegliere per eſempio quell' idea , in cui la pre ciſione arriva
all'ultimo grado , ove pofla mai giungere la men te umana. Non ſi conoſce mai
bene la natura', ' ed'i precetti della arte , che l'imita , fe non ned maffimo
. Io dimando al Lettore ; che legge attualmente il Parmenide di Platone, e lo
confronta col mio comentario , fè altro faccio in effo , che ſviluppare il
fenſo.ovvio det tefto : Abbia pur Pro clo , e gli altri Placonici , e Gentili ,
e Criſtiani confiderato queſto Dialogo , non come ontologico , ma come
Teologico , io ril pettando , e la dottrina , e l'autorità loro', dirò che la
mia Spiegazione ontologica non impediſce , che degli intelletti più fublimi del
mio , teologicamente non l'inalzino a coſe maggio ri , come fece il Cardinal
Befarione , applicando a queſto Dia logo la dotrrina del preceſo S. Dionigi
Areopagita . Si può ri leggere avendo preſente tútra l'intiera ſeſſione ,
quanto ivi diſ fi appoggiandomi alla dottrina di S. Tommaſo : Dio'è un en te
fingolariſfimo , e nell' applicarvi quel che conviene all' en te di ragione ;
biſogna ftar attenti che non ſi confonda l' uno ton l'altro ; la merafíſica
degli antichi è la ſteffa che la me tafifica dei moderni; mia nel riferir la prima
' alle coſe , queſte includevano Dio , che gli antichi non ſeparavano dalla
mate ria , che per preciſionedi mente, là dove la ſeconda conſiderando fe coſe
non ha a Dio , che un'analogia molco lontana, perchè fi diſtingue eſenzialmente
, é realmente dalle ſteſſe . SEZIONE TERZA. Se l'uno è , quali coſe adivengono
intorno ad eſſo . I. I. Nom On ſi ricerca ſe faecia meſtieri, che ſucceda- un
cert' uno , ma ſe vi ſia l'uno ; o pure ſoſtituendo la nozione imma ginaria ſe
l'uno partecipi l'eſfenza. Dall'ipoteſi così propoſta ne fiegue', che' l'uno
non è la pro : pria 'eflenza , o che l' effenzà, e l' uno non ſono gli ſteſi
con: cerci z chi dice elfenza , dice preciſamente la: non ripugnanza dei
predicati, e chi dice uno , dice 'non molti . ; Nel cratcat queſta:
ſuppoſizionë , Platone comincia a frami I 2 fchia ( 84 ) ſchiare all'
aſtrazioni le nozioni immaginarie più che di ſopra Queſto fa ſovente l'oſcurità
del teſto , perchè per intenderlo ci sforziamo toſto a concepire ciò , che non
è che un' imaginazione ed imaginazione tallora falſa , da cui li deduce una
contraddizio ne , nèſempre però vera , ma apparente , il che raddoppia l'ab
baglio , ſe non vi s'attende; manifeſteranno gli eſempi ciò che io dico , in
tanto mi ſia lecito di contraſegnare con due ſimboli diverſi , A , e B , i due
concettidell'ente, e dell'uno . Nel farne il compleſſo A + B io rappreſento un
tutto che ha due parti, che io tra loro ſeparo con la mente , per ragionarne
più diſtintamente fi 2. Se l'uno è , ogni parte di queſto tutto ( uno è:) può
dividerſi in infinite particelle . Si prenda la particella uno , e ſi
concepiſca come ſeparata per un momento dall'altra particella ence , poichè per
la fuppoſizio ne l'uno è , egli è manifeſto , che conſta di due particelle ,
uno ed ente . Di queſto nuovo compleffo ſi prenda la particella uno , e queſta
per la ſteſſa ragione ſi dividerà in due altre , ente ed uno , e così
all'infinito . Or ſi prenda l'altra particella ente, e poiché ogni ente è uno ,
ſi dividerà queſta particella in due altre, le quali di nuovo fi divideranno, e
così all'infinito ; dunque ogni particel. la del cutto uno è , ovvero è l'uno ,
ſi divide in infinite particel le all' infinito . Così può ſenſibilmente
rappreſentarſi . Ente uno А + B 1 Ente uno uno ente 2 a + 2b 2A + 2B ente uno
uno | ente 3A ente , uno uno | ente 46 4A 4B 3. a 36 3B 1 uno , Come A + B
rappreſenta il primo compleſſo immaginario della e dell'ente così 2a + 2b
rappreſenta il ſecondo com pleſſo immaginario dell'uno , e dell'ence dedotto
dall'ente , o da A , e parimenti 2A + 2B ſignifica il ſecondo compleſſo imma
ginario dell'uno , e dell'ente dedotto da B. ANNOT. Qui Platone fuppone darli
reciprocazione tra le due pror ( 85 ) propoſizioni l'uno è , è l'uno , nella
prima delle quali l' uno è il loggetro , cliente è l'attributo , e nella
ſeconda l'ente è il ſoggetto , e uno l'attributo. Perchè legitimamente ſia la
reciprocazione del le propoſizioni, biſogna che il ſoggetto ſia tanto ampio ,
quanto l'attributo , onde può reciprocarſi la propoſizione . Il triangolo è una
figura di tre lati; nell'altra ogni figura di tre lati è un trians golo , ma
non già ſi reciproca la propoſizione, ogni ternario è nu. mero , perchè non
ogni numero è ternario . Il non aver avvertita la legge della reciprocazione
fece cader in molti parallogismi tallora i Geometri. Corol. Poichè ogni ente è
uno , l'uno ſi moltiplicherà come l'ente , onde potrà dirſi, che l'uno è
infinito, o che l'uno è mol ti . Queſta è la prima contraddizione di queſt'
ipoteſi , ma è con traddizione immaginaria od apparente , perchè l'uno per sè
non è molti , ma è molti per accidente , cioè perchè gli accade di mol
tiplicarſi , ſecondo gli enti che lo partecipano , onde non predi candoſi
dell'uno nel tempo ſteſſo , e ſecondo lo ſteſſo, gli oppoſti, non ha in sè vera
contraddizione. g. 3 . Platone s'inoltra con le nozioni immaginarie .
Conſiderando l? uno , in quanto partecipe di eſsenza , lo prende ſecondo ſe
ſteſso con l'intelligenza , ſpartato da quello di cui diciamo che ſia par
tecipe , cioè dell'eſsenza . Ciò vuol dire , che dell'ente , e dell'uno Platone
fi fa quei due idoli caratterizzati per A , e per B. ANNOT. Nel dirli che li
prende l'uno coll'intelligenza ſpar; tato dall'ente , s'allude manifeſtamente
all'aſtrazioni della mente . $. 4. 1 L'eſsenza o l'ente , e l'uno ſono diverfi.
Alcro è l'eſsenza , ed altro l'uno ( : 32. Sez. 2.) Dunque uno in quanto
uno è dall'eſsenza diverſo , e l'eſsenza in quanto eſsenza è diverſa dall'ano ;
dunque l'uno , e l'eſsenza ſono diverſi ; Co sì può illuſtrarſi tale ragionamento.
L'ente o l'eſsenza in quanto eſsenza include la non ripugnan za dei predicati
coſtitutivi ; l'uno in quanto uno include l'oppo Gizione ai molti , ma queſti
due concetti tra loro non convengo no ; dunque ſono diverfi. 8. 5. ( 86 ) $ . s
. L'eſsenza , l'uno , e il diverſo fanno tre concetti o tre coſe trx loro
diverſe . S'è già dirnoftrato , che l'uno , el ente non termi nando lo ſteſso
concetto ſono diverſi tra loro , ma il diverſo non includendo nel ſuo concetto
, che la non convenienza , fa un concet to diverſo , ed in conſeguenza una coſa
diverſa dall' altre due ; dunque l'eſsenza , l'uno , il diverſo fanno tre coſe
diverſe. . 6 . Si rappreſenti l'uno per A , l'enre per B , e il diverſo per C
ne riſultano quindi. Le combi- FA B7 In ogni combi-7 Tre poi eſsendo le combina
nazioni di nazione vie zioni v'è ancora A , B ,CAC uno in due Erre volte uno?
in ogni com uno in due tre volte due E binazione В С! uno in due tre volte tre
Abbiamo dunque dedotto da A , B , C, o dall'ente , dall' uno e dal diverſo il
2.primo pari , il ' tre primo diſpari , dae volte 3 parimenti impari, 3 volce 3
imparimenti: impari. Sipuò an cora dedurre due volte due parimenti pari', e
queſte ſono tutte le ſpecie dei numeri . Combinandoſi il 2 il 3 due volte, tre
volte e fin quattro volte , ma non altre , ſi compongono tutti i numeri: fino
al dieci . It 3* 2 + 2 = 4 2 + 3 2 + 6 = 3 ti 3 2 + 2 + 37 2 + 1 + 2 + 2 = 3 +
3 + 2 3 + 3 + = te : 2 + 2 + 2 +19 1 + 2 + 2 + + 3 = I + 2 + 3 + 4 = 10 II 10 è
fatto dall'ı , e dal o , e ſignifica ', che il primo articolo dei numeri
termina alla prima decina ; fe ſucceſſivamente alla de cina ſi aggiunge l'i ,
il 2 , il 3. ec. ſi arriva alla ſeconda decina , e collo ftelso metodo alla
terza , alla quarta ec: fino al 100 , che è la decima decina da cui ſi va fino
a 1000 , o 10 volte 1oo ec. I Pita ( 87 ) I Pittagorici chiamavanol yno il
finito , come quello che li mitava l'infinito o l'indefinito ad una tal ſpecie
o forma : dot trina , dice nel Eilebo Platone , la quale diſcende dagli Dei ;
queſta è , the tutte le coſe tengono in loro fteſſe il termine, o l'infinito
innato ; o piuctoſto l ' indefinito . Lo rappreſentavano nella materia i
Pittagorici, e lo ſimboleggiavano nel 2 , o nel binario , poichè ogni coſa
ſteſa è divit bile in due e ognuna delle parti in altre due , ; e così
all'infinito . Quando a queſto infinito s'aggiungea luna , che vuol dir la
forza o la forma ſe ne faceva il compoſto che era l'altro principio , di cui
par la Platone; queſto compoſto dețerminato a una ſpecie dalla for ma componeva
un tutto , in cui vera principio , mezzo , e fi në . Lo diffegnavano i
Pictagorici per il 3 , e lo chiamavano numero perfecto , medio , e proporzione
; oſſervò S. Agoſtino che numerando fino al 3,, € rapportando prima il 2 all'1,
ed indi al tre nel comporſi la proporzione continua , aritmetica fi forma per
la replicazione del 2 il 4 , numero che immediata mente luccede al 3 , ciò che
non ſi ha negli altri numeri, per chè cominciando la proporzione aritmetica
dal.2 chi replica il 3 non fa il numero che immediatamente lo ſegue od il 5 ma
il 6 ; nel continuare la proporzione con queſto metodo i numeri riſultanti
ſempre più ſe n'allontanano . S. Agoſtino per ciò offerva co'.Pittagorici , che
la perfezione dei numeri è ne quattro primi , in cui gli eftremi ſono intimamente
uniti ai mezzi , e i mezzi agli eſtremi . Quindi le più perfecte conſo nanze
muſicali, ſono fatte dei primi quattro numeri 2 3-4 , 1 ' 2'3 ? ſ. 7 . Se l'uno
è , egli è ogni numero . Nella combinazione dell'uno , dell'ente , e del
diverſo fi de ducono tutti i numeri ( 9. 6.), Dunque nell' uno , in quanto è ,
vi ſono tutti i numeri, ; Carol . Il numero eſſendo molti nell' uno , in quanto
l'uno è . , egli contiene moltitudine, e perchè i numeri fono infiniti nell uno
che è , vi farà una moltitudine infinita . COROL. 2. Il numero in moltitudine
infinita , eſſendo inclu ſo nell'uno che è , farà egli partecipe d'eſſenza . Si
prenda la ſerie naturale de numeri 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 ec. fino al oo
unità eterogenea alla prima, e da cui fi comincia l'alcra ferie 200 , 30, 40 ,
fino 200 = 60 altra unità eterogenea , da cui comin ( 88 ) . cominciali, un'
altra ſerie 2 co ' , 300'ec. ſino a o , e cosi all' infinito . Se di queſte tre
ſerie ſe ne fa una ſola ſi ha 1.2.3.4.5 ec . co ' ... 00 ? ... oo ... , fino ad
in cui ſi potrebbe cominciar di nuovo la numerazione . Cominciando da uno , li
può con le frazioni continuar la ſe . rie decreſcente con lo ſteſſo ordine che
l'altra , onde 1 I 1 ec . • • ec. fino 3 4 5 I 1 I I I wec . 4 Combinando la
ſerie dei finiti intieri , rotti , e degli infiniti matematici , e immaginarj ,
fi ha tutta la ſerie . ec. 1.2.3.4 ec. co oo oo ' ec. 0° 5 4 3 2 In queſte
eſpreſſioni non v'è errore , purchè non s' attenda , che alla proporzione delle
quantità , nè ſi realizzino i ſimboli . Ma non biſogna credere , che la
numerazione ſia terminata , po tendoſi concepire , e tra gli intieri, e tra
rotti , e tra gli infi . niti dei mezzi proporzionali, i quali ſono , come ben
prova il Ba rovio , veri numeri ( ſe ben noi non poſſiamo eſprimerli ) perchè
ſimboli di vere quantità, come i numeri , ointieri, orotti , e gli
infinitamente grandi, egli infinitamente piccioli. Platone , al dir
d'Ariſtotele , poſe i due infiniti ( a ) magnum & parvum , e queſti, come
ben ancora lo riconobbe il P. Grandi , ſono gli infinita mente grandi , e gli
infinitamente piccioli dei moderni Geome tri ; infiniti replico immaginarj ,
de' quali con tanta chiarezza trattò il Wolfio nell'Ontologia , ſgombrando
tutte le difficoltà' che v'oppoſero coloro, che non ben inteſero queſte due
ſpecie d'infiniti Platonici , caratterizzati da profondi Geometri con tan to
utile della Geomecria , della Mecanica , ed altre parti delle Matematiche .
Queſti due infiniti di Platone non ſono diverſi dai grandiflimi, e menomiſlimi
, di cui qui parla . 8. 8 . In quanti luoghi è l' ente , in tanti è l'uno . Se
l' uno è egli accompagna ſempre l'ente , ma non v'è ente , che non ſia in qual
che luogo ( 9.12. Sez, 2. ) Dunque in quanti luoghi è l'ente , in tanti è l'uno
. a ) Plato vero duo infinita magnum & parvum . Arift. 3.Phiſ. c .4 . § .
9: ( 89 ) g. 9. Se l' uno è , non ſolo ' egli è l'uno , ma un certo uno. Ogni
ente ſingolare partecipa dell'ente , dunque dell'uno ; dunque come ogni ente
ſingolare è un certo ente , ogni ente ſingolare è un certo uno . ČOROL. Si
compartiſce dunque l'uno , non ſolo con le coſe in genere , ma con le coſe
ſingolari , onde v'è l'uno , e il tal uno, e a queſto compete , come all'altro
, eſfer molti , perchè vi ſono molti enti ſingolari , e compete loro il luogo
degli enti ſingolari. g. 10 . Se l'uno è , egli è un uno che è uno , e cert'
uno , e mol ci , e parti, e finito , e in moltitudine infinito . Egli è uno , e
cert'uno, ſe accompagnando gli enti è in ogni ente, ed in ogni cal ente ; egli
è tutto ſe ogni ente , in quan to è , egli è un tutto ; egli è párte , ſe ogni
parte dell'ente è jina ; egli è finito , ſe ogni tutto ha i ſuoi limiti, e
infinito le contiene in sè tutti i numeri . Annot. Queſte contraddizioni non
ſono che apparenti. D. II . Se l'uno è , egli ha principio , mezzo , e fine .
L'uno è finito , e tutto, e parte ( S. 10. Sez. 3. ) Dunque ha in sè limiti ,
perchè ogni una di queſte coſe ne ha ; dunque ha principio , mezzo , e fine.
Corol. Dunque l' uno è partecipe di figura retta o roton da , o d'amendue miſta
. ANNOT. Come l'uno , di cui quì parla Parmenide , pud effer Dio , o qualche
idea divina , fe egli è circonſcritto da tutti i luoghi degli enti, ſe
s'individua cogli enti ſingolari, ſe è tutto , parte , finito , figurato ec . 5
Tom . II. m 6. 12 . ( 20 ) Do ? 127 ** Se. l'uno è , egli è in ſe ſtello , e iş
altrui ., Ciò che è tutto , comprende tutte le ſue parti ; ma l'uno com prende
tutte le ſue parti , dunque l' uno è un tutto ; ma il tutto contien ſe ſteſſo ,
è l' uno è un turco . Dunque l'uno contiene ſe fteffa . ANNOT. La propoſizione
è identica , e vuol dire : un tutto è. un tutto ; o iltutto è nel tucta ; non
ſi faccia più attenzione al tutto , mamaall all'uno , e li concluderà , che
l'uno è nell'uno . Si com bini poi l'uno, e il cucco , e ſi concluderà, che
come il cutto è in ſe ſtello , così l'uno è in fe fteflo . Quel che è in ſe
ſteſſo , egli è in ogni ſua parte , ed in tutte le parti, ma il cutto non può
eſſer in niuna parte, perchè il più au conterebbe pel manco , nè meno il tutto
può eſſer in tutte le par ti , perchè ſe in cutie, farebbe ancora tutto in
ciaſcuna, dunque il tutto non è in ſe ſteſſo , ma l'uno è il cutto ; dunque non
è in fe fteflo . Ogni coſa è in qualche luogo, perchè ciò chenon è in qualche
kuogo è nulla ( S.12. Sez.2.) e quel che è in qualche luogo è in fe felio , o
in altrui, perché non li dà mezzo ; mas'è dimoſtrato che ſe è l'uno egli non è
in ſe ſteſſo , dunque è in altrui ; ma di ſopra s'era pur dimoſtrato, che egli
era in le ſtello ; dunque è in ſe ſteſſo , ed in alcrui . ANNOT. Non v'è quì
che contraddizione apparente , perchè quando ſi dimoſtra, che l'uno è in ſe
ſteſſo , ſi conlidera che l'uno è un tutto le cui parti fon tutte inſieme,
quando all'incontro fi confidera , che l'uno è in altrui, non ſi concepiſce il tutto
con le párti pret inleme, ma come quello che non è in niuna delle ſue parti .
S. 13. Se P upo è , egli fta , e ſi muove . Quel che ſta è ſempre in ſe ſteſſo,
perchè da lui non mai & di parte ; ' ma l'uno eſſendo nell' uno , non ſi
diparte mai da fe ftef ſo ; dunque è ſempre nello ſteſſo ; dunque fta. Quel che
è ſempre in altri non è mai nello ſteſſo , e non eſsendo nello ſteſso mai non
fta , e non ſtando ſi move , ma l' uno non è in ſe ſteſso , ma ſempre in altrui
; dunque ſempre fi move . ANNOT. Non è pur queſta , che contraddizione
apparente . . 14. ( 91 ) $. 14. 1 e il Una coſa comparata all'altra , o è la
ſteſsa , o diverſa , o è par te di quella coſa conliderata come tutto , od è
tutto , conſiderata 1a cofa come parte . Così dice Platone, e par conſiderar lo
ſteſso , e il diverſo relativamente alle qualità ſolamente, e la parte , cutto
relativamente alla quantità. Se dunque fi dimoſtraſse , che una coſa
relativamente a un' altra non foſse, nè tutto , ne pare ce , nè la Ateſsa, ne
ſeguirebbe per il metodo d' eſcluſione, che ella fofse diyerſa . g . 15. Se
l'uno è , egli è a ſe ſteſso lo ſteſso , ed a ſe ſteſso diverſo . Se egli è in
le ſteſso , e fta ſempre , egli è a ſe ſteſso lo ſteſso , ſe egli è in altrui,
e ſempre lr move , è da ſe ſteſso diverſo . L'uno non è parte di ſe ſteſso , nè
tutto rifpetto a ſe ſteſso , nè l'uno è diverſo dall'uno; or s'è luppoſto , che
una coſa compara ta ad un'altra , fe d'eſsa non è tutto , nè parce , nè diverſa
ſarà la ſteſsa ; dunque l'uno ſarà lo ſteſso con ſeco ; ma ſe l'uno è in al
trui non è ſempre lo ſteſso a ſe ſteſso ; dunque per l' eſcluſione Platonica
ſarà egli da ſe ſteſso diverſo'. §. 16 . ne Per eſpor: l'argomento ſeguente in
tutta la ſua forza , convie. ne particamente illuftrare i principj da cui
dipende . Si ſuppo 1. Che l' uno è da sè diverfo , come da ente nell'ipo teſi,
che egli ſia. 2. Che il diverſo e lo ſteſſo , effendo contra rj , uno non può
mai eſser dell' altro . Cost lo ſpiego · Molci enti potendo efiftere , od
eſiſtendo nel tempo ſteſso , lo ſteſso farebbe nel diverſo , ciò che è
impoſſibile , non potendo i con trarj , cioè A , e non A ſtar inleme . Ben ſi
vede che qui parla Platone del diverſo , e dello ſteſso aſsoluto , e non
relati. vo , quale abbiamo fpiegato nel G. 17. Sez. 2. perchè nulla vie ta ,
che due coſe non poffino eſser diverſe' nell'eſsenza , nelle quantità , nelle
azioni ec. ed intanto eſiſtere nel tempo ſteſso mi Iura eſtrinfeca delle coſe .
Non è cosi conſiderando il diverſo aſsoluto , o l'idea del diverſo , e
conſiderando lo ſteſso aſſoluto o l'idea dello ſteſso . ; l'uno non può mai
ſtar nell'altro , e in conſeguenza la ſteſsa coſa non può mai partecipare nello
ſteſso tempo di queſte due idee contrarie . Allude qui tacitamente Par m 2 meni
( 92 ) menide a ciò che ha già dimoſtrato , parlando della participazio ne
dell'idee. L'argomento ha tanto maggior forza , quando fi conſiderano gli enti
ſeparati dall' uno , poichè ſe foſsero diverfi , per ragion del diverſo
participerebbono dell' idea del diverſo che è Tempre una , dal che deduce
Parmenide , che non poten do eſser diverſi per la participazione dell'uno
nell'ipoteſi di Socrate , non ſono diverſi tra loro . 3. Suppone che le coſe
che non ſon uno , non fieno partecipi dell'uno , perchè non ſarebbono uno , ma
uno in certo modo. Quì pur Parmenide parla dell'idea dell' uno , che
participandofi dalle coſe non è più uno , ma uno con certe circoſtanze, od in
certo modo, ma ſe non ſon uno nor faranno eziandio numero , perchè ogni numero
è uno . 4. Le coſe che uno non ſono , nè aſsolutamente uno , non poſsono eſser
parti dell'uno , poichè l' uno non può eſser parte delle co ſe che non fon uno
, nè può eſser tutto , quafi comparato a par ricella. Parmenide
alludetacitamente a ciò che diſse di ſopra, che idea non pud eſser participata
, nè ſecondo la parte , nè ſecon do il tutto , dal che deduce , che le coſe che
non ſon uno ne fono particelle dell' uno , nè ſono all' uno quaſi a particella
. Ciò ſuppoſto così argomenta Parmenide col metodo d' eſcluſione . g. 17 . Se
l'uno è , egli è diverſo , e lo ſteſso con altre cofe ; all'uno convien il
diverſo , aſsolutamente in quanto diverſo , e non all” altre coſe, cui non
conviene , che relativamente ( §. 18. ) Dun que l'uno è diverſo dall'altre coſe
.; le altre coſe non ſono diper fe dall'uno , nè ſono parci , nè tutto riſpetto
all' uno ; dunque fono le Aeſse con l'uno . F. 18. Chi proferiſce lo ſteſso
pome una , e più volte ſenza riferirlo a più coſe, come ſi riferiſce nei nomi
equivoci, ed analoghi, eſprime fempre lo ſteſso concetto ; dunque nel proferire
la voce, diverſo ; applicandola all'uno , confiderato relativamente agli altri
, e un' altra volta agli altri conſiderati relativamente all'uno , nell'ado
prar lo ſteſso nome s'eſprime lo ſteſso concetto . Quindi dice Par: menide :
quando diciamo eſſer gli altri diverſi dall' uno , e l'uno ef ſer dagli altri
diverſo , non mai introduciamo il diverſo a figuificar altra coſa , che la
natura di cui è proprio nome . $ . 19. ( 93 ) S. 19. s'è gia oſſervato , che
fimile è quel che patiſce lo ſteffo ; difts mile quel che patiſce il diverſo (
9. 20.Sez. 2.) Se l'uno è , egli è ſimile, e diſſimile a ſe ſteſſo , ed agli al
tri . L'uno è diverſo dagli altri ( 9. 17. Sez. 3. ) Dunque l'altre coſe ſono
diverfe dall' uno , ma non fono diverſe nè più né meno dall'uno , che l'uno
dall' altre coſe ( S. 18. Sez. 3. ) e ſe nè più , nè meno, rimane che
egualmente fia uno . In quanto adiviene alle uno l'effer diverſo daglialtri, e
gli altri dall'uno, egli patiſce la ſteſſo per rapporto agli altri, e gli altri
per rapporto a lui; ma ciò che patiſce lo ſteſſo è fimile , dunque l'uno e
limile agli altri , e gli altri per la ſteſſa ragione fon fimili a lui . Il
diverſo è contrario allo ſteſſo ; ma fi dimoſtro , che l'uno agli altri è lo
ſteſſo , e diverſo , ( S. 17. Sez. 3. ) ed è contraria paffione effer lo ſteſſo
agli altri, ed effer diverſo dagli altri ma in quanto diverſo parve fimigliante
; dunque in quanto lo Steffo fia diflimigliante , ſecondo la paſſione contraria
. ANNOT. E' da notarſi, che l'uno è ſimile agli altri, in quan to diverſo , e
diſſimile in quanto lo ſteſſo . S. 20 . Due coſe che ſi toccano ſono preſenti
l'una all ' altra , nè tra effe vi ſi frammette un terzo , perchè in queſto
caſo non più toccherebbono ſe ſteſſe , ma il terzo frappoſto . Ove due coſe fi toccano
, due ſono le coſe , ed uno il contatto , ove tre li toc chino , tre ſono le
coſe , e due i contatti ; in ſomma creſcen do i termini creſcono a proporzione
i contatti , ſecondo il nu mero dei termini meno uno . Si tocchino tra loro due
punti matematici, ' poichè nulla fra loro s'interpone, un punto per ragion del
contatto coinciderà con l'altro ; fi facciano toccare da un terzo punto ,
queſto pu . re coinciderà , e quindi infiniti punti matematici non fanno che un
punto , onde de liegue , che la linea non è compoſta di punti , o che i punti
ſovrapofti gli uni agli altri non fanno grandezze. Ciò naſce , perchè tutti i
punti ſono omogenei ſen za parti , ma ſe vi foſféro degli enti tra loro
eterogenei, ben chè non eſteſi, o ſenza parti , nulladimeno poſti gli uni
appreſ so gli altri , benchè non componeſſero grandezza , tuttavia fa rebbono
più , come ben offervò Ariſtotele . Ciò diede occaſio ne al Leibnizio di compor
l'eſtenſione di enti ſemplici , ma ete ( 94 ) eterogenei , o diverſi di ſpecie,
che eſiſtendo ſcambievolmente gli uni fuori degli altri coeſiſtano in uno ;
quindi per la no zione dell' eſtenſione , convien conſiderare , e più enti che
eſi Atano fuori di sè , e che tra loro s'unifcano , e formino uno . Non fanno
però un eſteſo ;, perchè fe ben inſieme eſiſtano, non ſono tuttavia tra loro
uniti , come allora che liquefatti più me talli ſi confondono in una maſſa . Le
partipoi indeterminate dell'eſteſo , conſiderate in aftratto , cioè ſenza far
attenzione alla loro fpecie , non diferiſcono tra lo ro , che nel numero . Non
ſarà inutile quefta offervazione nel progreſſo. Intanto ſi oſfervi, che l'uno
eſcludendo nel ſuo con cetto i più , oi molti, per quanto l'uno ſi moltiplichi
per ſe ſteſ fo è ſempre uno , onde egliè il ſuo quadrato , il fuo cubo , ed
ogni altra potenza, foſſe anche ella di dimenſioni infinite , e non folo avete
un eſponente, ma molti , come le quantità che ſi dicono eſponenziali. $. 21 .
Se l'uno è , egli tocca ſe ſteſſo , e l'altre coſe . L'uno è in fe fteſſo , ed
in altrui ( 5. 12. Sez. 3. ) In quanto è in fe fteſſo vien impedito di toccar
l'altre coſe , dunque tocca fe Hello ; in quanto è in altrui , è nell'altre
coſe ; dunque le coccherà . I N A L TRO MODO Una coſa nel coccar l'altra giace
appreffo quella che tocca , ed occupa la ſede vicina ; ma ſe l'uno tocca ſe
ſteſſo , giace appreſſo ſe steſſo , ed è quindi due coſe , il che non potendo
effere, mani feſto è che non pud toccarſi. Le coſe diverſe dall'uno , non
potendo effer numero , perchè .non partecipano l'uno, non pociamo mai con l'uno
far due , ma nel contatto v'è ſempre almeno due ( 9. 19. Sez.-3 .) Dunque l'uno
non toccherà l'altre coſe . : ANNOT. La contraddizione pur è qut apparente, e
ſi fa l'ano corporeo nel fupporre , che ei tocchi . Nozione immaginaria . 22.
Parmenide ragionando ad hominem con Socrate fuppone la par ticipazione
dell'idee, combattuta nella prima parte ; conſidera quindi la grandezza , e la
piccolezza, come due ſpecie ſeparate , tra ( 95 ) tra loro contrarie ; ben a
cid s'avverta , perchè in queſto conſiſte la deſtrezza del Filoſofo , e la
forza del ſuo ragionamento , S. 23 2 os' Se l'uno e , egli non è ně eguale , nè
maggiore , në mi nore degli altri enti . Sia l'ente minore degli altri enti ,
egli dunque participerà dell ' idea della piccolezza , la qual è contraria alla
ſpecie della gran dezza . Si concepiſca, che la piccolezza ſia nell' uno , o
farà in tutto l'uno , o in alcuna parte di eſso ; fe in tutto l' uno ,
eftenderà per l'intiero uno tutto al di dentro , che vuol dire lo compenetrerà
con la ſua ſoſtanza , o l'abbraccierà con eſtremi li. miti al di fuori, che
vuol dire lo comprenderà ; ma ſe la picco lezza s'eſtende al di dentro di tutto
l' uno gli è eguale " , e fe lo comprende gli è maggiore , onde la
piccolezza ſarebbe nello ſteſ ſo tempo grande, ed eguale contro l'idea di lei .
Se la piccolezza è una parte dell'uno , ne ſeguirà , che ella lia di nuovo in
tutta la parte , o al di fuori , o ál di dentro quindi che ella fia eguale , o
maggiore per le coſe dimoſtrare ; dunque non potendo eſser la piccolezza , nè
in tutto l' uno , nè in parte dell'uno , non ſarà nell'uno , onde l'uno non
farà pic colo, o minore degli altri enti . Corol. In alcuno degli enti per la
ſteſsa ragione non po irà ritrovarſi la piccolezza, onde in queſta ipoteſi non
v'è al tra cofa piccola , che la piccolezza ftetsa , ma dove non v'è il piccolo
, non v'è neppur il grande, perchè l' uno non è che per riſpetto all'altro ;
dunque non vi faranno coſe grandi , trartone la grandezza , e quindi I uno , e
altre coſe ſaranno prive di grandezza , e di piccolezza. e S. 24. Se l'uno è ,
le altre coſe non ſono di eſso nè maggiori, nè minori, nè eguali . Le altre
coſe aſsolutamente parlando ſono prive di grandezza, e di piccolezza , dunque,
rifpetto alla uno , non fono nè piccole, ne grandi , e per la ſteſsa ragione ,
l'uno non è nè maggiore , nè minore dell'altre coſe , eſsendo privo di
grandezza , e dipiccolezza . 5.125 . ( 26 ) S. 25. Se è l'uno egli farà eguale
a ſe ſteſſo , ed all'altre coſe . Non è maggiore , nè minore dell'altre coſe ,
ma ſe l'uno non è , nè maggiore , nè minore dell' altre coſe , egli per la
forza dell'eſcluſione ſarà eguale . §. 26. Se l'uno è , egli è eguale a ſe
ſteſſo , ed all'altre coſe. Non avendo in sè, nè grandezza , nè piccolezza , nè
eccede rà ſe ſteſſo , nè da ſe ſteſo farà ecceduto , dunque farà eguale a ſe
ſteſſo . S. 27 . L'uno è maggiore , e minore di fe ſteſſo . Egli è in ſeſteſſo
, dunque li comprende ; dunque èmag giore di ſe ſtello ; eſſendo in ſe ſteſſo,
egli è da ſe ſteſſo com preſo , dunque è minore ; dunque è maggiore, e minore
di ſe ſteffo . S. 28, Se l'uno è , le altre coſe ſono maggiori , minori ed
eguali all' uno . Null'altro v'è , che l'uno , e l'altre coſe , non dandoſi mez
zo , ( $ . 12. Sez. 2. ) Quel che è in una coſa è minore di eſſa ( S. 10.
Sezione 2. ) e ciò che la contiene è maggiore ; dun que , poi che ogni coſa è
in un luogo , ( . 12. Sezione 2. ) e che altro non v'è che l' uno , è l' altre
coſe neceſſariamente ſono nell' uno , o l' uno nell'altre coſe ; ma ſe l' uno è
nell' altre coſe , queſte ſono maggiori dell' uno , perchè lo conten gono ;
l'uno è minore, perchè è contenuto ; dunque l'altre co le ſono maggiori , e -
minori dell’uno : ma s'è dimoſtrato , che l' uno non eſſendo nè maggiore , nè
minore dell' altre coſe, all' al tre coſe farà eguale ( §. 24. Sez. 3.) Dunque
egli è eguale , mag giore , minore dell'altre coſe. Corol. Egli dunque può
eſſere di miſure eguali , maggiori, e minori , riſpetto a sè, ed all' altre
coſe. Quindi Ha 1 1 ! ( 97 ) Ha più miſure riſpetto alle coſe delle quali è
maggiore , me no miſure riſpetto a quelle delle quali è minore , e pari miſu re
riſpetto a quelle delle quali egli è eguale . 6. 29. 9 Paſſa a dimoſtrare
Parmenide , che ſe l'uno è , egli è parce cipe del tempo , ed è , e ſi fa più
giovane , e più vecchio di ſe fteſto , e degli altri , ed in contrario , e che
non è , nè ſi fa nè più giovane, nè più vecchio di ſe ſtello , e degli altri
par cicipanti il tempo . Per intendere adequatamente queſte propoſizioni, in
cui s'af follano varj principi i biſogna prima ripaffare ciò che fi diſle nel ſ
. 3. Sez. 3. 9. 27. Sez. 2. ove fi dimoſtrò . 1. Che chi partecipa dell'
eſſenza , partecipa delle differenze del tempo . 2. Che cið che ſi fa più
vecchio di ſe ſteſſo , e dell'altre coſe, nel farſi più vecchio , li fa più
giovane, e cið per eguali parti di tempo, ag giunte agli ineguali, il che
abbiamo dimoſtrato coll' eſempio delle ragioni di e diſucceſſivamente
accreſciute di 1. comparando percið le ragioni di į , e di abbiam veduto , che
i loro va Iori i ti, eit ! + divengono ſempre minori . Altreſuppoſizioniegli fa
ne' ſeguenti argomenti. 1. Il tempo è un fluſſo , da cui ſi fa progreſſo dal
pallaco al preſente, e dal pre Tente al futuro , e dall'era all'è , è dall' è
al ſarà . 2. Che una coſa che'ſi fa paſſa dal preſente ove è , nel futuro ove
ſarà , e perciò nel farli è di mezzo cra l'uno , e l'altro , onde propria mente
ciò che è nell' inftante , non ſi fa , ma è quello che è , o , come l'eſprime
Platone , una coſa che ha fatto acquiſto del preſente cella di farſi , od è ciò
che allora convien che fi faccia . 3. Il preſente è ſempre unito all'uno ,
perchè è ſempre unito all' ente, dal qual l'uno è inſeparabile . 4. Il diverſo
, o l'idea del diverſo è la ſtella coſa ſecondo i principi di Socra te , e percid
è ſempre uno, onde quello che non è uno , non può eſer il diverſo , o l'idea
del diverſo, onde le coſe diverſe dall' uno , o che partecipano il diverſo,
ſono più che l'uno , o hanno in sè moltitudine , e in conſeguenza numero o più
. 5. Delle più ſono prima le poche , che le molte , e delle poche prima il
pochiſſimo. 6. La coſa che prima li fa è la prima , e le dipoi ſono più giovani
delle già fatte innanzi . 7. E' impof fibile', che una coſa ſi faccia oltre la
natura , onde in una co ſa che ha principio , mezzo , e fine , prima li fa il
principio , indi il mezzo, e poi il fine , che vuol dire , il fine ti fa i'ulti
mo. 8. Quel che ſi fa ultimo è più giovane di quel che fi fa Tomo II. il a e ce
I 21 S: i n ( 98 ) il primo . 9. Chi ſi fa con tutte le parti infieme d'un
tutto ,, fi fa nello ſteſſo tempo inſieme col cutto .. 1 1 ſ. 30. Se l'uno è ,
egli è , e ſi fa , e non è , nè ſi fa più vecchio , e più giovane di ſe ſteſſo
. Se l' uno è participando l'eſſenza , participa del tempo ( $. 3. Sez. 3. ) ma
quel che è in tempo , è in un fluſſo continuo o pal ſa dal paſſato al preſente,
o dal preſente al futuro ( S. 28. Sez: 3.) Dunque l'uno e continuamente in
queſto paſſaggio . In quanto paſſadall'era all' è fi fa più vecchio di sè ;ma
nel farſi più vec chio , ſi fa più giovane ( S. 26. Sez. 2. ) Dunque ſi fa più
vec chio , e più giovane di ſe ſteſſo . Chi non oltrepaſſa il preſente , nel
far progreſſo dal paſſato , nell'avvenire non ſi fa , ma è ciò che è ( $.22.
Sez . 4. ) Dunque quando l ' uno tocca primieramente il preſente , non ſi fa
allo ra vecchio , ma è vecchio oggimai, Nel toccar il preſente , co me ha prima
di lui fatto acquiſto , cefla di farli , od è ancora ciò che avvien che ſi
faccia i $. 28.Sez. 3.) Dunque l'uno , quan do fatto vecchio conſeguiſce il
preſence , cella di farſi , od è allora più vecchio di ſe ſteſſo , di ciò che
era toccando il pal fato ; ma l'uno è di quello più vecchio , onde fi faceva
vec chio ; e facevali di ſe ſteſſo , ed il più vecchio è più vecchio del
giovane ; dunque allora l' uno è più giovane di ſe ſteſſo quando fatto vecchio
conſeguiſce il preſente , ma il preſente è fempre unito all'uno ; dunque l'uno,
ed è ſempre, e li fa più vecchio , e più giovane di ſe ſteſſo ; ma facendoſi
tale , od ef ſendo in tempo pari ritiene la ſteſſa età , e chi ritiene la ftel
fa età , non è più vecchio , nè più giovane ; dunque l'uno eſ ſendo , e
facendoli in tempo , non è più vecchio , nè più gio vane di ſe ſteſſo . g . 31
. Se l'uno è , egli è più vecchio dell'altre coſe , o l'altre coſe più giovani
di lui . Nelle coſe diverſe , che hanno in sè moltitudine o numero , altre ſon
fatte prima , altre dappoi ; ma il primo che ſi fa è pochifiimo, ( 9. 26. Sez.
3. ) e nei numeri l'uno è pochiſſimo , dunque l'uno è facco inanzi alle coſe
che hanno numero , o che fono . 1 ( 99 ) fono diverſe dall'uno , o ſono gli
altri ; ma il primo che ſi fa è più vecchio , le coſe che dipoi ſi fanno , ſono
più giovani ; dunque l'uno è più vecchio dell'alcre coſe , e l'altre coſe più
giovani. g . 32. Se l'uno è , egli è più giovane dell' altre coſe , e le altre
coſe più vecchie dell' uno . L'uno non può farſi oltre la natura fua ( .9 .,26.
Sez: 3. ) Dun que avendo parti, o principio , o mezzo, o fine, ſi fa ſecondo la
natura del principio , del mezzo , e del fine , ma il princi pio fi fa il primo
, è il fine ſi fa l'ultimo , ma l' ultimo fatto e più giovane dell' altre coſe
, e l' altre coſe più vecchie dell' uno ( $. 26. Sez. 3. ) ; dunque l'uno è più
giovane degli altri , e gli altri dell'uno . $. 33. Se l'uno è , egli non è più
vecchio , nè più giovane dell' altre coſe.. Ogni parte dell' uno è una ; ogni
parte del mezzo è una , ed uno è parimente il fine, od il tutto , onde fi farà
l'uno , é colla prima coſa che fi fa , ed infieme colla ſeconda, colla ter za
ec. onde percorrendo ſin all'eſtremo fi farà un tutto , o 1 uno non eſcluſo
nella generazione dal mezzo , non dall' eftre mo , non dal primo, non da altro
; ma ſe l'uno ſi fa inſieme con tutte le parti d' un tutto ha la ſteſfa età con
tutti gli al tri ; dunque ſe non è nato oltre la propria natura , non è fac to
prima nè dopo l'altre coſe , ma inſieme e fecondo queſta ragione non è più
vecchio , o più giovane degli altri , nè gli altri dell' uno . ſ. 34. Se l' uno
è , egli ſi fa più giovane, più vecchio di ſe ſteſſo . Se alcuna coſa foſſe più
vecchia d' altra , li farebbe ancora più vecchia di ſe ſteffa : A ſia più
vecchio di B , nel creſcerfi gli anni ad A , egli & fa più vecchio di fe
fteffo , e di B ; dun n 2 que ( 100 ) | 1 que l'uno nel farſi più vecchio dell'
altre coſe ſi fa ancora più vecchio di sè ; manel farſi più vecchio , ſi fa
ancora più gio vane per la ſteſſa ragione , che creſcendo tempi eguali, la ra
gione decreſce ( 5.27. Sez. 2. ) Dunque l'uno li fa più giovane di ſe ſteſſo ,
ma s'era dimoſtrato , che ſi faceva più vecchio ( S. 30. Sezione 3. ) Dunque ſi
fa più giovane , e più vecchio di ſe Iteffo . 1 f. 35 . Se l'uno è , egli non
può farſi , nè più vecchio, nè più giovane dell'alere coſe . Ciò che fi fa più
vecchio d'un altro , o più giovane, ſi fa più vecchio , e più giovane ancora
riguardo a sè ( 1.37. Sez. 3.) ma l' uno non ſi fa , ma è , e più giovane , e
più vecchio ri guardo a sè ; dunque non ſi fa , nè più giovane , nè più vec
chio riguardo agli altri. Se l'uno è più vecchio , che le altre coſe , ha più
lungo tem po dell'altre coſe, ma creſcendoſi il tempo, egli ſempre eccede meno,
onde ſi fa più giovane riſpetto alle coſe, delle quali era innanzi più vecchio
; ma ſe egli ſi fa più giovane , quell' altre coſe ſi faranno più vecchie ;
dunque le coſe che erano innanzi , e più giovani dell'uno , ſi fanno dell' uno
più vecchie , cinè fi fanno più vecchie , riſpetto a quello che era più vecchio
; ma le coſe più vecchie non ſono , ma fi fanno ſempre , perchè la fanno più
vecchie , mentre l'uno ſi fa più giovane ; dunque le coſe ſi fanno ſempre più
vecchie dell'uno . Le coſe poi più vec chie , parimente ſi fanno più giovani
dell' uno più giovane perchè l'uno , e l'altre coſe movendoli in contrario G
fanno vi cendevolmente contrarie , cioè le coſe più giovani dell'uno , ſi fanno
più vecchie dell'uno che è vecchio , ed all'incontro l'una più vecchio , li fa
più giovane delle coſe più giovani ;, ma non, è poffibile che l' uno , e l'
altre coſe fieno fatte nè più giova ni , nè più vecchie, perchè le cali foſſero
, non più li farebbo no ; dunque le coſe , e l'uno tra loro ſi fanno più
vecchie , e più giovani: l'uno li fa più giovane delle cofe , per quello che
parve eſſer più vecchio , e prima fatto , l'altre coſe poi fi fanno più vecchie
, per quello che ſono ſtate fatte dopo , e ſecondo la ſella ragione : l'altre
coſe ancora ſe ne ſtanno riſpettivamente alla uno , come quelle che ſono ſtate
più vecchie , e prima dell'uno . Dunque inquanto che nè l' uno , nè gli altri
fi fanno , diſtan do 1 ( 101 ) $ do ſempre tra loro di un numero pari, non ſi
farà nè l'uno più vecchio degli altri , nè gli altri dell' uno . Ma come
decreſce ſempre la ragione dei tempi , o con minor particella ſempre tra loro
differiſcono le coſe prime dall' ultime , e l'ultime dalle prime , così è
neceſſario che l' altre coſe ſi facciano , e più vecchie più giovani dell'uno ,
e l'uno dell'altre coſe . Quinci aggruppando in uno tutte le propoſizioni,
abbiamo di. moſtrato , che l'uno è , e li fa più vecchio , e più giovane degli
altri, e di nuovo non è più vecchio , nè più giovane di ſe ſteſſo e degli altri
. Corol. Perchè l' uno è partecipe del tempo , o ſi fa più vec chio , e più
giovane , egli è partecipe del quando, del futuro , e del preſente . Dunque era
l'uno, ed è , e ſarà , e ſi faceva , e fi fa , e li farà , e ſarà ancora alcuna
coſa in lui , e di lui , ed è , ed era , e farà . COROL. 2. Perchè la ſcienza ,
l'opinione , il ſenſo , la defini zione , il nome , riguardando le coſe che
ſono nelle differenze dei tempi , in quanto l'uno è capace di queſte differenze
, è ancora fog getto di ſcienza , d'opinione , di fenſo , può definirli, e può
no. minarſi . Annot. Qui Parmenide non dà ſcienza, e definizione, ſe non delle
coſe ſoggette al tempo , il che biſogna accordare con ciò che diſke ( 9.16. Sez.
1. ) La ſcienza che appreſſo noi è ſcienza del le verità , che ſono a noi
dintorno . 9. 36. Riſtringiamo adeſſo in poco , quanto Platone ha propoſto
nella propoſizione condizionale, o ſia nell'ipoteſi ſe l'uno è . 1. Diftin le
colla mente i due concetti dell'uno , e dell'ence ., 2. Ne com poſe un tutto
intellectuale di due parti, o dei due concetçi dell' uno , e dell'ente. 3. Tra
loro paragonandoli ne deduſſe il terzo concetto del diverlo . 4. Conclure che
nell' uno o è una moltitu dine infinita di numeri , che dividono l' uno a
proporzione dell' ente. 5. Che l'uno è tutto , e parte, e finiso , e infinito .
6. Da ciò che è un tutto finito , conſiderò in effo il principio , il mez-, 2o
, il fine , e quindi la figura . 7. Da ciò che è un turto , e che il tutto è
nel tutto , conclure che l'uno è nell' uno , ed in fe ftel 1o . 8. Da ciò che
l'uno è comeparte nel tutto , conclure che è in altrui . 9. Che ſta , e ripoſa
, ſe egli è in ſe ſteſſo . 10. Che ſi mo ve , le è in altrui . 11. Che è ſimile
a sè in quanto l'uno , è lo ſteſſo che l'uno . 12. Simile agli altri , perchè
paciſce d' eſſere co me gli altri . 13. Che è diffimile in quanto cert'uno , e
certo ente . 14. ( 102 ) 14. Che è lo ſteſſo , poichè ekſte, ed eſiſtono
glialtrienti nello ſteſſo tempo . 15. Che è diverſo , in quanto non ha in sè
ciò che hanno gli altri enti. 16. Quindi fimile , e diffimile , perchè patiſce
le ſteſſe cofe . 17. Che è maggiore , minore, ed ineguale , e non maggio re ,
minore, nè eguale dell'altre coſe . 18. Che è , e ſi fa più gio vane, e più
vecchio di ſe ſteſſo , e dell'altre coſe , e non è , e non fi fa , nè più
vecchio , nè più giovane dell'altre coſe , e l'altre co fe di lui . 19.
Finalmente, che dell'uno in quanto è li ha ſcienza ,, ſenſo , opinione , e può
denominarſi , e definirſi. Si potrebbe più compendioſamente ridur in poco
l'argomento di Parmenide, conſiderando che reciproche ſono queſte due pro
polizioni : l'unoid , è l ' uno , per il che ſi può predicar dell'ente ciò che
ſi predica dell' uno, e dell' uno ciò che ſi predica dell' en per ragione dei
diverſi concetti formali, predicandoſi dell' ente , la parte , il finito ,
l'infinito , il principio , il mezzo , il fine , la figura , lo ſteſſo , il
diverſo , la quiete , il mo to , il limile , il diſſimile , e il maggiore ,
l'eguale , il minore, it giovane , il vecchio ec. cutti queſti
predicaricompereranno pari mente all'uno . Ben ſi vede , che qui non ſi parla
che dell' en te corporeo , e degli enti particolari , a cui or compete una co
fa , ed or un'altra. il tutto , S. 37: Ma perchè i predicati oppoſti, come il
fimile , il diffimile, it maggiore , e il minore non poſſono competere nel
tempo ſteſſo all' uno , ed all'ente ſenza contraddizione , Parmenide moſtra che
queſti attributi contrari non gli competono nello ſteſſo tem po , ma in diverſi
tempi ; tal è la natura di ogni ente finito : gli attributi, imodi, le
relazioni, delle quali è capace, non hanno luo go in lui, che ſucceſſivamente a
differenza dell'ente infinito , in cui tutte le perfezioni poſſibili , che attribuir
gli ſi poſſono , .ftan no in lui tutte inſieme , onde non male con due parole
molto energiche , ſebben barbare , ſi chiamò Dio dal Bulfingero , omni tudo
compoſibilitatis . Gli Scolaſtici lo chiamarono atto puro , cioè atto ſenza
alcuna miſtura di potenza , e quindi diametralmen te oppoſto alla materia che è
pura potenza , e talmente pura, che al cuni degli ſcolaſtici la ſpogliano
dell'atto entitativo , edell'eſiſtenza . $. 38 ( 103 ) go 38. Se l'uno è ; egli
prende diverfi ſtati ſecondo le :: differenza dei tempi . Nel tempo ſteſſo non
ſi può participare , e non participare dell'eſſenza , e delle coſe che
conſeguono al non participarla , ed al participarla ; or il farli è renderſi
partecipe dell' ellenza ; il rovinarli e privarſi dell' effenza ; dunque l'uno
non può ne! tempo ſteſſo , e prender , c laſciar l'eſſenza . Dunque la pren de
, e la laſcia in diverſi tempi , Quando ſi fa uno , egli perde l' eſfer molte
coſe ; quando ſi fa molte coſe ceffa d'effer uno; nel farfi uno , e molte , li
fepara , e fi congiunge , qualora ſi fa ſimile , e diffimile , ſi affimiglia ,
e diffimiglia ; quando ſi fa maggiore, minore , ed eguale , creſce , decreſce,
e li pareggia ; quallora movendoſi fi ferma, e quallo ra fermandoſi li move .
Or tutte queſte coſe , eſſendo tra loro contrarie , l ' uno non può averle nel
tempo ſteſſo , dunque l'ha in tempi diverfi . 9 . 39 Non fi pud paſſar dalla
quiete al moto , e dal møto alla quie te , ſenza cangiamento di itato . Un
corpo che cangia fuccelli vamente la relazione di diſtanza , che egli ha ad
altri corpi vi cini , ha uno ſtato diverſo da quello d'un corpo , che conſerya
ſempre a ' corpi vicini la ſteſſa diſtanza. Queſto cangiamento di uno ſtato
all' altro ſi fa in tempo ; ma conſidera Platone, che nel paſſaggio dal moto
alla quiete, e dalla quiere al moro, v'è un non so che d'improvviſo , e di
momentaneo , che ſi conce piſce nell'iſtante del paſſaggio , e non più
appartiene al moto , che alla quiete ; non al moto , perchè la coſa ſi
concepirebbe ancora in ripoſo ; non al ripoſo , perchè la coſa fi concepiſce
ancora in moto , Conclude dunque Placone , che queſta natu ra improvviſa è
quaſi ſconvenevole tra il moto , e la quiete ; che ella non è in verun tempo ,
e a queſta da queſta paſſan do fi muta nello ftato ciò che li move, e nel moto
ciò che ſi ri pola . 8. 40. ( 104 ) .. § . 40. Se l'uno è , nell'atto che
cangia ſtato , non gli competono più i predicati dell'ente . Nel paſsar l'uno
dal moto alla quiete fi muta momentaneamen te , e all'improvviſo , o mutandoli
egli non è in alcun tempo ; dunque non ſta nè fi move . Così quando paſsa
dall'eſsere alla ro vina, o dal non eſsere al farſi , non è , nè ſi fa , nè fi
diſtrugge . Parimente quando paſsa dall' uno in molti , e da molti in uno, non
è , nè uno, nè molti , nè ſi congiunge , nè fi ſcongiunge , e paf fando dal
ſimile al diſſimile , od al contrario , non è , nè affimi gliato , nè
diſlimigliato , e paſsando dal piccolo al grande , ed all' eguale non creſce ,
nè decreſce , nè ſi pareggia. Annot. Da queſta dottrina ſebben metaforicamente
da ' Plato ne eſpreſsa , imparò Ariſtotele ad introdurre tra i principj delle
generazioni, la privazione mal a propoſito ſchernità da coloro , che non ne
inteſero nè la forza , nè l'uſo . Quando una coſa ha perdute tutte le
diſpoſizioni o determinazioni, che la rendevano tale , ella ceſsa d' eſsere la
tal coſa , cioè reſta priva di tutto ciò che la coſtituiva , e diſtingueva
dall'altre coſe , ma nell'atto ſteſ fo , in cui ceſsa d'eſsere quel che era ,
comincia ad eſsere ciò che non era , o paſsa dalla privazione alla forma
contraria ; queſto ſtato di mezzo che è tra la forma , e la non forma, Platone
chia ma natura mirabile , e momentanea , ed è certo , che ella nel fifa far i
gradi della noſtra cognizione ci moſtra quelli della natura che non opera mai
per falti. Nel Timeo dice : Dovendo eſer l'ef figie delle coſe diſtinta da ogni
verità di forma , non fia mai prepa rato quel medeſimo grembo di tal
formazione, ſe egli non farà informe di tutte quelle ſpecie , le quali è per
ricever da qualche parte , percid che ſe egli faravvi alcuna di quelle coſe che
in sé riceve fimiglianza , quando riceverà una natura contraria di quella di
cui è ſimile , ovve ro un' altra , affatto malagevolmente la ſimiglianza , e
l'effigie di quel la eſprimerà quando moſtrerà la ſua, però egli è convenevole
, che di tutte le ſpecie ſia privo quello che ha in sè da ricevere tutti i
generi . Siccomequelli che hanno da fare unguenti odoriferi, l'umida materia ,
la quale vogliono di certo odore condire , di tal guiſa preparano , che * ella
non abbia alcun proprio odore . E coloro che vogliono in materie molli
imprimerealcune figure, niuna figura affatto laſciano primiera mente apparire
in quella , ma quelle cercano in prima di render qan to poſibil fia polite .
Ciò ſi rende ſenſibile nelle quantità algebraiche poſitive , e ne gative ,
nelle quali non ſi paſsa dall'une all'altre ſenza paſsar per 1 1 1 il ( 105. )
o il zero , che non è nè negativo , ne poſitivo , ed è il vero fim bolo della
privazione. Nella Geometria il punto matematico equi vale al zero , che è il
principio negativo dell'eſtenſione , e dal quale fi comincia la miſura , come
l'unità è il principio poſitivo , per cui fi comincia la ſteſſa miſura . Il
punto è comune alla linea , che ceſsa per eſempio di eſsere alla ſiniſtra , e
comincia ad eſsere alla deſtra , o che termina d' eſser in alto , e comincia ad
eſser a baſso ; così egli non è deſtro , nè finiſtro , nè alto , nè baſso . Tut
te queſte ſono eſpreſſioni utiliNime, e ſebben noicele rappreſen ciamo per
fpecie aliene , come il niente , o l' impoflibile, tuttavia molto fervono a
reggere i noſtri ragionamenti. L'origine, e la natura del calcolo delle fuſioni
dipende dall'uſo della natura momentanea , ed ammirabile di Platone . In queſto
calcolo non ſi cercano , ſecondo il Newtono , le quantità infinita mente
piccole , chemainon poſsono determinarſi,ma la ragione del le quantità
naſcenti, od evaneſcenti, cioè di quelle , le cui fuffio ni, o velocità nel
naſcere, o nel ſvanire equivagliono al zero , il qual ſimboleggia il termine
del ripoſo , e il principio del moto il termine del moto , ed il principio del
ripoſo . Sieno nel preſen te momento le fluenti quantità y, x ; nel momento
ſeguente di verranno ſecondo l' eſpreſſione Newtoniana y toy , ed xtoy, ove o y
, od ox eſprimono i momenti delle velocità . Softituite queſte eſpreſſioni in
un'equazione propoſta, per eſempio in quel la della parabola yy. =ax , quefta
fi caogierà nell' equazione . yy + 2 oyy tooyy = oaxtoax o cancellando gli
eguali 2oyy tooyy = oax , e cancellando il comune o 2 yyt oyy = ax Sin che la
quantità efpreſsa per o reſta finita , non può mai de terminarli la ragione
delle quantità che fluivano, ma nella ſup poſizione che ella s' annulli , come
nel caſo dell' ultima o della prima velocità delle grandezze , ove o s'eguaglia
a zero , fi ha 2 yy = ax , e ponendo l'equazione in analogia 2 y.a:: x.y
ragione determinata , con cui le qualità cominciano o termic nano di Auire. Il
Newcono ſpiega più a lungo queſte coſe nel ſuo trattato delle Curve, e lo
ſpiega non chiarezza il Ditton nell'inſtituzione delle Auſſioni ; baſta a me
d'averlo quì accennato , per moſtrare che agli antichi non man cavano quell'
idee , che i moderni hanno poi ſviluppato , carat £ erizzandole con canta
utilità delle ſcienze , e delle bell'arri . Tomo II. 5. 41, ( 106 ) S.' 41, 1
Platone preſuppone nel ſeguente argomento , che la partenon è parte nè di molti
, nè di tutti , ma di cert'una idea , e di cert'uno che chiamiamo tutto , ed è
un cutto fatto da tutte le parti , e in sè perfetto , Dalla parola idea lice
argomentare , che qui non fi craica che dei concetti, con cui fi concepiicono i
molti, e il tutto , e le parti . L'idea dei molti è l'idea dei più
aſſolutamente preſi, e com prende egualmente le parti, ed i tutti , dicendoſi
molte, o più parti, molti o più molti. L'idea del tutto è l'idea dell'uno più
riſtretto in un certo numero , o riſtretto in cerci limiti ; idea della parte è
l'idea d'uno incluſo in queſti più già ridoc ti. Non ſi pud quindi
rigoroſamente parlando dire , che la par te ſia parte di molti , perchè
conſiderandoli ſecondo la loro propria idea, non fanno ancora il tutto a cui ha
immediata re lazione la parte , Nel dir dunque Platone , che la parte non è
parte di mol ti , allude ai modi , o ai più vagamente preli , e nel dir che la
parte è parte del tutto , allude ai più riſtretti ; ne' più , come s'accennd ,
vi ſono incluſe indifferentemente le parti , ei tutti, onde ſe la parte foſſe
parte dei più , potrebbe eſſer parte di ſe Iteffa . Aggiunge Platone , che ogni
parte non è parte di qualun que uno ma d'un cert' uno , cioè di un certo tutto
. La par te del triangolo non è la parte del quadrato , nè un ſoldato che è una
parce d' un eſercito , è parte di una proceſſione di Frati . Il tutto poi che è
fatto di tutte le parti , o a cui non man ca alcuna parte, è perfetto . , Si
oſſervi in oltre eſſer lo ſteſſo , il dir molti, o più d'uno ; che ogni coſa
quindi o è uno , o più , cioè molci ; che una parte dell' eſtenlione cratca
fuori di efla , o feparata da eſſa , eſſendo fteſa , contiene più, e ſe dinuovo
ſi ſepa ra in due , una di queſte parti eſſendo di nuovo fteſa , ritiene ipiù .
In altri termini ciò vuol dire, che non v'è parte dell'eſtenſione che non ſia
diviſibile all'infinito, e come la prima divifione fi fa per 2 , ed indi per 2
i Pittagorici aſſegnavano il 2 , come il fim bolo dell'infinito . Prima che una
parte fi ſeparaſſe da una certa eſtenſione , ella riteneva il nome di parte ,
ma quando è ſeparata , e che di nuovo ſi divide , ella non è più parte , ma
tutto . Queſti nomi di tutto , e di parte ſono ſempre relativi ; coloro per ciò
che definiſcono l' eſtenſione , ciò che ha parti fuori" di ? par ( 107 )
parti , null' altro dicono ſe non che l' eſtenſione è l'eſtenſione , perchè non
ha parti ſe non ciò che è eſteſo . Molto peggio fan no coloro , che ſuppongono
, che l' eſtenſione eſſendo compoſta di una infinità di parti fteſe , ſia
compoſta d'una infinità di ſo . ſtanze tra loro tutte ſeparate , perchè l'idea
dell'eſtenſione null hache di relativo , e ſuppone la coſa aſſoluta ,' o la
ſoſtanza , su cui la relazione ſi fonda . Il corpo fiſico , e mecanico non ſono
pura eſtenſione , come il geometrico, ; perchè nel corpo fiſico v'è la forza ,
o la for ma, e nel mecanico il peſo , origine delle proprietà , e dei lo ro
fenomeni. . 8. 42. Se l'uno è , le parti in quanto parti ſono parti dell' uno ,
o partecipano dell'uno . Le parti non poſſono eſſer parti di le ſteſſe , nè di
molti ( $. 40. Sezione 3. ) dunque dell' uno, il che è dire , che partecipano
dell' uno . §. 43, Se l'uno è , il tutto in quanto tutto partecipa dell' uno .
Il tutto cui nulla manca delle tre parti è uno ; dunque par tecipa dell'uno .
Corol. Il tutto dunque , e le parti partecipano dell' uno , e ciò ſignifica un
non so che di ſeparato da gli altri , ma eſiſten; te per sè , ſia egli
qualunque coſa. ANNOT. Non par egli, che Parmenide nel dir , che queſt' uno ſia
ſeparato dagli altri , e per sè eſiſtente , alluda all'idee feparatę che ha
combattute nella prima ſeſſione '? Se non vuol ciò dirſi , come contrario alla
profonda Filoſofia d'un sì grande Uomo, non ne liegue egli , che parlando qui
con Socrate , parla bensi col fuo linguaggio , ma nel tempo fteffo incende di
favellare fecondo le attrazioni della mente . 0 2 9.44. ( 108 ) 8. 44. Se l'uno
è , le cofe che partecipano dell' uno fono altra coſa che l'uno . Niuna coſa
può effer alcun uno fuor che lo ſteſſo uno ; dunque ſe le coſe partecipano
dell'uno , che vuol dire , non ſono lo ſtes fo uno , bifogna che fieno un'altra
coſa . COROL. Dunque le coſe che partecipano dell' uno fono de verſe dall'uno .
S. 4.5. Se l' uno è , le coſe che partecipano dell'uno , ſono in moltitudine
infinite . Se le coſe che partecipano l'uno ſono diverſe dall' uno , non ef
fendo uno nè più d'uno non faranno niente ; ma non fon l'uno , dunque più d'ano
, dunque ogni parte d'uno , include in eſſa i più, e queſti altri più , e così
in infinito , dunque le coſe clre parteci pano l'uno , ſono infinite in
moltitudine . COROL. Poichè il più include per fua natura la moltitudine in
finita , ogni parte che d'eſſo ſi tragga fuori con l'intelligenza le ben
piccoliflima rifpetto all'altre , ſarà in moltitudine infinita . ANNOT. Platone
dice da quelle ( cioè dei molti ) trar fuori con r* intelligenza alcuna cofa
piccoliffima . In qual altro modo pud egli meglio indicar l'aſtrazione della
mente .? nel dir Platone , che confiderando la diverſa natura della fpecie
fecondo ſe ſteſſa quanto di lei vediamo, fia egli infinito , e in moltitudine ,
altro non ſignifica con la diverſa natura , ſe non che ogni parte dell'
eftenfione include in sè più , e queſti altri più , e infiniti in . moltitudine
. 1 g. 46. Se l'uno è , la parre in quanto parte è diverſa dell' uno , per chè
l'uno è per sè indiviſibile , e la parte per sè divifibile . 8. 47 ( 109 ) S.
47. Se l'uno è , le parti ſono più che l' uno . Le parti diverſe dell'uno , ſe
non ſono uno , o più d'uno , nulla ſaranno , ma ogni cofa è uno o più ; dunque
ſe le parti diverſe dall uno non ſon uno , ſaranno più che uno . S. 48. Se
l'uno è , le parti che lo partecipano hanno termine tra loro , e riſpetto al
tutto , e il tutto riſpetto alle parti . Ogni parte è una, ogni tutto è uno ;
ſe l'uno e l'altro parte cipa l'uno ; ma quello che è fatto uno ha un termine .
Dunque ec. Corol. All' altre coſe , che all' uno , avviene che partecipan do
dell'uno , e di loro ſteſſe, ſi fanno in loro cert'altra coſa, il che dà loro
il termine , ma la natura loro che include i più , è per eſſenza infinita in
moltitudine; dunque le altre coſe che l'uno tutte ſecondo le particelle loro , ſono
infinite in numero , e par tecipi di termini. g . 49. Se l'uno è , le coſe che
partecipano l'uno , fono fimili, e dil ſimili, ſi movono , e ſi fermano , od
hanno altre paſſioni con trarie , Le altre coſe che l'uno , ſono tutte infinite
, o indefinite , fe condo la loro natura , onde tutte patiſcono lo ſteſſo, ed
aven do cermini , e diverſi termini, patiſcono il diverſo , ma il limi le è
quel che patiſce il ſimile , il diſſimile quel che patiſce il diverſo .
Dunquele coſe , altre che l'uno , ſono ſimili, e diffimi li . Maſe patiſcono le
ſtelle coſe , e diverſe , pariranno anche il moverſi , ed il fermarſi, l'eſſer
maggiori , minori , ed eguali , l' eſſer più vecchie , più giovani ec. e 3. 50
Riepilogando le coſe dette , abbiam dimoſtrato che ſe l'uno che in quanto lo
partecipano ſon d'ello parti. Che il tutto dal le parti riſultante partecipa
pur dell' uno ; che le parti parte cipanti del tutto , è dell' uno ſono
infinite in moltitudine, che han ( 110 ) . hanno termine tra loro , e rifpetto
al tutto, come il tutto l'ha riſpetto alle parci, onde nel patir le coſe ſteſſe
, e diverſe ſono ſimili, e diffimili , ſi moyono, e fi fermano . Paſſa a
confiderar Parmenide nella ſuppoſizione , che sia l'uno , coſa adiviene alle
coſe che non partecipano l'uno . g. 58 . Se l'uno è , e le altre coſe che non
partecipano l'uno, non ſono nè tutto , nè parii , nè fimili, nè diffimili , nè
le ſteſſe nè diverſe, non ſi movono , non fi fermano , non ſi fanno , non ſi
diſtruggono, non ſono , nè maggiori , nè minori , nè eguali , nè vecchie , nè
giovani . Si concepiſca l'uno ſeparato dall'altre coſe , cioè fi concepi ſca
che le altre coſe non lo partecipano , non vi ſaranno mol ti , perchè ognun de
molti è uno ; non vi ſarà numero , o mol titudine ordinata che principia
dall’uno, il quale ſucceſſivamen te li va aggiungendo a ſe ſteſſo , e fa ogni
numero uno nella fua fpecie ; non vi ſarà tutto , che è una moltitudine
riſtretta in uño ; non vi ſaranno parti , ognuna delle quali è uno ordi nata ad
un altro uno ; non vi ſaranno coſe limili, nè diffimi li, nè le ſteſſe , nè
diverſe con l' uno , perchè ſe teneffero in se -ſimigliznza , ediffimiglianza ,
comprenderebbono in sè due ſpecie tra loro contrarie , onde non eſſendo
partecipi di due , nemme no lo ſarebbono di due contrarj ; non poſſono eſſer
quindi le coſe nè ſteſſe, nè diverfe , nè moverſi , nè formarſi , nè diftrug.
gerſi, nè effer maggiori, giovani , e vecchie , perchè eſſendo ſem pre
partecipi di due coſe contrarie ſarebbono partecipi di nu mero . ANNOT. Queſto
è lo ſteſſo che concludere che l' uno traſcen dentale , eſſendo inſeparabile
dall' ente , è lo ſteſſo tor dalle coſe l' uno , che l'ente , od annullarlo .
g. 52. 1 Parmenide ha ultimamente conſiderato , coſa accaderebbe alle coſe, ſe
non vi foſſe l'uno , che per ipoteſi ſtabili . Or cangia ipoteſi, e cerca ,
coſa accaderebbe alle cofe fe non vi foſse l'uno . Queſte due ipoteſi ſembrano
diverſe , ma ricadono poi nello ſteſso , perchè canto è annullar le cote
ſeparando da loro l' uno che è , od eſsere ſi concepiſce , quanto annuliarle
ponendo le co ſe , e negando l'uno . SE ( 111 ) 1 SEZIONE QUARTA. B. I. Uando
per eſempio fi dice grandezza, e non grandezza, QI si dicono due coſe oppoſte ,
e tra loro contrarie , poichè la non grandezza diſtrugge ciò che la grandezza
pone o in natu ra , o nella mente ; le fi fanno quindi le due propoſizioni, la
grandezza è la non grandezza non è , tutte e due ſono nega tive, ma l'una è d'
un ſoggetto finito , e determinato , l'altra d'un ſoggetro infinito , e
indeterminato. La grandezza é il ſog getto di decerminata ſignificazione , la
non grandezza di ſignifica zione indeterminara, perchè non grande è il piccolo
, non grande il punto , non grande l'unità ec. Or il determinato è contrario
all indeterminato ; dunque, come ben oſservò Marſilio Ficino , le due
propoſizioni, la grandezza è , la non grandezza non è , ſono con trarie ,
ſebben l’una , e l'alcra fieno negative . Lo ſteſso debbe dirſi delle due
propoſizioni, l'uno non è , il non uno non è , egeneral mente della
propoſizione A non è ; non A non è : nella pri ma ſi nega ad A l'eſere , nella
ſeconda ad A che fi nega , ga l'effere . Negar ſemplicemente una coſa , e
negare la nega zione, ſono coſe tra loro contrarie . La propoſizione all'incon.
tro A non è , e l'altra non A è , ſono equivalenti , perchè nel la prima di A
fi nega l' eſſere , nella ſeconda fi afferma , che ad A fia negato l' eſſere.
Affermare la negazione è lo ſteſſo che negar la cola ; dunque equivalenti
propoſizioni ſaranno, l'uno non è , il non uno è . E' poi da oſſervarli, che le
negazioni, e pri vazioni ſi conoſcono per le loro realtà oppofte , la cecità
per la vi fione , le tenebre per la luce , non A per A. ſi ne B. 2 . Se l'uno
non è , nel pronunziar la propoſizione ai concepiſce chiaramente e
diſtintamente , che l'uno non fia , o li ha fcien za di ciò che s'eſprime, e
s'eſprime qualche coſa diverſa dall' altra , l'uno è . Le privazioni , e
negazioni ſi concepiſcono chia ramente , e diſtintamente per le loro realtà
oppoſte , dunque il non uno per l' uno ( J. 1. ) ma la propoſizione il non uno
è , è, equivalente all'altra l' uno non è , dunque queſta propoſizione l' uno
non è , fi concepiſce chiaramente e diſtintamente , o li ha ſcienza di lei . La
propoſizione l'uno non è , è diverſa dall' altra , 3 uno ( 112 ) ! $ 1 1 uno è ,
e chiaramente , e diſtintamente ſi concepiſce la loro diver ſità ; dunque nel
dir l' uno non è , ſi concepiſce qualche coſa di diverſo . Platone così lo dice
: eſprime primieramente alcuna coſa che ſi può conoſcere, poſcia differente
dall'altra , colui che dice uno , aggiungendovi l'eſfere, oil non eſſere ,
perciocchè non ſi conoſce meno , ciò che fia quel che ſi dice non ellere, e
come ſia certa co fa differente dall'altra . Corol. Può dunque predicarſi dell'
uno la ſcienza , e la di yerſità . S. 3 . Se non è l'uno, o ſe il non uno è ,
il non uno partecipa delle coſe che di lui ſi predicano , e non le partecipa .
Del non uno è , ſi predica la ſcienza , e la diverſità ( Cor. ant. ) dunque
partecipa di queſte coſe, mapoichè egli non è , non aven do eflenza , non può
participarle , perchè il non ente non ha pro prietà , dunque non le partecipa ;
dunque le partecipa , e non le partecipa . COROL. Così s'eſprime Platone : Il
non ente è partecipe di sé , e d'alcuna coſa , e di queſta , e con queſta , e
di queſta , e di cut te le coſe sì fatte; concioliachè non li direbbe uno , nè
le diverſe coſe dell'uno , ne avrebbe egli alcuna coſa , nè alcuna coſa fi chia
merebbe , ſe non foſſe partecipe di alcuna , nè di queſte altre nondimeno è
impoſſibile che ſia l'uno , ſe egli non é , ma niuna cofa vieta , che non ſia
partecipe di molte coſe, ed è neceſſario ancora ſe è quello l'uno , e non altro
, ma ſe non è , nè l'uno , nè quello non ſarà egli ; non ſi dirà nulla di lui ,
ed il ragionamento farà d'altra cofa , ma ſe fi ſuppone che quello uno non ſia
, è ne ceſſario che ſia partecipe di lui , e di molte altre coſe , . 4 . Se il
non uno è , il non uno è ſimile a ſe ſteſſo , e diffimile all'altre coſe, ed al
contrario . Il non uno convien col non uno , dunque con ſe ſteſſo ; dunque è
ſimile a ſe ſtello . Il non uno è diverſo dall'altre coſe che parte cipano
l'uno , dunque è diffimile dall'altre coſe ; ma il non uno non eſſendo , non
può aver proprietà d'effer ſimile , nè diffimi le , dunque ec. 8. S. 1 ( 113 )
§ . 5 . Se il non uno d , egli è eguale, ed ineguale all' altre coſe , e nel
tempo ſteſo eguale , ed ineguale . Gli eguali ſono fimili nella quantità; ma il
non uno non ha ſimiglianza con l'altre coſe, dunque non ha egualita ; ma ſe
egli non è eguale agli altri, gli altri non ſono eguali a lui , dunque è loro
ineguale ; ma gl' ineguali partecipano dell' ineguaglianza , cioè di grandezza,
edi piccolezza ; dunque l'uno che non è , egli è grande , e piccolo ; ma tra il
grande, e il piccolo ſi frammetter eguale , e chi ha grandezza , e piccolezza ,
pud ancora aver egua glianza; dunque l'uno che non è può participare di queſte
coſe; ma s'è dimoſtrato , che non le partecipa, dunque ec. 5. 6. Se l'uno non è
, ha in certo modo l'eſſere , o s'attri buiſcono a lui coſe che l'hanno.. -.
Nel dire che l'iuno non è , ſi ha ſcienza di cid che ſi dice ; nel dir che è ,
diverſo dall' uno , che è , e dall'alcre coſe ; che è fimile , non fimile ;
diſſimile , non diſſimile dall' altre coſe ; eguale , no eguale, fi profeſſa di
concepire, e di pronunziare il vero , ma eſprimendoſi , e pronunciandoli queſte
coſe a guiſa di enti , all'uno che non è s' attribuiſcono in queſto modo, onde
egli ha in un certo modo l'eſſere . B. 70 Queſta propoſizione : il nulla è
nulla , il nulla non è nulla , equivale a queſte altre due : il non ente è non
' ente ; il non ente non è non ente . La prima di elle è affirmativa, ed iden ,
tica , perchè fi afferma il nulla di ſe ſteſo, la ſeconda è nega tiva , perchè
ſi nega il nulla del nulla , che vuol dir , ſi affer. ma qualche coſa , perche
una negazione diſtruggendo l' altra elleno affermano . Nel dire il non ente ,
non ente , il non en te vien a participare in un certo modo dell effere ,
affine di ef ſer non ente .. Nel dire all'incontro il non ente non è non en te,
il non ente per non eſſere non ente che vuol dir per eſ ſere , vien a
partecipar del non eſſere . Così intendo Platone , Tomo II. P allor ( 114 ) 1
allor che dice : il non ente ad eller non ente ba il legame dei non eſſere , fe
dee non eſſere, come lente tiene nella ſtella guiſa il legame deli eſere ,
perchè ei non ſia non ente , affinchè di nuovo ei fia perfettamente, e non
ſiapartecipe il non ente delléſenza , del non eſſer non ente , ma dell'eſenza
dell'eſer non ente , ſe il non ento fia perfettamente. $ Se l'uno non è , egli
partecipa ; e non partecipa dell' eflenza 1 L'ente è partecipe del non eſſere ,
ed il non .ente dell'eſſe re ( $. 7. Sez. 4. ) ma ſe non è , l'uno é neceffario
che ſia par tecipe del non eſſere , affinchè ei non ſia ; dunque appariſce ,
che l'eſſenza ſia nell' uno , ſe egli non è , e la non effenza ſé egli è .
ANNOT. Tutti queſti ſono ſcherzi metafiſici , per dar luogo alle nozioni
immaginarie , e quindi alle contraddizioni , che mo ſtrano le coſe impoſſibili
; ben deve oſſervarſi , che facilmente con effe fi cade in quel mirabile , che
degenera in puerilità . Platone ſobriamente l' adopra , per dimoſtrare in quali
raffina menti sfumavano le dottrine della ſetta Elearica . 9. 9. Se l'uno non è
, ha mutamento , e in conſeguenza moto , e non ha moto, Šisru ! L'uno parve
ente , e non ente , onde fta così , e non così , dunque fi muta paſſando dall'
eſfér al non effer ; dunque ha moto . Ma fe l'uno non è , non è in alcun luogo
, perchè ogni en té è in qualche luogo, ma non eſſendo mai in luogo non pudo
paſſare da un luogo all'altro , dunque non percid fi move , per che non ſi
traſmuta . . io. ( 115 ) : $ . io . Y Se l'uno non è , non ſi altera , e non
alterandoli ne ſi muta , nè ſi move . L'uno non eſſendo , non può mai verſare
in quello che non è , dunque non alterarſi , poichè ſe l'uno da ſe stello li
alceral fe in alcun luogo , non ſi ragionerebbe più deil' uno , ma di cer ta
altra coſa ; ma ſe non li altera non ſi rivolge in fe fteffo nè fi muta , nè ſi
altera ; dunque ec . ļ $. Se l'uno non è , fta e ſi moồe , e fi altera , Quel
che non ſi move ſe ne ſta in quiete , e ſi ferma que gli che in quiete ne fta ;
dunque l'ano non effendo, comeapo pariſce ſta egli e li move , anzi movendoſi è
neceſſario che ſi alteri, perchè in quanto alcuna coſa ſi move , incanto ſe ne
ſta ella non nello ſteſſo modo , ma altrimenti; dunque l'uno mentre fi move ſi
altera , e nondimeno non movendoſi in niun luogo in niuna guiſa ſi può alterare
; dunque in quanto fi move" , ciò che non è uno ſi altera ; ma in quanto non
ti move , non fi alce ra , dunque l'uno non eſſendo ſi altera , e non ſi altera
. $. 12 Se l'uno non è , egli è diverſo da quel che era prima, non ſi altera ;
non fi fa , non ci muore , e di nuovo ſi fa , emuore . Cid che ſi alcera è
neceſſario che ſi faccia diverſo da quel che era prima , ma quel che non fi
altera , non ſi fa në muore ; dunque l'uno , non eſſendo mentre fi altera , e
ſi fa , e periſce, ma non alterandoſi , non fi fa , nè muore , nè periſce , ed
in do tal guiſa l' uno 'non effendo , li fa , e muore e di nuovo non fi fa , nè
muore . §. 13 : Sin ora ha dimoſtrato Platone , che ſe l' uno non è , egli dà
di sè fcienza, ed ha in sè diverlicà, che è partecipe, e non par tecipe di
altre cole ; quindi lo ſteilo-, e non lo ſteſſo con ſe ſtel р . 2 ( 116 ) ſi
move fteffo , ſimile e diffimile nè ſimile , nè diffimile , eguale , ed
ineguale, non eguale , nè ineguale , partecipe d'eſſenza , e non partecipe , ſi
muta , e non ſi muta e non ſi mo ve , fi altera , e non fi altera , ft fa , c
periſce , e fi fa , e non periſce . Tutte queſte concluſioni derivano dalla
poſizione, l' uno non è ; l'uno eſſendo inſeparabile dall'ente , ſe non v'è
l'uno , nè pur v'è l'ente . OrPente non è , che il poflibile . Annullato dunque
il poſſibile reſta l' impoffibile, da cui ſecondo l' Aflioma ſegue coſa , ex
impoſſibile ſequitur quolibet , perchè nell'idea aſtrat ta dell'impoſſibile
s'includono tutte le contraddizioni . Platone dal conſiderare , che l'uno non
ha eſſenza , e non n'è capace , nega tutte le altre relazioni che pud avere .
Premetto a ciò che quando diciamo, che alcuna coſa non ſia , nel proferire ,
queſto non è , fi fignifica ſemplicemente, che non è al tutto in niun modo , e
non eſſendo in niun modo , non è capace in alcun modo di eſſenza ; dunque non
potrà eſſere il non ente , ne in alcun modo farſi partecipe di eſsenza . §. 14.
Se l'uno non è , non può farſi in alcun modo par tecipe d'eſsenza . Quel che
non è , ſignifica ſemplicemente , che non è al tur 10 , in niun modo , o non è
ſemplicemente capace di eſsenza , dunque fe l'uno non è , non può mai eſser
capace d'eſsenza . . 15 : ne la per Se l'uno non è , non pud farſit , nd
morire. Chi non è partecipe di eſsenza , non la riceve , nè la de . Dunque fe.
L'uno non è , non pud nè ricever , nè acqui ftar l'eſsenza , perchè non n ' è
capace ; dunque non periſce , nè fi fa . $. 16. Se l'uno nonè , non fi altera ,
nè fi move , nè ſe ne ſta , non ha grandezza , nè piccolezza , nè parità, né
limiglianza, e dia , verlin ( 11 ) 3 onde eſsenza , non può aver ne grandezza ,
nèpic marfi. Se verſità riſpetto all' altre coſe , e a ſe ſteſso , nè gli
conviene ale cun altro attributo Se l'uno non è , non ſi altera , perchè fi
farebbe già , je pe rirebbe potendo queſto ; ſe non ſi alcera , nè men fi move,
ſe come non ente , non eſsendo in alcun luogo , non pud ſtar lo ſteſso in
alcuna coſa, nè in alcuna coſa fermarſi. Se non ha nè piccolezza , nè parità,
eſser ſimile, o diverſo , o rifpetto all'altre coſe , o a ſe ſteſso, nè le
altre coſe potranno eſser in lui in alcun modo, gli ſono , nè fimili , nè
diffimili , nèle ſteſse , nè diverſe , nè pud ſtar ſeco , non ha il di lui, o
ciò che ſi dice di alcuna coſa , o queſto , o di queſto , o d'altrui, o ad
altrui , o alcuna volta , o dopo , o al preſente , o ſcienza, o opinione , o ſenſo
, o fer mone, o nome, o qualunque altro degli enti . Annot. Sebben ſi oſserva ,
Platone al non uno toglie tutto quello che ha dato all'uno , conſiderato in ſe
ſteſso nella prima Sezione , argomento evidente, che, quando tutti gli altri
man caſsero, quì non ſi trarca che delle aſtrazioni della mente , fra miſchiate
tallora con le nozioni immaginarie , quali ſono in que fta Sezione , e nel
rimanente . Non ci reſta che l'ultima quiſtione, in cui ſi cerca ſe non è l'uno
, che accada all'altre coſe . SEZIONE QUINTA,. $ . 1 . S'orser Oſservi tolto.
1. Che ciò che è , o è l' uno , o l'altre co ſe • 2. Che ſe queſte non foſsero
( almeno nella noſtra im-. maginazione , o nella noſtra mente ) di loro non ſi
diſputereb be, perchè il nulla non ha proprierà . 3. Che ſe dell' altre li fa
vella, l'altre ſono il diverſo , poichè l'altro , e il diverſo ſono fi nonimi',
onde diciamo altro non eſser l'altro , che l'altro d'al tri , ed efser del
diverſo diverſo , e che per far le coſe altre dalla uno , vi ſi debbe aggiungere
qualche altra coſa , onde fieno per eſser altre , di cui ſaranno altre . 3
Tesni f. 2. ( 118 ) S. 2 .. Se l'uno non è , le coſe altre o diverſe dall'uno ,
non ſono altre. o diverſe , che per ragion di ſe ſteſse .. Nelle coſe altre
dall' uno o diverſe dall'uno , vi's include' qual che altra coſa , per cui
fieno altre , ma queſta coſa non pud ef ſer l'uno , perchè per ipoteſi egli non
v'è. Dunque , poiché non v'è , che l' uno , e l'altre coſe , eſcluſo che altre
coſe non fieno . altre per luno ne liegue che ſieno altre per ſe. ftelse ,
COROL.. Dunque: per ſe ſteſse. ſono ciò che ſono tra se .. , S: 3 Se: l'uno non
v'è , le coſe altre dall' uno ſono tali per una moltitudine infinita . Non v'è
che uno o i più , dunque le coſe altre o diverſe 1 dall’uno , non potendo eſser
altre che l'uno , il quale non v'è per ipoteſi, non ſaranno altre che per i più
, cioè per la mol: titudine ; ma il più , o la moltitudine eſsendo per le
ſteſsa in finita '; le coſe. altre dall uno ,. ſono alore per una: moltitudine
infinita .. COROLLAR . Qualunque mala dunque di loro appariſce in molti-.
tudine infinita, e ſe alcuno ſi prenderà ciò che menomilimo pare co. me. Sogno
, incontinente in vece di quello che pare uno , ſi fa innangi una moltitudine
infinita , e in vece di quella chemenomilimopar ve, apparirebbe grandiſſimo già
, ſe il pareggialli ad altre coſe in die Sparte da lui . Cosi: parla Platone :
fia prefa qualunque parte d'eſtenſione, el la è diviſibile in due , ed inoi in
due , e così all'infinito . Della di viſione di cui è capace il tutto , ſono
capaci reſpettivamente le parti , nè v'è particella si minima, che le noi nell'
ipotefi che non v'è uno , poteſſimo vedere con un microſcopio miracolo fo ,,
non ci pareſse diviſa in una moltitudine infinita di parti , ma tali che nell'
iſtante ſteſso , che noi vedeſſimo la parte , la vedremmo attualmente diviſa in
altre parti infinite , e cosi all'in finito ; non è che io dir voglia , che
vedremmo l'infinito at tuale , perchè non poſſiamo intenderlo , non che vederlo
, nè so come il Leibnizio abbia poruto concepir nella più minima par 1 ( 119 )
parte di ciò che egli chiama 'materia , un numero attualmente infinito di
monadi" ; biſogna prima provare , che noi concepia mo l'infinito attuale -
, ed indi che vi ſieno queſte monadi ; ma ſe vi foſsero , il che io non l'
ammetto , che come principio di co gnizione , e non di natura, in eſse , come
l'eſprime il nome loro , v è un'unità , che è il fondamento di concepir nella
monade innumerabili proprietà ; ma quì nell' eſtenlione Platonica , biſo gna
rappreſentarfi ogni parte deſsa ſeparata dall' uno ; ' v'è in ciò
contraddizione , ma appunto Platone - la ſuppone per de dur dall'aſsurdo i ,
l'impoſſibilità di ſeparar l' uno dall'ente . § . 4. Se non è l'uno in ogni
maſsa apparente apparirà il numero , e le proprietà dei numeri , l'eguale , il
mag giore , il minore. Tolto l' uno dalla maſsa , ci ſi fa come nel ſogno
innanzi una moltitudine infinita , in cui ſe ſi vuol ordinar colla mente la
moltitudine , vi ſi trova il numero ; quindi il pari, e l' impari ; il picciolo
, il grande , il piccioliſſimo , il grandiſſimo., compa rando tra loro le maſse
, in cui s'è diviſa la maſsa maggiore , e quindi l'eguale , perchè non ſi può
paſsar dal maggiore al mino re ſenza paſsar per l'eguale , ma queſti ſaranno
tutti fantasmi d' egualità , di maggiore, di minore, di pari, d'impari ec, come
di numero , §. 5. Se non v'è l' uno , ogni maſsa apparente avendo termine appa
rente , riſpetto all' altra non ha nè principio, nè mezzo , nè fine riſpetto a
fe ftefsa . Si prenda alcuna delle maſse apparenti coll intelligenza , in nanzi
al principio , ſe le fa ſempre innanzi altro principio , e dopo il fine, ſegue
ſempre un altro fine , e nel mezzo altre coſe ſem pre più interne del mezzo , e
ſempre minori , perchè non ſi può ricever in queſta alcun uno , non eſsendo
l'uno . Annot. E ' da oſservarſi, che qui Platone dice , prender alcu na coſa
con l'intelligenza , cioè aſtrattamente conliderarla í vi ag ( 120 ) aggiunge
poi che potendoſi prender la maſsa ſenza l' uno , cioè fenza far aftrazione
dall'uno, ſi sbrana qualunque coſa così pre ſa con l'intelligenza , che è
quanto a dire con la mente fi* di vide in più parti, e queſte in altre , e così
all'infinito . S. 6. Se l'uno non è , preſa qualunque maſſa a chi da lungi la
mira groſſamente par uno, ma chi da preffo l'in tende è un infinito in
moltitudine . Non potendo noi nulla concepir ſenza l' uno a prima viſta , e da
lungi mirato ci par uno , ma da preſſo , e acutamente vedendolo , tolto l'uno,
ci rappreſenciamo infiniti . COROL . Se dunque non v'è l'uno , ma l'altre coſe
dall' uno , qualunque di eſſe è infinita , e con termine ed uno , e molci . Se
non v'è l'uno le altre coſe ci pareranno , e ſimili, e diffi mili , e le ſteſſe
, e le diverſe , e unire , e ſeparate , e moverſi, fermarſi ; nè potendo noi
concepir le coſe ſenza l'uno le ve dremo , come adombrate da lunge, e patir lo
ſteſſo , ed eſſere fimiglianci , mada preſſo molte , e diverſe , e per il
fantasma della diverſità diverſe , e diflimiglianti tra loro ſteſſe e pari mente
ci pareranno le maſſe ſimili, e diffimili , e da loro ſteſ ſe , e tra di sè , e
le ſteſſe , e diverſe tra loro , e che tocchi no, e fieno ſeparate da loro
ſteſſe , e fi movano con tutti i mo ti, e ſi facciano , e periſcano , e nell'
una , e nell' altra manie e tutte le coſe sì fatte che li poſſono dedurre dalle
coſe 7 ra , già dette . S. 7 . Ha dimoſtrato fin ora Parmenide 3 che adiviene
alle coſe ſe non è l' uno , cerca poi che fieno gli altri che non ſon uno . 1 §
. 8. ( 121 ) $. 8. Se non è l'uno, le alere coſe non ſon uno , ne molti . Non
ſono uno , perchè non v'è l' uno ; non ſono molti perchè i molti preſuppongono
l'uno . ital 18. s. Se non v'è l'uno , non vi ſarà nè opinione , nè fantasma ,
ne ſcienza dell'altre coſe. Le altre coſe non hanno alcun concetto con niuna di
quel le che non ſono , nè alcuna di quelle che non ſono è appreſso ad alcuna
dell'altre che ſono ; dunque appreſſo ad altri non v'è opinione, non v'è
fantasma dell'ente , e quindi dell uno ; ma ſe non v'è l'uno , non effendo
poſſibile il penſar a molte coſe fen za r uno , neppur èpoſſibile che ſi penſi
che fieno uno , o mol ti le coſe . . 10 . Se non vè l' uno , le coſe non fono
nè fimili , nè diffi mili , nè le ſteſſe , nè diverſe , nè ſi toccano , ne
& ſeparano Non ſi poſſono concepir le coſe ſenza l'uno ; dunque ſe non vi è
l'uno , non ſi poſſono concepire , nè ſimili , nè diffimili nè le fteffe , nè
diverſe , nè unite, nd ſeparate . COROL. Dunque ſe non v' è l' uno nulla v'è ,
onde o ſia l' uno , o non fia , ed egli e l'altre coſe ancora ſono , e non ſo
no ad ogni modo riſpetto a fe ftelle , e tra di loro , e appajo no , e non
appajono . II . Riftringendo in poco tutto ciò che negli ultimi paragrafi s'è
eſpoſto , egli è manifefto , che l' uno efiendo inſeparabile dall' ente, ove non
v'è più uno , non v'è più d'ente , cioè v'è nul. la , ol'impoſſibile", da
cui ſeguono tutti i contraddittorj, qual Tomo II. q Pla ( 122 ) Platone ci
eſpoſe per via di nozioni affatto immaginarie ; egli ne fa veder i uſo , e
moſtra nel tempo ſteſſo , quanto la fan taſia ſia diverſa dall' intelletto ,
poichè ella ci rappreſenta una coſa , mentre la mente ragionando ce ne fa
concepire un'altra . Si conclude dunque , che Placone in queſto Dialogo non fi
af fiffa che a moſtrar ſuſo dell'aſtrazioni della mente , nell' inve ſtigazione
dell' idee . 1. Con le negazioni, come fece nel primo capo. 2. Con le analogie
dell'altre idee aſtratte; finalmente con le cognizioni dell' idee , del ſenſo ,
della fantaſia , combinate a quelle della mente. L E T T E R A ALS I G. ABBATE
SALIER Primo Cuſtode della Biblioteca DEL RE CRISTIANISSIMO . On dubitate che
io ſia mai per dimenticarmi di voi , co N°me alcuni venuti ultimamente di
Francia m' accufaro no da voſtra parte ; troppo m'è rimaſta impreſſa
l'idea della bontà , e gentilezza voftra , troppo è ſtato vivo il piacere e
ſodo il profitto , che io ricavai dalle converſazioni letterarie , che abbiamo
fpeſſo avute inſieme , e tra l'altre su l'opere di Platone ; ce ne porgevano il
motivo le ſaggie rifleſſioni, che leggevaci l'Ab bate Fraguier , or su l'ironia
di Socrate , or ful carattere de'So fifti , or su la Repubblica , ed or su le
Leggi, tutti oggetti delle belle diſſertazioni , che egli diede alla voſtra
Accademia . Solo la Iciò egli intatto il Parmenide , o non aveſſe il tempo , o
la voglia d' applicarſi a ſviluppare un Dialogo , che è il più malagevole di
Platone, o temeſſe dioffendere la ſoavità del ſuo genio con l'idee troppo
auftere , e filoſofiche , delle quali il Dialogo abbonda . Voi ben ſapete, che
per voſtro conſiglio m' applicai a leggerlo con attenzione fin dall'anno 1725.
e ne concepii quel fiſtema, di cui állor vi parlai . Venuto in Italia , e
diftratto da graviſſimi intereſſi dimeſtici , ne interruppi l'eſame già
cominciato, ſebbene negli intervalli io leggeſſi continuamente Platone ; e
l'avrete ve duto nel Sogno del Globo di Venere , che il Signor Conte di Cai lus
v avrà forſe dimoſtrato in lingua Franceſe tradotto . Di tem po intempo io
parlai del Parmenide con gli amici , e mi fi fue gliò il deſiderio di compierne
il ſiſtema da me abbozzato all'occa lione del Platone di Dardi Bembo , che
ſtampali in Venezia , con P aggiunta delle note e degli argomenti del Serano
letteralmente tradotti . Dalla Differtazione preliminare ritrarrete l'idea
generale del la Filoſofia Eleatica così celebre per l'acurezza , e per la
profon dità de' Filoſofi, come la Jonica per la fodezza dell'eſperienze , e
l'Ita ( 124 ) 1 1 ľ Italica per la felice combinazione della Geometria , e
dell'A ſtronomia alla Fiſica. Non è difficile ſcoprire, che la metafiſica do
Ariſtotele è tratta in granparte in queſto Dialogo , in cui Plato ne abbandona
quaſi l' artificio poetico adoprato negli altri , e ſi ſpiega nella maniera più
ſemplice, e più preciſa . Nella prima Sef fione io v'oſſervai i tre fonti delle
allurdità degli argomenti me tafiſici; il principio di contraddizione, il
progreſſo all'infinito , el' annullazione fuppofta di qualche perfezione
divina. GliEleatici , che forſe gli inventarono, riconoſceano i limiti
dell'intelligenza uma na , e pur era queſta la minor parte della Dialectica
loro , la qual vaga va per tutti i lommi generi delle coſe. La quiſtione
dell'origine e della natura dell' idee v'è più che abbozzata , e la riſpoſta
che so crare diede a Parmenide , su la maggior difficolcà dell' idee , è la
ſteſſa che uso il Padre Malebranchio nel medeſimo caſo . Nell'al tre opere s'
accuſa il Commentatore di dar troppo ſpirito al ſuo Filoſofo ; in queſta è
cutto il contrario , poichè per quanto ſi ſpieghi Platone, vi reſta fempre
molto a medicare , e la compa razione del reſto fa ſempre vergogna al commento
. Il Ficino , e il Serano , che aſſegnarono al Dialogo un grado di ſublimità
Teologica non convenevole , l'hanno sfigurato , e colto agli altri il profitto
, che avrebbono potuto ricavare da una ſpe colazione così ben dedocta e
conforta nè punto inteſa dai due Commentatori , i quali preteſero che in queſto
Dialogo chiama to dell'idee , voleſſe Platone diſputare a pro delle feparate ,
quan do egli manifeſtamente le rifiuto , tutto riducendo all' Ontolo gia che è
la più bella , e la più utile parte della metafiſica In molci errori cadè
miſeramente il Carcelio , per averla ab bandonata, eſpregiata ; e non furono
dal Leibnizio , ed indi dal Wolfio ridotti al ſuo vero lume i dogmi filoſofici,
ſe non dopo che effi s' affaticarono a dimoſtrare , le nozioni Ontologiche
eſſer quelle alle quali convien avertire prima d' inoltrarſi nella combinazione
dell'idee, e quindineiſiſtemi. Tutti gli uomini pre veggono gli aſtratti ne'
concreci, pochi hanno la forza di ſepa rarli, pochiſſimi quella di ridurli in
teoria , ed è ſolo riſerva to a' ſommi Filoſofi il farne ſiſtema. Voi molto più
vedete in Platone , che io poſſa eſprimere ; in canto vi prego a conſer varmi
il voſtro affetto , ed eſſer certo che il mio farà ſempre inviolabile. Antonio Schinella Conti. Antonio Conti. Keywords: Corti’s
French letters – Corti’s Scritti Filosofici, Dialoghi Filosofichi, about
whether corpori celesti are inhabited -- l’infinito, self-referential,
recursion, anti-sneak, regress, infinite regress in the analysis of
communication, calcolo finitesimale, calcolo infinitesimale, Enea stoico,
Ottavio Stoico, Cicerone stoico – allegoria dell’Eneide, scudo di Enea, Il
Parmenide di Platone – assiomatico dell’essere – L’essere e. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.
Conti (San Miniato).
Filosofo. Grice: “Conti is a good one – a historian of philosophy, or rather a
philosophical historian – I never know! – his chapter on the Greek embassy that
brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia a Siena e Pisa. Si laurea a
Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo del bello, che define stare fra
il vero e il buono, e li collega come il mezzo tra il principio e fine. Altre
opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore e fede, o i criteri della
filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio, o i tre amori”; “I
discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni città coglie occasione per
un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, a Milano sullo stato, ecc.;
“Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero, o morale e diritto
naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sulla facciata del Duomo
di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armonia delle
cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sulla
relazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private;
“Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi del
tempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordi
nazionali”; “Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima.
Il Messia redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia corona
del rosario. Ai figli del popolo, consigli. Giovanni Duprè o Dell'arte, 2
dialoghi. Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e
dialoghi sulla filosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi
sulla storia della filosofia, accordo della filosofia con la tradizione;
discussione sulla filosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual
mezzo”. Dizionario Biografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista
deve tendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include
giudizj e ragionamenti. 4. Dialettica dell'arte , o dialettica rappre sentativa
. – 5. L'idea è universale , - 6. talchè i parti colari dell'arte non debbono
mai ecclissare o escludere l'uni versalità del concetto ; 7. perché ,
altrimenti , arte bella non c'è . – 8. L ' ordine ideale porge alle immagini
formo sità -- 9. eletta , che manifestasi o per cose straordinarie . 10. o per
l'eccellenza de'modi , o per tutto ciò ad un tem po , ma ſuggendo le
ampollosità . 11. L'ordine ideale si determina ne sezni . 12. onde s' origina
l'armonia de'con trapposti. 13. Armonia dell'ordine ideale con la natura , 14.
legge di corrispondenza e di contrapposto anche in ció. – 15. Armonia col
divino per natura . 16. Conclu . sione. e - CAP. XXVII. Il gusto del Bello ...
19 1. Regola prossima è il gusto . - 2. Sentimento di verità , di bellezza , e
di bene . - 3. Che cosa è il gusto ? . 4. Ana logie del gusto intellettivo col
gusto sensitivo . – 5. Urficj del gusto ; sanità e infermità ; abiti buoni , o
vizinsi . 6 . S'esamina gli ufficj del gusto intellettivo della bellezza . 7.
Effetto del gusto . 8. Il gusto non può mancare a ' veri artisti , e avvertenze
io giudicare il gusto loro dall' opere . 9. Quattro gradi del gusto . - 10.
Aiuto che il gusto del bello riceve dal sentimento logico e dalla morale
coscienza . 11. Stato di sanità o di malattia , cioè buona o rea edu cazione.
12 E empj. 13. Stato d' abiti buoni o vizio . si . 14. Esempj. - 15.
Conclusione. 16. Come si può guarire o correggere il gusto falso . CAP. XXVIII.
Le leggi del gusto ... 1. Argomento . 2. Che cosa presuppone l'esame ch'uno
faccia del proprio gusto, 3. affinchè possa regolarci un gusto buono e
rettificarsi un gusto cattivo , 4. e primiera mente il derivato da falsa
educazione. 5. Studio perciò di buoni esemplari . 6. Esame degli abiti viziosi,
e quanto alla verità – 7. e quanto a ' fini dell'arte . - 8. Il gusto deve 36
454 INDICE DEL VOLUME SECONDO . mostrarci il modo e il quando dell'operare . 9.
Elevazione del sentimento. 10. Verosimiglianza . 11. Esempj. 12. Equazione di
tutti gli elementi dell'arte con l'idea . 13. Gusto de' limiti . 14. Esempj.
15. I limiti massi. mamente ne segni esteriori . 16. Conclusione . CAP. XXIX .
I Pedanti e i Licenziosi .... Pag. 53 1. Argomento . 2. Che sieno i Pedanti e i
Licenziosi . 5. Significato più generale di questi vocaboli . 4. Si gnificato
più proprio e stretto . 5. Errori contrarj e vizj comuni . - 6. La pedanteria
va fuori di natura . 7. Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza . 9. Esempj.
10 . Non comprendono l'universalità i Pedanti . - 11. Esempj. 12. Nė la
comprendono Licenziosi . 13. Esempj. 14. Non hanno vera nobiltà i Pedanti , 15.
e la licenza è ignobilità . - 16. Talchè gli uni e gli altri non consegui scono
fama durevole . CAP 70 . XXX. Estro . Leggi dell'ordine immaginato .. 1.
Argomento . — 2. Immaginazione . Rinnovazione di fan tasmi , 3. e innovazione o
invenzione. 4. Queste per tre modi , spontaneo. pensato , meditato . — 5. Legge
univer sale della fantasia e sede di quella nell'intelletto . 6. Gradi
dell'invenzione immaginativa . Primo ; mutamento di alcune cose percepite . 7.
Secondo ; immagini di cose reali non percepite . Terzo ; novità d'imma.ini fra
percezioni oscure . 8. Quarto ; un ordine di verosimiglianze relativo a un or
dine di cose reali determinato . 9. Quinto ; relativo a no tizie vaghe. 10.
Sesto ; relativo ad astratte generalità. 11. Settimo ; fantasmi di cose
semplici, spirituali , divine. 12. Ultimo ; armonia universale di fantasmi e
loro elevazione . 13. Perché l'estro abbia tal nome. - 14. Origini sue
misteriose. 15. Estro fallace o vuoto , e vero o fecondo . 16. Conclusione .
CAP. XXXI. Armonia interna delle Immagini....... 87 1. Argomento . — 2.
Sceltezza e vita delle immagini , Scel. tezza rispetto all'arti diverse ; 3. e
rispetto ai componi menti speciali d'un' arte ; e rispetto agli argomenti. 4 .
Sceltezza per la qualità e per la quantità . 5. Vita delle immagini , 6. come
le figure d'affetto nell'arte del dire. -7. Unione del sensibile con l'ideale .
Allegoria , e 8 . allegorie speciali , 9. e vizj dell'allegoria . 10. L'im
magine deve ritrarre l'idea intera ; e quindi bisogna imma ginar l'opera
innanzi di farla . - 11. e che rispondano i par ticolari al lutto , 12. e l'e -
trinseco venga dall'intrinseco , e gli accessorj dal principale . 13.
Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti . 15. Relazione specificata
delle immagini co' segni . 16. Conclusione . INDICE DEL VOLUME SECONDO . 455
Cap. XXXII . Armonie di verosimiglianza in generale . Pag. 106 1. Argomento e
legge universale di corrispondenza e di con trapposto , e come si rifletta
nelle immagini dell'arte. 2 . Questa legge apparisce nella qualità, quantità ,
tempo e spa zio . 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura . 5. Esempj
dell'éra nostra , - 6. Drammatica e lirica 7 . Figure di confronto ne'linguaggi.
– 8. Esempi del disegno e della musica . 9. Analogia del corporeo e dello
spiritua le . 10. Loro diversità ; – 11. e contrapposto nella na tura e
nell'arte . 12. Verosimile immaginoso , che differi sce dal reale , benchè gli
somigli. 13. Quello trascende . Poesia e architettura . 14. Scultura , pittura
, musica , e arti ausiliari . - 15. Com'accade ciò . 16. Conclusione . 124 10 ,
e Cap . XXXIII. Armonie con la natura corporea . 1. Argomento. -- 2. Legge
naturale di simetria . 5. Vi sta e udito porgono immediati all'arte bella i
sensibili rap presentati , - 4. Il lalto remotamente, il gusto e l'odorato
indirettamente forniscono all'arte cose immaginabili, salvo la poesia ch'è
universale. -- 5. Legge naturale di simetria ne ' visibili aspetti , - 6. e ne'
suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'arte bella . 8. Simetria di quantità nel
grado. 9. Simetria di quantità nel numero de' suoni , delle cose visibili . 11.
Simetria naturale dello spazio . 12. Simetria nell'arti , quanto a’limiti . 13.
Simetria di limiti anche nell'unione di più cose . — 14. Simetria di luo ghi .
15. Simetria di tempo misuratore , e di tempo rap presentato. - 16. Conclusione
. CAP. XXXIV. Armonie con la natura spirituale .... 1. Gli affetti . 2.
Somiglianza loro ; 3. varietà ; 4 . contrapposto . 5. Personificazione
immaginosa dell'unmo, 6. e della socievolezza ; - 7. che dall'arti non prò mai
scompagnarsi . - 8. Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre
modi . 9. Idem . · 10. Il Materialismo non può spiegarla . 11. Person i
ſicazione immaginosa del soprannaturale ; 12. presa sostanzialmente da simboli
e miti di credenze religiose ; 13. ma trasformate dal . l'estro . 14. La
personificazione , ritraendo l'uomo , ac cenna lo stato degli artisti e de'
tempi loro . Grecia , Roma, 15. Italia ; suo scadimento ; letterature straniere
. . 16 . Anche nell' altre arti avviene lo stesso . 141 Cap. XXXV.
Immaginazioni tragiche e comiche 158 ....... 1. Argomento . 2. Può l'ottimo
essere argomento del l'arte bella ? 3. Può il pessimo ? — 15. Immaginazioni
tragiche e comiche . - 5. Quando mai nasce l'immagina zione tragica più
specialmente ? 6. Quando la comica ? 7. Condizioni dell'una , - 8. e dell'
altra . - 9. La morte immaginata nell'arte , 10. eidolori del senso , tragica
mente ; - 11. 0 comicamente . 12. Deformità fisiche nel 456 INDICE DEL VOLUME
SECONDO . rispetto tragico ; 13. e nel comico . - 14. Le mostruosità nell'un
rispetto , · 15. e nell'altro , e come in ciò facilmente si trasmodi. 16.
Conclusione . CAP. XXXVI. Ordine de' Segni . Stile . Pag. 176 1. Argomento. 2.
Nozione generica dello stile . - 3. Nozione meno generica . - 4. Nozione
determinata . 5. Ne cessità di meditare lo stile . 6. Idem . 7. Ordine dello
stile . Unità . - 8. proprietà , evidenza , 9. vivezza , for . mosità . 10.
verosimiglianza. Legge sua universale . - 11 . L'unione di dette qualità forma
il decoro . 12. Esempio di essa , - 13. Esempio del contrario . 14. La misura
nello stile . 15. Sunto. 16. Conclusione, 193 CAP. XXXVII. Armonia intrinseca
dello stile e co ' propri segni .. 1. Argomento . - 2.Unità del bello stile .
3. Si riscon tra nell'arte del dire ; ne'proverbj e rispetti , · 4. nelle
sentenze , 5. nel periodo , 6. nell'armonia e nell'unione del discorso . 7. Si
riscontra nell' arti del disegno ; nel l'architettura , 8. ch'è un discorso
anch'essa ; - 9. nella scultura e nella pittura, 10. simili pur esse al
discorso ; - 11. e nella inusica ; 12. che ha disegno perfetto , o unione
d'armonia e di melodia . - 13. Proprietà de' se gni ; e come segni adoperino
l'arte del dire , la musica , 14. l'architettura , e l'arti figurative ; 15.
onde viene la proprietà dello stile . 16. Conclusione. CAP. XXXVIII. Armonia
dello stile col pensiero .. 1. Argomento . 2. In che consiste l'evidenza. -3.
Dee rispondere lo stile a integrità del pensiero ; 4. e a varietà d'argomenti ;
- 5. abbracciando l'universalità dell' argo mento , proprio , 6. e
distinguendolo , per poi bene com porlo . 7. Mancamento d'arte o di volontà
impedisce tal perfezione . 8. Vivezza di stile , o moto , 9. nell'arte del dire
, 10. nella pittura e scultura , 11. nell'archi tettor3 , 12. nella musica .
13, Formosità , - 14. anche nello stile grande, e nel sublime. 15. Onde procede
la deformità ? 10. Concrusione . 211 CAP. X.XXIX . Armonia dello stile con la
natura ..... 228 1. Argomento . 2. Il bello stile corrisponde alla natura
dell'artista e a quella degli oggetti . 3. Non si possono separare le due
relazioni senz'errore e deformità . – 4. Avvi una parte relativa all'artista ;
5. e una parte relativa agli oggetti , e danno armonia . 6. La legge di
corrispondenza e di contrapposto ſa nascere le diverso specie del bello stile
in quei gradi che l'ordine ha varj nella natura. 7. Idem . 8. Nello stile tenue
an prevalenza i simili, 9. Qua lità principale di esso è la venusià. 10. Nello
stile mez. zano han prevalenza i diversi . 11. Qualità principale di INDICE DEL
VOLUME SECONDO , 457 esso è la naluralezza , 12. Nello stile grande han preva
lenza i contrarj. 13. Qualità principale di esso è la pe regrinità . 14. Nello
stile sublime han prevalenza i contrapposli supremi. 15. Qualità principale di
esso è l ' ammirabilità. 16. Conclusione . LIBRO QUARTO. Arti del Bello
speciali. Cap. XL. Come si originarono le Arti speciali del Bello. Pag. 249 1.
Argomento . — 2. Due generi supremi dell'arte bella , cioè arti di suono e arti
di prospettiva. 3. Arte de' suoni parlati , e arte de' suoni armonizzati. 4.
Arti prospettive di spazio , e arti prospettive di figura. -- 5. Arti
prospettive distinte in arti di spazio imitato e di spazio naturale ; in arti
di figure imitate e di figure naturali . 6. Onde l'arti del disegno son
distinte dall'arti di naturale amenità e dalla mimica e danza , le quali sono
arti secondarie . 7. Arti ansiliari dell'arti principali e delle secondarie. 8.
Diver sità di segni sensibili determinò diversità del significato, quanto al
mondo esteriore , 9. e quanto al mondo interio . re . 10. Stato implicito
dell'arti : poesia ; 11. arti del disegno e musica. 12. Poi si distinsero
l'arti del Bello fra loro ; e s'esamina per la poesia , per l'architettura ,
13. per l'arti figurative , 14. e per l'arte musicale . Di stinzione di ogni
specie in ispecie minori . 15. Conclu sione. 16. L'arte bella fa quasi un mondo
novello. 266 Cap. XLI . Ordine fra l’ Arti speciali del Bello ...... 1.
argomento . 2. Criterio per giudicare i gradi dell'arti belle . 3. Segni
supremamente ideali della poesia . L'ordine loro è una invenzione distinta
dall'altra delle im magini . 5. Perfezione suprema de' significati poetici . 6
Ma questa precedenza rende difficile al sommo il poetare buopo. 7. In che la
poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra , e perfezione ideale
del suo disegno . 9. Perfezione del suo significato. -- 10. In che cosa l'archi
tettura è vinta dall'altre due arti del disegno . 11. Pit tura e scultura ;
disputa di quale fra loro primeggj, antica . - 12. S' esamina quanto a ' segni
, 13. e quanto al signi ficato di queste arti . 14. Musica ; in che sta un suo
sin golare pregio , 15. da cui procede la potenza musicale ; benche in altro
rispetto la musica resti- superata . - 16. Con clusione . A. CONTI . II . 30
458 INDICE DEL VOLUME SECONDO . CAP. XLII. Della Poesia .... Pag. 283 1.
Argomento ; definizione della poesia . -2. Come la poe sia somigli la filosofia
. 3. Consentono tutti nel divario fra considerare direttamente i sensibili
esterni e il conside rarne l'altinenza con l'anima . 4. Però l'idea che regola
i poeti , si è l'idea dell'uomo interiore , avvivata d'immagibi . Si riscontra
ciò ne' sensibili esterni , comuni alla musica e al segno e alla poesia ; – 5 ,
ne' sensibili esterni , propri solo alle rappresentazioni poetiche ; - 6. ne'
sensibili inter ni , che la sola poesia può prendere per oggetto immediato ; -
7. e poi , nelle cose di pura intelligibilità . 8. Tanto è più alta la poesia ,
quanto più rende viva immagine del . l'uomo interiore ; - 9. e , inoltre ,
quanto più rende imma gine di ciò che l'uomo dev'essere ; 10. perchè il poeta
tende alle più élette forme dell'anima ; 11. e indi cerca immaginativamente di
risolvere in armonia le contraddizioni del mondo ; 12. come si riscontra ne'
poeti veri del tempo antico e del nuovo , - 13. e anche ne' poeti scettici ,
ov'essi han vera poesia ; 14. talché , quest' arte rappresenta in immagini
l'universalità dell'intelletto . 15. E ogni ge nere perciò di componimenti
nell'arte del dire può parteci - pare di poesia . 16. Conclusione . CAP. XLIII
. Le specie della Poesia ...... 1. Argomento . 2. Tre modi principali della
poesia : espositivo , 3. narrativo , - 4. dialogico . sia par talora non essere
imitativa nè inventiva, se cade in soggetto reale . 6. Si scioglie la
difficoltà , distinguendo al . lora il soggetto reale dalla rappresentazione
immaginosa. 7. Indi è varia l ' attinenza fra la poetica rappresentazione ed il
soggetto. — 8. Idem . – 9. Indi anco è vario lo stile figu rato nella poesia
espositiva , 10. o nella narrativa , - 11 . o nella dialogica . 12. Anche il
numero musicale dello stile diversifica . 13. Idem . 14. Diversifica pure l'ori
. gine de' tre modi principali di poesia , l'espositivo prece dendo a tutti,
15. e poi al drammatico il narrativo . • 16. Conclusione. 302 5. La poe 320
CAP. XLIV. Dell'idioma, 1. Argomento. - 2. Lingua , in significato generale , è
unità parlata della morale unità d'un popolo ; 3. e che mai non manca di segni
per cose antiche, 4. nè ha sino nimi perfetti. 5. Le Parlate . 6. I Dialetti .
- 7. Le Lingue. 8. Scelta fra le tarlate. 9. Scelta fra' Dialetti . 10.
Distinzione d'una lingua da ogni altra lingua . 11 . Uso di lingua parlata , e
uso di lingua scritta ; 12. iden tici nell'essenza , e in che diversi, 13. Come
uso di buoni scrittori giova , 14. e come giova uso di ben parlanti. 15.
Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma . 10. Con clusione . INDICE DEL
VOLUME SECONDO . 459 CAP. XLV. Arti del disegno. Pag 338 . 1. Che cosa sono
l'arti del disegno - 2. Il disegno è fon damento alle tre arti particolari. .
3. Doppia significazione del vocabolo disegno. -- 4. Ogni qualità sensibile de'
corpi ha relazione con la lor forma ; 5. e può risguardarsi per natura , e per
l'arti del disegno , quasi accessoria . - 6. La forma ci palesa l'unità ; 7.
ch' esterna dipende dall ' in terno delle cose , si per natura e si per arte .
8. Esempj di ciò ; e in che dunque consiste l'ordine ideato comune al l ' arti
del disegno. – 9. Per acquistare il disegno, ci oc corre abito astrallivo degli
occhi, - 10. fantasia ferma e viva in ritenere la linea pura , 11. e intelletto
esercitato a distinguere, paragonare , comprendere i contorni; 12. nè basta
vedere , ma bisogna saper vedere o guardare ; 13. e in ciò sta il cosi detto
giudizio degli occhi . - 14. Come si faccia l'esercizio nel disegnare. 15. Una
regola princi . pale per l'arti secondarie . 16. Conclusione. CAP. XLVI. Architettura
.... 1. Che cosa è l'architettura . 2. Si originò dal convi . vere umano. - 3.
Si distinse dall'ingegneria per fine di bel lezza , 4. ritraendo l'immagine
formosa del consorzio umano, 5. Questa idea perció la rende inventiva ; 6 . e
indi l'architettura prende significato a ' suoi disegni , 7 . e anche la loro
unità ; 8. ehe si palesa nelle proporzioni della massa , nel congiungimento
delle linee , 9. e anche negli ornamenti. – 10. Com'espressione del consorzio
uma no , quest' arte abbraccia le altre arti del disegno ; – 11 . s' accorda
co' luoghi abitati dall ' uomo, e a sė li conforma; 12. imprime la bellezza sua
nelle città intere, - 13. nel l'intera patria d'una nazione , — 14. per ogni
luogo di es sa ; 15. e si distende a tutta la terra civile , com' efligie inica
dell'incivilimento . 16. Conclusione. 357 CAP. XL I. S ulura ..... 376 1. Che
cosa è la scultura . - 2. Principale soggetto al l'arti figurative si è
l'aspetto umano. - 3. Più proprio della scultura è la relazione de' lineamenti
con la vita interiore , anziché dell'uomo con la natura . -- 4. Indi all'arte
sculto . ria il colorito e accidentale , ec . - 5. Nè la scultura di tutto
rilievo ha paesaggj, che ristretti son' anche nel bassorilievo : - 6. è
limitata nel figurare animali ; --- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8.
Soggetto più proprio alla scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si
comprende la fisio. logica e la fisica . 9. E perché si dica ciò della scultura
piucchè della pittura , distinguendo tra figura e forma. - 10 . L'unità intera
della immagine umana comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le
due arti nel nudo e ne' panneggiamenti . 12. Limiti posti dal pudore. 13 . Qual
sia -dunque l'idea esemplare dell'arte scultoria , 14 . E come bisogni evitare
ia essa , piucché nella pittura , il freddo 460 INDICE DEL VOLUME SECONDO , ed
il generico ; -- 15. ma senza cascare nei vizj opposti , 16. Conclusione . CAP.
XLVIII. Pittura .... Pag. 395 1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d'
esemplare alle immagini ed a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la
natura esteriore , come rilevasi dal colorito ; 3. e perciò dalla figura
colorata e dal prospetto aereo . - 4 . Magistero essenziale della pittura è il
colorito ; – 5. ma non contraſfacendo i rilievi della scultura , 6. nè
gareggiando con le cose reali pe' colorie per gli splendori , 7. nė pe' se goi
di vitalità ; gareggiamento impossibile, - 8. e dannoso ; 9. bensi eleggendo
que' segni che sveglino i sentimenti nell'anima nostra , come le cose di natura
sogliono . 10. La pittura è visione di fantasia . 11. che splende in gen
tilezze d' ornamenti , e in paesaggj . 12. e ne segni del con • versare umano ,
13. e nell'unione verosimile di più tempi e luoghi , 14. e nel simboleggiare
affetti sovrammondani . 15. Conclusione. 16. Utilità di tutte l' arti del dia
segno . CAP. XLIX. Musica ...... 415 1. Che cosa è la musica . 2. Qual n'è
l'idea regolatri ce . Relazione de' suoni col sentimento umano . 3. Ragione
anche fisiologica di tale attinenza . 4. E indi attinenza principale di
quest'arte con la voce umana . 5. Ma la relazione de' suoni col sentimento é
indefinita , 6. e però la musica può indefinitamente significare ogni affetto .
7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli af. fetti, 8. e viene
usata per significare più vivo l'esalta. mento comune alla poesia ed all' arti
del disegno . 9. Ciò apparisce altresi dal significato universale d'armonia .
10 . Però idea suprema e reggitrice della musica è , ch' essa renda immagine
dell' esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si determina nel
concetto de' componimenti varj. 11 . onde nasce la musicale unità , – 12. e
l'invenzione di una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori sulla na.
tura della musica . Sensisti e Positivisti assoluti , - 15. Sen timentali ,
Aritmeticanti, Retoricanti . 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra tutte l’ Arti
del Bello ... 434 1. Danni del separare l' Arti, e argomento . 2. Unità d'
obbietto , di soggetto e di potenza prevalente nell' Arti del Bello . 3.
Perfezionamenti loro successivi , e legge di que sta successione. - 4. Si
risolve una difficoltà . 5. Prima si perfezionò la poesia ; 6. indi
l'architettura ; - 7. poi la scultura , e poi la pittura ; — 8. Apalmente la
musica . 9. Aiuto che si porgono l'Arti ; quale la poesia ? – 10. quale
l'architettura , 11. l'arti figurative, - 12. la musica ? 13. Si conferma
l'unità essenziale dell'Arti fra loro . -- 14. Ri torno del pensiero alle cose
ragionate ; 15 e 16. indi con clusione generale. DIALETTICA. INDICE DEL VOLUME PRIMO.. INTRODUZIONE CUI SI
RACCOMANDA DI LEGGERE ...... Pag . 1-881X LIBRO PRIMO . La Filosofia e i
Concetti universali. Cap. I. Idea della Filosofia ...... Pag. 3 1. Che cosa è
la Filosofia ? – 2. È scienza del pensiero ; 3. ma del pensiero in atto di vita
, e non soltanto delle leggi lo giche astratte ; 4. e però è Scienza della
coscienza e dello spirito . - 5. Scienza degli oggetti connaturali al pensiero
, e però di Dio , dell'universo e dell'uomo ; - 6. Scienza, per tanto , delle somme
cause , dell'ultime ragioni e de' primi prin cipj ; -- 7. Scienza , poi , della
conoscenza , della scienza e della verità. – 8. Perciò nell'idea di relazione s
' appuntano i quesiti tutti della Filosofia ; - 9. e ivi troviamo la sua più
alta verità . 10. Talchè la Filosofia e Scienza di Dio , del mondo e del l'uomo
nell'ordine loro uoiversale ; o , più breve, Scienza delle relazioni
upiversali; e siccome queste forman l' ordine , dunque altresì Scienza
dell'ordine universale . - 11. Come in ogni altra Scienza , cosi nella
Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'idea superiore. - 12. Questa è
l'idea di relazione. - 13 . Ciò richiede la tendenza e il bisogoo de' postri
tempi . – 14.Im portanza della Filosofia ; danni d'una Filosofia separativa . —
15, Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. CAP. II . La Verità ....
1. Perché dobbiamo esaminare l'idea universale di verità . 2. La verità è
sempre entità conosciuta . – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto. - 4. Si
procede relazione in relazione. 5. L'unità dell'oggetto conosciuto si comprende
, si distingue , 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi dissero che la
verità è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto da una
parte sola , e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errori metafisici
; - 10. nello Scet ticismo medesimo , e negli errori morali e delle Scienze
fisiche . 11. Sicchè l'errore confonde, separa , nega. 12. Jadi spieghiamo il
progresso della scienza e della civiltà, 13. o il regresso ; 14. le invenzioni
e le scoperte. – 15 . esame dell'idea di verità ci mostra il costrutto semplice
degli Univer sali , presupposto da ogni conoscenza . 16. Conclusione. 22 536
INDICE DEL VOLUME PRIMO. 42 - - 64 CAP. III . L'Entità . Pag. 1. Si comincia
dalla nozione d'entità. — 2. Che cosa sono gli universali , - 3. Tre ordini
d'universali: gli analogici , 4. gli attributi metafisici , e le condizioni
universali del creato . - 5. L'uoiversale si è in ogni cosa e presentasi
all'intelletto . - 6. L'idea d' entità primeggia fra gli universali. La esami
Darono gli Antichi , – 7. i Padri, il Medioevo , e la Filosofia moderoa. 8. Non
possono farne a meno anche gli Scettici e i Soggettivisti . 9. Questa idea non
può pegarsi. 10. Ma esaminandola , bisogna evitare tre difetti. - 11. Si
tripartisce : idea dell'essere comunissimo , - 12. idea d'essenza , - 13. idea
d'esistenza ; – 14. com' apparisce anche da' linguaggi, 15. e dall'antica
dottrina sull'essere e sulla possibilità , ch'è di tre specie . - 16.
Conclusione. CAP. IV . L'Ordine dell'entità .... t . L'idea d'ordine si
distingue nell'idea di relazione , d'atto della relazione e di correlazione .
2. Che cosa è la relazione ? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3. Ogoi en tità
è un tutto di relazioni , benchè, quando si tratta di cosa fioita , non
essenziali . Ciò si rileva dal concetto d' essere , - 4 . d'essenza e
d'esistenza . – 5. La relazione poi è , o intrinseca , - 6. od estrinseca (
cioè ad intra , o ad extra ). – 7. Ogni relazione si è atlo ; anche le
attineoze ideali o di ragione. - 8 . Conie si procedè per giungere a questa
universalità dell'idea d'allo . Gli Italioti , gl’lonici , Platone; 9.
Aristotele ; 10. i Padri, gli Scolastici, e il Cartesio ; 11. il Leiboitz e la
Fisica nioderna. 12. Correlazioni . Unità e triplicità in ogoi cosa . -- 13.
Dottrine aptiche su ciò . - 14. Il Dogma cristiano della Trinità . - 15. Le
correlazioni spiegano la legge universale de' simili e de' contrapposti, 16.
Conclusione. CAP . V. Il conoscimento dell'Ordine .. 1. Nel conoscimento
dell'ordine si distingue il Vero, il Bello ed il Buono , distinta la triplice
relazione della Verità col l'intelletto , benchè io significato generalissimo
ogoi relazione col nostro conoscimento sia Verità . 2. L'universalità del Vero
corrisponde ai gradi dell' essere ; e come li notarono già i Filosofi . - 3.
Cose non animate ; 4. cose animate ; 5 . gl'intelletti , ove la presenza
dell'entità è manifesta . 6. La verità è relazione dell'entità con
gl’intelletti , cioè intelligibi lità . – 7. Che cosa è la Bellezza , cioè
l'ammirabilitd , con trapposta al Vero. Suoi gradi , 8. ne' corpi non animati ,
Degli animati e negl'intelletti. 9. Che cosa è il Bene , cioè l'amabilità .
Suoi gradi , — 10. ne' corpi , negli animali e nella mente , 11. Assioma che
deriva dall'esame degli universali , - 12. e loro convertibilità mutua ; – 13.
la quale si manifesta nella scieoza, nell'arte e nella vita , perché il Buono
conduce al Vero ed al Bello , - 14. e il Bello conduce al Vero e al Buono. -15.
Nell'esame degli universali analogici abbiamo riscontrato le distinzioni già
fatte dai Filosofi antichi e recenti . - 16 . Conclusione , e come il Bello
morale sia l'accordo del Vero , del Bello e del Buono . 84 INDICE DEL VOLUME
PRIMO. 537 CAP. VI. Attributi metafisici correlativi e Idea di Dio. Pag. 101 1.
Esamedegli attributi metafisici , al quale ci porta l'esame degli universali
analogici. — 2. Che cosa s'intende per attri buti correlativi metafisici. 3.
Idee di questi attributi, tro vate nell'idea d'entitd ; 4. trovate nell'idea
d'ordine dela Ľentità ; - 5. trovate nell'idea di conoscimento dell'ordine. -
6. L'idee degli attributi metafisici correlativi , e l'idea di Dio , non sono
correlazioni astratte ; - 7. nè limiti soggettivi; - 8. nè un ideale soggettivo
; 9. nè , d'altra parte , sigoi ficano che Dio sia il grado supremo degli
esseri ; – 10. nè la parte o il tutto ; 1. nè Pessenza o la sostanza delle cose
contingenti . – 12. La correlazione degli attributi metafisici viene
rappreseotata dall'idea del possibile fra l'idea d'Eote e l'idea d'esistente ,
o dall'idea d ' indefinito fra quelle d'Infinito e di finito. - 13. La
correlazione stessa fu pure significata dal Gen tilesimo , 14. da' simboli suoi
più notevoli , 15. e dalla simbologia naturale. - 16. Conclusione. Cap. VII .
Idea di Creazione .... 121 1. Possibilità razionale della creazione. - 2. Vi ha
nel pensiero umano questa idea dell'atto creativo , cioè di Causa prima. — 3.
L'idea di causa si distingue dall'idea di sostanza ; 4. e si riferisce ad un
che , il quale comincia dal nulla quanto all'esistenza , benchè non quanto alla
potenza ; 5. si riferisce , poi , ad un termine distinto essenzialmente dalla
cau sa , o ad extra . - 6. Più vera e più potente fra tutte le cagioni è
l'intellettiva . 7. La Causa creatrice si distingue dalle cause naturali,
perchè alla totalità delle cose preesiste la pos 8. perchè il soggetto , cioè
la sostanza , si produce ad estra ; 9. e perchè avvi efficienza intellettuale
assoluta : - 10. opde la Causa creatrice fu chiamata Verbo ia tutte le
Tradizioni sacre , e il mondo è arte di Dio ; -11. la quale produce una
somigliaoza divina nell'universo , mentre Dio non somiglia i finiti e li
trascende . - 12. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di creazione nascono
dalla fantasia , - 13 . e dallo sdegoare il mistero , comune ad ogni causalita
; 14 . sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo nell'età de'
Padri e de' Dottori , 15. e dell'età della Riforma e del Rinnovamento. - 16.
L'idea di creazione ba tanta importanza , sibilità pura ; - perchè risguarda la
Causa universale. CAP. VIII . Idee relative all'Entità della Natura ....... 143
1. Argomento ; le condizioni dell' entità : Prima condizione della natura , per
l'essere suo , il quanto ; 2. che si distia . gue nell'unità , 3. nel numero 4.
( che non può essere infinito), 5. e pella unione delle unità . 6. Condizione
seconda per l'essenza , il quale; - 7. che si distingue nella varietà , 8.
nella contrarietà , 9. e nella somiglianza ; . 10. più notevoli dove la oatura
è più alta . - 11. Terza condizione per l'esistenza , il quando ; 12. che si
distingue nel momento , -13. nella successione, - 14. e nella durata ; - 15.
non predicabili dell' Eternità . 16. Conclusione. C 538 INDICE DEL VOLUME
PRIMO. 462 C il pine. - CAP. IX. Idee relative all'Ordine della Natura .......
Pag. 1. L'ordine della natura viene dall' attinenza della crea zione , 2. La
relazione delle cose create ci dà la dipendenza, o derivazione; 3. ossia la
sostanza , - 4. la causa , 5. e l'essenza reale . - 6. L'Atto delle cose ci dà
il come (quomodo); – 7. ossia il principio , 8. il mezzo , 9. e 10. Le
correlazioni delle cose ci dàono il dove , che può essere correlazione
ancointellettiva , 11 , e correle zione materiale ; - 12. ossia il punto , -
13. Y estensione particolare, 14. e lo spazio , 15, che non può essere infinito
, ma è nell'infinito ; 16. e il sublime si origina da cið . Cap. X. Condizioni
naturali del conoscimento ...... 1. Criterio della conoscenza ; ove si
riscontrado : l'oggetto ideale , – 3.6. l'idea, - 4. che ci fa conoscere il si
mile per ilsimile , 5. (onde si spiega la formazione dell'idee universali , e
la conoscenza delle cose esteriori , 6. di noi stessi , degli altri uomini , -
7. e di Dio) , - 8. c . il senti mento , in relazione del quale ogoi cosa
dicesi un fatto , ed esso medesimo ha questo pome . 9. Forma del bellezza ; -
10. e qui si riscontrano : la cosa formata , 11. l'idea esem plare , 12. e il
gusto . - 13. Legge del bene , ove si ri scontra il bene oggettivo , - 14. la
felicità , - 15. e l'utilitd . - 16. Conclusione. 182 . 2. a. - LIBRO SECONDO.
Divisione della Filosofia e Arte dialettica. 207 . CAP. XI. L'Enciclopedia ....
1. Per determinare i quesiti della Filosofia , bisogna ve. dere le sue parti e
l'Enciclopedia o l'albero del sapere umano , 2. Ordine di formazione , ordine
di logica dipendenza. 3. Criterio armonicamente oggettivo e soggettivo per
trovare la distiozione dello scibile e l'ordinamento suo. 4. Quattro classi di
conoscenze : - 5. onde vengono la Teologia positiva , la Filosofia , le
Matematiche e la Fisica . 6. Parti della Fi losofia universale. - 7. Filosofie
particolari e applicate . 8. Matematica. - 9. Fisica . - 10. Storia sacra ,
umana , na turale. – 11. Arti filosofiche , matematicofisiche e storiche. 12.
Tradizione perenne dell' Eociclopedia . – 13. Errori che la guastano. 14.
Pericolo dell'Enciclopedie a dizionario , le quali spezzano la continuità del
sapere. - 15. Divisione della Filosofia in tre parti : la Dialettica , l'
Estetica e la Morale. - 16. Conclusione. CAP. XII . La Dialettica. 1. Che cosa
è la Dialettica . — 2. È quasi un dialogo. – 8. Esemplare unico dell'Arte
logica è la natura , - 4. se no 229 INDICE DEL VOLUME PRIMO . 539 - 8. e s'op
v'è ignoranza . – 5. L'Arte logica è osservazione di natura , - 6. se oo avvi
leggerezza , impazienza e preoccupazione appas sionata . – 7. È imitazione di
natura , 8. se no avvi artifi cio. – 9. È inveozione ordinativa , pop oggettiva
, - 10. se no avvi l'assurdo. - 14 . È per fine di verità , - 12. se no si
confondono l ' arti , che per altro s' accordano e s ' aiutano . 13. La Verità
, com'oggetto dell'Arte logica , viene deter minata dalle operazioni di questa
, - 14. e però è ordine d'en tità ripensato , 15. ragionato , — 16. e
significato . CAP. XIII. La Critica interiore vera e la falsa ........ Pag. 251
1. La Critica suppose un Criterio , che paturale cono scenza porge alla
riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dal bisogno di cercar
l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nelle cognizioni la parte
oggettiva e la soggettiva ; - 3. e però è antichissima; benchè a questa si
contrapponesse Ja Critica eccessiva . 4. Esempj dell'una e dell'altra nel
Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non si può ; e questa
è critica smodata , o fuori di natura. 6. La riflessione filosofica deve
cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbio metodico . 7.
Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza ; pone , qualunque sia
l'intenzione de' Critici , alla virtù ; 9. è causa di desolazione , - 10. o di
misera indifferenza . 11. Jovece per la Critica razionale s' afferma il
oaturale co noscimento , 12. la forma di questo e la materia ; 15 . cioè la
forma naturale in relazione con gli oggetti , - 14. e la realtà degli oggetti
stessi , che costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero .
· 15. Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal
Criticismo. Cap. XIV . Verità connaturali al pensiero umano . 272 1. Tre
requisiti delle verità connaturali . – 2. Esistenza di noi stessi . - 5. Errore
del Kant e de' Positivisti , - 4. e loro confutazione . 5. Si riscontrano i
requisiti della conoscenza naturale nella coscienza di noi stessi . – 6.
Notizia del mondo esteriore , – 7. e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e
de Positivisti , 9. e loro confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza
naturale si trovano nella notizia del mondo. 11. Idea di Dio . - 12. Opinione
del Kapt e de' Positivisti . 13. Confutazione , 14. Si riscontrano nell'idea di
Dio gli stessi requisiti o spontaneità , - 15.inconvertibililà e insepa
rabilità . Da queste notizie di noi , del mondo e di Dio risulta la sostanziale
totalità della coscienza . 16. La Filosofia non può disconoscere questa materia
del pensiero e della scienza . CAP. XV. Armonia tra le forme della conoscenza e
le cose . 294 1. Che cosa è la forma. – 2. L'armonia tra le forme del
conoscimento e gli oggetti , onde provenga. 3. Apparenza sensibile , - 4.
corrispondente agli oggetti percepiti ; – 5. e quindi si fece da Galileo e poi
dagli altri la distinzione fra le qualità primarie de' corpi e le secondarie ;
- 6. talchè verifi chiamo che l'apparenze sensibili son segoi reali , realmente
vera . - 540 INDICE DEL VOLUME PRIMO. corrispondenti alla realtà delle cose.
-7. Aoche le apparenze , che dano'occasione d'inganno , procedono da leggi di
natura. - 8. La vista ci dà i segoi apparenti delle distanze. – 9. For me
intellettuali , corrispondenti all'entità e verità delle cose , ue' concetti, -
10. ne giudizi , -11. e oei raziocioj. 12 . Armonia tra il conoscimento di ciò
ch'è o avviene deotro di noi , e il conoscimento di ciò ch'è fuori di noi: per
i segoi del l'anima del corpo ; – 13. per l'analogie fra l'anima l'uoj verso ;
- 14. per l'intendimento delle qualità e delle condi zioni d'ogoi cosa esterna
; — 15. e per la conoscenza di Dio. 16. Conclusione. CAP. XVI. I Principj
armonici della ragione ... Pag. 318 1. Che sono i principj universali della
ragione. — 2. Na scono dalle idee universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima
classe , corrispondente agli universali analogici . Per l'entitd si distinguono
più principj , riflettendo all ' idee d' essere , 4. e all' idee d'essenza e
d'esistenza. 5. Per l'ordine del l'entità , si distinguono , riflettendo
all'idee di relazione , 6. di atto della relazione e di correlazione . - 7 .
Per il cono. scimento dell'ordine, si distinguono , riflettendo all' idee del
Vero, – 8. del Bello e del Buono . – 9. Seconda classe , cor rispondente agli
attributi metafisici correlativi . – 10. Terza classe, corrispondente alle
universali condizioni della Datora fioita . Si hanno : Per l'entità di questa ,
i priocipj di quantild, di qualità e di tempo ; 11. per l'ordine della natura ,
i principj di derivazione o dipendenza , - 12. di modalità e di confinazione o
del dove ; – 13. per il conoscimento dell'or dine , com ' esso è negl'
intelletti creati , i principj che risguar dano il criterio della verità , la
forma della bellezza e la regola del bene. – 14. In che stia l'utilità de'
principj uni versali. – 15. Due opinioni estreme ed erronee : l' una che li
Dega , l'altra che li reputa generativi di tutto il conoscimento . - 16.
Conclusione . CAP. XVII . L'Osservazione ...... 340 1. Materie da trattarsi . —
2. Atteozione. - 3. Osservazio ne. – 4. Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle
verità d'espe rienza esteriore, cosi per Arte logica naturale , 6. come
scientificamente. 7. Si verifica delle verità di esperieoza interiore , cosi
per suggerimento di natura , 8. come per la Scienza . 9. Si verifica delle
verità intellettuali pure , 10. cioè negli universali della Metafisica e delle
Matematiche. 11. Si verifica nelle conoscenze ricevute dall'autorità , 12. e
ipdi vien la Critica , 13. Lo stesso aodamiento si vede nel procedimento
storico delle Scienze. -44. Idem ,-15. Anche nel procedimento della Letteratura
. 16. E anche nell'Arte pedagogica. CAP . X III . Metodo che imita la Natura
...... 1. Che cosa è l'imitazione dialettica : parte sostanziale del metodo .
2. Sintesi primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 361 INDICE DEL VOLUME PRIMO.
541 - secondaria . 5. Legge dialettica. 6. Il metodo allora è quasi un
contrappuoto musicale. -7 . Però non può essere nè solameote analitico , nè
solamente sintetico . 8. Difetti del Puno e dell'altro , - 9. Il metodo
compreosivo gli uoisce. 10. Contrarie inclioazioni di ogni età verso l'analisi
eccessiva o la sintesi eccessiva . 11. Esempio del Gioberti . - 12. Il vero
metodo è propriamente dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle Scienze ;
14. nell' Arti del Bello , - 15. e nel ” Arti del vivere civile . . 16.
Conclusione. CAP. XIX. L'invenzione dialettica ..... Pag. 381 1. Che cosa è
l'invenzione scientifica , o che cosa è la Scienza com'ordine meditato di
conosceoze, - 2. Si comincia dalla comprensione dell'oggetto per una
definizione nominale ; - 3. poi si viene all'analisi con la divisione , – 4.
con la tési e con l ' antitesi , con la prova dall'assurdo, e con l'elimina
zione; - 5. fochè si giunge alla definizione dialettica , che può essere o
intrinseca o per via disole relazioni. - 6. Poscia , passando alla sintesi ,
abbiamo l'ordine induttivo e il dedatti 7. Tutto questo mirabile ordinamento è
una ricerca delle ragioni, e uno spiegare per esse ; oode gli Antichi dis .
sero che saper vero è un sapere per le cagioni ; - 8. cioè per principj; - 9. e
questo s'avveranella teorica degli universali , - 10. e nella Scienza
dell'uomo, dell'universo e di Dio ; 11. s'avvera nelle Scieoze civili e
storiche; 12. Delle Mate matiche, 13. e nella Fisica . 14. Indi si spiega
l'inven zione degli stromenti e delle macchine ; 15. come altresi la ipotesi e
l'intuizione dottrinale. 16. Supto. vo . - 403 - CAP . XX . Il fine dell' Arte
dialettica .... 1. Argomento. 2. Connessione logica . - 3. Che stato der essere
quello di chi cerca la verità , 4. e difetti che bisogna evitare . - 5. Si può
errare io ciò per leggerezza , 6. o per una preoccupazione. 7. Chiarezza , - 8.
e difetti da evitarsi , -9. Errori che procedopo da leggerezza , - 10. e da
preoccupazione , prendendo per chiaro ciò che non è . - 14. Certezza ; 12. e
difetti evitabili ; 13. badando anche ip ciò di non errare per leggerezza d'
assensi -14. e per qual che preoccupazione, stimando che sia certo l'incerto ,
e vice 15. Connessione , chiarezza , certezza , non possono realmente trovarsi
che pella verità . 16. Si concbiude : che fine d'ogoi Scienza , e perciò anche
della Filosofia , non è di dare a noi , quasi mancanti d'ogni ragionevole
conoscenza , un primo conoscimento della verità , si l' ordine riflesso della
co gosceoza e della verità : e poi, che l'Arte dialettica è altresì un abito
morale ; e ancora, che l'abito del parlare meditato giova molto all'ordine del
pensare ragionato e retto . versa . - 542 INDICE DEL VOLUME PRIMO. LIBRO TERZO.
I Criterj della Verità o Leggi universali della Dialettica. Cap. XXI.
L'Evidenza , o il Criterio della Verità ..... Pag. 427 4. Argomento , e qual
sia il disegno della Dialettica , e qual ragione v'abbia di trattare qui de
Criterj ; e dottrina loro semplicissima. -2. Il Criterio è uoa regola , perch'è
un segno della verità in relazione con l'intelletto . - 3. Non può negar si ,
fuorchè negando la conoscenza ; non può travisarsi , fuorchè da' sistemi
sostanzialmente falsi ; e vi ha una dottrina costante sulla natura del Criterio
. - 4. Il Criterio è un segno apparte nente all'ordine della verità , 5, ed è
universale . - 6. II Criterio , perciò , è l ' evidenza dell' ordine di verild
; – 7 , è quindi uno e moltiplice , ossia è un ordine di Criterj; 8. perch'è l'
evidenza dell'ordine di verild in sè stesso , e ne' suoi contrassegni
universali ; cioè coutrassegni d'amore e di fede , perchè l'ordine della verità
corrisponde all'ordine della nalura umana. 9. Il Criterio vale altresi nelle
cogni. zioni anteriori alla Scienza , 10. nè la Scienza può disco noscerlo. 14.
Nella Scienza, poi , l'evidenza precede il ragionamento , l'accompagna , e lo
compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterio naturale si converte in
evi deoza scientifica ; non già perchè si comioci dal dubbio ; anzi non può
cominciarsi da esso , perch'è un riconoscimento . – 13 . Criterio della
Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale ; . 14.senza di che quella è
fuor di natura . - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'un ordine
particolare ; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficio indiretto e
più ristretto . - 16. Conclusione. - 451 Cap. XXII . L'evidenza del Teismo,
come di verità ordinatrice o di Criterio supremo .... 1. Perchè la verità di
Dio creatore sia Criterio compren sivo alla riflessione. 2. La Scienza de'
limiti è scienza ne cessaria ; e il Teismo ci avverte de' nostri limiti . 3.
Questi sono la natura stessa dell'intelletto e delle cose. 4. Soprin
telligibile , soprannaturale , 5. intelligibile : 6. la verità di creazione fa
serbare questi limiti , e spiega il perchè del sovrintelligibile divino, –7.
del sovriptelligibile naturale, 8. e ci rende liberi e sicuri nello studio
delle cose intelligibili , che sono inesauste a mente umana. - 9. Quindi essa
rende soddisfatto qualunque bisogno dell'uomo, e ordina le Scienze che si
riferiscono a' bisogoi stessi . Teologia positiva, - 10. Filosofia , Matematica
, — 11. Fisica , 12. Filosofia della Sto ria , Filologia e Critica. - 15. Quel
Criterio spiega la legge del progresso in Filosofia e il regresso sofistico . –
14. I siste mi, opposti alla verità di creazione, ristringono la conoscenza
riflessa , 15. e poi l'apoientano. - 16. Conclusione. - - INDICE DEL VOLUME
PRIMO. 543 - Cap. XXIII. Sistemi opposti al Criterio della Verità , e pri mieramente
il Panteismo.... Pag . 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo , e
pro posito di affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale , 4.
pitagorico , - 5. eleatico ed ionico ; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici , -
7. che difendevano il Paganesimo ; 8. de' Reali nel medioevo , – 9. e
dell'altre Sètte ; - 10. del Bruno e del Campanella 11. ( sterili , se
paragonati al Car tesio ed a Galileo ) , · 12. dello Spinosa ( non paragonabile
alla fecondità del Leiboitz), - 13. de' Panteisti tedeschi , 14. e de' loro
discepoli. 15. Verità grandi , che balenano dal Panteismo ; 16. il quale ,
bensì , le travisa , e però nega i fatti più sublimi della coscienza. CAP.
XXIV. II Dualismo . 493 1. Argomento. - 2. Io che il Dualismo è peggio , e in
che meglio del Panteismo ? 5. Dualismo fra gl' Indiani. 4. D'Anassagora , - 5.
di Platone , - 6. d'Aristotele, 7 . degli Stoici . - 8. Dualismo tra certi
Filosofi maomettani . 9. Dualismo nella Cristianità del medioevo ; 10. e come
le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori scola stici ; - 14.
talchè se n'occasionava , ne' tempi della Riforma , up Dualismo nuovo , non
antiteistico , macosmologico e antro pologico . – 12. Il Cartesio ; – 15. ed
effetti delsuo Dualismo , segnatamente nel Malebranche , - 14. e nel Leibojtz ;
15. o anche nell'Idealismo , nel Sensismo e nello Scetticismo poste riori . 16.
Il Dualismo riduce i contrarj a contradittorj , - talchè rompe ogoi armonia .
CAP. XXV. L ' Idealismo e il Sensismo.... 515 1. Differenza fra l ' Idealismo e
il Sensismo. 2. Cenno storico di questi sistemi . – 3. Io che propriamente
consiste l ' Idealismo (e sbaglio d' alcuni moderni), e paragone con gli
effetti del Sensismo. - 4. Vizio principale degl ' Idealisti . 5. Nel Sensismo
la coscienza umana non riconosce sè stessa ; 6. non l'intelletto ,
essenzialmente diverso dal senso ; - 7. non - 8. non l'idealità ; 9. non la
riflessione sopra di noi ; 10. non la religiosità ; 11. non la certezza nella
cogoizione de' corpi ; 12. non la Filosofia ; si solamente la Fisica , - 13. ma
falsata e con metodi non suoi . - 14. E sono alterate anco le Matematiche , -
15. com' altresi la Sto ria . - 16. Sunto . INDICE DEL VOLUME
SECONDO. - Cap. XXVI. Lo Scetticismo...... Pag . 1. Argomento. 2. Scetticismo
nell'Asia e fra gl ' Italo greci ; - 3. nell'età Socratica e del medioevo ; 4.
nell'età moderna . – 5. Eclettici e Mistici , che non riparano allo Scet
ticismo , dacchè gli concedono di partire dal dubbio . – 6. Idea Jismo scettico
e Sepsismo scettico. 7. Razionalismo , 8 . e Positivismo ; – 9. e quindi
Scetticismo metafisico , antimetafisico , - 11. che bensi trova la Metafisica
per tutto . – 12. Come la natura repugoi dallo Scetticismo . 13. Con seguenze
principali di questo . Desolazionee scherno . - 14. Dif ficoltà pelle
controversie , o Dommatismo scettico ; abito di giudicare de' fatti umani da
sole circostanze esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla il pensiero. 10.
e 15. e CAP . XXVII. L'Amore della Verità ... 22 4. Che cosa è nell'ordine suo
pieno il Criterio ? Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenza
della Verità . 2 . Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la cono
scenza è affetto . -- 4. Bisogna secondare con la libera riflessione il
naturale affetto . 5. Come l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento
, l'accompagni e lo assicuri , e perciò bi sogna guardare a quell'impulso , 6.
a quella compagnia e a quel riposo ; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali ,
che di visero l'affetto dall'evideoza ; 8. quanto gli Astratteggian ti , che
separarono l'evidenza dall'affetto . 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle
Matematiche ed io Fisica . - 10. Ufficio di quello in Filosofia , il quale
altresì ci mostra gli affetti con naturali, che corrispondono agli oggetti
della Filosofia stessa ; - 11. cioè l'amore di noi medesimi e degli altri
uomioi , 12. l'ammirazione affettuosa per l'ordine della natura 13 . e gli
affetti religiosi . – 14. Quello è anche Criterio degli Studj critici , storici
e teologici . – 15. Nelle passioni l'affetto patu rale può facilmente
riconoscersi . – 16. Per l'affetto la scienza si converte in sapienza. 500
INDICE DEL VOLUME SECONDO. 42 - - 63 - salità ; CAP. XXVIII. Il Senso Comune...
Pag . 1. Quando la parola serve di Criterio ? - 2. Che cosa è il Seoso Comune ?
Due sigoificati di esso , - 5. dal separare i quali vennero due opinioni false
, · 4. Limiti del Senso Co mune : . 5. i principj , 6. le immediate percezioni
, 7 . e le immediate conclusioni . 8. Ufficio diretto e generale del Senso
Comune in Filosofia ; non cosi nell'altre Scienze , 9 . fuorchè dov'esse s'
uniscono alla Filosofia stessa . - 10. Obie zioni sull'esistenza del Senso
Comune , per la contrarietà delle opinioni . – 11. Obiezioni contro la
testimonianza de' Lioguagej al Senso Comune , per la supposta indifferenza de'
vocaboli al si e al no ; – 12. per il materiale significato primitivo di parole
che ricevevano poi un sigoificato spirituale. 13. Obiczioni sulla
ragionevolezza d'usare il Senso Comune a Criterio , qua sichè questo sia
credenza , non evidenza ; - 14. quasichè vo gliamo reputarlo sapienza o scienza
; 15. quasichè occor resse interrogare tutti gli uomini . . 16. Sunto, e
necessità di ricondurre le Scienze alla natura , come le Arti del Bello . CAP .
XXIX. Tradizioni e progressi nelle Scienze ... 1. Criterio delle Tradizioni
scientifiche . 2. Due siguifi. cati del vocabolo Scienza . – 3. Dobbiamo
verificare l'univer 4. distinguendo i principj, i teoremi , i problemi, e gli
errori. 5. L'unità del consentimento non toglie la libera varietà . -6.
Consentimento e progresso pe' principj e ne' teo remi , -7. e ne' problemi . –
8. Le Sètte son dimezzatrici della Verità ; 99.. eppure confermano i teoremi ,
10. e son’oc casione di progresso , mostrando i mancamenti della Filosofia ,
11. perfezionandone la forma , 12. e alcune dottrine particolari , - 13. e le
loro conseguenze nelle dottrine de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false
: cioè i sosteoitori della sola evidenza privata ; – 15. e i sostenitori del
solo criterio storico . - 16. Conclusione. CAP. XXX. Relazioni fra le Scienze e
la Religione ..... 1. L'argomento, che ora si tratta , è Glosofico di sua na
tura , – 2. Due significati della parola Religione. - 5. S'esclu de : che la
Filosofia debba ricevere l'autorità senz' uo motivo evidente di ragione; – 4.
che, per l'esame, debba sospendersi la Fede ; 5. che l'autorità del verbo
religioso sia un Crite rio diretto per ogni Scienza ; - 6. che la Filosofia
debba en trar pe' Misteri , o la Teologia nel ragionamento filosofico ; – 7 .
che sia lo stesso metodo e lo stesso fioe a’ Filosofi e a' Teologi . - 8. Nel
fatto , l'efficacia delle Religioni è universale sopra i sistemi filosofici ;
9. e sempre la Religione s’ è reputata upa Fede ; 10. Criterio è poi , se
corrisponde alla coscienza ; 11. talchè sia un'evidenza e una credenza , cioè
una credenza evidente. · 12. Fa quasi specchio all' uomo interiore , - 15 . che
riconosce l'integrità dell'essere suo io quella. 14. Gra vissimo errore del
negare validità razionale lenza non filosofica . 15. Il Criterio religioso
sublima l'animo e lo ràs. serena, porgendo così le due condizioni necessarie
d'ogni me . ditazione più alta . 16. Sunto. 84 INDICE DEL VOLUME SECONDO. 501
LIBRO QUARTO. Leggi speciali della Dialettica . oi . - - 6. e Cap. XXXI.
Dell'Ordine , come suprema Legge razionale . Pag. 107 1. Legge suprema
razionale . 2. Leggi concrete o datu rali , 5. Legge soprema è l'ordine . 4.
Unione de' termi 5. Cercare questa unione, rispetto agli oggetti , pelle
operazioni , cosi dell'Arte bella e dell' Arte buona , 7 . come dell'Arte
dialettica . 8. Cercare la somiglianza de' ter mioi, – 9. le loro differenze ,
- 10. e le loro contrarietà , 11. escludendo i contradittorj. 12. Ksempio tolto
dalla teo rica de' Criterj . – 15. Errore, deformità , male , sono disor dini .
Ogni errore non altro è , che da una parte soltanto risguar dare la verità ,
segregandola dal resto che le appartiene , e senza cui non è più verità. - 14.
Gli errori e il male cadono d'ec cesso jo eccesso . 15. Meraviglie della
ragione umana, che imita l'ordine della natura interiore ed esteriore . 16. Coo
clusione. Cap . XXXII. Ordine dell'idee 127 1. Ripensamento dell'idee. - 2.
L'idea , del suo valore intimo , è sempre vera ; - 5. quantuoque altresi per
idea s’in . tenda lutto ciò che con la riflessione s'afferma e nega ; e allora
l'idea può essere falsa . — 4. Bisogna esaminare il positivo del l'idee ; - 5.
nè può darsi un'idea negativa per sè medesima. 6. Poi bisogna esaminare
l'ordine dell'idee con gli oggetti, e come non possiamo pegar l'idea d’un
oggetto , se igooriamo la sua intima essenza , nè possiamo negare l'idea d'un
fatto , se ignoriamo il comeavviene il fatto , ec .; -7. e bisogoa esa minare
qual sia la natura dell'oggetto , coocepita per mezzo dell' idee . - 8. Idee a
priori e a posteriori ? 9. L'idee hanno fra loro uo ordine cbe va riconosciuto
; 10. talcbè , riflettendo a quello , si formano idee distinle , adequale ,
chia -A1 . e ci leviamo all'idea perfetta . 12. Bisogna , in line, ch'
esaminiamo la forma concettuale dell'idee , 13. la loro estensione e
comprensione , 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la quale l'idea è un
esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non può intendere
alcuni fatti maravigliosi della patura umana . Cap. XXXIII. Ordine della Memoria
.. 1. Argomento .– 2. La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee
. 3. Associazione dell'idee . 4 . Come possono in unità raccogliersi le varie
associazioni , notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende al
richiamo de' fantasmi e de'segoi . - 6. E anzi , abbraccia tutte le facoltà ,
concorrenti nella Memoria , 7. e unità naturale del . 8. e l'unità morale del
genere umano. — 9. Que st' ordine , ch'è legge della Memoria , diviene regola .
È neces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re ,
dell' idee , molte cose . ſaomo , 502 INDICE DEL VOLUME SECONDO, - considerare
la coonessione dell'idee e i segni seosibili per facil . mente richiamarle. -
11. Inoltre , acquistar l'abito della ri flessione sull'ordine de' giudizj e
de' raciocinj, per il pronto discorso scientifico . 12. Singolarmente
quell'abito è neces sario per la Memoria delle parole. 15. Tadi procede la pa
dronanza dell'esporre. 14. Per l'uoità coosapevole interna , occorre
rammemorare il nostro passato . 15. Per unità morale del genere umano poi ,
occorre la Tradizione , ch'è me moria. – 16. Conclusione . Cap. XXXIV. Ordine
de' giudizj.. Pag. 166 4. Argomento . 2. Co.ne dall'idee si svolgono i giudizj
; - 3. onde i giudizj possibili sono distinti da’ formati o reali. - 4.
Categorie , 5. oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questa dottrina .
- 7. Categorie oggettive , o se condo gli Universali ; 8. Categorie soggettive
: 9. I. quanto alla forma concettuale dell'idee , giudizj universali , ge
nerali , particolari , singolari ; - 10. II . quanto alle relazioni fra l'idee
, categorici , ipotetici, disgiuntivi, 11. problema tici , assertori ,
apodittici, - 12. diretti e comparativi, astratti e concreti, a priori e a
posteriori , - 13. analitici e sintetici ; - 44.III . quanto alla forma
de'giudizj , affermativi , negativi , limitativi ; 15. IV . quanto alla
relazione di più giudizj, equipollenti , convertibili , contradittorj ,
contrarj e subcontrarj. 16. Conclusione; e come sia necessario , giudicando ,
solle varsi all'idea distinta , chiara , adequata , e quindi perfetta , di ciò
che meditiamo. Cap. XXXV . Ordine del ragionamento .. 186 1. Argomento. Regole.
• 2. Legge dialettica . – 5. Idea media ; e come il raziocinio sia un giudizio
complesso che si scioglie in tre giudizj. – 4. Priocipio formale del raziocinio
. - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzione dal simile al diverso . – 7.
Induzione dal diverso al simile . - 8. La diffe reoza tra il ragionamento
deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere ? — 9. Qual'è duoque la
differenza del ragiona mento deduttivo , 10. e dell'induttivo ? - 11. Da essa
viene la regola . 12. E , per opposto , dal violarla vengono i sofi - 13. e si
vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non deve mai separarsi la 'regala
formale dalla materia del ragionamento ; - 16. oè la materia di questo
dall'ordine suo . C .: P. XXXVI. Utilità del ragionamento . 206 1. Argomento.
2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto ? 5. Che cosa
troviamo di nuovo per via del ragionamento ? 4. Deduzione; 5. in Fisica , in
Ma. tematica applicata ; – 6. altre scoperte , – 7. per equipollen za ,
conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate
. – 9. Induzione , é sua certezza . --40 . Induzioni fisiche. 11. Analogia .
12. Ipotesi. – 13. In duzione metafisica . – 14. Due erroriopposti : l'uso di
coloro che immaginano la deduzione quasi generazione ; 15. l'al tro di coloro
che negano il dedurre. 16. Conclusione . smi ; ISDICE DEL VOLUME SECONDO. 503
216 Car. XXXVII. Unione e varietà de'Metodi.......... Pag. 227 1. Argomento .
2. La verità , com ' ordine conosciuto , si trasforma in Metodo : può vedersi
dalla Storia della filosolia , 3. e delle Scienze fisiche ; 4. talchè vana è la
disputa se preceda l'importanza de'Metodi o de principj; - 5. e quindi ancora
si vede che il Metodo risguarda il soggello e l'oggello , e ch'è psicologico ed
ontologico insieme , 6. cioè critico . - 7. Faria il Metodo ; ma neile varietà
c'è leggi comuoi . 8. Le varietà poi derivano dalla natura dell'argomento , 9 .
taotoché riesce assurdo il coofondere tra loro i Metodi; 10 . e vba Scienze
deduttive , 11. induttive , . 12 , miste ; 13. più sintetiche , o più
analitiche . 14. I Metodi , variando secondo la varietà delle cose ,
diversificano pure secondo la mente di chi pensa la verità , 15. e secondo la
mente di co loro , a cui la verità s ' espone. 16. Sunto. CAP. XXXVIII. Abiti
necessarj al ragionamento 1. 11 Metodo è abito , e richiede: abito di virtù ,
abito in tellettuale che disponga l'intelletto all'Arte ragionativa, e abito
dell'Arte. – 2. Abito morale , cioè amore della Verità . 5 . Bisogna essere
preoccupati solo da questo amore ; 4. unito alle virtù morali , - 5. e come
dagli abiti viziosi opposti s' of feoda il ragionaiento buono. — 6. Abito
intellettuale del rac coglimento, – 7. donde nasce il diletto della meditazione
, 8. e che porta con sè l'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle
dottrine , 9. e di ordinare i proprj studj . 10 . Abito intellettuale dell'Arte
, cioè il possesso delle regole . 41. e dell'ordine loro ; 12 donde procede la
necessità di tre atti razionali abitualmente, cioè l'esame del pensiero del
principio de' ragionamenti, a mezzo e io fine ; 13. il quale ultimo è
importantissimo ; 14. e indi viene il possesso della ragione ; 15. acquistato
piucchè mai dall'esercizio della pewna e della disputa ; 16. purchè questa sia
conveniente. Cap . XXXIX. L'Esposizione .... 264 1. Iinportanza dell'argomento
, 2. Ufbej della parola : interpo e sociale . 5. La parola s’unisce
strettamente al pen siero , ma non lo costituisce ; 4. bensi lo determina . 5 .
Non bastano i fantasmi, ma ci vuole il segno dell'idea 6 . tanto più che il
discorso esterno aiuta con la successione sua la riflessione discorsiva . – 7.
Legge dell'Esposizione si è la legge dialettica ; 8. ossia determinare con la
lingua l'ordine del pensiero ; il che apparisce anche da' nomi che si dànoo
a'ter mioi della proposizione e del raziocinio , e al congiungimento de'
termini ; - 9. e poi , la bellezza dello stile dottrinale ac corda il Vero col
Buono . 10. Regola perciò è : determinare cop l'ordioe della parola l'ordine
del pensiero ; -11 . in con formità dell'idee e dell'idioma , 12. donde si
traggono le regole tutte grammaticali , 13. e dello stile . 14. Quindi è
impossibile separare la bellezza dell ' Esposizione dalla pro fondità e
dall'ordine del pensiero . – 15. Se non determiniamo con le parole il proprio
concetto , - 16. in conformità dell'ig 2 504 INDICE DEL VOLUME SECONDO. 4. ma
timo legame fra i concetti , e in couformità del linguaggic , ven gono gravi
errori . Cap. XL. L'Interpretazione .. Pag . 283 1. Argomento. — 2. In quante
maniere debba determinarsi l'ordine del pensiero altrui . 5. Relazioni del
discorso con la Jingua ; e perciò la sappia , chi vuolesser critico ; tutti
sapere ogni liogua , non si può pè giova ; 5. e allora valersi degl'interpreti
migliori. – 6. Relazioni del discorso con la mente altrui; e perciò stare al
senso letterale , quanto si puo ; – 7. oon interpretare alla leggiera né cop
troppo di sot tigliezza : 8. non alterare né i difetti né i prenj ; – 9. ba
dare ai fini che il testimone o lo scrittore si proponeva. 10 . Relazioni del
discorso con l' animo altrui; e pero guardare alla capacità e alla veracità con
argomenti intrinseci ed estrioseci ; : 11 . nè la capacità negare, preoccupati
da un'idea ; 12 . nè , per la veracità , eccedere ne' due vizj opposti d'una
Critica adulatrice o caluoniatrice. - 15. Relazioni con la Società uma na ; e
però con l'incivilimento , 14. con la Religione , 15, con l ' uniune delle
prove . 16. Sunto, LIBRO QUINTO . Metodi secondo le varie Discipline. 305 0 Cap
. XLI. Metodi speciali ..... 1. Perchè i Metodi si distinguono secoudo le
Discipline va rie ? - 2. Quanti sono i Metodi speciali , - 3. che procedono
dalla relazione varia degli oggetti con la mente ? 4. Ogni errore sostanziale
di Metodo procede da un errore su detta rela zione. - 5. Gli errori de' sistemi
sul Metodo , esaminati , ren dono testimonianza tutti insieme alla vera
dottrina. 6. La distinzione de' Metodi è necessaria pell'Arte del Vero , come
si distinguono l'Aiti speciali nell'Arte del Bello ; – 7. e chi oega la
differenza de' Metodi, pega implicitamente esplicitamente una qualche verità ;
come nell'Arti Belle , 8. cosi nell'Arte dialettica . 9. Connessione de' Metodi
; . 10. e ciò si vede anco nell' Arti del Bello . Hl . Ma la connessione non
toglie poi la distinzione , 12. secoudocbė il rispetto delle verità mediane o
collegatrici diversifica ; 13. onde bisogna rispet tare la varia competenza
nelle Scienze diverse ; 14. beocbe uno Scienziato possa partecipare di più
Scieoze. 15. Sunto . - 16. La confusione de' Metodi è coutro il progresso della
civiltà . Cap . XLII . Metodo degli Studj religiosi. 1. Argomento. 2. Proprietà
del Metodo negli Studj re ligiosi . – 3. Metodo storico circa i fatti ; – 4. e
guardare do v apparisca propriamente la loro Storia . 5 Metodo joterpre tativo
circa i fatti , -6, e le dottrine, 7. Metodo filosolico circa la possibilità razionale
de' fatti dividi , 8 , e come gli 324 INDICE DEL VOLUME SECONDO. 505 -
Avversarj neghino irragionevolmente questa possibilità ; 9 . poi , circa la
razionale convenienza in genere de ' fatti divini , ma esclusa sempre la
necessità ; - 10. poi ancora , circa la ra zionale convenienza in ispecie, cosi
de preliminari della Fe de , 11. come nelle Verità misteriose . 12. Unione del
Metodo filosofico , dell'interpretativo e dello storico , per le origini del
Culto e per la sua universalità nel tempo, 13 . per le sue relazioni universali
con le Scienze e con l'Arti , 14. con la Civiltà intera , - 15. e con tutti gli
altri Culti . 16. Cooclusione . Cap. XLIII . 11 Metodo teologico si distingue
dagli altri Me . todi e vi s'accorda .. Pag . 342 1. Argomento. 2. Il Metodo
teologico si distingue dal filosofico , perchè muove dall'autorità , – 3.
perchè risguarda il soggetto medesimo in un rispetto differente , 4. perchè ,
quantunque abbia io sè una parte filosofica , non è meramente filosofico. 5. Si
distingue dal Metodo critico e filologico , percbė storicameote e
ioterpretativamente riconosciamo cause sovrunane, l' Intelletto sovrumano, tini
soprannaturali. 6 . Si distingue dal Metodo matematico , perchè risguarda la
libertà divina e l'umana ne' fatti religiosi. – 7. Si distingue dal Mo todo
fisico ; e tal distinzione ha importanza eguale pe' Teologi , che non debbono
considerare come il mondo è fatio , - 8.6 pe ' Fisici , che non debbono
considerare come il moodó fu fatto . 9. Il Metodo teologico s'accorda poi col
filosofico ; perchè il Teologo non deve separare mai l'attinenza fra Teologia e
Filo sofia che porge a quella le verità prelimioari, l'analogie razio nali e
l'ordinamento ; - 10. pè il Filosofo deve mai separare l'attinenza tra
Filosofia e Teologia , che rende più autorevoli o efficaci le verità razionali
. – 11. II Metodo teologico s'ac corda col critico, perchè il Teologo ha
bisogno di guardare alla Storia universale e alla Linguistica ; — 12. il
Filologo ba bi sogno diguardare alla Storia religiosa e ai monumenti sacri .
13. S'accorda col matematico , per la severità del ragiona mento , per molti
esempj , per molte dottrine fisicomatematiche, per l'evidenza del concetto
d'infinità . – 14. S'accorda col fisi co , perchè il Teologo non deve mai
tenere la scoperta di cose na - 15. pė il fisico deve spregiare la
verificazione delle ipotesi , secondo le narrazioni sacre . 16. Sunto . Cap.
XLIV. Metodo della Filosofia.... 361 1. Argomento . — 2. Proprietà del Metodo
filosofico. – 3 . Raccoglimento nella coscienza . 4. Esame de' fatti interni ,
delle loro leggi e cause . turali ; - - 5. Delle relazioni con gli oggetti ; 6.
e però avvi una parte del Metodo , asceosiva da'fatti agli oggetti stessi , e
una parte discensiya dagli oggetti a ' fatti. -7 . Si distingue dal Metodo
teologico , e dal critico o filologico : 8. dal matematico , per la natura de'
concetti , la natura degli oggetti ; – 10. dal fisico , per la natura de' fat
ti , e per le relazioni loro con gli oggetti, 11. e quindi per la ricerca delle
classi loro , e leggi e cause , e per i priocipi della ragione. - 12. Si
accorda col Metodo teologico per l'esa 9. e per 506 INDICE DEL VOLUME SECONDO .
- me della coscienza; 13. col critico o filologico , per lo stu . dio
dell'umana natura pe' fatti umani esteriori e nelle lingue ; 14. col malematico
, per la speculazione di verità con ma teriali ; – 15. col fisico , per
l'altigenze fra le cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto . CAP. XLV.
Metodo della Filosofia Civile .... Pag. 381 1. Argomento . — 2. Proprietà del
Metodo nella Filosofia Civile . Questa si fondi sopr'i fatti , – 3. badando
alla notizia loro precisa e al collegamento loro . 4. Studio delle cagioni ; ma
fuggendo di prendere l'analogie per identità . - 5. Esame delle cagioni
esteriori ed interiori, non separabili , ma distinte . - 6. Le cagioni
interiori hanno più importanza : 7. ma senza trascurare l' esteriori . - 8. Si
ascende alle leggi o ragio ni . Leggi supreme della Scienza storica , della
Politica , della Giurisprudenza , dell'Economia. - 9. Le dette leggi non tol
gono la libertà , - 10. come la libertà non toglie alle conse guenze proprie la
necessità ; 11. tantochè in ciò risplende l'ordine della Provvidenza . – 12.
Dopo l'esame induttivo delle cagioni e leggi può farsi la deduzione, o probabile
o necessa ria , di ciò ch' è avvenuto e che può avvenire. 13. Questa Filosofia
delle ragioni o leggi , che governano le nazioni , non può trascurare il
procedimento storico ; ma neppure si può, per questo , trascurare la teorica di
quelle . - 14. Talchè la Scienza civile ha due presupposti , la Storia e la
batura . –15. Però il Metodo suo si distingue da ogni altro , 16. e a tutti si
upisce . Cap . XLVI . Metodo critico nella Storia . 401 t . Argomento. – 2.
Esame de' fatti , — 5. Discipline che aiutano in ciò la Storia : Cronologia e
Geografia , – 4. Archeo logia , Diplomatica , Statistica , Archeologia
preistorica , Etno grafia. 5. Come si può andare in eccessi con queste disci
pline . - 6. Ipercritica . – 7. Esame delle cagioni ; e iodi lo Storico rifà la
Storia entro di sè . 8. Cause finali, 9. particolari, generali , 10.
psicologiche , A1 . divine . 12. Oggettività della Storia ; 15. e come ciò la
renda bel lissima e ammaestrativa . – 14. Come lo storico si distingua da ogoi
altro Metodo ; 15, e vi si accordi . 16 Sunto, CAP. XLVII . Metodo critico
nella Linguistica . 420 1. Proprietà del Metodo interpretativo delle Lingue. 2.
Raccolta ed esame de' vocaboli . – 5. Come bisogna valersi dell ' uso proprio
nelle Lingue parlate , e come giovino i testi moni dell'uso . A chi ricorrere
per lo Lingue morte. Grammatica poi determina le classi e le leggi de' vocaboli
, 5. Avvisi necessarj a far bene la Grammatica . – 6. Io che con siste la
Filologia comparata. – 7. Utilità di essa , e da quali estremi bisogna fuggire.
8. Il fine dell'esame filologico è interpretativo principalmente ; – 9. e ciò
ne determina i con fini , i modi , 10. e le relazioni ; che sono massimamente
due : con la Letteratura , 11. e con la Storia , - 42. E iodi anche vediamo le
indirelle relazioni della Linguistica ; cioè con 4. La INDICE DEL VOLUME
SECONDO . 507 ca , la Teologia . 13. con la Filosofia , 14. cop la Matemati 15.
e altresi con la Fisica , sempre distinguendosi da tutto ciò . 16. Sunto. CAP.
XLVIII. Metodo matematico ... Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2.
Quantità pore, cioè astratte da ogni altra idea . – 5. Nel che , poi , bisogna
di stinguere fra l'insegnamento elementare ed il superiore. 4 . Si cerchino le
ragioni , sgombre da ogo' idea straniera . 5 . Idea dell'Infinito , distinto
dall'indefinito matematico . - 6. Il Cavalieri . – 7. Distiozione dal Metodo
teologico , - 8. e rela zioni con esso ; 9. dal Metodo filosofico : 10. e
accordo con la Logica , 11. onde l'insegnamento della Matematica è razionale ,
12. Distinzione dal Metodo critico , segnatamente dal letterario , 13. e
accordo . - 14. Relazione col Metodo fisico . 15. Come le dimostrazioni
matematiche abbian virtù di assestare gl'intelletti , e anche possano
dissestarli . . 16 . Sunto. Car. XLIX . Metodo nelle Scienze fisiche..... 459
1. Argomento . Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche , - 2. Prinia
d'indurre si comincia dall'Analogia ; 3. cbe talora non può giungere all'
Induzione, 4. Può essere fonte di errori ; o del troppo generaleggiare , 5. o
del poco. – 6 . Essa è di molta difficoltà . 7. Regola da tenersi. – 8. Indu
zione. Uffioj del senso e dell'iotelletto . 9. Ci solleviamo alle 10. alle
cause , - 11. alle leggi , 12. e però al . l'ordine . 13. Doppio errore de'
Sensisti e degl ' Idealisti . 14. Frantendono allri la luduzione , ch'è
legittima e necessa ria , 15. e da cui siamo condotti alla Deduziune . Suato .
Cap. L. Segue del Metodo fisico ; e Ordine fra le Scienze .. 479 classi , 16.
1. Argomento. – 2. Abiti che prende la meote per gli Studi fisici. – 5. Idem .
4. Necessità di mantenere l'ordine fra le Scienze . - 5. Guai , se la Fisica è
usurpativa. Confusione della Fisiologia con la Psicologia : – 6. de' fatti
esteriori con fl'interiori. – 7. Confusione di linguaggio , e dogmatismo. 8. Si
confondono i bruti con l'uomo ; – 9. la volontà con gli atti meccanicamente
determinati. – 10. Si distingue il genere umano in più specie , poi si pongono
le trasformazioni di tutte le specie ; -- 11. si confonde l'ordine de' fini col
piacere • con la materiale utilità . - 12. Abiti cbe prende l'intelletto per
gli Studj religiosi; Filosofia ; - 14. per le Matema. tiche ; - 15.per la
Gritica . 16. Conclusione generale. STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA. - Epoca
seconda dell' èra pagana. Ci. viltà degl' Italogreci ; successione dei loro
sistemi . . 245 XIV. Scuole italogreche . Epoca quarta dell ' èra pagana. Si
stemi grecolatini . - Cicerone . 366 XIX Giureconsulti romani. EPOCA
SECONDA DELL'ÈRA PAGANA. CIVILTÀ DEGL'ITALOGRECI; SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI.
SOMMARIO . Tre tempi dell'incivilimento ilalogreco ; i l'elasghi, la trasfor
mazione loro negli Elleni , le colonie . - Il terzo è più nolo ; quali sono i
suoi termini . – Cinque cagioni più principali dell'unione fra la civiltà
orientale e l'italogreca : colonie , commerci, viaggi , lingue , tradizioni.
Tre opinioni sopr ' esse; tutto dall'oriente, nulla e opinione media . – Dj
pendenza non generica nė volgare della filosofia italogreca daʼsistemi orien
tali . – La civiltà jtalogreca fiori primamente dove più vive le comunica zioni
con l’Asia e dove più ricco un anteriore incivilimento . l'ero quest'epoca si
chiama orientalitalogreca , o più breve , italogreca . Questa è un'età di
passaggio , fra le qualità orientali e il tempo socratico. Si veda le attinenze
lia filosofia italogreca , religione e civiltà. Quanto alla religione
sacerdotale, se n'ha indizi per le memorie de ' Pelasghi, de ' Mi steri e degli
Orfici. Celebre passo di Erodoto sulla religione de ' Pelas ghi, e sul nome
degli dèi posteriori ec ., e conseguenze di ciò . Somi ilianze tra la religione
pelasgica e quella de' Bragmani. - Misteri : quelli di Samotracia istituiti da
'Pelasghi ; domma che s'insegnava segretamente e molto simile al panteismo
dell'India. – Ciò pur anche ne ' Misteri eleu sini ; panteismo naturale,
metempsicosi, immortalità, purificazione. - La teologia d’Eleusi non può
interpretarsi solamente in senso fisico. Testi monianze di lode que' Misteri
pel domma sull'immortalità . Le due anime; anch'in Omero ec . – Gli Orfici:
qualcosa di storico v'è circa Orfeo , benché con mistura di simbolo.-- La
dottrina che va sotto il nome d'Orfeo si raccoglie da tradizioni antiche e
da'versi orlici. Le tradi zioni attribuiscono a Orfeo una religione collegata
poi a'Misteri eleusini : cosmogonie orliche, somiglianti all'indiane . Quanto
a'versi orlici , que sli non appartengono a Orfeo ; ma parecchi son certamente
molto antichi. Da varj ioni (che si riferiscono qui, apparisce il panteismo
naturale come ne ' Vedi. Passi che fece la religione tra l'Italogreci:
panteismo natu rale con molte tracce del Dio unico ; adorazione degli astri ,
massime nel volgo ; teogonie , o emanazioni sempre più specificate e che prendono
attri boti e nomi distinti ; individuazione ultima e volgare del politeismo,
specie per opere degli artisti e de' poeti, abbandonando quasi ogni simbolo.
Memorie sul combattimento fra le religiose tradizioni e il politeismo cre
scente. - La filosofia , dunque, prima sacerdotale ; poi sacerdotale e laicale
ad un tempo ; cedè inline al politeismo, rispettandolo, se non altro , come
apparenza o credulità popolare. — Questo resistere al male, e poi cedergli, si
vede ancora per l'altre parti della civiltà italogreca. La filosofia venne
preparata da molte cagioni, e però dovè fiorirvi assai presto , anzi chè
cominciare a' tempi di Talete molto dubbiosi. - La filosolia mosse da un
ritorno sulla coscienza morale Questa filosofia morale e religiosa fiori, prima
di Taleto, non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco ; e se n'ha prove non
dubbie. La cuola pitagorica precedeva Talute ; ma va di . slinto Pitagora dal
Pitagoresimo. - Molti argomenti di fatto e molte auto rità per mettere in saldo
le antiche origini di tal filosofia . Anche la scuola di Xenofane antecedė
Xenofane stesso ; e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poi la scuola
cleatica e l'ionica , infine i sistemi negativi . L'epoca dell'incivilimento
italogreco si può distin guere in tre tempi; de Pelasghi ( o con qual altro
nome 246 PARTE PRIMA. si voglia chiamare que' popoli primitivi) ; della
trasforma zione di essi negli Elleni ; delle colonie. L'età de' Pelasghi o
degli antichi abitatori di Grecia e d'Italia si perde nella notte de' secoli ,
ignoto il principio e la durata . È certo bensì, che quegli abitatori vennero
d'Oriente, come se n'ha prova in tutte le memorie e ne’linguaggi e nelle
reliquie dell'arti ; e che i Pelasghi, quantunque paruti barbari a Ecateo e ad
Erodoto e di barbaro dialetto, furono la più antica sorgente e più copiosa
delle genti e lingue e religio ni elleniche. (Balbo, St. d'It.; Cantù, St. univ
.; Guignaut, note al Lib. IV del Creuzer, Rel. de l'antiquité.) Sem braron
barbari, perchè reliquie di popoli più segregati allora da'popoli nuovi, già
molti passati avanti. Fatto è che di là, ove i Pelasghi abitarono, fan derivare
i Greci la civiltà loro , dall' Elicona, dall'Olimpo e dal Pindo. Accadde poi e
in Grecia e in Italia un cozzo di popoli : qual cozzo, e di che popoli, è molto
incerto agli eruditi ; ma questo si sa, ed Erodoto l'afferma più volte, che al
lora con trasformazione lunga e tempestosa i Pelasghi si convertirono in
Elleni. Viene poi l'età delle colonie ; un rovesciarsi di genti greche le une
sull'altre, un in vadere, un esulare, e indi un propagarsi di colonie, prima
nell'Asia minore e nell'Isole, poi nella Calcide, nell'Eu bea , in Sicilia e
sulle coste d'Italia, e infine (propag gini di colonie da colonie) in Asia , in
Tracia, sul Da nubio e nel Mar Nero. Questa terza età è propriamente storica ;
dell'altre due il più va ingombro di favole ; e la terza cominciò, secondo
l'Hofler assai temperato nelle · cronologie, sul secolo undecimo avanti l'èra
nostra. ( St. Univ .) In un'età così lunga e operosa, e ch’ebbe così lun ghe e
ricche preparazioni, si formò la civiltà e filosofia degl'Italogreci; la quale,
svolgendosi nelle colonie d’Ita lia e dell'Asia minore, cedè poi nel secolo
quarto avanti Cristo al primato d' Atene; onde cominciò un'altra età di
filosofia . Nell'epoca di che si parla ora, in ogni tempo del l'epoca stessa,
cinque cagioni principalmente mantene LEZIONE DECIMATERZA . 247 vano unite la
civiltà orientale e l'italogreca ; colonie , commerci, viaggi, lingue,
tradizioni : Le colonie, nè dico solo l'egiziane di Lelege, Danao, Cecrope ed
altri, ma le prime venute dalla terra degli Arii e de' Persiani, e l'ultime
ellene che si spargevano per l'Asia minore ; i commerci, che com’appare in
Omero, non cessarono mai tra Grecia e Italia e le coste dell'Asia ; i viaggi
per l'Oriente, non possibili a negare in tutto, de filosofi d'allo ra, come il
Ritter non nega quelli di Pitagora, il Ritter ne gatore sì voglioso ; le
lingue, che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le lingue le
tradizioni d'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in torno a cui
son tre le opinioni: da Erodoto fino al Creu zer le mitologie italogreche, la
greca segnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana ;
ma poi Ottofredo Müller, il Voss e altri riferirono tutto ad ori gine greca ;
il Guignaut ( Note al Crcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione
media . E questa si è che i germi delle credenze religiose si trapiantassero d'
Asia com'anco radici e forme generali delle lingue ; ne può pensarsi
altrimenti, dacchè ivi coabitarono un tempo le genti ellene : ciò non impedì,
nè mai l'im pedisce uno svolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come
nelle religioni: all'età poi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia
minore, per l'Egeo e nel Ponto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vi cini
orientali scaturi la fonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta
già in Esiodo ed in Omero . ( N. 1 al Lib. V , Sez. 1. ) Talchè (ponete mente,
o si gnori), se lo spargersi di colonie nell'Asia minore av venne dall’undecimo
all'ottavo secolo incirca, e nel con tinente poi d'Italia e di Sicilia
dall'ottavo al sesto , que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare
delle tradizioni orientali fra gli Elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia
nuova degl'Italogreci. Non istarò dunque a disputare com’essa derivi più o meno
da’sistemi orien tali, bastandomi ch'ella dipenda per fermo da molte tradizioni
d'Oriente o per le origini delle schiatte o pel 248 PARTE PRIMA. riaccostarsi
loro all'Asia. Che tal dipendenza poi de' po poli d'Italia e di Grecia, nazioni
antichissimamente ci vili e nella civiltà loro pertinaci, possa credersi
affatto generica e volgare, cioè senz'efficacia sull'educazione spe culativa,
giudicatene voi , o signori, che pur vedete gli effetti odierni del comunicare
le nazioni fra loro. Dove fu egli il primo fiorire della civiltà italogreca ?
nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia ; non già in Gre cia propriamente detta.
Perchè mai, o signori ? La ri sposta non par malagevole ; prima che in Grecia,
fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore, appunto perchè più vicini all'Asia
media, sorgente de' popoli e della civil . tà ; e prima pure che in Grecia
fiorì nella Magna Gre cia , cioè in Italia, perchè ivi più forse ch ' altrove
ra dicò la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni che fanno ionio Pitagora e
ionio Xenofane, venuti tra noi, dan se gno come frequenti e vive fossero le
comunicazioni tra le coste italiane e l ' Asia minore. Dico poi, ad ogni modo,
che le colonie greche trovarono in Italia grandi semenze di civiltà, nè però
ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi e prosperare. Di
fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto importanti: prima, che le ta
vole d'Eraclea , lette dal Mazzocchi, fan prova come i coloni greci prendessero
dagl'Italioti misure e confina zioni agrarie : seconda, che i Lucani, i Bruzj,
i Sanni ti , dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, e riparatisi a'
monti, ne discesero poi , e le ributtarono ( Hofler ), talchè più non restò in
Italia dialetti greci (in Puglia ve n'ha, ma di colonie recenti e fuggite dai
Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanari non
serbavano istituti civili . Ecco il perchè ho chiamato quest'epoca orientalita
logreca (italogreca per più brevità) ; greca, perchè filo sofia di colonie
greche; italiana, perchè sorse più splen dida in Italia e con tradizioni
italiane ( italica chia marono pure i Greci, come Platone ed Aristotile, la
scuola pitagorica e d'Elea) ; orientale, perchè con ori gini e comunicazioni
asiatiche. Non si toglie a' Greci LEZIONE DECIMATERZA. 249 la loro eccellenza '
se notiamo quel ch ' essi appresero ; offenderebbe la verità e loro chi loro
negasse la mira bile potenza di far proprio l'imparato e di dargli bel lezza e
compimento ; essi il ricevuto per dieci lo ridus sero a mille e quel mille lo
insegnarono al mondo; ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'Ita
lia nostra, o signori, principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici
questa filosofia nuova che tanto potè su Platone e sopr’ Aristotile ; l'Italia
ricevè dal 1 ° Oriente e da’Greci, l ' Italia poi restituì alla Grecia e alla
civiltà de' secoli avvenire ; e potè dirsi allora quel che poi disse Plinio :
Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium
in toto orbe patria. Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati:
avvaloriamoci , o signori, d'emulazione e di virtù, e non di lode . E
quest'epoca, di fatto (come dissi altrove), è un'età di passaggio ; ritiene
ancora le qualità orientali, ma che mostrano già di convertirsi nell'altre
dell'età socratica . Così tra gl' Italogreci, come tra gli Asiatici, abbiamo un
sistema religioso sacerdotale ; ma ora si nasconde ne' Mi steri , e si separa
perciò interamente dalle credenze po polari che prevalgono. Tra gli uni e tra
gli altri la filo sofia dipende dal sistema religioso ; ma ora si svolge in un
modo più laicale e più da sè stesso, perchè così ri chiede la mobilità di
quelle repubbliche, e perchè il sistema religioso si rimpiatta, e nè ha
sull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e commentarj vedici ; par come
un'eco de' tempi passati, più che voce vivente . E siccome la filosofia di
quest'epoca pigliò i germi da'Mi steri ( Ritter ), che aveano del panteismo
orientale, così ell'ebbe del panteistico a mo' degl'Indiani, ma con ten denze
più manifeste alla dialettica che va per distinzioni anzichè per confusioni .
Poi , qui come là s' unì la poe sia con la speculazione, ma più altresi se ne
distinse ; perchè i poemi omerici non furon mai ravviluppati con una
enciclopedia d'episodj; ed i poemi scientifici d'Elea e d'Agrigento s'accostano
alla prosa. E qui come là v'è 250 PARTE PRIMA. incertezze storiche, meno per
altro ; giacchè il più delle incertezze cadono su' Misteri e sulle origini
pitagoriche, non già sulle scuole posteriori . Premesso ciò, si veda, o
signori, qual fosse in atti nenza con la filosofia la religione e la civiltà
degl' Ita logreci . Della religione, come sistema sacerdotale, me ne passerò
più breve che non feci per l'India , giacchè (com ' ho detto) quel sistema era
sul morire, e se n'ha meno ragguagli e meno certezza. La religione sacerdotale
italogreca si può ricercare in tre modi : per le notizie assai oscure dei
Pelasghi, i quali tennero idee religiose più primitive e più vicine alle
orientali ; per le notizie scarsissime de' Misteri; per quelle degli Orfici.
Essi e l'origine de' Misteri apparten gono, credo, all'età di combattimento e
di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodoto scrive ( II, 51 , 52 , 53) che
da loro non si metteva nome agli dèi ; aggiunge che i nomi vennero d'Egitto e
che i Pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero la decisione all'ora
colo di Dodona, riuscito favorevole a que' nomi ; e dice infine che le nascite
e le forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo e da Omero ; tutte
cose già ignote. Vuol notarsi com ' Erodoto accenni pure che un simbolo osceno
gli Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano il senso ne'
Misteri ; e sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchici si
mostrava i simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente . Erodoto,
uomo schietto, n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevano
appreso le sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omero
e d' Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questo
luogo così famoso ? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle
succedute lontana dal politeismo ; secondo, che quella si rappresentava co'sim
boli orientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti;
terzo , che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da un
che meno LEZIONE DECIMATERZA. 251 pagano ad un più, non accadde senza
contrasto, e indi si ricorse agli oracoli ; quarto, che tenuto il simbolo
antico ed esteriore, la sua spiegazione si fece nell'in terno de' Misteri ;
quinto, che i nomi si suppongono venuti d'Egitto in età più recente, perchè
all' Asia media non s'imputavano queste tradizioni ; infine che Erodoto reca
l'antropomorfismo ad invenzione di poeti, non perchè già tal errore non fosse
cominciato popolar mente, ma perchè que' poeti l'ordinarono ( più o men di
proposito) in sistemi di mitologia, ed in modi specificati. Che poi la
religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani lo attestano Ferecide e
Acusilao in Strabone ( Ed. Sturz ) ; dicendo che i Cabiri , divinità
pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabiri maschi e tre
femmine. ( Creuzer, V , 2. ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto, non solo
che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi ( II, 5) , ma
(com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse i
simboli esterni . Come si spiegavano essi ? Apollonio di Rodi serbò del vecchio
storico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia . (
Schol. Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori ? Similissimi a quelli
dell'India . S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros ; la
materia fecondata , Aziokersa, o principio passivo ; e il principio attivo,
fecondatore, Asiokersos. Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il
passivo si distinguono dall'essenza universale, Azieros o Brahm ? 0 piuttosto (
giacchè l' interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros,
Aziokersos e Casmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio ,
rispon dono a Maya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il
Dio neutro, come non si nomina il Dio supremo nel Rig Veda ? tanto più che
Casmilo rispon derebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle
trasformazioni. Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il
domma samotracio mostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Tri
252 PARTE PRIMA . murti. ( Saint Croix, sur le Mystères du Paganisme ; Creuzer,
V , 2. ) E risponde non meno a quel panteismo la dottrina samotracia dell'età
varie mondane, o che il mondo si distrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche
ne' Misteri eleusini s'esponeva la dottrina d’un principio passivo, d'uno
attivo, dell'armonia mon diale che ne nasce, e di ciò che distrugge le forme
senza intermissione. Bacco, Cerere, lacco e Mercurio, ossia grecamente
Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, non ritraggono forse, o signori, i sistemi
dell'India, del l'Egitto e della Persia ? E forse su quelle divinità è ,
innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e lo Zeus de' tempi remoti, divenuto
poi un principio maschile, contrapposto a Giunone principio femminile. Di que'
Mi steri non si sa i particolari, vietato rigorosamente il propalarli, come
dice Pausania ( art. Beozia) e Apollo doro (Argon. I) , e come dimostra il
Meursio ( De Festis Græcorum ). Pure, da'cenni dell'antichità si ritrae che
insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale ( com’ho detto di sopra) , e la
metempsicosi, e l'immortalità del l'anima ( forse col ritorno all'essenza
divina) , e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il panteismo naturale
viene indicato da Cicerone ( De Nat. Deor. I, 42), che diceva : come le
dottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce meglio
per esse la natura delle cose che quella degli dèi . Che vuol egli dire ? Egli
accusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia confondevano,
in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale. Prova,
dunque, tale ac cusa , e viene confermato da molt' indizj, che la religione d'
Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi ; di fatto, che si trattasse d'una fisica
soltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore alla natura
esterna ce lo vieta lo stesso Cicerone. Egli scrive nel II de Legibus, che i
Misteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo beneficio d'Atene,
perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella speranza di vita
migliore ; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone ( Fedone)
LEZIONE DECIMATERZA. 253 che l'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi , e dà
a'buoni felicità eterna, cioè un'abitazione comune con gli dèi dopo la morte.
Isocrate afferma ( Panegirico) che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le
più dolci speranze quant'alla fine di questa vita e quant'all'altra che non
finirà mai . Che poi gl'iniziati s'ammaestrassero alla virtù si ha da molti
argomenti; e il Meursio (cap. 7 e 17) dimostra che quelli si preparavano a’
Misteri con gli esercizi di castità, e poi si credevano astretti, quasi da
sacramento, a rendersi migliori. Così Aristofane ( Rane, v. 467-462) mette in
bocca a un coro d'iniziati queste parole : « Il sole e una luce aggradevole
sono per noi che onoriamo i Misteri e osserviamo le regole della pietà verso i
forestieri e verso i cittadini. » Però que' Misteri si chiamavan teleti ( 7 : )
ett ) , giacchè da loro veniva la perfezione della vita . Va notato che la me
tempsicosi s' univa col domma dell'immortalità in que sto modo : credevano gli
antichi che il principio animale, principio di vita e di senso, distinguasi
sostanzialmente dal principio intellettivo ; e che l'uno, cioè l'animale, passi
di corpo in corpo, ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giri di secoli e in
premio del vivere onesto, ritornando all'essenza universale o divina. Però si
di stingueva in Persia il fervéro o genio dall' animazione, e in China Hoen da
Pe, e tra gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone ( dzepov) o anche logo
( 200795) da psi che, e tra'Romani animus da anima. Quindi l'anima sensitiva
s'immaginò non altrimenti che come materia sottilissima, e che, divisa dal
corpo, ne teneva le appa renze, erane lo spettro od il fantasma, vagante nelle
notti e intorno a' sepolcri. Tal distinzione si vede pertino in Omero, allorchè
Ulisse approdando a'Cimmerj inter roga i morti ( Odiss. II, c . 217 ) : «
D'Ercole mi s'offerse alfin la possa , Anzi il fantasma ; però ch'ei de' numi
Giocondasi alla mensa, e cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe,
di Giove figlia e di Giunone. » 254 PARTE PRIMA. La terza fonte di notizie,
cioè le memorie orfiche, non vanno soggette, o signori, a tanta perplessità, e
può trarsene qualche costrutto ; purchè evitiamo così la co moda credulità come
l'eccesso de critici. S'è giunti a du bitare d'ogni realtà storica ed antica
rispetto ad Orfeo; ma, quantunque la parte storica si frammischi a' por tenti
della favola, e un nome ( al solito) rappresenti le dottrine e i canti di più,
nondimeno qualcosa di reale e d'antico vi ha ; perchè Ibico ( in Prisc. VI, 18,
92) che fiorì presso al 550 prima di Gesù Cristo, già ram menta Orfeo ; lo
rammenta Pindaro ( Pith. IV , 315 ) , anzi lo chiama padre de canti apdov Tr
UTEP ( Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr. ) ; lo rammentano ancora gli an tichi
Ellenico e Ferecide e le tragedie ateniesi. Da molti luoghi di Platone ( Leg.
VIII ; Ione, Convito, Rep . 11) apparisce che a tempo di lui eran divulgati già
molti carmi col nome di Museo e d’Orfeo ; questi è citato nel Filebo e nel
Cratilo ; e si scorge che l ' espiazioni de’de litti appartenevano alle
discipline orfiche. La dottrina che va sott' il nome d’Orfeo si racco glie da
tradizioni antiche e da versi orfici. Quanto alle tradizioni antiche, elle
attribuiscono tutte ad Orfeo una religione , che istituita da lui si collegò
quindi a Misteri d'Eleusi ( Ott . Müller) : e ciò conferma il già detto sulla
natura di quel sistema religioso. Si rileva poi dagli antichi scrittori un
sistema orfico di cosmo gonia , benchè sotto più forme, e talora v'han messo la
mano autori dell' èra cristiana. Il Creuzer ne dà cinque di tali cosmogonie ;
rilevantissima quella di Ferecide Siro, pel quale son tre i principj Zeus o
Giove o Cronos o l'etere, il Caos o massa inerte ch'egli vivifica, il Tempo o
la durata senza limiti ( VII, 3) . E qui voi scorgete, o signori, l'indefinito
ch'è concepito nell'astra zione del tempo (come tra’ Persiani ) , e
dall'indefinito i due principj , l'attivo ed il passivo. Nella cosmogonia che
viene riferita da Atanagora e da Damascio, v’ha l'idea indiana dell' uovo
nell'acque, da cui esce Eros o Fa nete, amore o manifestazione dell'armonia
universale ; e LEZIONE DECIMATERZA. 255 tal idea orfica viene rammentata negli
Uccelli d'Ari stofane . Il mondo, poi, si rinnova per bruciamento (co me
secondo Eraclito, gli stoici , gl'Indiani e l'orgie eleu sine) , in virtù di
Dionisio corrispondente a Siva. (Creu zer, op . cit. , VII, 3. ) Mi pare che il
Maury ottimamente riduca le teogonie o cosmonie orfiche a questo : Cronos
genera i due principj , l'etere e il caos ; il caos in virtù dell' etere prende
la forma d'uovo, avviluppato dal l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre
primitive, a cui segue la luce o l'amore, quando l'uovo si spacca , ossia
quando il germe involuto si svolge nelle sue parti (Op. cit . Nota 12 al L.
VII) : queste le idee più principali che risultano dal paragone de' più antichi
testimoni . Ma i versi che ci restano sott'il nome d’Orfeo, son essi autentici
? Aristotile e Cicerone negarono già che i versi propalati fin d'allora come
d'Orfeo gli apparte nessero ; e più n'è dubbio a' dì nostri, perchè nei primi
secoli dell' èra volgare molti documenti si rimaneggia rono, e molti se ne
invento. Ma dice il Mullachio ( Fragm . Phil. Græc., ed . Didot. Parisiis,
1860) : Plerique ver sus puroque et simplici sermone insignes sunt ; talchè,
considerata la purità e il fare antico di molti versi, e il riscontro di varie
testimonianze. ond' essi ci sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizioni
vetuste, possiamo affermare che quelli senz'essere forse d’un poeta che si
chiamava Orfeo, sien per altro reliquie vere degli Orfici antichi . Udite
l'inno insigne alla Natura, tradotto dal Cantù nella Storia universale (tomo I)
e riferito negli Schiarimenti ( Ed. Tauchnitz, 1832) : « Natura , diva madre
universale, in tante guise madre, celeste, venerabile, molto creante spirito (
o cuor ), regina che tutto domi indomata, tutto governi , in tutte parti
splendi, onnipossente, ve nerata in eterno, divinità a tutte superiore,
indistrutti bile, primonata, antichissima, ... comune a tutti , sola,
incomunicabile, padre a te stessa senza padre, che per maschia forza tutto sai
, tutto dài , nodrice e regina di tutto ; feconda operatrice di quanto cresce,
di quanto è maturo dissolvitrice, delle cose tutte vero padre e ma 256 PARTE
PRIMA. dre e nodrice e sostegno. » Le quali ultime parole già udimmo per Aditi
nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina s’asconde, o signori , ne' versi
orfici ? La stessa che ne' Vedi: la natura universale è padre e madre, ossia ,
principio attivo e passivo ; ell’è divina, perchè non è la materia, sì
l'essenza universale, spirito divino primo e materia prima in unità ; è senza
padre, cioè senza principio ; è primonata, cioè generata da sè stessa con
uscire all'atto dall'indefinita potenza ; indi, ella è padre di sè stessa ;
infine, si palesa con tre divine opera zioni , genera tutto, sostiene tutto,
distrugge tutto. In Clemente Alessandrino ( Stro. V) , in san Giustino (Co
hort. ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo , in Proclo, in Porfirio e
in altri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che rendono lo
stesso sistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico. insegna
qual sia l'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi documenti
degli uomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo ; e che Dio
tiene in sè il principio, il mezzo e il fine. ( Pr. Ev. III, 12.) Riferirò un
altro inno ch’Eusebio tolse da Porfirio ( Ivi, e Stobeo, Eclog. Phis. 1, 2, 23,
e Bibliot. del Didot, Framm . ec. p.6 ) : « Primo e ultimo è Giove che splende
col fulmine. Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le cose . Giove è nato
maschio, Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra e l'aria stellata
de 'cieli ; ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della loro origine .
Unica forza e unico demone che governa tutte le cose, quest' unico le chiude
tutte nel suo corpo re gale, il fuoco, l'onda, la terra, l'etere, e la notte e
il giorno, e il consiglio, e il primo genitore e nume del l'amore : contiene
tutto ciò Giove nell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e il volto maestoso
irradia il cielo, intorno a cui sparge con molto lume la chioma pendente e
aurea d'astri ; e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di toro, un doppio
corno che l'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e l'occidente, giri noti
a' supremi dèi . Son occhi di lui il sole e la luna che LEZIONE DECIMATERZA.
257 corre di contro al sole . In lui è mente verace, ed etere regale non
sottoposto a morte, il quale col consiglio muove e regge ogni cosa ; e quella
mente, perchè prole di Giove, non può essere nascosta da niuna voce o stre pito
o suono o fama. Così, egli beato possiede e senso dell'animo e vita immortale, spandendo
il corpo illu stre, immenso, immutabile e con valida forza di brac cio . A lui
son omeri e petto e terga immani le ampiezze dell'aria ; e con veloci e native
penue precipitando, egli vola intorno a tutte le cose. La terra , madre comune,
ei monti che levano l' alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la
zona media i tumidi flutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il
nume, sta nell' intime radici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e
negli ultimi confini che inaccessa ed immota spande la terra . Tutte le cose
egli nasconde primamente nel mezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma
luce con opera divina . » Tra le figure poetiche non si può non vedere in
quest'inni l'opera della riflessione che affaticasi di scoprire e spiegare
l'attinenza fra Dio e l'universo , confondendola, per abuso d'induzione, con
l'attinenza tra l'unità delle sostanze e la moltiplicità c mutabilità
de'fenomeni. Non fa dunque meraviglia se Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero
gli esordj dalle dottrine orfiche e de' Misteri e però dall'antiche tradi zioni
pelasghe, cadessero nel panteismo. Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla
reli gione fra gl’Italogreci . Prima è un tal panteismo natu rale, in cui le
divinità sono le forze della naturu ; non le forze per altro simboleggiate,
come interpretò poi la scuola de' Fisici (Plutarco la distinse sì bene dall'an
tica scuola de' Teologi) , bensì le forze naturali confuse con gli attributi
divini. In quel panteismo, come nel Rig Veda, gli dèi son poco determinati :
differiscono poco gli uni dagli altri ; escono tutti e rientrano nel Dio unico
( Creuzer, V , 4) . Talche certi Padri pensarono ch'ei fosse un culto dell'
unico Dio creatore , e tal culto contrapposero alla corruzione posteriore
dell'idolatria ; Storia della F lofint. 17 258 PARTE PRIMA. ill 1 ma, veramente
, non può chiamarsi un teismo , bensì un panteismo naturale, dove nondimeno le
tracce del l'unità di Dio si conservano così spiccate da causare l'opinione
ch'io vi diceva. Però le divinità pelasghe non avevano un nome , dice Erodoto ;
e a dar loro un nome s ' opponevano le sacerdotali tradizioni ( Ispot 20091) .
E come narra Platone nel Cratilo che prima si chiamò in genere 0 : 9 le
divinità, così cabiri le dissero i Pelasghi, ossia ( forse) potenti; e ciò
risponde agli dei complices o consentes degli Etruschi. Poi, questo panteismo
naturale si ristrinse più par ticolarmente (e specie nel culto popolare)
all'adorazione degli astri , dove più che in altro ci apparisce la po tenza di
Dio : e che sia così l'attestano Platone ( Fileb. e Crat. ) ed Aristotile (Met.
IV , VI, IX ). Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo ; e si mantenne questo
nel detto volgare : Giove che fa ? per dire : che tempo fa? Ma il panteismo
naturale de' sacerdoti più e più si foggiò a sistema d'emanazioni, per
ispiegare con modo determinato la dipendenza di tutto dalla causa prima ; e
indi le teogonie e cosmogonie orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine,
allora, ebbero nome partico lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne;
come narrai che la triade pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dalla
fecondazione; e si sa del Giove con tre occhi in Argo ( Pausania ), della
Venere piramidale di Pafo, e co' due sessi ( statuina nella bibliot. naz. di Pa
rigi), dell' Apollo a quattro mani, del Sileno a due te ste , di una dea a
quattro teste nel Ceramico d' Atene, del Giano bifronte, della Diana mammellata
d'Efeso e della Cibele come informe pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco
a poco divennero nomi e attributi pro pri di certe divinità specificate; e la
Trimurti, le cui vestigia restano fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno
e Plutone, s'individuò per modo che l'un Dio non più si confuse con gli altri,
e questi si moltiplicarono all'infinito . Però, questa individuazione favoriva
il politeismo LEZIONE DECIMATERZA. 259 a volgare e si mescolava con esso, e
n'era eccitata e lo eccitava ; e ambedue si stabilirono più che mai con l'arti
del disegno, che lasciati quasi del tutto i simboli, ri dusse gli dèi a forme
umane, con alcune qualità pro prie di ciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma
velata, nelle forme tra maschili e femminili di Bacco e d'altri dei , figura
sacra dell'androgenia, quando s'abbandono la rozzezza dello scarabeo (
Winkelman , St. dell'arte ec. ) ; e tal simbolo (sia detto di passaggio )
alcuni artisti vo gliono imitare quasi perfezione di membra umane e le sono
immaginarie! Fatto sta che la scuola d'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele,
imitando i poeti ebbero più ch'altro efficacia nel fermare quel politeismo di
dèi spicciolati . Vuolsi por mente adunque, o signori, che da un lato restava
la tradizione sacerdotale, benchè più e più cor rotta, e cresceva dall'altro il
politeismo. Come restava la tradizione ? Ne' Misteri ; già lo vedemmo. E perchè
mai dovè occultarsi ? Dicono le memorie antiche , i primi re di Grecia e
d'Italia fossero ad un tempo sa cerdoti , capitani e giudici; patriarcato ch'è
origine d'ogni nazione. (Arist. Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano
poi d'un contrasto lungo e sanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere
; il che apparisce anco nell'In die ; ma se ivi le liti si composero
stabilmente, fra gl'Ita logreci al contrario scapitò la classe sacerdotale che
( l'accennano i racconti circa Erettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in
alcuni luoghi, come Eleusi, lasciando a' re tutto il resto ; e così , a poco a
poco, e tanto più quando sorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse
gnamento religioso e restò solamente i riti esteriori del sacrifizio e delle
feste. Quell'insegnamento , dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel
mistero, in que'luoghi appunto che la classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i
sacri querceti di Dorona. E che fa intanto la filosofia ? Ella è sacerdotale
dap prima, o teologia, perchè tenute le tradizioni asiatiche, cresce nel
sacerdozio pelasgo ed orfico ; poi, nell' età che 260 PARTE PRIMA . > il
sacerdozio si separa e s’asconde, dalle semenze reli giose de' Misteri
germogliano i primi sistemi come i pi tagorici, che han del sacerdotale e del
laicale ad un tempo. Questa filosofia , perciò, combattè dapprima il
politeismo, per esempio ne' frammenti di Xenofane che derideva il fingere dèi a
somiglianza nostra . Poi, dac chè il concetto di Dio sempre più s' annebbiò, i
poste riori consentirono a' tempi, e gl' Ionj, gli Eleati, e molto più i
sofisti, menaron buona, se non altro come appa renza o come credulità popolare
la mitologia. Nè altrimenti andò negli ordini tutti della civiltà . Di fatto ;
quando i governi regi si mutarono in popola reschi, molta efficacia e salutare
v'ebbe la filosofia mercè i Pitagorici, e segnatamente Zeleuco e Caronda , i
cui frammenti di leggi muovono dal dimostrare che Dio è ; ma in progresso la
filosofia non potè resistere alla li cenza , fu perseguitata, e però cadde in
mano di sofisti che inventarono l'arte della parola per la parola, malvagi
adulatori di plebe e mercanti di cavillo. Abbondando le ricchezze, nate da
operosità, fiorirono scienza ed arte ; ma successe un abito d'ozio e di
godimenti, e la Ma gna Grecia e l'Ionia caddero in mollezze di trista fama .
Resisterono i primi sapienti, come dimostra l'istituto pitagorico ; ma cedè a
poco a poco la loro austerezza, e già Xenofane canta « ch'è dolce nel verno
stare al fuoco bevendo, e domándare all'ospite : quant'anni avevi tu quand' il
Medo invase ? » il Medo, o signori, invasore della patria ! lei sofisti,
all'ultimo, la filosofia diventò l'arte di godere. Nell'ordine morale s'arrivò
a tal segno ch'Ate neo ( L. IX) rimprovera Platone, perch'e' disse nel Sofi sta
come Parmenide amava Zenone d'Elea ; quasichè tal parola, detta di giovane, non
ricevesse mai buon senso . E la filosofia , resistente dapprima co' Pitagorici,
giunse co ' sofisti all'indifferenza tra bene e male ; indifferenza molto
diversa e peggiore dell'indiana ; chè questa è non curanza del moltiplice e
vario ch'apparisce, in grazia dell'unità sostanziale, ma quella è non curanza
senz'al tro ; ivi è un'ombra di moralità, qui nessuna . LEZIONE DECIMATERZA .
261 Mostrate così l ' attinenze tra filosofia, religione e ci viltà
degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e la successione de' loro
sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e per confessione di tutti,
v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi ; e bisogna ri correre il
più a Diogene Laerzio, autorità poco accet tata . Le congetture dunque son
lecite ; e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che sul definire l'età de' tempi
remoti variano le tendenze degli Orientali e de' Greci; que sti tirano al meno
e quelli al più. Per che ragione ? I Greci amando la certezza de' fatti, li
trasportano quanto più si può nel tempo storico, e lontani dal favoloso ; al
contrario degli Orientali, che amano l'indefinito de se coli ; effetto del
panteismo. Premesso ciò , rammentate , o signori, che prima dell'undecimo
secolo avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; e allora co
minciò l'età delle colonie ; e da esse la più nota civiltà italogreca. Quali
preparazioni vi riscontriamo noi per la filosofia ? La civiltà pelasga, le
dottrine orfiche, i Mi steri ; inoltre le comunicazioni più che mai frequenti
per l'Asia minore ( dove prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E che
tempi erano quelli per l'Asia media ? Rammentiamocene, o signori ; erano i
tempi di splendida civiltà, quando circa il mille avanti Cristo si compilavano
i Vedi ed i poemi, e fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare,
che date tali prepa razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di
vita civile ond' il pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi non
selvaggi come l' America , ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazioni
filosofi che ? Non farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate a
tre o quattro secoli dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più meno
già in via circa il mille od al novecento prima dell' èra volgare ? A ogni
modo, tempi precisi non se n'ha ; e poichè la critica devé supplire, parmi più
ragionevole vi supplisca così, che stando ad indizi già riconosciuti per poco probabili
. La filosofia mosse anc' allora da un ritorno sulla 262 PARTE PRIMA. coscienza
morale ; ce ne assicura la moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a
' Sette sapienti ; a uno de' quali, cioè a Chilone, si reca il detto : conosci
te stesso . Abbiamo poi alcuni tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui
antichità non si dubita punto ; e chi, Foclide per esempio, lo fa
contemporaneo, chi anteriore a Pitagora. Le sentenze di Mimnermo, Evano,
Metrodo ro, Teognide e va' discorrendo, mostrano chiaramente la riflessione
sulle verità morali , benchè nascosta in afori smi . Così queste di Foclide : «
Non dire mendacio, ma parla sempre con verità. Primieramente venera Dio e
quindi i tuoi genitori . Non disprezzare i poveri , nè voler giudicare alcuno
ingiustamente, perchè se tu giudiche rai male, Dio poi ti giudicherà. Fu da Dio
a’mortali dato in uso lo spirito ch'è immagine di lui. Il corpo abbiamo dalla
terra e si scioglie in essa e siam polve re, ma lo spirito va in cielo . » Or
bene, io dico, e mi sembra di poter essere sicuro, che codesta filosofia morale
e religiosa sorse e fiori prima del panteismo materiale di Talete e d’Anassi
mandro ; perchè n'ho prove storiche ( come dirò) , e per chè dalle tradizioni
sacre orientali e orfiche non si poté saltare in un subito alla materialità .
Dove fiorì ? Non in Italia soltanto co ' più antichi savj della scuola ita
lica, ma nell' Asia minore altresì, fra gl ' Ionj, dovunque insomma germinò la
civiltà ellena. Di fatto, che che vo glia credersi delle tradizioni circa
Pitagora e del suo venire dall' Ionia, esse, unite alla certezza che Xeno fane
pure ne derivasse, mostrano almeno che l'antichi tà non reputò straniere agl'
Ionj 1 ' idee pitagoriche ed cleate. Aggiungete che Talete ha molti più segni
di spiritualità che non i posteriori ; e tal peggioramento non si può negare .
Perchè dunque, dimanderete, vien solo ricordata la scuola italica ? La risposta
è facile e il caso è comune ; si ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e
durò . y Ma la scuola pitagorica o italica, dimanderassi an cora, ell’è
anteriore a Talete, cioè al panteismo mate LEZIONE DECIMATERZA . 263 riale
degl' Ionj ? Mi sembra certo, purchè si distingua Pitagora dal Pitagoresimo ;
questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una scuola di filosofi ;
quegli è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che può essere prima o
dopo, senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della scuola nel suo nome
rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son diverse l' opinioni.
1 ° Quanto a Pitagora, il Meiners lo crede nato al 584 avanti l'èra nostra ; lo
crede nato il Lacher al 608 . Come si determina ciò ? Per autorità non salde, e
per vie di congetture. Talete poi , secondo Apollodoro, sa rebbe nato il 640,
anteriore perciò a Pitagora ; dáta non senza incertezze. ( Ritter, St. della
fil. ant.) Ma ecco il Niebuhr ( St. Rom . I) che contrapponendo a Polibio ed a
Cicerone l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile la
contemporaneità di Pitagora e di Numa ; talchè andremmo più oltre che la data
di Talete ( 717-679 ) . - 2º Avanti alle dáte di Pitagora s'ha in Italia
Zeleuco e Caronda, legislatori l'uno di Locri e l'altro di Cata nia ; e ne'
frammenti di quelle leggi v'ha il segno delº pitagoresimo. Il Krug fa Caronda
del 668 ; il Benteley, l'Heyne, il Saint Croix, il Centofanti, del 730. —3.
Quando Pitagora venne in Italia , si dice che subito la scuola crescesse tanto
di numero e di potenza, da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli : il che
umanamente non può accadere. La scuola dunque precedeva. — 4º Il perso naggio
di Pitagora, l'istitutore insomma del Pitagore simo, diventò un simbolo in gran
parte ; il che dà segno d'antichità molta, e di tradizioni orientali. — 5°
Nella scuola pitagorica è mescolanza di culto e di specula zione ; e ciò indica
il passaggio dall' età teologiche alle filosofiche o laicali , che in modo
distinto vengono più tardi. — 6. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione
della scuola italica , il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua
persecuzione, corsero pochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si
dà presto a un uomo, tardi a un potente consorzio d'uomini. – 7. La storia di
Pitagora, simbolico in gran parte, ha natura 264 PARTE PRIMA . di leggenda ; e
sogliono le leggende avvicinare tempi lontani ; indi le confusioni dette di
sopra. -8° Nella scuola pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche;
talchè l'antichità di queste palesa l'antichità di quella che le raccoglie;
com'elle poi diminuiscono in progresso, e ap pena si scorgono negl' lonj. – 9.
I Pitagorici han forma di consorteria, e tra loro è comune e costante un corpo
di dottrine. Ciò rammenta , o signori, gli usi orientali che sempre più si
perdono nelle repubblichette popolari; e rammenta l'antichità più remota, dove
più vale l'unione e l'autorità. Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come
una, e vi scopre solo differenze accidentali. - 10. Le tavole d' Eraclea, lette
dal Mazzocchi ( come accennai già) , mo strano un incivilimento anteriore, e
quindi un'antica preparazione alla scienza . E delle prove d'antica civiltà
nelle genti d'Italia recherò qui cosa che pare non fosse disputata fra' Greci ,
val a dire ch'essi, come dice Ta ziano (Or. contra Greci, § 1 ) prendessero da’
Toscani la plastica. — 41., Il Cousin dimostra con le autorità non ricusabili
di Sozione, d' Apollodoro e di Sesto che Xe nofane nasceva il 620 avanti l'èra
volgare, un 60 anni circa prima di Pitagora stando agli anni del Meiners. Ora ,
se la dottrina di Xenofane tenne del Pitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto
più vecchio del suo maestro ? 12° Se bisogni stare alle memorie greche
talquali, i capi della scuola pitagorica e d'Elea vennero d'Ionia ; men frechè
in lonia correva un tutt'altro pensare. Qui, pren dendo la cosa talquale, v'ha
due inverisimiglianze, prima che ne luoghi de' capiscuola non ci avesse
quell'indirizzo di speculazioni, come sarebbe assurdo che d'Alemagna venissero
in Italia fondatori d'eghelismo e là non n'ap parisse il focolare ; seconda,
che piuttosto que' filosofi cercasser favore in Italia, sé qui non preparato il
ter reno. Ma tutto si concilia, quando il silenzio delle me te , in tanta
oscurità di tempi dissero all'incirca il più rino mato, tacquero il meno, senza
negarlo bensi, chè non lo conobbero forse. Dissero la scuola ionica, tacendo la
. LEZIONE DECIMATERZA. 265 scuola religiosa comune là ed a' Magnogreci, perchè
più celebre qui ; dissero i più famosi capi delle scuole itali che, tacendo le
lontane e recondite preparazioni. – 13° E ch'elle ci fossero, mostra il celebre
passo di Platone che fa dire a Zenone d'Elea : queste opinioni sull'uno co
minciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui . ( S0 fista .) Il Brandis
ed il Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina germe innato negl'
intelletti. Al che ripugna il Cousin e con ragione. Prima, qui si parla
storicamente e non teoreticamente ; poi, se volesse allu ( lere a germi
naturali e senz' origine, come mai, anzi , parlerebbe Platone di cominciamento
anteriore ? ( te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov) - 14. De primi Pitagorici non
v'è scritti ; scrissero i più vicini al tempo di Socrate ; e ciò per l'uso
degl'insegnamenti orali, per la costanza delle tradizioni e pel segreto delle
dottrine religiose. Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde agli usi
orientali . Nella scuola ionica poi sembra che fino il primo, cioè Talete,
scrivesse versi , probabilmente prose ( Diog. Laert. I, 34, Plut. de Pitiæ
Orac. 18, Arist. Phys. ) ; il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di
stabilire la novità. 15. L'uso di non iscrivere, uso lasciato si tardi da '
Pita gorici, spiega ben anco il perchè sembrò più recente « lella scuola ionia
il pitagoresimo : più recenti erano le scritture, non la loro filosofia. 16 °
Recherò infine ( lue singolari testimonianze di Padri greci , d'Ermia verso la
fine del secondo secolo, e d' Eusebio dottissi mo ne' libri originali della
greca filosofia . Ermia , dun que, nell'opera Derisione de' filosofi gentili
enumera le contrarie opinioni loro sull'anima, sul bene, sull'im mortalità,
sulla divinità e sui principj del mondo ; e poichè ha.rammentato varj filosofi,
viene a Pitagora e lo distingue dagli altri così : egli d'antica nazione ( S 8)
. Qui, segnalare tra gli altri Pitagora per antichità, è nota bile assai .
Eusebio, poi, più espressamente nelle Prepa razioni evangeliche ( lib . X ,
cap. 4) dice : che Pitagora nacque a Samo o in Toscana o altrove, ma non greco,
e ch' egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia ita 266 PARTE PRIMA.
lica succedette la ionica e l'eleatica. Anzi anche Giu seppe Flavio ( Lib. VII)
rammenta tre filosofi prischi con quest' ordine qui , Ferecide Siro, Pitagora e
Talete. Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità del
Niebuhr, del Cousin, del Gioberti (nel Buono), del Poli (Appendice al Manuale
del Tennemann, trad .) e del Centofanti ( Pitagora ), e che non hanno in
contrario argomenti positivi di tradizione, o concordi autorità di storici
antichi, mi fanno sicuro che il pita goresimo, come scuola religiosa e morale,
anteceda l'altre scuole ; poi venga l'eleatica, e come più affine alla pri ma,
e come precedente a Xenofane stesso per la dottrina dell'unità universale ;
succeda loro l’ionica, quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua
conti nuazione che s'accompagna ( com' accade) con l'altre ; e vengano infine,
su che non ha dubbio, le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra
lezione. vole ne 267 LEZIONE DECIMAQUARTA. SCUOLE ITALOGRECHE. SOMMARIO . Causa
interiore del Vilagoresimo è la necessità d'una riforma morale : da ciò l'esame
di coscienza posto per principio di filosofia e di vita buona. Cause esteriori.
Si volle la riforma religiosa e morale da cui la civile , per mezzo della
filosofia . - Parti non dubbie nelle memorie degl'istituti pitagorici . Notizie
su Pitagora e sugli altri più famosi . Quali documenti abbiamo certi sulla
scuola italica . - Il Carme aureo i antico .- Le notizie che ci danno gli
Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma nemmeno rigettate con
leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica , suo fine e metodo . — Quali
cagioni dettero impulso a quel metodo che fu applicazione d'idee matematiche.
Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in un ideolismo matematico ; giacchè
la monade si pensò come una forza. - Il numero rappresentava l'attinenze o
l'armo. nia ; indi il simbolo musicale . Due furono i significati del numero ,
it simbolico ed il reale . Verità del metodo matematico ; suoi eccessi nel pro
cedere dall'astratto al concreto : esempi varj . – Si cercò le leggi mentali
della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse a Dio, causa ,
ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principj delle cose si
dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza . -Questo è l'unità . – L'unità
bensi presa , non come parte d’un tutto , ma in senso generale. - A Dio non si
può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso ; Dio è sopruni tà ; ma
l'errore precedė dalla induzione astrattiva . Si dimostra co ' do cumenti che
il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra il vero
ed il falso . - L’unità , come per gl'Indiani, parve l'indefinito che si
determina . — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. —
Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo , come i
contrarj in atto , e ridotti all'armonia da Dio . - L'uni tà generale o la
monade che si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allora
sugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec . L'anima è numero ,
ed è nel corpo come Dio nel mondo ; è l'armonia del corpo . La verità è l'uno e
il numero ; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso . — Dio ,
ragione prima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi,
perchè Dio è il numero per eccellenza , e il nu mero è l'esemplare del mondo.
Quanto alla scienza , si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità
razionale. Numero e armonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima
intellettiva il ritorno all'essenza pri ma . --- Come si tentó fuggire le
contraddizioni del panteismo naturale negando la cognizione diretta
dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirle col panteismo ideale. - Cinque concetti
principali di Xenofane : Dio è uno ; sommo potere ; gli manca ogni contingenza
e però non è nè finito nė infi nito né in quiete nè in moto ; Dio non può
nascere, perchè il non ente non può dal nulla divenire qualcosa : Dio è il
tulto . — Indi segui che il mondo è apparenza . – l'armenide stabilisce chiaro
il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, e condanna il secondo . Muove
dall'idea generale d'essere ; Dio si fa più indefinito che in Xenofane. – Tutto
è idea . Melisso fa Dio più indeterminato ancora, chiamandolo un qualcosa . --
Gli attributi della moralità non più appariscono . – Panteismo materiale de gl'Ionj
: nasce in condizioni opportune. - Il moto delle cose vien conside rato
nell’ente o nell'assoluto , ch'è la materia eterna divina , dotata di pensiero
. – Diversità nel concepire tal moto fra ' dinamici e i meccanici. 268 PARTE
PRIMA. E la causa prima del moto la posero diversamente in quella cosa che più
parve trasmutabile in ogni altra cosa . – Talete ba dello spirituale anco ra ;
la grossolanità materiale viene crescendo . Anassayora vide l'assur dità del
panteismo , e prese il dualismo ; ma non détte troppo alla mente . — Idealismo
ateo di Protagora ; materialismo di Democrito ; le due forme di scetticismo
particolare . Scetticismo universale di Gorgia ec . Misticismo d'Empedocle ; e
perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico . — Due schiere d’uomini
; gli atei e i l'itagorici di quel tempo : interpreta zione storica , e
interpretazione fisica della mitologia . Qual è mai, o signori, la causa
interna del Pitago resimo ? La necessità d'una riforma morale; necessità pro
fondamente sentita da uomini ornati, quanto la Gentilità comportava, di grandi
virtù. Il conosci te stesso fu esame di coscienza morale negli istituti
pitagorici, e fonda mento altresì di speculazione ; chè, nella coscienza e'tro
varono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guasto crescente
della religione, de costumi e della li bertà, al quale s'oppone il
Pitagoresimo, e inoltre ( com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i
commerci d'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una
riforma religiosa e morale, da cui venisse la civile; e cri. terio a tutto ciò
désse la Scienza . Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli
Alessandrini mescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto
( Ritter ) e la sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma
religiosa si tentò co’riti e dommi segreti ; la morale con l'opporsi a tre vizi
, voluttà, superbia ed ava rizia , ed esercitando anima e corpo nella musica e
nella ginnastica ; la civile , domando la licenza con abiti disci plinati ossia
con l'autorità ( curos pz) e con la vita co mune. Il discepolato morale
preparava così alle specu lazioni , e, preparato, s'elevava l'alunno a gradi
più alti e più liberi. ( Centofanti, Pitagora ; Ill . del Giardino Puccini.) Circa
Pitagora o di Samo nella lonia o di Samo nella Magna Grecia, poco v'ha di
sicuro e con mescolanza di simboli ; pare tuttavia che un fondamento storico
v’ab bia e ch'egli fosse uomo di molta dottrina e virtù. Per la dimenticanza in
che vennero le colonie di Magna Gre cia e tutte le antichità italiche dopo le
conquiste di Ro LEZIONE DECIMAQUARTA . 269 ma, e per la guerra feroce contro i
Pitagorici, non ne sappiamo quasi nulla ; li sappiamo bensì a lor tempo in
molta riverenza. Si rammentano con più certezza Liside, Clinia e Archita
cittadini di Taranto in Magna Grecia, Eurite e Filolao o di Taranto o di
Crotone. Archita , il più celebre di tutti, capitanò più volte gli eserciti , e
non ebbe mai la peggio ; buon padrefamiglia e cittadino, domatore di sè stesso,
famoso per invenzioni e scoperte in musica ed in matematica e per libri
d'agricoltura . Sul finire del quinto secolo avanti G. Cristo, la scuola
pitagorica venne atrocemente perseguitata ; molti fra gli scampati, o si
rifuggirono in Grecia o si sbandarono in Italia. Sembra che l'odio movesse da
opinioni politiche, parteggiando essi per gli ottimati ; ma chi badi alla se
gretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che un capopopolo
attizzò le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze, s'accorgerà
che trattasi qui , come per Anassagora e per Socrate, del politeismo vol gare
geloso e persecutore. Gli scritti col nome di Timeo, d'Archita e d'Ocello
Lucano sono apocrifi, e i frammenti di Brontino e d'Euri famo; ma non quelli di
Filolao (vedili nel libro d'Aug. Boecckh su Filolao, e nel Ritter) ; i quali
col Carme aureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola italica,
ne dánno contezza . Nel sostanziale di essa gli storici vanno d'accordo. Quanto
al Carme aureo , e's'attribuì a Filolao, a Epicarmo, a Liside, a Empedocle ; da
Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per Liside; e : mostra, comunque, che
ne' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno, secondo
l'usanza di molti critici odierni , neghi l'autenticità pel dubbio di tre"
sole parole, che a lui non paiono antiche ; e antiche le dimostra il Mullachio.
( Fragm . Phil. Græc. Didot, 1860. ) . Le relazioni che ci danno del pensar
pitagorico gli Ales sandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione ; chè
in loro la critica è poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli
antichi; tuttavia dire come si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli
Alessandrini si descrive, non 270 PARTE PRIMA. i 2 7 > I meriti fede per le
grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi negli Psilli di Timone
Fliasio (3° secolo av. G. C. ) che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici : «
E tu, o Platone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti
con gran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il
Timeo. » ( Fragm . Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la
filosofia an tica, come la filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj
dell'essere, del conoscere e dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è
ragione e legge, vediamo bene da tutte le loro memorie che occupò
quegl'intelletti for temente. Fine della filosofia parve loro ed a tutti gli
antichi, la liberazione degli errori e de' mali comuni, ma con tal divario
dagl'Indiani , che la speculazione dovesse congiungersi all'operosità civile .
Metodo di filosofare fu il matematico ; cioè l'applicazione d'idee matematiche
alla natura universale, così esterna come interna, e al suo principio. Onde mai
tal metodo ? quali cagioni gli dettero im pulso ? Già negli antichi v'ha
inclinazione di filosofare a priori sul mondo (sebbene l'esperienza,
anch'esterna, non s ' escludesse dai Pitagorici) , perchè mancavano gli
stromenti; poi, premeva più lo speculare teologico, re cato altresì nella
fisica ; e le lunghezze d'una fisica os servatrice non si comportavano in
tempo, che i varj studj non erano scompartiti tra più dotti . Inoltre
l'arimmetica e la geometria vennero d'Asia, nate tra le scienze più antiche,
perchè non bisognose d'osservazione. Altresì di tali scienze s’aveva necessità
tra popoli commercianti e tra colonie che dissodano terreni, asciugano paduli,
e scavano canali . Più, la discordia tra' politeisti e il mono teismo - antico
fece spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni d'uno e di moltiplice, come
anche si scorge nel vecchio Testamento . Infine, tempo é spazio ci danno la
quantità, e sappiamo che l'induzione falsa indíava, come ne' Vedi, lo spazio e
massime il cielo ( onde l'uranismo), e il tempo ( onde l’Aherene de' Persiani,
il Crono de Greci , LEZIONE DECIMAQUARTA. 271 il Saturno de' Latini), talchè le
tradizioni orientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a
quel modo di filosofare . I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del
tre, del dieci e delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di
Dio. Ma si vuol credere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni ?
ossia, ch'e'sti massero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più ? In altre
parole, il Pitagoresimo fu egli un idealismo matematico ? No, sicuramente ;
Aristotile lo spiega chiaro dicendo : ch'essi stimarono le cose una imitazione
de'nu meri (μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet. I , 6) . Ini tazione,
dunque; a leggi di numero, cioè, rispondono le cose ; e la mente ritrova l'une
nell'altre ; e in questo è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che
mai restava pe' Pitagorici, levato il composto ? Restava la monade. E che
cos'era la monade ? Forse un'astratta unità , o l'atomo indifferente inattivo
di Democrito e di Leucippo ? No ; ma l'essenza ch'è una forza : il concetto di
forza o d' attività prevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come
rispetto al mondo. Di fatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento
universale se non la continua limitazione (o determinazione) dell'inde finito ?
Ciò resulta da molti riscontri , ma singolarmente dallo specchio de contrarj (
di cui parleremo) . Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio
; causa è l'anima ; e causa d'ogni armonia è l'unità. ( Frag. di Filolao ;
Siriano, Com . Met. d ' Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant. ; Bertini, Idea d'una
Fil. della Vita, vol. 2. ) Quindi, pe' Pitagorici, le leggi del numero e della
geo metria rappresentavano l'attinenze; cioè , significavano il rispetto d'una
cosa all'altra, e d'uno all'altro con cetto, l'armonie particolari e
l'universale ; da ciò i lor simboli musicali. Si dica pertanto, o signori , che
per la scuola italica eran due i significati del numero ; significato simbolico
e reale. È significato reale quando noi diciamo : Dio è uno e le creature sono
moltiplici ; e così dicevano essi 272 PARTE PRIMA. che Dio è il numero per
eccellenza, cioè l'unità e la totalità d'ogni perfezione. È significato
simbolico quando s'astrae i numeri a significare gli oggetti ; come dicendo
(per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse Dio e le creature ; così
parlavano più spesso i Pitagorici . Al lora si fa come l'algebrista un
linguaggio figurativo . assai comune agli Orientali ; e ciò toglie l'apparente
stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità ? Certo non manca
di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue o d'essenza o
d'accidenti o di parti , di gradi o di potenza o di atti ; e tutto, dunque, è
capace di numero e di misura . Per altro, le leggi matematiche non hanno da
cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; come Galileo,
osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del moto crescente.
Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, come dalla legge
matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesse procedere a
priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concludere la realtà
contingente ; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può conclu dere ch'e'
si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi ideali a cui essa
risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nella caduta son
sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quello vi
combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene la scuola
italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematiche
applicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita ; del metodo
sperimentale di Polo ci ragguaglia Aristo tile (Met. I) ; le dottrine musicali
d'allora fan supporre molti esperimenti ; Erodoto scrivche i medici italiani
erano i più reputati ; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il
metodo astratto ebbe il diso pra . Così , rappresentando il principio, il mezzo
ed il fine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa ; però Filo lao divideva il
mondo in tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso , perchè si compone
sommando i LEZIONE DECIMAQUARTA. 273 suoi quattro numeri primi ? ebbene, dieci
i pianeti . Cin que i corpi regolari nella geometria ? dunque altrettanti gli
elementi, e ciascun d'essi n ' ha la figura ; la terra ha il cubo, il fuoco la
piramide, l'aria l'ottaedro, l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e
dunque, altresì cinque i sensi . Se i quattro numeri primi , sommati tra loro,
fanno il dieci ; e se i quattro numeri pari ( 2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri
dispari ( 1 , 3, 5 , 7) , sommati, fan tutt'insieme trentasei, la tetrattisi o
quadernario dovrà riscontrarsi nelle cose ; e quattro, per esempio, sono i
gradi della vita : minerale, pianta, animale e uomo ; e , ne' corpi, il punto è
unità, la linea è qualità , la super ficie è triade, il solido è quadernario,
si compone, cioè . di quattro punti. Questo metodo, applicato alle cose
dell'esperienza, riuscì arbitrario non di rado, e se, inalzato a Dio, ne guastò
il concetto per l'astrazione dell' indefinito ; pure, accompagnato come fu da
tradizioni buone, da molte virtù morali , da preziose osservazioni interne ed
anco esterne, ed eccitando la speculazione, fece sorgere tra gli errori belle e
profonde verità . Quel metodo era (com’ac cennai) : trovare le leggi mentali
della quantità geome trica e arimmetica effettuate nella realtà e salire con
queste alla prima cagione, alla prima ragione ed alla prima legge. Però dice
Filolao che l'intendimento mate matico è il criterio di verità. La prima
cagione dell'essere, che è ella mai ? Sic come i Pitagorici voller trovare i
principj delle cose e il principio de principj, così precede il quesito : che
son mai tali principj ? Risponde Aristotile : « I Pitagorici , educati nelle
matematiche, dissero i numeri esser prin cipj delle cose. » ( Met. I, 5) cioè
tutte le cose si ridu cono a leggi supreme di numero, e queste leggi costi
tuiscono la loro essenza . Or bene, che cos' è la prima cagione ? È il primo principio,
per Filolao ; è la causa che antecede ogni altra causa, per Archita : « quam
Are chytas causam ante causam esse dicebat, Philolaus rero omnium principium
esse affirmabat. » ( Siriano, alla Met. Storia della Filosofi . - 1 . 18 274
PARTE PRIMA. l' Arist. XIII. Dunque se i principj delle cose son numeri, il
primo principio è tale altresì; o, come diceva Hierocle nel commento al Carme
aureo ( Fragm . Phil. Græc.): « Se tutto è numero, Dio è numero. » Che nu mero
? Il numero per eccellenza. Che cos' è il numero per eccellenza ? Vediamolo .
Il moltiplice fa supporre l’unità ; e l'unità n'è sem pre il principio ; così
abbiamo solido, superficie, linea, punto ; questo è il principio della linea,
della superficie e del solido. Dunque Dio, ch' essendo il primo principio, è il
numero per eccellenza, è altresì l'uno per eccellenza . ( Aless. Afrod . Comm .
alla Met. d ' Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno per eccellenza .
L'unità , idealmente, si può considerare e qual parte che compone la pluralità,
e quale idea generica che abbracci la pluralità stessa. Diciamo: il venti è
compo sto d'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com pongono un tutto.
Diciamo ancora : una ventina, un centinaio, un migliaio, un milione ; ecco
l'unità gene rica che abbraccia ogni numero, considerato come unità . Nel primo
caso, l'unità è l'elemento della pluralità ; nel secondo , è la forma mentale
che fa capaci di compren dere in un concetto le moltiplicità sparpagliate. E in
tal senso l'unità si può chiamare il numero per eccel lenza, giacchè abbraccia
ogni numero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio l'idea d'unità ne'
detti significati ? No ; Dio non è il compo nente della moltiplicità ; nè Dio è
un che generico e comune alle moltiplicità particolari. L'unità di Dio è, a dir
così, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela zioni personali della
Trinità son soprannumero. ( S. Aug. in Joann. Evang. ) Si dice uno per negare
il moltiplice, nulla più ; e chi confonde l'analogia di tali concetti col
significato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente la filosofia
e la teologia. Si domanda, per tanto : la scuola pitagorica usò que' concetti
nel signi ficato vero ? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che Dio per lui è
imperatore sommo e duce, uno, eterno, LEZIONE DECIMAQUARTA. 275 permanente,
immobile, simile a sè stesso, diverso dal l ' altre cose, potentissimo,
supremo, e che solo conosce l'essenza eterna. Anzi, Siriano nel luogo già
citato dice, che pe' Pitagorici Dio è una e singolare causa, astratta « la
tutte le cose, e superiore alla dualità de' principi, la quale vedremo più qua
: « Ante duo principia unam et singulam causam , et ab omni abstractam
præponebat. Parrebb'egli, dunque, che l'unità de' Pitagorici sia nel senso
buono ? Il Bertini ( Op.cit. , vol. II) va interpretando più benignamente che
si può certe opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare ; e tuttavia
conclude: « Il sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio molto
al disopra del mondo ; ma il fato della logica li forzava sovente ad
immedesimarli in una sola sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuole
dir mai fato della logica ? Vuol dire la necessità di certe conse guenze, dati
certi principj . Or via, quali son dunque i principj che menavano al panteismo,
non ostante l'alte verità frammischiate in abbondanza ? Era, appunto, il
concepire Dio quasi unità generica, o numero per eccel lenza ; e questo in
grazia della non buona induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari,
e l'unità, cioè il numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così la
scuola pitagorica chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza di
tutte le cose ( Arist. Met. I ) ; l'essenza delle cose chiamata eterna ( la
Filolao ; che inoltre affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero
senz'armonia , e tale armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio ; aggiunse,
che tal numero è legame all'eterna durata del mondo; anzi ( e questo val più ),
esso legame produce sè stesso . (V.framm . i Filolao nel Ritter . St. della
Fil. ant.) Finalmente. Dio pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un
tempong 11pTLOTES PITTOy, Arist. Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi
concepivano Dio com'unità generica, in cui s 'uniscono potenzialmente i
contrarj del mondo, pari e dispari, femmina e maschio, male e bene, e via
discorrendo ; contrarj che si distinguono attualmente quando il poten 276 PARTE
PRIMA. ziale viene all'atto, e l'illimitato si limita, e l'essenza universale (
conosciuta solo da Dio, cioè da sè stessa) si determina mano a mano ne'
fenomeni . Dubitò il dotto Bertini che s'intendesse da' Pitagorici, non
dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma d'accennare che Dio la in sè i
contrari perchè li supera. E non esito punto a dire che ciò e ' tenevano forse,
ma in confuso, e la con fusione generava il panteismo . Di fatto, se quel
concetto era limpido, essi non avrebber detto che Dio è pari ed impari ;
giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni mondane, e però non si
contengono in Dio. Si risponderà : noi n'abbiamo un'idea più chiara. Va bene ;
se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi l'universo infinitamente,
le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi, l'infinito lo pigliavano
per l'inde finito o potenziale ; e quindi, il finito sembrò a loro il perfetto,
e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo specchio delle contrarietà in
dieci antitesi (dispari e pari , finito e infinito, uno e più, quiete e moto,
luce e tenebre, bene e male ec. ) , fatto da qualche Pitagorico ; e Simplicio
notò come le contrarietà si comprendano si risolvano in Dio. ( Arist. Met. I,
Simpl. Phys.) Inol tre , come il mondo era la decade, cioè la pienezza d'ogni
grado d ' entità , e così Dio ; che riceveva nome d'ogni numero, unità , diade,
triade, quadernario ( o solido), set tenario, decade. Dimodochè pe Pitagorici,
come per tutta la filosofia pagana (avvertite, o signori ) , il quesito della
causa pri venne a quest' altro : Come si limiti 1 illimitato ; ossia ,
pensarono gli antichi che la produzione del mondo consistesse nel determinare
in atto la potenzialità prec sistente : talchè Filolao pone tre principj,
l’illimitato. il confine, e la causa ( το απειρων, το πέρας, το αίτιον ). Il
che parve in due modi : i Pitagorici , com’i pan teisti ionj e indiani, dissero
che quel potenziale sta in Dio ; i dualisti, che e' sta fuori di Dio, ed è la
mate ria informata da esso. Nella scuola italica , poi, la im plicitezza de'
concetti adombrò alte verità ; Dio (per ma LEZIONE DECIMAQUARTA. 277 esempio) ,
legame del tempo e dello spazio, se non si prende com ' identità d'ogni essenza
, vuol dire benissimo che l'unità divina con l'unico atto creatore e conser
vatore fa l’unione del moltiplice disgregato : però Dio è l'armonia
dell'armonie . Che cos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema di tutti
i contrarj. Che cos'è l'universo ? I con trarj in atto, e ridotti da Dio
all'armonia . Come l'unità generica non diviene numero se non si distingua in
unità determinate o particolari, così la monade suprema non genera il mondo se
non si distingua in monadi o so stanze particolari. Che si richiede, o signori,
a formare il numero ? L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra. Ma la
distinzione, considerata mentalmente, non è forse un concetto negativo e
indeterminato, dacchè si gnifichi che l'una cosa non è l ' altra ? Or bene ; e
pen savano essi che a formare l'universo ci voglia le unità o monadi
particolari, poi la loro distinzione; ossia, come ( lice Aristotile, elementi
positivi da un lato, elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere
d'elementi si fa tempo e spazio ; nel tempoi momenti e la distinzione di un
momento dall'altro, cioè gl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione
d’un punto dall'altro cioè il vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con l'ispirazione
del vuoto ; ossia distinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro com'aria
ne’polmoni . I due elementi , il positivo ed il negativo, uniti tra loro, fanno
la diade o il pari; l'ele mento positivo o l' unità, così sola come aggiunta al
numero pari (per esempio il tre ), fa il dispari . Ed ecco, o signori, l' unità
nell'altro senso ch'io spiegava di sopra , cioè nel senso non generico ma
particolare di compo nente il composto. Talchè l'unità nel senso generico è Dio
; le unità nel senso particolare fanno il mondo. Ed ecco altresì perchè si
diceva da’ Pitagorici che il pari è illimitato , illimitato perchè il vuoto e
l'intervallo ( o la negazione) è in astratto un che potenziale, può ricevere
distinzione da' punti e da’ momenti all' indefinito . Si diceva per
contrapposto che il dispari è limitato, giac 278 PARTE PRIMA. chè chiude
l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive o tra due monadi , riduce
in atto la potenza, e si fa la triade, numero perfetto che ha principio, mezzo
e fine. Voi capite, o signori, come per la teorica de’toni e degl' intervalli
si vedesse analogia tra la musica e l'universo. Il quale, venendo dall'essenzá
eterna come necessario svolgimento d'attività, non ha reale comin ciamento, è
ab eterno ; comincia sì , ma quant' al nostro pensiero ( -o iniyocav) , ossia
il pensiero nol può con cepire altrimenti . Nè s'avvidero essi che se il
pensiero nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'op posto è
irrazionale . Che cos'è l'uomo nell'universo ? Un'anima razionale che sta nel
corpo come in u sepolcro , diceva Filolao. L'anima è numero e armonia ( Plut.
De plac. phil. IV , 2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del
corpo e n'è principio di vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone la
sentenza che l ' ani ma è armonia , combatte i materialisti che ponevano
l'anima com'un risultamento dell'unione corporale, an zichè com’un principio di
essa, a mo' de ' Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo,
che l'ani ma è sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico
; ma ne’ Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni),
che come Dio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na
( V. Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e
delle emanazioni tutte, il corpo . Derivano da tutto ciò le teoriche sulla
ragione som må del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità , così
la verità è l'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia ; talchè come
il numero fa la misura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del
l'uno all'altro, così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le
specie degli enti e con le loro attinenze. Ma come si conosce da noi ? Il
simile col simile ; però distinse la scuola italica il senso dall' intelletto
come in due parti ( Cic. Tusc. IV , 5 ) ; l'intelletto è di LEZIONE
DECIMAQUARTA . 279 vino e si conosce per esso (benchè in modo relativo, dice
Filolao) la divinità della natura ; il senso è terrestre, e si conosce per esso
il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima del conoscimento è dunque Dio
; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta la ragione pri ma, non solo
perchè raggiano da lui gl'intelletti , ma perche Dio è numero, e il numero è l'
esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall' intelletto. ( V. il Cou sin e
lo Stalbaum , ambedue nel commento al Timeo .) Però, avvertite, o signori, la
scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbia vero concetto, stette nel
ritro vare la necessità razionale di ciò che conosciamo. Essi voller saper non
solo ciò che è ed accade, ma perchè ciò dev'essere ed accadere. Tuttavia
successe a loro quel che ad ogni panteista ; si credè di trarre a priori le
cose dal conoscimento dell'essenza universale, come le pro prietà d'un
triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessità razionale ( eccetto la
ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni e le matematiche) sta
solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces sità un altro per attinenza
; ad esempio, data la per cezione, non può non essere il corpo, o data la
volontà negli uomini che son razionali, non può non essere la libertà.
L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni da un'idea,
anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e non altro ;
o anco è sola contingenza. ( V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità sono
numero, negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero ed
armonia il bene, disarmonia o ne gazione il male. ( Arist. Met. I.) Il bene è
misura, il male è dismisura : da ciò quel detto pitagorico : « La misura è
ottima, pétpov Žpustov . » E come Dio è l'ar monia universale, il numero per
eccellenza, egli è il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va per
armonie matematiche e musicali, così la volontà ; e indi nasce la virtù, ch'è
numero dentro di noi, componente la discordia degli appetiti ( Carme aureo,
57-60 ); numero fuor di noi nell'educazione della famiglia e della città . .
280 PARTE PRIMA . - am - ( Fragm.di Luc. Ocello. ) Allora l'anima si va
conformando a Dio (ov.02.09749. Tapos to delov ) ; la disforme da Dio passa in
corpi diversi con la metempsicosi od è punita nel Tartaro ; la conforme a Dio
ritorna nell'essenza ond'ella emanò. » Sarai, dice il Carme aureo, un Dio
immorta le, incorrotto, non sottoposto a morte ( v. 71 : ETEL 0212. τος θεός,
άμοροτος, ούκ έτι θνητος) . Signori, chi non mirerà, in mezzo a quell'ombre, la
luce di sì alte dot trine ? Ma, tralignando i tempi, la filosofia traligno. Il
sistema pitagorico è, quant'a'principj, un pantei smo naturale ; perchè l'unità
per eccellenza vi comprende lo spirito e la materia, distinti poi come tutte
l'altre contrarietà. Come voleva egli scappare il Pitagoresimo alla
contraddizione suprema d'identificare tutte le contrad dizioni ? Dicendo che
non conosciamo l'essenza in modo diretto : quasichè importi tal conoscenza per
escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire la contrad . dizione,
escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento , e così creò un
panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G. Cri. sto,
venne assai tardi ad Elea città di Magna Grecia . L'idealismo suo nasceva prima
di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per più cagioni ; pri
ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismo naturale ; poi,
perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui ora pendevano i Dorj
non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia d'Elea); scetticismo
voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di Colofone anch'esso, e
in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema pitagorico, benchè com
prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali , però Xeno fane, vissuto a
lungo in Ionia , venuto poi in Italia, mostra nell'ontologia l'idealismo
italico , ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj. Egli scrisse in versi , e ne
resta frammenti, da cui , com'anche da Platone e da Aristotile, si rileva le
sue opinioni . ( Fragm . Phil. Græc. Didot. ) Uscì di patria per le invasioni
Lidie, viaggiò in Sicilia, si fermò in Elea o Velia ; e visse più che centenne.
( Censorino.) LEZIONE DECIMAQUARTA . 281 Xenofane ha di Dio un'idea sublime.
Egli è uno, non simile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re .
Ma si deve, o signori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del
sistema. Dio è uno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si
converte con l'ente ; però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio ,
Xenofane la provò benissimo per un secondo concetto ancora, ch'è la potenza.
Voi sapete già, o signori, che per la scuola italica l'unità o la monade o
l'entità ( vocaboli equivalenti) è forza, è un'energia . Ciò pure affermò
Xenofane ; e però Dio, ch'è l'ente , è sommo po tere ( 20 % TELY ) : quindi se
più dèi uguali, nessuno è po tentissimo per l'eguaglianza, se più dèi
inferiori, nes suno è potentissimo per l'inferiorità. Talchè Xenofane,
riprensore d’Esiodo e d'Omero, scherniva com’empie le superstizioni volgari, e,
diceva, se i cavalli sapessero di segnare, fingerebbero gli dèi a loro
sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto ; che a Dio manca ogni contin genza,
finità e infinità, moto e riposo. L'infinità ? In che senso la nega egli
Xenofane , e contro chi ? Nel senso d'illimitato o indefinito che si determina
con atti successivi ; contro i Pitagorici pe' quali Dio è infinito e finito ad
un tempo, si distingue nell'universo e vi si muta perennemente, benchè immutato
nell'essenza : for s'anche, dove Xenofane accenna il moto e il riposo, con futa
le opinioni degl' Ionj già cominciate e già oppo ste all'italiche più antiche,
ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè le contrarietà fra cui Aristotile
notò ( come vedemmo) il moto e la quiete, ugualmente che il finito e
l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito (indefi nito ) ch'è moto.
Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altra verità , in Dio non essere
contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore ? No ; e si scorge dal
l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falso nell'applicazione : Dio non
può nascere. Va bene ; ma per chè ? udiamolo, signori; il perchè ce lo dà il
trattatello De Xenophane, Melisso et Gorgia, attribuito ad Aristo tile , non di
lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adun 282 PARTE PRIMA. que : Dio non
può nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non ente non può dal nulla
divenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non può non essere ; ma il
non ente nel significato di Platone e pitagorico è il contingente ; che può non
essere appunto, giacchè non è per essenza sua propria, bensì dall'ente.
Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non ente in
significato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla ; ma ciò
che diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che ne
conchiudeva Xenofane ? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà pure
causalità nessuna ; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda, inaccessibile.
( ch'è dun que il resto ? o quel che ci pare in continua mutazione ? Fenomeno,
apparenza, illusione, e nulla più ; talchè la fisica che si fa con l'apparenze
è illusoria, non è scien za . Però egli disse in un verso : « Queste cose (del
mondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla opinione. (
Plut. Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì Timone Fliasio
ne' Psilli. ( Fragm . Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava un quinto
concetto : che Dio o l'ente è tutto, o intero . ( Fragm . di Xenoph.) Che vuol
egli dire ? Cerchiamolo . Che idea vi dà, o signori, l'infinità ? Certo,
pienezza d'es sere, cioè che ivi non ha mancamento . Ma tal pienezza significa
forse il tutto ? No, chè tutto è idea relativa : tutto, implica parti ; e
quindi ogni tutto può essere più o meno, come numero ch'egli è ; nè numero
assoluto si dà ; mentre assoluto è l'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva
concepisce il mondo com'un tutto e confonde l'infinità ( come pienezza
d'essere) con l'universo . Così accadde agli Eleati ; e però Aristotile
scriveva di Xeno fane : « Contemplando egli il tutto del mondo, disse che
l'unità è Dio. » Indi l'aforismo eleatico, uno è l'ente e il tutto (ey to y uzi
có Tiv) . Che si concludeva mai da questo ? Poichè al tutto non manca nulla, e
l'ente è il tutto, nulla può cominciare, perchè sarebbe aggiun gimento :
quasichè, o signori, ciò che viene dall'efficienza LEZIONE DECIMAQUARTA. 283
creatrice aggiungasi all'infinità . E però vedete, che dove gli Eleati pareva
negassero l ' indefinito pitago rico, van poi al medesimo vizio ; perchè si
piglia Dio com'un tutto generico, che viene simboleggiato con lo sfero. Resta
da sapere che foss'egli per Xenofane l'ente o Dio . È ragione assoluta,
intelletto essenziale. (Fragm. di Xenoph .) Che v'ha dunque più di pitagorico
negli Eleati ? Si lasciò la parte corporea ed ogni moto e restò la spirituale,
divina ed immutabile ; quindi è un pan teismo ideale. Il qual sistema si
continuò in Parmenide, in Zenone ed in Melisso. Parmenide d’Elea nacque
probabilmente nella 65a Olimpiade, e fiorì nella 69 ", ossia 504 avanti Gesù
Cristo. Dice Plutarco ( Adv. Colot.) ch'egli détte alla patria leggi avute in
grande amore. Zenone d'Elea , scolare di Parmenide e nato verso l'Olimpiade 719
, amo di cuore la patria , e poichè un tiranno lo condannò a morire, sostenne
da uomo il supplizio : Melisso di Samo fiori verso l'84a Olimpiade, seguì
Parmenide, fu uomo di Stato, e capitano gl'Italioti contro Pericle. Questi gli
Eleati più famosi. L'opinioni di Parmenide vi son date assai chiare ne'
frammenti del suo poema. ( Fragm . Phil . Græc. Didot. ) E che si trova in
quelli fin da princi pio ? I due aspetti, già separati da Xenofane : l'ente,
che unico è ; e il non ente o l'apparenza, che non è : non è , o signori, in
modo assoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scriveva
Parmenide, di filo sofare : 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70
ury; vedi anche il Parm . di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma
l'ente e si nega il non ente o l'apparenza ; o, al contrario, porre che l'ente
non è c che sia di necessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive
così la via degli Eleati da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si
fermavano a considerare il moto delle cose . Ebbene, che concetti ha egli
Parmenide allorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è ? Gli stessi di
Xenofane : l'ente è conosci 284 PARTE PRIMA . 1 bile con la sola ragione,
ingenito, non mobile, tutto ( cudow ) unigeno, eterno ; non fu nè sarà, perchè
ora è tutto insieme; non può esser nato , perch'è assurdo che l'ente non sia ;
non divisibile, somigliante a sè stesso intera mente, riempie ogni cosa ; la
dura necessità ( dir.n ) lo stringe in vincoli (ossia egli è necessario ;
necessità di Dio trasferita da' panteisti al mondo ed alla volontà uma na );
egli non è infinito ( atedrventov ) , non bisogna di nulla, ed è lo stesso il
pensare e ciò che si pensa. ( Framm . e segnatamente v. 66-94.) In che
Parmenide differì da Xenofane ? Quegli ha forma più scientifica di speculare,
perchè comincia dall'idea universale dell'essere, e la contrappone al non
essere. ( Ritter, Bertini.) Ma crede reste voi che Parmenide s'avvantaggi su
Xenofane, come nella severità dialettica, così nella perfezione dell'idea ili
Dio ? Anzi, dove il maestro partì dall'idea di Dio, ragione pura, santità essenziale
e provvidenza, lo sco lare poi con un vizio più rilevato d'induzione si fermò
al concetto dell'essere generale, nè v'apparisce punto la personalità divina :
sicchè Parmenide non avversa come Xenofane la mitologia , anzi l'accetta qual
credenza po polare. In man di lui, perciò, il sistema eleatico si rese più
ideale. E questa idealità condusse Parmenide (sem bra un paradosso ), come anco
Xenofane alla confusione lel senso e dell'intelletto . Quanto a Xenofane
apparisce da un verso di lui in Sesto Empirico ; e quanto a Parme nide, lo notò
espresso Aristotile ( ppovaly usy tér vistn512) . Mentrechè il sensista dice :
la sensazione è idea e tutto : l'idealista dice : l'idea è sensazione e tutto.
Ma sorge contraddizione nuova : se intelligenza e senso son tut t'uno, come
potrà egli il senso darci l'illusione ? Ep pure, Zenone d'Elea non pare
ch'altro volesse co’suoi strani sofismi fuorchè mostrare : com’abbandonandoci
all'apparenze del moto e del moltiplice, cadiamo sem pre in contraddizioni. E
la parte negativa di tal sistema s'accrebbe in Melisso che ( notate, o signori)
muove dal l'ente indeterminato come Parmenide, ma lo significa in modo più
indeterminato ancora , chiamandolo un qual LEZIONE DECIMAQUARTA. 283 cosa. ( V.
Fragm . Phil. Græc. Didot ; De Xenophau Melisso et Gorgia ; Arist. de Soph.
Elenchis, e Plat. Thecet.) Se non che, Melisso torna co’ Pitagorici a dire che
Dio è infinito, negando a loro ch'e'sia finito, per chè l'ente non ha principio
nè fine . ( Fragm . 2. ) E ciò va bene ; ma pare che qui terminasse l'infinità
nel concetto di Melisso ; egli non lo concepì come infinitu dine assoluta
d'entità, e pero dotato d'efficienza crea trice e pensiero puro ; anzi l'
indeterminatezza di quel l'astrazione fece sì ch'egli non parla dell'intelletto
e della bontà di Dio, e l'idea ne vacilla dinnanzi com'om bra informe e vana. (
Ritter, Bertini.) Così da Xenofane in poi vi fu scadimento, come da '
Pitagorici agli Eleati . Questi bensì fecero progredire la dialettica tendendo
a conciliare i contrari , e Aristotile fa inventore di quella Zenone, che si sa
da Diogene Laerzio aver composto dialoghi. Se la scuola pitagorica seguitò, ma
con forme più filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità , gli Eleati
ne presero la parte ideale ; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'è perciò la
setta men filosofica . In che ci viltà ? Tra'costumi voluttuosi della Ionia , e
in quelle città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e de Persiani. E
se voi mi domandate, o signori: Que' sistemi da che gente vennero professati ?
Rispondo, che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro nati a Mileto nel
l'Asia minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sa nulla ; o
sappiamo d' Eraclito ch'era superbo, duro e solitario . Di Talete stesso,
bench’ Erodoto ricordi un consiglio di lui agl' Ionj , Platone ( Teetete) dice
ch' ei s'astenne da' pubblici negozj . Qual diversità dalla storia de
Pitagorici ! non ci meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. ( Fragm .
Philos. Græc. Didot, 1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'asso
luto. E che cos'è l'assoluto ? La materia del mondo. unica entità , eterna,
divina, dotata di pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchè
Anassagora, ebber ciò di comune ; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286
PARTE PRIMA. liani materiali che succedettero agl' ideali . Ma gl' Ionj
diversificarono tra loro nel concepire il moto dell'uni verso ; chi, come
Talete e Anassimene, Diogene d'Apol lonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico
; chi, come Anassimandro e Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il
divario : cercaron tutti la prima cagione delle cose, ma pe' dinamici la
produzione si fa con isvolgi mento di forze vive, come gli animali e le piante
; pe’miec canici la produzione non ha se non forme apparenti . mutandosi solo
le particelle inerti come ne’minerali. La dottrina vera comprende le due
opinioni ; perchè la cau salità modale trae sempre in atto le potenze, l'atto
si produce (dinamica ) ; benchè quest'atto poi non ci dia sempre una specie o
un individuo, come nella generazione degli animali, bensì talora un
aggregamento come ne'mi nerali. A ogni modo, tal dottrina non s'applica punto
alla causalità creatrice ; e gl’lonj, negando che dal nulla si faccia nulla,
negando qualunque causalità che non operi sopr'un soggetto preesistente, non
s'avvidero, che tal cau salità non può dirsi assoluta, ma condizionata . Questo
in genere ; venendo poi a specificare la causa prima, gl’lonj la posero chi
nell'una e chi nell'altra cosa che più parve trasmutabile in ogni altra o quasi
un germe, secondo i dinamici, o quasi elemento univer sale, secondo i
meccanici: Talete nell'acqua, Anassi mandro in una natura media ( udtaču puçev
) , e però lo chiama principio (apua) , Anassimene nell'aria, Eraclito nel
fuoco, Diogene altresì nell'aria . Ma, badate, o si gnori , nè quell'acqua, nè
quell' aria, nè quel fuoco, son proprio ciò che ne vediamo; è un che più intimo
e uni versale, simboleggiato in cose visibili secondochè queste parevano più
acconce a figurare l'universalità , come l'acqua che tutto abbraccia, l' aria
per cui si vive, il fuoco che tutto vivifica e distrugge. E con questo pensare
la causa prima, s'andò di male in peggio. Talete serba confuso al materiale un
< he di spirituale ; però dice che tutto è pieno degli dèi e che in ogni
cosa è la mente, e, secondo Cicerone LEZIONE DECIMAQUARTA. 287 ( Quest. Tusc.
I), professò l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma confuso ed
implicato : vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica più antica
, già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica ed agl'
Italioti ; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sulla natura di
Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il prin cipio, in
cui tutto ritorna è infinito , perchè l'origine o il cominciare non termina mai
( tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov . Fragm . Phil. Græc.; Didot) ; però gli
dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da' pesci.
Anassimene seguitò quella via ; nè altrimenti Eraclito, benchè questi , che
cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX , e Clem . Alex. Strom . I ), désse
alla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non si
discostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sulla
ragione prima. Qual è la ragione del conoscere ? questa, che il principio
conoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le cose
conosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di morale
gl'Ionj ne parlassero poco ; e ciò sta col materialismo loro ; Eraclito bensì
pone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi della
patria ; Achelao nega ogni legge necessaria ; e il giusto e l'ingiusto fa
nascere dalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non
détte, benchè materiale e salvo poche verità , una fisica buona. All'assurdità
del panteismo volle rimediare Anas sagora da Clazomene, nato verso il 500
avanti l'èra nostra , però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò
creatrice ; sicchè s'apprese al dualismo ; anzi, (lacchè spiega poi la
formazione del mondo come gli al tri Ionj meccanici, non si sa bene che ufficio
e' désse alla mente divina in ordinare, il mondo. ( Plat. Fodone.) Il suo libro
cominciava : Tutte le cose erano insieme ; l'intelligenza le divise e le
dispose. (Diog. Laert. II, 6.) E così distinse Dio, o la mente ( vojv) , dalla
natura ; e 288 PARTE PRIMA . + 1 questa pose in particelle simili , omeomerie,
che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta o che rice von poi
di mano in mano ( 2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia in parte lo seguì
, ma peggiorando ; chè fece l'aria dotata di mente, e quindi ordinatrice.
Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva sta bili
ordinatrice la mente ; ma questa non va esente di materialità ( Fragm . Phil.
Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori,
alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo ? La negazione
degli scettici , particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte
l'opinioni de' Pitagorici e d'Elea, ben chè non anco terminate ( come va
sempre), e già comin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un
tempo le sette degl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da
Protagora (di cui nel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone );
colui , non si sa quando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra . Il
principio d’un suo libro cominciava : Degli dèi non so nulla ; e Timone Fliasio
scrive, che Protagora quantun que dicesse ignorarli , osservò la legge ossia le
cerimo nie legali ( Fragm . Phil. Græc.) : nella osservanza della legge i
sotisti posero moralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj : tutto si
muta ; e con gli Eleati : tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra
; perchè se nulla r’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza . Vedete, o
signori, come l'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due
proposizioni già dette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò : se
tutto muta , nulla è in sè stesso ; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è
vera ; vere l'apparenze contrarie , veri i contradittorj, vero insomma tutto
ciò che si pensa, e l'anima è la somma dei diversi pensieri ( Condillac, Kant),
e il fine del discorso sta nel produrre l'appa renza : qui è il sostanziale
dell'arte sofistica . Che vi pare, o signori, non lo dicono anch ' oggi : tutto
è vero quel che si pensa ? Quasi contemporaneo, ma un po'dopo LEZIONE
DECIMAQUARTA . 289 è Democrito d'Abdera, nato per Apollonio il 460, e per
Trasillo il 470 ; talchè, se fiorito con Protagora il 444. ciò sarebbe avanti
a' 16 od a'26 anni ; impossibile il primo caso, non verosimile il secondo,
perchè Democrito dettò le cose sue dopo lunghi viaggi . Sa degl'Ionj, perchè
materialista, tiene bensì degli Eleati , perchè muove dal concetto dell'ente ;
e dice : unico ente il vuoto e lo spazio con gli atomi nel seno ; dalle loro
congiunzioni e dalle figure matematiche conseguenti nascono le qualità ; e
poiche il simile si conosce col simile ( τα όμοια ομοιών είναι apestira ), v'ha
conoscimento nell'anima, essendo ella un atomo a cui vengono le figurette o
immaginette dei corpi ; rozza fantasia che male s'attribui ad Aristotile. E Dio
che cosa è per Democrito ? Compiacendo alle plebi , egli finse dèi come
immagini enormi, ma sotto posti a morte ; vero ateismo. ( Fragm . Phil. Græc.
Di dot .) Vuol notarsi che Leucippo fiori con Eraclito il 500 ; ma poichè il
materialismo giungeva non opportuno. mancò allora il successo, in tal maniera
che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se Protagora s'accostò allo
scetticismo universale, non mi pare che vi giungesse : affermò che tutto si
muta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro ch'e' ne gasse l'entità
delle cose in questa loro perpetua muta bilità ed apparenza ; chi giunse a tal
punto, risoluta mente, espressamente, ſu Gorgia di Leonzio ( V. Dial. di
Platone col nome di lui, e altri dialoghi) ; perchè scrisse un libro sul non
ente, cioè sulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è non può
conoscersi o se si conosce non può significarsi . Con Protagora e Gorgia v ' ha
una schiera che la Grecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo e
simiglianti. Chi erano costo ro ? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In
che ci viltà vennero ? In età di corruzione . Che frutto recarono ? Dicon gli
antichi: pessimo nell'arte, nella scienza e nel l'educazione della gioventù ;
benchè, come si vedrà, fossero occasione di qualche miglioramento. Ma ecco
fiorire verso que' tempi ( V. Tavole del Storia della Filosofia . - I. 19 290
PARTE PRIMA. Krug) un uomo che vuol riparare a tanta dubbietà. Chi ? Empedocle.
Con che ? col misticismo a cui s'ac compagna ( come accade sulla fine dei
sistemi) un fare d'ecclettico. ( Fragm . Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del
suo poema ( népe ouro ) e da' detti d' Aristotile e d'altri si raccoglie che il
sistema d'Empedocle non è già fisico solamente ; Dio per lui è mente santa
incor porea : e nè un pretto dualismo, perchè il mondo è tutto, e c'è divinità
mondane o fisiche : e nè un pretto pan teismo, perchè si distingue la mente
divina e gli atomi : che cos'è dunque ? Parmi ch'e' non avesse un concetto
nitido, com'accade agli ecclettici; e così di lui pensa rono gli antichi :
alcuno lo fa di Parmenide, altri pita gorico, Platone lo mette con Eraclito, e
Aristotile con Leucippo, con Democrito e con Anassagora. Ma prevale il
misticismo; perchè ne' frammenti del poema, Empe docle si dà com’uomo
miracoloso, e si crede un Dio immortale; e veste da sacerdote. In lui sentite
lo scet ticismo e l'estasi ; egli pone la mente, umana in parte ed in parte
divina; quella c' illude, questa ( come dice il Ritter) dà un santo delirio e
sorge alla contemplazione mistica di Dio nella natura. Tal è l'Yoga indiano,
tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero in grande stima Empedocle ;
ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian poco. Tuttavia egli seppe
dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei sofisti ; onorato dai suoi
cittadini ed in tutta Sicilia . Così terminò quest'epoca, ed ebbe strascico
lungo in due schiere d'uomini; atei la cui morale era il piacere, Evemero,
Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e Diagora ; Pitagorici o dati
anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici la maggior parte. Questi
atei com ' Evemero interpretarono storicamente la mitologia : gli dèi furono
uomini indiati, non altro . La scuola fisica poi degl'Ionj, più tralignati, la
interpretò fisicamente : gli dèi son le forze uniche della natura EPOCA
QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE . 011 SCU pre SOMMARIO .
Moltitudine di scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra
volgare fin al quarto secolo dell'era stessa , sullo spartimento delle quali
non sono chiari gli storici. Criterio per la distinzione del . l'epoche , e
quindi per l'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio , le dette
scuole si spartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue ; 1º
negli eruditi ; 2 ' negli scettici ; 3 ne ' sistemi grecoasiatici : tutti
formano la fine dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi
anteriori . La seconda classe , o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė ,
cioè l'epoca quarta . È un'epoca nuova , per la tentata riforma, e per
l'efficacia grande cosi di Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del
sorgere tardi la letteratura e la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i
Romani non furono più con tutta la mente in fatti gravi e giornalieri . Allora
può la riflessione volgersi alla coscienza e contemplarvi l'uomo , – Il
pensiero de ' Romani si distese all'Italia e al genere umano. — Naziona lità
naturale e politica degl' Italiani merce i Romani . Affetti domestici nel buon
tempo di Roma. Come si vedano in Virgilio le qualità prin cipali della civiltà
italica . I germi antichi di questa erano in Roma; si svolsero per impulso di
Grecia. Durò poco in Roma la filosofia pura mente speculativa, perchè già la
filosofia greca , declinando, avea lasciato salve ben poche verità , e perché
Roma cadde in servitù . Cicerone e i Giureconsulti romani costituiscono la vera
filosofia grecolatina . Cice rone si proponeva di sceverare dal falso e
dall'incerto le parti vere e certe ile' sistemi greci , di comporle in ordine
chiaro , d'applicurle praticamente, e che se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue
virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fu copiatore de ' Greci , ma pensò
di suo . Non pare da distinguere i suoi libri ( com ' alcuno pensa) in popolari
e dottrinali . Libri logici , fisici e morali. Cicerone ripete il conosci te
stesso come fondamento della filo sofia : la coscienza con tutte le due
relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altri criterj secondari , tenendo
sempre in mente l'universi lità e dov'ella si manifesti. Cosi egli potė cansare
gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a ’ Platonici , a' Peripatetici,
agli Stoici , agli Accademici : rigettato assolutamente l'Epicureismo. -
Cicerone non elegyeva da ecclettico , ma per un ordine di principj ; vide cioè
che la filosofia è da studiarsi entro di noi ; e da tale studio inferi tre
verità , che gli furono regolatrici : 1º che l'uomo sta sopr' all ' altre cose
; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo; 3º che questa
ragione con le sue leggi ci fa palese Dio . Talche delini la filosofia :
scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste ( off .) : l'altra
definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che. Va
seguito i principj spontanei , naturali , universali della ragione : ecco
l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi , ei potè co gliere
poche verità ; queste affermò, nel resto sospende il giudizio . Esem pio, il
finale de natura Deorum . Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sulla
legge e sulla libertà ; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divina
e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre ; ossia , egli è certo su'prin
cipj e sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle per
cezioni esteriori. Dualismo . — Anche per la teorica del conoscimento. Teorica
dell'operare bellissima ; legge naturale, eterna ; Dio n'è la fonte ; re . - .
0 LEZIONE DECIMOTTAVA. 367 chi non ammette Dio , non può ammettere la legge . —
Il dovere. Gradi degli officj . Quel ch'è giusto in sè stesso . Utile
apparente, e utile vero ; questo è conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi
positive nascono dalla naturale ; Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni
eifetti della filosofia di Cicerone . Non anche terminata l' epoca terza
cominciò la quarta, de' sistemi grecolatini. Dalla seconda metà del penultimo
secolo avanti l'èra volgare fino al quarto secolo dell' era stessa , troviamo
una moltitudine di scuole, lo spartimento delle quali dà qualche impaccio agli
storici . Taluno le piglia tutte insieme (e vi com prende gli Alessandrini del
terzo e quarto secolo) come una sequela de sistemigreci anteriori ; e così non
pone ad esse un'epoca distinta . E per fermo se tutte le dette scuole non
fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi , mancherebbe la ragione del
porle da sè , o del farne più classi . La ragione d'un'epoca, quando si parla
di scienze, è solamente una grande verità scoperta, da cui dipende l'ordine
universale d'una scienza qualunque, o il risorgimento di essa dopo un tempo di
scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire. Insomma, v'ha un
principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo e potente : la
continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più. Applicando tal
criterio all' età sovraccennata , par chiaro che i sistemi vi si distinguano in
due parti ; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nella greca e come
termine di essa ; la seconda costituisce un'epoca da se per qualità sue
proprie, o un'epoca quarta , benchè i siste mi dell'epoca terza la precedano,
l'accompagnino ed an che le sopravvivano : tanto è vero che la sola divisione
per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epoca greca, si
suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da un lato v'ha
le scuole di pretta erudizione ; le quali non iscopersero nulla , nè
rinnovarono nulla ; gli Stoici eruditi ; i Platonici eruditi, com ' Areio
Didimo, Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro ; i Peripatetici eruditi o
commentatori d'Aristo tile, come Alessandro d'Afrodisio ; i Medici, eruditi an
365 PARTE PRIMA. ch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un
altro lato v'ha lo scetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali
compivano, anzi riducevano a sistema il dubbio di Pirrone e di Timone,
volgendosi specialmente contro la causalità, e negandola per la singolare
ragione che il modo intimo del causare nol conosciamo; quasichè possa negarsi
ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa spiegarlo. Da un terzo lato ancora ,
mescolati i Greci con gli Asiatici per le conquiste d'Alessandro e poi per la
vastità dell'impero di Roma, vediamo un congiungimento tra la sapienza
orientale e i sistemi greci; onde si svolse la setta degli Alessandrini, che
non fecero altro se non ridurre a forme greche il panteismo asiatico , già
comin ciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio Tianeo e in Moderato ,
Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi, benchè distinti dalla
scuola d'Alessan dria (e fa male chi li confonde), in sostanza cominciaron l '
avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento. Gli Alessandrini e i
loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova ? No, perchè i metodi sono
affatto del: l'età socratica, e i principj gli stessi ; lo scetticismo poi che
li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo. L'unione dell'
orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma scientificamente non è ;
proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio, non già da'me todi
scienziali ; piacque la misticità orientale, richiesta già dagli animi. Ebbi
l'opinione anch'io che gli Ales sandrini facciano un'età da sè ; ma più attenta
consi derazione m'ha condotto ad altro parere. La seconda parte sì che fa
un'epoca da sè, l'epoca quarta o Latina . Introdotte le scuole di Grecia in
Roma circa il mezzo del secondo secolo avanti l ' èra nostra, cominciò ivi un
ordine proprio di concetti per efficacia delle tradizioni italiche e per la
civiltà di Roma ; talchè, ripeto, avvi un'epoca quarta, o de sistemi
grecolatini ; nuova per le riforme tentate da Cicerone e per la novità dei
iureconsulti, ch'ebbero efficacia sì viva e univer sale nella civiltà europea ;
e anco perchè Cicerone servi LEZIONE DECIMOTTAVA. 369 più che i Greci alla
filosofia cristiana de' Padri latini e dei Dottori, i quali per via di lui ,
piucchè in modo im mediato, seppero l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio
generale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla
; degli scettici dissi già nella passata Lezione; de'sistemi grecorientali poi
si dee trattare nella prim'epoca del l'èra cristiana , perch' essi combatterono
la sapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui
de' sistemi grecolatini, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia
che in Roma nascesse tardi la letteratura e la filosofia. Nascono l'una e
l'altra, quando la riflessione si volge alla coscienza, e vi contempla l'uomo
interiore per elevarsi all'ideale universalità. La filosofia vi s'eleva in modo
astratto ; la letteratura rende concreto l'ideale con la fantasia e con gli
affetti. Ma quando un popolo, come il romano, è tutto inteso a fatti gravi e
giornalieri che lo attirano o a guerre este riori od a contese interne; allora
ti daranno bensì canti popolari di guerra e d'illustri memorie ( come gli ac
cennò Tito Livio ), ma non ti possono dare nè letteratura nè filosofia ; in
que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura interiore
dell'uomo qualità generali delle operazioni, come fanno il poeta ed il filosofo
. Indi la rozzezza de’Romani; talchè narra Tito Livio, che lo storico più
antico fu Fabio Pittore a' tempi d'Annibale. Ma quando Roma ebb’esteso la
dominazione a tutta Italia e oltre, allora il Romano non vide più solo innanzi
a sè le contese de' vicini , e le contese del Foro tra nobili e plebei, sì
un'intera e grande nazione e il genere umano. Così l'idea di Roma si appresentò
in relazione con tutta l'Italia e l ' Italia in relazione col mondo. Il
pensiero de' Romani si dila tava ; si allargò fuori del cerchio de' fatti
particolari; il Quirita si sentì più chiaramente e figlio di Roma, e italiano,
e uomo ; tanto più che a poco a poco la cit tadinanza romana si estese a tutta
Italia . A’tempi di Storia della Filosofia . – 1 . e alle 24 370 PARTE PRIMA. 2
as 2 Cicerone non rimaneva quasi più possedimento in Italia non assegnato
a'cittadini per via di colonie ; il qual fatto, unito all'altro che già notai)
de'primitivi abita tori ricaccianti le colonie greche, spiega com’in Magna
Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè i pochi Greci di Puglia
non sono gli antichi), non già ellenici come in Grecia moderna e in alcune
parti del l'Asia minore. Le colonie romane, aiutate dall'affinità primitiva
delle schiatte italiche, formarono così l'unità naturale, o la consanguinità
della nostra nazione ; nazio , nalità naturale determinata da'naturali confini
del no stro paese, e che si manifesta nell'unità formale de dia letti , o già
contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque la politica
nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre ; ma lasciando a’municipj un'im
magine di Roma, consoli, senato e popolo com'a Firenze ( R. Malespini e G.
Villani) , e concedendo a que mu nicipj amministrazione lor propria ; indi
vennero i no stri Comuni del medio evo. Roma e l'Italia , considerate in
relazione col mondo , formarono nelle menti romane com'un archetipo di per
fezione. Il vecchio Plinio ( giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia : «
Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa ; una cunctarum
gentium in toto orbe patria. » E Virgilio , lodando magnificamente l'Italia nel
secondo delle Georgiche ( 135-136), non si ristringe a Roma, e dice : « Hæc
genus acre virumi, Marsos pubemque Sabellam Adsuetumque malo Ligurem ,
Volcosque verutos Extulite .......... » M 22 14 e finisce con quell'alte parole
: Salve, magna parens, Saturnia tellus Magna virum ..... » Giunto un popolo a
questa larghezza di sentimento e di riflessione, possiede l'idealità necessaria
per l'arte del bello e per la filosofia ; non lo stringono più le ne LEZIONE
DECIMOTTAVA. 371 cessità de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze ,
considera la natura dell'uomo e delle cose . Questo svol gimento di coscienza
per la riflessione venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed
all'Italia . Qui, più ch'altrove nell'antichità , fu sacro il connubio ; e gli
affetti di famiglia v’ ebbero consistenza per molti secoli : la stessa
mitologia nostra, come dice Polibio, rigettava le nefandezze de' simboli elleni
. Or bene, gli affetti di famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende
dal l'idealità suprema della legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se
Virgilio, benchè imiti Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti
che gover nano il poema ; ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è
una disposizione di provvidenza rispetto a ' Romani; poi , nel concetto di
patria ch' è Roma ; in quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto ,
come la Grecia ), cioè di tutte le genti italiane, non solo con sanguinee (
schiatta italica) , ma dimoranti pure in unico paese (nazionalità naturale) e
poi congiunte da Roma ( nazionalità politica ): nell'altro di famiglia onde ri
fulge l’Eneide dal principio alla fine ; per ultimo, nel l'intima e soave
descrizione degli affetti, con la quale il poeta mantovano preparò la poesia
cristiana. Sicché, quand' io leggo in alcuni libri ch'a Virgilio mancò
un'idealità propria, prego da Dio la fine di certe pas sioni che impediscono la
equità de' giudizj. Però, mentre allargavasi il dominio romano, cresce vano le
ragioni d'intima civiltà ; le quali, per altro , s'acchiudevano già in Roma ab
antico. La prisca gente romana che ch'ella fosse e in qualunque modo si ra
gunasse da prima, certo è, che s'ella fu rozza per le necessità di continue
guerre, sorse tuttavia tra popoli molto civili ; ebbe accanto la Magna Grecia e
l'Etruria, e le tante città de' Sabini e del Lazio. Ora chi non sa quanto
valgano mai le tradizioni civili anco tra popoli rozzi ? Numa vien detto alunno
di Pitagora ; ' e l'ante riorità di quello è spiegata dall'antichità delle
scuole pitagoriche, com'altrove narrai, Dice Cicerone : « Romuli 372 PARTE
PRIMA . autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis fuisse cernimus »
( De rep .) : e sant'Agostino scrive nella Città di Dio che Romolo era venuto
non « redibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis. »
Plinio cita le belle pitture d'Ardea più antiche di Roma ; i Romani predarono
dalla sola Volsinia 2,000 statue ; Bolsena in Fenicio significa città degli
Artisti . ( Cantù, St. Univ . III, 24. ) Se a ciò aggiungo la tradizione, che
le leggi de cemvirali si prendessero di Grecia ( tradizione falsa per le leggi
che s'attengono a' costumi di Roma, vera pro babilmente quant'al modo
d'ordinarle ), e se aggiungo altresì la perfezione che graduatamente il gius
positivo ebbe dal gius onorario, mi capacito che nel seno di Roma cresceva un
germe di civiltà e però di lettere e di filosofia, da venire a compimento,
quando se ne offe risse la occasione. E questa occasione ( testimonio la storia
) è sempre qualcosa d' esterno. L'occasione a Ro mani venne da Greci
conquistati; ed ha il proprio segnale nell'ambasceria di Critolao, Carneade e
Diogene babilo nese al sesto secolo di Roma, 155 anni avanti Gesù Cri sto .
Catone si sforzò di cacciare le sette greche ; invano, il terreno era
preparato, e la pianta fiorì. Ben è vero che la speculazione puramente
filosofica non durò a lungo, ma proseguì a fecondare il diritto : la qual
brevità ebbe due cagioni principali. I sistemi greci, che aveano menato tant'
oltre la forma logicale della filosofia , quant'alla materia poi l'aveano
lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo ; talchè si richie deva uno sforzo
più che umano a rilevarla : poche verità si conservavano intatte da ordirvi la
scienza . Quindi, o rimaneva solo a far opera d'eruditi e d'accoz zatori, come
gli ecclettici d'allora ; o bisognara trar fuori quel poco di certo, che non
dava soggetto a co piose speculazioni. In secondo luogo, allorchè Roma venn'a
maturità di pensiero, cadde in servitù che iste rili la letteratura e la
scienza. Quindi i sistemi greco latini si riducono il più alla filosofia di
Cicerone, e alle LEZIONE DECIMOTTAVA . 373 scuole de' Giureconsulti. I filosofi
anteriori a Cicerone seguirono i Greci pressochè interamente ; Lucrezio, per
esempio, ripetè quasi le dottrine d'Epicuro ; ma nondi meno egli mostrò la
coscienza di romano, allorchè, facendo materiale l'anima, pur contò fra gli
elementi co stitutivi di essa un elemento innominato, quasi animo dell'anima :
nobilis illa Vis, initum motus ab se que dividit ollis, Sensifer unde oritur
primum per viscera motus. » ( De Nat. III, 273.) e quando stabilì negli
elementi un moto spontaneo per ispiegare la libertà ; e quando celebrò la
divinità della natura con versi stupendi e la santità del matrimonio . Seneca
non si partì dagli Stoici , benchè faccia profes sione di non ispregiare
nessuna scuola ; Marco Aurelio, com ' Epitetto, ha lasciato aurei precetti, ma
senza ordi namento di scienza . Cicerone, al contrario, istituì spe culazioni
proprie, che certo ebbero forza nell'universa lità de' Romani culti e nella
giurisprudenza. Io dunque parlerò di Cicerone oggi ; de' Giureconsulti in altra
Le zione. Fin d'ora io dico , che Cicerone si proponeva di sceverare (con un
principio superiore) le parti vere e certe de sistemi greci dalle false od
incerte, di comporle in ordine chiaro, d'applicarle alla vita privata e pub
blica, e ch'elle conferissero all'eloquenza . Questa filosofia di Cicerone suol
chiamarsi ecclettica ; e chi la intenda per metodo compositivo e logicamente
ordinato, passi; ma direbbe male chi la pigliasse per una scelta a caso,
senz’un principio interiore e ordinatore. Nessuno po trà negare, che ciò
distingua le speculazioni di Tullio dall' ecclettismo de' Greci mentovati poco
fa, i quali ra gunavano nella memoria, ma non componevano nel pen siero ; e lè
distingue pure da’migliori sistemi dell'epoca antecedente, perchè Cicerone li
giudica con libertà e li trasceglie. Nè si può mettere in dubbio l'efficacia di
lui 374 PARTE PRIMA. II 11 10 su'secoli avvenire. I Padri e i Dottori lo
studiarono molto ; e sant'Agostino, da uomo grande che riconosce il vero ed il
bene onde che venga, scrive nel libro terzo delle Confessioni ( cap . 4) : «
Hic liber ( cioè la lettura dell'Or tensio ) mutuvit affectum meum , et ad te
ipsum , Domine, mutavit preces meas, et vota ac desideria mea fecit alia . »
Pare che Cicerone traesse la schiatta da quel Tullo Azio, che regnò
gloriosamente su'Volsci ( Plut. in Cic .); e quegli se lo teneva per certo ,
sicchè dice ne' libri Tu scolani, che Ferecide era antico, fuit cnim meo
regnante gentili ( 1, 12) : indi la smania di comparire tra gli otti mati .
Lasciate le scuole de' giovinetti, udì Filone acca demico ; ma insieme
praticava Mucio, personaggio assai versato nella politica, e principale
tra’senatori, impa rando da lui scienza di leggi ; e militò con Silla tra '
Marsi. ( Plut.) Sentì anche Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene seguitò
Antioco accademico, e non trascurò Ze none l'epicureo. Andò poi in Asia, e si
fermò a Rodi , per esser ammaestrato dallo stoico Posidonio. Giovine, favellava
con tal passione e con voce si concitata, che gli recava danno alla salute. In
Sicilia fu pretore giusto, umano, amatissimo. Dopo la congiura di Catilina,
Catone stesso chiamò Cicerone Padre della Patria dinanzi al popolo. Esiliato da
Roma per le mene di Clodio, vi rien trò poi come in trionfo ; gli furon trionfo
tutte le vie d'Italia , per le quali egli passò. Stette fedele alla re pubblica
contro la signoria di Cesare e la tirannia d’An tonio. Questi lo mandò a
trucidare, e Cicerone porse il collo alla spada. ( Plut.) Amò la famiglia con
tenerezza . Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore
sconsolato. Com'egl' intendesse la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la
famosa lettera a Quinto fra tello . Le sue lettere, scritte da lui
senz'intenzione di pubblicità , e che formano uno de' più bei libri del mondo,
lo mostrano sempre d'animo schietto e buono. Vicino a morire, scrisse a Peto :
« Sii persuaso, che giorno e notte non altro cerco, non altro penso , se non
che i miei cit I. 14 LEZIONE DECIMOTTAVA. - 375 tadini sien salvi e liberi .
Non lascio opportunità d'am monire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso
qui , che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita , stimerò di
aver finito preclaramente. » ( Ad fam . IX, 24.) Non peccò d'orgoglio, ma di
vanità ; si lodava spes so, e questo aizzava gl'invidiosi, e a lui diminuiva ri
spetto . Faceto, mordeva non di rado altrui, e, senza vo lere, s'accattava
nemici ; ma in lodare i meriti veri abbondava con allegrezza e con liberalità
d'uomo sin cero e benevolo. Parve talora incerto ne' propositi, e troppo
addolorato nelle sventure. Prese due mogli, ripu diando la prima. Volle
dedicare un tempio alla figliuola morta ; lodò e invidiò gli uccisori di Cesare
; lodò prima Cesare troppo, ma non l'opere mai. Dice il Capponi ( Archivio
Storico, tomo IX, parte 2) : « Ma chi fosse più di me severo a Tullio, pensi
com'egli animosamente cominciasse la sua vita d'oratore e la compiesse glorio
samente. Giovane, assalse nella difesa di Roscio d'Ame lia un Crisogono liberto
di Silla ch'era affrontare Silla medesimo; vecchio e principe nella città e
guida e anima del Senato, combattè Antonio e incontrò la morte. » Oratore,
accusò sempre gli scellerati , difese qualche volta i non innocenti . Filosofo,
stette per lo più dalla parte del vero ; bensì approvò il suicidio,
l'assassinio de' ti ranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità ne' gio
vani, e la schiavitù . Scrittore e uomo di stato , cercò troppo la lode, ma
insieme la grandezza e il bene della patria . Scrisse d'eloquenza, e fu oratore
sommo : scrisse di filosofia morale, e fu uomo dabbene; scrisse di cose civili
, e fu gran cittadino . Ecco i fatti principali e virtù e difetti che spiegano
la filosofia di Cicerone. È impossibile non vedere in lui tre forti amori, di
gloria, di patria e di famiglia ; e' reca in tutto ciò un'ardenza di cuore, la
quale ha talvolta del molle , ma la tenerezza è temperata da un senso vivo
d'onestà e di decoro . ( V. le Lettere scritte in esilio. ) Udì tutte le
scuole, e però raccoglieva il meglio ; ma con iscelta libera e ordinata, perchè
uomo libero ed 376 PARTE PRIMA. , T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e
uomo di stato, se guì , più che non facessero le scuole greche, il precetto so
cratico di badare nella scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non
diminuisce il valore delle dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi
anco per sè, come faceva Cicerone. Badando al bene, odiò la parte ipotetica e
vana de sistemi anteriori, e ne prese il poco, ma certo e buono. Però,
indulgente ad ogni setta, con gli Epicurei non volle mai pace. Un po' vano,
pompeggiò assai nelle parole ; il che gli scema vigore qua e là ; ma nelle
lettere e negli scritti filosofici va semplice e spe dito . Uomo universale,
senatore e console di Roma, cercò l'universalità negli scritti ; e questi
dettero a 'Romani l'idea di tutto il sapere greco. Pieghevole alla opinione
altrui per bontà di cuore e per bramosía di favori po polari, combatte nel
libro della Divinazione le falsità pa gane, le rispetta in altri luoghi; ammira
il suicidio degli Stoici, non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni , ri
morso da coscienza non confessata, dirò io , e lo credo. Taluno da quelle
parole di Cicerone ad Attico : ATÓMp492 sunt ; minore labore fiunt, verba
tantum affero, quibus abundo ( Ad Att. , XII, 52) ; ha dedotto ch'esso i libri
filosofici traducesse dal greco, non li facesse di suo. Ma quando poi sentiamo
che Cicerone stesso , in tempi che gli autori greci erano familiari, e molti a
Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di greco, quali At tico e
Bruto, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice (De fin . 1, 3) : « Noi
non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le dottrine di coloro che
approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e un ordine no stro di
scrivere ; e che dice altrove ( De off. I, 2) : « Ora seguiremo e in tal
soggetto gli Stoici principal mente, non come interpreti (non ut interpretes );
bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudi zio e arbitrio
nostro ci parrà : » allora, io affermo, che Cicerone non poteva dire una bugia
così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco : « Eragli studio
comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco » an 10 1 :. bi lice . li 1
tes LEZIONE DECIMOTTAVA . 377 ( In Cic. ) ; e così un greco antico, più che i
moderni non greci, distingueva bene i libri tradotti come il Ti meo) da'propri
di Cicerone. L ' opere di lui distingue il Ritter in filosofiche o riposte ed
in popolari. A me non sembra ; sì scorgo chiara la distinzione de’dialoghi spe
culativi , come i libri accademici , dagli scritti che hanno un fine pratico,
ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai non vede
un ordinamento scienziale ? E s'egli rispetta gli dèi più qui che altrove,
pensiamo che ciò s'usava da tutti i filosofi, quando essi non ispeculavano
direttamente sulla divinità. Mi pare, poi , manifesta la distinzione, e più
princi pale : tra i libri fisici ( De natura Deorum , De divina tione ), i
logici Academicorum , Topica, De inventione, De oratore etc. ), i morali (
Tusculanorum , De officiis, De finibus, De senectute, De amicitia, De legibus,
De republica , De fato); quantunque in ciascuna classe si trovino mescolate più
o meno le dottrine, non già di vise assolutamente. L' Ortensio poi è perduto,
d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone, imitando Socrate, tornò
a'prin cipj e al fondamento del sapere. Quegli , come questi, si trovò in mezzo
a una confusione di sistemi, e, come So crate, chiamò i suoi al conosci te
stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il rimedio alle superbie
d'ipo tesi vane e il principio della sapienza vera . Quand' io dico che
Cicerone imito Socrate, già non lo paragono a lui , nè come filosofo glielo fo
uguale, sì discepolo ; dico bensì , che il tornare a'principj è in tutte le
cose rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino ; e chi rinnova, è
istitutore novello e cominciatore d'un'epo ca propria. E se Cicerone non riuscì
a tanto come So crate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da
imputare. La scienza e la civiltà del Paganesimo ca devano, e sempre più
Cicerone le trovò quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è,
che Cicerone, come Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Amò con
grand' amore la filosofia, 2 378 PARTE PRIMA 1 . ! la pre 18 MA Tha U. >>
TH e ne scriveva lodi magnifiche in ogni suo libro ; anzi l' Ortensio fu composto
da lui per esortazione a filoso fare; e nondimeno quand' ei volgevasi attorno,
e sentiva le strane opinioni di tante sette, esclamava : « Niente si può dire
di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. » ( De div . II,
38. ) Ammoniva per ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il
conoscimento di noi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri
sistemi, non presuntuosa (minime arro gans : De div. II, 1 ) . Ripeteva il
precetto che stava sul tempio d'Apollo, nosce te ipsum , e diceva : « Essendo
tante e sì grandi cose che si scorgono nell ' uomo inte riore da quelli che
voglion conoscere sè stessi , madre loro e educatrice è la sapienza. (De off.
I, 23, 24.) Egli invitava a fermar l'occhio in questa evidenza in teriore, dove
tante verità si veggono chiare ( quæ inesse in homine perspiciuntur.) In questa
coscienza di noi stessi , Cicerone come So crate, più di Socrate forse perchè
romano, sentiva l'uni versalità del vero, distinta dalle opinioni particolari,
e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni
universali anch'esse ; e però egli in culcava sempre di fermar l'occhio in ciò
ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta ragione (De off. I e II, passim ); e
contro gli Epicurei fa valere gli affetti più generosi dell'animo ( ivi, e
negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama in sostegno il senso
comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri Tuscolani ( I, 12)
adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di Dio e
l'immortalità dell'anima umana ; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici : « Noi
più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono
cose non molto discordi dal pensar della gente. >> ( Proem .) E nelle
seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei raccogliesse, di mezzo alle
opinioni varie, le tra dizioni universali de filosofi e le divine : « Inoltre,
d'ot time autorità intorno a tal sentenza ( cioè l'immortalità dell'anima)
possiamo far uso ; il che in tutte le que HIE ale Di D. 4 LEZIONE DECIMOTTAVA.
379 stioni e dee e suole valere moltissimo (in omnibus cau sis et debet et
solet valere plurimum ): e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ); la
quale, quanto più era presso all'origine divina ( ab ortu et divina progenie ),
tanto più forse discerneva la verità. » ( Tusc . I, 12. ) E tra filosofi,
ch'egli cita, preferisce appunto Ferecide, co me antico, antiquus sane ; e indi
ne conferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici ; il nome
de'quali , egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse
dotto (S 16) . E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia fu un dono,
ma quanto a sè, una invenzione degli dèi : « Philosophia vero omnium mater
artium , quid est aliud, nisi, ut Plato ait, donum , ut ego , inventio deorum ?
» ( $ 26. ) Nel che s'accenna il prin cipio divino della sapienza e della
tradizione. Condotto da questo filo tra i ravvolgimenti delle sette cansò gli
eccessi d'ogni maniera. Gli Stoici , per esempio, la cui morale severità egli
approva e segue, dicevano, che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di
questo sapiente ne facevano un'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi
quaggiù ; e però gli Stoici , se consentanei a sè, dovevan dire impossibile
umanamente la loro superba virtù e disperarne come Bruto morente. Cicerone al
contrario riconosceva una più umile sapienza e virtù , che può essere di tutti,
e che ci abbisogna nel vivere comune. ( De amic., 5. ) Lo Stoico credeva ,
indiando la natura, di poter trarre le superstizioni volgari a senso
ragionevole (come tentò Varrone per testimonianza di sant'Agostino, Città di
Dio ) ; ma Cicerone le derideva . ( De nat. Deor . III, 15. ) Menava buono a
Platone, a' Pe ripatetici e agli Stoici , che la più alta felicità dell'in
tellettuale natura sia la contemplazione ( Hort. in S. Agost. De Trinit. XIV,
9) ; ma in questa vita, ei dice, la con templazione senza la pratica delle
virtù private e pub bliche è nulla ( De off. I, 43) ; e quindi censura Platone
che scrisse : Il savio non essere obbligato a civili negozi . ( De off. I, 9. )
Gli Stoici , per alterezza di ragione, spre giavano il corpo e i beni corporei
; ma Cicerone diceva : 380 PARTE PRIMA . 11 he COL iti be 111 15 :-11 19 Poichè
s'ha da seguire la natura e noi siam anima e corpo, non possiamo spregiarlo, nè
si dee imitare que'fi losofi , che accorti d'un che superiore a'sensi ne spre
giano la testimonianza . Con che l'accoccava pure agli Accademici. ( De fin .
IV, 15.) Gli Stoici , negavano l'ef ficacia del dolore sull'uomo sapiente, e
svilivano ogni piacere ; Tullio invece mostra che il dolore eccessivo è
impedimento agli officj, e che le temperate giocondità son utili e buone. (De
sen . 14, De fin . V , 26. ) Gli Stoici, concependo la virtù con altezzosa rigidità
, stimavano uguali tutti i malvagi e tutti uguali i peccati, perchè tutti
contrarj al bene ; Cicerone confuta in più luoghi tale uguaglianza e mostra,
per esempio, ch'altro è man care a posta, altro è nell'impeto di passione. ( De
off. I, 8 e altrove.) Se nella morale ei tenne dagli Stoici, rigettate le loro
esagerazioni, in logica stette per gli Accademici, giacchè, come dissi altrove,
la riforma del filosofare pa gano cominciò sempre da un dubbio temperato. Ma
qui è il divario, la temperanza ; perchè, dove gli Accade mici ( a quello che
ne sappiamo) negavano ogni verità e certezza nel percepire le cose e
ammettevano solo una verosimiglianza, uguale per tutte le opinioni ; M. Tullio
invece ne' fondamentali principj e nelle verità più alte non poneva dubbio, e
quanto a' casi particolari li sti mava probabili , non ugualmente, sì con
varietà di gradi ; e al probabile opponeva quel ch ' è improbabile affatto.
Ecco le sue parole : « Vorrei che fosse ben chiaro il no stro pensare ; chè noi
non siamo già di quelli il cui animo si crede aggirato sempre in errori , e
senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, o questa vita
piuttosto, negata ogni ragione, non solo del dispu tare , ma del vivere altresì
? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose e alcune incerte,
così noi, dissenziendo da essi , diciamo probabili alcune e alcune improbabili.
( De off. II, 2. ) Qui si scorge, che il dub bio di Cicerone non cadeva punto
sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul dommatismo EL
LE 11. ki LEZIONE DECIMOTTAVA . 381 fisico e morale degli Stoici . E nel libro
delle Leggi dice ( 1, 13) : « Preghiamo poi , che questa Accademia nuova di
Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti; perchè se darà
dentro a tali dottrine, che ci sem brano ordinate e composte con assai
aggiustatezza, re cherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, ma cacciarla
non oso . » La qual conclusione mostra, ch'ei non rigettava in tutto i dubbj
accademici, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagli Accademici allor
chè dice : « Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei dire
piuttosto quel che non è , che quel che è . » ( De nat. Deor. I, 21.) Nel
vivere nostro, e mas sime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni e senza il
lume del Cristianesimo, non monta già poco il sapere quel ch’una cosa non è ;
significa sapere che Dio non è come noi, che Dio e l'animo nostro non sono
corpi, che il fine dell'uomo non è la voluttà ; negazioni pregne d'af
fermazione, implicita si ma certa . E chi vuole stimare quanto merita il
ritegno di Cicerone, anc' allora ch ' ei parla di probabilità negli officj
particolari (non mai nella legge suprema), pensi l'assurdità del panteismo e
del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica , l'incertezza della
morale, anche in Platone e Aristotile ; e s'accorgerà, che se Socrate meritò
lode dicendo, contro Parroganza de' sofisti : io so di non sapere, merita pur
lode il nostro Cicerone d'averlo imitato in tanta corru zione di filosofia e di
costumi . E quindi ei non ha dubbiezze contro gli Epicurei. Dice a loro : che
la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato ; nè la voluttà va
messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De fin . II,
4, e passim .) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri
del senso ; il piacere stesso non cato per sè, ma per noi ( De fin . V , 11 ) :
il dovere ha da cercarsi per sè stesso ( ivi, II, 22) ; e la dottrina degli
Epicurei, se consentanea a sè , non lascia luogo al dorere. ( De off. I, 2. )
Ma questo sceverare il vero dal falso, con che 01 382 PARTE PRIMA . Jo ( dine
interno di principj si faceva ? Già ho detto, che Ci cerone ritornò al conosci
te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. E ho accennato , che
ivi egli trovava l'uomo non solitario, ma in relazione con Dio, con gli altri
uomini e col mondo; però esclama : « In questa magnificenza di cose, in questo
cospetto e cono scimento della natura, o dèi immortali, oh quanto co noscerà sè
stesso l ' uomo ; il che c'impose Apollo Pizio ! » ( De off. I, 23.) Per via
della coscienza, s'accorse Cice rone in modo chiarissimo di tre verità : prima,
che l'u0 mo sta sopra l'altre cose ; poi , che la ragione dell'uomo prevale al
senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra Dio con le sue
leggi . Viene da ciò la definizione della sapienza o della filosofia nel II
libro degli Officj (S2) : scienza delle cose divine ed umane e delle cagioni di
queste ; definizione più determinata che non l'altra ne' libri Tuscolani ( V.
3) , dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone stringeva la
scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimento ragionato di
Dio e dell'uomo e de’sommi principj. Egli capiva, come nella scienza si désse
un ordinamento necessario; e diceva : « È malagevole sapere alcun che in
filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto . » ( Tusc. II, 1. ) Cicerone,
come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione. Bisogna riflettere a
noi stessi ; in noi tro viamo la ragione, che ci distingue da' bruti e dalle al
tre cose ; nella ragione troviamo i giudizj spontanei, na turali, evidenti,
universali ; questi fa d'uopo seguire ; ecco il principio ordinatore della
scienza e della virtù . « Il tempo, scrive Cicerone, cancella i capricci delle
110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. » (Opi nionum enim
commenta delet dies, naturæ judicia con firmat ; De nat. Deor .) Ma questi
giudizi erano avvi luppati in una moltitudine di sistemi; però, quanto alla
teorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco . Chi potrebbe mai
condannarlo d'insipienza ? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro
elementi, nè del ch 1 7 LEZIONE DECIMOTTAVA. 383 1 quinto d'Aristotile, nè
della materia o della forma; le sue indagini hanno per fine la esistenza e
natura della divinità, le relazioni di questa col mondo e l'immorta lità
dell'anima umana . ( Ritter .) Quanto alla divinità , egli non ne dubitava
punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna legge
della giustizia (De leg. II, 7 ) ; ma intorno alla natura di Dio non af fermò
gran cosa. Del metodo di lui , su tali materie, porg' esempio il libro De
natura Deorum . Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico.
L'ac cademico nega il dio animale degli Stoici, e termina di cendo : « Questo
io diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare
quant'ella sia oscura e piena d'intrigate difficoltà . » Lo stoico poi combatte
l ' epicureo . Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che
cosa conclude ? E' dice : la disputazione di Cotta ( Accademico) sembrò a
Velleio ( Epicureo) più vera ; a me l'altra di Balbo ( Stoico), più verosimile.
Ci cerone, adunque, mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia
piacessero agli Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi,
s'allontani pure da quella ragionando di Dio. Pur tuttavia non sa nulla giu
dicare assolutamente sulla natura di Dio stesso e solo ammette verosimiglianze.
Insomma, le dottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma
l'esistenza della divinità (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ) , la
legge morale e il libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Cri
sippo, ch'ogni proposizione è vera o falsa necessariamente ( De fato) ; le
opinioni verosimili si hanno ne' libri fisici, dove apparisce dubbj sulla
natura di Dio e dell'ani ma, e sulle relazioni di Dio con l'universo, e quindi
sulla prova fisica della divinità provvidente ; ne' libri logici, finalmente,
su ' principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta
, beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esteriori
percepite da ' sensi. Anche il Kant pose superio re la certezza dell'argomento
morale ad ogni altra cer 384 PARTE PRIMA. tezza ; ma il Kant celebrò
quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione; Cicerone, al
contrario, non la negò mai, anzi la magnifico, e solo crede ristretta di molto
la possibilità de' giudizj accertati. Dunque Ci cerone, quant'alle dottrine
supreme, e ch'egli poteva conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più
fitte, ammette la verità e la certezza ; ma nel determinare più specificamente
quelle verità pone la verisimiglian za. In ciò solo fu accademico ; e non
pienamente nem men qui, come avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel
dualismo, opponendo la ne cessità della materia alla libertà divina ; e che
cadesse nel semipanteismo, facendo divina la nostra ragione. Il qual ultimo
punto si raccoglie da più luoghi; ma più da queste parole : « Le altre parti,
onde si compone l'uomo, fragili e caduche, le prese da generazione mor tale ;
ma l'animo è generato da Dio » ( De off. I, 8) , e ammonisce di rammentare nel
giuramento, che chiamiamo in testimone Dio, « cioè, com'io penso (dice
Cicerone) la mente propria, di cui non détte Dio all ' uomo nulla di più
divino. » Se non che, si vede la temperanza dell'af fermare in quello ut opinor
; tant'era l' ecclissamento delle principali verità sul finire del Paganesimo !
Quant'alla teorica del conoscimento, egli distingueva l'intelletto dal senso ;
lo distingueva tanto, che come Platone e Aristotile, trovando un'immagine di
Dio nella mente nostra, la identificava con esso . Anzi nel testimo nio de'
sensi non poneva più autorità ch ' una verisimi glianza, il che procedeva dal
dualismo, secondo il quale Dio e la mente son divisi dal resto . E per la
logica si valse d'Aristotile, come si ha dal libretto de' Topici. È stupenda la
teorica dell'operare ; perchè ivi recò Cicerone più che altrove le verità
universali raccolte dal testimonio della coscienza ; e vi recò quel suo modo di
escludere l'esagerazioni e di comporre le spat se verità con un principio più
alto. Qual principio ? Il rispetto della ragione, che, in quanto conosce la ve
rità , è retta ed è regola delle nostre operazioni. Bisogna LEZIONE
DECIMOTTAVA. 385 seguire, ei dice con gli Stoici , la natura, non l ' arbitrio
delle passioni; ma la natura nostra è ragionevole ; dun que ogni atto nostro
dee farsi con ragione e sottomet terle l' appetito. ( De off. I, 28, 29. ) E
questa ragione ha potestà di comandare, perchè sta in essa una legge naturale
ed eterna del bene . « La legge (così Cicerone) è la ragione somma, insita
nella natura, e che comanda ciò ch'è da fare, proibisce il contrario . (De leg.
I, 6. ) Questa legge è nata da tutti i secoli , primache fosse scritta legge
alcuna, o che qualche città fosse istitui ta . » ( 1, 6. ) Questa legge viene
da Dio, perch' ell ' è di vina ; e chi non ammette Dio, non può ammettere la
legge eterna e naturale. ( 1, 7.) La legge è la ragione divina partecipata a
noi ; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza di questa è società,
però noi siamo primamente consociati con Dio. E poich' ell' è comune a tutti
gli uomini , noi in secondo luogo formiamo la società del genere umano « e
tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina, e a Dio sovrap
potente » ( parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ et præpotenti
Deo. I, 7) . Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini (soli
essi fra gli altri animali) han qualche notizia di Dio, nè v'ha gente sì fiera
che, ignorando qual Dio adorare, pur non sappia che ve n'è uno . ( I, 8. ) Noi
dunque siam nati alla giu stizia ; e il gius non è costituito per opinione, ma
per natura. » Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e
ciascun di noi si definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in
dottrina, ma nella facoltà del sapere è uguale . » ( I, 10. ) Dalla legge si
genera il dovere, che va quindi cer cato per sè stesso, come sudditi alla retta
ragione, ne vi può essere alcuna virtù se non si cerchi per sè, ma per la
voluttà o per l'utilità. (De off. III, 33. ) Come la ragione guida ogni atto
umano, così la retta ragione reca in ogni atto un officio. Talchè, dice il
grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in private, nè in forensi , nè in
domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che, nè Storia della Filosofia .
25 386 PARTE PRIMA. se pattuisci con altrui ; non v ' ha momento di vita che
possa mancare di qualch 'officio ; e nell'adempirlo è tutta l'onestà, nel
trascurarlo la turpitudine. » ( De off. 1, 2.) Nell'adempire gli officj stanno
le virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù
, se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle
cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso ( De off. I, 4) ; sicchè
« nella universale so cietà son varj i gradi degli officj ; onde si può sapere
ciò che si conviene a ciascuno ; e quello che si dee prima agli dèi immortali,
poi alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » ( De
off. I, 45. ) Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della
legge eterna in sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le
giustifica nemmeno l'amore di patria . ( De off. I, 45. ) Egli distingueva poi
l'utile apparente dalla virtù : ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con
l'onestà ; e quand' apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a
pensare sulla scelta . (De off. II, 4 ; 111, 7 e passim .) L'utilità è l'effet
to, non il fine della virtù . ( De amicitia, 9.) E dalla virtù nasce l'onestà
(che in latino ha senso d'onorabilità ), anche se niuno la conoscesse : « etiam
si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. » (De off. I, 4.) Giacchè la
virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza : « l'uno viene dall' animo
onesto, l'altra dalla sanità del corpo ( De off. I, 27) ; e come il decoro de'
poeti è la convenienza delle parole col significato, così il decoro della
onestà è la convenienza con la natura . » ( Ib . 28. ) Però, come i Greci
dicevano o" te uovoy (yóv to 2026 , il solo buono è bello, così Cicerone (
come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice : quod honestum
sit, id solum bonum esse : onorabile è solamente ciò ch ' è buono. ( Paradox.
I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e la
virtù . nascono le leggi positive ; talchè l'esistenza di Dio è il proemio di
tutte le leggi ( habes legis proemium , De leg. 11, 4-7 ) . « È stoltissima
cosa (segue Cicerone contro gli LEZIONE DECIMOTTAVA . 387 1 Epicurei) che
credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle leggi de' popoli. E che ?
dunque, anco le leggi de'tiranni ? ... Ma v'ha un unico gius, da cui è unita la
società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è la retta ragione di
comandare e di proibire : e chi la ignora, è ingiusto, o ch'ella sia scritta o
no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi scritte e agl'istituti de'
popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da misurare con la utilità ,
trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo creda fruttuoso. Così non
v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò che per utilità è
stabilito , da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da natura non si
conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La legge
naturale ha da regolare il diritto pub blico , quello delle genti e il privato
; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra , sui
trattati . sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il
giudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana :
dopo averne narrato l'umanità ne’secoli primi , aggiunge che questa diminuì a poco
a poco, e dopo le vittorie Sillane cessò ; e quindi esclama : jure igitur
plectimur « a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi
abbiamo scontata per se coli . De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli
stessi argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep. ) Che fece
adunque la filosofia di Cicerone ? Essa gli donò (com’ei ripete più volte)
copia e splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza ;
gli dettò que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci ,
eletti e temperati; que' libri rettorici , che sono un codice dell'arte per
comune giudizio ; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della
Repubblica, dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla
zione platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi . Però, quand' io
sento uno storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone
perchè in lui non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla
natura, e, più che dell'insolito, sia desiderosa del vero . 388 PARTE PRIMA.
LEZIONE DECIMANONA. GIURECONSULTI ROMANI. SOMMARIO . La giurisprudenza è
scienza filosofica , perché riguarda gli alti umani o personali. - La
giurisprudenza positiva non altro fa se non appli care il diritto naturale . Si
cerca , quindi, lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme
logiche , e quanto alla materia. - Quattro età del gius romano . Prima età :
consuetudini . È difficile deter minare qual parte avesse la civiltà , e quindi
la scienza , in que'primi germi del diritto ; ma vestigi di sapienza ve n'ba .
Che cosa abbia di vero e di falso la tradizione sulle dodici tavole . La
materia di esse certo è romana ; probabilmente la forma logica loro è di
Ermodoro Efesio . Seconda età : si pubblica il segreto delle azioni . – La
giurisprudenza , perciò, viene alla gioventù dalla puerizia ; ma crebbe in modo
segnalato allorché , sul cadere del sesto secolo di Roma, si propagò ivi la
filosofia greca . — Il settimo se colo è quello di Cicerone : si prova con
l'autorità di lui, che allora si lero a grande stato la giurisprudenza per lo
studio della filosofia . — Allora si concepi l'idea d'un codice ; idea che vuol
abito filosofico delle universali tå. Terza età : la signoria de ' Romani ,
dilatandosi a tutta Italia , fa pos sibili le scienze. - Cittadinanza romana a
tutti gl ' Italiani ; gius italico che då il dominio quiritario , e il diritto
de ' comizj anche per deputati ec .; co lonie romane per tutta Italia ; si
determina bene il concetto del paese ita lico . – Gius equo e buono . Altra
cagione della fiorente giurisprudenza ; giureconsulti , per lo più , non sono
causidici. - Un'altra ; l'emulazione in filosofia e in lettere con gli oratori
. Cenno su'principali giureconsul ti ; loro virtù . - Com'apparisca dagli
autori , ch ' essi citado ne' frammenti, lo studio loro ne ' poeti , negli
oratori e ne ' filosofi. Si paragona que ' giure consulti a'matematici per tre
ragioni ; vigore delle conseguenze , cura nel l'evitare contraddizioni , metodo
induttivo e deduttivo. – L'efficacia della filosofia non si ristrinse alla
forma logica, passò alla materia . – Tale influs so non apparisce solo da prove
particolari, ma più ancora dalla universale conformità di quelle dottrine alle
leggi del pensiero e ( salvo qualch'errore di tempi ) alla natura umana.
Nozioni della giurisprudenza, e perchè i giureconsulti la definissero come la
filosofia morale . – Distinguevano la scienza del diritto dall'arte . – Però
s'elevarono al concetto della filosofia vera , rigettando gli eccessi : la
speculazione de ' giureconsulti è contenuta nel vero da' dettami di senso
comune e dal fine pratico. – Distinzione del diritto in jus naturale , gentium
et civile : si mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto
de ' diritti naturali . Non accettabile, quanto alla servitù , la nozione del
gius civile ; ma i giureconsulti dissero la servitù non secondo il gius
naturale , e riconobbero un fatto. Come la parola Jus non esclude l'idea d'un
diritto eterno ; e si distingue da legge ; poi , si ha ne ' giureconsulti
l'idea precisa del diritto eterno e del diritto natura le . - L'efficacia della
filosofia si mostrò nella giurisprudenza per via del diritto onorario. E per
via del diritto ricevuto . – E per l'interpreta zione de ' giureconsulti . —
Molte novilà introdotte dal gius ricevuto . La virtù e la vera filosofia
de'giureconsulti si fa sentire per fino nel loro stile . – Si reca un saggio
della loro sapienza e brevità elegante. — Dalla esposizione delle dottrine di
Tullio e de' giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cercò la
comprensione finale . Parlato di Cicerone, è da parlare de' Giureconsulti
romani. La giurisprudenza, come dissi già nella prima LEZIONE DECIMANONA. 389
Lezione, è una scienza filosofica : perchè risguarda gli atti umani o
personali. Procede dalla morale, che ab braccia la scienza de' doveri e quella
de' diritti naturali ; e la giurisprudenza positiva non altro fa che determi
nare nella varietà de' casi particolari le immutabili ge neralità del diritto
eterno. Però, se la filosofia entra in tutte le scienze com'ordinamento di
concetti e di giu dizj, entra poi nella giurisprudenza, non solo com'or dine
logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle ragioni supreme. Avrò
dunque a cercare lo svol gimento della giurisprudenza romana, per l'impulso
della filosofia, nel doppio aspetto delle forme logiche e della materia. La
storia di quella fu distinta bene dall' Hugo in quattro età ( Hist. du Droit
Rom ., Intr .); la prima dall'origine di Roma fino alle dodici tavole, cioè
fino al terzo secolo della città ; l'altra fino a Cicerone, o alla metà del
settimo secolo ; la terza fino ad Alessandro Se vero, oltre i due secoli
dell'èra volgare ; la quarta fino a Giustiniano : età di fanciullezza, di gioventù
, di virilità e di vecchiaia. Il giureconsulto Pomponio c'insegna ( Fr. 2. D.
De Or. Juris) che Roma ne' primi tempi si reggeva senza leggi nè diritti
stabiliti; cioè per consuetudini. La con suetudine formò , dice il Forti ( Ist.
Civili, 1, 3, $ 3 ), il diritto privato con l'autorità degli esempi , cioè de'
fatti ripetuti , e formò con gli accordi de'potenti il diritto pubblico. Così
il potere assoluto de padri , de' mariti e de' padroni è da' giureconsulti
risguardato sempre per consuetudinario, ed anche l'uso delle clientele ( ivi, $
4) . Quanta parte avesse la civiltà , e con la civiltà la scien za, in
que'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si
remota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano
scrit ture, perchè le serbò con la lingua loro la stirpe greca ; ma de ' Latini
prischi e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote, perchè
ogni lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è , tuttavia, che
390 PARTE PRIMA. almeno gli Etruschi erano molto civili ; e sembra non si possa
dubitare che il sangue loro si mescolasse nel popolo di Roma; benchè l'Hugo lo
neghi. Ma Lucio Floro. parlando della guerra sociale, dice chiaro : «
Quantunque la chiamiamo guerra sociale a diminuirne l'odiosità . pure, se
stiamo al vero, quella fu guerra civile ; giacche il popolo romano, avendo
mescolato insieme gli Etru schi, i Latini e i Sabini, e traendo da tutti un
sangue solo (unum ex omnibus sanguinem ducat), è di più mem bri un corpo e di
tutti è una unità. » ( Rer. Rom . III, 18. ) Il Lerminier ( Phil. du Droit,
III, 1 ) riscontra con molto acume in Virgilio la prima origine de' tre po
poli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche ; dov'egli, lodando
l'agricoltura, dice : « Questa vita ten nero i vecchi Sabini, questa Remo e il
fratello ; così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fece la bellis sima di
tutti gl'imperi Roma ; e una, si circondò d'un muro i sette colli . » (Georg.
11, 532.) Fatto è che a taluno par vedere i tre popoli nelle tre tribù del
primo popolo romano, rammentate da Livio, i Rannesi o Latini, i Tarsi o Sabini,
i Luceri o Etruschi. ( Warnkoenig, Hist. du Droit Rom .) Il Monsen ( St. Romana
), recentemente ha negato tal mescolanza, ma non ha detto le prove. Pro babile,
a ogni modo, che quel nuovo Comune di Roma. sorto fra ’Comuni vicini , si
mescolasse pure di genti vi cine. O si conceda dunque col Niebuhr la preminenza
agli Etruschi, o concedasi a' Latini con l’Hugo, un in dirizzo nelle cose
romane lo dettero i primi ; e ciò spie ga, come in tanta rozzezza di popolo
guerriero e racco gliticcio si possedesse un gius pontificio, e formule
sacerdotali e simboli segreti. Questo io diceva per mo strare che le prime
consuetudini ed istituzioni ebbero qualche ragione di civiltà , e riuscirono
buon fonda mento alla giurisprudenza perfetta. Però, fin dalla prima età, si
scorge in Roma la mirabile distinzione da’magi strati (magistratus populi
romani) che stabilivano il di ritto, da' giudici ( judex, arbiter ) che giudicavano
del fatto ( Hugo, 1, § 146) ; distinzione che a poco a poco LEZIONE DECIMANONA.
391 détte occasione al gius onorario, di cui parlerò in breve . È noto che il
reggimento di Roma sott'i re e più ne' principj della repubblica era degli
ottimati, cioè aristocratico. Indi la opposizione civile della plebe co’pa
trizi per avere un gius equo ; opposizione che, divenuta incivile o violenta
nel settimo secolo, rovinò la repub blica, come la prima ne formò la grandezza.
Il popolo dimandò leggi scritte per contenere l'arbitrio de' patrizi , e si
promulgò la legge delle dodici tavole. Narra il giu reconsulto Pomponio, che
queste si raccolsero in Grecia, interprete d' esse l'efesio Ermodoro. ( Fr. 4,
D. De Orig. Juris.) Certamente Plinio il vecchio (Hist. Nat.) ram mentò come
serbata fino a lui la statua fatta per de creto ad Ermodoro ; talchè la
tradizione non pare fa volosa in tutto : ma è certo altresì che nelle dodici
tavole ( per quanto ne conosciamo) non si ha traccia del diritto greco :
l'essenziale, giudizj, patria potestà e connu bio, eredità e tutele, dominio e
possesso, diritto pubblico e diritto sacro, son cosa tutta romana, come diceva
già il Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri . (Warn koenig, $ 10, 11.)
Ma io credo abbisognasse l'opera di quel Greco erudito per meditare le vecchie
consuetudini, e ridurle a concetti determinati ed a’lor capi principali,
ufficio di riflessione addestrata ; nè ciò avrebber saputo i Romani, dati
all'armi , anzichè agli studj. Ecco il per chè quella primitiva sapienza,
logicamente specificata e distinta da Ermodoro, traeva in ammirazione Tullio.
Egli scriveva ne' libri De Oratore : « Se ne adirino pur tutti , io dirò quel
che sento : a me, il solo libricciuolo delle dodici tavole, par superi ( se tu
guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche de' filosofi tutti nel
peso del l'autorità e nella copia dell'utilità . Quanto prevalessero in
prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, inten derà facile chi le nostre
leggi paragoni a quelle di Li curgo, di Dracone e di Solone. È incredibile, di
fatto, quant' ogni altro diritto civile, salvo il nostro , sia in colto e quasi
ridicolo . » ( De Or. I, 44. ) Le quali parole 392 PARTE PRIMA. attestano tre
cose ; l'antichissima civiltà di quelle genti che formarono Roma, e che vi
recarono le proprie tra dizioni, benchè si dessero poi a vita guerriera ed agre
ste ; la falsità che il gius civile romano procedesse ài Grecia ne' suoi
particolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolgesse da principj
non rozzi ne poco pensati. I Romani dettero la sostanza, i Greci pro babilmente
la forma, cioè ordinamento di codice. Dalle dodici tavole nacque la necessità
d'interpretarle per di sputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare
la loro applicazione. Di qui, come dice Pomponio ( loc. cit. 4, 5, 6) , vennero
il diritto civile non scritto o l'au torità dei prudenti, e le azioni delle
leggi ( legis actio nes); ma tutto ciò era un segreto de' pontefici. Pubblicato
il segreto nella seconda età, la libera giu risprudenza passò dallo stato
infantile alla gioventù. Ma quando mai, o signori , accadde tal cosa in modo
più segnalato ? Voi sapete che sul cadere del sesto se colo di Roma si propagò
là il filosofare greco, e che il secolo posteriore è appunto il secolo di
Cicerone. Or bene, la giurisprudenza, cresciuta lentamente nel se colo sesto,
crebbe nel settimo rapidamente ; e allora proprio noi riscontriamo i
giureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto
alla natura degli atti umani in sè e nell' esteriori atti nenze . Scriveva
Cicerone la Topica, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di
Trebazio, come si ha dal proemio di quel libro, ov'è scritto : « Non potrei,
adunque, con te , che me ne pregavi spesso , benchè timoroso di noiarmi (come
scorgevo facile), stare in debito più a lungo, senza parer d'offendere lo
stesso interprete del diritto.... Sicchè queste cose, non avendo libri con me,
scrissi a memoria nella mia navigazione, e dopo il viag gio ti ho mandate. » Il
qual libro è notevole molto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di
giuri sprudenza. E di Servio Sulpicio ( primo in autorità tra' giureconsulti di
que' tempi e solo studiato da' giure consulti posteriori ) , ecco che scrive
Cicerone, amico di LEZIONE DECIMANONA. 393 >> lui : « Si stima, o Bruto,
che grand'uso del gius civile s'avesse da Scevola e da molt' altri , ma l'arte
da que st' unico ( cioè da Sulpizio) ; al che non sarebbe giunta in lui la
scienza del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna spartire le
materie composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire con le in
terpretazioni l'oscure ; e così a veder prima ben chiaro le cose ambigue, poi a
distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero dal falso, le conseguenze
diritte dalle contrarie. Questi adunque recò tal arte (mas sima di tutte l'arti
) , quasi luce in tutto ciò che dagli altri si rispondeva o si faceva
confusamente. ( De CI. Orat. 41. ) Con le quali parole mostrò Cicerone la forma
di scienza che si prese dal Diritto in virtù della logica . E la forma
scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, levò le menti alle
generalità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza
del diritto. E il segnale n'è questo ; che al termine dell'età seconda , cioè
sul fiorire della filosofia e delle lettere a Roma, Cesare e Pompeo ebber
disegno d'un codice ; disegno, che mostra l ' uso e la stima degli universali
astratti da ogni caso particolare, ordinati poi secondo generi e spe cie ; giacchè
un codice val quanto in istoria naturale un ordinamento per classi . Pare che
Servio Sulpicio ef fettuasse un alcun che di somigliante a impulso di Ci
cerone, il quale alla sua volta ne' libri delle leggi ( 111 ) mostrò un saggio
di codice pel diritto pubblico, e al trettanto promise pel diritto privato . Nè
qui entrerò in disputa fra due scuole alemanne, l'una che col Savigny sostiene
il danno de' codici, l'altra che ne difende l'uti lità ; dirò a ogni modo ( nè
si contrasta ) che un codice non si fa senz'abito di speculazioni filosofiche ;
però l'averlo pensato in Roma e tentato a quel tempo, chia risce la efficacia
loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a compimento nella terza età, cioè ne'
primi due secoli e mezzo dell'impero . Il dilatarsi del dominio romano a tutta
Italia preparò il campo alle lettere ed alla filosofia ; perchè i Romani,
senten 394 PARTE PRIMA. dosi non più solo Romani, ma Italiani e uomini, la loro
coscienza si chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali.
Di questo fatto non v' ha dubbio di sorta . Dopo la guerra sociale, per le
leggi Plauzia e Giulia de civitate sociorum ( anno 664 e 65 di Ro ma) , fu data
, come notò l'Haubold ( Tav . cronol. per servire alla St. del Dir .), a tutte
le città italiche citta dinanza romana, eccetto i Lucani e i Sanniti ; e nel
l'anno 705 conseguirono la cittadinanza i Galli oltrepò, conseguíta prima
da'Galli cispadani ; la ottenne tutta perciò la Gallia cisalpina . ( Framm . L.
de Gallia Cisal pina .) In tal modo, come scrive il Savigny, dopo la guerra
italica i cittadini d'Italia divennero parte del popolo sovrano. ( St. del Dir.
rom : I, 2.) E il gius italico dava dominio quiritario, o dominio solennemente
e pie namente assicurato, immunità da tutte l'imposte dirette, libero governo
municipale delle città italiane (ivi ), diritto d'intervenire a'comizj o di
mandarvi deputati ; talchè l'Italia , a ' tempi romani, con l'unità politica
suprema serbò le unità politiche secondarie, che si chiamavano soci o
confederati. E questo accadde perchè i Romani aveano già fatto l'unità naturale
della nazione col mescolamento de' sangui, spargendo ovunque le colonie
(com'osserva il Forti ) , nè per sei secoli ne mandaron mai fuori d'Ita lia . (
Ist. Civ . 1, 3, § 25. ) L'Italia, dice l’Hugo, non si considerò mai una
provincia ; chè le provincie furono soggette a magistrati non propri, non
compagne ma suddite. ( Hist. du Dr. Rom. , § 164.) I Romani, allora. si
levarono con la mente all'unità naturale del territo rio, come vediamo ne'
Digesti . Al Fr. 99, $ 1 de Verborum significatione è scritto : « Dobbiam
credere provincie continue le unite all'Italia, come la Gallia ( cisalpina ) ;
ma e la provincia di Sicilia più si ha da tenere per continua, essendo separata
d'Italia da piccolo stretto : Continentes provincias accipere debemus eas, quæ
Ita liæ junctæ sunt, ut puta Galliam : sed et provinciam Siciliam magis inter
continentes accipere eas oportet, quæ modico freto Italia dividitur » (
Ulpiano). E al Fr. 9 , D. de LEZIONE DECIMANONA . 395 Judiciis et ubi etc. , si
dice : « Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia : Insulæ
Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie . » A questo concetto sì pieno
vennero i Romani tra gli ultimi tempi della re pubblica e i primi dell'impero,
cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana,
con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza . Si aggiunga poi, che
le sevizie de' Cesari cadevano in Roma su'patrizi più sospetti , ma quel
reggimento tem peravano istituti repubblicani e ordini civili equi ; se no,
come dice il Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi
uscissero mai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de'
principi; e come Alessandro Severo avesse un consiglio di XVI sapienti, tra cui
i più chiari giureconsulti, Fabio cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio,
Modestino e altri . ( Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1 , § 1-5 . )
E tanto è vero , che la notizia del Gius equo e buono splendesse viva nelle menti
romane, che lo strapazzo delle provin cie ( finita la guerra civile) non era
punto legale, anzi contr' alle leggi ; perchè, secondo le costituzioni come
dice il Warnkoenig ), le provincie stavano bene, le impo ste erano lievi , lo
Stato pacifico, molto dell'amministra zione in mano di quelle ( il che scusa in
parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e Senato li
minacciavano con le leggi repetundarum , tornate vane per corruzione
de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom. , $ 16.) Tali cagioni principalmente formarono
la sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran
causidici, ma scioglievano questioni di diritto in generale; e ciò indica
sempre più e la natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza,
libera da inte ressi particolari, progredisse continuamente. ( Cic . , De CI.
Orat.). Poi, l'emulazione degli oratori che piegavano il gius alla varietà
de’lor fini, co' giureconsulti che ne volevano serbare la severità, incitò
questi a gareggiare in isplendore di lettere e di filosofia, e ad interpretare
il diritto co' placiti del senso comune. Così da una di 396 PARTE PRIMA. sputa
tra l'oratore Crasso (contemporaneo al padre di Cicerone) e Muzio Scevola
giureconsulto sull'interpre tare i testamenti o a rigore di parola, o secondo
la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in quest'ultimo
senso , ripresa dal Forti, ma (e forse meglio ) approvata dal Cuiacio. Infine,
l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la illustre
loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetu dini di Roma, indica
il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale stoica, che ci
chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loro scienza ; e
tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è spiegato.
Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte uomini
onorandi. Nominerò dapprima Quin to Muzio Scevola assassinato a’tempi di Mario
. Dice Pomponio che Muzio costituì primo il decreto civile , disponendolo per
capi di materie ( generatim ) in diciotto libri . Servio Sulpizio ridusse il
diritto a stato di scienza ; fu prima oratore grande, poi giureconsulto per un
rim provero che gli fece Muzio Scevola d'ignorare le leggi del proprio paese, egli
oratore e patrizio ; sostenne la repubblica ; avversò i Triumviri ; la
repubblica gli alzò una statua. Abbiamo di que' tempi Alfeno Varo e Ofelio
disce poli di Servio, e Trebazio (a cui la Logica di Cicerone) e un altro Muzio
Scevola e Cascellio . Muzio non accettava da Ottaviano il consolato ; Cascellio
non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri ; e a chi lo
consi gliava si temperasse rispondeva : son vecchio e senza figliuoli. Labeone,
il cui padre era morto a Filippi, ri fiutò il consolato da Ottaviano anch'egli,
e serbò spiriti antichi. Dice Pomponio : « Egli si détte moltissimo agli studj,
e divise l'anno in modo che stava sei mesi a Ro ma co' discepoli (cum
studiosis), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lasciò quaranta
volumi, che i più s'usano ancora. Ateio Capitone ( segue Pomponio) per severava
nell'antico ; ma Labeone, che molto aveva me ditato nell'altre parti della
sapienza ( qui et in cæteris LEZIONE DECIMANONA. 397 sapientiæ operam dederat),
per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina cominciò a innovare molto. » (
Fr. 39-47, D. De Or. Jur. ) I cinque giureconsulti più cele bri e più recenti (
lasciando gli altri) sono Emilio Papi niano, Paolo, Gaio, Ulpiano e Modestino .
Papiniano, fami liare di Settimio Severo e principale nel governo, stette per
Geta contro Caracalla ; e volendo costui una difesa legale del fratricidio ,
Papiniano la negò e venne ucciso. Scriveva : « i fatti che ledono la pietà, il
buon nome e il pudore nostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume,
si dee tenere che noi uomini dabbene non possiamo farli. » ( Fr. 15, D. De
servis exportandis etc.) Gli altri quattro illustravano, come dissi , il
consiglio di Alessandro Severo . I giureconsulti, massime della terza età,
levarono (com' avvertii) a stato di scienza le loro discipline ; e ciò nacque
dalla molta erudizione loro, non solo in filoso fia, ma eziandio in lettere ; e
se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci ; com'a dire Omero,
Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto fu , come notai
de' tempi di Cicerone, che la giurisprudenza prese forma logica tanto sicura e
stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico (dice l' Hugo) la
filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nes suno più di quelli sta
in confronto de’matematici per tre ragioni ; cioè per vigore di conseguenze da
prin cipj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni, che Gaio dimandava
inelegantia juris, e pel metodo di stintivo e compositivo, induttivo e deduttivo
ad un tem po ; distintivo e induttivo salendo alle specie generali del diritto
; compositivo e deduttivo traendone con bre vità ed evidenza le illazioni . Il
gran Leibnitz, insigne così giureconsulto come filosofo e matematico, scriveva
nell' Epist, 119 : « Io ammiro l'opera de Digesti , o me glio i lavori de'
giureconsulti, ond' ell' è presa : ne vidi mai nulla che più s'accosti al
pregio de matematici : 0 che tu guardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del
dire . » 398 PARTE PRIMA. Ma questa efficacia della filosofia non potè fermarsi
all'ordine de' pensieri, dovè penetrare nell'interno, giac chè, com'avvertii ,
materia della giurisprudenza son gli atti umani o personali, soggetto
filosofico. Tal efficacia non si creda particolare ma generale ; quindi ,
coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o degli Stoici o d'altri
sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare l'opera generale
della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gli eruditi, che i più
de'giureconsulti tolsero dagli Stoici l'argomentare per analogia, l'amore dell'
etimologie, la spartizione delle materie, la sottile dialettica che conviene al
Foro , e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi
egregiamente al gius civile : ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così
disposto bene secondo le leggi del pensiero, e (salvo qualch'errore de' tempi)
così con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni
esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili ,
come si ha dal codice Napoleone : e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria,
vi fanno su studj esimj e perseveranti . E perchè si chiarisca il filosofare
intimo de' giure consulti, guardiamo la nozione, ch'e'si facevano della
giurisprudenza e della filosofia . Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive (pr. e
fr. 1 ) : « Dand' opera al gius, oc corre prima sapere onde ne venga il nome.
Gius è chia mato da giustizia; perchè ( come Celso lo definì elegan temente) il
gius è l'arte del buono e dell'equo. Però siamo chiamati con ragione sacerdoti
della giustizia. Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza
del buono e dell'equo ; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose
lecite dalle contrarie ; desiderosi di far buoni gli uomini , non solo per
timore delle pene, ma eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori (se non
m'inganno) di vera e non simulata filosofia. » Se la definizione della
giurisprudenza si prenda qui a ri gore, ella non regge, perchè si stende a
tutta la filoso fia morale : ma se badiamo al concetto che avevano di LEZIONE
DECIMANONA. 399 questa gli antichi, e al generarsi la scienza del Diritto
dall'altra del Dovere, ci formeremo idea chiara del co me intimamente fosse
filosofica la giurisprudenza romana. Ho mostrato altrove ( Lez. XVII) che,
secondo i sistemi greci, sommità di perfezione umana è lo Stato ; talchè la
morale s' ordinò alla politica ; concetto vero per l'attinen ze esteriori,
falso e pagano quant' all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia, o signori,
se i giureconsulti romani definivano il gius civile come la morale ; lo de
finivano così, perchè, a sentimento di tutti gli antichi, le due scienze si
mescolavano in una . Noi con più ra gione le distinguiamo, ma s'erra da chi ne
dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza de' primi principj e dell' uomo ;
dimenticanza ignota agli antichi, che però svolgevano razionalmente il diritto
e non lo maneggia vano materialmente. Notate ancora che nel passo citato si
distingue la scienza dall'arte. Se nelle Istituzioni poi la giustizia è
definita : « Costante e perpetua volontà di rendere a ciascuno il suo diritto :
» e se la giurispru denza è definita ; « Notizia delle cose umane e divine e
scienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1 , Inst. De just. et jure), » si
vuol fare la stessa osservazione detta di sopra ; e noterò col Cuiacio, che in
tal luogo la giu risprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o
scienza, e com ' abito della volontà, secondo l'antica filo sofia . E la
filosofia la pensavano essi , non senz'alta spe culazione, ma contenuta nel
vero da' dettami del senso comune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono
all'e ternità del diritto (come osserva il Vico, Sc. Nuova, IV) allorchè
dissero : Il tempo non muta nè scioglie i di ritti (tempus non est modus
costituendi vel dissolvendi juris ) ; e quando discernevano il diritto naturale
dal positivo : ma nello stesso tempo rigettarono gli eccessi dello stoicismo,
come l'eguaglianza della imputazione; finalmente derisero le stranezze , l'
ipocrisie, l'avarizia di quelle sette in età di scadimento. Così abbiam sen
tito Ulpiano, che distingue filosofia schietta dalla ma scherata ; e nel Fr. 6
, § 7 , D. al Tit. De his quæ in 400 PARTE PRIMA . testamento delentur, è
schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e nel Fr. 1 , § 4, D. de
extraordinariis cognitionibus etc. , dove si stabilisce gli onorarj delle
professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, van tando di spregiare
le mercedi, n'andavano a caccia. I giureconsulti poi mostrarono tre specie di
diritti : jus naturale, gentium, et civile ; distinzione che non si vuol
confondere con l'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile
; e chi non vi badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La distinzione
pratica mette divario tra leggi proprie di Roma ( jus ci vile) e istituzioni
comuni a ogni popolo non selvatico ( jus gentium vel naturale) ; l'altra è
distinzione più specula tiva e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et jure,
D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue il
privato in diritto naturale, che natura in segnò a tutti gli animali, come la
procreazione de'fi gliuoli ; in diritto delle genti, del quale tra gli animali
hann' uso gli uomini soli , come la religione verso Dio, l ' obbedire a'
genitori e alla patria : in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'è
accusato Ulpiano d'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del
l'animalità ; ' e sì che il Piccolomini da qualche secolo fa , come il Warnkoenig
oggi , notava che qui , se condo le dottrine vere d' Aristotile, son distinti
nel l'uomo i diritti che vengono dalla natura animale , quelli che vengono
dalla razionale, e gli altri che pone la comunanza civile. Non s'intende già
che le bestie ( dette da' giureconsulti cose, non persone) abbian di ritto, ma
che le potenze animali dell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan
diritti , come li gene rano le potenze razionali . Talchè in Ulpiano si trova
benissimo sceverata l'animalità dalla razionalità . È da confessare invece, che
il diritto civile si definisce per quello che toglie o aggiunge al diritto
naturale e delle genti ; e s'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come
si dice nel Tit. De regulis juris. Ma tut tavia meritan lode i giureconsulti,
che se non condan · LEZIONE DECIMANONA. 401 narono la servitù, la dissero
contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e di Aristotile . Anzi
nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale viene istituito dalla divina
Provvidenza, come insegnavan gli Stoici ( De Jur. Nat. Gen. et Cir ., fr. 2 , §
ult. ); nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti .
Poi, essi definiscono il gius civile qual era in fatto allora . Osserverò di
passaggio, che il chiarissimo Conforti nel l'annotazioni allo Stahl ( St. della
Filosofia del Diritto, Torino 1855) opina con altri , che i Romani non avessero
idea del diritto eterno, perchè jus viene da jubeo, co mandare ; dove la parola
diritto, e le simili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di
rettitudine, o di rittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensò forse
al come definisce la parola Jus il Forcellini ( Voc. ad V.) : « Gius è tutto
ciò che in generale vien costi tuito da leggi o naturali , o divine, o delle
genti o ci vili ( jus est autem universim id, quod legibus constitutum est
etc.). Si nomina con altro nome equità comune, equo universale, legittimo, cioè
adequato alle leggi, quasi norma e regola degli atti umani. » Sicchè i Romani
chiamavano Jus un che costituito da una legge qua lunque ; così distinguevano
la legge da ciò che ne pro cede, e ch ' è l'effetto del suo comando : e
Cicerone ( Rep. et De Leg. passim ) adopera legge e gius in tal significato. Ma
la risposta migliore si è in quell'assioma de Romani già citato : « il
tempo non muta nè scioglie i diritti ; conobbero, dunque, i Romani la santità
del diritto fuori del tempo, cioè nell'eternità, o nel suo fondamento as
soluto. Inoltre vedemmo che il gius civile si distingueva dal naturale. Ma tornando
a'giureconsulti, la loro scienza originò il diritto onorario, di cui parla il
Forti se non con molta novità, certo con più chiarezza di tutti gli altri da me
esaminati . E io ritrarrò in breve la sentenza di lui , e n'uscirà la prova del
quanto potè la scienza dell'uomo e la filosofia morale in tanta perfezione di
gius. Ma prima dirò; che il gius onorario conteneva gli editti del Storia della
Filosofia . – I. 26 402 PARTE PRIMA. pretore urbano e del peregrino, e quelli
degli edili e proconsoli e propretori delle provincie (edictum provin ciale).
Pare che il gius predetto, almeno in modo se gnalato, principiasse verso la
metà del secolo VII, per chè Cicerone nella seconda Verrina dice : « postea
quam jus prætorium constitutum est . » L'Hugo dimostra, con tro l’Heinneccio,
che tal diritto ebbe forza di legge ; poichè ( tra gli altri argomenti )
Cicerone non contrasta nelle Verrine che l' Editto di Verre sia legge da te
nere, ma lo accusa di averlo infranto egli stesso, o con formato non secondo
ragione. ( Hugo, Hist. etc. , $ 178, 179. ) Or dunque, i pretori rendevano
giustizia ne'civili ne gozi , gli edili per le convenzioni de' mercati e per la
po lizia della città ; e tanto gli uni che gli altri, quando pi gliavano i
magistrati, mandavan fuori un editto , ove stabilivano le forme del giudizio e
le massime: ottimo istituto in repubblica popolare. Non mutavano il gius, ne
determinavano l'applicazione. Eccone gli esempi : In primo luogo, salva la
forma legale, si supponga che i contraenti abbiano pattuito o per inganno, o
per er rore, o per timore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la
legge non conservavasi uguale per tutti . Quindi i pretori statuiron massime
per l'efficacia civile della moralità negli atti , scuse legittime per negare
agl'ingiusti la sanzione della legge e i mezzi legali, perchè queste massime
d'equità si recassero ad effetto . I codici moderni han composto di tali
massime le lor leggi universali . Allora, dice il Forti, gli editti de' magi
strati « erano uno de' principali modi, per cui la filosofia venne applicata
gradatamente ai bisogni civili . » Sicchè (quant'alla moralità degli atti)
trovarono i magistrati l'eccezioni perpetue contro le obbligazioni per dolo,
per timore, per errore, per violenza ; la restituzione in intero, i modi legali
a sciogliere le dette obbligazioni, od a ri petere ciò che pel tenore loro
fosse stato pagato. In se condo luogo, le leggi , definito il diritto e
ordinatane la sanzione, lasciavano a'magistrati ilmodo d'effettuarli. Per
esempio, le leggi stabilivano i modi d'acquistare la pro LEZIONE DECIMANONA .
403 prietà, ma non i modi della sua difesa ; che più tornò necessaria, quanto
più divise le possessioni, e distinta la varietà de'godimenti e diritti che si
comprendono nella mozione del dominio ; onde nacquero nuovi contratti e bisogni
di nuove difese. Quind'i pretori differenziavano a capello il dominio e il
possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va' discorrendo. ( Ist. Civ., L.
I. S. 1 , € . 3, § 31.) Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a formare
un'altra maniera di gius, cioè il diritto ricevuto ljus receptum ). Essi,
introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza della
buona fede, costrin sero i magistrati a giudicare di que'contratti, non se
condo le nude parole della legge, sì a lume di naturale onestà ; come le
clausale, si lodate da Cicerone, uti ne propter te , fidemre tuam captus,
fraudatusne sim ; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione. ( De
Off. III, 17. ) I giureconsulti si davano all'interpretazione; e poi chè questa
o considera la legge in sè, o gli atti della volontà umana , così la filosofia
di que'sapienti gli aiuto all’un five con le spiegazioni delle parole e con la
de. finizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa
: gli aiutò all ' altro fine co giudizi sulla moralità degli atti , e con le
regole per interpre tare l'altrui volontà. Il Gravina così accenna le novità
del gius ricevuto : * Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e
mitiganti a poco a poco e come di soppiatto l'asprez za delle leggi, son venute
le regole di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi ,
l'uso dei codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron
utili , perchè procedono dall’equa e utile in terpretazione, le stipulazioni
aquiliane, autore Aquilio giureconsulto, le varie differenze delle successioni.
la re gola catoniana , la sostituzione pupillare, il divieto della donazione
tra marito e moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del
tutore. Da essi ver 404 PARTE PRIMA. nero i giudizi di buona fede, le azioni
rei uxorie, la querela dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si
trova citato sotto nome di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto. ( De ortu
et progr. I, Civ. , C. 43. ) Tale acume di riflessione disciplinata recò i
giurecon sulti per fino ad un computo di probabilità sulla vita umana
quant'all' usufrutto ed agli alimenti (come si vede Fr. 68 D. Ad Legem
Falcidiam ); cosa notabile molto, perchè fa supporre grand'abito d'osservazione
e di giudizi astratti . La virtù e la vera filosofia de' giureconsulti le sen
tiamo pur anche nel loro stile, che in mezzo alle ampol losità di Seneca e
degli altri si tien semplice e puro .. Nelle Pandette v' ha errori di lingua,
per vizio de' com pilatori greci e de' copisti ; ma specie i frammenti di Gaio
e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali maestri di latinità .
Terminerò, o signori, recando un saggio di tal sa pienza ed elegante brevità,
in alcune regole di gius. dall' ultimo titolo de' Digesti : « I diritti del
sangue non posson finire per niuna legge civile ( Fr. 8) . Sempre nelle cose
oscure s' ha da tenere il meno ( 2) . Sta in na tura che le comodità d'una cosa
seguan colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può
col tempo sanare ( 29) . Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch'
uno s ' è legato : però l ' ob bligazione di parole sciogliesi con parole, e
quella di nudo consenso con altro consenso ( 35) . Che si fa o si dice nel
caldo dell'ira, non si stima . vi sia consenso d'animo, se non v' ha
perseveranza ( 48) . Nessuno può trasferire altrui più diritti che non ha ( 54)
. Sempre nel dubbio son da preferire le sentenze più benigne ( 57) . L'erede si
stima di quelle facoltà e di que' diritti che il defunto ( 59) . È proprio di
quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o ammucchiato sillogismo, di trar la
disputa, con lievissime mutazioni, da cose evidentemente vere a evidentemente
false (65 ). Quante volte un di scorso rende due sensi, prendasi quello ch'è
più adatto LEZIONE DECIMANONA. 405 al da fare ( 69) . Non si dà benefizio per
forza ( 69) . Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno ( 75) . In
ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equi tà (90 ). Ne’discorsi
ambigui è il più da guardare all'in tendimento di chi li fa (96) . Nelle cose
oscure si badi al più verosimile, e a ciò che accade più spesso ( 114) . Il
timore vano non è buona scusa ( 184) . Per l'impossi bile non c'è obbligo che tenga
( 185) . Le cose proibite da natura, non sono convalidate da legge nessuna (
188, § 1 ) . Per gius di natura nessuno dee farsi più ricco a danno altrui
(206) . Per gius civile i servi si sti mano nulla ; non per diritto naturale,
secondo cui tutti gli uomini sono uguali » ( 32) . Quando l'impero si foggiò
all'orientale, la giurispru denza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno «
La indigesta mole de' Digesti >> e ciò accadde alla quarta età, o di
vecchiezza. Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia
grecolatina di Cicerone e de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di
questi e di quello apparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica,
e, nelle speculazioni, fuggire tutti gli eccessi delle sette, componendone,
guidati dalla coscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari (mi sembra)
che veramente dopo la dialettica distintiva de' greci, tende vano i Romani alla
comprensione finale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca
quarta del tempo pagano e della filosofia . Or noi passeremo al l'èra cristiana
. Augusto Conti. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The
Swimming-Pool Library.
Contri (Cazzano
di Tramigna). Filosofo. Grice: “I like Contri – he reminds me of my days at
Rossall! Of course Contri is interested in Hegel – “a la ricerca del segreto
sofisma di Hegel” – and attempts to reveal it as Stirling never could! But
Contri is also interested in ‘il bello’ – being an Italian! – The interesting
thing is that he goes back to Italy – Aquino! He has a good exploration on
‘verum’ in Aquino, too, which reminds me of Bristol, Revisited!” Allievo di Zamboni,
elabora una minuziosa critica alla logica di Hegel di cui mise in rilievo le
incongruenze gnoseologiche e metodologiche che portano alla errata concezione
hegeliana della realtà come vita dell'idea. Rovesciando l'immanentismo
hegeliano, scopre un mondo di realtà sviluppando una concezione di filosofia
della storia che denomina “storiosofia”. Studia a Verona. Si laureò a
Padova. Discepolo fervente di Zamboni, di cui accolse e sostenne la dottrina
della gnoseologia pura. In alcune occasioni si descrisse come elaboratore in
contemporanea al suo maestro Zamboni di alcune teorie, collegate all’estetica
ma non solo. Insegna a Bologna. Zamboni fu espulso dall'Università Cattolica
con la motivazione di allontanamento dalla ortodossia tomistica e con accusa di
non conformità al Magistero della Dottrina Cattolica Romana. Contrì definì la
posizione della Cattolica con il termine da lui coniato di “archeo-scolastica”.
La posizione “archeo-scolastica” della Cattolica di Milano, di una conoscenza indimostrata,
a priori, dell’essere e degl’esseri era bersaglio di critiche da parte di
filosofi cristiani e non che la ritenevano inadeguata nell’ambito del pensiero
moderno. Contri sostenne che la dimostrazione della conoscenza dell’essere e
degl’esseri data dalla Gnoseologia Pura di Zamboni superava definitivamente tali
critiche e ridava certezza dimostrata della conoscenza e dell’esistenza di
Dio. Accusa di plagio Gemelli per aver pubblicato nella monografia Il mio
contributo alla filosofia neoscolastica (Milano) pagine già scritte da Desiré
Mercier e da Morice De Wulf, senza indicare le citazioni. Gemelli diede le
dimissioni da Rettore della Università Cattolica ma rimase in carica. Insegna Bologna.
Il prof. Ferdinando Napoli, Generale dei Barnabiti, cultore di scienze
naturali, venne depennato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, allora
presieduta dal Gemelli. Venne dato ordine di non pubblicare articoli a firma di
Contri. Continuando la difesa della dottrina di Zamboni, fondò la rivista
quadrimestrale di polemica e di dottrina neoscolastica “Criterion”. Il
confronto con l’Università Cattolica di Milano continuò negli anni successivi
con relazioni a numerosi congressi di cui Contri diede resoconto sulla
rivista. Insegna a Ivrea. Sulla rivista Criterion apparvero intanto i
primi Saggi del Contri sui suoi studi hegeliani che prelusero all'opera
definitiva dLa Genesi fenomenologica della Logica hegeliana. Partecipa
attivamente agli organi culturali del fascismo. Sscrisse su giornali quali Il
Secolo Fascista, Quadrivio, Il Regime Fascista, Il meridiano di Roma e La
Crociata Italica. Contri si avvalse della tribuna offerta da queste testate per
promuovere i suoi studi filosofici e critica filosoficamente l’ ebraismo di
Spinoza, di Durkheim e di Bergson. Insegna a Milano e tenne conferenze su studi
hegeliani. Sorse una disputa con Zamboni in seguito all'articolo Il campo della
gnoseologia, il campo della storiosofia, in risposta alla pubblicazione del
Contri Dallo storicismo alla storiosofia.
Prese parte attiva a congressi tomistici internazionali e a congressi
rosminiani. Partecipa attivamente alla “Missione di Milano”, lanciata
dall’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini. Come riconoscimenti
ai suoi studi conseguì alcuni premi fra i quali uno indetto dall'Angelicum sul
tema “Quid est veritas”, e una segnalazione all'Accademia dei Lincei per
l'opera: Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, Milano, LSU. Fu
discepolo e geniale continuatore di Zamboni. Così potrebbe definire la
situazione filosofica di oggi. Il mondo del pensiero, perduta la bussola non
teologica d'orientamento, è costituito da una miriade di metafisiche che
cozzano le une contro le altre tanto da definirsi che heghelianicamente come il
divenire in sè, che è puro fenomenismo. A tale fenomenismo corrispondono
molteplici fenomenologie. Per esempio quella di
Heidegger, afferma che il reale è un solo, una totalità onniafferrante
(Hegel direbbe begriff), tanto come essere quanto come niente. Anche Hidegger
poi tenta la via della salvezza ammettendo la realtà del mondo esterno come di
un che, che resiste al soggetto, ponendosi nel solco del pensiero di Zamboni.
In questo modo Hidegger tocca il problema che si volle e che si vuole eludere:
la realtà del mondo esterno. Esistono queste realtà, come la mia realtà, indipendentemente
dal pensarle? Per dare risposta a questo interrogativo cruciale, è necessaria
la gnoseologia pura. La gnoseologia secondo Contri, scoprì la risoluzione
definitiva del problema della certezza della conoscenza umana. Essa permise di
risolvere il problema dell'esistenza di Dio, riavvalorando criticamente le
cinque vie della dimostrazione Aquino. Sono meriti del metodo filosofico di
Zamboni il poter affermare la sostanzialità del mio “io” personale, la mia
realtà individua e dimostrare l'esistenza di Dio, trascendente, personale. Il
metodo zamboniano distingue gli elementi della conoscenza umana tra la
sensazione, che e sempre oggettiva, e lo stato d'animo e tra questi
"quello stato d'animo che è anche atto: l'attenzione". Ogno stato
d'animo e sempre soggettivo. La gnoseology riesce a cogliere la realtà del
proprio “io”, nei suoi atti e stati. Essi sono reali, perché immediatamente
presenti all'”io”, e se sono reali gli accidenti dell'io, perché essi sono modo
di essere dell'io, reale è l'io, come sostanza, cui essi ineriscono. Perciò
dall'immediata certezza della realtà degli accidenti di un ente si giunge alla
certezza della realtà sostanziale dell'io." La critica alla posizione
della neoscolastica di Gemelli, Olgiati e Masnovo sulla conoscenza indimostrata
dell'ente e la soluzione tramite la gnoseologia pura. Rispetto alla dimostrazione
della realtà dell'ente, si fonda così nell'esperienza immediata ed integrale il
concetto di essere e ‘esseri’ che non è più necessario assumere acriticamente,
come qualcosa di razionalmente immediato, pena l'impossibilità di una logica
razionale. L'assunzione acritica del concetto di essere ed esseri è propria del
neotomismo dell'Università Cattolica, che in un suo autore, Masnovo, perviene
alla sua massima teorizzazione nel "mio hic et nunc diveniente atto di
pensiero". Ma con questo l'essere e gli esseri è solo pensato e ammesso
acriticamente come pensiero, è un presupposto, mentre nella gnoseologia
zamboniana è il risultato di un processo di astrazione, che deriva da una
realtà immediatamente presente all'autocoscienza dell'io, che non ha la natura
del pensiero, non è pensiero essa stessa, ma qualcosa di diverso. Si può
pertanto uscire dalla formula logica della ragion sufficiente, che è sempre e
comunque razionalista e riduce al razionalismo anche il neotomismo. Nell'ambito
dell'esperienza immediata ed integrale si scopre invece non la ragion
sufficiente, ma la sufficienza ad esistere o no. E la fondazione ed il
ripensamento delle prove dell'esistenza di Dio, e in particolare della terza
via tomistica, diventano inoppugnabili. Nessuno più può dubitare dell'esistenza
del sufficiente ad esistere, che è Dio." Secondo Peretti la
fondazione gnoseologica della metafisica è il più grande merito di Zamboni.
L'ambiente filosofico dell'Università Cattolica non accetta la gnoseologia
zamboniana e fonda la metafisica sul concetto di ente, assunto acriticamente,
come un presupposto indimostrabile. Esso finì per identificarsi con l'ente di
ragione (ens rationis), non sfuggendo all'insidia hegeliana, che lo aveva
dialettizzato sia come essenza che come esistenza. La dialettica negativa di
Hegel produsse ben presto nella corrente neotomista di Milano (ma anche in
altre università cattoliche) i suoi effetti devastanti. Aveva messo in guardia
i neotomisti dalla fraus hegeliana, che si svela nell'antitesi (contra-posizione)
come negazione. Seguendo la metodologia gnoseologica, Contri affronta
Hegel, il "padre del fenomenismo" compiendo una minuziosa e
sistematica analisi della fenomenologia hegeliana. Dopo averle individuate ha
messo in rilievo le incongruenze gnoseologiche e perciò metodologiche che
sfocia nella concezione della realtà come vita dell'idea, presentandola come uno
svolgimento dialettico del ‘begriff’, come qualche cosa che non mai in sé, ma
diviene eternamente in sé e per sé. Contri resa evidente questa impostazione,
anima del fenomenismo, e scoperta nella deficienza gnoseologica e pertanto
metodologica, derivata dall'impostazione razionalista ed empirista che al fondo
dello stesso criticismo, rovescia l'immanentismo hegeliano, che si gli scopre
non più come mondo di idee, ma di realtà, di cui ognuna è altro del suo altro,
in un ordito cosmologico, di cui la storia dell'uomo rappresenta l'essenza. Ed
ecco la storiosofia, che reclama, al posto dell'immanentismo
gnoseologicamente insostenibile, la trascendenza della trama di questo ordito,
che a questo punto in sé e per sé non può più essere spiegato (si ricordi che
l'anima della spiegazione hegeliana è la "negazione"!). Tale trascendenza
prova l'esistenza di un Dio trascendente, che ha concepito la trama creando le
realtà ordito di questa trama, di realtà in reciproca relazione, in cui non c'è
membro che sia fermo. In questo ordine si risolvono in modo nuovo i rapporti
tra le realtà, che per esempio tra l'anima e il corpo, superando così gli
scogli di una spinosa questione di eredità aristotelica, di grande importanza
anche oggi, in cui le realtà terrene e spirituali non trovano la sintesi
equilibratrice. La storiosofia rappresenta uno sviluppo del metodo di
Zamboni, considerandolo la via per rinnovare tutta la filosofia poiché esso non
è storicismo filosofico, non è naturalismo, è avanti positivistico, non è speculazione,
ma metodo appunto, (metodo) che da secoli la filosofia europea ha cercato,
perdendolo oggi nella disperazione del momento." Opere: “Il concetto
aristotelico della verità in Aquino” (Torino, SEI); “Gnoseologia” (Bologna,
L.Cappelli); “Il concetto d’armonia” (Bologna); “Il tomismo e il pensiero
moderno secondo le recenti parole del Pontefice, Bologna, Coop. tipografica
Azzoguidi): “Del bello” (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina); “La filosofia
scolastica in Italia nell' era presente” (Bologna, Cuppini); “L’essere e
gl’esseri” (Bologna, C. Galleri); Un confronto istruttivo: Mercier, Gemelli, De
Wulf ed altri ancora, Bologna, C. Galleri); “Pane al pane: riassunto d'una
situazione, Bologna, Costantino Gallera. “Neo-scolastici e archeo-scolastici”
(palaeo-scholastici) sulla rivista Italia letteraria; “Il segreto sofisma di
Hegel” (Bologna, La Grafolita), “Mussoliniana: il discorso del duce” (Bologna,
La Diana scolastica); “Gnoseologia pura di A. Hilckmann; Il segreto di Hegel di
S. Contri, Bologna, Stabilimento Tipografico Felsineo); “Hegel, Ivrea, ed.
Criterion); “La genesi fenomenologica della logica hegeliana” (Bologna,
ed.Criterion; Ambrogino o della neoscolastica, dialogo filosofico,
Bologna); “La soluzione del nodo centrale della filosofia della storia,
Bologna, Criterion); “Complementi di storiosofia, Bologna, Criterion); “Punti
di storiosofia, Bologna, Criterion; Lettera a S.S. Pio XII sulla filosofia
della storia, Bologna, Criterion; Il Reiner Begriff (=concetto puro) hegeliano
ed una recensione gesuitica, Bologna, Criterion; Dallo storicismo alla
storiosofia. Lettura prima, Verona, Albarelli; I tre chiasmi della storia del
pensiero filosofico. Inquadratura unitotale della controversia sulla
storiosofia, Milano, ed. Criterion); “Rosmini” (Domodossola, La cartografica C.
Antonioli); Ispirazione da dei” divina della S. Scrittura secondo
l'interpretazione storiosofica” (Milano, Criterion); “La sapienza di Salomone,
Milano, ed. Criterion; “La riforma della metafisica” (Milano, ed. Criterion); Filosofia
medioevale. Raggiungere la forma nuova, Fiera Letteraria; Punti di
trascendenza nell'immanentismo hegeliano, alla luce della momentalità
storiosofica” (Milano, Libreria Editrice Scientifico Universitaria); “Rosmini”
(Milano, Centro di cultura religiosa); “Posizioni dello spiritualismo
Cristiano: La dottrina della poieticita in un quadro rosminiano” (Domodossola,
Tip. La cartografica C. Antonioli); “Assiologia ed estetica”, Theorein; Posizione
dello spiritualismo cristiano. La dottrina della poieticità, in un quadro
rosminiano, Rivista rosminiana; Heidegger in una luce rosminiana: la favola di
Igino e il sentimento fondamentale, Domodossola, La cartografica); Missione di
Milano. Chiosa storico-filosofica, Ragguaglio); “Heidegger in una luce rosminiana,
Rivista rosminiana); La coscienza infelice nella filosofia hegeliana” (Palermo,
Manfredi); “Husserl edito e Husserl inedito” (Palermo, Manfredi); “Kierkegaard:
profeta laico dell'interiorità umana”; “Saggio di una poetica vichiana” (Milano,
Il ragguaglio librario); La fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Rivista rosminiana;
L'unità del pensiero filosofico, Sapienza; Il pluralismo filosofico nell'ambito
di una concezione cristiana, Sapienza; In margine al centenario dantesco,
Sapienza; La negazione come principio metodologico di unificazione speculativa,
Theorein; Vita e pensiero di Hegel, Rivista rosminiana; Possibilità di un
accordo tra la dottrina rosminiana del sentimento fondamentale e le concezioni
moderne sull'inconscio, Rivista rosminiana; Morale e religione
nella Fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Palermo); “Parallelo tra Hegel e
Rosmini, Palermo, Mori); “Metafisica e storia, Palermo, Mori); “Il sofisma di
Hegel” (Milano, Jaca book). “Il caso Contri”; “Gnoseologia”; noseologia,
storiosofia; Contri, Note mazziane; La propedeutica metafisica hegeliana al
problema del pensare e la lettura rosminiana di S. Contri, Contri tra
gnoseologia e storiosofia, Punti di trascendenza in S. Contri, in Sophia,
Crociata Italica, Fascismo e religione nella Repubblica di Salò, L'Estetica di
Benedetto Croce. Certi gestiscriveva la Vanni Rovighiche gli furono
rimproverati come acquiescenza al potere politico fascista (e furono ben pochi
in confronto a quelli di molti altri) furono dettati dalla preoccupazione di
difendere la sua Università dalla minaccia di chiusura da parte del potere
politico, minaccia tutt’altro che immaginaria. E forse fu il timore di fronte
alle obiezioni di un’altra autorità, quella ecclesiastica, che gli premeva ben
più di quella politica, a indurlo ad allontanare dall’Università un uomo di
grande ingegno e di purezza adamantina: Zamboni, un gesto che non può non
essergli rimproverato e che lasciò anche a noi allora studenti dell’amaro in
bocca. Contri, (Circa il volume di Croce 'La storia come pensiero e come
azione. Siro Contri Presidente dell' Istituto di Cultura Fascista...». Siro Contri, «Il regime fascista» Siro
Contri. Contri. Keywords: del bello, il bello, assiologia, poetica vichiana,
Mussolini, discorso, duce, logica di Hegel, filosofia dell’essere, l’essere e
gli esseri, Hegel contraddetto, il bello, pulchrum, archeo-scolastici,
paleo-scolastici, Aquino, aristotele, il vero, l’errore di Croce, l’equivoco di
Croce, percezione del bello, l’armonia e il bello, del storicismo alla
storiosofia, storiosofia o filosofia della storia, interpretazione dommatica di
Aquino, la negazione di hegel, il concetto puro di Hegel, la negazione come
metodo in Hegel, nihilismo e negazione in Hegel, l’errore di Hegel, il sofisma
di Hegel, Gentile e il bello. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contri” – The
Swimming-Pool Library.
Corbellini (Cadeo). Filosofo.
Grice: “I like Corbellini; of course he has to defend science versus what he
calls – alla Popper? – ‘pseudoscenza’ in Italy, which he calls ‘il paese della
pseudoscenza’ – I thought that was Oxford!” I sui interessi riguardano la grammatical
del vivente, la storia della medicina e la bioetica. Insegna Roma. Si laurea
con “L’epistemologia evoluzionistica”.I suoi interessi di studio hanno
riguardato la storia e la filosofia della biologia evoluzionistica, delle
immunoscienze e delle neuroscienze, per includere poi anche lo studio della
storia della malaria e della malariologia in Italia, delle ricadute della
genetica molecolare, delle implicazioni dell’evoluzione e l'evoluzione. L'approccio
storico-epistemologico all'evoluzione trovato una sintesi nella ricostruzione
della storia delle idee di “salute” e malattia e delle trasformazioni
metodologiche a cui è andata incontro la ricerca delle spiegazione causale
della salute. La sua ricerca si è orientata anche verso l'esame delle radici delle
controversie bioetiche. Difende un'idea non confessionale della bioetica, che
ha radici filosofiche in uno scetticismo morale radicale, naturalistico e non
relativista (Bioetica per perplessi. Una guida ragionata, Mondadori). Coltiva anche un interesse per la percezione
sociale e il ruolo della scienza nella costruzione del valore civile. Sostiene
che l'invenzione e l'espansione del metodo scientifico hanno consentito e
favorito l'evoluzione del libero mercato e della stato di diritto, ovvero che
la scienza ha funzionano come catalizzatore nella costruzione e manutenzione
dei valori critico-cognitivi e morali che rendono possibile il funzionamento
del sistema liberal-democratico. Altre
opere: “Nel Paese della Pseudoscienza. Perché i pregiudizi minacciano la nostra
libertà” (Milano, Feltrinelli); “Cavie? Sperimentazione e diritti animali”
(Bologna, Il Mulino); “Tutta colpa del cervello: un'introduzione alla neuro-etica”
(Milano, Mondadori Università, ; Scienza, Torino, Bollati Boringhieri); “Dalla
cura alla scienza” (Milano, Encyclomedia Publishers); “Scienza, quindi
democrazia, Torino, Einaudi); “Perché gli scienziati non sono pericolosi”
(Milano, Longanesi); “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in
Italia (con Giovanni Jervis), Torino, Bollati Boringhieri, EBM); “Medicina
basata sull'evoluzione” (Roma-Bari, Laterza); “Bi(blio)etica” (Torino,
Einaudi); “Breve storia delle idee di salute e malattia” (Roma, Carocci); “La
grammatica del vivente. Storia della biologia e della medicina molecolare”
(Roma-Bari, Laterza); “L'evoluzione del pensiero immunologico” (Bollati
Boringhieri, Torino). L’errore di Darwin. Introduzione;
1. Dall’etica medica alla bioetica; 2. Il senso morale umano e le controversie
bioetiche; 3. Sperimentazione sull’uomo e consenso informato; 4. Scelte di fine
vita; 5. Scelte di inizio vita; 6. Medicina genetica; 7. Sperimentazione
animale; 8. Medicina dei trapianti e definizione di morte; 9. Etica della
ricerca responsabile; 10. Medicina rigenerativa e staminali; 11. Neuroetica;
12. Etica ambientale e OGM; 13. Etica della comunicazione scientifica, della
percezione della scienza e del «gender»; Indice dei box; Indice analitico;
Indice dei nomi. Come nota Gilberto Corbellini nella prefazione all’edizione
italiana del libro di Ru- bin, il tentativo di applicare l’approccio
evoluzionistico alla (filosofia) politica spesso rischia di venire frainteso.
Il frain- tendimento più comune e pericoloso deriva dalla mancata distinzione
tra il “darwinismo politicizzato” e la “politica darwiniana”: il primo è
costituito, come è accaduto nel caso del socialdarwinismo di fine Ottocento,
dall’«interpretazio- ne strumentale e priva di coerenza logica o di basi
scientifi- che delle idee darwiniane per difendere qualche particolare
ideologia politica»; la seconda, invece, consiste nell’«uso delle conoscenze
evoluzionistiche sulla natura umana per meglio comprendere le origini delle
preferenze politiche in- dividuali, la loro distribuzione sociale e le
dissonanze tra gli adattamenti ancestrali e l’ambiente attuale».58 Ridley si
mostra ben consapevole del rischio di trasformare la politi- ca darwiniana in
ideologia. Questo, tuttavia, non gli impe- disce di avanzare alcuni
suggerimenti di politica economica 54. Cfr. Skyrms, The Evolution of Social
Contract, pp. 108-109 e Festa “Teoria dei giochi, metodo delle scienze sociali
e filosofia della politica”, Prefazione a de Jasay, Scelta, contratto,
consenso, pp. 8-9). Alcune immani tragedie che hanno segnato la storia degli
ultimi due secoli sembrano dovute, almeno in parte, all’ignoranza – e,
talvolta, alla ne- gazione – di alcune caratteristiche essenziali della natura
umana. Per esempio, Ridley (p. 322) osserva che «Karl Marx vagheggiava un sistema
sociale che avrebbe funzionato solo se fossimo stati degli angeli, ed è fallito
perché siamo invece degli animali». 55. Peter Singer, Una sinistra dawiniana.
Politica, evoluzione e cooperazione, Torino, Edizioni di Comunità, 2000 (1999).
56. Larry Arnhart, Darwinian Conservatism, Exeter (UK), Imprint Academic, 2005.
57. Rubin, La politica secondo Darwin. 58. Gilberto Corbellini, “Politica
darwiniana vs darwinismo politicizzato”, prefazione a Rubin, La politica
secondo Darwin, p. 9. 31 Ridley.Origini.Virtu.indd Le origini della virtù
– si vedano soprattutto gli ultimi tre capitoli del libro – che gli sembrano
compatibili con le nostre tendenze evolutive. La prospettiva
filosofico-politica che ne emerge è un libe- ralismo con tendenze anarchiche,
che non sarebbe inappro- priato chiamare “anarco-liberalismo”.59 Tale
prospettiva, ispirata dalla grande fiducia di Ridley negli istinti coopera-
tivi e altruistici degli esseri umani, sfocia infatti nella difesa di un ordine
politico-economico nel quale il ruolo del gover- no e dell’intervento pubblico
è ridotto ai minimi termini: Recuperiamo la visione di Kropotkin, che
immaginava un mondo di liberi individui. [...] Non sono così ingenuo da pensare
che ciò possa accadere da un giorno all’altro, o che qualche forma di governo
non sia necessaria. Ma metto se- riamente in dubbio la necessità di uno Stato
che decide ogni minimo dettaglio della nostra vita e si attacca come una
gigantesca pulce alla schiena della nazione.60 D’altra parte, Ridley si rende
conto che, mentre le solu- zioni politico-economiche da lui favorite si
accordano con alcune tendenze evolutive umane, confliggono però con al- tre.
Per esempio, egli osserva che certe istituzioni economi- camente adeguate nella
società moderna, come la proprietà privata, possono entrare in tensione con le
tendenze primi- tive all’egualitarismo, alla redistribuzione e al rifiuto
dell’accumulazione di ricchezza.61 L’analisi dei conflitti tra le moderne
istituzioni politico-economiche e le nostre ten- denze primitive è uno degli
argomenti centrali del già citato libro di Rubin.Le “Imperfezioni umane” di
Pani e Corbellini Di Valeria Covato | 06/06/2016 - Mailing Le “Imperfezioni
umane” di Pani e Corbellini Fornire un punto di vista innovativo, cioè
evoluzionistico, di tutto quello che riguarda la salute e le disfunzioni
comportamentali, e suggerire qualche punto di vista originale sul perché
nonostante le dissonanze evolutive, la condizione umana è globalmente
migliorata. È questo l’obiettivo del libro dal titolo “Imperfezioni umane.
Cervello e dissonanze evolutive: malattie e salute tra biologia e cultura”
(Rubbettino), scritto da Luca Pani e Gilberto Corbellini, che sarà presentato
domani, martedì 7 giugno, alle ore 16.30 a Roma presso il Centro studi
americani (Via Caetani, 32). CHI CI SARÀ Dopo i saluti di Paolo
Messa, direttore Centro studi americani, interverranno alla presentazione
moderata da Micaela Palmieri (Tg1) monsignor Lorenzo Leuzzi, Vescovo ausiliare
di Roma, Alberto Mingardi, direttore generale Istituto Bruno Leoni, Benedetto
Ippolito, professore di storia della Filosofia presso l’università Roma
tre. IL VOLUME “Negli ultimi vent’anni una nuova ipotesi di lavoro
si è fatta strada in ambito medico sanitario, definita nel mondo anglosassone
«evolutionary mismatch» (dissonanza evoluzionistica) – raccontano gli autori -.
Questa teoria assume, in pratica, che l’ambiente nel quale la nostra specie ha
acquisito i suoi tratti adattativi sia drammaticamente cambiato in un tempo
troppo breve perché predisposizioni o tratti genetici e fenotipici
dell’organismo fossero in grado di adeguarsi, per selezione naturale, alle
novità”. Le conseguenze di queste dissonanze? “Disfunzioni o disturbi o rischi
che richiedono un approccio medico”. “Il libro è diviso in tre parti –
spiegano Pani e Corbellini – Si inizia con un’illustrazione dei presupposti di
qualunque strategia motivazionale, cioè dei meccanismi che sono alla base del
piacere e delle ricompense, e da cui deriva – in ultima istanza – la
possibilità di acquisire nuove conoscenze che consentono di affrontare le
incertezze psicologiche che si accompagnano a qualunque comportamento
esplorativo. La riflessione prosegue con esemplificazioni di risposte
comportamentali che in particolari (o mutate) condizioni si manifestano come
malattie. Il terzo capitolo è dedicato in modo specifico al comportamento
alimentare e discute l’esempio più eclatante di dissonanza evoluzionistica: il
mismatch metabolico. Gli ultimi due capitoli affrontano una serie
d’imperfezioni e predisposizioni comportamentali umane che scaturiscono da
compromessi evolutivi, e che risultavano vantaggiose o meno nel contesto
dell’adattamento evolutivo, mentre i cambiamenti ambientali determinati
dall’evoluzione culturale hanno generato, a loro volta, ulteriori fenomeni
disadattativi”. QUALI DISSONANZE Nel dettaglio gli autori
descrivono le dissonanze create dai nuovi contesti di vita per quanto riguarda
cicli del sonno, accesso al cibo, comunicazione, cooperazione ovvero isolamento
sociale, oppure di comportamenti più complessi come la rabbia aggressiva o
l’altruismo; ma anche le preferenze politiche o l’intelligenza. Negli ultimi
capitoli del volume emergono anche idee e ipotesi relative a scoperte cognitive
e innovazioni che hanno migliorato la condizione umana, o reso possibili
cambiamenti comportamentali incredibili.Il concetto di libero arbitrio implica
che sussista nelle persone, dato un certo grado di sviluppo cognitivo e morale,
la capacità di decidere e di agire, scegliendo tra diverse alternative disponibili,
senza essere condizionati da fattori fisici o biologici di qualunque genere. Si
assume, in altri termini, che le persone maturino una cosiddetta “agenticità”,
cioè una capacità di agire e decidere in un quadro di consapevolezza degli
effetti prodotti, che non è riducibile o spiegabile sulla base dei processi
neurobiologici che hanno luogo nel cervello e/o alle leggi fisiche che li
governano. Di libero arbitrio si può parlare, comunque, in molti modi e da
diverse prospettive: filosofica, metafisica, giuridica, psicologica, etc.
Nel corso dell’evoluzione della specie, abbiamo sviluppato strutture
cerebrali che ci fanno appunto “credere” di essere liberi e poter decidere in
completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario
successo di animali sociali Negli ultimi decenni le neuroscienze
cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio, con una
quantità crescente di prove, la visione classica di “libero arbitrio”, aprendo
un dibattito scientifico ancora in corso. Qual è la sua posizione
all’interno del dibattito? La mia posizione è che il libero arbitrio è
una credenza senza senso, come aveva spiegato bene, molto prima delle
neuroscienze, il filosofo Spinoza. Se ci fosse qualcosa come il “libero
arbitrio”, allora davvero potrebbe esserci qualsiasi cosa ci possiamo
immaginare. Tuttavia, è vero che,nel corso dell’evoluzione della
specie,abbiamo sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto “credere” di
essere liberi e poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione
abbiamo costruito il nostro straordinario successo di animali sociali. Il
libero arbitrio è un’illusione, ma un’illusione molto produttiva.
L’intuizione di ritenersi liberi, in un senso vago o indefinito, è una forma di
autoinganno, come tante altre che sono prodotte dalla nostra coscienza, che nel
tempo è stata socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno,
cioè un senso individuale di responsabilità, con tutte le conseguenze che ne
derivano anche per l’organizzazione di un ordine sociale efficiente sulla base
di un sistema di obblighi. Ovviamente questa strategia è modulata da
specifiche condizioni ecologiche e sociali, per cui in alcuni contesti questa
illusione si può espandere e diventare la base di sistemi anche molto
progrediti per qualità di vita, come quelli occidentali, mentre in altri
ambienti di vita sarà più adattativo che tale intuizione e illusione non maturi
neppure, o maturi in forme che sono funzionali a all’accettazione di un
comportamento consapevolmente eterodiretto. L’intuizione di
ritenersi liberi è una forma di autoinganno che nel tempo è stata socialmente
addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di
responsabilità Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale?
Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano? In
che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze?
Non è del tutto chiaro nei dettagli come interagiscano le strutture del
cervello che controllano le emozioni o le reazioni impulsive, e quelle che
controllano la pianificazione di azioni calcolate. Quello che si sa è che
alcune condizioni, come trovarsi di fronte un’altra persona preferibilmente con
le proprie stesse caratteristiche somatiche o un parente, induca l’inibizione
di un comportamento utilitaristico, cioè volto a massimizzare qualche beneficio
in generale a prescindere dai danni che si possono arrecare alle persone;
ovvero che induca un comportamento di accudimento o altruistico, di carattere
parentale o reciproco. Mentre situazioni contrarie all’ordine morale
appreso socialmente e attraverso l’educazione scatenano quasi automaticamente
reazioni di disgusto o qualche altra avversione emotiva (ad esempio, rabbia o
disprezzo). Se non ci sono di mezzo contatti fisici, o rapporti parentali
con altre persone, o impulsi emotivi avversi, le persone possono applicare un
calcolo razionale e quindi scegliere un’azione in base all’utilità percepita o
calcolata. Comunque esistono diverse teorie su come emozioni e ragione
entrano in gioco nelle scelte in generale, e in quelle morali in particolare.
Quello che si sta sottovalutando, penso, è il ruolo che le emozioni, che
mediano i valori morali, possono giocare nell’apprendimento di comportamenti,
che a loro volta retroagiscono sui valori, cioè che possono cambiare nel tempo
le predisposizioni delle persone nel rispondere a situazioni identiche o
diverse. In altre parole, le emozioni servono direttamente alla sopravvivenza
ed entrano in azione quando è minacciata l’omeostasi funzionale a qualche
livello, e quindi servono a premiare o punire i comportamenti appresi sulla
base della funzionalità che manifestano. Ma questi nuovi comportamenti possono
far scoprire nuovi valori, cioè trovare premianti strategie diverse da quelle
prevalenti nella società, e quindi modulare le emozioni originarie, evitando
che gli impulsi emotivi inducano risposte non calcolate e che potrebbero essere
deleterie. In fondo, dato che noi occidentali sul piano genetico siamo praticamente
uguali agli altri gruppi umani, qualcosa del genere potrebbe spiegare come ci
siamo affrancati moralmente e politicamente da schemi decisionali tribali od
oppressivi. Credits to Unsplash.com Parliamo del legame tra
violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto dall’aggressività
nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili determinanti genetiche
del comportamento aggressivo? L’aggressività, come la cooperazione,
è stata un fattore chiave per la sopravvivenza e l’evoluzione della nostra
specie. Come tutti i tratti, l’aggressività è polimorfica e quindi ci sono
persone geneticamente più predispostedi altre all’aggressività. È
verosimile che la selezione sociale abbia col tempo reso più vantaggiosi i geni
della cooperazione in alcuni contesti ecologici, e quindi favorito il processo
socio-culturale che nell’età moderna ha ridotto drammaticamente la violenza sul
pianeta, e soprattutto nel mondo che ha inventato la scienza e ha abbracciato
lo stato di diritto. I governi occidentali continuano giustamente la lotta
contro la criminalità e la violenza, ma nella storia del pianeta non c’è mai
stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in
generale, rispetto a oggi. Steven Pinker ha dimostrato questo fatto in un dettagliatissimo
e acuto libro, “Il declino della violenza”. Nella storia del
pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non solo in
occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi E per quanto riguarda
la differenza di genere? Cosa sappiamo dei rapporti tra cervello maschile,
cervello femminile e comportamento aggressivo? Le differenze
di genere nel comportamento aggressivo esistono. Studiando complessivamente
l’aggressività di bambini e bambine si è visto che i due generi sono egualmente
aggressivi verbalmente, mentre i bambini lo sono di più fisicamente rispetto
alle bambine. Nel complesso i bambini sono più aggressivi delle bambine sul
piano dell’aggressione diretta. Mentre le bambine sono indirettamente
aggressive anche più dei bambini. Queste differenze, come
altre, dipendono verosimilmente da stimoli ormonali nel corso dello sviluppo e
rispondono a strategie adattative selettivamente vantaggiose nell’ambiente
dell’evoluzione. Il modo in cui maturano il cervello maschile e femminile
dipende molto dai contesti e si conoscono diversi fattori ambientali e
culturali che influenzano, ad esempio, la violenza a carico delle donne. Ci
sono prove concrete del fatto che il patriarcato e la sua istituzione giuridica
sono fattori importanti per la persistenza della violenza maschile ai danni
delle donne, e del fatto che ridurre il dominio maschile attraverso delle
adeguate politiche sociali riduce la violenza maschile e che la cooperazione
tra donne riduce la violenza maschile sia contro le donne sia contro altri
uomini. Parliamo ora delle differenze individuali
nel controllo degli impulsi… Non ci sono moltissimi dati, ma
uno studio di qualche anno fa ha esaminato cosa avviene nel cervello quando si
fanno scelte impulsive, che svalutano una ricompensa ritardata, ovvero come
viene rappresentata dinamicamente nel cervello la svalutazione del ritardo
quando si sta aspettando e anticipando una ricompensapossibile che è stata
desiderata e scelta. La corteccia prefrontale ventromedialemanifesta
uno schema caratteristico di attività durante il periodo di ritardo nel
ricevere la ricompensa, oltre a esercitare un’attività modulatoria durante la
scelta, che è coerente con la codificazione del tempo durante il quale avviene
una svalutazione del valore soggettivo. Lostriato ventrale esibisce a sua volta
uno schema di attività simile, ma preferenzialmente negli individui impulsivi.
Un profilo contrastante di attività collegata al ritardo e alla scelta è stata
osservata nella corteccia prefrontale anteriore, ma selettivamente in persone
pazienti, cioè non impulsive. Quindi corteccia prefrontale ventromediale e
corteccia prefrontale anteriore esercitano – sebbene ciò sia ancora da chiarire
come – influenze modulatorie ma opposte rispetto all’attivazione dello striato
ventrale. Ovvero quell’esperimento ci dice che il comportamento impulsivo e
l’autocontrollo sono collegati a rappresentazioni neurali del valore di future
ricompense, non solo durante la scelta, ma anche nelle fasi di ritardo post-scelta.
Cosa può voler dire tutto questo per il nostro discorso? Mi lasci citare ancora
Spinoza, per il quale è «libera quella cosa che esiste e agisce unicamente in
virtù della necessità della sua natura». La vera libertà, è autonomia e
indipendenza, non arbitrio o scelta indeterminata. Quindi si è tanto più liberi
e non soggetti a impulsi, quanto più alcune strutture del nostro cervello,
altamente connesse e addestrate dall’esperienza, lo rendono autonomo e meno
soggetto o costrizioni esterne. Credits to Unsplash.com Quali sono
le possibili influenze delle disfunzioni cognitive e dei fattori ambientali
sulla capacità decisionale (anche ai fini dell’imputazione penale)? Può
condividere con noi qualche caso di studio? Casi di studio ce ne sono
diversi, ma quelli al momento più esemplari riguardano gli effetti delle
varianti alleliche del gene della monoaminossidasi A (MAOA), detto anche “gene
del guerriero”, in quanto collegato all’aggressività su basi osservazionali
mirate. In sostanza le persone con la variante che produce meno MAOA rispondono
in modi più aggressivi e violenti, rispetto a chi esprime livelli più
alti. Il fatto interessante è che se queste persone predisposte
all’aggressività sono state allevate in ambienti accoglienti, esprimono un’aggressività
minore rispetto a omologhi genetici cresciuti in famiglie disagiate. Anche dati
sperimentali in ambito psicologico e di economia comportamentale dimostrano che
le aggressioni hanno luogo con maggiore intensità e frequenza, quando provocate
in un contesto sperimentale, soprattutto in soggetti con una bassa attività di
MAOA (MAOA-L). Gli studi sperimentali mostrano anche che il MAOA è meno
associato con la comparsa dell’aggressione in una condizione di bassa
provocazione, ma predice più significativamente il comportamento aggressivo in
una situazione molto provocatoria. Esiste ormai una letteratura
sterminata anche sui casi di persone con anomalie morfologiche e funzionali
dell’amigdala che regolarmente esprimono un profilo sociopatico, ovvero che non
provano emozioni negative quando provocano sofferenze in altri individui. Si
conoscono inoltre casi di tumori cerebrali o lesioni neurologiche che alterano
la personalità individuale, e non poche persone hanno commesso crimini in
quanto un tumore cerebrale ha alterato le loro capacità decisionali.
La memoria del testimone: in particolare, come si accerta
l’attendibilità della testimonianza e quali sono i principali metodi di
verifica? Il sistema giudiziario si fonda sulla memoria: interrogatorio/confronto,
testimonianze, ricordo dei giurati al momento di discutere il verdetto. Ma la
memoria umana è falsata: il cervello non è una videocamera né un computer.
Siamo suscettibili a false memorie. Gli stati emotivi influenzano la
qualità della memoria. La nostra storia personale influenza il modo in cui
ricordiamo. Gli psicologi e gli esperti studiano soprattutto il problema della
testimonianza oculare, perché in ben tre casi su cinque le identificazioni si
rivelano sbagliate. Esistono diversi metodi di controllo/verifica e volti
a ridurre gli errori nelle testimonianze. Uno di questi analizza per esempio
l’accuratezzadella testimonianza oculare e delle modalità di interrogatorio del
testimone, per arrivare a una probabilità relativa al caso. Il
sistema giudiziario si fonda sulla memoria. Ma la memoria umana è falsata: il
cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false
memorie. Esiste anche un diritto alla riservatezza per i nostri ricordi.
Nel senso che se io non intendo comunicare a qualcuno un ricordo, ho diritto a
tenerlo per me. Un giudice deve avere forti ragioni per forzare l’accesso alla
mia memoria, ed è comunque tenuto a rispettare i miei diritti fondamentali se
ci prova. Se davvero si riuscirà a costruire affidabili brain lie detector,
macchine della verità con accesso alle memorie cerebrali, si configurerà un
problema sul fronte di normare i limiti del diritto di un giudice far rilevare
impronte mnestiche del nostro cervello, i ai fini di un’indagine processuale. Non
tanto per la riservatezza del dato di interesse, cioè se un imputato o un
testimone mentono o dico la verità nel caso in specie, ma per il fatto che
quell’accesso può rendere noti dei fatti che non hanno rilevanza con l’indagine
e che potrebbero danneggiare la persona. Inoltre, alcuni farmaci e
tecnologie possono potenziare la memoria individuale. Ebbene, sarebbe lecito
consentire a o incentivare alcuni attori del procedimento giudiziario (giudici
e giurati) a potenziare le loro memorie ai fini di un più efficiente
funzionamento del sistema? La morale ha, o potrebbe avere,
un fondamento biologico? La morale ha un fondamento biologico. La morale
serve a tenere insieme i gruppi umani sociali, e ha creato le premesse
sociobiologiche per l’affermarsi della religiosità quale sistema di controllo
incorporato nelle persone e alimentato socialmente per garantire che i valori
morali adattativi in società meno complesse delle nostre siano mantenuti e
trasmessi. In prospettiva: quali sono a suo avviso i possibili
intrecci tra acquisizioni neuroscientifiche e diritto penale? Quale impatto
potrebbero avere sugli attuali meccanismi di attribuzione della responsabilità
e di applicazione della pena? Su questo punto la penso come chi ha detto
che con l’arrivo delle neuroscienze, nel diritto, “cambia tutto e non cambia
niente”[1]. Vale a dire che il concetto di libero arbitrio e quello
intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale)
sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali.
Mentre si potrebbe affermare un concetto consequenzialista(utilitarista) della
concezione della pena, più vicino al diritto positivo. Il concetto
di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico
del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi
teorico-fattuali In Italia, come vengono accolte dalla magistratura le
evidenze neuroscientifiche? E a livello internazionale?
L’Italia è all’avanguardia, se così si può dire, nell’uso di prove
neuroscientifiche in tribunale. Due sentenze in particolare, Trieste 2009 e
Como 2011, riconobbero il ruolo causale di tratti neurogenetici nel
comportamento delittuoso, e di conseguenza attribuirono uno sconto di
pena. Le sentenze italiane sono state accolte con allarme in diversi
contesti internazionali. Ma c’è poco da fare: se queste conoscenze e tecnologie
acquisiranno una base sperimentalmente solida e consentiranno di prevedere con
buona attendibilità le predisposizioni a commettere reati, è inevitabile che
entreranno a far parte dello strumentario di lavoro dei giudici.
Tuttavia, esiste un’ambivalenza in Italia, come in altri paesi, verso l’uso
delle prove neuroscientifiche. Intanto in Italia non tutti i giudici hanno ancora
chiaro cosa sia una perizia neuroscientifica e ignorano
criteriepistemologicamente validi e formalmente definiti per scegliere periti
che apportino davvero prove scientifiche e controllate nel contesto di un
dibattimento processuale. Ciò sebbene la Cassazione abbia in sentenze recenti
fatto proprio lo Standard Daubert, che elenca regole di ammissibilità delle
prove nei processi statunitensi. Inoltre, si tratta comunque di definire
cosa implica una diminuita imputabilità per colui che commette un reato, in quanto
le sue azioni e decisioni dipendevano dal modo di funzionare del cervello e
dalla sua dotazione genetica. Questo individuo è meno libero di altri e quindi
anche meno responsabile, e quindi le sanzioni dovrebbero essere volte a ridurre
al minimo le probabilità di reiterazione del o dei reati. [1] Il
riferimento è al noto scritto di J. Greene, J. Cohen, For the law, neuroscience
changes nothing and everything, in Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci, 359,
2004, pp. 1775 ss. Gilberto Corbellini. Keywords: Dawkins’ selfish gene
– read selfish gene – medicina in Roma antica -- evoluzione, emergentismo,
biologia filosofica, grammatical del vivente, cooperazione, altruismo,
razionalita, utilitarismo, darwinismo sociale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Corbellini” – The Swimming-Pool Library.
Cordeschi (L’Aquila).
Filosofo. Grice: “Cordeschi is fine if you are into how we can model a pirot
from an automaton – Descartes’s old idea!” -- Roberto Cordeschi (L'Aquila)
filosofo. Si laurea a Roma sotto Somenzi.
Si appassiona subito alla storia della cibernetica, di cui Somenzi fu tra i
primi studiosi e contributori in Italia. Con la co-supervisione di Radice
discute una tesi sui Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a Morino,
Avezzano, Torino, Roma, e Saerno. Altre opere: “Turing” – homo mechanicus (Alan
Mathison); “Turing’s homo mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale); “La
cibernetica in Italia” (Roma: Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana); “Un
padrino per l’Intelligenza Artificiale. Sapere; “L’intelligenza meccanica”;
Alfabeta; “Dalla cibernetica a internet: etica e politica tra mondo reale e
mondo virtuale; “Dal corpo bionico al corpo sintetico. Roma: Carocci);
“Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione Banca Agricola Mantovana); “Natura,
machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia delle macchine: dalla cibernetica
alla robotica bellica” (Roma: Armando); “Rap-resentare il concetto: filosofia e
modello computazionale”. Sistemi Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il
metodo sintetico e la scienza cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove
prospettive nell’Intelligenza Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma:
Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani), “Quale coscienza artificiale?
Sistemi intelligenti, “Adattamento” e “selezione” nel mondo della natura”
(Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa
al Documento di Dartmouth, Sistemi Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e
Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli; “Forme e strutture della comunicazione
linguistica. Intersezioni. Filosofia dell’intelligenza artificiale. In Floridi
L., a cura di. Linee di ricerca, SWIF. Una lezione per la scienza cognitiva.
Sistemi Intelligenti, Funzionalismo e modelli nella Scienza Cognitiva. Forum
SWIF. CVecchi problemi filosofici per la nuova Intelligenza Artificiale.
Networks. Rivista di Filosofia dell’Intelligenza Artificiale e Scienze
Cognitive, In ricordo di Vittorio Somenzi Quaderno Filosofi e Classici SWIF; Intelligenza
artificiale. Manuale per le discipline della comunicazione. Roma: Carocci. L’intelligenza
Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci); “Naturale e artificiale”
(Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale. Psicologia, filosofia e
macchine intorno alla cibernetica. Milano-Bologna: Dunod-Zanichelli); “Pensiero
meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi Intelligenti; Prospettive della
Logica e della Filosofia della scienza. Atti del Convegno SILFS. Pisa: ETS. I
modelli della vita mentale, oggi e domani. Giornale Italiano di Psicologia, Filosofia
della mente. Quaderni di Le Scienze, L’intelligenza artificiale. In: Bellone,
E., Mangione, C., a cura di. Geymonat L., Storia del pensiero scientifico. Il
Novecento, 3, Milano: Garzanti); Somenzi,
V., La filosofia degli automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino:
Bollati Boringhieri); Indagini meccanicistiche sulla mente: la cibernetica e
l’intelligenza artificiale. In: Somenzi, V., Cordeschi, R., a cura di. La
filosofia degli automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati
Boringhieri: Qualche problema per l’IA classica e connessionista. Lettera
matematica PRISTEM, Una macchina protoconnessionista. Pisa: ETS: Le radici
moderne del recupero scientifico della teologia. Nuova Civiltà Delle Macchine);
Scienza e filosofia della scienza; La mente nuova dell’imperatore. La mente, i
computer, le leggi della fisica. Milano. Wiener. In: Negri, A., a cura di.
Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, 5, Milano: Marzorati, Turing. In: Negri, A., a
cura di. Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, 5, Milano: Marzorati: Significato e
creatività: un problema per l’intelligenza artificiale. L’Automa spirituale:
Menti, Cervelli e Computer, Cervello, mente e calcolatori: précis storico
dell’intelligenza artificiale. In: Corsi, P., a cura di. La fabbrica del
pensiero. Dall’arte della memoria alle neuroscienze, Milano: Electa: L’intelligenza
artificiale tra psicologia e filosofia. Nuova Civiltà delle Macchine, Mente,
linguaggio e realtà. Milano: Adelphi. Linguaggio mentalistico e modelli
meccanici della mente. Osservazioni sulla relazione di Margaret Boden.
L’evoluzione dei calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia
meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione
umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori
Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e
Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno
Internazionale di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del
concetto: il neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della
Filosofia Italiana; La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli
“sperimentalisti”. Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro
una recensione crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la
risoluzione dei problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica
e critica della psicologia, 2. Manuscript. La psicologia tra scienze della
natura e scienze dello spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi N.
(1980), a cura di. Gli studi di psicologia in Italia: Aspetti teorici
scientifici e ideologici, Quaderni di storia critica della scienza. Nuova
serie. 9, Pisa: Domus Galileana); Una critica del naturalismo: note sulla
concezione crociana delle scienze. Critica marxista; Introduzione alla logica.
Roma: Editori Riuniti. Predicati. In: CIntroduzione alla logica. Roma: Editori
Riuniti. Elementi di logica matematica. Roma: Editori Riuniti); Bilancio
dell’empirismo contemporaneo. Scientia; La filosofia di Leibniz: esposizione
critica con un’appendice antologica. Roma: Newton Compton Italiana); Filosofia
e informazione. Padova: La Cultura; Validità e reiezione nella logica
aristotelica. Il problema della decisione. Report: Storia della Filosofia
Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript. In generale, nella implicatura
robotica c’è la tendenza a ricorrere al vocabolario delle rappresentazioni solo
quando, per così dire, non se ne può fare a meno, ovvero, più precisamente,
quando si lascia il livello puramente reattivo nel quale il lessico delle
rappresentazioni sarebbe banale, per passare a quello topologico e, a maggior
ragione, a quello metrico o delle mappe cognitive. Due robot puramente reattivi
sono capaci di risolvere alcuni compiti per i quali, nella ricerca su animali
(la squarrel Toby di Grice), si erano invocate rappresentazioni complesse come
le mappe cognitive. Questi stessi robot reattivi, man mano che si riducono le
restrizioni sull’ambiente, diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli
stessi compiti, che possono essere risolti solo da agenti dotati di stati
interni (attitudine psicologica) ai quali essi riconoscono lo status di
rappresentazioni. La massima sarebbe in questi casi quella di esaminare tutti i
modi possibili di spremere l’ultima goccia di informazione dal livello reattivo
prima di parlare dell’influenza della rappresentazione, modello del mondo o
mappa sul comportamento intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni,
una volta ammesse, le opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei
punti di vista ormai usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza
naturale, classica o nouvelle che sia. Si può parlare di rappresentazione anche
per i pattern connessionisti, a patto di distinguere la relativa computazione.
La rappresentazione e solo simbolica, quale che sia la loro complessità, e un
pattern connessionista, non essendo considerato simbolico, non e una
rappresentazione. Si parla di una rappresentazione che possono essere di
diversa complessità e accuratezza, esplicita (spliegatura) o implicita
(impiegatura), metrica o topologica, centralizzata o distribuita. E in generale
si parla di ra-presentazione simbolica quando si è in presenza di un costrutto
dotato di proprietà ritenuta analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni
polemiche da parte di alcune tendenze dell’IA nouvelle identificano
nell’Ipotesi del Sistema Fisico di Simboli il paradigma linguistico per
eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un confronto di qualche anno fa tra sostenitori
e critici di questa ipotesi mostra come questa interpretazione sia quanto meno
opinabile. Sarebbe opportuno tenerne conto, per evitare di porre in un modo
troppo sbrigativo l’identificazione tra simbolo e il concetto piu generale di segno in IA
classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi che stanno alla
base della costruzione di un modello di conversazione, tra i quali quello della
natura della rappresentazione. Mi riferisco all’interpretazione in termini di un
sistema di elaborazione simbolica dell’informazione (dunque in termini di un
sistema fisico materiale di simboli) di sistemi tradizionalmente non
considerati tali, come quelli proposti dai teorici dell’azione situata. L’idea
di simbolo che sta alla base di questa ipotesi è che un simbolo è un pattern
che denota, e la nozione di denotazione è quella che dà al simbolo la sua
capacità rappresentazionale. Il pattern puo denotare altro pattern, sia interni
al Si veda per una formulazione particolarmente esplicita (Gallistel 1999). 12
Detto in breve, tali proprietà riguardano, tra l’altro, la produttività, ovvero
la capacità di generare e capire un insieme illimitato di frasi, e la
sistematicità, ovvero la capacità di capire ad esempio tanto aRb quanto bRa.
Fodor ne ha fatto la base per la sua controversa ipotesi del “linguaggio del
pensiero” Per una introduzione all’argomento, si veda (Di Francesco 2002). 13
Per pattern si intende, come sarà più chiaro nel seguito, una struttura fisica,
biologica o inor- ganica, che può essere oggetto di processi
computazionali—codifica, decodifica, registrazione, cancellazione, cambiamento,
confronto—i quali occorrono in sistemi diversi, in un calcolatore e nel sistema
nervoso, anche se in quest’ultimo caso non sappiamo nei dettagli come. Questa
tesi provocò diverse reazioni (si vedano i volumi 17 e 18 di Cognitive
Science). Si noti che nelle intenzioni di Simon e Vera la tesi non comporta che
ogni pattern sia dotato di meccanismo sistema che esterni ad esso (nel
mondo reale), e anche stimoli sensoriali e azioni motorie. Processi tanto
biologici quanto inorganici possono essere simbolici in questo senso e, dal
punto di vista sostenuto da Simon e Vera, i relativi sistemi sono sempre
sistemi fisici di simboli, ma a diversi livelli di complessità. Per esempio,
nel caso più semplice che riguarda gli organismi, anche l’azione riflessa
(subcorticale) è un processo simbolico: la codifica di un simbolo provocata da
un ingresso sensoriale, poniamo la bruciatura di una mano, dà luogo alla
codifica di un simbolo motorio, con la conseguente rapida effettuazione
dell’azione, in questo caso il ritirare la mano. Più precisamente, l’idea è che
“il sistema nervoso non trasmette certo la bruciatura, ma ne comunica
l’occorrenza. Il simbolo che denota l’evento [la brucia- tura] viene trasmesso
al midollo spinale, che a sua volta trasmette un simbolo ai mu- scoli, i quali
esercitano la contrazione che consente di ritirare la mano.” Nel caso degli
artefatti, già il solito termostato è un sistema fisico di sim- boli, sebbene
particolarmente semplice: il suo livello di tensione è un simbolo che denota
uno stato del mondo esterno. Come ho ricordato, anche Brooks ha finito per
riconoscere alle rappresentazioni un loro ruolo nel comportamento dei suoi
robot, se non altro alle rappresentazioni “relati- ve al particolare compito
per il quale sono usate” (i “modelli parziali del mondo”), quali potrebbero
essere, a diversi livelli di complessità, quelle usate da agenti naturali come
Cataglyphis o da agenti artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra
ri- cordato. Simon e Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come
sistemi fisici di simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto
sofisticata, anche se specializzata a un compito particolare. Ma essi includono
tra i sistemi fisici di simboli anche artefatti molto più semplici, come il
ricordato termostato, e agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al
livello del taxon system (che, seguendo Prescott, era stato definito come una
catena di associazioni consistenti in coppie <stimolo, risponsa>).
Secondo i due autori, i primi robot alla Brooks sono (un tipo relativamente
sem- plice di) sistemi fisici di simboli: anche l’interazione senso-motoria diretta
di un agen- te con l’ambiente nella misura in cui dà luogo a un comportamento
coerente alle rego- larità dell’ambiente, non può essere considerata se non
come manipolazione simboli- ca. Ho ricordato sopra il semplice comportamento
reattivo di Allen, che tramite sonar evita ostacoli presenti in un ambiente
reale. In questo caso, i suoi ingressi sensoriali danno luogo a un processo di
codifica, e i costrutti in gioco (i simboli, secondo la definizione sopra
ricordata) che risultano da tale interazione sensoriale, e poi motoria,
dell’agente con l’ambiente sono rappresentazioni interne (degli ostacoli
esterni da evitare) in un senso non banale: l’informazione sensoriale captata
dal robot è converti- ta in simboli, i quali sono manipolati al fine di determinare
gli appropriati simboli motori che evocano o modificano un certo comportamento.
L’assenza di memoria in questo tipo di agente comporta che l’azione sia
eseguita senza una rappresentazione esplicita del piano e dell’obiettivo che
orienta l’azione stessa (senza pianificazione), ma non che non ci sia attività
rappresentazionale simbolica. Qual è la natura di questi simboli, di queste
rappresentazioni simboliche? denotazionale, cosa che evidentemente renderebbe
banale questa definizione di simbolo: ci sono pattern che non denotano, tanto naturali
quanto artificiali. Sulla sufficienza della denotazione per caratterizzare la
nozione di simbolo (come di rappresen- tazione) si è molto discusso. Nel caso
degli artefatti più semplici si tratta di rappresentazioni analogiche che
stabiliscono e mantengono la relazione funzionale del sistema con l’ambiente.
Questo, si è visto, è già vero per il solito termostato. Nel caso di (come pure
di certi sistemi connessionisti, o che includono sistemi connessioni- sti),
tali rappresentazioni (analogiche) hanno carattere temporaneo (senza intervento
di memoria) e distribuito (non sono sottoposte a controllo centralizzato). In
questi casi, una rappresentazione certo imprecisa ma sufficientemente efficace
è fornita da un sonar sotto forma di un pattern interno fisico (un pattern di
nodi della rete, nel caso di un sistema connessionista): essa denota o
rappresenta per il robot un ostacolo o una certa curvatura di una parete o di
un percorso. Una volta che tale pattern venga comu- nicato a uno sterzo, esso
determina l’angolo della ruota sterzante del carrello del ro- bot. Per quanto
diversa a seconda dei casi, è sempre presente un processo di codifica-
elaborazione-decodifica non banale, che stabilisce una ben precisa relazione
funziona- le tra il sistema e l’ambiente, e spiega il comportamento coerente
dell’agente nell’interazione con il mondo. Non parlare di rappresentazioni
interne, e limitarsi a dire che un agente “intrattiene certe relazioni causali
con il mondo, non spiega come tali relazioni vengano mantenute. E’ del tutto
ragionevole sostenere che un agente mantiene l’orientamento verso un oggetto
tramite una relazione causale (Grice, “La teoria causale della percezione”) con
esso e che tale relazione è un pattern di interazione, ma non ha senso pensare
che tale pattern venga prodotto per magia, senza un corrispondente cambiamento
di stato rappresenta- zionale dell’agente, ovvero che esso possa aver luogo
senza una rappresentazione interna fosse pur minima.” Rappresentazioni più complesse,
che sono alla base di un’attività non semplicemente percettiva diretta, sono
presenti in altri casi, quando entrano in gioco la me- moria, l’apprendimento,
il riconoscimento di oggetti e l’elaborazione di concetti, la formulazione
esplicita di una mappa o di piani alternativi, sotto forma di rappresentazioni
off-line, e ancora. In molte di queste attività “alte” intervengono
rappresentazioni esplicite, linguistiche e metriche, ma se si riconosce che la
cognizione richiede questo tipo di rappresentazioni, è difficile mettere in
dubbio che tali attività non condividono con attività più “basse” come la
percezione, sulle quali esse vengono elaborate, il meccanismo denotazionale,
sia pure in una forma minimale. A meno di restringere arbitrariamente la nozione
di rappresentazione e di simbolo, non c’è ragione di riservarla esclusivamente
a pattern linguistici, o ai costrutti della semantica denotazionale (variabili
da vincolare ecc.). Penso si possa sottoscrivere questa conclusione di Bechtel:
“la nozione base [di rappresentazione] è effettivamente minimale, tale da
rende- re le rappresentazioni più o meno ubique. Esse sono presenti in ogni
sistema organiz- zato che si è evoluto o è stato progettato in modo da
coordinare il suo comportamento con le caratteristiche dell’ambiente. Ci sono
dunque rappresentazioni nel regolatore, nei sistemi biochimici e nei sistemi
cognitivi”. Il riferimento di Bechtel al regolatore di Watt è polemico nei
confronti di van Gelder, che ne faceva il prototipo della sua concezione non
computazionale e non simbolica della co- gnizione. In realtà questo tipo di
artefatti analogici (sistemi a feedback negativo e servomecca- nismi) erano
stati interpretati come sistemi rappresentazionali già all’epoca della cibernetica,
in primo luogo da Craik, che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica
del pensie- ro”, come egli la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è
visto come una macchina calcola- trice capace di costruire un modello o un
parallelo della realtà”. Non entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi
al contenuto delle Simon e Vera distinguono il livello della
modellizzazione simbolica da quello della realizzazione fisica (sia biologica
che inorganica) di un agente. Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha
un’attività rappresentazionale che è data dalle caratteri- stiche specifiche
del suo apparato fisico di codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si
pensi ancora alla codifica, molto approssimativa ma generalmente efficace, at-
traverso sonar degli ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa
decodifica che si conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione
simbolica di questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella
“alta” sopra ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di
rappresentazioni, da quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della
“ricognizione”, possono essere opportunamente modellizzati attraverso regole di
produzione, come livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un
robot basato sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio,
il funzionamento di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura,
che con- trolla la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da
un’unica regola di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso
sonar e bussola allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa
in considerazione dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi
termini: “Un sistema di produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un
robot behavior-based], perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona
una attraverso il confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa
base di dati. Le precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere
confrontate con costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della
sussunzione funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di
tale confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o
modificano direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se
distinguiamo il livello della realizzazione fisica da quello della sua
modellizzazione, quella che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del
mondo” rilevanti per l’azione è descritta in modo adeguato da un opportuno
sistema di regole di produzione, e tramite tale sistema un certo comportamento
di una sua creatura può essere evocato o modificato nell’interazione con
l’ambiente. E questo modello (a regole di produzione) delle regolarità comportamentali
di diversi livelli dell’architettura della sussunzione può essere implementata
in un dispositivo che, grazie all’elevato grado di parallelismo, presenta doti
di adattività, robustezza e rispo- sta in tempo reale paragonabili a quelle di
un dispositivo behavior-based. In questo senso, le regole di descrizione danno
una modellizza- zione adeguata del comportamento di un agente situato. Oltre
alle risposte automatiche, che nel caso dell’azione riflessa o “innata” e di
quella reattiva possono essere rese attraverso un’unica regola di produzione
(qualcosa che corrisponda a una relazione comportamentista S→R), esistono le
azioni automa- rappresentazioni, al ruolo dell’utente degli artefatti e alla
natura della spiegazione cognitiva. L’articolo di Bechtel contiene una disanima
efficace di questi problemi, rispetto a posizioni diverse come quella sostenuta
da Clancey contro la tesi di Vera e Simon. In breve, le regole di produzione
hanno la forma “se... allora”, o CONDIZIONE → AZIONE. La memoria a lungo termine
di un sistema fisico di simboli è costituita da tali regole: gli antecendenti
CONDIZIONE permettono l’accesso ai dati in memoria, codificati dai conseguenti
AZIONE. tizzate a seguito dell’apprendimento, quando cioè le regolarità
relative a un certo comportamento sono state memorizzate, o quelle che
comportano una relazione “di- retta” con il mondo tramite le affordance alla
Gibson. Un esempio sono le risposte immediate che fanno seguito a
sollecitazioni improvvise o impreviste provenienti dall’ambiente Ora i teorici
dell’azione situata (e, come si è visto, i nuovi robotici) insistono sul fatto
che questi casi di interazione diretta con l’ambiente si svolgono in tempo
reale, senza cioè che sia possibile quella presa di decisione, diciamo così,
meditata che ri- chiede la manipolazione di rappresentazioni e la
pianificazione dell’azione. Si pensi all’esempio di Winograd e Flores
dell’automobilista che, guidando, affronta una curva a sinistra. In primo
luogo, secondo i due autori, non è necessario che egli faccia continuamente
riferimento a conoscenze codificate sotto forma di regole di produzione—non è
necessario riconoscere una strada per accorgersi che è “percorribi- le” (la
“percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella relazione diretta agente- ambiente).
In secondo luogo, la decisione è presa dall’agente, per così dire, senza
pensarci (senza pensare di posizionare le mani, di contrarre i muscoli, di
girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a sinistra ecc.). Tutto ciò
avviene automaticamente e immediatamente, dunque senza applicare qualcosa come
una successione di regole di produzione “se p, q”. In conclusione, la tesi è che
non è possibile modellizzare questo aspetto della presa di decisione
istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che comporta
codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni, regole di
produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores è la
teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha a
che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul serio
la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della
razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti
interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione
ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in
generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative
pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno
piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze,
aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea,
non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi
elementi, i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso
l’apprendimento, la formazione di schemi automatici di comportamento (di
risposte motorie, nell’esempio di sopra), finiscono per determinare
l’esclusione immediata di certe alternative possibili (come, nell’esempio della
guida, innestare la marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia,
frenare ecc.), e tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza
dell’ambiente stesso (fondo strada bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella
terminologia di Gibson (1986) sono invarianti dell’ambiente che vengo- no
“colte” (picked up) dall’agente “direttamente” nella sua interazione con
l’ambiente stesso, e “direttamente” viene interpretato come: senza la
mediazione di rappresentazioni e di computa- zioni su esse. Un esempio sono i
movimenti dell’agente in un ambiente nel quale deve evitare oggetti o seguirne
la sagomatura e così via: un po’ quello che fanno i robot reattivi di cui ho
parlato. L’esempio del termostato è ricorrente in scienza cognitiva e in filosofia
della mente dai tempi della cibernetica. E’ evidente che definire sistemi
fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del tipo dei robot di Brooks,
come vedremo) comporta rinunciare al requisito dell’universalità per tali
sistemi (sul quale si veda Newell 1980). aspettative pertinenti.17
Secondo le stesse parole di Simon “il solutore di problemi non percepisce mai
Dinge an sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i propri pre-
concetti” (Simon 1973: 199). Di norma, dunque, l’informazione considerata
dall’agente non è collocata in uno spazio bene ordinato di alternative,
generato dalla formulazione del problema: tale informazione è generalmente
incompleta, ma è pur sempre sostenuta dalla conoscenza della situazione da
parte dell’agente. La proposta è, dunque, che la modellizzazione a regole di
produzione di un’azione del genere, e in generale di una affordance, è un
simbolo che, via il sistema percettivo di codifica, raggiunge la memoria del
sistema per soddisfare la CONDIZIONE di una regola di produzione esplicita. In
questo modo, soddisfatta la CONDIZIONE, si attiva la regola, e la produzione
(la decodifica) del simbolo di AZIONE avvia la risposta motoria. Da questo
punto di vista, le affordance sono rappresentazioni di pattern del mondo esterno,
ma con una particolarità: quella di essere codificate in un modo particolar-
mente semplice. Nell’esempio di sopra, una volta che si sia imparato a guidare,
la regola è qualcosa come: “se la curva è a sinistra allora gira a sinistra”.
Questa regola rappresenta la situazione al livello funzionale più alto nel
quale la rappresentazione che entra in gioco è “minima”. Un termine del genere,
a proposito delle rappresentazioni, lo abbiamo visto usato da Gallistel, ma per
Simon e Vera il termine rimanda alla forma della regola indicata, che può
essere rapidamente applicata: in questo caso, cioè, non c’è bisogno di evocare
i livelli “bassi” o soggiacenti, quelli coinvolti con l’analisi dettagliata
dello spazio del problema e con l’applicazione delle opportune strategie di
soluzione, che comportano computazioni generalmente complesse, sotto forma di
successioni di regole di produzione. Questi livelli intervengono nelle fasi
dell’apprendimento (quando si impara come affrontare le curve), e possono
essere evocati dall’agente quando la situazione si fa complicata (si pensi a
una curva a raggio variabile, che rivela la complessità dell’interazione codi-
fica percettiva-decodifica motoria). E tanto un apprendimento imperfetto quanto
una carenza, per i più svariati motivi, dell’informazione percettiva rilevante
possono anche ostacolare l’accesso ai livelli soggiacenti che potrebbero dare
luogo alla risposta cor- retta (non tutti coloro che hanno imparato a guidare
riescono ad affrontare tutte le curve con pieno successo in ogni situazione
possibile). Insomma, in questa interpretazione di Simon e Vera l’interazione in
tempo reale dell’agente con l’ambiente è data non dal fatto di essere non
simbolica e di non poter essere modellizzata mediante regole di produzione, ma
dal fatto di non dover accede- re, per dare la risposta corretta, alla
complessità delle procedure di elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti
a quello alto. E’ nell’attività cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si
elaborano piani e strategie di soluzione di problemi, che viene evidenziata la
consapevolezza dell’agente. Simon e Vera ponevano infine un problema che
riguarda i limiti degli approcci reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e
che mi sembra condivisibile: “E’ tuttora dubbio se questo approccio
behavior-based si possa estendere alla soluzione di pro- blemi più complessi.
Le rappresentazioni non centralizzate e le azioni non pianificate possono
funzionare bene nel caso di creature insettoidi, ma possono risultare insuffi-
cienti per la soluzione di problemi più complessi. Certo, la formica di Simon
non ha 17 Su questo tipo di comportamento, che può essere visto in termini di
“percezione attesa”, si veda bisogno di una rappresentazione centralizzata e
stabile del suo ambiente. Per tornare al nido zigzagando essa non usa una
rappresentazione della collocazione di ciascun gra- nello di sabbia in
relazione alla meta. Ma gli organismi superiori sembrano lavo- rare su una
rappresentazione del mondo più robusta, [...] una rappresentazione più complessa
di quella di una formica, più stabile e tale da poter essere manipolata per
astrarre nuova informazione”. La successiva evoluzione della robotica sembra confermare
questa osservazione. Roberto Cordeschi. Cordeschi. Keywords: Croce,
sperimentalismo italiano, mente, homo mechanicus, Turing, Craik, artificiale e
naturale, filosofia, rappresentare il concetto, logica matematica, reiezione in
Aristotele, predicate, significato, communicazione, creativita, informazione.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cordeschi” – The Swimming-Pool Library.
Corleo (Salemi). Filosofo.
Grice: “Corleo is a genius -- His
keyword is identity, the Hegelian type, and that’s why he attracted Gentile’s
attention! But my favourite is his excursus on language! He talks like a
veritable Griceian – about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the spontaneous
cry to seek attention, Romolo from Remo, say – He very much elaborates on the
subject and the predicate and the copula, and the other parts of speech – But
he retains an empiricist, evolutionary viewpoint with which I wholly agree!” Studia
nel Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un
seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana.
Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”. Durante la spedizione dei mille, fu nominato
da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio:
“Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di
Salemi. Altre opere: “Meditazioni
filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia
dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario
biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente
dall’esperienza e dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio
affermativo (S e P) o giudizio negativo (S non e P), giudizio condizionale (Si
p, q), giudizio tetico (S e P), giudizio ipotetico (Si p, q), giudizio disgiuntivo
(p o q), e via via ; poichè ,ogni proposizione o giudizio, semplice or
complessa, debbe congiungere un predicate ad un soggetto (S e P) o negare un
predicato ad un soggetto (S non e P), e ciò non può farsi altrimenti che in
forza della identità parziale o totale del predicato stesso col soggetto,
ovvero del contrario o contrapposto del predicato in caso di giudizio negativo,
sia cotesta identità assoluta, o sperimentale, sotto condizione, problematica,
o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso di giudizi che serve a
scoprire una verità incognita per mezzo di una verità nota, o a dimostrare il
nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il raciocinio deve esser fodato
sulla medesima legge d'identità, che costituisce l'essenza dei giudizi di cui è
composto. Ogni passaggio da una verità ad un'altra, da un giudizio ad un altro,
è giustificato dalla connessione che deve esistere tra loro. Se connessione non
vi è, non si può dall'uno inferir l'altro, non vi è passaggio legittimo o
accettabile dal noto all'ignoto, e molto meno si può scoprire il nesso
incognito tra due veri conosciuti. Or, questa stessa connessione non è che
effetto d'identità. Parrà strano che la connessione si debba risolvere
anch'essa in identità; ma riflettendo con attenzione, si scorge chiaro che in
fondo è così, nè può essere altrimenti. Se S è connesso con P, ciò non importa
che S sia identico con P, ma importa invece che ambidue sieno identici con S-P,
cioè, che sieno parti integranti del tutto S-P, di guisa che la loro
connessione non *significa* o signa altro, che il loro legame necessario per la
formazione di quel tutto complesso proposizionale (S e P); onde se essi non
fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel tutto non sarebbe mai quello
che è, non sarebbe identico alla somma delle parti che lo costituiscono. Due o
più giudizi, tra loro connessi, sono parti integranti di un giudizio di maggiore
estensione che tutti li abbraccia, ed è identico con essi come il tutto è
identico con la somma delle sue parti. Laonde non può esser vero l'uno senza
che sia vero l'altro, perocchè in diverso non sarebbe vero quel giudizio
maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi subalterni dai quali è
costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad esaminare ogni teorema
geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in genere e delle varie sue
specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione tra cotesti teoremi,
nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di seguito; onde essi
si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima. Essi non sono che
le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di “triangolo” e delle sue
specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto complessivo
sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora nemmeno
avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna delle
sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di nesso a
costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella identità
di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni sul
raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè
l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la
connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un
ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto
dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come
sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto
connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più
larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio
maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso
opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale
riunire per necessità le parti fra di lor , senza di cui egli non potrebbe
esser quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri
connessi a quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale
li identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non
ci contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per
mezzo di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno
essendo vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in
qual giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la
identità di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il
raciocinio analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione
dei singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono
appunto i giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli
s'identificano come parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione
non è che l'identità del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il
cui necessario legame egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è
dimostrativo, quando serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare
niente altro è che legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione
pertanto vi è, perchè i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si
raggruppano in unico e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia
come tante sue parti: onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un
predicato P col suo soggetto S, all'identità parziale dell'altro predicato P2
con l'altro suo soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi tutti
costituiscono un solo subbietto più esteso, che di tutti quei predicati si
compone, e che perciò è identico con la loro somma. Un subbietto subalterno non
potrebbe concorrere alla costituzione del subbietto totale, se non possedesse
quel tale predicato e se gli altri subalterni non possedessero quelli altri
predicati; onde la connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri
gli altri, ed *implicitamente* deve esser vero il giudizio totale, con cui
tutti s'identificano. È inventivo e non dimostrativo il raziocinio, quando,
dalla verità che si conosce, si passa a quella che s'ignora; ed anco in tal
caso la ragion del passaggio è fondata sulla connessione, e perciò sulla legge
d'identità, in quanto che dalla identità parziale che si conosce, si sospetta
prima e poi si scopre la identità totale. Per causa di alcuni punti d'identità
o di parziali somiglianze tra un fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile*
identità dei loro elementi in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In
questo caso vi ha l'*ipotesi* o supposizione, che annunzia come *possibile*
identico totale quello che tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza
dei punti, della cui identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la
medesima identità con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in
altri simili. Ed allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della
identità di tutti gli elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una
legge e l'altra, e si ha perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o
non si giunge ad accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui
però dobbiamo renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale,
nella ipotesi o supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per
poterla trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio
dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la
*testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni
giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è
composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la
connessione dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale
di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve
giungere in forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio
inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè
fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata
dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti,
nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il
giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno
divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta
dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle
parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli
elementi proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque
passaggio dalle verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità
assolute ed ai raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel
conoscimento delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi
sperimentali, ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti
parziali ed il subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso
solo. È questo il doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e
necessaria dei fatti sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li
costitui scono, e lo svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti
subalterni, che sono del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza
del raziocinio non può essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra;
essa consiste nel passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che
la costituiscono, o dalle identità parziali alla totale per mezzo della
scoperta di quelle altre identità parziali che sono con loro connesse per
compiere l'identità totale. Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei
concetti, della doppia identità delle parti e del tutto per avere ragionamenti
rigorosi; e non potendo giungervi per mezzo dei concetti, assicurarsene per
mezzo della esperienza. In questi due soli modi è possibile il raziocinio. Chi
cura soltanto la forma esteriore del ragionamento e ripone la logica nello
studio delle leggi della FORMA LOGICA, non prende di mira lo scopo vero del
raziocinio, che è l'accertamento della identità de' giudizi connessi col tutto
di cui sono parti; e perciò corre l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert,
che non è mai garanzia sicura di esatti ragionamenti. Or, perchè mai i
subbietti di tali giudizi son dive nuti concettuali e perciò includono
necessariamente i loro pre. Tre sono state le più grandi logiche formali. La
prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta dal particolare al
particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari. La
seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i
particolari si presentano con caratteri di necessità , empirico se si
presentano soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal
generale ad altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla
classificazione dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che
costituiscono le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella
che ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da
ogni naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu
scompagnato dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei
neoplatonici come Porfirio e Boezio, che vollero così conciliare a forza
Aristotele con Platone, e poi per opera degli scolastici e dei moderni
idealisti. Essi hanno adottato la sola argomentazione dal generale al
particolare ponendo il generale come idea, che si afferma da sè per la sua
evidenza e pei caratteri di necessità, di universalità e di assolutezza che la
distinguono, senza indurre le categorie dalla classificazione dei fatti, come
fa Aristotele. Niuna pero di queste argomentazioni formali costituisce da sè un
esatto ragionamento: esse sono o inutili allo scoprimento del vero, o
pericolose di errore, o tali almeno che non posson menare al concetto
scientifico e necessario, perchè non conducono al vero identico totale. Difatti
la induzione primitiva argomenta da un particolare all'altro in forza
d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di particolari, che si
somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè questa casa fuma,
perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine fumando si brucia,
perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o identità parziali si
vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un altro, o anche più,
l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano. Il
sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici , conchiudendo dal generale al
particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai
verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið
ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e
perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal
l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra
parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può
accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in
modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre
essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel
concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve
notare, che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi,
o spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e
volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo
in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto
vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto
ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o
di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo
di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che
hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali
abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È
allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo.
Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente
nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari
simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si
cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second
, si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un
fatto particolare e gli altri dello stesso genere , alla loro totale identità.
Perchè moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua
lunque selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La
induzione baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che
un certo numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi
soli suo generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione
di parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed
all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli
elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione
di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene
l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano
anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è
necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma
delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il
tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai
all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di
ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente,
perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette
forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali
ad altre parziali, o peggio, ad altre total , senza assicurarne la totale
identità . rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde
composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia
decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la
quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle
percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse,
non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un
doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente
e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da
sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria
riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge
dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per
non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da
sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto
concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto
riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in
mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi
l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il
predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in
tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati
dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni,
non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente
si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e
diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica,
e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela
borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di
elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono
per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca
o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola
della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli
elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta
nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale
idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del
raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea,
come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante
di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà
sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge
logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio . Nello stesso modo,
un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa
con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel
ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gli errori di esperimento si
correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne
occupano. Gli errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed
accurato esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle
rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame
delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio
lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi
che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella
stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del
l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che
la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve
essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità : così
soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli
che non convengono ; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra
quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal
modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo ; ed in
ciò consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica , duce il Locke,
aveva già compreso la necessità dell'esame delle idee , all'oggetto di non
ammetterle soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza ,
necessità , universalità ed assolutezza , con cui s'impongono. La disposizione
che si dà al complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per
dimostrare, sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non
può avero altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di
tutti i suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il
metodo sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo
scopo di fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni
mediante la regola della doppia identità parziale e totale . Onde il vero
metodo scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi
sola, nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati
scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità , e se non
mirassero al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî,
sperimentali, concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè
per comunicare alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la
persua sione necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi
degli elementi delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi,
all'oggetto di condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare ,
senza alcuna ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica
delle idee . Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde , in vece
della vera origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee ,
diede spesso supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime , e
sopra tutto delle idee morali , col preteso stato naturale e col contratto
sociale . Tutte quelle idee che non potè giustificare coi sensi , le rigetto, o
le ammise alla credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra
natura. Onde i posteriori idealisti , visto l'inte lice esito dell'esame , son
tornati ad ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri
che s'impongono alla nostra ragione , sia ritenendole verità prime indiscutibili
ed indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune) ; sia supponendole
forme assolute del pensiero quidquid
recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ) ; sia riputandole
innate e facienti parte del nostro intel letto , almeno in una prima idea fondamentale
, quella dell'essere (*scuola rosminiana*) ; sia ammettendole come frutto
d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart) ; sia credendole
comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole
giobertiane*) , o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente
caratteri di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola
hegeliana ), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente
(scuola di Schopenauher ), o attuazione inconscia ( scuola di Hartmann ). Tutti
supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni , o a dogmi , per
dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè
stesse , nei loro attuali elementi costitutivi , adducendo a prova della
impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici , i
quali ebbero bensì il buon volere , ed anche la presunzione dell'esame , senza
mai averne studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche
utili. Laonde è d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e
generalment ammesse, per inferirne le bramate conseguenze . Or se è vero che
percepire distintamente, sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare,
ideare, giudicare, connettere e ragionare, non sono altro che più o men
largamente identificare le parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente,
in forma sperimentale o in forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur
troppo evidente che, per potere scorgere l'identità più prontamente e con
maggiore chiarezza, sarebbero assai utili due cose. Primo, abbreviare e
ravvicinare tra loro con SEGNI le percezioni ed i loro elementi, le idee ed i
loro elementi. Secondo indicare con segni le successive operazioni che vengon
fatte spontaneamente o riflessivmente sui detti complessi e loro elementi.
L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono scienza, ma sono potenti mezzi di
scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano le idee e le operazioni su di esse
fatte rendendo più facile e più sicuro il colpo d'occhio su di loro per
scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè non sarà possibile una logica
aritmetica o matematica per agevolare la conoscenza delle identità parziali e
totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio della intelligenza? Non vale il
dire che nell’aritmetica e la geometria si tratta di rapporti tra sole
quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi e le operazioni
identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero trattare molti
altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente, e perciò
l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire questo;
poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune,
l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa
crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra.
Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella
identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni
dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi
ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo
non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno,
costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le
operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non
occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere
alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i
loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere
minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri
conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente,
potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno,
eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o
aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo –
la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare
un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a
stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio
ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo
dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti
stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore
e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di
fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio
superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica
il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i
complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo
stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro
elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica
che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali.
Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale.
Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà
più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che
convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano
la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano
l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una catena.
Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che voglio
negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco così la
serie dei segni principali: + più, meno, = uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’
simile, 1 identico, ^ identico parziale, ? dubbio, 000 connesso, (II) in
contatto, & etcetera, -1-- non simile, ^ non identico, ?- non dubbio cioè
riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso,
percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e
sintetizzato, !! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi
spontanea e riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la
parte a. | A la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da
quello di riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei
giudizii e nei raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i
due spazî, che segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i
suoi elementi si rappresentano così ovvero al ovvero A :, ovvero secondo chè
sieno più o meno distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha
una delle due formole: 10 AA ? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B
? A A ? Bİ, non è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden
tica certamente, 1 -?- ; 2º Aja ?, l'elemento a fa parte dell'idea a _ ?. o
della percezione A? La risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A.
cde ? с a hg an. Or, dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/
biali, с de cioè l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO
gli altri elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della
connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è l'identità
de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è necessario che
sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero il loro tutto.
Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^( )( )( ). Con le
parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e
possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione
e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di
connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento
erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $
56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa
dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un
altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio
ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h
g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono
parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici?
Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali
identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione
tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due,
o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei
due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o
per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha
passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno
d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità
col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello
di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento
prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il
formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di
mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son
limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di
reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli
con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del
concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro
eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in
tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso
in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in
questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile
la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò,
lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle
singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale.
Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere
qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o
un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter”
-- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo
esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome
il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser
pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione*
da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di
suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o
concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui
che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro quella
stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere, cioè: o
mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia
volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion
di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o
pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio
co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto,
cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno
per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico,
assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione
convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima
espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di
communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato
segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee
co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una
proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”),
il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della
esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione
il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che
s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta
naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque
non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca
stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto
spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien
pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè
ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il
segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far
nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione
e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo
solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose
per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi
stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci
rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione
comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola
sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse
nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli
segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee
astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne
analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi
incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle
percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si
analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili
e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e
ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un
momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che
fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione,
anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e
di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno
articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un
segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta
per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per
altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il
concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza
confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per
signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco
sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec . Vi sono poi delle parti di percezioni
che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno
per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o
il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un
colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di
essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un
segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per
richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han
bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’
“onore”, il “dovere”, ec . Cosi anche e
il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec . É
in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se
vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno,
particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere
reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene
l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il
legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice
(“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa,
come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille
modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma
indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni
derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per
citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo
vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno
sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno
come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il
segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”,
“amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il
mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al
recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza
grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e
siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una
proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno
articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio
(di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo
nella sintesi, nell’analisi e
nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per
mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il
sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il
suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti.
Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o
communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per
fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al
primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette
tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione,
fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma
genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii
innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem
col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa
dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in
tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione
dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica
religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del
segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a
dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al
linguaggio , e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo
appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò
adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico , e porrò così il
quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque
guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre
bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe
questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai
uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò ,
essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia
stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente
consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o
signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle
rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica
o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la
necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta
analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere
la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza
volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si
combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta.
Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi
voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al
problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si
domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente
esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile:
nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce
grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può
signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche
facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza
dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso
l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”),
il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col
porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio
completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza
l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha
preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa
mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è
quest'altro. Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un
primo uso di un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di
un'astrazione (o articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha
bisogno dell'uso del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono
a vicenda, in modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si
guardano *sinteticamente* dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento,
non pajono più naturalmente spiegabili, e comparisce quella specie di circolo
vizioso, di cui si parla inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo
sviluppo pieno dell’altra, ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non
si sa più qual delle due debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal
fatto bisogna incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento
men complicato e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza
mutua, e come mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo
un’obbiezione ben facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per
poter determinare qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare
communicamente in Romolo e Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia
una base sufficiente per poter sostenere che il segno communicativo più antico
e più elevato e più ricco di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto
del signare comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo
esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio non mi credo autorizzato a dare una soluzione
diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori,
e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non
entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il
primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita
di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame
storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato
filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente
arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per
mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente,
naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un
arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò
che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno
più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due
uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --,
quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve
essere per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del
genero segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine
necessita. Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico,
assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo
un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di
segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per
sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di
arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare*
(transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo
essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato,
segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti.
Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’)
i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow
wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino
italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come
la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma
anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che
l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma
quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le
possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una
cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella
può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono
qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta
(l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o
iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente
emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma intenzione
communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato (‘bah
bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento
l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare,
i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale
-- che costituisee la communicazione e
la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la
prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque
altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien
segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano
che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno articolato
‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della pecora,
che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende da che
io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che il
bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora (“bah
bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do alla
pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso
potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito
la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un
pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono
qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che
potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più
involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o
pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo
la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo
“o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo
arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua
divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più
semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna,
signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e
presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che
cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale
il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è
ottenuto. Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione comunicativa
alcuna richiama l’attenzione dell’altra parte della diada conversazionale. Ciò
che si è dapprima, one-off, ottenuto senza intento communicativo o intenzione communicativa,
può la seconda volta esser voluto *di proposito*, voluntariamente, -- def. di verbum
in Aquino -- per la utilità che se n’è ricavata: ripetendosi dunque
avvedutamente lo stesso segno, quello è divenuto un vocativo naturale. E noi
osservammo che appunto questa vocale “o” è il vocative nella Roma di Remo (o
tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio mutuo o duale dunque non
nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di un'effetto o risponsa,
che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per imitazione, consigue. Volendo di
nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto o la stessa risponsa, non ci
vuol’altro che ripetere un altro specimen del stesso genero di segno (“o”).
L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando vi sono tante possibilità
d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar luogo spontaneamente a un
arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono assoluto che sia impossibile
l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza della utilità del segno
medesimo? Non dico che l’atto del signare communicativamente nacque in questo o
in quell’altro modo. Dico che vi sono moltissime possibilità tutte *naturali*,
nelle quali l'uomo può avvertire l'utilità dell'uso di un segno articolato per
l’effetto o la risponsa spontanea, no intenzionata, che ne ottiene , e senza il
bisogno di un preventivo arbitrio duale. Basta questo per distruggere a rigor
di logica le basi tutte di quell'edificio che si vuol fondare
sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa senza prima aver conosciuto l'uso
e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto ebbero forse insegnato da Dio l'uso
del atto di signare communicativamente, con che communica (o transferre) il suo
bisogni , la sua gioia, il suo pericolo, la domanda del soccorso? Forse non
vediamo fin dal loro nascere i varii animali communicarsi per mezzo di un segno,
per lo più *istintivo* -- che causa una risponsa istintiva, i diversi loro
stati? Non puo il brutto perfezionare il suo atto di signare
communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di analizzare gli
elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre, siccome vedremo a
suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o stimolo, in esito
al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta volontariamente; e
tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la libertà del movimento
per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi ha una specie di “tacito”
arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto ottenuto o la risponsa
ottenuta una volta, per ragion di associazione o co-relazione iconica istintiva
associativa, fa appunto le veci di un arbitrio duale. Se dunque questo segno
inferiore è possibile nel bruto, il quale non astragge, perchè lo stesso
principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è possibile fra due uomini! Un
uomo, che ha la piena capacità di astrarre, riconosce più facilmente l'utilità
dell’effetti ottenuto o della risponsa ottenuta dall’altra parte della diada
conversazionale, e si crea l'idea generica del arbitrio duale del segno, dalla
quale discende poi come conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco,
illimitato, creativo, e di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne,
in ragion di questa o quella percezione, o in ragione di questo o quello
concetto astratta. Concepita una volta l’utilità dell’uso del atto di signare
communicativemente, del segno articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro
che possedere in fatto la capacità di variare e combinare *indefinitamente* in
modo aperto e illimitato, l'articolazione e la operazione di questo o quello
segno primitivo, e l'uomo possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo
adunque può, da un certo numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a
*stabilire* un arbitrio duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale
del segno, poichè da un fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e
l'idea generica; e possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di
questo o quello segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto
il resto. Quantunque il segno che compone l’atto del signare communicativo e
per arbitrio muto, pure siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre
elementi delle medesime (S, e, P) ed i concetti astratti , debbono quindi
ritrarre le proprietà fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono
avere fra ogni percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e
diverso il segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il
medesimo segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o
dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che
e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un
risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo,
perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che
equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione
sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che
è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare
communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione
risultante in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” –
Varrone, verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in
verità, tutto quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce,
e perciò il segno del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni
proposizione si aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene
un'analisi, la mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un
segno che non e un verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione
risultante signata dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante*
e non basica, e composte della combinazione di questa o quella azione
sostanziali intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro
fondamento in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo*
(la copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla
che nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della
classe del segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in
ogni atto di signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il
verbo “essere”, al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo,
decomponendoli in “copula e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante.
Ed è notevole che ogni segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi,
perchè denota un’azione che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti
in un segno di verbo fondamentale che è intransitivo, o come i modisti dicono
neutro – epiceno, mezza voce --, cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è
veramente transitivo é la forma del risultato, ma ognuna delle azioni sostanziali
componenti è intransitiva. La sintesi e necessaria e l'analisi e necessaria,
perchè una percezioni e complessiva e costa di questo o quello elemento, che
colla riproduzione, sovrapponendosi gli uni agli altri, si sintetizzano nel
punto simile e si analizzano nel punto dissimile. Bisogna dunque che ogni segno
indica un composto o complesso proposizionale, e che ogni segno articulato
composito e de-compo nibili. Però, siccome gli elementi di ogni risultato e una
azioni sostantiva, perciò è necessario che ogni segno si puosciogliere in un
segno solo che indica l’azione sostantiva, non come occulta (sub-stantia), ma
come realtà, cioè come essere, onde il *nome* (nomen, onoma – nomen
substantivum, nomen adjectivum) non meno che il segno del verbo, si sciolgono
tutti nell'essere , il quale è verbo e nome allo stesso tempo, ed è appunto
verbo sostantivo, perchè indica un’azione che sta per sè stessa, e che non ha
bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine addiettivo e ogni altro segno
sin-categorematico che indica quantita, qualita, relazione, o modalità o
relazione, ra-presentano la composizione, il risultato, la combinzione di
questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè sole, ma ha
bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su cui debbono
appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque suo modo di essere
non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro che la somma
medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione è una forma
complessa, e come tale si distingue da cia scun componente , quindi è che tutte
le parole indicanti modd lità , quantità e relazi ni, conie gli avverbii , le
preposizioni , le congiunzioni, gli aggettivi , ec . non sono riduttibili al
solo verbo essere , nè al solo nume essere, a differenza del segno del verbo e
del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo sostantivo “essere”. Nel
tempo stesso non possono sussistere per sè , ed han continuo bisogno di questo
o quello essere (il S, il P), perchè la composizione non può stare senza di
questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo la differenza che passa
tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la relazione, e la
modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione medesima, e
quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di questa o
quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e principalmente il
verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono, indica la
collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome aggettivo, il
segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la preposzione (in
latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e, adversative, ma), ec.
indica come questa o quella azione e disposte, e che relazione ha fra loro, in
ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di azioni è un *risultato*
che subisce questa o quella modificazione (declinazione, congiuggazione) secondo
i cangiamenti parziali del numero (singolare, duale, plurale) e della posizione
di questo o quello componento, cosi vi ha una sintesi fondamentale in ogni
parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una continua analisi di ogni
parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e necessario il segno radicale
che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè, il fondo permanente
dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua desinenza (uomo, uomni,
pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo definito (il – ille, la --
illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per indicare ogni variazione e
accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale di questa o quella aziona si
effettua. Il atto di signare monosillabica dei cinesi supplisce a ciò coll’accozzare
diverse sillabe, cioè diverse segni, di cui ognuna esprime una idea, e tutte unite
esprimono un complesso. Una idea fissa si esprime con un signo fisso. Una
segnato variabile si esprime con un segno variantie. Sorge da ciò la necessità
del segno derivativo, del segno della desinenza e del segno del prefisso,
infisso, e suffisso, come anche la necessità di trasformare in maniera
avverbiale un nome e un verbo, e di operare ogni cangiamento di preposizione in
verbo ed in nome, dell’aggettivo in sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la
forma fondamentale, ogni mutamento di forma debbe esprimersi con cangiarli secondo
il bisogno e secondo la relazione che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni
ed un'altra. Finalmente vi ha un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del
discorso, ed è quella del giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo –
indicativo, imperative -- in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da
un giudizio all'altro per mezzo di una connessione, così la proposizione prende
forma concatenata e compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo
s'incatena con quello periodo e forman un discorso. Però è no ievole che
l’operazione dell'analisi e l’operazione della sintesi spontanea non puo
altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”, cioè di giudizio o volizione;
quantunque agli occhi perspicaci del filosofo anche un segno solo, considerata
nella sua radicale o nella sua derivazione, indica benissimo l’operazione
analitica che vi è dentro. La ragione, per cui non si può annunziare ad altri,
che sotto forma di giudizio, una completa operazione di sintesi e di analisi,
si è appunto questa , che quando si annunziano ad altri cotali operazione di
sintesi o analisi, vi è di già il concorso della riflessione, e perciò non si
annunzia altro che il risultato ultimo della sintesi e dell'analisi riflessa, il
qual risultato e il giudizio e la volizione, ambe due con contenuto
proposizionale. Onde si ha che nello singolo signo si rappresenta le sintesi e
le analisi spontaneamente fatte, e nel complesso si rappresenta il risultato
totale, che perciò appunto veste la forma di giudizio o volizione con contenuto
proposizionale. Da tutte queste osservazioni emerge che il segno e la sua
costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese d’Italia -- debbe avere una
forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme variabile (semiotica
componenziale), siccome il risultamento organico subbiettivo ed il risultamento
esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una forme variabile, poiché il segno
debbe necessariamente prendere lo stesso aspetto del segnato. In ogni segno
possono riguardarsi due parti distinte, cioè il segno e la costruzione del segno.
Ogni segno è segno di una percezione, o di una parte di percezione, o di
un'idea o concetto (signato). La costruzione del segno ra-presenta ogni
relazione che ha questa o quella percezione, questa o quella idea, questo o
quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro del grado delle
conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la ricchezza del
repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione indica quante
percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente, ed in quante
maniere sa metterle in relazione fra di
loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza studiata sino
al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una percezione sola o
una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere se mai una di tale
segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo stare attento alla *forma*
del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche dalla forma della
costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare col segno che si
adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma forse la causa del
fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un segno sia
adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato (equivocazione) , è
necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato solo; poichè non è
presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico (equivocazione
– para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di usare un segno
solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per far nascere la
dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare. Allorchè dunque
si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno proprio, il
segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o concevire un
segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa svegliare
l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare). Allora
l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile novello ch' è
ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più di tutto
nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’) , a cui mano mano un emittente
si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto più è possibile,
somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del traslato: un
segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo spirare), è
adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa qualche
somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione
di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi
sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio
duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure
al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del
signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a
ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente,
quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza
del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla
precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che
propriamente esprima ciascuno dei segni , che essi adoperano per indicarle . Ma
il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte
meditazioni , e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso .
Inoltre gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e
molto più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente
l'incalzano, non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al
segnabile IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione
delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria
il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione
segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo,
si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio,
ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il
traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel
segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando
la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come
pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente,
quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la
corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un
segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità,
perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto
meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una
pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso
bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii
è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed
emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho
e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro
l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato
e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono
esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di
traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono
adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un
repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni
(perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma
stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata
nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o
allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un
segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni
indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con
ambidue uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo
radicale che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere
di radice originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono
chiamarsi il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio
delle forma con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la
ricchezza delle forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente,
molto più quando non è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i
segni di più avanzati nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso
numero di vocaboli proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà
del segno: onde esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e
adoperano al bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio
all’esattezza scientifica , ma quanto sono rigorose , tanto son più fredde ,
poichè non si confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra
qualunque segno avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente
i di tal sorta non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò
porta l' impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che
appartennero all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo
hanno acquistato segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un
traslato o di una metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto
proprio (By uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my
pride and joy). Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre.
L’emittente e ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel
repertorio di forme poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo
segna, e perciò le relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più
semplici, e sempre più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o
proposizione: soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur
fare intorno a queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più
abbondante di figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il
segnato per come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro
costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione
sostanziale, l'azione sostanziale stessa , ed il suo oggetto, non van sempre in
ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato
coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte
trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più
abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più
ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del
giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un
emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo
la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più
conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è
divenuta più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione
stessa che ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye
da ciò che al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha
bisogno di esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni
o nel calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella
stessa costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la
spontaneità dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si
presta meglio alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e
nell'oratoria ha bisogno di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare
il loro effetto dalla varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo
a particolari confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta
semiotica generale. Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono
dalla natura stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal
corso delle loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente
debbe esser quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile
figurato e dei traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando
è necessaria. L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme, se
non che in un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla
medesima lingua dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione,
dall'epoca della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però
in tal caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema:
l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo
emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta
sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro , i quali
adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro. Simone
Corleo. Keywords: filosofia morale, filosofia dell’identita, filosofia universale,
meditazione filosofica, logica, antropologia, sofologia, noologia, linguaggio
ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza, l’universale
ontologico, la categoria come universale ontologico, segno, signare
communicativamente, segnabile, segnato, emettente, repertorio di segni,
repertorio di forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio
mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah, peccora,
conversazione adulto-bambino, il vocative “o” emesso sense intent communicative
– signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea, scenario ii.
Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e le categorie
agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione, modalita. Il nome
sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la congiunzione, il
vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione semplice “S e P” –
modelo filosofico dello svilupo del signare communicativamente – dello
spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corleo” – The
Swimming-Pool Library.
Cornelio (Rovito). Filosofo.
Grice: “I love Cornelio – he has a gift for titling his treatises: gyymnasma!”
“My favourite of his gymnasmata is the one on what he calls the ‘generation’ of
‘man’ – in Roman, ‘homo’ is said to come from mud, humus – and this is strange
because Prometeo created man out of mud – In Rome, the more Catholic your
philosophy is, the more ‘Aquinate’, as it were, the less Hegelian and Platonic
– so trust an Italian philosopher to believe in the Graeco-Roman myth of the
‘generation of man’ than the story of Adam’s spare rib, etc.!” Si forma alla
scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche diTelesio, molto studiato nei
salotti. Studia a Roma, approfondendo e facendo proprie molte tesi galileiane.
Conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui fu erede il suo tutore
Severino. Insegna a Napoli, portando la filosofia di Cartesio e di Gassendi.
Nel “Pro-gymnasmata physica” sono esposte la sua teoria filosofiche. Altre
opere: “Pro-gymnasmata physica”; “Epistola ad illustriss. marchionem Marcellum
Crescentium”; “De cognatione aëris et aquae”; “Epistola Ad Marcum Aurelium
Severinum”. Dizionario biografico degli italiani. INDEX
EORVM, Quæ in hoc volumine continentur animalium conformatio ex inspectione er
ex aque, ac terre expira ouorum percipi facile patest tionibus ætheri permiftis con animalium ex
semine conformatio de stituitur scribitur aer ob vsum respirationis recentari
de animalium pars primigenia non iecur neque cor, neque fanguis ter præter modum
diſtraktus aut com animantes exſectis teftibus quandoque preffus vite animalium
& ignis con filios generant. fernationi inutilis antiquorum varix de.rerum
initijs opi aer nisi vaporibus aqueis permiſtus re niones spiritioni inutilis apoplecticorum
& ftrangulatorum aer infra aquam demerſus à fuperftan mitis est exitus tis
aqua pondere comprimitur Aqua frigore concreta rarefcit, & in ma. Aeris in
reſpiratione quis vſus. iorem molem ampliatur. aeris per neceſitas tum ad vitam
ani aqua quomodo in vapores foluatur malium tum ad ignem conferuan in glaciem concreſcat
dum Aqua fenfu iudice neque contrahi,neque Aeris grauitas diftrahi potest Aeris
color caeruleus onde aqua triformis Arris , Aquarum pondus fub eifdem Aquis
ineſſe non poteſtnotabilis quanti demerſi curnon ſentiamus. tas aeris Akris
compreffio ,ea diſtractio nifi æthere Archimedes ingenj doctrinæque prin
admiſſo nequit explicari ceps Aeris ex aqua generatio Ariſtoteles animaduertit
in generatione Aztheris ſubſtantia omnino admitten diuiparorum fieri .conceptus
ouifor da Alibilis fuccusad cor confluit Aristoteles ab attico platonico philo
animalia amphibia cur sub aquis distid fopho notatus si le ſine spiritu viuant
Aristoteles cur priuationem inter prin Animalia pulmonibus prædita cur niſi
cipia numerauerit reſpiraverint citiffimemoriuntur Aristotelis de loco
fententia improba animalia , quæ interclufo fpiritu fiiffa 46 cantur dexterum
cordis ventriculum , Ariſtotelis principia diffentanea . pulmones babent multo
fanguine Ariftotelis quàm galena doctrina de ge refertos. neratione animalium
fanior ar mes tur arteriæin vteros prezrintinm perti mentuan mentes
frequentiores , “ ampliores Calor omnis animalium eflà Janguine fiunt Aiteris
non moventur à ri pulſifica eiſ- calor nonnunquam diſſimilis nature cor dem à
corde communicata, fid ab im pore congregat pulfu fanguinis Calore corpora non
femperrarefiunt, Arteriæ omnes eoderntemporis puncto Calore cur omnia diffoluantur,
atque li. ab impulſu fanguinis mouentur , tam queſcant que cordis proximefunt,
quam quæ à Caloris naturaex Platone explicatur corde longiſſimèabfunt . 129
Cauernæ in quibushomines fuffocantur , arteriarum venarumqueplexus, atque ignisextinguithi'
implicatio ibi eße folet vbi fit aliqua Chyli in ſanguinem mutatio quomodo
ſecretio fiat. Aſtrologia conieéturalis vanitas Cloylus ad inteſtina de aplies
duobus li quoribuspermiſcetur attractioni vulgo tributi motus re vera chylum
ounem per lacteas venas trana. pendent à circumpulſione refulſo
prodideruntiuniorcs Auftifichs ſuccusper membranas, a Chymix cognitio ad
Thyſiologiam illis neruos in partes diffunditur ſirandam perutilis Auftificus
fuccus ab Arabibus obfer- chymici magnam cladem galenicæ fa Uatus,fedperperam iudicatus.
&tioni attulere cibaria non eo quo ingeruntur ordine Ilis à fanguine in
iecinore fecerni B permanentin ventriculo tur cibi pars e ventriculo fiatim
elabitur Bilis nõ eſt fanguinisexcrementun antequam integra maſa confefta fue
Bilis nutritiumfuccum diluit, & fluxum reddit ciborum concoétionem auctores
diuerſa Bilis vtilitas rationeexplicant Brahaus illuftris Aftronomus à predi-
cibus in ventriculo quomodo conficia Etionibus aftrologicis abstinuit Bruni de mundanorum innumerabilitate cibus non
à folo calore conficitur sententia refellitur cibus in ventriculo fermentarur
Brunus voluminibus ſuis nugas inferuit . Cibus in ventriculo coctus non femper
albicat Cibus non detinetur in ventriculo donec Alidorum halituum magna vis in
totusfuerit confectus exterendis duris corporibus Cola piſcis cur amphibiorum
more diu Calor cæleftis est eiufdem nature , atque tule fub aquis viuere
potuerit elemenearis Conceptus omnes viviparorum ouifor culor innatus
eftmedicorum inane com mes ſunt Con rit . tur . с Copernicus ab Italis mundani
systematis FFelleus, Gʻaqueus humor cuit Condenſatio, et rarefaétiofine
tenuiſſima quod ob defluxum bydrargyri inane ætheris fubftantia explicari non
po videtur teft F Elle nullum animal caret . notitiam arripuit quibus
Copernicus maximus astronomus prædi. chylus diluitur,iterato fæpius circuitu
&tiones aſtrologicas improbauit ad inteftina reuoluuntur cor motum non
habet à cerebro, fed inſe Fermentatio quid ſit ex Platone, ip, o cietur,
cpalpitat Fermenti vis à calore excitatur . ibid . Cordis motus fit ab
balitibusin eiuſdem Firmicus reprehenditur lofibras influentibus flamma cur
fine pastu permanere ne Cordis motus nõ excitatur àferuorefan queat guinis , vt
Ariftoteli, Carteſio pla- Flamma cur faſtigietur in conum , ibid. Fæmina
ſubminiſtrat materiam omnem Corpora je inuicem propellere poffunt , ex qua
fætuscorporatur non autem attrahere Fæminæ genitura non carent D
Feminarumgenitura an aliquid conferat Ifferentis inter conceptus ouip.rros,
adgenerationem Fætus vita non pendet à vita matris Dɔny Volumen de natura
hominis fætus cum propria tum parentis vi ab utero excluditur E Frigore
nonnunquam diſſimilis nature Lectrum quomodofeſtucasattrahat. corpora
ſegregantur experimenta ludicra quatuor primum Alenus ab Ariſtotele maximis de
orbiculorum in aqua alternatim a rebus diſſentit frendentium , defcendentium Galenus
Platonis fententiam de circum secundum orbiculorum in tubo dque pulſione non
eſt affecutus pleno fuerfum deorſumque recurrena Galeni experimentum de fistula
in arte. - tium ad nutum eius , qui tubi oftium riam immiſa oſtendit arterias
ab im digito obturat pulſie fanguinis moueri tertium orbiculorum in tubo
retorto Galeni Secta cæpit deficere aſcendentium defcendentium pro Galenice
fattioni magna clades d chy paria tubi inclinatione micis eſt illata quartum
orbiculorum ex imo furfum galenice medicine summa aſcendentium propter
diſtractionein Galilæus de atomis, inani aliter vidé aeris in eiſdem conclufi
tur decernere, ac Democritus & Epi Experimentum quo Verulamius probat curus
aquam comprimipole eſt fallax Galileus omnium primus physiologiam experimentum
Torricelli de spario, com Geometria iugauie Ga Gevens ifotelemaximisde Galilcus
aſtronomicarum rerum peritif Hippocratimulta tribuuntur, quecom . fimus
improbauit aſtrologicas prædi mentitia funt ctiones" Hobbes fententia de
ſubſtantia inter al Galilei Carteſi aliorumque iuniorum rem & aquam media.
doctrina phyſicapræftantior quam homo à teneris annisita potefl educari,
antiquorum vt amphibiorum more ſub aquisdiu Genituraquid ,vnde prodeato tius
viuat Genitura non fit in teftibus Homo incerto gignitur fpatio Genitura in
procreatione animalium ef- Hominis genitura non est eiufdem ratio ficientis
tantum caufa vim habet. nis cum femine ſtirpium Genitura non eſt pars , feu
materia con Hornunculorum generatio à Paracelſo fituendi conceptus : propoſita
commentitia eft Genituræ craffamentum oua, & conte Humanusfætus recens
formatusmaiu ptus minimè ingreditur Sculæ formica magnitudinem vix fum
Geniturepars, quæ efficiendi vim habet , perat oculorum fugit aciem Geniture
vis per occultum agit corpora quantumuis denfa penetrat Sanguinefecernere.
Ecinorisprecipuum munusest bilen Geometrie Paradoxa nonſemper plyſInanenihil
eft . cis diſquiſitionibus aptantur so Ingenia ad philofophandum idonea que
Glandulg cur maiores & frequentiores nam fint. in tenellis , &
pinguibusanimalibus, Initia rerum naturalium abftrufa. quam in ſenioribus ,
&macilentis, in omni motu fit reciproca corporum dla translatio Glandule fecernunt auctificum
ſuccum Iuniores multa fulicius inuenere quam à reliquo fanguine Priſci . 4
Glandularum vtilitas . ibid . K Græci curdoctrine ſudijs cæteris natio
nibuspræcelluerint probauit aftrologicas predi&tio Grauiora corpora etiam à
leuioribus ju . perftantibus premuntur L Grauitas quid L Ac quibus vis feratur'
ad mam H mas Hanimalium accuratiſſima. Aruei obſeruationes degeneratione lacervberibus
virorum , &virginum frequenti fuetu prolicitur Harueius in obferuando
diligētior, qaam Lace papillisrecens natorum extillans .. in iudicando Hippocratis
de calore Paradoxum . lac in ventriculo pueri coagulatur Hippocratesanimaduertitfetum
in man ' Latte columbs-nutriunt pullos ſuosprin tris vtero alimentum exfugere
mis diebus Laa nes Luuleirum venarum nonnulla cum me. Saraicis coniunguntur medicina
praua quadam conſuetudina Lamine complanatæ mutuo contactu co . hominibus
infimæfortis tractanda re hærentes cur niſi magno conatu diuelli linquitur
nequeant Medicina rationalis ſuper falſis hypothe. Lansbergius' excellens
Aftronomus à fibus hactenus fuit ſuperstructa predi& tionibus aſtrologicis
abſtinuit . Medicina Græcorum continet inanes conie turas & fallaces
præceptiones , Lien per flexuojam arteriam craffioren fanguinem excipit Medicina
inconftantia, Seftarum va Lien craffiorē & impuriorem ſuccum ex rietas. cibireliquisſecretum
ſuſcipit Medicinam pauciffimi Romanorum fa Lienis vtilitas, Arụctura Etitarunt Lumennon
eft in rebus, fed fit in ipfo Membranarum
vtilitas, dentis oculo Motus ad fugam vacui vulgo relati pen Luminis
naturaexplicatur dent à circumpulſionefuperftantis ae. ris maseratica vis diſimilis
elektrick : Mund for printeriplexdifferentia mini . Men Maßarias iuniorum
gloriæ infenſus Mundi magnitudo
incomprehenſa. ibid. Materia exqua fætus corporatur eſt al N bugineus lentor
ſinailis ouorum albus Aturæ ratio ex ipſa potiusrerum Mathematicæ diſciplinæ
fummam inge paranda stü aciem defiderant Naturalis historie cognitio ad
Phyſiolo Mathematicarum disciplinarum notabile giam malde necellaria incrementum
O Medici latina verba importunèeffutiunt, Bferuatio noua deforaminibus in vt
imperitorum plaaſum aucupen . interiorem pentriculi tunicam . : tur biantibus .
Medici periculofus, &ancipites morbo- obſeruatio noua de pensatorum ventri.
rum curationes inftituunt , culis. Medici perperam diuidunt partes in ſper.
Obferuatio noua lenti humoris in ventri maticas,atque fanguineas', culo
exiſtentis Medici rationales quam profitentur' , Obſeruatio viarum, que nouum
alimentū. ſcientiam omnino ignorant ex ventricnli fundo excipient Medicis
familiare eft mutuainter fe ia . Oetimestris partus non minus pitalis Etare
conuicia quam ſeptimeſtris Medicorum improbitas Ouiformis conceptus in
viviparis habet Medicorum inſcitia reprehenditur, vcram ſeminis rationem Ouum
gr Pusega Perguedus nouisobfervationibusfretus R Frisvarijoeleis queriamlitar $
Strguis I i Ouum fæcundum b.abet rationem femi- Ptolemai Copernici, &Brahei
mundan nis in ouiparis Systematis pofitiones manca im perfecte Ancreatis ductus
vtilitas Pueri cur facilius mathematici effe pof fant,quàm phyſici ,aut
politici. 36 Paracelſus d plerifque propter obſcurita- Pulli ex quo generatio
defcribitur tem deſertus R opinion Erum natura vix alibi quàm in li Pecquetus
obferuationibus quæriſolita bematofin tribuit cordi, non iecinori. Refpiratione
cordis æſlum temperari fal sò creditum est Pestilentix confideratio philosophandi
ratio inſtituta à noftri fæ Anguis non eſt ſuceus ſimplex , nec culi auctoribus
laudatur . tamen continet quatuor decantatos Philoſophia noftris temporibus in
liber humores tatem vindicata eft Sanguis in omne corpus per arterias dif
Philosophia Cartesii quails funditur Ploilofophiæ ftudium à pleriſque peruer-
Sanguis per arterias in membra influen's titur vitalitatem magis , quam
nutrimen Philoſoplrorum in definiendis rerum ini. tum infert tijs conſenſus sanguis
non calore, motuue liquefcit, fed Phyſiologia parum hactenus adoleuit permiftione
tenaifimihalitus pbyſiologia plurimarum rerum cognitio nem , & experientiam
requirit Sanguis non fuapte natura caliduseſt , Phyſiologia onde ordienda nec
calorem accipit à corde, fed motu, Phyſiologia poteft ex falfis hypotheſibus
atque agitatione incalefcit veras naturalium rerumaffectiones Sanguis non in
iecinore, nec in corde, vel concludere alio certo viſcere conficitur
Phyſiologie obſcuritas onde proficifca . Sanguinis duapartes altera viuifica tera
auctifica Phyſiologiæ perfetta cognitio cur defpe- Sanguinis natura admirabilis
Eius randa potior pars aciem fugit Phyſiologiam noftre etatis fcriptores Sanguinis
motusà corde a præclaris inuentis illuſtrarunt Sanguinis circulationem ab
Harueio de Phyſiologiam nemo Geometriæ ignarus fcriptam indicauerant,ante
Pizulus Mis aſequitur Sarpa , &Anstress Cefalpinus. Planetarum corpora ad
ætheris liquidif- Sanguinem fal coire, &denfere noir par ſui motum
circumferripoflunt titur Plato materiam voluit eſſe locum Sapientia illa quam
in ætatibus habet ſe weêtus nostræ potius cetati, quins pria e feq . tør . ſeis
fcis temporibus debetur Vacuipropugnatores corporis naturam à Semen animalium
quidnam fit cx Aris tałtu determinant Stotele P'ene lactea non deferuntomnem
fuc Senfus non ea omnia percipit, qua in na. cum alibilem jura exiſtunt Venis
la &teis animantesquædam carere Senſu quæcumquepercipiuntur falsò ta
videntur lia iudicantur qualia videntur. ibid . Venarum lymphaticarum
progreffus, ego Soli nibilſimiliusquamflamma vſus leg. Solem igneum esſe tactus
& oculorum Vene meſaraica fuccum nutritium ex teftimonio probat Cleanthes inteſtinis
ad iecur Stelliole Encyclopedia Vens meſaraicæ non ſunt deſtinate nú Stelliola
nouitate verborum abſtruſe do . tricationi inteftinorum & alui Etrina
caliginem offudit Vene vmbilicales maiores ampliorefque Stirpium ex ſemine
propagatio compre funt coniugibusarterijs. 88 hendi facile poteſi Ventriculi,&
inteftinorum motus Stoicis materia
corpuseffe videtur Vermes in iecinorè, liene,corde,pulmoni Sympathia Antipathiæ
& Antiperiſia bus & cerebro animaliū fis inania commenta Verulamius
opes ætatemque inter expe rimenta conſumpſit Elefius putauit poße ſpatiumma Vix
quibus humores d corpore per aluum gna vi conatuque pacuum fieri . expurgantur
Vita hominis in continuata fanguinis Telefiusveteresphilofophos, é precipuè.
motione conſiſtit Ariſtotelem exercuit Vitalis halitus in ſanguine existensquo
Testes priuerfo corpori robur conferunt . modo percipiatur Vitri denſitatem
penetrat hydrargyrus Theologi Hegyptü Deos omnes ex ouo prognatos
eſetradiderunt Vniuerſum vnum indiuiduum , atque im Tyndaridæ ex ouo editi mobile
Torricelli Paradoxum geometricum Vrina per quas vias in renes, &veficam
profunditur . Acuum experimento Torricelli Vvirjungiani ductus vtilitas Vacuum
neque mouere corpora poteſt ne Enonis de natura geniture fenten que ne
moueantur inbibere Ztia. Grice: “It’s best to represent Cornelio as
representing Cartesio – yes, the Cartesio that Ryle attacked! But Italy never
had a Ryle, so that’s good!” Tommaso Cornelio. Cornelio. Keywords:
pro-gymnasmaton, gymnasmaton, gymnasta, gymnasium, ginnasio, ginnasiale, nudo
romano, nudita romana, corpo nudo, snudare, atleta, atletismo, lotta
ginnastica, competizione ginnastica, implicatura ginnastica, l’implicatura
ginnastica di Socrate, Socrate al ginnasio, implicatura ginnasiale. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cornelio” – The Swimming-Pool Library.
Corrado (Oria).
Filosofo. Grice: “I like Corrado; of course we have the beefsteak, the English
do; but Corrado philosophised on the near ‘cibo pitagorico’ a Crotone and
produced a philosophical cookbook for the noblemen!” -- Uomo di grande cultura, fu soprattutto grande
gastronomo e uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il '700 e l'800
nelle corti nobiliari di Napoli, simbolo del suo tempo nella variegata realtà
partenopea. Fu il primo cuoco che mette per iscritto la "cucina
mediterranea", il primo, a valorizzare la grande cucina regionale
italiana. Scrisse “Il cuoco galante”, definito all'epoca un libro di alta
cucina, testo richiesto in tutto il mondo dalle principali autorità dell'epoca,
e ristampato per ordini del principe per ben 6 volte. Preparava
elegantissimi banchetti in principio alla corte di Don Michele Imperiali
Principe di Francavilla presso il palazzo Cellamare di Napoli, dove coordinava
un piccolo esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi e preparava i
pranzi o le cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con
tanta fantasia e particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine
di formare una coreografia sontuosa e raffinata. Figlio di Domenico e di
Maddalena Carbone. Rimasto orfano per la morte del padre, ancora adolescente, divenne
paggio alla corte di Michele Imperiali che era Principe di Modena e Francavilla
Fontana, Marchese di Oria e Gentiluomo di camera di S.M. il Re delle due
Sicilie, che lo condusse a Napoli dove risedette per diversi anni. Appena
maggiorenne, entrò a far parte della Congregazione dei Padri Celestini nel
convento di Oria. Dopo l'anno di noviziato, fu chiamato dal Superiore
Generale De Leo nella residenza napoletana di San Piero in Maiella, dove si
specializzò negli studi di filosofia. Dallo stesso padre generale fu avviato,
anche, allo studio delle scienze naturali e dell'arte culinaria, per la quale
divenne famoso. Non diventò mai sacerdote per cui, dopo la soppressione degli
ordini religiosi si stabilì a Napoli, ove risedette per oltre cinquant'anni,
insegnando la lingua francese ai figli delle famiglie aristocratiche della
città, pubblicando contemporaneamente molte sue opere che gli diedero successo
e notorietà. Per i molti impegni che ebbe a Napoli, non tornò più ad Oria,
anche se non mancarono momenti di nostalgia per la lontananza dalla sua
famiglia e dalla sua città natale. Il Principe di Francavilla gli
attribuì la mansione di "Capo dei Servizi di Bocca" (antica mansione
con cui veniva chiamato colui che era preposto a sovrintendere alla cucina,
alla preparazione delle vivande e all'organizzazione dei banchetti) di Palazzo
Cellamare, sito sulla collina delle Mortelle prospiciente il golfo di Napoli e
della famiglia del Principe, poiché molti illustri personaggi di un certo
livello e rango, che venivano a Napoli, invitati a mensa poterono constatare la
fama di questa opulenta ospitalità più spagnolesca e tipicamente partenopea che
era in uso al tempo. Parlando del suo lavoro Vincenzo Corrado così si
esprimeva: «L'abbondanza, la varietà, la delicatezza delle vivande, la
splendidezza e la sontuosiotà delle tavole richiedevano una schiera di uomini
d'arte, saggi e probi. Questa mastodontica organizzazione, era guidata proprio
da lui. Alle sue dipendenze lavoravano un maestro di casa, un maestro di cucina
ed un maestro di scalco che aveva il compito di acquistare, di cucinare, di
dissodare e di trinciare ogni tipo di animale, mentre una schiera di cuochi,
rispettando la gerarchia allora in uso, lavorava secondo la propria
specializzazione (oggi le grandi cucine dei Ristoranti hanno i cuochi di rango)
: vi era il cuoco friggitorie, quello per le insalate, il pasticciere, il
bottigliere e il ripostiere. Tutti questi erano aiutati da una serie di
sguatteri e di serventi che avevano il compito di girare intorno al tavolo per
esibire lo spettacolo fantasioso delle portate prima ancora di servirle. Tutta
questa organizzazione era coadiuvata da un piccolo esercito di maggiordomi,
domestici, volanti e paggi che interveniva non appena il servizio di cucina consegnava
le varie portate artisticamente decorate. Vincenzo Corrado, a seconda
degli ospiti del Principe preparava i pranzi o le cene con particolare
assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari
accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia
sontuosa e raffinata. Egli stesso ci descrive queste splendide composizioni con
pregevole gusto e raffinatezza, lasciando, anche, delle visioni grafiche. Gli
elementi decorativi della tavola erano affidati al maestro ripostiere che usava
gusto artistico e genialità: grandi vasi in porcellana ricolmi di fiori
variopinti, alzate di cristallo e argento a tre o quattro piani colmi di
dessert o frutta o fiori o ortaggi, bianchi gruppi di porcellana raffiguranti
scene arcadiche o bucoliche; puttini d'argento; gabbiette dorate con piccoli
uccellini cinguettanti; coppe di cristallo di varie fogge in cui guizzavano
pesciolini tra foglie di rose ed altri fiori. Il centro veniva racchiuso da una
cornice di frutta, di fiori freschi e di ortaggi, secondo la stagione variante,
disposti, intervallati da piccole spalliere di agrumi in porcellana con
ortolani nell'atto di raccoglierli. La composizione era la sintesi di un
artista di provata esperienza, di raffinata fantasia e di vivace estro, capace
di accoppiare tanti svariati elementi fondendoli insieme a formare uno
spettacolo di gran gusto e di particolare gradevolezza. Il valore del tavolo di
gala completato dal vasellame, cristalleria e argenteria di grande pregio era
inestimabile. Questo senso artistico, anche, nell'arte culinaria Corrado
lo aveva ereditato da un suo antenato letterato di mestiere. Ma per quanto
dotato di una cultura autodidatta, di vivacità d'ingegno, di originalità e di
una particolare facilità nell'insegnamento, se non avesse avuto la fortuna di
conoscere Don Michele Imperiali, che ne coltivò le particolari doti
incoraggiandolo a scrivere della sua specifica arte per tramandarla ai posteri,
probabilmente sarebbe rimasto un ottimo organizzatore, un appassionato gastronomo,
ma la sua fama si sarebbe estinta con lui. Le opere “Il cuoco galante’. Il
primo libro vegetariano della nostra storia. il credenziere: colui che si
prendeva cura della credenza. L'opera fu sottoposta a ben 7 ristampe. Prodotta
in 7500 copie, Dalla dedica si ricava il leitmotiv dello scritto nonché la
filosofia in cui credeva l'autore, che è di questo tenore: il “buon gusto nella
tavola” inteso come “sano pensare”. Di questo trattato di gastronomia, il
successo fu istantaneo e inaspettato, in quanto la precedente opera
gastronomica, La lucerna dei cortigiani, stampata presso Napoli e dedicata a
Ferdinando II duca di Toscana, non era riuscita ad attirare l'interesse del
pubblico che la trascurò ignorandola. Invece grande successo ottenne la
prima edizione del "Cuoco Galante" che si esaurì rapidamente, tanto
che il Principe ne ordinò una seconda edizione che ebbe eguale successo.
Intanto Vincenzo Corrado migliorò e ampliò il testo di questa opera e ne
preparò una terza edizione. La fama del libro superò i confini del Regno
di Napoli e dell'Italia; infatti dall'estero giunsero richieste da tutti quegli
stranieri che avevano conosciuto ed apprezzato il Corrado alla corte degli
Imperiali, per cui si pervenne ad una quarta edizione, seguita dalla quinta e
infine la sesta pubblicata. Assolute novità introdotte dall'autore erano allora
la patata, il pomodoro, il caffè e la cioccolata. Altre opere
Incoraggiato dal successo del Cuoco Galante, il Principe spinse l'autore a
pubblicare nel 1778 un Credenziere del buon gusto, del bello, del soave e del
dilettevole per soddisfare gli uomini di sapere e di gusto. Egli scrisse e
pubblicò inoltre “Il cibo Pitagorico”, “Trattato sulle patate”, “Manovre del
cioccolato” e “Manovra del caffè”; “Trattato sull'agricoltura e la pastorizia
ed infine, “Poesie baccanali per commensali”. -- è il faro della cucina moderna
della nobiltà a cavallo del periodo della rivoluzione francese. Egli privilegia
i personaggi di rango in visita alla mensa del principe con opulenta ospitalità.
Orbene in questo contesto di sfarzo godereccio, di lusso e di differenze
sociali abissali, rimase fin abbagliato dalla nobiltà, la gente ricca e
potente, verso la quale nutre sempre sentimenti di grande reverenza se non
addirittura di venerazione. Proprio per riconoscenza al Principe, dando alle
stampe i suoi due libri, confessa. “Questi due libri che del buon gusto
trattano, con la guida e norma scrissi, e pur mercé la tua generosità mandai
alle stampe, e tu di propria mano ne *segnasti* il titolo “Il Cuoco Galante” --
l'uno e “Il credenziere del buon gusto” l'altro, tutti e due a te li porgo come
frutto di un albero dalla mano piantato. Mio Scopo egli è di richiamare alla
memoria dei nobili uomini dei quali tu fosti la gloria l'ornamento alla memoria
e la lode. Ah? Ma qual Tu fosti non basterebbe di dire di cento e mille lingue,
per cui io stimo meglio il tacere e con il silenzio benedire gli anni che ti fu
appresso. L'organizzazione dei magnifici
banchetti e delle cene lussuose gli diedero l'appellativo di “il cuoco
galante”. La cosa straordinaria è che dietro gli scenari di un favoloso pranzo
o cena vi era una preparazione, quasi orchestrale della quale il direttore era
il filosofo. Alle sue dipendenze vi era una vera e propria squadra di addetti
alle cucine formata da precettori cuochi e servienti. La presentazione
estetica, oltre al gusto, acquista la sua importanza in cucina, ed dedica
grande spazio alle decorazioni e al modo di imbandire le tavole dei banchetti.
Nell'opera sono anche presentati i sorbetti, in vari gusti, ed il caffè, che, a
differenza dall'attuale espresso, veniva bollito in apposite caffettiere.
Precettori un precettore di alloggio e sistemazione posti per gli invitati, un
precettore di preparazione dei cibi, un precettore abile con utensili
domestici, che aveva la mansione di far provviste e comperare il necessario al
mercato per le mense, di dissodare e di affettare ogni tipo di carne o pesce.
Chef e Cuochi “Il cuoco friggitore”, il cuoco per le insalate, il pasticciere,
il bottigliere, il ripostiere. Serventi lavapiatti,
camerieri, maggiordomi, domestici, volteggianti e giullari che
intervenivano non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate
artisticamente decorate. Non era solo una semplice cena, era un vero e proprio
spettacolo, fuori dall'immaginato. A volte comprendeva l'utilizzo di 100
persone per altrettanti o più invitati. I banchetti o le cene con
caratteristiche e assortimenti di piatti erano accoppiate con tanta inventiva e
particolari astuzie architettoniche ed eleganti al fine di plasmare una
scenografia sfarzosa e affinata. Egli stesso nelle sue opere e nei suoi
diari ci descrive queste splendide composizioni culinarie come opere d'arte,
quasi uno spreco consumarle. Bicchieri e coppe di cristallo, posate in argento
intagliate, tovaglie di pizzo fiorentino, buche e composizioni floreali, piatti
in porcellana di Capodimonte Termini culinari "Il Cuoco
Galante", proprio nella terza edizione, alfine di una maggiore comprensione,
spiega alcuni termini "cucinarj" usati per la preparazione delle
varie pietanze, ne riportiamo un esempio: Bianchire: Far per poco bollire
in acqua quel che si vuole; Passare: Far soffriggere cosa in qualsiasi grasso;
Barda: Fetta di lardo; Inviluppare: Involgere cosa in quel che si dirà;
Arrossare: Ungere con uova sbattute cosa; Stagionare: Far ben soffrigere le
carni o altro; Piccare: Trapassar esteriormente con fini lardelli carne; Farsa:
Pastume di carne, uova, grasso ecc.; Farcire: Riempire cosa con la sarsa;
Adobare: Condire con sughi acidi, erbette, ed aromi; Bucché: Mazzetto d'erbe
aromatiche che si fa bollire nelle vivande; Salza: Brodo alterato con aromi,
con erbe, o con sughi acidi; Colì: Denso brodo estratto dalla sostanza delle
carni; Purè: Condimento che si estrae dai legumi, o d'altro; Sapore: La polpa
della frutta condita, e ridotta in un denso liquido; Entrées: Vivande di primo
servizio; Hors-dœuvres: Vivande di tramezzo a quelle di primo servizio;
Entremets: Vivande di secondo servizio; Rilevé: Vivande di muta alle zuppe, potaggi,
o d'altro. Pitagora nell’atto, che dalla
cattedra nella nostra italica scuola dettava sistemi, che riguardavano quanto
mai fosse fuori di esso lui, e di noi per pascere l’animo e l'intelletto, non
trascure di sistemare peranche ciò che meglio, e piu opportunamente al
nutrimento ed alla conservazione del meccanico nostro vivere conducesse. E però
dettando il canone o la legge, come dir si voglia, per la cucina delli suoi
mentati, non di *carni* di animali ei ditte quadrupedi, o volatili, o di pelei
imbandite vengano le mente di quanti han voglia di più lungamente, e più
lanamente vivere, ma soltanto di vegetabili erbe, di radici, di foglie, di
fiori. Ebbe cotesso filosofante la somma disgrazia di non essere da ogni
filosofo inteso, come sovente la savia donna stobeo sua moglie e espose li g
luf'J\ l&- r menti: e com’egli la tras-migrazione dell’anime avesse
ingegnata, così dalli silenziari scolari suoi, e da parecchi altri prevenuti da
quel di lui fatto sistema si divieta del cibo animalesco, e la preferizione del
solo cibo erbaceo furon pref nel sinistro senso di una supertiziosa venerazione
, cK egli aveffe per l’animale, nella macchina del quale l’anima dell’uomo dopo
la morte fojfcro tras-migrate. Ma ’ che chefané di ciò, egli è indubitata cosa
, che il cibo erbaceo fallo più confacenti all’verno, per cui vedef la più parte
dei Naturalifi a quella opinione indicimata, che l'uomo naturalmente non è
carnivoro. E se noi ponghiamo mente al parlare dell’antica filosofia, rilevaremo
con tutta chiarezza che le frutta della terra defluiate vennero al nutrimento
dell'uomo, e che sopra del pesce, dell’animale terrestre, e del volatile n eh
he lo fie[fio uomo soltanto il domini ; Jlcchè l efifierfii poi dati alcuni
uomini ad alimentarsi di animali j'offe fiata una necessità di alcuni luoghi,
oppure un lusso! Non senza ragione quindi la italiana gente, ansi avvedutamente
oggi più che in altro tempo la legge pitagorica ha ripigliata ad oficrvare con
tutto impegno nella cucina del filosofo galante, e nelle mensa: e le nazioni
anche più culte, che da Italia sono lontane, han preso il gufo di dare al corpo
nutrimento più sano, gusiosso, e facile per mezzo dell’erba. Ed ecco perciò
tutta la scuola cucinaria pofia in movimento per inventar un nuovo modo a poter
preparare e condire l’erba per mezzo di altri fingili vegetabili, onde non
solamente grato al palato si renda il semplice pitagorico cibo, ma eziandio
pofia sioddisfarsii al lusso nell' imbandire laute Menfie da filmili
siempìicità compofie. E quesio è il fine della mia filosofia, difiefio , ed a
comune uso e utilità. Vero egli è, che non tutti li vegetabili dei quali ferie
preferìve qui la preparazione filano li più perfetti, e giovevoli ai nutrimento
nostro. Ma ciò ha dovuto farsi per accomodarsì af gufo comune, ed alla moda
presiente della tavola fu ,di che qualunque Aristarco non avrà che opporre.
Nella mia filosofia volendosi imitare la filmile semplicittà della materia del
soggetto, con sempiice e chiaro discorso si da la pratica come ogni erba
italiana dando il suo proporzionato condimento con fughi di carne, con latte
Animali, e di fórni, con butirro, con olio, con uova , e con altr’erbe
odorifere e gusiofe debano preparar f . E intanto per a et tare, ad ogni
articolo alcuna cosa verrà premefi , che rifguarda la natura, e le virtù del vegetabile
di cui fe ne voglidn preparare la vivanda. E già qui fiegue in prima, la
maniera di far i brodi, i coli e le buri
neceJTarj pel condimento: ed in secondo luogo h nòta del vegetabile del quale
nella mia filosofia fe ne preferivo il modo di prepararli: avendo io in ciò
fare procurato di mettere in J'alvo anche il Injjo nell' imbandire con simili
generi una mensa di formalità e gala, e nel tempo Jìeffo di soddisfare il gusto
delicato dei nobili, e di provvedere alla conservazione dell’utterato . INDICE:
Velli Brodi, Coli , e Purè p. I Velli Coli a Velie Purè i tutta la c minarla
prepa- ragione de’ vegetabili, Lattuca, Spinaci, Cavolo Cappuccio , Selleri,
Zucca, Zucca lunga ia Delle Zucche Vernine ivi Cavai fiore Finocchi Iudivia
Cardoni Cavoli Torgi Carciofi Broccoli Boraggine Senape Cipolle ivi Rape
Ravanelli CicoriaPetronciane Pafiinacbe Pomidoro Cedriuoli Peparoli Pifelli
Sparaci Raperortzpli Velli Ceci Fave Faggioli 3^ De//** I-enfe 39 Funghi
Tartufi Erba per condiment, Maggiorana, Targone, Pimpinella, Santa Maria
Crefcione Origano Timo Acetofa Salvia Menta Cerfoglio Porcellana Bafiltco Ruta
Sambuco Rosmarino Tralci Vite Zafferano Anafi Cappari Scalogne Dettagli Rafano
o Ramolaccio Bettonica Idea dell'ufo delle frutta ivi. Grice: “My favourite
chapter from ‘Il cuoco galante’ is the philosophical one, on Pythagoras! I
vitto pitagorico consiste l’erba fresca, la radice, il fiore, la frutta, il
seme, e tutto cid che dalla terra produce per nostro nutrimento. Vien detto
pittagorico poiche Pitagora, com’ è tradizione, di questi prodotti della terra
soltanto fece uso. Pitagora mangia l’erba semplice e naturale, ma gli uomini
de’ nostri di li vogliono conditi, e manovrari; ed io nel voler conversare con
distinzione dell’erba procuro eseguire l’uno, e soddisfare l’altro, con
escludere le carni, e di servirmi del condimento, anche pitagorico, com'è il
ſugo di carne, il lasase, le uova, l’olio , ed il burirro per compiacere
qualche particolar palato, servirmi pure delle parti più delicate degli animali.
Grice: “Oddly, my mother was keen on Mrs. Beeton, I’m keen on Signore Corrado!”
La cucina e la credenza, ad esami parlando, son sorelle gemelle, poichè
le due appartengono al buon gusto del cibo, e le due nacquero, cresceron , e
s’ingrandirono nello stesso temp , e nella nostra Italia che in altri luoghi,
sotto i fastosi e dominanti romani, e divennero tutte e due arti d’ingegno, di
piacere, e di utile; ed il cuoco ed il credenziere debbono esser d'accordo nel
loro, quantunque dissimile, lavoro. Della estesa ed elevata cucina se n’è
discorso abbastanza. Dico abbastanza ma non già al fine; e compimento, poichè
ciò accade quando non vi saranno più uomini al mondo. Ora vengo a trattare di
quanto la credenza include, e di quanto un credenziere dee esser fornito. E se nel
dar l’istruzione per la cucina pensai e scrissi da cuoco, ura collo stesso
metodo filosofo da credenziere. Come tale intendo ragionare al dilettante.
Procuro di aggiugnere quanto di bello, di buono, e di dilettevole mi ha potuto
suggerire la fantasia. Gradisci dunque , o cortese mentato, questa mia fatica,
e sappi, ch’io resto soprabondevolmente pagato col piacere di avervi servito.
Vivi felice. Vincenzo Corrado. Corrado. Keywords: il cibo pitagorico, il
concetto di conversazione galante, gala --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corrado” – The
Swimming-Pool Library.
Corsini (Fellicarolo).
Filosofo. Grice: “I like Corsini; if we at Oxford had a sublime history as they
do in Italy, we surely would be philosophising about it! Corsini taught
philosophy at Pisa and spent most of his efforts in deciphering what the Romans
felt interesting about Greek philosophy!” Grice: “Corsini also explored the
roots of Roman philosophy from the earliest times – ab urbe condita,’ as the
Italians put it!” Studia nel Collegio dei padri scolopi fananesi, dove in
seguito entra quale novizio e si
trasferì nel Noviziato di Firenze. Le sue capacità lo portarono a
diventare docente di filosofia a soli vent'anni presso la stessa scuola. Si
trasferì quindi a Pisa dove insegna. Eletto Superiore Generale e dovette
trasferirsi a Roma. I principali campi di studio ai quali si applica
furono: la filosofia, la cronologia, l'epigrafia, la filologia e la numismatica
ma si interessò anche di matematica, di logica, di fisica, di idraulica, di
didattica, di storia e di lettere antiche e moderne. Altre opere: “Illustrazione
relativa alle recensioni su De Minnisari e Dubia de Minnisari pubblicate ne gli
Acta Eruditorum; “Illustrazione relativa all'Epistola ad Paulum M. Paciaudum, pubblicata
negli Acta Eruditorum”; “Ragionamento istorico sopra la Valdichiana” (Firenze);
“Index notarum Graecarum quae in aereis ac marmoreis Graecorum tabulis observantur”
(Firenze); “De Minnisari aliorumque Armeniae regum nummis et Arsacidarum epocha
dissertation” (Firenze); A. Fabbroni, Vitae Italorum..., Pisis E. de Tipaldo, Biografie degli italiani
illustri, X, Venezia); Dizionario
biografico degli italiani. Elogio di Corsini (con lettere di Fananese a
Rondelli). Fanani nianae, quod in ditione est oppidum Ducum provinciae
AteftinorumFri, III. Non . Octobris anno MDCCII. natus eft Eduardus Corsinius
(Silvestro Corsini) optimis quidem parentibus, honestissimaque familia, quippe
quae jamdiu civitate Mutinensi donata fuerat. Is ubi primum adolevit
Sodalitatem hominum Scholarum Piarum, quos praeceptores puer in patria
habuerat, ingressus est. Multa diligentia, multoque labore in humaniorum
litterarum [cf. Grice, Lit. Hum.], philosophiae ac theologiae studiis
Florentiae se exercuit apud suos; & cum omnes condiscipulos gloria
anteiret, ab omnibus tamen in deliciis habebatur. Erat enim bonitate
suavitateque morum prope singulari; & cum plurimuin faceret non solum in
excolendis studiis, sed etiam in officiis omnibus religiosi hominis obeundis,
minimum tamen ipse de se loquebatur. Vix ferre poterat Eduardus peripateticos
quofadam horridos, durosque oratione & moribus, quibuscum versari
cogebatur; intelle xeratque jam falsos hujusmodi sapientiae magistros de
veritate jugulanda potius, quam de fendenda assidue certantes, philosophiam
artem fecisse subtiliter & laboriose infaniendi. Relictis igitur disputandi
spinis, ad Academiam se convertit, cujus ratio inquirendi verum libero
folutoque judicio, & fine ulla contentio ne & pertinacia non poterat
non magnope re probari homini natura leniſſimo. Nec forum in philosophorum
libris corum dogmata, quae disputationibus huc & illuc trahuntur, ut ipse
per se perpenderet, inveſtigavit Corsii, sed etiam philosophiae adminicula
& an ſas, qualem Xenocrates geometriam appellabat, in Euclide, Apollonio
& Archimede quae sivit. Quo in itinere felicem adeo habuit exitum, ut
fervore quodam aetatis impulsus, břevi condere potuerit libellum de circulo
quadrando, quem ad Guidam Grandium mi fit. Novit in eo Grandius eximium &
admirabile adolescentis ingenium, eumdemque hortatus est, ut pergeret porro in
eo studio, quod ceteris & studiis & artibus antecede ret, & in quo
ipse futurus effet excellens. At Corsini praeſertim trahebatur ad humaniores
litteras, quibus a puero mirifice dedicus fuerat, quaſque vel in sublimiorum
disciplinarum occupationibus, ne obsoleſcerent, legendo renovaverat. Itaque
moleste tulit demandatam fibi a majoribus fuisse an MDCCXXIII provinciam tradendi
publice Florentiae philosophiam, quasi ad ea detru deretur, quae sui non essent
ingenii. Principio sequi coactus est Goudinium, cui brėvi substituit Hamelium.
Atque hos auctores sic interpretatus est, ut facile intelligeretur non eſſe ex
illorum doctorum numero , pud quos tantuin opinio praejudicata poteſt, ut etiam
fine ratione valeat auctoritas eo rum , quos ſequi ſe profitentur . Poftremo ·
ad ſcholae fuae utilitatem & ornamentum maxime pertinere exiſtimavit , fi e
multis , quae ſunt in philoſophia & gravia & utilia a recentioribus
praefertiin philoſophis tracta ta , quantum quoque modo videretur deli geret,
in quo adoleſcentes exerceret . Sa pienter etiam faciebat, quod ipſos non ſolum
quibus luminibus ab illa omnium laudanda rum artium procreatrice Philoſophia
petitis a mentem illuſtrare , fed etiam quibus virtuti bus omnem vitam tueri
deberent fedulo e rudiebat . Quare minime eſt mirandum fi in tantam
claritudinem brevi pervenerit, ut fuis & Florentinis vehementer carus ,
quibuſdam vero hominibus nudari ſubfellia ſua , & cor nicum oculos configi
dolentibus eſſet invim diofifſimus. Fuerunt & nonnulli ( tantum in vidia ,
aut inſcitia potuit ) qui apud eos , quorum munus eſt providere , ne quid er
roris in religionem moreſque irrepat , Corſi nium accufarunt , multa illum
tradere , in exponendis praeſertim Gaffendi & Cartefii ſententiis , a recta
religione abhorrentia . Stomachatus eft homo religiofiflimus , caftif fimuſque
obtrectatorum temeritatem . Hos ve ro ut falſae & iniquae inſimulationis
publi ce convinceret , utque ab omni metu diſci pulos fuos liberaret , ftatuit
in lucem profer re , quae in ſchola & domi iiſdem expoſue rat . Quod cum
praeftitiffet , id evenit, ut alteros reprehendiſſe poeniteret , alteri fe di
diciſſe gauderent . Inſcripfit opus : Inſtitutio nes philoſophicae ad ufum
Scholarum Piarum , & illud in quinque volumina diſtribuit si ma mum
continet hiſtoriam philoſophiae & lo gicam ; ſecundum verfatur in
indagandis prin cipiis , & tanquam feminibus unde corpora funt orta &
concreta , horumque proprieta tibus & qualitatibus ; agit tertium de cor
poribus inanimatis , quae caelo , aere , ri & terra continentur ; examinat
quartum animata corpora , multipliceſque eorum fpe cies, & elementa
metaphyſicae tradit ; quia tum denique morum doctrinam complectitur. Nec folum
in conficiendis his libris res no vas inveſtigavit Corfinius , fed etiam eas ,
quae funt ab antiquis traditae , quarum co gnitionem eo utiliorem putavit ,
quod faepe. philoſophos nova proferre judicamus , cum pervetera proferant .
Praeter quam quod in ea erat opinione Corſinius, illi , fitum eſt veritatem
invenire , fingulas nofcen das effe diſciplinas , ut ex omnibus , quod probabile
videri poſſit , eliciat , praeſertim cum doceamur a ſapientiffimis viris ,
nullam fectam fuiffe tam deviam , neque philoſopho rum quemquam tam delirantem
, qui non vi derit aliquid ex vero . Nec modo quid fibi probaretur , fed
aliorum etiam fententias , & quid cui propo quid in quamque ſententiam dici
poſſet, pera fecutus eſt, quod ea modeſtia praeſtitit , ut : non vincere
maluiſſe , quam vinci oſtende- . rid . Hanc opinionum varietatem ex fuis fone
tibus fincere deductam , ut potentius in die fcipuloruin animos influeret, non
modo ora , vine diſpoſuit ., ſed etiam claritate & nitore, Latini ſermonis
illuſtravit . Praeclare enjin , Cicero : mandare quemquam litteris cogitationes
fitas , qui eas nec difponere poffit , nec illuftra-: re , nec delectationé.
aliqua lectorem allicere , hominis est. intemperanter abitentis otio & like
cris . Sunt nonnulli qui in hiſce. Insitus, rionibus dum pleniflimo ore laudant
ima menſam prope eruditionis copiam ,, politio remque elegantiam , quibus
ornantur, defide; rare videntur abditiorem 'reconditioremque tractationem earum
rerum, quae primum ii) phyſica tenent locum , quales ex. gr. ſunt Trotus.,
Newtoniana' attractia , harumque lo ges, non tam .ut ceteros, quam ut ſe ipſum
, qui nunquam adduci potuit , ut Newtoni fententiae affentiretur, convinceret .
Sed ii meminiſſe debent quibus ſcripſerit:Corfiniusi, hribuſque temporibus
ſcripferit. Quoniam ve Tom . VIII to plurima ſunt in phyfica , quae fine 'gea
metriae ope tractari non poffunt , hoc quo que adjumențum a fe afferri oportere
diſci pulis ſuis putavit . Itaque Philoſophicis Ma thematicas Institutiones
adjecit , in quibus fi ordinem excipias ( initium enim facit a pro portionibus
, quas nemo ignorat difficillimam effe geometriae partem ) cetera ſatis belle
procedunt. Neque multo poft retexuit hoe ipſum opus , in quo eo elaboravit
attentius , quod fperabat aditum fibi facturum ad mu nus tradendi mathematicas
diſciplinas in Ly ceo Florentino . Acceptum illud cum plauſu fuit propter
dilucidam brevitatem atque ele gantiam , licet in eo acutiores peritioreſque
geometrae pauca quaedam jure ac merito teprehenderint. Praeſtantiam , quam
conſe cutus fuerat Corſinius in rebus geometricis, yoluit ad hydroſtaticam
transferre; cumque fedulo evolviffet quae in ea facultate ſcris ptis
mandaverant poft Galilaeum Torricellius, Michelinius , Guglielminius , Grandius
, alii. que pauci , in ſcenam prodire non dubitavie fuftinens perſonam non modo
conſiliarii & arbitri de dirigendis avertendiſque aquis , ſed etiam
ſcriptoris. Etenim ex ejus officina prow diit liber , qui infcriptus eft :
Ragionamenti intorno allo stato del Fiume Arno e dell' acque della Valdinievole
, quique editus fuit fum ptibus. Marchionis Ferronii , cujus cauffam praeſertim
defendebat . Spe dejectus Eduar dus perveniendi in Lycei Florentini docto rum
numerum , qui praeter modum iis tem- . poribus. creverat , animum ad Academiam
Piſanam convertit , petiitque dari ſibi va cuum eo tempore logicae interpretis
locum . Celeriter quod optabat impetravit , propte rea quod Joannes Gaſto
Magnus Etruriae Dux eximiam illius ſcientiam in omni re philo ſophica
cognoverat .. Vir non tam doctrina praeſtans, quam docendo prudens ( etenim
quaedam etiam ars , eſt docendi ) magno erat emolumento ſtudiofis
adoleſcentibus , qui non uſitata frequentia fcholam illius celebrabant . Cum
vero de fchola in otium folitudinem que ſe conferret , tempus potiffimum conſu
mebat in augendis . perficiendiſque ſuis Phi lofophicis Institutionibus ,
abſolvendoque , quod inſtituerat , opere de Practica Geometria . Ins ter haec
magna fuit amnis Arni inundatio , F 2 84 EDUARD US ut fi inundationes excipias
, quae annis MCCCXXXIII. & MDLVII. acciderunt, nul lam unquam majorem
fuiſſe conſtaret . Pere vaſerat opinio per animos Florentinorum huic luctuofae
calamitati cauſſam praefertim dediffe Clanis aquas in Arnum deductas , &
quae ad eaſdem moderandas aquas facta fue rant opera . Hunc errorem ut eriperet
Edu. ardus , utque perſuaderet eadem opera fuiſſe utiliffima ac faluberrima ,
libro expoſuit qua lis fuiſſet , & quis eſſet ſtatus Claniae val lis ,
quidque conſultum & actum ab anno MDXXV. ad fua uſque tempora , ut peſti
lentiſſima regio convaleſcere aliquando & fa nari poſſeti, utque
controverſiae inter finia timos Principes de dirigendis aquis ejuſdem regionis
tollerentur . Piſis erat Corfinio con tubernium cum Alexandro Polito , qui hum
maniores litteras profitebatur , cujuſque vi tam ſupra explicavimus . Hominis
Graecis & Latinis litteris eruditiffimi exemplum & vo . ces ,
ſelectiſſimorumque librorum copia , qua is abundabat , Corſinium per fe jam
flagran tem vehementiffime incenderunt ad eas ar tes , quibus ab ineunte aetate
deditus fuer GO RS IN I UŚ. 85 rat , celebrandas . Sciebat Graece , cujus
ſermonis elementa juvenis Florentiae acce perat a ſodali ſuo Franciſco Maria
Baleſtrio , fed non luculenter . Itaque multo ſudore ac labore in arte
grammatica primum ſe exer euit , poftea Graeca multa convertit in La tinum ,
Graecorumque libros & eos pracſer tim , qui res geſtas & orationes
ſcripſe runt , utilitatem aliquam ad dicendum aucu- | pans, ftudiofiffime
legebat . Cum vero ei eſſet perſuaſum ingentes ac prope immenſos cam pos illi
proponi , qui eloquentiae ceterife que humanioribus litteris vacare cupit ,
acom mico hac de re aliquando ſciſcitanti reſpon dit: percipiendam ei effe
omnem antiquitatem , co gnoſcendam hiſtoriam , omnium bonarum artium ſcriptores
& doctores & legendos & pervolu tandos , & exercitationis cauſa
laudan.los , in terpretandos, corrigendos , refellendos ; diſputan dumque de omni
re in contrarias partes, & quid quid erit in quaque re , quod probabile
videre poffit , eliciendum atque dicendum . Hujuſmodi exercitationes, quas diu
incluſas habuit, Core finius in veritatis lucem tandem proferre ſe poffe
putavit , cum Faſtos Atticos illustrandos fuſcepiſſet ; magnum ſane opus &
prae clarum , quod omnem fere Athenienfium hi ftoriam complecti debebat , cum
qua philo fophiae , omniumque laudatarum artium hi ſtoria arctiſfime eſt
conjuncta . Diviſit illud ipſum opus in partes duas , quarum prio rem veluti
apparatum Faftorum effe voluit, quod in illa fuſe lateque ea exponerentur ,
quae commode in ipfis Faftis , ad quos ta men pertinebant , 'exponi haud poffe
vide bantur . Agit itaque de Archontum inſtitu tione , numero , varietate ,
muneribus & re rie , de Archontico anno , atque ordine men fium
Athenienfium . Cum vero Archontigiis annus non in menſes ſolum , ſed in Pryta
nias etiam diviſus eſſet , ac Tribuum Athe nienfium fingulae aequali temporis ,
annique parte Prytaniae munere fungerentur , de ie pſarum Tribuum ac
Prytaniarum numero , ordine ac ſerie , deque Atticae populis , ex quibus illae
conſtabant , eruditiſſime differit . Neque ab his ſeparandam putavit tractatio
nem de Athenienſium Senatu & Ecclefiis , dcque Proedrorum , ac Epiſtatum numero
, diſtinctione & officiis. Tranſit inde ad contexendam Archontum ſeriem
diſtinguens eponymos a pseudeponymis . Quam diſtinctio nem licet nonnulli
agnoverint , nemo tamen exſtitit , qui Pſeudeponymorum Archontum feriem
illuftrandae Atticae hiſtoriae maxime neceffariam recenſere tentaverit . Agit
de mum de civilibus Graecarum gentium annis, ipfarumque menfibus, cyclis atque
periodo, cum antea declaraſſet tempus , verumque di em , quo varia Athenienſium
feſta peragi & redire confueverant . Id facere neceſſe fuit propterea quod
eadem fefta , veluti perſpi cuae certaeque temporis notae, rerum gefta rum
memoriaé ſaepiffimè a ſcriptoribus adji ciuntur . Haec quidem in priori operis
par te . In fecunda vero Fafti exponuntur a pri ma Olympiade , qua Coroebus
palman retus lit , uſque ad Olympiadein cccxvi. Cauffa fuit juſta Corſinio
praetereundi antiquiora tempora , quod iſta laterent craſſis occultata tenebris
, & circumfuſa fabulis . Ne tamen primam Athenienfis imperii formam deſpice.
re videretur (nam Athenis initio Reges , inde perpetui Archontes, mox
decennales , tandemque annui imperarunt) qui Reges & Archontes perpetui ,
& qua aetate fuerint in Prolegomenis perſecutus eft. Ceterum Fa. ftos fic
contexuit Corfinius, ut nullum ad nos pervenerit nomen Archontum , Olympioni čarum
& Pythionicarum , nulla lex , neque pax , neque bellum , neque caſus neque
res illuſtris & memoranda populi Athenien fis , quae in iis ſuo tempore non
fit notata . Interdum etiam attigit Spartanorum , Phoceli fium , Thebañoruin ,
aliorumque Graecorum gefta , conſilia , pugnas , diſcrimina , quod ca maxime
ſint Atticae hiſtoriae conjuncta . Grae Cos vero philoſophos , poetas, oratores
, cete roſque tum pacis, tum inilitiae artibus claros viros ita commemoravit,
ut quibus Olympicis annis, & quo loco in lucem fint editi , vitam que '
finierin't intelligi poffit. Atque haec o Innia capitulatim ſunt dicta . Etenim
nimis lon gus effem fi praecipua, & nova vellem deſcri bere , quae in his
Faftis continentur . Nihil poſuit in iis Corſinius fine locuplete auctori täte
& teſte, aut faltem ſine probabili conje: ctura ; quodque difficillimum
fuit, fcriptorum Graecoruin loca aut vitiata aut minime intel lecta, aut
mutilata'ſic reſtituit , illuſtravit, fupplevitque, ut dubitari poffe videatur
plus ne jis reddiderit luminis , quam ab iiſdem aco ceperit . Neque minori
perſpicientia Athe nienfium nummos vidit , ex quibus non pau . ca quidem in
rein ſuam hauſit ; ſed multo plura e marmoreis monumentis fumpfit, ta li modo
dirimens controverſiam , quae ex fufcitata fuerat a ſummis viris Spanhemio ,
& Gudio , nummis ne , an inſcriptionibus princeps locus dandus effet in
explicandis ri tibus , feſtis , Numinibus , ludis, magiſtrati bus , rebuſque
geſtis Athenienfium . Inter nobiliores inſcriptiones , quas refert Corfi nius ,
& miro prorſus acumine atque eru ditione explicat , & interdum etiam
fupplet, eft Florentina quaedam apud Riccardios ile luſtrandis Athenienfium
Tribubus maxime idonea. Sed haec mirifice corrupta erat , au gebatque
corruptelam collocatio . Etenim cum ex tribus fragmentis conſtaret , imperi tus
artifex fic illa in pariete diſpoſuerat, ut media pars primae , finiſtra mediae
, dextera vero omnium poftremae partis locum Occu paret. Vidit haec mala
Corſinius , qui 2 tutiſſime indagabat omcia , iifque remedia goadhibuit . At
puduit Joannem Lamium ſe non adeo lynceum fuiffe , cum ufus effet sadem
inſcriptione in ſuis ad Meurfium Scholiis , & ex pudore orta eſt invidia .
Ex quo intelligi poteſt quare is debitas mun quam tribuerit laudes operi , quod
omnium judicio longe multumque ſuperat quidquid in hoc rerum Atticarum genere
ſcripſerunt Sigonius , Scaliger , Petavius , Petitus , Spo nius , & vel
ipfi Meurfius , & Dodwellus , quorum errorés dum faepe corrigit Corfini,
us, & dum minime ab iis animadverſa pro fert , fatis declarat iiſdem
detrahere voluiffe Haerentem capiti multa cum laude coro nam . Rumor erat ea
parare Lamium , quibus fpe rabat hominibus fe probaturum , Corfinium in
emendanda illuſtrandaque Riccardiana in fcriptione ſurripuiffe fibi fegetem
& mate riem gloriae ſuae . Porro Lamius poft edi tas Corſinii emendationes
fupponere cogita verat in locum impreſſae jam paginae in I. Meurſii operum
volumine , quae prae fe fe rebat inſcriptionem corruptam , aliam pagi nam , in
qua emendatior inſcriptio legebatur ; CORSINIUS: 1 bancque mutationem , omnibus
occultari pof ſe putaverat , quod Meurſii liber nondum efe ſet in vulgus editus
. Non latuit certe Core finium , in cujus manus pervenit etiam pria mum
impreffa pagina , qua omnem a fe prow pulſare poterat injuriam . Id ut audivit
Lami mius aliam rationem iniit perficiendi confi lii ſui . Dedit ad Angelum
Bandiniun litte ras plenas iracundiae ac minarum, ſpecie qui dem ut ea, quae
jamdiu ſepoſuerat ad Ric cardianum marmor explanandum , aliquando proferret ;
re autem ipſa ut quae a Corſinio didicerat , perpaucis additis aut mutatis , le
ctori aut occupato aut indiligenti vendita Yet pro ſuis . Atque id utrumque
ſcriptorem conferenti luce clarius eft . Quare mirari ſa tis non poffum hominis
frontem , qui furti Corfinium infimulet in eo loco, in quo ipfo cum re aliena ,
atque etiam cum telo eſt de prehenſus. Atque haec an. MDCCXLv. ſunt geſta , cum
Fafti Attici anno ſuperiori lu cem vidiſſent . Sed tamen res defenſionem apud
multitudinem potuit habere uſque ad cum annum , quo Meurſii opera cum Lamii
animadverſionibus vulgata funt fimul universa . Is fuit an . MDCCLXIII. Tum
enini primum jejuna illa marmoris interpretatio, quam ante annos xxII . Lamius
in l . operum volumen intulerat , lecta eft pag . 258. : ad calcem vero ejus
voluminis ſecundae Aucto ris curae in eum lapidem , & quaſi retra Statio
quaedam ante dictorum edita eſt . Qua in mantiſſa bina extant indicia Corſinii
cauffam mire tuentia , alterum quod nihil hoc in loco proponatur , ' quod non
ille in Faſtorum libro occupaverit ; alterum quod mantiſſae characteres ab
ejuſdem voluminis characteribus forma et figura longe abſunt , teſtanturque non
niſi poſt annos multos quam liber fuerat impreſſus , diſtractis jam aut
obſoletis formis illis prioribus , additam eſſe appendicem , de qua meminimus .
Sed jam fatis multa de homine meo quidem judicio paucis comparando , niſi
regnum in litteris, quod Florentiae perdiu tenuit , malis inter dum artibus
& clarorum virorum vexatione confirmandum putaſſet. Quamvis in Fa. Hujus
rei narrationen pluribus etiam verbis exa pofitam vide in libello cujus eſt
infcriptio : Paffatem po Autuntile , quo in libcllo Si quis est qui dictum in
se ir clemencius Exis. Atis Articis elaborare Corfinio maxime glorio fum fuerit
, non minorem tamen laudem rea portavit ex Agoniſticis Differtationibus, de qui
bus Ludovicus Muratorius , intelligens ſane. judex , dicere folebat , poſſe eas
per ſe ſo las aeternum nomen Auctori comparare . His Diſſertationibus oftendere
voluit Eduardus, quo tempore Graeci celebrare conſueverunt ludos Olympicos ,
Pythicos , Nemeaeos , & Iſthmiacos, quod tempus eatenus fuerat vel
incompertum , vel faltem obſcurum . In hoc autem non mediocrem utilitatem
chronolo giae & hiſtoriae ſe allaturum putavit , quod iiſdem ludis fcriptores
uterentur ad notanda deſignandaque rerum geſtarum tempora . Ab Olympicis
exordiens , qui ceteros fplendore & frequentia ſuperabant , breviter cos
percurrit, quos ab Hercule primum inſti tutos Trojano bello deſiiſſe , moxque
ab . Iphito reftitutos iterum intermiffos fuiffe fcriptores narrant . Etenim
illud caput eſſe videbatur , ut de Olympiade illa quaereret , qua Coroe bus
palmam accepit , & quae prima dicitur , omnes Exiflimayit ele , fit
exiſtimet Reſponſum , 11011 d.ctum effe, qu'a lacris prior , 6 94 EDUARD V $
quod ab illa ceterarum Olympiadum ordo & feries incipiat . Hanc celebratam
fuiſſe putat an . periodi Julianae MMMDCCCCXXXVIII. circiter folftitium
aeſtivum , plenilunii tempo re , qui mos ſemper manſit non folum anti quioribus
, quibus civiles Graecorum anni lunares erant , fed recentioribus etiam , qui
bus ſolares anni a Romanis ad Graecos tran . fierunt . Primus is erat anni
menſis , in quem incidiffent Olympici ludi . Quinque diebus eorum certamina
abſolvebantur , inter quae curſus , quo, uno certatum eſt ad Olympia dein uſque
XVIII, primas tenebat . Neque. in Aelide folum , fed & in aliis Graeciae ur
bibus fumma cum populi frequentia ac faca. crorum caeremonia Olympici celebraba
ntur, donec v . ineunte reparatae falutis faeculo , jidem cum Pyticis. ſublati
fuerunt . , Pyticos primum inftituit Apollo , eofque jamdiu in-. termiffos,
confecto. Criſſenfi bello , Olympiade. XXXXVIH . Amphictyones revocarunt. Ii- .
dem Olympicorum inſtar pentaéterici erant ; neque ſecundis annis, aut quartis ,
ut Peta vius & Dodwellus, exiſtimarunt , ſed tertiis , hiſque exeuntibus
circa Elaphebalionis menfis finem , tum Delphis , tum in aliis Grae- : ciae
urbibus peragi confueverunt , Proxime poft Pythia Olympiade ſcilicet Lill.
inſtaura ta fuerunt Nemea , quorum origo reperitur a ſeptem Argivis ducibus ,
qui ad lenien dum defiderium pueruli Archemori a ſerpen te occiſi funebres
hoſcę agones CCCCLXXV. annis ante Olympiadem primam prope Ne meaeum nemus
inftituerunt . At Nemeadem illam , ex qua veluti cardine ceterae infe quentes
numerari coeperunt , in annum IV. Olympiadis LxxII . poft Marathoniam pu gnam
incidiffe fatis probabiliter Eduardus af firmat . Nemeades aeſtivae aliae,
aliae hibere nae , omnes vero trietericae fuerunt; eaeque alternis annis ita
peragebantur , ut hibernae quidem in medios ſecundos , aeſtivae vero in quartos
ineuntes Olympiadum annos in currerent . Cum Nemeis ludis quaedam erat
Iſthmicis a Theſeo , ut ferțur , conſtitutis fia militudo . Funebres erant ambo
, ambo trie terici , & qui utrolibet in certamine viciſſent apio
coronabantur , Ithmici quoque alii em rant aeſtivi, non tamen alii hiberni , ut
qui dem Dodyellus putabat , fed verni brabantur illi primis Olympiadum annis
Hea catombeone menſe , hi Thargelione , exeun te fere tertio Olympico anno .
Sic definivit Corſinius tempora quatuor illuſtrium Graea ciae ludorum ,
patefaciens obſcura & ignota vel ipſis chronologiae luminibus Scaligero
Petavio , & Dodwello , quorum auctoritate abreptus ipfe in primo Faſtorum
Atticorum libro Pythiades ſecundis Olympicis annis cona cefferat . Agoniſticis
hiſce Differtationibus , veluti faftigium operis , idem adjecit feriem
Hieronicarum alphabetico , ut dicitur , ordi ne diſpoſitam , & Dodwelliana
longe ube riorem accuratioremque . Nam feptuaginta. ſupra centum vitores
recenſuit , qui Dod weilum prorſus fugerant ; fonteſque indic cavit ( in quo
Dodwelli diligentia ſaepiffi , me deſiderabatur ) unde uniuſcujufque vin ctoris
nomen , aud patria , aut aetas , aut tertaminis genus , quo viciffet,
hauriebatur . Hoc opus vehementer adeo Auctori fuo pro batum erat , ut vir
modeftiffimus in eo quo daininodo gloriari videretur . Etenim , ut At rico
fcripfit Cicero , fua cuique Sponfa ,fuus quiqua 2007. Quoniam autein tumuin
his Agoniſticis Diſſertationibus , tum in Faltis ſcribendis faepe uſus eſt
Corſinius ſubſidio marmoreorum monumentorum , in quibus multae occurrunt notae
, quarum neque fa cilis, neque prompta fuit explicatio , fepara tum opus. a ſe
expectare putavit Graecarum antiquitatum ftudiofos , quo in opere non ſolum ex
marmoreis , fed etiam ex aereis Graecorum tabulis: varias eorum notas colli
geret , haſque explicaret atque illuſtraret . Quae dum animo verſaret ,
fcriptionique jam manum admoviffet , ecce in lucem prodit Scipionis Maffeii
liber de Graecorum figlis l.z pidariis, in quo trecenta fere vocum com pendia
ingeniofe: feliciterque enodantur.. Cum Eduardus ab amico librum accepiſſet ,
ei epi ſtolam fcripfit ( relata haec fuit in IV. vo lumen . diarii Litteratorum
. Florentiae editi ) in qua ſummas tribuit Maffejo laudes , quod primus ex
omnibus materiem hanc ſeorſim tractandam füfceperit ,, magnam in illam con
ferens.eruditionis copiam , & acre: prudenſ que judicium .. Non, propterea
tamen: ſpar tam , quam fibi ſumpſerat , ille deſeruit , quia , ut ait Auſonius,
is crat campus , in quo alius alio plura invenire poteft , nemo om. nia . Et
plura certe Corſinius invenit , cum mille fere notas , aut numerorum vocum que
compendia uno volumine colligere po tuerit & explicare illo ſuo acutiffimo
inge nio , cui inquirenti & contemplanti omnia occurrere ſe ſeque oftendere
videbantur . Ut vero delectatione aliqua alliceret adoleſcen tes , quibus
inſuavis fortaſſe & aſperior via deri poterat ſiglarum inveſtigatio ,
poftquam multa eruditiſſime praefatus effet de notarum origine , vi ,
utilitateque , opportune ſparſit in toto libro non pauca ad hiftoriam , geos
graphiam , chronologiam , ac mythologiam ſpectantia . Ex quibus aliiſque
diſciplinis ube riora etiam hauſit , ut ornaret Diſſertatio nes ſex , quas ,
abſoluta univerſa notarum ſerie , confecit, ut eſſent operis corollarium .
Explicant illae inſignes quaſdam Chriſtianac & profanae antiquitatis
inſcriptiones , ficque explicant , ut facile exiſtimari queat , eum qui non
comprehenderit rerum plurimarum ſci entiam , quique judicio certo & ſubtili
non fit praeditus , in his antiquitatis ftudiis ſatis callide verſari &
perite non poſſe . Inſcriptit Corfinius hoc ſuum opus : Norse Graecorum five
vocum & numerorum compendia , quae in gereis atque marmoreis Graecorum,
tabulis obſer vantur , dedicavitque Cardinali Quirinio , a quo pecuniam ad
illud ipſum evulgandum dono accepit . Etenim his temporibus haud illi magna res
erat, quae vix fatis efle vide batur ad vitam ſuſtentandam , neceſſarioſque. libros
emendos . Praepoſitus an MDCCXXXV. dialecticae ſcholae, nihil aliud annui
ſtipendii obtinuit nifi octingentos denarios . Hoc eſia fatum videtur
nobiliilimae. quidein diſcipli nae , ut pote quae per omnes diſciplinas ma: nat
ac funditur , ut qui illam profitentur me: diocribus afficiantur praemiis . Vel
ipſi Grae. ci , quamvis ellent aequi liberalium artium aeftimatores , minam ,
eſſe voluerunt inerce dem Dialecticorum. Coin.nodiori in ftatu res Corſinii
eſſe coeperunt cum traductus fuit (id accidit an. MDCCXLVI.) ad metaphyſi cam
atque ethicam docendam .. Tunc eniin ipfius ftipendium erat bis millenorum
& am plius denariorum , poſteaque illud ipſum ad quatuor. mille ducentos
quinquaginta uſque pervenit , cum proſperae. res multae confecutae fuiſſent .
Satis ſuperque id erat homi ni temperato ad vitam beatiſſimam ; videba turque
libi ſuperare Craffum divitiis . Quan tum vero ſorte ſua contentụs , quantiſque
a moris vinculis Academiae Piſanae obftrictus effet , ex eo conjici poteſt,
quod mortuo Lu dovico Muratorio Mutinenfis Ducis bibliothe cae praefecto in
illius locum fuccedere recu favit, quamvis liberaliſſime ipfius Ducis ver bis
invitaretur . Quo cognito ab Emmanue le Comite Richecourtio , qui Franciſci I.
Cae faris nomine res Etruriae adminiſtrabat, ipſe fingularibus verbis ei
gratias agendas cenſuit, eidemque prolixe de ſua non modo , fed & Cae aris
voluntate pollicitus eſt . Id non potuit Corfinio non fumme eſſe jucundum ;
utque viro de fe & de Sodalitate ſua bene ſemper merito gratum fe
oftenderet dedica vit illi Plutarchi opus de Placitis Philoſopho. tum a ſe
Latinum factum , vitaque Scripto ris , fcholiis , & diſſertationibus
ornatum . Cauſſam ſuſcipiendae novae interpretationis ei dem dederunt naevi
quidam , quibus maçı lantur Budaei , Xylandri , & Crụſerii honi num
ceteroquin doctiſſimorum interpretationes ; ſuſceptam vero ita perfecit , ut
ver bu pro verbo reddiderit , multaque etiam attulerit de fuo , quae funt
diverfo chara ctere notata , ne attenuata nimis diligentia perſpicuitati
officeret , & ne res ipfa omni Latinae orationis dignitate cultuque deſtitu
ta ſordeſceret . In limine operis Plutarchi vi tam ex illius aliorumque veterum
ſcriptis a ſe diligentiſſime colletam , & feriem philo ſophorum , quorum
placita a Plutarcho pro feruntur , aetatemque , in qua vixerunt , ex . poſuit .
Singulis vero operis capitibus brevia adjecit commentaria , quae aut mutilos
& hiulcos Plutarchi locos ſupplent , aut de pravatos emendant , aut
obſcuros atque per plexos , opportune allatis aliorum philoſo phorum ſententiis
, illuſtrant . Siquando au tem longioris eſſe orationis putavit Corſi nius
lucem aliquam afferre rebus obſcuriſſi mis , cum non Heraclitus ſolum , ſed
& quiſ que fere antiquitatis philofophorum , quo rum ſententias coarctavit
& peranguſte re ferſit Plutarchus , Exotélv8 cognomen me reatur , hujuſmodi
illuſtrationes ad finem li bri rejecit . Quo in loco voluit etiam recenfere
illuſtriores ſententias , quae propriae di cuntur recentiorum philoſophorum ,
cum ea rum tamen manifeſta appareant veſtigia in Plutarchi libro , quod
profecto ad veterum gioriam amplificandam plurimum valet . Ta les ſunt
attractionis leges , vireſque , ut di cuntur , centripeta & centrifuga,
Charteſia ni vortices , lunae phaſes , maculae , quod que haec fit terra
multarum urbium & mone tium , converfio folis , planetarum , fiderum que
certa quadam celeritate ac periodo cir ca axes ſuos , natura , coſtans motus ,
rever lioque cometarum , telluris motus , quodque ex eo cauſſa ' maris aelus
repetenda fit jegew’ewe explicatio , aliaque hujuſmodi mul ta tum ad corporum ,
tum ad animi na turam pertinentia . Profecto nihil dulcius erat Corfinio quam
per abdita remotioris antiqui• tatis permeare , & inde nova & inexpecta
ta deferre , quae hominibus contemplanda bono in lumine exhiberet . Nam , ut
Ari ſtoteles inquit, fuo quiſque artifex ftudio atque opera impenſius
delectatur . Cum igi tur accepiffet ab Antonio Franciſco Gorio amiciſſimo ſuo
graphidem eximii cujųſdam anaglyphi , quod Romae viſitur in Aedibus Farneſianis
, non magnopere hortandus fuit, ut in illo exponendo elaboraret . Exhibet hoc
ſuperiori in parte Herculem cuin Eų. ropa , Hebe , Satyriſque quieri ,
voluptati que poſt exantlatos labores indulgentem, in inferiori vero tripodem
Apollini ſacrum , Ar givae Junonis Sacerdotem , atque alatam Virginem , &
Herculem demum ipſum ſe ſe expiantem , ut purus ad Deorum conci lium afcenderet
. Hinc & illinc anaglyphum ornant binae columnae cum Graeca inſcrie ptione,
quae multis verſuum decadibus Her culis geſta commemorat : in ſupremo tan dein
anaglyphi loco octodecim hexametra car mina exculpta ſunt, quibus Herculis
labores & certamina declarantur . Praeclariſſimi hujus monumenti
explicationem Eduardus libello quem ad Scipionem Maffejum inſtituit, com plexus
eſt ; ex eoque judicari poteft , vehe mens afiiduumque ftudium ipfi copiam eru
ditionis dediſſe , naturam vero tribuiſſe in genium ad conjiciendum
divinandumque fa ctum . Et fane divinationis cujuſdam vide illum potuiſſe
laceras ac depravatas multorum verſuum lacinias feliciſſime corri gere atque
ſupplere. Magnae antiquitatis ar gumentum praebere ſuſpicatus eſt Doricam
dialectum , qua exarata eſt inſcriptio , ne- ! que ipfe affirmare. dubitat opus
paullo poſt Alexandri tempora' , antequam Q. Flaminius priſtinam Graecis
libertatem redderet, perfe &um fuiſſe . Sed aliter alii ſentiunt ( 1) qui
bus nunc plerique affentiri videntur . Hoc ipſo ferme tempore Corſinius ejuſdem
Gorii poſtulationibus Diſſertationes quatuor con ceſſit , quae impreſſae funt
ab illo in vi. vo lumine Symbolarum litterariarum . Extricat pri ma epigraphen
ſculptam in labro interiori cujuſdam crateris ahenei Mithridatis Eupa toris,
qui crater in muſeo Capitolino, Vide Winkelman, Monumenti antichi inediti Trel.
Prelim . p . LXXIX . Idem quaedam alia notat in quibus deceptum fuiſſe
Corfinium arbitratur p. 39. (2 ) Sic interpretatur Corfinius mire involutam in.
ſcriptionem : Regis Mithridatis Eupatoris Regni anno 54. Eupatoriftts Gymnaſii
( hoc eft civibus Eupatoriae , qui in Gymnafio certarunt ) ſenectutem conſeival
, quod erat ad laudem vini , quo plenus crater vi &ori con cedebatur . Alii
aliter interpretanda extrema pracſertim inſcriptionis verba exiſtimarunt ,
quorum fententiam plerique nunc fequuntur affervatur . Secunda patefacit
obſcuros igno ratoſque dies natalem & fupremum Plato nis , qua occafione
aliorum etiam virorum illuſtrium Archytae , Philolai, Iſocratis , Ly fiae,
Dionis , & Socratis aetates & tempora perſequitur . Explicat tertia
adverſam par tem numiſmatis Antonini Caeſaris , in qua Prometheus humanum
corpus ex luto fin gens , & Pallas capiti mentem , papilionis imagine
expreſſam , inſerens confpiciuntur . Curioſa ſunt quae excogitavit Corfinius ,
ut perſuaderet hominibus morem repraeſentandi humanam mentem ſub papilionis
imagine non ex miris hujus volucris affectionibus & natura , non ex ipſa animi
immortalitate , circuitu , aut tranſmigratione, non ex Chal daicae , Graecaeque
fapientiae fontibus , non ex arcanis amoris myſteriis, fed ex fola ar tificum
imperitia profluxiſſe . Cum enim unum idemque nomen pſyches papilionem &
ani nium deſignet, rudis artifex , qui primus ani mum exprimendum ſuſcepit ,
non putavit hu jus ideam poffe melius excitari , quam obje eta imagine illius
rei , quacum is commune nomen habet . Quarta Diſſertatio demum in 106 EDUARDUS
eo verſatur , ut oftendat mentitam & falfam effe Latinam quamdam
inſcriptionem , quae Piſis vilitur in Scortianis aedibus . Summi labores , quos
Corſinius impendit in conficien dis , quos retulimus , libris , magna compen
ſati fuerunt gloria , ut unus e multis , qui illuſtrandae Graecae praefertim
antiquitati ſe ſe dederunt , excellere judicaretur . Cujus de praeſtanti in hoc
rerum genere doctrina tan ta etiam judicia fecit Scipio Maffejus , quan ta de
nullo ; cujus teſtimonii auctoritas ma xima reputari debet non folum quod ab
hox mine prudentiſſimo proficifcitur , fed etiam quia figulus invidens figulo ,
faber fabro , ut eſt Heſiodi dictum , alterius laudi & gloriae | minime
favere ſoleat . Ex mutua opinione doctrinae , fimilitudineque ftudiorum orta
eft inter cos jucundiffima amicitia , cujus tanta vis fuit , ut Corſinius
aeſtate an. MDCCLI. quamvis non bene valens, Veronam venerit aliquot menſes
commoraturus apud amicum . Quo tempore inter eos fuit familiariſſima focietas ,
& communicatio ftudiorum . Dono accepit Corſinius a Maffejo tercentum fere
Graecas inſcriptiones ( has Edmundus Chici1 shullius collegerat, & fecundae
Afiaticarum antiquitatum parti reſervaverat ) ea conditio ; ne , ut eas Latine
redderet atque illuſtraret , Satisfecit ille aliqua ex parte promiffo ſuo , cum
anno inſequenti edidiſſet eas inſcriptio . nes , quae ad Athenas ſpectabant ;
eaſdem que iterum cum commentariis edidit quam driennio poft , ut eſſent
ornamento quarto Faftorum volumini . Nono menſe poftquam in Etruriam rediit
Eduardus , moritur Ale- ' xander Politus , quocum ille ita vixit , uit. quem
pauci ferre poterant propter difficilli mam naturam , hujus fine offenfione ad
fum . mam fenectutem retinuerit benevolentiam . Mortuo autem Polito neque
inquirendum neque conſultandum fuit quis illi ſucceſſor in Academia Piſana
daretur , cum omnium oculi ftatim in Corſinium conjecti fuiſſent . Ita hic
exeuntė anno MDCCLII . poftquam octodecim fere annos philoſophiam tradidif ſet
, munus docendi humaniores litteras li bentiſſimo animo ſuſcepit . Initio
propoſuit fibi (nam muneris ratio , & adolefcentium utilitas ab eo
poftulabant, ut cum Graecis Latina conjungeret ) explanare Plutarchi parallelas
Graecorum , Romanorumque vitas , ut inde occaſionem ſumeret utriuſque populi
leges inter ſe conferendi . Memoriter dicebat e ſuperiori loco , quod ad
praeceptoris & ſcholae dignitatem plurimum tum conferre putabatur ; &
quae tradebat inſignita e rant luminibus ingenii , & conſperſa erudi tionis
ſententiarumque flore . Genus dicen di erat quiétum & lene, purum &
elegans, ut maxime teneret eos qui audiebant , & non folum delectaret, fed
etiam fine fatieta te delectaret. Nulli diſcipulorum aditum ſermonem ,
congreſſumque fuum denegabat , quin immo eos bis in hebdomada domum ſuam
invitabat , ut in ftudiis exerceret Grae carum , Romanarumque antiquitatum .
Domi etiam tradebat metaphyſicam , quo onere non placuit Academiae
Moderatoribus illum libe rare niſi anno MDCCLIV. quo quidem tem pore Venetiis
evulgavit ſuas Inſtitutiones Me taphyficas. In his adornandis illud unum pro
pofitum fibi fuit , ut in animis adoleſcentium rectas de animae immortalitate ,
arbitrii li bertate , Dei exiſtentia , ceteriſque naturalis theologiae
dogmatibus notiones infereret, quibus in gravioribus aliis diſciplinis veluti
praeſidiis uti pofſent , quibuſque caverent a peſte quadam hominum non tam
religioni , quam reipublicae infeſta , quae rationem per vertendo ubique
venenatas opiniones diffe minare non veretur . Subaccuſent aliqui, fi lubet,
Corſinium , quod nimis, parcus fuerit in pertractandis quibuſdam rebus , quae in
ca , in qua nunc ſumus , luce ignorari mi nime poſſe videntur ; omnes profecto
uno ore fateri debent tales effe hafce Inſtitutio nes , ut cupidi metaphyſicae
nullibi poffint refrigerari ſalubrius atque jucundius. Poftre mum hoc operum
fuit , quae Corfinius Phi loſophiae dicavit , nifi dicere velimus , eti am cum
minime videretur tum maxime ila lum philofophari conſueviſſe, Quod declarant
ejus Latinae orationes ad Academicos Piſanos refertae Philoſophorum fententiis
, faluberri ma praecepta , quibus adoleſcentes ad omne officii munus inftruebat
, doctiflimoruin Phi loſophorum familiaritates , quibus ſemper flo ruit , &
ars illa diſtinguendi vera a falſis , colligendi ſparſa , eaque inter ſe
conferendi, diligenter examinandi omnium rerum verbocum rumque pondera,
nihilque afferendi fine evi denti ratione , aut faltein probabili conjectu ra
in qua arte quantum inter omnes un Aus excelleret , praeſertim oftendebat , in
vetuftatis monumenta inquireret . Hujus inquiſitionis uber fane fructus fuit
Diſſertatia illa de Minniſari, aliorumque. Armeniae Regim nummis , Et.
Arſacidarum epocha , quam idem in lucem extulit an . MDCCLIV. Difficulta tis
maximae fuit oftendere Minniſari num mum , quem praecipue illuſtrandum Corſi
nius ſuſceperat , ad illum fpectare Maniſarum Armeniae & Meſopotamiae.
Regem , de quo Dio Caffius in libro Romanae hiftoriae LXVIII. mentionem fecit,
& Arſacidarum epocham uon in Parthiae. folum , fed etiam in: Arme niae
regum nummis inſcriptam fuiffe , eam . que ab anno Urbis conditae Dxxv. initium
duxiſſe . Antea quidem doctiſſimorum viro rum Uſſerii, Petavii , Noriſii ,
Spanhemii , Vaillantii, & Froelichij fententia fuerat , ſe rius.
Arſacidarum imperium incepiſſe , adver ſus quam ſententiam Eduardus ita
pugnavit, ut veritas non minus quam modeſtia eluxe rit . Quoniam vero in antiquitatis
ftudio multae res inter fe ita nexae & jugatae funt , ut , inventa una ,
aliae , quae prius latebant , ſe ſe contemplandas offerant, ean ob rem
Corfinius in Minniſari regis num mo explicando varia ſcriptorum loca corri gere
& ſupplere , verum Darii genus expo nere , Tiridatem alterum , Arfamem ,
aliof que Armeniae Reges Vaillantio prorſus in cognitos proferre potuit . Res
in hac Differ tatione contentae , non fine laude oppugnatae fuerunt a Jeſuitis
Froelichio & Zacharia , reſponditque ad ea , quae objecta fuerunt , ſine
iracundia Corfinius . Eteniin veritatis unice amans alios a fe diffentire haud
ini quo ferebat animo, ſemperque deteſtatus eſt eos , qui ſuis ſententiis quaſi
addicti & con . fecrati etiam ea , quae plane probare non poſſent ,
conſtantiae, non veritatis cauſſa de. fenderent . Propugnationem quoque
Corſinii libello (*) ſuſcepit ejus convictor & fodalis (*) Huic titulus eſt
. Lettere critiche di un Pafton r Arcade ad un Accademico Erruſco nelle quali
ſi ſciola gono le difficoltà fane contro un'opera del Reverendiſſia mo Padre
Corſini nel Tom . IX. della Storia leveraria of lialia &e, in Pisa 1957. in
Carolus Antoniolius , qui quidem non me . diocria adjumenta illi praebuit , cum
pluri mum valeret in omni genere ftudiorum quae ipſe excolebat . Magni quoque
Acade miae fuit Antoniolii opera in Graecis littea ris tradendis toto illo
ſexennio , quo Corfi nius , coactus capeſſere, ſummum Sodalitatis fuae
magiſtratum , bona Principis cum ve nia , & fine ulla ſtipendiorum jactura
Piſis abfuit . Hic Romam venit menſe. Aprili an. MDCCLIV, ardens. defiderio
indicia veteris memoriae , quibus mirabiliter urbs. illa abun dat ( quacumque
enim quis ingreditur in aliquam hiſtoriam veftigium ponit ) cogno ſcendi . Sed
raro ei poteſtas dabatur huic ſuo . deſiderio, fatisfaciendi, cum podagrae
dolori bus ſaepiſſime vexaretur , & munus ſuum diligentiſſime exequi vellet
. Quanta vero pru dentia ac dexteritate fuerit in tractandis ne. gotiis ,
quanta aequitate in conſtituendis , temperandiſque, ſi res pofcebat,
conſtitutis jam legibus , quanta humanitate erga omnes , quantaque vigilantia
ac providentia in con fulendo rebus. praeſentibus , praecavendoque futuras ,
fatis praedicari non poteft . Cum autem nihil ſine aliorum conſilio agere ei
mos eſſet , & facilitate ſumma uteretur in füos adjutores procuratoreſque ,
inde norza nulli materiem ſumpſerunt falſae criminatio nis , quod ad aliorum
magis quam ad ſuun arbitrium res Familiae adminiftraret . Omnino totum fe
tradidit Eduardus Sodalitati , to tamque fic rexit , ut oblitus commodorum
ſuorum omnibus proſpexerit . Non eſt credi bile quanto animi dolore angeretur ,
fi ali quis ſuorum in crimen vocabatur . Horrebar enim homo innocentiſſimus vel
ipfam pecca ti ſuſpicionem . Sed non propterea fontibus iraſcebatur, hofque
clementia magis atque manſuetudine , quam animadverſione & ca ftigatione ad
frugem revocare ſtudebat . Cum vero feveritatem , fine qua reſpublica adıni
niftrari non poteſt , adhibere cogebatur, similis, ut praeclare admonet Cicero
, legum erat , quae ad puniendum non iracundia , fed aequitate ducuntur . In
his occupationi bus muneris ſui, ne plane ceſſäre a fcriben do videretur ,
extare voluit explicationem đuarum Graecarum inſcriptionum , quae mus ſeum
ornant Bernardi Nanii Veneti Senatoris.quam feliciter id praeftiterit ,
perſcrutata prius litterarum priſcarum , quibus illae con fcriptae ſunt , forma
atque vi , facile judica bunt ii , qui ſunt harum deliciarum amato Tes .
Tentaverat eamdem rem Franciſcus Za nettus, ſed longiſſime aberravit a vero
ejus interpretatio . Ipſe Eduardus cum Anconae effet ineunte anno MDCCLVI.
eoque prae ſente cum multis aliis detecta fuiſſent atque agnita corpora
Sanctorum Cyriaci , Marcelli ni & Liberii, quos ſingulari obfequio ea dem
civitas venerațur, incitatus fuit, ut ali quid laboris impertiret illorum
Sanctorum illuſtrandae hiſtoriae , definiendoque praeſer tim tempori , quo
tranſata eorumdem cor pora fuerunt in eum , ubi nunc jacent , lo cum , &
quo Anconae coli coeperunt . Haec Corfinius , edito commentariolo , accidiffe -
ftendit exeunte faeculo XI. , & ex ipfis an tiquitatis monumentis quibus
ſententiam ſuam confirmavit , quatuor Anconitanorum Epiſcoporum nomina in lucem
protulit , quaç uſque ad id tempus fuerant incognita , Per pauca in hoc
commentariolo attigit de S, Liberio , quod ejus hiſtoriam involutam tenebris
& fabulis exiſtimabat , Mox cum ei aliquid luminis affulfiſſet , &
monumentorum ope , & mirabili illa ſua conjiciendi arte pa tefacere potuit
Liberium fuiſſe unum ex fo ciis S. Gaudentii Abfarenſis Epiſcopi , qui circiter
an. MxXxx. Anconam venit , fo litariam vitam acturus in ſuburbano mona ſterio
Portus Novi . Harum rerum inventio multis laudibus. celebrata fuit a
Scriptoribus annalium Camaldulenſium (*) : pergrata quo que fuit. Benedicto
XIV. pro ejus. fingulari ftudio in Anconitanam Ecclefiam . Hic cum ſaepe ad
congreffum colloquiumque ſuum invitaret Eduardum , quod ejus ſummum in genium ,
fuaviffimos. mores , atque eximiam probitatem & nofſet & diligeret ,
ſaepe quo que ipſum hortabatur ,, ut ea pergeret man dare litteris , quae
abdita Chriſtianae anti quitatis patefacerent . Sed fuerunt juftae ca uffae
quare. Corſinius amantiffimis. Pontificis M. conſiliis minime obtemperavit ;
& quid quid fubciſivorum temporum incurrebat, quae perire non patiebatur,
libentiffime concede-. ( * Vid . Tom . III ., bat ſuis priſtinis ftudiis .
Ruſticabar cum eo in Tuſculano, quando epiſtolam ſcripſit ad Paullum Mariam
Paciaudium , in qua plura de Gotarzis eximio nummo , ejuſque , Bar danis ,
& Artabani Parthiae Regum hiſtoria perſecutus eſt, & pro jure noftrae
amicitiae ab ipſo poftulabam , ut in otio , quod raro da batur , &
peroptato illi dabatur, ceffaret a libris & a ftilo . Verum cuin is eſſet
ut fi ne his ftudiis vitam inſuavem duceret, di cere folebat hujuſmodi
ſcriptiones non pre mere , ſed relaxare animum . Et relaxatione certę aliqua
ille indigebat , cui grave adeo erat , quod multi appetunt , ceteros regendi
munus , ut onus Aetna majus ſibi ſụſtinere videretur . Poterat quidein illi eſſe
lovaniens to recordatio multorum benefactorum , inas ter quae maximum illud
reputari debet quod eo ſexennio , quo ad Sodalitatis gum . bernaculum ſedit ,
viginti domus , five cole legia conſtituta ſunt . Interim advenit tem pus , quo
magiſtratu fe abdicare , & extre mos auctoritatis fuae fructus capere debe
bat in provehendo digno viro , qui fibi fuc cederet . Verum minime illi : contigit
, ut funt ancipites variique caſus comitiorum , quem optabat, exitus. Peractis
comitiis, fine mora rediit ad Academiam Piſanam & ad il lamºquietam in
rerum contemplatione & co gnitione maxime poſitam degendae vitae rae
tionem, qua qui frueretur, negabat ei aliquid deeffe ad beatė vivenduin . Liber
de Praefe . ctis Urbis ei erat in manibus ; Graecas in fcriptiones in Aſia repertas
, quas , ut ſupra retulimus , a Scipione Maffejo dono accepe rat , quafque
jampridem Latinas fecerat, co pioſis commentariis explicabat ; aderat diſci
pulis ſuis ; veniebat frequens in Academiam , afferebat res multum & diu
cogitatas, facie batque fibi audientiam hominis erudita, com pta & mitis
oratio . Idem efflagitatu & coae tu amicorum inftituta. hoc tempore opera
abrupit , ut explicationem lucubraret cujuf dam nummi recens in Auſtria reperti
, in quo erat nomen & imago Sulpiciae Dryan tillae Auguſtae. Conjecit ille
feminam hanc libertam fuiſſe, libertatémque accepiffe a Sul picio quodam , ab
eoque in Sulpiciam ģen tem receptam ; nupfiffe demum Carinó fcea leftiffimo
Imperatori. Haec porro incerta. Illud unuin ſine ulla dubitatione colligi pof fe
videtur ex nummi fabrica, characterum forma, feminaeque ornatu , illum ipſum
num mum cuſum fuiſſe inter Elagabali & Diocle tiani imperium , proptereaque
Dryantillam ad aliquem Imperatorum , qui illo intervallo re gnarunt, pertinere.
Neque his contentus Edu ardus voluit etiam excutere hiſtoricorum & rei
nummariae interpretum mire inter fe dif ſidentes opiniones de Aureliani ac
Vaballa thi imperio atque aetate , ac poftremo ſuam ſententiam proferre . Fuit
haec , Aurelianum exeunte Julio , vel ineunte Auguſto anno CCLXX. imperium
ſuſcepiſſe , eaque multis & gravibus confirmatur argumentis . Ad ex vero
diluenda , quae contra dici poterant ex illorum ſententia , qui praeſertim niti
vide bantur lege quadam data a Claudio VII. Kal. Novembris Antiochiano &
Orfito Con ſulibus , ut ſerius Aurelianum inchoaffe im perium perſuaderent,
diſtinguit Conſules or dinarios a ſuffectis . Hac autem conſtabilita
diſtinctione , quae maxime apta erat non fo lum ad id , quod requirebat , ſed
etiam ad expediendos alios , quos vel ipſe Scaliger in diffolubiles in
Chronologia exiſtimaverat now dos , concludit eamdem legem editam fuiffe anno
cclxix. vel CCLXVIII. quando An tiochianus & Orfitus ſuffecti Conſules
erant, minime vero anno cclxx. iiſdem Confuli bus ordinariis . Nec minor difficultas
erat o ſtendere , qui fieri potuerit , ut Aurelianus ad vil. Imperii annum
perveniffe dicatur , & explicare locum Euſebii , qui tradit in ejuſdem
tempora incidiffe in . Antiochenam Synodum : exploratnm eft enim hanc Sya nodum
anno cclxix. incoeptam & abſolu tam fuiſſe . Feliciter haec praeftitit
Corſi nius , cum probaſſet Aurelianum anno & ultra antequam a legionibus
poft mortem Claudii Imperator fieret , ab ipfo Claudio deſtinatum ſibi fuiſſe
ſucceſſoreni , adeoque ampla poteſtate donatum ut ab hoc tema pore nonnulli
ejus Imperii initium ſumere potuerint . Quae vero de Vaballatho diſream ruit
Corſinius haec ferme ſunt . Illum Ze nobia procreavit ex Athena priori viro ,
ejuf demque nomine ab anno ccLXXVI. uſque dum Claudius in Gothicum bellum uni ce
intentus vixit , Orientis imperium te H4 ut nuit . Ex quo factum eſt , ut quae
hoc tem pore cuſa funt Vaballathi numiſmata , Impe. satorem Caefarem Auguftum
illum nominent . Poftquam vero ille deſciviſſet a matre , Aureliano adhaereret,
huic quidem conjun octus in nummis repraefentari voluit, minime vero
paludamento , radiata corona , fplendi doque Augufti nomine decoratus, ſolo Im
peratoris contentus . Praetereo alia multa Scitu digniſſima in hac
Diſſertatione conten ta , ne , cum nimis longus in recenfendis ſcriptis
operibus fuerim , videar oblitus con ſuetudinis & inſtituti mei . Hujus
libelli ( cil ra liberatus Corfinius totus in eo fuit, ut ab Solveret ſeriem
Praefectorum Urbis ab Urbe con dita ad annum afque MCCCLIII. five a Chri fto
nato DC. Etenim poſteriora tempora mi nime inquirenda putavit , quibus ,
penitus fere exſtincto Urbanae Praefecturae fplendo re ac dignitate , nonniſi
tenue nomen , ac leviſſima priſtinae majeſtatis umbra ſuperfuit ; ex quo
fiebat, ut nihil inde lucis facra & profana ſperare poffet hiſtoria , cum
contra uberrimam fplendidiffimamque utraque acci. peret ex veterum Praefectorum
ferie , horumque aetate rite conſtituta . Ut vero non utilitate ſolum , ſed
etiam jucunditate lecto res invitaret Corſinius , operi varia opportu ne admifcuit
, quae marmora & ſcriptores , quorum teftimoniis ubique fere utitur , cor
rigunt & illuſtrant , interpretumque falſas opiniones atque errores
emendant . Non ego ſum neſcius multos anteceſſiſſe Corſinium in hujuſmodi
pertractando argumento ; ex qui bus omnibus , ac praefertim Jacobo Gotho fredo
ac Tillemontio plurima in rem ſuam tranftulit . Sed ii exiguis finibus operam
fuam continuerunt , fi unum excipias Feli cem Contelorium , qui contextam a
Panvi . nio Praefectorum ſeriem ad annum uſque MDCXXXI. traduxit . Tale tamen
non fuit Contelorii opus , quin eadem de re aliquid politius , copiofius ,
perfectiuſque proferri a Corſinio potuerit . Et protuliffe certe ipſum oportet
, cum magna fuorum laborum prac conia ab intelligentibus viris reportaverit . Mi
rari hi tantummodo viſi ſunt quod aut is in gnoraverit hac ipſa in re plurimum
quoque elaboraſſe Almeloveenium , aut quod hujus fcripta conſulere
praetermiſerit. Id profecto & praeſtitiſfet abundantius & copiofius pro
poſitae fibi rei ſatisfacere potuiſſet , neque poftea ventofiffimi homines
triftem fuftinuif fent notam calumniatorum , qui nullo in pre tio ob pauca
quaedam a Corſinio praetermif ſa hujus opus habendum inflatis buccis
clamitarunt . Ne hi verbofis fibi famam ad quirerent ſtrophis vel apud imperitam
mul titudinem, factum eſt diligentia Cajetani Mari nii, qui librum Bononiae an.
MDCCLXXII. edidit, quo non folum eorum obftitit injuriis, verum etiam nova a ſe
inſcriptionum ope detecta Praefectorum Urbis nomina in lucem protulit . Sed ad
Corſinium revertor , qui dum fine intermiſſione obſequebatur ftudiis ſuis &
adoleſcentium utilitati, oblitus vide batur fe jam fenem factum ( quando enim
typis mandavit librum de Praefectis Urbanis ſexageſimum primum aetatis annum
agebat ) & infirma aegraque valetudine effe . Sed ac Hujus eſt inſcriptio :
Difefa per la ſerie de' Pree fetti di Roma del Ch . P. Corfini contro la
cenſura farie . le nelle offervazioni ſul Giornale Piſano , in cui le della
Serie si suppliſce anche in affai luoghi e le emenda . In Bon logna e S.
Tommaſo d'Aquino in 4. Vide Pilanas Ephcm meridcs vol. VIII. p. 179 eidit
miſerabilis caſus , qui repente ipſi onga nem ſpem non folum litteris , ſed
etiam na : turae vivendi praecidit . Erat haec conſuetu . do Academiae Piſanae,
ut qui humaniores lite teras profitebantur , Kalendis Novembris , quo tempore
inftaurari ftudia folebant, Latinam om rationem haberent ad vehementius
inflamman dam cupidam doctrinarum juventutem . Di cebat eo ipſo die Eduardus (
vertebat tunc annus tertius fupra fexageſimum hujus fae tuli ) de viris , qui
& ſcriptis editis , in ventiſque rebus in Academia maxime florue runt ,
eaque erat oratio , ut nunquam is di xiſſe melius judicaretur . Cum eo
pervenirſet, ut exultaret in immenſo Galilaei laudum campo , repente apoplexis
ipſum perculit , ac ſemivivum reliquit . Dolore hujus caſus o ſtenſum eft
quantum ille Academiae eſſet ac ceptus . Aegre domum deductus , ibi quatri duo
cum morte conflictatus eſt. Quinto die, multis adhibitis remediis , levari
coepit , ac praeter ſpem paullatim convaluit . Ut arden ter deſideraret
priſtinas recuperare vires , efficiebat ille fuus ſingularis amor in Aca demiam
, cui majus ſe non poſſe munus afferre videbat , quam fi inſtitutum juſſu Prin
cipis biennio fere ante opus de ejuſdem Academiae ortu , progreſſu ac vicibus
ad umbilicum perduceret . Plurima collegerat at que vulgaverat ad hanc
hiſtoriam pertinen tia vir diligentiſſimus Stephanus Maria Fa bruccius Juris
civilis in eadem Academia do ctor , quae quidem ampla & bella materies effe
poterant ad novum aedificandum opus . Hoc igitur ſubſidio inſtructus Eduardus ,
ala cer ſe ſe ad rem accinxit . Et primo qui dem illuftrium Italicorum
Gymnafiorum ori ginem ſubtexuit , diſſerenfque quatuor prio ribus capitibus de
prima Gymnaſii Piſani in- : ſtitutione, neque ab xi. neque a xiv. Chris fti
faeculo , ut multi ſcripſerunt , fed ab ine unte XIII. vel exeunte xii . illam
repeten dam effe exiſtimavit . Ex hoc tempore ad annum uſque MCCCXXXIX. , quo
anno Fa bruccius contendit coepiſſe Academiam Piſa nam , hanc fi nullam dicere
nolumus , mi nimain certe fuiſſe oportet . Conſecutae des inceps yices multae ,
ut ipſa modo langues ſcere , modo ad interitum properare , vires vitamque modo
recuperare , ac faepe etiam veluti extorris ſedem mutare viſa fuerit , Quae
omnia octo conſeqılentibus capitibus perſecutus eft Eduardus . Cum vero Acade
miae res , imperante Coſmo I. ceteriſque.non solum Mediceis, sed etiam
Lotharingis Principibus , feliciflime proceſſiſſent , quibus ab his beneficiis,
ſplendore atque gloria aucta, quibuſque gubernata legibus consuetudinibusque,
variis interdum pro temporum varietate, exposuit in quatuordecim capitibus ,
quo rum nonnulla adumbrata magis quam de fçripta videntur . Haec omnia primam
ope ris partem conficere debebant , cum refer vafſet alteram, quam tamen minime
attigit, Doctorum vitis. Dum haec scripta legebam videbatur mihi pofſe ab
Auctore defiderari major rerum copia , magiſque apta ac preſ fa oratio. Inest
quidem in omnibus Corsinii scriptis luxuries quaedam , quae , ut in herbis
ruſtici ſolent , depaſcenda erat; quod fi eft vitium in omni oratione , maximum
tamen eſt in hiſtoria , in qua pura & illu fțris brevitas expetitur . Eodem
tempore, quo Eduardus in Academiae historiam incumbebat, ne plane superioris
aetatis Audia de servisse videretur, epistolam fcripfit ad ami cum &
collegam fuum Franciſcum Albi zium , in qua de Auſonii Burdigalensi consulatu
egit, Desperaverant vel ipsi chronologiae Patres Panvinius & Pagius,
computationem quamdam annorum ah. Auſonio factam in e pigrammate, ad Proculum ,
in quo, ab Urbe condita ad consulatum suum CXVIII. an nos enumeravit,
conciliari posse, cum Varroniana epocha , ideoque, novam excogitarunt epocham
XIII. annis Varroniana pofte riorem , qua non solum Ausonium, sed etiam
Arnobium usos fuisse scripserunt. Horum aliorumque Auſonii interpretum errorem
ut corrigeret Eduardus, probare debuit. Auſonium non Romanum, modo, fed &
Bur digalenſem geffiffe consulatum, & Romanorum & Burdigalenfium Consulum
fastos conscripsisse . Qua distinctione constabilita , facile fuit oftendere
eumdem Aufonium in ea pigrammate , quod ad Heſperium filium ini fit cum Romanis
faſtis, de Romano, a ſe ges: ſto consulatu, in epigrammate autem illo, quod est
ad Proculum, de patrio, municipali, quinquennali (etenim in municipis omnibus
majores magiſtratus quinquennales eſſe ſolebant) de Burdigalenſi nimirum con. ſulatu
locutum fuisse. Hanc epistolam secuata est altera ad Joannem Chrysostomum Trom
. bellium Canonicum Regularem , in qua do nummo quodam ab Athenienſibus Livia
Augustae dicato, illiuſque aetate differens, feminam illam non ſupremis tabulis
, ſed matrimonii jure a marito nomen Auguſtae accepiſſe pluribus monumentis
comprobat. Quae quidem aliaque ex abditiſſima antiqui. tate deprompta , quae
fparfit Corfinius in hac epiſtola , ut jucunda lectoribus , ita iif dem plena
moeroris fore arbitror , quae in extrema pagina ejuſdem epifolae Trombel lius
adnotavit. Scribit enim ille : Dum extre mam hujus epiſtolae partem edimus ,
monemur , eodem fere tempore , quo Brixiae egregius Maza zuchellius , inclytum
Corfinium noftrum Pisis apoplexi repente ereptum . Eheu litterae aflicłae ! o
amicos incomparabiles ! o annum vere calami 10fum & peffimum ! Dies , quo
illum apople xis iterum invafit , fuit v. ante Kal. De cemb. anno MDCCLXV. poft
quem caſum tribus ferme diebus vixit fine ſenſu , Sepultanta tus eft in Aede S.
Euphraſiae totius Acade miae luctu , quae hanc calamitatem acerbif fime doluit
, doletque adhuc reminiſcens ſe orbatam homine, in quo plurimae erant lit terae
eaeque interiores , divinum ingenium , ac induſtria fumma ; fruebatur vero
nominis celebritate, ut hac fola muneris fui fplendorem tueri potuiſſet. Atque
haec vi tae decorabat dignitas & integritas . Quan tả gravitas mixta
comitati in yultu & moribus ! quantum pondus in verbis ! ut nihil
inconſideratum exibat ex ore ! quam diligen ter inquirebat in fè ſe, atque ipſe
ſe ſe ob Servabat I Oinnino tantus erat in ipso ordo, conſtantia, &
moderatio dictorum omnium atque factorum , ut probitatem & religio nem prae
se ferret , & ad omne virtutis de cits natus videretur. Quidquid come
loquens, & omnia dulcia dicens mirabiliter ad se diligendum omnium ani mos
alliciebat; si vero in familiari sermo ne a quopiam dissentiret , contentiones
disputationesque vitabat, quod non tam na turae quam virtutis erat. Etenim
iracun diae aculeos aliquando sentiebat, sed hos perpetuus cupiditatum domitor
frangebat, pla neque occultabat . Secum ipſe vivens animi triftitiam frequenter
patiebatur , praeſertim si contemplaretur misera, in quae incidimus, tempora,
quibus corrumpere, & corrumpi saeculum vocatur. Quod vero nonnulli per
verſe adeo abuterentur philofophia, ac prae ſertim metaphyſica , ut ea animos a
religio ne avocarent , tanto illum perfundebat horrore , ut vehementer
poenitere eum non nunquam videretur industriae suae , quam in erudienda
juventute ad recentiorum philoſo phorum dogmata inſumpſerat . Quae quidem poenitentia
injurioſa mihi videtur; omnium artium parenti philosophiae, quasi ejus culpa,
quae deflebat mala Eduardus, accidif ſent. Etenim ſunt unicuique ſcientiae :
certi fines ac termini ab omnium rerum modera tore Deo constituti, quos qui
tranfilit, nae ille devius in praecipitem locum ruat necese est . Sed ad
Corfinium revertor, de cujus laudibus non eft tacendum ſummae illum bonitati
ingenuitatique ſummam dexterita tem , ſi oportuiſſet, conjűxisse. Liberalis minimeque
cupidus pecuniae hanc facile a se extorqueri patiebatur. Virorum litteris illus
ftrium amicitias ftudiofillime coluit, amavitque in primis Trombellium &
Paciaudium , quo rum mentionem fupra fecimus, quorumque conſuetudinis magnum
cepit fructum eo prae sertim tempore, quo Romae fuit. Dolui in pſum
combufliffe, quas ab amicis accipere solebat, epistolas , quia ſciebam in iis
erudita multa contineri: eae quidem mihi non me diocri subsidio futurae
fuiſſent huic explican dae vitae . De qua fatis erit dictum , fi hoc unum addam
, eumdem ineditas reliquiffe bi nas Dissertationes de S. Petro Igneo , & B.
Joanne delle Celle; librum de civitatibus, quarum mentio sit in graecis nummis
, ſex que Latinas orationes habitas in Academia Piſana , ex quibus lenitas ejus
fine nervis cognoſci potest. Opere: “Instıutiones philosophicae, ac Mathemaricae
ad ufum Scholarum Piarum : Tomus I. Florentiae typis Bernardi Paperini,
continens physicam generalem, continens libros de coelo Es mundo, continens
tractarum de anima, E metaphysicam
continens ethicam vel moralem continens institutiones mathematicas
Editae iterum fucrunt hae institutiones in V. mos diſtributae Bononiac ex ty
pograghia Laclii a Vulpe cum hoc titulo Cl. Reg: Scholarum Piarum, & in
Pisana Academia Philosophiae Professoris Institutiones Philosophicae ad un fum
scholarum Piarum edirio altera auctior & emendarior; Ragionamenti intorno
allo fato del fiume Arno, dell acque della Valdinievole, In Colania appresso
Heng Werergroot, in 4. “Elementi di Matiemasica, ne' quali sono con migliori
ardine e nikovo metodo dimostrare le più nobili e necesaria proposizioni di
Euclide, Apollonio, e Archimede, Ch . Reg. delle Scuole Pie : in Firenze .
nella Stamperia di S. A. R. per li Tartini, e Frasa ahi in 8 . Hace elementa
mathematica edita secundo fuerunt Year I 2 1 netiis apud Antonium Perlinum , in
qua edie tione quaedam mutata ſunt , emendatufque error, quo cao ptus fuerat
Auctor, dum in priori editione exposuit propoíitionem XXXV. Libri XI. Venetae
huic editioni a djc&us est ejusdem Auctoris liber della Geometria Pranica; Ragionamento
Istorico Sopra la Valdichiana, in cui si descrive la antica e presente suo
stato” (Firenze nella Stamperia di Franceſco Moucke in 4); “Faſii Anici in
quibus Archonium Athenienfium sea ries , Philosophorum, aliorumque illustrium
Virorum deras arque praecipua Acicae historiae capita per Olympicos annos
disposita describuntur, novisque observationibus illustrantur: ACl. Reg.
Scholarum Piarum in Pisana Academia Philosophiae Professore, Florentiae, ex
typographia. Jo . Pauli Giovannelli ad insigne Palmae in Platea S. Eliſabeth .
Tom .II. prodiic. ex eadem typo graphia . Tom . III. prodiit anno 1751. ex
eadem typographia . Tom . IV . prodiit ex Imperiali typographia Cl. Reg. Scholarum
Piarum in Acadeo mia Pisana Philosophiae Profeſoris Differtationes. IV
Agonisticae, quibus Olympiorum, Phychiorum, Nemeurum, ale que Isthmorum lempus
inquiriiur ac demonftrarur: Aco redit Hieronicarum catalogus eduis longe
uberior Es accurarior. Florenciae ex typographia Imperiali. In cxtrema pagina
hujus libri öxhibetur integra feries menfium Macedonicorum, Atticorum , &
Romanorum ad de mondirandun veruna corum ficum ac connexionem ; quam ſeriem hoc
quoque in loco nos exponemus , quia rem gratam antiquitatis ſtudioſis facturos
arbitramur. Series enim a Corfinio contexta differt nonnullis in nienſibus ab
ca quam Scaliger, Uſterius, Petavius, Dodwellus, aliique descripferunt, i Macedonici
Atrici Romani Lous Gorpiaeus Hyperbercraeus Dlus Apellaeus Audynaeus Peritius
Dystrus Xanthicus Artemisius Daiſius Panemus Hecatombeeon Meragirnion
Boedromion Pyanepſion Maemacterion Pofideon Gamelion Anthefterion Elaphebolion
Murychion Thargelion Scirrhophorion Julius Augustus September October November
December Januarius Februarius Marrius Aprilis Majus Junius Lettere intorno all'
opera del Marchese Scipione Maffei intitolata: Graecorum Siglae lapidariae.
Extat in tom. 4 . par. 3. del Giornale de’ Letterati pubblicaro in Firenze
notae graecorum , five vocum Ex numerorum compen dia , quae in aereis atque
marmoreis Graecoruin rabulis ob. fervantur . Collegii, recenſuit, explicavit,
eaſdemque cabu las opportune riluftravia Eduardus Corſinus Cl. Reg. Scholas)
rum Piarum in academik Piſina Philoſophiae Profesor . Accedunt Differtationes
ſex , quibus marmora quaedam rum facra cum profana exponuntur ac emendantur. Florentine
Tographio Imperiali in fol. Plutarchi de Placitis Philofophorum libri V. Larine
reddidit , recenſuir , adnotationibus , variantibus lectionibus ,
diferrationibus illuſtravit Eduardus Corfinius Cl. Reg. Schoe laruan Piarum in
Pisana Acad. Philosophia Professor Flo. seniige ex Imp. Typographio, Disertationes
IV quibus antiqua quaedam insignia moc sumente illuſtrantur . Vide eas, Symbolarara
litercriarum Antonii Francisci Gorii. Herculis quies & expiatio in eximio
Farnesiano mere more expresa : in fol. Inscriptiones Articae nunc primum ex Cl.
Maffeii Schea dis in lucem editae latina interpretatione brevibusque
observationibus illuſtratae Cler. Regul. Schole sunr Puarum in Academia Pisana
Philosophiae Professore. Florenciae ansio ex typographio Jo. Pauli Giovannel li
in 4 . Solecta ex Graeciae Scriptoribus in usum ſtudiosae Juvent. sutis ,
Florentiae ex Imperiali rypographio ir 8 . Inſtitutiones Metaphyſicae in ufus
Academicos auctore Eduardo Corfi:n0 Clericorum Regularium Scholarum Piaruz in
Academia Pifana . Philoſophiae Profeſore . Vesieriis ex Typographia Balleoniana
in 12 Eduardi Corſini Cl. Reg. Scholarum Piarum in Acco demia Piſana humaniorum
litterarum Profeſſoris de Minni fari aliorumque Armeniac Regum nummis , &
Arſacidarum Epocha Differtario Liburni typis Antonii Santini & Sociorum in
4. Spiegazione di due antichiſſime inſcriçroni Greche indie ricare al
Reverendiffimo Padre Anton Franceſco Vezzofi, Prepoſto Generale de Cherici
Regolari , Lettore nella Seo pienza Romana , ed Eſaminatore de' Vefcovi da
Edoardo Corfini Ch . Reg. delle Scuole Pie. In Roma, nella Stamperia di
Giovanni Zempel in 4 . Relazione dello scuoprimento e ricognizione fatta in
Ancona dei Sacri Corpi di S. Ciriaco , Marcellino, e Lia berio Proiettori della
Circà ; e Riflefroni ſopra la translazione, ed il culto di queſte Sanci . In
Roma, nellu Stampe ria di Giovanni Zempel in 4. Eduardi Corfini Cler. Regul.
Scholarum Piarum, En in Academia Piſana humaniorum literarum Profeffuris Dis
Seseario , in qua dubia adverſus Minniſari Regis nummum , & novam
Arſacidarum epocham a Cl. Erasmo Froelichio s. J. proposita diluuntur. Romae ex
typographio Palla dis in 4. Eduardi Corſini Cler. Regul. Scholarum Piarum &
in Academia Pisana humaniorum lirerarum Profeſoris ad Cles riflimam virum
Paulum Mariam Paciaudium Epiſtola , ir qua Gotarzis Parthiae Regis nummus
hactenus ineditos expli Catur , & plura Parthicae hiſtoriae capita
illustrantur . Romae, in Typographio Palladis . Excudebant Nicolaus &
Marcus Palearini ir 4 .Cl. Reg. Scholarum Piarum in Pifar:& Academia
humaniorum litterarum Profeſoris Epiftolae rres , quibus Sulpiciae. Dryantillae,
Aureliani ac Vaballathi Avea guſtorum nummi explicantur & illuſtrantur.
Liburni apud Jo. Paullus Fanthechiam ad fignum Verit. in 4 . Series
Praefeciorum Urbis ab Urbe condira ad annum uſque MCCCLIII. sive a Chriſto naro
DC. collegit , rem cenſuit , illuſtravir Eduardus Corſinus Cler. Reg. Scholarum
Piarum in Academia Piſana humaniorum liuerarum Professor Pisis excudebar Joh .
Paulus Giovane nelius Academiae Pifunae Typographus cum Sociis in 4. Notizie
Iſtoriche intorno a S. Liberio ſepolto e venera 10 nella Cattedrale della città
di Ancona all' Eminentiffimo Signor Cardinale Acciajuoli Veſcovo di detta città
. In Are cona nella Sramperia Bellelli in 4. Cl. Reg. Scholarum Piarum , in Academia Piſana
humaniorum litterarum Profeſoris Epiſtola de Burdigalenfi Aufonii Confulatu .
Piſis Exe cudehar Joh. Paulus Giovannellius Academiae Pifanae inyo pographus cum
Sociis in 4. Clericor. Regular. Scholarum Pia rum Ex- generalis , & in
Pifana Univerſitare Primarii Les coris ed Joannem Chryſostomum Trombellium canonicorum
Regularium Congregationis S. Salvatoris Ex-generalem & S. Salvatoris
Bononiae Abbatem Epistola, Bunoniae, ex
typographia Longhi in 4; Disertazione sopra S. Pietro Ignes, sopra il B.
Giovanni delle Celle; De Civitatibus, quarum mentio sit in Graecis nummis, Pars
I. Historiae Academiae Pisenae, Latinae Orationes VI, Ad Academicos Pisanes. Odoardo
Corsini. Edoardo Corsini. Silvestro Corsini. Corsini. Keywords. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Corsini” – The Swimming-Pool Library.
Cortese (Milano). Filosofo
e alpinista. Grice: “I love Cortese; first he wrote on Frege, whose views on
‘aber’ are very much like mine on ‘but’! – But then he also wrote on ‘irony,’
alla Socrates – as per Kierkegaard’s example, “He’s a fine fellow! => He’s a
scouncrel --, and most ‘theoretically,’ as the Italians put it – on the
‘principle of meaning’ – significato – which had me thinking – I very freely
speak of the principle of conversational helpfulness, but somehow, principle of
‘signification’ sounds obtuse! Signification seems too natural to require a
principle! If helpfulness and benevolence are evolutionary traits, they are certainly
NOT ‘instituted’ as principles, even if they are requirements for trust and the
‘institution of decisions’!” “I am anything but a contractualist, and principle
has to be taken with a pinch of salt!” If I speak of a rational constraint, the
idea of a principle evaporates: it’s conversation as rational cooperation – as
I put it – as different from and stronger than ‘conversation as mere
cooperation’ – but this slogan frees us from a commitment to the existence of a
‘principle’ to which we might want later to provide with some sort of
‘psycho-logical’ validation!” Di una famiglia originaria di Sant’Angelo
Lodigiano. Si laurea a Trieste e Milano sotto Bontadini e Noce. Insegna a
Trieste. Studia Kierkegaard, Gioberti. Italianismi in Kierkegaard. Altre opere:
“Kirkegaardiana” (Milano); “Esistenzialismo e fenomenologia” SEI, Torino); “Protologia
e temporalità, Gregoriana, Roma); “Kierkegaard” (Milan); “Del principio di
creazione o del significato” Liviana, Padova, Kierkegaard” (La scuola,
Brescia); “Ironia” (Marietti, Genova); La Creazione: Un'apologia accidentale
della filosofia” (Marietti, Genova); “Il negozio del sapone, Liviana, Padova);
“Enten-Eller ([Victor Eremita” (Adelphi, Milano); “L'attrice” (Antilia,
Treviso); “Un discorso edificante” (Marietti, Genova); Il naturale e il
sovra-naturale (Padova); Ermeneutica” (Lint, Trieste), “Il responsabile” –
“Eden” – “Introduzione all’introduzione” del Gioberti – “Frege: signare il
concetto”; “Liberalismo” -- Grice: Can a sign have a different meaning for
utterer and recipient? – If so, why do we keep calling communication – signare
seems to be still good enough! -- Alessandro Cortese. Cortese. Keywords: Kierkegaard,
soap, sapone, actress, attrice, edifying discourse, discorso edificante,
naturale/sopra-naturale/preter-naturale, Paul Carus, hyperphysical. Those spots
means she has the devil inside her. Praeter-natural implicatura, supra-natural
implicature, non-natural implicature, natural implicature. “Del significato”,
ironia socratica, sapone, Savona, signare il concetto, sovrannaturale,
liberalismo, il responsabile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cortese” – The
Swimming-Pool Library.
Corvaglia (Melissano).
Filosofo. Grice: “I love Corvaglia – or corvus in diluvio, as he called
himself! – a very Italian philosopher and thus interested in the history of
Italian philosophy, especially Vannini – the fact that he wrote plays on
philosophical subjects – La casa di Seneca – helps!” Opera nel campo della filosofia del rinascimento.
Tra gli studi filosofico-scientifici si distinguono per vastità e profondità i
volumi Le opere di Vanini e le loro fonti, e Vanini Edizioni e plagi, risposta
polemica condotta contro le veementi critiche ricevute Porzio. Pubblica
il romanzo Finibusterre, trasfigurazione quasi sacra della sua amata terra e
del popolo del Basso Salento, ch'egli incitava con ogni mezzo, anche se spesso
travisato e intralciato e persino calunniato a crescere, per migliorare
materialmente e moralmente. Il romanzo fu ben accolto dalla critica. Benedetto
Croce, a cui Corvaglia lo aveva dedicato, rimarcò "lo sfondo storico
rappresentato in modo assai vigoroso" e il "trattamento dei caratteri
e degli effetti". Con maggiore puntualità Annibale Pastore (già suo
professore all'Torino) gli confidava di sentire emergere nella sua mente,
attraverso figure e temi del romanzo, ricordi sepolti, "struggente
malinconia", un mondo molto simile a quello del Manzoni, "anch'esso
celato alla superficie, soffuso d'ironia-limite", e tuttavia turbato da
altri affascinanti caratteri, quali: "il sorprendente realismo, la
perfetta armonia, l'effusione poetica, l'occhio acuto e sicuro, che scruta
l'animo umano fin nelle più remote pieghe". Si dedica totalmente
alla filosofia del Rinascimento, animato dal bisogno di trarre alla luce
obliterate sorgive e percorrendo il
movimento spesso alquanto sconosciuto della filosofia, che dal Rinascimento
risale fino al Medio Evo. S'apre nella sua vita uno spiraglio di fiducia
verso gli uomini impegnati, e si prestadoverosamente secondo la sua fede
politica all'attività politica, accogliendo e votandosi alla cultura mazziniana,
cui rimane Fedele.. È di questo periodo la pubblicazione, tra l'altro, dei
Quaderni Mazziniani: “Noi Mazziniani”, “Mazzini ed il Partito di Azione”, “L'Acherontico
retaggio”, “Il Partito Repubblicano italiano”, il discorso Ai giovani, la
conferenza (edita da Laterza) su Giuseppe Mazzini. Dopo la proclamazione
della Repubblica, però, si allontana da ogni azione politica, ritenendola del
tutto estranea e lontana dall'ideale da lui vagheggiato e sperato. Si
trasferisce a Roma, nell'ambiente culturale a lui più consono, ritornando agli
studi tra i suoi libri, dove soltanto sente di vivere senza alcun compromesso,
in assoluta libertà. Cascata di S.M. di Leuca. Scaligero, un saggio di
"speleologia". Saggio su Cardano. Su iniziativa del comune di Melissano,
è stato avviato un "Biennio di Studio su Corvaglia", al fine di
approfondirne e divulgarne la conoscenza. Alla realizzazione del progetto
collaborano, come protagonisti, anche l'Amministrazione Provinciale di Lecce,
l'Università degli Studi del Salento e l'Istituto Comprensivo Statale di
Melissano, che chiuderanno il biennio dei lavori, organizzando un Convegno su Corvaglia",
al fine di dibattere argomenti di particolare interesse presenti nella sua
opera. A tale riguardo si sta già operando non solo sul piano della ricerca
specialistica e accademica, ma anche sulla promozione d'iniziative, che
coinvolgano biblioteche e settori culturali degli enti locali, creando
opportunità per sviluppare in maniera articolata e organica la ricognizione e la
valorizzazione del patrimonio culturale salentino in generale e melissanese in
particolare, lasciato in eredità da Corvaglia. La casa di Seneca-
Commedia di L. Corvaglia. Altre opere: “La casa di Seneca” (Tipografia Fratelli
Carra, Matino (Lecce); “Rondini (dedicata "Al mio povero innocente Nova,
fuggevole visione di un Infinito", che avvampa e dilegua in vicenda amara
di avventi senza natale"; Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Tantalo”
Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce), Santa Teresa e Aldonzo (L. Cappelli
Editore, Bologna); Rondini- Commedia; “Romanzo Finibusterre, Editrice Dante
Alighieri, Milano); “Le fonti della filosofia di Vanini” (Anphitheatrum
Aeternae Providentiae, Società Dante Alighieri, Milano); “Introduzione semi-seria
dialogata per il lettore Vanini” (Edizioni e plagi, Tipografia Carra di
Casarano); “Ricognizione delle opere di G.C. Vanini, in "Giornale Critico
della Filosofia Italiana”; La poetica di Scaligero nella sua genesi e nel suo
sviluppo, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana", Quaderni
Mazziniani; “Noi Mazziniani” Tipografica di Matino (Lecce), “Mazzini e il
partito d' azione (critica), Tipografica di Matino (Lecce), “ L'acherontico
retaggio (con l'elogio della vita comune), Tipografica di Matino (Lecce), Quaderni
Mazziniani n° 4. Il partito repubblicano italiano, Tipografica di Matino
(Lecce). Discorso tenuto a Lecce nel Teatro Paisiello il 21 gennaio 1945.
Giuseppe Mazzini, Discorso commemorativo tenuto a Lecce nel Teatro Apollo,
Laterza, Bari,"Rinascenza salentina", Un Paese del Sud. Melissano.
Storia e tradizioni popolari, Tipografia di Matino. Meridionalista e Polemista,
La Poetica di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo,
Musicaos Editore, Sulla Poetica di G.C. Scaligero. Convegno sy Corvaglia. Il pensiero
politico di Corvaglia. Popolo Sacralità Religiosità. Luigi Corvaglia. Corvaglia.
Keywords. Refs.: Vanini, Bordon, poetica, Mazzini, Pomponazzi, Cardano --. Luigi
Speranza, “Grice e Corvaglia” – The Swimming-Pool Library.
Cosi (Firenze).
Filosofo. Grice: “I love Cosi; my favourite of his philosophical essays on
justice is the one on ‘l’accordo,’ for this is what my principle of
conversational helpfulness or co-operation is all about!” Giovanni Cosi. Si laurea a Firenze. Insegna a
Firenza, Sassari, Siena. Altre opere: “La liberazione artificiale: l’uomo e il
diritto di fronte a la droga” (Milano: Giuffrè); "Religiosità e teoria
critica" (Giuffre); "Secolarizzazione e ri-sacralizzazioni"
(Giuffre); "Il sacro e giusto: itinerario di archetipologia”
(FrancoAngeli). Dopo aver compiuto ricerche sull'espressione del dissenso in
forma non rivoluzionaria negli ordinamenti liberal-democratici, pubblica per la
Giuffrè Editore il volume "Saggio sulla disobbedienza civile";
"Il traviato”, “il filosofo traviato: il filosofo come gentiluomo (Giuntina);
“La obbedienza civile, la disobbedienza
civile: il consenso, il dissenso, la aristocracia, la plutocracia, la
democrazia, la repubblica (Milano: Giuffrè). Il giurista perduto: avvocati e identità
professionale” (Giuntina), “Logos e dialettica” (Giappichelli, Torino); “Il
filosofo risponsabile” (Giappichelli,Torino); “Lo spazio della mediazione, --
il terzo escluso – chi media nella diada? (Giuffrè). “Invece di giudicare” (Giuffrè);
“Il spazio della mediazione nel conflitto della diada conversazionale” (Giappichelli
Torino); “Legge, Diritto, Giustizia” (Giappichelli, Torino). “Giudicare, o Fare
giustizia. – vendetta – il concetto filosofico” (Giuffré Editore, Milano). La liberazione artificiale: l'uomo e il diritto di fronte
alla droga, Giuffrè, Milano; Saggio sulla disobbedienza civile: storia e
critica del dissenso in democrazia, Giuffrè, Milano; Il giurista perduto:
avvocati e identità professionale, Giuntina, Firenze; Il sacro e il giusto:
itinerari di archetipologia giuridica, Franco Angeli, Milano; Il Logos del
diritto, Giappichelli, Torino; La responsabilità del giurista: etica e
professione legale, Giappichelli, Torino; Società, diritto, culture:
introduzione all'esperienza giuridica, dispense di Sociologia del Diritto,
Firenze); La professione legale tra patologia e prevenzione: materiali di etica
professionale, dispense di Sociologia del Diritto, Firenze; Per una politica
del diritto del fenomeno droga: problemi e prospettive", Archivio
Giuridico; Il diritto e la droga" e "Per una comprensione culturale
dell'uso di droghe", Testimonianze; "Religiosità e Teoria Critica: la
teologia negativa di Max Horkheimer", Rivista di Filosofia
Neo-scolastica, "Secolarizzazione e risacralizzazioni: le
sopravalutazioni post-illuministiche dell'immanentismo", in L. Lombardi
Vallauri - G. Dilcher (eds.), Cristianesimo, secolarizzazione e diritto
moderno, Giuffrè - Nomos Verlag, Milano - Baden-Baden); "Sulla
'naturalità' dei diritti civili", Testimonianze; "L'Uno o i Molti? Il
'nuovo politeismo' di Miller e Hillman", Testimonianze; "Ordine e
dissenso. La disobbedienza civile nella società liberale", Jus;
"Iniziazione e tossicomania: intorno a un libro di Luigi Zoja",
Testimonianze; "Le aporie del pacifismo: critica della pace come
ideologia", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto;
"L'immagine sofferente della legge", L'Immaginale; "Diritto e
morale in tema di aborto", Testimonianze; "Professionalità e
personalità: riflessioni sul ruolo dell'avvocato nella società",
Sociologia del Diritto; "L'avvocato e il suo cliente: appunti storici e
sociologici sulla professione legale", Materiali per una storia della
cultura giuridica; "La coscienza, gli dei, la legge", Rivista Internazionale
di Filosofia del Diritto; "Il diritto del mondo I", Anima;
"Un anniversario dimenticato: Il Bill del 1689 e la sua eredità",
Sociologia del Diritto; "Vecchio e nuovo nelle crisi di identità degli
avvocati", in Storia del diritto e teoria politica, Annali della Facoltà
di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Macerata; "Verso il paese
di Inanna", Anima;"Avvocato o giurista?", comunicazione al VI
Convegno nazionale di studio dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, Firenze,
Iustitia, "Tutela del mondo e normatività naturale", in L. Lombardi
Vallauri (ed.), Il meritevole di tutela, Giuffrè, Milano); "Tutela del
mondo e strumenti giuridici", Testimonianze; "La professione legale
tra etica e deontologia", Etica degli Affari e delle professione; "Diritto
e realizzazione: un'introduzione alla fenomenologia del logos giuridico",
Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "La legge e le origini
della coscienza", Per la filosofia; "Naturalità del diritto e
universali giuridici", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto,"Naturalità
del diritto e universali giuridici", in F. D'AGOSTINO (ed.), Pluralità
delle culture e universalità dei diritti, Giappichelli, Torino); "Etica
secondo il ruolo", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "Purezza
e olocausto: un'interpretazione psicologico-culturale", Per la
Filosofia; "Logos giuridico e archetipi normativi", in L. LOMBARDI
VALLAURI (ed.), Logos dell'essere, Logos della norma, Adriatica, Bari);
“Giustizia senza giudizio. Limiti del diritto e tecniche di mediazione”, in F.
MOLINARI e A. AMOROSO (ed.), Teoria e pratica della mediazione, FrancoAngeli,
Milano); “Le forme dell’informale”, comunicazione al XXI Congresso
Nazionale della Società di Filosofia Giuridica e Politica, Trieste, Ora in
Giustizia e procedure, Atti del suddetto Convegno, Giuffrè, Milano); “L’idea di
professione”, Dirigenti Scuola, “Controllare la professione”, Dirigenti Scuola,
“Professione, patologia e prevenzione”, Dirigenti Scuola. Grice:
“Italians are afraid of the ‘sacro’ because since the fall of the Roman Empire,
it means the evil Pope! – unless otherwise stated by people like Evola, etc.” –
Grice: “Hart should have spent more time analysing the implicatures of
‘disobey,’ as Cosi does -- to realise how wrong his theory is!” Grice: “Austin,
who taught morals at Oxford, should have examined, as Cosi does, what we mean
by ‘responsible philosopher’ before opening his mouth!” – Grice: “My idea of
helpfulness does not quite include that of ‘mediation’ but it should – the
space of mediation in the conflict in the conversational dyad! I owe this to
Cosi.” Grice: “I decided to use ‘judicative’ versus ‘volitive’ after Cosi. –
His ‘giudicare’ is a gem!” -- Giovanni Cosi. Keywords: il secolare/il sacro;
profane/sacro – secolare; archetipo, il filosofo come gentiluomo, l’obbediente,
il disobbediente, il consensus, il disensus, to obey, conflitto, mediazione,
diritto (right), giure, giurato – legatum, vendetta, giudicare, fare giustizia,
vendetta conversazionale, natura, naturalita, non-naturale, legge naturale gius
naturale, giusnaturalismo, fenomenologia del giurato; normato naturale? Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cosi” – The Swimming-Pool Library.
Cosmacini (Milano).
Filosofo. Grice: “I like Cosmacini; for one he wrote on THREE areas of my
concern: ‘cuore’, as when we say that two conversationalists reach an ‘accord’!
– on ‘empatia’ – a Hellenism, and most importantly, on ‘compassione,’ which is
at the root of my principle of conversational benevolence. -- Giorgio Cosmacini
(Milano), filosofo. Studia a Milano e Pavia.la “convenzione della mutua” o
INAM(Istituto nazionale per l'assicurazione contro le malattie) e apre un
ambulatorio mutualistico Fare bene il mestiere di “medico della mutua” non
significa gestire un certo numero di “mutuanti”; voleva inoltre dire aver cura
di una comunità di persone, ciascuna delle quali con esigenze proprie.
raggiungendo in quel periodo circa trecento mutuanti. Quando i suoi mutuanti
erano circa millecinquecento, decise di realizzare un suo sogno: la libera
docenza. è autore di numerose opere d'argomento filosofico-medico. Altre opere:
la mutua, medico della mutua, mutuante, mutuanti, ambulatorio mutualistico. “Scienza
medica e giacobinismo in Italia: l'impresa politico-culturale di Rasori (Collana
La società, Milano, Franco Angeli); Röntgen. Il "fotografo
dell'invisibile", lo scienziato che scoprì i raggi x, Collana Biografie,
Milano, Rizzoli); “Gemelli. Il Machiavelli di Dio, Collana Biografie, Milano,
Rizzoli); “Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea
alla guerra mondiale. Gius. Laterza & Figli); “Medicina e Sanità in Italia
nel Ventesimo secolo. Dalla 'Spagnola' alla 2ª Guerra Mondiale, Roma-Bari, Laterza);
“La medicina e la sua storia. Da Carlo V al Re Sole, Collana Osservatorio italiano,
Milano, Rizzoli); “Una dinastia di medici. La saga dei Cavacciuti-Moruzzi,
Collana Saggi italiani, Milano, Rizzoli); Storia della medicina e della Sanità
nell'Italia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, G. Cosmacini-Cristina Cenedella,
I vecchi e la cura. Storia del Pio Albergo Trivulzio, Roma-Bari, Laterza); “La
qualità del tuo medico. Per una filosofia della medicina, Roma-Bari, Laterza);
“Medici nella storia d'Italia, Roma-Bari, Laterza, L'arte lunga. Storia della
medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il medico ciarlatano.
Vita inimitabile di un europeo del Seicento, Laterza); “Ciarlataneria e
medicina. Cure, maschere, ciarle, Milano, Raffaello Cortina, La Ca' Granda dei
milanesi. Storia dell'Ospedale Maggiore, Roma-Bari, Laterza); “Il mestiere di
medico. Storia di una professione, Collana Scienze e Idee, Milano, Raffaello
Cortina); “Introduzione alla medicina, Roma-Bari, Laterza, Biografia della Ca'
Granda. Uomini e idee dell'Ospedale Maggiore di Milano, Laterza, Medicina e
mondo ebraico. Dalla Bibbia al secolo dei ghetti, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza, Il male del secolo. Per una storia del cancro, Roma-Bari,
Laterza); “La stagione di una fine, Terziaria); “Il medico giacobino. La vita e
i tempi di Giovanni Rasori, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Salute
e bioetica, Torino, Einaudi, G. Cosmacini-Roberto Satolli, Lettera a un medico
sulla cura degli uomini, Roma-Bari, Laterza, La vita nelle mani. Storia della
chirurgia, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza, Una vita qualunque, viennepierre
edizioni, Il medico materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott, Collana
Storia e Società, Roma-Bari, Laterza «La mia baracca». Storia della fondazione
Don Gnocchi, Presentazione del Cardinale Dionigi Tettamanzi, Laterza); “La
peste bianca. Milano e la lotta antitubercolare, Milano, Franco Angeli); “L'arte
lunga. Storia della medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il
romanzo di un medico, viennepierre edizioni, L'Islam a La Thuile nel Medioevo.
Un «tuillèn» alla terza crociata: andata, ritorno, morte misteriosa, KC
Edizioni, Le spade di Damocle. Paure e malattie nella storia, Collana Storia e
Società, Roma-Bari, Laterza); “La religiosità della medicina. Dall'antichità a
oggi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “L'anello di Asclepio. L'età
dell'oro”; “La peste, passato e presente, Milano, Editrice San Raffaele); “La
medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base” (Collana
Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Il medico saltimbanco. Vita e
avventure di Buonafede Vitali, giramondo instancabile, chimico di talento,
istrione di buona creanza” (Roma-Bari, Laterza); “Prima lezione di medicina,
Collana Universale.Prime lezioni, Roma-Bari, Laterza); “Il medico e il
cardinale, Milano, Editrice San Raffaele); “Testamento biologico. Idee ed esperienze
per una morte giusta” (Bologna, Il Mulino); “Politica per amore” (Milano,
Franco Angeli); “Guerra e medicina. Dall'antichità a oggi, Collana Storia e
Società, Roma-Bari, Laterza); “Compassione” (Bologna, Il Mulino); “La scomparsa
del dottore. Storia e cronaca di un'estinzione, Milano, Raffaello Cortina); “Camillo
De Lellis. Il santo dei malati, Roma-Bari, Laterza); “Il medico delle mummie.
Vita e avventure di Augustus Bozzi Granville, Collana Percorsi, Roma-Bari,
Laterza); “Como, il lago, la montagna, NodoLibri); “Tanatologia della vita e
stetoscopio. Bichat, Laënnec e la "nascita della clinica",
AlboVersorio, . Medicina e rivoluzione. La rivoluzione francese della medicina
e il nostro tempo” (Collana Scienza e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Un
triennio cruciale. Como, il lago, la montagna, NodoLibri); “La forza dell'idea.
Medici socialisti e compagni di strada a Milano. L'Ornitorinco, Per una scienza medica non neutrale. Tre
maestri della medicina tra Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco, Medicina Narrata, Sedizioni); “Galeno e il
galenismo. Scienza e idee della salute” (Milano, Franco Angeli); “La chimica
della vita” -- e microscopio. Pasteur e la microbiologia, AlboVersorio); “Per
una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina in Italia fra
Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco); “Il tempo della cura. Malati, medici,
medicine, NodoLibri); “Elogio della Materia” -- Per una storia ideologica della
medicina, Edra edizioni); “L'Infinito di Leopardi. Un impossibile congedo” (Sedizioni,
. Memorie dal lago e ricordi dal confine. Como, il lago, la montagna,
NodoLibri, Salute e medicina a Milano.
Sette secoli all'avanguardia, L'Ornitorinco); “La medicina dei papi, Collana
Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Medici e medicina durante il fascismo”
(Pantarei); “Il viaggio di un ragazzo attraverso il fascismo, Pantarei); Historia
cordis, Ass. Gianmario Beretta, . Curatele Dizionario di storia della salute,
G. Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi, Roberto Satolli, Collana Saggi, Torino,
Einaudi. “mutua gratia” - Practicis
nostris , Muri LAPIDES , sine inscriptione , apud nus, gadinca, vel Hnoc . Non
liquet, “don mutual” – mutual gift -- Charta ann . 1326. in Chartul . Hygenum
de Limitibus constituendis. inquit Somnerus. (Mutinæ carnes , in Con thesaur. S.
Germ. Prat. fol. 12. rº.: Dicta. mutuum, Exactio nomine mului, Charta suet.
MSS. Eccl . Colon . e Bibl . Eccl. Atre- Ysabellis exhibuit dicto thesaurario
quasdam Rogerii 1. Reg. Sicil. ann. 1129. apud Mu bat, eædem quæ vervecinæ.
Vide Multo, litteras mutuæ gratiæ dudum confectas inter ralor. tom . 6. col. 623
Nulla angaria , par I mutio , id est, Patuus. Vocabul . dictam Ysabellam et
prædictum defunctum angaria, echioma, gabella,Muruum, extorsio utriusque Juris
. dum vivebat , et constante legitimo matrimo- jaciatur, imponatur. Chron.
Parmense ad mutis, Truncus, stirps . Pactum inter nio inter ipsos. ann. 1996.
apud eumdem tom . 9. col . 834 : Humb. dalph. et episc. Gratianopol. ann.
“mutuare”, Mutuum, seu exactionem ec impositum fuit per commune Parma 1343. in
Reg: 134. Chartoph. reg. ch. 34 : nomine mutui impositam solvere. Vide unum
mutuum octo millium librarum impe recte tendendo ad pedem cujusdam margassii
mutuum . rialium per episcopatum , et quinque millium seu claperii in quo
margassio seu cleppe. Mutuatim, pro mutuo, in Vita Anti- per civitatem . Et
mutuum clericis fuit im rio sunt duæ mutes arborum . dii Archiep. Bisonticensis
cap. 5 : Bene- positum duo millium librarum, etc. Chron . Åwwvíz , in Gloss .
Græc. Lat. dictionis ergo dono mutuatim dato , etc. Mutin . ibid . tom. II. col.
122 : Tria Mu [Mirac. S. Bernhardi Episc. tom. 5. Julii (mutuatio, pro mutatio,
in Consuet. tua extorsit.] Historia Cortusiorum lib. 3 . p.112, Eoque quippiam
petere volente, MSS. Auscior. art. 3 : Fiat autem mutua cap. 14, Teutonici
cruciabant Paduanos verbis in ore reclusis, subito mulus effectus tio consulum
annuatim in festo S. Joan. *mutuis* el daciis. Infra: *mutual* imposuit et est;
qui a plerisque tentatus, an videlicet Baptistæ. datias. Lib. 7. cap. 1 :
V'exabantur Muluis astu Muritatem simularet , et tandem certa ex Ital . Mutola
, Muta . Oc- et daliis. Albertinus Mussalus lib. 12. de loquendi impotentia
comprobatur. Occurrit currit in Vita B. Justinæ de Aretio n. 9 . Reb . gest.
Italic . pag. 86 : Communes da præterea toin . 2.Sanctorum Apr. pag. 429.] ,
Idem quod Expeditatus, riæ , exactionesque et Mutua publica el priMuronagium .
Vide in Charta Forestæ cap. 9. forte pro múti- vata etc. Charta R. Abbatis
Monasterii Ka Mullo . latus. Locum vide in Mastinus. roffensis in Pictonib .
ann. 1308. ex ( Ovis, Massiliensibus Mous, Nudus , glaber. Regesto Philippi
Pulcri Regis Franc. Tabu tonfede. Charta ann . 1390 : Quilibet Mu- Gloss. Lat .
Græc. MSS. Sangerman . larii Regii n . 11 : Non recipiemus ibi Mu tofeda solvat
xvi. denarios. * Castigat . in utrumque Glossar. forte tuum, nisi gratis
mutuare voluerint habitan Lugdunensibus , Feye. Vide supra Menlulosus, ead'ns ,
ex Vulc. tes. Ita in Liberlatib. Novæ Bastidæ in Oc Lex Ripuar. lit. 6o. S 4:
Si citania ann. 1298. in alio Regesto ejusdem xudovicv, Malum colo- autem
ibidem infra terminationem aliqua in- Regis ann. 1299. n. 16. Vide Credentia ,
neum . Supplem . Antiquarii et Gloss. MSS. dicia sua arte , vel butinæ ,aut
Lat. Græc. Sangerm . Aliud itidem Gloss. : extiterint, ad sacramentum non
admittatur, *mutuum coactum* exactio , quæ a Mutonium , Tepábeuo , Additio.
etc. Ubi mutuli, videntur esse aggeres ter- dominis in urgentibus negotiis suis
ac ne 1., quos Motes nostri vocant : aut forte cessitatibus fiebat super subditos,
vassallos, equilatus , quod sic describit Jovius Hist. lapides ii quosMuros
vocant Agrimensores,ac tenentes cum restitutionis conditione ac lib . 14:
Mutpharachæ admirabili virtute i. sine inscriptione, vice terminorum po-
pollicitatione : a qua quidem exactione præstantes , toto orbe conquisiti, ea
condi- siti. Vide Bonna 2 . exempta pleraque oppida, quibus concessæ tione
militant, ut quos velint Deos , impune KF Errat Cangius , si fides Eccardo ,
libertates , leguntur. Charla libertatum colant, præsentique tantum Imperatori
ope- in Notis ad Legem citatam , quam ad cal- Aquarum Mortuarum ann . 1246 :
Omnes ram navent. Hæc post Carolum de Aquino cem Legis Salicæ edidit . Mútuli
enim sunt habitatores loci illius sint liberi et immunes in Lex. milit . machinaliones
clandestinæ , vel seditiones ab omnibus questis , talliis , et toltis , et clam
excitatæ , a veteri German .Meulen , tuo coucto , et omni ademptu coacto. Con
capitis tegumentum , quod monachi cap. | clandestine agere , unde Meutmacher,
Fla- suetudines Monspelienses MSS. cap. 56: paronem vocabant. Gall . Christ.
tom. 4. bellum seditionis, Gall. Mutin. Hæc vir Toltam nec quistam , vel Mutuum
coactum , col uti. Mutrellis 782 : Statuimus in dormitorio , quod liceat
fratribus eruditus ; quæ tameninmeam fidem reci. vel aliquam exactionem coactam
non habet ; . Vide Mitræ . necunquam habuit dominus Montispessulani I Vide
Morth . I Gall . Mouton . in hominibus Montispessulani. Eædem ver *, ut supra
Muramen. Charta ann. 1307. exArchivis Massil. : naculæ , totas inquistas , ni
prest forsat , o Terrear.villæ de Busseul ex Cod . reg. 6017. Item super co
quod petebantdicti parerii alcuna action destrecha , etc. Libertates fol. 47.
vº. : Item unum Pariziensem Mut -I quartam partem Murunorum , astorium et
concessæ oppidis Castelli Amorosi et Va CANGII CLOSS. – T. IV. 2 . Feda 2 .
pere nolim. 75 594 etc. lentiæ, in diæcesiAginnepsi, ab Edwardo I Eodem
significatu , De S. 6 : L. FURPANIO L. Lib. PuILOSTORGO Mr. I. Rege Angliæ ex
Regesto Constabulariæ Juvenate Episc. tom . 1. Maii pag. 399 : ROBRECHARIO VIX
ann. LIJTI. Purpuria L. Burdegalensis fol. 55. 140 : Nec recipiemus Episcopus
Narniensis ex suo palatio , ialari L. OLYMPUSA PECIT. in ibi Muruum , nisi gratis nobis mutuare
velint reste indutus , racheto et Muzzeta. Vide Inscript. ccxcix . 3. Vide
Martin Lex. in habitantes. Eadem habent libertales Rio. Mozzetta. hac voce .
magi in Arvernis. vocatur letri rudoris in . Fantasia , miratores. Pa Mutuum
VIOLENTUM , in Charta liberta- quietudo terrena. Ita Apuleius de Muudo. pias.
tum Jasseropis, apud Guicheponum in A Græco nimium púxw , Mugio , reboo. Vide
Ma Histor. Bressensi pag. 106. Roga coacta , in I Piscis genus, qui alius zer.
Charta Ludovici Comitis Blesensis et Cla- videtur ab eo quem Spelmannus piscem.
in Statutis Mon romontens. ann. 1197. pro Creduliensi viridem vocat . Computus
ann. 1425. apud tis Regal. fol. 318 : Debeat solvere emptori villa : Omnes
homines Credulio marentes Kennett. in Antiquit. Ambrosden. pag. gabellæ piscium
, solidos quatuor pro quoli taliam mihi debentes , el eorum hæredes, a 575 : Et
in 111. copulis viridis piscis ... Et bet rubo piscium , et intelligatur
detracta talia , ablatione, impruntato et Roga coacta inxv. copulisde
Myllewellminorissortisx: Myrta et cestis ac funibus. de cælero penitus quilos
et immunes esse sol. vi. d . et in xx. Myllewell majoris sortis Eadem notione,
usurpant Cat concedo. Exslat Statutum Philippi VI. Re- Xit, sol. ( * Vide
Mulsellus.] lius Aurelianus , Celsus, et Apicius. Vide gis Frane. 3. Febr. ann.
1343. quo vMoniales, ex Anglo -Sa- Murta. in posterum fieri ullum Mutuum
coactum xop. myn'e'cen'e , vel minicene, hodie Graviter, com super subditos
suos : quod scilicet paulo Anglis Minneken et minnekenlasse. Copeil. posite
ambulare. Chron. Ditm . Mersburz. anie exegisse docet Diploma anni 1342.
Ænbamiense in Anglia ann. 1009. cap. 1 : l'episc. tom . 10. Collect. Histor.
Frane. pag. 28. Junii, sed et Philippum Pulerum Re- Episcopi et abbates ,
monachi et Mynecenæ , 131 : Henricus Dei gratia res inclytus à se. gem aliud
ann . 1309. in 12. Regesto Char- canonici et nonne , natoribus duodecim
vallatus , quorum ser tophyl. Reg. Ch. 15. et in 36. Regest. apud Ausonium in
rasi barba ,alii prolixa Mystace incedebant Ch. 48. lemmate Epigrammatis 30.
Cantharus po- cum buculis , etc. Laudatum Philippi VI. Statutum torius
Scaligero , qui a similitudine muris I Sacerdotum præposi frustra quæsitum in
Regestis publicis testa- et barbæ , quæ in conum desinit, Myobar- tus; titulus
honorarius Archiep. Toletani , tur D. de Lauriere tom . 2. Ordinat. Reg. bum
voce ibrida dietum existimat . Turne- ex Hierolex. Macri. Franc. prg. 234.
Undeexistimat D. Cangium bus vero Advers. lib. 3. cap. 19. putat ver- lapsum
memoria art. 4. et 5. Statuti ejusd . | bum compositum mure et barbo, quod | , Mysteriorum per. Regis ann. 1345. 15. non3.
Febr.spectasse, mensuram , liquidorum sescunciam penitus , vel princeps.
Prudent. Peristeph. 2. quo vetat Philippus Rex in posterum a dentem sonat, ut
sit tamquam muris cya- 349 : Bene est , quod ipse ex omnibus My subditis suis
exigi equos, currus, ele. nisi thus. Quidam le ; emendat Lil . Gyraldus Epist, *mutuum violatum* Exactio nomine
xobarbaru , quod non placet. Vide Cupe. Zachariæ PP. ann.748. tom. 1. Rer. Mo
*mutui*, quæ a subditis exigitur. Charta rum in Harpocrate pag . 78. gunt. pag
. 255, Officium , sacra Li mutuum violatum, velmessionem bajuli vel turgia .
Pelagius Episcop. Ovetensis in Fer servientum . [** Leg. Violentum ut, supra.)
ctum ... Si autem Myocepha aur ypopius fuerit,dinando Rege Hispan.: Tunc
Alfonsus Rez mutuum ebraldum. Charta Henrici Co- post inunctionem ligabis
oculos aut linteo in velociter Romam nuntios misi ad Papam mitis Portugalliæ
tom . 3. Monarchiæ Lusi- aqua infuso frigida , aut spongia in ipsa Aldebrandum
cognomento septimus Grego tanæ p.282, Non introducam *mutuum* aqua infusa.
rius. Ideo hoc fecit , quia Romanum Vyste Ebraldum Colimbriam . 9piratici genus
arium habere voluit in omni Regno. Infra : mutuum, stipendium datum in ante- ,
ut placet Tur Confirmarit itaque Romanum Mysterium in cessum . Lit. ann . 1408.
tom . 9. Ordinat. nebo lib . 3. Adversar. cap. 1 . nomen omne regnum Regis
Adefonsi æra 1113. ( Chr. reg . Franc. pag. 363, art. 1 : Ordinamus adepti .
Melius Scaliger, a forma qevūves, 1088. ) per senescallos, receptores,
thesaurarios, ... hoc est , angusta et oblonga, dictum ira- Missæ sacrifi tum
nobilibus quam innobilibus, cum ex dit. cium. Acta S. Gratil. tom. 3. Aug. pag.
parte nostra mandati fuerint ut ad guerras Hist. Franc. Sfortiæ ad ann. 1427.
1728. col. 2 : Indutus est ( Gratilianus ) ve nostras accedant, *mutuum* fieri
priusquam apud Murator. tom . 31. Script. Ital.col.stimentis a. Grice: “The
grammar of ‘mutuality’ can be extraordinarily complicated. But I’m sure
Schiffer’s ‘A and B mutually know that p’ doesn’t make sense as an
analysandum.” Grice: “You can trade (L mutate both ways) or exchange
*information* -- The grammar is: A and B are in love – implicated: ‘mutual’
-- A and B are friends – implicated:
mutual. Dickens, who never attended Oxford, would never catch the subtlety of
his biggest solecism, “Our mutual friend”! – Grice: “But I’m surprised from
Schiffer, who did attend the varsity!” -- Giorgio Cosmacini. Cosmacini. Keywords:
compassione, salute, mens sana in corpore sano, storia della medicina,
Foucault, l’anello di Asclepio, la medicina nella Roma antica, giacobinismo,
fascismo, giacobinismo in Italia, medici fascisti, medicina fascista, la
medicina non e una scienza, tanatologia, bio-chemica, la chemical della vita,
bio-chemistry –Grice on life, the philosophy of life, cooperation and
compassion. Imperativo conversazionale, compassione conversazionale, imperative
della mutualita conversazionale – mutualita conversazionale – imperative of
conversational mutuality, mutuality, mutual, the depth grammar of mutuality –
Grice against Schiffer – Grice scared by ‘mutual knowledge’ – and using it in
scare quotes (“Such monsters as Schiffer’s ‘mutual knowledge’ have been
proposed to replace my regress when there’s nothing wrong with stopping it
elsewise!” Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Cosmacini” – The Swimming-Pool Library.
Cosmi (Casteltermini).
Filosofo. Grice: “I love Cosmi – for one he uses the very exact phrase I do,
‘the general principles of discourse,’ and he also finds them to have a
rational (‘razionale’) basis – they involve those desiderata for helpful
communication, a co-operative principle – concerning most constraints I refer
to: the necessity to avoid superfluity (supperfluita) and to maximize clarity
(chiarezza) – so that’s genial!” – Grice: “Cosmi actually has two treatise, a
more theoretical one, “General principles of discourse,” and an applied tract,
“Metodo’ – of the “general principles of discourse’ – he had already elaborated
on all the figures of rhetoric, so he knew what he was talking about and where
he was leading --.” Grice: “The fact that he like me also loved Locke – and
perhaps was more of a ‘sensista’ than I am, makes him great, too!” Fu
un'imponente filosofo, no italiano, ma siciliano (Grice: “Sicily is not
considered part of the ‘peninsola italiana’). Formatosi nel Seminario dei
Chierici di Agrigento, ricopre la carica di rettore a Catania. Riceve dal re Ferdinando
l'incarico di redigere il piano regolatore della filosofia siciliana. Da un
rilevante contributo all'innovazione del illuministimo. Fu un grande filosofo,
il primo e il più geniale del regno meridionale e uno dei primi e più geniali
del Settecento italiano. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Principi generali del discorso, e della ortografia
italiana ad uso delle regie scuole normali di Sicilia by Giovanni Agostino De
Cosmi( Book ) 1 edition published in 1984 in Italian and held by 2
WorldCat member libraries worldwide. E primo forne il D2 Cosmi. Questo e
un aureo libretto dei "Principi Generali del discorso" – i. e. un
principio comune a ogni discorso. Questo affinchè il filosofo a una nozione
direttrice, non superflue. In questo trattato invano cercheresti quella immensa
farragine di precetti disordinati, e quelle infinite minuterie non necessarie,
con cui si sostitoleva confondere e stancare la prattica conversazionale del giovanetto.
Si spone un solo principio generale e fondamentale, sintetizzato nell'antico ma
verissimo motto: precetto uno. Il resto e uso. Questa mia preziosa filosofia è
un sapientissimo essamine pel filosofo che vuole adoperare il "metodo
conversazionale." Quivi si ricorda dapprimà quanto in occasione di
filosofare sulla maniera di dare la prima istruzione conversazionale al
ragazzo, in caso la necessita. Si ricorda come puo potè attuare la mia
prammatica conversazionale, mettendo in esecuzione un maniobra chiara, spedita,
uniforme per ogni topico conversazionale adattata alla maniera del civil
conversare -- è cosa necessaria il sapere la semantica e le implicature
conversazionale del volgare linguaggio. Il pirincipio della conversazionale e
un principio di chiarezza (perspicuita) -- e un principio di aggiustatezza
(approprio_ -- e un principio di mezzana eleganza (stilo estetico), e un
principio senza oscurità, e un principio con univoci e senza cattive equivoci
(un buon aequi-voce e accettable)– sensa non sunt multiplicanda praeter
necessitatem --, e un principio senza superfluità (economia dello sforzo
conversazionale, fortitudine conversazionale, candore conversazionale -- e un
principio senza barbarismi -- imperciochè la perfezione e efficenza del volgare
linguaggio guidato dalla semantica formale e il segno del reale. E vuole che al
giovane si da un principio generale e fondamentale -- e un principio generale
della conversazione, esposto con metodo ragionabile e calculable e con
chiarezza. Un solo principio o imperativo categorico, un principio di efficenza
communicative -- un principio soggetto il meno che si può all'eccezione o la
violazione involuntaria si non a la splotazione retorica -- e un principio
stesso ben capito e ben esercitato, chi forma il corpo di ogni parte
della filosofia. Ebbe un giorno a scrivere di Marco
Tullio Cicerone, che questo ingegno eminente prende a gradi la sua maturità e
si perfezionava coll’uso, colla riflessione e col maneggio dei grandi affair.
Or quello che osservo su Cicerone, intervenne proprio me medesimo, i cui
Elementi di filologia, non prometto continuazione; ma osservazioni su l'uso dei
Principj del Discorso, e qualche riflessione su i primi pensieri, da cui era
partito nell'immaginar il mio metodo, gli somministrarono la materia di un
secondo, e anche di un terzo volume di preziose nozioni di metodica
prammatica. Il secondo volume e
come il primo, è diviso in due parti. La prima parte ha per titolo,
“Principj generali del Discorso applicati alla lingua volgare”, per la quale
avverto che, sebbene nelle parti già pubblicate dei “Principj generalie del
discorso” siesi detto ciò che basta per l'istruzione della prima età; la
sperienza mi ha fatto conoscere, che, volendosi col metodo intrapreso tirare
innanzi il cammino, per la piena intelligenza, 1 G. A. De Cosmi, Elem. di
filol. ecc., tomo I, pag. 231. • LO STESSO, Elem. di filol, ital. e
latina, tomo II, Palermo; pag. III ed imitazione dei classici
principalmente italiani, era necessario ad entrare in qualche più esteso
rischiarimento, *non per multiplicare l’imperativo conversazionale, ma per
agevolarne l'uso, senza di cui inutili sempre la massima conversazionale
universalisable si rimarranno. Dietro di che, in cinque paragrafi, filosofo,
con la solita competenza, “Del Pro-nome in generale”, “Del Pro-nome ed dell’Articolo”;
“Del pronomi e del verbo che ne dipendono; Della Preposizione, detta “segnacasi”,
e “Della Costruzione irregolare”. I quali cinque paragrafi, con la giunta delle
prime due parti dei Principj Generali del Discorso già stampati a riprese. Egli
fece riunire in separato volumetto per uso degli scolari 3 Io non mi
stancherei, dirò col Mollica Di Blasi, di riportare varie altre sentenze, che
oggi pajono roba fresca, e pure da presso a un secolo il nostro l'aveva
annunziato con tanta chiarezza da farla scorgere anco ai ciechi ; ed è per
tanto che riferisco qualche altro criterio, che dovrebbe aver nell'animo e
nella coscienza ognuno, che si dà all'educazione specialmente elementare:
Invece di sorprendere, cosi il De Cosmi, l'età fanciullesca coll' apparenza
dottrinale di parole incognite, ingegnerassi il maestro a far vedere, che ciò
che s'insegna di nuovo, è presso a poco quanto sapeva il fanciullo o quanto
avrebbe potuto agevolmente sapere con un poco di riflessione 5. Anzi che
ad un giuoco di memoria desiderava che lo studio fosse diretto allo sviluppo
dell'intendimento ; inculcava lo studio dell' aritmetica fatto a norma delle
regole predette, e indi tornava a ribadire che: Per mantenere sempre
desta l'attività nella mente degli allievi, è di somma importanza il non
sgomentarli giammai coll'apparenza di gravi difficoltà nelle operazioni che
loro si propongono; anzi colla frequenza degli esempi il far loro osservare,
che avrebbero da se sciolto le domande, se avessero fatto riflessione alle cose
sa pute 6. E poi seguiva cosi : Che se alle volte occorrerà di
dovere insegnare delle cose difficili, allora il maestro procurerà di scemare
la difficoltà colla curiosità della ricerca , perchè il piacere della scoverta
l'incoraggisca al tedio dell'operazione. Ma qualora la curiosità non è
infiammata, il fanciullo non sente altro che la fatica, e la fatica sola da se
ributta 7. Poi chiedeva a se stesso : É necessario il rappresentare
al naturale lo stato presente della educazione ncstra letteraria? Lo farò con
coraggio. Si è caricata la nostra memoria; perciò è rimasto senza energia e
senza originalità l'intelletto. La nostra filosofia, in vece 1 G.
A. De Cosmi, Metodo dei principj generali del Discorso, Palermo, 1792, p.
1-6. . Lo stesso, Metodo cit., p. 5. 3 Lo stesso, Op. cit.,
p. 8. * GAETANO MOLLIGA DE BLABI, Note storiche di G. A. De Cosmi;
Palermo, 1883, p. 18. • G. A. De Cosmi, Metodo ecc., p. 8-9.
. Lo stesso, Op. cit., p. 14. . Lo stesso, Op. cit., p.
15. d'essere l'arte di pensare, è stata l'arte di parlare di ciò
che non s'intende; la nostra rettɔrica, l'arte di csaggerare con parole, e di
parlare a controsen 30. Gran servigio, gran servigio, ridico, si presta al
pubblico da chi indirizza per la strada regia del sipere la presente gioventù,
da chi coltiva la loro ragione e il loro cuore. Era tempo oramai di
aprirsi a tutti la strada alla coltura delle scienze e delle arti; di venire
nella comune estimazione le cognizioni realmente utili all'umanità, di
siudiarsi la Natura nei suoi varj regni e nel suo vero prospetto. Era già il
tempo ce la pubblica e la privata utilità fossero rico 103ciute ch.n: la misar
di calcolare l'importanza delle cognizioni; che la Religione s'impari nella sua
storia, nei suoi Dogmi, nella sua Morale, mi senza il pru:ito della
costroversia ; che nelle lingue doite si cerchi il gusto, ma senza pedanteria;
che le matematiche, e l'analisi ci servano di guida nelle cognizioni astratte;
che nelle scienze naturali si cerchino i mezzi per accrescere, o conservare la
sanità dei nostri corpi, o per influire ne la ricchezza nazionale, coltivando e
migliorando i prodotti dell'arte e della natura; e che finalmente la volgare e
popolare lingua, vero termometro della coltura nazionale, si perfezioni; che
non pud perfezionarsi, senza che si eserciti la ragione nello stesso tempo
'. [ocr errors] IV. A questa stupenda Direzione pei maestri, il De
Cosmi unì la prima parte dei Principj Generali del Discor30, che già aveva
stampato a solo sin. dal 1790 ; cui fece seguire ora dalla parte secondo, che
delle proposizioni, dei verbi, dei pronomi, delle congiunzioni s'intertiene,
chiudendola con alcune regole primarie ad illustrazione delle altre, messe in
fine della prima parte; e terminando l'aureo librettino con un capitolo sulla
Scelta dei libri necessari allo studio della lingua italiana; dove vuole che
siano preferiti i libri del Trecento; additando per libro di prima lettura il
Fiore di virtù o il Volgarizzamento dei Gradi di S. Girolamo, 'od anche gli
Ammaestra. minti degli antichi di frate Bartolomeo da San Concordio; e per la
seconda classe, il Trattato del Governo della famiglia di Agnolo Pandolfini
5. A sintesi di tutto il libretto il De Cosmi conchiude così: Ciò
che i maestri debbono inculcar continuamente alle tenere orecchie degli scolari
sarà la necessità delle regole e dell'uso; perchè l'uso e le regole sono i veri
arbitri di ogni lingua. Nulla contro le regole, nissuna parola fuori
dell'uso", Questo pregevole volumetto incontrò l'applauso di tutti i
letterati; e un di essi, che si volle occultare sotto le iniziali 0. G. R. P.,
ne fece una bellissima ed estesa rivista nelle Notizie Letterarie di
Cesena-agosto 1792 “. 1 G. A. De Cosmi, Op. cit., p. 17-18. .
Vedi sopra pag. 166. • G. A. De Cosat, Metodo ecc., p. 56-57."
• Lo stesso, Op. cit., p. 60-61. * Pag. 55 e seg. L'articolo
dell' O. G. R. P. venne riprodotto da Giov. D'Angelo nelle 840 Memorie per
servire alla Storia letteraria di Sicilia; vol. III, Ms. della Biblioteca
Comunale Cosmi. V. Cosmi. Giovanni
Agostino De Cosmi. Giovanni Cosmi. R Cosmi. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmi” – The Swimming-Pool Library.
Cossottini (Figline
Valdarno). Filosofo. Grice: “Cosotini considers ‘Home, sweet home,’ in terms of
linearity – surely Miss X can ‘improve’ on the score! Especially if she did
visit Payne’s little cottage by the sea – in Easthampton, and shed a tear!”. Si
laurea a Firenze con “Fenomenologia”. Fonda GRIM, Gruppo per la Reserccia
dell’Improvisazione Musicale. GRICE Gruppo por la research dell’Improvisazione
conversazione espressiva. Insegna Improvvisazione Musicale. Le Fanfole, canzoni
composte su testi del poemetto meta-semantico di Fosco Maraini Gnosi delle
Fanfole. Linearità e Nonlinearita in semiotica – sintagma lineare, sintagma
soprasegmentale – the volume of a sound – a ‘natural’ expression of pain – the
higher the volume, the higher the pine --. Grice on stress, intonation and
implicature. I KNOW it. I KNOW it (you don’t have to tell me). SMITH paid the
bill. Due conversazionaliste si muovono pacatamente per le loro vie, variando
direzioni e anche versi, ascoltandosi sempre, ma con dialoghi liberi e mai
serrati. “La musica dei matti” creazione dialogica di suoni del tutto libera e
interamente legata all'istante, tale da produrre mozzione conversazionale dallo
sviluppo verticale. Improvvisare la verità. Il concetto di ‘improvvisare’
improvissato – cf. English ‘improved’. Improvisation – improvised. Musica e
Filosofia. Realizza la partitura grafica Dettagliper tre esecutori, che
consiste di una mappa e ottantuno carte con segni grafici codificati (la mappa
e le carte sono i “veicoli” e il modo in cui si legge la grafia genera
molteplici possibilità di implicature. “wordless novel”. I suoi studi si
concentrano sulla filosofia della musica e sull’improvvisazione musicale,
scrivendo numerosi saggi per riviste specializzate come Musica Domani,
Perspectives of New Music, Aisthesis, Musicheria e la rivista online De Musica.
Inoltre pubblica un saggio sul silenzio
e sulle sue potenzialità performative. Metodologia dell'Improvvisazione
Musicale. Tra Linearità e Nonlinearità, un libro di metodologia
dell’improvvisazione musicale nel quale Cosottini teorizza la dicotomia tra
Linearità e Nonlineairtà come strumento per l’analisi dell’improvvisazione
musicale. Non-linearita EDT, il silenzio in contesto non lineare, Filosofia
della Musica. Non-linearità. Metodi non
lineari. EDT Non linearità. EDT Ascolto creativo e scrittura creativa di un’improvvisazione
musicale. Metodologia dell’improvvisazione musicale. Tra Linearità e
Nonlinearità Edizioni ETS, L’estetica dell’improvvisazione tra suono e silenzio
in Musica Domani, improvisation-research-center--musica-e-filosofia. Do You
Need A Sign. Mirio
Cosottini. Cossotini. Grice: “I am sure that a suprasegmental or non-linear
segment adds to what a conversationalist means – he means THAT Smith did not
pay the bill, and that somebody else did” – By stressing on LOVE he means that
he likes her AND that he loves her.” Keywords: prosodia, Hjelmslev, Hockett,
fonema, tratto sopra-segmentale, stress – Grice’s examples: “Smith kicked the
cat” – “Smith didn’t pay the bill. Nowell did.” “Smith didn’t pay the bill”. “I
knew it” “I love her” -- segno, nonlinearita, codice, soprasegmento. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cossottini” – The Swimming-Pool Library.
Costa (Torre
del Greco). Filosofo. Grice: “I love Costa; if I have to chose three of my
favourite essays of his, those would be, “Le passioni,” “L’uomo fuori di se:
l’esternalissazione’ and above all, his sublime, “l’estetica della
communicazione,’ which is what my philosophy is all about!” -- Mario Costa (Torre del Greco), filosofo. È
conosciuto, in particolare, per aver studiato le conseguenze, nell’arte e nell’estetica,
delle nuove tecnologie, introducendo nel dibattito filosofico una nuova
prospettiva teorica, attraverso concetti come "estetica della
comunicazione", "sublime tecnologico", "blocco
comunicante", "estetica del flusso". È stato Professore di Estetica all'Salerno e,
come professore incaricato di Metodologia e storia della critica letteraria e
di Etica ed estetica della comunicazione, ha contemporaneamente insegnato per
molti anni nelle Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" e di
Nizza (Sophia-Antipolis). A Salerno ha fondato e diretto, daArtmedia,
Laboratorio permanente dedicato al rapporto tra tecno-scienza, filosofia ed
estetica, organizzando su queste tematiche decine di iniziative di studio,
mostre e convegni internazionali. L'estetica dei media ha ottenuto il Premio
Nazionale "Diego Fabbri". Pubblicato una trentina di libri; alcuni di
essi e numerosi suoi saggi sono tradotti e pubblicati in Europa e in
America. Il suo lavoro teorico si è svolto in due momenti successivi ed ha
seguito due fondamentali direzioni di ricerca: l'interpretazione socio-politica
e filosofica delle avanguardie artistiche, e l'elaborazione di una filosofia
della tecnica costruita soprattutto attraverso l'analisi dei cambiamenti che la
nuova situazione tecno-antropologica ha indotto nell'arte e
nell'estetico. Per quanto riguarda la prima delle due direzioni indicate,
ha fornito un complesso di interpretazioni filosofiche ed estetiche di numerosi
movimenti dell'avanguardia artistica e letteraria. Momenti di particolare
rilievo in questo ambito di ricerca possono essere considerati i suoi lavori su
Duchamp e sulle funzioni della moderna critica d'arte, nonché i suoi studi sul
"lettrismo" e sullo "schematismo", movimenti artistici di
grande importanza, anche estetologica, ma, all'epoca, pressoché ignoti in
Italia. Per quanto riguarda la seconda delle direzioni indicate, il suo
pensiero si è a sua volta sviluppato secondo due assi fondamentali: uno
riguardante le conseguenze sociali ed etiche della comunicazione tecnologica,
riassunte soprattutto nel libro La televisione e le passioni che analizza gli
effetti disgreganti e distruttivi della televisione, e poi nel più recente La
disumanizzazione tecnologica, e l'altro, dominante rispetto al primo,
consistente in un ripensamento del senso che l'"estetico" e
l'"artistico" vanno assumendo nella fase attuale delle nuove
tecnologie elettro-elettroniche e digitali della scrittura, dell'immagine,
della spazialità, del suono e della comunicazione, ciò che lo ha condotto ad
una radicale ed originale reimpostazione teoretica di tutto il campo
investigato. Negli ultimi suoi lavori (Ontologia dei media, e Dopo la tecnica)
la prospettiva teoretica si è andata ulteriormente approfondendo dando luogo ad
una compiuta filosofia dei media e della tecnica in quanto tale. Alcune opere
rappresentative L'estetica dei media può considerarsi, per i contenuti trattati
e per la inedita metodologia di indagine instaurata e seguita, un libro che
apre un nuovo campo di ricerca, prima del tutto ignorato ed inesplorato dalle
discipline estetologiche, quello appunto della "estetica dei media",
da non confondere, ad esempio, con l'estetica della fotografia o con quella del
cinema, alle quali ha comunque dedicato altri suoi importanti lavori. Il libro
in questione segue ai diversi contributi teorici relativi all'estetica della
comunicazione le cui identificazione, nominazione e formulazione teorica
risalgono al 1983, e che è ora rappresentata, nella sola Italia, da numerose
Cattedre e indirizzi universitari. Il sublime tecnologico è considerato il
lavoro più noto e più innovativo di tutta la sua produzione teorica; è in esso
che, considerando le conseguenze indotte nel campo dell'arte e dell'estetico
dalla nuova situazione tecno-antropologica, si parla dell'oltrepassamento della
dimensione dell'arte e delle categorie ad essa connesse, nella direzione di una
nuova forma di sublime, quella appunto del sublime tecnologico, con tutto
quello che questo concetto implica e comporta. La nozione del sublime tecnologico
è stata diffusamente accolta e seguita sul piano internazionale della teoria
estetica ed ha sollecitato un incalcolabile numero di sperimentazioni da parte
di artisti di tutto il mondo. Arte contemporanea ed estetica del flusso traccia
le linee di una nuova estetica e della sperimentazione artistica che da essa
può scaturire. Si tratta da una parte di un violento e argomentato pamphlet
contro l'arte contemporanea, ritenuta “una congerie più o meno sgradevole di
nullità mercantili”, e dall'altra della tematizzazione ed elaborazione del
concetto di “flusso estetico tecnologico”, considerato come ultima e residua
possibilità di sperimentazione per gli artisti e come chiave per comprendere
alcuni aspetti dell'ontologia contemporanea. Dopo la tecnica () ripercorre la
storia delle varie epoche della tecnica sottolineandone la discontinuità e la
capacità di agire configurando, ogni volta in maniera diversa, l'organizzazione
antropologica di chi da esse è abitato. Sulla base di questi presupposti, si
mostra come la tecnica, una volta connessa e dipendente dai bisogni umani, si
va rendendo incondizionatamente autonoma forzando l'uomo a vivere dentro di
essa, ad appartenerle e a favorire il suo sviluppo. Altre opere: “Arte come
soprastruttura”, Napoli, CIDED, Teoria e Sociologia dell'arte, Napoli, Guida
Editori, Sulle funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di
Marcel Duchamp, Napoli, M.Ricciardi Editore, Il ‘lettrismo' di Isidore Isou.
Creatività e Soggetto nell'avanguardia artistica parigina posteriore, Roma,
Carucci Editore, Le immagini, la folla e il resto. Il dominio dell'immagine
nella società contemporanea, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Il sublime
tecnologico, Salerno, Edisud, L'estetica dei media. Tecnologie e produzione
artistica, Lecce, Capone Editore, Il ‘lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia,
Napoli, Morra, La televisione e le passioni, Napoli, A.Guida, 1Lo
‘schematismo'. Avanguardia e psicologia, Napoli, Morra, Lo ‘schématisme
parisien'.Tra post-informale ed estetica della comunicazione, Fondazione
G.E.Ghirardi, Piazzola sul Brenta (Padova), Sentimento del sublime e strategie
del simbolico, Salerno, Edisud, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria
dell'oggetto tecnologico, Genova/Milano, Costa & Nolan, Il sublime
tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Roma, Castelvecchi,
Tecnologie e costruzione del testo, Napoli, L'Orientale, L'estetica dei media.
Avanguardie e tecnologia, Roma, Castelvecchi, L'estetica della comunicazione.
Come il medium ha polverizzato il messaggio. Sull'uso estetico della
simultaneità a distanza, Roma, Castelvecchi, Dall'estetica dell'ornamento alla
computerart, Napoli, Tempo Lungo, Internet e globalizzazione estetica, Napoli,
Tempo Lungo, New Technologies, Artmedia-Museo del Sannio, oDimenticare l'arte.
Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Milano,
Franco Angeli, L'oggetto estetico e la critica, Salerno, Edisud, La
disumanizzazione tecnologica. Il destino dell'arte nell'epoca delle nuove tecnologie,
Milano, Costa & Nolan, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria
dell'oggetto estetico tecnologico, Milano, Costa & Nolan, Arte
contemporanea ed estetica del flusso, Vercelli, Mercurio Edizioni, Ontologia dei media, Milano, Post media books, Dopo la tecnica. Dal chopper alle similcose, Napoli,
Liguori Editore. Il lavoro teorico di Costa teso, tra l'altro, a definire la
nuova epoca dell'estetico connessa alle neo-tecnologie elettro-elettroniche e
digitali, e a fare in modo che questa si andasse ben configurando e definendo,
si è, per ciò stesso, sempre accompagnato ad un'intensa attività di promozione
estetico-culturale: agli inizi degli anni ottanta organizza a Napoli, col
supporto della RAI-TV, una grande esposizione di videoarte (Differenzavideo); per
sollecitare una riflessione sugli effetti estetico-antropologici indotti dalle
tecnologie della comunicazione, co-organizza (conPerniola) presso l'Salerno, il
Convegno Estetica e antropologia i cui Atti sono, in parte, pubblicati sulla Rivista
di estetica di Torino, necrea, con l'artista francese Fred Forest, il movimento
internazionale dell'Estetica della comunicazione che presenta in vari contesti (Electra di Frank Popper, al Centre Pompidou
a La Revue parlée di Blaise Gautier, ialla Sorbonne, al Séminaire de
Philosophie de l'art di Olivier Revault D'Allonnes); nei mesi di marzo-aprile
del 1984 dà luogo al primo evento/rassegna di estetica della comunicazione
(L'immaginario tecnologico, Benevento, Museo del Sannio); a partire dal 1985 concepisce
e dirige, presso l'Salerno, Artmedia, Convegno Internazionale di Estetica dei
Media e della Comunicazione; organizza presso l'Salerno un Convegno
Internazionale su estetica e tecnologia; nel febbraio 1989 organizza presso la
stessa Università il Convegno "Il suono da lontano". Eventi sonori e
tecnologie della comunicazione"; realizza, per la RAI-TV (Dipartimento
Scuola e Educazione) la trasmissione televisiva in tre puntate: Un'estetica per
i media; fa svolgere, presso la settecentesca Villa Bruno (S.GiorgioNapoli)
Technettronica. Laboratorio di Estetica dei Media e della Comunicazione; nel
1990 presenta per la prima volta in Italia presso l'Salerno due videoplays di
Samuel Beckett; nel 1995 fonda e dirige, la Rivista Internazionale Multilingue
Epipháneia. Ricerca estetica e tecnologie, fonda e dirige, presso le Edizioni
Tempo Lungo di Napoli, Vertici, una «Collana di Estetica e Poetiche» aperta
alle questioni estetologiche connesse ai nuovi media (testi di Francesco
Piselli, Anne Cauquelin, Theodor W. Adorno, Costa, Marie-Claude Vettraino-Solulard,
Dorfles); co-organizza a Parigi la VIII
Edizione di Artmedia; nell'ottobre 2003 co-organizza presso l'Salerno il
Convegno Internazionale Tecnologie e forme nell'arte e nella scienza; organizza
presso il Museo del Sannio di Benevento la Mostra New Technologies (Roy Ascott,
Maurizio Bolognini, Fred Forest, Richard Kriesche, Mit Mitropoulos); norganizza
presso l'Salerno la IX Edizione di Artmedia; nco-organizza a Parigi la X
Edizione di Artmedia; nell'ottobre 2009 organizza presso l'Salerno un seminario
conclusivo di Artmedia dal titolo "L'oggetto estetico dell'avvenire".
Sulle funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel
Duchamp, Napoli, Ricciardi Editore, 1976; Mario Costa, L'oggetto estetico e la critica,
Edisud, Salerno. Mario Costa, Il 'lettrismo' di Isidore Isou. Creatività e
Soggetto nell'avanguardia artistica parigina, Carucci Editore, Roma,Il
'lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia, Morra, Napoli, Si veda anche
Signe, forme, schéma, ornement, in "Schéma et schématisation", 57,
Parigi 2002, L'estetica dei media.
Avanguardie e tecnologia, Castelvecchi, Roma, Mario Costa, Il sublime
tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Castelvecchi, Roma,
Arte contemporanea ed estetica del flusso, Mercurio, Vercelli . Inoltre:
Technology, Artistic Production and the "Aesthetics of
communication", in "Leonardo", Tecnologie e costruzione del
testo, L'Orientale, Napoli, Reti e destino della scrittura. Sulla diffusione e
la rilevanza del suo pensiero, si vedano tra gli altri: Philippe Bootz, The
thesis of Walter Benjamin and Mario Costa, in Philippe Bootz, Sandy Baldwin,
Regards Croisés, West Virginia University Press, Alberto Abruzzese, Il compiersi
della pubblicità dal manifesto metropolitano ai linguaggi elettronici del
presente: pretesti, testi e questioni, in
(Riccardo Lattuada), Nuove tendenze ed esperienze nella comunicazione e
nell'estetico, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Derrick de Kerckhove,
L'estetica dei media e la sensibilità spaziale. Riflessioni su un libro di
Mario Costa, in "Mass Media",Frank Popper, L'art à l'âge
électronique, Paris, Hazan, Mario Costa, professore di estetica, in
MCmicrocomputer, n. 208, Roma, Pluricom. Grice: “Costa uses words in ways we
don’t allow at Oxford: a sign by which nobody signs; and so on.Mario Costa.
Keywords: blocco comunicante, communicazione sine contenuto, communicazione
fatica, semiotica, estetica della comunicazione, significante sine significato
– segno sine segnato – autoreferenzialita – asemanticita – sintassi – retorica
– codice – intenzione communicative, medio, messaggio, recursivita,
self-reference, meta-linguaggio – linguaggio come metalinguaggio -- - Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Costa” – The Swimming-Pool Library.
Costa (Ravenna).
Filosofo. Grice: “My favourite keyword for Costa is ‘contrassegnare’!” – Grice:
““I love Costa; for one, he improves on Locke; on the composition of ideas and
how to ‘countersignal’ them with ‘vocaboli precisi’ – I explored that a little
in my ‘Prejudices and Predilections,’ when I attack minimalism and
extensionalism, and provide a way which is meant to resemble Locke’s way of
words, or rather Locke’s way of ‘complex’ words, or ‘composite’ (Costa’s
‘comporre’) out of ‘simple’ ones – as in Quine’s worn-out ‘bachelor’ unmarried
male that I play with with Strawson in “In defense of a dogma.” In this
respect, it is interesting to see that Costa also wrote on ‘ellocution’ and ‘sintesi’
versus ‘analisi’!” Figlio di Domenico e Lucrezia Ricciarelli, studia a Ravenna
e Padova. Insegna a Treviso e Bologna, a Villa Costa, Bologna -- è costretto a riparare
a Corfù perché sospettato di essere affiliato alla Carboneria. Può rientrare a
Bologna. Altre opere: “I trattati della elocuzione e del modo di esprimere
l’idea e di segnarla con una espressione precisa a fine di ben ragionare” –
Colla profferenza, “Fa fredo,” Costa segna che fa freddo. Il trattato
filosofico della sintesi e dell'analisi; i quattro sermoni dell'arte poetica,
un commento alla Divina Commedia, la Vita di Dante, il Dizionario della lingua
italiana, poesie (Laocoonte), lettere e traduzioni. Letterato neo-classico e dunque tipicamente
italiano e anti-romantico, ammira i corregionali Monti e Giordani e sostenitore
del purismo e del “sensismo” lucreziano in filosofia. Nella lettera a Ranalli
di introduzione al Della sintesi e dell'analisi così riassume le sue concezioni
filosofiche. È necessario, per togliere la infinita confusione che è nelle
scienze ideologiche, di dare all’espressione un determinato valore. Sostengo
che questo non si può ottenere, come crede Locke, colla de-finizione (horismos)
(la quale e una scomposizioni di una idea o di piu idee), se prima la idea non
sia stata ben composta. Sostengo che questa non si puo compor bene, se prima
non si conosce quale ne sieno gli elementi semplici – soggetto e predicato, il
S e P -- Sostengo che un elemento semplice e una reminiscenza relative a una
sensazione, e che la idea si compone di almenno due di sì fatti elementi – il S
e P – la proposizione, ‘segno che p’ -- e del sentimento del rapporto di una
reminiscenza e dell’altra, cioè dei proposizione – nel indicativo o imperative –
il giudizio – il giudicato – e la volizione – il volute. Da ciò conséguita che
l'esperienza (se l'esperienza vale ciò che si sente mediante l'attenzione) è il
fondamento della scienza umana. I kantisti ed altri filosofi distinguono una
idea in una idea soggettiva e in una idea oggettiva, ed attribuiscono
un'origine a posteriori e sintetico alla una ed un'origine a priori e analitico
all’ltra. Questa distinzione può esser buona, ma non è buona l'ammettere che abbiano
origini di natura diversa: a posteriori/sintetico, dal senso – e a
priori/analitico – dall’intelleto – nihil est in intellectus quod prior non
fuerit in sensu. Ogni idea ha un stesso
origine. e questo si fa palese per un solo esempio. Da una idea soggettiva puo
nascere sue proposizioni. Una
proposizione: "La reminiscenza S1 e la reminicenza S2 sono in me”. Altra
proposizione: “La reminiscenza S si associa con la reminiscenza P”. Qual è
l'origine dell’idea dalla quale deriva sì fatta proposizione? Il sentimento.
Dire che la reminiscenza del color di rosa è in me, è dire che sento che è in
me, e dico: “Vedo una macchia rosa”. Così direte dell'altra proposizione.
Dall’idea oggettiva puo nascere una proposizione e altra proposizione. Il corpo
pesa. La rosa manda odore. Da che nasce la proposizione? Dal sentimento (senso).
Perciocché dire che questo corpo pesa è lo stesso che dire che sento il peso di
questo corpo; giu-dico, ovvero, sento che la cagione (causante, causans) della
mia sensazione tattile del senso del tattoo è in questo corpo. Così dire che la
rose manda odore è lo stesso che dire che sento l'odore della rosa, giu-dico,
ovvero, sento che l'odore dela rosa ha una delle cagioni in cose fuori, cioè
che non sono in me. Fra una idea soggettiva e una idea oggettiva non vi è altra
differenza, se non che nella che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è nella nostra
persona. Nell’idea che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è in
me (o noi entrambi – nella diada --), nell’idea soggetiva nella cosa (il
reale). fuori. Ma come sentiamo noi che vi sia una cosa (il reale) fuori?
Questo è il gran problema dagl'ideologi non ancora solute. Ma l'ignoranza in
che siamo non dà facoltà legittima alla scuola trascendentali di concludere che
il giudizio dell’idea soggetiva non dipende dal sentire. Il giudicio è un
sentimento, cioè, un rapporto sentito fra una sensazione e altre sensazione,
una reminicenza (il S) e altra reminiscenza (il P); ché se tale non fosse,
nessuno potrebbe dire che l'idea che abiamo di una rosa p.e. ha la sue cagioni
fuori di noi entrambi, perciocché una sì fatta proposizione suppone che l'uomo
che proferisce questa proposizione o explicatura (spiegato) abbia o la
sensazione S e la sensazione P, o le reminiscenza S e la reminiscenza P in
relazione alla sensazione prodotte dalla rosa, e l'idea del sentente. Voi
vedete chiaramente, che nell'uno e nell'altro degli addotti esempii la
modificazione che chiamamo ‘idea,’ e il sentimento dei loro rapporti sono nella
nostre anime ambidue, e che quindi si esprimono falsamente coloro, che dicono
che sentiamo il corpo fuori di noi. Dovrebbero dire, strettamente, che sentiamo
che la cagione (causans) del nostro sentire (sentito) non è in noi entrambe.
Coi fondamenti da me posti si può stabilire una dottrina, se il buon desiderio
non mi acceca, per la quale vadano a terra le opinioni di coloro che disprezzano
il sensismo, e che con odiosa espressione la chiamano dottrina de' “sensuali”.
Con che danno a divedere, che essi mattamente opinano che il materiale organo
del senso (i cinque organi, i cinque sensi) senta e percepisca, senza
accorgersi che se gli occhi (visum) e le orecchie (auditum) e il naso (odore) sentissero
ciascuno separatamente, non potrebbe giammai nascere giudizio alcuno circa la
qualità della sensazione di natura
diversa. L’uomo non potrebbe mai dire che l’odore della rosa mi diletta più del
colore della rosa, e così via discorrendo. Il sentimento di un solo centro,
nostre anime ambidue: e nostre anima ambidue senteno in sé mesima, e non fuori
di sé. Puo parere che questa dottrina del sensismo sia la stessa che quella
dell'idealista irlandese Bercleio; ma essa è diversa, poiché ammette che oltre
la idea vi sieno fuori dell'uomo la cagione (causans) di essa idea. Di questa
cagione (causans) – il reale, il noumeno -- noi conosciamo l'esistenza, e nulla
più. Che cosa e un corpo in se stesso? A questa interrogazione non si può
rispondere se non dicendo che e ignota la cagione della nostra sensazione
condivisa. Sappiamo che esiste, sappiamo che si modifica, e tutto ciò sappiamo,
perché fa della mutazione nell'animo nostro ambedue o nell’anima nostra ambedue.
Dal che si deduce ciò che dianzi vi dissi, che ogni idea ha per loro due primitivi
elementi (il S e P) la sensazione, la reminiscenza, il sentimento che e nelle
nostre anime ambidue, e non fuori di lei. Così la pensa il filosofo chiamato
per beffa dal cattolico romano col nome di sensualista e di materialista.
Materialista a buona ragione si puo chiamare i nostri avversario, o almeno
materialista per metà, giacché ammette che il sentimento del corpo
percepiscano, e giudichino relativamente alla qualità del reale, della cosa
esterna. Leggete le lettere filosofiche di Galluppi stampate non è guari in
Firenze. In Galluppi troverete chiaramente esposte la dottrine sensista, quelle
di Hume circa la cagione, e segnatamente quelle di Kant. Se dalle mie teoriche
si possono ricavare gli argomenti validi a confutare le opinioni del filosofo
trascendentale, o di coloro, che oggi si danno il nome di eclettico – come ha
tempo Cicerone --, io vi prego di compilare alcune note, o vogliam dire
corollarii, pei quali si vegga manifesta la falsità di alcuni principii del
irlandese Bercleio, del scozzese Reid e del scozzese-tedesco Kant, la filosofia
dei quali è fonte della massima parte della moderne follia (Della Sintesi e
dell'Analisi, ed. Liber Liber / Fara Editore). Altre opere: “Alighieri”; “Della
elocuzione” Fara editore, S. Arcangelo di Romagna); “Della sintesi e
dell'analisi” (Giovanni Battista Borghi e Melchiorre Missirini); “La divina
commedia, con le note di Paolo Costa, e gli argomenti dell'Ab.G. Borghi. Adorna
de 500 vignette” (Giovanni Battista Niccolini e Giuseppe Bezzuoli, Firenze, Stabilimento
artistico Fabris,Claudio Chiancone, La scuola di Cesarotti e gli esordi del
giovane Foscolo, Pisa, Edizioni ETS (sulla formazione padovana del Costa, e sulla
sua amicizia giovanile col Foscolo) Filippo Mordani, Vite di ravegnani
illustri, Ravenna, Stampe de' Roveri. Dizionario biografico degli italiani. Una
delle facoltà, onde l'uomo è tanto superiore alle bestie, si è la favella
[fabula – da ‘fa’, speak – cf. fama], mercè della quale i primi uomini non solo
si strinsero in comunanza civile, ed ordinarono la legge ed il governo; ma a
fare più beata e gloriosa la vita crebbero le scienze e le arti, ed ispirarono
con queste l'odio al vizio ed al falso; l'amore della virtù, del vero, del
bello; e i fatti e i nomi degni di memoria ai tardi secoli tramandarono. E qual
cosa è più utile ai privati, ed alla repubblica e più degna e di maggiore
onore, che l'arte di gentilmenle parlare? Per questa ci è aperta la via alla
dignità, alla fortune ed alla fama; per questa le città si mantene ordinata e
pacifica; per questa sono animati i
guerrieri – come Niso ed Eurialo --, encomiato un principio; per questa con più
degni modi si loda e si prega il supremo autore elle cose, e pura e viva si
mantiene nel cuor degli uomini la religione. Laonde, se desiderate onore o
giovamento a voi stessi ed alla Italia, ardentemente volgete l'animo a questo
nobilissimo studio del parlare o discorsare civile. Che se vi fu dolce fatica
l'interpretare e l'imitare gli antichi filosofi romani, non meno dolce vi e il
venire meco investigando il magistero, che è nelle opere loro; imperciocchè,
essendo la favella [la lingua, il parlare] istrumento col quale si commovono e
si traggono gli animi degli uomini, uopo è di volgere sovente la considerazione
alle proprietà dell'intelletto e del cuore umano; il che , pel naturale
desiderio, che abbi mo di conoscere noi stessi, è dilettevolissimo. Mettiamoci dunque
volentieri a quest'opera; e per cominciare con ordine , poniam subitomente al
fine, che si propone chi scrive, perocche non sarà poi difficile temperare ed
ordinare secondo quello il modo del favellare. La favella – nella diada
conversazionale -- intende a *manifestare* (cfr. Vitters) ad altro un pensiero
e un affetto proprio con soddisfazione dell’altro. Ad ottenere questo FINE,
sono necessarie due codizioni. Prima: che la elocuzione sia chiarà – Grice:
“imperative of conversational clarity). Seconda condizione: che l’elocuzione
sia ornata convenevolmente. Parliamo tosto della chiarezza conversazionale, che
poco appresso diremo dell' ornament. La chiarezza da due cose procede. Prima:
dalla qualità dell’espresione, che si pone in uso. Secondo: dalla collocazione –
cum-locatio, syn-taxis -- loro. Prima diciamo della qualità dell’espressione,
L’espressione, che e un *segno* [cf. Grice: Words are not signs] di una idea,
fa perfettamente l'ufficio suo ogni qual volta sia ben determinata, cioè
appropriata a ciascuna idea singolare per nodo, che non possa a verun' altra
appartenere. Per meglio iutendere in che consista la natura loro, bisogna considerare
che ogni idea e composta – il S e P - ; e che alcune, differendo da altre in
pochi elementi, abbisognano di segno particolare, per apparire distinte.
Quell’espressione che la distingue dicesi “proprio”. Vaglia un esempio. L'idea
di ‘frutto’ ha per suoi elementi le idee delle qualità comuni a ogni frutto;
l'idea di “melagrana,” oltre i detti elementi , comprende le idee delle qualità
particolari della melagrana: perciò è che, se chiameremo frutto la melagrana,
quando è mestieri distinguerla, non parleremo con proprietà. (cf. Lawrence:
What is that? E un fiore). Ho qui recato il materiale esempio di un errore, in
che è diſficile di cadere, affinché si vegga chiaramente non essere molto
dissimile da questo l'errore di coloro, che d'altre cose ragionando usano i
vocaboli generali (fiore) per ignoranza' de'particolari (tulipano). Tanto
sconvenevol cosa si repula l 'usare una espressione impropria, dice il Casa,
che si hanno per non costumali coloro, i quali, non dan dosene gran pensiero,
pare che amino di essere frantesi, e nulla curino il fastidio di chi si sforza
d'intenderli: all'incontro coloro, i quali usano l’espressione propria,
mostrano di essere civili, essendo solleciti di alleviare altrui la fatica [cf.
Grice, prinzipio di economia dello sforzo razionale], poichè pare che mercè
della espressione proprie le cose si mostrino, non coll’espressione, ma con
esso il dito. I poeti, che sono lodali per la evidenza, onde le cose ci pongono
dinanzi agli occhi ci somministrano
esempi del modo assai proprio. Giovi recarne qui alcuno a schiarimenlo di
quanto abbiamo detto: Come d'un tizzo verde, ch'arso sia dall'un de capi che
dall'altro geme, e cigola per vento, che va via. È qui da notare come
l’espressione “tizzo” e l’espressione “cigola” meglio ci rappresentano la cosa,
che arde, e l'effetto del fuoco, di quello che se Alighieri avesse detto: un
ramo verde fa romore per vento che va via, essendo questa SIGNIFICAZIONE alta a
denotare altra idea non simili in tutto a quella che si voleva esprimere. Cosi
Petrarca disse propriamente: raffigurato alle fattezze conte, piuttosto che
dire alla persona; e Alighieri: levando i moncherin per Ľaria fosca, in vece di
dire, levando le braccia tronche. Qui si vede come l’espressione “fattezza” e l’espressione
“moncherino” sieno meglio usati per essere espressione di SIGNIFICAZIONE
SINGOLARE. Se la proprietà [cf. be as informative as is required – avoid
ambiguity] è si necessaria a SIGNIFICARE la cosa che cade sotto i sensi, quanto
maggiormente nol sarà ella, quando si vogliono esprimere le idee intellettuali
e le morali, che se non fossero determinata in virtù dell’espressione, o svanirebbero
dalla mente nostra, o vi starebbero disordinate e mal ferme? A quel modo che
dalla precisione delle cifre dell'aritmetica dipende la esattezza de’ calcoli,
cosi dalla proprietà dell’espressione dipende quella delle idee e de'
ragionamenti in qualsivoglia delle scienze astratte; e quindi ottima è quella
sentenza del filosofo: consistere il sommo dell'arte di ragionare nel l'uso di
un discorso bene ordinata. Anche Piccolomini ha detto della sua parafrasi di
Aristotele, che la base e il fondamento della elocuzione si ha da stimar che
sia la purità, la netlezza e candidezza – cf. Grice, the imperative of
conversational candour -- di quel discorso, nella quale l'uom parla. Ad
acquistare l'abito di discurrire con proprietà tre cose si richieggono.
Prima, il saper bene dividere le idee
fino ai primi loro elementi. Secondo, il conoscere l'etimologia
dell’espressione (etimo: il vero), per quanto è possibile. Terzo, il rendersi
famigliari le opere degli antichi filosofi romani, ne'quali è dovizia di voci
pure e di modi assai propri. Chi non ha uso delle delle cose è spesso costretto
di adoperare le noiose circonlocuzioni in luogo di un solo vocabolo o di una
breve sentenza, e di abusare de sinonimi. Si dice “sinonimo” l’espressione di una
medesima sigoificazione, o quelli, che rappresentando le stesse idee
principali, differiscono in qualche accessoria. Della prima generazione sono i
seguenti: fine e finimenio; abbadia e badia; consenso e consentimenlo e simili.
Aliri ne trov po nella formazione de' tempi, e de'partecipii, come rendei e
rendetli ; visto e veduto; parso e paruto; ma colali sinonimi non sono in gran
numero. La più parle è di quelli che differiscono per aumento, o diſelto di
qualche idea accessoria. Cavallo, corridore, destriero , palafreno, poledro,
rozza, sono espressioni istituite a significare il medesimo animale; ma ognuna
differisce dall'altra. “Cavallo” denola la qualità della specie; “corridore” la
particolarità d'esser veloce; “destriero” ricorda l'uso di menare il cavallo a
mano destra; “palafreno” quello di frenarlo colla mano; “poledro” la qualità
dell'essere giovane; “rozza” quella dell'essere vecchio e disadalto. Le voci
unico e solo sembrano per avventura la stessa cosa; ma il Petrarca disse la sua
donna essere “unica e sola” (one and only), volendo significare che nessun'altra
è nella schiera di Laura, e che nessuna può esserle dala in compagnia. Incontra
alle volte, che le parole istituile a significare un'idea stessa differiscono
per la virtù, che haono di richiainarne alla mente alcun'altra più o men nobile,
o per cagione del suono o vobile o rimesso, o per cagione dell'uso, che di
quella suol esser fatlo in umile o in illustre componimento. Tali sono , a
cagione d'esempio, i vocaboli “adesso” ed “ora”, che significano ‘il momento
presente’, ma “adesso” non sarebbe ricevuto in nobile componimento ; dal che si
vede che sebbene ei denoli il punto presente del tempo, come fa l'altro, pure
trae in sua compagnia alcune idee, che il fanno parere di bassa condizione. É
dunque da por wenle che l’espressione, che si dice sinonimo, non sempre ci
rappresentano stesso complesso d'idee ; e quindi può intervenire, che ingannali
dall'apparenza, alcuna votla siamo lralli ad usarli impropriamenle. È da
avvertire per ultimo, che ogni espressione antiquale, cioè quelle, che pel consenso
universale de’ filosofi sono stale abolite, non hanno più luogo tra le voci
proprie. Si uilmente sono improprie ogni espressione dei dialelli parlicolari,
e l’espressione forastiera, che dall'uso de' wigliori filosofi non hanno avuto
la cile tadinanza. Le quali tutte non sarebbero bene intese dall'intera Italia;
e perciò denuo essere, da chi desidera di discurrire chiaramente, a lullo
polere schivale. Questo basli aver dello della proprietà, che è la prima cosa,
che si richiede a render chiara le elocuzione. Direino poi a suo luogo come il
trasporlare con altra legge di proprietà l’espressione dal significato proprio
all'improprio giovi maravigliosamente alla chiarezza. In virtù dell’espressione
esprimiamo i nostri giudizii, e collegando insieme il giudizio espresso
formiamo i raziocioii, i quali verranno chiari alla menle altrui , qualvolta
sieno osservate le leggi, di che ora faremo parola; ma prima si vuole
avvertire, cha talora il discorso può es sere ordinato secondo le leggi, per le
quali ' riesce chiaro, ma non avere poi quella forza, quella virtù e quella
eſficacia, che avrebbe, se si disponessero le parole diversamente senza però
offendere le delle leggi. A suo luogo direno della disposizione (sintassi)
delle parole, che agagiunge efficacia al discorso. Ora è a dire solo tanto di
quella, che lo fa chiaro. Ogni giudizio espresso dicesi proposizione. Nel ragionamento,
il quale di nolle proposizioni si compone, alcuna vene ba, che viene modificata
dalle altre. Quella, che è modificata, dicesi principale, le allre suballerne
(o minore). Vaglia a ben distinguerle il seguente esempio del Casa. Menire i
nostri nobili cittadini gli agi e le morbidezze e i privuli loro comodi
abbracciano e stringono, l'impera lore, non dormendo nè riposandu , mu travagliando
e fabbricando, ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta. L'imperatore ha
la sua fierezza e la sua forza accresciuta è la proposizione (premessa) principale
(maiore), le altre, che lei modificano, sono le subaltern (premessa minore). La
proposizio ne principale, a somiglianza della principale figura in un dipinto,
dee fra tutte le subalterne campeggiare e risplendere; per ciò è che vuolsi
evitare la frequenza di queste ultime, le quali, allorchè fossero troppe, invece
di raflorzare la principale o premessa maiore, siccome è loro officio,
verrebbero ad indebolirla. Questa si è la prima avvertenza , che circa le
proposizioni subalterne aver dee colui che discurre; indi si prenderà cura di
ben' collocarle. Prima che veniamo a dire quale sia la buona collocazione loro,
è necessario di osservare, che le delle proposizioni subalterne si distin guono
in espresse ed in implicite. Diconsi espresse quelle, nelle quali tutte le
parli loro sono manifeste, come nella seguente : ľuomo è ragionevole. Diconsi
implicite quando il giudizio che si esprime, e significati dall nome addiettivo
o dal nome sustantivo con preposizione o dall’avverbio, come nelle seguenti.
L’uomo GIUSTO è lodato. Pilade ama Oreste. CON. I romani amarono GRANDEMENTE la
patria. Quando si dice “l'uomo giusto” si viene ad affermare che ad esso si
appartiene la giustizia, che è quanto dire giudichiamo che egli è giusto. Si
dica il medesimo delle altre due proposizioni. Ama con FEDE GRANDEMENTE, La
proposizione IMPLICITA (entimema, implicatura) serve a significar del giudizio,
che per abilo la mente umana FEDE amarono suol fare rapidamente; perciò è che
non si denno usare in vece di quelle la proposizione espressa, SPLICITA
(splicatura), perciocchè impedirebbero la spedi tezza dell' intelletto di
nostro compagno conversazionale. Si dovranno ancora nello scegliere la
proposizione implicita (implicatura, impiegato) schivare le inutili, cioè
quelle, che risveglierebbero le idee, che in virtù del solo sustantivo o del
solo verbo possono essere richiamate a mente, e scegliere quelle, che meglio
qualificano il significato. Sarebbe, a cagione d ' esempio, vano (redundante) e
noioso l'aggiunto di “bianca” alla “neve” (salvo se il caso richiedesse di far
conoscere parti colarmente questa qualità), essendo che l’espressione “neve”
trae seco, senz'altro aiulo, la idea di ‘bianco’ (cf. ‘atleta’ ‘longo’).
Rispello alla collocazione della proposiziona suballerna, sia ella implicite o
espresse, la regola (massima, imperativo) si mostra di per sé: imperciocchè, essendo
intese a denotare alcuna qualità del signato o da' sustantivo o da' verbo o da'
participio, deve chiaramente apparire a quali di queste parti dell'orazione (l’otto
parti dell’orazione – partes orationis) vogliono appartenere; e perciò fa
mestieri collocarle in luogo tale, che mai non venga dubbio se sia poste a
modificare piuttosto l'uno, che l' altro o verbo o participio o sustantivo.
Quao do a ciò si manca nasce perplessità (“misleading, but true) come nel
seguente luogo di Boccaccio. E comechè Aligheri aver questo libretto fallo
nell'età più matura si vergognasse. Qui può sembrare che il libretto sia stato
falto nell' età più matura; che se avesse dello: comechè egli aver futto questo
libretto si vergognasse nell'età più matura, la proposizione sarebbe stata
chiarissima. Alcuna perplessità è ancora in quest'a tro di Passavanti: Leggesi,
ed è scritto dal venerabile dottor Beda, che negli anni domini ottocento sei un
uomo passò di questa vila in Inghilterra. Comechè non sia per cadere nel
pensiero di alcuno che colui, che si parle di questa vita, possa andare in
Inghilterra, nulladimeno, per quella collocazione di parole, la mente di chi legge
resla alcun poco sospesa. Molte traspposizioni, che si bia simano nella lingua
italiana, sono spesso con venevoli nella lingua latina, perchè nella lingua
romana gli aggettivi, che per le desinenze diverse nei generi, nei numeri e nei
casi si accordano coi sustantivi, rade volte lasciano dubbio a cui vogliano
appartenere, e rade volte i casi obliqui si confondono col caso retto, comunque
nella proposizione sieno collocati. Bellissimo è in latino il seguente luogo di
Crasso, riportato da Cicerone. Haec tibi est excidenda lingua, qua vel evulsa
spiritu ipso libidinem tuam libertas mea refutabit. Tenendo l'ordine di queste
parole nella lingua italiana si produce falsità nella sentenza: sconvolgendolo
si perde tutta l'efficacia. Se diremo. Questa lingua li è d'uopo recidere:
recisa questa, col fiato stesso la tua sfrenatezza la libertà mia reprimerà,
apparirà che la sfrenatezza reprima la libertà. Se per lo contrario tradurremo.
La libertà mia reprimerà la tua sfrenatezza, toglieremo alla sentenza molto
della sua forza. Vedremo a suo luogo la ragione, per cui la diversa
collocazione di una espressione semplice rafforza o snerva l'espressione
complessa. Ora ci basti osservare, poichè cade in acconcio, che le varie lingue
(parlando ora della sola facoltà, che hanno di permutare il luogo alle parole),
luttochè sieno alle a qua. Junque specie di componimento, nol sono ad esprimere
uno stesso concetto nella stessa forma; perciò è che quando si trasportano le
scritture da una favella ad un'altra non dovrà l'espositore darsi briga di
ritrarre espressione per espressione, ma, avendo rispetto al genio della sua
lingua, cercherà di produrre per altro conve pevol modo negli animi di nostro
compagno conversazionale gli effetti, che l’espressione in lui operarono. Per
fuggire le equivocazioni [cf. Grice, avoid ambiguity] gioverà ancora badare ne'
verbi alla prima voce dell'imperfetto dell'indicativo, la quale è simile alla
terza, dicendosi io amava, colui amava; perciò a distinguerle è sovente bisogno
di pre ineltere all’espressione ‘amava’ il nome o il pronome. Giova spesso alla
chiarezza, e segnatamente nell’espressione complessa o composita, il ben distinguere
le persone e le cose, delle quali si parla (il topico); e perciò sta bene
talvolta il *ripetere* il nome per non confondere l’una coll'altra;
imperciocchè i prononi e i relativi sogliono spesso essere cagione di equivoco
– confusione – cf. avoid ambiguity, be perspicuous [sic], the imperative of
conversational clarity; e questo interviene specialmente, quando nella
proposizione antecedente sono più sustantivi di un medesimo genere e numero,
che si possono accordare coi relativi delle susseguenti; perciò conviene tal
volta o giovarsi di un sinonimo onde porre in luogo di alcun nome mascolino un
femminino, o inulare il numero del più in quello del meno, o viceversa. Può ancora
geverarsi perplessità nell'usare il possessivo “suo” e “suoi” invece de
relativo lei, lui e loro; e perciò alle volle è necessario adoperar questo per
quello, come nel caso seguente. Mai da sè partir nol potè, infino a lanto che
egli (Cimone) non l'ebbe fino alla casa di lei accompagnata. Se Boccaccio
avesse detto, fino alla casa sua accompagnata, si sarebbe potuto credere essere
quella di Cimone. Per far maniſesta (esplicita, chiarissima) la connessione
de'ragionamenti sono assai opportune le particelle copulative (“e”(,
avversative (“ma”), illative (“se”) e somiglianti – disgiuntiva (“o”). Molli
fra' filosofi italiani, ad imitazione de’ filosofi francesi, sogliono scrivere
a piccoli membri senza congiungerli insieme colle particelle, e in ciò sono da
biasimare, iaperciocchè costringono la mente di nostro compagno conversazionale
a passare “di salto” da una proposizione all'altra senza dargli occasione di
scorgere subitamente le attenenze (pertinenza, relevanza – cf. Grice, category
of relation – be relevant – a ‘platitude’ -- Strawson) loro. Affinchè si vegga
manifestamente quanto la mancanza de' legamenti tolga di chiarezza al discorso,
leverò dal seguente luogo del Passavanti le particelle che ne conneltono le
parti. Qualunque persona sogna, pensi se il suo sogno corrisponde all affezione
sua, a quella che più ta sprona. Se vede che si , non a . spetti che al sogno
suo debba altro segui. tare. Quel sogno non è cagione, alla quale debba altro
effetto seguitare; è l'effetto dell'affezione della persona. Tale sogno oseservare,
cioè considerare donde proceda, non è in sè male: è l'effetto di naturale cagione.
Facciamo congiunti questi membri colla particella “e”, la
particella”imperciocchè, la particella “ma” e vedremo il discorso apparire più
chiaro (“She was poor and she was honest”) Qualunque persona sogna, pensi se il
suo sogno corrisponde all’affezione sua, a quella, che più lu sprona. E se vede
che si, non aspetti che al sogno suo debba altro seguilare; *imperciocchè* quel
sogno non è cagione, alla quale debba altro effetto seguitare; *ma* è l'effetto
del l'affezione della persona; e tale sogno osservare, cioè considerare donde
proceda, non è in sè male: imperciocchè è l'effetto di natural cagione. Quesli
pochi avvertimenti basteranno, se io non erro, a render cauti i conversatori,
che desiderano di conversare chiaramente. Tralascio le wolle cose, che i
filosofi hanno ragionato in torno la proposizione, poichè mi pare che, qual
volta siasi imparato a distinguere la proposizione principale (premessa maiore)
dalle proposizione subalterna (premessa minore), e siasi conosciuto che la
virtù di queste si è di modificare le parti dell'altra, non faccia mestieri di
*molto sottile* ragionamento a sapere in che modo elle si debbono collocare
nella orazione o espressione complessa; perciò senza più entro a parlare dell'
ornamento. La perſezione dell'arte del conversare, secondo Cicerone, consiste
nell'esporre chiaramente, or nataniente e convenevolmente le cose o il topico,
che a trattare imprendiamo. Di quella chiarezza e di quell'ornamento e decoro,
che dalla invenzione e disposizione della materia procede, si ragiona in altre
due parti della rettorica. Accade qui di parlare delle suddette tre qualità
solamente rispetto al modo di significare (modus significandi) il concetto
ritrovati. Avendo abbastanza detto della prima, diremo ora delle altre due, che
fanno il discorso – la mozione conversazionale -- accetto a nostro compagno
conversazionale. Prima di tullo si vuole osservare che la proprietà delle voci
e l'ordinata (cf. Grice, be orderly) composizione loro generano gran parte
della bellezza del discorso; imperciocchè fanno sì, che esso sia inleso senza
fatica, che è quanto dire con qualche sorta di piacere. Ma questo non basta;
chè nessuno per verità loda il conversatore solamente perchè si fa intendere
dal suo compagno conversazionale; ma lo biasima e sprezza, s ' ei ſa
altrimenti. Chi è dunque che faccia meravigliare gli uomini e tragga a sua
voglia le volontà loro? Chi è applaudito e chi è venerato più che more tale?
Colui, che nel conversare è distinto, copioso, splendido, armonioso, e che
queste qualità, onde si forma l'ornamento, congiunge al decoro. Que' che
conversa co'rispetti, che la qualità delle materia e del compagno
conversazionale richiede, solo merita lode: che qualsivoglia ornamento
disgiunto dal decoro diviene sconcezza e deformità. Di questo decoro diremo più
particolarmente a suo luogo; ora veniamo a discorrere le parti dell'ornamento.
Molto leggiadre ed efficaci sono le voci proprie, che per cagione del loro suono
hanno somiglianza col significato, o quelle che ne ricordano qualche
particolare qualità. E espressiona, che ricorda il significato per somiglianza
di suono le seguenti: “belato”; “ruggito”; “soffio”; “nitrito”; “boato”;
“rimbombo”; “tonfo”, e molte al tre, che per alcuni furono chiamate termini
figure, a differenza di quelle, che, non avendo soosiglianza veruna col
significato , furono delle termini memorativi o cifre. Fra i termini figure voglionsi
annoverare, oltre le voci che abbiamo teste accennat , quelle che o provengono
da altr’espressione, che è segno di cosa somigliante al signficato che si vuol
esprimere o communicare (cf. Grice on the circularity of analyising ‘signare’ e
‘communicare’), o ricordano l'origine o gli usi del significato. L’espressione
“spirito” è bella per certa tal qual somiglianza, che il significato, cioè
l’immateriale sostanza, sembra avere col fialo o con qualsivoglia altra sottil
materia, che spiri. Belle similmente e l’espressione “moneta” e l’espressione
“pecunia”. la prima delle quali, venen do da “moneo”, significa che il metallo
ed il conio ammoniscono la gente circa il valore di essa moneta. La seconda,
venendo da pecus, ricorda l'origine del denaro, che fu sostituito ai buoi ed
alle pecore, antica inisura delle cose mercatabili. Ho qui posti questi due
esempi ancora perchè si vegga ' quanto giovi alcuna volta l'investigare
l’etimologia. Concorrono co' termini propri e co' termini figure a far bella la
mozione conversazionale le parole nobili, qualvolta sieno convenevolmente
adoperate. Accade delle parole, dice Pallavicini, che comunemente accade degli
uomini nel civil conversare. Questi acquistano ripulazione o vilipendio dalla
qualità delle persone colle quali usano farnigliarmente; e le parole dalla
qualità delle persone da cui sono sovente proſerite; e ciò interviene perchè
tutti hanno per fermo, che i personaggi illustri e gli uomini letterati sieno
esperti a conversare con legge, e che la plebe allo incontro parli e cianci barbaramente.
Avviene da ciò che alcune voci, che significano cose vili o laide, sono
tuttavia tenute per nobilissime. All 'opposito altre ve a'ba, che, nobili cose
significando, in grave componimento non sarebbero lodate. Della prima spezie
sono in Italia l’espressione “lordo”; “lezzo”; “tube”; “piaga”, ed altre, che
nelle più nobili conversazione sogliono essere usate. Dall'altro canto l’espressione
“papa”, siccome osserva il lodato cardinale Pallavicini , la quale nobilissimo
personaggio rappresenta, non sarebbe ricevuta in grave componimento poetico. In
tre schiere vengono separate dal Pallavicini le parole rispetto la maggiore o
minore nobiltà loro. Nella prima si collocano quelle, che dal conversatiore in
nobile conversazione e usata a significare un concetto grande ed il lustre.
Vocaboli di questa specie non si potran no senza affettazione adoperare in
tenue argomento o in famigliare discorso. Che se alcuno famigliarmente usasse
l’espressione “pugna” in vece di “battaglia”; “luci” in vece di “occhi”; “accento”
o “nota” in vece di “parola”, certo è che move rebbe a riso il compagno
conversazionale. La seconda schiera è di quella espressione, che vanno
egualmente per le bocche degli uomini ragguardevoli e del popolo, e che si
possono senza biasimo usare in ogni occorrenza. La terza poi è di quelle, che
furono avvilite nella bocca della plebe, come e l’espressione “pancia”;
“budella”; “corala” e simili , le quali possono essere opportune in una
conversazione intesa ad avvilire alcuna cosa, come e la mozione conversazionale
‘satirica’. Anche le espressione antiche, qualvolta elle abbiano convenevole
forma e non sieno passate ad altro significato [non multiplicare sensi piu di
la necessita], vagliono à nobilitare la conversazione; ma si richiede somma
cautela in co lui che a vila le richiama, poichè, siccome ė detto di sopra, una
espressione antiquata, ollrechè spesso portano seco oscurità [cf. Grice, ‘avoid
obscurity of expression, procrastinate obfuscation], più spesso fanno
l'orazione ricercata e deforme. E chi oggi p trebbe, senza indurre a riso il
compagno conversazionale, l’espressione “beninanza”; “bellore”; “dolzore”;
“piota”, “spingare” ed altre simili d’usare. Ora diremo della metafora (“You
are the cream in my coffee), la quale usata opportunamente è lume e vaghezza
della orazione. Prima è a sapere che gli uomini selvaggi per essere scarsi di
cognizioni mancarono dell’espressione, e che volendo eglino significare alcuna
cosa non ancora significata, fecero uso naturalmente di quella espressione gia
usata, la quale e stata inventate a contras-segnare *altra* cosa somigliante in
qualche parte all'idea novella (“You are LIKE the cream in my coffee”).
Occorrendo loro, per esempio, di significare alcun uomo crudele, il chiamarono “tigre”
per la somiglianza dell'indole di colal bestia con quella dell'uomo crudele.
Cosi dissero assetate le campagne asciulle, “volpe” 1'uomo astuto (“sly as a
fox” – he is a fox), “capo del monte” la cima, e “piè” del monte la falda di
quello. Per gli addotti esempi si vede questo trasporlamento (meta-bole,
transferenza, trans-latio) di una expression da un significato propio e vero ad
un significato impropio e falso (“You are the cream”) altro non essere che una
similitudine ristretta in una espressione (“You are like the cream –
simplifcata a “You are the cream”); impercioc chè la seguente similitudine
spiegata. La comparazione vera “Costui è crudele COME una tigre” si restringe (per
brevita) in questa forma metaforica falsa. “Costui è una tigre”. È dunque la
metafora una abbreviata similitudine [an elliptical simile], che si fa recando
una espressione dal significato proprio al signficato improprio: e perciò da
Aristotele è detta imposizione del nome d'altri. Siccome la metaſora fu da
principio usata per *necessità*, potrà parere ad alcuno che crescendo il numero
delle idee determinate e della espressione propria, la metafora divenga
pressochè inutile – o una figura di retorica --; ma non accade cosi: perocchè,
sebbene fra le conversatori civili e culle non sia tanto necessaria quanto fra
le selvagge e rozze, pure la metafora è e sarà sempre luce e vaghezza della
conversazione per virtù e forza di quelle sue qualità, che ora verrewo
particolarmente esponendo. La metafora presenta spesso all'animo più chiaramente
ogni sorta di concetti, poichè, veslendo di forma *sensibile* una idea non-sensibile,
o intelleltuale (nihil est in intellectu quod prior non fuerit in sensu), ce le
pone davanli agli cinque sensi. Voleva Alighieri significare che non è
meraviglia se per la le nuità della nostra fantasia non possiamo per venire ad
imaginare le cose, che Alighieri desiderava narrare del Cielo; e questo con una
metafora dicendo. E se le fantasie nostre son basse a tant'altezza non è
maraviglia. Per tal modo il concetto, che era tutto non-sensibile e intelettuale,
divenne sensibile e per conseguente più chiaro (cfr. Grice, ‘be perspicuous [sic]
– the imperative of conversational clarity] e più popolare. E se taluno volendo
dire che gli uomini bugiardi saono talvolta infingersi e comporre gli atti e le
parole a modo di parer verilieri, dicesse che la menzogna prende talvolta il
manto della verità, non significherebbe egli il suo concetto assai vivamente.
(He said that she was the cream in her coffee, By uttering ‘You’re the cream in
my coffee” U signs – explicitly – THAT the addressee is the cream in the
utterer’s coffee. Fra tutte le metafore poi e più efficace quella metafora che
si cava da una qualità sensibile, corporea, materiale, che si mostra a le
cinque sensi, e forse la ragione si è questa. Alla reminiscenza della qualità
di un corpo, la quale ci vengono all'animo per i cinque sensi, più tenacemente
si associano le idee, che di essi ci vengono per gli altri sentimenti; quindi è
che ogni qualvolta ci riduciamo a memoria una della qualità sensibile (in
questo caso visibile) del reale (un oggetto) quasi tutte le altre appartenenti
a quello pur si risvegliano , e vivamente ed intero lo ci pongono dinanzi agli “occhi”
dell'intelletto. Laonde se belle sono le metafore – parola dolce. che si cá
vano dalla qualità, da cui sono affetto: l'odorato (secondo senso dell’odore),
il tatto (terzo senso del tatto), l'udito (quarto senso dell’audizione) e il
gustato (quinto senso del gusto), come queste: odore di santità – odore santo,
durezza di cuore – duro cuore, ruggir di venti, vento ruggente -- dolcezza di
parole; parola dolce -- più bella, per che più viva si presenta all'animo,
entrando quasi per gli cinque organi de’cinqe sensi, sono le seguenti. Splende
la gloriu (visum). Folgoreggiano gli scudi; ridono i prali (udito); si
rasserena la fronte ; l’anima è oscurata per tristezza. Piacquero ad Aristotele
sommamente quella metafora, che ci rappresenta (re-praesentatum, rappresentato)
la cosa in mozzo, e principalmente quando la metafora attribuisce a una in-animato
una operazione di un animato.Tali sono queste di Omero. Le saette di volar
desiose; inorridisce il mare. Anche Virgilio, parlando di una satta entrata nel
petto di una vergine, disse. Harsit virgineumque alle bibit hasta cruorem. Si
dalla metafora ci pone la cosa vivamente quasi innanzi agli organi dei cinque
sensi, e per la “novità” o vita (no morte) loro ci fanno maravigliare. La
metafora, siccome dice Aristotele, partorisce dottrina, facendo conoscere fra
le idee alcuna attenenza dianzi non osservata. Quale attenenza scorgesi tosto
fra un manto e la no billà della prosapia? Certamente nessuna: pure veggasi
come Alighieri ce la fa scorgere. Opoca nostra nobiltà di sangue, ben tu
se'manto, che tosto raccorce, sì che se non s'appon di die in die lo tempo ya
d'intorno co' la for Coine un bello e ricco manto adorna la persona di colui che
sen veste, così adorna l'animo d' alcuni uomini quell'onore che ricevono pei
pregi degli avi loro, e che chiamasi nobillà: ma, se per virtù novella non si
rinfranca, ei viene di giorno in giorno scemando. Questi pensieri il divino
poeta ci reca alla mente colla nuova similitudine, e ci dilella e ci illumina.
Vale eziandio la metafora a muovere con maggior forza l’affeto, perciocchè,
laddove alcuna volta parole proprie astretti a recare alla mente di nostro
compagno conversazionale le idee una dopo l'altra, la metafora, rappre
sentandole tutte ad un tempo, assale l’animo con veemenza. Basti un solo
esempio del Petrarca, il quale rivolto alla morte così le dice: con saremmo me dove
lasci sconsolato e cieco, poscia che il dolce ed amoroso e piano lume degli
occhi miei non è più meco? Quali e quanli pensieri si destano nella mente
all’espessione “cieco” e la frase/espressione frasale “lume degli ocehi miei”!
Ma circa l'uso della metaſora nell’aſſetto si vuole por menle che ella non
mostra il lavoro e la fatica dell’intelletto,
perocchè non è verisimile che colui, che ha l'animo perturbato, si perda a far
cerca d'ingegnosi concetti e figure retoriche. È ancora pregio della metafora
di coprire con velo di modestia e di gentilezza il segnato, che espressa con un
termino proprio (e non un termino figura como e la metafora) sarebbero odioso o
turpo. Ecco un bell’esempio del Passavanti. La innata concupiscenza , che nella
s vecchia carne e nell'ossa aride era addor meniata , si cominciò a svegliare :
la favilla, quasi spenta si raccese in fiamma ; e le frigide membra, che come
morte si giacevano in prima, si risentirono con oltraggioso orgoglio. E
Virgilio disse. O luce magis dilecta sorori, Sola ne perpetua moerens curpere
juventa? Nec dulces natos, Veneris nec praemia noris? Questo e i principale
vantaggio della metaſora, onde sovente viene preferita al termino proprio. Diremo
ora dei vizii che talvolta elle possono avere. Se bella e la metafora che fa
scorgere una maniſesta somiglianza tra due segnati (‘you’ ‘the cream in my
coffee’), da che si toglie il vocabolo e l'altra, a cui si reca, chiaro è che
deformi saravno quelle, che tengono ji paragone di rose o polla e poco
somiglianti, e che sono male acconcie al pro posto dne (“a woman without a man
is a fish without a bycicle”). Nessuna somiglianza si vede fra le cose
paragonale nella seguente metafora del Marini, Folendo egli lodare un maestro,
che formara bellissimi esempi da scrivere, esalta la penna di lui, dicendo
ch'ella deve essere divina: Perchè una penna sela, Benchè s'alzi per sè pronto
e sicura, Se divina non è tanto non rola. E qual somiglianza è mai tra il
relare e lo scrivere? E tolta da peca somiglianza quella metafora che volendo
segnare una cosa piccola prende da una cosa grande l'imagine, e al contrario. Mariai
assomiglia le lacrime della sua douna a'lesori dell'Oriente, e Tertulliano il
diluvio universale al bucato. Erro similmente colui che disse a suo amante. Son
gli occhi resiri archiòugiati a ruote, Ele ciglia inarcale archi turcheschi. È
bellissina la metafora che Poliziano tolse al Boccaccio. E le biade ondeggiar
come fa il mare. Sarebbe difettosa quest’altra. E tremolare il mar come le
biade. Viziose come le sopraddeile erano la più parte delle metafore usate
dagli scrittori del secolo XVII, e soprattutto dai poeti, i quali sriscerarano
i monti per estrarne i metalli, face vano sudare i fuochi, ed avvelenavano l'obolio
colp inchiostro. Parmi inutile cosa l'estendermi in questa materia, essendochè
il nostro secolo, sebbene incorra in altri vizii, di così falle baie si mostra
nemico. Della metafora e l’analogia che e alquanto dura, ė da sapere che puo
essere mollificata per certa maniera di dire, quali sarebbero: quasi – per dir
cosi e che alcune ve nha, che sono state ammollite dall'uso, come la se. guente:
Fabbro del bel parlare. Ė da biasimare ancora la metafora , che la sorvenire il
nostro compagno conversazionale di qualche bruttura, o di cosa rile, o che disconvenga
alla gravità della trattata materia o topico. Perciò meritamente Casa rimprovera
Dante per essere talvolta caduto in questo difeilo , siccome quando disse. L'allo
fato di Dio sarebbe rotto se Lete si passasse, e lal vivanda fosse gustala
senza alcuno scollo di pentinento. E altrove. E vedervi, se avessi avuto di tal
tigna brama, colui poteri ec. Questa e una imagine plebea e sconvenienti alla
gravità del subbietto. Cosi merita biasimo Pallavicini, comechè sia maestro
sommo nel l'arte dello stile conversazionale, quando disse, che il cardinal
Bentivoglio aveca saputo illustrar la porpora coll' inchiostro, e quando per
accennare la qualità, ond'è costituita l'eleganza della elocuzione, disse:
saputi distintamente quali ingredienti compongono quesla salsa, cioè l'eleganza;
i quali modi sono da biasimare, essendochè nel primo esempio li vedi dinanzi
agli occhi la porpora brullala d'inchiostro, e nell’altro t’infastidisce l'abbietta
voce che sa di cucina. Similmente non paiono degni di lode coloro, che sogliono
usare per vezzo della conversazione un idiotismo, e segnatamente quello, che ha
origine da certa anticha costumanze dimenticata oggidi. Non merita lode Davanzali
quando volendo dire: o nulla o lullo: disse: o asso o sette. Questo proverbio,
oltre chè si è di vilissima condizione, è tolto da un giuoco, che potrebbe
essere sconosciuto a molli. E proverbio, del quale non si sa l'origine, il
seguente; e perciò freddo od oscuro: Maria per Ravenna, invece di cercar la
cosa dove ella non e. Bastino questi pochi pro verbi per moltissimi , che qui
si po ebbero recare, e de' quali vanno in traccia alcuni mal accorti
conversatori, onde parere versali nella lingua antica. Aucora è biasimevole
alcune volte la metaſora , che si deriva dalle materie filosofiche ;
imperciocchè, se il fine, pel quale il conversatore usa di quella, si è di
rendere più chiaro e più vivo i concetto, questo non si potrà ottenere traendo
la similitudine da cose poco nole o malagevoli ad intendere, come a la
metafisica, che spesso, ond'essere chiarita, hanno bisogno delle similitudini
tolle dalle cose materiali; ma di rado somministrano imagini, che vagliano a
cercar recar luce alle prose ed alle poesie. Pure in questi tempi sono alcuni
conversatori, i quali hanno per vezzo l'usare siffatta metafora, avvisando d'illustrarne
la sua mozzione conversazionale, e di mo strarsi intendente e sottile; ma va
grandemente errato, perciocchè non solamente appor tano ombra ed oscurità (‘avoid
obscurity of expression, be clear) alla sentenza, ma danno segno di
affettazione che è vizio sopra tutti spiacevole. si è dello di sopra che la metafora
diletta, non solamenle perchè ci pone dinanzi agli oc ebi in forma quasi
sensibile un pensiero astratto, ma ancora perchè ci porge ammaestramento col
farci apprendere fra le idee alcuna attenenze prima non osservata; dal che si
deduce che il conversatore, i quali vogliono recar maraviglia, de guardarsi
dall' usare una metafora troppo comunale, come quelle, che, a somiglianza della
monete passata per molle mani, sono rimase senza vaghezza. Non ogni metafora
poi, comechè sia ben derivata, potrà convenire ad ogni conversazione. Poichè
tra le metafore ve n'ha delle più o meno illustri, converrà avvertire che il
grado della nobiltà loro non disconvenga alla qualità del componimenlo.
Similmente nel formare la metafora si vuole avere riguardo al pensare della gente
nella cui lingua si conversa. La diversità de'luoghi e de' climi fa che gli
uomini abbiano diversi i costumi e le usanze , e perciò diverse ancora le idee
e le significazioni di esse. Impercioc chè, traendo ciascuna gente le
similitudini dalle cose, che più spesso le sono dinanzi agli occhi , incontra che
alcun popolo deriva una metafora da una cosa campestre, lal altro da una cosa marittima,
tal altro dal combinercio o dalle arti, secondo suo silo e costume. Il rigore o
la benignità del clima poi è spesso cagione che l'umana imaginativa sia più
vivace in un luogo e meno altrove; e quindi è che una metafora naturalissime
nel Trastevere appaia ardila e strana nel Tevere. Anche l’essere le geoli più o
meno civili cambia la natura della metafora; perciocchè dove sono leggi meno
buone, ivi è più ignoranza del vero; e dove è più ignoranza del vero è più
amore del verisimil ; il che torna il medesimo, ove è minor virtù intelleltiva,
ivi abbonda la forza della fantasia. Cadono perciò in gravissimo errore coloro,
che, imilando il volgarizzamento di Ossian falio da Cesarolli, sperano di
venire in fama di sommi poeli toglieodo sempre la metafora da'venti e dalle
tempeste, dai torrenti, dalle nebbie e dalle nuvole. Paiono a costoro
inaravigliose squisitezze e delizie i seguenti, e simili modi: sparger lagrime di
bellà - i figli dell'acaciaro il tempestoso figlio della guerra siede sul
brando distruzione di eroi dar. deggiano gli sguardi rotola la morle - urlano i
torrenti. Cotale metaſora, che per avventura e naturale a'popoli selvaggi, sono
in Italia ridevoli e sciocche fantasie. Alla diversa indole delle genti debbe
anche por mente chi dall' una lingua all'allra trasporla i versi e le prose, se
non vuole produrre nell'animo di nostro compagno conversazionale effetto
contrario a quello che l'autore straniero o forastiero o del Trastevere
produsse in coloro, ai quali volse le sue parole. Affiuché si vegga
manifestamente che non lutte lete. metafore convengono a tulti i popoli,
recherò qui alcuni esempi che a questo proposito Tagliazucchi toglie dalla
lingua latina. Bella metafora si è questa presso Virgilio: classique im millit
habenas; deformità sarebbe tradu re in italiano: melte le briglie alla flolla.
Così per segnare il pane corrotto dall'acqua dice lo stesso poeta. Cererem
corruptam undis; mal si tradurrebbe: Cerere corrolla dall'onde. Orazio disse.
lene caput aquae sacrae; e si tradurrebbe malissimo in italiano: il dolce capo
dell'acqua sacra. Per segnare il liero sdegno d'Achille dice: gravem sioma chum
Pelidae; e malissimo si tradurrebbe: il grave stomaco del Pelide. Moltssime
altre metaſore potrei qui recare, che sono proprie solamente della lingua
latina; ma chi ha cognizione della lingua latina conoscerà di per sè la verità
di quello che io dico, ed argomenterà quanto debbono differire nella metafora
la lingua italiana e quelle de'popoli da noi disgiunli e per costume e per
clima, se tanto differiscono l'italiana e latina con islrelto vincolo di
parentela congiunte. Una regola o massima o omperativo da osservarsi nell'uso
della metafora si è di non aminassarle nella conversazione, ma collocarvele
parcamente e di guisa, che paiano, come dice Cicerone, esserci venule
volonterosamente, e non per forza nė per invadere il luogo altrui. È da
avvertire in secondo luogo, che la metafora o non si dee congiungere con altra
metafora o con voci proprie di maniera, che fra queste e quella si scorga
opposizione maniſesta. Se per esempio avrai detto che Scipione è un fulmine di
guerra, non dirai tosto che egli trioníò in Campidoglio. Se paragonerai
eloquenza ad un torrente, non le attribuirai poco appresso la qualità del
fuoco, ma avrai cura che la metafora sia sempre collegata (e no mista) colle
idee prossime di guise, che nostro compagno conversazionale non trovi mai contrarietà
ne' tuo concetto. In questo difetto caddero anche alcuni autori eccellenti,
come Petrarca nel Sonetto XXXII, dove, cominciando dal dire metaforicamente,
ch' egli ordisce una tela, prosegue: ſ ' farò forse un mio lavor si doppio fra
lo stil de'moderni e il sermon prisco, Che (paventosamente a dirlo ardisco)
Infino a Roma ne udirai lo scoppio. Ma non così egli fece nel Sonetto che
comincia Passa la nave mia colma d'obblio, chè in esso avendo preso ad
assomigliare gli amorosi affanni suoi alla nave, da questa imagine non si
diparte sino alla fine. Non intendo io però di affermare coll’esempio di questa
allegoria, che in breve discorso non possano star bene insieme più metafore di
natura diversa; ma di avveitire che assai disconviene il trapassare da una
similitudine ad un'altra inconsideratamente e quasi per salto. Giova moltissimo
talvolta a render chiare e naturali quella metafora, che per se medesime
sarebbero ardite e spiacenti, il preparare per convenevole modo l'animo di
nostro compagno conversazionale. Se taluno volendo dire che gli uomini per mal
esempio altrui caggiono in errore, dicesse caggiono nella “fossa” della falsa
opinione, use rebbe certamente ardita e spiacevole metafora: nulladimeno ella
diviene bellissima, qualvolta per le cose antecedenti ne siamo disposti. Va.
glia l'esempio di Alighieri. Dopo aver ricordata la nota sentenza se il cieco
al cieco sarà guida cadranno ambedue nella fossa prosegue: i ciechi
soprannominati, che sono quasi infiniti, con la mano in sula spalla a questi mentitori
sono caduti nella fossa della falsa opinione. Cosi l’ardita metafora divenla
parte di una vaghissima dipintura, che viene quasi per gli occhi alla mente, ed
ivi s'imprime e lungamente rimane. Sono certi scrittori, i quali riducono le
idee astratte a termini più astratti (obscurus per obscurius) di quello che si
converrebbe cercand a tulto potere di al lontanarle da' sensi: indi a questi
loro soltilis simi concelti uniscono molte metafore repugnanti fra loro, il che
fa che la mente di nostro compagno conversazionale tra questi estremi e tra
questi contrari confusa nulla comprenda, come si può di leggeri conoscere nel
seguente esempio tolto da un libro moderno: A giudizio dei savi scorgesi
palesement , che nelle vedute su blimi della gran madre anche l'emulazione,
principio avvedutamente inserito nella costituzione dell'uom , ' concorrer deve
a scuotere ed a sferzare l'industria , on de riguardo allo sviluppamento di
questa Costa. Vol. Un. 3 50 ec . ( 1 ) Oh quanta confusione ed oscurità in
tanta pompa di parole! Pare che il conversatore volesse dire, che i savi
conobbero che la natura ha posto nel cuore dell' uomo il desiderio d'emulare
gli altri; e che da questo procede l'industri ; ma accoppiando i vocaboli
principio e costituzione, che sono segni d'idee molto astratte, colla
melaforica voce “inserire” ha composto un enigma; perciocchè nessuno polrà
imaginare chiaramente siffallo innesto. Più strana poi diviene la metafor , quando
l'astratto segnato dalla espressione “principio” si fa a scuolere ed a sferzare
l'ind stria falla inopportunamente persona per trasformarsi losto in altra cosa,
che si sviluppa a guisa di una malassa. In questa forma la metafora, che e
vaghezza e luce della favella, diviene tenebre alla mente e vano suono (flatus
vocis) agli orecchi. Conciossiache L’INTENZIONE del conversatore non sia
solamente di render chiaro il concetto, ma di farlo talvolta dilettevole e
maraviglioso, interviene che alcuni, per recare altrui dilelto e maraviglia, si
fango a derivare dalla metafora certe loro conseguenze, come se in quella non
già una simililudine si contenessa, ma come se la cosa a cui si reca il nome
novello, veramente si trasformasse nella cosa, donde esso nome si toglie. Di
questa specie di concetti si presero diletto i prosatori ed i poeti del secolo
decimo settimo, forse per desiderio di avanzare gli scrittori delle altre elà,
ed in fastidirono tutti i sani intellelli . Basti di ques 1 ( 1 ) Atti dell'
Costitulo pazionale. era sti vizi un solo esempio. Ugone Grozio, per mostrare
che non a dolere la morte di Giovanna d'Arco, dopo aver lodate nel principio di
un epigramma le virtù di lei , sog giunse: Necfas est de morte queri, namque
ignea tota aut numquam, aut solo debuit igne mori. Con l’espressione “fuoco”, imposta
a cagione di similitudine, viene il conversatore a trasformare la misera vergine
in vero fuoco materiale; e quindi trae la strana conseguenza, che ella mai non
dovesse morire, o morire nel fuoco. Similmente si è frivolo modo e sciocco il
derivare la metafora dalla somiglianza ed uguaglianza de'noni imposti a cose
diverse, ALLUDENDO all' una di esse mentre si fa mostra di ſavellare
dell'allra. In questo difetto incorse anche il primo de'nostri poeti lirici
quando, piangendo la sua donna, parla del lauro, ed allude freddamente al nome
di lei, come nella canzone, che comincia, Alla dolce ombra delle belle fronde
ed in molti altri luoghi si può vedere. Essendosi fin qui parlato de' pregi e
de'vizi delle metafore, cadrebbe in acconcio il ragionare degli altri traslati
di parole e di concetto e della figura: ma , perciocchè queste cose sono state
definite e largamente dichiarate da tutti i retlorici, stimo che qui basti il
ricordare che siffatte maniera di favellare non e bella, se non in quanto
vengono dal conversatore opportunamente adoperate. Per lo stesso fine, che la
metafora si propone, cioè di rendere più vivo il concetto, melte bene talvolta
il trasportare l’espressione a un segnato improprio o nominando invece del
tutto la parte (metonimia), o invece della cosa la materia, ond'ella è
composta, o il genere per la specie o il plurale pel singolare (majestic plural
– We are not amused), e viceversa. Si può cadere in difetto usando questo
traslato, che fu chiamato “sinedoche”, ogni qualvolla l'imagine della cosa, da
cui si prende l’espressione, non sia bene associata alle idee, che si vo gliono
svegliare in altrui, non sia atta a fare impressione nell'animo più che le
altre ide , che vanno in sua compagnia. Vaglia a dichiarazione di ciò un solo
esempio. Si dirà con maggior efficacia: fuggono per ſalto mare le vele , di
quello ch : fuggono per l'alto mare le prore; poichè l’imagine delle vele
gonfiate dal vento, come quella, che maggiormente percuote la vista di colui,
che mira la nave in alto, più strettamente d'ogni altra idea si associa
all'idea del fuggire: in altro caso però tornerà meglio chiamar la nave o poppa
o carena, cioè quando l'azione, che essa fa, o la passione, che riceve, meno
con venga alla vela che alle altre parti. Veggasi come ne ua Virgilio: vela
dabant laeti. Submersas obrue puppes si nomida ancora talvolla la causa per
l’effetto , o questo per quella: il contenente pel contenuto: il possessore per
la cosa posseduta: la virtù ed il vizio invece dell'uomo virtuoso e del vizioso:
il segno per il segnato ed il contrario; e questa figura, che dicesi “metonimia”,
giova per le delle ragioni, essa pure adoperala opportunamente, a dare evidenza
alla elocuzione. Ma di questi traslati e di quelli di concetto, che consistono
in sentenze da intendersi a contra-senso (ironia), tanto se ne parla, come già
dissi, in tutte le scuole, che qui, facendo la definizione dell'”allegoria”,
dell'”ironia” e di altri simili traslali, avvertirò solamente che questi
saranno diſellosi se verranno a collocarsi nella conversazione senza essere
mossi dagli affetti. Anche rispetto a quelle forme, che sovente adoperiamo per
rendere più efficaci i pensieri, e che si chiama con ispecial nome figura,
ricorderò che alcune ve n'ha, come l’ “interrogazione” e l’ “apostrophe”, che
nascono dall'affetto, ed alcune altre dall'ingegno, come l'”antitesi”
(contrapposizione) e la distribuzione; e che perciò vuolsi avvertire di non far
uso di queste seconde ne'luoghi, ove si possa credere che colui, che favella,
abbia l'animo perturbato. Ma nessuno avvertimento, per ' vero dire, è giovevole
a chi non sente nell'animo la forza degli affetti. Il più delle figure, come
detto è di sopra, muovono dalla passione, e, se dall'ingegno vengo. no cercal ,
riescono fredde e di nessuna virtù: perciò è che male s'imparano da' rettorici.
Con più figure favella la rivendugliola, secondo il detto di un illustre
scrittore, contrattando sua merce, che il retſorico in suo studiato serino ne: tanto
egli è vero che procedono più dalla natura che dall'arte. Questo vogliamo che
ci basli aver dello così alla grossa delle figure. Dappoichè abbiamo detto in
che consista la proprietà dell’espressione e della metafore, e come queste e
quelle si debbano collegare per rendere chiaro ed accelto la mozzione
conversazionale a nostro compagno conversazionale, e fatto alcun cenno de'
traslati e delle figure, vérreio a dire, seguitando le dottrine del Palavicini,
degli elementi, onde è costituita la “eleganza” (cf. Grice, ‘aesthetic
maxims’), senza della quale ogni altro ornamento quasi vano riuscirebbe. L’espressione
“eleganza”deriva dal verbo “eligere” ed è usata a segnare quella certa tersezza
e gentilezza, per la quale una mozzione conversazionale non solamente viene ad
essere scevro da ogni errore, ma in ogni sua parte ornato di qualità che da
tutto ciò che ha del plebeo si allontana. Diciamo delle parti, delle quali ella
si compone, che sono quattro. La prima e la brevità (Grice, ‘be brief – avoid
unnecessary prolixity [sic].” La seconda e l'osservanza delle regole
morfosintattiche. Terzo, la civilita o l'urbanità. Quarta, la varietà
(non-detachability). Sebbene la chiarezza (conversational clarity, be
perspicuous [sic]) spesso si ottenga col l'ampio e largo mozzione
conversazionale, pure talvolta colla brevità si rende il pensiero più lucido e
più penetranti (Brevity is the soul of wit). Le parole, dice Seneca, vogliono
essere sparse a guisa della semenza, la quale comechè sia poca, molto
fruttifica. La sovrabbondanza (over-informativeness) delle parole all'incontro
empie le orecchie di vano suono (flatus vocis) e lascia vuote le menti. Perciò
è da guardare non solo che nostro compagno conversazionale non sia distratto da
una vana proposizione subaltern (premessa minore), ma che non sieno affetti più
da un segno che dall’idea segnata. Saranno perciò utili a togliere questo
inconveniente ed acconce a rendere elegante l'elocuzione quella espressione,
che somigliante alla moneta d'oro equivale al valore di più altre, come le
seguenti: disamare, disvolere, rileggere, ed altre molte, e con queste i diminutivi,
gli accrescitivi, i vezzeggiativi, i peggiorativi, de' quali abbonda la nostra
lingua. Vi sono ancora molti modi, che abbreviano la mozzione conversazione, e
questi consistono nel tralasciare o il verbo o il pronome o la particella o l’affissi,
che racchiusi nella diretta favella puo essere SOTTINTESO. (Implicatura). Basta
qui recarne alcuni ad esempio. Se io grido ho di che dammi bere quo ha di belle
cose onde fosti & cui figliuolo andovui il cielo imbianca - vergognando
tacque a baldanza del signore il baltè иот da faccende non se da ciò vedi cui
do mangiare il mio, ed altri moltissimi somiglianti modi, coi quali si ottiene
questa importantissima parle della eleganza, onde rice. ve nerbo l'orazione,
Avend’io delto che la brevità costituisce gran parte della eleganza, non intesi
di affermare che agli scrillori non sia lecito di esporre le cose
particolarizzando; chè questa anzi è l'arte colla quale si produce l'evidenza;
ma volli avvertire chi brama dilettare altrui colle proprie scritture, di ben
ponderare quali sieno le particolarità, che hanno virtù di far luminoso il
concetto, e di tralasciar quelle, che l'offuscano e pongono l’altrui mente in
falica. Secondo, dobbiamo eziandio osservare la regola morfosintattica, cioè
quelle leggi che la volontà de’ primi favellalori e l'uso di coloro, che
vennero dopo, banno imposto alla lingua italiana. Comechè il trascurarle non
induca sempre oscurità (avoid obscurity of expression) pure importa moltissimo
che sieno osservata, poichè ogni elocuzione irregolare apparisce plebea (un
solecismo). E perciò grande si è la stoltezza di coloro, che vando cercando
negli autori antichi i costrutti contro grammatica, e quelli come pellegrine
eleganze pongono nelle scritture: dal che ottengono effetto contrario al buon
desiderio: per ciocchè o portano oscurità nella sentenza, o in fastidiscono i
lettori facendo ridere gli uomini di lettere, non ignari che quelle strane
forme sono la più parte errori, o di amanuensi o di stampatori o di autori
plebei, de'quali non fu piccol numero anche nel bel secolo dell'oro (errata). Terzo,
siccome sono molli' vocaboli, secondo che è dello, i quali usati già da ' buoni
scrittori han no acquistata certa nobiltà e fanno nobile il conversare, così
pure sono molli modi, i quali, avendo in sè certa gentilezza, il fanno elegante,
e non essendo propri degli stranieri, gli danno quel paliyo colore, e direi
quasi fisonomia , per cui ciascuna favella da ogni allra si distingue. In che
precisamente sia riposta que sta vaghezza, che si chiama civilita o “urbanità”,
si è difficile dichiarare; e perciò assal meglio che con parole, si può
mostrare cogli esempi. Porrò qui dunque alcuni modi volgari, ed al fianco di
essi i moderni urbani o civile. Ciò che loro venisse in grado. A chicsa non
usava giammai. Seppegli reo. Ciò che loro piacesse. Non era solita di andare in
chiesa. Gli parve cosa calli va. Fece rivivere. Il prese per marito. “Era il
giorno in cui” -- Egli domandò al servo certa cosa. Ben io mi ricordo. A vila
recò. Il prese a marito. “Era il giorno che” – “Egli domandò il servo di certa
cosa” -- Ben mi ricorda, o ben mi torna a mente. Vicino di quell'isola.
Non-Upper: Viveva a modo di bestia. “Vicino a quell'isola” Upper: “Viveva come
una bestia” Moltissime sono le forme somiglianti a que ste, le quali, sebbene
non vadano per la bocca de ' comunali scrittori, pure sono chiare e naturali ,
e per cerla loro indicibile gentilezza recano diletto. Vogliono però essere
parcamenle adoperate, perocchè in troppa copia ſarebbero il discorso ricercato;
e questo difetto dobbia mo schivare anche a pericolo di parere negligenti . La
negligenza è mancanza di virtù (salvo quando e falsa – nulla piu difficile che
falsare la negligenza), che rende meno lodevole il discorso, ma non meno
credibile: e l'affettazione è deforme vizio, che al dicitore toglie autorità e
fede. Modo più sconcio si è quello di coloro, i quali, per vaghezza di parere
eleganti ed SUO esperti della PATRIA LINGUA – LINGUA PATRIA -- patria lingua,
compongono prose con parole e modi fuor d'uso, e costruzioni contorte alla
boccaccesca; e della stessa guisa fanno versi oscuri e senza grazia e senza per
bo, e si argomentano poi di avere imitato Aligheri o Petrarca. Ma che altro per
verità fanno costoro, se non se muovere a sdegno i buoni ingegni, e dare
occasione al volgo di ridersi di quei pochi, che studiano a’libri antichi?
Un'altra generazione di scrillori (e questa è dei più ), alzato il segno
dell'anarchia, gridando che l’USO è l'ARBITRO della lingua (Wittgenstein), si
fa beffe di ogni gentilezza e di ogni proprietà: guida per entro l'idioma
nativo parole e forme forestiere, e il guasta sì, che non gli lascia di se non
la sola terminazione delle voci. Cosi due sette di contraria opinione
vorrebbero partire la repubblica letteraria. L'una tiinida e superstiziosa restringe
la lingua a que' termini, in cui stette nel trecento: l'altra licenziosa ed
arrogante vuole che ogni ar gine si rompa sì, che le purissime fonti del civil
conversare si facciano torbide e limacciose. Affinchè appaia manifesto il torlo
di questi se diziosi, dirò che cosa sia lingua ; e dalla sua definizione trarrò
alcune conseguenze. La serie de' segni e dei modi vocali instituiti a rappre
sentare ogni generazione di pensieri, o, per meglio dire, ad esprimerc tulle
quante le idee, ond’è formata la scienza di una patria, è ciò che dicesi lingua
(come l’italiano dal latino, o il pidgin e il creole che e il francese). Da
questa definizione si deduce che nè una sola città nè un'età sola può essere
autrice e signora della lingua italiana – Roma e la citta della lingua romana;
ma che è forza che alla formazione di questa abbia avuto parte la nazione
intera, cioè tutti gli uomini congiunti di luogo e di costumi, che hanno idee
proprie da manifestare; e che a scernere il fiore dalla crusca abbiano dato e
diano opera gl'illustri scrittori . E così avvenne di vero nella formazione e
nell'incremento di questo, che Alighieri chiamò, ironicamente, il volgare
d'Italia, poichè, come dice il Bembo, e un siciliano e un Pugliese e un Toscano
e e un Marchegiano e un romagnolo e un lombardo e un veneto vi posero mano.
Tutte le parole dunque per tal guisa formate, che vagliono ad esprimere con
chiarezza i pensieri, potranno essere con lode usate, sieno elle an tiche o
moderne; chè le moderne ancora deb bono essere benignamente accolle, quando sie
no necessarie a segnare una idea novella. Quella facoltà, che fu conceduta agli
antichi, non si può togliere ai presenti uomini; perciocchè, se non si possono
prescrivere limiti all'umano sapere, nè meno alla quantità dei segni delle idee
si potrà prescrivere (quark, querk). Per la qual cosa ſu e sarà sempre lecito
a' sapienti, qualvolla la necessità il richiegga, l'inventare una nuova
espressione (“Deutero-Esperanto”) e un nuovo modo. Questa risposta è alla selta
dei superstiziosi. Ora ai libertini (Bennett – meaning-liberalismo –
libertinismo semiotico – Locke – liberty) brevemente diremo che la lingua
italica non è la lingua del volgo, ma, come è delto, si è quella, che gli
illustri scrittori di ogni secolo hanno ricevuta per buona, e che perciò quando
si dice che appo l'uso è la signoria, la ragione e la regola del parlare, non
si vuol dire l'uso del volgo, ma de' buoni scrittori. I più antichi die dero
vita e forma alla lingua romana, ed i posleri loro la arricchirono e la
potranno arricchire, non senza grande biasimo potranno toglierle l’essere suo.
Siccome ad ogni mazione è spe ma ciale la fisonomia e certa foggia di vestire,
cosi e speciale al idio-letto le voci ed i modi propri e figurati, i quali
hanno attenenza co'diversi costumi delle diverse genti; e perciò coloro, i
quali vogliono introdurre licenziosamente nell'idioma nativo espressione e modi
forestieri – implicate, non impiegato -- operano “contro ragione”, e, mentre ambiscono di essere tenuti uomini liberi
e filosofi, fanno mostra d'obbrobriosa ignoranza. Non si lascino dunque
sopraffare i gio vanelli da quei beffardi filosofastri, che con trassegnano per
derisione col nome di purista chi studia scrivere italianamente ; ma alla co
storo petulanza coll'autorità di Cicerone ri spondano arditamente che colui ,
il quale la patria favella vilipende e deforma, non solo non è oratore, non è
poela , ma non è uomo (Cic. de orat. I. 3.). Quarta e ultima, se le parole
fossero sempre composte ugualmente, non sarebbero graziose a chi ascolla o
legge; e perciò un altro elemento della eleganza si è la variet . Il discorso
può ricevere varietà da sei luogh , che ad uno ad uno ver remo a dichiarare
brevemente, seguitando Pallavicini. Accade tante volte di dover nominare replicatamente
la cosa medesima, e ciò produce noia agli orecchi, i quali sopra tutti i sentimenti
del corpo sono vaghi di varietà; onde per isfuggire la ripetizione delle voci sono
molto giovevole il sinonimo, quando la piccola differenza, che è in essi, non
tolga al discorso laproprietà necessaria ; per non peccare contro la quale sarà
mestieri aver considerazione, co me allrove si è detto, al vero intendimento de
vocaboli. Se, a cagion d'esempio, dovendo si cambiare l’espressione
“fanciullo”, si prendesse l’espressione “infante”, si osserverà che questa,
venendo dal verbo fari, segna non parlante, e che perciò non può strettamente essere
sempre sostituita a quella di “fanciullo”. Il secondo dai sei luogo della
varietà sta nel ra presentare una cosa pe' suoi effetti congiunti, come, a
cagion d'esempio, se poeticamente dicessimo; il sole velava i pesci, per dire era
il fine dell'inverno: al germogliare delle piante, per dire al tornare della
primavera. Con somma grazia e novità Aligheri rappresentò la sera pe' suoi
effetti dicendo: Era già l'ora, che volge il desio a' naviganti, e inlenerisce
il core lo di, che han detto a' dolci amici addio; E che lo nuovo peregrin
d'amore punge, se ode squilla di lontano, Che par il giorno pianger, che si
muore. Questo fonte di varietà è abbondantissimo, e possiamo vederne un esempio
in Bernardo Tasso, che in cento modi segna il sorgere del giorno. Nel
rappresentare le cose pe' suoi effetti porrai cura che questi non destino al
cun pensiero sordido od abbietlo, e che nel le scritture famigliari la
congiunzione loro coll'oggetto sia mollo nola, sicchè non paia puplo ricercata.
Il terzo luogo dai sei modi sono le definizioni o epiteto o apposizione delle
cose, o sia le brevi descrizioni loro, le quali si possono prendere invece
delle cose stesse , o que ste indicare per alcuna loro speciale proprietà; come
chi per nominare Giove dicesse il padre degli uomini e degli Dei, o per dire la
fortuna, Colei, che a suo senno gi infimi innalza ed i sovrani deprime. Il
quarto luogo dai sei modo si è l'uso promiscuo del signato attivo, medio, o
passivo da un verbio Potrai dire : Raffaele colori questa tavola , ovvero, da
Raffaele fu colorita questa tavola; e secon do che chiederà il bisogno, userai o
questo o quello segno. Il quinto luogo dai sei luoghi è la qualita (categoria
d’Aristotelel'uso negativo (o infinito – privazione) invece dell’affirmativo o
positivo; come chi sosliluisse alla proposizione positiva o affirmative
seguente, ma con signato negativo: Il sole si oscurò, quest' altra proposizione
splicitamente negative, per mezzo dell’adverbo di negazione, “non”: Il sole non
isplendette”. Il sesto luogo dai se luoghi e la metafora (you’re the cream in
my coffee), per la quale si può maravigliosamente variare il discorso, ora volgendo
in “senso” (segnato, strettamente) metaforico – Sensi non sunt multiplicanda
praeter necessitatem – uso metaforico -- un concetto allre volle espresso con
termini propri: ora usando una metafora tolta o dal genere o dalla specie o da
cose animate o da cose inanimate: ora quelle, che si presentano ai sensi : ora
le altre, che si riferiscono agli altri sentimenti del corpo. Ornamento, dal
quale l'elocuzione riceve molta gravità, e la sentenza. La sentenza o dogma o
assioma o principio o adagio o gnomico o proverbo (“Methinks the lady doth
protest too much” what the eye no longer sees the heart no longer grieves for”)
si è verità morale ed universale, segnata con la brevità, che all'intelletto
sia lieve il comprenderla ed il ritenerla. Tali sono le seguenti. Ipsa quidem
virlus sibimet pulcherri. ma ncrces. Quidquid erit, superanda omnis for tuna
ferendo est. La mala ineple non ha mai allegrezza di pace. Proprio de'tiranni è
il temere. La buona coscienza è sempre sicura . Avvegnachè la sentenze sia più
accomodata a quella conversazione che tratta di materie gravi, nulladimeno
possono adornare molte altre specie di componimenti, e perfino le lettere
famigliari, se ivi con moderazione sieno adoperate. Dico che sieno adoperate
con moderazione, perchè il soverchio uso delle sentenze, anche nelle materie
più gravi, è indizio che lo scrittore vuol ostentare sapienza, e perciò il fa
parere affettato . In cotal vizio cadde ro molli scrittori del secol nostro, i
quali me ritamente furono tacciali di “filosofismo” di Borsa, che in una sua dissertazione ra giopò
del presente gusto degl'italiani. Scon venevolissimo è l'abuso e talvolta anche
l'uso della sentenza pe' discorsi, che trattano di cose mediocri o umili. Ma
che diremo poi росо senno di coloro, che guidano in teatro i servied altre persone
rozze ed agresli a parlamentare ed a spular tondo, come se dal pergamo
predicassero? Questo è modo tanto sconcio, che il volgo slesso ne rimane
infastidito, on d'è qui da passare con silenzio. È da lodarsi segnatamente
nelle opere morali o politiche l'elocuzione, che a quando a quando sia ornata,
ma non tessuta di sentenze, la copia soverchia delle quali, stanca i lettori
invece di sollevarli, come si può sperimentare leggendo le opere morali di
Seneca. Lo scrittore dal quale più che da ogni altro si apprende a fare buon
uso della sentenza, è Cicerone, nelle cui filosofia mai non pare che quelle
sieno condotte nel discorso a pompa, ina sempre vi nascono naturalmenle per
recar luce e diletto. Diciamo alcuna cosa anche del concetto, onde viene grazia
o piacevolezza ai componimenti. Concetto propriamente si dice una certa
proposizione, che per essere nuove ed espresso con brevi parole recano altrui
diletto e maraviglia e scuoprono il sottile ingegno di chi le dice. Ve n'ha di
due maniere. La prima è dei delti gravi, l'altra dei ridevoli, che con proprio
nome si chiama una facezia. Gli uni e gli altri nascono da’ medesimi luo ghi, e
differiscono, secondo Cicerone, solamente in questo: che i gravi si traggono da
cose oneste; i ridevoli da cose deformi o alcun poco turpi: ma pare veramente
che a far ri devole un dello, sia necessario, il più delle 1 volle, che esso
comprenda in sè alcune idee discrepanti congiunte insieme di maniera, che la
congiunzione loro ben si convenga con una terza idea. Ciò sia chiaro per un
esempio. Un buon ingegno de' nostri tempi fcce incidere in rame la figura di un
vecchio venerabile con lunga barba, vestito alla francese, ornato di frangie e
di feltucce e tutto cascante di vezzi, e sotto vi pose queste parole. Traduzione
d' Omero di M. C. Tultii ne fecero le risa grandi. Se il ridicolo di questa
figura consistesse nel solo accoppiamento dell'imagine dell'uomo antico e grave
con quella de' giovani leziosi, ci ſarebbe ridere anche l'imagine di una sirena,
che è composta di due contrarie nature; lo che per verità non accade, ed
accadrebbe solamente qualora si dicesse che la bella donna , che termina in
pesce, figura delle folli poesie ricordate da Orazio nella Poetica. Pare dunque
manifesto che il ridicolo di sì falta deformità si generi dalla convenienza che
è tra esse e la cosa, cui si vogliono assomigliare. Per ciò s'intende quanto
diriltamente Castiglione dichiari che si ride di quelle cose, che hanno in sè
disconvenienza, e par che slieno male senza però slar male. Affinchè prima di
tutto si vegga che da’ luoghi, donde si cava la grave sentenza, si possono ancora
cavare i molli da ridere, re cherò l'esempio, che ne dà Castiglione. Lodando un
uom liberale, che fa comuni cogli amici le cose proprie, si polrà dire, che ciò
ch'egli ha, non è suo: il medesimo si può dire per biasimo di chi abbia rubato,
o con male arti acquistato quello che tiene. Di un buon servo fedele si suol
dire: non vi ha cosa che a lui sia chiusa e sigillata: e que sto similmente si
dirà di un servo malvagio destro a rubare. Le maniere de concelli ingegnosi
sono pres sochè infinile , e di moltissime ha ragionalo Cicerone nel terzo
libro dell'Oratore, ma noi toccheremo qui solamenle alcune principali .
Cicerone distingue primieramente le maniere graziose , che consistono nelle
parole, da quelle che stanno nella cosa , o che si esprimono col parlare
continuato. Egli dice che consistono nella cosa quelle (sieno gravi o piacevoli
), che mulale le parole non cessano di generare maraviglia o riso: tali sono le
narrazioni verisimili, e fatte secondo il costume e le varie condizioni degli
uomini, e di queste molte ve n'ha nel Decamerone di Boccaccio. Una seconda
consiste nella imitazione de’ costumi altrui fatta per modo di parlare continuato,
come quella che fece Crasso, il quale in una sua orazione contraffacendo un uom
supplichevole con queste parole, per la tua nobiltà, per la tua famiglia, ne
imitò cosi bene la voce e gli alti, che mosse la gente a ridere; e proseguendo,
per le statue, distese il braccio, ed accompagnò la voce con geslo e con
imitazione si naturale, che le risa scoppiarono maggiori. Queste sono le due
maniere, che consistono nella cosa, e che si esprimono col parlar continuato. Quelle
che maggiormente si attengono alla materia che qui si tratta sono le maniere di
que'concetti, la grazia de quali sta nella parola. Recbiamone esempi. Alcuni
molli graziosi si generano in virtù della metafora. Avendo Lodovico Sforza duca
di Milano eletta per sua impresa una spazzetta, con che voleva segare se essere
disposto a cacciare dall'Italia gli oltremontani, domanda alcuni ambasciatori
fiorentini, che loro ne paresse. Quelli risposero. Bene ce ne pare, salvochè
molle volle avviene che chi spazza tira la polvere sopra di sè. Più grazioso ė
il motto, quando ad alcuno, che metaforicamente abbia parlato, si risponde cosa
inaspettata continuando la metafora stessa. Tale si fu detto il Cosimo de'
Medici, il quale a' Fiorentini ſuoruscili, che gli mandarono a dire che la
gallina cova, rispose. Male potrà covare fuori del nido. Anche il paragonare
cose vili e piccole a cose grandi è spesso cagione di ridere, come in questi
versi del Berni: E prima , iodanzi tutto, è da sapere che l’orinale è a quel
modo tondo, Acciocchè possa più cose tenere, E falto proprio come è falto il
mondo. Dobbiamo in questa maniera della facezia guardarci dal fare sovvenire il
compagno conversazionale di cose laide e stomachevoli, affiochè la piacevolezza
non degeneri in buffoneria: lo che sovente accade a coloro, che non sono
piacevoli per naturale disposizione. Molti molti ridevoli si formano per via di
iperbole [“Every nice girl loves a sailor”] accrescendo o diminuendo alcuna
cosa. Diminui ed accrebbe a un tempo le cose Cicerone parlando giocosamente di
suo fratello, che essendo di piccola slatura aveva cinto il fianco di una
spada' smisurata. Chi ha, disse, cosi legato mio fratello a quella spada?
Dall’equivoco procede spesso i motti freddi ed insulsi, ma spesse volte ancora
gli arguli. Argulo parmi il seguente in biasimo di una donna, che fosse di
molli. Ella è donna d'assai: il qual molio potrebbe ancora essere usato per
lodare alcuna femmina prudente e buona. Molla venustà è in que’ delli, che invece
di esprimere due cose ne esprimono una sola, per la quale l'altra s'intende
(IMPLICATURA, SOTTITESSO). Assai leggiadro è questo in cui si favella di un'amazzone dormiente,
recato ad un esempio da Demetrio Falereo: in terra aveva posto l'arco, piena
era la faretr , e sotto il capo aveva lo scud: il cinto esse non isciolgono
mai. Similmente è grazioso il nominare con buone parole le cose non buone, come
fece lo Scipione, secondo che narra M. Tullio, con quel centurione, che non si
era trovato al conflitto di Paolo Emilio contro Annibale. Il centurione
scusavasi di sua negligenza col dire. Io sono rimasto agli alloggiamenti per
farli sicuri; perchè, o Scipione, vuoi dunque tormi la civiltà? Cui rispose
Scipione. Perchè non amo gli uomini troppo diligenti. Sono assai argute quelle
risposte, per le quali si DEDUCE da una medesima cosa il contrario di quello
che altri deduceva. Appio Claudio disse a Scipione. Lo maraviglio che un uomo ďalto
affare, quale tu sei, ignori il nome di tante persone. Non maravigliare,
rispose Scipione, perocchè io non sono mai 69 blato sollecito d’imparare a
conoscer molti, ma a far si, che molti conoscano me. Per egual modo Parnone
rispose a colui che chiamava sapientissimo il tempo: Di pari dunque potrai
chiamarlo “ignorantissimo”, perchè col tempo tutte le cose si dimenticano. Il
concetto della risposta conversazionale può essere grazioso solamente perchè
racchiude alcun insegnamento non aspettato da colui che fa la domanda. Fu
chiesto ad uno spartano, perchè si facesse crescere la barba, e quegli rispose.
Acciocchè mirando in essa i peli canuli io non faccia cosa, che all età mia
disconvenga. Hauno grazia similmente alcuni detti, perchè mollo convengono al
costume della persona, alla quale si attribuiscono. Essendo un colal uomo beone
caduto inſermo, era assai mole stalo dalla sete. I medici a piè del suo letto
parlavano tra loro del modo di trargli quella molestia, quando l'infermo disse
: Ponsate di grazia, o signori, a togliermi di dosso la febbre, e del cacciar
via la sete lasciate la briga a me solo. loducono a ridere anche que’ detti,
che procedono da sciocchezza o goffezz , finta o vera che ella sia. Tali sono
le due seguenti terzine del Berni: lo ho sentito dir che Mecenale Diede un
fanciullo a Virgilio Marone, che per martel voleva farsi frate; E questo fece
per compassione, ch'egli ebbe di quel povero cristiano, Che non si desse alla
disperazione. si può similmente cavare il ridicolo dalle parole composte di
nuov , che esprimono al cuna deformità del corpo, o dell'animo, come furono
queste usate dal Boccaccio: picchia. pello ; madonna poco.fila ; lava-ceci ;
bacia santi. Si falte maniere, che direi quasi deſormità della lingua, poichè
dall'uso si allonta pano, essendo convenienti alla cosa segnata stanno bene, e
perciò inducono a ridere e han lode di graziose ; ma se poi in forza dell'uso
divengono proprie, perdono , a somiglianza delle vecchie metafore, alquanto
della grazia primiera. Osserva Demetrio Falereo che la grazia del detto proviene
alcuna volla dall'ordine solamente, quando una cosa posta nel fine produce un
effetto, che posta nel mezzo o nel principio nol produrrebbe, o il produrrebbe
minore. Egli reca l'esempio seguente di Senofoole, che, parlando dei doni dali
da Ciro a certo Siennesi, disse. Gli donò un cavallo, una vesle, una collana, e
che i suoi campi non fossero guasti. L'ullimo dono è quello dove sta la grazia,
parendo cosa nuova, che si donasse a siennesi ciò che egli possedeva: se quel
dono fosse stalo collocato prima degli altri non avrebbe avuto grazia alcuna.
Bello pel medesimo artificio ci pare un detto di Benedetto XIV. Accomiatandosi
da lui due personaggi di religione luterana, egli avvisa di benedirli e di
ammonirli. Era di vero assai agevol cosa il fare che egli no ricevessero con
grato animo quell'atto di amore paterno: ma il venerabile vecchio ollenne il
buon effetto parlando così. Figliuoli, la benedizio ne de vecchi è acceita a
tutte le genti; il Signore v'illumini. Ingegnosissimo si è que sto detto per
l'ordine suo maraviglioso. Colla prima affeltuosa parola, “Figliuolo,” il papa
procacciasi la benevolenza del compagno conversazionale. Nella sentenza , la
benedizione de’vecchi è accetta a tulle le genti, chiude la prova della con
venevolezza di ciò ch'egli vuol fare. In quel l'io io vi benedico, trae la
conseguenza delle promesse. Nella precazione poi ripiglia la dignità di
pontefice, che accortamente aveva quasi deposta da principio e solto cortesi pa
role nasconde il documento, che a lui si ad dice di porgere a chi è fuori della
chiesa romana. Questo ci basti d'aver ragionato pei delli graziosi e piacevol ,
chè il voler parlare di tulle le maniere loro o semplici o miste sarebbe
officio di chi volesse trattare solamente di questa materia: e diciamo con
maggior brevità de’ concetli sublimi. Alcuni haimo chiamato sublime
qualsivoglia concetto, coi nulla manchi di grazia e di perfezione ; ina qui si
vuol prendere la parola nel segnato , in che viene usata da ' più de' moderni
reltorici e perciò così detiniamo i concetto sublime. Concetto sublime si dicono
quelli, che rappresentano con brevi parole l'idea di alcuna potenza o forza
straordinaria, per la quale chi ode resla compreso di alla maraviglia. Tali
sono i seguenti . Giove nel primo libro dell'Iliade promette a Teli di
vendicare Achill , e dopo il conforto delle sue parole i neri Sopraccigli
inchinò: sull immortale Capo del sire le divine chiome Ondeggiaro, e tremonne
il vasto Olimpo. Questo concetto, il quale ci fa maravigliare della potenza di
Giove, cesserebbe di essere sublime se con lunghezza di parole fosse segnato:
perchè quella lunghezza sarebbe contraria alla rapidità dell'alto divino e farebbe
che il pensiero del poeta non venisse improvviso alla mente di nostro compagno
conversazionale, che è quanto dire non generasse maraviglia. Sublime è ancora
quel luogo di T. Livio nella allocuzione di Annibale a Scipione. Ego Annibal
pelo pacem, poichè la parola Annibal reca al pensiero la virtù, le imprese, la
fero cia di quel capitano. Medesigiamente si fa maniſesta una straordinaria
fortezza di animo ne'due luoghi seguenti. Seneca, nella Medea, fa dire alla
nudrice: Abiere Colchi: conjugis nulla est fides, Nihilque superest opibus e
tantis tibi. Medea risponde: Medea superesto Corneille, ad imitazione di Senec
: Nerine: Dans un si grand revers que vous reste- t- il ? Med. Moi. In luogo
del nome di Medea il poeta francese pose il pronone, ed ottenne effetto
maraviglioso e colla brevità e con quella cotal pienezza di suono, che è nella
voce “moi”. Il poeta latino col nome di Medea destò nel compagno conversazionale
la memoria della potenza, della sapienza e della magnanimità di quella maga.
Divisata così la natura de' motti graziosi e piacevoli e de' sublimi, e
restando a dire al cuna cosa dell'uso, che se ne può fare, ripe teremo ciò, che
già detto abbiamo delle sentenze, cioè che lo scrittore si guardi dal fare
troppo uso de' concetti ingegnosi e graziosi e de' sublimi, poichè non è cosa
tanto contraria alla grazia e alla grandezza, quanto l'artificio manifesto e
l'affettazione. Le grazie si dipinsero ignude appunto per insegnare che elle
sono nemiche di tutto che non è ingenuo e naturale. La grandezza similmente non
va mai disgiunta dalla semplicità, e piccole appaiono sempre quelle cose, che
sono piene d'ornamenti; imperciocchè la mente soffermandosi in ciascun d'essi
riceve molle e divise imaginet le in luogo di quella imagine sola, che ci rappresenta
la cosa continuata ed una. Male adoperano coloro che non avendo rispetto alla
materia, di che favellano, nè alle persone ne alla modestia nè alla gravità
conveniente allo scrittore, colgono tutte le occasioni, che loro porgono o le
cose o le parole, per trar materia di motleggiare; perocchè invece di mo strare
acutezza d'ingegno appaiono loquaci ed insulsi. Che dovrà dirsi poi di que ,
che abusano dell'ingegno per empiere le scritture di freddi e falsi concelti,
di riboboli, di bislicci e d'indovinelli? di que', che tengono per finis sime
arguzie le allusioni delle parole, che erano la delizia del Marino e de' suoi
seguaci? Diremo che nali non sono per ricreare gli ani mi e sollevarli dalla
fatica, e per indur ſesta e riso, ma per noia, fastidio e sfinimento di chi è
costretto di udirli. Se il discorso si fa strada all’animo per gli orecchi, è
necessario che egli sia accompagnato dall' armonia, della quale niuna cosa ha
maggior forza negli uomini. L'armonia ci dispone al pianto e all'ira, e ci
rallegra e ci placa; e lulle le genti, avvegnachè barbare, sono tocche dalla
dolcezza di lei; laonde gran de mancamento sarebbe, se lo scrittore ad ac
crescere efficacia alle sue parole non se ne valesse. Dalla greca voce d.gpótely
(armosin), che segna connettere, è derivata la voce “armonia”. I maestri di
musica insegnano, che essa consiste nell'accordo di più voci sonanti nel
medesimo punto; ma coloro, che parlano del l'arte retorica e della poelica,
presero questa parola quasi nel significato , che i maestri di musica prendono
quella di melodia , come si vede aver fatto Aristotele, che usò in questa
significazione ora la voce melos, ora la voce armonia. La melodia consiste
nella altenenza, che hanno rispettivamente i gradi successivi di un suono nel
salire dal grave all'acut : e noi direino che rispetto al discorso l'armo nia
sta nell'altenenze delle lettere o delle sil labe o delle parole, che si
succedono con quel la certa legge che si affà alla natura dell'or gano
dell'udito. L'armonia, di che parliamo, è di due maniere, semplice o imitative.
L’una ba per fine soltanto la dileltazio ne degli orecchi, l'altra, oltre la
dilettazione degli orecchi, la imitazione del suono e dei movimenti delle cose
inanimate e delle animate, e quella degli umani affetti: colle quali imitazioni
inaggiormente ella si rende accetta all'intelletto e gli animi sigrioreggia. La
dilettazione degli orecchi si ottiene con parole costrutte e disposte in modo
analogo, come è dello , alla natura dell'organo del l'udito e fuggendo tutte le
voci e tutti gli accozzamenli di esse, che producono sensazio ne spiacevole.
L'imitazione poi si fa adope. rando e componendo suoni o gravi o acuti o inolli
o robusti, secondo che meglio si affanno a ciò che si vuole imitare. Diciamo
alcuna cosa più largamente e dell' una e dell'altra armonia, l’armonia semplice
e l’armonia composita o imitativa. Le parole, le quali, come tutti sanno , si
compongono di vocali e di consonanti , sono più o meno armoniche, secondo che
le lettere delle due specie suddelte si trovano disposte con certa proporzione.
Le vocali fanno dolce il vocabolo le consonanti robusto. Ma le troppe vocali,
che si succedono , producono quel suono spiacevole, che si dice iato; le troppe
consonanti fanno le parole aspre e diſficili a pronunciare: così l'incontro
delle sillabe somiglianti produce la cacofonia, Circa le parole non molto
armoniche, ma approvate dall' uso, diremo chę elle non si banno a rigettare; ma
si deve aver cura di collocarle in guisa, che il loro suono disarmonico serva
al l'armonia di tutto il discorso. Anzi sono da commendare quelle lingue che
ricche si trovano di vocaboli diversi di suono, i quali , giunti insieme con
bell'arte, sogliono rendere maravigliosa l'armonia del conversare. Sebbene,
circa l'arte del collocare le parole con armonia, non possa darsi maestro
infuori dell' orecchio avvezzo alla lettura de' classici scrittori, pure non
sarà del tutto vano il dire più particolarmente alcuna cosa delle parti, onde
l'armonia si coropone. E prima di tutto è a sapere che l’altenenza tra le
lettere, le sillabe e le parole, dalle quali risulta l'armonia, sono di due
ragioni: cioè altenenze di tempo, poichè si pronunciano o in tempi uguali o
disuguali; e attenenza di suono, poichè ogni sillaba differisce dall'altra per
aculezza e gravità e per più o meno di dolcezza o di asprezza. Diciamo prima
delle attenenze di tempo. Pie chiamamo i Latini quella certa quantità di
sillabe, che pronunciandosi in tempi eguali, si potevano misurare colla battuta
del piede nel modo che oggi ancora fanno i suonatori. E, poichè si
pronunciavano più o meno sillabe (attesa la varia conformazione delle parole)
in ispazi uguali di tempo, avvenne che lunghe si dissero quelle che occupavano
la maggior parte del tempo misurato dalla battuta, e brevi le altre, che
occupavano la parte minore. “Coelum”, per esempio , si compone di due sillabe e
si pronuncia in ugual tempo che ful-mi-na, che è di tre : perciò coelum è un
piede di due lunghe, e ſulmina è un pie de di una lunga e di due brevi. I piedi
sono di molte specie, e ciascuna ha il suo nome. Ve n'ha de' semplici di due
sillabe, che sono o due brevi o due lunghe , una breve e una lunga , o una
lunga e una breve: ve n'ha di tre sillabe, che per la varia combinazione delle
brevi e delle lunghe risultano di otto specie: ve n'ha finalmente più di cento
specie dei composti, cioè formali dall' unione di due piedi semplici.
Dall'indelernipala quantità di piedi disposti con legge analoga alla natura
dell'organo del l'udito umano, la qual legge si sente nell'anima e definire non
si può, nasce il numero; e similmeple dall ' unione determinata di varii piedi,
i versi, che sono molle maniere, se condo la qualità de' piedi, onde sono
composti. Dalla varia qualità e quantità de’ versi nascono poi le differenti
specie del metro. A rendere armonioso il verso si congiunge al pu nero il
suono, che, siccome abbiamo accennato, si genera dalla proporzione, con che
sono di sposte le consonanti e le vocali. Da ciò nasce che, sebbene talvolta i
versi abbiano il medesimo número, non hanno il medesimo suono, ma variano nella
loro armonia maravigliosamente: per la qual cosa interviene che dalla unione di
molti versi che abbiano il medesimo numero, come a cagion d'esempio, di
esametri, si possono generare molle ed assai varie armo pie: la diversa upione
di queste armonie di cesi, “ritmo”. Come nella poesia dal ipovimento di molti versi
upili nasce il ritmo poetico , così da quello di minuti membri d' indeterminala
mi sura nasce quello della prosa, il quale pure è di varie sorla, siccome
avremo occasione di osservare in appresso. Ora veniamo a dire del l'armonia
della favella italiana. Gl’italiani non hanno determinata la quantità nelle
sillabe, come si vede aver fatto i latini , per la qual cosa nemmeno i piedi
hanno potuto determinare. Alcuni letterali del sesto decimo secolo, fra' quali
il Caro, tentarono di rinnovare fra noi i versi esametri ed i pentametri, ma
quanto poco (per la in sufficienza della lingua nostra) al buon volere
rispondesse l'effett , apparirà dai seguenti versi di Claudio Tolomei, i quali,
se non sono molto aiutati dall'arte del recitante, non possono ricevere
soavità. Ecco il chiaro rio, pien eccolo d'acque soavi, Ecco di verdi erbe
carca la terra ride. Scacciano gli alni i soli co' le frondi e co'ra (mi
coprendo; Spiraci con dolce fato auretta vaga. A noi servono invece di piedi le
sillabe é gli accenti, e quindi è che da un determinato numero di sillabe e da
una determinata positura di accenti nasce il numero, onde si generano molte
specie di versi. Omettendo le di spute de'rettorici e le loro opinioni circa
questa materia, faremo qui alcun cenno solamente rispetto agli accenti. Le
parole sono di una o più sillabe : se di una soltanto , l'accento è su quella,
come in tu , me, no, si : se di più o egli è nell'ullima, come in mori, o nella
pri 79 ma, come in tempo, o nella penullima come in andarono, o prima di essa,
come in concedea glisi. L’indicati accento si dice “acuto”, perchè alzano la
pronuncia : dove questi non sono, si trova il “grave”, che l'abbassano. Gli
acuto e il grave alzando ed abbassando
il discorso, por tano seco certa proporzione di tempo, e perciò tengono fra noi
il luogo de' piedi Jalini, e formano varie specie di versi, che, secondo, la
quantità delle sillabe, si dicono o pentasillabi o senarii o seltenarii o
ottonarii o novenarii o decasillabi o endecasillabi. Dalle varie unioni di questi
nascono i diversi metri. E il ritmo nasce nel modo, che si è detto parlando
della lingua latina, e circa il verso e circa la prosa. Non si contenta l'animo
upano dell'armonia, onde è ricreato solamente l'orecchio, ma gran demente si
piace di que' suoni, che più vivamenle ci pougono innanzi il segnato; e questo
specialmente egli ricerca nella poesia, la quale o avendo, o mostrando di avere
per suo principal fine il diletto, dee apparire più d'ogni altro discorso
ordinala, e splendida: sarà quindi utile cosa l'investigare quale sia la virtù
imitativa delle parole. Questa e l’armonia imitativa. Dalla mescolanza delle
lettere liquide e delle vocali risulta infinita varietà di vocaboli dell’imitazione
delle grida, de’suoni, de’romori e de’movimenti, e chi, porrà mente alla nostra
lingua troverà, secondo che osserva il Bembo, voci sciolle, languide, dense,
aride, morbide, riserrate, tarde, mutole, rolle, impedite, scorrevoli e
strepitanti. Perciò è che variando la composizione di questi suoni si potranno
ordinare .e versi e ritmi, che ogni grido o romore o movimento vagliano ad imi.
tare. Jofinili esempi bellissimi di si ſalta imi. tazione sono nella Divina
Commedia : ma basti qui la sola descrizione dello strepito, che Dante udi
nell'Inferno: Quivi' sospiri, pianti, ed alti guai risonavan per l'äer senza
stelle, Perch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole
di dolore, accenti d'ira, voci alte ' e fioche, e suon di man con elle facevano
un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell'aria senza tempo tinta, Come
l'arena, quando il turbo spira . Del medesimo genere sono i seguenti versi del
Poliziano. Di stormir, d'abbaiar cresce il romore: Di fischi e bussi tutto il
bosco suon : Del rimbombar de' corni il ciel rintrona. Con tal romor, qualor
l'äer discorda, Di Giove il foco d'alta nube piomba : Con tal tumulto, onde la
gente assorda, dall'alte cataratte il nil rimbomba. Con tal orror del latin
sangue ingorda Sonò Megera la tartarea tromba.Il Parioi ci fece sentir il
guaire di una ca goolina, e il risponder dell' eco in questi bellissimi vers.
Aita, aita, Parea dicesse ; e dall'arcate volte a lei l'impielosita eco
rispose. Siccome il succedersi delle parole ora va lento or celere, è manifesto
che questo, che si può chiamare movimento del discorso, ba somiglianza coi
movimenti delle cose, e che per ciò aver dee virtù d'imitare le azioni loro.
Recherò qui per maniera d'esempio alcuni luo ghi cavali da' poeti. Odesi il
furore e l'impeto del vento in questi versi di Dante : Non altrimenti fatto che
d'un vento Impetüoso per gli avversi ardori, Che fier la selva senza alcuu
rallento , E i rami schianta , abbatte, e porta i fiori; Dinanzi polveroso va
superbo, E fa fuggir le belve ed i pastori . Mirabilmente Virgilio descrisse il
tumullo dei venti all'uscire della grotta di Eolo : Qua data porta ruunt et
terras turbine per flant. Incubuere mari, totumque a sedibus imis Una Eurusque,
Notusque ruunt, creber que procellis Africus, et vaslos volvunt ad sidera flu
clus. Insequitur clamorque virum , stridorque rudentum. Fra i versi che
esprimono la caduta de corpi sono bellissimi i seguenti : E caddi come corpo
morto cade ; il qual verso è cadente, come il corpo che cade. Insequitur
praeruplus aquae mons. In queste parole di Virgilio si sente il piom bare
dell'acqua precipitosa : ed eccellentemente fece sentire il medesimo suono il
Caro: E d' acque un monte intanto Venne come dal cielo a cader giù . In virtù
di quest'altro verso dello stesso Caro, una nave sparisce in un subito, e si
sente il romor dell'acqua che l'inghiotte : Calossi gorgogliando e s'aſfondò.
Lo stesso con una sola parola lunga e scor revole dipinse il procedere del
carro di Net tuno : Poscia sovra il suo carro d'ogni intorno Scorrendo
lievemente, ovunque apparve Agguagliò il mare e lo ripose in calma. Nelle
seguenti parole di Virgilio quasi sen tiamo a stramazzare il bue ; Procumbit
humi bos. Dell’armonia che imita gli affetti col suono , Onde conoscere per
qual modo gli affelli vengano imitati dall'armonia , uopo è d'inve sligare
quali altenenze essi abbiano col suono e quali col namero. In quanto alle
altenenze si ponga mente che ad ogni sorta di affetli (1) risponde un
particolar molo del l'organo vocale , per cui si formano voci di verse secondo
la diversità de' medesimi affetli ; all'allegrezza risponde il riso , alla
mestizia il pianto ; ed il riso ed il pianto si manifestano con suono al tutto
diverso : così presso tutte le geoli la subita maraviglia è significata dal
l'esclamazione ah , ovvero oh ; il lamento dall' eh, o dall’ahi ; e la paura
dall'uh. Que ste voci, che da principio sono elfelti naturali delle aſſezioni
dell'animo, diventano poi, merce dell'esperienza , segni di quelle : per la
qual cosa interviene che i vocaboli composti di ma, niera , che facciano mollo
sentire il suono di quelle leltere, che alle predette voci primitive si
assomigliano , avranno virtù d'imitare o questa o quella affezione. Le parole,
che s'in, nalzano per la a o per l'o , che sono lettere di largo suono, saranno
acconce ad esprimere l'allegrezza e gli affetti nobili ed alli : quelle, che
declinano per la é e per l'i , che sono lettere di molle suono , saranno
convenienti alla malinconia ed agli umili e miti affetti. (1) Omnis enim motus
animi suum quemdam a natura habet vullum , et sonum et gesium (Cic. de Orat. ).
84 quelle , che si abbassano nell' u potranno e sprimere le cose paurose e le
perturbazioni dell'animo, che ne procedono. Questa particolare virtù delle
parole viene poi rafforzata dalle attenenze , che le passioni hanno col numero.
Volgendo la considerazione alle varie passioni , si potrà conoscere che l'
uomo'nell'ira è fatto impetuoso , frettoloso nell'allegrezza , lento nella
mestizia , svarialo nell' amore, immobile nella paura. Quindi av. viene che la
musica non solamente si giova delle note gravi o delle acute, ma delle rapi de
e delle tarde modulazioni a risvegliare ogni sorta d'affetto . A somiglianza di
quest' arte maravigliosa , anche la naturale favella, il suono ed il numero
adoperando , innalza o abbassa gli accenli, rallenta od accelera il corso delle
parole, secondo la natura degli affetti , che di esprimere intende. Con quest'
arte medesima l'accorto scrittore compone i ritmi diversi secondo la tenuità o
la gravità della materia, e secondo le qualità della persona che parla. Ma di
questo avremo altrove occasione di favellare. Ora in confer . mazione di quanto
abbiamo detto intorno gli affetti, recheremo alcuni esempi. Come la lettera a
innalzi il verso e lieto il faccia, si può conoscere da quel solo verso del
Petrarca : Voi ch* ascoltate in rime sparse il suono; il qual verso sarebbe
rimesso se dicesse: O voi, che udite in dolci rime il suono ; sostituendo 1'i
alla a. Veggasi come Dante seppe significare uno stesso concetto con due
diverse armonie, che rispondono a due diversi affelti. Il conte Ugo lino
sdegnalo, e Francesca d' Arimino dolente dicono all’Alighieri di esser presti a
rispon dere alla sua domanda. Ma lo sdegnato dice con suono aspro e terribile :
Parlare e lagrimar vedrai insieme ; e quella mesta con dolcissimo e tenue suono
: Farò come colui che piange e dice. Maravigliosamente esprime Dante con voci
aspre lo sdegno : E disse, taci, maladelto lupo, Consuma dentro le con la tua
rabbia. La velocità de' pensieri, che procedono dal l'aſſello , apparisce in
questo esempio dello stesso poeta : Dunque che è, perchè perchè ristai? Perchè
tanta viltà nel core allelte ? Perchè ardire e franchezza non bai ? Un verso,
che esprime luogo pauroso e cupo, si è questo : 10 venni in loco d'ogni luce
mulo. Dove si vede che se Dante, in vece di muto, avesse delto privo, il verso
non avrebbe messo nell'animo quel sentimento d'orrore. La e , che è lettera di
suono lento, basso ed oscuro , rende sommamente imitativi i se gucnti versi :
Buio d'inferno e di notte privata D'ogni pianeta solto pover cielo Quant' esser
può di nuvol tenebrata. In virtù di somiglianli armonie producono gli scriltori
que' maravigliosi effetti, che la più parte degli uomini sentono nell'animo ,
ene ignorano il magistero. Di queslo cercai mani. festare la natura , non già
perchè io pensi che colui che scrive debba avere di continuo alle mani la regola
; chè anzi ho sempre creduto la dolcezza e proprietà del suono, al pari d'ogni
allra vaghezza poetica ed oratoria , nascere spontaneamente ; ma questo volli
fare, perchè stimai che l'investigar le occulte ragioni del. l'arte aiuti l '
intelletto a dirittamente giudi carne , e quindi a formare quell'interior senso
si necessario a comporre lodevolmente, e quel l'abito , che prendono gli
orecchi alla lettura de'ben giudicati esemplari. Nulladimeno per compiacere
agli orecchi non si vuol mai turbare quell'ordine delle parole, in virtù del
quale diventa chiara l'elocuzione. Se per esprimere qualsisia o movimento o
suono od affello coll'armonia, o per formare un pe riodo numeroso e grave ci
faremo oscuri, nes suna lode al certo ce ne verrà. Nè solamente dobbiam sempre
conciliare l'ordine domandato dagli orecchi con l'ordine sopraddello , ma
spesso ancora con quello , che rende più evi. denti o più efficaci i concetti ,
del quale ora ci rimane a parlare, siccome di sopra abbiamo promesso. Parliemo
della collocazione dell’espressione, per la quale si rende ‘efficace’ la
mozzione conversazionale. È manifesto che in ciascun periodo le pa role o le
proposizioni si possono , senza to gliere la chiarezza , alcuna volta posporre
o anteporre l'una all'altra in più maniere ; ma è da por mente che , fra le
molte possibili permutazioni, poche sono quelle che meritino di essere lodate ,
e che spesso una solamente si è l'ottima. Ho udito dire da molti che il più
delle volte l'ordine migliore delle parole nella proposizione si è l'ordine
diretto, e que sto in verità nell'italiana favella è spesso da preferirsi
all'inverso , segnatamente nei die scorsi didascalici o in quelli ove non si ma
nifesta alcun affetto ; ma certo egli è che l'or. dine diretto ( prescindendo
dai mancamenti che aver può rispello all'armonia) è alcuna volla degno di
biasimo, siccome freddo ed inefficace. A quale legge dunque dovremo ubbidire ,
ol. tre a quella già stabilita circa la chiarezza e l'armonia, nel collocare le
parole e le propo. sizioni a fine di rendere più vive le descri zioni e più
efficace l'espressione degli affetti ? La filosofia ci mostra che le idee
tornano alla mente associate in quell' ordine , che vennero all' anima per
l'impressione delle cose ester 88ne, o in quello , che si genera in virtù della
forza particolare di ciascuna idea, essendo che le più vivaci, o quelle che
maggiormente si attengono a' nostri bisogni, si risvegliano pri ma dell'altre ;
e questo mostrandoci , ella ne insegna che , se vogliamo fedelmente ritrarre
nelle menli altrui cio che abbiamo veduto o imaginiamo di vedere, v ciò, che
sentiamo, ci è duopo di formare la catena delle parole se. condo quella delle
nostre idee, per quanto il comporta il genio della lingua. Questa verità
verremo ora con alcuni esempi mostrando, Si osservi primieramente nel seguente
esem pio, tolto dall'Ariosto, come nella descrizione delle cose, che non sono
in moto, sieno poste innanzi all'animo dell'ascoltalore quelle idee, che prima
farebbero impressione ne' sensi del riguardante, e poscia succedano a mano a
mano le altre secondo loro qualità e silo : La stanza quadra e spazïosa pare
Una devola e venerabil chiesa , Che su colonne alabastrine e rare Con bella
architellura era sospesa . Sorgea nel mezzo un ben locato altare, Che avea
d'innanzi una lampada accesa, E quella di splendente e chiaro ſoco Rendea gran
lume all'uno e all'altro loco. La prima impressione, che riceverebbero gli
occhi di chi mirasse un somigliante luogo, sa rebbe certamente la forma e
l'ampiezza di esso, e tosto occorrerebbe alla ' mente la cosa alla quale
somiglia , cioè la devota e venerabil chiesa : indi l'allenzione del
riguardante si indirizzerebbe alle parti del luogo più appari scenti, le
colonne alabastrine e rare : queste chiamano il pensiere a fermarsi alcun poco sulle
qualità dell'architellura , indi alle parli . più minute, cioè all'altare, alla
lampada, alla luce, che si spande d'intorno . Quanto giovi disporre le parole
nell'ordine, in che le idee sono naturalmente impresse nei sensi dalle
successive modificazioni delle ester ne cose, si può conoscere da questo
esempio di Virgilio , il quale , volendo rappresentare all'imaginazione nostra
il greco Sinone trallo al cospetto di Priamo, si esprime cosi : Namque ut
conspectu in medio turbatus, inermis Constitit , atque oculis Phrygia agmina
circumspexit. La collocazione di queste parole è secondo l' ordine , nel quale
avrebbero proceduto le sensazioni di colui , che avesse veduto cogli occhi
propri sinone, e che l'imagine di quella vista si riducesse a memoria. La prima
cosa, che gli verrebbe all'animo , sarebbe il luogo ov'era condotto Sipone,
conspectu in medio; indi la persona di lui colle sue più distinte qualità ,
turbatus , inermis ; poi l'azione, constitit ; poi la parte del' vollo , che
subito chiama a sè l'altenzione del riguardante , co Die quella , che è indizio
dello stato dell'ani ma, oculis ; poi le cose , sopra le quali gli occhi si
volsero , Phrygia agmina; infine l'ultima e lenla azione degli occhi dipinta colla
tarda parola circumspesil. go Un altro esempio dello stesso Virgilio dimo.
slrerà come sieno poste nel proprio luogo pro posizioni e parole. Ecce autem
gemini a Tenedo tranquilla per alla ( Horresco referens ) immensis orbibus
(angues Incumbunt pelago , pariterque ad litora tendunt : Pectora quorum inter
fluctus arrecta , jubacque Sanguineae exsuperant undas : pars cae lera pontum
Pone legit, sinualque immensa volumine lerga. Fit Sonitus, spumante salo ,
jamque arva tenebant ; Ardentesque oculos suffecti sanguine et igni, Sibila
lambebant linguis vibrantibus ora . و Colui che fosse presente al descritto
caso , osserverebbe primamente di lontano due cose indistinte venir del luogo
che gli fosse al co spetto, gemini a Tenedo ; indi le acque per le quali
nuotassero, tranquilla per alta ; al l'avvicinarsi di quelle due indistinte
cose, egli comiocerebbe a distinguere il loro divincolare ; poi ecco che le due
cose, che da prima indi stinte si mostravano , si vedrebbe essere due serpenti,
angues, i quali più s'accostano e più li vedi , e più discerni l'azione loro ;
prima del gittarsi sul mare , poi del girarsi al lido , incumbunt pelago ,
pariterque ad litora lendunt ; ed a mano a mano più visibili la . cendosi le
qualità de' serpenti , si vedrebbero i pelti erti sui flutti ed alte le creste
sangui. gne, e il rimanente de'corpi con grandi volute nuolare, pectora quorum
ec . Finalmente udi rebbe il suono dell' acque , e ne vedrebbe le spume.
Pervenuti al lido i serpenli, discerne rebbe i loro occhi ardenli e sanguigni ,
ne ascollerebbe i fischi, e vedrebbe a vibrare le lingue, fit sonitus ec. Per
l'addotto esempio maniſestamente si vede che nel collocare le parole secondo la
catena di quelle sole idee, che verrebbero al. l'animo di chi il descritto caso
avesse veduto, sta l'arte di rendere evidenti le descrizioni : di qualità che
all'uditore sia avviso non di udir raccontare ma di vedere cogli occhi pro pri.
Nel rappresentare colle parole le sole idee che vengono naturalmente all'animo
di chi mira le cose , e di chi è mosso dagli affetti, consiste l'arte del
particolareggiare : chi tra passasse Test limite cadrebbe nella prolissi tà, e
nella minutezza , la quale rende stucche voli que' poeti che eccessivamente
particola reggiando si pensano di produrre l'evidenza. Siccome poi le cose
hanno più o meno di forza sull'animo nostro a misura che più o meno vagliano a
concitare l'amore o l'odio, o a mettere timore ; così interviene talvolta , che
esse al tornar che fanno alla mente tengono quell'ordine , che è secondo i
gradi della ri. spettiva loro forza. Perciò è che qualvolta le idee in virtù
delle parole sieno ordinate con formemente a siffatta legge, il discorso è
caldo e passionato; e freddo e di nessun efletto se l'ordine delle parole
discorda da quello delle idee. Nel libro IX dell'Eneide veggendo Niso l'amico
Eurialo già presso ad esser morto dai Rutuli, cosi esclama: Me me (adsum qui
feci) , in me conver : tite ferrum , O Rutuli , mea fraus onnis : nihil iste
nec , ausus, Nec potuit : coelum hoc , et conscia si dera testor. Volendo il
poeta esprimere le veemenza della passione di Niso, soppresse il verbo
interficile, e pose innanzi alle altre la voce me quarto caso, poichè la prima
idea, che viene all'ani. mo del giovanetlo , si è quella della propria persona
, che egli vuole sacrificare per l'amico suo ; poi vengono le altre parole
ordinata Diente seguitando la della legge. Similipente il Petrarca : E i cor,
che indura e serra Marle superbo e fero, Apri tu, padre, inlenerisci e spoda .
Se invece egli avesse dello : Apri tu , padre, intenerisci e snoda I cor, che
indura e serra Marte superbo e ſero, l'elocuzione sarebbe riuscita fredda,
perciocchè la prima imagine che si presenta al commosso animo del poeta, sono i
cuori, i quali egli con quelle prime parole quasi pone innanzi a Dio, affinchè
si piaccia d'intenerirli. Accade alcuna volta che lo scrittore vuole accrescere
vigore alla propria sentenza , e in questo caso non dee disporre le sue parole
a modo, che all'uditore paia di aver inteso tutto al prinio detto, ma far sì ,
che le idee vengano all' animo di lui crescendo gradatamente, come nel seguente
esempio : Tu se' buono, santo, divino. E in quest'altro del Boccaccio : Ri.
prenderannomi, morderannomi, lacereran nomi costoro. Similmente metterà bene il
collocare l'ay verbio dopo il verbo e l'addiettivo dopo il sustantivo ,
qualvolla sieno posti nel discorso alfine di accrescergli vigore. Perciò è che
me. glio si dirà : io ti amerò sempre , che io sempre ti amerò: è facile il
sentire come questa seconda collocazione riesca fredda. Molli preclari ingegni,
e Ira questi il Caro, hanno biasimato il Boccaccio, perchè troppo
frequentemente pone il verbo alla fine del pe riodo; e per verità l'hanno
biasimato a ragio ne ; perchè non solo con ciò si toglie al di. scorso la
varietà, ma anche perchè il più delle volle si viene a turbare la naturale
associa zione delle idee. Alla quale associazione se porrà mente lo scrittore
troverà sempre molivo onde approvare o disapprovare l'ordine che egli avrà
posto nelle sue parole. Lunga opera sarebbe il trattare qui minutamente questa
ma teria e il prescrivere le regole applicabili a tutti i casi particolari ;
queste si possono age volmente dedurre dalla regola generale, che abbiamo
assegnata , e perciò stimiamo che qui 94 basti fare qualche altra osservazione
intorno ad alcuni luoghi, ne'quali il verbo è posto in ultimo. Avendo il
principe Tancredi, presso il Boc caccio, rimproverato Ghismonda di avere eletto
per suo amatore Guiscardo di nazione vile, e non uomo dicevole alla nobiltà di
lei, così ella, rinfacciandogli il fatto rimprovero, gli dice : in che non
taccorgi che non il mio pec cato , ma quello della fortuna riprendi. Qui chiaro
si vede che se Ghismonda avesse dello : non taccorgi che non riprendi il mio
pec cato , ma quello della fortuna, avrebbe par. lalo freddamente. Il figliuolo
di Perolla, in T. Livio, sdegnato che il padre suo gli abbia in. pedito di
uccidere Annibale, si volge alla pa tria dicendo: o Patria , ferrurn , quo pro
te armatus hanc arcem defendere colebam, hodie minime parcens, quando pater
extor. que, accipe. Ne'due cilati luoghi son poste innanzi le idee, che prima
si presentano ale l'animo passionato di colui che favella, e in ullimo è il
verbo, che apporta luce alla mente sospesa dell'ascollatore. Se T. Livio avesse
detto : 0 Patrin , accipe ferrum ec. , oltrechè avrebbe parlalo fuori del modo
naturale di colui che ha l'animo commosso, avrebbe an cora mancato di
quell'arte, che l'altenzione altrui si procaccia: imperciocchè qualvolta egli
ci porge innanzi il ferro, col quale il giovane voleva difendere ostinatamente
la rocca, subito la niente nostra sta attendendo impaziente menle che cosa
esser debba di quel ferro; e, poiché ode la risoluzione di esso giovane, re sla
preso da subita maraviglia e ne riceve dilelto. Nel collocare le parole secondo
la catena delle idee, si vuol porre ' grande cura di con ciliare quest' ordine
con quello che è richiesto dall'orecchio e dal genio della lingua , al quale
non si può contrariare. Qualvolta 10 scrittore ciò pervenga ad ottenere, sembra
che le sue parole siensi di per sé poste al luogo loro, e che chiunque avesse
voluto dire la stessa cosa l'avrebbe detta a quel modo. Que sta si è quella
facilità, che molti avvisano di poter conseguire , ma spesso invano a ciò si
affaticano e sudano. Parliamo del carattere del discorso. Avendovi posti
innanzitulli gli elemenli, onde si compongono le prose e le poesie , ac cade
ora di ragionare più parlicolarmente delle leggi della convenevolezza , o sia
del decoro , di che abbiamo di sopra falto cenno alcuna volta. Come dalla
mescolanza de'selle colori fatta con legge si genera la varietà e la vaghezza
nella imagine delle cose dal pittore imitate, cosi dalla mescolanza degli
elementi predetti , similmente falta con legge, nasce la varietà e la venustà
delle prose e delle poesie . Colui che si facesse ad accozzare e ad ammassare
alla rinfusa parole nobili , modi urbani, mela fore, traslali, igure , sentenze,
ec. , verrebbe certamente a comporre di buona materia as sai deforme Perſella
riuscirà posizione, allorchè le parole e i modi e l'ar monia e le figure
verranno e ben divisale le une con le altre e lulle insieme, secondo i fini che
lo scrillore si propone, secondo la maleria della quale ſavella, secondo la
condi. zione sua e di coloro che l'odono , secondo i luoghi in cui parla ; chè
in queste tulle cose consiste il decoro. Dal decoro nasce la leggia dria , che
risplende nelle più belle opere del. l'arle, e senza di esso nessuna cosa al
mondo è pregevole. Conciossiachè poi varii sono i fini speciali , che lo
scrittore si propone , varii i subbielli, di che può ragionare, varie le uma ne
condizioni e le circostanze, conseguita che varii pur sieno i generi e le
specie de' con ponimenti per loro proprio carattere distinti. Il qual
carallere, per le cose delle di sopra, definiremo nel modo seguente : Il
carattere del discorso si è la contemperanza degli ele nepli, da ' quali
risultano la chiarezza e l'or. namenlo, ſalta secondo le leggi del decoro. E
perciocchè la principal legge del decoro si è quella , che riguarda il fine,
che ci pro poniano , quando altrui manifestiamo i nostri concelli , a questo
volgeremo tosto la nostra considerazione, Chi scrive inlende o a convincere o ä
pero suadere o dilellare altrui. Secondo questi tre fini nasceno tre generi di
scrivere o tre caralleri si diversi , che vogliono essere di stigli e
particolarmente considerati ; cioè il fi losofico , il persuasivo, il poelico.
Di questi di reno prima alcuna cosa in generale , indi ne accenneremo le
specie. In quanto al carattere del discorso filosofico, Ufficio de'flosofi si è
il mostrare altrui la verità, e perciò le loro scritture intendono a fare che
il lettore od ascoltatore non sola . menle venga di buona voglia nella sentenza
a lui esposta , ma che sia costretto anche suo malgrado a vevirvi, che è quanto
dire ch'egli rimanga convinto . Se pertanto ci verrà fallo di scuoprire quella
virtù del linguaggio , per la quale si genera il convincimento , ci saranno
subito manifeste le qualità , onde il carallere filosofico si distingue dagli
altri. Il convincimento si genera nell'animo o qual volta per via de' sensi
percepiamo l'attenenza ſra alcune qualità, e in questo caso diciamo esser
convinti dal fatto, o qualvolta ci vien posta innanzi una serie di proposizioni
insie me collegate ' e procedenti da una o da più altre conformi a'falli , le
quali si chiamano principii ; ed in questo secondo caso diciamo di essere
convinti con evidenza di ragione. A costringere gli animi con questa evidenza
in . lendono i filosofi, ed a tal fine son loro neces sarii i vocaboli di
singolare significazione ed i modi precisi ; imperciocchè se nella catena delle
proposizioni che formano il ragionamento , una sola vi fosse di perplesso
significalo, o che accrescesse o menomasse di un solo elemento iniportanle
alcuna idea, si mulerebbero le at tenenze delle dette proposizioni, dal che
proce derebbe l'errore , come accade nelle operazioni arilmeliche, qualvolta ,
no solo numero si ponga iu luogo di un altro, Se agli uomini venisse dalo (che
Dio volesse) di ordinare la lin gua a modo che dalle percezioni delle qualità
semplici delle cose fino alle più complesse idee d'ogni maniera non fosse
vocabolo di mal fer ma significazione, non sarebbe malagevole il ragionare
dirittamente in qualsivoglia altra Ina teria , come si ragiona nella matemalica
; inn perciocchè in virtù de'segni ben determinali si verrebbe al conoscimento
delle allenenze delle idee complesse grado per grado fino ai loro principii; e
per tal forma ciascuno potreb be sempre rendersi certo della enunciata verità .
Da tutto ciò si raccoglie che nella precisio ne delle parole e dei modi sta la
virtù di con vincere ; e che perciò essa precisione esser dee la prerogativa
dello scrivere filosofico. L'uso della metafora pertantoe delle figure può
divenire larghissima fonte d'errori, per ciocchè è facile che l'animo umano
ingannato dalle similitudini, di che si formano le meta fore, e commosso dagli
artificii travegga, e quindi si faccia a comporre le nozioni, non secondo la
natura delle cose , ma secondo le apparenze e la capricciosa indole della fantasia.
Il sistema del Malebranche , ch'ebbe tanti se. guaci e disputatori (per lacere
di molli altri ) procede da una similitudine. E si dovrà dunque nello scrivere
insegnali vo schivare ogni metafora ed ogni figura, e renderlo secco e ruvido,
come quello de'ma temalici? V'hanno certamente alcune malerie ( e tale è per
avventura la ideologia ) , le quali richieggono un linguaggio pressochè simile
a quello della geometria o dell'algebra ; ma non è perciò che le altre parti
della filosofia, ed anche talvolta la stessa austera scienza delle idee, non
dimandino ornamento sobrio e ve recondo. Niuna materia filosofica vuol essere
molto mollo fregiala, acciocchè il verisimile, in forza degli artifizii
oratorii , non venga ad invadere . il luogo del vero, nė paia che il filosofo
voglia invescare e prendere altrui : nulladimeno è necessario che a quando a
quando l'intelletto del leggitore, affaticato dal lungo ragionare, trovi
riposo, e venga alleltato, senza che la esposta verità rimanga oscurala .
Perciò il filo soro collo schivare le parole barbare, rance , oscure e
disarmoniche toglierà ogni ruvidezza al suo discorso, e gli darà grazia e
leggiadria convenevole co' modi urbani e gentili , colle vereconde metafore
scelte a maggiore schiari. mento di quanto per le parole ben determi nate fu
espresso ; colla brevilà e colla varietà de'modi, con alcune naturali figure,
quale sa rebbe l'interrogazione, e specialmente coll’ar. monia facile e piana ,
e con tutti gli allri modi naturali alla tempérala favella. Questo carallere
filosofico fu si ben divisato da Cicerone, che io stimo convenevole cosa di
recare le sue parole Temperata e famigliare è l'orazione de’ filosofi: non è
composta» di modi popolari; non è legata a cerle regole d'armonia, ma discorre
liberamente. Niente sa d'iralo, niente d'invidioso, niente di inirabile, niente
di astulo. Casla, vereconda, quasi pudica vergine, onde piuttosto ragionamento
che orazione può nominarsi. Parliamo del discorso di carattere persuasive o protrettico. Poichè
abbiamo dato contrassegno del carattere filosofico, veniamo a fare il medesimo della
mozzione conversazionale persuasiva. “Persuadere” segna propriamente far
credere altrui alcuna cosa; dal che manifeslo apparisce essere grande la
differenza tra il “convincimento” e la “persuasion”. Perchè siamo convinti è
forza che conosciamo ogni proposizione che compone un ragionamento fino alla
prima percezione, dalle quali dipende il principio fondamentale di quello. Perchè
siamo “persuasi” basta che il ragionare abbia per fondamento o l'opinione o
l'apparenza o l'autorità (non come l’intende Courmayeur). Molti dicono, a
cagion d' esempio, di essere “persuasi” che il sole si giri intorno la terra,
ed altri che la terra si volga intorno al proprio asse. Gli uni prestano fede
all'apparenza, gli allri al detto degli uomini sapienti. Ma di quello che
credono non sanno porgere altrui vera dimostrazione. Da questo esempio, e da
infiniti altri, si può vedere che la persuasione non è sempre generata dal
conoscimento di ogni proposizioe che si richieg
gono nella dimostrazione, e che per conseguente a trarre le volontà, ed a
tenere le menti del più degli uomini, non importa semipre il dimostrare
sollilmente alla maniera del filosofo, ma giova di far uso di qualsi voglia
verisimile principio: di comporre imaginazioni che abbiano faccia di verità: di
adoperare figure che, perlurbando l'aninmo di nostro compagno conversazionale,
conformino i pensieri di lui secondo la nostra volontà di guisa, che, se egli
sia per venire nella nostra sentenza, precipitosamente vi corra . Ma tutte
queste cose si vogliono ado perare a modo, che il discorso abbia sempre
apparenza di vera dimostrazione; perciocchè gli uditori di qualsivoglia condizione
sempre domandano a conversatore che sia loro mostra la verità. Converrà quindi
dedurre il discorso, per natural guisa e chiaramente, e da esso rimovere ogni
proposizione ed ogni artificio, nel quale apparisca alcuna ombra di falsità.
Primo ufficio del conversatore si è il provare la sua proposizione nella
divisata maniera. Secondo, il dilellare. Terzo, il commovere; accorgimento si
richiede nelle prove; sobriela degli ornamenti che intendono al diletto;
veemenza nel concitare gli affetli. Con queste arti si perviene a trionfare ed
a governare la volontà di nostro compagno conversazionale. Per le cose dette si
conosce che il conversatore, comechè dice di voler dare esatta dimostrazione di
quanto afferma, questo non fa sempr : del che si può aver prova nella disputa,
che fa in contraddilorin, per le quali talvolta appaiono vere due sentenze, una
delle quali, essendo opposta all'altra, deve di necessità esser ſalsa
(reduction ad absurdum, introduduzione della negazione). Non è dunque l'arte
della conversazione veramente l'arte di dimostrare (prendendo questa parola
nello stretto segnato del filosofo) ma, come la define Dionigi d'Alicarnasso, “l'arte
di farsi credere”. Ma qui potrà per avventura sembrare che, avendo io nel sopra
indicato inodo divisata la natura di una mozzione conversazionale persuasiva,
de abbia fat 10 un'arte d'inganno. Chi però cosi pensasse а porterebbe opinione
falsissima; perciocchè non si ſa inganno agli uomini adoperando a bene
quell'arte, che sola si conſà all'indole della più parte di essi. Pochi sono
coloro, che pos sono essere falli capaci della verità per via di sollile ed
esatto ragionamento; anzi avviene il più delle volte che, sembrando molti
falsissimo il vero e piacesse a Dio che così non fosse), è forz , per
guadagnare l'opinione foro, venire ad alcuna utile verità per le strade del
verisimile; e questo non è certo ingannare, ma giovare la umana famiglia. Vero
ufficio dei conversatori si è l ' usare l'eloquenza non ad inganno, ma per
indurre gli uomini a fuggire il vizio, a seguitare la virtù e la verità; per
metter fine alle conlese, per sedare i tumulli, per sollevare l'autorità della
legge contro il volere di coloro, che il privato bene antepongono a quello
della repubblica: che se alcuni malvagi intellelli abusano di tutte le arli
civili, dovremo per questo sbandirle dal Roma e ricondurre gli uomini a viver
di ghiaude? Finalmente e la mozzion conversazionale di carattere poetico, come
in Heidegger. La poesia fou dai romani inventata per proprio diletto, e poscia
dagli autori della vila civile ad ammaestramento di esso popolo adoperala.
Piacque ad aleuni a solo ricreamen to dell'animo usarla, ma i più nobili poeti
sotto il velame delle favole, delle imitazioni e dei mirabili concetti
pascosero la dottrina , e con locuzione accesa nella fantasia e con soavi armonie
si aprirono la strada alle menli volgari, le quali all'insegnamento dei
filosofi sarebbero stale ritrose. Per lo che niuno può dubitare che chiunque si
dispone a fare una mozzione conversazionale poetica non debba cercare di
piacere alla più parte degli uomini. Questo fece ad imagine degli antichi il
nostro Alighieri, la cui divina Commedia leggevano anche le persone d'umile
condizione, e ne traevano documenti a ben vivere. Questo ſecero l'Ariosto e il
Tasso, e cosi dee fare chiunque ha vaghezza di essere salutato un autore di una
mozzione conversazionale poetica. Se dunque investigheremo quali sieno quei
modi che dilettano il più degli uomini, e quali sieno que' che li noiano,
giungeremo a conoscere quali convengano e quali disconvengano al carattere
della mozzione conversazionale poetica . E primieramente e palese che le
espressione apportano diletto e colla materiale struttura loro e colla qualità
delle idea, che recano alla mente; perciò è che l'essere del carattere poetico
dall'una e dall'altra di queste cose dovrà generarsi. Una delle qualità
necessarie alla mozzione conversazionale poetica sarà dunque la più squisita
armonia, onde siano dilettati i sensi ed appagato l'intelletto in virtù della
imitazione. Dell'armonia abbiamo dello abbastanza, perchè passeremo tosto a dire
della natura delle idee dilettevoli. Il diletto si genera negli animi da ciò
che, dolcemente i sensi movendo, fa operare la mente senza tenerla in fatica: e
perciò è che le imagini dei corpi diversi e tulte quelle cose e que’ concetti,
che hanno virtù di risvegliare gli affetti, ci recano maraviglioso piacere e le
idee astratte all'incontro non lo ci recano, perciocchè, se non sono mollo
complesse, fanno lieve impressione nell’animo; se molto complesse, abbisognano
di molta attenzione, e perciò affaticano la mente. Proprii, saranno dunque del
carattere poetico i vocaboli e i modi acconci a svegliare ad un tempo la rimembranza
di molte sensazioni dilettevoli ed a concitare le varie passioni ed a rendere
sensibili coll'aiuto delle similitudini tolte dalle cose corporee i più sottili
concetti della mente. Cogli aggiunti opportunamente scelti vengono segnata la
passione o l’azione, e gli usi delle cose e le qualità loro proprie, le quali
in virtù dei soli nomi sustantivi non verrebbero all'animo di nostro compagno
conversazionale, o ci verrebbero debolmente; perciò al poeta conviene
l'adoperare essi aggiunti più frequentemente che all'oralore, quale dipinge
meno parli colarmente le cose, siccoine colui che non ha per fine principale il
diletto. Colla metafora si dà corpo a una nozione astratta, coi tropi si pone
dinanzi agli occhi della mente quella sola parte o qualità dell'obbietlo, che
prima si presenterebbe al senso di colui che cogli occhi del corpo il mirasse.
Adoperando i predetti modi, si perviene a dare a’ concetti intellettuali forma
sensibile guisa, che nostro compagno conversazionale, direi quasi, non più per
segni percepisce le cose, ma le vede, e con mano le tocca. Affincho palesemente
si vegga questa prerogativa, che sopra tutt e rende il carattere poetico
distinto dagli altri, recherò ad esempio alcuni concetti intellettuali,
convertendoli in forma sensibile. Tutti i viventi muoiono. La sede del romano
impero fu da Costantino trasferitu a Bisanzio Il popolo facilmente mula
consiglio. Quello ch' ei fece dai tempi di Romolo, sino a quello dei Tarquinii.
Quello concetto si dice intellettuale, siccome quelli che si denno giudicare
secondo il segnato proprio di ciascuna parola; sensibili saranno, qualvolla
sieno espressi di maniera che giudicare si debbano secondo l'apparenza o la
similitudine, siccome divengono i predelti Trasformandoli nel modo seguente. La
morte batte egualmente alle capanne de poveri ed a’ palagi de’ re. Posciachè
Costantin lo quila volse contro il corso del ciel, che la seguiu Dietro quel
grande , che Lavinia Wolse. Infida è ľaura popolare. E guel cliei fe' dal mal
delle Sabine Al do Tor di Lucrezia. Queste finzioni che assai di lettano, e perchè
contengono manifeste similitudini e perchè racchiudono veri intellettuali concetti,
sono talmente proprie della mozzione conversazionale poetica, ch'elle sarebbero
sconvenevoli nei discorsi, che non hanno per fine primario il diletto. Come
queste poi si addicano più a cerle specie, che a certe altre, vedrenio a suo
Juogo. Ora bastea di avere in genere contra-segnata la natura del carattere
poetico, onde apparisca che tengono mala strada coloro, i quali cercando
"fama tra i poeti fanno pompa ne’loro versi di dottrina e di soltile
ingegno, ed espongono i loro pensieri con ordine troppo minuto e distinto. I
concetti che si cavano dall’intrinseco della filosofia, recanó seco molta
oscurità e difficoltà, specialmente quando vengono segnato co' vocaboli e
commodi loro proprii, e perciò sono contrarii al diletto, che è il fine del
poet , o, come altri vuole, il mezzo necessario ad indurre il giovamento. E
quando si dice che il poeta dev'essere filosofo, non si vuol dire che a modo
dei filosofi debba scegliere, ordinare e segnare il concetto, ma che egli usi
molto di filosofia nello scegliere le materie più utili agli uomini, e nel dare
a quelle e forma e veste conveniente alla natura di ciascuna. Che se talvolta egli
vorrà togliere alcun concetto dalla filosofia, lo toglierà dalla superficie e
non dal profondo seno di lei, in quel modo, che ha fatto il Petrarca, qualvolta
si è giovato della filosofia di Platone, come si vede nel seguente esempio. Per
le cose mortali, che son scala al fattor chi ben le stima, D'una in altra
sembianza potea levarsi all'alta cagion prima. E in altri luoghi moltissimi si
vede con qual arle e cautela dalla flosofia nella poesia egli abbia trasportati
i concetti, gli abbia temperati ed ornati, sicchè non hanno nè ruvidezza alcuna
nè oscurità, ma naturalezza, novità, e magnificenza, che sono qualità popolari,
che è quanto a dire poetiche. C’e una e altra specia del discourse di carattere
filosofico. Le materie, intorno le quali cade l'insegnamento, sono: la
matematica, la fisica , la metafisica, la morale, la politica, l'arte oratoria
e la poetica, le arti liberali e le meccaniche, e tutte le conoscenze che da
queste principali procedono, ciascuna delle quali essendo più o meno astratta ,
richiede o maggiore o minore soltigliezza d'ingegno e forza di attenzione in
chi le consider: per la qual cosa interviene che dovendo i conversatori usar
parole e modi con venevoli alla natura di ciascuna delle dette materie, ne risultano
diverse specie di caratteri insegnativi più o meno austeri. Rispelto poi alle
persone, cui vuolsi mostrare la verità, giova osservare che elle sono di due
maniere. Alcune letterale ed alcune mezzanamente istruite. Alle prime, che sono
avvezze al ragionamento, si converrà stretto sermone: più diffuso alle altre,
le quali hanno bisogno che le cose sieno esposte loro per minuto, ed anche
talvolta per via di similitudini e di esempi chiarile. Per tal cagione il
discorso filosofico prende spesso alcuna delle forme del persuasivo, senza mai
perdere però la precisione, che forma l'essenziale sua proprietà. Di tal sorta
sono molte mozzione conversazionale indirizzati all'insegnamento de' giovani, e
i dialoghi e le epistole filosofiche, le quali vengono usate affinchè certe
materie depongano alquanto della nativa loro austerità, ed allin cbè i
conversatori affaticati trovino riposo nelle digressioni e in altre parti
accessorie. C’e una e altra specia di discourse di carattere pesuasivo o
protrettico. Se al mondo fossero uomini dirittamente sapienti e perfettamente
savi, sicchè astuzia e lusinga di oratore non potessero negli animi loro, vana
riuscirebbe l'arte del persuadere, perciocchè tutti richiederebbero di essere
convinti con precisa e poco adorna favella: ma Blo non sono quaggiù nel mondo
cose perfette, e perciò è che, sebbene tutti gli uomini avvisando di poter
essere condotti alla verità per via di vera dimostrazione, sdegnino i manifesti
artificii; pure non v'ha alcuno, che vaglia a resistere alla seduzione di
astuta eloquenza; dal che si ricava che l'arte del persuadere si può adoperare
con ogni sorta di persone; po pendo menle però che quanto maggiore negli ascoltanti
è l'aculezza dell'intelletto e la sapienza, altrellanto esser deve la cura
nell'ora tore di occultare l’artificio. Dovranno dunqne i modi del discorso
persuasivo tanto più avvicinarsi a quelli del filosofico, quanto piu le
persone, cui si favella, sono sapienti ed arcorte; ed all'incontro tanto più
dovranno lingersi, direi quasi, del COLORE (Farbung) poetico, quanto nel
conversatore è minore l'altitudine ad argo nentare sottilmente: e la ragione di
questo si è che, a misura che negli uomini manca l'acı fezza dello intelletto,
cresce la forza della fan. tasia, dell'opinione e delle passioni. Ma no è
perciò che, anche favellando a sì falte persone, debba l'oratore ornare il
discorso d'imagini fantastiche a modo che esso perda le apparenze della buona
dimostrazione; essendo che' il popolo stesso, il qual pure, come è detto,
presume di sapere ragionare sottilmente, sde gna quella orazione che gli par
vuota di ragioni. Dovrà dunque il discorso persuasivo aver sempre l'aspetto di
vera dimostrazione; ma colale aspetto poi sarà diverso, secondo la maggiore o
minor perspicacia delle persone, che si vogliono persuadere, le quali si
possono dividere in tre schiere. La prima è degli uomini letterati : la seconda
degli uomini che banno convenevole discrezione di mente: la terza del popolo
basso. Per le quali tre schiere tre specie di carattere persuasivo procedono.
La prima partecipa alquanto delle qualità del genere filosofico: la terza di
quelle del poelico: la seconda è stile medio e media fra le due. Della prima
specie e le allegazione, che l’avvocato pronuncia al cospetto de' giudici;
della seconda i discorsi morali, la storia, l’elogio, ed altre opere intese a
persuadere circa il giusto e l'onesto le persone discrete; della terza la
predica e la allocuzione e il parlamento, che si fanno al popolo ed a; soldati.
Siccome poi varia si è la condizione delle persone che favellano, e varie le
cose di cui si può favellare, interviene che secondo queste e quelle verrà il
carattere persuasivo a dividersi in altre specie: e perciocchè le per le cose
si possono considerare di tre ragioni, cioè di nobili, di mezzane e di umili,
piacque a' retorici di restringere sotto tre soli nomi i molli membri del
carallere persuasivo, e questi sono: il sublime, il temperato ed il tenue. Che
a ciascuna di queste specie si addicano e voci e modi particolari, è facile
comprendere e chi non vede che al discorso rivolto a celebrare le lodi di un
eroe o di un sapiente si convengono maniere diverse da quelle , che sarebbero
accomodate a descrivere o a lodare l’amenità della villa? Che la lettera
famigliare intenla a persuadere qualsivoglia verità ad alcuno, dev'e di natura
diversa dall' orazione che tralla della cosa medesima? Paren sone e I 2 domi
che qui non sia bisogno di allargarsi troppo in parole, una sola cosa ricorderò
, cioè, che von solamente si addicano a cfascuna spe. cie particolari maniere,
ma ancora particolare collocazione di parole e particolare armonia .
Imperciocchè l'animo di chi favella , essendo secondo i varii casi o tranquillo
o perturbato, o elevato o umiliato , non è dubbio che, nel seguitare questi
diversi affetti, variamente si devono ordinare le idee, e colle idee le paro
le, e che similmente dee variare l'armonia , se vero è ch'ella soglia naturalmente
, qualvolta favelliamo, accompagnare i moti dell'animo, Oltre di che vuolsi
considerare che que' che parlano alla moltitudine, o scrivono cose da
proferirsi ad alla voce , sogliono muoverla e modularla con diverso andamento
da quello che userebbe colui, il quale famigliarmente ragionasse e
tranquillamente in angusto loco alcun fatto narrasse ; e perciò il ritmo di que
ste due specie di favellare è fatto diverso dalla necessità di pronunciare a
modo, che le nostre parole sieno ascoltate volentieri, e quan do in luogo
pubblico di gravi negozii a molti parliamo, e quando in camera a pochi di qual
sivoglia materia. Quale sia poi quella deter minala armonia, che in ciascun
caso convenga, insegnare uon si può. Qui basti l'avvertimento, chè l’esempio de
classici scrittori assai meglio ne può ammaestrare. Penso che sia convenevole
cosa il collocare fra le specie del carattere persuasivo anche quello che si
addice alla istoria; e ciò per le seguenti ni. Uſlicio dell'istorico si è di
produrre coll'insegnamenlo la prudenza civile e militare, il che si ottiene col
porre innanzi all ' animo del lettore i fatti importanti e le cagioni e gli
effelli di quelli. Al qual line, è mestieri di descrivere avvenimenti d'ogni ma
piera e particolari e generali, assalti , uccisioni , incendii, battaglie,
saccheggi, trattazioni, páci congiure,
delilli e virtù; di palesare nelle concioni poste in bocca ai re, ai
magistrati, ai capilani, i gravi consigli e i documenti della politica ; di
esprimere i caratteri delle passioni, e di usare le più luminose sentenze. Le
quali tulle cose vogliono essere significate con modi che varino secondo il
variare della maleria. Comechè uguale a sè medesimo sia sempre il carattere
della storia, cioè grave , siccome si addice a chi le gravi cose racconta ,
certo egli è che secondo la differenza degli avvenimenti dovrà variare nel
sostenersi e nello innalzarsi, ed apparire nelle concioni più alto ed eſti cace,
nelle descrizioni più ameno ed ordinato, e spesso più veemenle nella persona
degli uo mini ivi introdolli a parlare, ma sempre temperato in quella dello
scrittore, che da ogni parteggiare dee mostrarsi lontano. Non può dunque
convenire al caraltere storico nè l'autorità filosofica, la quale sarebbe
contraria alle malerie , nè la poetica pompa , che torrebbe fede alla
narrazione ; perciò é forza che gli sieno proprie le prerogative generali del
ca. rattere persuasivo, dal quale differisce sola mente per le qualità speciali
di sopra accennale. C’e una e altra specia del discourse di carattere poetico. Se
ſu bisogno dividere in alcune specie il carattere persuasivo a cagione della
maggiore o minore altitudine delle menti umane a di scerncre la verità, ciò non
occorrerà circa il carallere poetico ; imperciocchè tanto gli uo. mini di
sottile ingegno , quanto quelli , in cui la fantasia prevale all'intelletto,
hanno tulli dinanzi al poela una medesima disposizione. Se il popolo porge
orecchio alle finzioni noe. tiche , quasi come a cose vere, i sapienti le
riguardano come simboli della verità e quasi come leggiadri sogni della
filosofia , e in questo loro dolce ricreamento sdegnano ogni austerilà e fino
l'apparenza delle faticose forme filoso . fiche . Perciò è palese che il poeta
rivolge sem . pre le parole ad vomini, i quali, sieno di qual sivoglia
condizione , amano che la mente loro şia condotta ad operare senza fatica . Da
que. sto si ricava che ogni specie di carattere poe tico dovrà avere sempre la
prerogativa di schivare, come dicemmo di sopra, le idee che tengono in falica
l'intelletto, e rappresentare quelle , che vestile di forme sensibili, eserci.
citano la imaginativa. Non sarà dunque diviso in ispecie questo genere per
rispelto della diversità degl'intel letti , ma della condizione del poeta o
delle persone che introduce a parlare, e delle varie cose , che ei ſa subbietto
del canto. Ma, prima di entrare in questo proposito , parni che sia da togliere
una falsa opinione circa la natura della poesia. Sono alcuni i quali avvisano
che 115 ma il l'essenza di lei consista nel metro, e fra que sti è il
Melaslasio , il quale nella sua esposi zione della Poetica d'Aristotele sostiene
che la lavella metrica, per essere l'istrumenlo con che l'imitazione si fa , ne
forma l'essenza . Ma io domanderei voleplieri a coloro che cosi la pensano ,
qual nome vorrebbono dare all'Eneide tradolla in favella sciolta dal metro? Le
daranno per avventura nome di prosa? L’espressione “prosa” altro non segna che
discorso senza metro, e per ciò verranno a dire solamente che quell'illustre
racconto è fatto sce. mo di quella sola qualità, di che grandemente si diletta
l'orecchio, ma non già di tutte le altre, che stabiliscono la natura dei
discorsi composti a fine di diletto. Dal che appare manifesto che un altro
general nome è bisogno per distinguere i discorsi composti per dilettare. E
quale è a ciò più accomodalo vocabolo che quello di poesia? L’espressione
“poeta”, secondo sua origine , significa facilore o vogliam dire fabbricatore;
e perciò poesia sonerà lo stesso che fabbricazione o finzione, e tali sono di
necessità quasi tutti i discorsi, che si compongono a fine di dilellare,
essendo che il nudo vero non è dilettevole sempre e in ogni sua parle: perciò Varchi
dice nell'Erco laro, che il verso non è quello che faccia principalmente il
poeta; e che Boccaccio talvolla più poeta si mostra in una delle sue Novelle,
che in tutta la Teseide. Ed Orazio afferma che a distinguere la poesia da ciò
che essa non è, basta disgiungerne le membra, cioè loglierle il metro, e allora
si vede manifestamente che il carattere non le si toglie. Conchiudiamo
pertanto, che il metro induce diſſerenza di specie ma non determina la natura
del genere; e stabiliamo che a tutti i discorsi
che hanno per fine il dilettare con metro o senza , si conviene il nome
di “poesia”. Ora veniamo alle specie.
Talvolta il poeta rappresenta la persona d'uomo, che cantando, dice laudi degli
Dei e degli Eroi; talvolta quella , ch'esprime i moti dell'allegrezza,
dell'affanno o dell’amore, o solamente gli scherzevoli con cetli. Le poesie di
questa maniera solevano dagli antichi essere cantate sulla “lira,” e perciò
presero il pome di “lirica”, e tuttora il conservano. Varie essendo le passioni
e le cose che esprimere si possono dal conversatore lirico, interviene che
ancora il canto si divide in varie specie, che tutte poi si riducono a tre,
come nel carattere persuasivo: cioè al sublime, al mediocre ed al tenue.
Ciascuno di questi canti ha qualità sue proprie. Magnificenza e gravità di mod
, di sentenze e di arinonia , e splendore d'illustri parole e di concetti
fantastici convengono a chi celebra le laudi degli Dei e degli Eroi, ed esprime
alte e generose passioni: più tenui maniere e parole e più soave armonia a chi
esprime gli affelli meno gravi e canta di subbielli meno nobili: quegli poi ,
che dice i mili affetti o gli scherzi o le umili cose, avrà nelle sue parole
piacevolezza e semplicità da ogni fasto lontana, ed armonia soave e varia , ma
sempre tenue. Alla detta varietà d'armonie, mirabilmente poi servono i metri,
alcuni de' quali portano secofl'umiltà , altri la mediocrità , altri l'allezza
dell'armonia. Sono molti esempi di questa varietà in Petrarca, Si ponga mente
ai modi, al metro, al ritmo delle due canzoni d'amore , una delle quali
comincia, Chiure, fresche e dolci ucque; e l'altra, Di pensiero in pensier, di
monte in monte; e si vedrà la prima essere in tutte le sue parti piena di soavità,
di gentilezza e di grazia, e l'allra di robustezza e di gravità. Talvolta il
poeta narra gl ' illustri ſalli ; tal volla i mediocri; e talvolta i piacevoli:
indi si generano i poemi epici, i romanzi , i poemi burleschi e le novelle.
Talvolta poi introduce a parlare o le persone illustri o le mediocri o le umili
, e quindi provengono le tragedie, le commedie , le egloghe pastorali e le
pisca torie . Ognuna di queste specie, siccome è pa lese , ha modi ed armonia
convenevole alla maleria ed alla condizione delle persone. Perciò è che il poeta
, specialmente nella tragedia, nella commedia e nell' egloga, ove se medesimo
nasconde introducendo altri a par lare, dee rendere alquanto umili i modi, l'ar
monia di guisa , che lo spettatore , ascollando le tragiche persone o le
coniche, abbia a dire : così parlerebbero gli uomini di questa o di quella
condizione, se loro naturale favella fos sero i versi . Giovi questo generale
avverli mento , perciocchè non si possono mostrare i certi limili, fra i quali
dee slarsi ciascuna spe 118 rie . Tutte hanno nell'intero loro corpo faltezze
particolari , alle quali colui che ben vede di stintamente le raffigura : pure
a quando a quando or questa or quella viene a parteci. pare dell ' altrui
colore di guisa , che l'epico nelle forti passioni innalza le parole e i modi
al pari del cantore degl'inni; e il più sublime lirico parra alcuna volla ,
siccome fa l'epico. Lo stesso interviene delle allre specie , fra le quali per
fino la commedia talora si leva a gareggiare colla Tragedia , e la tragedia al
dire l'Orazio , spesso , si duole con sermone pe destre. Nelle opere dell'arle,
siccome in quelle dels la nalura, si scorge infinita diversilà , ma per questa
spesso non è tolto che moltissimi indi vidui della medesima specie , sebbene
molto dissimili, non sieno egualmente belli e prege voli. Questo vedesi
manifestamente per le la vole colorite da' celebri dipinlori, de'quali uno
essendo il fine, cioè quello dell'imitare la bella natura, non in tutti una
apparisce la sembianza del loro dipingere. Raffaello, Correggio, Domenichino, Caraccio,
Tiziano e Paolo, i quali cerlo non mancano nelle regole invaria bili dell'arte
, sono fra loro assai differenti. Tutti mostrano invenzione lodevole e lodevole
composizione, belle forme , ben disposto colo. rito e conveniente a ciascuna
cosa: tutti esprimono i costumi e gli affelli, ma ciascuno d'essi ſa delle
predette e di altre virtù una cotale mislura, che siamo condolti a dire che
nessu. 1 Til no di loro ha la maniera dell'altro, comechè Tulli sieno
eccellenti. Questa, che i pillori chia mano maniera, è similmente comune a'
filosofi, agli oratori, agli storici ed a'poeli. Quanti scriltori sono tenuli
meritevoli di pari commendazione, sebbene tale fra loro sia la diſſerenza, che
spesso ciascuno solamente a sè me, desinio ed a nessun altro assomiglia ? La
rinsposizione dell'ingegno e delle affezioni dela l'animo, che in ciascun uomo
è diversa, è cagione che le dette maniere sieno di numero pressochè infinito.
Alcuno de' famosi scriitori ha il pregio della perspicuità, alcuno della
eleganza, allri della grazia, altri dell'aculezza. Questi è grave e maestoso:
quegli delicato e molle: chi è breve e robusto: chi copioso , chi úrbano e chi
veemente: ma tali poi sono tutti, che, se alcuno di noi desiderasse di ottener
gloria di ottimo scrillore, sarebbe incerto a quale di loro volesse essere
somigliante. L'accennata maniera particolare, per la quale ciascuno scrittore è
distinto dagli altri, si è quella che gli antichi chiamarono “stile” (cf.
Tannen, Conversational style), prendendo questa voce dall'istrumento che per
iscrivere adoperavano. La stessa parola “stile”, presa più largamente che non
fanno i filosofi, segna comunemente il carattere in genere o in ispecie : ma è
palese che, filosoficamente parlando, si è bene d'usarla nel senso leste
dichiarato. Ond'è che assai propriamente diremo in generale, carattere
filosofico, caruilere persuasivo o poetico; ed in ispecie carattere oralorio,
lirico, epico, tragico, sublime, medi cre e tenue : e stile di Demostene, di
Cicerone, di Ortensio, di Omero, di Virgilio: percioc chè nei primi fu il solo
carattere persuasivo, negli altri il poelico; ma in ciascuno ebbe una
particolare maniera, che modificando il carattere, l’essere suo non gli tolse.
E chi volesse invesligare le cagioni da che proceda colale maniera, che stile
si appella, vedrebbe ch'elle sono le qualità dell'intellello, della fantasia di
ciascuno scrillore, e le qualità degli affetti, a cui egli ha l' animo disposto
: laonde volendo dare alcuna definizione dello stile, paroi che far si potesse
nel modo seguente. Lo stile si è il carattere modificato secondo le qualità dell'intellelto
, della fantasia e degli affelli dello scrittore. Parliamo sommeramente del
modo di acquistare la qualita necessaria a conversare civilmente. Ora che
abbiamo poluto conoscere che cosa sia lo stile , non sarà indarno l'investigare
co me si possa acquistare forza, grazia e vaghezza nello scrivere ; e che è
quanto dire come si possa formare lo stile convenevole e pulito. Se lo stile si
genera per la qualilà dell ' in tellelto , della fantasia e degli affetti dello
scrit tore, vera cosa è che, a formarlo convenevole e pulito , bisognerà
rendere perfette le mento vate tre cagioni il più che si può. L'uomo nasce
fornilo dell'intelletto, cioè della facollâ di sentire, di percepire , di
alten. dere, di paragonare, di giudicare, di astrarre, di ricordarsi, di
imaginare , ma d'uopo è che queste lacollà vengano poscia diriltamente usate ed
esercitale, onde sia generala quella virtù pressochè divina , che si appella la
ragione, la quale consiste nell'abito di . paragonare in sieme i sentimenti
distinti dell'anima e le idee, di derivar dai falli pariicolari le nozioni
gene. rali ; di anteporre o posporre le une alle altre, di congiungerie o di
separarle, secondo la con venienza o disconvenienza loro , e secondo i loro
gradi di più o di meno. A formare que sl’abito , sarà bisogno di studiare le
opere de' filosoti, che trattano soltilmente delle cose na lurali, delle
proprietà dell'intelletto e del cuore umano ; di apprendere l ' istoria , senza
la co gnizion della quale, al dire di Cicerone, l'uo mo si rimane sempre
fanciullo ; di osservare la nalura , di pralicare fra le diverse condi. zioni
degli uomini , e di operare ne privati negozii e ne' pubblici . Ad arriccbire
l'imagi. nativa, la quale è l'abito di recare all'animo la reminiscenza delle
qualità sensibili che più ci muovono e dilellano ; di congiugnere insie me con
verisimiglianza quelle , che sono di. sgiunte in nalura , e di significare per
siinili tudine delle cose corporee i concelli astralli, non solo metterà bene
di leggere gl'inventori di nuove e vaghe fantasie , ina di por menle a tutto
ciò che ai sensi porge diletlo , sia nelle azioni degli uomini e degli anigali
sia nel l’esteriore aspelto e movimento delle cose inanimate ; e soprattullo
gioverà di ben con siderare le somiglianze che fanno fra loro le cose di
qualsivoglia genere e specie ; chè que sto si è il fonte , dal quale si
derivano le vuo ve e maravigliose metafore. Di molla ulilità sarà poi
all'intellelto ed all'immaginativa lo sludio de' precelli dell'arte oratoria e
della poetica, i quali, essendo il compendio di quanto ove i filosofi hanno
osservato intorno le cagioni, onde piacciono e dispiacciono le opere degli
scrillori, apportano quella luce, che un uomo solo nel breve spazio della vila
studierebbe indarno di procacciarsi colla sola virtù del proprio ingegno.
Vuolsi però sull'osservanza de'precelli avvertire ciò che nell'arle poetica
osserva Zanotti; cioè che le cagioni del piacere e del dispiacere trovate da’
filosofi, essendo cagioni universali ed indeterminale, mostrano bensi i luoghi
, non vogliono che si ecceda o si manchi, ma non prescrivono poi a qual segno
si debba giugnere o rimanere , per non ecce dere o non mancare; ond' è che, a
fare buon uso del precello , è bisogno di quella discre. zione , che si acquista
con lungo sludio e fatica . Rispetto agli affelli, io mi penso che, sel) bene
sieno da natura, pure a conciliarli in al trui grande aiuto si possa trarre
dall'arte . Se l'amore, l'odio, l'ira, la mansuetudine , la misericordia ed
allre affezioni dell'animo na. scono da cagioni determinale, come per eseni.
pio l'amore da bellezza e da virtù, l’odio da male qualità del corpo o
dell'animo altrui, non v'ha dubbio che gli aſſelti medesimi si deb bono in chi
legge risvegliare per virtù della viva' rappresentazione di quelle cagioni :
dal che si raccoglie che lo scrittore, considerando le varie disposizioni degli
uomini passionali, e le cagioni, per le quali la passione si genera, avrà
materia onde gli animi perlurbare. Cosi per aiuto dell'arte verrà ad operare in
altrui quell'eſello, che imperſellamente avrebbe operalo mercè della sola
naturale sua disposi. zione. Da quanto è dello apparisce che la scienza
avvalora l'intellelto e l'immaginativa , ed aiuta a muovere gli affetti, e che
perciò ella si è il fonte dello scrivere rettamente. La scienza poi è generala
negli umani intellelli da due cagioni: queste sono: la naturale disposizione
delle organo corporale e l'azione delle cose esterne sopra di esso; sì falte
ca. gioni sono di necessità diverse in ciascuno ; perocchè non è da credere che
si possano tro vare due corpi nella stessa maniera conforma li ; ed è poi
certamente impossibile che uno riceva dalle cose esterne nell'animo le mede
sime impressioni che un altro. Per la qual cosa avviene che diversa in ciascuno
si generi la scienza , e quindi diversa la forza dell'in gegno e
dell'imaginaliya, diversa la qualilà degli affetti, e per conseguente anche lo
stile, che da queste procede, deve riuscire diverso . Dal che si vede che
imprendono opera dispe rala coloro, che si affaticano ad imitare lo stile
d'altri. E alcuni pur sono che andando passo passo sull' orme di Dante, del
Petrarca o del Boccaccio , avvisano alla costoro gloria di per venire ; ma le
opere loro per verità , in fuori di un poco di pulita buccia, niun sugo hanno.
Che cosa dovremo dunque apprendere dagli scrittori ? Rispondo che si vuole
apprendere la lingua e i modi acconci ad esprimere chia ramente, ornatamente e
convenevolmente i no stri concelli. Da questo scrillore ci sludieremo di
procacciare una cosa , da quello un'altra , a seguileremo sempre la nostra
natura , secondo l'esempio di Dante, il quale lasciò scritto di sè : lo mi son
un che, quando amore spira , nolo, ed a quel modo che delta dentro, vo
significando. Che se allrove disse a Virgilio: Tu se' lo mio maestro e lo mio
autore, Tu se' solo colui , da cui io loisi Lo bello stile, che mi ha fallo
onore, non intese già d'avere tolto al maestro la ma niera propria di quel
poeta , ma sibbene la qualità , onde il carattere poetico é differente dal
filosofico e dal persuasivo. E chi è che pon senta la differenza che è dallo
stile di Dante a quello di Virgilio? Rimane per ultimo a dire degli autori ,
che coloro che amano di scrivere nell'italiana favella , devono scegliere a
maestri. Nulla dirò dello studio della lingua greca e della latina, perciocchè
essendo notissimo che nell'una e nell'altra scrissero coloro, che insegnarono a
tutto il mondo, e che questa nostra da quelle procede, ciascuno conosce di per
sé quanta ulilità trarre se ne possa. Mi ristringerò dunque a fare alcuna
parola de' solo il conversatore italiano, che agli altri si devono preporre. E
prima è a sapere che nel secolo XIV alcuni prosatori ed alcuni poeti diedero al
volgar nostro tanta proprietà e grazia, che nessuno ha poi polulo eguagliarli:
che nel secolo XV questo volgare ſu quasi abbandonalo per soverchio amore della
lingua latina e per pusillanimità degli uomini d’Italia : che nel secolo XVI ſu
dal Fortunio e dal Bembo ridollo a regole deter. minate ; e da molti ſu
nobilmente adoperato in varii generi di scritture : che nel secolo XVII fu da
talupo acconciamente impiegato ed ar ricchito di voci perlinenti alle scienze ,
fu da alcun altro scrillo con eleganza, ma venne da moltissimi in parte
corrotto e rivolto in vanilà di falsi concelli: che nel XVIII finalmente ſu da
pochi bene usato , e da moltissimi con pa role e modi forestieri vituperato .
Tale essendo stata la fortuna di questa bellissima lingua, chi potrà dubitare
che oggi non sia a noi sa lutevole il consiglio, che ci porgono gli uomini
sapienli , cioè quello di studiare agli antichi esemplari? Se nel buon secolo
della lingua la lina si stimava essere opera di gran probllo ai giovani il
molto leggere gli antichi scrittori del Lazio, quanto maggiormente non si dee
credere che lo studiare i nostri sia per giovare a noi, che viviamo in un
secolo , ove gl'ita liani, pressoché tutti , più delle cose forestiere che
delle proprie dilettandosi, scrivono sì, che punto non pare alle loro scritture
che sieno stali allevati in Italia? Verissimo si ė (anche parlando delle arti) quello
che dicono i politi ci, cioè che qualvolta le cose sieno pervenule a
corruzione, bisogna richiamarle ai loro principii. Questa sentenza dovrebbe
essere dinanzi all'animo di tutti coloro, che amano il profitto de' giovani
nelle lettere umane ; pure sono al cuni cbe , deridendo coloro che studiano i
lesti della lingua, dicono essere sciocchezza il darsi tanto pensiero delle
parole ogni qualvolta si 1centisti , abbia cura dei concelli ; come se il
recare alla mente altrui i nostri concelli non dipenda dalla virtù di ben
accoviodate parole. Colali persone, avendo posla loro usanza o ne' soli
domestici negozii o in alcuna scienza o arte, nè mai data opera allo studio
della lingua, vilipendono ciò che non conoscono, e perciò, non avendo au.
torità , non meritano alcuna risposta. Tutti gli uomini di mente discreta non
si maraviglie ranno, se qui vengono consigliati i giovanetti a studiare prima
nelle opere de’ trecentisti, ne’ quali è dovizia di vocaboli proprii e di forme
gentili, e chiarezza e semplicità e urba nità e maravigliosa dolcezza , ed a
riserbare agli anni loro più maturi lo studio dei cinque che scrissero
eloquentemenle di cose gravi e magnifiche. Ma per avventura alcuno dirà: non
dobbia. ino noi essere intesi dagli uomini del nostro secolo e cercare di
piacer loro seguendo l'usanza? Perchè dunque vorremo che la gioventù studii ancora
quelle opere, ove si trovano, ol tre le voci ed i modi, che sono fuor d'uso, e
barbarismi e pleonasmi e solecismi ed equivocazioni, e talvolta negligenza e
stranezza nel costrutti? Perchè non vorremo consigliarla piullosto a leggere i soli
scrillori del cinquecento, i quali seguitando le regole grammati. cali dettate
dal Fortunio e da Bembo, non solo scrissero correttamente, ma trattarono
eloquen temente di varie ed importanti materie? A queste obbiezioni
risponderemo che si dee se guire l'usanza, del buon conversatore, l'usanza del
volgo; che non si vuole negare che in molle opere del trecento non si trovino
ma non fra la copia delle maniere proprie, nobili e graziose, varii difelli; ma
che per questo non ci rimarremo da consigliare la gioventù di avere sempre caro
sopra tutti quel secolo beato, e di leggere per tempo i suoi eccellenti
scrittori, poichè ci teniamo certi che quanto è difficile il rendersi
famigliari e domestiche le maniere native e gentili, altrettanto è facile di
perdere l’abito di peccare contro la grammatica e contro l’uso. La predetta
virtù non si può acquistare se non con lungo esercizio : il diſello si può
togliere assai agevolmente dopo lo studio della grammatica, e dopoche per la filosofia
e per la erudizione ci verrà dato di ben conoscere il valore delle parole e di
ben distinguere la lingua nobile dalla plebea, e le maniere, che per vecchiezza
ban no perduta la grazia e la forza pativa, da quel le che sono ancora belle ed
efficaci. Quanto allo studio de'cinquecentisti, non du bitiamo che ei sia per
essere ulilissimo, essen do che molli eccellenti scrittori di quel tempo
adoperarono la lingua, che appresero da Alighieri, da Boccacio, da Petrarca e
dagli altri tre centisti , emulando mirabilmente i romani in molli generi di
scrilture: ma teniamo per ſermo che convenga alla gioventù di avvezzarsi al
candore ed alla semplicità del trecento prima di cercare lo splendore, la ma
gnificenza, la copia e l'altezza de' pensieri nei cinquecentisti. Perciocché
lulti coloro, che sfor zano di parere magnifici e splendidi primaché dalla
filosofia sieno ſalli ricchi di cognizioni, fanno l'orazione loro bella nella
buccia, una nell'intrinseco vana e puerile. Non potendo i giovanelli esprimere
con verila se non quei pensieri e quegli allelli, che sono proprii del la
tenera età , troveranno assai comodale al bi sogno le parole ed i modi usati
da'trecentisti, la più parte de'quali, come que' che vissero nell'infanzia
dell'italico sapere, scrissero di tenui materie. Verrà poi quel tempo maturo,
in che a'giovani farà mestiero di alzare a'gravi concelli lo stile, ed allora
apprenderanno da Guicciardini gravità e nerbo; dal Segretario fiorentino
sobrietà ed evidenza; dal Caro copia, efficacia e gentilezza; dal Casa
splendore e magnificenza ; dal Galileo ordine e precisione; d’Ariosto e da Tasso
i pregi lulli, ond' ė divina la poesia. Ma allo studio di quesli e degli altri
molli, che fecero glorioso il secolo di papa Leone, non avranno l'animo ben di
. sposto se non coloro, cui prima sarà piaciuto di allingere ai puri fonti del
trecento, da'quali derivarono i sopraddetli abbondantissimi fiumi. Questo, o
Giovani, è quanto ho stimato op portuno di porvi dinanzi per indirizzarvi nel
cammino delle lettere, alle quali inolti vanno per vie distorte e per lo contrario.
Vi ho mo strato quali sieno gli elementi della Elocuzio ne; come nel
contemperarli secondo le leggi del decoro si loronino i varii caratteri; e
final. mente come lo stile proceda da naturale di sposizione e come col sapere
si perfezioni. Darò fine coll'avvertirvi, se vero è che la scienza e l'esempio
fanno l'arte, è vero altresì che arte senza uso poco giova: onde, se dallo
stile cercate onore, vi sarà bisogno di neditare mollo, di leggere molto e di
scrivere mollissimo. Grice: “It may be said that my transcendental Kantian approach
to cooperative rational conversation is a response to Costa’s totally
empiricist (or ‘sensista’ as he prefers) invocations of ‘chiarezza’ (my
imperative of conversational clarity), and brevita, eleganza, and all the
categories that inform the maxims. Paolo Costa. Keywords: la teoria sensista
della communicazione – idea dei chi proferisce la proposizione “Me diletta
l’odore di questa rosa piu del colore”, cooperiamo, e la risponsa di nostre
anime e “Contrariamente, a me mi diletta il colore di questa rosa piu
dell’odore” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa” – The Swimming-Pool
Library.
Costanzi (Pozzuolo Umbro). Filosofo. Grice: “I like Costanzi; possibly my
favourite of his essays is the one on ‘amore’ and ‘morte’ – eros and Thanatos
for the Oxonian!” Si laurea a Bologna. Ensegna a Bologna. Altre opere: “Pensiero
ed essere” (Perrella, Roma); “Varisco: l’uno e i molti” (Perrella, Roma);
“Noluntas” (Perrella, Roma); “Schopenhauer” (Roma); “L'asceta moderno” –
L’asceta -- Arte e storia, Roma; Spinoza, Universitas, Roma); “Il sentito in
Platone” -- Arte e storia, Roma); “L'ascetica di Heidegger” Arte e storia,
Roma); “L'ascesi di coscienza e l'argomento d’Aosta”, Arte e storia, Roma); “Meditazioni
inattuali sull'essere e il senso della vita” Arte e storia, Roma); “La
terrenità edenica del Cristianesimo e la contaminazione spiritualistica”
(Patron, Bologna); “La donna angelicata e il senso della femminilità nel Cristianesimo”
(Patron, Bologna); “La filosofia pura, Alfa, Bologna); “Il senso della storia,
Alfa, Bologna); “Sul prologo di Zarathustra (Nietzsche e Schopenhauer) con
trad. dello stesso Prologo, in Ethica; “L'etica nelle sue condizioni
necessarie, Ed.ni di Ethica, Bologna); “L'estetica pia, Patron, Bologna); “L'ora
della filosofia, R. Patron, Bologna); “L'uomo come disgrazia e Dio come
fortuna” (Alfa, Bologna; “La critica
disvelatrice” (Ed.ne dell'Istituto di Filosofia dell'Bologna, Bologna); “Amore
e morte” (L. Parma, Bologna); “La singolarità della diada: compimento di un
itinerario senza vie” (Cooperativa libraria universitaria editrice, Bologna); “L'equivoco
della filosofia cristiana e il cristianesimo-filosofia” (Clueb, Bologna; e
ragioni della miscredenza e quelle cristiane della fede, Clueb, Bologna); “La
fede sapiente e il Cristo storico” (Sala francescana di cultura Antonio Giorgi,
Assisi); “La rivelazione filosofica” (Sala francescana di culturaAntonio Giorgi,
Assisii); Il Cristianesimo: filosofia come tradizione di realtà” (Sala francescana
di cultura, Assisi); “Breviloquio della sera” (Sala francescana di culturaAntonio
Giorgi, Assisi); “L’immagine sacra” (Sala francescana di cultura, Assisi); “L'identità
del Lumen publicum nelle privatezze di Anselmo e Tommaso” (Il Cristianesimo-filosofia,
Le Lettere, Roma); Opere, E. Mirri e M. Moschini, Bompiani, Milano). Sgarbi
torna a Tuoro per presentare l'opera omnia del filosofo Teodorico
Moretti-Costanzi, "UmbriaLeft. Il
filosofo imagliato dal Sessantotto, "il Giornale"Dizionario
Biografico degli Italiani. Teodorico Moretti Costanzi. Keywords: l’essere, il
sentito, ascesi (verbo?), Zarathustra, il singolo della diada, l’uno e i molti,
nolere, nolitum, volitum, amore/morte, eros/tanatos, immagine sacra,
imaginatum, essere, un essere, due esseri, le due esseri entrambi – rivelazione
– la rivelazione filosofica – a new discourse on metaphysics: from genesis to
revelations – un nuovo discorso di metafisica: del genesi alle rivelazione. –
Zarathustra e cristita -- nollere in
Schopenhauer --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costanzi” – The Swimming-Pool
Library.
Courmayeur (Torino). Filosofo. Grice:
“The most interesting thing about Courmayeur’s philosophy is that he is a
count; unlike Locke, or the common-or-garden English Oxonian philosopher who
doesn’t have a dime, this one has, as the Italians say, ‘all the money in the
world’! That helps with philosophy! His forte is moral philosophy AND HEGEL,
which proves that Hegel becomes the taste of aristocrats and not just dons like
Bosanquet!” - Dall'antica famiglia valdostana dei Passerin d'Entrèves et
Courmayeur. Ottenuta la maturità classica al Massimo d'Azeglio di Torino, si
laurea con Solari con “Hegel” (Torino, Gobetti). Studia sotto Ruffini e Einaudi
la filosofia politica del medio evo e il concetto di costituzione. Insegna a
Torino. Fu capitano di complemento degli Alpini e membro del CLN, dal quale
venne nominato, primo prefetto di Aosta. Fu all'origine dello statuto della regione
autonoma Valle d'Aosta. Fra le sue opere
più note, Il concetto dello stato, è considerata da molti la sintesi del suo
pensiero storico-filosofico. Oltre che
filosofo del diritto e storico del pensiero politico, viene considerato il
fondatore della filosofia politica italiana come disciplina a sé stante,
finalmente distinta dalla filosofia dello stato. Paradossalmente ciò avviene proprio
col saggio, “Il concetto dello stato”. Ben diversamente dall'ordinamento
tematico della “Staatslehre” come pure dall'ordinamento cronologico per
filosofi in uso nella filosofia politica, ordina la filosofia politica secondo
uno schema concettuale schiettamente filosofico: "il concetto di forza –
forzare ", "il concetto di potere" (il verbo ‘potere’); "il
concetto di autorità – auctoritas --". Il concetto di faccia dello stato,
secondo una scala di qualificazione crescente. Il concetto di "forza"
(il forzare) e qualificato di un imperativo, un mando o commando efficace. Il concetto
di "potere" (potere del giurato) contiene il concetto di forza (il
forzare – come un mando o imperativo efficace), ma organizzato in una
istituzione e qualificato dal ‘giurato’. Finalmente la terza faccia, il concetto
di "autorità" come contenendo la second faccia del potere del
giurato, qualificato da una concetto di legge variable: la promozione del
giurato, la promozione del bene comune (la res publica), o la promozione della
piccolo patria. Altre opere: Il concetto dello stato (Torino: Giappichelli);
“La Valle d'Aosta, Bologna: Boni); “La filosofia della politica, Torino: UTET);
“Filosofia politica nel medio evo italiano” (Torino: G. Giappichelli); “La
filosofia politica d’Alighieri” (Einaudi, Torino); “Morale, diritto ed
economia, Pavia: Libreria Internazionale F.lli Treves); “Morale, Roma:
Athenaeum); “Appunti di storia delle dottrine politiche: la filosofia politica
medioevale, Torino: Giappichelli); “Il
concetto dello stato in Zwingli", in Filosofia del diritto, Roma); La
teoria del diritto e della politica in Inghilterra all'inizio dell'età moderna,
Torino: Istituto giuridico della R. Università); “Obbedienza e resistenza” (Roma/Ivrea,
Edizioni di Comunità). La piccola patria, Milano: Franco Angeli); Obbligazione
Politica, Pensa Multimedia. Dizionario
biografico degli italiani. Biblioteca civica Passerin d'Entrèves. Grice: “It’s
only natural that Courmayeur had such an intricate concept of ‘state’ – he was
born in a minority, like Russell, who was born in a place which some called
England, some called Wales. The situation is so borderline that it reminded me
of my ancestors, the Ingvaeonic – and see all the problem the Frisians are
having in Germany! Now they do recognise the ‘anglo-frisiche’ – but hardly allow
them to vote!” “It is not clear how the collectivity has any bearing on the
third state of ‘state’ – the ‘auctoritas’ – but then perhaps ‘auctoritas’ is
the wrong concept, since it just means ‘author’ – Courmayeur is making the
point that all authority is legitimate authority. “You have no authority” means
‘you have no legitimate power’ – and you
have no power, means you have no legal force, and you have no force means you
cannot command!” As Courmayeur would say: it’s all different in valaestan, the
vernacular of Aosta, which hardly has the same status as Italian (since
giuridically Aosta belongs to Italy) or French (since French is the official
language, along with Italian). But don’t ask that imperialist Crystal for an
answer!” Alexandre Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Alessandro Passerin
d’Entrèves et Courmayeur. Courmayeur. Keywords: piccolo patria, il concetto
dello stato, filosofia politica versus staatslehre, prima faccia: il forzare
come imperativo efficace; seconda faccia: il potere come il forzare organizzato
in una istituzione e qualificato dal giurato; la terza e ultima faccia:
l’autorita, come il potere qualificator da una legge centrata in un concetto
ideale variabile: il giurato, il bene comune (res publica), la piccolo patria. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Courmayeur” – The Swimming-Pool Library.
Cotroneo
(Campo
Calabro). Filosofo. Si laurea Messina sotto Volpe con “L’implicatura di Kierkegaard”.
Ensegna a Messina. “Scritti”. “Lo storicismo di Cotroneo”. Altre opere: “Bodin
teorico della storia” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Croce e
l'Illuminismo” (Napoli, Giannini); “I trattatisti dell'arte storica” (Napoli, Giannini);
“Storicismo antico e moderno” (Roma, Bulzoni); “Rareta e storia” (Napoli,
Guida); “Societa chiusa, società aperta” (Messina, Armando Siciliano Editore);
“La ragione della libertà” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Trittico
siciliano: Scinà, Castiglia, Menza” (Roma, Cadmo); “Momenti della filosofia
italiana” (Napoli, Morano); “Questione post-crociane” (Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane); “Tra filosofia e politica” (Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Le idee del tempo. L'etica. La bioetica. I diritti. La pace,
Soveria Mannelli, Rubbettino); “Un viandante della complessità. Morin filosofo
a Messina, Annamaria Anselmo, Messina, Armando Siciliano Editore); “Croce e
altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Etica ed economica” (Messina,
Armando Siciliano Editore); “La virtù” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce
filosofo italiano, Firenze, Le Lettere); “Illuminismo, Napoli, La scuola di Pitagora);
“Libertà” (Napoli, La scuola di Pitagora); “Storia della filosofia, Napoli, La
scuola di Pitagora); “Positivismo, Napoli, La scuola di Pitagora); “Filosofia
della storia, Napoli, La scuola di Pitagora); “Rinascimento, Napoli, La scuola
di Pitagora); “Aristotele e Perelman, Retorica vecchia e nuova” introduzione
(Napoli, Il Tripode); La retorica di Aristotele, retorica antica, Perelman, Itinerari
dell'idealismo italiano, Napoli, Giannini, Raffaello Franchini, Teoria della
pre-visione” (Messina, Armando Siciliano Editore, Croce, La religione della
libertà. Antologia degli scritti politici, Soveria Mannelli, Rubbettino, Il
diritto alla filosofia, Atti del Seminario di studi su Raffaello Franchini” (Soveria
Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo, Atti del Convegno di studi, Napoli-Messina”
(Soveria Mannelli, Rubbettino); La Fenomenologia dello spirito” (Napoli,
Bibliopolis); Cavour, Discorsi su Stato e Chiesa” (Soveria Mannelli, Rubbettino,
Letteratura critica Giovanni Reale, Girolamo Cotroneo , in Dario Antiseri e
Silvano Tagliagambe , Storia della filosofia, Milano, Bompiani, Lo storicismo
di Cotroneo, Soveria Mannelli, Rubbettino, Giuseppe Giordano, Tra Storia della
Filosofia e Liberalismo, in Bollettino della Società Filosofica Italiana, Roma, Carocci, Giuseppe Giordano, Rivista di
storia della filosofia, Milano, Franco Angeli, Girolamo Cotroneo, in Treccani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Girolamo Cotroneo. Cotroneo. Keywords: retorica,
retorica di Aristotele, retorica nuova, retorica moderna, Perelman, rareta e
storia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cotroneo” – The Swimming-Pool Library.
Cotta (Firenze).
Filosofo. Grice: “My favourite explorations by Cotta are three: ‘per che
violenza?” – “dalla guerra alla pace: un itinerario filosofico” and a
secondary-literature study on ‘i concordati’ --- which is MY philosophy. You
see, Plato thought that the soul resided in the brain – cool as he was – but
Aristotle corrected him: it resides in the HEART – Cicero loved that and coined
‘cum-cor’ – i.e . something like my cum-operare: your hearts convene!” --
Grice: “I would say Cotta is Italy’s H. L. A. Hart, with a bonus – he wrote on
essentialism, deontic logic, and from war to peace!” Figlio di Alberto, studioso di scienze
forestali, e Maria Nicolis di Robilant. Da parte di madre è discendente diretto
di Eulero. Studia a Firenze presso l'istituto dei barnabiti La Querce. Si
laurea a Firenze. Chiamato alle armi con il grado di sottotenente, il giorno
dell'annuncio dell'armistizio, è in Friuli. Scioltosi l'esercito, scende in
barca lungo l'Adriatico per raggiungere l'Italia non ancora occupata dai
tedeschi. Ammalatosi di malaria, dopo svariate traversie decide di raggiungere
il Piemonte, dove partecipa alla guerra di resistenza come comandante di una
brigata partigiana nella VII Divisione Autonoma "Monferrato". È tra i
primi ad entrare a Torino nei giorni della liberazione. Per la sua partecipazione
alla guerra partigiana gli vengono attribuite la Medaglia di bronzo al valor
militare e la Croce di guerra. Dopo gli studi sul pensiero politico
dell'Illuminismo i suoi interessi si sono incentrati sulla filosofia
giusnaturalistica, che è stato in grado di fondere con elementi della
fenomenologia. Autore di saggi sulla visione politica di Montesquieu,
Filangieri, Aquino ed Agostino, dedicandosi in seguito a riflessioni teoriche
sul diritto e sulla politica. Insegna a Torino, Perugia, Trieste, Trento,
Firenze, Roma, e Teramo. Fu tra i componenti del comitato promotore del
referendum abrogativo della legge sul divorzio. Altre opere: “La società; “Il
concetto di ‘legge’ in Filangieri” (Torino, Giappichelli); “Il concetto di ‘legge’
in Aquino” (Torino, Giappichelli). “Il concetto di Roma come città in
Agostino”; “Filosofia e politica nell'opera di Rousseau”; “La sfida
tecnologica”; “L'uomo tolemaico” – la ferita narcissista di Galileo – “Quale
Resistenza?, Perché la violenza; “Il normato: tra il giurato e l’obbligato”; “Il
diritto nell'esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica”; “Dalla guerra
alla pace”; “l’uomo, la persona, il diritto umano”; “Il pensiero politico di Montesquieu,
Bari, Laterza); “L’inter-soggetivo giurato”; “I limiti della politica, “Il
sistema di valori e il diritto”; Perché il diritto Quid ius?” (Brescia, La
Scuola). Stante la concessione chirografata dall'ex re Umberto II, Cotta puo
fregiarsi del titulo nobiliare di “conte”, sia pure del tutto informalmente
stante l'instaurazione dell'ordinamento repubblicano e la XIV disposizione
finale e transitoria della Costituzione. Il conte Sergio Cotta. Keywords:
l’inter-soggetivo, il giurato, il normato. La prima ferita narcissista, Filangieri,
giurato, l’uomo galileano, l’obbligato, il normato, Latin ‘normare’ – not
recognized in Dizionario etimologico – il giurato d’entrambi – il concordato
d’entrambi – fenomenologia – Roma citta – polis, politea, res publica –
pubblico e privato -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cotta” – The Swimming-Pool
Library.
Credaro (Sondrio).
Filosofo. Grice: “I like Credaro; it is as if he invented the universities! I
especially love the way he connects it all, in that uniquely Italian way, with
the ‘assoluto’!” Si laurea a Pavia, dove
fu convittore del Collegio Ghislieri, divenne insegnante di liceo. Wi recò a
Lipsia per perfezionarsi nella psicologia filosofica sotto Wundt. Insegna a
Pavia. Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d'Italia nei governi Luzzatti
e Giolitti IV -- istituì il Liceo moderno.
Relatore nella presentazione della Legge che istitutiva dei Corsi di
perfezionamento, o più comunemente Scuole pedagogiche, di durata biennale, di
preparazione per l'esercizio all'ispettorato o per la direzione didattica delle
scuole. Fu l'ispiratore della legge Daneo-Credaro, che stabiliva che lo
stipendio dei maestri delle scuole elementari fosse a carico del bilancio dello
Stato, e non più dei Comuni, contribuendo così in maniera determinante
all'eliminazione dell'analfabetismo in Italia. Prima di questa legge, infatti,
i comuni di campagna e quelli più poveri, specie nel Sud, non erano in grado di
istituire e mantenere scuole elementari e pertanto rendevano di fatto inapplicata
la legge Coppino sull'obbligo scolastico.
Si interessa attivamente dei problemi agricoli e forestali di Sondrio.
Autore di numerosi saggi, in particolare sui Kant eHerbart. Commissario Generale Civile della Venezia
Tridentina, ossia la suprema autorità del Trentino-Alto Adige che sta per essere
fannesso all'Italia. In tale veste tentò una politica particolarmente
conciliante verso la minoranza di lingua tedesca e rispettosa dell'ordinamento
amministrativo de-centrato della regione. In seguito, anche a causa delle
pressioni dei nazionalisti, la sua politica nei confronti della minoranza di
lingua tedesca si fece più intransigente. Testimonianza ne è la cosiddetta Lex
Corbino,elaborata da Credaro, sull'istituzione di scuole elementari nelle nuove
province che è considerata da una parte della storiografia strumento per potenziare
la presenza italiana soprattutto nel territorio misti-lingue della regione a
danno della minoranza tedesca. Ciononostante, sube l'assalto di una squadra
d'azione fascista che lo costrinse alle dimissioni per far luogo all'insediamento
di un prefetto di Trento. Termina quindi la sua carriera politica in disparte
rispetto al regime che si andava consolidando. Altre opere: “Lo scetticismo
degli platonisti (Roma, Tip. alle Terme Diocleziane); La libertà di volere
(Milano, Tip. Bernardoni); G. F. Herbart, Torino, Paravia), “Razionalismo
trascendente in Italia” Catania, Battiato); Wundt (Milano, Società Anonima
Editrice Dante Alighieri). Andrea Di Michele, L’italianizzazione imperfetta.
L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra Italia liberale e fascismo,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, Analfabetismo, Dizionario biografico degli italiani,
Credaro un italiano d'altri tempi articolo di Sergio Romano, Corriere della
Sera, Sondrio. Se
il nome di Carneade non è completamente ignorato dalle persone colte, che non
si occupano di storia della filosofia, si deve alla parte giuridica del suo
pensiero, la cui conoscenza è tratta quasi interamente da pochi frammenti della
famosa orazione (quasi-Trasimaco) *contro* il concetto dello giusto tenuta a
Roma frammenti conservati da Lattanzio, il quale li ha presi dal trattato della
repubblica di Cicerone. Questa orazione alla Trasimaco *contro* la coerenza del
concetto dello giusto – gius – giustiziato, juratum, giurato cf. Cicero
jusjuratum -- , che fa epoca nella storia della cultura del popolo romano, non
deve essere considerata solamente un episodio della vita di Carneade, una
semplice millanteria del facondo oratore, che volesse fare impressione sugli
animi dei Romani; ma il suo contenuto deve venire integrato colle altre vedute
di Carneade per cercarne il legame ed esaminarne il valore. A tale fine bisogna
anche qui muovere dallo stoicismo. L'orazione *contro* lo giurato
(Cicerone – iusiuratum) giustiziato ha qualche rapporto con esso? Si sa che
tutti e tre i filosofi ambasciatori -- Carneade accademico, Diogene stoico e
Critolao peripatetico -- durante il lungo soggiorno a Roma, sia per invito
avuto dalla cittadinanza, che in quel tempo godeva la pice decorsa tra la
battaglia di Pidna e la terza guerra punica, sia di propria iniziativa, per
desiderio di far mostra di tutta la potenza della loro parola e della loro
scienza filosofica, a beneficio eziandio della causa che patrocinavano, aprirono
un corso di conferenze (A. Gell . Noct. Att. VI, 14, 8-10. Macrob. Saturn., 5,
I , p.147-150). É probabile che tutti e tre filosofi – Carneade accademico,
Critolao peripatetico del liceo – e Diogene stoico -- abbiano scelto
l'argomento delle loro orazioni dalla filosofia pratica, come quella che interessa
vivamente i loro ospiti, tutti dati alle armi, agli affari, alla politica,
all'amministrazione; anzi e le cito supporre che ciascuno abbia esposte le idee
della sua scuola – l’accademia, il liceo, e la stoa -- intorno al “giurato” –
Cicerone iusiuratum, il principio o imperativo più importante della vita
pubblica e privata. Il soggetto del giurato – Cicerone, iusiuratum – dove
soddisfare pienamente le esigenze e i desideri dell'uditorio, poichè i romani,
a ragione o a torto, si credeno gli uomini più giusti (giuratura, iusiuraturus)
e alla virtù del giurato (Cicerone iusiuratum) attribuivano la grandezza, alla
quale era pervenuta la propria patria. In questa ipotesi lo stoico Diogene, con
parola modesta e sobria, come attesta Polibio, che ebbe opportunità di
ascoltarlo, spiega ai Romani l'idealismo morale e il cosmo-politismo della sua
setta. L'anima di tutti gli uomini è uguale; e come tutte le cose uguali si
attraggono, cosi anche gli esseri razionali; per ciò l'istinto della società è
insito nella stessa ragione, la quale insegna a ciascuno di noi che esiste una
sola città , un solo stato, la grande società umana; ciascuno si sente parte
integrante di questo immenso organismo governato da una sola legge (ius) e da
un solo diritto, la retta ragione (ius). Questa legge (ius) conforme alla
natura si fa sentire in tutti, immutabile, sempiterna, divina; invita col
comando al dovere, col divieto allontana dalla frode. È suprema, assoluta; non
è lecito crearne altre contrarie, nè abrogarla totalmente o parzialmente; non
voto di popolo, non decreto di senato possono dispensare dall'ubbidirla;
nessuno ha bisogno d'interprete per comprenderla; è la medesima in Atene e in
Roma, oggi e domani e sempre; l'inventore e il promulgatore di essa è uno solo,
il maestro e il comandante di tutti, Dio. Chi non vi obbedisce, va contro la
natura e per questo fatto solo soffrirà tutte le pene. L'uomo pensa e opera moralmente
(mos: costume) solo in quanto conformasi a questa unica legge; e poichè questa
è la medesima in tutti gli uomini, tutti debbono tendere allo stesso scopo, al
bene universale. Il uomo non deve vivere per sè, ma per l'umanità; l'interesse
personale deve essere asso lutarnente subordinato a quello umano (1) Cic. , de
fin . III , 64 ; de rep ; III, 33 ; Plut. , de comm. notit. XXXIV, 6. Zeller,
p. 285 e 8). In questo stato politico ed etico regna perfetta concordia ed
armonia. Tutti i cittadini hanno vivo il sentimento dell'ordine, coltivano la
virtù e reprimono gli appetiti irrazionali, che sono la causa dell’inimicizia e
della guerra (bellum, polemos). Sono sottomessi alla volontà divina, al fato,
alla serie universale e interminabile delle cause e degli effetti. I doveri
fondamentali sono il giurato (iusiuratum), in qua virtutis splendor est
maximus, e la benevolenza e la beneficenza.Questedue virtù sono le basi della
società civile (Cic. , de fin . III, 67). Intorno ad esse Diogene puo parlare a
lungo ai Romani, perchè nella Stoa e stato soggetto di molte dispute e di scritti.
Il suo tutore Crisippo gli aveva insegnato in proposito una dottrina propria. Tutti
gli altri esseri sono nati per il bene degli uomini e degli dei, due uomini per
formare una popolazione, una società, una comunanza, una communita, un comune;
è inerente alla natura che tra l'uomo e il genere umano, come tra parte e
tutto, interceda un diritto naturale. Colui che lo osserva è giusto (promuove
il giurato – iusiurato); ingiusto chi lo trasgredisce. Tra il diritto pubblico
e quello privato non avvi opposizione (Cic. , de fin . III, 67). Un uomo non si
trova in rapporti giuridici con una bestia, ma solo con suo simile. Affinchè si
realizzi il regno del giurato (iusiuratum) e della moralità occorre che la
perfetta ragione sia presente in tutti. La ragione invece si trova solamente
nel sapiente; si formarono quindi gli stati singoli, che tengono divisa
l'umanità. Come gli stati, così le istituzioni che li governano sono effetto di
errore e stoltezza: quali l’istituzione del matrimonio, l’istituzione della
famiglia, l’istituzione della proprietà, l’istituzione dela moneta, l’istituzione
del ribunale, l’istituzione del ginnasio (Diog. L. VII, 33 e 131). Stato
conforme alla natura umana, con istituzioni veramente buone, non esiste. Edotto
di questo idealismo politico, puo sul Campidoglio il pretore romano A. Albino,
uomo erudito e versato nella lingua greca, dire per ischerzo volgendosi a
Carneade. “A te, Carneade, non sembra io sia un pretore, nè questa una città,
nè in essa abitino cittadini). A cui Carneade, che subito capisce di essere stato
preso per il collega della Stoa. “A questo stoico non sembra cosi.” I filosofi
ateniesi non lasciano di contendere neppure in paese straniero; o certo
Carneade e stato assai lieto di osservare che al senso pratico dei romani la
dottrina de' suoi avversari si presenta come assolutamente *ridicola*; e
tornato in patria , credette il fatto degno di essere raccontato a' suoi
discepoli (L'aneddoto è ricordato da Clitomaco. Cic. , Ac. II , 137). Sogliono
gli storici narrarci che Carneade tenne a Roma *due* discorsi ispirati a scopo
opposto. Il primo giorno dimostra l'esistenza del diritto naturale e loda la
giustizia (il giurato – il iusiuratum – dike – cf. lex). Il secondo giorno
sostenne tutto il contrario; onde gridano all'immoralità, all’audacia e alla
sfacciataggine del filosofo, che non si vergognò di difendere contraddizione si
anorme. Anche non tenendo conto che, se si applicasse questo criterio , tutta
la filosofia dei accademici sarebbe un' immoralità, perchè il loro metodo e di
difendere in ogni quistione le soluziori opposte. Idue discorsi (tesi ed
antitesi, positio e contra-positio, posizione e contra-posizione), tenuti in
giorni successivi, abbiano un'unità perfetta (la sintesi, o com-posizione) e si
propongano il medesimo fine: mostrare la falsità della dottrina della tesi di
Diogene intorno al giurato; e siccome costoro in questa parte della filosofia,
molto più che in altre, sono dipendenti da Platone e da Aristotele, bisogna
prendere le mosse da questi. Leggiamo in Lattanzio. Carneades autem, ut Aristotelem
refelleret ac Platonem, justitiae patronos, prima illa disputatione collegit ea
omnia , quae pro justitia dicebantur, ut posset illa, sicut fecit, evertere. Carneades,
quoniam erant infirma, quæ a philosophis adserebantur, sumsit audaciam
refellendi, quia refelli posse intellexit (Lattanzio , Instit. div. V , 14 ; V
, 17. 2-4.). E al trove. Nec immerito extitit Carneades, homo summo ingenio et
acumine, qui refelleret istorum (Platone e Aristotele ) orationem et iustitiam,
quæ fundamentum stabile non habebat, everteret, non quia vituperandam esse
iustitiam sentiebat, sed ut illos defensores eius ostenderet nihil certi, nihil
firmi de iustitia disputare (Ibid. Epit. 55, 5-8). Di qui è evidente che la
prima orazione non era che un esordio, un'introduzione, uno sguardo storico
alla questione, un'esposizione delle idee accettate da Diogene, che Carneade
s'appresta a confutare nel vegnente giorno (Cic., de rep. III, 12);
confutazione, la quale non aveva per iscopo di vituperare la giustizia in sé,
ma di colpire i filosofi avversari, o almeno la loro teoria dommatica – il
domma.Non è la virtù stoica, che Carneade demole, ma il sapere. Su questo si dovrà
tornare più innanzi. E caso a noi pervennero frammenti solamente della seconda
orazione. Questa sola offriva una filosofia nuova, dava una scossa inaspettata
e forte all'intelligenza dei romani. Perciò eam disputationem, qua iustitia
evertitur, apud Ciceronem L. Furius recordatur (Lattanzio , Instit. dio. I.
c.). E noi ora possiamo tentare di ricostruire questo singolare di scorso nelle
sue linee generali. Per Carneade, non esiste una giustizia (giurato –
iusiurato) naturale nè verso due uomini. Se esso esistesse le medesimecose
sarebbero giurate (iusiurata) giuste o ingiuste, buone o cattive, morali o
immorali, per ogni uomo, come le cose calde e le fredde, le dolci e le amare.
Invece chi conosce il mondo e la storia, sa che regna una grandissima diversità
di apprezzamenti morali e giuridici, di consuetudini tra il popolo romano e il popolo
sabino, da Roma a Sabinia, dal Tevere al Trastevere, da tempo a tempo. I
cretesi e gli etoli reputano cosa onesta il brigantaggio. I Lacedemoni
dichiarano loro proprietà tutti i campi che potevano toccare col giavellotto. Gli
Ateniesi solevano annunciare pubblicamente che loro apparteneva ogni terra che
producesse olive e biade. I barbari galli stimano disonorevole cosa procurarsi
il frumento col lavoro, invece che colle armi. I romani vietano ai Transalpini
la coltivazione dell'ulivo e della vite, per impedire la concorrenza ai loro
prodotti e dar a questi un valore più elevato. Gli semitici egiziani, che hanno
una storia di moltissimi secoli, adorano come divinità il bue e belve di ogni
genere. I semitici Persiani, disprezzano gli dei dell'Ellade, ne incendiarono i
tempii, persuasi essere cosa illecita che gli dei, i quali hanno per abitazione
tutto il mondo, fossero rinchiusi tra pareti. Filippo il Macedone idea e
Alessandro manda ad esecuzione la guerra contro i greci per punire quei numi. I
Tauri, gli Egiziani, i barbari galli (“Norma”) e i Fenici credeno che
tornassero assai accetti alle loro deità il sacrifizio umano. Si dice: E dovere
dell'uomo che fa il giurato (iusiuratum) ubbidire alla legge. Quale legge? A la
legge di ieri, o alla legge di oggi? A quelle fatte in questo lato del Tevere,
o nel Trastevere? Se una un imperativo o una legge suprema, universale, trascendente,
kantiana, costante s'impone alla coscienza dell’uomo, come pretende Diogene,
coteste variazioni non sarebbero possibili. Perciò non esiste un diritto
naturale, nè un uomo che per natura arriva al giurato (iusiuratum). Il diritto (ius)
è una invenzione dell’uomo a scopo di utilità e didifesa; come prova anche il
fatto che non raramente la legge, le quale e fatta dal sesso maschile, assicura
a questo sesso un particolare vantaggio a danno di quello femminile. Nessuna ‘legislazione’,
attentamente esaminata, appare l'espressione di un imperative o principio
fisso, naturale, vero, immutabile, divino. Invece al profondo osservatore non
isfugge che ogni disposizione legale move da ragione di utile e viene cambiata
appena non risponde più ai bisogni e agl'interessi di coloro che hanno nelle
mani il potere. Ogni nazione cerca di provvedere al proprio bene e considera,
per istinto di natura, gli animali e le altre nazione come istrumenti della
propria conservazione e felicità (Cic., de rep . III, 12-21). La storia insegna
che ogni popolo che diventa grande, potente, ricco, non pensa ai vantaggi
altrui, ma unicamente ai proprii. Voi stessi o Romani, disse Carneade parlando
a un Scipione Emiliano, il futuro distruttore di Cartagine e di Numanzia, a
Lelio il saggio, al letterato Furio Filo, a Scevola il futuro giureconsult ,
all'erudito Sulpicio Gallo, algrande oratore Galba, al vecchio Catone,
l'implacabile nemico di Cartagine, al fiore di tutta la cittadinanza e alla
presenza dei colti ostaggi achei trasportati in Italia, tra i quali il grande
storico e generale Polibio. Voi stessi, o Romani, non vi siete impadroniti del
mondo colla giustizia. Se volete essere giusti, restituite le cose tolte agli
altri, ritornate alle vostre capanne a vivere nella povertà e nella miseria. Il
criterio direttivo della vostra vita non e il
giurato (iusiuratum), bensi l'utilità, che invano cercate di mascherara;
poichè voi, coll'intimare la guerra per mezzo di araldi, col recare *in-giurie*
sotto un pretesto di legalità, col desiderare l'altrui , col rubire, siete per
venuti al possesso di tutto il mondo. Ma per temperare il cattivo effetto, che
avesse potuto produrre negli animi dei Romani questa audace analisi dei fattori
della loro grandezza politica, l'avveduto ambasciatore ateniese ricorda altri
esempi, che sono celebri e lodati in tutto il mondo. Rammenta la ben nota
risposta data dal pirata catturato ad Alessandro il grande. Io infesto breve tratto
di mare con una sola fusta, con quel medesiino diritto, col quale tu, o
Alessandro, infesti tutto il mondo con grande esercito e flotta. Il
patriottismo, questa virtù somma e perfetta, che suole essere portata fino al
cielo colle lodi, è la negazione del giurato (iusiuratum), perchè si alimenta
della discordia seminata tra gli uomini e consiste nell'aumentare la prosperità
del proprio paese, naturalmente a danno di un altro, coll’nvadere violentemente
il territorio altrui, estendere il dominio, aumentare le gabelle. Patriotta è
colui che acquista dei beni alla patria colla distruzione di altre città e
nazioni, colma l'erario di denaro, rese più ricchi i concittadini. E, quel che
è peggio, non solo il popolo e la classe incolta, ma eziandio i filosofi esortano
e incoraggiano a commettere cotali atti ingiusti. Cosicchè alla malvagità non
manca neppure l'autorità della scienza. Ovunque regnano inganno e ingiustizia,
che invano si tentano di nascondere e legittimare. Tutti quelli che hanno
diritto di vita e di morte sul popolo sono tiranni. Ma essi preferiscono chiamarsire
per volontà divina. Quando alcuni, o per ricchezze, o per ischiatta , o per
potenza, hanno nelle mani l'amministrazione di una città, costituiscono una
setta. Ma i membri prendono il nome di “ottimato”. Se il popolo ha il
sopravvento nel maneggio dei pubblici affari, la forma di governo si chiama
libertà; ma è licenza. Ma poichè gli uomini si temono l'un l'altro, e una
classe ha paura dell'altra, interviene una specie di *patto* o contratto fra
popolo e potenti e si costituisce una forma mista di governo, dove la giustizia
è un effetto non di natura o di volontà, ma di debolezza. Ed è naturale che
cosi avvenga. Se l'uomo deve scegliere tra le seguenti condizioni: recare *in-giuria*
e non riceverne; e farne e riceverne; nè farne, nè riceverne, egli repute ottima
la prima, perchè soddisfa meglio i suoi istinti. Poscia la terza, che dona
quiete e sicurezza; ultima e più infelice la condizione di chi sia costretto ad
essere continuamente in armi, sia perchè faccia, sia perché riceva *in-giurie”.
Adunque alla Hobbes lo stato naturale dei rapporti tra uomo e uomo è la lotta
(uomo uominis lupo), la guerra, la discordia , la rapina, la violenza ,
l'inganno, in una parola, la negazione del giurato (giusgiurato). La giustizia
è una virtù che si esercita per effetto di debolezza e per proprio tornaconio.
Ma Diogene, come vedemmo, considera il giurato (iusiuratum) verso gli uomini.
Carneade dove notare che l’istituzione del tempio esiste solamente nel l'immaginazione
de' suoi avversari e dei filosofi, dai quali essi attinsero i loro principii.
Non si acquista, non si allarga potere, non si fonda regno senza le armi, le
guerre, le vittorie; le quali alla loro volta in generale presuppongono la presa
e la distruzione di città. E dalle distruzioni non vanno immuni le oggetti
addorati nei tempi, ne dalle stragi si sottragge il sacerdote del tempio; né
dalle rapine i tesori e gli arredi sacri. Quanti trofei di divinità
nemiche, quante sacre immagini, quante spoglie di tempii resero splendidi i
trionfi dei generali romani! E non sono cotesti sacrilegi? Non sono atti di somma
ingiustizia? No, innanzi al giudizio del popolo, all'opinione della gente
colta, degli storici, dei letterati, questa è gloria, è patriottismo, è
prudenza, sapienza, giustizia. Dunque la giustizia non solamente non viene
osservata in pratica, ma non esiste nep pure in fondo alla coscienza generale
dell’uomo. Anch'essa viene subordinata all'utile. Ma non s'arresta qui la
critica di Carneade. Con un esame sottile e profondo dell'antinomia esistente
tra i due concetti del ‘scitum’ e del ‘giurato’ e della natura morale dell'uomo
quale in realtà è, e quale egli si crede e vorrebbe essere, Carneade ha
chiarito un contrasto del cuore (ragione pratica) e della mente (ragione
teorica) umana, che tuttavia rimane e che ha servito di fondamento alle teorie
utilitaristiche inglesi di tempi a noi vicini. Lo ‘scitum’ – la sapienza
politica comanda al Cittadino di accrescere la potenza e la ricchezza della patria,
estenderne i confini e il dominio, renderne più intensa la vita con nuove
sorgenti di guadagni e di piaceri; e tutto questo non si può compiere senza
danno di altre genti. Il giurato (iusiuratum) invece comanda di risparmiare
tutti, di beneficare i propri simili indistintamente, restituire a ciascuno il
suo, non toccare i beni, non turbare i possedimenti altrui, non sminuire la
felicità d'alcuno. Ma se un uomo di stato vuole essere giusto, non ha mai
l'approvazione de' suoi amministrati, non gloria, non onori, i quali il popolo
attribuisce non al giusto (che promueve il giurato) e onesto e inetto; bensì al
sapiente, al prudente, all'accorto. Non per il giurato, ma per il ‘scitum’ i generali
di Roma hanno il soprannome di grandi. La violenza, la forza, la negazione
del giurato, hanno dato potere e consistenza agli stati. Ma per nascondere la
propria origine e fuggire la taccia de negare il giurato (iusiuratum), il
popolo, fatto grande e divenuto dominatore, va immaginando delle favole da
sostituire alla storia vera, come il mercante arricchito agogna un titolo di
nobiltà. Le stesse qualità, e solamente le stesse, mantengono gli stati liberi
o forti. Non ha nazione tanto stolta, la quale non preferisce il comandare con
la negazione del giurato, all'ubbidire con la promozione del giurato
(iusiuratum). La ragione di stato e la salvezza pubblica vincono e soffocano il
sentiment *dis-interessato*. Uno stato vuole vivere a prezzo di qualsiasi
negazione del giurato (iusiuratum), perchè sa che alla vittoria, con qualunque
mezzo acquistata, tien dietro la gloria. Nel concetto degli antichi, la fine
della propria nazione non sembra avvenimento naturale, come la morte di un
individuo, pel quale questa non solo è necessaria, ma talvolta anche
desiderabile. L'estinzione della patria era per essi in certo qual modo
l'estinzione di tutto il mondo. Dato questo concetto e un sentimento della
gloria diverso e molto più intenso che non sia in noi moderni, doveno in certa
guisa parere *giustificati* (giusti-ficati – fatto giurato – iusiuratum --
anche gli atti di violenza e di frode, che avevano per I scopo la conservazione
e la potenza del proprio stato; o, per meglio dire, il popolo e gl'individui
non hanno coscienza di un principio o imperativo che governa la propria vita.
Credeno, i Romani pei primi, di promovere il giurato (iusiuratum) e invece sommamente
negano il giurato (iusiuratum). Carneade fu il primo a chiarire questa opposizione
tra fatto e idea, tra sapienza machiavelica politica e il giurato (iusiuratum)
(Cic. , de fin. II , 59). Il medesimo conflitto tra il giurato e il ‘scitum’
dimostra egli esistere nella vita privata, intendendo per sapiente l'uomo che
sa difendere il proprio interesse; e giusto colui che non lede quello degli
altri. Sono suoi i seguenti esempi, tolti dalla vita giornaliera e assai chiari
e appropriati alla vita romana affogata negli affari. Un tale vuole vendere uno
schiavo, che ha l'abitudine di fuggire, o una casa insalubre. Egli solo conosce
questi difetti. Ne rende avvisato il compratore? Se si, s'acquista fama di uomo onesto, perchè non inganna,
maeziandio di stolto, per che vende a piccolo prezzo, o non vende affatto; se
no, sarà reputato sapiente, perchè fa il proprio interesse, ma malvagio, perchè
inganna. Parimenti, se egli s'incontra in uno che vende oro per oricalco, o
argento per piombo, tace per comperare a buon prezzo, o indica al venditore lo
sbaglio e sborsa di più per l'acquisto? Solamente lo stolto vorrà pagare a
maggior prezzo la merce. Se un tale, la cui morte a te recherebbe vantaggio,
sta per porsi a sedere in luogo, dove si nasconde serpe velenoso, e tu il sai,
dovrai avvertirlo del pericolo , o tacere? Se taci, sarai improbo, ma accorto; se
parli, sarai probo, ma stolto (Cic., de rep. III, 34). Dunque qui pure si
presenta la contraddizione: chi è giusto, è stolto ; chi è sapiente, è ingiusto.
Ma in questi casi si tratta di una quantità maggiore o minore di denaro e di
vantaggi più o meno rilevanti, e v'ha chi potrebbe essere contento e felice
della povertà. Ma quando andasse di mezzo la vita, il conflitto diventerebbe
più spiccato. Un tale in un naufragio, mentre è poco lontano dall'affogare,
vede un altro più debole di lui mettersi in salvo appoggiandosi a una tavola, che
vale a sostenere uno solo. Nessuno testimonio è presente. Si fa sua la tavola e
si pone in salvo, lasciundo che l'altro perisca. Oppure, se, dopo che i suoi
furono sconfitti, incontra nella fuga un ferito a cavallo, che va sottraendosi
al ferro dei nemici inseguenti, lo getterà a terra per porre se stesso in
sella, o si lasce raggiungere e uccidere. Se egli è uomo sapiente, si salva a
qualunque costo. Ma se poi antepone il morire al far morire, sarà giusto, ma
stolto. Tale è il giudizio che intorno al suo operato porteranno il uomo. Cosicchè il giure naturale, la giustizia
naturale è stoltezza. Il giure civile è sapienza politica. Tutto è lotta
d'interessi. Si ha ragione di credere che Carneade nel suo discorso *contro* il
giurato civile tocca anche la questione della schiavitù, dicendo essere un
fatto che nega il giurato (iusiudicatum) naturale, che uomo servisse a uomo --
principio che, riconosciuto vero, puo essere assai valido per far conoscere
quanto esteso fosse il dominio della negazione del giurato e dare alla sua tesi
una grande forza. E ciò si induce a credere dal vedere che in più frammenti il
difensore del giurato, ossia il suo contraddittore, viene svolgendo la tesi
opposta, perchè la schiavitù, rettamente conservata, torna a utilità del stesso
schiavo, il quale sotto un governo buono e forte vive in maggiore sicurezza e
viene meglio educato che allo stato di libertà; e come Dio comanda all'uomo,
l'anima al corpo, la ragione alle parti appetitive dell'anima, cosi il
conquistatore tiene a freno il conquistato, il quale diventa tali appunto
perchè e peggiore di quello . Un tenue indizio ci sarebbe anche per farci
credere che egli risolve il rimorso nella paura della pena, negando che fosse
un sentimento più profondo e disinteressato. Diogene obbietta che in questa ipotesi
il malvagio sarebbe semplicemente un incauto e il buono uno scaltro (Cic . de
leg. I , 40 e s.). In conclusione: per Diogene, fondamento della morale e del
diritto è l'inclinazione ad amare gli uomini e a rispettare la divinità,
inclinazione che ha radice nella natura, la quale sola offre la norma per
distinguere il giurato dalla sua assenza, il bene dal male. Per Carneade,
generatrice del diritto è l'utilità, e l'utilità sola, e ogni giudizio morale e
altrettanta opinione, la quale non deriva da un imperativo kantiano, o un
principio naturale fisso, come provano la loro varietà e il dissenso degli
uomini (Cic. , de leg. I, 42 e s). Alla teoria
giuridica di Carneade non si deve attribuire un significato di domma o dommatico,
che sarebbe in cotraddizione colle premesse teoretiche della sua filosofia. L'egoismo
e l'utilitarismo proclamato da Carneade in opposizione all'idealismo morale di
Diogene, non è una dottrina *precettiva*, alla Kant (il sollen) ma
l'investigazione e l'esposizione di un fatto psicologico e sociale – come il
principio cooperativo di Grice. Carneade non pare credere all'effetto pratico
della morale normativa e si limita ad analizzare il cuore dell’uomo, la ragione
pratica, saggezza, prudential, il quale, per la sua tendenza nativa, è assai
lontano dal realizzare il precetto dommatico stoico. Ma da filosofo prudente
s'astiene dal proporne del proprio precetto (idiosincrazia). Nota il fatto che
si presenta all'osservazione quotidiana con tutti i caratteri della
verosimiglianza più alta e sforzano a credere o ad operare; ma nè costruisce una
teoria assoluta, ne formula un domma. iusiuro: swear to a binding formula. NA
Wundt/1/IV/D/XIII/1 Estate Wilhelm Wundt Zeitungsausschnitte 100. Geburtstag
Wundt 1932. Last changed 2016-02-25 NA Wundt/III/1001-1100/1098/461-462. Estate
Wilhelm Wundt Brief von Luigi Credaro an Wilhelm Wundt Last changed 2016-01-13.
Luigi Credaro. Keywords: i sofisti, il giurato, iusiuratum, Carneade, il
secondo discorso, contro Democrito, ragione pratica (saggezza), ragione
teorica, a philosopher in political linguistics: German minority, Italian
majority in Trento. Il prefetto di Trento. Lingua tedesca, lingua italiana,
ordinamento amministrativode-centrato, Wundt, Kant, razionalismo trascendente,
Herbart, scetticismo, accademia, prima accademia, seconda accademia, terza
accademia, liberta di volere, freewill,
volere libero, ambiascata ateniense a roma, influenza dell’academia nell’elite
romana – l’accademia come perfezionamento per la dirigenza romana, Wundt,
positivismo, suggestione, i primordii del kantismo in Italia, Hegel vacuo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Credaro” – The Swimming-Pool Librrary.
Crespi (Milano). Filosofo.
Grice: “Crespi is an interesting figure; Strawson calls him an Englishman since
he became a Brit! My favourite is his edition of Marcauurelio’s remembrances –
which is a n irony: he was a roman, but left his remembrances in Hellenic; and
the Italians needed a translation! It would be as if Pocahontas’s remembrances
were in Anglo-Saxon!” Collaboratore della Critica sociale, si avvicina alle
posizione modernista. Collaboraa Il Rinnovamento, L'Unità, La Rivoluzione
liberale, Coenobium. Emigrato durante il fascismo, ospita numerosi esuli antifascisti.
Altre opere: “Le vie della fede” (Roma, Libreria editrice romana); “Sintesi
religiosa” (Firenze, Tip. Bonducciana di A. Meozzi); “L’impero romano” (Milano,
Treves); “Dall'io al tu” (Modena, Guanda). Nunzio Dell'Erba, Rosselli e Sturzo,
"Annali della Fondazione Ugo La Malfa", Luigi Sturzo, Mario Sturzo,
Carteggio, Roma, Edizioni di storia e letteratura-Istituto Luigi Sturzo, Giovanni
Bonomi, Angelo Crespi, Cremona, Padus). Angelo Crespi. Grice: “His essay on
Antonino is brilliant – his philosophy of history is controversial. FKeywords:
la filosofia dell’impero romano, impero, impero romano, impero britannico,
funzione dell’impero, funzione storica dell’impero, filosofia imperial, imperialismo,
imperialismo romano, imperialism britannico, post-imperialismo, Antonino. Filosofia della storia – aporie, lingua
latina, impero romano, lingua nazionale, nazione romana, nazione italiana,
lingua italiana, lingua fiorentina, lingua toscana, toscano, -- Refs.: Luigi
Speranza, “Crespi e Grice” – The Swimming-Pool Library.
Crespo
Croce
(Pescasseroli).
Filosofo. Grice: “I would think the fashionable Englishwoman may think Croce is
the most important philosopher that ever lived!” -- vide under “Grice as
Croceian” -- Grice as Croceian: expression and intention -- Croce, B.,
philosopher. I genitori appartenevano a due abbienti
famiglie abruzzesi: la famiglia Sipari, quella materna, originaria della stessa
Pescasseroli, ma radicatasi anche in Capitanata e Terra di Lavoro,
particolarmente legata agli ideali liberali, e l'altra, quella paterna,
originaria di Montenerodomo (in provincia di Chieti), ma trapiantata a Napoli,
legata invece ad una mentalità di stampo borbonico[9]. Croce crebbe in un
ambiente profondamente cattolico, dal quale però, ancora adolescente, si
distaccò, non riaccostandosi più per tutta la vita alla religiosità
tradizionale. Il terremoto di Casamicciola A diciassette anni perse i
genitori, Pasquale Croce e Luisa Sipari, e la sorella Maria, periti durante il terremoto di Casamicciola,
nell'isola d'Ischia, dove Croce si trovava in vacanza con la famiglia. Un
terremoto durato non più di 90 secondi ma dalla potenza devastatrice enorme - e
per questo rimasto come esempio terribile di distruzione nel modo di dire delle
popolazioni coinvolte - dove lo stesso Benedetto rimase «sepolto per parecchie
ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo. Il "problema del
male", in sottofondo alla sua filosofia ottimistica sul progresso, rimarrà
insoluto, se non addirittura negato, e dietro le quinte del suo pensiero,
influenzato da questi eventi giovanili come evidenziato dalle meditazioni
private dei Taccuini personali. Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi:
i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia
fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri
di suicidio.Fra i primi ad accorrere in suo aiuto fu il cugino Paolo Petroni,
la famiglia del quale lo assisté affettuosamente nei mesi seguenti nella loro
residenza di campagna a San Cipriano Picentino, paese non troppo distante da
Salerno. In seguito a questo tragico episodio fu affidato, assieme al fratello superstite
Alfonso, alla tutela del cugino Silvio Spaventa, figlio della prozia Maria Anna
Croce e fratello del filosofo Bertrando Spaventa, che, mettendo da parte dei
dissapori storici che aveva con la famiglia Croce, lo accolse nella propria
casa a Roma, dove il giovane Benedetto trascorse gli anni dell'adolescenza ed
ebbe modo di formarsi culturalmente[14] fino all'età di vent'anni. Nel circolo
culturale nella casa dello zio Silvio, Croce ebbe modo di frequentare
importanti uomini politici ed intellettuali tra cui Labriola che lo inizierà al
marxismo. Pur essendo iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell'Università
di Napoli, Croce frequentò le lezioni di filosofia morale a Roma tenute dal
Labriola. Non terminò mai i suoi studi universitari, ma si appassionò a studi
eruditi e filosofici, trascurando il pensiero hegeliano, di cui criticava la
forma incomprensibile. Il ritorno a Napoli Lasciata la Roma troppo accesa
di passioni politiche, Tornò a Napoli, dove acquistò, per abitarvi, la casa
dove aveva trascorso la sua vita Giambattista Vico, il filosofo napoletano
amato da Croce per la concezione filosofica anticipatrice, per certi aspetti,
della sua. Nel 1890 fu tra i fondatori della Società dei Nove Musi, un cenacolo
di intellettuali. Compì numerosi viaggi in Spagna, Germania, Francia e
Regno Unito mentre nella sua formazione culturale cresceva l'interesse per gli
studi storici e letterari, in particolare per la poesia di Giosuè Carducci, e
per le opere di Francesco De Sanctis. Attraverso Antonio Labriola con cui era
rimasto in contatto, si interessò al marxismo, di cui però criticava come
astorica la visione che dava del capitalismo. Da Marx risalì alla filosofia
hegeliana che cominciò ad apprezzare e ad approfondire. La fondazione de
La critica e la vita politica Nel gennaio del 1903 uscì il primo numero della
rivista La critica, con la collaborazione di Giovanni Gentile, e stampata a sue
spese, allorché subentrò l'editore Laterza. Venne nominato per censo senator e fu
Ministro della Pubblica Istruzione[16] nel quinto e ultimo governo Giolitti. Con regio decreto dgli fu concesso il titolo
di "Nobile". Elaborò una riforma della pubblica istruzione che fu poi
ripresa e attuata da Giovanni Gentile. Posizione nella prima guerra
mondiale «Ardenti e vivacissime furono in quei dieci mesi le polemiche tra
«interventisti» e «neutralisti», come erano chiamati non si può dire che [gli
interventisti] avessero torto, come non si può dire che l'avessero i loro
oppositori, perché dissidî di questa sorta non sono materia, nonché di
tribunali, neppure di critica scientifica, e hanno questo carattere entrambe le
tesi, appassionatamente difese, sono necessarie per l'effetto politico e, come
suona il motto, che, se una delle due opposizioni non ci fosse, converrebbe
inventarla. Più di un cosiddetto «neutralista» si sentiva talvolta scosso dalla
tesi avversaria e inclinava ad accoglierla, e il medesimo accadeva a più di un
«interventista. Storia d'Italia Bari, Laterza) Il filosofo, nella scelta tra le
due posizioni, neutralismo o interventismo alla prima guerra mondiale, si
rivolse alla prima; ma il suo era un neutralismo che contemperava le posizioni
liberali con la possibilità dell'intervento (rimase comunque poco favorevole
alla guerra, e, non obbligato ad arruolarsi, per limiti di età - 49 anni -, non
andò mai al fronte a differenza di altri intellettuali come D'Annunzio,
volontario. Scriveva a Bigot che era pronto ad accettare quella guerra che saremo
costretti a fare, quale che sia, anche contro la Germania, ad accettarla come
una dolorosa necessità, risoluto a non provocarla per ragioni antinazionali e
settarie» (B. Croce, Epistolario, Napoli) Il rapporto con il fascismo
L'iniziale fiducia al governo fascista Benedetto Croce nella sua
biblioteca Inizialmente Croce fu vicino al fascismo[19]. Ascoltò e applaudì il
discorso di Mussolini al teatro San Carlo di Napoli, durante l'adunata
preparatoria per la marcia su Roma. In occasione delle votazioni al Senato,
successive all'uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti, fu tra i
225 senatori che votarono la fiducia al governo Mussolini, insieme a Giovanni Gentile
e Vincenzo Morello. In seguito Croce spiegò in un'intervista che il suo non era
stato un voto fascista, aveva votato a favore del regime perché pensava che
Mussolini, se sostenuto, poteva esser sottratto all'estremismo fascista a cui
Croce faceva risalire la responsabilità del delitto Matteotti. «Abbiamo
deciso di dare il voto di fiducia. Ma, intendiamoci, fiducia condizionata.
Nell'ordine del giorno che abbiamo redatto è detto esplicitamente che il Senato
si aspetta che il Governo restauri la legalità e la giustizia, come del resto
Mussolini ha promesso nel suo discorso. A questo modo noi lo teniamo
prigioniero, pronti a negargli la fiducia se non tiene fede alla parola data.
Vedete: il fascismo è stato un bene; adesso è divenuto un male, e bisogna che
se ne vada. Ma deve andarsene senza scosse, nel momento opportuno, e questo
momento potremo sceglierlo noi, giacché la permanenza di Mussolini al potere è
condizionata al nostro beneplacito. Croce scrisse su Il Giornale d'Italiache il
regime mussoliniano «non poteva e non doveva essere altro che un ponte di
passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale». La
rottura e il Manifesto degli intellettuali antifascisti Il filosofo abruzzese
si allontanò definitivamente dal regime allorché, su sollecitazione di Giovanni
Amendola, scrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti in replica al
Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile. Lo scritto,
pubblicato sul quotidiano Il Mondo, tra l'altro sosteneva: «Contaminare
politica e letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si
faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze
e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore
generoso. E non è nemmeno, quello degli intellettuali fascisti, un atto che
risplende di molto delicato sentire verso la patria, i cui travagli non è
lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è
naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle
proprie nazioni. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova
religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso
manifesto; e, d'altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra
allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli
all'autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza alle leggi e di
violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di
atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di
corteggiamenti alla Chiesa cattolica, di aborrimenti della cultura e di conati
sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e
di cinismo. Per questa caotica e inafferrabile "religione" noi non ci
sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due
secoli e mezzo è stata l'anima dell'Italia che risorgeva, dell'Italia moderna;
quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia,
di generoso senso umano e civile, di zelo per l'educazione intellettuale e
morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni
avanzamento.» Secondo Norberto Bobbio, il Manifesto degli intellettuali
antifascisti sancì l'assunzione da parte di Croce del ruolo di «coscienza
morale dell'antifascismo italiano» e di «filosofo della libertà. Lo scritto
segnò inoltre la rottura dell'amicizia con Gentile, a causa delle ormai
inconciliabili divergenze filosofiche e politiche. In seguito Croce fu l'unica
voce fuori dal coro tollerata dal regime. Il ruolo di Croce come coscienza
dell'antifascismo è testimoniato, tra gli altri, da Primo Levi, che nel 1975
ricordò che negli anni del fascismo e della guerra, segnati per gli
antifascisti da smarrimento morale, isolamento e incertezze, solo «La Bibbia,
Croce, la geometria, la fisica, ci apparivano fonti di certezza. Il mio
liberalismo è cosa che porto nel sangue, come figlio morale degli uomini che
fecero il Risorgimento italiano, figlio di Francesco De Sanctis e degli altri
che ho salutato sempre miei maestri di vita. La storia mi metterà tra i
vincitori o mi getterà tra i vinti. Ciò non mi riguarda. Io sento che ho quel
posto da difendere, che pel bene dell'Italia quel posto dev'essere difeso da
qualcuno, e che tra i qualcuni sono chiamato anch'io a quell'ufficio. Ecco
tutto.» (Lettera a Alfieri) Rifiutò di entrare nell'Accademia d'Italia, e
dopo un breve appoggio al movimento antifascista Alleanza Nazionale per la
Libertà, fondato dal poeta Lauro De Bosis, si allontanò dalla vita politica, continuando
peraltro ad esprimere liberamente le sue idee politiche, senza che il regime
fascista lo censurasse, almeno esplicitamente. L'unico atto di ostilità
violenta ed esplicita compiuto dal fascismo verso Croce fu la devastazione
della sua casa napoletana avvenuta nel novembre del 1926[29]. Negli anni
successivi, quelli della sua affermazione e del cosiddetto “consenso”, il
fascismo ritenne Croce un avversario poco temibile, sostenitore com'era della
tesi di un fascismo inteso come "malattia morale" inevitabilmente
superata dal progresso della storia. Inoltre la fama di Croce presso l'opinione
pubblica europea lo proteggeva da interventi oppressivi da parte del regime.
Ebbe altresì blandi rapporti culturali con intellettuali in qualche modo vicini
al regime, anche se marginali, come un carteggio epistolare con il tradizionalista
Julius Evola, a cui espresse l'apprezzamento formale per due opere, da
pubblicare presso Laterza con il benestare dello stesso Croce, Saggi
sull'idealismo magico, Teoria dell'individuo assoluto e, successivamente, La
tradizione ermetica. Il governo fascista richiese ai docenti delle università
italiane un atto di formale adesione al regime in base all'articolo 18 del
regio decreto (il cosiddetto giuramento di fedeltà al fascismo). A seguito di
tale provvedimento, i docenti avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non
solo "alla patria", secondo quanto già imposto dal regolamento
generale universitario del 1924, ma anche al regime fascista. In
quell'occasione, Croce incoraggiò professori come Guido Calogero e Luigi
Einaudi a rimanere all'università, «per continuare il filo dell'insegnamento secondo
l'idea di libertà. Se la sua figura fu importante per l'area politica del
liberalismo, la sua scuola ebbe durante tutto il ventennio fascista una platea
assai più ampia di allievi[36]: del resto, già prima dalle sue idee avevano
tratto esempio anche Antonio Gramsci[37] e il gruppo comunista de L'Ordine
Nuovo.Polemica sulla Giornata della fede La non adesione di Croce al fascismo
parve messa in discussione dal gesto compiuto durante la Guerra d'Etiopia, quando
il filosofo, in occasione della "Giornata della fede" donò la propria
medaglietta da senatore accompagnandola con questa secca lettera al presidente
del Senato: «Eccellenza, quantunque io non approvi la politica del Governo, ho
accolto in omaggio al nome della Patria, l'invito dell'E.V., e ho rimesso alla
questura del Senato la mia medaglia, Il gesto “suscitò negli ambienti
dell'antifascismo italiano, in patria e all'estero, sorpresa, dolore e
polemiche” che colpirono dolorosamente Croce. Al termine di un drammatico
colloquio con Bianca Ceva, inviata a sostenere il punto di vista degli
antifascisti, dopo un iniziale tentativo di giustificazione, Croce affermò:
“dica che io sono sempre lo stesso, che sono sempre con loro. Il regime varò la
legislazione antisemita (Croce non era presente nell'aula del Senato, quale
forma di protesta; egli fu uno dei pochi a esprimersi contro di esse a livello
pubblico). Il governo inviò a tutti i professori universitari e i membri delle
accademie un questionario da compilare ai fini della classificazione
"razziale". Tutti gli interpellati risposero. L'unico intellettuale
non ebreo che rifiutò di compilare il questionario fu Croce. «L'unico
effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo
me, che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare
che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata.[40]» Il
filosofo, invece di restituire compilata la scheda, inviò una lettera al
presidente dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, in cui scrisse
sarcasticamente: «Gentilissimo collega, ricevo oggi qui il questionario
che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l'avrei riempito,
preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo
che ha circa sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato alla vita
politica del suo paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose?»
(Benedetto Croce a Luigi Messedaglia, Presidente dell’Istituto Veneto di
Scienze, Lettere e Arti di Venezia, in A. CAPRISTO, L’espulsione degli ebrei
dalle accademie italiane, Torino, Zamorani,) Croce fu quindi espulso da quasi
tutte le accademie di cui era membro, comprese l'Accademia Nazionale dei Lincei
e la Società Napoletana di Storia Patria. All'Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti, unica accademia che lo mantenne socio, alla fine della guerra
Croce riconoscerà il merito di non averlo espulso durante il regime fascista. Dopo
aver denunciato la persecuzione degli ebrei, Croce però critica anche gli
atteggiamenti degli ebrei stessi, sia quelli che avevano aderito al fascismo,
sia quelli che vivevano "separati", ritenendo la specificità ebraica
come pericolosa per gli ebrei stessi: «Quando s'iniziò l'infame persecuzione contro
gli ebrei, io ebbi, con un brivido di orrore, la piena rivelazione della
sostanziale delinquenza che era nel fascismo, come chi fosse costretto ad
assistere allo sgozzamento a freddo di un innocente e mi misi di lancio dalla
loro parte con tutto l'esser mio per fare quello che per loro si poteva a
lenire o diminuire il loro strazio. Molti danni e molte iniquità compiute dal
fascismo non si possono ora riparare per essi come per altri italiani che le
soffersero, né essi vorranno chiedere privilegi o preferenze, e anzi il loro
studio dovrebbe essere di fondersi sempre meglio con gli altri italiani;
procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno
persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle
persecuzioni, è da temere ne dia ancora in avvenire l'idea di popolo eletto,
che è tanto poco saggia che la fece sua Hitler, il quale, purtroppo, aveva a
suo uso i mezzi che lo resero ardito a tentarne la folle attuazione... [essi]
disconoscono le premesse storiche (Grecia, Roma, Cristianità) della civiltà di
cui dovrebbero venire a fare parte.» (Lettera a Cesare Merzagora)
Espresse quindi una posizione di perplessità per il sionismo. Il rientro nella
vita politica Dopo la caduta del regime Croce rientrò in politica, accettando
la nomina a presidente del Partito Liberale Italiano. Durante la Resistenza
cercò di mediare tra i vari partiti antifascisti e nel 1944 fu Ministro senza
portafoglio nel secondo governo Badoglio, benché non stimasse né il Maresciallo
né il re Vittorio Emanuele III, a causa della loro compromissione col fascismo.
Subito dopo la liberazione di Roma (giugno 1944) entrò a far parte del secondo
governo Bonomi, sempre come ministro senza portafoglio, ma diede le dimissioni
qualche mese dopo. Egli avrebbe preferito
l'abdicazione diretta del sovrano in favore del piccolo Vittorio Emanuele (con
rinuncia di Umberto al trono), la reggenza a Badoglio e l'incarico di capo del
governo a Carlo Sforza, ma i rappresentanti del Regno Unito si opposero.[46] Al
referendum sulla forma dello Stato (2 giugno 1946) votò per la monarchia, inducendo
tuttavia il Partito Liberale (di cui rimane presidente) a non schierarsi, per
far sì che prevalesse sulla questione piena ed effettiva libertà di scelta, e
dichiarando in seguito: «il buon senso fece considerare a quei milioni di
votanti favorevoli alla monarchia, che, se anche essi avessero riportato la
maggioranza legale, una monarchia con debole maggioranza non avrebbe avuto il
prestigio e l'autorità necessaria, e perciò meglio valeva accettare la forma
nuova della Repubblica e procurar di farla vivere nel miglior modo,
apportandovi lealmente il contributo delle proprie forze.»[48]
Benedetto Croce con Enrico Altavilla e il Capo provvisorio dello Stato,
Enrico De Nicola Concetti che Croce aveva, nella loro sostanza, già espresso;
ben prima che Umberto II, nel messaggio ribadisse tale indicazione. Eletto
all'Assemblea Costituente, non accettò la proposta di essere candidato a Capo
provvisorio dello Stato, così come in seguito rifiutò la proposta, avanzata da
Luigi Einaudi, di nomina a senatore a vita. Si oppose strenuamente alla firma
del Trattato di pace, con un accorato e famoso intervento all'Assemblea
costituente, ritenendolo indecoroso per la nuova Repubblica. Fonda a
Napoli l'Istituto italiano per gli studi storici destinando per la sede un
appartamento di sua proprietà, accanto alla propria abitazione e biblioteca nel
Palazzo Filomarino dove oggi ha sede la Fondazione Biblioteca Benedetto Croce. Presidente
dell'associazione PEN International e, negli stessi anni, entrò a far parte del
Consiglio di Amministrazione dell'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli. Per
un ictus cerebrale rimase semiparalizzato e si ritirò in casa continuando a
studiare: morì seduto in poltrona nella sua biblioteca il 20 novembre 1952,
all'età di 86 anni. I funerali solenni si tennero nella sua Napoli e le sue
spoglie tumulate nella tomba di famiglia al Cimitero di Poggioreale. Il
rapporto con la cultura cattolica «Pure filosofo quale sono io stimo che il più
profondo rivolgimento spirituale compiuto dall'umanità sia stato il
cristianesimo, e il cristianesimo ho ricevuto e serbo, lievito perpetuo, nella
mia anima[53]» Il rapporto di Croce con la cultura cattolica variò nel
corso del tempo. Agli inizi del Novecento i filosofi idealisti, come Croce e
Gentile, avevano esercitato assieme alla cultura cattolica una comune critica
al positivismo ottocentesco. Alla fine degli anni venti vi era stato un
progressivo allontanamento della cultura laica e idealistica dalla cultura
cattolica. Croce, pur non essendo un anticlericale militante, riteneva
importante la separazione liberale tra Chiesa e Stato, propugnata da Cavour. La
Chiesa con i Patti Lateranensi aveva ormai raggiunto un rapporto equilibrato
con le istituzioni statali italiane distaccandosi quindi dalle posizioni
politiche antifasciste dell'idealismo crociano. Croce fu contrario al
Concordato e dichiarò apertamente in Senato che «accanto o di fronte ad uomini
che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l'ascoltare o
no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di
coscienza. Mussolini gli rispose dichiarandolo «un imboscato della storia», e
accusando il filosofo di passatismo e di viltà di fronte al progresso storico. Quando
Croce scrisse la Storia d'Europa nel secolo decimonono, il Vaticano criticò
aspramente l'autore che difendeva le filosofie esaltanti una religione della
libertà senza Dio. Il Sant'Uffizio pose all'Indice nel 1932 questo libro ma,
non ottenendo negli anni successivi da Croce un qualsiasi ripensamento, ninserì
nell'elenco dei libri proibiti tutti i suoi scritti. La polemica
anti-concordataria crociana vide l'adesione del giovane filosofo nonviolento e
liberalsocialista Aldo Capitini che a Firenze, a casa di Luigi Russo, aveva
avuto modo di conoscere Croce, a cui aveva consegnato un pacco di
dattiloscritti che il filosofo napoletano aveva apprezzato e fatto pubblicare
nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo
Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventarono uno
tra i principali riferimenti letterari della gioventù antifascista. La
posizione personale di Croce nei confronti della religione cattolica è ben
espressa nel suo saggio Perché non possiamo non dirci "cristiani",
scritto nel 1942. Il termine "cristiani" inserito nel titolo tra
virgolette non voleva indicare l'adesione a un credo confessionale, bensì la
consapevolezza di un'inevitabile appartenenza culturale rappresentata nella sua
particolare prospettiva dal fenomeno del cristianesimo: non si trattava di una
professione di fede cristiana dovuta a un rinnegamento dell'agnosticismo come
volle fare intendere la propaganda fascista[60], ma di riconoscere il valore
storico e di «rivolgimento spirituale»: «Il cristianesimo è stato la più
grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta: così grande, così
comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e
irresistibile nel suo attuarsi, che non maraviglia che sia apparso o possa
ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall'alto, un intervento di Dio
nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo.
Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella
storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei
particolari e limitate. Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della
poesia, dell'arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto:
per la capacità dei princìpi cristiani di contrastare il neopaganesimo e
l'ateismo propagandati dal nazismo e dal comunismo sovietico[61]:»
«...sono profondamente convinto e persuaso che il pensiero e la civiltà moderna
sono cristiani, prosecuzione dell'impulso dato da Gesù e da Paolo. Su di ciò ho
scritto una breve nota, di carattere storico, che pubblicherò appena ne avrò lo
spazio disponibile. Del resto non sente Ella che in questa terribile guerra
mondiale ciò che è in contrasto è una concezione ancora cristiana della vita
con un'altra che potrebbe risalire all'età precristiana, e anzi pre-ellenica e
pre-orientale, e riattaccare quella anteriore alla civiltà, la barbarica
violenza dell'orda?[62]» Croce, in sintesi, vede nel cristianesimo il
fondamento storico della civiltà occidentale ma non ripudia l'immanentismo
radicale del suo pensiero che vede nella religione un momento della
realizzazione storica dello spirito che si avvia, superandolo, ad una più alta
sintesi.[63] All'Assemblea Costituente lotterà contro l'inserimento, voluto
dalla DC, e dal comunista Togliatti[64], dei Patti Lateranensi nel secondo
comma dell'articolo 7 della Costituzione della Repubblica Italiana,
giudicandolo come "sfacciata prepotenza pretesca". In vista delle
elezioni politiche del 1948, tuttavia, si accordò con il segretario della
Democrazia Cristiana, Alcide De Gasperi, per dare vita a un manifesto comune,
Europa, cultura e libertà, contro i totalitarismi passati e presenti. A seguito
della vittoria della DC, replicò severamente ai laici benpensanti schierati col
Fronte Popolare che sbeffeggiavano il ceto umile e contadino di cui era
composto in prevalenza l'elettorato cattolico: «Beneditele quelle beghine
di cui ridete, perché senza il loro voto e il loro impegno oggi non saremmo
liberi.» Nel 1950, lasciando disposizioni per la sua morte (che avverrà
tre anni dopo) scriverà invece che la sensibilità religiosa della moglie
cattolica le consentirà di evitare che un sacerdote tenti di
"redimerlo" all'ultimo minuto, perché è "cosa orrenda profittare
delle infermità per strappare a un uomo una parola che sano egli non avrebbe
mai detta". Croce fu legato
sentimentalmente e convisse con Angelina Zampanelli, fino alla morte di lei. La
coppia prese alloggio a Palazzo Filomarino, a Napoli. Angelina, sofferente di
cuore, morì poco più che quarantenne a Raiano, dove insieme a Croce ella
soggiornava spesso d'estate, presso il Palazzo Rossi-Sagaria, ospiti della
cugina del filosofo, Maria Teresa Petroni, moglie di Valentino Rossi. Croce
sposa a Torino, con rito religioso e poi civile, Adele Rossi, da cui ebbe
cinque figli: Giulio, Elena, Alda, Lidia (moglie dello scrittore e dissidente
anticomunista polacco Gustaw Herling-Grudziński) e Silvia.Il filosofo, oggi,
deve non già fare il puro filosofo, ma esercitare un qualche mestiere, e in
primo luogo, il mestiere dell'uomo.» (Benedetto Croce, Lettere a Vittorio
Enzo Alfieri, Sicilia Nuova Editrice, Milazzo. L'opera di Croce può essere
suddivisa in tre periodi: quello degli studi storici, letterari e il dialogo
con il marxismo, quello della maturità e delle opere filosofiche sistematiche e
quello dell'approfondimento teorico e revisione della filosofia dello spirito
in chiave storicista. Come idealista, ritiene che la realtà sia quella che
viene concepita dal soggetto, in quanto riflesso della sua idea e interiorità,
ed è convinto che la razionalità e la libertà emergano nella storia, pur tra
immani difficoltà. La filosofia idealista riconduce totalmente l'essere al
pensiero, negando esistenza autonoma alla realtà fenomenica, ritenuta il
riflesso di un'attività interna al soggetto; l'idealismo, come in Hegel,
implica una concezione etica fortemente rigorosa, come ad esempio nel pensiero
di Fichte che è incentrato sul dovere morale dell'uomo di ricondurre il mondo
al principio ideale da cui esso ha origine; in Croce questo ideale è la libertà
umana. Definito da Gramsci "papa laico della cultura italiana", a sua
filosofia ha goduto di enorme credito nella cultura italiana del XX secolo,
perlomeno fino agli anni settanta e ottanta, in cui si sono levate molte
critiche verso il suo approccio, ritenuto superato. Croce fu un intellettuale
rispettato anche al di fuori dell'Italia: la rivista Time gli dedicò la
copertina negli anni '30[7], e negli anni 2000, contestualmente alla rivalutazione
del pensiero crociano, si è registrato l'interesse della collana editoriale
dell'Università di Stanford, mentre la rivista statunitense di politica
internazionale Foreign Affairs lo inserì tra i pensatori più attuali tra quelli
del '900, accanto a intellettuali come Isaiah Berlin, Francis Fukuyama e Lev Trotsky.
Parallelamente allo studio del marxismo, Croce approfondisce anche il pensiero
di Hegel; secondo entrambi la realtà si dà come spirito che continuamente si
determina e, in un certo senso, si produce. Lo spirito è quindi la forza
animatrice della realtà, che si auto-organizza dinamicamente divenendo storia
secondo un processo razionale. Da Hegel egli recupera soprattutto il carattere
razionalistico e dialettico in sede gnoseologica: la conoscenza si produrrebbe
allora attraverso processi di mediazione dal particolare all'universale, dal
concreto all'astratto, per cui Croce afferma che la conoscenza è data dal
giudizio storico, nel quale universale e particolare si fondono recuperando la
sintesi a priori di Kant e lo storicismo di Giambattista Vico, suo altro
filosofo di riferimento. Da destra, Giovanni Laterza, Stefano Jacini, Croce e
Luigi De Secly. Il divenire e la logica della dialettica, in Hegel e in Marx, è
esso stesso verità in movimento; anche per Croce la verità è dialettica, ma
occorre esprimere un giudizio storico ed esistono delle regole che arginano la
pretesa giustificativa di ogni fenomeno: in Croce lo Spirito - in quanto
intelletto umano - si realizza nella storia ma nel rispetto della libertà. Per
questo ogni fatto è quindi calato nella realtà storica, ma questo non può
giustificare, con la scusa del divenire e del progresso, aspetti deplorevoli
come, ad esempio, il totalitarismo fascista o comunista, il primo come
necessario (concezione di Giovanni Gentile e della sua idea di realtà come atto
puro di pensare e agire) e il secondo come fase storica obbligata (seguendo il
concetto marxiano della dittatura del proletariato, di cui il filosofo tedesco
parla nella sua teoria "razionalista" del materialismo storico).
Quindi il materialismo dialettico di Engels e quello storico di Marx sono da
ritenersi errati. In questo, il suo storicismo si differenzia dal pensiero di
un altro filosofo liberale, Karl Popper, secondo cui dialettica e storicismo
finiscono invece per generare quasi sempre totalitarismo (concezione assai
diffusa nel pensiero del liberalismo novecentesco). Al contrario di Popper e Arendt,
per Croce la radice totalitaria è proprio nell'antistoricismo, cioè nel rifiuto
dello storicismo stesso. Il neoidealismo entrò in crisi, sostituito da nuove
filosofie come l'esistenzialismo e la fenomenologia; sempre in nome del libertà
e dell'umanesimo, Croce critica l'esistenzialista Martin Heidegger, divenuto
poi anti-umanistico e colpevole di accondiscendenza verso il nazismo,
definendolo anche "un Gentile più dotto e più acuto, ma sostanzialmente
della stessa pasta morale"[79]; esprime così nel 1939 un tagliente
giudizio sul filosofo di Essere e tempo: «Scrittore di generiche sottigliezze,
arieggiante a un Proust cattedratico, egli che, nei suoi libri non ha dato mai
segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia,
dell'etica, della politica, della poesia, dell'arte, della concreta vita
spirituale nelle sue varie forme - quale decadenza a fronte dei filosofi, veri
filosofi tedeschi di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! -, oggi
si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la
storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e
materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come
celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l'unico e
vero attore, l'umanità. [...] E così si appresta o si offre a rendere servigi
filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la
filosofia.» (Conversazioni Critiche, Serie Quinta, Bari, Laterza. L'asserzione
di Hegel che "la storia sia storia di libertà" viene da Croce
inquadrata nella sua concezione dialettica della libertà vista nel suo iniziale
nascere, nel successivo crescere e infine nel raggiungimento di uno stadio
finale e definitivo di maturità.[74] Croce fa proprio questo detto
hegeliano chiarendo però che non si vuole «assegnare alla storia il tema del
formarsi di una libertà che prima non era e che un giorno sarà, ma per
affermare la libertà come l'eterna formatrice della storia, soggetto stesso di
ogni storia. Come tale essa è per un verso, il principio esplicativo del corso
storico e, per l'altro, l'ideale morale dell'umanità». I popoli e gli individui
anelano sempre alla libertà, e come dice Hegel «ciò che è razionale è reale»
(cioè la ragione concepisce quello che può diventare reale) e «ciò che è reale
è razionale» (cioè esiste un'intrinseca razionalità, anche minima, in ogni
fenomeno storico, anche se non tutto il reale è ovviamente razionale). Alcuni
storici, senza ben rendersi conto di quello che scrivono, sostengono che ormai
la libertà ha abbandonato la scena della storia. Ma affermare che la libertà è
morta vorrebbe dire che è morta la vita. Non esiste nella storia un ideale che
possa sostituire quello della libertà «che è l'unica che faccia battere il
cuore dell'uomo, nella sua qualità di uomo». Ciò significa che la libertà non è
una fase di presa di coscienza che conduce allo Stato etico o al socialismo,
venendo superata, ma è essa stessa la verità nel divenire, non una fase. Egli
critica Hegel, poiché secondo lui il filosofo ha concepito la dialettica in
modo riduttivo, ovvero semplicemente come dialettica degli opposti, mentre
secondo Croce sussiste anche una logica dei distinti: non ogni negazione è
infatti opposizione, ma può essere semplice distinzione. Ciò significa che
certi atti ed eventi devono essere sempre considerati appunto distinti rispetto
ad altri ordini di atti ed eventi, e non ad essi opposti. Elabora, quindi, un
vero e proprio sistema, da lui denominato la filosofia dello spirito. Inoltre,
la prima importante differenza con Hegel è che nel sistema crociano non vi
rientra né la religione, né la natura. La religione sarebbe infatti un
complesso miscuglio di elementi poetici, morali e filosofici che le impediscono
di presentarsi come forma autonoma dello Spirito. La natura poi non è altro che
l'oggetto "mascherato" dell'attività economica, è il frutto della
considerazione economica diretta al mondo. Qui la realtà in quanto attività
(ovvero produzione dello spirito o della storia) è articolata in quattro forme
fondamentali, suddivise per modo (teoretico o pratico) e grado (particolare o
universale): estetica (teoretica - particolare), logica (teoretica-universale),
economia (pratica - particolare), etica (pratica - universale). La relazione
tra queste quattro forme opera la suddetta logica dei distinti, mentre
all'interno di ognuna di esse si ha la dialettica degli opposti.[73]
All'interno dell'estetica infatti si ha opposizione dialettica tra bello e
brutto, all'interno della logica, l'opposizione è tra vero e falso; nella
economia tra utile e inutile e infine nell'etica tra bene e male. Estetica
Croce scrisse anche importanti opere di critica letteraria (saggi su Goethe, Ariosto,
Shakespeare e Corneille, "La letteratura della nuova Italia" e
"La poesia di Dante"). Egli si mosse nell'ambito della sua teoria
estetica che mirava alla scoperta delle motivazioni profonde dell'ispirazione
artistica. Quest'ultima era ritenuta tanto più valida quanto più coerente con
le categorie di bello-brutto. La prima parte della teoria estetica la
ritroviamo in opere come Estetica come scienza dell'espressione e linguistica
generale, Breviario di estetica e Aesthetica in nuce. In seguito modificò
questa iniziale teoria stabilendo per la storia un nesso con la filosofia.
L'estetica, dal significato originario del termine aisthesis (sensazione), si
configura in primo luogo come attività teoretica relativa al sensibile, si
riferisce alle rappresentazioni e alle intuizioni che noi abbiamo della
realtà. Come conoscenza del particolare l'intuizione estetica è la prima
forma della vita dello Spirito. Prima logicamente e non cronologicamente poiché
tutte le forme sono presenti insieme nello spirito. L'arte, come aspetto
dell'Estetica, è una forma della vita spirituale che consiste nella conoscenza,
intuizione del particolare che: come forma dello spirito, come creatività
non è sensazione, conoscenza sensibile che è un aspetto passivo dello spirito
rispetto ad una materia oscura e ad esso estranea; come conoscenza (prima forma
dell'attività teoretica) non ha a che fare con la vita pratica. Bisogna quindi
respingere tutte le estetiche che abbiano fini edonistici, sentimentali e
moralistici; quale espressione di un valore autonomo dello spirito, l'arte non
può né deve essere giudicata secondo criteri di verità, moralità o godimento;
come intuizione pura va distinta dal concetto che è conoscenza dell'universale:
compito proprio della filosofia. L'arte può essere definita quindi come
intuizione-espressione, due termini inscindibili per cui non è possibile
intuire senza esprimere né è possibile espressione senza intuizione. Ciò che
l'artista intuisce è la stessa immagine (pittorica, letteraria, musicale ecc.)
che egli per ispirazione crea da una considerazione del reale, nel senso che
l'opera artistica è l'unità indifferenziata della percezione del reale e della
semplice immagine del possibile. La distinzione tra arte e non arte risiede nel
grado di intensità dell'intuizione-espressione. Tutti noi intuiamo ed
esprimiamo: ma l'artista è tale perché ha un'intuizione più forte, ricca e
profonda a cui sa far corrispondere un'espressione adeguata. Coloro che
sostengono di essere artisti potenziali poiché hanno delle intense intuizioni
ma che non sono capaci di tradurre in espressioni, non si rendono conto che in
realtà non hanno alcuna intuizione poiché se la possedessero veramente essa si
tradurrebbe in espressione. L'arte non è aggiunta di una forma ad un contenuto
ma espressione, che non vuol dire comunicare, estrinsecare, ma è un fatto
spirituale, interiore come l'atto inscindibile da questa che è l'intuizione.
Nell'estetica dobbiamo far rientrare anche quella forma dell'espressione che è
il linguaggio che nella sua natura spirituale fa tutt'uno con la poesia.
L'estetica quindi come una «linguistica in generale». Dall'estetica deriva la
critica letteraria crociana, espressa in molti saggi. Della logica, Croce
tratta essenzialmente nella Logica come scienza del concetto puro[83]); essa
corrisponde al momento in cui l'attività teoretica non è più affidata alla sola
intuizione (all'ambito estetico), ma partecipa dell'elemento razionale, che
attinge dalla sfera dell'universale. Il punto di arrivo di questa attività è
l'elaborazione del concetto puro, universale e concreto che esprime la verità
universale di una determinazione. La logica crociana è anche storica, nella
misura in cui essa deve analizzare la genesi e lo sviluppo (storico) degli
oggetti di cui si occupa. Il termine logica in Benedetto Croce assume quindi un
significato più vicino al termine dialettica ovvero ricerca storiografica. In
genere, la Logica di Croce è lontana da criteri scientifico-razionali, e si
ispira ai metodi dell'immaginazione artistica e dell'eleganza
estetico-letteraria, nei quali il filosofo raggiunge risultati eccellenti. Di
carattere decisamente diverso è invece la filosofia delle scienze fisiche,
matematiche e naturali delle quali Croce non si occupa affatto nei suoi studi.
Del resto, come segnala Geymonat nel suo Corso di filosofia - immagini
dell'uomo, «la vera indubbia grandezza di Croce va cercata assai più nella sua
opera di storiografo, di critico letterario, ecc., che non nella sua opera di
filosofo. Gentile ai tempi del direttorato alla Scuola normale di Pisa. In ogni
caso la logica e la filosofia della scienza è stata sviluppata in Italia da
altre correnti di pensiero contemporaneo a quello crociano, con studiosi fra quali
Peano e lo stesso Geymonat. Un orientamento parzialmente diverso ebbe invece
Giovanni Gentile che, pur criticando gli eccessi del positivismo, intrattenne
anche rapporti con matematici e fisici italiani e cercò di instaurare un rapporto
costruttivo con la cultura scientifica. Invece Croce ebbe con la logica e la
scienza un rapporto difficile. La sua posizione portò in Italia nella prima
metà del Novecento ad uno scontro dialettico fra due culture contrapposte:
quella artistico-letteraria e quella tecnico-scientifica. Il rapporto
conflittuale con le scienze matematiche e sperimentali Un caso emblematico del
giudizio di Benedetto Croce nei confronti della matematica e delle scienze
sperimentali è la sua nota diatriba con il matematico e filosofo della scienza
Federigo Enriques, avvenuta il 6 aprile 1911 in seno al congresso della Società
Filosofica Italiana, fondata e presieduta dallo stesso Enriques. Questi
sosteneva che una filosofia degna di una nazione progredita non potesse ignorare
gli apporti delle più recenti scoperte scientifiche. La visione di Enriques mal
si confaceva a quella idealistica di Croce e Gentile, come pure a gran parte
degli esponenti della filosofia italiana di allora, per lo più formata da
idealisti crociani. Croce, in particolare, rispose ad Enriques[84],
liquidando in modo deciso - "antifilosofico" secondo Enriques - la
proposta di considerare la scienza come un valido apporto alle problematiche
filosofiche e sostenendo, anzi, che matematica e scienza non sono vere forme di
conoscenza, adatte solo agli «ingegni minuti» degli scienziati e dei tecnici,
contrapponendovi le «menti universali», vale a dire quelle dei filosofi
idealisti, come Croce medesimo. I concetti scientifici non sono veri e propri
concetti puri ma degli pseudoconcetti, falsi concetti, degli strumenti pratici
di costituzione fittizia. «La realtà è storia e solo storicamente la si
conosce, e le scienze la misurano bensì e la classificano come è pur
necessario, ma non propriamente la conoscono né loro ufficio è di conoscerla
nell'intrinseco. Sul tema Benedetto Croce sostenne, tra l'altro, che:
«Gli uomini di scienza [...] sono l'incarnazione della barbarie mentale,
proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di
notizie all'organismo filosofico-storico.» (Benedetto Croce da Il
risveglio filosofico e la cultura italiana, A proposito dello sviluppo
novecentesco della logica matematica e dell'introduzione dei formalismi
simbolici, ad opera di matematici e filosofi quali Gottlob Frege, Giuseppe
Peano, Bertrand Russell, Benedetto Croce dichiarerà: «I nuovi congegni
[della logica matematica] sono stati offerti sul mercato: e tutti, sempre, li
hanno stimati troppo costosi e complicati, cosicché non sono finora entrati né
punto né poco nell'uso. Vi entreranno nell'avvenire? La cosa non sembra
probabile e, ad ogni modo, è fuori della competenza della filosofia e
appartiene a quella della pratica riuscita: da raccomandarsi, se mai, ai
commessi viaggiatori che persuadano dell'utilità della nuova merce e le
acquistino clienti e mercati. Se molti o alcuni adotteranno i nuovi congegni
logici, questi avranno provato la loro grande o piccola utilità. Ma la loro
nullità filosofica rimane, sin da ora, pienamente provata.» (Benedetto Croce
da Logica come scienza del concetto puro,Anni dopo, ancora scriveva che:
«Le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona grazia, hanno ceduto
alla filosofia il privilegio della verità, ed esse rassegnatamente, o
addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono concetti di comodo
e di pratica utilità, che non hanno niente da vedere con la meditazione del
vero.» (Benedetto Croce da Indagini su Hegel e e schiarimenti filosofici e
ribadiva come: «Le finzioni delle scienze naturali e matematiche
postulano di necessità l'idea di un'idea che non sia finta. La logica, come
scienza del conoscere, non può essere, nel suo oggetto proprio, scienza di
finzioni e di nomi, ma scienza della scienza vera e perciò del concetto
filosofico e quindi filosofia della filosofia.» (Benedetto Croce da
Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici. Tuttavia ebbe altresì un cordiale
e rispettoso scambio epistolare con Albert Einstein. Secondo diversi storici e
filosofi (es. Giorello, Bellone, Massarenti), l'influenza antiscientifica di
Croce e di Gentile[90] sarebbe stata fortemente deleteria sia sul piano
dell'istituzione scolastica per gli orientamenti pedagogici della scuola
italiana, che si sarebbe indirizzata prevalentemente agli studi umanistici
considerando quelli scientifici di secondo piano, sia per la formazione di una
classe politica e dirigente che attribuisse importanza alla scienza e alla
tecnica e portando, per conseguenza, ad un ritardo dello sviluppo tecnologico e
scientifico nazionale. «[La scuola] sarà caratterizzata dal primato
dell'umanesimo letterario e in particolare dell'umanesimo classico. Tutte le
istituzioni culturali saranno improntate al primato delle lettere, della filosofia
e della storia. Giorello nel quarantennale della morte di Croce ha scritto che
"predicò la religione della libertà e per questo gli siamo riconoscenti.
Ma la sua condanna della scienza e la sua estetica hanno causato danni
gravissimi alla nostra cultura. Che ora esige riparazione. Lo stesso Giorello però ha in parte ritrattato
l'affermazione, negando che sia da attribuire a Croce il mancato sviluppo
scientifico italiano, adducendo che quelle che lui considerava una
"colpa" sarebbero da accreditare maggiormente alla Chiesa, agli
scienziati stessi e alla classe politica, più che all'idealismo, che trascura
le scienze ma nemmeno le ostacola, definendo la filosofia di Croce
«interessante sotto altri profili, ma poco interessante, quando si parla di
scienza. Croce riteneva le scienze umane e sociali prive di qualunque validità
e del tutto inutili per lo studio dei fenomeni umani. Lui stesso dichiarò più
volte di non riuscire a capire perché si dovesse sprecare del tempo a studiare
«i cretini, i bambini e i selvaggi, quando esistono pensatori come Kant. ilosofia
della pratica «La legge morale è la suprema forza della vita e la realtà della
Realtà.» (Filosofia della pratica. Etica ed economica, Laterza, Bari)
Economia ed etica vengono trattate in Filosofia della pratica. Economica ed
etica. Croce dà molto rilievo alla volizione individuale che è poi l'economia,
avendo egli un forte senso della realtà e delle pulsioni che regolano la vita
umana. L'utile, che è razionale, non sempre è identico a quello degli altri:
nascono allora degli utili sociali che organizzano la vita degli individui. Il
diritto, nascendo in questo modo, è in un certo qual senso amorale, poiché i
suoi obiettivi non coincidono con quelli della morale vera e propria.
Egualmente autonoma è la sfera politica, che è intesa come luogo di
incontro-scontro tra interessi differenti, ovvero essenzialmente conflitto,
quello stesso conflitto che caratterizza il vivere in generale. Croce critica
anche l'idea di Stato etico elaborata da Hegel ed estremizzata da Gentile: lo
Stato non ha nessun valore filosofico e morale, è semplicemente l'aggregazione
di individui in cui si organizzano relazioni giuridiche e politiche. L'etica è
poi concepita come l'espressione della volizione universale, propria dello
spirito; non vi è un'etica naturale o un'etica formale, e dunque non vi sono
contenuti eterni propri dell'etica, ma semplicemente essa è l'attuazione dello
spirito, che manifesta in modo razionale atti e comportamenti particolari.
Questo avviene sempre in quell'orizzonte di continuo miglioramento umano. Teoria
e storia della storiografia «La storia non è giustiziera, ma
giustificatrice» (Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia) La
storia e lo spirito: lo storicismo assoluto Giambattista Vico Come si
evince anche da Teoria e storia della storiografia la filosofia di Croce,
ispirata soprattutto a Giambattista Vico, è fortemente storicista. Per ciò, se
volessimo riassumere con una formula la filosofia di Croce, questa sarebbe
storicismo assoluto, ossia la convinzione che tutto è storia, affermando che
tutta la realtà è spirito e che questo si dispiega nella sua interezza
all'interno della storia. La storia non è dunque una sequela capricciosa di
eventi, ma l'attuazione della Ragione. La conoscenza storica ci illumina a
proposito delle genesi dei fatti, è una comprensione dei fatti che li giustifica
con il suo dispiegarsi. Si delinea in quest'ottica il compito dello storico:
egli, partendo dalle fonti storiche, deve superare ogni forma di emotività nei
confronti dell'oggetto studiato e presentarlo in forma di conoscenza. In questo
modo la storia perde la sua passionalità e diviene visione logica della realtà.
Quanto appena affermato si può evincere dalla celebre frase «la storia non è
giustiziera, ma giustificatrice». Con questo afferma che lo storico non giudica
e non fa riferimento al bene o al male. Quest'ultimo delinea, inoltre, come la
storia abbia anche un preciso orizzonte gnoseologico, poiché in primo luogo è
conoscenza, e conoscenza contemporanea, ovvero la storia non è passata, ma viva
in quanto il suo studio è motivato da interessi del presente. Il bisogno
pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il
carattere di "storia contemporanea", perché, per remoti e remotissimi
che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia
sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti
propagano le loro vibrazioni.La storiografia è in seconda istanza utile per
comprendere l'intima razionalità del processo dello spirito, e in terzo luogo
essa è conoscenza non astratta, ma basata su fatti ed esperienze ben precise.
Anche se subisce l'influsso dello storicismo di Voltaire, Croce critica gli
illuministi e in generale tutti coloro che pretendono di individuare degli
assoluti che regolino la storia o la trascendano: invece la realtà è storia
nella sua totalità, e la storia è la vita stessa che si svolge autonomamente,
secondo i propri ritmi e le proprie ragioni. La storia è un cammino
progressivo per cui «Nulla c'è al di fuori dello spirito che diviene e
progredisce incessantemente: nulla c'è al di fuori della storia che è per
l'appunto questo progresso e questo divenire. Ma il positivo destinato a
superare storicamente la negatività dei periodi bui della storia non è una
certezza su cui adagiarsi: questa consapevolezza del progresso storico deve
essere confermata da un impegno costante degli uomini in azioni i cui risultati
non sono mai scontati né prevedibili. La storia diviene, allora, anche storia
di libertà, dei modi in cui l'uomo promuove e realizza al meglio la propria
esistenza. La libertà si traduce, sul piano politico, in liberalismo: una sorta
di religione della libertà o di metodo interpretativo della storia e di
orientamento dell'azione, che è imprescindibile nel processo del progresso
storico-politico, come si evince dal volume del 1938 La storia come pensiero e
come azione Per Croce la libertà può essere apprezzata solo difendendola
costantemente in maniera dialettica, poiché la storia è necessariamente
contrasto. Chi desideri in breve persuadersi che la libertà non può vivere
diversamente da come è vissuta e vivrà sempre nella storia, di vita pericolosa
e combattente, pensi per un istante a un mondo di libertà senza contrasti,
senza minacce e senza oppressioni di nessuna sorta; e subito se ne ritrarrà
inorridito come dall'immagine, peggio che della morte, della noia
infinita.» (La storia come pensiero e come azione). Ciò però non vuol
dire che Croce giustifichi la violenza come necessaria; nello stesso saggio
ammonisce infatti che «la violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere
creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla». La concezione
storica crociana ebbe grande seguito in Italia per molto tempo ed ebbe notevole
influenza anche all'estero, ad esempio per quanto riguarda la formazione del
maggior storico americano del nazismo, George Mosse. Croce interviene al
congresso liberale. Croce critico letterario, specie quello di Poesia e non
poesia, esercitò molta influenza successiva, quasi una "dittatura
intellettuale sulla cultura italiana, ma ricevette anche critiche: ad esempio
furono ritenute scorrette, "pseudoconcetti" (riprendendo una parola
usata da Croce), poiché non presentate come opinione personale ma come veri
canoni estetici, varie tesi, come la sua opposizione alle novità letterarie
europee, esemplificate dalle stroncature verso gran parte dell'opera di
Gabriele D'Annunzio, Giovanni Pascoli (di cui apprezzò solo alcune parti di
Myricae e dei Canti di Castelvecchio criticando i saggi e le poesie civili),
del crepuscolarismo e di Giacomo Leopardi: di quest'ultimo salvò, nei Canti,
gli idilli e i canti pisano-recanatesi, ma criticò le poesie
"dottrinali" e polemiche (in particolare i Paralipomeni della
Batracomiomachia e la Palinodia al marchese Gino Capponi) e le opere
filosofiche (apprezzò solo una minima parte delle Operette morali), affermando
che quella leopardiana non era vera filosofia, ma solo uno sfogo poetico in
prosa, inferiore comunque alle liriche, dovuto esclusivamente alle condizioni
fisiche e psicologiche del poeta recanatese. Croce non considera Leopardi un
vero filosofo, come Schopenhauer, a cui invece riconosce dignità filosofica ma
che non apprezza come individuo poiché ritenuto cinico e indifferente, ma solo
un pensatore, il cui pensiero è essenzialmente al servizio della sua poesia.
Sulla scorta di Francesco de Sanctis, esprime simpatia umana al poeta
recanatese per lo spirito civile, l'impegno e la lotta eroica contro le
sofferenze fisiche, come espresso nella poesia La Ginestra. Egli fu grande
ammiratore soprattutto del Carducci, in quanto classicista, razionale e
sentimentale al tempo stesso, ma senza scadere nel sentimentalismo irrazionale,
e, a proposito del decadentismo e degli autori di questo movimento, scrisse, in
Del carattere della più recente letteratura italiana: «Nel passare da Giosuè
Carducci a questi tre, sembra, a volte, come di passare da un uomo sano a tre
malati di nervi». La polemica contro il decadentismo è figlia di quella contro
il positivismo: Croce sostiene che il misticismo decadente, che egli disapprova
come sintomo di vuoto spirituale e filosofico (Croce è razionalista e idealista
al tempo stesso), è figlio dello scientismo positivistico e delle pseudoscienze
da esso generate (come lo spiritismo): «Di qua il positivismo, di fronte il
misticismo; perché questo è figlio di quello: un positivista dopo la gelatina
dei gabinetti, non credo abbia altro di più caro che l'inconoscibile, cioè la
gelatina dove si coltiva il microbio del misticismo». Le opere di Croce
spaziano dalla filosofia, alla storiografia, all'aneddotica, alla critica
letteraria e all'erudizione storica. Qui si indicano le più importanti. Per un
elenco completo si veda L'opera di Benedetto Croce, bibliografia a cura di S.
Borsari, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, I principi
dell'estetica crociana, oltre ad essere formulati in opere organiche, trovarono
anche applicazione critica in prefazioni e curatele di opere altrui. Tale è, ad
esempio, la prefazione all'opera di Tommaso Parodi, Poesia e letteratura:
conquista di anime e studi di critica, pubblicata postuma nel 1916 da Laterza,
a cura del Croce. Il filosofo napoletano collaborò inoltre con numerosi
articoli su vari argomenti pubblicati su molti giornali e riviste stranieri e
italiani (Cfr. Panetta, Settant'anni di militanza: Croce, tra riviste e
quotidiani) Ad esempio la sua collaborazione con il quotidiano Il Resto del
Carlino durò per più di 40 anni. Filosofia dello spirito Estetica come scienza
dell'espressione e linguistica generale Logica come scienza del concetto puro
Filosofia della pratica. Economica ed Etica Teoria e storia della storiografia;
Problemi di estetica e contributi alla storia dell'estetica italiana La
filosofia di Vico Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della
filosofia Materialismo storico ed economia marxistica Nuovi saggi di estetica
Etica e politica. La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e
della letteratura La storia come pensiero e come azione Il carattere della
filosofia moderna Discorsi di varia filosofia; Filosofia e storiografia; Indagini
su Hegel e schiarimenti filosofici; Perché non possiamo non dirci
"cristiani"; Primi saggi Cultura e vita morale L'Italia. Pagine sulla
guerra Pagine sparse; Nuove pagine sparse; Terze pagine sparse; Scritti e
discorsi politici; Carteggio Croce-Vossler; B. Croce - G. Papini, Carteggio; Il
caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana; Saggi sulla
letteratura italiana del Seicento La rivoluzione napoletana del 1799 La
letteratura della nuova Italia; I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine
del secolo decimottavo La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza
Conversazioni critiche Storie e leggende napoletane Manifesto degli
intellettuali antifascisti Goethe Una famiglia di patrioti ed altri saggi
storici e critici Ariosto, Shakespeare e Corneille Storia della storiografia
italiana nel secolo decimonono; La poesia di Dante Poesia e non poesia Storia
del Regno di Napoli Uomini e cose della vecchia Italia Storia d'Italia; Storia
dell'età barocca in Italia Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento
Storia d'Europa nel secolo decimonono Poesia popolare e poesia d'arte Varietà
di storia letteraria e civile Vite di avventure, di fede e di passione Poesia
antica e moderna Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento La
letteratura italiana del Settecento Letture di poeti e riflessioni sulla teoria
e la critica della poesia Aneddoti di varia letteratura Isabella di Morra e
Diego Sandoval de Castro Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in
corso di pubblicazione l'edizione nazionale delle opere di Benedetto Croce,
promossa con Decreto del Presidente della Repubblica. Eugenio Montale, Tutte le
poesie, Milano, Mondadori, Enciclopedia italiana Treccani alla voce
"neoidealismo" Emanuele
Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, Milano,
Rizzoli, Giulio Giorello, Dimenticare Croce?
Benedetto Croce - Senato Partito
Liberale Italiano «nato nel 1924, sciolto durante il fascismo e ricostituito».
In Enciclopedia Treccani alla voce "Partito Liberale Italiano"
Pagina jpg del Corriere del Mezzogiorno: Luigi Mosca, L'America innamorata di
Croce. La prestigiosa rivista USA "Foreign Affairs" lo incorona tra i
pensatori più attuali, Einaudi infatti sosteneva che «il liberismo non è né
punto né poco "un principio economico", non è qualcosa che si
contrapponga al liberalismo etico; è una "soluzione concreta" che
talvolta e, diciamo pure, abbastanza sovente, gli economisti danno al problema,
ad essi affidato, di cercare con l’osservazione e il ragionamento quale sia la
via più adatta, lo strumento più perfetto per raggiungere quel fine o quei
fini, materiali o spirituali che il politico o il filosofo, od il politico
guidato da una certa filosofia della vita ha graduato per ordine di importanza
subordinandoli tutti al raggiungimento della massima elevazione umana.» (in
G.Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia politica, a cura di E. Rossi, Il
filosofo, rispettivamente nel 1919 e nel 1922, dedica ai paesi degli avi, sia
paterni che materni, due monografie, intitolate Montenerodomo: storia di un
comune e due famiglie e Pescasseroli, uscite per Laterza e in seguito collocate
in appendice alla Storia del Regno di Napoli (Laterza, Bari). È noto, a tal proposito, l'aneddoto narrato
in un testo coevo, secondo il quale il padre del filosofo, prima di morire tra
le macerie, avrebbe detto al figlio «offri centomila lire a chi ti salva». Cfr.
C. Del Balzo, Cronaca del tremuoto di Casamicciola, Tip. De Blasio e C.,
Napoli, Un'analisi di quella traumatica esperienza anche in relazione all'opera
di Croce è in S. Cingari, Il giovane Croce. Una biografia etico-politica,
Rubbettino, Soveria Mannelli, Il problema del male nell’indagine di Cucci. Testimonianza
di Croce sul terremoto Benedetto Croce,
Memorie della mia vita, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli
1966. "Il superstite è accolto
allora nella casa romana del politico Silvio Spaventa, cugino del padre e
fratello del filosofo Bertrando. Il lutto, lo spaesamento, l’adolescenza: non
stupisce che questa miscela abbia precipitato il giovane in una crisi
d’ipocondria; e l’ostentato contegno olimpico dell’adulto deriva forse da
questo periodo oscuro. «Quegli anni», confessa l’autore del Contributo, furono
«i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia
fortemente bramato di non svegliarmi al mattino». Nella Roma del trasformismo,
Benedetto si chiude in biblioteca. Ma a scuoterlo è Antonio Labriola, che con
le lezioni sull’etica di Herbart gli offre un appiglio cui aggrapparsi nel
naufragio della fede. Croce ricorda di averne recitato più volte i capisaldi
sotto le coperte, come una preghiera": v. A cento anni dal “Contributo” di
Croce, di Matteo Marchesini, Sole 24 ore, Dizionario biografico degli italiani,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Ministri della Pubblica Istruzione, su storia.camera. Ultimo Governo Giolitti, su storia.camera. A. Jannazzo, Croce e la corsa verso la
guerra, in Idem, Croce e il prepartito degli intellettuali, Edizioni La Zisa,
Palermo, Giorgio Levi della Vida, Fantômes retrouvés, Diogène, Antonio Gnoli,
Benedetto Croce e il suo fantasma, in la Repubblica, Camera dei deputati -
Portale storico Giugno 1924; citato in
G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia, Salvatore Guglielmino/Hermann
Grosser, Il sistema letterario. Guida alla storia letteraria e all'analisi
testuale: Novecento; Casa Editrice G. Principato S.p.A., . Salvatore Guglielmino/Hermann Grosser, Sambugar,
Salà, Letteratura italiana, Croce e il manifesto antifascista. Primo Levi, Potassio, in Il sistema
periodico, poi in Opere, Torino, Einaudi, «La più efficace difesa della civiltà
e della cultura si è avuta in Italia, per opera di Benedetto Croce. Se da noi
solo una frazione della classe colta ha capitolato di fronte al nemico a
differenza di quel che è avvenuto in Germania, moltissimo è dovuto al Croce. (Guido
De Ruggiero) Osserva Nicola Abbagnano nella sua Storia della filosofia: «Il
regime fascista, certo per costituirsi un alibi di fronte agli ambienti
internazionali della cultura, consentì tacitamente a Croce una certa libertà di
critica politica; e Croce si avvalse di questa possibilità [...] per una difesa
degli ideali di libertà... Negli anni del fascismo e della seconda guerra
mondiale la figura di Croce ha assunto perciò, agli occhi degli italiani, il
valore di un simbolo della loro aspirazione alla libertà, e ad un mondo in cui
lo spirito prevalga sulla violenza. E tale si mantiene a distanza di anni. Il
terzo volume del carteggio tra Croce e Laterza (l'editore delle opere crociane)
offre una grande quantità di esempi delle difficoltà di mantenersi in
equilibrio “tra l'opposizione concreta e organizzata al fascismo, e l'adesione
o la cinica indifferenza”. Esempi “quasi tutti orientati però verso una precisa
direzione: quella dell'autocensura, a volte praticata, altre volte
orgogliosamente respinta... Tra i molti casi che potrebbero essere citati a
illustrazione di questo atteggiamento, è notevole quello sorto attorno alla
dedica apposta da Paolo Treves, nel libro sulla filosofia di Tommaso
Campanella, al padre Claudio, scrittore e parlamentare socialista, famigerato
tra i fascisti soprattutto per il celebre duello ingaggiato con Mussolini. La
dedica recitava: “A mio padre, che mi additò con l'esempio la dignità della
vita”. Laterza scrive a Croce accostando, con diplomatica sottigliezza, la
lettura di un volgare trafiletto anticrociano e antilaterziano sul “Lavoro
fascista” alla questione della dedica, che egli propone al Treves di limitare
“alle prime tre parole essenziali, non essendo opportuno motivarla allo stato
attuale delle cose”. Alla lettera Croce risponde il giorno dopo,
tranquillizzando Laterza sulla “purezza” del lavoro storico del Treves e sull'assenza
in esso di riferimenti al presente, e aggiungendo, con maliziosa e retorica
ingenuità: “ma veramente non capisco perché vi abbia fatto senso quella dedica
affettuosa di un figlio al padre. O che la dignità della vita (il corsivo è
ovviamente di Croce) è un fatto politico del giorno?”. Comunque sia, la dedica
uscì poi nella versione “purgata”. Maurizio Tarantino, recensione a Benedetto
Croce-Giovanni Laterza, Carteggio, a c. di Antonella Pompilio, Napoli,
Roma-Bari, Istituto italiano per gli studi storici, Laterza, “L'indice”. L'episodio è narrato con dovizia
di particolari in una lettera di Fausto Nicolini a Giovanni Gentile riportata
da Gennaro Sasso in Per invigilare me stesso, Bologna, Il mulino, Alessandro
Barbera (a cura di), La biblioteca esoterica. Carteggi editoriali Evola-Croce-Laterza,
Roma, Fondazione Julius Evola, Cesare Medail, Julius Evola: mi manda Don Benedetto,
in Corriere della Sera, Cfr. la prefazione del testo Lettere di Julius Evola a
Croce. Regio Decreto Legge, Disposizioni sull'istruzione superiore (pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Flavio Fiorani, Francesca Tacchi,
Storia illustrata del fascismo, Giunti Editore, 2000,91 La Repubblica, Giuseppe Giarrizzo rivendicò
con una punta di orgoglio l'essere annoverato tra i “nipotini” di Croce (se,
nel corso di uno sgradevole scontro, sono stato per Ernesto De Martino un
«basco verde di Palazzo Filomarino. Giarrizzo, Giuseppe, Di Benedetto Croce e
del filosofare sine titulo, Archivio di storia della cultura: Napoli: Liguori, si veda: Antonio Gramsci, Il materialismo
storico e la filosofia di Benedetto Croce
B. Croce, Epistolario, I, Napoli, Istituto italiano per gli studi
storici, La vicenda è descritta e analizzata da Gennaro Sasso, La guerra
d'Etiopia e la “patria”, in Per invigilare me stesso, Bologna, Il mulino, Pierluigi
Battista, Corriere della Sera, B. Croce, Taccuini di lavoro, Napoli, La
tentazione antisemita di tre antifascisti liberali Dante Lattes, Ferruccio Pardo, Benedetto
Croce e l'inutile martirio d'Israele. L'ebraismo secondo B. Croce e secondo la
filosofia crociana Michele Sarfatti, Il
ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda
guerra mondiale, pag. 111 Peter
Tompkins, L'altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di
liberazione nel racconto di un protagonista, Il Saggiatore, Croce rimase fermo
sulle sue posizioni: l'unica condizione alla quale i partiti antifascisti
dell'opposizione avrebbero accettato di entrare nel governo di Badoglio era
l'abdicazione di Vittorio Emanuele III. Era stato il re, disse Croce, ad aprire
le porte al fascismo, favorendolo, appoggiandolo e servendolo per vent'anni». Tompkins, Piero Operti, Lettera aperta a
Benedetto Croce, Torino, Lattes, Giuseppe Mazzini (1948), poi in Scritti e
discorsi politici, II, Bari, Laterza, 1963,451; sulle caratteristiche
"affettive" del pronunciamento di Croce al referendum, vedi Fulvio
Tessitore, Il percorso psicologico dalla monarchia alla repubblica attraverso i
Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, in Benedetto Croce e la nascita della
Repubblica. Atti del convegno tenutosi presso il Senato della Repubblica,
Soveria Mannelli, Rubbettino, "non
sono veri liberali...coloro che si fregiano, come ora taluni hanno preso a
fare, del nome di monarchici, perché il liberalismo non ha altro fine che
quello di garantire la libertà" e se "la forma Repubblicana gli offre
questa...garanzia quando non gliene offre sicura la monarchia, sarà anche
eventualmente repubblicano" (Taccuini di lavoro; "se il tentativo la
duplice abdicazione di Vittorio Emanuele III e di Umberto II] fallisse, noi
sosterremo il partito della Repubblica, adoperandoci a farla sorgere temperata
e non sfrenata, sennata e non dissennata" (Taccuini di lavoro. Benedetto
Croce, mai nominato, formalmente rifiutò prima ancora che la sua ventilata
nomina potesse concretizzarsi.» (In Davide Galliani, Il Capo dello Stato e le
leggi, Volume 1, Giuffrè Editore, Ente Morale, su UniSOB.na. URL consultato il
30 ottobre 2018. Senato della
Repubblica-Cinecittà Luce, Il filosofo della libertà: Napoli - il funerale di
Benedetto Croce B. Croce, Maria
Curtopassi, Dialogo su Dio: carteggio 1941-1952, Archinto, Il carteggio fra
Croce e Maria Curtopassi è stato pubblicato presso la casa editrice Archinto da
Giovanni Russo, autore anche della nota introduttiva, Maurizio Griffo, Il
pensiero di Benedetto Croce tra religione e laicità. La citazione è tratta da:
B. Croce, Taccuini di lavoro, vol. 6, Napoli. Croce, Perché non possiamo non
dirci anticoncordatari. Discorso contro i patti lateranensi, tratto da:
Benedetto Croce, Discorsi parlamentari, Bardi editore, Roma, Atti parlamentari
della Camera: Guido Verucci, Idealisti all'Indice. Croce, Gentile e la condanna
del Sant'Uffizio, Laterza, Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei
viventi, Il Saggiatore, Milano, La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e
Filosofia diretta da B. Croce, Il ministro dell'Educazione Nazionale, Giuseppe
Bottai alluse ironicamente all'operetta crociana con un articolo intitolato
Benedetto Croce rincristianito per dispetto (In Ruggiero Romano, Paese Italia:
venti secoli di identità, Donzelli Editore,Perché non possiamo non dirci
"cristiani, in La Critica, 20 novembre 1942; poi in Discorsi di varia
filosofia, Laterza, Bari 1945 B. Croce,
M. Curtopassi, Dialogo su Dio. Carteggio op.cit. ibidem. F.Focher, Rc. a F. Capanna, La religione in
Benedetto Croce. Il momento della fede nella vita dello spirito e la filosofia
come religione, Bari 1965, in Rivista di studi crociati, Sandro Magister, Colloquio
con Vittorio Foa (Da l'Espresso, Documenti)
In Vittorio Messori, Pensare la storia: una lettura cattolica dell'avventura
umana, Paoline,Nello Ajello, Solo per amore, "La Repubblica, Gennaro
Sasso, Per invigliare me stesso, Bologna, Il mulino, 1989,36-9 Nel registro mortuario di Raiano, vicino a
L'Aquila, viene indicata erroneamente come "moglie del senatore Benedetto
Croce" Benedetto Croce e l'amore
Ottaviano Giannangeli, Benedetto Croce a Raiano, in "L'Osservatore
politico letterario", Milano-Roma, n. 10, ottobre 1964 Morta Alda Croce, figlia di Benedetto
Croce È morta Silvia Croce l'ultima nata
del filosofo Morta Lidia, l'ultima
figlia ancora vivente di Benedetto Croce. Si è spenta a Napoli a 93 anni
Il pensiero filosofico di Benedetto Croce - senato B. Croce, La storia
come pensiero e come azione, Laterza, Bari Saggio sullo Hegel Croce, da "papa laico" a grande
dimenticato Renzo Grassano, La filosofia
politica di Karl Popper: 1 - La critica della dialettica hegeliana e dello
storicismo; commento a La società aperta e i suoi nemici e Miseria dello
storicismo di Popper Croce e il
totalitarismo Carteggio
Croce-Omodeo Georg Wilhelm Friedrich
Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano In opposizione al
positivismo che voleva riportare la storia ad una forma della scienza, Croce si
era interessato dell'estetica nella quale avrebbe dovuto essere compresa la
storia; cfr. La storia sotto il concetto generale dell'arte, Bari 1919 Per questo motivo Croce della Divina Commedia
di Dante apprezza la prima cantica dell'Inferno in quanto risultato di una
forte e sentita intuizione-espressione, mentre apprezza meno la cantica del
Paradiso dove Dante mescolerebbe poesia e filosofia Nella premessa datata «novembre 1908» Croce
scrive di aver trattato l'argomento nello scritto intitolato Lineamenti di una
logica come scienza del concetto puro pubblicato negli Atti dell’Accademia
pontaniana nel 1905. In effetti però avverte Croce che il volume «È una seconda
edizione del mio pensiero, piuttosto che del mio libro» (B. Croce, Logica, Cent'anni
di ricerca in Italia. Un passato da salvare, conferenza del prof. Carlo
Bernardini, dal sito Centro Studi Enriques, B. Croce, La storia come pensiero e
come azione, Laterza, Bari. Quel che si scrivevano Einstein e Croce Dimenticare Croce? (Corriere della Sera) La scienza negata. Il caso italiano, Codice
Edizioni, l'Italia della scienza negata (dal blog de Il Sole 24 Ore) Ministro dell'Istruzione del governo
Mussolini, promotore della riforma scolastica varata in Italia nel 1923 Lucio Lombardo Radice in O. Pompeo Faracovi
(a cura di), Federico Enriques, Approssimazione e verità, Belforte, Livorno
1982 Giulio Giorello, Dimenticare
Croce?, in Il Corriere della Sera, L'arretratezza dell'Italia in campo scientifico
è il risultato di cattive scelte dei politici da una parte e di resistenze
culturali e di incapacità degli scienziati stessi a comunicare dall'altra e che
quindi risultano indipendenti dall'idealismo crociano. A livello culturale,
casomai, esistono altre forze che potrebbero essere imputate del ritardo
scientifico, si veda per esempio la nefasta influenza della Chiesa in merito ad
alcuni aspetti delle ricerche bioetiche. La mia perplessità nei confronti di
Croce non riguarda le pretese conseguenze della sua filosofia sullo sviluppo
tecnico-scientifico del nostro Paese. Mi sembra che sia una polemica datata e
ormai superata. Non credo che dalle posizioni antiscientifiche di Croce derivi
un ritardo della società italiana nei confronti della scienza. Quella di Croce
è una filosofia interessante sotto altri profili, ma poco interessante, quando
si parla di scienza e quindi è deficitaria sotto il profilo di una seria
trattazione del problema della conoscenza.» (Giulio Giorello), in È vero che
Croce odiava la scienza? - Dialogo tra Giulio Giorello e Corrado Ocone, Vincenzo
Matera, Angela Biscaldi, Mariangela Giusti, Elena Pezzotti, Elena Rosci,
Scienze umane - Corso integrato, Marietti Scuola,9. Benedetto Croce, La storia come pensiero e
come azione, Laterza, Bari, Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Lorenzo
Benadusi, Giorgio Caravale, George L. Mosse's Italy: Interpretation, Reception,
and Intellectual Heritage, Palgrave Macmillan, Sambugar, Salà, Letteratura
italiana Paolo Ruffilli, Introduzione alle
Operette morali di Leopardi, ed. Garzanti
Sebastiano Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell'Ottocento
italiano Croce, Schopenhauer e il nome
del male Si riferisce a d'Annunzio,
Fogazzaro e Pascoli Riportato in Mario
Pazzaglia, Letteratura italiana III
Benedetto Croce, Del carattere della più recente letteratura italiana, in
Letteratura della nuova Italia, Bari, Dino Biondi, Il Resto del Carlino, Edizioni
Nazionali istituite anteriormente alla legge su Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, concernente l'«Edizione Nazionale delle opere di Benedetto
Croce. Integrazione della composizione della Commissione» su Ministero per i
Beni e le Attività Culturali, VISTO il D.P.R. 14 agosto 1981 istitutivo
dell'Edizione Nazionale delle opere di Benedetto Croce».Bibliografia Guido
Fassò, Croce, Benedetto, in Novissimo Digesto Italiano, diretto da A. Azara e
E. Eula, Torino, Utet, Carlo Antoni, Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, Alfredo
Parente, Il pensiero politico di Benedetto Croce e il nuovo liberalismo, Sergio
Solmi, Il Croce e noi, in "La Rassegna d'Italia", La letteratura italiana
contemporanea, a cura di Giovanni Pacchiano, Milano, Adelphi). Fausto Nicolini,
Benedetto Croce, Utet, Torino, Ottaviano Giannangeli, Benedetto Croce a Raiano,
in "L'Osservatore politico letterario", Milano-Roma, (ora in Id.,
Operatori letterari abruzzesi, Lanciano, Itinerari). Damiano Venanzio Fucinese,
Dieci lettere inedite di Croce, in "Dimensioni", Lanciano, Ulisse
Benedetti, Benedetto Croce e il Fascismo, Roma, Volpe Rditore, Roma, Gennaro
Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli, Morano, Nicola
Badaloni, Carlo Muscetta, Labriola, Croce, Gentile, Roma-Bari, Laterza (in
part. di Muscetta: La versatile precocità giovanile di Benedetto Croce. Profilo
della sua lunga operosità, Critica e metodologia letteraria di Croce, Croce
scrittore: multiforme unità della sua prosa). Gianfranco Contini, La parte di
Benedetto Croce nella cultura italiana, in Altri esercizi, Torino, Einaudi, Gennaro
Sasso, La "Storia d'Italia" di Benedetto Croce. Cinquant'anni dopo,
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Introduzione a Croce, Editori Laterza, Claes G. Ryn, Will, Imagination and
Reason: Babbitt, Croce and the Problem of Reality (1986). Emma Giammattei,
Retorica e idealismo, Il Mulino, Bologna, 1987. Gennaro Sasso, Per invigilare
me stesso. I taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, Il Mulino, 1989.
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e la cultura meridionale. Atti del convegno di studi, Sulmona-Pescasseroli-Raiano,
a cura di Giuseppe Papponetti, Pescara, Ediars, Toni Iermano, Lo scrittoio di
Croce con scritti inediti e rari, Napoli, Fiorentino, Antonio Cordeschi, Croce
e la bella Angelina. Storia di un amore, Milano, Mursia, Gennaro Sasso,
Filosofia e idealismo. I - Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, Pier Vincenzo
Mengaldo, "Benedetto Croce", in: Profili critici del Novecento,
Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Giovanni Sartori, Studi crociani, Bologna,
Il Mulino, Ottaviano Giannangeli, Croce e la riconquista dell'Abruzzo e Due
monografie e un appunto, in Scrittura e radici. Saggi, Lanciano, Carabba, Croce
filosofo. Atti del convegno internazionale di studi in occasione del 50º
anniversario della morte: Napoli-Messina, Soveria Mannelli, Rubbettino, Ernesto
Paolozzi, L'estetica di Benedetto Croce, Napoli, Guida, Fabio Fernando Rizi,
Benedetto Croce and Italian fascism, University of Toronto Press, Toronto, M.
Visentin, Il neoparmenidismo italiano, I. Le premesse storiche e filosofiche:
Croce e Gentile, Napoli, Bibliopolis, Maria Panetta, Croce editore, Napoli,
Bibliopolis, Guido Verucci, Idealisti all'indice. Croce, Gentile e la condanna
del Sant'Uffizio, Laterza, Roma-Bari, Girolamo Cotroneo, Croce filosofo
italiano, Firenze, Le Lettere, Giuseppe Gembillo, Benedetto Croce, filosofo
della complessità, Soveria Mannelli, Rubbettino, Antonio di Mauro, Il problema
religioso nel pensiero di Benedetto Croce, Milano, FrancoAngeli. Marcello
Mustè, La filosofia dell'idealismo italiano, Roma, Carocci, Marcello Mustè,
Croce, Carocci, Roma, Emma Giammattei, I dintorni di Croce. Tra figure e corrispondenze,
Napoli, Guida, Giancristiano Desiderio, Vita intellettuale e affettiva di
Benedetto Croce, Macerata, Liberilibri,G. Galasso, La memoria, la vita, i
valori. Itinerari crociani, a cura di E. Giammattei, Napoli, Istituto italiano
per gli studi storici - il Mulino, Carlo Nitsch, «Diritto»: studio per la voce
di un lessico crociano, in JusOnline, IV. Pirro, filosofia e politica in Benedetto
Croce, Roma, Bulzoni, G. Sasso, Croce. Storia d'Italia e Storia d'Europa,
Napoli, Bibliopolis, Michele Lasala, Il lirico sospiro di un istante.
L'estetica crociana e i suoi critici, in "Quaderni di Diacritica", Roma,
Diacritica Edizioni, Roma, G. Sasso, Croce e le letterature e altri saggi,
Napoli, Bibliopolis, Silvestri Paolo, “Rileggendo Einaudi e Croce: spunti per
un liberalismo fondato su un’antropologia della libertà”, Annali della
Fondazione Luigi Einaudi, Silvestri Paolo, “Liberalismo, legge, normatività.
Per una rilettura epistemologica del dibattito Croce-Einaudi”, in R.
Marchionatti,Soddu (Eds.), Luigi Einaudi nella cultura, nella società e nella
politica del Novecento, Leo Olschki, Firenze, Silvestri P., Economia, diritto e
politica nella filosofia di Croce. Tra finzioni, istituzioni e libertà,
Giappichelli, Turin, Giuseppe Russo, Croce e il diritto: dalla ricerca della
pura forma giuridica all'irrealtà delle leggi, in Diacronìa. Rivista di storia
della filosofia del diritto, Voci correlate Istituto italiano per gli studi
storici Fondazione Biblioteca Benedetto Croce Liberalismo Manifesto degli
intellettuali antifascisti Premio nazionale di cultura Benedetto Croce. Treccani
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Benedetto
Croce, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.Benedetto Croce, su Dictionary
of Art Historians, Lee Sorensen.Opere di Benedetto Croce / Benedetto Croce
(altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Benedetto Croce,
su Open Library, Internet Archive.Opere di Benedetto Croce, su Progetto
Gutenberg.Audiolibri d su LibriVox.(FR) Pubblicazioni di Benedetto Croce, su
Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.Bibliografia
di Croce, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.Benedetto
Croce, su storia.camera, Camera dei deputati.Benedetto Croce, su Senatori
d'Italia, Senato della Repubblica.Benedetto Croce, in Il contributo italiano
alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Scheda
sul sito del Senato, su notes9.senato. L'Istituto italiano per gli studi
storici fondato da Benedetto Croce, su iiss. La Fondazione Biblioteca Benedetto
Croce, su fondazionebenedettocroce. Una bibliografia di Benedetto Croce, su rivista.ssef.
Una bibliografia di Benedetto Croce con corredo di riassunti delle opere e
piccoli s aggi, su nuovorealismo.Biografia di Benedetto Croce con elenco opere,
su giornaledifilosofia.net. Il problema dell'impressione nella ricerca
filosofica del giovane Croce, su giornaledifilosofia.net. L'elenco dei volumi
dell'Edizione Nazionale, su bibliopolis. Benedetto Croce, su Camera - Assemblea
Costituente, Parlamento italiano. Le riviste di Benedetto Croce on line.
Accesso full text a «La Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia» ai
«Quaderni della “Critica”» su bibliotecafilosofia.uniroma1. Benedetto Croce, il
filosofo liberale, sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Alessandra Tarquini,
Benedetto Croce, il filosofo liberale, Radio3, Benedetto Croce. Croce. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Croce: implicatura: intenzione, espressione, e communicazione”
Curcio (Noto). Filosofo. Grice:
“Curcio is what we could call at Oxford a poet; he wrote a little book
‘Esistentee,’ an obvious parody on Sartre, ‘L’essistentialismo e un umanesimo.’
– His background is philososophical though, and it shows!” Ensegna a Noto e
Messina. Direttore Generale per l'Ordine Ginnasiale. Altre opere: “Armonia e dissonanza” –
consonanza e dissonanza (Noto) – etimologia di armonia – cognata con ‘armento’
e ‘aritmetica’ – “La sfinge” – “La piramide”. “Il prezzo della salute” (Noto).
Commenti, libri I-XXIV – Roma” – “Il giro del templo” (Bonacci, Roma);
“Mottetto” (Bonacci, Roma); “Fugato” (Bonacci, Roma); “II grano di follia”
(Bonacci, Roma); “Senza più peso” (Bonacci, Roma); “Assolo, (Bonacci, Roma); “A
due voci” (Bonacci, Roma); “L'avita vocazione” (Bonacci, Roma); “Esistente”
(Bonacci, Roma); “Altri occhi” (Bonacci, Roma); “Le due cene” (Bonacci, Roma);
“Sitio” (Bonacci, Roma); “Consummatum” (Bonacci, Roma); “Derelictus” (Bonacci,
Roma); “In horto” (Bonacci, Roma); “Paradossale” (Bonacci, Roma); “Felix”
(Bonacci, Roma); “Deliramentum” (Bonacci, Roma). Corrado Curcio. Curcio. Keywords:
esistenti -- Lucrezio, Foscolo, Leopardi, Alighieri, Gentile, Diano, Sicilian
philosophy. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Curcio” – The Swimming-Pool
Library.
Curi (Verona).
Filosofo. Grice: “I like Curi; unlike me, we would call him a prolific
philosopher; my favourite are his reflections on ‘eros’, ‘amore’ and bello, but
he has also written on various topics related to maleness -- Si laurea a Padova. Insegna a Padova. Membro
dell’Istituto Gramsci Veneto. Formatosi alla scuola di Diano, Gentile e Bozzi, incontra
Cacciari. A partire da quel topos, si avvia un sodalizio estremamente solido e
fecondo, all'insegna di una comune ricerca del nuovo, e di un impegno
teoretico rigoroso, che va oltre il piano strettamente della speculazione, in direzione
di una pratica civile. Filosofa sul nesso politica-civilita e guerra e sul
concetto di ‘polemos’ – cf. Grice epagoge/diagoge “”War is war” – Eirene --,
lungo la linea che congiunge Eraclito a Heidegger. Valorizza la narrazione, sia
intesa come mythos, sia concepita come opera cinematografica. Medita su alcuni
temi fondamentali dell'interrogazione filosofica, quali l'amore e la morte, il
dolore e il destino. Altre opere: “Endiadi: figure della dualità”
(Feltrinelli, Milano); “La filosofia come ‘bellum’” (Bollati Boringhieri,
Torino); “La forza dello sguardo” – Lat. vereor – warten: to see --; “Meglio
non essere nati: la condizione umana” – cf. la condition humaine”, Malraux);
“Lo schermo” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Un filosofo al cinema,
Bompiani, Milano).Quello che non e filosofo, ma ha soltanto una verniciatura di
casi umani, come il maschio abbronzato dal sole, vedendo quante cose si devono
imparare, quante fatiche bisogna sopportare, come si convenga, a seguire tale
studio, la vita regolata di ogni giorno, giudica che sia una cosa difficile e impossibile
per lui. A questo maschio bisogna mostrare che cos'è davvero la filosofia, e
quante difficoltà presenta, e quanta fatica comporta.” (Platone, Lettera
settima). La libertà non è soltanto l'essere-liberati DA lle catene né soltanto
l'esser-divenuti-liberi PER la luce, ma l'autentico essere-liberi è
essere-liberatori DA il buio. La ridiscesa nella caverna non è un divertimento
aggiuntivo che il presunto "libero" possa concedersi così per svago,
magari per curiosita. E esser-ci dentro tutto, essa soltanto, il compimento autentico
del divenire liberi. Heidegger, L'essenza della verità, Franco Volpi, Milano).Ne
“La brama dell'avere” si ha un attento e puntuale riesame sia
storico-filosofico che critico-filologico della fondamentale categoria
esistenziale dell'”avere” – “the have and have-nots” -- alla luce dell'odierno assetto
socio-comunitario. Cf. Grice on “H” for “Hazzes” “x H y” Curi focuses on ‘ekhein’ which would then
correspond to Grice’s “H” --. Altre opere: “Il coraggio di pensare,
manualistica di filosofia, Loescher editore, Torino); “Il problema dell'unità
del sapere nel comportamentismo” (CEDAM, Padova); “Analisi operazionale e operazionismo”
(CEDAM, Padova); “L'analisi operazionale della psicologia” (Franco Angeli,
Milano); “Dagli Jonici alla crisi della fisica” (CEDAM, Padova); “Anti-conformismo
e libertà intellettuale: per una dialettica tra pensiero e politica” (Padova) –
cfr. Grice on non-conformismo – “Psicologia e critica dell'ideologia” (Bertani,
Roma); “La ricerca” (Marsilio, Venezia); “Katastrophé. Sulle forme del
mutamento scientifico” (Arsenale Cooperativa, Venezia); “La linea divisa.
Modelli di razionalita' e pratiche scientifiche nel pensiero occidentale” (De
Donato, Bari); “Pensare la guerra. Per una cultura della pace” (Dedalo, Bari) –
cf. Grice on ‘eirenic effect’ – pax et bellum – si vis pacem para bellum. ex
bello pace. “Dimensioni del tempo” (Franco Angeli, Milano); “Einstein”
(Gabriele Corbo, Ferrara); “La cosmologia filosofica” (Gabriele Corbo,
Ferrara); “La politica sommersa. Per un'analisi del sistema politico italiano,
Franco Angeli, Milan); “Lo scudo di Achille. Il PCI nella grande crisi” (Franco
Angeli, Milano); “L'albero e la foresta. Il Partito Democratico della Sinistra
nel sistema politico italiano, con Paolo Flores d'Arcais, Franco Angeli,
Milano); “Metamorfosi del tragico tra classico e moderno, Bari); “La repubblica
che non c'è” (Milano); “Poròs. Dialogo in una società che rifiuta la bellezza,
Milano); L'orto di Zenone. Coltivare per osmosi” (Milano); “Amore duale”
(Feltrinelli, Milano); “Platone: Il mantello e la scarpa” (Il Poligrafo,
Padova); “Pensare la guerra. L'Europa e il destino della politica, Dedalo,
Bari); “Pólemos. Filosofia come guerra, Bollati Boringhieri, Torino); Ombra
della’ idea. Filosofia del cinema fra «American beauty» e «Parla con lei»,
Pendragon, Bologna); “Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito
moderno, Bruno Mondadori, Milano); “Il farmaco della democrazia. Alle radici
della politica, Marinotti, Milano); “La forza dello sguardo, Bollati
Boringhieri, Torino); “Skenos. Il Don Giovanni nella società dello spettacolo”
(Milano); “Libidine” (Milano). Un filosofo al cinema, Bompiani, Milano); Meglio
non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati
Boringhieri, Torino); Miti d'amore. Filosofia dell'eros, Bompiani, Milano); Pensare
con la propria testa” (Mimesis, Milano); “Straniero, Raffaello Cortina Editore,
Milano); “Passione” (Raffaello Cortina Editore, Milano . La porta stretta. Come
diventare maggiorenni” (Bollati Boringhieri, Torino); “I figli di Ares. Guerra
infinita e terrorismo, Castelvecchi, Roma . La brama dell'avere; Il Margine,
Trento); “Il mito di Narciso sul Umberto
Curi. Keywords: have, habere, habitus, comportamentismo, behaviourism. La brama
dell’avere, anticonformismo, guerra e pace – Eirene – cosmologia anthropologia –
l’orto di Zenone – lo scudo d’Achille – I figli di Marte -- il mantello e la scarpa libido -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Curi” – The Swimming-Pool Library.
Cusani:
(Solopaca).
Filosofo. Grice: “I love Cusani; for one, I was born at Harborne, but nobody
cares; Cuasani was born in Solopaca, and there’s a ‘corso Cusani’, and a
‘Biblioteca Cusani’.” Grice: “Cusani would have been friend with Bosanquet;
both are Hegelians – Italians, after SOME Germans, were the first to endorse
the philosophy of the absolute spirit inmanent to dialectic – Cusani does
attempt to respond to a criticism on the ‘assoluto’ brought up by Hamilton (of
all people), and consdtantly refers to the ‘metafisica dell’assoluto’ – a ‘progetto,’
he humply titles it!” Figlio di Filippo e Caterina Cardillo, nacque al capoluogo
distrettuale e di comprensorio del Regno delle Due Sicilie. Membro dei
Pontaniani. Frequenta il circolo del marchese Basilio Puoti, insieme a Sanctis
e Gatti. Punto di partenza della sua
filosofia, comune a buona parte del circolo del’hegelismo di stanza a Napoli,
dei quali e un esponente, fu Cousin, il fondatore della “storiografia
filosofica”. Insegna a Montecassino, e al collegio Tulliano di Arpino, dove fu
affiancato da Spaventa, chiamato poi a sostituirlo. Si stabilisce a Napoli nel
proprio studio privato. I saggi di Cusani furono pubblicati su “Il progresso
delle scienze, delle lettere e delle arti” e “Museo di filosofia”. La seconda
fu da lui stesso fondata. Molti dei saggi di filosofia più impegnati furono
pubblicati in L’Antologia, di Firenze. Scrisse inoltre note e recensioni nel
periodico l'Omnibus e nella Rivista napolitana.
Molte delle sue opere sono archiviate presso la Biblioteca "Stefano
Cusani" di Solopaca. Idealista
hegeliano ed esponente dell’ecletticismo filosofico di Cousin. Opere: “Della
fenomenologia, il fatto di coscienza intersoggetiva”; “Del metodo filosofico”;
“Storia dei sistemi filosofici”; “Della materia della filosofia e del solo
procedimento a poterlo raggiungere”; “Il romanzo filosofico”; “La poesia
drammatica”; “L’assoluto – l’obbjezione d’Hamilton”; “Logica immanente e logica
trascendentale”; “Compendio di storia di filosofia”; “Della lirica considerata
nel suo svolgimento storico e del suo predominio sugli' altri generi di
poesia”; “Economia politica e sua relazione colla morale”; “L’essere e gli
esseri: disegno di una metafisica”; “Percezione dell’esistenza”. Nel comune di
Solapaca è stato indetto nel un anno di
celebrazione in occasione del centenario della nascita nel comune di Solopaca.
Il corso Stefano Cusani gli è stato intitolato a Solopaca. Sanctis lo cita
nella autobiografia. Cusani dato alla stessa filosofia, ha maggiore ingegno del
superbissimo Gatti, ed e mitissima natura d'uomo. Sale al tavolo degli oratori
con tale fervore dialettico che a tutta la persona grondava onorato sudore» (G.
Giucci, Degli scienziati italiani formanti parte del VII congresso in Napoli
nell'autunno del 1845: notizie biografiche, Napoli. L'amico coetaneo Cesare Correnti, patriota
milanese legato ai circoli Napoli, insegnante nella Scuola di lingua italiana
da lui fondata, gli dedicò un necrologio. Ecco un altro amico, un'altra fiorita
speranza di questa nostra Napoli sparire a un tratto a noi d'intorno. Ben dissi
a un tratto, poiché la sua non lunga malattia parve un momento agli amici. La
filosofia specialmente nol sedussero, in modo che a più severi studi non
volgesse l'acuto e fervidissimo spirito, e a bella armonìa si composero
nell'anima sua. Rivista europea», ripr. in Scritti scelti, T. Massarani, Forzani,
Roma). «Rivista europea», ripubblicato in Scritti scelti, T. Massarani,
Forzani, Roma, Dizionario biobibliografico del Sannio, Napoli, "Il Progresso",
"Il Lucifero","Omnibus"; "Rivista napolitana", Sanctis,
La letteratura ital. nel sec. XIX, II, La scuola liberale e la scuola
democratica N. Cortese, Napoli; G. Oldrini, Gli hegeliani di Napoli. A. Vera e
la corrente "ortodossa" (Milano); F. Zerella, Filosofia italiana meridionale”;
“Dall'eclettismo all'hegelismo in Italia”. Cusani e la filosofia italiana:
Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini. Nasceva
in Solopaca, una volta Distretto di Caserta, oggi Circondario di Cerreto
Sannite (Benevento) il 23 dicembre 1816, Stefano Cusani da Filippo e Caterina
Cardillo. Suo padre, insigne avvocato, fu sollecito della educazione di questo
come di altri quattro suoi figliuoli, che, affidati alle cure di un suo
fratello germano a nome Matteo, sacerdote, mandolli in tenera età a
imcominciare e compiere i loro studî in Napoli. Ivi Stefano, ch'era il
secondogenito di cinque fratelli, frequentava i più rinomati Istituti privati
di quel tempo (che allora l'insegnamento pubblico esisteva sol di nome),
si distingueva fra gli altri condiscepoli in ognuno di questi, così che in
breve, compiuti gli studi letterarî fu giocoforza mettersi a studiare le
scienze della facoltà che doveva seguire. Fu questo il solo brutto periodo di
sua vita. Suo padre voleva fare di lui un Avvocato civile, come suol dirsi, e
quindi fu obbligato a studiare leggi e pandette, per le quali discipline non si
sentiva la benchè minima inclinazione, anzi, a dir vero, sentiva per esse la
più marcata avversiono; ma buon figlio e docile essendo, per non dispiacere al
padre, che tanti sacrifizî avea fatti e faceva per lui, come per gli altri
fratelli, a malincuore sempre, ma sempre tacendo, giunse fino ad esser
Avvocato, ed a fare la pratica presso uno de'luminari del Foro Napoletano. Da
questo momento incomincia il suo grande sviluppo intellettuale. Non potendone
più, la rompe col padre, dicendosi avverso ai processi, ed allo studio di essi,
e ad ogni altro artifizio da causidico. La rompe con quella pratica noiosa, che
tralascia ed abbandona; ed ottiene dal padre stesso, che ragionevole e savio
uomo era, di poter attendere a quegli studi che più alla sua indole si
affacevano. Fioriva in quel tempo, a Napoli, la scuola del Marchese Basilio
Puoti, ed egli, incontratosi con Stanislao Gatti che fu poi indivisibile amico
e compagno, vi si getto a capofitto, e fu in poco tempo il più caro e pregiato
discepolo del Marchese, come l'amico e compagno del De Sanctis, del Mirabelli,
e di tutta quella pleiade che in quel tempo arricchirono Napoli di filosofi
insigni. Ma a quell'ingegno che s'andava ogni giorno più sviluppando e
fortificando di sani e severi studî, parve angusto oramai quest'orizzonte, o
volse l'ala, e la di instese con intensità ed ardore allo studio della
filosofia. Ben cinque anni decorsero di volontaria prigionia nel suo
studiolo, ovo ridottosi, o giorno e notte indefessa mente attendeva a'
prediletti studî, e si beava di leggere Platone nel testo, chè familiare la
lingua gli era ; come pure si fece a studiare la lingua alemanna per
mettersi al corrente dei progressi della filosofia, e per meditare e studiare
le dottrine e teorie dell'Hegel, ultimo filosofo tedesco di quella epoca.
Uscito dopo questa epoca a nuova vita incominciò a scrivere sul Progresso, una
Rivista di scienze e letteratura, diretta dal Baldacchini, articoli su
questioni filosofiche; e, dopo un anno, era già conosciuto in tutta la Napoli
pensante. In questo torno di tempo si apri un concorso per la Cattedra di
filosofia e matematica, nel Collegio Tulliano di Arpino, e lui fu prescelto per
titoli ad occuparla. Vi andò e vi trovò il suo amico Emmanuele Rocco, che
v'insegnava letteratura. Vi stette un anno e vedendosi in una cerchia troppo
angusta alla sua attività, si dimise, e fece ritorno in Napoli, conducendo con
sè anche l'amico Rocco. Quivi apri studio privato unitamente al Gatti di
filosofia, e dal bel principio quello studio fioriva per numerosa gioventù, che
accorreva a udire le sue lezioni. In breve fu lo studio più affollato di
Napoli. Le ore che aveva libere dallo insegnamento le occupava a scrivere
articoli di filosofia che si pubblicavano sulle Riviste Napoletane di quel
tempo, il Progresso che usciva in fascicoli voluminosi, la Rivista Napoletana
di Scienze, Lettere ed Arti, il Museo di Scienza e Letteratura, ove
collaboravano per la lor parte Antonio Tari, Francesco Trinchera, ed altri; e
sul Progresso il Colecchi ed altri. Non andò guari e s'incontrò col
Mamiani in quistioni di alta Metafisica, o ne usci onorato dell'amicizia e
della riverenza dell'insigno filosofo. Il suo intelletto altamente speculativo
destava ammirazione perchè si elevava ad altezze tali filosofiche che non gli
si potevano contrastare. In quel tempo si agitò una polemica tra V.
Cousin, filosofo francese, ed un insigne filosofo inglese, il cui nome ora non
mi sovviene; dopo varî articoli scambiatisi parea che l'inglese avesse preso il
di sopra, ed il Cousin, che lui credeva più dell'altro stare nel vero, avesse
dovuto soccomberé. Allora senza frapporre tempo in mezzo egli entrò terzo nella
quistione e scrisse epubblico una serie di articoli che costrinse l'inglese a
desistere dalla polemica, ed il Cousin a scrivergli una lettera di
ringraziamenti e di felicitazioni, e con la quale lo chiamava, e si firmava suo
cugino. Si radunava il Congresso dei Filosofi in Napoli nell'ottobre del
1845, o lui ne dovea far parte; ma non sapendosi se il Borbone lo avesse
permesso, o meno, erasi ridotto in patria a villeggiare con la moglie e due
piccini, l'uno lattante e l'altro di due anni. Il Congresso fu permesso, i
filosofi si riunirono in Napoli, e lui fu invitato espressamente a farvi
ritorno; che anzi il Presidente della Sezione “Filosofia speculativa” a cui
egli apparteneva, non volle aprire la sessione s'egli non fosse arrivato. Cosi
corse in Napoli solo, lasciando in patria la famiglia, che poi sarebbe andato a
rilevare, dopo finito e sciolto il Congresso. Fu questa la causa della sua morte!
Arrivato in Napoli vede gli amici - con essi si intrattiene passeggiando --
suda; è l'ora già che s'apre la Sessione -- essi ve lo accompagnano a piedi per
goderselo di più -- vi si arriva. Egli era sudatissimo -- entra e n'esce dopo
quattro lunghe ore di discussione; quel sudore lo avea già colpito a morte. Si
riduce a casa, si ricambia le mutande - la camicia era troppo tardi!
Incomincia dopo poco tempo una tosse secca, stizzosa, ch'egli non cura, perchè
forte e robusto era; e questo fu il peggiore dei divisamenti. Ritorna in patria
per ripigliare la famiglia e ridursi in Napoli, poiché si era alla vigilia del
novembre. Si riapre lo studio, si riprendono le lezioni; il maggior numero
degli alunni affluito gli rinfocola l'ardore, ch'ei metteva in esse, e parla
dalla cattedra per lunghe ore, e poi agli alunni più provetti che gli
propongono dubbi o problemi a risolvere, parla pure ad alta voce, e quella
tosse insidiosa non lo lascia, anzi invida della sua noncuranza lo avverte
spesso del suo malefico potere, interrompendogli il discorso, e forzandolo per
poco a tacere. Le cose durarono ancora così per altri 10, o 12 giorni, e
finalmente la emottisi tenne dietro a quella tosse funesta, e fu giuocoforza
sottomettersi a quanto l'arte salutare poteva e sapeva consigliare, ma invano
tutto! Chè una tisi florida si svolse, ed in meno di due mesi si spense la
robusta complessione di S. Cusani! Tale fu quest'uomo, che a 30 anni la morte
rapiva a'suoi, alla scienza, alla patria. Nato a 23 dicembre 1816, moriva a 2 gennaio
1816. Dissi rapito alla patria, e giustamente, poichè egli da giovanissimo
appartenne alla Giovine Italia, e in Napoli fu sempre il più ardente fra i
patrioti. Egli con altri preparò e cooperò con ardore al movimento del '18 che
poi non potė vedere! La sua casa era il convegno di Carlo Poerio, L.
Settembrini, S. Spaventa, P. Mancini, e di tutti gli altri illustri compromessi
politici di quel tempo, con i quali si congiurava, si faceva
propaganda, e si organizzava la rivoluzione. Fu cosi caro a questi tutti che se
un giorno solo nol vedeano, si tenea por certo la visita loro in sua casa; ed
il Poerio, addoloratissimo della sua malattia, volle ed ottenne che fosse stato
medicato, curato ed assistito infino all'ultimo istante di sua vita dal fido o
dotto medico Alessandro Lo Piccolo. L'esequie furono imponenti pel concorso di
amici, che formavano tutte le notabilità scientifiche, patriottiche
e letterarie. Il lutto per la sua perdita fu sentito generalmente per Napoli,
che in lui salutava la giovine scienza, e che per lui si metteva a paro di
altre città d'Italia, che fiorivano per altissimi ingegni ed insigni filosofi,
come il Mamiani, il Rosmini, il Gioberti, ed altri, se quella vita non si fosse
spenta nel mezzo del cammino! La cura della filosofia di Cusani
d’Ottonello ha il merito di riproporre all’attenzione una figura di rilievo
della cultura filosofica napoletana dell'Ottocento. Benché scomparso in
giovanissima età, nel gennaio 1846 (eranato nel dicembre del 1815, o forse del
1816, come i piú sostengono), Cusani lascia di sé traccia profonda,
testimoniata dalla considerazione in cui e tenuto, per tacer d’altri, da
Sanctis, o dalla valutazione che di lui dette Gentile. Con Gatti ed altri può
essere inserito - come nota il curatore nella nitida e puntuale introduzione
nell'ambito dell'hegelismo napoletano, oltrecché in quello piú generale
dell'eclettismo alla Cicerone. Opportunamente si avverte però che Hegel
costituisce per Cusani un potente polo d'attrazione, ma non il filosofo
fondamentale. In realtà si può forse con fondamento aggiungere, pur senza
ricorrere ad una indagine falsamente sottile, che resta in ombra, nellepur
autorevoli e acute analisi dedicate alle ascendenze cousiniane ed hegeliane di
Cusani, un filosofo fondamentale che sicuramente ispira la filosofia piú
significativa di Cusani: Vico. La costruzione del sistema eclettico cui Cusani
dichiara di dedicarsi segna una fase già tarda dell'eclettismo napoletano e
giungeva al termine di un decennio assai ricco di suggestioni in questa direzione
negli ambienti culturali napoletani. È sicuramente da condividere
l'affermazione del curatore secondo il quale il sincretismo avvertibile in
Cusani non impedisce però l'emergere di un nucleo speculativo che deborda dalla
semplice trama delle affermazioni altrui. In questo senso il problema del
metodo filosofico e il connesso problema della storia italiana segnano sin
dall’inizio lo sforzo speculativo di Cusani, la cui originalità trova subito
sulla sua strada Vico. Collaboratore della Temi napoletana, dell'Omnibus
letterario, scrive prevalentemente sul “Progresso.” Sin dalprimo scritto,
Filosofia in Italia, il tema della storia italiana appare questione teorica
centrale. Non a caso una ricerca storica da l'occasione a Cusani di porre il
problema che gli sta acuore, sin dalla citazione tratta da Guizot che apre la
nota. I fatti sonomeme affermazioni al problema della storia trova subito
sumanibus letterario ma are i grandiuti al fatto che risguardato, en per il
pensiero, ciò che le regole della morale sono per la volontà. Egli è tenuto di
conoscerli, e di portarne il peso, ed è solo allorché ha sodisfatto a questo
dovere, e ne ha misurato e percorso tutta l’estensione, che gliè permesso di
montare verso i risultamenti razional. Il rinnovato interesseper la storia
italiana che si registra-- che né l'Antichità, né i tempi di poco anteriori a
questi che viviamo avevano mai risguardato -- non sembrano a Cusani casuali, ma
dovuti al fatto che l'intendimento si rivolge a indagare i grandi ordini di
fenomeni per scoprire e prendere inconsiderazione i fatti e le ragioni, una
storia ed una filosofia. Il bisogno di comprendere e giudicare il fatto,
piuttosto che esserne solo spettatore (e dunque di verificare una diversa
attitudine della storia italiana), esalta questa parte immortale della Storia,
cioè il conoscere il legamento fatalista della causa e dell’effetto, le
ragioni, i fatti generali, le idee da ultimo ch'essi celano sotto il manto
della loro esteriorità. Onde ch’egli è d'uopo sceverar con chiarezza e con precisione
la differenza di queste due parti della storia italiana che sono per cosí dire
il corpo e l'anima, la parte materiale, e la parte spirituale di tutti gli
avvenimenti esterni e visibili, che compongono la nazione italiana, secondo che
dice Vico. Il rifiuto, che Cusani trae dalla lezione vichiana, di affidarsi a
pre-mature generalità, e con formole metafisiche per soddisfare il mero bisogno
intellettivo, è una traccia decisiva per comprendere il suo pensiero.
L'annotazione di Gentile, secondo il quale l'osservazione storica non è piú
l'integrazione della psicologia, bensí la costruzione stessa della filosofia,
può commentare l'intero itinerario filosofico di Cusani, che si consuma
nell'arco di pochissimi anni. Il discorso sul metodo che Cusani compie si basas
in dall'inizio su una acquisizione precisa: un sistema o una filosofia
consistono nel loro stesso metodo. Nel primo saggio veramente organico (Del
metodo filosofico e d'una sua storia infino agli ultimi sistemi di filosofia
che sono si veduri uscir fuori in Germania – Hegel -- e in Francia -- Cousin)
Cusani parla addirittura di un metodo generale, il quale presiede
all'investigazione dell'unica e universal verità. La filosofia è dunque la
regina scientiarum che consente di ricondurre ad “unità” il sapere, e a tal
pro-posito l'assimilazione dei termini è dichiarata apertamente, a proposito
dell’analisi psicologica, la quale segna il punto di partenza della
riflessione, ed è la base unica dell'immenso edificio filosofico, il solo
solido fondamento, il suo atrio e il suo vestibolo. E nel saggio, “Del reale
obbietto di ogni filosofia” (Il Progresso) ribadisce e chiarisce che lo studio
de’ fatti della natura umana, o de’ fenomeni psicologici, vuoto del tutto
riuscirebbe, se invece di tenerlo come base d'ogni ulteriore investigazione, si
volesse considerare come il termine stesso della filosofia. Il secolo
decimottavo si è trovato dunque di fronte al centrale problema del metodo
filosofico. Se è vero che nella storia italiana è tutta quanta la filosofia italiana,
occorre riconoscere il merito insuperabile di quella mente divinatrice e
profonda che avea posta nel mondo la nazione italiana. Vico, definito – nella
nota sul Nuovo Dizionario de sinonimi della lingua italiana di Niccolò
Tommaseo, quell'altissimo lume d'Italia, con una locuzione che introduce un
discorso, ingiustamente trascurato, sulla tradizione filosofica meridionale,
piú volte ripreso dal Cusani. Lo studio di Vico qui esaminato è appunto il “De
antiquissima Italorum sapientia”; nel quale potentemente convinto della
relazione che stà tra il pensiero (l’animus, il segnato) e la parola (il
segno), fecesi ad investigar quello degli antichi romani e italici nostri
maggiori, cavandolo per avventura da quella lingua italiana ch'era nelle bocche
volgari degli uomini. Il rapporto tra spontaneità e riflessione, che tanta
parte ha in Cusani, è dunque introdotto sotto il segno di Vico. Si ponga mente
alle affermazioni che seguono il passo già citato, allorché Cusani insiste sul
fattoche veramente il Vico porta opinione che tutto l'antico (antichissimo)
pensiero o sapienza italiana era in quella lingua italiana ch'egli disamina, e
dalla quale intende rimetterlo in luce, e che se la lingua italiana non e opera
di un filosofo, ma sibbene il prodotto spontaneo delle facoltà nell'uomo
italiano, se innanzi che venissero adoperate nella costruzione e nel
concepimento del sistema di un filosofo, di cui pur e il necessario strumento
espressivo e communicativo, esisteva nella massa de’ popolo italiano. Insomma,
quella che è stata chiamata la svolta hegeliana del Cusani, va valutata alla
luce di una ispirazione legittimamente riferibile a Vico. Si veda il Saggio su
la realtà della humanitas di Vincenzo De Grazia (Il Progresso), già sul crinale
della svolta hegeliana. L'epigrafe di Cousin posta all'inizio ritorna sul
problema che sta a cuore a Cusani, e che ne determina l'originale ricerca. Ci
ha due spezie di filosofie. La prima spezie di filosofia studia il fatto, lo
disamina, e lo descrive, riordinandoli secondo le loro differenze o
somiglianze, e potrebbesi però denominare filosofia “elementare” o immanente.
L’altra spezie di filosofia comincia ove si ferma la prima, investigando la
*natura* de’ fatti, e intendendo di penetrare la loro ragione, la loro origine,
il lor fine, e potrebbesi denominare filosofia trascendente, o filosofia prima.
La citazione dai Frammenti filosofici serve in realtà a Cusani pergiungere alla
fondamentale affermazione secondo cui, esaurita nel secolo precedente la
filosofia elementare, e necessario che si cominciasse asentire il bisogno di
nuovi problemi, e che l'ontologia ricomparisse nel dominio della speculazione
filosofica. Insomma la disamina del fatto immanente elementare (il segno) deve
servire a rintracciarne la natura, le origini, le relazioni, che è il vero fine
supremo della filosofia prima. Ma questo è possibile (e l'eclettismo di Cusani
si dimostra non mero sincretismo, ma sapiente innesto di elementi concorrenti a
rafforzare le personali ipotesi speculative) soprattutto all’italiano, chi può
vantare una tradizione filosofica ininterrotta che ha in Vico il suo vate
supremo. Il bisogno dell’ontologia ha ulteriori ragioni in Italia, dove la
filosofia trova terreno fecondo emotivo di continuità. Ed è la tradizione
ontologica de’ filosofi italiani, e il predominio costante della filosofia
prima o trascendente in Italia sulla elementare o immanente, non solo in tempi
che era cagione universale nel mondo della scienza, ma eziandio allorché
fortemente altrove ponevasi la base d'ogni filosofia ed all'apo genere a nostri
e quell'indole elementare, e molto studiavasi in essa. Di qui nacque
quell'indole speculativa che si è sempre accordata in genere al filosofo
italiano, anche quando discendevano alla pratica ed all'applicazione de’
principi. É di vero se si pon mente alla Storia, e si consideri che dalla
scuola italica di Crotone o da Pittagora suo fondatore, passando per i filosofi
di Velia (Senone), arrivando fino all’apparizione di quella meraviglia del
Vico, si troverà che la verità da noi accennata apparisce luminosa e in tutta
la sua pienezza. Dunque continuità della tradizione, rivendicazione della
propria originalità speculativa, e soprattutto applicazione esemplare del
metodo storico come proprio della storia della filosofia. Già affrontando il
problema della fenomenologia semiotica, Cusani non manca di annotare, con una
affermazione che resta sostanzialmente immutata nella sua produzione, a riprova
del vichismo naturale della sua ispirazione, che l’italiano è cosí fortemente
incluso intutta la morale che ne forma il subbietto perenne, e non si può farne
astrazione senza far crollare tutto l'edificato da quelle. Del resto nel saggio
Del reale obbietto d'ogni filosofia, posto sotto il segno di Vico – la cui “De
constantia Philosophiae” fornisce l’epigrafe, Cusani ha chiarito che la umana
intelligenza, di cui si ricerca e scopre una storia naturale, una volta
esaurita l’investigazione della natura, ripiega progressivamente verso il
subbietto stesso di quelle investigazioni, e rientrando dall'esterno
nell'interno, fa se stessa obbietto della sua conoscenza. La morale nasconode
questo percorso, allorché il filosofo ritorna sopra se stesso dopo indagare il
mondo esterno. La svolta hegeliana può a questo punto arrivare, ma a sua volta
innestandosi su questa ricerca di una legge onde si regge il mondo. Il dilemma
su un oggetto immutabile della conoscenza, e della mutabilità al tempo stesso
del fatto che il pensiero trascendente va indagando, diventatra la questione
centrale. Spesso Cusani torna nella sua opera, che riesce difficile in questa
sede indagare in dettaglio, sulle permanenze della storia italiana e sulle
variazioni. Nel Saggio analitico sul diritto e sulla scienza ed istruzione
politico-legale d’Albini, significativamente impostato il tema, e sempre
ricorrendo a Vico. In Italia fu primo tra tutti Vico che intende ala ricerca
d'un principio universale ed immutabile del diritto e che questo ponesse nella
ragione, unica fonte dell'assoluta giustizia, distinguendo esattamente il
diritto universale, o filosofico, dal diritto storico. Anzi, la debolezza della
cultura filosofica italiana può essere addebitata al mancato studio di Vico il
cui esempio non frutto gran bene, ch'io mi sappia all'Italia,non essendo le sue
teorie accettate da'suoi contemporanei, perché forse troppo superiori
all'intelligenza comune, fino al punto che l’italiano perde, com'a dire, la sua
particolare fisionomia, rivestendo un'indole forestiera – come i fanatici di
Hegel con la sua lingua foresteriera! -- Se non che questo che al presente
diciamo fu molto piú pronunciato in Beccaria e Verri non furono che
perfettissimi seguitatori dell'Helvelvinitius e del Rousseau, quanto
all'ipotesi del Contratto sociale, che in il vichismo dunque, se accolto,
avrebbe garantito la continuità e originalità della filosofia italiana. Infatti
la cultura napoletana da in questo senso testimonianza della continuità
speculativa della filosofia proprio attraverso la tradizione vichiana.
Filangieri, ma soprattutto Pagano, ritennero l'elemento tradizionale italiano,
che li riannodava a tutta l'erudizione. Anche quando nel Museo di letteratura e
filosofia soprattutto, e la Rivista napoletana, piú evidente si coglie la
lettura di Hegel, Cusani testimonia la persistenza sicura della lezione
vichiana. Senza rotture, ma sviluppando le tematiche e gli interessi, nel
saggio Della lirica considerata nel suo svolgimento storico, ove – come ha
notato Oldrinisi incontra un esplicito richiamo alle lezioni hegeliane di
filosofia della storia, Cusani riprende con vigore la questione fondamentale.
Ora poiché l'uomo è il subbietto storico per eccellenza a volere istabilire lal
egge che governa tutte le accidentalità variabili delle vicende umane, la
filosofia non puo che cercarla nelle modificazioni della stessa umanita. Questo
punto di partenza, che il Vico, per il primo, prescrisse alla filosofia della
storia, facendo che le sue ricerche rientrassero nella coscienza psicologica
dell’italiano, e si cercasse di spiegar questo per mezzo della sua propria
natura, ma eziandio tutti i fatti di cui egli è causa, ingenera tanto
vantaggio, che da un lato tolse la specie umana dall'esser considerata come
mezzo da servire ad altri fini, e dall'altro la rialza sopra la natura, di cui
vuole sene fare prodotto o artificio. In che misura l'hegelismo, rintracciabile
nella preoccupazione di garantire l'unità del sistema attraverso l'unità della
filosofia, deve tener con toda un lato della matrice vichiana del pensiero di
Cusani e dall'altro dello sforzo di costruire l'edificio eclettico della filosofia
in modo originale? Andrebbe qui indagato, con cura e minuziosità che questa
sede non consente, il tema del senso comune in piú luoghi richiamato da Cusani.
Sipensi al saggio apparso sul « Museo », Idea d'una storia compendiata della
filosofia, proprio dove il tema della filosofia assume intonazioni sicuramente
hegeliane. Purtuttavia, sebbene l'uomo sia conscio nell'intimo della sua
coscienza della sua libertà, e riconosca in sé stesso il potere di cominciare
una serie di atti, di cui egli è causa; ciò nondimeno non può non iscorgere
eziandio, che la sua volontà è posta sotto il dominio e la soggezione d'una
legge, che diversamente vien denominata secondo che diverse sono le occasioni,
alle quali essa si applica, contrassegnandosi ora come legge morale, ora come
ragione, ed ora comesenso comune. L'indipendenza speculativa che Cusani
manifesta nel rimeditare tutti i contributi all'interno della sua riflessione è
evidente, e su questo tema operante nei confronti dello stesso Vico. Esaminando
la questione del fatalism e della libertà (giustamente si ricorda come sia
questa la questione piú importante che si possa scontrare nella filosofia della
storia, dai primi agli ultimi scritti presente inche di sua volone causar in
Cusani), nell'Idea d'una storia compendiata della filosofia, Cusani ha qualcosa
da rimproverare a Vico stesso, da altri peraltro erroneamente collocate tra gli
storici fatalisti -- cosí Livio si distingue da Machiavello e da Vico; e
sebbene Livio da maggiore influenza alla parte passiva e fatale dell’italiano
nella storia; ciò nondimeno non si è data che ai secondi, a cominciar da
Machiavello, la nota del storico fatalista. Se è vero infatti che Vico cerca
nell'italiano il principio e la legge dello svolgimento dell'umanità, egli ebbe
però il torto di essere esclusivo, in quanto non ha riconosciuto l'influenza
della natura italiana sull'italiano. Si annota come a Cusani fin dai primi
studi si affacci il dilemma tra pensiero come condizione e pensiero come
condizionato: se una legge governa lo svolgimento dell'intelligenza, la storia
è da intendersi fatalisticamente costretta entro i termini di una legge fissa
del pensiero? Del resto in un saggio nel Progresso (e non compresa nei due
volumi degli Scritti, forse perché firmata — come del resto altre note raccolte
da Ottonello — con la sola sigla S. C.), Elementi di Fisica sperimentale e di
meteorologia di M. Pouillet, Cusani ritorna sul metodo delle scienze e sulla
accostabilità tra scienze morali e scienze fisiche. Dappoiché la scienza della natura
e sottoposta nella sua ricerca a metodi certi e sicuri, e l'umana intelligenza
punto da quelli non dipartendosi, seguitò attesamente le sue investigazioni, i
progressi rapidi e continuati succedettero ai lenti e quasi invisibili
dell'antichità. Il successo di queste scienze — come di ogni scienza — è nel
metodo, cosi che da meglio che tre secoli lo spirito umano procede, in questa
special branca delle sue conoscenze con tanta fidanza, e direi quasi, contanta
certezza de' suoi risultamenti, che nissun'altra scienza per avventurapuò con
questa venire al paragone. Si badi, le scienze fisiche non costituiscono altro
che una special branca delle conoscenze dello spirito umano. Dunque occorre
applicare anche alle altre branche metodi certie sicuri, come è possibile dal
momento che la storia universale dell'Umanità, che pone la Storia al centro
dell'investigazione, racchiude,com'a dire, in un corpo tutto lo svolgimento
intellettivo della spezie. Ecco perché nel saggio Della lirica, a proposito
della legge della evoluzione ideale dell'umanità nel progresso storico, Cusani
nota che questo è di proprio particolar dominio di quella scienza, che sorta
gigante in Italia per opera di quella maraviglia del Vico, costituisce ora il
centro intorno a cui si svolgono tutti gli sforzi del secolo. Simili le
espressioni usate nella recensione agli Elementi di Fisica sperimentale,
allorché della storia universale dell'Umanità nota che forma a questi nostri
tempi il punto di mezzo, intorno di cui si volge e gravita tutto il processo
del lavori del secolo. Il ricco saggio “Idea d'una storia compendiata della
filosofia” è a questo punto da considerare fondamentale. La connessione che la
storia ci rivelatra libertà e necessità, ci consente di rintracciare la legge
necessaria del progresso storico. Noi sappiamo che la filosofia del popolo
italiano non è altra cosa se non lo spirito del popolo italianom non già
come si manifesta nella sua religione
spontanea, nelle sue arti, nella sua costi-in se stesso aveva, artea, un
concertelli avvenimee metafisica. cipale delle sourcetuzione politica, nelle
sue leggi e costumi, ma come si rivela nell'esilio inviolabile del pensiero
puro, che riferma il piú alto grado al quale possada sé stesso elevarsi. Cusani
ha, a tal proposito, filosofato nel saggio “Della poesia drammatica” un
concetto che poi si ritrova in seguito. Egliè il vero che sotto la varietà
degli avvenimenti del fatto e della vita stessa della società italiana è
nascosa la legge suprema e metafisica che li governa,e che il filosofo tenta di
scoprire, e ne fa l'obbietto principale delle sue ricerche, ma all’italiano,
ch'é, come dice quell'altissimo ingegno di Vico, il senso della nazione
italiana e dato tutto al piú di sentirla, ma non deve essere suo scopo di
manifestarla, dove all'ispirazione vichiana pare già si aggiunga, insinuandosi,
una suggestione hegeliana. Nello saggio Della lirica, Cusani ribadisce
l'argomento. Se la filosofia non deve fat suo scopo, come altrove dicemmo,
parlando della poesia drammatica, la rivelazione di essa legge secondo la quale
l'umanità si svolge nello spazio e nel tempo, puf tuttavia non potrà certo
cansarla nella sua manifestazione storica, cioè nel suo progresso attraverso
delle nazio ultima recension Felice Roman son sottoposti alla legge storica in generale,
la quale le impronta quasi una seconda indole, ed è questa poi, che fa che i
filosofi sieno, come diceVico, il senso della nazione italiana.
Sorprendentemente, nell'ultima recensione pubblicata sulla « Rivista napolitana
», Liriche del Cav. Felice Romani, quasi ad emblematica chiusura, Cusani
ripete. Vico innanzi tuttia veva formolata questa solenne verità, proclamando
che il filosofo e ilblematica sblata
questa sojeni filosofi ne sinnestare Hegedea d'uneinnanzi Qui l'eclettismo
cusaniano ha voluto innestare Hegel sulla tradizione italiana custodita e
proclamata, specie allorché, nella idea d'una storia, riprende il tema di una
ragione fondamentale, di una idea filosofica fondante le manifestazioni della
vita umana, per cui la religione e soprattutto la filosofia già ricordata sono
riconducibili ad una legge razionale. Un'altra citazione, non giustificata in
questa sede, si rende necessaria per la sintesi che riesce a conseguire, in
specie sul tema del senso comune. Allorché il movimento filosofico o riflessivo
passa dalla fede alla scienza,e dalle credenze popolari alle idee della
ragione, e si trova d'essere giunto a scoprire il pensiero celato dapprima
sotto FORMA SIMBOLICA, e che si traduce nell’istituzione, nella costume, nella
filosofia e e nelle industria, egli fatto quasi banditore della verità
scoperta, l'annunzia per farla conoscere alle masse, le quali non avrebbero
potuto pervenire sino a quel segno che tardi e lentamente. È in questo senso
che il filosofo accelera il movimento delle masse, e da qui nasce ancora che
egli stesso e indugiato nel movimento che è loro proprio. Dappoiché se le masse
accettano la nuova luce che loro arreca il filosofo, sono d'altra parte lente e
ritenute nell'abbandonare le vecchie opinioni, che il tempo ha rese abituali, e
bisogna innanzitutto che esse comprendano ciò che loro viene rivelato, e lo
comprendanoa loro modo, cioè facendo che discenda in certa guisa dalle forme
astratte della scienza alle forme pratiche del senso comune. Dunque il filosofo
comprende e spiega nient'altro che ciò che l’intelligenza spontanea dei popoli
crede istintivamente, e pertanto, lafilosofia non è che la spiegazione del
senso comune. Possiamo a questo punto scoprire l'errore di chi ha collocato
Vico e Machiavelli tra un storico fatalista como Livio, dappoiché, se a
tuttaprima poteva parere, che l’italiano appo costoro fosse schiavo
dell’istituzione, in quanto che queste venivano considerate come cose non
procedenti dall’italiano stesso, pure, allorché si vide che l’istituzione none
che la manifestazione esterna, il segno, e la realizzazione delle idee del
popolo italiano, libertà umana nella creazione degli avvenimenti del mondo.
Come si risolve pertanto il problema della libertà? Si pone inquesti termini
l'interrogativo. La ragione è dunque il fondamento della libertà; ma ragione e
libertà sono da intendersi esclusivamente riferitisare appunto che il problema
della libertà investa soltanto l'azione soggettiva (non intersoggetiva o
collettiva) che ha per teatro la storia. In realtà però, proprio per l'ampia
visuale che egli propone della storia globalmente intesa, la libertà non è solo
quella dell'individuo o soggetto italiano che si affranca dai condizionamenti
dell'istinti -- vità, ma anche quella che costituisce la linea intelligibile di
tutto lohere nelle pella sciente quella con il. La soluzione che si può
intravedere in Cusani, concorde ed omogenea allo sviluppo della questione della
scienza e del metodo nell'intera,
intensa elaborazione culturale di Cusani è forse quella contenuta nella Idea
d'una storia. Resta certo il rammarico del mancato approfondimento delle tante
tematiche che a questa risposta devono riferirsi, in particolare sulla politica
e sulla estetica. Ma la sintesi che Cusani propone rimane oltremodo
significativa. L'ordine adunque degli avvenimenti, la provvidenza, o legge
dell'intelligenza umana, è quella legge che Iddio stesso ha imposta al mondo morale, e che non
differisce dalle leggi della natura, se non per questo, cioè che la legge
imposta al mondo morale non distrugge punto la libertà individuale, essendo ché
è permezzo della libertà che si compiono i destini della intelligenza,
laddovele legge della natura e compita senza il concorso della libera volontà. Stefano
Cusani. Cusani. Keywords: l’assoluto, il relative, spirito soggetivo, spiriti
soggetivi, spirito oggetivo, storiografia filosofica di Cousin, unita
latitudinale della filosofia, l’assoluto di Bradley, Hamilton, l’obbjezione
all’assoluto, l’essere e la metafisica, gli esseri e la metafisica, economia e
morale, la fenomenologia, il fatto di coscienza intersoggetiva, hegelismo,
Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cusani” – The Swimming-Pool Library.
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